KATHLEEN SKY LA PRINCIPESSA DI ENGLENE (Witchdame, 1984)
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KATHLEEN SKY LA PRINCIPESSA DI ENGLENE (Witchdame, 1984)
INTRODUZIONE Il filone aureo dei Medioevi paralleli vanta lombi augusti ed una storia lunga quanto quella della Fantasy stessa. Le origini di questo affascinante sub-genere vanno infatti probabilmente individuate nei pastiches scritti da William Morris alla fine dell'Ottocento e da allora centinaia di romanzi hanno affrontato il tema dalle angolature più diverse. Un medioevo parallelo di singolare forza espressiva e di originalissima fattura è quello che incontrerete inoltrandovi nella lettura dell'ottimo romanzo di Kathleen Sky che tenete in mano. L'intento dell'autrice è più che esplicito, come risulta evidente sin dalla scelta del nome del paese che fa da teatro all'azione: Englene, vale a dire la vecchia, cara Inghilterra, patria di Re Artù e luogo fisso di tanto immaginario antico e moderno. D'al-
tronde il romanzo ha molti punti di contatto con le tematiche arturiane, cui non mancano riferimenti sottili, ma ricchi d'implicazioni. Primo per importanza fra questi temi mi pare essere quello della "Terra Guasta" che fa da sottofondo a tutta la narrazione e costituisce la motivazione di fondo che spinge alla sua singolare quest la principessa Elizabeth ed i suoi affascinanti, picareschi compagni. Il mito è ben conosciuto: quando il Re, sviato dall'influenza negativa di qualche forza "caotica" (qui simboleggiata dalla perfida cortigiana Lady Pemberly), viene meno al suo ruolo funzionale, non esercita più la pienezza dei suoi poteri, non è più sintonizzato sulle armonie del creato, ne risente anche la Terra soggetta al suo potere, o meglio affidata alla sua cura. È ciò che succede nella terra di Englene, ciò che la principessa vedrà nel suo viaggio ai quattro angoli del regno, seguendo i punti cardinali, ciò che provocherà infine il suo intervento salvifico a protezione del popolo e della funzione reale. La struttura palesemente iniziatica del viaggio viene messa ancor più in evidenza proprio dal riferimento ai punti cardinali, elementi basilari della simbologia sacra di tutti i popoli e delle antiche tradizioni sapienzali di mezzo mondo, da quella ebraica della Cabbala a quella indù. I punti cardinali infatti sono in diretta connessione con lo Zodiaco e con le stagioni, in un intrico di armonie rotanti le une entro ed oltre le altre, e dalle quali dipende l'assetto del mondo, l'incidere delle influenze sottili. Al Nord corrisponde il solstizio d'inverno, all'Est l'equinozio di primavera, al Sud il solstizio d'estate ed infine all'Ovest l'equinozio d'autunno. In accordo alla sequenza scandita dalla gerarchia zodiacale, gli antichi indiani costruivano le loro città orientandole secondo i punti cardinali ad esprimere (anche poi concretamente nel raggruppamento degli edifici) la separazione delle caste. Tanto basta a dire l'importanza dei punti cardinali come elemento simbolico. Certo dunque la struttura narrativa del romanzo di Kathleen Sky, contraddistinta da una divisione in capitoli che ha proprio le cadenze di una orientazione sacra, è tutto fuorché casuale. D'altronde non è questo il solo tema complesso, attinto dalla cultura e dalla metafisica tradizionale, utilizzato dalla Sky. Introducendo un elemento di pressoché assoluta novità nel novero degli scenari della Fantasy moderna, l'autrice affronta infatti con toni suggestivi un argomento insolito: quello del conflitto cosmico fra le schiere angeliche e gli spiriti ribelli, i demoni insomma. Il mito della cosiddetta "Guerra in Cielo" che vede appunto gli angeli contrapposti a Satana ed ai suoi servitori non è esplicitato nelle Scritture;
introdotto in tempi più tardi dalla Apocalisse di S. Giovanni, esso è diventato comunque uno dei punti assiali della metafisica medioevale. Eroe esemplare della "Guerra in Cielo", in funzione contrapposta e speculare a quella di Satana, è quell'arcangelo Michele che, non a caso, Kathleen Sky ha scelto come "deus ex machina" e nume tutelare della protagonista ne La Principessa di Englene. Questo consente all'autrice di visualizzare con estrema efficacia, attraverso la vicenda fantastica, uno dei temi caratterizzanti della Fantasy e cioè la sottile interazione fra Storia e Metastoria, fra sacro e terreno, fra eventi dell'umano divenire e loro significato a livello di armonie universali. Per la metafisica cristiana medioevale la guerra fra Michele e Lucifero avviene fuori dalla Storia, o meglio la trascende e proprio per ciò dura attraverso il tempo anche e soprattutto nella Storia. La "Guerra in Cielo" deve risolversi nella Storia in conseguenza del mistero dell'Incarnazione. E così nella fiction fantastica di Kathleen Sky la ricomposizione degli equilibri cosmici indispensabili, attuata dagli arcangeli, non potrebbe esistere senza la mediazione della principessa e senza l'intervento (espressione del libero-arbitrio), dei suoi compagni. Le forze cosmiche si confrontano ai confini e in seno ad un creato di cui gli uomini sono comunque protagonisti assoluti. Così i demoni sono le schiere del "Nulla" e, contro di loro, l'arcangelo Michele guida la lotta che contrappone il Bene al Male o piuttosto che contrappone al Bene il vano tentativo di attuare il Male, cioè il Nulla. Lo scopo di Lucifero è quello di trasformare la propria personalità angelica in un'altra, pienamente attuale ed attuata, capace di farlo sentire "altro da Dio" ed a lui contrapposto. Contro Lucifero si erge la spada di Michele, il cui nome in ebraico (Mi-cha-el) significa appunto "Chi come Dio?". Ad onta dei numerosi riferimenti, dei richiami espliciti e dei rimandi continui a tematiche proprie della simbologia e della cultura tradizionale, La Principessa di Englene resta peraltro un romanzo di assoluta gradevolezza, con un adeguato senso dell'azione ed un pregevolissimo ritmo narrativo. Al fianco di Elizabeth, che mostra tratti da amazzone oramai tutt'altro che inconsueti nel panorama della Fantasy attuale, Kathleen Sky ha disegnato una galleria di personaggi originali, teneri eppure forti, a tratti francamente irresistibili, tra cui soprattutto Jackie, il paggio e buffone di corte dal corpo deforme e dal viso angelico, che ama con tenerezza e distacco insieme la principessa Elizabeth, o come Menadel, mago e filosofo, astratto (sarei tentato di dire "sulle nuvole") quanto si addice ad uno
studioso dei massimi sistemi. Il risultato è un romanzo estremamente intelligente, ben calibrato, piacevole da leggere, assolutamente autoconsistente, che rappresenta qualcosa di originale e, per certi versi, "a sé stante" nel quadro dell'oramai vastissima produzione di Fantasy che ci viene dai paesi anglosassoni. Alex Voglino Questo libro è dedicato con molto affetto a JOYCE ODELL Perché è riuscita a conservare spirito, saggezza e stile in un mondo mediocre. Avvertimento dell'Autrice: Questa è un'opera di fantasia, non un libro di magia nera. Molti incantesimi e ricette magiche citati in essa sono estremamente pericolosi, se non letali, per cui ne sconsiglio l'impiego. Sulla Terra non ci sono più streghe o maghi silvani, ed essi erano gli unici a sapere con certezza come andasse usata la loro magia. CAPITOLO PRIMO La regina stava morendo. Quelle parole frusciavano fra gli arazzi che adornavano le lunghe gallerie, vibravano lungo le scalinate, sembravano essere ripetute con fin troppo entusiasmo dai simboli araldici a forma di fiere, intagliati nel legno. Quelle parole echeggiavano nella Grande Sala, e nelle tre torri ancora incompiute del rosato Palazzo di Witchdame, il ritmato suono degli arnesi dei carpentieri sembrava raccogliere quell'angoscioso messaggio e trasmetterlo fino alle onde del Theames che lambivano i gradini della chiusa. Ma le scale avevano sentito a lungo quello stesso messaggio, esso aveva permeato le loro fondamenta a partire da circa diciassette anni prima. La regina stava morendo da moltissimo tempo. Nella torre meridionale del palazzo... l'unica ad essere stata già ultimata delle quattro che un giorno avrebbero ingentilito l'edificio... il sole tingeva di un cupo colore carminio le vetrate della finestra che dava a occidente, e
questo conferiva una tinta sanguigna all'atmosfera della camera della regina. Quella luce oscurava la tonalità biondo miele del legno di quercia dei pannelli a muro, e soltanto il grande candelabro d'argento emanava un chiarore sufficiente a dimostrare che il tavolo su cui era posato era fatto appunto di quercia e non d'ebano. Oltre al candelabro, sul tavolo era sparpagliato con noncuranza un assortimento di oggetti: frammenti di lacci colorati, mozziconi di candela, mazzetti di erbe secche, una pila di fogli coperti dalla delicata calligrafia della regina, un grosso documento in pergamena su cui era posata, come fermacarte, una pietra marina che si diceva provenisse dalla caverna dello stesso Merlino. Il documento era un testamento, firmato e sigillato dalla regina: in fondo alla pergamena spiccava una goccia di cera verde che recava l'impronta dell'anello con sigillo della regina, e perfino nella penombra era possibile distinguere lo stemma, un sorbo selvatico fra i cui rami, in alto, era imprigionata una luna nella fase crescente. Il pavimento piastrellato della camera era coperto da strati sovrapposti di stuoie, per tenere a bada il freddo, e nell'ombra i giganteschi guardaroba incombevano come oscuri spettri squadrati. Il letto enorme, fabbricato per una regina morta da tempo, era grande e riparato da cortine di velluto verde, il colore della selva stregata, che erano raccolte soltanto in parte. Il corpo minuto della Regina Dianne di Englene quasi scompariva fra i cuscini di merletto e di satin, sotto le trapunte di piume d'oca su cui era steso un copriletto in velluto blu e rosso, i cui ricami in oro rappresentavano navi e leopardi, lo stemma di Englene. La regina sembrava una minuscola bambola di cera. I capelli neri, un tempo lucidi, spiccavano arruffati e opachi sul cuscino; il viso, in passato bianco e rosa, aveva il colore ingiallito del sego vecchio. Gli occhi erano chiusi, e soltanto il lieve sollevarsi delle coltri sul torace minuto indicava che la vita era ancora presente in lei. La porta della camera si aprì e la regina voltò il capo, per vedere chi potesse desiderare di farle visita ora che giaceva, sola, sul suo letto di morte. «Bess» sussurrò, con voce che risuonò fragile nella grande stanza, poi osservò sua figlia mentre si avvicinava, sgranando gli occhi con orrore nel rilevare l'aspetto della ragazza. La Principessa Elizabeth, erede presunta al trono di Englene, indossava un abito di velluto azzurro chiaro, la cui profonda scollatura quadrata non era certo adatta alle spalle della ragazza, irrobustite da molte ore di eserci-
zio con la spada e sul campo per i tornei. La pelle aveva il colore rosa carico tipico di una rossa che fosse stata troppo al sole. La principessa era alta, un metro e ottantacinque al suo ultimo compleanno, e il taglio arrotondato dell'abito faceva sembrare troppo robusto il suo torso; il broccato dorato della sottogonna visibile nel profondo taglio a V rovesciata presente nella sopragonna, era decorato con disegni a forma di rosa. Mentre Elizabeth si avvicinava al letto, la regina scorse fin troppo bene i gioielli che adornavano la scollatura, perle e zaffiri disposti in modo da formare tanti nontiscordardime. La regina chiuse gli occhi per un momento, come per cancellare l'immagine di tanta ricercatezza fuori luogo. «Bambina» disse, mentre la sua voce perdeva la sua sfumatura di debolezza, «chi ti ha scelto quel vestito? Non sono ancora morta e tu già hai dimenticato tutto quello che ti ho insegnato in fatto di buon gusto?» «Sapevo che Vostra Grazia stava fingendo» replicò Elizabeth, rivolgendo una profonda riverenza a sua madre. «Quando ho sentito sussurrare che tu eri nuovamente in punto di morte, ho pensato che fosse bene da parte mia fare atto di presenza, in modo da spegnere quelle voci alla festa di questa sera. Ci sono molte persone che rimarranno deluse scoprendo che la diceria è falsa.» La regina allungò una mano, battendo un colpetto sul bordo del letto per indicare alla figlia di sedersi. Il materasso scricchiolò sulla rete di corde quando Elizabeth obbedì, e la regina sussultò leggermente per l'eccesso di peso. In sua figlia non c'era nulla di delicato o di silvano. «Oh, entro domattina scoprirai che le voci sono fin troppo vere, mia cara. Intendo andarmene con la marea. Questa volta la regina morirà.» Elizabeth si girò verso di lei e rimase sconvolta dalla conferma che lesse nello sguardo materno. «Hai intenzione di farlo sul serio? Dopo tutti questi anni, hai intenzione di lasciarli vincere? Tu... una strega silvana... vuoi arrenderti a loro?» La Regina Dianne sorrise, accontentandosi per il momento che sua figlia si fosse ricordata che lei era una strega silvana. «Ho i miei motivi. Ora sei abbastanza grande per badare da sola a te stessa, ed io non ho nessuna intenzione di essere ancora qui per assistere all'iniziazione che accompagnerà il tuo diciottesimo compleanno. Ho lo stomaco troppo delicato per poter sopportare di vederti in uno dei loro circoli.» La regina fece una breve pausa, e trasse un profondo respiro. «Tu, bambina mia, devi diventare la prossima sovrana di Englene: nessun'altra
può diventarlo, e con la mia morte io garantirò che sia davvero così.» «Lady Anne la pensa diversamente. Lei e mio padre occuperanno il tuo letto prima ancora che si sia raffreddato, ed entro la prossima vigilia di Mezz'Estate celebreranno la nascita di un principe.» «Non lo credo, figlia mia. Tu, e tu soltanto, sarai la prossima sovrana di Englene. La Dea Madre me lo ha promesso quando tu sei nata. Anche se prendesse nel suo letto cento donne come la Pemberly, tuo padre non avrà altra erede che Elizabeth di Englene. Io e la Madre del Tutto desideriamo che sia così.» «E così sia dunque» replicò doverosamente Elizabeth, anche se non ci credeva. Bussarono con decisione alla porta, e la regina si sollevò leggermente sui cuscini, la speranza dipinta con chiarezza sul suo viso. «Richard?» chiamò, pronunciando il nome quasi in tono di supplica. Il battente si aprì, ma chi entrò non fu il re... bensì soltanto sua sorella, Marguerite. La Principessa Marguerite era una donna robusta sulla quarantina, che da tempo aveva rinunciato a qualsiasi pretesa di bellezza o di giovinezza. La sua alta statura e il corpo massiccio tradivano la parentela con la Principessa Elizabeth, ma Marguerite non era una guerriera: i suoi campi di battaglia erano pergamene, penne e libri. Indossava un abito di velluto nero con cappuccio in tinta e ciuffi di capelli rossi le sfuggivano dalla cuffia ingioiellata, mentre sulle maniche rivoltate le macchie d'inchiostro erano numerose quanto le code di ermellino che le decoravano. Anche la gonna di broccato argentato era sporca d'inchiostro, e un libretto rilegato in cuoio pendeva da una catenella assicurata alla cintura. La donna attraversò a precipizio la stanza, sconvolgendo e arruffando le stuoie con le pantofole di cuoio rosso. «Ebbene, Vostra Grazia, in giro si dice che ci risiamo. Dicono che stai morendo, pensa un po'! E il mio erbario è ancora incompleto per un quarto. Sai, Dianne, è davvero sconsiderato da parte tua: mi avevi promesso di aspettare che il libro fosse finito, in modo che tu ed io potessimo goderne insieme i risultati. Questo lavoro è tuo più che per metà.» «Non intendo accettarlo. Ti assicuro che non intendo semplicemente accettarlo! Sono diciassette anni che mediti di morire, e puoi benissimo aspettare altri diciassette prima di farlo sul serio!» Dianne agitò una mano minuta per quietare la donna. «Io muoio quando devo, Marguerite. Non sono qualcosa che possa esse-
re concluso con un sigillo di cera che dichiari che io sono finita.» Di nuovo, la regina adocchiò con disapprovazione l'abbigliamento della figlia. «Dimmi, Marguerite, che ne pensi di come si è vestita mia figlia? Ti sembra conveniente e adatto a lei?» «Oh, sai che io non bado a queste inezie. Mi limito a mettermi in piedi e a lasciare che le mie dame di compagnia mi buttino addosso quello che vogliono» rise Marguerite. «Non saprei neppure dire se ha indosso un elegante abito alla moda o una botte.» «Verde, bambina. Devi vestire di verde, il colore della regina.» Marguerite trattenne bruscamente il fiato, ma Dianne la ignorò. «Inoltre, bada ad allargare di meno la scollatura verso le spalle e a portare camice a girocollo: non sta bene che tu esponga così il seno. La cintura, poi, dovrebbe avere una sagoma a punta, per assottigliare la vita, e le gonne si dovrebbero allargare, lisce, sui fianchi. Quanto ai capelli, raccoglili in una reticella di perle e coprili con un cappello ornato di piume. Quello che porti ti fa la faccia tonda come un formaggio del Cheshire.» La regina si batté sul labbro inferiore un'unghia ben modellata. «Verde» ripeté, «il colore delle streghe silvane. Un verde chiaro e delicato per la primavera; verde brillante, su taffetà o velluto, per le cerimonie di stato... e per il lutto il cupo verde foresta degli aghi di pino. Non portare il nero per me, Elizabeth: se mi onori, e se hai il coraggio di ricordare che sono stata una strega silvana, ti vestirai di verde in mia memoria.» La principessa annuì in silenzio, incapace di parlare. Il verde non era un colore benaccetto alla corte di suo padre, perché era la tinta tipica delle streghe silvane e nessuno, tranne una strega silvana, lo avrebbe mai portato. Ma sua madre aveva espresso un desiderio, ed aveva formulato una richiesta che non avrebbe mai avanzato se non fosse stata davvero in punto di morte. «Ricorda che sei per metà una strega silvana» proseguì Dianne. «Quando verrà il momento, recati nel profondo di Heartwood e cerca là una vecchia di nome Nerthus. So che ti sarà difficile fare quanto ti chiedo, ma dovrai riuscirci, per il tuo bene e per il bene di Englene. Non considerarla una promessa fatta a me, ma una promessa fatta a te stessa. Andrai?» Lentamente, Elizabeth annuì, anche se l'espressione del suo viso tradiva il desiderio di respingere la richiesta. La ragazza sapeva fin troppo bene quanto le streghe silvane fossero malaccette alla corte paterna. La regina chiuse gli occhi e parve fare appello alle sue energie per riuscire a respirare; poi, con un sospiro sommesso, risollevò le palpebre.
«Marguerite, non permetterle di dimenticare ciò che è. Fa' sì che lei sia mia figlia, oltre che la figlia di Richard. Rendila forte, nell'interesse della terra che entrambe amiamo. Ti imploro di farlo, e mi rivolgo a te perché sei l'unica persona di tutta la corte di cui mi fidi interamente.» «Vostra Grazia ha la mia parola.» La voce di Marguerite aveva il tono deciso di chi pronunci un giuramento. «Inoltre, voglio che sia tu a provvedere al mio funerale. Non lasciare che quella Pemberly me lo rovini. Voglio essere sepolta con indosso il mio abito di velluto verde, quello con le foglie e le ghiande di quercia ricamate in argento lungo la scollatura e le maniche. Voglio anche che tu mi metta le copie fasulle dei miei orecchini di perle... il gioielliere di corte ha gli originali... ed anche la copia della corona. Lui l'ha fatta fare per me quindici anni fa, quando erano tutti sicuri che sarei morta della febbre malarica giunta con il vento del nord ed io li ho sorpresi tutti guarendo.» Dianne rise senza allegria. Soltanto lei sapeva quante delle sue malattie fossero state aggravate dalla volontaria incuria dei medici di corte. «L'abito verde e argento» annuì Marguerite, accettando la richiesta. «E per il drappo funebre?» «Seta verde scuro ricamata con boccioli di sorbo. Anche questo è già pronto: lo troverai in fondo al baule, nella mia camera privata. L'ho ricamato io stessa! Non ci sarà traccia di nero al funerale di questa reginastrega! Provvederai tu affinché sia così! Che Richard pianga e gema per l'offesa all'etichetta di corte, e che la Pemberly metta pure il broncio: io andrò all'estremo riposo come una strega silvana, e non come una di loro.» Marguerite si protese sul letto per rincalzare con delicatezza il copriletto intorno alle fragili spalle di Dianne. «Che Vostra Grazia dorma tranquilla. Sarà tutto come tu desideri.» C'erano alcune lacrime negli occhi azzurri della donna; Dianne sorrise alla cognata e, obbediente, abbassò le palpebre sulle proprie iridi... iridi castane, iridi di strega silvana, dello stesso colore di quelle di Elizabeth. Marguerite si raddrizzò e si girò verso la nipote, i cui occhi erano molto lucidi per le lacrime trattenute. «Va' al banchetto, Bess. Sei molto in ritardo, e tuo padre sarà in collera con te.» «Ma non sei attesa anche tu a tavola, zia? Stai facendo adirare il re proprio come me» replicò Elizabeth. «Sciocchezze. Io conto troppo poco perché Richard si accorga ancora di me. E quanto alla sua amante, la Pemberly... ecco, io non costituisco una
minaccia per un suo eventuale marmocchio reale» rispose Marguerite. Dianne protese una mano e sfiorò la manica della figlia. «Ora va', Elizabeth. Va' a sedere alla tavola di tuo padre. Ma mentre sarai là, ricorda di cosa sono morta io. Ricorda che, se non sarai forte, ne morirai anche tu. Non ci incontreremo più, bambina mia, ma rammenta che sono morta da strega silvana e che sarò sepolta come tale... e che tu sei per metà mia figlia. Ora va' al banchetto.» Elizabeth si alzò dal letto e rivolse alla madre un profondo inchino, con tutta la reverenza dovuta a una regina, poi lasciò la stanza indietreggiando passo passo e soffermandosi per eseguire altri tre inchini prima di arrivare alla porta. «Non ti preoccupare per Sua Grazia» gridò dietro alla nipote Marguerite. «Lei ed io siederemo qui insieme, tranquille, due dame dimenticate da questa corte brillante, e parleremo per un po'. Poi, quando si sentirà pronta, la lascerò sola, come noi tutti dovremo fare allorché inizierà il suo viaggio.» Con un tremante cenno di assenso, Elizabeth aprì la porta e sgusciò fuori della stanza. Mentre oltrepassava la soglia, sentì dire a sua madre: «Ed ora, ecco quali sono i miei piani per garantire che Elizabeth succeda a Richard come regina...» Non volendo udire altro, Elizabeth si richiuse alle spalle il pesante battente di quercia e si appoggiò per un momento contro la sua superficie intagliata. La persona seduta al capezzale della regina sarebbe dovuta essere suo padre, ma Elizabeth sapeva che suo padre si era ormai stancato da anni di sentir preannunciare l'imminente morte della moglie. Con un sospiro, si raddrizzò e si assestò con un gesto deciso il vestito azzurro. Abbassando lo sguardo sulle pieghe di velluto, si rese conto che sua madre aveva ragione... quell'abito era brutto; le sue mani allentarono la presa sul tessuto e lei seppe che mai più, in futuro, avrebbe permesso a Lady Anne di scegliere per lei ciò che doveva indossare. Elizabeth si avviò lungo il corridoio in penombra, senza mettere a fuoco con lo sguardo i pannelli di legno, gli arazzi, l'intonaco dipinto del soffitto, modellato in modo da creare disegni intricati. Il corridoio della torre le era familiare quanto il suo stesso corpo, non aveva bisogno di osservarlo con attenzione; quando svoltò per imboccare la scalinata principale che scendeva fino alla Grande Sala, rimase stupita nel notare che si era lasciato che la maggior parte delle torce si spegnesse. La scala era buia, e soltanto qualche occasionale raggio della luna nascente, che trapelava dalle vetrate,
delineava le splendide sagome intagliate degli animali araldici accoccolati sulle colonne, in cima e in fondo alla scala che saliva zigzagando fino alla torre. I leoni, gli unicorni, gli orsi ed i grifoni, a grandezza naturale, erano quasi reali visti così, nell'oscurità che li rendeva ancor più spaventosi. Elizabeth conosceva quelle figure praticamente da sempre, ma quella notte... ora che la regina stava morendo davvero... esse assunsero un aspetto orribile che lei non vi aveva mai scorto prima. Elizabeth si soffermò sul pianerottolo per riprendere fiato e calmarsi. Una delle bestie sembrava essere colorata in azzurro, rosso e oro... uno strano miscuglio di colori per un animale araldico. La ragazza attraversò in punta di piedi il pianerottolo, con il cuore che le batteva sgradevolmente contro i merletti dei polsini, per controllare più da vicino di quale bestia si trattasse. Era una grottesca figura umana, avvolta intorno a una colonna, tutta gomiti e ginocchia e con una faccia d'angelo. D'un tratto, uscendo dal buio, un bastone da giullare volteggiò nell'aria e si arrestò a una spanna dalla sua faccia; Elizabeth urlò e si aggrappò alla ringhiera delle scale con un misto di sollievo e di isterismo, nel riconoscere l'essere appollaiato sulla colonna. Il buffone del re si staccò lentamente dalla colonnina e balzò sul pianerottolo, accanto alla principessa. Era di bassa statura, più bassa della media, e la schiena raggrinzita, insieme alle braccia e alle gambe spropositatamente lunghe e magre in confronto ad essa, lo rendevano grottesco quanto una qualsiasi delle sculture circostanti. La sua statura gli permetteva di arrivare a stento all'altezza del corsetto della principessa, il che lo obbligò a piegare la testa all'indietro per guardarla in faccia: Jackie Somers, il giullare del re... dal collo in su, l'uomo più avvenente di tutta la corte; dal collo in giù, il più mostruoso. «Ti ho spaventata, piccola? Non era mia intenzione. Ero venuto soltanto per avvertirti: di sotto ti aspettano da un pezzo, sai, e Lady Anne è molto seccata.» Elizabeth allungò una mano fino a sfiorare la spalla di Jackie, quasi a rassicurarsi che era reale. «Ero con la mia signora madre: è morente, ed ho ritenuto saggio ascoltare quali estremi consigli poteva avere da darmi.» «Cosa? Sta morendo di nuovo?» Jackie fece tintinnare la sua mazza. «Sta morendo da anni, piccola, non è una novità, e tutta la corte lo sa e non ti servirà come scusa per essere in ritardo al banchetto.» «Te ne viene in mente una migliore? Se desidero andare a trovare mia
madre, non credi che questi siano affari miei? Deve forse diventare argomento di pettegolezzo per tutta la corte?» «Sì, perché nessuno va a fare visita alla regina la sera della festa di compleanno della Pemberly. Stai forse cercando di offenderla con il tuo ritardo? Avanti, prendi il mio braccio, come se per questa sera io fossi il tuo corteggiatore, così entreremo a corte mano nella mano, come si conviene agli innamorati, e tutti sapranno che hai fatto tardi perché hai perso tempo rotolandoti nel mio letto.» Jackie allungò una mano per dare un piccolo strattone alle ricamate maniche dorate della sottogonna della principessa. «Devo dire, però» aggiunse, «che preferirei entrare nella Grande Sala con una dama vestita meglio di così. Sembri una servetta agghindata con un abito scartato dalla sua padrona, il che non ti si conviene affatto.» Il giullare lasciò ricadere la manica di velluto. «L'azzurro chiaro non è un colore che ti sta bene, ma credo di sapere chi lo ha scelto. È stata la Pemberly, vero? L'azzurro chiaro le si addice, anzi, qualsiasi tonalità di azzurro le dona. Si fa addirittura fare la biancheria in seta azzurra.» «E come mai conosci il colore della sua camiciola? Hai appena avuto un appuntamento amoroso con lei? È più probabile che la corte creda ad un pettegolezzo succulento di questo tipo che al fatto che tu abbia passato il tempo nel mio letto.» «Ahimè, no» rise Jackie. «Ci sono alcune cose che a un giullare del re non è concesso di gustare prima del suo sovrano, e la Pemberly è una di esse, anche se ciò non mi dispiace poi molto: aceto e miele non formano mai una combinazione appetitosa.» Con una risata, Elizabeth allungò una mano per arruffare i riccioli biondi che circondavano la testa del buffone come un alone, poi tirò su il cappello da giullare, in modo che i ridicoli orecchi d'asino che lo completavano ricadessero sulla faccia di Jackie. «Per la Pemberly» disse. «Che possa ritrovarsi con un somaro nel letto, come presto le capiterà, se mio padre ha voce in CAPITOLO.» «Attenta, piccola» replicò Jackie, cercando di calmarla. «Per quanto ne so, il re non è ancora stato nel suo letto. È un peccato, ma la Pemberly non intende generare marmocchi illegittimi, ed ho appreso dalla sua dama di compagnia che per ora non ce ne sono in arrivo. Quest'informazione mi è costata un bacio, e la dama di compagnia della Pemberly è una ragazza davvero brutta. Ora, mia principessa, il meno che tu possa fare è darmi a tua volta un bacio.» Con un'altra risata, Elizabeth si chinò e prese gentilmente fra le mani la
testa del giullare, dandogli un tenero bacio. Il buffone sospirò, poi imitò un innamorato che cerchi di coprirsi con le mani il cuore che batte troppo forte, riuscendo però soltanto a darsi una botta su un orecchio d'asino con la mazza a sonagli. «Sai, Elizabeth, mio unico e vero amore, c'è differenza fra baciare te e baciare qualsiasi altra dama di corte. Le altre conservano i miei baci in una scatola di velluto sepolta nel profondo dell'anima, a ricordo del loro audace e osceno gesto, mentre tu lasci che i tuoi volino liberi come una farfalla attraverso la tua mente. Per questo motivo io li trovo i migliori fra tutti, perché vorrei essere una farfalla, libera dì volare nella tua mente.» Il tono del giullare faceva capire che non stava scherzando, in quel momento. Durante tutti gli anni che aveva trascorso alla corte del re, la Principessa Elizabeth era stata l'unica donna che lo aveva trattato come se fosse stato un uomo normale e non un giocattolo divertente. Jackie ed Elizabeth si conoscevano fin dall'infanzia. Il giullare aveva soltanto tre anni quando i suoi genitori, dei contadini, lo avevano offerto al re come dono di Calendimaggio, pensando che i suoi piccoli arti e la schiena storta potessero essere un'attrazione a corte. Alla nascita della principessa, Jackie aveva ormai sei anni, e lei gli era parsa un giocattolo affascinante. Per lei aveva studiato i suoi scherzi migliori; le buffonate più spettacolari e gli spettacoli mimati più riusciti erano stati riservati tutti a quella bimba dai capelli rossi. A mano a mano che Elizabeth cresceva, Jackie si era trovato nel ruolo di confidente preferito ogniqualvolta lei aveva bisogno di sfogare qualche dolore infantile e, pur considerando con la massima serietà la propria posizione di buffone di corte, Jackie apprezzava il ruolo di confidente e di amico della principessa al di sopra e molto più di qualsiasi onore che il re potesse conferirgli. Con un sorriso, il giullare offrì ancora la mano e, tenendosi sotto braccio, i due scesero la scala, attraversarono l'atrio e imboccarono la lunga galleria che portava alla piattaforma della Grande Sala. CAPITOLO SECONDO La Grande Sala del Palazzo di Witchdame era un ambiente immenso dall'alto soffitto, elegante quanto più erano riusciti a renderlo gli artigiani decoratori. La galleria superiore era ornata da trofei di caccia, mentre le pareti inferiori erano coperte da una serie di splendidi arazzi, il principale dono della Regina Dianne al palazzo, che la regina e le sue dame avevano
disegnato e intessuto di persona. Gli arazzi rappresentavano le foreste che circondavano Lundene, la capitale, e su di essi figuravano alberi, fiori, ruscelli che cantavano sulle rocce; c'erano immagini di radure boschive in cui si scorgevano unicorni, caprioli e conigli, e un arazzo particolarmente bello rappresentava la riva di un fiume, coperta di fragole. Molti asserivano che se ci si avvicinava agli arazzi era possibile sentire gli uccelli che cantavano fra i rami e i ruscelli che gorgogliavano, come se stessero ridendo; e quali che fossero gli odori che pervadevano la stanza... odori di cibo, profumi o l'aroma dei giunchi freschi... l'ambiente era sempre ingentilito da un profumo di pini, di lauro e di fragole selvatiche. Era come se la corte si riunisse a mangiare nel cuore della foresta stessa. La Sala era disposta tutt'intorno a un focolare circolare: due file di tavole immense si allungavano lungo ciascun lato della stanza e, su una piattaforma rialzata e ad angolo retto con le tavolate, una tavola più piccola era riservata alla Famiglia Reale e agli ospiti che potevano essere invitati a condividerla con essa. Dietro la tavola coperta da una tovaglia di damasco c'erano otto sedie di cuoio moresco riccamente intarsiato; tre di quelle sedie, alla destra del sovrano, erano riservate alla Regina Dianne, alla Principessa Elizabeth ed alla Principessa Marguerite... ed erano vuote. Il posto adiacente a quello di Marguerite era occupato da Thomas il Sapiente, Sommo Lord Cancelliere di tutto Englene. Alla sinistra del re, e abbastanza lontano da non trovarsi sotto il baldacchino regale, sedeva Anne Heywood, la Signora di Pemberly; dopo di lei, Elizabeth distinse la sagoma del primate di Englene, Aleicester, Arcivescovo di Avebury, Bathford e Wells, un uomo grasso e placido dalla calvizie incipiente, vestito di broccato argento e oro, i colori della sua carica. Con lui c'era la moglie, Mary di Richmond, sorella bastarda di Re Richard, mentre il figlio del primate, il Duca Charles, era a capo della tavolata di sinistra, fra i convitati di riguardo. La figura che dominava la tavola, tuttavia, era quella del re, seduto sotto il baldacchino scarlatto, azzurro e oro e abbigliato in azzurro e argento. Richard era un monarca elegante: a quarantotto anni, aveva ancora un corpo snello ed agile, anche se era di ossatura robusta quanto Elizabeth; aveva le spalle larghe, il collo forte e ben modellato, la carnagione pallida e delicata quanto quella di una dama di alto rango. Il volto rotondo era rosato sugli zigomi ed era reso ancora più ampio dalla voluminosa barba di un biondo rossiccio e dai capelli ricciuti e portati lunghi, fin sotto gli orecchi. Gli oc-
chi erano grandi e azzurri, la bocca calda e generosa, e nel complesso lui era un uomo allegro e di buon carattere, privo della rossa bile che caratterizzava molti dei suoi cortigiani. Elizabeth non poté fare a meno di provare un'ondata di orgoglio e di affetto alla vista del padre: non era d'accordo con lui sul modo in cui trattava la regina, ma nonostante questo Richard appariva pur sempre ai suoi occhi come l'incarnazione del cavaliere perfetto ed elegante, della regalità assoluta. La ragazza attraversò con passo silenzioso la piattaforma coperta da un tappeto, soffermandosi ad intervalli per eseguire delle riverenze e il re, la cui attenzione era concentrata sul cappone che gli riempiva il piatto dorato, non si accorse del suo arrivo; Lady Anne, tuttavia, si girò e osservò la principessa eseguire la sua serie di solenni riverenze; lo sforzo che la dama fece per mantenere un'espressione blanda e dolce, in contrasto con la rigidità del suo atteggiamento, rese evidente quanto fosse effettivamente grande la sua irritazione. Elizabeth eseguì l'ultima riverenza accanto alla sedia paterna. «Mio signore» mormorò, ancora a testa china, «ti prego di scusare il mio ritardo. Mi rendo conto che la mia scortesia è assolutamente imperdonabile.» Il re si girò, sorpreso di trovare Elizabeth così vicina a sé. «Hai indugiato troppo a venire, figlia, ed io mi sono trovato nella necessità di dare inizio al banchetto, per cui hai già perduto le prime due portate. Siedi e approfitta quindi di quanto hai davanti e del cibo che ancora deve arrivare.» Richard si protese per aiutare la figlia a risollevarsi dalla riverenza, scostandole poi la sedia perché si sedesse. Pur sollevata per il tono leggero del rimprovero paterno, Elizabeth provò però una certa delusione per aver perduto le prime portate. Un'occhiata lungo la tavola, peraltro, bastò a garantirle che quelle seguenti sarebbero state più che sufficienti a saziarla. Alla sua destra c'era una grossa lombata di manzo, davanti a lei un intero maiale arrostito, una coppia di fagiani completi di piume, due pasticci di pollo, una zuppiera piena di piselli e pancetta, una monumentale insalata di gamberi, cetrioli, carote, olive e barbabietole, condita con olio, zucchero e aceto, e un vassoio che ospitava tre lepri ben cotte. Ad un suo cenno, il paggio che aveva preso posto dietro la sedia a lei riservata si accostò per lavarle le mani e per drappeggiarle il tovagliolo sulla
spalla sinistra. Con un secondo cenno, Elizabeth indicò che desiderava mangiare una porzione di funghi cotti con uova e salsa alla panna, un po' d'insalata e poi il manzo. Cortesemente, il re l'avvertì che il cuoco aveva preparato anche un piatto di ghiri coperti di mandorle frantumate e di cinnamomo ad imitare il loro pelo naturale, e con le code intrecciate insieme al centro del piatto, il tutto imbottito di datteri, uva passita e noci... un piatto che sapeva essere molto gradito ad Elizabeth. I servi fecero affluire sulla tavola alta un numero sempre maggiore di nuove portate, in modo che ci fosse una notevole scelta. Spiccavano un galletto, in tutta la sua gloria, un grosso petto di vitello ripieno; un vassoio di rape bollite e tagliate in modo che somigliassero a tanti galeoni che fluttuavano su un mare di acetosella fresca, mentre il Sommo Lord Ciambellano, Henry Terrell, era sul punto di smembrare un airone ripieno. Il re accettò una coscia di airone, avanzò un commento compiaciuto sull'uso del cinnamomo e della noce moscata e cominciò a rosicchiarla con grazia. Jackie, che fino ad allora si era tenuto in disparte, attendendo di accertarsi che la principessa non ricevesse eccessivi rimproveri per il ritardo, si accostò ora al tavolo e sedette al posto di Marguerite, dando inizio ad un'elaborata pantomima del modo di comportarsi di quella dama quando sedeva a tavola. Marguerite era famosa per l'abitudine di cercare di leggere e di mangiare nello stesso tempo, quindi Jackie abbassò lo sguardo verso il proprio grembo e mimò la difficoltà di chi si trovasse con una coscia di pollame impigliata nel copricapo e poi facesse confusione fra le due mani, e finisse per cercare di tagliare e di mangiare il libro anziché il cibo. Re Richard scoppiò in una fragorosa risata di approvazione quando Jackie ultimò la pantomima alzandosi in piedi sulla sedia e baciando Thomas il Sapiente su un orecchio, prima di saltare dall'altra parte della tavola, eseguendo una capriola a mezz'aria e atterrando davanti alla piattaforma, ai piedi del tavolo. Il re e Lady Pemberly applaudirono e il mago gettò a Jackie un pezzo di carne dal proprio piatto; il buffone accettò il boccone con una serie di profondi inchini e prese a mangiarlo ad occhi chiusi, come se si fosse trattato del nettare degli dèi. «Sei stato gentile con lui, dopo che si era preso una simile libertà nei tuoi confronti, mio signore. Ma del resto, tu sei sempre gentile» commentò Elizabeth, rivolta a Thomas, prendendo al tempo stesso un vassoio di legno e procedendo a riempirlo con un assortimento dei vari cibi che aveva
davanti. Thomas sorrise. La sua faccia sembrava fatta per i sorrisi; le labbra erano piene e rosse e gli occhi, di un azzurro intenso sotto la frangia di capelli castano chiaro, erano circondati da una rete di rughe che indicavano come avesse la tendenza a sorridere spesso. «Invero, Altezza, apprezzo l'umorismo di quel piccolo uomo... ed anche la sua saggezza, senza contare che lui costituisce un'eccellente fonte di pettegolezzi, e che nessun politico quale io sono potrebbe conservare il posto senza sapere tutto quello che la gente dice sul suo conto.» «Sono certa che di te si dice soltanto il meglio» replicò Elizabeth, spingendo il vassoio verso l'estremità della tavola, a portata delle mani di Jackie. Thomas accettò il complimento con un sorriso e un inchino. Il paggio di Elizabeth si fece avanti e le riempì il bicchiere, una coppa di turchese sostenuta dalle braccia di un tritone d'argento, con un ricco vino rosso della Bonne Terre; poi riempì di sidro un boccale di peltro destinato al giullare. Non era che Jackie non apprezzasse il vino... tuttavia, preferiva mantenere la mente lucida, perché quando il banchetto si fosse concluso sarebbe giunto il momento di intrattenimenti più elaborati, mentre per ora i menestrelli nella galleria e un coro di ragazzi bastavano a fare da sfondo, in quanto tutti erano concentrati sul cibo e sulle bevande. Per adesso, Jackie si accontentò quindi di regalare al re qualche frizzo occasionale. Finito il banchetto, venne il momento della festa di compleanno vera e propria. I servitori si affrettarono a sparecchiare, togliendo le pesanti tovaglie di lino ricamato, ora macchiate di grasso e di vino, e rivelando i sottostanti drappi di damasco. Accompagnati da un suono di trombe e di tamburi, i dolci della festa furono portati nella Sala. Sulla tavola regale furono deposte grandi coppe piene di ciliegie fresche, di albicocche e di lamponi, coperti di panna e di zucchero; crostate di mele, gelatine di frutta elaboratamente modellate come rose, draghi ed altre bestie mitologiche. Inoltre, lungo la tavola furono sparpagliate ciotole di focacce dolci al latte a forma di luna e di stelle, budini di vario tipo, caramelle, noci zuccherate e confetti. Infine, accompagnata da una fanfara di trombone, tamburo e corno, arrivò la torta. Dal momento che il banchetto era in onore del compleanno di Lady Anne di Pemberly, il pasticciere aveva lavorato a lungo per confezionare una torta che fosse di suo gradimento, creando una riproduzione dei giardini di
corte, completi di alberi di zucchero filato, di una polla piena di acqua di rose e popolata da cigni di zucchero, e di sentierini in cui la ghiaia era costituita da mandorle tritate. La dama applaudì per indicare il proprio apprezzamento e contemplò con soddisfazione la torta... soprattutto perché a corte tutti sapevano che i giardini di Witchdame erano stati progettati dalla Regina Dianne. Nel centro dei giardini, su uno dei sentieri, spiccava una figura alta venti centimetri rappresentante Lady Anne, vestita con un abito azzurro che era stato colorato con il tornasole. La figurina era uno splendido ritratto della dama in questione, e il re si protese in avanti sulla tavola per deporre un bacio aggraziato sulla mano della statuetta. Il suo gesto fu accolto da un applauso che indicò con chiarezza a chi andassero le simpatie della corte. Il paggio di Lady Anne tagliò una fetta di giardino e la depose sul piatto della dama. La base era di marzapane e panfrutto tempestato di prugne e di mandorle, un insieme che incontrava i suoi gusti. Il re immerse le dita nella polla di acqua di rose, facendo dondolare i cigni, poi scoppiò in una risata quasi infantile e spruzzò l'acqua di rose in direzione di Anne. Questo parve divertire la dama, che a sua volta immerse le dita nella polla e spruzzò l'acqua profumata contro chiunque le veniva a tiro. Elizabeth s'immobilizzò sulla propria sedia, indignata nel profondo dell'anima dal fatto che il giardino tanto caro a sua madre fosse stato usurpato dalla favorita del re. Lentamente, protese il coltello d'argento dal manico d'avorio e, con estrema cura, tagliò una striscia di marzapane dalla schiena della figura di Lady Pemberly. Il suo atto strappò un sussulto ad Anne, mentre Elizabeth si portava il marzapane alla bocca e cominciava a mangiarlo rumorosamente. «II marzapane mi piace» commentò la principessa, «anche se trovo che sazi molto.» «Ma, principessa, questo marzapane è stato insaporito con cinnamomo, noce moscata e chiodo di garofano, e credo che lo troverai piuttosto saporito e pungente» ribatté Lady Anne, sforzandosi di usare un tono blando quanto quello di Elizabeth. «È vero» convenne la ragazza, «ma è comunque marzapane... e fin troppo dolce.» Il re non aveva sentito, oppure fingeva di ignorare il dialogo, intento a cercare di mangiare un albero di zucchero filato senza sporcarsi la barba con quella sostanza appiccicaticcia. Imbaldanzita dal successo del primo attacco, Elizabeth si protese ancora
verso la figura e, con un abile colpo di coltello, la decapitò, prendendo il boccone fra le dita e schiacciandolo leggermente prima di metterselo in bocca. Il pezzo di marzapane era un po' troppo grosso per lei, e la ragazza lo spostò con cautela da un lato all'altro della bocca, cercando di non farselo andare di traverso perché questo avrebbe certo divertito Anne. La dama, tuttavia, finse di non capire l'insulto che la principessa aveva cercato di rivolgerle, e si limitò a chiedere al paggio di servirle una seconda fetta di giardino, questa volta una splendida aiuola fiorita. Non riuscì però a trattenersi dal cercare di riacquistare una posizione di predominio rispetto alla principessa. «Mi meraviglio» osservò, «che tuo padre ti abbia permesso di arrivare così tardi nella Sala senza chiedere una spiegazione. Ti prego, sii tanto gentile da dirci cosa ti ha impedito di rendere onore alla mia festa di compleanno giungendo in orario.» «Ero in visita da mia madre» rispose Elizabeth. «Come ben sai, è in punto di morte.» «Sta morendo da molto tempo, figlia mia» intervenne il re, prima che Anne potesse rispondere. «Trovo che questa sia una scusa assai debole per non essere stata qui quando la festa in onore di Lady Pemberly ha avuto inizio. C'era una speciale ragione per indugiare presso tua madre?» «Era sola, Vostra Grazia» dichiarò Elizabeth, in tono pacato, «e trovo strano che al suo capezzale, a confortarla, ci fosse soltanto sua figlia e non anche suo marito. Ma del resto, come tu hai sottolineato, sta ormai morendo da lungo tempo.» Lo sguardo del re si offuscò, ma lui non rispose. Allungò invece la mano verso l'osso di airone che ancora si trovava sul bordo del suo piatto d'oro, che non era stato portato via insieme agli altri. Raccolto l'osso, emise un fischio acuto e i suoi cani da caccia, che se ne stavano accoccolati vicino al fuoco, si riscossero all'istante e corsero abbaiando verso la piattaforma. Fingendosi in preda al panico, Jackie si coprì gli orecchi con le mani e si raggomitolò in una palla, come per evitare di essere travolto dal branco di cani in arrivo. Il re osservò la dozzina di bestie che si era raccolta davanti a lui, poi gettò l'osso di airone verso una cagna particolarmente brutta, che l'afferrò con abilità e corse fuori della Sala, inseguita dagli altri cani della muta. Il re si appoggiò allo schienale della sedia e segnalò al cameriere di portargli una ciotola di acqua di rose perché potesse lavarsi le mani dal grasso lasciato dall'osso.
«Elizabeth» disse, da sopra la spalla, «se mai ti troverai a dover governare questa terra, ci sono molte lezioni che devi apprendere sull'arte di governare... e io te ne ho appena esemplificata una. Per conservare il trono, un re deve sapere quale delle persone a lui sottomesse deve favorire e quali deve invece ignorare. La cagna che ha afferrato l'osso che io le ho generosamente lanciato, è la più brutta della mia muta, ma porta i cuccioli di un grande campione reale e deve essere favorita... non per quello che è ma per quello che farà per me. Cerca di rammentare questa lezione.» «Sua Grazia mi ha promesso uno dei cuccioli» intervenne Anne, «e sono certa che sarà delizioso.» Era ovvio che la dama non aveva capito la lezione, né aveva desiderio di capirla, sebbene fosse diretta in parte anche a lei. La Principessa Elizabeth non rispose: aveva fatto tesoro delle parole paterne. Lady Pemberly era utile al re, mentre sua madre, la regina, non gli serviva più a nulla. Con un sospiro, prelevò un pasticcino alla mandorla da un vassoio alla sua destra e prese a mangiarlo lentamente. Il pasticcino le parve asciutto e insapore, tanto che desiderò di poterlo sputare, ma l'etichetta l'obbligò invece a finirlo con la massima cura e delicatezza possibili. Una volta concluso il banchetto, giunse il momento dei mimi e delle mascherate. I tavoli che ingombravano la Grande Sala furono sospinti contro le pareti, e quanti avevano la sfortuna di occupare i posti verso l'interno si affrettarono a scaglionarsi lungo il muro. Con una serie di grida e un tintinnare di tamburelli, un'orda di laceri zingari fece irruzione nella Sala... solo che i loro stracci erano di velluto e di seta, ed erano decorati con ricami e monete d'oro, mentre le barbe e i lunghi capelli arruffati erano fatti di fili di seta e d'oro e le gemme scintillanti che li adornavano erano tutte autentiche. Gli zingari danzarono nel centro della stanza, gli uomini balzando in aria e le donne facendo tintinnare i tamburelli nel cantare le gioie della vita libera sulle strade e sui sentieri di Englene. Elizabeth sapeva che quegli zingari erano probabilmente membri della corte... giovani figli e figlie di nobiluomini... ma il loro era un bello spettacolo e il loro canto era piacevole. Con un ultimo tintinnare dei tamburelli, gli zingari abbandonarono la stanza danzando, in mezzo a uno scrosciare di applausi. Jackie si alzò lentamente in piedi e attraversò la Sala, raccogliendo un paio di brandelli di seta che gli zingari si erano lasciati alle spalle; tornò quindi sulla piattaforma e si portò uno di quei brandelli al naso, annusan-
dolo. «L'odore di questi zingari mi sembra strano, Vostra Grazia» osservò. «Lo sai che il loro sudore profuma di viola, di lillà e di lavanda? È davvero strano. Dovresti farne arrivare a corte un numero maggiore, per profumare l'aria.» «Jackie» replicò il re, con una risata di apprezzamento, «dal momento che questo è il compleanno di una dama, perché non tieni a nostro beneficio una dissertazione sulla femminilità?» Jackie si contorse in modo da assumere una posa particolarmente grottesca. «E cosa ne può sapere sul conto delle dame un povero storpio come me, Vostra Grazia?» gemette. «Ahimè, ahimè, nessuna dama mi guarda con favore. Io non sono altro che una povera cosa, scacciata a calci da una stanza all'altra... e da un letto all'altro... mai amata, mai apprezzata... ma molto soddisfatta.» Dai membri della corte si levò una risata di apprezzamento, perché le imprese amorose di Jackie erano leggendarie; molte giovani dame nascosero dietro la mano un improvviso rossore, consapevoli che quella piccola, grottesca creatura aveva di recente condiviso il loro letto. «Ma se vuoi che parli delle donne» proseguì Jackie, «allora devo dire che le preferisco grosse, Vostra Grazia, perché a letto sono calde. Quelle alte e sottili non hanno fuoco, bruciano molto in fretta, ma datemi una donna grande e grossa, e mi riscalderà il letto per tutta la notte.» «E cosa mi dici delle donne della selva stregata?» chiese Anne, volutamente provocatoria. «Che ne pensi di loro, buffone?» Jackie contrasse i propri lineamenti angelici fino ad assumere un'espressione d'intensa concentrazione. «Mia signora, trovo che per quanto piccole, esse forniscono il calore più intenso che si possa desiderare nella notte... ma sfortunatamente la fiamma si spegne fin troppo presto.» Jackie eseguì un inchino beffardo in direzione del re. Sapeva che stava camminando su un terreno pericoloso... ma in qualità di buffone lui aveva il diritto di dire quasi tutto quello che voleva, a patto che ricordasse che l'accento doveva cadere su quel "quasi". Stuzzicare troppo il re in merito al fatto che trascurava la strega silvana che aveva sposato a favore di Lady Pemberly poteva risultare poco saggio. «Ma ora, Vostra Grazia, basta parlare di donne. Troppe, fra loro, riescono ad essere noiose tanto di notte quanto il mattino successivo» dichiarò. «Abbiamo altri intrattenimenti in serbo per voi tutti. Ho persuaso il vec-
chio Menadel a lasciare la piccola cella ammuffita in cui dimora, quale che essa sia, e a venire ad esibirsi con qualche gioco di abilità, per vostro divertimento.» Lady Anne ridacchiò, e la sua risata fu raccolta da parecchi altri cortigiani, perché il mago Menadel godeva della disgraziata reputazione di non essere capace di far funzionare bene nessuno dei suoi trucchi magici. Jackie saltellò fino all'altro capo della sala dove, mimando un gran squillare di trombe e una serie di solenni inchini, introdusse Menadel. Il grasso uomo dai capelli rossi si fece avanti con lentezza, inchinandosi ripetutamente al re, che di solito vedeva di rado. Menadel trascorreva la maggior parte del tempo in una segreta in disuso, dove tentava grandi imprese di alchimia... che per lo più producevano liquidi densi, orribili e maleodoranti, e lasciavano ampie bruciature sui tavoli di legno che lui usava per i suoi esperimenti. Arrestatosi davanti alla piattaforma, Menadel s'inchinò ancora al re, rivolse un inchino più leggero ad Anne ed indirizzò un caldo sorriso alla Principessa Elizabeth. La ragazza era cresciuta chiamando Menadel con l'appellativo di zio, anche se non sapeva con certezza se lui fosse o meno uno dei numerosi bastardi che suo nonno, Re Edward, si era lasciato alle spalle. Il mago era stato il suo maestro fin da quando risalivano i suoi ricordi, ed avrebbe potuto avere qualsiasi età, da quaranta a quattrocento anni. La sua faccia florida, incorniciata dai capelli e dalla barba di colore rossiccio, costituiva una delle primissime immagini da lei registrate nella sua vita, e lo ricordava ancora chino sulla sua culla intento ad agitarle un assurdo sonaglio dì sua invenzione a pochi centimetri dal viso. Menadel eseguì un ennesimo inchino, poi si avvolse maggiormente la tunica color topo intorno al corpo e si portò nel centro della Sala dove, con voce acuta, annunciò alla corte in generale che avrebbe tentato di realizzare il grande effetto delle Sfere di Fuoco Fiorentine. Prelevò quindi dalle maniche della tunica tre lucenti sfere di vetro e prese a lanciarle in aria a turno, con scarsa abilità finché... all'echeggiare delle gutturali parole di un incantesimo... le palle presero fuoco e continuarono a ruotare nell'aria da sole. Il mago indietreggiò e incrociò le braccia sull'ampio ventre, mentre dai cortigiani si levava qualche applauso poco entusiasta e il re si sporgeva in avanti sulla sedia, osservando con attenzione il complesso disegno che le tre sfere di fuoco stavano intrecciando nell'aria. E proprio allora avvenne il disastro. La faccia di Menadel si fece im-
provvisamente purpurea per lo sforzo e lui esplose in un prolungato e stentoreo sternuto. Le sfere si arrestarono per un attimo a mezz'aria poi, rendendosi conto di non essere più controllate, presero a saettare avanti e indietro per la Sala, spaventando le dame e strinando la barba ai gentiluomini. Menadel agitò in fretta le mani in una serie di gesti magici, nel tentativo di ricatturare le sfere, ma esse ignorarono i suoi ordini, così come ignorarono anche le grandi imprecazioni da lui urlate con la sua voce tenorile. Le palle volarono rapide verso il soffitto a travi scoperte, danzarono nell'aria e ridiscesero veloci a rischiarare i vari cortigiani. Le risa dei presenti, dirette a Menadel, si mutarono in grida di paura e il re, che aveva osservato la scena con un certo divertimento, si alzò lentamente in piedi, protendendo la mano destra, quella a cui portava Raziel, l'anello di rame e smeraldo che era la fonte del suo potere... un potere tale che Richard avrebbe potuto spianare al suolo tre contee con la forza di un solo pensiero. Con un distratto movimento del polso, Re Richard creò una grande palla lucente e iridescente come una perla; ad un suo comando, quella palla attraversò la Sala e inglobò ad una ad una le sfere di fuoco, per poi risalire verso il soffitto, da dove la sua luce opalescente si riversò sulla corte, strappando bagliori ai capelli biondi, rossi o fulvi dei signori della magia e delle dame-streghe. Fra i presenti non c'era nessuno che avesse i capelli bruni, nessun signore della magia aveva mai i capelli neri come la notte. La luce perlacea mise in risalto anche le tinte degli abiti: rosso, giallo, vinaccia, zafferano, nero, bronzo, arancio, rosa, viola, argento, oro, ogni sfumatura di blu... tutti i colori dell'arcobaleno tranne uno, il verde delle streghe silvane. Il globo si allargò sempre di più fino ad esplodere con un suono assordante, riversando sulla corte fiori, confetti, mandorle zuccherate e oggettini d'oro e d'argento. La Sala si riempì di risa e i cortigiani si affannarono a tuffarsi all'inseguimento dei doni che piovevano dalla bolla creata dal re, simili a bambini che ridessero senza scopo nel gioco, mentre si sfilavano i dolciumi dai rispettivi copricapi o cercavano di recuperare un confetto particolarmente succulento che era finito nel corsetto di una dama di compagnia. Sulla piattaforma, la Principessa Elizabeth rimase a sedere immobile, ignorando dolci e doni che le cadevano in grembo e maledicendo in silenzio tutte quelle persone belle e dorate che, con le loro maledizioni e i loro incantesimi, stavano provocando la morte di sua madre, la regina.
Quando la Principessa Marguerite lasciò il capezzale della regina, le candele erano quasi consumate e la quantità di luce lunare che penetrava nella stanza diceva che la marea stava per cambiare. Dianne rimase seduta sul letto, con le braccia strette intorno alle ginocchia, consapevole che era giunto per lei il momento di ultimare il compito che doveva svolgere sulla Terra. Infilata la mano sotto i cuscini, tirò fuori un sacchetto di erbe assortite: si trattava di un'innocua miscela di petali di rosa, di legno di sandalo, di cinnamomo e di gelsomino notturno, che sarebbe servita a confondere i signori della magia. Con un sorriso, versò la miscela di erbe in una piccola ciotola d'ottone posata sul tavolo, accanto al letto. Con le dita snelle, sparse poi qualche petalo di rosa sulla superficie del tavolo. «Che questo li tenga a bada» mormorò. Prelevò poi un secondo sacchetto da sotto i cuscini e, infilata una mano fra le coltri, ne estrasse uno scaldaletto pieno di carboni ardenti, i cui lati in ottone erano ancora caldi al tatto. La regina sollevò il coperchio dello scaldaletto e indugiò un momento a contemplare i carboni ardenti prima di prelevare dal sacchetto un delicato fazzoletto di seta bianca che conosceva bene, avendo visto Elizabeth ricamarlo come dono per suo padre, in occasione del Nuovo Anno. Il fazzoletto era arruffato e sporco, perché una cameriera di assoluta fiducia se n'era servita per procurare una certa quantità di sperma di Richard. Dianne non aveva nessun desiderio di sapere come la ragazza ci fosse riuscita, le bastava che avesse assolto il suo compito. Con un freddo sorriso, annodò in nove punti la seta bianca, poi depose il fazzoletto sui carboni ardenti e lo guardò bruciare, osservando le piccole lingue di fiamma che si levavano impazienti a lambirlo. Mentre il fazzoletto bruciava con il suo contenuto, Dianne sparse su di esso un insieme di buccia secca d'arancio, di cicuta, di verbena, di papavero bianco e di assenzio, mormorando al tempo stesso alcune frasi in linguaggio arcaico: «Intreccia tre nodi, Amaryllis, intrecciali in tre colori, Amaryllis. Dire e fare, far sy far fa fay u far eight na forty. Kay u Mack straik it, a pain for hun creig wel. Mack smeoran bun bagie.» Una fiamma azzurra si levò dal braciere: quello era un incantesimo inteso a vincolare, che poteva essere infranto soltanto sciogliendo i nodi... e siccome il fazzoletto era bruciato, niente e nessuno avrebbe più potuto scioglierlo. Richard non avrebbe più avuto figli da nessun'altra donna. Fissando le fiamme che consumavano la stoffa, Dianne si accorse che
stava piangendo. Stava piangendo per i giorni ormai perduti dell'inizio del loro matrimonio, quando avevano condiviso con gioia quello stesso, grande letto, e quando la sua presenza era stata sufficiente a destare in lui il desiderio. Questo non sarebbe più accaduto, mai più, perché ora Richard non era più un vero uomo a causa del suo incantesimo. Con un sospiro, Dianne richiuse il coperchio dello scaldaletto e lo ripose nuovamente fra le coperte. La marea era cambiata. Consapevole che la fine era ormai prossima, la regina si riadagiò sulle coltri, in attesa. «Allora, hai concluso tutto quello che dovevi fare?» Dianne sbirciò nell'ombra che si addensava negli angoli della stanza: la porta non si era aperta, ma del resto la persona che ora si trovava nella sua camera non aveva bisogno di porte per entrare. «Sì, Nerthus, ho concluso ogni cosa» rispose. «Ho ultimato la storia della mia vita, per i miei futuri nipoti; ho salvato il trono per Elizabeth, ed ora sono pronta. Mi rimangono soltanto due rimpianti: che non vedrò mai Bess sul trono e che non potrò mai vedere quel suo figlio che, come tu hai promesso, renderà validi tutti questi sacrifici.» «E che mi dici delle torri ancora incomplete? Hai forse dimenticato che una soltanto è stata ultimata? Ti avevo ordinato di costruirne quattro.» Una vecchia emerse dall'ombra. Era curva e grigia, e il suo viso era segnato da rughe prodotte da migliaia e migliaia di preoccupazioni. Dalla cima del copricapo alla punta delle pantofole di velluto, era vestita nella tipica sfumatura di verde delle streghe silvane, e sollevò con cura le pieghe della gonna troppo lunga nell'attraversare la camera. «Le torri si dovranno ultimare da sole, oppure ci dovrà pensare Elizabeth, con il tuo aiuto. Non m'importa in quale dei due modi saranno finite» ribatté Dianne. «Non vedi che ho perso ogni potere? Se avessi tentato di ultimare il Palazzo di Witchdame con le poche forze rimastemi, lo avrei distrutto o rovinato.» «Tutte scuse!» La voce della vecchia era sibilante, come il soffio di un gatto arrabbiato. «Questo è tutto quello che ho sempre ottenuto da te... scuse!» «Sono tua figlia» ribatté Dianne, con una debole risata. «La mia debolezza è la tua. Basta così! Lascia questo compito ad Elizabeth. La troverai molto più di tuo gusto, in quanto è assai più docile di me. Ti auguro di divertirti nel predisporre la sua vita. Quanto a me, la mia è finita: ho esaurito
i miei poteri per pronunciare la maledizione contro la virilità di Richard. Ora lui ne è privo, ed è stata opera mia.» Nerthus scosse il capo, di fronte all'odio che pervadeva la mente e il corpo della piccola regina. «In tutti gli anni in cui ti ho conosciuta, Dianne, non sei mai stata vendicativa. Ti ho vista essere meschina, litigiosa e, a volte, petulante, ma mai vendicativa. Devo ammettere che sono sorpresa, e tu sai che sono ben poche le cose che mi possono sorprendere.» La regina riassestò i cuscini intorno alle minute spalle ossute. «Se c'è qualcuno che ha il diritto di essere vendicativa, quella sono io. Per diciassette anni ho sofferto per la sua indifferenza e per l'odio dei suoi cortigiani. E lui non ha fatto niente per fermarli! Potrei scuoiarlo vivo e arrostirgli la carne addosso, e neppure tu potresti affermare che sarebbe un atto ingiusto da parte mia. Non indulgere in tanta affettata ipocrisia, vecchia madre. Sai cosa ho sofferto: pensi davvero che questo non giustifichi il mio gesto?» Nerthus girò le spalle alla regina, e indugiò a guardare i documenti sparsi sul grande tavolo di quercia, raccogliendo poi il grosso fascio di fogli che costituivano il dono di Dianne al nipote non ancora nato, le memorie alla cui stesura lei aveva dedicato tante settimane di fatica. «Qui dentro c'è una grande dose di verità» affermò la vecchia, posando nuovamente i fogli sul tavolo. «Una grande quantità di vero e una grande quantità di semplici opinioni, ma non ha importanza. A lungo andare, sono le opinioni delle persone a creare la storia, e non la verità. Con il tempo, quello che hai fatto qui diventerà una specie di verità: la grande e potente Regina Dianne amava a tal punto il marito da non poter sopportare l'idea che questi toccasse un'altra donna. Oh, nelle taverne canteranno ballate su questa storia, e piangeranno la strega silvana che è andata incontro alla morte da sola e senza essere amata da nessuno. Ma non canteranno mai che era meschina e di spirito maligno.» Nerthus tornò a voltarsi verso la regina. «Io non ti fermerò, perché il tuo operato si adatta bene ai miei piani. In effetti, se dovessi guardare nel profondo del mio cuore, scoprirei probabilmente che si trattava di un mio piano, il che è molto scoraggiante, perché io non pensavo di essere così meschina. Bada, però, grande regina di Englene... per Richard, il prossimo anno sarà un anno contrassegnato da un doppio sette, perché la sua età e gli anni del suo regno s'incroceranno, e questo è un portento sfortunato per un sovrano. Vuoi davvero mandarlo in-
contro a un anno dal doppio sette privo della virilità?» Dianne si agitò, inquieta, sotto le coltri, mentre un'espressione dubbiosa le affiorava sul viso; si portò le dita alle labbra e concentrò la propria attenzione su un lembo di pelle sollevata, accanto ad un'unghia. Lo troncò di nettò con i piccoli denti bianchi e sospirò. «Il suo destino è soltanto suo. Non è mio perché me ne preoccupi. Agisco così, vecchia, perché devo, e se anche l'anno del doppio sette dovesse rivelarsi quello che segnerà la sorte di Re Richard, io ho regalato ad Englene la speranza e chi gli succederà al trono. Nella mia Elizabeth sono racchiuse le scuse che porgo per qualsiasi danno io possa recare al regno attraverso la maledizione che ho scagliato contro il suo re. Dimmi, vecchia signora degli intrallazzatori, non è forse questo il tuo piano? Avanti, ammetti la parte che hai avuto nella mia maledizione e concedimi la tua benedizione, prima che io discenda nell'oscura e vuota tomba in Westmonasterium. Perdonami e confortami con la tua benedizione: per tutta la vita ho fatto la tua volontà e ne ho sofferto le conseguenze.» Nerthus la strega silvana, Madre di tutte le streghe silvane e loro capo spirituale, indugiò accanto al letto di Dianne, che le streghe silvane chiamavano Deerwydd veggente della Quercia, e fece per lei qualcosa che di rado aveva fatto durante la sua lunga esistenza... provò pietà, mista ad affetto e a rimpianto, per questa che era una sua creazione. Una creazione imperfetta, forse, ma pur sempre una creazione. «Possa tu essere benedetta in vita e in morte» disse la vecchia strega silvana. «Possa essere tu benedetta in questo tuo ultimo incantesimo, e possa esso essere infine di beneficio ad Englene, quali che siano le sventure che produrrà. E possa anche essere ciò che tu desideri che sia, un mezzo che permetta a tua figlia di sedere sicuramente sul trono di Englene. Possa lei giungere a conoscere l'amarezza, l'ira e la sofferenza che tu e suo padre avete intessuto, e possa lei maledire il suo nome e il tuo! Io, Nerthus, mi addosso ogni biasimo perché so che le tue azioni sono anche le mie, e che le mie azioni sono le tue. Mea culpa, mea maxima culpa. Io, Nerthus, ho parlato.» Dianne accettò tanto la benedizione quanto la maledizione, perché la maledizione della vecchia era soltanto un'altra goccia d'amarezza, e che mai può essere una goccia, in un oceano? Dianne chiuse gli occhi e attese che la morte la reclamasse. «Voglio morire. Il momento è giunto: lasciami morire ora, vecchia madre.»
«Il momento giungerà presto, figlia. Sento già le ali dell'angelo.» Le imposte della finestra gemettero e scricchiolarono sotto una brezza odorosa di melo, levatasi nell'occidentale Isola di Avalon, e si sentì un rumore come di qualcuno che bussasse contro i vetri. Poi le imposte si spalancarono da sole e, seduto sul davanzale, a parecchi piani dal terreno, apparve l'Angelo della Morte. Aveva l'aspetto di una donna, avvolta in un abito di un nero verdastro, simile al colore del piumaggio di un corvo, e le lunghe ali nere ricordavano molto quelle dei corvi. I capelli erano lunghi e cupi come il buio di mezzanotte, gli occhi avevano il colore dell'ebano e spiccavano in un viso dal pallore mortale. L'espressione era triste e la bocca sottile, immobile: l'angelo non aveva voce, perché era muto, e quando Dianne gridò nel vederlo fu anche chiaro che non la poteva sentire, perché era sordo a ogni supplica. L'angelo scivolò nella stanza e si fermò di fronte al letto della regina; allargò le ali nere, facendo vibrare le penne, e le raccolse nuovamente contro la schiena, mentre protendeva le mani bianche e sottili in direzione del letto, in un gesto d'invito. Il gesto fu ripetuto ancora, poi l'angelo strinse a sé Dianne e l'avviluppò nelle ali nere prima di svanire. Dietro di sé, sul letto, lasciò il corpo della regina strega silvana di Englene. La vecchia si chinò e abbassò le palpebre sugli occhi castani di Dianne. Con sorpresa, Nerthus si accorse che stava piangendo. CAPITOLO TERZO «Mia signora, mia signora. Svegliati.» Il tintinnio dei pesanti anelli fissati alle tende di velluto che circondavano il letto svegliò bruscamente Elizabeth, perché il rumore del metallo sul legno era molto più forte del suono della voce di Jane Howard, dama di compagnia anziana del seguito di Elizabeth. «Altezza, la tua signora madre, la regina, è morta.» Lady Jane indugiò accanto a lei con un'espressione preoccupata sul viso dolce e gentile. Elizabeth si mise a sedere sul letto, in mezzo ai cuscini ricamati e orlati in oro; si tirò sulle ginocchia il piumino d'oca e fissò pensosamente lo sguardo di fronte a sé. «Aveva affermato che sarebbe stato così, e a quanto pare parlava sul serio. Lady Jane, sono stati già fatti preparativi di qualche genere? La mia signora madre ha detto che il suo drappo funebre era pronto e così anche l'a-
bito. Vorrei che fossero usate le cose che lei aveva scelto, per il suo funerale: il suo ultimo desiderio è stato quello di essere sepolta come una strega silvana.» «E così sarà. È proprio un bene che lei avesse già approntato tutto, mia signora, perché tuo padre ha decretato che ci sia soltanto una settimana di lutto per la regina.» «Una settimana! Come! Si fissano tempi più lunghi perfino per un bambino nato morto! Perfino per un gatto morto... come, mio padre ha ordinato due settimane di lutto quando è morto quel parente di Lady Anne. Come ha potuto fare una cosa simile? Una settimana appena per mia madre, che lo amava!» Elizabeth si accorse che le lacrime le salivano agli occhi e si affrettò a soffocarle, perché non intendeva piangere davanti alla dama di compagnia. «Questo crea qualche difficoltà per quanto riguarda la preparazione del tuo vestiario, mia signora. Dovrò convocare la guardarobiera e vedere se ha un abito a lutto che si adatti a te. Dovrai vestire interamente in gramaglie: per la tua posizione, non andrebbe bene nulla di meno completo.» Elizabeth si stiracchiò e cominciò a slacciare la camicia da notte, aiutata da Lady Jane. Una volta spogliatasi la principessa si mise in piedi sullo strato di giunchi che copriva il pavimento, accanto al letto, e Lady Jane prese a dirigere le attività di svariate dame di compagnia più giovani mentre queste procedevano a lavare la principessa e quindi a infilarle un corsetto e una camicia pulita. Elizabeth accettò lo scialle di velluto nero che Lady Jane le avvolse intorno alle spalle, poi sedette sullo sgabello posto di fronte allo specchio, in modo che Lady Margaret Sheffield potesse spazzolarle i capelli e pettinarla. «Non mi vestirò di nero, e neppure in gramaglie per mia madre. Mi vestirò di verde, come lei mi ha fatto promettere, e sono certa che se chiederai a Lady Mary scoprirai che c'è già un abito verde pronto per me. Mia madre pensava sempre a tutto.» «Verde! Verde!» Un coro di agitate esclamazioni si levò dalle dame di compagnia. «Ma non ti puoi vestire di verde! Il verde è un colore proibito in questa corte! È il colore delle streghe silvane!» «Io mi vestirò di verde» ribatté Elizabeth, con fredda determinazione. «Mandate a chiamare Lady Mary Hamilton e chiedetele se mia madre aveva preparato un abito verde per me. E mandate anche a dire alla Principessa Marguerite che devo vederla non appena potrà venire da me.» Poi Elizabeth sedette per attendere l'arrivo della zia.
Lady Mary e la Principessa Marguerite giunsero quasi nello stesso momento: entrambe erano abbigliate di nero, in segno di lutto per la regina morta. «Ma certo che la bambina si vestirà come desidera» dichiarò Marguerite, dopo aver appreso la causa di tanta agitazione. «La Regina Dianne glielo ha chiesto esplicitamente: ero presente, e ne sono testimone. Nessuno, neppure il re, oserà contrastare i desideri della sua defunta regina.» «È vero.» Lady Hamilton si accostò alla principessa e l'abbracciò con fare rassicurante. «La tua signora madre aveva preparato per te un abito da cerimonia in verde. Ce l'ho io, e te lo porterò, se lo desideri.» Elizabeth annuì, e Lady Hamilton lasciò la stanza accompagnata dallo scricchiolio del corsetto nero e avorio contro il davanti della sottogonna e dell'abito. Il vestito risultò essere un capo di grande bellezza, dalla fattura squisita. Fu anche chiaro a tutti che la regina doveva averne ordinato la preparazione parecchio tempo prima della sua morte, perché ci dovevano essere voluti alcuni mesi soltanto per i ricami sulle maniche. La stoffa era grosgrain di seta marezzata, di un cupo verde foresta. Il bustino terminava in vita con una punta molto accentuata che faceva apparire quasi snello il corpo di Elizabeth. Lo scollo di percalle bianco era a collo alto ed era circondato da un collare a ventaglio rigido e con un tocco di merletto dorato. La gonna si allargava a campana sui fianchi, scendendo a coprire la sottogonna color bronzo e oro, trattenuta qua e là da perle e cordone argentato. La regina non aveva fornito un cappello che accompagnasse l'abito, e Lady Hamilton ne scelse uno nero decorato in oro e perle. «È conveniente che tu lo porti, mia signora, perché tuo padre sarà compiaciuto di vederti indosso almeno un tocco di nero.» Accorgendosi che la maggior parte delle dame di compagnia e perfino la Principessa Marguerite erano d'accordo, Elizabeth accettò il copricapo nero. «Ascoltami» disse quindi, rivolta a Lady Jane, «ed ascoltami bene. Oggi stesso tu svuoterai il mio guardaroba di ogni abito che non sia verde. Regala i miei vestiti alle dame di compagnia, o a chiunque li voglia: per un voto fatto a mia madre, la regina, da oggi in poi tutti i miei abiti saranno verdi.» Le dame di compagnia si precipitarono verso il guardaroba della principessa con un coro di risatine felici, perché le aspettava una ricca preda e
molte di loro sapevano che gli splendidi abiti di Elizabeth avrebbero donato molto più a loro che alla precedente proprietaria. «Lady Jane» aggiunse Elizabeth, «accertati che l'abito di velluto azzurro che portavo la scorsa notte sia dato a Jackie. Credo che lo volesse per le sue pantomime, o per regalarlo a qualche servetta di suo gusto. Come che sia, non intendo più vederlo in giro, quindi non permettere che nessuna delle mie dame lo scelga per sé.» Bussarono alla porta, e Lady Jane andò ad aprire. Sulla soglia c'era Jackie, del tutto diverso dal solito tranne che nel corpo deforme, perché era vestito completamente di nero e in lui non si scorgeva traccia del giullare di corte. Mazza e sonagli erano stati accantonati, e in quel momento lui era soltanto Jackie Somers, uno dei dolenti che piangevano la regina strega silvana. «Mia signora, Sua Grazia il Re desidera vederti» disse Jackie, e la sua voce suonò solenne quanto il suo abbigliamento. Elizabeth trovò suo padre nella biblioteca più piccola, in compagnia di Thomas il Sapiente; Re Richard aveva appena finito di ordinare gli abiti da lutto per le donne povere di Lundene. «La figlia di Vostra Grazia» annunciò Jackie, precedendo Elizabeth nella stanza. Elizabeth eseguì una profonda riverenza, a capo chino; attraverso le ciglia, vide che suo padre era vestito interamente di nero. Il re abbassò lo sguardo sulla figlia e rimase sorpreso. «Dimmi, figlia mia, ciò che indossi ti sembra adeguato alla mia corte? Avevo ordinato che si osservasse il lutto stretto, e cos'è questo?» «Vostra Grazia mi perdoni e mi dia la sua benedizione» rispose Elizabeth, a bassa voce, «ma è stato un desiderio di mia madre. Mio signore, ho fatto un voto a mia madre: le ho promesso che mi sarei sempre vestita di verde in suo ricordo, e ti prego di lasciarmi onorare la mia promessa.» Richard si chinò per aiutare la figlia a rialzarsi. «Ma certo, bambina mia» rispose, tenendola fra le braccia. «Onora tua madre come lei vorrebbe che facessi. Hai il mio permesso di vestire di verde per tutto il tempo che vorrai.» Richard girò il capo per accertarsi che Thomas avesse preso nota di quell'osservazione, poi tornò a rivolgersi ad Elizabeth. «Se tu ritieni che io abbia onorato tua madre meno di quanto tu abbia fatto con il tuo voto, devi sapere che c'è un valido motivo che mi ha indotto ad ordinare una sola settimana di lutto. E quel motivo sei tu: non
voglio che il tuo diciottesimo compleanno sia offuscato dal lutto.» «Ma il mio compleanno cadrà soltanto il sette di settembre, e oggi è il primo di agosto. La corte potrebbe osservare il lutto per oltre un mese!» «Ci vogliono moltissimi preparativi per onorare una principessa di Englene in occasione del suo diciottesimo compleanno» intervenne Thomas. «Devi comprenderlo, mia signora: ci sono i preparativi per la tua iniziazione, per il torneo del compleanno, e per la tua consacrazione presso il santuario di Bathford. Se la corte fosse ancora in lutto, questo provocherebbe molte chiacchiere fra la popolazione. Si comincerebbe a pensare che la tua presenza nel Cerchio ci addolora anziché colmarci di gioia, com'è giusto che sia.» «Molto bene, dal momento che è colpa mia se il lutto durerà appena una settimana, devo accettare la cosa» si arrese Elizabeth, con un sospiro. «Ma voglio dedicare a mia madre una campana da appendere nel Palazzo di Witchdame, e ci vorrà del tempo per la sua fabbricazione. Voglio che sia una campana di timbro tenorile, e che rechi l'iscrizione "Voce mea viva depello cuncta nociva". Vuoi provvedere tu, Thomas?» «Lo farò, mia signora. E il motto "La mia voce allontanerà gli spiriti malvagi" mi sembra adatto a una dama quale era la defunta regina. Ti prometto che la campana sarà fatta secondo i tuoi desideri.» Thomas s'inchinò alla Principessa Elizabeth e poi a suo padre. «Se ora Vostra Grazia e la principessa vogliono scusarmi, ho ancora molte cose da fare prima di questa sera, quando la regina sarà sepolta. Quindi, se volete congedarmi, andrò a provvedere ai miei doveri.» Con un inchino, Thomas lasciò la stanza, dove il re rimase solo con la figlia. Elizabeth scoprì di aver ben poco da dire a suo padre. Imbarazzata, spostò più volte il peso del corpo da un piede all'altro. «Suppongo che mia madre sarà seppellita nella cripta con tutti gli altri re e le regine di Englene, vero? Merita almeno questo...» «Ma certo! Lei era una regina di Englene, unta e incoronata. Dove altro dovrebbe essere sepolta?» Il tono di Richard, un po' troppo energico, tradiva il disagio che anche lui provava. Il sovrano giocherellò con la barba, poi si riassestò il cappello. «Bambina...» cominciò, raccogliendo i guanti e tornando a posarli. «Bambina, c'è qualcosa che desidero dirti. Tu sai che da qualche tempo Lady Anne ed io siamo stati toccati dalla freccia di Cupido e che ci vorremmo sposare. Tuttavia, ti prometto questo: nessuna principessa che potrà nascere da Lady Anne sarà anteposta a te come ere-
de. È il massimo che posso fare per te.» «Lo capisco, Vostra Grazia. Non mi ribellerò in nessun modo contro il tuo matrimonio con Lady Anne. Tuttavia, se avrai un figlio da lei, ne soffrirò, non per me stessa, ma per mia madre.» Sollevò sul padre lo sguardo, con occhi colmi di lacrime. «Chiedo a Vostra Grazia il permesso di andare. Anch'io ho molti preparativi da fare.» La cripta regale, sotto il santuario di Westmonasterium, era buia e umida. Ogni nicchia disponibile era occupata dai corpi, perfettamente conservati, dei regali defunti signori della magia... re, regine, principi, principesse, duchi, regali bastardi... in una linea di discendenza che risaliva ininterrotta fino al 1066, l'anno in cui i signori della magia erano per la prima volta giunti da oltre il mare. Elizabeth aveva sempre pensato a quella cripta come al Regale Museo delle Cere... e ne aveva motivò, in quanto non tutti i corpi erano racchiusi in una bara. Dal momento che il grado di conservazione era assoluto, vigeva l'usanza di deporre molti monarchi defunti in posizione eretta, avvolti nell'abito dell'incoronazione, il che li faceva apparire spaventosamente vivi. Da bambina, Elizabeth era stata spesso mandata laggiù per studiare i suoi antenati, e non si era trattato di una lezione di suo gradimento. Le era sempre parso che ci fosse qualcosa di terrificante nello sguardo vitreo di suo nonno, Edward il Giusto, e del suo prozio, Henry il Senza Speranza. Henry ed Edward erano stati collocati fianco a fianco, con la testa dell'uno che quasi sfiorava quella dell'altro, e la faccia di Henry era leggermente girata verso Edward, come se i due condividessero qualche scherzo ultraterreno a spese dei loro discendenti ancora in vita. Nel regale museo delle cere c'era però un corpo che spaventava tutti i cortigiani e la principessa più di qualsiasi altro: il corpo perfettamente conservato di William Marshall, principale consigliere di Re James Flagello delle Streghe Silvane. Re James aveva regnato nel dodicesimo secolo, e si narrava che avesse causato in Englene più morti di quanti ne avesse provocate qualsiasi altro sovrano, prima e dopo di lui. Era stato un uomo che traeva piacere dalla ferocia. Sua moglie, Eleanor di Aquitania, era morta di parto, e molti dicevano che era stata ben lieta di liberarsi del suo re e della vita; all'epoca, era corsa voce che il bambino non fosse del sovrano, ma del Cancelliere William Marshall, e Re James aveva escogitalo una vendetta particolarmente malvagia contro il suo cancelliere. Quando la regina era stata sepolta nella cripta reale, William Marshall
era stato collocato accanto alla sua bara dal coperchio di cristallo, in posizione di preghiera; i suoi occhi aperti avevano avuto un'espressione di assoluto terrore, perché William Marshall non era morto quando era stato collocato nella cripta regale. Il suo corpo si era conservato perfettamente intatto per secoli, ma era possibile che la sua anima fosse ancora prigioniera in esso. Per fortuna, la piccola bara di cristallo di Dianne fu deposta ad una certa distanza da quella della sfortunata Eleanor; l'alcova che Richard, o forse Lady Pemberly, aveva scelto per la minuta regina era lontana da quelle del resto della famiglia regale, e sembrava quasi che qualcuno avesse voluto per Dianne l'angolo più oscuro e appartato... una piccola rientranza grande appena quanto bastava per permettere l'accesso ai principali dolenti: Elizabeth, Marguerite e Richard. La bara venne deposta sul piedestallo drappeggiato di velluto nero, e lo splendido drappo funebre verde fu tratto indietro in modo da lasciare scoperto il viso della regina. Elizabeth sistemò con cura la gonna verde in modo da creare un cuscinetto sotto le ginocchia; la Principessa Marguerite le si inginocchiò accanto e, mentre la zia sistemava a sua volta la gonna, Elizabeth scorse una macchia di verde sotto la sopragonna nera. Pallido e scosso, il re si accostò alla bara per contemplare il volto della regina, e Lady Pemberly si affrettò a insinuarsi nella nicchia, accanto a lui. Richard abbassò lo sguardo sulla moglie morta, poi lo spostò su Anne, come avrebbe potuto fare un bambino che cercasse il conforto della nutrice. «Io... io non credevo che sarebbe morta davvero. Non pensavo che sarebbe effettivamente successo questo. Io... io... io... mi sento strano, ho le vertigini. Non so cosa sia, ma la testa mi duole, e non ho mangiato per tutto il giorno. Ho digiunato da quando ho saputo che era morta.» Una lacrima scivolò lungo la guancia del re e cadde sulla manica di velluto nero, lasciandovi una macchia umida. Anne si affrettò a porgergli un fazzoletto di seta e gli batté un colpetto gentile sulla spalla. «Suvvia, mio signore, suvvia, non dolerti troppo, altrimenti ti ammalerai.» Guardò verso Elizabeth e Marguerite, entrambe impassibili. «Non si sente molto bene, sapete» spiegò alle due principesse, «e non dovrebbe trascorrere tutta la notte in un posto così umido. Non gli gioverebbe alla sature, e non sarebbe opportuno per Englene che il re si ammalasse di
polmoni. Credo che la cosa migliore per lui sia tornare alla Torre Bianca. Io ordinerò che gli preparino una bevanda calda e uno scaldino per il letto.» «Non hai un buon aspetto, Richard» osservò, pensosa, Marguerite. «Forse sarebbe meglio... Dianne si preoccupava sempre tanto per la tua salute, e sono certa che capirebbe. Va', lasciaci sole: Elizabeth ed io provvederemo alla veglia funebre di sua madre.» Anne aiutò il re ad alzarsi in piedi e i due fuggirono dalla tomba della Regina Dianne con una fretta che era quasi oscena. La notte procedette con lentezza. Elizabeth si accorse che cominciava ad avere i crampi alle ginocchia e spostò il proprio peso con un sospiro, guardando verso la candela segnatempo, per controllare quante ore potevano ancora mancare all'alba. «Marguerite, sei sveglia?» chiese. Aveva notato che sua zia aveva sonnecchiato durante l'ultima ora, e che la sua testa si andava abbassando sempre di più all'interno dell'alto e rigido collare. «Uh? Cosa? Sveglia? Sì, certo che sono sveglia.» La voce di Marguerite era irritata e rauca per la mancanza di sonno. La donna cambiò posizione, rivelando ancora una volta la presenza del tessuto verde sotto il corsetto di velluto e la semplice gonna di cotone misto a lana. «Non sono abituata a questo genere di cose, ecco tutto. Vecchie ossa e pavimenti di pietra non vanno molto d'accordo, ma sto facendo questo per tua madre, e non lo faccio a malincuore.» «Vedo che non porti neppure a malincuore la sottoveste verde. È verde, quello che vedo sotto il tuo abito, vero?» Marguerite sollevò il bordo della nera veste da lutto, rivelando la sottogonna di broccato verde. «Ho il permesso del re di indossarla» disse. «Credevi di essere l'unica a corte che l'amasse veramente?» «Credo che tu ed io fossimo le sole ad amarla, a corte» replicò Elizabeth. «Oh, mio padre può averla amata, un tempo, in un remoto e vago passato in cui lui era ancora giovane, e ritengo che Jackie le fosse più affezionato di quanto volesse ammettere. Ma quanto ad amarla, sì, l'amavamo soltanto tu ed io.» «Io le ho voluto bene dal primo giorno che l'ho vista, e lei ha ricambiato il mio affetto. Questa, bambina mia, è una cosa che farai bene a tenere a mente, nell'interesse del tuo stesso futuro. Quante persone ha amato tua
madre? Tu ed io. E noi siamo tutto ciò che ha lasciato a segnare il suo passaggio.» «Ha amato mio padre.» «Lo ha amato davvero?» Marguerite guardò verso il viso della regina. «Nonostante ci siano molte cose che non capisco del matrimonio fra Dianne e Richard, c'è però una cosa che posso dire: dubito molto che lei lo amasse. Quale che sia stato lo scopo del loro matrimonio, da parte sua non si è trattato di amore, e vorrei sapere di cosa si trattava, per poter comprendere perché è stata disposta a vivere gli orrori di tutti questi anni. Suppongo che non lo saprò mai.» Elizabeth chinò la testa sulle braccia, con un sospiro: non le era mai venuto in mente che sua madre potesse non aver amato il re. Allora perché mai era rimasta a corte ed aveva lottato per sopravvivere ai mortali incantesimi dei signori della magia che vi dimoravano, come cortigiani? Poco distante, nella Torre Bianca del Palazzo di BrynGwyn del Corvo Benedetto, Lady Anne Pemberly giaceva nuda sulle bianche coltri di satin del grande letto regale. Con un grido di gioia, Richard la prese fra le braccia, stringendola a sé, con il corpo teso per l'impazienza. Per un momento, giacquero abbracciati, in attesa che la passione maturasse fra loro, ma questo non accadde, e Anne si accorse d'un tratto che il re stava tremando. Re Richard di Englene le si abbandonò fra le braccia, singhiozzando. «Dianne! Dianne!» pianse. «Mia piccola regina. Non mi sono reso conto di cosa significassi per me finché non te ne sei andata. Oh, Dianne.» Perso ormai qualsiasi desiderio, Richard si allontanò da Anne e giacque accanto a lei, piangendo per la moglie morta. Nella cripta reale, uno strano sorriso apparve sul volto della defunta Regina Dianne. La maledizione della regina si era avverata. CAPITOLO QUARTO La voce relativa all'impotenza del re si diffuse ben presto a corte, dove molti provarono un notevole divertimento per gli sforzi di Anne di Pemberly. Secondo parecchi cortigiani, la donna si era vantata prematuramente, e se lei non fosse riuscita a dare un figlio al re, c'erano molte altre dame ambiziose più che disposte a tentare la sorte. Lady Anne ordinò infine a Thomas il Mago e all'Arcivescovo Aleicester di incontrarsi con lei nel Solario della Regina, a BrynGwyn, ed entrambi
gli uomini ritennero saggio rispondere alla convocazione: anche se incerta, la stella di Anne non era ancora tramontata. «Signori» esordì Lady Anne, «ho bisogno del vostro aiuto. Come ben sapete, il re sta incontrando ultimamente alcune difficoltà, ed io desidero la vostra collaborazione per porre fine ad esse.» Era una cosa difficile da ammettere, da parte di Lady Anne: lei era in tutto e per tutto ciò che il re avrebbe dovuto trovare desiderabile, e tuttavia Richard continuava a piangere la moglie morta. «Non so in che modo potremmo esserti d'aiuto» obiettò Thomas. «La regina potrebbe aver gettato qualche incantesimo sul re, prima di morire. Abbiamo trovato petali di rosa sparsi per la sua stanza, e lei era una strega silvana molto potente, altrimenti come sarebbe potuta rimanere in vita tanto a lungo?» «È proprio così, buon Thomas» convenne Aleicester. «Peraltro, i petali non erano che una parte di un semplice assortimento di fiori, e in essi non c'era bagliore di magia. Potrebbe darsi che il nostro re stia veramente piangendo la moglie.» «Sciocchezze.» Lady Anne si girò per affrontare l'arcivescovo. «Sciocchezze» ripeté. «Richard non amava più quel piccolo sacco d'ossa da anni... ammesso che l'abbia mai amata. Sono io quella che ama, e ciò di cui soffre adesso deve essere qualche malanno estivo. I suoi medici sono ora con lui, e sono certa che scopriranno di cosa si tratta. Ma io desidero comunque il vostro aiuto, signori. Anzi, più che desiderarlo, lo esigo.» Thomas il Sapiente girò le spalle alla bionda bellezza che brillava come una gemma sotto la luce del sole che entrava dalla finestra. «Per quanto mi riguarda» commentò, accarezzandosi pensosamente il mento, «non credo di poterti essere utile, mia signora. Se, come supponiamo, si tratta di un incantesimo della regina, non c'è nulla nei Tre Reami che ti possa aiutare. La maledizione o la benedizione di una strega silvana morta dura in eterno.» «Si dice che tu abbia nelle vene sangue di strega silvana» ribatté Anne, in tono tagliente, «e le tue parole me ne convincono.» «No, mia signora» rispose Thomas, in tono mite, «che io sappia, nelle mie vene non c'è sangue di strega silvana... ma dal momento che non so chi fossero mia madre e mio padre, tutto è possibile.» «Bastardo!» esplose Anne, furibonda. «Mio figlio regnerà su Englene, lo giuro! Non essere tanto sciocco da scegliere la fazione sbagliata in questa battaglia, se non vuoi essere distrutto.»
