TRAN-NHUT LA POLVERE NERA DI MAESTRO HU Un'indagine del Mandarino Tan (La Poudre Noire De Maître Hou, 2002) Appoggiato a...
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TRAN-NHUT LA POLVERE NERA DI MAESTRO HU Un'indagine del Mandarino Tan (La Poudre Noire De Maître Hou, 2002) Appoggiato al bastingaggio, Lam guardava sfilare le ombre della foresta: cime zigrinate di palme acquatiche, massa compatta di arboscelli le cui radici tessevano inestricabili intrecci neri. Le sponde del fiume risonavano di melodie brevi su un sottofondo di brontolii senza leggiadria e palpitavano di una miriade di lucine, altrettante pupille che, indolenti, seguivano il passaggio della giunca. Erano partiti a buio fatto, lasciandosi portare dalla corrente che, infallibilmente, li avrebbe spinti nell'immensa Baia del Drago. Villaggi, festoni di luci sgranate a fil d'acqua, si erano materializzati in un'ansa del fiume e poi sciolti nel buio, lasciando in gola al battelliere soltanto l'odore acre di un fumo di legna. Dato che quel tratto fluviale era ben noto, gli uomini dell'equipaggio si erano ritirati sottocoperta, buttandosi anima e corpo in partite a carte che di sicuro li avrebbero consunti più del fuoco dell'alcol. Lam fece il broncio: l'equipaggio si riduceva in realtà a dei ragazzetti attratti dall'avventura di un'uscita in mare, pagati con una polpetta di riso in quell'epoca di espansione commerciale. Purché si mostrassero all'altezza della loro ambizione, quei ribaldi cresciuti troppo in fretta! La giunca sboccò nel golfo nel momento in cui la luna scendeva rosseggiando dietro l'orizzonte. Dopo i gridi della foresta, calò il silenzio, glaciale. Lam alzò la testa. I suoi occhi, una volta abituatisi all'oscurità incipiente, videro accendersi i sette fuochi del Moggio, chiamato anche il Cucchiaio del Nord. Istintivamente si orientò con la Polare, che pareva di poter toccare nel cielo ora trapunto di stelle. Voltandosi, scorse una sagoma intenta ad annodarsi il codino. «Prua sull'Isola delle Tombe!» urlò a Huy, che si affrettò a obbedire. Le vele incannicciate, aperte come ali di farfalla, sbatterono al vento, ed essi fecero rotta verso una protuberanza rocciosa a forma di teschio umano in mezzo a un campo d'ossa. «È pura follia avvicinarsi a quel posto schifoso, e di notte poi!» borbottò Huy, imbronciato. «Si direbbe un gigante morto in mare!» Lam agitò un indice riprovatore verso quel giovincello ricalcitrante i cui pregi erano da cercarsi più nel bel volto e nelle labbra sensuali che nell'obbedienza al suo superiore.
«Gli ordini del vecchio Phung non si discutono! Preferiresti passare la notte con l'immondo carico che ci hanno accollato?» L'altro sputò in coperta e scosse il ciuffo ribelle. «Scherzate! Tanto varrebbe baciare sulla bocca una donnaccia che ha appena sventrato il suo uomo prima di staccargli la testa!» «Voglio crederti sulla parola, tu che hai avuto esperienze di ogni sorta» replicò Lam. «Non scordare che il signor Phung ha sganciato un compenso consistente per questa missione». «Quel vecchio taccagno deve aver visto le stelle nel cacare tutti quei sapechi!» disse il giovane scoppiando a ridere e mettendosi coccoloni per mimare la dolorosa espulsione. «Bah! Ciò che ha mollato qui, lo ricupererà sicuramente altrove, non temere. Con quello che c'è nella stiva potrebbe mettersi a fare elemosine ai signorotti, se volesse». Ora che si erano avvicinati agli isolotti, Lam distingueva le anfrattuosità che scavavano negli scogli orbite vuote e bocche senza fondo. Più subdoli della rogna, filamenti di muschio nerastro rodevano la faccia dell'Isola delle Tombe. Sparsi attorno all'isolotto centrale, scogli sbilenchi ne impedivano l'accesso, e il battelliere abbozzò mentalmente una possibile traiettoria: tra due blocchi, poi al largo di quella sporgenza... D'un tratto, strinse le palpebre. Strano. La sua vista di vecchio battelliere gli giocava dei brutti tiri. Eppure, quelle forme sballottate dalle onde... «Huy, cosa vedi là, all'altezza di quella lingua rocciosa?» Il gesto sospeso, il giovane si teneva la serica capigliatura attorta sul polso. Rispose semplicemente: «Ci sono sei barche, ciascuna con cinque uomini a bordo. Sono tutti seduti, salvo il più alto che è in piedi e sta accendendo un braciere». Lam lo rimbrottò rudemente. «Scimunito! Non vedi che sono pirati? E sai cosa fanno i pirati ai bei ragazzi come te?» Sgomento, il giovane era diventato una maschera di cera su un corpo tremebondo. Scostandolo con il gomito, Lam corse verso la stiva, da cui uscivano imprecazioni di ogni sorta. «Tu bari, figlio di mala femmina che non sei altro!» «Specie di bastardo castrato! Se continui così, ti rompo...» «Fatela finita, banda di fannulloni!» urlò Lam, esasperato. «Tutti in coperta! Pirati in vista!» Con gran trambusto i giovani si precipitarono fuori, non senza aver pri-
ma travolto il vicino per arraffare la posta. «Pirati? Cosa vogliono? Huy?» domandò il Mango, un ragazzo dal cranio puntuto e dalla pelle gialla. «Si dice che siano sempre in cerca di bei ragazzotti per qualche bordello lontano». Dette una pacca vigorosa sulla schiena di Huy che si risentì. «Dicono che là gli omaccioni dalle spalle pelose preferiscono i ragazzini alle loro mogli baffute» rincarò il mingherlino Soia. «Basta scherzare!» tempestò Lam, che cominciava a spazientirsi. «Vi assicuro che, se i pirati che infestano queste acque vi mettono le mani addosso, verrà il momento in cui li implorerete di vendervi a un omaccione peloso pur di non subire la sorte che vi riserveranno!» Quasi a sostegno delle sue parole, una fiammata divampò in ciascuna delle barche disposte ad arco. E tutti videro i pirati. Lo sguardo vacuo e la bocca esangue, costoro fissavano la giunca che li sovrastava. Ogni imbarcazione era comandata da un uomo in piedi, mentre gli altri stavano seduti, gli occhi nel vuoto. La loro pelle di un pallore cadaverico splendeva fiocamente alla luce stellare. La fronte avvolta in una benda bianca, sembrava che portassero il lutto per loro stessi, paralizzati da una rigidezza mortuaria. I loro indumenti sembravano a pezzi, forse putrefatti da anni umidi e sotterranei. Le imbarcazioni facevano uno sbarramento di bare galleggianti che ghiacciava il sangue. «È l'Esercito delle Ombre!» esclamò Huy. «Proteggono l'Isola delle Tombe. Dobbiamo scappare!» «Vedo i vermi che escono dalle loro orbite, sento la loro puzza di carne marcia» aggiunse il Mango. «Non si può combattere con dei morti!» Lam si sentì venir meno. Con la quindicina di marinai ai suoi ordini, erano nettamente inferiori di numero a quei corpi defunti. E, anche se la giunca era più solida dei canotti che aveva di fronte, quale resistenza si poteva sperare che opponessero quei mocciosi, l'uno più fanfarone dell'altro? Lui stesso, con la sua vista debole e le ossa stanche, avrebbe saputo difendere la nave? Avvertendo la presenza dell'equipaggio radunato attorno a sé, si sforzò di riflettere. D'un tratto gli si affacciò alla mente l'immagine del putrido carico che aveva a bordo. E se i morti fossero venuti a prendersi quello? «Attenti! Ci attaccano!» Era stato Soia a gridare, aggrappato al bastingaggio. Difatti, in ogni barca, l'uomo al comando incoccava una freccia in un arco di antica fattura. Un palpito d'occhi vitrei e, di conserva, tutti scoccaro-
no una freccia che fendette l'aria unendosi con le altre in un fascio mortale. Sulla giunca tutti corsero al riparo. «A me!» urlò Soia, il volto imbrattato di sangue. «Mi hanno colpito! Vendicatemi!» Lam si precipitò, soltanto per constatare che la vittima era indenne, ma gocciante un liquido viscoso. «Che roba è mai questa?» urlò Huy, aggrappato al collo di Mango. Qualcosa che somigliava a un budello avanzava verso di loro lasciando una scia vermiglia sulla coperta. «Viscere di demone!» «Intestini di scrofa!» Lasciata la testa di Soia, che ricadde con un tonfo, Lam si avvicinò a quattro zampe. Un sibilo acuto lo fece balzare all'indietro. «State lontani! È un serpente!» «Ed è stato immerso nel sangue!» Allora si udì un grido terribile e tutti si voltarono verso Binh. Alla base del suo collo si era formato un gozzo della grossezza di un pugno, sempre di quella consistenza gelatinosa e sanguinolento. E si muoveva! Poiché nessuno batteva ciglio, paralizzato dal terrore, il vecchio Lam si lanciò giusto in tempo per vedere la cosa abbietta infilarsi nello scollo del malcapitato che farfugliò facendo gesti scomposti: «Mi divora! Mi mangia il capezzolo e mi morde il cuore!» Lam appoggiò la mano sul busto del ragazzo cercando di seguire quel tumore sussultante che macchiava la stoffa di sangue. D'un tratto, con un rutto assordante, la cosa saltò via dal collo e atterrò in coperta. «Un rospo!» «Anche questo inzuppato di sangue!» Il battelliere, sconcertato, guardava quegli animali vivi e sanguinanti che i cadaveri avevano attaccato alle loro frecce. Che senso aveva quello scherzo di cattivo gusto? Si voltò verso l'acqua e capì la diversione. I pirati stavano accendendo la punta delle loro frecce e si accingevano a incendiare la giunca. Come in sogno, Lam il battelliere vide le fiamme lambire la punta delle frecce e seppe che, se fossero rimasti lì, avrebbero raggiunto i loro aggressori in una morte senza appello. «Inversione di rotta!» urlò con quanto fiato aveva in gola. «Dobbiamo allontanarci da questo luogo maledetto! Verso la foce del fiume!»
I ragazzi, rendendosi conto dell'urgenza, pur dominando a stento la vescica, si avventarono sulle vele. Le ali spiegate sbatterono per un momento e la giunca descrisse una curva elegante per poi filare verso terra. Preferendo l'ignoranza menzognera alla realtà terrificante, l'equipaggio non osava guardarsi alle spalle. Possibile che fossero inseguiti da una macabra flotta che scivolava silente sull'acqua come l'ombra di un'ombra? E se fosse stata semplicemente un'allucinazione collettiva, il gioco crudele delle nuvole sulle onde smorte? Fu il Mango che, puntando verso il largo il cranio allungato, dette loro la notizia. «I morti ci sono alle calcagna». Coloro che erano abituati a pregare si misero a salmodiare sottovoce, gli altri s'inventarono divinità plausibili impetrandole con fervore. Quando imboccarono la foce del fiume, Lam si decise infine a guardare verso poppa. I cadaveri li tallonavano, imperturbabili nelle barche che manovravano con un'abilità diabolica. Anche un solo rematore svuotato di tutto il suo sangue riusciva a seguire senza sforzo la giunca rallentata dal peso e dal vento che calava. Se non altro, però, finché quegli spettri remavano, non minacciavano di incendiare la giunca. «Bisogna risalire il fiume fino al primo villaggio!» disse Lam ai ragazzi. «Quel canagliume non oserà seguirci fino alle porte della civiltà!» Soia, le labbra terree, fece timidamente notare: «Il fatto è che ci bloccano il passaggio, signor Lam». Il battelliere, incredulo, si voltò e dovette arrendersi all'evidenza: la risalita del fiume era impedita da altre cinque barche scaglionate su tutta la larghezza del corso d'acqua. Sempre gli stessi corpi senza respiro, dalla rigidità diaccia, con volti di marmo. Gli si strinse lo stomaco. Cercò conforto nelle stelle che erano scivolate sul firmamento, mentre attorno a lui si accampava il silenzio. I ragazzi si avvidero che la fine era imminente e, scorati, soppesarono nelle tasche le monete vinte più o meno onestamente. Come a suggellare la loro sorte, dalle profondità della giunca, lugubri e strazianti, salirono rantoli che non avevano nulla di umano. «Lascia perdere!» disse Lam al Mango che abbozzava un movimento verso la stiva. «Tanto siamo tutti spacciati...» I morti viventi restavano impavidi e, occhi socchiusi e labbra grigie, intrappolavano la giunca tra le loro imbarcazioni. «Ma cosa aspettano ancora?» domandò Huy. Fu allora che la mente di Lam vacillò e le sue viscere si squagliarono. Adesso sapeva perché li tenevano lì, in quel punto del fiume. Capì la loro
pazienza e la loro aria imperturbabile. Quegli scellerati confidavano in qualcosa d'ineluttabile come il tramonto della luna e il corso dei pianeti. Una scena simile a quella, conclusasi anni prima nel sangue e nella vittoria, gli esplose nella memoria, risonante di canti eroici e avvolta dal rosseggiare degli stendardi in fiamme. E fu senza sorpresa che il battelliere Lam vide i pesciolini argentei affiorare alla superficie del fiume, strisce dietro strisce, file di ferro freddo che spuntavano dalle onde, mentre le sue orecchie rintronavano per lo scricchiolio della stiva che si fendeva col rumore secco di ossa spaccate. «Abbandonare la nave!» ordinò ai suoi ragazzi mentre, per accelerare la loro fuga, i morti scoccavano tranquillamente verso il cielo frecce incandescenti che illuminarono la riva come una pioggia di stelle. «Questo tè bianco chiamato Aghi d'Argento è stato preparato con la prima gemma del fiore sul punto di schiudersi in una notte di luna piena» diceva il Mandarino Tan, in un cinese perfetto, porgendo la tazza di porcellana con ambo le mani, in segno di rispetto. «Ne volete un po', HsiuTung?» «A meno che non preferiate quest'altro tè fermentato, Brume gelide delle Altitudini, fatto con le foglie bagnate dalla saliva di quegli insetti chiamati Perle di rugiada» proseguì dopo di lui il letterato Dinh con un accento altrettanto impeccabile. «Perdonate la mia scortesia» rispose Hsiu-Tung usando termini cinesi quantomai precisi, «ma queste bevande calde mi indispongono. In compenso, prenderei volentieri un sorso di quell'alcol di riso che mi sembra abbia un profumo delizioso». Seduto nel padiglione dalle travi laccate in riva a uno stagno costellato di ninfee, il Mandarino Tan era raggiante all'idea che Hsiu-Tung si degnasse infine di assaggiare lo spuntino portato dalla servetta i cui occhi, apparentemente bassi, avevano dardeggiato più volte sulla strana faccia del suo invitato. Le tazze fumanti di zuppa mattutina, quantunque preparata con fettuccine di soavissima morbidezza, erano state cortesemente respinte da Hsiu-Tung, e il letterato Dinh, con un'alzata di spalle divertita, si era fatto un punto d'onore di divorarle per aiutare l'amico. L'incontro non era affatto formale: il Mandarino indossava una confortevole casacca di seta grezza dove si abbisciavano, in motivi damascati, draghi con quattro artigli. Ai suoi capelli corvini era stato risparmiato, per stavolta, il berretto da Mandarino ad ali di sparviero, austero e solenne, e la
sua capigliatura era annodata semplicemente sotto una fascia a più giri. Nel vederlo così, nessuno avrebbe immaginato che quell'uomo era responsabile da oltre un anno della piccola provincia costiera. Estroso come al solito, il letterato Dinh aveva indossato una casacca giallo-zolfo che dava risalto ai suoi lineamenti affilati e sempre sul punto di cedere all'ironia. Dal canto suo, Hsiu-Tung, per tema di fare una scorrettezza, aveva indossato la sua tenuta di gala confezionata con una stoffa cangiante dove fili d'oro lumeggiavano dei ricami marezzati. Una cintura di organza nei toni ocra e carminio dava il tocco finale all'eleganza della casacca aperta, dal collo irrigidito da mille incrostazioni di conterie. Più rilassato, adesso, il Mandarino Tan piegò la gamba sinistra e mise il piede nudo sotto la coscia destra. Hsiu-Tung tentò d'imitarlo ma, essendo poco agile, dovette rinunciarvi. Per celare l'imbarazzo, l'invitato proseguì: «Siete riuscito a dare al vostro giardino un senso perfetto dell'armonia: i sassi dalle forme particolari, posti in mezzo a quei pini in miniatura, rappresentano mirabilmente le montagne del Nord, e il ruscelletto che serpeggia lungo il viottolo dà un tocco di baldanza alla composizione minerale». Il Mandarino sorrise con modestia, ma il complimento gli faceva chiaramente piacere. Gli occhi splendenti, chinò il capo: «La sua sistemazione deve molto al mio amico letterato Dinh, la cui sensibilità è notoria». In silenzio, contemplarono le linee serpeggianti del viottolo che scavalcava in più punti il corso d'acqua popolato di pesci-fiore, le cui code e natatoie si allargavano in corolle acquatiche. I raggi del sole, scivolando sulle tegole verniciate del ponte sottostante, disegnavano ombre affusolate sulle foglie dei bambù. «Da noi, i giardini privilegiano la simmetria degli elementi, cosa che voi in Oriente cercate di evitare con la vostra straordinaria padronanza delle curve naturali» proseguì Hsiu-Tung accarezzandosi la barba di un rosso insopportabile. «Effettivamente» concesse il letterato Dinh, che apprezzava i paragoni pertinenti e i commenti assennati dello straniero. «Noi qui pensiamo che il giardino debba fondersi nel macrocosmo e integrarsi in modo trasparente alla natura che ci circonda». Hsiu-Tung assentì con la testa minuta che sormontava un busto lungo e scarnito. L'estremo pallore del suo volto rivelava l'asceta. La bocca dalle labbra sottili sembrava nemica dei piatti raffinati. Il naso appuntito non era fatto per annusare le delizie profumate. La pelle diafana rivestiva come un
velo un po' floscio gli zigomi delicati e le guance concave. Di un azzurro mai visto e quasi sconcertante, più trasparenti di un'acquamarina, i suoi occhi si aprivano, immensi, tra palpebre molto increspate e orlate di ciglia gialle. Il Mandarino Tan, sorseggiando con eleganza un tè nero chiamato Falesia delle gru, lasciò che i suoi compagni dissertassero sulla sistemazione dei giardini, mentre si gustava la serenità del posto. D'improvviso, dopo aver salito i gradini a due a due, un uomo in divisa scura irruppe nel padiglione, scompigliando la quiete. La sua fronte coronata di capelli brizzolati era imperlata di gocce di sudore. «Mandarino Tan!» ansimò, senza fiato. «Vi reco notizia di un naufragio alla foce del fiume, laddove si getta nella Baia del Drago». S'inchinò tre volte, le mani rispettosamente giunte. Il Mandarino gli si avvicinò. «Capo della polizia Ky, ditemi se ci sono vittime». «Per un caso incredibile, ci sono soltanto due morti. L'anziano del villaggio che si trova nei pressi del luogo del naufragio ha dato l'allarme stamane. Ha accolto l'equipaggio nella sua capanna, nell'attesa che si inviino soccorsi dalla città. Ho già fatto partire un drappello all'alba, ma immagino che voi vogliate vedere il posto dove è avvenuto l'incidente». «In quali circostanze è avvenuto il naufragio?» domandò il magistrato. Ser Ky si piantò davanti ai tre uomini a braccia incrociate. «La giunca mercantile è stata costretta nella foce del fiume da assalitori in barca e trattenuta li fino al calo di marea. Quanto l'acqua si è ritratta, l'imbarcazione si è impalata...» «Su dei pali dalla punta ferrata» completò il Mandarino Tan, mentre una strana luce si accendeva nel suo sguardo. Hsiu-Tung, che aveva seguito la conversazione, sussultò, e ser Ky scosse la testa, ammirato. Il letterato Dinh e il Mandarino si scambiarono un'occhiata che valeva mille parole. Dinh notò il palpito di quella venuzza sulla tempia dell'amico, segno di una grande agitazione interiore. Facendo schioccare le falangi con aria risoluta, il giovane magistrato balzò in piedi. «Si approntino dei cavalli!» ordinò a ser Ky. «Se ci mettiamo in cammino adesso, saremo al villaggio stasera». Hsiu-Tung intervenne, tirandosi la barba arricciata come un vello di pecora. «Chiedo il permesso di accompagnarvi, dato che non dimentico d'esser stato io stesso vittima di un naufragio».
Volgendo verso l'ospite le spalle quadrate, il Mandarino sorrise: «Siete il benvenuto, Hsiu-Tung. Il letterato Dinh non apprezza molto le lunghe cavalcate, sicché sarà entusiasta di avere un compagno di strada con cui conversare di giardini e altre raffinatezze». Lo straniero arrossi di piacere e le sue pupille presero un colore d'acqua piovana. Dispiegando il lungo corpo scarnito, esitò un momento: «Ma, ditemi, Mandarino Tan, come avete indovinato le circostanze del naufragio?» L'indice alzato, il Mandarino rispose: «Per strada, il letterato Dinh e io vi terremo una lezione di storia del nostro paese». Il letterato Dinh si sentiva quasi brillante sulla sua cavalcatura, lui che aborriva le pazze cavalcate inflittegli regolarmente dal Mandarino Tan durante le loro sortite nei dintorni della città. In quelle uscite, non perdeva mai l'occasione di ricordare al magistrato l'esistenza di un mezzo di locomozione chiamato palanchino - assai pratico e poco stancante dato che la fatica era equamente distribuita fra bravi portatori -, ma l'altro faceva orecchie da mercante, più a suo agio sul cavallo di un aratore sul suo bufalo. La bassa estrazione contadina lascia degli strascichi, ruminava il letterato, stizzito. Ecco il frutto dei Concorsi Triennali: mandarini ingrati che disdegnano gli onori della loro funzione. Ma in quella fine di pomeriggio, mentre il sole giocava sul fiume facendone scaturire fasci di luce, Dinh, rigidamente appollaiato sul suo cavallo, si sentiva esperto in materia. Con una pedata ben assestata, riusciva a dirigere la sua cavalcatura dove voleva e, se lo avesse desiderato, avrebbe anche potuto farle fare capriole nell'erba grassa che costeggiava il corso d'acqua. In assoluto, la sua tecnica disastrosa non era migliorata ma, di fronte alla goffaggine di Hsiu-Tung, egli era in diritto di credersi un cavaliere provetto. Difatti l'altro, impacciato nella sua casacca di luce, si contorceva in modo penoso sul cavallo che la stoffa esageratamente ricamata cominciava a irritare. La sua alta carcassa veniva sballottata dal minimo sassolino, pencolando verso destra, poi riprendendosi in extremis per pencolare pericolosamente a sinistra. I suoi capelli fiammeggianti parevano lasciare una scia nell'aria, mentre la sua pelle lattea cominciava stranamente a virare al rosa per la calura. Le sue gambe erano interminabili, ma nonostante questo non riusciva ad aggrapparle ai fianchi della bestia, e tutto ciò conferiva un'aria di eleganza all'andatura scattante del letterato che cavalcava al
suo fianco. Stizzito per la prova mediocre che dava di sé, Hsiu-Tung farfugliò: «Noi gesuiti francesi impariamo tutto sull'astronomia, sulle scienze, per non parlare poi della religione, ma reggersi in sella non è mai stato argomento di lezione!» «Non esageriamo» intervenne il letterato Dinh, conciliante. «Non ve la cavate poi tanto male, Hsiu-Tung! Io stesso, che un po' me ne intendo, vi assicuro che non siete per niente ridicolo, seppure sballottato malamente dalla vostra cavalcatura». Il Mandarino era pienamente d'accordo con lui: «Il vostro contegno a cavallo non ha niente di disonorevole, anzi! Quella fastidiosa oscillazione è senz'altro dovuta alla vostra alta statura, poco acconcia ai cavalli del nostro paese, che preferiscono corpi più tarchiati, con fondamenta più stabili». Il gesuita abbozzò un sorriso pieno di riconoscenza. Dirigendo maldestramente la bestia verso l'ombra per proteggersi la pelle già scarlatta, tossicchiò. «Sono pronto per la lezione di storia, maestri!» Il Mandarino Tan si portò alla sua altezza e cominciò: «Saprete senza meno che questo paese è stato a lungo sotto il dominio cinese...» «Effettivamente, durante la mia permanenza in Cina mi hanno spesso parlato della sottomissione di questo Stato del Sud, ritenuto un possesso del Celeste Impero» rispose Hsiu-Tung annuendo. «Anche se in origine questa regione è stata colonizzata da popoli venuti dalla Cina, a un certo momento i rapporti con i cinesi sono diventati intollerabili». «Coloro che si erano insediati qui pretendevano un'indipendenza che la Cina non ha mai concesso» proseguì il letterato Dinh. «E quella sete di autonomia ha dato luogo a guerre su guerre». Reggendosi imprudentemente con una sola mano, mentre con l'altra si cincischiava la barba, il prete rischiò di cadere faccia a terra, ma fu agguantato giusto in tempo dal pugno soccorrevole del Mandarino Tan. Arrossendo per l'imbarazzo, Hsiu-Tung continuò: «Il Mandarino cinese che mi ha accolto in Cina me ne ha parlato più d'una volta. Riteneva intollerabile che un paese così piccolo osasse sfidare la sovranità dell'Impero, e mi ricordava spesso e volentieri le battaglie vinte contro i popoli del Sud, che una volta di più dimostravano la superiorità
cinese». Il Mandarino Tan strinse i pugni, lo sguardo ribollente. «Ci sono state guerre perdute, ma nella nostra memoria collettiva restano battaglie mitiche che hanno suggellato il nostro destino. Queste attesteranno sempre la nostra fierezza nazionale di fronte all'invasore!» «La battaglia del fiume Bach Dang fu una di quelle storiche offensive» lo sostenne Dinh, gli zigomi pallidi. «Era l'anno del Cane, circa seicentosettanta anni fa...» «Nel 938» mormorò Hsiu-Tung dopo un rapido calcolo mentale. «L'Imperatore cinese aveva inviato il figlio al comando di una flotta di giunche armate per esigere ulteriori tributi. Non contento di esaurire le nostre riserve d'argento, di orpimento, di legni preziosi, ne pretendeva sempre di più». Il sole che calava nel cielo colorò di riflessi purpurei il volto teso del Mandarino. Delle ciocche sfuggite al codino gli frustavano la schiena al ritmo della cavalcata. «Un uomo, un generale di nome Ngo Quyen, con un'arringa mirabile, convinse il popolo a dare battaglia. Il luogo scelto: il fiume Bach Dang». Chinandosi verso Hsiu-Tung, Dinh precisò: «È un corso d'acqua che si trova nella regione. Gettandosi nella Baia del Drago, ha la particolarità di essere sottoposto a forti maree fluviali che provocano fluttuazioni enormi nel livello dell'acqua. Fu questa la peculiarità che il generale decise di sfruttare». «Le barche delle sue truppe avevano il compito di attirare nella foce del fiume l'armata cinese proveniente dal mare aperto. Le giunche possenti seguirono le piccole imbarcazioni, certe di sterminarle» disse il Mandarino. Il letterato Dinh si raddrizzò sul cavallo con un colpo di reni poco ortodosso. «Ma lì le giunche furono circondate da altre barche, finché...» Calò il buio, di colpo. Il cielo malva virò improvvisamente al viola cupo, mentre la luna già alta illuminava come in pieno giorno i dintorni. «... l'acqua si ritrasse di colpo con la marea calante» riprese il Mandarino Tan. «E allora, dalle onde che gli invasori ritenevano inoffensive emersero file e file di pali dalla punta ferrata che il generale aveva fatto piantare nel letto del fiume. Le giunche s'impalarono su quelle picche, sventrate nell'acqua di questo Sud che i cinesi credevano sedato, e la flotta fu decimata dall'esercito di Ngo Quyen». Nel chiarore lunare, il giovane magistrato alzò un pugno vittorioso.
«Questi si proclamò imperatore di uno Stato libero che chiamò Dai Co Viet» concluse con un mormorio il letterato Dinh. «E, dall'avvento delle grandi dinastie nazionali, il nostro paese di chiama Dai Viet». Il volto di Hsiu-Tung splendeva flebilmente, una maschera stravolta, così pallida da dare i brividi. I fili d'oro della sua veste mandavano lampi smorti, come una nebbia di lucciole. «Ah, ora capisco!» disse il gesuita. «Il vostro popolo ha dato prova di un'intelligenza scaltra, sfruttando le minime particolarità della regione, traendo vantaggio dalla più piccola singolarità del terreno per ridurre a mal partito un invasore più potente e meglio armato! Chissà, forse questo abile discernimento vi aiuterà, negli anni a venire, a vincere altri giganti oppressori!» «Avete ragione, Hsiu-Tung. Quella strategia dei pali a punta ferrata è stata utilizzata un'altra volta nella nostra storia» riprese il Mandarino, riportando sulla retta via la cavalcatura dello straniero che sbandava verso il corso d'acqua. «Seicento anni dopo, il generale Tran Hung Dao imitò il suo illustre predecessore ingaggiando la seconda battaglia di Bach Dang, quella che vide la disfatta delle truppe mongole di Kubilai Khan, anch'esse sventrate dai micidiali pali». Hsiu-Tung scosse il capo. «È così che avete dedotto le circostanze del naufragio di ieri...» «Il fiume imboccato dalla giunca è in effetti simile in tutto e per tutto al fiume storico: anch'esso è governato da imponenti maree fluviali. L'imbarcazione è stata inseguita da barche più modeste e poi trattenuta in un punto preciso del corso d'acqua». «Insomma, si tratta di vittorie conseguite grazie all'intelligenza del più debole» osservò il gesuita. «Anche in Europa ci sono state battaglie navali vinte con l'astuzia. Sedici anni fa, per esempio, durante la rivolta dei Paesi Bassi contro il re dei Paesi Bassi e di Spagna, Anversa, una città con un numero considerevole di calvinisti, luterani e società libertarie, ha scelto il campo dei ribelli contro il Re Cattolicissimo. Assediati dagli spagnoli, che avevano costruito un ponte galleggiante sul fiume per bloccare i rifornimenti alla città, i difensori hanno affidato alla corrente una mina di nuovo tipo: si trattava di una barca il cui scafo era foderato di mattoni e colmo di un miscuglio di polvere e sale ammoniacale, sopra il quale erano stati posti alcuni strati di lastre di marmo, di ganci di ferro, sassi e chiodi. Coperta da un tetto di pietre pesanti, quell'enorme massa di esplosivo era destinata a provocare una deflagrazione obliqua e non verticale. Nel momento preciso
in cui gli spagnoli cercavano di deviare l'imbarcazione, un razzo lanciato contro lo scafo ha provocato un'esplosione che ha ucciso alcune centinaia di soldati. Erano così mutilati che non si è potuto stabilire il loro numero esatto. Quel macello apre sicuramente una nuova fase nell'arte della guerra». Il gesuita chiuse per un momento gli occhi, come se riflettesse sull'evoluzione subita, nello spazio di una sola detonazione, dalle strategie guerresche. «Dunque, nel caso attuale, abbiamo di nuovo lo scenario di un piccolo combattente che la vince su un avversario assai più grosso» riprese il prete. «Ma con quale implicazione?» La sua domanda aleggiò a lungo nella notte profumata di fiori selvatici. Soltanto le raganelle, rimpiattate nelle giunchiglie d'acqua, gli risposero. I cavalieri avanzarono in silenzio fino a quando, all'ansa del fiume, videro scintillare un rosario di luci. «Ah, ecco il villaggio del Gallo Rosso!» esclamò il Mandarino. «Raccoglieremo particolari più precisi su questo strano caso interrogando l'equipaggio. Ma, prima, saziamo di cibi fumanti i nostri corpi stremati!» Non ebbero il tempo di mettersi a tavola perché, avvicinatisi al villaggio, videro un gruppo d'uomini sguazzanti nel fiume fino alla cintola alla luce di grandi torce piantate sulle sponde. Una giunca sventrata giaceva su un fianco, le vele in parte strappate e la stiva squarciata, nera come una bocca spalancata. «Mandarino Tan!» esclamò un vecchio, che era palesemente il capo del villaggio. «Eccovi! Il capo della polizia Ky ha fatto il suo lavoro alla svelta». Il magistrato smontò, salutò l'uomo e presentò i suoi compagni. Puntando un braccio dalla pelle scurita dal sole verso il relitto, il vecchio commentò: «I miei uomini ci hanno messo una giornata intera a liberare i due corpi incastrati nella stiva, trafitti dai pali appuntiti». Allora capirono cosa stavano facendo gli uomini in acqua. Alzavano di conserva i corpi di due donne che sembravano pesare come una montagna. I cadaveri erano entrambi rotondetti, ma rifiutavano di galleggiare nonostante il loro adipe, appesantiti dagli indumenti zuppi, cosa che faceva ansimare i paesani. Il letterato Dinh, che di solito perdeva i sensi a ogni incontro con la morte, distolse gli occhi, le labbra serrate. Il Mandarino vide Hsiu-Tung abbozzare un gesto stranissimo con l'indice e il
medio, che andarono dalla fronte allo sterno, poi dalla spalla sinistra a quella destra, e lo sentì biascicare tra i peli della barba. Non ebbe il tempo d'interrogarlo circa quella pratica perché il suo sguardo fu imperiosamente attratto dai lineamenti sconvolti delle vittime. Una aveva ancora le rotondità della gioventù, mentre l'altra era di mezza età. I capelli sciolti, sparsi sui volti di un estremo pallore, parevano lunghi solchi neri, rughe profonde nella pelle enfiata. La bocca spalancata doveva essersi lasciata sfuggire con l'ultimo respiro un rantolo o un singhiozzo. Sui corpi c'era la ferita spalancata dei pali che li avevano trafitti. Perché non sono scappate dalla barca? si domandò il magistrato, pensoso. E cosa ci facevano, su quella giunca mercantile? «Morti viventi?» esclamò, sorpreso, il Mandarino Tan, ritraendo istintivamente i pollici nel palmo. «Siete sicuro di quello che dite?» «Sono pronto a giurarlo sulla testa di mia suocera» replicò il battelliere Lam. Nella sala comune del villaggio, le fiamme delle torce lambivano le alte travi scolpite, lasciando angoli pieni d'ombra. Il magistrato fremette, raggelato dal racconto del superstite. Dinh scuoteva la testa, incredulo. L'equipaggio al completo era raccolto attorno al vecchio battelliere, i ragazzi si stringevano l'uno contro l'altro, come per proteggersi da un pericolo ancora nell'aria. Il capo del villaggio aveva spinto avanti delle comode poltrone per i suoi ospiti di riguardo e si teneva, pieno di rispetto, un po' in disparte, in un punto da cui poteva osservare senza sconvenienza il gigante dinoccolato dalla zazzera di un rosso intenso e dalla pelle traslucida. «Ci inseguivano, silenziosi, nel loro sudario» precisò il Mango, incoraggiato dalla descrizione realistica del suo padrone. «Dicono che se un cadavere risuscitato ti tocca, diventi come lui, privato del sangue e della virilità». Il Mandarino annuì. In verità aveva già sentito racconti degni di fede che dicevano la stessa cosa. «Come si comportavano?» interloquì Dinh, sul punto d'irritarsi per quelle fole di fantasmi. «Erano agitati, collerici, affamati?» «No, al contrario, avevano l'aria apatica, addirittura abbacchiata. Non sorprende da parte di gente defunta, no?» Era stato Huy a prendere la parola e, al timbro delicato della sua voce, Dinh si voltò. Fu colpito suo malgrado da quegli occhi di velluto e dalla pelle di pesca. Cosa importava se il giovane diceva sciocchezze?
«Ammettiamolo pure» disse, addolcito. «Se erano indolenti come affermi, dove hanno trovato la forza di tendere gli archi?» «Ebbe', soltanto il comandante di ogni barca ha scoccato una freccia. Gli altri si sono limitati a sostenerlo moralmente». Soia, che voleva dire la sua, intervenne: «Lo credo bene! Erano del tutto decomposti, con una pelle bianca da far venire il vomito...» Appena ebbe pronunciato queste parole, il giovane si rese conto dell'indelicatezza. Il collo ritratto nelle spalle, lanciò un'occhiata sgomenta verso Hsiu-Tung, che fece un gesto benevolo con la mano. Per riscattarsi, Soia riprese prontamente: «Bisogna dire che quei cadaveri fetenti miravano bene! Ci hanno lanciato in faccia bestie intinte nel sangue. C'è da ringraziare il cielo che non abbiano sacrificato le loro stesse viscere per la causa!» Il Mandarino si agitò sulla sedia, aggrottando le sopracciglia. Era cosa certa che la giunca era stata arrembata da cadaveri col piede marino, ma a quale scopo? «A chi apparteneva la barca?» domandò al vecchio Lam. «Era di proprietà dell'armatore Phung che fa il trasportatore per lo Stato». «Trasportatore di cosa?» domandò il letterato Dinh. «Cosa portava precisamente la giunca?» «Ser Phung mette a disposizione le sue navi per trasportare spezie, metalli e derrate da un porto all'altro. Stavolta il carico comprendeva barili di cera d'api, zolfo, salnitro, delle porcellane... La solita mercanzia, insomma». «Ma allora, perché la presenza delle due donne trovate morte?» domandò il Mandarino Tan in tono severo. Il vecchio dondolò sui piedi screpolati e sputò per terra per schiarirsi la voce. «Ah, questo è da chiedere alla signora Aconito! È stata lei a imbarcare quelle malate. Erano due prigioniere di cui si occupava la signora, io non le conoscevo!» «Esportavate anche quelle?» buttò lì, sarcastico, il letterato. «Certo che no! Il nostro compito era di lasciarle sull'Isola delle Tombe, dove sarebbero state accolte da una colonia di lebbrosi». Il Mandarino si chinò verso il battelliere. «Non si direbbe che fossero lebbrose. Il loro volto e le loro membra so-
no intatti. Spiegatevi!» «Ignoro i particolari della loro affezione, signore! È stata la signora Aconito a certificare che erano malate. D'altronde, quelle donne non erano più di primo pelo, e non smettevano di gemere come moribonde». «E voi vi siete buttati in acqua per scappare senza aiutarle? Un equipaggio davvero coraggioso!» «Ma, signore» si difese il battelliere Lam, «la giunca galleggiava ancora quando l'abbiamo lasciata. Quelle donne avevano tutto il tempo di andarsene, ve l'assicuro!» Una raffica di vento entrò dalla finestra aperta e spense la fiamma di una grossa lanterna. Istintivamente, i ragazzi fecero un passo verso il Mandarino Tan, che rifletteva, lo sguardo assente. Dinh studiava quei volti di ragazzi agli ordini di un vecchio, e Hsiu-Tung, con gesto meccanico, rovistava nella barba ispida. Nel silenzio che si accampò, Huy fece osservare: «Strana cosa, dei morti che inseguono delle moribonde!» La colonna d'acqua si disintegrò in mille perle di cristallo, e onde concentriche si allargarono sulla superficie del fiume. Hsiu-Tung, liberatosi della veste di gala per ritrovarsi in costume adamitico, si era appena buttato in acqua. Riparando con la mano i panini fumanti che divorava con appetito, il Mandarino Tan si meravigliò. «Tutti i francesi sono come voi, Hsiu-Tung? Disdegnano le pietanze squisite e amano gettarsi nudi nell'acqua gelida?» Lo straniero sguazzava nelle onde, i capelli zuppi trasformati in strani riccioli fitti. Le sue spalle emergevano, luminose, nella penombra. «Ricredetevi, Mandarino Tan! Io non rappresento davvero il modello base dei miei concittadini! Costoro prediligono un'alimentazione raffinata e abbondante, anche un po' grassa, e rifuggono i bagni come un gatto diffidente». Seduto nell'erba, il Mandarino Tan si gustava quell'istante raro illuminato dallo sfondo diffuso delle stelle. Lo sciabordio dell'acqua lo cullava e, per un momento, si beò a immaginarsi giovane pescatore intento a riposare con altri suoi pari. Erano anni che non si lasciava andare a quel modo, sempre conscio della sua carica di magistrato e di tutti gli obblighi che essa comportava. In quel preciso momento, col favore dell'oscurità, in un luogo pressoché deserto, egli ritrovava un po' di quella libertà che gli era tanto mancata. Al suo fianco, il letterato Dinh, sgranocchiando una torta di
fagioli, cercava una posizione confortevole, addossato a un masso dalle forme levigate. «Poco fa» disse, rivolto a Hsiu-Tung, «avete colto l'allusione - ehm... indelicata - del giovane Soia, all'interno di una conversazione che si è svolta tutta in lingua nazionale. Dunque, parlate un po' anche la nostra lingua, oltre al cinese?» Il gesuita, che si frizionava vigorosamente nell'acqua fredda, alzò un volto gocciante. Il suo sguardo s'illuminò. «Parlare è una parola grossa. Riesco a capire ciò che si dice, ma è pur vero che seguendo l'esempio del nostro maestro, Matteo Ricci, tutti i gesuiti si sforzano di imparare la lingua del paese in cui si trovano e di adottarne i costumi. Matteo Ricci padroneggiava il cinese a tal punto che era in grado di tradurre dei testi scientifici latini. Per rispetto alla popolazione locale, si vestiva anche come un Mandarino. Del resto, tutti assumiamo un nome alla cinese. Hsiu-Tung, per esempio, significa Coltivare all'Est». Alzò le braccia per sfregarsi la schiena, e il Mandarino Tan vide con sorpresa che il suo torso era coperto da un vello rossiccio e arricciato. Quegli stranieri erano dunque quasi completamente coperti di peli, anche nei punti più improbabili! «Io stesso» continuò il gesuita, «ho imparato il cinese durante la mia permanenza in Cina, presso il Mandarino che mi ha accolto. In cambio di qualche lezione di astronomia, avevo vitto e alloggio, cosa che mi ha consentito di impratichirmi un po' degli usi e costumi del paese». «Perché allora avete lasciato la Cina?» domandò il Mandarino, attaccando la terza pagnotta farcita di carne speziata. In acqua, Hsiu-Tung esitò per un momento. «Il mio protettore è morto, non sapevo più dove andare. Ho dunque deciso di salire sulla prima nave in partenza per l'Europa. Ma i monsoni hanno deciso altrimenti». Fece un sorrisino e si asciugò la barba. «Dopo il naufragio dell'imbarcazione che mi trasportava, mi avete fatto l'onore di ospitarmi fino alla partenza della prossima nave...» Il magistrato fece un piccolo cenno con la mano. «Bah, i venti del monsone non soffieranno tanto presto!» «Disilludetevi, caro amico! Tra pochi giorni una caravella portoghese farà scalo in porto prima di partire per la Malesia, e io conto di salirvi a bordo! È tempo che porti in Europa tutto ciò che ho appreso in Oriente». Stringendosi le narici, Hsiu-Tung s'immerse nelle onde e fece alcune
bracciate sott'acqua. Dalla sponda, il Mandarino aveva l'impressione che un'anguilla gigantesca o un polpo pellucido si muovesse sotto la superficie. In capo a un momento, il gesuita emerse, respirando a fatica. Facendo leva sulle braccia magre, si alzò sulla riva. Il letterato Dinh e il Mandarino si scambiarono un'occhiata costernata. Lungo la schiena del loro amico, in violento contrasto con il candore immacolato della pelle, un rosario di piaghe scarlatte gli si avvolgeva come un serpente alla colonna vertebrale. L'alba chiara dava una trasparenza di diamante al fiume che passava poco sotto il villaggio. Un gallo dalla cresta dentellata sorvegliava le galline che becchettavano in cortile. Più in là, con passo rigido, un pavone faceva la sua passeggiata mattutina, l'ampia coda che, a mo' di scopa principesca, alzava la polvere rossa. La locanda aveva appena aperto quando un viaggiatore si accasciò contro lo stipite dell'ingresso. Il letterato Dinh si distolse dalla colazione mattutina per osservare il nuovo venuto. I capelli scarmigliati e il petto che si alzava a scatti, sembrava sul punto di venir meno. «Locandiere!» esclamò tra uno sputacchio e l'altro. «Prepara un bagno caldo e una zuppa di trippa per il mio padrone! Mettici tutti i grumi di sangue cagliato che hai sottomano e soprattutto non lesinare i polmoni di bue! Puoi metterci tutti gli spicchi d'aglio che vuoi, il padrone li mangia senza problemi». Il letterato represse una smorfia di disgusto. Soltanto un essere depravato poteva ingozzarsi di simili orrori e continuare a rivendicare l'appartenenza alla specie umana. «Chi arriva da 'ste parti così di buonora?» domandò il locandiere, gongolando intimamente all'idea di sbolognare le sue scorte di frattaglie. Il viaggiatore si spolverò i calzoni con il dorso della mano. «Un grand'uomo, a suo dire, ma in verità un tiranno che non sa d'esser tale! Mi ha buttato giù dal letto che era ancora buio pesto e mi ha ordinato di preparare il suo arrivo nel tuo villaggio. Gli occorrono le sue comodità e i suoi piatti prediletti, in caso contrario è di umor nero. Dunque, sbrigati a far bollire l'acqua per il bagno e la zuppa!» Nel momento in cui il locandiere rientrava nella cucina dal tetto basso, si sentirono in cortile degli ansimi rumorosi. Dinh lanciò un'occhiata curiosa dalla finestra, poi annuì con aria saputa. Aveva indovinato. Il tiranno annunciato era arrivato in una lussuosa amaca sorretta da uomini stremati. Le gote esangui, parevano sul punto di spirare. Non appena
deposto il carico, si accasciarono sul bordo della strada imprecando a più non posso. «Ho le reni rotte e le ginocchia a pezzi» si lamentò uno, la bava alla bocca. «In futuro, bisogna rifiutare carichi così mostruosi» replicò l'altro, tossendo e sputacchiando. Un piede superbamente calzato si posò con eleganza sul terreno polveroso. Dalla portantina si alzò allora un uomo d'una corpulenza fuori del comune e di una bellezza soprannaturale. Il suo viso dalle proporzioni classiche denotava una grande educazione. Sopracciglia accuratamente depilate sormontavano occhi a mandorla la cui vivacità tradiva l'intelligenza della persona. Dopo essersi lisciato sul petto femmineo una tunica di seta cruda, il nuovo venuto si rassettò i pantaloni di un'ampiezza mostruosa. Rivolgendosi ai portatori esausti, gettò loro di malavoglia, ma con aria magnanima, alcuni sapechi. «Tenete, per la vostra corsa! Non ringraziatemi per la mia generosità! Un altro vi avrebbe dato la metà, tenuto conto della vostra inammissibile lentezza!» Scorgendo il pavone che lo squadrava con insolenza, l'uomo gli si piantò davanti, la pancia in fuori e lo sguardo altero. In risposta, l'uccello dispiegò una coda tempestata di mille gioielli che s'incendiarono alla luce del sole. Offeso, il viaggiatore s'infilò nella locanda. «Eccomi qua!» urlò nella sala da pranzo quasi deserta. «È pronta la mia zuppa?» Lentamente, Dinh si voltò e disse in tono tetro: «Ah! siete voi, dottor Porco. Credo che il locandiere sia intento a sbuzzare il pollame e ad ammazzare i buoi per la vostra zuppa al sangue». «Letterato Dinh!» esclamò il nuovo venuto, raggiante in volto. «Ho ricevuto il messaggio del Mandarino Tan ieri notte, tornando da una riunione. Mi sono subito messo in cammino col mio servo, ma abbiamo dovuto pernottare strada facendo. I soli portatori che sono riuscito a trovare arrancavano come lumache mal nutrite. Il viaggio mi ha sfinito e muoio di fame». Andò ad annusare il pasto vegetariano di Dinh e arretrò disgustato. «Ah, sì, dimenticavo, voi mangiate soltanto erba». Sedendosi davanti a lui, emise un sospiro di piacere. «Pare che ci siano dei cadaveri da esaminare!» «Due donne ripescate nel fiume, ieri sera. Bisognerebbe stabilire le cir-
costanze del loro decesso». Il dottor Porco rise mostrando dentini a punta, perfettamente allineati. Le sue guance lisce si abbellirono di fossette gemelle e lui si sfregò le mani, palesemente festante. «Con piacere! Non appena mi sarò rifocillato, mi metterò al lavoro! A meno che non ci sia urgenza... In tal caso, porterò con me una tazza di zuppa che consumerò sul posto». Lo stomaco a fior di labbra, Dinh mormorò: «No, non c'è fretta. Le vittime sono già morte da un pezzo». Con un coltello affilato, il dottor Porco tagliò la veste della giovane dagli occhi chiusi, liberando un petto ampio ma appiattito. La carne ammollata, di una consistenza cerea, contrastava con le commessure rosate della ferita provocata dall'impalamento. La picca aveva dilaniato il busto, attraversando tutto lo spessore del torace, e i paesani che erano riusciti a estrarre la vittima dalla giunca non avevano fatto altro che ingrandire la spaventosa ferita. Il medico, masticando allegramente, procedette con la seconda donna stesa lì accanto, le cui mammelle erano vizze come fichi secchi. Anche questa presentava la stessa lesione, ma all'altezza del ventre che era stato trafitto dal micidiale palo. A parte ciò, la metà superiore del corpo era intatta. Con cautela, il dottore tolse ai cadaveri i pantaloni svolazzanti, liberando gambe grassocce. Chino sui cadaveri, aveva temporaneamente abbandonato la ciotola che si era portato dietro. D'un tratto, lanciò un nitrito gioioso, dandosi febbrilmente da fare attorno alla prima donna. «Venite, Mandarino Tan! C'è qualcosa di strano sul corpo delle vittime...» Il Mandarino, che si era rifugiato accanto alla finestra dopo averla spalancata, s'irrigidì. Da quando era entrato in quella stanza fredda al seguito del dottore dal passo battagliero e aveva finto d'interessarsi al gelsomino che si abbarbicava al davanzale, aveva scrutato a fondo le lucertole sul muro esterno, gli occhi distolti dai due cadaveri sui quali il dottore si era avventato con un avido schiocco di lingua. Al suo solito, l'amico Dinh aveva vilmente addotto a pretesto qualche impedimento per non accompagnarlo dai morti. Adesso, chiamato dall'impaziente medico, il giovane doveva decidersi ad affrontare l'odore dolciastro dei corpi raggelati. «Di cosa parlate, dottor Porco?» domandò in tono smorto. «Avvicinatevi e ve lo mostro, signore!» La schiena colossale percorsa da fremiti, il medico scalpicciava per l'ec-
citazione. «Guardate i segni d'incisione sull'interno della coscia della signorina» disse quando il Mandarino l'ebbe raggiunto. «Due coltellate su ogni gamba, inferte con una certa violenza nel grasso, a giudicare da questi lembi di carne lacera». Con un dito dall'unghia ben curata, scostò i bordi pallidi del taglio perché il magistrato ne verificasse la profondità. «Toccate e sentite come il coltello ha frugato nella coscia!» «No, senza complimenti, davvero. Siete voi l'esperto» si affrettò a rispondere il Mandarino. Il dottore lo lasciò osservare da una distanza rispettabile e ne approfittò per mangiucchiare un po' di pasticcio. «La ferita non è nel senso della lunghezza» disse il Mandarino in punta di labbra. «Perché aver praticato un'incisione così punticolare? Ci sono tracce simili sull'altro corpo?» «Identiche, vorrete dire! Hanno inciso anche la gamba della donna più anziana, nello stesso punto della coscia» rispose l'altro togliendosi un pezzetto di carne dai denti. Il Mandarino esaminava quei segni che indicavano altrettanti colpi di punteruolo nella carne flaccida. Strana faccenda! «Sono state queste ferite a causare la morte delle poverette?» «Indirettamente, sì. La punta del coltello ha raggiunto l'arteria femorale provocando un'emorragia mortale. È proprio il modo in cui si dissangua il maiale per ricuperarne tutto il sangue». La luna splende come l'occhio di una sgualdrina La vecchia dorme come una morta Libero come il soffio di una farfalla L'uomo abbraccia gli amici E afferra la brocca dell'alcol. Le parole della canzone popolare s'impastavano nella bocca del vecchio taglialegna, come diluite dagli effluvi dell'alcol di riso che gli tornava inopinatamente su con forti eruttazioni. Sul sentiero deserto, si beava nel sentire la propria voce arrochita, soprattutto da quando la luna era sprofondata dietro le palme e si era alzato un venticello più fresco del solito. La sera passata in bisboccia in città, in compagnia degli amici, si chiudeva con le viscere in fiamme e un'andatura a dir poco sinuosa. Più volte l'uomo si era
scontrato con un tronco d'albero sorto misteriosamente dal buio, ed era inciampato su sassi della grossezza di un pugno. I canti e le battute salaci dei suoi compagni gli echeggiavano in testa con toni cavernosi che finivano di disorientarlo. Sogghignò. Tanto valeva approfittare di quegli ultimi momenti di relativa quiete giacché la sua vecchia, risuscitata all'improvviso, sarebbe saltata su dal pagliericcio come una furia non appena lui avesse messo piede nella capanna. E i rimbrotti sarebbero piovuti più fitti di una pioggia di sassi. «Dove sono finiti i soldi del mangiare? Quale donnaccia ha avuto il coraggio di cavalcare la tua magra carcassa? I tuoi amici ti hanno fatto pagare da bere anche stavolta?» Il taglialegna sputò per terra. La vita coniugale evolveva invariabilmente a quel modo. La ragazza stuzzicata al mattino si trasformava in un'arpia la sera, le mammelle tonde diventavano un paio di manghi vizzi, il viso sottile si gonfiava come una pelle di tamburo. Il suo piede scontrò di nuovo una radice e l'uomo rotolò nella polvere. Steso sulla schiena, il taglialegna contemplò per un momento la volta stellata, poi si rimise a fatica in piedi perché la sua vescica sul punto di scoppiare reclamava un sollievo immediato. Scorto un albero, si stava liberando con soddisfazione quando un rumore metallico lo fece sussultare. Voltatosi di scatto, si rese conto che stava costeggiando un cimitero. Eroicamente, bloccò il flusso abbondante, perché era una mancanza di rispetto annaffiare il territorio dei morti. Per precauzione, chiuse i pollici nel palmo della mano: non bisognava dare appigli ai demoni, che potevano portarti dentro i loro antri e divorarti in men che non si dica il fegato dopo averti fatto a pezzi. Nondimeno, il rumore che aveva sentito lo preoccupava. Un cimitero è abitato da morti, e i morti non si muovono. Gli occhi sgranati, fissò le file di steli massicce. Alla fioca luce, riusciva a distinguere le ciotole di cenere dov'erano conficcati i bastoncini d'incenso. La sua immaginazione gli suggerì insidiosamente che si trattava delle ceneri dei morti sormontate da una scheggia d'osso, e un filo di sudore diaccio gli colò sulla schiena. Cercò invano di scacciare quell'idea spaventosa e di proseguire ma, suo malgrado, i piedi presero a dirigersi verso le tombe, irresistibilmente attratti dalla coppetta di polvere grigia. D'un tratto, restò come paralizzato. Con un fragore assordante, una pietra tombale era crollata. E allora egli vide una sagoma stagliarsi contro il tumulo. Il volto splendente di una luce verdognola, lo spettro pareva uscito dalla terra, e con il dorso della mano cominciò a spolverarsi i cenci che gli ricoprivano il corpo.
«Maledizione!» pensò il taglialegna, la cui mente si empì di spavento. «I morti si stanno alzando in questa notte maledetta! Quello ha appena rovesciato la lapide e non tarderà a succhiarmi il midollo!» Come a dargli ragione, una seconda stele si abbatté, liberando un altro corpo che si massaggiò le spalle facendo cricchiare il collo. Il suono delle vertebre che sfregavano l'una contro l'altra e lo scricchiolio delle giunture mal oleate colmarono il vecchio di terrore. «Gli scheletri si rimettono in piedi come da vivi! Non appena avranno riposto il femore nel bacino m'inseguiranno. Non ho voglia di prendere il loro posto nel buco immondo!» Quest'ultimo pensiero finì di terrorizzarlo, e l'uomo decise di darsela a gambe. Ma, facendo dietrofront, rovesciò una ciotola di cenere e, le narici piene di quella tremenda polvere di morto, starnutì rumorosamente. I due cadaveri si voltarono, esibendo una carne livida, mentre altre forme emergevano dal buio. Davanti a quei corpi esumati che lo fissavano con occhi feroci, il taglialegna ritrovò agevolmente una vivacità di giovincello e, con falcate velocizzate dal panico, corse a gambe levate verso la città. «Non hai alcuna scusa per il tuo atto inqualificabile!» La correggia di pelle intrecciata si svolse, un serpente dal corpo nodoso che si attorse più volte prima di stendersi con un sibilo. Azzannò la carne nuda del prigioniero in ginocchio, scavando un solco chiaro che si empi subito di un fiotto di sangue. L'uomo urlò di dolore, le reni arcuate sotto il colpo. «Non c'è cosa più vile che cercare di gabbare un compagno di sventura! Mi senti?» Poiché il prigioniero non proferiva motto, i denti serrati e lo sguardo cattivo, la frusta cantò di nuovo in aria e si abbatté, spietata. L'uomo ansimava, il capo chino. La sua schiena ora del tutto lacerata ebbe ragione della sua cocciutaggine. Aprì la bocca impastata e disse: «Sì!» La correggia scattò, una linea nera che barrava lo spazio, e tracciò un altro arco di sangue sulla schiena curva. «Sì e poi?» «Sì, signora!» urlò il prigioniero, spazzata via ogni resistenza. Appoggiato a un baniano, il volto in ombra, il Mandarino Tan non poté fare a meno di pensare: «Che donna! Eccelle nel maneggiare la frusta come altri si distinguono nel lancio del coltello. Meglio essere Mandarino
che prigioniero con i tempi che corrono...» Le narici solleticate dagli odori di cucina che pervadevano il sozzo cortile, seguiva da un po' la scena che si svolgeva ai piedi degli edifici. Nessuno aveva notato il suo arrivo e il magistrato si era scelto un posto discreto da cui osservava con interesse la flagellazione pubblica. Il sole era appena sorto sui tetti decrepiti della prigione, colorandoli di un rosa soffuso, e lui già indagava sul caso, incuriosito dagli strani particolari sulla morte delle due poverette ripescate alla foce del fiume. Optando per una casacca priva di ornamenti, i capelli raccolti in un turbante, poteva passare per un comune cittadino nella luce smorta dell'alba. Dalla sua postazione, vide i detenuti che avevano assistito alla punizione in file serrate, muti e sottomessi, mormorare parole di consenso e annuire col capo, pieni di rispetto per la donna dalle trecce seriche. Costei, con un cenno del mento, fece capire che la sentenza era eseguita, e due uomini in divisa si precipitarono per trascinare il colpevole verso il dormitorio. Gli altri si dispersero con commenti bisbigliati, visibilmente edificati dalla lezione appena seguita. La donna, vestita con una semplice giacca e pantaloni di cotonina, si coprì gli avambracci che aveva denudato per maneggiare la frusta. Il suo volto aristocratico era imperturbabile, le sopracciglia appena aggrottate per lo sforzo. Con la mano, buttò indietro un ciuffo nero che le cadeva sugli occhi, e il sole catturò un lampo d'oro scaturito dalle sue pupille. Poi, contro ogni aspettativa, ruotò su se stessa e fece sibilare un'altra volta la striscia di cuoio. La polvere volò attorno al Mandarino, proiettata violentemente in aria dalla frusta che gli lambì gli alluci. «A noi, adesso!» disse la donna, i pugni sui fianchi. Tossicchiando, il Mandarino Tan avanzò, come ipnotizzato dal gesto insolente della giovane. «Signorina Aconito, sono il Mandarino Tan e devo farvi qualche domanda». «Signora Aconito» rettificò la carceriera con un sorrisino sbieco. «Sono vedova». «Tutte le mie scuse» farfugliò il magistrato, stizzito per il proprio imbarazzo. La signora Aconito piantò lo sguardo beffardo negli occhi del Mandarino e disse in tono leggero: «Vi rassicuro: non sono avvezza a maltrattare gli uomini, nonostante la
scena cui avete appena assistito. Saprete senz'altro che in quanto responsabile dei prigionieri devo fare regnare la giustizia, quando occorre. In fin dei conti, non siamo molto diversi, voi e io». «Io maneggio la frusta meno bene di voi, signora». Puntando il dito verso il posto ora deserto, il Mandarino domandò: «Qual era la colpa dell'uomo che avete straziato?» «Lo scellerato aveva rubato la razione di riso del suo compagno, un essere debole e vulnerabile. Non tollero simili soprusi. Questi uomini e donne non sono dei criminali incalliti, giusto dei piccoli malfattori, borseggiatori, miseri truffatori, che scontano qui la pena. Nondimeno, tra di loro si trovano anche briganti di strada. Costoro, per il fatto di aver già fatto scorrere il sangue, si credono autorizzati a esigere dai loro compagni un rispetto immeritato. Colui che ho appena punito era per l'appunto uno di quei briganti. Non voglio che un caporione faccia regnare il terrore nel gruppo». Mentre la signora Aconito buttava all'indietro le trecce flessuose come due corregge di frusta, il Mandarino rispose: «E le due donne che avete messo sulla giunca dell'armatore Phung? Saprete sicuramente che sono state trovate cadaveri dopo il naufragio dell'imbarcazione». La giovane fece guizzare le palpebre e per un momento le sue ciglia coprirono le pupille color ambra. «Me l'hanno riferito, in effetti. Quelle due donne erano malate, e ho fatto firmare il loro foglio di uscita per separarle dagli altri prigionieri. Nelle baracche, ci vuol niente perché un male si trasformi in epidemia». «Nondimeno, è cosa insolita farle partire su una giunca mercantile». «Certo, ma non mi andava di tenere sotto la mia custodia due ribelli che, invece di occuparsi della costruzione navale e altri lavori pubblici assegnati ai detenuti, non hanno trovato di meglio che tentare la fuga». «Come? Erano scappate?» sbottò il Mandarino. «Ve lo sto dicendo» replicò la signora Aconito con un'alzata di spalle. «Non volevano aspettare che la loro buona condotta le riscattasse dalle sciocchezze commesse e avevano tentato di andarsene prima della scadenza della loro pena. Mal gliene è incolto, perché sono tornate due mesi dopo, malate e febbricitanti, implorando la mia clemenza». Con un senso di trionfo che non sapeva spiegarsi, il Mandarino fece osservare: «La vostra sorveglianza, per draconiana che sia, non è dunque senza pecche».
Lo sguardo più freddo di una lama, la signora Aconito lo squadrò. «Non dimenticate che questi prigionieri non sono dei criminali. Sanno che, dando soddisfazione, ritroveranno presto la libertà. Trovo inutile mettere canghe e incatenare». In quel momento, un gruppo di uomini e donne passarono sotto il portale sormontato da animali marini scolpiti nella pietra. Con aria stremata, strascicavano i piedi portando pale e picchi infangati. Gli uni si tenevano le reni, gli altri flettevano le ginocchia per dare sollievo alle articolazioni. Passando davanti alla carceriera, fecero un cenno del capo rispettosissimo e si radunarono sul lato opposto del cortile. «Ecco la squadra del turno di notte» spiegò la signora Aconito. «Quei prigionieri hanno l'incarico di riparare la strada principale, troppo frequentata di giorno. È un compito sfibrante, ma le notti contano il doppio nel calcolo delle pene. Devo perquisirli prima che vadano a dormire, per accertare che non nascondano armi sotto gli indumenti». Dopo un rapido saluto, la donna si allontanò, la capigliatura che le batteva sulla schiena perfettamente dritta. Il Mandarino Tan la guardò andar via con il senso di una conversazione bruscamente interrotta che lui avrebbe voluto prolungare con qualsiasi pretesto. Prendendosela con se stesso, si sforzò di concentrare l'attenzione sul controllo dei prigionieri. Il gruppo si era diviso in due, gli uomini sotto la custodia di una guardia dall'aspetto severo e le donne sotto quella della signora Aconito. In tono autoritario, costei fece entrare le prigioniere nelle baracche, mentre il suo collega intimava agli uomini di spogliarsi. Il Mandarino vide allora gli indumenti rattoppati cadere a uno a uno e mettere a nudo corpi magri, segnati dal lavoro e da una vita tumultuosa. La guardia li ispezionò cautamente sotto le ascelle e lungo le gambe, tastando qui e là per sgravio di coscienza. Soddisfatto dell'esame, l'uomo li congedò con un cenno della mano, e i prigionieri raggiunsero in fretta il loro pagliericcio dove crollarono nell'attesa della prossima notte di lavoro. Mentre la guardia si accovacciava sui talloni per mangiare una polpetta di riso tratta dalla tasca, il Mandarino l'avvicinò. «Dite, la vostra direttrice sembra di un'efficienza temibile. Deve governare la prigione con pugno di ferro». «Non sapete quanto dite bene» annuì l'altro alzandosi. «La signora Aconito è di un'intransigenza degna di un uomo! Con lei non si scherza: ha la frusta lesta, come sicuramente avrete constatato. Sono due anni che lavora con noi, e nessuno ha mai dovuto lamentarsi di lei».
