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PATRICK LYNCH LA POLIZZA (The Policy, 1998) Ringraziamenti Vorrei ringraziare le seguenti persone per il loro generoso aiuto: Michele Van Leer della John Hancock Mutual Life Insurance Company, Robert Ryan della Boston Mutual Life Insurance Company e Joseph Thompson della New England Mutual Life Insurance Company per avermi spiegato alcune questioni e avermi mostrato come funziona il loro settore; Agnes Bundy della Fleet Bank di Providence per le sue riflessioni sulla vita a Rhode Island; dr. Rupert Negus e d.ssa Helena Scott per il loro aiuto sugli aspetti genetici e medici della storia; e la rifugiata attuaria Cathy Gibaud per avermi convinto che tutto questo potrebbe effettivamente accadere. 13 DICEMBRE La neve andava alla deriva nei canaletti di scolo, mulinando e scivolando sulla strada scura. La prima neve della stagione, bella asciutta, come sabbia bianca. Il taxista tossì e si chiuse la giacca a vento fino al mento. «Cinque sotto zero», disse come se qualcuno gliel'avesse chiesto. «Vento da nord-ovest. Direttamente dal Polo». Rannicchiato nel sedile posteriore, Michael Eliot si strinse nel cappotto. Avrebbe dovuto indossare qualcosa di più pesante. Era stato in casa tutto il pomeriggio per fare un lavoro in cantina, cercando di finirlo prima che il padre di Margaret arrivasse per il weekend e gli dicesse dove stava sbagliando. Non pensava di dover uscire. Ma un'ora dopo cena era suonato il telefono. Era Harold Tate. Dovevano vedersi subito, disse. Qualcosa che non poteva aspettare. E doveva essere nel suo ufficio. Non aveva detto perché. «Cinque sotto zero», ripeté il taxista. Spostò leggermente il riscaldamento con la mano aperta. «Ghiaccio dappertutto». Erano le dieci e mezza e le strade di stile europeo dell'East Side erano vuote. I bambini del Brown erano tornati a casa per le vacanze - unica
traccia della loro festa un festone di luci colorate appeso all'ingresso del Wriston Quadrangle. Alla radio una voce allegra annunciò che adesso c'era il 76 per cento di probabilità di avere un bianco Natale nell'area di Providence, come se questo fosse quello che tutti speravano. Mentre scendevano dalla collina verso Benefit Street, Eliot non poté fare a meno di pensare per un momento a ciò che significava in realtà un bianco Natale: gli incidenti automobilistici, le gambe rotte per le cadute, i vecchi morti di polmonite e di ipotermia, per non parlare dell'occasionale pattinatore inghiottito dal ghiaccio e delle case in fiamme che non sarebbero state raggiunte in tempo. Da qualche parte in azienda avevano i dati precisi. Il dipartimento attuariale aveva i dati precisi su tutto, e il direttore li conosceva quasi tutti a memoria. Eliot sapeva solo che un bianco Natale significava una valanga di assegni, perché li avrebbe compilati il suo dipartimento. E ogni assegno era una vita. Attraversarono il fiume alla fine di College Street e seguirono i viali di granito diretti a sud, verso la statale. Nubi di vapore salivano da una striscia di case basse sulla Friendship, oscurando il gruppo di edifici alti illuminati che passavano per essere il distretto finanziario. L'autista sembrava nuovo del mestiere. Continuava a chinarsi in avanti, scrutando fuori dal parabrezza come se non riconoscesse la strada. Una cartina stradale giaceva aperta sul sedile di fianco a lui. Eliot si chiese se conosceva la strada. L'ufficio di Tate era a sette miglia di distanza, a Warwick, ai confini di un parco tecnologico industriale, vicino al Kent County Memorial Hospital, aveva detto. Eliot non c'era mai stato prima. Sperava che non avrebbero dovuto fermarsi a chiedere informazioni. Voleva arrivare. Voleva sapere di che cosa si trattava. Venticinque anni prima lui e Harold erano stati compagni di stanza al college, e per un po', quando Eliot si era trasferito a Providence, si erano invitati a vicenda alle feste. Ma questo non avveniva più. Eliot doveva ancora incontrare la nuova moglie di Tate, Suzy. Tate l'aveva conosciuta al lavoro, dove lei era stata assistente di laboratorio per un po'. Apparentemente Suzy non legava molto con le signore dell'East Side. Metteva troppo rossetto e mostrava troppo le gambe - così almeno aveva sentito dire. Forse Harold aveva dei problemi con Suzy, pensò Eliot. Forse era per questo che l'aveva chiamato. La voce di Tate l'aveva colpito, era strana, addirittura tremante. Sembrava che avesse bevuto. Magari Suzy aveva preso e se ne era andata via. Margaret aveva sempre detto che non sarebbe durata, che Suzy era solo alla ricerca di una sistemazione. Una ragazza come
lei non si sarebbe mai innamorata di un uomo come Harold. Lei era vistosa e superficiale, lui tranquillo e riflessivo - un biologo, santo cielo. Forse era tutto qui il problema: una crisi domestica. Forse voleva solo parlare un po'. Non erano più molto amici, ormai, ma Harold aveva davvero degli amici? Non era mai stato il tipo gregario, e Wickford era tutt'altro che una metiopoli piena di vita. Forse non c'era niente di cui preoccuparsi, in fondo. Forse non aveva niente a che vedere con i test. La neve incominciava ad attaccarsi quando raggiunsero l'uscita dieci. A un miglio di distanza, l'aeroporto era una nuvola di arancio-sodio aggrappata al terreno. Tra qualche ora l'avrebbero chiuso. All'uscita dalla rampa oltrepassarono una macchina della polizia ferma al bordo della strada, con le luci rosse e blu che giravano silenziosamente. Una Pontiac era ferma poco più avanti, con una fiancata contro il guard-rail. L'autista, una donna, era in piedi alla luce dei fari, con le braccia strette al petto, e guardava i danni come se non riuscisse a credere ai suoi occhi. «Avrebbe dovuto mettere le gomme da neve», disse il taxista scuotendo la testa. «La gente aspetta sempre di rischiare di ammazzarsi. Credono che gli incidenti capitino solo agli altri». L'edificio della Medan Diagnostic era un blocco anonimo di mattoni scuri a due piani, con finestre rettangolari rientrate e un ampio cortile vuoto. Come la maggior parte degli edifici della zona, era circondato da un'alta recinzione di ferro, ma il cancello principale era aperto e non sorvegliato. Tate in persona era in attesa nell'atrio. Eliot lo vide attraverso le porte di vetro, che passeggiava lentamente in su e in giù, con ancora indosso il camice di laboratorio. Pagò il taxista ed entrò. Tate fece del suo meglio per apparire allegro, offrendogli un cordiale benvenuto e stringendo la mano di Eliot come se si trattasse di una normale visita tra amici. Ma quando vide l'espressione sul volto di Eliot, il sorriso sparì. «Mike, mi dispiace per tutta la...». «Non dovrei essere qui, Harold», disse Eliot gettando un'occhiata alla guardia in uniforme dietro al bancone dell'ingresso. «Oh», Tate chiuse la porta, «non preoccuparti per questo, santo cielo. Il mio ufficio è proprio quaggiù». L'interno dell'edificio era tipicamente high-tech, con mobili tubolari a colori vivaci e fotografie ingrandite di vita microscopica sulle pareti bianche. Eliot seguì Tate in silenzio.
«Che notte terribile», disse Tate. «E dicono che peggiorerà ancora». Tate aveva quarantasei anni, uno meno di Eliot, anche se tra i due sembrava di gran lunga il più anziano. La sua barba corta aveva più di una traccia di grigio; e benché avesse ancora molti capelli, la sua fronte alta era profondamente segnata da rughe, come la pelle fragile intorno agli occhi. Se avesse avuto un po' più di colore sulle guance, sarebbe facilmente passato per un uomo di mare. L'aspetto di Eliot era più fine, la sua struttura più signorile. E aveva amichevoli occhi castani che davano un'ingannevole impressione di vulnerabilità. Era una cosa a cui in particolare le donne reagivano positivamente. Camminarono lungo un corridoio illuminato dal neon, con porte gialle sulla destra che mettevano in una serie di uffici privati. Un paio di porte rosso brillante sulla sinistra segnavano l'ingresso ai laboratori. Attraverso i pannelli di vetro, Eliot scorse tavoli, lavandini, il terminal di un computer e scaffali pieni di bottiglie e beute. Sotto uno dei pannelli si leggeva un cartello: PERICOLO DI CONTAMINAZIONE INDOSSARE MASCHERINA E GUANTI «Eccoci», disse Tate digitando un codice e aprendo una delle porte gialle. «Come sta Margaret, a proposito?». Eliot non rispose subito. Si chiedeva a che diavolo di gioco giocasse Tate. Aveva paura di essere spiato? E da chi? A parte la guardia all'ingresso, l'intero luogo sembrava deserto. «Bene», rispose cautamente. «Come sta Suzy?». «Oh, bene. Non vede l'ora che arrivi Natale. Adora questo periodo dell'anno, soprattutto quando nevica. È davvero una bambina in questo». Tate chiuse la porta dell'ufficio. L'ufficio era ampio, con tavolini e armadietti lungo due pareti e una scrivania in fondo. Piante maculate, cartellette, tazzine di caffè e pacchi di fogli da computer si contendevano lo spazio su tutte le superfici. Una finestra dava sul posteggio e quindi su un terreno scuro che Eliot ritenne un parco o un campo da gioco. «È per lei, Harold?». Tate parve confuso. «Chi?». «Suzy. Avete dei problemi o...». «No, no. Grazie a Dio, no. Perché...». Sembrò riflettere meglio sulla domanda, poi indicò una sedia di fianco alla sua scrivania. «Prego, Micha-
el, siediti. Mi dispiace se... È venuta fuori una notte terribile. Forse dovremmo bere qualcosa. Che ne dici?». Eliot si tolse il cappotto e sedette. Era una cattiva notizia. Per forza. Una cattiva notizia per lui. Guardò i mucchi di fogli da computer sulla scrivania di Tate e all'improvviso non volle saperne di più. Non ancora. «Ero in cantina», disse. Si guardò le mani. Erano ancora sporche di vernice. «Cercavo di finire un lavoro. Sai, sono in ritardo di quasi un anno. Avrebbe dovuto essere finito in primavera. Pensavo di assumere dei professionisti - non sono un tuttofare, lo sai - ma è incredibile quello che costano. Solo per imbiancare e rifare l'impianto elettrico. Lasciando perdere i pavimenti». Tate gli porse un bicchiere di whisky e sedette alla scrivania. «L'altro giorno un tizio ha sparato quindicimila dollari. E... be', lo sai». Tate fece un sorriso forzato. «Mi sembrano un sacco di soldi». Eliot annuì e prese un sorso. Inghiottì. Ci fu un silenzio imbarazzato. Poi Tate aprì una delle cartellette che aveva sulla scrivania. Altre stampate. Carte verdi e bianche, a strisce orizzontali. La cartelletta aveva scritto sopra STRETTAMENTE RISERVATO in lettere rosse. «Michael, mi dispiace trascinarti quaggiù in questo modo, ma non sono riuscito... non sono riuscito a pensare a un altro modo. Non vogliamo che Margaret sia... E casa mia è ancora più lontana. Ho pensato che fosse meglio qui, dove posso spiegarti tutto. Dove nessuno ci interromperà. Così possiamo parlare bene di tutto. Considerare tutte le opzioni». Lo stomaco di Eliot si contraeva spaventosamente. Il whisky bruciava. «Parlare di tutto cosa, Harold?». «Be'...». «Gli esami? I test?». Poi Tate incominciò improvvisamente a parlare. «Voglio un altro campione del tuo DNA, innanzitutto. È essenziale fare un secondo test, per essere sicuri di quello che stiamo osservando. Voglio prenderlo immediatamente. Ho tutto pronto in laboratorio. È per questo che dovevamo vederci qui, capisci? Non ne saremo sicuri finché non avremo fatto un'analisi completa per la seconda volta. Naturalmente, di solito non ci preoccuperemmo. Ma di solito... si pensa agli affari. Questo è un caso diverso. Tu sei un amico, Michael». Eliot guardò per terra. Aveva una spiacevole sensazione di leggerezza. Non voleva fare altre domande. Che fosse il dr. Harold Tate a gestire la cosa. Era il suo maledetto test, la sua tecnologìa. «Comunque, nel frattempo, è giusto che tu sappia quali sono i risultati al
momento». Prese la cartelletta e incominciò a sparpagliare i fogli sulla scrivania. Poi si fermò, trattenendo i materiali con le mani aperte come se temesse che potessero volare via. «Mi dispiace, Michael, ma temo che quello che abbiamo scoperto sul cromosoma quattro non sia bello. Non sia bello per niente». Due ore e mezzo più tardi, Eliot stava risalendo verso l'East Side. Tate gli aveva offerto un passaggio, ma aveva finito per bere più scotch di Eliot e non era in condizioni di guidare. Non ha senso rischiare la pelle per risparmiare una corsa in taxi, aveva detto Eliot, e Tate aveva scosso la testa e si era guardato le scarpe. Diventava svenevole quando era ubriaco. Eliot se ne era dimenticato. Svenevole ma affettuoso. Eliot ripensò ai loro giorni al college e non sembrava che fosse passato un quarto di secolo. Si sforzò di pensare a quello che aveva fatto in venticinque anni, a tutte le cose che gli erano capitate in quel tempo. Ma, a parte pochi punti di riferimento, sembrava che non ci fosse altro che una nebbia grigia: anno dopo anno, vissuto senza niente che lo caratterizzasse, neppure dei bei ricordi. Aveva perso troppo tempo. La neve non cadeva più. Il vento si era fermato e, alte sopra la cupola bianca del palazzo comunale, Eliot credette di poter vedere le stelle. Forse dopo tutto l'aeroporto sarebbe rimasto aperto. Questa volta il taxista era un nero, poco più che quarantenne, con un collo da toro e ispidi capelli grigi. Non aveva detto niente da quando avevano lasciato Warwick. «Mi dica una cosa», disse Eliot. L'autista guardò nello specchietto, impassibile, probabilmente stanco. «Che cosa farebbe se scoprisse di avere solo pochi anni da vivere? Diciamo, quattro o cinque anni? Solo quattro anni, magari, e tutti i soldi di cui ha bisogno?». L'autista grugnì, mezzo divertito, mezzo sprezzante. Si fermarono a un semaforo sul Memorial Boulevard. Un camioncino solitario attraversò loro la strada diretto verso la città bassa. «Di quanti soldi sta parlando?», disse alla fine. «Tanti. Senza problemi». «Senza problemi? Come dire un milione di dollari?». L'autista guardò verso l'East Side. Era la zona bene della città, certo con tutte quelle vecchie case rivestite di bianco e quella grandeur da Ivy League - ma non una zona da milionari. Neanche lontanamente.
«Cinque milioni. Dieci milioni. Dieci, se vuole». Il semaforo diventò verde. Il taxi girò lentamente a destra, una ruota slittò per un attimo mentre toccavano il marciapiede. Il taxista sogghignò. «Eh, se avessi dieci milioni di dollari, lo so io che cosa farei». «Me lo dica», disse Eliot, tenendo gli occhi puntati sullo specchietto. «Farei esattamente quel cavolo che voglio». Margaret aveva lasciato accesa la luce fuori dalla porta d'ingresso, ma il resto del piano terra era immerso nel buio. Eliot gettò le sue chiavi nella tazza di legno di rosa ed era a metà dell'ingresso quando sentì la sua voce dal piano di sopra. «Michael? Michael, sei tu?». Stanchezza. Rimprovero. Con una sfumatura di rabbia. Probabilmente stava dormendo. Uno scricchiolio del pavimento bastava a svegliarla, e in questa vecchia casa tutte le assi del pavimento scricchiolavano. «Sì, sono io». «Che ore sono?». Lo sapeva, che ore erano. Ma voleva che glielo dicesse lui. «Le due». Non aveva voglia di parlare. Non ora. Non con lei. «Problemi. Dati persi. In ufficio. Ho dovuto fermarmi finché non li abbiamo risolti». «Vieni a letto?». Eliot andò ai piedi della scala. «Devo fare ancora qualcosa. Arrivo tra un minuto». Poteva vedere la sua ombra sul muro del pianerottolo. La sentì sospirare. Poi l'ombra sparì. Andò nel suo studio e si lasciò cadere dietro alla scrivania. L'alcol gli ronzava ancora nella testa, ma stando seduto lì, nella semioscurità, circondato dagli oggetti fin troppo familiari della sua vita - libri che non aveva mai letto, foto che da anni era stufo di vedere, vecchi mobili adatti a una vecchia casa - incominciò a sentire una strana sensazione di distacco, di calma. Non c'era niente, qui, che lo trattenesse. Aveva pensato mille volte di cambiare vita. L'aveva sognato. Il mondo aveva tante cose da offrire, oltre a una vista dal nono piano, alla tetra bonomia aziendale, a cinquanta ore alla settimana dietro una scrivania. Aveva sognato di buttare via tutto e ripartire da capo. Ma non aveva mai fatto niente, almeno niente di serio. Aveva avuto paura delle conseguenze, paura che se rompeva le regole gliel'avrebbero fatta pagare. Prima o poi.
Mise una mano nella giacca e tirò fuori il piccolo fascio di documenti che si era ficcato in tasca. Erano stampate di computer: strisce orizzontali verde chiaro e bianche, come quelle nell'ufficio di Tate. Eliot le spiegò. Su ciascuna pagina c'erano colonne di numeri e lettere. Uno dei numeri sulla prima pagina era stato cerchiato di rosso. C'era stato un momento, nell'ufficio di Tate, in cui le cose erano diventate improvvisamente chiare, improvvisamente aveva saputo quello che voleva. E in quel momento aveva capito che doveva agire rapidamente. Perché qualcuno si sarebbe sentito molto infelice quando l'avesse saputo. Tate era uscito dall'ufficio per pisciare, già mezzo ubriaco. Era stato allora che Eliot aveva preso una delle sue cartellette e rubato le stampate. Naturalmente, era solo questione di tempo prima che Tate notasse che mancavano. Avrebbe sommato due più due e avrebbe capito chi le aveva prese. Ma allora sarebbe stato troppo tardi. Inoltre, una volta erano stati buoni amici. Forse avrebbe capito. Eliot ripiegò le analisi e le mise nell'ultimo cassetto della scrivania. Poi guardò l'orologio. Due e mezza del mattino. Questo voleva dire le otto e mezza in Europa. Doveva esserci qualcuno in banca alle otto e mezza. Sollevò la cornetta e fece un numero. Dopo tre squilli una donna rispose. Eliot chiese che gli passassero il settore clienti privati. Per un attimo ascoltò il silenzio elettronico. Poi una voce maschile. Scambiarono poche parole di saluto. Eliot si identificò, poi diede le istruzioni. «Vendete i miei titoli», disse. «Esatto, tutti i dieci milioni». ciao PRIMA PARTE Providence 1 «Duecentotrentanove dollari", disse Ferulli tirando fuori una busta stropicciata dal vano per i guanti. «Non è incredibile?». Alexandra Tynan prese la busta. UFFICIO CENTRALE INFRAZIONI c'era stampato a lettere maiuscole nere sull'indirizzo di Hartford. Tirò fuori la multa e aggrottò la fronte. «Quello scimmione non sapeva neanche scrivere», disse Ferulli. Ma i numeri erano abbastanza chiari. Nella casella della Somma Dovuta c'era scritto: $239. Alex guardò Ferulli e sorrise. «Probabilmente è il tuo
modo di guidare». «Sono arrivato in cima che andavo... non so... a settanta?». «Qui dice settantotto, mister. Il limite era cinquantacinque. Adesso sei a sessanta». Ferulli lasciò andare l'acceleratore. Andavano verso nord sulla I-95, passando attraverso i quartieri industriali a sud di Providence. Era il primo giorno lavorativo dopo Capodanno e c'erano poco più di zero gradi. Si prevedeva neve abbondante per il pomeriggio. «Okay, andavo a settantotto. La strada era vuota. Condizioni perfette. Gesù Cristo. Stavo per superare il confine con il Massachusetts, dove il limite è sessantacinque. Il poliziotto si nasconde dall'altra parte della collina e mentre passo, zam, mi becca con la sua macchina a raggi». Uscirono all'uscita venti, e Ferulli dovette frenare bruscamente per un semaforo rosso. Guardò la donna, cercando giustizia con il suo sorriso da bravo ragazzo. Mark Ferulli aveva circa trentacinque anni, una testa folta di capelli scuri, capelli siciliani li chiamava, e una bellezza da divo del cinema. I suoi occhi ricordavano ad Alex quelli di Al Pacino, occhi senza luce, fermi e indagatori. Quando sorrideva, le piccole rughe li rendevano caldi e simpatici, ma a volte, come adesso per esempio, Alex pensava che erano come quelli di un politico - sinceri, pieni di umanità, ma in qualche modo troppo guardinghi, come se cercassero la reazione giusta o un vantaggio. Sorrise anche lei suo malgrado. Forse era arrabbiato per la multa, ma si vedeva che era anche compiaciuto - certo non troppo preoccupato di essere considerato imprudente. Era proprio lui, la stupidità era il suo campo, ma Alex lo trovava attraente lo stesso. Nel contesto della Providence Life, l'azienda che pagava il loro salario, l'azienda a cui erano diretti ora, l'irregolarità di Mark era come un soffio di aria fresca. «Non dico che non andavo un po' veloce», disse lui. «Ma duecentotrentanove dollari...». Alex batté sul volante con la busta. «Questa macchina si sta rivelando un acquisto piuttosto caro». Doveva ancora scoprire quanto era costata effettivamente. Mark l'aveva salutata la sera di Natale al volante di una Toyota di due anni ed era riapparso a Capodanno su una BMW decapottabile nuova di zecca. Le disse che aveva guidato dal New Jersey con la capote aperta, le gote in fiamme, un sorriso che andava da un orecchio all'altro - come un ragazzino con una nuova bici, aveva detto lui stesso. Alex sapeva che non gliel'avevano regalata i genitori. Il padre di Mark guidava un furgone della DHL e sua madre
inscatolava Oreos per la Nabisco. Il semaforo scattò e Mark accelerò, allontanandosi dall'incrocio con stridore di gomme. «Allora, me lo vuoi dire?», insistette Alex. Lui controllò lo specchietto retrovisore e sorrise. «Dire cosa?». «Quanto». «Alex», la guardò, «possibile che per te tutto si riduca a dei numeri? Ti rendi conto che riduci tutto a dei numeri?». Alex sporse il labbro inferiore fingendosi imbronciata. Sapeva di essere una maniaca dei numeri, per cui non poteva ribattere niente. «Sai che cosa dice George Bernard Shaw degli attuari?», chiese lui voltandosi di nuovo verso la strada. «Persone che conoscono il prezzo di tutto e il valore di niente». «E stato Wilde a dirlo, Oscar Wilde. E parlava dei ragionieri». Mark si strinse nelle spalle. «Attuari, ragionieri, che differenza c'è?». C'era una grande differenza, come Mark ormai avrebbe dovuto sapere. Nei dodici mesi da quando uscivano insieme, Alex gliel'aveva spiegata più che a sufficienza. Per come la vedeva lei, i ragionieri si limitavano a fare di conto, seguendo i loro clienti nel labirinto fiscale, segnalando gli inciampi e dando consigli. Non conosceva molti ragionieri capaci di digerire la matematica della sua routine quotidiana. Calcolo, probabilità, statistiche. Metteva la gente al tappeto. Ecco perché c'erano solo diecimila attuari in tutti gli Stati Uniti. Alex stessa si era diplomata in matematica al MIT e aveva iniziato sognando un lavoro a Wall Street, magari nell'ingegneria finanziaria, come responsabile in qualche dipartimento dove poter mettere in pratica le sue capacità di modellizzazione. Ma le storie di datori di lavoro falliti e spietati l'avevano disarmata. Un'estate di lavoro alla John Hancock di Boston le aveva aperto gli occhi sui benefici del lavoro attuariale: livelli salariali di ingresso vicino ai quarantamila dollari e, dopo cinque anni di duro lavoro, elezione nella Società degli Attuari con rimunerazioni a sei cifre. Ma non era solo la matematica che distingueva gli attuari. Gli attuari erano... Alex guardò il cielo. I suoi occhi riflettevano il grigio sopra di lei. Aveva occhi del colore della pietra bagnata, e ciglia e sopracciglia naturalmente scure - cosa sorprendente in una persona per il resto così bionda. Le sopracciglia si corrugarono leggermente ora, mentre pensava a ciò che rendeva la sua professione diversa da tutte le altre. «La morte», disse dopo un momento.
«Cosa?». Mark premette l'acceleratore per superare il semaforo di Exchange Street. Andava decisamente troppo veloce. Un camion che usciva da una strada laterale si bloccò mentre loro gli sfrecciavano davanti. La morte in tutte le sue forme, pensò Alex, vedendo ora, malgrado i suoi sforzi per espellerlo dalla propria mente, Michael Eliot. Elìot l'aveva baciata da ubriaco sulla bocca alla festa aziendale meno di due settimane prima, e adesso era morto, la sua bocca era chiusa per sempre. Mark la urtò con la spalla. «Dai, tesoro, non prendertela. Stavo scherzando». Alex si chinò in avanti e rimise la busta nel vano per i guanti. «Ammazzerai qualcuno con il tuo nuovo giocattolo», disse con tono neutro. «Devi essere più aperta alle battute», disse lui cadendo nell'accento largo del New Jersey. «A proposito delle quali...». «A proposito di cosa?». «Battute, baby». Si lasciò andare sul sedile, preparandosi all'attacco finale. «Qual è la differenza tra un attuario estroverso e un attuario introverso?», chiese. Senza perdere un colpo, Alex rispose: «Un attuario estroverso guarda le tue scarpe». «Maledizione! La sapevi già!». «Le so già tutte». Il ragazzino comparve dal nulla. Un attimo guardavano la strada sgombra, e l'attimo dopo un ragazzino su una mountain-bike rossa sfrecciò giù dal marciapiede, pedalando come un matto. Mark sterzò, ma era troppo tardi per fare qualcosa. La mano destra del ragazzino colpì il parabrezza e scomparve - un braccialetto o un anello di metallo produssero un suono duro sbattendo contro il vetro. «Gesù Cristo!». Mark frenò, perse il controllo della macchina per una frazione di secondo e si accostò al marciapiede, dove rallentò fino a fermarsi. I clacson suonavano mentre le auto sterzavano per evitarli. Erano miracolosamente indenni. «Gesù!». Alex aveva il cuore in gola. «L'abbiamo tirato sotto?», disse. «L'abbiamo ucciso?».
Senza una parola, Mark scese dall'auto. Alcune persone si erano fermate sul marciapiede, dove c'era un bidone della spazzatura rovesciato su un fianco. Un vecchio indicò una strada laterale e disse qualcosa che Mark non riuscì a sentire. Quando tornò all'auto, Alex si accorse che era molto scosso: il sollievo per non aver ucciso nessuno si trasformava in rabbia. «Gesù. Hai visto che roba? E...». «È stata colpa tua», disse Alex. Tremava, malgrado gli sforzi per controllarsi. «Andavi troppo veloce per... per reagire. Vuoi sempre...». Si mise le mani sul cuore e si stupì di scoprire che non era davvero arrabbiata, ma piuttosto esausta, svuotata. Era la notizia della morte di Eliot. L'aveva sbalestrata. Le sue emozioni non erano quelle giuste. «Stai bene?», chiese Mark. Lui era pallido e aveva gocce di sudore sul labbro superiore, malgrado il freddo. Alex alzò un sopracciglio. «Ma certo, sto solo avendo il mio primo attacco di cuore. Sai, quello che nel trenta per cento dei casi è mortale...». Aspettò che lui rientrasse in macchina. Per un momento sedettero in silenzio, ascoltando il traffico che passava. C'era un graffio sul parabrezza, dove aveva battuto la mano del ragazzino. Alex sperò che non si fosse fatto male. «Mark?». Riscosso dai suoi pensieri, Mark si avvicinò e la baciò su una guancia. Aveva la bocca fredda per l'aria esterna. «Cosa c'è?». «Credi che abbia sofferto?». Per un attimo lui parve confuso. Alex gli strinse la mano. «Michael Eliot, voglio dire. Credi che quando...». Ma non riuscì a finire. Aveva saputo la notizia solo la sera di Natale. C'era stato un terribile incidente pochi giorni prima. Michael Eliot aveva toccato col trapano un filo elettrico mentre montava degli scaffali. Era rimasto ucciso sul colpo dalla scarica. «Ascolta, Alex, io...». Di nuovo Alex gli strinse la mano, cercando di fargli capire che non aveva bisogno di essere consolata. Ed era la verità: aveva conosciuto Michael Eliot solo sul lavoro, mai come amico. Certo non era pronta ad ammettere che, per qualche tempo, aveva pensato a qualcosa di più. In ogni caso non aveva mai fatto niente. Quando Eliot l'aveva baciata alla festa erano passate meno di due settimane, era stata l'ultima volta che l'aveva visto - era rimasta confusa, perplessa. E confusione provava ora, non vero dolore e neppure tristezza. Confusione di fronte al fatto improvviso e defi-
nitivo. «E terribile, lo so», disse Mark. «Solo... ridicolo. Ma non c'è niente da fare». Scosse la testa. «E la vita. Voglio dire, sono cose ridicole che avvengono in continuazione». Alex si tolse una lacrima con il palmo della mano. «Nel cinque virgola sette per cento dei casi, in realtà. Perlomeno se parliamo degli incidenti domestici mortali legati all'elettricità». Mark ammiccò e tentò di sorridere, ma capiva che lei non stava scherzando. Il quartier generale della Providence Life si trovava all'angolo tra la Dorrance e la Westminster, nel cuore della Providence bassa. Come gran parte della città, l'edificio aveva preso spunto dall'Europa - in questo caso dalla ponderosa sobrietà dei palazzi medicei di Firenze. Ma laddove i muri portanti avevano costretto i Medici a fermarsi dopo un paio di piani, qui l'architetto aveva continuato a costruire, aggiungendo piano su piano, fino a raggiungere il dodicesimo, e aveva concluso il tutto con una elaborata decorazione di pietra scolpita. Ronald P. Macintyre amava il vecchio edificio. Era nell'azienda fin dalla grande inondazione del 1938 e, come la targa di ottone che commemorava l'avvenimento all'ingresso, aveva visto tempi migliori. Nel corso degli anni era stato messo un po' da parte dall'arrivo di personale specializzato nelle pulizie, nella manutenzione e della sicurezza, ma era sempre il primo ad arrivare al mattino. I nuovi assunti della ProvLife spesso si chiedevano che cosa facesse Mac in realtà per l'azienda, ma ben presto si stancavano di cercare una risposta - lo si vedeva in tanti posti diversi a fare tante cose diverse - e accettavano che, qualunque cosa fosse, aveva a che fare con la posta, l'aria condizionata e un vecchio ma tuttora funzionante boiler che si diceva fosse in cantina. Quando Alex Tynan attraversò il parcheggio tamponandosi gli occhi, fu proprio Mac che venne alla porta laterale per salutarla. Mise giù la scatola di cartellette che aveva in mano. «Alexandra! Buon an... Ma ti senti bene?». Alex fece del suo meglio per sorridere. «Sei pallida», disse Mac. «Sembra che abbia visto un fantasma». Alex si toccò le guance. Erano calde. «Oh, non so. Io... Io credo che potrei stare meglio». Si soffiò il naso nel kleenex stropicciato e osservò il volto segnato dal
tempo di Mac. Aveva una macchia di fuliggine sulla fronte e una ragnatela sui capelli tagliati alla moda del 1952. Una mascherina di plastica con un pezzo di strofinaccio da cucina pendeva da un elastico intorno al collo magro. Per un attimo Alex pensò di iniziare una conversazione sulla morte di Eliot, ma poi ci ripensò. Non sapeva quanto fosse informato Mac e non se la sentiva di annunciargli una notizia così importante. «Ho rischiato un incidente mentre venivo», rispose. «Niente di serio. Sono un po' scossa». Mac strinse le labbra, scrutandola. «È colpa di quella vecchia macchina», disse. «Ti avevo avvertito della luce di dietro». Mac tentava da anni di persuaderla a liberarsi della sua Camry dell'85. Alex sosteneva che l'auto aveva un valore affettivo, ma la verità era che, con tutti gli altri debiti che aveva, non poteva permettersi di sostituirla. «Non è stata la luce, Mac. L'ho fatta riparare un mese fa. E comunque sono arrivata con Mark». Mac guardò dietro di lei e socchiuse gli occhi vedendo Ferulli, che stava tirando fuori una ventiquattro ore dal baule della BMW. Non gli piaceva Ferulli. Essendo stato a suo tempo un giovane di bell'aspetto, Mac non si fidava dei giovani di bell'aspetto, e aveva visto come si comportava Ferulli con le segretarie nel dipartimento tesoreria. Secondo Mac, Ferulli era troppo amichevole. «Capisco», disse. «Bisogna essere più prudenti che mai con quei gingilli sportivi. Soprattutto con le strade in condizioni così cattive». Questo fu detto a voce alta e chiara, perché anche Mark sentisse, mentre entrava dall'ingresso principale con un brillante buon giorno. Mark sapeva perfettamente come Mac lo giudicava, e reagiva standogli alla larga. Alex guardò la scatola di cartellette, cercando di nascondete il proprio sorriso. «E cosa abbiamo oggi? F?». Nelle settimane precedenti Mac e una banda di studenti magri si erano occupati di spostare le vecchie cartellette dalla cantina e di inviarle e una compagnia di archiviazione di Iron Mountain, Massachusetts. La ProvLife si era informatizzata alla fine degli anni Ottanta e solo adesso stava affrontando il problema dei vecchi documenti cartacei. Era un lavoro lento e sporco, e Mac lo odiava. A peggiorare le cose, l'azienda aveva colto l'occasione per togliere alcuni isolanti di amianto mentre la cantina era in una simile confusione. Uomini seri con maschere che coprivano tutta la faccia andavano avanti e indietro con sacchi di plastica, trattando il materiale come se fossero rifiuti radioattivi e dicendo a Mac e alla sua squadra quan-
do potevano o non potevano entrare. «Magari», disse Mac stizzosamente. «Siamo ancora alla E. Oggi e per il resto della settimana. Da Ebbsworth a Eyot passando per Ewing eccetera eccetera. Vecchie copie-carbone, dossier marci, scatole polverose. E tutto dev'essere caricato. Sarò felice quando sarà finita». «Oh, be'». Alex incominciò ad allontanarsi. Una volta incominciate, le conversazioni con Mac erano difficili da interrompere. Alex sapeva che, per Mac, le chiacchiere occasionali erano la vera ragione per cui veniva al lavoro. Le diceva spesso che una volta i colleghi dell'azienda avevano più tempo. Era diverso, ai vecchi tempi, erano tutti più amici. Alex trovò il settimo piano deserto. Nella cucinetta vicino all'uscita antincendio accese la macchina per il caffè e la guardò per un minuto, mentre il liquido caldo e profumato incominciava a passare attraverso il filtro. Il ricordo del bacio continuava a tornarle in mente. Stava per andare a casa - aveva appena preso il cappotto, in verità - quando Eliot era entrato. Lei doveva aver tradito involontariamente un lampo di interesse, perché si era diretto decisamente verso di lei. E prima di poter reagire, aveva sentito le sue labbra sulla bocca e la raano che l'afferrava alla vita. Ci aveva messo un momento a capire ciò che stava accadendo. E poi lui la stava guardando, sorridente, come se quello fosse un messaggio sufficiente. Come se già si capissero. Era uno sguardo che le aveva già rivolto in precedenza, quando si erano incontrati in ascensore o in corridoio. Alex tornò alla scrivania e spostò qualche carta, lottando per concentrarsi su un lavoro che non era in realtà molto urgente. Le ultime settimane erano state complessivamente per lei un periodo tranquillo. Aveva finito l'ultima serie di esami attuariali a novembre e fino a febbraio non avrebbe incominciato a prepararsi per quelli di maggio. Nel frattempo avrebbe dovuto occuparsi di una serie di dati sulle coperture mediche nell'industria, modificandoli per adeguarli al profilo del cliente tipo della ProvLife. Era una piccola parte di un progetto molto più grande: dopo un secolo in cui aveva offerto solo polizze di assicurazione sulla vita individuali, la ProvLife stava pensando di compiere il grande passo nel campo della copertura medica. Se questo passo fosse stato fatto - e si diceva che la direzione fosse spaccata sul tema - avrebbe rappresentato un enorme cambiamento nelle dimensioni e negli scopi delle operazioni dell'azienda. Nel frattempo si era messo in piedi un progetto pilota, i cui clienti erano i dipendenti della Pro-
vLife e le loro famiglie. Tutti erano stati incoraggiati a partecipare, a iscriversi come avrebbero fatto dei clienti qualsiasi, compilando moduli per la domanda. Il progetto avrebbe dovuto dare all'azienda l'idea delle nuove esigenze amministrative e analitiche. L'unica differenza rispetto alla realtà, oltre al numero di polizze, era che a pagare i premi era la ProvLife. L'uomo incaricato di vendere il progetto all'interno dell'azienda era stato il capo dipartimento di Alex, Randal White. White era l'«attuario illustre» della ProvLife - colui che illuminava laddove ci sarebbe stato il buio. Egli firmava tutte le proiezioni e i programmi di sviluppo dell'azienda, usando nei suoi vari rapporti e studi i dati della stessa ProvLife e del settore nel suo complesso. La ProvLife si vantava della propria abilità nel valutare quali rischi correre e quali evitare - abilità che impiegava nello stipulare polizze di qualsiasi entità, dai 5 milioni ai 25.000 dollari. E poiché la strategia, i prodotti e il marketing dell'azienda si basavano sulla validità delle proiezioni attuariali, Randal White era un uomo di considerevole importanza. Richard Goebert, il presidente della compagnia, che amava fare battute e non si vergognava di ripeterle, affermava che l'azienda non fidava nella Provvidenza, fidava in Randal White. Non sorprenderà sapere che l'influenza di White andava al di là del dipartimento attuariale. Egli era uno dei tre direttori esecutivi, oltre a Goebert, che facevano parte del consiglio di amministrazione della ProvLife. Gli altri due erano Walter Neumann, consigliere legale anziano, e Newton T. Brady, che dirigeva le Finanze. Correva voce nel dipartimento attuariale che quando Goebert avesse deciso di ritirarsi White si sarebbe spostato nel suo ufficio con l'immenso balcone - un balcone papale, si diceva scherzando - affacciato su all'ottavo piano verso la Westminster Street. Sorseggiando il caffè, Alex cliccò sull'icona dell'e-mail e rimase sorpresa nel vedere che c'era un messaggio. Per un attimo ebbe la strana impressione che Eliot avesse potuto inviarle il messaggio dall'aldilà. Si riscosse. Era una sciocca. Quel poveretto era morto. Aprì il messaggio. $$$Cinquantunmila dollari!$$$ Semplice e diretto. Sorridendo e scuotendo la testa, Alex fece il numero di Mark. «Non ci credo». «Non crederci». «Non ci credo davvero».
«Va bene». «Mark, sono un sacco di soldi». «È una macchina che li vale, baby». «Ma... ma...». Le parole non riuscivano a venire. «Non puoi permettertela». «Be', chiaramente posso, invece». Alex sussultò. Non sapeva le cifre esatte, ma pensava che Mark prendesse circa cinquantamila dollari all'anno. Aveva già degli impegni: una casa a Cranston, i mobili dell'arredamento. Più un paio di buone vacanze all'anno - a Mark piaceva la pesca subacquea, per cui dovevano essere ai Caraibi. Non restava molto. «Ma come?». «Dolcezza, te lo sto dicendo da alcune settimane, se tu mi ascoltassi: le cose stanno andando piuttosto bene per me qui nella sala macchine». Per Mark la tesoreria era il reparto in cui la ProvLife faceva davvero i soldi. «Sì, ma...». «Newton è stato molto...». Sussurrò nella cornetta. «Alex, ho ricevuto degli incoraggiamenti». «D'accordo, ma andare a buttare tutti quei soldi per una...». «Non mi ascolti, Alex. Sto parlando di incoraggiamenti concreti». Alex si appoggiò allo schienale della sedia, ascoltando più attentamente. «Che cosa intendi dire?». «Abbiamo parlato di un mio... avanzamento». «Promozione?». «Le iniziali sono V.D.». Le pronunciò come assaporandole una per una. «Vice direttore?». Alex spalancò gli occhi. «Mark, non ci credo. Voglio dire, come è possibile?». Si portò la roano sulla bocca, incominciando a rendersi conto di quello che aveva detto. «Mio Dio. Non voglio dire... non fraintendermi...». Mark rise piano. «Ma è morto solo pochi giorni fa», sussurrò Alex. Il suo cervello mulinava, cercando di attribuire un senso a tutto ciò. Le venne un pensiero orribile. «Mark, quando hai comperato la macchina?». Ci fu una lunga pausa, poi Mark disse: «Subito dopo aver ucciso Eliot, naturalmente». Rise di nuovo. «Dai, non essere ridicola. E la risposta alla tua domanda è no. Non sto prendendo direttamente il posto del morto, ma... Voglio dire, non so che cosa succederà. Dico solo che ho avuto un'in-
teressante colloquio con Newton un paio di settimane fa e che lui ha detto che se si fosse liberato un posto gli sarebbe piaciuto parlare con me di ciò che potrei offrire all'azienda eccetera eccetera. Allora era solo un incoraggiamento, ma adesso...». Le spalle di Alex si rilassarono. «Oh, Mark. Non sei troppo ottimista? Voglio dire, non possono affidarti l'intera tesoreria. Non ancora. È una grossa responsabilità». Ci fu un momento di assoluto silenzio. «Mark, ci sei?». «Ci sono». Alex si chiese se aveva detto qualcosa di male. Non intendeva dire che Mark non era capace di fare quel lavoro. E solo che sembrava così strano. Cercò di alleggerire l'atmosfera. «Be', visto che sei nella corsia preferenziale, posso dire solo: ricordati di firmare per il piano di assistenza medica dell'azienda». «Scusa?». «Penso a tutto lo stress in più che avrai. E a quella maledetta auto. Direi che è una situazione classica per un attacco di cuore». «Se non ricordo male, eri tu quella con l'attacco di cuore». «No, ma verrà. È questione di tempo. Ti consiglio di evitare i cibi troppo salati». «Trovo incredibile che tu abbia così poca fiducia in me». La voce di Mark era tesa, quasi arrabbiata. Il fragile ego maschile. «Be', adesso devo andare». «Mark, io...». Ma era troppo tardi. Aveva riagganciato. Alex lo richiamò. Rispose una voce fredda e vellutata che Alex riconobbe immediatamente come quella di Catherine Pell, l'ultimo acquisto del dipartimento tesoreria. Alex si irrigidì sulla sedia. Catherine era nell'azienda da un mese soltanto, ma tutti sapevano già benissimo chi era. Perfino Brian Slater, l'ultimo dei macinatoli di numeri del dipartimento attuariale, aveva registrato il suo arrivo. Non che fosse particolarmente carina o curvacea, o brillante; ma possedeva una qualità impalpabile che era difficile definire altrimenti che classe. Era nel modo in cui vestiva, si pettinava, si comportava. Vicino a lei, Alex si sentiva una contadina. Si aggiunga che i Pell erano una delle famiglie più antiche e distinte dello stato, e si aveva di fronte una miscela formidabile - a cui certo gli impiegati della Providence Mutual Life Insurance Company non erano abituati. Alex avrebbe solo deside-
rato che la nuova assunta non finisse in una scrivania a pochi passi da quella di Mark. «Mi dispiace, Alexandra», disse la voce. «Mark non è disponibile al momento. È in riunione». «In riunione?». «Con Newton Brady». «Be', se non è troppo disturbo, potresti farmi richiamare?». «Certo». Alex posò la cornetta e la fissò un momento. Si chiese cosa pensasse Mark di Catherine. Aveva mantenuto un silenzio sospetto sull'argomento. Poi si chiese cosa pensasse Catherine di Mark. E cosa avrebbe pensato della sua nuova macchina... Le persone incominciavano ad arrivare. Ci furono molti bisbiglii su Michael Eliot. Alle nove e mezza arrivò una circolare di Goebert che informava tutti ufficialmente dell'accaduto. Diceva che Michael Eliot era stato un abile professionista, amato da tutti i colleghi. «In un modo o nell'altro, noi affrontiamo la morte ogni giorno per ragioni professionali», continuava, «ma quando tocca uno di noi, la sentiamo dolorosamente». Quando Alex chiamò Mark alle undici, fu felice di trovare Kelly Davidson. Era stata a scuola con Kelly, una persona robusta, come si diceva, e una delle poche fumatrici rimaste in azienda. Parlarono brevemente della morte di Eliot. «Dio, non ti immagini com'è quassù», disse Kelly. «E come... come se fosse morto qualcuno. Newton è arrivato stamattina e aveva la faccia bianca, ti giuro. Non l'ho mai visto così tirato. Liz non ha neppure chiamato». Alex si portò la mano alla fronte. Aveva un appuntamento a pranzo con Liz Foster e se ne era completamente dimenticata. «Non c'è?». «No. Catherine sta prendendo le sue telefonate. Secondo me Liz ha sentito la notizia ed è troppo sconvolta. E comprensibile, credo, dato che era la sua segretaria personale eccetera». «Certo. Non avevo... Non mi era venuto in mente». «Tu conoscevi Michael, no? Voglio dire...». «No», disse Alex. «Sai come. Veniva giù solo di tanto in tanto. Io... ancora non riesco a crederci. Non mi sembra vero». «E come un incubo. Uno lavora in una compagnia di assicurazioni sulla vita e muore improvvisamente... Hai letto la circolare del signor Goebert?».
Alex aggrottò la fronte. Kelly tendeva a vedere piani segreti e significati nascosti dietro alle cose. Era una cosa estremamente irritante per chi era pagato per contemplare il caos e imporgli i propri significati verificabili. «C'è Mark?», chiese. «Non, temo di no. È con Newton Brady». «Non è possibile. Ho telefonato un'ora fa ed era già in riunione con Brady. Che cosa stanno facendo?». «Non lo so. È andato e venuto dall'ufficio di Brady tutta la mattina. Neumann è entrato qualche minuto fa. Non so che cosa voglia anche lui». Kelly diceva «Neumann» come se dicesse Il Mostro di Fango della Laguna Nera. Tutti odiavano Neumann. «Va bene. Digli solo che ho chiamato». Alex riagganciò e rimase seduta per un po' a pensare a Mark e a quello che aveva detto. Passarono cinque minuti prima che incominciasse a sentirsi a disagio. Aveva sbagliato a prenderlo in giro. Perché non poteva essere promosso? E adesso era troppo impegnato per rispondere alle sue telefonate. La loro relazione, iniziata un anno prima, andava piuttosto bene, si divertivano, ed erano giunti a una fase in cui incominciava a prospettarsi un passo successivo. Non il matrimonio. Nessuno dei due ci pensava. Alex aveva solo venticinque anni e non si sentiva pronta per il sacramento. Mark, a trentaquattro anni, era abituato a vivere da solo. Alex e il suo gatto Oscar vivevano all'ultimo piano di una casa mezza rovinata sulla Phillips Street a circa un miglio da Brown. Il contratto scadeva tra due mesi e lei poteva rinnovarlo pagando una cifra più alta - una cifra che non poteva permettersi - o dismetterlo. Mark sapeva tutto ciò e da qualche tempo parlava dei pregi di Cranston, spiegava che era diventato alla moda, che era più divertente della sovraffollata East Side. Un'ovvia domanda aleggiava nell'aria: Alex avrebbe dovuto andare a convivere con lui? La scadenza che si avvicinava li aveva spinti ad analizzarsi più attentamente di quanto non fosse stato necessario finora. Inevitabilmente si erano scoperti dei difetti e Alex si era trovata ad assumere atteggiamenti ipercritici, seguiti da ondate di rimorso. Era un meccanismo che conosceva bene. Aveva già distrutto almeno due delle sue relazioni fisse. E ci stava ricadendo di nuovo. «Sembra che ti abbia sconvolto». Era Mel Hartman. Era uno dei nuovi assunti, un mago della matematica che evidentemente si considerava qualcosa di eccezionale. Aveva incominciato a tampinarla dal primo giorno.
«Scusa?». Alex fissò una macchiolina sulla sua cravatta. Tutte le mattine Mel mangiava una crepe all'angolo da Gino. Con molto sciroppo d'acero. E molto burro. Alex l'aveva visto. «La circolare, l'hai vista?». «Certo. Sì». «Adoro le espressioni di cordoglio aziendale. Tu no?». Mel alzò un sopracciglio. Alex capì che avrebbe dovuto apprezzare la fine ironia. Ma non riuscì a sorridere. «Ehi, su con la vita». Alex si alzò in piedi. «Scusami, Mel». Si diresse verso il bagno. Su con la vita. Tutti continuavano a dirle di stare su con la vita. Era davvero così maledettamente cupa? Provò un sorriso allo specchio, un sorriso caldo e pieno di allegria, poi fissò la sua giacca di lana verde. Era una giacca effettivamente poco allegra, bisognava ammetterlo. Se la sfilò e l'appese alla maniglia della porta. Il pullover era grigio e così pesante che le cadeva dal mento alle anche come un blocco uniforme. Eppure sotto non era così male. Un po' magra, forse - Rosemary prima di avere il bambino, scherzava Mark a volte. Pensava a quali cambiamenti poteva fare nel suo guardaroba quando le venne un'idea. Ridacchiò mentre tornava alla scrivania. Su con la vita? Gliel'avrebbe fatta vedere lei, a Mark. Cercò qualcosa nei dati statistici pubblicati dalla Società degli Attuari e ben presto scoprì che il 4,2% delle persone assicurate possedevano macchine spider o coupé. Quattro persone su cento - uomini, naturalmente, per la maggior parte - che prendevano multe per eccesso di velocità e investivano bambini in bicicletta. Incominciò a studiare le statistiche, cercando di mettere in relazione le spider con le morti precoci. Che difficoltà c'era? Hai una spider, guidi troppo veloce, fai un incidente. Tagli la strada ad altre macchine per far svolazzare al vento i capelli della tua ragazza, provochi alla rissa violenta altri ragazzi al bar. Ti spingono fuori strada e ti sparano al cuore. O ti spingono fuori strada e ti ribalti, restando decapitato insieme alla bionda. E poi c'è l'inquinamento. Sei più in basso di tutte le Bronco e le Cherokee e le Ram - esposto all'aria, respiri tutto il piombo. Tumori al cervello, cancri al polmone, per non parlare del sole e dei melanomi, e gli attacchi di cuore per tutti gli incidenti sfiorati. Innamorata dei suoi numeri, Alex procedeva lentamente, controllava e confrontava. Quando i dati dell'azienda non erano sufficienti, entrava in
Internet, nel settore proprietà/incidenti, nei club attuariali, nei gruppi di consumatori, nei produttori. Canticchiando sottovoce, osservava sullo schermo del suo computer una tempesta di casi sfortunati. Tutte le scoperte la rendevano felice. Di coloro che morivano nel gruppo di età di Mark, il 18% erano assassinati. Quasi uno su cinque. Moriva più gente per omicidio che per tumore. Naturalmente il cancro iniziava a colpire duro più avanti, nella curva delle età. Ma nella parte bassa della curva, l'omicidio uccideva più persone di qualsiasi altra cosa, eccettuati gli incidenti d'auto e - Alex sorrise - gli attacchi cardiaci. Secondo gli studi più importanti, gli attacchi di cuore uccidevano una persona su cinque. Questo era un dato sorprendente. Trenta e rotti era presto per morire di infarto. Evidentemente c'era un difetto di costruzione da qualche parte, probabilmente un gene vagabondo. Quelle pompe erano inaffidabili. Alex si rilassò sulla sedia e sorseggiò il caffè ormai freddo. Era ora di entrare nel dettaglio, di concentrare l'attenzione. Spider e attacchi cardiaci. Suonava bene. Le due cose evidentemente erano del tutto scollegate tra loro, ma qui stava appunto il bello. In qualche modo lei avrebbe creato un collegamento, come un mago capace di tirar fuori conigli dal cappello. Per proseguire si rivolse ai dati più dettagliati: quelli della ProvLife sui propri clienti. Li organizzò a seconda delle cause di morte, controllando tutte le categorie per vedere se la percentuale dei proprietari di spider superava il fatidico 4,2%. Questo sarebbe bastato. Se più del 4,2% delle vittime di omicidio possedeva una spider, ciò le avrebbe permesso di sostenere che, secondo i numeri, possedere una spider significava essere maggiormente a rischio di omicidio. E la stessa cosa si poteva applicare alle vittime di attacchi cardiaci. Doveva solo cercare il periodo giusto - un anno, due anni, cinque anni - e la categoria giusta per età e per sesso. Non sarebbe stata la verità, naturalmente. Ma non sarebbe stata neanche una bugia. In quanto ipotesi, sarebbe esistita nella terra di nessuno tra l'insaziabile desiderio delle persone per le informazioni precise e la loro capacità di capirle - una zona stranamente affollata, secondo l'esperienza di Alex. Avrebbe mandato i risultati a Mark direttamente via e-mail. Non si aspettava che si rotolasse sul pavimento. Ma forse scherzando sul proprio lavoro e su se stessa l'avrebbe fatto sorridere e dimenticare quanto sapeva essere sciocca a volte. La cosa si rivelò difficile. Il computer della Central Records sembrava riluttante a seguire un argomento così frivolo. Quando finalmente Alex
riuscì a renderlo disponibile, il risultato fu deludente. Per qualche ragione cioè, senza alcuna ragione - i risultati erano del tutto casuali. Le vittime di tumore avevano qualche probabilità in meno di possedere una spider rispetto all'intera popolazione. Lo stesso avveniva per i suicidi. Le persone che morivano in incidenti aerei avevano qualche probabilità in più di possedere auto sportive, ma ciò non aiutava affatto. Per quanto riguarda le vittime di attacchi cardiaci - la prima scelta di Alex - la loro percentuale coincideva perfettamente con quella della popolazione complessiva: il 4,2% delle vittime di attacchi cardiaci guidava una spider. Aggrottando la fronte, Alex lavorò sul parametro tempo, splittando i dati per anno e risalendo fino a sei anni prima. Una serie di numeri lampeggiò sullo schermo: 4,2%, 4,2%, 4,2%, 4,2%, 4,2%, 4,2%. Dapprima pensò che ci fosse qualcosa che non andava nel suo terminale. Una simile coerenza, anno dopo anno, tra numeri che erano privi di relazione nella realtà era praticamente impossibile in un campo di questa grandezza. Spense e riaccese il monitor più volte, ma i numeri non cambiavano. L'errore era evidentemente suo. Tornò indietro, prendendo nota del database che stava usando, rifece l'analisi da capo. Ma ricomparve la stessa fila di numeri impossibili. Secondo la Central Records, il 4,2% delle vittime di attacco cardiaco tra i clienti della ProvLife possedeva una spider. Alex aggrottò la fronte, tamburellando con le dita sulla scrivania. C'era un difetto da qualche parte nel computer centrale, ma che difetto? Tornò ai suicidi. Nel corso di dieci anni i dati sui possessori di spider cambiavano esattamente come lei si aspettava: 3,1%, 5,4%, 4,0%... «Maledizione». Stava per ricominciare quando suonò il telefono. Era Liz Foster. Alex controllò l'orologio. Dodici e mezza. Il pranzo! Si era immersa nei numeri al punto da perdere il senso del tempo. «Liz, mio Dio. Mi dispiace, Liz!». «Ti dispiace per cosa?». «Il pranzo. Dovevamo andare a pranzo insieme. Mi sono completamente...». «È proprio per questo che ti chiamo. Volevo dirti che non ce la faccio. Non vengo». «Ah, va bene. Va bene. Tu stai bene?». Ci fu un lungo silenzio, poi un suono di pianto. «Liz, tesoro». «Sì, sì. Sono qui. È solo che...».
«Va tutto bene, dolcezza. Capisco». «Cosa capisci?». «Be', di Michael. Dev'essere dura, lavorare così a contatto con qualcuno e poi...». All'improvviso Liz scoppiò in lacrime al telefono - apertamente, in maniera eccessiva, pensò Alex, singhiozzando e cercando di riprendere fiato. «Mi dispiace», riuscì a balbettare. «Mi dispiace tanto. È solo che... è solo che...». Ma non riusciva a continuare. Riprese a piangere. Alex guardò gli altri attuari in ufficio. Erano tutti chini al lavoro. Le venne in mente che Liz poteva essersi invaghita di Michael Eliot. Non era raro che le segretarie avessero intensi rapporti con il loro capo. Lavorare fino a notte fonda in ufficio, cercare di rispettare le scadenze, le mogli che non capiscono le tensioni. Ed Eliot non era il tipo di uomo che scoraggiasse i flirt. Alex lo sapeva per esperienza diretta. «Vuoi che venga a trovarti?», disse. «Davvero... lo faresti? Mi farebbe molto piacere. Ho bisogno di parlare con qualcuno». «Di Michael?». «Di tutto». 2 Donald Grant entrò nella sala delle autopsie come se fosse il padrone. Sgusciò fuori dal cappotto, lo lasciò cadere su uno dei tavoli di acciaio e si sistemò su uno sgabello a un metro da dove Sally Rudnick, medico legale della contea, stava lavorando. Lei alzò la testa e le sopracciglia per rispondere al suo saluto, ma non interruppe la sua tranquilla e monotona registrazione. «...lividore diffuso soprattutto sulla parte posteriorie del corpo. Cianosi assente. Nessun segno di edema periferico. Igiene personale buona». Grant era sui cinquant'anni e aveva un viso giovanile e roseo, con occhi arrossati di un incredibile azzurro fiordaliso. Una profonda cicatrice sulla tempia sinistra faceva pensare che, qualunque cosa l'avesse provocata, avrebbe dovuto ucciderlo. Ci si chiedeva che cosa avessero visto quegli occhi azzurri prima che il loro proprietario smettesse di lavorare nella sicurezza e diventasse l'investigatore capo della ProvLife. In ufficio molti ritenevano che avesse un passato da militare o da poliziotto - di sicuro vestiva come un federale - ma al di fuori del consiglio di amministrazione e della
sua piccola squadra investigativa nessuno aveva mai avuto l'occasione di fare domande. Tutto ciò che si sapeva era che aveva gestito una piccola agenzia di sicurezza nella zona di Boston finché Walter Neumann l'aveva assunto nel 1984. Grant accese una sigaretta e guardò Rudnick che lavorava, osservando le sue spalle strette e i suoi fianchi larghi. Vedeva il piede destro di Michael Eliot, con un cartellino blu attaccato all'alluce. «Mattinata fredda, Sally». «Sì». La testa di Rudnick si chinò ancora un po'. Non le piaceva Grant, e Grant lo sapeva. «Distribuzione del pelo corporeo normale. Pupille rotonde, regolari, uguali e contratte». Si mosse, esponendo un'altra parte del corpo, e Grant si agitò sul suo sgabello. Emise un leggero fischio. «Gesù Cristo», disse. «Cosa c'è?». «Quel tizio è rosolato come un asino allo spiedo». Rudnick si arrestò e bloccò il registratore. Si volse a guardarlo da dietro gli occhiali lucenti da professoressa. «Se non le spiace, signor Grant, io sto cercando di fare il mio lavoro, qui». «Mi scusi. Stavo solo...». Lei tornò al suo lavoro, estrasse una torcia sottile dal taschino. «Quanto dovete pagare?», chiese freddamente, scrutando in uno degli occhi morti di Eliot. «Come dice, Sai?». «Può chiamarmi dottoressa Rudnick. Quanto deve pagare la ProvLife? Sa benissimo che non verrebbe qui se l'azienda non stesse cercando di cavarsela senza pagare». Grant si massaggiò la gola. «Suvvia, Sally. Anch'io sto solo cercando di fare il mio lavoro, come lei». «E questa la tragedia». Diede un lungo tiro alla sigaretta. Faceva freddo nella stanza, ma sempre meno che fuori. Rudnick era di umore particolarmente cattivo. Grant la guardò lavorare e considerò lo spettacolo del morto. Si chiedeva che cosa avessero pensato le ragazze della generosità di Eliot, poi decise che probabilmente per loro non faceva nessuna differenza. Eliot aveva fatto spesso visita all'Holiday Inn dopo il lavoro. Da quando avevano costruito il centro convegni nel cuore di Providence, c'era abbondanza di professioniste. Facevano buoni affari servendo i dentisti e gli avvocati e i venditori, e avevano fatto buoni affari servendo Eliot. L'Holiday Inn era di fianco al centro
congressi. Entrambi a meno di cinque minuti a piedi dal quartier generale della ProvLife. Rudnick esaminò l'interno della bocca di Eliot e continuò a registrare i risultati. Eliot si era morso l'interno della guancia sinistra nelle convulsioni dell'agonia. Un pezzo di tessuto grande come un quarto di dollaro era attaccato solo da un sottile filamento di mucosa. Nel mordere si era rotto un molare. La faccia, Grant lo vedeva, era ancora distorta dal dolore. I muscoli delle guance erano rilevati. Nulla poteva più rilassarli. Grant cercò di immaginare che cosa si provava a essere accesi come un albero di Natale, senza potersi staccare. Rudnick si allontanò di un passo dal tavolo. «Duecentomila dollari», disse Grant con voce neutra. «Polizza standard per dipendenti. I soldi li prenderà la moglie». Rudnick annuì. «Be', potete prendere contatto con i vostri banchieri. Perché questa è una scossa elettrica accidentale». «Già, e come fa a esserne tanto sicura, dottoressa?». Rudnick sbuffò. «Come faccio a esserne sicura? Oh, anni di esperienza. Una mezza dozzina di casi simili. Non si ricorda il tizio dell'anno scorso, il dentista?». Grant si limitò a guardarla fisso. «Dovrebbe ricordarsene. Vi è costato mezzo milione, se non ricordo male. Ha fatto esattamente la stessa cosa. Anche allora lei è venuto a indagare». «Davvero?». Rudnick scosse la testa in segno di disgusto. «Lo sa benissimo. Ma avete dovuto pagare comunque. Perché era un incidente». Sollevò la mano destra del cadavere. «Vede questo segno?». Grant si chinò in avanti e scrutò una zona di pelle giallo-grigiastra gonfia intorno a una lesione secca sul polpastrello del pollice di Eliot. Annuì. «Quello è il punto in cui teneva il trapano. È lì che ha preso la scossa». «Davvero? E lei ha visto il trapano?». Rudnick accennò un sorriso triste con i denti sporchi di caffè. «Naturalmente no. Io mi invento tutto». Indicò dall'altra parte della stanza un ripiano dove si trovava un piccolo trapano metallico avvolto in un sacchetto di plastica. Grant si alzò e si avvicinò. «Quello che non capisco è come possiate essere tanto sospettosi di uno
di voi», disse la dottoressa rivolgendosi alla sua schiena. «Voglio dire, una persona qualsiasi, può darsi - i vostri clienti, le persone che pagano i premi, che vi pagano lo stipendio - naturalmente tentate di fregarli, è così che vivono le compagnie di assicurazione. Ma questo era uno dei dirigenti dell'azienda. Lei lo conosceva, no?». «Certo». «E allora, non le sembra una sorta di cannibalismo?». «Non lo stiamo mangiando, Sally. Stiamo solo assicurandoci... Vogliamo solo essere sicuri che sia tutto regolare. Lo facciamo sempre». Rudnick si mise sui fianchi le mani guantate e si voltò. «Mi sta dicendo che avete ragione di sospettare che volesse suicidarsi?». Grant prese il sacchetto con il trapano. «La sua vita domestica non era felice. Questo lo so». «Che cosa vuol dire, esattamente?». Grant si strinse nelle spalle. Rudnick lo guardò fisso, senza sforzarsi di nascondere il suo disprezzo. «Capisco», disse alla fine. «Be', posso solo dire che, se ci si vuole suicidare, ci sono mille modi più facili». Grant annuì lentamente. «Più facili, forse. Ma non necessariamente così simili a un incidente». Rudnick sospirò. «Sembra vecchio», disse Grant, facendo ondeggiare il trapano verso di lei. «Del 1960 circa. La fabbrica è fallita anni fa. L'isolante era rovinato. Non c'è da stupirsi che sia morto». Adesso aveva in mano lo scalpello e si preparava a fare la prima incisione a Y. «Mi dispiace, Grant. Dal mio punto di vista, la ProvLife dovrà pagare». Ci fu un lungo silenzio. Rudnick prese fiato e lo trattenne. Grant di solito si voltava alla prima incisione. Poteva sopportare i corpi smembrati, ma il primo taglio dalla spalla allo sterno, l'improvvisa rivelazione dell'interno, la violazione del corpo - queste cose lo disturbavano. Ma questa volta rimase. Rimase a guardare mentre Michael Eliot, vice direttore, padre di famiglia, pilastro della comunità e frequentatore di prostitute, perdeva il cuore e i polmoni. Fuori faceva molto freddo. Fiocchi di neve scendevano volteggiando dal cielo grigio. Grant sollevò il bavero contro la gola e cercò la Pontiac. Mentre raggiungeva i'ultimo gradino l'auto apparve e si accostò, fermandosi.
Grant salì e chiuse la portiera. Il semaforo alla fine della strada si era rotto e un vigile dirigeva il traffico. «Com'è andata?», chiese l'autista, un uomo magro con gli occhi infossati e una brutta carnagione. Grant fece una O con indice e pollice. «Perfetto», disse. 3 L'appartamento di Liz si trovava ad appena un miglio dall'ufficio, dall'altra parte della statale. Era una zona di grandi case a forma di scatola, raggruppate in strade poco pulite, senza giardini né davanti né dietro e con finestre che guardavano l'una nell'altra attraverso stretti vicoli sempre scuri. Costruita negli ultimi vent'anni dell'Ottocento per sistemare le numerose famiglie dei professionisti piccolo-borghesi di Providence, era il tipo di zona per cui vengono costruite le tendine e le veneziane. Naturalmente, la nuova piccola-borghesia era ormai diventata la vecchia piccola-borghesia e si era trasferita nell'East Side o nelle periferie, ma Alex non poteva fare a meno di sentire il peso del passato: la pietà consapevole, la sospettosità, il fardello pesantissimo di tutta quella rispettabilità da New England. Era una delle ragioni per cui continuava ad abitare in alto, nelle vicinanze di Brown. L'università emanava un senso di libertà e di apertura che nessuna storia puritana riusciva a estinguere del tutto. L'appartamento di Liz era sul retro di Brighton Street n. 7, una casa tipica che qualcuno aveva dipinto di un colore non tipico: le pareti erano rosa, con porte e finestre incorniciate di rosso. Da lontano, ad Alex ricordava sempre una torta alla fragola di quelle che faceva sua madre. Un pupazzo da bambino appoggiato sul davanzale del primo piano faceva pensare che l'effetto fosse voluto. Alex salì i gradini di cemento dell'ingresso e suonò. In uno degli appartamenti superiori un cane incominciò ad abbaiare. Dall'altra parte della strada un uomo con la giaccavento blu toglieva il ghiaccio dal parabrezza della sua auto, osservandola da sotto il cappuccio di pelo. Dalla telefonata con Liz, Alex aveva pensato molto alla sua relazione con Michael Eliot. Adesso, in piedi davanti alla porta, non poté fare a meno di immaginare la lussuosa macchina di Eliot che svoltava l'angolo, si fermava davanti alla casa, lo stesso Eliot che usciva sul marciapiede, affrettandosi oltre il mucchio di bidoni blu con la scritta RICICLO. Si chiedeva se lui e Liz fossero
mai venuti qui durante la pausa del pranzo, proprio come stava facendo lei adesso. «Alex!». Per un momento, Alex non la riconobbe. Il vestito elegante e i gioielli erano scomparsi, sostituiti da jeans e un vecchio maglione grigio. I capelli di Liz, che di solito erano una elaborata scultura di riccioli, pendevano unti e trasandati. Il volto era teso per la fatica, gli occhi gonfi e infossati. «Liz, mio Dio...». Liz sospirò e si pulì il naso con la manica del maglione. «Scusa, non ho...». Fece un passo indietro. Aveva ai piedi calze da tennis bianche, senza scarpe. «Ho paura di essere un po' in disordine, oggi». «Cosa c'è, cara? Stai bene?». Liz annuì e condusse Alex attraverso l'ingresso male illuminato. Ai piedi della scala c'era un triciclo senza una ruota. «Certo. Mi fa un po' male la testa». «Influenza?». «Glenfiddich». Riuscì a sorridere debolmente. «Ho sempre avuto un debole per le cose buone. Faccio un caffè». Alex la seguì nell'appartamento, cercando di non apparire troppo stupita. Come Liz, la casa era in piena confusione. Il tavolo della cucina era stato spinto vicino alla televisione e in mezzo alla stanza si trovavano tre grandi valige Delsey e una ventiquattro ore di metallo. Tranne la ventiquattro ore, tutto era aperto, gli abiti sparsi per terra. «Scusa il...». Liz indicò disperatamente la stanza. «Non ero... Latte, niente zucchero, vero?». Andò nella cucinetta. Alex sedette sull'orlo del divano, troppo stupita per parlare. Qui c'era qualcosa che Liz non le aveva detto. Sembrava incredibile che pensasse di traslocare senza dire niente a nessuno. «E allora? Stai traslocando?». Liz rise brevemente, in tono ironico. Aveva già le lacrime agli occhi. Stava male - un momento amara, un momento dopo pronta a crollare. «Non so cosa farò», disse dopo un attimo. «Non voglio fare niente. Sembra tutto così... Scusa, Alex, volevo dirtelo. Volevo spiegarti tutto e... e salutarti. Ma non ho potuto. Michael diceva che non dovevo dire niente a nessuno, soprattutto a nessuno dell'azienda». Alex guardò i mucchi di vestiti e si accorse con un sussulto che c'erano cose da uomo mescolate alle gonne e ai vestitini. «Liz, io non capisco».