«Mia signora, mia signora, non dire cose del genere» intervenne in fretta l'arcivescovo. «Re Richard ha dichiarato che la Principessa Elizabeth rimarrà la sua erede al trono fino alla nascita di un figlio maschio, e finché non ne avrai avuto uno, non è saggio da parte tua ergerti ad avversaria della Principessa Elizabeth o di Thomas.» «L'arcivescovo ha ragione» aggiunse Thomas. «Dopo le cerimonie che avranno luogo a Bathford e ad Avebury, quella donna acquisirà un potere enorme... un potere a cui non puoi avere interesse a contrapporti. Se dovessi scegliere di opporti a lei, ci saranno molti che si opporranno a te, fra cui anch'io. E non ti conviene volermi come nemico, Lady Pemberly.» La voce di Thomas stava perdendo in fretta il suo tono mite. Con piccoli, inefficaci cenni delle mani grassocce, Aleicester cercò di placare i due contendenti. «Suvvia, Thomas, stai mancando di diplomazia. Voi due siete entrambi troppo importanti per Englene perché litighiate. Vorrei che foste amici.» «Ed ora, mia signora, veniamo al tuo problema. Mi sono preso la libertà di formulare per te un incantesimo che elimina l'impotenza maschile. Bisogna mescolare coriandolo, gelsomino e viola che siano stati raccolti quando la luna piena era nell'ultimo quarto, combinando poi il tutto con miele e con le ceneri di una donnola. Dovrai ungere con questo impasto l'alluce del piede destro del sovrano, cantando al tempo stesso il tuo amore, e in aggiunta dovrai massaggiargli tutto il corpo con acqua in cui una foglia di mirto sia rimasta in infusione per due giorni. Inoltre» proseguì l'arcivescovo, con un sorriso cospiratore, «lavati in acqua tiepida a cui siano state aggiunte parecchie manciate di rosmarino secco e sfregati su tutto il corpo radici di iris ridotte in polvere. Ti garantisco che questo incantesimo è un rimedio imbattibile contro l'impotenza, e che entro dieci mesi da ora dovremmo cantare lodi per la nascita di un principe.» «Ti ringrazio, nobile Aleicester, mi hai reso un grande servigio. Eseguirò l'incantesimo e gioiremo veramente per la nascita di un principe.» La donna scoccò a Thomas un'occhiata di trionfo e lasciò la stanza a testa alta e con la schiena eretta, come se avesse già avuto sul capo la corona di Englene. «Non avresti dovuto farlo, Aleicester» disse Thomas. «È impossibile infrangere l'incantesimo di Dianne.» «Potrebbe esserci un modo, con il tuo aiuto. Quando riuscirò a farti capire che con i sovrani bisogna essere cortesi e diplomatici? Soltanto perché sei stato allevato in un santuario, questo non significa che tu non possa im-
parare i modi che si convengono ad un cortigiano. Dispero proprio di te, Thomas: se quella donna potrà fare a modo suo, ci rimetterai la testa.» «Supponendo che sarà lei a vincere, Aleicester, hai commesso un grave errore» rise Thomas. «Lei non vincerà, e la mia testa è al sicuro, mentre la tua, amico mio, potrebbe essere in pericolo. Se proprio devi favorire questa donna, fallo con la neutralità perché, secondo tutti i portenti, sarà Elizabeth a vincere.» Elizabeth ammirò la propria immagine nello specchio, e si girò per vedere meglio il lungo strascico dell'abito da cerimonia che avrebbe indossato a Bathford in occasione della sua presentazione al popolo... un abito di broccato verde cupo, con le maniche rivoltate in velluto nero ricamato in oro. Secondo i desideri materni, indossava una camiciola bianca accollata, sovrastata da un alto e rigido collare bordato di perle che si chiudeva sulla gola. Lady Jane venne avanti per cingerle intorno alla vita la cintura d'oro e smeraldi, e Jackie si affrettò ad accostarsi per offrire alla principessa il piatto cappello di velluto, coperto di piume di struzzo, che completava l'abito. «Mi piace il verde» rifletté Elizabeth. «È stupido che questo colore sia stato bandito dalla corte, perché è molto bello, soprattutto per qualcuno che abbia una pelle chiara come la mia. Guardate come sono pallida! Oh, il verde mi piace davvero molto. Mia madre aveva ragione.» Si girò, in modo che Lady Jane e le altre dame di compagnia potessero procedere a sfilare l'elegante vestito dalle sue larghe spalle, e un momento dopo si ritrovò in camiciola, in attesa che le mettessero la tenuta da amazzone. «Ma quel vestito è per Bathford» osservò Jackie. «Cosa indosserai per la cerimonia di Avebury? Avanti, Elizabeth, a me puoi anche dirlo. È davvero un segreto così assoluto?» Elizabeth lanciò uno sguardo intorno a sé, da sopra la spalla, per controllare che le dame di compagnia non potessero sentirla. «No» rispose. «Ma la tradizione afferma che non si può parlare con gli umani di questo genere di cose. Si tratta di una tunica bianca di pura seta del Catai, intessuta da vergini, e non potrò indossarla finché non arriverò al Cerchio, ad Avebury, per cui non posso neppure provarla.» La principessa rabbrividì, ma non per il freddo. «Jackie, c'è una cosa che mi preoccupa. Ad Avebury... ecco, sai cosa sia il Grande Rito?» Jackie si protese in avanti, abbassando la voce.
«Sì, lo so. È la più potente evocazione di magia effettuata mediante un atto sessuale, giusto?» «Sì, si tratta di questo e di molto di più. Si tratta della creazione del mio potere futuro, così come un uomo e una fanciulla creano un bambino. Ma, vedi, per l'iniziazione di una dama-strega del mio rango, la cerimonia deve essere svolta dal re... ho paura, Jackie.» «Allora, mia signora» disse la voce di Menadel, proveniente da dietro le pesanti tende di broccato che coprivano la finestra, «avresti dovuto confidarti con me.» Il mago uscì da dietro le tende, affrontando la principessa. «Non hai il diritto di discuterne con il buffone. È contrario ad ogni tradizione.» «Mi dispiace, Menadel. Suppongo che sarei dovuta venire da te... ma siccome Jackie è umano, parlarne con lui non mi è parsa una cosa troppo importante.» «Ah, sono soltanto io» affermò Jackie, «un inutile piccolo granello di polvere in un angolo con cui tutti possono parlare e di cui non si cura nessuno.» Contorse il viso in una smorfia grottesca. «Noi umani siamo la polvere della terra sotto il piede dei signori della magia. Parla pure, mia principessa, io non sono altro che il tuo cane.» «Suvvia, Jackie, sai che per me sei molto più di questo, lo sai fin troppo bene!» Il giullare rise e volteggiò fino alla parte opposta della stanza, cercando quindi di strisciare sotto le gonne di Nan Butler. Le dame di compagnia di Elizabeth ridacchiarono e cercarono di rimuovere il buffone da sotto le gonne della loro compagna. Elizabeth osservò per un momento la scena, divertita, poi si rivolse a Menadel. «Jackie ed io siamo sempre stati molto amici. È per questo che mi sono confidata con lui.» «È tutto a posto, Altezza, capisco perfettamente» la rassicurò Menadel, battendole un colpetto sul braccio. «Quanto al tuo problema, non ti dovrai preoccupare di nulla, se farai come ti dico, perché così avrai la garanzia che l'uomo nel Cerchio sia di tuo gradimento.» «Ora ascoltami con attenzione. Quanto entrerai nel Santuario di Sulis, a Bathford, per fare la tua offerta, dovrai fermarti davanti al sommo altare, girarti verso i quattro punti cardinali e invocare le Torri di Guardia. Allora avrai nel Cerchio un uomo degno di te.» Elizabeth fissò il mago, interdetta.
«Cosa? Invocare le Torri di Guardia prima di essere divenuta completamente una dama-strega? Sai che non posso farlo se non dopo il Grande Rito di Avebury. Soltanto dopo che la fiamma azzurra si sarà levata avrò il diritto di lanciare una simile invocazione!» «Io ti ripeto che se vuoi un uomo degno di te, allora devi invocare le Torri di Guardia davanti al sommo altare di Sulis» insistette Menadel, poi rivolse un profondo inchino alla principessa e alle dame di compagnia, e si congedò da loro. Elizabeth annuì pensosamente e rimase immobile mentre le dame, che ancora ridevano, le portavano l'abito da amazzone di lana verde scuro e glielo infilavano. La sua voce suonò un po' soffocata mentre il tessuto le scivolava sulla testa.. «Jackie, smettila di stuzzicare le mie dame di compagnia e vieni qui a sederti ai miei piedi da bravo giullare. Se ti comporterai bene, ti porterò a caccia con me.» Ansioso di poter trascorrere un po' di tempo in compagnia della sua principessa, Jackie si affrettò ad obbedire. «Andrai da sola, mia signora... cioè, da sola con me? Oppure ci saranno anche altri con noi... magari il Duca Charles?» Elizabeth sussultò per la sorpresa, arrossendo, e chinò il capo in un gesto d'imbarazzo. «Ecco... lui ha detto che avrebbe gradito parlare con me, questo pomeriggio, e sarebbe una cosa davvero piacevole. È un uomo così avvenente, e mi sento attratta da lui, Jackie, anche se è mio cugino.» La faccia di Elizabeth aveva assunto una brutta tinta scarlatta, perché non era una donna a cui stesse bene il rossore. «È ovvio che anche lui ti trova attraente» osservò Jackie. «Durante l'ultima settimana ho continuato ad imbattermi in lui dovunque c'eri tu. In precedenza, non avevo mai notato una simile devozione nei tuoi confronti, avevo anzi l'impressione che Charles si considerasse un tale capolavoro della creazione da non avere tempo per rivolgere la parola a una semplice principessa. Ah, ma del resto Cupido scaglia le sue frecce in lungo e in largo, e non bada a dove vanno a colpire. Io penso però che quel ragazzo ami troppo la propria persona ed abbia un'opinione troppo elevata di se stesso.» «Oh, ma è avvenente. I suoi capelli hanno il colore del rame fuso, e quegli enormi occhi azzurri! E poi è bravo a combattere quasi quanto me. Forse...» Lanciò un'occhiata a Jackie, che se ne stava appoggiato alle tende di
broccato, con le sopracciglia inarcate. «Oh, bene» borbottò infine, «se Menadel non mi vuole svelare chi ha in mente per Avebury tenterò comunque l'incantesimo e proverò a sperare che riesca.» Jackie emise uno schioccante rumore di baci che era piuttosto volgare. «Smettila, Jackie. Che te ne importa se io decido di scegliere un nobile della corte di mio padre? Tu sei soltanto un servo, e non hai il diritto di avanzare commenti in questioni del genere.» Non appena notò l'espressione sgomenta del giullare, Elizabeth si affrettò a scusarsi. «Mi dispiace, mi sono espressa male, ma tu devi capire che sono agitata per l'imminenza del mio compleanno e dell'iniziazione: ci saranno tanti cambiamenti nella mia vita. Ho notato che mio padre sta facendo rinnovare le decorazioni delle camere di mia madre, nella Torre Occidentale del Palazzo di Witchdame. Non avrebbe dovuto prendersi questo disturbo per me, mi piacevano com'erano, perché mia madre aveva un gusto eccellente.» Jackie evitò di guardare Elizabeth, e le dame di compagnia raccolte tutt'intorno piombarono in uno sgomento silenzio di fronte alla supposizione avanzata dalla principessa che le camere della regina fossero destinate a lei. Povero cucciolo, pensò Jackie. Il re intende destinare quelle stanze a Lady Pemberly. Qualcuno dovrà dirlo ad Elizabeth, quando tornerà da Avebury, ma lei non ci crederebbe mai se fossi io a parlargliene... CAPITOLO QUINTO Il viaggio fino al Santuario di Bathford fu una meravigliosa rivelazione per la Principessa Elizabeth che, per la prima volta nella sua vita, vide il popolo di Englene riversarsi nelle strade per onorare lei. Contadini e villici si accalcavano lungo il percorso, gettando ramoscelli di rosmarino e fiori in direzione del convoglio regale, e alla vista della principessa uomini e donne si scoprivano il capo e gridavano: «Possano gli dèi benedire il tuo bel viso!» Era un torrente di amore e di devozione ed Elizabeth, pur sapendo che era rivolto alla principessa e non alla persona, si trovò a goderne immensamente. La città di Bathford sembrava essere stata lavata e lucidata da cima a fondo in previsione della visita, e sotto il sole brillava di una tonalità fra il
giallo e l'oro, come l'avorio antico. Dal loro accampamento sulla collina di Widcombe, il re e sua figlia godevano di un eccellente panorama del fiume Avone e della città che si stendeva al di là di esso. «Non mi ero resa conto» ammise Elizabeth, sorridendo a suo padre, «dell'effetto che avrebbe avuto su di me l'essere al centro di una cerimonia.» «Ce ne saranno altre, figlia mia. Il tuo matrimonio, l'imposizione del nome al tuo primo figlio. Ma non parliamo del futuro. Vieni, celebriamo questo momento!» Richard fece scivolare un braccio intorno alle spalle della figlia e si voltò, in modo che entrambi potessero tornare verso il campo, vicini come innamorati. L'accampamento era costituito da uno sgargiante insieme di padiglioni di seta dai colori vivaci; quello regale era di broccato d'oro, con il tetto di tela decorato con immagini astrologiche, e parecchi alberi di nave erano stati legati insieme per formare il supporto centrale, mentre gli arazzi e i tappeti, che erano stati portati fin dal Palazzo di Witchdame per coprire i pavimenti e qualche parete, davano al tutto l'aria di un'autentica corte. Gli arredi erano coperti di seta rossa e azzurra riccamente ricamata e decorata in oro. Nel cortile c'erano due fontane da cui sgorgavano di continuo vino bianco e vino rosso, a disposizione di chiunque ne volesse bere. I cavalli nitrivano e strattonavano le cavezze, si sentivano i rumori prodotti da armigeri, cuochi e sguatteri e ad essi si mescolavano le voci di menestrelli e le grida di ogni sorta di venditori ambulanti. Echeggiavano le calde risate delle dame di rango e gli strillettini delle servette che fingevano di sottrarsi alle attenzioni occasionali dei giovani scudieri, e su tutto aleggiava un odore misto di terra umida, di fumo e di carne speziata, insieme agli odori dei pasti già consumati e di quelli ancora da preparare. «Fra breve banchetteremo» disse il re, accompagnando la figlia verso il padiglione regale, «poi tu dovrai dormire, da sola, all'aperto e sulla nuda terra, là dove il fiume possa mormorarti all'orecchio, con la speranza di sognare. E possa il Dio Sulis mandarti un sogno significativo, figlia mia.» La notte trascorse lentamente, ed Elizabeth cominciò a temere che non si sarebbe mai addormentata, mentre si girava e si rigirava sul duro terreno a cui non era abituata e stendeva il suo lungo corpo nel tentativo di trovare una posizione comoda. I rumori notturni erano strani, e lei si trovò a tendere l'orecchio nel tentativo di identificarli. C'erano il frinire dei grilli, le stri-
da dei topi di campo e di altre piccole creature. Il gorgogliare delle acque del fiume, che sovrastava il tutto, era riposante, ma la mente guerriera di Elizabeth non poté evitare di pensare che quel rumore avrebbe potuto mascherare i passi di un assassino: era un pensiero che lei non aveva veramente preso in considerazione fino a quel momento, ma la corte aveva ucciso sua madre, e quelle stesse persone avevano ogni motivo per desiderare di vedere morta anche lei. I cortigiani non avevano voluto una strega silvana come regina, e non avrebbero voluto neppure la sua figlia mezzosangue. Questa iniziazione era il primo passo mosso da Elizabeth nel cammino verso il trono... oppure l'ultimo. Continuò a girarsi e a rivoltarsi, nella vana ricerca di un po' di comodità e, senza rendersene conto, scivolò oltre la linea di demarcazione fra il sonno e la veglia. Lo sciacquio del fiume si fece indistinto, e così anche i rumori del campo e il frinire dei grilli... tutto divenne quiete e silenzio. Vide le nubi, madreperlacee come l'interno di una conchiglia, che rotolavano nel cupo cielo notturno simili a gattini in vena di giocare su un nero copriletto di velluto. Vide una scalinata d'oro che arrivava fino alla terra dalle Regioni Eteree, su cui numerosi angeli salivano e scendevano. Vide gli arcangeli del Dio Sulis: Michael, Raphael, Gabriel e Uriel, e con essi anche gli altri angeli dello zodiaco... e poi tutti gli altri angeli più o meno importanti, a mano a mano che scendevano la scala verso di lei e poi si voltavano per risalirla. Un solo angelo sostava ai piedi della scalinata, con lo sguardo fisso su di lei ed Elizabeth, pur sapendo che era grande e potente, non riuscì ad identificarlo. L'angelo puntò un dito verso l'alto, e lei sollevò lo sguardo in tempo per vedere un essere glorioso, vestito in sciamito bianco e oro, che precipitava urlando dalla scalinata, cadendo oltre l'angelo in attesa e oltrepassando i livelli delle Regioni Terrene per arrivare alla Regione Infera, dove si pose in capo la corona di quel luogo. L'angelo parlò. «Quello è Ashmedai, colui che era il più grande degli arcangeli e che ora è il più infimo. Regna quale Re della Regione Infera. Abbine timore, così come il tuo seme ne avrà timore ma lo conquisterà, sebbene grande sia il suo potere. Presta però orecchio a questa lezione: Ashmedai ha cercato di ottenere un regno nell'Etereo ed ha ottenuto soltanto ciò che è più infimo nell'Universo. È potente, ma non vedrà mai più la luce, ed un figlio della luce gli recherà sventura. Tu avrai un grande potere, un potere superiore a quello di qualsiasi re signore della magia che ti abbia preceduta o che verrà
dopo di te. Bada però a non mirare troppo in alto, mia signora, altrimenti anche tu cadrai. Rammentati di Ashmedai.» La scalinata, l'angelo e le nubi svanirono: intorno alla principessa addormentata ci fu soltanto più il buio della notte. Il mattino successivo, fu Thomas il Mago che venne a svegliare la Principessa Elizabeth. «Hai dormito bene, mia signora?» le chiese e, prima che lei potesse rispondere, aggiunse: «Hai sognato?» Elizabeth si stiracchiò per sgranchire i muscoli. «Ho sognato, Thomas, uno strano e meraviglioso sogno di angeli che salivano e scendevano lungo una scala dorata, fin sulla terra.» La ragazza raccontò il resto del sogno, osservando l'espressione stupita e perplessa apparsa sulla faccia dell'altro. «Eri al corrente, mia signora, che il Mago Oliver ha fatto un simile sogno di angeli che salivano e scendevano dalle Regioni Eteree sulla terra e che di conseguenza... credo durante il regno di tuo nonno... ha costruito il Santuario di Bathford in onore degli angeli e del grande Dio Sulis? In esso ci sono altari dedicati a ciascuno degli angeli che tu hai nominato, perfino ad Ashmedai. Il suo si trova sotto la cripta, nelle fondamenta stesse del santuario, e lui è rappresentato con la testa e le spalle che sbucano dal terreno, nel tentativo di emergere dalla Regione Infera. Ma è imprigionato nella pietra in eterno.» «È affascinante!» Elizabeth si alzò e si stiracchiò nuovamente con un movimento felino, godendo del calore del sole sulla camicia da notte che indossava. «Anche lui ha sognato ciò che l'angelo ha profetizzato sui miei discendenti?» «No, mia signora, quella parte del sogno è stata rivelata a te soltanto. Custodiscila nel tuo cuore, perché molto spesso il sogno fatto da una fanciulla la mattina della sua iniziazione si rivela profetico. Dovrai ricordarlo quando sarai regina.» Thomas sorrise e le baciò la mano. «Vieni, è tempo che tu ti vesta: la città di Bathford ti attende.» Thomas si girò ed accennò ad avviarsi, ma Elizabeth lo richiamò. «Aspetta, Thomas! Per favore, buon Thomas!» Thomas si girò, in attesa di sentire cosa volesse la principessa. «Mago, t'importa di me? Non come principessa, ma come persona?» «Ma certo, mia signora. Ti voglio bene e ti ammiro da quando eri una neonata.»
Elizabeth si attorcigliò una ciocca di capelli intorno a un dito, abbassando lo sguardo su di esso per studiare il modo in cui il sole metteva in risalto i riflessi dorati. «Allora dimmi, chi sarà ad eseguire il Grande Rito con me? Chi indosserà la maschera solare di Sulis?» «Ma Sua Grazia il Re. È un suo diritto ed è previsto dall'usanza.» «Tu sai bene quanto me che mio padre non è in grado di farlo. Ho sentito le voci che circolano a palazzo da quando mia madre è morta... le voci secondo cui la sua virilità scompare quando si trova di fronte ad una donna. Dimmi, sincero Thomas, chi ci sarà dietro la maschera?» «Per legge, deve essere Sua Grazia il Re, oppure un sostituto accettabile. Dal momento che le usanze richiedono che il Grande Rito sia completo, sarà scelto un sostituto, ma non ti posso rivelare chi ci sarà dietro la maschera. Nei tempi antichi era consuetudine che il sostituto venisse ucciso dopo il rito, come ancora si uccide un dio-re che fallisce nel suo compito. Oggi, però, ci limitiamo ad avvolgere nel segreto l'identità dell'uomo prescelto.» «Non te lo sto chiedendo per semplice curiosità, Thomas, o per soddisfare l'immaginazione di una ragazza inesperta. Ho delle buone ragioni. Se la mia motivazione ti sembrerà valida, mi risponderai?» «Ci dovrei pensare, mia signora, ma esponimi comunque la tua motivazione.» «Non voglio che si tratti dell'Arcivescovo Aleicester... ha le mani fredde e umide e puzza di grasso andato a male! Se dovrò svolgere il Grande Rito con lui, le fondamenta stesse del mio corpo si bloccheranno e la cerimonia non sarà completa. È anzi probabile che mi senta male alla vista di quel suo corpo da lumaca vicino al mio.» L'immagine dell'Arcivescovo Aleicester nudo come una lumaca costrinse Thomas a soffocare una risata. «Capisco il tuo punto di vista, ma se si dovesse arrivare a scegliere un sostituto, la decisione ultima spetterà a tuo padre. Naturalmente, gli esporrò i tuoi sentimenti, ma fuori della portata d'orecchio dell'arcivescovo! Questo è tutto ciò che ti posso promettere, mia signora.» Thomas si avviò quindi lungo il sentiero, seguito dappresso dalla Principessa Elizabeth. Quando arrivarono al limitare dell'accampamento, Thomas scorse le dame di compagnia della principessa che si affrettavano a venire loro incontro. «Dicono» commentò in tono sommesso, rammentando il suggerimento
avanzato da Aleicester, «che il Duca Charles sia un giovane robusto e avvenente...» Con un sorriso, Elizabeth raggiunse le sue dame. CAPITOLO SESTO In seguito, quando cercò di ricordare la propria iniziazione nel santuario di Bathford, Elizabeth percepì soltanto immagini sfocate attraverso vortici di colore e di suono, come qualcosa visto in uno specchio offuscato. Permaneva in lei l'impressione dell'abbigliamento a tinte vivaci dei cortigiani che affollavano il santuario, degli araldi nelle loro vivaci cotte d'armi e degli altari coperti di fiori e rischiarati da centinaia di candele. E rammentò anche di aver sentito le voci che componevano il coro e il tuono delle trombe che squillavano. Ma della processione rituale snodatasi lungo la navata le rimase impresso ben poco. La lunga sopravveste dorata, ricamata con lo stemma di Englene e con la luna crescente e il sorbo che erano lo stemma materno, era molto pesante e le irritava la pelle, senza contare che lei aveva paura che i giovani paggi non riuscissero a reggere i sette metri di strascico e che il semplice peso della stoffa l'avrebbe fatta cadere all'indietro. Inoltre, le babbucce di cuoio moresco erano più grandi di una taglia e le andavano larghe in maniera allarmante. Durante l'intero percorso lungo la navata, e mentre procedeva a girare intorno all'altare, inginocchiandosi e risollevandosi per poi baciare il disco solare che il sacerdote teneva in mano, il suo unico pensiero fu il timore di perdere una babbuccia. Ricordava fin troppo bene la storia di Re William lo Sfortunato che da ragazzo, durante la sua incoronazione, aveva perso una babbuccia. Come conseguenza, si era supposto che la nazione fosse stata maledetta da Sulis. I Nordici avevano attaccato Englene, per sette anni il grano era stato devastato dal carbonchio, e alla fine William era stato assassinato da sua moglie. Non era una storia gradevole e, vera o meno che fosse, Elizabeth non intendeva correre rischi, dato che essere per metà una strega silvana era già ritenuta da molti una maledizione più che sufficiente. Intorno all'altare si accalcavano gli arcivescovi, le sacerdotesse ed i magi di Englene, oltre che i loro servitori, i chierichetti, ragazzi e ragazze, e gli assistenti; e sembrava che ciascuna di quelle persone avesse un suo ruolo nell'elaborato rituale. Elizabeth fu guidata di qua, condotta di là, esortata, lodata, inneggiata. Bevve del vino, mangiò una focaccia, si vide porre in
capo e poi togliere un serto di alloro. La cerimonia parve protrarsi per ore, e tuttavia molto doveva ancora essere fatto. Elizabeth si sentiva stanca, affamata, assetata e quelle maledette babbucce le stavano facendo venire una vescica a un piede. Alla fine, giunse il punto culminante di quella parte della cerimonia. Elizabeth fu accompagnata fino a un catafalco che era stato collocato nel centro della navata. Andrew il Mago, Vescovo di Eboric, e sua moglie Catheryne, la Somma Sacerdotessa, sollevarono la principessa sul catafalco e la disposero come per la sepoltura. Thomas il Mago venne quindi avanti e le unse le mani, il seno, la fronte e i piedi con un olio profumato ed infine l'Arcivescovo Aleicester di Avebury, Bathford e Wells la coprì con un drappo funebre nero e oro. Ora Elizabeth era morta alla giovinezza ed alla sua magica innocenza. Attraverso il drappo, lei poteva sentire il coro e la recitazione del servizio funebre, e le voci le giungevano soffocate e distanti, come se davvero le udisse dalla tomba. Poi si accorse che il catafalco veniva sollevato e comprese che la stavano trasportando lungo la navata principale fino a quella laterale su cui si affacciava la cappella per le cerimonie di suffragio, dedicata alla Dea Diona. Il drappo funebre era soffocante, ed Elizabeth dovette lottare contro il desiderio di starnutire. Ascoltò tutto ciò che le giungeva all'orecchio del servizio funebre ancora in corso nella navata principale, e capì che la sua fanciullezza era svanita. Poi, con un leggero sussulto, il catafalco venne deposto davanti all'altare della Dea Diona, e lei fu lasciata sola mentre le note dell'organo pervadevano il santuario e il servizio continuava. Questo periodo di solitudine era molto importante, perché nella quiete e nell'oscurità della sua pseudotomba, le sarebbe affiorato nella mente il suo nome di adulta, il nome che avrebbe usato poi nel Circolo o per parlare con gli dèi: il suo nome dei nomi, quello che le sarebbe stato inviato dalla dea. Rimase in attesa, ascoltando e chiedendosi se sarebbe stata la dea stessa a parlarle, oppure una sacerdotessa. Le parve che l'attesa si facesse molto lunga. L'aria sembrò quindi rischiararsi tutt'intorno a lei, e di colpo non ebbe più la sensazione di soffocamento data dal drappo: si trovò immersa in una luce dorata che pervadeva la cappella, tanto da nascondere alla vista sia l'altare sia l'immagine della dea. Non c'era nulla se non il silenzio e la luce, ed Elizabeth rimase perfettamente immobile, cercando di controllare il respiro ansante.
Udì infine una voce... sommessa, gentile e molto giovane; la voce le parlò con dolcezza della primavera e di tutte le piante che crescevano e germogliavano. «Eliora, Eliora, Eliora» concluse la dea, con la voce melodiosa delle campane della cappella, e infine tacque. La luce si dissolse, ed Elizabeth si ritrovò ancora al buio, sotto il drappo funebre. Sapeva che Eliora significava "il Signore è la mia Luce", e le parve un bel nome, un nome che sarebbe stata orgogliosa di portare. Attese che i servitori venissero prelevarla ma, con sua sorpresa, la cappella si rischiarò nuovamente... questa volta pervasa da una vivida luce bianca, abbagliante nella sua intensità. Nello squillare delle campane echeggiò quindi una voce, la voce di una donna matura che avesse già conosciuto l'amore e che gridò: «Eirene, Eirene, Eirene, tu sei pace per noi.» E anche quella era la voce della dea: non c'erano dubbi al riguardo. La luce tornò a dissolversi, ed Elizabeth rimase distesa, sconvolta. Due nomi? Doveva avere due nomi? Perché? Eirene sembrava un nome norvegese, ma cosa poteva significare tutto questo? Perché le era stato dato un nome umano di cui non aveva bisogno e di cui non sapeva che farsene? Rifletté sul problema mentre anche le ultime vestigia di luce svanivano. Prima però che potesse trovare una risposta, la cappella si rischiarò per la terza volta, di un verde e vivido bagliore simile a quello che poteva esserci all'interno di uno smeraldo, mentre nell'aria si diffondeva un profumo di fragole, di pini e di ruscelli. In mezzo alla vivida luce verde, Elizabeth scorse, in piedi accanto a sé, una vecchia che teneva un calice in una mano. La vecchia tese il calice verso di lei. «Bevi, bambina, ti farà bene.» Elizabeth accettò il calice e ne bevve tutto il contenuto, che sapeva di primavera e di miele, d'inverno e di cenere, che era al tempo stesso dolce e amaro, salato e acidulo. Nonostante questo, lo trangugiò fino all'ultima goccia. «Tu sei Erica» disse la vecchia, nella lingua delle streghe silvane, nel riprendere il calice, «perché tu sei l'eterna sovrana di Englene. Il tuo seme regnerà su Englene per sempre, finché durerà l'universo. Tu sei Englene.» Poi i rintocchi della campana echeggiarono forti e prolungati mentre la luce svaniva e il drappo funebre ricadeva al suo posto. La vecchia era scomparsa, ed Elizabeth era sola nella cappella della divinità, ma adesso aveva i suoi nomi, tutti e tre... da dama-strega, umano e
da strega silvana... e non sapeva minimamente cosa significasse quanto era successo. L'arcivescovo e la Somma Sacerdotessa tornarono nella cappella e sollevarono il catafalco su cui giaceva la principessa, portandolo fuori dal santuario, fra due ali plaudenti di umani raccolti all'esterno, e fino al sacro Grande Bagno del Dio Aquaesulis. Si trattava della sacra polla degli Antichi Re Elfici che erano stati i primi sovrani di Englene. Il Bagno era rettangolare, come un campo da torneo, e tanto profondo che l'acqua arrivava alla vita di un uomo. Il fondo della polla era coperto da un vivace mosaico in turchese, diaspro, cornalina ed oro, e il tetto era aperto al cielo, in modo che Sulis potesse guardare con approvazione agli eventi che si svolgevano nel suo principale santuario. Elizabeth fu deposta accanto al Grande Bagno, poi il drappo funebre fu rimosso e Thomas venne avanti, slacciando e sfilando la sopravveste della ragazza in modo da rivelare la candida tunica di seta. Elizabeth rimase distesa immobile sul catafalco finché Thomas la prese tra le braccia e si diresse a grandi passi verso il Grande Bagno, dove la depose nell'acqua tiepida fino a immergerla completamente, tenendovela per il tempo necessario a contare fino a nove e infine traendosi indietro mentre Elizabeth, come se fosse risorta dalla tomba, usciva dall'acqua senza altro aiuto che quello della divinità. Completamente inzuppata, la principessa raggiunse il bordo del bagno, dove ad uno ad uno arcivescovi, sacerdotesse e sommi magi di Englene sfilarono per baciare la mano della donna tremante e fradicia che se ne stava là, mezza nuda, avvolta in un vestito bagnato. Ultimato quel cerimoniale fra grandi cori di gioia, Elizabeth fu accompagnata in una piccola camera dove le sue dame di compagnia, chiacchierando come tanti pappagalli, si affrettarono ad asciugarla, a toglierle la tunica bianca e ad abbigliarla con il verde abito da cerimonia che lei aveva scelto per quel giorno. Quando però Lady Jane venne avanti con le maniche da applicare all'abito, Elizabeth si accorse con meraviglia che erano maniche da regina, lunghe fino al suolo e appesantite da intrecci di fili dorati e di perle. «Cos'è questo, Lady Jane? Chi mi ha dato da indossare queste maniche da regina?» Elizabeth allungò una mano per tastare lo sfarzoso tessuto. «È stato un desiderio di tua madre, bambina mia.» Richard uscì da dietro un paravento, ridendo per l'esclamazione di sorpresa sfuggita ad Elizabeth nel trovare là suo padre. «Accetta queste maniche come un mio dono per il
tuo primo giorno di donna adulta. Tu, e soltanto tu, fra tutte le donne di Englene, hai diritto a portarle.» Richard si chinò a baciare con gentilezza la figlia, che accettò con grande gioia la benedizione e il dono. Una volta abbigliata, Elizabeth uscì sotto il colonnato del Grande Bagno, dove attendevano i cortigiani, le cui grida di plauso si estinsero nel silenzio quando tutti notarono che l'abito di broccato verde era completato dalle maniche da regina che ora aveva il diritto di portare. Affiancata da Thomas da un lato e da suo padre dall'altro, la ragazza percorse il bordo della polla fino alla grotta che ospitava la sorgente sotterranea che alimentava Aquaesulis con le sue acque. La grotta e la sorgente erano protette da un'inferriata di ferro nero e bronzo. Elizabeth si appoggiò a quella barriera e guardò nel cuore rosso ruggine di Acquaesulis; l'acqua sprizzò verso l'alto, bagnandole l'orlo dell'abito, ma lei interpretò la cosa come una benedizione di Sulis e ne fu contenta. L'Arcivescovo Aleicester le si accostò e le porse una piccola tavoletta di piombo e uno stilo con cui lei avrebbe dovuto incidere un desiderio sulla tavoletta e poi gettarla nella sorgente, insieme agli oggetti della sua fanciullezza che potevano costituire un'offerta accettabile per il dio. Era cosa risaputa che qualsiasi desiderio espresso nel giorno dell'iniziazione si realizzava, per cui era opportuno meditare a lungo, perché non esiste maledizione peggiore di una preghiera esaudita. Elizabeth, però, sapeva benissimo cosa desiderava. In fretta, scrisse sulla tavoletta: "Possa l'uomo che voglio e di cui ho bisogno essere nel Circolo con me stanotte". Poi, stringendosi la tavoletta al petto e pensando in maniera tutt'altro che sacra al Duca Charles, si accostò alla sorgente e, non appena ricevuta la benedizione di Aleicester, gettò la tavoletta nell'acqua. Ad uno ad uno, sacrificò quindi i gioielli e i giocattoli dell'infanzia, ed infine Aleicester la guidò oltre un cancelletto che permetteva di passare dalla sorgente nel Giardino del Vescovo e di là di rientrare nel santuario di Bathford. Una volta all'interno, davanti al sommo altare, l'arcivescovo proclamò Elizabeth "Reale fanciulla del Circolo" e dama-strega a pieno titolo. Ricordando come Menadel le avesse consigliato di effettuare un prematuro incantesimo al fine di ottenere per l'iniziazione l'uomo che desiderava, Elizabeth si girò verso l'altare, s'inchinò e, al cospetto della moltitudine, diede inizio al rito di evocazione dei signori delle Torri di Guardia. Usando soltanto la mano nuda e null'altro, tracciò sul pavimento un cerchio di
fuoco azzurro di quasi tre metri poi, rivolta a nord, intonò l'invocazione della prima Torre di Guardia: Verso nord sono ora rivolta. Per ciò che voglio io prego, ascolta. Ciò che chiedo concedi, possente principe della luce. Io ti invoco, santo custode Uriel. Fino alle Regioni Eteree salga la mia voce, E verso le tue Regioni Terrene io ti chiamo! Elizabeth si girò quindi ad est e recitò: Verso est sono ora rivolta. I tuoi favori invoco, ascolta. Ciò che chiedo concedi, possente principe della luce. Io ti invoco, santo custode Raphael. Fino alle Regioni Eteree salga la mia voce, Scendi alle Regioni Terrene, io ti chiamo! Lentamente, Elizabeth si girò a sud: Verso sud sono ora rivolta. Favoriscimi, la mia preghiera ascolta. Ciò che chiedo concedi, possente principe della luce. Io ti invoco, santo custode Michael. Fino alle Regioni Eteree salga la mia voce, Alle Regioni Terrene io ti chiamo! Infine, Elizabeth si voltò ad ovest: Verso ovest sono ora rivolta. Per i tuoi favori io prego, ascolta. Ciò che chiedo concedi, possente principe della luce. Io ti invoco, santo custode Gabriel. Fino alle Regioni Eteree salga la mia voce, Discendi nelle Regioni Terrene, io ti chiamo! Si formò un cono di luce azzurra, diretto verso l'alto, che svanì in dire-
zione delle Regioni Eteree mentre un silenzio colmo d'attesa calava sul santuario, poi echeggiò una singola nota simile al rintocco di una campana e il cerchio di luce svanì, lasciando Elizabeth immersa nel chiarore del raggio di sole che cadeva davanti all'altare. L'Arcivescovo Aleicester e Thomas il Mago scattarono in avanti contemporaneamente e per poco non sbatterono uno contro l'altro. Aleicester prese a farfugliare in maniera confusa, e Thomas si rivolse ad Elizabeth in tono sibilante. «Perché lo hai fatto? Non rientra nella cerimonia.» «Mi ha detto Menadel di farlo» replicò con calma Elizabeth, a testa alta. Con sua sorpresa, Thomas non aggiunse altri commenti e si limitò a chinare il capo in un gesto di accettazione; poi l'Arcivescovo Aleicester riprese il filo della cerimonia, che proseguì come se l'invocazione alle Torri di Guardia fosse stato un particolare previsto dal rituale. La folla di nobili si rilassò e ricadde ben presto nella passiva recitazione delle formule e delle preghiere che concludevano quella parte dell'iniziazione. Ora rimanevano soltanto il tragitto fino al Grande Cerchio di Avebury, alla luce delle torce, e la consacrazione conclusiva di Elizabeth mediante il Grande Rito. Il grande cerchio di pietra di Avebury copriva un numero di acri maggiore di quello degli anni di Elizabeth, ed era uno dei punti più sacri di tutto Englene. Si riteneva che l'universo stesso avesse avuto inizio dal sacro cerchio di Avebury, e che il monumentale obelisco al suo centro potesse essere il tappo che impediva al mondo conosciuto di svanire di nuovo nel caos da cui era stato creato. All'interno del grande cerchio di pietra ce n'erano due più piccoli, uno a nord e uno a sud. L'usanza voleva che quello a nord fosse riservato all'iniziazione dei maschi, mentre quello a sud era riservato alle femmine, e al suo centro si levava l'obelisco di pietra chiamato l'"Ombelico della Terra". Intorno ad esso era stata costruita una temporanea capanna di vimini e pali: il luogo sacro in cui Elizabeth, erede di Englene, sarebbe stata iniziata nel fuoco azzurro del Grande Rito. La processione dell'iniziazione si compose all'interno dell'accampamento sulla collina del Santuario. Non c'era luna, ma la sua luce non era necessaria, perché migliaia di torce e di fuochi si accesero a rischiarare la pianura fino a riversare sull'intera zona un chiarore intenso quanto quello diurno. Come per tutte le cerimonie che richiedevano la partecipazione di un no-
tevole numero di persone, ci furono i consueti ritardi e i vari problemi individuali: una dama di corte, irritata per una questione di precedenze, si lamentò energicamente con quanti le capitavano a tiro; un piccolo paggio scomparso dovette essere cercato e fu finalmente ritrovato; un cavallo che si rivelò troppo nervoso dovette essere sostituito. Ma, a poco a poco, la processione prese forma. Finalmente le sacerdotesse imboccarono la via di Kennet, spargendo incenso e petali di rosa, poi vennero i coristi, che intonavano un lento inno alle gioie dell'iniziazione, quindi i cortigiani che chiacchieravano e ridevano. Lungo tutta la strada, i musicisti suonavano trombe e tamburi, tromboni e arpe. In coda alla processione venivano Thomas il Mago, Cancelliere di Englene, l'Arcivescovo Aleicester, Vescovo di Bathford, Avebury e Wells, e Catheryne, Somma Sacerdotessa del Circolo. I cortigiani si schierarono intorno al cerchio meridionale, e Catheryne, Thomas e Aleicester presero posto accanto alla porta della capanna circostante l'obelisco; poi, accompagnate da una fanfara di trombe, la Principessa Elizabeth e le sue dame di compagnia arrivarono lungo la grande strada. Ogni volta che la principessa oltrepassava una coppia di pietre, una tromba squillava, e il suono della tromba echeggiò cento volte sulla piana di Avebury. L'aria fredda della notte strappò un brivido ad Elizabeth, che indossava soltanto l'abito sacro, una bianca tunica di sciamito fermata alla vita da un cordone azzurro cupo. Elizabeth si arrestò davanti alla soglia della capanna e chiese per tre volte, prima a Catheryne, poi ad Aleicester e infine a Thomas, il permesso di entrare, ricevendo per tre volte la stessa risposta: «Benedetta sia colei che viene da sud, entra pure.» Elizabeth entrò nella capanna di vimini e pali e si arrestò con la schiena contro l'obelisco di pietra. La pietra era ancora calda per il sole, un tepore piacevole; Elizabeth infilò i piedi nudi sotto i pesanti drappi per altare che coprivano il suolo e attese con apprensione che si compisse ciò che doveva avvenire in quel luogo. La luce tremolante delle torce le permise di scorgere un paravento eretto da un lato, e suppose che potesse essere destinato a servire come aiuto nella sostituzione del dio-re. Sentì il rumore dei passi paterni che si avvicinavano alla soglia, poi il saluto rituale di Catheryne, di Aleicester e di Thomas, e si raddrizzò sulla persona, sapendo che il momento era giunto. Al limitare della grande via di Kennet, un boschetto di querce sorgeva
nel punto in cui la via si congiungeva al cerchio, e due persone sostavano nell'ombra degli alberi: la vecchia Nerthus e un uomo biondo dal fisico elegante. «Il re sta imboccando la strada» disse Nerthus. «Il momento è giunto. Sei pronto, mio signore Michael?» L'Arcangelo Michael si assestò l'abito di seta dorato adorno di fiamme. In mano, teneva la maschera del dio-re. «Sì, sono pronto» rispose, «ma vorrei che così non fosse. Vorrei che lei non mi avesse convocato per mezzo delle Torri di Guardia. Gli angeli non hanno nulla a che fare con le usanze dei signori della magia, delle streghe silvane e degli umani. Le tentazioni offerte dalle figlie dell'uomo sono forti per noi figli dell'Etereo, e temo che con il tempo potrei finire per affezionarmi troppo a lei per poterla lasciare.» «Tu non la lascerai finché avrà vita. Lei ti possiederà, Michael, e tu sarai il suo schiavo. Tu e, con il tempo, gli altri delle Torri di Guardia. Ma tu, il capo degli arcangeli, sarai suo.» «Io potrei anche acconsentire, e so che Gabriel ed Uriel sono d'accordo con me, ma temo che Raphael sia sempre più ribelle. È stato in potere di questa famiglia per molti anni. Possiamo essere certi che si unirà alla nostra cabala?» «Deve!» esclamò Nerthus. «Come osa pensare di poter alterare il mio piano? Vuole forse essere il prossimo angelo che precipiterà dalle Regioni Eteree? Per essere sicura della sua sottomissione, tuttavia, dirò a Menadel di consigliare ad Elizabeth di compiere un atto di potere nelle terre di Raphael, in modo da acquisire il controllo su di lui. E così sia!» «Così sia» le fece eco Michael, assestandosi sul viso la maschera dorata che conferì alla sua voce un tono soffocato. Poi lasciò l'ombra degli alberi e si avviò lungo la grande strada per fungere da sostituto del dio-re, Richard. Lui era fermo sulla soglia, alto e maestoso, il viso completamente nascosto da una maschera dorata che rappresentava il grande Dio Sulis. Indossava un abito di seta gialla, su cui erano applicate le lingue di fiamma del sole, rosse e arancione. L'abito era aderente dalla vita in su, mentre in basso si allargava sul dietro in una specie di mantello e sul davanti presentava un taglio verticale all'altezza dell'inguine, alla cui base era ricamato in oro il raggio di sole di Sulis, a contrassegnare il luogo in cui risiedeva la radice dell'immortalità.
L'uomo entrò e si arrestò a pochi passi da Elizabeth, che avvertì un odore di essenza di rose mista a sudore. Catheryne, Aleicester e Thomas entrarono a loro volta nella stanza e presero rispettivamente posto vicino all'obelisco e ai lati della porta, quindi Aleicester abbassò la tenda di puro lino bianco per coprire l'ingresso e rimase in attesa. Tanto Aleicester quanto Thomas si aspettavano che il re sgusciasse dietro il paravento e che il sostituto designato apparisse al suo posto per eseguire il Grande Rito, ma questo non accadde. La figura che indossava la dorata maschera di Sulis procedette a tracciare il sacro Circolo, invocando le Torri di Guardia; quando ebbe finito, si girò verso Elizabeth e le slacciò la corda azzurra che le cingeva la vita, procedendo poi a sfilarle l'abito di seta e prendendola fra le braccia per adagiarla sui drappi per altare che coprivano il suolo. La depose lungo l'asse nord-sud, con la testa rivolta a nord, quindi attese che la Somma Sacerdotessa venisse avanti per porgergli una ciotola di unguento sacro. Accettata la ciotola, l'uomo procedette a spargere su ogni centimetro del corpo di Elizabeth l'olio d'oliva profumato con ambra grigia e muschio e, là dove passarono, le sue dita parvero lasciare tracce di fuoco. Infine, l'uomo allargò il mantello del suo abito su entrambi, e tutto fu pronto per l'atto finale del Grande Rito. Elizabeth avvertì una grande, incontenibile gioia diffondersi per tutto il suo corpo fino a far esplodere l'anima al suo interno. Le esplosioni si ripeterono, una dopo l'altra, provocando lo scaturire di grandi ondate di fuoco azzurro che dapprima pervasero la capanna, quindi si estesero all'esterno nel cerchio meridionale e infine invasero tutto il Grande Cerchio di Avebury per poi danzare, contemporaneamente alla conclusione del rito, sulle colline di Englene e nei cieli di tutto il regno, come un'aurora boreale che pervadesse l'aria di lampi azzurri visibili dal mare e dalle distanti colline della Bonne Terre. Mentre sentiva il proprio corpo vibrare per il potere liberato dal Grande Rito, un potere che aveva invaso tutto il suo essere così come aveva invaso Englene, Elizabeth capì senza ombra di dubbio che l'uomo fra le sue braccia non era suo padre. Chiunque fosse, in lui c'erano potere e gentilezza. Il desiderio crebbe prepotente in lei e, nello stringere a sé il corpo muscoloso di lui, Elizabeth seppe che doveva averlo come consorte. Vicino alla porta, Thomas ed Aleicester si fissarono a vicenda con espressione meravigliata, mentre la Somma Sacerdotessa levava a gran voce alla dea una preghiera di perplesso ringraziamento. L'uomo che aveva
svolto il rito non era il Duca Charles. Ma come poteva trattarsi del re? La dea gli aveva forse restituito la virilità, e per quanto tempo sarebbe durato il fenomeno? I tre erano estremamente preoccupati dalla cosa, e ciascuno di loro sapeva che la questione avrebbe dovuto essere discussa a lungo durante il viaggio di ritorno verso la capitale, Lundene. CAPITOLO SETTIMO La processione di compleanno della Principessa Elizabeth attraversò in trionfo Southwarke e svoltò per imboccare il Ponte di Lundene, affiancato dalle grandi case di legno che sorgevano lungo le rive del fiume Theames. Finestre e arcate erano ornate di arazzi e tappeti azzurri e rossi e una fitta folla maleodorante attendeva con ansia di veder arrivare la principessa, il re e gli altri nobili. L'attraversamento di Lundene richiese alcune ore, ma il sorriso di Elizabeth non subì mai alterazioni mentre lei, profondamente felice, agitava la mano per salutare la folla. Questa era la sua città, quello era il suo "buon popolo". Raggiunti i cancelli del Palazzo di BrynGwyn, lei e suo padre scesero di sella e, tenendosi sottobraccio, entrarono nella grande e minacciosa fortezza. All'interno della Torre Bianca, nel centro della fortezza, regnava una situazione di agitazione e di ordinato caos. I servitori correvano avanti e indietro, con le braccia cariche di lenzuola, tovaglie, coppe, ciotole e candele; dalle cucine salivano vari odori di oca, cigno, manzo e maiale, che profumavano l'aria, e dalla cappella al secondo piano giungeva il dolce suono del coro di ragazzini che si esercitava per il banchetto che si sarebbe tenuto quella notte. In mezzo a tutta quella confusione, era possibile comunque lo scambio di pettegolezzi, e quanti erano andati fino alla grande pianura di Avebury poterono raccontare ai compagni ciò che avevano visto. Parlarono delle grandi fiamme azzurre, dei fuochi che danzavano sulle colline e della quantità di potere che era stata scatenata nel Cerchio dalla loro principessa, argomenti che stavano alla base della conversazione generale. Chi era entrato nel Cerchio con la principessa? Chi era stato l'uomo che aveva scatenato una gloria tale che la si era vista levarsi su tutto Englene? Si era trattato davvero di Re Richard, tornato se stesso? Con stupefacente rapidità, per tutti i corridoi e per ogni stanza si diffuse la notizia che non si era trattato del Duca Charles e neppure dell'Arcivescovo Aleicester o di Thomas il Mago. A quel punto i pettegolezzi assunsero un tono decisamente maligno
nel considerare i fallimenti a cui Lady Pemberly era andata fino ad allora incontro nei suoi tentativi di destare la passione del re, e confrontandoli con l'ovvia facilità con cui Elizabeth aveva invece destato la passione di chi era stato con lei nel Cerchio, chiunque fosse. Ci furono parecchie risate negli angoli appartati e dietro lenzuola e tovaglie, tutte dirette contro Lady Anne di Pemberly. Lady Anne, però, era tutt'altro che divertita della cosa e, ribollente d'ira, si rinchiuse nella sua camera da letto... una camera che un tempo era appartenuta alla Regina Dianne. La dama era infatti riuscita ad impossessarsi non soltanto delle stanze reali del Palazzo di Witchdame, ma aveva anche usurpato quelle del Palazzo di Windleshore, del Palazzo di Westmonasterium, del Palazzo di John il Mago, ed ora occupava anche le camere della Regina Elenora, nella stessa Torre Bianca di BrynGwyn. Lady Anne era impegnata a dirigere le cameriere intente a riporre le sue cose, e lo faceva con voce dura e tagliente. «E quando avrete finito qui, mandatemi la sarta di corte e portatemi tutto quello che ancora rimane nel guardaroba della Regina Dianne. Mi farò fare un vestito, un vestito verde. Forse è il colore verde ad attirare il re, e soltanto quello riesce a destare la sua passione. Ebbene, se le cose stanno così, e se tutto dipende dal colore, farò togliere tutto questo azzurro e possano le tende del mio letto essere verdi, verdi le lenzuola e verdi le mie camicie da notte. Avrò un principe!» Le dame si affrettarono ad obbedire ai suoi ordini, perché quando Lady Pemberly era di quell'umore non era saggio mostrarsi lente o pigre nell'assolvimento degli incarichi ricevuti. Il re era venuto a conoscenza delle voci diffusesi a corte in merito alla sua virilità, e la cosa lo aveva profondamente turbato, perché non poteva negare la veridicità delle voci e, siccome la fertilità del re significava la fertilità del regno, un re nelle sue condizioni avrebbe potuto finire per trovarsi in men che non si dica sacrificato alla Dea, ad Heartwood, con il sopraggiungere dell'estate successiva. Di conseguenza, le dicerie relative agli eventi del Cerchio di Avebury, di cui peraltro lui non conservava nessun ricordo, lo confortarono e al tempo stesso furono un balsamo per il suo ego maschile. Se era stato così virile in occasione dell'iniziazione della figlia, forse lo sarebbe stato in pari misura con altre donne. Cominciò a considerare la possibilità che il suo fallimento con Lady Anne fosse stato la conseguenza di qualche pecca da parte di lei. Effettivamente, la dama era una vergine, a parte l'iniziazione, e mancava di abilità e di esperienza, per cui
forse lui avrebbe fatto meglio ad accogliere nel suo letto qualche danzatrice siriana o qualche sinuosa mora. Analizzò quella possibilità con lasciva soddisfazione e ordinò ai suoi camerieri di procurargli una donna esperta in tutti i 999 modi di soddisfare un uomo. Lui, Richard, non era ancora pronto per andare incontro alla Dea! Nella camera da letto della principessa regnava finalmente la quiete: Elizabeth era riuscita a liberarsi delle sue loquaci dame di compagnia con la banale scusa di un mal di testa. Si mise a sedere sul letto, spingendo di lato il pesante copriletto di piume d'oca, per poi assestarsi la camicia da notte sulle gambe e spostare i cuscini di qua e di là in modo da crearsi un piccolo nido. Si venne così a trovare con la schiena appoggiata alla spalliera del letto, estremamente adorna, che proclamava a tutto il mondo la sua discendenza regale dai re e dalle regine di Englene mediante un assortimento di cotte d'armi e di motti vari: un oggetto appoggiati al quale non ci si sentiva certo a proprio agio. Quella era la stanza che Elizabeth occupava fin dall'infanzia quando risiedeva nella Torre di BrynGwyn, e il fatto che le camere di sua madre fossero state date a Lady Anne la rodeva con la violenza di una volpe affamata. Come aveva potuto suo padre fare una cosa del genere? Come aveva potuto dare a quella donna le stanze di Dianne? Per diritto, esse spettavano a lei, Elizabeth. Da quando aveva scoperto che erano state concesse a Lady Anne, Elizabeth non era più entrata nelle stanze regali di nessun palazzo, perché non sopportava di vedere i cambiamenti che quella donna doveva avervi apportato. Dai commenti delle sue dame di compagnia, aveva appreso che ogni traccia di verde era stata bandita da esse; Lady Jane e Nan erano riuscite a salvare una certa quantità delle proprietà della defunta regina ed ora le stavano inserendo ad una ad una nelle camere della principessa; Elizabeth accarezzò il copriletto di seta verde ricamata e pensò che aveva motivo di essere grata a Jane ed a Nan, per l'affetto che le portavano perché sapeva che, nonostante fosse difficile e dispendioso procurarsi nuove stoffe, Lady Anne avrebbe certo ordinato di bruciare i vecchi arredi se soltanto fosse stata lasciata libera di fare a modo suo. E poi, c'era un altro problema... quello a proposito del quale aveva gongolato durante gli ultimi giorni appena trascorsi. Elizabeth lo lasciò affiorare come se fosse stato un regalo lasciato per ultimo perché era il più grande e il più bello: si trattava di quel meraviglioso momento di passione
vissuto nel Grande Cerchio di Avebury. Elizabeth non riuscì a trattenere un sorriso. Era stato splendido, lei non aveva mai immaginato che l'unione fra un uomo e una donna potesse essere meravigliosa fino a questo punto, ma c'era un problema che continuava a tormentarla come un dente guasto: chi era quell'uomo? Elizabeth supponeva che a corte doveva esserci qualcuno che poteva rivelarle il nome del suo ignoto amante, perché qualcuno doveva aver progettato la sostituzione avvenuta ad Avebury... e poi, naturalmente, lo sapeva anche il diretto interessato. Ma, chi era? Un delicato colpetto risuonò contro la porta segreta adiacente al caminetto ed Elizabeth sorrise, sapendo fin troppo bene chi c'era dall'altra parte, e pensò che fra tutti gli uomini della corte poteva essere certa che quello nel Cerchio non era Jackie Somers. Alzatasi dal letto, attraversò a piedi nudi il pavimento coperto di giunchi e premette la rosa in rilievo accanto al camino, aspettando che il pannello segreto si aprisse: quel passaggio era stato costruito alcuni secoli prima per ordine di una principessa famosa per le sue bramosie amorose. Il ricordo di quella principessa indusse Elizabeth a scoppiare a ridere proprio mentre Jackie, coperto di ragnatele, entrava nella camera. Il giullare si ripulì e si guardò intorno, osservando i verdi cuscini ricamati sparsi sulle sedie, i verdi tendaggi del letto e il copriletto dello stesso colore. «Per gli dèi, sono finito nella stanza sbagliata! Stavo cercando la camera da letto della principessa di Englene e invece sono finito nel covo di una strega silvana. Il re è al corrente di tutto questo?» «Lo è, e mi ha dato il suo permesso. Naturalmente avrei preferito che tutte queste cose fossero rimaste al loro posto, ma la Pemberly la pensava diversamente.» Elizabeth si girò e tornò sul letto, sgusciando sotto il piumino e tirandosi la stoffa profumata di legno di sandalo fin sotto il mento. Jackie si accostò al letto, indugiò accanto ad esso per un momento, poi saltò nel centro esatto del giaciglio, mancando di poco le gambe di Elizabeth. «Ha rinnovato l'arredo delle camere di tua madre nelle più affascinanti sfumature di azzurro» commentò il buffone, quando riemerse dall'ammasso di coperte e cuscini. «Perché quella donna deve avere il culto del colore? Soltanto una strega silvana riesce bene in una cosa del genere, sai. Dicono che ora la Pemberly stia meditando di cambiare nuovamente tutto l'arredo in verde, ma questo non la farà certo regina e neppure le darà un
figlio.» Jackie atteggiò il viso a una smorfia particolarmente orribile e si avvolse le braccia intorno alla testa. «Per quello che il blu o il verde potranno servirle! Anche se facesse profumare tutte le sue lenzuola di muschio e di mandragola, questo non accenderà certo nel re una maggiore passione.» Jackie abbandonò la sua posizione grottesca e si sistemò lungo e disteso sul letto. «Dimmi, Elizabeth, tesoro mio, cosa hai fatto in quel cerchio per destare in tuo padre un tale ardore? A giudicare dalle voci che mi sono giunte all'orecchio, in Englene non si era mai visto mente di simile: pare che abbiate bruciato il terreno per un raggio di parecchi chilometri tutt'intorno. Sono davvero impressionato.» «Io... io non lo so.» Elizabeth arrossì violentemente. «È successo e basta. Ma posso dirti questo: l'uomo che era con me non era mio padre.» Sospirò. «Non avevo mai immaginato che l'amore potesse essere una cosa così meravigliosa. Devo scoprire chi era.» Lanciò al buffone uno sguardo supplichevole. «Jackie, non credi...?» «No, non lo credo e non lo farò. Cucciolo, se puoi pensare anche per un solo momento che io intenda andare a ficcanasare in giro per la corte per poi portarti un timido signore della magia che soddisfi i tuoi desideri, vuol dire che hai il cervello imbottito di lana. I miei doveri non si estendono anche a questo genere di indagini.» C'era una sfumatura di durezza nella voce di Jackie. «Il tuo problema è che non hai frequentato il tipo giusto di uomini. A chi hai regalato la tua verginità, a qualche zotico garzone di stalla oppure a qualche affettato paggio?» «Povera me!» rise Elizabeth. «Invecchiando, stai diventando acido. Ti ho chiesto soltanto un po' di aiuto, e poi il mio interessamento nei confronti di quest'uomo è assolutamente innocente: voglio scoprire la sua identità soltanto per poter chiedere a mio padre il permesso di sposarlo. È stato così meraviglioso!» «Immagino» ribatté Jackie, con un versaccio, «che se rimarrò qui sarò costretto a sentirti farneticare sulle meravigliose doti di questo signore della magia per tutta la notte. Aveva un minimo di intelligenza, di umorismo, di fascino, ammesso che tu sia riuscita a considerare per un solo momento qualcosa che esulasse dal puro piano fisico? Come principessa di Englene, se vuoi un amante puoi scegliere chi ti aggrada, ma un marito... un marito è tutt'altra cosa. La parte del matrimonio che si trascorre fra le coltri è così scarsa che se un marito non ha umorismo fuori del letto, ti spingerà ben presto a sbadigliare anche a letto. E come erede al trono tu devi sposarti e generare altri eredi, un argomento che sovente diventa molto noioso:
quando si aggiungono all'amore anche altre considerazioni, come generare dei bambini, si elimina una notevole parte di piacere, ed è per questo che io continuerò a passare da un letto all'altro senza il minimo pensiero di matrimonio e di eredi.» Elizabeth prese un cuscino dal letto e lo scagliò contro il buffone. Jackie intercettò il proiettile improvvisato e ricambiò l'attacco, per cui entro pochi minuti si scatenò una battaglia di cuscini di massimo livello. Il chiasso che regnava nella camera della principessa cedette il posto ad un improvviso silenzio quando alcuni energici colpi echeggiarono contro la massiccia porta di quercia. «Zitto» intimò Elizabeth, portandosi un dito alle labbra. «Lasciami vedere se mi riesce un piccolo incantesimo di apertura. Stavo proprio aspettando l'occasione per mettere alla prova le mie capacità.» Bruscamente, la ragazza spinse via le coltri, in modo da liberare un tratto delle bianche lenzuola di lino. Borbottando qualcosa, prese a tracciare con l'indice una serie di cerchi, di triangoli e di quadrati che formavano il sigillo del consueto incantesimo per l'apertura di una porta. Non appena lo ebbe ultimato, si udì il soddisfacente scatto della serratura, a cui seguì il rumore del battente che si spalancava. «Ugh! Questa stanza puzza di magia» commentò Menadel, oltrepassando la soglia e richiudendo la porta alle proprie spalle, prima di accostarsi al letto e di osservare l'operato della principessa. «Molto bene, davvero molto bene, ma non ti ho insegnato a ripulire sempre ogni traccia?» Il mago passò una mano sulle lenzuola e le rune del sigillo scomparvero. «A proposito di magia, Menadel» disse Elizabeth, «c'è qualcosa che desidero discutere con te.» «Oh, no. Non mi toccherà per caso ascoltare un'altra tiritera su quello stupido signore della magia di Avebury? Ti prego, cucciolo, risparmiami, se non vuoi che mi venga la nausea e che mi senta male proprio qui, sul tuo miglior tappeto turco» dichiarò Jackie, dirigendosi verso la porta segreta. «Se resti qui con lei, vecchio, ti toccherà ascoltare un sacco di assurdità femminili sulle delizie dell'amore. Ci sarebbe quasi da pensare che questa povera ragazza fosse ancora vergine quando è andata ad Avebury! È stupefacente come la vista di un uomo virile possa far impazzire certe donne.» Jackie indugiò vicino alla porta del passaggio segreto. «Non tornerò, cucciolo, finché non avrai trovato un argomento di conversazione più interessante.» E con quell'ultima frecciata scomparve nel passaggio, il cui pannello si richiuse alle sue spalle.
«Davvero scandaloso» dichiarò Menadel. «Uno di questi giorni, Jackie sarà tradito da quella sua lingua lunga e finirà con la testa sul ceppo. Mi sorprende che tuo padre gli consenta tanta libertà. Non avrebbe dovuto permettersi di discutere di Avebury e tu non avresti dovuto tollerare una discussione del genere. E non venire a dire a me che si tratta soltanto di Jackie! È un umano, ed è decisamente troppo furbo, tanto che ci sono occasioni in cui diffido parecchio di lui. Soprattutto quando lo trovo nascosto nel tuo letto.» Elizabeth scoppiò a ridere, scuotendo il capo. «Oh, zio, se fossi stato qui qualche minuto fa avresti visto cosa stavamo facendo. Si trattava soltanto di una battaglia con i cuscini! Non penserai certo che ci sia qualcosa fra Jackie e me, vero? Anche se devo ammettere che si è dimostrato spaventosamente geloso quando ho parlato del sacro Cerchio di Avebury... o meglio, più che del Cerchio, dell'uomo che c'era dentro. Chi era, Menadel? Per favore, per favore, dimmelo!» Elizabeth congiunse le mani e fissò il mago con aria dolce e supplichevole. Menadel sedette a un'estremità del letto, disegnando distrattamente con un dito qualche runa su di esso. «Si tratta di una cosa che ora come ora non ti posso rivelare, ma ti dirò invece questo: quello nel Cerchio non era un uomo di questa corte, quindi non è necessario che tu li inviti tutti, ad uno ad uno, nel tuo letto per scoprire la sua identità.» «Il mago sollevò una mano per prevenire le impazienti domande che vedeva in procinto di prendere forma sulle labbra della ragazza.» Per ora non ti svelerò il suo nome, ma posso affermare che si tratta dell'uomo ideale per te, di un uomo che tutto Englene considererà adatto a te e adatto ad essere il padre dei tuoi figli. Non vorrei mai vederti in compagnia di un altro uomo... ma siccome non è una cosa pratica, non lo pretenderò. «Se non mi vuoi svelare chi c'era nel Cerchio, puoi almeno spiegarmi come posso fare per ritrovarlo? Per favore, per favore, se mi vuoi bene, devi dirmelo. Se non lo avrò, morirò!» «Non ti agitare. Jackie aveva ragione, c'è qualcosa di estremamente noioso nei farfugliamenti di una giovane ragazza malata d'amore. D'accordo, d'accordo, se la smetterai di annoiare con questo argomento, ti spiegherò come trovarlo. Ascoltami attentamente, adesso: un giorno il regno di Englene sarà tuo e la tradizione richiede che quando una persona riceve una proprietà la renda sua con la magia, una cosa che si ottiene con la marcia
di acquisizione.» Con disinvoltura, la voce di Menadel assunse il tono tipico del pedagogo. «Ora, quello che dovrai fare sarà visitare ciascuno dei quattro quadranti di Englene, in ciascuno dei quali tu dovrai eseguire un atto di magia con i tuoi soli poteri. Una volta fatto questo, dovrai recarti ad Heartwood, per adempiere ai suoi voti, e quest'ultima parte è molto importante, perché non ci devono essere voti o debiti in sospeso, altrimenti l'incantesimo non funzionerà.» Nel sentir nominare Heartwood, Elizabeth rabbrividì leggermente, perché quello era il luogo più misterioso di tutto Englene, più antico dell'epoca in cui il popolo delle streghe silvane aveva governato Englene, o di quella dei Re Elfici, un luogo che risaliva all'inizio stesso dei tempi. «Perché Heartwood? So che mia madre voleva che un giorno andassi da Nerthus, ma non prima che io sia regina, non prima che giunga il tempo del sacrificio! Ne ho paura. Temo quello che mi potrebbe accadere là.» Elizabeth rabbrividì ancora e si avvolse le coltri intorno al corpo, tirandole sempre più su finché soltanto il naso affiorò da quel mare di tessuto verde. «Ho sognato che se mai entrerò ad Heartwood non mi sarà concesso di uscirne rimanendo la stessa persona che sono ora.» «Tu farai la marcia di acquisizione e andrai ad Heartwood, altrimenti ti prometto che diventerai vecchia, infelice e sterile. Non c'è altra via.» Elizabeth fece capolino dal suo bozzolo verde e rifletté su quelle parole del mago, rifletté con estrema cura, ripensando ad Avebury ed al giovane uomo virile che aveva incontrato là. «Lo farò» disse con fervore. «Per lui ne vale la pena.» Menadel rise e scosse il capo. Abbassò quindi lo sguardo sulle rune che aveva tracciato sul lenzuolo, corresse una linea e tornò a fissarle. «Non bisogna mai sottovalutare gli ardori di una fanciulla malata d'amore» commentò, passando una mano sui simboli. «Naturalmente, un incantesimo di persuasione non guasta mai...» «Vecchio imbroglione! Ti rendi conto di cosa avresti potuto fare? Sai con quale frequenza la tua magia tende a non riuscire come dovrebbe. Menadel, avresti potuto trasformarmi in qualcosa di disgustoso! Non usare mai più su di me uno dei tuoi incantesimi! È una cosa che mi spaventa ancora più di Heartwood. E adesso parlami di questi riti che dovrei eseguire in ciascuno dei quattro punti cardinali.» Menadel si lisciò l'arruffata barba rossa.
«Non posso sapere con certezza quale forma assumeranno, e ritengo che la cosa migliore sarebbe vedere quali incantesimi ti verranno in mente in ciascuno dei punti cardinali, ricorrendo a una specie di magia improvvisata.» Lanciò un'occhiata alla principessa. «Dunque! Vedremo cosa accadrà in ciascuno dei punti cardinali e ci lasceremo guidare dalle nostre inclinazioni. Molto bene.» «Noi? Ti ho sentito parlare al plurale, oppure lo stavi usando in senso maiestatico?» «Oh, ho intenzione di venire con te, perché non posso permettere che una bambina che non sa nulla del mondo reale, vada in giro da sola. Naturalmente, c'è il problema che per tradizione la marcia di acquisizione si effettua nudi, ma non mi pare una cosa pratica: impiegheremo alcuni mesi a ultimare il viaggio, e farti rimanere nuda per tanto tempo sarebbe una cosa disagevole, quindi suppongo che potremmo far a meno del requisito della nudità. Sì, la marcia di acquisizione è quello che conta...» Le parole di Menadel si trasformarono in un vago borbottio, mentre lui esaminava il problema della principessa che viaggiava nuda per tutto Englene. Quanto ad Elizabeth, si limitò a rotolarsi sul letto, ridendo. «Oh, Menadel, Menadel! Nuda!» Scoppiò in una serie di risate incontenibili che si spensero in una raffica di piccoli singhiozzi. «Oh, pensa come mi scotterei al sole e come mi spellerei. Lady Jane non mi perdonerebbe mai, dopo tutto l'olio di mandorle e il succo di limone che ha spalmato sulla terribile pelle lentigginosa che mi ritrovo. Oh, povera me, no! È un'idea che non va neppure presa in considerazione. Se la marcia di acquisizione funzionerà senza il requisito della nudità, allora mi va bene, ma a parte questo non sono neppure certa di approvare l'idea di viaggiare accompagnata soltanto da te. Mi servirà almeno una dama di compagnia che mi aiuti a vestirmi, e un viaggio così lungo richiederà parecchi cavalli da soma per i miei bauli e la spalliera del mio letto, per le stoviglie, il boccale, l'arpa, i tappeti, le lenzuola, gli arazzi... e naturalmente un garzone di stalla che si occupi di White Surrey. Oh, non potrei mai mettermi in cammino da sola, e neppure soltanto in tua compagnia! Pensa che scandalo: una principessa di Englene non gira per tutto il suo regno con la sola scorta di un mago.» «Ma è così che dovrà essere, e non soltanto per via dell'incantesimo. Pensa alla questione della tua sicurezza: una giovane principessa che è per metà una strega silvana sarebbe molto più al sicuro sola con me che in compagnia di mezza corte, in giro per Englene. Credo che Lady Pemberly
sarebbe capacissima di infiltrare un sicario nel tuo seguito. No, dovremo essere soltanto tu ed io, e nessun altro.» Elizabeth rifletté sulle parole del mago e si trovò d'accordo con lui, sia pure con riluttanza. Sarebbe stato tipico della Pemberly decidere che quella era un'eccellente opportunità per liberarsi della principessa: un piccolo incidente, una caduta da cavallo o un boccone di anguilla andata a male mangiato a cena... sarebbe bastato assai poco per privare Richard della sua unica erede. Sì, Menadel aveva ragione. Dovevano effettuare il viaggio da soli, senza nessun altro. «D'accordo» si arrese, ancora riluttante. «Chiederò a mio padre il permesso di partire per una ricerca, e sono certo che lui me lo concederà. Poi gli lascerò un biglietto per avvertirlo che ho preferito sgusciare via sola per compiere grandi gesta senza l'aiuto di nessuno, come un grande mago. Però vorrei poter portare con me almeno una dama di compagnia...» CAPITOLO OTTAVO Re Richard stava passeggiando avanti e indietro per la suo salottino privato, in attesa che Thomas il Mago venisse da lui. Il messaggio che gli era giunto quella mattina dal Palazzo di Witchdame lo aveva profondamente turbato. Il messaggero aveva cavalcato in tutta fretta dal palazzo fino alla capitale, Lundene, per avvertire il re che la Regina Renee di Gaeland e suo figlio erano arrivati per partecipare ai festeggiamenti in onore del compleanno della principessa. La Regina Renee, però, non aveva chiesto il permesso previsto dalla legge per varcare il confine e, conoscendo Renee, Richard era certo che la donna non aveva avvertito il bisogno di chiedere né il suo permesso né quello di chiunque altro. Pensare a Renee della Bornie Terre faceva dolere la testa a Richard come se avesse avuto un dente marcio; lui si sentiva sempre un po' colpevole in sua presenza, una sensazione che la donna faceva di tutto per sfruttare a proprio vantaggio. La Principessa Renee era stata promessa in sposa a lui quando erano ancora bambini, e sarebbe dovuta diventare regina di Englene, ma Richard in preda all'iniziale impeto di gioia derivantegli dal fatto di essere salito al trono e di essere libero di donare il suo cuore a chi voleva, aveva invece sposato la strega silvana Dianne. Per placare i sentimenti di Renee, l'aveva concessa poi in sposa al proprio fratello gemello, Re Robert di Gaeland, e da allora aveva cercato sempre di lenire i rimorsi di coscien-
za con il pensiero che se non fosse stato per la decisione di re Edward di dividere il regno fra i due figli, Robert non sarebbe neppure stato un re ma soltanto un fratello minore e niente di più. E si era ripetuto più volte che lui, Richard, era stato oltremodo magnanimo nell'avallare il testamento paterno quando era salito al trono, dopo la morte di Edward. Naturalmente, il fatto che Robert avesse ricevuto il suo regno mediante promessa formulata da Edward il Giusto e che, quando era ancora in vita, Edward avesse creato un grande confine di fiamme azzurre fra i due paesi, era qualcosa che avrebbe potuto essere comodamente dimenticato. Renee era regina per concessione di Richard, e non doveva dimenticarselo. Adesso, però, lei e suo figlio erano in viaggio alla volta della capitale. Richard rifletté sulle prospettive aperte da quella visita e sui vantaggi che ne potevano derivare. C'era da analizzare la questione del futuro di sua figlia, e da decidere chi avrebbe dovuto sposare per rafforzare la propria posizione. Un matrimonio con suo cugino, il Principe John, non sarebbe stata una soluzione cattiva per entrambi i regni. Naturalmente, Richard avrebbe prima atteso di vedere com'era cresciuto il ragazzo, perché conservava di lui lo sgradevole ricordo di un bambino decisamente viziato, ricordo che era stato uno dei motivi preponderanti che avevano indotto Richard a negargli la corona del Gaeland finché non avesse raggiunto la maggiore età. Per ora, era molto meglio che il Gaeland rimanesse sotto la protezione del sovrano di Englene e del reggente da lui nominato, Lord Hamilton, finché non fosse divenuto possibile passare la corona a John senza lasciare che Renee ci mettesse sopra le mani. Il pensiero di Renee, e di quello che sarebbe potuto esserci fra loro, gli portò alla mente un altro ricordo doloroso, ed imbarazzante. Nel rammentare gli eventi della sera precedente, il re arrossì. Aveva cenato con Lady Anne di Pemberly e, rallegrato dal vino e da altri piaceri della gola, si era poi infilato nel letto di quella dama con la certezza di un grande successo. Non aveva forse scatenato le fiamme più alte che si fossero mai viste nel corso dei riti di Avebury? Non aveva dimostrato appieno la sua virilità? Era stata colpa del troppo vino bevuto a cena, oppure del vestito verde che Anne aveva voluto indossare? Esso gli aveva richiamato alla mente molti ricordi di Dianne, e quando di nuovo si era trovato impotente fra le braccia di Anne, aveva pianto sul suo seno per il dolore destato dal pensiero della sua perduta regina. Richard desiderò di poter rammentare qualcosa del magico rito che aveva svolto con sua figlia, ma per quanto si frugasse nella mente, non vi tro-
vava neppure il minimo frammento di ricordo. Aveva eseguito una serie di riti per ridestare quella parte di memoria smarrita, ed aveva perfino cercato di curare quella strana amnesia con l'uso dell'anello Raziel, ma senza risultati soddisfacenti. Gli eventi che si erano svolti nel santuario di Bathford erano ben chiari nella sua mente, e anche il viaggio fino ad Avebury, al cospetto della corte e di sua figlia, la magnificenza del campo che si affacciava sul Cerchio e perfino i momenti in cui aveva indossato il fantastico costume del Dio Sulis. Ma dall'istante in cui aveva posato piede sulla grande strada, i suoi ricordi svanivano, per poi riprendere da quando si era ridestato nel suo padiglione, mortalmente sfinito. La spossatezza era l'unica prova a cui si poteva aggrappare. Si era sfinito scatenando una quantità eccessiva di magia ed aveva dimostrato la sua virilità. Questo "fatto" era qualcosa che stava cominciando a custodire come un prezioso tesoro, mentre ammetteva con se stesso quanto il pensiero della sua impotenza lo spaventasse, perché anche lui sognava di Heartwood... ed erano sogni sanguinosi. Sapeva fin troppo bene che non avrebbe mai più potuto accostarsi in quel modo a Elizabeth: un conto era svolgere il Grande Rito per l'iniziazione della propria figlia e un altro era prenderla come concubina per il proprio piacere o per misura di sicurezza. Il Grande Rito era celebrato a beneficio del Dio, e doveva rimanere tale. Prendere Elizabeth come concubina non era una soluzione accettabile. Finché era ancora in vita, avrebbe dovuto fare in modo che Elizabeth andasse in sposa ad un giovane energico che l'aiutasse a conservare il trono di Englene, e il problema era proprio quello di trovare un consorte adeguato. Se avesse sposato un principe straniero, infatti, Englene sarebbe diventato un semplice territorio annesso allo stato del marito, e se invece avesse sposato uno dei cortigiani, ciò avrebbe provocato a corte dissensi e gelosie. Avrebbe potuto anche scegliere un figlio secondogenito di qualche grande re straniero... ma in questo caso la sua nazione di appartenenza non avrebbe cercato di assorbire Englene? Era una questione assai preoccupante. Naturalmente, c'era John... Richard stava riflettendo su quella possibilità quando Thomas il Mago entrò nel suo salottino privato. «Vostra Grazia mi ha mandato a chiamare? Cosa vuoi che faccia per te?» chiese Thomas, rivolgendo al suo re un profondo inchino. «Sto prendendo in considerazione il matrimonio di mia figlia, Thomas.