«Nondimeno» disse il Mandarino Tan, «questo lavoro di carceriera non sembra all'altezza della sua condizione. Non è di nobili natali? Insomma, a giudicare dalla dizione impeccabile e dalla sua vivacità...» L'altro lo guardò divertito mentre una ruga gli incavava le guance abbronzate. «Disilludetevi, signore! Nonostante le sue arie di drago femmina, la direttrice è un'errante che con questo lavoro si guadagna da vivere». Sorpreso da ciò che aveva appena appreso, il Mandarino insistette: «Errante? Ciò significa che qualche cittadino sedentario si è fatto garante della signora Aconito. In caso contrario non potrebbe lavorare per la gente della città...» «Proprio così! Si tratta dell'eunuco Clemenza, responsabile degli affari portuali e per l'appunto amministratore della prigione». Voltatosi, il Mandarino vide aprirsi la porta del dormitorio femminile. La signora Aconito uscì, i lineamenti insondabili e il portamento altero. Con un movimento della nuca fece volare le trecce e scostò dalla fronte il ciuffo ribelle. Era un'impressione o gli aveva scoccato un'occhiata piena di diffidenza, scorgendolo in compagnia del suo collega? Errante, vedova, tigre... chi era, esattamente, quella donna? si domandò il magistrato, colpito suo malgrado. Gli erranti disprezzavano la gente di città e le loro leggi. Nel corso della loro vita andavano alla deriva come gli scansafatiche o i vagabondi. I sedentari li odiavano e li cacciavano dalle città. Rari tuttavia erano coloro che desideravano migliorare la propria sorte miserevole trovandosi un'occupazione in città. Spigolare il cibo su campi già mietuti, dormire all'aperto... a loro poco importava, purché fossero liberi da ogni lavoro e avessero soltanto l'orizzonte come confine. Per quali rovesci di fortuna la signora Aconito era decaduta al rango di errante, e dove trovava l'energia per risalire al rango dei sedentari? La città si destava dolcemente ai rumori del mercato che si era appena insediato all'ombra delle piante. I contadini avevano già tirato fuori zucche, cavoli e lenticchie d'acqua non lontano dal recinto del bestiame. I maiali dal grugno insaccato si rotolavano nella polvere, dimentichi della loro fine imminente; e le galline chiocciavano sotto lo sguardo critico dei passanti che ne valutavano il peso in carne e piume. Dalla baia erano arrivati granchi e anguille che si sarebbero mescolati intimamente in una futura padellata, accompagnati da una manciata di gamberetti scapocchiati. Dei serpenti acciambellati nelle ceste di giunco attiravano speziali in cerca di
fortificanti per i clienti dallo stelo vizzo, a meno che qualche speziale non cucinasse prima quelle leccornie secondo la ricetta del giorno. Tutta quella gente si apriva un varco tra i banchi di frutta e di pesci, contrattando a voce alta e contando con cura i sapechi. Fendendo la folla che si aggirava in cerca del buon affare, c'era chi andava a passo deciso verso un edificio imponente fiancheggiato da draghi di pietra il cui ingresso era sorvegliato da guardie. Il tribunale era il luogo d'appuntamento di querelanti e querelati, ladri e derubati, che andavano a spiattellare le loro lagnanze e a difendere la loro reputazione, un luogo in cui la menzogna si trasformava a volte in mezza verità grazie a parole abili e a testimonianze false. Nondimeno, ci voleva una buona dose d'incoscienza o di stupidità per tentare di gabbare la giustizia, giacché da un anno in qua essa era difesa da un giovane insensibile tanto alle piaggerie quanto alle regalie, un magistrato che - si diceva - era l'incubo dei malfattori di ogni sorta: il Mandarino Tan. Quel mattino, le guardie furono rudemente spintonate da due uomini scapigliati con le gote in fiamme. Con alte grida, reclamavano un'udienza con il Mandarino. «È impensabile! Come hanno osato?» si spolmonava uno. «Che i demoni divorino quei figli di scrofa dopo averli infilzati su lance arrugginite!» rincarava l'altro. Seduto sotto il baldacchino di velluto decorato di ghiande di seta scarlatta, il Mandarino Tan si sistemò sulla crocchia il berretto ufficiale dalle ali spiegate e si lisciò la casacca di broccato, le sue mascelle si serrarono e i suoi occhi si affilarono alla vista dei due uomini le cui imprecazioni risonavano sotto la volta del tribunale. Altri mercanti che litigavano per un'oca perduta o una zucca rubata? Comparendo da dietro un pilastro, il capo delle guardie li fece tacere con un colpo secco di bambù. «Silenzio! Davanti al magistrato ci si prosterna!» Cadendo in ginocchio, le loro vociferazioni ora soffocate dal rispetto, gli impetranti aspettarono che il Mandarino rivolgesse loro la parola. «Di cosa si tratta? Dite chiaramente l'oggetto della vostra lamentela». Il primo uomo rispose con deferenza: «L'immondo cittadino che sono vi supplica di riparare un affronto senza precedenti. Stamattina, al levar del sole, mi reco al cimitero adiacente alla città per onorare la tomba di mio padre che ha raggiunto i suoi avi due anni fa. Le braccia cariche di frutta e dolci, entro nel luogo santo, ma ecco che non trovo più la tomba paterna!»
«Com'è possibile?» esclamò il Mandarino. «Vi siete perso in un cimitero così piccolo?» «No, signore! Ciò che intendo dire è che non c'era più pietra tombale che ne segnasse l'ubicazione. Si era semplicemente volatilizzata!» «Posso attestarlo, nobile magistrato» intervenne il suo compagno, un magrolino dalle membra nodose. «Arrivato al cimitero, vedo il signore qui presente intento a girare in tondo come una gallina che cerchi un verme da becchettare». «Salvo che in un posto simile non c'è niente da mangiare, tranne il cibo dei morti» precisò l'altro. «Cosa andate cianciando? Una pietra tombale è scomparsa?» chiese il magistrato, per il quale quella denuncia era la prima nel suo genere. «Eppure è così, signore! Io stesso portavo offerte a mia suocera per rabbonirla... come facevo quand'era viva, d'altronde. Ora, al pari del signore, eccomi costretto a una dolorosa constatazione: la stele funeraria della brava donna non era più di questo mondo! Come se lei fosse tornata per portarsela via». Il suo compagno lo interruppe con un gesto. «Gli spiriti maligni stiano attenti! Saranno presto puniti come meritano, grazie alla vostra perspicacia, Mandarino!» insinuò con finezza rivolto al magistrato. «La terra era smossa?» «C'erano molte tracce attorno alle tombe...» Il Mandarino si sporse verso i due uomini. «I cadaveri sono stati esumati?» «Spero proprio di no!» replicò il magrolino un po' troppo in fretta, lo spettro di una suocera irascibile che gli ballava davanti agli occhi. «Perché riportare alla luce persone che si sono meritate il riposo?» «Una suocera non è mai indispensabile, avete ragione» concesse l'altro. «Ma simili furti sono sacrileghi perché, quand'anche perpetrati da fantasmi, disturbano e insultano i nostri avi! Non siete d'accordo con noi, signore?» Il Mandarino Tan osservò un silenzio prudente. Certo, era un'offesa terribile importunare i defunti, il cui spirito poteva tornare a vendicarsi in modo implacabile. Ma chi poteva aver interesse a sottrarre delle pietre funerarie, già usate per giunta? Non aveva senso! Dopo un momento di riflessione, il Mandarino si rivolse ai postulanti i cui volti pieni di speranza lo fissavano con aria di muta supplica.
«La vostra denuncia è registrata. La giustizia si occuperà di questa faccenda tenebrosa e scoprirà i colpevoli... spiriti o vivi che siano. Non si ruba impunemente l'insegna dei morti in questa provincia!» Con profusione di inchini, i due uomini si ritirarono, visibilmente sollevati. Il magrolino confidò al compagno: «Purché i briganti restituiscano quanto hanno rubato, altrimenti mia moglie mi ammazza!» «Così avranno una pietra tombale in più da sgraffignare...» L'uomo che si prosternava davanti al magistrato era rotondetto e nascondeva gli occhietti porcini dietro palpebre strizzate. La schiena fremente d'indignazione, veniva a reclamare giustizia. Il Mandarino sospirò. Tanto il suo giro in prigione, all'alba, aveva colpito la sua immaginazione grazie alla stupefacente signora Aconito, quanto la vista di quel sedere dondolante e querulo, quantunque rivestito di seta e taffettà, lo colmava ora di stanchezza. Altre questioni banali che doveva gestire con equità. «Vengo a sporgere denuncia per l'attacco alla mia giunca e il furto del mio carico!» uggiolò il cittadino. «Ah, voi siete dunque l'armatore Phung, proprietario della nave» rispose il magistrato, l'interesse ridestato di colpo. «Contro chi sporgete denuncia?» «Contro una banda di putridi cadaveri che si levano dalle tombe maleodoranti per derubare un onest'uomo! Che i loro avi mangino larve di mosche e la loro progenie sia colpita da un male ignominioso!» «Badate a quel che dite, signor Phung! Se hanno perso la vita, i morti non hanno perduto l'udito». Nel suo intimo, si domandava perché di punto in bianco i defunti interferissero con quella frequenza nelle faccende dei vivi. «E d'altronde» continuò il magistrato, «cosa trasportava la vostra nave per interessare dei cadaveri?» L'armatore Phung sbatté le palpebre, interdetto. «E come posso saperlo? Non sono un morto per indovinarlo. La giunca era carica di spezie e di minerali destinati a Fai Fo, un mercato del Sud». «Qual è la vostra occupazione, con precisione, signor Phung? Di sicuro non ignorate che è vietato esportare materie prime del nostro paese». «Naturalmente, signore! È per questo motivo che sono un semplice noleggiatore di navi. Lo Stato si rivolge a me quando bisogna trasportare merci da un porto all'altro o all'estero. Io recluto un equipaggio e mi occupo delle questioni pratiche. Non è un lavoro lucroso, credetemi! Ma, cosa
volete? la mia vita brillante di avventuriero è stata tristemente sepolta alcuni anni fa». Il Mandarino Tan posò uno sguardo dubbioso sull'uomo rotondetto dalla bocca cadente. Gli avventurieri invecchiano male, pensò. «Qual era dunque il vostro tenore di vita, prima, signor Phung?» L'altro si raddrizzò, il petto in fuori. «Ero uno dei migliori prospettori della regione, signore! Con il mio socio, andavo in cerca di pietre preziose e metalli rari. In tal modo abbiamo sfruttato giacimenti di rame, di argento e di salnitro...» L'ex prospettore sprofondò in fantasticherie del passato, gli occhi persi nel vuoto. Le ricchezze di un tempo gli facevano dimenticare l'attuale miseria. Di colpo, il suo volto sgomento si scurì. «Possibile che quella strega continui a portarmi scalogna?» disse in tono astioso. «Di chi parlate?» Strappato ai suoi pensieri, l'armatore Phung si scusò. «Perdonate la mia esclamazione, signore. Mi riferivo alla signora Aconito...» «La signora Aconito!» esclamò il Mandarino, interdetto. «Cos'ha a che vedere con tutto questo?» Il noleggiatore alzò verso di lui un volto contratto dal risentimento. «Era la moglie del mio socio, una creatura superba all'origine delle sue sventure». «Gli ha spezzato il cuore?» non poté fare a meno di domandare il Mandarino, che subito si pentì di una domanda così poco ufficiale. Per fortuna, l'ex avventuriero, tutto intento alle sue reminiscenze, non si mostrò sorpreso. «Spezzato il cuore! Fosse soltanto questo! Gli ha tolto la vita!» Poco mancò che il magistrato sobbalzasse sulla sedia. «Signor Phung! Vi ricordo che non saranno tollerate accuse gratuite in questo tribunale. La delazione può costarvi assai cara». «Ma, signore, è una vecchia faccenda che, ahimè, è stata chiusa frettolosamente. La signora, per quanto accusata della morte del marito, è stata scagionata per mancanza di prove». «Ciò significa che è innocente. Dunque, attento alle vostre insinuazioni!» L'altro s'inalberò, mentre i demoni del passato tornavano a ghermirlo. «Vi assicuro che la questione è stata chiusa dal vostro predecessore sotto
l'influsso dei sortilegi dell'ammaliatrice». «Basta così!» tuonò il magistrato, in preda all'esasperazione. «Dovrei punirvi per la vostra impertinenza verso degli ufficiali dell'Impero. Coloro che mettono in dubbio una sentenza già pronunciata vengono severamente puniti, dovreste saperlo! Ma fingerò di credere che le vostre parole siano irragionevoli e dettate dall'emotività». Così fustigato, il signor Phung inarcò la schiena. Non era igienico opporsi direttamente a quel magistrato dal volto irritabile nonostante i tratti giovanili. L'armatore vide con inquietudine una venuzza palpitare sulle tempie del Mandarino. Meglio lasciar sfogare il temporale. «Torniamo alla perdita del vostro carico» disse il Mandarino Tan dopo un lungo momento nel corso del quale tentò di riprendere il controllo di sé. «Voglio che mi forniate un elenco di quanto è stato rubato dalla vostra giunca. Suppongo che siate in grado di specificare con precisione cosa manca. La giustizia seguirà il suo corso e i colpevoli saranno puniti secondo la legge dell'Impero!» L'armatore s'inchinò profondamente, felice di aver evitato le folgori del magistrato. Il Mandarino, allora, annuì con il capo, indicando che l'udienza era conclusa. Il capo delle guardie fece schioccare la frusta e il signor Phung sgattaiolò via senza fiatare, mentre due donne dai capelli irsuti venivano introdotte nella sala delle udienze. «Nobile magistrato, questa strega ha lanciato il malocchio su mio marito, che ora si crede un cetriolo di mare...» A passo teso, il letterato Dinh percorreva il lungo corridoio che portava alla sala della Fenice. Il tribunale era di una calma quasi sospetta in quel pomeriggio dorato. Ufficiali e sentinelle dovevano dormire in piedi nel caldo opprimente. All'ingresso, egli aveva spiato a lungo una guardia ed era pronto a giurare che questa non aveva battuto ciglio per tutto il tempo in cui era rimasta sotto la sua osservazione. Dinh aveva visto una goccia di sudore imperlare la fronte dell'uomo, scendergli lungo la guancia e colare sul blu della sua giubba senza che lui si scomponesse. Aprendo a caso una porta, aveva sorpreso schiene immobili davanti a degli scaffali, teste risolutamente rigide, chine su libri le cui pagine restavano immobili. Soltanto le mosche ronzavano sul soffitto. A meno che non fosse un russare soffocato, pensò Dinh, beffardo. Il Mandarino Tan non sarebbe contento di sapersi alla testa di un branco di funzionari capaci di simulare la veglia mentre dormono profondamente.
Spinse a denti stretti il doppio battente della sala della Fenice. Il minimo movimento gli costava fatica, dopo quella infernale cavalcata. Anche se era un dio incarnato in confronto a quello straccio di Hsiu-Tung, non poteva vantarsi di essere in assoluto un emerito cavaliere, come dimostrava chiaramente quella fitta lancinante ai lombi. Il Mandarino Tan era seduto, la testa appoggiata allo schienale della sedia, gli occhi chiusi. Il suo berretto dalle ali di sparviero era posato sull'immenso tavolo in legno di rosa, una sentinella vegliava sui fascicoli sparsi alla rinfusa attorno al calamaio asciutto. Ah, ecco che il magistrato supera i suoi funzionari! si stupì dentro di sé il letterato. Con la sua faccia serena e la mandibola dal bel tratto, il Mandarino gli sembrava ancora più giovane di quando era sveglio, allorché il suo sguardo sagace faceva di lui un temibile ufficiale dell'Impero. L'occhio del letterato si attardò suo malgrado su quel ragazzo di campagna diventato Mandarino. Si conoscevano dai tempi del Concorso Triennale, dove il giovane studente aveva acquisito lustro per una straordinaria precisione, e dove lui, Dinh, si era distinto per le sue interpretazioni poco ortodosse dei Classici. Ciò gli era valso un rango mediocre e un posto modesto. Ma, senza esitazioni, il suo amico Tan si era rivolto a lui perché lo aiutasse nella sua funzione di magistrato, e da allora non si erano più lasciati. Lo sapeva superstizioso, facile preda della bellezza di una donna, e nondimeno di un'integrità inflessibile. Così, vederlo sonnecchiare nel bel mezzo del pomeriggio lo sconcertava. Evidentemente la lunga cavalcata aveva stremato anche lui, demolendolo addirittura. Forse quel gigante ben messo soffriva quanto lui per il mal di schiena. Se esisteva una giustizia... «Cos'hai da guardarmi tanto a lungo?» domandò il Mandarino Tan senza aprire gli occhi. «Non volevo interrompere il tuo sonno di bambino. Sai che i tuoi ufficiali sanno dormire con gli occhi aperti?» «Stavo riflettendo su quel singolare naufragio, se vuoi saperlo. Ci sono dei punti che mi sfuggono. Fantasmi che assaltano una nave che porta metalli e spezie... Strano». Beffardo, il letterato Dinh non poté fare a meno di aggiungere: «Soprattutto quando non hanno più lingua per apprezzare il gusto piccante del pepe e del cardamomo...» «T'inganni: gli spiriti si nutrono delle offerte dei vivi, ed è sconsigliato portare loro del riso bruciato o della carne corrotta, perché sono in grado di accorgersene e di vendicarsi».
Il Mandarino, le palpebre sempre basse, aveva un'espressione di profondo rispetto. Il letterato proseguì: «Sono convinto che si tratta di un semplice attacco di pirati. Insomma, dove si sono mai visti degli spiriti saccheggiare una nave per qualche spezia e della cera d'api?» «Ammettiamolo» disse il Mandarino Tan. «Ma riesci a immaginare quanto tempo è occorso per piantare nel fiume tutti quei pali immensi? Perché un metodo così tortuoso? Un assalto diretto della giunca sarebbe stato più proficuo, a conti fatti». «Credi che l'imboscata fosse destinata unicamente alla giunca dell'armatore Phung?» «Non lo so. In questa faccenda va considerato anche l'assassinio di quelle due povere donne. I pirati sono saliti sulla giunca abbandonata e, mentre scaricavano la merce, hanno dissanguato quelle poverette e le hanno abbandonate nella stiva che faceva acqua. I compartimenti stagni della giunca hanno rallentato l'ingresso dell'acqua, dando ai saccheggiatori tutto il tempo di evacuare le casse e perpetrare il misfatto. Sai che quelle prigioniere erano scappate prima di tornare in prigione, stremate e malate?» «Chi te lo ha detto?» Il Mandarino Tan spalancò gli occhi e si protese verso il letterato. «Sono andato a trovare la signora Aconito, che è la responsabile dei prigionieri della città». «Con tutti quei criminali incalliti da tenere a bada, dev'essere una vecchia megera forte come un toro. Nulla fa più paura di una donna senza sesso e senza età, cui piace far soffrire» decretò Dinh in tono innocente. «Ricrediti!» replicò il Mandarino un po' troppo in fretta, cosa che fece nascere un sorriso saputo sulle labbra di Dinh. «La signora Aconito è una donna eccezionalmente bella, che unisce in sé intelligenza e forza di carattere. L'ho vista maneggiare la frusta, e posso assicurarti che non è il caso di farla arrabbiare». Addossato alla finestra, il letterato vide le guance del suo amico imporporarsi al ricordo della signora Aconito. Per gioco, continuò con aria indifferente: «Compiango suo marito, perché vivere con una donna di polso dev'essere una corvée di cui si farebbe volentieri a meno. Fa' questo, non toccare quello! Hanno ubbie più tenaci dei denti del giudizio: per strappargliele dalla testa, ci vuole un bufalo infuriato». «Cosa può sapere, un uomo così poco esperto in materia come te, sulla
vita con una donna?» s'inalberò il Mandarino. «Sappi che la signora Aconito è vedova». «Ha ucciso il marito allenandosi con la frusta?» insistette il letterato, aggravando la propria posizione. Il Mandarino puntò sull'amico un indice riprovatore. «Le tue battute di cattivo gusto non hanno alcun effetto su di me. Capisco che gli esaminatori dei Concorsi abbiano rischiato di morire leggendo i tuoi commenti agli Analetti. Tu non hai rispetto di niente!» «La signora ti ha colpito, a quanto pare» si limitò a dire il letterato, divertito. Il magistrato annuì di controvoglia. Ricordava ancora i gesti sciolti e il mento volitivo della giovane. Il suo destino incerto - la passata agiatezza, il bando della società, il ritorno in città - lo toccava ancor più della sua bellezza. «La cosa strana è che suo marito era l'ex socio dell'armatore Phung, proprietario della giunca naufragata». «Ah, ah! Dovremmo forse sbrogliare una cupa e sordida storia di corna? Immagina: il signor Phung ha ucciso il marito della signora Aconito per appropriarsi del corpo delizioso della bella. Il marito esce dalla tomba e affonda la nave dell'usurpatore per punirlo. Le due donne che avevano aiutato l'armatore nel suo turpe misfatto sono punite dalla stessa mano vendicatrice». Mettendo ordine nei fascicoli sparpagliati, il Mandarino sospirò. «Lo dicevo che avevi delle qualità nascoste, letterato Dinh. Oltre che un cavaliere di talento, sei anche un inquirente fuori del comune. Cavalli e criminali faranno bene a comportarsi come si deve!» Il conte Diem planava. Le braccia spiegate come ali d'aquila, si lasciava portare dal vento che risaliva lungo le falesie boscose. Sentiva i capelli sciolti che gli frustavano la schiena nuda e lo solleticavano piacevolmente tra le scapole. Sotto i suoi occhi meravigliati si stendeva l'intera vallata, le gole incassate erano solchi corvini nello smeraldo della foresta. Le facce dirupate delle montagne riflettevano la luce soffusa, rompendo i raggi in mille schegge rosse. Girando appena la testa, il conte scorse il lampo di una cascata che si sfasciava lanciandosi dalla sommità di un bastione roccioso. Le gocce d'acqua gli sembravano sospese in aria, portate come lui dalla brezza vespertina. Si chinò leggermente e perse l'equilibrio. La sua traiettoria s'incurvò con leggerezza e descrisse un arco stretto. Le gambe
tese, passò davanti a una grotta scavata in una falda calcarea ricoperta di casuarine. Per gioco, tese la mano e afferrò la cima flessibile di un ramo, piegandolo, e sfruttò quell'effetto di fionda per lanciarsi nella direzione opposta. Lontano, il mare cinese prendeva tonalità azzurre insondabili, mentre i monti si drappeggiavano di un velo di bruma più tenue del fiato di un fantasma. Arcuandosi appena, il conte effettuò una giravolta che lo rovesciò sottosopra e lo precipitò verso terra. Esaltato, vide le rocce mortali e le cime frastagliate avvicinarsi a tutta velocità. Ma, proprio quando una cresta stava per fracassargli il cranio, con un colpo di reni lui deviò la caduta e si librò di nuovo verso il cielo. Il vento gli accarezzò le guance nella sua ascesa verso la mezzaluna arcuata come un falcetto nel firmamento dai toni d'acciaio. Il pianeta chiamato la Grande Bianca era appena comparso, una goccia d'argento caduta dalla falce. Il conte Diem, abbagliato dallo spettacolo, rise di gioia. Il suo riso allegro e un rumore metallico gli fecero aprire gli occhi. Nella stanza immersa nel buio, qualcosa sul pavimento lanciava fuochi gelidi nel raggio di luna che entrava dalla finestra aperta. Incuriosito, il conte posò un piede a terra e, aiutandosi con le braccia, si rizzò sulle gambe di un'estrema magrezza. Non ebbe il tempo di coprirsi perché il piccolo oggetto scintillante si allontanava verso il balcone raschiando le lastre di marmo. To', un meteorite o un frammento di stella caduto dal cielo? si domandò il conte, interdetto, avvicinandosi alla finestra a passettini. Il chiarore lunare lo inondò di una luce quasi cruda quando uscì sul balcone, incavandogli la curva delle reni e le rughe del corpo. L'uomo si portò la mano agli occhi momentaneamente accecati e si accorse che la sua pelle era quasi trasparente. Una lieve brezza portava il profumo di un gelsomino piantato da basso. Ma la cosa che inseguiva, disegnando una linea folgorante per terra, andò a sbattere contro la balaustra. Avvicinandosi per esaminarla, il conte si fermò di botto, sopraffatto dallo splendore della volta scintillante che girava impercettibilmente sopra la sua testa. Invano scrutò il cielo per scovarvi una pioggia di stelle o di meteoriti. Le costellazioni più splendenti si dispiegavano come al solito: la Porta militare, le Sette persone, la Nave celeste... Il rumore di un fusto di bambù nel giardino popolato d'ombre lo attirò di nuovo verso la balaustra. Tese il collo verso gli alberi le cui foglie mormoravano dolcemente e sgranò gli occhi quando, uscendo da un cespuglio, un minuscolo disco fiammeggiante schizzò verso di lui. Stupefatto di fronte a quel lampo che concentrava in sé tutta la luce della luna, egli ne ammirò
fugacemente la traiettoria. Nondimeno, quando il disco ebbe effettuato un giro completo all'altezza della sua testa, il conte non poté trattenere un grido di dolore. E invano si sforzò di arginare, con ambo le mani annaspanti, il fiotto di sangue che gli sgorgava dal collo squarciato da quel crudele frammento di luna. «Rilassati!» disse il Mandarino Tan in tono perentorio, appeso a una trave del padiglione delle Ninfee. «Somigli più a un gobbo artritico che a un vispo letterato agile nel corpo e nello spirito». Così dicendo, fece leva sulle braccia, portò il mento all'altezza dei serpenti d'acqua scolpiti nel legno di lim e ne ammirò le scaglie mirabilmente intagliate. Poi si calò lentamente per alzarsi di nuovo, effettuando flessioni che accentuavano il disegno dei suoi muscoli. Sotto, Dinh, ritto sul piede sinistro, si sforzava di respirare in modo rilassato mentre faceva mulinelli con il piede destro e con le mani. I lombi lo tormentavano e le articolazioni messe ingiustamente a dura prova chiedevano mercé. Quanto al respiro, s'inceppava non senza ragione, mentre il magro letterato si chinava ora in avanti ora all'indietro nel lodevole sforzo di tenersi in equilibrio. La sua casacca zuppa la diceva lunga sulle sue sofferenze, e lui guardava con invidia il torso nudo del Mandarino su cui correvano rivoli di sudore. «Questi esercizi respiratori sono una vera tortura» ansimava il letterato, le pinne del naso increspate. «Pensavo che dovessero apportare una pace interiore e dare elasticità al corpo». «Ed è proprio così per chi li pratica senza snaturarli» replicò il Mandarino, sempre appeso, le gambe a squadra. «Chiudi gli occhi per trovare il tuo equilibrio: è quello che fanno le danzatrici». I raggi obliqui del sole che sorgeva accesero all'improvviso lo stagno, e le ninfee fluttuarono per un momento su dell'oro liquido. Il Mandarino, che amava quegli istanti di tranquillità, aveva l'abitudine di recarsi al padiglione per strapazzare il suo corpo spesso anchilosato dalle giornate passate in tribunale. Quel mattino, però, aveva convinto il suo amico Dinh a unirsi a lui per fare degli esercizi di t'ai chi ch'uan, al fine di alleviargli gli indolenzimenti di cui egli si sentiva responsabile. Ahimè! Il giovane si rivelava di una goffaggine penosa e il suo respiro spezzato non lo aiutava a distendere le giunture compresse dall'eroica cavalcata. Sul suo volto contratto, gli zigomi sporgevano ancor più del solito, e le sue labbra si raggricciavano in un broncio stizzoso.
«Non ho velleità di danzatrice» dichiarò Dinh, ansimando miseramente. «Sono un semplice letterato pieno di crampi che odia l'esercizio fisico». Si lasciò cadere a terra e si massaggiò la caviglia. Con occhi da cane bastonato, guardò il Mandarino fare il pipistrello appeso a testa in giù, il codino che dondolava in aria. «To', il nostro amico Hsiu-Tung non è molto mattiniero oggi» disse, tanto per cambiare argomento. «Di solito, passeggia a passo felpato in giardino prima del levar del sole». Poiché il Mandarino non rispondeva, intento a portare il mento all'altezza delle ginocchia, Dinh continuò: «Che stia male? Ricorda le lesioni che abbiamo visto lungo la sua schiena, mentre usciva dall'acqua». «Effettivamente, la cosa mi ha sorpreso al momento, ma ho sentito dire che gli stranieri a volte praticano uno strano rito, destinato a punirli per una colpa commessa, che consiste nel flagellarsi con forza. Quelle piaghe potrebbero essere il risultato di una simile bizzarria». «Sotto l'aspetto goffo e stolido, il nostro amico straniero potrebbe dunque essere un perverso che ama soffrire?» azzardò Dinh, solleticato da una simile ipotesi. Il Mandarino sorrise, la bocca alla rovescia. «Come sempre, sei incline a vedere turpitudini dove non esistono. Senza spingersi così lontano, devo confessarti che gli usi di quei popoli d'oltremare un po' mi sconcertano... Ma ora andiamo a consumare la nostra zuppa mattutina!» Staccandosi dalla trave, effettuò un'estrosa giravolta e atterrò senza rumore, mentre Dinh si rimetteva in piedi aiutandosi con una seggiola provvidenziale. Il Mandarino si asciugò il busto e si diresse verso la vasta dimora assegnatagli dallo Stato. «Ah, to'! cosa viene a fare così di buon'ora il capo della polizia Ky?» disse, sorpreso nel vedere un uomo magro avvicinarsi correndo. «Un altro naufragio? O forse gli piace galoppare fin qui ogni mattina?» Giunto al padiglione, ser Ky s'inchinò profondamente. «Signore! Un'altra disgrazia! Il conte Diem è stato trovato morto sul suo balcone». «Data la sua età, mi pare che abbia vissuto piuttosto bene». La mano sul costato, il capo della polizia precisò con voce ansante: «Il fatto è che ha la gola tagliata quasi da parte a parte, e che dall'esterno non c'è modo di accedere al balcone. Inoltre, i suoi appartamenti, che si
trovano a un piano alto, erano chiusi a chiave. È incomprensibile!» Il Mandarino alzò le sopracciglia, strabiliato. «Un omicidio misterioso... Ecco un'altra giornata che comincia bene! Seguimi, Dinh, abbiamo da fare!» La dimora del conte Diem si ergeva in un immenso parco cui il visitatore accedeva grazie a un portico a triplo tetto. In fondo a un lungo viale bordato di piante aromatiche che costeggiava una radura, un secondo portico assicurava l'intimità del luogo. Dietro il portale in legno di cedro si stendeva un giardino dalle proporzioni perfette. Appese ai rami delle piante di tè, una moltitudine di orchidee aleggiavano come nugoli di farfalle rosa e bianche. Sotto le fronde, topiari a forma di cervo e di coniglio si stendevano lungo i viali disseminati di seriche lanternine panciute. La casa spaziosa colpiva per il gusto della decorazione. Mentre ammirava le squisite porcellane giunte dalla Cina e dal Giappone, Dinh si sforzava di seguire il Mandarino che aveva la falcata di un gigante. Anche il capo della polizia Ky penava, trotterellando diligentemente dieci passi dietro il magistrato. A malincuore il letterato passò frettolosamente accanto a credenze di stile antico su cui si consumavano bastoncini odorosi di limone e di mirra. In un corridoio tappezzato di tappeti esotici non poté fare a meno di sostare davanti a una fantastica collezione di armature antiche fatte con i materiali più incredibili: carapace di rinoceronte, cuoio di bufalo selvatico e anche pelle di squalo. Tendeva la mano per accarezzare un tendaggio ricamato con lepri d'oro quando il Mandarino lo chiamò in tono impaziente dall'alto della scala. Nell'abito formale di magistrato, sembrava deciso a prendere la situazione in pugno. Giunto davanti a una porta massiccia, ser Ky spinse il battente e annunciò il Mandarino Tan. Questi fece un passo avanti, poi si fermò. Uno strano silenzio regnava nella stanza dalle finestre ancora chiuse. La luce entrava dall'accesso al balcone ma, nella penombra, il letto sfatto sembrava serbare nelle sue pieghe la forma di un corpo dalle braccia in croce. Per terra, un paio di socchi a motivi argentati parevano in attesa di un dormiente che si fosse volatilizzato. Sul balcone, dove il mattino tesseva ombre fluttuanti, giaceva un uomo, nudo. Le mani, strette attorno al suo stesso collo, non riuscivano comunque a nascondere la profonda incisione che lo traversava. Accartocciato, l'uomo aveva tentato d'impedire alla vita di andarsene con il sangue che era sgorgato dalla ferita. Sotto il cadavere, una pozza rosso scuro si stendeva,
tentacolare, sul marmo bianco. Appoggiata alla balaustra, c'era una vecchia immobile, un piede posato con noncuranza sulla pozza di sangue. Il suo viso sembrava quello di una sonnambula, e gli occhi spalancati fissavano il vuoto. Non degnò di un'occhiata il Mandarino, e il capo della polizia Ky si affrettò a spiegare sottovoce: «Vi prego di non adontarvi, signore. La contessa Diem dev'essere sotto l'influsso del terrore e pare che non ci stia più con la testa. È stata informata della morte del marito dal servo che l'ha svegliata. Secondo costui, la donna è arrivata senza fretta, ha dato un'occhiata noncurante al cadavere, ma da allora non ha più aperto bocca. Dato che è vecchia quasi quanto il conte, c'è da temere che reagisca male a questo genere di spettacolo». Il Mandarino osservò a lungo la vecchia inespressiva, uno spettro in controluce, ed ebbe l'impressione di scorgere sotto l'immobilità dei lineamenti e la fragilità della figura una donna un tempo bella. E mentre lei così dominava il corpo rigido del marito, il Mandarino si domandò che vita fosse stata la sua, accanto a quel vecchio di cui calpestava il sangue. Ma non ebbe il tempo di lasciar correre il pensiero perché le scale risuonarono di grida. «Portatemi da lui! E presto, o ve ne pentirete!» Passi precipitosi echeggiarono nel corridoio, seguiti da un fruscio di veste sollevata da una mano impaziente. Un servo irruppe nella stanza, come spinto in avanti da una pedata ben assestata. Il Mandarino Tan si voltò verso l'ingresso ora mascherato da un uomo di alta statura. Scrutandone il volto corrucciato, distinse una bocca dal contorno sensuale e sopracciglia arcuate come uno stelo di cedranella sormontanti palpebre pesanti. I fianchi arrotondati dell'uomo si allargavano a forma di campana. Il nuovo venuto si fermò di botto davanti al magistrato e lo salutò con imbarazzo. «Signore! Ignoravo la vostra presenza qui. Vogliate scusare la mia intrusione scortese, ma ho appena saputo della morte improvvisa di mio fratello, il conte Diem» disse in tono mellifluo. Poiché il Mandarino interrogava con lo sguardo il capo della polizia Ky, questi si schiarì la voce e disse: «Mandarino Tan, abbiamo avvertito l'eunuco Clemenza, nella sua qualità di fratello della vittima, non appena si è scoperto il cadavere». «Che fine tragica per un uomo del suo stampo!» esclamò l'eunuco inginocchiandosi accanto al cadavere senza però toccarlo. «Dopo una vita così ricca di esperienze di ogni sorta, terminare la sua esistenza così, la testa
sotto le braccia e nudo come un verme!» Alzati gli occhi, si rese conto all'improvviso della presenza della vedova, sempre muta e in disparte. «Ah, cognata, sembra che questa prova sia dolorosa per voi quanto per me! Cercate di dimenticare la tristezza e valutiamo insieme cosa ci resta dopo la scomparsa del conte!» Il letterato Dinh, appoggiato a un mobile intarsiato di madreperla, non poté fare a meno di notare la disinvoltura di quelle parole. Pareva che la morte del conte suscitasse ben poca pietà, tanto nella vedova quanto nel fratello. Che uomo era mai stato per suscitare un simile distacco? Lanciò un'occhiata al Mandarino Tan che non aveva ancora aperto bocca e scosse il capo. Questi, dimentico del gruppo radunato attorno al cadavere, aveva lo sguardo inchiodato su una persona che era appena comparsa dietro la schiena massiccia dell'eunuco. Il letterato conosceva troppo bene il suo amico per non accorgersi dell'emozione suscitata in lui da quell'esile sagoma dalla vita sottile e dal collo gracile. La pelle bianca come la prima neve era ravvivata sugli zigomi da un pizzico di cipria, e il carminio discreto delle labbra ricordava i petali di una peonia in una sera piovosa. Nei capelli artisticamente rialzati in una crocchia molle, dei pettini con perle pendule simulavano delle gocce di rugiada. Il Mandarino, così vulnerabile alla bellezza classica delle donne del suo paese, era visibilmente incantato, e Dinh sapeva che quell'incontro avrebbe dato luogo a poesie appassionate, giacché il suo amico aveva la verve facile in materia. Ma l'eunuco Clemenza, sorpreso dal silenzio del Mandarino, si volse e, vedendo la giovane in veste grigia a motivi di crisantemo, dichiarò senza ambage: «Ah! signore, ecco Libellula, mia moglie». Il Mandarino Tan, interdetto, sbatté le palpebre e Dinh sorrise dentro di sé. «Incantato di fare la vostra conoscenza, signora Libellula. La vostra presenza sul luogo di un delitto non è comunque necessaria» aggiunse il magistrato, riprendendo il controllo. La sublime creatura rispose con una voce più lieve della brezza: «Perdonate la mia sfrontatezza, signore, ma ho una cognata da consolare». Così dicendo, si avvicinò alla contessa stravolta e le rimase al fianco. La vecchia si mosse appena, mentre ai suoi piedi l'orlo della gonna si mac-
chiava del sangue del suo sposo. «Tutto ciò va benissimo» riprese l'eunuco Clemenza. «Però vorrei sapere se c'è un presunto omicida da giustiziare seduta stante. Non si deve lasciare campo libero ad assassini che in un batter d'occhio seminerebbero il panico nella nostra città». Il Mandarino Tan rispose in tono gelido: «Per avere un colpevole, ci occorrono prove. Ser Ky, le vostre guardie hanno trovato tracce di effrazione?» «No, signore. Come vi ho detto, la porta della stanza era chiusa - anche se il catenaccio era più un ornamento che una protezione - e potete vedere da solo a quale altezza si situa il balcone. Per quanto abbia esaminato la balaustra, non c'è alcun graffio che indichi l'utilizzo di qualche rampino di sorta». L'eunuco Clemenza tornava alla carica, facendo schioccare le falangi delle dita a salsiccia. «Nondimeno, guardate quel taglio mostruoso! È chiaro che ci si è dovuti accostare al conte per infliggergli una ferita simile». «Come è potuto scappare l'assassino?» mormorò il Mandarino Tan girando attorno al cadavere. «Tra le conoscenze di vostro fratello, signor Clemenza, c'era qualcuno che potesse volere la sua morte?» L'eunuco lanciò un risolino gutturale e si massaggiò il collo. «A dire il vero, Mandarino Tan, a mio fratello non mancavano i nemici. Era un gaudente di facili costumi... I festini del conte devono pur aver fatto qualche danno: i mariti traditi e le donne ingannate non si contavano. Detto questo, mio fratello era sposato con una nobildonna irreprensibile» si affrettò ad aggiungere guardando la contessa. Costei, infagottata in un mesto silenzio, pareva sorda alla conversazione e disegnava distrattamente arabeschi col piede immerso nel sangue addensato. «La contessa Diem ha il merito di essere rimasta accanto al marito, nonostante le sue mancanze». La signora Libellula dava il proprio parere con voce flautata, le palpebre pudicamente abbassate. «Il posto di una donna è accanto al suo uomo!» tagliò corto l'eunuco. «Dato che questo delitto è particolarmente efferato, suppongo che farete di tutto per scoprire il colpevole e punirlo quanto prima, vero, Mandarino Tan? Per un notabile è intollerabile che si faccia un simile affronto al suo sangue!»
Volse verso il magistrato una faccia vendicativa e tuttavia scaltra. «Non abbiate timore, eunuco Clemenza» rispose il Mandarino. «Un notabile ha gli stessi diritti di un comune cittadino. La giustizia penserà a tutto». «Il collo... Il collo del conte... Enigma!» Il Mandarino Tan e il letterato Dinh sussultarono. La vedova aveva parlato. Continuò, con voce a scatti: «Le pietre preziose... Sparite!» Il Mandarino si avvicinò sollecito, la curiosità desta. «Cosa dite, signora? C'è stato furto?» «L'Orbe di Fuoco e il Germe di Metallo!» L'eunuco Clemenza lanciò un urlo incredulo. «Il conte portava al collo due collane di grande valore. Sono state recise contemporaneamente alla gola! Presto, cognata, vediamo se ci sono altri ammanchi! Se voi lo consentite, signore...» Sostenendo ansioso la contessa dalle gambe malferme, uscì dalla stanza, lasciando la moglie sola con gli ufficiali. Costei seguiva con lo sguardo la vedova che se ne andava mormorando sottovoce parole incoerenti. «Ah, ecco finalmente un movente tangibile del delitto!» esclamò il magistrato. «Signora Libellula, potete descrivermi quei gioielli?» La giovane, intanto, non aveva smesso di scrutare la stanza. Con un urlo di sorpresa, si tolse dalla crocchia uno spillone e se ne servì per liberare un oggetto sommerso dalla pozza di sangue. «Ecco il Germe di Metallo, signore» disse, sorridendo mestamente. «Si direbbe che il ladro, per abile che fosse, non sia riuscito a trovarlo». Il Mandarino Tan soppesò la forma stellata larga come il suo palmo. Della collana restava un lungo filo bruno strappato durante l'attacco. Il Germe di Metallo doveva risplendere di una luce sublime per aver suscitato quella bramosia omicida. Il magistrato lo sfregò delicatamente. Sotto la crosta di sangue secco, la superficie era di una lucentezza impeccabile e di contorni armoniosi. «E l'altro gioiello, l'Orbe di Fuoco?» domandò. La signora Libellula osservò un silenzio greve di rispetto. «L'Orbe di Fuoco è un cristallo tagliato a forma di sfera che concentra la luce del sole e può incendiare un pezzo di carta. Il conte diceva che era il sole stesso». «E il Germe di Metallo?» La signora Libellula piegò il bel volto indicando il gioiello che dondola-
va appeso al rimasuglio di collana. «Era la stella Polare, quella che non si muove». Sotto il baniano dalle radici nodose, l'ombra era fresca e accogliente. Benché il mattino fosse giovane, il caldo cominciava a farsi sentire, e il letterato Dinh s'appoggiò con piacere al tronco del vecchio albero. «Cos'hai in mente, Tan?» domandò al suo amico che camminava avanti e indietro. «Questo strano delitto capita in un momento poco opportuno...» «Il conte Diem sarebbe d'accordo» ironizzò Dinh. «Intendo dire che, con il recente naufragio, ci costringe a disperdere i nostri sforzi. Nell'arco di pochi giorni, eccomi costretto ad affrontare due casi al contempo. Brutta situazione!» «E ad affrontare anche due deliziose creature» buttò lì il letterato. «La signora Aconito ieri e la signora Libellula stamattina. Molto per un solo uomo, non ti pare?» «Ah, hai notato anche tu la bellezza sublime della signora Libellula! Mai i canoni della bellezza sono stati rappresentati in tal modo in una sola persona! Spalle flessibili come rami di salice, bocca più dolce di un bocciolo di rosa, capelli...» Il letterato si stirò con finta pigrizia: «Peccato che sia sposata. E con un eunuco, per giunta...» Interrotto di netto nel suo discorso immaginifico, il Mandarino ammise a malincuore: «Sì, come dare un bell'osso succoso a un vecchio sdentato. Mi chiedo come possano formarsi e durare coppie del genere». «Tieni conto, Mandarino Tan, che tutti i gusti son gusti. E, d'altronde, i matrimoni si fanno anche per ragioni pratiche». Il Mandarino scosse il capo, perplesso. «Il caso del conte Diem mi sembra molto strano. A quanto pare, era un uomo che amava i piaceri, mentre sua moglie è quantomai riservata. Simili situazioni non sono forse foriere di sofferenze e tragedie?» «Finire sgozzato mi sembra effettivamente una tragedia, soprattutto se la causa è un semplice furto». «Bisogna pensare che qualcuno bramasse oltremodo le due collane. Non sottovalutiamo la cupidigia umana: decuplica l'astuzia e il gusto del rischio». Alzando gli occhi, il Mandarino osservò il balcone che sovrastava il
giardino. «Com'è stato ucciso il conte? In quale modo si è potuto avvicinarlo tanto da tagliargli così profondamente la gola? A giudicare dalla ferita, presumo che sia stata usata una lama estremamente tagliente. Peraltro, sarebbe stato facile forzare la serratura della stanza... perché non lo si è fatto?» Il magistrato si appiccicò al muro cercando di aggrapparsi alle pietre, ma la superficie liscia non offriva appigli per la scalata. Si volse verso il baniano e ne valutò la distanza fino al balcone. Per quanto vicino, l'albero non permetteva di saltare sul terrazzo, perché i rami più alti si trovavano a due lunghezze d'uomo dalla balaustra. Sarebbe occorso uno slancio eccezionale per riuscirci. Gli occhi socchiusi per scrutare i rami, il Mandarino cercò di figurarsi il conte in piedi sul terrazzo. Il vecchio si sveglia, è solo... D'un tratto il magistrato strizzò gli occhi, poi arretrò di dieci passi. Stupito, Dinh lo vide prepararsi al balzo, piegarsi sulle gambe, saltare. «Una tigre che acchiappa la preda non farebbe di meglio» sussurrò il letterato ammirando quel salto spettacolare. Inginocchiato a terra, il Mandarino non colse il commento. Intento a esaminare ciò che aveva trovato, mormorò: «Una pista, finalmente... Come ha potuto un filo di seta bianca andare a impigliarsi nel ramo del baniano?» Con mano esperta di calligrafo, il capo della polizia Ky scriveva sul registro giornaliero: Omicidio del conte Diem avente come motivo plausibile un furto di gioielli. Il giorno prima, aveva annotato: Naufragio di una giunca con due morti da compiangere. Tornò a posare il pennello e ammirò le graziose volute che aveva appena tracciato. Il fatto che si occupasse di faccende rivelatrici delle debolezze umane non significava che fosse privo di sensibilità, tant'è che i caratteri omicidio, furto, menzogna, adulterio fiorivano come piante svettanti o s'involavano come uccelli esotici, spogliati del loro significato intrinseco. Ser Ky si rallegrava dell'arrivo recente del Mandarino Tan in città, perché il giovane aveva dato prova di uno zelo che gettava vergogna sul ricordo del suo predecessore, più incline al lasciar perdere e non del tutto ritroso di fronte ai regali che taluni non avevano esitato a offrirgli. In quanto subalterno, il magro ufficiale non aveva il diritto di criticare il suo superiore, ma le sue viscere si contraevano a ogni offerta accettata. Certo, il nuovo magistrato aveva molto da fare, perché da qualche giorno sembrava che i casi si assommassero e non bisognava che la situazione s'impaniasse, col rischio di esporsi al ludibrio della
popolazione. Negli anni precedenti non si diceva forse: Un sapeco nella mano del Mandarino contro dieci frustate? «Vorrei avere tutte le informazioni possibili sull'operato dell'eunuco Clemenza!» Ser Ky alzò la testa. Il Mandarino Tan aveva appena fatto irruzione nella stanza, i capelli ritti e il colletto slacciato. «Come sapete, signore, l'eunuco è responsabile della circolazione delle merci nella nostra città. Tutto ciò che transita in porto passa per le sue mani, dal momento che è lui ad autorizzare tutti gli scambi». Il Mandarino si accomodò in una sedia dai braccioli scolpiti e si fece vento con un foglio. «Si sono mai riscontrate irregolarità nei suoi atti? Voglio dire: mercanzie non dichiarate, regalie...» Il capo della polizia Ky si schiarì la voce, confuso. «Va detto che il vostro predecessore era molto occupato, e non si è mai interessato da vicino alle faccende del porto. A lui bastava sapere che quanti intendevano far uscire dei beni potevano farlo dichiarandoli all'eunuco, e che quanti intendevano far entrare dei beni pagavano regolarmente le imposte. Non c'erano lamentele esplicite, e dunque reputavamo che fosse tutto in regola». «Ecco un modo pratico di gestire il commercio» disse il Mandarino con un'ironia che non sfuggì a ser Ky. «Voglio che chiediate all'eunuco Clemenza un elenco completo delle merci che sono transitate per il porto negli ultimi tre anni. Nel caso del furto di gioielli, egli occupa una posizione chiave». «Sarebbe dunque un sospettato?» «Non corriamo troppo! Nondimeno, da ieri il suo nome è stato pronunciato spesso, e vorrei delineare meglio i contorni del personaggio». Con un tono che voleva essere distaccato, il magistrato proseguì: «Mi hanno detto che l'eunuco Clemenza è anche garante della signora Aconito, che si occupa dei carcerati della città. Che legame c'è tra queste due persone?» Contento di poter far sfoggio del suo sapere, il capo della polizia Ky cominciò: «Il marito della signora Aconito faceva prospezione di minerali...» «Con l'armatore Phung, la cui giunca è stata appena affondata. Questo lo so». «In effetti, si erano associati per sondare il terreno in cerca di giacimenti
d'argento e rame sui monti. Sono metalli molto pregiati che possono fruttare bene. Ora, durante una spedizione, è successa una disgrazia: essendosi perduto ad alta quota, dove l'orientamento è disagevole a causa della vegetazione fitta, il marito della signora Aconito è caduto in un baratro e vi ha trovato la morte. Gli altri membri della squadra, dopo aver vagato per settimane nelle vette, hanno subito la stessa sorte». «Salvo il signor Phung, che oggi sprizza salute e si trova a capo di una nuova impresa» intervenne il Mandarino, pensoso. «Esatto: per miracolo, ha trovato una pista dov'è stato poi raccolto, esangue e affamato, da un uomo del contado». Chinandosi verso il capo della polizia, sempre rigido come un piolo con le mani dietro la schiena, il magistrato disse: «Il sopravvissuto avrà ringraziato il Cielo del fatto di essere ancora in vita...» «Figuratevi! La sua prima reazione è stata quella di accusare la signora Aconito di aver ucciso il marito!» «Faceva parte anche lei della spedizione?» «Niente affatto! Secondo il signor Phung, lei avrebbe fatto in modo che il gruppo si smarrisse nel dedalo montagnoso». Gli occhi piantati sull'interlocutore, il Mandarino Tan insistette: «Non vedo proprio come avrebbe potuto farlo. Aveva tracciato una mappa sbagliata o qualcosa del genere?» «No. Ma il suo socio avrebbe detto al signor Phung che la signora Aconito sarebbe riuscita a ucciderlo senza lasciare prove. E, sulla base di questa discussione, lo scampato ha accusato la signora dell'omicidio del marito». «Mi sembra un po' debole come indizio... c'è stato comunque un processo?» «Effettivamente, il prospettore ha presentato denuncia applicando una forte pressione, e il vostro predecessore ha aperto una rapida inchiesta, alla fine della quale ha concluso che la signora Aconito non era responsabile di quella morte». «Eppure, ora è messa al bando dalla società» osservò il Mandarino, che non scordava la figura delicata in semplice veste di cotone. «Il sospetto ha irrimediabilmente intaccato la sua reputazione» ammise il capo della polizia lisciandosi il pizzo. «Cos'ha dunque cavato dalla morte del marito? Si sarebbe potuto supporre che volesse le sue ricchezze...»
«Per l'appunto, non ha beneficiato delle sostanze considerevoli del marito, nonostante le insinuazioni dell'armatore Phung. Al contrario, le ha devolute alla sorella del defunto e si è ritirata in una concessione affittata agli erranti. Si tratta di quei terreni poco fertili, vicini al fiume, che la città cede loro dietro pagamento di un canone annuale». Immobile, lo sguardo perso nel vuoto, il Mandarino riassunse in sua vece: «La signora Aconito non sarebbe dunque interessata alle cose materiali...» «Il suo solo legame con la nostra città è l'eunuco Clemenza, che conosceva suo marito per averne esportato i minerali. Si è fatto garante della sua persona e le ha procurato un posto nel carcere». «Che interesse può mai avere l'eunuco Clemenza nell'aiutare la bella signora Aconito?» mormorò il magistrato, che ancora sentiva il fruscio della serica treccia della giovane. Il capo della polizia, prosaico, suggerì ingenuamente: «Bah, non è forse stato ragazzo prima di essere eunuco? La bellezza di certe donne riesce a scalfire anche i cuori più induriti, non vi pare?» La signora Aconito si annodò la correggia della frusta in vita lasciandone penzolare i due capi. Un sorriso le stirò le labbra: con quella cintura grigia e ruvida stretta sulla tunica spessa, non era priva di eleganza. La sua giornata di lavoro terminava nei rumori del mercato serale in allestimento. A grandi passi indolenti, attraversò le strade della vecchia città rallegrandosi del buon lavoro della sua squadra di prigionieri. Qui, i solchi colmati di recente non intrappolavano più le carrette; là, i canali ripuliti ieri non sarebbero traboccati al prossimo monsone. Non si lasciava comunque ingannare dalla sua soddisfazione; fiera del lavoro eseguito in piena regola, le importava però ben poco dei pavidi sedentari che popolavano quella città. Incrociandola sulla strada che scendeva verso la porta settentrionale, il maestro di scuola s'inchinò salutandola con un sorriso caloroso. Per un momento la signora Aconito s'illuse di aver ritrovato il proprio onore. Ma lo sguardo diffidente di una bottegaia le ricordò che niente era più come prima. Se anche i bottegai mi disprezzano, pensò, significa che sono caduta proprio in basso. Si strinse nelle spalle; non voleva mentire a se stessa dicendosi che era meglio così, e proseguì per la sua strada. Cosa ricordava dell'effimero matrimonio con il ricco prospettore? Gior-
nate languide profumate d'ozio, giardini silenziosi in fondo a cortili ombrosi, lanterne che venivano accese prima delle notti d'attesa. E il marito dalle braccia possenti, la cui assenza radunava sotto le sue finestre branchi di spasimanti speranzosi. Quando in città si era diffusa la notizia della scomparsa del prospettore, quando il suo socio Phung l'aveva accusata apertamente del delitto, lei aveva visto nascere e gonfiarsi un'ondata di odio senza uguali. L'aveva anche vista frangersi in schiuma di vergogna e di rimorsi quando lei aveva abbandonato la sua nuova ricchezza per l'esilio. Voltarsi con ostentazione: era l'esatta descrizione del suo gesto il giorno in cui, bisaccia in mano, si era congedata dalla famiglia acquisita arricchita dalla sua donazione. Quegli uomini e donne dai lineamenti così comuni che ora stentava a ricordarli, umili, confusi, impacciati nelle loro formule di cortesia, le avevano fatto pena mentre s'inchinavano nei loro saluti solenni. Abiti di seta a fronte di una tunica di cotone. Cittadini a fronte di errante. Nei primi tempi, aveva vissuto il suo vagare come una liberazione. Ammirava la spigliatezza con cui si era lavata dalle accuse di cupidigia. Con quale fierezza era uscita dalla città, la bella Aconito che portava il suo orgoglio ferito come una bandiera! Ma i furtarelli di galline sul far della sera, le notti fredde in cui si rannicchiava nel cavo di un albero, i mattini piovosi in cui i suoi capelli irsuti puzzavano di nido di gufo, tutte quelle peripezie avevano di lì a poco perso il loro fascino. Durante le veglie solitarie in cui scambiava le cortine di pioggia con cappe di nebbia, preoccupata della propria decadenza, aveva cominciato a rimuginare sulle tappe del suo declino. Doveva ammetterlo: non sceglieva più la propria libertà, la subiva. Allora, aveva cercato confusamente la compagnia dei suoi simili. I cani randagi si spostano a branchi, come gli uomini. I suoi compagni di sventura, reprobi come lei, le avevano insegnato a sopravvivere con poco; lei contraccambiava con la cultura e i rimasugli della sua raffinatezza. Insieme, attorno a fuochi morenti, si nutrivano di sogni di un mondo in cui i cuori puri e le menti sagge si sarebbero mescolati. Ogni tanto, l'idea di tornare in città rifaceva capolino. La loro scelta era caduta sulla città natale di Aconito: forte della sua dimestichezza con i notabili, avrebbe potuto fare in modo che ciascuno dei suoi compagni trovasse un garante. E così la muta cenciosa si era presentata alle porte cittadine e aveva ricevuto in concessione delle sodaglie in riva al fiume.
Per una scorciatoia molto disagevole, la giovane scese verso le casupole di paglia sparpagliate sui campi argillosi. Fili di fumo uscivano dai fornelli, diffondendo un odore acre che, nel ricordarle gli anni di vagabondaggio, le sembrava un profumo struggente. Uomini magri dalle membra nodose la salutarono da lontano, intenti a seminare alla meno peggio dei chicchi su un lembo di terra zappettato. Il lavoro in città nutre male, pensò Aconito spingendo la porta della sua capanna. Fu voltandosi per chiudere la porta che lo scorse. L'uomo che stava sul poggio, silenzioso e pensoso, la guardava ritirarsi. Sul suo volto si leggeva una pietà particolare davanti alle misere baracche e ai viottoli sconnessi. Le parve ingenuo e quasi tenero, nella sua immobilità un po' goffa, come se fosse diviso tra la compassione e il rispetto della buona creanza, non sapesse se doveva mescolarsi alla schiera dei reprobi o tornare ai suoi quartieri ufficiali. La giovane spiò da dietro la porta, finché l'oscurità ebbe dissolto l'alta sagoma. Sorrise. Il Mandarino aveva seguito l'errante fino a casa. Sono il firmamento, sono l'abisso. Nell'oscurità della mia testa sfrecciano luci scintillanti nate da un lontano caldaio. Dopo quella pozione gelida come il dito della morte, il mio corpo tutto è scosso da spasmi, arso da un calore interno che mi consuma. Una macchia splendente esplode in mille faville colorate contro le mie tempie: con occhio cieco distinguo il vermiglio che si staglia sull'oro in fiamme, poi, frammentata, una goccia della porpora degli abissi viene a inzaccherare la scia folgorante di un verde peridoto. In questo spazio senza suono, ho l'impressione di aleggiare - no, di volare -, e con la punta delle dita tocco le braci di stelle e accarezzo la schiena del vento. Dove sono? Eppure conosco questo luogo sospeso tra due vite per esserci già stato più volte, e a ogni ritorno è lo stesso stupore nell'incerto incrociarsi di estasi e di terrore... Fuori da questo spazio, non vedo l'ora di tornarvi con ogni mezzo. Ma per trovarvi cosa? Questa terribile sensazione di vuoto, questi lampi di luce che mi trafiggono il cervello e la pupilla come altrettante schegge mercuriali? Qui volo. Vengo trasportato nei luoghi che ho senza meno costruito a partire dai miei sogni, dai miei ricordi... dal mio avvenire? Le sfere fiammeggianti mi chiamano, e in un palpito di ciglia le sfioro con il mio corpo intirizzito. I veli di un'insolita frescura mi avvolgono in un sudario privo di consistenza mentre guardo in fondo a quei pozzi radiosi. Quali mostri drappeggiati di luce, scaglie rutilanti su ali spiegate,
artigli taglienti come la linea spezzata dei lampi, mi abbaglieranno ancora strappandomi la vista? Con un ultimo brivido, Hsiu-Tung si riscosse. Aprendo un occhio dove ancora roteavano puntolini luminosi, dette un'occhiata inebetita alla stanza oscurata e fredda. Il sole stava tramontando, e il bastoncino d'incenso si era completamente consumato, mentre in aria fluttuavano le tracce tenui di un profumo d'arancio. Quanto tempo aveva passato sull'ammattonato che gli aveva irrigidito le articolazioni? Si sfregò i polsi e si rimise a fatica sulla sedia da cui verosimilmente era caduto. A passo barcollante andò a chiudere la finestra spalancata sul giardino, poi si diresse verso il bacile di porcellana pieno d'acqua posato sul canterano. Il gesuita studiò per un momento i propri lineamenti disfatti riflessi dalla superficie prima di aspergersi copiosamente il viso e il corpo con il liquido gelido. Poi, stremato, si accasciò sul tavolo, gli occhi che fissavano senza vederlo il boccale di rame macchiato di rosso. Sul sentiero di terra cremisi, il bonzo Umiltà Affabile si affrettava sui piedi calzati di sandali di cuoio. I ciondoli in cristallo variopinto che vi aveva attaccato sobbalzavano allegramente ritmando il suo passo con un canto argentino che si accordava con il tintinnio più lieve della fila di perle che gli ornava il collo. Nella sera calante, nessuno notava quelle meraviglie opalescenti che egli portava assieme alla sua collana di bonzo fatta di volgari palline di legno odoroso. Sfregò una perla dalla rotondità perfetta, sentendo con piacere la superficie liscia e lattea contro la pelle. La signora Ha, ricchissima per nascita e vedova di fresco, si era rivelata di una generosità quasi sconsiderata. Cosa poteva farci, lui, semplice monaco, se l'ereditiera gli aveva ficcato in mano quei gingilli di un certo valore? Le palpebre abbassate, aveva bensì cercato di rifiutare quei doni fatti in un momento di confusione mentale, ma la vecchia signora invalida non se n'era curata, aggrappandosi come una disperata alla sua manica, i palmi traboccanti di anelli e gemme più limpide dell'occhio di Buddha. Umiltà Affabile fremette di gioia trattenuta - salutando con un cenno misurato del capo un contadino che passava - al pensiero di quei piccoli oggetti brillanti che erano caduti suo malgrado nelle pieghe del suo indumento e che si trovavano ora da qualche parte nel suo modesto fagotto, fra la tunica logora e la bisaccia di ricambio. L'animo sereno e il passo lieve, il monaco ammirò i toni ocra che si so-
vrapponevano sul cielo di un azzurro slavato e quasi trasparente. Il sentiero passava tra le risaie, serpente rosseggiante nel crepuscolo. A mano a mano che si allontanava dalla città, i passanti si facevano più rari, e quando non trovò più madri di famiglia o venditrici di zuppa da benedire con un cenno della mano, Umiltà Affabile si lasciò cadere sul polso un bracciale di turchesi che gli aveva dolorosamente compresso l'avambraccio per tutto il tempo. Quando alzò i bastoncini d'incenso che trasportava, il riflesso azzurrognolo delle pietre gli rallegrò gli occhi ed egli si abbandonò a un riso civettuolo che gli accentuava il doppio mento. Il cimitero non era più molto lontano, ed egli ricontò i dolci e le banane che aveva promesso alla vedova di deporre sulla tomba di quel marito che l'aveva così brutalmente lasciata. Avrebbe fatto bruciare qualche incenso disponendo armoniosamente le offerte attorno al vaso di tuberose, e la vecchia si sarebbe confortata quando, più tardi, egli le avesse raccontato della sua visita al cimitero. Tutti i ciondoli al vento, il bonzo imboccò il vialetto erboso che portava alle tombe. Un rettile scappò davanti a lui, e un rospo sparì con un rutto poderoso quando lui gli sferrò un poco caritatevole calcetto. Giunto alla tomba che cercava, Umiltà Affabile fece un singulto di costernazione: dove avrebbe posato i dolci di riso viscoso, le melagrane e le lombatine di maiale? Infatti, per quanto costruita di recente, la tomba del marito diletto era adesso spoglia come una rovina centenaria. Pietra tombale e lastra si erano volatilizzate, lasciando il rettangolo di terra nudo come una sodaglia. I baffi aggrovigliati per lo sforzo, il pesce gatto nuotava rabbiosamente nella piccola giara, facendo rotazioni infinite. Accanto a lui, prigionieri di una cesta di giunco, dei granchi dalle pinze legate cozzavano con i pesanti carapaci gibbosi, mentre dei gamberi sventrati e svuotati del loro ultimo pasto erano allineati sull'asse di legno, accanto a una mezzaluna che era appena stata usata. Dinh addentò placidamente un pane di soia e il Mandarino Tan attaccò la zuppa di lumache di mare che l'ostessa gli aveva messo davanti. Con una giacca di cotonina cruda e i capelli cinti da una fascia, il magistrato si godeva quel momento di tregua. Spesso, così vestito, sfuggiva alla sua vita ufficiale, tornando semplice suddito dell'Impero, sconosciuto a tutti e libero nei movimenti. Il mercato olezzava degli odori della sera: al profumo dolciastro delle pere indiane si mescolavano gli effluvi dei duriani ben ma-
turi, mentre il grasso delle carni sulle griglie finiva in fumi allettanti. Il Mandarino aveva penato a scegliere tra gli spiedini di quaglie, le uova di anatra quasi schiuse e il riso condito con cotenna di porco, nella massima indifferenza del letterato, che mangiava volentieri di magro. Dopo aver girellato, indeciso e affamato, tra i banchi che vantavano carni crude avvolte in foglie di banano, il magistrato aveva capitolato davanti ai frutti di mare ancora vivi. Ora che aveva avidamente divorato la zuppa di molluschi, si sentiva pacificato e più incline alla conversazione. «Allora» disse a Dinh, sbocconcellando un peperoncino torto, «cosa pensi delle faccende in corso?» «Mi sembrano molto ingarbugliate, se vuoi il mio parere. Ci sono persone l'una più strana dell'altra che spuntano dappertutto. La vedova Diem, per esempio, mi fa venire la pelle d'oca con i suoi occhi vacui e la sua paura di cera. Hai notato come sciaguattava con piacere nella pozza di sangue del marito?» «Tu ti lasci impressionare troppo facilmente, Dinh. Al contrario, io la trovo misteriosa. Perché una donna così raffinata e compassata ha sposato un amante dei piaceri della carne?» «Gli appetiti carnali del conte dovevano essere feroci» lo interruppe il letterato, che era stato colpito da quel particolare. «Non è da tutti essere un forsennato dei piaceri. Occorre avere i numeri». «Capisco» rispose sobriamente il Mandarino che non voleva dilungarsi sull'argomento. «Torniamo ora all'indizio che ho trovato appeso al baniano...» Frugò nella tasca della casacca e ne trasse il pezzo di filo bianco che l'aveva tanto incuriosito. Avvolgendoselo al dito, lo esaminò da vicino. «È un filo di seta ritorto di una qualità tutt'altro che mediocre. Mi domando se proviene da un indumento. In tal caso, qualcuno sarebbe salito sulla pianta». «Solo che noi abbiamo visto che l'albero, troppo lontano, non permetteva di saltare sul balcone» obiettò il letterato, prendendo una polpetta di riso. «A meno che la persona in questione non si sia limitata a spiare la vittima...» «Ma perché indossare qualcosa di bianco in una notte di luna? Io l'avrei scelto blu notte o nero, più discreti». Il Mandarino lanciò un'occhiata in tralice al compagno che pareva gustarsi il pane insipido di soia: «Dinh, tu hai un debole per le stoffe, se non m'inganno».