Liz, sul punto di versare il caffè, si fermò e si guardò la mano sulla caffettiera, come se l'intera operazione di preparare il caffè le fosse improvvisamente ignota. «Da quanto tempo durava?», chiese Alex. «Da quanto tempo durava cosa?». «Tu e Michael». Liz tirò su col naso. «Sarebbe stato un anno e mezzo a febbraio. Ti ricordi? Ero arrivata da poche settimane - dal settore risarcimenti. I diciotto mesi più felici della mia vita». Alzò gli occhi. «Lo amavo, Alex». Poi iniziò a singhiozzare coprendosi gli occhi con le mani e scuotendo le spalle. Alex si alzò e l'abbracciò, tenendola stretta. Rimasero così per un paio di minuti, Liz singhiozzando con suoni bassi e disperati. «Non posso dirlo a nessuno», disse attraverso le lacrime. «Questa è la cosa peggiore. Non posso parlare con nessuno. Diranno tutti che marito devoto e amoroso che era. Su all'East Side. Si stringeranno tutti intorno a quella troia della moglie che non l'ha mai amato - mai, per tutto il loro matrimonio - a confortarla nell'ora del dolore. E io devo stare qui seduta e far finta che non sia successo niente, che la cosa non mi riguardi. Ma sono io quella che l'ha perso, Alex. Sono io quella che l'amava. Nessun altro, nessuno». E riprese a piangere, a piangere sulla spalla di Alex: Liz, la superprofessionale e super-efficiente segretaria che tutti dicevano avrebbe dovuto dirigere il proprio reparto per il modo in cui organizzava tutto. Chi mai avrebbe indovinato che tutta quella professionalità e tutta quella dedizione al lavoro erano dovute all'amore? Al vecchio e tradizionale amore. Alex condusse Liz al divano e la fece sedere. Poi tornò in cucina e versò il caffè, solo per scoprire che era freddo gelato. Si mise a prepararne dell'altro. «Alex, non lo dirai a nessuno, vero? Ti prego, non dirlo a nessuno». «Liz, certo che no. Te lo giuro. Non dirò una sola parola». «Non vale la pena, ormai, capisci? La gente direbbe che voglio disonorare la sua memoria. Direbbero che sono vendicativa, o che voglio dei soldi o chissà che. Parteggerebbero tutti per la moglie». Aveva ragione. Era un po' tardi adesso per rivelare le infedeltà di Eliot. Qualunque cosa intendesse fare Eliot, non aveva fatto niente per legittimare la sua relazione con Liz. La famiglia, l'azienda, il mondo, tutti le avrebbero negato il diritto di piangerlo. Per quanto li riguardava, Liz sarebbe stata solo un imbarazzo - nel migliore dei casi un'espressione della debo-
lezza umana di Eliot, nel peggiore una rovina-famiglie. «E lei... la moglie sa qualcosa?», chiese Alex. Liz scosse la testa. «Non credo. E così chiusa nel suo piccolo mondo. Michael stava per dirglielo, ma poi ha deciso che non era necessario. Potevamo semplicemente abbandonarla e lasciare che lo scoprisse da sola». Alex annuì aggrottando la fronte. Le sembrava che Liz fosse stata un po' ingenua nei confronti di Michael Eliot. Non è forse vero che tutti i mariti infedeli giurano che lo diranno alla moglie? Non è forse vero che tutti fanno piani per fuggire con l'amante in qualche posto bello e lontano dove nessuno li troverà mai? Ma quando si viene al dunque, alla prospettiva di perdere la casa e metà del reddito e la maggior parte degli amici, non è forse vero che tutti decidono che in fin dei conti non possono abbandonare la moglie? Prese le tazze con il caffè fumante e le portò al divano, sedendosi di fianco a Liz. La ventiquattro ore giaceva ai suoi piedi, le valige davanti a lei vicino al caminetto. «Liz, vuoi dire che tutto questo...», indicò le valige, «era già tutto pronto? Stavate davvero per...». «Sì». «Michael stava davvero per lasciare sua moglie?». «Te l'ho detto». Liz la guardò con indignazione. «Cos'è, pensi che mi stia inventando tutto?». «No, no, certo che no. Pensavo solo...». Liz si allungò verso un tavolino e prese un paio di biglietti aerei, mettendoli davanti agli occhi di Alex. «Avevamo già fatto i bagagli. Michael teneva le valige qui perché Margaret non le vedesse. Ancora un giorno e saremmo partiti, davvero». «E dove sareste andati?». Liz guardò la propria tazza come se contenesse il miraggio di un sogno a lungo cullato. «Parigi. Poi il Sud della Francia. Ti immagini? La Costa Azzurra». Alex sussultò. Non credeva alle sue orecchie. Michael Eliot faceva il dirigente in una compagnia assicurativa con un grande volume d'affari, ma scarsi margini, che di fatto pagava meno della media del settore. Dirigeva la tesoreria - esborsi, fondi a breve termine, mercati monetari. Aveva un buon salario a sei cifre e una percentuale sui profitti. In tutto, probabilmente, 200.000 dollari all'anno, secondo Mark. Uno come lui non poteva semplicemente alzarsi e lasciare il paese. L'avrebbero crocifisso. Quando gli
avvocati avessero finito il loro lavoro, sarebbe stato fortunato a conservare gli abiti che indossava. «Lo sapeva qualcuno dell'azienda? Michael deve aver detto qualcosa sulla sua partenza. Non poteva...». Liz scosse la testa con enfasi. «Nessuno lo sapeva. Soprattutto nessuno dell'azienda». Un sottile sorriso si formò sulle sue labbra. «Newton Brady avrebbe dovuto semplicemente entrare nell'ufficio del nono piano dopo le vacanze e trovarlo vuoto. Niente Michael, niente Liz. Questo sì che gli avrebbe fatto venire l'indigestione!». Che Michael Eliot nutrisse sentimenti di astio verso il suo superiore era un'altra sorpresa. Newton Brady era un lottatore che guidava il settore finanziario con un volto perennemente aggrondato, divorando pastiglie di antacide al gusto di frutta tra brevi saluti ai suoi collaboratori. D'altra parte, Alex aveva sentito dire che il direttore finanziario sapeva essere in realtà molto affabile se lo si prendeva da solo, e più di una volta aveva visto Michael Eliot accompagnarlo a pranzo al Federal Reserve o chiacchierare amichevolmente con lui negli atri e nei corridoi di marmo. Tutto ciò, a quanto sembrava, era semplice politica. Ma a che cosa serviva la politica se un giorno avevi intenzione di scomparire nel nulla, lasciando che i tuoi datori di lavoro ti inseguissero per aver rotto il contratto? Non era così che ci si conquistava un seggio nel consiglio di amministrazione. «Che cosa devo fare, Alex? Non posso tornare là. Non posso tornare e riprendere a lavorare come se non fosse successo niente». Alex mise il braccio sulla spalla di Liz. «Nessuno te lo chiederà. Capiranno che eravate... amici, diciamo. Forse sarebbe meglio se prendessi una vacanza. Non potrebbero rifiutartela». «E poi? Tornare come segretaria del prossimo capo della tesoreria? E chi sarà?». Alex pensò di rivelarle la notizia di Mark sull'incoraggiamento ricevuto da Newton Brady, ma decise subito altrimenti. «Non ne ho idea». «Non posso, Alex. Non posso. Non posso neanche tornare in quel posto. Sai, quando sono uscita l'ultima volta, quando sono uscita pensando che non ci sarei tornata mai più, mi sono sentita meravigliosamente. È strano, sai? Non sono mai stata davvero felice là. Sono sempre stata bene. Ma una volta fuori, ho capito improvvisamente che avevo ricominciato a vivere». Alex sorrise, cercando di capire.
Liz alzò gli occhi per guardarla. «So che per te è diverso. A te piace, e stai andando davvero molto bene. Stai facendo carriera, hai i tuoi piani. Ma io sono solo una segretaria, e le segretarie fanno quello che gli ordinano. Io volevo essere libera, Alex». «Sulla Costa Azzurra, eh?». Strinse Liz. «Devo ammettere che suona favoloso. Ma... tesoro, come avreste fatto per i soldi? Come avreste vissuto? Voglio dire, ti saresti messa a coltivare l'orto o cose del genere, ad allevare conigli come in Jean de Florette?». Liz rise, bevve un gran sorso di caffè, si asciugò la bocca con la manica. «Certo, perché no? O garofani, come il contadinello». Rannicchiò le gambe e se le strinse con le braccia. Sembrava una ragazzina che non voleva più affrontare il mondo adulto. «Non so che cosa avremmo finito per fare, ma lui diceva che i soldi non erano un problema. Diceva che avremmo dovuto vivere tranquillamente, stare tra di noi, così che nessuno ci trovasse. Ma avremmo avuto soldi a sufficienza per il resto della nostra vita». «Beh..., è possibile, vivendo abbastanza modestamente». «Non è questo che aveva in mente. Diceva che avremmo preso una barca. L'avremmo tenuta in un posto chiamato Antibes. Un diciotto metri. Abbastanza grande per girare il Mediterraneo. Aveva sempre desiderato una barca. Un paio di volte era andato in segreto a Newport per guardarle». «Una barca?», chiese Alex. «Vuoi dire uno yacht? Uno yacht da diciotto metri?». «Credo di sì. Te l'ho detto. Diceva che i soldi non erano un problema. Che non avremmo più dovuto lavorare». «Mio Dio». Alex guardò i bagagli scuotendo la testa. Poi si irrigidì improvvisamente. «Ma allora... cosa c'è nella ventiquattro ore?», chiese. 4 Alex passò il resto del pomeriggio in stato di shock. Le era impossibile concentrarsi. Si diceva che era una cosa che avveniva continuamente, che le segretarie andassero a letto con i loro capi. Aveva visto un servizio su Cosmo in cui si sosteneva che il diciotto per cento delle segretarie ammettevano di aver avuto una relazione con il loro capo, e un altro venticinque per cento di averci pensato (aggiungendo quelle che non lo ammettevano si arrivava tranquillamente alla metà). Ma per Liz non era la stessa cosa. Almeno, questo pensava Alex.
Alle quattro e mezza Mark la richiamò e si scusò per non aver risposto prima alle sue telefonate. Alex si sentì sollevata scoprendo che non era arrabbiato. Si accordarono per cenare insieme. Alle sei era pronta nell'ascensore. Hemenway era pieno quando arrivò. Si fece largo sulla scala verso il bar e trovò Mark con un paio di tizi del dipartimento finanziario che bevevano martini. C'era una bottiglia sul banco, e sembrava che ne avessero già presi un paio a testa. Ed Bergen, un meridionale dalla parlata dolce che si occupava degli investimenti a tasso fisso della ProvLife, sorrise quando vide Alex che arrivava. «Ecco qualcuno che ci rallegrerà», disse. «Stiamo facendo una piccola commemorazione informale», disse Mark. «Vuoi unirti a noi?». «Io e Michael venivamo qui spesso», disse Bergen quando Alex si fu seduta su uno sgabello. «Era...». Guardò l'oliva in fondo al suo bicchiere e il sorriso scomparve. «Non riesco ancora a crederci». «E stata una giornata terribile», disse Mark alzando significativamente le sopracciglia. Art Reinebeck, un rosso irrequieto che lavorava insieme a Mark nella tesoreria, mise la mano sulla spalla di Ed Bergen. Alex si accorse che Bergen era davvero molto ubriaco. «L'intero dipartimento è sconvolto», disse Reinebeck. «Bisogna superare lo shock emotivo e poi affrontare il problema di chi prenderà il posto di Michael». «Venivamo qui spesso», disse Bergen a nessuno in particolare. «Sì, bisognerà lasciar passare un po' di tempo», disse Mark. «Passerà, comunque», disse Reinebeck toccandosi il naso. «Sarà Drew Coghill a prendere il suo posto». Alex guardò Mark e aggrottò la fronte. «Oh!». «Certo», disse Reinebeck. «Già sostituiva Michael quando luì era in missione. E nel dipartimento da quasi vent'anni. Grand'uomo. E stato lui ad assumermi». «Vent'anni?», domandò Alex controllando l'espressione di Mark. «Già», confermò Reinebeck. «Scommetto che Newt sceglierà Coghill. Dovrà fare alla svelta, comunque. La tesoreria è un posto dove non si possono lasciar andare le cose». Alex ordinò del vino e si rivolse a Mark. «Che cosa ne pensi?», chiese.
«Coghill è okay», disse Bergen. «Solo un po' troppo rigido». Alex aspettò che Mark rispondesse. «I soldi devono essere affidati a Coghill», insistette Reinebeck. Mark si strinse nelle spalle. «Certo. Solo che non so quali siano i piani di Newt». «Un po' tropo rigido», ripeté Bergen trascinando le parole. «Ti ho visto con lui, oggi», disse Reinebeck ignorando Bergen. «Non ha lasciato trapelare niente?». «No, in realtà. È sconvolto come tutti dalla morte di Eliot. Ma come dici tu, Art, dovrà decidere piuttosto alla svelta». «Non è bene che una questione del genere resti in sospeso», disse Reinebeck. «Prima ancora che te ne accorgi, la gente incomincia a farsi delle opinioni». «Male... detta politica», disse Bergen. «Su, su, vecchio mio». Mark batté sulla spalla di Bergen. «Ha ragione, comunque», disse Reinebeck. «Possono nascere delle fazioni. Ma come ti dico, il caso è chiarissimo». «Questo mi sembra fazioso», disse Alex, chiedendosi perché Mark non parlava. Reinebeck sorrise. Poi il sorriso gli si raggelò e tutti si voltarono. Catherine Pell si faceva strada tra la folla che si era formata nel bar, con un bicchiere di vino in mano. Indossava una giacca di tweed molto costosa, dal taglio da amazzone, che le segnava la vita sottile. Sembrava fuori luogo in mezzo a un gruppo di dirigenti assicurativi con i loro vestiti acciaccati da dopo lavoro, o meglio, erano loro che sembravano fuori posto di fianco a lei. «Catherine ha detto che forse ci avrebbe raggiunto», disse Mark. Mise un braccio sulla spalla di Alex mentre Catherine passava di fianco a Ed Bergen. «Catherine, conosci Alex?». Alex strinse la mano che le veniva offerta e fece del suo meglio per sorridere. «Abbiamo parlato al telefono», disse Catherine mostrando ad Alex una fila di denti perfetti. Alex si chiese se erano frutto di alimentazione o di ortodonzia. «Sì,» disse. «Naturalmente». Si accorse che Mark si chinava leggermente in avanti. «Catherine ci ha aiutato oggi con il lavoro di Liz», disse. «A proposito, avete sue notizie?».
Alex distolse gli occhi da Catherine e guardò il volto arrossato di Mark. «Come? Oh, sì. Sì, io le ho parlato all'ora di pranzo. Sono andata a trovarla». «E ammalata?». «Lei...». Alex guardò Ed Bergen. Non aveva ancora deciso che cosa dire su Liz. Si chiese se qualcun altro, tra gli amici di Eliot, sapesse della relazione. «Era quasi sotto shock». Guardò di nuovo Bergen, ma sembrava che lui si fosse perso nei suoi pensieri. «Siamo tutti sotto shock», osservò Reinebeck. «Be', spero che verrà domani», concluse Mark, sforzandosi di sembrare preoccupato. Alex pensò all'aspetto di Liz in piedi all'ingresso - poi vide come in un lampo la ventiquattro ore per terra in salotto. Che cosa c'era dentro? Aveva lasciato Liz a fissarla, abbandonata in poltrona. Mark la prese per un braccio, mentre un cicalino gli vibrava in mano. Hemenway usava questo sistema per avvertire gli avventori quando il loro tavolo era libero. «È per noi», disse. Guardò Bergen e Reinebeck, poi Catherine. «Ci vediamo più tardi». Dalla sua posizione all'estremità del banco, Donald Grant osservò i due giovani che scendevano nella zona ristorante. Tirò fuori il telefonino e compose un numero. La neve volteggiava in raffiche violente su Phillips Street mentre l'uomo con la giacca da sci scura si dirigeva all'ingresso del numero ventinove. Dopo quasi un'ora nel buio gelido, era lieto di riprendere a muoversi. La luce che usciva dalle finestre del piano terreno del numero ventinove era calda e invitante. Attraverso le tendine semplici e pulite vedeva il bagliore dello schermo di un televisore e il volto di una donna anziana con delle cuffie stile anni settanta. Pensò che era sorda oppure cercava una migliore qualità del suono. Comunque fosse, avrebbe facilitato molto il suo lavoro. Controllò la strada alle sue spalle, poi lasciò cadere sui gradini la sacca di nylon. C'erano due serrature: una Schlage circa trenta centimetri sopra la maniglia; e un semplice nottolino più in basso. Tirò fuori il Muletto - un insieme di filamenti d'acciaio, fili di plastica, materiale adesivo e un cuneo - e si inginocchiò davanti alla porta. Gli ci vollero trenta secondi per passare
sotto la porta, raggiungere il nottolino e girarlo. Passò alla Schlage e vi introdusse un grimaldello. All'interno dell'atrio l'aria calda odorava di minestra. Un canto basso e stonato veniva da dietro una porta di pino nuova. Ci mise un attimo prima di capire che era la vecchia che cantava seguendo una trasmissione religiosa che ascoltava in cuffia. Il Signore ama tutti noi. Salì le scale. La Tynan abitava all'ultimo piano. Alex guardava fuori dalla finestra la neve che cadeva fitta fitta sulla striscia nera del fiume Woonasquatucket. Il sindaco Montanelli aveva speso una fortuna per migliorare i lungofiume e i ponti e per mettere lampioni di foggia antica, nella speranza di rendere Providence la Venezia della costa atlantica. Non gli piaceva il modo in cui i turisti passavano lungo la I-95 diretti a Boston, dedicando raramente un pensiero a Providence e spendendo raramente i loro dollari nella sua città. Non era giusto, ecco. Rhode Island poteva anche essere lo stato più piccolo dell'Unione, ma aveva il venti per cento delle località storiche, e Providence faceva la parte del leone in questo campo. Non tutti, in città, avevano approvato la spesa. Tra i dirigenti della ProvLife, alcuni consideravano Montanelli un idiota. Non dicevano niente, certo, ma in privato si chiedevano quanto tempo ci avrebbe messo per mandare la città in bancarotta. Guardando la neve che si posava sugli elaborati lampioni, Alex ripensò alla propria situazione finanziaria. Trattenne un brivido. «Cosa c'è?», chiese Mark. Alex si voltò a guardarlo. «Oh, niente». Mark era ancora eccitato, e Alex si chiese suo malgrado se era effetto dei martini o della signorina Catherine Pell. «Sei stato molto impegnato, oggi», disse. Mark sorrise. «Ero insieme a Newt». «Newt? Credevo lo chiamassi Newton. L'hai sempre chiamato Newton». «Preferisce Newt. Dice che così si sente parte del gruppo». «E allora? Che cosa doveva dirti?». Il sorriso si allargò. «Tu cosa ne dici?». Alex scrollò le spalle. «Non so cosa pensare. Ti ha detto che ha intenzione di dare il posto di Eliot a Drew Coghill?». Mark rise. «Certo, proprio così». «Art Reinebeck pensa che sarebbe giusto». «Arty pensa che Coghill farà fare carriera a lui, ecco quello che pensa».
«E allora? È vero?». Mark passò la mano sulla tovaglia rossa e scosse lentamente la testa. «Newt mi ha chiesto se mi sento pronto a gestire il dipartimento». «Mio Dio». «So che secondo te io non sono l'uomo giusto per questo lavoro, ma...». «Mark, non ho detto questo. Ero solo un po'... quando me l'hai detto questa mattina, ero un po' sospettosa. E quasi troppo bello per essere vero». «A volte la verità è bella». «Ma...». «Ma cosa?». «Be'... come la venderà al dipartimento? Voglio dire, tu sei nell'azienda da... cinque anni?». «Cinque anni e mezzo». «Cinque anni e mezzo a occuparti di gestione cassa, e ci sono tutte quelle persone che hanno... Voglio dire, come farà a venderla a gente come Art?». «Dagli una settimana di tempo e Arty dirà: "Mark è proprio quello di cui abbiamo bisogno... un uomo giovane ed energico". Non è mica uno stupido». «E Coghill?». «È roba vecchia. Vive ancora negli anni Settanta, per Dio. Alex, non so se ve ne accorgete giù al dipartimento attuariale, ma le cose stanno cambiando. Il mercato delle assicurazioni sulla vita sta cambiando». Si chinò sulla tavola, mentre l'eccitazione della sua voce cresceva. «Con tutte queste nuove tecnologie - progressi medici, test genetici - l'intera faccenda del rischio da assumersi sta diventando incerta. Nel giro di dieci, forse di cinque anni, l'intero mercato delle assicurazioni sulla vita sarà irriconoscibile. E i vecchi metodi non funzionano più. Newt lo sa, Neumann lo sa. Probabilmente perfino Randal White lo sa. O lo saprebbe se tirasse su il naso da quelle vecchie statistiche sulla mortalità». Alex incrociò le mani sulla pancia e scostò la sedia. C'era qualcosa di strano nell'improvviso entusiasmo di Mark per il lavoro. Forse era solo passato troppo poco tempo dalla morte di Eliot. «Se tu diventi direttore della tesoreria», disse, «avrai bisogno dell'approvazione di Randal White. Sarà meglio che non ti senta parlare in questo modo». Mark scolò l'ultima goccia della sua birra.
«Certo, Randal è a contatto con i pezzi grossi, lo so». Si asciugò la bocca e si guardò in giro. «Parlerà a nome dell'azienda al convegno sulla sanità alla fine del mese, lo sapevi?». Alex scosse la testa. Il convegno degli Istituti sanitari nazionali a Washington era un grande avvenimento. Avrebbe discusso il problema dei limiti entro cui le compagnie di assicurazione sulla vita e sulla salute potevano esaminare i geni dei loro potenziali clienti e scegliere di conseguenza. Molte persone del settore volevano avere mano libera, ma alcuni politici sostenevano delle limitazioni e perfino dei veri e propri divieti. Sostenevano che i test genetici minavano il principio della condivisione del rischio e minacciavano di creare una sottoclasse di persone che, senza alcuna colpa, non avrebbero potuto avere copertura medica o assicurazione sulla vita. Con le leggi federali ancora in preparazione, gli obiettivi delle aziende erano stellari. «Sì, è così», disse Mark. «Il nostro illustre attuario esporrà la posizione della ProvLife». «E qual è, esattamente?». Mark si strinse nelle spalle come se non ci fosse bisogno di dirlo. «Vogliamo fare i test, naturalmente. Voglio dire, appena sarà economicamente conveniente. Dobbiamo fare i test». Alex bevve un sorso di vino e guardò Mark che si spingeva in bocca un grosso pezzo di pane. Non era sicura che gli piacesse così: così sicuro, così contento di sé. Era okay quando parlavano di film o di cibo o di macchine. Era divertente, allora, quasi sempre. Ma qui si trattava di lavoro, di quello di entrambi. «Davvero?», chiese. «E perché?». Lui inghiottì. «Perché se non facciamo i test saremo spazzati via dalle altre assicurazioni, che li faranno. Saremo svantaggiati rispetto alla concorrenza». «Quindi dobbiamo fare i test perché gli altri potrebbero farli?». «Certo. E un mondo in cui cane mangia cane, tesoro». «Ma se il Congresso approva una legge secondo cui nessuno può farli, dovrebbero essere tutti contenti, giusto?». Mark alzò gli occhi al cielo, come se Alex stesse provocandolo per il gusto di farlo. «Sbagliato. Perché se la gente può controllare i propri geni e scoprire in anticipo se e quando probabilmente si ammalerà, sarà la gente a metterci in condizione di svantaggio. Le persone con geni cattivi faranno polizze altissime, e quelli sani staranno lontani da noi. Dai, Alex, lo sai
benissimo». Alex avrebbe voluto continuare ancora un po', ma ci ripensò e decise di tornare su un terreno meno contestato. «E quand'è che "Newt" darà la grande notizia?», chiese allegramente. Le spalle di Mark si rilassarono. «Be', come dici giustamente, deve passare dal consiglio di amministrazione. Probabilmente la settimana prossima». «Brindiamo, allora», disse Alex alzando il bicchiere. Mark alzò il suo, ma era già vuoto. Mobili economici, un tappeto economico che incominciava a spelarsi sotto al tavolo di pino nel punto in cui probabilmente la donna incrociava i piedi quando leggeva i suoi libroni sulle assicurazioni. E freddo. Aprì diverse porte prima di trovare il boiler. Niente termostato per il riscaldamento. Non poteva neppure permettersi di installare un termostato. E il boiler era in condizioni terribili. Stava osservando la fuliggine che usciva da sotto il bruciatore quando qualcosa si mosse alle sue spalle. Si voltò di scatto, puntando la torcia negli angoli in cerca del gatto. I gatti lo rendevano nervoso, soprattutto al buio. Questo si era nascosto soffiando sotto una sedia mentre passava dalla porta - un lampo di occhi grigi, poi nulla. Ma non c'era tempo per dargli la caccia. Grant aveva detto quarantacinque minuti dentro e fuori. Niente cimici, niente microspie, solo un rapido esame del luogo per vedere se c'era qualche rapporto. Chiuse la porta dello sgabuzzino e tornò verso la tavola. Niente cassetti. Poi vide una scatola di documenti per terra vicino al divano vecchio e rovinato. Ne aprì il coperchio e sorrise. Documenti personali. Conti, comunicazioni dalla banca, documenti relativi alle carte di credito. Niente biglietti aerei. Si mise la torcia in bocca e sedette sul divano. Per venti minuti esaminò gli ultimi quattro mesi di vita di Alex. La storia che emergeva era piuttosto chiara. Questa era una persona che lottava per tirare avanti. Aveva esagerato a Natale con un paio di regali, ma a parte questo teneva ben stretti i cordoni della borsa. Rimise le carte al loro posto. Se era tutto qui, Alex Tynan non sapeva del denaro. Lasciò vagare il raggio della torcia sulle pareti finché colse il riflesso di un vetro, una cornice d'argento ricamata. Rimise per terra la scatola dei documenti e si alzò per dare un'occhiata. Una cassettiera del 1970 circa. L'impiallacciatura rovinata si staccava dal truciolato. Sulla cassettiera c'erano tre foto incorniciate. Una vecchia foto in bianco e nero di un ragazzo
in uniforme. Tynan stessa con una signora più anziana, forse sua madre. Non si assomigliavano molto. Tynan doveva la sua bellezza al padre, se era il padre quello in uniforme. Poi c'era una foto di Ferulli che giocava a baseball, con un gran sorrìso da vincitore. Aprì il primo cassetto. Magliette pulite. Un altro: pullover, molti pullover pesanti. Probabilmente li usava invece di un buon riscaldamento. Nell'ultimo, biancheria. Di cotone, semplice. Qualche pezzo troppo vecchio, un po' liso sul cavallo. Si tolse un guanto e toccò il tessuto leggero, poi se ne portò una manciata al volto e odorò il sapone al limone. Si scorse nello specchio: il volto eccitato e butterato, gli occhi duri. Rimase immobile un attimo, poi rimise a posto la biancheria. Secondo Grant, Eliot amava il meglio. Roba di seta, satinata. Rossa e nera. Ma forse gli piaceva anche la roba da studentessa, per cambiare. Si rimise il guanto. Prese la foto di Alex con sua madre e pensò che forse la signorina Tynan giocava la carta dell'innocenza, con i suoi capelli alla Mia Farrow e gli occhioni grigi. Mark insistette per pagare la cena. Tirando fuori la carta di credito, lasciò cadere sulla tavola un fascio di carte. Su una di esse, Alex vide una lunga lista di parole di quattro lettere scritte con la penna nera. Mentre raccoglieva le carte e le rimetteva nel portafoglio, Mark scorse la sua espressione. «Cosa c'è?». «Quelle parole. Ti diverti con le parole crociate?». Mark arrossì intensamente. Alex si pentì di aver parlato. Agitò la mano ridendo nervosamente. «No, no. Non sono cose che mi riguardano». Mark prese il foglio e lo distese sul tavolo. «Guarda, io... È un po' imbarazzante. Il fatto è che Newt ha detto», respirò a fondo e si sistemò più comodamente sulla sedia. «Newt ha detto che dovevo avere una password per entrare in certi settori della Central Records. Sai che ci sono delle parti del computer centrale in cui... ehm...». «Il personale comune?». «Il personale comune, non autorizzato, non può entrare. E una questione di riservatezza verso i clienti, ovviamente». «Ovviamente». «Alex». «Sto scherzando. Senti, credo che sia molto bello che tu abbia ricevuto le chiavi del regno. Salvo approvazione del consiglio di amministrazione, ovviamente. Non credo che ci sia motivo di sentirsi imbarazzati».
Mark le gettò un'occhiata di traverso. «Be', puoi immaginare che cosa direbbe Art Reinebeck». «O Drew Coghill». «Esatto. Per cui ti prego di non andare a dirlo in giro». Alex guardò il foglio. «E che cosa hai scelto?». «Niente. Voglio dire, non che sia importante, ma ho bisogno di trovare qualcosa che non possa dimenticarmi». «Perché non la tua data di nascita?». «Devono essere lettere, non numeri. Comunque, Newt ha detto niente del genere. Niente di ovvio». «E se fosse N-E-W-T?». Mark sorrise, ma Alex capì che era ancora a disagio. «Probabilmente la usa già lui. O lo farebbe, se non fosse così ovvia. No, niente nomi». Alex prese la biro. «E questa?», chiese. Mark la guardò scrivere. «LIRA?». «Certo. In onore delle tue origini italiane e di tutti i soldi che guadagnerai». Mark guardò il foglio, poi Alex. Sorrise. «Ci penserò», disse. Tornato in strada, l'uomo accese il telefonino. Grant rispose al secondo squillo. Sbattendo gli occhi alle luci delle auto di passaggio, l'uomo disse: «Sono uscito». Seduto al bar di Hemenway, Grant giocherellava con la sua bistecca. «Allora, c'è qualche problema?», chiese. 5 All'inizio di gennaio, Randal White invitava tutti i dipendenti del dipartimento attuariale al Le Villaret, un ristorante famoso per i suoi piatti del Périgord e per i buoni vini. Era una tradizione che risaliva ai primi anni Ottanta, ma a causa del senso di privilegio che White emanava, sembrava che fosse nata insieme all'azienda. Nessuno degli attuari sapeva a che titolo egli affrontasse la spesa. Anche altri dipartimenti andavano a pranzo, naturalmente - era considerata una buona cosa per lo spirito di squadra - ma non avevano niente a che vedere con i déjeuner di White. Una saletta laterale che si affacciava su quella principale attraverso una doppia porta era
riservata a questa funzione e, considerando il vino - White amava i vini francesi e ordinava solo grands crus - gli ottanta fortunati ospiti pensavano che spendesse tra i milleseicento e i duemila dollari a nome dell'azienda. Tutti lo apprezzavano, naturalmente. Li faceva sentire membri di un club, di un'élite. Malgrado alcuni tentativi di manovra, Alex si trovò seduta vicino a Mel Hartman, due posti a destra di Randal White. Continuando la sua campagna per tenerla «su con la vita», Hartman si esibì in un monologo ininterrotto per tutto il pranzo, mentre Alex cercava di seguire ciò che White diceva ai suoi vicini. L'argomento della conversazione era il sindaco. Sandra Betridge, una donna onesta dal viso arrossato che era entrata nel dipartimento insieme a Hartman, sosteneva che gli indipendenti come il sindaco Montanelli si rivelavano sempre dei megalomani quancio raggiungevano le alte posizioni. White riempì il bicchiere di Betridge e disse qualcosa a proposito del fatto che l'indipendenza era la ragione per cui esisteva Rhode lsland. Alex lo guardò, mentre il chiacchiericcio di Hartman continuava. C'era qualcosa di diverso, in lui, che non riusciva bene a individuare. Poi capì che cos'era: aveva i capelli più lunghi. Solitamente ben rasato, per qualche ragione aveva mancato un appuntamento o due dal barbiere e i capelli gli si arricciavano sul retro del colletto rigido e inamidato. Benché grigi, i capelli di White erano ancora folti e circondavano una testa che Alex tra sé definiva leonina. Era una delle cose che le piacevano di lui, insieme agli occhi intelligenti e amichevoli, delicatamente segnati da anni di risate, che suggerivano un uomo capace di vivere non solo per il lavoro. Alex lo trovava rassicurante. In questa occasione, comunque, White sembrava circospetto, come se mancasse qualcosa per rendere l'atmosfera perfetta. Dopo Capodanno, in effetti, White si era fatto vedere non più di due o tre volte, e fuggevolmente, al dipartimento, e Alex aveva dovuto mandargli un'e-mail per informarlo dei suoi progressi con i dati sulla sanità e per comunicargli l'anomalia che aveva scoperto nei dati della ProvLife. Finora non aveva avuto risposta. Dopo il dessert, Hartman disse qualcosa di scherzoso e divertente sulla macchina di Alex, che lei non capì bene, poi White si alzò in piedi. Qualcuno batté un cucchiaino contro un bicchiere e, come obbedendo a un ordine, la pallida luce invernale inondò la stanza. «Ebbene», disse White sorridendosi intorno, «eccoci qui ancora una vol-
ta. Uhm...». Abbassò gli occhi verso la tovaglia. «Due ombre cadono sulla nostra piccola riunione quest'anno. Abbiamo perso Ken Miller durante l'estate. Vorrei incominciare brindando con questa grande annata a Ken. Come me, Ken amava questo chiaretto, e se da lassù ci vede, spero che approvi la mia scelta. Ken ha fatto un grande lavoro come direttore della Data Systems ed era davvero troppo giovane per avere un infarto». Alzò il bicchiere. «A Ken». Tutti bevvero in silenzio. Ken Miller era stato un amico di White - il suo miglior amico in azienda, si diceva. White non era il tipo di uomo che mostra i propri sentimenti, perlomeno non nei riguardi dei colleghi, ma la notizia della morte di Ken l'aveva visibilmente scosso. Secondo Mel Hartman, non era stato il solo: la maggior parte dei dirigenti si erano sottoposti a un check up medico nelle settimane successive, come se il loro professionale e distaccato sfruttamento della morte fosse stato messo in crisi dal suo arrivo inaspettato. White si schiarì la gola e si asciugò la bocca con il tovagliolo. Improvvisamente come era apparso, il sole scomparve di nuovo. La stanza sembrò oscurarsi per un attimo. «Gli attacchi cardiaci possono essere mortali, naturalmente», disse. «Le malattie del cuore e del sistema circolatorio sono, come voi avete ragione di sapere, i superpredatori che circolano nelle tenebrose acque oggetto dei nostri studi. Ken è stato sfortunato a incontrarne uno così presto». Si fermò, la sua bocca divenne una linea sottile. Alex capì che questo era un ricordo doloroso per lui, anche se era deciso a non rovinare l'atmosfera della festa. «L'elettricità è un'altra cosa». Fu come se la parola stessa portasse davvero con sé una carica elettrica. Il silenzio sembrò condensarsi finché Alex si accorse che faceva fatica a respirare. «Michael Eliot era... be', credo che sappiamo tutti chi era. Ricordo quando è arrivato tra noi la prima volta, nell'85. Abbiamo avuto fortuna a trovarlo, ed è stato di grande aiuto negli anni difficili. Non è una coincidenza che possiamo far risalire l'inizio della ripresa al 1990, l'anno in cui Michael divenne responsabile della tesoreria. E adesso sembra...». Aggrottò la fronte. Improvvisamente, era come se non avesse più niente da dire. Un muscolo gli tese la guancia. Senza finire la frase, alzò di nuovo il bicchiere e disse sottovoce: «A Michael, senza dimenticare quelli che lascia». Il brindisi fece il giro della tavola.
«A Michael». «A Michael Eliot». Le persone si agitavano sulle sedie. Alex guardò le mani di White. Per un tempo che parve lunghissimo non disse niente. Poi rivolse lo sguardo in giro ai volti che lo fissavano. Quando i suoi occhi la guardarono, Alex sentì un leggero calore. «Ma noi andiamo avanti», disse White. «Un altro anno per vivere e respirare. Nessun mistero in questo. I matematici si sono sempre comportati bene nelle classifiche della mortalità. E stato John Larus, mi sembra, a mostrare nei suoi studi sulla mortalità degli attuari tra il 1889 e il 1937 che gli attuari più giovani godono di uno straordinario vantaggio. Lo studio di John Cook ed Ernest Moorhead del 1991 ha individuato una tendenza simile. Vi rimando per questo alle Transazioni della Società degli Attuari, volume 41... la prego, Sandra, non prenda appunti». Toccò Sandra Betridge sulla spalla e, benché non stesse prendendo appunti, il suo volto scarlatto rivelò che ci aveva pensato. Aveva fama di essere estremamente diligente, e a questo tipico scherzo amichevole tutti risero. White guardò il soffitto a modanature dell'ampia sala coloniale finché la risata si esaurì. «Come mai?», si chiese quasi parlando fra sé. Poi sorrise e i suoi occhi li guardarono di nuovo. «Per quello che ne sappiamo, io credo che sia perché ci divertiamo di più». «Senti, senti», disse Mel Hartman. «Credo sia stato James Sylvester a sottolineare che i matematici vivono più a lungo e restano più giovani. "Le ali dell'anima non cadono", disse, "né i pori si chiudono a causa delle particelle terrene che rendono polverose le autostrade della vita volgare"». Alzò ancora il bicchiere. «L'ultima volta che ho controllato, le mie ali sembravano un po' rovinate alle estremità, ma». Alzò leggermente i gomiti. «Ma funzionano ancora, come le vostre, spero. Perciò l'ultimo brindisi è a tutti noi, e in particolare alle nostre ali». «Alle nostre ali». Tutti alzarono il bicchiere e bevvero. «Ho sempre saputo che eravate una squadriglia da ricognizione notturna». Un uomo era entrato dalla doppia porta nella saletta riservata. Dimostrava circa cinquant'anni, era robusto e abbronzato. Indossava un gessato ele-
gante e una cravatta di seta scura. Sorrise al silenzio che aveva creato e si diresse aggirando il tavolo verso White, che lo salutò. Mentre si stringevano la mano, Alex notò i polsini inamidati dell'estraneo e i gemelli d'oro. «Non voglio interrompere la vostra piccola riunione, Randal», disse senza nascondere il tono paternalistico della sua voce, «ma non volevo andarmene senza augurarti buon anno». «Grazie», rispose Randal. «Vi presento Charles Kenyon, vice direttore generale della Massachusetts General. Che cosa ti conduce qui, Charlie? Non credevo che fosse già la stagione delle ciliegie». Kenyon rise educatamente. «Sto solo verificando la nuova squadra, Randal. Voglio vedere come funziona. Sai com'è». White rispose con un sorriso neutro, ma Alex intuì la sua irritazione. La Massachusetts General era una delle compagnie di assicurazione più grandi e di maggior successo della regione, e aveva recentemente aperto nuovi eleganti uffici sulla Kennedy Plaza. Nel campo delle polizze vita e salute, stavano puntando aggressivamente sui residenti - e sui vacanzieri - più ricchi di Rhode Island, quelli della zona di Newport e dei quartieri più eleganti di Providence. Avevano anche portato via numerosi impiegati di medio livello alla ProvLife, tra cui due venditori anziani e un giovane leone del marketing. Alex aveva incontrato qualcuno della Mass General nel distretto finanziario e dintorni. Uno se lo ricordava addirittura dai tempi del MIT. Ma, come gli altri, non era stato molto amichevole. Per loro la ProvLife era un po' troppo in basso, un po' troppo modesta; uno zircone se paragonata al diamante che era la Mass General. «Ho sentito dire che la ProvLife entrerà nel campo della copertura medica», disse Kenyon. «È vero?». White si strinse nelle spalle. «Be', dove l'hai sentito dire?». «Ho le mie fonti, Randal. Non che ci creda, bada bene». «Davvero?», chiese White. «E perché no?». Kenyon rise, senza rispondere alla domanda. Ma White non fece finta di niente. Si limitò ad alzare le sopracciglia, in attesa di una risposta. «Siamo onesti, Randal», sbottò Kenyon. «Non è una cosa per la ProvLife. Sei d'accordo? È un campo... be', molto complesso». «Davvero?», ribatté White con una faccia da poker. «Ne sei sicuro?». Kenyon finse di ridacchiare. Anche Brian Slater e un altro degli attuari presenti al tavolo ridacchiarono, senza ragione apparente. «Avrei dovuto sapere che non mi avresti detto niente, Randal», disse Kenyon allontanandosi. «Forse sarò più fortunato a Washington. Ci sarai
al convegno sulla sanità?». «Sì. Mi hanno scelto per quel dubbio onore. Ci sarai anche tu, quindi?». «Proprio così. Saremo presenti con un'intera squadra. Dobbiamo assicurarci che il settore colga il messaggio, forte e chiaro». «E quale sarebbe il messaggio?», chiese White. Kenyon era quasi alla porta. Si voltò. «Scusa?». «Qual è il messaggio, secondo te? Mi piacerebbe saperlo». Gli occhi di Kenyon si socchiusero. «Lo stesso che darai tu, ne sono sicuro. Dobbiamo avere il permesso di fare i test. Ci costerebbe miliardi esserne esclusi. Tutti sono d'accordo su questo». White lo guardò fisso. «Tutti?». «Tu no?». White non rispose. Improvvisamente, tutti i presenti erano immobili. Kenyon si portò un dito alla tempia, facendo uno sforzo, apparentemente, per restare nei limiti della buona educazione. «Non so se hai studiato i dati su questo problema, e se stai pensando di enti are nel campo della sanità ti consiglio di farlo, ma le ricerche sul genoma umano hanno quadruplicato la possibilità di scoprire le malattie genetiche, dall'Alzheimer al cancro. Questa è una marea di informazioni sulla speranza di vita. Informazioni in vendita. Al pubblico...». «Che cosa vuoi dire con questo?», chiese White. «Questo è un vero e proprio terremoto per il nostro settore, Randal», disse semplicemente Kenyon. «Dobbiamo fare i test. Se non possiamo farli, siamo fregati. Stipuliamo al buio. Lo stato deve capirlo». White alzò il bicchiere e bevve. I suoi occhi sorrisero a Kenyon. Poi si rivolsero a Hartman. «Che cosa ne pensi, Mel?». La bocca di Hartman si aprì e si chiuse. Poi la sua fronte si aggrottò. «E un problema difficile», disse. «Ma sostanzialmente ciò di cui stiamo parlando è la natura del sistema basato sulla condivisione del rischio». «Continua». «Ebbene, l'elemento fondamentale della condivisione del rischio è legato al fatto che gli individui che, casualmente, possono restare vittime di incidenti di vario tipo, godono dei benefici del sistema, cioè delle somme pagate dagli altri membri della stessa classe. La cosa importante è che tutti gli assicurati in una certa classe abbiamo più o meno le stesse probabilità di incidente. Solo in questo caso essi accetteranno di pagare un premio adeguato alle loro probabilità sfortunate. Altrimenti si parla di un sistema di
sussidi». Kenyon annuiva. Hartman guardò ansiosamente il suo capo, ma White si guardava le mani. «Ma certo», disse White, «bisogna equilibrare i guadagni del settore assicurativo con gli interessi della comunità nel suo complesso, dato che facciamo parte di quella comunità. Non scorgi un imperativo morale in questo?». «Be', se vogliamo dire che ci deve essere una certa condivisione del rischio da parte della società, a prescindere dalle probabilità di disgrazia, non so se noi - cioè gli assicuratori - dovremmo accollarci questo rischio». White guardò Kenyon e sorrise. «Vedi, Charlie. Hai già un convertito». Hartman si allarmò. «Ma io stavo solo...». «Suvvia, Randal, non vorrai vendere al convegno sulla sanità quelle chiacchiere sulla comunità nel suo complesso?». Le mani di Kenyon erano piantate sui suoi fianchi. Un tono sgradevole si era insinuato nella sua voce. «Un imperativo morale? Non sai che questo è proprio quello che i maledetti politici e i cuori teneri vogliono sentirsi dire? E detto da una compagnia di assicurazione - benché sia la ProvLife - sarebbe proprio la scusa di cui hanno bisogno». White rimase impassibile. «Non so se tu hai studiato i dati su questo problema, Charles», disse sedendosi, «ina attualmente ci sono quaranta milioni di persone senza assicurazione in questo paese. Quaranta milioni di persone senza possibilità di accesso a cure mediche dignitose. Ti sembra davvero una cifra da aumentare?». «Questo è un problema del governo», disse Kenyon. «Le assicurazioni sono un business». White si guardò in giro, con gli occhi nuovamente sorridenti. «Proprio così. Un business molto interessante, con un giro d'affari - e parlo solo delle assicurazioni sulla vita - di circa duemila miliardi di dollari. Un settore che incassa in premi circa trecento miliardi di dollari all'anno, restituendone meno della metà come pagamenti». «Non c'è niente nella Costituzione che vieti di fare soldi in questo paese», disse Kenyon. «Non ancora, almeno». «E li facciamo, no?», disse White. «Naturalmente, se escludessimo tutte le persone con geni inaffidabili, ne potremmo fare ancora di più. E questa la tua idea?». «Chiaramente, il settore deve stabilire dei criteri», borbottò Kenyon. White annuì.
«Sì... sì. Be', quando stabilisci i tuoi criteri, Charles, ricordati che le persone a rischio a causa di certe condizioni genetiche sono già scartate dalle assicurazioni sulla salute, sulla vita, e dai datori di lavoro». White si strinse nelle spalle e guardò il proprio bicchiere vuoto. «Naturalmente, se morissero di fame avrebbero meno probabilità di procreare, e quindi ci sarebbe effettivamente un beneficio in termini di miglioramento genetico». Guardò Kenyon negli occhi. «Credo che questa si chiami eugenetica». Per un attimo, Kenyon rimase senza parole. Un velo di sudore gli era comparso sulle sopracciglia. «Possiamo riprendere l'argomento a Washington», riuscì a dire. «Forse allora riusciremo a parlarne seriamente». «Non più seriamente di ora», disse White. E rimase seduto, a guardare l'altro uomo che lasciava la sala. 6 Phillips Street si trovava un miglio e mezzo a nord del distretto finanziario, a pochi isolati di distanza dallo Stadio di Brown. Non era la parte migliore dell'East Side, e molte delle vecchie case diroccate erano occupate da studenti. I prati e le siepi erano poco curati, e un paio di residenti sembrava che stessero smontando vecchie auto nel giardino. D'altra parte, i portici tradizionali, i grandi frassini e tigli che si allineavano lungo la strada, perfino l'occasionale suono di una chitarra acustica, davano al posto un'atmosfera rilassata e amichevole che piaceva ad Alex dopo una giornata passata a macinare numeri giù in città. Il numero 29 era di proprietà di un'anziana signora di nome Maeve Connelly. Circa trent'anni prima, lei e la sua famiglia avevano occupato interamente la grande proprietà, ma da allora le cose erano andate sempre peggio e poco per volta, stanza dopo stanza, gran parte della casa gialla era stata affittata, finché la stessa signora Connelly si era ridotta a occupare solo pochi locali che davano sulla strada. Alex abitava all'ultimo piano, metà del quale era occupato da un vecchio solaio e da un deposito per l'acqua che di notte risuonava e gorgogliava in continuazione. La verità è che l'intero edificio avrebbe avuto grande bisogno di una ristrutturazione. Ma l'affitto era basso, c'era un autobus che fermava in fondo alla via e Alex avrebbe potuto migliorare le cose per la stessa somma solo trasferendosi a miglia di distanza dalla città o rischiando uno dei quartieri malfamati di Providence Sud.
Sarebbe rimasta volentieri in Phillips Street ancora per un anno, ma probabilmente non avrebbe potuto farlo. Il suo contratto scadeva tra due mesi e la signora Connelly parlava di aumentare l'affitto di almeno un terzo. Suo genero la spingeva a chiedere ancora di più. Apparentemente, egli pensava che con un piccolo investimento avrebbe potuto triplicare la rendita della proprietà, anche se non era chiaro perché un rappresentante di lubrificanti di Pittsburgh dovesse essere un'autorità in questo campo. Naturalmente, la cosa più semplice, la cosa più facile - inutile negarlo, la cosa più economica - sarebbe stata di andare a convivere con Mark. Lui l'aveva perfino suggerito un paio di volte, di passaggio. Ma Alex non pensava che fosse il momento giusto, e temeva che neanche Mark lo pensasse, se si fosse arrivati al dunque. Inoltre non le piaceva l'idea di mettere la sua vita amorosa al servizio del suo conto bancario - o, come aveva detto Liz Foster, mettere una chiave a forma di cuore in una serratura a forma di dollaro. Per una persona che lavorava da due anni, Alex sapeva di non condurre una gran vita. Non che la ProvLife non la pagasse decentemente - anche se i soldi veri sarebbero arrivati solo quando fosse diventata membro della Società degli Attuari - ma le circostanze erano state sfavorevoli. Per incominciare, si era indebitata pesantemente per frequentare il MIT. Boston si era rivelata una città incredibilmente cara. Malgrado lavorasse alla sera, nei weekend e durante le vacanze, i debiti avevano continuato ad aumentare. Quando, nel colloquio finale con Randal White, le era stato offerto formalmente un posto come apprendista attuaria alla ProvLife, si era illusa di aver finalmente superato tutti i suoi problemi economici. Ma Alex lavorava da appena due mesi quando una nuova voragine di debiti si era aperta sotto ai suoi piedi. Sua madre un giorno aveva deciso di risparmiare e pulire da sola le grondaie, ed era caduta dalla scala. Per fortuna la macchina aveva assorbito gran parte dell'impatto, ma per sistemare i danni alla spina dorsale si era resa necessaria una serie di complesse operazioni. Ed era emerso che la donna era malissimo assicurata. Alex non aveva potuto far altro che riportare la sua nuova Volkswagen dal venditore e riprendere la sua vecchia Camry dell'85, nonché chiedere alla Fleet Bank un altro prestito di 20.000 dollari. Se non fosse stato per il sostegno esplicito di Randal White, dubitava che glieli avrebbero dati. Ora, diciotto mesi più tardi, la madre di Alex era di nuovo in piedi, ma, a dispetto dei numerosi tentativi di risparmiare, i conti di Alex erano in rosso più che mai.
Risparmiare sull'assicurazione medica era stato un errore disastroso, ma Alex non poteva rimproverare sua madre per questo. I soldi erano sempre stati pochi, da quando suo padre era scomparso in missione più di vent'anni prima. John Tynan era un ingegnere aeronautico. Era a bordo di uno Huey che era caduto oltre le linee nemiche in Cambogia (come si seppe in seguito), ma nessuno sapeva se si fosse trattato di un atterraggio forzato o di un incidente mortale. Alex non ricordava suo padre. Non era neppure nata quando lui era morto. Ma sua madre non si era mai risposata, e i lavori che faceva quando Alex incominciò ad andare a scuola sembravano tutti saltuari. Ancor oggi, la pensione del marito rappresentava quasi tutte le sue entrate. Alex si scosse la neve dalle scarpe ed entrò in casa. Un mucchio di posta l'aspettava sul tavolino dell'ingresso, compreso un biglietto di auguri in ritardo da parte di Robby Halliday e una lettera della compagnia della carta di credito. La lettera affermava che lei non aveva fatto i versamenti necessari, che la carta le sarebbe stata ritirata «e la questione messa in altre mani» se non avesse sistemato tutto entro trenta giorni. Aveva cercato di stare attenta per Natale, ma tra i regali e la fame di feste di Mark era stato impossibile. Si consolò pensando che una volta superati gli esami sui Modelli di sopravvivenza e sulla Creazione di tabelle a maggio avrebbe senza dubbio ricevuto un aumento. Il corso le avrebbe dato gli ultimi quindici punti di cui aveva bisogno per l'iscrizione - un buon passo verso la piena qualificazione. Purtroppo niente garantiva che sarebbe effettivamente passata, e l'aumento di salario era comunque a discrezione della ProvLife. Salì lentamente le scale verso il suo appartamento, cercando di non lasciarsi abbattere, di pensare a qualcosa di positivo, a qualcosa di desiderabile. Sotto la porta trovò un biglietto della signora Connelly. Diceva solo: Oscar ha preso un topo. Oscar era un gatto di stirpe mista - mezzo persiano, mezzo randagio con un buon carattere e una bella pelliccia bianca e nera, che depositava in tutto l'appartamento in ciuffi e ricciolini. Poteva girare per tutta la casa grazie a una serie di aperture, ma raramente si avventurava all'esterno, accontentandosi di guardare il mondo dal porticato d'ingresso o dalla scala antincendio arrugginita appoggiata alla casa. Era possibile che Oscar avesse compiuto la sua prodezza nel giardino, ma Alex aveva la terribile impressione che il topo in questione vivesse ben più vicino a casa. Attirò Oscar giù dal divano con un piattino di Whiskas e si buttò sui cuscini. Il biglietto di Robby mostrava un lupo che ululava alle stelle. Robby
aveva una passione per la vita selvaggia. All'epoca in cui erano innamorati, insisteva per uscire da Boston tutti i fine settimana per lunghe camminate. Avevano perfino una tenda. Lui aveva scritto dappertutto, all'interno, coprendo ogni centimet.ro di spazio con la sua calligrafia stravagante. Adesso era ad Ann Harbour, nel Michigan, per parlare del suo ultimo progetto economico con alcuni potenti laureati nel settore delle scienze naturali. Da quando aveva lasciato il MIT, Robby non aveva mai avuto un lavoro fisso. Aveva fatto saltuariamente dei lavori impiegatizi, ma solo come pause tra un progetto più impegnativo e l'altro. Nel giro di un anno dopo la laurea, aveva messo in piedi con alcuni compagni una propria impresa che produceva moduli di intelligenza artificiale per l'industria dei software. La cosa era fallita dopo un anno e mezzo. Adesso era tutto agitato per un nuovo progetto: sistemi software per analizzare i dati meteorologici. Stando al suo biglietto, c'era un grande mercato per i modelli computerizzati di sistemi per le previsioni sul medio periodo. Aveva già deciso il nome della nuova azienda: Sunscape. Leggendo tra le righe, Alex ebbe la netta impressione che - come già la volta precedente - Robby cercasse di coinvolgerla. Scosse la testa e sorrise. Lei e Robby non avevano mai davvero litigato, o almeno non si erano mai lasciati definitivamente, ma dopo aver lasciato il MIT avevano capito quasi subito che avevano intenzione di seguire carriere molto diverse. Poi si erano trovati quasi all'improvviso a vivere in città diverse, a fare cose diverse. Si erano allontanati così come in principio si erano avvicinati. Ogni volta che ci pensava, Alex si diceva che era stato facile lasciarsi perché non avevano mai condiviso niente di molto importante. Ma tutte le volte che riceveva sue notizie era felice. E la felicità era sempre segnata da un'ombra di rimpianto. Guardando le sue y e le sue g selvaggiamente storte, cercò di immaginare come poteva essere lavorare con Robby Halliday nelle previsioni del tempo. In un certo senso era allettante: tutta quell'aria fresca, tutta quella libertà - e un ramo della matematica leggermente più colorato di quello su cui aveva deciso di appollaiarsi. Il modo in cui egli aveva abbracciato la teoria delle catastrofi e del caos al MIT era stato notevole. Era il signor Volubile. Ed era molto divertente - sempre sulla cresta dell'onda, sempre alla ricerca di nuove idee, sempre pronto a investire tempo ed energia in qualsiasi cosa colpisse la sua immaginazione. Ma c'erano anche cose che mettevano Alex a disagio. Sarebbe stato ingiusto dire che era goffo, ma c'era qualcosa nel suo approccio alla vita, nel suo stesso ottimismo, che
Alex sentiva di non poter condividere. Viveva nel mondo dei numeri, dei fatti concreti, eppure sembrava che ci fossero alcuni fatti che semplicemente non poteva ammettere. Per esempio, che se non eri ricco di famiglia dovevi trovare un lavoro e uno stipendio fisso, oppure un giorno o l'altro te ne saresti pentito. O che dar vita ad aziende di software era una maniera molto rischiosa di guadagnarsi da vivere. Alex mise il biglietto sul tavolino e si allungò verso il telefono. Fece il numero di Mark. Il telefono squillò due volte, poi qualcuno rispose. «Mark? Sono Alex. Mi domandavo come... Pronto?». Ci fu un leggero beep e poi si sentì la voce registrata di Mark, rapida e neutra: In questo momento non posso rispondere alla vostra telefonata; vi prego di lasciare un messaggio dopo il segnale e vi richiamerò appena possibile. Che messaggio poteva lasciare? Voleva che fosse qualcosa di intelligente, di divertente, qualcosa che Catherine Pell non fosse capace di dire. Sentì il segnale. «Ehm, sono io. Alex. Io... chiamavo solo per sapere se stai bene e... Ci vediamo domani, d'accordo? Non fare niente... Voglio dire, non lavorare troppo. Ciao». Riagganciò, appoggiò la testa al braccio, sobbalzò. Il telefono stava suonando. «Mark? Come diavolo hai fatto a...?». «Alex? Sono Liz». «Oh. Liz». Alex sospirò. «Scusa, pensavo...». «Che fosse Mark». «Sì». «Mi dispiace». «No. E solo che l'ho chiamato un attimo fa e... Come stai, a proposito?». «Bene, credo». «Non sei venuta neanche oggi. Pensavo che...». «Ho seguito il tuo consiglio. Ho telefonato all'ufficio di Newton Brady e ho chiesto una settimana di ferie. Me l'hanno data subito, senza tare domande». «Te l'avevo detto». «Già. È stato molto gentile, anzi. E stato molto strano. Ha detto che l'azienda mi considerava molto e avrebbe fatto in modo di valorizzare il mio ruolo, qualsiasi cosa voglia dire questo». «Liz, è bellissimo». «Già. Be', ho pensato che mentre decido a cosa fare della mia vita tanto
vale farmi pagaie». Liz sembrava molto più in forma dell'ultima volta: più calma, più forte, più simile alla fredda segretaria che era sempre stata in ufficio. «Okay, Liz. Sono felice di sentirtelo dire. È meglio tenere aperte tutte le possibilità, no? Voglio dire, magari se ti trasferissero in un altro dipartimento non sarebbe così dura. Per un po'. Comunque, sembra che tu sia lanciata verso...». «Ho aperto la ventiquattrore». Alex si rizzò a sedere. Si era fatta molte domande sulla ventiquattrore nei due giorni passati, più di quante volesse ammettere. Chiaramente, non era stata l'unica. Per un attimo rimase in silenzio. Ogni volta che Liz parlava di Eliot, le tornava in mente il bacio alla festa. «Vuoi dire... la ventiquattrore di Michael?», chiese alla fine. «Ho forzato il lucchetto». «Mio Dio. Liz». «Non ho resistito. Era lì in mezzo alla stanza. L'ho fatto la notte scorsa. Ci ho messo secoli». «Liz... non so cosa...». «Alex, aveva milioni di dollari. Sono tutti qui». Alex premette la cornetta contro l'orecchio e la tenne stretta. Ebbe la visione di Liz seduta per terra in camicia da notte circondata dai soldi. «Cosa? In contanti?». «No. Diecimila in contanti. Ma ci sono i documenti. Estratti bancari. Penso che avesse intorno ai dieci milioni di dollari, Alex. Conti numerati in Svizzera, titoli al portatore. E ci sono altre carte che non capisco. Un sacco di numeri e di cose. Non so cosa vogliano dire». Alex era stupefatta. Non le sembrava possibile. Come faceva Michael Eliot ad avere dieci milioni di dollari? Com'era possibile che avesse così tanto e spendesse così poco? A meno che non fossero soldi che per qualche ragione non poteva spendere, soldi che appartenevano a qualcun altro. Ma forse era come sembrava. «Liz, sei sicura di non confondere le cose? Voglio dire, magari questi soldi hanno a che fare con la tesoreria. Capisci, investimenti dell'azienda e...». «Alex, so riconoscere un estratto conto bancario». La voce di Liz si era fatta più dura. «E questi hanno tutti il nome di Michael. Versamenti, compravendita di titoli. E tutto qui. Alcune di queste operazioni hanno solo poche settimane. Ti dico che aveva i soldi».
Per un attimo, nessuna delle due parlò. Alex si sentiva improvvisamente a disagio. Un uomo poteva essere ricco e non volere che gli altri lo sapessero, ma questo era un caso diverso: la segretezza di Eliot andava ben al di là della discrezione. Tutta la sua vita era stata una menzogna. «Alex, credi che possa avere a che fare con la morte di Michael?». Alex non rispose. In basso, sentì qualcuno che saliva le scale di legno. Passi pesanti. Si chiese se si era ricordata di chiudere la porta. «Alex? Ci sei?». «Sì», sussurrò. «Che cosa intendi dire?». «Voglio dire che Michael teneva segreti questi soldi. Ne sono sicura. Anche a sua moglie». I passi raggiunsero il pianerottolo inferiore, poi si fermarono. «Supponi che lei l'abbia scoperto. Margaret, dico. Supponi che lei abbia scoperto che Michael aveva tutti questi soldi e stava pensando di lasciarla. Avrebbe potuto ticciderlo per impadronirsene». Alex sospirò. Era troppo. «Ma dai, Liz. Se sapeva queste cose, doveva solo divorziare. Avrebbe avuto almeno metà dei soldi, più la casa». «Tu non la conosci, Alex. Non si sarebbe accontentata. Avrebbe voluto vendicarsi. Divorziando, l'avrebbe solo lasciato libero». «Liz, è stato un incidente. Ha toccato un cavo elettrico con il trapano. È una cosa difficile da montare, sai, soprattutto quando la tua vittima è più grossa di te. Ma te l'immagini? "Reggi qui, caro, mentre io riattacco la corrente"». «Non è impossibile. Si può trovare un modo, se non si ha nient'altro da fare tutto il giorno che stare in casa a pensarci. Lei è capace di fare qualsiasi cosa. Ma pianificato l'intera vita di Michael dal giorno in cui gli ha messo gli occhi addosso». 7 Harold Tate mise giù il giornale e guardò attraverso la distesa bianca del parcheggio. Guy Pilaski camminava sulla neve dura nel suo lungo cappotto di Christian Dior, una sigaretta spenta tra le labbra. Tate controllò l'ora: sette e venti, un po' tardi per Guy. Malgrado il suo ruolo di direttore generale, di solito non restava molto in ufficio dopo le sei. Tate osservò la Oldsmobile che usciva dal parcheggio e spariva nel traffico della Toll Gate Road. Un altro giorno passato a far niente, un giorno in meno alla pensio-
ne. Da quanto tempo durava? Tate fece i conti mentalmente: quattro anni, due mesi e nove giorni. Pilaski direttore generale era stata una scelta sorprendente. La sua competenza scientifica era trascurabile - una volta era stato direttore finanziario in una ditta che produceva gas industriali - e con la sua corporatura massiccia, i baffi neri e la passione per le cravatte vistose sembrava piuttosto il direttore di un night club della Florida. Ma i nuovi soci avevano voluto lui: una persona meno attenta alla scienza e più attenta al guadagno, capace di guidare una nave in cattive acque. E la Medan era una nave in cattive acque, e se non ci fossero state le preoccupazioni tecnologiche, Pilaski dichiarava orgogliosamente che le capacità della direzione erano sottoutilizzate. Tate si chiese che cosa l'avesse trattenuto così a lungo questa volta. Sperava che non fosse qualcosa riguardante Michael Eliot. Erano passate due settimane dalla morte di Eliot, e finora non era uscito niente sul «Providence Journal» che facesse sospettare qualcosa di diverso da un banale incidente domestico. Tate aveva scorso il giornale tutte le mattine e, a parte le tre colonne a pagina cinque il primo giorno, l'incidente non aveva meritato alcun accenno. Non c'era stata indagine della polizia, niente che facesse pensare a circostanze in qualche modo insolite. E in effetti, di per sé, non erano affatto insolite: come aveva sottolineato il «Journal», ogni anno centinaia di americani restavano uccisi o seriamente feriti mentre facevano lavoretti domestici, in molti casi con strumenti elettrici. Ma la polizia e i reporter del «Journal» non sapevano che Eliot aveva un progetto, un progetto per godersi i due o tre anni che gli restavano da viveie, un progetto che non prevedeva la sistemazione della cantina. Tate aveva pensato inizialmente che Eliot si fosse ucciso. Il suo vecchio amico, pensava, aveva preso bene la notizia - si era stranamente calmato, anzi, dopo un'ora circa - ma forse questo dipendeva dal fatto che ci voleva del tempo per assimilarla a fondo. Forse nei giorni seguenti aveva ripensato a ciò che lo aspettava e aveva deciso di prendere una scorciatoia. Forse aveva voluto solo farla finita. Tate era quindi responsabile? Eliot sapeva di sottoporsi a un test. Non era certo stata un'idea di Tate; lui aveva solo esposto i risultati, sottolineando che avrebbero dovuto fare una seconda analisi per confermare la prognosi. Ma se il risultato era stata la morte prematura del suo amico, come poteva non sentirsi responsabile? Se avesse tenuto segreti i risultati, o almeno aspettato fino ad avere entrambe le analisi... Meglio ancora, se avesse informato il medico curante di Eliot e lasciato a lui il compito di gestire la cosa! I medici avevano esperienza con
queste situazioni. Lui no. Di solito non doveva trattare con le persone, solo con campioni anonimi: numeri, non nomi. E quando c'erano cattive notizie, queste passavano da un computer all'altro. Le persone erano un problema di qualcun altro. Tate non dormiva bene da Natale. Voleva parlare con qualcuno di quello che era successo, ma questo era impossibile. Neanche Suzy sapeva tutta la storia, e qualcosa gli diceva che era meglio lasciare tutto così. Non che non si fidasse di lei. Ma la riservatezza non era il suo tasto forte. Né la pazienza. La sua ultima conversazione con Michael era stata difficile. Tate aveva telefonato qualche giorno dopo l'incontro, ansioso di sapere come stava Eliot, se poteva fare qualcosa per lui. C'erano delle voci in sottofondo - i genitori di Margaret, probabilmente - e della musica per coro. Si era immaginato Eliot in piedi in cucina, che controllava che nessuno lo ascoltasse. Ci sarebbero stati dei cambiamenti, aveva detto, anche se non poteva ancora dire quali. Venne fuori che aveva deciso di non dire niente a sua moglie a proposito della malattia. Avrebbe tenuto la notizia per sé, disse, almeno per ora. Tate aveva approvato: era la cosa migliore. Non era giusto allarmare Margaret prima di avere i risultati del secondo test. Ma Eliot non si preoccupava di questo. Voleva sapere fino a quando Tate poteva tener segreti i risultati del primo test. Eliot gli aveva assicurato che, con Natale in arrivo, sarebbero passate almeno un paio di settimane prima che qualcuno glieli chiedesse. Poi Tate aveva affrontato l'argomento delle analisi scomparse. Forse Eliot le aveva prese per sbaglio, o per curiosità. Che cosa poteva farsene? Eliot ci aveva messo molto a rispondere. Poi aveva detto una sola parola: assicurazione. «Assicurazione contro cosa?», aveva chiesto Tate, ma le voci di sottofondo si erano fatte improvvisamente più forti. Sembrava che chiamassero Eliot per la cena. Eliot aveva salutato e riagganciato. Tate aveva aspettato un'ora, poi aveva richiamato, ma questa volta aveva risposto Margaret. Era sembrata contenta di sentirlo e gli aveva augurato buon Natale. Michael era in cantina con suo suocero. Margaret disse che l'avrebbe fatto richiamare. Ma Michael non aveva mai richiamato. Di fatto, a Tate i risultati del test furono chiesti prima del previsto: il giorno dopo. Aveva cercato di nicchiare, ma con il fiato di Pilaski sul collo era difficile trovare scuse. E lui non poteva permettersi di offendere il cliente.