Ormai ha raggiunto un'età in cui queste cose acquistano importanza... e dal momento che è la mia unica figlia, il problema della scelta di un marito adeguato è fondamentale per Englene. Che ne pensi dell'idea di darla in sposa a John di Gaeland?» Thomas si massaggiò le guance ben rasate, sfiorando leggermente con le dita la pelle scottata dal sole. «Hmmm... è un pensiero interessante, Vostra Grazia. Un'unione del genere riunirebbe nuovamente Englene e Gaeland. Questo farebbe piacere al popolo di Englene e, naturalmente, la presenza del Principe John come re di Englene soddisferebbe i Gael. D'altro canto, bisogna anche considerare che ne penserebbe il popolo di Englene di avere John come re.» «Oh, la mia intenzione è che lui sia soltanto un principe consorte: la regina sarà Elizabeth» replicò Richard, parlando con una sicurezza che, come ammise con se stesso, era lungi dal provare. «Quello che tu intendi e quello che John e i Gael potrebbero fare sono due cose distinte e separate. Hai parlato con la principessa in merito a suo cugino? Credo che non si siano più incontrati da parecchi anni.» «La Regina Renee si è rifiutata di permettere a John di venire ancora a corte dopo che lui ha compiuto i dieci anni. Elizabeth lo aveva battuto un po' troppo clamorosamente sul campo per i tornei, e Renee aveva paura che il suo marmocchio potesse riportarne dei danni. In ogni caso, non ho ancora parlato di matrimonio con Elizabeth, e poi c'è un aspetto negativo: non augurerei una suocera come Renee a nessuno e per nessuna cosa al mondo. In ogni caso, Elizabeth è una ragazza volitiva e saprebbe come trattarla.» Il re condusse Thomas verso una finestra e gli fece cenno di sedere sulla panca di pietra ricavata dal davanzale, sedendo poi accanto al suo consigliere. «Allora, Thomas, non mi hai ancora dato una risposta. Che ne pensi di questo matrimonio? So che tu non sei troppo propenso ad elargire risposte, ma del resto questa non è una domanda facile.» «Hai consultato al riguardo l'Arcivescovo Aleicester?» domandò a sua volta Thomas, cercando di scorgere tutti gli aspetti del problema. «Ritengo che lui nutra qualche ambizione per quel suo avvenente figliolo, il Duca Charles... ed anche Charles è cugino di Elizabeth. Sono disposto ad ammettere che le pretese di Charles alla mano di Elizabeth non hanno fondamenta molto valide, ma forse si potrebbe offrire alla principessa una scelta fra i due. E così la mia risposta alla tua domanda torna ad essere quella di
prima: che cosa desidera la Principessa Elizabeth?» «Non posso lasciare una faccenda simile nelle mani di una ragazzina! Charles è affascinante e avvenente, ed Elizabeth lo conosce fin dall'adolescenza, mentre l'ultima volta che ha visto John questi era un ragazzino piccolo con la faccia chiazzata. Naturalmente, se la lasciassi fare, lei sceglierebbe Charles... e quanto al fatto che esista una possibilità di scelta fra Charles e John, non è poi vero che ce ne sia una. Charles è di discendenza bastarda, mentre John diventerà re di Gaeland: come tale, soltanto il Principe John può essere un pretendente vantaggioso per il regno.» «In questo caso, dal momento che John e sua madre si trovano ora ad Englene, lascia che Elizabeth incontri suo cugino, che danzi con lui, che vada a caccia con lui, che suoni il liuto, canti qualche canzone e si faccia un'idea sul suo conto. Così, forse, la sua scelta sarà consona ai tuoi desideri. Ma accetta una parola di avvertimento, mio sovrano: non mancare di tenere in considerazione ciò che Elizabeth desidera, perché dubito che riusciresti ad imporle un matrimonio che non sia di suo gradimento.» «No, non la costringerei mai a sposarsi contro la sua volontà, perché capisco fin troppo bene che da un connubio del genere può venire soltanto dolore. Mio padre non mi ha costretto a un matrimonio che non volevo, e il meno che io possa fare è di usare lo stesso riguardo a mia figlia... anche se non posso evitare di pensare che il mio non è stato un matrimonio felice, scelta o non scelta. Le nozze con John di Gaeland sarebbero una mossa saggia...» Il palazzo fortezza di BrynGwyn era il più grande fra i palazzi del re. Era stato costruito in ere antecedenti all'arrivo in Englene dei signori della magia, dal leggendario Re Elfico Bendigeidfron del Corvo Benedetto, e si diceva che il corpo fosse sepolto sotto la pietra d'angolo occidentale e la testa sotto quella settentrionale. All'interno delle sue massicce mura grigie sorgeva il Palazzo della Torre Bianca, insieme a un assortimento di altre torri che servivano come zecca reale, armeria, zoo, fonderia per i cannoni e camera di sicurezza dei gioielli della corona; due torri, poi, fungevano da prigioni regali, e sorgevano una accanto all'altra nell'angolo orientale, accanto alla zecca regale, una più cupa dell'altra. La Torre del Traditore era la più alta, ma la Torre della Regina, fatta edificare da Isabel la Lupa, era quella che incuteva maggiore timore: si narrava che proprio là la regina aveva assassinato il marito, William lo Sfortunato, versandogli del piombo fuso nell'orecchio mentre dormiva e, vera o meno che fosse quella storia,
l'angolo della fortezza occupato dalla torre era ritenuto pervaso dalla malasorte, anche perché era stato edificato nel punto un tempo occupato dalla sorgente dove Edmund il Mago aveva perso il proprio stolto cuore per opera della traditrice ninfa Melusine. Quest'area di BrynGwyn conteneva anche gli Alloggi di Gaeland, e considerando il trambusto che la Regina Renee stava scatenando in quella sezione del palazzo, essa era davvero portatrice di sventura per chiunque vi si avvicinasse. Renee e il Principe John erano arrivati insieme a un numero elevato di dame di compagnia, armigeri, cortigiani, cuochi, servitori, paggi e via dicendo, e ora Renee stava cercando, con l'aiuto del personale di Richard, di alloggiare qualcosa come duecento persone in un edificio che ne poteva comodamente contenere al massimo venti. Il Lord Sommo Ciambellano Henry Terrell non fu affatto divertito dal tentativo della regina di invadere con il suo seguito anche le torri vicine, perché il Palazzo di BrynGwyn era già stato occupato fino al massimo della sua capacità dai nobili arrivati in visita in occasione dei festeggiamenti per il compleanno di Elizabeth, e non c'era davvero posto disponibile per circa duecento rissosi Gael. Renee, dal canto suo, non s'interessava ad altro che non fosse la comodità del suo seguito, e dopo molte discussioni e molti scoppi d'ira, alla fine riuscì a disseminarlo in ogni buco ancora libero nel palazzo. Tuttavia, come conseguenza di tutto questo, andò a cena di malumore, il che si rivelò una sfortuna per la sua causa. Il Principe John si trovava al centro della piccola stanza circolare che gli era stata messa a disposizione, e stava fissando la scarpa ricamata in oro con aria seccata, mentre il sarto aspettava tremante accanto a lui. John si chinò, tastò il tallone della scarpa in questione e poi si mise a strillare. «C'è un nodo, razza d'idiota, un nodo! Ti dico che lo posso sentire, proprio qui sul tallone. Stupido rospo, hai cercato di farmi venire una vescica!» esclamò, e assestò un manrovescio allo sfortunato sarto, sbattendo l'ometto bruno sul pavimento di pietra, dalla parte opposta della stanza. Soddisfatto di aver provocato una scenata e di aver recato danno a qualcun altro, John si infilò le morbide scarpe da camera di cuoio moresco e si accostò allo specchio per contemplarsi e pavoneggiarsi. Ogni possibile tipo di stoffa e di gioiello e tutta l'immaginabile abilità nel confezionare un abito a cui si poteva ricorrere per rendere avvenente un principe, erano stati applicati al suo corpo a forma di pera, ma tutto questo non era servito a
molto. A sedici anni, il Principe John di Gaeland aveva le spalle cadenti e i muscoli dello stomaco rilassati, il petto incavato e le ginocchia nodose. I capelli flosci erano di un color rosso ruggine e la pelle, che avrebbe dovuto essere bianca e rosea come quella dei suoi antenati, era rovinata dai foruncoli. Gli occhi azzurri, poi, erano freddi e porcini e questo, abbinato ad un'espressione costantemente petulante, non serviva a migliorare il suo aspetto. Ciò che però John vide nello specchio fu l'immagine di un principe, e tanto gli bastò. Raccolti i guanti di velluto, si mise in testa il cappello con una penna d'aquila e, ritenendosi pronto per la cena, lasciò a grandi passi la stanza, andando a finire fra le braccia della madre. «John! Non mi aspettavo che stessi ancora oziando qui» protestò Renee. «Il re ci aspetta a cena, e spero proprio che ti collochi sotto il suo baldacchino regale, in quanto è tuo diritto per nascita e per parentela.» Mentre parlava, Renee sistemò i lacci dorati del colletto del figlio e gli assestò sulla testa il cappello dandogli un'angolazione più attraente; sfortunatamente, in questo modo la penna d'aquila s'incurvò dietro un orecchio, provocando un solletico che irritò John. «Ora bada di essere cortese con il re, se vogliamo evitare di dover aspettare che tu abbia diciotto anni prima di essere nominato Re di Gaeland. E dovrai essere gentile anche con quella strega silvana di sua figlia. Ricorda che se dovesse succedere qualcosa alla Pemberly, l'erede è lei.» Con un grugnito, John spostò ancora il cappello in modo che non gli facesse più il solletico. «Perché devo essere gentile con Elizabeth? Non è neppure bella... e poi, se qualcuno dev'essere l'erede dello zio Richard, quello dovrei essere io, senza contare che avrei dovuto essere nominato Re di Gaeland quando è morto mio padre. Non è per nulla giusto che lo zio Richard mi abbia costretto ad aspettare tanto a lungo.» John sporse il labbro inferiore, incupito al pensiero di tutte le entrate erariali che sarebbero dovute spettare a lui, ma poi rifletté sulla questione per un momento e giunse in fretta alla conclusione che sarebbe stata effettivamente una buona cosa se lo zio Richard avesse deciso di permettergli di diventare il Re di Gaeland due anni prima della sua maggiore età. Per un momento, un'espressione astuta sostituì la petulanza sulla faccia del principe. «Hai ragione, madre, e sarò molto cortese con lo zio Richard e con quel grasso maiale rosa di sua figlia. Però fa' in modo di non mettermi vicino
alla zia Marguerite, perché lei vorrà parlare di libri, e tu sai che io non leggo mai niente.» La Grande Sala della Torre Bianca di GwynBryn era stata sfarzosamente decorata in occasione della festa di compleanno della principessa. Il baldacchino sotto cui il re sedeva alla tavola alta era fatto interamente di un tessuto in cui seta rossa e azzurra era mista a fili d'oro, abbondantemente decorato con oro, perle, rubini e zaffiri. Le bandiere appese alle travature scoperte del tetto erano in velluto e in satin, in seta e in taffetà, in broccato e in tessuto dorato, e perfino le corna delle grandi teste di cervi e di daini che adornavano la sala erano state da poco verniciate d'oro e adornate di rami verdi. Re Richard era in piedi accanto alla sua sedia, alla tavola alta, in attesa dell'arrivo della regina e di suo figlio. I due erano in ritardo e Richard si costrinse a mascherare dietro la cortesia la propria irritazione, poi si girò per guardare la figlia che gli sedeva accanto ed ammise fra sé e sé che aveva un aspetto splendido: l'abito di velluto verde mare, coperto di ricami in un verde più cupo e punteggiato di perle su una sottogonna in stoffa mista ad oro, le stava molto bene. «Hai uno splendido aspetto, Bessie. Tua madre sarebbe molto orgogliosa di te e, come me, sarebbe felice di vederti in verde. Ti dona, puoi credermi quando te lo dico, e farò in modo che nessuno si azzardi a criticare la tua scelta in fatto di vestiario.» «Ti ringrazio, sire, e sono lieta che tu mi permetta di onorare in questo modo mia madre. Nel suo guardaroba c'era una grande quantità di stoffa verde a disposizione, quindi le mie dame non hanno avuto difficoltà a confezionarmi degli abiti. Tuttavia, c'era una pezza di broccato oro e verde che mi piaceva da lungo tempo: era mia intenzione usarla per una sottogonna e un paio di soprammaniche, ma le mie dame non riescono più a trovarla da nessuna parte.» Prima che Richard potesse avanzare commenti sul problema della stoffa scomparsa, risuonò una fanfara di trombe e lui si girò per osservare la regina del Gaeland e suo figlio che stavano entrando nella sala. Tutt'intorno scese un profondo silenzio: questa era la prima volta in sei anni che i cortigiani avevano l'opportunità di vedere il Principe John, e dal momento che molti di loro stavano già prendendo in considerazione la possibilità che lui fosse un re accettabile per Englene, la curiosità relativa al ragazzo era praticamente generale.
Un coro di sussurri si levò dai convitati quando il principe e sua madre attraversarono la sala. Renee si attirò molti commenti favorevoli in quanto, pur essendo sul finire della quarantina, era ancora una donna molto attraente; era un po' magra, con il collo leggermente scarno e mancava di quella pienezza di curve che piaceva ai signori della magia, ma nel complesso con la sua bellezza bionda era in tutto e per tutto un'accettabile principessa della Bornie Terre. Suo figlio, invece, era piuttosto scarso in fatto di qualità personali, e fu proprio quella sera che un ignoto cortigiano... nessuno in seguito ricordò chi fosse stato... lo soprannominò "John il Senza Grazia", un soprannome che era destinato a rimanergli appiccicato addosso e che sarebbe stato trascritto nelle cronache di Englene come il nome con cui era storicamente indicato questo sovrano del Gaeland. Richard venne avanti per accogliere la cognata, prendendole e baciandole la snella mano bianca, conducendola poi verso il posto alla sua sinistra, sotto il baldacchino di stato, e facendola sedere in modo che si trovasse sovrastata da esso. John aveva seguito la madre e Richard per poco non gli sbatté contro quando si girò, con l'intenzione di scendere nuovamente dalla piattaforma della tavola alta e di dare il benvenuto al nipote nel punto in cui lo aveva lasciato. Con grazia, Richard mascherò il momento d'imbarazzo informandosi della salute del nipote e accompagnandolo a rendere omaggio alla Principessa Elizabeth, sua cugina. Elizabeth sedeva alla destra del padre, a sua volta sotto il baldacchino e John, invitato a prendere posto a destra della ragazza, si venne così a trovare al di fuori di quel simbolo di regalità, un insulto che annotò e mise da parte come un ulteriore motivo di lagnanza nei confronti dello zio. Un'altra fanfara echeggiò quando il re sedette a sua volta, poi i cortigiani si sistemarono alle lunghe tavole per banchetti, e in quell'intervallo John ed Elizabeth colsero l'occasione per studiarsi a vicenda. Nessuno dei due riportò un'impressione favorevole. Dopo aver squadrato la cugina, John rivolse tutta la sua attenzione a Lady Anne di Pemberly, baciandole ostentatamente la mano e informandosi della sua salute; Lady Anne, accortasi del modo in cui John snobbava la cugina, prese a civettare con lui senza remore. Dopo aver osservato John e la Pemberly per qualche istante, Elizabeth si rese conto che il cugino stava cercando di irritarla, ignaro di aver fallito completamente il suo scopo. Secondo Elizabeth, John e la Pemberly erano degni uno dell'altra, e l'unico sentimento che destavano in lei era divertimento; la principessa si servì di una porzione di fagiano arrosto e si scordò
tranquillamente di John. Questi, tuttavia, non fu dimenticato né da Renee né dal Re Richard. «Non formano una coppia affascinante?» chiese Renee, lanciando al figlio un raggiante sguardo di approvazione. «Chi?» replicò Richard, sollevando lo sguardo dal pasticcio di anguille al forno e cipolle. «Come, ma il Principe John e tua figlia Elizabeth. Io ritengo che formino una bella coppia. Dovremmo davvero prendere in considerazione l'idea di unirli in maniera un po' più stretta, mio caro cognato.» Richard si accigliò per l'insolenza manifestata da Renee nel sollevare questioni di stato mentre erano a tavola. Lui, d'altro canto, si stava convincendo sempre più in fretta che John sarebbe stato un ben misero genero e, di conseguenza, il problema di quel matrimonio era qualcosa che avrebbe rifilato al Grande Conveyne, lasciando che i suoi membri ne discutessero fino a non concludere nulla, il che avrebbe permesso tanto a lui quanto ai Gael di salvare la faccia. «Potrebbe essere per lei un buon consorte, ma naturalmente ci sono molti pretendenti alla mano di mia figlia» commentò. Renee scelse di ignorare il sottinteso racchiuso nell'osservazione del cognato. «Oh, sì, ci potrebbero essere altri giovani adatti, principi e nobili di nazioni straniere... ma dopo tutto il mio John è un re, o meglio lo sarebbe se tu gli dessi il Gaeland com'è nel suo diritto. Credo che sarebbe uno splendido re tanto del Gaeland che di Englene, e che questo riunirebbe entrambe le nazioni. Penso che la cosa farebbe piacere ad entrambi i nostri popoli. Richard si accigliò e si guardò intorno nella sala, per vedere chi avesse sentito quelle parole: sfortunatamente, a sentirle erano stati in troppi. Richard si accorse che la conversazione era stata udita perfino da chi occupava le tavole laterali e che il suo contenuto era ora di dominio generale.» «Ritengo, mia signora, che sarebbe meglio rimandare questa discussione ad un altro momento» affermò, con voce piana e fredda. «Sono certo che saprai con quale velocità si diffondano i pettegolezzi, e non vorrei che la cosa diventasse oggetto di chiacchiere prima che i miei consiglieri abbiano avuto il tempo di valutare gli aspetti di quest'unione.» «Oh, ma io credo che dovremmo parlarne, Richard» continuò Renee, con voce allegra ed alta. «Mi piacerebbe infatti risolvere la questione prima che io e John torniamo nel Gaeland, e naturalmente vorrei anche che tu lo nominassi re. Sarebbe un vero peccato costringere il ragazzo ad aspetta-
re fino ai diciotto anni.» «Tuo figlio aspetterà finché la luna si tingerà di blu per il freddo, signora!» esclamò sommessamente Richard, a denti stretti. «Esigo che tu rispetti i dettami della cortesia e che ponga fine a questa conversazione. Ricordati, signora, che sono il tuo re, e che te lo sto ordinando.» Renee ribollì in silenzio, rendendosi conto troppo tardi di quanto fosse stata avventata a insistere sulla questione del matrimonio e della sovranità del figlio mentre erano a tavola. Rivolse quindi la propria attenzione al cibo, e soltanto le sue guance arrossate lasciarono capire che era furente per il risultato del tentativo di insinuare il figlio nelle grazie del re. Elizabeth, che aveva seguito l'andamento della conversazione fra il re e Renee, trovò la cosa estremamente divertente e capì meglio come mai suo zio, Re Robert di Gaeland, fosse stato tanto pazzo da andare a combattere contro gli Spiriti di Faerie. Anche se il sovrano era stato molto sfortunato nel corso delle battaglie sostenute su quell'oscura isola, sfortunato al punto di essere divorato da una Cosa... poteva comunque essersi trattato di un destino meno atroce di quello di trascorrere tutta la vita con la Regina Renee. In silenzio, Elizabeth giurò a se stessa che la luna sarebbe diventata ben più che blu per il freddo prima che lei decidesse di sposare il cugino e di avere fra i piedi una suocera di quel genere. John non si era interessato per nulla alla conversazione fra Richard e Renee, perché aveva concentrato tutta la sua attenzione su Lady Anne, arrivando ad un certo gradevole livello in cui la dama in questione gli aveva permesso di metterle una mano sul ginocchio nudo, sotto la voluminosa gonna; John era convinto che qualche altro piccolo sforzo sarebbe stato sufficiente per riuscire a passare la notte con l'amante del re e far fare così allo zio una misera figura, un pensiero che rese ancor più piccoli e porcini i suoi occhi. John aveva il labbro inferiore sporco del grasso dell'oca che aveva diviso con Lady Anne, e sulla sua tunica c'erano briciole delle frittelle di datteri e spinaci di cui si era ingozzato: nel complesso, non costituiva certo una bella vista. Anne non parve però troppo preoccupata per i modi sgradevoli che il suo compagno aveva a tavola. Dopo tutto, quello era un principe che presto sarebbe diventato re, ed un re era ciò a cui lei stava mirando. Anne si era però accorta del bisticcio fra Richard e Renee, e decise che sarebbe stata una buona mossa politica tentare di placare il monarca. Ignorando un accenno da parte di John ad allungare le mani verso il suo
corpetto, la dama si protese in avanti sulla sedia per rivolgersi al re. «Mio signore, non sarebbe possibile mostrare ai tuoi visitatori venuti dal nord qualcuno dei divertimenti che la nostra corte può offrire? Magari il tuo buffone potrebbe essere disposto a fare per loro qualche capriola o a cantare qualche pungente canzone di taverna. Dopo tutto, è un tipo molto arguto.» Lieto dell'opportunità di evitare di conversare oltre con Renee, Richard si affrettò ad accogliere il suggerimento della Pemberly, e segnalò ad Henry Terrell di andare a cercare Jackie e di convocarlo nella sala del banchetto. Jackie arrivò pavoneggiandosi in un lungo abito, in broccato oro e verde, che lui aveva con poca abilità allacciato in vita in modo da non incespicare nei voluminosi strati di tessuto. Il buffone si fermò davanti alla tavola alta e passeggiò avanti e indietro, sfoggiando le glorie del corpetto ingioiellato e delle maniche coperte di perle. La corte rise per gli atteggiamenti elaboratamente femminili del buffone, al punto che perfino Richard sollevò lo sguardo dal piatto per dare un'occhiata. Subito riconobbe l'abito e un cupo rossore gli pervase le guance. La regina Renee si sporse per guardare meglio Jackie. «Perché questo buffone si pavoneggia con addosso un vestito della defunta regina?» chiese. «A me sembra uno scherzo di cattivo gusto, Richard.» «Sì, uno scherzo di cattivo gusto invero» convenne Jackie. «Questo è un abito da strega silvana, questo è il verde delle streghe silvane. Vi dirò un indovinello, e darò questo abito a chi scoprirà la soluzione. L'ho trovato nell'armadio di una fanciulla, e la fanciulla non ha sangue di strega silvana. Ho pensato che fosse della regina Dianne, ma la gonna era troppo lunga.» Jackie allargò la gonna luccicante dietro di sé come una coda di gallo. «Allora, mi son detto, deve essere della Principessa Elizabeth, che di recente ha cominciato ad abbigliarsi in verde, in onore della sua signora madre.» «Ma, guardate, la nostra principessa è una bella e florida ragazza, larga di spalla e di fianco: i lembi di questo abito non s'incontrerebbero sulla schiena di una così gagliarda giovane guerriera.» Jackie lisciò il corpetto dell'abito sul proprio torace sottile. «Mi è parso che mi calzasse bene, perché sono sottile come una canna e sono magro di fianco e di torace; di conseguenza, ho creduto che questo abito fosse stato fatto per me, perché lo indossassi per scherzare e fare il buffone. Se così non è, mio sire, ovviamente me lo toglierò.» Jackie fece seguire gli atti alle parole, e l'abito si
afflosciò ai suoi piedi in una chiazza di verde. «Il tuo scherzo è di pessimo gusto, buffone, e se mi appartenessi, ti farei frustare.» Il commento era giunto dalla tavola alta, ma non era stato Richard a pronunciarlo, bensì Lady Pemberly; la dama aveva riconosciuto l'abito che aveva indossato nel tentativo di sedurre il re, ed era certa che la corte avrebbe impiegato ben poco a risolvere l'indovinello di Jackie. Poi accorgendosi che le sue parole stavano attirando un'eccessiva attenzione, si affrettò a modificarne il senso. «Buffone, non hai nessun diritto di beffarti delle streghe silvane. Non è saggio. In questo regno, dobbiamo essere cortesi verso tutti.» Re Richard le rivolse un sorriso di sollievo e Anne seppe che, per il momento, aveva vinto quello scontro di arguzia. «Oh, sì» si affrettò a convenire Jackie. «La gentilezza deve essere estesa a tutti, ai nobili nei loro palazzi, ai nostri ospiti provenienti dal regno del nord, e perfino a un povero buffone. Molto bene, miei signori, mie signore, perdonate questo scherzo mal riuscito, mentre io vado in cerca della fanciulla a cui calza questo abito, per vedere se lei calza a me.» E con quelle parole Jackie lasciò la stanza a balzi, trascinandosi dietro il vestito la cui stoffa lucente brillava e ondeggiava intorno ai suoi piedi. Alla tavola alta, Elizabeth sedeva fredda e immobile, consapevole che il messaggio di Jackie era stato diretto a lei. In tutta Englene c'era una sola persona i cui fianchi snelli e il seno poco pronunciato potevano entrare in quel vestito e che avrebbe osato di indossarlo all'insaputa della corte. La principessa lanciò a Lady Anne uno sguardo di freddo disprezzo e decise che era giunto il momento di reclamare l'attenzione del cugino. «E tu cosa ne pensi, cugino John, del nostro buffone Jackie? Quando il banchetto si sarà concluso, indubbiamente ci intratterrà con lazzi e mimi più riusciti. È molto bravo in questo genere di cose.» «Nel Gaeland abbiamo buffoni in abbondanza» ribatté John, allungando la mano verso una ciotola di petali di viola zuccherati, «e ne abbiamo perfino alcuni che sono giullari professionisti. Quanto al resto del mio popolo, si tratta di semplici buffoni. Naturalmente, tutti sono impazienti che io diventi re» proseguì il ragazzo, con disinvolta soddisfazione, inconsapevole della natura assurda del suo commento. «Vorrei che tuo padre si spicciasse a nominarmi re. Mia madre, naturalmente, ha cercato di consolarmi facendomi cavaliere, ma non è come essere re, non ti pare?» Elizabeth sgranò gli occhi per la sorpresa. «Ma quello era un diritto di mio padre! In nome di quale diritto tua ma-
dre ha condotto la cerimonia del cavalierato per te?» «Come ti ho detto, voleva consolarmi per il fatto che non sono ancora re, ed ha ritenuto che il cavalierato fosse un onore adeguato. E il diritto le veniva dall'essere Regina di Gaeland. Tu non sarai mai un cavaliere, per quanto tu possa essere brava a combattere, mentre ora io ho questo onore e posso marciare in processione nei giorni sacri indossando gli speroni e il mantello da cavaliere, e il mio popolo mi onora come deve. Se venissi nel Gaeland, dovresti procedere dietro di me, perché sei soltanto una principessa e non un cavaliere.» «Tua madre è regina del Gaeland perché vedova del suo re» lo corresse Elizabeth, «e non aveva nessun diritto di nominarti cavaliere. Soltanto Re Richard, tuo signore sovrano, ha questo privilegio, e ritengo saggio che tu gli chieda di ripetere la cerimonia, in modo che sia onorevole e vera. Se lui vorrà farlo, naturalmente... e se ha sentito i tuoi commenti, credo che sarà rimasto stupito dal tuo concetto di cavalleria.» John alzò il tono di voce, in modo che lo zio potesse sentirlo. «Mio signore zio, mia cugina Elizabeth sostiene che il cavalierato che ho ricevuto dalle mani di mia madre la Regina Renee non è un giusto segno di cavalleria. Di conseguenza, richiedo che tu corregga l'errore di mia madre e che mi attribuisca subito il titolo di cavaliere.» Richard, che aveva sentito l'intera conversazione, aveva il sangue che gli pulsava con violenza in tutto il corpo, al punto che lo udiva ronzare negli orecchi e cominciava a temere che potesse scoppiare dalle vene e ucciderlo con un attacco apoplettico. Come aveva osato quella stolta donna nominare cavaliere suo figlio senza prima consultare il suo signore, il Re di Englene?... E come osava suo figlio deridere Elizabeth per il fatto che lei non avrebbe mai potuto ottenere il cavalierato... e come osavano quei due sedere alla sua tavola, con la compiaciuta convinzione che Englene sarebbe stato loro? La luna si sarebbe tinta tre volte di blu prima che lui concedesse il cavalierato, il suo regno o sua figlia a John! Il re trasse un profondo respiro e si alzò in piedi, spingendo indietro la sedia così bruscamente da farla cadere al suolo, con un rumore violento che produsse un immediato silenzio nella sala. «Miei signori e mie signore di Englene» disse allora il re, «udite le parole di Re Richard. Come è mio diritto in qualità di Re di Englene, io ora dichiaro che questa stessa notte si terrà la somma e santa cerimonia del cavalierato, in cui io renderò la mia giusta, amata e unica figlia Elizabeth cavaliere dell'Ordine del Calice d'Argento. Questa è la mia volontà e la mia pa-
rola. Così possa essere.» Il silenzio si protrasse nella sala. Nessuna donna in tutta la storia di Englene, se non nella storia del mondo, era mai stata nominata cavaliere. I cortigiani guardarono verso il loro re: la sua parola era effettivamente legge, e lui aveva potere di vita o di morte su ognuno dei presenti. Quindi come marionette mosse dai fili, i nobili di Englene si alzarono in piedi, uno dopo l'altro e gridarono a una voce: «Salute, salute al nuovo cavaliere Elizabeth. Così possa essere!» CAPITOLO NONO Il sole del mattino batteva fastidioso sulla testa della Principessa Elizabeth mentre lei lasciava a cavallo la Torre di BrynGwyn per partecipare alla processione che si sarebbe snodata fino al fiume Theames. Elizabeth era attorniata dai cortigiani del padre, dai ventiquattro notabili di Lundene e dai cavalieri della processione regale, splendidamente abbigliati, e il gruppo era accompagnato dalla musica delle trombe e dei tamburi mentre la principessa, ora Ser Elizabeth, percorreva le strade della capitale paterna. Il viso sorridente della ragazza mascherava il suo effettivo stato d'animo: i raggi di sole le battevano sulla testa come martelli sull'incudine di un fabbro, gli occhi le bruciavano per la mancanza di sonno e lo stomaco le borbottava per la quantità eccessiva di birra bevuta a colazione. La colazione era stata un errore: Elizabeth aveva supposto che una buona quantità di birra e di manzo l'avrebbe aiutata a svegliarsi, dopo la lunga notte di veglia nella cappella di BrynGwyn e dopo l'elaborata cerimonia a cui si era sottoposta all'alba e che aveva fatto di lei un cavaliere. La pelle le brillava, rosea, per il bagno rituale a cui suo padre e gli altri cavalieri dell'ordine l'avevano sottoposta nelle segrete, e sulla sua fronte spiccava ancora la macchia dell'olio con cui l'Arcivescovo Aleicester l'aveva unta per benedirla e per invitarla ad essere un buon cavaliere. Nel complesso, Elizabeth si sentiva stanca, oppressa dalla nausea e piuttosto ubriaca, ma aveva assolto il suo dovere nei confronti del popolo, presentandosi con viso allegro ed esuberante. Sfortunatamente, questa non era la fine dei suoi doveri. Adesso avrebbe dovuto affidare White Surrey a un servitore e salire sulla barca reale, per poi discendere il fiume, accompagnata dalle barche della corte paterna, e toccare terra al Palazzo di Witchdame. A quel punto, sarebbe montata nuovamente a cavallo ed avrebbe ripreso la trionfante processione, questa
volta in direzione del campo per tornei del palazzo, dove avrebbe indossato l'armatura ed avrebbe giostrato con chiunque avesse voluto sfidarla. La ragazza non guardava con entusiasmo agli eventi della giornata: mentre scendeva i gradini del molo, rispondendo con cenni del capo agli applausi del popolo, si sorprese a sperare che il fiume non fosse troppo agitato, e che la barca reale non subisse un'eccessiva quantità di scossoni. Il mal di mare sarebbe stato la goccia che avrebbe fatto traboccare il vaso. La barca le dondolò sotto i piedi e il suo scudiero, il giovane Tom Seymour, si protese per prenderle la mano e sorreggerla. Elizabeth si lasciò accompagnare al posto riservatole, al centro dell'imbarcazione, e diede il segnale di staccarsi dal molo. «Portami un po' di vino, Tom» disse quindi, con voce stanca, asciugandosi con un fazzoletto di seta bianca le gocce di sudore freddo che le imperlavano la fronte. «E che sia un buon vino forte del Reno. Ho bisogno di qualcosa che mi assesti lo stomaco.» Seguì con lo sguardo l'avvenente giovane biondo mentre questi le portava il vino in una coppa dorata e gliel'offriva come richiedeva il protocollo, inginocchiandosi dinanzi a lei. Elizabeth accettò la coppa e allungò una mano per arruffare i riccioli biondi di Tom, il figlio minore del Duca di Somerset. Seymour sorrise alla sua signora. «Che ne dici, Tom, pensi che quello di oggi pomeriggio sarà un buon torneo? Per quanto mi riguarda, preferirei essere al sicuro nel mio letto... ma questa mascherata deve continuare, anche se mi vengono in mente molti modi migliori e più tranquilli in cui avrei potuto festeggiare il mio compleanno.» «L'ultima volta che ho visto il tuo scudo, appeso all'albero di Artù, esso era ricoperto di sfide. Avrai una giornata intensa, ed è un bene che il sole non tramonti prima delle otto o delle nove di sera, altrimenti non riusciresti mai a sbrigare tutti gli incontri in programma. Buckingham ti ha sfidata a uno scontro alla spada, Strafford a spezzare con lui almeno venti lance; Il Conte di Oxford ha presentato una sfida a giostrare con lui, e questo è un confronto che attendo con impazienza, mia signora, perché non ho ancora visto uno scudo con movimento a orologio andare in pezzi quando viene colpito, e devo dire che si tratta di un'innovazione interessante. Inoltre, Henry Fitzroy, il Duca di Richmond, desidera cimentarsi con te nella corsa dei bastoni. Il bastardo reale ha promesso di adornare il suo elmo con un numero di piume superiore al tuo, anche se tu dovessi coprirti di tutte le piume di struzzo d'Arabia!»
Elizabeth rise per la spropositata vanità dello zio e annuì in segno di approvazione per quel programma. «Che ne diresti se sfidassi mio cugino John a misurarsi con me? Ricordo che quando eravamo piccoli lo facevo sempre volare come una trottola per tutto il campo dei tornei, e dubito che sia migliorato. Oppure ritieni che una simile sfida sarebbe poco cavalleresca da parte mia?» «Ci si aspetterà una sfida del genere da parte tua» replicò Tom, dopo aver riflettuto sull'aspetto cavalleresco del problema. «Dopo tutto, lui è tuo cugino, ed a corte ci sono molti che lo vedrebbero volentieri anche come tuo consorte. Ritengo che un confronto armato da cui lui esca sconfitto servirebbe a dimostrare che non è degno di te: in effetti non sarebbe molto cavalleresco, ma sarebbe una buona mossa politica, mia signora. Devo provvedere a organizzare la cosa?» «Sì. E accertati che il tipo di confronto che organizzerai, quale che sarà, faccia fare a me la migliore figura possibile, ed a John la peggiore. Ah! Ho pronunciato i miei voti di cavaliere meno di tre ore fa e già sto cercando un modo per aggirarli! Mia madre sarebbe davvero scioccata dal mio comportamento.» «Tua madre era un'esperta in fatto di politica, mia signora, e credo che approverebbe» replicò lo scudiero. Una figura ammantata che sostava in un angolo della barca abbassò il cappuccio, rivelando i capelli color rame e le guance grassocce del mago Menadel. «Ritengo che il giovane Seymour abbia ragione. A corte ci sono troppi che vedono con favore John nei panni del futuro re di Englene. La cavalleria consiste in parte nel fare il bene del popolo, ed io non credo che permettere a John di diventare re di Englene significherebbe fare del bene al tuo popolo. In realtà, penso che non farebbe bene a nessuno, tranne che a John.» L'ironia del mago strappò una risata a parecchi cortigiani che si trovavano sulla barca: durante la sua breve permanenza ad Englene, John era riuscito a rendersi poco popolare, e più di uno fra i cortigiani cominciava già ad avere seri ripensamenti in merito all'opportunità che il giovane futuro re del Gaeland diventasse anche il futuro re di Englene. «Sul tuo scudo, inoltre, mia signora, figura anche una grande mischia in cui almeno trenta cavalieri si sono offerti di affrontarti in un combattimento di massa.» Tom scoppiò a ridere e aggiunse: «Conoscendo tuo padre, avrà probabilmente preso delle precauzioni per garantire a priori l'anda-
mento della mischia. Essa costituisce un ottimo modo per dimostrare la tua abilità con le armi, ma una tua sconfitta non tornerebbe certo a tuo vantaggio o a quello dei cavalieri coinvolti.» Elizabeth si tormentò con le dita il labbro inferiore, prendendo in considerazione la possibilità che la mischia fosse stata effettivamente truccata. Un evento del genere era tradizionale nei tornei di compleanno, e serviva ad esibire l'abilità dei vari partecipanti, come cavalieri e nel combattimento con mazza e spada, ma costituiva anche un divertente combattimento fittizio. L'idea di poterlo vincere immeritatamente disturbò Elizabeth, perché sarebbe stata un'altra occasione d'infrangere i propri voti di cavaliere subito dopo averli pronunciati. «Tom, avverti mio padre che la mischia non dovrà essere truccata. Voglio affrontare quei cavalieri in uno scontro leale. Inoltre, avverti i cavalieri coinvolti che ricompenserò qualsiasi uomo che combatterà bene e con tutte le sue forze, mentre riterrò privò di vera cavalleria e vigliacco chiunque si terrà a freno soltanto perché io sono una principessa o anche solo una donna.» Elizabeth si appoggiò allo schienale della sedia coperta di cuscini e chiuse gli occhi, cercando di concedersi qualche minuto di riposo durante il resto del tragitto fino al Palazzo di Witchdame. La marea non era ancora cambiata e il Theames era relativamente calmo, cosa di cui Elizabeth fu grata. Il vino le aveva placato lo stomaco, e lei si accorse di avere fame... ma capì che cercare di mangiare qualcosa sulla barca reale sarebbe equivalso a provocare un disastro, perché la cosa peggiore per la sua reputazione sarebbe stata proprio quella di farsi vedere dai cortigiani che occupavano le altre barche mentre vomitava oltre la murata. Quando si avvicinarono al palazzo, Elizabeth scorse una fitta folla in attesa sui gradini che scendevano fino all'acqua: suo padre e l'Arcivescovo Aleicester vennero ad accoglierla quando lasciò la barca, poi il re la prese per mano e la condusse verso due stallieri che tenevano pronto un focoso cavallo. La cittadinanza levò un applauso di approvazione quando il re intrecciò le mani per farle da staffa. Elizabeth rivolse al padre un profondo inchino, poi puntò un piede calzato in verde sulle sue mani e balzò in sella, procedendo a dar sfoggio della propria abilità di cavallerizza mentre Re Richard e gli altri cortigiani montavano a loro volta e si preparavano alla processione fino al campo del torneo. L'intera area riservata al torneo era pervasa dal profumo di frutta che
cuoceva nello sciroppo, di pane appena sfornato, di polli che arrostivano all'aperto. A un'estremità del campo sorgevano parecchi padiglioni adibiti a cucine, vicino ai quali alcune carcasse di bue giravano sugli spiedi energicamente manovrati dagli sguatteri. L'aria era intrisa di un odore misto di fumo, di polvere, di muschio e di sterco di cavallo, ed in essa echeggiavano il chiocciare dei polli, il pianto di qualche neonato, i nitriti dei cavalli e i rumori metallici delle armature che venivano messe insieme, suoni a cui facevano da sottofondo i cinguettanti gridolini di piacere delle dame e le voci profonde dei nobili di rango minore che scommettevano su questo o su quel contendente. Si trattava di quell'insieme di cose che componevano un torneo: il sudore, la pompa, la polvere, i broccati sgargianti, lo sterco di cavallo e i polli che arrostivano. Elizabeth raggiunse il suo padiglione, che era stato alzato vicino al campo per i tornei. Era una grande tenda verde dai fianchi a strisce dorate, agitati dalla brezza; accanto ad essa, su un palo, sventolava la bandiera personale della principessa, su cui spiccavano in campi separati lo stemma paterno e quello materno. Tom Seymour, assistito da alcuni paggi, aveva approntato la sua armatura, in nero e oro, fabbricata a Damasco. Con l'aiuto dei paggi, Elizabeth si liberò dell'abito da amazzone, rimanendo con indosso una camiciola di fine percalle e un paio di aderenti calzoni di lino. I paggi si affrettarono ad affibbiarle addosso un'imbottitura che avrebbe protetto la sua pelle dalle asperità dell'armatura poi, un pezzo dopo l'altro... schinieri, corazza, gorgiera e coperture per le spalle... la rivestirono con l'armatura per giostrare. Le piume di struzzo furono fissate sull'elmo e infine, con reverenza, Tom le sistemò la sopravveste rossa e blu che recava lo stemma di Englene, fermandola in vita con una pesante cintura d'oro e inginocchiandosi poi per affibbiare ai talloni gli speroni d'oro, simbolo del cavalierato. Con lo scudo rotondo stretto in pugno, Elizabeth era adesso pronta per la lizza. La principessa uscì dal padiglione e si accostò agli stallieri, in attesa accanto al suo destriero già bardato. Il sauro era calmo, sapeva già cosa avrebbe dovuto affrontare in quella giornata, perché in precedenza ce n'erano state molte altre simili. Elizabeth assestò una pacca sulla piccola area del collo dell'animale lasciata libera dalla bardatura, poi montò in sella con l'aiuto del suo scudiero e di un cavalletto di legno. Squillò una tromba e, lentamente, una dozzina di paggi sbucò da dietro le tribune, portando il grande padiglione mobile che avrebbe coperto come un baldacchino Elizabeth mentre prendeva posto per entrare in lizza.
La ragazza si arrestò ad un'estremità del campo ed attese che Thomas Devereaux, Conte dì Essex e Sommo Maresciallo per le Lizze di Compleanno, annunciasse il primo scontro. Si trattava di venti lance da spezzare, fra la principessa e Robert Talbot, Duca di Strafford. Dalle tribune si levarono molti applausi quando Elizabeth e il duca lasciarono i rispettivi padiglioni; la ragazza, che aveva ormai dimenticato lo stomaco sottosopra e la mancanza di sonno, era di ottimo umore mentre si assestava l'elmo ed accettava da Tom la sua prima lancia. Si sarebbe divertita! E si stava ancora divertendo parecchie ore più tardi. Elizabeth si era dimostrata una valida avversaria e un degno cavaliere, nonostante le iniziali titubanze, e ormai la giornata si avviava alla conclusione, mentre un accenno di crepuscolo si profilava nell'aria. Ci sarebbero stati ancora due incontri, poi tutti sarebbero tornati a palazzo per altri banchetti, celebrazioni, danze, mascherate e scherzi. Nel complesso, era stato un bel compleanno, ed Elizabeth si sentiva molto soddisfatta di sé. Doveva ancora superare lo scontro con il Principe John e la mischia. Ebbene, era arrivato il momento di dichiarare la natura del confronto fra lei e il principe, e questa parte non sarebbe stata divertente, perché era una cosa che affrontava per motivi freddi e spregevoli, a cui si univa il disagio che Elizabeth ancora avvertiva nell'infrangere i voti cavallereschi. Montata a cavallo, avanzò e salutò Lady Anne di Pemberly che, circondata dalle sue dame di compagnia, sedeva sul trono che spettava alla sua carica di Regina dell'Amore e della Bellezza. Elizabeth rivolse alla dama un cenno di saluto, e obbligò il cavallo ad un aggraziato inchino. «Se non ti dispiace, mia signora, vorrei confrontarmi con il Principe John di Gaeland. Vorresti concedermi l'onore del tuo consenso?» «Lo concedo a Vostra Grazia con tutta la mia buona volontà» assentì graziosamente Lady Anne. «Vorrei però sapere quale genere di impegno cavalleresco intendi stringere con tuo cugino il principe. Che cosa vorresti che facesse, e cosa farai tu per lui?» «Sul mio giuramento di cavaliere, mi impegno a dargli uno splendido anello con rubino se riuscirà a disarcionarmi.» Dalle dame di compagnia che circondavano Anne si levò un coro di sussulti, perché era una cosa insolita sfidare qualcuno a disarcionare l'avversario nel corso di una giostra. Di solito, si riteneva sufficiente spezzare qualche lancia, quando si trattava di piacevoli scontri che, come questo, sì tenevano in occasione di qualche
ricorrenza. Una caduta del genere poteva costare la frattura di qualche osso. Di qualche osso o anche del collo. «Inoltre» proseguì con disinvoltura la principessa, «gli darò un bel destriero, un'armatura completa, uno scudo e una lama incantata delle streghe silvane, se riuscirà a disarcionarmi.» Era un dono insolitamente generoso, adeguato alla natura della sfida. «E cosa chiederesti a lui» domandò Lady Anne, «se dovessi riuscire a disarcionare Sua Grazia il principe?» «Mia signora, non chiederei altro che un ramoscello d'erica per il mio cuscino.» Un coro sparso di sonori applausi si levò dalle tribune quando gli araldi riferirono alla popolazione le parole della principessa: invero, era un'offerta assai cavalleresca. Applaudirono tutti, tranne il Principe John. Questi non aveva partecipato a nessuno degli eventi della giornata, ed era rimasto seduto sulle tribune accanto a sua madre, mangiando confetti, bevendo vino in abbondanza e accarezzando una servetta disponibile che gli sedeva obbediente sulle ginocchia. Il principe non apprezzava l'agitazione del campo dei tornei e non amava l'esercizio fisico. Un improvviso, astuto sorriso gli apparve sul viso: non aveva portato con sé né armatura né destriero, quindi come poteva essere sfidato? Si alzò in piedi ed effettuò ad alta voce una dichiarazione in quel senso, rivolto alla folla, ma Re Richard fu pronto a trovare una semplice soluzione. «Siamo circondati da almeno una dozzina di padiglioni, tutti abbondantemente forniti di armature, cavalli e ogni altro oggetto che sia necessario per giostrare. Fra tutto questo, riuscirai certamente a trovare l'armatura, il cavallo e l'equipaggiamento di cui hai bisogno. Se poi le tue diligenti ricerche non avranno avuto successo, sono certo che la Principessa Elizabeth sarà tanto graziosa da accettare che tu declini la sfida.» In questi termini, John non poteva rifiutare il confronto quindi, borbottando, andò a prepararsi per la giostra. Mentre il principe era impegnato nella ricerca di un'armatura e di un cavallo, i trombettieri entrarono nel campo e lanciarono il segnale che preannunciava una grande e maestosa sfida; un araldo interamente vestito in oro si fece quindi avanti e srotolò il documento della sfida, rivestito in seta. Il proclama dell'araldo informò tutti i presenti che sei cavalieri, dopo grandi spese e notevoli pericoli, erano riusciti a procurare un grosso e feroce drago... e che questo drago si era offerto di combattere contro la Principessa Elizabeth per l'onore di Englene. Se fosse riuscita a sconfiggere il drago, la principessa avrebbe ricevuto in dono una delle sue uova, come
segno della stima che la possente creatura nutriva per un cavaliere tanto valoroso. Le trombe lanciarono nuovamente il segnale della sfida ed Elizabeth accettò il confronto con un grazioso discorso, consapevole che quella era soltanto un'ennesima forma di pompa regale. Gli entusiastici applausi della folla si trasformarono in grida divertite quando un enorme drago in seta e legno color bronzo, manovrato dai sei suddetti cavalieri, scese in lizza ringhiando e sbuffando fuoco. Elizabeth si assestò l'elmo e segnalò al cavallo di procedere. Con estremo realismo, il drago prese a spostarsi di qua e di là per il cortile, costringendo Elizabeth a qualche sforzo per inseguirlo. Era evidente che per uccidere la bestia avrebbe dovuto colpirla con la massima energia sullo scudo decorativo appeso al collo, ed Elizabeth passò due volte accanto al drago per studiare il modo migliore di sferrare il colpo senza recare danno ai cavalieri che avevano organizzato uno spettacolo tanto divertente. Alla fine, fu. pronta ad affrontare la "spaventosa fiera". Abbassò la lancia, mandò un bacio al padre con la mano guantata e, calata la visiera, si lanciò all'attacco. Il suo cavallo attraversò al galoppo il terreno del torneo, sollevando con gli zoccoli grandi nubi di polvere e sbuffando con lo stesso vigore del finto drago, poi indurì i muscoli, pronto a sostenere il contraccolpo dato dall'impatto della lancia. Sentendo che il cavallo era pronto, Elizabeth si abbassò sulla sella e frantumò la propria lancia nel centro esatto dello scudo appeso al drago. La folla applaudì e gettò fiori quando il drago "morì" in maniera estremamente drammatica, sferzando la polvere con la lunga coda e lasciando scaturire qualche residuo anello di fumo dalle narici. Due stallieri si precipitarono ad aiutare Elizabeth a smontare, poi Thomas Seymour le si inginocchiò accanto e le porse una spada a due mani, che la ragazza usò per decapitare il finto drago, offrendo poi la testa in legno dorato e satin alla divertita Lady Anne di Pemberly. Infine, la principessa attese che le venisse consegnato il dono promesso. Da un padiglione laterale sbucarono i sei cavalieri, che si erano intanto liberati del fardello della pelle del finto drago; in mezzo a loro, era teso un drappo di broccato su cui riposava un grosso uovo dorato. Con reverenza, i cavalieri deposero l'uovo ai piedi di Elizabeth e porsero alla ragazza una spada di legno, dicendole di battere un colpetto sul guscio. Sotto il leggero colpo, il guscio si ruppe in due e fra i frammenti del falso uovo apparve un drago vero. La creatura era lunga circa una quarantina
di centimetri, ed era una di quelle misteriose lucertole di fuoco che si diceva dimorassero nel cuore del paese delle streghe silvane. Con un grido di gioia, Elizabeth si chinò e prese l'animale verde sul polso, come se fosse stato un falcone. La principessa accarezzò con tenerezza il dorso della creatura con la mano guantata, e sospirò perché sapeva cosa doveva fare di quel raro tesoro. Si eresse quindi in tutta la sua altezza e si diresse con grande dignità verso la tribuna occupata da suo padre, dove piegò elegantemente a terra un ginocchio e, sollevato il braccio, offrì la bestiola al sovrano. «Mio signore» disse, «ricevi da me questo pegno della mia stima nei tuoi confronti, ed accetta dalle mie mani questa bestia regale come simbolo della tua stessa grandezza.» «Mi hai reso un grande onore, figlia mia. Accetto questo tuo dono e dichiaro qui, in presenza di tutti, che puoi chiedermi tutto ciò che vuoi. Mi impegno a concederti qualsiasi cosa, fosse anche metà del mio regno.» Elizabeth sapeva fin troppo bene che non era il caso di pretendere metà del regno paterno, in quanto quella era soltanto una frase simbolica. D'altro canto, aveva già deciso quale regalo desiderava per il suo compleanno. «Mio signore, ciò che ti chiedo non è che un'inezia, e si tratta forse del più brutto oggetto del regno. Io chiedo che il tuo buffone, Jackie Somers, mi sia dato come servitore finché uno di noi due avrà vita.» Re Richard diede il suo assenso, pensando fra sé che si era trattato di una scelta eccellente. «Jackie, Jackie, hai sentito?» domandò il re, guardandosi intorno per scoprire dove si fosse ficcato il buffone. «Somers, vieni fuori, dovunque tu sia, ho degli ordini per te.» Il trono di Richard prese a ondeggiare e a sobbalzare poi, da sotto di esso e passando in mezzo alle gambe del sovrano, Jackie emerse contorcendosi come un piccolo e multicolore demone appena sbucato dalla Regione Infera, balzando poi in piedi e inginocchiandosi in atto di obbedienza dinanzi al suo re. «Jackie» disse Richard, «mia figlia Elizabeth ha chiesto che tu le sia dato come vassallo. Io ho accettato la sua richiesta, quindi ora ti consegno a mia figlia, per tutto il tempo in cui uno di voi due avrà vita. Cosa rispondi?» «Mio signore, graziosissimo Re Richard» replicò Jackie, «è con occhi colmi di lacrime che lascio il tuo servizio, perché esso è durato assai a lungo. È però con molto piacere che passo al servizio di tua figlia Elizabeth, e
sarò il suo vassallo e quello dei suoi eredi finché avrò vita.» Includendo anche gli eredi di Elizabeth, Jackie aveva reso più solenne il proprio giuramento, oltre a dimostrare l'estrema considerazione in cui teneva la principessa. Il buffone rivolse quindi un profondo inchino al sovrano, che non era più il suo padrone, si depose un bacio sulla mano e la porse ad Elizabeth, che la strinse fra le proprie in accettazione del suo giuramento di fedeltà. «Jackie Somers, ora sei un mio vassallo, e da oggi porterai la livrea verde e oro della principessa di Englene.» La folla applaudì le parole del re, della principessa e del giullare, tutte formulate secondo il più alto stile cavalleresco. Quello svoltosi fra i tre era stato un dialogo permeato di onore, e spettacoli del genere erano molto apprezzati da tutti. Le trombe squillarono ancora, e gli araldi annunciarono il confronto fra la Principessa Elizabeth di Englene e il Principe John di Gaeland. Il campo del torneo era stato appena decorato nuovamente con gli stendardi dei due avversari, e quello che stava per verificarsi era sotto molti aspetti l'evento più atteso. Elizabeth e John lasciarono i rispettivi padiglioni e si prepararono allo scontro, ma subito la folla osservò che c'era qualcosa di strano nell'equipaggiamento del principe. L'armatura presa a prestito gli calzava abbastanza bene, la lancia era accettabile per forma e dimensioni, e tutto sembrava conforme alle regole... tranne la sella. In un angolo dimenticato di qualche baracca per i finimenti del Palazzo di Witchdame, il Principe John era riuscito a scovare una vecchia sella da equitazione, di quelle che si usavano per insegnare i primi rudimenti ai bambini. Il pomo e l'arcione posteriore aderivano molto al suo corpo, e la sella circondava l'armatura di John in maniera così completa che il principe era al sicuro su di essa come un tappo infilato nel collo di una bottiglia di vino. Sarebbe stato impossibile sbalzarlo da cavallo e, se era vero che non esistevano regole contro l'uso di una sella del genere, perché non erano mai state necessarie, era però altrettanto vero che quella costituiva una grave infrazione del protocollo della cavalleria. All'altra estremità del campo, Elizabeth non si era accorta dell'equipaggiamento adottato dal cugino, intenta com'era a cambiare uno dei guanti che sembrava difettoso e a infilare quello prescelto. Fu Tom Seymour che si affrettò a richiamare l'anomalia alla sua attenzione. Elizabeth girò la testa di scatto e socchiuse gli occhi come avrebbe fatto
un falco pellegrino che avesse appena avvistato la preda, mentre la bocca le si serrava in una linea sottile. Come osava John fare una cosa simile? In questo modo non scherniva soltanto la serietà del confronto, ma si beffava anche di lei. Avrebbe dovuto provvedere a trattarlo come meritava, altrimenti sarebbe stata lei, Elizabeth, a diventare lo zimbello del torneo, in quanto avrebbe fatto la figura dell'idiota ai propri occhi, se non a quelli del popolo. Si sistemò sulla sella, piegò le ginocchia e le strinse contro i fianchi del cavallo, poi mise in resta con cura la lunga lancia ed abbassò la visiera dell'elmetto. Era pronta a giostrare. I due cavalli si lanciarono uno verso l'altro, ed Elizabeth tenne la propria lancia puntata contro la piastra di protezione di quella del cugino, accanto alla mano destra, perché da quel punto sarebbe partita la prima indicazione che lui si stava apprestando a disarcionarla. I due cavalli si avvicinarono maggiormente, ed entrambi i contendenti spianarono le lance, pronti a colpirsi, e fu allora che Elizabeth spostò la propria lancia di lato, più di quanto avrebbe fatto normalmente, in modo da allinearla con l'ascella sinistra di John. Il principe spronò selvaggiamente il cavallo per raggiungere Elizabeth e per dare all'animale un certo equilibrio in risposta all'impatto, ma Elizabeth fu più rapida. Colpì per prima e la sua lancia s'insinuò abilmente sotto il braccio del cugino: con un possente strattone del braccio irrobustito dall'esercizio, la ragazza sollevò di peso John di sella, come una mosca che si levasse dalla mano di uno scolaro, e impresse un movimento rotante che scagliò il principe al suolo con uno spaventoso scricchiolio dovuto ad ossa, piastre metalliche e terreno compatto che s'incontravano. Sollevata la lancia, Elizabeth si allontanò dalla forma prostrata, aspettando che gli araldi accorressero per verificare i danni riportati dal principe. Fu subito convocato un medico, e John venne trasportato fuori dal campo. Elizabeth attese che il principe fosse portato via, mentre il silenzio regnava sulle tribune. Non era riuscita a rompere il collo al cugino, ma forse gli aveva spezzato un paio di costole. Elizabeth obbligò il cavallo a inchinarsi prima verso la silenziosa tribuna alla sua destra, poi verso quella parimenti silenziosa alla sua sinistra, quindi a suo padre e infine a Lady Pemberly, poi fece voltare la cavalcatura e lasciò il campo di sfida. Nel suo padiglione, mentre cambiava armatura in previsione della mi-
schia, Elizabeth si accorse di essere sfinita. Non c'era stato nulla di piacevole nell'ultimo scontro; pur sapendo in cuor suo che in un primo tempo le era parso poco cavalleresco lanciare al cugino una sfida di quel genere, il comportamento di John era stato nettamente più scorretto del suo, lasciando sul suo onore una macchia che lei doveva in qualche modo rimuovere. Tom Seymour le portò una coppa di vino e una forma di fragrante pane bianco. «Mia signora, il mago Menadel desidera parlarti prima della mischia. Devo lasciarlo entrare?» «Sì, accompagnalo qui.» Menadel sgusciò nel padiglione e attese che Tom riempisse di nuovo la coppa di Elizabeth e ne procurasse una anche a lui. Menadel accettò il vino del Reno che gli veniva offerto e congedò lo scudiero con un cenno. «Vostra Grazia rammenta ciò di cui abbiamo discusso?» esordì Menadel. «Quel viaggio che devi fare? Sei ancora disposta a intraprenderlo?» «Più disposta che mai» replicò Elizabeth, asciugandosi il sudore dal viso con un panno di lino. «Dopo la mischia, intendevo chiedere a mio padre il permesso di partire per un'impresa, in nome del suo onore e del mio. Mi sento infangata da quanto è accaduto fra John e me.» «Penso che ti stai comportando piuttosto stupidamente con questa storia dell'onore. Ormai, nessuno presta più molta attenzione alla cavalleria. Oh, bene, forse durante il viaggio imparerai che i tuoi poteri possono essere utilizzati per qualcosa di più importante che spezzare una lancia con qualche nobile rampollo di corte. Stanotte, dopo il banchetto, indossa abiti da popolana e raggiungimi alla porta settentrionale, da dove partiremo per il nostro viaggio. Così possa essere.» «Così possa essere» ripeté Elizabeth, tendendo la mano al mago, che la strinse fra le proprie come sigillo dell'accordo. «Mia signora» chiamò d'un tratto la voce di Tom, dall'esterno del padiglione. «Gli altri sono quasi pronti per la mischia, ed io ho qui il tuo elmo a grata.» «Va', Menadel. Non devi indugiare qui troppo a lungo, altrimenti il popolo penserà che traffico con la magia per vincere la mischia... e per rispetto al mio giuramento, questa è una cosa che non farò mai. Non per questo scontro o per qualsiasi altro insignificante torneo. Riserverò la magia per cose più importanti.» Segnalò al mago di andarsene e gridò a Thomas di rientrare, mentre Menadel si congedava con un inchino. Thomas assestò il pesante elmo sferico sulla testa della sua signora e le
sistemò sul viso la griglia di ferro. Controllò quindi la piastra di acciaio che le proteggeva le dita della destra, per accertarsi che fosse ben fissata al guanto di metallo azzurrino, e infine aiutò la sua signora a raggiungere il cavallo fresco che l'attendeva fuori del padiglione. «Mia signora, c'è stato un cambiamento» avvertì Thomas. «Durante la mischia avresti dovuto affrontare in combattimento diretto il Duca Charles, ma Lady Anne ha chiesto che fosse tuo padre a guidare il contingente che si opporrà al tuo. È ovvio che Lady Pemberly desidera incoronare lui suo campione. Per amore della pace generale, mia signora, sarebbe meglio che tu lo lasciassi vincere.» Elizabeth si accigliò. Questo era proprio quello di cui aveva bisogno per coronare una giornata molto imbarazzante. Lady Pemberly si era certo data da fare, ma che fosse dannata se lei avrebbe ceduto ai desideri di Anne. Anche se era suo padre ed era il re, lei, Elizabeth, era una combattente migliore di lui... e se Richard sarebbe andato incontro alla sconfitta nell'affrontarla, che così fosse. Con l'aiuto di Thomas è di un paio dei suoi scudieri, la principessa montò in sella e accettò la smussata ascia da battaglia. Era pronta per la mischia, più che pronta: era interessante come l'irritazione servisse ad acuire la sua impazienza di dare inizio alla finta battaglia. La transenna usata per i tornei singoli era stata rimossa e in un ampio spazio fra due corde tese una di fronte all'altra c'erano due finti eserciti, ciascuno composto da trenta cavalieri. Con uno squillo di trombe e un rullo di tamburi, il re e la principessa avanzarono nel tratto di terreno libero fra i rispettivi contingenti e si strinsero la mano, giurando che la mischia sarebbe stata combattuta secondo lo spirito della cavalleria: non sarebbero stati permessi colpi sleali né l'uso della magia. Elizabeth sfruttò quei pochi minuti in cui rimase in disparte con il padre, approfittandone per mormorare: «Ho intenzione di vincere, sire, anche se so che non è questo il desiderio di Lady Pemberly. Questo è il mio giorno, ed a meno che tu non mi ordini di fare diversamente, io combatterò per vincere.» Richard, la cui testa era nascosta dalla visiera dell'elmo, si limitò ad annuire in segno di assenso. Era a disagio per la richiesta da parte della sua aspirante amante che lui scendesse personalmente in campo, perché era passato qualche tempo dall'ultima volta che aveva attivamente partecipato a combattimenti di quel genere. «L'unica cosa che ti chiedo, figlia, è di non farmi fare la figura dello stupido.»
Elizabeth strinse la mano paterna e tornò a prendere posizione con il suo piccolo esercito di cavalieri. La mischia era formale e vincolata da regole prestabilite come ogni altro evento di quel giorno, e i colpi venivano accuratamente contati e soppesati, mentre una particolare attenzione era riservata all'abilità nel manovrare il cavallo. Alcuni arbitri giravano di continuo intorno al gruppo impegnato nella mischia, pronti a notare qualsiasi colpo che potesse essere pericoloso o poco cavalleresco. Lo scontro procedette fra il divertimento generale, fra uno scambio di colpi assestati e incassati con cautela, mentre risa e allegria pervadevano le tribune. Strilli di entusiasmo accoglievano un buon attacco o la parata di qualche difficile fendente: la nobiltà di Englene stava assistendo all'esecuzione di una forma d'arte, nel crepuscolo di un giorno estivo, con la sensazione che forse non avrebbe mai più visto uno spettacolo bello e spontaneo come quello che si stava ora svolgendo davanti ad essa. Si avvertiva l'alito di un cambiamento imminente, nell'aria, di un passaggio del potere da un uomo di mezza età a una giovane donna, e tutti i presenti, nell'osservare l'abile prova offerta dalla principessa, seppero che alla fine sarebbe stata lei a vincere. Sul suo palco, Lady Pemberly fissò la polvere e il caos della mischia con la consapevolezza che Richard non avrebbe vinto: la maggior parte dei suoi cavalieri erano simbolicamente morti, ed Elizabeth e i suoi avevano la vittoria in pugno. Anne serrò le mani intorno ai braccioli del suo trono fittizio: nel corso dei festeggiamenti per il compleanno della principessa c'era stato ben poco che le avesse dato soddisfazione e, a meno che Anne non fosse riuscita a sconfiggerla generando un principe, Elizabeth sarebbe diventata regina... una regina alla cui corte non ci sarebbe stato posto per Lady Anne Heywood di Pemberly. Un grido da parte di un arbitro annunciò la morte dell'ultimo cavaliere rimasto accanto al re, poi Elizabeth segnalò ai suoi uomini di indietreggiare, in modo da lasciare lei e suo padre soli, faccia a faccia. I due iniziarono il confronto con cautela, aggirandosi a vicenda ed usando splendidamente scudo e ascia. Anche se fuori forma, il re era stato un notevole atleta, ai suoi tempi, ed ora attinse da chissà dove una nuova riserva di energia per ingaggiare un acceso combattimento con sua figlia, mentre gli arbitri si avvicinavano maggiormente per osservare con cura ogni singolo colpo. Il re, però, si stava stancando in fretta, e presto iniziò a spostare più lentamente lo scudo, ad eseguire parate meno perfette.
Elizabeth, invece, combatteva come se fosse ancora fresca. Il suo braccio manovrava con energia instancabile l'ascia smussata, lo scudo scattava con prontezza, le sue difese erano perfette, e il colpo che sferrò al di sotto dello scudo paterno, mandando l'ascia a picchiare con fragore contro la corazza, fu veloce come il morso di un serpente. Si era trattato di un colpo leale e ben eseguito, e il re lo riconobbe come tale. Gli arbitri comunicarono l'esito del confronto agli araldi, che a loro volta lo proclamarono a gran voce, a beneficio della folla. La Principessa di Englene aveva vinto la mischia. Richard invitò con un cenno la figlia ad accompagnarlo dall'altra parte del campo, verso il padiglione della regina dell'Amore e della Bellezza. Quando si avvicinarono, Anne si alzò in piedi. «Mia signora» disse il re, «ti presento il tuo campione, invitto. Consegna il simbolo della vittoria.» Elizabeth smontò di sella, e gli stallieri prelevarono il suo cavallo mentre lei si sfilava l'elmo e lo porgeva a Tom Seymour, inginocchiandosi poi dinanzi alla furibonda Lady Pemberly, che depose sul suo capo la coroncina di foghe dorate di alloro e le mise al collo la catena di campione, in oro e rubini. Era giunto il momento in cui era consuetudine che il nuovo campione chiedesse una concessione. In genere, si trattava di qualche frivola pretesa, come il dono della soprammanica di una dama o di un fiore o di qualche altro pegno del genere. Invece di rivolgersi a Lady Pemberly, però, Elizabeth si alzò e si accostò a suo padre, ancora in sella, posando una mano sulla briglia e sollevando lo sguardo su di lui. «Mio signore e re» disse, «imploro da te una concessione. Permettimi di onorare questo torneo, il titolo di campione e la battaglia così coraggiosamente sostenuta partendo per un pellegrinaggio. Vorrei raggiungere ciascuno dei quattro angoli del tuo regno per compiere là qualche impresa d'armi o qualche buona azione, in modo che il mio onore e il tuo ne siano esaltati in tutti i luoghi dove le buone regole della cavalleria sono osservate. Non te lo chiedo soltanto come tuo campione, ma anche come tua devota figlia.» Richard parve perplesso e sconcertato, in quanto non si era aspettato nulla di simile, e per un momento non seppe cosa rispondere. Elizabeth lo aveva messo nella condizione di non sapere che decisione prendere... una cosa che non gli andava a genio... e tuttavia la sua richiesta, per quanto terribilmente antiquata, non era insolita, tanto che se lei fosse stata soltanto il
figlio di qualche duca, il suo assenso sarebbe stato immediato. Ma Elizabeth era la sua unica erede, e se l'avesse persa non sarebbe rimasto nessuno che potesse occupare dopo di lui il trono di Englene, a parte John, Principe di Gaeland... e quella era un'eventualità assai sgradevole. Mentre Richard meditava su come rispondere, Anne decise di intervenire e di ottenere un certo vantaggio per le sue macchinazioni. «Mio signore e re» disse, «come regina dell'Amore e della Bellezza, anch'io ti chiedo di onorare il desiderio della principessa. Un'impresa del genere è una cosa valida, ed aiuterebbe la principessa a superare il dolore per la perdita della madre.» Anne esibì un dolce sorriso su un viso che era una maschera di preoccupazione per il benessere di Elizabeth. «Non posso rifiutare una richiesta presentata da due dame tanto avvenenti» si arrese il re. «Molto bene, figlia, parti per questo tuo pellegrinaggio nei quattro angoli del mio regno, ma portami un dono da ciascun punto cardinale, qualche piccolo simbolo della pace e della prosperità della mia terra.» «Ora, mio popolo, mio buon popolo» gridò ad alta voce, rivolto alle tribune, «la giostra è terminata. Torniamo a palazzo per festeggiare, banchettare e danzare in onore di mia figlia e di Lady Anne di Pemberly, Regina dell'Amore e della Bellezza.» CAPITOLO DECIMO Il Palazzo di Witchdame era illuminato a giorno dalle torce fissate alle pareti e dall'enorme corona di candele appesa al soffitto della sala principale. Il banchetto si era già concluso, ed ora anche danze e baldoria erano prossime alla fine. Elizabeth si sorprese a desiderare di poter andare a letto: durante tutti gli intrattenimenti era rimasta eretta, orgogliosa, sorridente, anche se era tanto indolenzita e stanca da riuscire a stento a tenere gli occhi aperti. Trovò comunque qualche minuto per sgusciare dietro un arazzo e in un'alcova, dove trovò il mago Menadel. «Come faremo a procurarci cavalli e provviste, Mena-dei?» chiese Elizabeth, in tono quieto. «Avevi proprio ragione riguardo a mio padre: sta già impartendo gli ordini necessari alla formazione di un'immensa carovana di animali da soma, soldati e tutto il resto. Però, non so come impossessarmi degli animali che ci servono senza dare nell'occhio.» «Vostra Grazia non tema, mi occuperò io delle provviste» replicò il ma-
go, con sicurezza. «A mezzanotte raggiungimi alla porta settentrionale: partiremo di là. Non dire a nessuno, tranne che a tuo padre, che vieni via con me, ed è meglio che anche con lui ti limiti a un biglietto. A volte il tuo povero genitore ripone troppa fiducia in chi gli è caro, e la Pemberly ha già mostrato un eccessivo interesse nei tuoi piani per il viaggio, per cui temo che possa tramare qualcosa.» Menadel sbirciò oltre l'arazzo, per controllare che nelle vicinanze dell'alcova non ci fosse nessuno. «Ora va', prima che diamo nell'occhio. E ricordati, a mezzanotte!» Il mago si guardò ancora intorno nervosamente, poi oltrepassò l'arazzo e si addentrò nell'affollato salone, svanendo in mezzo ai cortigiani. Elizabeth indugiò nell'alcova per riprendere fiato e per riflettere su quello che doveva fare per lasciare il palazzo e incontrarsi con il mago a mezzanotte. Impegnandosi a procurare cavalli e provviste, questi le aveva semplificato le cose, per cui tutto quello che le rimaneva era trovare vestiti adeguati. Abbigliamento da popolana, aveva detto Menadel... rammentò gli abiti da zingari che i giovani di corte avevano indossato in occasione del compleanno di Lady Pemberly e si chiese se potevano ancora essere nella stanza del Maestro delle Feste. Era possibilissimo, e già gli invitati stavano rientrando nel salone con indosso i costumi più fantastici: da zingari, da mori, da pirati, da contadine. Annuendo fra sé, Elizabeth lasciò l'alcova, sfruttando come copertura il trambusto procurato dall'arrivo degli ospiti in maschera. Non si accorse che alle sue spalle, nell'ombra profonda dell'alcova, si annidavano due figure: la luce proveniente dalla sala brillò sui gioielli che adornavano il vestito della dama, mentre la seconda figura, più piccola e cupa, fu tradita soltanto dal bagliore dei vividi occhi azzurri. La porta settentrionale del Palazzo di Witchdame si affacciava su una distesa di campi vuoti e non coltivati. Dal fiume soffiava una fresca brezza, ed Elizabeth fu lieta di avere addosso il pesante mantello marrone preso in prestito dal guardaroba del Maestro delle Feste. Il costume che aveva scelto era anch'esso di sua soddisfazione: si trattava di una gonna di broccato rosso dal taglio molto ampio, che le avrebbe permesso di montare a cavallo, di una camicia di seta gialla e di una giubba adorna di monete, il tutto completato da un cappuccio di velluto rosso e da un paio di alti stivali marrone scuro. Ora si sentiva molto libera e molto simile a una zingara... non avendo naturalmente modo di sapere quale potesse essere la vita di una zingara autentica. Sentì qualcuno che si avvicinava alla porta, e subito si nascose nell'om-
bra, per avere la certezza che si trattasse di Menadel prima di lasciarsi vedere. Le arrivò il rumore della sbarra che veniva rimossa, poi la figura sgusciò oltre il battente: era difficile stabilirne l'identità, a causa degli abiti che l'infagottavano, ma la sua mole sembrava quella di Menadel. La principessa attese comunque di trovare qualche prova un po' più certa. La figura si girò in modo da essere di fronte alla porta, e cominciò un incantesimo diretto a richiuderla: ci fu un lampo di luce azzurra, poi una voluta di fumo, il tutto seguito da una serie di sonore imprecazioni. L'incantesimo non aveva funzionato, quindi quello era Menadel. Ridacchiando, Elizabeth uscì dall'ombra. «Mio signor mago, posso esserti d'aiuto?» chiese, e senza attendere una risposta si girò verso la porta, eseguendo alla perfezione l'incantesimo di chiusura. Il battente rispose e, con un fruscio delle pesanti sbarre, tornò a sprangarsi per la notte. «Ottimo, Vostra Grazia, davvero ottimo. A quanto pare come insegnante sono stato migliore di quanto credessi.» Menadel grattò contro lo stipite con le unghie, finché riuscì a staccare due spesse schegge. Ne porse una ad Elizabeth, e infilò l'altra nella propria manica. «Ecco, anche questa è fatta. Sei pronta per il nostro viaggio?» «Certamente. Ma mi pare di ricordare che tu abbia detto che avresti provveduto tu a procurare provviste, cavalli e animali da soma, mentre qui non scorgo nulla del genere. Mena-dei, hai forse in mente di ottenere il tutto con la magia?» «Vostra Grazia non abbia timore. Ho trascorso le ultime ore a studiare gli incantesimi necessari per ottenere cavalli, vettovaglie ed equipaggiamento, e ti assicuro che li ho appresi alla perfezione. Non ti devi preoccupare: funzionerà tutto a meraviglia.» Menadel si portò nello spazio aperto antistante la porta e cominciò a tracciare una serie di rune, di sigilli e di simboli sul terreno, borbottando al tempo stesso fra sé. Elizabeth, dal canto suo, si accigliò e fece in modo di trovarsi il più lontano possibile da quello che Menadel avrebbe ottenuto, qualsiasi cosa fosse stata. Echeggiarono un suono sibilante e un sospiro, poi l'aria fu pervasa da uno strano odore, come un misto di gelsomino e di escrementi di piccione, seguito dal formarsi di una nuvola azzurra nel punto in cui c'erano le rune di Menadel. Quando la nube si dissolse, sul posto apparvero quattro enormi e pelosi animali, di un colore fra il marrone e il dorato, con il collo lungo e due gobbe sul dorso. Due erano sellati, mentre sulla groppa degli altri
due c'erano tappeti moreschi arrotolati. «Davvero interessante, Menadel, ma che cosa sono?» domandò la principessa, lottando per non ridere: quelli erano tutto meno che cavalli. Con un sospiro, Menadel contemplò la propria opera. «Ecco, sono animali che possono essere cavalcati: i Mori li usano sempre come cavalcature, e sono capaci di viaggiare più a lungo di un cavallo, ma temo che diano un po' troppo nell'occhio. Non vanno bene, no, non vanno proprio bene. Dovrò ritentare.» E iniziò un altro incantesimo. «Sì, ma che cosa sono?» «Cammelli, credo. Aspetta un momento, ho quasi sistemato questa runa, non mi confondere proprio ora.» Di nuovo, Menadel riprese a borbottare sottovoce nella lingua degli antichi, e quando la nube azzurra si dileguò per la seconda volta al suo posto apparvero quattro bestie piuttosto grosse e umide, con la bocca grande e munita di denti notevoli, e con occhi piccoli e porcini. Le bestie apparivano decisamente troppo selvatiche per poter essere cavalcate, quindi erano prive di sella, ma due di esse avevano legati sul dorso enormi cesti pieni di cavoli, indivia, lattuga e crescione. Sfortunatamente, gli animali sembravano ghiotti di verdure, e tutti e quattro stavano cercando di infilare il muso nei cesti. «Oh, povero me, povero me, povero me!» mormorò Menadel, fra sé. «So che gli ippopotami sono chiamati cavalli di fiume, ma non era questo quello che avevo in mente.» Si chinò e tentò per la terza volta di assestare le rune, mentre Elizabeth gli si accostava leggermente, al fine di sentire le parole dell'incantesimo e di vedere i simboli: era possibile che, se si fosse fatta un'idea del concetto di base di quell'incantesimo, sarebbe riuscita a farlo funzionare a dovere. Fu così che si venne a trovare quasi naso a naso con una delle nuove bestie prodotte da Menadel, una cosa che all'animale non parve procurare molto piacere. Questa volta, si trattava di creature grosse quanto gli ippopotami, ma dotati dì una pelle simile a un'armatura e con il naso munito di un corno... simile a quello degli unicorni, ma più corto e più tozzo. Sulla groppa di uno dei quattro era fissato un grosso padiglione dalle tinte vivaci, a strisce rosse, arancione e oro, e la bestia stava facendo del suo meglio per liberarsi dallo strano fardello la cui presenza lo stava innervosendo. Menadel afferrò la principessa per un braccio e la trasse indietro. «Attenta! Sono bestie feroci. Ho pronunciato un incantesimo che richiedeva animali addomesticati, ma non si sa mai. Come dicevano gli antichi,
non ci si può mai fidare dei rinoceronti.» Elizabeth si chiese quanti altri animali Menadel avrebbe dovuto creare prima di ottenere dei cavalli, o prima che lei riuscisse ad imparare l'incantesimo, e cominciò a temere che quella sarebbe stata una lunga nottata. «Cosa pensate di creare qui, cucciolo, un nuovo zoo per tuo padre? Dubito che la fortezza di BrynGwyn potrà contenere tutti questi strani animali.» La voce che emerse dall'ombra, estremamente allegra e riconoscibile, fu accolta con gioia da Elizabeth. «Jackie! Cosa ci fai qui? Credevo che avessimo lasciato il palazzo senza essere notati!» «Devi sempre tenere presente a cosa servono arazzi e alcove. Io ero là, occupato a sistemare i lacci del corpetto di una dama di compagnia estremamente ingenua, e chi ha mai fatto irruzione nel mio nido d'amore? Tu e Menadel! Quando ho sentito i tuoi piani, ho perso ogni interesse per i corpetti e le dame di compagnia, e così eccomi qui. Tuo padre mi ha dato a te, e dove vai tu, vengo anch'io.» Il buffone si avvicinò ai lampi di luce azzurra prodotti dalla magia di Menadel, ed essi lo rischiararono, rivelando che aveva abbandonato il suo abbigliamento consueto a favore di una casacca scura, di un paio di calzoni azzurri e di un paio di stivaletti rossicci; un mantello azzurro cupo gli pendeva dalle spalle, e i riccioli biondi erano nascosti da un cappello di lana marrone. Jackie atteggiò il viso ad un'espressione dolente nel contemplare la più recente creazione uscita dalla nube azzurra di Menadel. «Pasticcione, pasticcione, questo finirà certo per allarmare i contadini. Mago, come al solito stai facendo il buffone, mentre quello di buffone è il mio mestiere.» «Taci, Jackie» ribatté Menadel. «Questa volta credo di avere la formula giusta.» Ci fu un ennesimo lampo azzurro ed apparve un ennesimo quartetto di ammali che non erano cavalli. Menadel imprecò. Elizabeth sospirò e Jackie rise. «Dimmi, non puoi eseguire tu l'incantesimo che questo idiota sta cercando di realizzare?» chiese il giullare, rivolto alla principessa. «Se produce altre creature di questo genere, ai contadini non rimarrà un solo filo d'erba da mangiare fra qui e Lundene. Fallo smettere, ho io la soluzione del problema.» Adesso Menadel stava producendo rune, nuvole azzurre e animali con un ritmo sempre più veloce: una gran quantità di animali, ma ancora niente cavalli. Accorgendosi che la cosa stava sfuggendo al loro controllo, Eliza-
beth si protese e afferrò per un braccio il mago ancora intento a borbottare. «Basta! Basta, Menadel. Questo non ci farà approdare a nulla, e Jackie dice di avere una soluzione. Ora smettila di creare animali e vediamo di che si tratta.» «Jackie non è stato invitato a prendere parte a questo viaggio, non è destinato a prendervi parte e non ne prenderà» protestò Menadel, continuando a parlare nel tono cantilenante usato per l'incantesimo. «Non possiamo portare un umano con noi, Vostra Grazia: potrebbe imparare troppe cose di magia, e questo lo metterebbe in pericolo.» «Non essere stupido» lo rimproverò Jackie. «Non m'interessa proprio d'imparare la magia da te, Menadel. Commetti decisamente troppi errori... e poi, perché dovrei voler usare la magia? Non corro rischi in quello che faccio, perché mi limito a seguire la mia signora. Se deve intraprendere un viaggio fino ai quattro angoli del regno di suo padre, questo sarà un compito pericoloso, sgradevole e che certo richiederà molto tempo. Portami con te, mia signora, permettimi di proteggerti dagli eventuali pericoli che si profileranno lungo la strada e, soprattutto, permettimi di proteggerti da questo inetto mago.» Jackie rivolse uno sguardo implorante alla principessa, ed aggiunse: «Hai bisogno di me, Elizabeth.» Era vero. L'organizzazione escogitata da Menadel per quel viaggio non era certo delle migliori, e se davvero Jackie poteva offrire un piano alternativo, era giusto ricompensarlo permettendogli di andare con loro. «Hai accennato a un piano, Jackie» rispose Elizabeth. «Spiegami di cosa si tratta e, se è una buona idea, verrai con noi. Hai la mia parola di principessa.» «In quel boschetto laggiù ho lasciato tre robusti cavalli e un pony da soma carico di vestiario e di provviste. Questo ci permetterà di iniziare bene il cammino, ma ci sono un paio di cose a cui non ho potuto provvedere di persona. Prima di tutto, avete con voi delle armi?» «A me non servono altre armi che la mia magia» rispose Menadel, in tono pomposo, e Jackie si limitò a ridere. «Io ho portato la daga magica che mia madre mi ha regalato lo scorso Capodanno» disse Elizabeth. «Credo che dovrebbe bastare.» Jackie annuì. Avrebbe preferito un paio di spadoni a due mani, ma in uno scontro ravvicinato una daga delle streghe silvane era meglio che mente e assai meglio di molte altre armi. «Bene, questo risolve la questione delle armi. Ora, cosa mi dite del denaro? Questo viaggio potrebbe rivelarsi costoso.»
«Non ci serve denaro» obiettò Menadel. «Posso ricavare l'oro dal piombo in qualsiasi momento, anche se ammetto che ricavarlo dalla paglia sarebbe un po' più difficile, per quanto fattibile se tu...» «No, no!» intervenne Elizabeth. «Basta con le magie! Ho indosso questi abiti da zingara che ho prelevato dal guardaroba del Maestro delle Feste, e sono coperti di monete. Saranno sufficienti?» Jackie scoppiò in una sonora risata. «Oh, povero me, povero me, che razza di ingenui siete tutti e due! Finireste derubati e sgozzati alla prima locanda in cui vi fermaste. Stracci da zingari di corte!» Scoppiò in una nuova gorgogliante risata. «Pensi davvero che la gente vada in giro vestita in quel modo, cucciolo? Con le monete che indossi, hai sparsi sul corpo i guadagni complessivi di parecchi contadini. Avanti, dammi quel ridicolo giubbotto e lascia che tolga le monete.» Elizabeth gli porse l'indumento, e Jackie si mise energicamente al lavoro con una daga affilata, rimuovendo monete e gemme, mentre Menadel si accostava alla porta del palazzo e ne staccava una grossa scheggia. «Prendi, Somers» disse poi il mago, «mettiti questa nel cappello. Se devi viaggiare con me, devi essere protetto.» «Nel nome delle Tre Regioni, che cosa è quello?» domandò Jackie. «Non ho bisogno di quel pezzo di legno sporco fra i capelli.» «Si tratta di un incantesimo, Jackie» spiegò Elizabeth. «Lo fanno tutti i signori della magia che vanno in pellegrinaggio, perché garantisce la sicurezza lungo la strada.» «Non proprio. Oltre a questa, si possono usare altre porte e altri edifici» intervenne Menadel, nel suo tono da pedagogo. «La scheggia rappresenta la sicurezza garantita dal Palazzo di Witchdame. È un concetto che rientra nella teoria magica del contagio... ciò che ha avuto contatto con un oggetto è quell'oggetto. Quindi, con quel pezzo di legno nel cappello, porterai il palazzo con te lungo la strada. Hai capito?» «Ora chi è che sta insegnando la magia agli umani?» ribatté Jackie, con voce vellutata. «Vuoi farmi finire bruciato, vecchio?» Con una risata, il giullare tornò a concentrarsi sul compito di eliminare dal giubbotto di Elizabeth le ricchezze che lo ricoprivano, mentre Menadel ribolliva invano alla ricerca di una risposta. «Ecco fatto, cucciolo. Ora credo che il giubbotto non abbia più molto valore, e quanto agli altri abiti che indossi... ecco, il mantello va bene, ma il resto è inadatto, nel modo più assoluto: satin, broccato e seta non sono stoffe comuni là dove stiamo andando, ed è un bene che io sia riuscito a
procurarmi un abito semplice e una camicia di lino grezzo che ho ottenuto dall'amante di Lord Terrell. È la figlia bastarda di un signore della magia, quindi ha più o meno la tua taglia... e se anche non ti calza bene, certo qualche modifica basterà a sistemarlo.» Jackie ripose le monete nella sua borsa, poi condusse la principessa e il mago verso il punto in cui erano legati i cavalli. I preparativi di Jackie erano stati davvero eccellenti: gli animali erano robusti pony del Gaeland, rubati al Principe John, cavalli dalla groppa resistente quanto bastava per sostenere il peso della Principessa Elizabeth. Jackie aveva anche scovato vecchie selle e finimenti la cui mancanza sarebbe stata subito notata, e sulla bestia da soma spiccavano abbondanti scorte di cibo, utensili da cucina e coperte. Jackie montò in sella al più piccolo dei tre cavalli e afferrò le redini dell'animale da soma, poi, con un fischio rivolto alla sua cavalcatura, diede di talloni e precedette gli altri allontanandosi dal Palazzo di Witchdame. «Ecco» commentò, girandosi per indicare il palazzo, «siamo in cammino e non abbiamo più nulla di cui preoccuparci.» «Maledizione!» esclamò Menadel. «Mi pare che il mio cavallo stia per tirare le cuoia. Spero che non muoia.» «Anche se succedesse, non è il caso di preoccuparci» ribatté Elizabeth, «dato che ne abbiamo almeno altri tre. Ora, Menadel, da che parte andiamo?» «In un incantesimo di questo genere, mia signora» rispose il mago, dopo un momento di riflessione, «si parte da ovest.» Si umettò quindi un dito e lo sollevò per vedere da che parte soffiasse il vento e appurare in che direzione era l'ovest: quando ebbe finito, Elizabeth e Jackie erano già a quattrocento metri di distanza, verso ovest, tanto che Menadel riuscì appena a sentire la voce della ragazza che gridava le parole dell'incantesimo dei viaggiatori: «L'acqua non mi può affogare, la terra non mi può seppellire, l'aria non mi può congelare, il fuoco non mi può bruciare. Nel nome di Sulis e di Diona, così possa essere!» OVEST Salve, Gabriel, al cui nome tremano le ninfe che giocano sotto le onde.