«È vero» rispose l'altro, senza sospettare niente. «Ho giusto una missione fatta a tua misura: domani di buon'ora andrai a fare una piccola indagine dal signor Luu, mercante di tessuti, per cercare di sapere da dove può venire questo filo di seta. È stato strappato da un tessuto venduto di recente? È un filo riservato a usi particolari: indumenti di gala o comuni? Simili particolari possono rivelarsi importanti... E, soprattutto, quella gitarella ti permetterà di tastare dei bei tessuti senza doverli comprare». Intrappolato dalle parole di miele dell'amico, Dinh abdicò. «Grazie per la tua sollecitudine, non ti sapevo così premuroso. Dammi il filo». L'ostessa interruppe il colloquio portando un piatto di anguille cotte in una salsa zuccherina e condita con semi di sesamo. Il magistrato s'impadronì prontamente delle bacchette, ma così facendo fece cadere dalla sua tunica un foglio stropicciato che aprì con sorpresa. «Ah, sì, è l'elenco delle merci consegnatomi dallo spedizioniere Phung. Vediamo cos'ha perso quel brav'uomo nel naufragio della sua giunca». «Carne avariata che deve aver allettato i morti dell'Isola delle Tombe» suggerì Dinh, masticando un pezzo di zenzero. «Pare che siano particolarmente ghiotti di carne decomposta, perché si scioglie sotto la lingua e non ha bisogno di essere digerita». «Quanto di meglio per gente che non ha più denti e viscere» ritorse il Mandarino, impavido. «Dunque... Curcuma: otto casse, cardamomo: 6 casse, zucchero tram: 12 botti, noce moscata: 5 botti, canfora: 6 casse, cera bianca: 5 casse, rame: 17 barili, salnitro: 20 barili, legno di liana: 5 travi, pelle di salamandra: 30 pezze... Che roba è? Non ne ho mai sentito parlare». «Il nostro uomo commercia con la Cina, sicché non mi stupirebbe se procurasse ai nostri vicini delle merci esotiche. Una pelle di salamandra per fare guanti o zuppe, perché no? Gli stranieri hanno un comportamento che a volte sfida la nostra logica, ma ho idea che conosceremo meglio il loro modo di pensare negli anni a venire». «Sicuramente alludi al progressivo insediamento dei portoghesi nel nostro paese...» «Per l'appunto: i porti più a sud, come Fai Fo, si stanno aprendo al commercio con quei nuovi mercanti che affiancano senza problemi i cinesi già insediati. Il nostro stesso porto seguirà sicuramente quell'esempio». «E, con questa apertura, persone come l'armatore Phung e l'eunuco Cle-
menza assumeranno un peso crescente, è ovvio». Addentando un trancio di anguilla dorata, il Mandarino Tan si guardò attorno per completare il pasto. D'un tratto, dette una gomitata all'amico. «Parlando di stranieri, ecco qui il nostro amico Hsiu-Tung. Mi sembra che abbia un'aria strana». In effetti, una figura dinoccolata procedeva di buon passo accanto a una bancarella di ceste facendo ampi gesti circolari delle braccia. Piegando esageratamente le gambe mentre faceva passi da gigante, il gesuita sembrava un burattino disarticolato. I suoi gesti scomposti finirono col far cadere una pila di ceste, che egli raccolse scusandosi col venditore ma scompigliando il banco di ventagli attiguo. Quando tutto fu rientrato nell'ordine, il Mandarino Tan lo chiamò. «Ah, siete stati testimoni della mia goffaggine!» esclamò Hsiu-Tung, rosso per l'imbarazzo, rovesciando una scodella di riso. «Non dovrei fare i miei esercizi camminando in mezzo al mercato». «I vostri sono esercizi molto singolari. Quali benefici ne cavate?» domandò il letterato, incuriosito. «I movimenti rapidi, il passo veloce all'aria aperta costituiscono una buona igiene di vita e permettono la circolazione delle diverse energie attraverso il corpo. Dovreste saperlo, giacché ciò è raccomandato dai vostri sapienti». «Lo ignoravo, essendo per natura assai restio all'esercizio» si giustificò Dinh. «Dato che lo sforzo sollecita l'appetito, ci farete l'onore di dividere il nostro pasto?» domandò il Mandarino Tan, indicando l'anguilla fumante. Hsiu-Tung fece uno scatto all'indietro e alzò una mano tempestata di lentiggini. «Non abbiatevene a male, cari amici, ma ho già mangiato e, per l'appunto, ero intento alla mia passeggiata digestiva. Ma, a proposito, come procede la vostra indagine sul recente naufragio?» «A passettini, devo confessarlo» rispose il Mandarino Tan, preoccupato. «Le piste devono essere esplorate con rigore e siamo soltanto al principio». «Tanto più che si è aggiunta un'altra questione che mobilita le nostre forze» rincarò il letterato, soccorrendo l'amico. «Si tratta né più né meno che dell'omicidio misterioso e cruento di un conte». Il prete fece lo strano gesto che avevano già notato: l'indice volò dalla fronte allo sterno e toccò ambo le spalle, mentre lui biascicava quella che sembrava una formula magica. Probabilmente si tutela dall'influenza nefa-
sta dei geni malvagi, pensò il Mandarino, che conosceva a sua volta gesti destinati a proteggerlo dagli spiriti maligni. Poiché il Mandarino e il letterato avevano interrotto il pasto per parlargli, Hsiu-Tung si scusò con formule di cortesia molto forbite e ripartì col suo passo di burattino. «Il nostro prete ha l'aria patita» disse Dinh. «La sua pelle è più pallida delle gote di una cortigiana, e i suoi occhi sono iniettati di sangue». «La vita sotto il nostro clima non dev'essere facile per uno che viene da tanto lontano: il calore unito alle zanzare prostrerebbe persone ben più vigorose». «Con le due donne della giunca, i malati non mancano, ti pare?» Lugubre, il Mandarino annuì. Conosceva fin troppo bene la minaccia cui alludeva Dinh. «Sì, purché un'epidemia non stia già covando...» Appena consumata la zuppa mattutina, il letterato Dinh si mise in cammino verso il negozio del signor Luu. Si era avvolto al dito il filo di seta, pretesto per la sua piccola indagine. Il Mandarino Tan aveva visto giusto: lui amava tutto ciò che aveva a che fare con le stoffe e, per una volta, la sua presenza accanto a tagli di organza e pezze di taffettà sarebbe stata giustificata. Per fare buona impressione, aveva indossato una giacca a motivi gallonati, un po' larga in vita, completata da pantaloni tagliati più stretti del solito. Il negozio di tessuti si trovava in un vicolo bordato su ambo i lati di alberi corallo, non lontano dalla piazza del mercato serale. I primi raggi del sole che filtravano attraverso le foglie assumevano delle tonalità verde chiaro che parevano diluirsi sulla pittura gialla della facciata. Erano appena stati tolti i pannelli di legno che ne proteggevano l'ingresso, segno che gli affari potevano cominciare. A passo arzillo, Dinh varcò la soglia e fiutò con piacere l'odore particolare dei tessuti alla rinfusa. Poteva riconoscere a occhi chiusi il profumo delicato di una seta grezza e il sentore greve di una cotonina dalla trama fitta. Al tatto, era in grado di distinguere i lunghi filamenti dei bozzoli d'allevamento dalle fibre corte e spezzate dei bachi selvatici che bisognava poi filare, e apprezzava in modo particolare l'arte di ricoprire i fili serici con una foglia d'oro puro per creare il broccato. «Cosa posso fare per voi?» domandò il signor Luu, un omino dalla schiena curva, fiutando l'acquirente eccentrico. «Sarò ben lieto di mostrarvi i nostri ultimi arrivi».
«Fatelo, dunque» rispose Dinh con gesto magnanimo. Febbrile, il bottegaio lo condusse in un dedalo di corridoi che rigurgitavano di stoffe luna più bella dell'altra. «Se vi piacciono i tessuti resistenti e però fini, ecco dei teli di lino e di canapa di Manciuria... a meno che non preferiate della ramia di Mongolia. Ho anche del cotone fiorito di Champa...» Tastando con mano fintamente sdegnosa i tagli che trovava splendidi, il letterato gettò un'occhiata all'intorno. «No, in questo momento cerco qualcosa di più raffinato. Mostratemi ciò che avete di meglio». «C'è soltanto l'imbarazzo, signore. Ecco» fece il signor Luu avvicinando una pezza alla luce. «Guardate questo damasco dove dei fiori di gelsomino escono dal fogliame di un salice». Il dito di Dinh seguiva estasiato il rilievo che disegnava nettamente petali e foglie. Nondimeno, poiché serbava un silenzio ambiguo, il bottegaio lo portò più lontano. «Ah! i vostri gusti più sofisticati dovrebbero trovare soddisfazione in questi broccati che ci arrivano dalla Persia e dalla Corea: osservate le stelle a otto punte e queste spirali intersecate che formano motivi ricorrenti. E qui, sentite la morbidezza di questo campione di seta rosa madreperlacea che chiamiamo Nuvole al levar del sole, importata direttamente dal Paese del Calmo Mattino». «In effetti, sono pezze degne di un intenditore» annuì il letterato con un cenno del capo che estasiò il bottegaio. «Ho però sentito parlare di un tessuto fabbricato in India con fili di una finezza mai vista, secreti da Pinna squamosa, un'arsella che produce anche perle. Ne avreste per caso uno scampolo? Saprete certamente che è molto apprezzato nel nostro ambiente». Il signor Luu, sconcertato dalla richiesta precisa del letterato, sbatté le palpebre per la sorpresa. «Ahimè, signore, quella stoffa di una rarità estrema non trova posto nella mia modesta bottega, ma se permettete vi mostrerò il pezzo forte della mia collezione». Simulando una garbata curiosità, Dinh seguì il bottegaio che s'insinuava tra le pezze di imprimé azzurri e bianchi e i rotoli di sargia. Dietro una pila di garze ricamate, l'omino si accovacciò e tirò fuori un pacco che svolse con cura. «Lo mostro soltanto ai miei clienti più esigenti e più fortunati» dichiarò
il signor Luu in tono confidenziale. «Questo tessuto viene chiamato Velo di Pavone e ne capite facilmente il motivo». Con uno sforzo sovrumano, il letterato Dinh represse la sua gioia alla vista di quella stoffa di una leggerezza di sogno, percorsa da marezzi iridescenti che andavano schiarendo dal blu aranciato all'argento di cipria passando per indescrivibili sfumature del rame. La bocca torta in una smorfia di apprezzamento supponente, egli accarezzò amorevolmente il filo più morbido delle antenne di farfalla, come per serbare memoria delle sue tonalità e della sua consistenza. In capo a un momento che al signor Luu parve di una lunghezza insostenibile, il giovane posò il tessuto e disse: «Avete ragione, questa stoffa è eccezionale. Vi prometto dunque che al momento del mio matrimonio ne prenderò dieci pezze per la mia sposa». Poiché il viso del bottegaio s'illuminava di speranza, il letterato continuò subito in tono casuale: «Intanto, ho qui un filo di seta proveniente da un vecchio ricordo che mi sta a cuore, ma di cui non trovo più l'origine. Potreste dirmi se c'è un tessuto simile nella vostra collezione?» Il signor Luu esaminò il filo tesogli dal letterato e glielo restituì con un sorriso: «Sicuramente questo campione vi è caro perché appartiene alla vostra infanzia, signore». Poiché Dinh lo guardava senza capire, il bottegaio spiegò: «Simili fibre, attorte e di una solidità a tutta prova, sono usate nella fabbricazione delle corde che si attaccano agli aquiloni». La notte, con la sua coorte abituale di chimere, è stata interminabile. Nonostante molti bicchieri di vino, non sono riuscito a trovare il sonno. Sono rimasto inchiodato al tavolo, a gettare occhiate timorose fin nei minimi recessi. Talora ho l'impressione che una figura avvolta di veli o di cenci se ne stia accovacciata proprio laddove comincia la mia visione, ma appena volto il capo ecco soltanto un muro che non serba traccia di alcuna silhouette. Nel momento in cui la luna tramontava, mentre pensavo all'infinito che mi ossessiona, un alito freddo mi ha gelato il collo, attorcigliandosi al modo di un serpente o di un braccio morto. Ma la finestra aperta ha rivelato soltanto ombre ammassate in fondo al giardino deserto. Per quanto il vento s'ingolfi in questa stanza spoglia, un caldo funesto mi attanaglia, mentre nella mia testa risuonano colpi ripetuti, come se qualcosa o qualcu-
no si sforzasse di uscirne. Per cercare di cacciare quest'ansia che non mi lascia più, ho cominciato a stendere alcune riflessioni sul mio quaderno nero, ma l'ispirazione e il sacro fuoco non vengono all'appuntamento, stasera. È perché le luci che ho contemplato mi hanno bruciato gli occhi? Per aver volato tanto in alto, sono condannato ora a marcire nelle profondità? Il ponte che voglio gettare tra i miei due mondi sarà costruito, un giorno? Talora sento un'esaltazione senza limiti al pensiero che il progresso sarà incommensurabile, quando tutto sarà compiuto, ma la notte scorsa il dubbio più nero mi ha assalito e un'angoscia bestiale mi ha soffocato. E se non potessi condurre a buon fine questa impresa titanica? Da qualche giorno, sento dei dolori all'occhio, così intensi che mi stordiscono. Capita che un ronzio m'impedisca di sentire il mio interlocutore e gli indurimenti sulla mia schiena non accennano a guarire. Scosso da un attacco di tosse, Hsiu-Tung posò la penna e chiuse il quaderno. La luce del mattino gli incavava le guance, e le sue iridi di un azzurro di ghiaccio gli davano un'aria così distaccata da far credere che dormisse a occhi aperti. Per un lungo momento il gesuita si tenne la testa tra le mani, come per impedirle di andare in pezzi. Poi, con uno sforzo che gli incendiava le articolazioni, immerse le mani nella tinozza d'acqua fredda e si lavò il viso e il collo. Mentre si piegava di nuovo verso il mastello, il rosario gli usci dalla tunica e cadde nell'acqua. Inebetito, egli fissò la croce, deformata dalle ondulazioni della superficie, che giaceva sul drago inciso sul fondo del mastello. Aggiustandosi il berretto, il Mandarino Tan camminava con passo deciso verso la dimora dell'eunuco Clemenza. Per quella visita improvvisa e ufficiosa, il Mandarino aveva ritenuto superfluo servirsi di un palanchino, cosa che gli permetteva di ricapitolare tranquillamente i diversi aspetti dei due casi su cui doveva far luce. Qualcosa lo tormentava a proposito del signor Clemenza. Per quale coincidenza l'eunuco si trovava al margine delle due indagini nello stesso tempo? Era stato lui, in quanto responsabile del porto, a verificare il carico scomparso, e poco dopo ecco che suo fratello era stato sgozzato. Tuttavia - il Mandarino lo ammise controvoglia - un'altra ragione lo spingeva a interessarsi all'eunuco Clemenza: i suoi rapporti con le due belle creature conosciute nell'arco di pochi giorni. Ricordava con emozione le trecce seriche e l'autorità seducente della signora Aconito, perché rare erano le donne che univano grazia e tempera-
mento. Nondimeno, per risolvere il mistero del naufragio, diventava imperativo sapere se ella poteva essere implicata nella morte delle due donne scoperte nella stiva. La storia dolorosa e tuttavia chiusa della morte del marito solleticava la mente del Mandarino e conferiva alla giovane un'aura di mistero. Cosa si poteva ancora sperare dalla vita dopo aver scelto la via dell'esilio sociale? Dei bambini che si affrettavano in direzione della scuola comunale strapparono il magistrato alle sue riflessioni. Ansimanti, alcuni avevano percorso distanze ragguardevoli tra il loro villaggio e la città, come attestavano i loro piedi nudi coperti della polvere rossa delle strade. Risate e lazzi scaturirono mentre un nugolo di monelli dilagava allegramente. Per un momento il magistrato ripensò alla propria infanzia, spensierata come quella, fatta di giornate infinite in cui egli correva sulle strade sterrate verso la scuola, ma anche verso il fiume popolato di pesci più grossi della sua mano e le cui sponde erano costeggiate d'alberi carichi di frutti. Ma i piacevoli ricordi si dissiparono quando egli passò davanti alla residenza silenziosa del conte Diem. Con un sospiro, il magistrato alzò gli occhi al balcone dove vedeva ancora il cadavere immerso nel sangue. Dinh sarà intento alla sua indagine dal venditore di stoffe, pensò. Immerso nel suo ambiente prediletto, forse riuscirà a trovare una nuova pista... Di nuovo, il volto di una donna s'impose alla sua mente, allorché camminava verso il domicilio dell'eunuco Clemenza. La figura fragile e aristocratica della signora Libellula, soltanto intravista al momento del loro incontro, si sovrappose alla silhouette più atletica della signora Aconito, ed egli si provò a immaginarne la vita accanto al marito. Quali erano le prospettive di una donna così bella, la cui giovinezza era destinata a sfiorire al fianco di un uomo castrato? Era forse stata intima del cognato, il conte defunto? Bisognava sondare questa eventualità perché, in un modo o nell'altro, la storia del conte ne avrebbe spiegato la morte: il Mandarino ne era convinto. Su questo punto, la povera contessa Diem sarebbe stata inutile. Arrivato davanti al portone monumentale della proprietà dell'eunuco, il Mandarino scosse la testa. «Un altro poveraccio» mormorò, rammentando il fasto del conte Diem. «Evidentemente il commercio rifornisce generosamente le legature di sapechi». Un servo scese in fretta la rampa di scale per accompagnare il Mandarino all'interno della grande casa cui il tetto curvo dalle tegole gialle e verdi dava l'aspetto di edificio pubblico.
Quando il Mandarino Tan ebbe chiesto di vedere l'eunuco Clemenza, l'intendente assunse un'aria seccata. «Sono spiacente d'informarvi che il padrone è uscito presto stamattina per una riunione con i mercanti portoghesi e non sarà di ritorno prima di stasera». «La signora Libellula c'è?» «La mia padrona è in piena meditazione, ma vado a vedere se posso disturbarla». Il Mandarino seguì il servo che lo accompagnò lungo corridoi dalle colonne laccate, poi aspettò nel vestibolo riccamente decorato di mosaici di un blu che doveva provenire da lontane contrade. Un braciere a forma di elefante era vicino a una serie di statuine in ceramica raffiguranti dei cavalieri in alta uniforme. Su un tavolino in legno di rosa era posata una scacchiera i cui pezzi in argento massiccio si muovevano su caselle di cristallo. Pensò che un colloquio con la signora Libellula gli avrebbe permesso di delineare meglio la sua relazione col marito e forse di scoprire i rapporti che costui intratteneva con il fratello morto. Quando la porta della stanza di meditazione si aprì per lasciar passare il servo, il magistrato scorse fugacemente una sala priva di ogni arredo, contenente soltanto un bruciaprofumi cesellato a motivi di nuvole. Seduta con le spalle alla porta, la signora Libellula si teneva dritta, i capelli sciolti. Il Mandarino si alzò, pronto a entrare, ma l'uomo richiuse i battenti e s'inchinò con deferenza. «La signora Libellula mi ha fatto sapere che non può essere disturbata in questo momento e vi prega di accettare le sue scuse». Indispettito, il magistrato si disse che la partita era soltanto rimandata. Un marito assente e una donna in piena meditazione non avrebbero impedito alla giustizia di seguire il suo corso! «Aquiloni?» ripeté il Mandarino, incredulo. «Non riesco a immaginare chi possa andare a lanciare aquiloni nella proprietà del conte. Per quanto ne so, non hanno discendenza». Il letterato Dinh allargò le braccia e alzò le spalle. «Che all'origine dell'omicidio cruento di quell'aristocratico gaudente ci sia un bambino dalla mente malata? Supponiamo che le serate erotiche del defunto abbiano generato un bastardo traviato che cerca di fare la pelle al genitore...» «Ti lascio seguire questa sordida pista a tuo piacimento».
Le ricerche di Dinh non avevano fatto altro che porre un nuovo enigma. Cosa mai c'entrava un aquilone nell'assassinio del conte? «C'è un periodo in cui gli aquiloni sono sovrani: alla fine dell'autunno, poco prima dell'arrivo dell'inverno...» «La stagione in cui la cerbiatta disorientata calpesta le foglie, il momento in cui culmina la tristezza davanti al passaggio del tempo» completò il letterato, citando una nota poesia. «Pensi alla festa di Trung Cuu, quando si fanno volare gli aquiloni per cercare di salire con loro, in ispirito, verso lo spazio eterno?» «Precisamente. Nondimeno, siamo soltanto all'inizio dell'estate» disse il Mandarino con un sospiro. Il magistrato guardò dalla finestra, pensoso. Segnavano il passo, era evidente. Tra la folla brulicante all'esterno, c'era qualcuno che era responsabile della morte del conte e aveva agito per ragioni precise. A loro trovare queste ragioni: soltanto a questa condizione si sarebbe scoperto il colpevole. D'un tratto, la porta si aprì brutalmente, facendo comparire il capo della polizia Ky, ansimante e scarmigliato come al solito. «Fatta un bella corsa?» domandò il letterato in tono divertito. Ser Ky aspirò avidamente l'aria prima di rivolgersi al magistrato che si domandava quale nuova catastrofe era sopravvenuta. «Signore, è incredibile: un bonzo ci ha appena segnalato un altro furto di pietra tombale, all'uscita della città!» Il Mandarino Tan sbatté il pugno sul tavolo. «Questo è davvero troppo! Quale ossesso sta ammassando stele per il suo piacere morboso? Questa città è dunque popolata di matti?» Il magistrato malediceva il corso delle cose: la loro indagine che già si trascinava penosamente doveva sobbarcarsi anche la zavorra di quelle odiose pietre tombali che i morti non potevano nemmeno difendere. Proprio quello che ci voleva... Portare avanti tre indagini di conserva! Nel più profondo scoramento, osservò la faccia costernata del capo della polizia, congestionata dalla corsa, e il viso mesto dell'amico, e fece appello a un ultimo sussulto di orgoglio. Il Mandarino Tan non si sarebbe lasciato scoraggiare dagli sforzi mostruosi che si sarebbero dovuti fare! Per i suoi antenati burloni, che dovevano ridersela in coro di lui, non era proprio il caso di starsene con le mani in mano mentre l'Impero contava nuovi morti e i trapassati stavano perdendo le loro stele funerarie! «Comunque sia!» esclamò. «Ecco il nostro piano di guerra: signor Ky,
dividete i vostri uomini in tante squadre quanti sono i cimiteri. Domani, al cader della notte, monterete la guardia attorno ai punti vulnerabili. I furti commessi a un ritmo frenetico fanno ipotizzare che il colpevole tornerà a dedicarsi alla sua passione morbosa. Lo coglieremo sul fatto, ed egli assaggerà la frusta della signora Aconito!» Dinh vide con piacere l'espressione decisa dell'amico e notò la linea risoluta della sua mascella. Quando gli zigomi alti del Mandarino s'imporporavano a quel modo, si annunciava una fase d'intensa attività, e lui era sicuro che l'indagine avrebbe trovato un nuovo slancio. «Ai vostri ordini, Mandarino Tan!» esclamò il capo della polizia Ky, a sua volta esaltato dalla decisione senza appello del magistrato. «Vado subito a organizzare le truppe». Ma, nel momento in cui apriva la porta, un uomo grassoccio fece irruzione senza preavviso e lo scontrò di petto. «Tutte le mie scuse, ser Ky!» esclamò il visitatore aggiustandosi il berretto. «Sono venuto di corsa perché ho delle novità sul naufragio della mia giunca!» «Armatore Phung! Cos'avete scoperto di tanto importante?» domandò il Mandarino mentre il capo della polizia si massaggiava il busto con una smorfia di dolore. Il volto raggiante, il signor Phung spiegò con voce rotta dall'eccitazione: «In seguito all'abominevole attacco perpetrato contro la mia nave, ho fatto fare - da uomini lautamente pagati - un avviso di ricompensa per ogni informazione concernente il naufragio. Costoro sono andati in tutti i villaggi accanto alla foce del fiume e nei tanti quartieri cittadini per allettare la popolazione. E figuratevi che stamattina un contadino è venuto a reclamare il premio: ha notato un'animazione insolita dalle parti dell'Isola della Tartaruga, non lontano dal luogo del naufragio, e rivendica la legatura di sapechi per questa informazione». «E voi gliel'avete consegnata, immagino...» disse il capo della polizia, che conosceva l'avarizia dell'armatore Phung. «Soltanto in parte... il resto sarà versato quando le informazioni saranno state verificate. Non sono mica scemo. Questi paesani sono dei furboni di tre cotte, e non ci tengo a farmi turlupinare dall'ultimo zotico». Il Mandarino Tan si piantò davanti all'armatore e dichiarò: «Domani, andrò io stesso a verificare cosa succede su quell'isola. E, se i fatti saranno accertati, verserete la ricompensa come promesso. Personalmente, sono del parere: che i contadini siano più degni di fede di molti
commercianti». Il letterato Dinh rise in cuor suo. Il suo amico mal tollerava il disprezzo che a volte i mercanti mostravano verso i contadini. Capendo il rimprovero che gli veniva fatto, l'armatore batté subito in ritirata, adducendo a pretesto una; riunione importantissima al porto. Quando furono di nuovo soli, Dinh si rivolse al magistrato. «Hai intenzione di farti accompagnare, per esplorare l'isola? Gli effettivi della polizia sono già impegnati a sufficienza dagli appostamenti nei cimiteri, non scordarlo». «Hai ragione. Perciò, conoscendo la tua avversione per le spedizioni lontane, mi rivolgerò al nostro amico Hsiu-Tung». Con un sospiro di piacere, Dinh stava già per andarsene quando il Mandarino proseguì: «Ma poiché i cimiteri si contano a decine, qui, ti propongo di unirti all'operazione di ser Ky. Tu e il dottor Porco andrete ad appostarvi nel cimitero più lontano della città...» «Il dottor Porco! Cosa c'entra in questa faccenda?» protestò Dinh, in preda al panico. «Se occorre, monterò la guardia da solo. Non ho bisogno di sentirmi un alito putrido sul viso!» «Alito putrido o no, l'amabile medico ha una certa mole fisica e, come mi facevi giustamente notare, tutte le forze devono essere mobilitate per l'imboscata». Vedendo il muso lungo dell'amico, il Mandarino Tan aggiunse, conciliante: «I miei portatori di palanchino Minh e Xuan saranno della partita. Niente impedisce al dottor Porco di chiacchierare con loro». Si volse al capo della polizia, che costituiva mentalmente le squadre scuotendo vigorosamente la testa. «Ser Ky, dite: le donne morte nel corso del naufragio erano malate: ma di cosa soffrivano, con precisione?» «A dire il vero, signore, nessuno lo sa con certezza. Nel momento in cui sono state imbarcate, l'ufficiale incaricato ha fatto un esame sommario, e ha rilevato soltanto che esse avevano dei bubboni alle gambe e dei gangli sul collo. Non essendo medico, non ha fatto ulteriori esami, tanto più perché dovevano essere sbarcate sull'Isola delle Tombe». Il letterato Dinh, che ascoltava il colloquio, alzò un sopracciglio sorpreso: la faccia del Mandarino s'era d'un tratto incupita, come se un pensiero sgradevole gli avesse appena attraversato la mente.
Alla luce di una lanterna dai riflessi dorati, la signora Libellula si pettinava i lunghi capelli. Insondabili come due pozzi ghiacciati, i suoi occhi parevano guardare al di là dello specchio. Dietro di lei stava l'eunuco Clemenza che osservava, senza toccarle, le sue spalle, il cui squisito disegno lo incantava come il primo giorno. Sentendo al suo fianco una donna di cotanta bellezza, egli si consolava della propria infermità. Con gli occhi allungati e le sopracciglia elegantemente tracciate, sembrava che la donna uscisse dritta da una di quelle incisioni classiche i cui modelli avevano ispirato generazioni di poeti. La sua bocca carminio si schiudeva su una fila perfetta di denti madreperlacei e il suo mento dal disegno puro lasciava indovinare un carattere altero. L'eunuco non aveva la presunzione di credere che una donna dal volto d'Immortale, figlia dell'alta aristocrazia, si fosse invaghita del suo corpaccione. Per quanto di statura imponente, egli era dotato di una struttura molliccia, perché il perfido grasso, insinuandosi in tutte le pieghe della pelle, era il destino di ogni castrato. Agli occhi degli altri, quella struttura massiccia indicava una certa prestanza che andava di pari passo con le sue funzioni, ma, di fronte allo sguardo acuto della moglie, egli sapeva di essere soltanto quello che era: un ciccione. Questa constatazione, però, non lo aveva mai abbattuto, perché era stabilito che la loro unione si fondasse su un mutuo sostegno. Dal canto suo, egli beneficiava della presenza di una creatura di sogno che lo accompagnava alle serate ufficiali e ai banchetti d'affari, dando così mostra del suo gusto raffinato e instillando un dubbio invidioso in coloro i quali cercavano d'immaginare in quali modi un eunuco soddisfacesse una donna tanto bella. In cambio di questa compagnia eccelsa, egli dava alla donna ciò che lei desiderava più di ogni altra cosa al mondo: la pace. Quando l'aveva chiesta in moglie, irresistibilmente attratto dal suo corpo dalle linee pure, egli si era abbandonato a una dolce fantasticheria dove inventava tecniche inedite e audaci per onorare la giovane. Certo, egli non era in possesso di tutti i suoi mezzi, ma la sua fantasia non aveva freni quando si trattava di ideare posizioni la cui arditezza aveva limiti soltanto nella licenza. Così, era impazzito di gioia quando lei aveva accettato la sua proposta. Nondimeno, durante il colloquio che era seguito, la donna gli aveva chiaramente esposto le sue condizioni: per nessun motivo egli doveva toccarla durante la loro vita in comune. La bella non sopportava il minimo sfioramento o la minima carezza, riducendo così a niente tutte le pratiche carnali che lui aveva
progettato di mettere in atto. Soffocate sul nascere le sue velleità, l'eunuco aveva lottato con la propria coscienza e le proprie voglie: doveva accantonare tutte quelle invenzioni erotiche geniali o fare a meno della gelosia dei suoi pari? La vanità lo aveva allora indotto ad accettare i termini dello scambio, ed era stato così che i due avevano costruito una coppia unica e improbabile, ma che faceva segretamente spettegolare i curiosi di ogni risma. In piedi dietro la moglie, la cui schiena nuda si arcuava mentre lei si passava il pettine tra i capelli, l'eunuco pensò per un momento al fratello defunto. Questi, pur avendo approfittato grazie al matrimonio dell'immensa ricchezza della moglie, non aveva mai potuto vantarsi di avere una donna di simile bellezza al suo fianco. Nonostante i suoi gioielli splendenti e i suoi indumenti di valore, la povera Alga era sempre rimasta una creatura scialba. Lanciando un'occhiata desolata al proprio ventre prominente, il signor Clemenza sospirò. Menomandosi fisicamente, egli si era distaccato dall'umanità di cui adesso era giunto a disprezzare le debolezze. Non per caso aveva brigato per il posto di responsabile dell'Ufficio degli Scambi: egli era la persona per la quale tutto doveva passare, sicché aveva una piena visuale delle turpitudini umane, dalle regalie del più volgare bottegaio fino alla commissione occulta dell'ufficiale imperiale. Anni prima, dei mercanti insoddisfatti gli avevano inviato, tristo regalo, un reggiseno in seta verde. Umiliato da simile affronto, egli aveva reso ancora più rigidi i controlli al porto e prelevato nuove tasse. Infatti, in quel gioco disonesto che soprintendeva, era lui il più forte. L'eunuco che tutti consideravano un essere deforme era diventato imprescindibile, tanto potente negli affari quanto impotente nella vita. Certo, nel corso degli anni aveva accumulato ricchezze non indifferenti, ma non aveva ancora raggiunto l'apice del suo potere. Da principio, il commercio con i porti del Sud gli procurava rendite supplementari, ma in fondo era né più né meno che un passatempo con dei compatrioti di poche risorse. Le cose si erano fatte interessanti quando gli scambi avevano cominciato a riguardare l'immensa Cina, vicinissima, con la quale i rapporti restavano ambigui. Se era vero che i Viet nutrivano un'ostilità viscerale verso i popoli da cui erano derivati e che li avevano dominati per un millennio, ciò non toglieva che i cinesi fossero i più abili commercianti dell'Asia, con i quali trattare era redditizio. Così gli importatori di Canton, dalla pancia gonfia come la loro borsa, avevano lasciato una parte sostan-
ziale dei loro guadagni all'intermediario, costituendo in tal modo il grosso della sua fortuna. A lui piaceva avere a che fare con quegli stranieri coriacei nelle trattative, dall'onestà non sempre limpida, ma tanto più stimolanti della gentucola del Sud che lui si mangiava in un sol boccone. E, da poco in qua, nuove prospettive si aprivano ai suoi appetiti decuplicati: gente venuta dall'Europa stava allestendo agenzie nei porti dove lui aveva già le sue entrature. Il porto di Faifo attirava portoghesi e qualche giapponese, e se fossero arrivati gli olandesi già insediati in Giappone ci sarebbero state da guadagnare montagne di sapechi. Senza contare che francesi e italiani, sempre mossi dallo spirito di competizione, avevano mandato dei preti a saggiare il terreno, col pretesto di una evangelizzazione che lui trovava sospetta. «Il Mandarino Tan è stato qui questo pomeriggio» disse pacatamente la signora Libellula, strappata di colpo alle sue fantasticherie. Le dita dell'eunuco s'irrigidirono. La sua faccia piatta di lucertola si contrasse in un rictus che egli tentò di nascondere. «Perché mai ha fatto la strada fin qui? Non per importunarti, spero!» disse, fingendosi geloso. Sua moglie fece un sorrisino che gli parve un po' civettuolo. «Ma no! Voleva parlare con te, forse a proposito della morte di tuo fratello. Dubito che mia cognata abbia potuto fornire al magistrato dei particolari utili. La poveretta sembra aver proprio perso la ragione in questa triste storia». Poco convinto, il signor Clemenza insisté, la fronte aggrottata: «Sei sicura che fosse proprio a proposito del delitto? Glielo hai domandato espressamente?» «No, ero in piena meditazione e non gli ho parlato affatto. Tuttavia, non vedo quale altro motivo possa averlo portato qui». L'eunuco tirò su col naso, irritato. «Non scordare quell'increscioso naufragio della giunca del vecchio Phung. Quell'idiota ha ingaggiato un equipaggio di ragazzini guidati da un vecchio semicieco. È ovvio che si siano rivelati incapaci di resistere a un attacco dei pirati». La signora Libellula scosse il capo, e i suoi capelli sottili volteggiarono nella luce ambrata della lampada. «Non capisco cosa c'entri tu. I beni rubati non sono più sotto la responsabilità del porto». «D'accordo, ma a bordo c'erano due donne che hanno perso la vita in
questa storia, e figurati che erano prigioniere della Aconito!» Sua moglie si voltò, gli occhi sgranati dalla sorpresa. «Aconito! Cosa c'entra lei con tutto questo? In fondo è soltanto una carceriera!» «Ha dovuto rispondere della presenza di quelle donne sulla nave. Al Mandarino la loro presenza a bordo è sembrata strana». «Effettivamente. Cosa ci facevano in mezzo al carico di spezie del vecchio Phung?» L'eunuco tossicchiò e rispose in tono imbarazzato: «Aconito dichiarava che erano molto malate: per separarle dal resto dei prigionieri, voleva mandarle nella colonia di lebbrosi dell'Isola delle Tombe. Sfortunatamente, sono morte in viaggio; e, poiché io ho firmato i loro documenti d'uscita, temo che il Mandarino venga a interrogarmi in proposito». «Non capisco bene cosa spera di cavare da te. Non perché delle prigioniere sotto la responsabilità di Aconito hanno trovato la morte, tu dovresti delle spiegazioni alla giustizia. Erano donne, non merci». L'eunuco Clemenza sorrise leggermente alla signora Libellula che si distolse. Lo sguardo di nuovo portato dall'altra parte dello specchio, la donna riprese il pettine di madreperla e non notò l'inquietudine che animava i tratti ofidiani del marito. Assorto da ciò che stava scrivendo, Hsiu-Tung sentì appena i colpi alla porta. Chino sul tavolo, le sue spalle erano curve e, inconsapevolmente, lasciava uscire dalla bocca un pezzetto di lingua mentre allineava i segni fluidi sul velino color crema. In capo a un momento, il rumore insistente gli fece alzare la testa, e il suo sguardo si offuscò per il tempo di un battito di ciglia. Emerse allora dai suoi pensieri e, a grandi falcate, andò ad aprire al visitatore. «Ah, Mandarino Tan, siete voi! Sono desolato d'aver tardato a rispondervi. Ero immerso nelle mie riflessioni e non vi avevo sentito». Il Mandarino sorrise con amabilità. «Sono io che vi devo delle scuse, Hsiu-Tung. È tardi, e vengo a disturbarvi nella vostra dimora. Nondimeno, ho una richiesta urgente da farvi». Stupito, il gesuita sbatté le palpebre e porse una sedia al magistrato. «Cosa posso dunque fare per voi?» domandò, chiudendo lentamente il suo libro nero. «Voi avete accompagnato il letterato Dinh e me alla foce del fiume dove
ha avuto luogo il naufragio della giunca che è costato la vita a due donne. L'indagine in corso cerca di stabilire le cause della tragedia. Ora, c'è una novità in proposito». «Sono felice di vedere che fate passi avanti nell'indagine» disse garbatamente Hsiu-Tung. «L'armatore Phung, che ha noleggiato l'imbarcazione, ci segnala un insolito trambusto sull'Isola della Tartaruga, non lontano da terra. Poiché la nave è stata alleggerita del carico, è possibile che i colpevoli abbiano depositato il bottino nell'isola in questione, dato che è piena di grotte. Vi propongo dunque di accompagnarmi sull'isola per valutare questa ipotesi». Sconcertato, il prete rispose: «Sono onorato del vostro invito, Mandarino Tan. Tuttavia, non avete agenti più esperti di un semplice gesuita, per effettuare questo tipo di spedizione?» «Avete assolutamente ragione, ma tutte le guardie sono occupate da una missione di sorveglianza nei cimiteri cittadini». «Supponete che quei morti abbiano attaccato la giunca del signor Phung?» esclamò Hsiu-Tung, sinceramente sorpreso. «A dire il vero, non avevo valutato questa possibilità» concesse il Mandarino in tono neutro. «No, la missione delle guardie è di arrestare un ladro spudorato - uomo di spirito - che ha rubato delle pietre tombali in alcuni cimiteri attorno al porto». «Che sacrilegio abominevole, in effetti! Capisco che abbiate fretta di arrestare il responsabile di un misfatto tanto ignobile!» Il gesuita fece più volte il giro del tavolo tirandosi distrattamente la barba. Avendo soppesato il proprio ruolo nell'avventura ed eliminato l'eventualità di una cavalcata indesiderata, si rivolse al magistrato che non l'aveva lasciato con gli occhi. «D'accordo, Mandarino Tan, accetto con piacere il vostro invito! Cosa dobbiamo cercare nelle grotte?» Il magistrato tirò fuori l'elenco delle merci rubate sulla giunca e le posò sul tavolo. «Ecco il foglio che mi ha dato il signor Phung: vi compaiono i prodotti che trasportava la nave. «Curcuma: 8 casse, cardamomo: 6 casse, zucchero tram: 12 barili, noce moscata: 5 barili, canfora: sei casse, cera bianca: 5 casse, rame: 17 botti, salnitro: 20 botti, legno di liana: 3 travi, pelle di salamandra: 30 pezze...» lesse Hsiu-Tung a voce alta. «Immagino che le grotte rappresentino il po-
sto ideale per nascondere questi beni, che sarebbero così protetti sia dal sole sia dalla pioggia». «Precisamente! Ma bisogna agire alla svelta, perché possiamo star certi che i colpevoli non li lasceranno a lungo in un nascondiglio simile, accessibile al primo pescatore». Un accesso di tosse squassò d'un tratto il corpo del gesuita, che si precipitò sul mastello d'acqua fredda e si asperse il volto. «Non state bene, Hsiu-Tung?» domandò, sollecito, il Mandarino, alzandosi per soccorrerlo. «Forse dovreste chiudere la finestra per evitare le correnti d'aria, che nel nostro paese sono assai infide». «Non preoccupatevi!» lo rassicurò il prete. «Non è niente di grave, soltanto un po' di febbre e una tosse un po' imbarazzante. Non abbastanza per impedirmi di partecipare all'avventura! Quando partiamo?» «Domattina, prenderemo un'imbarcazione al porto che ci condurrà direttamente sull'Isola della Tartaruga. Ciò ci eviterà la lunga cavalcata per raggiungere la foce del fiume. Avremo la serata per perlustrare le grotte, ma bisognerà passare la notte sull'isola perché non avremo il tempo di ripartire il giorno stesso. Siete d'accordo?» Il gesuita annuì, contento dell'assenza di cavalli nella faccenda. «Perfetto! Avrò tutta la notte per riposarmi. La mia schiena e le mie ginocchia non sono più quelle della mia prima giovinezza, e devo dar loro un po' di pace prima di tornare a sollecitarle». Mentre Hsiu-Tung lo accompagnava alla porta, il Mandarino non poté fare a meno di notare gli zigomi rossi di febbre e il passo un po' malfermo del prete, e dentro di sé sperò di aver preso la decisione giusta. L'aria fresca della sera rinvigorì il Mandarino, cui piaceva passeggiare nel giardino nel momento in cui i gelsomini, dopo essersi impregnati del calore del giorno, esalavano il loro profumo. Toltosi il berretto, scosse il capo facendo scricchiolare le vertebre, e lanciò avanti una gamba per stirare un muscolo che lo tormentava. Ecco una giornata piena di novità, se non altro, pensò facendo piccoli balzi laterali destinati a dargli sollievo alle ginocchia. Era contento che il profondo scoramento provato lo avesse esortato ad agire prontamente. L'indagine, che si sparpagliava in più direzioni, era ora ben canalizzata, e questo avrebbe fatto procedere più in fretta le cose. Piano piano gli indizi anche se non immediatamente sfruttabili - cominciavano ad accumularsi. La visita al mercante di stoffe aveva gettato nuova luce sull'assassinio del
conte, procurando a Dinh un momento di piacere, cosa che in parte lo risarciva della penosa cavalcata dell'altro giorno. L'armatore Phung, per rapace che fosse, aveva preso un'iniziativa encomiabile, per quanto riottoso a dare la ricompensa promessa. E adesso, grazie alle imboscate previste per l'indomani, gli agenti si sentivano implicati e impegnati in uno sforzo comune. L'azione non sarebbe mancata, dopo l'immobilismo forzato che egli aborriva. Il Mandarino si rallegrò della risposta di Hsiu-Tung: con il suo acuto senso dell'osservazione, quell'uomo si sarebbe rivelato prezioso nell'esplorazione delle grotte. D'un tratto, il Magistrato si colpì la fronte e strinse i denti. Che sbadato! Tutto preso dalla nuova avventura, aveva dimenticato l'elenco dell'armatore Phung dal prete, ed esso faceva parte del fascicolo giudiziario. Fatto dietrofront, si rimproverò per la dimenticanza e sperò che Hsiu-Tung non si fosse ancora coricato. Giunto davanti all'ala che ospitava la dimora del gesuita, constatò con delusione che le stanze erano già immerse nell'oscurità. Stava per andarsene, quando il rumore di una porta che veniva chiusa lo bloccò. Sgranando gli occhi, scorse non senza sorpresa una sagoma familiare, spigolosa e un po' curva. Hsiu-Tung, che diceva di non star bene, stava lasciando la sua abitazione! Il Mandarino imprecò sottovoce. Cosa significava quella partenza notturna? Prontamente, si accovacciò dietro un cespuglio fiorito nel momento in cui il gesuita passava nel viale, i sandali che sbattevano sulle lastre. I dolori che diceva di sentire dovevano essersi dissipati come per miracolo, a giudicare dal vigore delle sue falcate. Aveva scambiato la tenuta cinese, decorata e vistosa, con la tonaca nera di religioso cattolico. Quantomai incuriosito, il Mandarino Tan lo tallonò con discrezione, felice che la sua tunica scura non potesse tradirlo nel buio. Come spinto da qualcosa d'impellente, Hsiu-Tung procedeva veloce, e il Mandarino capì che, se voleva seguirlo, non doveva perder tempo. Con passo silenzioso, si mise all'inseguimento della preda che filava come il vento. La tonaca del prete svolazzava e, nella penombra, soltanto il suo volto era visibile. Da un pezzo le lanterne delle botteghe erano spente, ma il gesuita imboccò senza esitazioni un labirinto di viuzze. Non dev'essere la sua prima sortita, pensò il Mandarino, sempre più stupito. Di lì a poco, arrivarono alle mura cittadine senza aver incrociato un solo passante. Varcata la porta, il prete si voltò, fiutando la brezza, e il magistrato fece appena in tempo a buttarsi dietro un tronco di albero corallo, il busto eretto e le braccia stese lungo il corpo. Rassicurato, Hsiu-Tung si rimise in cammino
con falcate ancora più folli, divorando la distanza a una velocità che lasciava il Mandarino stupefatto. Come poteva, un essere di carne, muoversi con tanta rapidità? Lui stesso, addestrato nella corsa, si congratulava per la sua buona forma, dal momento che non era facile star dietro a quello straniero alato mantenendo una distanza di sicurezza in un silenzio totale. Mentre si allontanavano dalla città, il Mandarino cercò d'indovinare la destinazione di Hsiu-Tung. Perché si avventurava nella campagna in piena notte? L'idea che l'uomo si recasse a un cimitero sfiorò, fuggevole ma inquietante, la sua mente. Nondimeno, nella direzione che loro stavano prendendo non c'erano tombe, se la memoria non lo ingannava. Il prete andava decisamente a nord, verso il fiume e... «Per tutti i diavoli!» esclamò il Mandarino sottovoce, rendendosi conto della possibile meta. Si fermò di botto mentre Hsiu-Tung saliva sulla collina. Il magistrato fissò, incredulo, le baracche scalcinate di cui indovinava le strutture vicinissime all'acqua: la concessione degli erranti! In mezzo alla massa oscura della abitazioni, una sola luce, verso la quale Hsiu-Tung si dirigeva a passo deciso. «Che il diavolo lo porti e lo faccia a pezzi!» borbottò il Mandarino, mentre il gesuita s'insinuava nel rettangolo d'oro di una porta aperta. Per quanto il buio fosse fitto e il Mandarino ancora distante dalla stanza illuminata, aveva indovinato prima ancora di vederle - come due serpenti avvolti attorno al suo cuore - delle trecce nere come il carbone. La curiosità desta e la bocca amara, il giovane magistrato si avvicinò alla finestra, pestando senza pietà delle coltivazioni di patate dolci, e azzardò un'occhiata, ripromettendosi di non lasciarsi più incantare dalla prima venuta. Ciò che vide nella stanza lo sbalordì, ed egli assistette senza capire alla strana scena che si svolgeva sotto i suoi occhi. Hsiu-Tung era entrato con una familiarità sospetta e si era seduto come se niente fosse davanti alla signora Aconito, il cui volto raggiante tradiva un piacere evidente, cosa che procurò qualche digrigno di denti all'osservatore. Dopo un saluto sommario, entrambi si misero a discutere con animazione, ma il Mandarino, troppo lontano, non fu in grado di cogliere quel che dicevano. Il gesuita, che pareva intento ad affermare qualcosa contrastato dalla giovane, trasse di tasca una pietra e cominciò a sfregarla vigorosamente su una barretta metallica. In capo a un momento, posò tutto sul tavolo e puntò il mento verso l'interlocutrice. Costei, senza perdere la sua aria enigmatica, accese un braciere e scaldò un pezzo sottile di metallo.
Quando questo fu rovente, la donna lo tolse dal fuoco con delle pinze e indicò la finestra con la mano. Allora, immerse in una ciotola d'acqua il frammento metallico scaldato. Poco dopo, lo ripescò e, incrociate le braccia, si profuse in una lunga spiegazione. Quando ebbe finito il discorso, gettò di nuovo il pezzo di metallo raffreddato nell'acqua e tutt'e due si chinarono per osservare, mentre Hsiu-Tung annuiva, evidentemente convinto. Per lungo tempo si persero in discussioni ardenti, che vedevano il gesuita obiettare alla giovane, o la giovane rettificare le affermazioni del gesuita. Privato dell'udito, il Mandarino Tan poteva seguire soltanto le loro espressioni a volta a volta esaltate e assorte, ma indovinava senza fatica che la loro conversazione non aveva niente di futile. Il Mandarino stava ancora chiedendosi cosa stessero tramando quando Hsiu-Tung afferrò una lastra di bronzo e si mise a studiarla da vicino. La signora Aconito si voltò e prese una ciotola di terracotta da cui tirò fuori una polvere nera. Dall'angolo in cui si trovava, il Mandarino la vide allora versare lentamente il prodotto in un bicchiere di vino caldo. Con ambo le mani, porse poi il boccale al prete che bevve d'un fiato. Come! La diavolessa gli fa ingurgitare un filtro d'amore? esclamò dentro di sé il magistrato, inquieto e vagamente scandalizzato. Non era andato lì per spiare le tresche di un prete e di una giovane vedova! Come a dargli ragione, HsiuTung si tolse bruscamente la tonaca e il Mandarino chiuse gli occhi. Quando li riaprì, scorse sul dorso del gesuita le lesioni purulente che aveva già osservato durante il bagno. Non erano dunque guarite... al contrario, erano apparse altre placche stillanti che marezzavano la pelle con il loro color di sangue. Ora, lungi dal mostrarsi disgustata per quella pelle martoriata, la signora Aconito ne pareva attratta. Il volto intento, si accostò allo straniero e si chinò sulla sua schiena per esaminarne i guasti. Poi, i capelli che le frustavano le reni, scomparve dietro una tenda frangiata per tornare subito dopo con una pezza in mano. Con gesti pieni di una sollecitudine che il Mandarino non avrebbe mai sospettato, cominciò allora a pulire il pus mescolato ai lembi di carne che si staccavano senza sforzo. Dal suo posto d'osservazione, il Mandarino vide il tessuto macchiato di sangue e pensò che la donna dovesse tenere molto a Hsiu-Tung, per curarlo a quel modo. Quando ebbe pulito le ferite e applicato un unguento sulle loro labbra violacee, gettò il cencio nel braciere. Le fiamme lambirono il tessuto, bruciando le sozzure con uno sfrigolio purificatore, ma lasciarono la pezza intatta. Mentre la giovane la toglieva dal fuoco per constatarne la nettezza, il gesuita si rivestì lentamente. Prese congedo con un cenno del capo e un
sorriso dove si mescolavano gratitudine e deferenza, e anche qualcos'altro d'indefinibile che fece stringere il cuore del Mandarino Tan. La testa tra le mani, l'eunuco Clemenza sudava alla luce di una candela. Le sue palpebre si chiudevano soltanto su incubi da desto nei quali egli finiva immancabilmente squartato o decapitato. La sua bocca così abile nelle trattative commerciali era contorta in un ghigno disperato, il labbro penosamente gonfio e umido di bava. Nel silenzio lugubre della sua dimora, si sentiva solo di fronte ai suoi segreti. Impossibile chiedere l'aiuto della signora Libellula in quella faccenda. Con un'occhiata altera tale da far avvizzire lo Stelo di Giada più intrepido, gli avrebbe manifestato il suo gelido sdegno, e a lui non sarebbe rimasto altro da fare che battere in ritirata, umiliato. Come salvare la faccia e, potenzialmente, la pelle? Il Mandarino inquisitore cominciava davvero a intimidirlo con le sue domande di una pericolosa pertinenza. Da quando un magistrato imperiale si prendeva la briga di andare a interrogare un cittadino nella sua casa? Com'erano più semplici le cose all'epoca del suo predecessore, un vecchio dalle zampe avide che bastava ungere nel modo appropriato! Ora, con quella mascella squadrata e lo sguardo da sparviero, il giovane magistrato rappresentava una minaccia più che reale, che andava sventata a ogni costo. Quel Mandarino indiscreto aveva preteso una copia di tutte le transazioni effettuate nel porto da tre anni a quella parte, come pure l'elenco delle merci in transito nell'Ufficio degli scambi, probabilmente subodorando qualche irregolarità sulla quale si sarebbe buttato come un uccello da preda su un pulcino appena uscito dal guscio. Era questo che preoccupava in sommo grado l'eunuco. Se non voleva farsi sbudellare dalla giustizia, non voleva nemmeno essere colto in flagrante delitto di malversazione. Allora, come evitare il castigo pur imbrogliando la verità? La sua casacca più zuppa del pannolino di un neonato tradiva il suo panico, e i suoi alluci ben curati maceravano da un pezzo in un succo maleodorante. Incalzato dal tempo e costretto nelle ultime trincee, l'eunuco Clemenza si appellò a un dio infernale, sollecitando alla rinfusa la Dea dell'Inganno dopo il Signore della Menzogna, in una litania illogica ma ben nutrita. E fu così che, nel mezzo della notte, mentre una nuvola passava davanti alla luna, gli venne un'idea che illuminò la sua faccia di geco con un sorriso malizioso.
Il vento mattutino faceva sbattere allegramente le vele della piccola imbarcazione che portava il Mandarino Tan e il gesuita Hsiu-Tung verso l'Isola della Tartaruga. Il vecchio battelliere al comando, un po' sordo e decisamente taciturno, si concentrava sulla navigazione arricciando il naso a punta, completamente dimentico dei due soli passeggeri a bordo. Chino sull'acqua chiara che rifletteva i raggi del sole, il magistrato cercava di dominare il cattivo umore. La sua sortita notturna, che l'aveva visto tornare in città tenendosi a rispettosa distanza dal prete, lo aveva completamente prostrato. L'intensa eccitazione dell'andata aveva lasciato il posto a una ridda di domande le cui risposte - congetture senza gran fondamento, frutto di osservazioni parziali e incomplete - lo lasciavano in una nebbia totale. Rimuginando senza posa sui minimi gesti della signora Aconito, rivedendo di continuo le minime espressioni del gesuita, non riusciva a costruire un'ipotesi coerente. Per giunta, era attanagliato da un'irritazione di cui non riusciva a liberarsi e che, quasi certamente, falsava il suo giudizio. La notte non aveva portato consiglio, al contrario. Impaniato in congetture l'una più bislacca dell'altra, architettava storie senza capo né coda, dove i due protagonisti avevano ruoli di volta in volta stravaganti o scabrosi. Sotto il sole splendente, il Mandarino Tan esibiva un broncio indispettito, la bocca sdegnosa e gli zigomi alteri. Idea davvero geniale l'aver invitato quel maledetto straniero in un viaggio che avrebbe fatto passare loro la notte sull'isola! Impossibile, adesso, disfarsi di quella presenza diventata importuna! Il magistrato, livido di risentimento, evitava di guardare il compagno, che si rallegrava ad alta voce della loro spedizione. Nel puro chiarore di quel mattino, gli occhi azzurri trasparenti del francese gli facevano orrore, due punti privi di consistenza sotto sopracciglia che parevano bruciacchiate da un fuoco di mediocre qualità. Ad aggravare la situazione, l'esecrabile straniero, insensibile al silenzio arcigno del magistrato, discuteva senza posa, si estasiava per la bellezza del paesaggio, commentando in un cinese ricercato e obsoleto le differenti tecniche di navigazione fluviale che aveva conosciuto nelle sue peregrinazioni. Scesero il fiume in quell'atmosfera uggiosa, superando i villaggi delle rive con disperante lentezza e con grande malcontento del magistrato che si domandava quando sarebbe finito quel viaggio. Per passare il tempo e filtrare le frasi prive d'interesse del suo logorroico compagno, il Mandarino recitava dentro di sé gli Analetti di Confucio. In capo a quella che gli parve un'eternità, mentre il sole finiva la sua corsa verso le onde, raggiunsero il
mare. Il battelliere fece rotta verso l'Isola della Tartaruga, mentre il gesuita blaterava circa le forme straordinarie di quella moltitudine di scogli buttati sulla superficie dell'acqua. «Il letterato Dinh mi ha raccontato l'altro giorno la leggenda di questa incredibile baia» dichiarò saputamente Hsiu-Tung, come se il Mandarino non la conoscesse. «Si dice che nella notte dei tempi, quando il vostro popolo lottava contro i nemici venuti dal mare, l'Imperatore di Giada inviò un esercito di draghi per aiutarvi a vincerli. Fu così che, piombando dal cielo come uccelli da preda, quelli sputarono una moltitudine di perle che si trasformarono in isole di giada, sbarrando la strada agli invasori e riducendo la flotta in briciole. Quando tutto fu finito, vittoriosi e coperti di gloria, i draghi celesti scelsero di restare nella baia anziché tornare tra le nuvole. Questo luogo magico è dunque nato da un volo di draghi!» Le parole del prete volarono verso le nuvole, mentre il fiume si stemperava pian piano in una bruma argentata. Quando accostarono all'isola, cui una protuberanza rocciosa dava la forma di un gigantesco carapace, il Mandarino Tan non stava più in sé dalla gioia al pensiero di poter allontanarsi da quel compagno chiacchierone e pedante. Per la gioia, saltò giù dalla piccola imbarcazione senza aspettare il vicino banco di sabbia. Cosa importava se i suoi stivali si riempivano d'acqua sporca e i suoi calzoni si macchiavano? Il soliloquio del prete era adesso appena udibile, e il silenzio una musica in sé. I raggi obliqui del sole calante dipinsero il cielo di rosa, e la sabbia virò d'improvviso al bianco splendente. Il battelliere, un conoscitore delle isole della zona, accompagnò i due uomini fino a un antro in una parete montagnosa. Avendo indicato con un cenno del mento che quello era l'ingresso alle grotte, se ne tornò subito alla spiaggia. Una torcia in mano, il Mandarino Tan entrò per primo nell'anfrattuosità e si fermò poco più avanti per dare il tempo agli occhi di abituarsi alla penombra. Dietro di lui, piegato in due per l'alta statura, Hsiu-Tung si affrettava ma a passettini, poco desideroso di perdersi nel dedalo roccioso. Il budello, stretto e soffocante all'inizio, si allargava progressivamente, e di lì a poco non dovettero più curvarsi per avanzare. L'oscurità circostante aveva avuto un effetto calmante sull'eloquenza del gesuita, che procedeva con discrezione al seguito del Mandarino a bocca serrata. Non la finivano più di scendere, e a mano a mano l'aria rinfrescava, mentre l'umidità cominciava farsi sentire. Alla fine raggiunsero una grande caverna e si fermarono di botto. Alla luce danzante delle torce, non poterono far altro che contemplare in
silenzio lo spazio immenso che si apriva davanti a loro. Era come un'enorme bolla imprigionata nella roccia, dorata e lambita da ombre nelle fiamme danzanti. Il soffitto della sala si perdeva nell'oscurità, ma le fiamme illuminavano degli aghi d'argento opaco che penzolavano in una cortina fitta e altri che salivano dal suolo. Talora si congiungevano, formando colonne irregolari e frange sorprendenti. Il Mandarino aveva già sentito parlare di quelle caverne misteriose, ma era la prima volta che vedeva le strane formazioni che crescevano in seno alla montagna quali infiorescenze minerali nutrite di tenebra. Provava un'emozione indescrivibile davanti alla favolosa bellezza di quelle creazioni sotterranee che aspettavano soltanto la fiamma di una torcia per fare rifulgere la loro pelle lattea. Quando fu ben sicuro di essersi impresso in mente il paesaggio che si svelava ai suoi occhi per impedirgli di svanire una volta tornato alla superficie della terra, il Mandarino Tan si rimise in cammino, scendendo nella sala con cautela. Pareva che l'ambiente possedesse una sola uscita, quella per la quale erano passati. «Se le merci rubate sono state depositate in questa grotta dopo il naufragio, oggi non ci sono più» constatò, non senza delusione. Si accovacciò a esaminare il suolo, nella speranza di trovarvi tracce di un passaggio recente. Dopo un momento, poiché non sentiva più il gesuita, si voltò. La torcia alzata, il volto incollato a una stalattite, Hsiu-Tung dava colpetti di lingua furtivi, come se leccasse la roccia. Il Mandarino strabuzzò occhi esasperati. Un'altra pratica barbara, pensò con stizza. «In effetti» ammise il prete un po' imbarazzato, abbassandosi prontamente per dar prova del suo desiderio di partecipare alle ricerche. «Tuttavia, si possono distinguere tracce piuttosto fresche di oggetti pesanti, probabilmente trascinati qui con il loro contenuto». Cincischiò per terra, poi alzò un dito imbrattato da una specie di polvere. «Mandarino Tan, non c'era del salnitro nell'elenco delle merci rubate? Infatti ecco un deposito della sostanza in questione, che sembra essere stata rovesciata inavvertitamente sul suolo della grotta». Il Mandarino si avvicinò, l'interesse desto. Scorse dei mucchietti di polvere che non parevano naturali in quella caverna. «Proprio così, Hsiu-Tung! Ecco la prova che i ladri sono effettivamente passati per questa grotta. Peccato che siamo arrivati troppo tardi per incrociare i beni nascosti qui!» Visibilmente, il gesuita si gustava quel complimento meritato, e il magi-
strato si raddolcì rimproverandosi la sua durezza iniziale. «Be', non abbiamo più niente da fare qui. Forse è giunto il momento di risalire, dato che fuori dev'essere notte fonda». A queste parole, fece dietrofront, seguito da Hsiu-Tung che continuava a fermarsi davanti alle strane colonne, accarezzandole come se si trattasse di animali familiari e amati. Accovacciato nelle erbacce che mascheravano il fossatello all'interno del cimitero, il letterato Dinh tentava senza successo di respingere il fianco gelatinoso che gli tormentava i gomiti. Aborriva la sensazione del grasso e ancor più il contatto della carne molle, sicché il confinamento forzato in un buco minuscolo con un pachiderma dal volto umano gli sembrava una tortura per i sensi. «Sorvegliate le tombe a destra, dottor Porco. Io tengo d'occhio quelle a sinistra» propose Dinh nella speranza che il medico si scostasse di più dalla sua persona. «Buona idea» annuì l'altro, calando la schiena gigantesca contro la spalla di Dinh. Il giovane aveva un bel torcersi in tutti i sensi, le sue ossa appuntite entravano nel filo della schiena del dottor Porco come nel lardo. Guardò non senza invidia le forme compatte dei due portatori di palanchino Minh e Xuan, appostati dietro un baniano. Nessuno aveva espresso il desiderio di ficcarsi in un buco con il medico, Dinh aveva dovuto sacrificarsi e adesso si rammaricava amaramente della sua cortesia. Da due ore nuotava nelle pieghe adipose del suo compagno, mentre entrambi spiavano le ombre del cimitero loro destinato. Sapeva che il capo della polizia Ky aveva distribuito le sue guardie negli altri cimiteri cittadini, ma quel pensiero non gli era di alcun conforto perché una vocina insidiosa gli bisbigliava che il Mandarino Tan, invece, era in viaggio di piacere. A pensarci bene, forse era meglio soffrire il mar di mare che annegare nel grasso in terraferma. «Mi domando se i profanatori di sepolture infieriranno, stanotte» bisbigliò il dottor Porco. «Un po' d'azione ci farebbe bene: questo buco è un po' stretto per due persone». «Secondo il Mandarino Tan, dovrebbero farsi vedere, dal momento che i furti si son fatti sempre più ravvicinati». Il medico si volse verso il letterato e disse in tono confidenziale: «Conosco bene quel tipo di perversione che ha per oggetto i morti. Alcuni trovano delizioso il corpo inanimato, abbandonato ai loro desideri. C'è
chi gli tributa amore; altri, più prosaicamente, lo mangiano». «Insomma, dottor Porco! Qui si tratta semplicemente di pietre tombali che spariscono!» esclamò Dinh, indignato. «Forse» gli sussurrò l'altro all'orecchio. «Ma sappiamo come vengono usate le stele in questione? Letto d'amore o tagliere?» La domanda fu accompagnata da una zaffata fetida, grazioso saggio dell'alito del medico. Colto in pieno, il letterato resistette, stoico, alla tentazione di imbavagliare il suo interlocutore. «Gradite un pezzo di zenzero candito?» domandò Dinh, frugando nella bisaccia. «È un bel po' che aspettiamo e mi è venuto appetito». Interiormente si rallegrava della propria previdenza che lo aveva indotto a riempire la sacca di dolciumi aromatizzati all'anice con cui sperava di allettare il vicino dal fiato maleodorante. Sicché fu assai mortificato quando costui declinò l'offerta con un cenno della mano: «Vi ringrazio della vostra generosità, ma, vedete, al momento sto curando la linea e seguo una dieta a base di molta carne e pochi grassi: per il momento prendo soltanto carni crude o essiccate e qualche frattaglia. E poi quelle ghiottonerie mi guasterebbero la dentatura». Accostando il viso di una bellezza mirabile, il dottor Porco aprì la bocca ed esibì i dentini da carnivoro, affilati e perfettamente allineati. Turandosi le narici, Dinh mandò giù la delusione e mise via i viveri inutili. Intanto i portatori, sistemati confortevolmente contro le radici del baniano, se la ridevano sottovoce. «Il nostro letterato ha fatto proprio un buon affare, a dividere una tana di coniglio con il dottor Porco!» diceva Minh, un giovane dai bei lineamenti, uno dei migliori portatori di palanchino del Mandarino Tan. «Dev'essere morbido e bello caldo, come quando si ha la testa tra le poppe di una donna» rispose Xuan, il suo compagno, il mento che fremeva per l'ilarità. «Dimenticavo che tu hai un debole malsano per le persone grasse. Peccato che il dottor Porco non sia la signora Troia». Il magro Xuan alzò le mani esili in segno di diniego. «Signora Troia o no, non mi costringeranno mai ad abbracciare il nostro buon medico. Tanto varrebbe mandar giù un uovo marcio!» «O dei gamberi avariati» aggiunse Minh, facendo uno sforzo d'immaginazione. «O della carne putrida...» Ma questa riflessione dissipò l'allegria del portatore dalle ginocchia vare.