Tate stava ancora guardando fuori dalla finestra quando il computer della sua scrivania emise una serie di beep e in mezzo allo schermo apparve un riquadro grigio. ANALISI NUOVI DATI INSERIRE PASSWORD PER CONSULTAZIONE La prima infornata di rapporti di solito non arrivava prima di mezzogiorno, ma oggi le cose andavano più rapidamente perché il volume di lavoro era diminuito a causa del Natale. Di solito la Medan Inc. aveva da analizzare circa centoventi campioni di DNA per volta, una quantità di lavoro resa possibile solo dalle più recenti automazioni e dalla natura limitata dell'analisi stessa. Il computer verificava le ultime fasi del processo e forniva ì risultati tre volte al giorno. L'intelligenza artificiale utilizzata era relativamente semplice, e il lavoro di Tate consisteva in parte nel verificare i risultati e far controllare le irregolarità dai tecnici di laboratorio, confrontando i dati originali. Solo quando era sicuro dei risultati elencati poteva autorizzarne il passaggio al cliente. Così, almeno, doveva essere secondo lui. Recentemente Pilaski gli aveva chiesto se non potevano accelerare le procedure: analizzare più campioni, più velocemente, ridurre il controllo sugli errori e le verifiche umane. La sua preoccupazione, disse, era di rispondere alle esigenze dei clienti, ma non parlò di nuovi investimenti. E senza nuovi investimenti, aveva risposto Tate, il risultato sarebbe stato un aumento degli errori. Per gli scienziati all'avanguardia nelle ricerche mediche, individuare il gene responsabile di una malattia genetica significava fare un difficile lavoro di indagine. I geni agiscono sul corpo producendo un'unica proteina in momenti e luoghi particolari. A volte la comparsa di queste proteine si poteva far risalire all'attività biochimica di singoli cromosomi, o addirittura sezioni di cromosomi. Dopo di che, si trattava di cercare un ago in un pagliaio, con una differenza importante: che l'ago e il fieno avevano esattamente lo stesso aspetto. Era necessario confrontare con precisione il DNA di colo ro che avevano sofferto della malattia e di coloro che non ne avevano sofferto, un pezzetto alla volta. A seconda della complessità del gene analizzato, questo procedimento poteva richiedere anni. Fortunatamente per la Medan e i suoi clienti, una volta stabilita la strut-
tura e la collocazione di un gene della malattia, controllare se esso era presente in un certo campione era relativamente semplice. Nei laboratori della compagnia, si controllava la presenza di nove di questi geni in otto diversi cromosomi, anche se ciò significava analizzare solo una minuscola parte delle informazioni genetiche presenti nei campioni. Innanzitutto, si identificavano i singoli cromosomi e li si isolava mediante una tecnologia al laser detta flow-sorting. Poi si amplificava il DNA, moltiplicando milioni di volte le zone di particolare interesse mediante un catalizzatore detto enzima Taq. Il materiale genetico risultante veniva quindi introdotto in speciali sonde radioattive. Queste sonde avevano il compito di riconoscere i geni della malattia, rendendoli radioattivi e quindi visibili in fotografia. Queste fasi del lavoro erano state tutte automatizzate con successo, ma per comprare e modificare la tecnologia la Medan Inc. era quasi fallita otto anni prima. Solo l'intervento di nuovi soci finanziari l'aveva salvata. Allora era arrivato Guy Pilaski. Tate, socio fondatore della compagnia, era stato costretto ad accettare il posto di vice direttore esecutivo (settore tecnologia). Tate batté la propria password al computer e comparve la prima schermata di dati. Era semplicemente una lista di numeri a nove cifre, ciascuno dei quali si riferiva a un individuo senza nome. In fondo allo schermo, un altro avviso diceva SELEZIONARE PROFILO O TASTO INVIO PER ORDINE CORRENTE Tate fece scorrere la lista. Uno dei numeri era diverso dagli altri. L'aveva creato lui stesso appositamente, per poterlo riconoscere facilmente: AP91919191-9. Era il numero di Michael Eliot, secondo campione. Dopo un attimo di esitazione, Tate lo selezionò col mouse e ordinò al computer di stampare i risultati. Dapprima pensò di aver selezionato il profilo sbagliato. La mutazione responsabile della corea di Huntington si trovava verso l'estremità del braccio più corto del cromosoma quattro. Consisteva in un segmento instabile di DNA all'interno di un gene la cui funzione era ancora sconosciuta. Nelle persone normali, il segmento comprendeva da 11 a 34 ripetizioni di una particolare triade di coppie di base. Nelle vittime dell'Huntington il segmento comprendeva da 42 a 100 ripetizioni. Perché questa irregolarità genetica provocasse i sintomi della malattia non era chiaro. Il rapporto tra i due fatti, invece, era chiarissimo: l'Huntington era un carattere ereditario
dominante, il che significava che chiunque aveva il gene difettoso ne restava vittima, prima o poi. Ma questa volta non c'era alcuna irregolarità. Tate tornò al computer e ricominciò da capo. Gli stessi dati comparvero sullo schermo. L'Huntington era una delle malattie che la Medan controllava regolarmente. Colpiva solo una persona ogni ventimila, ma valeva la pena di cercarla per la lentezza della malattia e la relativa facilità nell'individuarla. Tate si alzò e si avvicinò alla finestra. Malgrado ciò che aveva detto a Eliot, il secondo test era poco più che una formalità. Non aveva mai visto due campioni della stessa persona fornire risultati diversi, a meno che la malattia di cui si trattava non dipendesse da diversi geni - e in questi casi di solito l'incoerenza era nell'analisi del computer, più che nei dati stessi. Ma questo risultato era diverso. Diceva forte e chiaro più che mai: Michael Eliot non aveva il gene della corea di Huntington. Tate si sentì improvvisamente molto a disagio. Si allentò la cravatta e si slacciò il colletto. Era difficile credere che le sonde non scoprissero il difetto genetico del cromosoma quattro, inconcepibile che lo vedessero se non c'era. Perché ciò avvenisse, bisognava che l'intera struttura fosse in rovina. A meno di un caso di contaminazione. Naturalmente. In qualche modo, uno dei due campioni era stato contaminato con il DNA di un'altra persona. Una scaglia di pelle, una goccia di saliva, un pelo, qualsiasi cosa. Non accadeva spesso - praticamente mai se si seguivano le procedure standard e la presenza di due diversi insiemi di cromosomi di solito emergeva abbastanza rapidamente. Ma poteva accadere. Una volta che il flow-sorting aveva isolato i cromosomi sbagliati, la procedura andava avanti come prima, solo che il DNA esaminato apparteneva a qualcun altro. Tate uscì dal programma e andò al minicomputer che conteneva tutti i dati vecchi. Le analisi del primo campione di Michael Tate erano lì. In pochi minuti ebbe la conferma che cercava. I due campioni erano del tutto diversi. Appartenevano a uomini diversi. L'unica domanda era: quale dei due era Eliot? Mise giù le analisi e si sedette, cercando di riflettere e di essere logico. Dei due campioni, era più facile che quello contaminato fosse il primo. Lui stesso aveva preso il secondo in laboratorio, usando procedure ottimali in condizioni ottimali. Il primo campione era stato prelevato altrove, usando metodi solitamente affidabili, ma tutt'altro che perfetti. Se c'era stata una contaminazione, era molto più probabile che fosse avvenuta lì.
Per un attimo si sentì sollevato. Non era colpa sua. Lui aveva seguito le procedure standard. Ma era stato lui a dare a Eliot la cattiva notizia - cattiva notizia che non aveva controllato a dovere. Eliot se n'era andato convinto di avere una malattia neurodegenerativa fatale che nulla al mondo poteva curare. Dieci giorni dopo era morto. Il telefono suonò. Tate lo ignorò. Ricordava la faccia di Eliot mentre ascoltava la propria sentenza di morte - la paura e poi, col passare dei minuti, la strana calma immobile. Ci sarebbero stati dei cambiamenti... Poi un altro pensiero lo colpì: se Michael Eliot non aveva la corea di Huntington, chi l'aveva? SECONDA PARTE Tutti sanno tutto 8 Alex dormì male. Ogni volta che stava per abbandonarsi, le tornavano in mente le parole di Liz: aveva dei milioni. Ricordava l'ultimo incontro con Eliot, tutto eccitato, che avanzava per baciarla, col colletto slacciato, la cravatta scostata di lato. Le aveva messo un braccio intorno alla vita e nel compiere il gesto le aveva sfiorato il seno. Hartman era presente, li aveva visti. Un bicchierino di plastica era caduto per terra e il vino si era versato. Alex l'aveva respinto, arrabbiata per la sua brutalità e la sua stupidità - arrabbiata anche con se stessa per averlo lasciato fare. Ma il suo contatto aveva continuato a solleticarla in fondo alla gola nei minuti seguenti. Più tardi, quando aveva raccolto un po' le idee, si era detta che erano le conseguenze dell'ubriachezza, gli atteggiamenti che le persone spesso si permettevano di avere alle feste aziendali, ma adesso le sembrava qualcosa di peggio. Eliot non stava solo tradendo sua moglie, stava anche tradendo Liz, la donna con cui avrebbe dovuto fuggire. Liz le aveva mostrato i biglietti aerei. Per quanto sembrasse incredibile, c'era stato un vero progetto di fuga. Alex si rivoltò nel letto, tirandosi addosso le coperte per difendersi dal freddo. Cercò di pensare a qualcos'altro, ma finì per immaginarsi Liz in riviera. Pensò a quanto tempo ci avrebbe messo Eliot per notare le bellezze locali. Liz non avrebbe avuto alcuna possibilità. Stava meglio senza di lui. Alex comprese che aveva appena accettato la morte di Eliot e si trovò contro la spalliera del letto.
Il rumore disturbò Oscar, che andò verso il davanzale e saltò su per guardare in strada. Dopo un attimo incominciò a miagolare per uscire, ma Alex non lo ascoltava. Pensava a quello che aveva detto Liz sulla morte di Eliot. Era pazzesco pensare che non fosse stata un incidente. D'accordo, le probabilità che si fulminasse da solo erano scarsissime in qualsiasi momento, tanto più quando lui e liz stavano per fare il gran salto, ma omicidio? Con la signora Eliot nei panni del killer? Le probabilità erano ancora più scarse. Quanto, però? Scossa accidentale contro omicidio domestico. Alex si lasciò attirare dal confronto tra le diverse possibilità, poi si fermò. Era inutile. Le statistiche non avevano importanza. Un fatto dipendeva dal destino cieco - una semplice coincidenza - l'altro dall'odio cieco. Bisognava credere che la signora Eliot fosse capace di uccidere. E comunque, se anche ne fosse stata capace, come aveva fatto? Come si fa a fingere una morte per scossa elettrica? Avrebbe dovuto puntare una pistola alla testa del marito e costringerlo a tenere in mano un cavo, poi riattaccare la corrente... L'insistente miagolio di Oscar filtrò fino alla sua coscienza. Si alzò dal letto e si mise un maglione pesante. «Cosa c'è, signor gatto?». Lo prese in braccio e gli fece vedere la scala antincendio fuori dalla finestra. Gli piaceva andare lì fuori. Era l'unica cosa davvero da gatto che faceva. Per il resto era socievole, amichevole come un cane. Amava l'acqua e scodinzolava perfino, anche se in maniera felinamente furtiva. Solo nelle notti d'estate sembrava ricordarsi del suo ruolo e sedeva per ore sulla scala antincendio contemplando la luna. «Oppure drogarlo», si disse Alex. «Drogarlo e poi toccarlo con i cavi». Naturalmente esistevano persone che si erano suicidate in quel modo. L'aveva letto. Si erano collegate all'impianto elettrico con un interruttore a tempo e avevano preso un sonnifero. Un'ora di piacevole sonnellino, poi l'interruttore scattava. Alex toccò il vetro con la fronte. Forse Eliot aveva fatto così, forse avevano scoperto qualcosa sui soldi. Forse si era ucciso, e la moglie aveva voluto nasconderlo, far finta che fosse un incidente... Al martedì mattina, Alex trovò un biglietto sulla scrivania. Era di Randal White, il primo segno dopo parecchio tempo che indicava come non fosse ignaro della sua esistenza. Chiedeva semplicemente se poteva passare a trovarlo verso le nove e mezza. Alex si preparò un caffè, controllò l'e-mail, poi andò a bussare alla sua porta.
Randal White era seduto alla sua scrivania, parzialmente sepolta sotto mucchi di documenti. Il fatto che la scrivania fosse in disordine era così strano, che Alex non poté fare a meno di notarlo. «Volevo scusarmi per non averti risposto a proposito di quei dati sulla sanità, ma come vedi» - indicò la scrivania - «sono letteralmente sepolto. Janice mi sta tormentando con dieci cose diverse nello stesso momento. Sai quanto può essere insistente». Janice Aitken, la segretaria personale di White, aveva una passione per i post-it. Alex ne notò una serie sullo schermo spento del computer di White. Parecchi avevano messaggi sottolineati con doppi punti esclamativi. «La morte di Michael mi ha... Ho avuto un sacco di riunioni, come puoi immaginare». Alex annuì, anche se le sembrava che la trascuratezza di White risalisse a parecchie settimane prima della morte di Eliot. «E per il resto... beh, l'anno nuovo si sta rivelando piuttosto impegnativo». White fece una pausa, aggrottando la fronte, poi controllò i suoi postit. «Anzi, proprio di questo volevo parlarti». «Dell'anno nuovo?». White la guardò e Alex colse la sua perplessità, mescolata alla nuova fatica dalla quale sembrava non riuscisse a liberarsi in questo periodo. «No. Di Michael. Il funerale è domani, come forse hai saputo. Volevo sapere se pensi di andarci». Alex aggrottò la fronte. Sentiva che White la osservava attentamente. «Be', io non avevo...». «Pensavo che avresti apprezzato l'opportunità, visto che voi due...». White lasciò la frase in sospeso. Alex si sentì come una che inciampa nel buio. Poi, come se si fosse accesa una luce, capì: White credeva che lei fosse stata l'amante di Eliot. L'idea era assurda. Tutti sapevano di lei e Mark. Ma in fondo Mark non era suo marito. Forse White pensava che lei avesse deciso di cambiare. Guardandolo adesso, Alex credette di vedere nei suoi occhi il sospetto, o almeno la curiosità. Sentì che le si imporporavano le guance e immediatamente si chiese se questa supposizione sbagliata era all'origine del suo atteggiamento di distacco nelle ultime settimane. White pensava che lei andasse a letto a destra e a sinistra, magari che cercasse di fare carriera in questo modo, senza curarsi dei sentimenti altrui. Prima Mark, poi il capo di Mark, e chi altri, adesso che Eliot era morto? La ristrettezza della società di Providence faceva sì che i dirigenti importanti si frequentassero tutti e
si frequentassero regolarmente. White conosceva senza dubbio la signora Eliot, l'aveva sicuramente incontrata in società. Alex se la immaginava a piangere sulla spalla di White, mentre gli raccontava i tradimenti del marito. Era normale che White provasse una certa animosità nei confronti dell'«altra». «Alex, stai bene?». «Oh... sì, certo». «Lo dico perché pensavo che potremmo andare insieme. Sarebbe l'occasione per parlare di quella strana anomalia che hai scoperto a proposito di... cos'era?». «Attacchi di cuore». «Ah, sì, giusto, attacchi di cuore. Ma, naturalmente, la funzione ti sembrerà insopportabile...». Alex era molto confusa. Ma una cosa le era chiara: non doveva dare l'impressione di essere sconvolta dalla morte di Eliot. «No, per niente», disse. «Certo, è una cosa molto triste, soprattutto per la signora Eliot. Ma in realtà non conoscevo Michael molto bene. Non al di fuori del lavoro, comunque». White unì le mani sotto al mento, con gli occhi ridenti e la bocca tesa. «Capisco. Be'...». «Ma se pensi che io debba andare in quanto dipendente dell'azienda, sarà più che felice...». «Bene», disse White bruscamente. «Bene. Parlerei del problema dei dati anche adesso, ma...». Suonò il telefono. White aspettò che smettesse, ma era evidente che Janice non avrebbe risposto. Alla fine allungò una mano e lo prese da sotto un mucchio di documenti. «Pronto? Oh, Richard... Sì, cosa posso...?». Era Richard Goebert, il presidente. Alex guardò fuori dalla finestra, cercando di raccogliere le idee. Chiaramente, se White voleva parlare dell'anomalia, non la stavano emarginando. Voleva dire che non si curava della storia che lei poteva aver avuto con Eliot. Si sentì sollevata, poi, quasi immediatamente, felice che avesse preso le sue osservazioni tanto sul serio da volerle approfondire. «Be', in realtà, Richard, adesso non è... Sì, sì, lo capisco, ma... Stavo parlando con una delle mie... Con Alex Tynan». Goebert si lanciò in un lungo monologo e White chiuse gli occhi. Dopo un po' li aprì, guardò Alex, si strinse nelle spalle e si chinò in avanti.
«Richard, scusa se ti interrompo, ma io... sì, sì». Annuiva adesso. «Certo, naturalmente. Sì, lo farò. Ciao, Richard». Mise giù il telefono. «È il trentacinquesimo anniversario di matrimonio di Richard», disse, come se ciò spiegasse tutto. Le tre limousine nere lasciarono il palazzo della Providence Life alle due e mezza. Richard Goebert, Newton Brady e Walter Neumann sedevano rigidi e silenziosi sulla prima; Ralph McCormick della Central Records andava insieme a Donald Grant e Dean Mitchell, direttore del settore risarcimenti, e a Tom Heymann, della PrimeNumber. Alex e White erano soli sulla terza. Una nebbia gelata copriva la città, dissolvendo gli alti edifici della Westminster Street al di sopra del quarto piano. Mel Hartman era rimasto stupefatto quando aveva scoperto che Alex sarebbe andata al funerale con tutti quei direttori. E la sua confusione diventò allarme quando scoprì che sarebbe stata in macchina da sola con Randal White, il suo idolo. La sua bocca disegnò un mezzo sorriso mentre diceva di sperare che lei e White non sarebbero andati a Swan Point con la sua Camry. Ma attraverso lo scherzo, Alex aveva colto qualcosa di simile alla rabbia. Spiegò che non era l'unica non dirigente ad andare al funerale. Andavano anche Ed Bergen delle finanze, e i familiari e gli amici di Eliot. Hartman si era stretto nelle spalle, dicendo che non gli interessava chi andava. «Divertiti», era stato il suo saluto. Hartman, nella sua mente machiavellica, pensava chiaramente che Alex fosse oggetto di un favoritismo. E, sistemandosi nell'interno di pelle color avorio dell'auto, Alex non poté fare a meno di sentirsi un po' privilegiata. Dopo tante settimane di disinteresse da parte di White, era piacevole avere ancora tutta la sua attenzione. «Una giornata proprio funerea», disse White guardando le strade grigie. «Hanno detto che tornerà a nevicare», osservò Alex. «Non credo che avremo molte possibilità di parlare quando saremo al cimitero», disse White. Si chinò in avanti e premette un pulsante, facendo scorrere uno schermo di vetro tra loro e l'autista. Si voltò e la guardò. «Per cui forse potresti parlarmi di questa piccola anomalia in cui... ti sei imbattuta». «Be', è come ho detto nella mia e-mail. È una cosa molto semplice. Il rapporto tra attacchi di cuore e propietari di spider è troppo rigido. Ogni anno il 4,2 per cento delle vittime di attacchi cardiaci sono possessori di spider. Non c'è nessuna variazione, nessun...».
«Sì, ho capito benissimo. La tua e-mail era molto chiara e precisa. Mi chiedevo solo come mai ti è venuto in mente di fare un controllo incrociato così strano». Alex si era preparata. Non voleva parlare dello scherzo che aveva avuto intenzione di fare. «Be', era l'ora di pranzo, e volevo solo vedere fino a che punto arrivavano i nostri dati», rispose. «Ci diciamo sempre che sono dettagliati, esaustivi. E ho pensato, perché no?». White la guardò con durezza. Poi annuì. «Capisco. Per cui è stato solo un caso». Sorrise come se non le credesse del tutto. «Be', sei stata fortunata a scoprirlo, perché nel corso delle normali operazioni questa correlazione rigida, come la chiami tu, non sarebbe mai saltata fuori». Si voltò. Per un minuto viaggiarono in silenzio. Grandi fiocchi di neve incominciarono a colpire leggermente il parabrezza. «Credi che sia importante?», chiese Alex. «Come sai, qualsiasi errore nella compilazione dei nostri dati attuariali potrebbe avere serie conseguenze sui nostri prezzi. Alla fine, potrebbe costarci dei soldi». «Credi quindi che sia un errore di compilazione?». «Probabilmente». «Un errore di chi?». White rifletté un momento. «Credo che incomincerò col verificare la PrimeNumber. Sono loro che ci passano la maggior parte dei dati in questo periodo. E la cosa più logica». «La PrimeNumber? Credevo che gestisse solo i moduli di iscrizione. Che inserissero tutti i dati grezzi per noi». White scosse la testa. «Lo facevano. Ma ora non più. Hanno attrezzature più economiche, personale più economico». White scoccò ad Alex un'occhiata critica. «E un sacco di capacità informatiche di cui non sanno cosa fare. Nel frattempo, le nostre attività si sono moltiplicate. Sai quanto lavoro abbiamo al quartier generale. La PrimeNumber si assume sempre di più la parte meccanica del lavoro. Da circa sette anni siamo legati a loro. Anzi, ormai siamo i loro unici clienti, o quasi». «E la PrimeNumber compila anche i nostri dati sui pagamenti? Le statistiche sulla mortalità eccetera?». L'idea che una cosa così importante, così essenziale per la ProvLife e per il settore attuariale fosse gestita da esterni colpiva Alex come una specie di
violazione. «Qualcuno deve immettere tutti questi dati. È più economico servirsi di esterni. Anche se magari...». White passò la mano sul finestrino per togliere il vapore e guardare in strada, «...non esclusivamente». Si rivolse verso di lei. «Ti piacerebbe visitare la PrimeNumber? Sono sulla West Warwick. Non è lontano. Potremmo chiamarlo addestramento manageriale. Un ampliamento della tua esperienza operativa. Mentre sei lì potresti, diciamo così, revisionare i loro metodi di compilazione». Alex non sapeva proprio cosa dire. Si sentiva adulata per il fatto che White prendeva così seriamente l'errore da lei scoperto, ma un po' preoccupata perché adesso voleva che fosse lei a scoprire il responsabile. «Vuoi dire che dovrei fare un'azione di spionaggio?». White sogghignò. «Diciamo di revisione», disse. «Se ti fa sentire meglio». 9 Il cimitero di Swan Point si trovava sulla costa, tra la frondosa opulenza del Blackstone Boulevard e l'ampio estuario del fiume Seekonk. Con una superficie di circa duecento acri, i suoi lunghi viali erano affiancati da grandi cedri, aceri e abeti, i monumenti funebri e le tombe erano nascosti tra alberi di ciliegio e tassi accuratamente potati. Soprattutto verso sud, dove la maggior parte del terreno era ancora libero, lo si poteva facilmente scambiare per un parco pubblico, tranne che nel parco ci sarebbe stata gente a correre o a pattinare, mamme con bambini, o almeno delle impronte nella neve. Ma a Swan Point i visitatori erano rari e letteralmente lontani l'uno dall'altro. Ricordava più un quartiere ricco e isolato che una città di morti. La cappella episcopaliana era un edificio di stile inglese arcaizzante, con un rivestimento di pietra, finestre ad arco con vetrate colorate e una piccola guglia di piombo. L'auto di White si unì a una processione di berline scure all'ingresso, che manovravano con angelica pazienza scaricando i loro passeggeri e ritirandosi a discreta distanza. Alex si sentì irrigidire per la tensione quando finalmente si fermarono dietro a un'ambulanza privata, dal retro della quale stavano facendo scendere lentamente un'anziana signora su una sedia a rotelle. Non sapeva niente della famiglia di Michael Eliot, e questa era senza dubbio una cerimonia destinata innanzitutto ai familiari. Il fatto che ci fossero altre persone della ProvLife la faceva sentire meglio,
ma erano tutti molto più anziani di lei. Conoscevano Michael Eliot da anni. La sorpresa di Mel Hartman e dell'intero dipartimento era comprensibile. Era come se l'avessero scelta per ammetterla in un circolo molto più intimo di quello che la sua posizione comportava. Si sarebbe sentita più tranquilla se avesse capito perché. All'ingresso della cappella, due uomini vestiti impeccabilmente prendevano il nome dei partecipanti man mano che passavano e davano ordini per il servizio. Indossavano cappotti neri identici con colletti di velluto e fasce nere sul braccio, fissate con un nastro. Con suo grande imbarazzo, Alex dovette entrare da sola, perché Randal White si fermò a scambiare qualche parola con l'anziana signora sulla sedia a rotelle. La signora gli sorrise, gli afferrò il braccio per un momento, e si capiva che lo conosceva bene. Alex si chiese se fosse per caso la madre di Eliot. La bara era di fronte all'altare, coperta di fiori. Un organo suonava sottovoce. Alex rimase un attimo ferma in fondo alla navata, cercando un posto dove sedersi. La società dell'East Side si era presentata in forze, e quasi tutte le panche in fondo e ai lati della cappella erano già occupate. Solo le tre file di fronte erano vuote. Parecchie teste si voltarono a guardarla. Si chiedevano sicuramente chi fosse quella giovane non accompagnata, senza segno di marito o di genitore. Molti probabilmente sapevano che non faceva parte della famiglia. Alex guardò verso la porta, sperando che Randal White la raggiungesse presto, ma di lui non c'era traccia. Probabilmente stava salutando altri amici e parenti di Eliot, offrendo le sue eloquenti condoglianze. Scorse sulla sinistra Ed Bergen, stretto fra una colonna e un uomo alto, con i capelli grigi e un bastone da passeggio. Bergen rispose tristemente al suo sorriso: chiaramente desiderava che la faccenda fosse già finita. Non c'era segno di Liz Foster, né di altre persone della tesoreria. Alex percorse rapidamente la navata, diretta alla terza fila. I suoi tacchi risuonavano rumorosamente sul pavimento. Era sicura che tutti la osservassero. Era possibile che sapessero della relazione di Eliot in ufficio? Sembrava fin troppo probabile. Il consiglio di amministrazione della ProvLife sicuramente lo sapeva, anche se non erano sicuri dell'identità della donna. E poi c'era Margaret Eliot. Possibile che non si fosse accorta di quello che succedeva? E in questo caso, aveva tenuto l'informazione per sé? La buona società dell'East Side era un mondo molto piccolo. In questo stesso momento, probabilmente, metà dei presenti si stavano chiedendo se la giovane bionda che percorreva la navata era stata l'amante segreta di Michael Eliot, venuta a dare l'ultimo saluto.
Alex si sentiva già a disagio quando raggiunse la quarta fila e vide i bigliettini bianchi con scritto Riservato. Si sentì arrossire. Le prime tre file erano vuote perché erano per i familiari, naturalmente. Non c'era nient'altro da fare che voltarsi e tornare indietro, rivelando a tutti il proprio errore, o la propria presunzione. Ma allora sentì che le porte si aprivano di nuovo e subito dopo entrarono i familiari e si diressero verso di lei: la vedova, velata, al braccio di un giovane che doveva essere suo figlio, l'anziana signora sulla sedia a rotelle spinta da Randal White, e il resto della dirigenza della ProvLife: Richard Goebert e sua moglie Eva, Newton Brady, Walter Neumann, Ralph McCormick e gli altri. Alex si sentì in trappola. Si mosse lungo la navata, in cerca di un posto libero, ma nessuno sembrava preoccuparsi di farle posto. Credi che la signora Eliot abbia ucciso suo marito? La domanda lampeggiò nella mente di Alex. Istintivamente, si voltò e vide la vedova che la guardava fisso mentre si avvicinava. Dietro al velo, Alex vide il suo volto pallido, i lineamenti fini, i begli occhi verdi, che si strinsero un momento, come se scorgessero qualcosa che non volevano vedere. E in quell'istante Alex seppe che la signora Eliot aveva effettivamente sentito le voci, sapeva che c'era un'altra donna e, come chiunque altro, si chiedeva chi poteva essere. Alex rimase immobile. Tu non la conosci, Alex. Avrebbe voluto vendicarsi. Poi la donna passò, si mescolò agli altri presenti in prima fila. Un uomo con la barba si alzò e offrì un posto ad Alex. Lei sussurrò un ringraziamento e si nascose tra le file di teste e di spalle, senza più alzare gli occhi fino all'inizio della cerimonia. Per essere un'esperta di mortalità umana, Alex conosceva davvero poco i cerimoniali della morte. Quello di Michael Eliot era il secondo funerale a cui assisteva in vita sua - l'altro era stata la cremazione di suo nonno, sette anni prima. Altri parenti erano morti durante l'infanzia o l'adolescenza, ma Alex non era mai stata costretta ad assistere ai loro funerali. Sua madre frequentava regolarmente la locale chiesa presbiteriana, e incoraggiava Alex a fare lo stesso. Ma quando si trattava di disporre dei morti, il suo entusiasmo per le cerimonie cristiane l'abbandonava. L'intera procedura era una semplice formalità - questo era il suo atteggiamento - una cosa che un bambino non poteva capire o apprezzare. Alex certo non aveva mai avuto l'impressione di mancare di rispetto al caro estinto o di deludere sua madre perché non andava ai funerali. Per cui era sempre rimasta a casa.
Aveva sospettato, allora, che sua madre tentasse in realtà di proteggerla da qualcosa che doveva essere sconvolgente. Di conseguenza, Alex era cresciuta con l'idea che i funerali fossero occasioni misteriose e traumatiche, finestre aperte sull'esistenza umana che era meglio lasciare nascoste e non frequentate. Quando era andata al servizio funebre per il nonno, la tranquilla solennità della cerimonia era stata una vera sorpresa. Ma ancora adesso, mentre ascoltava Richard Goebert che pronunciava il suo discorso - sostenendo con voce monotona e istituzionalmente addolorata che Michael Eliot aveva «coltivato e rafforzato la tradizione della dedizione al lavoro» - non poteva annullare del tutto l'impressione che, dietro l'evocazione della fratellanza e della redenzione, le parole di conforto delle preghiere e il canto degli inni, giacesse qualcosa di oscuro e di più inquietante della semplice morte. Non c'era stato alcun funerale per il sergente John Tynan, naturalmente. Per oltre vent'anni, la madre di Alex aveva rifiutato di ammettere l'idea che fosse morto. Per lei, disperso in azione significava disperso - cioè temporaneamente assente, capace di ricomparire da un momento all'altro - e gestiva la casa di conseguenza. Per quanto rammentava Alex, non si era mai spinta fino ad aggiungere un piatto in più a tavola, ma certamente teneva un pigiama del marito sotto il cuscino e lo lavava di quando in quando, «per rinfrescarlo». Uno dei primi ricordi di Alex era la foto del padre che le veniva mostrata su un album, spiegandole che un giorno sarebbe tornato dalla guerra. Tutte le volte che sulla stampa si parlava di americani detenuti in campi di lavoro sovietici o in prigioni vietnamite, sua madre ritagliava l'articolo e lo leggeva con tono trionfale a colazione - come se esso dimostrasse oltre ogni ragionevole dubbio che suo marito e i suoi commilitoni erano vivi e sani, e non erano morti quando il loro Huey era caduto dietro le linee nemiche nel 1972. E anche quando Alex ripeteva tutte le parole di sua madre agli zii e alle zie e agli insegnanti, nessuno la correggeva o le chiedeva se era davvero sicura. La proteggevano dalla realtà - dalle probabilità reali che suo padre fosse vivo e un giorno tornasse a casa - proprio come sua madre l'aveva protetta dai funerali. E così Alex era cresciuta con la speranza che un giorno, senza preavviso, un estraneo di nome sergente John Tynan sarebbe entrato dalla porta e la loro vita sarebbe cambiata per sempre. A volte si chiedeva se la sua passione per le certezze della matematica, per la scienza delle probabilità e delle previsioni, non fosse collegata a questa perenne incertezza della sua infanzia.
Cantarono «Dimora con me» e «Sede della luce, Gerusalemme celeste», assistiti da sei coristi. Risposero «Amen» alle preghiere di affidamento recitate dal giovane sacerdote e lessero ad alta voce le risposte del Libretto: «Non giudicare il tuo servo, o Signore; perché ai tuoi occhi nessun uomo vivente sarà giustificato». E mentre recitavano il Nunc dimittis da Luca, capitolo secondo, sei uomini presero sulle spalle la bara di Eliot e la portarono lentamente lungo la navata, verso un carro funebre che aspettava fuori. Con la coda dell'occhio, Alex li guardò mentre passavano: erano guidati da Walter Neumann e Newton Brady, ciascuno con dipinta sul volto l'espressione della dignità di fronte alla scomparsa. Qualsiasi cosa pensasse Liz Foster, era un gesto di solidarietà e rispetto da parte dei colleghi di Michael Eliot. Mentre guardava passare la bara, Alex rammentò ciò che Randal White aveva detto pochi giorni prima sul fatto che la ProvLife faceva parte della comunità, e non era solo una macchina per fare soldi. Si sentì invadere da un senso di orgoglio. La Providence Life era davvero diversa. Non erano solo la dimensione dell'azienda o la sua lunga tradizione, né la precisione e la profondità delle sue analisi. Era l'ethos del posto. Quando aveva lasciato il MIT era disposta a lavorare dovunque. Adesso capiva quanto era stata fortunata a finire dove si trovava. Il carro funebre si mosse a passo d'uomo verso la tomba di famiglia di Eliot, seguito a piedi dal corteo funebre. Fiocchi di neve cadevano dal cielo cupo, le cime degli alberi erano nascoste nella nebbia. Alex si trovò a camminare di fianco a Randal White, verso la coda del corteo. Benché l'atmosfera fosse ancora mesta, gli inni, le preghiere e perfino le parole di Goebert avevano un po' risollevato gli spiriti, e qua e là le persone parlavano tra loro, facendo osservazioni sulla bellezza del servizio o del luogo. «Mi spiace averti abbandonato, prima», disse White. «Sono rimasto bloccato dalla zia di Michael, Grace. Non la vedevo da circa otto anni, ma lei non dimentica mai una faccia. Una gran donna. Novantun anni e lucida come una ragazzina». Alex sorrise. «Non fa niente, Randal», rispose. Di solito si sentiva a disagio nell'usare il nome proprio di White, ma questa volta no. «Dovevi venire a sederti davanti», continuò lui. «C'era un sacco di spazio. Ti ho visto in mezzo alla navata. Stavo per dirti qualcosa». «Non è stato un problema. Quell'uomo mi ha fatto posto». Alex accennò all'uomo con la barba, che camminava pochi passi avanti a loro. Lo si individuava facilmente perché, di tutti i presenti, era l'unico che indossava un cappotto beige. Tutti gli altri erano in grigio o in nero. Era
anche l'unico che indossava scarpe marroni. White seguì lo sguardo di Alex e una leggera aria di disapprovazione gli si dipinse sul volto. «Mi ha anche offerto il suo fazzoletto», disse Alex. «Ho incominciato a commuovermi al "Dimora con me". E un inno così bello». «Sì», disse White, «e ha delle parole bellissime». Guardò al di là del prato gelato un mucchio di croci di pietra. I resti di un vecchio mazzo di fiori spuntavano dalla neve. «"Cambiamenti e rovina in tutto ciò che vedo". Sapevi che l'uomo che ha scritto queste parole è morto improvvisamente la stessa notte che le ha finite?». «No», disse Alex. «È... incredibile». White sorrise. «Credevo che avresti detto improbabile». «Be', anche». «Mi chiedo se in qualche modo non prevedesse la propria morte. Credi che sia possibile? Forse ha scritto "Rapida cade la notte" perché sapeva che per lui era proprio così». White rimase in silenzio, improvvisamente pensieroso. Per qualche tempo camminarono insieme senza parlare. «Non sai chi è, vero?», chiese Alex alla fine. «No. Era un parroco, credo. Un inglese». «No», disse Alex, «parlavo dell'uomo che mi ha fatto posto. Quello lì davanti». «Ah, quello». White aggrottò la fronte e distolse di nuovo lo sguardo. «Non si è presentato?». «No. Non ne ha avuta l'occasione, in realtà». «Non posso aiutarti. Non credo di averlo mai visto prima». Da alcuni anni a Swan Point c'era la moda di indicare ogni tomba di famiglia con un unico enorme pezzo di granito. Spesso quindici centimetri, con i margini irregolari, esso recava inciso a lettere cubitali il nome della famiglia, leggibile a centinaia di metri di distanza. Le singole tombe erano disposte all'intorno, ciascuna con una lapide più piccola. Poche di queste avevano lunghe scritte. Non c'erano biografie, né citazioni dalle Scritture, raramente si trovavano frasi del tipo A perenne memoria o Con tanto affetto. La maggior parte delle lapidi si limitavano a riportare il nome e le date, come se volessero salvaguardare la privacy del morto. Ad Alex sembrava che la privacy fosse la preoccupazione principale, a Swan Point. O era solo il modo in cui si facevano le cose a Rhode Island. Forse il fatto di essere piccoli e indipendenti comportava il farsi gli affari propri e l'aspettarsi che
gli altri facessero altrettanto. Gli Eliot avevano scelto un angolo tranquillo nella parte nord del cimitero, vicino a una serie di tombe più vecchie, del XIX secolo, molte delle quali indicate da piccoli obelischi in stile egizio. La fossa scavata di fresco era circondata da corone di fiori appoggiate a sostegni di legno. Ogni traccia di terra era nascosta sotto un rivestimento verde. Mentre aspettava che la bara arrivasse sul carro funebre, Alex contò altre sette tombe degli Eliot, che risalivano fino a due generazioni prima. Non aveva mai saputo che gli Eliot fossero una famiglia di Rhode Island. Ma, in fondo, era logico: il principale sostenitore di Eliot alla ProvLife era stato Richard Goebert. E c'erano dei Goebert a Providence da due secoli, dai tempi della tratta degli schiavi, quando erano state costruite tante fortune a Rhode Island. Si riunirono intorno alla fossa e ascoltarono il sacerdote che leggeva le preghiere della sepoltura, con voce sottile. E fu allora, mentre calavano la bara nella fossa, che Alex colse l'ironia della situazione. Michael Eliot aveva sognato di lasciare tutto questo. Il suo ultimo gesto era stato un tentativo di scomparire, di fuggire senza neanche guardarsi indietro. E invece era qui, rivendicato dalla sua famiglia, dalla sua città, dai suoi colleghi, circondato e pianto proprio dalle persone da cui voleva assolutamente allontanarsi. E qui ormai sarebbe rimasto per sempre. Alex rabbrividì e alzò lo sguardo dalla bara. Di nuovo gli occhi di Margaret Eliot incrociarono i suoi. Attraverso il velo, Alex credette di cogliere una minuscola traccia di sfida. O di trionfo. Alex sentì il telefono che suonava e salì di corsa gli ultimi scalini. Oscar era seduto sull'ultimo e la guardò stupito prima di sfrecciare su una scaletta che si trovava in un angolo del pianerottolo. Alex aprì la porta e afferrò la cornetta. «Pronto?». Ci fu un silenzio, seguito dal suono di qualcuno che respirava profondamente. «Pronto? Chi è?». Il suono si trasformò in un singhiozzo soffocato. «Sono io. Sei andata a casa prima, eh? Credevo che fossi ancora in ufficio». Liz sembrava arrabbiata, scossa. Doveva essere per il funerale. Alex cercò di apparire allegra. «Randal mi ha lasciato il resto del pomeriggio libero. Una specie di segno di rispetto».
«Davvero? È stato gentile». «Sì, l'ho pensato anch'io». Sedette sul divano. «Per questo sono qui alle cinque. Tu... stai bene, Liz?». «Avrei dovuto essere là. Non dovevo restarmene a casa». «Oh, Liz». «Avrei dovuto essere là a salutarlo. Era mio dovere. Ma pensavo che...». «Liz, Liz, smettila di tormentarti. Non ha importanza. E stato solo... solo una cerimonia. Tutto qui. Una formalità». «Avevo paura di non riuscire a sopportarlo. Avevo paura di arrabbiarmi e di tradirmi. Non voglio. Non per me, ma per Michael. Perché lui ha sempre voluto che la nostra storia restasse...». Restasse segreta. Questo voleva dire Liz? Dopo tutto quello che era successo, era ancora la fedele segretaria. Ma quanti segreti aveva avuto Eliot nei suoi confronti? C'erano i dieci milioni di dollari, innanzitutto, per non parlare della loro origine. «Liz, ti capisco benissimo. Lui avrebbe voluto così... probabilmente. Voglio dire, la tua discrezione». «Avrei dovuto andare, però, Alex. Avevo il diritto di esserci. Ne avevo il diritto come chiunque altro. Di più». «Certo», disse Alex dolcemente. «Certo». Per un momento la linea rimase muta. Alex cercò di pensare a qualcosa da dire, qualcosa che potesse aiutarla. «Com'è stato?», chiese Liz finalmente. «C'era molta gente?». «Sì, parecchia, direi». «Tutta gente che finge. Mi immagino che facce lunghe!». Di nuovo, il passaggio improvviso dal dolore all'amarezza. Alex capì che Liz era sulla difensiva. Non sapeva ancora bene come prenderla. «Suppongo che ci fosse Randal White», continuò Liz. «Sì», replicò Alex, sentendosi un po' sulla difensiva a sua volta. «C'era». «E anche Walter Neumann, vero?». «Sì». «Naturalmente. Non poteva mancare. Vogliono tutti il posto di Richard Goebert quando andrà in pensione. Lo sapevi? Il presidente amava Michael, per cui dovevano fingere di amarlo anche loro: Brady, Neumann, Randal White. Per questo c'erano. Ma non lo amavano affatto, Alex, non lo amavano per niente. White lo odiava». «Liz, non credo che questo sia del tutto vero. Voglio dire, c'erano tutti, tutti i dirigenti. Era... era un dovere aziendale, in un certo senso. Io credo
che loro...». «Michael odiava l'azienda. Voleva uscirne. E qualcuno gliel'ha impedito». Alex sospirò. «Oh, Liz». «Le hai dato un'occhiata?». «A chi?». «A Margaret. A chi se no?». «Sì, abbastanza. Voglio dire, indossava un velo, non le sono andata molto vicino...». «Credi che avrebbe potuto farlo?». Alex esitò. Ricordava il modo in cui la vedova l'aveva guardata al di là della tomba aperta. Le aveva provocato una sensazione spiacevole. Ma non più di questo: una sensazione. «Non lo so, Liz. Non credo». «Ha pianto?». «Liz, io non...». «L'hai vista piangere? No, vero? Scommetto che ha fatto fatica a tirar fuori un sospiro». «Liz, perché non...?». «È vero?». «Liz, non lo so! Non ero seduta vicino a lei, non l'ho vista». Liz rimase in silenzio. Dopo qualche istante, Alex la sentì piangere debolmente. Era più disperata che mai. E come stupirsene? Era seduta in un appartamento vuoto, con davanti agli occhi le valige di Eliot, i relitti accuratamente imballati della nuova vita che avevano progettato insieme. Era arrivata a ventiquattro ore dalla realizzazione del suo sogno solo per vederselo portare via. E la cosa peggiore era che nessuno poteva dirle perché. «Ascolta, Liz», disse Alex. «Devi uscire un po' da quella casa. Non va bene, per te... Senti, perché non metti qualcosa in una borsa e vieni qui per la notte? Preparo una cena, ci ubriachiamo, guardiamo la televisione. Fanno I 39 gradini su A&E». «Sarebbe bello... Ma non devi uscire con Mark?». Liz comparve un'ora dopo. Alex stava già tagliando la verdura, Stevie Wonder cantava in salotto. Mangiarono presto - pollo fritto - e finirono presto le due bottiglie di Chardonnay, che furono bevute quasi tutte da Liz. Si era molto calmata dal momento della telefonata. Non era più in lacrime, né arrabbiata. Era solo molto stanca, disse.
Alex cercò di rendere allegra la conversazione. Parlarono di Oscar, del sindaco Montanelli e di quell'idiota del genero della signora Connelly. Alex non ricordò Michael Eliot, né la sua morte, né la sua vedova, e riuscì perfino a evitare il tema dei suoi dieci milioni di dollari. Liz sembrava contenta di fare lo stesso. Anzi, sembrava che l'argomento fosse chiuso, per quanto la riguardava. 10 Il dolore della perdita colse Margaret Eliot di sorpresa. Anni di routine mortale avevano ridotto il suo sentimento verso il marito a una vaga dipendenza mista a risentimento a causa dell'indifferenza che egli non si curava di mascherare. La signora Ramirez, la donna delle pulizie, aveva scoperto il cadavere, per cui le era stato risparmiato questo trauma, e solo quando Michael Eliot fu sotto terra sentì tutto il peso di ciò che era accaduto. Dopo il funerale, dopo i saluti degli amici e dei parenti, e dopo la triste partenza di Peter, il suo ultimo figlio, Margaret rimase seduta da sola in salotto a guardare la parete su cui erano appese due foto: una con Tom e Peter, e una con l'intera famiglia in vacanza alle Florida Keys. Era stata scattata solo dodici anni prima. Michael aveva le mani sulle spalle dei ragazzi, mentre lei sedeva a gambe incrociate su una grande sedia di vimini, con un paio di occhiali da sole in mano. La sabbia bianca e leggera sporcava i loro piedi abbronzati. Michael aveva portato i ragazzi a pesca, quel giorno. Erano tornati con addosso odore di birra, Peter trascinava un tonno cii venti libbre come se fosse un marlin da trecento libbre. Adesso Peter era tornato a New York - era partito subito dopo il funerale - mentre Tom era a Londra a lavorare per la Citicorp. Non aveva voluto tornare («A cosa serve?», aveva detto), ma Margaret sapeva che non era la semplice indifferenza a tenerlo lontano, ma il risentimento. Entrambi i figli le rimproveravano ciò che era accaduto alla famiglia, il graduale estraniamento di Michael. L'avevano accusata in parecchie occasioni - queste cose erano riservate di solito per il Giorno del Ringraziamento o per Natale - di essere fredda e distante. Ma a lei sembrava che fosse Michael a essersi allontanato. Se lei era cambiata nel corso degli anni, era colpa sua. Perché mai fosse cambiato verso di lei e verso i ragazzi, non era mai riuscita a capirlo. Un anno tutto andava bene, l'anno dopo i segreti e la sfiducia avevano incominciato a crescere come un tumore. La foto si dissolse mentre le lacrime le riempivano gli occhi verdi. Cosa era successo a tutti loro?
Alle dieci e mezza si accorse delle lancette dell'orologio e capì che era rimasta immobile per tre ore. Aveva fame, ma la vista del cibo lasciato dagli addetti del catering in cucina le rivoltò lo stomaco. Mise del salmone affumicato tra due fette di pane di segale e lo buttò nel lavandino, piangendo a calde lacrime senza potersi fermare. Alzò la testa e guardò il proprio riflesso nella finestra buia. «Dio mio, aiutami», disse. Poi prese una bottiglia di whisky dalla dispensa e salì nel letto vuoto e freddo. Fu il telefono a svegliarla. Guardò l'orologio e rimase sorpresa nel vedere che erano quasi le dieci di mattina. Aveva dormito troppo. Si allungò nel letto per dare una pacca a Michael, poi si ricordò con un sussulto che non c'era più, che non ci sarebbe stato più, mai più. Chiuse gli occhi con forza per eliminare l'immagine della terra gelata che veniva spalata nella tomba fresca, poi afferrò la cornetta. «Pronto?». Non c'era nessuno. Vide la bottiglia di whisky mezza vuota e una cornice per fotografie rotta sul parquet. Le sembrò che una fascia di dolore si stringesse intorno alla sua fronte. «Pronto». «Signora... è la signora Eliot?». Una voce di donna. Vagamente familiare. «Sì, chi parla?». «Lei non mi conosce. Non mi conosce. Ma... ma, questo non ha importanza». «Eh?». Aprì il comodino e cercò il Tylenol, poi si accorse con irritazione che non c'era acqua nella brocca. «Ciò che ha importanza... il motivo per cui chiamo... è che ho delle informazioni». «Delle informazioni?». Ci fu una lunga pausa. «Su suo marito», disse la voce. Margaret aggrottò la fronte e si tolse un ciuffo di capelli dall'angolo della bocca. «Cosa?». «Ho detto...». «Ho capito quello che ha detto. Che cosa vuol dire "delle informazioni"?». Le vennero le lacrime agli occhi. «Mio marito...». «E morto. Lo so».
La voce sembrò svanire. Poi tornò decisa. «Ho delle informazioni sulla sua condizione finanziaria». Margaret ascoltava la voce a occhi chiusi, cercando di dare un senso a tutto ciò. «Sa che suo marito ha lasciato un'eredità sostanziosa?», disse la voce. La donna, chiunque fosse, adesso sembrava che leggesse un documento, ma incerta, come se avesse difficoltà a farlo. «Ma chi parla? Se non mi dice chi è riattacco». «Sa che ha lasciato più di dieci milioni?». Il sole spuntò da dietro una nuvola. Il pavimento era coperto di pezzetti di vetro. «Di cosa...». Scoprì che era rimasta senza voce. Riuscì solo a emettere un sussurro. «Di cosa sta parlando?». «Lo sapeva?». «Io... No, no, non lo sapevo. Ma chi è?». «Più di dieci milioni di dollari», ci fu un sospiro incerto, «su un conto bancario svizzero». Margaret scosse la testa incredula, incominciando ad arrabbiarsi. «Lei è pazza. Lei dev'essere qualche... dev'essere malata. Mio marito era un impiegato della ProvLife. Guadagnava... Non sono affari suoi. Ma non era un milionario». «Guadagnava poco più di centoventimila dollari all'anno», disse la voce. Margaret afferrò strettamente la cornetta. Michael aveva guadagnato 123.000 dollari nell'ultimo anno. «Come fa a...? Chi è lei? Esigo di saperlo». «Naturalmente, l'anno scorso i suoi guadagni - quelli svizzeri, quelli veri - sono stati di circa quattrocentomila dollari». Margaret cadde sui cuscini. «Lei... lei non è dell'IRS, vero?», disse. Ci fu uno scoppio di risa nervose all'altro capo della linea. Era troppo. Gettò le gambe fuori dal letto e si alzò in piedi, ignorando i vetri sparsi per terra. «Come?», disse la voce, vendicativa. «Ha paura di perdere la sua preziosa casetta? No, non sono dell'IRS. Non sono del fisco. Sono... Diciamo che ero un'amica di Michael. Una buona amica». Margaret si diresse verso la finestra, riflettendo, cercando di indovinare chi fosse quella donna. Un acuto dolore al piede sinistro le fece abbassare lo sguardo. Sul pavimento c'era una striscia di sangue. «Comunque», disse la voce, «chi sono io non è importante, gliel'ho già
detto. L'importante è quello che so». «E... E cosa sa?». «Dove sono i soldi». Margaret incominciò a ridere. Era pazzesco. «Suvvia, Margaret», disse la voce. «Non si perda proprio adesso. Mi stia a sentire. Le dico che so dove sono i soldi. I suoi soldi». «Mio... Io non... Io non so se...». «Zitta e ascolti». Non rabbia, ma impazienza, paura. «Michael aveva dieci milioni di dollari su un conto svizzero. Adesso è morto. I soldi sono suoi, legalmente». «Non so di cosa stia parlando». «È per questo che la chiamo. Ho i numeri di telefono, i numeri del conto, tutti i suoi documenti - le informazioni che le danno accesso a ciò che è legalmente suo». «Ma perché? Perché lei... Perché fa questo? Perché me lo dice?». «È semplice», disse la voce con tono quasi di sfida. Ci fu un altro sospiro incerto, forse un tiro a una sigaretta. «Ne voglio la metà». Margaret guardò fuori dalla finestra la mattina grigia. Il piede le faceva male, ma aveva una tale impressione di irrealtà che non abbassò neanche lo sguardo per vedere cosa provocava il dolore. «Io non posso avere i soldi perché non ero la moglie», continuò la voce. «Lei, in quanto coniuge sopravvissuto, si prende tutto. Mi segue?». «Sì... sì». «Bene. Adesso mi ascolti. Questo è il patto. Io le do le informazioni in cambio della metà. Della metà». «Oh, mio Dio». Margaret si coprì la bocca con dita tremanti. La voce continuò imperturbabile. «Abbiamo condiviso Michael. E adesso...» Era una sigaretta, sentì le labbra che si staccavano delicatamente dalla carta, «...adesso condivideremo i suoi soldi. E giusto». «Condiviso Michael?». «Lei ha la casa, no?». Era come se avesse improvvisamente toccato un tasto dolente. «E la pensione e l'assicurazione sulla vita. Ma si ricordi, senza di me, senza le mie informazioni, non prenderà nient'altro». «Che cosa vuol dire "abbiamo condiviso Michael"?». Un'idea si fece strada nella sua mente e Margaret sedette sul letto. Ricordò la giovane donna al funerale.
«Mio Dio, è lei, vero? Al funerale. Lei era la...». «Io al funerale non c'ero. Crede che mi sarei mescolata a voi ipocriti? Ma non si preoccupi. Farò i miei saluti». Le lacrime riempirono gli occhi di Margaret. «Oh, mio Dio. Come può... lui è appena morto e lei... e lei vuole i suoi soldi». «Sono miei quanto suoi, Margaret. Più miei che suoi. Ce li saremmo goduti noi due, io e lui. Se non fosse morto, lei non avrebbe visto un centesimo». «Non è vero». Singhiozzava. «Stava per lasciarla, Margaret. Questo pensava. Il giorno in cui è morto stava per fuggire». «Bugiarda», disse in tono neutro. «Posso dimostrarglielo. Ho i...». Ma Margaret non voleva sapere cosa avesse quella donna. L'ira e il dolore esplosero come un ciclone nella sua testa. Nello sbattere giù la cornetta si ruppe un'unghia. 11 Per un capitano d'azienda consapevole dei costi, Tom Heymann era piuttosto generoso con il suo tempo. Alex arrivò alla PrimeNumber un lunedì mattina e, nei due giorni che rimase lì, non restò mai sola per più di un'ora di fila. Quando lei arrivò, Heymann la invitò nel suo ufficio per un caffè in un bicchierino di plastica e «quattro chiacchiere». Era un uomo basso di quasi cinquant'anni, che sembrava dedicasse parecchio tempo alla palestra. I capelli castano chiari divisi nel mezzo gli davano un'aria innocente, ma i suoi occhi, stanchi e gonfi, apparivano meno amichevoli. Furono gli occhi ad attirare l'attenzione di Alex durante il loro imbarazzato colloquio. Grigio chiari, o azzurri, davano l'impressione di essere illuminati dall'interno ed erano dappertutto. Sorrideva, mentre le parlava, muoveva la testa di qua e di là come a dire «stiamo solo facendo conoscenza», ma gli occhi restavano seri, oscillando dalla sua bocca ai suoi capelli al suo seno mentre Heymann parlava, come se ogni parte del suo corpo contenesse informazioni a cui lui avrebbe ripensato in seguito. Alex non poté fare a meno di rabbrividire. «Freddo?». «No, sto bene», mentì Alex. «Teniamo la temperatura piuttosto bassa, qui. Mai molto al di sopra dei
15 gradi. Il fatto è che con tutta l'elettronica che usiamo i nostri attrezzi hanno la tendenza a surriscaldarsi. E se diventano troppo caldi incominciano a sballare. E così nascono gli errori». Alex guardò il proprio bicchierino di plastica. C'era un logo inciso in color rosso sangue: PRIMENUMBER: LA QUALITÀ AL PRIMO POSTO. «Ma non è per questo che lei è qui?», chiese Heymann. «No, no», disse Alex alzando lo sguardo. «Il signor White ha solo pensato che poteva essermi utile entrare in contatto con gli aspetti del lavoro che hanno a che fare con la raccolta dei dati della ProvLife». Gli occhi gonfi di Heymann si strinsero. «Entrare in contatto?». «Certo. Vedere esattamente in che modo le informazioni passano dai moduli di iscrizione e di pagamento ai database dell'azienda». «Capisco». La fissò per un istante, poi sbatté le palpebre. Unì le mani e le fregò vigorosamente. Era evidente che aveva un po' freddo anche lui. «Be', permetta che le faccia da guida». La PrimeNumber era collocata in fondo a una strada senza uscita a West Warwick, a circa sette miglia dal centro di Providence. Era una brutta zona di piccoli capannoni e magazzini industriali, molti dei quali aspettavano ancora una destinazione - una dichiarazione di fiducia della città, o almeno del sindaco Montanelli, nel suo futuro tecnologico. Gli uffici erano tutti su un solo piano, pieni di scrivanie dall'aspetto economico e suddivisi da bassi séparé di iuta. Non c'erano angoli o piante dietro a cui la gente potesse nascondersi. Tutti potevano vedere tutto. Alex pensava che volessero scoraggiare le chiacchiere da ufficio. I monitor lampeggiavano. Mentre Heymann la portava in giro, un paio di teste si alzarono, ma per poco. Il rumore delle tastiere era come una pioggia continua. Heymann si fermò alle spalle di una donna dai capelli rossi. «Questo è il Settore 1». Prese un prestampato bianco con caselle blu in cui il futuro assicurato doveva inserire i suoi dati. Il modulo era identificato da un numero di serie di otto cifre preceduto dal prefisso AP (applicant, richiedente), e conteneva quarantadue domande, alcune delle quali suddivise al loro interno. Venivano chieste informazioni di base come l'indirizzo e la professione, se si voleva una formula per fumatori o per non fumatori, e quale tipo di copertura ospedaliera si desiderava. Le ultime dodici domande entravano più nel dettaglio e cercavano di stabilire se il richiedente aveva intenzione di viaggiare nei prossimi dodici mesi, che tipo di auto guidava, se praticava attivi-
tà pericolose come il nuoto subacqueo o le corse in moto, se gli avevano mai ritirato la patente o se era mai stato arrestato per aver commesso reati sotto l'influsso di alcol o droghe. Alex guardò il computer della rossa, pieno di informazioni. «Qui teniamo i database statistici e inseriamo i dati grezzi», spiegò Heymann. «Naturalmente, sono compatibili al cento per cento con il sistema della Central Records al quartier generale della ProvLife. Quando voi attuari cercate dei numeri, delle statistiche, nella metà dei casi lavorate sul nostro sistema. Siamo perfettamente integrati». «E ogni quanto aggiornate questi dati?». «È una cosa istantanea. Tutte le risposte diverse dal nome e dall'indirizzo hanno un codice digitale. Così, per esempio, quando Karyn...». Al suono del suo nome, la donna dai capelli rossi alzò gli occhi. Heymann la toccò sulla spalla. «Va tutto bene, Karyn. Quando Karyn inserisce lo stato civile di un richiedente, il computer riconosce la categoria e automaticamente aggiorna i dati appena lei finisce il modulo». Alex annuì. Database o no, la funzione della PrimeNumber era esattamente come l'aveva definita White: lavoro meccanico. «E quando vengono inviati i moduli per le richieste di risarcimento, seguite la stessa procedura?», chiese. «Esatto. Compilando e aggiornando i database, alleggeriamo il lavoro interno della ProvLife. E potremmo fare anche molte altre cose. Il nostro lavoro sarà ancora più importante quando - o dovrei dire se - l'azienda entrerà nel settore della copertura sanitaria». Dati gli stretti rapporti tra la PrimeNumber e la ProvLife, Alex non era sorpresa che Heymann avesse sentito parlare del progetto sanità. Ma dal modo in cui ne parlava, aveva l'impressione che ne sapesse molto più di lei. «A proposito, ha firmato per il progetto pilota?», le chiese. «Certo», rispose Alex. «Praticamente tutti l'hanno fatto. È migliore del programma della mia vecchia compagnia». Heymann sorrise. «Diamo un'occhiata, allora. Scusami, Karyn». «Certo». La rossa si alzò, felice di abbandonare il video per qualche istante. Heymann prese il suo posto. «Vediamo». Incominciò a battere sulla tastiera. «Non si ricorda il suo numero AP, vero?».
«Eh... no, mi dispiace». «Non c'è problema. Cerco il nome». Le sue dita volarono sulla tastiera e sullo schermo comparve una griglia che imitava il modulo di domanda che Alex aveva compilato circa sei settimane prima. Tutti i suoi dati erano lì, il suo lavoro, gli anni di studio, fino alla vecchia Camry che arrugginiva nel parcheggio. «Abbiamo già pronto un nuovo database per le polizze mediche», disse Heymann. «Pronto e in funzione». «Molto notevole», si sentì dire Alex. «Be', se venisse investita da un autobus domani», disse Heymann guardandola da sopra la spalla, «adesso sarebbe registrata nelle statistiche attuariali». Il giro continuò per quasi un'ora. Heymann la portò in tutti i settori e insistette per mostrarle praticamente tutte le parti del sistema informatico della PrimeNumber. Alle undici Alex era esausta e fu lieta quando finalmente lui si allontanò per un impegno di lavoro, lasciandola nel rischioso settore delle attività a rischio, dove poté sedere a una scrivania vuota. Per un po' Alex tentò di analizzare schermate di informazioni sulle richieste di risarcimento, in cerca di incoerenze od omissioni. White chiaramente pensava che da qualche parte ci fossero delle scorciatoie, che le medie di settore fossero usate per coprire dei buchi, ma Alex non riuscì a trovare alcuna prova. C'era un che di difensivo in Heymann, di sospettoso, addirittura, ma nello stesso tempo l'uomo sembrava esageratamente orgoglioso dei suoi preziosi computer. La ricerca di Alex era resa più difficile dalla natura rudimentale del software, molto meno sofisticato dei sistemi che poteva usare al quartier generale. Ovviamente non c'erano guide o aiuti. Qui si dovevano catturare dati, non diffonderli. Dopo un'altra ora, si lasciò andare sulla sedia ed emise un sospiro di frustrazione. Guardò le file di donne con i volti illuminati dalla luce violetta degli schermi. Era strano vedere le informazioni che lei era abituata a manipolare in grandi quantità inserite parola per parola. La calligrafia dei richiedenti, a volte agile e sicura, a volte incerta e cauta, rivelava la realtà, l'individualità di ciascuno dei clienti della ProvLife. «Sta cercando lavoro qui?». Alex fu distolta dalle sue riflessioni da una voce amichevole. Si voltò per guardare la sua vicina e sorrise. La donna aveva nella sinistra un piccolo tagliacarte di plastica. «Oh, no. Lavoro al quartier generale dell'azienda. Nel dipartimento at-
tuariale. Sto solo imparando da dove arrivano tutti i nostri numeri». La donna si chinò in avanti le porse la mano. «Roberta», disse con un ampio sorriso che rivelò un dente mancante sulla sinistra. Alex si presentò a sua volta. «Mi sto rendendo conto per la prima volta che inserire tutte queste informazioni nel sistema è un lavoro enorme. Per quanto tempo riuscite a lavorare senza fare una pausa?», chiese. «Due, a volte tre ore. Qualcuna resiste anche molto di più». Roberta aprì una nuova busta, ne tolse il modulo di richiesta e mise la busta su un mucchio ordinato. Erano le stesse buste prepagate inviate a migliaia dalla ProvLife ai suoi potenziali clienti, ma che Alex aveva visto per la prima volta solo sei settimane prima, quando lei stessa era diventata una richiedente per il progetto pilota sulla salute. Allora il suo unico pensiero era stato che avevano un cattivo sapore quando si leccavano. Adesso vederle allineate su tutte le scrivanie le fece capire la dimensione industriale in cui operava l'azienda, e tutto il lavoro di routine, pagato male, che ciò comportava. Perfino i tagliacarte usati dalle donne erano tutti uguali. Roberta seguì lo sguardo di Alex. «Strumento aziendale», disse alzando la lama di plastica. «Rende più facile il lavoro». «Noto che tutte mettono da parte le buste. Le riciclate, immagino». «Heymann è un maniaco del riciclo. È una cosa da imparare quando si arriva qui. Raymond fa il giro con il carrello due volte al giorno e tutte le buste finiscono lì». 12 Margaret Eliot sedeva vicino alla finestra della cucina e ascoltava gli squilli all'altro capo della linea. C'era stata un'altra nevicata la notte prima e gli abeti del giardino erano carichi di neve, con i rami chini verso la terra gelata. In passato, Peter e Tom sarebbero già usciti e tirarsi palle di neve e a fare pupazzi, o a tirare le slitte su fino a Blackstone Park. Vedeva le loro facce arrossate che la guardavano attraverso il vetro, con i berretti di lana tirati sulla fronte. Ma tutto ciò era ormai lontano. Oggi la neve restava intatta, come la neve del cimitero, una coltre bianca e perfetta stesa su un tempo e un luogo di cui nessuno sapeva più che cosa fare. Il telefono squillò e squillò, ma nessuno rispose. Lentamente, Margaret riagganciò e lasciò cadere la testa contro il vetro ghiacciato.
Il suono del campanello la fece balzare in piedi. Guardò l'orologio sul buffet e si ricordò che aspettava una visita. Harold Tate, il vecchio compagno di studi di Michael, aveva telefonato il giorno prima. Voleva sapere come andava, se poteva fare qualcosa. Gli spiaceva di non aver potuto parlare con lei al funerale. Era stata sorpresa di sentirlo, e ancora più sorpresa quando le aveva proposto di passare a trovarla. Non lo vedeva da un po'. I giorni in cui veniva a cena erano ormai lontani e lei non aveva mai incontrato Suzy, la sua nuova moglie. Ma poi le venne in mente che Harold aveva chiamato prima di Natale, proprio una settimana prima che suo marito morisse. E le era sempre piaciuto Harold, in parte perché, come lei, le ricordava Michael Eliot da giovane, una persona molto diversa dall'uomo cupo e taciturno che era diventato. Anche stando in piedi davanti alla porta d'ingresso, Tate sembrava a disagio. Forse era il freddo, ma le spalle curve e le mani strette davanti alla pancia davano l'impressione che fosse venuto più per dovere che altro. Non c'era traccia di sua moglie Suzy, ma del resto non era venuta neanche al funerale. Per un attimo, Margaret pensò che forse Harold aveva dei problemi familiari. «Avrei dovuto venire prima», disse l'uomo avanzando nell'ingresso e togliendo la neve dalle scarpe, «ma non volevo intromettermi. Ecco, ti ho portato...». Le porse una bottiglia avvolta in una carta azzurra. «Oh, Harold, non dovevi. Sei molto...». «È sherry fino. Se non ricordo male, tu...». «Oh, sì. Spesso...». Tolse la carta dalla bottiglia e si mise a leggere l'etichetta, sforzandosi di dimostrare che l'apprezzava. Era un gesto poco convenzionale, quasi bizzarro, quello di portare un alcolico a una donna rimasta da poco vedova. Forse era per aiutarla ad annegare il suo dolore? «Gonzalez Byass», disse. «E... è molto gentile da parte tua, Harold. Dammi il cappotto». Tate sembrò rilassarsi un po' e si tolse il cappotto con molti sospiri e grugniti. Con il volto segnato e la barba corta, sembrava appena sceso da un peschereccio. Solo i suoi occhi profondi -occhi che non erano mai fermi - suggerivano a Margaret un uomo più complesso, più acuto. Alcuni minuti dopo, sedevano insieme in salotto, bevendo caffè nel servizio migliore di Margaret. Fuori, le nuvole si stavano assottigliando, la luce aumentava. Il biancore della neve faceva sembrare scura la stanza.
Parlarono dell'inverno, che stava rivelandosi il più freddo da anni. Parlarono dei problemi che c'erano sulle strade e del fatto che continuavano a chiudere l'aeroporto, e degli inverni passati brutti quasi come questo. Poi per qualche minuto ci fu silenzio. Tate si guardò intorno, osservando i mobili di mogano lucido, i soprammobili d'argento, le foto incorniciate di Michael e dei ragazzi. «Mi spiace di non essermi fermato dopo il funerale, Margaret», disse. «Le cose sembrano impazzite alla Medan ultimamente. Mi sarebbe piaciuto parlare ancora con Peter, sapere cosa fa adesso». «Sta studiando», disse Margaret. «Legge. È in una ditta di New York. Una ditta paralegale, così la chiamano». Tate annuì. «Crescono così alla svelta, eh? Voglio dire, sono rimasto colpito alla vista di questo uomo fatto, l'altro giorno. Lo immagino ancora come un ragazzino con le lentiggini e...». Margaret abbassò gli occhi. Tate si fermò. Ricordò che Michael Eliot gli aveva detto che i ragazzi non venivano più a trovarli tanto spesso. E perché l'altro figlio, Tom, non era presente al funerale? Londra in fondo era a mezza giornata di viaggio. «A proposito, Suzy si scusa. Ha preso l'influenza, ho paura. Ma spera di vederti appena starà meglio». Margaret non rispose. Guardava ancora a terra, persa nei suoi pensieri. Tate strinse le labbra e guardò un momento in giardino. «Margaret, dev'essere stato un colpo terribile per te. Immagino cosa devi aver passato in queste ultime settimane». Margaret sospirò e annuì. «Sì», disse sotto voce. «Spero... spero che Michael abbia lasciato tutto in ordine», disse Tate. «Sai, i suoi affari e...». Margaret lo guardò, «...cose così. Voglio dire, è incredibile quanta gente non fa neanche testamento, o non lo aggiorna quando si sposa o altro. O non si fa consigliare sulle tasse. Insomma, è importante». Margaret continuava a fissarlo. «Sì, credo di sì», disse alla fine. «Bene... allora... se ci sono dei problemi, spero... di poter fare qualcosa. Conosco dei buoni avvocati, specialisti in testamenti e eredità. Spero che non farai complimenti». Sorrise debolmente e sorseggiò il suo caffè. Incominciava a raffreddarsi. «E molto gentile da parte tua», disse Margaret. «Ma credo che non ci saranno problemi. Michael e io abbiamo fatto testamento parecchi anni fa.
Non credo che l'abbia cambiato da allora. Ho appuntamento con il nostro avvocato alla fine di questa settimana». «Bene», disse Tate. «Chi è... chi è il vostro avvocato? Se non ti dispiace dirmelo». «No, per niente. Neumann & Klein. È la ditta di Walter Neumann. Lo conosci?». Tate soppesò brevemente la domanda. Poi scosse la testa. «È il direttore dell'ufficio legale della ProvLife, ma ha anche il suo studio privato. Tom dice che ciò non è molto corretto, oggi: ma non capisco perché. La Neumann & Klein non si occupa di assicurazioni». «Be', sono felice di sapere che è tutto sotto controllo», disse Tate appoggiando la tazza col piattino sul tavolino che aveva di fianco. Sembrava che si preparasse ad andarsene. Margaret lo studiò un momento, cercando di mettere insieme alcuni particolari che l'avevano colpita e di capire se avevano un significato. Poiché dava le spalle alla finestra, era difficile vederlo in faccia. «Harold, quando è stata l'ultima volta che vi siete visti?». Tate aggrottò la fronte. «Tu e Michael», precisò lei. Tate esitò. «Noi... abbiamo bevuto qualcosa insieme una settimana circa prima di Natale», disse. «Una rimpatriata, più o meno. Non te l'ha detto?». «Mi ricordo che hai telefonato. Era per questo?». «No, è stato dopo, un paio di giorni dopo. Ho telefonato solo per fare gli auguri di Natale. Volevo...». Tate scosse la testa amaramente. Margaret tornò silenziosa. Aveva l'impressione che Tate le nascondesse qualcosa. «Harold, tu e Michael eravate amici da molto tempo, vero?». «Oh, sì. Più di venticinque anni». «Da prima che mi conoscesse, quindi». «Sì, credo proprio di sì». «Harold, dimmi la verità. Michael aveva una relazione?». Tate rimase senza fiato. Poi assunse consapevolmente un'espressione di sgomento. «Pensava di lasciarmi?», continuò lei. «È di questo che avete parlato tu e lui? Voglio solo sapere la verità». «Margaret, io davvero... No. No, per quanto ne so io. Perché...?». «E allora come ti spieghi questo?».