Io invoco il serpente di mare, signore dell'abisso, Guardiano del mare amaro, grande principe dell'elemento dell'acqua! Sii al mio fianco, ti prego. Proteggi me e chi è con me da tutti i pericoli che giungono dall'ovest! CAPITOLO UNDICESIMO Il sole del primo mattino proiettava lunghe ombre sul pavimento del granaio deserto. Il piccolo edificio puzzava di sterco di mucca, di muffa, di escrementi di topo, di paglia vecchia, di fumo e di una tragedia da lungo tempo consumata. Gli edifici della fattoria che sorgeva nelle vicinanze erano stati distrutti da un incendio durante l'inverno precedente, e soltanto quel misero granaio dal tetto di paglia era rimasto a indicare che un tempo degli esseri umani avevano abitato in mezzo ai campi incolti e ai pascoli vuoti. Il sole penetrò maggiormente nel granaio e cominciò a battere sul viso delle tre figure raggomitolate sulla paglia fatiscente. Elizabeth si stiracchiò in quel letto poco familiare e si accorse di essere tutta un dolore; era ancora stanca e ammaccata per il torneo, e la fuga notturna seguita dalla lunga cavalcata protrattasi fino alle primissime ore del mattino non le avevano certo giovato. Era giovane, e si sarebbe presto ripresa dalle ammaccature, ma in quel momento si sentiva malconcia quanto una vecchia afflitta dai reumatismi. Con un gemito si alzò in piedi, s'inginocchiò accanto al giullare e lo scrollò rudemente. «Jackie, Jackie, svegliati. So che non stai dormendo davvero e che fai solo finta! Svegliati, ho detto.» Lo scrollò ancora e l'osservò mentre il buffone stiracchiava il piccolo
corpo deforme fino a dare l'impressione di essere sveglio. Le palpebre tremolarono, e i grandi occhi azzurri di Jackie fissarono la principessa. «Sì, sono sveglio, anche se questo non ti serve a nulla. Non potevi lasciarmi dormire un po' più a lungo? Abbiamo cavalcato tutta la notte, e credo che questo mi dia il diritto di dormire per tutto il giorno.» Si sfregò gli occhi e la guardò meglio, notando per la prima volta quanto fosse effettivamente sfarzoso il costume da zingara che aveva indosso. «Oh, sono lieto di aver portato degli indumenti per te, mia signora! Anche senza le monete sul giubbetto, quella tenuta è ancora abbastanza lussuosa da indurre una qualsiasi delle persone che vivono qui intorno a tagliarti la gola per impossessarsene. Farai bene a cambiarti, prima che riprendiamo il cammino.» Il giullare si alzò e raggiunse l'angolo in cui, la notte precedente, avevano lasciato i bagagli, frugando poi nelle sacche fino a tirare fuori la camicia, la sottogonna ed il semplice abito azzurro che aveva ottenuto dall'amante del Sommo Ciambellano. «Ora, cucciolo, non mi chiedere come ho avuto questa roba, perché preferisco non parlarne. Tutto quello che ti posso dire è che il mio amore per te mi conduce in molti luoghi strani. Avanti, cambiati. Poi penso che sarà meglio svegliare quel vecchio buffone di Menadel e rimetterci in viaggio. Siamo ancora abbastanza vicini al palazzo di Witchdame da correre il rischio di essere raggiunti da tuo padre.» Porse gli abiti ad Elizabeth e attese, mentre lei fissava prima gli indumenti e poi lui. «Se hai intenzione di fare la pudica» aggiunse Jackie, «puoi andare a cambiarti in quello stallo in fondo al granaio, anche se penso di averti vista nuda tante volte che ho perso il conto.» «Io... io non so come mettermi questa roba» confessò la principessa, con voce incerta. «Prima d'ora non mi sono mai vestita da sola e non so come sì faccia.» Jackie la scrutò con aria incredula: l'idea che una persona potesse aver compiuto diciotto anni senza sapersi ancora vestire da sola era stupefacente. Poi, però, ci ripensò. Perché una principessa di Englene avrebbe dovuto imparare a vestirsi da sola? Fin dall'infanzia doveva essere stata circondata da serve, dame di compagnia e bambinaie, ed aveva avuto a sua disposizione un numero più che sufficiente di mani pronte a fare ciò che lei non aveva bisogno d'imparare. La sua sorpresa esplose in una risata squillante. «Allora dimmi, cucciolo, come sei entrata in quella roba ridicola che hai addosso?» domandò, quando riuscì a riprendere fiato, fra una risata e l'al-
tra. «Ci ha pensato una dama di compagnia, naturalmente» rispose Elizabeth, con il viso in fiamme. «Ho portato i vestiti nella mia camera ed ho spiegato alla giovane Nan che volevo mettermi in maschera, e lei mi ha aiutata a cambiarmi. Altrimenti, come avrei potuto fare?» «Oh, già, non ci avevo pensato. Ha obbedito senza chiedere niente. D'accordo, questa volta sarò io la tua dama di compagnia. Vieni con me.» Jackie la guidò verso lo stallo vuoto e l'aiutò a liberarsi dei falsi stracci da zingara, procedendo poi a istruirla nell'arte di vestirsi da sola, intercalando una quantità di commenti scherzosi alle spiegazioni. A poco a poco, gli scherzi finirono per predominare, e ben presto tanto lui quanto Elizabeth furono piegati in due dal ridere. Quelle risate svegliarono Menadel. Il mago rotolò su se steso e si sedette in modo da fronteggiare lo stallo. «Bambini, bambini» chiamò, «se avete finito con quei vostri sciocchi giochi, credo che dovremmo riflettere seriamente sul modo in cui viaggeremo in futuro. Un fienile, o un granaio, come in questo caso» proseguì, guardandosi intorno e liberando con aria infastidita la propria tunica marrone dalle festuche di paglia, «non è un riparo adatto a gente come noi. So che non dobbiamo fare nulla che possa attirare l'attenzione della popolazione o di eventuali sicari mandati al nostro inseguimento, ma non mi pare affatto necessario ridurci a questo livello così rozzo. Quindi se volete unirmi a me, discuteremo sul genere di alloggio da cercare in futuro, e prima lo faremo, prima potremo andare alla ricerca di una colazione. A meno che, naturalmente» aggiunse, adocchiando le provviste procurate dal giullare, «Jackie non abbia provveduto...» «È proprio quello che ho fatto» replicò il giullare, e uscì dallo stallo tenendo Elizabeth per mano. «Guarda che cosa ho trovato, Padre Menadel. Non è una bella e florida ragazza di villaggio?» E così dicendo spinse dinanzi a sé la principessa, che ora indossava un abito azzurro di taglia imperfetta, una camicia di lino e una sottogonna marrone. Menadel annuì con approvazione. Il mago si era già reso conto che forse quella situazione era decisamente troppo difficile perché lui potesse farvi fronte, e cederne il controllo a Jackie gli era di un certo conforto; comunque, si guardò bene dal parlare di questi suoi sentimenti al buffone, e rinnovò invece la richiesta di fare colazione. Jackie attraversò il granaio a balzelloni, battendo i tacchi in aria per la pura e semplice soddisfazione che gli derivava da quella bella mattinata e
da quella situazione. «Non ti preoccupare, ciò che ho portato è più che sufficiente per la colazione: questa mattina i cuochi del Palazzo di Witchdame si ritroveranno con parecchie forme di buon pane bianco e un prosciutto in meno, oltre a una bottiglia di buona birra scura, ma in compenso noi tre faremo colazione da re.» L'ora che seguì fu riservata esclusivamente al pane, al prosciutto e alla birra, ma alla fine, mentre venivano rosicchiate le ultime briciole, la conversazione tornò a vertere sull'argomento del loro futuro. Jackie provvide a riporre con estrema cura quanto rimaneva delle cibarie, e conservò il prosciutto e la birra nelle bisacce. «Credo che dovremmo evitare i principali villaggi che incontreremo lungo la strada» osservò, tirando fuori da una sacca un cappello di lino che nascondesse la capigliatura di Elizabeth. «Ci sono locande meno importanti e casolari dove potremmo trovare ospitalità senza correre il rischio di essere riconosciuti da qualche nobile. Sono perfettamente d'accordo sul fatto che continuare a viaggiare in questo modo significherebbe imporci rigori che non sono necessari.» Mentre parlava, mostrò alla principessa come legare il cappello. «C'è però una cosa di cui non sono per nulla sicura» intervenne Elizabeth. «In quale parte dell'ovest siamo diretti, esattamente, Menadel? Non ne abbiamo mai discusso: tu ti sei limitato a dire che dovevamo andare ad ovest.» «Ho riflettuto a lungo sul problema» replicò il mago, annuendo, «e ritengo che il santuario di Mage Dumus, nel Pembrokeshire, dovrebbe essere la nostra prima meta. Dobbiamo però stare attenti a non attirarci le ire dell'Arcivescovo di Cymru, che ha in quel luogo il suo palazzo ecclesiastico. È un uomo del re, e credo che ci concederà spontaneamente il suo aiuto nel caso ne avessimo bisogno, ma sarebbe molto meglio non fare ricorso alla sua assistenza, se vogliamo completare con successo il nostro viaggio.» «Ma io conosco l'Arcivescovo Tysilio. Non vedo cosa possa esserci di male nel richiedere il suo aiuto» protestò Elizabeth. «Come tu stesso hai rilevato, è un uomo del re: se dovessimo trovarci in difficoltà, perché non approfittarne?» Menadel si accarezzò la barba irsuta, e parve perdersi in qualche riflessione per un momento o due. «In questo mondo ci sono molte tentazioni, mia principessa» replicò in-
fine, «e la più grande fra tutte è l'inerzia. Ti dico fin da ora che, sotto molti aspetti, sarebbe molto più facile per te tornare al Palazzo di Witchdame anziché proseguire questo viaggio che, da quando lasceremo questo luogo, si andrà facendo sempre più difficoltoso, tanto che potremmo addirittura arrivare al punto che un giorno guarderai alla notte trascorsa in questo granaio con affetto, perché ti sembrerà essere stata il massimo della comodità. Il mio timore è che se dovessimo rivolgerci all'arcivescovo, lui potrebbe indurti a tornare al palazzo di tuo padre con la promessa delle comodità che esso offre e dei privilegi che spettano al tuo rango.» Seduta sul pavimento del granaio, Elizabeth rifletté sulle parole di Menadel: era vero che questa prima notte lontano dal palazzo era stata estremamente scomoda, e che il mago gliene prometteva di peggiori, e tuttavia il ricordo dell'uomo nel Cerchio e della grande gioia che le aveva dato la spronò a proseguire. «Menadel, se completerò questo tuo viaggio, avrò ciò che desidero?» chiese, scrutando il volto del mago. «Se raggiungerai ciascuno dei quattro angoli del regno e là manifesterai i tuoi poteri come erede di Englene, avrai ciò che vuoi ed anche di più. Devi però volerlo veramente, Elizabeth. In questo viaggio, imparerai a desiderare anche altre cose, e spero che con il tempo otterrai tutto quello che desideri. Questa però è la prima tappa del viaggio, e se devi tornare indietro, è meglio che tu lo faccia subito.» «Ho intenzione di andare avanti» dichiarò Elizabeth. «Questo viaggio mi porta lontano da tutto ciò che ho sempre conosciuto, e verso qualcosa che posso soltanto percepire: qualsiasi cosa mi attenda alla fine di tutto questo, so che devo averla! E nessuno, né mio padre, né l'Arcivescovo di Cymru né chicchessia mi fermerà. Quindi andiamo al santuario di Mage Dumus!» Il villaggio di Burford fu per loro una piacevole apparizione, dato che per giorni interi avevano viaggiato attraverso boschi incolti; l'abitato era in festoso fermento, perché nella piazza si teneva il mercato, e il villaggio era quindi stracolmo di carri e carretti, di greggi di pecore, di branchi di oche, di bestiame e di massaie che contrattavano sui prezzi. Elizabeth, Menadel e Jackie guidarono con cautela i loro cavalli in mezzo a quella ressa vociante di uomini, donne e animali, e cercarono con attenzione una locanda. Sfortunatamente, le uniche due dall'aria rispettabile erano piene al massimo della loro capienza, e cosi anche le tre dall'aspetto poco raccomandabile, quindi i tre furono costretti a proseguire il cammino, fino a raggiungere u-
n'ultima locanda, che sorgeva quasi nell'ombra della foresta circostante. La costruzione aveva un aspetto ragionevolmente ben tenuto, e il locandiere aveva appeso una ghirlanda di foglie all'insegna, per avvertire che c'era birra fresca a disposizione. Gran parte di quella che avevano bevuto fino ad allora era stata un acido rimasuglio estivo, e l'idea di trovarne di fresca riuscì loro veramente piacevole, e fu con ben poca fatica che Jackie ed Elizabeth si lasciarono persuadere a trascorrere la notte in quella piccola costruzione di legno, appena più grande di una capanna. L'interno era parimenti pulito e ben spazzato, ma era anche assolutamente vuoto, un particolare che destò nei viandanti un vago disagio, perché in quel giorno di mercato la locanda avrebbe dovuto straripare di clienti. L'uomo che emerse a precipizio dalla cucina nel sentire le loro grida che chiedevano birra e cibo, aveva un aspetto ordinato e gradevole quanto quello dell'edificio stesso, e parve più che ansioso di soddisfare le loro richieste: la birra si rivelò effettivamente buona, e il pane e il formaggio che l'accompagnarono furono i migliori che avessero mangiato durante il cammino. Nonostante questo, i tre non riuscirono a reprimere un senso d'incertezza, al pensiero di pernottare da soli in quel luogo. Dopo mangiato, Jackie chiese al locandiere quanto volesse per l'uso del solaio e di tre pagliericci, e l'uomo presentò un conto così ragionevole che Jackie non fu neppure costretto a discutere: pagò e tornò dai compagni scuotendo il capo. «Non ci posso credere: quest'uomo deve avere in mente di giocarci qualche tiro birbone, oppure è un vero filantropo. Ha preteso soltanto due monete di rame per il pane, una per la birra, una per esca e candela, una per i letti e due monete d'argento per il formaggio, oltre a cinque monete di rame per alloggiare e nutrire i cavalli! I prezzi qui sono la metà di quello che mi aspettavo di pagare, e questo mi lascia molto perplesso.» «Pensi che sia davvero il caso di fermarci?» domandò Elizabeth, in tono preoccupato. Nel focolare, la fiamma stava cominciando a languire e lunghe ombre prendevano forma negli angoli dell'edificio di legno e paglia. «Pensi che sia sicuro, Menadel?» «Ma abbiamo le schegge» intervenne Jackie, «e credevo che dovessero proteggerci.» «Sì...» convenne Menadel, «ma non è un incantesimo tale da proteggere contro ogni cosa. Per quanto mi riguarda, preferisco abbondare con gli incantesimi, piuttosto che essere parsimonioso, quindi, mia signora, questa notte suggerirei di porre i custodi e guardiani, in modo da garantire la no-
stra sicurezza. Altrimenti... non mi andrebbe proprio domattina di svegliarmi con la gola tagliata.» «Se tu avessi la gola tagliata» obiettò Jackie, «non ti sveglieresti, ed è esattamente questo che ci preoccupa!» «Può darsi che tu non ti risvegli, mio caro umano» si vantò Menadel, ergendosi sulla persona, «ma io lo farei, con la gola tagliata o meno. Ci vuole altro che un semplice taglio a vene o arterie per uccidere Menadel il mago.» Il buffone non replicò. Il locandiere li accompagnò di sopra, nel solaio, e la stanza parve abbastanza confortevole, vista alla luce tremolante della candela: i pagliericci erano puliti, senza traccia di pulci o di topi, e tutto sembrava tranquillo e sicuro... ma nonostante questo i tre decisero di garantire la loro sicurezza al cento per cento. «Ora insedierò i custodi e guardiani» affermò Elizabeth, non appena il locandiere se ne fu andato. Avuto l'assenso del mago, la ragazza prese a camminare lentamente per la stanza, fissando per un paio di secondi ciascuno dei quattro punti cardinali, quindi si portò nel centro della camera, estrasse la sua daga magica e la levò in alto, esclamando: «D'accordo, Signori delle Torri di Guardia, state all'erta. Ho bisogno di voi!» Ripose quindi la daga nel fodero e si gettò su uno dei pagliericci. «Questo dovrebbe essere sufficiente» commentò, con voce pervasa da una tranquilla soddisfazione, avvolgendosi nel mantello come in una coperta. «Questo... questo...» annaspò Menadel. «Non era questo il modo di procedere! Si esegue un inchino, poi una genuflessione, si disegnano i pentacoli e poi un cerchio, quindi ci si rivolge alle Torri di Guardia con preghiere e rispetto, e non in modo così brusco, Elizabeth! Chi ti ha insegnato a creare un cerchio in questo modo?» Elizabeth si liberò dal mantello e si mise a sedere. «È stato mio padre ad insegnarmelo» rispose, «ed è un metodo molto efficace. Se non mi credi, guarda.» La ragazza allargò le mani e chiuse gli occhi, assumendo un atteggiamento di tranquilla concentrazione, quindi tracciò il pentacolo nell'aria, dove rimase una linea azzurra, e borbottò sommessamente un incantesimo appena udibile. D'un tratto, ai quattro angoli della stanza apparvero fiamme azzurre che crearono un cerchio di fuoco sul pavimento: le Torri di Guardia e il cerchio erano completi come se lei avesse impiegato mezz'ora
di lavoro. «Vedi, in effetti non è per nulla necessario eseguire tutte quelle assurdità, se non si vuole. Oh, è molto bello osservare tutte le fasi rituali se si ha il tempo o si ha voglia di qualche piccola cerimonia, perché può essere riposante e creare l'umore adatto, ma quando si ha bisogno della magia se ne ha bisogno e basta, e non ti è di nessun aiuto se devi impiegare mezz'ora per ottenerla quando hai invece a disposizione soltanto due secondi. Mio padre ha detto che in molti casi la magia non è altro che un simbolo, e che un incantesimo serve soltanto ad aprire le porte giuste nella mente di chi la pratica.» Elizabeth si raggomitolò quindi nel mantello, e Menadel la sentì recitare le frasi cadenzate delle preghiere serali. Il mago scosse il capo. La notte trascorse tranquilla, ma quando aprirono la porta, il mattino dopo, si trovarono di fronte ad uno strano spettacolo, perché il padrone della locanda era disteso davanti alla loro soglia, morto. Per lo meno, supposero che si trattasse del padrone della locanda, perché ciò che videro fu una cosa irsuta, dagli occhi ferini e dai lunghi arti, che indossava gli abiti del locandiere, e che stringeva in pugno lo stesso affilato coltello che questi aveva usato la sera precedente per affettare il pane e il formaggio. Quella cosa, però, non era umana: era un essere dalle lunghe zanne e dagli artigli aguzzi che puzzava dello zolfo della Regione Infera. Quando girarono il cadavere, scoprirono che aveva il cuore trapassato da una scheggia di legno. «Un demone della notte!» esclamò Menadel. «Ebbene» commentò Jackie, «è il caso di farti le nostre congratulazioni, dato che finalmente un tuo incantesimo ha funzionato.» «Non si è trattato di un mio incantesimo, è stato il potere del Palazzo di Witchdame a fare questo. Io ho soltanto avuto l'idea di usare l'incantesimo.» Menadel era colmo di modesto orgoglio. «Non dobbiamo dimenticare di ringraziare gli arcangeli per la loro buona sorveglianza e protezione. Il palazzo ha fornito l'arma, e gli arcangeli hanno fatto il resto: questa cosa ci avrebbe uccisi tutti durante la notte, e invece è stata uccisa da loro.» «Già» convenne Jackie, sferrando un calcio alla carcassa. «Ci ha imbottiti di buona birra, di formaggio e di pane, e poi aveva intenzione di servirci come portata principale: ci mancava soltanto una mela in bocca.» «Mi chiedo» osservò Elizabeth, «da quanto tempo ci sia questa locanda. Non mi piace il fatto che una simile oscurità possa esistere sulle terre di
mio padre, e che un demone come questo possa apertamente concretizzare le sue malvagie intenzioni. Non mi piace, non mi piace per nulla.» I tre viaggiatori raccolsero le loro cose ed uscirono; una volta fuori, Elizabeth si girò a osservare la locanda. «Credo che faremmo meglio ad accertarci che questo luogo non costituisca più una tentazione per i viaggiatori ignari o per i demoni. Ho lasciato l'incantesimo di sorveglianza e protezione nella nostra stanza, ed ora credo, che lo estenderò all'intera locanda, a scopo di salvaguardia. Se questa costruzione è qualcosa di più, o di meno, di una locanda, l'incantesimo servirà a purificare questo luogo di malvagità.» Elizabeth si allontanò leggermente da Jackie e da Menadel, e di nuovo estrasse la daga: si girò verso i quattro punti cardinali, con una genuflessione e una preghiera di saluto ai Signori delle Torri di Guardia. Tracciò quindi i rispettivi pentacoli e infine mosse l'arma in cerchio sulla propria testa, per indicare che il cerchio al piano di sopra doveva essere allargato. Esso obbedì, e ben presto l'intera costruzione fu avvolta nella luce azzurro chiaro della magia mista delle streghe silvane e dei signori della magia. La locanda tremò quando un incanto malefico l'abbandonò, poi con uno scoppio di tuono svanì, e di essa rimasero soltanto polvere e fredde ceneri. L'azzurro del cerchio penetrò nel terreno, lasciando nell'ombra un leggero brillio a indicare che il luogo era stato purificato da ogni male. Elizabeth annuì, soddisfatta del proprio lavoro. «Questo dovrebbe essere sufficiente» disse. «In fin dei conti non era affatto una locanda, ma una porta aperta sulla Regione Infera. Ora credo che possiamo riprendere il cammino senza rischi.» I tre viaggiatori montarono in sella e, conducendo per la cavezza i due cavalli da soma, si avviarono alla volta della terra chiamata Cymru. CAPITOLO DODICESIMO Quando passarono da Hereforde in Brecknock e poi in Carmarthen, Elizabeth stette bene attenta a chiedere il permesso di attraversare quelle aree a ciascuno dei tre spiriti o naiadi che vi governavano. Si trattava di spiriti silvani o acquatici che non erano né signori della magia né streghe silvane, erano qualcosa di molto più antico, che risaliva ai primordi del regno dei Re Elfici, prima che streghe silvane o umani giungessero ad Englene. Di tanto in tanto, Elizabeth conversava con qualcuno di questi antichi e sommessi spiriti, e più di una volta lasciò su una roccia parte del proprio
pranzo, a titolo di offerta, perché gli spiriti della terra potevano essere pericolosi, ed erano meno degni di fiducia di quelli degli alberi, e d'altro canto non era conveniente ignorarli, per quanto irritabili, perché erano anche molto saggi. Fu così che attraversarono senza danni le marche che conducevano alle frontiere di Cymru. Durante il tragitto, la principessa si trovò a riflettere seriamente sui problemi che avrebbero incontrato lungo il viaggio. Era necessaria una forma di protezione per lei e per i suoi amici, e l'unica persona che avrebbe potuto fornirla era l'Arcivescovo di Cymru, senza contare che per suo tramite avrebbe anche potuto mandare un messaggio a suo padre e rassicurarlo che stava bene e che stava portando avanti il pellegrinaggio come previsto. A mano a mano che si addentravano sempre più in Cymru, i viaggiatori notarono che la popolazione della zona sembrava appartenere a un ceppo del tutto diverso tanto da quello degli umani quanto da quello dei signori della magia, entrambi caratterizzati da carnagione chiara, capelli biondi e occhi azzurri. Fu Elizabeth a notare che quella popolazione bruna e di bassa statura somigliava notevolmente alle streghe silvane. Nella sua vita, la principessa aveva incontrato ben poche streghe silvane, a parte sua madre, perché esse non si recavano quasi mai a corte e soltanto di rado si avventuravano nelle città, in cerca di provviste o per vendicare qualche offesa. Tuttavia, quando chiese a Menadel se Cymru fosse una terra delle streghe silvane, il mago le rispose negativamente. «È vero, Vostra Grazia, che questa gente di Cymru ricorda le streghe silvane. In effetti, in un'epoca che risale a prima della grande guerra delle streghe silvane e del regno di Re James Flagello delle Streghe Silvane, possa il suo nome essere maledetto, queste persone erano effettivamente streghe silvane, di una tribù particolarmente bellicosa che viveva sulle montagne di Englene. È stato però il Flagello delle Streghe Silvane a privare gli abitanti di Cymru della loro magia: li ha scacciati dalle foreste e dalle colline in cui dimoravano e li ha costretti a vivere in questo luogo come semplici umani, punendo chi praticava le antiche arti. E così, gradualmente, essi hanno cessato di essere streghe silvane e non hanno più mantenuto contatti con i loro fratelli e sorelle di Englene.» «Come Vostra Grazia può vedere, il risultato è stato che i discendenti sono un popolo estremamente infelice, che conduce una vita povera e stentata, su una terra che dà ben poco. La loro esistenza è breve e dura, mentre con l'aiuto congiunto dei signori della magia e delle streghe silvane, questa potrebbe essere una regione di grande abbondanza.»
«Temo peraltro che quei due popoli orgogliosi non si uniranno mai per il bene di Cymru: ci sono troppe inimicizie, troppo odio, troppi antichi ricordi che risalgono a parecchi secoli fa. La guerra si è conclusa nel 1193, ma paura e distruzione si protraggono ancora oggi. Pensa a questo popolo ed a quello che tu, essendo al tempo stesso discendente delle streghe silvane e dei signori della magia, potesti fare per esso.» «Ma mio padre non ha espresso preoccupazione per questi infelici? Cymru fa parte delle sue terre, e lui certo deve nutrire interesse per queste streghe silvane, anche se non sono dotate di un potere che lui possa temere.» «Potere e paura sono gli unici due strumenti che le streghe silvane posseggono per evitare di diventare come costoro, i loro cugini poveri» replicò Menadel. «Dal momento che è un luogo tranquillo e pacifico, che qui non si combattono più guerre o battaglie... Cymru è dimenticato, per tuo padre è soltanto una terra nel lontano ovest e niente altro.» Si addentrarono sempre più nella contea meridionale di Cymru, una terra chiamata Pembrokeshire. Attraversarono il grande fiume Tewy mediante un traghetto ad uno dei guadi, e impiegarono parecchi giorni per oltrepassare la grande foresta di Erechfa. Al di là di essa, Cymru diveniva un territorio di piatte terrazze che salivano in maniera costante verso il mare e verso le bianche scogliere di Mage Dumus. Era una terra di fattorie, di capanne di carbonai, di piccoli villaggi e di grandi foreste, il tutto di una verzura stupefacente. Sarebbe potuta essere una terra molto bella, se il cielo non fosse stato perpetuamente coperto, cupo e piovoso. «La gente di Cymru» spiegò una sera Menadel, mentre cercavano di mantenere acceso il fuoco sotto un acquazzone violento, «ha almeno dodici espressioni diverse per descrivere la pioggia, e quando una lingua conferisce tanta enfasi a un determinato argomento, il territorio dove la si parla deve avere una grande abbondanza di ciò che questo argomento riguarda.» «E tu non devi conoscere vocaboli che descrivano la magia, vecchio» ribatté Jackie. «Usa un incantesimo del fuoco e accendi un bel falò, perché sono bagnato fradicio.» Menadel arrossì ed ammise con tristezza di non avere il potere necessario per gli incantesimi del fuoco; come sua allieva, Elizabeth non li aveva quindi appresi, e del resto fino a quel momento non aveva avuto bisogno di conoscerli. «Ma, Jackie» osservò la ragazza, «in precedenza tu hai sempre acceso il fuoco da solo...»
«Sì, con legna secca e senza pioggia! Non posso tenere la fiamma accesa sotto la pioggia, ma voi due dovreste esserne capaci! Dannazione, in queste vicinanze non c'è un solo posto dove ripararci, e se tu non fai qualcosa, cucciolo, probabilmente moriremo tutti di febbre polmonare, quindi spicciati a provvedere. Usa la tua daga magica o qualsiasi altra cosa, ma spicciati.» Elizabeth sospirò e costruì un cono di potere che proteggesse la minuscola fiamma... ma il risultato non fu del tutto soddisfacente, perché il cono non lasciava uscire il fumo dal proprio interno: si poteva avere il calore insieme con il fumo, oppure nessuna delle due cose. Elizabeth fissò lo sguardo sul fuoco che, anche con l'ausilio della magia, riuscivano a stento a mantenere acceso. «Dimmi, Menadel, capita mai che non piova, a Cymru?» «Mi è stato riferito» rispose il mago, scoppiando a ridere, «che durante il regno del tuo prozio, Henry il Senza Speranza, durante il giorno di mezz'estate, dalle due di pomeriggio al crepuscolo, sei ore più tardi, non ha piovuto nella cittadina di Millford Haven. Ma naturalmente, Vostra Grazia, Millford Haven si trova a sud rispetto a noi, ed è possibile che qualche disturbo locale o un incantesimo mal riuscito abbia avuto l'effetto di bloccare la pioggia per un po'. Non ti saprei dire, ma non ci sono dubbi che questa terra è molto umida.» «Non quanto Faerie» osservò Jackie, voltandosi in modo da accostare il corpo alla fiamma e da esporre la testa alla pioggia per poter respirare. «Mi hanno raccontato che se si sosta sull'estrema punta di terra, vicino al santuario di Mage Dumus, e si guarda verso nord, si può scorgere Faerie, quella grande e paludosa ascella dell'universo. È vero, Mena-dei?» «Sì, è vero. Se i venti sono favorevoli e il tempo è buono, si può effettivamente vedere Faerie, anche se non so perché qualcuno possa desiderare di farlo. Si dice che sia stata la Dea a creare Faerie... ma deve averla fatta in una giornata sbagliata, perché su questo mondo non esiste un posto più sgradevole, paludoso e malvagio di Faerie! Tutti i suoi abitanti sono esseri mannari, dagli Spiriti alle Cose malvagie. No, credo che dobbiamo considerare Faerie come una terra che la Dea ha dimenticato, e che faremo bene a dimenticarla anche noi: non fa parte del regno di tuo padre, e non ci dovremo andare» concluse Menadel, rivolto alla principessa, mentre si asciugava gli occhi lacrimosi e starnutiva parecchie volte. «Mi dispiace che l'incantesimo non sia più efficace» si scusò Elizabeth, «ma è il meglio che ho potuto ottenere. Comunque, Faerie è stato un luogo
molto sfortunato per la mia famiglia. Il mio prozio, re William, è stato ucciso in Faerie quando ha cercato di conquistarlo.» La ragazza rabbrividì. «E mio zio Robert è stato divorato a Faerie da una Cosa, e qualsiasi luogo che sia abbastanza malvagio da aver potuto distruggere lo zio Robert e lasciare il Gaeland nelle mani di mio cugino John, è un posto che non fa per quelli come me.» Sopraffatta dal fumo, Elizabeth sporse la testa fuori dal cono e trasse parecchi respiri ansanti. «Bene, noi non ce ne dovremo preoccupare» confermò Menadel, «dal momento che tu non dovrai andare oltre il santuario di Mage Dumus. Non c'è bisogno che raggiungiamo il promontorio, a meno che tu voglia vedere la costa. Il santuario è già abbastanza ad ovest, per quello che devi fare.» «E di cosa si tratta?» Elizabeth si sporse all'indietro nel cono per agitare la daga sul fuoco, osservando le fiamme azzurre balzare più in alto e sfrigolare a contatto con la pioggia. «Spero che quanto farò in quella città, qualsiasi cosa sia, torni a vantaggio di questa gente, anche se naturalmente per ora la cosa che mi sta più a cuore è trovare un riparo adeguato. Sono stufa di queste foreste umide, dell'incantesimo del fuoco, e da due giorni non incontriamo anima viva. Quanto distiamo dal santuario?» Menadel sfilò da una manica una grande pergamena, la srotolò e si mise a studiarla. «Secondo i miei calcoli, dovremmo arrivare entro dopo domani notte. Una volta giunti, andremo a rendere omaggio al santuario del Dio, e per quanto riguarda l'atto o l'evento che dovrà avere luogo là, lasceremo che la decisione spetti al Dio o alla Dea. Non tentare previsioni, altezza, perché è un grave peccato, e limitati ad accettare quanto gli dèi ti manderanno.» E né Elizabeth né Jackie riuscirono ad indurre il mago ad aggiungere altro. Menadel si limitò a riavvolgere la pergamena, scrollando il capo, e a riporla nella manica, dove essa parve ripiegarsi prontamente su se stessa e svanire tra le pieghe del pesante tessuto. Non avendo altra scelta, Elizabeth frenò la propria curiosità e rimase in attesa di quello che l'aspettava a Mage Dumus. Anche se veniva indicata come una città, Mage Dumus era in effetti poco più di un grande villaggio, che era stato reso importante dalla presenza del santuario e che si divideva in due parti, il Santuario Vicino e Mage Dumus Fuori-le-Mura. Il primo abate del santuario, un certo Dewi Sant, aveva affermato che quella valle era stata creata da un grande mago, Dumus appunto, come un
luogo dove potessero essere sempre trovate pace e tranquillità, dove la gente fosse particolarmente benedetta dalla Dea ed avesse sempre bellezza, saggezza e il dono del canto. Nessun male sarebbe venuto agli abitanti finché fosse esistito il santuario. Dumus, però, era morto nel sesto secolo prima dell'Era dei Signori della Magia, e perfino un uomo dotato di una magia potente come la sua doveva aspettarsi che dopo un tempo così lungo il suo potere svanisse gradualmente. I viaggiatori percorsero la Strada Alta e salirono il ripido sentiero che portava all'ingresso. «Ehilà! Ehi, in nome dell'Arcivescovo Tysilio» ammoni una delle sentinelle. «Cosa fate in questa terra e che cosa cercate?» «Siamo soltanto tre gentili pellegrini» rispose Elizabeth, «venuti a pronunciare i nostri voti e a fare atto di adorazione nel santuario. Non chiediamo nulla se non che ci sia permesso di pregare in pace. Inoltre, se me lo concederà, vorrei avere udienza presso Sua Grazia l'Arcivescovo.» «Quale nome devo riferire all'arcivescovo, perché possa sapere chi sei?» domandò la sentinella, fissando con curiosità quella donna del ceppo dei signori della magia e i suoi due strani accompagnatori. «Digli che Elizabeth, figlia di Richard, desidera parlare con lui. Questo nome sarà sufficiente.» «Porterò il tuo messaggio a Sua Grazia l'Arcivescovo. Ora entrate nel santuario, pregate e adempite ai vostri voti. Possa la benedizione del grande Dio Owain essere con voi, e possa benedirvi anche la Dea Freyia.» «Benedetto sii tu nel nome del Dio e della Dea» rispose Elizabeth, usando la formula di rito, poi fece cenno a Mena-dei e a Jackie di oltrepassare la porta e dì procedere fino al santuario. Elizabeth, Menadel e Jackie si erano prostrati davanti al grande altare e avevano mormorato le loro preghiere al Dio Sulis-Owain. Sapevano che le preghiere erano state udite, perché era risaputo che il nome con cui si adoravano il Dio o la Dea non aveva importanza, a patto che si credesse nella loro esistenza. Si trasferirono quindi nella cappella femminile, dove Elizabeth si presentò alla Dea e le rivolse le sue preghiere usando il nome di Freyia, prelevando poi una manciata di fiori di papavero che un'assistente sacerdotessa le offriva e baciandoli prima di deporli ai piedi della statua della Dea. Infine, la principessa si accostò all'altare e allungò una mano per sfiorare la piega azzurra del manto della Dea.
«Concedimi ciò che desidero, gentile Dea» mormorò, a bassa voce. «Concedimi di essere una buona sovrana per questo che sarà il mio popolo, e concedimi l'uomo che era nel Grande Cerchio di Avebury. Non farlo soltanto perché io te lo chiedo, ma anche perché è la tua volontà. Che tu mi esaudisca o meno, grande Madre, accetterò la tua decisione.» Elizabeth indietreggiò dall'altare, eseguì una genuflessione e lasciò la cappella; alle sue spalle, sul viso intagliato della figura di legno apparve un sorriso. D'altro canto, si sarebbe potuto trattare anche soltanto di un errabondo raggio di sole che fosse riuscito a trapassare le massicce nubi del cielo di Cymru. Il punto focale del santuario, il luogo di maggiore venerazione e reverenza, era il trono di Cymru. Esso si trovava nel coro, da un lato, quasi nascosto dalle grandi bandiere di satin del mago, del Dio e della Dea. Il trono non era d'avorio, d'oro o di altri materiali preziosi: era di semplice legno, intagliato dalle mani amorevoli di un abile artigiano, e sul sedile era posato un cuscino di velluto color porpora, su cui spiccava una scritta ricamata in oro: "Su questo trono siede il vero sovrano di Cymru". Sul trono, tuttavia, non c'era nessuno, e in tutto l'arco della storia di questa terra occidentale, fin dall'epoca dello stesso Dewi Sant, nessuno era mai riuscito a sedere con successo sul trono del vero sovrano di Cymru. Alcuni sostenevano che esso fosse stato fabbricato dallo stesso Gabriel, altri per suo ordine. Dicerie e leggende erano fiorite numerose sull'argomento. Si diceva che quando il vero, glorioso sovrano di Cymru avesse occupato il trono, Cymru avrebbe avuto quanto gli spettava, che ci sarebbero state pace e prosperità e una vita migliore per tutti gli abitanti. A tarda notte, intorno ai focolari, quando si sperava che nessun orecchio indiscreto fosse in ascolto, si mormorava anche che una volta giunto il vero sovrano, i poteri delle streghe silvane sarebbero stati restituiti agli abitanti di quella terra, che avrebbero potuto prendere il posto che spettava loro come potenti e abili maghi. Nel corso degli anni, una sola verità era emersa: il trono era pericoloso per chiunque cercasse di sedervisi sopra senza averne il diritto, perché una morte immediata piombava sull'indegno che osasse tanto. Un cartello di avvertimento era stato piazzato accanto al trono per ordine di Re Richard III, dopo che l'arcivescovo da lui mandato in quell'area si era erroneamente seduto sul trono, scambiandolo per il suo seggio arcivescovile, ed era morto. Elizabeth, Jackie e Menadel passarono fra gli stalli del coro e si ferma-
rono davanti al leggendario trono di Cymru; Elizabeth lesse con cura l'avviso, poi osservò il semplice seggio e il suo cuscino di velluto, scuotendo la testa con meraviglia. «Menadel, qui si dice che si tratta di una morte particolarmente sgradevole, in cui il sangue bolle nel cervello e il corpo si contorce in preda a una grande agonia, poi si cade a terra schiumando dalla bocca e urlando, una fase che continua fino al tramonto, quando il cuore stesso brucia nel petto e si muore come un cane.» La ragazza rabbrividì. «Non mi piace. Perché il Dio permette una cosa simile?» «Vostra Grazia» replicò Menadel, scuotendo a sua volta il capo, «questo trono è un oggetto di grande potere e di grande mistero; non è né buono né malvagio e, come ogni potere, può essere usato per il bene o per il male... tuttavia, possedendo un simile potere, si protegge da solo contro chiunque, sedendovisi sopra, farebbe del male. Soltanto quell'uno che è il vero principe di Cymru può occupare questo posto, e mi chiedo per quanto tempo ancora la gente di Cymru dovrà attendere il suo principe. Sta aspettando da molti secoli...» «E non dovrà attendere oltre!» A parlare era stata un'acuta voce infantile, pervasa però da una grande forza; e quando essa parlò, gli angeli di legno scolpiti nel massiccio soffitto sovrastante gridarono: «Osanna! Osanna! Osanna! Il principe è giunto! Il principe è con noi!» Una luce raggiante, che sembrava fluire in tutte le direzioni intorno al santuario e che pervadeva il coro, avvolgeva una giovane ragazza cymru di circa quattordici anni, con i capelli tagliati corti e vestita nella semplice tunica bianca di una sacerdotessa novizia. Come la maggior parte della popolazione locale, la ragazza era bruna di capelli e bassa di statura, e i suoi erano i neri occhi di una strega silvana, grandi e sapienti. La ragazza avanzò fino ad inginocchiarsi dinanzi ad Elizabeth, mentre la luce diffusa si trasformava in un cono abbagliante puntato sulla principessa. «Salve, possente principe» salutò la ragazza. «Salve, principe di Cymru. Salve, erede al trono degli arcangeli.» Di nuovo, un canto di osanna si levò dagli angeli di legno, mentre un fine pulviscolo dorato cadeva dalle mani e dalle facce lignee. Elizabeth rimase immobile, sconcertata e perplessa, poi protese le mani, imbarazzata, e costrinse la ragazzina a rialzarsi. Quando però incontrò lo sguardo di quei neri occhi che vedevano lontano, si rese conto con un senso di shock che la piccola aveva i poteri di visione dei suoi antenati, le
streghe silvane, e che profetizzava il vero. Elizabeth posò allora la mano sul capo della ragazzina, mormorando una benedizione, quindi si voltò e sali i tre bassi gradini che la separavano dal trono di Cymru... e sedette su di esso. Gli accordi di una melodia trionfante scaturirono allora dall'organo, e sacerdoti e sacerdotesse accorsero da ogni angolo del santuario per inchinarsi davanti al trono. In alto, il cielo grigio parve aprirsi, le nubi si dileguarono e la luce del sole brillò sul santuario. Gli uccelli nel cimitero si unirono all'esultanza generale, e le campane di tutto il villaggio presero a suonare da sole, gridando il messaggio dell'avvento del principe di Cymru. Nel palazzo arcivescovile, David Tysilio sentì le campane. Subito chiamò i suoi diaconi, indossò la tenuta porpora scarlatta e oro delle grandi festività e, afferrato il pastorale, si precipitò in maniera molto poco dignitosa verso il santuario, per vedere con i suoi occhi il miracolo finalmente verificatosi in quella terra. L'arcivescovo si prostrò davanti al trono e, con i sacerdoti, le sacerdotesse e gli angeli del tetto, intonò il canto di osanna. «Osanna! Osanna! Osanna! Il principe è giunto.» Si mise quindi in ginocchio e si pose di fronte ad Elizabeth, con le mani giunte in un atteggiamento di preghiera. «Sulla mia mitria e sul pastorale, io qui giuro, signora, che non mi alzerò da questo luogo finché non avrai accettato il mio giuramento di fedeltà offerto a te come al vero sovrano di Cymru.» Elizabeth considerò quelle parole e ritenne che accettare un simile giuramento di fedeltà poteva essere considerato da suo padre un atto di tradimento. «La mia risposta, arcivescovo, è che accetto il tuo giuramento di fedeltà a patto che sia chiara una cosa: che da esso non dovrà venire nessun danno al re e che non ci siano diminuzioni degli onori a lui dovuti. Mi giurerai fedeltà a queste condizioni?» Si protese in avanti e serrò le mani intorno a quelle dell'arcivescovo. Tysilio la guardò negli occhi, poi chinò il capo sulle loro dita congiunte e mormorò: «Io qui mi impegno con voto e giuramento ad essere tuo vassallo da questo giorno in avanti, senza però negare in alcun modo il mio giuramento a Sua Maestà Re Richard di Englene. Io qui mi impegno ad essere eterno servitore della Principessa Elizabeth di Englene. Qualsiasi cosa essa possa richiedere da me, e così sia.»
«Così sia» annuì gravemente Elizabeth, staccando le mani da quelle dell'Arcivescovo. «Ora rialzati, mio signore, e scortami fino al tuo palazzo, perché sono stanca e vorrei riposare e parlare con te. Prima dimmi però chi è questa giovane fanciulla che ha gridato a gran voce il mio diritto di principe.» L'arcivescovo notò allora la ragazzina in piedi accanto agli stalli del coro. «Ah, Guenhwyvar, avrei dovuto sapere che se il nostro principe era davvero destinato a venire saresti stata tu quella che per prima lo avrebbe riconosciuto.» L'arcivescovo segnalò alla ragazzina di avvicinarsi e, quando lei gli giunse accanto, le cinse le spalle con un braccio, spingendola a inginocchiarsi davanti alla principessa. «Sua Altezza Reale lasci che le presenti la bambina Guenhwyvar: è la mia veggente, dotata di quell'arte antica, la seconda vista. Lei vede nel futuro, mia signora... non sempre come si vorrebbe, o con chiarezza, ma vede soltanto la verità. Per noi di Mage Dumus, Guenhwyvar è stata un dono raro e prezioso, ma io la offro a te perché te ne serva come meglio ritieni opportuno.» Elizabeth si protese in avanti sul trono per scrutare il viso sollevato della ragazza. «Dimmi, fanciulla» chiese, «vuoi porre ai miei ordini il tuo dono della vista? La mia vita e la mia salvezza potrebbero benissimo riposare nelle tue mani.» Timidamente, la ragazzina annuì, e lanciò un'occhiata all'arcivescovo per essere rassicurata. «Io sarò dove tu sarai, mia signora» disse quindi, «e se ti recherai in luoghi strani e lontani, verrò con te. Sono tua perché mi comandi per tutta la vita.» Elizabeth accettò quel semplice giuramento, poi si alzò dal trono e scese allo stesso livello a cui si trovavano la ragazza e l'arcivescovo, offrendo una mano a Tysilio e una a Guenhwyvar. «Conducimi al tuo palazzo, allora, perché sono sfinita, e tutta questa gloria è più di quanto possa sopportare.» CAPITOLO TREDICESIMO Il solario dell'arcivescovo era intiepidito dal calore dei ceppi che ardevano nel massiccio focolare. La stanza, adiacente alla cappella, era comoda e confortevole, ma non fastosa fino all'ostentazione, ed era ovvio che Tysilio
la usava come combinazione di biblioteca e di studio, perché i suoi documenti erano sparsi un po' dappertutto e una fila di splendidi volumi rilegati in cuoio spiccava sul tavolo che serviva da scrivania. L'arcivescovo introdusse gli ospiti in quella stanza e li pregò di accomodarsi, mandando poi a chiamare un servitore e ordinando che venissero serviti birra e dolcetti d'orzo. Sedutosi quindi alla sua scrivania improvvisata, chiese ad Elizabeth cosa desiderava che lui facesse. «Devi capire che non so con certezza come affrontare questa situazione... dubito che gli eventi di oggi faranno molto piacere a tuo padre, e quanto a Lady Pemberly... oh, povero me! Che bella storia di tradimento ne saprebbe ricavare!» «Quindi, sarebbe forse meglio... cioè... voglio dire, Vostra Altezza Reale, in base naturalmente alla tua volontà...» L'Arcivescovo Tysilio perse il filo della conversazione. «Ci sono parecchie possibilità, capisci, e tutte devono essere considerate. Forse dovresti far ritorno al palazzo di tuo padre e discutere della situazione con lui. D'altro canto, tuttavia, se hai qualche compito importante da portare a termine in questa parte di Cymru, io non posso naturalmente impedirti di proseguire...» «Sono in pellegrinaggio» spiegò Elizabeth, «e devo visitare i quattro punti cardinali del regno di mio padre. Ho il suo permesso, e intendo continuare il viaggio.» «Da te, mi serviranno le seguenti cose: cavalli freschi, provviste e un cambio di vestiario per me e per i miei compagni. Quest'ultimo mese trascorso in viaggio è stato pieno di difficoltà, e credo quindi che a questo punto del nostro pellegrinaggio sia opportuno apportare dei cambiamenti alla nostra tattica.» La principessa si girò a guardare Menadel e Jackie. «Ritengo che sarete entrambi d'accordo sul fatto che sia arrivato per me il momento di cambiare identità. Assumerò uno dei ruoli che sono miei di diritto, quello dì menestrello, e nelle vesti di una di quelle sacerdotesse di rango inferiore sarò protetta per legge da molti pericoli che potremo incontrare nel viaggio, senza contare che il mio tabarro ci procurerà asilo.» «Un menestrello... ma Vostra Altezza Reale... non è possibile!» Di nuovo, l'arcivescovo prese a ciangottare con agitazione. «Lasciarti circolare così vestita, tu, una principessa di Englene! Come mi giustificherò con tuo padre? Non puoi chiedere che offra una così misera ospitalità proprio a te, l'erede al trono.» «È esattamente quello che lei ti sta chiedendo» intervenne Menadel, con voce controllata. «Sta effettuando questo viaggio, non come principessa di
Englene ma come una donna che adempia a un sacro voto. Ti chiedo quindi di non ostacolarci, perché sarebbe davvero un grave peccato.» «In questo caso... immagino che dovremo fare come tu vuoi» si arrese Tysilio, rivolto alla principessa. «Ma come mi regolerò con tuo padre?» «Manda a dire al buon Re Richard che sua figlia sta benissimo e che l'hai vista riprendere il viaggio con la tua benedizione» suggerì Jackie. «È molto semplice. Abbiamo ricevuto benedizioni simili da molte massaie e da molti locandieri, lungo il cammino, e certo il grande Arcivescovo di Cymru saprà essere all'altezza dell'ospitalità di un misero locandiere.» «Molto bene.» La resa di Tysilio era ormai completa. «Farò come volete e vi fornirò ciò che vi serve. Lord Mena-dei, rivolgiti al mio cameriere per le provviste e il vestiario di cui avete bisogno. Chiedo però che questa sera siate miei ospiti per una piccola festa, e che trascorriate la notte nel mio palazzo. Domattina, potrete poi partire accompagnati da tutte le mie benedizioni.» Mentalmente, Tysilio stava già mettendo insieme la lettera che avrebbe scritto a Re Richard, riferendogli che Elizabeth era in buona salute e stava proseguendo il suo pellegrinaggio; ritenne però che non fosse opportuno informare Re Richard anche dell'evento che si era verificato nel santuario, perché non sarebbe stato saggio fargli sapere che, in seguito al miracolo che era accaduto, ora tutto Cymru avrebbe considerato Elizabeth, ed Elizabeth soltanto, il suo legittimo sovrano. In che misura Cymru volesse come sovrana Elizabeth risultò fin troppo chiaro quella sera. L'arcivescovo si era affrettato a convocare alcuni esponenti della nobiltà locale, perché venissero a rendere omaggio al loro vero principe. Naturalmente, fra quegli esponenti non figurava nessun signore della magia: ce n'era una mezza dozzina che abitava in alcuni castelli sparsi per Cymru... ma come non era saggio avvertire Re Richard della nuova posizione a cui era assurta sua figlia, così non lo sarebbe stato neppure permettere che la cosa giungesse all'orecchio di un qualsiasi signore della magia. Invece, l'arcivescovo convocò i capi delle varie Tribù di Cymru. Per intrattenere i convitati, un vecchio druido fu persuaso ad abbandonare il suo isolato rifugio e a intonare canti relativi all'antica Cymru, e perfino un paio di inni delle streghe silvane. Erano canzoni tristi e gentili, che parlavano di un tempo in cui tutto il popolo delle streghe silvane era stato una sola nazione, unita e potente, e in cui la benedizione della Dea si era estesa a tutti i suoi membri. Quando il druido ebbe finito di cantare, le la-
crime erano visibili su più di un volto. Ultimato l'ultimo canto, il vecchio vestito di blu scuro depose la sua arpa e venne avanti, fermandosi davanti alla principessa. «Tutto Duyfed è tuo» disse. «Tutto Gwynedd è tuo. Tutte le terre e le regioni di Cymru sono tuoi. Tu sei il vero principe e il sovrano che abbiamo atteso fin da quando il grande Arcangelo Gabriele ha creato il trono. Ora che sei venuta, è tempo che tu guidi Cymru incontro alla sua gloria: tutti gli uomini, le donne e i bambini di questa terra si leveranno e ti seguiranno. Impugneranno cesoie, falci, coltelli e ti seguiranno... sì, fin nel cuore stesso di Englene, e ti porranno sul trono di Englene come Regina di tutte queste grandi terre. Devi pronunciare soltanto una parola, possente principe, e un esercito di cui il mondo non ha mai visto l'uguale si armerà per te, e nel tuo nome combatterà fino all'ultimo bambino. Che cosa dite, uomini di Cymru?» Il vecchio si girò e levò le braccia in direzione dei capi e del loro seguito: un grande grido echeggiò in risposta al suo gesto. «Elizabeth, Elizabeth, sovrano e principe per sempre. Elizabeth, combattiamo nel tuo nome.» Le grida salirono fino alle travi del soffitto e rimbombarono in ogni angolo della grande sala. Elizabeth serrò le mani intorno ai braccioli del suo seggio finché le nocche minacciarono di lacerare la pelle: non poteva e non voleva commettere tradimento contro suo padre. Lentamente, si alzò in piedi e fissò in silenzio, ad uno ad uno, tutti i presenti, finché alla fine lo sguardo dei suoi occhi castani incontrò quello del vecchio druido... le cui pupille erano castane quanto le sue. Quelli erano però occhi vecchi e saggi, e che vedevano lontano, anche se dal punto di vista di Elizabeth ciò che essi scorgevano era falso e impossibile. «Grandi capi di Cymru, arcivescovo, e anche tu, reverendo signore, ho ascoltato ciò che si è detto qui, questa notte, e so che quanto tu hai affermato è vero: tutto Cymru mi seguirebbe, se lo chiedessi, ma io non lo chiedo.» «Sarò il vostro principe e porterò per sempre nel mio cuore il ricordo del vostro amore, e farò anche tutto quello che è in mio potere per migliorare le condizioni di Cymru, ma non mi chiedete di entrare in possesso di quanto mi spetta un solo giorno, una sola ora, un solo minuto prima del momento fissato dalla Dea. Io prego la Dea ed il Dio di fare di me la regina di Englene quando lo vorranno, ma a voi dico, come vostro principe, di non
chiedermi di detronizzare prematuramente mio padre, perché se scoprirò che se anche la mano di un solo bambino di Cymru si è levata contro di lui, tutto Cymru per me cesserà di esistere. Ascoltate il vostro principe e obbedite!» Nelle parole di Elizabeth si avvertiva un'innegabile regalità. La principessa pronunciò parole di potere, e i presenti chinarono il capo e le accettarono: non avrebbero commesso tradimento contro Re Richard, almeno non per ora. Dopo che gli ospiti dell'arcivescovo se ne furono andati, Elizabeth, Menadel, Jackie e la giovane Guenhwyvar si ritirarono nella piccola stanza che si trovava dietro la piattaforma della Grande Sala. «Oh, povero me, povero me, povero me» si lagnò l'Arcivescovo Tysilio. «A quanto pare qui a Cymru c'è una sfortunata tendenza al tradimento. Avendo nelle vene l'antico sangue delle streghe silvane, questo popolo mal sopporta il governo di tuo padre. Io ho fatto del mio meglio per infondergli lealtà, e Vostra Altezza Reale non mi può biasimare, così come tuo padre non può pensare male di me per quanto è accaduto qui questa sera. Mi vergogno profondamente che i miei insegnamenti siano stati vani e che non sia riuscito a rendere questo popolo fedele a Re Richard.» «Lascia perdere» lo interruppe Jackie. «Re Richard non avrebbe mai mandato un tiranno da queste parti, così come non manderebbe qualcuno che gli fosse del tutto inutile. Ti dirò, o grande arcivescovo tira-e-molla, che tu sei probabilmente proprio il tipo di cortigiano senza troppa spina dorsale di cui il re ha bisogno in queste terre selvagge, perché se nella Grande Sala tu avessi invece perso le staffe ed avessi cominciato a gridare al tradimento, ti saresti ritrovato con la testa rotta da un'ascia come ricompensa. Qui non c'è nessun tradimento: quegli uomini hanno semplicemente dichiarato la loro fedeltà alla loro signora, Elizabeth, che a sua volta ha ribadito la propria lealtà al re. Non hai nulla di cui preoccuparti, quindi risparmiami i tuoi "povero me", perché comincio ad essere stufo di vederti correre avanti e indietro come un topo impaurito.» «Dimmi, Somers» intervenne Menadel, «dove hai imparato tante cose sulla politica di Re Richard? Sono davvero stupefatto: non sapevo che il re avesse anche un buffone fra i suoi principali consiglieri.» «E farai meglio a piantarla anche tu, mio grasso e bel tonno!» scattò Jackie. «Non mi serve l'opinione di un mago inetto, in un momento come questo. Ti dirò dove ho imparato la politica, l'ho imparata sulle ginocchia
di Re Richard. Io sono l'unica persona, in tutto il regno, che possa accedere alla presenza del re in qualsiasi momento, che possa entrare e uscire liberamente da tutte le sue camere, bagni compresi, quindi non mi puntare contro un dito chiedendomi dove ho imparato la politica: sono nato e cresciuto in mezzo alla politica di corte, e so come Richard sceglie i suoi consiglieri. E, anche se non sono un signore della magia, sono però un umano, e so cosa significa vivere alle dipendenze di un governante che non appartiene alla tua gente. Questi grandi capi che hai visto qui stanotte, torneranno alle loro case lodando la lealtà della nostra principessa, e per qualche tempo le obbediranno. Ma quando i venti invernali prenderanno a soffiare freddi dalle montagne e i loro figli piangeranno per la fame senza che abbiano quasi nulla da mangiare, allora si ricorderanno di questa notte, e si chiederanno se Elizabeth è davvero il loro principe. Poi guarderanno ad est, verso Englene, e contempleranno le lame affilate delle loro falci.» «Ti preannuncio fin da ora che le possibili alternative sono soltanto due: o Re Richard migliora le condizioni di vita qui a Cymru, oppure si dovrà preparare alla guerra. Mentre viaggiavamo per queste contrade, ho tenuto la bocca chiusa e gli orecchi ben aperti e ho sentito parecchie cose. Qui c'è un'oscurità che nasce dall'indigenza e dalla fame. In questa terra c'è uno spirito che lascia presagire male per Richard e per Englene. Tu, mia signora e principessa, potrai forse impedire il peggio per qualche tempo, ma non per sempre... sfortunatamente neppure per un tempo pari a quello che a Richard resta ancora da vivere.» «Guenhwyvar» chiamò Elizabeth, voltandosi verso la giovane veggente, «in nome del tuo voto, dimmi se quello che afferma Jackie è vero. Esiste effettivamente un simile spirito di oscurità in questa terra?» «Sì, mia signora» rispose la fanciulla, mettendosi di fronte a Elizabeth. «Sì, essa giunge dal mare e si estende fino a coprire tutto Cymru. È un'oscurità grande e mortale, che avanza nera e incappucciata, come un alito che esca da una tomba, e molti fra noi che abbiamo il potere la temiamo, perché non è una buona cosa per Cymru o per Englene. Durante le ultime dodici notti, in una visione venutami nel sonno, ho visto la faccia di Cymru bruciata e infranta, e gli uomini erano andati tutti via e le donne piangevano per i figli morti. Ciò che sogno può realizzarsi oppure no, e ciò che vedo nelle ore di veglia è una verità che nulla può alterare, ma quando ho delle visioni notturne, esse riguardano ciò che potrebbe accadere.» La ragazza trasse un profondo respiro, ansando leggermente, come se un discorso tanto lungo fosse una cosa insolita per lei.
Elizabeth allungò una mano per allontanare i capelli dagli occhi della ragazzina. «Quanto mi hai detto mi turba profondamente. Arcivescovo» proseguì, rivolta a Tysilio, «ho bisogno di pergamena, penna e inchiostro, perché devo scrivere a mio padre che in questa terra c'è un'oscurità che potrebbe essere un alito giunto dalla Regione Infera. Dopo che avrò scritto la lettera, desidero inoltre che io e i miei compagni siamo accompagnati nelle tue camere per gli ospiti, in modo da poter riposare. Domani all'alba vorrei ripartire, onde evitare che quei capi tornino qui per tentare di fare di me con la forza il loro condottiero. Se dovessero cercarmi dopo che sarò partita, non dirai loro dove mi trovo, e non dovrai mentire, perché non ho intenzione di rivelartelo.» L'arcivescovo chinò il capo in atto di sottomissione e andò a prendere quanto gli era stato richiesto. «Per quanto possa insistere» dichiarò Elizabeth, «non intendo rimanere qui più di una notte. Hai ragione, Jackie, è un cortigiano volubile come una banderuola, ed è logico che mio padre lo abbia scelto per questa terra infelice, ma non mi fido del tutto di lui, perché mentre noi domani ce ne andremo, lui dovrà rimanere e vivere in pace con i capi locali. I signori di Cymru sono più vicini di mio padre, e sono certa che l'arcivescovo li teme molto più di quanto tema Re Richard. Stanotte piazzerò i guardiani e rimarremo sul chi vive. Partiremo non appena il primo accenno del sorriso di Sulis si leverà all'orizzonte.» Fedele alla sua parola, Elizabeth svegliò Jackie e Menadel al primo dissolversi del grigiore precedente l'alba, e tutti e tre indossarono in fretta gli abiti che erano stati loro forniti dai servitori dell'arcivescovo. Menadel portava ora una tunica nera munita di un cappuccio abbastanza grande da poter essere tirato sulla faccia fino a coprire il mento. Jackie aveva ricevuto uno degli abiti migliori del giullare dell'arcivescovo; l'indumento gli calzava abbastanza, e Jackie fece qualche capriola per la stanza per sfoggiare le glorie della livrea nera rossa e gialla. Quanto ad Elizabeth, la tenuta che ora indossava la riempiva di orgoglio. Come la maggior parte dei sovrani di Englene, aveva molto talento musicale, la sua voce era limpida e pura come quella di una sorgente montana, e fin dall'infanzia era stata addestrata dal capo corista di Westmonasterium. All'età di dodici anni, dietro richiesta di suo padre, aveva presentato domanda di ammissione presso la Corporazione dei Menestrelli, ed era sta-
ta accettata, per cui aveva il pieno diritto di portare il tabarro azzurro dei menestrelli. La tenuta da menestrello era formata da una camiciola di Uno bianco, una sottogonna di fine lana rossa, alte calze azzurre e robusti stivali di cuoio rosso. Sul tutto, andava un tabarro blu notte con un'arpa d'oro ricamata a sinistra, sul petto, e l'insieme era completato da un manto di lana azzurro chiaro bordato di rosso. Quando lasciarono le loro stanze e scesero nella Grande Sala, scoprirono che l'arcivescovo aveva ordinato per loro una colazione a base di focacce d'orzo, porridge, montone freddo, aringhe fritte, formaggio, sidro e birra di una qualità fresca e forte. Menadel, Jackie ed Elizabeth si dichiararono estremamente soddisfatti. «Sono lieto che una così semplice ospitalità vi sia gradita» replicò Tysilio. «Quanto più vivo a Cymru, tanto più imparo ad apprezzare il semplice modo di vivere di questa gente, il che aiuta a comprenderla. Anche Vostra Altezza Reale deve imparare a capire questo popolo su cui un giorno si troverà a regnare; quindi, se non ti dispiace, avrei un suggerimento da avanzare. I mesi freddi sono ormai imminenti, e sarebbe molto meglio se tu ti fermassi qui con me a palazzo fino al sopraggiungere della primavera, quando potresti poi ripartire per andare dove è necessario che ti rechi per completare i tuoi voti. Qui troverai grandi comodità e potremmo farci buona compagnia. Ti imploro di riflettere sulla mia proposta.» Elizabeth sbriciolò fra le dita un frammento di focaccia: era come aveva pensato, l'arcivescovo stava cercando di trattenerli qui a Cymru. «Mio signore Tysilio» rispose, «sono onorata e profondamente grata per il tuo suggerimento, ma non posso accettare, perché il mio voto richiede celerità.» «Così sia» si arrese l'arcivescovo, chinando il capo. «Vi darò la mia benedizione e poi potrete affrettarvi a riprendere il cammino.» Uno strano spettacolo si offrì agli occhi di Elizabeth, di Menadel, di Jackie e di Tysilio quando scesero la gradinata esterna del palazzo. Nel cortile centrale, parecchi stallieri dell'arcivescovo stavano cercando di catturare un magnifico cavallo bianco. Sotto la luce del primo mattino, l'animale sembrava intagliato da una singola perla, tanto il suo manto era luminoso. La coda e la criniera fluivano come seta, e la coda era talmente lunga da sfiorare il terreno. Gli zoccoli minuti, la testa ben modellata, le narici dilatate e gli occhi scuri proclamavano che si trattava di un destriero moro, e la
vista di un animale così splendido strappò ad Elizabeth un grido di gioia. Gli stallieri dell'arcivescovo stavano incontrando notevoli difficoltà a catturare la bestia: inseguivano il cavallo brandendo corde, briglie, carote e manciate d'erba fresca, ma esso scartava, danzava e trottava in modo da rimanere fuori della loro portata. Di tanto in tanto, i servitori si fermavano e aspettavano che l'animale si avvicinasse, poi la sarabanda ricominciava. Nel vedere l'abilità con cui il cavallo teneva a bada gli stallieri, Elizabeth scoppiò a ridere. «Fermi, fermi, servi» gridò agli stallieri. «Non prenderete mai una creatura tanto intelligente usando questi metodi. Vediamo cosa si può fare.» Al suo comando, gli uomini si allontanarono dal cavallo, lasciandolo solo nel centro del cortile, mentre Elizabeth camminava verso di lui emettendo leggeri versi suadenti e facendo schioccare le dita. «Vieni, vieni, mia bellezza. Vieni, vieni, mio splendore» mormorò in tono sommesso. L'animale rimase immobile, osservandola e dilatando le narici per catturare il suo odore, poi emise un nitrito di gioia e le trottò incontro; con estrema grazia, il cavallo piegò le ginocchia anteriori e appoggiò il muso nella polvere ai piedi della principessa, che si chinò per accarezzare la lunga testa sottile, apprezzando il pelo morbido come una piuma di cigno e il profumo simile a quello del fieno appena tagliato. Il cavallo sollevò la testa e le diede una leggera spinta con il muso. Nitrendo come se la riconoscesse, permise poi alla principessa di salirgli in groppa, e la ragazza lo cavalcò a pelo, facendogli compiere due o tre volte il giro del cortile prima di arrestarsi davanti ai gradini, dai quali il vescovo e gli altri avevano seguito con stupore la scena. «Dimmi, mio signore arcivescovo» gridò Elizabeth, ancora in groppa, «dove hai trovato un animale dotato di così rara bellezza? Se puoi sopportare di separartene, sarei felice di comprarlo.» L'arcivescovo scosse il capo con stupore. «Ahimè, Vostra Altezza Reale, prima d'oggi non avevo mai visto questo cavallo... e come tu dici è una creatura di grande bellezza. È un cavallo degno soltanto di un re, ed è mia opinione che esso sia stato mandato qui per te.» «Mandato da chi?» chiese la principessa. «I capi stanno forse cercando di corrompermi per indurmi a combattere per la loro causa? Questo cavallo riesce quasi a tentarmi, ma non posso accettare un simile dono se il prezzo da pagare è una guerra contro mio padre.»
L'arcivescovo chiamò il capo degli stallieri con un cenno, e quando si fu fatto avanti gli chiese da dove fosse arrivato il cavallo. Tutto quello che l'uomo poté riferire, però, fu che quando le prime luci dell'alba erano sorte sulle lontane montagne, il cavallo bianco era apparso per le strade di Mage Dumus Fuori-le-Mura, aveva puntato dritto verso il palazzo dell'arcivescovo ed era entrato al trotto nel cortile come se vi avesse vissuto per tutta la vita. Qualsiasi tentativo da parte degli stallieri di catturarlo o di cavalcarlo si era però concluso in un fallimento, quindi era ovvio che l'animale apparteneva alla Principessa Elizabeth, e il capo stalliere riteneva anche che fosse una creatura dotata di grande magia. «Buon arcivescovo» disse allora Elizabeth, «vorrei poter portare questo cavallo con me nel mio viaggio, ma la via che mi aspetta è diritta e stretta, non è adatta a un animale simile. Vorresti quindi essere tanto gentile da provvedere a che il cavallo giunga sano e salvo alla corte di mio padre? Dovrà essere affidato alle mani di un certo Thomas Seymour, il mio scudiero, e se nutri per me dell'affetto, arcivescovo, non lo consegnerai a nessuno altro. Né a mio padre né a Lady Anne di Pemberly... a nessuno tranne che a Thomas Seymour! Ti impegni a fare così, David Tysilio?» L'arcivescovo s'inchinò profondamente. «Giurò che lo farò. Mi recherò con questo cavallo alla corte di tuo padre e mi accerterò che sia preso in consegna dal tuo scudiero, perché se dovessi incaricare qualche mio subalterno, il re o la sua dama potrebbero dissuadere il messaggero dal suo incarico.» Elizabeth scivolò dalla groppa del cavallo e batté con apprezzamento una pacca sul fianco candido. «Allora, mio splendore, andrai con l'arcivescovo alla corte di mio padre e permetterai a Tom di occuparsi di te e di cavalcarti?» II cavallo allungò il collo e scosse la criniera, un gesto che Elizabeth interpretò come un assenso. «Molto bene, mio signore, mantieni la tua promessa e trasmetti le mie benedizioni al giovane Tom, perché sento molto la sua mancanza.» «Faremmo meglio a metterci in cammino, Vostra Grazia» intervenne Menadel, brusco, scrutando con una certa apprensione il sole che saliva nel cielo. In lontananza, sulle distanti colline, si vedeva una nuvola di polvere che poteva benissimo essere causata da un gruppo di cavalieri. «Hai proprio ragione, Menadel. Ora siamo tutti insieme, tranne quella ragazza, Guenhwyvar. Dov'è?» «Ha trascorso la notte nel dormitorio delle fanciulle. Le avevo detto di presentarsi qui, e confesso che il suo ritardo mi sorprende.»
«Mi dispiace, mia principessa» esclamò Guenhwyvar, con il fiato corto, uscendo di corsa e scendendo a precipizio i gradini per unirsi al gruppo. «Ti prego di perdonarmi e di portarmi con te anche se sono in ritardo. La vecchia Madge, la cuoca, stava sostituendo la mia vecchia sottogonna e il vestito con questo cambio un po' migliore, per il viaggio. Non è bellissimo?» La ragazzina ruotò su se stessa, in modo che Elizabeth e gli altri potessero ammirare il bell'abito vinaccia che portava, poi sollevò il lembo della gonna per esibire la sottogonna azzurra e le scarpette. «Non temere che possa avere difficoltà a cavalcare, così vestita. Ci riuscirò e sarò con te dovunque andrai, ma è molto bello farlo indossando vestiti nuovi.» Elizabeth rise per la gioia della ragazzina, e si rese conto che un vestito nuovo doveva essere qualcosa che una persona della sua condizione non riceveva molto spesso. «Benissimo, bambina, monta su quel pony baio e andiamo.» Guenhwyvar guardò verso il punto in cui gli stallieri stavano radunando le robuste cavalcature per il viaggio. «E tu non monterai Jibriel? L'Arcangelo Gabriele lo ha mandato per te, mia signora. È venuto a dirmelo questa mattina, mentre recitavo le mie preghiere.» «Ah, quindi è il tuo cavallo, mia signora Elizabeth» osservò Tysilio. «Vedo che sei veramente protetta dagli dèi, ed è quanto riferirò a tuo padre.» Nell'udire il nome del cavallo, Menadel aveva sussultato, ed ora si accostò all'animale per guardarlo meglio. «Jibriel?» chiese, dubbioso, e quando il cavallo ammiccò aggiunse, in tono tanto sommesso che gli altri non poterono sentire: «Perdonami, mio signore, se non ti ho riconosciuto!» Ma il cavallo non rispose in alcun modo. Con un'invocazione agli dèi perché garantissero sicurezza al viaggio, e con una quantità di saluti e di formalità da entrambe le parti, i viaggiatori lasciarono l'arcivescovo e il suo palazzo, uscendo da Mage Dumus Fuorile-Mura e puntando ad ovest, in direzione del mare, perché era meglio che nessuno al villaggio vedesse con precisione dove fossero diretti. Mena-dei continuava a tenere d'occhio la distante nube di polvere, certo che si trattasse dei capi tribù in arrivo da est. «Credo che per oggi faremmo meglio a nasconderci, Vostra Grazia» suggerì Menadel, «perché penso che l'arcivescovo ci manderà dietro delle
spie per sapere da che parte siamo andati. Jackie, conosci qualche nascondiglio in questo luogo infelice?» Prima che il giullare potesse rispondere, Guenhwyvar lo prevenne. «Se non v'importa di fermarvi in una semplice fattoria, mio padre e mia madre vivono ad appena mezza lega da qui e sarebbero lieti di offrirvi riparo. Inoltre» aggiunse, «io avrei così modo di salutarli e chiedere la loro benedizione, perché potrei non rivederli. Tre giorni fa, quando sono andata a trovarli, non si sentivano bene. Mio padre si lamentava di avere dolori al petto e alla testa, e mia madre sedeva vicino al fuoco, fissando le fiamme, e diceva di scorgere in esse dei demoni. Sono preoccupata per loro. C'è una demonessa dell'oscurità che penetra nei polmoni e vi depone le uova, che poi crescono fino a impedire l'ingresso dell'aria. La poca vita che ancora rimane nel corpo scivola via, e si muore. È una cosa malvagia. Quindi se a voi non dispiace e se me lo permettete, vorrei vedere come stanno prima di partire.» «Te lo concedo con piacere» rispose Elizabeth, sorridendo. «So quanto mi erano cari i miei genitori, e non chiederei mai a nessuno di lasciare la sua casa e la sua terra senza la benedizione del padre e della madre. Guidaci, bambina, e noi ti seguiremo.» Rivolta a Menadel, tuttavia, aggiunse: «Non mi piace il fatto che una cosa del genere possa vivere nelle terre di mio padre. Dobbiamo fare tutto il possibile per aiutare i genitori di Guenhwyvar e porre fine al letale regno di questo demone. Come può mio padre permettere a un simile essere di esistere?» Menadel non seppe trovare una risposta alla domanda della principessa. La fattoria del padre di Guenhwyvar appariva grande e prospera. Nei campi c'erano molte pecore e bestiame di buona qualità, e gli edifici di pietra e legno erano robusti e ben costruiti, ma quando Guenhwyvar chiamò per far uscire i genitori e i servi, nessuno le rispose. La fanciulla scese di sella e corse a bussare alla porta della fattoria, ma ancora non ebbe risposta. «Sono timidi di fronte agli estranei» spiegò la ragazza. «Forse anche i servi hanno la febbre e non possono lasciare il letto.» Nella voce della giovanetta si avvertiva un sottofondo di paura. In silenzio, Elizabeth smontò a sua volta e circondò con un braccio le spalle di Guenhwyvar, tenendola stretta a sé mentre Menadel e Jackie forzavano la porta ed entravano in casa. Tornarono fuori dopo un momento, entrambi gravi in volto.
Fu Jackie che, con un'espressione di estrema compassione nello sguardo, si rivolse a Guenhwyvar. «Temo, piccola mia, che i tuoi genitori siano andati nelle Terre Occidentali e non siano rimasti a darti la benedizione. Quanto ai servi, sono fuggiti.» Guenhwyvar scoppiò in pianto e nascose il viso contro il tabarro della principessa. «Suvvia, suvvia, tesoro. Calma, calma, piccola mia. Calma...» Elizabeth abbracciò la ragazzina, cullandola leggermente, poi sollevò lo sguardo su Menadel e su Jackie, e nei suoi occhi apparve un'espressione decisa e imperiosa. «Uccidete i piccoli del demone e fate tutto ciò che è necessario. Io allontanerò la ragazza; quando avrete finito e non resteranno altro che cumuli di terra a indicare il luogo dove riposano i suoi genitori, ci chiamerete e io la ricondurrò qui perché possa pronunciare qualche parola di commiato.» Elizabeth allontanò quindi dalla casa la ragazzina piangente, dirigendosi verso una polla popolata di carpe. Gentilmente, persuase la fanciulla a parlarle dei cigni che solcavano l'acqua, chiedendole se avevano dei nomi e quali fossero le caratteristiche di ciascuno: quale era irritabile, quale cattivo, quale deponeva il maggior numero di uova. In questo modo riuscì a distogliere la sua attenzione dal rumore di picconi e di terra smossa che giungeva dalla casa. Mezzogiorno era ormai prossimo quando Jackie venne a cercarle vicino alla polla e, presa Guenhwyvar per mano, l'accompagnò fino al luogo dove lui e Menadel avevano sepolto i suoi genitori. La ragazza indugiò in silenzio dinanzi al più grosso dei due tumuli; Jackie aveva usato due pietre piatte come lapidi e aveva sparso dei fiori sulla terra smossa. «Avete concesso una bella sepoltura ai miei genitori, e ve ne sono grata» disse Guenhwyvar, girandosi poi verso Elizabeth con un'espressione di supplica negli occhi. «Potrei essere lasciata sola per qualche momento al fine di piangerli adeguatamente? Vorrei dire loro addio a modo mio, e se finirò per perdere il controllo e gettarmi nella polvere piangendo come un gattino orfano, almeno così non dovrei vergognarmi di fronte a gente di alto rango come voi.» Elizabeth, Jackie e Menadel si allontanarono, lasciando la ragazza libera di fare tutto ciò che riteneva necessario per aiutare i genitori ad arrivare sani e salvi nelle Terre Occidentali di Avalon.
Piena di compassione, Elizabeth aiutò Guenhwyvar a rimontare in sella. Montata a sua volta, la principessa prese le redini di uno degli animali da soma, rivolgendosi poi a Mena-dei: «Lasceremo un messaggio per i servitori e per l'arcivescovo alla prossima fattoria che incontreremo, in modo che questo posto venga tenuto con cura, in mio nome. Ma cosa devo fare per quel demone notturno? È mio dovere occuparmene, oppure chiedere dire all'arcivescovo o a mio padre di distruggerlo?» «Il demone è andato via, mia signora. Ha perso i suoi piccoli, ed ora è in cerca di altre vittime. In futuro avrai demoni in abbondanza da affrontare, quindi lascia pure questo all'arcivescovo.» Dopo un momento di riflessione, Elizabeth annuì. «Cosa preleverai da questa terra, come dono per tuo padre?» domandò poi Menadel. «Come ricorderai, lui ti ha incaricata di portargli qualche segno della pace che esiste nel suo regno.» «Credo che affiderò a Guenhwyvar il compito di parlargli del demone che le ha ucciso i genitori» borbottò Elizabeth, quasi rivolta a se stessa. «Questo dovrebbe dargli un'idea di come la sua pace regni in questo luogo.» Menadel scosse il capo con meraviglia nel sentire l'amarezza della voce di Elizabeth, e Jackie si lasciò sfuggire un fischio acuto di fronte alla chiara intenzione della principessa di insultare Re Richard. Al giullare bastò tuttavia una sola occhiata al viso di lei per decidere che era meglio non avanzare commenti. Anche Menadel fu dello stesso parere. «Ed ora dove vorrebbe guidarci Vostra Grazia?» chiese soltanto, con tono molto mite. Elizabeth girò la testa del cavallo verso le distanti colline del settentrione di Cymru. «A nord!» esclamò con voce vibrante. «Andiamo a nord, in nome dell'Arcangelo Uriel e del mio voto!» NORD Salve, Uriel, poiché nel tuo regno la terra e tutte le cose vive trovano gioia.
Io prego il Toro Nero, signore della terra, Oscuro sovrano delle montagne e di tutto ciò che giace Sotto di esse. Grande principe dell'elemento della terra! Sii al mio fianco, te ne prego. Proteggi me e chi è con me Da tutti i pericoli che giungono dal nord! CAPITOLO QUATTORDICESIMO Elizabeth e i suoi compagni proseguirono il viaggio verso nord attraverso il Dewisland, in direzione delle montagne di Meirionudd, quelle grandi alture che essi avrebbero dovuto oltrepassare prima di raggiungere il punto più settentrionale del regno di Englene. Mentre procedevano, Elizabeth notò i cambiamenti portati dall'avvicendarsi delle stagioni, perché il terreno perse le tonalità fra il verde e il dorato della stagione dei raccolti per assumere le sfumature rosse e gialle dell'autunno. Un vento freddo soffiava dalle montagne e portava con sé un'avvisaglia della neve futura... e la pioggia. Il miracolo avvenuto al santuario non aveva avuto anche l'effetto di impedire che la pioggia cadesse immancabile tutte le notti. Guenhwyvar cercò di rasserenare l'atmosfera del viaggio, insegnando a Jackie i ventotto modi diversi che il suo popolo aveva per descrivere la pioggia; tuttavia, se espressioni come "il cielo si sta svuotando" e "la pioggia, il principale impiccio", oppure deliziose battute come "sta piovigginando quanto basta per rendere fertile il terreno" costituivano interessanti aggiunte al vocabolario del buffone, l'umorismo in esse contenute fini per perdere il proprio mordente dopo qualche tempo... soprattutto quanto più il buffone si ritrovava inzuppato di pioggia. Guenhwyvar sembrò essere quella che risentiva maggiormente della pioggia: le era venuta la tosse, ed il freddo peggiorava le sue condizioni. Come se pioggia e freddo non fossero stati sufficienti, sussisteva poi il co-
stante timore di essere raggiunti da un gruppo di armati inviati dai capi di Cymru o magari da uomini mandati dal re dopo essere stato avvertito dall'Arcivescovo David Tysilio. Fu quindi con un certo sollievo che i quattro avvistarono un gruppo di pellegrini lungo la strada di Ceredigion; con l'approvazione di Menadel, si unirono a quel gruppo di streghe silvane, di umani e di rampolli di nobili signori della magia diretto a prendere parte alla festa di Owain Glyn Dwr, che in quelle terre era noto come Glyn Dwr il Mago, anche se si trattava di un titolo che non era riconosciuto ad Englene. Questo Glyn Dwr era stato un grande eroe delle terre di Cymru. Si diceva che fosse stato un potente guerriero della stirpe delle streghe silvane che aveva combattuto contro Re James Flagello delle Streghe Silvane, quel maledetto sovrano che aveva causato la grande guerra civile contro il popolo silvano, esiliandolo nelle foreste, sulle colline e nelle lontane terre di Cymru. Fra i pellegrini, c'erano anche coloro che parlavano della venuta del principe, un nuovo Glyn Dwr che avrebbe condotto il popolo di Cymru alla libertà e alla riconquista dei suoi antichi poteri. Elizabeth trovò affascinanti questi discorsi relativi al principe. Nell'arco del pochi giorni trascorsi da quando lei aveva lasciato Mage Dumus e il suo santuario, la storia del miracolo si era diffusa in tutto Cymru, ed era stato con suo enorme divertimento che Elizabeth si era sentita descrivere come un individuo alto oltre due metri, armato di una spada di fuoco, capace di parlare perfettamente la lingua di Cymru e, particolare più buffo di tutti, indubbiamente di sesso maschile. Dopo qualche risata su questo errore, Elizabeth si rese però conto che esso costituiva la sua migliore difesa: se tutto Cymru stava cercando un possente principe guerriero, era improbabile che qualcuno si soffermasse a studiare troppo da vicino una damastrega con il tabarro di menestrello. Il viaggio fino al santuario di Aberystwyth fu rallegrato dalla presenza dei pellegrini e dallo scambio dì molte storielle allegre e di canzoni. Fra gli altri c'erano anche due giovani signori della magia di Cymru, Robert di Carmarthen e Lord David Beaumaris, e la loro compagnia diede un certo conforto ad Elizabeth, in quanto le rammentava una parte precedente della sua vita, che ora sembrava molto distante; inoltre, pur essendo in pellegrinaggio allo scopo di trovare l'uomo del Cerchio di Avebury, lei era pur sempre una ragazza giovane e passionale e, se di notte continuava a sognare il suo misterioso eroe dalla maschera d'oro, durante il giorno i suoi pensieri erravano su un piano meno elevato. Robert e David si somigliavano
come due pulcini nati da una stessa chioccia, con la loro bionda avvenenza, la conversazione allegra e lo spirito pronto, e tuttavia Elizabeth scoprì di non provare un eccessivo interesse per nessuno dei due e si trovò invece a cercare la compagnia di un altro pellegrino, un umano di nome Thomas il Calzolaio. Secondo qualsiasi criterio di valutazione, Thomas era senz'altro un uomo avvenente. La sua pelle aveva il colore di una pesca matura e i capelli erano di una tonalità oro scuro con riflessi rossi, ed Elizabeth era certa che come lei, qualsiasi donna sarebbe potuta affogare nell'intensa tonalità indaco dei suoi occhi. Thomas montava bene a cavallo, la sua voce era di gran lunga migliore di quella degli altri pellegrini e si fondeva con quella di Elizabeth come il canto di un usignolo con quello dell'allodola, e ben presto le difficoltà e la fatica del viaggio divennero insignificanti, a patto di poterle condividere con Thomas. Un giorno o due prima di arrivare a Aberystwyth, Jackie si trovò a procedere in fondo al convoglio di pellegrini in compagnia di Menadel, che stava cercando di tenere a bada un riottoso cavallo da soma. «Jackie» disse Menadel, «credo che quando saremo ad Aberystwyth dovrò risolvere il problema di questi cavalli. Quello di cui abbiamo effettivamente bisogno sono robusti animali del nord che siano capaci di reggere su queste colline. Temo che gli animali che ci ha dato l'arcivescovo siano un po' troppo schizzinosi circa il terreno su cui mettono i piedi.» «Il giovane Calzolaio ha detto che ad Aberystwyth ci sarà un'eccellente fiera di cavalli, quindi potresti approfittare per barattare i nostri. Posso supporre che tu sappia barattare dei cavalli, oppure sei inetto in questo quanto lo sei con la magia?» Menadel si girò sulla sella per lanciare un'occhiataccia al buffone. «Non ti preoccupare, giullare. Me la caverò molto bene alla fiera dei cavalli. Ma tu cosa farai, intanto? Hai intenzione di visitare la fiera e di acquistare un oggettino da regalare a Lady Elizabeth?» Nel sentir nominare il nome di Elizabeth, Jackie s'incupì. «Comprerei un regalo a quel cucciolo se pensassi che lo apprezzerebbe, sapendo che viene da me. Immagino che farò meglio a portare alla fiera la giovane Guenhwyvar, perché dubito che ne abbia mai vista una e questo potrebbe renderla più entusiasta. Quanto ad Elizabeth...» Jackie sospirò e si grattò il mento. «Quanto ad Elizabeth, credo che probabilmente vorrà vedere la fiera con il giovane Thomas, il che è un vero peccato. Che te ne pare del suo interesse per lui?» «Non ci vedo nulla di male» replicò Menadel. «Lui è soltanto un umano,
e una scappata con lui non farebbe nessuna differenza, in un senso o nell'altro. So che in cuor suo Elizabeth vuole un degno consorte, e sta affrontando una gran quantità di difficoltà per procurarselo. Una scappatella lungo la strada, come potrebbe essere quel calzolaio, non mi preoccupa affatto.» «È soltanto questo tutto ciò che Thomas è per te e per lei, un altro umano nel suo letto? Hai mai pensato a quello che potrebbe significare per lui?» chiese Jackie, con amarezza. «O, già che ci siamo, per qualsiasi umano? Lei può concedere i suoi favori a chi più le aggrada e, una volta ottenuto ciò che vuole, volare fra le braccia di qualche signore della magia e dimenticare di aver mai notato che un certo umano esistesse.» Menadel scoccò al giullare un'occhiata penetrante, poi scosse tristemente il capo di fronte a ciò che lesse scritto con chiarezza sulla sua faccia. «Jackie Somers, lasciati consigliare e non permettere che il tuo cuore resti troppo coinvolto nelle vicende d'amore di una principessa. Se non c'è nulla di male nel fatto che Thomas il Calzolaio possa finire nel suo letto, potrebbe invece esserci molto di male se si trattasse di qualcuno a cui lei è molto affezionata. Ti rivolgo quest'ammonizione perché non permetterò che Lady Elizabeth abbia a soffrire, per causa tua o di altri.» «Preferirei essere squartato da due cavalli o tagliato in due dal boia del re che far del male a Lady Elizabeth! Ti prometto, vecchio, che non la farò soffrire, ma spero proprio che lo stesso valga per Thomas il Calzolaio.» Jackie prese quindi a cantare un lamento d'amore, a voce piuttosto alta, nella speranza che Elizabeth sentisse. Cosa ho sognato questa notte? Mi è parso che il mondo fosse rivoltato a sott'in su E sole e luna forza e luce non avevan più; Del mar le onde torre e città divoravan ghiotte E tuttavia più gran meraviglia è stata aver udito Una voce d'uomo dire: "Tienilo a mente, La tua dama ha scordato cos'è un animo clemente". Ma Elizabeth aveva orecchio soltanto per la voce del calzolaio. Se fossero stati capaci di leggere nella mente del giovane Thomas, Jackie e Menadel si sarebbero sentiti molto sollevati, perché Thomas non nutriva il minimo interesse nei confronti di un'alta e goffa dama-strega. Anzi, era fidanzato con una bella e florida ragazza che viveva ad Aberystwyth, e
non vedeva l'ora di riunirsi alla sua adorata Megan, e gli sguardi languidi di Elizabeth, che in un primo tempo lo avevano molto divertito, cominciavano adesso ad irritarlo. L'interessamento di quella donna lo preoccupava, perché Thomas sapeva fin troppo bene che l'ira di una dama-strega poteva avere conseguenze terribili. Aberystwyth era in festa per la fiera di Glyn Dwr. C'erano bancarelle che vendevano cibarie e arrotini, zingari e venditori di oggettini di poco prezzo. Sulle bancarelle erano esposti tessuti fatti a mano, pentole, padelle, giocattoli, profumi d'Arabia, pasticcini, caramelle, pane allo zenzero, birra e sidro, confetti, dolci di vario tipo e vini alla frutta dall'aroma intenso. Qui un giovane poteva comprare anelli e collane, catene e portafortuna e merletti per la sua dama. Inoltre erano previste gare sportive, giochi, prove di abilità, un palo della cuccagna, la caccia al maiale e perfino una gara con l'arco. Tutto Aberystwyth era un insieme di colori e di suoni e di profumi gradevoli, uno scenario sufficiente a riscaldare il cuore di qualsiasi giovane donna e ad accelerarne i battiti. Durante la cena, Menadel annunciò l'intenzione di andare il giorno successivo alla fiera dei cavalli, per scambiare i loro animali troppo raffinati con robusti pony del nord. Elizabeth, che aveva avuto la sua parte di problemi a causa della cavalcatura recalcitrante, fu perfettamente d'accordo con quel progetto. Jackie le chiese poi se desiderava accompagnarlo a gustare ciò che la fiera aveva da offrire, ma Elizabeth rifiutò, balbettante e rossa in viso: per tutti i commensali fu evidente che, anche se Thomas non le aveva ancora chiesto di andare con lui, Elizabeth nutriva grandi speranze al riguardo e intendeva essere lei a invitarlo. Per porre fine a quel momento d'imbarazzo, Guenhwyvar si rivolse a Jackie con la sua vocetta trillante. «Oh, Jackie, Jackie, porta me! Sai che prima d'ora non sono mai stata ad una fiera. Voglio vedere i cavalli e le bancarelle degli zingari, e magari mangiare un po' di pane allo zenzero.» «Ma certo, ragazzina. Ti comprerò tutto il pane di zenzero che vorrai, fino a riempirti la pancia, e poi ti farò ubriacare con la birra forte e guarderemo gli ammali finché vorrai. Infine, come qualsiasi ragazzo di campagna farebbe con la sua bella ragazza, ti comprerò un regalo. Che te ne pare?» Guenhwyvar prese a saltare sulla panca come una bambina e batté le mani.