Con voce da cui trapelava una certa inquietudine domandò: «Di' un po', Minh, credi che i morti si alzeranno, stanotte? Forse sono stati i defunti usciti dalle bare a portarsi via le loro pietre tombali». «Sì, proprio, vecchio mio» rispose Minh, beffardo. «E perché mai accollarsi delle pietre tanto pesanti?» Ma l'altro insisteva, apportando argomenti inconfutabili. «Ricordati il racconto da far rizzare i peli sulle gambe del battelliere Lam: la sua giunca è stata affondata da un esercito di morti viventi. E se i cadaveri, all'appello di un demone assetato di sangue, lasciassero tutti il loro sepolcro?» «Ma cosa vai mai a cercare! Il Mandarino Tan sarà proprio contento di avere un portatore di palanchino pauroso come una vecchia!» «Ho sentito dire che quando ti fai acciuffare da un corpo in decomposizione la tua energia vitale scappa fuori da tutti gli orifizi e ti ritrovi esangue, quasi moribondo». Minh incrociò le braccia e guardò l'amico scuotendo la testa. «Strano! Succede lo stesso quando abbracci una di quelle creature adipose che danno piacere». Nello stretto buco, Dinh non ne poteva più. Soffocando, compresso come un pulcino nell'uovo, cercava una scusa per tagliare la corda. Era l'ultima volta che accettava le proposte calamitose del Mandarino Tan. Lui era letterato, non sbirro. La sua vocazione era studiare i Classici, non l'anatomia del dottor Porco. Perso nei suoi lugubri pensieri, stava per abbandonare la postazione quando un rumore gli fece alzare la testa di colpo. «Guardate! Eccoli!» esclamò sottovoce. In effetti, una pietra tombale si era appena schiantata a terra con un rumore sordo. Emergendo da una nuvola di polvere, stranamente aureolata da una luce verdognola, una sagoma si stagliò nella penombra come uno spirito vomitato dalla notte. Con la coda dell'occhio, Dinh vide i portatori immobilizzarsi per lo spavento davanti all'apparizione. «Per quale sortilegio riluce a quel modo?» mormorò il letterato, sbalordito. «A volte, quando un corpo si decompone, si copre di funghi che emettono luce, a meno che non sia crivellato di vermi lucenti che gli divorano le viscere. E poi...» Il dottore non ebbe il tempo di concludere la sua spiegazione perché una seconda pietra era appena caduta, facendo comparire un'altra sagoma parimenti luminosa. Essa si spolverò le spalle e fece cricchiare le vertebre. Il
lugubre suono di ossa contro ossa echeggiò nel cimitero, ma fu prolungato da un ticchettio febbrile e incontrollato. «È il portatore Xuan che sbatte i denti!» tuonò Dinh. «Rivelerà la nostra presenza!» Effettivamente, i due corpi s'irrigidirono e si diressero verso il nascondiglio dei portatori. Nel buio, una forma si lanciò, più veloce di un topo davanti allo sparviero. Xuan, non resistendo più, se la stava dando a gambe. Ma uno dei cadaveri, con una velocità che sfidava la ragione, si mise a inseguirlo a grandi falcate. Xuan, reggendosi a malapena sulle ginocchia che cozzavano per il terrore, fece l'errore di guardarsi per un momento alle spalle. Vedendo il morto avventarsi su di lui a una velocità folle, ipnotizzato dalla luce sinistra, il poveretto si paralizzò per il terrore. L'altro, esibendo un ghigno che scopriva denti intatti nonostante il soggiorno sotto terra, gli fu addosso con un balzo. Un topo campagnolo sbuzzato da un falco non avrebbe lanciato un grido così straziante come quello del portatore Xuan, un rantolo che rivelava tutto il suo terrore. «Aiuto, Minh! Mi succhia il midollo!» guaì, dando pedate alla cieca che strapparono al suo carnefice soltanto un riso sprezzante. Vedendo il suo amico nelle grinfie della mostruosa apparizione, Minh l'intrepido si lanciò. I suoi muscoli avvezzi alle corse lunghe e sfibranti si contrassero per lo sforzo, ed egli si scagliò con un balzo di fiera sul cadavere che succhiava pian piano il suo amico. «Non temere! La tengo, la tua sanguisuga!» Ma appena mise il braccio attorno al collo dell'altro, arretrò per lo schifo. Si sarebbe detto che la sua pelle trasudasse un succo oleoso che rendeva la presa impossibile. Vincendo la ripugnanza, tentò di agguantare per la vita l'abbietto individuo, ma questi si alzò ghignando e, come un'anguilla che sgusci dalle dita del pescatore, lo lasciò con un pugno di mosche, la faccia incollata alla schiena di Xuan. Intanto, il letterato Dinh non era rimasto con le mani in mano. Saltando fuori dal buco, infine liberato dagli ammassi adiposi del compagno, era pronto al combattimento. I pugni chiusi, allargò le gambe saltellando, come i pugili che gli era capitato di applaudire alle fiere. «Su, fatevi sotto, specie di vermiciattoli infetti! Conigli come voi, ne faccio fuori ogni giorno nei miei allenamenti con i migliori soldati dell'Impero!» Per completare l'effetto, fece mulinare il piede sinistro e, trovando la mossa piuttosto convincente, si concesse anche uno scambietto. Il secondo
cadavere lo squadrava, sbigottito da quel mingherlino dalla giacca spiegazzata che scalpitava da fermo con dei salamelecchi ridicoli. Scambiando la sua sorpresa per spavento, Dinh s'imbaldanzì. «Fifone! Miserabile pezzo di carne a spasso! Osa affrontare Dinh, cintura scarlatta dell'Ordine degli Anacoreti non Illetterati, Maestro di Metempsicosi e Cavaliere degli Psicopompi!» L'altro, che non capiva un accidente di quelle parole, sospettò comunque che si trattasse di ingiurie e si lanciò all'attacco senza farsi domande. Approfittò di un momento di distrazione dell'avversario, intento a fare una piroetta seguita da una capriola, per assestare un diretto che il letterato schivò per miracolo. Salvato per un pelo dalla sua acrobazia, Dinh si sentì un semidio della lotta, e si esibì in un salto mortale. Le gambe, portate loro malgrado dallo slancio, andarono a colpire il nemico alla mascella. L'altro barcollò ma, in virtù dei nervi necrotizzati, si rimise in piedi con un ruggito da far tremare gli Inferi. I tendini del collo gonfi e la pelle splendente da tutti i pori, il morto caricò a testa bassa. «Putridume ambulante, muffa deforme, fatti avanti che ti spacco la faccia di fungo tronfio!» esclamò Dinh in un momento di estasi mistica. Dondolando in modo stravagante, riuscì a scartare con un movimento d'anca nell'attimo in cui il cadavere passava in tromba. Esaltato, il letterato si credette il Genio della Schivata sceso in terra, e questa arroganza provocò la sua rovina. L'avversario, irritato dall'insuccesso di fronte a quel moccioso che si torceva come un baco da seta, fece dietrofront e andò a piantarsi di faccia a lui che continuava a inveire a squarciagola. Poiché il suo nemico non si muoveva, Dinh si chiese fugacemente cosa stesse tramando. Allora, con un sorriso malvagio, il cadavere si avvicinò tranquillamente e con una testata, unica e sobria, lo mise fuori combattimento. Quanto al dottor Porco, aveva osservato dal suo buco le strane capriole di Dinh e salutato le sue finte temerarie con uno schiocco di lingua d'apprezzamento. Torcendosi per strapparsi dal buco, attaccò il nemico, pancia in resta. L'altro, soddisfatto d'aver messo in condizione di non nuocere il pedante linguacciuto, si stava voltando quando una massa enorme lo colpì di slancio. Sospinto da quel moto irresistibile, si ritrovò con il naso contro il muschio del cimitero, mentre una creatura elefantesca lo schiacciava con tutto il suo peso. Accasciato sul corpo immobile dell'avversario, il dottor Porco se la godeva un mondo. Con un colpo di reni, rotolò da un lato e poi dall'altro, appiattendolo spietatamente fino a quando ne sentì cricchiare le vertebre. Ma,
nel bel mezzo di quei trastulli quasi libidinosi, sorsero altre ombre da dietro le tombe. Conversero su di lui, come un esercito di fantasmi, minacciose. In quel momento, Dinh aprì un occhio e vide quei morti avanzare in file serrate sul medico sempre intento a effettuare le sue oscene rotazioni. «Attento, dottor Porco! Vi vengono addosso!» si spolmonò il letterato. Tuttavia, di fronte al pericolo, il medico non era privo di risorse. Quando vide quella fila compatta di corpi avventarsi su di lui, si appallottolò - testa rincagnata nelle pieghe del collo, braccia che stringevano le ginocchia - e approfittò della pendenza per rotolare loro incontro. I morti, pietrificati dalla palla di grasso - enorme ma incontestabilmente umana - che scapicollava dalla collina, rimasero inchiodati sul posto a bocca aperta. Come tante tessere di domino, furono allora bellamente travolti dall'astuto medico che ricuperò la sua forma iniziale soltanto quando tutti gli avversari furono fuori combattimento. «Eccellente! Avete superato voi stesso!» applaudì Dinh, ammirato suo malgrado. Anche i portatori Minh e Xuan, finalmente ripresisi, furono testimoni di quell'assalto spettacolare, e levarono il pugno per acclamare l'exploit del dottore. Ma proprio quando la vittoria sembrava sicura, d'improvviso si levò in aria un odore nauseabondo che li prese alla gola. Per Dinh, era come se mille dottor Porco fossero intenti a sgolarsi tutti in coro. «Dottor Porco!» cominciò il letterato messo in sospetto, prima di accorgersi dell'errore. Costui si turava il naso e la sua faccia la diceva lunga sulla nausea che doveva provare. «Quale carogna sprigiona effluvi così immondi? In vita mia non ho mai sentito niente di così venefico!» «I cadaveri in piena putrefazione hanno tutti abbandonato il loro feretro?» si allarmò il portatore Xuan, una mano davanti al naso. Gli uomini del Mandarino si voltarono all'unisono verso i sepolcri. Sul poggio, vestita di stracci che fluttuavano come stendardi dell'oltretomba, una forma stava immobile e li osservava gelida. Loro tentarono di alzarsi per lanciarsi in un nuovo attacco, ma l'odore rivoltante finì col sopraffarli, e tutti caddero privi di conoscenza sul campo di battaglia. La luna era da un pezzo affondata nelle onde del mar della Cina, e nella volta celeste si erano a poco a poco accese luci lontane e fredde. Sdraiato
sulla schiena, le braccia allacciate dietro la nuca, il Mandarino Tan lasciava vagare la mente. S'immaginava pescatore in bolletta, con indumenti rattoppati, arenato una sera d'insonnia su quella spiaggia illuminata da astri che avevano visto nascere e morire i draghi dei tempi immemorabili. Quante generazioni d'uomini avevano contemplato a quel modo il Fiume Argenteo che sbarrava il cielo più scintillante di un rivo di diamanti? «Beato chi beve la luce dei cieli con il cuore» disse una voce che veniva da lontano. Il Mandarino batté le ciglia, riportato di colpo sull'Isola della Tartaruga una sera di inizio estate. Hsiu-Tung gli parlava, gli occhi fissi al firmamento. Steso a sua volta sulla sabbia, si era tolto gli scarponcini e allargava beatamente gli alluci di una lunghezza fuori del comune. Tra i due uomini, qualche ramoscello secco si consumava lentamente, sprigionando in sottili volute il ricordo della sua linfa. Erano risaliti dalla grotta nel momento in cui l'oscurità cominciava a invadere baie e promontori. Sulla spiaggia, il battelliere affamato aveva acceso un braciere da cui saliva un allettante odore di pesce alla griglia. Di malavoglia, l'uomo aveva diviso la sua pesca con il magistrato, per il quale i viveri preparati dal suo intendente non valevano la carne tenera e grassa di un pesce di mare. Nonostante l'insistenza del Mandarino, e con palese soddisfazione del battelliere, Hsiu-Tung aveva declinato l'invito a cena, traendo dalla bisaccia una polpetta di riso freddo che aveva sgranocchiato frugalmente. Strappato alla sua fantasticheria dalle parole del gesuita, il Mandarino Tan si raddrizzò sui gomiti. «Perché dite così?» domandò, sorpreso. «Voi mi date l'impressione di uno che si abbandona alla bellezza del cielo senza curarsi di problemi ideologici. È un atteggiamento che poche persone, dalle mie parti, possono permettersi, coi tempi che corrono. Nel mio continente, ci si disputa negli anfiteatri e in seno alle chiese per decidere della struttura dei cieli». «Guardate le cose dal punto di vista delle cose stesse, e vedrete la loro vera natura; guardate le cose dal vostro punto di vista, e vedrete soltanto i vostri sentimenti; giacché la natura è neutra e palese, mentre i vostri sentimenti sono soltanto pregiudizi e oscurità» disse il Mandarino citando Shao Yong, vissuto seicento anni prima. Hsiu-Tung gli lanciò un'occhiata penetrante. Il Magistrato continuò subito:
«Quali sono le diverse fazioni?» «Per lungo tempo abbiamo creduto che tutto - il Sole, la Luna, i pianeti e le stelle - girasse attorno alla Terra immobile. I cieli erano incorruttibili e l'universo finito. Su questa concezione, retaggio di un filosofo greco chiamato Aristotele, si fonda la nostra stabilità sociale e religiosa: la Terra è il mondo del cambiamento e del perituro, mentre il cosmo immutabile è emblema della perfezione». «Ne parlate come se fosse una teoria obsoleta» fece notare il Mandarino, incrociando le gambe davanti al prete sempre steso sulla sabbia. «Diciamo che certe anomalie, visibili a occhio nudo, erano fonte d'irritazione per la Chiesa. In particolare, come spiegare che il pianeta Marte, a volte, sembra fermare la sua corsa e fare marcia indietro? Su questi problemi di osservazione s'innestavano anche problemi religiosi causati da un calendario inesatto». Il Mandarino scosse il capo. «Anche da noi il calendario è fondamentale per il rispetto delle festività. E l'Imperatore si circonda di astronomi al fine di stabilire le date propizie ai tanti sacrifici, dettate dal ciclo della Luna. Nella Cina antica, numerosi sapienti venivano reclutati per l'Ufficio d'Astronomia e del Calendario». «Precisamente! Noi abbiamo una festa importante, Pasqua, la cui data è calcolata secondo due calendari - il calendario ebraico e il calendario giuliano, compito non facile. È risultato che s'imponeva una seria riforma del calendario. Così, cent'anni fa, il Papa propose a un matematico polacco di nome Copernico di dedicarsi a questa riforma. Ma costui rispose che si sarebbe potuta fare soltanto a condizione di conoscere con precisione il rapporto tra il ciclo solare e quello lunare». «Da cui l'importanza degli astronomi per la religione» osservò il Mandarino. «Solo che Copernico giunse alla conclusione che i pianeti effettuavano delle rivoluzioni circolari attorno al Sole, e non attorno alla Terra, cosa che distruggeva le idee trasmesse fin dall'antichità: la Terra diventava dunque un pianeta come tutti gli altri. E non era tutto: egli formulò l'ipotesi che l'immobilità apparente delle stelle implicava che esse erano così lontane che l'universo doveva essere infinito». Stringendosi nelle spalle, il Mandarino intervenne: «Non è poi una visione così originale: i monaci buddisti sono convinti che l'universo non abbia limiti, e gli antichi cinesi sostenevano la stessa cosa millecinquecento anni fa, con la loro teoria Xuanye.»
«Effettivamente» convenne il gesuita senza esitare. «Questa teoria, chiamata graziosamente Frutto del Lavoro della Notte, presume che i corpi celesti fluttuino liberamente in uno spazio infinito. Ma, vedete, in Occidente, il semplice fatto di ipotizzare che l'universo è infinito ha appena mandato un uomo al rogo. Costui dichiarava senza mezzi termini che, in uno spazio senza limiti, tutti i punti si equivalgono. La Terra e l'uomo non occupano dunque una posizione privilegiata, come affermava la Chiesa, e le stelle sono simili al Sole». «Non stento a immaginare che i teologi si siano sentiti minacciati da questa opinione temeraria. Chi era quell'audace pensatore?» «Giordano Bruno, persona per la quale ho un immenso rispetto». «Nondimeno, in quanto religioso, non siete dalla parte di chi accende i roghi?» Imbarazzato, il gesuita si sfregò vigorosamente il naso e si mise seduto. Le braci rosseggianti ondeggiavano nell'acqua chiara delle sue pupille. «Il problema, capite, è che io credo davvero in Dio. Nondimeno, l'argomentazione di Bruno si basa sul postulato seguente: Chi nega l'effetto infinito nega la potenza infinita. Ora, il nostro Dio cristiano è per l'appunto questo: infinitamente buono e infinitamente potente». «Dunque siete preso tra due fuochi, se capisco bene». Hsiu-Tung scosse la zazzera più rossa delle fiamme morenti che lo separavano dal magistrato. «Tre fuochi, in verità». Poiché il Mandarino Tan alzava le sopracciglia, interdetto, il gesuita spiegò con voce distaccata: «In quanto missionario, sono venuto in Cina per diffondervi la fede cristiana. In quanto gesuita, però, ho anche cercato di privilegiare le scienze, l'ambito prediletto dal nostro ordine. Nei nostri studi, la matematica e l'astronomia hanno un posto preponderante accanto alla teologia pura, e non è un'esagerazione affermare che i gesuiti sono noti in Europa per il loro spirito scientifico. Così, forte del mio sapere e fiero dei nostri progressi in quelle discipline, credevo di avere tutto da insegnare ai popoli d'Oriente». Si lasciò sfuggire un riso basso, dove si mescolavano delusione e amarezza. «Ora, figuratevi che in Asia sono stato messo di fronte alla vastità della mia ignoranza. Come dicevate voi, ciò che in Occidente sembrava rivoluzionario, in Oriente era un luogo comune già da secoli. I cieli infiniti sono soltanto un esempio tra cento. I cinesi ci superano soprattutto nell'ambito
delle osservazioni astronomiche: nei rendiconti storici che ho potuto consultare, comparivano l'inventario delle macchie solari, delle variazioni luminose di alcune stelle con la loro durata e la loro localizzazione. Quanto alle comete, voi sapevate settecento anni prima di noi che la loro coda punta sempre nella direzione opposta al Sole». Prese una manciata di sabbia bianca e ne fece scorrere i granelli tra le dita magre. «Ecco dunque la mia scomoda posizione: gesuita che rispetta un eretico immolato per la sua visione del cielo, e che ammira le conoscenze scientifiche del paese che egli dovrebbe istruire». Ma il Mandarino Tan aveva un'altra domanda ancora. «Tuttavia, l'esistenza stessa delle comete e dei meteoriti - che non vi erano sconosciuti - non indica forse che l'universo cambia e si trasforma anziché essere immutabile, come affermavano i vostri scolastici?» Stupito dall'assennata osservazione del giovane, il prete approvò con un sorriso. «Pare proprio di sì, ma occorre qualcosa di più della logica per rovesciare un dogma». Le sue parole aleggiarono per un momento nell'aria che vibrava sopra le fiammelle moribonde. «Sapete che i più vicini a questa nozione dell'evoluzione sono i taoisti?» riprese Hsiu-Tung. «Per loro, tempo e mondo sono in eterna trasformazione, da cui il loro interesse per l'alchimia, arte suprema delle mutazioni. Alcune antiche sette taoiste hanno spinto molto avanti la fusione con l'universo. Così lo Shangqing - che ha avuto il suo momento di gloria milleduecento anni fa ma che forse conta degli adepti ancor oggi - esaltava un'alchimia interiore incoraggiando i suoi membri a nutrirsi di luce. Costoro credevano dunque che l'assorbimento degli effluvi astrali, rappresentati da talismani, permettesse di salire ai cieli, raggiungendo la fusione dell'essere con l'universo». «Mi sembra un po' presuntuoso» replicò il magistrato, per il quale i taoisti erano dei refrattari permissivi e individualisti. Facendo finta di non aver sentito, Hsiu-Tung continuò in tono piatto: «Fatto sta che gli adepti dello Shangqing tributavano un culto particolare al Sole che rappresentava il fornello, alla Luna simbolo dell'acqua purificatrice, alla stella Polare che è il centro della rivoluzione del mondo, e all'Orsa Maggiore che simboleggia i sette orifizi dell'embrione». «L'Orsa Maggiore?»
«È il nome che noi occidentali diamo alla costellazione di sette stelle che voi chiamate il Moggio o il Cucchiaio del Nord. Questo esempio vi illustra l'estrema affinità che certi taoisti sentono con gli oggetti celesti. Grazie alla contemplazione e a un'igiene rigorosa che condanna le pratiche sessuali, essi raggiungono la fusione con le divinità celesti». Il Mandarino Tan non si lasciava comunque convincere. «Tutti sanno che i taoisti sono alla perpetua ricerca dell'immortalità e imboccano strade più o meno fuori mano, per non dire arrischiate. Ma noi confuciani abbiamo un mezzo più sicuro per raggiungerla: basta avere una discendenza numerosa e rispettosa, che si occupi dell'altare degli avi. È grazie al culto degli antenati che i morti permangono nella memoria dei vivi... ed è questa l'immortalità». «Suppongo che ciascuno abbia la sua visione delle cose perché, per noi cristiani, l'immortalità passa per la salvezza dell'anima». «Chi dunque salverebbe l'uomo?» «Dio» rispose il gesuita. Il Mandarino non replicò ma, in capo a un momento, non poté fare a meno di domandare: «La salvezza dell'anima sarà necessaria perché un uomo come Giordano Bruno sia immortale? Pensate che essendo bruciato sul rogo della vostra Chiesa, egli sia cancellato dalla memoria dell'umanità? O pensate che tra centinaia d'anni ci si ricorderà ancora di lui?» Hsiu-Tung lo trafisse con lo sguardo. «Sono convinto che ci si ricorderà di lui». Passò un lungo momento durante il quale il magistrato osservò in silenzio la volta stellata che, dal principio della loro conversazione, aveva ancora girato attorno alla Polare con un movimento ininterrotto. Colpito dalla bellezza del firmamento, il Mandarino si lasciò quasi convincere dalla visione dei taoisti. Poteva darsi benissimo che alcuni di loro, cercando di unirsi con i cieli, non facessero altro che tentare di congiungersi a quella rotazione eterna che sarebbe continuata anche dopo la loro morte. Forse era anche quello, in fondo, un aspetto dell'immortalità... Un accesso di tosse s'impadronì d'un tratto del prete, che si coprì precipitosamente la bocca, ma non prima che il Mandarino avesse constatato che il gesuita sputava sangue. «Hsiu-Tung, volete un po' di tè caldo?» domandò il magistrato, premuroso. «Non preoccupatevi per me, signore!» singhiozzò il francese tra uno
spasmo e l'altro. «Questa dannata tosse passerà presto. Tuttavia, un bagnetto di mezzanotte mi farà bene, perché ho la sensazione che queste ultime faville m'incendino la pelle». Così dicendo, si tolse lestamente la tonaca e, col favore delle braci agonizzanti, il Mandarino scorse le piaghe infette che gli correvano lungo la spina dorsale. Quelle lesioni, purulente e profonde, gli ricordarono di colpo la scena del giorno prima. «Ditemi, Hsiu-Tung, conoscete la signora Aconito?» domandò a bruciapelo. L'altro, sorpreso, si voltò e gli lanciò una rapida occhiata prima di rispondere: «Ho il grande onore di conoscerla, in effetti. È una donna la cui compagnia è di una ricchezza senza pari e la conversazione di un'intelligenza fuori del comune». Con un tono che cercava di rendere il più innocuo possibile, il magistrato proseguì l'interrogatorio. «Dunque avete avuto occasione di conversare con lei. Ignoravo che frequentaste la prigione della nostra città». «Disilludetevi, Mandarino Tan, non la conosco in quanto carceriera, ma in quanto alchimista». «Cosa dite? Praticate l'Arte del fornello? E anche la signora Aconito si dedica a simili pratiche?» Il Mandarino era sbalordito. Pian piano le immagini che lo ossessionavano si rimisero a posto: l'appuntamento della sera prima non era un intermezzo sensuale, ma una riunione tra adepti. Questo cambiava tutto! La loro connivenza si spiegava con il loro comune interesse per l'Arte delle trasmutazioni. «Diciamo che i gesuiti, come un certo numero di menti scientifiche in Europa, si dedicano volentieri all'alchimia. Anche noi siamo in cerca della famosa pietra filosofale che permette di trasformare i metalli vili in oro». «Come? Le magiche manipolazioni dei taoisti vi sono dunque note?» «I procedimenti differiscono, ovviamente, ma ci sono forti somiglianze, giacché in fondo si tratta della purificazione di una materia volgare in vista di ottenere una sostanza nobile. La fabbricazione della pietra filosofale passa per tre tappe fondamentali: dapprima la 'putrefactio', o materia al nero, che ha lo scopo di liberare la materia prima dalle imperfezioni. Poi, la materia al bianco, il cui simbolo è un albero con delle lune, mira a ottenere una pietra bianca grazie alla quale i metalli vili si mutano in argento. E in-
fine la materia al rosso o 'rubedo' dei prodotti, simboleggiata da un albero con dei soli, il cui risultato è la famosa pietra». «La ricerca della pietra filosofale ha come solo obiettivo la trasmutazione materiale, o anche un altro disegno, puramente spirituale? I taoisti, infatti, non si agitano davanti al loro fornello per ragioni terra terra...» volle sapere il Mandarino, incuriosito dall'argomento. Come apprezzando la domanda, Hsiu-Tung annuì prontamente. «Ci stavo per l'appunto arrivando. La ricerca della pietra ha anche una dimensione spirituale: l'opera al nero rappresenta per l'alchimista la morte al mondo per conquistarsi l'eternità; l'opera al bianco significa la restituzione dell'anima al corpo infine purificato; e l'opera al rosso è la sua esaltazione finale». «Dunque, come i taoisti, voi inseguite l'immortalità!» «In effetti, la pietra filosofale entra nella preparazione dell'elisir di lunga vita, il rimedio universale, lo stesso che gli adepti del Tao si sforzano di produrre. Ma c'è una componente supplementare che ci lega ai taoisti: l'alchimia affonda le radici nella minuziosa osservazione della natura, e questa è cosa che sta a cuore anche a noi gesuiti». «Ed è per questo motivo che la condizione delle scienze in Oriente v'interessa, vero?» «Avete capito tutto, Mandarino Tan! L'alchimia aspetta tutto dall'esempio morale del vero saggio ed esige dai suoi adepti l'anonimato e la rinuncia alla gloria terrestre, ideale che può riassumersi nella formula seguente: Perdendo la purezza di cuore, si perde la scienza». Dopo una pausa durante la quale il suo sguardo vagò su un mare più nero dell'inchiostro, il prete riprese: «Quanto a me, cercherò di non perdere quella purezza di cuore perché, di ritorno in Francia, ho intenzione di pubblicare tutte le mie analisi sui progressi scientifici in Cina. Il mondo conoscerà allora le vere perle dell'Oriente». «Avete ancora il tempo di redigere il vostro manoscritto, Hsiu-Tung!» replicò il Mandarino. «Infatti le navi in partenza per l'Europa sono rare al giorno d'oggi, e spero che sarete mio onorevole ospite fino al prossimo monsone». «Vi lascerò molto prima, Mandarino Tan! Come vi ho detto, una nave portoghese in rotta per la Malesia attraccherà tra poco in porto, il tempo per caricarsi di prodotti esotici destinati all'Occidente. E ho già previsto di essere a bordo».
Il corpo del gesuita fu scosso di nuovo da una tosse violenta e, guardandolo attentamente, il Mandarino osservò come la sua pelle fosse di un pallore pressoché trasparente con, proprio sotto la superficie, efflorescenze rosate che fiorivano in corolle di sangue. I lineamenti tirati, il letterato Dinh volgeva verso il Mandarino Tan un volto segnato da una notte senza sonno. «Altre due pietre tombali scomparse! Come avete potuto lasciarvi sfuggire dei corpi semidecomposti?» esclamò il magistrato, incredulo. «Se erano appena usciti da terra, dubito che le loro articolazioni fossero in uno stato smagliante». «Il portatore Xuan ti dirà il contrario, lui che è stato agguantato in piena fuga da uno di quei mostri. E anche Minh, per arzillo che sia, si è rivelato incapace di bloccare chicchessia in quella cavalcata d'oltretomba. Quei cadaveri trasudavano un pus che rendeva impossibile ogni presa». Nel salone del tribunale, dove il Mandarino Tan li aveva convocati con Dinh, i portatori stavano sulle spine. Mogi mogi, si facevano piccoli piccoli in un angolo in ombra, mentre il letterato subiva l'interrogatorio del magistrato. Quando si sentirono menzionare in termini così poco lodevoli, ebbero un rigurgito di fierezza e decisero che era tempo di salvare la faccia. «In realtà, signore» uggiolò Xuan, vergognandosi d'aver tagliato la corda prima della battaglia, «mi limitavo a eseguire la mossa strategica chiamata il Grasso buttato al cane, quella con cui un animale allontana il predatore dalla tana dove tiene i piccoli. La cosa ha funzionato, del resto, perché i cadaveri mi si sono subito messi alle calcagna». «E io ho seguito l'amico Xuan per cercare di intercettarli, ma è pur vero che un vivo ha poche possibilità contro un morto che trasuda scalogna... tanto varrebbe cercare di agguantare una scrofa che si è rotolata nel fango!» Il Mandarino scuoteva la testa con un'aria ambigua che i portatori non seppero decifrare. Li avrebbe rimproverati aspramente e licenziati? Si sarebbe mostrato d'accordo col letterato infliggendo loro un addestramento supplementare al fianco degli sbirri della polizia? Così, quando il magistrato si volse di nuovo verso il letterato Dinh, si concessero un lungo sospiro di sollievo. «Questa storia di pus stillante è molto strana! E tu, non hai potuto far niente, spalleggiato dal dottor Porco?»
«Spalleggiato è proprio la parola giusta! Non ha smesso un momento di sfregare il grasso della sua schiena contro la mia persona, mentre aspettavamo di essere attaccati dai morti viventi». Con un sorriso in tralice, il Mandarino riprese: «Non è quello che mi ha fatto capire il dottore. Pare che egli abbia molto apprezzato quel momento di complicità e si rammaricava che non fosse durato più a lungo. In compenso, i portatori Minh e Xuan mi hanno descritto il suo atto eroico nella mischia». «Sì, se si ritiene che aggomitolarsi a palla per rotolare giù da un poggio sia un atto eroico» buttò lì Dinh facendo volteggiare le dita in un gesto sprezzante. «Ma era un'idea da maestro, degna del nostro medico!» non poté fare a meno d'intervenire Xuan, che portava ancora rancore al letterato per la descrizione un po' troppo cruda della sua condotta. «Grazie alla sua ispirazione, almeno una decina di cadaveri hanno mangiato la polvere. Dei magrolini come me non ne sarebbero stati davvero capaci». A queste parole, scoccò un'occhiata in tralice in direzione di Dinh, che fluttuava nella sua giacca. «Sfortunatamente per noi, il dottor Porco non si è rivelato all'altezza, nel finale» fece osservare Minh. «Anche un gigante del suo stampo ha potuto ben poco contro il colpo segreto dei cadaveri». «Quale colpo segreto?» domandò il Mandarino. «A vincerci è stato il lezzo terribile che ci hanno alitato addosso! Si sarebbe detto che uscisse da una bocca piena di denti guasti che abbia mangiato dieci spicchi d'aglio» rispose Minh con una smorfia di disgusto. «Tanto che il letterato Dinh era pronto ad accusare il dottor Porco!» rincarò Xuan, per il quale la precisione diventava di colpo d'obbligo. Il Mandarino girò sui tacchi, sorpreso. «E da dove mai provenivano quei miasmi? Si sprigionavano dai corpi stessi?» «Difficile dirlo» rispose Dinh, facendo uno sforzo di concentrazione. «Ho avuto piuttosto l'impressione che l'odore sia arrivato brutalmente nell'intero camposanto, asfissiandoci tutti. D'altronde, era così nauseabondo che siamo rimasti inanimati fino all'alba». Il Mandarino rifletteva passeggiando nervosamente. In capo a un momento, si piantò davanti ai suoi uomini: «Quando avete sentito quegli effluvi, tutti i cadaveri erano fuori combattimento?»
Fu Dinh a rispondere in tono sicuro: «No, quando sono sprofondato nell'incoscienza, ho visto un'ombra, in cima al poggio, che ci guardava». Il Mandarino Tan annuì senza aprir bocca. Il letterato aveva un bello scrutare il suo viso, non seppe cosa pensava il suo amico. Probabilmente era deluso d'aver ottenuto un risultato così misero con la sua tattica. Dinh lo capiva. Ma via! Non si vinceva una battaglia con dei codardi e dei combattenti zavorrati di grasso. «Il capo della polizia Ky e i suoi sbirri hanno avuto più fortuna di noi?» domandò Dinh. «No, le squadre sono rimaste al loro posto fino all'alba senza vedere nessuno. Pare che voi siate stati i soli ad affrontare quell'avventura. Darei non so cosa per sapere che fine hanno fatto le pietre sottratte». «Il dottor Porco ha fatto un'ipotesi di cattivo gusto che aveva l'aria di entusiasmarlo. Secondo lui, il ladro potrebbe servirsene come 'letto d'amore' o come 'tagliere'». «È un'idea da par suo» rispose il Mandarino. «A forza di praticare cadaveri, il nostro medico ha sviluppato strane ossessioni». Un tossicchiare discreto lo fece voltare. I portatori Xuan e Minh si fissavano gli alluci, visibilmente desiderosi di ritirarsi. La loro virilità crudelmente strapazzata dal letterato aveva sofferto non poco e, a quanto pareva, desideravano un momento di solitudine. Il Mandarino fece loro cenno di uscire e i due portatori sparirono senza fiatare. Rimasto solo con il magistrato, Dinh s'accasciò senza tanti complimenti su una sedia dallo schienale alto. «E la tua gitarella marittima con il nostro amico Hsiu-Tung è stata più fruttuosa della nostra imboscata fallita?» Il Mandarino Tan fece un sospiro. «Figurati: siamo sbarcati troppo tardi sull'Isola della Tartaruga. Tutte le merci rubate avevano, sì, soggiornato nella grotta da noi esplorata, ma erano state portate via poco tempo prima del nostro arrivo. Le tracce erano ancora freschissime». «Peccato davvero che siate stati preceduti» consentì Dinh. S'interruppe e giocherellò con un pennello a peli morbidi facendolo girellare tra le dita. Dopo un momento di riflessione, decise di fare una domanda che lo tormentava: «Come ha reagito il prete? In fondo, gli hai fatto attraversare il mare per un risultato pressoché nullo».
«Bisogna tener conto del fatto che i gesuiti sono più pazienti e meno rancorosi dei letterati: ha preso la cosa piuttosto bene. D'altro canto, mi è difficile leggere le sue espressioni, e i suoi occhi chiarissimi lasciano trapelare ben poco dei suoi pensieri». Rivolto a Dinh, il Mandarino proseguì, le sopracciglia aggrottate: «Perché me lo domandi? Per caso hai delle riserve su Hsiu-Tung?» «Niente di preciso, in verità. Ma non è strano che i colpevoli abbiano trasferito la merce soltanto poche ore prima del vostro arrivo sull'isola? In pratica, soltanto Hsiu-Tung conosceva il tuo progetto». «Giusto» convenne il Mandarino, preoccupato. «Potrebbe aver fatto la spia... ma in quale modo potrebbe essere legato al saccheggio della nave?» Il braccio teso, il letterato indicò il porto. «Non scordare che Hsiu-Tung è uno straniero e che la nostra città sta per diventare un crocicchio strategico per gli scambi con l'Occidente. E chi dice scambi dice intermediari. Ora, un prete ha entrature un po' dappertutto: chi diffida di un religioso, soprattutto quando sembra fare tanti sforzi per assimilare la cultura del paese?» Andando dalla finestra alla scrivania in legno di lillà, passando e ripassando davanti alle mensole zeppe di fascicoli, il Mandarino Tan rifletteva a fondo. Non riusciva a sospettare del suo nuovo amico. Gli tornava in mente la sua faccia pallida, sormontata da una zazzera rutilante, che sprigionava integrità e intelligenza. Nondimeno, le argomentazioni di Dinh non erano prive di fondamento e, nel corso delle ultime indagini, il Mandarino aveva imparato a diffidare delle apparenze. «La notte scorsa, Hsiu-Tung in effetti mi ha confidato il suo entusiasmo per le scienze orientali» concesse il magistrato. «Secondo lui, la Cina è addirittura più avanti dell'Occidente in certi ambiti. È evidente che ha studiato a fondo tutto ciò che concerne da vicino la cultura dell'Est, e ciò lo mette in buona posizione per dialogare con un interlocutore locale». «Il suo cinese è eccellente, lo abbiamo constatato. E sicuramente conosce la lingua locale meglio di quanto lasci intendere. Se rammenti, ha capito perfettamente le frasi del giovane marinaio della giunca». Il Mandarino Tan si bloccò, sfregandosi il mento. «In effetti, l'interesse che nutre per il nostro paese va oltre le scienze: ho saputo che Hsiu-Tung ha fatto conoscenza con la signora Aconito». «Ah! Il religioso sarebbe dunque fornito di sentimenti? Hai un rivale in amore?» Fulminandolo con gli occhi, il magistrato buttò lì in tono altero:
«Non siamo qui per discutere delle inclinazioni di un prete francese. Volevo soltanto dire che Hsiu-Tung è anche versato nelle tante teorie taoiste, e che i suoi rapporti con la signora Aconito si limitano a questo argomento». «La bella vedova fa dunque parte di quei refrattari al confucianesimo istituzionale!» celiò Dinh, lui stesso ribelle a quel sistema che giudicava troppo rigido. «Ho sentito dire che gli adepti del Tao non sono nemici della carne; al contrario, raccomandano dei cimenti sessuali di un vigore fuori del comune... tutto ciò, beninteso, nella ricerca di un'immortalità tutta spirituale. Il gesuita e la taoista inseguirebbero dunque lo stesso sogno di longevità?» In tono stizzito ed esageratamente pedante, il Mandarino rispose: «Sappi, incolto che non sei altro, che non tutti i taoisti inseguono il piacere, come suggerisci con i tuoi sottintesi salaci. Hsiu-Tung - e lui se ne intende - mi ha fatto capire che ci sono branche particolari del Tao che, al contrario, condannano le pratiche sessuali per raccomandare l'involo dell'anima verso gli astri. Serbalo a futura memoria!» «Prendo nota di questa controprova. Ma lo scambio intellettuale tra Hsiu-Tung e la signora Aconito non potrebbe nascondere un altro scambio più lucroso con l'eunuco Clemenza, che, guarda caso, è il garante della bella signora?» «È un'ipotesi interessante, giacché costui è il perno degli scambi che avvengono in porto. Non è impensabile che ci sia il suo zampino nella faccenda del naufragio. I beni rubati potrebbero benissimo essere finiti in mano a una terza parte, dietro pagamento». Dinh assentì con il capo. «I porti del Sud si stanno popolando di colonie portoghesi che sono grandi esportatrici di spezie e di articoli esotici di ogni sorta. Bisognerebbe sapere se ci sono stati invii illeciti di merci verso quei commercianti». «Capisco dove vuoi arrivare: certi prodotti, come le materie prime e i metalli, sono sotto il controllo dello Stato, e nessuno può esportarli senza l'autorizzazione dell'Imperatore. Arrogarsi questo diritto diventa un delitto contro il nostro stesso monarca». «Immagina però le ricchezze che porterebbe un simile traffico! Molte persone potrebbero trarre ingenti guadagni dall'operazione: non soltanto l'eunuco, ma forse anche gli ufficiali portuali. Il tuo predecessore, per Mandarino che fosse, non era l'onestà fatta persona». Il Mandarino rifletteva, la fronte incavata di rughe.
«Se Hsiu-Tung ha partecipato a transazioni fraudolente, cos'ha potuto cavarne? Un prete non sa che farsene, del denaro. Che sia tentato da un ruolo d'intermediario tra due partiti, motivato dalla sfida che ciò rappresenta, posso ancora capirlo. Ma che sia allettato dal denaro... stento a crederlo». «Suvvia, avrà pure un progetto che gli sta a cuore, che richiede un finanziamento! Da noi, i bonzi non esitano a chiedere elemosine per erigere una statua d'oro a Buddha. Forse il nostro gesuita è motivato da qualcosa di simile: una cappelletta qui, una grande croce là...» Questa osservazione colpì il Mandarino. Gli tornò in mente la conversazione fatta con il francese su una spiaggia illuminata da braci moribonde. «Ma sì! Hsiu-Tung mi ha messo a parte della sua intenzione di redigere un trattato che riveli i progressi della Cina in astronomia e renda note le scoperte e le osservazioni già effettuate in Oriente. Il nostro prete è un appassionato di scienza: per essa, credo che sarebbe pronto a rinunciare ad alcuni dei suoi princìpi». «Per stampare un'opera occorre una piccola fortuna, e i sapechi guadagnati in Asia possono rivelarsi utilissimi per una simile impresa». Girando attorno al tavolo, il codino che gli martellava la schiena, il Mandarino proseguì: «Ho avuto occasione di rivedere le stimmate sul corpo di Hsiu-Tung. Nonostante le cure prodigate dalla signora Aconito, la guarigione è ancora lontana». «La splendida vedova ha dunque avuto occasione di accarezzare la pelle lattea del nostro amico?» domandò Dinh, interessato. «Diciamo piuttosto che ha tamponato le sue ferite con una pezza, dopo avergli offerto da bere. Suppongo che le loro dissertazioni li abbiano avvicinati». Il letterato Dinh fischiò a denti stretti, gli occhi splendenti di malizia. «Dunque la diavolessa è capace di una parvenza di umana simpatia. Dalla tua descrizione, c'era da figurarsi che fosse nata con la frusta in mano». «In ogni caso» intervenne il Mandarino per dare un taglio ai commenti di Dinh, «le piaghe non si sono ancora chiuse...» Piantandosi di colpo davanti alla finestra, lasciò vagare il suo sguardo verso le prigioni cittadine. «Questo mi ricorda che devo dire due paroline alla signora Aconito. Ci sono dei punti poco chiari nella sua deposizione». Ci fu un momento di pausa durante il quale si sentirono i rumori abituali
del tribunale: le porte che si aprivano e chiudevano senza garbo, il passaggio degli sbirri che strascicavano i piedi, gli ordini abbaiati da un ufficiale irritato. In basso, un mendicante scuoteva la battola per accompagnare la sua litania, mentre una venditrice di zuppa dolce chiamava con voce stridula i passanti. Il Mandarino si stava domandando fugacemente se la donna vendeva zuppa ai semi di loto e alle alghe verdi, quando il battente si spalancò lasciando passare un funzionario del tribunale. «Signore» disse l'uomo inchinandosi, «il signor Clemenza ci ha appena portato i fascicoli che gli avete chiesto. Dove dobbiamo metterli?» Così dicendo, si scostò dal passo della porta e apparvero quattro uomini chini sotto il peso di due enormi bauli laccati. Il magistrato non poté nascondere la sorpresa e l'irritazione. «Cosa significa questa farsa? L'eunuco osa farsi beffe della giustizia? Gli avevo, sì, ordinato di fornirmi i documenti di entrata e uscita delle merci degli ultimi tre anni, ma non era tenuto a consegnarmi tutte le scartoffie del suo Ufficio degli Scambi! Per cavare qualche informazione da questo mucchio di cartacce, ci vorrebbe un esercito di cancellieri!» Con un gesto, fece cenno ai portatori di posare i bauli in un angolo del salone. Quando costoro si furono ritirati, alleviati del loro fardello, si rivolse al letterato che sfogliava distrattamente un volume di testi sulla coltura delle cucurbitacee, fischiettando un motivo alla moda. «Ah, amico Dinh! Tu che leggi a una velocità incredibile e disponi di una memoria prodigiosa... ti propongo di vagliare questo ammasso di carte, dono dell'eunuco Clemenza». Interrompendo l'allegro trillo, il letterato ruotò sulla sedia e fissò, incredulo, i bauli nell'ombra. «Vorrai scherzare! Rifiuto di prendere visione di quei fogli scarabocchiati, a meno che non celino qualche particolare sordido sulla vita intima del grosso eunuco». «Ho l'aria di chi scherza?» replicò l'altro, le mani incrociate dietro la schiena e l'occhio intransigente. «Il tuo compito è quello di reperire, negli elenchi interminabili di merci che hanno transitato per il porto, prodotti ricorrenti che paiano sospetti. Sono certo che l'eunuco Clemenza cerca di sommergere qualche punto importante in una marea di informazioni. A te scovarlo!» Poiché il Mandarino si sistemava il berretto dirigendosi verso l'uscita, Dinh esclamò:
«E tu, dove conti di andare, mentre io sfianco la mia mente su questo mucchio d'inanità?» Il Mandarino Tan aveva già varcato la soglia quando decise di voltarsi. Con un sorriso smagliante che lo ringiovaniva ancor più rispose: «Hai dimenticato che ho una tigre da interrogare?» «Non riesco ad alzarlo!» gemeva, impotente, il signor Han, il volto sfigurato dallo sforzo. Piazzandosi davanti al paziente stremato, il dottor Porco incrociò le braccia sul petto. «Animo, insomma!» disse con uno schiocco di lingua. «Non è un'impresa titanica, in fondo, far muovere un membro che pesa quanto un topolino anemico!» Poiché il signor Han chiudeva gli occhi per far appello a tutta la forza di cui era capace, lanciando anche un piccolo rantolo convincente, il medico scosse la testa per la stizza. Non avrebbe risolto nulla con quel cliente segaligno, del tutto privo della sua tonicità, che dall'alba cercava di muovere un membro ridicolo. «Su, non posso perdere tutta la mattinata!» tempestò il medico. «Volete che la signora venga a tenervelo per aiutarvi?» L'altro, pallido per lo sforzo, curvò la schiena. Implorando con occhi di cane bastonato la clemenza del dottore, annuì col berretto. Con un cenno del mento, il medico si rivolse alla moglie dal paziente, che seguiva la scena con aria ansiosa. «Avvicinatevi, signora!» ordinò, perentorio. «Avete sentito? Vostro marito sollecita il vostro aiuto in questa terapia che mira a restaurare tutto il suo vigore. Prima spalmatevi le mani con quest'olio che servirà a lubrificarle. Mettetevi poi davanti a lui e tenetegli il...» «Così?» domandò la donna, afferrando il membro a piene mani. «Precisamente! Ma non abbiate paura di stringere forte! Fate un movimento di va e vieni per favorire il flusso sanguigno! Sfregate bene quella pelle flaccida che trema come gelatina!» Imbaldanzita, la sposa cominciò a frizionare le pieghe molli con le dita unte, strappando di passata qualche pelo, mentre il signor Han strabuzzava gli occhi esorbitati. Nonostante gli anni di vita in comune, sua moglie non lo aveva mai toccato a quel modo. Lo stretto contatto, pelle contro pelle, e lo sfregamento della carne, favorito da un umidore viscoso, lo sconvolgevano profondamente.
Vedendo che la signora Han si prodigava sollecita, il dottor Porco annuì soddisfatto. Quando, in una coppia, i due componenti partecipavano a pieno al trattamento, la guarigione seguiva in tempi relativamente brevi. «Massaggiate senza timore, schiacciate con forza!» incoraggiò, vedendo il membro tendere al rosso. «Scorgo un turgore innegabile: significa che i tessuti sono di nuovo irrorati». In effetti, il signor Han si sentiva rinascere sotto i maneggi della sua sposa, percependo all'estremità un pizzicore che aveva dimenticato da un pezzo. «Continua, cara!» disse per esortarla a mantenere il ritmo già sbrigliato. «Basta così!» interruppe il dottore. «Proviamo ora a vedere se riuscite ad alzarlo senza l'aiuto della signora. Tenete il membro verticale, e lasciatelo quando ve lo dirò io!» Le dita strette attorno alla carne rosa, la signora Han aspettò il segnale, mentre il marito si concentrava sull'ultimo tentativo. «Ora!» disse il dottor Porco, chino in avanti. La signora Han liberò il membro ritto, che si accasciò tragicamente andando a colpire la coscia del marito con un rumore sordo. «Impossibile!» sbraitò il medico, fuori di sé. «Cos'è 'sta roba, di una flaccidità di topo morto?» Avventandosi sul paziente che si raggomitolava per la vergogna e lo spavento, il dottor Porco impugnò il membro ricalcitrante e cominciò a torcerlo in tutti i sensi. Stirandolo, passandolo da una mano all'altra, tentava di ravvivare la carne flaccida usandole violenza. Le labbra livide, il signor Han resistette con un coraggio ammirevole, pronto a subire una sorte dolorosa pur di ricuperare il vigore, mentre sua moglie si distoglieva per non vedere l'oltraggio fatto al suo sposo. Irritato da una resistenza inaspettata, inarcato per sfruttare tutto il suo peso, il dottor Porco effettuò una trazione disumana che produsse uno scricchiolio sonoro. «Il polso!» esclamò il signor Han, le lacrime agli occhi. «Temo che mi abbiate tirato i legamenti triturandomi la mano a quel modo!» Vedendo che il polso s'ingrossava a vista d'occhio, il medicò grugnì esasperato. «Be', non ritroverete la mobilità del braccio in questa seduta. Nondimeno, non capisco perché il rimedio che vi ho prescritto in precedenza non abbia agito come previsto». «Il fatto è che lo speziale mi ha fatto sapere che non aveva più carne di pantera macerata nell'alcol» rispose con voce esile il paziente. «Sembra
che sia una preparazione molto apprezzata dai cinesi per la sua azione fortificante sulle ossa. Così, ha venduto a loro a peso d'oro tutte le sue scorte». «Quell'idiota!» buttò lì il dottor Porco, sdegnato. «Sempre al soldo del miglior offerente, quel miserabile bottegaio! Tanto peggio, se per il momento non riuscite ad alzare la mano priva di forze! Occupiamoci ora di questo polso malandato che si gonfia a vista d'occhio...» Sotto il sole allo zenit, la campagna vibrava di calore. Le pietre calcaree sulla strada deserta riverberavano l'afa come tanti bracieri. Nei prati i grilli si sgolavano, mentre gli uccelli cercavano la frescura tra i ciuffi di bambù. Ai bordi del sentiero le sensitive stendevano le loro foglie ramificate sul verde-anice delle risaie. I capelli liberati dal berretto, il Mandarino Tan si allontanava a falcate dal porto sonnolento. Aveva attraversato quartieri silenziosi nell'ora della siesta senza incontrare un solo passante. I cittadini, stesi sulle stuoie di giunco, non videro l'ombra veloce del loro magistrato sfiorare le vetrine dei negozi prima di svignarsela dall'uscita nord della città. Il Mandarino si era detto che la passeggiata sarebbe stata più piacevole a piedi che in palanchino, dove rischiava di morire soffocato. La sua giacca blu scuro era già inzuppata di sudore, e i pantaloni coperti di polvere. Da lontano, lo si sarebbe detto un giovane campagnolo vigoroso che non vedeva l'ora di arrivare alla sua capanna. Strada facendo, il magistrato ripensava alle osservazioni di Dinh, che gettavano una luce nuova sui maneggi di Hsiu-Tung. E se, tutto sommato, si fosse illuso circa quel francese che considerava già un amico? Non sarebbe stata la prima volta che si sbagliava sulla natura umana. Farfalle enormi aleggiarono lentamente davanti a lui prima di sparire nei rami. Nel caldo opprimente, il Mandarino Tan rabbrividì. Da bambino, aveva sentito dire che quelle farfalle-fantasma dalle ali brune erano la reincarnazione di donne morte di morte violenta. Quella macabra leggenda gli ricordò le due sventurate della giunca naufragata sulla cui morte egli non aveva ancora fatto luce. Secondo il dottor Porco, le donne erano state vittime di un'emorragia, ma lui non sapeva ancora per mano di chi e per quali motivi. In compenso, il recente attacco al cimitero descritto da Dinh gli dava una prima indicazione circa i metodi dei ladri di pietre tombali, che sembravano molto ben organizzati per essere dei morti viventi.
D'altro canto, l'indagine sulla morte del conte Diem segnava il passo. Il solo indizio materiale, il filo bianco, li aveva condotti soltanto a degli aquiloni il cui ruolo nel delitto era difficilmente immaginabile. E, dall'arrivo dei due bauli pieni fino a scoppiare, lui si sentiva di pessimo umore, non potendo fare a meno di ruminare sull'affronto costituito da quel mucchio di documenti insulsi inviati dall'insolente eunuco. Era intimamente convinto che fosse un sotterfugio destinato a nascondere un particolare importante. Purché Dinh riuscisse a cavare l'essenziale da quel bailamme... Allora ci avrebbe pensato lui, Mandarino Tan, a punire lo sfrontato secondo le regole! Sempre pensoso, il Mandarino arrivò in cima a una costa da cui poteva scorgere i meandri del fiume che se ne andava verso il mare di Cina. In un'ansa, le abitazioni degli erranti si sparpagliavano tra due boschetti di filao. Dal poggio, distingueva le piccole parcelle coltivate: le piantagioni di patate dolci si erano sviluppate dalla sua ultima visita, e altri rettangoli di terra zappata di recente aspettavano nuove semine, nonostante il caldo della stagione. Gli esclusi rifuggivano decisamente la città e tenevano alla loro libertà in modo feroce. Sceso il pendio, arrivò rapidamente alla concessione, calma come la città che aveva appena lasciato. Sulle soglie dei tuguri ronfavano uomini che s'inventavano in sogno vite più agiate di quelle che conoscevano nella realtà. Si orientò senza difficoltà nel dedalo di costruzioni effimere, le cui pareti in legno di mediocre qualità erano sormontate da tetti di latania. Sapeva con precisione dove voleva andare. Discosta dalle altre abitazioni, la casupola della signora Aconito si rannicchiava sotto una vegetazione rigogliosa: i viticci ribelli dei cetrioli amari s'intrecciavano con viti vergini, e i butti di gelsomino si lanciavano all'assalto di porte e finestre. Mentre si curvava per scostare gli intrecci che sbarravano l'accesso all'orto dietro casa, il Mandarino si rese conto del silenzio e si domandò d'un tratto se la padrona di casa fosse presente. In prigione gli avevano detto che era il suo giorno di riposo. Ai piedi di un albero del pane avviluppato da una clematide, lo zenzero costeggiava la salvia e un giglio dominava le teste tonde dei ranuncoli. Gerani violetti facevano compagnia a peonie arruffate, ma non c'era traccia della giovane donna. Indispettito, il magistrato stava per fare dietrofront quando una voce lo chiamò. «A cosa debbo la vostra visita, signore? Mi prendete alla sprovvista, dato che non mi è parso di vedere il palanchino mandarinale davanti alla mia porta».
Voltatosi, il Mandarino vide la signora Aconito che, indossando una tunica di semplice cotone, esaminava con aria beffarda la sua giacca zuppa e i suoi calzoni bianchi di polvere, e si rimproverò per la propria ingenuità. Evidentemente, quella donna non si curava delle convenzioni e non mostrava tutto il rispetto dovuto a un magistrato! «Mi è sembrato inutile portarmi dietro un branco di sbirri per un semplice interrogatorio» rispose con durezza. Era l'ombra delle foglie a incupire le pupille dorate della signora Aconito, o un fugace lampo d'inquietudine attraversò il suo sguardo? Il Mandarino non lo seppe mai, perché lei rispose senza batter ciglio: «Sono tutta orecchi, Mandarino Tan. Ma prima permettetemi di offrirvi una tazza di tè... non sia mai detto che un'errante venga meno alle regole dell'ospitalità» aggiunse con un'ironia così lieve che lasciò appena una traccia nella mezza luce. Posò sul davanzale della finestra i tre gechi morti che teneva in mano e tornò con una teiera di creta bruna. Quando ebbe versato la bevanda fumante in due tazze senza decorazioni, ne porse una al magistrato, poi lo fissò con gli occhi d'ambra. «Sono qui per la giunca naufragata» cominciò il magistrato portandosi la tazza alle labbra. «Avete dichiarato che le due donne annegate erano malate». «In effetti, erano tornate febbricitanti dalla loro fuga, come vi ho spiegato. Cos'altro volete sapere?» «Che malattia avevano, con precisione? C'era un rischio reale di epidemia, tale da indurvi a mandarle con tanta fretta verso l'Isola delle Tombe?» «La loro fuga doveva aver portato quelle donne in zone paludose, perché avevano punture su tutto il corpo. Spesso le zanzare portano malattie che si diffondono in men che non si dica e sfuggono a ogni controllo tra gente alloggiata in condizioni insalubri. Sicuramente non ignorate che le baracche dei prigionieri non sono palazzi principeschi». Il Mandarino schiacciò con l'unghia un afide panciuto e commentò in tono distaccato: «Semplici punture di zanzare? Pensavo che le due vittime avessero contratto un male terribile come la lebbra, con bubboni e lesioni sulla pelle». «No, nessun bubbone» dichiarò la giovane con sguardo freddo. «Però tremavano di febbre, e questo è bastato a farmi temere il peggio». «Be', era tutto quello che volevo chiarire. In fondo, dovete conoscere bene le affezioni dei vostri prigionieri, dato che sembrate versata nella me-
dicina tradizionale». Dopo una sorsata di un tè in cui erano mescolati gli aromi di tre noci, il Mandarino indicò col mento i gechi che giacevano su un fianco. La signora Aconito annuì, visibilmente più rilassata. «È notorio che le lucertole decapitate, private della pelle e seccate, curano le tossi con presenza di sangue, ma si consumano anche in una minestra di riso, perché la loro carne bianca è molto profumata e saporita. La conoscenza della natura permette di guarire più mali di quanto si pensi. Le scolopendre dalla pancia gialla, per esempio, macerate nell'alcol, permettono di contrastare il veleno di serpente, e le radici del rabarbaro servono a curare le infezioni della vescica». Avvicinandosi a un vaso di Bletilla striata dai petali di un rosa acceso, il Mandarino Tan domandò, interessato: «Anche questa specie di orchidea è un rimedio contro molte affezioni, vero?» «Sì, come quasi tutte le piante che vedete qui» rispose la signora Aconito. «Le virtù di ognuna si deducono attraverso una sperimentazione precisa il cui risultato viene trasmesso di generazione in generazione». «Questo amore della sperimentazione nasce dalle vostre credenze taoiste?» domandò il Mandarino a bruciapelo. La signora Aconito fece un sorriso divertito che le scavò fossette nel velluto delle guance. «Io, taoista? Mai e poi mai!» Disorientato, il Mandarino non seppe cosa pensare. Quella donna osava dunque mentire a un magistrato? Da quanto gli aveva confidato HsiuTung, egli aveva dedotto senza esitazione che la giovane appartenesse alla corrente taoista. Ma la signora Aconito non aveva finito. «I taoisti sono troppo poco rigorosi per raggiungere l'estrema conoscenza» continuò. «Presi dai loro istinti, si dedicano a esperimenti di alchimia che riescono soltanto grazie al loro senso dell'osservazione, ma non hanno stabilito alcun metodo sistematico per formulare una teoria capace di prevedere un risultato. Ora, si riesce ad anticipare un risultato soltanto dopo aver capito la natura di un dato fenomeno». «E sia. Dato che i taoisti non riscuotono la vostra approvazione, seguite dunque la solida scuola confuciana?» Colta da un riso irrefrenabile, la signora Aconito aveva l'aria di apprezzare davvero quella conversazione insolita con un Mandarino imperiale.
«Signore, dimenticate che sono un'errante? Il vostro ordine stabilito non sa che farsene di noi, elementi indocili che non conoscono legami. Abbiamo abolito gerarchie e tradizioni, e abbiamo imparato a mettere in forse le usanze che voi confuciani seguite alla lettera. Per noi la famiglia ha perso il suo posto preponderante ed è l'individuo che conta. D'altronde, l'etica confuciana non esalta l'armonia e l'amore universali. Al contrario, il potere è appannaggio di alcune famiglie che non si curano affatto della comunità». Indignato, il Mandarino squadrò la giovane, i cui occhi lanciavano lampi smorzati dall'ombra delle piante. «Non illudetevi d'ingannarmi! Un gruppuscolo di erranti non può aver elaborato una teoria sociale così precisa». «Certo che no! La sua origine va cercata nei pensieri di Mo-tzu». Il magistrato si morse il labbro. Ma certo! Soltanto quel pazzo di maestro Mo poteva proferire idee tanto iconoclaste. Già discepolo di Confucio, egli si era poi votato a combattere il suo maestro, criticando i pilastri stessi della società: famiglia e rispetto dovuto al rango sociale. Calpestando il carattere sacro degli antenati, dando prova di un generico altruismo, i moisti erano la feccia della società. Con il loro ideale di libertà, ci avrebbero messo niente a smantellare i fondamenti di una struttura consolidata nei secoli da generazioni di sapienti. «Seguite dunque la corrente moista» dichiarò il Mandarino, le palpebre socchiuse. «Per noi confuciani, essi sono ancora peggiori dei taoisti, i quali, pur sacrificando al fornello, non s'interessano della vita politica del nostro paese». La signora Aconito si chinò in avanti, e il Mandarino notò, turbato, la curva del suo petto. «Sapete, signore, qual è il canone moista a proposito della conoscenza?» Poiché il magistrato non rispondeva, la donna continuò, soppesando le parole: «Conoscere consiste nell'ascoltare quanto si dice di qualcosa, fare una deduzione a partire da ciò, o una teoria, sperimentarla in se stessi, accordare le parole con la realtà, e agire...» Sotto il pergolato, le sue parole risuonarono in modo strano, e il Mandarino Tan si domandò cosa legasse un gesuita a una moista. «Il nostro amico comune Hsiu-Tung sostiene però che i taoisti sono i migliori osservatori della natura» azzardò. Il nome del prete fece scaturire una scintilla di sorpresa negli occhi della
signora Aconito, ma lei si riprese con una rapidità sorprendente: «Hsiu-Tung è un appassionato di scienza, ma noi non condividiamo sempre gli stessi punti di vista. Per quel che mi riguarda, trovo che egli abbia un'incresciosa tendenza a legare un dio ipotetico ai fenomeni naturali... non tanto per spiegarli quanto per farne una manifestazione della sua onnipotenza». «Quel dio che invoca così spesso gli è necessario per assicurarsi l'immortalità dell'anima, stando a quel che ho capito. Ovviamente, Hsiu-Tung non conosce il culto degli antenati, che garantisce la sopravvivenza della nostra memoria. Per i confuciani, è questa la cosa che somiglia di più all'immortalità. Sicché la continuazione della specie è essenziale». Mordendosi subito le labbra, il Mandarino si fustigò per la sua goffaggine. Trascinato dallo slancio, aveva detto una cosa cui non sapeva porre rimedio. Ma la signora Aconito si limitò a sorridere, con così poca ironia che egli dubitò della sua sincerità. «Mandarino Tan» disse soavemente, «voi non ignorate che non ho figli. Ma credete davvero che possa aver voglia di averne, in questa società sciancata che si crede di una stabilità eterna?» Con un gesto che abbracciava le capanne sbilenche dove si erano rifugiati gli erranti, continuò in tono falsamente sereno: «Guardatevi attorno. Come spiegate l'ingiustizia che ha fatto di questi uomini e donne degli esclusi dal vostro mondo retto da una burocrazia avvizzita? Il Mandarino imperiale può legittimare l'esistenza di un errante?» Poiché il magistrato non apriva bocca, la signora Aconito proseguì tranquillamente: «L'immortalità! Essa passa per la giustizia sociale, signore. E, quando saranno passati gli anni, il nome di Mo-tzu resterà, cancellando il ricordo delle grandi famiglie del nostro paese che hanno asservito i loro simili». Come una carpa enorme che giri in uno stagno esiguo, il dottor Porco andava avanti e indietro tra gli scaffali semivuoti del negozio schioccando stizzosamente la lingua. «Com'è possibile che non si trovino più ingredienti di base come la cannella? Con cosa volete che curi i mal di pancia?» Emergendo da dietro il bancone di legno patinato, il signor Sum, lo speziale, suggerì: «Potete sempre provare questi lombrichi appena arrivati. Anch'essi aiutano a ridurre i gonfiori intestinali. Questi sono di primissima qualità» dis-
se, prendendo una manciata di vermi viscosi che palpò con affetto. «Vivevano ai piedi di un vecchio baniano ed è stato necessario attirarli con un decotto di erbe. Quelli che vengono spontaneamente in superficie non valgono niente». «Ciò non spiega perché il vostro vaso di cannella è vuoto come la pancia di una puerpera» replicò il medico, senza pietà. Lo speziale si umettò le labbra e si passò una mano nei capelli unti. «Il fatto è che c'è una tale richiesta per l'esportazione che non possiamo più assicurare la continuità delle nostre scorte. Sembra che la cannella sia una spezia apprezzata dagli stranieri, che sono pronti a pagarla a peso d'oro. Così, coloro che soffrono di mal di pancia possono sempre mangiare i lombrichi usciti di recente dalla terra». Con un ghigno che gli sformava la bocca, il medico celiò: «Per fortuna agli autoctoni restano gli escrementi di pipistrello per curare gli occhi, e i capelli bruciati contro il sanguinamento delle gengive...» Passando in rassegna dei boccali in cui nuotavano degli ippocampi a coda riccia, dando colpetti su un vaso dove gracidavano dei rospi gozzuti, il dottor Porco non poté fare a meno di aggiungere qualche commento sgradevole. «Al vostro posto, cambierei il nome del negozio. Le mille erbe della montagna sacra non gli si addice più. Vedrei bene qualcosa del tipo Serraglio per affezioni innominabili o Bestiole varie per malattie vergognose». La schiena curva - il dottor Porco era un cliente di riguardo -, lo speziale azzardò una piccola obiezione. «Permettetemi di attirare la vostra attenzione sui fiori di sofora gialli appena colti che possono servire ad attenuare i dolori oculari. Lo stesso, questi gambi sottili di Dendrobium nobile, orchidea gracile, eliminano efficacemente la secchezza delle fauci. Nessun bisogno di limitarsi alle bestie da pelo e penna». Di fronte a quella parvenza di opposizione, il medico corpulento si avventò sul povero negoziante. «E che dire delle vostre scatole con l'etichetta Orpimento, che contengono soltanto ragnatele? Cos'altro avete da proporre contro le purulenze della pelle? Per non parlare, poi, dei frutti di badamo, invisibili da mesi!» «Il fatto è che i cinesi ne sono avidi, perché li usano nelle cure di giovinezza, e gli stranieri li usano per fare un vino caldo che solletica il loro palato».
«Ciò fa sì che i vostri sventurati compatrioti siano condannati a invecchiare, privati di quei preziosi ingredienti? Senza il mirabolano che annerisce i capelli bianchi, i miei clienti scanseranno il mio studio e si dirigeranno direttamente dal becchino». Poiché lo speziale cercava di far sparire non visto un vaso pieno d'aria, il medico implacabile si buttò su di lui. «Mostratemi quello!» ruggì, indicando il vaso. «Ah, sì! Mi stavo appunto dicendo che anche la bile di pitone dalla coda nera mancava all'appello. Suppongo che i nostri vicini cinesi soffrano sempre più di diarree sanguinolente ed emorragie dovute ai vermi, cosa che li obbliga a saccheggiare le nostre riserve. A proposito, dove si trova la polvere di corno di rinoceronte, antidoto contro tutti i tipi di veleno?» Il signor Sum si chiuse in un silenzio colpevole e simulò un accesso di tosse per eludere l'imbarazzante domanda. Sul suo slancio spietato, il cliente indicò col dito le boccette disperatamente vuote e ironizzò: «In questa bottega mal provvista, non la minima traccia di gesso per le carie! I cavadenti hanno un bell'avvenire davanti a loro, ve lo dico io. Dove sono finiti i cristalli di quarzo contro l'impotenza? Non immaginate quanti pazienti hanno lo Stelo di Giada vizzo, signor Sum!» Soffiando generosamente un alito fetido sulla faccia contrita dell'interlocutore, il medico si scatenava. Ma, contro ogni aspettativa, con un supremo sforzo, lo speziale rispose: «Per i cristalli di quarzo non bisogna incriminare gli stranieri, perché da noi la vedova del conte Diem e la signora Libellula ne fanno un consumo sfrenato. E anche il prete francese me ne prende delle dosi notevoli». «A chi volete dare a bere le vostre storie grottesche?» esclamò il dottor Porco. «Insinuate che quelle signore conoscono problemi d'impotenza, una con un conte morto stecchito e l'altra con un menomato privo delle Sfere d'oro? Quanto al francese, voglio credere che abbia qualche problema di virilità - tutti i religiosi sono un po' carenti da questo punto di vista -, ma ciò non spiega il fatto che tutta la vostra riserva si sia volatilizzata». Dato che il signor Sum se ne stava cheto, le narici turate, il medico indicò alcune radici contorte e dei rizomi nodosi. «Be', tanto per non guastare del tutto i nostri rapporti, datemi una decina di Plygonum multiflorum per i miei pazienti che evacuano sangue, e una dozzina di quelle radici di Cynanchum slauntoni per chi ha la tosse grassa». Sorpreso dal rovesciamento della situazione, il signor Sum inspirò di
sollievo e sorrise a tutti denti. Fu allora che il medico, le labbra incollate all'orecchio dello speziale, esalò la sua ultima richiesta in una zaffata infame: «A prezzo d'amico, s'intende!» Nella stanza di meditazione disadorna, la signora Libellula si accingeva a compiere il suo rituale. Le spesse tende di broccato che la donna aveva tirato bloccavano la luce e il calore del giorno, procurando una frescura propizia alla riflessione. Inginocchiandosi davanti al bruciaprofumi di bronzo i cui manici cesellati imitavano le forme passeggere delle nuvole, trasse da una borsetta di seta una manciata di erbe secche che triturò con cura. Mentre disponeva i frammenti odorosi sulla coppella, il suo pensiero, liberato da una gestualità più volte ripetuta, si mise a vagabondare. Il volto vistoso del Mandarino Tan s'impose a lei, in controluce, come l'aveva visto la prima volta nella stanza odorosa di sangue dove giaceva il conte Diem. Lei aveva abbassato modestamente gli occhi per nascondere l'emozione. C'era, nella sua mascella volitiva, una determinazione non smentita dagli occhi affilati come lame. Lo aveva visto passare in rassegna con lo sguardo il letto che serbava ancora la forma del dormiente defunto e si era chiesta se aveva già avuto occasione di occuparsi di delitti altrettanto cruenti. Con lusingato stupore, aveva visto il suo sguardo soffermarsi a lungo su di lei per fluttuare, come ipnotizzato, per lungo tempo. Da un pezzo la donna cercava di analizzare l'effetto che faceva sugli uomini, i quali, sovente, si fermavano davanti all'estrema finezza del suo volto. Notava, senza darlo a vedere, l'occhiata che scendeva lungo la sua nuca curva dopo aver scrutato gli zigomi vellutati. Non di rado lei s'inalberava davanti ai segni dell'evidente desiderio di un maschio predatore, ma con l'esperienza aveva finito col distogliersene ridendo interiormente di quella forza esibita che faceva soltanto risaltare una palese debolezza davanti alla bellezza femminile. In quel giovane Mandarino, però, non aveva notato bramosia, soltanto un ingenuo apprezzamento della sua persona, fatto di un'innocenza la cui freschezza l'aveva sconvolta. E quella constatazione aveva confermato l'opinione che cominciava a farsi di lui: un giovane magistrato di un'incrollabile intransigenza unita a un candore di bimbo. Era convinta che, una volta giunta la maturità, i criminali avrebbero avuto poche risorse davanti alla sagacia del Mandarino imperiale, anche se per il momento era ancora l'ingenuità della giovinezza a prevalere.