Margaret andò al buffet. Un biglietto aereo era appoggiato a una figurina di porcellana. «Air France, per Parigi via New York, prima classe», disse porgendolo a Tate. «Due di gennaio. Sola andata». Tate guardò un momento il biglietto, poi lo aprì. C'erano il nome di Eliot e i dettagli del volo, proprio come aveva detto la sua vedova. Margaret tornò a sedersi, aspettando una risposta. «Quando l'hai trovato?», chiese. «Questa mattina. È arrivato con la posta». «Con la posta?». Tate sedette. «Vuoi dire che la compagnia aerea...?». «Non è stata la compagnia aerea. È stato qualcuno che conosceva Michael. Qualcuno che lo conosceva molto bene. Una ragazza». Tate si passò nervosamente una mano sulla fronte. «Margaret, io... Io, davvero...». «Harold, per favore, non trattarmi come una stupida solo perché Michael l'ha fatto. Dimmi tutto». Tate sospirò. «Io... Io non lo so. Michael parlava di cambiamenti nella sua vita. C'era credo che potesse esserci - qualcuno, Margaret. Non mi ricordo neanche il nome». Per un attimo, la donna chiuse gli occhi, poi si costrinse a riaprirli. «Non credo che fosse una cosa seria, in realtà. Sembrava una cosa... casuale. Non che voglia scusarlo, ma non credo che fosse innamorato, o almeno questa era la mia impressione». Improvvisamente Margaret si alzò di nuovo in piedi e gli volse le spalle. L'aveva sospettato, naturalmente. Si era fatta delle domande sulle sere in cui faceva tardi in ufficio e sul profumo che usciva dai suoi vestiti quando finalmente arrivava a casa. Forse si era addirittura aspettata che suo marito trovasse un'altra donna. Era ancora abbastanza attraente. Ma non ne aveva mai avuto la certezza. Finora. Per un istante, Tate pensò che se ne sarebbe andata, lasciandolo lì seduto da solo. Ma poi capì che non voleva essere vista mentre piangeva, semplicemente. Sentì un'improvvisa simpatia per lei. Alla fine di tutta questa storia terribile, era lei quella che rimaneva col fardello più pesante: il fardello di piangere un marito infedele, di non poter mai esprimere la sua rabbia per il tradimento, di non sapere mai se sarebbe stata possibile una riconciliazione. Si alzò e le andò vicino. «Margaret, ascolta», disse posandole dolcemente una mano sulla spalla.
«Non sai tutto. Michael era sottoposto a uno stress spaventoso quando l'ho visto. Spaventoso. In simili circostanze, a volte le persone fanno... delle pazzie. Cose che normalmente non farebbero mai». Margaret si riprese, fece un profondo sospiro, si voltò verso di lui. Aveva un fazzoletto sul viso. «Quali circostanze?». «Non ero sicuro che te l'avesse detto. Vedi, Margaret, a dicembre aveva ricevuto delle cattive notizie. Notizie sul suo futuro, sulla sua salute». Margaret tornò lentamente a sedersi. Sospirò di nuovo profondamente, cercando di ricomporsi. Tate sedette di fianco a lei, osservandola da vicino. «Michael... si è sottoposto a un test genetico. Forse per semplice curiosità. Il fatto è che il test ha dato esito positivo per una malattia chiamata corea di Huntington. Ne hai mai sentito parlare?». Margaret scosse la testa. «È una cosa terribile, Margaret. Una malattia ereditaria del sistema nervoso centrale. Di solito si sviluppa in età adulta, fra i trenta e i cinquant'anni nella maggior parte dei casi. I sintomi avanzano gradualmente e sono... irreversibili». Margaret sbatté gli occhi. Questa era una novità per lei. «Quali sintomi, Harold?». «Prima vengono leggeri movimenti muscolari incontrollabili, inciampi, goffaggine. Poi vuoti di memoria recente, instabilità dell'umore. Cose del genere». Margaret inghiottì. «E poi?». «Sul piano fisico, mangiare e parlare diventa sempre più difficile. C'è la tendenza a mandarsi il cibo di traverso, e spesso una grave perdita di peso. Sul piano psicologico, le cose variano. Depressione. Insonnia. Alcune persone sviluppano appetiti voraci. Sessuali, oltre che per il cibo. Man mano che la malattia progredisce... Margaret, devo proprio...?». «Dimmi, Harold». Tate inspirò a fondo. «Man mano che la malattia progredisce, diventa necessaria un'assistenza completa. I pazienti poco per volta perdono la capacità di controllare tutti i muscoli del loro corpo. E le facoltà mentali spesso si deteriorano ancora di più. Alla fine muoiono». Margaret abbassò gli occhi. Un abisso di nera disperazione sembrava spalancarsi sotto di lei. Incominciò a scuotere la testa. «E Michael ha scoperto che avrebbe avuto questa malattia?».
«Sì. Era solo questione di tempo. Vent'anni, forse, più probabilmente quattro o cinque». Margaret divenne immobile. Non riusciva a credere alle parole di Tate, ma non c'era ragione perché mentisse. Sembrava incredibile che suo marito avesse ricevuto una notizia del genere, avesse saputo con certezza che lo aspettava una simile infelicità, e non gliel'avesse detto - fosse riuscito a nasconderle tutto. Si erano davvero allontanati così tanto? «Naturalmente, un test non è mai sicuro al cento per cento, in questi campi», aggiunse Tate. «Michael ne ha fatto un altro, ma... non è arrivato a sapere il risultato». «E tu?». Tate scosse la testa. «Se conosco il risultato del secondo test? No, no. Io... Non so neanche dove sia andato a farlo. So solo che voleva parlarmene, come vecchio amico e come... esperto in biologia». Margaret annuì dolcemente. «Capisco». Tate sorrise gentilmente. «Capisci adesso perché una persona può perdere la testa in queste circostanze, no? Con una cosa dei genere che ti aspetta, si capisce che uno si lasci prendere dall'egoismo, come minimo. E infine, Margaret, un biglietto aereo non dimostra niente. Probabilmente è stato solo uno scatto, una reazione di panico, di negazione. Forse pensava addirittura di portarti con sé. Ci hai pensato?». Margaret non parlò per molto tempo, tanto che Tate si accorse del tic tac della pendola nell'ingresso e del suono del proprio respiro. Si chiese se Margaret si accorgeva ancora della sua presenza. Poi Margaret disse: «Non mi avrebbe portato con sé. Avrebbe portato lei. E non sarebbe tornato indietro. Mai più». «Margaret...». La donna scosse la testa, con gli occhi chiusi. Improvvisamente, si sentiva esausta. «È stata quella donna a mandarmi il biglietto, Harold. L'aveva detto. Mi ha telefonato qualche giorno fa. Il giorno dopo il funerale, per la precisione». Tate si agitò sul divano. «Ti ha... telefonato? Ma chi? Quale donna?». «Non mi ha detto il suo nome. Ha detto che avevamo condiviso Michael e che non c'erano ragioni perché non condividessimo i suoi soldi». Tate si irrigidì. «I suoi soldi?».
«Ha detto che aveva dieci milioni di dollari in una banca svizzera. Soldi di cui io non sapevo niente». «Cosa?». «Ha detto che aveva i documenti per dimostrarlo. Tutti i documenti. Prove». «Prove», disse Tate sotto voce, più a se stesso e che a lei. «Mi ha mandato il biglietto aereo perché era... l'amante di Michael. Sono sicura che ce n'era un altro per lei». Tate guardò di nuovo il biglietto che aveva in mano, poi lo depose lentamente sul bracciolo del divano. «Chiunque sia, a me suona falso», disse, confondendosi un po'. «Una telefonata falsa. Insomma, la cosa è assurda. È... è impossibile». «Pensavo di essermi sognata tutto. Quando mi sono risvegliata, dico. Ho avuto tanti brutti sogni, dopo l'incidente. Ma poi ho trovato il numero scritto». Tate aveva ripreso a esaminare il biglietto. Si bloccò. «Il numero?». «Abbiamo il servizio per identificare chi telefona, qui. Quando chiami, ti dicono il numero di chi ha telefonato. L'ha voluto Michael. Due sette due, cinque uno tre uno. E un numero dell'East Side». Tate la fissò immobile. «Finalmente stamattina ho trovato il coraggio di richiamare. Poco prima che arrivassi tu». «E?». «Nessuna risposta. Forse possiamo riprovare adesso». Fece per prendere il telefono. «No!». Tate mise la mano sulla cornetta. «Non credo che sia una buona idea, davvero». «Perché?». «Perché... perché potrebbe essere pericoloso. Potrebbe essere... non lo so, una forma di vendetta contro Michael. Sai, le compagnia di assicurazione non sono amate da molta gente. Hanno dei nemici». «Nemici?». «Certo. Le persone si arrabbiano quando non ricevono i soldi a cui credono di aver diritto. Succede in continuazione. Magari è un'impiegata delle linee aeree, o di un'agenzia di viaggi. Magari suo marito ha avuto un incidente e la ProvLife non ha pagato. Michael era responsabile della tesoreria. Firmava gli assegni. Era una persona facile da accusare, un nome a cui fare riferimento, e... e quando hanno visto il suo nome sui giornali...».
Margaret aggrottò la fronte. «Credi che sia possibile?». «Sicuramente. Ascolta, Margaret. Lasciami segnare il numero e farò un controllo. Non ha senso correre rischi». Prese un taccuino nella tasca interna. «Com'era? Due sette due...». Margaret era tornata silenziosa, sedeva sull'orlo del divano e guardava fuori dalla finestra. «Margaret?». «Ha detto che non è venuta al funerale». Tate si strinse nelle spalle. «Beh, è naturale. Perché tu...?» «Credo che menta. Credo di averla vista proprio lì» 13 Il martedì sera Alex lasciò la PrimeNumber poco dopo le cinque, uscendo dalla doppia porta a vetri con le impiegate di Tom Heymann. Roberta, che aveva praticamente preso Alex sotto la sua ala protettrice nei due giorni da quando lavorava nell'azienda, la salutò amichevolmente con la mano mentre saliva sulla sua vecchia Orion. Alex rispose al saluto e rimase per un momento a guardare mentre l'auto si allontanava. Dopo otto ore di lavoro a cavarsi gli occhi, Roberta doveva ancora fare la spesa, cucinare e comportarsi da buona moglie verso il marito disoccupato Joey. Alex guardò tutte le altre donne e si chiese quante di loro avevano una vita del genere. L'odore degli scappamenti aleggiava nel vento pungente. Un clacson suonò e un altro rispose. Improvvisamente Alex si accorse di quanto era stanca, si diresse verso l'estremità del parcheggio, alla propria auto, e vide che era probabilmente la peggio ridotta. Aprì la porta e buttò dentro la sua ventiquattrore. Era stata un'altra giornata frustrante. Si era ormai convinta che, se c'era qualche problema con la PrimeNumber, non aveva niente a che fare con il modo in cui le impiegate inserivano i dati. Qualche errore poteva sfuggire, ma di solito venivano scoperti grazie alle procedure di controllo di Heymann, che prevedevano di verificare due volte la maggior parte dei dati prima di inserirli nel sistema. Se la PrimeNumber aveva avuto problemi con le macchine - o magari qualche anomalia con il software - potevano aver perso dei dati e lavorato di fretta per rimediare alle perdite: per esempio, inserendo le medie del settore per i possessori di auto, anziché centinaia o migliaia di domande. Cercando di non essere troppo esplicita, Alex aveva chiesto a Roberta e ad al-
cune altre donne se il sistema non si era mai guastato o non aveva mai provocato errori, ma tutte avevano risposto di no. E dopo due giorni di esplorazioni nell'intero sistema, lei stessa non aveva trovato segno di problemi. Alex inserì la chiave nel cruscotto e la girò. Il motorino d'avviamento sussultò per un paio di secondi, poi si fermò. «Forza, bella». Tirò leggermente lo starter e premette l'acceleratore con un abile mossa del piede. A ogni giro del motorino, le luci di posizione si accendevano. Provò di nuovo. Ancora. «Maledizione!». Nella fredda oscurità, le ultime donne stavano uscendo dal parcheggio. L'unica auto rimasta era quella di Heymann: una Lexus, nera e lucida come una bara. Le luci dell'edificio erano ancora accese, ma era solo questione di tempo prima che Heymann uscisse. Il pensiero dei suoi occhi gonfi e trasparenti posati su di lei fece agitare Alex sul seggiolino. Girò di nuovo la chiave, ma la macchina era morta. Poi nel parcheggio entrò un furgone. Erano quelli della Greenfield Recycling. Alex tirò un sospiro di sollievo e scese dalla Camry. «Ha qualche problema?», chiese l'uomo dirigendosi verso di lei e puntando una torcia sulla sua auto. Alex lo riconobbe: era Raymond, un ventenne di cui tutte le donne della PrimeNumber erano innamorate, un tipo alto con buoni muscoli e una coda di cavallo lucente. «Non mi parte la macchina», disse Alex. «Non ha per caso dei cavetti?». «Ho paura di no. Barney, il mio socio, li ha prestati stamattina e non glieli hanno ridati». Si guardò in giro nel parcheggio e vide la Lexus. «Ma quella lì è la macchina del signor Heymann. Lui dovrebbe averli nel bagagliaio». Alex annuì e risalì sulla Camry. «Proverò ancora una volta», disse. Tirò del tutto lo starter e premette l'acceleratore. Girò la chiave. Niente. «Che Dio ti maledica», disse fra i denti. Girò di nuovo la chiave. Il motore tossì, si sforzò, sembrò che potesse farcela, poi morì. L'odore della benzina riempì l'abitacolo. Alex abbassò il finestrino. «Cosa c'è, Alex?». Era Heymann. Era in piedi di fianco al suo finestrino aperto, di fianco alla guardia, con un sorriso divertito sulle labbra pallide. Alex gli sorrise decisa.
«Troppo freddo. La maledetta non vuole partire». «L'ha ingolfata, credo», disse Raymond. Guardava la carrozzeria della Camry alla luce della sua torcia, con un'espressione stupita sul volto. «Sam dice che non ha cavetti», disse Heymann. «Io neanche. Ma le do volentieri un passaggio». La Lexus profumava di macchina nuova. Il fatto di avere la Providence Life come unica cliente, evidentemente, rendeva bene a Heymann. Alex si chiese quanto si dava di stipendio. Raggiunsero la statale e si diressero a nord. Alex si rilassò sul suo sedile e si accorse di quant'era stanca. «Ho fatto due chiacchiere con Newton Brady, oggi», disse Heymann di punto in bianco. Alex si volse e lo guardò in faccia. Non l'aveva mai notato, ma da questa angolazione vide che gli avevano rotto il naso. «Ah, sì?». «Sì. Prima ho telefonato a McCormick. Lo chiamo spesso alla Central Records, per tenere i contatti, e stavamo parlando di varie cose quando ho detto che White l'aveva mandata qui a fare un controllo». Alex scosse la testa. «Controllo?». «E solo un modo di dire. No, gli ho detto che era qui per fare un po' di "esperienza", così ha detto lei, no?». I suoi occhi si spostarono su di lei, poi tornarono a osservare la strada. «E lui ha detto benissimo. Ha detto che quanto più l'azienda è integrata, quanto più ciascun dipartimento sa quello che fanno gli altri, tanto meglio per la ProvLife». Alex tornò a guardare la strada. «Mi sembra sensato», disse. Heymann mosse le mani sul volante, producendo un leggero scricchiolio. «Così Brady mi chiama». Alex non replicò nulla, aspettando di sentire il resto. «Credo che sia stato McCormick a chiamarlo. Brady ha voluto sapere cosa stava facendo precisamente», disse Heymann. «Ha voluto sapere perché White l'ha mandata qui». «Ma gliel'ho detto...». «Vuole che lei faccia esperienza, sì lo so. È quello che ho detto a Newt». La guardò e sorrise. «Ehi, non è una cosa importante. Le sto solo raccontando quello che è successo». Alex si strinse nelle spalle. «Per me non fa differenza», continuò Heymann. «Le sto solo raccontando quello che è successo».
Alex incominciò a contare le uscite: quindici, quattordici, tredici. Il traffico era scorrevole, ma lento, tutti temevano il ghiaccio. Heymann tornò silenzioso. La Lexus era molto silenziosa. Alex lo sentiva respirare col naso. «L'azienda è una cosa ridicola, però», disse dopo qualche minuto. «Non crede?». «Non so se ho ben...». «Voglio dire, il modo in cui tutti sanno tutto. Questo ha fatto la tal cosa, quello la tal altra. Mi capisce? Tutti controllano tutti». «E cosa ha detto Brady? Sul fatto che ero qui». «Oh, niente. Ma le dirò una cosa: i direttori sono i peggiori». Premette leggermente il piede e la potente macchina si slanciò in avanti. «Ma tutta Providence è così. Lei non è di qui, però, giusto?». Alex scosse la testa. «Pittsfield, più o meno». «Una yankee», disse Heymann. Poi rise. «Ci crede? Così vi chiamano a Rhode Island. Yankee. Come se veniste da un altro paese». Spostò leggermente in avanti il suo sedile. «Così vanno le cose qui. Sono uscito a cena con mia moglie la settimana scorsa. Martedì sera. Il giorno dopo parlavo con Brad Whitney... probabilmente non lo conosce, dirige il "Newport Paper" e lui mi fa: "Com'erano le linguine ai frutti di mare?"». Heymann la guardò. «Sapeva quello che avevo mangiato. D'accordo, penso, era al ristorante anche lui, ma perché non è venuto a salutarmi? E scopro che invece gliel'ha detto un suo conoscente. Capisce cosa voglio dire?». «Providence è una città piccola», disse Alex, cercando di capire perché le raccontasse tutto questo. «Certo, ma non è solo questo. E una questione di mentalità». Si chinò un po' in avanti per osservare il cielo. «Torna la neve», disse, e poi, sorridendo, ma lentamente, come se le stesse dando un avvertimento: «Tutti sanno tutto». Tranne che di Michael Eliot, pensò Alex con soddisfazione. Non sapevano niente della relazione e niente dei soldi. Era perfettamente possibile avere dei segreti nei confronti dell'azienda. Finalmente raggiunsero l'uscita venti e il centro di Providence. «Quindi lei abita nell'East Side», disse Heymann con tono più leggero, ora che aveva finito il suo discorsetto. «Appena più a nord, in realtà, ma può lasciarmi in ufficio», rispose Alex. Aveva già deciso che non voleva farsi accompagnare da Heymann fin sulla porta di casa. «Devo fare alcune cose». Heymann annuì. «Certo, certo. Immagino che la sfruttino bene, lassù al
settimo piano?». Alex si strinse nelle spalle. Non quanto lui sfruttava la sue donne. «Oh, non è così male», disse. «Ci pagano anche». La macchina svoltò in Westminster Street e si arrestò fuori dal portone d'ingresso della Providence Life. Trattenendo a stento un sospiro di sollievo, Alex afferrò la sua valigetta sul sedile posteriore e aprì la portiera. «Grazie per il passaggio», disse voltandosi. Heymann sorrideva, con gli occhi seri, però. «E stato un piacere», disse. «Dovrebbe pensare a procurarsi una nuova macchina, però». 14 La mattina dopo White la convocò nel suo ufficio appena arrivato. «Dunque sei di nuovo tra noi?», disse versando del caffè per tutti e due. Alex si strinse nelle spalle. «Abbiamo detto che dovevo dedicare a questa storia solo un paio di giorni. E francamente non credo che ci sia molto da guadagnare tornando alla PrimeNumber. Tom Heymann tiene tutto molto sotto controllo, e non sono riuscita a trovare nessuna prova di problemi con i computer. Dato che siamo noi a usare concretamente i dati, credo che il problema sia nato più probabilmente qui». «Qui?», disse White. «Vuoi dire alla Central Records?». «Be', i nostri sistemi sono più antiquati. Forse varrebbe la pena di parlare con Ralph McCormick». White sorseggiò il suo caffè. «Non ne sono sicuro...». Sceglieva le parole. «Non sono sicuro che Ralph sarebbe... di grande aiuto, in questo momento». Guardò il proprio video. Poi, sorridendo, si allungò e staccò uno dei bigliettini, gettandolo nel cestino. «Non hai mai incontrato Ralph, vero, Alex?». Alex scosse la testa. «No, in effetti». «Ci pensavo... ci pensavo l'altra sera, dopo che abbiamo parlato. E ora che tu conosca le persone che dirigono questa azienda. C'è una piccola riunione in programma per venerdì sera. Solo per bere qualcosa, ma prevedo che Eva Goebert farà preparare qualche tartina». White colse l'espressione sorpresa di Alex. «Sì, è a casa di Richard Goebert. Perché non vieni anche tu? Porta Mark». Tornata alla sua scrivania, Alex cercò di concentrarsi sulla fase succes-
siva del suo lavoro sulla salute. Ma era difficile, con tutto quello che stava succedendo. Prima Mark e adesso lei. Così almeno sembrava. Era come se entrambi fossero chiamati a far parte dell'élite della ProvLife. Non si era parlato di promozione, certo. Ma prima il funerale, e adesso la festa... come si poteva pensare altrimenti? Le sembrava che qualcuno l'avesse spinta in una corsia preferenziale. Incominciava a pensare che il suo aumento a discrezione dell'azienda poteva arrivare davvero. Almeno avrebbe ricominciato a respirare. «Cosa c'è di tanto divertente?». Era Mel Hartman. Appoggiato alla sua scrivania, con un bicchierino di plastica in mano. «Scusa?». «Stavi sorridendo. Sai che non puoi escludermi dalla tua vita interiore. Ho il diritto di sapere quello che succede». «Non sta succedendo niente, Mel». «Il vecchio sta bene?». «Quale vecchio?». «Randal A. White. Si comporta in maniera strana, non ti pare? Hai visto le condizioni della sua scrivania?». Alex sentì un'ondata di irritazione. «Non è vecchio, Mel. Ed è più in forma di te». Hartman alzò le mani in segno di resa. «D'accordo, d'accordo. Scusa. Non sapevo che ti interessasse tanto». «Cosa vorresti dire con questo?». «Niente. Tu a lui interessi. Non c'è ragione per cui lui non dovrebbe interessare a te». Alex scosse la testa incredula. «Cosa diavolo stai dicendo?». «Oh, dai, Alex. Cosa mi dici della sera della festa in ufficio?». Alex si sentì avvampare. Riusciva solo a pensare a Michael Eliot, con la bocca premuta sulla sua, le mani sul suo corpo. Guardò Hartman, che si guardava in giro premendosi con la lingua l'interno della guancia. «Vuoi dire che non hai saputo niente?». Alex riportò gli occhi sullo schermo. Adesso le avrebbe detto qualcosa di scabroso, qualcosa che lei avrebbe preferito non sapere. Mel si chinò e lei poté sentire il suo alito di caffè. Si irrigidì. «Be'», disse Hartman riducendo la voce a un insinuante sussurro, «dopo quella scena con Eliot alla festa. Non dirmi che te la sei dimenticata: quando ha cercato di abbracciarti».
Alex alzò improvvisamente lo sguardo, facendo arretrare leggermente Hartman. Ma l'aveva solo colto di sorpresa, e lui non aveva intenzione di zittirsi. «Dopo che Eliot ti ha abbracciata», disse con gli occhi che gli ballavano, «White ha litigato con lui. In ascensore». Alex scosse la testa in segno di disprezzo e di incredulità. «Davvero? E tu come fai a saperlo, Mel? Eri sul tetto della cabina?». Hartman sorrise compiaciuto. «Eliot stava per andarsene. White ha bloccato le porte dell'ascensore e gli ha detto ciò che pensava di lui. Io ho visto tutto». Suo malgrado, Alex si accorse che stava immaginando la scena. Non credeva che White potesse comportarsi in quel modo. Hartman le toccò il braccio. Non aveva ancora finito. «E allora Eliot gli ha detto che era un pezzo di merda. Ha detto che...». Si guardò furtivamente intorno e si chinò più vicino. «Ha detto che non c'era motivo che lui rinunciasse a un po' di divertimento solo perché a White non tirava più.». Arretrò leggermente per vedere l'effetto della sua rivelazione. «L'avresti pensato possibile?». Alex scosse la testa. Voleva sapere cosa aveva detto White, ma non voleva chiederlo. Per fortuna, Hartman non aveva bisogno di incoraggiamenti. «Poi c'è stato un silenzio pauroso. Io stavo andando al cesso perché mi scappava da pisciare, quando mi sono trovato di fronte alla scena. C'è stato un silenzio pauroso. Credo che White lo stesse guardando, capisci? Da uomo a uomo. Nessuno dei due diceva niente. Poi le porte si sono chiuse». «E White è rimasto dentro?». «Certo, è entrato nell'ascensore. Avrei voluto seguirli al piano di sotto». 15 «Non vorrai mica dire che non abbiamo avuto un buon anno», disse Newton Brady, mettendosi in bocca una nocciolina e guardando Henry Gough, uno degli otto direttori non esecutivi della ProvLife. Gough alzò le spalle e le lasciò ricadere. «No, naturalmente no. Insomma, non è stato proprio splendido, ma in confronto alle altre aziende del settore ci siamo comportati bene. Quello che voglio dire è che...».
«Bene?». Brady aveva un modo di sollevare la testa che gli faceva ballare le guance quando voleva manifestare la sua sorpresa. «Abbiamo fatto il 2% in più dei nostri concorrenti in termini di ROA. Gesù, Henry. Non siamo un'azienda di software o roba del genere». «Lo so». Gough girò lo sguardo per la sala alta e spaziosa di Richard Goebert. Erano appena passate le sette e la festa incominciava a riscaldarsi; l'atmosfera era piena degli aromi del cinnamomo e dei chiodi di garofano. Le persone erano raggruppate in crocchi e parlavano del tempo terribile, bevendo il vino caldo e aromatico di Eva Goebert. Quell'inverno sarebbe stato brutto come quello del '95-'96, quando erano caduti due metri e trenta di neve? Le donne, senza eccezione, la odiavano, ma secondo alcuni degli uomini la comunità ne aveva bisogno, di tanto in tanto. «Unisce la gente», diceva uno. «Tutti sono fuori a spalare». Per la maggior parte sui cinquant'anni, erano tutti di Rhode Island, e parecchi appartenevano alle più antiche famiglie di Providence. Gough osservò Goebert che passava da un gruppo all'altro, pieno di energia malgrado di suoi sessantatré anni. «Ma... insomma, ti dirò qual è il problema», disse Gough. «Siamo preoccupati per la faccenda dei test». Brady aspettò, tenendo tranquillamente una manciata di noccioline di fianco al bicchiere unto. Quando Gough capì che non gli avrebbe dato alcun aiuto e incominciò a balbettare. Lo sguardo implacabile di Brady e la sua presenza massiccia e severa lo intimidivano. «V-voglio dire, non è che la l-linea della ProvLife è un po' troppo rrigida? A quanto mi hanno detto, Randal White sta trasformando la faccenda in una c-crociata. Parlavo con uno della Mass General, l'altro giorno, ed erano piuttosto preoccupati». La fronte si contrasse tra gli occhi di Brady, aggrottandosi in maniera quasi teatrale. «Non credo che la posizione del consiglio di amministrazione sia diversa da quella di Randal, né...». Brady colse un'occhiata di Goebert che gli passava vicino. «Newton!», esclamò Goebert, inchinandosi leggermente. Benché fosse probabilmente la persona più bassa tra i presenti, era comunque imponente. Malgrado la pelle rugosa e i capelli radi, emanava un'aura di giovanile intelligenza - un'estrosità sottolineata dagli occhi azzurri scintillanti e dalle orecchie grandi e aguzze. «Bellissima festa», grugnì Brady. «Dove deve andare un poveretto in
cerca di qualcosa da bere?». Sempre sorridendo, Goebert ripulì la manica di Brady, su cui si erano depositati dei grani di sale. «Noccioline», disse. Poi, sorridendo verso Gough: «Il giorno del crash dell'87, Newton ha un sacco di IBM o Dupont o altro. Sta gridando al telefono con il suo broker, quando il cuore lo tradisce». Goebert batté sul taschino di Brady con la sua mano da vecchio bambino. «LAIÌ rifiuta di morire, naturalmente, prima deve risolvere quella maledetta situazione. Il dottore lo rimette in piedi e gli dice evita i grassi saturi, evita l'alcol e le sigarette, e evita il sale». Brady si mise in bocca una manciata di noccioline e le masticò sorridendo. «È stato un incidente, non un infarto», disse con la bocca piena. Poi, aggrottando la fronte: «Henry pensa che noi sbagliamo sulla questione dei test. Teme che Randal vada a Washington per combattere una crociata. Gli stavo dicendo che siamo tutti d'accordo su...». «Il nome di Roger Williams le dice niente, signor Gough?». Goebert alzò gli occhi verso di lui, sotto le folte sopracciglia. Gough si strinse nelle spalle. «Certo. Quand'ero a scuola...». «Ha fondato questo stato. Arrivò qui e trovò una situazione in cui le dispute con gli indiani per il possesso delle terre stavano diventando un problema, la gente li considerava dei selvaggi e così via. Sa cosa diceva lui degli indiani?». Gough si strinse nelle spalle e bevve un sorso dal suo bicchiere. «Diceva: "La natura non ha fatto alcuna differenza nel sangue, nel modo di nascere e nel corpo degli europei e degli indiani"». Gough guardò Brady. «E allora?». «Quando Williams guardava un indiano, vedeva una persona», spiegò Goebert. «Ora, ha mai sentito parlare di Jacob Quinn? Me ne stupirei, a meno che non sia uno storico. Era un mercante di schiavi. Un grosso mercante di schiavi. Gli schiavi hanno creato questa città, signor Gough. Quinn importava melassa dalle Indie occidentali, usava la melassa per fare del rum, mandava il rum in Africa, dove veniva usato per comperare gli schiavi, che andavano nelle Indie occidentali a coltivare canna da zucchero per produrre la melassa. Grande triangolo. Affare gigantesco. Molto redditizio». Toccò la manica di Gough e lo guardò in volto con i suoi intensi occhi azzurri. «Le persone come merce, signor Gough. Le persone come cose, usate
per aumentare i profitti». Si rilassò e sorrise di nuovo, mentre i suoi occhi andavano dall'uno all'altro dei due uomini. «Due aspetti della stessa comunità. Ora, io credo che la Providence Life stia dalla stessa parte di Roger Williams. Quando guardiamo una persona, vediamo una persona, i suoi bisogni, le sue responsabilità, i suoi diritti. C'è un imperativo morale...». «Ma la tecnologia», interruppe Gough. «Come ci difenderemo da...». Goebert raggrinzì la faccia aprendo le labbia e rivelando dei denti stranamente opachi. «Oh, via, queste sono tutte...». Si mise le mani sui fianchi, esasperato. «Newt, come le definiresti tu?». «Stronzate». «Ecco», disse Goebert sorridendo e battendo il piede per terra, come se Brady gli avesse fornito un termine tecnico difficile. «Esattamente. Tutta questa storia della protezione è... una cortina fumogena. Ci sono delle persone, nel nostro settore - come per esempio Jacob Quinn - che vogliono introdurre i test per evitare i rischi. Vogliono solo i negri sani. Gli altri possono marcire nella stiva. Pensano solo al risultato». «Ma...». Goebert sollevò un dito minaccioso. «Non voglio dire che questa storia dei test genetici non ci procurerà difficoltà e complicazioni di ogni tipo, ma sa una cosa? Seguendo la nostra linea, non mi stupirei se risultassimo comunque vincitori». Sbatté i tacchi con un suono deciso, ponendo fine a ogni ulteriore discussione. «E dove diavolo è il signor McCormick?», chiese di punto in bianco. Brady si strinse nelle spalle e guardò Goebert che si dirigeva verso la porta d'ingresso, dove era appena comparsa una giovane donna con un abito da sera nero. Aveva capelli biondi corti e occhi neri particolari. La testa di Goebert scomparve quando si chinò per baciarle la mano, ma Brady vide Mark Ferulli con un braccio intorno alle spalle della donna. «Vedo che ha portato la sua graziosa amica», disse Goebert avanzando. «Che piacere vederla, Alex. Mi lasci dire che è assolutamente splendida». Alex si strinse nelle spalle e abbassò gli occhi verso le proprie ginocchia insolitamente nude. «Com'è la vita sotto il Grande Attuario?». Goebert sorrise a Mark, muovendo gli occhi azzurri in tutte le direzioni. «Newton mi stava proprio raccontando l'ottimo lavoro che sta facendo per noi alla tesoreria», disse. «Spero che non sia troppo sotto pressione».
«Mi piace molto, anzi», disse Mark. Goebert lo guardò un momento, sorrise di nuovo, si scusò e scomparve. «Cosa gli ha preso?», disse Mark. «Forse qualcuno ha rotto la zuppiera della macedonia», rispose Alex. Si voltò. «Sono contenta che ti piaccia molto essere sotto pressione». «Ma come facciamo a uscirne vincitori, se finiamo per prendere tutti i casi a rischio?», disse Gough. Brady si mise in bocca altre noccioline, continuando a guardare la donna col vestito nero. All'improvviso si accorse che non sapeva rispondere alla domanda di Goebert. Dove diavolo era McCormick? Non lo vedeva da almeno mezz'ora. «Sa qual era il budget dell'ELSI l'anno scorso?», insisté Gough, cambiando tattica. «Elsie?». Brady si guardò distrattamente in giro. «ELSI. È un programma del National Human Genome Institute. Studia le implicazioni etiche del progetto genoma umano». «Ah, sì, certo. Ci sono troppe sigle di questi tempi». «Beh, lo sa?». Brady masticò rabbiosamente. «So cosa?». «Sa qual è stato il budget dell'anno scorso?». «No, non lo so». «Sei virgola tre milioni di dollari. Il più grande investimento mai fatto nel campo della ricerca bioetica». «Ah». «Hanno i soldi che gli escono dalle orecchie, Newton. E sono in combutta con tutte le agenzie federali. Il dipartimento dell'energia, i Centri per il controllo medico, l'amministrazione per le risorse sanitarie, la National Science Foundation, la Food and Drug...». «Ne ho sentita una buona l'altro giorno, al Capital Grille», disse Brady, chinandosi in avanti e mettendo pesantemente la mano sul braccio di Gough. «Qual è la differenza tra un direttore non esecutivo e un carrello della spesa?». Gough aggrottò la fronte, guardandosi le dita sporche di olio di arachide e di sale. «Il carrello della spesa va dove vuole», abbaiò Brady, «ma in un direttore non esecutivo ci sta più roba da bere e da mangiare». Rovesciò la testa e rise a gola spiegata. «Ma in un direttore... in un diret-
tore non esecutivo ci sta... ci sta più roba...». «Cos'è questa storia del "Vedo che ha portato la sua graziosa amica"?», disse Alex. «Pensavo di essere stata io a invitarti». Mark si strinse nelle spalle. «Cosa cambia?». «Ma quando io...». «Senti, Newt mi ha parlato di questa festa un paio di settimane fa. Non te ne ho parlato allora perché... Be', cosa cambia? È solo una festa aziendale, santo cielo. Goebert usa il suo anniversario di nozze come scusa per riunire tutti. Ascolta, ti trovi bene qui? Vado a prendere un po' di vino caldo per tutti e due». Alex guardò Mark che si allontanava tra la folla aggrottando la fronte e cercando di ricordare il momento in cui gli aveva parlato dell'invito di Randal White. Le era sembrato sorpreso, allora, poi felice. Perché non le aveva detto che era già stato invitato? Prese un bicchiere da un cameriere di passaggio e lo sorseggiò riflettendo. Poi decise che era lo stesso imbarazzo che aveva mostrato da Hemensway quando lei aveva visto le lettere con cui cercava di inventare una password. Era a disagio nella sua nuova posizione di potere, ecco tutto. Non voleva farle sapere quanto stava andando bene. Poi le venne un altro pensiero: cosa sarebbe successo se lei non l'avesse invitato? Si chiese se per caso Mark non avesse avuto intenzione di portare qualcun'altra... Stava per seguirlo quando qualcuno le toccò il braccio. Si voltò sorridendo. Era Tom Heymann. «Alex, lei è assolutamente splendida». «Grazie». Alex continuò a sorridere, ma evitò gli occhi avidi di Heymann. Era a disagio nel vestito che indossava. Mark l'aveva scelto per lei, ma le sembrava di averlo preso in prestito da qualcun'altra. Non era suo. Si sentiva esposta. «Come va la macchina? Ho visto che ha fatto venire qualcuno a prenderla». «Oh, è a posto», disse Alex. «Tom, non ha visto Randal White, vero?». «In verità, sì. L'ultima volta che l'ho visto stava cercando di mangiarsi tutto il salmone affumicato del buffet». Alex scoccò un'occhiata al volto di Heymann. Era arrossato, e pareva incerto sulle gambe. Ubriaco. «Davvero?».
«Già. Da come mangia, dovrebbe pesare più di cento chili. Non so come fa». I suoi occhi pallidi scesero lungo la gola e il seno della donna, e Alex distolse lo sguardo aggrottando la fronte. «Credevo che tutti sapessero tutto, a Providence», replicò freddamente. C'era più caldo nella stanza di fianco. Un buffet dall'aspetto costoso attirava l'attenzione di numerosi ospiti, ma non c'era segno di White. Consapevole degli sguardi incuriositi che attirava, Alex si finse affamata e incominciò a servirsi, scegliendo quiche e insalata. «Molto bello, eh?». Di fianco a lei c'era un uomo con il piatto pieno di tartine. Le porse la destra. «Brad Witney. Lei dev'essere Alex, vero?». Alex gli strinse la mano e sorrise educatamente. «Sì. Ma come...». «Tom mi ha parlato di lei. Tom Heymann. Mi ha detto che è andata alla PrimeNumber per dare un'occhiata al modo in cui lavorano». Witney si chinò in avanti con atteggiamento cospiratore. «Ha trovato qualcosa di sospetto?», chiese socchiudendo gli occhi. Alex osservò i lineamenti fini e mobilissimi che sembravano raggruppati nella metà inferiore del volto di Witney. Le ricordava un balletto che aveva visto, in cui tutti i ballerini erano vestiti da animali. Witney sembrava un topo d'acqua. «Perché secondo me sono terribilmente sospetti», disse parlando con l'angolo della bocca. «Chi sono sospetti?», intervenne un altro uomo, accostandosi a Witney in maniera da formare con Alex un triangolo chiuso. Witney guardò il nuovo arrivato e si spinse in bocca un vol-au-vent. «Come va, Dave?». Ma Dave guardava Alex, scrutandola attraverso spessi occhiali dalla montatura metallica. «Non creda a una sola parola di quest'uomo», le disse con tono provocatorio. Poi le porse la mano, minacciando di gettare in terra il piatto di Alex. «David Mullins. Della Ocean State Savings Bank. Piacere di conoscerla, signorina...». «Tynan». Alex si sentì circondare la mano da dita morbide e sorprendentemente umide. «Questa è Alex», disse Witney, parlando direttamente nell'orecchio di
Mullins. Mullins sbatté gli occhi e annuì. Indossava un abito sintetico dall'aspetto economico che puzzava di sudore. «Quindi lei è un amico dei Goebert, signor Mullins?», chiese Alex. «Sì. Da molto tempo», disse lui. Alex lo guardò mentre si portava del cibo alla bocca e fu sorpresa di vedere un orologio d'oro di Patek Philippe che spuntava dal polsino. Anche Witney lo vide. Un soffio di aria fredda li fece voltare. «Cristo, ma chi apre le finestre?», disse Mullins. Witney si allungò all'indietro per guardare attraverso la porta. «No, è... qualcuno che sta entrando». Le sopracciglia gli si alzarono in segno di sorpresa. «E Walter Neumann». Passarono oltre la porta ed entrarono nella sala affollata. Walter Neumann stava stringendo la mano a Goebert e accennava con la testa a Eva. Donald Grant si intrufolò dietro di lui, con le mani in tasca. Avevano entrambi il viso rosso per il freddo e i pochi capelli bianchi di Neumann erano bagnati e appiccicati alla testa. Era un uomo alto con le spalle strette. Sembrava che il suo collo non fosse abbastanza forte per reggere il peso della testa ossuta. Mentre scambiava complimenti con il piccolo Goebert, il suo volto si muoveva di qua e di là e gli occhi scuri, quasi neri, osservavano impassibili la stanza e i suoi ospiti. «Non credevo che sarebbe venuto», sussurrò Mullins. «Devono essere tornati presto da Boston». Alex guardò le due facce ansiose. Mullins e Witney sembravano due bambini che spiavano un genitore severo tornato inaspettatamente a casa. Witney diede a Mullins una lieve gomitata. «Posso dirti una parola, Dave?». «Certo». Witney strizzò un sorriso alla volta di Alex e i due si misero a parlottare vicino al pinzimonio. Alle nove, la casa di Goebert era sovraffollata. Stretta tra ospiti surriscaldati, Alex fece educatamente conversazione con una serie di mogli di dirigenti, parecchie delle quali erano fraschette da quattro soldi. Scorgendo Mark in conversazione con un uomo più anziano, Alex si fece strada fino a lui e lo prese per il braccio. «Ehi, dolcezza». Mark le staccò delicatamente la mano. «Questo è il signor Wickenberg».
«Thomas, la prego», disse l'uomo amichevolmente. «Thomas, questa è Alex Tynan, la mia... socia». Alex strinse un'altra mano e fece del suo meglio per sorridere. «Non mi piace questo termine», disse. «Sembra che il nostro sia un rapporto d'affari». Wickenberg parve imbarazzato. «Thomas è da anni nel consiglio di amministrazione della ProvLife», disse Mark ignorando l'osservazione e con un tono come se Wickenberg fosse candidato al premio Nobel. «In un ruolo non esecutivo», disse Wickenberg. «Dagli anni Settanta. Da quando Richard Goebert ha assunto la presidenza, per la precisione». Guardò Alex. «Stavamo parlando di macchine». «Davvero?», disse Alex maliziosamente. «Lasciatemi indovinare: BMW». «Giusto. Thomas ne ha una grossa», disse Mark. «La 713». «Oooh, sono terribilmente costose». Si girarono tutti. Donald Grant, il capo del dipartimento investigativo, era in piedi con un bicchiere di whisky e soda nella mano quadrata. Annuì verso Alex e Mark fece le presentazioni. «Molto costose», ripeté quando furono finiti i saluti. Wickenberg alzò le sopracciglia e annuì in segno di assenso. «Bellissime, però», disse Mark. «Con quei soldi si prendono dei bei gingillini». «Certo», disse Grant guardando fisso Mark. «Dico solo che sono un po' troppo care». Era come un blocco stradale. Nel giro di pochi secondi aveva annientato qualsiasi conversazione. Alex guardò le dita intorno al suo bicchiere. Erano grosse, leggermente grassocce, con le unghie mangiate fino all'orlo. Grant sorrideva a Mark, ma senza amicizia. Improvvisamente, Walter Neumann si diresse verso di loro. Ci furono altre presentazioni. Alex aveva spesso visto Neumann da lontano, mai da vicino. Era molto rigido, molto riservato. Dava l'impressione di guardare la gente nascosto dietro i suoi occhi. Parlò di lavoro con Wickenberg per pochi istanti. Cose di Boston. Il modo in cui parlava ricordava ad Alex un ventriloquo. I suoi denti quasi non si aprivano. Era in piedi alle spalle di Grant e improvvisamente ad Alex venne in mente che Grant gli faceva da spalla. Rise, bloccando la risata troppo tardi con le dita sulla bocca. I quattro uomini la guardarono e Mark aggrottò la fronte.
«Scusate», disse Alex sollevando il bicchiere vuoto. «Ho paura di essere un po' suonata». «Stavo dicendo che le BMW sono molto care», disse Grant come se lei non avesse parlato. Si rivolgeva direttamente a Neumann. Ci fu un silenzio imbarazzato e Alex scosse la testa. Grant incominciava ad apparire davvero strano. Alex si chiese se non fosse ubriaco. «Cosa ne pensi, Walter?», chiese Wickenberg. Neumann guardò Mark con i suoi occhi impassibili. «Io penso che, in generale, Donald è un ottimo giudice per quanto riguarda il valore delle cose», disse. Lo disse con il volto perfettamente immobile, come se non fosse una chiacchiera senza importanza, ma una dichiarazione sulla situazione in Bosnia. Goebert passò rapidamente vicino a loro, parlando animatamente. «Non ho mai visto Richard così in forma», disse Wickenberg, evidentemente desideroso di lasciar perdere l'argomento BMW. «Mi dispiace che se ne vada». «Se ne va?», chiese Mark guardando Neumann. «Da le dimissioni?». «Niente affatto», disse Grant. «Almeno per un paio d'anni», disse Neumann. «Certo il lavoro sembra che gli piaccia», disse Wickenberg, «ed è in gran forma per la sua età. No, volevo dire che quando se ne andrà... be', non sarà più la stessa cosa. Sarà come se finisse un capitolo della storia della ProvLife, un grande capitolo». Sorrise ad Alex. «Sa, abbiamo quasi dovuto chiudere negli anni Ottanta. Gli affari andavano male e la concorrenza ci stava davvero annientando. Sa qual è il rapporto più significativo per l'andamento dell'azienda?». «Certo», rispose Alex guardando Mark. «Il rapporto tra le somme pagate per le richieste di risarcimento e le somme incassate con i premi». «Giusto», disse Wickenberg. «Il nostro si avvicinava all'uno a uno. E questo non dovrebbe succedere nel nostro ramo. Eravamo sull'orlo dell'abisso». «Uno a uno», ripeté Alex. Osservava il volto stranamente inespressivo di Neumann, che fissava un quadro appeso alla parete. «Non sapevo che le cose andassero così male». «Oh, sì. E si parlava di una fusione eccetera. Fu Goebert a insistere perché restassimo indipendenti. Fu sempre Goebert a insistere perché restassimo una mutua. Non voleva che Wall Street ci ordinasse quello che dove-
vamo fare». «Dev'essere stata dura», disse Mark annuendo sinceramente e cercando sostegno in Grant. Grant sembrava più interessato al suo bicchiere. «Restammo una mutua e andammo avanti piano piano, ed eccoci qui, dieci anni dopo», Wickenberg aprì le mani, «in ottime condizioni. Bisogna riconoscere che il merito è di Goebert. Può darsi che sia un po' all'antica, ma ha sempre avuto in pugno la situazione». Grant alzò gli occhi. «Voglio dire, ora come ora», continuò Mark gesticolando col suo bicchiere, «date le sfide che il settore si prepara ad affrontare, concentrarsi su cose come la responsabilità dell'azienda verso i clienti, gli imperativi morali, se volete - concentrarsi su queste cose non è sbagliato». «Certo», disse Wickenberg annuendo. Il gruppo si disperse. Neumann e Grant si allontanarono in cerca di cibo. Wickenberg iniziò una conversazione sui vestiti con Eva Goebert. Alex trattenne uno sbadiglio, poi incominciò a tirare discretamente il braccio di Mark. «Non sei stata molto cortese», disse lui quando si furono allontanati. «Sei ubriaca?». Alex si mise il dorso della mano contro la guancia. Scottava. «Non mi sorprenderebbe», rispose. «Mi sono annoiata da morire. Cos'era tutta quella roba sulle BMW e sugli... imperativi morali? Due settimane fa parlavi come nel mondo nuovo di Huxley». Guardò il bel volto di Mark e all'improvviso, senza una ragione precisa, ebbe la sensazione di stare per perderlo, o di averlo già perso. La sensazione era accompagnata da un forte bisogno di fuggire. «E in ogni caso non sei stato molto educato neanche tu, dato che non mi hai invitato anche se ti avevano invitato da due settimane». «Cosa?». «Be', non assumere quell'aria sorpresa. Newt ti ha invitato, ma tu non hai invitato me». «Mi sembra incredibile che ti attacchi a una cosa del genere». Mark si guardò impazientemente in giro. «Forse pensavi di portare Catherine Pell?». «Non essere...». Improvvisamente fece un sorriso falso. Alex si voltò e vide Randal White che emergeva da un gruppo di persone. Ralph McCormick, con la bocca tesa e gli occhiali, lo seguiva da vicino.
«Vi state divertendo?», chiese White. «Molto», disse Mark. Alex sentì con sorpresa che le metteva un braccio sulla spalla. «E bello avere l'occasione per parlare con tanta gente». White studiò Mark per un momento come se avesse detto qualcosa di strano. «Non uscite spesso?», chiese con tono neutro. Alex sussultò. Guardò Mark e vide che il tono di White l'aveva sorpreso quanto lei. «Volevo dire, gente che ha a che fare con l'azienda», riuscì a dire Mark sporgendo la mascella. «I non esecutivi e così via. Si conosce la società». «Colonne», disse White inespressivo, e poi aggiunse a mo' di spiegazione: «Della comunità». McCormick rise: uno scoppio isolato di riso senza allegria. Una goccia di saliva gli rimase sul mento quadrato. «Ce n'è abbastanza per fare un colonnato», disse. Come se solo ora si ricordasse della sua presenza, White tirò avanti McCormick con gesto teatrale. «Alex, questo è Ralph McCormick, il nostro responsabile della Data Systems», disse. «Ralph, questa è Alex Tynan, una delle mie statistiche più brillanti». McCormick si inchinò piegando la vita. «Lieto di conoscerla, signorina Tynan. Randal mi ha parlato della sua interessante scoperta sul...». White toccò il braccio di McCormick. «Cerchiamo di passare la serata senza parlare di lavoro», disse. Alex si accorse che la musica si era interrotta. La gente si stava recando nella sala principale. «A quanto pare, è arrivato il momento del discorso di Richard», disse White stancamente. Guardò Alex con occhi socchiusi e divertiti. «Richard dice sempre qualche parola. Una sorta di discorso alla truppa». Si voltò con McCormick e seguì gli altri ospiti attraverso la porta. «Io avevo intenzione di invitarti», disse Mark afferrando Alex per un braccio. Lei si liberò e finì contro una donna vestita di rosso. «Mi scusi tanto», disse. Poi, con tutta la dignità possibile, seguì White e McCormick. Le luci dei lampadari erano state intensificate, per cui le modanature del soffitto in stile coloniale risaltavano leggermente ombreggiate. Alex, ormai
perfettamente consapevole di aver bevuto troppo vino, si fece strada verso il centro di un circolo di persone raggruppate intorno al caminetto. Goebert stava disponendo tre grandi volumi su un tappeto persiano. Quando ebbe finito, vi salì sopra e per un momento guardò tutti dall'alto in basso. «Santo cielo, Newton, stai proprio perdendo i capelli», disse con un'espressione leggermente sorpresa. Brady si toccò la testa imbarazzato. «Segno di virilità», disse goffamente. Ci fu qualche risata compiacente. Il rapporto principe-buffone tra Goebert e Brady era un classico delle riunioni della ProvLife. Alex scorse White in piedi davanti agli altri, che sorrideva affabilmente. Di fianco a lui, McCormick guardava attentamente il volto di Goebert, passandosi di tanto in tanto la lingua sulle labbra come per inumidirle. Grant, alle spalle di McCormick, aveva un viso impassibile. «Signore, signori, colleghi della ProvLife e amici», incominciò Goebert. «Alcuni di voi sapranno che Eva e io abbiamo festeggiato il nostro trentacinquesimo anniversario di matrimonio la settimana scorsa». Alzò le mani piccole, ringraziando per il breve applauso. Eva Goebert, una signora grassottella con un vestito a fiori, sorrise con calore. «Trentacinque anni», disse Goebert scuotendo la testa. «Sembra incredibile. È stato tutto meraviglioso, naturalmente, e devo dire che non mi sono quasi accorto del tempo che passava. Il sicomoro del giardino la pensa diversamente, badate. Non l'abbiamo piantato noi, ma era poco più di un rametto quando siamo arrivati qui nel sessantacinque. Lo guardavo stamattina, e mi ha fatto capire da quanto tempo siamo qui insieme in questa casa e da quanto tempo vengo in ufficio facendo a piedi il percorso sviila collina e oltre il fiume». Alex guardò White e notò l'uomo con gli occhiali spessi in piedi dietro di lui. Miller? Mellor? Mullins. Stava osservando Goebert e si accarezzava il mento come un cospiratore shakespeariano, con la mano destra che spuntava dall'abito sintetico. «E, per Dio, ne abbiamo visti di cambiamenti», diceva Goebert. «Cambiamenti legati alla crescita, naturalmente, ma anche cambiamenti dovuti a... ai cambiamenti. E la cosa non si ferma. Come forse sapete, il nostro attuario illustre Randal White». Goebert lo indicò con la mano e White chinò la testa in segno di riconoscenza. «Tra un paio di settimane deve andare a Washington per parlare del problema delle informazioni genetiche e del loro uso nel settore assicurativo». Goebert si fermò e guardò il volto di
White. «È così, Randal?». «Soldi, come sempre», disse White. «E sarà compito dei legislatori federali stabilire le regole che seguiremo in futuro. Questo fatto costituirà di per sé un cambiamento. Come probabilmente sapete, il settore ha finora goduto di una certa autonomia, sottoposta a controlli da parte dei singoli stati. Il governo federale interverrà di più, in futuro, o almeno così prevedo io. Ma il vero cambiamento sarà legato alla tecnologia in sé e per sé. Essa porterà, anzi sta già portando, cambiamenti più profondi di quelli che abbiamo mai visto in passato, di quelli che riesco a immaginare. E sapete una cosa? Sono un po' preoccupato». Il volto di Goebert aveva perso la sua espressione cordiale e leggermente divertita. Ora appariva mortalmente serio. Guardava fisso Randal White. «E per questo, guardando quel vecchio albero, ho capilo che per me è ora di farmi da parte. Di lasciare spazio a qualcuno più capace di affrontare le sfide del prossimo futuro». «Cosa?». Era McCormick quello che aveva parlato, e la sua domanda era un grido di rabbia. Alex vide con sorpresa che Grant si faceva avanti e afferrava McCormick per un braccio. Il volto di White era pallido e teso. «Ma, Richard, non puoi fare questo», disse Newton Brady. Goebert scese dai libri come se abdicasse a un trono. «E invece lo sto facendo», disse tranquillamente. «Un po' prima del previsto, lo so. Ma, che diamine, ho sessantatré anni, quasi sessantaquattro. Sono sicuro che questo consiglio di amministrazione è in grado di eleggere un sostituto competente». Fu immediatamente circondato dalla gente. Alex cercava White, ma non c'era più. Ci fu un ronzio di domande sorprese. Grant stava portando via dalla folla McCormick. «E il Natale del novantanove?», diceva McCormick con voce stupefatta. Nella confusione della folla, David Mullins non si era mosso. La mano sinistra continuava ad accarezzare il mento e lui guardava duramente il gruppo che aveva circondato Goebert. Alex notò che non aveva più l'orologio. 16 Il mercoledì dopo la festa da Goebert, Alex stava lavorando sul database della ProvLife e cercava le statistiche sulle malattie cardiache quando Mel
Hartman arrivò e appoggiò le mani sull'orlo della sua scrivania. «Preparati, Alex. Preparati, perché non ci crederai». Si chinò più vicino. Alex sentì la sua colonia dolciastra e il suo alito di caffè. Sapeva quello che stava succedendo: Hartman voleva fare il gentile per rimediare al suo comportamento indecente del passato. Non le parlava da due giorni, rimuginando sul fatto che era stata invitata alla festa. Ora probabilmente pensava che se davvero Alex era una stella nascente, era meglio ingoiare l'orgoglio e conservare la sua amicizia. Tutto bene, ma Randal White le aveva dato appuntamento alle dieci e mezza per fare il punto sull'anomalia da lei scoperta, e voleva prepararsi nel caso che le chiedesse dei consigli specifici. Sospirò pesantemente e continuò a battere sulla tastiera, sperando che Hartman capisse. «Sandra, Sandra. Vieni qui. Dai». Sandra Betridge passava mescolando una tazzina di caffè con uno degli inutili bastoncini di plastica che insozzavano la cucinetta. Hartman le accennò con insistenza. «Cosa c'è?», chiese lei. «Sto facendo una cosa». Hartman si strinse nelle spalle. «Va bene, va bene. Se vuoi essere l'ultima a saperlo...». Sandra lo guardò dubbiosa, poi si avvicinò esitando di un paio di passi. «Spero che non mi dirai che Richard Goebert si dimette, perché lo so da ieri». Hartman scosse la testa incredulo. «Oh, Sandra, anche gli indigeni della Mongolia esterna l'hanno saputo ieri. Quelli della Mongolia interna lo sapevano da una settimana». Sandra sorrise sarcastica. «E chi lo sostituirà? L'hanno già saputo nella Mongolia esterna?». «Certo. Newton Brady è in prima posizione, ma le scommesse puntano molto su Walter Neumann. Però non è questo...». Alex alzò gli occhi. «E Randal White?». Hartman le sorrise con superiorità. Alex si pentì immediatamente di aver aperto bocca. «Non conosci le statistiche, Alex. Nessun attuario è diventato presidente della ProvLife dalla seconda guerra mondiale in poi. O sai qualcosa che non ci vuoi dire?». Alex scosse la testa. «Ho da fare una cosa», disse stancamente Sandra. Hartman alzò le mani. «Aspettaspettaspetta. Non è questa la cosa».
«Cosa c'è, allora?». «Ascolta. Ascolta. D'accordo? Conoscete Inés, la sudamericana che fa le pulizie?». Alex e Sandra si scambiarono uno sguardo impaziente. «No», risposero insieme. «Ma dai. Ce ne sono quattro, arrivano verso le sette e vuotano i cestini». «Allora adesso raccogli le tue informazioni dalle donne delle pulizie?», disse Sandra soffiando sul suo caffè. «Ascolta. Ieri sera Inés e un'altra donna delle pulizie erano all'ultimo piano, fuori dalla Central Records. Verso le otto. Poco prima». Mel gettò un'occhiata verso la porta e abbassò la voce. «Comunque, erano lì a passare il pavimento o qualcosa del genere e sentono un rumore nel bagno degli uomini. Una specie di muggito». «Muggito?», disse Sandra. «Il verso di un animale?». «Era un uomo». Per un momento nessuno parlò. «Cioè? Tu...». Hartman alzò un dito. «Allora sono andate a vedere». «Sono entrate nel bagno degli uomini?». Sandra sembrava sconvolta. «Certo, perché no? Sono donne delle pulizie. Volete sapere cos'hanno trovato?». Hartman guardò prima l'una, poi l'altra. «Ralph McCormick. Capo supremo della Data System. In uno dei gabinetti. E qui viene il bello». Hartman guardò ancora a lungo la porta. «Era nudo... come un verme». «Nudo?». Sandra si coprì la bocca. La voce le diventò un sussurro. «Vuoi dire... completamente nudo?». «Proprio così. Senza nessun vestito. Completamente fuori. Si era spogliato lì nel cesso». Alex deglutì. Qualcosa le diceva che Hartman non si stava inventando questa storia. Si ricordava l'atteggiamento di McCormick alla festa di Goebert. «Gesù. Ed era... era solo?», chiese Sandra. «A quanto pare. Non si trattava di un incontro omosessuale, per quanto ne sappiamo». Gli occhi di Sandra schizzavano dalle orbite. «Ralph McCormick nudo. È davvero terribile. E cos'hanno fatto le donne delle pulizie?». «Sono scappate. Sono uscite gridando. Qualcuno ha chiamato la guardia. E venuto fuori tutto. E poco dopo sono state convocate nell'ufficio di Wal-
ter Neumann, che gli ha detto che è molto dispiaciuto per l'incidente eccetera eccetera e che il signor McCormick ultimamente è stato sottoposto a un grande stress e gli ha dato cinquanta dollari a testa perché non dicano niente». Hartman incrociò le braccia. «E indovinate chi non è venuto al lavoro oggi? Chi ha preso delle ferie all'ultimo minuto?». «Davvero?». «Proprio così. Secondo me sarà una cosa lunga. Definitiva». «Gesù», disse Sandra con voce sconvolta. «Lavora qui solo da sei mesi. Prima Ken Miller, adesso Ralph McCormick». «Già, certo», disse Hartman. «La maledizione della Central Records. Forse tutte quelle informazioni fanno male, distruggono il desiderio di vivere. Come dice il proverbio: conoscere è una cosa pericolosa». «Sapere!», gridò quasi Alex. Tutt'a un tratto non voleva sentire più nulla. «Ed è un po' di sapere. "Un po' di sapere è una cosa pericolosa" Alexander Pope». Hartman staccò il gomito dal monitor. «Oh, scusa, eh?». «E comunque, tutta questa storia è ridicola. E solo uno stupido pettegolezzo». Hartman studiò Alex per un momento, alzando teatralmente un sopracciglio. «Be', Alex, sono sicuro che questa sarà la linea dell'azienda. Il compagno Ralph McCormick ha un leggero raffreddore e tornerà a compiere il suo dovere verso lo stato nel prossimo futuro. Foto ritoccata della "Pravda", pagina trentasette». Sandra ridacchiò. «Molto divertente», disse Alex. «In ogni caso, come fai a essere sicuro che sia andata proprio così?». Hartman si irrigidì. Un paio di abiti eleganti del marketing stavano enfiando dalla porta, diretti all'ufficio di Randal White. «Ho fiducia nelle mie fonti», disse. «Non tutte le conoscenze sono digitali. Forse prima o poi te ne accorgerai». E prima che Alex potesse mandarlo al diavolo tornò alla sua scrivania. Alex cercò di concentrarsi sul proprio lavoro nel tempo rimasto, ma era difficile. Non riusciva a togliersi dalla testa la storia di Ralph McCormick. Mel Hartman e il resto del dipartimento sembravano convinti che fosse solo uno scherzo il fatto che un direttore che conoscevano a malapena impazzisse nel gabinetto, si togliesse i vestiti e spaventasse le donne delle pu-
lizie. Era solo un tocco di colore, qualcosa di sorprendente nella loro vita troppo prevedibile - di sorprendente, ma non di unico. Le persone impazzivano in continuazione. Lo dicevano le statistiche, alla voce Risarcimenti per malattie mentali. E proprio per questo non voleva dire niente. Ma Alex era sicura che invece volesse dire qualcosa. Sentiva nelle ossa che quell'avvenimento faceva parte di un quadro, di un'immagine che si stava rivelando davanti ai suoi occhi. Se solo avesse potuto interpretarla, vederla tutta, forse avrebbe capito perché lei e Mark stavano entrando a farne parte. Se solo avesse potuto analizzarla come faceva con le colonne di cifre che comparivano in quel momento sul suo schermo, voltarla e rivoltarla finché non rivelasse il suo segreto... Ma non sapeva come fare. Di punto in bianco un dirigente di successo decide di cambiare vita e ricominciare daccapo dove nessuno lo troverà mai, usando una grande fortuna di cui nessuno è a conoscenza. Poche settimane dopo uno dei suoi colleghi - un altro uomo di successo, rispettabile -improvvisamente esplode, dà i numeri come se fosse sottoposto a qualche stress intollerabile. E tutti si preoccupano solo di tenerlo tranquillo. L'unico che sorride è Richard Goebert. Il presidente che avrebbero dovuto cacciare con la fòrza quando sarebbe stato il momento, a quanto dicevano. Il presidente che invece si era appena ritirato prima del previsto. Alex ci mise qualche tempo prima di accorgersi che i numeri sul suo schermo erano diversi. Sussultò, si avvicinò al video, li rilesse, aspettando che il cervello si concentrasse di nuovo sul problema e le dicesse perché non li leggeva bene. Ma il cervello non ubbidiva. Controllò l'ora. Mancavano dieci minuti all'incontro con White. Ed era nei guai. Guardò gli appunti che aveva preso, appunti che documentavano passo passo - più per Randal White che per lei stessa - il suo percorso all'interno del sistema della Central Records. Era perfettamente chiaro. Le cifre che aveva di fronte erano una sintesi statistica, suddivisa per anno, dei dati sulle auto possedute da una particolare categoria di clienti della ProvLife: gli uomini morti di attacco cardiaco. Ma la sintesi era cambiata da quando l'aveva vista l'ultima volta. Allora, il 4,2% di queste persone avevano posseduto una spider al momento della sottoscrizione della polizza. Il 4,2% ogni anno: una impossibilità statistica. Adesso, inspiegabilmente, i numeri fluttuavano come avrebbero sempre dovuto fare, dal 2% in un anno fino al 7,5% in un altro. Alex si sentì improvvisamente avvampare. La sua discussione con Randal White, la discussione che lui aveva avuto con Ralph McCormick, il
tempo passato alla PrimeNumber, tutto era nato dall'anomalia che lei aveva detto di aver scoperto. White non aveva controllato i dati personalmente. Si era fidato della sua capacità di analisi. Ma adesso, a quanto pareva, non c'era più nessuna anomalia. E lei aveva solo fatto perdere tempo a tutti, lei compresa. Questo avrebbero pensato. «Ma io sono sicura di quello che ho visto!», disse ad alta voce. In quel momento suonò il telefono. Era Janice Aitken, la segretaria di Randal White. «Alexandra? Randal ti aspetta. Puoi venire adesso?». White era in piedi vicino alla finestra e guardava fuori sopra Dorrance Street, verso il fiume grigio in lontananza. Si girò quando Alex entrò e per un attimo parve che non la riconoscesse o non sapesse perché era lì. «Buon giorno», disse lei sentendosi molto a disagio. «È forse... un brutto momento...?». «No». White si riscosse leggermente. «Prego. Alex. Siediti. Stavamo... Ah, sì, il... il problema. Vuoi un caffè o qualcos'altro?». «No, grazie», disse Alex sedendosi dall'altra parte della scrivania. I mucchi di carta erano appena diminuiti, e sopra un mucchio di moduli c'era in equilibrio un grande vassoio di Oreos, offerto agli uomini dal Marketing, senza dubbio. Alex sapeva che avrebbe dovuto parlare di lavoro, ma non si sentiva pronta. «Mi è molto piaciuta la festa venerdì scorso», disse. «Anche a Mark. Il signor Goebert è stato molto gentile a invitarci». White accese la lampada della scrivania, benché non fosse buio. C'era nel suo modo di fare qualcosa di strano, di più grave. Sembrava che non volesse guardarla negli occhi. Alex si chiese se fosse infelice per qualche ragione o semplicemente distratto. «Mi fa piacere», replicò White. «Si è rivelata un'occasione molto importante, eh? Cosa ne dice dell'annuncio?». «Sì, è stata una grossa sorpresa. Almeno per me». «Oh, non solo per te», disse White esaminando la sua scrivania alla ricerca di qualche cosa. «Proprio per niente. Ma sono sicuro che andremo avanti benone». Alzò gli occhi verso di lei. «Nessuno è indispensabile, dopo tutto, no?». Alex rispose con un debole sorriso. «Avevo qui degli appunti, su quell'anomalia. Ah, eccoli». Tirò fuori un
taccuino azzurro da una cartelletta aperta. «Finalmente sono riuscito a dare un'occhiata ai dati di cui parlavi». Alex chiuse gli occhi un istante. Ecco perché White era infelice. Aveva appena scoperto la stessa cosa che aveva scoperto lei: che l'anomalia da lei segnalata così diligentemente non esisteva. «Sì, volevo parlarti di questo. È molto strano, ma...». «Infatti. Dimmi se sbaglio, ma non riesco a trovare», fece scorrere un paio di pagine del taccuino, «la correlazione fissa di cui parli tu. Credo che abbiamo guardato gli stessi dati: le richieste di risarcimento degli archivi della ProvLife». «Certo. Il fatto è...». Alex inspirò a fondo. La miglior difesa è l'attacco. «Qualcuno ha cambiato i numeri». White la guardò di nuovo. Chiuse il taccuino e lo depose sulla scrivania. «Ha cambiato i numeri?». «Due settimane fa la percentuale dei proprietari di spider e coupé corrispondeva ogni anno alla media del settore». «Sì, questo l'ho capito». «E invece adesso, all'improvviso, i numeri sembrano perfettamente casuali. Li hanno cambiati». Alex guardò White negli occhi, sperando di apparire molto più sicura di quanto si sentiva in realtà. White fece un profondo sospiro, allargando le narici, e si appoggiò allo schienale della poltrona. «Va bene. Chi è stato?». «Be', penso... Insomma, ci sono due possibilità. La prima, che sia stato il computer stesso, il software. Se si erano persi dei dati, è possibile che il sistema sia programmato per coprire i buchi con le medie di settore». Alex stava improvvisando, ma non era un'ipotesi del tutto campata per aria. «Poi, se i dati in qualche modo sono stati recuperati, per esempio da un sistema di back-up, sono ricomparsi i numeri reali». «In questo caso il programmatore si è dato mollo da fare per niente, perché quello che ci interessa sono i dati reali relativi ai nostri archivi». «Certo». «E la seconda possibilità?». Alex si morse le labbra. White ovviamente con prendeva molto sul serio la sua teoria sul software. «Be', credo...». Si irrigidì sulla sedia. «La seconda possibilità è che qualcuno della Central Records abbia fatto un errore e poi abbia cercato di nasconderlo».