«Oh, Jackie, sarebbe una meraviglia! Mi piacerebbe moltissimo andare in giro con te, e sarebbe ancora più meraviglioso poter vedere una fiera con te e con Lord Menadel.» L'entusiasmo della ragazzina strappò un sorriso ad Elizabeth, che si appoggiò con le spalle al muro, ascoltando Jackie e Menadel che stabilivano quali cose si dovessero vedere per prime e quali spettacoli avrebbero maggiormente divertito la giovane Guenhwyvar. Quanto a lei, il suo unico pensiero era che quella sarebbe stata una splendida opportunità per trovarsi sola con Thomas il Calzolaio. Magari avrebbero gironzolato per la fiera e mangiato il pane allo zenzero, per poi tornare alla locanda e a qualche passatempo più interessante. Elizabeth sprofondò in un piacevole sogno ad occhi aperti riguardante la splendida giornata che l'indomani avrebbe trascorso con Thomas, e si accorse di non riuscire quasi ad aspettare che arrivasse l'indomani. Il mattino dopo, Elizabeth vide Menadel, Jackie e Guenhwyvar uscire, e andò a sedersi nella sala di mescita per aspettare che Thomas scendesse. Lui lasciò il dormitorio quando ormai tutti gli altri pellegrini si erano avviati alla volta del santuario, così in ritardo che Elizabeth stava cominciando a temere che le fosse passato davanti senza che lei lo notasse, in mezzo alla folla. Quando ormai aveva quasi abbandonato ogni speranza, però, lui arrivò lungo le scale, una linda e pettinata visione di avvenenza umana. Si era vestito con una nuova camicia bianca, calzoni azzurri e un giustacuore di cuoio scuro che Elizabeth non gli aveva mai visto prima, e gli alti stivali erano stati lucidati alla perfezione. Thomas era riuscito perfino a procurarsi un mantello di velluto che, per quanto consunto, conservava ancora una parte dell'antico sfarzo. Elizabeth sentì il respiro che le diventava più rapido, e sorrise al pensiero che Thomas si fosse abbigliato con tanta cura per lei. «Hai un aspetto splendente quanto il sole, Thomas» disse con dolcezza. «Stai per caso andando alla fiera di Glyn Dwr? Se è così, sarei lieta di avere la tua compagnia... per la fiera e per qualsiasi altra cosa che ci potrebbe venire in mente.» «Mia signora» rispose Thomas, «sto andando alla fiera di Glyn Dwr, ma non ci vado da solo, perché in questa città vive la mia fidanzata, Megan la figlia del fabbro, e preferisco passare la giornata con lei che con qualsiasi altra dama di alto lignaggio.» Questo parve ad Elizabeth un impedimento di poco conto: non le passò
neppure per la mente che quell'umano potesse rifiutare la sua richiesta. «Thomas» ordinò, in tono perentorio, «io rimarrò qui ad Aberystwyth soltanto per oggi, prima di riprendere il viaggio, mentre tu avrai molti giorni da trascorrere con la tua fidanzata. Io ti chiedo questo giorno. Questo giorno e qualsiasi altra cosa io possa desiderare da te.» Senza che lei se ne rendesse conto, la sua voce aveva assunto un'imperiosa nota di regalità. Thomas scosse il capo, pronto a discutere con questa dama-strega menestrello. «Mi dispiace, mia signora, ma non posso onorare la tua richiesta. È male che quelli come te chiedano cose simili a quelli come me. Se desideri qualcuno da condurre con te alla fiera e in qualche radura boschiva di tuo gusto, con noi ci sono due giovani signori della magia, e ti suggerisco di rivolgerti a loro.» «Quanto a me, io sono umano e non chiedo niente di più di una bella ragazza umana che divida il mio letto. Questa giornata è per Megan: questa, la prossima e tutte quelle che verranno, finché lei avrà vita. Non concederò liberamente il mio corpo o il mio amore ad un'altra donna.» Elizabeth sentì una vampata di rossore, dovuto allo shock e all'imbarazzo, che le saliva al viso. Non le era mai capitato che qualcuno, umano o signore della magia, le rifiutasse qualcosa. Molti giovani di corte si erano contesi perfino l'onore di toccarle la mano, e nel sentire quel piccolo sporco umano che aveva il coraggio di guardarla in faccia e dirle di no si sentì terribilmente tentata di trasformarlo in un rospo. Non era però certa di ricordare l'incantesimo giusto, e del resto era un incantesimo che funzionava meglio sui sovrani! «Oh, molto bene! Va' per la tua strada e visita la fiera con la tua piccola smorfiosa. Non so neppure perché mi sono presa il fastidio di interessarmi ad uno come te.» Con un profondo inchino, Thomas si girò e lasciò la locanda senza guardarsi indietro. Anni più tardi, quando comprese chi fosse la donna che aveva respinto, non provò alcun rincrescimento, e intorno al fuoco, nelle fredde sere d'inverno, indugiò a raccontare l'interessante storia di come avesse rifiutato i favori della principessa di Englene. Era ormai buio quando Jackie tornò alla locanda, da solo. Menadel era andato con Guenhwyvar a comprare delle erbe per curare la tosse della ragazza, e poi a vedere una recita delle marionette che si teneva nel cortile del santuario di Glyn Dwr. Il vecchio e la ragazza si erano affezionati uno
all'altra e Jackie si era trovato sempre più escluso dalla loro affiatata conversazione. E così aveva girovagato per la fiera con aria avvilita, ammirando questa e quella meraviglia: vide il cavadenti, il pesce con due teste, la strega silvana che mangiava il fuoco, e non gli verme in mente neppure una buona battuta. Mangiò il pane allo zenzero, che però gli lasciò in bocca il sapore della segatura, e neppure le risa di gioia di Guenhwyvar, quando le regalò un coniglio di legno che saltava, servirono a placare la tristezza che gli pervadeva l'anima. Alla fine, si staccò dai compagni per visitare la fiera da solo. Al limitare estremo della fiera, dove erano raccolti zingari e streghe silvane, e chi poteva avere in mente cose poco oneste... come vendere la virtù di una figlia, svuotare qualche tasca o tagliare qualche borsa... scoprì che neppure queste sfumature di depravazione riuscivano a divertirlo. Tornò quindi verso la locanda e, strada facendo, s'imbatté in una vecchia strega silvana che vendeva fiori. «Ah, ecco un bel ragazzo!» gridò la vecchia. «Ecco un bel ragazzo che vuole portare qualcosa di grazioso alla sua amata. Compra le mie violette, compra le rose, compra le margherite, compra qualcosa di profumato per la tua amata, bel faccino!» Jackie si fermò a guardare i fiori raccolti nel cesto della vecchia e, con sua sorpresa, vide che era un assortimento che rappresentava tutte le stagioni dell'anno. C'erano asfodeli, margherite, vischio, crisantemi, gialle rose di primavera e candide rose invernali, e quell'accostamento era davvero una vista rara. La sua magia gli ricordò Elizabeth, e lui si frugò in tasca alla ricerca di un paio di monete di rame. «Dimmi, vecchia, quale fra le meraviglie nel tuo cesto è la più meravigliosa? Perché vorrei portare un regalo alla mia signora, anche se mi disprezza.» «Ah, qualcosa di speciale per una ragazza dal cuore freddo. Ho appunto quello che ti serve, ragazzo mio. Proprio quello che ci vuole per renderla amabile e affettuosa e disponibile.» La vecchia rise, un suono che sorprese Jackie, perché non era avvizzito e tremolante, ma acuto e squillante come il canto di un pettirosso all'alba. La donna frugò nel suo cesto e tirò fuori un pezzo di rozza stoffa, aprendolo in modo da rivelare al suo interno un piccolo anello. In un primo momento, Jackie credette che l'anello fosse fatto di fiori, che fosse un cerchietto di nontiscordardime su cui rimaneva ancora qualche goccia di rugiada, ma un'occhiata più ravvicinata rivelò che si trattava invece di filigrana d'argento e che c'erano piccole pietre di luna in-
trappolate fra i petali turchesi dei fiori. Era un oggetto carino, un regalo di poco prezzo in argento e pietre semipreziose, ma Jackie lo trovò di suo gusto e seppe che sarebbe piaciuto anche ad Elizabeth. La vecchia gli indicò l'iscrizione all'interno dell'anello... "Quando questo vedrai, di me ti ricorderai"... e gli diede il monile in cambio delle monete di rame. «Ti avverto, piccolo uomo» disse quindi, «che su questo anello c'è un incantesimo. Racchiudi in esso le lacrime della tua dama, e lei sarà tua per sempre. Chiunque possa sposare, dovunque possa andare, ti ricorderà sempre con grande tenerezza. Come puoi tu pretendere più di questo dalla tua dama?» Jackie s'infilò l'anello al dito, salutò la vecchia e si allontanò, mentre la strega silvana lo seguiva con lo sguardo e i suoi occhi si colmavano di lacrime per un giullare malato d'amore. Jackie sperò che Elizabeth avesse già congedato il calzolaio, e che potesse avere ora qualche minuto per lui. Gli bastava appena qualche minuto, per chiacchierare e ridere insieme, poi le avrebbe dato il suo regalo per farle sapere che, qualsiasi cosa fosse successa fra lei e Thomas, Elizabeth rimaneva sempre il suo cucciolo e la sua signora. Elizabeth non era nella sala di mescita, quindi Jackie salì con il cuore pesante fino alla stanza che la principessa divideva con Guenhwyvar, e indugiò accanto alla porta, premendo l'orecchio contro il legno per cercare di cogliere eventuali rumori che provenissero dall'interno. Ma dalla stanza non giunsero suoni. Alla fine, Jackie si decise a sollevare il chiavistello e, con un'abilità derivante dalla lunga pratica, socchiuse il battente. La camera era in penombra, rischiarata da una sola candela, ed Elizabeth sedeva da sola sul grande letto che divideva con Guenhwyvar. Indossava una camicia da notte e i capelli sciolti le ricadevano sulle spalle come una ragnatela color rame. Mentre indugiava sulla soglia, incantato dalla bellezza di lei, Jackie si accorse che la principessa stava piangendo, e sentì quei suoni nasali che indicavano come fosse ormai arrivata al punto di avere il naso intasato e rosso e di aver bisogno di un fazzoletto. Accostatosi al letto, Jackie si sfilò dalla camicia un fazzoletto di fine lino bianco, che la Regina Dianne aveva ricamato per lui in occasione del suo ultimo compleanno, e lo porse in silenzio alla principessa, distogliendo poi il capo mentre lei procedeva a liberarsi il naso con una serie di energiche
soffiate. «Grazie, Jackie» disse, con voce lacrimosa, «sei stato molto gentile, molto più di quanto meritassi. So che ultimamente ti ho ignorato in maniera vergognosa. Non ne avevo l'intenzione...» Elizabeth fu assalita da una nuova crisi di pianto, e Jackie sedette sul letto accanto a lei, battendole qualche colpetto sulla spalla e cercando di confortarla. «Suvvia, suvvia, cucciolo, suvvia. Non piangere in questo modo. Hai già gli occhi rossi e il naso che sembra un carbone ardente in un caminetto. Avanti, lascia che a piangere siano quelli che riescono a farlo con grazia, come la Pemberly. Tu ed io riusciamo soltanto a diventare dei lacrimosi mascheroni, ed io ho imparato molto presto che se non si riesce a piangere bene è meglio non farlo per niente.» Elizabeth si passò sulla faccia il fazzoletto ormai inzuppato. «Non posso evitarlo!» gemette. «Mi sento assolutamente infelice. Voglio tornare a casa: sono stufa di viaggiare, sono stufa di avere freddo, di bagnarmi e di condurre una vita disagiata. Sono stanca di dormire per terra e sono stufa degli umani!» «Ah!» commentò Jackie. «Ora arriviamo al nocciolo della faccenda. Sei stanca degli umani, vero? Una regina che è stanca di metà della sua popolazione non rimarrà regina a lungo.» «Ma loro mi odiano!» esclamò Elizabeth, ricominciando a singhiozzare. «Non sanno stare al loro posto. Non sanno quello che devono fare e lui non mi ha voluta!» Elizabeth scoppiò in una tempesta di lacrime. «Siamo proprio arrivati al nocciolo. E così il tuo bel Thomas ti ha respinta. Rincuorati, cucciolo, ce ne saranno altri come lui, e presto te lo dimenticherai.» «Non si tratta semplicemente di lui, Jackie. È la prima volta che qualcuno mi ha respinta. Io sono la Principessa Elizabeth! Questo mi rende desiderabile. Ma non per Tom, per lui ero soltanto una dama-strega qualsiasi, e se lui non mi ha voluta, questo significa che forse anche altri hanno condiviso i suoi sentimenti. So che non sono bella, che non ho la vita snella o il seno alto, che i miei fianchi non sono sottili come quelli di un serpente e che la mia pelle diventa troppo rossa al sole.» Con una gran quantità di lamenti, Elizabeth procedette ad elencare i propri difetti, come lei li vedeva, senza rendersi conto che, agli occhi di Jackie, quelli non erano affatto difetti ma soltanto alcuni aspetti della sua cara Elizabeth, della sua signora.
«E se in realtà nessuno mi avesse mai desiderata? Sono qui che mi sto sottoponendo a questo maledetto viaggio per ottenere il mio consorte, e cosa farò se in effetti lui non mi desidera, non desidera la grande goffa, ma vuole soltanto Elizabeth la principessa, l'erede di Englene? Morirei di vergogna.» «Nessuno muore di vergogna. È ovvio che, se anche tu volevi Tom, lui non voleva te. Ma quello è soltanto un uomo fra tanti, e tu sei una bella donna formosa e attraente: ai miei occhi, non ce n'è una più bella di te in tutto Englene e neppure nelle terre oltre il mare.» «Cosa ne puoi sapere tu di come ci si sente ad essere rifiutati?» ribatté Elizabeth. «Tu entri ed esci da tutti i letti che vuoi. Ma io desideravo questo umano, e lui non mi ha voluta, né me né nessun'altra come me. Non so come ho potuto essere disprezzata in questo modo.» «Elizabeth» replicò Jackie, in tono sommesso, «ti comporti come se, siccome un singolo umano ti ha respinta, tu sia stata rifiutata da tutti. Ma questo non è vero. Puoi credermi quando ti dico che tu sei amata nel cuore del tuo popolo: più di un umano mi ha confessato di ritenere che tu fossi una bella donna, e nel caso che tu non te ne sia accorta, mia cara...» Jackie si chinò sulla principessa, passandole delicatamente una mano sulla guancia per asciugarne le lacrime. Nel fare quel gesto, vide le lacrime di lei che bagnavano il piccolo anello con i nontiscordardime che aveva ancora al dito e rammentò le parole della vecchia. «Nel caso che tu te ne sia dimenticata, cucciolo, io sono umano, e ti ho desiderata in molte notti lunghe e solitarie.» Jackie strinse fra le braccia la principessa e, con una delicatezza che nasceva al tempo stesso dall'amore e dalla compassione, le asciugò le lacrime con i suoi baci, dapprima sulle guance e poi sul collo, arrivando perfino a inseguire un paio di gocce fuggiasche che stavano cercando di insinuarsi nella scollatura di lei. Il sole del mattino trapelò fra le fessure delle imposte, nella camera della locanda di Aberystwyth, sgusciando poi lungo le coperte e verso il fagotto addormentato che era la Principessa Elizabeth. Menadel aprì la porta della stanza e si arrestò accanto al letto, incerto se svegliare o meno la sua signora. Il sole era sorto da un pezzo, anche se mancava ancora parecchio a mezzogiorno, e Menadel aveva concluso trattative vantaggiose alla fiera dei cavalli, per cui ora sei robusti pony di montagna erano in attesa, impazienti di mettersi in cammino.
Il mago allungò una mano e scosse con gentilezza la donna, prendendola per una spalla. Elizabeth si stiracchiò e si girò, allungando un braccio verso il lato vuoto del letto. Poi aprì gli occhi e, con uno sbadiglio, si voltò e sorrise a Menadel: l'espressione contenta del viso di lei si mutò allora in stupore. «Dov'è Jackie?» chiese, mettendosi a sedere sul letto. Menadel si accigliò. Ora capiva come mai il giullare non era rientrato nel dormitorio maschile, la notte precedente, e come mai Guenhwyvar aveva invece insistito per andare in quello femminile. «Il giullare sta sellando i nostri cavalli. Ho pensato che fosse saggio rimetterci in cammino verso il nord. La strada fino a Berewic è lunga, e con tanta gente in città ho paura che qualcuno ti possa riconoscere.» «D'accordo. Probabilmente quella di ripartire è una buona idea, anche se mi avrebbe fatto piacere dormire un altro paio d'ore.» Sbadigliando, Elizabeth scese dal letto e attraversò la stanza per aprire la finestra, sporgendosi dal rozzo davanzale di legno per guardare nel cortile della locanda, dove scorse Jackie e Guenhwyvar, intenti a preparare i cavalli. Elizabeth rivolse ai due un cenno di saluto, del tutto dimentica del fatto che aveva indosso soltanto una camicia da notte di lino. Sulla mano sinistra, portava l'anello di Jackie. «Mia signora! Allontanati di là finché non ti sarai vestita. Lady Jane non ti ha insegnato che non è conveniente appendersi per metà fuori da una finestra con abiti tanto succinti?» la rimproverò Menadel, profondamente scandalizzato. «Non riesco a capire come tua madre possa aver allevato una simile monella.» Nella voce di Menadel c'era un tono che Elizabeth non vi aveva mai udito prima, una specie di pungente asprezza. La ragazza si girò per fronteggiare il mago. «Devo vestirmi davanti a te, zio? Oppure preferisci aspettare fuori della porta? Oggi non sei come al solito: sei adirato con me, oppure non hai digerito la cena della scorsa notte?» «Quanto alla seconda domanda, ho mangiato e digerito bene. Quanto alla prima, sì, sono adirato con te. E infine, quanto alla terza domanda che era implicita da qualche parte, spicciati a vestirti, bambina. Alla mia età e nella mia posizione, la vista di una ragazza che si veste non avrà nessun effetto su di me. Inoltre, conoscendo la tua abituale destrezza con gli indumenti, avrai probabilmente bisogno di me per allacciare e abbottonare quell'arnese che insisti a portare.» «Sei davvero irritato. Credevo che avessi detto che il baratto era stato
proficuo» commentò Elizabeth, mentre si infilava la gonna e il tabarro da menestrello. «Per favore, puoi aiutarmi ad allacciare la gonna?» Il mago afferrò i lacci in questione con le mani robuste e assestò loro un energico strattone, strappando uno strillo di sgomento ad Elizabeth. «O ti decidi a dirmi perché sei irritato, oppure è meglio se te ne vai. Sono di umore perfetto e non voglio che il tuo modo di fare me lo rovini.» «Ti dirò questo, mia signora» ribatté Menadel, rosso in faccia e sbuffando come un rospo per l'ira. «Il fatto che tu intendessi trascorrere la notte con il giovane Calzolaio non mi preoccupava, ma non sapevo che avresti invitato il buffone nel tuo letto. Non è una cosa saggia! Se fossi al posto di tuo padre, farei tagliare la testa al giovane Somers per essere stato tanto audace da sedurre la sua principessa!» «Giustiziare Jackie perché si è infilato nel mio letto?» scoppiò a ridere Elizabeth. «Ma se ha visitato il letto di ogni dama della corte, compreso... così lui sostiene... quello di zia Marguerite. L'unica cittadella che non è riuscito a conquistare è la Pemberly. Quindi, perché tanto chiasso riguardo a Jackie e a me? È una cosa del tutto naturale per un uomo e una ragazza, e francamente l'ho preferito a quell'umano dalla faccia color latte, Thomas il Calzolaio.» Menadel sospirò. Mentre girava per la fiera con Jackie e con Guenhwyvar, aveva visto Thomas in compagnia della sua bella ragazza, ed aveva un'idea abbastanza precisa di quello che doveva essere successo fra Thomas ed Elizabeth. «Ti ricordi ancora perché stiamo facendo questo viaggio? Ricordi l'uomo nel Cerchio di Avebury? Sei disposta a rinunciare così presto alla tua ricerca per rotolarti nel letto con un licenzioso giullare? Il suo piccolo corpo deforme ti soddisfa dunque tanto che hai dimenticato quel dorato semidio che ti è stato dato in sorte?» «Non l'ho dimenticato» replicò Elizabeth, in tono cupo, «e ti dico che quell'uomo sarà il mio consorte, se lo vorrà. Ho infatti imparato che non posso automaticamente supporre di poter avere ogni uomo che desidero.» Menadel chinò il capo in atto di sottomissione: la trama della vita di Elizabeth era affidata a mani molto più potenti delle sue. CAPITOLO QUINDICESIMO «Credevo che non avremmo mai raggiunto il mare prima che facesse buio» commentò Elizabeth, sollevandosi sulle staffe per vedere meglio la co-
sta rocciosa che si stendeva sotto di loro. Jackie, Menadel e Guenhwyvar erano semplici sagome indistinte sullo sfondo del sole al tramonto. «Jackie, per la Regione Infera, dove ci troviamo?» chiese la ragazza. «Riesco a distinguere una cittadina, e un castello al di là di essa, ma la nebbia si sta alzando troppo in fretta perché possa distinguere i dettagli.» Sentì il grido di un gabbiano, e il canto di un tritone che rispondeva dalle onde sottostanti, ma il vento freddo che soffiava sulla collina disperse la sua stessa voce, riducendola a un sussurro. «Non mi piace il suo aspetto» aggiunse, «non mi piace affatto. È decisamente troppo cupo...» «In base alla carta, quello dovrebbe essere il castello di Bamborow, e il villaggio dovrebbe chiamarsi Bamborow-lea» rispose Jackie. «Sai chi è il signore locale?» «Dovrebbe essere uno dei Percy, Vostra Grazia» intervenne Menadel, la cui voce giunse soffocata dalle profondità del cappuccio. «Il giovane Thomas Percy, credo. Deve essere ormai sulla cinquantina, e quindi non più giovane, ma nonostante questo è pur sempre un Percy...» «Bamborow... Bamborow...» rifletté Elizabeth. «Questo significa che non siamo lontani dal confine con il Gaeland. Non intendo spingermi più a nord di così: il re ha detto che dovevo visitare le terre su cui avrei regnato, ma non credo che intendesse includere anche una visita a mio cugino John. Non oltrepasserò il confine posto dal nonno, e se guardi verso nord, potrai scorgere il suo riflesso nelle nuvole. Vedi quell'aurora boreale azzurra? È opera di Re Edward.» «Cosa? È ancora là?» Menadel si allungò sulla sella per vedere la linea che Edward il Giusto aveva tracciato con la sua spada, dividendo il proprio regno in due parti a beneficio dei figli gemelli. «Certo che è ancora là» replicò Elizabeth, con impazienza. «Quando creava qualcosa, mio nonno la creava perché durasse, e quella linea di demarcazione esisterà finché il sovrano di Englene deciderà di distruggerla, una cosa che mio padre molto difficilmente farà.» «Tutto questo è molto interessante» intervenne Jackie, «ma non ci procura certo un letto per la notte. Dove hai intenzione di dormire? Sento odore di neve nell'aria. Dobbiamo proseguire, oppure credi che i Percy ci offriranno riparo?» Elizabeth lanciò un'occhiata in tralice in direzione del castello. «L'aspetto di quella rocca non mi piace: in essa scorgo un'oscurità che nessun Percy avrebbe mai creato. Che ne pensi, Guenhwyvar? Puoi vedere qualcosa?»
«Non piace neppure a me» rispose la fanciulla, tossendo. «Vedo l'oscurità che c'è laggiù, e quello non sembra un posto salutare per noi. Tuttavia, la distanza che ci separa da qualsiasi altro castello non è un po' troppa? Non mi va l'idea di trovarmi all'aperto durante la notte,- perché vedo che in questo territorio settentrionale ci sono troppe cose che noi non possiamo controllare. Penso che dovremmo rischiare e sfruttare il tuo diritto di chiedere asilo in qualità di menestrello, ma ho paura.» «Anch'io temo questo posto, Vostra Grazia» aggiunse Menadel, «e vorrei che potessimo trovare un altro rifugio per questa notte, perché così a nord farà un freddo terribile.» «Se continui a chiamarmi Vostra Grazia, i tuoi timori saranno più che giustificati. Ti ho già colto fin troppo spesso a usare questo titolo: come posso passare per un menestrello se tu continui a chiamarmi Vostra Grazia a destra e a manca?» «Mi dispiace.» Menadel si abbassò sul volto il cappuccio attaccato alla tunica, chinò il capo in un atteggiamento di preghiera e poi, con i toni scanditi che avrebbe potuto usare un araldo reale, declamò: «Sua Altezza Reale, l'altissima, l'eccellentissima, la nobilissima Principessa Elizabeth, Principessa di Englene, Principessa di Cymru, Principessa di Pleasance, Capo delle Dame-streghe di Englene, Duchessa di Avalon, Duchessa di Atlantium, Contessa di Firenza, Damigella del Sacro Cerchio, Cavaliere del Calice d'Argento e Difensore dell'Onore di Re Richard di Englene.» Quando ebbe finito, il mago si riabbassò il cappuccio sul collo con un sospiro di sollievo. «Questo dovrebbe bastare.» «Dovrebbe bastare a che cosa?» domandò Jackie. «Qui il buffone sono io, nel caso che te ne sia dimenticato. Devo forse prestarti la mia mazza e gli orecchi d'asino?» E scosse il capo in direzione del mago. «Se mi presti gli orecchi d'asino e la mazza a sonagli» minacciò Menadel, «ti incollerò in permanenza gli orecchi alla testa, e la mazza in posizione tale da far morire dal ridere tutte le damigelle che cercherai di sedurre. Quello che ho eseguito era un incantesimo per ridurre al silenzio, che mi renderà incapace, da questo momento, di pronunciare uno qualsiasi dei titoli di Lady Elizabeth. Allora, chi di noi due ha bisogno degli orecchi e della mazza?» «Tutti e due» interloquì Elizabeth, con un sospiro. «Capisco perfettamente quello che hai fatto, Menadel, e sono d'accordo con te, ma tu hai dimenticato proprio il titolo che usi più spesso, che se ben ricordo è quello di "Vostra Grazia". Ti suggerisco di rettificare il tuo errore prima che arri-
viamo al Castello di Bamborow.» La principessa rimase a guardare mentre il mago risollevava il cappuccio e recitava anche quel titolo con voce risonante, poi si girò verso Jackie, che stava ancora sogghignando. «Non pensare di avere molto di cui ridere» lo rimproverò Elizabeth. «Neppure le discussioni sui buffoni e sugli orecchi d'asino serviranno a procurarci un rifugio. Quel castello laggiù puzza di magia nera, e se alloggeremo là potremo ritrovarci tutti con gli orecchi d'asino in testa. Chiedere ospitalità è nel mio diritto, ma vorrei non essere nella necessità di far valere tale diritto. Andiamo!» Elizabeth piantò i talloni nei fianchi del pony. «A Bamborow, a Bamborow, nel nome di Re Richard, e morte e distruzione a chiunque si sia impossessato della terra del re.» Il suo grido fu portato via dal vento e dall'oscurità. Non era ancora del tutto buio, e la nebbia si era infittita fino a creare una nube umida che nascondeva la luna, il mare fosforescente e la linea di confine tracciata da Re Edward. L'oscurità si era impadronita di Bamborowlea: in città porte e finestre erano sprangate e non si scorgeva traccia degli abitanti. Perfino le tenui luci che filtravano dalle imposte erano fagocitate dalla nebbia. I viaggiatori percorsero le vuote vie lastricate che portavano al castello, che sorgeva su uno spuntone di roccia che sovrastava il mare, dando l'impressione, con la sua mole nera, di disprezzare tanto la terraferma quanto le onde. Quando raggiunse il bordo del fossato, Elizabeth vide che la nebbia non proveniva dall'oceano ma scaturiva dal castello stesso. Emanava, densa e oleosa, dalla sua torre più alta, deponendosi sui bastioni per poi allargarsi verso il mare. Non appena il pony di Elizabeth calpestò il legno del ponte levatoio, ogni rumore circostante cessò: la principessa non poteva sentire neppure il suono del proprio respiro, e dovette voltarsi per avere la certezza che Jackie, Menadel e Guenhwyvar la stessero ancora seguendo. Il silenzio cominciò a far innervosire i cavalli. Elizabeth cercò di fischiare, ma non vi riuscì. L'aria era fredda e immota, e perfino il mare sembrava oppresso dalla nebbia. Elizabeth trasse una boccata di aria fredda e si mise a cantare. Canterò una canzone, O. Io canto una canzone, O Vengo come menestrello, O.
Accettate questo mio canto, O. Elizabeth udì a stento la propria voce mentre intonava il tradizionale canto di saluto del menestrello che cercasse riparo. Ripeté allora la strofa, usando questa volta come primo verso l'incantesimo di rune che dava forza alla voce. Il rumore risultante ebbe tutta la potenza delle strida di un pulcino appena nato, ed Elizabeth sentì la paura levarsi con la nebbia. Il castello era enorme, con torri e bastioni che si perdevano nella foschia. La pusterla brillava per l'umidità, e le sue sbarre apparivano bianche e aguzze come le zanne di un mostro marino. Due guardie in armatura completa sostavano accanto al cancello, e i loro volti erano due teschi: non c'erano occhi nelle orbite, né labbra che coprissero i denti... ma perfino Jackie, che pure non aveva il dono della magia, poté sentire il respiro che esalava da quei cadaveri. «Questa storia non mi piace» cercò di dire, ma l'unica cosa udibile nella quiete totale fu soltanto il respiro pesante delle guardie. Dall'alto dei bastioni giunse un rumore metallico, il rumore di una porta che si apriva su cardini stridenti. Elizabeth, Jackie, Guenhwyvar e Menadel sollevarono lo sguardo di scatto, stupiti da quel suono inatteso. «Chi è là, e cosa venite a cercare al Castello di Bamborow?» chiese una voce di donna, ricca e profonda come il vino stagionato. La voce giungeva, insieme alla nebbia, dalla torre più alta, e non sembrava accogliente. «Sono Elizabeth, menestrello di Englene, con il mio seguito: Jackie Somers il giullare, Guenhwyvar la veggente e Menadel il mago. È mio diritto chiedere asilo qui. Ho intonato il canto di saluto, ma tu non hai risposto e non hai aperto i tuoi cancelli.» «Canti come un gufo morto! Vattene dal mio castello: qui non troverai rifugio.» La nebbia che circondava la torre si aprì, rivelando una donna vestita di nero, con i lunghi capelli bianchi che si agitavano nella brezza. «Andatevene» ordinò la donna, «o sarà peggio per voi.» «Ma, mia signora, io ho il diritto...» Le parole di Elizabeth furono soffocate da un getto di sciacquatura di piatti che piombò su di lei e sugli altri, inzuppandoli. Una risata rauca come quella di un corvo giunse quindi dai bastioni. «Andatevene, marmaglia, andatevene. Non ho bisogno di gente come voi, a Bamborow.» Elizabeth si pulì gli occhi dall'acqua sporca e unta. «Buona donna, io sono un menestrello, e come tale ho diritto almeno a
ricevere ospitalità. Ti prego di accogliermi.» C'era una nota d'acciaio nella voce di Elizabeth, ma lei stava sprecando la sua ira, perché sui bastioni non c'era più nessuno. La donna era rientrata. Elizabeth rimase immobile sulla sella, con la schiena irrigidita dall'ira che la pervadeva. «Con i miei poteri, potrei probabilmente distruggere questo castello e raderlo al suolo» borbottò. «Potrei maledire il seme di questa famiglia per sempre, ma non lo farò. Ci potrebbe essere un valido motivo per cui i menestrelli non sono i benvenuti in questa dimora, quindi non giudicherò aspramente quella donna finché non saprò se una simile motivazione esiste davvero. Venite, mi è parso di aver scorto una taverna, quando abbiamo attraversato Bamborow-lea, e forse là saremo benaccetti.» La principessa girò il cavallo e ripercorse il ponte levatoio al piccolo galoppo, seguita dai compagni. Il villaggio di Bamborow-lea era piccolo: qualche casa dal tetto di paglia, una capanna di pescatori o due, e niente altro. Come aveva detto Elizabeth, c'era però una taverna... piccola, malconcia, dall'aspetto malfamato, e un luogo tutt'altro che adatto all'erede di Englene... ma in quel momento l'erede di Englene era più bagnata di una sirena e puzzava di cavolo stantio. La sua principale preoccupazione era per ora quella di trovare abiti puliti, un letto senza pulci e qualche informazione. Quanto agli abiti puliti, li aveva nelle sacche della sella, e la taverna avrebbe fornito il letto e le informazioni... e magari anche una cena. L'idea della cena le fece brontolare lo stomaco, ma lei si costrinse a placare i morsi della fame, perché era possibilissimo che qualsiasi cibo quel locale avesse da offrire fosse altrettanto scadente e disgustoso quanto l'aspetto esteriore della taverna. L'interno era sporco e fumoso, con un focolare poco pulito, ed in esso dominava un odore di sudore e di birra acida; nell'aria echeggiava il suono rauco di un canto di ubriachi, accompagnato dal battito scandito dei boccali di birra. Elizabeth si soffermò sulla soglia per ascoltare la canzone: Non mangiamo mai maiale, perché ci rende noiosi, Ma la birra, la birra, portateci la buona birra. Non mangiamo mai le ostriche, perché ci rendono troppo vogliosi, Ma la birra, ma la birra, portateci la buona birra. Come accompagnamento al coro, i boccali venivano sbattuti sul piano
dei tavoli. Quella non era una bella canzone, ma non era neppure brutta: era soltanto un rauco frastuono. Non mangiamo mai cigno bianco, al re quel piatto s'imbandisce, Ma la birra, la birra, portateci la buona birra. Non mangiamo mai serpente di mare, perché non è pesce, Ma la birra, la birra, portateci la buona birra. Non mangiamo mai dolciumi, perché il grasso fanno accumulare Ma la birra, la birra, portateci la buona birra. Non mangiamo mai porridge, soltanto un gatto lo riesce a mangiare. Ma la birra, la birra, portateci la buona birra. Non mangiamo mai l'aglio, perché fa puzzare il fiato, Ma la birra, la birra, portateci la buona birra. Non mangiamo mai ghiro, perché strilla a perdifiato, Ma la birra, la birra, portateci la buona birra. «Quando dura questa roba?» chiese Elizabeth, rivolgendosi a Jackie. «Andranno avanti per tutta la notte, oppure smetteranno quanto basta per rispondere a qualche domanda?» «Oh, la smetteranno quando saranno troppo ubriachi per andare avanti o quando avranno esaurito tutta la birra. La canzone va peggiorando, cucciolo, e alcuni versi sono decisamente pesanti. Se vuoi incrementare la tua padronanza della lingua umana, ascolta una ventina di strofe, e imparerai cose che non hai mai sentito alla corte di tuo padre.» «Venti strofe di questa roba mi faranno impazzire o mi indurranno a tagliare qualche gola. Spero che la smettano presto.» Elizabeth scelse un tavolo vuoto in un angolo in ombra e segnalò ai suoi amici di sedersi. Gli occupanti della taverna notarono l'arrivo degli stranieri e, a poco a poco, il canto cessò, finché rimase soltanto una voce che, ubriaca e decisa, intonò il verso successivo. Perché mai ci verranno i vermi finché a cantare conti-
nueremo, La birra, la birra, portateci la buona birra. E poiché è assai bello, mai di bere smetteremo, La birra, la birra, portateci la buona birra. Mentre pronunciava per l'ultima volta la parola "birra", l'indefesso cantore cadde a faccia in avanti sul piano del tavolo sporco di bevande rovesciate, e il suo russare gorgogliante pervase la stanza. Non giunse nessuna cameriera, nessun locandiere venne a chiedere cosa desiderassero i nuovi ospiti, e gli umani rimasero seduti come statue di legno con lo sguardo fisso sui viaggiatori. Alla fine un robusto contadino, forse un po' più sbronzo o un po' più coraggioso degli altri, si issò in piedi e si diresse barcollando verso il tavolo dei nuovi arrivati, appoggiandosi con le mani sul piano di legno e accostando la propria faccia a quella della Principessa Elizabeth. L'uomo fissò a lungo la principessa, sbattendo le palpebre per smaltire la sbornia e schiarirsi la vista. «Sei la figlia di un signore della magia?» chiese. Il fiato gli puzzava di cipolle, di pesce salato e di una grande quantità di birra. «Hai l'aria della figlia di un signore della magia. Hai i capelli rossi, sei alta e robusta, ma non hai gli occhi azzurri. Forse sei una discendente bastarda, o qualcosa del genere...» L'uomo si grattò i capelli sporchi e sbirciò attentamente la ragazza. «Ho nelle vene il sangue dei signori della magia, ma la cosa non ti riguarda» ribatté Elizabeth. «Voglio il locandiere, e a meno che non sia tu, ti suggerisco di tornare alle tue canzoni e alla tua birra.» La principessa fissò il contadino in maniera tale da indurlo a ritrarsi dal tavolo con una serie di goffi passi saltellanti. L'uomo recuperò l'equilibrio quando si trovò con la schiena contro un tavolo. Barcollando, scosse il capo per schiarirsi le idee. «Il locandiere, sì, vuoi il Vecchio Tom...» Il contadino girò la testa in direzione del retro della locanda e lanciò un grido che sembrava il muggito di un toro ubriaco. «Tom! Tom! Porta qui il tuo grosso ventre e lascia perdere le servette. Hai una signora della magia per cliente, la figlia di un signore della magia! E vuole qualcosa da te!» «Piantala di strillare, Black Will. Non sto forse arrivando?» Il locandiere sbucò all'improvviso, come un coniglio da un cappello. Era un uomo grasso, con la faccia e il naso arrossati che indicavano come avesse la tendenza
ad assaggiare abbondantemente la sua buona birra. Gli occhi erano piccoli come neri chicchi di uva sultanina, e lui impiegò qualche istante a individuare Elizabeth e i suoi compagni. Quando li vide, i suoi occhi si socchiusero e quasi scomparvero nella massa di lardo delle guance, mentre lui si accostava al tavolo con passo lento e quasi riluttante. «Che cosa desideri qui, signora? Vedo dai tuoi abiti inzuppati che sei un menestrello, quindi sarai abituata a luoghi migliori della mia locanda. Che cosa vuoi da me?» Era chiaro che l'uomo si sentiva a disagio per la presenza di una signora della magia nella sua taverna, e lanciò uno sguardo a Black Will, come se volesse da lui una spiegazione. «Non ti preoccupare, Tom» disse questi, «Lei ci aiuterà a liberarci dalla nostra malasorte. È evidente che è la figlia di un signore della magia.» «Se ti può essere di qualche conforto, locandiere» intervenne Elizabeth, «appartengo al ceppo dei signori della magia soltanto per metà, e ultimamente i miei gusti non sono poi così schizzinosi. Accetterò qualsiasi letto potrai procurare a me e al mio seguito, e ti pagherò il cibo e l'alloggio con buone monete del regno. La castellana di Bamborow mi ha negato ospitalità, quindi non ho avuto altra scelta che quella di visitare la tua umile locanda.» «Non mi stupisce che lo abbia fatto» commentò il Vecchio Tom. «La nera signora non rispetta il codice dei menestrelli, e non dà aiuto a nessuno, né a noi che siamo i suoi sudditi, né agli stranieri né alla figlia di un signore della magia. È stata lei a bagnarti con la sciacquatura dei piatti, vero? Sento l'odore da qui, e puzza di cavolo e di montone stantio. Non mi sorprende, perché sembra essere uno dei suoi trucchi preferiti.» Il locandiere emise un enorme sospiro ed accennò ad allontanarsi. «Ma cosa ci dici della stanza e del cibo?» lo richiamò Jackie. «Abbiamo freddo, siamo bagnati e affamati. Vorresti forse buttarci fuori all'addiaccio come ha fatto la signora di Bamborow?» Il locandiere tornò a voltarsi con un sospiro tanto forte da far tremare tutto il suo enorme ventre. «Non voglio che si dica che agisco come la nera signora di Bamborow, quindi vi darò ospitalità, riparo, cibo, birra e un luogo dove cambiarvi. E poi» aggiunse, agitando una mano in direzione degli altri occupanti la locanda, «costoro hanno qualcosa da chiederti. Prima, però, cambiati, mangia e bevi. Il loro problema può aspettare, perché sta già aspettando da un pezzo.» I viaggiatori furono accompagnati in una soffitta grande quanto un guar-
daroba, dove ci fu una grande quantità di spintoni e di proteste mentre tutti e quattro procedevano a cambiarsi d'abito. Il piacevole contatto degli indumenti puliti e un'energica lavata alla faccia apportarono un certo miglioramento al loro umore; quando poi tornarono di sotto, scoprirono che il locandiere era stato fedele alla sua promessa ed aveva fornito boccali di quella birra chiamata "Latte di Drago" e quattro piatti di uno stufato di ignota composizione ma dall'eccellente profumo. Elizabeth ne mangiò quattro porzioni prima di dichiararsi sazia, e Jackie, Menadel e Guenhwyvar non furono da meno. La principessa si era limitata a bere un solo boccale di birra, mentre Menadel, che ne aveva consumato una quantità pari a quella del cibo ingoiato, stava ora russando leggermente, con la testa appoggiata alla spalla di Guenhwyvar. Jackie, dal canto suo, aveva bevuto appena mezzo boccale di birra. «È una bevanda forte» commentò, «e nel caso che il locandiere abbia avuto l'idea di aggiungerci qualcosa, ho pensato che almeno uno di noi dovesse conservare la mente limpida.» Lanciò un'occhiata a Menadel. «Lui ci sarà davvero di molto aiuto, se ci troveremo nei guai.» «Ho sentito ogni parola che hai detto, buffone» annunciò Menadel, con un sonoro sbuffo. «Sto dormendo, ma non così profondamente.» Poi la testa gli ricadde contro la spalla di Guenhwyvar e lui si rimise a russare. Ora che avevano finito di mangiare, gli abitanti del villaggio avevano cominciato ad avvicinarsi al loro tavolo, fino a raccogliersi in cerchio intorno ad esso, ed Elizabeth si trovò a guardare dal basso in alto un gruppo di uomini dall'aria pericolosa. Erano tutti di carnagione bruna, brizzolati e non troppo puliti nella persona e nel vestiario. Le mani larghe, la pelle secca, la massiccia muscolatura delle spalle erano tutti particolari che li identificavano come contadini, ma era anche possibile che fossero ladri, tagliagole, ladroni e una mezza dozzina di altre cose sgradevoli. Ed era chiaro che intendevano chiedere qualcosa ad Elizabeth. «Bene» disse la principessa, «ho mangiato, mi sono cambiata d'abito ed ho bevuto. Il locandiere ha affermato che volete qualcosa da me, e credo che siate venuti proprio per parlarmi di questo.» Gli uomini borbottarono fra loro, spingendosi avanti a vicenda, incerti nel decidere chi dovesse fare da portavoce. Alla fine, fu Black Will che si portò nuovamente in prima fila, appoggiando le mani al piano del tavolo e accostando la faccia a quella di Elizabeth. «Abbiamo un drago, capisci. Si tratta di un drago orgoglioso e feroce, grosso quanto il castello di Bamborow. Ha bruciato le foreste, ha mangiato
le nostre pecore, ha bevuto il nostro latte e non ha disdegnato di divorare anche un paio di abitanti. Soltanto la magia può uccidere un drago. Tu sei una signora della magia, anche se indirettamente, quindi sei magica, e il fatto di essere un menestrello ti rende ancora più magica, quindi tu ucciderai il drago per noi.» L'uomo si risollevò, avendo ovviamente detto tutto quello che riteneva necessario. «Aspetta» replicò Elizabeth. «Un drago? Sei certo che si tratti di un drago? L'ultima volta che ne ho visto uno...» Per poco, Elizabeth non si lasciò sfuggire che l'ultimo drago che aveva visto era una piccola e deliziosa creatura appollaiata sul polso di suo padre, durante il torneo per il suo compleanno, e che non le era sembrato particolarmente spaventoso, anche se puzzava di zolfo. Quello, tuttavia, non sarebbe stato un saggio commento. «Nel sud, da dove provengo» spiegò invece, «i draghi sono piccole bestie assai poco pericolose. Il più grosso che abbia mai visto in vita mia aveva appena le dimensioni di un cane da caccia. Inoltre, credo che abbiate le idee un po' confuse in fatto di magia: sono soltanto i cavalieri, i nobili, le principesse e un paio di menestrelli che affrontano i draghi... menestrelli di sesso maschile. Io sono una fanciulla, contadino... oppure il bere ti ha offuscato la vista al punto che non riesci a vederlo? E ti avviso che, come fanciulla, io non uccido draghi.» «Sì, vediamo che sei una fanciulla, ed anche ben carrozzata» sogghignò Black Will, mentre i suoi compagni ridevano e si davano di gomito per la battuta. «No, signora» intervenne il Vecchio Tom. «Questo non è un piccolo drago del sud: è un grosso bestione del nord. È grosso quanto il castello di Bamborow, ed ha un temperamento degno di quello della nera signora. È vero che spetta agli uomini uccidere i draghi, ma la cosa più importante è che è la magia ad ucciderli. Bamborow è un posto isolato, e nessuno viene qui dalla corte: da quando Lord Percy è morto, noi siamo tormentati da questo drago, e nessuno degli abitanti del castello ci vuole aiutare. Tu sei magica, perché hai il sangue dei signori della magia, e può darsi che una donna come te possa uccidere il drago. Comunque, noi non possiamo continuare così, con questo drago che ci beve il latte e ci divora pecore e compaesani.» «Sì, sì, Tom, non è quello che ho detto io?» borbottò Black Will. «Volevo chiedere a questa donna di uccidere la bestia per noi, e tu ti sei intromesso.» Black Will si grattò ancora i capelli, scovando un pidocchio che si
affrettò a schiacciare fra i denti. «Bene, eccoci qui... non siamo nobili, non abbiamo magia e abbiamo bisogno di te. Ti chiedo di uccidere il drago, altrimenti...» Gli occhi dell'uomo si socchiusero leggermente in un'espressione astuta. «Altrimenti potremmo impacchettarti per bene e regalarti alla nera signora di Bamborow, e non credo che ti piacerebbe trovarti di nuovo davanti alle sue porte, perché questa volta la sua accoglienza non si limiterebbe alla sciacquatura dei piatti.» Black Will rise, esibendo i denti neri e marci. Elizabeth estrasse la daga e la posò sul tavolo: a una sua parola, la lama prese a brillare di una fiamma azzurra. La folla dei presenti si ritrasse, intimorita. Tutti sapevano quale fosse la pena a cui andava incontro chi possedeva una lama del genere senza il permesso delle streghe silvane, e compresero che avevano a che fare con una persona dotata di una magia davvero potente. Non capitava spesso che le streghe silvane concedessero il loro favore alla progenie di un signore della magia. «Tu e chi altro, Black Will?» chiese Elizabeth, in tono sommesso. «Non mi piace essere minacciata, ed ho una mezza idea di legare te e di lasciarti come cibo per il drago... oppure preferisci la nera signora di Bamborow?» «Suvvia, signora, sii misericordiosa con Black Will» intervenne il Vecchio Tom. «Non aveva intenzioni cattive. Quel drago ci sta tormentando da tempo, e questo lo ha sconvolto, ecco tutto.» Elizabeth rispose con un grugnito, raccogliendo la daga. «Molto bene, non lo lascerò in pasto al drago... o alla nera signora. Ma non voglio essere ancora seccata da gente come lui, altrimenti, locandiere, sarà la tua pelle quella che appenderò alla porta della locanda. Mi hai capita?» «Sì, signora. Ma se non sarai tu ad uccidere il drago, chi lo farà? Potrebbero passare anni prima che un altro come te capiti a Bamborow-lea, e quando verrà noi gli dovremo dire che tu non hai obbedito al codice dei menestrelli, che impone di aiutare quelli come noi. Questo ti rende spergiura nei confronti del codice quanto lo è stata la nera signora.» Tom si massaggiò il mento e osservò Elizabeth reagire alle sue parole esattamente come aveva sperato. «Non ho intenzione di promettere nulla, per stanotte» disse la ragazza, «ma terrò a mente le tue parole riguardo al codice. Non voglio che si facciamo paragoni fra me e la nera signora, locandiere. Discuterò di questa faccenda con i miei compagni, e domattina ti darò la mia risposta, non
prima. Inoltre» aggiunse, lasciando vagare lo sguardo sulla folla, «non mi va di muovere un dito per gente come voi: se ucciderò questo drago, lo farò soltanto per il mio onore e la mia gloria. Se invece deciderò di non uccidere quella belva e i signori della magia verranno a conoscenza della cosa, mi difenderò parlando delle minacce che sono state profferite contro una donna che ha sangue di signori della magia nelle vene, e questa cittadina sarà ridotta alle macerie da cui è sorta.» Elizabeth si alzò in piedi e ordinò con un cenno a Jackie, a Guenhwyvar ed a Menadel di seguirla al piano di sopra, nella piccola e soffocante stanza che era stata loro assegnata per quella notte. Il pavimento della camera era stato coperto con uno spesso strato di paglia, ed era grande appena lo stretto necessario perché tutti e quattro potessero distendersi uno vicino all'altro. La stanza era calda e poco arieggiata, ma la paglia era fresca e non sembrava che ci fossero pidocchi, quindi Elizabeth si dichiarò soddisfatta. «E cosa deciderai in merito al drago?» chiese Jackie. «Domani assisteremo a qualche bizzarro torneo, cucciolo? Non ti ho mai vista affrontare un vero drago, e potrebbe essere divertente.» «Divertente per chi?» ribatté Elizabeth. «Per il drago o per me? Non ho mai ucciso un vero drago in tutta la mia vita! Non so neppure con certezza come si faccia, e mi chiedo se quella bestia sia grande quanto il castello di Bamborow. Potrei rimandare Menadel a corte per chiedere a mio padre di inviare un esercito di cavalieri in questa zona, o magari per chiedergli semplicemente di distruggere lui il drago: l'anello Raziel ha un potere sufficiente ad uccidere qualsiasi drago che si trovi nel raggio del suo pensiero. Io sono l'unica figlia di Re Richard, Jackie. Anche se sono per metà una strega silvana, sono l'unica figlia che potrà mai avere, e se dovessi morire combattendo contro uno stupido mostro, a chi andrebbe il trono? A quell'idiota di mio cugino John? Sarebbe proprio un bel re!» «Stando a quanto ho sentito, i draghi hanno il respiro velenoso ed esalano fuoco, oltre ad avere zanne e artigli affilati, e mia madre non mi ha allevata perché diventassi esca per draghi. No, non vedo come potrei fare una cosa del genere, è inutile. Non ho mai sentito parlare di una donna che abbia affrontato un drago, e potrebbe essere un grave errore, un errore di cui non potrei pentirmi perché non vivrei abbastanza per farlo.» «Una volta, ho visto un serpente di mare» commentò Guenhwyvar. «Si stava divertendo al largo, sotto il seggio di Dewi Sant, e stava eseguendo un'antica danza con una sirena. Era uno spettacolo strano e affascinante.»
«Ma tu vedi qualche probabilità da parte mia di sconfiggere il drago?» domandò Elizabeth. «Vorrei che il tuo dono fosse un po' più preciso» Menadel, devi insegnare a questa ragazzina come vedere ciò che ci serve quando ci serve, altrimenti le informazioni che può darci sono troppo scarse e arrivano con troppo ritardo. Guenhwyvar assunse un'espressione triste, trattenendo a stento le lacrime, e cominciò a tossire. Elizabeth allora si affrettò a rassicurarla e a garantirle che la sua presenza era effettivamente utile nel corso del loro viaggio. «Ti prometto che ti dirò tutto quello che potrebbe capitarmi di vedere questa notte» disse la ragazza, «ma per ora so soltanto che un grande dono ti giungerà dalle torri del castello di Bamborow: Uryan sarà tua.» «Chi, o cosa è Uryan?» s'informò Jackie. «Non lo so!» esclamò Guenhwyvar, e cominciò a singhiozzare sul serio. Menadel la confortò, facendo apparire una serie di conigli di zucchero dalla manica della propria tunica, e alla fine i singhiozzi della ragazzina si mutarono in risatine. «Inoltre, abbiamo il problema delle armi» osservò a quel punto il mago. «Tu non sei armata adeguatamente, Elizabeth, e i nostri pony a soma non sono abbastanza robusti per affrontare un drago. Ti servirebbe un destriero o qualcosa di simile, e comunque non hai né spada né armatura, e non credo che questi villici ti possano fornire ciò che ti serve, senza contare che se anche uno di loro ha una spada, non sarà certo propenso a rendere pubblica la cosa. Se poi pensi di poter andare contro il drago con quel tuo stuzzicadenti azzurro e di ucciderlo, ebbene, sappi che non funziona in questo modo e che il drago ti ridurrebbe in cenere prima che tu riuscissi ad arrivare a dieci metri da lui.» «Ammesso che sia così grosso» intervenne Jackie. «Sai benissimo che dimensioni hanno i draghi, dalle nostre parti. Perfino quello che tengono nella Torre di BrynGwyn è così piccolo che io ho potuto cavalcarlo durante l'ultima Mascherata di Beltane. Riconosco che dopo ho dovuto buttare via la mia livrea, perché puzzava di zolfo, ma i draghi non sono poi così pericolosi. E se questi stupidi contadini sono davvero convinti che là fuori ci sia un mostro... allora va' ad ammazzarlo. Potrebbe essere eccitante, e poi pensa a cosa proverebbe tuo padre se tu gli portassi dal nord una testa di drago. Anche se piccola, una testa di drago è sempre una testa di drago.» «Questo è un altro aspetto del problema» ammise Elizabeth. «Ho paura
che possa trattarsi di un drago piccolo. Hai idea di come mi sentirei ridicola se finissi per andare nei boschi a caccia di una stupida lucertola? Io sono l'erede di Englene... non una cacciatrice di salamandre, e tu sai come i contadini siano propensi ad esagerare. Grande quanto il castello di Bamborow, proprio! E mi sentirei sei volte più idiota se poi là fuori non ci fosse altro che il frutto della loro immaginazione.» «E se invece ci fosse un vero drago?» obiettò Menadel. «Quella è gente rude, ma ha ragione. Se c'è un drago, tu hai l'obbligo di ucciderlo, e il fatto di essere l'erede di Englene significa che non puoi ignorare questo scontro. Non hai scelta. Ricorda che devi compiere qualche grande gesto in questa regione, ed uccidere un drago sarà un atto di grande potere e di grande magia.» Elizabeth sbadigliò, stiracchiandosi, e così facendo colpì violentemente alla testa tanto Jackie quanto Menadel. «Mi dispiace, non volevo, ma qui dentro è così stretto. Quanto al drago... io sono una principessa, e le principesse non vanno a caccia di draghi... ma credo che dovrò farlo. Mio padre detesterebbe l'idea che tutti possano ridere di me soltanto perché ho rifiutato di affrontare uno stupido, piccolo drago...» Con un altro sbadiglio, si girò su un fianco, colpendo ancora Jackie con un braccio, e ben presto prese a russare sommessamente, sognando avventure popolate da draghi. CAPITOLO SEDICESIMO Il mattino successivo, quando scese le scale incespicando, tutta indolenzita, Elizabeth vide che all'assortimento di ubriaconi della sera precedente si era adesso aggiunto un assortimento di villici, per la maggior parte un po' più puliti e di classe più elevata di Black Will e dei suoi compari. C'era perfino un grasso e piccolo gentiluomo, vestito con una tunica grigia e con una catena intorno al collo, che era ovviamente il sindaco del posto. Alla vista di Elizabeth, questi si fece largo fra la folla, ansando e sbuffando, e si diresse verso di lei. «Mia signora, menestrello. Siamo stati informati da svariati abitanti di questo villaggio che è tua intenzione uccidere il drago. Come sindaco di Bamborow-lea, io sono qui per porgerti i miei caldi ringraziamenti e il mio grande apprezzamento. Siamo stati molto tormentati da questo drago, e siamo onorati dalla tua presenza. Se dovessi tornare vincitrice dal bosco,
naturalmente daremo una festa in tuo onore.» «Noto, mio signore, che hai usato il termine se, come se non fossi molto sicuro del mio ritorno.» Il sindaco si mosse con irrequietezza, abbassò lo sguardo sulle proprie scarpe e infine tornò a fissare Elizabeth, più alta di lui di una testa e mezza. «Ecco, vedi, tu sei una fanciulla... ma possiedi la magia, quindi dobbiamo supporre che la cosa funzionerà... D'altro canto, non ho mai sentito parlare di una donna che abbia ucciso un drago: di solito i draghi prendono prigioniere le fanciulle, oppure le divorano. Tu hai deciso di correre un grande rischio, mia signora, davvero grave: io sono orgoglioso che tu sia venuta nel mio villaggio, e negli anni futuri racconterò ai miei nipotini della fanciulla menestrello giunta a Bamborow-lea e pronta a sacrificarsi per noi insignificanti abitanti.» «Sì, sì, sono consapevole di tutto questo» intervenne Elizabeth, troncando a mezzo il discorso del sindaco. «Però, vedi, ho un problema: se devo affrontare il vostro drago, mi serve un'armatura. Non ho neppure una spada o un cavallo adeguato. Il mio piccolo pony probabilmente fuggirebbe come un coniglio non appena avvistasse la bestia che mi hai descritto.» «Oh, a questo abbiamo già provveduto» esclamò, dalla folla, la voce di Black Will. «Abbiamo trovato un cavallo, ti abbiamo preparato un bastone per draghi ed abbiamo perfino scovato uno scudo. John Hightop, su alla Fattoria della Quercia, la scorsa primavera stava arando quando l'aratro ha urtato questo pezzo d'ottone, proprio nel centro del campo. È saltato fuori uno scudo vecchio di una cinquantina d'anni, ma ancora buono... cioè, il metallo non è troppo rovinato. Oso dire che hai tutto quello che ti serve.» Elizabeth cercò di trattenersi dal ridere o dal piangere. Il tipo di cavallo che la gente di un villaggio come Bamborow-lea poteva averle procurato era ovvio; il pensiero di un vecchio scudo corroso scovato in un campo era ridicolo e, nel nome delle Tre regioni, cosa mai era un bastone per draghi? «Ah, vi ringrazio molto, ma credo che mi piacerebbe dare un'occhiata al mio equipaggiamento, prima di andare a ingaggiare battaglia con il mostro.» Elizabeth si trovò subito circondata dagli abitanti del villaggio, che la sospinsero gentilmente verso la porta della locanda e sulla strada. Là, in piedi sul selciato, c'era effettivamente un cavallo: un cavallo da aratro... un grosso cavallo da aratro... un grosso e vecchio cavallo da aratro... un grosso, vecchio e sporco cavallo da aratro. Un pezzo di tela da sacco era stato legato sul dorso della bestia, come parvenza di sella, e le briglie che servi-
vano per attaccarlo all'aratro erano state accorciate abbastanza da poter essere usate per guidare la bestia stando in groppa... ma nel complesso il povero animale sembrava più adatto al macello che a un combattimento contro un drago. Accanto al cavallo, sul selciato, c'era lo scudo... coperto di verderame, ammaccato, con le cinghie di cuoio crepate e spezzate: era inutile come arma di difesa. Il bastone per draghi risultò essere un palo di legno di frassino, lungo poco più di due metri, con un'estremità avvolta in una serie di stracci e cosparso di pece e di altre cose che Elizabeth non riuscì a identificare. Lo scopo di quell'arnese le sfuggì completamente. «Cos'è quello?» chiese, indicando il palo. «È il bastone per draghi, signora» spiegò Black Will. «Non ne avete, nel sud? Noi insegniamo tutto ai nostri giovani in merito ai bastoni per draghi, in modo che non si comportino da sciocchi se dovessero trovarsi ad aiutare un cavaliere ad uccidere un drago. Anche alle nostre ragazze insegniamo il modo più adeguato per ammazzare un drago. Le nostre donne fabbricano i bastoni d'inverno... vedi, noi siamo tormentati dai draghi che abbiamo qui al nord. Ogni ragazzo di questo villaggio può dirti a cosa serve un bastone per draghi.» «Allora trova un ragazzo che me lo dica, perché io non ho mai visto nulla di simile in vita mia e non ho idea di come si debba usarlo contro un drago.» «È ovvio, cucciolo» intervenne Jackie, saltando fuori dalla locanda e avvicinandosi per esaminare l'oggetto in questione. «A giudicare dalla forma e dalle dimensioni, bisogna piantarlo in corpo al drago, da una parte o dall'altra, a seconda se lo prendi davanti o di spalle.» La battuta strappò una risata alla folla, ma non ad Elizabeth. «Senti un po', Somers, mio piccolo buffone, che ne diresti di affrontare tu il drago... da una parte o dall'altra?» Elizabeth non era in vena di scherzi, perché era ovvio che la decisione di uccidere il drago non dipendeva più da lei. Era circondata da tutti quegli abitanti che si sentivano certi che lei si sarebbe assunto l'incarico, e Jackie sceglieva proprio questo momento per mettersi a fare commenti osceni su come usare su un drago quel pezzo di legno. Era più di quanto lei potesse sopportare, soprattutto a stomaco vuoto. «Lady Elizabeth, qualcuno si deciderà a preparare la colazione?» chiese Menadel, con tono lamentoso, dall'interno della locanda. «Guenhwyvar è affamata come un falco e minaccia di sfamarsi a mie spese, e poi anch'io vorrei la colazione, prima di andare ad assistere all'uccisione di un drago.
Tuttavia, dal momento che non ho mai visto una cosa del genere, non so se fare colazione sia poi una buona idea. C'è qualche possibilità che possa perderla... la colazione, intendo?» Menadel e Guenhwyvar erano apparsi sulla soglia, e il mago rivolse l'ultimo commento alla folla. Anche le sue parole furono interpretate come una battuta, e quindi vennero accolte con applausi e sonore risate. Elizabeth si accostò alla testa del bastone per draghi e assestò un calcio agi stracci impeciati che l'avvolgevano. «Cosa ci faccio con questo?» chiese ancora. «E non rifilarmi quell'assurdità secondo cui in questo villaggio lo sanno tutti. Io non lo so, e se non me lo spieghi, dovrai sbrigartela di persona con il drago.» «Ecco, signora» si affrettò a spiegare Black Will, «si prende questo bastone, e con acciarino ed esca si incendiano gli stracci e la pece. Meglio farlo quando si è in sella, perché salire a cavallo impugnando un bastone per draghi incendiato non è una cosa facile. Una volta montata, incendi il bastone, ma è meglio aspettare di avvistare il drago, perché altrimenti si spegnerebbe prima che tu ti sia avvicinata alla bestia. Così, sei a cavallo con il bastone, e c'è il drago. Cavalchi in fretta verso la bestia, il drago ti vede arrivare ed apre la bocca... la spalanca, perché intende sputarti contro fuoco e veleno. Ma tu prendi il bastone e glielo pianti in gola in fretta, prima che lui butti fuori il fuoco, e così il drago muore soffocato. Quando la smette di contorcersi, gli si taglia la testa. È semplice.» «Se è tanto semplice, perché in questo villaggio nessuno lo ha ancora fatto?» domandò Elizabeth. «Nel villaggio non c'è nessuno che possieda la magia» spiegò ancora Black Will, come se stesse parlando a un bambino tardo di comprendonio. «E la pena per chi usa la magia senza averne il diritto per nascita è morire sul rogo nel centro della piazza. Questa è la pena per chi uccidesse il drago senza essere una persona magica. No, signora, in questo villaggio non c'è nessuno che possa farlo, tranne la nera signora... ma neppure lei è disposta.» Elizabeth sospirò. Le donne del villaggio portarono boccali di birra, pancetta stagionata in casa e focacce di orzo e miele, ed Elizabeth consumò una colazione davvero ottima... e considerato che poteva anche essere l'ultima, pensò che era un bene che fosse abbondante e saporita. Non poté però evitare di pensare anche che, così imbottita di birra, pancetta e frittelle fresche, sarebbe stata un boccone prelibato per il drago. Anche il drago avrebbe potuto trovare
ottima la colazione di quel giorno. Infine, trangugiato l'ultimo boccone, non ci fu più motivo di ritardare. Gli abitanti le indicarono come raggiungere la foresta in cui sostenevano che si trovasse il drago, ed Elizabeth montò in sella al suo pony di montagna. Accompagnata da Menadel, da Guenhwyvar e da Jackie, e conducendo per la briglia il cavallo da aratro, si mise alla ricerca del drago, dopo aver affidato il bastone a Jackie, aver implorato Guenhwyvar di vedere qualcosa e aver consegnato lo scudo a Menadel, nella speranza che durante il tragitto gli riuscisse di utilizzare qualche piccolo incantesimo per migliorarne le condizioni. La foresta abitata dal drago fu sorprendentemente facile da trovare, fin troppo facile. A giudicare dalla distruzione seminata tutt'intorno, fu subito evidente che c'era nella zona un drago molto grosso: avevano viaggiato per tre chilometri in mezzo a una fitta foresta, ed ora si trovavano in una zona in cui un incendio sembrava aver devastato gli alberi, lasciando un vuoto che puzzava di zolfo. In lontananza, Elizabeth scorse l'ammasso di rocce che formavano la grotta del drago: era risaputo che i draghi vivevano nelle grotte e, a giudicare dalle dimensioni di quelle massicce lastre di roccia, doveva trattarsi di una grotta di notevoli dimensioni per un inquilino piuttosto ingombrante. Con un sospiro, Elizabeth smontò dal pony, lo legò all'albero più vicino e, estratta la daga, pregò Sulis e Diona perché la proteggessero: era il minimo che potesse fare e, se per caso il Dio o la Dea erano svegli a quell'ora del mattino, forse sarebbero stati disposti a dare una mano all'erede di Englene. Riposta la daga nel fodero, la principessa allungò la mano verso lo scudo che Menadel aveva cercato di riparare; il suo aspetto sembrava migliorato in quanto le cinghie di cuoio apparivano nuove di zecca, il metallo non era più ammaccato e le tracce di corrosione erano scomparse. La principessa stava per congratularsi con Menadel per quel lavoro eccellente quando si accorse che c'era qualcosa di strano nel peso dello scudo: lo spostò da un braccio all'altro, valutandone l'equilibrio, poi batté, a titolo di esperimento, un colpetto con le nocche sulla sua superficie e al posto del rimbombare del metallo ottenne un suono cristallino. Lo scudo era aggiustato, splendido... e di vetro. «Menadel...?» «Lo so, lo so. È stato un errore, un lieve errore.» II mago aggrottò la fronte, mentre le guance paffute gli si arrossavano per l'imbarazzo. «Cre-
devo di aver tracciato la ruma del metallo... ma con il pony che sobbalzava, una cosa e l'altra... ecco la runa è risultata un po' deforme, vedi, simile a quella del cristallo...» Elizabeth abbassò lo sguardo sullo scudo e si accorse che, sebbene sembrasse metallico, aveva una lucentezza che non sarebbe mai stata ottenibile in uno scudo normale. La superficie rifletteva bene la luce del sole, e forse avrebbe potuto usarla come uno specchio, per distrarre il drago. Ricordò vagamente la leggenda di un antico eroe che aveva ucciso un mostro mentre si guardava in uno specchio... oppure era stato il mostro a guardare nello specchio? Non ricordava con esattezza, ma sapeva che la leggenda parlava di uno specchio; era possibile che la tradizione venisse rispettata, e questo la indusse ad accettare lo scudo così com'era. Restituì lo scudo a Menadel, e cercò di montare in groppa al cavallo da aratro, che non apprezzò l'idea: era ovvio che non era mai stato cavalcato da nessuno in vita sua, e per parecchi minuti Elizabeth dovette farlo girare in cerchio per calmarlo, sorpresa dalla quantità di energia ancora presente in quel vecchio sacco di ossa. Ottenuto alla fine il controllo dell'animale, allungò la mano verso lo scudo e impugnò il bastone offertole da Jackie. «Ti serviranno anche pietra e acciarino?» chiese il giullare, in tono soave. Conosceva già la risposta, ma sentì il bisogno di una battuta che rischiarasse l'atmosfera, perché l'aspetto tetro di Elizabeth lo preoccupava. «Userò pietra e acciarino per spedirti nella Regione Infera!» borbottò Elizabeth. «Pietra e acciarino, ma certo! Quello è un trucco umano. So fare almeno un incantesimo del fuoco, quindi quando arriverà il giorno in cui avrò bisogno di pietra e acciarino per accendere un fuoco, rinuncerò ai miei titoli, andrò a vivere in una grotta sul mare e convivrò con i granchi! Pietra e acciarino!» Il commento di Jackie aveva ottenuto il risultato voluto: adesso Elizabeth era irritata e pronta ad affrontare il drago. Jackie riconobbe fin troppo bene la nota cocciuta affiorata nella voce di lei, ed ebbe quasi pietà del povero drago. Elizabeth assestò un violento calcio nelle costole del cavallo, e riuscì a farlo partire a un galoppo molto scalcinato e scomodo per il posteriore e la schiena del cavaliere. Assestò un altro calcio, nella speranza di ottenere una maggiore velocità, ma l'animale si limitò a scrollare la testa e a mantenere il suo incerto galoppo. Quando arrivarono più vicino alle rocce, il fetore di zolfo divenne tanto intenso da soffocare anche una larva. Ad esso si mescolava un puzzo di
vecchie ossa e di carne putrescente, unito al verde odore metallico del drago stesso. Elizabeth fu assalita da un violento accesso di tosse che le colmò gli occhi di lacrime, al punto da indurla a chiedersi se ci avrebbe visto abbastanza bene da poter affrontare il drago, nel caso che fosse apparso davvero. E l'animale sbucò dal riparo di una lastra di roccia adiacente all'ingresso della grotta. Le rocce erano enormi, e il drago fermo accanto ad esse era parimenti gigantesco: Elizabeth non era certa che fosse grande quanto il castello di Bamborow, forse era grande soltanto la metà del castello, ma quello non era un punto su cui intendesse discutere, con gli abitanti del villaggio o con il drago stesso. La grossa testa da rettile si girò a destra e a sinistra, con le narici dilatate, quando il drago fiutò l'odore del cavallo e della donna; gli occhi rossi e ardenti si fissarono su Elizabeth e la fiera sbuffò, facendo scaturire dalle fauci un getto di vapore giallastro accompagnato da un tremolio di fiamma. Quella non era una piccola lucertola da portare sul polso: era un drago vero e proprio. Il cavallo indietreggiò improvvisamente, sbalzando quasi Elizabeth dalla sua groppa, tanto che la ragazza riuscì a rimanere in arcione soltanto grazie ai riflessi pronti e alla salda presa dei ginocchi. Cercò quindi di calmare l'animale, ma il cavallo continuò a tremare alla vista del rettile gigantesco, ed Elizabeth non riuscì in alcun modo a indurlo ad andare alla carica contro il drago. C'era, naturalmente, la possibilità che fosse il drago a correre contro di lei... nel qual caso il bastone per draghi sarebbe stato comunque efficace. Il drago sbuffò ancora, tanto che le nubi di fumo giallo gli nascosero quasi il muso, poi avanzò di un passo, due, tre, quattro... passi lenti e cauti, ma decisamente in direzione di Elizabeth, che decise essere giunto il momento di accendere il bastone per draghi. Non sapendo cosa funzionasse o meno contro un drago, mormorò qualche incantesimo protettivo, poi estrasse la daga e l'accostò all'estremità del bastone: immediatamente, la palla di stracci e di pece prese fuoco mentre il drago, allarmato dal bagliore della daga o dalla fiamma, indietreggiò di un paio di passi e poi... con estrema sorpresa di Elizabeth... si sedette sulle zampe posteriori, fissò la principessa e scoppiò a piangere. Elizabeth rimase seduta in groppa al suo cavallo da aratro, sentendosi un'idiota e guardando il suo bastone per draghi che bruciava in maniera spettacolare, intanto che le lacrime di drago, ciascuna equivalente a un
grosso secchio d'acqua, cadevano sfrigolando sul terreno bruciato. A rendere peggiori le cose, a quel punto il drago aprì le fauci e si mise a singhiozzare, una piega degli eventi che decisamente non figurava in nessuno dei libri di zoologia studiati da Elizabeth. Di norma, i draghi non piangevano. La principessa mise in resta la lancia in fiamme, affibbiò un calcio energico alle costole del cavallo e riuscì a farlo avanzare di un paio di passi in direzione del drago, prima che tornasse ad arrestarsi, chinando la testa fra le zampe anteriori: il cavallo aveva deciso di non collaborare a nessun tentativo di avvicinarsi maggiormente al drago. Quest'ultimo, intanto, stava emettendo rumori assordanti che facevano vibrare le rocce circostanti come se fosse stato in corso un piccolo terremoto, e le sue lacrime minacciavano di creare in breve tempo una palude di buone dimensioni. Era davvero una situazione sconcertante e, per confermare la sfortuna che perseguitava Elizabeth in fatto di incantesimi relativi al fuoco, la fiamma del bastone tremolò, si ravvivò per un momento e si spense, lasciandosi alle spalle soltanto gli ardenti residui della sua precedente gloria. Elizabeth imprecò fra sé e contemplò con disprezzo i resti del bastone. Non aveva mai pensato che una cosa tanto ridicola potesse funzionare, ma tutti gli abitanti del villaggio... fino al più giovane fra loro, a quanto pareva... avevano ritenuto che questo fosse il modo giusto per uccidere un drago. Elizabeth rifletté che potevano esserci metodi più validi. «Drago! Drago!» chiamò. «Vuoi smetterla con questo infernale frastuono e dirmi perché stai piangendo? I draghi non dovrebbero farlo, lo sai.» La fiera pose fine ai lamenti stentorei, ma non cessò di piangere. «Vedi» rispose, con una voce acuta e stridula, sorprendentemente sottile per una bestia di quelle dimensioni, «tu mi vuoi uccidere. Naturalmente, io mi aspettavo un principe, speravo proprio che si trattasse di un principe, ma è evidente che tu hai la magia necessaria e che intendi uccidermi, mentre io preferirei che tu non lo facessi. Se mi lascerai in vita, ti darò una cosa di grande valore. Vedi, io non sono un drago, bensì Lady Katheryne Percy... ma sono sotto gli effetti di un incantesimo. È per questo che speravo in un principe!» E il drago riprese a gemere e ad ululare. Elizabeth emise un sospiro di rassegnazione: questa non sarebbe stata una buona giornata. Prima il cavallo da aratro invece di un destriero come il suo White Surrey, poi quell'assurdo bastone per draghi che si era spento
all'improvviso, facendole desiderare sempre più di avere a portata di mano la sua magnifica spada a due mani contenente almeno sedici incantesimi di notevole potere (che sfortunatamente era però rimasta al Palazzo di Witchdame), e ora un drago che sosteneva di essere una fanciulla sotto l'effetto di un incantesimo. Elizabeth si accorse che la testa le doleva, probabilmente a causa dello zolfo contenuto nell'aria. Tuttavia, esisteva anche la possibilità che il drago fosse sincero. Elizabeth cercò di ricordare quello che aveva appreso durante lo studio dei draghi. Le sue cognizioni in quel campo non erano però molto approfondite, perché il custode dello zoo della Torre di BrynGwyn non era stato molto interessato ai draghi ed aveva sbrigato l'argomento in un arco di tempo assai breve. Il custode era affascinato dagli unicorni, ed aveva dissertato su di essi per giorni e giorni, annoiando Elizabeth al punto da farle venire voglia di piangere; quanto ai draghi, però, le aveva spiegato ben poco, e soprattutto non aveva parlato della loro sincerità. «Drago! Dimmi perché dovrei credere che sei una fanciulla sottoposta a incantesimo. A me sembri in tutto e per tutto un drago.» «Sei mai stata al castello di Bamborow? Hai visto la nera incantatrice, la mia matrigna? È stata lei a trasformarmi così, e mi ha detto che nessuno mi avrebbe mai riportata alla normalità, perché sarei stata uccisa prima di poter parlare. Ho cercato di essere un buon drago: ho mangiato soltanto pecore piccole e scarne, che non sarebbero sopravvissute all'inverno, e mi dispiace davvero di aver bruciato i campi di grano, perché non volevo farlo. E gli abitanti del villaggio continuavano a riempire gli abbeveratoi di latte destinato a me, e se non lo avessi bevuto sarebbe andato a male. Quanto alle persone che ho divorato... ecco, non erano gente per bene. Ho tentato di essere quanto più onorevole è possibile, per un drago, e mi piacerebbe moltissimo tornare ad essere una fanciulla, anche se naturalmente la mia matrigna escogiterà qualcosa di peggio da farmi.» E il drago riprese a piangere. Quel lacrimoso comportamento fu l'unico indizio che indusse Elizabeth a sospettare che la storia potesse essere vera... e lei aveva incontrato la nera signora di Bamborow e non stentava a credere che potesse essere stata capace di trasformare la figliastra in un drago. «D'accordo, drago: ogni incantesimo ha un contro incantesimo, e sono certa che ce n'è uno anche per questo. Ti dispiacerebbe dirmi di cosa si tratta?» Quella domanda parve soltanto spingere maggiormente il drago alla di-
sperazione. «Ma io volevo un principe» gorgogliò. «Era almeno una cosa che avrebbe reso accettabile aver dovuto vivere da drago, perché con il contro incantesimo e tutto il resto, se non altro avrei avuto qualcosa, alla fine. E tu invece non sei neppure un uomo!» «Sì, sì, lo so che non sono un uomo, l'ho saputo dal giorno della mia nascita, e so anche che questo è stato un problema per tutti, inclusi i miei genitori. Ora vorresti piantarla con questo argomento e dirmi qual è il controincantesimo? Comincio ad averne abbastanza, e fra un momento girerò questo cavallo, me ne tornerò al villaggio e dirò alla gente che tu non sei un drago ma una rampolla di Percy, e che possono smetterla di aver paura di te. Allora?» «Oh, ripongano la spada e allentino l'arco e mi diano tre baci» recitò il drago, stonando. «Perché se anche sono un verme velenoso, non farò alcun male agli audaci.» Elizabeth trovò che il canto del drago era ancora peggio delle sue copiose lacrime. «Povera me, baciare un drago» borbottò. «Io che non bacio neppure i miei cani, figuriamoci un drago. Sei certa di essere una fanciulla e che questo non sia un inganno? Perché se mi avvicino abbastanza da baciarti, è probabile che finisca per farti da pranzo.» «Non pensavo che mi avresti creduta» annuì con tristezza il drago. «È un controincantesimo così stupido. Ma è vero, e poi tu hai una lama delle streghe silvane e, se sarai abbastanza vicina da baciarmi, lo sarai anche abbastanza da tagliarmi la gola, nel caso che abbia mentito. Come vedi, non rischi poi molto.» «Sto rischiando la pelle e l'anima» ribatté Elizabeth, secca. «Ritengo che tutto si riduca all'aver fiducia in te e nel fatto che i miei riflessi possano essere più rapidi dei tuoi e la mia lama un po' più letale di quanto tu ti aspetti. D'accordo, immagino che dovrò fare un tentativo.» Elizabeth smontò dalla groppa del cavallo, che subito si girò e batté in ritirata in direzione degli alberi dove Jackie, Guenhwyvar e Menadel erano in attesa. La principessa seguì il cavallo con lo sguardo, mentre sul viso le si dipingeva un'espressione di disgusto. «Bene, ora suppongo di non avere più altra scelta che quella di baciarti. Se è un trucco, farò davvero una figura da idiota, se vivrò abbastanza a lungo.» Elizabeth attraversò a grandi passi il terreno paludoso, intriso delle la-
crime del drago; da vicino, la bestia appariva ancora più grande di quanto avesse immaginato e la sua testa si trovava tanto in alto nel cielo che lei riusciva a stento a distinguerne le scaglie, anche se scorgeva con chiarezza gli aguzzi e lunghi denti e le piccole folate di alito sulfureo. «Allora, abbassati» gridò all'animale. «Non posso baciarti, se te ne resti lassù.» Si trovava all'ombra della bestia, a portata del grosso corpo coperto di scaglie; il fango, caldo e appiccicoso, le arrivava alle caviglie, e lei fu certa che gli stivali non sarebbero più tornati quelli di prima. Obbediente, il drago abbassò il capo fino a porre i suoi occhi all'altezza di quelli di Elizabeth, uno spettacolo tutt'altro che rassicurante. Gli occhi erano infatti grandi quanto i vassoi usati per servire le teste di cinghiale alla tavola del re, e i denti, lunghi come daghe, riflettevano l'azzurro della lama che lei teneva puntata sotto il mento del drago. «Ricordati» intimò Elizabeth, «che a un mio ordine questa lama può sgozzarti come un coniglio in trappola, quindi non fare stupidaggini. Ora vediamo, dove ti dovrei baciare?» «Dove vuoi, non credo che importi» borbottò il drago, trattenendo il fiato per non avvelenare Elizabeth con il suo fetore, poi accostò l'enorme testa coperta di scaglie alla faccia della principessa... più di quanto a questa andasse a genio. Impugnando saldamente la daga con una mano, Elizabeth protese l'altra per afferrare un lato della testa della bestia, in modo da tenerla ferma, e quel contatto risultò sorprendentemente piacevole, Le scaglie erano lisce al tatto come l'argento di un buon calice ed erano riscaldate dal sole... Elizabeth dovette frenare l'impulso di grattare un enorme orecchio. Anche gli occhi, visti così da vicino, non incutevano tanta paura: erano grandi e tristi, e molto speranzosi, tanto che Elizabeth si trovò ad assestare al drago qualche gentile pacca sul muso, confortandolo. «Suvvia, suvvia, andrà tutto bene» disse, poi trasse un profondo respiro, si chinò in avanti e baciò per tre volte il naso del drago. Ci fu un violento terremoto, che infranse le rocce della grotta, poi Elizabeth si trovò ad essere a sua volta baciata da un paio di labbra molto calde e molto femminili: fra le sue braccia, con la daga puntata contro la gola, c'era Lady Katheryne Percy. I suoi capelli avevano il colore biondo tipico dei signori della magia, gli occhi erano grandi e blu, e il viso era dotato di quel tipo di semplice bellezza che sarebbe stato molto apprezzato a corte. Il drago non aveva mentito: era effettivamente una principessa.
Elizabeth abbassò la daga e indietreggiò rispetto alla giovane donna per guardarla meglio; Lady Katheryne era completamente nuda, ma la cosa non sembrava imbarazzarla, e del resto dopo aver vissuto come un drago per parecchi mesi, dovevano ormai essere ben poche le cose che avevano il potere di imbarazzarla. «Oh, bene, uno specchio» esclamò Lady Katheryne, afferrando lo scudo incantato. «Ero così preoccupata che la mia pelle potesse soffrire per tutto il tempo trascorso sotto il sole, ma sembra ancora perfetta! Sono davvero felice che tu mi abbia salvata, anche se non sei un principe! Vedi, mio padre desiderava che contraessi un buon matrimonio» continuò la ragazza, gettando un bacio alla propria immagine riflessa, «ed è una cosa possibile solo se si è belle!» Elizabeth sospirò, esasperata. Era ovvio che quella ragazza era una stupidotta che se la sarebbe cavata meglio come drago che come essere umano. «È chiaro che nelle tue vene c'è il sangue dei signori della magia. Perché hai permesso alla tua matrigna di gettarti addosso questo incantesimo?» chiese Elizabeth. «Lei può anche essere un'incantatrice dedita alla magia nera, ma tu avresti almeno dovuto riuscire a tenerla a bada.» «Mio padre è morto lo scorso anno» spiegò Lady Katheryne, annuendo tristemente, «e a quel punto la mia matrigna si è impadronita del castello. Io non ho ancora diciotto anni e non sono stata iniziata in un cerchio, quindi non ho potuto fare nulla. Mio padre non avrebbe mai dovuto sposarla. È arrivata dal nord... o almeno questo è ciò che ha detto lei, mentre io credo che venisse da qualche luogo molto più malvagio, come per esempio la Regione Infera. Mio padre l'ha vista... ed ha dimenticato tutto il resto... il villaggio, la caccia, i suoi buoni cani e me. Ed entro un anno dall'averla sposata lui è morto ed io sono diventata l'erede del castello di Bamborow. La cosa non è piaciuta per nulla alla mia matrigna e così...» la ragazza allargò le braccia. «Mi ha trasformata in un drago. Supponeva che alla fine sarebbe arrivato qualcuno che stava andando a caccia di draghi, che naturalmente non si sarebbe sentito propenso a baciarmi e che mi avrebbe uccisa. A quel punto, non ci sarebbe più stato nessuno che avrebbe potuto contenderle la proprietà del castello di Bamborow. Hai visto l'oscurità che regna laggiù: ogni notte, si estende sempre di più e alla fine arriverà a coprire anche Bamborow-lea, per poi allargarsi a nord fino a Berewic e a sud fino ad Eboric. La mia matrigna è un'incantatrice molto potente.» Elizabeth si sfilò il tabarro da menestrello e lo porse a Lady Katheryne,
perché si coprisse. La dama lo accettò con grazia e se lo mise, fermandolo in vita con la cintura, poi le due tornarono verso i pony in attesa. Menadel e Jackie fissarono entrambi a bocca aperta la damigella che un tempo era stata un drago, e Jackie commentò perfino che sarebbe andato in cerca di altri draghi, se questo era il risultato che si otteneva quando se ne scovava uno. Elizabeth gli ingiunse di tacere e di ascoltare quello che Lady Katheryne poteva avere ancora da dire riguardo alla sua matrigna ed ai possibili modi per distruggerla. «Oh, ma non si può distruggerla» esclamò la fanciulla. «È molto potente. Ormai saprà già che l'incantesimo è stato spezzato e che io sono tornata ad essere una damigella, e si starà circondando di ogni incantesimo che protegga da morte e distruzione di cui lei sia a conoscenza. Non la potrai toccare con lancia o spada, o con qualsiasi altra arma nota, e perfino quella tua daga sarà inutile. Lei si limiterà a riderne, e poi forse ti trasformerà in qualcosa di orribile, come un drago.» «Lo trovo molto improbabile» replicò Elizabeth. «La tua matrigna potrebbe anche scoprire che in me ha trovato chi le può stare a pari. Dunque conosce gli incantesimi che proteggono contro la maggior parte delle armi? È una notizia interessante, e ci dovrò riflettere sopra. C'è un vecchio incantesimo... se soltanto riesco a ricordare come funziona...» Elizabeth aiutò Lady Katheryne a montare in groppa al suo pony, poi salì in sella a sua volta. «Mettimi le braccia intorno alla vita e tieniti stretta» ordinò. «Ci aspetta una veloce galoppata. Jackie? Guenhwyvar? Menadel? Abbiamo un castello da visitare, quindi muoviamoci. Lungo la strada, però, mi voglio fermare al villaggio per procurarmi un'arma.» Elizabeth spronò bruscamente il pony e l'animale si lanciò in un galoppo più rapido di quanto lei si fosse aspettata, un vero sollievo dopo quello del cavallo da aratro. Il loro arrivo al villaggio fu alquanto inatteso ma gioioso: gli abitanti riconobbero Lady Katheryne e l'accolsero con estrema gioia. Elizabeth chiese quindi ai contadini di ammucchiare tutte le armi di cui disponevano, e rimase stupefatta nel vedere l'assortimento di randelli, zappe e vecchie picche arrugginite che le venne presentato. Poi un agricoltore le porse esattamente quello che stava cercando: montato su un lungo palo, alto quasi quanto la stessa Elizabeth, c'era un falcetto molto affilato, di quelli usati per potare gli alberi. Elizabeth ne provò il filo su un pollice, e fu ricompensata dall'apparire di una linea rossa e da una goccia del suo sangue che colò sulla lama. Osservò il sangue spumeggiare e diventare
parte del metallo, e sorrise con quieta soddisfazione quando il falcetto assunse una fredda colorazione azzurra. «Questo è un incantesimo adatto all'oscura signora» mormorò fra sé. «Possa darle gioia per l'eternità.» Poi, ad alta voce, aggiunse: «Credo di avere quello che volevo.» E montò in sella, allontanandosi rapida verso il castello di Bamborow. L'aria che circondava il castello era nera e densa come nebbia, tanto che Elizabeth temette che avrebbe dovuto aprirsi un varco a tentoni. Ma quando estrasse la daga, tenendola sollevata come una lanterna, poté avanzare nella foschia finché gli zoccoli del suo cavallo batterono senza produrre rumore sul legno del ponte levatoio. Le due sentinelle erano ancora al loro posto, una per ciascun lato dell'enorme porta di legno, e non sembravano essersi spostate minimamente, dal giorno precedente. Elizabeth ripose la daga, smontò di sella e, lasciate cadere le redini, fissò il cavallo negli occhi, ordinandogli di rimanere dov'era: l'animale non ebbe altra scelta che obbedire. Elizabeth sapeva che, secondo la tradizione, sarebbe dovuta rimanere dove si trovava e contrattare con la castellana di Bamborow: l'avrebbe dovuta sfidare, vantandosi della propria abilità come maga, poi sarebbe stata la volta di piccoli incantesimi iniziali e di uno scambio di insulti ben formulati. Quel giorno, però, Elizabeth non era dell'umore giusto per assecondare la tradizione. L'aveva già sfidata una volta, andando ad uccidere un drago, ed ora era in preda ad una fredda ira, per cui la tradizione poteva anche andare a farsi impiccare. Impugnando il falcetto con una mano, si accostò alle porte massicce e, facendo appello al potere che era in lei, picchiò per tre volte su di esse con il pugno serrato. I battenti vibrarono seguendo il ritmo dei colpi e, al terzo colpo, crollarono verso l'interno. «Non intendevo usare tutta questa forza» borbottò Elizabeth, scavalcando il legno infranto per affrontare l'incantatrice, che l'attendeva nel centro del cortile. L'aria della corte brillava per le sfumature nere, rosse, arancione, porpora e azzurre di almeno una dozzina di incantesimi, e l'incantatrice se ne stava all'interno di quella protezione tenendo alta la bella testa orgogliosa, mentre un sorriso freddo e malvagio le aleggiava sul viso. «Non hai rispetto per nulla, fanciulla menestrello? Non hai pronunciato nessuna sfida...» Elizabeth non le permise di aggiungere altro.