Con gesto agilissimo, la signora Libellula sistemò una manciata di foglie in modo tale che la fiamma le lambisse per prime. Rivide mentalmente l'inquietudine del marito a proposito delle domande del magistrato. Probabilmente non gli sarebbe stato facile sottrarsi all'interrogatorio cui l'avrebbe sottoposto il giovane. Ma, conoscendo l'eunuco, la donna subodorava che quest'ultimo avrebbe finito col trovare un modo di stornarne l'attenzione dai suoi trascorsi. Pur non seguendo da vicino gli affari del marito, non ignorava che la loro ricchezza non smetteva di crescere, visti i ninnoli preziosi e gli oggetti da collezione che comparivano in casa come per magia. Non aveva mai fatto domande, ma la sua discrezione non era una prova di passività. Sospirò accendendo il piccolo miscuglio di erbe, e aspettò che la fiamma si trasformasse in una nuvola incandescente per soffocarla. La faccia da rettile dell'eunuco le s'impose: palpebre pesanti che sormontavano un naso schiacciato e labbra quasi tumefatte che una lingua appuntita andava, a intermittenze, a leccare. La signora Libellula rammentò la sua sorpresa insperata, quel rictus che gli aveva schiuso le labbra tumide quando, stanca delle proposte di pretendenti più zotici che maschi, aveva deciso di sposare quel castrato. Quella scelta, inspiegabile per molte persone, le avrebbe garantito la pace che lei non sperava di trovare in altri uomini, le cui mani tentacolari non avrebbero smesso di percorrere il suo corpo negato. Pura e altera, non aveva bisogno di quei toccamenti per conoscere un'estasi che lei poteva comandare a piacimento. Quando le erbe cominciarono a consumarsi in un fumo stordente, la signora Libellula prese da un vaso di porcellana un pizzico di polvere dai riflessi madreperlacei che stemperò in una tazza di tè bollente. Nel portarla alle labbra, alzò la testa verso il cielo e immaginò il firmamento stellato dove l'avrebbe condotta la sua meditazione. Sottovoce, si mise a mormorare le parole magiche del libro posto davanti a sé. Aprendo il collo della veste a motivi di salice e sciogliendo la cintura di raso, la giovane chiuse gli occhi e inspirò le volute che s'innalzavano dal bruciaprofumi. Lentamente, fece appello al vuoto e al silenzio, perché il suo spirito si staccasse infine dal suo corpo immobile. A poco a poco, mentre il suo pensiero si disgregava in mille immagini scintillanti, fu pervasa da un senso di leggerezza che aboliva il peso delle sue membra affrancandola dal mondo fisico. Sapeva, per esserci stata più volte, che la sua coscienza sarebbe arrivata in un punto in cui, sola, avrebbe volteggiato tra stelle in fiamme, abbandonando il suo corpo ancorato a quella stanza disa-
dorna. Ansante, stava iniziando per l'appunto il suo volo quando tre colpi picchiati alla porta la fecero ripiombare nella realtà. La caduta fu tanto più brutale in quanto il suo spirito aveva già avviato l'ascesa, e lei non aveva mai interrotto la meditazione a quello stadio. La testa ronzante e gli occhi annebbiati, tentò di riprendersi. «Che nessuno mi disturbi!» esclamò corrucciata, senza voltarsi. «Vi chiedo perdono, signora Libellula, ma la mia indagine non può tollerare ulteriori ritardi. È urgente che vi ponga qualche domanda» rispose una voce cortese ma ferma. Voltatasi, sbalordita da tanta prosopopea, la giovane incontrò lo sguardo implacabile del Mandarino Tan che aveva forzato lo sbarramento del vecchio intendente dal volto impaurito. Vinto, il domestico si affrettò a sparire chiudendo in silenzio la porta. «Per il naufragio della giunca dell'armatore Phung, dovete rivolgervi a mio marito» rispose la padrona di casa. «Certamente. Ma, al momento, sono qui per l'assassinio del conte Diem. Dato che voi conoscevate bene la coppia, spero che possiate aiutarmi a capire i loro rapporti». Dopo aver dato un'occhiata al soffitto, decorato con chiodi d'argento che disegnavano motivi irregolari, e notato il libro degli incantesimi, il magistrato si spostò accanto al bruciaprofumi. Così aureolato di fumi azzurrini, somigliava a un nume tutelare cui si facciano offerte. Rendendosi conto che non poteva sottrarsi all'interrogatorio forzato, la giovane chinò il capo e si allacciò il colletto socchiuso. Con mano oziosa, giocherellò con la cinta che le penzolava sui fianchi stretti. «Mio cognato, appartenente a una famiglia nobile della città, ha sposato Alga quand'erano entrambi giovanissimi» cominciò la signora Libellula. «A quell'epoca, Diem era un uomo molto seducente. Anche Alga non era priva di grazia e, soprattutto, di ricchezza. La bellezza di Diem e la sua conversazione salace le piacquero, e non respinse la sua corte. Gli astri stessi non erano sfavorevoli a un'unione che gli uomini ritenevano perfetta». «Mi è parso di capire che la coppia non avesse figli. Come hanno vissuto questa tragedia?» domandò il Mandarino prima di rendersi conto dell'indelicatezza. Con l'ombra di un sorriso, la signora Libellula rispose: «Questa tragedia, come la chiamate voi, ha colpito soltanto mia cognata,
perché il conte Diem era di costumi... diciamo molto liberi. Le sue attività al di fuori del matrimonio erano molto impegnative». «Vostro marito ha in effetti accennato in modo alquanto vago alle feste sfrenate che dava suo fratello. So che è una domanda delicata da porre a una giovane» aggiunse il Mandarino Tan con un colpetto di tosse imbarazzato, «ma non potreste darmi un'idea di ciò che vi si faceva? Non ch'io pensi che vi abbiate partecipato... Nondimeno, probabilmente i pettegolezzi non sono mancati e certi particolari possono rivelarsi importanti per l'indagine». Le spirali di fumo mascherarono appena l'aria divertita della signora Libellula. Lisciando la crocchia che si era disfatta, spiegò: «No, avete ragione, non prendevo parte ai festini del conte Diem, che consistevano nel riunire in una sala dalle tappezzerie esotiche e cosparsa di morbidi cuscini uomini e donne, in numero diverso secondo le sedute. Cortigiane nude e musicanti parimenti svestiti andavano e venivano, mentre i partecipanti si dissetavano bevendo un vino caldo e aromatizzato. Immagino che discutessero vagamente dei loro gusti, prima di suddividersi in gruppi che attendevano alle loro occupazioni carnali». «Ma quelle coppie si conoscevano prima di intervenire a quelle riunioni?» «Non ho detto coppie» rettificò la giovane alzando l'indice. «In genere si trattava di tre individui almeno per gruppo, con tutte le combinazioni che si possono immaginare. Il nostro conte non aveva preferenze spiccate per un sesso particolare, d'altronde. In ogni modo, di solito gli uomini arrivavano senza la moglie e inversamente, cosa che seminava un po' di disordine alla fine di quelle festicciole. E, secondo la qualità delle prestazioni e la fantasia di cui si dava prova, si era invitati di nuovo oppure gettati nel dimenticatoio». L'acre odore del fumo fece tossire il Mandarino, mentre l'ambiente chiuso - a meno che non fossero le rivelazioni della signora Libellula - gli faceva girare la testa. Barcollò e si afferrò appena in tempo al tavolo, ma sfiorò la mano minuta della giovane. Costei la ritrasse con una rapidità prodigiosa, come sconvolta dal rapido contatto. Ripreso l'equilibrio, il magistrato domandò, imbarazzato: «La signora Alga era al corrente delle attività del marito? Quelle serate potrebbero aver generato del risentimento...» La signora Libellula scoppiò a ridere per l'ipotesi del magistrato. «Alga partecipava appieno a quei festini, ed era apprezzata per la sua a-
gilità, che le consentiva posizioni acrobatiche e inedite». Il Mandarino sgranava gli occhi, pur cercando di nascondere la sua ingenuità. Quale depravazione nei grandi di questo mondo! In una società in cui l'adulterio era considerato un crimine, quella gente si dedicava ai suoi giochi perversi in piena impunità. «A vostro parere, il conte e la moglie si dedicavano a quegli svaghi perché non avevano figli? Voglio dire: era per loro un modo per passare il tempo... insomma, perché non avevano una vera vita famigliare?...» Soffocando nell'atmosfera fumosa, impegolato nelle sue argomentazioni di buon confuciano, il Mandarino s'impappinava sempre più, cosa che suscitò un nuovo riso argentino. «Vi ho appena detto che, pur non avendo procreato, non pratico quelle giostre erotiche» esclamò allegramente la giovane. «E quell'eunuco di mio marito nemmeno, per quel che ne so. Tuttavia, egli ha delle qualità innegabili, quantunque insospettate...» Gli occhi sfavillanti, con una lacrima sul bordo della palpebra, tradivano la sua eccitazione, e il Mandarino cominciò a temere delle confidenze intime che preferiva ignorare. Mentre si affannava per cambiare argomento, la porta si aprì all'improvviso, mostrando una sagoma che non gli era sconosciuta. «Aconito, mia cara!» esclamò, gioiosa, la signora Libellula. «Entra, presto! Stavo meditando quando il Mandarino Tan è venuto a farmi delle domande indiscrete sui maneggi licenziosi del conte Diem. Gli ho descritto le unioni diverse che si praticavano durante i festini, cosa che sembra turbarlo. Stavo per giurargli di non avervi mai partecipato, e il povero Clemenza nemmeno, pur avendo alcune inclinazioni...» I pugni sui fianchi, la signora Aconito squadrava freddamente la moglie del suo garante, e alzò un sopracciglio vedendo la sua cintura disfatta e i capelli sciolti. Scoccando al Mandarino Tan un'occhiata beffarda che valeva mille parole, disse in tono perentorio: «Basta così, adesso, Libellula! Dubito che al nostro magistrato interessino le vostre inclinazioni personali e ancor meno le dubbie prodezze di Clemenza». Il Mandarino sospirò di sollievo e guardò con gratitudine la giovane che, come un genio benevolo, era giunta a interrompere il corso di una conversazione diventata incontrollabile. Con indosso calzoni neri e una giacca corta, la donna contrastava in modo singolare con la moglie dell'eunuco, delicatamente avvolta in una veste a fiori. Era la prima volta che il magi-
strato le vedeva a fianco a fianco e constatava come l'una fosse ben piantata e l'altra di una seducente fragilità. Il suo senso estetico esitava a scegliere tra le spalle robuste e la nuca gracile. Ma la signora Libellula non aveva detto l'ultima parola. Indicando la borsa di cotone della carceriera, domandò senza ambagi: «Cos'hai lì? Un regalo per Clemenza? Quale favore ti ha fatto ultimamente?» Confusa, la signora Aconito impallidì e ficcò la borsa in una tasca. Il Mandarino, che cominciava a essere infastidito dal fumo, scorse un lampo di collera nel suo sguardo. «Se chiami regalo la chiave della prigione, allora sì, è un regalo per tuo marito. Gliela consegnerò domani, dato che non c'è» disse, voltandosi per andarsene. La signora Libellula, però, era più agile di quanto lasciasse supporre la sua costituzione delicata: afferrata la cintura, la lanciò verso la carceriera. Il tessuto si avvolse attorno al polso della signora Aconito, che fece dietrofront. «Carissima Aconito» mormorò la signora Libellula, gli occhi carezzevoli, «lascia pure a me la chiave che hai portato a mio marito. Gliela darò prima di coricarmi». Le pupille di ghiaccio, la signora Aconito si strinse nelle spalle e, con un gesto brusco, lanciò la borsa all'altra, che l'afferrò con un sorriso radioso. Girando sui tacchi, la carceriera uscì senza proferire motto, e il Mandarino approfittò della porta spalancata per eclissarsi, mormorando formule di cortesia di una banalità che lo fece vergognare. Liberati i piedi dagli scarpini con perle che disegnavano arabeschi capricciosi, il letterato Dinh tentò di accomodarsi sulla sedia di legno duro, borbottando contro il mobilio scabro del tribunale che pareva fatto apposta per generare festoni di foruncoli sul fondoschiena degli impiegati. Evidentemente le sedie scomode inducevano i funzionari dell'Impero a vagare per i corridoi come spettri ciarlieri e sfaccendati. Qualche risata appena soffocata aggravò il malumore del letterato, che avrebbe voluto dar fuoco ai due bauli pieni di cartacce posate nell'angolo. Guardò con astio i fogli che aveva estratto controvoglia. Ricoperti da scritture diverse, snocciolavano in una solfa fastidiosa le merci che erano transitate per il porto ed esortavano senza mezzi termini a una siesta salutare. Ancora una volta si era lasciato gabbare dal Mandarino Tan. Dinh re-
presse uno sbadiglio sonoro. Irritato dalla tracotanza dell'eunuco Clemenza, il magistrato aveva pensato bene di rivalersi su di lui, ficcandogli in mano quegli schifosi documenti che bisognava spulciare in fretta e furia. Era una scusa bassamente adulatoria invocare la sua leggendaria capacità di ingurgitare informazioni. Certo, al momento dei Concorsi Triennali, quell'abilità lo aveva aiutato non poco a imparare a memoria i Classici per meglio criticarli, ma ciò non gli aveva impedito di essere accettato, pur se per il rotto della cuffia a causa delle sue analisi poco ortodosse delle opere basilari del confucianesimo. Aveva rischiato di finire in un tribunale di campagna dove, con penna meticolosa, avrebbe registrato un furto di maiali e una razzia di galline, ma grazie al Mandarino aveva ottenuto un posto meno rurale in qualità di suo assistente. Questo pensiero lo riportò a più miti consigli. Dinh sospirò... qualunque cosa facesse, il suo amico aveva i mezzi per convincerlo a sobbarcarsi i compiti più abbietti. Appena liberato dalla stretta bestiale del dottor Porco, era già lì a frugare nei panni sporchi dell'eunuco Clemenza. Il letterato si tirò su le maniche e si mise al lavoro con un sospiro da spezzare il cuore. Il tragitto tra la dimora dell'eunuco e i propri quartieri stava diventando un supplizio per il Mandarino. Il sole, seppur tramontante, colpiva dolorosamente le sue pupille dilatate, costringendolo a rasentare i muri per cercare un po' d'ombra. I rumori della strada - il suono di una carretta di passaggio, la raganella di un pitocco - gli sembravano insopportabili, tanto i suoi timpani messi a nudo erano in grado di cogliere il minimo murmure, il soffio più lieve. Con un sussulto di terrore, si rivide intento a bere, verso mezzodì, un tè offerto fin troppo cortesemente dalla signora Aconito. La giovane, per quanto poco avvezza alle cortesie, glielo aveva proposto con un'allusione vagamente faceta, e lui aveva apprezzato l'aroma robusto delle noci. Il sapore pronunciato e il calore della bevanda gli avevano fatto infinitamente bene al momento, ma adesso che la sua testa era di una leggerezza sospetta egli si domandava non senza inquietudine cosa quella donna avesse aggiunto alle foglie del tè per aromatizzarlo a quel modo. Sbattendo le palpebre per scacciare le lacrime dovute alla luminosità intollerabile, il Mandarino ricordò le piante officinali che crescevano alla rinfusa nell'orto della signora Aconito. Lui non era erborista, ma tra i semplici che brulicavano accanto alle bestie e ai rettili dovevano essercene al-
cuni che secernevano veleni folgoranti o insidiosi, e comunque l'uno più mortale dell'altro. In tono inoffensivo, la vedova aveva lasciato intendere di essere versata nell'arte medica, dunque che cosa le impediva di ammannirgli un decotto funesto? Questo pensiero sgomento suscitò un'onda di sudore che gli colò lungo la schiena. Il respiro diventato affannoso lo costrinse ad appoggiarsi a un muro per riprendersi. Quella breve sosta contro i sassi rugosi ebbe però l'effetto di rammentargli il suo appostamento presso la casa della signora Aconito, durante il pedinamento di Hsiu-Tung. Il Mandarino Tan ricordò con terrore ciò che aveva visto: la giovane che offriva premurosamente una bevanda al prete fiducioso, che l'aveva mandata giù d'un fiato. Ora, l'indomani, sull'Isola della Tartaruga, Hsiu-Tung aveva messo a nudo una pelle distrutta, rosa da piaghe purulente! E se fosse stato quel piccolo rituale, perpetuato dall'inizio degli incontri, a causare e poi mantenere vive quelle lesioni che divoravano il gesuita? A quale scopo la vedova lo teneva in quello stato di marcescenza? Il volto ruscellante di un sudore malsano, il magistrato si denudò il busto con una frenesia incontrollabile. Era un'impressione o si sentiva prudere su tutto il petto? Per il momento la pelle era integra, ma tra quanto ci sarebbe stata eruzione di papule e posteme, con il loro corteo di pus e di sangue? La bocca aperta, il Mandarino Tan azzannava l'aria di quella fine di pomeriggio, e con un ultimo sforzo si rimise in cammino. I suoi piedi che solcavano penosamente la polvere spessa sembravano calzati di piombo. Era come se il suo corpo, diventato di sasso, non riuscisse a star dietro alla sua coscienza. Gli sembrava che ogni passo scandisse il nome della signora Aconito... Aconito, nome di un fiore velenoso, nome di una vedova troppo giovane. Cos'era dunque successo a suo marito? La donna aveva avvelenato anche lui? Le immagini della concessione degli erranti si misero a volteggiargli in mente. Cos'aveva notato, di strano, lì? Un piccolo particolare lo aveva incuriosito, al momento, ma adesso, la mente confusa e il passo rigido, era incapace di rammentarlo. Nel momento in cui cominciava a venir meno, il Mandarino Tan scorse i tetti curvi dei suoi quartieri, cosa che gli infuse una forza insperata. Afferrandosi ai rami bassi dei frangipani che vedeva come una passerella verso la salvezza, arrancò penosamente fino alla sua stanza. Il vano fresco e pacifico gli parve più lussuoso di una stanza di re, ed egli si accasciò sul letto nel momento stesso in cui le ginocchia gli cedevano.
Il viale bordato di sofore era di una benefica frescura in quell'inizio di serata arrossato dalle luci radenti del sole calante. Capannelli di passanti si formavano qui e là per discutere dell'ultimo combattimento di galli e dell'opera teatrale che stava per cominciare. Da dietro il palco ornato di festoni con lampioncini blu cobalto e giallo ocra si levavano esclamazioni e grida eccitate, mentre sul palcoscenico si allestivano scenari degni un palazzo imperiale. Tra le quinte, gli attori dalla faccia bianca di belletto strillavano, mentre gli si conficcavano nei capelli rialzati dei diademi di paccottiglia. Insinuandosi come un rettile in mezzo alla folla, insensibile a quell'animazione, l'eunuco Clemenza pensava alle transazioni della giornata. Gli affari andavano bene, perché i portoghesi si rivelavano impazienti di instaurare dei canali di traffico con i locali. Alla testa di una flotta avvezza a solcare gli oceani del globo, essi volevano imporsi nel commercio con l'Oriente. Il signor Clemenza esultava nel suo intimo al pensiero delle sue nuove aspettative: con l'arrivo imminente di una colonia di commercianti francesi, avrebbe potuto giocare al rialzo con i due gruppi. Da quella rivalità sarebbe senza meno riuscito a cavare qualche sapeco supplementare per arrotondare deliziosamente le sue entrate. Fece dardeggiare gli occhi di una strana fissità sulle persone che prendevano posto davanti al palco dove si era insediata una piccola banda di musicanti, e riconobbe con sorpresa una sagoma addossata a un tronco d'albero. Quel portamento altero e disinvolto al contempo, quelle trecce che si abbisciavano nel cavo della spalla... potevano appartenere soltanto a una persona. «Signora Aconito!» sussurrò avvicinandosi senza far rumore. «Ignoravo che vi piacesse il teatro. È un modo per spendere il vostro salario di carceriera?» La giovane si volse senza dar segno di sorpresa e rispose in tono piatto: «Il teatro non m'interessa in modo particolare, ma si dà il caso che questo brano parli di un ladro catturato da un giudice perspicace, che finisce con la testa mozzata... con la scure, mi pare». Il signor Clemenza sussultò e lanciò alla signora Aconito un'occhiata incendiaria. La miserabile doveva sapere che gli eunuchi avevano orrore di tutto ciò che evocasse l'atto del tagliare, e che era una mancanza di educazione parlare in loro presenza di coltelli e altri utensili affilati. Quella donna si faceva davvero beffe del mondo intero! «Bighellonavo dopo esser passata dal vostro domicilio» riprese la vedo-
va, di cui egli sentiva il profumo di caprifoglio nell'aria serotina. «Vostra moglie, però, stava conversando con il Mandarino Tan, sicché me ne sono andata». Gocce di sudore grosse come perle di rugiada colarono dai pori sgomenti dell'eunuco che sbatté più volte le palpebre. «Come! Il Mandarino Tan è andato di nuovo a cercarmi!?» esclamò con voce stridula. «Siete riuscita a cogliere il tenore della conversazione?» «Soltanto qualche frammento. Credo proprio che parlassero di pratiche sessuali e di feste orgiastiche... commentando di passata le vostre inclinazioni in materia, se non ricordo male». Il signor Clemenza la squadrò esterrefatto. Si stava di nuovo prendendo gioco di lui? Alla luce dorata dei lampioncini, gli occhi della giovane gli sembravano imperscrutabili. «Ammettiamolo» concesse, non volendo svelare la sua perplessità. «Ma il Mandarino non faceva domande sui documenti che gli ho mandato? Aveva l'aria severa, indagatrice, furente?» «Mi chiedete troppo, signor Clemenza! A parte l'aria supponente, la fisionomia del nostro magistrato non ha attirato la mia attenzione più del solito. Tuttavia, da me ha voluto sapere perché le prigioniere malate dovevano essere mandate sull'Isola delle Tombe». Asciugandosi le mani umide sulla seta della casacca, il signor Clemenza si sforzava di restare calmo. «E cosa gli avete risposto?» La vedova lo guardò con il volto di una compostezza suprema, dove all'uomo parve comunque di scorgere una traccia di sarcasmo. «Che avevano contratto una malattia che rischiava di trasformarsi in epidemia, nelle baracche. Bisognava a ogni costo allontanarle, no?» «Evidentemente» replicò l'eunuco, turbato dal tono della sua voce. Avrebbe voluto scrutare il volto della donna in cerca di un segno rivelatore, studiare il disegno volitivo delle labbra per scovarvi un'espressione ambigua, ma la signora Aconito si distolse, apparentemente assorta dall'entrata in scena degli attori che ondeggiavano al suono di una cetra a una sola corda. Il musicante, con un archetto di bambù, trasse dallo strumento una melodia somigliante al canto di una voce umana. Era un'aria appassionata e triste, ma alle orecchie dell'eunuco suonava come un lamento funebre che lo fece rabbrividire nella casacca zuppa di sudore. È appena scesa la notte, più nera della tonaca logora che spesso mi frusta
il viso nei miei incubi peggiori. Nonostante la finestra spalancata, soffoco nella stanza. Eppure, mi sono lavato più volte con un'acqua più gelida della pelle di un cadavere. Ho voglia di scappare da questo luogo asfittico, così simile a una bara di cui abbiano inchiodato il coperchio mentre il morto respira ancora. Invano faccio appello agli spazi infiniti popolati di scintillii multicolori, traversati da arcobaleni più taglienti di scimitarre, dove il mio corpo finalmente liberato volteggi come un uccello dal sangue in fiamme. Invoco senza successo i lampi che trafiggono lo spirito con i loro bagliori prima di innalzarlo ad altezze inimmaginabili. Dov'è il vento cosmico che mi sferzava il viso, spazzando via i preconcetti per aprirmi nuovi orizzonti al di là delle stelle ardenti? Dove le esplosioni di luce che mi annebbiavano le pupille per meglio aprirle su pensieri insospettati? L'eternità che cercavo è dunque perduta per sempre? Il Mandarino dal volto infantile avrebbe dunque ragione? L'immortalità è soltanto il ricordo che lasciamo nella memoria dei vivi, un'impronta volatile che cerca un supporto umano? L'immortalità sarebbe dunque soltanto questo? La pietra filosofale è una chimera inventata dall'uomo per lusingarlo e schernirlo? Stasera, mentre la sete mi strazia, i miei appelli mi si strozzano in gola e la mia magra carcassa resta disperatamente a terra, gravata da un peso che mi schiaccia la nuca. La mia bocca piena del sapore metallico dell'humus mi dà la sensazione d'esser stato sepolto vivo in una tomba che avevo contribuito a scavare. Questa oscurità è peggiore della morte... Lasciata cadere la penna, Hsiu-Tung alzò uno sguardo perso, contemplando senza vederlo il bacile d'acqua che aveva rovesciato nelle sue frenetiche abluzioni, il piccolo fornello con cui faceva i suoi esperimenti e il quaderno nero che conteneva tutte le sue osservazioni. Il suo sguardo s'attardò un istante sulla croce di legno appesa alla parete e se ne distaccò dopo un palpito di ciglia. Con aria disgustata e forse mesta, egli scosse il capo e, con mano che non tremava, afferrò un coltello che usò per lacerarsi il polso. Le sentinelle avevano da un pezzo fatto la ronda nell'Ora del Porco, ma il letterato Dinh non aveva ancora lasciato il suo posto in tribunale. Contro ogni aspettativa, si era appassionato al suo compito e aveva divorato i documenti inviati dall'eunuco Clemenza. I bauli avevano svelato dei tesori alla sua immaginazione. Alla luce del lume a olio, egli continuava a sfogliare i lunghi elenchi di merci che gli aprivano le porte del sogno. Le penne
dell'airone argentato che si esportavano in Cina gli ricordavano i ventagli eleganti delle danzatrici, e le piume del martinpescatore le spille per capelli delle cortigiane, sui quali esse cadevano in cascate iridate accanto alle perle e agli opali. Conficcati nelle crocchie opulente, dei pettini di tartaruga diffondevano il luccichio dell'ambra. Le ali di scarabeo e i carapaci d'insetti verdazzurri, destinati a ornare le fibbie delle ricche cinesi, davano luogo a immagini di una società agiata, perfino decadente, dove le donne si pavoneggiavano con parure strappate alle bestie. Nell'elenco figuravano molte specie di legni esotici, Dalbergia e legno di rosa, di cui egli immaginava senza sforzo l'utilizzo... armadi panciuti e pareti traforate dietro le quali figure in atteggiamento equivoco si davano alla pazza gioia. Per prolungare i loro sforzi sensuali, quegli acrobati sibaritici dovevano fare un consumo furioso dei mirabolani che si esportavano a loro volta in grande quantità, giacché quei frutti seccati entravano nella composizione degli elisir di lunga vita cari alla farmacopea cinese. Lo stesso, il legno marcio e denso dell'aloe, saturo di una resina aromatica, prendeva la strada della Cina per essere ridotto in una polvere che si applicava alle pareti. Così, le sale di ricevimento di un aristocratico dalle nari delicate avrebbero esalato sentori esotici di regno del Sud. A Dinh pareva di vedere quei nobili un po' mollicci intenti a rotolarsi su morbidi canapè, avvolti da nuvole d'incenso di onycha, fragranza ricavata dall'opercolo di un mollusco del suo paese. Ovviamente, all'estero si apprezzava l'avorio delle giungle rigogliose, esportato con le corna di rinoceronte. Immagini di oggetti d'arte decorati con il prezioso materiale pervadevano allora la mente del letterato: scatole lignee tempestate di schegge d'avorio bianco su una tarsia di caco, tagliacarte in avorio scarlatto con profili di uccelli e fiori scolpiti... L'oro che colmava il ventre delle giunche in partenza per il Celeste Impero, accanto all'argento e al realgar, infiammava la sua mente immaginosa. Vedeva casse di lacca dove le fenici passeggiavano sotto nubi d'oro e d'argento, foglie d'oro battuto applicate sull'elsa di una daga o granuli d'oro incrostati nei gioielli di turchesi, e si entusiasmava al pensiero che si potesse trasformare quel metallo malleabile in altrettanti oggetti raffinati. A più riprese constatò che anche il salnitro e lo zolfo trovavano acquirenti al di là dei mari: di sicuro spettatori avidi di fuochi d'artificio. Se però quei prodotti locali riuscivano a stimolare la fantasia di Dinh, quelli che provenivano da paesi lontani gli apparivano quali meraviglie incommensurabili. Dalla Corea era stato importato di recente un assortimento di pongé dai toni d'aurora di cui egli avrebbe voluto accarezzare la gra-
na. Da Ceylon si erano fatte arrivare quantità di putchuk, una radice che secerneva un olio volatile dal sentore di viola, e Dinh aveva la sensazione di fiutarne l'aroma al solo mormorarne il nome. L'ambra grigia, tratta dalle viscere del capodoglio, da cui si ricavava un profumo raro e squisito, lo sprofondava negli abissi oceanici, dove volteggiava tra draghi marini e rettili dalla testa leonina. Un bracciale con sette perle dai riflessi lunari, importato con collane di madreperla e un anello di calcedonio bianco, evocava l'ombra di una principessa defunta cui fossero stati rubati i gioielli... Più avanti, un diadema tempestato di rubini gli faceva pensare a gocce di sangue rappreso che una regina crudele avesse preteso da ciascuno dei suoi amanti per una notte con lei. Uno scettro di lapislazzuli, destinato a un collezionista, faceva risonare nelle sue orecchie nomi dalle magiche consonanze: città di Khotan, fiume Oxus, valle della Kokcha, luoghi originari della gemma il cui colore indaco destava nei ricordi del letterato cieli oltremare di un'èra remota. Così gli oggetti che transitavano per il porto, trascritti in un noioso elenco, si mettevano a rivivere nella mente di Dinh, acquisivano una storia propria secondo il capriccio della sua fantasia. Grazie a questo, il letterato ingurgitava senza sforzo l'impressionante litania di prodotti, beveva golosamente le informazioni amministrative fermando nella sua memoria fenomenale le diverse categorie di beni, le quantità in gioco, la loro provenienza e la loro destinazione, come pure le date di entrata e di uscita. E fu così che, verso l'Ora del Bufalo, mentre il tribunale era disertato da tutti meno che dalle guardie sonnacchiose, il letterato Dinh alzò la testa con un sospiro di soddisfazione. Nel guazzabuglio indigesto consegnato dall'eunuco aveva trovato una parvenza di motivo in grado di spiegare il suo timor panico. Il Mandarino Tan provava una strana sensazione di déjà-vu. Gli tornava di colpo a mente l'acqua chiara dei fiumi della sua infanzia. La testa immersa, aveva l'abitudine di guardare il fondo coperto di piante acquatiche che si muovevano come la capigliatura di un mostro degli abissi. Osservava i contorni del suo corpo stampigliato sullo scenario delle profondità dalle molteplici sfumature verdi. Il ragazzino immaginava allora che le alghe e i giunchi fossero foreste vergini, e i sassi bianchi montagne di calcare. La sua ombra diventava l'ombra delle nuvole su un paesaggio lussureggiante, e lui stesso un uccello in volo planato. Quella sera, annientato da un'invincibile stanchezza, il ragazzo diventato
Mandarino ritrovava quella strana impressione di volare, mentre era inchiodato sul letto, le braccia in croce e gli occhi chiusi. La sua mente, che aveva assunto una strana leggerezza, pareva staccarsi dal corpo, come quei fantasmi che si liberano dalle spoglie per andare a infestare i luoghi dei loro amori. Quando si trovò all'altezza del soffitto della stanza, fu colto da un riso muto, esaltato dal suo inedito punto di vista. Il corpo del giovane steso ai suoi piedi gli sembrava incongruo nella sua immobilità, penoso nel suo abbandono. I capelli sparsi che gli nascondevano parzialmente il volto somigliavano ai brandelli di un sudario buttati lì per pudore. Sono davvero morto? si domandò il Mandarino con una strana sensazione di distacco. Un battito di ciglia e di colpo eccolo trasportato in un luogo in cui soffiava un vento carico di spruzzi. Sotto di lui, le onde di un mare color ardesia irrompevano come un esercito dalla corazza cangiante, avanzando verso la riva che si profilava in lontananza. Inebriato dall'altitudine, il Mandarino fece scivolare lo sguardo al di là dei flutti per posarlo sulle catene di montagne che si stagliavano lontane. La vista potenziata, in grado di distinguere i più piccoli crepacci e ghiacciai, lo esaltò. Era la Cina? O un regno d'Occidente popolato di monaci buddisti? L'orecchio teso, gli pareva di sentire i mulini di preghiera che giravano sotto bandierine multicolori. Concentrato lo sguardo sui marosi, scorse una quantità di navi che si allontanavano da un paese costeggiato interamente dal mare: il suo. Giunche a tre alberi filavano verso il nord, imprigionando il vento nelle loro ali di farfalla graziosamente spiegate su una struttura di bambù. Imbarcazioni di squisita fattura, battenti bandiera portoghese e giapponese, si lanciavano verso altri lidi. Nella loro scia, la schiuma tracciava archi evanescenti d'argento e di luce. Rovesciata la testa, il Mandarino Tan cambiò traiettoria e piombò come una meteora verso la cresta delle onde. Il vento gli fischiava nelle orecchie, mentre la superficie dell'acqua si avvicinava a una velocità vertiginosa. Gli pareva di vedere schegge di rame sparse sull'acqua - un banco di pesci che s'insinuava tra due scogli - e il lampo di un kriss: i denti snudati di uno squalo pronto all'attacco. Ma, un attimo prima di inabissarsi, il Mandarino voltò il busto e si trovò catapultato verso il cielo. Gioiva di quell'agevolezza e lanciò un grido entusiasta mentre attraversava le nebbie umide di una nuvola crepuscolare. Aperta la bocca, assaporò una lacrima di ghiaccio imprigionata nella nube. Poi, d'improvviso, emerse in uno spazio silente e si fermò interdetto. In una penombra di un viola più cupo delle viscere dell'oceano, un bagliore
lunare ardeva sopra un astro che non splendeva. Tanta bellezza lo lasciò senza parole, ed egli sgranò gli occhi per serbare per sempre quell'immagine nella memoria. Sotto i suoi piedi, lembi di nuvole si sfilacciavano su un mare saturo d'ombre. Volgendo il capo, indovinò una miriade di punti luminosi sparsi come braci rosseggianti sullo sfondo violaceo del cielo. Fece uno sforzo di concentrazione per avvicinarsi, attratto dalle luci come un'effimera consapevole del fatto che la sua ricerca sfocerà nella morte... Avvolto in una coperta che avrebbe meritato una bella ripulita, il portatore di palanchino Xuan non riusciva a prendere sonno. Sentiva, esasperato, il russare assordante dei suoi compagni e si domandava che cosa lo preoccupasse. Lui che di solito era il primo ad addormentarsi non aveva smesso un momento di rigirarsi sul saccone come una salsiccia cinese su uno spiedo. Dopo un lungo momento in cui storielle grasse e risate d'intesa erano esplose nell'allegria generale, il dormitorio dei portatori di palanchino e di altri inservienti era pian piano sprofondato in una calma relativa. Appena spento l'ultimo lume a olio, era iniziato il concerto del russare: il fischio acuto del portatore il Gambero faceva da contrappunto al basso sonoro del palafreniere, mentre il suo amico Minh sovrastava tutti con rumori gutturali imprevedibili. Soltanto il cuoco segnava il tempo con un raschio di gola di una sfibrante regolarità. Xuan si disse che ciò che lo tormentava era l'affronto che avevano subito nel fare rapporto al Mandarino. L'imboscata al cimitero non avrebbe lasciato una traccia gloriosa nel loro stato di servizio. Ad aggravare la situazione, quel coniglio di letterato li aveva umiliati in pubblico, ed egli si sentiva ferito mortalmente dalle sue allegazioni prive di fondamento. Certo, Minh e lui non erano riusciti a buttare a terra il minimo cadavere, ma il bellimbusto non aveva fatto di meglio, eppure si era accanito sulla mancanza di coraggio da loro dimostrata. Il Mandarino Tan si era lasciato influenzare da quelle calunnie? Xuap ci teneva a serbare un buon posto nella stima di quel magistrato cui era devoto, nonostante il peso che imponeva alle spalle dei suoi portatori di palanchino. In tutti i suoi anni di servizio, egli non aveva mai conosciuto un Mandarino altrettanto robusto: i funzionari d'alto rango erano di solito mingherlini, quando non rachitici. Il Mandarino Tan, invece, aveva la struttura di un atleta uiguro, tutto muscoli e gambe. E, se il giovane magistrato era riluttante a prendere il palanchino che lo soffocava come un porco portato al mercato, ogni uscita ufficiale era un supplizio per Xuan e i suoi amici. Tutti si sentivano scricchiolare le
vertebre al minimo passo e, la sera, le articolazioni infiammate li torturavano fino all'arrivo del sonno. La cosa più ardua, durante il tragitto, era la faccia rilassata unita al passo marziale che loro stessi s'imponevano per orgoglio. Nessuno doveva dire che i portatori del palanchino mandarinale erano dei pelandroni. Da una parte, perché non era vero, e dall'altra perché quell'atteggiamento virile sotto lo sforzo procurava loro l'ammirazione delle donne assembrate lungo il tragitto. E Xuan, per tutt'ossa che fosse, aveva beneficiato di molte notti galanti grazie alla sua faccia maschia e al suo sorriso beffardo. Ecco perché le illazioni del letterato Dinh lo avevano sommamente indignato. Si mettesse al suo posto sotto il palanchino, quel damerino, e avrebbe visto fino a che punto bisognava essere uomini per sopportare quel carico colossale! Nell'oscurità, Xuan alzò un pugno vendicatore. E lanciò un grido. «Minh!» guaiolò, scuotendo il vicino che mormorava parole incoerenti. «Svegliati!» «Basta così per stasera, Fior di Glicine! Tre volte di fila logorano un uomo!» rispose l'altro dandogli la schiena. Ma Xuan, livido, continuava a tirarlo per la casacca. «Minh, caro, sta tornando mio marito!» uggiolò poi con voce in falsetto. Il suo amico aprì di colpo gli occhi mettendosi seduto. Sbattendo le palpebre, scorse Xuan che tremava come una foglia. «Ah, sei tu... Devo aver avuto un incubo...» «Guarda qua! Sto morendo! Sto marcendo vivo! Quei cadaveri mi hanno contaminato con i loro effluvi immondi!» E mostrò il braccio roso da tracce verdognole come muffe che splendevano fiocamente nel buio. «Per tutti i diavoli!» esclamò Minh, il volto pietrificato dall'orrore. «I morti ti hanno trasmesso la loro corruzione! Forse dei vermi carnivori ti stanno divorando le budella! Senti brulicare dei parassiti nelle viscere?» Xuan, in preda al panico, mugugnò: «Grazie per la tua premura, falso fratello! Ti rassicuro: credo proprio che le mie viscere siano ancora tutte intere». Poiché il busto di Minh usciva da sotto la coperta, aggiunse sottovoce: «Mostrami un po' la tua pancia! Si direbbe che i cadaveri viscosi abbiano infettato anche te!» «Come?» replicò Minh denudandosi l'addome con un'esclamazione di terrore. Un'impronta olivastra e lucente gli girava attorno alla vita come un retti-
le glauco, spandendosi qui e là in mostruose ramificazioni che tentavano di raggiungere la sua virilità. «Che il diavolo mi porti!» imprecò il portatore, furibondo. «Quei cani marcescenti mi hanno mangiato lo stomaco! Eccoci entrambi condannati alla putrefazione come cadaveri fetidi!» Di nuovo solidali, i due amici osservavano con sgomento le chiazze verdi che marezzavano la loro pelle. Minh cominciò a sfregarsi vigorosamente la pancia, ma si rese conto che così facendo le chiazze si estendevano. Ora che i suoi palmi splendevano dello stesso lucore malsano non sapeva più cosa fare. «Mi raccomando, non toccarti lo Stelo di Giada!» ordinò Xuan, pratico e previdente. «Non dobbiamo perdere la dignità in questa faccenda». Similmente sconcertati e terrorizzati al pensiero di fare da pasto a qualche tenia vorace, i portatori erano pronti a invocare gli dèi inferi, quando si immobilizzarono con la stessa idea in mente. Nel mondo dei vivi, un uomo soltanto poteva aiutarli, un uomo soltanto poteva trarli fuori da quell'impiccio mortale... un eroe di cui erano disposti a baciare i piedi. «Il Mandarino Tan!» esclamarono all'unisono prima di precipitarsi verso la porta, scavalcando senza tanti complimenti i corpi addormentati dei compagni. Addossata alla finestra, lo sguardo fisso sulla mezzaluna che le incendiava le pupille, la signora Libellula inspirava con avidità l'aria notturna. La frescura circostante la rinvigorì, dissipando gli effetti del fumo che aveva inalato, e le restituì una lucidità più affilata di una lama. Distingueva il profumo della camelia da quello della menta piperita e poteva quasi palpare le gocce di umidità che si materializzavano nella penombra. I raggi che giocavano sui suoi capelli sciolti li rendevano simili a metallo fuso e, sul suo petto nudo, le tenebre si accalcavano come le pieghe di una stoffa senza consistenza. Rammentò la visita improvvisa del Mandarino che aveva interrotto la sua seduta di meditazione. Era stato molto seccante, e si domandava se il giovane si era reso conto di disturbarla. Con quell'aria ingenua, dava l'impressione di muoversi in un mondo tutto suo. Aveva un bell'atteggiarsi a magistrato serio e sicuro di sé, gli argomenti sentimentali e le allusioni di ordine sessuale lo turbavano quanto una vergine selvatica. La testa all'indietro per far sì che la luce lunare le scendesse sul collo, la giovane ridacchiò ricordando l'espressione imbarazzata del magistrato che voleva sapere
delle feste orgiastiche del conte pur arrossendo sui particolari. Avrebbe dovuto insistere sulle prodezze inaudite e immaginarie di suo marito per metterlo in fuga? Con un colpo di reni, come una serpe in muta che si liberi della pelle, la signora Libellula fece cadere la casacca floscia che le avvolgeva la vita. Alzando le braccia perché il chiarore delle stelle le scendesse lungo i fianchi, la giovane s'appoggiò allo stipite della finestra, la schiena sensualmente arcuata. La luce che le sfiorava la pelle era come una carezza, e lei lanciò un sospiro di piacere, tra il rantolo e il gemito. Nemmeno Aconito sarebbe dovuta venire. Le sue trecce seriche, grevi sulle spalle ben disegnate, avevano finito di sconvolgere il giovane Mandarino, che visibilmente non sapeva più dove sbattere la testa. Quella ragazza non aveva idea del fascino irresistibile che emanava dalla sua persona. Poteva fare la spaccona quanto voleva, dar di frusta come un guerriero barbaro... ciò non le impediva di sprigionare una femminilità felina che stregava la gente più di un filtro d'amore. Il Mandarino, che si era eclissato per seguire la bella carceriera, aveva avuto il tempo di farle delle domande? O ne aveva approfittato per declamarle qualche verso di sua creazione? Voltandosi languidamente, la signora Libellula abbracciò un raggio di luce che giocava col suo basso ventre di una dolcezza di raso. Si rimproverò d'essersi mostrata in posizione di debolezza davanti al magistrato, perché non le piaceva essere presa alla sprovvista. Cos'ha cavato il Mandarino dal colloquio? si domandò, curiosa. E Aconito che era venuta a dire la sua! In altre circostanze, la sua visita le avrebbe fatto infinitamente piacere, ma quel pomeriggio avrebbe fatto volentieri a meno di vedere la sua faccia di aristocratica sdegnosa e pervicace. Dopo la sua partenza, lei si era accasciata sul letto, vinta da un ineluttabile torpore, e si era svegliata soltanto al cader della notte. La giovane alzò una gamba sottile posandola sul davanzale della finestra e si curvò per farsi avvolgere completamente dallo scintillio stellare che pioveva dal cielo. Allungò un braccio e, quando lo riportò a sé, la sua mano stringeva un sacchettino di cotone che lei si passò sul petto, attorno al collo proteso, poi lungo le cosce aperte. Ormai stava per impossessarsi di ciò che bramava da un'eternità... Gli occhi ardenti e le labbra socchiuse, sciolse lentamente la cordicella rugosa. Si fece rotolare piano sul palmo una piccola sfera dalle trasparenze di chiaro di luna. Poi, con amore, tolse dal sacchetto una seconda biglia color di bruma. La piccola borsa rivelò a una a una cinque perle di una bellezza indicibile la cui lucentezza ricorda-
va lo splendore di una stella gelata o il lucore di una candela in mezzo alla nebbia. La signora Libellula tratteneva il respiro, il cuore in tumulto, e scosse il sacchetto per farne uscire la perla successiva. Ma la borsa aveva ceduto tutti i suoi tesori e, per quanto la giovane agitasse l'involucro di cotone, nulla più cadde sul suo palmo aperto. Allora, mentre la luna e le stelle continuavano, imperturbabili, a ruotare sulla volta celeste, i lineamenti tirati e gli occhi che dardeggiavano, la signora Libellula alzò il viso al cielo e urlò: «Aconito!» Fluttuando in un'immensità di cupo azzurro, il Mandarino esultava. Grazie a un tremendo sforzo di concentrazione era infine riuscito ad avvicinarsi a un globo splendente avvolto da fiamme sinuose. Estasiato, tendeva la mano per sfiorare con le dita le braci purpuree, disseminate come lucciole dalle ali infocate, quando delle urla stridule lo fecero sussultare. «Mandarino Tan! Per pietà, apriteci!» Stravolto e disorientato, il magistrato fece ruotare gli occhi incerti nell'oscurità. Giaceva sul suo letto in indumenti impolverati, lontano dalle luci splendenti e ammalianti che gli assillavano la mente. Pian piano, ricordò il suo malessere del pomeriggio e si stupì di aver dormito fino a quell'ora tarda. Poiché le esclamazioni crescevano dall'altra parte della porta, si alzò e accese un lume a olio. Barcollante, andò incontro ai suoi visitatori. «Minh e Xuan! Cos'avete di così importante da dirmi per venire a svegliarmi nel cuore della notte?» domandò, imbronciato. Non aveva dubbi: sorvolare delle sfere in fusione era infinitamente più esaltante che dominare le facce terrorizzate di due portatori di palanchino! Minh, di solito molto posato, aveva i lineamenti sconvolti e gli occhi folli. Quanto a Xuan, la sua carcassa effettuava suo malgrado una danza rumorosa, le sue ginocchia vare si scontravano furiosamente in sintonia con i denti. Cosa volevano da lui a quell'ora indecente? «Signore!» implorò Minh, che aveva ancora l'uso della parola. «Guardateci!» Con movimento simultaneo, i due uomini si tolsero la casacca per mostrare le loro ferite. Tendendo l'avambraccio, Xuan chiuse gli occhi, pensando alle tracce immonde che gli arrivavano fino al gomito. Probabilmente la putrefazione era già arrivata all'altezza della spalla, ed egli si aspettava che da un momento all'altro il braccio gli si staccasse dalla clavicola, come un osso di pollo troppo cotto. Come, in simili condizioni, abbraccia-
re una donna? Con un solo braccio, avrebbe avuto difficoltà a stringere le forme voluttuose delle sue conquiste. Ammesso che gli fossero rimaste delle conquiste, giacché, privo di un braccio - o magari di tutt'e due -, com'avrebbe fatto a portare un palanchino? Ora il problema era di una semplicità dolorosa: niente palanchino, niente portamento marziale, e dunque niente ammirazione femminile. Di fronte all'avvenire di solitudine e di impotenza che lo aspettava più sicuro della morte, egli represse coraggiosamente un singhiozzo. Nel frattempo, il suo compare Minh spinse in avanti una pancia tutta muscoli evitando di guardarla, perché la sentiva lacerarsi sotto i denti appuntiti delle muffe mangiatrici d'uomini. Dilaniati allo stesso modo i pettorali duri come uno scudo tartaro; strappati anche i bicipiti che facevano di lui un dio vivente tra i portatori. Quando quelle sconcezze avessero finito con lui, gli sarebbe rimasto soltanto un mucchio d'ossa appena più pesante della carcassa dell'amico Xuan. E, con una costituzione di tal fatta, non sarebbe davvero riuscito a soddisfare l'insaziabile Fior di Glicine! Stizzito, si morsicò le labbra per non imprecare davanti al magistrato. «Sono lusingato che mi facciate ammirare il vostro fisico, ma potevate anche aspettare un altro giorno» disse il Mandarino Tan con uno sbadiglio, facendo atto di richiudere la porta. Stupefatto da tanta durezza, Xuan vinse il battito dei denti e balbettò: «Mandarino Tan! La nostra lotta con i cadaveri putrefatti ha lasciato degli strascichi. A contatto con quei demoni, ci siamo attaccati le muffe che loro avevano su tutto il corpo e che ora ci divorano dall'interno!» Poiché il Mandarino li squadrava senza aprir bocca, un sopracciglio alzato per l'esasperazione, Xuan allungò il braccio a riprova. E subito il suo muso lungo diventò raggiante. «Ma come?» esclamò stupefatto. «Sono guarito! Le mie braccia non hanno niente, potranno ancora servire per abbracciare... e portare con fierezza il palanchino mandarinale! Fratello Minh, faresti bene a controllare se quelle bestiole ingorde hanno già divorato le tue viscere e digerito le tue budella!» Minh dette un'occhiata sbalordita al braccio intatto dell'amico, e si mise a esaminare speranzoso il proprio addome. Nessun muscolo lacerato, niente viscere messe a nudo! «Incredibile! Sono indenne anch'io!» disse battendosi la mano sul ventre solido come legno. «Be', ora che siete entrambi rassicurati sulla floridezza del vostro corpo,
suggerisco che ciascuno torni al proprio giaciglio» sospirò il Mandarino, che cominciava a stancarsi. Ma i portatori, offesi dall'incredulità del loro magistrato, insistettero con più foga, descrivendo nei minimi particolari le loro lesioni e il loro terrore iniziale. «Quando, dunque, avete visto quelle lesioni in suppurazione?» domandò il Mandarino in tono stanco. «Questa notte stessa, aspettando il sonno» rispose Xuan. «Mi rivoltavo nel letto quando ho notato delle tracce verdastre che mi divoravano il braccio. E l'amico Minh aveva la pancia coperta da un identico marciume». Di fronte alle espressioni sincere dei due uomini, il Mandarino Tan si disse che doveva fidarsi di loro. Le mani dietro la schiena, si mise a camminare per la stanza mentre i portatori annuivano col capo, soddisfatti di aver ottenuto la sua attenzione. «Xuan» domandò il Mandarino dopo un momento, «durante lo scontro, un corpo ti ha toccato il braccio?» «Certamente, signore! Mentre scappavo - a scopo di diversione, sia chiaro -, uno di loro mi si è messo alle calcagna ed è riuscito a bloccarmi a terra dopo una corsa interminabile. Dev'essersi sfregato sul mio braccio in quell'occasione». «E tu, Minh» proseguì il Mandarino, «un assalitore ti ha sfiorato l'addome?» «Sì, signore. Sono corso dietro l'aggressore di Xuan e mi sono gettato su di lui. Nella scaramuccia, la mia casacca si è strappata, e ho sentito la sua pelle appiccicosa contro la mia pancia». Il Mandarino fece allora degli occhi di fiera e le sue labbra si stirarono in un sorriso truce. A falcate, si avvicinò al lume a olio e lo spense. Nell'oscurità che pervase la stanza, il braccio di Xuan e il ventre di Minh s'illuminarono di una luce malsana. «Sciagura!» guaiolò Xuan, di nuovo terrorizzato dalla visione di moncherini in putrefazione. «Com'è possibile?» s'interrogò Minh, sconcertato. Una fiamma scaturì nell'oscurità, mentre il Mandarino riaccendeva il lume a olio. Subito le lesioni scomparvero. «Rassicuratevi, Minh e Xuan!» disse il magistrato con calma. «Queste piaghe sono soltanto una pittura che risplende al buio, e i cadaveri sono uomini vivi come voi e me!» I portatori esalarono un sospiro di sollievo ma, prima che avessero il
tempo di interrogare il magistrato, si sentì bussare imperiosamente. «Un'altra visita!» si stupì il Mandarino, mentre il letterato Dinh infilava la testa nello spiraglio della porta. «Spiacente di disturbarti» dichiarò Dinh con leggerezza, il mento puntato verso i due portatori scamiciati che stavano a fianco del suo amico Tan. «Perdona la mia familiarità, ma ti trovo un po' magrolino, Xuan. Bisogna mangiare più riso per sfuggire ai cadaveri. Ma tu, Minh, ehm, che bei pettorali!» Il letterato strizzò maliziosamente un occhio per sottolineare le sue parole. Xuan, risentito, fece digrignare i denti e si buttò prontamente la casacca sulle spalle. «Quando avrai finito di ammirare i miei uomini, mi dirai cosa ti porta qui!» intervenne stancamente il magistrato. Il letterato Dinh, distogliendo infine lo sguardo dalla muscolatura tutta delicatezza del bel Minh, si piazzò contro la porta e disse in tono piatto: «Faresti bene ad accompagnarmi, Tan. Il nostro amico Hsiu-Tung è in articolo di morte». Scostando con gesto estenuato un ciuffo di capelli che le cadeva sugli occhi, la signora Aconito alzò la testa dal banco di lavoro. Si massaggiò la nuca e scosse le trecce che le solleticavano la schiena. Il crogiolo d'argilla, appeso al treppiede, aveva finalmente consegnato il suo tesoro, dopo tante caute manipolazioni. La donna spense la fiamma, soddisfatta del risultato. Erano occorse non poche radici di ginseng e una quantità notevole di foglie di Plactycodon Grandiflorum per preparare la base dell'elisir che cercava. Dopo aver ridotto in poltiglia quegli ingredienti, aveva usato un telo sottile per ricuperarne il succo, filtrando i residui. Poi aveva aggiunto del succo di fagioli di soia e della polpa di giuggiola. Allora, aveva affidato il tutto al magico calore del crogiolo sigillato col fango, per evitare dispersioni di vapore durante il riscaldamento dell'elisir. Dopo il tempo del fuoco che aveva visto realizzarsi le dodici fasi di riscaldamento necessarie, la giovane aveva raccolto con una penna di gallo un liquido mordorè, pluriconcentrato, che sarebbe ora servito alla preparazione del farmaco. Si concesse un momento di pausa e si affacciò alla finestra. Sopra il suo giardino, di cui conosceva ogni foglia, le stelle scintillavano, danzando una carola lenta e graziosa attorno alla Polare immobile. Si commosse per tanta perfezione, anche se lo spettacolo le era familiare. Fin dall'infanzia, le notti erano il suo portale verso il firmamento. Al primo russare della serva che
doveva vegliare su di lei, scappava verso il balcone da cui contemplava l'immutabile balletto dei cieli. A incantarla era la regolarità dei fenomeni: il sorgere e il tramontare della luna sullo sfondo rotante degli astri, il ritorno stagionale delle piogge di stelle. Bambina, si estasiava per quei punti più splendenti delle pietre che ornavano il collo di sua madre; e, adulta, non si dava pace nel cercare di scoprire cosa rendeva possibile quei moti così armoniosi. E il prete giunto da oltremare aveva risposto ad alcune delle sue domande con un'intelligenza che riscuoteva la sua ammirazione. Quell'uomo era come lei... affascinato dai fenomeni della natura di cui tentava di conoscere gli ingranaggi. Lui se la rideva della sua esclusione sociale, così come lei faceva astrazione del suo bizzarro aspetto fisico, e insieme avevano fatto conversazioni animate che si concludevano soltanto quando il pianeta bianco s'insediava nel firmamento. Avevano dibattuto su argomenti appassionanti, dal flusso delle maree alla trasmutazione dei metalli, paragonando il sapere occidentale con la saggezza orientale. Lui le aveva indicato nuovi punti di vista, aperto altre vie nelle quali Aconito si era avidamente incamminata. Il francese, con la sua pazienza e il suo cinese un po' desueto, non l'aveva interrogata né sul suo passato né sulle sue motivazioni. A lui importava soltanto discutere delle scienze che amava, e della religione per cui viveva. Nel campo della religione, però, divergevano senza speranze di conciliazione. Il prete invocava un dio che le era indifferente, dato che lei non avrebbe mai riconosciuto altro che la natura come ente supremo. Infatti, aveva un giorno arguito, le leggi della natura sono uguali per tutti, poveri e ricchi, giovani e vecchi: il sole si alza e tramonta imperturbabile, le onde si gonfiano e si ritirano senza fare eccezioni per colui che le osserva. E il vostro dio, aveva allora domandato, dà prova della stessa imparzialità con tutti gli uomini? Gli occhi trasparenti del gesuita erano rimasti a lungo inchiodati su di lei - la donna vi aveva scorto il fantasma di un dubbio, o la traccia di un rimpianto? - poi il francese aveva detto: «No», e si era ritirato. Quella notte, mentre reggeva la boccetta di liquido ambrato, la signora Aconito ripensò al suo viso livido sormontato da una zazzera rossa, picchettato da minuscole macchie che somigliavano a gocce di ruggine. Rivide le sue pupille di ghiaccio che si accendevano brevemente quando gli capitava di sorridere. Negli ultimi tempi usciva sempre meno, e i suoi tratti taglienti rispecchiavano più spesso il dolore. Lei aveva ancora la sensazio-
ne di tenere sotto le dita le lesioni rugose che rifiutavano di chiudersi. Una volta, aveva pulito un sangue più viscoso del muco del rospo e aveva fissato inorridita quelle macchie malefiche che si allargavano sulla schiena devastata del gesuita. Strappandosi ai suoi pensieri, la signora Aconito si allontanò dalla finestra e afferrò una tazzina di ceramica sul fondo della quale posava una polvere così fine che un battito d'ali di effimera l'avrebbe dispersa ai quattro venti. La giovane trattenne il respiro togliendo il pestello che era servito a preparare quella polvere opalina. Con mano che anni d'esperienza avevano reso sicura, versò la polvere nel liquido d'oro e la guardò sciogliersi come un velo di bruma in un raggio di sole. Lasciando il letterato Dinh dieci passi dietro di sé, filando come il vento, il Mandarino arrivò davanti ai quartieri di Hsiu-Tung. Un debole raggio di luce filtrava da sotto la porta, ed egli vedeva un'ombra andare e venire come una farfalla gigantesca. Entrò senza bussare, quasi strappando la porta dai cardini. «Mandarino Tan!» esclamò il dottor Porco, voltandosi sorpreso. «Avete fatto più svelto di quanto pensassi. Ma non valeva la pena di affrettarsi tanto, dato che lo straniero è praticamente morto». Il magistrato aggirò la schiena gelatinosa del medico, stretto in una specie di mostruosa casacca a fiori che gli arrivava alle caviglie. Il suo viso era gonfio di sonno e il suo alito più deplorevole che mai. Evidentemente, gli era stato intimato di recarsi dal francese senza dargli il tempo di farsi bello. La sua sola reazione civettuola era stata quella di saltare negli scarpini alla moda di Canton che stonavano col suo abbigliamento notturno. «Lasciatemi vedere Hsiu-Tung!» ordinò il Mandarino spingendolo con una certa rudezza. S'inginocchiò accanto al corpo inanimato che giaceva sul letto, in una posa rigida innaturale. Osservandolo da presso, il Mandarino notò per la prima volta la fragilità dell'ossatura e le ciglia color sabbia che orlavano le palpebre diafane. I suoi occhi percorsero febbrilmente il busto in cerca di un infimo respiro, si attardarono sul collo per scorgere un battito d'arteria, poi si fissarono sul polso sinistro. Il bendaggio fatto in fretta e furia lasciava trapelare una singola goccia di sangue, una macchia bruna che si stagliava sul tessuto quasi a ricordare la grande pozza che si stendeva invece sotto lo scrittoio, scura e viscosa. Davanti al suo corpo esangue, il Mandarino si sentì sommergere da rimorsi tardivi... nonostante la loro amicizia,
lui si era spinto fino al punto di sospettare di quell'uomo senza aver mai avuto prove tangibili di sorta. Come porre riparo a quel pregiudizio che d'ora in poi l'avrebbe tormentato come un rimprovero incessante? Il Mandarino alzò occhi disperati verso il dottor Porco che sgranocchiava tranquillamente dei semi di zucca scovati nella tasca della casacca. «C'è speranza di salvarlo?» domandò con voce strozzata. «Sembra che questa benda abbia fermato l'emorragia». «Figuriamoci!» replicò il medico, sputando un seme ammuffito. «Era quasi dissanguato già prima che arrivasse il suo servo, che ha immediatamente avvertito il letterato Dinh. La benda che vedete è del tutto inutile». A riprova, strappò con rudezza il lembo di stoffa, mettendo a nudo uno sfregio sul polso del francese. La lama, poi caduta a terra, aveva tagliato la carne nel vivo, aprendo una ferita da cui era uscito il sangue a fiotti. «Ora che il flusso si è fermato, lui riprenderà sicuramente i sensi in fretta» continuò il Mandarino, negando le parole del dottor Porco. «Ci sono poche probabilità che succeda presto: il suo polso è estremamente debole, ed è già un miracolo che il cuore batta ancora. A vederlo così, l'avrei dichiarato morto, senza quel debole calore che sussiste nonostante tutto...» «È strano che si sia inflitto quella ferita: da quel che ho capito, la sua religione vede di pessimo occhio ogni tentativo di togliersi la vita». Era stato Dinh a parlare, appoggiato alla parete, la mano sul fianco per reprimere una pleuralgia lancinante. Il dottor Porco gli lanciò un'occhiata penetrante e si mise a trafficare attorno a Hsiu-Tung. Aperta senza tanti complimenti la bocca del prete, ne esaminò attentamente l'interno. In capo a un momento, lanciò un nitrito di eccitazione e rigirò febbrilmente il corpo strappandone la tonaca. Alla luce del lume a olio, scoprirono sulla schiena di Hsiu-Tung una profusione di piaghe infiammate. Il Mandarino e Dinh lanciarono un grido: era come se i fiori di sangue si fossero moltiplicati e disseminati su tutta la pelle. «La vostra interessante osservazione mi ha dato un'idea, letterato Dinh! Se effettivamente il gesuita non deve attentare alla propria vita, è possibile che vi sia stato spinto?» «Pensate che abbiano cercato di ucciderlo?» domandò Dinh, stupefatto. «No, non mi spingerò a tanto, ma immaginiamo che sia stato in preda a una grande malinconia che l'abbia privato di ogni voglia di vivere...» «Suvvia, dottor Porco!» intervenne il Mandarino. «Non perché condannato all'astinenza e perciò incapace di perpetuare la sua stirpe, doveva es-
sere mortificato a tal punto!» «Certo» concesse pazientemente il medico. «Ma se questo stato di grande prostrazione fosse dovuto all'azione di una droga?» «Hsiu-Tung sarebbe stato avvelenato?» Il Mandarino e Dinh si guardarono. «I sintomi che ho rilevato indurrebbero a crederlo. Guardate le ulcere che orlano la parete interna della bocca e che si estendono anche alle gengive. Queste lesioni che infestano il corpo sono rivelatrici di sostanze nocive ingerite». «È da un pezzo che sappiamo dell'esistenza di quelle ulcerazioni» protestò il Mandarino. «Le abbiamo imputate al calore del clima che Hsiu-Tung sopportava assai male». «Tanto più che gli piaceva agghindarsi di vesti cangianti in tessute di fili d'oro che dovevano irritargli la pelle. Chi non ha mai visto un'eruzione di foruncoli dovuta a indumenti umidi e ruvidi?» Il dottor Porco agitò una manica fiorita e si pulì i denti con un colpo di lingua. «Ciò non fa altro che rafforzare la mia ipotesi, semmai. Tutto induce a pensare che il veleno sia stato somministrato in modo regolare, da cui l'entità dei guasti». Unendo il gesto alla parola, il medico frizionò un bubbone e ne annusò il pus. Arricciò il naso e fece una piccola smorfia prima di rompere tra le unghie un altro seme di zucca. «Ma come è stato avvelenato? Per contatto, con una graffiatura, per esempio?» domandò Dinh. «Impossibile!» disse il dottore masticando furiosamente. «Le ulcere boccali indicano che il vostro amico ha bevuto o ingerito la sostanza tossica». Il Mandarino taceva, la fronte corrucciata. Non accettava l'idea dell'avvelenamento, e un'ipotesi sgradevole si stava formando lentamente nel suo cervello, un'idea che avrebbe voluto spazzar via col rovescio della mano. Doveva comunque mettere in chiaro le cose, quali che fossero le conseguenze. «Avete identificato il tipo di veleno usato?» «No, non ho dati bastevoli per il momento. C'è sovrabbondanza di possibilità, e occorrerebbero indicazioni supplementari perché io possa pronunciarmi». Stremato dalla recente corsa, le gambe rotte, il letterato Dinh si accasciò
sulla sedia che aveva strappato dalla pozza di sangue. Da quando era stato scoperto il corpo, era sconvolto nell'intimo. Le sue parole sgradevoli sul prete gli risuonavano ancora nelle orecchie, e avrebbe voluto rimangiarsele. Erano quasi maldicenza, ora che Hsiu-Tung giaceva sotto i suoi occhi inanimato e vergine di ogni sospetto. Dinh avrebbe dato tutto per farsi perdonare la sua passata crudeltà. «Ditemi se trovate la mia idea azzardata» cominciò con voce esitante, «ma ho sentito dire che in Cina Hsiu-Tung era stato accolto da un vecchio Mandarino. Ricordo che è partito alla morte di questi, e che è capitato nella nostra città in seguito a un naufragio». «È vero, me l'ha detto» annuì il Mandarino con un cenno del capo. «E con questo?» «Be', giravano voci secondo le quali il vecchio in questione era morto in circostanze strane». Col mignolo, il dottor Porco si frugò delicatamente il padiglione auricolare. Poi piegò la testa per espellerne la pallina di cerume. «Non è una frottola» dichiarò il medico ricuperando la pallina che impastò distrattamente tra indice e pollice. «Un mio collega mi ha riferito la storia di quel Mandarino cinese che era diventata motivo di studio». La curiosità desta, il Mandarino Tan insistette per saperne di più. «Di cosa era morto il benefattore di Hsiu-Tung?» «Il mio collega non era molto preciso in proposito. Tutto ciò che so è che il suo cadavere è stato oggetto di grande curiosità medica... ma ignoro per quale motivo». Ma Dinh non aveva ancora concluso il suo discorso. «Le voci parlavano di avvelenamento...» «Come?» si stupì il magistrato. «Anche il vecchio sarebbe morto di veleno? Se è così, è possibile che oggi ci troviamo in presenza dello stesso veleno? Dottor Porco, avete detto che la droga era somministrata in modo regolare, ma è possibile che sia stata instillata mentre Hsiu-Tung si trovava in Cina, e che abbia protratto il suo effetto fino a oggi?» Il medico rifletté per un momento, frugandosi nelle tasche in cerca di altri tesori commestibili. «È plausibile, dato che i cinesi conoscono l'arte di dosare questi prodotti in modo tale che l'effetto si faccia sentire in modo graduale...» Il Mandarino guardò il corpo pallido e disfatto che respirava appena. Per quanto tempo ancora sarebbe rimasto in vita? Se se ne fossero stati lì con le mani in mano, il cuore del gesuita avrebbe finito col cedere. Restava tut-
tavia un'ultima eventualità... «Dottor Porco, se i veleni fossero identici, sareste in grado di dedurne la natura esaminando il cadavere del vecchio Mandarino?» domandò, spiando la reazione del medico. L'altro incrociò le braccia sul vasto torace e si concentrò sulla domanda. Era l'occasione per vedere da vicino la famosa spoglia che faceva tanto ciarlare la comunità medica. Raccogliendo nuovi elementi, probabilmente sarebbe stato capace di distinguere le caratteristiche del veleno e annunciare senza fallo il nome della sostanza: un'occasione d'oro per dimostrare la sua abilità. Una volta identificata la materia tossica, sarebbe arrivato l'antidoto... assieme, forse, a una ricompensa simbolica. «Non posso promettere niente, signore, ma è auspicabile che uno studio comparato dei due casi mi permetta di individuare il veleno e di trovarne il rimedio». Era proprio ciò che il Mandarino Tan si aspettava. Balzando in piedi, decretò in un tono in cui vibrava tutta la sua speranza: «In tal caso, dottor Porco e Dinh, avete qualche ora per fare i bagagli. Domani all'alba, partiamo per la Cina!» La città si stava appena svegliando quando la giovane in veste grigia entrò a passo svelto nel cortile della prigione. Raccogliendo con gesto elegante le pieghe di seta per non sporcarle, scavalcò una brocca rotta abbandonata nella polvere bianca. Dagli edifici scalcinati, divorati da muschi e licheni, si levavano i primi rumori di un risveglio collettivo: il quartiere delle donne risonava di urla e invettive, le une litigando per un pettine, le altre per un bacile d'acqua. Alzando gli occhi verso le finestre cui erano affacciate prigioniere dalla faccia assonnata, la giovane cercò invano la sagoma di colei che andava a trovare. «Signora Libellula! A cosa dobbiamo questa sua visita così mattiniera?» Lei si voltò di scatto e incontrò la faccia inquisitrice del capoguardiano. Nonostante i suoi salamelecchi, esibiva una diffidenza insolente. «Vengo a trovare la signora Aconito. Mi pare che arrivi di buon'ora» rispose la visitatrice in tono altero. Una smorfia beffarda sfigurò il volto del guardiano. «Non oggi! Il vostro sposo non ve l'ha detto?» Lei tacque per non dover ammettere di non sapere. Cosa succedeva? Quell'incapace di suo marito le aveva dunque nascosto qualcosa? E quest'ultima ruota del carro, tracotante, che si divertiva a tenere per sé l'in-
formazione! «Ah, ecco che mi chiamano!» si scusò l'uomo dal baffo ipocrita. «I prigionieri della squadra di notte sono appena tornati dal lavoro e devono essere perquisiti. Non è il caso di lasciare che nascondano armi sotto i loro stracci!» In effetti, un gruppo di uomini e donne dall'aria stremata si dirigevano verso i dormitori, le schiene curve. Sotto la sorveglianza di una guardia, le donne entrarono nell'edificio principale, mentre il guardiano si occupava degli uomini. Fu una perquisizione in piena regola, dopo una denudazione quasi integrale che suscitò un'espressione di disgusto sui tratti della signora Libellula. Quei corpi maschili ricoperti di pelle flaccida, dalle appendici ributtanti, erano un'ingiuria al suo senso estetico, e lei fece dietrofront, contrariata. Aveva qualche domanda da fare a quell'eunuco di suo marito, ed era meglio che lui avesse buone risposte. «Attento, letterato Dinh!» esclamò il dottor Porco tirando le redini del suo cavallo, mentre dei sassi rotolavano giù dal precipizio. «Non vorrete finire stupidamente nell'abisso come una pietruzza qualunque! Con tutti quei rovi e quegli spunzoni, dubito che potremmo venirvi in aiuto. Si sono trovati spesso, appesi al fianco della montagna, dei poveretti che erano scivolati per inesperienza. I corpi sono in genere ridotti a semplici scheletri, perché gli uccelli hanno tutto il tempo di becchettarne le orbite... del resto, noi stessi non gustiamo forse gli occhi dei pesci fritti? E non parlo degli insetti voraci che divorano allegramente organi e muscoli!» «La vostra conversazione è davvero allegra, dottor Porco» replicò in tono aspro il letterato, le ginocchia strette e le braccia che strozzavano la giumenta. «Tuttavia, nella vostra spassosa storiella, non ho ben colto l'ordine in cui si svolge lo smembramento: prima gli organi e poi gli occhi, o il contrario?» Nitrendo di gioia, il medico si voltò per rispondere. «Non preoccupatevi! Accade tutto simultaneamente... se temete di vedere le bestiole entrarvi sotto la pelle, potete sempre dirvi che di lì a poco gli uccelli vi beccheranno le pupille». «Tutto per colpa del nostro Mandarino, più impetuoso di un bimbo senza cervello» decretò Dinh, imbronciato. «Con la scusa di salvare un amico, sacrifica la vita del suo miglior compagno. Era troppo chiedere di seguire le vie ufficiali per andare in Cina? No! Ha dovuto trascinarci su questa scorciatoia... comodissima, a suo dire!»