White la guardò fisso. Per un momento, Alex pensò che si sarebbe messo a gridare, invece scoppiò improvvisamente a ridere. «Oh, Alex. Ero sicuro che ti saresti persa d'animo, ma sono felice di vedere che mi sbagliavo. Ammiro la tua tenacia. Chi ha osato dire che gli attuari sono timidi?». Alex sorrise a sua volta. White voleva credere che l'anomalia c'era stata davvero, che lei aveva ragione. Ma prima aveva voluto verificare se ne era sicura lei stessa. Ecco com'era White: l'integrità fatta persona. «Quindi è stata la Central Records». «Sembra logico. La PrimeNumber inserisce tutti i dati dei richiedenti e dei risarciti. Ma tutti i dati del settore - i dati attuariali - sono conservati qui. Non li hanno alla PrimeNumber, e non so se qualcuno lì saprebbe come arrivarci. Per cui se qualcuno voleva sostituire intenzionalmente le medie di settore ai dati mancanti sulle richieste di risarcimento reali, doveva conoscere molto bene il sistema della Central Records». White annuì. Sembrava che le credesse davvero. «Ma perché, Alex? Perché avrebbero fatto una cosa del genere?». Alex aveva una risposta pronta. «Io credo che abbiano perso accidentalmente dei dati. Invece di farne un caso nazionale, qualcuno del dipartimento ha semplicemente cercato di riparare al danno nella maniera più semplice possibile. L'unica domanda è: quali altri dati sono stati persi, e noi non lo sappiamo?». White emise un lungo sospiro. «Temevo che avresti detto una cosa del genere». «Ah sì?». «Sì, perché le mie conclusioni sono uguali alle tue. E perché si impone una revisione urgente dei nostri sistemi di archiviazione». Alex rimase in silenzio. Nella sua testa c'era l'immagine di Ralph MrCormick, nudo e urlante dentro un cesso dalle pareti di formica. «Detto molto tra noi, Alex», continuò White, «abbiamo avuto qualche problema con il personale di quel dipartimento». «Ho... ho sentito dire qualcosa», disse Alex. White annuì, leggendole i pensieri. «Be', quindi lo sai. Ralph McCormick... non sta bene. Anzi, per essere del tutto franchi, sembra che abbia sviluppato una grave dipendenza dalla cocaina». Alex lo guardò fisso. Ecco una cosa che neanche Mel Hartman sapeva. «E può darsi che questo non sia tutto. Secondo me quell'uomo ha dei
problemi psicologici. Naturalmente, bisogna solo esserne dispiaciuti, ma il fatto è che McCormick è responsabile di una funzione che probabilmente è la più importante qui dentro. Non oso pensare a quello che può essere successo lassù». «Ma evidentemente non può continuare a...». Alex si fermò. «Naturalmente, non spetta e me...». «Certo che ti spetta, Alex. E il tuo campo. La posizione dell'azienda, il suo stesso futuro dipendono dalla qualità delle informazioni. Le informazioni sono il nostro sangue. Senza informazioni, procediamo alla cieca. È un problema che riguarda tutti i dipendenti, e soprattutto gli attuari». «Quindi il signor McCormick... darà le dimissioni?». «Non lo so. So che dovrebbe farlo, per il suo bene e per quello dell'azienda. Ma non tutti, nel consiglio di amministrazione, vogliono che se ne vada. Non riesco a capirlo, ma il nostro direttore dell'ufficio legale, in particolare, vorrebbe mantenere lo status quo. Del resto», White strinse le labbra come se ci fossero altre cose che non poteva dire, «gli avvocati, a quanto ne so, sono pagati apposta per essere prudenti». 17 Harold Tate aspettò fino alle sei, poi lasciò il bar. Scese in macchina dalla collina passando di fianco al gigantesco centro congressi vicino al fiume. La neve non aveva smesso di cadere in tutto il pomeriggio e Tate dovette procedere in seconda per non uscire di strada. Se Pilaski l'avesse chiamato sul telefonino, l'avrebbe trovato spento. Tate aveva volutamente lasciato esaurire le batterie. Si tirò su l'orlo elasticizzato della manica e abbassò il guanto per vedere l'ora. Ma la sua camicia di flanella era abbottonata troppo stretta sulla maglietta termica che Suzy gli aveva fatto indossare. Respirando a fatica dalla bocca aperta, si sforzò di slacciarla con la mano guantata, ma inutilmente. Alla fine dovette mettersi le dita della destra in bocca e tirarsi via il guanto coi denti. Bestemmiando in continuazione, rivoltò il polsino della camicia e scoprì l'orologio. Erano le sei e dieci. Perché diavolo aveva bisogno di saperlo, poi? Incominciò a ridere, e improvvisamente si trovò a ridere così forte da doversi chinare sul volante. Alla Kennedy Plaza girò a destra, dirigendosi verso Westminster Street e rallentando ancora di più, facendo del suo meglio malgrado la neve per essere prudente.
Non gli piaceva arrivare così vicino al palazzo della ProvLife. Ci aveva pensato due volte anche prima di andare al funerale di Michael Eliot, dato che ci sarebbero state molte persone della ProvLife. Ma, in fondo, conosceva Michael da venticinque anni. Se non fosse andato, la vedova se ne sarebbe certamente stupita. Aveva telefonato e aveva parlato con lei meno di dieci giorni prima della morte di suo marito. Poteva addirittura apparire sospetto. Tate aspettò che scattasse un semaforo e si diresse a sud lungo la Dorrance. Il traffico si muoveva lentamente, era l'ora di punta serale. Dalla rosticceria in fondo alla strada veniva un odore agrodolce di cipolle fritte e pane caldo. Quando Margaret Eliot gli aveva parlato dei soldi di Michael e della donna che le aveva telefonato, era rapidamente arrivato alla conclusione che da qualche parte doveva esserci stata una grave indiscrezione. Trovava difficile credere che Michael avesse fatto la sciocchezza di dire alla donna da dove venivano quei soldi, ma il fatto che lei sapesse della loro esistenza, che dicesse di avere documenti di ogni sorta e di poter dimostrare le sue affermazioni con prove oggettive, aveva provocato nuove notti di insonnia. La cosa peggiore era che le prove oggettive - le stampate - venivano da lui. Era stato lui a infrangere le regole, convocando Eliot in ufficio e comunicandogli di persona i risultati del test. Se non l'avesse fatto, Eliot non sarebbe fuggito, non avrebbe preso le stampate. Insomma, a pensarci bene, l'indiscrezione era stata sua. Quello che era successo era colpa sua, e se qualcuno doveva pagare, c'erano buone possibilità che quel qualcuno sarebbe stato lui. Per questo doveva affrontare il problema personalmente, e alla svelta. La sua prima reazione era stata di telefonare al numero che Margaret aveva scritto. Come aveva detto lei, era da qualche parte nell'East Side. Aveva telefonato tre volte, ma la donna non aveva mai risposto. Aveva sentito solo la sua segreteria, una voce allegra che diceva il numero e chiedeva di lasciare un messaggio. C'era del rumore in sottofondo. Sembrava un bambino, o un gatto. La terza volta che aveva telefonato, aveva incominciato a lasciare un messaggio - Salve, lei non mi conosce - ma ci aveva ripensato all'improvviso. Se avesse detto il suo nome si sarebbe solo esposto di più. Aveva buttato giù la cornetta, col cuore che gli martellava nel petto. Capì che, qualunque cosa pensasse Margaret, non sapeva niente di questa donna, di quello che faceva o di chi c'era dietro di lei. Nella faccenda erano coinvolte grandi somme di denaro, e la carriera di alcune persone determinate e, sospettava, sempre più disperate. Se qualcuno avesse scoperto ciò
che lui aveva provocato, be', tutto era possibile. Telefonandole, non avrebbe attirato l'attenzione su di sé? Dopo tutto, se era davvero solo una questione di denaro, non c'era ragione perché lui si lasciasse coinvolgere. Tutta la colpa sarebbe ricaduta su Eliot, e lui era irraggiungibile. Era l'idea che questa persona, chiunque fosse, chiunque rappresentasse, era in possesso di documenti di ogni sorta, che lo preoccupava. Passò tre notti insonni, cercando di pensare al da farsi. Margaret era stata piuttosto chiara a proposito della donna vista al funerale. Anche lui l'aveva vista. Durante la cerimonia era rimasta seduta di fianco a lui. Le aveva perfino prestato il fazzoletto a un certo momento, quando aveva incominciato a piangere. Era sicuro che Margaret avesse ragione: doveva essere l'amante di Eliot. Chi altri poteva essere? E se era così, lavorava alla ProvLife, così gli aveva detto Michael. Tate rimpiangeva di non avergli chiesto altri dettagli, un nome, invece di essere così discreto. Ora doveva cercarla, riconoscerla. E poi? Seguirla fino a casa, magari entrare, scoprire esattamente quali prove aveva? Cristo, ma se non aveva neanche il coraggio di fare una telefonata! Eppure, quanto più ci pensava, tanto più capiva di non aver scelta. Aveva lasciato il laboratorio lunedì all'ora di pranzo e si era diretto verso il centro di Providence per passeggiare nei dintorni della ProvLife. Martedì, camminando lungo un marciapiedi ghiacciato e mangiando un hot dog freddo, aveva visto la donna a un incrocio. Era quasi scivolato e caduto. Era insieme a un elegante giovanotto dall'aspetto italiano, sembrava che litigassero, la donna parlava sottovoce con irritazione ed enumerava le sue ragioni sulle dita. Tate si era bloccato mentre lei si voltava verso di lui. Poi era scomparsa. Era corso all'angolo e aveva visto la coppia che si dirigeva verso l'isolato vicino. All'incrocio tra la Dorrance e la Westminster erano entrati nel palazzo della ProvLife. Felice e terrorizzato insieme, Tate aveva girato sui tacchi ed era tornato indietro di corsa. Adesso era sicuro che lavorava lì. Doveva solo aspettare che uscisse dall'ufficio e seguirla fino a casa. Il palazzo della ProvLife incombeva su di lui nell'oscurità innevata. Il suo stile assurdo lo faceva sembrare un'enorme torta glassata. Tate sollevò il bavero del giaccone da cacciatore e si calzò in testa il berretto. C'era un vantaggio negli abiti ridicoli che indossava: nessuno probabilmente l'avrebbe riconosciuto. Alex Tynan lo vide appena uscì dal portone. Era in piedi dall'altra parte
della strada di fianco a una Pontiac blu, con un hot dog mezzo mangiato in mano. Indossava un berretto e una giacca da cacciatore, e gli stessi stupidi moon boots che aveva notato due giorni prima. Svoltò a sinistra e si diresse all'ingresso del posteggio all'aperto della ProvLife, resistendo alla tentazione di controllare se la seguiva. La paranoia la rendeva sicura che questo fosse l'uomo che aveva lasciato quello strano messaggio sulla sua segreteria. Salve, lei non mi conosce... ma invece lei lo conosceva, l'aveva riconosciuto immediatamente per la barba e la faccia da lupo di mare. Quando l'aveva visto la prima volta al funerale, le aveva fatto venire in mente il capitano di un sottomarino di un vecchio film di guerra in bianco e nero. Quando l'aveva visto per strada, il giorno del suo disastroso pranzo con Mark, si era ricordata del fazzoletto che le aveva prestato, e in mezzo al litigio aveva pensato di fermarsi per ringraziarlo e per sapere come restituirglielo. Ma vederlo di nuovo per la terza volta la mise a disagio. Non poteva essere una coincidenza, ovviamente. Il suo sguardo attento e spaventato indicava uno scopo. Sembrava uno che si preparasse a fare qualcosa. Accelerando il passo, Alex si guardò furtivamente intorno per vedere se Mac era ancora al lavoro. La porta della cantina era aperta, ma non c'era segno di vita. La neve continuava a cadere leggera. Salì sulla Camry e innestò la retromarcia. Uscendo dal parcheggio, vide le luci della Pontiac che si avvicinavano e la seguivano, sbandando leggermente sull'asfalto ghiacciato. Alex non vide l'autobus che all'ultimo momento. Stava attraversando l'incrocio. Frenò di colpo. Ci fu un momento che parve infinito in cui l'autobus le passò davanti, e poi uno schianto sordo quando la Pontiac la urtò da dietro. Da qualche parte, un clacson suonò. Alex uscì dall'auto. L'uomo stava già osservando i danni. «Cosa diavolo...». Guardò il suo volto terrorizzato e sentì che la propria rabbia aumentava. «Cosa diavolo crede di fare?». «Mi dispiace. Io... ero troppo vicino. O andavo troppo veloce». «Lei mi stava seguendo», disse Alex. «Perché diavolo mi seguiva?». Tate alzò gli occhi e guardò il palazzo della ProvLife sulla Dorrance Street. «Non si ricorda di me? Al funerale. Al funerale di Michael». Alex annuì brevemente, continuando a guardarlo fisso. Tate continuava a guardare indietro, come se fosse lui a essere seguito. «Senta, possiamo... possiamo andare a parlare da qualche parte?».
Alex scosse la testa e guardò il traffico che si bloccava sulla strada. L'autobus era ripartito e l'incrocio adesso era libero. Una donna con la giaccavento perfettamente chiusa scese da un furgone Ford e si mise a gridare, gesticolando verso di loro perché si tirassero da parte. «Liberate la strada!». L'uomo fece un passo avanti. «Se si avvicina ancora mi metto a gridare», disse Alex stringendo i pugni. «Per l'amor di Dio, lei è in grave pericolo. Mi sente? Non è uno scherzo». Alex rimase immobile al suo posto. «So che ha le stampate», disse l'uomo. «Non cerchi di negarlo. So tutto. Le telefonate alla signora Eliot, il biglietto aereo, tutto. Ha fatto individuare il numero». «Ma cosa...?». «Mi ascolti! Non si preoccupi dei soldi. Faccia quello che vuole con i soldi. Ma io devo avere quelle stampate». Alex cercò di capire quello che diceva. Il suono dei clacson era assordante. Lungo la strada, vide le luci lampeggianti di una macchina della polizia che si dirigeva verso di loro sull'altra corsia. «Quali... quali stampate?». Scosse la testa. «Io non...». «Le dico che non sa in quale pericolo si trova», ripeté l'uomo. Si guardò in giro e vide la polizia, risalì sull'auto e innestò la retromarcia. Ci fu un rumore stridulo mentre arretrava. Girò il volante con forza e si infilò in una via laterale. L'ultima cosa che Alex vide fu il suo volto pallido nel finestrino. Non aveva mai visto nessuno tanto spaventato. TERZA PARTE A terra 18 L'ufficio di Richard Goebert era il più ampio di quelli all'ottavo piano del palazzo della ProvLife. Walter Neumann, direttore dell'ufficio legale dell'azienda, aveva uno spazioso ufficio d'angolo cinque piani più in basso, che dominava la Dorrance Street e la pomposa facciata del palazzo comunale, ma l'ufficio di Goebert era più grande e meglio proporzionato. Era chiaro che l'architetto aveva prestato particolare attenzione a questa stanza.
Guardando fuori dall'enorme finestra con balconata, ci si sentiva in qualche modo a posto, ben sistemati, come un eremita o un pastore in primo piano in un quadro di Watteau. Così pensava Neumann, mentre guardava da quella finestra la luce calante di un altro grigio pomeriggio di Providence. Da tempo ambiva all'ufficio di Goebert e, dal brusco addio del vecchio, trovava difficile non entrarvi casualmente di quando in quando, non foss'altro per osservare tutto quello spazio ora disponibile. Non sentì Newton Brady che entrava dietro di lui. «Bella vista, eh?». Neumann si voltò e osservò la figura massiccia di Brady, incorniciata dalla porta di mogano. «Newton», disse con tono neutro. Neumann aveva uno strano modo di parlare, con la bocca praticamente chiusa. Era come se, anche quando parlava - cosa che faceva con sicurezza e facilità da avvocato - non volesse mai ammettere di aver detto qualcosa. La sua abile lingua lavorava nascosta dietro ai denti. «Bridget mi ha detto che eri qui», disse Brady chiudendo la porta e facendosi avanti con gli occhi puntati sul balcone e sulla strada sottostante. «Sì, io...». Per un attimo Neumann non seppe che cosa dire. La sua grossa faccia inespressiva diventò ancora meno espressiva mentre il suo cervello cercava il modo di uscire da una situazione potenzialmente imbarazzante. «Bridget pensa che dovremmo... pensa che l'azienda dovrebbe rimettere a nuovo questa stanza. Goebert l'ha lasciata andare». Neumann indicò il punto in cui le scarpe di Goebert, nel corso degli anni, avevano scavato un buco quasi perfettamente circolare nel tappeto. Brady fissò il buco come se si aspettasse che ne venisse fuori qualcosa. «Quindi hai intenzione di assumerti l'incarico». Scoccò un'occhiata a Neumann, ma quest'ultimo si era già voltato altrove ed era tornato a contemplare il balcone. «Se che il consiglio di amministrazione approverà la cosa, naturalmente», aggiunse Brady con tono sardonico. «Naturalmente», disse Neumann. Si passò la mano sui capelli pettinati all'indietro. «Qualcuno deve farlo, e mi sembra che per te non sia il momento giusto». Brady si mise un grosso dito nel colletto e lo tirò. «Sì. La morte di Eliot ci ha messo un po' in crisi alle Finanze. Ci vorrà un po' perché Ferulli si inserisca. Secondo me, la scelta è solo fra te e Whi-
te». Neumann fece un passo verso la finestra. «E per questo che sei venuto qui? Per parlare...?». Neumann aveva la tendenza a lasciare le frasi in sospeso. Era un'abitudine che dava adito a malintesi. Bridget, la sua segretaria, doveva cavarsela con accenni e indizi, ma anche lei a volte lo fraintendeva. Non che a Neumann essere frainteso desse fastidio. Le interpretazioni sbagliate delle persone spesso erano rivelatrici. Era un gioco che Brady conosceva molto bene. Guardò la testa pelata di Neumann e aspettò che si voltasse. «Per parlare della presidenza?». Brady scosse la testa in maniera irritante. «Goebert è andato alle Cayman», disse. «Solo per un paio di settimane. Ha detto che lui ed Eva volevano fuggire da questo freddo». Neumann si tolse gli occhiali e incominciò a pulirli con il fazzoletto. «Continua». «Ho controllato allo Hyatt. Hanno preso una suite che si affaccia sul campo da golf». «Una suite». «Esatto. Secondo Grant, cioè secondo il suo uomo sul posto, hanno fatto un giro a...». Brady aggrottò la fronte e tirò fuori un foglietto dalla tasca, socchiudendo gli occhi per leggere un fax di cattiva qualità. «George Town. È la capitale. Hanno fatto un giro in città e sono capitati in un posto che si chiama Colombian Emeralds. E una gioielleria specializzata in...». «Smeraldi?», chiese Neumann continuando a pulirsi gli occhiali con un movimento circolare. «Proprio così», disse Brady. «Ha comprato a Eva due anelli. Un grosso smeraldo circondato da brillantini e un solitario in platino. Ventimila dollari». «Come ha pagato?». «In contanti». Brady attese una reazione per qualche istante, ma Neumann continuò a pulirsi gli occhiali, immerso nei suoi pensieri. Poi si fermò. Si rimise gli occhiali e studiò la faccia di Brady. «Che cosa ne pensa Grant?», disse. «Secondo lui Goebert gliel'ha detto ieri. Eva è uscita dalla camera solo a pomeriggio inoltrato. E stato allora che sono andati a comperare gli anelli». Neumann annuì e poi guardò Brady che si premeva il pugno contro il
petto. «Gesù Cristo», disse Brady, improvvisamente agitato. Guardò in giro le pareti nude e si mise una pastiglia in bocca. «Non so, Walter. Non so davvero. Prima Eliot, adesso Goebert. Una suite allo Hyatt. E adesso quel maledetto McCormick... che cazzo». Neumann sussultò alla parolaccia, ma per il resto rimase indifferente alla veemenza di Brady. Notava qualcosa di strano nella faccia di Brady, qualcosa che non aveva mai visto prima. «Hai saputo quello che è successo alla festa?», disse Brady, continuando a premersi il cuore. «Ho dovuto prenderlo con la forza. Dopo l'addio del vecchio, è andato in bagno... non da basso, per fortuna. È andato su fino alla camera da letto dei Goebert - per dirti quanto è fuori - è andato nella loro camera, nel loro bagno, per farsi una pista. Ho dovuto prenderlo con la forza, per cercare di strappargli di mano quella maledetta bustina di plastica». Brady rimase in attesa, sperando in qualche segno di disapprovazione o di rabbia, ma Neumann si limitò a guardarlo con i suoi occhi inespressivi. «È fuori controllo, Walter! E adesso si spoglia nel cesso. Va in giro nudo a farsi vedere dalle donne delle pulizie». «Di loro mi sono già occupato io», disse Neumann. «Tu?». Brady si fermò, guardando fisso la faccia neutra di Neumann. A volte si chiedeva se, dietro la sua calma d'acciaio, Neumann non fosse ancora peggio di McCormick. «Ti sei occupato tu delle donne delle pulizie?». Neumann annuì. «Walter, vuoi dire che...». «Da quando fai delle plastiche?», sbottò Neumann interrompendo Brady a metà della frase. Per un attimo, Brady non riuscì a capire la domanda. «Cosa?». «Alle vene. Al naso. Si vede che hai fatto degli interventi». Brady si toccò il naso, confuso. Incominciò a ridere, ma si trattenne vedendo che la faccia pallida di Neumann incominciava a cambiare colore. «Perché l'hai fatto?». «Niente. Io...». «Stai cercando di attirare l'attenzione? Maledizione, Newton, siamo impiegati in una compagnia di assicurazioni, non... non stelle del cinema».
«E solo qualche capillare», disse Brady. «E adesso? Pensi alla liposuzione?». Le spalle di Brady caddero e improvvisamente egli assunse l'aspetto di un ragazzino con problemi alimentari. Neumann ebbe la tentazione di schiaffeggiarlo. «Smettila», disse con calma. «Qualsiasi cosa tu abbia in mente di fare, lasciala perdere. Non va bene». «E Goebert?», gemette Brady. «Sta andando in giro a...». Si avvicinò alla finestra, respirando a fatica. Guardò fuori il cielo grigio. «Stanno vivendo una storia alla Jack Nicklaus, Walter». «Goebert è fuori, adesso», disse Neumann. «È uscito dalla luce dei riflettori. Una vacanza ai Caraibi è comprensibile. Così come un regalo alla moglie. È appena andato in pensione. Se non perde la testa, può fare quello che vuole. Tra un paio di mesi se ne andrà da questa zona. Troverà un posto sulla costa occidentale. Non dovremo più preoccuparci per lui». «E allora perché pagare un...?». Brady vide Neumann che si accostava alla finestra e appoggiava la fronte al vetro freddo. Non gli aveva mai visto compiere un gesto così spontaneo, e per un attimo rimase senza parole. Vide con orrore che Neumann chiudeva gli occhi e che una smorfia come di dolore trapelava dai suoi lineamenti inespressivi. Allora seppe come rispondere alla domanda che aveva formulato solo a metà. Pagavano un detective privato per seguire Goebert, e l'avevano fatto dal momento in cui aveva annunciato le sue dimissioni, non perché si aspettavano qualche problema, ma perché Neumann voleva sapere cosa faceva Goebert con i suoi soldi. Voleva solo saperlo voleva capire, benché per interposta persona, come ci si sentiva. Entrambi gli uomini guardarono il balcone. Una nuvola si mosse lentamente verso la finestra e la stanza quasi piombò nell'oscurità. Incominciò a nevicare. Rimasero così, a guardare fuori in perfetto silenzio, finché le luci arancioni della strada cominciarono ad accendersi. Brady tirò fuori un'altra pillola e se la mise in bocca. «White pensa che dovremmo mandare McCormick nel New Jersey, in questa strana clinica», disse. Poiché Neumann non rispondeva, continuò: «Una cosa è certa, ed è che non possiamo tenerlo a dirigere la Central Records, così com'è». «La clinica non gli ha fatto alcun bene, l'ultima volta», disse Neumann. «Forse se tu... forse se tu gli parlassi, gli ricordassi le regole...». Neumann si staccò dalla finestra scuotendo la testa.
«È un drogato. Direbbe di sì a tutto quello che gli dico, e alla prima occasione... E Mary? Non può fare qualcosa lei?». Brady si voltò e guardò la faccia di Neumann, leggermente luminosa nell'oscurità, con gli occhiali squadrati che sembravano macchie di luce. «Non so neanche se è a casa», disse. «Sospetto... sospetto che abbiano qualche problema». Poco dopo le cinque, la Lincoln scura di Neumann attraversava il fiume diretta all'East Side. La casa di McCormick era all'angolo tra la Everett e la Weyland, a pochi passi dal cimitero di Swan Point. Neumann parcheggiò in strada. Mentre percorreva il vialetto in disordine verso la porta d'ingresso, vide una faccia a una finestra del piano superiore. McCormick ci mise qualche tempo a rispondere. In piedi sulla porta aperta, appariva magro e spaventato. Non si radeva da due giorni e aveva profonde occhiaie. Un angolo della bocca rossa si contraeva in continuazione. «Walter». «Volevo solo vedere come stai», disse Neumann. «Hai bisogno di qualcosa?». McCormick si strinse nelle spalle. «Certo. E... è molto gentile da parte tua pensare a me». Guardò fuori in strada, timoroso di vicini ficcanaso, poi si ricordò le regole della buona educazione. «Entra un momento, Walter. Non restare lì nella neve». Neumann entrò nell'ingresso scuro. La casa era calda come una sauna e c'era un leggero odore di spazzatura proveniente dalla cucina. Andarono in salotto, mentre Neumann notava le piante morte e i portacenere zeppi. La televisione era accesa, senza sonoro. «Dov'è...?». «Mary?». McCormick quasi gridò il nome della moglie. «È... è andata a trovare delle persone a Newport. È partita la settimana scorsa». Neumann si voltò e guardò McCormick che si aggirava facendo patetici tentativi di mettere ordine. Poi si fermò, con un cuscino stretto al petto. Puntò un indice tremante verso Neumann. «Caffè?», chiese facendo del suo meglio per sorridere. «O preferisci qualcosa di un po' più...?». «Caffè va benissimo», disse Neumann tra i denti. «Nero». Neumann posò la busta che aveva con sé sul tavolino e si tolse il pesante cappotto. Poi sedette sul divano, spostando una guida TV tutta rovinata. Quando McCormick tornò, Neumann stava sfogliando un documento con
ostentata attenzione. McCormick lo osservò nervosamente mentre gli porgeva la tazza. «Ho sentito di quel Ritter al telegiornale», disse per fare conversazione. «Cosa ne dici? Non credevo che l'avrebbero trattato in quel modo. Dico, un processo civile». Neumann alzò gli occhi. «Be', dipende dal tipo di prove che hanno», disse distrattamente. «E l'accusa può chiedere quello che vuole. Non vuol dire che Ritter finirà per pagare. Anche se sembra che sia coinvolto nella faccenda dei piani pensione». «Credo che alla fine vinceranno i suoi avvocati», disse McCormick arditamente. «Quando quel tizio... come si chiama?... ha detto che l'accusa gli aveva dedicato trenta ore al giorno per nove giorni alla settimana, forse ha esagerato un po'». Quando capì che Neumann non era dell'umore adatto per scherzare, si incupì. Sedette su una poltrona rovinata ed emise un lungo sospiro. «Walter, volevo solo dire...». Neumann alzò la sua mano pallida. «Dai, Ralph, mi conosci abbastanza per non dover... So quello che provi. Siamo tutti stressati, per la morte di Michael e le dimissioni di Goebert. Solo che ciascuno reagisce a suo modo». Neumann vide la testa di McCormick che cadeva ancora più in basso e un lampo di disprezzo gli brillò negli occhi. Le spalle di McCormick sussultarono una. due, tre volte, poi l'uomo incominciò a balbettare pulendosi il naso con la manica del maglione e mordendosi le labbra. «Io non...». Cercò di controllare la voce. «Non riesco a sopportare tutta questa storia, Walter». Neumann sorseggiò il suo caffè, aspettando. «Mary... Mary ha detto che sarebbe rimasta da... da sua madre finché non ne verrò fuori». «Perché se ne è andata?», chiese improvvisamente Neumann. McCormick alzò gli occhi, facendosi piccolo piccolo sotto lo sguardo di Neumann. «Non è niente... niente di serio. Solo che non andiamo molto bene. Al momento...». Di nuovo McCormick guardò il documento sul tavolo. Neumann sedette sull'orlo del divano, toccando la prima pagina, come se suonasse un accordo al pianoforte. «Già, Ritter», disse tranquillamente. «Naturalmente, non è facile manda-
re un uomo a morte. Voglio dire, se anche ci fossero stati più giurati bianchi al processo, dubito che sarebbero riusciti facilmente a mandarlo sulla sedia elettrica. Ma con i soldi, è diverso. Uno ti chiede se secondo te potrebbe averlo fatto, poi ti indica quanto potresti fargli pagare, e tu ti senti più tranquillo nell'esprimere il tuo giudizio morale. E i numeri... be', al di sopra dei ventimila dollari all'anno sono praticamente privi di significato per la gente». McCormick annuì, mentre i suoi occhi andavano dal documento a Neumann e viceversa. «Credo... credo che sia così», offrì debolmente. «Ma la sedia elettrica», disse Neumann. «Sai che mettono quella maschera di cuoio perché gli occhi esplodono per la pressione?». Scosse la testa. «Pensa che roba. Ti cuociono, Ralph. Letteralmente». Prese il documenti e sfogliò le pagine. McCormick lesse la parola AUTOPSIA a grandi lettere nere, poi MEDICO LEGALE DI RHODE ISI.AND e i nomi di tre assistenti patologi. «Cos'è?». «Questo?», chiese Neumann fingendosi sorpreso per la domanda. «Oh, è solo l'autopsia che hanno fatto su Eliot. Aveva una polizza sulla vita con noi. Quella standard da dirigente. Come te, Ralph». «Come me? Oh, sì, certo». «Il settore risarcimenti voleva controllare tutti... tutti i dettagli. Grant deve averla dimenticata nel mio ufficio». Studiò per un momento la faccia di McCormick. «Sapevi che il fegato di un uomo pesa quasi quanto il suo cervello? Incredibile, eh? Guarda qua«? Guardò la scrittura fitta fitta. «"Il peso del cervello estratto è di 1508 grammi o 53,2 once". E quassù», fece scorrere il dito verso l'alto, «dice che il fegato...: "il fegato pesa 1528 grammi o 53,9 once". È grosso più o meno come il fegato di un maiale, direi». McCormick mise una mano nella tasca del maglione e tirò fuori un pacchetto di Marlboro tutto ciancicato. Si mise una sigaretta tra le labbra e l'accese. Sul labbro superiore aveva delle gocce di sudore. «Chiamano marchio», continuò Neumann, «la lesione... il punto in cui la corrente è entrata nel corpo». Sorrise. «Ma basta col gergo tecnico, eh? Sì, Grant me ne parlava. Hanno molti casi di gente fulminata al settore risarcimenti, accidentali e non. La morte per shock elettrico è difficile da provare, in effetti. Possono non esserci tracce sulla pelle. Quando un apparecchio elettrico cade in acqua, per esempio, non si vede nessuna traccia».
McCormick fece un tiro, esitando, dalla sua sigaretta. «Eliot è un caso piuttosto chiaro, però», continuò Neumann. «Zona di pelle gonfia e giallastra sulla mano destra. Dove teneva quel vecchio trapano». Mise giù il rapporto e si rilassò di nuovo sul divano. «Questo è quello che non capisco», disse. «Insomma, perché usare proprio quel trapano? Era un attrezzo che aveva almeno trent'anni. Margaret dice che non ricorda neanche di averlo mai visto prima. Ammette che non sapeva tutto quello che succedeva in garage, con i suoi attrezzi, ma le sembra comunque di ricordare che gliene aveva regalato uno nuovo per Natale non molto tempo fa. E lui usa quel vecchio trapano - con l'isolamento di gomma ovviamente tutto rovinato - fa dei buchi per gli scaffali, forando qua e là quelle vecchie pareti, e...». Neumann scosse la testa e si tolse un peluzzo dai pantaloni. «Sembra che si senta una scossa anche di un solo milliampère. A dieci milliampère si incomincia a provare dolore. Tra i dieci e i venti milliampère si resta attaccati. Si vorrebbe lasciare andare l'oggetto, ma non si può. I muscoli vengono colti da un violento crampo. E si resta attaccati, come un pesce all'amo». Si chinò in avanti e guardò il rapporto seguendo la punta del suo naso. «Eliot si è fatto un buco nella guancia, mordendosi l'interno della bocca. Lo dice qui. Si è rotto un molare. Credo... credo sia stato per il dolore». McCormick si alzò in piedi, con le inani che tremavano. «Ti senti bene, Ralph?». «Non dovrei... non dovrei lasciarmi prendere dall'ansia», fu la risposta. «E cos'è che ti rende così ansioso?». «Non mi fa bene». «Siediti, Ralph». McCormick guardò la faccia inespressiva di Neumann e si rimise lentamente a sedere nella sua poltrona. Diede un tiro alla sigaretta e soffiò il fumo sopra la sua testa. «È questo?», chiese Neumann toccando il rapporto con la mano. «È questo che ti preoccupa? Questo rapporto? Non c'è niente, qui dentro, di cui tu debba preoccuparti, Ralph». Si allungò verso il tavolino e prese il telecomando. «Ti fa solo capire quello che può succedere se non stai attento», disse, e spense lo schermo. 19
Alex mise dell'altro zucchero nel caffè e guardò il proprio riflesso nella finestra del locale. Benché fosse passata un'ora dallo scontro, era ancora scossa. Il poliziotto aveva voluto un racconto dettagliato di ciò che era avvenuto. Lei aveva detto che un matto le era venuto addosso e poi era scappato. I danni alla Camry erano minimi e il giovane agente era sembrato sollevato quando lei aveva detto che non intendeva dar seguito alla cosa. Adesso, seduta nel ristorante vuoto, ascoltando una vecchia canzone di Bruce Springsteen, non riusciva a smettere di pensare alla faccia di quell'uomo. La cosa più preoccupante - oltre a quello che aveva detto, e all'intensità con cui l'aveva detto - era la sua paura, la paura che lo dominava. Gliel'aveva vista negli occhi, di un'intensità inquietante, del tutto diversa da qualsiasi cosa avesse visto in passato. Era lo sguardo di un uomo sospeso su un precipizio. E la stava avvertendo, le stava dicendo che avrebbe dovuto avere paura quanto lui. Non sapeva con chi parlare. Aveva cercato di raggiungere Mark col telefonino, ma non era in ufficio, era stato tutto il giorno a una riunione. Pensò di chiamare la polizia, ma poi si accorse che aveva appena parlato alla polizia e non aveva detto niente. E cosa poteva raccontare? Quell'uomo non aveva fatto niente di illegale venendole addosso, e inoltre, se voleva davvero andare a fondo della cosa, avrebbe dovuto raccontare di Liz, di Eliot e dei soldi, e aveva promesso di mantenere il segreto. Pensò anche di andare da Randal White, ma c'erano gli stessi problemi. E poi, cosa poteva fare lui? Non conosceva l'identità di quell'uomo più di lei. Gliel'aveva già detto al funerale. Era difficile ricordare esattamente quello che aveva detto l'uomo, ancora più difficile attribuirgli un senso. Ma una cosa era chiara: aveva commesso l'errore che dovevano aver commesso molte altre persone presenti al funerale. Pensava che lei fosse stata l'amante di Michael Eliot. Sapeva dei conti bancali e dei documenti di Eliot, anche se erano in possesso di Liz Foster. Allora, era Liz a essere in pericolo? O tutte e due? Tentò di telefonare a Liz più volte, ma non ci fu mai alcuna risposta. Possibile che avesse lasciato la città? Improbabile: le avrebbe detto qualcosa. Non se ne sarebbe andata così, senza una parola. Il pensiero di ciò che poteva essere successo mise Alex a disagio. Non sentiva Liz da giorni, dalla sera del funerale... Si riscosse, decise che Liz probabilmente era solo uscita per fare delle compere o per visitare degli amici - forse aveva incominciato a cercare un
altro lavoro. Decise di andarla a trovare di persona, di lasciarle un biglietto. Lottò per non pensare che poteva già esserle successo qualcosa di brutto. Erano quasi le otto quando la Camry di Alex - con la sua nuova pompa della benzina da trecento dollari e il paraurti posteriore rovinato - accostò davanti alla casa di Liz. Brighton Street era immobile e buia, le tende e le persiane erano tutte chiuse contro la notte gelata. Un solo lampione era acceso sull'altro lato della strada e pendeva pericolosamente verso un groviglio di cavi telefonici, gettando ombre scure sulla neve indurita. Alex spense le luci e rimase seduta per un momento, guardando nello specchietto retrovisore. Una macchina l'aveva seguita per quasi tutto il percorso da Kennedy Plaza, una berlina nera con la targa di Rhode Island, ma l'aveva superata mentre svoltava in Knight Street e da allora non l'aveva più vista. Probabilmente era solo un altro pendolare, si disse, che tornava a casa a Johnston o a Rishop Heights. Ma questo pensiero non l'aveva liberata dalla paura. Improvvisamente c'era qualcosa di misterioso nel meccanismo delle probabilità. Era come se le regole fossero cambiate, come se il debole raggio di luce della ragione e della logica si fosse perso, diffuso da qualche prisma invisibile. E la prevedibilità che rendeva la vita percorribile, possibile, era scomparsa. Quali erano le probabilità che un uomo con dieci milioni di dollari morisse montando uno scaffale in una casa da duecentomila dollari? Quali erano le probabilità che un perfetto estraneo incontrato a un funerale ti seguisse come uno psicopatico solo per avvisarti che la tua vita era in pericolo? E soprattutto, quali erano le probabilità che avesse ragione? Alex scese dalla macchina e chiuse la porta il più silenziosamente possibile. La temperatura era molto al di sotto dello zero e si accorse che le tremavano le mani mentre infilava la chiave nella serratura. In lontananza, un cane incominciò ad abbaiare. Qualcuno gridò con rabbia, si sentì il suono di un televisore o di una radio, poi silenzio. Rabbrividendo, Alex salì di corsa i gradini e premette il campanello di Liz. Sopra di lei, una delle finestre era un rettangolo di tessuto giallo scuro, ma non si mosse nulla. «Forza, Liz. Dimmi che ci sei». Dall'altro lato della strada, un uomo con la giacca da sciatole nera accovacciato dietro al volante guardava la donna davanti al portone. Ricordava gli occhi grigi che lo fissavano da una foto e un odore pulito di limone. Abbracciandosi per difendersi dal freddo, Alex premette di nuovo il
campanello. Non riusciva a capire se emetteva qualche suono. Sbirciando attraverso i vetri sporchi, riuscì a intravvedere la ringhiera della scala e un arco di luce sul sottile tappeto rosso, come se una porta sul retro dell'ingresso fosse socchiusa. Si chinò e aprì la buca delle lettere. «Liz! Liz, ci sei? Sono Alex!». Dei fari illuminarono rapidamente la facciata del palazzo. Alex si voltò di colpo, aspettandosi di vedere la berlina nera. Una vecchia e massiccia station wagon stava uscendo da uno dei passi carrai e il telaio sbatté rumorosamente quando toccò la strada. Il guidatore la guardò mentre passava, con la faccia pallida e ovale chiusa in un cappuccio di pelo. Alex sospirò profondamente e si rigirò verso la porta. Bussò sul vetro. Era sicura che la luce veniva dall'appartamento di Liz. Forse il campanello non funzionava. «Liz?». Ancora nessuna risposta. Contrariata, Alex cercò nel cappotto la penna e il taccuino che aveva portato con sé. Appoggiandosi alla porta, incominciò a scrivere: Liz, ho bisogno di parlarti urgentemente... La porta si aprì. La serratura si era impigliata nello stipite. Un'aria calda e acida la investì. Alex scrutò immobile nell'ingresso. Distinse il triciclo da bambino ai piedi delle scale, nello stesso punto dell'altra volta. Pubblicità e dépliant gratuiti giacevano sullo zerbino. «Non c'è nessuno?», chiamò. Ancora nessuna risposta. Il vento afferrò un paio di contenitori di Pizza Hut e li capovolse. Alex si guardò intorno alla ricerca di un interruttore, ne trovò uno di fianco a sé e lo premette. Non accadde nulla. Finì rapidamente il suo biglietto. L'avrebbe messo sul tavolino all'ingresso e se ne sarebbe andata. Almeno così era sicura che Liz l'avrebbe visto al ritorno. Lasciando la porta accostata, camminò lentamente nello stretto ingresso, con una mano appoggiata al muro. Non ne era sicura, ma le sembrò di sentire dei passi al piano di sopra, il pavimento che scricchiolava. Ma forse era sempre il vento. Nel raggiungere il tavolino, la sua mano urtò contro qualcosa appeso alla parete, un quadro. Lo afferrò per impedirgli di cadere, premendolo di scatto contro il muro. Di sopra, lo scricchiolio del pavimento cessò. Cercando di non emettere alcun rumore, depose il biglietto e si voltò per andarsene. Allora vide che la luce effettivamente proveniva da sotto la porta di Liz. Si avvicinò e alzò la mano per bussare. Sentì muoversi qualcosa. La luce ai suoi piedi si mosse e un'ampia om-
bra la divise in due. Alex si arrestò. C'era qualcuno dall'altra parte della porta. Senza quasi respirare, fece un passo indietro, poi un altro, calibrando attentamente il peso in modo che l'unico suono era il leggero fruscio dei suoi vestiti. Se era Liz, perché non era venuta alla porta? Perché non aveva risposto? E se non era Liz, chi era? Attraverso il battito del proprio cuore, le tornarono in mente le parole dell'uomo sconosciuto. Lei non sa in quale pericolo si trova. L'ombra si spostò di nuovo, diventando più grande e più scura. Alex lottò per controllare il respiro. Dall'altra parte della porta venne un leggero scatto: qualcuno stava aprendola. Poi, molto lentamente, la maniglia girò. Alex si mise a correre e urtò contro il triciclo. Agitando le braccia, cercò di aggrapparsi alla ringhiera, non ci riuscì, cadde per terra, battendo con forza le ginocchia, con il triciclo ancora tra le gambe. La luce inondò l'ingresso. Alex urlò e si girò, preparandosi a difendersi disperatamente dai colpi che sicuramente stavano per arrivare. «Alex? Cosa diavolo ci fai qui?». Alex gemette sollevata. «Gesù, Liz. Perché non hai... Oh, Dio mio». Si toccò delicatamente le gambe. Se le sentiva come se la pelle si fosse lacerata. Liz si avvicinò e allontanò il triciclo. Non sembrava contenta di vederla. «Stai bene?». Alex respirò profondamente un paio di volte, aspettando che il dolore diminuisse. «Credo di sì. Ahi. Niente di rotto, mi sembra. Perché diavolo non hai risposto alla porta, maledizione? Pensavo che fossi... Perché?». «Che fossi cosa?», chiese Liz, ancora confusa. «Un ladro o qualcosa del genere. Perché non mi hai risposto?». Liz indicò le cuffie che aveva al collo. Aveva un walkman attaccato ai jeans. «Mi sono fatta un regalo», disse. «Ha uno speciale sistema Megabass». «Oh, Gesù. Dovrebbero proibirle, queste cose». Alex si rimise lentamente in piedi. «E perché diamine non fai riparare la luce? Sembra di entrare nel buco nero di Calcutta». «È colpa del padrone. Comunque, me ne vado tra poco». «Buona idea». «Pensavo di trasferirmi a Newport. Se decido di restare in questa zona. Cos'è questo?». Liz prese il biglietto sul tavolino dell'ingresso.
«L'ho lasciato io», disse Alex, toccandosi la gamba dolorante. «Poco prima che tu decidessi di farmi morire di paura. Ho bisogno di parlare con te, Liz». Liz lesse il biglietto e glielo restituì. «Davvero?», disse. «E di cosa?». «Quel tizio mi sembra matto, Alex. Io non mi preoccuperei». Erano sedute a tavola nella cucina di Liz. Alex si massaggiava ancora la botta sullo stinco. L'appartamento non sembrava molto cambiato dalla sua ultima visita, a parte il fatto che non si vedevano più in giro valige e valigette. Al loro posto, il salotto era pieno di sacchetti. Nuovi vestiti, giacche e gonne erano buttati sulle sedie e sul divano, alcuni con i cartellini del prezzo ancora attaccati. La perdita di Michael Eliot evidentemente non aveva attenuato l'entusiasmo di Liz per i saldi di gennaio. «Non mi sembrava matto, Liz. Solo molto spaventato». Liz scrollò le spalle, ma ad Alex sembrò un gesto falso. «Questo tizio va a un funerale a Swan Point con i moon boots e tu dici che non è matto?». «Non al funerale. Questa settimana. Al funerale aveva delle normali scarpe marrone, se proprio vuoi saperlo». «Marrone? Be', fa lo stesso, non cambio idea». «Liz, sto parlando seriamente. E sono sicura che anche lui era serio. Anzi, era terrorizzato». Liz buttò il fondo del suo tè nel lavandino. Alex non riusciva a capire: sembrava che non volesse ascoltarla. «D'accordo, d'accordo, è serio. È seriamente fuori strada, no? Insomma, non sa quello che fa, chiunque sia». «Liz...». «Vuoi qualcosa da bere? Ti farebbe bene». Alex scosse la testa. «Il tè va benissimo. Tu fai pure». «Certo». Liz prese da un armadietto una bottiglia di Glenfiddich e un bicchiere. Malgrado l'atteggiamento distratto, Alex la trovava tesa e nervosa. «Liz, quel tizio ha fatto solo un errore - un errore che poteva fare chiunque. Mi ha scambiata per te». «Cosa stai dicendo?». «Ascolta, Liz, il tuo rapporto, il fatto che Michael avesse una relazione, non era affatto un segreto. Lo sapevano tutti, tutti i dirigenti della ProvLife, almeno. E dal modo in cui Margaret Eliot mi guardava durante il fune-
rale, sono sicura che lo sapeva anche lei». Liz rimase immobile per un momento. Poi si irrigidì e si versò del whiskv. «E mi stai dicendo che tutti pensano che fossi tu?». «Non tutti, ma...». «Ma tirano soltanto a indovinare, no?». Liz si voltò a guardarla. Alex aggrottò la fronte. «Cosa vuoi dire?». «Voglio dire che non hanno nessuna ragione per pensarlo, no? Non sei mai andata a letto con Michael, tu?». Alex sussultò. Si chiese se aveva capito bene. Liz si strinse nelle spalle. «Ehi, si fa per parlare. L'ho sentito dire». «Cosa?». Liz si strinse di nuovo nelle spalle e incrociò le braccia. «L'ho sentito». Alex era senza parole. Come poteva solo pensare una cosa simile Liz? Ma non poteva fare a meno di ricordare la festa in ufficio, il bacio che Eliot le aveva piantato sulla bocca. Chi era presente in quel momento? Chi l'aveva visto? Probabilmente parecchie persone, Mel Hartman, per esempio. «Per l'amore di Dio, Liz», sbottò, «io non ho mai... Non è vero». «Va bene, allora», tagliò corto Liz, e bevve un sorso di whisky. «Non devi sentirti coinvolta». Alex rimise giù la gamba dolorante, appoggiandosi per un momento allo schienale della sedia. Com'era possibile che Liz fosse tanto gelosa di un uomo morto? Ma stava poi pensando proprio a quell'uomo? «Liz, io non voglio essere coinvolta. Non l'ho mai desiderato». «Ovviamente. Come sta Mark, a proposito?». «Bene. Ma cosa c'entra...?». «Come vanno le cose?». Alex si sentì nuovamente smarrita. «Bene. Perché... perché no?». «Niente. Non lo so. Solo che non mi è mai sembrato il tipo adatto a te, ecco tutto». «Ah». La voce di Alex si indurì. «E a chi sarebbe adatto, secondo te?». «Non lo so. Forse alla nuova ragazza. Come si chiama? Cathy, giusto? Catherine? Quella di buona famiglia». Alex si alzò. Non voleva sentire altro. «Sono venuta solo per metterti in guardia», disse tranquillamente. «Non
per litigare». «Per mettermi in guardia da cosa? Se vuoi che faccia riparare quella serratura, lo farò. Metterò anche una catena, se questo ti fa felice». Alex prese il cappotto. «Buona serata, Liz». «Dai, Alex, dai. Stavo solo scherzando. Tu e Mark siete una bellissima coppia. Lo dicono tutti». Alex raggiunse la porta. «Alex, dai. Siediti. Scusa, d'accordo? A volte penso a Michael e... Ti prego, non andartene». Alex rilassò le braccia. «D'accordo. Scusa. Credo... credo che tu abbia toccato un punto sensibile». Liz sorrise debolmente. «Sì, capisco. Sei sicura di non volere qualcosa da bere?». «Be', forse... Ma solo un goccio. Devo guidare». Liz prese un altro bicchiere. Alex andò in salotto e si fece spazio sul divano tra una giacca di cashmere color crema e una gonna da sera estiva. Il prezzo della gonna era di 1499 dollari. Si ricordò perché era venuta. «Liz, ho pensato ai soldi. Ai soldi di Michael». Ci fu un momento di silenzio dalla cucina. Poi il rumore di un armadietto che si chiudeva. «Vuoi del ghiaccio?». «No, grazie. Liz, se davvero aveva tutti quei soldi, è probabile che fosse coinvolto in qualcosa di illegale. Devi controllare». Liz la raggiunse e le porse il bicchiere. «Se lo dici tu», osservò. «Sei tu l'esperta in probabilità, qui». «Lo so che non vuoi pensare a lui in questo modo, e non ti critico per questo, ma è una buona ragione per essere prudente». Liz sedette. Alex notò che si era riempita di nuovo il bicchiere. «Come ho detto, farò riparare quella serratura. «Non è questo che voglio dire, Liz. Dimmi una cosa: hai contattato Margaret Eliot?». Liz bevve un altro sorso. Socchiuse leggermente gli occhi e poi si scostò i capelli dalla fronte. «Be', perché avrei dovuto farlo?». «Non lo so. L'hai fatto?». «No. Vuoi dire che anche lei è una delinquente?». «Naturalmente no».
«E allora perché me lo chiedi?». «Perché... perché quell'uomo ha detto...». «Ed eccoci tornati a mister Moon Boots. Dai, Alex, non possiamo parlare di qualcos'altro?». Alex studiò il volto di Liz. Con la pelle cerea e i cerchi scuri sotto gli occhi, era ancora molto diversa dalla donna controllata e formidabile che era sempre stata in ufficio. Ma non era neanche la persona confusa e aperta che era diventata subito dopo la morte di Eliot. Alex ebbe l'impressione che avesse intrapreso una nuova strada, che non dipendeva da nessun altro che da lei stessa. Ma era una strada di cui non voleva discutere. «Liz, quell'uomo ha detto un'altra cosa. Ha detto che i soldi non erano la cosa importante. Ha detto che la cosa importante erano i documenti, i documenti che Michael gli aveva rubato». Liz guardava nel proprio bicchiere. «Quali documenti? Non so di nessun documento, io». «Mi hai detto che hai trovato un pacco di documenti nella valigetta di Micahel, ricordi? Insieme ai resoconti bancari». «E allora?». «Dove sono?». Liz guardò la parete di fronte. Faceva del suo meglio per apparire esasperata, annoiata, ma Alex sentiva che era tutta una recita. «Alex, so di essere una semplice segretaria, ma non sono del tutto stupida. Ho messo i resoconti bancari in banca. Al sicuro. Per ogni eventualità». «E le altre carte?». «Non sono niente. Semplici numeri. Pagine di numeri. Ti assicuro che non vogliono dire niente». Alex rifletté un momento. «Devono significare qualcosa», disse sotto voce. Liz le sorrise storto. «Già, e tu dovresti saperlo, vero?». Mise il bicchiere per terra e si alzò. «Ti dico che non sono niente». «E allora perché questo tizio li voleva così disperatamente? Mi ha seguito per giorni interi, solo per riaverli». Liz attraversò la stanza e prese una rivista. I documenti erano nascosti all'interno. Dal suo posto, Alex vide che erano dei fogli da computer usali per le bozze di stampa. Vide i fori laterali e le strisce verde pallido. Liz li guardò per un momento, poi scosse la testa con irritazione. «Non so cosa siano». Li porse ad Alex. «Ecco. La prossima volta che Moon Boots viene ad annusare nei dintorni, avrai qualcosa da dargli».
Arrivò a casa alle dieci e trovò Oscar che miagolava alla porta dell'appartamento. Controllò la segreteria - non c'erano messaggi - diede da mangiare a Oscar e poi si sedette nella sua vecchia e comoda poltrona. Tirò fuori dalla borsa i documenti e li mise sul tavolino. Era difficile credere che rappresentassero un serio pericolo. Non per il loro contenuto, rifletté, ma perché si trovavano sul suo tavolino, nel suo salotto tranquillo. Non riusciva a immaginare che la sua vita fosse in pericolo. Ma quell'uomo li voleva. Non c'erano dubbi. Per lui erano più importanti dei soldi, dei dieci milioni di dollari. Lui credeva che li avesse lei, e adesso li aveva davvero. Erano solo stampate di computer, una ventina di fogli ancora uniti tra loro. Una piega irregolare nel centro indicava che erano stati frettolosamente piegati, e nell'angolo superiore destro le strisce forate incominciavano a staccarsi. Un soffio di vento gelido fece tremare i vetri della finestra. Alex sospirò e cambiò posizione per osservarli più da vicino. Fece scorrere un dito sulle file di numeri, cercando di scoprire un qualche significato. Liz aveva torto, ovviamente. Anche a un'occhiata superficiale si capiva che c'era un significato, e non era tutto nei numeri. In fondo all'ultima pagina c'era un'ora, una data e una paiola. I dati erano stati messi insieme, o almeno stampati, nove giorni prima di Natale, alle sette di sera. E la persona, o il sistema, o l'organizzazione che li aveva compilati era indicata proprio alla fine: MEDAN. Gli altri dati erano più difficili da decifrare. Ogni pagina aveva un numero di riferimento nell'angolo in alto a sinistra. I numeri incominciavano tutti con AP ed erano seguiti da nove cifre. Sotto c'erano due tabelle di numeri, con le intestazioni A e B. I numeri delle due tabelle sembravano identici, come se la stessa serie si fosse duplicata. Ciascuna tabella era suddivisa in nove colonne e otto righe. Le righe erano numerate, ma c'erano grandi salti irregolari: non c'erano le righe due e cinque; c'erano la sei, la sette e la otto, ma niente nove e dieci; dall'undici si passava alla diciannove. Le colonne avevano nomi più complessi MCP1B, LQTS1, HTCH4 - ma qui Alex si perse di nuovo. Erano sigle che non aveva mai visto, e se non si capiva cosa indicavano, i numeri sottostanti rimanevano ugualmente misteriosi - compresi i due cerchiati in rosso. Li studiò per parecchi minuti, passando da una pagina all'altra alla ricerca di una regola, di un rapporto. Ma niente lo suggeriva. Alex sobbalzò quando Oscar saltò sul bracciolo di fianco a lei.
«Ciao, signor Gatto», disse accarezzandolo sotto al mento. «MCP1B. Cosa ne dici?». Oscar rispose saltandole in grembo. Con le zampe scostò e calpestò i fogli delle stampate, come se cercasse di crearsi un posto più comodo. Cercò di accoccolarsi e si rialzò immediatamente, agitando la coda irritato. La carta del computer era un pessimo sostituto della gonna di lana di Alex. Lei cercò di tirar via la carta da sotto al gatto, ma Oscar resisté, bilanciandosi in equilibrio precario sulle ginocchia. I fogli caddero per terra, sparpagliandosi. Mentre si chinava per raccoglierli, Alex notò che un foglio isolato era uscito dal mucchio. Era diverso dagli altri, tutto bianco, e su c'era stampato: 41-2328 719 74 21016 74 25184 75 37619 75 40132 75 67801 75 71252 Oscar saltò via e si ritirò all'estremità opposta del tappeto. Alex studiò il foglio per un momento, poi prese la borsa e vi frugò finché non ebbe trovato il proprio libretto degli assegni della Fleet Bank. L'aprì e confrontò i numeri con quelli del foglio. Non erano gli stessi, ma la loro forma corrispondeva esattamente. I sei numeri nel centro della pagina erano numeri di conti bancari. E quelli più in alto erano il codice che indicava dove si trovavano. Le finestre tremarono di nuovo e dal caminetto venne uno strano suono metallico. Alex mise giù i documenti e andò a chiudere le tende. Improvvisamente si sentì esposta. Le stampate erano solo una massa di cifre, cifre che non riusciva a capire. E se non riusciva a capirle, come potevano rappresentare una minaccia per qualcuno? Ma i numeri di conto bancario, quelle erano informazioni precise. Si poteva indagare, fare delle ricerche, usarli per svelare il passato di Michael Eliot. Se si voleva farlo. Quasi senza pensare, prese il telefono e fece il numero di Mark. Per un momento rimase ad ascoltare gli squilli all'altro capo, poi intervenne la segreteria. Erano le dieci e mezza e non era ancora in casa. Dovevano veder-
si per cena la sera dopo. Mark avrebbe cucinato per lei a casa sua per festeggiare il loro primo anniversario. Alex aspettò il segnale e parlò: «Ciao, tesoro. Volevo solo confermarti la cena di domani. Devo portare del vino? Magari l'Amarone che ti piace tanto? Telefonami quando rientri... oppure domani. Non lavorare troppo. Ciao». Mise giù la cornetta, andò alla porta e controllò tutte le serrature. Poi riempì il bollitore e rimase a guardare il linoleum rovinato della sua cucinetta, ripensando ai documenti. Michael Eliot era stato il tesoriere della ProvLife. Aveva trattato personalmente grandi quantità di pagamenti: investimenti a breve termine a nome dell'azienda, pagamenti agli assicurati. Più ancora di Newton Brady - la cui responsabilità riguardava soprattutto le strategie di investimento a lungo termine, le acquisizioni e altre operazioni del genere - aveva sotto controllo i movimenti quotidiani di cassa della ProvLife. Era possibile che avesse trasferito dei soldi nelle proprie tasche, e che questi fossero i conti che aveva usato - conti esteri, magari, nelle isole Cayman, o in Svizzera? Alex ricordò la storia di un impiegato di banca che era diventato milionario rubando frazioni di centesimo da ogni conto corrente. Era una storia che tutti gli attuari conoscevano. L'uomo aveva programmato il computer centrale della banca affinché arrotondasse le frazioni di centesimo ogni volta che si calcolavano gli interessi su una somma qualsiasi, e depositasse la differenza sul suo conto corrente. Ogni giorno si facevano decine di migliaia di simili operazioni e ciascuna dava al programmatore in media mezzo centesimo. L'avevano scoperto solo perché aveva incominciato a spendere i soldi. Forse per questo Eliot aveva continuato a vivere in una casa da 200.000 dollari e a fare il suo lavoro da impiegato. Aveva deciso di non commettere lo stesso errore. Alex rimase immobile a lungo, riflettendo. Tutto tornava fin troppo bene. Dieci milioni di dollari erano un sacco di soldi, ma in confronto al bilancio totale della ProvLife apparivano quasi insignificanti. L'azienda aveva quasi quattro milioni di clienti che pagavano da un minimo di 1.500 a un massimo di 20.000 dollari all'anno di premio. Tutti questi soldi dovevano essere investiti e restituiti in qualche modo. Dopo una serie di anni buoni, il guadagno totale era di miliardi. Ed Eliot aveva avuto il suo posto per tutti quegli anni. Forse metteva in atto il suo trucco da anni, sottraendo qualcosa ogni tanto... Alex fu riportata alla realtà dal suono del bollitore, che fischiava con insistenza e riempiva la cucina di vapore. Si riscosse. Si stava lasciando tra-
scinare dalla sua immaginazione. Quelli erano solo numeri di conto corrente bancario. Per quanto ne sapeva, potevano essere perfettamente legittimi, relativi al lavoro di Michael Eliot. Potevano essere conti dell'azienda, oppure appartenere a dei clienti. Non avevano niente di sinistro. Ma, se avevano a che fare con il lavoro, perché Eliot aveva deciso di portarseli in Francia? 20 La direttrice della sua agenzia della Fleet Bank fu molto sorpresa quando Alex le telefonò la mattina dopo. «Mi fa piacere sentirla proprio oggi», disse con la sua voce professionalmente gentile accompagnata dal rumore dei tasti del computer. «Per la verità, pensavamo di contattarla noi stessi». Il nome della direttrice era Ellen Adcock e negli ultimi diciotto mesi Alex aveva cercato di evitarla. Sapeva che tenere i contatti con i propri creditori era considerata una buona politica, poiché li rassicurava che non correvano il rischio di veder svanire i loro soldi col debitore, ma il fatto è che Alex aveva fatto alcune promesse sul pagamento dei suoi debiti e non aveva ancora potuto mantenerle. Inoltre, sotto la vernice di gentilezza, c'era una sorta di impazienza nella signorina Adcock, uno scetticismo che intimidiva Alex. Era come se non capisse perché mai la banca avesse prestato dei soldi ad Alex e non credesse neanche per un minuto che quest'ultima li avrebbe restituiti. «Volevo solo dirle che le cose stanno migliorando», disse Alex. «Mi hanno promesso un aumento per quest'estate». Il rumore dei tasti continuò, poi si interruppe. «Trentacinquemila novecentotredici dollari e ottantacinque centesimi», disse la signorina Adcock, mettendo improvvisamente da parte la cortesia. «Questa è la situazione attuale. Cioè novecento tredici dollari e ottantacinque centesimi oltre il limite stabilito». Alex sussultò. L'ultima volta che aveva controllato era al di sotto del limite, ma ciò era avvenuto prima delle spese di Natale. E, naturalmente, gli interessi avevano continuato a crescere, giorno dopo giorno. In confronto alle somme maneggiate da Michael Eliot, queste cifre sembravano sciocchezze, ma la voce della signorina Adcock le fece sembrare di nuovo fin troppo serie. Alex si pentì di non aver scelto un altro metodo per ottenere le informazioni che desiderava.
«Oh, santo cielo, io... non me ne sono resa conto,«disse. «Ma sono sicura che posso rientrare nei limiti. Io...». «Attualmente lei ha settecentoundici dollari sul conto corrente. Posso trasferirne una parte?». «Sì». Alex cercò di riflettere. Mancavano tre settimane al suo prossimo stipendio e nel frattempo avrebbe dovuto pagare dei conti. «Sì, diciamo... duecento... duecentocinquanta». «Solo duecentocinquanta? Questo lascia...». «Seicentosessantatré dollari e ottantacinque centesimi, lo so. Li avrete il mese prossimo». Ci fu un nuovo rumore di tasti, furioso. Poi la signorina Adcock disse: «Benissimo. Ma dobbiamo ancora parlare della somma principale. Nelle nostre intenzioni, non doveva essere un prestito permanente». Alex si sentì come una scolaretta rimproverata per un compito fatto male. «Non appena avrò il posto fisso potrò incominciare a ripagarvi. A maggio. Giugno, al più tardi». La signorina Adcock sospirò. «Be', spero che ce la farà. Lo spero proprio». Il rumore di tasti si interruppe di nuovo. Gli affari erano finiti. Adesso tornava la cortesia aziendale. «Comunque, la Fleet Bank ha molta fiducia in lei, e le auguriamo buona fortuna». «Grazie», disse Alex. «Senta, io avrei una domanda». «Una domanda?». «È per... un lavoro che sto facendo. Sulle procedure bancarie». «Procedure bancarie?». La signorina Adcock non sembrava entusiasta. «Cosa desidera sapere?». «Codici. Sto cercando di identificarne uno. L'istituto a cui si riferisce». «Questo è facile. Basta fare una verifica con il settore informazioni. Hanno tutto sul computer. Qual è il numero?». Alex diede il numero di codice che aveva trovato. Ci fu un'altra esplosione di ticchettii, interrotta qua e là da sospiri e mormoni di impazienza. «Oh, è una banca locale», disse la signorina Adcock. «Dell'East Side». Era un'agenzia della Ocean State Savings Bank, che si trovava all'angolo tra la Brook Street e la Waterman Street, a un paio di isolati da Brown poche centinaia di metri dalla casa di Eliot. Il massiccio edificio a due piani aveva quasi cent'anni meno della maggior parte dei suoi vicini. Architet-
tura modernista degli anni Sessanta, realizzata con materiali tradizionali del posto. Malgrado le tegole che coprivano il tetto e le siepi ben tosate, sembrava che l'avessero concepito pensando alla guerra nucleare e le file di finestre strette e con i vetri oscurati non contribuivano certo a dissipare questa impressione. Alex ci era passata vicino mille volte senza mai dedicargli un solo pensiero. Ora la sua sola presenza nel tranquillo e civile quartiere di Brown le sembrava un'intrusione da un mondo buio. Alex rimase a osservarlo dall'altra parte della strada, incerta per un attimo se entrare. Una stretta allo stomaco la spingeva a dimenticare tutta la faccenda e a tornare alla tranquillità del suo ufficio e alle sicurezze del suo lavoro. Ma la ignorò. Non bastava sapere dov'era la banca; doveva sapere anche se i conti aperti da Eliot erano a suo nome. Forse bastava questo per capire tutto - qualunque cosa fosse. Alzando il bavero del cappotto, attraversò di corsa la strada. L'interno era quello di una tipica banca, forse un po' più piccola delle altre, con macchine automatiche per i prelievi, salette per i colloqui e una fila di casse dietro a sportelli di perspex. Un cartello indicava il passaggio per i DEPOSITI DI SICURKZZA. A giudicare dalla fila di persone che c'era, l'agenzia faceva molti affari con i ragazzi di Brown. Manifesti alle pareti annunciavano sconti speciali, mutui a tassi agevolati e omaggi per gli studenti. Altri pubblicizzavano progetti caritatevoli per salvare le foreste pluviali e aiutare il Terzo Mondo. Il nuovo slogan della banca - Con voi, sempre - era scritto dappertutto, in simpatici caratteri corsivi, accompagnato dai ritratti di clienti sorridenti e ben equilibrati che si godevano la vita grazie all'aiuto della loro amica banca. L'impiegato dietro alla sportello non sembrava particolarmente desideroso di aiutare, né di dimostrarsi amichevole. Senza salutare Alex, si limitò a guardare la fessura in basso come un animale da laboratorio in attesa della prossima razione di pillole. Alex tirò fuori il suo libretto degli assegni insieme a un modulo per il versamento che aveva già compilato con il primo dei numeri di conto corrente. «Potrebbe...». Il modulo che aveva in mano tremava. Lo passò all'impiegato e ritirò la mano. «Potrebbe controllare che il numero di conto corrisponda a quello del signor Eliot? L'ho segnato un po' di fretta». L'impiegato la guardò. Era giovane, poteva avere ventiquattro anni, con la faccia sottile e occhi grigi e acquosi. La targhetta col nome diceva JEFF GILVAR. «Questo numero qui?», chiese dubbioso prendendo il modulo.
Alex sorrise più solare che mai. «Ho promesso di fare il versamento oggi». Jeff scese dal suo sgabello. «Va bene, un momento», disse andando verso un computer allo sportello di fianco. Alex lo vide digitare faticosamente le sette cifre, poi ripetere l'esercizio subito dopo. Sulla parete alle sue spalle, vide la propria immagine sul monitor della televisione a circuito chiuso e capì con un sussulto che c'era una telecamera a pochi centimetri dalla sua testa. Jeff tornò con il modulo. «Ho paura che il conto sia stato chiuso, signora. È sicura che questa sia la banca giusta?». «Oh, credo di sì». Chiuso. Ma questo voleva dire che il conto era intestato a Eliot o no? «Aspetti un momento. Ho... ho qui un altro numero. Forse è questo». Aveva scritto i numeri sul retro del suo libretto degli assegni. Jeff sporse le labbra e guardò la fila di persone che attendevano di essere servite. «Va bene, vuole darmelo?». Alex scelse l'ultimo dei sei. «Sette cinque, sette uno due cinque due». Jeff scrisse il numero e tornò al computer. Alex guardò di nuovo lo schermo della televisione. L'immagine proveniva adesso da un'altra telecamera, posta da qualche parte vicino all'ingresso della zona depositi di sicurezza. C'erano due uomini in piedi che parlavano. Uno di loro era di spalle, ma l'altro Alex credette di averlo già visto. Cercò di pensare dove. Poi le venne in mente: alla festa di Richard Goebert. Ecco dove l'aveva visto. Gliel'avevano presentato. Si ricordava gli occhiali di metallo e la faccia rotonda e lucente. Si chiamava David qualcosa - Mullet o Mullins - e si ricordò che aveva detto che lavorava alla... Ocean State Savings Bank. Jeff finalmente tornò. «Ho paura che anche questo conto sia stato chiuso. Credo che debba controllare meglio questi numeri, signorina...?». Alex sorrise. «Erano i conti del signor Eliot, vero?», disse, cercando di passare per un'oca senza speranza. «Almeno una cosa giusta ce l'avevo, eh?». Jeff la guardò cercando di interpretarla. Alex lottò per non sussultare. «Le spiacerebbe», Jeff strizzò un terribile sorriso alla saccarina, «aspettare qualche istante? Credo di sapere chi... Un secondo solo, eh?». Arretrò a scomparve. Alex si sentì improvvisamente nel posto sbagliato. Mullins doveva essere il direttore dell'agenzia. Jeff probabilmente era an-
dato a chiamarlo. E lei sarebbe stata in difficoltà, perché non avrebbe più potuto bluffare. Era ora di andarsene. Mise il libretto nella borsa e si diresse con la massima tranquillità possibile verso l'uscita, continuando a guardare gli avvisi appesi alle pareti. Quando raggiunse la porta, osò guardarsi alle spalle per l'ultima volta. Mullins stava stringendo la mano dell'altro uomo. E l'altro uomo era Walter Neumann. 21 Mark aprì la porta con indosso un grembiule. «E dov'è la macchina?», chiese Alex. Si sfiorarono le labbra mentre lei entrava nell'ingresso. C'era profumo di cipolle e aglio. «Sì», disse Mark con calore, «anch'io sono molto felice di rivederti». «Temevo che te l'avessero rubata», disse Alex ignorando il sarcasmo. Mark fece un sorriso tirato. «Ebbene, no. L'ho semplicemente restituita, ecco tutto». Alex rimase a bocca aperta. Ma prima che riuscisse a dire una parola, lui si era già voltato. Lo seguì verso la cucina. «Cosa vuoi dire, restituita?». Mark si strinse nelle spalle irritato. «Lo sai benissimo. Ecco la macchina, non la voglio più. Restituita. Vino?». Alex mise la sua bottiglia di Amarone Superiore su un ripiano sgombro e si tolse il cappotto mentre Mark riempiva due bicchieri di Pinot nero. «Ma mi vuoi spiegare? Cosa ti ha fatto cambiare idea così all'improvviso?». Mark bevve un sorso e incominciò a tirare fuori dal frullatore un pesto molto denso. L'aspetto e il profumo erano divini. Ma Mark aveva una faccia spaventosa. Era teso e aveva in viso un'espressìone cupa e affaticata. Alex si chiese se avesse avuto dei problemi sul lavoro. Per un attimo pensò addirittura che potesse esserci un rapporto tra la restituzione della BMW e il suo aspetto. Non l'avevano mica licenziato? «Hai... semplicemente... deciso che non la volevi più?». «Sapevo che ne avresti fatto una tragedia». «Non ne sto facendo una tragedia. Sono solo... incuriosita, ecco tutto». Mark le scoccò un'occhiata cattiva. «Providence è troppo fredda per una spider», disse dopo un attimo.