Scattando in avanti con la rapidità che le aveva fruttato tanti premi durante i tornei, fece ruotare in alto il falcetto e colpì. La testa dell'incantatrice si staccò dal corpo e rotolò dall'altra parte del cortile, mentre Elizabeth osservava il corpo della maga dissolversi in una pozzanghera di pece nera e ribollente. Il vecchio incantesimo aveva funzionato. «Ha usato ogni incantesimo che le è venuto in mente. Ogni incantesimo tranne quello che la proteggesse dalla lama incantata di un contadino» rise Elizabeth, trionfante. Un suono gracchiante che proveniva dalla parte opposta del cortile attrasse la sua attenzione e, voltandosi, vide che la testa dell'incantatrice si era arrestata sul bordo di un pozzo e che là, intrappolato fra i lunghi capelli bianchi della nera castellana di Bamborow, c'era un grosso rospo verde. Elizabeth posò il falcetto e si accostò al rospo, inginocchiandosi e raccogliendolo per guardarlo: un bagliore cattivo gli ardeva nello sguardo, ed era di certo l'incarnazione dello spirito e dell'anima dell'incantatrice. «Vedi, mia signora» commentò con tono leggero Elizabeth, «in effetti la tradizione non ha più molta importanza per me. Sono una principessa, e sono andata ad affrontare un drago... le principesse non fanno cose del genere. E tu hai usato tutti gli incantesimi sbagliati, perché hai pensato che mi sarei attenuta ai metodi tradizionali. Se ti fossi resa conto che una fanciulla poteva uccidere un drago, saresti stata anche abbastanza intelligente da pensare che a una fanciulla del genere non sarebbe importato proprio nulla delle tradizioni.» Elizabeth lanciò un'occhiata oltre il bordo del pozzo, e scorse in profondità il brillio dell'acqua; riportò poi lo sguardo sul rospo, che si stava gonfiando per l'indignazione nelle sue mani e che aveva sul muso un'espressione di puro odio. Con un sorriso, Elizabeth batté una lieve pacca sulla testa dell'animale e lo lasciò cadere oltre il bordo del pozzo. «Vedi» gli gridò dietro Elizabeth, «non ho neppure l'abitudine di baciare i ranocchi.» Menadel e Jackie oltrepassarono quanto restava della porta, seguiti dappresso da Guenhwyvar e da Lady Katheryne Percy. «Guenhwyvar non ha visto morire l'incantatrice, ma tutto il male è svanito» dichiarò Menadel. «Come hai fatto?» «L'ho trasformata in un rospo» spiegò Elizabeth, con soddisfazione. «Non sapevo di esserne capace: sono una maga più abile di quanto pensassi, Menadel! Ma mi pare giusto che lei sia stata trasformata in un rettile,
dopo quello che ha fatto a Lady Katheryne. Penso...» aggiunse Elizabeth, assestando un calcio al pozzo per sfogare il divertimento che quel pensiero le dava, «penso che sarò ancora più cattiva e che le permetterò di tornare ad essere una donna, una volta ogni cento anni. Ma soltanto per una notte, e in quella notte non potrà andare da nessuna parte, dovrà rimanere sui bastioni di questo castello. Le concederò di trascorrere quel tempo urlando contro la sua follia e contro le stelle, che non l'ascolteranno.» Elizabeth cominciò a disegnare pentacoli e rune ed altre parole arcaiche lungo la parete del pozzo, poi borbottò in latino e un fuoco azzurro pervase le linee create dalle sue dita. Lei coprì interamente il bordo del pozzo, da est a ovest, e quando tornò al punto di partenza collegò il cerchio con una linea, ritraendosi poi per osservare il proprio operato: il fuoco azzurro percorse le parole da lei tracciate intorno al pozzo, si levò a formare un cono nell'aria, poi svanì, lasciando soltanto le rune incise in profondità nella pietra. «Ecco fatto!» esclamò Elizabeth. «Questo dovrebbe bastare a tenerla rinchiusa. Tutti i libri sostengono che si dovrebbe permettere a una bestia incantata di tornare ad essere umana, di tanto in tanto, perché questo aumenta l'irritazione della trasformazione. Penso che quando i primi cento anni saranno trascorsi, la nera incantatrice di Bamborow sarà davvero molto irritata.» Elizabeth fissò le rune con soddisfazione. «Ancora non so esattamente come sono riuscita a trasformarla in un rospo» aggiunse poi, «ma ero molto arrabbiata...» «A volte, questo è sufficiente, mia signora» replicò Menadel. «E devo dire che sono molto orgoglioso di te. Quella che hai eseguito qui oggi è stata una magia veramente notevole, e ti sei avvicinata di un altro passo all'acquisizione del tuo potere. Sono molto contento di te, Elizabeth. Ora, se soltanto riuscissi ad imparare a controllare l'incantesimo del fuoco...» «Vi ringrazio entrambi molto per il vostro aiuto» disse Lady Katheryne, dopo che Elizabeth e il mago ebbero ripulito il palazzo da ogni traccia di magia nera. «Ricordo però che quando ero ancora un drago ti ho promesso un tesoro se mi avessi salvata. Si tratta di una spada, molto speciale. Mio padre mi ha raccontato che gli è stata consegnata da un uomo misterioso, vestito tutto in marrone e in verde, che aveva l'aspetto e il portamento di un angelo. Quell'uomo ha detto a mio padre che la spada si chiamava Uryan, e che era l'arma più magica delle Tre regioni. Invero, mio padre mi ha
riferito che, secondo lo sconosciuto, la spada era stata fatta con il legno dell'Albero della Vita, che sorgeva nel Giardino dei Primordi. Ora, come grazioso simbolo della grande impresa che tu hai compiuto per me, io ti offro questa spada. Aspetta qui un momento, e io te la porterò... se riuscirò a trovarla. Lei potrebbe averla nascosta da qualche parte.» «Effettivamente l'aveva nascosta» convenne Menadel. «Ma se guardi in alto, verso la torre settentrionale che si affaccia sul mare, noterai che la spada ha rivelato la propria presenza a chi è il suo vero proprietario.» Guardarono tutti in alto, verso la torre indicata da Menadel, e videro che era rischiarata da un vivido fuoco verde sfumato di marrone ambrato; nell'aria, inoltre, echeggiavano dei rintocchi profondi e nitidi, come quelli della campana di un santuario, e dall'alto della torre scendeva un profumo di alberi e di piante... di pini e di betulle, di mele e di albicocche. Preceduti da Lady Katheryne, formarono una processione che attraversò con reverenza il castello di Bamborow e salì fino alla torre in cui la nera incantatrice aveva nascosto la spada dell'Arcangelo Uriel. L'arma era avvolta in un drappo di broccato verde, legato con una corda di seta marrone, e Katheryne la offrì ancora coperta alla Principessa Elizabeth. Quando però lei la liberò dal panno e la estrasse dal fodero di legno, scoprì che anche la lama era di legno: era formata da un legno aromatico di grana fine proveniente da qualche terra dell'est, ma era pur sempre di legno. «Cosa si può fare con una spada di legno?» chiese Elizabeth, guardandola. «Non si può mai sapere, mia signora» commentò Menadel, dopo aver studiato la lama che la principessa teneva in mano. «A volte le cose più strane possono essere armi molto efficaci, e questa spada, per quanto semplice, potrebbe rivelarsi estremamente potente. Ti suggerisco di tenerlo presente, e quando verrà il momento di usarla per il suo giusto scopo, tu lo saprai... così come ora sai che l'impresa che dovevi compiere nelle terre settentrionali si è conclusa.» «Mi sentirei più sicura se avessimo con noi anche qualche buon spadone d'acciaio» osservò Elizabeth. «Questa può certo essere un'arma potente, e tuttavia...» «Oh, se volete delle spade» intervenne Lady Katheryne, «posso darvi quelle di mio padre. Sono due, una per la guerra e l'altra che utilizzava per minacciare i Gael. Si chiamano Legame di Pace e Flagello dei Gael. Se vi servono, vi prego di accettarle con le mie benedizioni.»
«Per quanto mi riguarda, sarei felice di avere una buona lama al fianco» affermò Menadel. «Ti ringrazio, mia signora. Il buffone ed io recheremo indubbiamente gloria alle spade di tuo padre, e te le rimanderemo tramite un menestrello che ti racconterà imprese di coraggio e di potere. Ti prometto che quelle storie saranno vere.» Menadel seguì Lady Katheryne con lo sguardo mentre lei lasciava la stanza e, quando fu certo che non fosse più a portata di udito, si rivolse alla principessa. «Ora dimmi, mia signora Elizabeth, cosa porterai in dono a tuo padre da queste terre del nord?» Elizabeth ripose la spada nel fodero e tornò ad avvolgerla nel broccato verde. «Ho riflettuto a lungo sulla cosa. Insieme al racconto di Guenhwyvar relativo all'oscurità di Cymru, dovrei dargli qualcosa che gli dimostri l'oscurità del settentrione. Jackie» proseguì, rivolta al buffone, «vedi se puoi trovarmi una piccola bottiglia o un'anfora, da qualche parte. La vorrei riempire con quel catrame nero e appiccicoso che è tutto ciò che rimane del corpo della nera incantatrice. Lo porterò a mio padre e gli dimostrerò a quale malvagità ha permesso di esistere sulla nostra terra.» Jackie annuì e si affrettò a lasciare la stanza. «Al re non piacerà tutto questo» gli sentirono però borbottare, mentre varcava la soglia. «Non gli piacerà proprio per niente. Non si aspetta di ricevere regali di tal genere, quando sua figlia ritornerà. Spero che la mia signora sappia quello che fa...» Elizabeth rimase immobile ad ascoltare le parole di Jackie che arrivavano sempre più indistinte dalle scale, poi scrollò le spalle. «I doni per mio padre rappresentano le sue debolezze» mormorò. «Così possa essere. Ora» aggiunse, rivolta a Menadel, «dove andremo da qui, saggio mago?» «Ad est, mia signora. Andremo ad est. Nel nome del grande Raphael viaggeremo da qui fino a Great Yermouth, e possa la sua benedizione essere su di noi.» EST Salve Raphael, il cui spirito è un'aura che soffia dai monti e la cui veste d'oro riluce come il sole.
Io prego l'Aquila, sovrana delle tempeste. Delle bufere e dei venti. Prego colui che è signore Della volta Eterea. Grande principe dell'elemento dell'aria! Sii con me, te ne prego. Proteggi me e chi mi accompagna Da tutti i pericoli che giungono dall'est! CAPITOLO DICIASSETTESIMO Da Bamborow, Elizabeth e i suoi compagni puntarono verso sud, in direzione di Eboric, la grande città cinta da mura che era la capitale del settentrione. Viaggiarono con il vento alle spalle e con i fiocchi di neve nei capelli. Menadel aveva suggerito di trascorrere la parte più aspra dell'inverno ad Eboric, e questa si dimostrò un'ottima idea. Elizabeth chiese ed ottenne ospitalità presso sua zia Catheryne e suo marito, Andrew il Mago, Arcivescovo di Eboric. La loro permanenza non fu soltanto piacevole, ma anche proficua, perché durante i dodici giorni del Solstizio di Fine Anno, Elizabeth e Jackie eseguirono pantomine e spettacoli a base di canti a vantaggio degli ospiti dell'arcivescovo e anche del popolo. Quello era un periodo di allegria, di festeggiamenti e di generose elargizioni ai saltimbanchi, per cui Jackie finì per ritrovarsi con una borsa davvero gonfia di monete. Al cambio della stagione, le consuete prime foglie, piccole quanto l'orecchio di un topo, non apparvero però sugli alberi, e gli uccelli non tornarono. La primavera era stranamente in ritardo. Nel frattempo, la tosse di Guenhwyvar non era migliorata, neppure con l'ausilio delle preghiere di Lady Catheryne, e la sacerdotessa suggerì che forse soltanto il mare che bagnava il quadrante di Raphael avrebbe potuto guarire la ragazza. Appese poi al collo di Guenhwyvar un talismano di piombo su cui era incisa la scritta: "Optimus egrorm madicus fit Raphael bonorm", che nella lingua volgare significava "per quelle brave persone che sono malate, Rapahel è il
migliore fra i medici". Guenhwyvar diede un bacio a Lady Catharyne e la ringraziò per il talismano e per le preghiere curative, ma la tosse secca continuò a tormentarla. Infine, Menadel dichiarò che, primavera o meno, era tempo di rimettersi in viaggio. «Il villaggio di Great Yermouth è la nostra meta, mia signora» disse ad Elizabeth, «ed abbiamo ancora molti chilometri da percorrere e molte avventure da incontrare prima di raggiungere quello che è il punto più orientale del regno. Vorrei quindi suggerire al lord arcivescovo di procurarci cavalli freschi, abiti di ricambio e provviste, perché entro l'alba dovremo ripartire.» Il mattino successivo trovò i quattro già in marcia lungo la grande strada che portava a Lincoln. Qui il cammino era leggermente più facile di quanto lo fosse stato nel territorio settentrionale, grazie alle eccellenti strade costruite dagli antichi Elfi, che dopo tanti secoli erano ancora in ottime condizioni. Guadarono piccoli fiumi profondi, rapidi e molto belli, e gli spiriti delle acque li salutarono e li trasportarono sani e salvi dall'altra parte dei ruscelli. Procedettero in allegria, e Menadel smise di gettare severe occhiate in direzione di Jackie e di Elizabeth, quando i due scherzavano insieme, perché era piuttosto evidente che una forte simpatia si era venuta stabilendo fra lui e Guenhwyvar. Nel villaggio di Goole, Menadel accompagnò la ragazza a far visita a uno spirito dei boschi molto saggio, che si diceva impartisse benedizioni alle streghe silvane ancora vergini. Mena-dei insistette perché Guenhwyvar parlasse con quello spirito e magari ottenesse qualche informazione che potesse esserle utile per acquisire appieno i suoi poteri di strega silvana. Jackie ed Elizabeth furono alquanto divertiti dalla disinvolta sfacciataggine con cui Menadel li aveva lasciati ad oziare in un piccolo villaggio che non aveva nulla di notevole. «Ma guarda» commentò Jackie. «Quel vecchio mago ci ha tenuto un sacco di prediche in merito al nostro comportamento, ed ora ha perso la testa per una giovane strega silvana. Alla sua età, dovrebbe vergognarsi di se stesso.» «Non essere così duro con lui, Jackie» replicò Elizabeth. «Lo zio Menadel non ha mai mostrato di apprezzare molto la vita di corte, ed io sono lieta di vedere che una persona come Guenhwyvar è capace di dargli gioia.
Dopo tutto, non è tanto vecchio, e lei non è tanto giovane: se decidessero di sposarsi, darei loro la mia benedizione e li difenderei anche contro tutti i cortigiani, perché so come la penseranno sia loro sia mio padre all'idea di avere tra i piedi un'altra strega silvana, ora che finalmente si sono liberati di mia madre.» Al pensiero della madre morta, Elizabeth sospirò. «Sono sommersa dalla nostalgia di casa, quindi credo che andrò a passeggiare fra le pietre tombali, nel cortile del santuario, e penserò a cose tristi.» Jackie assunse un'espressione sgomenta. «Cosa, andare in giardino a rimuginare tristi pensieri? Che ti prende, cucciolo? Ti pare che sia passato troppo tempo da Avebury e dal tuo abbagliante Dio-Sole? Forse che lui sta diventando sempre meno reale? Per quanto mi riguarda, lo spero, e non ti lascerò vagabondare da sola per il cimitero, immersa in tetri pensieri. Sì, andiamo nel giardino del santuario! Ma io verrò con te ed escogiterò qualche verso divertente sulla morte e sui morenti, e forse prima che questa giornata sia finita riuscirò a farti ridere tanto da ridurre in pezzi i lacci del tuo corpetto.» Accettando la promessa di Jackie di ridarle il buon umore, Elizabeth gli permise di accompagnarla fino al piccolo santuario di pietra che sorgeva in un angolo del villaggio di Goole. Era un edificio gradevole, caldo e brillante sotto la luce del sole, e il contrasto fra le pareti giallo oro e le tegole grigio-azzurre del tetto era piacevole. Quando furono più vicini al santuario, tuttavia, si accorsero che esso aveva una notevole stranezza: l'alta torre campanaria era piegata e distorta quanto la schiena di Jackie, mentre le belle tegole piombate del tetto della torre danzavano su e giù intorno a una strana serie di torsioni a cavatappo. Ancora prima di raggiungere il giardino, Elizabeth stava già ridendo di cuore alla vista di quella strana torre. «Vedi, cucciolo» osservò Jackie, unendosi alla sua risata, «sono riuscito a farti ridere senza neppure sforzarmi. Mi chiedo cosa abbia determinato la strana forma di quel campanile. Quando lo hanno costruito, devono aver usato della legna ancora verde, e forse il calore del sole ha crepato e distorto i sostegni, facendolo torcere in quel modo su se stesso. Non riesco a trovare altra spiegazione.» «Forse è quella giusta, ma vieni, camminiamo fra le lapidi e osserviamo quella strana costruzione da varie angolazioni, per cercare di capirci qualcosa. Quando ci saremo stancati di questo, potremo leggere le iscrizioni sulle lapidi.»
Elizabeth aprì il cancelletto di ferro battuto che portava al cimitero. Ben presto, lei e Jackie ebbero compiuto per due volte, da est a ovest, il giro del campanile, studiandone la strana forma contorta da ogni angolazione; cominciarono allora a passeggiar fra le tombe, leggendo le iscrizioni. Alcune erano nitide, altre portavano soltanto il nome con la data di nascita e di morte; altre ancora esortavano il lettore a riflettere sulla propria mortalità, mentre alcune auguravano gioia e piacevolezze ed esprimevano la pia speranza che l'occupante del sepolcro fosse ora con gli Dèi. Jackie ed Elizabeth erano talmente assorti nel loro passatempo letterario che non si accorsero di un becchino che, in un angolo del cimitero, era occupato a preparare una nuova tomba. Quando raggiunsero quell'angolo appartato, l'uomo rivolse loro un allegro saluto, e i due notarono soltanto allora che apparteneva all'ordine di Bram il Pio, un antico e riverito signore della magia che si era dedicato alle cure dei defunti e agli sforzi necessari per tenere in buon ordine i cimiteri. Il suo era un ordine contemplativo e, considerata la triste natura della loro vocazione, i confratelli dell'ordine di Bram il Pio erano fino all'ultimo allegri e gioviali. «Siate benedetti, figli miei!» disse il monaco. «È una splendida giornata, vero? Avete visto come stanno fiorendo i bucaneve, in quell'angolo esposto al sole?» «Per chi stai scavando la tomba, reverendo signore?» volle sapere Elizabeth. «È per qualcuno che è stato portato via dal freddo e dai venti? Se è così, spero che fosse di età avanzata.» «Sì, era di età avanzata. Si tratta della vecchia madre Elinora, che era chiamata anche Elinora la Maga, una donna saggia che aveva visto centocinquanta anni. Forse lei avrebbe detto che le sarebbe piaciuto vederne altri ancora, ma per quelli di noi che non hanno raggiunto quell'età, si tratta di un numero davvero notevole. La seppellisco qui, vicino alla pietra del drago, perché ho l'impressione che lei avesse magia sufficiente per condividere questo spazio con quella possente bestia, e fosse saggia abbastanza per comunicare con essa, ammesso che una comunicazione sia possibile fra una maga e un drago, quando entrambi sono morti e sepolti.» «Cosa intendi per "pietra del drago"?» domandò Jackie, aggirando il bordo della fossa fino al punto in cui, subito al di là di essa, si poteva scorgere una grande pietra piatta e circolare, grossa quanto la Tavola Rotonda di Artù. La pietra era liscia e lucida come uno specchio d'acciaio. «Quella è la pietra di drago» spiegò il becchino, indicandola con la vanga. «Un grande e temibile drago è sepolto sotto di essa, ed è stata la sua
sposa a piegare il campanile fino a dargli la forma che vedete. Ah, sì, era un drago mostruoso, con ali abbastanza grandi da coprire il sole, ma del resto io parlo per sentito dire, perché queste cose sono avvenute molto, molto prima del mio tempo, ed anche molto, molto prima del tempo di Elinora, per cui sto scavando la fossa.» «Buon signore» disse Elizabeth, «direi che questa vicenda ha tutte le caratteristiche per essere un racconto interessante. Se ci siederemo qui tranquilli e non ti disturberemo mentre svolgi il tuo compito, è possibile che tu ce la narri?» Il becchino sfilò un fazzoletto dalla manica della tonaca e si asciugò il sudore che gli imperlava la fronte. Guardò verso Elizabeth e Jackie, poi annuì due volte. «Ritengo che sarebbe una storia istruttiva per voi perché il sangue dei signori della magia che ho nelle vene mi permette di vedere con chiarezza che vi amate. Non siete ancora vincolati, ma i vostri corpi tendono uno all'altro. Lo scorgo nelle vostre ombre, nel modo in cui si protendono una verso l'altra e si toccano anche se voi due siete separati. A te, figliola» proseguì l'uomo, guardando Elizabeth, «dico che sei di sangue misto, che in te c'è il seme delle streghe silvane unito a quello dei signori della magia, e questa non è una buona cosa. Ma tu stai correndo il rischio della dannazione, perché saresti disposta a mescolare quel sangue con quello umano, e i risultati di una simile unione non dovrebbero mai essere visti sulla terra di Englene. È un peccato, non credo che il Dio Sulis approverebbe.» «E cosa mi dici della Dea?» ribatté Jackie, in tono bellicoso. «È lei quella che s'interessa a noi poveri umani più di quanto faccia Sulis, ed io ho giurato di dare a lei la mia devozione.» Il monaco annuì, poi saltò nuovamente nella fossa scavata a metà. Per un po' non parlò, mentre parecchie palate di terra volavano fuori del buco, poi la sua testa fece capolino, al livello del suolo. «Sia come sia, io non ho voce in capitolo. Io sono fedele al Dio, ma nessuno può impedire ciò che la Dea desidera. Io però asserisco che una simile unione non è una buona cosa e non posso darle la mia benedizione, per quello che può valere. Dal momento che vi ho promesso una storia, ve la racconterò... ma la sua conclusione potrebbe non piacervi, perché aprirà dinanzi ai vostri occhi una grande tentazione e la possibilità di deviare il volere del Dio.» Ciò detto, il monaco prese a narrare la storia della fedele sposa del drago.
Una volta (narrò il monaco), c'era in quel villaggio un sindaco chiamato Shoebuckle1 , che era stolto quanto il suo nome e non era altro che un sarto pieno di ambizione e di orgoglio che si era fatto eleggere sindaco con i voti dei suoi amici e di tutti gli ubriaconi che era riuscito a corrompere nelle taverne. Nel periodo in cui lui era in carica come sindaco, accadde che un grande drago devastò questa terra, trangugiando pecore e fanciulle vergini e bevendo tutto il latte delle mucche finché i bambini piansero perché non c'era nulla da mettere sul loro porridge né burro da spalmare sul pane. E la popolazione di Goole e delle campagne vicine, essendo profondamente turbata, si recò dal Sindaco Shoebuckle e gli disse: «Manda qualcuno a Lundene perché chiami un possente cavaliere o un principe che ci liberi da questo drago.» Ma il sindaco era pieno di orgoglio e rispose: «Non c'è bisogno di mandare a chiamare un cavaliere da Lundene. Io, Thomas Shoebuckle, mi occuperò del drago.» Fedele alla sua parola, tirò fuori da un nascondiglio una grande spada che non aveva il diritto di possedere, perché era stata rubata dal corpo di un cavaliere morto per essere stato sbalzato di sella sulla grande strada che portava a Goole. Essendo il tipo di uomo che era, il Sindaco Shoebuckle aveva conservato la spada, sapendo che un giorno gli sarebbe stata utile. Andò quindi ad affrontare il drago con un coraggio che, devo ammetterlo, era molto grande per un uomo così presuntuoso. E dopo molte fatiche e angosce, lo uccise, tornando poi in trionfo a Goole e portando con sé la testa, che collocò qui, sul sommo altare del nostro piccolo santuario. Ora, l'uomo che era sacerdote a quell'epoca, Simon il Mago, che apparteneva all'ordine di Bram il Pio, si dolse grandemente nel vedere ciò che il sindaco aveva fatto e disse che alla città non ne sarebbe venuto nulla di buono, perché l'impresa era stata compiuta da un umano e non da un signore della magia. Simon raccolse quindi la popolazione di Goole perché pregasse il Dio e la Dea di salvarli tutti dalle ire del re e dei suoi cavalieri. Ma i giorni trascorsero senza che si vedesse traccia del re o dei suoi uomini, e parve quindi che il villaggio di Goole non corresse rischi. Shoebuckle divenne sempre più orgoglioso e prese a passeggiare per il villaggio pavoneggiandosi e narrando a tutti la possente impresa con cui aveva ucciso il drago. 1
Shoebuckle = Fibbia di scarpa.
Naturalmente, quando il vento soffiava da nord, portava con sé il forte puzzo del corpo del drago, in decomposizione sul prato settentrionale, e le mosche calarono su Goole, mordendo gli abitanti, che però la ritennero una ben piccola sofferenza da subire in cambio della liberazione dal feroce drago. E così, tutti erano pacifici e contenti nel villaggio di Goole. Una mattina però, prima che il gallo cantasse, gli abitanti della cittadina e delle campagne vicine furono destati da un grido possente e orribile. Esso echeggiò fra gli alberi, fece vibrare le campane al suo passaggio e strappò via il cancello della canonica (anche se devo ammettere che aveva un solo cardine e non era molto stabile). Il grido si ripeté facendo sbattere le imposte, e la gente balzò dai letti in preda al terrore provocato da un suono così orribile. E, nella prima luce del sole nascente, appollaiato sull'alto campanile del santuario, tutti scorsero un mostruoso drago, tanto grande da far apparire il precedente come un giocattolo per bambini. Se le ali del drago morto avevano coperto il sole, quelle di questo drago erano tanto immense da coprire l'universo. La sua pelle era di un brillante color oro tempestato di gemme... zaffiri, smeraldi, perle e rubini. Era in verità la regina stessa dei draghi, e portava sulla testa sottile la corona che simboleggiava la sua sovranità su quelle grandi bestie. Il frastuono era violento al punto da far vibrare i denti per la sua intensità, e quando gli abitanti di Goole guardarono con più attenzione il drago sul loro santuario, videro che stava piangendo e che le sue grandi lacrime cadevano nel cimitero, sfaldandone le tombe. Pare infatti che questo secondo drago fosse la sposa di quello morto, e che fosse venuta per piangere il suo consorte e signore. Il drago si lamentò giorno e notte, notte e giorno, per quaranta giorni e quaranta notti, e nulla lo indusse a cessare il suo pianto. Gli abitanti scagliarono frecce contro il drago, tirarono rocce e mattoni, gli offrirono latte e pecore uccise da poco, e perfino la figlia vergine del fabbro, ma la bestia non ne volle sapere. Ignorò frecce, rocce e mattoni; fra i singhiozzi, affermò di non avere fame e di non desiderare pecore, latte o una vergine. Non voleva nulla. Il suo signore era morto. Durante quei quaranta giorni e quaranta notti in cui il drago si era lamentato, nel villaggio di Goole si era dormito ben poco, perché neppure i cuscini imbottiti delle più fini piume d'oca e calcati sulla testa potevano annullare i gemiti dell'animale. La gente era sparuta, con gli occhi cerchiati di nero, e sapeva di non poter continuare a sopportare quella visita, quindi
si recò dal Sindaco Shoebuckle e gli chiese di fare qualcosa per liberarli del drago. Dopo tutto, uccidendone uno aveva dimostrato di possedere una certa esperienza in materia! E così, con grande riluttanza, il Sindaco Shoebuckle andò a parlare con la Regina del Draghi. «Mia signora drago!» gridò, rivolto alla grande bestia. Anche se era costretto a gridare, cercò di essere quanto più cortese possibile, perché quel drago era tanto grande che un solo colpo di coda sarebbe stato sufficiente a ridurre il Sindaco Shoebuckle a un budino insanguinato, cosa di cui lui era più che consapevole. «Mia buona signora drago, Vostra Maestà, Regina dei Draghi! Ti imploro di porre fine a questa visita nel mio villaggio e a questi terribili suoni, onde evitare che il mio popolo sia costretto a lasciare la sua ancestrale dimora.» «Non m'importa di voi e del vostro ancestrale villaggio. Io piango per il mio signore, e continuerò a piangere finché le sue ossa non saranno altro che avorio perlaceo in quel campo laggiù. Non c'è nessuno che abbia dato al mio signore la regolare sepoltura a cui ha diritto, perché era una bestia magica sacra tanto al Dio quanto alla Dea. Non è giusto che sia stato ucciso, soprattutto perché non c'è puzzo di magia intorno al suo cadavere, il che significa che a ucciderlo non è stato nessuno che avesse i poteri magici necessari. È stato un tradimento, un tradimento, un tradimento, contro il mio consorte e contro di me!» «Mia signora drago, Vostra Maestà, Vostra Grazia... Vostra Reale Altezza...» I ginocchi del Sindaco Shoebuckle stavano cominciando a sbattere sonoramente per quanto tremavano, soffocando quasi il suono della sua voce, perché lui sapeva che la sposa del drago ignorava chi avesse ucciso il suo compagno, e temeva che se avesse scoperto chi era stato, avrebbe potuto decidere che dopo tutto aveva fame e mangiarselo, placando i morsi della stomaco e vendicando lo sposo al tempo stesso. E questo era un fato che il Sindaco Shoebuckle voleva evitare a tutti i costi. Con tutta umiltà... ed era davvero tanta per un uomo così orgoglioso... si prostrò quindi davanti alla sposa del drago. «O grande e favorita figlia della Dea» disse, alla ricerca di ogni altro titolo onorevole che poteva rivolgere alla Regina dei Draghi, «non c'è nulla che possiamo fare per placare il tuo dolore? Non c'è nulla che io e il mio povero popolo possiamo fare per porre fine al tuo pianto?» Il drago rifletté sulla domanda del sindaco e cessò perfino di piangere mentre valutava tutte le alternative possibili: se fosse stata un drago malvagio, avrebbe potuto pretendere un tributo di molte centinaia di pecore, o
dei più succulenti fra i figli e le figlie degli abitanti, ma non lo fece. «Chiederò una cosa soltanto a questo miserabile villaggio» dichiarò invece. «Se me la concederete, non mi rivedrete mai più. Il mio desiderio è che al mio signore e sposo sia data sepoltura in questo stesso cimitero. Ogni anno, nell'anniversario della sua morte, deporrete fiori sulla sua tomba e piangerete per lui. Se farete queste cose, manterrò la mia promessa e me ne andrò. Ma se in futuro, in qualsiasi momento... da adesso al giorno in cui la Dea fagociterà tutto l'universo per poi tornare a dargli vita... se in qualsiasi momento del grande ciclo della nascita e della rinascita, cesserete di piangere ogni anno per il mio sposo, io tornerò e sterminerò questo villaggio: mangerò fino all'ultimo i suoi abitanti e ridurrò in macerie ogni casa ed edificio. Questa è la mia proposta. Io, la Regina dei Draghi, ho parlato.» Il sindaco si prostrò ancora di più. «Molto bene, Vostra Maestà» rispose. «Seppelliremo questo drago morto in quell'angolo vuoto del nostro cimitero, laggiù. Porremo sulla sua tomba una lapide più grande di quella che qualsiasi umano, signore della magia o strega silvana abbia mai avuto, e ogni anno terremo per lui un solenne servizio funebre e piangeremo per lui e per il peccato commesso dal nostro villaggio.» «D'accordo. Io però non lascerò questo posto finché l'opera non sarà compiuta» replicò con grande astuzia il drago, abbastanza saggio da non fidarsi del sindaco. E così tutti gli abitanti lavorarono insieme, giorno e notte, per scavare la tomba del drago. Poi trasportarono le ossa del drago nel cimitero, le seppellirono e recitarono per lui le preghiere dei morti, mentre i giovani e le fanciulle cantavano inni e gettavano fiori sulla tomba. Si privarono infine di tutti i loro averi, raccogliendo le monete, i preziosi e i pochi gioielli di tutti per portarli a un mago signore della magia che viveva nel villaggio di Howden. Il mago venne qui e creò la grande pietra tombale per il drago. Tutto fu fatto come la Regina dei Draghi aveva richiesto. Lei mantenne la promessa, smise di piangere e, dopo aver accuratamente ispezionato la tomba, parlò così: «In verità vi dico, abitanti di Goole, che porrò un incantesimo su questa pietra tombale, un incantesimo tanto potente da durare per l'eternità. Questo è il mio incantesimo: qualsiasi uomo e qualsiasi fanciulla che verranno qui e, animati dalle più sincere intenzioni uno nei confronti dell'altra, dormiranno su questa pietra sotto la luce del cielo della Dea, nella notte della
luna piena, quell'uomo e quella fanciulla si ameranno fedelmente per tutti i giorni della loro vita e mai più guarderanno un altro uomo o un'altra donna con la minima sfumatura di desiderio, perché il loro corpo, la loro mente e il loro cuore saranno rivolti soltanto a quella persona che hanno amato tanto da dormire con lei sulla pietra del drago. Perché io ho amato il mio signore e consorte così profondamente che, in tutte le mie migliaia di anni, non ho mai guardato a un altro drago con desiderio, né lui ha mai guardato alle giovani femmine di drago con avidità negli occhi o nel cuore. Questa è la benedizione, e forse anche la maledizione che pongo sulla pietra. Pensateci e riflettete: non dormite sulla pietra con leggerezza o per scherzo, perché essere legati in eterno senza amore ad una persona è una cosa davvero dolorosa. Così possa essere!» E con quelle parole la Regina dei Draghi... che era stata una sposa fedele per tutti gli anni della sua vita e che non prese mai più un altro consorte, allargò le possenti ali su tutto Englene, si sollevò sulla punta dei possenti artigli e volò via dal villaggio di Goole. Ma il suo peso era stato tanto grande e tanto possente la sua mole che rimanendo seduta per tutti quei giorni sul campanile lo aveva piegato e distorto nel modo in cui oggi lo vedete. E noi del villaggio di Goole lo abbiamo lasciato così, come simbolo del nostro impegno nei confronti della fedele sposa del drago e del suo consorte. Ancora oggi, armo dopo anno, ci riuniamo in occasione dell'anniversario della morte del drago e preghiamo per lui, piangendo sulla sua tomba. «Ma la tomba ha davvero quel potere?» chiese Elizabeth. «È vero che se una coppia dorme su di essa avrà la fedeltà reciproca eterna?» «Sì» annuì il becchino, «quindi capisci cosa intendevo quando ho detto che vi avrei posti di fronte ad una grande tentazione. Se infatti voi due, pur essendo una coppia peccaminosa, doveste dormire su questa pietra, stanotte, sareste legati uno all'altra per il resto della vostra vita e nessuno, neppure il Dio, la Dea o i santi arcangeli, vi potrebbe separare, perché tale è il potere dell'incantesimo del drago.» Il becchino saltò fuori dalla tomba ormai ultimata e contemplò il proprio lavoro. «Ora devo andare a cambiarmi d'abito» aggiunse, «ed effettuare i preparativi per il funerale della Dama Elinora, che avverrà stanotte a mezzanotte. Ma se dovessi imbattermi in voi due qui alla luce della luna... perché stanotte la luna piena brillerà sulla tomba del drago... mi sentirei terribil-
mente tentato di infrangere il mio voto di pace e di distruggervi io stesso, perché credo che sarebbe un peccato minore.» Con quelle parole, il becchino raccolse la pala, voltò loro le spalle e si allontanò. «Ooh!» esclamò Elizabeth, con un brivido. «Volevo dei tetri pensieri, ma questi sono più tetri di quanto sperassi. Che ne pensi delle parole del monaco? Vuoi dormire sulla pietra, dopo che il funerale di Elinora la Maga sarà terminato?» Jackie aggirò la tomba scoperta e andò a fermarsi, in piedi, sulla grande lastra di granito del drago; abbassò lo sguardo verso la propria ombra accorciata, che si stendeva sulla pietra, e vide che anche se il sole non batteva in quella direzione, la sua ombra si era girata e si stava protendendo verso quella della Principessa Elizabeth. Osservò quel fenomeno in silenzio, e quando parlò lo fece con profonda tristezza. «Mia signora principessa, quel monaco aveva ragione. Sarebbe un peccato se tu ed io ci legassimo per tutta l'eternità. Io so che il tuo dovere verso tuo padre e verso il tuo regno è quello di sposare il grande semidio dorato che è venuto nel Cerchio di Avebury ed è una cosa che so già da qualche tempo, anche se ho cercato di allontanarla dalla mia mente, perché ti amo più di quanto possa mai amare qualsiasi comune mortale. E poiché ti amo e voglio soltanto ciò che è meglio per entrambi, non dormirò con te sulla pietra né questa notte né nessun'altra.» Jackie si girò verso la tomba aperta e vi si gettò dentro con una capriola. La sua voce giunse cupa e distante dalla profondità del suolo. «Non è che io tema tuo padre o la Dea, ma con il tempo tu potresti arrivare ad odiarmi per averti legata troppo a me, e questo non lo vorrei.» Jackie saltò nuovamente fuori dalla fossa e si soffermò sul bordo, guardando in basso. «Ora i tuoi tetri pensieri hanno reso tetro anche me e mi sono quasi dimenticato di essere un buffone.» Si riassestò addosso la livrea con uno scrollone e un sorriso beffardo. «E poi, tutti sanno che Jackie Somers, re dei buffoni e buffone dei re, non è mai stato fedele a nessuna donna e mai lo sarà!» E con quella battuta Jackie corse via attraverso il cimitero, ridendo e spiccando balzi sempre più rapidi. La sua risata echeggiò in lontananza fra gli alberi e servì a nascondere il pianto che gli colmava gli occhi. Elizabeth seguì con lo sguardo la fuga del giullare e ne comprese fin troppo bene la natura. Accostatasi all'angolo di cimitero toccato dal sole,
raccolse i bucaneve che vi crescevano e li depose sulla tomba del drago, poi rimase ferma a guardarli appassire sotto i raggi del sole, e comprese con spaventosa chiarezza che qualsiasi amore potesse sbocciare fra lei e Jackie sarebbe stato fragile quanto quei primi fiori di primavera: il gelo o il primo tocco del sole lo avrebbero fatto avvizzire e alla fine lo avrebbero ucciso. CAPITOLO DICIOTTESIMO Elizabeth ricordò in seguito per alcune settimane l'immagine di quel mazzetto bianco e verde di piccoli bucaneve che crescevano nel cimitero di Goole, perché quelle furono le ultime piante che vide nel suo viaggio verso sud. La neve invernale si sciolse progressivamente, fino a lasciare soltanto poche chiazze di un grigio sporco all'ombra degli edifici e sotto i folti rami degli alberi, e rivelò sotto il suo manto la terra di Englene, ricca e nera e pronta per il mistero della fertilità primaverile. Ma quel mistero non giunse. La terra rimase nera. Non ci furono coraggiosi, piccoli germogli verdi, né di erba, né di grano né di altre colture, e soltanto le aree abitate dalle streghe silvane, nel cuore delle foreste, parvero accorgersi che era giunta la primavera. I viaggiatori si fermarono per una settimana a Lincoln, e si unirono alla folla di sacerdoti, di sacerdotesse, di cittadini, di agricoltori e di popolani che si raccolse nel grande santuario per levare le sue preghiere al Dio Sulis e alla Dea Madre Diona, affinché la verde magia ricomparisse presto nel territorio. Ma la Dea non prestò ascolto, e il Dio non fece nulla. A mano a mano che i quattro procedevano verso sud, l'aria si trasformò poi in una costante foschia umida che avvolgeva tutto in spenti colori di morte che sembravano avvolgere i viaggiatori come in un sudario. Il fenomeno andò accentuandosi sempre di più: niente luce solare, niente buona terra verde, niente tranne il fetore d'impotenza che si stendeva sulla regione. Si diressero ad est attraverso Kings Lynn e Dereham, nel Nordfule... e scoprirono che quella ricca regione che era solita produrre grasse pecore e acri di folto grano, era arida e sterile. Le pecore morivano nei campi con gli zoccoli marci per l'essere state costrette a poggiarli nel nero, denso fango privo di fertilità. Di villaggio in villaggio, la situazione era sempre la stessa. La gente era smagrita e grigia a causa del lungo inverno, con i denti che minacciavano
di staccarsi dalle gengive sanguinanti, ma non c'erano erbe contro lo scorbuto per curare quel male; la carne salata e la farina cominciavano a scarseggiare e non c'erano nuove provviste. Quando arrivarono al confine orientale di Englene, a quelle terre che erano vicine al mare e al grande canale, i viaggiatori si aspettarono di incontrare carri carichi di pesce diretti verso gli abitati dell'interno, ma non ne videro. I raccolti del mare erano scarsi quanto quelli della terra, il cibo era sempre meno abbondante e la popolazione pativa la fame. Elizabeth osservò la terra dei suoi antenati nel quadrante consacrato al grande Arcangelo Raphael, e comprese quanto fossero grandi la mancanza d'interessamento e la perdita di potere di suo padre. Avendo sulla sua mano il grande anello Raziel, infatti, il re avrebbe dovuto porre rimedio a tutto quel male, e tuttavia non lo aveva fatto. La sua impotenza si era estesa a tutto il corpo e allo spirito, la terra invocava soccorso e Re Richard non faceva nulla. Ma la Principessa Elizabeth contemplò la propria eredità e, come il cielo che la sovrastava, pianse per essa. La piccola taverna nella città di Yermouth, tutta mattoni rossi e intonaco bianco, era deprimente come molte altre locande in cui Elizabeth e i suoi compagni si erano venuti a trovare nel corso del loro viaggio. Era un locale piccolo e sporco, pieno dei risentiti sudditi di Re Richard di Englene, e la birra che vi si serviva era scura e amara quanto le conversazioni che la principessa udì agli altri tavoli. La stanza odorava di legna umida, di lana bagnata, di corpi poco puliti e di tradimento contro il re. «Non vale più una cicca, te lo dico io, Perry. Quel grande e potente signore della magia del nostro re è diventato impotente, e come lui ha perso la fertilità, così l'hanno persa i nostri campi e il tuo grosso, dannato ariete. Abbiamo un re che non si sta comportando come si deve.» L'uomo che aveva parlato era un tipo smilzo che vestiva come un contadino, ed Elizabeth ascoltò la conversazione con molto interesse e con ben poca sorpresa. «Sta andando incontro a un anno del doppio sette. Per quanto mi riguarda, non credo che noi o la Dea dovremmo accettare qualsiasi tipo di sostituto: è venuto il momento che il re veda qual è il suo dovere e lasci che qualcuno dotato del giusto vigore si prenda cura dei nostri campi, dei nostri animali e del grembo delle nostre donne.» Elizabeth sospirò e si appoggiò allo schienale della sedia. Era una cosa molto strana essere al tempo stesso la principessa ed erede al trono di En-
glene e dall'altro soltanto una trasandata signora della magia che faceva il menestrello e a cui i clienti della locanda non prestavano la minima attenzione. Elizabeth aveva trascorso tutta la vita circondata da servitori davanti ai quali si era sempre espressa con la massima libertà, ed ora quella gente stava parlando con la stessa libertà davanti a lei, la sua futura sovrana. «Ah, ma cosa mi dici del fuoco che si è visto sulle colline quando la nostra bella principessa è diventata donna?» La cameriera si era fermata a chiacchierare con i contadini, insinuandosi nella conversazione con la disinvoltura che nasce da una conoscenza di vecchia data. «Dicono che la luce che ha accompagnato l'avvento alla maturità della nostra signora si sia vista fino alla Bonne Terre.» Un paio di contadini risero e lanciarono qualche verso volgare, poi uno di essi, un uomo rude dalle spalle larghe e dal volto arrossato, ribatté: «No, ragazza mia, quella notte la nostra principessa non è entrata nella maturità. Quello che si è visto è stato soltanto un trucco dei signori della magia, e le fiamme sulle colline non erano altro che falò. Si dice che il re fosse impotente, là nel Cerchio, e che la nostra bella principessa sia ancora una fanciulla. Vorrei proprio che fosse spettato a me di portare alla maturità una ragazza tanto bella, perché avrei provveduto che le cose andassero come dovevano!» I compagni del contadino risero, dandosi di gomito, e il parere generale fu che, qualsiasi cosa fosse avvenuta ad Avebury, non era certo stata opera del re. Elizabeth distolse il viso, coperto da un violento rossore. «Come fanno a saperlo?» chiese a Menadel. «Dovrebbe essere un segreto. Pensavo che soltanto zia Catheryne, Thomas ed Aleicester sapessero che ci sarebbe stato un sostituto, e tuttavia questi rozzi umani che in tutta la loro vita non si sono allontanati di dieci chilometri dalla loro casa, sono al corrente della vergogna di mio padre. Come può essere?» Fu Jackie a risponderle. «Cucciolo, non capisci che nei palazzi di Re Richard neppure un topo può squittire senza che anche il più infimo sguattero ne senta il verso e sappia cosa significa? Non c'è segreto che si possa tenere nascosto a tutta Englene. Oh, sono pronto a giurare che voi signori della magia riuscite a celarvi le cose a vicenda... ma mai agli umani!» Elizabeth si girò a fissare il buffone. «Vuoi sostenere che ogni mia azione è oggetto di pettegolezzi di taverna? Guarda, questi villani non riescono neppure a dire le cose come stan-
no. Parlano di me come di una grande bellezza, eppure nessuno di loro mi riconoscerebbe, se passasse ora accanto al nostro tavolo. Come possono sapere la verità sul mio conto se non sanno neppure che faccia ho?» «Ah, ma vedi» spiegò Jackie, «ogni principessa è bella soltanto per il fatto di essere una principessa. Le due qualità sono abbinate. Se tu venissi in questa rozza locanda vestita di seta e velluto e ingioiellata, ogni uomo presente sarebbe pronto a giurare che sei la principessa più bella di tutte le Tre Regioni. Quando al fatto che questi poveri villani non riconoscono la principessa di Englene pur avendola in mezzo a loro, i più non riconoscerebbero la propria madre né sarebbero da lei riconosciuti. Ma ricorda questo: essi sanno riconoscere una verità, quando la sentono, e tutta Englene sa la verità sulla virilità di Re Richard e sulla sua impotenza. Quei contadini devono soltanto guardare i loro campi vuoti, le mogli sterili e il bestiame morente per sapere che il re non è più un uomo, perché il re deve essere più che umano, più che un signore della magia: deve essere la salute, il benessere e la vitalità della nazione. Tuo padre è venuto meno ai bisogni di questa gente, o ai suoi desideri, e se non trova un mezzo per ravvivare i suoi desideri, sono certo che andremo incontro a un raccolto assai misero e a un anno insalubre.» «Per una volta, Somers è riuscito a dire qualcosa che è al tempo stesso vero e ragionevole» intervenne Menadel. «Sono stupefatto. Il buffone ha acquisito saggezza. Questo viaggio ha avuto davvero un notevole effetto su tutti noi. Mia signora, devi accettare il fatto che finché tuo padre non ritroverà la sua virilità, il regno ne subirà le conseguenze, ed io non credo che il re la possa mai ritrovare finché avrà vita. Pensaci, e considera la tua posizione.» Elizabeth scosse il capo, poi segnalò alla sciatta cameriera di servire altra birra. «Non avrei mai creduto che sarebbe giunto un momento in cui non avrei avuto né la volontà né il desiderio di difendere mio padre. Quello che lui ha fatto a questa terra è un grave peccato contro gli Dèi, ma io non so come intervenire per porvi rimedio: il cuore mi dice una cosa, la mente un'altra, e questo mi fa soffrire, zio. Mi fa soffrire molto.» Menadel, la cui faccia aveva un'espressione aspra quanto il sapore della birra nel suo boccale, non trovò parole adatte a confortare la principessa. Guenhwyvar sì strinse maggiormente al mago, tesa in viso: la tosse l'aveva resa pallida, l'aveva trasformata nell'ombra di quella che era. La ragazza sollevò lo sguardo sul viso di Mena-dei, solitamente allegro, poi lo
riabbassò con un sospiro. «Cosa significa tutto questo, mia signora Elizabeth? Prenderai le armi contro tuo padre? Avresti potuto farlo molti mesi fa, a Cymru, e risparmiare tante sofferenze. Lo farai adesso?» «Certo che non lo farà!» Jackie sbatté il suo boccale sul piano del tavolo con tale violenza che la birra schizzò sul legno malconcio. «E non permetterò che si dica nulla di simile contro la mia signora! Voglio che tu sappia, piccola strega silvana, che se anche ogni uomo, donna e bambino di Englene ritirasse con un giuramento la propria fedeltà a Re Richard, la mia signora rimarrebbe al suo fianco anche contro tutte queste persone. Il giorno in cui cambierà, o cesserà di essere la mia leale signora, io aprirò le mie vene di misero buffone e lascerò che il mio sangue scorra nella terra, morendo felice di liberarmi da un simile mondo.» «Suvvia» intervenne Elizabeth, posando una mano su quella di Jackie. «Non ti devi preoccupare, Somers, il tuo sangue ti rimarrà nelle vene per molti anni a venire. Non leverò le armi contro mio padre, ma quando tornerò a palazzo e lo affronterò, gli chiederò conto di tutto questo, perché è il mio diritto, come erede! E dovrò agire per aiutare la nazione, ma non usurpando il trono.» «Come posso però fargli capire quello che sta accadendo? Devo indurlo a vedere cosa è diventato il nostro paese! Lui dovrebbe sapere quello che sta succedendo. Forse dovrei interrompere la mia ricerca e tornare a palazzo per impedire all'oscurità di estendersi maggiormente su Englene. Che ne pensate?» Ciascuno dei suoi compagni meditò su quella domanda, e Jackie fu il primo a replicare. «Dimmi, cucciolo, in confronto a quello che hai visto questa primavera, quanto è importante per te quel giovane vigoroso che hai incontrato ad Avebury? Pensi ancora che il piacere della sua compagnia preponderi sul benessere del tuo paese?» «No, buffone, non hai capito» lo corresse Menadel, scuotendo il capo. «Non si tratta semplicemente dell'una o dell'altra cosa: sotto molti aspetti, si tratta di entrambe. Io dico che dovremmo continuare il nostro viaggio... perché vedi, Elizabeth, avrai bisogno di un uomo potente come quello al tuo fianco quando sarai regina. Il tuo cuore è frettoloso e pronto a indurti a pensare di poter nascondere le pecche di tuo padre agli occhi del mondo con l'uso dei tuoi poteri, ma io ti dico che i tuoi poteri non sono ancora tanto grandi. Devi vedere tutta la nazione, ovest, est, nord e sud, devi en-
trare in possesso di ciò che ti spetta come erede al regno, e non potrai farlo se non completerai questo incantesimo.» «Ma...» Elizabeth era combattuta fra il senso del dovere nei confronti del padre e la consapevolezza della verità contenuta nelle parole di Menadel. Trasse comunque un po' di conforto dal fatto che, secondo Menadel, l'incantesimo in cui era impegnata mirava a scopi più grandi che soltanto a trovare un marito, e che forse la ricerca in cui era impegnata l'avrebbe portata a risultati molto più importanti. La principessa lottò per esprimere i propri pensieri, poi si accorse che la giovane Guenhwyvar era diventata pallidissima e immobile e che stava guardando nel nulla, alle spalle di Elizabeth stessa. D'un tratto, la ragazza parlò con voce piena e matura, del tutto diversa da quella di una giovinetta del Pembrokeshire. «Elizabeth, devi completare l'incantesimo. E poi dovrai venire da me, la Madre del Tutto, affinché io possa realizzare il tuo destino e renderti una fanciulla guerriera pronta a divenire regina. Io, la Grande Madre di Englene, ti dico questo.» Guenhwyvar smise di parlare, chiuse gli occhi per un momento, poi tornò a riaprirli con un'espressione di puro terrore dipinta sul viso. «Per favore» implorò in tono sommesso, con le mani giunte in un atto di preghiera, «per favore, continua il viaggio. Per amor mio, continualo, perché ho visto... un inizio e una fine di sventura. Ho visto il sangue sparso al suolo, sangue che può essere mio o tuo. Ho visto la tua morte ed ho visto la mia, e tuttavia so... che non è detto che questo accada... che tu sola lo puoi impedire. Devi proseguire, perché rinunciare adesso significa la mia morte e la tua. Ti scongiuro, mia signora, ti scongiuro, pensa ad Englene, pensa al figlio che un giorno avrai...» «Un figlio?» Jackie si fece improvvisamente attento. Trascorrere qualche notte con una principessa di Englene era una colpa che probabilmente non gli sarebbe costata la testa... ma se lei avesse avuto un figlio la solfa sarebbe stata diversa. «Se la principessa fosse fertile» replicò Guenhwyvar, lentamente, «e in procinto di dare la vita ad un figlio, la terra rifletterebbe questo fatto. Perché lei è la sposa di Englene, e la sua fertilità contrasterebbe l'effetto dell'impotenza di suo padre.» Menadel annuì, accarezzandosi l'ispida barba rossa. «Già, e la fertilità della principessa è lo scopo di questo viaggio. Quando alla fine troveremo l'uomo che lei cerca, sono pronto a giurare sulla mia
barba che il risultato della ricerca sarà un bel principino... e per dirlo non mi servono le capacità profetiche di Guenhwyvar. So semplicemente che è così, come lo sapevo prima che partissimo.» Elizabeth si protese in avanti, con un'espressione di rapito interesse sul viso. «Allora lo troverò!» dichiarò con entusiasmo. «Grazie, Menadel, grazie per avermi rassicurata sul fatto che vale la pena di proseguire. Troverò quell'uomo e... un principe. Cosa avrebbe detto mia madre di questo? Darò ad Englene un principe!» Il suo tono di voce portò un raggio di sole nella stanza in penombra, e la felicità che vibrava in esso non era altro che l'eco della costante preghiera di generazioni di sovrane, che avevano ripetuto una sola, comune preghiera: "O Dea Madre, dammi un principe". Era il grido che si era levato nel corso dei secoli dalle labbra di quelle donne il frutto del cui grembo aveva fatto la storia, e molte di quelle dame erano scese nella tomba ancora addolorate per il loro fallimento nel generare un principe. «Dimmi, Menadel» domandò la principessa, «il mio principe, mio figlio, sarà un bene per Englene?» Ma non era destino che quella domanda ricevesse risposta, perché prima che Menadel potesse aprire bocca la porta della taverna si spalancò con violenza e un eccitato pescatore corse nella stanza, gridando: «Uno stregone! Uno stregone! Bruceranno uno stregone sulla piazza sul mare! I sacerdoti hanno preso un umano che ha osato eseguire il Grande Rito con sua figlia, nel suo campo.» La taverna divenne un vulcano di azioni e di rumori. I boccali furono rovesciati, le panche crollarono a terra con fragore, rozzi commenti pervasero l'aria, poi l'edificio si svuotò in fretta quando gli avventori si affrettarono a correre in piazza, per non perdere neppure un particolare del dramma. Elizabeth, Jackie, Menadel e Guenhwyvar, pervasi dall'eccitazione generale, si mescolarono alla folla e si trovarono ad essere sospinti lungo le strette vie e per sentieri lastricati, fino al mare. Poi emergendo all'improvviso da un fetido viottolo, si vennero a trovare su un'ampia piazza lastricata, per tre quarti circondata da fitti edifici in legno e pietra e con il quarto lato, quello ad est, che si affacciava sul mare. Una folla considerevole si stava già radunando, e una quantità sempre maggiore di gente fluiva dalle case, dalle strade, dai vicoli. Perfino i pescatori arrivarono di corsa dalla spiaggia per appurare la causa di quel fermento.
Tuttavia, per quanto la piazza si riempisse di gente, al suo centro rimase comunque un ampio cerchio vuoto, intorno a un alto palo di ferro. Quello era il luogo tradizionale dove assassini, ladroni e briganti trovavano la morte... o anche un umano che avesse osato praticare la magia. In Englene, soltanto le streghe silvane e i signori della magia avevano il diritto di conoscere la magia, e se un umano si azzardava ad eseguire anche il più piccolo incantesimo e veniva colto in flagrante dai signori della magia, la pena era la morte sul rogo per espiare quel grave peccato di eresia. A spintoni, Elizabeth si fece largo fra la ressa, arrivando in prima fila e accertandosi che anche i compagni potessero vedere bene. Non dovettero attendere molto perché lo spettacolo avesse inizio. Lentamente, uno dopo l'altro, venti arcieri del re giunsero nella piazza, formando un quadrato intorno al palo e girandosi in direzione della folla, per prevenire eventuali stolti tentativi da parte degli umani di salvare il condannato. Arrivarono quindi, in doppia fila, i sacerdoti e le sacerdotesse del Dio Sulis, che intonavano un dolente inno per l'eretico in procinto di morire; le parole dell'inno, che auguravano al condannato ogni bene nel suo viaggio oltre le porte occidentali, erano in ipocrita contrasto con il fatto che i religiosi erano ansiosi di inviarlo laggiù. Per ultimo, veniva il condannato: indossava una lunga tunica gialla e sul capo portava un alto cappello a punta, anch'esso giallo. Un lungo sospiro gemente si levò dalla folla mentre i presenti guardavano quello che era stato un loro vicino venire incatenato al palo, con una serie di fascine di legna e di sterpi accumulati intorno ai piedi e alle gambe, fino alle cosce. Dall'atteggiamento dei preti, era chiaro che a quell'uomo non sarebbe stata usata nessuna pietà, come dimostrò il fatto che al collo non gli fu appeso, secondo l'usanza, un sacchetto di polvere da sparo che esplodesse al primo contatto con le fiamme e lo uccidesse in fretta e pietosamente, lasciando che il fuoco divorasse soltanto il suo corpo. Un sacerdote di Sulis venne quindi avanti e pronunciò una benedizione a favore del condannato, chiedendogli se aveva qualcosa da dire, prima di morire. Il contadino sollevò il capo verso il cupo cielo coperto e, con voce tanto forte da essere udita dallo stesso Sulis, gridò: «Sono colpevole di ciò di cui sono stato accusato. Ascoltatemi, o Dio e Dea. Ascoltami, o Re Richard. Ho condotto mia figlia, vergine, sul mio fetido campo marciscente e là ho eseguito con lei il Grande Rito perché i miei campi tornassero ad essere rigogliosi. Non chiedo nulla se non che la
Dea accetti la mia morte come un sacrificio per il re. Ma i campi sono sterili, le pecore muoiono, i nostri figli patiscono la fame ed io ti maledico, Sulis! Ti maledico, o Grande Madre! Ma soprattutto, io maledico te, Re Richard dal perduto potere! Sì, io ti maledico, Re Richard il Senzaseme!» Il grido che si levò dalla folla fu minaccioso, spaventoso, e non era diretto contro il condannato, ma piuttosto contro gli Dèi e contro il re. Con gli occhi colmi di lacrime, Elizabeth si girò e si aprì un varco fra la folla, correndo lontano dalla piazza, verso la spiaggia, arrestandosi soltanto quando si trovò nel mare fino alle caviglie. Sola su quella fredda spiaggia, levò in alto le mani, con le dita allargate, e gridò a gran voce: «Raphael! Raphael, tu che sei l'arcangelo dell'est! Ascoltami! Ascolta Elizabeth, Principessa di Englene, ed esaudiscimi. Accetta le mie parole come un voto e prendi la mia vita se io non lo adempirò. Ti chiedo il potere che un giorno sarà mio, il potere dell'anello Raziel. Te lo chiedo in nome di questo popolo sofferente. Prendi da me ciò che vuoi, Raphael, ma dammi una tempesta, perché io possa salvare quell'uomo. Non permetterò che muoia maledicendo il nome di mio padre. Aiutami, o Grande Raphael, acciocché io possa benedire il tuo nome in eterno!» Seguì un grande silenzio come se, per un frammento di eternità, le onde stesse si fossero arrestate, riflettendo sulle sue parole. Ma quel silenzio durò un istante appena, poi il cielo plumbeo fu infranto, dalle Regioni Eteree alla terra, da un grande lampo che toccò il mare all'orizzonte e lo fece ribollire. I venti si levarono e ruggirono fra le nubi, sferzando la superficie del mare e procedendo verso terra alla volta di Yermouth. Il lampo danzò sulle acque e la schiuma si raccolse e si solidificò fino ad assumere la forma di grandi destrieri bianchi, i cavalli di mare dell'Arcangelo Raphael. I cavalli si slanciarono al galoppo attraverso la risacca, fino alla spiaggia: erano centinaia, una fila dopo l'altra, con il manto che aveva il colore della spuma e gli occhi verdi come le onde sottostanti. La coda e la criniera di ognuno erano formate da lampi e gli zoccoli facevano sprizzare fuoco azzurro là dove toccavano la sabbia. I cavalli si divisero per aggirare la principessa, sfiorandola con il loro alito caldo nel passarle accanto, tanto vicini da urtarle la pelle con il manto morbido come seta. Mentre l'ultima fila lasciava al galoppo la spiaggia, Elizabeth si voltò e, afferrata con le mani nude la criniera di lampi del più grande e possente di quei fieri cavalli da battaglia, gli volteggiò in groppa. Lanciando poi un antico grido di potere, si portò in testa alla mandria to-
nante, guidandola verso la piazza dove si stava per bruciare l'eretico. I sacerdoti, le sacerdotesse e gli abitanti si dispersero dinanzi alla furia della pioggia battente e dei cavalli angelici. La gente abbandonò urlando la piazza e cercò riparo nelle strette vie, dove i cavalli non la seguirono. Elizabeth descrisse il perimetro della piazza, da est a ovest e gridò con forza il proprio trionfo e i suoi ringraziamenti all'Arcangelo Raphael. Fatto quindi arrestare il suo cavallo, lo guidò verso il palo e tagliò le pesanti catene di ferro con un solo colpo della sua daga. «Dammi una di quelle fascine ai tuoi piedi» gridò al contadino, «e poi prendi la mia mano!» Stupefatto, l'uomo fece quanto gli veniva richiesto e le passò una piccola fascina di legna di quelle destinate alla sua esecuzione. Elizabeth la infilò nel proprio tabarro, poi afferrò saldamente l'uomo per un polso e lo issò a cavallo dietro di sé. «Tieniti forte» gli gridò. «Tieniti forte, perché cavalchiamo per salvare la tua vita.» Elizabeth lasciò al galoppo la piazza deserta, come se avesse avuto alle calcagna tutta l'oscurità di Englene, tornando fino alla spiaggia e proseguendo sulla sabbia umida per quattro o cinque chilometri, fino ad allontanarsi a sufficienza da Yermouth e ad avere la certezza che non fossero inseguiti. Fece quindi arrestare il grande cavallo di mare e si girò verso l'uomo che cavalcava dietro di lei. «Ora sei al sicuro» gli disse, «ma ti consiglio di non tornare alla tua fattoria o dalla tua famiglia, e soprattutto di non tornare a Yermouth, perché questo significherebbe la tua morte. Soltanto per oggi io ho il potere di impedire ciò che vorrebbero farti.» L'uomo annuì, rassegnato. «Sì. Temevo che fosse così. Del resto, io sono morto quando ho portato la mia piccola Joan in quel campo. Ho perso la vita allora, ed è persa anche adesso, quindi agirò come ogni altro uomo che si sia trovato nelle mie condizioni e andrò a rifugiarmi nelle foreste, come fuorilegge. Se la mia famiglia sceglierà di raggiungermi, così sia, ma per quanto mi riguarda le streghe silvane sono molto più clementi nei confronti di chi usa illegalmente la magia. Non mi bruceranno, e mi daranno asilo contro coloro che vorrebbero farlo.» «Hai ragione, la vita del fuorilegge è l'unica scelta che ti rimanga. Ti ho salvato per un motivo soltanto, perché temevo la maledizione da te scaglia-
ta contro il re. Non discuterò se ciò che hai fatto sia stato giusto o sbagliato, ma la ricompensa che chiedo per averti salvato la vita è che tu non maledica mai più il nome di Re Richard.» Il contadino scivolò giù dalla groppa dell'enorme cavallo di mare e batté una pacca sul liscio fianco candido dell'animale, in segno di apprezzamento per la galoppata. «Credo che la Divinità ti abbia mandata e che tu mi abbia salvato la vita per sua volontà, di conseguenza ascolterò le tue parole e non maledirò mai più il nome del re.» Elizabeth si protese per dare all'uomo le poche monete che aveva con sé. «Prendi. Queste ti faciliteranno il viaggio fino alla foresta. Pregherò per la tua salvezza.» Il contadino ripose le monete nella tunica con qualche parola di ringraziamento e le baciò la mano; poi, con un cenno di saluto, si girò e si avviò lungo le dune di sabbia e sui neri campi spogli, in direzione della macchia verde cupo di una foresta che cresceva a ridosso delle colline. Elizabeth spronò leggermente il cavallo di mare e, protendendosi in avanti, si trovò circondata dalla sua scintillante criniera di lampi. «Vieni, Dono di Raphael, portami dai miei compagni, in nome dell'arcangelo.» Nell'udire le sue parole, il cavallo di mare si avviò al galoppo in direzione di Yermouth ma, prima di raggiungere la città, deviò verso l'interno e prese a risalire le grandi dune di sabbia, ed Elizabeth si aggrappò con forza alla sua groppa mentre i grandi zoccoli scagliavano in alto la sabbia a incontrare la pioggia che ancora cadeva. La principessa guardò verso nord, in direzione di Yermouth, e vide che la tempesta stava ancora infuriando sull'abitato. Arrestò il cavallo e, girandolo in direzione del mare, levò al cielo le braccia, esclamando: «O possente Raphael, angelo dell'aria, ti rivolgo i miei ringraziamenti e la mia benedizione e riconosco di essere in debito con te. Ora ti chiedo di richiamare la tua tempesta e, quando mi avrai ricondotta dai miei compagni, io ti restituirò questo tuo destriero.» Nel momento stesso in cui pronunciò quelle parole, l'aria si rischiarò e le nubi si allontanarono. In groppa al cavallo di Raphael, Elizabeth osservò la tempesta svanire fino a ridursi a poche striature di bianco e a qualche leggera folata di pioggia gentile. Lasciò quindi libero il destriero di andare
dove volesse, consapevole che, con l'aiuto dell'arcangelo, esso l'avrebbe condotta dai suoi compagni. Trovò Menadel, Jackie e Guenhwyvar nascosti con i cavalli in un piccolo boschetto fuori di Yermouth, sulla strada che portava a sud. I tre non parvero eccessivamente sorpresi di vederla ancora in groppa al grande destriero di mare; dopo aver salutato gli altri, Elizabeth saltò a terra, ringraziò l'animale e con una leggera pacca su una spalla lo rimandò verso il mare, verso il cielo e verso il suo padrone. Con il viso illuminato dall'orgoglio, Menadel si rivolse alla principessa. «Quella che hai sollevato, mia signora, è stata una magnifica tempesta. Sono compiaciuto da una simile manifestazione di potere e dal sapere e dalla forza che l'hanno accompagnata.» Elizabeth serrò la cinghia della sella del suo pony e montò. «Ho fatto quello che dovevo, Menadel, anche se ti ringrazio per la tua lode. Ho stretto un accordo con l'Arcangelo Raphael e gli ho chiesto in prestito il potere che un giorno sarà mio, come regina. Lui me lo ha concesso. Naturalmente...» rise la principessa, «gli ho promesso che in cambio avrebbe potuto avere tutto quello che desiderava, e ritengo che anche un arcangelo possa considerare buono un accordo del genere.» «Oh, povero me, povero me!» Menadel si oscurò in viso. «Vorrei che tu non lo avessi fatto. L'incantesimo richiedeva l'uso del tuo potere, non di quello di un altro. Spero che tu non abbia perso la sua Torre di Guardia per l'eccessiva fretta e la poca riflessione. Il potere che hai sull'Arcangelo Raphael è lieve, perché tua madre non ha completato le quattro Torri che dovevano dare alla tua famiglia il controllo sugli arcangeli, e fra tutte le torri, quella di Raphael è la meno completa, edificata soltanto per un quarto. Lui trarrà il massimo vantaggio dalla tua offerta, e temo quello che potrebbe chiederti. Forse non ti concederà la sua protezione. Oh, povero me, povero me!» «Mi è sempre stato insegnato che è gentile e benevolo» replicò Elizabeth, «e confido quindi che non pretenderà più di quanto possa giustamente dargli, e gli darò con gioia quello che vorrà da me. Con le sue azioni, quel contadino ha fatto per questa terra più di mio padre: spero che la Dea lo capisca e che conceda al suo campo d'inverdirsi.» «Può darsi che ottengano della vegetazione in questo posto, cucciolo» intervenne Jackie. «Quando abbiamo attraversato i campi, fuggendo alla tua tempesta, ho notato in uno di essi un lieve strato di grano appena nato. Dubito però che il potere di un singolo umano e di sua figlia possa essere
sufficiente a rendere fertili più di un paio di contee. Se questa primavera sarà davvero cupa come sembra, tutta Euglene ne soffrirà.» Elizabeth si accigliò e infilò una mano nel tabarro, per tirare fuori la fascina. «Questo» spiegò, «è il dono che mio padre riceverà dalla parte orientale del suo regno: la legna che avrebbe dovuto servire per bruciare uno stregone! Gli dirò perché non lo ha bruciato e gli parlerò della colpa per cui quell'uomo era stato condannato al rogo e di ciò che io ho fatto a Yermouth. Io spero che lui tema ciò che gli dirò e che si prenda a cuore ogni singola parola.» «Menadel» chiese Jackie, «quale pensi che sarà il risultato dei doni che la principessa intende portare a suo padre? A parte la giovane Guenhwyvar, nessuno di essi sembra attraente o piacevole.» Menadel si accarezzò la barba, riflettendo per un momento. «Non credo che la nostra principessa intenda che i doni siano piacevoli» replicò quindi. «E se ascolterà il messaggio e l'avvertimento espressi dai doni, forse il re potrà ancora salvarsi. Ma se non lo farà...» Elizabeth tornò a riporre la fascina nel tabarro e incitò il cavallo al galoppo. «A sud, a sud!» gridò. «Andiamo a sud verso la terra di Michael. Possa lui darci riparo e conforto e magari offrirci qualcosa di meglio della disperazione di Cymru, dell'incantatrice di Bamborow e dello stregone di Yermouth.» SUD Salve Michael, quanto più splendente del fuoco sempiterno è la tua maestà.