«Ecco per l'appunto il nostro intrepido esploratore che torna al galoppo» disse il medico andandogli incontro. «Ma cos'è che vi rallenta?» domandò il Mandarino, i capélli sciolti che gli frustavano le spalle. «Non è il momento di chiacchierare oziosamente, se dobbiamo arrivare al campo prima di notte. Questa strada è più praticabile di quanto pensassi, e ci farà risparmiare le forze per la traversata del valico». Era più di quanto potesse tollerare il letterato. Esplose: «È proprio necessario che in ogni tua escursione tu metta a repentaglio la mia dolce esistenza? Quando mi lascio sedurre dalle tue idee geniali, mi ritrovo o sulla gobba ossuta di questo ronzino, o in fondo a un buco con un elefante!» «In quale occasione vi siete ritrovato in compagnia di un elefante, letterato Dinh?» «Una vecchia storia di caccia» mentì prontamente il Mandarino, temendo la discordia. «E sia, ammetto che la strada non è molto agevole, e che è necessario seguire con cura le curve per non finire nel precipizio. Ma il mio intuito mi dice che dobbiamo seguire questa via per sperare di giungere al campo mentre è ancora giorno». «Il tuo intuito e quale mappa?» borbottò Dinh, imbronciato. «E va bene, non ho carte e ho dimenticato la bussola» concesse il suo amico. «Mi è mancato il tempo di preparare a dovere il nostro viaggio». «Non mi sorprende che metà degli avventurieri e prospettori, come il marito della signora Aconito, abbiano perso la vita su queste maledette montagne» disse Dinh, indicando con ampio gesto del braccio il paesaggio che li circondava. Picchi dirupati s'innalzavano da blocchi di sasso più grigio del ferro. Lembi interi di montagna cadevano nel vuoto, continuamente sferzati dal vento delle altitudini. Talora il brontolio di una frana faceva vibrare l'aria esortando a cercare un riparo. La vegetazione lussureggiante dell'inizio del loro viaggio aveva pian piano lasciato il posto a miseri arbusti rattrappiti a forza di lottare contro i venti. Nel cielo volteggiavano rapaci che a volte nascondevano con le loro ali il sole già a metà della sua corsa. La loro ombra gigantesca che planava sul paesaggio accresceva la sensazione di solitudine e di desolazione. «Dato che siamo fermi, facciamo sosta per rifocillarci» propose il dottor Porco, traendo dalla tasca alcuni pasticci di grasso che addentò con soddisfazione senza nemmeno offrirne ai compagni.
«Il dottore che azzanna pezzi di lardo non ha torto» ammise Dinh, che sentiva la pancia contrarsi per la fame. «Cos'hai di buono nella tua bisaccia, Mandarino Tan?» Il magistrato si terse la fronte con un sospiro di sollievo. Era una buona cosa essere riuscito a rinfrancare il morale delle truppe e, per consolidare l'intesa, era pronto a tutto... anche a dividere le sue frittelle e il riso alla cotenna di maiale. L'eunuco Clemenza s'infilava negli scarpini di broccato lisciandosi i capelli radi, quando bussarono alla porta. Andando a rispondere, non poté fare a meno di lanciare un'occhiata civettuola nello specchio, tirando indietro la pancia. Nonostante la sua corpulenza, non trovava del tutto sgradevole contemplarsi, anche se le malelingue lo avevano più volte paragonato a una pigra lucertola per via delle palpebre pesanti e cadenti. Per lui, però, quella carne polposa conferiva al suo sguardo una morbidezza di velluto fatta per sedurre le donne; anche se, in definitiva, non concretava mai le sue promesse. Si diceva che sua moglie Libellula, senza palesarlo a chiare lettere, doveva apprezzare il suo aspetto di iguana, se lo aveva scelto tra una ridda di pretendenti l'uno più maschio dell'altro. Quel pensiero lo colmò di piacere, e fu con gesto sensuale che egli aprì la porta. «Clemenza!» disse freddamente la signora Libellula, entrando senza complimenti nei suoi quartieri. «Ho sentito dire che Aconito non è andata alla prigione stamani, e il capoguardiano insolente che ho interrogato mi ha risposto che dovevo rivolgermi a te. Che storia è questa?» La schiena curva, l'eunuco arretrò contro il comodino. Perché sua moglie si mostrava così aggressiva nei suoi confronti? Aveva l'aria furente, nella sua veste immacolata ricamata di aironi in volo. «Niente di grave, in verità. Aconito mi ha fatto sapere ieri sera che contava di smettere di lavorare alla prigione, perché gli erranti con i quali fa comunella dovranno restituire da qui a poco la concessione. Sai bene che la città affitta le parcelle soltanto per un anno, e loro devono trovare un altro posto in cui sistemarsi. Dal momento che la bella non ammazza nessuno, io, in qualità di suo garante, non ho niente da dire...» «Come! Aconito sta per andarsene e non me l'hai detto?» urlò Libellula con voce stridula. «Non temere, mia cara, i prigionieri saranno ben sorvegliati e non rischiano di seminare lo scompiglio in città. Credo che il guardiano abbia già assunto una carceriera di aspetto virile per tenerli a bada».
Accennò un pallido sorriso e socchiuse le palpebre sperando di addolcirla col suo sguardo vellutato. «Chi ha parlato di prigione?» domandò la moglie, riducendo in cenere i suoi sforzi di piacerle. «Devo assolutamente vedere quella cagna di Aconito!» «Ma allora recati alla concessione degli erranti, forse è ancora lì». «Ah, ecco la prima frase intelligente che sento oggi!» buttò lì la signora Libellula, irritata per non averci, nel suo turbamento, pensato da sola. Gettò un'occhiata stizzita all'intorno, passando rapidamente dal letto ancora incavato dal corpo del marito alla biancheria intima informe che penzolava da un tramezzo traforato. Addossato al mobile di legno che gli faceva dolere il fondoschiena, l'eunuco Clemenza si rammaricò di non aver avuto il tempo di sistemare le sue cose, cosa che urtava la sensibilità della moglie. «Passando davanti al tribunale, ho notato un lassismo incredibile: le guardie, pagate per mostrare una parvenza di dignità, se ne stavano appoggiate con noncuranza ai muri e sghignazzavano raccontandosi barzellette» disse la signora Libellula in tono risentito. «Soltanto delle persone ignoranti possono divertirsi dicendo e ascoltando frasi volgari! Non mi sorprenderei nell'apprendere che il nostro giovane magistrato è assente». «Assente! Cosa intendi dire?» domandò il signor Clemenza. Sua moglie si strinse nelle spalle e lo squadrò attentamente. «Forse le sue indagini lo hanno portato fuori delle mura cittadine. Questo ti crea dei problemi? Pensavo temessi che si rivelasse troppo ficcanaso». «Quanto a questo, credo di aver risposto a dovere a tutte le sue domande: gli ho addirittura fornito più informazioni di quanto sperava! La cosa che mi chiedo è che tipo di Mandarino abbiano mai ereditato i cittadini: il suo posto non dovrebbe essere in mezzo ai suoi amministrati?» «Bah!» rispose la donna in tono disinvolto. «Con tutto il daffare che ha, non ti sembra normale che corra a dritta e a manca come un cucciolo cui si getta un pezzo di grasso?» Trottando di buon passo, i due portatori avevano la sensazione di partecipare a una gita di piacere. Qualche giorno prima, avevano offerto i loro servigi - a prezzo di quali future sofferenze! - a un medico più corpulento di una vacca gravida, il cui alito li aveva quasi accoppati. Stremati dal carico, avevano impiegato qualche giorno per ricuperare le forze. Le ginoc-
chia rotte e i tendini sfibrati, si erano giurati di scegliersi in futuro un cliente che non andasse oltre il peso di un porcello. Così, quando la giovane donna dal portamento altero li aveva chiamati nella piazza del mercato, loro si erano precipitati, l'aria seducente e i polpacci tesi. «Alla concessione degli erranti!» aveva ordinato la donna senza degnare di un'occhiata le loro cosce muscolose. Un po' delusi, i due avevano comunque imboccato a passo allegro la strada che portava al fiume, dal momento che la loro cliente non pesava più di una chioccia con pulcini. Sotto l'orlo della gonna, avevano apprezzato la sottigliezza di una caviglia e ammirato l'ossatura leggera della bella signora. Finalmente qualcuno che non si lasciava andare! Contenti della loro sorte, fecero qualche tentativo di parlare del più e del meno che lasciò la giovane di marmo. Quando giunsero in vista delle baracche, la loro cliente scese agilmente dalla portantina e intimò loro di aspettarla. La guardarono passare tra le casupole deserte. «Cosa viene a fare dagli erranti una signora così bella?» mormorò il primo portatore, un pelato che si era lasciato crescere una barba filacciosa per compensare la calvizie. «Se li tratta con lo stesso sprezzo che ha mostrato con noi, non troverà nessuno che le offra un tè». «Soprattutto perché la concessione sembra deserta» osservò il suo compare sedendosi sull'erba della scarpata. «Nemmeno un cane macilento che corre dietro a un gatto spelacchiato. Gli erranti devono aver restituito il loro terreno. Speriamo che non si avvicinino troppo alla nostra città!» «Si direbbe che si siano portati dietro tutte le verdure» osservò il calvo, indicando delle parcelle di terra smossa. «Sempre meglio che andare a saccheggiare gli orti della gente per bene. Bisogna pur lasciar qualcosa ai ladruncoli delle città, se è vero che il cibo rubato è, come si dice, il migliore!» Comodamente sdraiati all'ombra di un baniano, guardarono la loro cliente volteggiare qui e là sotto la scarpata. Le sue maniche fluttuavano come ali vaporose mentre correva di baracca in baracca senza incontrare anima viva. Aprendo a caso porte e finestre, infilandosi in ripari abbandonati, non si sarebbe stancata tanto presto, a giudicare dal suo gesticolare scomposto. «Nervosetta, la signora!» ghignò il calvo, un filo d'erba tra i denti. «Non so cosa cerca, ma sembra che non lo trovi». «Forse delle patate dolci e delle zucche amare» suggerì l'altro stiracchiando pigramente le gambe.
Scoppiarono a ridere all'unisono, osservando l'affannarsi della giovane. Le mani sui fianchi, urlava a squarciagola, poi esaminava, scorata, porcilaie e magazzini. Più volte si piantò davanti a una casupola invasa da vite vergine e fiori selvatici, e chiamò qualcuno che non venne. «La padrona scalpita» osservò il calvo. «Le dona: i capelli sciolti le ballano graziosamente sulle spalle». «Come i tuoi quando trasporti la portantina» disse il suo compagno, facendo cricchiare gli alluci. «Per fortuna non sapeva che la concessione era deserta, prima di chiedere i nostri servigi!» In capo a un momento, stanca di quel girare a vuoto, la giovane risalì la scarpata, le sopracciglia aggrottate e le labbra livide di corruccio. I portatori si rimisero alacremente in piedi, riassumendo un'aria piena di rispetto. «Padrona, non avete trovato nessuno ad accogliervi?» domandò il calvo con finta deferenza. Poiché la loro cliente si era chiusa in un silenzio altero, intervenne il suo compagno, fintamente compassionevole: «Certa gente tratta gli altri come pezzenti!» Nella stanza di Hsiu-Tung c'era buio come in una tomba. Le tende tirate nascondevano lo splendore della luna, e soltanto un flebile respiro, appena più udibile di un sospiro di topo, lasciava indovinare che non era vuota. Una favilla scaturì nell'oscurità, e la signora Aconito si voltò verso il letto. Il prete giaceva sulla schiena, le mani incrociate sul petto, in un'immobilità cadaverica. La giovane si chetò, contenta d'esser potuta rientrare nella stanza grazie al piccolo domestico che conosceva. Era, d'altronde, quello che le aveva portato la notizia della morte imminente del suo padrone. In quel momento, lei seppe di non aver corso invano. A passo silenzioso, la giovane si accostò al letto e contemplò il volto del francese. L'assenza delle pupille azzurre, nascoste dalle palpebre chiuse, la turbò dolorosamente. Per la donna erano le porte d'ingresso alla sua mente, da lei sondata più volte e ora inaccessibile. Con gesto di sorprendente dolcezza, scostò un ricciolo che copriva la guancia del prete ed esaminò la ferita livida sul suo polso che era stato lasciato scoperto per prevenire infezioni. Raddrizzatasi, inspirò, lo sguardo duro. Aveva appena compromesso una vecchia amicizia, e si accingeva a suggellare il tradimento. Ma quale peso aveva l'amicizia in confronto all'altro sentimento oscuro e inafferrabile che
lei rifiutava di chiamare per nome? Dalla tasca, lentamente, tirò fuori una boccetta. Inginocchiandosi accanto al corpo inanimato, di cui sentiva appena il calore, ne alzò la testa e ne aprì con cautela la bocca, nella quale versò lentamente il liquido biondo. Quando ebbe finito, si alzò, osservando un'ultima volta l'uomo steso davanti a lei, affidando infine al ricordo la sua immagine raggelata. Con una mano, smoccolò la candela; con l'altra sfiorò, quasi con rimpianto, la fronte diaccia del gesuita. Poi se ne andò. «Lasciaci dormire, Tan!» brontolò il letterato Dinh, infreddolito e avvolto in una coperta a frange. «La tua bella scorciatoia ha rischiato di ammazzarci... dovresti startene tranquillo, adesso!» Il Mandarino Tan, che si girava e rigirava rumorosamente nel suo cantuccio, si alzò su un gomito. «Tutta questa azione mi scombussola il sangue, e non riesco a prendere sonno. Dev'essere l'aria tonificante delle vette, o il chiarore delle stelle che piove dal cielo. Guarda com'è popolata la volta, stanotte: il Fiume d'Argento trasporta mostri e meraviglie disegnati con le stelle...» «Fa' dunque dei versi nella tua mente, se la natura t'incanta. Noi, sfiniti e prosaici, vogliamo soltanto riposare. Guarda il dottor Porco, appallottolato, che cerca stoicamente di sprofondare nell'incoscienza. Capisci che le tue chiacchiere non ci aiutano a trovare la quiete?» Con queste parole, Dinh dette la schiena all'amico, nella speranza di metterlo a tacere. «Ne convengo» concesse il Mandarino, più sveglio che mai. «Tuttavia, confesso: questo viaggio in Cina ci permette di allontanarci dal tumulto della città e fare una ricapitolazione delle diverse faccende che ci occupano. Per cominciare, quanto alle scartoffie mandate dall'eunuco Clemenza, cos'hai scoperto d'interessante?» Stupefatto, il letterato si voltò. «Come! Conti d'interrogarmi a quest'ora, mentre i diavoli escono dalle loro tane per andare a decapitare gli uomini? Era già una sfrontatezza chiedermi di passare in rassegna quegli scialbi elenchi per un'intera serata!» «Forse ho sopravvalutato la tua memoria» sospirò il magistrato in tono deluso. «In ogni modo, suppongo che non ci fosse niente di eccitante lì in mezzo! In fondo, si tratta soltanto di commercio». E si voltò, rimboccandosi la coperta sotto il mento. Punto nell'orgoglio,
il letterato rispose: «Disilluditi, Tan! La mia mente analitica è riuscita a individuare in quel guazzabuglio d'informazioni delle costanti e qualche tendenza». Poiché il Mandarino, le palpebre pesanti, soffocava uno sbadiglio, Dinh continuò subito: «Figurati che il nostro eunuco ha fatto uscire quantità di metalli e di materie prime dal nostro paese - oro, argento, salnitro, zolfo -, ma anche non poco legno prezioso. Evidentemente, le nostre risorse naturali trovano acquirenti oltremare». «Ah, molto interessante!» esclamò il Mandarino. «Poiché non si possono esportare quei materiali senza il consenso dell'Imperatore, l'eunuco forse trasgredisce la legge». «Le date confermerebbero questa ipotesi: le merci non partivano mai contemporaneamente, e mai in grandi quantità. Ho dovuto spulciare centinaia di fogli per vedere emergere quel particolare. Il signor Clemenza faceva del suo meglio per non attirare l'attenzione su ciò che esportava». Il Mandarino Tan si mise seduto, annuendo soddisfatto. «Bel colpo, Dinh! Con questo, potremmo inchiodare il nostro amico responsabile del porto. Bisognerebbe però indagare più a fondo per scoprire se in un modo o nell'altro c'è il suo zampino anche nel naufragio, che implica ugualmente delle merci in partenza. E, per quanto riguarda le importazioni, l'eunuco dà prova della stessa discrezione?» «Diciamo che ha una predilezione per i prodotti di lusso... probabilmente clienti dai gusti raffinati e dalla borsa ben fornita. In ogni caso, sono state importate a più riprese stoffe di grande qualità e profumi di ogni sorta. Evidentemente, certe persone di casa nostra hanno un debole per i gioielli costosi, perché ho trovato indicazioni su collane di madreperla, uno scettro di lapislazzuli, un bracciale con sette perle, un calcedonio bianco montato su un anello, un diadema tempestato di rubini» snocciolò il letterato, citando a memoria gli articoli che aveva tenuto a mente. «Perfetto!» dichiarò il Mandarino. «Adesso sappiamo che per il nostro porto transitano beni preziosi, e non soltanto derrate o piante aromatiche. Sarei curioso di sapere chi ha richiesto quei gioielli...» «Dal canto tuo, hai fatto qualche passo avanti nella faccenda del naufragio?» «Difficile dirlo. Mi ha colpito una cosa: quando la signora Aconito mi ha parlato delle prigioniere, ha detto che erano affette da una forte febbre contratta durante la fuga. Ora, il medico del porto che le ha visitate prima
dell'imbarco sosteneva che avevano dei bubboni». «E con questo? Cosa importa? Febbre o bubboni... erano malate». «Sì, ma perché dichiarare che le sue prigioniere non ne avevano?» «Perché la città non l'accusasse di far marcire i prigionieri in un luogo insalubre, infestato dai pidocchi e fors'anche focolaio di peste» suggerì il letterato. «Devo dire che non è la sola cosa che m'incuriosisce a proposito di quella giovane. Ricorda che avevo pedinato Hsiu-Tung prima della nostra partenza, e l'avevo seguito fino alla concessione degli erranti. Quella notte ho visto la signora Aconito porgergli un bicchiere di vino in cui lei aveva sciolto una polvere nera. Se quel gesto insignificante nascondesse un fatto criminale?» «Vuoi dire che la sospetti di aver avvelenato Hsiu-Tung? Ma per quale ragione?» «Non so, ma è possibile che tra loro ci fossero segreti che noi ignoriamo...» Stuzzicato, il letterato si sporse in avanti. «Di ordine carnale, eventualmente?» «Non farmi dire ciò che non ho detto!» borbottò il Mandarino. «In ogni modo, se la signora Aconito è taoista, dev'essere contraria a ogni azione, avvelenamento compreso. Quei parassiti della società non s'immischiano mai alla vita politica, e si mostrano di una passività deplorevole» insinuò il letterato, spiando la reazione del confuciano modello. «Giusto, ma sappi che la signora Aconito non fa parte di quegli scrocconi bislacchi. Lei rivendica l'appartenenza alla corrente moista». Il letterato fischiò, gli occhi ardenti. «Ecco una cosa interessante! Si addice di più al personaggio: volevo ben dire che la tigre non poteva cullarsi nell'inazione. Per giunta, si pone direttamente nella discendenza di Mo-tzu a più di un titolo. Il nome Mo, che non è un vero patronimico, indica chi porta un tatuaggio infamante imposto ad alcuni condannati ridotti per ciò stesso alla condizione di servi. E la nostra bella non si è forse unita alle file degli erranti in seguito a un'accusa di omicidio del suo signore e padrone?» «Suvvia! La sua colpevolezza nella morte del marito non è mai stata ufficialmente riconosciuta» protestò il Mandarino. «Per contro, la tua osservazione sul legame col nome Mo è assennata, anche se è stata lei a scegliere la via dell'esilio sociale dopo il processo». «Mo-tzu» ripeté tra sé il letterato, pensoso. «Era uno strano personaggio,
un sognatore che difendeva la pace con le armi in pugno. Voleva dissuadere i principi dal mandare i loro eserciti contro i piccoli paesi indifesi. Ci voleva un bel coraggio per fare una proposta simile in una Cina sempre più avida di conquiste». Il Mandarino Tan lo interruppe con uno schiocco impaziente di lingua. «Mo-tzu era soprattutto opposto al grande Confucio, quantunque in gioventù avesse tratto profitto dai suoi insegnamenti. Dove si è mai vista una simile ingratitudine?» Sapendo che non sarebbe riuscito a far ammettere al Mandarino Tan che un avversario del Maestro poteva avere ragione, Dinh cambiò argomento. «Dovrei presentare le mie scuse a Hsiu-Tung per aver sospettato di lui in questa storia» disse mogio mogio. «Io che supponevo potesse avere degli interessi negli scambi di merci... eccomi dolente nel vederlo agonizzante». «Non te la prendere, lo salveremo, una volta che il dottor Porco avrà trovato l'antidoto al veleno che lo sta distruggendo. È già una fortuna che la città in cui viveva il Mandarino cinese si trovi proprio al di là della frontiera. Ci arriveremo domattina, se ho fatto bene i calcoli». «Mi domando se costi caro farsi fare una casacca dai cinesi» disse Dinh. «Ho sentito che la moda del sud della Cina è molto audace, nel senso che incorpora le tendenze barbare alle linee classiche. Mi piacerebbe molto una casacca in seta violacea, ornata di un collo in pelle di leopardo, leggermente drappeggiata come un sarong siamese, ma dal taglio impeccabile come un chimono. Un indumento simile farebbe furore ai banchetti ufficiali!» Il letterato si voltò per sentire il parere del Mandarino, ma questi, steso quant'era lungo, dormiva già della grossa. «Guarda un po' quei pezzenti!» esclamò il dottor Porco, la bocca sdegnosa, indicando col mento alcuni pitocchi che arrancavano sul sentiero. «Sono ancor meno evoluti dei contadini delle nostre parti. E dire che questi cinesi hanno avuto la faccia tosta di invaderci e di imporre il loro giogo alla nostra nazione!» «Questi anni di asservimento sono stati duri e umilianti» concesse il Mandarino Tan. «Ma non dimentichiamo che il disonore è stato lavato in campagne dai nomi eroici». «Bach Dang, Lam Son» proseguì il letterato Dinh. «Le sorelle Trung, e poi Ly Bon, Ngo Quyen e Le Loi sono stati immortalati per la loro lotta contro il nemico cinese o mongolo. La liberazione del paese è stata pagata cara ogni volta».
«Il nostro popolo, povero e mal armato, ha saputo vincere il gigante grazie ad astuzie basate sulla perfetta conoscenza del terreno. Usate la forza se siete potenti, l'astuzia se siete deboli, recita l'adagio. Possano, simili lezioni, servire alle generazioni future!» disse il medico, la testa alta e fiera. Così conversavano i tre uomini, una volta varcata la frontiera. Avendo preso una via traversa - che provocò due cadute del letterato Dinh e un gran spavento del dottor Porco -, non avevano incontrato ufficiali cinesi e si erano mescolati tranquillamente alla marea di mercanti e contadini che andavano in città. A dire il vero, non stonavano troppo in mezzo alla popolazione locale, non fosse stato per la lingua in cui si esprimevano, un sistema molto pratico per enunciare in modo confidenziale le loro impressioni personali. «In realtà i cinesi, pur avendo ritirato i loro soldati dal nostro paese, esercitano ancora il loro potere sul commercio» osservò il letterato. «Nel Sud, i negozianti più ricchi sono di origine cinese. Bisogna riconoscere che in questo campo sono superiori a noi». «Non sapete quanto dite bene, letterato Dinh!» buttò lì il dottor Porco in tono stizzito. «Sono talmente abili che riescono a far uscire dal nostro paese prodotti che ci sarebbero indispensabili. Negli ultimi mesi, sono ammattito invano per cercare di trovare degli ingredienti necessari alla mia professione: frutti di badamo, bile di pitone, orpimento, quarzo, gesso... niente di tutto questo nelle botteghe della città! Quell'incompetente dello speziale sostiene che c'è grande richiesta all'estero, dove la gente è disposta a pagare molto di più dei medicastri locali. Ma, ve lo dico io, ci stiamo facendo turlupinare, come ai bei vecchi tempi della dominazione cinese!» «Su, dottor Porco» intervenne il Mandarino, conciliante. «Forse si può ancora rimediare con dei sostituti cui non avete pensato!» «Alludete sicuramente ai lombrichi e agli escrementi di pipistrello» lo schernì il medico. «Tutto ciò che permette di fortificare o ringiovanire l'uomo prende la via dell'esilio». Il letterato Dinh, pericolosamente appollaiato sulla giumenta, annuì col berretto. «Per una volta, sarei quasi d'accordo con l'amabile dottore: proprio ieri sera abbiamo notato che anche i minerali preziosi ci stanno sfuggendo di mano». La folla che andava e veniva diventò di colpo fitta all'ingresso della città. La porta del Sud, per quanto spalancata, concentrava il flusso e rallentava l'andatura. Per giunta, banchi rigurgitanti frutta fresca e carni ai ferri
di ogni sorta attiravano in modo irresistibile i viaggiatori che, attardandosi, ostacolavano l'avanzata generale. «Parrebbero spiedini di cane» disse allegramente il medico, indicando un fuoco di legna da cui s'innalzavano aromi deliziosi. «Questi cinesi hanno buon gusto, nonostante tutto ciò che si può dire di loro». «Non si cambia una ricetta che piace» approvò il Mandarino Tan, per il quale lo sfrigolio del grasso era una delle melodie più deliziose. Alla guardia in divisa che chiese la loro identità, essi declinarono i nomi, ma il Mandarino omise il titolo, non essendo in visita ufficiale. Notando la deferenza dell'uomo, che dalla loro intonazione aveva ravvisato della gente colta, si congratularono reciprocamente per il loro accento cinese. «Sapete dove si trova la casa di un vecchio Mandarino che un anno fa aveva accolto un prete francese?» domandò il magistrato Tan. «Sì, signore» rispose la guardia con rispetto. «Conosco bene la residenza del Mandarino Ch'en. È la grande dimora in fondo al viale di sofore. Non potete non vederla». Fu così che i tre uomini entrarono nella città che, per quanto cinese, parve loro familiare. Passarono davanti a negozi di indumenti che attirarono lo sguardo di Dinh, a laboratori che il dottor Porco fissava con occhio esterrefatto, e a bettole dove il Mandarino Tan volle subito entrare. «Cos'è quella botteguccia incendiata?» domandò il letterato, indicando una facciata nera di fuliggine al cui interno, apparentemente consunto da fiamme gigantesche, c'erano soltanto frammenti di mobili e mucchi di cenere. «Lì esercitava il geomante Wu, prima che il suo laboratorio fosse spazzato via da un'esplosione qualche giorno fa» rispose un passante. «Questi geomanti!» esclamò il dottor Porco con un ghigno. «Si vantano di poterci dire dove va costruito un tempio, dove va innalzato un mausoleo, ma si rivelano incapaci di seguire una semplice ricetta di cucina!» Aprendosi un varco tra la folla, il gruppetto arrivò a un lungo viale gradevolmente bordato di sofore. In fondo alla strada, videro un grande edificio a tre tetti cinto da mura di laterizio smaltato. «Hsiu-Tung era decisamente meglio ospitato in Cina che da noi!» ammise il magistrato, i cui quartieri non eguagliavano davvero il lusso di quella dimora. «Ora capisco perché non divideva mai i pasti con noi!» La guardia in alta uniforme di stanza all'ingresso li accolse con viso di marmo. «Siamo visitatori ufficiali venuti dal Sud» dichiarò il Mandarino. «Porta-
teci dall'intendente della casata!» Con passo affettato, la guardia li fece salire per una rampa di scale spazzate di recente e ornate di piante nane. Giunti in cima alla scala, l'uomo fece cenno a un'altra guardia altrettanto laconica, che li accompagnò in casa. Attorno al cortile principale, un loggiato dalle colonne laccate ospitava vasi di orchidee e giaggioli acquatici. Dinh pensò che gli emolumenti di un vecchio Mandarino del sud della Cina dovevano superare di gran lunga quelli di un giovane magistrato del nord del Dai Viet. Senza una parola, la guardia aprì il grosso battente della porta per farli entrare e si ritirò. Dando un'occhiata all'intorno, il letterato notò la delicatezza dell'architettura: le colonne in legno esotico sostenevano un soffitto alto il cui contorno era scolpito di fiori rigogliosi. Il pavimento a motivi geometrici dava l'illusione d'infinito e ingrandiva ancor più il vestibolo nel quale si trovavano. «Siete l'intendente?» domandò cortesemente il Mandarino Tan a un vecchio in abito blu che arrivava strascicando i piedi. L'altro scosse la testa sormontata da una pesante crocchia ribelle, stranamente crespa, come strinata dal fuoco. I suoi occhi scintillanti avevano un'aria assente in quanto privi di sopracciglia. Salutò i nuovi venuti sorridendo con tutti i denti scalzati. «Niente affatto, signore! Sono Wu, geomante di giorno e alchimista di notte!» «Siamo per l'appunto passati davanti al vostro laboratorio bruciato in città» interruppe allegramente il dottor Porco. «Un vero campo di rovine, un disastro impressionante!» Il vegliardo fece un sorriso imbarazzato e abbozzò un gesto impaziente con la mano. «I libri lo dicevano, che bisognava diffidare del salnitro, ma ho dovuto aumentare la dose durante i miei esperimenti, e paffete! tutto in fumo. L'esplosione mi ha scagliato violentemente all'indietro, e le fiamme mi hanno divorato parte della capigliatura e tutte le sopracciglia. Insomma... sono le gioie dell'alchimia!» concluse filosoficamente. «Ma cosa vi porta qui, onorevoli viaggiatori?» Il Mandarino Tan tossicchiò e prese solennemente la parola. «Veniamo dal Dai Viet, spinti da fatti tragici. Difatti un nostro amico, un prete francese di nome Hsiu-Tung, si trova in questo momento tra la vita e la morte, prostrato da un veleno insidioso che cerchiamo di identificare per trovarne l'antidoto. Ora, si dà il caso che il nostro ospite abbia soggiornato
per qualche anno in questa città, accolto dal Mandarino Ch'en». «Ah, Hsiu-Tung!» esclamò il geomante con entusiasmo. «Ricordo bene quel giovane dai capelli rossi. Dunque è in articolo di morte... Brutta situazione! In quanto geomante al servizio del Mandarino, lo incontravo spesso in questi luoghi». «Abbiamo sentito dire che anche il Mandarino Ch'en era affetto da uno strano male. È possibile che fosse stato infettato dalla stessa sostanza tossica? È quanto il qui presente dottor Porco tenterà di scoprire, se ci è permesso esumare il cadavere ed esaminarlo». L'affabile geomante Wu annuì col capo sfregandosi le mani. «Non c'è bisogno di esumare il cadavere!» «Come!» proruppe il letterato Dinh, che gli esami di cadaveri indisponevano. «Il Mandarino Ch'en non è morto?» Senza rispondere direttamente alla domanda, il geomante imboccò a passettini il corridoio. «Seguitemi, signori! Vi porto dal Mandarino Ch'en». Interdetti, i tre uomini gli si misero dietro. «Non venite a dirmi che mi avete trascinato in questa pericolosa avventura per prendere il tè e sgranocchiare zenzero candito da un Mandarino cinese in piena forma!» borbottò Dinh. «I colleghi mi hanno dunque preso in giro?» s'indignò il dottor Porco, che già meditava la vendetta. «Eppure mi avevano assicurato che il caso medico del Mandarino Ch'en era sorprendente. Guai a loro, se si sono burlati dell'illustre dottor Porco!» Quanto al Mandarino Tan, camminava in silenzio. E se avessero fatto tutta quella strada per niente, mentre là Hsiu-Tung viveva forse le sue ultime ore? Il corridoio portava dritto a un ingresso imponente, con una porta decorata di schegge di madreperla che componevano raffigurazioni celesti, dove una coorte di dèi si riposava su nuvole d'incenso. Il signor Wu aprì i battenti e, con un ampio gesto, fece cenno di accomodarsi. Le tende tirate non lasciavano entrare il sole, ma ai visitatori occorsero soltanto pochi istanti per abituarsi alla luce delle centinaia di candele disposte sui mobili d'ebano e sulle mensole di teck. Volgendo loro la schiena, un uomo era seduto in una poltrona a schienale alto, le mani posate sui braccioli. Il Mandarino Tan guardò i compagni, sconcertati al pari di lui, e aggirò la sedia. Ciò che vide lo paralizzò di spavento.
L'uomo piazzato davanti a lui aveva occhi foschi la cui espressione spenta e distaccata gelava il sangue. I capelli grigi rialzati a crocchia avevano l'aria fragile e terrea, mentre la bocca di un carminio esagerato lasciava intravedere denti gialli come l'avorio. S'indovinavano, nonostante la contrazione dei muscoli del volto, lineamenti che dovevano essere stati pieni di delicatezza. La mano sul bracciolo, vista da vicino, aveva dita allargate cui le unghie curve e appuntite davano l'aria di artigli. Sotto gli indumenti ufficiali, ricamati di fili d'oro e tempestati di pietre, il corpo del vecchio appariva robusto, quantunque un po' accasciato per la posizione seduta. Ma era l'aspetto della pelle a far imperlare di grosse gocce di sudore la fronte del Mandarino Tan: di colore bruno, quasi nera, dall'aria un po' fragile sul volto e sui tendini del collo, aveva una luminosità simile a quella della lacca. Il letterato Dinh ebbe un moto di nausea e si distolse, mentre il dottor Porco si avvicinava con gusto, i canini scoperti in segno di gioia. «Magnifico!» esclamò girando attorno al corpo. «Il Mandarino Ch'en sta benone, se così posso dire!» Scosse la testa, incantato, e scoccò un sorriso smagliante al geomante che glielo restituì. «Non sprigiona nemmeno odore, cosa assai apprezzabile» continuò. «Potete avvicinarvi, letterato Dinh, il Mandarino Ch'en non vi recherà disturbo, ve l'assicuro!» «Ma, ehm, se ho capito bene, il Mandarino è bell'e morto» disse per precauzione il letterato, che si teneva a distanza nonostante l'invito del medico. «Dunque, non dovrebbe essere al sicuro in un feretro?» «Non avete torto, ma si dà il caso che il nostro ospite si trovi in uno stato di conservazione ineccepibile. Ammirate il portamento della testa e i lineamenti amabili! La pelle è incredibilmente liscia» disse il dottor Porco accarezzando la mano del vecchio Mandarino. Il geomante, estasiato dall'effetto, aggiunse: «Il nostro Mandarino Ch'en è identico a com'era nell'ultimo giorno della sua vita: viscere e organi sono ancora al loro posto». Il Mandarino Tan, che non aveva ancora detto niente, tossicchiò. «Il mio onorevole collega, che è stato imbalsamato, non sembra male in arnese. Ora, pensavo che fosse stato avvelenato...» L'indice del geomante volò in aria, ed egli si affrettò a precisare: «Sappiate, signore, che non l'abbiamo affatto imbalsamato». «Ah, sì?» domandò il dottor Porco, incuriosito. «Com'è possibile, allora,
che si trovi in questo stato ammirevole? No, lasciatemelo esaminare!» Il signor Wu si scostò per far posto al medico. Costui girò attorno al corpo immobile, soffermandosi sul collo che palpò, poi, con un movimento pieno di grazia nonostante la sua mostruosa corpulenza, s'inginocchiò. Sotto lo sguardo sbalordito del Mandarino Tan e di Dinh, slacciò gli scarpini ornati di perle. Il piede dagli alluci scuri come legno era maculato di pustole dai bordi accartocciati. Soddisfatto di sé, il medico alzò i pantaloni di seta e mise a nudo una gamba costellata delle stesse lesioni. Con aria di cospiratore, si rialzò lanciando un'occhiata d'intesa verso il signor Wu, che faceva dondolare il berretto con aria d'approvazione. Allora, con bella economia di gesti, il dottor Porco prese il vecchio Mandarino per la vita e cominciò a togliergli la casacca di broccato. «Fino a che punto contate di denudare il fu Mandarino Ch'en?» farfugliò il letterato Dinh, già prostrato alla vista di tanta carne coriacea. «Ho quasi finito» rispose l'altro, mettendo a nudo una schiena nerastra disseminata di piaghe profonde come quelle che avevano visto sulla pelle di Hsiu-Tung. «Sono proprio gli stessi sintomi!» esclamò il Mandarino Tan, riprendendo a sperare. «Credete che abbia anche le stesse lesioni in bocca?» «Domanda assennata, in verità!» replicò il medico, approfittando dell'occasione per proseguire il suo esame. Si sforzò di schiudere le labbra del vecchio, che però resistettero alla profanazione grazie alle mascelle anchilosate. Ansimando per il non facile compito, inarcato per avere più presa, l'enorme dottor Porco cominciò a sudare abbondantemente. La forza l'ebbe finalmente vinta, e la mandibola cedette con un sinistro scricchiolio che suscitò l'inquietudine del geomante. «Attento, dottor Porco! Non dimenticate che le mummie sono riverite qui da noi!» «Non abbiate timori, signor Wu, non mancherò di rimetterla a posto! Avvicinatevi, letterato Dinh! Osservate queste ulcere che corrono sulle gengive! Se ne avete voglia, potete toccare le enormi afte che coprono tutto l'interno della bocca: sono in condizioni eccellenti, vi assicuro». Distogliendo lo sguardo, Dinh rispose: «Vi credo sulla parola, caro dottore. In tutta onestà, non sono un grande estimatore dei bubboni». «Allora, qual è la vostra diagnosi?» domandò il Mandarino Tan, impaziente. Il medico assunse un'aria misteriosa, mentre osservava con occhio con-
nivente il geomante, che aspettava a sua volta il verdetto. «A giudicare dalle ulcerazioni sulla schiena e nella bocca, deduco che il nostro prete e il Mandarino Ch'en soffrivano dello stesso male. Ora, molti veleni possono indurre sintomi come questi, sicché non avevo indizi a sufficienza per identificare la sostanza in questione. Tuttavia, grazie all'esame del corpo del nostro ospite, ho appena acquisito un dato cruciale». Il medico si fermò per frugare nelle profondità delle tasche. Dopo un momento che al Mandarino Tan parve interminabile, il medico tirò fuori un fazzoletto di lino che usò per tergersi la fronte madida. Lisciandosi col dito le sopracciglia a forma di antenna di farfalla, il dottor Porco proseguì con calma: «L'indizio che mi mancava era lo stato di perfetta conservazione del vecchio mandarino. C'è una sola sostanza in grado di mantenere la carne intatta dopo il decesso, una sola sostanza che provoca piaghe così profonde sul soggetto vivente. Ne concludo che la materia tossica è...» Fece una complice strizzata d'occhio al geomante e concluse: «L'arsenico!» Il signor Wu, raggiante, applaudì senza riserve. «Bravo! Ecco un ragionamento assai ingegnoso e del tutto esatto. Il Mandarino Ch'en si è conservato grazie all'azione dell'arsenico». Stupefatto, il Mandarino Tan insistette: «Una cosa mi sfugge: sembra che voi consideriate questo uso dell'arsenico come un fatto normalissimo. Non c'è stato avvelenamento?» «Avete ragione, signore. Bisogna inserire tutto questo nel contesto globale». Mettendosi accanto alla mummia del Mandarino, il geomante cominciò a dar conto dei fatti che concernevano la sua morte. «Il mandarino Ch'en era una persona molto erudita, appassionato di storia della Cina antica. Ora, si dà il caso che, studiando quell'epoca, s'imbattesse nella menzione di una droga chiamata Polvere nera di Maestro Hu, un potente rimedio contro moltissime affezioni. Col tempo, la formula della Polvere nera di Maestro Hu si era evoluta, integrando cinque minerali agli elementi vegetali: fu così che nacque la Polvere del Mangiar freddo. Composta essenzialmente di minerali, diventò in breve tempo l'elisir di lunga vita, perché i suoi elementi inerti in presenza di fuoco o di acqua si opponevano ai corpuscoli che finiscono col corrompere il corpo». «Con questa ricerca dell'immortalità, siamo dunque nel feudo taoista, vero?» domandò il letterato.
«Esatto» annuì il geomante. «Quei minerali aiutavano colui che li assumeva a trasformarsi in un essere di luce, conferendogli per ciò stesso la vita eterna. A quel tempo, quella polvere aveva un immenso successo perché rispondeva alle necessità dell'epoca. Ricordate la fine della dinastia Han, circa millequattrocento anni fa...» «Era un'epoca di decadenza durante la quale delle lotte intestine divisero il paese a vantaggio di un potere imperiale corrotto» continuò il Mandarino Tan, per il quale la storia della Cina antica era, con le passeggiate, una passione. «Seguì allora un periodo di dittatura militare che portò alla ribellione tra le file dei letterati. Costoro cominciarono a intaccare le tradizioni con la loro poesia e la loro narrativa». Il letterato Dinh citò, la memoria prodigiosa pienamente all'erta: «Wang P'i, genio precoce e straordinario commentatore del Libro dei Mutamenti, i Sette Saggi del Boschetto di Bambù i cui membri - poeti, musicisti, filosofi e libertini - erano di una eccentricità folgorante...» «Precisamente!» approvò il signor Wu. «Orbene, tutte queste figure che contestavano il potere facevano un consumo smodato della suddetta Polvere del Mangiar freddo. E l'ammirazione per quei giganti del passato spinse il Mandarino Ch'en a prendere quella droga». Il dottor Porco, che ascoltava con orecchio distratto quei fatti storici mentre cercava di rimettere a posto la mascella del vecchio Mandarino che rifiutava di riprendere la posizione originaria -, intervenne: «Qual era, dunque, la composizione di quella polvere?» «Ci sto arrivando, per l'appunto. Alla base ci sono cinque minerali: fluorite, quarzo, stalattite, argilla rossa e zolfo. A questi si aggiunge l'arsenico, da cui la terribile tossicità della droga. Si prepara in modo molto semplice: gli ingredienti vengono ridotti in polvere e mescolati con una bevanda alcolica calda. Per accelerare l'azione della polvere, si raccomanda di camminare agitando vigorosamente le braccia». Il letterato Dinh, colpito dal nome della droga, volle saperne di più. «Perché quella droga derivata dalla Polvere nera di Maestro Hu si chiama Polvere del Mangiar freddo?» «Perché l'introduzione di tutte quelle sostanze nel corpo dà luogo a un calore estremo, che va neutralizzato mangiando cibi freddi e aspergendosi spesso il corpo con acqua gelida». Il Mandarino sussultò; rivide tutti gli atti del gesuita che l'avevano incuriosito: l'ostinato rifiuto delle pietanze calde, i bagni nel fiume gelido, il bacile di acqua nei suoi quartieri, le passeggiate frenetiche e la leccata fur-
tiva nella grotta delle stalattiti. Dunque, anche Hsiu-Tung era un adepto della terribile droga! Però, c'era ancora un punto che gli sfuggiva. «Capisco che il vecchio Mandarino aspirasse a prolungare la propria vita, ma non riesco a concepire che il nostro prete possa avere la stessa ambizione. Se c'è una vita eterna per lui, non la raggiungerà grazie all'ingestione di una droga». La mano stretta sulla mascella ricalcitrante del Mandarino Ch'en, il dottor Porco si permise un'osservazione. «Per i taoisti, le ricette di lunga vita hanno una virtù supplementare: stimolano l'appetito sessuale». «Dubito che possa essere questa la motivazione di Hsiu-Tung» replicò il Mandarino, mentre Dinh abbozzava un sorriso di sottecchi. Ma il geomante agitò un indice febbrile. «Se la memoria non m'inganna, gli studi medici contemplano un'altra proprietà: l'assunzione della polvere provoca un'apertura fenomenale dello spirito, una illuminazione. Forse questo potrebbe spiegare l'interesse del vostro amico». Il Mandarino Tan sospirò di sollievo, scoccandogli un'occhiata piena di gratitudine. «Ah, questa è una ragione molto più plausibile! In effetti, per quel che so di lui, egli è attratto da tutto ciò che permette allo spirito di affrancarsi dalle ganghe intellettuali per elevarsi. Non stento a immaginarlo nell'atto di ingerire la Polvere del Mangiar freddo per cercare di ampliare i suoi orizzonti, effettuando una ricerca spirituale o assaporando un'esperienza interiore». «Non c'è un'evidente incompatibilità?» domandò Dinh. «Una droga che promette la vita eterna... e finisce con l'uccidere chi l'assume». «Ma è per l'appunto questo paradosso a fare il fascino di quella polvere. Non dimenticate che questa è l'epoca delle contraddizioni. E dunque la droga ambivalente mette in gioco il fuoco e l'acqua, l'azione corroborante e l'estrema tossicità. Tuttavia, è vero che essa provoca una dipendenza del soggetto, sollecitando un'assunzione prolungata che col tempo si rivela mortale. L'adepto, abbagliato dalle visioni colorate e intense che la sostanza procura, finisce col cercare in tutti i modi di riviverle: da qui un consumo sfrenato e imperioso. Sfortunatamente, questi fenomeni luminosi sono accompagnati da altri sintomi quali la perdita del sonno, l'ansia, la paura; sintomi che possono spingerlo a desiderare la sua stessa distruzione». «È proprio quanto è successo nel caso del nostro amico!» esclamò il
Mandarino Tan, in preda a una grande eccitazione. «Soltanto questo può spiegare che un prete attenti alla propria vita» disse Dinh. La testa del Mandarino Ch'en infilata sotto l'ascella, il dottor Porco obiettò, imbronciato: «Tuttavia, non sembra che il nostro onorevole ospite abbia cercato di accorciare la sua esistenza». Il signor Wu annuì alle parole del medico. «Avete ragione. Il Mandarino Ch'en è deceduto in seguito a un trauma irreversibile. Perdita del respiro, mascelle contratte, è caduto lungo disteso, come morto. Tuttavia, il suo corpo rimaneva caldo e la sua pelle serbava l'aspetto normale. Dopo qualche giorno, è andato a raggiungere le Fonti Gialle». «Perché non è stato seppellito?» domandò il letterato. «Il Mandarino Ch'en conosceva le virtù conservative dell'arsenico: nell'epoca in cui la Polvere del Mangiar freddo era in auge, molti dei suoi adepti perirono a causa della sua tossicità, ma non si tardò a rendersi conto del loro straordinario stato di conservazione. Era come se l'arsenico desse luogo a un immenso calore che uccideva tutte le muffe atte a corrompere il cadavere. Un corpo, però, si mummifica alla perfezione soltanto se l'adepto, alla fine della vita, segue una dieta precisa. Evitando i cereali, il nostro Mandarino Ch'en si nutriva soltanto di castagne e corteccia di pino, cosa che lo fece dimagrire rapidamente. Un bene, anche questo: meno un corpo è grasso, più dura e inodore sarà la mummia. Il Mandarino mi fece promettere di lasciarlo in una posizione naturale, casomai la sua vita si fosse rivelata meno lunga del previsto; in tal modo, avrebbe dato l'impressione di vivere indefinitamente. Dopo la sua morte, ne ho fatto asciugare il corpo sopra un fuoco e l'ho, per così dire, affumicato con l'incenso. Infine, egli voleva che innalzassi una pagoda in suo onore un anno dopo la sua morte. Era giusto quello che stavo facendo quando siete arrivati». Visibilmente contrariato, il geomante si grattò la testa. «Ciò, per l'appunto, mi ricorda che devo preparare immediatamente un nuovo magnete, perché il mio cucchiaio divinatorio è stato distrutto dall'incendio e non ho avuto il tempo di procurarmene uno nuovo». Il Mandarino Tan espresse un ultimo desiderio: «Venerabile geomante, mi permettereste di osservarvi? Tutto ciò che riguarda il magnetismo m'interessa in sommo grado». Dinh squadrò con sorpresa l'amico, la cui espressione impenetrabile non
gli lasciava indovinare niente, mentre il signor Wu sorrideva mostrando le gengive. «Strana richiesta per un confuciano! Di solito, a voi importa poco della natura. Ma mi sento lusingato dal vostro interesse. Se volete seguirmi...» L'occhio vigile, il Mandarino Tan si chinò sul tavolo ingombro di strumenti di misurazione e boccette colme di cristalli multicolori e liquidi diversi, mentre il geomante accendeva un fornello pieno di carbonella. Dinh e il dottor Porco avevano entrambi - con stupefacente convinzione -addotto il pretesto di faccende urgenti da sbrigare in città per eludere la seduta col signor Wu. Quanto al Mandarino, in quell'antro in cui bottiglie misteriose erano insinuate a casaccio tra una sfera armillare e un calibro a corsoio, studiava il minimo gesto del vegliardo, traboccante curiosità. «Per fortuna posso ancora lavorare in questa stanza che il Mandarino Ch'en aveva messo a mia disposizione. Ciò mi permette di districarmi dopo l'increscioso incendio del mio piccolo laboratorio. Ho praticamente perso tutto nell'esplosione... e le mie sopracciglia non erano la cosa più preziosa, credetemi!» Col dito il geomante indicò una lastra di bronzo su cui era inciso un cerchio inscritto in un quadrato. «Ecco la base della mia bussola divinatoria che ho potuto salvare dalle fiamme: il cerchio rappresenta i cieli, e il quadrato la Terra». «Effettivamente, riconosco le otto direzioni principali, come pure i diversi segni del Libro delle Mutazioni» convenne il Mandarino. «E quelli sono i simboli delle ventotto case della Luna». «Sfortunatamente, manca il cucchiaio che simboleggia la costellazione del Gobbo e il cui manico indica il sud. Ora, ne ho assolutamente bisogno per determinare l'ubicazione propizia per la pagoda del Mandarino Ch'en. Ecco perché fabbricherò una bussola rudimentale - del tipo usato a volte dall'esercito - ma che ha il merito di funzionare». Il Mandarino Tan annuì e ascoltò attentamente le spiegazioni del geomante. «Vedete, comincio col tagliare una linguetta di ferro a forma di pesce con una testa e una coda rastremate» disse, unendo il gesto alla parola. Dopo aver ritagliato la figura allungata, il vecchio la introdusse nel fornello perché diventasse incandescente. «Basta così: è ora di toglierla dal fuoco» continuò, prendendola con delle pinze. «La tappa successiva consiste nel far puntare la coda in direzione
del nord. Qui, mi affido alla disposizione di questa stanza che ben conosco: il sole sorge in quella finestra, dunque il nord si trova verso quel baule di legno». Tenendo il pesce di ferro così orientato, lo immerse nell'acqua di un bacile, badando che la coda fosse coperta di liquido. «Adesso, vediamo se questa bussola funziona correttamente» propose il geomante togliendo la figurina dal bacile. «Potete riempirmi una ciotolina d'acqua, Mandarino Tan?» Il giovane eseguì, felice di partecipare all'esperimento. «Metto dunque il pesce di ferro nel vasetto in cui galleggerà. La sua testa indicherà il sud» annunciò il vecchio. Trattenendo il respiro, il Mandarino Tan guardò il pesce steso sulla superficie dell'acqua. Poi, come previsto, esso effettuò una lenta rotazione. Quando infine s'immobilizzò, la sua testa puntava verso la parete opposta al baule. «Eccellente!» applaudì il Mandarino Tan, estasiato. «Da confuciano quale sono, acclamo la vostra opera! Nondimeno, vorrei capire il principio che governa tutto questo». «Non mi aspettavo di meno da voi» rispose il signor Wu. «In primo luogo, il pesce è tagliato nel ferro, materiale che serba memoria delle direzioni magnetiche. È però necessario che il pesce mantenga la direzione nordsud, ed è per questo motivo che ho allineato la coda con il baule». «Ma perché arroventarlo?» «Per esperienza, sappiamo che, a un certo grado di calore, il ferro perde la magnetizzazione. Scaldandolo, si raggiunge quel grado, e la magnetizzazione originaria si annulla, cosa che permette di imporne una nuova allineando il pesce con l'asse nord-sud». Soddisfatto del risultato, il geomante mise il pesce in una scatola ermetica. «A cosa serve quel bauletto in cui avete messo il pesce?» domandò il Mandarino, cercando una spiegazione a tutto. «Sul suo fondo ce della magnetite, la pietra da calamita, che permette di 'alimentare' la bussola e di conservarne la magnetizzazione residua». Il Mandarino Tan si mise a percorrere la stanza in lungo e in largo, il mento nel palmo della mano. Dopo un po', tornò a rivolgersi al signor Wu. «Da quanto mi avete mostrato, deduco che è relativamente facile, per chi conosca i principi della magnetizzazione mediante il calore, costruire una bussola fallace. Basta, per esempio, indurre in partenza una magnetizza-
zione falsata da un allineamento scorretto, oppure togliere la magnetite dal fondo della scatola perché gli effetti magnetici finiscano con lo smorzarsi». «È vero» ammise il geomante alzando le arcate prive di sopracciglia. «Per giunta, il fatto che la bussola sia fallace resta ignoto a chi la utilizza...» mormorò il Mandarino Tan, la fronte barrata da una ruga profonda. Ma, d'un tratto, ricordò che doveva tornare nel suo paese con la massima urgenza e, ringraziando vivamente il signor Wu con formule appropriate, si voltò per prendere congedo. «Nella fretta, maestro, ho trascurato di domandarvi una cosa importante» disse il magistrato sulla soglia della porta. «Grazie alle vostre spiegazioni, sappiamo ora che il nostro amico Hsiu-Tung muore a causa dell'arsenico, ma qual è l'antidoto contro un simile avvelenamento?» «Non ce n'è alcuno che funzioni a colpo sicuro» rispose l'altro. «Qualcuno dice che delle pillole di salnitro o di rabarbaro permettono di purgare il malato, ma forse è troppo tardi per questo. Un'altra possibilità, secondo i taoisti, sarebbe quella di ridurre in polvere una perla e di far bere al paziente l'elisir nel quale la si sarà sciolta. Ma tutto ciò è aleatorio, e spiega l'ecatombe tra gli antichi consumatori della Polvere del Mangiar freddo». I tre uomini ripresero la via del ritorno verso il loro paese non appena il Mandarino Tan ebbe preso congedo dal geomante, spronando spietatamente le loro cavalcature, varcando le montagne mentre il pomeriggio finiva. Stretto in una casacca appena tagliata, Dinh non fece obiezioni all'andatura infernale imposta dal magistrato. Difatti, anche il letterato si augurava un pronto ritorno, avendo un indumento all'ultima moda da sfoggiare. «Che fortuna aver scovato un sarto che accettasse di tagliare una casacca così audace!» dichiarò Dinh, passando una mano sulla pelle di leopardo che gli faceva da colletto. «Non ho potuto fare a meno di inaugurarla subito, per quanto la sua seta è morbida al tocco. Peccato che non abbia avuto il tempo di fare una fodera rimovibile di velluto... In tal caso, mi sarebbe potuta servire anche contro il freddo». Lanciando un'occhiata al dottor Porco che lo stava superando, il letterato aggiunse: «Avreste dovuto rinnovare il guardaroba anche voi, caro dottore. C'erano tessuti di tutte le larghezze, e ho anche visto dei motivi floreali che vi sarebbero piaciuti enormemente». «Figuriamoci se avevo il tempo per simili frivolezze, letterato Dinh!» replicò il medico, irritato nel vedere il giovane che lo superava, le reni ar-
cuate e la giacca che fluttuava allegramente al vento. «Mentre a voi prendevano le misure, io giravo tutte le botteghe di erboristeria per cercare di comprare i semplici e i minerali che da noi difettano crudelmente. Ho una clientela sofferente e moribonda da curare, io!» Sottolineò le sue parole con una pedata nel fianco della sua cavalcatura, curva sotto il peso delle bisacce piene fino a scoppiare. Il Mandarino Tan, che li distanziava di un bel pezzo, rallentò l'andatura. Lo sguardo inquieto, scrutava il cielo che sfumava nel rosso violaceo. «Presto sarà notte. Sono contento di aver fatto tanta strada, oggi. Troviamo un posto per sostare. Domani bisognerà continuare alla stessa andatura; così arriveremo a casa in serata». Scorgendo le enormi sacche del medico, il Mandarino domandò: «Avete fatto provviste per il viaggio, mentre ero dal geomante Wu?» «Disilludetevi, signore! Non sono né pasticci di porco né cosce di rana, ma erbe medicinali e alcuni minerali. Figuratevi che i negozi cinesi straripavano di prodotti del nostro paese, venduti a peso d'oro da quei ladri di speziali!» «Forse potranno servire a curare il nostro amico Hsiu-Tung». «Ammesso che sia ancora in vita» buttò lì placidamente il dottor Porco. «Basta che il respiro si fermi un po' troppo a lungo ed egli può assumere l'aspetto del suo benefattore, il Mandarino Ch'en». «Ragion di più per affrettarci» replicò il Mandarino, mettendosi in cerca di un posto per la notte. L'indomani, galopparono per tutto il giorno, concedendosi soltanto brevi soste lungo il tragitto. Lasciando che il letterato cicalasse con il dottor Porco circa le influenze della moda straniera sull'abbigliamento locale, il Mandarino tentò di fare una sintesi di ciò che sapeva a quello stadio della sua indagine. Sicuramente aveva fatto dei passi avanti quanto alla faccenda delle pietre tombali rubate: se non altro, ora sapeva che a rubarle erano uomini mascherati da cadaveri. Il sotterfugio era ben ideato, giacché i testimoni dei loro misfatti, in preda al panico, non cercavano di intromettersi. Ma chi poteva conoscere e preparare una vernice che splendeva al buio e delle fialette pestilenziali che facevano perdere i sensi agli intrusi? E, soprattutto, a quale scopo quei bricconi rubavano le pietre tombali? Per quel che concerneva la giunca, non aveva ancora trovato il particolare determinante che spiegasse il naufragio e la morte delle due donne. Il
fatto che le merci fossero state spostate dalla grotta dell'Isola della Tartaruga poco prima della sua spedizione con Hsiu-Tung era particolarmente preoccupante. Come avevano avuto, i pirati, sentore del loro arrivo? A complicare tutto, l'elenco esaminato da Dinh aveva rivelato entrate e uscite fraudolente di merci autorizzate dall'eunuco Clemenza. Molti prodotti preziosi lasciavano il paese, e le loro quantità discrete accrescevano la diffidenza del Mandarino. Oltre a minerali insostituibili, anche le erbe medicinali uscivano a barili, come continuava a ripetere il dottor Porco. E poi c'era la faccenda dei gioielli costosi. Per conto di chi erano stati acquistati? Il Mandarino prese mentalmente nota che al suo ritorno avrebbe dovuto chiarire quel punto. Lanciando un'occhiata alle spalle, il magistrato valutò la distanza già percorsa. Le vette che avevano attraversato il giorno prima erano ormai soltanto groppe lontane sommerse dalle nuvole di calore. Adesso percorrevano una regione coperta di boschi le cui fronde procuravano loro una fresca ombra. Sentiva di nuovo i trilli allegri dei passeri che gli erano tanto mancati sui monti, dove soltanto i battiti d'ali malinconici di un uccello solitario avevano ritmato la loro avanzata. Mancavano ancora alcune ore per raggiungere le pianure verdeggianti in riva al fiume. I due compari che lo seguivano da lontano sembravano intenti a un'eccitante conversazione: Dinh agitava le braccia magre e faceva azzardati contorcimenti del fondoschiena per tenersi in sella, e il dottor Porco non perdeva la sua eleganza, quantunque appollaiato su sacchi di iuta. Se non altro, quei due si tenevano compagnia e non interrompevano il filo dei suoi pensieri con le loro chiacchiere inutili. Con un sospiro, il Mandarino si disse che soltanto il caso del conte Diem continuava a segnare il passo. Avevano, sì, trovato sul luogo del delitto il Germe di Metallo e un filo di seta bianca appeso all'albero, ma nessun altro elemento era intervenuto a puntellare un'eventuale ipotesi. Impegnato dagli altri enigmi, egli non aveva dedicato abbastanza tempo a quello. Si rivelava necessario scavare nella vita del conte per esumare altri indizi. Per sua fortuna, pareva che la signora Alga non fosse ansiosa di chiudere il caso. Certe vedove, sconcertate dalla morte violenta del congiunto, si sarebbero aggrappate alla sua giacca per esortarlo a trovare l'assassino del marito. E lui sapeva per esperienza che era più difficile liberarsi di una vecchia che ti arpiona che di un granchio che ti morde un orecchio. I suoi muscoli cominciavano a contrarsi, ed egli si drizzò sulle staffe effettuando al contempo una torsione della schiena per rilassarsi. Lo scricchiolio delle vertebre
gli portò un sollievo immediato, ed egli si reimmerse nei suoi pensieri. Il viaggio in Cina, per quanto sfibrante, aveva permesso di raggranellare indicazioni preziose. Il mistero del male di cui soffriva Hsiu-Tung era infine risolto, e la sua assuefazione alla Polvere del Mangiar freddo non faceva altro che confermare l'immagine che lui si era fatto del gesuita. Avido di conoscenza ma al tempo stesso prigioniero della rigida ganga della sua religione, il prete cercava di abbracciare un mondo spirituale e intellettuale al di là di tutto quello che poteva fornire il pensiero puro. Grazie a quel delirio dei sensi, il gesuita varcava i confini fissati dalla sua cultura e trascendeva i principi che i suoi pari ritenevano immutabili. Nell'abolizione totale degli orizzonti, lui che era dilaniato tra le certezze occidentali e la relatività orientale ritrovava infine la sua integrità, foss'anche a prezzo di un avvelenamento del corpo. Possibile che in quell'universo artificiale e abbagliante avesse trovato un dio più grande di quello della sua religione? Il fatto che Hsiu-Tung, come il suo vecchio protettore, facesse uso di quella polvere aveva discolpato la signora Aconito, di cui il Mandarino Tan aveva sospettato. Tuttavia, se la tazza di tè che gli aveva offerto non conteneva veleno, perché lui stesso era stato colto da malore al ritorno dalla concessione? Il Mandarino si sentì stringere il cuore al pensiero della giovane. Il suo carattere indomito aveva fatto di lei un'esclusa che s'infischiava del fatto di non poter più muoversi nel mondo che era stato il suo. Perché quel decadimento sociale le era così indifferente? Ripensando alla conversazione con il geomante Wu, il Mandarino si abbuiò: ora conosceva un particolare che investiva il passato della signora Aconito di una luce ancor più inquietante. Delle urla gli impedirono di continuare nel suo ragionamento. Dietro di lui, i suoi due compagni lo chiamavano a squarciagola. A forza di gesticolare, il letterato Dinh si era impigliato nei rovi che lo trattenevano per i lembi della sua casacca cangiante. Temendo uno strappo catastrofico, l'elegantone cercava di starsene cheto, mentre il dottor Porco, oscillando sul sedere, tentava invano di disincastrarsi dai sacchi di iuta per soccorrerlo. Davanti a quello spettacolo penoso, il Mandarino decise di fare dietrofront, giurandosi che il prossimo viaggio in Cina l'avrebbe fatto da solo. Sul far della notte raggiunsero la loro città, annidata in un braccio del fiume in cui andavano ad affogare le mille lucine del porto. Vista dall'alto, sembrava stendersi come una stella marina tentacolare. «Il ritorno degli eroi!» declamò Dinh, lisciandosi gli indumenti in vista
di un ingresso trionfale. «Strano» disse il Mandarino additando una zona buia a valle del fiume. «La concessione degli erranti è immersa nell'oscurità. Dove sono?» Con una stretta al cuore, il Mandarino Tan incitò il cavallo, scendendo la collina con un'apprensione che gli annodava le viscere. Cos'era successo durante la loro assenza? Hsiu-Tung era ancora in vita, mentre loro mettevano sossopra cielo e terra per identificare il suo male? Passò in tromba davanti alle guardie che sorvegliavano gli appartamenti e si diresse verso la stanza del gesuita, dove ardeva la fiamma di un lume a olio. Spinta la porta, si fermò esterrefatto. Il prete, accanto a un baule aperto già pieno a metà, vagliava degli oggetti tolti dall'armadio. «Ah, eccovi, Mandarino Tan!» disse Hsiu-Tung con un sorriso disarmante. «Mi domandavo quando sareste tornato...» E riprese a stipare i libri. «Hsiu-Tung!» esclamò il magistrato, non credendo ai propri occhi. «Pensavamo tutti che foste in articolo di morte. Con il consumo sfrenato che avete fatto della Polvere del Mangiar freddo, in questo momento dovreste essere....» «Più rigido della tavola che vi fa da giaciglio» completò con bonomia il dottor Porco. «Eccovi risuscitato come una salamandra rinascente dal fuoco!» «Ah, dunque siete al corrente...» mormorò il gesuita. «Ovviamente! Il Mandarino Tan ci ha costretti a seguirlo in Cina per incontrare la mummia del vostro benefattore affinché il dottor Porco potesse identificare il veleno che avete ingurgitato!» dichiarò Dinh, che la fine del viaggio aveva reso nervoso. Hsiu-Tung esalò un sospiro e aprì le braccia in un gesto d'impotenza. «Cosa posso dirvi? Da anni preparo quella droga e la consumo, pur conoscendo i rischi. Ma, cosa volete, i cieli che mi schiude, infuocati da luci abbaglianti dai colori senza nome, le prospettive inaudite che mi procura annientando frontiere e orizzonti, tutto ciò valeva una morte mille volte più dolorosa di quella che ho rischiato di conoscere». «Avevate dunque spesso delle crisi di follia che vi incitavano a togliervi la vita?» domandò il letterato. «Spesso, ma negli ultimi mesi quelle crisi si sono fatte sempre più acute perché dovevo diradare l'assunzione della polvere». «Come mai?» domandò il Mandarino.