Alex annuì e bevve un sorso, sperando che arrivasse qualcos'altro. Ma Mark ora era impegnato a controllare i crostini, a buttare la pasta in una pentola fumante. Aprì una confezione di pinoli e ne fece cadere alcuni per terra. C'era tensione nella cucina, Alex la sentiva. Era come se avessero litigato. Sospirò profondamente. «E allora, come va?», disse cercando di ricominciare da capo. «Alla tesoreria, voglio dire». Mark si strinse nelle spalle e buttò i pinoli in una padella asciutta. «Oh, sai». Silenzio. Alex decise che la cosa migliore era raccontargli la propria giornata. Non ci volle molto tempo e lui sembrava più preoccupato di preparare la cena che di ascoltarla. «Hai sentito di McCormick?», chiese Alex alla fine, tornando ai pettegolezzi d'ufficio come se l'unica cosa che avevano in comune fosse il lavoro. «Certo», rispose Mark. «Dell'incidente nel bagno degli uomini?». Mark la guardò e lei notò le occhiaie profonde sotto i suoi occhi. «Certo. Come tutti. Sai quanto la gente ami spettegolare». «Tu dici che è vero?». Si strinse di nuovo nelle spalle. Sembrava che fosse il suo nuovo gesto, quello di stringersi nelle spalle. «Io non dico niente. Dico solo che alla gente piace chiacchierare». Mescolò la pasta. «Se la gente ha tempo a disposizione, si siede a chiacchierare». Alex si morse le guance e annuì. «Capisco. Immagino che tu sia troppo impegnato in questi giorni per queste cose». Mark tolse la padella dal fuoco. «Non mettiamoci a litigare», disse. «Questa dovrebbe essere una serata romantica, ti ricordi? Il nostro romantico venerdì sera». Lo disse come se l'avesse letto su CG. Mangiarono in salotto. Quando Alex cercò di scoprire qualcosa di più sulla macchina, Mark disse semplicemente di aver scoperto che guidare una spider era meno divertente di quello che pensava. Providence era troppo fredda, i premi dell'assicurazione troppo alti, e c'era il rischio che prima o poi qualcuno ficcasse un coltello nel tetto tanto per divertirsi. Era tutto sensato, ma Alex sentì che entrava in gioco anche qualche altro elemento. Le venne in mente che, adesso che Mark stava facendo carriera in azienda, poteva preferire qualcosa di meno vistoso, qualcosa di grigio e dirigenziale
- una Cadillac o una Lexus. Ricordò i commenti di Donald Grant alla festa di Goebert. Le BMW erano troppo care. Senza dubbio Mark sembrava disposto a parlare solo dell'ufficio. Pareva che Drew Coghill se la fosse presa per la sua promozione. Secondo Art Reinebeck si era lamentato con Newton Brady per un errore che Mark aveva commesso nel rispondere a un'offerta proveniente da un agente investitore della ProvLife. Dopo appena due giorni di lavoro. Un'opportunità per ottenere azioni privilegiate avrebbe dovuto essere passata a Brady, ma per qualche ragione si era bloccata sul tavolo di Mark. Apparentemente, Newton non se ne era preoccupato troppo, ma Coghill aveva sollevato un polverone come se fosse la fine del mondo. Tutto ciò venne raccontato con cupa intensità mentre Mark si ficcava il cibo in bocca. Alex guardava, dapprima sorpresa e poi sempre più arrabbiata: lei non poteva parlare di statistica, ma lui poteva parlare di lavoro. Nello stesso tempo, c'era nel suo atteggiamento un che di soddisfatto da chi è «del giro», che peggiorava ulteriormente le cose. Le stava dicendo la verità - qualcosa a cui lei, nella sua sfera subordinata, non aveva accesso. Alex sentiva un forte desiderio di dirgli quello che era effettivamente successo nelle ultime due settimane, se non altro per farlo tacere con il suo Drew Coghill. «Comunque», disse Mark prendendo un sorso di vino e asciugandosi la bocca, «Drew oggi pomeriggio è entrato e mi ha detto...». «Mark?». Mark si arrestò, con una forchettata di pasta a mezz'aria. «Scusa se ti interrompo, ma...». Mark abbassò la forchetta sul piatto. «Cosa c'è?». «So che secondo te sono tutti stupidi pettegolezzi, ma che cosa credi che stia succedendo davvero con McCormick? Insomma, Newt non ha detto niente?». Mark si appoggiò allo schienale. «Newt dice molte cose», rispose. Alex aspettò che dicesse altro, ma era chiaro che ciò che passava tra direttore e dirigente non era per tutti. Il desiderio di metterlo in difficoltà era troppo forte. «Sapevi che McCormick è un cocainomane?», chiese. Mark sussultò. Bevve un altro sorso di vino. «Cosa?». «Ho detto, sapevi che...?». «Sì, ho sentito. Chi te l'ha detto?». Alex stava per rispondere White, poi decise che probabilmente quell'in-
formazione era stata fornita in via confidenziale. Improvvisò. «Oh, è quello che si dice in giro». «Chi lo dice?». «In ufficio. Voglio dire... pettegolezzi. Mel Hartman è venuto alla mia scrivania l'altro giorno e...». «Hartman è un nessuno», disse Mark riscaldandosi. «Dovrebbe stare attento. Non sa niente. Di niente». «Sa molte cose sulle statistiche». Mark sorrise e poi annuì. «Certo, perché non dovrebbe?». La sua soddisfazione era insopportabile. «Comunque», disse Alex mentre le guance le si colorivano, «tu non lo sai». «Cosa?». «Se McCormick è un cocainomane». Mark si chinò in avanti, appoggiando i gomiti sulla tavola. «Ascolta, Alex, non è una cosa da ripetere in giro». «Perché?». «La ProvLife è un'azienda piccola. Sai come queste cose distruggono le persone. E poi», si strinse nelle spalle, «ti sei fatta un nemico». Alex rivide in un lampo Tom Heymann nella sua Lexus. «Ma fra noi due si può, no?», disse sarcastica. «Voglio dire, siamo ancora amici, giusto? Anche se tu sei diventato direttore della tesoreria». Mark annuì sorridendo. «Adesso sei infantile», disse. «Be', e tu sei misterioso, come se... come se la ProvLife fosse una specie di società segreta». Era troppo. Mark scosse la testa con espressione rassegnata. Alex cercò di mangiare, ma era troppo arrabbiata. Adesso che aveva incominciato a parlare di McCormick, non riusciva a smettere. Capì che voleva rivelare tutto. «Non credi che sia collegato alle dimissioni di Goebert?», disse. Di nuovo Mark si arrestò mentre portava la forchetta alla bocca. «Cosa?». «L'esaurimento nervoso di McCormick. Se di questo si tratta. D'accordo, è un cocainomane, ma la faccenda nel bagno degli uomini assomiglia piuttosto a un esaurimento nervoso. Non credi che...?». «Ho capito la domanda», disse Mark, guardandola da sotto le sopracciglia. «Solo che non capisco bene di cosa stai parlando. In che modo sarebbe collegato?». Parve riflettere un momento. «Forse White ti ha detto
qualcosa?». «No. Perché?». Mark si strinse nelle spalle e guardò da un'altra parte. «No, è un'idea che mi è venuta», continuò Alex. «Ti ricordi come ha reagito... come ha reagito McCormick quando Goebert ha detto che dava le dimissioni?». Mark scosse la testa. «'Cosa?'», gridò Alex imitando la voce stridula di McCormick. «Ha gridato 'Cosa?' come se fosse profondamente arrabbiato. Come se quella per lui fosse una pessima notizia». «Be', Goebert gli piaceva. Gli dispiace che se ne sia andato». «Non è solo questo». Mark si alzò e andò in cucina. La sua voce raggiunse Alex al di sopra del rumore della macchina per il caffè. «Sai cosa, Alex? Voi state seduti lì al settimo piano tutto il giorno, a giocare coi vostri modellini e a creare i vostri scenari. Perdete il contatto con la realtà e incominciate a credere alle vostre proiezioni». Alex guardò il proprio riflesso nella finestra. Annuì come a conferma di una decisione presa. «Realtà», si disse. «Sì, realtà», disse Mark tornando nella stanza col caffè e un vassoio di biscotti. «Be, prendi questa piccola realtà, allora», disse Alex. «Lo sapevi che Michael Eliot era un multimilionario?». Mark posò il vassoio sulla tavola. «Cosa?». «Michael Eliot. Il tizio che hai sostituito. Aveva più di dieci milioni di dollari in Svizzera». «Ma cosa stai dicendo?». Il colore era scomparso dalla sua faccia. «Ho visto i suoi resoconti bancali», disse Alex, godendo della sua sorpresa. «O almeno conosco qualcuno che li ha visti». «Conosci qualcuno? Stai parlando a vanvera». «Mark, ti sto dicendo che è morto ricchissimo». «Ma...». Sedette a tavola e versò il caffè in due ta/zine. Poi mise dello zucchero nella sua e incominciò a mescolare, continuando a scuotere la testa. Sembrava che non volesse sentire quello che lei gli stava dicendo. «Mark?».
Lui alzò la testa. «Tu... non mi stai nascondendo niente, vero?». «Ma...». Sembrò lottare con un'idea. «Ma, Alex, perché qualcuno che conosci guarderebbe i suoi resoconti bancari?». Alex si girò verso la finestra e guardò il buio oltre il proprio riflesso. Aveva promesso di non dire niente, di non fare il nome di Liz, ma il suo senso di lealtà aveva ricevuto alcuni gravi colpi. «Alex?». Si voltò e lo guardò. «Michael aveva una relazione con Liz Foster», disse. Mark smise di scuotere la testa, adesso. La fronte si aggrottò assumendo un atteggiamento di totale incredulità. «Questo... questo è impossibile. L'avremmo saputo». «Chi?». «Come 'chi'?». «Chi l'avrebbe saputo?». «Al... al dipartimento. Lavoravamo proprio insieme a loro. L'avremmo saputo». Alex si premette una mano sul cuore. «Io ero... Io sono una delle migliori amiche di Liz, eppure neanch'io lo sapevo. Si frequentavano da più di un anno. Avevano progettato di fuggire insieme il giorno in cui Michael... il giorno dell'incidente». «Non ci credo». Mark si mise le mani nei capelli, con un'espressione di grande confusione sul viso pallido. «Be', credici. È vero». «Ma... i resoconti bancari?». «Ha lasciato una valigetta a casa di Liz». «E lei l'ha aperta?». «Era tutto quello che le restava. Tutto quello che le restava di lui. Era disperata. Ti immagini come si sentiva? Stava per partire per l'Europa. Andavano a vivere nel sud della Francia». Mark finì il suo espresso, poi studiò il fondo della tazza. «E adesso... dov'è adesso?». «È ancora qui, a Providence. Almeno, credo». «Ma non tornerà al lavoro, giusto? Dovrebbe essere in ferie». «Non lo so. Non so cosa abbia in mente. Si comporta in maniera un po' strana». Mark annuì. «Già. La capisco, è naturale».
«Stava per fuggire verso una vita migliore». «Una situazione finanziaria migliore, per lo meno». «Lo amava davvero, Mark». Alex bevette il suo caffè. «Non è solo una... cacciatrice di soldi», aggiunse senza molta convinzione. «E tutto vero?». Alex mise giù la tazzina. Aveva tradito la confidenza di Liz e questo non le piaceva. Ma adesso che la verità era allo scoperto, voleva parlarne ancora un po'. «Ebbene?», disse. «Cosa ne pensi?». «Di cosa?». «Di tutti quei soldi. Perché un tizio con dieci milioni di dollari in banca continua a venire in ufficio tutti i giorni?». «Forse gli piaceva il lavoro», disse Mark con un sottile sorriso. «Sto parlando seriamente, Mark. C'è qualcosa di molto... Sto pensando che forse era costretto a venire in ufficio». «Cosa vuol dire costretto?». «Be', sii logico. Che ragione avrebbe uno con dieci milioni di dollari per venire in ufficio?». Mark si strinse nelle spalle. «Be', come ho detto...». «No, voglio una buona ragione, una vera ragione». Mark non disse niente. «Pensaci. E se stava derubando l'azienda?». «Oh, dai». «Se avesse dovuto venire in ufficio per tener d'occhio qualcosa che aveva organizzato? Aveva progettato di andarsene senza salutare, senza dire niente a nessuno. Di sparire. Perché? Forse perché... perché, in qualche modo, aveva sottratto dei soldi alla tesoreria e...». «Alex». «E aveva paura. Forse c'era qualche scadenza che si avvicinava. Forse... Non lo so, sei tu il mago della finanza, forse la data di scadenza di un bond o qualcosa del genere, ma la ProvLife non avrebbe mai visto i soldi perché lui aveva già venduto i bond e incassato il malloppo. Insomma, era il direttore della tesoreria. Sarebbe stato davvero tanto difficile?». «Alex, Newt tiene la situazione molto sotto controllo. Io credo che avrebbe notato un buco da dieci milioni di dollari». «Perché? Senza una verifica vera e propria? Abbiamo fondi di riserva polizze, riserve speciali, fondi in eccedenza, per non parlare di tutte le proprietà, le azioni, i bond, i mutui. Il nostro bilancio non è proprio trasparen-
te. Un po' di ragioneria creativa...». Mark non la seguiva. Si appoggiò allo schienale della sua sedia e la studiò come se fosse una sciocca adolescente che l'aveva messo in difficoltà a una festa di famiglia. «D'accordo», disse Alex, «qual è la posizione della ProvLife nei titoli corporativi?». Di nuovo lui si strìnse nelle spalle. Incominciava a innervosirsi. «Non lo, seicento milioni, più o meno». «Esatto. E tutto in piccole quote. Mai troppo concentrate». «Sì. Ci sono delle regole che vietano di esporsi troppo con una sola compagnia». «Piccole quote. Dieci milioni qui, venti là». «Alex, non è possibile prendere i titoli e venderli sul mercato così. Ci sono delle procedure precise». «Davvero? Neanche il capo del dipartimento riuscirebbe a farlo?». «No», disse Mark con forza, ma Alex capì che stava prendendo in considerazione il caso. «Io so solo che i soldi da qualche parte dovevano venire. Se fossero stati suoi, non aveva nessuna ragione per venire in ufficio. Se li avesse fatti onestamente, l'avrebbe detto a Margaret». «Come fai a sapere che non l'ha fatto? Come fai a sapere quello che sa Margaret Eliot?». «Non lo so. Ma...». Alex esitò. Sentiva di aver già tradito abbastanza la fiducia di Liz. «Alex?». Mark la guardava attentamente. «Non cominciare ad avere segreti nei miei confronti, adesso. Tutto questo potrebbe...». «Tutto questo cosa?». Mark si alzò e si diresse a un armadietto che Alex non aveva notato prima. Premette un bottone e le porte si aprirono silenziosamente grazie a un sistema Bang & Olufsen. «Dov'è finito il Technics?», chiese Alex scuotendo la testa. «È di sopra. Sta benone». «E allora...?». Improvvisamente, Mark si arrabbiò. «Gesù Cristo, Alex! Mi sorvegli ogni volta che tiro fuori la carta di credito. È lecito spendere. È lecito comperare delle belle cose. Il fatto che tu sia sempre senza un soldo non vuol dire che siano tutti come te». Alex si portò la mano alla guancia come se l'avesse schiaffeggiata. Non
capiva da dove venisse la sua rabbia. Era esplosa di punto in bianco. Anche Mark sembrava sconvolto. «Scusa», disse riscuotendosi leggermente. «Scusa, cara. È... Sai, le cose sono un po' incasinate, al lavoro, e...». «Certo». Mark le si avvicinò. Lei si liberò dalle sue mani e salì in camera da letto. Aspettò un momento, credendo che l'avrebbe seguita e cercando di riprendere il controllo. Mark sapeva dei problemi che aveva avuto con sua madre, conosceva le ragioni della sua povertà. Era incredibile che si fosse comportato in maniera così insensibile. Per cinque minuti non si mosse, valutando se andarsene o restare. Nella stanza faceva freddo, ma fuori c'era ancora più freddo. L'idea di tornare in macchina la fece rabbrividire. Si slacciò il vestito e lo lasciò cadere per terra, poi rimase davanti allo specchio con solo la biancheria addosso. Era biancheria nera, un regalo di Natale di Mark. Doveva contribuire alla loro serata romantica. Il reggiseno le stringeva sotto il braccio. Se lo tolse con un sospiro di sollievo. Prese dalla cassettiera una delle magliette di Mark e si infilò nel letto. Per un po' lo ascoltò muoversi nella cucina, portar fuori la spazzatura, riempire la lavapiatti. Poi cercò la sveglia sotto al letto. Doveva alzarsi presto, alla mattina, se voleva andare a casa e cambiarsi per l'ufficio. La piccola sveglia digitale non era al solito posto. La cercò a tentoni. Le sue dita toccarono qualcosa di duro e scivoloso. Uscì dal letto a si. chinò per vedere meglio. Era un mucchio di riviste, forse una decina. Mark la chiamò dal salotto. «Alex?». Sembrava affettuoso - probabilmente voleva fare la pace. Alex si bloccò, in ascolto, con la mano sulla carta fredda e lucida delle riviste. Mark borbottò amaramente qualcosa tra sé e tornò in cucina. Alex afferrò la prima rivista del mucchio. Non era quello che pensava. Non esattamente. Innanzitutto, le donne indossavano vestiti e abiti da sera, e non erano distese su materassi ad acqua o su strane sedie a sdraio. Ma avevano le labbra lustre e imbronciate in maniera provocante e si appoggiavano a macchine sportive e luccicanti. Maserati, Lamborghini, Ferrari. I nomi stessi suggerivano curve paraboliche e motori ruggenti. Era strano. Se Mark stava coltivando una nuova immagine di dirigente compassato, perché aveva delle riviste nascoste sotto il letto come se fossero pornografia? Le sfogliò rapidamente. Un prezzo attirò la sua attenzione. Poi un altro. Andò alle ultime pagine, dove si tro-
vavano parecchie pagine di classifiche. Un tizio di Manhattan voleva vendere la sua Aston Martin Volante. Chiedeva duecentomila dollari. Un tizio del Connecticut voleva vendere la sua Ferrari Testa Rossa. Lui ne voleva settecentomila. Era il secondo annuncio a essere evidenziato. Si svegliò alle tre della mattina, perfettamente sveglia come in pieno giorno. «Riciclaggio», disse. «Cos...?». Mark si girò nel letto e la guardò sbattendo gli occhi. «Riciclaggio di denaro sporco. Ecco di cosa si tratta. È questo che stanno facendo». Mark si allontanò da lei. Alex sedette contro la spalliera e lo guardò. «Mark, credo di aver capito quello che sta succedendo. Il problema, come dici tu, è: perché nessuno si è accorto dei soldi mancanti? La risposta è che non ci sono affatto soldi mancanti. Mark?». Lui mise la testa sotto il cuscino e gemette. «Cosa c'è?». «Non ci sono soldi mancanti. Eliot faceva passare attraverso l'azienda il denaro sporco e si prendeva una percentuale. Gestiva operazioni di ogni tipo, tutti i giorni». «Alex, per l'amor di Dio, rimettiti a dormire». «No, potrebbe essere una cosa importante». Mark si tirò il piumone sulle orecchie. «Sai i conti bancari? Quelli che Eliot ha lasciato nella valigetta?». «Vuoi dire i resoconti?». «No. C'erano anche altri documenti. Una lista di conti bancari». Mark rimase immobile. Adesso la ascoltava. Alex continuò. «Li ho controllati. Appartengono a un'agenzia della Ocean State Savings Bank. È a due passi dalla casa di Eliot. Nell'East Side». Mark si girò e la guardò. «Gesù, Alex. Non sarai andata là?». Lei annuì. «Perché no? Perché non avrei dovuto farlo?». «Secondo me la domanda giusta è perché avresti dovuto farlo?». «E indovina chi è il direttore? David Mullins. Quel tipo buffo con gli occhiali che c'era alla festa di Goebert. E indovina un'altra cosa? Quando sono entrata - solo per dare un'occhiata - ho visto Walter Neumann. Stava parlando con Mullins». Mark si alzò sui gomiti. «Neumann ti ha visto?».
«Non lo so. Può darsi». Alex rabbrividì e tornò sotto le coperte. Poi le venne un'idea. «Dio mio, ecco». «Cosa?». «Ma naturalmente». «Cosa?». «Neumann». «Cosa c'entra lui?». «Be', lo sai come funziona il riciclaggio di denaro sporco, no? Il problema fondamentale è portare i contanti dalla strada all'interno del sistema bancario. 1 banchieri si innervosiscono di fronte alle valige piene di dollari, perché devono dichiarare tutto ciò che sembra sospetto». «E allora?». «Ma gli avvocati, secondo le leggi che regolano il rapporto avvocatocliente, non possono fornire informazioni sul denaro dei loro clienti». «Alex, non capisco...». «I clienti spesso aprono un conto con il loro avvocato per coprire le spese, per esempio, di un'azione legale in corso. L'avvocato apre un regolare conto bancario, deposita i soldi dicendo che vengono da un cliente e il banchiere non può chiedere altri dettagli. Ecco perché i riciclatori si servono degli avvocati. Pagano gli avvocati per fargli aprire un conto bancario al posto loro e poter riciclare i soldi in questo modo. Una volta entrato nel sistema, il denaro può essere trasferito elettronicamente in tutto il mondo». «E Eliot cosa c'entra in tutto questo?», disse Mark guardando il soffitto. «Neumann non avrebbe avuto bisogno di lui, no? A Neumann basterebbe un direttore di agenzia compiacente. Ammettendo che sia lui il riciclatole». «Be'...». Alex non aveva niente da obiettare. «Forse è più sicuro farlo passare attraverso l'azienda. Per qualche... ragione». Mark si rilassò e si tirò di nuovo il piumone sulla testa. «Ma se controllassimo quei conti correnti», continuò Alex, «vedremmo se c'era una traccia, se c'era qualcosa di irregolare. Se entravano dei soldi che non dovevano esserci. Adesso tu hai accesso agli archivi, Mark?». Lo scosse per la spalla. «Cosa?». «Ho detto che bisogna controllare quei conti correnti». «Sì, sì, certo, controllerò i numeri. Adesso torna a dormire». «Mark?». Lui emise un sospiro esasperato.
«C'è un'altra cosa. Una cosa che non ti ho detto». «Cosa?». «Un paio di giorni fa... Un tizio ieri mi ha seguito quando sono uscita dall'ufficio. Ha detto che dovevo distruggere tutti i documenti di Eliot. Ha detto che non lo sapevo, ma stavo rischiando la vita». Mark buttò via le coperte e si alzò dal letto. Per un momento rimase immobile guardandosi i piedi. «Che tizio?»; chiese. «Un tizio con la barba. L'ho già visto. Era...». «Dove?». Mark la fissava. Sembrava spaventato. «Era al funerale di Michael Eliot». Mark incominciò a tempestarla di domande per sapere l'intera storia. Alex gli disse della sinistra telefonata, di come avesse scorto il tizio che girava intorno al palazzo della ProvLife e di come finalmente lui avesse urtato la sua macchina all'angolo tra la Dorrance e la Weybosset. «Le stampate?», chiese Mark, che ora passeggiava avanti a indietro davanti alla finestra con le mani premute sulla bocca. «Non sono quella lista di numeri di conto torrente?». «Non credo. Secondo me intendeva il pacco di stampate da computer che aveva Eliot. Questo teneva nella ventiquattro ore: i suoi conti correnti in Svizzera e tutte queste stampate. Il tizio che mi ha seguito ha detto proprio stampate». «Non riesco a capire, però. Perché... Cosa le rende più importanti dei... del denaro?». «Non ne ho idea. Sono solo un sacco di numeri», disse Alex. «Colonne di numeri». «Tipo? Tipo altri conti correnti, somme di denaro, cose così?». «No. Ci sono numeri e lettere. Come ABCD1, qualcosa del genere». «ABC...?». «Non ABC, ma cose tipo... non lo so, mi sembra che uno sia LQTS, LQTS1 o qualcosa del genere». Mark strinse gli occhi, massaggiandosi il naso con le dita. «Non ha senso», disse. «Cosa diavolo potrebbe essere?». «Non lo so. Ma ho pensato... forse le lettere identificano una banca. Capisci, come BNY per Banca di New York, o SBC o CSFB». «La banca LQT?», disse Mark scettico. «Licenze Quesiti e Trucchi?». Alex scosse la testa. «È solo un'idea. Come ti ho detto, in realtà non so cosa siano».
«E questo tizio voleva che tu gliele dessi». «Sì. Ma se non so neanche chi è, come faccio a dargliele?». Mark annuì. «E adesso dove sono?». «A casa mia». Mark si mise le mutande e incominciò a cercare i pantaloni. «Cosa fai?», chiese Alex. «Dobbiamo andare là. Dobbiamo capire cosa sono questi documenti». «Mark, sono le quattro del mattino». «E allora?». Alex si tirò addosso il piumone. «Mark?». «Cosa?». «Mi stai spaventando». Mark aveva infilato i pantaloni e stava per abbottonarseli. Quando vide l'espressione sul volto di Alex sorrise. Lasciò cadere per terra i pantaloni e risalì sul letto. «Scusami, dolcezza. È tutto così pazzesco. Mi hai fatto perdere la trebisonda». Alex lo, guardò, cercando di leggere i suoi pensieri. Si era aspettata che si agitasse, ma non che diventasse quasi frenetico. «Forse dovremmo chiamare la polizia», suggerì. Mark scosse la testa. «Non credo. Cioè... cosa possiamo dirgli?». Anche Alex aveva pensato la stessa cosa. Più di una volta aveva. pensato di rivolgersi alle autorità. Se ci fosse stato White, sarebbe andata da lui. Ma si era dato malato per un paio di giorni, e adesso stava per partire per il convegno sulla sanità a Washington. Non sapeva cosa dire alla polizia. «Nella mia azienda sta succedendo qualcosa di strano»? Non le avrebbero prestato molta attenzione, Mark si chinò in avanti e la baciò sulla fronte. «Ascoltami», disse. «Cerchiamo di dormire un po', e poi domani andiamo a casa tua». Spense la luce. Alex rimase al buio, a fissare il soffitto. Aveva l'impressione che si abbassasse lentamente verso di lei. 22
«Come pensava lei, non ci sono correzioni. Il testamento è esattamente come nel giorno in cui suo marito l'ha firmato». Howard Sweeting, il più giovane dei tre soci della Neumann & Klein si chinò sulla scrivania e passò il documento alla signora Eliot. Lei lo guardò un momento, poi lentamente, con riluttanza, lo prese. Le pagine erano tenute insieme da un nastro nero e ciascuna di esse recava il timbro della Neumann & Klein e le iniziali di Michael Eliot. Quando raggiunse l'ultima pagina, non poté fare a meno di scorrere con le dita sopra alla sua firma sicura e agile, come se seguendone le linee e le curve potesse toccare la mano che le aveva tracciate. Trovandosi all'interno del palazzo della ProvLife, in cui suo marito aveva lavorato per tanti anni, e ascoltando la lettura del suo testamento, aveva incominciato a sentirsi più legata a lui di quanto era avvenuto nei giorni precedenti. Era quasi come se lui fosse appena fuori dalla porta e potesse entrare da un momento all'altro. Ogni volta che qualcuno passava, doveva vincere l'impulso a guardarsi in giro. Ricordava molto bene di essere rimasta seduta nella stessa stanza, con Michael alle sue spalle, sette anni prima. Avevano l'atto dei nuovi testamenti nello stesso momento, dopo che luì era slato nominato direttore della tesoreria. Ma quello era il vecchio Michael ottimista e di buon umore. Quello che lei aveva amato. Quasi subito dopo, le cose avevano incominciato a cambiare. Giorno dopo giorno, mese dopo mese, lui era diventato sempre più chiuso, più impaziente. Aveva smesso di scherzare, aveva incominciato a criticare tutto e tutti, dalla sua cucina alla condizione delle strade. Era come se si sentisse in qualche modo prigioniero. Ma tutte le volte che lei aveva intavolato il discorso, chiedendogli cos'era successo, l'aveva accusata di lasciarsi prendere dall'immaginazione. Aprì la borsetta e ne tirò fuori un fazzoletto. Se solo le avesse detto la verità, forse tutto sarebbe stato diverso. «Scusi», disse tamponandosi gli occhi. La bocca di Sweeting divenne una linea sottile. «Non... non si preoccupi». Una lacrima le scivolò giù lungo la guancia, lasciandosi dietro una leggera traccia di mascara. Sweeting cercava di non guardarla. Aveva poco più di trent'anni, era grasso e rosso di capelli, con una carnagione chiarissima che tradiva ogni minima traccia di imbarazzo. Era quasi sempre a disagio con le donne, e le vedove in lacrime erano al di fuori della sua esperienza professionale e personale.
«Ehm... c'è qualcosa... posso offrirle un bicchier d'acqua?», disse alzandosi in piedi. «No, no, grazie. Sto bene, davvero». «Sicura?», disse sperando che cambiasse idea e gli permettesse di fuggire per qualche minuto. «Sicurissima, grazie». Sweeting tornò a sedersi malvolentieri sulla sua poltrona. Aveva già la faccia rossa come un'anguria. «Bene... ehm, come dicevo, penso che potremo procedere nel giro di sei settimane circa. Nel frattempo, ha qualche domanda?». La signora Eliot tirò su col naso e mise via il fazzoletto. «Sì», disse. «Il testamento non dice niente a proposito di... beni all'estero?». «Sweeting aggrottò la fronte. «All'estero?». «Sì. Credo che mio marito avesse sostanziosi beni in Europa. In Svizzera, per la precisione. Il testamento non ne parla?». Sweeting si schiarì la gola e incominciò a sfogliare la pratica Eliot. A quanto sapeva lui, Eliot aveva inviato dichiarazioni aggiornate sulle sue partecipazioni all'azienda ogni due o tre anni, anche se i suoi agenti avrebbero dovuto valutare il suo modesto portafoglio azionario prima di poterne dichiarare il valore. Ma in tutte queste dichiarazioni non c'era alcun riferimento a possedimenti all'estero. «Be', se li aveva, non c'è... Voglio dire, i documenti in nostro possesso non indicano l'esistenza di alcun bene all'estero». «Ne è proprio sicuro?». Sweeting fece scorrere ancora qualche pagina. In verità, la sua esperienza nel trattare testamenti ed eredità era estremamente limitata. Il settore fondamentale della Neumann & Klein era la proprietà industriale e intellettuale. L'eredità era un settore marginale. I suoi clienti più importanti erano le aziende high-tech nate negli ultimi dieci anni a Cranston e Warwick. Era una specie di anomalia che la ditta avesse dei clienti privati - un lascito dei tempi in cui il vecchio Walter Neumann e il suo defunto socio Daniel Klein avrebbero accettato qualsiasi lavoro. Sweeting sperava solo che non ci fossero stati degli errori da qualche parte. «Be', naturalmente suo marito non aveva alcun obbligo di informarci di tutti i suoi investimenti», disse. «È perfettamente possibile che avesse altre proprietà. Di che cifre stiamo parlando, più o meno?». La signora Eliot rimise il testamento sul tavolo e unì le mani in grembo.
«Parecchi milioni di dollari». Sweeting sogghignò amichevolmente. Era uno scherzo, naturalmente. Poi capì che non lo era. «P-parecchi?». «Forse dieci». Sweeting stava arrossendo di nuovo. Fece un piccolo grugnito annuendo in maniera che sperava dimostrasse il suo stupore. «Be', è, senza dubbio... Si tratterebbe di un'omissione importante. Mi lasci controllare, abbiamo i buoni del tesoro, le azioni e le polizze sulla vita. Tutto insieme ammonta a più di... più di mezzo milione di dollari. Non è possibile che lei...?». «So benissimo queste cose. Michael aveva quegli investimenti da anni. Sto parlando di soldi all'estero». Sweeting si mise un dito nel colletto e mise in mostra un po' di pelle arrossata di fianco al pomo d'Adamo. Come bisognava comportarsi con una vedova delusa dall'eredità? Per quanto tempo bisognava starla a sentire? Come avrebbe voluto che Neumann si fosse tenuta la pratica per sé, invece di passarla al suo sfortunato socio! «Suo marito le ha detto di avere queste proprietà, signora Eliot?», chiese alla fine Sweeting. «Non esattamente». «Hmmm. Ma lei ha qualche documento? Qualche forma di... prova?». La signora Eliot considerò la domanda per quello che parve un lungo momento. Poi scosse la testa. «Ho solo ragione di credere che avesse queste proprietà. All'estero. Me l'hanno detto delle persone». «Delle persone?». «Sì. Se le aveva, io avrei il diritto di ereditarle, vero?». Sweeting sussultò, poi riprese il testamento. «Sì, certo. Il resto dell'eredità... vale a dire tutto quello che non è specificamente assegnato ad altri nel testamento... va a lei. Ma...». «Allora come potrei fare per scoprire dove si trovano questi soldi? Se sono miei, la banca in cui si trovano dovrebbe dirmelo. Non potrebbero tenerseli e basta, no?». Sweeting cercò di non mostrare che non lo sapeva. Ma il settore bancario era ancora più estraneo alla sua area di specializzazione di quello testamentario. «Dovrei... Se mi concede un minuto, signora Eliot, credo che sarebbe
meglio chiederlo a uno dei miei colleghi. Mi aspetti qui». Si alzò da dietro la scrivania e uscì di corsa dalla stanza. Margaret Eliot rimase seduta ad aspettarlo, fissando le antiche stampe allineate sulle pareti e ascoltando i rumori ovattati delle attività che si svolgevano in altre parti dell'edificio. Non le era mai venuto in mente prima, ma era strano che Michael avesse voluto mettere i suoi - i loro - affari nelle mani della Neumann & Klein, con tutte le ditte che c'erano a Providence. Allora, aveva giustificato la scelta in termini di vantaggi pratici: la ditta offriva prezzi speciali ai dipendenti della ProvLife e poiché gli uffici erano nello stesso palazzo era impossibile trovarne una più comoda. Eppure, malgrado le regole del rapporto cliente-avvocato, era normale affidare i propri affari privati al vicepresidente dell'azienda in cui si lavorava? Non significava creare un rapporto un po' troppo stretto? Come a comando, la porta si aprì e Walter Neumann entrò nella stanza. «Margaret, non sapevo che fossi qui, se no sarei... Come stai?». Le prese le mani e lei si alzò per salutarlo. L'anello d'oro con sigillo di Neumann era freddo contro la pelle della donna. «Sto bene, Walter. Bene». «Ne sono felice. Ne sono molto felice. Posso offrirti qualcosa? Un tè, per esempio, o...». «No, davvero, sto benissimo». «Rene». Le lasciò le mani e chiuse la porta. «Avevo intenzione di telefonarti. Ma le cose sono state un po'... confuse. Spero che Howard ti abbia trattato bene». Neumann sedette sulla poltrona di Sweeting e incominciò a sfogliare il testamento. Improvvisamente pareva che Sweeting non fosse stato altro che un sostituto temporaneo. «Sì», rispose la signora Eliot. «Avevo delle domande, però. Credo che sia andato a consultarsi con qualcun altro». «Domande?», chiese Neumann alzando gli occhi con un'espressione vagamente incuriosita. «Dimmi tutto, ti prego, Margaret. E per questo che siamo qui». La signora Eliot si schiarì la gola. «Be', il fatto è che, molto semplicemente, Michael forse aveva un sacco di soldi in qualche banca all'estero. In Svizzera. Soldi di cui nel testamento non si parla. Volevo sapere come fare per recuperarli». Neumann annuì gentilmente. Non dimostrò alcuna sorpresa. «Be', certo. Se mi fai avere i dati, sarò felice di contattare la banca a no-
me tuo». «Ma il problema è proprio questo: che non ho i dati». «Ma hai i documenti di Michael? 1 resoconti bancali o cose del genere?». «No». «Capisco. Be', il nome della banca, almeno. Michael te l'avrà detto». «No. Michael non mi ha mai parlato di questo. Non era», abbassò gli occhi, «non era un argomento di cui voleva parlarmi». Neumann si tolse lentamente gli occhiali e li appoggiò davanti a sé. La sua testa appariva massiccia, appollaiata sulle spalle strette. «Ma allora... scusa, Margaret... cosa ti fa pensare che questi... conti esistano?». La signora Eliot sospirò. Sperava che fosse una cosa più facile. Sperava che Michael avesse affidato tutti i dati sui soldi ai suoi avvocati, o che loro ne fossero almeno informati. Non voleva parlare della relazione di suo marito, soprattutto a Walter Neumann. Non le piaceva l'idea che persone con cui Michael aveva lavorato per tanti anni - persone che avevano portato la sua bara al funerale - sapessero che l'aveva tradita. Era qualcosa che voleva seppellire insieme ai brutti ricordi degli ultimi anni. Ma non c'era altro modo. E, comunque, Neumann era un avvocato e lei una cliente. Almeno poteva essere sicura che l'informazione non sarebbe stata divulgata. Neumann ascoltò impassibile mentre lei gli raccontava delle telefonate e del biglietto aereo e di ciò che significavano queste cose. La lasciò parlare, annuendo gentilmente, guardandola con una immobilità e un'attenzione che le rendevano difficile fissarlo negli occhi. Si chiese se era già a conoscenza della relazione, o se ciò lo lasciava solo indifferente. «Margaret, mi dispiace molto che tu abbia passato tutto questo», disse Neumann alla fine. «Puoi stare tranquilla, cercherò il responsabile e farò in modo che non ti... disturbi più. Hai fatto molto bene a raccontarmi tutto. E sei stata molto brava a prendere quel numero di telefono. Con un po' di fortuna, potrebbe rivelarsi preziosissimo». «Ma per quanto riguarda i...». Neumann scosse la testa gravemente. «Temo che la probabilità che questi soldi esistano sia davvero molto scarsa. Francamente, zero. Temo di aver già avuto esperienza di cose del genere in passato, nei primi tempi della mia attività». «Esperienza di...?». «Frode. È l'unica parola giusta. Le persone in lutto sono da sempre uno
dei bersagli preferiti per simili attività. Perché sono disorientate, vulnerabili. È una cosa spregevole, ma è la verità. Questi uomini - o, in questo caso, forse, questa donna - ti promettono un sacco di soldi in cambio di un piccolo anticipo immediato. Alla fine si arriva sempre a questo. Lo chiamano trucco sulla fiducia. Quanto ha detto che aveva Michael nel suo conto svizzero? Un milione? Due?». «Dieci milioni di dollari». Neumann alzò gli occhi al cielo. «Ridicolo. Direi che abbiamo a che fare con una dilettante». «Ma questa donna, ha detto che Michael era...». «Quello che ha detto, per fortuna, non ha molta importanza. Si è ventata di aver... come ha detto?... condiviso Michael con te. Una bugia, non ho alcun dubbio in proposito. Ho lavorato fianco a fianco con Michael qui dentro per dodici anni. Se ci fosse stata un'altra, sono sicuro che l'avrei saputo». La signora Eliot avrebbe voluto credere alle sua parole, ma possibile che fosse tutto così semplice? «E il biglietto aereo?». Neumann sorrise debolmente. Che difficoltà c'è a comprare un biglietto aereo? Basta una telefonata. Margaret, è terribile quello che questa faccenda ti ha fatto passare. Tu e Michael eravate una bella coppia, il vostro matrimonio era solido. Me lo diceva spesso». Alzò una mano bianca. «Forse lavorava un po' troppo, stava fuori fino a tardi più spesso di quanto avresti voluto, più spesso del necessario. Dio sa che tutti siamo colpevoli quanto lui, qua dentro. Ma questo non vuol dire che non ti amasse più. Non voglio pensarlo neanche per un momento». La signora Eliot si sentì scossa. Per un momento pensò che stava per sentirsi male. Non sapeva più cosa pensare. «Ma, Walter, io l'ho vista. Al funerale. L'ho vista di fianco a Randal White. Dal modo in cui mi guardava, ho capito che era lei». Neumann scosse lentamente la testa. «Vuoi dire la giovane con i capelli biondi corti? Quella era Alexandra Tynan, una delle... apprendiste di Randal». «Alexandra...?». «Posso spiegarti perché Randal l'ha portata con sé. Mi è sembrato un po' strano, allora, perfino un po'... Non credo che conoscesse neppure tuo marito. Detto tra noi, credo che Randal volesse solo... il piacere della sua
compagnia». 23 Dopo il lavoro tornarono all'East Side, Alex nella Camry dietro a Mark. Quando arrivarono a Phillips Street, Alex trovò Maeve Connelly che la aspettava con le braccia incrociate sul vecchio grembiule da casalinga e i capelli grigi raccolti in una crocchia dura come l'acciaio. Fu solo mentre saliva i gradini dell'ingresso che Alex si ricordò di essere in ritardo con il pagamento dell'affitto. La riparazione della macchina l'aveva lasciata senza soldi e poi se ne era completamente dimenticata. Era la prima volta che succedeva. Sorrise, pregando che l'anziana signora non la mettesse in imbarazzo davanti a Mark. «Signora Connelly!», disse con un'allegria che era lungi dal sentire davvero. «Come sta?». «Oh, molto bene, molto bene». Maeve fissò su Mark i suoi occhi arrossati e Alex fece le presenta/ioni imbarazzata. «Vi ho visti arrivare», disse Maeve una volta soddisfatta l'etichetta e la propria curiosità. «Volevo parlarle, Alex». Alex mise le mani nelle tasche del cappotto. «Posso... posso finire una cosa, signora Connelly? Ci vorrà solo un minuto. Poi sarò tutta sua». Maeve sorrise, mettendo in mostra il gancio scuro di un vecchio ponte. Sembrava anche lei un po' imbarazzata. «Be', veramente, preferirei... vede, è arrivato Kenneth da Pittsburgh». Il genero. Alex sentì che incominciava ad arrossire. «Visto che è qui...», disse Mauve, sottintendendo quasi che Alex l'aveva evitata. Alex si volse verso Mark, che guardava disgustato delle macchie di umidità sulle pareti. «Vai pure su», gli disse porgendogli le chiavi. Quando finalmente lo raggiunse, venti minuti dopo, Mark era in piedi in mezzo al tappeto con ancora addosso il cappotto. Oscar passeggiava rigido dall'altra parte della stanza, come faceva quando era stato scacciato e rimproverato. «Hai di nuovo dimenticato di pagare l'affitto, vero?», disse Mark scherzando mentre lei entrava dalla porta.
Alex si tolse il cappotto. «No, è solo il genero. Sta pensando di fare dei lavori e vuole che Maeve aumenti l'affitto. E lei vuole sapere se ho intenzione di restare qui o no». «Quanto vogliono?». «Seicento dollari al mese». «Soltanto? Credevo che fosse più caro». Alex non disse che finora aveva pagato quattrocento dollari e aveva avuto difficoltà a farlo. Né gli disse quello che aveva detto a Kenneth: che aveva bisogno di tempo per decidere se prolungare il contratto. Notò che le stampate del computer erano scomparse dal tavolo. «Dove sono le...?». «Le stampate?». Mark si frugò in tasca e le tirò fuori. «Sono tutte qui», disse battendosele sulla mano. «Ma non credo che dovresti tenerle nell'appartamento». Le rimise sul tavolo, con un'espressione neutra che significava: non avevo nessuna intenzione particolare. Ma se le era messe in tasca. Perché? Aveva pensato di andarsene prima che lei finisse il suo colloquio con Maeve? Alex lo osservò mentre si toglieva il cappotto, chiedendosi come doveva reagire. «Perché non dovrei tenerle qui?», chiese finalmente. Mark sedette sul divano, guardandola come se fosse una stupida. «Alex. Quel tizio, chiunque fosse, non ti ha detto che eri in pericolo?».. «Certo, ma...». Si avvicinò le stampate e guardò le informazioni senza senso. «Ci ho pensato». «Bene. Credo che sia tuo diritto». «No, ascoltami un minuto. Questo tizio... compare dal nulla e dice: mi dia i documenti, sono pericolosi. Non mi ha detto: mi dia i documenti, sono miei». «E allora?». «E allora cosa vuol dire questo? Ricordati che sembrava davvero spaventato. Quando ha visto la polizia che si avvicinava è schizzato via come un razzo. Di cosa ha paura? Di chi ha paura? Non dei documenti. Anzi, li vuole, anche se sono pericolosi. Quindi io penso... io penso che avesse paura, in strada voglio dire, che qualcuno lo vedesse parlare con me. Credo che i documenti siano pericolosi per me, forse anche per lui, perché io non dovrei averli. Nessuno dovrebbe averli». «Alex, questo...».
Alex si mise le mani nei capelli. «Voglio sapere chi era». Prese le stampate. «Voglio sapere cos'è questa roba». Mark aprì la bocca incredulo. «Vuoi... Ma perché, Alex?». «Perché devo. Liberarmi di queste carte non servirà a niente. Come potrei dimostrare di non averne fatto delle copie?». «Ma non ne hai fatte, giusto?». «No. Non posso neanche restituirgliele, perché non mi ha detto come si chiama. Era come se... come se desse per scontato che io sapessi chi era. Che io fossi sulla pista giusta». Mise giù le stampate e andò al frigorìfero. «Tutti sanno tutto», disse fra i denti. «Eh?». «È una cosa che mi hanno detto l'altro giorno. Providence è così piccola. Forse dovrei sapere chi è. Era al funerale di Michael Eliot, santo cielo». «Perché non lo chiedi a White?», disse Mark. «Forse lui lo sa». «Gliel'ho già chiesto». «Gli hai parlato di questa storia?». Mark sembrava allarmato. «No». Alex alzò gli occhi continuando a versare il latte in una tazza. «Il tizio strano con la barba mi ha prestato un fazzoletto al funerale. Ho chiesto a White chi era, ma White non lo sapeva». «Non mi piace», disse Mark tormentandosi un'unghia. «Non mi piace per niente questa faccenda». «Forse è solo un pazzo», disse Alex. Mise giù il latte e Oscar si avvicinò zampettando. «Questo è quello che pensa Liz». «Perché non li mettiamo in banca?», propose Mark. «In una cassetta di sicurezza». «Li mettiamo?». «Li metti, se preferisci». Ci fu un silenzio imbarazzato. Poi Mark alzò le mani, improvvisamente esasperato. «Cristo, Alex, sto solo cercando di aiutarti». Alex si strinse nelle spalle e abbassò gli occhi. «Metterli in banca», disse tra sé. «Ci sarà da spendere?». «Pago io», disse Mark. «Be', basta che non li mettiamo alla Ocean State», disse Alex rialzando lo sguardo e cercando di scherzare. Mark non rise. «Scusa», disse lei. «E solo che non sono abituata a essere... minacciata. Non è una cosa che succede spesso, alle attuarie, sai?».
Andò al tavolino del salotto e prese di nuovo le stampate. «Cosa significa tutta questa roba? Perché Eliot voleva portarla con sé?». Mark si avvicinò. «Io credo che dovremmo portarla via», disse col tono di un genitore che si rivolge a un bambino difficile. Alex lo guardò. «È questo che stavi per fare? Portarla via mentre ero giù con Maeve?». Mark si bloccò scuotendo la testa con incredulità. «Mio Dio, Alex. Stai diventando paranoica. Lo sai? Se avessi voluto prendertela, avrei potuto andarmene dieci minuti fa». Alex distolse lo sguardo. «Be', in ogni caso non te la darò». Mark emise un sospiro di esasperazione. «Non ti capisco, Alex. Prima mi racconti tutto e poi mi scacci quando tento di aiutarti a risolvere il problema». Alex si guardò le mani. Non sapeva cosa pensare di questa faccenda. Il telefono suonò. Lo prese, tenendo d'occhio Mark. «Mamma, ciao!». Ascoltando sua madre che faceva le solite domande ed esponeva le solite lamentele, Alex riorganizzò i pensieri, cercando di ricordare se in questa occasione era colpevole di averla trascurata. Si accorse con un sentimento di vuoto che non ricordava quando si erano sentite l'ultima volta. Come sempre, la preoccupazione fondamentale di sua madre era la casa. Il semplice fatto di mantenere quella casa consumava tutti i suoi soldi. «E quindi bisognava sigillare i davanzali», disse. «Tutta questa pioggia fa crepare il legno. Così ho detto a John di fare un salto». Alex guardò Mark. Stava arretrando verso la porta, con una mano alzata in segno di saluto. Aveva sul volto un'espressione strana: un misto di tristezza e irritazione. Alex alzò una mano, desiderando che restasse, ascoltando nello stesso tempo come John avesse riparato i davanzali, ma camminando sul tetto del porticato avesse rotto il rivestimento del tetto e provocato un'infiltrazione. «Devono sostituire delle assi nel portico, dove è colata l'acqua. Mi costerà un duecento dollari». Mark se n'era andato. Alex si immaginò sua madre, seduta vicino al caminetto, con i piedi gonfi appoggiati su un vecchio tappeto a peli lunghi. Sentì un forte desiderio di mettersi in macchina e andare a Pittsfield. «Non preoccuparti per i soldi, mamma», disse. «Te li farò avere sul conto corrente quando prendo lo stipendio. Assicurati solo che John faccia un buon lavoro».
Mezz'ora dopo, Alex mise giù il telefono. Guardò le stampate. Tutte quelle chiacchiere sulla loro pericolosità sembravano assurde. L'unica realtà che riusciva ad affrontare era la perdita nel tetto di sua madre. Andò alla poltrona e sedette. Oscar la guardò per un attimo e poi le saltò in grembo. «Gesù!». Con un movimento brusco lo allontanò e lo mandò a cadere a un metro di distanza. Per un breve momento, la bestia sembrò stupefatta. Poi si girò e si allontanò rigidamente. «Scusa, piccolo. E solo che... Maledizione!». Afferrò le stampate e andò verso il cesto della spazzatura in cucina. Ma la spazzatura era piena. Respirando a fatica, mise i fogli sul banco e cercò di riprendere il controllo. «Maledizione», ripeté, ormai ragionevole e controllata. Girò i fogli per leggerli correttamente e guardò le colonne di cifre senza significato. «Perché generare due volte la stessa serie?». Oscar la guardava da lontano, pieno di sospetto. Alex lo guardò un momento, poi tornò ai suoi documenti. Due tabelle. A e B. Nove colonne e otto righe. MCP1B. LQTS1. HTCH4. CFIB2. Sigle senza senso. Informazioni pericolose. Poi, in fondo all'ultima pagina, la data, l'ora e MEDAN. Si portò la mano alla bocca, guardando il nome come se lo vedesse per la prima volta. Tirò fuori l'elenco del telefono da un mucchio di carte inutili. Era strano che non ci avesse pensato prima. Sapeva quello che avrebbe detto Mel Hartman: Non tutte le forme di conoscenza sono digitali. Si era immersa troppo nelle tabelle invece di seguire la traccia più semplice. Se scopriva cos'era Medan, forse avrebbe capito cosa aveva davanti. Incominciò a scorrere tutte le voci finanziarie delle Pagine gialle, pensando che forse la Medan era una compagnia di informazioni finanziarie, come la Reuters o la Bloomberg - qualcosa che Eliot usava per lavoro. Ma dopo cinque minuti non aveva trovato niente. Passò al settore generale, in cui residenti e aziende erano elencati insieme in ordine alfabetico. La trovò quasi immediatamente, tra Medallion Printing e Medcall Inc.: Medan Diagnostics. Niente a che fare con la finanza - doveva essere una specie di laboratorio o di clinica. C'era un numero di telefono e un indirizzo: 470 Toll Gate Road, West Warwick.
Il traffico sulla Route 1, la mattina seguente, era scarso. Era sabato e molta gente temeva la tempesta di neve annunciata dal bollettino metereologico. Avvolta in cappotto e cappello, con una pesante sciarpa di lana che la copriva fin sul naso gelato, Alex si dirigeva verso sud insieme agli altri cauti automobilisti, con la cartina stradale aperta sul sedile di fianco a lei. Superò l'aeroporto e raggiunse la sommità di Greenwich Bay, poi seguì le indicazioni per il Kenty County Hospital, che secondo la sua cartina si trovava sulla Toll Gate Road. Ben presto l'edificio dell'ospedale sbucò dalla nebbia. Vide un cartello col nome della strada e il numero 351 su un bidone della spazzatura. Poco più avanti vide un negozio chiuso col numero 413 scritto sulla saracinesca di metallo. Rallentò. Palazzi abbandonati ed edifici in rovina lasciarono il posto alle basse strutture prefabbricate delle industrie leggere. Qua e là avevano piantato degli alberelli, tentando con poca convinzione di abbellire il paesaggio. La superò, accostò e si guardò alle spalle. Una cancellata metallica circondava un'area asfaltata di fresco con gli spazi per posteggiare le auto. Una Oldsmobile era parcheggiata vicino all'ingresso di un edificio di mattoni scuri a due piani. Un piccolo cartello all'ingresso diceva MEDAN INC. CLINICAL DIAC.NOSTICS. Spense il motore e restò a guardare attraverso la cancellata le lontane finestre rettangolari, cercando di indovinare cosa accadeva all'interno. Cosa aveva a che fare Michael Eliot con questo posto? Non sapeva cosa pensava di trovare, ma questo era in un certo senso deludente. Era così banale. Un pezzo di giornale fu sollevato dal vento nel parcheggio e finì contro il tronco di una betulla dall'aspetto triste. Era troppo isolato per essere una clinica o un istituto chirurgico. Se questa era la Medan delle stampate, i numeri erano stati prodotti da un laboratorio. Tirò fuori dalla tasca le stampate e, accesa la lucina interna, le guardò per la centesima volta. Forse i numeri ripetuti si riferivano a qualcosa di fisico, come una biopsia, qualcosa che si poteva esaminare in un test diagnostico. I numeri delle due tabelle sembravano identici. Voleva dire che lo stesso materiale era stato analizzato due volte? In sé, la ripetizione suggeriva un'interazione di qualche tipo con il mondo fisico. Nel mondo della matematica, dei puri numeri, gli stessi calcoli producevano sempre gli stessi risultati. Non c'era bisogno di farli due volte. Il lontano sbattere di una porta le fece alzare la testa. Una guardia stava attraversando il parcheggio diretta verso di lei. Vedendola alzare gli occhi, le fece cenno con la mano e sorrise. Alex vide che
muoveva la bocca. Probabilmente pensava che si fosse persa. Cercò la chiave e accese il motore. A mezzo miglio di distanza trovò un benzinaio ed entrò, fermandosi vicino a una pompa. Un ragazzo con un anello al naso uscì dal casotto. Gli porse le chiavi attraverso il finestrino. «Il pieno, per favore». Incominciava a cadere la neve. Alex si rilassò, massaggiandosi gli occhi. La notte insonne si faceva sentire. Ora si accorse di essere anche affamata. Era china in avanti per guardarsi nello specchietto e si stava togliendo il cappello per vedere i capelli, quando scorse la macchina. Era la Pontiac. C'era una botta sul paraurti anteriore, dove le era venuta addosso. Entrò dal benzinaio e si mise proprio dietro di lei. Dietro al parabrezza sporco di neve c'era la faccia con la barba che la guardava. Si irrigidì, incapace di pensare, mentre l'incredulità cedeva al panico. Poi si chinò e incominciò a cercare il ragazzo. Ma era scomparso. «Le ho chiesto se vuole che dia un'occhiata all'olio». Sobbalzò quando la faccia apparve al finestrino. I ragazzo arretrò con un'espressione stupita sul volto. «Quanto ti devo?», chiese Alex. «Dodici dollari, signora». Gli diede un biglietto da venti attraverso il finestrino, gli strappò quasi le chiavi di mano e si allontanò dal distributore. Col sangue che le pulsava nelle tempie, guardò le macchine che scorrevano lungo la strada, impedendole di uscire. Guardò nello specchietto, aspettandosi di vedere il tizio che scendeva dalla macchina e le si avvicinava. Invece stava parlando al ragazzo, con aria tranquilla. Il ragazzo indicò la sua macchina e disse qualcosa che li fece sorridere entrambi. Alex tornò a guardare il traffico. «Dai, dai». Incapace di aspettare oltre, avanzò ancora un po'. Un camion sfrecciò suonando il clacson, mentre la scritta GREENFIELD RECYCLING le passava davanti e spariva. I capelli le si rizzarono sulla nuca vedendo la Pontiac che le si accostava. Se quell'uomo fosse sceso dalla macchina, cosa poteva fare? Provocare un incidente? Ci fu un'interruzione nel traffico. Respirò e si immise nella strada. La Pontiac la seguì immediatamente. Alex aumentò la velocità, ma si trovò quasi immediatamente davanti qualcuno. Cercò di ricordare se l'aveva visto lungo la Route 1 o nell'East
Side. Era parcheggiato davanti a casa sua? Da quanto tempo la seguiva? Le stampate erano sul sedile di fianco. Avrebbe capito che stava ficcando il naso, che cercava di saperne di più. Afferrò il fascio di fogli e cercò di chiuderlo nel vano per i guanti, poi dovette premere il freno per non urtare la macchina davanti. Controllò di nuovo nello specchietto. L'uomo sembrava molto freddo e impassibile. Non aveva fretta. Poi rallentò, mise fuori la freccia e svoltò. Improvvisamente, la strada alle sue spalle fu sgombra. Per un momento non riuscì a crederci. Continuò a guidare per un po', più lentamente. Poi incominciò a capire. Si accostò al margine della carreggiata. Le macchine le sfrecciavano di fianco. Nevicava più forte, adesso, i fiocchi battevano leggermente contro il parabrezza. Dopo un minuto, Alex guardava attraverso un solido schermo di neve. Si tolse il cappello e si asciugò il sudore dalla fronte. Non l'aveva riconosciuta. Era talmente infagottata nei suoi vestiti invernali che non aveva capito chi era. Quindi si era messo dietro di lei per puro caso. Era un distributore che probabilmente usava spesso. Comodo. Vicino al lavoro. Aspettò il momento buono, poi fece una svolta a U. Adesso tornava lungo la Toll Gate Road, diretta verso l'ospedale. Passando accanto alla Medan, vide la Pontiac posteggiata di fianco alla Oldsmobile. «Beccato», disse aggrappandosi al volante». Tornata a casa, Alex telefonò a Mark. Ma non ci fu risposta. Per un'ora camminò avanti e indietro nel salotto, cercando di capire cosa significava tutto ciò. Il suo persecutore lavorava per la Medan, o conosceva qualcuno dell'azienda. Non mi interessano i soldi. Faccia quello che vuole con i soldi. Ma devo avere quelle stampate. Perché? Perché Eliot aveva con sé quei documenti? Li aveva rubati? Doveva scoprire cos'erano, a cosa si riferivano esattamente. Una biopsia? Un test diagnostico? Aveva bisogno di qualcuno esperto del settore per fare delle ipotesi. Si ricordò di Benny. Benedict Ellis lavorava all'Arnold Biological Laboratory sulla Waterman Street. Alex l'aveva incontrato in un bar di studenti appena arrivata a Providence e per un po' si erano visti con un gruppo che si era disintegrato nel corso degli anni man mano che le persone si allontanavano per lavorare altrove. Benché abitassero appena a tre isolati di distanza, ormai si vedevano di rado. Quando Alex lo trovò nel suo giardino davanti a casa, a lavorare su una
mountain bike, il viso arrossato dal freddo, si ricordò il perché: Benny era strano. Le era sempre sembrato strano, ma nel corso degli anni la combinazione di lunghe ore di lavoro, ristrettezza del suo campo (Benny era un'autorità nel metabolismo dei muco-polisaccaridi) e amici del suo stesso stampo aveva finito per pesare sulle sue capacità comunicative. Il suo aspetto - aveva occhi verdi spalancati e una bocca sempre sorridente - non contribuiva certo ad attenuare l'impressione di stranezza. «Alex». Buttò a terra la pinza e si rizzò in piedi quando lei oltrepassò il cancello. «Ciao, Ben. Come stai?». Benny annuì lentamente, sorridendo, guardandola dall'alto in basso, evidentemente sorpreso di vederla. «Ho visto Beaner l'altro giorno», disse continuando ad annuire. Alex non aveva idea di chi fosse costui. «Come sta?», improvvisò, sperando che Beaner fosse qualcuno del vecchio gruppo. «È sempre il solito vecchio Beaner», disse Benny sorridendo. Ci fu una breve pausa, durante la quale la bocca sorridente si spinse in avanti in una O interrogativa. «Che... che cosa...?». «Io... stavo solo facendo due passi...». Alex indicò la strada, come per comprovare la sua affermazione. «E ho pensato che forse, ehm, potevi aiutarmi per una cosa». Benny stava annuendo di nuovo, con la bocca che ritrovava la familiare espressione di felicità. «Ho questo... Be', il problema è questo», disse Alex mostrandogli le stampate. «Non so bene cosa sono, e pensavo che forse tu puoi dirmelo». Benny si pulì le mani sui jeans e prese le stampate. Alex aveva dimenticato le sue mani. Erano belle, con dita lunghe e affusolate e unghie a forma di mandorla, sempre un po' sporche. «Sembrano tags», disse Benny. «Tags?». «Sì. Marcatori. Servono per analizzare delle sezioni di DNA». Alex si strinse nelle spalle. «Sì», sorrise Benny come se stesse per ridere, anche se non era così. «Si usa una sonda. E una sezione di DNA analizzata radioattivamente. Si possono comprare. Si usano per individuare le sezioni identiche di acido nucleico accoppiandole tra loro. Nord, Sud. Come una piccola eco». Si mise una mano di fianco alla bocca e gridò: «Helloooo!«e poi, in ri-
sposta, svanendo lentamente, «Helloooo!». Alex lo guardò, annuendo a sua volta. «Una sonda?», disse. «Sì, sai, come quelle usate per identificare il DNA dei criminali nei processi penali». «Vuoi dire che questo... ha a che fare con un processo penale?». «Potrebbe. Ma non è detto. Sono solo informazioni. Si possono usare per qualsiasi cosa. Dipende da quello che si cerca». «Potrebbe avere un'applicazione diagnostica?». «Certo. Si può cercare qualche difetto, qualche mutazione, come in una...». Osservò più attentamente la prima pagina delle stampate. «Non so cosa...». Poi sorrise, guardandola. «Ti dirò cosa faremo. Una mia amica, Beth Klein, lavora proprio con questa roba. Lei saprà dirti che cos'è». «Grazie Benny. Ti sono davvero grata». «Non c'è di che». Alex lo guardò mettersi le stampate nella tasca posteriore dei jeans, da cui spuntavano come una penna. Si chiese se doveva dirgli che potevano essere pericolose, poi decise che questo avrebbe complicato inutilmente le cose. «Abiti sempre nella vecchia casa di Ma Connelly?», chiese Benny. «Sì. Con Oscar». Benny aggrottò la fronte, continuando a sorridere. «Oscar? Ah, sì, quel tizio grosso con i maglioni». «Veramente è un tizio piccolo con la pelliccia», disse Alex. «Oscar è il mio gatto». Benny sorrise imbarazzato. «È passato troppo tempo», disse. 24 Era pomeriggio inoltrato quando McCormick sentì arrivare la macchina. Spense rapidamente la sigaretta e si avvicinò alla finestra. Una Cadillac nera era posteggiata in seconda fila all'angolo, con le luci gialle che filtravano attraverso la neve che cadeva. Neumann non gli aveva detto chi sarebbe venuto a prenderlo. Aveva detto solo che sarebbe venuto qualcuno. La Mann Clinic era da qualche parte nel New Jersey.