Io prego il Leone, il signore della folgore, il signore
Del globo solare. Grande principe dell'elemento del fuoco! Sii con me, te ne prego. Proteggi me e chi mi accompagna Da tutti i pericoli che giungono dal sud! CAPITOLO DICIANNOVESIMO Menadel dedicò una notevole quantità di tempo allo studio delle carte che li avrebbero guidati nel viaggio verso sud, e fece rilevare ad Elizabeth la necessità di attraversare Lundene. «Da questa carta, mia signora, puoi vedere che a est della città non ci sono guadi praticabili. Le innaturali piogge primaverili hanno reso la corrente troppo forte perché si possa guadare il Theames più a valle. Dobbiamo riattraversare la città, ed è una cosa che non mi piace affatto perché, fino a quando non avrai ultimato il tuo viaggio, correrai gravi pericoli nel caso che Lady Pemberly o altri dovessero scoprire chi sei. Ho studiato i cieli, e la configurazione delle tue stelle non è buona: il segno in cui stiamo entrando indica un grave pericolo per te. Non mi piace, mia signora, e sento emanare il male perfino dalla carta. Sta' in guardia e bada di pregare gli Dèi. Quanto a me, farò quello che posso per proteggerti.» Elizabeth ascoltò con rassegnazione le parole di Menadel. Fin da quando aveva stretto l'accordo con l'Arcangelo Raphael era stata assalita da un forte senso di disagio e di incompletezza, come se qualcosa non fosse stato ancora ultimato. Anche Guenhwyvar sembrava consapevole di eventi imminenti: trascorreva la maggior parte del tempo avviluppata nel mantello e intenta a mormorare preghiere, mentre i suoi occhi avevano costantemente l'espressione di chi stesse vedendo qualcosa. La ragazza viaggiava immersa nelle visioni più che nella realtà circostante. La stagione non mostrò di migliorare durante il viaggio verso sud. Non scorsero altra vegetazione sui campi, e fu chiaro che l'incantesimo del contadino aveva avuto effetto soltanto nella ristretta area di Yermouth. I campi erano neri e fangosi, e puzzavano di sementi marce, mentre le pecore perdevano i piccoli e rimanevano sterili. La terra stava morendo, e tutt'intorno a loro si stendeva la devastazione voluta dalla Dea. L'attraversamento di Lundene si rivelò molto difficoltoso. Scoprirono che la città era illuminata anche di notte, uomini e donne danzavano freneticamente per le strade, in ogni vicolo si sentiva il rotolare dei dadi, il fruscio delle carte, il rumore sordo delle botti di birra che venivano aperte e il
gorgoglio dei fiaschi di vino che si vuotavano. L'odore che regnava in città dimostrava che da giorni nelle fognature scorrevano vino e birra: il re stava cercando di mantenere contento il suo popolo, ma la città non era protetta dall'oscurità del male che sembrava accamparsi come un esercito assediante intorno ad Englene, e che aveva già aperto con successo una breccia nelle mura. Conducendo a mano i cavalli, Elizabeth, Menadel, Jackie e Guenhwyvar sgusciarono lungo le vie secondarie, rimanendo costantemente all'erta contro eventuali attacchi di ladri e assassini: questa non era la Lundene che avevano conosciuto, in essa era sorto un male che non aveva nulla a che vedere con l'oscurità presente nel paese. Era come se Lundene stesse marcendo a partire dal suo centro, e quel centro era la persona del re. Quando arrivarono al Grande Ponte, i quattro si affrettarono a rimontare in sella e lo attraversarono come se fossero stati inseguiti dai demoni. Menadel si sfilò la scheggia di legno dal cappello e la scagliò con violenza nel Theames. Le ombre proiettate dalle case e dalle botteghe erano strane e distorte, e il vento che soffiava dal fiume aveva gelide dita di ghiaccio. Una volta giunti a Southwarke il gruppo non si fermò e proseguì invece fino ad addentrarsi nella campagna, ed Elizabeth, con suo dolore, si trovò a provare consolazione nell'entrare in una nuova distesa di oscurità, perché ormai viaggiava da molti mesi in compagnia di quelle tenebre, e le conosceva. Ci sarebbero volute molta fatica e una grande quantità di potere e di magia per liberare la capitale dal cancro che era cresciuto in essa come un frutto proibito. Il loro viaggio li portò sempre più a sud e attraverso la stessa desolazione e la stessa aridità che avevano riscontrato nel quadrante orientale. Il cielo continuava a riversare una pioggia cupa, le strade erano un pantano, e questo li costringeva a fermarsi di frequente per pulire gli zoccoli dei cavalli dalla fanghiglia. Fu un viaggio lento e triste. Elizabeth ebbe molto tempo per riflettere, avvolta nel suo mantello e conversando ben poco con i compagni. Tutto ciò che aveva visto nelle terre di suo padre le si era impresso nella mente: bisognava fare qualcosa. Suo padre non poteva continuare a permettere che la terra andasse in rovina, ma nello stesso tempo lei, Elizabeth, non poteva attaccarlo. Con grandi sospiri, affidò il problema alle mani degli Dèi, contenta di non doverne portare il peso soltanto sulle proprie spalle. Ad alcuni giorni di viaggio da Lundene, nella locanda di un paese chia-
mato East Grinfielde, Elizabeth incontrò di nuovo lo stregone-contadino di Great Yermouth, e l'uomo parve meno sorpreso di lei di vederla. «Bene, mia dama menestrello» disse, sollevando lo sguardo dallo scarso pranzo per guardarla, «ci incontriamo ancora! Come vedi, la mia situazione è alquanto cambiata. Viaggio da solo, perché la mia famiglia mi ha abbandonato.» L'uomo indicò la lunga tunica verde e il collare di penitente che portava. «Sono state le streghe silvane della Foresta di Yermouth a darmi queste cose. Mi hanno ordinato di andare a sud fino alla grande Foresta di Ashdowne, dove mi sarebbe stato dato asilo, e mi hanno anche dato un nuovo nome con cui viaggiare verso sud: mi hanno chiamato Jack-inthe-Green, un nome di grande potere. Questo nostro incontro, però, non è casuale. Fin da quando ho lasciato Lundene, ho sperato di vederti ancora, gentile signora, perché ora so chi sei e cosa sei. Se posso renderti un piccolo servigio, c'è una notizia che devi conoscere.» Elizabeth si protese in avanti con un brusco gesto, abbassando la voce. «Non parlare di chi o di cosa sono in questo luogo, e giura sulla tua vita e sulla mia che non lo dirai a nessuno!» Jack si affrettò a giurare, con una mano sul cuore e l'altra sulla daga di Elizabeth. «Mia signora che non può essere nominata» disse quindi, «ho sentito che c'è un folto gruppo di guerrieri al tuo inseguimento. Corre voce che non rechino stemma né cotta d'armi, ma che quando sono soli parlino della Nera Signora del Cerchio che li costringe a proseguire, Colei-che-vorrebbeessere-regina. Il re ne ha fatto la Somma Sacerdotessa di Englene, e lei ha usato i poteri così conferitile per trovarti. C'è anche chi afferma che l'oscurità e il mancato rigoglio primaverile siano dovuti a questa blasfemia.» «Ti voglio dare un avvertimento, basato su ciò che so come umano e su quanto ho appreso dalle streghe silvane. Quella donna ti farà molto male, se solo ne avrà l'opportunità, quindi ti suggerisco di rimanere con me. Insieme, tu, i tuoi compagni ed io, andremo nella foresta e saremo protetti dalle streghe silvane.» «Pare» intervenne Menadel, «che la Foresta di Ashdowne sia effettivamente abitata dalle streghe silvane, e che quelle streghe siano Pickeys. Hanno sangue elfico e sono simili alle streghe silvane della Cornovaglia. La loro magia è molto antica, più antica di quella di quasi ogni altro clan di streghe silvane di Englene, con l'esclusione di quante che dimorano a Heartwood e servono la Dea. Nel cuore della foresta c'è una radura che ospita il tumulo di una regina elfica morta da tempo. Potremmo cercare là rifugio
e protezione: se vorranno aiutarci, le streghe silvane lo faranno in quel luogo, perché è sacro. Avanti, Guenhwyvar, cerca qualche traccia di questi armati di cui parla Jack-in-the-Green.» Obbediente, Guenhwyvar chiuse gli occhi e si concentrò per attingere al potere del suo dono, ma non scorse altro che una grande oscurità. «Temo la mia impossibilità a vedere, mia signora» ammise, dopo alcuni minuti di intensa concentrazione. «Potrebbe significare che non c'è nessun futuro che io possa vedere. Il momento della nostra morte potrebbe essere effettivamente prossimo, quindi affiderò il mio spirito alla Grande Madre, come dovremmo fare tutti.» «Sciocchezze!» esclamò Elizabeth. «Mi rifiuto di arrendermi prima ancora di aver cominciato a combattere. Se questo giorno significa la mia morte, così sia. Andiamocene in fretta da questo luogo. Rivolgerò la mia fiducia alle streghe silvane e alla loro defunta regina elfica!» Si affrettarono a lasciare la locanda e a sellare i cavalli, per poi allontanarsi verso la Foresta di Ashdowne. La strada finì bruscamente al limitare della foresta, e al di là di essa non parve esserci altro che un groviglio di sentieri tracciati dalla selvaggina che conducevano nel folto del bosco. Quella non era una piacevole riserva di caccia, era una selvaggia foresta resa intricata dal sottobosco e ombrosa dai folti alberi. Menadel scese di sella, accostò l'orecchio al suolo e rimase in ascolto. «È vero» disse quindi a Elizabeth, sollevando il capo. «C'è un gruppo di almeno venti cavalieri diretto da questa parte. Dobbiamo affrettarci a entrare nella foresta e cercare di raggiungere la Radura della Regina Elfica prima che ci siano addosso. Presto, presto, via!» E Menadel guidò la furiosa cavalcata nella foresta, calpestando il sottobosco e spezzando rami e arbusti, mentre la sua voce gridava, squillante come quella di Hern il Cacciatore, per incitare gli altri ad accelerare l'andatura. Arrivarono nella radura quando ormai mancava un'ora al tramonto e, sotto la luce sempre più fioca del crepuscolo, videro il luogo che sarebbe potuto diventare quello della loro morte, per mano dei sicari di Lady Pemberly, o della loro salvezza per opera delle streghe silvane. La radura non era ampia, era appena più grande della camera da letto di Elizabeth, e il tumulo al suo centro era più alto della principessa: si alzava dal terreno in una curva delicata ed era coperto d'erba verde e di piccole margherite gialle: le calamità che si erano abbattute su Englene non aveva-
no toccato questo luogo, la grande Foresta di Ashdowne era ancora verde e fertile, perché le streghe silvane possedevano le loro magie per preservare la fertilità della terra e si preoccupavano ben poco dell'impotenza dei re. Una volta nella radura, Jack rimontò in sella al suo grasso cavallo e si congedò da Elizabeth, allontanandosi nella foresta in cerca delle streghe silvane. Elizabeth e gli altri non attesero con passiva rassegnazione il sopraggiungere degli armigeri. Menadel tagliò un robusto palo di frassino ed aiutò Elizabeth a legare la propria daga ad un'estremità, in modo da creare una lancia molto efficace, poi il mago e Jackie snudarono le spade ricevute a Bamborow, che balzarono loro in pugno impazienti e pronte, bordate dì fuoco azzurro e illuminate dalle rune di molti antichi incantesimi che attendevano soltanto che le lame assaggiassero il sangue. Menadel e Jackie non avevano mai avuto bisogno delle armi da quando avevano lasciato il grande castello del nord, quindi non era necessario rinnovare gli incantesimi o affilare le lame. Guenhwyvar si rese utile raccogliendo una provvista di bastoni e di pietre e aguzzando pali di frassino che potessero essere usati come armi, ma rifiutò il coltello che le veniva offerto, dicendo che l'unico uso che sapeva farne era come stoviglia e che preferiva usare armi con cui aveva più familiarità... come una pietra o un randello... quelle armi che in tempi antichi erano state adoperate dai paesani, da chi era stato privato dei diritti civili e dai disperati. Ora non avevano più bisogno dell'acuto udito di Menadel per sentire i cavalieri in arrivo, perché questi erano vicini ed era soltanto la fitta vegetazione della foresta a rallentare la loro corsa, dritta come una freccia, alla volta della radura. Gli uccelli fuggivano dagli alberi, stridendo, al passaggio dei cavalieri, e uno stormo di corvi veniva nella loro scia: era risaputo che quegli uccelli fiutavano una battaglia a chilometri di distanza e si affrettavano ad accorrere non appena udivano il battito degli zoccoli e il cozzare dell'acciaio, per banchettare a spese degli sconfitti. E lo scontro imminente non aveva attirato soltanto i corvi, ma anche un altro spettatore. All'ombra di una grande quercia sostava l'Angelo della Morte, il viso cinereo illuminato dalle possibilità offerte dal futuro campo di battaglia. Era venuto per portare via gli sconfitti. Guenhwyvar fu la prima a scorgerlo e lo indicò con un urlo. «Guardate, guardate, il nostro fato incombe prossimo! La Nostra Signora dell'Oscurità è già qui! Dal momento che la vedo, devo essere vicina al-
la morte!» «Dov'è? Dov'è?» chiese Jackie, guardando nella direzione indicata da Guenhwyvar. «Di cosa stai parlando? Quale signora? Io non vedo niente. Cosa significano questi farfugliamenti, in un momento simile?» «Io la vedo» disse Elizabeth, «e sento il profumo dei meli di Avalon, il che deve significare che anche la mia morte è prossima. Molto bene, se è volontà degli dèi che io muoia qui, così sia, ma è un'ingiustizia nei confronti di Englene.» Elizabeth guardò in direzione dell'Angelo della Morte, che le sorrise come se l'avesse riconosciuta. Bene, mia Signora dell'Oscurità, pensò Elizabeth, se è giunto il mio momento, verrò con te. Ma ti avverto, verrò a ovest combattendo, e se necessario combatterò anche contro di te... L'Oscura Signora della Morte annuì, come se avesse sentito i pensieri di Elizabeth, poi allargò le mani in un gesto di accettazione e, avvoltesi strettamente le ali intorno al corpo, si appoggiò contro la quercia per assistere allo scontro, proprio mentre i cavalieri sbucavano al galoppo dagli alberi che cingevano la radura. Negli armi successivi, quando aveva ormai molti combattimenti alle spalle, Elizabeth scoprì di non essere capace di descrivere questa sua prima battaglia più di quanto riuscisse a descrivere le altre che aveva guidato. Fu un confuso groviglio di cavalli, di colpi di spada, di sangue, di sudore e di polvere. Fu un insieme di urla di agonia e di corpi che cadevano, fu la sensazione di una spada che le scalfì il braccio e la sorpresa per il fatto che il dolore fosse insignificante, appena una puntura. Si era trattato di un colpo leggero, un urto di striscio della spada sfuggita dalla mano di un guerriero trafitto dalla daga di Elizabeth. Il corpo dell'uomo si accasciò ai piedi della principessa che, nell'occhio del ciclone, trovò un momento di quiete per abbassare lo sguardo su di esso e osservare con totale distacco i visceri che si riversavano al suolo, scoprendo che quella vista non la disgustava né la soddisfaceva. Il rumore di un cavallo al galoppo le fece sollevare lo sguardo, e si preparò ad affrontare un altro sicario. L'uomo torreggiò su di lei, in sella a un destriero baio rosso sangue, e la sua spada vibrò nel descrivere un cerchio prima di essere calata in un colpo letale, che però non giunse mai. La spada sfuggì dalla presa del guerriero mentre un fiotto di sangue gli scaturiva dalla bocca e lui crollava a terra, fra le zampe del cavallo. Elizabeth vide una freccia delle streghe silvane che gli sporgeva dalla schiena. Molti altri dardi vibrarono nell'aria, ma nessuno si avvicinò ad Elizabeth,
a Menadel, a Jackie o a Guenhwyvar. Le frecce puntarono contro i sicari, come se fossero state inviate dalla mano della Dea, ma il vero mistero era la loro provenienza, perché nella foresta circostante non si vedeva nessuno, non si udiva nessuna vibrazione di corde d'arco, nessun ordine impartito a gran voce. Nella radura regnava un profondo silenzio, infranto soltanto dal sibilo di un dardo che passava alla ricerca del suo bersaglio. Con le spalle rivolte all'Angelo della Morte, Elizabeth assistette allo sterminio dei sicari, che caddero uno ad uno. Non si accorse del momento in cui l'angelo se ne andò, e fu soltanto in seguito che si rese conto che l'Oscura Signora non era venuta per lei, ma per gli altri. Tuttavia la battaglia era stata così violenta e la probabilità della sua morte così evidente che l'angelo aveva permesso ad Elizabeth di vedere la propria sorte prima che il suo destino si fosse compiuto. Quando anche l'ultimo sicario giacque morto nella radura ora spruzzata di rosse margherite di sangue, Elizabeth danzò in mezzo ai corpi, lanciando il grido di trionfo delle dame-streghe. La battaglia era vinta, e lei sapeva di dovere quel successo molto più al popolo di sua madre che a qualsiasi abilità guerriera. Quando ebbe completato il giro della radura, danzando da est a ovest, si fermò con il viso rivolto a sud, poi sollevò le braccia e diede alla propria voce un tono di potere. «Ascoltami, o popolo dei boschi. Io, Elizabeth, ti dico che come ricompensa per quanto hai fatto qui oggi, ti restituirò ciò che è tuo quando sarò regina. Non mi troverai ingrata nei confronti del tuo operato!» Menadel le si accostò, sporco di sangue e appoggiandosi alla spada per lo sfinimento, e protese una mano per toccarle una manica. «Vieni, mia signora, ci aspetta ora un lavoro sgradevole ma necessario. Dobbiamo seppellire questi uomini vicino alla tomba della regina elfica, in modo che lei possa avere una scorta nel mondo occidentale in cui è andata. Non lascerei infatti nessun uomo in pasto ai corvi e ai lupi e, siccome non sono certo che le streghe silvane daranno a questi uomini una decente sepoltura, temo che questo compito spetti a me e a te.» Quando però si girarono per provvedere alla sepoltura, scoprirono che il tumulo al centro della radura si era spostato ed aveva cambiato forma: su un lato della collinetta erbosa spiccava ora una grande apertura, rivolta ad ovest, e da essa esalava l'umido e dolciastro odore dei sepolcri. Non c'era stato nessun suono che indicasse che la defunta regina elfica o le streghe silvane avessero compiuto quella magia... era come se lo spirito che proteggeva la radura avesse detto loro:
«Questo è il mio altare, deponete qui le vostre offerte. Portatele a me.» E così fu. CAPITOLO VENTESIMO Dalla Foresta di Ashdowne, i quattro puntarono a sud fino a Lewes, e poi verso il mare, ad andatura sempre più sostenuta, perché la salute di Guenhwyvar andava peggiorando. L'aspra tosse secca che aveva assalito la ragazza durante il viaggio verso nord si era fatta più violenta, e da quando aveva visto l'Angelo della Morte lei sembrava aver rinunciato a combatterla. II suo viso era smagrito e scavato, gli occhi brillavano per la febbre, e spesso Guenhwyvar si chinava sul collo del cavallo e tossiva a lungo nel tentativo di liberare i polmoni congestionati. A Lewes venne loro detto che l'acqua di mare di Brighthemstone avrebbe giovato alla ragazza: le sagge donne del posto affermarono che un bagno nelle acque del mare, lungo la sponda meridionale, portava la benedizione dell'Arcangelo Michael sui malati e sui deboli. Da Lewes il gruppo raggiunse quindi in fretta Brighthemstone, ma quando avvistarono la sponda rocciosa fu subito chiaro che l'acqua avrebbe giovato ben poco alla salute della giovane strega silvana: la superficie del mare era infatti coperta da una spessa e nera sostanza che rendeva le pietre stesse della riva nere come catrame. L'odore di quella sostanza era orribile e le onde gettavano sulla riva carcasse di pesci, di mostri marini, di tritoni e di sirene. Elizabeth guardò le acque del mare e vide che quella nera e sporca putredine era un dono adeguato per suo padre: quando procedette a raccoglierne un poco, Jackie si astenne dall'avanzare commenti. Menadel e Jackie trovarono quindi una piccola abitazione in affitto e là trasferirono la strega silvana che versava ormai in gravi condizioni. La casupola era di poco più grande del guardaroba di cui Elizabeth disponeva al Palazzo di Witchdame, ma la paglia del letto era fresca e c'era un ampio focolare da usare per le magie. I due uomini andarono ad alloggiare in una locanda per non essere d'impiccio ad Elizabeth mentre lei procedeva a tentare una serie di magie terapeutiche. La principessa si recò dal signore della magia del castello di Arindele e ottenne da lui ciò che le serviva per un digiuno bianco: quel digiuno era un incantesimo curativo di grande potere che veniva usato soltanto di rado dai
signori della magia, perché prosciugava le energie del guaritore. Il digiuno si articolava in questo modo. Per tre giorni non si mangiava altro che latte e un po' di formaggio bianco, il che obbligò Elizabeth ad astenersi da ogni tipo di carne, dallo zucchero, dalle spezie e da vino e birra. Nei tre giorni successivi si consumava soltanto acqua e, negli ultimi tre, non si mangiava assolutamente nulla. Elizabeth stava ora aspettando di sentire in bocca quello strano sapore che era al tempo stesso di fiori e di decadimento, da cui avrebbe capito che ormai il suo corpo si stava nutrendo di se stesso per trovare energia. Quando giunse il momento, prese una certa quantità di digitale, ridusse la pianta a una polvere sottile e la mescolò con acqua, bevendola come purga; trascorse poi una notte intera sotto la pioggia vomitando tutto quello che ancora rimaneva nel suo corpo. L'alba la trovò purificata, con la mente limpida e un po' stordita per la mancanza di cibo, pronta a dare inizio al rituale che avrebbe liberato Guenhwyvar dal suo male. Elizabeth prese quattro candele accese di cera vergine e le pose ai quattro angoli della stanza. Gettò quindi sul fuoco una fine polvere fatta di incenso, mirra e sangue di drago e tracciò sul pavimento della capanna un triplo Cerchio di nove. Dopo averlo benedetto, evocò le Torri di Guardia e chiese il loro aiuto e la loro misericordia. Ultimati quei preparativi, Elizabeth depose il fragile corpo di Guenhwyvar nel centro del Cerchio, mentre il petto della ragazza si alzava e si abbassava nell'incredibile sforzo di continuare a respirare. Elizabeth si girò quindi verso i quattro punti cardinali, levando in alto le mani ed evocando il fuoco azzurro in modo da creare una barriera di fiamme alta fino alla vita che nascondesse i tre Cerchi. Le Torri di Guardia cantarono pervase dal suo potere, e tutto fu pronto. Elizabeth pronunciò quindi le grandi parole magiche: «Grande fuoco, mio signore e difensore, figlio dell'immenso sole, tu che mondi la terra da ogni sporcizia, libera in questo giorno Guenhwyvar dal suo male. Liberala da ciò che la tormenta giorno e notte.» Elizabeth fece una pausa, sistemando il corpo tremante di Guenhwyvar nella posizione della stella della sera. «La terra ti proteggerà» disse quindi, baciandola sulla fronte. Baciò poi le labbra della fanciulla e aggiunse: «L'aria ti guarirà.» Depose un terzo bacio sul ventre della giovane e invocò: «Il fuoco ti riscalderà.» Infine le baciò ciascun piede e concluse: «L'acqua ti purificherà.» La principessa avvolse la fanciulla in un caldo mantello e li collocò lun-
go un asse nord-sud, con la testa rivolta a nord e i piedi a sud. Si mise quindi in piedi in modo da sovrastare la malata e da avere la gamba sinistra a ovest e la gamba destra a est, sollevò in alto le mani, serrandole al di sopra del capo in un gesto di preghiera e diede inizio al canto che avrebbe portato a compimento la guarigione. Era un canto discendente, lettera dopo lettera, destinato a cancellare progressivamente il nome del più potente demone delle malattie: OCHNOTINOS! CHNOTINOS! HNOTINOS! NOTINOS! OTINOS! TINOS! INOS! NOS! OS! O! Elizabeth concluse quel canto urlando le parole con voce tonante come le onde dell'oceano, come il vento sulle montagne, come un incendio boschivo, come lo smottamento prodotto da un terremoto. Poi scese il silenzio. Elizabeth s'inginocchiò accanto a Guenhwyvar e vide che il suo respiro era un po' meno difficoltoso, ma il polso era ancora rapido e la febbre non era calata. La principessa rimase in ginocchio, in lacrime: come Fanciulla del Cerchio, come principale dama-strega d'Englene, non poteva fare nulla. Annullò il fuoco azzurro e ringraziò le Torri di Guardia, poi si rivestì con gesti bruschi e andò in cerca di Jackie e di Menadel, che avevano preso alloggio in una piccola locanda per lasciarla libera di svolgere la sua magia. Nel momento in cui lei entrò nella locanda, tanto Menadel quanto Jackie compresero dalla sua espressione che aveva fallito. Jackie scosse il capo, e il mago si asciugò una lacrima. Poi quasi facendo appello a tutto il proprio potere, Menadel si alzò e si eresse sulla persona. «Il tempo è giunto, mia signora» disse. «È tempo che tu faccia quello che devi. È ora che tu ti renda conto che in te due sistemi di magia sono
racchiusi in un solo corpo: so che tua madre ha cercato di insegnarti le sue arti, così come so anche che tu non hai prestato molta attenzione ai suoi insegnamenti. Certo, però, ricorderai almeno qualcosa! Questa è una notte di luna piena, ed io ho preso a prestito un cesto dalla moglie del locandiere: recati nella foresta, raccogli ciò che sai e fa' ciò che devi per salvare la vita a Guenhwyvar.» Elizabeth sospirò, massaggiandosi gli occhi indolenziti dalla mancanza di sonno. «È magia da poco» replicò. «Qualche foglia verde, qualche radice: a cosa può mai servire questa roba quando i grandi poteri del triplo Cerchio non hanno funzionato? Morirà. Guenhwyvar lo ha capito quando ha visto l'Angelo della Morte, e nelle Tre Regioni non c'è nulla che possa alterare la sua sorte.» «Non essere sciocca, Elizabeth!» Jackie balzò in piedi per affrontarla, con le mani sui fianchi. «Non ti ho mai vista ritirarti di fronte alla prospettiva di una battaglia. Certo la tua signora madre ti ha insegnato gli incantesimi per guarire quando ancora le saltavi sulle ginocchia, giusto? Non farti beffe di quello che potrebbe essere un potere da poco e segui il consiglio di Menadel. Se fallirai, pazienza. Ma se Guenhwyvar morirà, tu ti maledirai fino alla morte per non aver tentato quell'unica cosa che avrebbe potuto salvarla.» Senza una parola, Elizabeth accettò il cesto che Menadel le offriva e lasciò la piccola sala fumosa per andare in cerca delle erbe silvane necessarie a salvare la vita di una strega silvana, come richiedeva la magia delle selve. Per tutta la notte, sotto la luna piena, Elizabeth cercò e raccolse le erbe necessarie, scegliendole con cura, in combinazioni di tre, di sette e di nove, come sua madre le aveva insegnato. Trovò alcune piante lungo le rive dei ruscelli, altre nascoste in angoli bui della foresta, ma le trovò tutte: in quella remota area della foresta, la primavera era giunta, e lei comprese di essere in un luogo abitato dalle streghe silvane perché, nel viaggio verso sud, aveva constatato che la vegetazione ormai esisteva soltanto dove c'erano le streghe silvane. Elizabeth era cresciuta secondo i dettami di una magia che richiedeva promesse, voti stravaganti e preghiere pronunciate nell'elevato linguaggio dei riti e delle cerimonie, mentre nella magia silvana non esisteva rituale, a parte quello di raccogliere le erbe e di prepararle adeguatamente. Questo la
faceva sentire a disagio, destando in lei l'impulso di pronunciare un voto o una preghiera, quindi interruppe la raccolta e, guardando intorno a sé i rami su cui le tenere foglie primaverili spiccavano nitide sotto la luna, disse: «Io ti prometto, o luogo delle streghe silvane, che se questa magia dovesse guarire Guenhwyvar, io presterò ascolto alle parole di mia madre e mi recherò a Heartwood per essere istruita dalla vecchia che vive laggiù. Io, Elizabeth, erede di Englene, formulo questo voto.» Sentendosi un po' più a suo agio, finì di raccogliere le erbe necessarie e sul fare dell'alba tornò alla capanna per dedicare un altro giorno agli sforzi per aiutare Guenhwyvar. Trovò la ragazza nelle condizioni in cui l'aveva lasciata: il respiro era meno difficoltoso, ma la febbre continuava a devastare il suo corpo, che era caldo e arido. Menadel e Jackie avevano provveduto a turno a praticarle delle spugnature fredde e l'avevano costretta a bere un po' di latte, ma le loro attenzioni erano servite a poco. Rimasta sola con Guenhwyvar, Elizabeth radunò tutte le pentole, padelle e bottiglie che c'erano in giro e procedette alla preparazione delle varie erbe. Alcune andavano sparse sul fuoco, da altre si dovevano ricavare tisane calde da far trangugiare alla malata, e altre ancora andavano avvolte in un panno e usate come impacco, sul petto. La principessa preparò un infuso di tussilaggine per il catarro e ne mise anche alcune foglie sul fuoco in modo che i loro vapori si levassero nell'aria e aiutassero la respirazione, quindi mescolò fiori e foghe di sambuco con la corteccia, bollì il tutto fino a ottenere una specie di latte e diede la bevanda a Guenhwyvar. Le ore trascorsero, il sole si spostò nel cielo, ed Elizabeth continuò a faticare. Mescolò edera in polvere a latte e acqua, somministrando la mistura ogni ora, e gettò altra edera in polvere sul fuoco. La febbre di Guenhwyvar prese a calare quando ormai era vicino il crepuscolo e il tramonto tingeva di carminio le finestre della casupola, poi la ragazza fu assalita dalla tosse. L'accesso la scosse con violenza e la indusse a sputare una serie di globuli neri poi, con un'ultima, violenta contrazione dei polmoni, Guenhwyvar vomitò fuori ciò che aveva causato la sua malattia. Nella bacinella caddero due piccoli gemelli deposti dal demone della notte. Essi erano giunti con l'oscurità che aveva avvolto Cymru ed erano stati deposti nel petto di Guenhwyvar dalla madre, il demone dei venti oscuri e della malattia. Come i suoi genitori, Guenhwyvar era stata prescelta
dal demone come vittima in cui deporre i suoi piccoli: quando la ragazza fosse morta e il suo corpo fosse stato sepolto, le larve del demone si sarebbero nutrite di esso e poi sarebbero uscite dal sepolcro per causare devastazione, malattie, pestilenze e disperazione nel luogo in cui fossero nate. Elizabeth guardò le due larve e seppe che quello sarebbe stato il dono che avrebbe portato a suo padre dall'ovest, anziché la stessa Guenhwyvar, perché se in una nazione un demone poteva deporre le sue larve nel corpo di una fanciulla innocente, questo significava che il re di quella nazione aveva perso il suo potere. Elizabeth capì anche come mai l'incantesimo dei signori della magia non avesse funzionato: il demone che aveva deposto le larve aveva certo posseduto un potere pari al suo e doveva indubbiamente aver trovato divertente la futile lotta della dama-strega contro il male da lui apportato. Ma il demone non aveva avuto protezioni contro le erbe e l'amore di una strega silvana, ed era fuggito come fumo, abbandonando i suoi piccoli, che ora giacevano morti nelle mani di Elizabeth. La principessa sedette al capezzale di Guenhwyvar, che ora dormiva tranquilla, e la vegliò mentre il fuoco si spegneva nel camino e la stanza si oscurava. Sfinita per il lungo digiuno e per la mancanza di sonno, Elizabeth non aveva nessun desiderio di muoversi, e la sua mente prese a vagare per conto proprio, in mancanza di indicazioni sulla strada da imboccare. Elizabeth vide strane ombre, piccole scintille di luce che brillavano come fugaci stelle, vide arcobaleni e nebbie vaganti, e si trovò a fluttuare sempre più in alto rispetto al suo corpo fino a rendersi conto che il suo io spirituale si stava librando vicino al soffitto e la contemplava dall'alto in basso. Anche se la casupola era al buio, ogni particolare era nitido: c'era una fanciulla addormentata e, accanto ad essa, il corpo sfinito di una strega silvana/dama-strega. Elizabeth contemplò la scena con approvazione, perché la sua pace e la sua serenità erano invitanti, come lo era anche la consapevolezza che più lontano c'era una pace ancora maggiore. L'aria era pervasa dal profumo dei meli in fiore, e lei desiderava allargare le ali e trovare quell'estrema tranquillità, all'ombra della porta occidentale. La porta della casupola si spalancò con violenza e Menadel entrò a grandi passi nella stanza. Il mago non perse tempo, affrettandosi a gettare una manciata di ceppi sul fuoco languente, ravvivandolo con uno schiocca-
re di dita e una parola borbottata. Afferrata quindi una bottiglia di birra, costrinse Elizabeth a piegare la testa all'indietro e le versò il liquido in gola. Con un tonfo, lo spirito della principessa rientrò nel corpo mentre lei tossiva, soffocava e sputava, con la birra che le colava dalla bocca e dal naso e con gli occhi che lacrimavano. «Cosa credi di fare?» borbottò. «Adesso ho la testa piena di birra, e fa male.» «Ti avrebbe fatto meno male se fossi arrivato con qualche minuto di ritardo, perché allora il tuo spirito si sarebbe allontanato da te per andare all'isola di Avalon, dove neppure io avrei potuto raggiungerlo. Avanti, finisci la birra da brava bambina, mentre io ti preparo qualcosa da mangiare.» Menadel si affrettò a procurare latte, miele e pane e, così come in precedenza Elizabeth aveva imboccato Guenhwyvar, il mago sedette accanto alla principessa, spingendole il cibo in gola come un uccello ansioso che avesse un solo piccolo. «Basta, basta!» esclamò Elizabeth, con il mento imbrattato di miele e di croste di pane. «Non riesco a mangiare molta roba dolce come questa, dopo aver digiunato a lungo, però mi sembra che potrei divorare una mucca intera, trangugiare una tonnellata di birra e poi dormire per un mese di fila!» «Avevi ragione, Menadel. Ho continuato a ignorare il mio potere come strega silvana, e ora capisco che non posso più farlo e che devo onorare entrambe le componenti presenti in me. Laggiù nella foresta ho fatto un voto, promettendo che se fossi riuscita a guarire Guenhwyvar sarei andata a Heartwood per sottopormi agli insegnamenti di quella donna che mia madre chiamava Nerthus. Non so cosa sia meglio, se andare subito a Heartwood per adempiere al mio voto o se tornare prima da mio padre per aiutarlo a purificare la nazione. Sono perplessa, e ho cercato la risposta in me stessa, ma l'unica risposta che ho trovato è stata la serena pace della porta occidentale, una porta che non costituisce una soluzione.» «Lui ti aiuterà» intervenne la voce di Guenhwyvar, lenta e assonnata. «Deve farlo, sai, perché è il tuo angelo.» «Cosa?» esclamò Elizabeth, fissando gli occhi della giovane strega silvana, ancora appannati dalle sostanze contenute nelle erbe. Guenhwyvar sbadigliò e si sfregò gli occhi con le nocche, come una bambina. «All'inizio ho pensato che fosse un arcangelo, forse lo stesso Gabriel,
ma poi mi sono resa conto che non poteva essere Gabriel, perché ha lasciato l'est insieme a noi. Sapevo però che era un angelo, soltanto non riuscivo a stabilire con certezza quale fosse.» Lanciò a Menadel un'occhiata accompagnata da un dolce sorriso. «Non me lo hai mai detto, mio signore, e a me piacerebbe tanto saperlo...» Elizabeth osservò l'uomo che le sedeva accanto: la sua ombra si allungava attraverso la stanza, e in essa vi era uno strano scintillio, come di minuscole stelle intrappolate. Il volto e le mani di Menadel non apparivano ora più vecchi come in precedenza, le rughe erano scomparse, tranne qualche lieve linea intorno agli occhi, quando sorrideva, e anche se appariva ancora florido e un po' troppo robusto, il fuoco gli ardeva nei capelli rossi e una luce gli danzava allegramente negli occhi azzurri. «No, no, cara, non sono un arcangelo.» Si protese per battere con affetto una piccola pacca sulla spalla di Guenhwyvar. «Anche se vorrei esserlo, per amor tuo, perché se di diritto sono l'angelo di Elizabeth, per amore sono anche il tuo. Ti dico, mia piccola dama delle foreste di Cymru, che tu sei la mia signora, ed io il tuo signore: ho sbagliato a dirti che avremmo dovuto aspettare che tu fossi stata un po' più matura, perché non desidero mai più essere separato da te. Anche se non posso unirmi a te in un matrimonio terreno, posso però creare fra noi un'unione in cui i nostri corpi e i nostri spiriti saranno una cosa sola: tu ed io insieme genereremo figli gloriosi per l'onore di Englene» aggiunse, continuando ad accarezzare la spalla di Guenhwyvar finché la ragazza, tranquillizzata dal suo tocco, cadde in un calmo sonno privo di sogni. Nel frattempo, Elizabeth se ne era rimasta seduta a rosicchiare una pagnotta e a riflettere. Aveva sempre saputo che Menadel non era un signore della magia, e che non aveva neppure sangue di streghe silvane, e tuttavia le era stato insegnato a chiamarlo zio, e lui era sempre stato accanto a lei, fin dall'infanzia. La principessa si rese conto che era giunto il momento delle spiegazioni. Stava per parlare quando sentì aprirsi la porta ed entrò Jackie, portando un piatto coperto e una brocca di vino di Gascon. «Guarda cosa ho trovato, cucciolo! Anche se ho dovuto setacciare ogni locanda di questo posto. Vino e carne adatta a te.» Scoprendo il piatto, il giullare rivelò parecchi pezzi di pollo cotto da poco e tagliato grossolanamente. La stanza si riempì di un profumo di pollo con cipolle e salvia. Con un affrettato ringraziamento rivolto tanto a Jackie quanto agli Dèi, Elizabeth afferrò la carne e prese a trangugiarla come un lupo affamato, e
fu soltanto qualche minuto più tardi, quando smise di masticare per respirare e per versarsi il vino, che ebbe il tempo di chiedere al buffone: «Jackie, tu lo sapevi che Menadel era un angelo?» Jackie si accoccolò sui talloni e scoppiò in una fragorosa risata, gettandosi poi supino sul pavimento e scalciando in aria con i piedi per esprimere tutta la propria ilarità, mentre le guance gli si arrossavano e gli si solcavano di lacrime. Infine, con un goffo saltello, si riportò in posizione seduta. «Un angelo! Un angelo! Fra tutte le cose nelle Tre Regioni che Menadel potrebbe o non potrebbe essere, un angelo è davvero la più strana. Dimmi, cucciolo, sono stati i tuoi nove giorni di digiuno a portarti questa rivelazione? Mi pare una visione davvero fasulla. Un angelo!» E Jackie fu assalito da un'altra ondata di risate che finì con un suono sibilante, simile a quello prodotto da un mantice bucato. «Suvvia, Jackie, smettila con quel ridicolo verso. Sembra che Menadel sia effettivamente un angelo, quindi siediti bene e sii rispettoso nei suoi confronti. Se saremo entrambi molto gentili, forse lui ci racconterà qualcosa di più.» Elizabeth fece seguire l'azione alle parole, assestando al giullare una serie di vigorose pacche sulla schiena finché ebbe smesso di sibilare, poi versò quanto rimaneva del vino in una coppa e gliela porse da bere. «Mi serviva. In effetti, credo che ne dovrò bere molto di più, per riuscire a credere che Menadel sia un angelo. Dopo una fiasca di vino di Gascon potrei credere quasi a qualsiasi cosa, e dopo tre potrei anche credere di essere io stesso un angelo, ma Menadel... un angelo?» Il mago annuì ed allargò le mani in un gesto d'imbarazzo. «Sì, sono effettivamente un angelo, anche se pochissimi membri della corte del re conoscono la mia identità. Sono stato chiamato in Englene da te, Elizabeth, nel giorno dell'imposizione del nome, perché questo è il dettame della tradizione: ogni neonato signore della magia deve dare una dimostrazione del suo potere evocando il suo angelo custode, prima di poter ricevere un nome.» «Oh, questo lo so» convenne Elizabeth. «Ma dopo che il bambino evoca l'angelo custode e riceve da lui un nome, l'angelo torna nelle Regioni Eteree. Se sei davvero un angelo, Menadel, cosa ci fai qui?» «Ecco, vedi, quando tuo padre e tua madre ti hanno portata nella cappella per l'imposizione del nome e tu mi hai evocato, io ero sfortunatamente uno degli angeli minori.» Menadel fece una pausa, arrossendo leggermen-
te. «Nelle Regioni Eteree ci sono 496.000 miriadi di angeli, e tu sei riuscita ad evocarne uno di cinquantanovesimo rango... l'unico rango inferiore al mio è costituito da una schiera di rosei marmocchietti alati che vanno in giro appiccicando bandiere azzurre dappertutto. Puoi quindi capire che come angelo custode sono stato una delusione: io sono soltanto Menadel Mazal, e la mia particolare posizione è quella di Angelo degli Esuli; per quanto delusi, tuo padre e tua madre hanno dovuto ammettere che, essendo per metà strega silvana e per metà dama-strega, avresti potuto effettivamente essere esiliata da una delle due parti del tuo retaggio.» «Naturalmente, io ho trovato tutta la faccenda davvero affascinante, ed ho deciso che in realtà non volevo tornare nelle Regioni Eteree. Così, sono rimasto, e in tutta franchezza non credo che nelle Regioni Eteree qualcuno abbia sentito la mia mancanza.» Menadel fece una pausa per versarsi una coppa di birra e per svuotarla tutta. «Tua madre ed io ci siamo entrambi resi conto che, essendo quello che eri, avresti avuto una vita molto tormentata, e sapevamo che un angelo di cinquantanovesimo rango come me non era adeguato a servirti. Con il mio aiuto, tua madre ha quindi iniziato la costruzione delle Torri del Palazzo di Witchdame. Si trattava di un incantesimo di enorme portata, un quadrato all'interno di un cerchio in cui le quattro Torri costituivano il quadrato, e il fossato era il cerchio. Sfortunatamente, lei non ha finito la sua opera, e questo incantesimo che io ti ho spinta a iniziare era un modo per ultimare ciò che tua madre aveva cominciato, perché nel tuo viaggio da Lundene al Pembrokeshire, di là al Berewicshire, poi a est nel Nordfuleshire e poi di nuovo a Lundene, tu avresti completato il Cerchio che volevo farti tracciare.» «Ma cosa mi dici di questa venuta al sud? Era forse inutile?» domandò Elizabeth. «Oh, no, non era affatto inutile! Vedi, tu avevi formato un cerchio, ma ora ti serviva un quadrato all'esterno del cerchio... il quadrato delle quattro Torri di Guardia. Andando prima ad ovest da Gabriel, poi a nord da Uriel, quindi a est da Raphael e ora a sud da Michael, e dando prova dei tuoi poteri in ciascun luogo, tu hai tracciato un quadrato intorno al Cerchio. Si tratta dell'inverso del sigillo che tua madre ha creato con il Palazzo di Witchdame, e la sovrapposizione di entrambi ti conferirà poteri più grandi di quelli che qualsiasi signore della magia o dama-strega abbia mai posseduto.»
«Temo però che il mio piano sia andato leggermente storto, perché non avevo preso in considerazione quello che è accaduto a Yermouth. Temo che quando sei scesa sulla spiaggia ed hai evocato il potere di Raphael, stringendo il tuo accordo con lui, tu abbia perso la sua Torre di Guardia. Di conseguenza, l'incantesimo non è completo e quando torneremo al Palazzo di Witchdame non troveremo le quattro torri completate, come speravo che accadesse.» «Con i tuoi poteri e con quelle torri, tu avresti potuto risanare la terra e portare la primavera semplicemente tornando al centro del tracciato: ti sarebbe bastato recarti nella corte del palazzo, al centro delle ombre incrociate delle torri perché Englene fosse risanato. Quindi, per rispondere alla tua domanda in merito a cosa devi fare, devi andare a Heartwood! E là devi supplicare Nerthus perché interceda presso Raphael: forse, anche senza Raphael, questo sarà sufficiente, ma non so...» Menadel scosse tristemente il capo. «Io ho tentato, ma credo di essere piuttosto inetto anche come angelo.» Elizabeth si protese ad abbracciare il suo angelo e, così facendo, le sue dita sentirono la presenza di corte penne sulla sua schiena. «Suvvia, Menadel, so che hai sempre fatto quello che era meglio per me, e la colpa è non tua ma mia. Sono stata troppo precipitosa, e tu hai ragione: andrò a Heartwood e mi metterò nelle mani di Nerthus. E spero per il bene di tutti noi che lei sia in grado di darmi il potere che mi permetta di fare a meno di Raphael, o di spiegarmi come riguadagnarmi il sostegno di quell'arcangelo. Così possa essere.» HEARTWOOD Io, Elizabeth, tua figlia, ti invoco, o Grande Madre del Tutto, colei che è apportatrice di fertilità. In nome del fiore e del frutto, del seme e della radice, del bocciolo, dello stelo e di tutte le cose verdi, del mio amore per queste creazioni, io ti chiedo di discendere sul corpo di costei, tua serva e tua principessa.
(le rune del nome di Nerthus)
CAPITOLO VENTUNESIMO Al ritorno, invece di passare per Lundene... una soluzione che Elizabeth si affrettò a respingere, perché non desiderava vedere nuovamente la decadenza di cui la città era caduta vittima... imboccarono la strada per Windleshore, superando il Theames con un traghetto subito a valle della città, che li portò a riva al limitare della spoglia foresta del Grande Parco di Windleshore. «Qui non c'è traccia di verde, Menadel. Come mai? Mio padre non è più capace neppure di proteggere la sua foresta regale?» chiese Elizabeth, mentre attraversavano il silenzio pieno di echi. «È come puoi vedere, mia signora. Fra la perdita di potere che tuo padre ha sofferto e l'ascesa di Lady Pemberly, perfino la grande foresta del re è andata distrutta, e non vedremo più traccia di verde finché raggiungeremo Heartwood. Vieni, quindi, lasciamo questo posto e raggiungiamo in fretta quel lussureggiante rifugio.» Al limitare di Heartwood c'era un piccolo villaggio chiamato Hyghgate2 , perché in effetti era la porta d'accesso a Lundene. Come Menadel aveva predetto, la foresta era verde: dovunque spaziasse l'occhio, essa era ammantata del colore prediletto, come madre e come sposa, dalla Dea. Il limitare esterno della selva era punteggiato dal bianco, dall'oro e dal giallo delle prime primule, delle margherite e dei bucaneve, e a quella vista si accompagnavano il ronzio delle api intente a raccogliere il nettare e il canto degli uccelli, mentre in alto gli scoiattoli correvano fra i rami e nell'erba si udiva il lieve frusciare di qualche coniglio di passaggio. Era un luogo splendido, toccato dallo splendore di ciò che conteneva. A mano a mano che si addentrarono nel bosco, le sue caratteristiche cambiarono: qui i tassi erano più alti e le ombre più fitte, e una fresca brezza soffiava fra gli alberi, portando con sé il profumo del mistero. C'erano anche piccole radure soleggiate dove i rami degli alberi non arrivavano, e in quelle radure sorgevano altari dedicati alla Dea Madre. Per tradizione, ogni sovrano di Englene doveva recarsi a Heartwood ogni settimo anno di regno ed elevare un altare alla Dea, per poi rimanere a guardare mentre i viticci di edera e di rovo si affrettavano a scendere sul piano dell'altare per nascondere alla vista le offerte che vi erano state deposte. Questo era un segno che effettivamente la Dea Madre aveva accettato le offerte. 2
Hyghgate significa Porta Alta
Ma se i viticci non fossero scesi e il cibo, i fiori e i frutti deposti sull'altare fossero rimasti al loro posto fino al tramonto del sole, questo era un segnale con cui la Dea indicava che quel sovrano non era più utile o desiderabile ai suoi occhi. Allora in quello stesso luogo la Sacerdotessa della Dea afferrava lo sfortunato sovrano e gli tagliava la gola, in modo che il suo sacro sangue si riversasse sul terreno e lo fertilizzasse. A mano a mano che si addentravano nella foresta, le radure soleggiate divennero sempre meno frequenti, mentre prevalevano pini e sorbi selvatici, vallette piene di spini e gorgheggianti ruscelli nascosti, e le cime degli alberi erano popolate da gufi. Qui gli altari erano più antichi, crepati o addirittura infranti, perché le pietre cedevano sotto la pressione delle piante che avanzavano. Poi, all'improvviso, raggiunsero un vasto tratto sgombro di vegetazione, vuoto, severo e nero: per un diametro pari a quello di un Cerchio del triplo nove non cresceva nulla, tranne alti pilastri di edera e rovi, aggrovigliati fino a formare una piccola colonna poco più alta di Elizabeth. Accanto alla colonna si levava un altare di granito nero, libero anche della minima traccia di licheni o di muschio. I lati neri dell'altare brillavano come se esso fosse appena stato eretto, e gli spigoli non si erano sgretolati per l'erosione degli elementi, mentre il terreno circostante era sterile come se fosse stato ricoperto di sale, e non si vedevano sentieri di verzura che andassero dall'esterno del circolo all'alto pilastro di edera e di rovi. Elizabeth arrestò il cavallo per osservare la scena, e sentì sorgere dal terreno sottostante un gelido flusso di rovina. «Cosa significa questo posto» chiese allora a Menadel, «e come mai vi è un simile oggetto di oscurità nel cuore della foresta della Grande Dea?» Menadel non rispose direttamente, limitandosi a smontare da cavallo e ad avvicinarsi al limitare del cerchio, dove si inginocchiò e chiese la benedizione della Dea, per poter entrare in esso senza correre rischi. Si accostò quindi alla colonna di rovi e sostò per un momento accanto ad essa; l'aggirò poi da est verso ovest e infilò una mano fra l'edera, tirando fuori un lucido femore bianco serrato nelle strette volute della pianta. Quando Menadel lo lasciò andare, l'osso tornò a sprofondare di scatto nella vegetazione, come se non potesse esserne staccato se non con una grande magia. «Vieni qui, mia signora, vieni a vedere cosa rimane di una delle tue antenate.» Menadel spostò in parte l'edera, in modo che Elizabeth potesse scorgere un candido teschio. La principessa smontò di sella e raggiunse il
mago, dopo aver richiesto il rituale permesso alla Dea. «Che cosa significa?» chiese ancora. «Di quale antenata si tratta? Era una strega silvana o una dama-strega?» Elizabeth osservò il teschio, che era troppo grande per essere appartenuto a una strega silvana; qualcosa, nel gioco di luci e di ombre che lo avvolgeva, dava l'impressione che la pelle fosse ancora tesa sulle ossa, e la sua era un'espressione di sorpresa. Menadel lasciò andare l'edera, che subito tornò a nascondere il teschio. «Questo» spiegò poi, «è tutto ciò che rimane della Regina Isabel, che era chiamata la Lupa, moglie di William lo Sfortunato. Isabel rubò l'anello Raziel, assassinò il marito e uccise anche tutti i figli del re... che erano poi anche i suoi... tutti tranne un neonato che fu nascosto dalla sua nutrice. Quella donna coraggiosa sostituì il principino con il proprio figlio e dovette assistere mentre veniva ucciso.» «Poi la Lupa usurpò il trono e prese come amante Mortimer, il Signore di Cymru, progettando di concepire con lui una nuova dinastia di re signori della magia per Englene. Ma la Dea non le concesse il figlio che voleva finché non giunse per lei il tempo di presentarsi a Heartwood. Allora, quando era ormai prossima a generare quell'empio figlio, Isabel venne qui tremante di paura, perché sapeva di essere incorsa nell'ira della Dea.» «Isabel eresse questo nero altare e vi depose frutta, splendidi fiori, focacce di un incredibile candore tempestate di uva passa e limone e spruzzate di zucchero. Sostò quindi dinanzi all'altare, gloriosa nella sua terribile bellezza e con il viso atteggiato a un sorriso di sicurezza, perché era una dama-strega di considerevole abilità.» «Sapendo che la Dea non avrebbe coperto il suo altare, Isabel ordinò ai cespugli, ai rovi e all'edera di venire al suo ordine, usurpando il diritto della Dea Madre. La vegetazione venne, ma non avvolse l'altare. In un batter d'occhio, o nel tempo che una goccia di rugiada impiega a cadere, Isabel fu avviluppata da uno strato di piante così profondo che nessuno udì il suo grido quando un viticcio d'edera la strangolò.» «Le sacerdotesse e i cortigiani fuggirono di fronte all'ira della Dea e, come vedi, la Dea colpì questo luogo in modo che nulla toccasse mai più l'altare della regina nera. Questo posto permane a ricordo imperituro del potere della Dea. Qualsiasi malvagità tu puoi percepire qui è soltanto una risonanza della rabbia della Lupa Isabel... ma il potere, il potere, mia signora, appartiene alla Dea Madre. Ricordalo bene.» Elizabeth chinò il capo di fronte all'orrore del racconto di Menadel. «E il bambino?» chiese in tono sommesso, pur conoscendo già la rispo-
sta prima ancora di formulare la domanda, ingiunta però da una sorta di spaventosa premonizione. Menadel spinse di lato l'edera, un po' più in basso lungo la colonna, esibendo un piccolo teschio non più grande di un uovo di gufo. Elizabeth gli gridò di lasciare andare la pianta. «Non temere, mia signora. Nessun figlio che potrai avere ti sarà mai tolto dalla Dea, così come in te non c'è il male che pervadeva la Lupa. Vieni qui quando giungerà per te il tempo della maternità, e la Dea ti benedirà. Sono io, Menadel, il tuo angelo custode che te lo dico.» Menadel si accostò alla principessa e la prese per mano per guidarla fuori del cerchio maledetto, aiutandola poi a montare in sella. «Non temere» ripeté, stringendo fra le sue le mani fredde di lei e baciandole. «Qui tu sei al sicuro, perché sei una figlia benedetta della Dea.» Elizabeth si accorse che Jackie non era più con loro e, con un certo terrore, cominciò a scrutar le radure erbose ai lati del sentiero, timorosa di vedere il buffone trasformato in una colonna di edera e rovi per qualche insulto rivolto alla Dea. Con calma, Menadel le chiese cosa stesse facendo e, quando lei lo ebbe spiegato, Guenhwyvar cercò di rasserenarla. «Oh, non c'è nulla di cui preoccuparsi, mia signora. La Somma Sacerdotessa, una vecchia di nome Nerthus, è venuta a prenderlo. Ha detto che avevano molte cose di cui parlare e che Jackie doveva andare con lei nel centro di Heartwood. Jackie mi ha raccomandato di avvisarti che conosceva già quella vecchia... l'aveva incontrata alla fiera di Aberystwyth, a Cymru, e in effetti è da lei che ha avuto l'anello che ti ha regalato. Come vedi, quindi, Jackie non corre rischi.» «Lo sai per averlo visto, Guenhwyvar, oppure è soltanto una tua sensazione?» domandò Elizabeth. «Oh, no, non ho avuto bisogno di vederlo. Mi fido del buon senso di Jackie» rise la ragazza. «In realtà, è molto più cauto di quanto tu supponga e, come molti umani, nutre per la Dea e le sue sacerdotesse una reverenza molto superiore a quella riservata al Dio e ai suoi sacerdoti. Starà molto attento a non offendere Nerthus.» Mentre proseguivano, Elizabeth si sentì rassicurata soltanto in parte: sapeva che Jackie possedeva una certa cautela innata, ma come buffone di corte era fin troppo abituato a rifilare battute pungenti ai sovrani, ed avrebbe potuto dire qualcosa che potesse essere scambiato per un insulto dalla
Somma Sacerdotessa. Piena di preoccupazione, Elizabeth seguì Menadel mentre questi conduceva lei e Guenhwyvar verso il centro di Heartwood, dove sorgeva il grande tempio della Dea. Il tempio aveva la forma di un doppio anello a terrazze che digradava lungo un pendio. Nell'anello più esterno era inserita una grande porta ad arco gotico ricavata in esso e adorna di pilastri e obelischi, mentre il perimetro interno era disseminato da una serie di basse porte di pietra, decorate come i templi egizi. I tre aggirarono un enorme terrapieno ombreggiato da un maestoso cedro: si diceva che quell'albero fosse antico quanto il tempo e che il gigantesco serpente dell'eternità fosse avvolto intorno alle sue radici. Il rumore degli zoccoli dei cavalli che calpestavano le foglie secche fu l'unico suono che li accompagnò lungo il tragitto fino al cerchio interno. Tutte le sue porte erano uguali, e gli architravi erano intagliati con disegni di ali e di lune, mentre sinuosi serpenti avviluppavano le colonne che sostenevano ciascun architrave. I battenti di legno sostenuti dai pesanti cardini di ferro battuto apparivano alquanto prosaici in quella cornice, ma i batacchi, costituiti da contorti serpenti di bronzo, erano abbastanza esotici da far capire che all'interno non viveva una semplice massaia o un'esperta di erbe. «Mia signora» spiegò Menadel, «devi girare intorno a questo anello, per tre volte, da est ad ovest, per poi bussare a una di quelle porte. Nerthus verrà ad aprirti... se deciderà di farlo.» «Ma... a quale porta?» chiese Elizabeth. «C'è una differenza?» «Si dice che il tuo stato di bisogno e l'amore della Dea ti guideranno.» Menadel si sfregò la barba fino a trasformarla in una massa arruffata. «Per lo meno, questo è il modo in cui dovrebbe funzionare l'incantesimo.» «Molto bene, e possa la Dea essere con me.» Elizabeth, Menadel e Guenhwyvar smontarono di sella e legarono i cavalli a un apposito anello; incitata da Menadel, la principessa avanzò e per tre volte girò intorno al cerchio. Poi, mentre Elizabeth indugiava, cercando di stabilire quale di quelle porte desse accesso alla Somma Sacerdotessa, qualcosa di umido le cadde sulla testa. Sollevando lo sguardo, Elizabeth scorse Jackie, appollaiato in cima al grande muro circolare, intento a ingozzarsi allegramente di more, salvo tirare addosso a lei quelle troppo mature. «Buffone, cosa stai combinando? Spero che tu abbia avuto il massimo
rispetto della dignità di Madre Nerthus, perché corre voce che non abbia la mano leggera con gli impudenti come te.» «Cucciolo, io sono sempre in buoni rapporti con le sacerdotesse della Dea: mi trattano con la massima gentilezza, ed io faccio lo stesso con loro. La vecchia Nerthus aveva molte cose da dirmi, ed ora so quale sia il mio ruolo nei piani della Dea... e sono contento.» «E quale sarebbe questo ruolo?» domandò Menadel. «Inetto pigrone! Abbiamo con noi un angelo e lui non riesce a risolvere il semplice indovinello di un buffone. Se non lo sai, vecchio angelo, è perché la Dea non desidera che tu ne sia informato. È sufficiente che lo sappia io.» Jackie rotolò all'indietro in una macchia d'edera e ne emerse drappeggiato di viticci, ridacchiando come il signore del caos. «Ah, questo è il mio indovinello, e soltanto io conosco la risposta!» gongolò. «Bene» intervenne Elizabeth, con impazienza, «se non vuoi rivelarlo neppure a me, abbi almeno la buona grazia di indicarmi la porta a cui devo bussare... oppure anche questo è un indovinello insolubile?» «Oh, quella.» Jackie si contorse in modo da riuscire a lanciare una mora matura nel centro del batacchio affisso sulla porta che si trovava davanti ad Elizabeth. «Contrariamente a quanto ti è stato detto, tutti i sentieri conducono alla Dea e tutte le porte sono aperte a coloro che la cercano. Quindi bussa ed entra, mia signora.» Con una risata, Elizabeth batté tre colpi sulla porta. Il battente si spalancò bruscamente, come se chi era all'interno fosse stato soltanto in attesa di quel segnale e, incorniciata dalla luce delle torce che rischiaravano la stanza, apparve la donna nota come Nerthus. Indossava quella che sembrava essere una tunica verde muschio, aderente in alto e svasata in basso, completamente ricoperta da ricami argentei in cui, a intervalli, erano intrappolate piccole mosche dello stesso colore. Quando però guardò con maggiore attenzione, Elizabeth si rese conto che la tunica era effettivamente fatta di muschio e che i ricami altro non erano che le ragnatele intessute con cura da ragni addestrati. I bordi delle maniche della tunica erano ornati di edera, e la donna portava sui capelli grigi un cappello a due punte tempestato di decorazioni in argento. Fra le due punte era racchiuso un grande disco lunare. Il velo che ricadeva dal copricapo era fatto della stessa sostanza luccicante dei ricami, ed era chiaro che quella era una donna dotata di grande magia. «E così, ti sei finalmente decisa a venire, Principessa Elizabeth! Sul suo letto di morte, tua madre mi aveva promesso che ti avrebbe mandata da
me, e se ben ricordo è morta nel mese della Maturazione delle Messi, mentre ora siamo già nel mese delle Foglie di un nuovo anno. Avrei pensato che ci avresti messo di meno a compiere il viaggio, anche se avessi camminato per tutta la strada dal Palazzo di Witchdame.» «Perdonami, mia signora» rispose Elizabeth, inginocchiandosi ai piedi della donna. «Dimmi, però, prima di ogni altra cosa, sei tu... sei tu per caso la madre di mia madre?» Nerthus rise, un suono simile al tintinnare di quelle piccole campanelle d'argento che si attaccano al collo delle capre quando vanno a pascolare sulle colline. «Misericordia, no, bambina! Credevi di trovare in me una gentile nonnetta che sedesse accanto al fuoco, accarezzando i suoi nipotini? Dovrò forse essere qualcuno che ti insegni a far danzare i topi nella paglia del tetto, o che magari ti consoli con dolciumi e pane allo zenzero? Io sono la madre di tutti coloro che hanno sangue di streghe silvane nelle vene, e tale era tua madre, e tale sei tu.» «Quanto a Menadel...» Lanciò all'angelo un'occhiata da sotto le sopracciglia aggrottate, e Menadel parve raggomitolarsi visibilmente all'interno degli abiti. «Sì, quanto a Menadel... devi sempre essere così inetto, amico mio? Credevo che avresti condotto questa bambina al completamento del grande sigillo e invece, stando a quanto mi è stato riferito, lei ha stipulato un cattivo accordo con Raphael e ha rovinato tutto. Forse potrò aiutarla a rimediare... ma questo dipenderà dal suo carattere.» «Mia signora...» Menadel allargò le mani in un gesto supplichevole, ma fu Guenhwyvar a farsi avanti, dichiarando: «Non è stato per carenza di sforzi da parte nostra se quest'avventura non è andata come doveva, e non ti permetterò di biasimare Menadel, perché neppure la mia signora lo fa.» «Ah ah! E cos'abbiamo qui?» proseguì Nerthus, sporgendosi in avanti per osservare la giovane strega silvana. «Una fanciulla inesperta che sostiene di avere il dono della seconda vista, un dono che non sa controllare o utilizzare a suo piacimento. Devo supporre che neppure tu sia da biasimare, fanciulla? Perché qualsiasi strega silvana tanto sciocca da permettere al demone stesso che le ha ucciso i genitori di deporre altre uova nel suo corpo, è decisamente inetta. Ma del resto voi streghe silvane di Cymru avete avuto sempre ben poca abilità.» «Basta, basta, vecchia madre!» Dall'alto del muro circolare giunse u-
n'improvvisa pioggia di more. Jackie ne scagliò poi ancora un paio e, con sua enorme soddisfazione, ne sentì una colpire in pieno il disco lunare sul copricapo della sacerdotessa. «Non essere sprezzante verso chi ha un potere inferiore al tuo. È una scortesia, ed è ciò che contraddistingue i prepotenti.» Nerthus si protese all'esterno per vedere meglio il buffone appollaiato sopra di lei, e rise. «Ebbene, mia piccola e barbara scimmia, nessun altro tranne te potrebbe essere tanto stolto o tanto coraggioso. Ora prendi forse anche le difese degli angeli e delle streghe silvane, piccolo?» «Sì, mia signora, e di chiunque altro contro cui tu dovessi decidere di usare la tua lingua tagliente. E ti dico, possente regina delle streghe silvane, che se maltratterai così la mia signora Elizabeth, io non prenderò parte al piano della Dea Madre, e parlerò di te al re.» «E cosa ti induce a pensare che il re potrebbe avere potere su di me? In verità, lui dovrà venire qui prima che l'estate sia finita, e deporre le sue offerte sull'altare della Dea. Ed io, come Somma Sacerdotessa, gli taglierò la gola, perché quest'anno non ha dato né forza né benessere alla terra.» «No, no, buona madre.» Menadel si affrettò ad avanzare, posando una mano sulla manica di Nerthus. «Per favore, non parlare della morte del re, perché Elizabeth è una figlia amorevole e leale, ed io non voglio che debba soffrire per qualcosa che non è ancora certo.» Nerthus allontanò la mano dell'angelo con la stessa leggerezza con cui si sarebbe potuta togliere di dosso un ragno, poi si girò a guardare la donna che aveva davanti, un metro e ottantadue di ragazza avvolto nella stazzonata tunica rossa e blu di un menestrello. «Dunque, questa è colei che il re chiama la sua "grande goffa", vero?» disse, adottando bruscamente un tono di voce meno aggressivo. «Non vedo davanti a me un'adolescente implume, ma una donna: il viaggio per tutta la nazione l'ha costretta a crescere, e l'ha trasformata in una creta adatta al mio forno.» «Quanto a te, mia piccola strega silvana» proseguì, rivolta a Guenhwyvar, «non è del tutto colpa tua se sei nata a Cymru piuttosto che a Englene. Lascerò a Menadel il compito di occuparsi del tuo addestramento, perché vedo che le vostre ombre tendono una verso l'altra. E per quanto riguarda la nostra piccola scimmia...» aggiunse, lanciando un'occhiata in direzione del giullare, intento a bersagliare di more un terzetto di scoiattoli. «Presta attenzione, piccola scimmia, perché sto parlando di te» ingiunse,
ritrovando l'abituale asprezza. «Mi aspetto che tu vada via con costoro, che come te servono la principessa, e che tutti e tre prendiate alloggio alla locanda del villaggio di Hyghgate. Rimarrete lontano da questo posto per un intero mese, durante il quale non tornerete a Lundene e non rivelerete a nessuno, uomo, donna o bambino, quale sia il vostro incarico o perché risiediate alla locanda. Se doveste tornare qui prima dello scadere del mese e della luna piena, vi trasformerò in ranocchi, in salamandre o in qualche altro essere strisciante.» «Prestatemi quindi orecchio e andatevene. Voglio che entro il tramonto di voi non rimanga più neppure la minima traccia in questa foresta, altrimenti vi lancerò contro i miei branchi di volpi. Vi avverto che ci sono occasioni in cui la Dea gradisce anche altri sacrifici che non siano soltanto a base di frutta, fiori o focacce. Ed ora via, via tutti e tre.» «Tu invece, mia cara» concluse, rivolgendosi alla principessa con un riluttante sorriso, «vieni, entra nella mia casa dove sarai accolta con gioia, e rimani con me per un mese, durante il quale farò di te un'abile strega silvana.» Senza degnare Menadel, Guenhwyvar o Jackie di un'altra occhiata, la vecchia prese Elizabeth per un braccio e la sospinse nella dimora, sbattendosi alle spalle la pesante porta di quercia. CAPITOLO VENTIDUESIMO L'interno della casa di Nerthus era molto più grande di quanto Elizabeth si fosse aspettata. La porta sorgeva al centro dell'ampia parete ricurva, e la piega interna era coperta di arazzi che illustravano la Dea Madre che combatteva contro un gigante sul Campo della Dea. Sulle pareti c'erano anche altri arazzi, che descrivevano le leggende relative alla Dea Madre, e il pavimento era coperto di pelli animali: di lupo, di grifone, di volpe e d'orso. C'era perfino la pelle di un animale che Elizabeth non seppe riconoscere, con uno strano pelo a strisce nere e gialle e con una testa felina dai denti molto aguzzi. In un lato della stanza c'era un grande letto di legno intagliato, coperto completamente da decorazioni che rappresentavano fiori, frutti e piante; le lenzuola erano di seta verde e il copriletto di piume d'oca era ricamato con tanti nontiscordardime, mentre i tendaggi erano bianchi, ricamati in giallo e in verde. Non c'era focolare, soltanto un cerchio per il fuoco al centro della stanza e un corrispondente buco per il fumo nel soffitto. Un piccolo
furetto bianco dormiva accanto al fuoco, ridacchiando nel sonno. Elizabeth osservò il fumo che saliva a spirale verso l'alto e si accorse che il soffitto era fatto di terra, trattenuta dall'intreccio delle radici del gigantesco cedro. Sul fuoco bolliva una grande pentola di ferro, ed Elizabeth vi si accostò con cautela, non sapendo quale potesse essere il suo contenuto. «È soltanto la zuppa per la cena, bambina» avvertì Nerthus. «Cosa ti aspettavi di trovarci? Un neonato strangolato alla nascita, con occhi di tritone e piedi di ranocchio? Ti assicuro che tutte le voci che certo avrai sentito sul fatto che le streghe silvane ruberebbero i bambini umani per mangiarli sono assolutamente false. E non prepariamo neppure le nostre pozioni con sangue umano: quelle sono antiche menzogne usate contro di noi, ed io ti insegnerò tutto su di esse. Durante il prossimo mese, tu imparerai da me quello che avresti dovuto apprendere negli ultimi diciotto anni, e non sarà facile. Imparerai l'uso, buono e malvagio, delle erbe, delle piante e di tutte le cose che crescono. Imparerai a parlare agli animali e a comprenderli, a giocare con le salamandre senza bruciarti le dita, a prevenire il morso del serpente, e apprenderai tutte le mie ricette per curare i mali dell'umanità. Scoprirai come si parla all'acqua, alla terra, al vento e al fuoco. Infine, quando giungerà il momento, ti inizieremo in un Cerchio di streghe silvane, in modo che tu possa divenire una di noi così come sei una di loro.» «Ora però vieni a sederti. Abbiamo molte cose da fare e poco tempo.» Nerthus rivolse un cenno alla principessa e la invitò a sedere su un piccolo sgabello di legno, accanto al fuoco, offrendole poi zuppa, pane e birra fresca. Nerthus annunciò che il pasto era finito e portò via i piatti vuoti, ordinando ad Elizabeth di fissare il fuoco. «Guarda nelle sue profondità, bambina, guarda oltre il fuoco, a ciò che lo compone, guarda l'elemento del fuoco. Osserva come danza e arde, pensa a tutto ciò che non è fuoco e a tutto ciò che lo è e ascolta la mia voce...» Elizabeth scivolò con facilità nell'incantesimo del fuoco che la strega Nerthus aveva preparato. Raggiunse subito lo stato di trance: era una salamandra nel fuoco di Nerthus, e vide tutto quello che era fuoco e tutto quello che non lo era. «Prima si prende la verbena, si aggiunge la ruta, l'assenzio e infine il cardo selvatico. A questo punto si triturano tutte insieme le erbe e vi si aggiunge un uovo fresco di avvoltoio...»
Elizabeth emerse dal fuoco e si trovò seduta accanto al cerchio ormai vuoto. La porta era aperta, la luce del sole entrava a fiotti nella stanza, e lei comprese dalla fame che provava e dall'inclinazione di quei raggi che erano trascorsi molti giorni. La strega Nerthus la nutrì bene con piccioni al forno, pane fresco, uova, formaggio e buon sidro, quindi le ordinò di guardare nelle profondità di una bacinella d'acqua e al di là di esse, finché Elizabeth scivolò nell'acqua, diventando una naiade che nuotava libera, e vide e apprese tutto quello che era acqua e tutto quello che non lo era. «La testuggine di mare è molto saggia ma parla poco, mentre la volpe ha una buona conversazione ma tende a dire sciocchezze. Non parlerei con un leone mentre sta mangiando, e neppure con l'arvicola...» Elizabeth emerse dall'acqua e si trovò seduta su uno sgabello con una ciotola vuota in mano; dalla luce che filtrava dalla porta e dalla propria fame comprese che erano passati molti giorni, ma ora possedeva il dono di comprendere tutti gli animali. Scoprì che il piccolo furetto bianco, l'animale domestico di Nerthus, le ricordava Jackie. Aveva lo stesso spirito pungente e, nel guardarlo saltellare sulle pietre del focolare e scoppiare nella sua breve risatina, la principessa si accorse di sentire la mancanza del giullare. Prese il piccolo animale, lo baciò e annusò il suo odore muschiato. Nerthus le diede da mangiare noci, focacce di uva passita, trota fresca di sorgente e delicatezze di campo e di fiume, poi portò alla principessa una zolla di terra, gliela mise in mano e la indusse a tastarla con le dita e a osservare un verme che strisciava intorno a una radice pallida e cerea che cresceva nella zolla. Elizabeth scoprì di essere diventata una talpa che scavava nel profondo della terra e scivolò con facilità nell'incantesimo. E conobbe tutto quello che era terra e tutto quello che non lo era. «Il vischio di mare candito è un dolce erotico che attirerà qualsiasi uomo al tuo fianco. Si fa bollire la radice in acqua limpida e zucchero sottile fino a renderla tenera, poi si aggiunge altro zucchero, portando l'acqua al massimo della saturazione. Si estrae la radice, la si lascia raffreddare e la si rotola in una polvere di muschio e di ambra grigia, tagliandola poi a pezzetti piccoli come zollette di zucchero. La si immerge quindi ancora nell'acqua e zucchero, tre volte per ogni pezzo, ripetendo l'operazione fino ad ottenere in tutto nove immersioni. Si fa bollire ancora lo zucchero fino a renderlo
sgretolabile, e si ripetono altre nove immersioni. Una volta freddi, si conservano i pezzetti in un vaso e quando si desidera un uomo basta dargli uno di questi dolci per averlo per sempre...» Elizabeth emerse dalla terra, sapendo tutto quello che c'era da sapere in merito a ciò che esiste fra un uomo e una donna, come ottenere un concepimento e come evitarlo, come evitare di dare alla luce dei mostri, come predire se una donna avrebbe dato alla luce un maschio o una femmina, oppure come determinare se il suo tempo della maternità era finito e non avrebbe avuto altri figli. Vide che la terra nelle sue mani era secca e che il verme era morto, e si rese conto che erano passati molti giorni. Nerthus accese quindi un fuoco di carbone, vi gettò dentro sangue di drago, rosmarino, mirra e incenso e ordinò alla principessa di respirare profondamente il fumo. Elizabeth scivolò nell'incantesimo e si librò con esso, come un uccello, per volare libera. E seppe tutto quello che c'era da sapere su ciò che è aria e su ciò che non lo è. «Sognare l'acqua significa un viaggio, sognare il sole è un buon presagio. Sognare il boia non significa sempre morte, ma può preannunciare un cambiamento. Sognare la torre infranta è un triste presagio. Il volo del corvo parlerà delle imprese degli uomini e l'interpretazione delle ossa rivelerà le imprese degli Dèi...» Elizabeth tornò in sé. L'incenso non c'era più e lei comprese che buona parte del mese era trascorsa. Come Nerthus aveva promesso, ora lei conosceva tutto quello che era necessario conoscere per essere una strega silvana: aveva appreso l'interpretazione dei sogni e la divinazione, l'uso delle erbe e il comportamento di tutte le persone, gli animali, le cose. Era pronta per la prova finale. Nerthus la nutrì sostanziosamente, la fece dormire nel grande letto e la coccolò per due giorni, senza posa. «Ora, bambina» disse quindi la vecchia, «è giunto per te il momento di studiare la materia più complessa in assoluto, per l'esattezza te stessa.» Nerthus si recò in fondo alla stanza, sollevò l'arazzo della Dea e del gigante e mostrò una porta di quercia; quando la vecchia l'aprì, Elizabeth vide un corridoio di pietra, intagliato rozzamente nella terra stessa e inclinato verso il basso. Presa gentilmente Elizabeth per mano, Nerthus la guidò lungo quel cunicolo. Scesero novecentonovantanove gradini, fino a giungere nelle visce-
re stesse della terra e a sbucare su una piattaforma di pietra. Laggiù non c'erano che le scale, la piattaforma e un muro di Fiamma. La Fiamma si levava in alto a perdita d'occhio e si allargava all'infinito in entrambe le direzioni. «Questo, dunque, è il cuore di tutto ciò che ti devo insegnare» affermò Nerthus. «Questo è il luogo dove imparerai tutto quello che c'è da imparare su te stessa, Elizabeth. In questa Fiamma tu conoscerai completamente il tuo potere, i limiti della tua intelligenza, la profondità della tua anima. E... importantissimo... imparerai anche la misura della tua capacità di compiere il male. Conoscerai tutte le cose brutte e meschine che ci sono nel tuo cuore e nella tua anima, il male che hai arrecato ad altre persone, accetterai ogni cosa negativa che hai fatto nella tua vita e saprai che le tue azioni sono parte di te. Ti concedo il dono maledetto di essere onesta in merito alle tue motivazioni e alle tue azioni. Quindi, bambina mia, attraversa il Fuoco e scopri ciò che sei.» Elizabeth si arrestò davanti al grande muro di Fuoco e sentì il suo calore che le arrossava le guance e le strinava i capelli, un calore che le rendeva intollerabile il contatto degli abiti sulla pelle, inducendola a sfilarseli ad uno ad uno, fino a rimanere nuda dinanzi alla fiamma. Mosse un passo in direzione del Fuoco, ma subito si ritrasse, intimorita dal suo potere. «Amore assoluto, fiducia assoluta, bambina» disse Nerthus. «È quanto mi ha dato tua madre, ed io chiedo altrettanto a te. In cambio, ti concederò il mio amore e la mia fiducia, ma soltanto dopo avere avuto i tuoi.» Di nuovo, Elizabeth si girò verso il Fuoco e, tratto un profondo respiro come un nuotatore che stesse per tuffarsi in uno specchio d'acqua di ignota profondità, entrò nel Fuoco, diventando una cosa sola con esso e trovandosi sola con se stessa. Nel Fuoco vide scene meravigliose e scene orribili, cose striscianti e viscide, fiori che trafiggevano il cuore con la loro spaventosa bellezza. Scorse perfette uova di cristallo, che esplodevano e rivelavano il marciume al loro interno, ghirlande di seta e di satin, di tela di sacco e di cenere. Vide morte e putrescenza, forza e onore, la capacità di uccidere e quella di essere uccisa. Seppe quanto era amata e quanto era odiata, seppe quanto lei amava e quanto odiava. Sentì voci levare un canto alla Dea, e in ognuna di esse riconobbe la propria; udì un pianto, che era anch'esso suo, e gioiose risa, che uscivano dalle sue labbra. Vide con perfetta chiarezza tutto ciò che era e tremò per l'orribile grandiosità del suo essere; vide anche tutto ciò che non era, e pianse per quello che non sarebbe mai stata e non avreb-
be mai fatto. Vide non soltanto ogni azione malvagia da lei compiuta, ma anche il male che era derivato dalla sua inerzia, e questa fu la cosa più dolorosa. Elizabeth gridò di dolore quando la Fiamma le penetrò nel cuore. Come uno stanco nuotatore che abbia mal valutato le proprie energie, si trascinò fuori dal Fuoco, su uno stretto costone di pietra, dove giacque ansante, cercando di riprendere fiato e sentendosi come se ogni muscolo e ogni osso del suo corpo fosse stato ridotto in cenere. Sollevò la mano a toccarsi i capelli, stupefatta di averli ancora, come anche le sopracciglia, le ciglia e la peluria del corpo. La Fiamma non l'aveva toccata, per lo meno non fisicamente. Elizabeth sedette sulla sporgenza e trasse un profondo respiro, per calmare i violenti battiti del cuore. Quando si fu ripresa completamente, cercò un modo per lasciare la sporgenza, ma non lo trovò: sopra e sotto c'era soltanto pietra, e tutt'intorno si levava la Fiamma. Notò quindi qualcosa di bianco e lucente in un angolo della sporgenza e, quando si fu avvicinata, si rese conto che si trattava di un teschio... del teschio di qualche sfortunato che aveva attraversato la Fiamma. Mentre lo teneva in mano, il teschio parlò. «Ora, bambina» avvertì la voce di Nerthus, «devi tornare indietro attraverso il Fuoco e guardare in profondità in ciò che sei adesso, in modo da riformarti in quello che sarai. Ti dico questo: non soltanto avrai la conoscenza totale e il potere completo, ma mi vedrai per come sono.» Elizabeth chinò il capo e pianse. Essere passata una volta attraverso il Fuoco era stato quasi più di quanto potesse sopportare, e l'idea di ripetere quel passaggio la terrorizzava. Abbassò lo sguardo sul teschio, e comprese perché quella persona non aveva riattraversato la Fiamma. Rammentò però anche il suo dovere nei confronti di Englene e verso il popolo di suo padre e le streghe silvane a cui era appartenuta sua madre. Elizabeth rientrò nel Fuoco e percepì il contatto della Fiamma nella propria anima. Ma ora conosceva il suo potere su di essa e l'attraversò senza più sogni o visioni, sentendo che il Fuoco si piegava finalmente al suo volere e la rimodellava, facendo di lei la regina che sarebbe stata. Quando emerse dal Fuoco, Elizabeth era una fanciulla guerriera che non sarebbe stata mai più la "grande goffa". Il suo corpo possedeva una muscolatura forte e tesa, pervasa da una grazia che prima le mancava e che rendeva ogni movimento fluido e perfetto: possedeva la scioltezza di una danzatrice, di un guerriero, di un pellegrino che percorra il sentiero della Dea.
Il viso aveva perso la rotondità infantile ed era adesso ben modellato, con gli zigomi che descrivevano una piega angolosa e con gli occhi simili a quelli di un falcone affamato e selvaggio trattenuto dalla mano del falconiere. I capelli, folti e lucidi, le ricadevano come bronzo brunito sulle spalle e fino ai fianchi. Elizabeth emerse dal Fuoco con passo lieve come quello di Ariel e dinanzi a sé, in tutta la sua gloria, vide Nerthus, Dea Madre, Grande Madre del Tutto. In piedi alle spalle della Dea Madre c'era la vaga figura del Dio Sulis. Poi il Dio divenne fumo e quella volteggiante sostanza penetrò nel corpo della Dea, ed essi furono uno. «Esiste un Dio soltanto!» esclamò Elizabeth, con terrore, perché fin dall'infanzia le era stato insegnato che c'erano due divinità, Sulis e Diona. «Sì, bambina mia» rispose la Dea/Dio, «siamo uno soltanto. Quello che tu chiami Sulis e che le streghe silvane chiamano Njord è soltanto un altro mio aspetto. Noi siamo uno e tutto è compiuto da uno soltanto... dalla Dea.» Elizabeth s'inginocchiò ai piedi della Dea Madre e le baciò la mano, dicendo: «Grande Madre, matriarca, Dio fra gli Dèi, io sono tua. Servirò soltanto te per sempre.» Nerthus trasse Elizabeth, speranza di Englene, in piedi e le impartì il quintuplice bacio. Il primo sui piedi, con le parole "siano benedetti perché ti hanno condotta da me"; il secondo sui ginocchi, con le parole "siano benedetti perché si piegano davanti al mio altare"; il terzo sul ventre, con le parole "benedetta sia questa fonte di speranza"; il quarto sul seno, con le parole "sia benedetto perché si lascia commuovere dall'amore"; il quinto sulle labbra, con le parole "siano benedette perché lodano il mio Nome". «Benvenuta, figlia mia, la più grande fra le mie sacerdotesse» disse quindi Nerthus. «Ora andrai via di qui e farai grandi cose in mio nome. Perché tu sei mia e noi siamo tuoi.» CAPITOLO VENTITREESIMO Era trascorso un mese intero da quando Elizabeth era giunta ad Heartwood, ed ora nella notte della luna piena si trovava in un boschetto, nel cuore di Heartwood, nuda tranne che per una coroncina di rose e di edera. Attraverso il fogliame poteva scorgere l'aperta radura dove era stato preparato il sacro Cerchio delle streghe silvane, e scoprì che esso era di meno e
al tempo stesso molto di più di qualsiasi Cerchio dei signori della magia. Le dimensioni del Cerchio non erano state elaboratamente calcolate, e non c'era stata nessuna invocazione alle Torri di Guardia o agli angeli: semplicemente, le streghe silvane che avrebbero celebrato questa notte con lei erano sgusciate ad una ad una nella radura. La Grande Madre, Nerthus, e il suo compagno umano, Jack-in-theGreen, avevano preparato un enorme falò al centro del cerchio; poi, dopo aver benedetto e condiviso le focacce a forma di luna crescente e il vino di more, tutte le streghe silvane... uomini, donne e bambini... si erano spogliate e, con la Madre Nerthus e Jack-in-the-Green, avevano preso a danzare da est a ovest, sempre da est a ovest, intorno al fuoco, cantando e gridando di gioia, incitando i musicisti che suonavano fistule e tamburi di pelle di capra ad accelerare sempre di più il ritmo. La danza era continuata, e le streghe avevano danzato nel loro Cerchio finché perfino la luna e le stelle avevano preso a danzare in Cerchio, in alto nel cielo. Conigli, volpi e piccoli ricci uscirono dalle loro tane ed entrarono nel Cerchio delle streghe, danzando con loro; i topi di campo saltellarono, i corvi cantarono e tutti danzarono, mentre gli alberi dondolavano i rami al ritmo della musica e i ruscelli silvani aggiungevano le loro note a quella gioiosa celebrazione. Ben presto, Nerthus e Jack guidarono la danza su per la collina e intorno al boschetto in cui attendeva Elizabeth. Prendendo per mano la ragazza, Jack e Nerthus la guidarono nella Grande Danza Circolare della natura stessa, ed Elizabeth si lasciò trascinare da loro. La luna salì più in alto nel cielo, e infine un grande silenzio scese sulla terra, il silenzio dell'attesa. I ballerini si mossero lentamente nel Cerchio, tenendosi per mano e cantando sommessamente le gioie delle foreste, dei campi e dei ruscelli, quindi la Dea Madre condusse Elizabeth nel centro del Cerchio, vicino al fuoco, e l'anello di danzatori si strinse intorno a loro. Dal fuoco emerse un altro danzatore, la cui pelle, tesa sui muscoli robusti, era madida di sudore ed aveva un colore fra l'oro e il rosso alla luce delle fiamme. I capelli erano del colore dell'oro, ma quando Elizabeth cercò di vedergli il viso si trovò di fronte soltanto alla grande maschera cornuta del re della foresta, una testa di daino. L'uomo la prese fra le braccia e danzò rapido con lei intorno al Cerchio, per poi uscirne e, sempre danzando, allontanarsi da esso e guidarla oltre la collina e fino alla valletta che era stata preparata per loro: una culla colma di boccioli primaverili, coperta da morbidi teli di seta e profumata di dolce olio di rose.
Là il dio silvano l'adagiò sulle seriche coltri verdi, e quando i loro corpi si unirono le fiamme azzurre presero a danzare sulle colline, ed Elizabeth riconobbe il re della foresta, perché era lo stesso uomo che era stato con lei ad Avebury e che allora, come adesso, le aveva dato una gioia immensa. Lieve, la luce dell'alba toccò la radura e destò Elizabeth mostrandole, con sua sorpresa, che l'uomo le riposava ancora accanto. Quando però allungò una mano per sollevargli la maschera a forma di testa di daino, lui le trattenne i polsi. «No, mia sorella, mio amore» le disse, «non puoi vedermi in viso. Se tu avessi obbedito all'Angelo Menadel e compiuto a Yermouth un atto di magia avvalendoti dei tuoi soli poteri, questo sarebbe stato il nostro mattino di nozze ed io ti sarei appartenuto. Ma non hai ultimato l'incantesimo, e ciò ancora ci separa, perché finché non avrai il supporto di Raphael non potrai avere me.» «Ma è così ingiusto!» esclamò Elizabeth. «Per trovarti ho subito freddo, pioggia e disagi, ed ora che ti ho trovato mi viene detto che non puoi essere mio. Sono dunque così poco desiderabile, mio principe silvano?» «Pensavo che la notte appena trascorsa ti avesse convinta di quanto ti trovo desiderabile, mia sorella e mio amore. Ti dico che ti appartengo e che ti apparterrò fino al giorno della tua morte» rispose l'uomo, con una risata, accarezzandole il ventre con un dito. «Questa mia schiavitù non mi è sgradita, e dobbiamo pregare che Raphael sia ragionevole e accetti di partecipare al grande incantesimo che ti darà il potere. Per ora, però, lui sta gongolando per la stupidaggine da te commessa e medita sul prezzo da chiederti. Dicono che sia un arcangelo gentile, ma il potere che tua madre ti ha dato su di lui non era completo quando lei è morta, e la sua torre è edificata soltanto per un quarto. Non è saggio offendere un arcangelo, perché sono molto sensibili in questo tipo di cose. La torre deve essere ultimata, e per farlo ci vuole un grande potere.» «Ti fornirò un paradosso: devi completare la torre per accattivarti Raphael, ma non puoi ultimarla senza il suo aiuto. Trova come puoi una risposta a questo paradosso... ma non per me, per Raphael.» Elizabeth sospirò. Quest'assurdità di incantesimi, rituali e torri cominciava ad essere molto seccante. Aveva qui, a portata di mano, quello che voleva: quest'uomo doveva diventare il suo consorte. «Senti» disse, «come erede di Englene, ti potrei ordinare di tornare con me al Palazzo di Witchdame e di diventare mio consorte, con la benedizio-
ne di mio padre. Che te ne pare?» L'uomo con la maschera scoppiò a ridere. «Mi pare, mia sorella, mio amore, che stiamo sprecando una bella mattinata. Quando Nerthus tornerà, infatti, io me ne dovrò andare e tu dovrai ricongiungerti a tuo padre, a corte. Quindi non sprechiamo altro tempo in chiacchiere.» Si protese verso Elizabeth, tirandola a sé. «Inoltre, mia principessa, io non sono un tuo suddito, ma un principe di un luogo grande e lontano, per cui non hai autorità su di me. Comunque, al tuo ritorno a corte mi troverai là ad attenderti, per esserti accanto. Le tue azioni potrebbero convincere il grande Raphael a non pretendere da te più di quanto tu abbia preteso da tuo cugino John, quando avete combattuto in occasione del torneo per il tuo compleanno. Forse Raphael si accontenterà di un ramoscello d'erica per il suo cuscino.» «Per quel che ne so, gli arcangeli non hanno cuscino!» ribatté Elizabeth, con una certa irritazione. «Suvvia» rise l'uomo, accarezzandola, «tutto andrà bene, te lo giuro.» E così, in quel luogo e in quel momento, tutto fu serenità per Elizabeth e per il suo signore della foresta. Era ormai passato mezzogiorno, e Jackie, Menadel e Guenhwyvar iniziarono a preoccuparsi. Sin dall'alba, avevano atteso al limitare di Heartwood, senza però vedere traccia della Principessa Elizabeth o della sacerdotessa silvana Nerthus, e stavano ormai cominciando a disperare della salvezza della loro signora quando dalla foresta giunse fino a loro il suono di una processione. Per prima, arrivò la strega silvana Nerthus, seguita da molti altri della sua gente, uomini e donne, che suonavano flauti e tamburi di pelle di capra, mentre giovani fanciulle danzavano con le dita adorne di cimbali e giovani uomini suonavano le fistule. Preceduta da stendardi di seta verde, la Principessa Elizabeth uscì dalla foresta in sella a un magnifico baio berbero. Le protezioni metalliche della sella e i finimenti erano in ottone e lei era avvolta in un'armatura di bronzo, mentre dalle spalle le pendeva un manto di seta verde riccamente decorata e sull'elmo verdi piume di struzzo si agitavano nella brezza. La processione si arrestò dinanzi ai tre compagni della principessa. «Mirate» disse loro Nerthus, «vi abbiamo riportato la Principessa Elizabeth, e credo che sarete sorpresi del cambiamento avvenuto in lei.»
Nerthus scoppiò a ridere, e attese che la principessa venisse avanti per salutare i suoi amici. Vi era nella possente figura in sella al baio una quiete che indusse Menadel, Guenhwyvar e Jackie a provare una profonda reverenza. Era come se l'armatura celasse ai loro occhi una luce abbagliante, e quando la principessa si sfilò l'elmo, essi videro che effettivamente era così. Il sole le brillava come fuoco intorno al capo, i lunghi capelli erano uno stendardo di bronzo fuso agitato dalla brezza, e lei era cambiata. Jackie sollevò lo sguardo su di lei; con la bocca spalancata per lo stupore, accennò a chiamarla con quell'affettuoso nomignolo che le aveva rivolto da quando era nata, ma la parola "cucciolo" gli rimase in gola. Quello non era un cucciolo, quella era una fanciulla guerriera uscita dal cuore di Englene per combattere contro l'oscurità, e Jackie sentì una lacrima scivolargli lungo una guancia, perché ora sapeva che non avrebbe mai più chiamato "cucciolo" la grande e possente Principessa Elizabeth. Il giullare s'inginocchiò dinanzi a lei nella polvere e attese che gli venisse dato il permesso di rialzarsi. «Venite» disse Elizabeth, con voce fredda quanto il bronzo della sua armatura, «dobbiamo raggiungere il Palazzo di Witchdame e la corte di mio padre, perché là vi è un terribile male che io devo affrontare.» In silenzio, Menadel, Jackie e Guenhwyvar montarono in sella e presero le redini dei cavalli da soma. In silenzio seguirono la Principessa Elizabeth fino al palazzo di Witchdame. LE TORRI DI WITCHDAME CAPITOLO VENTIQUATTRESIMO Elizabeth era stata avvertita del fatto che a corte avrebbe potuto trovare cambiamenti sgradevoli. C'erano infatti nuovi cortigiani le cui ombre proiettavano sulle pareti i distorti riflessi della Regione Infera, e l'oscurità aveva conquistato la corte di Re Richard. Elizabeth e i suoi compagni si recarono immediatamente dal re senza perdere tempo a lavarsi o a cambiare gli abiti sporchi per il viaggio: quando sollevò lo sguardo, Richard vide avanzare verso di sé una strana e meravigliosa apparizione: un cavaliere in armatura di bronzo che portava in mano una sacca da viaggio, un mago avvolto da una luce di potere, una strega silvana e, a chiudere la processione, il giullare Jackie Somers.
Il cavaliere aveva un portamento temibile, illuminato dalle torce della Sala del Trono, e fu soltanto quando s'inginocchiò ai piedi del re e parlò che questi si rese conto che si trattava di sua figlia Elizabeth... molto cambiata. Quando lo guardò, il suo viso espresse una fredda ira, e non c'era traccia di affetto nei suoi occhi. Anche Elizabeth rimase sorpresa dall'aspetto del padre. Nel lasciare il Palazzo di Witchdame, lei aveva portato con sé il ricordo di un uomo vigoroso, nell'estate dei suoi anni, mentre ora il gigante biondo dalla carnagione rosea non esisteva più, e al suo posto vi era un uomo fragile e anziano. I folti capelli biondi erano ora striati di grigio, le guance erano pallide e cadenti, gli occhi azzurri acquosi e reumatici. Le mani tremavano, posate sui braccioli del trono, e il corpo appariva smagrito negli abiti sfarzosi. La perdita del potere subita da Richard si era ripercossa su tutta la sua persona, ed aveva portato via con sé la maturità e le ultime tracce della giovinezza. «Sire» disse Elizabeth, aprendo la sacca, «ecco i doni che tu hai richiesto. Questi sono i simboli della pace e della prosperità che regnano ai quattro angoli del tuo regno.» Con quelle parole, rovesciò per terra ai piedi del trono il denso catrame che era stato l'incantatrice del castello di Bamborow, e la legna che avrebbe dovuto alimentare il rogo a Yermouth, la sporcizia raccolta sulle acque del mare meridionale e, in cima a quel cumulo di cose disgustose, i resti in decomposizione dei due piccoli di demone estratti dai polmoni di Guenhwyvar. Dai cortigiani che circondavano il trono si levarono esclamazioni indignate, e Richard si agitò un fazzoletto profumato davanti al viso, in segno di protesta contro il fetore. «Cosa significano questi doni, figlia? Spero che tu abbia un'eccellente spiegazione, altrimenti incorrerai nella mia ira, perché sei entrata qui nella mia Sala del Trono senza una parola di saluto, un bacio d'affetto o un gesto di rispetto nei miei confronti. Sei venuta al mio cospetto fredda e distante come una sconosciuta, e vorrei sapere il perché!» Una sfumatura dell'antica energia s'insinuò nella voce di Richard che, parlando, accennò ai doni con la destra, facendo brillare come fuoco l'anello Raziel. Elizabeth si rialzò e affrontò suo padre. «Non ci sono pace e abbondanza in Englene» replicò con freddezza. «Ho trovato fatiscenza sulla terra, ho trovato demoni che vivevano liberamente nella tua nazione. Ci sono bambini che stanno morendo di fame, bestiame
che perde i piccoli anzitempo. Ho visto raccolti inariditi e uova di falco che marcivano prima di potersi schiudere. Ho incontrato campi neri e fangosi e piogge prolungate, tempeste, Fuoco e Fiamme, ma non ho trovato pace in Englene. Nel paese ci sono contadini che maledicono il tuo nome e donne con il grembo sterile, e il popolo invoca da te un aiuto che tu non gli hai dato. Queste sono le prove che ti ho portato.» «Il Cuore dell'Estate si avvicina, mio signore, e con esso il tempo in cui dovrai andare a Heartwood. Ti avverto che la Dea è molto adirata, perché non ti sei presentato a lei per chiederle aiuto e non ti sei mostrato penitente e disposto ad ammettere la tua impotenza, ma hai invece lasciato che Englene soffrisse per i tuoi peccati.» «Queste parole sono tradimento!» L'esclamazione non giunse da Re Richard ma da Lady Anne di Pemberly, che si fece largo fra la folla per arrestarsi davanti ad Elizabeth, avvolta in un abito da cerimonia azzurro pervinca con le ampie soprammaniche da regina. Agli orecchi, portava gli orecchini di perle e di diamanti che erano appartenuti alla defunta Regina Dianne. «È tradimento, lo ripeto, e se fossi il re ti farei condurre nelle segrete di BrynGwyn, perché là tu potessi sbollire la tua tracotanza e meditare sul disonore che hai riversato su tuo padre.» «Via, via, mia signora» intervenne Richard, protendendo debolmente una mano verso la donna che, con suo rammarico, ignorò il gesto. «IO sono ancora il re, qui» proseguì Richard, «e finché lo sarò spetterà a me decidere chi deve andare nella torre di BrynGwyn e chi no. Le parole di mia figlia sono aspre, ma lei ha appena concluso un viaggio altrettanto aspro, ed io vorrei parlarle ancora... ma in privato, e non di fronte alla mia corte. Andate via, tutti quanti!» esclamò quindi, sollevando lo sguardo sui presenti. «Voglio parlare con mia figlia da solo, ed esigo che qui non rimanga nessuno, tranne il medico Michael Mittron, perché possa assistermi.» Con una gran quantità di inchini e di risatine nascoste, i cortigiani si affrettarono a lasciare la Sala del trono, dove rimase soltanto un avvenente uomo biondo la cui semplice tunica color zafferano indicava che si trattava di un medico. L'uomo si portò accanto a Richard, controllandogli le pulsazioni e appoggiandogli poi delicatamente una mano sulla fronte per appurare se avesse la febbre, mentre il re continuava a fissare Lady Anne, finché la donna si girò e uscì a sua volta. Insieme a Menadel, a Guenhwyvar ed a Jackie, Elizabeth rimase ad osservare il dottore, attendendo che finisse di occuparsi del re; quando ebbe ultimato il suo esame, il medico si trasse di lato, rivolgendo al contempo
ad Elizabeth un sorriso singolarmente dolce. «Mio signore, chi è questo nuovo medico che si prende cura di te? Non ricordo di averlo visto a corte.» «Sono Michael Mittron, un medico proveniente dalla città di Firenza. Sono venuto qui perché mi era giunta voce dei problemi di salute di Re Richard e pensavo di potergli essere di aiuto. Temo tuttavia, mia signora, di aver potuto fare ben poco.» «No, no, Mittron» intervenne il re, «la colpa non è tua. Tu hai ridotto come meglio potevi le sofferenze del mio corpo, ma il mio male più grande riguarda lo spirito, e questa è una cosa che tu non puoi sanare. Infatti ciò che mia figlia ha affermato, sia pure rudemente, è vero: sono debole, ho perso la mia virilità e la terra soffre a causa di questo. So che sarei dovuto andare a Heartwood nel cuore dell'inverno, per offrire un sacrificio anticipato e per offrire il mio collo alla lama della Somma Sacerdotessa, ma amo troppo la vita ed ho preferito aggrapparmi ad essa il più a lungo possibile. Non è ancora giunto l'anniversario della mia incoronazione e del mio compleanno, ed io ho tempo fino ad allora.» Il re si girò quindi verso la figlia. «Ora parlami dei tuoi viaggi, figlia, e di questo cambiamento che si è verificato in te.» «Ti narrerò la storia dei miei viaggi e ti spiegherò il significato di questi immondi oggetti ai piedi del tuo trono, e poi i miei compagni ti racconteranno anche le loro vicende. Ti avverto però che non saranno narrazioni piacevoli e che credo che molte lacrime lasceranno i tuoi occhi per mescolarsi a questa lordura.» «Thomas» esordi Elizabeth, rivolta al Mago, «ti ho mandato a chiamare nella speranza che tu possa in qualche modo spiegarmi di quale male soffra mio padre. È la malattia abbattutasi sulla nazione a ripercuotersi su di lui, oppure c'è dell'altro? Nel corso del mio viaggio ho udito molte dicerie in merito a come il re avrebbe perduto la virilità e il potere. Se il problema consiste in questo, non potremmo noi con la magia restituirgli ciò che ha perduto?» In silenzio, Thomas prese a passeggiare avanti e indietro per il salottino privato della principessa, poi raccolse una conchiglia piena di un assortimento di erbe aromatiche secche e passò le dita fra i petali. «È la miscela di tua madre» commentò infine, tornando a posare la conchiglia. «La riconosco, ed è di questo e di tuo padre che dobbiamo parlare, perché quando tua madre è morta, un assortimento di erbe simili è stato
trovato sparso per la sua stanza. All'epoca si pensò che lei avesse lanciato qualche incantesimo su Re Richard, ma quando esaminammo i petali secchi scoprimmo che erano innocui quanto quelli contenuti in questa conchiglia. Aleicester e Lady Anne ritennero in un primo tempo che l'infermità di tuo padre fosse una cosa temporanea, che lui stesse piangendo la moglie perduta, poi ad Avebury ci fu una tale manifestazione di potere e di fiamme che tutti lo credettero guarito, ma ben presto si seppe che non era così e che era improbabile che l'uomo di Avebury fosse stato lui.» «Non era lui. Non so chi fosse, ma non era mio padre» confermò Elizabeth. «Sì» annuì Thomas, «sono stato informato che hai validi motivi per ritenerlo. Ma era della tua signora madre che stavamo parlando: è stata Lady Marguerite a riferirmi la natura dell'ultimo atto compiuto da tua madre. Ha gettato su tuo padre una grave maledizione delle streghe silvane che lo ha privato del tutto della virilità, ed ha detto a Marguerite di averlo fatto per te, per proteggere il tuo diritto al trono, affinché nessun figlio nato da un'altra donna potesse togliertelo. Tua madre ha anche detto che non avrebbe permesso che il re tuo padre provasse dolore per la perdita subita, perché l'avrebbe vista come un tributo reso dal suo corpo alla moglie morta, come infatti è stato: l'incantesimo ha impedito a Re Richard di ammettere che in lui c'era qualcosa che non andava o di accettare l'idea di poter essere caduto vittima di una maledizione. Anche dopo che Marguerite gli ha spiegato cosa era successo, lui si è rifiutato di crederle, ed ora è come lo vedi perché lui e Lady Anne hanno sperimentato molti metodi per cercare di eliminare la maledizione. II re ha mangiato un'insalata erotica composta di orchidee, mandragola, pervinca e lucertola di montagna, ha ingerito molte sostanze dannose ed ha fatto bagni di erbe. Si è recato nei Cerchi ed ha pregato molti blasfemi aspetti del Dio e della Dea nei loro strani e devianti santuari. Si è rovinato la salute con un'eccessiva ricerca della perduta virilità, e temo che questo finirà per costargli la vita.» «Dannazione a lei! Possa il nome di mia madre essere maledetto in tutto Englene! Possa lei essere per me soltanto colei che tanto male ha recato alla nostra terra» dichiarò Elizabeth, con fredda violenza. Lei aveva maledetto suo padre per i problemi di Englene, ed aveva tratto un certo conforto dal fatto che sua madre fosse stata una regina saggia e buona, mentre ora sapeva che non era così, e che la colpa andava suddivisa equamente fra Richard e Dianne. Fu così che l'amore che Elizabeth nutriva per sua madre si dissolse fino a divenire pari a quello che lei provava at-
tualmente per suo padre... cioè pari a una piccola goccia in un oceano d'ira. «Lo so, mia signora» disse Thomas. «So che hai ogni motivo per provare rabbia e odio, ma non permettere a questi sentimenti di riflettersi verso l'interno del tuo animo e di avvelenarlo. Alla corte di tuo padre c'è già molta oscurità, e ci sono avvoltoi venuti a spolpare le ossa. Tuo cugino John e sua madre erano appena rientrati nelle loro terre quando, apprendendo dell'impotenza di tuo padre, si sono affrettati a tornare indietro per banchettare a spese del disastro di Englene. Ora John corrompe i cortigiani di tuo padre con grosse somme, nella speranza che lo incoronino re al suo posto.» «Ed ha qualche possibilità di riuscirci?» s'informò Elizabeth. «Ora non più, perché c'è un uomo dotato di un fascino e di un'abilità molto maggiori che si sta conquistando le simpatie della corte. Sì tratta...» Thomas lottò visibilmente per fornire una descrizione accurata, riuscendo a stento a vincere la propria avversione. «Si tratta di un uomo di... aspetto piacevole, aperto e generoso. Parla bene ed è istruito. Si chiama Eblis ed è il principe di un potente paese... e c'è chi pensa che sarebbe un buon sovrano per Englene. Non permettere però che io influenzi la tua opinione nei suoi confronti. Va' a fare la sua conoscenza con mente aperta, Elizabeth, perché tu potresti trovare in lui pregi maggiori di quanti ne abbia scorti io. Questa sera cenerà con noi... lui e il suo seguito... e spero che troverai la serata divertente, anche se per me non lo sarà.» CAPITOLO VENTICINQUESIMO Per la cena di quella sera, Elizabeth indossò un abito di broccato verde scuro che aveva una tonalità simile alle sfumature della foresta di Heartwood. La sottogonna e le soprammaniche erano di taffetà dorato e il corpetto, decorato da perle grandi quanto noccioline miste a rose d'oro, scendeva fino alla cintura della sopragonna, dove terminava con un gioiello in onice ed oro. Le maniche da regina del vestito sfioravano il pavimento, ed in capo Elizabeth portava un cappello di velluto verde ornato da una piuma di struzzo. A testa alta, la principessa si avviò al banchetto con la maestosità di un galeone. Per l'occasione, la tavola alta della Grande Sala era stata ricoperta con drappi di damasco; Elizabeth oltrepassò la cortina di arazzi appesi alle spalle della tavola alta e indugiò per un momento a osservare la corte. Molte cose erano come lei le rammentava, ma molte altre erano cambiate. Suo padre sedeva al tavolo, splendido nei suoi abiti di ermellino e di
velluto color porpora, ma non era più il gigante biondo della sua infanzia; Lady Pemberly era al suo fianco come in passato, ma ora portava le ampie maniche da regina e gli orecchini della Regina Dianne. Il re e la dama erano in piedi, intenti a parlare con l'Arcivescovo Aleicester, con Lady Mary e con il figlio di quella coppia, il Duca Charles. Anche quel gruppo familiare era lo stesso ma, nel guardare il giovane ed avvenente duca, Elizabeth si chiese come avesse mai potuto trovare interessante o eccitante un giovane imberbe come quello. Charles era soltanto un cortigiano in mezzo agli altri e non era neppure l'ombra dell'uomo che Elizabeth aveva incontrato nel Cerchio. Il resto dei cortigiani era più o meno quello di sempre: rumoroso come un branco di cornacchie, avido e bramoso di qualsiasi frammento di pettegolezzo che potesse essere udito. Perfino Jackie, che attendeva accanto alla sedia della principessa, pur essendo quello di sempre, era mutato: era l'ometto beffardo e deforme che lei ben conosceva, ma i mesi trascorsi insieme in viaggio avevano permesso alla principessa di scoprire la profondità del suo amore e della sua devozione. L'unica persona fra i presenti che sembrava essere rimasta completamente la stessa era zia Marguerite, che sedeva al suo posto impegnata nella lettura, ignorando i cortigiani e dando l'impressione che nessuno dei cambiamenti intercorsi le importasse. Elizabeth ebbe il sospetto che se anche fosse stata la moglie di un mercante o di un contadino, zia Marguerite si sarebbe comportata nello stesso identico modo, e quel pensiero le diede uno strano conforto. Dalla galleria dei menestrelli giunse uno squillo di trombe, il segnale per il re e i suoi parenti di sedere a tavola. Elizabeth si accorse allora che c'era una sedia vuota fra quella di Richard e quella di Lady Pemberly, e si chiese per chi potesse essere. Echeggiò un secondo squillo di trombe, e nella sala entrò a grandi passi un uomo splendido, con i capelli di un biondo dorato e abbigliato in oro e scarlatto. I suoi modi erano incredibilmente autoritari, e dalle reazioni dei cortigiani fu evidente che era il favorito di tutti. L'uomo giunse nella sala accompagnato da un seguito di paggi, di sacerdoti e di cortigiani che portavano la sua livrea nera e scarlatta, e le ombre da essi proiettate erano quelle di demoni che danzavano trionfanti. Seguì una certa confusione mentre quel seguito prendeva posto e il re dava il benvenuto all'ospite, il Principe Eblis di Bene Ehm. Quando lo presentò a sua figlia, il principe indugiò un po' troppo a lungo nel baciarle la mano con labbra fredde come il giaccio.