Il torace gonfio d'orgoglio ferito, il dottor Porco insorse: «Ah, posso spiegarlo io! Rammentate la composizione della Polvere del Mangiar freddo: tra gli ingredienti c'è il quarzo. E non è forse una delle sostanze che oggi si vanno facendo rare nel nostro paese a causa delle esportazioni? Ho ragione?» disse al gesuita. «Assolutamente sì» ammise Hsiu-Tung. «Quella notte non avevo più droga, e quello stato insostenibile di vuoto mi opprimeva più del coperchio di una bara. Impossibile far scaturire i lampi folgoranti e le fiamme ardenti che popolano quel mondo diventato inaccessibile. Allora sono venuto meno a uno dei precetti della mia religione...» Nel sentir parlare di quell'universo fiammeggiante, il Mandarino Tan si rammentò il proprio malore. «Sapete che ho esplorato un luogo simile in uno dei miei sogni? Avevo la sensazione di volare in un luogo senza confini, trapunto da una moltitudine di luci il cui splendore mi attirava in modo insostenibile». «Non avrai preso anche tu qualche sostanza tossica?» domandò Dinh, incredulo. «Rammenta il misero stato del Mandarino Ch'en! Due Mandarini mummificati sono più di quanto potrei sopportare». Il suo amico lo fulminò con lo sguardo. «Certo che no! Ma, al momento, temevo che mi avessero avvelenato...» «La descrizione del vostro sogno mi fa pensare a ciò che provano certi miei pazienti quando inalano dei fumi di piante o di funghi di cui si conosce il potere allucinatorio» intervenne il dottor Porco. «Spesso si tratta di poeti che cercano l'ispirazione, o di pittori che poi dipingono quadri del tutto assurdi». Hsiu-Tung, che si stava lisciando la tonaca stropicciata, lasciò il gesto sospeso e aggiunse: «Quei viaggi estatici sono cercati anche dai taoisti che aspirano a fondersi con l'universo. La nozione di volo è per loro particolarmente importante». «Alludete forse agli adepti del Shangqing che avete menzionato sull'Isola della Tartaruga?» volle sapere il Mandarino. «Ricordo che tributavano un culto speciale ai tanti corpi celesti». «Proprio quelli» disse Hsiu-Tung. «Oltre che inalare dei fumi per involarsi nelle alte sfere, ingoiano anche i talismani che rappresentano quegli astri. Loro lo chiamano assorbimento degli effluvi astrali». «È incredibile la quantità di cose che ci si può mettere in bocca» disse Dinh, trasognato.
Osservando il volto riposato del prete, il Mandarino Tan pose infine la domanda che gli bruciava sulle labbra. «Com'è possibile che oggi siate ristabilito, quando tre giorni fa vi avevamo lasciato come morto?» Il gesuita smise di raccogliere pennelli e pietre da inchiostro, e disse con voce appena udibile: «Non lo so, in verità. Questo pomeriggio, mi sono svegliato con un orrendo mal di testa, senza sapere cosa facevo ancora a letto a quell'ora. Poi, pian piano, sono affluiti i ricordi, e ho provato orrore per il mio gesto disperato. Dando un'occhiata al polso, però, ho visto che i tagli erano in via di cicatrizzazione. Sbalordito, ho esaminato le lesioni che m'infestavano la schiena e mi sono reso conto che avevano smesso di suppurare. Non saprei dirvi cos'è successo esattamente». S'interruppe, gli occhi fissi su un punto al di là della parete, poi continuò: «Nella mia religione, questo si chiama miracolo. A volte, però, s'impone alla mia mente l'immagine di una giovane con lunghe trecce che mi dà da bere un liquido color ambra». «La signora Aconito!» non poté fare a meno di esclamare il Mandarino. «Non saprei proprio» confessò il prete. «Poteva anche essere un sogno...» «To', i preti sognano spesso giovani donne?» mormorò ingenuamente il letterato Dinh, accarezzando distrattamente la pelle di leopardo. Mogio mogio, il Mandarino Tan confessò: «In verità, io sospettavo che la signora Aconito vi avvelenasse, dato che l'avevo vista porgervi una coppa in cui aveva sciolto una polvere nera». Il gesuita lo trafisse con lo sguardo, e una domanda implicita aleggiò tra i due uomini. «Sì» ammise il magistrato. «Una notte vi ho seguito fino a casa sua, ed è là che ho visto compiere quel gesto». «M'è giocoforza constatare che ero sorvegliato» disse Hsiu-Tung con un sorrisino. «Ma, per tornare a quella bevanda sospetta, si trattava soltanto di vino caldo cui la signora Aconito aveva aggiunto del ginseng pestato con altre erbe di cui detiene il segreto. Sperava che quel decotto aiutasse le mie piaghe a guarire». Andando avanti e indietro nello stretto locale, evitando di volta in volta il dottor Porco che si era messo sul letto e Dinh sprofondato in poltrona, il Mandarino continuò a interrogare il prete, perché sentiva che i suoi rappor-
ti con la giovane vedova nascondevano qualcosa d'importante, anche se non sapeva esattamente cosa. «Mi avete detto che le vostre conversazioni concernevano soprattutto le scienze, ma potreste precisarmene il tenore? Di cosa parlavate, esattamente?» Il gesuita rievocò tutte le notti passate a discutere con la signora Aconito. Nelle sue orecchie risonava ancora la voce calda della giovane, a volte punteggiata da un riso leggero, e d'un tratto egli ricordò il suo profumo lieve di caprifoglio. «Parlavamo della trasmutazione dei metalli, come vi ho già raccontato, ma anche del corso degli astri e delle nostre rispettive concezioni dell'universo. Come voi, lei ha mostrato interesse per Giordano Bruno, la cui visione infinita dei mondi segnò il suo destino. Non trovava parole abbastanza dure per coloro che condannano gli altri per i loro sforzi di capire il mondo. 'La vostra Chiesa è rigida come l'edificio confuciano' mi ha detto... Mi limito a citarla» aggiunse in fretta Hsiu-Tung. Era il momento di cambiare argomento. «E il magnetismo? Sono sicuro che la signora Aconito era versata in materia» continuò il Mandarino Tan. «Naturalmente! L'azione a distanza è cosa cara agli orientali, che non hanno mai smesso di studiare il flusso della marea o l'attrazione di un magnete». «Quando vi ho visti insieme, non vi ha mostrato come i cinesi costruiscono una bussola?» Il prete annuì vigorosamente. «In effetti, paragonavamo i nostri metodi rispettivi: in Occidente, sfreghiamo un pezzo di ferro contro una pietra da calamita, mentre qui da voi si sfrutta la persistenza di una magnetizzazione indotta mediante riscaldamento». Il Mandarino Tan annuì, soddisfatto d'aver ottenuta conferma a un fatto che aveva già dedotto. Stava per porre un'altra domanda quando un russare sonoro scosse le pareti della stanza. Il dottor Porco, evidentemente a suo agio nel lettuccio, quantunque stretto, si era addormentato, la testa all'indietro e la bocca spalancata. Per far cessare quel tremolo assordante, il Mandarino dette una pedata al montante del letto, e il colpo ebbe l'effetto di chiudere la bocca del medico con uno schiocco. Intanto Dinh, rigido sulla sedia, sbatteva le palpebre di continuo: segno che non ascoltava niente della conversazione ed era pronto a soccombere al sonno.
«Ciò che apprezzo di più nella signora Aconito» proseguì Hsiu-Tung, «è la sua curiosità per tutto ciò che è estraneo alla vostra cultura, si tratti di scienza o di storia, d'altronde. Sempre a caccia di nuove conoscenze, non smetteva di domandarmi in cosa questa o quella tecnica differivano da ciò che conoscete voi in Asia. In tal senso, siamo simili, lei e io». Il Mandarino indicò il baule che il gesuita stava riempiendo. «Ma perché sistemate le vostre cose?» Hsiu-Tung afferrò un indumento ufficiale di broccato dalle maniche di velluto e cominciò a piegarlo. «Mandarino Tan, avete forse dimenticato che fra due giorni una nave portoghese arriverà nel nostro porto per caricare delle merci, prima di prendere il mare per l'Europa?» «Perché non aspettare l'arrivo del monsone dai venti propizi?» «Mi sarebbe piaciuto restare ancora un po' con voi, ma non so se il mio corpo malconcio resisterà a lungo. Come vi ho detto, ho da redigere delle cose che forse mostreranno all'Occidente le ricchezze scientifiche dell'Oriente» disse Hsiu-Tung alzando un pesante quaderno nero. Stringendolo come cosa preziosa al magro busto, dichiarò: «Tanto peggio se quella nave arriva a destinazione più lentamente, ma io credo che sia giunta l'ora di partire». Dopo aver lasciato il prete, il Mandarino Tan si recò in tribunale. Rassicurato sulla sorte di Hsiu-Tung, doveva ora riprendere la sua indagine. Durante i suoi giorni d'assenza, quante pietre tombali erano state ancora trafugate? Il capo della Polizia Ky era riuscito a gestire gli affari di ordinaria amministrazione della città? Il tribunale era illuminato, prova che qualche funzionario era ancora al lavoro, cosa che fece un gran piacere al Mandarino. Gli impiegati zelanti riscuotevano il suo plauso, e per lui non c'era niente di più bello che servire l'Imperatore. Votarsi giorno e notte allo Stato: ecco una vocazione che avrebbe dovuto motivare ogni cittadino. A passo lieve, entrò nell'edificio, che gli parve molto silenzioso. To', si disse, che gli scrivani abbiano perso la lingua? Di solito non potevano prendere in mano un pennello senza perdersi in chiacchiere. Facendo capolino in una stanza illuminata, si stupì nello scoprire che era deserta. Gli impiegati stavano facendo una pausa per sgranchirsi le gambe? Aprì un'altra porta da sotto la quale filtrava un raggio di luce e si accorse che anche lì non c'era nessuno. Non resistendo più, spinse con stizza la porta della sala della Fenice, e vide la testa ciondolante
del capo della polizia Ky raddrizzarsi bruscamente. «Mandarino Tan!» esclamò il poliziotto, fissando il magistrato con occhi assonnati. «Non vi aspettavo così presto!» «Si capisce» buttò lì il Mandarino in tono gelido. «Perché il tribunale è illuminato come un altare, quando tutti se ne sono andati?» «Questi scribi!» esclamò ser Ky, stizzito. «Non pensano a niente quando è ora di tornare a casa. Uscendo, devono aver dimenticato di spegnere i lumi». Il mandarino sospirò, tutti i suoi sogni di funzionari solerti istantaneamente infranti. «Qualcosa di nuovo in città? Ci sono stati furti, omicidi o incendi durante la mia assenza?» «Niente affatto, signore! Non una sola stele è stata portata via da quando siete partito. Come se i ladri ne avessero trafugate a sufficienza per il loro uso personale». Il magistrato si chinò sul registro degli affari correnti e constatò che in effetti essi si erano singolarmente ridotti: soltanto qualche lite tra vicini e degli alterchi al mercato. «Cos'è successo dagli erranti?» domandò. «Tornando, ho notato che la loro concessione era immersa nell'oscurità». Il capo della polizia Ky si tirò la barba filacciosa, poi si sfregò con vigore il mento. «Hanno lasciato la loro concessione un po' prima della scadenza del contratto. Ho detto loro che la città non aveva bisogno del terreno, ma niente: non volevano sentire ragioni. Immagino che siano andati in qualche altro posto, forse in una città vicina». Le sopracciglia aggrottate, il Mandarino Tan si domandò il perché di quella fretta. Un errante lasciava la città soltanto se questa rifiutava di riabilitarlo, ma il consiglio comunale non aveva ancora deciso della sorte di coloro che lavoravano in città. In caso di parere negativo, spesso bisognava costringere gli erranti a lasciare la concessione prima della scadenza del contratto. E la signora Aconito dov'era in quel momento? Come a rispondere alla sua domanda non formulata, il capo della polizia aggiunse: «D'altronde, questa partenza pone un problema, perché non più tardi di questo pomeriggio la signora Libellula ha fatto irruzione in tribunale per sapere dove si trovava la nuova concessione degli erranti. Secondo lei, la signora Aconito le deve del denaro. Quando le ho detto che non sapevo
niente, c'è mancato poco che mi cavasse gli occhi con quegli artigli di gatta!» Si massaggiò le palpebre per assicurarsi che le sue orbite fossero ancora occupate. «Ho però una buona notizia per quel che concerne l'omicidio del conte Diem. Secondo i vostri ordini, abbiamo perquisito la dimora del morto e trovato il suo diario. C'è voluto un po' per scovarlo perché era ben nascosto nel soffitto della sua stanza. Forse il conte ci scriveva ciò che aveva in cuore». Porse allora, con ambo le mani in segno di rispetto, un libretto dai fogli un po' smangiati di cui il magistrato prese avidamente possesso. Finalmente un passo avanti in quella maledetta storia che gli resisteva! Scorse rapidamente le pagine, ma si disse che il tribunale non era il luogo adatto per studiare il diario di un defunto. «Dite, ser Ky, la dimora del conte è occupata, in questo momento?» «No, signore. La vedova, la signora Alga, evidentemente turbata dalla morte violenta del marito, da allora alloggia presso dei parenti in campagna». Il Mandarino Tan si sfregò le mani, gli occhi splendenti. «Perfetto! Mi ci recherò questa notte stessa! Spulcerò questo diario sul posto per cercare di capire il delitto». Si stava voltando per andarsene quando gli venne un'idea. Lasciato lì il capo della polizia, si recò rapidamente nella sala degli archivi. Grazie agli scrivani svagati, un lume a olio ardeva ancora nella stanza deserta, illuminando i bauli sventrati consegnati dall'eunuco Clemenza. Poco allettato al pensiero di frugare nelle viscere di quelle casse che vomitavano documenti commerciali e fogli amministrativi, il Mandarino scorse una pila di fogli accuratamente impilati sul tavolo. Come sospettava, quei fogli erano annotati dalla mano faceta dell'amico Dinh, ed egli si rallegrò della diligenza di quest'ultimo, nonostante la sua evidente eccentricità. Disegni di fiori e animali, di occhi civettuoli e di bocche sensuali indicavano le merci che avevano attirato la sua attenzione, sicché non fu difficile per lui trovare le informazioni che per l'appunto cercava. L'indice posato sull'elenco, il Mandarino Tan lesse con interesse i nomi dei cittadini che avevano ordinato i gioielli menzionati dal letterato. Le collane di madreperla erano state comprate da ser Gao, un gioielliere della città che doveva averle rivendute al loro costo d'acquisto centuplicato; lo scettro in lapislazzulo da ser Phi, noto collezionista; il diadema tempestato
di rubini da una certa signora Chau. Nulla di particolarmente interessante, in proposito. In compenso, il nome accanto al braccialetto di sette perle e all'anello con il calcedonio bianco gli strappò un lungo fischio. Dunque, sino alla fine, il conte Diem era stato appassionato di pietre preziose... Era un'informazione quantomai interessante che lui si augurava di sfruttare al più presto: per il momento, però, doveva seguire un'altra pista, finché era calda. Come una tigre in caccia, il Mandarino Tan uscì dalla porta settentrionale della città. Lasciandosi dietro i lampioncini delle ultime bettole aperte e le grasse risate degli avventori ebbri, seguì la strada che portava al fiume. Nonostante l'oscurità circostante, si orientò facilmente in quel luogo già visitato più volte. La partenza precipitosa degli erranti doveva nascondere qualcosa d'importante, se lo sentiva. A tratti, negli ultimi giorni, gli era tornato a mente il ricordo della concessione, piccoli appezzamenti di terra coltivati ai bordi dell'acqua, lungo le baracche sbilenche. In quella visione c'era qualcosa che non quadrava, ed egli avrebbe subito verificato la sua intuizione. Ripensando al viso dalle sopracciglia leggermente beffarde della signora Aconito, il Mandarino Tan si disse che doveva diffidare di quella giovane che aveva già gabbato la giustizia una volta. Grazie al colloquio con il geomante Wu, il magistrato sapeva adesso in quale modo quella donna avesse mandato a morte il marito - a distanza, senza lasciare tracce -, come aveva riferito il di lui socio, l'armatore Phung. Invertendo la bussola del marito esploratore perché indicasse direzioni sbagliate, la signora Aconito era quasi certa che costui sarebbe finito in fondo a un precipizio, gravemente ferito o morto sul colpo. Le montagne erano traditrici: lo aveva sperimentato di recente lui stesso nel suo viaggio in Cina. E, peraltro, mentre spiava l'incontro della donna con il prete, non l'aveva forse vista costruire una bussola a partire da una barretta metallica? Per non essere taoista, quella donna aveva comunque una padronanza notevole delle tecniche del fuoco. Non bisognava sottovalutare una mente così perversa, si diceva il Mandarino, giurandosi di non soccombere più al fascino della vedova. E tuttavia - arguiva la sua fibra sentimentale - com'era possibile che una donna tanto immorale accettasse di salvare il gesuita, dal momento che era stata lei a dargli il rimedio salvifico? Intanto, era arrivato in cima al poggio che dominava le baracche immerse nel buio. Rannicchiata in un'ansa del fiume, la concessione somigliava a
un gatto accovacciato nell'oscurità. Scendendo lungo il pendio, il Mandarino si sentiva il cuore battere all'impazzata. Se aveva ragione, ora si sarebbe alzato in parte il velo su uno dei casi. Per averlo osservato dall'alto, il magistrato si orientò sul posto con facilità. Una brezza notturna veniva dal fiume, portando l'odore freddo dell'acqua. A passo deciso, egli si diresse verso il bordo della capanna, dove aveva notato delle colture durante la precedente visita. Il terreno era proprio lì dove pensava, ma la terra, molle e pesticciata, era stata zappettata di recente. Qui e là giacevano piante di patate dolci, strappate senza riguardo e sparse alla rinfusa. Gli occhi del Mandarino si affilarono come daghe: aveva visto giusto! Il suo cervello di contadino aveva rilevato un'anomalia, durante la sua prima visita, e adesso ne aveva appena capito il senso. Attentamente, ispezionò gli appezzamenti circostanti e osservò le stesse tracce di passi e le stesse piante strappate senza cura. Lasciate le parcelle di terra smossa, si recò direttamente alla casupola invasa dalla vite vergine e dai viticci rigogliosi dei cetrioli amari. Il Mandarino Tan spinse la porta ed entrò nella stanza dove il chiarore delle stelle disegnava una macchia bianca sull'ammattonato. Nel silenzio assoluto, gli parve di sentire una lieve fragranza di gelsomino e di menta pestata. Accese il lume a olio e sedette al tavolo dove aveva visto la signora Aconito e il gesuita tenere il loro conciliabolo. Dette un'occhiata all'intorno, sentendosi a suo agio in quella stanza che conosceva a menadito per le tante volte che c'era tornato col pensiero, evocando ancora e sempre il movimento grazioso delle trecce stanotte assenti. Il braciere posto contro il muro era freddo; in compenso, il crogiolo d'argilla, pulito in modo impeccabile, rivelava un uso recente. Dunque, era lì che la giovane faceva esperimenti di alchimia e decotti di piante. Quale urgenza l'aveva spinta a lasciare tutto com'era e sparire di colpo con i suoi compagni erranti? Il Mandarino posò la testa sul tavolo, gli occhi chiusi per concentrarsi su ciò che aveva dedotto. La parcelle di terra smossa e le piante calpestate confermavano che la coltivazione era soltanto un pretesto. Il contadino che lui era aveva notato nuove colture che si tentava di far crescere in piena calura: un'incongruenza. Per giunta, era inutile coltivare patate dolci quando il contratto d'affitto stava per scadere. Ora, cosa si poteva comodamente nascondere sotto dei rettangoli di terra, se non dei rettangoli di pietra... come le pietre tombali sottratte nel cimitero? Tutto ciò era logico: i cadaveri scorti dai testimoni erano tutti magrissimi, e ciò corrispondeva ai dati segnaletici degli erranti. Mal nutriti, lavorando duramente, costoro erano
soltanto pelle e ossa. Dinh e i suoi compagni non avevano partecipato invano all'imboscata, perché grazie al panico dei portatori egli aveva potuto stabilire che i ladri erano uomini mascherati da cadaveri, illusione rafforzata da una vernice che splendeva al buio. A pensarci bene, il metodo rivelava il mandante: soltanto una persona che studiasse la natura e maneggiasse correntemente gli elementi era capace di sfruttare quella proprietà particolare dei minerali che i cinesi chiamavano il fuoco freddo di yin. Il Mandarino riaprì gli occhi. In quel caso particolare, la sola persona che rispondesse a quei criteri era la signora Aconito. Guida di quegli erranti che dovevano rispettarla come un capo villaggio, lei avrebbe potuto facilmente fabbricare quella vernice luminosa destinata a mettere in fuga i testimoni superstiziosi. La sua conoscenza degli elementi doveva evidentemente averla esortata a servirsi di una sostanza maleodorante a base di zolfo per allontanare gli indesiderabili. Nello stesso spirito, doveva aver pensato di lubrificare i corpi degli erranti con un olio che avrebbe impedito la presa in caso di colluttazione. Ma allora, s'imponeva la domanda successiva, lancinante: perché la donna faceva rubare quelle pietre tombali? Scontrandosi con questo punto, per il quale non trovava una risposta immediata, il Mandarino lasciò vagare lo sguardo nella stanza. Le pareti erano prive di decorazioni e non c'era alcun altare che onorasse gli antenati. Così, la giovane aveva cancellato, oltre a ogni ricordo della sua vita anteriore, anche il legame con i suoi morti, che dovevano vagare penosamente senza i riti appropriati. Tutto ciò che le stava a cuore adesso era quella teoria stravagante di Mo-tzu, fondatore di una comunità senza privilegi, nemico delle tradizioni e distruttore della gerarchia sociale. Il solo punto che il magistrato ammetteva in quel delirio visionario era il concetto di conoscenza. Quantunque i confuciani non manifestassero alcuna curiosità nei confronti della natura, lui stesso poteva facilmente immaginare che la comprensione profonda di un fenomeno era il solo modo per anticipare un risultato legato al fenomeno stesso. E, per questo motivo, egli aveva apprezzato le conversazioni sulla scienza da lui fatte con Hsiu-Tung. Sotto questo punto di vista, capiva senza sforzo il fascino che la signora Aconito esercitava sullo straniero. Gli occhi spalancati, il Mandarino rivide quella notte di pedinamento che l'aveva portato a spiarli. Ricordò, non senza imbarazzo, l'invidia da lui provata nel vedere il prete sedersi con naturalezza di fronte alla bella vedova. Senza sentire il tenore della loro conversazione, aveva indovinato l'intensità dei loro scambi e la forza della loro intesa. Quante volte aveva
rivissuto nella sua mente quella scena muta dove si tesseva in modo quasi tangibile una connivenza intellettuale che non aveva mai visto altrove? Quante volte si era domandato se, dietro l'aspetto puramente cerebrale, non ci fosse un'altra componente, tenue e indicibile, che tutti rifiutavano di nominare? Cosa succedeva nel cuore della giovane mentre, con gesto quasi tenero, puliva il sangue che trasudava dalla schiena del prete? D'un tratto, il Mandarino Tan sussultò. Le mascelle serrate, cercò di riandare al momento preciso in cui la signora Aconito aveva pulito le piaghe del prete e buttato lo straccio nel braciere. Lo sporco era bruciato, ma il tessuto era intatto quando lei l'aveva tolto dal fuoco. Sul momento, irritato dalla solerzia che la giovane vedova mostrava nei confronti di Hsiu-Tung, egli non aveva fatto attenzione a quella stranezza. Adesso, però, solo in quella stanza dove si era svolta la scena, le sue tempie ronzavano mentre lui cercava di ritrovare le parole del dottor Porco. Quando finalmente ricordò i termini precisi, il magistrato batté il dito sul tavolo: ecco la chiave di un altro enigma! Un soffio di vento entrò dalla finestra aperta sulla notte, portando l'odore del caprifoglio in fiore. La fiamma vacillò ma non si spense. Di ritorno dalla Cina, egli aveva trovato Hsiu-Tung vivo e vegeto, intento a fare i bagagli, e il dottor Porco lo aveva allora paragonato a una salamandra che rinasce dal fuoco. Ora, il panno uscito purificato dalle fiamme - in un certo senso risuscitando dal fuoco - non era simile a una pelle di salamandra? E, di recente, si era parlato di pelle di salamandra... nell'elenco delle merci rubate dalla giunca naufragata. Era il punto determinante? Quello che implicava la signora Aconito nell'attacco della nave? Infatti, in quale altro modo lei poteva essere entrata in possesso di quella pelle? Lo sguardo ardente per l'eccitazione, il Mandarino sentì il sangue tempestargli le tempie. Era convinto che quell'indizio fosse decisivo, perché metteva la giovane al centro di due casi apparentemente slegati. Ora sapeva che quella donna aveva, per una ragione sconosciuta, fatto trafugare delle pietre tombali, e al tempo stesso brigato per far assalire la giunca. La mente infiammata da quel passo avanti insperato, il magistrato si sforzò di calmarsi. Bisognava ragionare in fretta e bene. Addossatosi allo schienale della sedia, le dita intrecciate dietro la testa, ricapitolò mentalmente i vari elementi del caso. Il racconto del vecchio battelliere e dei suoi marinai parlava di morti viventi, che erano di sicuro gli erranti complici della signora Aconito. Il panico era stato seminato dal numero cospicuo di pirati, alcuni dei quali parevano immobili, stando alle tante testimonianze. Il Mandarino
scosse il capo: non c'era dubbio che quegli erranti avessero ancora una volta fatto ricorso all'inganno. Verosimilmente, delle sagome in legno dipinto poste nelle barche manovrate da un solo uomo erano bastate a terrorizzare un battelliere semicieco e dei giovani inesperti. Inoltre, constatando che le merci erano state portate via dall'Isola della Tartaruga un momento prima del suo arrivo, aveva sospettato del prete. Ora, alla luce di quei nuovi fatti, si rendeva conto che Hsiu-Tung aveva, in modo del tutto innocente, messo al corrente la signora Aconito del loro prossimo viaggio. Era successo la stessa notte in cui il magistrato lo aveva pedinato. Tutto concordava! Esaltato, il Mandarino fece scricchiolare le falangi. Era buona cosa aver trovato un legame tra i due fatti, ma quella scoperta non faceva altro che suscitare nuove domande. In particolare: perché le merci rubate interessavano la signora Aconito? Quella donna era al di sopra della cupidigia. E cosa c'entravano le due prigioniere morte nel naufragio? Il magistrato sospirò. Per il momento, non trovava soluzioni a questi problemi. Guardò la finestra e vide la luna incastonata nel cielo stellato. Doveva essere l'Ora del Ratto, e lui aveva altri enigmi da risolvere. Alzatosi di scatto, il Mandarino Tan contemplò non senza tristezza quella stanza cui aveva tanto pensato e che lui aveva costretto a rivelare tutti i suoi segreti. In qualche parte della sua mente, si agitava lo spettro di una giovane che continuava a ossessionarlo. Soffiò sul lume a olio e uscì senza guardarsi alle spalle. Nell'oscurità improvvisa brillò il lampo di un sorriso. Era chiaro che il Mandarino imperiale stava per arrivare alla soluzione, e lei non si aspettava di meno da quel giovane. Nelle sue espressioni, senza aver bisogno di parole, lei aveva saputo leggere lo svolgersi dei suoi pensieri e aveva ammirato la giustezza delle sue deduzioni. Quando, dunque, avrebbe capito la suprema finalità dei suoi atti? Spiandolo dalla finestra, si era detta che quel giovane aveva la stoffa di un grande inquisitore, ma che lei, lei aveva una missione da compiere. La signora Aconito si raddrizzò e, buttando indietro le trecce abbisciate sulle spalle come due rettili pronti a scattare, seguì il Mandarino che riprendeva la strada per la città. La luna diffondeva un chiarore freddo che calmò l'animo in fermento del Mandarino Tan. In cima al poggio, egli inspirò l'aria fresca della notte e si diresse a passi di gigante verso la città. La sua ombra, correndo sulla pol-
vere della strada, sfiorava appena le edicolette a pagoda innalzate qui e là in onore di un serpente o di un genio. Assorto nei suoi pensieri, sentiva appena i gridi dei macachi e i battiti d'ali dei pipistrelli che accompagnavano la sua avanzata. Strada facendo, si concentrò sull'assassinio del conte Diem. Quanto aveva scoperto quella sera in tribunale non era privo d'interesse: il defunto libertino aveva acquistato di recente dei gioielli. Il furto era dunque il movente del delitto? Certo, il cadavere era stato spogliato di una gemma l'Orbe di Fuoco che portava al collo -, ma il Germe di Metallo, disco a forma di stella, era stato ritrovato al fondo della pozza di sangue, nascosto alla vista dell'omicida che non se n'era impossessato. Il Mandarino si grattò la testa: se avevano ucciso il conte per rubargli i gioielli, perché la vedova non aveva segnalato la scomparsa del bracciale e dell'anello? Rimaneva altrettanto perplesso davanti al modo di operare dell'omicida. Perché uccidere il conte sul balcone, dove rischiava di essere visto, quand'era tanto più facile entrare nella stanza per sgozzarlo? E poi non aveva trovato spiegazione per quel filo bianco appeso all'albero. Sulle prime aveva pensato che fosse stato strappato a un indumento dell'assassino, ma Dinh aveva assicurato che si trattava di un tipo di filo usato per gli aquiloni, che non avevano niente a che vedere con l'indagine in corso. Il Mandarino affrettò il passo, sperando che recarsi sul luogo del delitto lo avrebbe aiutato a decifrare la concatenazione dei fatti di quella fatidica notte. Arrivò nella città silenziosa e, dopo aver seguito il lungo viale che portava alla residenza del conte Diem, giunse al portico sormontato da un tetto di tegole verniciate. Pareva che l'immensa dimora lo stesse aspettando con le finestre vuote come orbite, quasi sfidandolo a risolvere l'omicidio del suo proprietario. Al Mandarino Tan bastò spingere il grande battente principale per entrare. Un raggio di luna, cadendo da una finestra munita di grata, illuminava lo scalone monumentale che portava alla stanza del conte. Il giovane salì i gradini a due a due, poi si fermò, un po' inquieto, davanti alla porta che finì con lo spingere. Non che temesse davvero i fantasmi, ma il silenzio sepolcrale non ispirava certo fiducia. I pollici al riparo nei palmi stretti per proteggersi dai demoni, il magistrato fece un passo nella stanza dicendo a voce alta che era lì per far luce su un delitto, e dunque per rendere giustizia alla memoria del conte. Quel discorsetto, rivolto a divinità che potevano essere in ascolto, aveva lo scopo di rassicurarle circa le intenzioni di chi s'introduceva nottetempo nella stanza di una vittima sgozzata. Di sicuro avrebbe fatto volentieri a meno di quella macabra in-
cursione, ma, spinto dal tempo che incalzava e dai pochi passi avanti, si era convinto che l'atmosfera del luogo si sarebbe rivelata propizia alla riflessione. Accese due lumi a olio ma si sentì davvero tranquillo soltanto quando le fiamme cancellarono le zone d'ombra negli angoli della stanza. Allora si sedette allo scrittoio del conte e trasse dalla bisaccia il manoscritto datogli dal capo della polizia Ky. Dunque, il defunto aveva nascosto il suo diario nel soffitto della stanza. Alzando gli occhi, il giovane guardò i pannelli di legno nero tempestati di chiodi metallici sparsi in modo irregolare. Dove aveva già visto simili motivi? Non trovando risposta, aprì il diario e cominciò a leggere. Le prime pagine fecero imporporare le gote del giovane. Stupefatto dalle descrizioni quantomai realistiche delle scene orgiastiche, egli aveva l'impressione di leggere un racconto arrivato dritto dalle Indie, la cui letteratura brulicava di descrizioni di particolari anatomici quantomeno sorprendenti. I festini del conte Diem non dovevano essere davvero monotoni, e non bisognava aver pregiudizi quanto alle combinazioni o alle posizioni. Stupefatto, il Mandarino Tan constatò che gli esseri umani potevano adottare configurazioni acrobatiche a catena o a grappolo, avendo come solo limite la loro fantasia. Di conseguenza, egli non poté che ammirare l'eccezionale inventiva del conte, le cui descrizioni superavano talvolta l'intendimento, e in ogni caso la decenza. Come se le parole non bastassero a descrivere le mille e una posture sperimentate dai vari partecipanti alle orge, il conte aveva abbozzato dei disegni della massima veridicità. Gli occhi sgranati, il magistrato vide dunque corpi sapientemente contorti, artisticamente arcuati, e straordinariamente agglutinati. Gente di ogni età e forma si agglomerava con brio, creando ammassi di carne inestricabili dai componenti intrecciati. Poche pagine bastarono a fornire al Mandarino un'idea del tenore di quegli eventi goderecci che gli davano le vertigini, ed egli passò rapidamente alle ultime pagine del diario, foriere di informazioni più utili. Aspetto ancora la consegna del bracciale e dell'anello che ho fatto venire dalla Cina. Già da un po' l'ordinazione è stata fatta, ma Clemenza mi assicura che la merce non è ancora stata inviata. Pazienterò di conseguenza una settimana, dopo di che andrò a lagnarmi in tribunale per questo contratto non onorato. Da molto tempo bramo gli ultimi pezzi di questa collezione unica, che
individui avidi e incoscienti hanno frammentato per vili ragioni finanziarie. L'immortalità sacrificata per qualche volgare legatura di sapechi! «Ah, ecco perché quei pezzi non sono stati rubati! Non sono mai arrivati nelle mani del conte!» esclamò a voce alta il Mandarino, prima di risprofondare nella lettura. «Strano, dato che l'eunuco Clemenza li aveva inclusi nell'elenco delle importazioni. Cosa può essere successo?» Sarò finalmente pronto per l'ultimo rituale. Gli dèi che avrò convocato mi contempleranno quando, in splendido abito di piume, calzando il berretto con gli astri di giada, salmodierò il vero Scritto del grande Dong. Il drago verde e la tigre bianca, emblematici dell'est e dell'ovest, cammineranno al mio fianco quando inizierò la passeggiata celeste ai sacro passo di Yu il Grande. Entrando nelle contrade al di là delle porte magiche, incontrerò i cinque vegliardi, pilastri della terra, e scoprirò le isole d'immortalità fluttuanti sui quattro mari. Aiutato dai miei talismani, guidato dalle mappe segrete, navigherò nelle vette labirintiche dei monti sacri così come si solca un oceano. Allora, nutrito della luce dei cieli, prenderò il volo verso i pianeti e gli astri, immerso nel calore del Sole e bevendo le fresche acque della Luna. Sotto il mio corpo dispiegato s'innalzerà l'albero della vita, i cui uccelli dalle penne d'oro custodiscono i frutti che danno una giovinezza senza fine, e andrò ancora più in alto, verso l'asse del cielo, il regolatore dell'universo, il Gobbo. Sfiorando ciascuna delle sue sette stelle, vedrò i paradisi che lì s'annidano, prima di dirigermi verso l'ultima stazione celeste, nodo della rivelazione del mondo, la Polare. E lì, il volto inondato dal fiato purpureo del Sole e dei corpi irradianti una luce straordinaria, sarò tutt'uno con l'universo. Il Mandarino Tan fischiò. Aveva sott'occhio la descrizione di un'alchimia interiore che finiva né più né meno in una fusione con il mondo nella sua interezza. Soltanto i taoisti, con la loro ossessione delle trasmutazioni e l'uso sfrenato delle droghe, erano capaci di operare questa assimilazione totale dell'uomo col suo universo. Ma il conte Diem non seguiva una qualunque dottrina taoista: ciò che descriveva trovava la sua origine nell'antica branca di cui gli aveva parlato il gesuita: lo Shangqing. Hsiu-Tung aveva detto infatti che i suoi adepti, provenienti per lo più dall'aristocrazia, si nutrivano degli effluvi astrali per compiere l'unione con i cieli. Il conte per-
petuava dunque quella tradizione giunta dalla Cina. La testa tra le mani, il Mandarino valutò la portata di quanto aveva appena scoperto. Se il defunto si dedicava a quelle pratiche ancestrali, aveva bisogno dei talismani cui accennava nel suo manoscritto. Ora, cos'aveva intorno al collo? L'Orbe di Fuoco - rappresentante il Sole - e il Germe di Metallo, simbolo della Polare... E se i gioielli che il conte aspettava fossero stati i complementi della collezione di elementi cosmici evocata nel suo racconto? Sovreccitato, il Mandarino Tan rilesse l'ultimo passo: oltre che del Sole e della Luna, si parlava del Gobbo e della Polare; mancavano dunque all'appello il Gobbo e la Luna. Alzando un pugno vittorioso, il giovane seppe di avere in mano una parte dell'enigma: le sette perle del braccialetto ordinato dal conte rappresentavano senza meno le sette stelle del Gobbo, mentre il calcedonio bianco montato sull'anello simboleggiava la luce opalina della Luna. Tutto combaciava alla perfezione! Inebriato dal successo, il Mandarino Tan si sforzò di restare lucido. Certo, aveva capito il motivo per cui il conte aveva acquistato quei gioielli, ma ciò non chiariva le circostanze del suo omicidio. Afferrato un pennello posato sul tavolo, il Mandarino lo fece passare di dito in dito mentre rifletteva. No, c'era qualcosa che non andava nella sua teoria. Aveva concluso che i vari ornamenti rappresentavano gli astri: un cristallo tagliato a forma di sfera per il Sole, un disco di metallo per la Polare, sette perle per il Gobbo e un calcedonio per la Luna. Nondimeno, egli sentiva confusamente che c'era una pecca nel suo ragionamento, un particolare che si legava a quanto gli aveva raccontato Hsiu-Tung. Sondò la memoria, alla ricerca di quel punto preciso, ma invano. Con un sospiro, fissò il letto dove s'indovinavano ancora i contorni del corpo del conte. Le braccia allargate del dormiente indicavano verosimilmente un sogno in cui l'ucciso prendeva il volo verso i cieli. Convinto di dover visualizzare a ogni costo la scena del delitto, il giovane decise, non senza pena, di sdraiarsi sul letto della vittima. Per avere condizioni identiche a quelle della fatidica notte, il Mandarino soffiò sui due lumi a olio, e la stanza restò illuminata soltanto dalla luce fredda delle luna. Mormorando preghiere per le divinità protettrici, si stese con la faccia contro le lenzuola, insinuandosi per così dire nella pelle del morto. Gli occhi chiusi, avvertì il silenzio circostante e fiutò la frescura della notte. Il conte doveva dunque dormire profondamente. Qualcosa - forse un rumore - doveva averlo svegliato e tirato giù dal letto. Alzatosi, il Mandarino si diresse verso il balcone e fissò la luna, la cui luce gli permetteva di
distinguere i minimi particolari del giardino. Il baniano dove aveva scovato il filo cresceva proprio davanti al balcone, ma troppo lontano per permettere a qualcuno di saltare sulla sporgenza. D'altronde, non c'era alcun segno di lotta, alcuna ecchimosi sul corpo del vecchio. Percorrendo il balcone a grandi passi, il Mandarino cercò di figurarsi lo svolgimento dei fatti. «Supponiamo che il conte sia stato attratto da un rumore e sia uscito sul balcone» ragionò ad alta voce il magistrato. «Si domanda da dove proviene il suono che ha sentito e si sporge dalla ringhiera. In quel momento, l'assassino colpisce». Il corpo teso verso il vuoto, il Mandarino mimava la scena. Come uccidere il conte a distanza? Infatti l'assassino doveva aver agito a distanza, dato che non c'era possibilità di contatto. La ferita da cui era uscito il fiotto di sangue era profonda e netta, «firma» di un'arma molto tagliente maneggiata con forza. Inoltre, bisognava spiegare come la collana con l'Orbe di Fuoco fosse stata rubata senza che l'assassino si accostasse al conte. Girando come una fiera in gabbia, il magistrato passò in rassegna svariate possibilità, l'una più folle dell'altra, poi tornò verso la ringhiera. Vi si appoggiò, come a scrutare il buio, chinandosi sul giardino. Il conte aveva sicuramente assunto una posizione simile, e ciò significava che tendeva il collo, rendendolo in tal modo vulnerabile. In quella posizione, le sue collane dovevano penzolare liberamente nel vuoto. Presumendo che fosse stato lanciato una specie di coltello, come aveva fatto l'assassino a ricuperarlo? Per giunta, come conciliare la traiettoria di un oggetto lanciato con la forma dell'incisione riscontrata, che esigeva un'estrema precisione? Il Mandarino Tan guardò il tronco da cui aveva ricuperato il filo. Quest'ultimo era attaccato a un ramo posto esattamente su una linea che univa il punto in cui si trovava lui sul balcone con un cespuglio compatto quanto bastava per nascondere un uomo. E se quel filo fosse servito a ricuperare l'arma dalla gola del conte? Possibile che un coltello legato a un filo permettesse di tagliare il collo con tanta precisione? Per quanto il Mandarino si sforzasse di studiare i diversi aspetti fisici del problema, non riuscì a convincersi che fosse stata usata una daga. Era impossibile, dato l'angolo di attacco. Ciò che occorreva era un marchingegno che si avvolgesse al collo affinché una trazione dal basso potesse provocare una forbiciata mortale: una lama circolare, affilata, cui fosse legato quel filo bianco... Sul balcone inondato dal chiarore lunare, il volto alzato verso le stelle che giravano insensibilmente, il Mandarino Tan trasalì. Il particolare che
gli sfuggiva alla fine si affacciò alla sua mente: le parole rivelatrici di Hsiu-Tung. Allora, lo sguardo allucinato, senza fiato, egli vide davanti a sé la scena così come si era svolta in quella che era stata l'ultima notte del conte. E per ciò stesso riconobbe la mano che reggeva il filo. Con un sospiro di sollievo, Hsiu-Tung chiuse il coperchio del baule. Libri ed effetti personali avevano trovato il loro posto nelle quattro casse che i servitori del Mandarino sarebbero venuti a prendere l'indomani sera. Egli era fisicamente pronto a partire e gli restava soltanto da prepararsi mentalmente. Il suo sguardo vagò sulle pareti della stanza ora priva di quegli oggetti che non erano mai riusciti a farle perdere la sua aria spartana. Con la loro forma un po' imbarcata, le mensole vuote serbavano l'impronta dei libri e delle carte, compagni delle notti di studio. In compenso, la croce che egli aveva staccato dal muro non aveva lasciato alcuna traccia, come se essa non avesse segnato né lo spazio né la durata del suo soggiorno. Nelle casse riposavano, simili a pelli cangianti, i suoi indumenti di gala tagliati secondo la moda di Nanchino, da lui più volte indossati nel continuo sforzo di assimilarsi con i popoli che l'avevano accolto. Adesso, pronto a imboccare la via del ritorno, si sarebbe accontentato della sua veste di gesuita, il cui tessuto scuro accresceva vieppiù il pallore della sua pelle e lo scintillio della sua barba. Sempre custodite nelle casse c'erano anche alcune scatole stagne dove il prete aveva sistemato con cura gli ingredienti della Polvere del Mangiar freddo. Aveva rischiato di ucciderlo, ma, così com'era impossibile per un uomo sbarazzarsi una volta per tutte di un'amante bisbetica e importuna, allo stesso modo era difficile per lui liberarsi dell'influenza malefica di quella droga che gl'infiammava la mente. Dietro raccomandazione del dottor Porco, egli contava di ridurre progressivamente le dosi per non violentare il suo corpo ma abituarlo pian piano a fare a meno degli effetti della polvere. Sentì una tristezza lancinante, assalito da immagini che si sovrapponevano nel suo sguardo volto verso l'interno... persone che aveva frequentato e apprezzato, il giovane Mandarino dall'aria decisa e dagli zigomi alti, e una giovane che probabilmente non avrebbe rivisto mai più in vita sua. Il letterato Dinh, allampanato nelle sue giacche stravaganti, gli aveva dimostrato che nell'oceano uniforme delle convenzioni confuciane esisteva un isolotto di fantasia, e perfino il dottor Porco, grasso quanto si vuole, non era stato di sgradevole frequentazione. Nella mente del gesuita risuonava-
no frammenti di conversazione di cui percepiva qualche parola, qualche risata, ricordi che sarebbero tornati soltanto episodicamente, senza che lui potesse mai evocarli. Numerosi anni trascorsi in Oriente non gli avevano fatto dimenticare il suo paese natale, ma egli sentiva che ci tornava con più domande di prima, anche se qualche certezza era stata acquisita. Era riuscito a trasmettere la sua fede a quella gente ghiotta di tradizioni? Lo ignorava, quantunque il catechismo di padre Matteo Ricci fosse stato un successo in Cina. Per quanto riguardava i Viet, egli ne era meno sicuro. Così, il Mandarino Tan, sensibile alla preponderanza del numero, sembrava più portato a credere a una coorte di geni che a un solo Dio. Quanto alla signora Aconito - che aveva diffidato alla sola menzione del Popolo eletto -, era chiaro che avrebbe rifiutato sino alla fine quell'insegnamento da lei ritenuto iniquo nei suoi fondamenti. Nonostante tutto, qualche scambio c'era stato: padre Ricci non aveva forse cominciato la traduzione parziale degli Elementi di Euclide? E lui stesso non aveva colto la colossale ricchezza delle scienze e delle tecniche in Oriente? Lanciò un'occhiata al quaderno nero rimasto aperto sul tavolo. Se c'era una cosa cui teneva più che alla sua vita, era proprio quel libretto che custodiva tutte le osservazioni fatte durante il suo soggiorno in Cina e nel Dai Viet. Lì erano registrati i progressi tecnologici della Cina fin dall'antichità, lo stato dell'astronomia e della cartografia, dell'agricoltura e della medicina, della matematica e della costruzione navale. Partito dalla Francia con l'idea che la Cina fosse in ritardo rispetto all'Europa in molte materie, ne tornava con la convinzione che, al contrario, l'Oriente precedeva l'Occidente in molti campi. Ed era questo paradosso che egli contava di sollevare al suo ritorno. La sua non sarebbe stata tanto un'esposizione di fatti scientifici quanto un'esortazione alla modestia, un appello alla tolleranza che spesso negli europei difettava. E allora, unendo le conoscenze di Est e Ovest, l'umanità avrebbe forse fatto un enorme balzo in avanti, anziché segnare il passo sul cammino del sapere. Hsiu-Tung chiuse gli occhi. Un'altra notte ancora e avrebbe imboccato la lenta curva marittima che lo avrebbe riportato in Bretagna. Le scogliere di granito che aveva lasciato da tanti anni sarebbero riuscite a fargli dimenticare le mille grotte scavate nei fianchi del drago di pietra al largo di quelle coste? Annusò il buio, riempiendosi i polmoni del profumo greve e sensuale di quel gran fiore bianco che sboccia sulle piante senza foglie, e i cui petali finiscono col tappezzare il suolo come tanti fazzoletti agitati durante
gli addii. Appoggiato alla balaustra, il Mandarino contemplò per un momento quella volta celeste che aveva fatto da sfondo a un dramma umanissimo. Veniva da pensare che il sangue versato fosse l'elisir di lunga vita! D'un tratto, così in piedi su una cornice tra la terra e il firmamento, il Mandarino Tan si sentì avviluppare da un vento gelido. Chiudendo il colletto della giacca, si guardò attorno. Gli sembrava che, sul pavimento freddo, la pozza di sangue nero in cui era immerso il cadavere del conte rinascesse di colpo e venisse a lambirgli gli alluci. Era la sua immaginazione? Non c'era stato un cambiamento impercettibile nelle pieghe del lenzuolo, stropicciato come un sudario abbandonato? Un terrore improvviso lo pervase al pensiero di essere sul luogo di un fatto di sangue. Spesso gli spiriti delle povere vittime tornavano nel luogo del loro trapasso a reclamare vendetta, gli occhi smarriti e la bocca avida. Non era il momento di farsi accostare da un vecchio nudo con la testa sotto il braccio! Ascoltando soltanto la propria immaginazione, il Mandarino Tan uscì dalla stanza correndo e scese le scale a precipizio. Nel momento in cui saltava quattro scalini per volta, ebbe l'impressione di vedere con la coda dell'occhio un lembo di tessuto bianco che spariva sulla sua destra. Atterrò nel vestibolo e scrutò i dintorni... invano. Tra le colonne illuminate dalla luce spettrale della luna non c'era nessuno. Il Mandarino Tan aprì con sollievo la porta di quella dimora fredda come una tomba. Per uscire dalla proprietà, doveva ancora attraversare il giardino immenso, a tratti oscuro per l'ombra dei baniani deformi. Imboccò il viale principale, costeggiato da alberi più o meno alti, le cui fronde nascondevano talora il cielo stellato. Ora che conosceva nei minimi particolari l'omicidio del conte Diem, il Mandarino si concentrò di nuovo sul naufragio e sulle stele. Il tempo incalzava, ne era certo. Qualcosa si tramava in segreto, e di lì a poco sarebbe venuto in luce. I furti di pietre tombali erano stranamente cessati da qualche giorno, e quel cambio di ritmo indicava una conclusione imminente. Passando davanti a un capanno in disuso, il Mandarino s'immobilizzò. Aveva sentito il fruscio di una stoffa proprio dietro di sé, ma quando si voltò vide soltanto le forme tozze dei cespugli potati in forma d'animali e di uccelli. Le sopracciglia aggrottate, continuò a procedere, ma più lentamente, per poter ispezionare i dintorni. Il magistrato s'immerse di nuovo nei suoi pensieri. Era impensabile che
la signora Aconito si limitasse a nascondersi dopo quei saccheggi. Quale evento stava aspettando per passare all'azione? Cosa contava di fare con il frutto di quei furti? Impossibile dirlo, perché ciò che gli erranti avevano rubato sulla giunca non aveva alcun legame con le stele da loro trafugate. Si fermò. Lo stesso lembo di tessuto bianco era appena comparso fra i tronchi per sparire subito dopo. Il Mandarino si diresse verso un baniano dalle radici attorte, poi si disse che aveva di meglio da fare che dar la caccia ai fantasmi. La signora Aconito era la chiave di volta di quei due casi. Anche se ora lui aveva prove a sufficienza per buttarla nelle prigioni di cui era stata guardiana, non aveva il tempo di mettersi alla sua ricerca. In quella zona appartata, dalla vegetazione rigogliosa, lei poteva trovare facilmente rifugio e tenere i suoi inseguitori a distanza sino alla fine della sua vita, se tale era il suo scopo. No, non bisognava tentare di stanarla. Per cercare di sventare i suoi piani c'era soltanto un modo: superarla sul suo stesso terreno. Come ragionava, quella donna? Quali erano le sue motivazioni? Lui doveva capire la sua logica per anticiparne le mosse. Il Mandarino fece il broncio, perché una cosa era risolvere un enigma e un'altra mettersi al posto di una donna. La sua virilità recalcitrò di fronte al compito, ma egli si convinse che dopotutto la graziosa vedova aveva un cervello piuttosto mascolino, con il suo interesse profondo per le scienze e altri ambiti piuttosto aridi. Convinto che questo aspetto giustificasse il suo modo di agire, il magistrato si concentrò sul problema. Ciò che sapeva era che la giovane aveva respinto volontariamente la sua condizione agiata per vivere con gli erranti. Questa decisione concordava con il suo disgusto per la società confuciana, da lei considerata - a torto - statica e ingiusta e con la sua fede nelle teorie di quel pazzo di Mo-tzu. Che facesse rubare delle pietre tombali, simboli del culto degli antenati tanto caro ai confuciani, poteva facilmente concepirlo, ma quella donna doveva pur avere uno scopo più elevato di quello di mettersi sotto i piedi quei simboli. Lo scricchiolio di un ramo lo indusse a girare la testa, giusto in tempo per vedere quello che somigliava a un lembo di tessuto nero sparire dietro un masso. Si sfregò gli occhi. La sua vista stanca doveva giocargli dei brutti tiri. In ogni caso, la signora Aconito non si era procurata soltanto una collezione di stele, ma anche di spezie, di pelli di salamandra... Il Mandarino sussultò. Aveva dimenticato qualcosa d'importante, un particolare basilare attorno al quale si cristallizzava tutta la faccenda: la messinscena del nau-
fragio della giunca. C'era una ragione per cui gli erranti si erano presi la briga di conficcare i pali nel letto del fiume, una ragione storica che risuscitava i fantasmi degli antichi guerrieri, riportandoli nella memoria dei vivi, e dunque in vita. La giovane non faceva niente per caso: con quella messinscena, lei annunciava gli eventi futuri. E, avendo capito questo, il Mandarino seppe cosa quella donna stava aspettando. Aprendo gli occhi, Dinh si scoprì intento a grattarsi il collo. Era stato il prurito a svegliarlo e, passandosi con cautela una mano sulla pelle, sentì dei foruncoletti spuntati nottetempo come funghi velenosi. Per tutti i demoni effeminati! Purché i bubboni dell'amico Hsiu-Tung non fossero contagiosi! Non gli andava l'idea di esibirsi ai banchetti con una collana di pustole l'una più gocciante dell'altra. Ripreso il controllo di sé, si convinse che si trattava soltanto di un'irritazione superficiale. Forse andava imputata a quel sarto barbaro che gli aveva confezionato il colletto in pelle di leopardo. Lo aveva almeno lavato, prima di cucirlo? si domandò il letterato, annusando l'articolo in questione. La pelliccia gli parve polverosa, ed egli temé di aver inalato almeno tre generazioni di tarme in un colpo solo. Si otturò una narice col dito e soffiò con l'altra, cercando di sbarazzarsi di quei minuscoli cadaveri puzzolenti. Una volta ripuliti i condotti nasali, Dinh si mise seduto sul letto. Ecco che il sonno se n'era andato. Si rimproverò d'essersi addormentato senza eleganza al tavolo del prete, mentre costui discuteva col Mandarino, perché era stato quel sonno intempestivo che ora gli impediva di addormentarsi. Dinh mise i piedi ossuti negli scarpini con le perle e decise di fare un giretto in città per conciliare il sonno. Nulla di meglio che una passeggiata notturna per liberare il corpo dalle impurità e procurarsi una benefica stanchezza. Buttatosi sulle spalle una casacca screziata, fulminò con lo sguardo la giacca di seta dove finiva di accartocciarsi la spoglia di un leopardo forse rabbioso. Le gote arrossate dall'eccitazione, il Mandarino Tan inspirò profondamente: la signora Aconito decisamente non era una donna comune, e quello che lei progettava non era un misfatto veniale. Se aveva visto giusto, bisognava agire senza por tempo in mezzo, perché le conseguenze sarebbero state irreversibili. Tra arrestare immediatamente l'assassino del conte Diem e sventare lo spaventoso complotto della signora Aconito, lui aveva scelto. Gli mancava soltanto un elemento che avrebbe subito verificato con Hsiu-
Tung, anche se doveva svegliarlo a quell'ora impossibile. Al pensiero che gli eventi precipitavano, il magistrato affrettò il passo. Infine, in lontananza, scorse il portico monumentale che proteggeva l'ingresso a quell'immensa proprietà. Una volta uscito da quel giardino inquietante, avrebbe preso i provvedimenti necessari per sventare i piani della signora Aconito. Soddisfatto della piega presa dagli avvenimenti, il Mandarino Tan si concesse un sorriso da cui non era assente una punta di fierezza. E lanciò un urlo. Fermatosi di botto, contemplò la propria casacca da cui stillava un filo di sangue, mentre un dolore acuto gli trafiggeva l'addome. Incredulo, scrutò l'oscurità rigata da un riflesso argenteo, simile alla traccia folgorante di un meteorite. Ma quel meteorite non cadeva; s'innalzava, al contrario, verso le cime degli alberi. Ebbe appena il tempo di stupirsi che un altro frammento luminoso scaturì dai rami e andò a intagliargli un braccio, prima d'involarsi di nuovo. Il corpo vibrante di dolore, il Mandarino riconobbe lo stile micidiale dell'attacco. «Signora Libellula!» urlò, pieno di animosità. «È inutile che vi nascondiate, so che siete stata voi a uccidere il conte Diem, e per quel delitto odioso sarete giudicata dal tribunale della Corte!» Gli rispose un riso stridulo, mentre una figura sottile drappeggiata in una veste color di luna si svelava, appollaiata su un alto ramo. «Per giudicarmi, prima bisogna prendermi, Mandarino Tan!» esclamò la signora Libellula, beffarda. «Dubito che con un corpo a pezzi e un braccio lacerato riusciate ad avvicinarmi. E io non ho bisogno di starvi al fianco per darvi ciò che meritate!» Con queste parole, si armò il braccio e lanciò con destrezza il suo proiettile. Il Mandarino vide arrivare verso di sé un cerchietto dentato che girava a una velocità vertiginosa, unito alla mano criminale da un filo di seta bianca. Con una rotazione del polso, la signora Libellula fece descrivere all'arma una traiettoria curva, e il filo andò ad avvolgersi al polpaccio del Mandarino. Allora, così come si ricupera un aquilone, la giovane tirò a sé il filo, e il disco si liberò, non senza aver prima provocato un taglio profondo che strappò un rantolo al magistrato. I denti stretti, egli si mise a correre in direzione di un cespuglio dal fogliame fitto. Doveva a ogni costo mettersi al riparo, altrimenti il disco maneggiato con diabolica precisione lo avrebbe fatto a pezzi. Non aveva ancora ridotto la distanza di metà quando sentì dietro di sé il sibilo acuto del proiettile. Allora, lanciandosi come una tigre, convertì la velocità acquisita in un balzo fenomenale, e at-
terrò oltre il cespuglio. Ebbe appena il tempo di ritrarre la testa nelle spalle che il disco scintillante colpì come il fulmine, decapitando spietatamente gli ultimi cimelli dell'arbusto. Lanciata un'occhiata all'indietro, il giovane vide la signora Libellula ricuperare il suo arnese con un rapido movimento del polso. Una cosa era chiara: impossibile lasciarla sul suo appollatoio, da cui dominava facilmente la situazione. Allo scoperto, egli costituiva una preda di cui la donna avrebbe fatto un sol boccone, e lui non poteva, con la ferita alla gamba, sostenere quel ritmo sfrenato. Scrutò speranzoso il viale che lo separava dall'uscita e si sentì mancare il cuore. Di una nudità disarmante, bordato di fiori decorativi e piante nane, non offriva alcun riparo ed era la via più sicura verso una morte dolorosa. La sola soluzione che gli si offriva era quella di affrontare la signora Libellula nel corpo a corpo. Tra lui e il suo aggressore c'era una macchia di bambù, troppo piccola per assicurargli una sicurezza anche soltanto provvisoria, ma che poteva servire ad avvicinarsi. Una fiamma s'accese nelle sue pupille, e il Mandarino emerse dal cespuglio cimato mentre di nuovo la signora Libellula abbozzava il suo gesto letale. Il giovane si buttò allo scoperto nella radura che era il loro campo di battaglia. Dal suo ramo, la donna correggeva il tiro, pregustandosi il macello che sarebbe seguito. Mai il Mandarino ferito sarebbe riuscito, per veloce che fosse, a raggiungerla prima che lei lo avesse ucciso: si leccò le labbra con una golosità di carnivoro. Ma, all'ultimo momento, il magistrato deviò verso la macchia di bambù. Lì, tirò a sé una grossa canna e ci si aggrappò. Quando lasciò andare il tronco flessibile, questo si raddrizzò con uno scatto che proiettò il giovane in aria, in direzione della signora Libellula. Come nel suo sogno, egli volò, senza impacci, i capelli sciolti, inebriato dalla velocità e dall'altezza. La signora Libellula non ebbe il tempo di lanciare il suo disco che già il Mandarino Tan piombava su di lei. Quando la sovrastò, il giovane stese violentemente la gamba e le assestò una pedata che la colpì alla mascella. Con un urlo furibondo la signora Libellula cadde, ma nella caduta si rimise subito ritta, mentre il Mandarino atterrava nella posizione della Tigre accovacciata a una ventina di passi da lei. Scorgendo il disco che era rotolato sotto un arbusto, il magistrato ritenne che la donna fosse disarmata, dunque finalmente vulnerabile. «Vi mostrerò di cosa è fatta la giustizia del nostro paese, signora Libellula!» disse, accingendosi ad affrontarla. «State sicuro che avrò la vostra pelle prima! Domani vi ritroveranno qui
graziosamente incrostato in una pozza di sangue secco, la gola tranciata e gli occhi vacui». Così dicendo, fece scaturire dalle maniche altri due fili che andarono ad attorcersi attorno alla coscia del Mandarino. I dischi gemelli gli straziarono selvaggiamente la carne, provocando l'uscita di un fiotto di sangue che il magistrato cercò invano di tamponare. «La vostra avidità e crudeltà non resteranno impunite» dichiarò, cadendo in ginocchio. «I talismani che avete rubato non vi daranno l'eternità, come non l'hanno data al conte Diem!» Ilare, il mento vibrante di disprezzo, la signora Aconito godeva nel vederlo a terra, mentre l'erba si tingeva del sangue mandarinale. «Quel miserabile non meritava l'eternità che cercava. Snaturando la dottrina pura dello Shangqing, che esige l'astinenza da parte di chi vuole arrivare intatto nelle sante regioni, quel maiale lubrico si rotolava nella lussuria più sfrenata con la massima sfrontatezza. Lasciargli quei talismani sarebbe stato come gettare perle ai porci!» disse, estasiata dalla propria battuta. «L'eternità va meritata, e soltanto grazie alla virtù e alla meditazione si raggiungono i luoghi abitati dagli Immortali. Credete che compiere l'unione con l'universo sia alla portata del più piccolo verme collezionista di gioielli?» «In fondo, sotto l'aspetto di aristocratica dalle aspirazioni cosmiche, siete soltanto una donna chiusa in se stessa, che rifiuta il contatto fisico» ritorse il Mandarino sputando sangue. «Come spiegare, altrimenti, quell'uso abbietto del filo che vi consente di giustiziare le vostre vittime a distanza? Non avete nemmeno avuto il coraggio di introdurvi in casa del conte per dargli la morte, nel timore di toccarlo». «Toccare quella vecchia pelle vizza?» esclamò, isterica, la signora Libellula. «Sfiorare quelle pieghe e quei lembi di carne flaccida più fredda di carne morta? Avete ragione, io aborro i toccamenti, così come rifuggo la vicinanza della gente. Quali atti infami e degradanti sono stati perpetrati da quelle mani sconosciute, prima di sfiorare la mia? Pensate che abbia voglia di sentire sulle dita il muco secco di un altro... o, peggio, i suoi fluidi intimi? No, soltanto mantenendo le distanze posso preservare la mia integrità e la mia purezza». «Da qui il vostro matrimonio contronatura con un eunuco?» disse quasi singhiozzando il Mandarino, che sentiva un vuoto terribile accampargli in petto. «Esattamente!» rispose lei con una soddisfazione sprezzante. «Quel po-
vero castrato, felicissimo di vedersi scegliere da una bella donna, era pronto a piegarsi alle mie esigenze, degradandosi per avermi al suo fianco nei banchetti d'affari. Fin dalla prima sera ho messo in chiaro che mai e poi mai avrei toccato la sua pelle grassa e porosa, stillante sudore come lardo lasciato al sole. Poteva ammirarmi dal suo cantuccio, ma vietato toccare!» Il respiro a scatti, il Mandarino si chiese come poteva affrontare quella donna, mentre lui si stava svuotando di tutto il suo sangue. Bisognava a ogni costo avvicinarsi a lei per sperare di vincerla. Arcuandosi sulle ginocchia, tentò di alzarsi, ma l'emorragia l'aveva privato di ogni forza, ed egli crollò con i polpacci rotti. E fu così che vide, impotente, la donna torcere il busto, portando lentamente il braccio all'indietro per dargli il colpo di grazia. Il disco, concentrando tutta la luce dei cieli, girando su se stesso per trasformarsi in una lama circolare, partì come il lampo, e il Mandarino, con un'ammirazione irrazionale, seguì con lo sguardo il lancio impeccabile e l'arco elegante. Sapeva che il bersaglio era la sua gola, ma non poté alzare la mano per proteggersi. Davanti ai suoi occhi sfilarono i suoi avi spietati che contemplavano con espressione vagamente sdegnosa il loro discendente in ginocchio davanti a una donna di una fragilità di vetro. Esangue ma soffocando per la collera, il Mandarino Tan alzò la testa per fissare il disco che l'avrebbe ucciso. Uno schiocco lacerò il silenzio, mentre la leggiadra traiettoria veniva rotta di netto. Stupefatto, il Mandarino constatò che il filo di seta era solidamente trattenuto da una striscia di cuoio. Voltando la testa, vide una donna piantata sulle gambe leggermente divaricate, la frusta in mano. «Signora Aconito!» disse il Magistrato con un rantolo. «Serbate le vostre forze, Mandarino Tan!» replicò l'altra, imperiosa. «Sporca donnaccia!» sbraitò la signora Libellula, furente nel vedere il suo filo di seta impigliato nella correggia della frusta. «Maledetta traditrice! Mi hai rubato l'eternità cui avevo diritto!» Con un sorriso beffardo, la bella vedova alzò le spalle quadrate. «Bel modo di trattare la tua vecchia amica! Non ti ho forse portato le sei perle e il calcedonio che bramavi?» Con uno scatto del polso tirò a sé la correggia. Perdendo l'equilibrio, la moglie dell'eunuco ebbe appena il tempo di abbandonare il suo filo alla presa dell'avversaria. «Tenendo per te la settima, che era la più grossa, brutta ladra!» «Una in più o in meno che differenza fa?»