L'attesa non era stata piacevole per McCormick. Dalla visita di Neumann in poi, non aveva fatto altro che pensare a Michael Eliot. Non riusciva a togliersi dalla testa l'idea di Michael che si mordeva per il dolore una guancia fino a spezzarsi un dente. L'aveva perfino sognato mentre dormiva, poco prima dell'alba, e si era svegliato sudato, con i muscoli rigidi come quelli di un cadavere. Aveva conosciuto bene Eliot. Lavoravano molto insieme nei primi anni. Non era uno stupido, né un debole. Era in gamba, equilibrato, normale. Cosa poteva averlo mandato fuori di testa? E quanto era lontano lui dal fare la stessa fine? Non ci sarebbe voluto molto, questo ormai era chiaro. Bastava che diventasse un po' impaziente, che prendesse qualche scorciatoia, ignorasse le procedure. E sarebbe venuto il suo turno. Un altro incidente domestico. Il tipo di incidenti che le compagnie di assicurazione affrontavano ogni giorno. Fu Donald Grant a uscire dalla macchina. McCormick sentì una contrazione nervosa allo stomaco. Grant lo rendeva sempre nervoso. Non era qualcosa che potesse indicare con precisione. Era semplicemente il modo in cui le altre persone stavano intorno a lui, anche persone come Walter Neumann e Newton Brady. Il rispetto, la distanza. Era contagioso. Nello stesso tempo, parlando con Grant, non si sfuggiva mai all'impressione che lui, su di te, sapesse molto più di quello che lasciava trapelare - forse più di quello che sapevi tu stesso. «Neumann aveva detto alle tre. Sei in ritardo», scattò McCormick aprendo la porta. Grant batté i piedi per liberarli dalla neve ed entrò nell'ingresso. «No, Ralph», disse tranquillamente. «Hai preparato tutto?». McCormick si succhiò i denti. Tecnicamente parlando, Grant era un suo sottoposto. Il settore investigativo era un sotto-dipartimento di quello risarcimenti, mentre McCormick dirigeva un proprio dipartimento. Ma Grant non sembrava curarsene. La gerarchia aziendale non aveva importanza per lui e non l'aveva mai avuta. «È tutto qui dentro», borbottò McCormick, indicando una valigia di pelle marrone. Grant annuì. «Ti sei liberato di tutta la neve, Ralph?». «La neve?», disse McCormick con una scrollata scherzosa, indicando fuori dalla porta. «Avrei bisogno di...». «La cocaina. Te ne sei liberato?». McCormick sospirò. «Sì, sì. È finita tutta nel gabinetto. Stanotte». Senza
volere, si toccò le narici. «Ehi, non era molta». «Nel gabinetto?». «Sì». «Stanotte?». «Stamattina. Va bene? Stanotte, stamattina, che differenza fa?». Grant lo guardò un momento, poi chiuse la porta. «Tua moglie ha intenzione di tornare?». McCormick aggrottò la fronte. Il tono di Grant incominciava a irritarlo. «Ce... certo che ha intenzione di tornare. Cosa...? È andata solo a visitare la sua...». «Quando?». «Quando cosa?». «Quando tornerà, Ralph?». Grant non alzò la voce, ma non ne aveva bisogno. McCormick si sentiva come un verme infilzato sulla punta di un amo. Prese il cappotto e la sciarpa. «Non lo so. Quando le cose si saranno sistemate, credo. Sa già della mia... della clinica. Perché ti interessa?». Grant si fece avanti e aiutò McCormick a infilare il cappotto, offrendogli un sorriso storto e paterno. «Oh, sai che a noi piace tenere tutto in famiglia, Ralph. Questa è una città piccola e la gente parla. Anche le mogli. Tu hai un lavoro molto importante in questa organizzazione. Vogliamo solo assicurarci che tu lo mantenga». Batté sulla spalla di McCormick e si diresse verso le scale. «Uso un attimo il tuo bagno, okay?». McCormick si voltò. «Ce n'è uno qui da basso. Vicino al...». Ma Grant stava già salendo. Chiuse la porta e andò direttamente all'armadietto dei medicinali. Era lì che i cocainomani tenevano le loro riserve, nascoste tra le bottigliette di medicine e le vecchie lamette da rasoio. Anche lui aveva tenuto lì la sua dose, ai vecchi tempi, prima di perdere l'abitudine. Era una medicina, in un certo senso, o almeno così finivi per considerarla. Ti aiutava a dimenticare i problemi. Ma che tipo di problemi aveva Ralph McCormick? Che cosa voleva che non potesse avere senza far niente, solo restando lì seduto ad aspettare per qualche anno? Era patetico. Un peso. La clinica poteva interrompere il suo consumo di droghe, ma non poteva annullare il suo desiderio di ricominciare, se non per poco. Si capiva: qualcosa lo consumava da
dentro. Grant si mise quasi a ridere quando trovò quello che cercava in una vecchia bottiglietta di aspirine. McCormick era davvero patetico. Perfino la sua vecchia l'avrebbe trovata, qui. Probabilmente era il primo posto dove avrebbe guardato. Immerse il dito nella fine polvere bianca e l'assaggiò. Era roba buona, però, senza dubbio. McCormick si era procurato uno spacciatore di alta classe, pagando un bel po' di dollari senza discutere. Ma il problema con gli spacciatori era proprio questo, che non erano persone affidabili. Non potevi mai sapere quando ti avrebbero passato qualcosa tagliato con del veleno per topi, o della candeggina, o peggio. Succedeva in continuazione. Grant riavvitò il tappo e lo rimise nell'annadietto. Poi tirò lo sciacquone e uscì. 25 Sabato sera, quando Alex gli telefonò, Mark non era in casa. Erano le undici del mattino seguente cjuando finalmente riuscì a contattarlo. Non gli chiese dov'era stato, e non gli lasciò capire che l'aveva cercato, e non gli disse che era andata alla Medan il giorno prima. Dato il modo in cui si erano lasciati, capiva che questo avrebbe solo peggiorato le cose. Fece del suo meglio per apparire rilassata e tranquillizzarlo e finì col proporre di andare da lui quella sera a preparare la cena. Mark sembrava stanco, ma accettò abbastanza prontamente. Si scoprì che era tornato in ufficio e vi era rimasto fin dopo mezzanotte, a causa di un problema con il sistema informatico, disse. Alex riuscì a trattenersi dal chiedergli se il problema aveva a che fare con Ralph McCormick. Arrivò a casa sua alle sette e salì i gradini all'ingresso reggendo un sacchetto della spesa. Dall'interno veniva della musica rock ad alto volume e la luce del bagno usciva da una finestra del primo piano. Alex bussò alla porta col gomito, ma era ovvio che Mark non poteva sentirla. Per fortuna aveva ancora il mazzo di chiavi che le aveva dato alcuni mesi prima, quando l'idea di convivere era al centro dei loro pensieri - quando Mark sembrava spingere perché ciò avvenisse. Le tirò fuori dalla tasca del cappotto ed entrò. Mark stava scendendo le scale mentre lei entrava nell'ingresso, vestito con una tuta grigia, i capelli ancora umidi per la doccia. Era in piena forma. «Mi ero dimenticato che avevi le chiavi», disse. «Mi chiedevo chi diavo-
lo fosse». «Me le hai date tu», disse Alex. «Le vuoi indietro?». Mark le prese il sacchetto, la baciò sulla guancia e andò in cucina. La musica rock continuava a suonare in soggiorno. «Mi ero solo dimenticato che le avevi. Cosa hai preso?». Alex si tolse il cappotto e lo gettò sulla spalliera di una sedia. «Pollo hoisin», disse più allegramente che poté. «È una ricetta ottima e facile da morire. Cipolline, nocciole tritate e salsa hoisin. Un po' agrodolce. L'ho provato l'altro giorno». Mark tirò fuori la bottiglia di salsa e incominciò a leggere l'etichetta: ingredienti, informazioni nutrizionali, perfino la ricetta per il barbecue di cotolette alla cinese. Era come se non gli venisse in mente niente da dire, o avesse qualcosa per la testa, qualcosa che scacciava tutto il resto. Alex si mise in allarme e si chiese se stesse preparandosi a dirle qualcosa. Qualcosa su di loro. «Prendo una birra», disse Mark alla fine. «Ne vuoi una anche tu?». «Certo», rispose lei, anche se la birra non le piaceva molto e gliel'aveva detto probabilmente cento volte. Continuò a togliere i prodotti dal sacchetto. «Ho bisogno di un bianco d'uovo, a proposito. Ne hai ancora lì dentro?». Mark era accovacciato davanti al frigorifero e cercava di tirare fuori le sue bottiglie di Michelob. Sembrava che ci mettesse molto tempo per trovarle. Quando finalmente si rialzò in piedi, non c'era traccia di uova. «Mark?». «Cosa?». «Questo vuol dire che non ne hai?». «Non ho cosa?». «Uova. Ho bisogno di un uovo». «Credevo che volessimo mangiare il pollo». Alex rise nervosamente. «È così, Einstein. Ma ho bisogno del bianco di un uovo». Mark aggrottò la fronte. Non capiva lo scherzo. «Bene. Certo che ho delle uova». Si accovacciò di nuovo e incominciò a spostare la roba nel frigo. Alex lo guardava con la coda dell'occhio. «Ecco. Ci siamo». Tirò fuori un cartone di uova e lo appoggiò sul piano di lavoro. Alex incominciò a preparare la marinatura, aggiungendo vino di riso e farina di granoturco al bianco dell'uovo e sbattendo il tutto con una forchetta. La
musica si fermò, ma Mark non accennò a sostituirla. «Allora», disse porgendole un bicchiere di birra, ma bevendo la sua dalla bottiglia, «a quanto pare sarò via quasi tutta la settimana prossima. Tempo permettendo, naturalmente». Alex smise di sbattere. «Ah. E dove vai?». «A New York. Può darsi che sottoscriveremo questa operazione di brokeraggio. Newt vuole fare delle verifiche, però». «Per tutta la settimana?». «Parto martedì mattina, tempo permettendo, come ho detto. Ci sono altre persone che vogliamo vedere a Wall Street. Forse dovrei comprarmi delle bretelle rosse». «Ne hai già un paio», disse Alex. «A sinistra nell'armadio». Mark annuì e si appoggiò al frigorifero. «E vai solo?». Alex non riuscì a trattenersi. Lui si strinse nelle spalle. «Forse». «E non viene...?». Si fermò appena in tempo. Non era il momento di mostrarsi gelosa, soprattutto perché non c'era nessun elemento oggettivo per esserlo. «...Newton Brady?». «No. A meno che le cose non procedano molto alla svelta, il che mi sembra difficile». Mark bevve un sorso di birra. «Sei arrivata a qualche conclusione per quanto riguarda le stampate?». Alex ci mise un momento per mettere a fuoco la domanda. Aveva già deciso di non dire niente. Le cose erano cambiate per lei dopo il suo viaggio a West Warwick. Il fatto che fosse riuscita a pedinare quell'uomo fino al suo posto di lavoro l'aveva resa più sicura, più controllata, e ogni giorno che passava senza incidenti - senza che avvenisse niente di minaccioso o di sinistro - confermava il suo senso di sicurezza. E c'era anche un'altra ragione per non dire niente. Il modo in cui Mark sembrava volersi far carico dell'intera faccenda la infastidiva. Era come se le sue iniziative in qualche modo lo minacciassero. «No», rispose. «Non ci ho pensato molto. Secondo me quel tizio è un matto. Forse voleva solo far colpo in maniera strana». Mark bevve un altro sorso di birra, guardandola. «Sì, può darsi», disse. «Ci sono persone molto strane, in questa città». E la metà lavorano per la ProvLife, pensò Alex. «L'hai più rivisto?», chiese Mark. Alex prese un coltello da cucina in un cassetto e incominciò ad affettare
i petti di pollo. «No», disse con noncuranza. «Se lo rivedo, chiamo un poliziotto». Mark emise un grugnito di soddisfazione e andò a sedersi al tavolo. Sembrava che questo fosse ciò che voleva sentire. «A proposito», osservò. «Ho controllato sul computer i pagamenti per quei conti correnti che mi hai dato». Alex mise giù il coltello e si voltò a guardarlo. «Davvero? Stanotte?». «Sì». «E...?». Mark sospirò e scosse la testa. «Quei conti sono solo... appartenevano a beneficiari delle polizze della ProvLife. Gente che è stata pagata quando i clienti sono morti. Roba assolutamente di routine». Alex aggrottò la fronte. «Vuoi dire che hanno preso soldi dall'azienda?». «E da chi altri? Hanno chiesto il risarcimento. Sono stati risarciti. Fine della storia». Alex lasciò cadere le braccia. «Quindi questi...». Si fermò, cercando di ragionare. «Questi beneficiari avevano tutti conti correnti alla Ocean State, giusto?». Mark si strinse nelle spalle. «Be', quelli di quell'elenco sì. È una delle banche più grosse dello stato, lo sai». «E... erano tutti clienti locali?». «Credo di sì. Il New England è il nostro mercato più grande. Non c'è niente di strano in questo». «Ma perché Michael Eliot li aveva presi con sé?». «Forse si è portato del lavoro a casa. Forse li ha dimenticati nella valigetta. Chi se ne frega? Guarda, io sto ancora imparando come vanno le cose in quel posto, ma Eliot non era molto bravo nell'archiviazione, lasciamelo dire». Alex non poté fare a meno di sentirsi delusa. Il modo in cui aveva trovato quel foglio, infilato in mezzo alle stampate del computer, indicava che forse era davvero finito lì per caso. «Di che valore erano le polizze di cui stiamo parlando?», chiese. Mark mise giù la bottiglia di birra vuota e si alzò. Appariva nervoso, incapace di stare fermo. «Non lo so. Somme normali. Centomila dollari, a volte meno. Comun-
que, l'importante è che erano tutti soldi dell'azienda. Perfettamente legittimi. Quindi», aprì il frigorifero e prese un'altra birra - «credo che possiamo dimenticarci della tua idea sul riciclaggio di denaro». Alex riprese il coltello e si rimise ad affettare i petti di pollo. La parte inferiore era scivolosa per il sangue. Lo sentiva congelarsi sulla punta delle dita. «Aspetta un secondo». Smise di affettare e si guardò le dita. «Credevo che i pagamenti più piccoli venissero gestiti dal settore risarcimenti. Credevo che solo i pagamenti più importanti venissero fatti tramite la Tesoreria. Quelli dal mezzo milione di dollari in su». Per un attimo, Mark parve confuso. «Cosa? Chi ti ha detto che sono stati fatti tramite la Tesoreria? Io ho detto solo che ho controllato i pagamenti. Non ho detto quale dipartimento li ha gestiti, giusto?». «Ma, Mark, perché Eliot aveva una lista di conti correnti se non gestiva lui i pagamenti?». «E come diavolo faccio a saperlo?». «Ma non ha senso. A meno che non ci fosse qualcosa di particolare in quei pagamenti. Non ti pare?». «No». Mark sbatté la porta del frigo. «Stai saltando a... non sai neanche tu cosa. Può darsi che...». «Ascolta». Alex guardò il coltello che aveva in mano e lo mise giù. «Ascolta, sto solo dicendo...». «Cosa?». «Non importa». «Oh, dai. Cosa stavi dicendo? Cosa hai in mente?». «I nomi. I nomi degli assicurati. Devi procurarteli. O i numeri di polizza. Così possiamo guardare le polizze e vedere se è davvero tutto legale». «Ma cosa...?». Mark fece per lasciare la stanza, poi si voltò sulla porta, aggrappandosi allo stipite con la mano libera. «Cosa cazzo stai dicendo, Alex?». Sussultò, sorpreso dalla sua stessa rabbia. Si guardò in giro nella cucina come per capire da dove venisse. «Non capisci quanto sono sotto pressione in questo momento?». «Ma devi solo...». «Io devo fare il capo della Tesoreria, santo cielo. Lo capisci cosa vuol dire questo, o no? Devo imparare a gestire l'intero maledetto dipartimento. E la sai una cosa? Metà del consiglio di amministrazione probabilmente
pensa che io non ne sia capace. Credi davvero che non abbia niente di meglio da fare che ficcare il naso tutto il giorno nella Central Records? Che non abbia già abbastanza da fare?». Alex lo fissava, intimidita dalla sua rabbia. «Non prendertela con me, Mark», disse sotto voce. «E tutto perché... perché li sei fissata su quel maledetto Michael Eliot. Dimenticatelo. Michael Eliot è morto. Okay? Ha toccato un cavo elettrico con il trapano. Adesso possiamo andare avanti con la nostra fottuta vita, per favore?». «Mark, io...». Con sua sorpresa, Alex si sentiva sull'orlo delle lacrime. «Ho solo chiesto...». «Solo? Hai solo chiesto? Prima di tutto, Newton Brady è arrivato mentre ero nel pieno di questa fottuta ricerca in cui mi hai coinvolto e non è stato molto contento quando ha saputo che stavo navigando in mezzo ai dati in orario di lavoro». «Come in orario di lavoro? Era sabato sera, santo cielo, era il tuo maledetto week-end». «Anche il suo». Mark indicò una direzione qualsiasi. «Anche il suo. E non poteva andarsene finché non avevamo finito tutti e due. E, in secondo luogo, come sai o dovresti sapere, i dati sui clienti e sui loro beneficiari sono riservati per ragioni di privacy, e non a disposizione di tutti». «Conosco la regola. Ma non sapevo che ci fosse qualcuno così sciocco da badarci. È la cosa più stupida che abbia mai sentito». «Be'». Mark annuì, la sua posizione era giustificata. «Be', se badassi un po' di più a cose stupide come il tuo lavoro e le tue responsabilità, forse non vivresti in quella baracca piena di topi e non dovresti evitale la padrona di casa quando viene a chiederti l'affitto». Alex rimase un attimo senza parole. Si sentiva come se le avesse dato un pugno nello stomaco. Non riusciva a respirare. Strinse i denti, decisa a non piangere. Non voleva farsi vedere. «Sei cambiato, sai?». Lo guardava diritto negli occhi, cercando di respirare normalmente malgrado il cuore le martellasse nel petto. «Da quando Newt ti ha dato quell'incoraggiamento. Eri okay. Eri simpatico. Ma adesso... non so chi sei». Mark irrigidì la mascella. Lo vide inghiottire. «Già, e tu sei stata contraria fin dall'inizio, vero?», disse. «Perché non lo ammetti? Anche la mia nuova macchina ti dava fastidio. Non riuscivi a sostenermi. Non eri capace di aiutarmi a cogliere l'unica grande occasione
della mia vita, e a cavarne qualcosa. Dovevi star lì seduta a criticare e a prendermi in giro. Perché, Alex? Eri gelosa o cosa? Speravi di diventare dirigente prima di me, grazie ai... buoni uffici di Randal White?». Alex lo fissò a bocca aperta. Non credeva alle proprie orecchie. Avrebbe voluto picchiarlo, ma dal suo sguardo capiva che l'avrebbe picchiata a sua volta. Si voltò e prese il cappotto. Dovette appoggiarsi un attimo allo schienale della sedia. «Figlio di puttana». Le uscì poco più che un sussurro. «Miserabile egoista...». Lo superò e corse nell'ingresso. Non capiva come era avvenuto: il risentimento, la rabbia. Erano venuti dal nulla. Ma non era possibile. Mark era davvero cambiato, in peggio. Qualcosa l'aveva cambiato. E lei non se n'era accorta finché non era stato troppo tardi. Le sembrava che dalla morte di Mìchael Eliot tutto andasse male. E lei non riusciva a fermare le cose, neanche a capirle. «Alex». C'era solo una traccia di scusa nella voce di Mark. Piuttosto, sembrava sottintendere che lei doveva crescere. «Alex, dai. Io non...». Lo guardò, aspettando che si scusasse, che la supplicasse in ginocchio. Ma non lo fece. Rimase là, sulla porta della cucina, con la bottiglia di birra ancora chiusa in mano, e sospirò. Alex aprì la porta d'ingresso. «Per la cronaca», disse voltandosi, «io non evito la signora Connelly. La pago. Non ci sono topi in quella casa, e Randal White è qualcosa che tu non sarai mai: un gentiluomo». «Alex, io non...». «Preparati da solo la tua fottuta cena», gridò lei e corse giù verso la macchina, pregando che per una volta partisse al primo colpo. 26 Alex trascinò il lunedì immersa in statistiche inaffidabili e modelli di popolazione antiquati. Sobbalzava ogni volta che suonava il telefono. Malgrado la sua rabbia, sperava ancora che Mark alla fine l'avrebbe chiamata. Doveva solo chiedere scusa e lei era pronta a perdonarlo. Ma non telefonò. Alle sei era esausta. Aveva appena dormito la notte prima. Dopo aver lasciato la casa di Mark, era andata verso nord sulla statale fin quasi a Boston, poi era tornata indietro - un viaggio di due ore nel buio gelido. Era incredibile quello che
era successo, incredibile il modo in cui le aveva parlato. Era come se fosse subentrata un'altra persona, qualcuno che non aveva mai visto prima. Non era andata a letto fino alle due e poi era rimasta sveglia, ascoltando il tic tac dell'orologio di fianco al letto, ripensando alla faccia furiosa di Mark mentre le diceva che era una fallita, una perdente. Perciò il suo piano per il lunedì sera era di dormire. Arrivò a casa alle sette e, dopo aver dato da mangiare a Oscar, andò subito a letto. Era nel pieno di un sogno turbolento e soffocante quando il telefono la svegliò. «Alex?». Non capiva chi fosse. Si guardò in giro per un momento, con la cornetta attaccata all'orecchio. «Pronto, Alex?». Era una voce maschile. Non lo sconosciuto, però. Qualcun altro. «Alex?». «Sì», rispose. «Chi è?». «Sono Randal, Randal White». Si tirò su a sedere e accese la luce del comodino. L'orologio segnava le dieci e mezza. «Randal?». White si scusò per l'ora tarda e disse che sperava che non fosse ancora andata a letto. «Non c'è problema», disse Alex. «Stavo... stavo leggendo». «Davvero?». Sembrava a sua volta un po' assonnato. Volle sapere che libro stava leggendo. «Un romanzo di Philip Roth: My Life as a Man». «Be', non ti ruberò molto tempo», disse White. «Volevo solo chiederti se puoi fare una cosa per me». «Naturalmente». «È una cosa che mi serve per il convegno. Puoi entrare nel sistema domattina appena arrivi in ufficio e tirare fuori i dati anno per anno delle richieste di risarcimento dovute a anemia mediterranea? Se non trovi niente a livello nazionale, puoi trovare degli studi sugli stati del sud - l'Alabama, la Florida. Qualsiasi cosa trovi, dallo a Janice e lei me lo faxerà qui». Ci fu una lunga pausa. Alex aggrottò la fronte. Era una strana richiesta, per essere lunedì sera alle dieci e mezza. «Tornerò in aereo domani pomeriggio», aggiunse White, «tempo per-
mettendo, ma voglio lasciare i dati a una persona qui. Un interessato, diciamo». «Certo», disse Alex. «Non c'è problema». Ci fu un altro lungo silenzio. «Come è andata oggi?», chiese White. Alex rannicchiò le gambe sotto le coperte. La cosa diventava più strana di momento in momento. «Bene. Anzi, non bene... non benissimo, insomma. E a te?». «Non molto bene», disse lui. «Non molto bene». «Oh. Mi dispiace». «Già», disse. Tossì, e Alex credette di sentire il rumore del ghiaccio in un bicchiere. «Sono quassù al trentesimo piano e sotto di me un incrocio fra tre grandi strade. Un sacco di persone che vanno avanti e indietro nel buio». Alex ricordò il suo viaggio nel buio: una corsa sulla statale quasi per sfuggire all'ondata di disperazione che minacciava di inghiottirla. Fu sorpresa dall'improvviso bisogno di raccontare tutto a White. «Gli alberghi tendono a deprimermi, alla lunga», disse White. «Mi fanno sempre pensare a Le Corbusier - sai cosa diceva? Che gli edifici dovrebbero essere macchine vive: anzi, machines à vivre, più che machines vivantes. Macchine per vivere». Alex scosse la testa. «Sai il francese, Alex? Mi viene in mente che non te l'ho mai chiesto». «No», rispose lei. «A me piacciono le case vecchie». Il ghiaccio tintinnò nel bicchiere. «Anche a me», disse Alex. «Conosco un posto vicino a Cahors, nella Francia sudoccidentale, un vecchio convento. Circondato da vigneti. La parte centrale ha finestre che si aprono direttamente sulla terrazza... sui vigneti». Alex immaginò il sole sulla pietra calda, ombre in movimento. «Dev'essere bello», disse. «Mi piacerebbe andare in Francia». «Davvero?». «Certo. A chi non piacerebbe?». «È perfetto, Alex. Il posto di cui ti parlo. Un angolo di paradiso. Stare sulla terrazza mentre il sole tramonta...». Emise un sospiro. «Oh santo cielo», disse. «Eccomi qui al trentesimo piano a sognare un
convento nel sole. Credo che sia un po' triste, eh?». «Non è triste,«disse lei. «È importante avere dei sogni». «Be', spero di non averti disturbato, Alex». «No, per niente. E bello... è bello sentirti». «Buona notte, allora». «Buona notte, Randal». Mise giù il telefono e rimase seduta nel letto. Oscar la guardava dal suo cestino. «Cosa ne pensi?», disse. Oscar continuò a fissarla. 27 La mattina seguente, Mel Hartman raccontava storie in cucina. «Comunque», disse fermandosi per accennare un buon giorno ad Alex che entrava, «è troppo malato per parlare. C'è una pausa di imbarazzo sul palco e il presidente del convegno deve intervenire». «L'hai sentita questa, Alex?», chiese Sandra Betridge. «A proposito di che?». Alex incominciò a togliere il filtro dalla macchina per il caffè. «Randal. Si è sentito male al convegno sulla sanità ieri. Ha dovuto tornare a casa». Alex aprì una nuova confezione di caffè, cercando di non sembrare troppo preoccupata. «Secondo me è stato quel Kenyon della Mass General», disse Hartman. «Cos'ha fatto quel tizio della Mass General?», chiese Sandra. «Non voleva che Randal pronunciasse il suo discorso. Non voleva che Randal rivelasse che il settore è diviso sul tema dei test. E così gli ha avvelenato il caffè durante la pausa del mattino». Sandra fece una smorfia. «Ma sicuro!». «Tu cosa ne dici, Al?», disse Hartman. «Da quale donna delle pulizie l'hai saputo, stavolta?», chiese Alex. Mel sorseggiò il suo caffè e la ricambiò con un sorriso. «Da qualcuno che era al convegno», disse Sandra. «Un amico di Mel. Diglielo, Mel». Hartman aggrottò la fronte, continuando a guardare Alex. «No, Alex non vuole saperlo. Non le interessano i pettegolezzi». Alex fece un sorriso sottile e poco amichevole, tenendo gli occhi sulla
macchina del caffè e aspettando la quarta tazza della giornata. «Stai bene?», le chiese Sandra. «Hai l'aria stanca». «Non riesco... non riesco a dormire bene», disse Alex. La verità era che non aveva dormito quasi per niente. Aveva avuto difficoltà a riaddormentarsi dopo la telefonata di White. «Forse è stato Neumann», disse Sandra abbassando la voce. «Ne sarebbe capace». Hartman arretrò tracciando nell'aria un segno di croce con le dita. «No, ti prego, Neumann no!». Sandra represse una risata, versando un po' di aranciata per terra. «Sì», insistette. «Per allontanare Randal. Devono nominare il nuovo presidente venerdì. Neumann probabilmente pensa che le sue chance aumenteranno, se Randal non ci sarà». «Dovranno convocare una riunione», disse Hartman con tono definitivo. Si alzò in piedi. «In nessun caso White accetterebbe di essere escluso da quell'incontro». Alex si voltò, sorseggiando il proprio caffè. «Sono i clienti che scelgono il nuovo presidente, non il consiglio di amministrazione. La ProvLife è una mutua, ricordatelo». Hartman sbuffò. «Il consiglio di amministrazione farà le sue proposte e i clienti, come al solito, come sempre, staranno zitti», disse. «Perché credi che Goebert abbia deciso di far restare la ProvLife una società mutualistica? Per mantenere il controllo». Alex uscì dalla cucina, mescolando il caffè. Si chiese perché White non gliene avesse parlato la sera prima. Si chiese se le aveva telefonato a causa del malore. Si capiva, in un certo senso: solo nella sua camera d'albergo, a riprendersi da quello che aveva avuto, era naturale che avesse voglia di sentire un'amica. Ma continuava a sorprendersi che la considerasse tale. Sentiva un gran bisogno di vederlo. Sarebbe tornato immediatamente? Si chiese come avrebbe reagito quando gli avesse detto quello che sapeva sui soldi di Eliot e le sue ipotesi sulla loro provenienza. White aveva detto che Neumann sembrava proteggere McCormick. Aveva anche lui dei dubbi, dei sospetti? C'era un biglietto attaccato al suo telefono. «Chi è Bridget Lawrence?», chiese senza rivolgersi a nessuno in particolare. Una testa si sollevò dietro a un séparé. «La segretaria di Neumann. Ha
telefonato cinque minuti fa». Aggrottando la fronte e cercando di immaginare cosa volesse la segretaria di Neumann, Alex prese l'elenco telefonico e fece il numero dell'interno. Una voce brillante ed efficiente le disse che il signor Neumann desiderava vederla nel suo ufficio. «Posso chiedere di cosa si tratta?». «Temo di non saperlo». «Ah... d'accordo». Alex guardò la propria agenda da tavolo. «Potrei venire dopo pranzo», disse. «Credo che lui intendesse subito», disse la voce. «In questo caso arrivo subito», disse Alex. Mentre scendeva in ascensore, si chiese di cosa poteva trattarsi. Per un breve momento, camminando sul tappeto più spesso e nuovo del terzo piano, si chiese se non avesse a che fare con le stampate della Medan, ma si disse che era paranoica. Eppure, arrivando all'ufficio di Neumann, ebbe l'impressione di entrare nella tana del leone. Neumann era seduto di schiena, con la cornetta del telefono attaccata all'orecchio. «Signor Neumann?». L'uomo si voltò e guardò verso di lei, senza dare il minimo segno di riconoscerla. Alex ebbe la bizzarra impressione di essere diventata improvvisamente invisibile. «No, sono ancora qui», disse Neumann al telefono. «Sì, lo capisco, ma non capisco perché tu non possa portare il senatore a un secondo tavolo». Indicò una comoda poltrona di pelle e Alex sedette. Lo ascoltò parlare nel suo strano modo a bocca chiusa - un ventriloquo senza la spalla - mentre gli occhi vagavano sull'arredamento tipico da avvocato: la parete con i certificati in cornice e le foto con le strette di mano a persone importanti, il calamaio ornamentale di bronzo, i faldoni fino al soffitto. Perché mai gli avvocati usavano ancora libri rilegati in pelle quando tutti gli altri erano passati ai computer? Neumann finalmente mise giù il telefono. «Sono felice che abbia trovato un momento», disse muovendo a malapena le labbra. «Ho saputo di Randal. Sta meglio?». Alex si chiese perché pensava che lei lo sapesse. Si strinse nelle spalle, seguendolo con gli occhi mentre si alzava dalla scrivania per chiudere la porta. «Non ne so niente. Mi hanno appena detto che si è sentito male al con-
vegno sulla sanità». Neumann annuì. «Sì. Sembra un... Non lo so. È un gran peccato, con quel progetto sulla sanità in corso, e...». Sedette e unì le mani, facendo combaciare la punta delle dita davanti al volto inespressivo. «Immagino che si chieda perché l'ho chiamata. Be', verrò subito al dunque. La Providence Life è un'azienda antica, qualcuno direbbe all'antica, un'azienda che segue standard di integrità molto rigidi e...». Il telefono suonò e lui lo prese immediatamente, alzando un dito per bloccare Alex - la quale si rese conto di trovarsi seduta sull'orlo della poltrona. Senza alcuna ragione, aveva una pessima sensazione su ciò che stava per accadere, ma non riusciva a capire. «Sì», disse Neumann al telefono. «Digli che sarò lì tra un'ora. Al Capital Grille, d'accordo. No, no... tra cinque minuti ho finito, qui». Riappese. «Mi scusi», disse. Poi aggrottando la fronte, guardò la sua scrivania: «Sì, come stavo dicendo, un'azienda molto tradizionale. Come lei sa, abbiamo standard molto alti per tutti i nostri dipartimenti. Forse quello attuariale ha il più alto di tutti. Normalmente, come è ovvio, Randal White si occuperebbe di questo... di questo spiacevole compito, ma è ammalato, per cui ho accettato di farmi portavoce della posizione del consiglio di amministrazione in questa faccenda». La guardò con durezza. I suoi occhi erano come due buchi affacciati su uno spazio buio. Ad Alex sembrava che la sua voce venisse da molto lontano, mentre guardava le sue labbra pallide che si muovevano sopra i denti chiusi. Ci sentiamo traditi... per non dire altro... Francamente, il suo comportamento nelle ultime settimane... una sorta di cinico opportunismo che... Neumann lottava per finire la frase, scuotendo la testa e guardandola. «Comportamento?», disse Alex con voce incerta e debole. Neumann fece scorrere un dito sulla scrivania e vi trovò della polvere. «Speravo... Mi sembra incredibile che lei voglia dichiararsi innocente in questa faccenda». Alex capì improvvisamente il pericolo in cui si trovava. «Quale faccenda, prima... prima di tutto?», disse. «E poi... certo, certo che sono innocente». Neumann sorrise. Quando riprese a parlare, era quasi un sussurro. «Ovviamente, non entrerò nei dettagli, ma basti dire che una cliente ha
sottoposto alla mia attenzione il fatto di aver ricevuto una... una comunicazione piuttosto sgradevole da parte sua». Alex aspettò, ma era chiaro che Neumann aveva detto tutto quello che aveva da dire. «Quale cliente?», disse. Poi, improvvisamente, capì. «La signora Eliot? E di lei che sta parlando?». Le palpebre scesero sugli occhi di Neumann: morbide trappole che si chiudevano sopra alle informazioni. Alex capì che, per lui, aveva appena confermato la propria colpevolezza. «Naturalmente», disse Neumann annuendo, «se lei vuole portare avanti la cosa, è nel suo diritto. Ma è mio dovere avvertirla che ho delle prove, delle prove documentarie fornite dalla compagnia telefonica, che questa telefonata è stata fatta, ed è stata fatta dal suo appartamento». «Telefonata? Ma questo...». Alex cercò di riflettere. Poi capì quello che doveva essere accaduto. Liz aveva telefonato da casa sua il pomeriggio in cui si era fermata lì. Il volto le si infiammò improvvisamente per l'indignazione. «Ma quella telefonata... non l'ho fatta io». Neumann alzò un dito in segno di avvertimento. Ora appariva adirato, non senza controllo, ma decisamente infastidito, in maniera arrogante e avvocatesca. «Cerchi di capirmi bene. Non l'ho chiamata per sapere la sua versione dei fatti. Qualsiasi elemento lei intenda portare come forma di» - sorrise «diciamo di appello, riguarda lei e... il rappresentante che riuscirà a permettersi. Per quanto riguarda la Neumann & Klein, per quanto riguarda la direzione di questa azienda, la faccenda è chiusa». Alex rimase immobile, incapace di parlare o di muoversi. «Ora, credo che sarà d'accordo con me che non è nell'interesse di nessuno che si parli di questa storia, ehm, in città. La Providence Life ha una reputazione, una reputazione di cui io sono molto orgoglioso. Non assumiamo estorsori. Alla luce di ciò, siamo pronti a mantenere il silenzio su questa faccenda, se lei se ne andrà...». Fece una pausa, assumendo l'atteggiamento di un giudice che consideri la severità della propria sentenza. «Entro la fine della giornata di oggi». Si alzò e si toccò il nodo della cravatta. «Oso affermare che Randal White potrebbe perfino essere disposto a scrivere una lettera di referenze», disse con un brutto sorriso. Poi riprese lo sguardo di dura condanna. «Se però lei deciderà di portare questa storia in
un tribunale, non esiteremo a rendere pienamente pubblico il suo... errore. E ciò farebbe una pessima impressione, signorina Tynan. Ma non devo certo spiegarle quanto un curriculum sporco possa danneggiare una giovane attuaria. Il che sarebbe un peccato, perché mi hanno detto che stava lavorando molto bene, qui». Si aggiustò il nodo e sorrise. Era tutto finito, doveva andare a pranzo. Alex poteva considerarsi a terra. QUARTA PARTE Incidenti 28 L'ascensore si fermò con un sobbalzo. Alex non sapeva a che piano si trovava. Non sapeva neanche dove voleva andare. Sapeva solo che stava scendendo, precipitando attraverso il palazzo, dall'ufficio di Neumann alla strada gelida e triste. Era un disastro, una catastrofe. A tre mesi dagli esami di qualificazione, si trovava improvvisamente disoccupata. Era una cosa inspiegabile. Dopo tanti anni di studio, era... impossibile. Pazzesco. Si toccò la fronte con dita tremanti e ripensò alla scena, cercando di capire quello che le era appena successo. Ma non ci riusciva. Riusciva solo a vedere il sorriso di Neumann mentre minacciava di sporcarle il curriculum. Non avrebbe mai trovato un posto in un'altra azienda, perché non avrebbe mai potuto spiegare perché lo cercava. E questo voleva dire che non si sarebbe mai qualificata. Non si sarebbe mai qualificata, non avrebbe mai avuto l'aumento, non sarebbe mai diventata un'attuaria. Niente qualificazione, niente aumento, niente lavoro, niente appartamento. E la Fleet Bank le teneva il fiato sul collo per i 36.000 dollari che non sarebbe mai stata in grado di restituire. Si appoggiò alla parete dell'ascensore, con la testa che le girava. Meno di una settimana fa era stata ospite alla festa del presidente, circondata dal braccio di Mark, sicura, tranquilla, una giovane brillante con un brillante futuro. Come mai le cose erano cambiate tanto rapidamente? Le porte dell'ascensore si aprirono e Alex si trovò a fissare le pareti gialle e sporche e il pavimento di cemento della cantina. Stava per premere un altro pulsante quando comparve Mac, con una pila di scatole di cartone, fischiettando una melodia che Alex riconobbe di Simon & Garfunkel. «Salve, Alex». Sembrava sorpreso e lieto di vederla. Almeno qualcuno
era ancora dalla sua parte. «A cosa devo questo piacere inaspettato?». «Veramente, io non... stavo solo...». Staccò la mano dai pulsanti. Non sapeva quale premere, in ogni caso. Certo non voleva tornare alla sua scrivania. Mel Hartman probabilmente sapeva già del suo licenziamento e stava assicurandosi che lo sapessero anche tutti i colleghi. «Come stai, Mac?». «Siamo arrivati alla R come Mrs. Robinson, se Dio vuole. Ma per il resto, come una giornata di pioggia. E tu? Mi sembri un po' pallida». «Sto bene, credo». Mac la guardò in viso e aggrottò la fronte. «Sicura?». Alex sospirò. Non aveva la forza di mentire. Non aveva la forza di soppesare i pro e i contro. «Mac, mi hanno appena licenziata», disse. «Walter Neumann mi ha licenziata». La cantina era completamente deserta. Il trasferimento dei vecchi documenti cartacei della ProvLife in altra sede era stato bloccato mentre gli ultimi pezzi di amianto venivano strappati dal soffitto e da alcune delle zone più inaccessibili dell'impianto di riscaldamento. La maggior parte dello spazio era chiusa da teli di plastica opaca con segnali di pericolo. In una stanzetta senza finestre piena fino al soffitto di rotoli di carta da fax e scatole di caffè istantaneo, Mac offrì ad Alex un bicchiere di whisky irlandese da una bottiglia che teneva, disse, per le emergenze. Il whisky aiutava, ma Alex faceva ancora fatica a rendersi conto della realtà. Era accaduto tutto così rapidamente. Non aveva avuto il tempo di pensare, neanche di reagire. Le venne in mente di nuovo la faccia da morto di Neumann che le diceva che era finita. Dal modo in cui l'aveva detto, sembrava una cosa definitiva. Una decisione del consiglio di amministrazione. Ma, malgrado il suo stupore, capiva che ciò era improbabile. E Randal non riusciva a credere che avesse avuto un ruolo in tutta questa storia. Era stato a Washington e adesso era ammalato. Come aveva detto Neumann? Ho accettato di farmi portavoce della posizione del consiglio di amministrazione in questa faccenda. Era possibile che la cosa fosse davvero finita davanti al consiglio di amministrazione? Con le dimissioni di Goebert e i problemi di McCormick, avevano cose ben più importanti di cui preoccuparsi, ammettendo che ci fosse stata una riunione. La signora Eliot,
a quanto pareva, era una cliente della Neumann & Klein. Era perfettamente possibile che Neumann stesse prendendo un'iniziativa unilaterale per proteggere i suoi interessi privati. Anche se lei aveva fatto una comunicazione sgradevole alla signora Eliot, era difficile capire perché ciò riguardasse la ProvLife. Doveva parlarne a Randal White. Doveva parlargli prima che la cosa diventasse pubblica e non ci fosse più rimedio. E c'era un'altra persona che Alex doveva vedere: Liz Foster. Liz era... Alex strinse i denti e scosse lentamente la testa. Aveva cercato Liz, l'aveva aiutata, e cosa ne aveva avuto in cambio? Bugie. Ripensando al loro ultimo incontro, ai sospetti e agli inganni di Liz, Alex sentì che la disperazione di trasformava in rabbia. Liz aveva telefonato alla signora Eliot. Lei stava cercando di ottenere i soldi di Michael Eliot. Si spiegavano così tutti i piccoli regali che si era comprata, in anticipo, senza dubbio, del pozzo di quattrini su cui stava per mettere le mani. Alex si chiese che patto aveva proposto alla vedova. Quanto le aveva chiesto? Più della percentuale che spettava tradizionalmente a chi trova un tesoro, Alex ne era sicura. La signora Eliot aveva capito di aver a che fare con l'ex amante del marito. Ma, come molte altre persone dei circoli esclusivi di Providence, pensava che l'amante fosse Alex Tynan. E cosa aveva fatto? Era andata direttamente dal suo avvocato. Ma Liz adesso l'avrebbe aiutata? Più Alex ci pensava e più le sembrava improbabile. Liz non avrebbe confessato. Aveva già gli occhi puntati su una parte dei dieci milioni di dollari. Cosa importava lo stupido lavoro di Alex alla ProvLife in confronto a ciò? Cosa valeva la loro amicizia? E poi, se anche Liz avesse parlato, le avrebbero creduto? Sembrava improbabile. Se Alex voleva uscirne pulita, doveva prendere una strada più diretta. «Ora», disse Mac, sistemandosi su una poltroncina senza un bracciolo, «raccontami tutto». Alex sospirò. «Be'». Ma, invece delle parole, vennero le lacrime e si chinò in avanti nascondendo il viso tra le mani. Mac le batté sulla spalla, disse qualche parola di conforto. Dopo un momento, Alex alzò gli occhi e cercò di sorridere. «La mia vita è... Mi sento come se mi avessero investito con un camion. Credo di aver rotto con il mio ragazzo. Domenica. E adesso... c'è appena stato questo terribile... Non so come chiamarlo... malinteso con Neumann. Almeno, io credo che sia...». Rinunciò a spigarselo e scosse la testa.
Mac annuì rapidamente, cercando qualcosa di costruttivo da dire. «Avvocati», borbottò alla fine, come se fosse più che sufficiente. Cominciava già a pensare che non ci fosse nessuno in casa, quando la porta si aprì. La signora Eliot sembrava molto diversa dalla donna che aveva visto al funerale. Indossava un paio di pantaloni grigi di cotone e un maglione sformato color prugna. Non aveva traccia di trucco e i capelli erano raccolti in una crocchia che lasciava vedere chiaramente dei fili grigi. Appena scorse Alex si irrigidì e afferrò con forza la maniglia. L'intensità del suo sguardo era come una forza fisica che costrinse Alex ad arretrare. «Signora Eliot? Mi dispiace molto di... disturbarla in questo modo, ma non avevo il suo numero di telefono e... Mi chiamo Alexandra Tynan. Sono...». «Lo so chi è». Alex ficcò le mani ancora più a fondo nelle tasche del cappotto. «Io... io non credo che lei lo sappia. Vede, c'è stato un terribile equivoco. Può... può concedermi cinque minuti del suo tempo?». La signora Eliot guardò alle spalle di Alex, come se pensasse che poteva non essere sola. «Il mio avvocato mi ha consigliato di evitare ogni ulteriore contatto con lei, signorina Tynan», rispose. «E questo è quello che intendo fare. Mi dispiace». Fece per chiudere la porta. «La prego!». Alex fece un passo avanti. «Non ci siamo mai parlate prima di adesso. È per questo che sono qui. Non sono quella che crede. Non sono quello che crede Walter Neumann». La signora Eliot esitò. «Lei ha parlato con Walter Neumann?». Alex annuì lentamente. «Questa mattina. Mi ha accusato di tentata estorsione e... e adesso sono improvvisamente senza lavoro. Tutto perché sono stata scambiata per un'altra persona». La signora Eliot guardò Alex dall'alto in basso, come se cercasse di valutare la verità delle sue parole. «Scambiata per chi?». Alex si morse le labbra. Cosa sapeva esattamente la signora Eliot? Quanta parte della verità sul suo defunto marito era disposta ad accettare? «Per la donna... Per l'amante di suo marito».
La signora Eliot sospirò e si irrigidì come se sentisse freddo all'improvviso. Per un attimo, Alex pensò che le avrebbe sbattuto la porta in faccia. Ma poi le sue spalle si rilassarono. «Forse è meglio che venga dentro», disse. La cucina era un misto di grazia coloniale e comodità moderne. I mobili di legno scuro erano rallegrati da cuscini a scacchi vivaci e da una tovaglia dello stesso tipo. Pentole e attrezzi di rame lucente pendevano da alcuni ganci sulla credenza e brocche di vetro spesso erano allineate sugli scaffali. Era il tipo di cucina che si vedeva sulle riviste, un ambiente perfetto per le «tradizionali» feste di famiglia. Alex riusciva quasi a sentire il profumo del tacchino e del vino caldo il Giorno del Ringraziamento. Ma non sembrava che la signora Eliot avesse cucinato molto, negli ultimi tempi. I cibi precotti erano stati il suo menu principale, a giudicare dai contenitori di plastica sporchi affastellati dietro al doppio lavandino. La donna raccontò ad Alex quello che era successo. Liz aveva telefonato due volte e il patto che aveva proposto era semplice. Avrebbe dato alla signora Eliot le informazioni necessarie per accedere a una quota non meglio precisata dei soldi che suo marito aveva all'estero. Una volta recuperati questi soldi, la signora Eliot ne avrebbe dati la metà a Liz in cambio delle informazioni necessarie per ottenere la quota successiva. La cosa sarebbe continuata finché lei avesse recuperato tutti i soldi, ma solo Liz sapeva quando ciò sarebbe avvenuto. In questo modo si assicurava che la vedova non tenesse per sé tutta l'ultima quota. Era decisa, a quanto pareva, a non lasciare alla signora Eliot neanche un centesimo più della metà. Alex sentì che la sua rabbia per l'inganno di Liz lasciava il posto al disgusto. Che audacia, che avidità! E sembrava venuta fuori dal nulla. Fino al funerale di Michael Eliot, Liz era stata un'altra persona - buona, gentile, generosa. «Non posso scusare il suo comportamento, signora Eliot», disse Alex. «Ma so che Liz rimase molto male quando suo marito morì. Credo che lei...». Non riuscì a proseguire. Guardando la signora Eliot seduta dall'altra parte del tavolo della cucina, Alex si sentì sinceramente addolorata per lei. Per la prima volta, in quella grande casa vuota, sentì il peso della sua solitudine. Liz si sarebbe ripresa dalla morte del suo amante. Avrebbe costruito una nuova vita, su nuove basi. Ma Margaret Eliot avrebbe sempre fatto parte della famiglia che aveva perduto.
«Era molto facile innamorarsi di Michael», disse la signora Eliot. «Era molto affascinante. Era uno dei suoi talenti. Credo che si sia stancato di non usarlo». Si raddrizzò, come uscendo da un sogno. «Mi dispiace per quello che è successo. Non intendevo far licenziare nessuno. Non so perché, esattamente, ma ero così sicura... La vedevo bene con Michael, non so perché. Quando l'ho vista... per la prima volta mi è sembrato possibile che amasse un'altra donna. Probabile, addirittura. L'ho vista e ho pensato: ma certo». Alex si guardò le mani, sorpresa dalla spontaneità della signora Eliot. Forse il silenzio o la riservatezza non le servivano più. Forse, dopo la morte del marito, si era accorta di quanto le erano costati. «Non è stata la sola», disse Alex. «Metà dei dipendenti della ProvLife hanno avuto la stessa idea. A volte penso desiderassero che fosse vero. Volevano qualcosa di cui parlare all'ora di pranzo». «Telefonerò a Walter Neumann oggi pomeriggio». Alex sorrise con sollievo. «Grazie». «Il suo atteggiamento, però, in un certo senso mi sorprende», continuò la signora Eliot. «Sembrava così sicuro che lei non avesse mai avuto niente a che fare con mio marito. Adesso sembra convinto del contrario». «Credo che il mio numero di telefono sia stato sufficiente per convincerlo». La signora Eliot annuì lentamente. Ma aveva ragione, pensò Alex: per essere un avvocato, Neumann sembrava molto frettoloso di giungere a delle conclusioni. Ricordava di averlo visto alla Ocean State Savings Bank. Anche lui l'aveva vista, probabilmente. Forse aveva scoperto quello che era andata a fare lì e aveva deciso che non gli piaceva. In questo caso, le dichiarazioni della signora Eliot non le avrebbero procurato alcun beneficio. «Era anche sicurissimo», disse la signora Eliot, «che questi soldi che Michael doveva avere non esistessero. Disse che era semplicemente un trucco per approfittare della mia fiducia». «No. Liz, qualunque cosa lei ne pensi, non è una delinquente. E sicura che i soldi ci siano e mi ha detto di avere i documenti delle banche che lo dimostrano. Questo non vuol dire che lei abbia diritto ad averne una parte, ma non credo che si stia inventando tutto». «Quindi secondo lei... Insomma, lei dice che dovrei accettare il patto? È per questo che è qui? Per spingermi a...?». Alex alzò una mano. Sapeva che poteva apparire così, come se lei e Liz
fossero d'accordo. «No, assolutamente no. Secondo me, lei non dovrebbe toccare quei soldi». «Ma non c'è altro modo per averli, giusto?». «Io... non lo so. Quello che voglio dirle è che probabilmente sono soldi sporchi. Cioè», sussultò alla propria mancanza di tatto, «cioè, finché non sa come ha fatto suo marito a venirne in possesso, credo che dovrebbe essere molto prudente». La signora Eliot si alzò e si avvicinò al lavandino. Vi buttò il suo caffè e lo guardò sparire. «Signora Eliot...». «D'accordo», disse lei. «L'avevo pensato anch'io. Un mese fa non avrei creduto possibile che Michael fosse coinvolto in qualcosa di brutto. Ma allora ignoravo tante cose di lui. Non riesco più a sorprendermi di niente. A un certo punto della nostra storia si è trasformato in un estraneo». Guardò fuori in cortile. La coltre di nuvole incominciava a rompersi. Per qualche istante, gli alti abeti furono coperti d'oro. Ma all'orizzonte una striscia scura segnava l'avvicinarsi di un altro fronte. «Se i soldi non sono puliti, non voglio averci niente a che fare», disse tranquillamente aprendo il rubinetto. «Mi hanno rovinato il matrimonio e la famiglia. Non rovineranno anche me». «Lo si scoprirà, prima o poi», disse Alex. «Magari saranno suoi, almeno in parte». La signora Eliot sembrava che non l'avesse sentita. «Stavo per uscire a passeggiare», disse chiudendo l'acqua. Camminarono lungo la Angel Street fino al Blackstone Park. I marciapiedi erano vuoti e dietro alle siepi bianche la neve era intatta. Era come se l'East Side fosse in letargo, addormentata fino alla fine dell'inverno. «Può crederci o no», disse la signora Eliot, guardando fuori dal cappello con l'orlo di pelo, «ma la ProvLife un tempo era un buon posto dove lavorare. Mi ricordo che quando Mark ebbe la promozione alla tesoreria, eravamo tutto molto emozionati». «Ha ancora una buona reputazione», disse Alex. «Non è proprio emozionante, ma è un'azienda storica». La signora Eliot scosse la testa. «No, non intendevo questo. Volevo dire che... Avevamo degli amici, lì. Le persone erano amiche. È strano, ma quando l'azienda era in difficoltà -
parlo di sei o sette anni fa, quando ebbero delle gravi perdite - era più bello. Erano tutti uniti, davano questa impressione. Cercavano di salvare qualcosa che meritava di essere salvato. Michael amava davvero il suo lavoro, allora. Credo che fosse convinto che il suo lavoro era importante. Ma quando i profitti hanno ricominciato a salire, è cambiato tutto». Alex aggrottò la fronte. «Ma io ho l'impressione... Ho sempre pensato che le persone, cioè i dirigenti della ProvLife, erano molto amici. Quasi una comunità. Voglio dire, al funerale di suo marito sono venuti tutti, no?». «Sì, sono venuti tutti. Ufficialmente, erano addolorati». «E hanno anche portato loro...». Alex non insistette, temendo di essere stata insensibile. «La bara, lo so», disse la signora Eliot. «Hanno insistito e io non avevo la forza per rifiutare. Sì, si preoccupano delle apparenze, alla ProvLife, certo. Questa è una città piccola. La gente parla. Qualsiasi cosa fuori dall'ordinario attira l'attenzione. Michael lo diceva sempre. Ma, sa, dopo il funerale non ho visto né sentito nessuno, tranne Walter Neumann. E per lavoro. Le sembra una comunità, questa?». Alex scosse la testa. Al funerale era senza dubbio rimasta ingannata dalle apparenze. Ricordò di aver pensato che era un gesto toccante, che Neumann e Brady trasportassero Michael Eliot nel suo ultimo viaggio. Ricordò che questo aveva suscitato in lei sentimenti positivi verso la ProvLife. «Badi, nei primi tempi anche questo era diverso», continuò la signora Eliot. «E una cosa difficile da spiegare, ma dopo che l'azienda si fu ripresa le persone incominciarono a... sorvegliarsi a vicenda. Le persone della ProvLife, voglio dire. Davano questa impressione. E incominciarono a nascere tante piccole gelosie. Non lo sopportavo. Per questo mi sono allontanata, ho chiuso con le cene aziendali e ho cercato di fare la mia vita. Ma non era facile. Qui si conoscono tutti». La signora Kliot guardò Alex e sorrise. «È sicura di volere ancora il suo posto di lavoro?». Alex infilò le mani nelle tasche del cappotto. Stavano attraversando l'Aldrich-Dexter Field. Un gruppo di collegiali in grembiuli color cinnamomo giocavano saltando al di là della recinzione. Alcuni avevano calzettoni e berretti di lana vecchio stile, con i pon pon in cima. Alex provò una punta di invidia. In quel momento avrebbe dato qualsiasi cosa per tornare a scuola. La vita era molto più facile, allora, e molto più promettente. «Non ho scelta», disse. «Sto per qualificarmi. Senza un lavoro, non ce la
farò mai. E poi ho bisogno di soldi». «Mi ha detto che è un'attuaria?». «Sì». «Michael ce l'ha sempre avuta con gli attuari, sa? Forse è per questo che non andava d'accordo con Randal White». «Oh, non... non ho mai...». «Sì. Non voglio dire che si odiassero, ma certo non si amavano». Alex ricordò la storia di Hartman sul litigio in ascensore. Si chiese cos'era successo quando le porte si erano chiuse. «Michael diceva che il lavoro attuariale andava bene per quelli che trovavano la ragioneria troppo emozionante». Alex sorrise e si strinse nelle spalle. «Lo dicono tutti». «E allora perché lo fa, se posso chiederglielo?». Alex rifletté. La sua decisione era così lontana che sembrava difficile ricordare il momento in cui l'aveva presa. Eppure erano passati solo quattro anni. «Non lo so. Ho pensato anche ad altre cose, ma alla fine ho deciso che era meglio qualcosa di... sicuro, credo. Stabile. Qualcosa che sapevo di poter fare. Così ho fatto una prova in una compagnia di assicurazioni sulla vita durante le vacanze estive e subito dopo ho compilato la domanda di assunzione. Forse, dopo tutto, non è stata una scelta così sicura». «E quali erano le altre cose?». «Prego?». «Le altre carriere a cui aveva pensato». «Ah. Beh... c'era un ragazzo al MIT. Un altro matematico». «Un fidanzato?». La signora Eliot la stava guardando. La sua curiosità sembrava sincera. Alex tendeva istintivamente a evadere le domande, ma poiché l'altra donna era stata così aperta, le sembrava scorretto. «Allora, sì. Si chiamava Robert Halliday. Robby. Era molto bravo nel campo dei software e dell'intelligenza artificiale. Voleva mettere in piedi un'azienda insieme ad alcuni amici. Così, di punto in bianco. Volevano anche coinvolgermi. Ma io ho pensato che era troppo rischioso». «E com'è andata?». «L'azienda? E fallita qualche mese fa. Francamente, sono sorpresa che sia durata così tanto. E adesso Bob vuole riprovarci di nuovo. Questa volta con un sistema per le previsioni meteorologiche a medio termine - il software necessario per farle. È un ottimista».
«E non le interessa una cosa del genere?». «Certo, ma... il tipo di modellizzazione che richiede è estremamente complesso. Insomma, i fenomeni naturali... Ci sono talmente tante variabili, talmente tanti elementi da prendere in considerazione come cause ed effetti. Si cerca sempre di trovare degli schemi nel caos. Di prevedere l'imprevedibile. E certamente più emozionante che elaborare una polizza sulla vita, ma dev'essere una maniera terribilmente difficile di guadagnarsi da vivere». La signora Eliot sorrise. «Mi sembra più che interessata. Forse dovrebbe pensarci meglio». Alex scosse la testa. «Questa impresa finirà come la precedente. Lo so». «Davvero? E come fa a saperlo?». «Le probabilità che una nuova azienda di software sopravviva, oggi, sono abbastanza poche. Qualcosa come il venti per cento, l'ultima volta che ho verificato». «Cosa c'entrano le probabilità statistiche? Non capisco. Se è quello che vuole fare davvero...». La signora Eliot si strinse nelle spalle e continuò a camminare per un po'. «Be', cosa ne so io? Sono sicura che ha programmato bene la sua vita». «Credevo di sì», rispose Alex. «Fino ad oggi». «È proprio quello che voglio dire». La signora Eliot sorrise cercando di spiegarsi. «Vede, non sappiamo mai quello che succederà. Lasci che le dica una cosa, Alexandra. Io credo... Adesso capisco che mio marito voleva cambiare vita. Andarsene dalla ProvLife, da Providence. Credo che lo desiderasse da anni. Ma non ha mai detto niente. Non ha mai fatto niente perché secondo me lo credeva inutile. Secondo me pensava di vivere la sua vita secondo un piano prestabilito: lavoro, pensione, premio finale. E il progetto doveva essere rispettato perché... perché le probabilità erano peggiori, al di fuori. Mi capisce?». Alex annuì. «Credo di sì». «Poi un giorno ha scoperto che aveva cinque anni di vita. Gli è stata diagnosticata la corea di Huntington. Sa cos'è?». «Sì, io...». Alex si fermò con gli occhi spalancati. Questa era una cosa che neanche Liz sapeva. «Ebbene, questo non faceva parte del suo maledetto progetto, vero?». Gli occhi della signora Eliot brillarono improvvisamente di pianto. «No, credo di no. Mi... dispiace molto». Ripresero a camminare.
«La gente prende l'abitudine di pensare che la sua vita sia prevedibile, ma poi di punto in bianco succede una cosa del genere e tutti i progetti non hanno più alcun valore. Capisce cosa voglio dire?». Alex annuì. «Certo. Solo che...». «Solo che cosa?». «Beh, in questo caso particolare la malattia è prevedibile. Cioè, la corea di Huntington è una malattia ereditaria. Se uno dei due genitori ce l'ha, c'è il cinquanta per cento di probabilità che il figlio la erediti. Per cui si dovrebbe sapere se è il caso di fare un test genetico». La signora Eliot aggrottò la fronte. «Mi scusi», disse Alex. «Sto facendo la pedante. Non volevo...». «1 genitori di Michael non hanno mai avuto quella malattia. Di questo sono sicura». «Be'... se uno dei due è morto giovane, non è possibile sapere se era portatore del gene o no». La signora Eliot scosse la testa. «Il padre di Michael aveva ottantacinque anni quando è morto, e sua madre... due o tre di meno. Sono vissuti a lungo e in buona salute». Alex non sapeva cosa dire. Conosceva bene la corea di Huntington. Tra le malattie che colpiscono in età avanzata, era stata tra le prime a essere individuata geneticamente. Perciò era diventata un argomento importante nel dibattito sui test genetici all'interno delle compagnie di assicurazione. Ma le regole genetiche non si potevano infrangere: solo le persone che avevano il gene della malattia potevano trasmetterla, e se si aveva quel gene, prima o poi si soccombeva alla malattia. Uno dei genitori di Michael Eliot doveva averla avuta per fòrza. «Mi scusi se glielo chiedo, signora Eliot...». «Margaret, per favore». «Margaret. Chi ha fatto i test a suo marito?». «Non ne sono sicura. L'ho saputo da Harold Tate. Vede», guardò per terra, «Michael non me l'aveva mai detto». Sotto di loro, le cime degli alberi del Blackstone Park si levavano diritte e nere contro il suolo innevato. Alex sentì nuovamente la solitudine della signora Eliot, il suo senso di abbandono. «Non credo di conoscere Harold Tate», disse Alex dopo un momento. «Davvero? Credevo che vi foste incontrati. Era seduto di fianco a lei al funerale. Quell'uomo con la barba». Alex si arrestò sui due piedi.
«Cosa c'è?». La signora Eliot si voltò a metà aspettando che proseguisse. «Harold Tate, ha detto?». «Sì. Era compagno di scuola di Michael. Vive a Wickford, sulla costa». «E lavora per un'azienda che si chiama Medan, giusto?». «Sì. Quindi lo conosce?». «No», disse Alex, «non proprio. Il fatto è...». La sua lesta mulinava, cercando di far quadrare tutte le informazioni: le stampate, l'avvertimento, la diagnosi di Michael Eliot. «Medan. È un laboratorio di diagnosi, vero? Potrebbero fare anche test genetici, no?». La signora Eliot guardava per terra, riflettendo. «Sì. Sì, credo di sì». «E allora, non è possibile che abbiano fatto loro il test a suo marito?». «Forse. Ma» - si strinse nelle spalle - «Harold ha detto chiaramente che non è stato lui. Michael è andato da lui perché Harold sapeva qualcosa della malattia. Devo dire, adesso che mi ci fa pensare, che è una cosa strana». E all'improvviso Alex comprese. Tutto tornava. Le stampate che Michael Eliot teneva nascoste nella valigetta con i risultati del test genetico che aveva fatto alla Medan, il test che diceva che aveva il morbo di Huntington. Cos'altro potevano essere? Ma i risultati erano sbagliali. Michael Eliot non aveva la malattia e Harold Tate se n'era accorto. Ecco perché voleva indietro le stampate: esse dimostravano la sua negligenza, o quella della Medan. Apparentemente, il signor Moon Boots aveva paura che lo trascinassero in tribunale. Un buon avvocato probabilmente poteva sostenere che lo stress provocato dalla cattiva notizia aveva contribuito all'incidente fatale di Michael Eliot. Alex si voltò verso la signora Eliot. «Cosa c'è?», chiese. Alex considerò il viso esausto e malinconico di Margaret Eliot e decise che aveva sofferto abbastanza. Non era giusto dirle qualcosa di cui non era sicura. «No», disse. «Non è niente». 29 Il primo pensiero di Alex fu di andare a trovare Benedict Ellis e scoprire se aveva avuto fortuna con le stampate della Medan. Ma una volta tornata in macchina, mentre guardava la strada attraverso la neve che cadeva delicatamente, le venne in mente che la diagnosi sbagliata di Tate - se di que-
sto si trattava - non aveva niente a che fare con i suoi problemi sul lavoro. La cosa più importante era parlare con Randal White. La signora Eliot avrebbe telefonato a Neumann, e ciò poteva essere di aiuto o meno, ma White era senza dubbio un alleato più potente. Doveva assicurarsi che fosse dalla sua parte. Quella sera gli telefonò col suo portatile e gli chiese se poteva andare a trovarlo. Lui era appena arrivato dall'aeroporto. «Di cosa... di cosa vuoi parlarmi?», le chiese. «È un po' complicato», disse Alex. «Anzi, molto complicato. Ho bisogno di vederti». Un'ora dopo, percorreva la periferia della città, mentre la neve cadeva a grandi fiocchi nel fascio di luce dei suoi fari. Le condizioni atmosferiche erano cattive e sarebbero peggiorate. A un benzinaio a nord di Newport, ferma sotto un neon tremolante, pensò seriamente di tornare indietro. E non era solo la neve. Il freddo spietato delle settimane precedenti sembrava condensarsi dentro di lei sotto forma di una nera disperazione. Aveva un doloroso desiderio di telefonare a Mark. Aveva bisogno di sentire la sua voce - voleva confrontarla con quella che aveva in testa. Guardando i numeri rotanti della pompa di benzina, dovette dirsi - alla lettera, formulando le parole con le labbra screpolate - che tra loro era tutto finito. Finito. Pagò la benzina e tornò sulla strada. Accese la radio per sentire le previsioni del tempo e trovò del jazz triste e aspro. Era come la colonna sonora di quello che succedeva nella sua testa. Si asciugò gli occhi e guardò le luci del traffico che si muovevano verso il suo parabrezza sporco di neve. Poi attraversò il Sakonnet Bridge, aggrappata al volante, cercando di credere in una strada che non si vedeva più. Randal White era l'unico dirigente della ProvLife - certo l'unico membro esecutivo del consiglio di amministrazione - che vivesse fuori Providence. C'era un piccolo appartamento aziendale in centro città di cui a volte si serviva, ma per lo più tornava a casa ogni sera, facendosi tutta la strada fino alla sua casa di famiglia, alla periferia di Newport. Naturalmente, in altre zone del paese un percorso di quaranta chilometri non era considerato lungo. Ma a Rhode Island - e a Providence in particolare - era ai limiti dell'eccentricità. Newport sembrava chiusa per l'inverno. Il traffico si fermava agli incroci come se gli autisti avessero paura o fossero incerti se continuare. Alex vide un'auto abbandonata sotto un mucchio di neve. Poi un'altra. Proseguì adagio, manovrando il riscaldamento inaffidabile della Camry. La gelida aria salata della baia di Narragansett si infilava dentro le portiere, facendo ab-
bassare la temperatura al punto che Alex vedeva il proprio respiro condensarsi. La prima volta lo oltrepassò nettamente. Poi, accortasi dell'errore, tornò indietro nella strada deserta. Una vecchia cassetta per le lettere di metallo che spuntava da un mucchio di neve la spinse a fermarsi. Tirò giù il finestrino e controllò il numero. La casa di White si trovava a un centinaio di metri lungo un sentiero fiancheggiato da bassi muretti di pietra. Socchiudendo gli occhi nella neve, Alex vide un'auto nel vialetto e una luce accesa al piano terra, ma nessun segno di fumo dal camino. Entrò con la macchina nel vialetto e vide la facciata di mattoni segnati dal tempo. Per qualche ragione, si era sempre immaginata che White vivesse in una casa rivestita di legno, gialla e solare come la casa dei Roosevelt, che si trovava poco più giù lungo la strada, in mezzo al Fort Adams State Park. Ma non c'era niente di solare nella casa di White. Lunga e bassa, il retro era rivolto verso est come il fondo di una vecchia chiatta rovesciata. Alex uscì dalla macchina e si diresse inciampando verso la porta d'ingresso, stringendosi addosso il cappotto. Sembrava che il vialetto non fosse stato spazzato da parecchi giorni e le tracce dei pneumatici della Lincoln di White erano quasi cancellate. Si fermò un momento, battendo i piedi gelati e cercando un campanello. Poi bussò alla porta con la mano guantata. Dall'interno non veniva alcun suono. Fece un passo indietro e guardò le finestre del primo piano. Non si mosse niente. Da un pezzo di grondaia rotta pendevano dei ghiaccioli. Bussò di nuovo, battendo con forza, questa volta. Allora la porta si aprì e lei vide il volto ansioso di White. «Alex. Entra». Con improvviso imbarazzo, Alex si accorse di essersi completamente dimenticata che era malato. Era così preoccupata per il proprio lavoro che le era del tutto uscito di mente. White arretrò di un paio di passi dalla soglia. «Attenta al gradino. È tutto ghiacciato». Alex entrò in casa. «Ciao, io...». Si tolse la sciarpa e si sbottonò goffamente il cappotto, a disagio sotto il suo sguardo. «Ho saputo... del convegno. Come stai?». «Oh, bene, bene. Stavo proprio per...». Si portò la mano ai capelli in disordine e rifletté un momento. «Forse puoi aiutarmi ad accendere il caminetto». Attraversarono l'ingresso e andarono in uno spazioso salotto. White ac-
cendeva le luci camminando. Alex vide pareti rivestite con molti libri e paesaggi ad acquerello, una credenza piena di fotografie incorniciate, un'altra con caraffe di cristallo. L'odore del caminetto spento impregnava l'aria fredda e dei grossi ceppi umidi e mezzo consumati erano sistemati sulla grata. «Con questo vento e questa neve... Alla fine ho rinunciato», disse White. «Non so perché, ma il maledetto non tira». Il suono di un fischio acuto da qualche parte della casa lo fece rialzare. Si portò la mano alla fronte. «Ah, già. Eccolo. Stavo preparando del tè. Ne vuoi?». «Certo. Sì, grazie». Quando tornò in salotto, cinque minuti dopo, tenendo in equilibrio tazze e teiera su un vassoio, Alex teneva un foglio del Wall Street Journal nel caminetto e i ceppi incominciavano a sibilare e crepitare. «Che tempo incredibile, eh?». White mise il vassoio su un tavolino. «E peggiorerà ancora. L'hanno detto alla tele». Si misero comodi davanti alle fiamme ravvivate e Alex chiese cos'era successo al convegno. White disse che non aveva avuto nessun indizio che ci fosse qualcosa che non andava. Versò dell'Earl Gray nelle tazze di porcellana, sorridendole attraverso il vapore. «Ho solo... Non so cos'è stato», disse. «Forse tutte le arrabbiature degli ultimi tempi, tutto lo stress - devo averlo pagato. Ero in piedi di fronte alla folla di assicuratori e politici, e un attimo dopo... Ha scelto davvero un brutto momento, e non solo per il convegno». Le diede un'occhiata. «Venerdì è il gran giorno, lo sai. Eleggeremo il nuovo papa». «Sì, l'ho saputo». White sospirò. «Comunque, non credo che sia la fine del mondo». Alex si chiese cosa intendeva dire esattamente. Che la sua assenza non poteva influire sul risultato? O che il risultato non aveva molta importanza? Stava per chiederglielo, ma White parlò per primo. «Alex, volevo dirti... Spero di non averti disturbato ieri sera con quella... telefonata». Alex scosse la testa sorridendo. «Per niente, per niente. È stato un piacere sentirti. Una bella sorpresa». «Mi sono sentito stupido, dopo. Tutte quelle chiacchiere sulla Francia. E quello stupido lavoro che ti ho dato da fare, era...». «Non ho avuto la possibilità di finirlo, ho paura. Vedi...».
Non sapeva come continuare. Un'ondata di autocommiserazione la investì e dovette abbassare gli occhi. «Alex, cos'è successo?». Lei sospirò e decise di affrontare la cosa con decisione. «Stamattina Walter Neumann mi ha licenziata». Alzò gli occhi. Un'espressione di totale incredulità si era dipinta sul volto di White. Depose la sua tazza con un tintinnio, scuotendo lentamente la testa. «Mi ha convocato nel suo ufficio», disse Alex, «e mi ha detto che ero colpevole di una grave mancanza». «Ma... quale mancanza?». Alex gli raccontò tutta la storia, di Liz e di Eliot e dei soldi. Gli raccontò della sua visita a Margaret Eliot, di come era stata comprensiva. «Ha promesso di parlare a Neumann, ma non sono sicura che questo cambi qualcosa». Alex depose la sua tazza. «Neumann mi ha detto che stava esprimendo la posizione del consiglio di amministrazione. Ma questo... non è vero, eh?». White si strinse nelle spalle. «Beh, io faccio parte del consiglio di amministrazione, e questa è la prima volta che ne sento parlare». Alex respirò. Era come pensava. Neumann, per qualche misteriosa ragione, aveva deciso di rischiare grosso. Ma perché? «Sembra che il tuo amico ti abbia lasciato», disse White dopo un momento. «Ho paura di sì». Lui distolse lo sguardo annuendo, poi scosse di nuovo la testa: evidentemente trovava la cosa incredibile. «Naturalmente... me ne occuperò io. Non preoccuparti. Sono sicuro», evitò il suo sguardo, osservando invece il caminetto, «di poter sistemare tutto». Era quello che Alex voleva sentire, ma per qualche ragione non le sembrava rassicurante come aveva sperato. «Così Eliot aveva... una specie di relazione con la sua segretaria», disse White dopo un momento. «Sembra tutto così... banale». «Povera Margaret», disse. «Si meritava davvero di meglio. Non è stata l'unica, sai?». «Come?». «Liz, dico. Ce ne sono state altre. Per alcuni aspetti Eliot era... be', un
brutto tipo. Non ci sono altre parole per un egoismo come il suo». Alex annuì. Si sentiva a disagio nel parlare delle avventure sessuali di Eliot. Non voleva ricordare l'incidente alla festa. «Devo confessare che sono rimasta... come dire?... più stupita nel sentire dei soldi», disse. «Sì», disse White continuando ad annuire. «Ma... evidentemente non può essere vero». «Stava progettando di andare in Europa con Liz», disse Alex con forza. «Aveva dei soldi in Svizzera. Milioni di dollari». «Andare in...». White alzò le spalle e le lasciò ricadere. «Ma come? Da dove venivano quei soldi? Da dove poteva averli presi?». «Non lo so. Ci ho pensato. Ci penso da qualche settimana, anzi. Credo...». Guardò la faccia di White e capì che la sua idea sarebbe suonata assurda. White era abituato a trattare dati di fatto verificabili, non ipotesi pazzesche. «Cosa?», chiese White. Alex cercò un modo per incominciare. «Non hai mai notato niente? A proposito di Neumann o di Brady? O di McCormick? Qualcosa di... non giusto?». White si alzò e si avvicinò al caminetto, restando poi a guardare i ceppi accesi. Un tic nervoso gli contraeva l'angolo della bocca. «Se ho notato niente?». «Sì. Insomina, non so come dirlo, ma... Pensavo di immaginare le cose, ma oggi pomeriggio... Margaret Eliot ha detto...». «Cosa? Cosa ha detto?». «Mi ha detto che dopo la ripresa della ProvLife, le persone dell'azienda, o almeno i dirigenti, hanno incominciato a controllarsi. Improvvisamente, l'atmosfera dell'azienda è cambiata». White la guardò con un sorriso confuso sul volto. «Scusa, Alex, non sono sicuro di seguirti». Alex scosse la testa. «No, sono io. Sto cercando di esprimere qualcosa senza... Ci giro intorno, non riesco ad arrivare al nocciolo della faccenda». «Non è necessario». Tornò a sedersi e la guardò da vicino. «Dimmi semplicemente quello che pensi». Alex aprì le mani davanti a sé, come se dovesse presentare qualcosa una scatola con dentro alla rinfusa tutte le sue impressioni. «Okay. Okay. Seguiamo la logica. Eliot ha - aveva - tutti questi soldi. Su questo non c'è dubbio. Ci sono i resoconti bancali. Prove».