Elizabeth lo guardò negli occhi e scorse nel loro vivido azzurro una piccola fiamma che danzava al posto della pupilla; e quando il principe si girò per prendere posto e la tunica gli si agitò intorno al corpo, lei scorse le fiamme rosse e oro della Regione Infera che avviluppavano il suo robusto corpo muscoloso e tremò, perché seppe che quell'uomo era un demone. Guardandosi intorno nella sala, Elizabeth si accorse però che nessun altro appariva preoccupato, e le fu chiaro che lei era stata l'unica a vedere ciò che aveva visto. Re Richard, che sarebbe dovuto essere l'uomo più attento di tutto Englene, non aveva notato niente, ma questo non sorprese Elizabeth, dopo tutta l'oscurità che aveva incontrato sulle terre di suo padre. La principessa distolse lo sguardo da Eblis e sedette guardando fisso dinanzi a sé, mentre le varie portate iniziavano ad affluire nella sala. I paggi che servivano in tavola erano stati abbigliati in maniera fantastica in modo da somigliare a svariate bestie: c'erano draghi e unicorni, grifoni e basilischi, e ogni volta che uno di loro posava un piatto sulla tavola alta il gesto era accompagnato da una fanfara proveniente dalla galleria sovrastante. C'erano vassoi di ostriche, brodo di montone in gelatina, ossobuchi, una copiosa insalata e parecchie pernici dorate con lo zafferano; c'era un cigno arrosto a cui era stato rimesso il piumaggio e un enorme pasticcio di piccioni. Elizabeth notò però che mentre c'era grande abbondanza di quelle portate, altri cibi erano posti esclusivamente davanti al re, al Principe Eblis e a Lady Anne di Pemberly, e si accorse ben presto che quelle pietanze avevano un aspetto strano e preoccupante, perché erano state tutte studiate per alimentare la bramosia della lussuria. C'era una grande insalata di pervinca, mandragola e ruca, condita con olio, zucchero e zenzero; c'erano lingue di cervi vergini e cetrioli imbottiti con crema di ostriche, c'era uno stufato di cervelli di passero e rognoncini di galletto misti a pancetta e carciofi. C'era un enorme piccione, ripieno di uova di pesce e un vassoio di lumache in latte di pecora. E venne portato anche un basilisco formato da un maiale e da un pollo cuciti insieme e molto elaborato. Elizabeth vide che suo padre mangiava soltanto di quelle pietanze. «Attenta, mia signora» mormorò Jackie, accanto a lei, «a non darmi nessuno di quei pasticci! Perché se dovessi farlo non credo che riuscirei a resistere alle tue grazie, neppure di fronte a questa nobile compagnia.» Con una risata, Elizabeth servì se stessa e il giullare attingendo soltanto da portate che sapeva essere scevre da effetti erotici. Mentre mangiava, però, fu assalita da una notevole inquietudine, perché si accorse che la sua
coppa, il grande pezzo di turchese intagliato e sostenuto dalle braccia di un tritone, non c'era. La coppa che aveva davanti, intagliata nel cristallo e sostenuta da un titano d'oro, era certamente splendida, ma non era la sua coppa. Chiedendosi dove fosse andata a finire, si guardò intorno e la vide davanti al piatto di Lady Anne di Pemberly. A quel punto, Elizabeth fu pervasa da una profonda ira. «Signora» disse alla dama, «vedo che i paggi che hanno apparecchiato la tavola hanno commesso un errore. La coppa che hai davanti è mia e desidero riaverla.» Sorpresa, Lady Anne guardò prima la principessa, poi il re, e fu ovvio per tutti che Richard le aveva permesso non soltanto di fregiarsi delle maniche della regina e di portarne gli orecchini, ma anche di impadronirsi della coppa della principessa. «Ma, mia signora principessa...» «La rivoglio indietro subito!» ingiunse Elizabeth, con voce fredda e dura quanto una lama silvana. Il re distolse la propria attenzione dalla sua conversazione con Eblis e si girò per affrontare la figlia, ma scorse in lei qualcosa che lo spinse a ritrarsi e a voltarsi invece verso Lady Anne. «Restituisci a mia figlia la sua coppa» disse alla dama, con voce spenta e vuota. «È sua proprio come, in qualità di mia erede, è suo anche tutto il mio regno.» Con malagrazia, Lady Pemberly passò la coppa alla proprietaria, ricevendo in cambio il calice in cristallo e oro. Elizabeth ordinò quindi al suo paggio di lavare con cura la coppa e di riempirla di vino del Reno. Non poteva pretendere anche la restituzione degli orecchini o la rimozione delle maniche, ma per ora questa piccola vittoria le bastava. Il pasto interrotto riprese. I servitori portarono i dolciumi, che comprendevano molte crostate e budini e un vassoio di pasticcini e di cialde. C'erano anche fruttiere piene di pesche, di albicocche e di uva, frutti che provenivano dalla serra della Regina Dianne, nel Palazzo di Witchdame. C'erano noci zuccherate, petali di fiore canditi e molti altri piatti gustosi ed eleganti, ma Elizabeth concentrò la propria attenzione su quello che mangiava suo padre. Come le portate precedenti, anche i dolci erano studiati per provocare un effetto erotico, e comprendevano canditi di vischio di mare, gelatina di petali di rosa e foglie di violetta candite, a cui si accompagnavano ciotole di fichi secchi, di olive e di caviale, vino aromatizzato con la mandragola,
grani di paradiso e muschio. Poi una camerierina minuta sgusciò nella sala e depose accanto al re un piccolo vassoio su cui c'erano sottili cialde fragili come carta che Elizabeth riconobbe con fredda certezza come il prodotto di un potente incantesimo d'amore, ed erano fatte di sperma di bue e di fine farina bianca, il tutto cotto con il calore corporeo sul seno di una donna disponibile e vogliosa. Invero, la ricerca della virilità da parte di suo padre era diventata disperata. Infine, accompagnate da un suono di tromboni e di tamburi, giunsero le torte. La prima era costituita da un poderoso drago di marzapane, le cui scaglie erano rivestite di sangue bollito fino a renderlo nero, ed era in onore del Principe Eblis, perché il suo stemma era un drago nero in campo scarlatto. Sui membri della corte scese il silenzio quando anche la seconda torta venne portata in tavola, poi i cortigiani si diedero da fare con il cibo e con i piatti o ripresero a conversare fra loro, cercando di ignorare la cosa eccessivamente enfatica che era stata deposta davanti a Richard. In un primo momento, Elizabeth pensò che si trattasse semplicemente della rappresentazione in marzapane del Dio Sulis, perché sulla figura si vedevano la dorata maschera solare del Dio e lo splendido abito composto di fiamme rosse e gialle, ma poi non poté fare a meno di notare che alcuni particolari fisici erano stati riprodotti con un'eccessiva fedeltà che scadeva nell'osceno. La torta rimase davanti al re e Richard l'ignorò deliberatamente. Si girò invece verso Eblis, suggerendogli di osservare con estrema attenzione il drago, perché Henry Terrell aveva affermato che esso celava una piacevole sorpresa. Terrell venne quindi avanti con una candela accesa, che accostò alla bocca del drago: ci fu una fuoriuscita di fumo, poi una fiammata scaturì dalle fauci, accompagnata dal ruggito dell'esplosione della polvere da sparo contenuta all'interno. Il drago si divise in due e rivelò a tutti il tesoro nascosto al suo interno, fatto di dolciumi e confetti, di petali di fiore, di noci dorate e di piccoli gioielli. Quanti sedevano alla tavola alta si protesero immediatamente per attingere dal contenuto del drago, e soltanto Elizabeth notò che la figura di marzapane del dio-re era stata staccata dalla sua base di plum-cake dall'esplosione, ed ora giaceva sul dorso, con i suoi attributi rovinati: sotto i suoi occhi, alcune gocce di vino bianco colarono dalla figura sulla tovaglia di damasco, creando una larga chiazza umida. Non era uno spettacolo piacevole.
Il resto del banchetto non fu una cosa gradevole per Elizabeth, che si accorse come i cibi afrodisiaci cominciassero a produrre il loro effetto... ma non sul re. Lady Pemberly e il Principe Eblis stavano dimostrando una cordialità reciproca sempre maggiore, e la mano di lui vagava spesso verso la spalla nuda o la scollatura della dama, che a sua volta giocherellava con i capelli dorati di lui o lo imboccava con dolciumi e tartine. Ebbero inizio gli intrattenimenti, ed Elizabeth dovette ascoltare i tetri borbottii di Jackie che, dietro di lei, dissertava con cattiveria sulla qualità dello spettacolo in corso intorno a lui. Il re si era procurato un nuovo buffone, un piccolo nano estremamente brutto di nome Jeremy. L'arguzia del nano era limitata, e lui cercava di compensare la cosa eseguendo acrobazie con ben poca abilità. Nel frattempo, i paggi portarono nella sala un'enorme crostata, più grande di qualsiasi altra che Elizabeth avesse mai visto, e la collocarono sul tavolo di destra. A quel punto Jeremy prese a danzare sul piano del tavolo, poi lanciò un grido e corse per tutta la lunghezza della tavola, tuffandosi sulla crostata e spruzzando della sua pasta appiccicaticcia tutti gli sfortunati cortigiani che sedevano nelle vicinanze. Quanti non erano stati spruzzati trovarono la scena divertente ed applaudirono, chiedendo un bis. Elizabeth, invece, ritenne lo spettacolo nauseante, e si chiese come la situazione avesse potuto degenerare al punto che una cosa del genere poteva passare per una spiritosaggine. Perfino il cattivo gusto dimostrato da Jackie quando era andato in giro con il vestito verde scartato da Lady Pemberly era stato una forma di umorismo migliore di questa. «Ma guarda!» commentò Jackie, con tono virtuoso. «Io non avrei mai fatto una cosa tanto stupida. Se non fossi riuscito a strappare le risa alla corte con le mie abilità e senza comportarmi da idiota, avrei piuttosto dato le dimissioni dal mestiere di giullare e sarei andato a fare la statua sul tetto di Westmonasterium. Ahimè, ma cosa è diventata la corte di tuo padre?» «Zitto, Jackie, tieni per te le tue opinioni professionali. Se vuoi renderti davvero utile, va' a cercare il mio paggio e vedi se può procurare dell'altro vino del Reno per me. Ho in bocca un cattivo sapore e lo vorrei eliminare.» Jackie si dileguò e tornò di lì a poco con il giovane paggio che, a giudicare dal suo comportamento, doveva aver assaggiato lui stesso una buona quantità di vino del Reno. Il ragazzo prese la coppa di Elizabeth e si accostò barcollando a una tavola laterale per riempirla. Quando tornò e depose la coppa davanti alla principessa, Elizabeth vide che essa aveva subito un
misterioso cambiamento. Il grande calice che la Regina Dianne aveva dato ad Elizabeth era stato un dono che la regina stessa aveva ricevuto dall'Arcangelo Gabriel in occasione del suo matrimonio con Re Richard. Era un fatto risaputo che il turchese poteva individuare il veleno e indubbiamente Gabriel, consapevole dei problemi che la regina avrebbe dovuto affrontare alla corte del re, aveva ritenuto che una pietra del genere sarebbe stata appropriata per la sua coppa. Dianne, però, non l'aveva mai usata. «Se io, una strega silvana, non sono capace di individuare il veleno nascosto nel mio cibo» aveva detto, «allora merito di morire.» Aveva quindi accantonato la coppa e, quando sua figlia era diventata abbastanza grande, l'aveva regalata a lei, sia per la sua bellezza sia per il potere della pietra. In tutti quegli anni, la coppa non aveva mai registrato la presenza di veleni. Adesso, però, il suo vivido colore azzurro era stato chiazzato di un nero iridescente dal vino renano contenuto al suo interno, ed Elizabeth fissò la coppa con ira: qualcuno, a corte, aveva appena cercato di ucciderla. Con un grido di rabbia, Elizabeth si alzò in piedi, fissando Anne, seduta oltre il re. La dama, sorpresa dall'esplosione d'ira della principessa, guardò nella direzione indicata dalle mani di lei e vide il boccale. Lady Pemberly impallidì per la paura, consapevole che, siccome la coppa era stata in suo possesso, tutta la corte avrebbe pensato che lei aveva tentato di avvelenare la principessa. I presenti, ridotti al silenzio dal grido di Elizabeth, attesero di vedere cosa lei avrebbe fatto, e il Principe Eblis si protese in avanti, appoggiato su un gomito, per fissarla con occhi che brillavano di malizia. Elizabeth sollevò il calice pieno con una mano e disse, con voce colma di potere: «Mio signore Gabriel, riprenditi ciò che è tuo e lascia qui ciò che è malvagio. Io ti ringrazio per avermi salvato la vita in questo giorno.» E, alzato il calice, lo scagliò dalla parte opposta della Grande Sala. Esso volò nell'aria, rotolando su se stesso, ma neppure una goccia di vino scaturì dal suo interno. Con un tonfo violento, la coppa sbatté contro le porte delle cucine e cadde rumorosamente al suolo, mentre il liquido in essa contenuto esplodeva in una fetida fiammata nerazzura, una porzione d'Inferno che puzzava di zolfo, di giusquiamo e di aconito. Il fuoco assunse quindi una pura tonalità azzurra, riducendo il turchese
in polvere e l'argento in una polla di metallo fuso che si allargò sul pavimento e s'insinuò nelle fenditure fra le piastrelle di un lucido marrone dorato. Quando la fiamma si spense, l'argento prese a sibilare e a sfrigolare, come se fosse venuto a contatto con l'acqua fredda. Immobilità e silenzio regnarono nella Grande Sala, mentre l'argento diventava un'annerita polla metallica che copriva una dozzina di piastrelle, e per i cortigiani fu ovvio che i resti della coppa della principessa avrebbero continuato a macchiare il pavimento della Grande Sala finché la sala stessa fosse esistita, come monito contro chiunque potesse alzare la mano contro la principessa di Englene. «Guardatela. Guardatela tutti, signori della magia e dame-streghe presenti in questa sala» aggiunse Elizabeth, sempre con il potere che le vibrava nella voce. «Chiunque vorrebbe levare la mano contro di me diventi come questa coppa, diventi come cenere soffiata dal vento e sparsa ai quattro angoli dell'universo!» Il silenzio nella stanza divenne ancora più profondo, mentre i cortigiani si scrutavano a vicenda per vedere se qualcuno sarebbe stato aggredito dal fuoco azzurro e sarebbe caduto sfrigolando e sciogliendosi sul pavimento. Ma non accadde nulla e alla tavola alta, accanto a Re Richard, il Principe Eblis sorrise, socchiudendo le labbra rosse per mostrare i candidi denti regolari che erano un po' troppo aguzzi. La Fiamma di Gabriel non lo toccò, perché lui era già una creatura della Fiamma. E la principessa, comprendendolo, provò una grande paura. Dopo il banchetto, Michael Mittron e il Principe Eblis s'incontrarono nell'alcova dietro l'arazzo, un incontro che era stato richiesto dal Dottor Mittron. Il principe si appoggiò con indolenza alla parete di marmo dell'alcova, pulendosi i denti aguzzi con uno stuzzicadenti d'oro, e attese di udire quello che il medico di corte aveva da dire. «Non ti consiglierei di ritentare qualcosa del genere» ammonì il Dottor Mittron, con voce sommessa, «perché se lo farai non credo che sopravviverai al tuo gesto.» «Se avessi voluto che morisse, lei sarebbe morta» replicò il Principe Eblis, mostrando di aver capito a cosa si stesse riferendo il dottore. «Ma dimmi, mio buon medico, sarai tu a fermarmi se la prossima volta dovessi decidere che lei deve morire?» Michael Mittron sorrise, esibendo denti altrettanto aguzzi quanto quelli di Eblis.
«Sì, te lo impedirei. Ricorda che ti ho visto precipitare urlando, mio principe, ti ho visto cadere, primo della schiera che ha seguito il luminoso signore a cui tu obbedivi, e se necessario ti vedrò cadere di nuovo. Credo che sia giunto il momento che tu lasci questa corte: non è un posto adatto a te.» «Mi costringerai tu ad andarmene? Oppure ti servirà l'aiuto degli altri? Sarebbe molto interessante mettere alla prova la mia forza contro la tua.» «No, non sarò io a mandarti via: ci penserà la Principessa Elizabeth, l'erede di Englene.» «Cosa?» rise il Principe Eblis. «La grande goffa? È davvero troppo divertente. No, credo che rimarrò e che offrirò a quella dama la mia mano, in modo che lei ed io possiamo governare insieme questa terra. Una cosa del genere divertirebbe me ed anche il mio signore.» «Ma non divertirebbe né me né la Dama Nerthus, e non chiamare mai più Elizabeth la grande goffa. Quando giungerà il giorno in cui l'incontrerai in battaglia, scoprirai di che stoffa è fatta e conoscerai la paura.» Per tutta risposta, il Principe Eblis spinse di lato l'arazzo ed accennò a uscire nell'oscurità che avvolgeva la Grande Sala. «Dimmi» chiese da sopra la spalla, «come sta il mio signore Raphael? È soddisfatto e siede sereno nei suoi padiglioni?» Un suono di risa vibrò nella Grande Sala mentre il Principe Eblis attraversava la stanza vuota; quando ne oltrepassò la soglia, però, la sua ombra cadde sulla polla metallica dei resti della coppa di Elizabeth e, nel toccare il metallo, sfrigolò e si ritrasse verso il corpo. Il Principe Eblis non se ne accorse, ma nell'alcova, con il bordo dell'arazzo in mano, Michael Mittron notò l'accaduto e ne fu compiaciuto. CAPITOLO VENTISEIESIMO I giorni trascorsero in fretta, e si avvicinò il tempo della Festa di Mezz'Estate. Quella era l'estate di un dio-re, un periodo di festeggiamenti, un riconoscimento delle gioie che la Dea poteva arrecare e un modo per ricordare che i signori della magia dovevano alla Dea il potere che esercitavano su Englene. Elizabeth aveva cercato invano il suo dio silvano per tutta la corte, anche se lui le aveva promesso che si sarebbe fatto trovare al Palazzo di Witchdame per essere con lei. Menadel le consigliò di lasciare la faccenda nelle mani della Dea e, con molti sospiri, Elizabeth seguì il suggerimento e
attese che il suo signore decidesse di rivelarsi. Il dolore più grande, tuttavia, era che tutto il potere che aveva ricevuto dalla Dea non era comunque sufficiente ad aiutare suo padre o a risanare la terra di Englene. Richard convocò presso di sé Thomas il Mago, per cercare una via di fuga al destino che lo attendeva. «Thomas» esordì il re, «fra tre giorni sarà il Giorno di Mezz'Estate, ed io dovrò andare a Heartwood. Quante probabilità credi che abbia di ritornarne vivo?» Era una domanda retorica, perché il re era consapevole che Thomas conosceva già la risposta bene quanto lui, e tuttavia si era sentito obbligato a porla, nella speranza che Thomas avesse scorto negli oracoli un destino diverso da quello. Il Mago rivolse al suo sovrano uno sguardo colmo di compassione. «Mio re, io vorrei che tu potessi vivere in eterno, ma i segni e i portenti sono tali da indicare che non ci sono probabilità che la Dea sia misericordiosa: è giunta una grande cometa drago, i vermi augurali si agitano e l'odore di meli in fiore pervade l'aria...» «Tutti coloro che amavo mi hanno abbandonato!» esclamò il re. «Lady Anne, che amavo come me stesso, mi ha respinto ed ha trovato un altro che le desse conforto: il Principe Eblis la consolerà e lui, almeno, si dimostrerà con lei un vero uomo.» «Mi dispiace, mio signore» replicò Thomas. «Non conosco nessun modo che possa permetterti di ritrovare il tuo vigore e di salvare il regno dalla carestia.» «Così possa essere» sospirò il re. «Se la Dea desidera la mia vita, la può avere, ma non in quel modo. Andare a Heartwood per essere ucciso e gettato su un cavallo come una carcassa e mutilato è più di quanto possa tollerare.» Thomas s'inchinò profondamente davanti al re, perché era il meno che poteva fare per un uomo che era stato il suo sovrano per tanti anni, e scoprì di essere d'accordo con lui, nel fondo del suo cuore, sul fatto che morire con onore e nel momento di propria scelta fosse la cosa migliore. L'indomani, nel grande santuario di Westmonasterium, sul sommo altare della Dea Madre, fu ritrovato il corpo di Re Richard di Englene. Era avvolto in abiti verdi, oro e bianchi, aveva in testa la corona di Englene e in ma-
no lo scettro. Accanto a lui, sull'altare, giaceva il corpo della sua sposa, la Regina Dianne, ed essi erano uniti nella morte come non lo erano stati in vita. Sul corpo del re non c'erano segni di violenza o ferite: la Dea Madre aveva concesso un ultimo dono al sovrano di Englene, cioè quello di essere privato dello spirito vivente con delicatezza e nel luogo di sua scelta, perché pur essendo stato un uomo debole, in passato Richard era servito bene ai suoi piani per Englene, ed era stato il padre della sua amata figlia Elizabeth. Coloro che vennero tristemente a prelevare il corpo del re, per prepararlo alla sepoltura, scoprirono che il grande anello del potere, che era stato donato al re signore della magia dall'Arcangelo Raphael, era scomparso. Raphael, infatti, se lo era ripreso. CAPITOLO VENTISETTESIMO Elizabeth era vestita completamente in gramaglie. Il suo abito di velluto nero era bordato con bande di giaietto e d'avorio al collo e alle lunghe maniche; la sottogonna era di broccato nero e il colletto della camicia era alto e bordato in passamaneria nera. Sul capo, portava un cappello di velluto nero decorato da piume di struzzo della stessa tinta. Nel complesso, appariva alta, statuaria, elegante... una regina in tutto e per tutto. La principessa sostò accanto all'altare vuoto, nella cappella dedicata alla Dea, nel santuario di Westmonasterium, ed accarezzò con le dita la superficie di oro e marmo, quasi alla ricerca di qualche ultima traccia del calore lasciato dal corpo paterno. La Regina Dianne era stata nuovamente deposta nella sua bara dal coperchio di cristallo, nella cripta di famiglia, e il corpo di Richard era adesso nelle mani dei magi, che lo avrebbero imbalsamato e preparato alla sepoltura. «Vorrei che il corpo di mia madre venisse spostato dalla nicchia in cui si trova, Aleicester, e sistemato accanto al suo. So il luogo che mio padre ha scelto per la sua sepoltura: lo ha indicato con la scelta del suo letto di morte: una cripta sarà costruita per lui immediatamente sotto l'altare, sarà di uno splendore adeguato a un re, e là mio padre e mia madre verranno deposti per l'eternità. Provvedi tu a tutto.» Aleicester rivolse un profondo inchino alla Principessa Elizabeth. «Sarà fatto come desideri» rispose. «Posso ordinare agli operai di praticare un'apertura nel muro della cripta dei re, in modo che ci sia una porta
ad arco fra la tomba di tuo padre e quella dei suoi antenati. Tuttavia, mia signora, sono preoccupato riguardo ai funerali di Re Richard: ho ordinato sei mesi di lutto assoluto e che non si tengano le consuete celebrazioni di Mezz'Estate, ma non dovremmo aspettare che la cripta sia ultimata, perché i lavori potrebbero richiedere molti mesi, e neppure lo dovremmo seppellire troppo in fretta. I magi finiranno di approntare il suo corpo entro stanotte, ma io non consiglierei di procedere subito alle onoranze funebri, perché non possiamo tributare a tuo padre un funerale onorevole senza che il suo successore sia stato nominato.» Elizabeth voltò le spalle all'altare per girarsi ad affrontare l'Arcivescovo di Avebury, di Bathford e di Wells. «Ma che problema c'è, mio signore? Io sono la regina di Englene, ora che mio padre è morto, quindi tu non devi fare altro che proclamarlo.» «Non è tanto semplice, mia signora. Invero, tu sei l'erede apparente al trono, e se non fosse stato per la scomparsa dell'anello di tuo padre, io ti avrei dichiarata regina nel momento stesso in cui è stato trovato il suo corpo. Ma la legge e l'usanza di Englene, che risalgono entrambi addirittura all'epoca di Re William il Fortunato, affermano che soltanto chi porta l'anello dell'Arcangelo Raphael è il vero sovrano di Englene. L'anello è scomparso, e il mio cuore è turbato perché non sa come possiamo aggirare questo problema. Dal momento che tu non sei in possesso dell'anello del potere, ci saranno coloro che ti contenderanno il titolo. Tuo cugino John si è già dichiarato Re di Gaeland, ed ora aspira all'opportunità di aggiungere anche Englene ai suoi titoli. E il Principe Eblis ritiene che lui abbia qualche diritto in merito, per il fatto che tu non sei un discendente maschio, ed è anche preoccupato per il tuo sangue di strega silvana.» «È il suo interesse per il mio trono che preoccupa me. Tu dubiti, Aleicester, che io sia la vera sovrana di Englene? Dichiarami tale, ed io conserverò il trono! Ho il sostegno della Dea Madre stessa e, con il suo aiuto, ultimerò il progetto della Regina Dianne ed avrò alle mie spalle il potere di tutti e quattro gli arcangeli. Che altro potresti desiderare?» Aleicester si torse nervosamente le mani e levò dapprima lo sguardo verso il tetto di travi scoperte della cappella, volgendolo poi a destra e a sinistra e finendo per fissare l'altare. Una tattica che servì ad evitargli di guardare negli occhi la principessa. «Mia signora, quello di cui parli è effettivamente un grande potere, ma gran parte di esso deve ancora realizzarsi nel futuro» replicò lentamente. «C'è la legge... e la legge afferma che colui che possiede l'anello di Rapha-
el è il sovrano di Englene. Non posso correre il rischio che il Dio Aquaesulis dia l'anello ad un altro, perché sarei abbattuto dall'ira degli Dèi se ponessi sul trono un pretendente che non ha la loro approvazione...» «Mio signore arcivescovo, ti ho sentito parlare molto di quello che non raccomandi di fare» lo interruppe Elizabeth con impazienza. «Per favore, dimmi cosa raccomandi.» «Ho una soluzione che credo possa funzionare, mia signora» replicò Aleicester, e dal lieve tremito della sua voce Elizabeth capì che quanto stava per suggerire non avrebbe probabilmente incontrato la sua approvazione. E non si sbagliò. «Vedi, uno dei problemi è dato dal fatto che tu sei una donna» proseguì Aleicester. «Se tu avessi al fianco un forte consorte, questo contribuirebbe a rafforzare la tua presa sul regno, quindi ti vorrei suggerire...» «Non sposerò né John né il Principe Eblis! Englene è mio e non intendo condividerlo con uno straniero.» «No, no, mia signora, intendevo proporti un altro uomo come candidato» si affrettò a garantire Aleicester, per placare l'irata principessa. «No, ho in mente qualcosa che credo ti sarebbe assai più gradito. Potresti sposare mio figlio, il Duca Charles.» Aleicester le batté un colpetto sulla mano con un sorriso affettato, sicuro che Elizabeth avrebbe trovato l'idea accettabile. «Lui è tuo cugino, nato e cresciuto in Englene, e il popolo approverebbe un simile matrimonio e lo accetterebbe come re...» Elizabeth sorrise con freddezza: questo era il patto sacrilego che si stava aspettando, e dovette ammettere che era meno sacrilego di quanto avesse temuto. Quando Aleicester aveva cominciato a parlare di matrimonio, lei aveva avuto la certezza che avesse scelto Eblis come suo candidato, ma il Duca Charles... ah, quella era una bella offerta. Charles era avvenente, dotato di una certa intelligenza, versato nella politica di corte e nel complesso gradevole. Ma se lo si confrontava all'uomo maestoso di Avebury e di Heartwood, Charles non era altro che una lucciola paragonata a un incendio boschivo. «Quindi, Arcivescovo, questa è la tua proposta: io sposo tuo figlio e tu mi incoroni regina, con o senza anello. E naturalmente nello stesso tempo incoronerai Charles re. Davvero interessante, ma credo di sentire puzzo di tradimento! Infatti, se saresti pronto a incoronarmi regina senza anello ma sposata a tuo figlio, nello stesso modo potresti incoronarmi regina senza anello e senza il matrimonio con tuo figlio. Mi chiedo se una permanenza nella torre non possa servire a migliorare il tuo senso della logica.»
«Sfortunatamente, Vostra Grazia, non hai il potere di ordinarlo, per quanto vorrei che lo avessi.» Thomas il Mago entrò nella cappella, con il viso atteggiato a una tesa espressione d'ira contenuta. «Cosa stai facendo qui, Aleicester? La principessa ha proprio ragione quando dice di sentire puzzo di tradimento, e io sento anche puzzo di ambizione, di orgoglio e di scarso amore per Englene. Come sommo Cancelliere di Englene, ti assicuro che non permetterò che si stringa un simile malvagio patto e che, se anche tu riuscissi a persuadere la principessa, io ti denuncerò alla Grande Coveyne per quello che hai tentato di fare oggi. Non vedrò Englene trasformato nella dote nuziale di una fanciulla, nell'interesse del figlio di un arcivescovo ambizioso.» Furibondo, Aleicester si girò a fronteggiare Thomas. «Allora mi stai dichiarando guerra, Thomas? Ricorda che, indipendentemente dal potere che tu puoi avere come Cancelliere, io solo posso incoronare il prossimo sovrano di Englene! E ti giuro, in nome della Dea, sul suo altare e sulla mia devozione al Dio Aquaesulis, che io non incoronerò nessuno sovrano di Englene a meno che quella persona abbia al dito l'anello di Raphael. Poserò la testa sul ceppo, sulla Collina della Torre, prima di infrangere il mio voto, e così possa essere!» Con un furente fruscio della tonaca di taffetà nero, l'Arcivescovo Aleicester si affrettò a lasciare il santuario della Dea. «Bene! Mio signore Thomas, tu hai appena creato o distrutto le mie probabilità di diventare regina ma, come l'Arcivescovo Aleicester, tutto quello che posso dire è: così possa essere.» «Non temere, mia signora» rise Thomas, «perché io ho consultato gli oracoli ed ho pregato la Dea, che mi ha risposto. Entro il Giorno di Mezz'Estate, tu sarai la Regina di Englene. Lo giuro. Così possa essere.» Fedele alla sua parola, l'Arcivescovo Aleicester annunciò alla corte e alla Grande Coveyne che non avrebbe incoronato la Principessa Elizabeth né altri finché non si fosse trovato l'anello Raziel. L'arcivescovo si dilungò ampiamente sulle motivazioni storiche della sua decisione e insistette sul punto che, per quanto Elizabeth fosse di sicuro la vera erede, la pretesa al trono poteva essere comprovata soltanto dall'anello. Ebbe inizio una frenetica ricerca in tutti i palazzi di Englene: i cortigiani perquisirono ogni angolo e ogni fessura nella speranza di trovare l'anello Raziel. Passarono al setaccio la Torre Bianca del Palazzo di BrynGwyn, e si precipitarono alla possente fortezza del castello di Windleshore, per fru-
gare perfino quell'antica dimora, sebbene Richard non vi si fosse più recato da molti mesi, ma gli sforzi generali si concentrarono prevalentemente sul Palazzo di Witchdame, dove vennero buttati all'aria cassoni, guardaroba e cassapanche, furono frugati i vestiti, strappati gli arazzi dalle pareti per controllare che dietro di essi non ci fosse qualche nascondiglio e sparpagliato lo strato di giunchi nella frenetica smania che ognuno aveva di essere il primo a trovare l'anello. John di Gaeland e sua madre scatenarono i loro selvaggi Gael, che per poco non smantellarono alcune delle sale ufficiali del palazzo, al punto di costringere Thomas il Mago a intervenire per frenarli, onde evitare che estendessero il loro vandalismo fino alle fondamenta. Si verificò perfino un sanguinoso scontro fra gli armigeri di John e i soldati della Principessa Elizabeth, perché i Gael avevano visto un uomo con un anello in mano: si trattava soltanto di un oggetto da lui trovato fra i giunchi di un salottino in disuso... un anellino da poco in argento e vetro... ma la scusa fu sufficiente a indurre i Gael ad attaccarlo, e l'uomo riuscì a stento a salvarsi. Andò poi a lamentarsi con Thomas, che ritenne necessario stabilire alcune regole di base. Aleicester poteva anche essere colui che avrebbe posato la corona sulla testa del nuovo sovrano d'Englene, ma spettava a Thomas approvare l'incoronazione, e lui dichiarò che avrebbe negato quell'approvazione a chiunque avesse avuto sangue innocente sulle mani. Questo servi a rendere la ricerca un po' meno feroce ma non meno febbrile. Lady Arme di Pemberly tenne impegnate le sue dame di compagnia giorno e notte, e non soltanto frugò nelle sue stanze e in quelle del re, ma osò addirittura avventurarsi nell'appartamento della Principessa Elizabeth. Là però Lady Anne e le sue dame furono liquidate da Guenhwyvar, che era stata nominata prima dama di compagnia, e furono buttate fuori. In mezzo a tutto quel tumulto, il Principe Eblis si aggirava per la corte con un sorriso soddisfatto, tanto che c'era chi pensava che lui fosse già in possesso dell'anello e che intendesse rivelarlo soltanto a tempo debito. Così, pur continuando nelle loro febbrili ricerche, molti cortigiani badarono ad essere il più cortesi possibile nei confronti del sorridente principe che sarebbe potuto diventare il loro vero re. La situazione logorò i nervi di tutti e provocò liti fra le più antiche famiglie di Englene, ed Elizabeth si lamentò con Thomas il Mago, affermando che se l'anello non fosse stato trovato al più presto, tutti i suoi palazzi sarebbero stati ridotti in macerie e governare non sarebbe più stato possibile.
Thomas la esortò ad avere pazienza e la invitò ad avere fiducia nella Dea, perché sarebbe diventata regina entro la Mezz'Estate. «Ma, Thomas» protestò Elizabeth, con una certa esasperazione, «permettimi di ricordarti che il Giorno di Mezz'Estate cadrà domani e che ancora non c'è traccia dell'anello.» Elizabeth e Thomas si erano recati con molti altri membri della corte a perquisire la Sala del Trono del Palazzo di Witchdame. Jackie si era impadronito di una scala e si era arrampicato su di essa per andare a controllare tutte le teste di alce e di daino che decoravano la parete, senza però trovare l'anello. «Non temere, mia signora» replicò Thomas, tenendo ferma la scala perché Jackie non cadesse. «Io ho molta fiducia nell'Arcangelo Raphael, e sono certo che si renderà conto che l'anello appartiene a te per forza di cose.» Sulla soglia era raccolto un gruppetto di cortigiani, e Lady Marguerite dovette farsi largo per entrare nella Sala del Trono, perché essi non avrebbero sospeso le ricerche neppure per cedere il passo a una principessa. Marguerite osservò il caos circostante e scosse il capo. «Non so che cosa ne avrebbe pensato mio fratello di tutto questo. È un vero peccato che una cosa del genere venga fatta in suo nome, e per niente.» Marguerite protese la mano e sul suo palmo brillò un anello di rame in cui era incastonato un enorme smeraldo. La luce che entrava dalle finestre si rifletté sulla pietra e proiettò raggi verdi in tutte le direzioni. «Ho qui l'anello di Richard...» Marguerite non riuscì a finire la frase, perché subito ogni cortigiano presente nella stanza si girò e s'inginocchiò dinanzi a lei, mentre uno o due arrivavano addirittura a gridare: «Gli Dèi salvino la regina Marguerite!» Ferma vicino alla piattaforma rialzata della Sala del Trono di Englene, Elizabeth non s'inginocchiò, ma rimase invece in piedi a fissare sua zia e l'enorme smeraldo che le brillava in mano, sentendo l'universo che andava in pezzi intorno a lei. Nei suoi orecchi echeggiò un possente ruggito, simile a quello del mare di Great Yermouth, e il pavimento parve farsi ineguale sotto i suoi piedi come la sabbia di quella spiaggia, mentre lei avvertiva in gola un senso di nausea e l'amaro sapore della sconfitta. L'anello di Raphael era in mano a Marguerite! La stanza si stava riempiendo rapidamente, perché alcuni cortigiani avevano lasciato in fretta la Sala del Trono per divulgare la notizia che Marguerite aveva l'anello, ed ora la gente accorreva da tutte le parti del palazzo
per affollarsi nella Sala del Trono e rendere omaggio alla donna. Erano trascorsi forse un paio di minuti da quando l'anziana principessa era entrata nella sala, ma ora il tempo pareva essersi arrestato. Marguerite era ancora ferma nello stesso punto, ad un paio di metri dalla porta, in cui si era trovata quando aveva rivelato di avere l'anello, ma non ci fu da parte dei cortigiani nessun tentativo di sospingerla verso la piattaforma o di toccarla, e tutto l'insieme sembrava la scena di un arazzo: c'erano i cortigiani, nei loro abiti a colori vivaci, c'era una splendida Sala del Trono e c'era una donna che i presenti erano ora pronti a riconoscere come regina. «Dove? Dove hai trovato l'anello, zia Marguerite?» chiese Elizabeth, con voce aspra e rauca. Marguerite sussultò al suono della voce di Elizabeth, poi guardò verso la nipote e fu come se nella stanza avesse cessato di esserci chiunque altro, a parte loro due. Lentamente, Marguerite avanzò fino a trovarsi davanti ad Elizabeth; la donna più anziana appariva stordita, perplessa e spaventata, e protese il braccio tremante verso la nipote per mostrarle l'anello, quel gioiello di rame e smeraldo che lei le aveva visto brillare in mano. «Io... io... io...» Marguerite lottò per trovare le parole. «È... è la copia falsa per il funerale» riuscì infine a dire. «Il gioielliere di corte me lo ha dato perché potesse essere messo al dito del re, durante la sepoltura, ed io ero venuta a portarlo... a Thomas il Mago, perché lo custodisse» concluse, tutto d'un fiato. Elizabeth si accasciò per il sollievo, poi allungò una mano per togliere l'anello a Marguerite ma, prima che potesse toccarlo, un acuto urlo lacerò l'aria della grande stanza. Sollevando lo sguardo, Elizabeth vide Lady Anne che arrivava di corsa, con una fretta insolita per lei. Poi la dama si arrestò con il fiato corto per lo sforzo insolito. «Non può essere! Non può essere che una vecchia come questa abbia l'anello di Raphael!» riuscì a strillare Lady Anne, quando ebbe ripreso fiato. «Doveva essere mio o del Principe Eblis, il demone del Cerchio Nero mi aveva promesso che sarebbe stato così. Non doveva andare a nessuna di voi due!» Elizabeth fissò con freddezza l'amante del padre. «Così, ti sei data da fare con incantesimi e cerchi neri, vero? E un demone ti ha aiutata. Non lo trovo insolito, per te, perché so che hai operato molti incantesimi e molti cerchi per uccidere mia madre e ottenere i favori di mio padre. Invero, tu sei stata lo strumento della morte di mia madre! Ed ora scopro che hai anche alimentato il caos che ha fatto seguito alla
morte di mio padre. Non intendo tollerarlo!» La voce di Elizabeth si levò in uno strillo degno della più infima pescivendola, e lei si trovò a infuriare contro Lady Pemberly come in passato non avrebbe mai osato fare. Tuttavia, il sollievo di scoprire che Marguerite aveva soltanto l'anello di vetro che doveva essere sepolto con Richard era stato tale da generare in lei il bisogno di liberarsi di ogni tensione. Si trovò a definire apertamente Lady Anne di Pemberly smorfiosa, megera e infame sgualdrina, una cosa che le diede un grande piacere. Per molti anni aveva taciuto per amore di suo padre, ma ora non c'era più bisogno di imporsi quei freni. Nella fretta di insultare Lady Anne, la principessa dimenticò la lezione appresa a Great Yermouth. Intorno alle due donne regnava il silenzio, ed Eblis era venuto a fermarsi accanto a Lady Pemberly, senza dire nulla mentre Elizabeth infuriava contro di lei e limitandosi a osservare il contrasto fra le guance scarlatte della principessa e il viso pallido della dama. Eblis osservò e attese. «E puoi essere certa» concluse Elizabeth, con voce forte e irosa, «che non appena sarò entrata in possesso della mia eredità e sarò regina, tu finirai nella Torre e, se ne avrò l'opportunità, ti farò condurre alla Collina della Torre per separarti la testa dal corpo! Tu sei stata una fonte di dolore per me e per i miei cari per un tempo troppo lungo, e se per ora non posso ancora farti del male, ti prometto che lo farò!» La mano di Elizabeth scattò in direzione della Pemberly, come se intendesse colpirla, ma si chiuse invece intorno a una delle grandi gocce di perle e di diamanti che pendevano dagli orecchi della dama: con un selvaggio strattone, la principessa strappò il gioiello dal lobo della donna, lacerando la pelle delicata. Dai cortigiani si levò un grido di sgomento, quando videro il sangue sgorgare copioso dal lobo ferito di Lady Anne, per riversarsi sul suo abito, ma la Pemberly non disse nulla, pur avendo le guance rigate di lacrime, perché si rendeva conto del pericolo che stava correndo, dato che Elizabeth aveva le maggiori probabilità di diventare regina... e il giorno in cui lo fosse diventata, Anne di Pemberly avrebbe potuto perdere la vita. La dama diede prova di grande dignità, restando immobile e in silenzio e limitandosi a portare le mani all'orecchio ancora intatto per staccarne l'altro orecchino e porgerlo ad Elizabeth senza una parola. «Mio padre il re» affermò Elizabeth, in tono amaro, stringendo i gioielli, «ha donato questi orecchini a mia madre il mattino successivo alla loro notte di nozze, e tu, la più grande sgualdrina di Euglene, hai avuto il co-
raggio di indossarli! Ora sono liberi dalla tua contaminazione, signora!» «No. Io dico che Vostra Grazia ha recato un grave torto con le sue azioni» intervenne la voce di Eblis, sommessa e vellutata, perché il principe aveva deciso che era giunto il momento di colpire. «Io so che tuo padre, Re Richard, aveva donato quegli orecchini a Lady Pemberly, per onorarla come la dama che più era stata gentile con lui durante la sua infermità, e tu non avevi il diritto di maltrattarla in questo modo. Come cavaliere, protesto contro la tua mancanza di cavalleria e ti sfido per quegli orecchini.» Guardandosi intorno, Eblis vide che i cortigiani approvavano il suo gesto, quindi aggiunse, con voce più alta: «Io, il Principe Eblis di Bene Elim, in questo giorno sfido te, Principessa di Englene, a incontrarti con me domani, nel Giorno di Mezz'Estate, sul campo dei tornei, dove combatteremo per l'onore di questa dama e per gli orecchini di una regina.» Elizabeth imprecò contro se stessa per aver perso il controllo ed essere stata così precipitosa: aveva dimenticato l'educazione e gli insegnamenti ricevuti e si era comportata molto male. Ed Eblis aveva sfruttato la sua stessa debolezza contro di lei, sfidandola in torneo: guardandolo, si rese conto che, al contrario del Principe John, era probabilmente un ottimo combattente. Se l'avesse disarcionata nel cortile dei tornei, l'avrebbe coperta di vergogna e le avrebbe fatto perdere la poca reputazione rimastale. La principessa poteva vedere chiaramente che i cortigiani non approvavano quello che lei aveva fatto a Lady Anne: aveva trasformato quella donna in una martire, e tutte le sue minacce e le sue imprecazioni erano servite soltanto a far apparire ancora più nobile l'amante del re. In quella stanza c'erano molti che ricordavano quanto Re Richard avesse amato Lady Pemberly e quanta gioia avesse trovato in lei. Elizabeth si rese conto che avrebbe dovuto accettare la situazione come meglio sapeva. Quando però fissò Eblis e scorse le fiamme che gli danzavano negli occhi, seppe che chi l'aveva sfidata non era un comune mortale, e che lei era in grave pericolo: accettare quella sfida poteva significare perdere la vita... rifiutare avrebbe potuto significare la perdita del trono. «Molto bene» rispose, levando una silenziosa preghiera alla Dea, «accetto la tua sfida, possente principe. Tuttavia, dal momento che sei tu lo sfidante, spetta a me scegliere il luogo e lo stile del torneo. Combatteremo nel cortile centrale del Palazzo di Witchdame e ci saranno tre passaggi, rispettivamente con lancia, mazza e spada. Quello di noi due che sbalzerà l'altro di sella sarà il vincitore, e così possa essere.» Eblis esibì un sorriso degno di un drago affamato, e le fiamme divennero
più intense nei suoi occhi, mentre Elizabeth avvertiva puzza di zolfo. Il principe annuì poi in segno di accettazione. «Così possa essere» ripeté, con voce gongolante per il trionfo. CAPITOLO VENTOTTESIMO «Ma perché lo ha fatto, Menadel? Perché mai zia Marguerite ha lasciato che i cortigiani s'inchinassero davanti a lei? Perché non ha spiegato subito che quello non era il vero anello di mio padre?» chiese Elizabeth, mentre camminava nervosamente avanti e indietro per il suo salottino privato, torcendosi le mani in preda a una profonda angoscia. «Io lo capisco» replicò Menadel. «Ti sei mai soffermata a riflettere su come debba essere la vita di una persona come tua zia Marguerite? Lei non ha nessuna importanza a corte, non ha un peso politico, e non ha un marito e dei figli che la consolino: la sua è una vita solitaria, in cui l'unico sollievo sono i libri. Non credo che volesse fare nulla di male quando ha detto di avere l'anello, ma la reazione dei cortigiani l'ha colta di sorpresa, e non dubito che per un momento o due le sia passato per la mente cosa dovesse significare essere la Regina di Englene. Tu hai saputo fin dall'infanzia che un giorno saresti potuta diventare regina, mentre la cara Marguerite non ha mai avuto speranze, quindi non sarebbe giusto lesinarle un paio di istanti di gloria.» «Ora tutto si è concluso, e lei è tornata a non avere nulla. Marguerite possiede però un tale potere che, se fosse una donna malvagia, avrebbe potuto benissimo riuscire a ingannare tutta la corte e far credere che quello in suo possesso era effettivamente l'anello Raziel, al punto da arrivare addirittura a farsi incoronare regina. Ma non credo che Marguerite avrebbe mai permesso che le cose arrivassero a quel punto: il fatto stesso che sia venuta da te e ti abbia dato l'anello dimostra la sua innocenza. Naturalmente» proseguì Menadel, con un sospiro, «il tuo comportamento con la Pemberly in merito agli orecchini non è stato di molto aiuto. L'idea di questa sfida non mi piace: perfino io mi sono accorto che il Principe Eblis è un demone che mira alla tua distruzione, e tu ti sei messa da sola in suo potere. Spero che tu possieda la forza e l'abilità necessarie per sconfiggerlo.» «La sfida preoccupa anche me» ammise Elizabeth. «Naturalmente, ho l'appoggio di Nerthus e di tre degli arcangeli ma... oh, se soltanto potessi avere anche quello di Raphael! Non si può fare nulla in proposito?» Menadel si accostò alla finestra della camera, guardando verso il cortile
sottostante. Anche di notte, le strisce d'ombra proiettate dalle quattro Torri erano molto evidenti, perché erano di un nero più intenso dell'aria circostante e la luce che scaturiva da porte e finestre faceva brillare minuscole stelle al loro interno. C'era un'ombra molto lunga che era quella della Torre Meridionale... quella ultimata che spettava a Michael; a ovest, la Torre di Gabriel era ultimata per tre quarti e gettava un'ombra corrispondente; a nord, l'ombra della Torre di Uriel arrivava appena a metà dell'ampiezza del cortile, e infine c'era un'ultima ombra, corta e tozza, quella della Torre Orientale, la Torre di Raphael. «Quello è il luogo dove bisogna agire» dichiarò Menadel. «Io ho parlato con lui, ma non ha accettato di prestare attenzione ad una persona insignificante come me. Michael, Gabriel e Uriel hanno ragionato con lui, rammentandogli il suo odio per i demoni, e perfino Nerthus ha cercato di convincerlo, ma lui si è tappato gli orecchi con le dita, rifiutandosi di starla a sentire. Io credo che stia aspettando che tu vada da lui, e dovrai farlo questa notte, all'ora a lui dedicata. Recati sulla sommità incompleta della Torre Orientale e là, con cerchio e incantesimo, leva una supplica a Raphael, e forse lui ti ascolterà.» «Mi è stato detto che, se avessi avuto il sostegno di tutti e quattro gli arcangeli, le Torri si sarebbero ultimate da sole e le loro ombre si sarebbero congiunte, unificando il sigillo» affermò Elizabeth. «Ma avere l'appoggio di Raphael non altererebbe il fatto che anche le altre Torri sono incomplete.» «Se tutti e quattro ti sosterranno, allora il disegno sarà completo e le Torri verranno ultimate dal potere che è tuo. Riporta a te Raphael! Inducilo a ridarti l'anello, ed avrai tutto.» Elizabeth raggiunse Menadel vicino alla finestra e si appoggiò con i gomiti al davanzale per osservare la Torre. «Suppongo che il sostegno della Dea Madre e dei quattro arcangeli dovrebbe essere sufficiente a permettermi di sconfiggere il demone, ma perché devo avere l'anello? Cos'ha di tanto importante?» «Per capirlo devi sapere come esso è entrato in possesso della tua famiglia, quindi ora ti racconterò come si sono svolti i fatti. C'era un re chiamato William il Fortunato, che era figlio di Geoffery Primo e di Katherine sua sposa. Fin dall'infanzia, William si dimostrò dotato di un'abilità straordinaria. Era coraggioso e devoto, era un brav'uomo che dava agli Dèi ciò che era loro dovuto, e se non fosse stato per il soprannome di "Fortunato", pro-
babilmente sarebbe stato chiamato William il Pio, perché per quanto frequenti fossero le sue vittorie nei tornei, ai dadi o alle carte, ogni volta lui si affrettava a rendere grazie agli Dèi.» «E fu così che quando William divenne uomo gli Dèi continuarono a favorirlo, e lui si accorse che non poteva mai perdere in nessun gioco d'azzardo. Quando gareggiava a cavallo con gli altri giovani principi, vinceva; quando scommetteva, era sempre lui a vincere; in ogni partita a scacchi era sempre lui ad avere la meglio. E fu così che quando diventò re la sua fortuna si trasmise anche al regno di Englene, la cui terra prosperò, rigogliosa, mentre William accumulava enormi ricchezze, senza però dissiparle o cadere nell'avarizia. Tutti i suoi denari venivano impiegati a beneficio del popolo, e impiegati saggiamente. Prese moglie, e sposò la più bella principessa di tutte le terre, una fanciulla che era infatti chiamata Anne la Bella. Anne fu una moglie buona e virtuosa, che gli diede molti figli robusti.» «William continuò ad essere fortunato, e giunse un momento in cui la sua fortuna cominciò a renderlo scontento, perché quando si vince sempre, si perde il gusto di giocare: se non c'è rischio, non c'è emozione. William si accorse che, per quanto amasse tutti i giochi d'azzardo e ogni genere di gara, si stava stancando sempre più di praticarli.» «Fu così che si consultò con un mago della sua corte e, come tu stai facendo ora con me, gli chiese di risolvere il problema. E il mago rispose: "Sire, è risaputo che l'Arcangelo Raphael ama i giochi d'azzardo e le scommesse, perché è l'angelo dei giocatori. Si dice che ciò che Raphael preferisce siano i dadi e che lui sospende perfino la sua attività di guaritore per non perdere l'occasione di giocare a dadi con gli altri angeli. Io ti dico quindi che se desideri restituire un certo sapore ai tuoi giochi, devi fare una partita con l'arcangelo, perché nell'universo non c'è nessuno più eccelso di lui".» «William rifletté sulle parole del mago e, quando giunsero la stagione, il mese e l'ora appropriati, tracciò il Cerchio del triplo otto e, ammantatosi del color porpora preferito da Raphael, evocò l'arcangelo per giocare a dadi con lui. Come posta, William propose il regno di Englene, la sua bella moglie, i suoi figli e tutto ciò che era in suo potere di dare, mentre la posta dell'Arcangelo Raphael fu il suo anello del potere, l'anello di rame e smeraldo chiamato Raziel. Convenirono di giocare a dadi per tutta la notte, fino al mattino e poi dal mattino fino alla notte successiva. Alla fine della partita, quando sommarono i punteggi, si scoprì che Re William aveva battuto l'Arcangelo Raphael. Con molti lamenti, Raphael consegnò quindi
Raziel al re e gli promise che tutti i poteri contenuti nell'anello sarebbero stati trasmessi a William e ai suoi discendenti, finché fossero stati in possesso dell'anello, nel quale sarebbe stato racchiuso il bene di Englene. Poi l'Arcangelo Raphael si congedò da Re William.» «William scopri che l'anello da lui vinto ai dadi gli dava potere su tutte le cose. Poteva guarire i malati, e spianare una contrada con il solo pensiero. Era il più potente re signore della magia che si fosse mai visto, perché aveva il supporto dell'arcangelo. Scoprì però anche che, ora che aveva giocato con l'arcangelo, nessuna competizione sportiva o d'azzardo riusciva più a soddisfarlo, e fu cosi che, sia pure con suo grande dolore, Re William rinunciò alle corse a cavallo, ai dadi, alle carte e a ogni altro passatempo del genere, dedicando il resto della sua vita alla moglie, ai figli e al regno. Non giocò mai più, fino al giorno della morte.» Elizabeth rifletté su quella storia per un lungo momento, prima di sollevare un'obiezione. «Ma William avrebbe potuto chiedere a Nerthus di giocare con lui: Nerthus è più importante dell'Arcangelo Raphael.» «Se avesse sfidato la Dea» rise sommessamente Mena-dei, «avrebbe perso, perché non sempre Nerthus gioca lealmente.» «Ma in che modo questa storia mi può aiutare, Mena-dei?» chiese Elizabeth. «Dovrei forse giocare a dadi con l'Arcangelo Raphael per riavere l'anello? Sono consapevole di averlo perduto a causa della follia che ho commesso a Great Yermouth, ma aspettarsi che lui mi restituisca Raziel così facilmente non sarebbe una follia ancora più grande?» Menadel girò le spalle alla Torre Orientale, riflettendo. «Raphael ha ammirato la superbia di Re William, e poi adora giocare. Forse ammirerà anche il tuo coraggio e troverà la scommessa troppo invitante per tralasciare di accettarla. Lui adora giocare! Possiamo soltanto tentare e vedere cosa ci frutterà questa notte.» «Così possa essere» replicò Elizabeth, fissando l'ombra tronca della Torre Orientale. La sommità della Torre Orientale era fredda e buia. La stanza che Elizabeth aveva scelto come luogo in cui operare la sua magia era priva di tetto e aperta alle stelle. Era l'una di notte di un mercoledì, l'ora e il giorno di Raphael, ed era anche la prima ora del Giorno di Mezz'Estate; il cielo era pervaso di stelle ardenti che osservavano la principessa tracciare un cerchio formato da tre otto, prima di spogliarsi e di indossare il tabarro porpo-
ra e grigio dell'Arcangelo Raphael, su cui era ricamato in rame il sigillo di Mercurio, il pianeta sotto il controllo di Raphael. Elizabeth gridò a gran voce per otto volte il nome dell'arcangelo, perché otto era il numero di Raphael, preparando poi il vino bianco per Raphael e percuotendo il terreno con la bacchetta che era lo strumento di Raphael. Tutt'intorno al Cerchio c'erano bracieri in cui ardeva l'incenso dell'arcangelo, per ottenere il quale la principessa aveva mescolato accuratamente finocchio, timo, ruta, menta, camomilla e geranio, facendo poi bruciare il tutto sui carboni nel nome di Raphael. «O eterna e onnipotente Dea» disse quindi, prostrandosi al suolo, «che hai decretato la creazione di questi arcangeli, in nome delle lodi che ti spettano e della tua gloria, io ti imploro di inviare l'Arcangelo Raphael, della tua prima schiera di angeli, affinché venga a me e mi istruisca in merito a ciò che intendo chiedergli. Sia comunque fatta non la mia volontà ma la tua, mediante il mio amore e il tuo amore, o Dea Madre, Diona/Nerthus, colei-che-è-la-nostra-signora.» Di nuovo, colpì il terreno con la bacchetta, fatta di legno di nocciolo e di rame e quindi adatta a convocare Raphael, gettando poi sul fuoco aloe e macis, benzoino, storace e altre cose che aveva scelto per Raphael. Ciò fatto, prese un ramo di palma, spruzzandolo di vino bianco e passandolo sul Cerchio mentre esclamava: «Io ti invoco, ti evoco e ti comando, o Arcangelo Raphael, di apparire. Mostrati, visibile o invisibile, come preferisci, in questo sacro Cerchio. Vieni con viso bello e sincero, senza deformità o inganno, nel nome di Nerthus e nel nome di Njord. Sii qui con me e non mi far del male.» La principessa levò la destra e attrasse la luce della luna e delle stelle, attingendo il potere da esse con le nude mani poi, con la luce della notte, tracciò il simbolo di Raphael e lo sigillò con uno smeraldo. Infine, attese. Il vento si alzò dal fiume, soffiando in direzione della Torre Orientale, poi ci fu un rumore di uccelli, di vento, di neve, di pioggia e di tutte le cose che sono nell'aria, ed Elizabeth seppe che Raphael era là con lei. Inginocchiatasi nel cerchio, sfilò dal tabarro un paio di dadi d'avorio, agitandoli fra le mani e levando una preghiera alla Dea Madre Nerthus, perché l'assistesse. Si rivolse quindi all'Alito-di-Raphael che era presente davanti a lei. «Giocherò a dadi con te, possente Raphael, e la mia posta sarà la stessa del mio antenato, William il Fortunato: il mio regno, il mio futuro marito e i figli che dovrò avere. Sì, pongo come posta tutta la mia felicità futura in
cambio del tuo anello, e per questa posta giocherò con te!» Attese dall'arcangelo un segno di accettazione, ma non udì altro che il suono del vento dell'est che soffiava nella stanza senza tetto. Elizabeth sollevò quindi la destra, che stringeva i dadi, e concentrò su quella mano tutto il proprio potere. Non attinse nulla dalla luna o dalle stelle, e neppure dalla Dea Madre o da qualsiasi cosa impersonale. Tutto il potere era suo e suo soltanto, come sarebbe dovuto accadere a Great Yermouth. E gettò i dadi. I dadi rotolarono attraverso il Cerchio, arrestandosi al limite massimo del triplo cerchio di otto: Elizabeth aveva ottenuto un cinque e un sei. Fissando quel punteggio pari a undici, la principessa sospirò e disse: «O grande Raphael, tira i dadi e battimi, se lo puoi, perché quello è il mio numero. Se il tuo punteggio sarà inferiore, avrò l'anello; se sarà superiore, tu avrai tutto ciò che è mio.» Attese, ma i dadi non si mossero, né l'angelo fece in modo che mostrassero un punteggio superiore o inferiore a quello da lei ottenuto. Alle prime luci dell'alba, Elizabeth si alzò in piedi, massaggiandosi le gambe per allontanare i crampi, poi si girò verso est, la direzione da cui sorgeva il sole, ed eseguì una profonda genuflessione. «O arcangelo, o grande Raphael, poiché tu sei diligentemente venuto nel mio Cerchio e non hai risposto alla mia richiesta, io ti concedo ora il permesso di andare via da me. Diparti da qui, ti dico, e sii disponibile e pronto a tornare ogniqualvolta tu sia adeguatamente evocato e invocato con i sacri riti della magia. Ti concedo di andartene in pace e tranquillità. Possa la pace della Dea protrarsi in eterno fra me e te.» Quando ebbe finito di parlare, la principessa s'inchinò ancora verso est, e una lacrima le cadde dagli occhi sull'anulare della destra, scintillando contro la sua pelle come una gemma. La luce dell'alba fece risplendere la goccia come se fosse stata fatta di rame e smeraldo, ma poi essa si dissolse sotto i raggi del sole e sulla mano non rimase nulla. Elizabeth lasciò il Cerchio senza avere avuto una risposta o un aiuto dall'Arcangelo Raphael. CAPITOLO VENTINOVESIMO «Sincero Thomas, se ben ricordo, mi avevi promesso che sarei stata regina per il Giorno di Mezz'Estate» osservò Elizabeth, «ed ora ecco che il Giorno di Mezz'Estate è giunto ed io non sono regina.»
La principessa si trovava in un angolo del cortile del Palazzo di Witchdame, intenta ad osservare i preparativi del campo di sfida improvvisato. Qui non ci sarebbe stato spazio per eleganti padiglioni o tribune, quindi sarebbero state approntate soltanto le corsie e una recinzione che tenesse indietro la folla. Del resto, non era un torneo che richiedesse preparativi elaborati. Thomas il Mago, che era intento a parlare con Menadel, con Jackie e con il Dottor Mittron, si girò nel sentire il suono della voce della principessa, ed ascoltò le sue parole con estrema attenzione. «Ma, mia signora» protestò poi, «questo è soltanto il primo mattino del Giorno di Mezz'Estate, e molte ore devono ancora trascorrere prima che questa giornata si concluda. Ho consultato gli oracoli per tre volte, ed essi hanno confermato che oggi sarai regina. Di più non posso dirti.» «Sono propenso ad essere d'accordo con Thomas» intervenne Menadel. «Anch'io ho consultato gli oracoli in cui credo... la Dea Madre e gli Arcangeli Michael, Uriel e Gabriel, ed essi hanno affermato che sarai regina.» Elizabeth scrollò le spalle e si allontanò dal piccolo gruppo dei suoi sostenitori: era fin troppo consapevole che un nome era stato escluso dall'elenco, ma rilevarlo sarebbe servito a ben poco. La principessa si sentiva come il fondo di un barile di aringhe... ammuffita, umida e prossima a marcire. Aveva immerso tutta la testa in un secchio d'acqua per cercare di schiarirsi la mente annebbiata dal sonno, ma gli occhi le bruciavano come se la sabbia d'Arabia li stesse pungendo, e la lingua sembrava spessa e pelosa come il dorso di un gatto. Nel complesso, era decisamente a pezzi. Era stata abbastanza saggia da evitare di fare colazione, non concedendosi neppure un piccolo boccale di birra, ma ora lo stomaco le brontolava di continuo. «Quello che mi succederà in questo Giorno di Mezz'Estate sarà di morire!» borbottò. «Temo di ascoltare troppo le parole degli altri e di non credere in nulla, il che è un grave peccato. Ma conosco la vera natura del Principe Eblis, so che intende distruggermi, ed io sono qui, sul punto di permetterglielo, e tutto sulla base della parola della Dea e della Fiamma. Ah, ma io voglio credere!» Vide Thomas Seymour e gli altri scudieri portare la sua armatura nell'angolo del cortile a lei riservato, poi uno degli scudieri arrivò con il magnifico cavallo bianco dell'ovest, il grande stallone berbero chiamato Jibriel. La vista dello splendido animale strappò un lieve sorriso ad Eliza-
beth, che andò ad accarezzargli il muso e ad affondare le mani nella splendida criniera. «Salve, mio bellissimo, mio dolcissimo» mormorò, con la faccia contro il collo del cavallo e a voce tanto bassa che soltanto lui poteva udirla. «Tu ed io abbiamo in serbo una giornata interessante, mio caro, e se anche andrò incontro alla mia distruzione, saprò che non è stato per colpa tua.» Il cavallo agitò gli orecchi e girò la testa fino a urtarla leggermente. I suoi occhi erano grandi e scuri, ed in essi Elizabeth scorse un'espressione preoccupata; l'animale le mordicchiò i capelli umidi, assestandole qualche scherzoso strattone, e lei gli cinse il collo con le braccia, attingendo da quel contatto tutta la rassicurazione possibile. «Sellalo con cura, Tom» disse quindi, «ed accertati che sia tutto pronto, perché oggi non voglio coprirmi di vergogna a causa del mio cavallo o dei finimenti: se cadrò, voglio che sia tutta e soltanto colpa mia.» Il Dottor Mittron si accostò per ammirare il cavallo, accarezzando con le lunghe dita snelle la sua criniera e sorridendo dell'ovvia soddisfazione del destriero; Elizabeth rimase molto stupita della familiarità concessa da Jibriel a uno sconosciuto. «Non temere, mia signora» affermò Mittron, «questo cavallo ed io faremo tutto il possibile per te, e ci sono anche altri che ti sosterranno. La Dea Madre è con te, e non è cosa da poco. Credo che perfino Sulis, pur avendo la mente occupata da questioni più importanti, ti benedica. Come ha detto Menadel, tu avrai il sostegno di tre arcangeli, e in questo momento la Dea Madre sta discutendo con Raphael riguardo all'importanza di sconfiggere il Principe Azazel.» «Azazel?» ripeté Elizabeth, voltandosi verso il Dottor Mittron. «Perché lo chiami Azazel? Pensavo che il suo nome fosse Eblis.» «Lo chiamo così perché so che questo è il suo vero nome: Azazel, seduttore dell'umanità, portatore dello stendardo del grande signore della Regione Infera. Quando Lord Ashmedai cadde, Azazel fu il primo degli angeli che caddero con lui, ed è il possente principe dei demoni! Ti prego quindi di ingaggiare questo torneo usando tutto il potere e tutta la magia che sono in te, perché ne avrai bisogno.» «No» replicò Elizabeth con decisione, scrollando il capo. «Nella mia vita non ho mai usato la magia per vincere in un torneo: il mio onore e la cavalleria lo proibiscono. Non posso...» «Al diavolo la cavalleria!» esclamò Michael Mittron. «Credi forse che questo sia un piacevole torneo di un pomeriggio domenicale, in cui le da-
me ti getteranno rose e gli uomini ti applaudiranno cortesemente? Azazel non sarà cortese e non si atterrà al codice d'onore, perché non ha onore: userà invece tutto il potere di cui dispone, attingendolo dalla stessa Regione Infera. Se preferisci scendere nella tomba nei panni di un onorevole cavaliere, così sia, ma io credo che tu stia agendo da stolta. Una regina viva è molto meglio per Englene di una principessa cavalleresca ma morta. Rifletti su questo, e fallo in fretta, perché è giunto il momento dello scontro.» Elizabeth fissò il dottore a bocca aperta, stupefatta che un uomo del suo rango osasse parlarle in quel modo, ma poi gettò indietro il capo e scoppiò a ridere, perché quello che lui aveva detto era fin troppo vero: la cavalleria non aveva nulla a che vedere con quello scontro, perché lei non stava per affrontare un essere che credeva nella cavalleria. «Così sia» gridò. «Morte e distruzione a Eblis, che è il demone Azazel! Così possa essere.» Michael Mittron le strinse con forza le spalle. «Così sarà!» esclamò. Come ulteriore protezione, Elizabeth indossò l'armatura di bronzo che le era stata donata dalla Dea Madre e, avvolta in quel potere, condusse Jibríel verso un'estremità del cortile, per affrontare il demone che si faceva chiamare Eblis. Eblis era abbigliato completamente in nero e rosso: il suo cavallo era scuro come il carbone e i finimenti erano scarlatti, come le piume di struzzo che ornavano l'elmo del cavaliere. La sopravveste che Eblis portava sull'armatura era anch'essa rossa, e lo rendeva simile a un carbone ardente scaturito dalla Regione Infera. Elizabeth era certa che, sotto l'elmo, i suoi occhi ardessero come quei carboni eternamente roventi. Dietro la recinzione, una gran massa di folla si accalcava nel cortile. Elizabeth scorse sua zia Marguerite con Guenhwyvar, vicino all'angolo meridionale dove Jackie, Menadel, il Dottor Mittron e Thomas il Mago si erano radunati. La principessa sorrise quando vide una vecchia vestita interamente di verde che andava a prendere posto accanto a sua zia e le baciava la mano. Nerthus era venuta, e questo fatto diede sicurezza ad Elizabeth, sciogliendo in parte il senso di gelo che le attanagliava il ventre. La principessa attese con cortesia che il Principe Eblis/Azazel pronunciasse la sua sfida, più o meno nei termini che lei si era aspettata. «Io, il Principe Eblis di Bene Elim» gridò a gran voce il Principe della Regione Infera, «qui sfido la Principessa Elizabeth di Englene a uno scon-
tro in tre passaggi. Combattiamo per gli orecchini di una dama, per la terra di Englene e per la tua vita!» Un coro di esclamazioni, di domande e di grida si levò dai cortigiani, ma Eblis li zittì tutti con un gesto. «Basta parlare di cerchi e di arcangeli» esclamò. «Questa battaglia e soltanto questa deciderà chi sarà il sovrano di Englene. Sarà uno scontro fino alla morte, e io vi avviso di prepararvi ad onorare il vostro nuovo re.» «Insopportabile spaccone!» borbottò Elizabeth, sporgendosi per accarezzare il collo di Jibriel, e fu contenta di sentire l'animale sbuffare per esprimere il proprio consenso su quel giudizio. Echeggiò quindi uno squillo di trombe e un araldo venne avanti per ripetere i termini della sfida: un torneo in tre passaggi, un combattimento fino alla morte per gli orecchini di una dama, il regno di Englene e la vita della Principessa Elizabeth. Scese il silenzio: la folla aveva assimilato l'informazione e stava fissando ora Elizabeth, ora Eblis, accorgendosi di non sapere a chi conferire il suo supporto e di poter soltanto stare a guardare mentre il primo passaggio aveva inizio. Elizabeth sollevò la pesante lancia di cipresso per valutare se fosse ben bilanciata; la punta d'acciaio era appuntita e robusta, capace di trapassare perfino un'armatura, se usata con forza sufficiente... ed era sua intenzione usare tale forza: come le aveva fatto notare Michael Mittron, questo non era un torneo domenicale. Fu dato il segnale, e i due avversari scattarono uno verso l'altro, attraversando al galoppo il cortile lungo la corsia che offriva l'unica protezione a loro e ai cavalli. Elizabeth osservò Azazel con estrema cura, ogni istinto teso e pronto a notare il minimo indizio su come avrebbe manovrato la lancia. Dal movimento dell'asta e del polso, capì che sarebbe stato un colpo alto, il che era un errore. Spingendo bruscamente Jibriel verso Eblis, Elizabeth serrò con forza la lancia spianata, s'insinuò sotto la guardia dell'avversario e colpì la lancia di Eblis abbastanza vicino alla piastra protettiva da infrangerla con la punta d'acciaio, che fu però poi deviata dalla gorgiera di Eblis. I due cavalli si erano avvicinati a tal punto che ora si oltrepassarono con un clangore di armature, lacerando la corsia. Elizabeth era ancora saldamente seduta in sella, mentre Eblis era stato scosso dal colpo. Voltandosi, la principessa vide il demone proseguire verso il lato opposto del cortile e, anche se non gli scorse la faccia, seppe che era furibondo. Quanto a lei, tornò presso Tom Seymour per farsi dare l'arma successiva:
si trattava di una mazza ferrata, una grande palla di ferro irta di punte e fissata su una robusta impugnatura di quercia. La mazza s'insinuò nel guanto metallico della principessa come se fosse stata un tutto unico con esso, poi Elizabeth flesse il braccio e attese. Michael Mittron si accostò al suo cavallo e protese una mano verso la gamba coperta dall'armatura. «Va' in pace, mia signora, e con la mia benedizione» le disse, con una nota di quieta autorità nella voce. Perplessa, Elizabeth sollevò la visiera e si girò a guardarlo. In quel momento, le giunse alle narici il profumo delle rose sbocciate, e lei ricordò una radura silvana e un sacro Cerchio. Scrutando nelle profondità degli occhi azzurri di lui, seppe che quello era l'uomo che era stato con lei ad Avebury ed a Heartwood. Scorse anche una luce che gli ardeva negli occhi, una fiamma del tutto diversa dal fuoco di Eblis, calda e confortante, e in quel momento lei vide la semplice tunica color zafferano tramutarsi in un abito d'oro, e sul suo viso cadde l'ombra di un grande paio di ali. Seppe allora che quello era l'Arcangelo Michael e che era votato a lei per l'eternità. Guardandolo negli occhi, poté scorgere il profondo della sua anima, e vi lesse un amore profondo, superiore a quello di qualsiasi umano, signore della magia o angelo. Non c'era nulla da temere: colui che era destinato ad essere il suo consorte le era accanto, e nessuna minaccia proferita da un demone avrebbe potuto estinguere l'amore e il desiderio che c'erano nei suoi occhi, come neppure la morte avrebbe potuto separarli. Elizabeth si avviò per iniziare il secondo passaggio, e l'ombra di Michael l'accompagnò. La mazza era un'arma che andava usata a distanza ravvicinata, ed Elizabeth stringeva ora nella sinistra un grande scudo con lo stemma di Englene, mentre con la destra cercava di calare la mazza sul Principe Eblis, che parava i colpi con lo scudo nero e rosso con lo stemma del drago e tentava di attaccare a sua volta. Eblis eseguì una finta con lo scudo, ed Elizabeth, incerta se rispondere o meno, ebbe una lievissima esitazione che fu però sufficiente perché l'arma di Eblis le calasse sulla destra, fracassando il guanto e lacerando le nocche. Elizabeth non fu peraltro l'unica a riportare danni. Un nitrito di dolore sfuggì al nero destriero di Eblis quando Jibriel, con un solo colpo, gli lacerò un fianco, esponendo e frantumando le costole sottostanti. Il cavallo nero barcollò, accennando ad accasciarsi, ed Eblis dovette sorreggerlo con un selvaggio strattone alle redini e disimpegnarsi dallo scontro, per ricondurre
il cavallo ferito verso il suo angolo del cortile. Il secondo passaggio era concluso, e l'ira di Eblis era una cosa palpabile. Elizabeth tornò da Michael, perché potesse esaminarle la mano. Il guanto era distrutto, ma quando Tom Seymour fece per andare a prenderne un altro, Michael lo arrestò con un gesto. «No» disse. «Fornirò io un guanto alla principessa.» Si portò quindi alle labbra la mano ferita di lei, risanandola con un bacio. «Prendi il mio guanto» offrì quindi, «e portalo in battaglia come pegno del mio amore.» «Ma non mi andrà bene!» protestò Elizabeth. «La tua mano è molto più grande della mia.» L'Arcangelo Michael porse alla principessa un guanto d'oro e glielo infilò con abilità. «Il guanto calzerà, come anche ciò che c'è al suo interno.» Elizabeth sentì il guanto che si modellava intorno alla sua mano poi avvertì qualcosa che le stringeva, intorno all'anulare, e nel momento stesso in cui l'oggetto le toccò la mano, seppe che si trattava di un anello di rame e smeraldo. Fece per lanciare un'esclamazione, ma Michael la prevenne. «Non dire nulla finché non sarà il momento. La Dea ha convinto Raphael che non sarebbe riuscito a tirare un numero più alto del tuo e lui ha ammesso che, con un undici, avevi vinto.» Elizabeth scoppiò in una risata di trionfo. Avrebbe vinto! La giornata si era tinta di luce, e dalla foschia era sorta la salvezza. «Dimmi, o grande Principe dei Principi, come ha fatto la Dea a convincere il potente Raphael che non avrebbe mai potuto battermi?» «L'ho avvertito che se anche avesse lanciato i dadi da adesso alla fine dell'eternità, non avrebbe ottenuto più di un dieci. Ci avrei pensato io» affermò alle spalle di Elizabeth la voce della Dea Madre, salda e divertita. Nerthus aveva tutto il tempo che voleva per giocare a dadi con un arcangelo, perché tutto il tempo era suo. Elizabeth vide che il Principe Eblis/Azazel aveva scelto la sua ultima arma, uno spadone a due mani, con cui intendeva darle la morte. Il terzo passaggio avrebbe potuto benissimo decretare la sua fine, ma Elizabeth avvertiva ora la tranquilla sicurezza che avrebbe vinto. Si fece dare da Tom Seymour la sua grande spada contenente sedici potenti incantesimi e si preparò a distruggere Azazel. Nel momento in cui la Principessa Elizabeth di Englene si avviò per il
terzo passaggio, l'Arcangelo Michael levò le mani al cielo e invocò i Signori delle Torri di Guardia. Invocò il proprio potere, come Signore del Meridione; invocò Gabriel, Signore dell'Occidente, e Uriel, Signore del Settentrione e, più importante di tutti, Raphael, Signore dell'Oriente. E tutte le Torri del Palazzo di Witchdame furono complete. Le Torri sorsero, mattone dopo mattone, fino a formare il grande quadrato del sigillo, e su tutto Englene si allargò la fiamma azzurra del Cerchio della ricerca di Elizabeth, mentre in ogni punto dei quattro quadranti da lei visitato sorgeva la fiamma azzurra dei Signori delle Torri di Guardia. Il quadrato nel Cerchio e il Cerchio nel quadrato erano completi. Il sigillo della principessa che governava Englene era ultimato. Eblis lo vide, e seppe cosa significasse quel sigillo. Con un grido di rabbia, scagliò un getto di fuoco rosso contro la principessa, la cui spada s'infranse in due pezzi, rendendo inutili i sedici incantesimi. Elizabeth si girò per prendere una seconda spada, e così non si accorse di ciò che fece il demone. Essendo nel centro del sigillo, infatti, il portabandiera della Regione Infera fu rivelato per quello che era. L'avvenente e biondo principe di Bene Elim cominciò a crescere, mentre la nera armatura si allargava e si trasformava in una copertura di scaglie e le piume rosse dell'elmo diventavano una striscia carminia come il sangue che attraversava il ventre della cosa che continuò a crescere e a crescere, fino a raggiungere con la testa l'altezza delle Torri. Ora nel cortile del Palazzo di Witchdame c'era uno spaventoso drago, una bestia tale da far sembrare il drago del castello di Bamborow un giocattolo per bambini. Le scaglie erano di un nero iridescente, il ventre di un rosso acceso... acceso quanto gli occhi fiammeggianti. Le fauci erano allungate come quelle di un serpente e i denti aguzzi come coltelli d'acciaio, mentre l'alito era di fuoco e la lingua una spada saettante. Ogni suo passo faceva tremare il suolo e la vista dei suoi occhi fu sufficiente a paralizzare i cortigiani, immobilizzandoli come i corpi del reale museo delle cere. Il silenzio calò sul cortile, mentre Elizabeth meditava sul da farsi. Tratto un profondo respiro, esclamò a gran voce: «Azazel, vattene da questo luogo, te lo ordino in nome della Dea Madre! Perché io ti dico che in questo giorno il Dio è con me, la Dea è con me, i quattro arcangeli sono con me. Con il loro aiuto io, Elizabeth di Englene, causerò la tua morte!»
Azazel rise, ma nella sua risata c'era una nota falsa, perché lui sentiva già intorno a sé le catene di potere che Elizabeth aveva forgiato con il sigillo. Michael venne avanti per offrire a Elizabeth la spada, e pose Uryan, ancora avvolta nel broccato verde, fra le mani della principessa. Elizabeth accettò l'arma e la tenne stretta al corpo come un bambino, mentre si sfilava il guanto di Michael e lo infilava nell'elmo, perché tutti vedessero che portava il suo pegno e combatteva in suo nome. Con lenti passi danzanti, il destriero Jibriel... che altri non era che l'Arcangelo Gabriel... avanzò per combattere contro il possente principe della Regione Infera, mentre Elizabeth strappava la copertura verde dalla spada fatta con il legno dell'Albero della Vita e della Morte che cresceva nel Giardino dei Primordi. E allora la grande spada dell'Arcangelo Uriel divenne Fiamma. Azazel vide l'anello, la spada e la Fiamma, e la paura lo pervase, inducendolo a invocare a gran voce l'aiuto di Ashmedai. Ma il Signore della Regione Infera aveva abbandonato il suo luogotenente. Elizabeth cavalcò rapida verso lo sconvolto drago, lanciando al galoppo il suo possente destriero contro il ventre del demone, abbassandosi sul collo del cavallo per evitare l'alito ardente di Azazel mentre la criniera di Jibriel la proteggeva al tempo stesso dal Fuoco infero e dalla Fiamma angelica. Jibriel si arrestò bruscamente, impennandosi, per poi balzare di nuovo in avanti, ed Elizabeth colpì. La sua spada fiammeggiante trapassò il ventre del demone e le Fiamme della lama incontrarono le Fiamme della Regione Infera. Ci fu un rumore tremendo, come se le Tre regioni, Eterea, Terrena e Infera si fossero lacerate, e un possente urlo di disperazione, d'ira e di dolore pervase l'aria, poi le Fiamme della spada Uryan consumarono quelle della Regione Infera, ed Elizabeth estrasse la spada dal ventre del demone, vedendo che la creatura si era trasformata in cenere. Un vento violento calò quindi dalle Regioni Eteree e soffiò via le ceneri di Azazel, disperdendole ai quattro angoli della terra, e il demone cessò di esistere. La campana tenorile del palazzo prese allora a squillare: la campana della Regina Dianne suonava a festa per il trionfo della figlia, e tutte le altre campane di Witchdame risposero intonando un Te Deum per la nuova regina. La Regina Elizabeth di Englene, autentica regina delle terre governate dai suoi antenati, indugiò in sella al possente destriero Jibriel; in pugno
stringeva la spada Uryan, al dito portava l'anello Raziel, e sul suo elmo brillava il guanto d'oro, pegno d'amore dell'Arcangelo Michael. Sulla terra non era mai vissuto nessuno dotato di un potere come quello che lei aveva in quel momento: a un suo comando, l'universo si sarebbe arrotolato come una pergamena, cessando di esistere. Al suo minimo desiderio interi regni sarebbero svaniti, le sarebbe bastato levare un dito perché i monti tremassero e i fiumi si prosciugassero, un'occhiata per far ribollire i mari. La principessa conobbe il suo potere e seppe che, in quel momento, avrebbe potuto sfidare il potere della Dea stessa. Una voce tranquilla e sommessa le risuonò all'orecchio. «Mia sorella, mio amore» ammonì l'Arcangelo Michael, «indugia una volta soltanto su quel pensiero e poi dimenticalo, perché nel giorno in cui tornassi a formularlo, perderesti tutto e la tua desolazione sarebbe più grande di quella del demone Azazel, e la tua stella precipiterebbe urlando dalle Regioni Eteree, ed io volterei le spalle senza intervenire. Ricordati di Ashmedai!» Elizabeth rifletté sulle parole dell'arcangelo, e seppe che erano vere. Seppe che il potere che deteneva le era stato concesso sulla fiducia e poteva essere usato soltanto per il bene di Englene, perché fra la Regione Infera, le Regioni Terrene e le Regioni Eteree esisteva un equilibrio che andava mantenuto. E lei, Elizabeth, Regina di Englene, era quell'equilibrio. E così fu. Appendice CRONOLOGIA DEI RE E DELLE REGINE DI ENGLENE (1066-1535) 1066-....
Swein Barbaforcuta (re umano ucciso sul Campo della Dea nel corso dell'invasione da parte dei signori della magia). 1066-1088 Andrew I di Pleasance (figlio minore di Philip di Pleasance) «m. Gunhilde, figlia di Swein Barba-forcuta» nessuna discendenza. «m. Matilda di Pleasance.» 1088-1105 Geoffery I di Englene (figlio di Andrew I) «m. Kathrine della Bonne Terre» Sacrificato a Heartwood. 1105-1155 William I il Fortunato (Ladro dell'Anello) (figlio di Geoffery I)
«m. Anne la Bella.» 1155-1156 Henry I il Basso (figlio di William I) «m. Ursula di Burgundia.» 1156-1189 James I Flagello delle Streghe Silvane (figlio di William I) «m. Eleanor di Aquitania (morta di parto)» m. Gurtruda Gibbetch. GUERRA CONTRO LE STREGHE SILVANE 1182-1193 (James I ucciso dalla magia delle streghe silvane, 1189) 1189-1216 Richard I il Beneamato (figlio di Henry I); pone fine alla guerra con le streghe silvane nel 1193 «m. Berengaria di Navarra.» 1216-1220 Isabel I Maledizione di Englene (Figlia di Richard I) «m. Geoffery di Burgundia.» GUERRA CIVILE CON GEOFFERY II 1217-1220 1217-1223 Geoffery II Sans Terre (figlio di James I) «m. Philipa di Espania.» 1223-1273 Edward I il Pacificatore (figlio di Geoffery II) «m. Joan del Reno.» 1273-1278 Richard II la Grande Bestia (figlio di Edward I) «m. Elenora (Regina, Englene), pronipote di Isabel e di Geoffery, Duca di Burgundia; considerata da alcuni la legittima regina» assassina suo marito nel 1278. 1278-1279 Elenora (reggente), giustiziata dietro sua stessa richiesta dalla Grande Coveyne per l'assassinio di Richard II. 1279-1291 Richard, Duca di Sudfolke (reggente), fratellastro bastardo di Elenora. 1279-1327 Andrew II il Re Ragazzo (figlio di Elenora). 1327-1370 Richard III il Buono (nipote di Andrew II, figlio del secondogenito di Andrew, Richard Duca di Eboric) «m. Anne di Warwiche.» 1370-1401 Edward II Gioia di Middleham (figlio di Richard III) «m. la Regina Jane del Gaeland, con conseguente unione del Gaeland e di Englene.» 1401-1413 William II lo Sfortunato (figlio di Edward II) «m. Isabel della Borine Terre.» 1413-1420 Isabel II la Lupa, assassina del marito, William II; giustiziata dalla foresta di Heartwood nel 1420. 1420-1461 Edward III il Bello (figlio di William II) «m. Katherine di Espania (morta di parto) m. Anne di Hever (morta di parto) m. Jane di Wolf's Hall (ripudiata) m. Anne del Reno (morta di par-
to) m. Catherine di Nordfulc (ripudiata). m. Catherine la Fortunata (sopravvissuta al re)» 1461-1471 William III il Debole (figlio di Edward III e di Katherine di Espania) «m. la Regina Elphane di Faerie. Ucciso in Faerie da una Cosa.» 1471-1478 Henry II il Senza Speranza (figlio di Edward III e di Katherine di Espania) «m. Joan del Gaeland (nessuna discendenza)» sacrificato a Heartwood nel 1478. 1478-1514 Edward IV il Giusto (figlio di Edward III e di Anne di Hever) «m. Elizabeth della Bonne Terre.» EDWARD DIVIDE IL REGNO FRA I FIGLI GEMELLI. 1514-1528 Robert I il Giovane, Re di Gaeland (figlio di Edward IV) «m. Renee della Bonne Terre» Divorato in Faerie da una Cosa. 1514-1535 Richard IV l'Impreparato, Re di Englene (figlio di Edward IV) «m. Dianne la strega silvana; padre di Elizabeth.» Riconoscimenti L'autrice vorrebbe ringraziare Karen Trimble e Karen Willson per la trascrizione del manoscritto e delle annotazioni ad esso relative; Ian Myles Slater per il suo eccellente lavoro di ricerca; Joyce Odell per la pazienza con cui ha ascoltato gli sproloqui dell'autrice, offrendo critiche costruttive; e i suoi medici per averla tenuta in vita mentre scriveva questo libro. FINE