«Idiota! Sapevi benissimo che ciò che contava era l'intera collezione dei talismani, senza di che era tutto inutile. Che fine ha fatto l'ultima perla?» Il Mandarino, sul punto di svenire, si sforzava di serbare tutta la sua lucidità per seguire il colloquio. Poiché tossiva per espellere il sangue dalla gola, la signora Aconito gli si avvicinò e gli mise un piede sul petto per farlo tacere. «Dammi un momento per pensarci» rispose alla signora Libellula, un dito sulla guancia. «Ah, sì, ho dovuto ridurla in polvere col pestello per salvare un gesuita moribondo. L'elisir si è rivelato molto efficace, del resto. Ti darò volentieri la ricetta». «Hai barattato la mia vita eterna con la salvezza di un miserabile prete! E dire che ho avuto la debolezza di darti fiducia! Cosa ti è preso per tradirmi all'ultimo momento?» «Credi che ti avrei aiutata, se avessi saputo che era tua intenzione dissanguare il conte come un maiale?» «Non cercare di spacciarti per virtuosa, tu che hai fatto uccidere le due donne della giunca!» ritorse la signora Libellula, le labbra tirate da una smorfia sprezzante. La signora Aconito fece cantare la frusta per sottolineare le sue parole: «Quelle due donne sono morte a causa di un errore dei miei uomini, peraltro debitamente puniti». «Mi hai preferito un uomo e uno straniero. Non ti basta? Ora morirai al posto di quel prete della malora che mi ha rubato il posto accanto agli Immortali!» Frugando nella manica, la signora Libellula tese il braccio per lanciare un nuovo proiettile. Il Mandarino, immobilizzato dal piede della vedova, vide arrivare su di loro il disco metallico dai denti assassini. Aprì la bocca per avvertire la giovane, ma costei, più veloce del lampo, aveva già fatto schioccare la frusta. Ancora una volta la correggia, annodandosi al filo di seta, deviò l'arco tracciato dal disco. Dando voce a tutto il suo odio, la signora Libellula lasciò il filo che teneva e ne trasse un altro dalla manica. Di nuovo un disco volò e di nuovo fu bloccato. Steso a terra, il Mandarino guardava quello strano balletto che si svolgeva sopra di lui: era come se la signora Libellula, simile a un ragno gigantesco, secernesse fili mortali che lanciava verso di loro, ma a ogni tentativo il filo incontrava la frusta che fendeva l'aria con una rapidità prodigiosa. L'aria risonava degli schiocchi della correggia di cuoio, che disegnava nella penombra arabeschi folgoranti. Il buio fu saturo di fili bianchi e di corregge nere che s'ingarbugliavano,
si annodavano e si scioglievano, in una lotta senza tregua. In capo a un momento, però, la signora Aconito si stancò di quel gioco. Allora, applicando una trazione irresistibile alla frusta, trasse lentamente a sé l'avversaria, che frenava con i talloni urlando a squarciagola. «Avvicinati!» sussurrò la giovane dalle trecce seriche. «Sento a stento i tuoi dolci mormorii». «Specie di rinnegata! Tu che hai conosciuto gli uomini ti riveli così stupida da invaghirti di un misero straniero di pelo rosso e dalla faccia cadaverica. Dubito che la sua religione gli consentirà di rispondere alle tue proposte!» Aveva detto una parola di troppo. La signora Aconito accelerò brutalmente il movimento, e la donna sfigurata dall'odio si trovò a naso a naso con la rivale. Allora, quest'ultima scagliò lontano la frusta - che si portò via l'ultimo filo di seta - e si mise in posizione di combattimento. L'altra, vedendo che le restavano soltanto le mani per battersi, impallidì. Si misero a faccia a faccia nella radura dove il chiarore lunare era così vivo che le loro ombre si stagliavano con una nettezza irreale. Poi, con movimento sincrono, cominciarono a girare l'una intorno all'altra, studiandosi con lo sguardo. Le labbra arricciate in una smorfia sdegnosa, la signora Aconito attaccò. Effettuando alla perfezione la mossa del Vento nei giunchi, colpì la signora Libellula alla nuca con il taglio della mano. L'altra lanciò un urlo acuto e si scostò massaggiandosi vigorosamente il collo. Il disgusto che si dipinse sui suoi tratti ricordò alla signora Aconito la ripugnanza dell'avversaria per il contatto fisico, e sul suo volto si riaccese il sorriso del gatto che sta per azzannare il topo. «Vieni dunque a misurarti con me, cara Libellula. Non ti sei stufata di lanciarmi addosso dischi che non arrivano mai a segno?» Ma l'altra continuava ad arretrare con un'espressione di profondo disgusto. Allora, le trecce sibilanti come due serpi velenose, la signora Aconito si lanciò sulla moglie dell'eunuco che non credeva ai propri occhi. Star ferma significava farsi fare a pezzi da quella forsennata che piombava su di lei alla velocità di un tifone. Senza pensarci su due volte, la signora Libellula se la dette a gambe. Tuttavia, si sbagliava pensando che, per il disappunto, quella furia si sarebbe fermata, perché la signora Aconito, vedendo il sorcio scappare, allungò il passo al suo inseguimento. Inchiodato a terra, il Mandarino Tan seguì con occhi agonizzanti la corsa impeccabile della giovane. Con una falcata degna di un uomo e una grazia tutta femmi-
nea, stava incollata alla signora Libellula, affrontando le curve con un leggero spostamento di spalla, sobrio ed efficace. Se lasciava correre la sua preda, era perché voleva far durare il piacere: lasciandosi distanziare e poi avvicinandosi tanto da sussurrarle all'orecchio, si beava del suo uggiolio di terrore ogni qual volta tendeva la mano. «Non toccarmi! Giù le zampe! Zozza! Zozza!» urlava la signora Libellula gesticolando scompostamente. Se il Mandarino, immerso nel proprio sangue, era pieno d'ammirazione per la velocità della signora Aconito, riconosceva però che la signora Libellula effettuava delle finte di un'astuzia senza pari. Modificando senza posa l'andatura, fingeva d'esser stanca per meglio prendere la fuga quando l'avversaria la raggiungeva. Ma ogni cambiamento di direzione veniva previsto dalla signora Aconito, che leggeva le sue mosse con un raro senso di preveggenza. Avendo cercato invano di liberarsi dell'avversaria che le stava alle calcagna, allo stremo delle forze ma non della furbizia, la moglie dell'eunuco si accovacciò come per arrendersi. Appena vide l'altra arrivare alla sua portata, si raddrizzò, brandendo un ramo grosso come la coscia di un uomo. «To', accarezza questo pezzo di legno quale compenso della tua fellonia!» esclamò, colpendo con tutte le forze. Accartocciato, il Mandarino singhiozzò per l'angoscia, ma la signora Aconito aveva visto arrivare l'attacco e parò con la mossa del Flutto sull'onda, facendo volare in pezzi il pesante bastone. Dimenticando per un attimo il suo tormento, il Mandarino Tan osservava sorpreso la lotta. Dove aveva imparato, quella donna, l'arte dei maestri? Il suo stile disinvolto indicava un addestramento prolungato, e il rigore dei suoi colpi rivelava un sicuro talento. Borbottò quando infine si arrese all'evidenza: la signora Aconito, da moista convinta, si dedicava probabilmente a rigorose sedute di kung-fu, come tutti gli adepti di Mo-tzu, fautori della lotta armata. Ora che si trovava a faccia a faccia con la signora Libellula, l'altra dette sfogo alla rabbia rattenuta. Facendo scattare la mano in orizzontale con violenza, colpì l'altra all'altezza della spalla sinistra. «La clavicola! Mi hai spezzato la clavicola! Ti ucciderò!» «Ti spezzerò dell'altro, prima che finisca la notte» replicò la signora Aconito facendo un salto in aria. Girando su se stessa, scagliò in avanti una gamba che colpì l'avversaria al petto. Piegata in due, senza fiato, la signora Libellula capì che continua-
re a subire equivaleva a essere sconfitta. Allora, vincendo il disgusto, rispose, gli artigli snudati. Spietatamente, mirò con le unghie acuminate agli occhi d'ambra. Sconcertata dal cambiamento di tattica, la signora Aconito schivò di misura grazie alla mossa del Fiore spezzato, mentre con un singulto il Mandarino ringraziava i suoi protettori. Intanto, arretrando di alcuni passi, la moglie dell'eunuco aveva trovato un grosso sasso: lo usò come proiettile. Non avrebbe mai colpito il bersaglio se in quel momento il Mandarino Tan, sentendo la profondità della propria ferita, non avesse lanciato un gemito di dolore. La signora Aconito distolse per un istante lo sguardo, e il sasso la colpì sul braccio con un rumore sordo. Una macchia scura si diffuse sulla sua casacca di cotone azzurro. «Ora fai meno la gradassa!» chiocciò l'assalitrice. «Sono proprio contenta che il Mandarino imperiale assista alla morte di colei che inseguiva con ardori di cane rabbioso». Steso quant'era lungo, il Mandarino Tan lanciò un flebile grido di protesta, prima di sprofondare in una letargia impotente. Ora, quella battuta fece nascere un'idea perversa nella mente della signora Libellula. Evidentemente non era all'altezza di colei che sventava tutti i suoi assalti con una facilità umiliante. Non avrebbe mai potuto far vacillare la moista addestrata a uccidere, e men che mai neutralizzarla. Nondimeno, restava ancora un modo per sferrare un colpo fatale... Scorto un disco dentato che giaceva provvidenzialmente ai suoi piedi, lo raccolse senza esitare, la bocca truce. La signora Aconito, lo sguardo inchiodato sull'avversaria, non appena scorse l'occhiata che costei lanciò al Magistrato a terra, capì. Allora, forzando tutti muscoli, sfibrando il proprio corpo per imprimergli tutta la velocità di cui era capace, si precipitò sul Mandarino Tan, mentre la moglie dell'eunuco armava il braccio. Nel momento in cui il disco letale partiva dalla mano assassina, la signora Aconito saltò. Il vento che portava il proiettile fece volare le trecce della giovane, mentre in pieno slancio atterrava sul magistrato privo di sensi. Il colpo scosse il Mandarino Tan, che ritrovò momentaneamente la coscienza. Sorpreso nel vedere un corpo di donna tutto curve e muscoli coprire il proprio, la sua prima reazione fu quella di porre la sola domanda che ancora lo tormentava: «Perché? Perché siete pronta a distruggere tutto?» Fissandolo con gli occhi d'oro dove gli parve di scorgere riflessi d'acciaio, lei gli rispose in un sussurro:
«Perché, secondo Mo-tzu, la volontà del Cielo detesta il grande regno che attacca i regni più piccoli, la grande casa che importuna le case più modeste, il forte che spoglia il debole, il furbo che inganna lo stolto, l'uomo coperto di gloria che disprezza l'umile». In quel momento, il disco rotante in aria raggiunse il bersaglio. Il Mandarino, costernato, vide la giovane crollare su di lui, le labbra che sfioravano le sue, la fronte posata sulla sua fronte, mentre il gusto metallico e caldo del sangue gli riempiva la bocca. Vinto dagli eventi, stremato dal dolore, sprofondò nell'incoscienza. Dinh, che tremava nel freddo notturno, ebbe un fugace rimpianto per il colletto in pelliccia di leopardo appena denigrato. I suoi passi di passeggiatore notturno in cerca di sonno lo avevano portato per caso davanti alla dimora del conte Diem, sinistra sotto il chiar di luna. Lanciando un'occhiata nel giardino, si stupì nel vedere due ombre volare sull'erba, l'una all'inseguimento dell'altra. Da lontano, contemplò quell'insolita danza, fino al momento in cui la sagoma nera si abbatté a terra, come fulminata. Si avvicinò in fretta, facendo più rumore di dieci sbirri e urlando all'omicidio e all'assassino, cosa che provocò la fuga della donna in veste chiara verso un'uscita laterale. Correndo allora in direzione del corpo disteso faccia a terra, riconobbe le trecce di cui gli aveva parlato così spesso il suo amico e, sotto quel corpo immobile, in una pozza di sangue di dimensioni impressionanti, il Mandarino Tan. Seduto a gambe incrociate davanti al tribunale, il bonzo intento a gustarsi la ciotola di zuppa rischiò di rovesciarsi il liquido fumante sulla tonaca quando il visitatore imponente arrivò in tromba, schiaffeggiandolo di passata con i lembi della casacca. Nella fretta, l'uomo dalle palpebre pesanti non degnò nemmeno di un'occhiata la ciotola di rame destinata alle elemosine che rischiò di calpestare. Dopo aver salito celermente i gradini, entrò nell'edificio alla ricerca di un funzionario. «Ah! Finalmente qualcuno sveglio!» esclamò, rincuorato. Il cancelliere, che si sfregava gli occhi sbadigliando, sussultò e assunse subito un atteggiamento pieno di dignità. «Che sia giorno o notte, noi siamo costantemente al servizio dell'Impero, ser Clemenza! Quale faccenda urgente vi porta qui così di buon'ora?» L'eunuco, querulo, si profuse in piagnistei. «Stanotte, mia moglie non è tornata nella dimora coniugale!»
«Ne sono desolato» rispose l'altro intingendo il pennello. «Conoscete il nome dell'amante?» «Non si tratta di questo!» protestò l'eunuco, il labbro tremante. «Temo che le sia capitata una disgrazia. È una bella donna, e voi sapete che la nostra città è piena di marinai dalle voglie feroci, senza contare gli erranti a zonzo. Vengo a denunciare ufficialmente la sua scomparsa». «Benissimo; prendo nota. Ma, per dirla tutta, le guardie attualmente sono molto impegnate: il Mandarino Tan è stato ferito gravemente in un'imboscata durante la notte. Si stanno cercando i suoi aggressori». «Chi mai ha osato attaccare il nostro magistrato?» esclamò l'eunuco, fintamente scandalizzato e segretamente gongolante. «Alzare le mani su un Mandarino imperiale è un crimine odioso!» Annuendo col capo, l'altro buttò lì in tono stanco: «Non ne so niente, sono appena arrivato in tribunale. Ma nei corridoi corrono voci sul terribile combattimento». «Come sta il Mandarino Tan?» domandò il signor Clemenza stropicciandosi le mani con aria che voleva essere di stizza. «Pare che sia ridotto molto male. Ho sentito che ha perso tutto il sangue e che il suo corpo era coperto di ferite. C'è chi dice che sarà un miracolo se riuscirà a cavarsela». «Che barbarie! Spero che il colpevole venga preso quanto prima e subisca le peggiori torture. Strangolarlo sarebbe troppo caritatevole per un simile oltraggio!» L'eunuco lanciò un'occhiata in tralice ai bauli che continuavano a impolverarsi in un angolo della stanza. «E dire che, poco tempo fa, ho fatto pervenire al Mandarino tutti i documenti di scambio di beni che mi aveva richiesto. Mi domando se ha avuto almeno il tempo di dargli un'occhiata prima di questo tragico evento». Sganasciato da un tremendo sbadiglio, il cancelliere scosse la testa. «Con i furti e i delitti che l'hanno tenuto impegnato negli ultimi giorni, e il suo recente viaggio in Cina, mi stupirei se avesse potuto dedicarsi alla lettura di tutto quel ciarpame. E adesso, nelle condizioni in cui si trova, dubito che si precipiti su quell'appassionante lettura». «Capisco benissimo che quei fogli, sommamente insipidi, non gli siano di alcuna utilità per il momento» concesse l'eunuco, soffocando a fatica la gioia. Il signor Clemenza si rallegrava della sua buona sorte. Con il Mandarino in condizione di non nuocere - e forse addirittura in articolo di morte -, lui
avrebbe ritrovato la sicurezza e avrebbe potuto portare avanti impunemente i suoi affarucci. Era meglio di quanto potesse sperare! Sentendosi rinascere, inspirò con vigore e prese congedo dal cancelliere che nel frattempo aveva assunto una posizione di un'immobilità sospetta. Si stava dirigendo a passo arzillo verso la porta, il viso raggiante e il busto curvo per la soddisfazione, quando si scontrò brutalmente col capo della polizia Ky in alta uniforme. A giudicare dagli stivali, doveva accingersi a uscire a cavallo. Dietro di lui, delle guardie dall'aria marziale sfilavano verso le scuderie, le spade sfavillanti nella luce del mattino. «Ser Ky!» esclamò l'eunuco in tono ansioso. «Mi hanno appena detto dell'esecrabile crimine contro il nostro magistrato! Tremo ancora d'indignazione e spero di tutto cuore che il Mandarino Tan si rimetta presto dalle ferite». Il capo della polizia osservò sorpreso l'uomo dalla faccia di geco, ma il suo stupore non tardò a mutarsi in soddisfazione. «Ser Clemenza! Che fortuna per me trovarvi tra di noi stamattina! Molto gentile da parte vostra esservi preso la briga di venire fin qui». Turbato, l'eunuco spiegò frettolosamente: «In realtà, ho già fatto quel che dovevo in questo posto e stavo per andarmene. Non dimenticate di fare i miei auguri di pronta guarigione al nostro magistrato». Tentò di svignarsela con naturalezza, ma il capo della polizia si spostò leggermente e gli sbarrò il passo con un sorriso ambiguo. «Ve ne andate di già?» domandò in tono cortese. «Sì, sì. Vorrei, naturalmente, trattenermi più a lungo con voi a commentare la terribile notizia, ma devo assolutamente tener fede a degli impegni urgenti al porto. Vi lascio dunque alle vostre occupazioni, caro ser Ky». L'eunuco fece atto di andarsene, ma l'altro lo trattenne per la manica. «Aspettate, vorrei il vostro parere su alcune forniture che abbiamo intenzione di importare per il tribunale. Quale specialista in materia, voi saprete probabilmente darmi consiglio». Poiché l'eunuco Clemenza alzava le sopracciglia, disarcionato dalla richiesta imprevista, il capo della polizia continuò: «Vedete, dobbiamo equipaggiare come si deve le guardie, le cui armi cominciano a diventare obsolete. Con un armamentario superato, rischiano di perdere credibilità di fronte ai criminali incalliti, vi pare? Così, una bella sommetta è stata destinata dall'amministrazione a questo uso». «Non vedo...» interruppe l'eunuco, sconcertato dal discorso di ser Ky.
«Insomma, si tratta di comprare in Cina alcune centinaia di coltellacci e daghe da combattimento, senza contare un numero ragguardevole di scuri e spade». Sconvolto, l'eunuco rabbrividì davanti a quell'affronto. Il capo della polizia ignorava dunque che la buona creanza voleva che non si parlasse di oggetti affilati davanti a un castrato? Come poteva snocciolare quell'elenco abominevole con aria tanto affabile? «È triste a dirsi» proseguì ser Ky come se niente fosse, «ma voi non avete idea del numero di malfattori che bisogna titillare con questi strumenti taglienti. A volte, davanti alla loro sfrontatezza, le mie guardie sono costrette a praticare incisioni poco delicate e perfino rischiose sulla loro anatomia. Ciò li induce a confessare rapidamente, come potete ben immaginare! L'acciaio freddo che taglia la carne a nudo... niente di meglio per infliggere dolore! Il sangue che schizza dalle ferite da arma bianca finisce sempre con l'impressionare il colpevole». «Cosa...» «Ah! vi domandate a cosa possano servire le scuri che vogliamo ordinare? Ebbe', figuratevi che si rivelano efficacissime per tagliare la testa a coloro che vengono riconosciuti colpevoli. Quelle di cui disponiamo attualmente sono arrugginite e non affilate a dovere. Durante l'ultima esecuzione, il boia ha dovuto dare tre colpi prima di riuscire a spiccare la testa dal corpo... una vera e propria onta per la giustizia!» Livido, l'eunuco si sentiva sciogliere le viscere. Il capo della polizia doveva essere impazzito. Dove voleva arrivare? Disorientato e vinto da un imbarazzo intestinale, il signor Clemenza cercò di tagliar corto. «Immagino che vogliate sapere se occorrono delle autorizzazioni particolari per simili importazioni... Ebbe', la risposta è sì. Questo pomeriggio vi farò pervenire i documenti necessari». Abbozzò un movimento verso la porta, cercando di non far trapelare la paura che cominciava a trasudargli da tutti i pori. Con un passo laterale, però, il capo della polizia gli sbarrò di nuovo la strada annuendo con un'aria di gratitudine che puzzava di falso lontano un miglio. «In ogni caso, ser Clemenza, vi sono riconoscente di essere venuto da me. Ciò mi risparmia la fatica di venire io da voi, come mi ha ordinato il Mandarino Tan». «Il Mandarino Tan!» esclamò l'eunuco, sgomento. «Pensavo che fosse agonizzante! Dove ha trovato la forza di darvi degli ordini? E, d'altronde, non dovevate lanciarvi alla ricerca del suo infame aggressore? Lasciate
dunque che gli onesti cittadini badino alle loro pacifiche occupazioni!» «Signor Clemenza!» tuonò ser Ky, abbandonando ogni bonomia. «Mi fate perdere tempo! Dato che siete qui, vi farò accompagnare direttamente in una cella del tribunale in attesa di giudizio». La faccia da rettile trasformata in maschera di terrore, l'eunuco chiocciò: «Ma cosa dite mai? Non vorrete insinuare che sospettate me dell'aggressione all'onorevole persona del Mandarino! È ridicolo!» Vedendo che le sue parole servivano soltanto ad accentuare il corruccio dell'interlocutore, l'eunuco, in preda al panico, decise di caricare il capo della polizia per aprirsi un varco verso l'uscita. Una volta in corridoio, si credette in salvo e si precipitò verso l'ingresso principale. Fu allora che uno sbirro tutto muscoli e polpacci comparve nel corridoio, passandosi da una mano all'altra la terribile coda di razza destinata alla flagellazione dei prigionieri. Mentre si voltava per imboccare un corridoio laterale, l'amministratore del porto si rese conto che la ritirata gli era impedita da altre quattro guardie altrettanto robuste e similmente armate. Si avvicinavano a passo tranquillo, esibendo con aria beffarda la tremenda frusta, e l'eunuco capì che ogni resistenza sarebbe stata vana. Allora cadde in ginocchio e, fedele al proprio nome, implorò clemenza a voce alta. La piccola imbarcazione di pescatori sballottata dalla maretta danzava pigramente all'ombra delle scogliere dalle pareti a picco. La brezza marina, carica degli odori del largo, rinfrescava l'aria di quel tardo pomeriggio splendente che addobbava gli scogli di una luce ocra. China sull'acqua, gli occhi sgranati, la guardia Tuan scrutava le profondità, alla ricerca di un luccichio di guscio mordorè, carapace del mostro dimorante nei palazzi di giada che si ergono nel cuore degli abissi. Aveva sentito parlare più volte di quegli splendidi regni sottomarini, cittadelle di madreperla e di corallo che s'infiammavano ai raggi obliqui del sole. Evidentemente, però, l'inclinazione dei raggi non doveva essere propizia all'illuminazione dei fondali, perché egli vedeva soltanto strati d'acqua verde su lame azzurrine, inframmezzati da scintillii di rame. Deluso, si rivolse al compagno, vestito come lui dei rozzi panni del pescatore che aspetta la preda. «Pensi che verrà lei da noi, come ha predetto il Mandarino Tan?» domandò ingenuamente al collega il cui volto abbronzato rivelava l'esperienza. La guardia Hiep si tirò i lunghi baffi e alzò il cappello conico che gli nascondeva la fronte.
«Se il Mandarino Tan lo ha previsto, vuol dire che lei sarà all'appuntamento. Tu sei fresco di nomina e non conosci le storie che si raccontano sul suo conto. Nella provincia che governava prima di venire qui, le sue imprese di magistrato sono diventate un mito». «Però mi hanno detto che è stato gravemente ferito ieri notte, e che ha perso quasi tutto il sangue. Come può ragionare in condizioni simili? Forse è stato soltanto il delirio a indurlo a distaccarci qui, nella Baia del Drago, mentre la giornata sta per finire». «Ah, ragazzo, sta proprio qui l'intelligenza del nostro magistrato. Lui non ha bisogno di essere al meglio della forma fisica per sventare i misfatti dei malfattori. Cieco, monco o moribondo, resta sempre il terrore dei criminali. La sola cosa che posso dirti è che, se mi ordinasse di appostarmi nel monte ad aspettare mia madre morta, potrei star sicuro che la sera stessa cenerò con lei». Il giovane Tuan perlustrò con lo sguardo la baia irta di scogli e indicò altre dieci imbarcazioni dove altri colleghi pazientavano in tenuta da pescatori. «Ma perché farci sorvegliare proprio questo posto? Ci sono soltanto isole disabitate per leghe e leghe tutt'attorno». «Osserva bene la configurazione del luogo, ragazzo» replicò pazientemente l'altro. «Qui siamo al confine con l'alto mare. Tutto ciò che viene da nord deve passare da questo settore per raggiungere la foce del fiume a ponente». Strinse gli occhi e indicò un punto che aveva appena varcato la curva dell'orizzonte. «Del resto, guarda ciò che è appena comparso laggiù». Le palpebre socchiuse, Tuan cercò d'identificare la forma indistinta che si stagliava contro il cielo. Ma, prima ancora che avesse il tempo di pensare, un lampo l'abbagliò. Ne individuò facilmente l'origine: veniva da una delle loro imbarcazioni che scarrocciava ai piedi di un promontorio a forma di uccello. «Ah, i colleghi hanno visto qualcosa!» esclamò con soddisfazione la guardia Hiep, mentre catturava un raggio di sole con uno specchio di bronzo per deviarlo verso la barca vicina. Via via, il messaggio luminoso fu trasmesso, tessendo in aria un filo dorato. E fu così che tutte le guardie furono all'erta quando, emergendo lentamente da dietro un'isola vicina al loro posto d'osservazione, la sagoma elegante di una nave dalle ali di farfalla si profilò contro il blu profondo
delle onde. «Capisci ora perché non bisogna mai dubitare del Mandarino Tan, maestro di noi tutti?» disse laconicamente la guardia Hiep, un sorriso sulle labbra. Con movimento sincrono, le barche dei pescatori conversero sulla giunca che era appena apparsa, mentre l'imbarcazione dai colori mandarinali che trasportava il capo della polizia Ky aggirava pacatamente una sporgenza rocciosa, le vele incannicciate spiegate come una bandiera. La nuca appoggiata dolorosamente alla parete, il Mandarino Tan stava di fronte a Dinh, intento a esaminare le bende che gli coprivano tutto il busto. Il dottor Porco aveva fatto un buon lavoro, come al solito. Dopo aver applicato un cataplasma emostatico sui tagli vivi, aveva coperto le ferite con bende pulite discorrendo allegramente sui rischi d'infezione. Fuori, il sole calante sommergeva di luce ambrata i tetti circostanti, e il Mandarino sentì tutta l'impotenza del suo stato, così costretto a letto. La notte precedente sembrava lontanissima, e tuttavia il corso delle cose era cambiato in modo irreversibile. «La signora Libellula avrebbe dovuto fare la macellaia. Taglia a meraviglia la carne fresca e dissangua particolarmente bene» disse il letterato in tono d'apprezzamento. «Per tua fortuna passavo di lì per caso, altrimenti saresti soltanto un altro pezzo di carne fredda sul banco del dottor Porco, adesso. Per attaccarti a quel modo, quella donna diabolica deve averti letto nel pensiero mentre ragionavi sul balcone del conte». «La ritroverò e la punirò per l'omicidio del conte Diem e di...» Il nome gli restò incastrato in gola, ed egli distolse gli occhi. Quante volte, mentre fluttuava tra lucidità e incoscienza, aveva rivissuto la scena che era costata la vita alla signora Aconito? Cos'era successo tra il momento in cui lui aveva perso conoscenza la prima volta e quello in cui la giovane lo copriva col suo corpo? Indovinava, senza esserne totalmente sicuro, che lei gli si era buttata addosso per salvarlo dall'arma micidiale della signora Libellula. Cos'avrebbe potuto fare per evitare quella tragedia? La sua ultima domanda aveva distolto l'attenzione della giovane dal disco che arrivava su di loro per ucciderli? In cuor suo, sapeva che non era così. Ma perché - non smetteva di domandarsi - perché quella donna, pur disprezzando il confuciano che lui era, aveva sacrificato la sua vita? Perché salvare il magistrato che l'avrebbe condannata a morte per tutte le sue malefatte? Il letterato Dinh, rendendosi conto che nelle pupille dell'amico sfilavano
fantasmi, intervenne: «Non mi hai detto come hai dedotto che la signora Libellula avesse ucciso il conte Diem. Certo, l'elenco delle merci dell'eunuco Clemenza ti ha aiutato a collegare il braccialetto con le sette perle e il calcedonio bianco incastonato alla costellazione del Gobbo e alla Luna, ma quale punto determinante ti ha permesso d'incriminare quella donna?» «Grazie alla lettura del diario del conte, sapevo che quell'insieme di gioielli doveva rappresentare i vari corpi celesti. In particolare: un piccolo globo di cristallo per il Sole, un disco metallico per la Polare, sette perle per il Gobbo e un calcedonio per la Luna. Tuttavia, pareva che in questa serie ci fosse un intruso: il disco di metallo... tutti gli altri elementi sono sferici, forma ideale per raffigurare degli astri. Ma è vero che mi mancava un indizio per trasformare questa intuizione in prova inconfutabile. È stata una conversazione con Hsiu-Tung a fornirmelo. Se quegli oggetti dovevano servire da talismani per i discepoli dello Shangqing, bisognava che fossero così piccoli da essere ingeriti, perché è inghiottendo quegli oggetti che gli adepti compiono l'unione con l'universo». «Effettivamente, il disco è troppo grosso per passare in una gola di normale costituzione» concesse Dinh. «Ma ciò significava che la collezione non era completa». «Esattamente! Ora, rammenta la persona che ci ha assicurato che il disco era il Germe di Metallo...» «La signora Libellula, al momento della scoperta del cadavere del conte! Ma perché attirare la nostra attenzione su quel punto?» Il Mandarino Tan si massaggiò il torace che lo straziava. «Per metterci su una falsa pista. In realtà, era tornata sul luogo del delitto per ricuperare l'arma che aveva perso la sera prima». Poiché il letterato Dinh aggrottava le sopracciglia cercando di seguire le spiegazioni dell'amico, questi sviluppò la sua analisi. «Ricorda il cerchio di metallo attaccato a un filo scuro che era immerso nella pozza di sangue. La moglie dell'eunuco, cercando dappertutto il disco che poteva essere un indizio rivelatore per la polizia, vede in esso un mezzo eccellente per mascherare la verità: dato che è impossibile nascondere l'oggetto, bisogna mostrarlo sotto una falsa luce. La vedova del conte ha appena rivelato che sono stati rubati dei gioielli: l'Orbe di Fuoco e il Germe di Metallo. La signora Libellula, che è incontestabilmente sveglia, capisce che è giunto il momento di insinuare il suo indizio menzognero. Grazie al filo attaccato al disco, questo può passare per una collana, tanto più
che il suo nome suggerisce un oggetto metallico. La signora Alga, uscita nel frattempo con l'eunuco, non può contestare la sua versione dei fatti». «Tu presumi che fosse lo stesso filo impigliato nell'albero. Ma quello del disco era bruno, mentre il filo trovato era bianco». Il Magistrato agitò l'indice fissando l'amico. «Non fai attenzione ai particolari, Dinh. Ho detto che il disco era immerso nel sangue che stava seccando. È stato questo a colorare il filo originalmente bianco. Non riuscivo, per l'appunto, a spiegarmi come si fosse potuta rubare una sola collana quando tutt'e due dovevano penzolare allo stesso modo sopra il vuoto, allorché il conte si è sporto dal balcone. Immagino che entrambi i pendenti siano caduti nel giardino e che il vero Germe di Metallo fosse una goccia di giada bianca o qualcosa di simile, tale da rappresentare la Polare». «E sia» ammise Dinh, convinto. «Nondimeno c'è ancora qualcosa che mi sfugge. Su cosa ti sei basato per stabilire il legame tra il conte, adepto dello Shangqing - era chiaro grazie al suo diario - e la signora Libellula? Nulla dice che avessero la stessa fede». Il letterato si raddrizzò sulla sedia e incrociò le gambe. Pensava di aver fatto una domanda spinosa, ma il suo amico gli dette rapidamente la risposta. «Perché le guardie hanno tardato tanto a trovare il diario del conte? Perché era nascosto nel soffitto della stanza. Ora, quando l'ho esaminato la notte scorsa, ne ho riconosciuto i motivi perché li avevo già visti altrove... nella stanza di meditazione della signora Libellula. I chiodi d'argento disseminati sul soffitto nero disegnavano delle costellazioni che favorivano l'ascesa degli adepti durante le sedute di meditazione. Del resto, è stato durante la mia visita in casa sua che sono stato intossicato dalle erbe che lei faceva bruciare. Mi pareva di sorvolare dei globi in fiamme, così come il conte durante le sue trance». «A torto credevi di essere stato avvelenato dalla signora Aconito» gli ricordò Dinh. Il Mandarino fece una smorfia. In effetti era stato ingiusto verso di lei. «Questi taoisti sono pronti a tutto per effettuare le loro passeggiate estatiche» fece osservare il letterato. «Tra Hsiu-Tung che consuma droghe a oltranza e la signora Libellula che inala fumi a piene narici, l'accostamento è presto fatto». «Figurati che il fatto che fosse taoista mi ha confortato nell'idea che si fosse servita di un filo utilizzato in genere per gli aquiloni».
«Spiegami come la mia piccola indagine - condotta molto velocemente e brillantemente riuscita - ha potuto illuminarti su questo punto» disse Dinh, per il quale la visita al mercante di tessuti era stata una vera e propria gita di piacere. «Gli aquiloni sono appannaggio dei taoisti che vedono nel volo lo scopo ultimo della loro contemplazione. Spesso a forma di uccello, gli aquiloni erano al centro degli esercizi di meditazione degli antichi taoisti: lasciando scorrere il filo, l'adepto permette alle sue fantasticherie di fuggire verso le nuvole e, compensando continuamente i salti del vento, egli acquisisce un'agilità che gli fa cavalcare il vento, secondo i termini del Tao. È grazie a questa pratica che la signora Libellula è diventata così abile nel lancio dello strumento assassino legato a un filo». A quel punto, Dinh formulò un'obiezione che trovava molto pertinente: «Se la memoria non m'inganna, anche Mo-Tzu era appassionato di aquiloni, tanto che ne ha anche fabbricato uno. Sapendo che la signora Aconito era una discepola del maestro Mo, cos'ha fatto si che tu propendessi per la signora Libellula?» «Sapevo che la moglie dell'eunuco aborriva il contatto perché le avevo sfiorato inavvertitamente la mano. Lei era arretrata con tanta precipitazione da farmi concludere che non le piaceva essere toccata. Ora, l'assassino del conte aveva agito a distanza, anziché introdursi nella sua stanza, la cui porta si poteva forzare facilmente. Soltanto la signora Libellula poteva agire in quel modo indiretto che le evitava il contatto con la vittima». Dinh tirò su col naso per far capire che assentiva, poi cercò ancora una volta di spingere a fondo la logica del Mandarino Tan. «Ammettiamolo» concesse. «Se ho afferrato tutto, la signora Libellula sa che suo cognato è in possesso dell'Orbe di Fuoco e del Germe di Metallo. Ma come ha saputo dell'esistenza delle perle e dell'anello?» «Suo marito eunuco gestisce le entrate e uscite dal porto, e in qualche momento deve aver accennato all'ordinazione del fratello» spiegò il Mandarino in tono paziente. «Lei ha fatto immediatamente l'accostamento con i talismani che promettevano l'immortalità». «Sì, ma come ha potuto mettere le mani su quei gioielli?» Il magistrato stava per rispondergli quando comparve il capo della polizia Ky, i capelli dritti e la giubba coperta di polvere. Visibilmente senza fiato ma soddisfatto, era reduce da una lunga cavalcata che gli aveva scarmigliato i peli dei baffi. «Mandarino Tan!» disse inchinandosi rispettosamente. «Secondo i vostri
ordini, abbiamo fermato la giunca degli erranti. Li ho buttati tutti in galera, dove marciranno fino al momento del processo. La nave conteneva effettivamente tutto ciò che avevate previsto, e l'abbiamo ricondotta in porto». «Bel lavoro, ser Ky!» approvò il Mandarino con un cenno di assenso. «Mi congratulo con voi e le vostre guardie. La catastrofe potrà dunque essere evitata per un soffio. Come vanno le ricerche della signora Libellula?» «Stiamo ancora cercando la fuggiasca. Suo marito, che abbiamo arrestato come da vostro ordine, ignora dove possa nascondersi. Gli ho già fatto somministrare cinquanta colpi di coda di razza per farlo parlare, e lui è svenuto. Dobbiamo aumentare la dose?» «Procedete pure!» disse, magnanimo, il magistrato, che sentiva le ferite bruciare sotto le bende. «Raddoppiate la razione del nostro losco amministratore! Sarà soltanto un anticipo del castigo che lo aspetta». Il capo della polizia si ritirò, facendo dei movimenti per sciogliersi il polso, come se dovesse infliggere personalmente la punizione. Di nuovo solo con il magistrato, Dinh si voltò verso di lui, le sopracciglia alzate in segno di stupore. «Cos'è questa storia della giunca che hai fatto fermare? Non mi hai raccontato tutto! Dimmi cosa cercavi su quella nave». «Ti ho già spiegato come ho dedotto che la signora Aconito fosse al centro dei furti di stele funerarie e dell'attacco alla giunca dell'armatore Phung. Restava da capire perché aveva bisogno delle pietre tombali e delle merci della nave. Cosa sappiamo della signora Aconito?» Squadrò il letterato che si sfregava il mento con espressione pensosa. In capo a un momento, Dinh dichiarò: «Era una moista che non amava molto i confuciani retrogradi e mentalmente rigidi... insomma, questa almeno era la sua opinione». «Bene» convenne il Mandarino con una certa freddezza. «Era indubbiamente discepola di Mo-Tzu e, come tutti i seguaci del Maestro Mo, appassionata di scienza e di tecnica. Ma, oltre a questa dimensione intellettuale, aveva un altro credo altrettanto importante. Tu stesso mi hai detto che Motzu era un sognatore che difendeva la pace con le armi in pugno...» Dinh sprofondò nella sedia e annui: «La bella vedova era una fautrice dell'uguaglianza e non sopportava che i deboli si facessero sfruttare, cosa che ha dimostrato mettendosi dalla parte degli esclusi» ammise. «Non vedo, però, come avrebbe potuto cambiare questa situazione». Nonostante i tagli che si riaprivano sotto le bende, il Mandarino Tan si
chinò in avanti, la mano alzata. «Riconoscendo di essere una moista convinta, la signora Aconito mi aveva detto, a proposito della conoscenza: Conoscere consiste nell'ascoltare quanto si dice di qualcosa, fare una deduzione a partire da ciò, o una teoria, sperimentarla in se stessi, accordare le parole con la realtà, e agire... Avrei dovuto far attenzione all'ultima parola: agire. Con questa, lei mi annunciava in qualche modo la sua linea di condotta futura. Non se ne sarebbe rimasta con le mani in mano, ma avrebbe compiuto un'azione». A quel punto, Dinh perse il filo. «Un'azione? Un'azione contro chi? Contro cosa?» Lo sguardo che correva verso la finestra aperta che dava sul porto, il Mandarino Tan dette l'impressione di cambiare argomento. «Ho fatto arrestare l'eunuco Clemenza perché faceva uscire dal paese troppe materie prime vitali: oro, argento, salnitro, zolfo. Sperava che le quantità minime che esportava ogni volta sarebbero passate inosservate, ma era chiaro che ledeva il monopolio dello Stato». «Accumulando una piccola fortuna» rincarò il letterato, che provava disgusto per le persone disoneste e avide. «Si tratta di quelle esportazioni di cui si lagnava il dottor Porco durante il nostro viaggio in Cina. Abbiamo parlato più volte dell'arrivo dei mercanti portoghesi, cinesi e giapponesi per spiegare questo stato di cose. Con le agenzie che si stanno impiantando un po' dappertutto, è chiaro che il commercio si svilupperà». Il Mandarino fissò l'amico con sguardo penetrante. «A chi gioverà questo flusso di merci?» «Agli intermediari come l'eunuco Clemenza» rispose Dinh. «E anche ai mercanti stranieri e ai loro popoli più ricchi del nostro, che beneficeranno dei prodotti del nostro paese». «Ciò significa che...» «Il nostro paese si sta facendo saccheggiare!» esclamò il letterato, folgorato dall'evidenza. Balzando dalla sedia, si mise a passeggiare nella stanza, sovreccitato. «La signora Aconito sentiva che le esportazioni iniziali si sarebbero trasformate in emorragia. Sicuramente temeva che tutte le nostre risorse naturali finissero all'estero senza che il nostro popolo ne traesse vantaggio. Tuttavia, cosa poteva fare contro avversari di tale levatura?» Di nuovo, il magistrato eluse la domanda. Puntando il dito verso la foce del fiume, a leghe da lì, disse:
«Rammenta le circostanze del naufragio della giunca. Gli erranti, guidati dalla signora Aconito, avevano piantato delle picche nel letto del fiume, ricostruendo così la scena delle famose battaglie del Bach Dang. Dato che la nostra giovane vedova non faceva le cose tanto per fare, il messaggio che voleva trasmettere doveva essere racchiuso nel simbolo di quei due storici scontri». «La vittoria riportata da un paese su un invasore potente grazie all'astuzia!» esclamò Dinh, abbagliato tanto dalla deduzione dell'amico quanto dall'ingegnosità della giovane. «L'azione che progettava faceva dunque leva su uno stratagemma... Quale?» Addossato alla parete, lo sguardo penetrante, il Mandarino lo lasciò riflettere. Poiché Dinh non apriva bocca, riprese: «Per condurre a buon fine la sua azione, la signora Aconito aveva bisogno di pietre tombali e di un prodotto che figurava sull'elenco delle merci rubate dalla giunca: il salnitro. Ora, tu sai che il salnitro genera una combustione violenta, dato che entra nella composizione della polvere nera usata dai militari». «Intendeva far esplodere una specie di bomba?» domandò Dinh, incredulo. «Meglio» rispose il Mandarino Tan. «Contava di zavorrare una giunca con le stele funerarie, che sono di peso considerevole, e imbottirla di salnitro...» «Perché la deflagrazione partisse dai lati, e non verticalmente!» continuò il letterato con un sussurro. «La battaglia di Anversa evocata da Hsiu-Tung durante il nostro viaggio alla foce del fiume!» «Ho interrogato Hsiu-Tung in proposito... era il particolare che mi mancava la notte scorsa, prima dell'attacco della signora Libellula. Egli ha confermato che questo episodio storico era stato oggetto di molte conversazioni con la giovane. Lei cercava di ottenere informazioni sulla carica di salnitro e sul peso delle pietre necessarie all'operazione». Il piano della signora Aconito apparve a Dinh in tutto il suo micidiale splendore. Ma restava una domanda. «Come sapevi che bisognava intercettare la giunca degli erranti oggi?» Incrociando le braccia sul busto che lo torturava, il Mandarino Tan buttò li in tono sobrio e sicuro: «Perché stasera arriva la nave portoghese che deve riportare Hsiu-Tung in Europa».
Ritto sul ponte, il berretto mandarinale in testa, il magistrato osservava l'effervescenza che regnava sulla caravella portoghese pronta a salpare. Come una colonna di formiche, i portatori andavano e venivano, le spalle cariche di casse di spezie e di seta. Con voce gutturale dalle intonazioni brusche, un marinaio lusitano abbaiava ordini e faceva ruotare i muscoli, dirigendo i coolie verso la stiva già piena di merci esotiche. Le vele quadre di prora suscitavano la curiosità del Mandarino, abituato alle vele incannicciate delle giunche a tre alberi. Aveva sentito dire che la molteplicità degli alberi, permettendo una velatura imponente, conferiva una grande manovrabilità alla nave. Sapeva che i portoghesi erano commercianti temibili e avidi esploratori: dopo aver impiantato agenzie nelle Indie nel secolo precedente, negli ultimi sessant'anni si erano insediati in Cina e in Giappone. A quando la volta del Dai Viet? La signora Aconito aveva visto giusto predicendo uno sfruttamento sfrenato delle risorse naturali del paese da parte delle potenze straniere? Se lo domandava esaminando la caravella dal ventre colmo di erbe aromatiche, di legno locale e di metalli preziosi. «Eccomi finalmente pronto al grande viaggio!» disse una voce al suo fianco. Voltandosi, il Mandarino notò la presenza di Hsiu-Tung, il cui incarnato sembrava ancora più pallido alla luce del mattino. Contrariamente al suo solito, non portava i suoi ammennicoli sgargianti di broccato tempestati di pietre. Nella sobria tonaca da gesuita, sprigionava una giovinezza piena di serietà e di abnegazione. I capelli rossi scarmigliati e la barba fiammeggiante, indicò quattro bauli malandati che prendevano la via della stiva, portati da coolie con le schiene lucenti di sudore. «Ecco i miei effetti appena imbarcati. Se non altro, sono sicuro di non dimenticare niente». «Evidentemente, non avete intenzione di affidare il vostro libro nero alle mani muscolose dei marinai» fece osservare il Mandarino indicando col mento il libretto che il prete stringeva al petto. Il francese fece un sorrisino imbarazzato e arrossì. «Ehm, so che bisogna aver fiducia nell'umanità ma, davvero, tengo molto a questo manoscritto. Alcuni diranno a ragione che è un peccato d'orgoglio». In silenzio, contemplarono la caravella e la giunca mandarinale che l'avrebbe seguita fino al largo. «Siete sicuro di voler accompagnare la caravella fino alle ultime isole?» domandò il gesuita. «In fondo è soltanto una nave mercantile».
Il Mandarino si voltò verso il prete e sorrise. «Ma parte con un amico» precisò con un'alzata di sopracciglia. «No, vi scorterò fino all'Isola della Tartaruga, che ci ha visti parlare sotto il cielo stellato. È il minimo che posso fare». Dopo un lungo momento durante il quale il suo sguardo vagò sulla terra, alla ricerca di un punto conosciuto al di là delle colline, il gesuita squadrò il Mandarino Tan. «Mi avete raccontato la storia della signora Aconito. Pensate che sia morta invano?» «Lo ignoro, in verità. Guidata dal suo eccessivo senso della giustizia, probabilmente ha visto le cose un po' troppo nere. Siamo stati dominati così a lungo dalla Cina imperiale che ciò ci aiuterà sempre a diffidare dei paesi dagli appetiti troppo voraci, e questa diffidenza sarà forse la nostra salvezza». «Ma considerate l'attuale congiuntura, Mandarino Tan. Portoghesi, olandesi, italiani e francesi s'interessano da vicino all'Oriente. Con il pretesto di agenzie o missioni, hanno già un piede in casa vostra. Cosa farete quando la pressione si farà sentire? Come accoglierete questa apertura verso altri mondi, che vi svelerà nuovi orizzonti, mettendo forse il vostro paese a nudo? Saprete fare i distinguo necessari, per trarre beneficio dalle influenze arricchenti senza purtuttavia rinunciare al vostro patrimonio?» Il Mandarino Tan rifletté a lungo. Il prete non aveva torto. Con la dinastia dei Ly che mostrava segni di palese debolezza, come si sarebbe evoluta la situazione negli anni a venire? Approfittando di un potere barcollante, le fazioni guidate dai signori Trinh del Nord e dai principi Nguyen del Sud dilaniavano già il paese, rendendolo vulnerabile in quanto diviso. Lui conosceva troppo bene gli interessi personali e i tradimenti politici per sottovalutare la fragilità di un impero smembrato. «Cosa cercate di dirmi, Hsiu-Tung?» domandò piantando gli occhi nelle pupille chiare del prete. «La signora Aconito è morta per salvarvi. Perché pensate che si sia sacrificata?» Sconcertato dalla domanda, il Mandarino batté le ciglia. Ma, prima che potesse rispondere, un'esclamazione gioiosa interruppe il colloquio. «Ah, eccovi!» esclamò Dinh, avvicinandosi con la sua casacca tagliata ai confini della Cina, cui aveva tolto il colletto in pelle di leopardo. «Che bella giornata per imbarcarsi! Spero che il vostro ritorno avvenga in buone condizioni, Hsiu-Tung».
Il tono decisamente allegro e il volto ridente non riuscivano a nascondere le ombre che turbinavano nello sguardo del letterato. «Non ne dubito affatto» disse il prete con un sorriso. «Sono sopravvissuto quattro anni sotto i climi aspri e umidi della Cina e del Dai Viet, e ormai i tifoni asiatici mi sono familiari come le tempeste bretoni!» Sulla caravella, un piccolo portoghese dalla faccia scolpita e dalla fronte bassa agitò le braccia, segno della partenza. I coolie, torcendo il busto per distendere i muscoli, scendevano dalla nave scherzando, contenti d'aver terminato il loro compito, mentre un gruppo di marinai si accingeva a salpare l'ancora. I tre uomini si guardarono scambievolmente, la gola serrata. «È dunque la fine della nostra strada insieme» dichiarò il gesuita in tono impercettibilmente alterato. «Vorrei rinnovare ancora una volta i miei ringraziamenti per la vostra calorosa accoglienza, e per quella che oso considerare la vostra amicizia». S'inchinò, e per l'ultima volta il Mandarino posò lo sguardo sulle minuscole macchie rosse disseminate sulla sua pelle smorta. «Che la vostra vita sia lunga e prospera» rispose restituendogli il saluto. «Siamo stati onorati della vostra visita, Hsiu-Tung» disse con voce strozzata Dinh, per il quale le separazioni erano sempre state dolorose. E si voltò per non mostrare la sua pena. Fu così che Hsiu-Tung salì sulla caravella e il Mandarino Tan, affiancato da Dinh, s'imbarcò sulla giunca mandarinale. Le vele furono issate, spiegandosi con grazia contro l'azzurro del cielo, mentre i guidoni dai colori mandarinali si agitavano al vento. Lentamente, la caravella si diresse verso la foce del fiume, seguita da presso dalla giunca. Costeggiarono così le rive verdeggianti e superarono villaggi da cui i bambini osservavano ammirati le navi che se ne andavano maestosamente verso il mare. Quel tragitto lo avevano fatto insieme via terra, durante la lunga cavalcata verso il luogo del naufragio che sembrava già lontanissimo nella loro memoria. Appoggiato al bastingaggio, il letterato riprese la conversazione avviata il giorno prima. «Tan, non mi hai ancora detto come la signora Libellula era riuscita a mettere le mani sul braccialetto e sull'anello che facevano parte della collezione da lei bramata». «Durante la mia visita alla sua stanza di meditazione, la signora Aconito è entrata all'improvviso. Vedendomi, ha fatto per andarsene, ma la signora Libellula, che non era tutta in sé per via dei fumi già inalati, l'ha interroga-
ta a proposito di un sacchettino che l'altra teneva in mano. Imbarazzata, la signora Aconito ha risposto che conteneva la chiave della prigione e si è girata per uscire. La moglie dell'eunuco, però, è stata più veloce di lei: lanciata la cintura, ha imprigionato il polso della signora Aconito che, controvoglia, le ha gettato il sacchetto prima di andarsene». «Certo, ma non rispondi alla mia domanda. Cosa c'entra la chiave della prigione?» «È la risposta alla tua domanda, per l'appunto» disse il Mandarino Tan. «La signora Aconito aveva appena consegnato i gioielli alla moglie dell'eunuco. Lì, sotto il mio naso. Notando la mia presenza, ha cercato di ritirarsi, ma l'altra, sotto l'influsso della droga, non si rendeva conto della situazione e parlava a vanvera. Ciò non toglie che, nonostante il suo stato, lei ha serbato un'estrema abilità nel lanciare la cintura... e ciò suggeriva che era in grado di maneggiare il filo di seta con un virtuosismo micidiale». Il letterato Dinh si volse allora verso l'amico, le sopracciglia alzate in segno d'incomprensione. «Ma come ha fatto la signora Aconito a entrare in possesso dei gioielli in questione?» «Non scordare che era l'istigatrice dell'attacco alla giunca. Ora, chi c'era a bordo? Due sue prigioniere, trovate morte, trafitte da coltellate». Il Mandarino fece una pausa e ripensò ai cadaveri esaminati dal dottor Porco. «Ciascuna presentava due ferite all'interno delle cosce, ossia in totale otto tagli: sette per le perle e uno per l'anello». «Come? Quelle donne portavano dentro la carne le famose gemme?» esclamò Dinh, sconvolto. «Non avrei mai pensato che la signora Aconito fosse capace di tanta crudeltà!» «Hai ragione, la giovane non era responsabile di simile barbarie. Rammenta: quelle prigioniere erano state in fuga per due mesi prima di tornare in prigione febbricitanti e stremate. Le piaghe avevano avuto il tempo di cicatrizzarsi, ma i corpi estranei avevano indotto in loro una grande stanchezza». «Ma chi...» Chinandosi sul bastingaggio per ammirare le ondine bianche generate dalla prora della giunca, il Mandarino proseguì: «L'immondo progetto è germinato nel cervello dell'eunuco Clemenza. Egli aveva intercettato i gioielli ordinati dal fratello e probabilmente aveva
pensato di rivenderli all'estero. Ho letto sul diario del conte che quest'ultimo continuava ad aspettare quelle parure che secondo Clemenza non erano ancora state spedite. Ora, esse figuravano sull'elenco delle merci in entrata. Dunque Clemenza aveva mentito al fratello». «Ma perché usare quelle donne come ricettacoli?» disse Dinh, nauseato da una simile pratica. «Essendo l'amministratore della prigione, per l'eunuco era facile proporre a delle prigioniere la libertà in cambio di questo servizio. Del resto è stato lui a firmare i documenti d'uscita delle prigioniere, adducendo il pretesto che la loro febbre costituiva un pericolo per gli altri detenuti. La giunca doveva depositarle sull'Isola delle Tombe, dove sarebbero state liberate del loro carico interno e rilasciate». Dinh inspirò profondamente, traducendo in immagini l'infame maneggio che aveva portato alla morte delle donne. «Però, non capisco come la signora Aconito sia riuscita a scoprire questa macchinazione. L'eunuco l'aveva messa al corrente?» «Niente affatto! Tuttavia, in qualità di guardiana della galera, lei esaminava da vicino i prigionieri per controllare che non nascondessero armi. E così facendo aveva scoperto gli otto bubboni nelle due donne. La sua mente sveglia ha tratto subito le conclusioni, tanto più che la signora Libellula le aveva probabilmente parlato del braccialetto e dell'anello cui aspirava per la sua immortalità». «Quest'ultima sapeva dunque che suo marito aveva sottratto i gioielli del conte?» Il Mandarino fece un gesto vago. «Anche se non ho prove tangibili, ne sono sicuro, perché lei era al corrente dei suoi traffici, avendo partecipato spesso ai banchetti d'affari». «Dunque, aveva intenzione di raggirare il suo stesso marito!» disse Dinh, nauseato dalla turpitudine di quella donna. «La cosa non mi stupisce, d'altronde, dato il suo carattere ambizioso e crudele». «Fatto sta che gli erranti avevano il compito di estrarre le gemme dalle cosce delle prigioniere durante l'attacco. Ma, evidentemente, qualcosa è andato storto e, presi dal panico, hanno abbandonato le donne che sono morte dissanguate». «Triste fine» commentò il letterato. «Ora capisco perché ti stupivi quando la signora Aconito non ha confessato che le prigioniere avevano dei bubboni. Probabilmente temeva di fornirti un indizio decisivo». Gli occhi fiammeggianti, il Mandarino assentì vigorosamente con il ca-
po. «Farò in modo che l'eunuco Clemenza sia punito in proporzione alla sua perfidia». Intanto, erano arrivati alla foce del fiume. Davanti a loro, il mare era costellato di scogli, come il dorso crestato di un drago sommerso. La caravella portoghese si diresse verso l'Isola della Tartaruga che era l'ultima porta prima dell'alto mare. Seguendola da presso sulla giunca, il Mandarino vide la zazzera splendente di Hsiu-Tung che girava in ogni senso, come per abbracciare un'ultima volta con lo sguardo quell'immensa baia cosparsa d'isolotti forati dalle grotte. Il giorno prima, andando a vedere le spoglie della signora Aconito nella sala fredda, aveva sorpreso il prete inginocchiato davanti al corpo disteso. Il capo chino, borbottava parole indistinte... probabilmente le preghiere per colei che non ne aveva mai recitate. Osservandolo non visto, il Mandarino Tan si era chiesto quali sentimenti albergassero nel cuore del francese, i cui occhi erano stranamente fissi sul volto immobile della giovane. Cosa vedevano, dunque, quelle pupille color pioggia, quando si posavano sulle spalle forti drappeggiate di trecce morte? A lungo, aveva contemplato l'amico prostrato davanti a quella donna che era pronta a uccidere per difendere una causa; poi si era ritirato in punta di piedi. «Cosa sarà di Hsiu-Tung nel suo paese?» mormorò Dinh, pensoso. «Gli auguro un'esistenza pacifica tra i suoi. Non è forse vissuto a lungo separato da loro? Forse il suo libro conoscerà un successo insperato, e servirà a tessere dei legami tra Oriente e Occidente, come lui si augura. Da parte mia, gli sono infinitamente debitore perché mi ha sollevato un angolo del velo che nascondeva quei paesi, così lontani da sembrare irreali». «E dire che durante il vostro soggiorno nell'Isola della Tartaruga, io lottavo in un buco contro la schiena del nostro amico dottor Porco» rammentò non senza rancore il letterato, che vedeva sfilare le cale tappezzate di sabbia bianca e lambite dalle acque turchesi. «A ciascuno le proprie gioie» riassunse laconicamente il Mandarino Tan. Stavano per superare l'isola dalle scogliere che s'innalzavano verso il cielo. Era l'ultimo sussulto del drago minerale rannicchiato negli abissi prima del mare limpido che si stendeva davanti a loro. Cavalcando le onde che fuggivano verso l'orizzonte, il vento del largo già si caricava del profumo dei viaggi e dell'avventura. Al di là della misteriosa curva, quante terre dalle fragranze nuove e dai rilievi singolari aspettavano la caravella?
Voltandosi, i capelli al vento, Hsiu-Tung alzò la mano in segno di saluto. E crollò. Saltando dal promontorio, una sagoma si era appena lanciata nel vuoto con un urlo stridulo da gelare il sangue, le pieghe della veste che sbattevano come uno stendardo. Le braccia lungo il corpo, cadde come un'aquila uscita dalle nuvole, piombando sulla caravella che passava lì sotto. Un attimo prima di colpire l'acqua, la sagoma dispiegò un filo di seta abbisciato e lo scagliò verso il ponte della nave. S'inabissò tra le onde nel momento in cui, concentrando la luce del sole sulla sua superficie metallica, il disco scintillante colpiva il bersaglio. «Hsiu-Tung!» esclamò il Mandarino Tan, impallidendo sotto l'abbronzatura. «Raggiungete la caravella!» Manovrando con abilità, imprigionando il vento nelle vele incannicciate, i marinai tentarono di portare la giunca all'altezza della caravella. Il tempo parve interminabile al Mandarino Tan, che vedeva le onde rompersi con una lentezza impossibile e gli spruzzi lanciati verso gli scafi immobilizzarsi in volo. Quando la giunca accostò finalmente alla caravella, il magistrato scavalcò il bastingaggio e saltò. L'acqua bianca di spuma fluiva tra le due navi, mentre egli si tendeva nel balzo, tutte le ferite del corpo che si riaprivano come tagli nuovi. Atterrò in posizione accovacciata sul ponte da cui si levavano urla di panico, e si precipitò sul corpo disteso del prete che dei marinai tentavano di rianimare. «Hsiu-Tung, mi sentite?» domandò all'amico, stringendolo al petto. Sotto le sue dita, il sangue schizzava, sfuggendo inesorabilmente dal taglio spalancato sul collo. Invano applicò una pressione sulla ferita, troppo profonda e troppo vasta. Il gesuita aprì gli occhi e sorrise, smarrito. «Si direbbe che non rivedrò più la mia Bretagna natale, dopotutto. Potreste spedire il mio quaderno nero in Francia, perché i miei fratelli possano leggerlo?» Tossì, espettorando un fiotto di sangue. «Non temete» disse il Mandarino che tremava a verga a verga. «Ma non parlate tanto; il dottor Porco arriverà e chiuderà questo brutto taglio. Sarete di nuovo in piedi tra una settimana e porterete voi stesso il quaderno in Europa». Non credeva nemmeno lui a quelle parole, lo sguardo fisso sulla pozza di sangue che non finiva di allargarsi. «Mandarino Tan» disse il gesuita aggrappandosi al suo braccio, la voce più flebile di un sospiro. «Avete capito il messaggio della signora Aconito?»
Il Magistrato sussultò e guardò l'amico. «Sì, Hsiu-Tung, ho colto il senso del suo pensiero». Il gesuita sorrise di nuovo e annuì. Poi il Mandarino Tan vide le sue pupille impallidire e prendere il colore delle nuvole. Le labbra serrate per reprimere il dolore, il magistrato si raddrizzò. «Portatemi qui la signora Libellula, viva o morta!» berciò, una venuzza che gli pulsava minacciosamente sulle tempie. Gli uomini si tuffarono in acqua, sondando i flutti alla ricerca dell'assassina che aveva colpito un'ultima volta. Giunto al fianco del Mandarino, le gote terree, Dinh gli annunciò la notizia: «Il libro nero è caduto in acqua». Nonostante le assidue ricerche, i marinai furono incapaci di localizzare il corpo della giovane, che aveva colpito la superficie dell'acqua a una velocità vertiginosa. «Dev'essere morta sul colpo» mormorò Dinh, cercando di consolare l'amico. «Era dunque questa la sua vendetta contro colui che aveva compromesso il suo sogno di vita eterna». In piedi in coperta, il Mandarino lo sentì appena. Il viso rivolto alla costa, guardava le colline color smeraldo le cui pieghe costituivano i contrafforti di montagne lontane, e il fiume che si gettava in quella baia dove sonnecchiava un drago. Illuminate dalla luce abbagliante del mattino, le sue scaglie affioravano rompendo la superficie in mille goccioline rutilanti. Nella sua mente sconvolta, il Mandarino vide passare contadini a dorso di bufalo, pescatori con le nasse piene, bonzi in tonaca color zafferano, nascosti dietro veli d'incenso, che si recavano nei templi millenari. Nelle sue orecchie ronzanti echeggiarono la triste melodia di un flauto suonato in una notte di plenilunio e la canzone d'amore di una donna che aspetta lo sposo, seduta su una stuoia di giunco. Allora, per lo spazio di un momento, la signora Aconito venne al suo fianco, lo sguardo attraversato da lucori dorati e le trecce sibilanti al vento. Un magico profumo di caprifoglio aleggiò sul mare, e lui capì. Quella donna aveva dato la sua vita perché lui, Mandarino imperiale investito di poteri ufficiali, vegliasse su quella che era la loro terra e la preservasse dalle bramosie future. Ascoltando il rumore dell'acqua rotta dalla prua, il Mandarino Tan ebbe la sensazione di sentire uno strepito d'armi e di prediche portate sulle spalle dal vento. Per il momento il paese era al riparo. Ma per quanto tempo ancora?
APPENDICE All'epoca in cui si svolge questa storia, il Vietnam si chiama Dai Viet. Il potere si trova simbolicamente nelle mani della dinastia dei Le, insediata nella capitale Thang Long (l'attuale Hanoi). Cominciano però a farsi sentire le influenze straniere: il porto di Fai Fo (oggi Hoi An) accoglie mercanti portoghesi, poi giapponesi e olandesi, tutti attratti da prodotti esotici quali la seta, la ceramica, l'avorio, la cannella, il legno d'alce... E sarà sempre Fai Fo a vedere l'arrivo dei missionari francesi che introdurranno il cattolicesimo in un paese imbevuto di tradizioni confuciane, buddiste e taoiste, operando così cambiamenti culturali che non saranno privi di conseguenze. I raffronti tra la condizione della scienza in Cina e in Occidente, registrati da Hsiu-Tung, sono stati ispirati dagli studi di Joseph Needham, che ha messo in luce l'apporto della Cina alla scienza universale. Con un approccio storico che stabilisce le date delle prime innovazioni teoriche e tecniche - dall'astronomia alla matematica, passando per l'arte dell'ingegneria e le pratiche agrarie -, egli studia la diffusione delle idee e la migrazione dei procedimenti. Il libro nero del gesuita potrebbe essere l'origine ideale del volume Scienza e società in Cina di Joseph Needham (Il Mulino, 1973) o The Genius of China di Robert Temple (Simon & Schuster, 1989). È interessante notare il notevole anticipo dei cinesi nel campo delle osservazioni astronomiche: essi studiavano e annotavano scrupolosamente il passaggio delle stelle-scopa (comete), come pure le altre anomalie celesti quali le occultazioni e i meteoriti. Gli astronomi cinesi avevano già osservato le macchie solari nell'anno 165 prima della nostra èra, e documentato l'arrivo della stella-ospite che si era invitata nel firmamento nel 1054 per splendervi in tutta la sua luce per alcuni mesi. Nel 1942, si capì che quell'evento corrispondeva all'esplosione della supernova che dette origine alla nebulosa del Granchio. La composizione e gli effetti della Polvere nera di Maestro Hu sono studiati nei particolari in L'Aconit et l'Orpiment di Frédéric Obringer (Editions Fayard, coll. «Penser la médecine», 1997), che tratta delle droghe e dei veleni nella Cina antica e medievale. La teoria dello Shangqing è sviluppata da Isabelle Robinet in Storia del
taoismo: dalle origini al quattordicesimo secolo (Ubaldini, 1993). I rimedi evocati dal dottor Porco provengono da Phuong Phap Bao Che và Su Dung Dông Duoc di Pho Duc Thanh, Van Duc Dôn e Trân Minh Châu (Edizioni Y Hoc, Hà Nôi, 2000), che dà conto della medicina tradizionale in Asia. Gli oggetti esotici che fanno sognare Dinh trovano la loro origine in The Golden Peaches of Samarkand di Edward H. Schafer (University of California Press, 1963). La pelle di salamandra è un tessuto d'amianto, materiale noto in Oriente da duemila anni per le sue straordinarie proprietà ignifughe. Tengo a ringraziare Murielle Rambert e Jo per la loro lettura critica del manoscritto. FINE