«Li hai visti?». «No, ma...». Guardò White, che annuì, incoraggiandola a proseguire. «Quindi abbiamo questo problema. Abbiamo un multimilionario che continua a venire in ufficio». Si strinse nelle spalle come se ciò che seguiva non avesse bisogno di spiegazione. «O è matto, o...». «Se ne è appropriato indebitamente». «Esatto». Alex sorrise, felice di vedere che White arrivava alle sue stesse conclusioni così rapidamente. «È la spiegazione più semplice. Eliot è arrivato alla ProvLife nell'ottantacinque, e poco dopo l'azienda ha incominciato ad andare meglio. Ha cominciato ad andare meglio, ma qualcosa è cambiato. Almeno secondo Margaret Eliot. Michael cambia. Lei fa risalire l'inizio dei loro problemi alla ripresa dell'azienda. Come se qualcosa avesse avvelenato il loro rapporto». White sussultò e rifletté un momento. «Be', se rubava soldi all'azienda, è ovvio che le cose andassero peggio anziché meglio, anche nel loro matrimonio. Mi dispiace, Alex, ma tutto questo è piuttosto vago». Alex scosse la testa irritata. Aveva ragione, naturalmente: era vago. «D'accordo, restiamo per il momento ai soldi», disse. «Da dove venivano? A meno che tutti i dipendenti dell'azienda fossero coinvolti in un'enorme frode, cosa improbabile, qualcuno a un certo punto avrebbe dovuto notare la mancanza di dieci milioni di dollari, giusto?». White si strinse nelle spalle. «Quindi», proseguì Alex, «forse i soldi non vengono dall'azienda. Forse passano dall'azienda. Denaro sporco. Denaro che cerca di inserirsi nel sistema elettronico delle banche». «Riciclaggio», disse White. Per un momento, Alex pensò che si sarebbe messa a ridere. Si rilassò sulla poltrona. «Sì», disse senza molta convinzione. «Devo dire che è piuttosto...». White si accarezzò la guancia, mordendosi leggermente le labbra. Alex si accorse di averlo perso. «Quindi tu non hai mai...». Incominciava a sentirsi accaldata. «Non hai mai pensato...?». «No, no davvero». White esaminò il disegno della manica del suo maglione. «Walter Neumann e io... be', non siamo mai stati molto amici. Ma
non mi sembra il tipo da fare del riciclaggio. E comunque il denaro potrebbe venire da qualche altra parte. Se questo denaro di cui parli esiste davvero. Da un vecchio zio o dal lotto o da qualcosa del genere». Rise e si versò dell'altro tè. Alex si scoprì a sorridere con lui. «Ma questo malinteso», disse White improvvisamente serio, «mi preoccupa. L'unica spiegazione che riesco a darmi del comportamento di Neumann è che faccia parte di qualche manovra». «Cosa intendi dire?». «L'addio di Goebert ha fatto emergere molte tensioni. Come certamente immagini. La faccenda con te e... e Eliot, questo errore... il modo in cui Walter l'ha affrontato, può essere una conseguenza di ciò. Neumann sa quanto io ti apprezzi. I piani che ho su di te. Non è un segreto che tu, le persone come te, sono importanti per il futuro della ProvLife. Chissà... Potrebbe essere un tentativo di screditare il dipartimento. O me». Osservando White, Alex si chiese se la sua malattia non fosse collegata alla lotta dietro le quinte per il controllo della ProvLilè. Era terribile pensare di essere coinvolta in quella lotta, anche se come semplice pedina. «Non me ne preoccuperei troppo,» disse White. «Affronterò la questione con Neumann personalmente. Non c'è nessuna possibilità che tu perda il tuo posto. La mia stella più splendida! Non se ne parla neanche». Sorrise di nuovo. «Ma se...». Alex esitava. VVhite terminò la sua domanda. «Neumann diventa presidente?». «Scusa. Sono terribilmente egoista», disse Alex arrossendo. «Niente affatto. È perfettamente comprensibile. Sei a un passaggio cruciale della tua carriera. E solo naturale che ti preoccupi del tuo futuro. Per quanto riguarda quella... eventualità - che Neumann vinca, cioè - be', questo non lo mette al di sopra della legge. Il presidente deve prendere in considerazione l'opinione del consiglio di amministrazione». Alex capiva che White si stava deprimendo al pensiero della ProvLife sotto Neumann. Incominciava a sentirsi piuttosto depressa anche lei. «Credi... credi che abbia davvero la possibilità di vincere?», chiese. White rifletté un momento. «Walter è una persona formidabile,» disse, «ma non sono sicuro che abbia le abilità interpersonali necessarie per dirigere un'azienda così grande. Se ottenesse l'incarico, non so per quanto tempo resterei in circolazione. Onestamente, preferisco andarmene che essere mandato via. Naturalmente, non sarebbe una cosa immediata». Si alzò e mosse i ceppi accesi, alzando
una pioggia di scintille. «Non preoccuparti. Resterò finché non diventerai una dipendente fissa della ProvLife. Se è questo che desideri». La invitò a restare per cena e mangiarono nell'immensa cucina riscaldata da una vecchia stufa a cherosene. White aprì una bottiglia di Montalcino e, sorseggiando da un enorme bicchiere da Borgogna, aprendo sportelli e cassetti, parlò della casa e della zona intorno alla baia di Narragansett. I White erano a Newport da più di un secolo e possedevano quella casa da più di tre generazioni. Lui stesso era cresciuto lì e da ragazzo aveva navigato tutta la baia. Alex non aveva mai pensato a White che come a un attuario di mezza età e l'idea di lui giovane che solcava le acque scure della baia la fece sorridere. Guardandolo muoversi tra zuppiere e pentole, mentre sorseggiava quel vino delizioso, si rilassò, malgrado la terribile giornata. White stava preparando del boef alla bourguignon, tagliava cipolle e aglio, lardellava la carne con pezzi di maiale, la cospargeva di farina - tutto con la concentrazione di un vero gourmet. Coprì la carne col vino e aggiunse un mazzetto di erbe fresche legate con un pezzo di spago. La cucina si riempì di un profumo delizioso. Quando finalmente sedettero a tavola, Alex scoprì di essere molto affamata. White la guardò mangiare con un sorriso sul volto pallido. Quando la carne finì, Alex spezzò il pane e lo intinse nella densa salsa al vino. Stava per pulire completamente il piatto quando colse l'espressione sulla faccia di White. Improvvisamente si rese conto che aveva in mano un pezzo di pane enorme. Lo rimise sul tavolo, scuotendo la testa e ridendo. «Oddio, scusa. E solo che non ho mai, mai mangiato una cosa così buona. Dove hai imparato a cucinare così?». «Mia moglie Harriet... un tempo le piaceva cucinare». Guardò al di là della stufa e sorrise. «Le piaceva fare il pane. C'erano sempre dei profumi deliziosi qui». Alex non sapeva molto di Harriet White, solo che era morta all'inizio degli anni Ottanta. Tra le foto incorniciate del salotto ce n'era una di una donna che si rilassava a un bar all'aperto con la faccia rivolta verso il sole. Probabilmente era lei. Sembrava graziosa in maniera semplice, sportiva, e aveva dei capelli castani ondulati legati con un nastro. Alex si chiese perché non avessero figli e come era morta, ma capì che era un argomento molto triste, sul quale non doveva indagare. «Mi piace il cibo, mi è sempre piaciuto», disse W'hite dopo un momento. «È un vero piacere cucinare per qualcun altro».
«Ma come fai a essere così in forma? Mangiando cose come questa, voglio dire. Se mangiassi sempre così, io sarei...». Gonfiò le guance e rise, cercando di mantenere un tono leggero. White sorrise e guardò il proprio corpo magro. «Sono solo fortunato», disse. «Dev'essere una cosa genetica». Come per confermare quanto aveva detto, attirò verso di sé il piatto con la carne e si preparò a servirsi di nuovo. «Ne vuoi ancora un po'?». Alex lo guardò sopra l'orlo del suo bicchiere. «No, grazie. Sto per scoppiare». White si servì in silenzio e mangiò tranquillamente, con gli occhi fissi nel piatto. Solo allora Alex rifletté che anche lui aveva finito la sua prima porzione, anzi doveva averla finita prima di lei. Lo guardò mangiare per un momento. Mangiava deciso, senza dar segno di avere meno appetito. Ricordò quello che Heymann aveva detto sul salmone affumicato alla festa di Goebert. Finalmente White alzò gli occhi e sorrise. «Stavo pensando», disse. «Cosa?». «A quello che hai detto. A come Eliot aveva programmato la fuga. Lo sai di sicuro?». «Liz aveva i biglietti aerei. Sola andata. Per Parigi. Poi Nizza. Stava per andarsene». White scosse la testa. «Ti immagini il casino? La gente avrebbe pensato che l'avevano rapito o ammazzato o altro. O che si fosse messo a seguire qualche culto religioso. Avremmo dovuto avvertire la polizia. La polizia avrebbe avvertito l'Interpol. E se la verità fosse venuta a galla, non credo che Margaret Eliot l'avrebbe accolta tranquillamente. Avrebbe scatenato la Pinkerton contro di lui. Gli avrebbe fatto causa per abbandono del tetto coniugale, infedeltà, Dio sa cosa. Avrebbe voluto sapere di cosa viveva, tanto per cominciare, perché aveva diritto alla metà. Insomma, non credi», guardò Alex per attirare la sua attenzione, «che un uomo senza... legami, senza responsabilità, un uomo che rifiuta addirittura di riconoscere la loro esistenza, non sia nient'altro che un...». Alex trattenne il respiro, aspettando che White emettesse la sua sentenza sull'ex collega, desiderosa di sentire ciò che davvero pensava di Michael Eliot. Ma invece White si arrestò improvvisamente, come se si fosse reso conto che stava per parlar male di un morto.
«Ti spiace se...?». Indicò la porta della cucina. «Porta il tuo bicchiere. Ho... ho qualcosa di davvero speciale che voglio farti assaggiare». White mise i ceppi sul caminetto e rimase in piedi a guardarli mentre prendevano fuoco. Il legno umido sibilava furiosamente sugli alari lucenti, poi sbocciava la fiamma. Fuori, il vento rinforzava. Si sentiva un notturno di Chopin. Alex affondò nei cuscini e sorseggiò il vino più straordinario che avesse mai assaggiato. «Francis Bacon», disse White, «il pittore, non il filosofo, una volta ha fatto uno stufato con una bottiglia di questo». Continuava a guardare la fiamma. «Conosci Bacon?», chiese. E senza aspettare risposta aggiunse: «Era irlandese. Ma anche molto inglese. Quelle terribili facce contorte. Gli studi per la crocifissione. Non lavorava mai ubriaco, o di rado, ma era spesso ubriaco quando non lavorava. Comunque, una volta era molto ubriaco e stava preparando uno stufato. Voleva insaporirlo con un po' di vino rosso. Per cui prese una bottiglia e la versò. Questo stufato venne meravigliosamente. Delizioso. Il miglior stufato che aveva mai fatto. Poi si accorse che la bottiglia che aveva usato era una Chàteau Pétrus del 1958. Questo negli anni Sessanta, quando il Pétrus costava sui duecento dollari alla bottiglia. Bacon disse che era un peccato sprecare il vino in quel modo, ma che lo stufato era venuto davvero buono». Si girò a guardare Alex, con un sorriso in volto. Alex alzò il bicchiere. «A Bacon», disse. White alzò il suo. «Sì. Champagne per i veri amici, e campagna per i falsi». Vide l'espressione interrogativa di Alex. «Era uno dei brindisi favoriti di Bacon». Alex lo guardò bere, rendendosi conto, attraverso i fumi dell'alcol, che anche lui era un po' ubriaco e diverso dal solito, diverso dall'uomo che credeva di conoscere. Sorseggiò il Bordeaux e si abbandonò sui cuscini. Si svegliò al suono sommesso di un pianofòrte. Era Beethoven, adesso. Il fuoco si era quasi spento. Sentiva White che si muoveva in cucina. Si avvicinò al caminetto, su cui erano appoggiate delle coppe d'argento, trofei vinti in gare di yacht a cui aveva partecipato anni prima. In una vecchia cornice di quercia vide la foto di un White molto più giovane al timone di una barca. Sembrava pieno di allegria, aveva i capelli pettinati all'indietro sulla fronte abbronzata e tutti ricci per la salsedine. Di fianco a lui c'era la foto della donna seduta al tavolino. Alex capì dallo sfondo - un vecchio
muro di pietra, persiane verdi - che probabilmente era da qualche parte in Europa. «Harriet», disse White. Era in piedi di fianco a lei, con in mano un bicchiere d'acqua. Alex si voltò e sorrise. «Mi dispiace, Randal. Ho paura che il vino mi abbia dato il colpo di grazia. Non avevo dormito molto bene». Lui la guardò per un momento, poi spostò lo sguardo verso il caminetto. «Neanch'io», disse semplicemente. Prese la cornice di legno. «Settantadue», disse. «Eravamo in vacanza in Francia». «Al tuo convento?». White scosse la testa sorridendo. «No. No. quello è stato dopo. Dopo che Harriet è morta. No, quell'anno abbiamo scalato il Monte Bianco. Una passeggiata, in realtà. Una camminata impegnativa». Alex annuì e gli prese il bicchiere dalle mani. «Posso?». «L'ho portato per te. Pensavo che tutto quel vino poteva averti messo sete». Alex lo guardò attraverso l'orlo del bicchiere. «Devo tornare a casa», disse. White guardò per un momento il fuoco morente. «Non essere sciocca», disse. «C'è un sacco di spazio qui. C'è una camera libera. Non ci vorrà neanche un minuto per fare il letto. E sul retro, sopra la cucina, per cui è sempre calda». Alex andò a sedersi in una poltrona vicino al caminetto. «Cosa c'è?», chiese White. Alex lo guardò. «Eh?». «Non so, mi sembri... Sei ancora preoccupata per Neumann?». «No, io... Randal. Credo che sia giusto dirtelo. Su Michael Eliot. So che quello che pensava di fare era... brutto. Ma, vedi, lui credeva di avere il morbo di Huntington». White la guardò fisso, con la bocca leggermente aperta. Ma Alex voleva che sapesse. Lui ed Eliot non erano mai stati amici, ma il pensiero che l'antipatia di White continuasse, anzi si approfondisse, ora che Eliot era morto, la disturbava. «Credo che per questo pensasse di lasciare Providence». continuò. «Voleva spendere i soldi prima di incominciare... prima che la malattia pren-
desse il sopravvento». White sembrava sconvolto. «Come fai a saperlo?». «C'è un'azienda che si chiama Medan. Giù a Warwick. Fanno dei test diagnostici usando il DNA. Credo che abbiano fatto un test a Michael. Ti ricordi quell'uomo al funerale? L'uomo con la barba? Ti ho chiesto se lo conoscevi e mi hai detto di no». White annuì lentamente. «Sì. Sì, mi ricordo». «Lavora alla Medan. L'ho visto entrare là». «Tu...?». «Sì. Ci sono andata. È...», si guardò le mani contratte e le rilassò, «un po' complicato, ma quel tizio con la barba, Tate, mi ha fermato per strada e mi ha detto di dargli dei documenti che credeva avessi io. Solo che non li avevo io. Li aveva Liz. E li aveva avuti da Michael. Erano delle stampate. Credo che siano i risultati del test. E credo che rivelino un errore o una negligenza da parte della Medan». «Errore?». «Un genitore deve avere la malattia. E così che funziona l'Huntington. Nessuno dei genitori di Eliot ha mostrato sintomi della malattia. Eliot non poteva avere il gene difettoso». «Ma questo... questo è assolutamente...». «Terribile. Lo so. Ma spiega perché Michael voleva scappare. Pensava che sarebbe morto presto. Il test era la sua sentenza di morte. E non solo di morte. Degenerazione dei tessuti nervosi. Perdita di controllo. Demenza finale. In qualche modo, Eliot è entrato in possesso delle analisi della Medan. E Tate le voleva indietro». «Sì», disse White pensieroso, «sì, capisco benissimo che le volesse indietro». Alex si rilassò. Si sentiva meglio dopo aver condiviso con White quello che sapeva. «Quando quest'uomo mi ha fermato per la strada, sembrava più spaventato di me», disse ricordando l'episodio. «È l'unica cosa che non capisco. Come se ci fossero altre persone coinvolte. Persone di cui aveva paura». «Forse persone della Medan», disse White. «Forse». «E hai fatto quello che ti ha chiesto?». «Come fai a...». «Gli hai restituito le stampate?».
«No. Le ho date a un amico scienziato. Lui mi spiegherà esattamente cosa vogliono dire». White la guardò attentamente. «Perché non me ne hai parlato prima?», disse. Alex aggrottò la fronte e poi si strinse nelle spalle. «Be', io... non sapevo cosa fare. Ancora adesso non ho deciso esattamente cosa fare. E comunque, la cosa non ti riguarda. Non volevo disturbarti». White annuì. «Sì... sì, capisco. Ma... E non hai più rivisto questo Tate?». «No. È scomparso». «Ne hai parlato alla polizia?». «No. Credi che dovrei farlo?». White si strinse nelle spalle. «Se questo amico conferma i miei sospetti», disse Alex, «credo che dovrei tornare da Margaret Eliot. Dopo tutto, è lei la parte offesa». «Sì», disse White. «Sì, credo di sì». 30 La mattina seguente gli spazzaneve erano al lavoro sulle strade, ma Alex ci mise comunque due ore per tornare a Providence. Non poteva far altro che aspettare: aspettare che la signora Eliot telefonasse a Walter Neumann, aspettare che Randal White facesse quello che poteva, e poi aspettare la telefonata che l'avrebbe richiamata al lavoro. Si disse che poteva utilizzare il tempo per studiare in vista degli esami. Era un'occasione d'oro per rimettersi in pari, forse addirittura per portarsi avanti, per una volta. Ma mentre svoltava l'angolo della Phillips Street e si immaginava di passare silenziosamente davanti alla porta della signora Connelly, capì che stava ingannando se stessa. Come poteva concentrarsi sugli esami se non sapeva neanche se avrebbe potuto darli? Non poteva continuare come se niente fosse mentre la sua vita era appesa a un filo. Perché questa era la verità. Le probabilità non erano favorevoli. Ci aveva pensato durante il lungo viaggio: a meno che Randal White diventasse presidente, a meno che Neumann venisse fermato, era più che probabile che lei non riottenesse il suo posto di lavoro. Un passo indietro di quel tipo avrebbe gettato su Neumann una luce negativa - l'avrebbe fatto apparire debole, proprio quando era più ansioso che mai di mostrarsi forte. Neumann si era assunto la responsabilità di licenziare un'attuaria senza
consultare il capo del dipartimento. Era una cosa che poteva fare il presidente, nessun altro. Se cedeva su questo punto, avrebbe significato che rinunciava a quel posto. Quanto più Alex ci pensava, tanto più diventava pessimista. Randal White poteva essere dalla sua parte, ma era sufficiente? Con Neumann al potere, i suoi giorni in azienda erano probabilmente contati. Preferisco andarmene che essere mandato via, ecco cosa aveva detto. Alex salì al suo appartamento e si mise a preparare un caffè. Senza togliersi il cappotto, accese la tele e passò oltre pubblicità, talk show e programmi per bambini finché trovò le previsioni del tempo sulla rete locale via cavo. Un uomo con le basette e un gessato blu faceva dei gesti circolari con le braccia, parlando di masse d'aria che occludevano i fronti. Per un momento, Alex si scoprì a pensare a Robert Halliday e alla sua azienda di software: computer che potevano prevedere la natura delle stagioni. Forse se avesse accettato il suo invito, le cose sarebbero andate meglio. Non avrebbe dovuto preoccuparsi degli esami, né della ProvLife, né di Mark. Sarebbe stata lontana e libera - proprio come sperava Michael Eliot. Ma chi credeva di ingannare? Con tutti i debiti e i conti in sospeso, non ne avrebbe mai avuto il coraggio. Come l'attuario della barzelletta, era troppo impegnata a guardarsi le scarpe. Un leggero bussare alla porta la riportò al presente. Seppe subito chi era. «Salve, signora Connelly», disse aprendo la porta. Maeve Connelly le offrì un pallido sorriso giallastro. Si era ormai tolta il grembiule e indossava una tuta rosa pastello. Porse ad Alex una cartolina con una foto di Brown dai colori sbiaditi. «È stata infilata sotto la porta», disse. Alex la girò e lesse la firma. Era di Ben. Quando finalmente glielo passarono all'Arnold Biological Laboratory, sembrava che fosse in mezzo al reparto di una fabbrica. Il rumore dei macchinali superava la sua debole voce e di quando in quando si sentiva il rumore di un vetro che tremava. «È incredibile», disse. «Qualche deficiente si è seduto sulla mia centrifuga». Sembrava che fosse in mezzo a una rissa. «Non è incredibile? Tutte le mie soluzioni vengono fuori come un frullato». «Oh», disse Alex. «Immagino che sia un disastro». «Già, un disastro». Benny emise una risata roca, improvvisamente imbarazzato. Alex se lo immaginò che arrossiva all'altro capo della linea.
«Vedi, quello che voglio è la separazione», spiegò. «Le soluzioni dovrebbero sembrare... un consommé. Quello che ho qui è un minestrone. E senti questo rumore?». «Non sento quasi nient'altro». «Oh. Scusa. Così va meglio?». Il rumore si attenuò. «Meglio, grazie. Ho ricevuto il tuo biglietto». «Sì, sì. Bene. Come stai, a proposito?». Alex non voleva parlarne. «Bene, grazie. E tu?». «Oh, benone. A parte la centrifuga». Si sentì un fruscio di carte. «Eccole qua, le ho trovate. Quelle stampate che mi hai dato. Le ho fatte vedere a Beth Klein, l'oncologa di Harvard...». Alex ricordava vagamente una giovane donna piccola, con la voce bassa e un sacco di capelli spettinati. «Credo di sì». «Comunque, ha capito subito cosa sono. Come ti dicevo, è il suo campo». Lo guardo di Alex vagava sullo schermo della TV. Le previsioni del tempo erano finite e adesso c'erano le notizie delle dodici. Si vedevano dei poliziotti che tiravano fuori degli automobilisti da mucchi di neve e una vecchia signora che veniva portata via da una località isolata in elicottero. Immagini del genere venivano trasmesse da quasi due settimane. «Ha detto che erano piuttosto interessanti», diceva Benny. «Voleva sapere dove le avevi prese». Alex distolse lo sguardo dalla TV. Qualcosa nella voce di Benny le disse che desiderava davvero saperlo. «Dove le ho prese? Da un amico. È una storia lunga». «A-ha?». Ci fu una pausa. Sembrava che Benny volesse farla continuare, ma Alex non era sicura di poterlo fare. Secondo Harold Tate le stampate erano state rubate, dopo tutto. «Non ne so molto, in realtà», disse. «C'è un'azienda di diagnosi cliniche a Warwick. Credo che vengano da lì. Cosa c'è di tanto interessante, comunque? È una specie di test genetico, giusto?». «Giusto», disse Benny. «Sono parecchi test. Beth ha detto che si tratta di un grosso lavoro». «Non sono sicura di aver capito. Cosa dicono i test?». «Be'», Benny si schiarì la gola, «un sacco di cose. Dipende da quello che
si cerca». Alex represse un sospiro. Aveva dimenticato quanto sapeva essere pedante Benny quando si trovava a parlare di scienza a una laica come lei. Sapeva essere davvero irritante. «Okay. Sarò precisa. Supponi di verificare i geni dei test per sapere se si ammalerà del morbo di Huntington o no. Cosa dicono i test in questo caso?». «Oh, questo è facile. I test dicono che va tutto bene». Alex aggrottò la fronte. «Come tutto bene?». «Be', tutte le persone a cui è stato fatto il test. Qui ci sono dieci test, di dieci individui diversi. Test automatici probabilmente. Altrimenti perché ci sarebbe bisogno di un computer per avere i risultati?». «Aspetta un minuto, aspetta un minuto, Benny». Alex si mise una mano nei capelli. «Stai dicendo che queste persone, chiunque siano, sicuramente non hanno la corea di Huntington? Nessuna di loro?». «Proprio così. Ti ricordi le sigle all'inizio di ciascuna colonna? HPC1, MCP1B eccetera?». «Si». «Bene, una di loro si riferisce al gene dell'Huntington: HTCH4. E tutte queste persone risultano negative. I numeri che ci sono sotto sono lumen una misura di luce. Quando il numero è più alto, significa che il test di fluorescenza ha dato risultato positivo. E i numeri di lato indicano i diversi cromosomi in cui si trovano i geni della malattia». Lentamente, Alex sedette. Questo non era affatto ciò che si aspettava. Non confermava nessuna delle sue ipotesi. Perché Michael Eliot aveva rubato un fascio di test genetici appartenenti ad altre persone, test che erano tutti negativi? Che valore potevano avere? «Comunque», continuò Benny, «quello che Beth trovava interessante sono alcune di queste sigle. Come MCP1B. Sai cos'è?». «Scusa, Benny, cosa stavi...? Vuoi dire che questi test riguardano più di una malattia?». «Certo. Più geni implicati in malattie diverse. Nove, per l'esattezza. Ci sono i geni per il cancro alla prostata, il cancro al seno e alle ovaie, la fibrosi cistica, la corea di Huntington... Tutti i soliti sospetti». Lo sportellino per il gatto si aprì di scatto e Oscar apparve con la pelliccia lucida per la neve appena sciolta. Alex lo guardò zampettare silenzioso sul pavimento e saltare sul divano. «Gesù. Non ne avevo idea. Pensavo... Ma questi test, sono tutti negativi,
giusto?». «Nossignora». «No?». «Per questo Beth era incuriosita. Un risultato è evidenziato in rosso. Te lo ricordi?». «Sì, sì, certo. Pensavo che fosse l'Huntington». «No». Dall'altra parte della linea Alex sentì una porta che si chiudeva. Benny accostò la bocca alla cornetta. «È un risultato positivo per la presenza del gene MCP1B. MCP1 sta per macrophage chemoattractant protein uno. Sai che cosa vuol dire la B?». «No». «Bad. Maligno. È un caso di polimorfismo: un gene buono diventato cattivo. La gente come Beth lo cerca da anni, ufficialmente almeno. Tutti sospettano che il gene esista da qualche parte nel genoma umano, ma nessuno l'ha ancora trovato. Almeno, questo è quello che crediamo. Ma a me sembra che questi tizi di Warwick l'abbiano finalmente individuato, chiunque siano». Improvvisamente Alex capì perché Benny era così ansioso di parlare con lei. Non per quello che aveva da dirle, ma per quello che lei poteva dirgli. Gli aveva dato le prove di un'importante scoperta medica di cui nessuno era ancora al corrente. «Benny, questo gene cattivo. Che cosa fa esattamente? Quali malattie provoca?». «Be', se la teoria è esatta, fa sì che i macrofagi, le cellule spazzine che fanno parte del sistema immunitaiio, danneggino importanti vasi sanguigni. Naturalmente, finché non identifichiamo il gene responsabile, non possiamo sapere con precisione quanto renda le persone più vulnerabili». «Vulnerabili a cosa?». «Oh, be', ateroma, trombosi, infarto miocardico. Il tuo killer numero uno». «Numero uno? Vuoi dire attacco cardiaco?». «In linguaggio comune, sì». Alex sentì la tensione che le correva nella spina dorsale. L'anomalia in cui si era imbattuta nel computer della Central Records, l'anomalia che era improvvisamente svanita, riguardava persone morte per attacco cardiaco. Correlazioni che non funzionavano. Dati che sembravano artificiali, come se qualcuno li avesse inseriti per coprire un buco. Era una semplice coincidenza? Per forza, a meno che la Medan e la ProvLife fossero collegate.
Naturalmente, in un certo senso lo erano: attraverso Michael Eliot e Harold Tate. Ma questi erano solo due vecchi compagni di scuola che avevano condiviso un segreto. «Comunque», disse Benny, «credo che il signor AP1005052 dovrebbe fare un check up e controllare il colesterolo. Se questo gene è terribile come pensa qualcuno, può scatenarsi in qualsiasi momento». «Scusa, Benny. Il signor chi?». «Il signor o la signora che ha quel numero. Ogni pagina ha un numero qui in alto, un numero di riferimento. Immagino che si riferisca alla persona testata. Una sorta di identificazione. Però non so che cosa voglia dire AP». «AP», ripeté Alex. «Sì. Persona Ansiosa? Partecipante Acquiescente? Paziente Affetto? Forse...». Improvvisamente le venne in mente. «Applicant. Richiedente. Vuol dire richiedente». «Sicura?». Alex scosse la testa. Perché non se ne era ricordata prima? Aveva visto sigle del genere alla PrimeNumber, a centinaia: erano i numeri di polizza. Ogni modulo che veniva inviato ai potenziali clienti ne aveva uno. E ogni numero aveva il prefisso temporaneo AP, per distinguerlo dalle polizze già in corso. «E cosa richiedono?», chiese Benny. «Assicurazioni sulla vita. Queste devono essere... Credo che siano persone che vogliono farsi una grossa assicurazione sulla vita. Coperture di parecchi milioni di dollari, penso. Non si prevedono esami medici per le polizze normali, ma per quelle alte sono di routine. Credo che i test genetici possano farne parte, anche se alla ProvLife non li abbiamo mai fatti. Almeno finora». «Be'», disse Benny. «Forse è solo un'ipotesi. Una sorta di proposta. Forse questi non sono test reali. Può darsi che queste persone non esistano davvero». «Può darsi. Ma...». Nella testa di Alex si stava formando un'idea. Se scopriva se i richiedenti esistevano davvero e chi erano, forse avrebbe capito perché Michael Eliot si era preso il disturbo di rubare i risultati dei loro test. Era una cosa difficile, però. «Benny, puoi darmi quei numeri AP? È solo una possibilità, ma vorrei
controllare una cosa». «Sì, certo». Lesse i dieci numeri, mentre Alex li segnava su un taccuino che teneva di fianco al telefono. «Grazie di tutto, Benny», disse quando ebbero finito. «Se scopro qualcosa, te lo farò sapere, okay?». «Te ne sarei grato. Se si scopre che quel gene esiste davvero, dovremmo esserne informati». Alex riagganciò e rimase per un momento a fissare la TV. La PrimeNumber passava tutti i suoi dati sul computer della Central Records. Il computer conteneva i file completi su tutti i clienti passati e presenti: dati personali, eventuali prestiti richiesti, informazioni sui risarcimenti e sui pagamenti e non sempre, ma quando la cifra superava il mezzo milione di dollari, dati medici. I file non esistevano da nessun'altra parte. Ma erano attentamente sorvegliati, anche più di quanto richiedevano le leggi sulla privacy. Solo i dirigenti e i loro superiori avevano libero accesso, le chiavi del regno. La domanda era: era possibile impadronirsi di quelle chiavi? Alex prese il telecomando e stava per spegnere la TV quando qualcosa sullo schermo attirò la sua attenzione. Una giornalista con la giaccavento bianca parlava nella telecamera. Nella strada alle sue spalle c'erano dei camion dei pompieri, un'ambulanza con le luci rosse che giravano, case squadrate come cjuelle di Brighton Street. «Sappiamo di sicuro che un bambino di tre anni è stato portato al reparto di terapia intensiva», diceva la giornalista in tono particolarmente serio, «e vi sono voci non ancora confermate sul ritrovamento di un corpo di donna». La telecamera riprese la strada, mostrando un'altra ambulanza che si faceva largo tra la piccola folla, poi zoomò sulle rovine fumanti di una casa. La facciata rosa e parte del tetto erano intatte, attaccate a uno scheletro annerito di piloni e solette. Attraverso le finestre esplose dei piani superiori si vedeva il cielo, e attraverso un'altra, al primo piano, i resti anneriti di un animale a rotelle per bambini. Alex ne era sicura: era la casa di Liz Foster. 31 «No, lo so», disse Ralph McCormick annuendo vigorosamente. «Sono arrivato un'ora fa. Devono esserci venti messaggi sulla segreteria. Non vo-
levo...». All'altro capo della linea, Newton Brady si lanciò in una lunga tirata sui disagi che l'azienda aveva affrontato per mandarlo alla Mann Clinic e sul fatto che avrebbe dovuto restarci almeno dieci giorni o una settimana. Per forza erano preoccupati. McCormick si massaggiò gli occhi chiusi. «Lo capisco, ma, Newt, il programma che hanno là, la cura, lo rende inutile. Non potevo restare più a lungo. Ti dico che mi sento benissimo». Ci fu una lunga pausa, poi Newt disse qualche cauta parola sulla natura della sua dipendenza. McCormick sorrise, continuando a massaggiarsi gli occhi. Evidentemente pensavano che avesse abbandonato la cura per andare a farsi una pista. Dopo tutto, era un tossicodipendente: inaffidabile per definizione. «No, non è questo il problema», disse dopo un momento. «Non è come... insomma, come prima. Sai com'è andata l'ultima volta. C'era sempre il Demerol e alla fine... Ma questa roba è diversa. Newt, pone davvero fine alla dipendenza chimica». Così almeno gli avevano detto i medici, e lui ci aveva creduto. A Newt, però, sembrava un po' troppo bello per essere vero. Voleva che gli spiegasse esattamente di cosa stava parlando. «Ibogaina», disse McCormick. «Viene estratta da una radice. Una pianta che hanno trovato in Africa occidentale». McCormick si guardò in giro nel salotto mente Newt si lanciava in un nuovo monologo. Era rimasto via solo quattro giorni, ma erano accadute tante di quelle cose che sembravano molti più. Si sentì irritato per il fatto che i vecchi giornali erano ancora sul tavolino, che la casa non rifletteva la sua nuova condizione interiore. «Lo so», disse rivolgendosi di nuovo a Newton, «ma ti dico che non c'era ragione di fermarsi più a lungo. Ho fatto questo... Santo cielo, non so come descriverlo. L'altro ieri». Rise e poi si controllò. Non voleva apparire troppo euforico, ma il senso di sollievo e di benessere lo faceva sentire leggero. Finalmente Newt sembrò rilassarsi. Volle sapere se McCormick aveva tutto quello di cui aveva bisogno. «Sì, c'è della roba nel freezer», rispose McCormick. «Sto morendo di fame, per la verità. Avevo intenzione di cucinare qualcosa». Newt disse a McCormick che non lo aspettavano in ufficio prima della settimana successiva, per cui poteva prendersi un po' di vacanza. Poi lo salutò.
Per un momento, McCormick ascoltò il silenzio della casa. Era un aspetto del suo nuovo io: il silenzio e il senso del tempo che scorreva lentamente gli davano piacere. Era come se fosse sceso dal trapezio e potesse restare seduto a guardare lo spettacolo. Sorrise ai propri pensieri. La segreteria pulsava rapidamente, piena di messaggi. C'erano telefonate da parte di Neumann, Brady, White. McCormick si chiese come avevano fatto a sapere che aveva lasciato la clinica prima del previsto. Probabilmente una delle infermiere aveva l'ordine di avvertire. L'avevano seguito fino all'aeroporto di Newark, ne era quasi certo. Nessuno si fidava di lui in azienda. Temevano che facesse qualche pazzia. O forse pensavano che avrebbe tentato di scappare. Mangiò dei cannelloni in piedi sotto il neon della cucina, la salsa di pomodoro era saporita e densa. Erano buoni, ma non ce n'erano abbastanza. Aveva bisogno di pane. Tirò fuori un grosso vasetto di burro di arachidi e ruppe il sigillo. Stava scongelando una ottima baguette e guardava fuori nel buio del giardino, ripensando agli ultimi giorni, quando bussarono alla porta. Attraversò l'ingresso. Attraverso il vetro gelato apparve una faccia. «Gesù Cristo». «No, suo fratello Jerry». Per un attimo, McCormick non lo riconobbe. Poi capì chi era. «Don». La voce di Grant gli giunse ovattata attraverso la porta. «Aprimi, Ralph». «Cosa...?». «Il campanello non funziona. Dai, Ralph, sto gelando qua fuori». McCormick girò la chiave e aprì. Grant indossava una giacca pesantemente imbottita e un berretto da cacciatore ficcato fin sugli occhi. Sembrava molto infelice. «Cosa c'è?». «Non hai sentito i messaggi?». «Sì, io...». «Dovevi chiamare Neumann». «Stavo per farlo. Qual è il problema?». Grant andò in salotto e chiuse le tende. Poi si voltò per affrontare McCormick, togliendosi il berretto. «È un po' preoccupato per te. Non si aspettava di vederti tornare così presto».
McCormick sorrise. «Oh... certo. Ho appena parlato con Brady. E tutto okay». Grant storse la bocca. «Cosa intendi dire con questo?». «Solo che...». McCormick avanzò alzando le mani. «Ho fatto un'esperienza incredibile laggiù». Grant si lasciò cadere su una poltrona. «Bene», disse. «Molto bene. Le esperienze incredibili sono sempre una cosa positiva». «No, seriamente, Donald. Sto parlando seriamente». Grant annuì. Non aveva ancora sorriso. McCormick sentiva che le vibrazioni positive svanivano solo a guardarlo. Andò in cucina, dove la sua baguette era ancora nel forno a microonde. Preparò un caffè. Quando tornò in salotto, Grant si era tolto la giacca. McCormick gli offrì il caffè. «Hai parlato a Newton di questo?», disse Grant. McCormick sorrise. «Be', un po'. Non... Nessuno mi crede». «Be', non puoi dargli torto», disse Grant guardandosi in giro. «Comunque...». Stava perdendo il filo, evidentemente distratto. «Cose successo? Mi stavi dicendo qualcosa della cura?». «Mi hanno dato questa medicina. Il terzo giorno mi hanno dato una dose da tre milligrammi. E stato incredibile. Ho capito delle cose, Don. Sulla mia vita». Grant unì le dita e poi strinse insieme le grosse mani. Sembrava molto teso. «Non è insolito, quanto pare», continuò McCormick. «È uno degli effetti della medicina. Ibogaina. Innanzitutto...». Si mise una mano tra i capelli sottili, ricordando. «Innanzitutto mi sono sentito molto calmo e rilassato. Poi all'improvviso ho incominciato a vedere delle immagini. Era come essere al cinema. Piccole, poi grandi. Immagini incredibilmente precise. Cose del mio passalo. Cose di pochi giorni fa. Pubblicità. Ho visto dell'erba in una grande pianura. Gol vento che soffiava e ci passava sopra. Ho visto un ragazzino con delle pietre lisce in mano». Grant si strinse nelle spalle, con un'espressione disgustata. «Insomma sei partito. Potevi farlo restando qui. L'azienda avrebbe risparmiato il biglietto aereo». «No, no». McCormick scosse la testa, passeggiando avanti e indietro. «Non è andata così. Dopo circa undici ore, le immagini sono cessate. Lo schermo è rimpicciolito e poi è scomparso. Ne sono uscito e volevo solo
mangiare. Avevo fame. Poi sono rimasto sveglio tutta la notte. Durante le notte ho capito alcune cose. Ho capito alcuni errori che ho commesso nella vita». Grant annuì, con le mani ancora strette intorno al caffè. «Ieri sono rimasto insonnolito tutto il giorno», disse McCormick. «Rilassato e felice. Don, non mi ero mai sentito così». Grant si alzò. «Benissimo». Andò alla finestra e guardò fuori scostando la tenda. «E cosa succederà quando l'effetto sarà finito?», chiese. Si girò e guardò McCormick con occhi duri. «Non finirà. I dottori hanno detto che non finirà. La ibogaina ti cambia dentro. Ti rimette in moto la testa». Grant annuì come se ne avesse abbastanza. «Suvvia, Ralph. Sai di non poter prendere in giro uno più bravo di te». McCormick arretrò leggermente, scuotendo la testa. «Non sto scherzando, Donald. È la verità. Ti dico che per me tutto è cambiato». Grant annuì, studiando McCormick con una lunga occhiata. Sedette sul divano e buttò per terra tutto quello che c'era sul tavolino, facendo emergere il ripiano di vetro sporco. Poi tirò fuori una bustina di cellophane piena di polvere bianca. McCormick sussultò. «Donald... Gesù... Gesù Cristo... Cosa fai?». Grant parve sorpreso. «Cosa... non lo sapevi? Ma dai, Ralph, credi di essere l'unico a cui piace divertirsi un po'?». «No, ma...». McCormick guardò Grant disporre la cocaina a formare un mucchietto, poi preparare le piste usando una carta di credito. Tirò fuori una pipetta d'argento dalla tasca della camicia di flanella e aspirò una grossa pista. Si appoggiò allo schienale, battendosi leggermente sul naso. «Oh, sì». Scuoteva la testa sorridendo. «Ralph, se sapessi che giornata ho avuto, capiresti esattamente come mi fa sentire bene». McCormick lo guardò, incapace di muoversi o di parlare. Grant gli puntò contro un dito. «Ralphy, hai quello sguardo. Sissignore. Lo sguardo avido». «Perché sei venuto?», chiese McCormick. Sedette in una poltrona vicino al tavolo. Gli prudeva la punta della lingua. «Perché Walter era preoccupato», disse Grant. «Preoccupato dal tuo ri-
torno a casa così presto. Pensava che andassi in giro... andassi in giro a fare le tue cazzate». McCormick deglutì. «È finita», disse. «Sono pulito adesso». «Pulito?», chiese Grant. Prese la giacca e ne tirò fuori una trentotto a canna corta. Per un momento, i due uomini guardarono entrambi la pistola che teneva in mano. McCormick scosse la testa. «Cosa...?». «Pulito?», ripeté Grant. «Vuoi dire che se guardassi in questo tuo buco non troverei neanche una dose, una piccola bustina?». McCormick guardava la pistola. «Proviamo ad andare in bagno», disse Grant come se l'idea gli fosse appena venuta. Quando McCormick non si mosse, fece un gesto irritato con la pistola. «Muoviti, maledizione». Salirono le scale, McCormick davanti, con le mani in alto come un ostaggio in un film di serie B degli anni cinquanta. Il bagno era in disordine. La luce violenta si rifletté sulle piastrelle bianche, costringendo McCormick a chiudere gli occhi. «Grant, questo... è assurdo», balbettò. Sapeva di essere seriamente nei guai, ma non riusciva a capire davvero quello che stava succedendo. Grant respirò pesantemente col naso. Nel piccolo locale emanava un cattivo odore di bourbon e sigarette. «Apri l'armadietto», disse. «Vediamo se hai qualcosa nascosto lì dentro». McCormick si immobilizzò, guardando la canna della pistola. Grant gli andò improvvisamente addosso, spingendolo e usando il proprio peso per inchiodarlo contro la parete. Qualcosa cadde da un ripiano. Grant premette con forza uno stivale sul piede destro di McCormick e spinse in avanti tutto il suo peso. McCormick pensò che il collo del piede si sarebbe spezzato. Il dolore era insopportabile. Tenendo il volto vicino a quello di McCormick, Grant aprì l'armadietto dei medicinali e tirò fuori la vecchia bottiglietta di aspirine. «Santo cielo, Ralph», disse aprendola con i denti, «hai l'aspetto teso e depresso. Dev'essere l'effetto dell'ibogaina che finisce. Cosa possiamo fare?». McCormick tentò di sfuggirgli, ma Grant lo bloccava contro la parete. Improvvisamente arretrò e si allontanò. Sputò il tappo della bottiglietta nel
lavabo. Il dolore salì lungo la gamba di McCormick. Gli occhi gli si riempirono di lacrime. «E dici di essere pulito», disse Grant. Mostrò la bottiglia. «Se sei così pulito, cos'è questa roba?». McCormick scosse la testa. «Non lo so. Non è...». La bottiglietta era sua, ma era sicuro di averla svuotata. Vide che c'era un sacco di coca. Forse non aveva usato tutta quella che credeva. Grant scosse leggermente la bottiglietta. «Dai, Ralph, fammi vedere come sei pulito». Si premette la pistola contro il petto e spinse la faccia in avanti. «Vedi, Ralph, io sono pulito. Posso prenderne un po' ogni tanto. Come oggi, quando ho avuto una brutta giornata, quando le cose non sono andate come volevo. Allora posso assaggiarne un po'. E nessuno se ne accorge. Tu non lo sapevi neanche. E sai perché? Perché per me fa lo stesso. Perché io non sono un povero tossico fottuto». McCormick sentì le lacrime che incominciavano a scendergli lungo le guance. Grant divenne improvvisamente furioso. Girò la pistola e la premette con forza sulla faccia di McCormick. «Non cominciare a frignare. Non voglio vederti. Se ne vuoi un po', avanti. Ma non cominciare a piangere». L'aria sembrava crepitare di rabbia. Grant gli porgeva la bottiglia. McCormick guardò la propria mano tremante che si allungava e la prendeva. 32 Brighton Street era un altro posto. Camion dei pompieri e ambulanze la occupavano interamente, le luci colorate lampeggiavano e ruotavano come su una giostra. L'aria pulsava per il vibrare delle pompe e dei generatori. Lunghi tubi di grosse dimensioni correvano nella fanghiglia nerastra. Alex lasciò la Camry a un isolato di distanza e tornò indietro di corsa. Una sottile coltre di fumo giallo copriva tutto e si sentiva un odore chimico abbastanza penetrante. La folla dei curiosi si era ridotta a una dozzina circa di figure infreddolite che saltellavano da un piede all'altro all'estremità della via. Non c'era traccia della troupe televisiva o della giornalista con la giaccavento. Il numero sette era una rovina. L'incendio era iniziato sul retro del-
l'edificio e si era sviluppato in avanti e verso l'alto, invadendo i pieni superiori e distruggendo la maggior parte del tetto. L'intera facciata est era crollata. Alex vide una stufa, un frigorifero, una poltrona - col tessuto bruciato e le molle scoperte - al secondo piano, in piena vista. Nel bagno dell'appartamento vicino, un lavabo era sospeso a mezz'aria, sostenuto solo da due tubi di metallo. Dove c'era l'appartamento di Liz non restava niente, solo un mucchio di rovine. «Ehi, stia lontana da lì!». Uno dei pompieri era di fronte a lei, con la faccia tutta sporca e gli occhi iniettati di sangue. Alla voce sembrava più giovane che all'aspetto. «Cosa... cos'è successo? Come ha fatto...?». «Per favore, signora, resti al di là del nastro». Sopra le loro teste, un altro pompiere stava sporgendosi dalla cima di una scala per raggiungere l'ultimo piano. Una sezione del tetto pendeva pericolosamente su di lui, molte tegole erano in equilibrio precario. A pochi metri di distanza c'era un letto con la coperta rosa, ora nera di fuliggine, e un tavolino con sopra quello che sembrava un giocattolo da bambini, che fumava ancora. La tappezzeria pendeva scura dalle pareti interne, come enormi rotoli di pergamena. «Conosco una persona che vive qui», disse Alex al pompiere che cercava di farla arretrare. «Si chiama Liz Foster. Abita... abita al piano terra». Il pompiere esitò. «Vada da quell'uomo laggiù, lo vede?». Indicò al di là della strada un poliziotto che parlava a una coppia anziana, probabilmente dei vicini. «La donna che è rimasta uccisa», disse Alex. «Sa se...». Un grido si levò improvvisamente alle sue spalle. Una nube di cenere e detriti cadde dal tetto, mancando il pompiere all'ultimo piano per poco più di mezzo metro. L'intero edificio sembrava sul punto di crollare. «Per favore, stia lontana, d'accordo?». Alex arretrò all'estremità della via. Stavano ancora cercando dei superstiti all'ultimo piano, o dei cadaveri, forse persone rimaste intrappolate quando era bruciata la scala. Un mucchio di metallo contorto sul retro dell'edificio segnava la fine della scala antincendio. Se l'incendio era iniziato lì, era stata inutile per tutti quelli che abitavano davanti. «Lei abita qui, signora?». Il poliziotto la guardava con impazienza. Aveva baffi spioventi brizzolati e un'espressione scortese.
«No». Alex cercò di restare calma. «Si tratta di una mia amica. Viveva al piano terra. Sto cercando di sapere se sta bene». Il poliziotto si girò verso i vicini. «Bene, signori, grazie per il vostro aiuto. E meglio sgomberare adesso». Tornò a rivolgersi verso Alex. «Come si chiama la sua amica?». «Liz Foster. È al piano terra, sul retro». Il poliziotto diede un'occhiata all'edificio. Alex sapeva quello che pensava: non c'era più nessun piano terra, sul retro. «Lavora, la sua amica?», chiese girando un paio di pagine del suo taccuino. «L'incendio è incominciato verso le dieci». «Al momento no. Alle televisione hanno detto che una donna...». Il poliziotto annuì. «Un'anziana signora all'ultimo piano. Intossicata dal fumo, pare. I vicini hanno detto che si chiamava Samuels». Alex chiuse gli occhi. Non era Liz. «Grazie a Dio». Il poliziotto scriveva, adesso, con il taccuino posato sul tetto della propria auto e la mano guantata che faceva con deliberata lentezza dei segni sulla carta. Alex ebbe l'idea di parlargli di Michael Eliot, dei soldi, dell'avvertimento di Harold Tate: Non sa in quale pericolo si trova. Ma a cosa serviva? Vaghe accuse di scorrettezza non avrebbero avuto molto peso, soprattutto se fatte contro i dirigenti della ProvLife da un'impiegata appena licenziata. In ogni caso, non poteva ancora dire esattamente in cosa consisteva la scorrettezza. «Non abbiamo ancora controllato tutti, temo», disse il poliziotto. «La signorina Foster vive sola?». Alex lo guardò. «Vuol dire che potrebbe essere ancora là dentro?». «Poco probabile. Ma finché non avremo finito di controllare, non possiamo fare dichiarazioni. Sembra che l'incendio sia incominciato sul retro della casa. Allora, viveva sola o no?». «Sì, sola». «Quando l'ha vista l'ultima voltar». Alex cercò di riflettere. «Saranno... quindici giorni fa, credo. Senta, quanto tempo ci vorrà prima che qualcuno entri nel suo appartamento? Potrebbe essere ancora viva». Il poliziotto alzò una mano. «Entreranno appena possibile. Probabilmente la sua amica non era neanche in casa, d'accordo? Si rilassi». Alex annuì. «D'accordo».
«Dunque, ha idea di dove potrebbe essere andata? Pensa che potrebbe aver lasciato la città?». «È possibile. Ha dei parenti, una sorella, nel Maryland». «Okay. Fidanzato?». «Non che io... No. Senta, avete idea di come è successo?». Il poliziotto scosse la testa. «Queste case vecchie. Non ci vuole molto. Tutto quel legno stagionato brucia in un soffio». La radio all'interno della macchina si mise a gracchiare, ma lui non sembrava aver fretta di rispondere. «Uno dei ragazzi dice che hanno trovato una stufa a cherosene attaccata all'impianto elettrico. Io credo che potrebbe essere stata lei». «Una stufa a cherosene?». «Sì. Il salvavita non scatta e i fili di tutta la casa si surriscaldano». Aprì la portiera dell'auto. «E dato lo stato dei fili di questi edifici...». Alex guardò dall'altra parte della strada. Non si era lamentata, Liz, per il fatto che il padrone di casa non faceva niente? Ma una stufa a cherosene attaccata all'impianto elettrico? Non era cosa da liz. «Mi sembra così stupido», disse. «Certo», annuì il poliziotto entrando in macchina, «ma succede in continuazione. Lo chieda alla sua compagnia di assicurazioni». Alex era sulla statale diretta a sud verso Edgewood quando si accorse che il telefonino suonava. Aprì il vano per i guanti e lo tirò fuori, cercando di premere il pulsante di risposta con la mano guantata. «Pronto?». Un camion la superò, alzando un'ondata di fango. La voce all'altro capo fu annientata. «Pronto?». «Alex, sono io». Il segnale era debole, ma Alex sapeva chi era. «Liz?». «Sì». «Gesù, stai bene? Avevo paura... Ho visto quello che è successo a casa tua. Mi hanno detto...». Liz prese a parlare, ma il segnale si interrompeva in continuazione. Alex capiva solo poche parole per volta. Lamica sembrava spaventata. «Liz, non riesco a sentirti bene. Sono sulla statale. Tu dove sei?». «Io... sono fuori città. Credo che volessero uccidermi». «Chi? Liz?».
Il segnale si interruppe di nuovo mentre la strada scendeva in un avvallamento fiancheggiato da depositi e case popolari. La corsia di emergenza era chiusa e il traffico scorreva sulle altre due. «Chi voleva ucciderti?». «Te l'ho detto. Non lo so. Li ho visti spiare la casa ieri sera, dei tizi in macchina». «Va bene, dimmi solo dove sei adesso». Ci fu un click. Poi il segnale riprese. «Sono in un motel. Alla periferia di New London». «New London? Cosa diavolo ci fai lì?». «Non volevo restare a Rhode Island. Volevo cambiare stato. Non so perché, Alex. Ho visto quello che hanno fatto alla casa e ho continuato a guidare». Alex frenò mentre l'auto di fronte a lei rallentava bruscamente. Il parabrezza stava diventando così sporco che era difficile vedere fuori. Accese i tergicristalli. «Ascolta, Liz, l'incendio è considerato accidentale». Alex cercò di apparire calma, come se lo credesse davvero. «Ho parlato con un poliziotto. Qualcuno ha attaccato una stufa dove non doveva e il salvavita non è scattato». «E tu ci credi, che sia stato un incidente?». Alex si portò nella corsia più lenta. Sentì le ruote davanti che slittavano attraversando una striscia di neve bagnata. «Non lo so, ma apparentemente...». «Succede in continuazione? Ma dai, Alex. Quindici giorni fa mi hai detto di stare attenta. Perché Michael era coinvolto con gente cattiva». Ricordando l'episodio, ad Alex tornò in mente subito il suo consiglio e chi gliel'aveva dato. «Quindici giorni fa, Liz, tu mi hai detto che non avevi parlato a Margaret Eliot. Te ne ricordi?». Liz non rispose, oppure le sue parole si persero a causa di un'interferenza. «Liz?». Alex scosse il telefonino. «Maledizione!». Un clacson suonò dietro di lei. Stava oscillando tra due corsie. Mise la freccia e si diresse verso la rampa dell'uscita sedici. «Scusa... scusa», disse Liz. «Non volevo coinvolgerti. Pensavo...». Il suo tono era più di difesa che di scusa, ma probabilmente non sapeva tutti i guai che aveva provocato. «Come hai fatto a scoprirlo?».
«E una storia lunga. Te la racconto quando ci vediamo. Solo non farlo più, d'accordo?». «D'accordo, non lo farò più. Io credo... credo che dovremmo andare alla polizia. Cosa ne dici?». Non sembrava molto sicura. «Ci ho pensato. Ma non credo che ci porterà molto lontano. Non ancora, almeno». «Ma cosa devo fare? Cosa... Dove devo andare? Ho paura, Alex». Liz era sull'orlo delle lacrime. «E se cercano di uccidermi ancora? Non so neanche chi sono». «Resta dove sei», disse Alex. «Non dire a nessun altro dove sei. a meno che tu non sia sicura di poterti fidare. E qualsiasi cosa fai, non telefonare a nessuno della ProvLife, d'accordo?». «E poi? Cosa succederà dopo?». «Se riusciamo a capire meglio la faccenda in cui era coinvolto Michael Eliot, allora possiamo andare dalla polizia. Il fatto è che ho bisogno di prove». «Ma prove di cosa?». «Lascia che me ne occupi io. Ci sto lavorando». «Cosa vuoi fare, Alex? Dimmelo». Alex rallentò mentre la strada scendeva lungo il lato occidentale del Roger Williams Park. La casa di Mark si trovava a un miglio dall'altra parte. Attraverso gli alberi, vedeva la distesa bianca del Cunliff Lake, le sue rive grigie dove il ghiaccio e la neve incominciavano a sciogliersi. «Resta vicina al telefono», disse. 33 Alex accostò a una cinquantina di metri da Blimpies e spense il motore. Erano le dieci e mezza. Fuori, una pioggia leggera stava lentamente diventando nevischio e creava aloni intorno ai vecchi lampioni di ferro che illuminavano la strada. Ben presto la temperatura sarebbe scesa di nuovo sotto zero, e lei non era vestita nella maniera adatta. Era andata a casa nel pomeriggio e si era messa i migliori vestiti da ufficio - si era perfino truccata tutto a vantaggio della guardia che sedeva dietro al tavolo della reception dalle otto in poi. Voleva che pensasse che era appena uscita un momento per mangiare un boccone e tornava a lavorare fino a tardi. La gonna al ginocchio, la giacca in tinta e la camicetta di seta non erano l'abbigliamento ideale per una gelida notte di febbraio.
Un gruppetto di persone uscì dal portone d'ingresso, stringendosi nei cappotti contro il vento che rinforzava. Alex riconobbe un paio di donne del marketing e uno dei dirigenti delle Sottoscrizioni. Credeva di sapere cosa li aveva trattenuti così a lungo. Il progetto dell'azienda di espandersi nel settore delle coperture mediche metteva tutti sotto stress e le luci erano ancora accese all'ottavo piano. Alex aspettò altri venti minuti, ma non comparve nessun altro. Prese il telefonino e fece il numero di Mark alla tesoreria. Il telefono squillò due volte e poi si sentì la voce registrata di Mark: Non posso rispondere alla vostra telefonata in questo momento, ma vi prego di lasciare un messaggio dopo il segnale e vi richiamerò appena possibile. Era un messaggio che aveva sentito molte volte, ma per qualche ragione Mark sembrava diverso. In passato aveva trovato divertente il tono freddo, di chi non ha tempo da perdere, perché era sicura che fosse una finzione. Conosceva il vero Mark Ferulli, quello che la inseguiva per casa indossando solo un grembiule da cucina, quello che amava guardare i cartoni animati a letto al sabato mattina. Ma adesso si chiedeva se quello era proprio il vero Mark Ferulli. Erano ormai passati tre giorni dal loro ultimo disastroso incontro, e non aveva ancora fatto alcun tentativo per contattarla. Com'era possibile, dopo tutto il tempo che avevano passato insieme? Si chiese se non si era illusa per tutto quel tempo, se la verità non era quella che sembrava: che Mark era cambiato, come era cambiato tutto dopo la morte di Michael Eliot. Seduta nel buio, guardando le file di finestre fiocamente illuminate, dovette lottare contro un senso di stupore e di disperazione. Una settimana fa lei faceva parte di quell'ambiente. Il Distretto finanziario. Il palazzo della ProvLife. L'azienda. Il dipartimento. Era tutto a sua disposizione. Malgrado tutto quello che era successo, non poté evitare un'ondata di nostalgia per il passato, per la sicurezza e la tranquillità - per il senso di appartenenza. Ma si rese conto che le certezze si erano dimostrate incerte. Era fuori, adesso, di questo era più sicura che mai. E questo voleva dire correre dei rischi. Il primo rischio era che l'uomo all'ingresso la conoscesse. Donald Grant era tutto solo al terzo piano. La sua squadra di investigatori non era fatta da gente che passava in ufficio più tempo del dovuto, e il resto del dipartimento era costituito da amministrativi, ligi all'orario dalle nove alle cinque. E così doveva funzionare: ciascuno doveva svolgere le sue funzioni accuratamente prestabilite, fare quello che gli veniva detto e
niente di più, soprattutto quando si trattava di grosse polizze. Tutti i risarcimenti superiori ai 500.000 dollari erano passati automaticamente a Dean Mitchell, il direttore responsabile del dipartimento. Se lui diceva di indagare, indagavano. E se diceva di lasciar perdere, lasciavano perdere. Tra gli impiegati normali, lo spirito di iniziativa non era incoraggiato, e questo rendeva molto più facile il lavoro di Grant. Poteva concentrarsi sui dirigenti, anche se ultimamente mantenere la disciplina si era dimostrato un compito piuttosto difficile anche lì. Grant era sicuro che nessuno l'aveva visto lasciare la casa di McCormick. Era scuro e qualsiasi impronta avesse lasciato era stata lavata via dalla pioggia. Ma questa non era una ragione per abbassare la guardia. Avrebbe dormito molto meglio sapendo di avere un alibi sicuro in tasca. E questo comportava un piccolo lavoro di manipolazione sui computer della ProvLife. Una volta finito, il cartellino avrebbe dimostrato che era rimasto tutto il pomeriggio in ufficio. Altri testimoni avrebbero confermato la sua presenza alle riunioni. Il cartellino era un dettaglio, ma potenzialmente decisivo. Nella sua esperienza, le persone avevano ancora un'incredibile fiducia nell'oggettività e nell'affidabilità dei computer e delle informazioni che fornivano. In confronto, la parola di un essere umano era sempre sospetta. L'edificio della ProvLife era dotato di un sistema di sicurezza standard. I dipendenti ricevevano dei cartellini individuali programmati e leggibili agli ultrasuoni - tessere di plastica che si potevano agganciare al vestito o portare in tasca. Dei sensori, all'ingresso principale e all'ingresso di ciascun dipartimento, leggevano i cartellini e mandavano le informazioni a un computer. La porta si apriva solo se il computer riconosceva che il possessore del cartellino aveva il diritto di entrare nella zona in questione al momento in questione. I file di ciascun dipendente potevano essere manipolati, in modo che gli impiegati avessero accesso ad alcuni piani e non ad altri, e in certi giorni e orari e non in altri. Allo stesso modo, il computer registrava le entrate e le uscite del personale dall'ingresso principale. Ma, come tutte le altre zone del sistema informatico della ProvLife, questa registrazione poteva essere modificata, se si sapeva come fare. Alla ProvLife niente era inciso nella pietra, a parte naturalmente le regole. Grant si slacciò il primo bottone della camicia e incominciò a battere sulla tastiera. La testa gli ronzava ancora per la pista che aveva sniffato, ma per il resto si sentiva lucido e concentrato. Il pochi secondi, il suo schermo mostrò le stesse informazioni del terminal alla reception: una lista
di codici, nomi e orari. Il file era ancora attivo perché la giornata durava ancora un'ora. In fondo allo schermo, un cursore giallo lampeggiava in attesa. Doveva fare una copia del file, alterare il dato utilizzando un programma di utilities e poi ricopiarlo. Era un lavoro noioso, ma l'aveva fatto altre volte. Sospirò e si stiracchiò. Si era guadagnato qualche giorno di libertà, un lungo week-end al sole da qualche parte, un po' di tempo con Vera e i bambini. Ma doveva aspettare. L'ultima cosa che poteva permettersi in questo momento era di lasciare la città. La vita continuava normalmente. Ogni giorno era un giorno qualsiasi. Così doveva essere. I dati sullo schermo si mossero mentre un nuovo dato appariva nell'ultima riga. Mancavano tre minuti alle undici e, secondo i sensori, Mark Ferulli era appena entrato nell'edificio dall'ingresso principale. Tutto bene, se non che Mark Ferulli era a New York. Alex si sentiva in colpa per essere entrata in casa di Mark, ma non le era venuto in mente nessun altro modo. E in ogni caso non era una vera infrazione. Aveva passato lì tanto tempo, aveva lasciato tante tracce di sé, che si sentiva quasi autorizzata - a dare un'ultima occhiata. Temeva che dopo quanto era accaduto Mark avesse cambiato le serrature, ma chiaramente non aveva fatto in tempo. Tutto era esattamente come domenica sera. Perfino la spesa giaceva dove lei l'aveva lasciata, sul tavolo della cucina, le cipolline erano ormai gialle e rinsecchite. Dopo il loro litigio, a giudicare dal cartone nella spazzatura, Mark aveva ordinato una pizza per telefono. Alex non rimase a lungo nella casa. Era possibile che qualcuno l'avesse vista, e inoltre le metteva tristezza. Ogni volta che andava via, Mark lasciava il suo cartellino della ProvLife in una piccola tazza messicana vicino al telefono della cucina. La verità è che spesso se lo dimenticava anche quando andava al lavoro e doveva chiedere al personale della reception di lasciarlo entrare manualmente. Alex l'aveva trovato lì, come sperava. Se tutto andava bene, l'avrebbe riportato la mattina dopo. Così Mark non avrebbe mai saputo che si era mosso. Solo il computer che monitorava il sistema d'ingresso in ufficio avrebbe registrato il fatto che veniva usato e nessuno ci avrebbe fatto caso. La guardia era seduta sulla sua sedia, mangiava una barretta di Snickers e leggeva una copia del "National Enquirer". Era più giovane delle altre, con un viso tondo e lucente e una serie di macchie di irritazione intorno al collo. Alzò gli occhi verso Alex mentre lei teneva il cartellino di plastica
contro il sensore e la guardò mentre si dirigeva verso gli ascensori. «Non so se sto finendo tardi o incominciando troppo presto», disse lei sorridendogli ironicamente. «Incredibile, eh?». La guardia sorrise a sua volta, notando la figura magra di Alex e il dolce ondeggiare del suo seno. Voleva rispondere qualcosa, qualcosa di brillante, ma aveva la bocca piena di Snickers. «Bella sfortuna», riuscì a borbottare attraverso le nocciole e il cioccolato. Alex premette uno dei pulsanti di chiamata e rimase per un momento in piedi, oscillando leggermente. La guardia ricordava di avella vista in precedenza. Sapeva che lavorava al settimo piano perché l'aveva vista uscire da lì una volta, ma non ricordava il suo nome. Aspettò che sparisse in uno degli ascensori e poi guardò lo schermo del computer all'angolo del banco. Pareva che fosse Ferulli. Il nome gli sembrò strano: certo quella ragazza non sembrava italiana. Alex sentiva battere il cuore mentre l'ascensore incominciava a salire. I numeri sulla porta sembravano cambiare con lentezza esasperante e più di una volta pensò che la cabina stesse per fermarsi e che sarebbe entrato qualcun altro. Se era qualcuno che la conosceva e che sapeva quello che era successo, sarebbe stata nei guai. Senza dubbio le avrebbero sorriso e non le avrebbero detto niente, ma appena fuori vista avrebbero chiamato la Sicurezza. Quando la cabina finalmente si fermò all'ottavo piano, aveva la fronte bagnata di sudore. Respirò a fondo e guardò sul pianerottolo. In un angolo, delle lampade nascoste illuminavano una brutta statuetta di Atlante col mondo sulle spalle. Era un simbolo che la ProvLife usava negli anni Quaranta e aveva da tempo abbandonato. Alex rimase in ascolto di passi, voci, ma l'unico suono era il debole ronzio dell'impianto di aerazione sul tetto. Uscì sul pavimento di pietra lucidata e andò in punta di piedi verso l'ingresso della tesoreria. Attraverso i pannelli di vetro vide un paio di sedie girevoli, un grosso ficus, un calendario da parete. Una debole luce al neon veniva dall'angolo, ma la maggior parte della stanza era immersa nell'oscurità. Fece passare il cartellino e la serratura si aprì con uno scatto. All'interno c'era un odore familiare di truciolato e plastica calda, mescolato a tracce di profumo stantìo. Le scrivanie erano allineate, come in un piccolo ufficio commerciale, e ciascuna aveva un terminale video, in alcuni casi due. Alcuni video mostravano ancora colonne di dati di mercato:
prezzi, percentuali, tassi, tracce elettroniche di un vasto traffico finanziario tanto opaco quanto inarrestabile. Gli sfondi blu e gialli proiettavano una debole luce sul soffitto. In un angolo, un fax suonava e vibrava, emettendo lentamente una lunga trasmissione. Nell'oscurità, il locale sembrava più grande. La scrivania di Mark era sempre allo stesso posto, ma intorno gli era stato creato un ampio spazio e ai lati aveva due séparé di legno. A quanto pareva, il nuovo capo della tesoreria si stava facendo costruire un ufficio intorno al tavolo - in maniera da poter vedere quello che succedeva sull'intero piano, al contrario del suo predecessore. Alex si chiese se Mark non stesse cercando di darsi importanza, facendo in modo che tutti sapessero che adesso era il direttore e li teneva d'occhio. Oppure semplicemente non voleva il vecchio ufficio di Eliot. Forse le scarpe del morto gli stavano un po' strette. Oltrepassò la porta aperta e sedette. Aveva appena acceso la lampada da tavolo, abbassandola in modo che la luce si trovasse solo a pochi centimetri della superficie della scrivania, quando suonò il telefono. Grant sentì il messaggio registrato e riappese. Se Ferulli era in ufficio, cosa ci faceva? Cosa l'aveva spinto a tornare così precipitosamente da New York? Cos'è che non poteva aspettare fino alla mattina dopo? Sedette per qualche istante fissando il nome sullo schermo. Ferulli. Il direttore nuovo di zecca. Nuovo e non ancora provato. Era in azienda solo da pochi anni. Arrogante, ambizioso, con un po' di puzza sotto al naso, era certo sembrato una scelta migliore di Drew Coghill. Ma chi lo conosceva davvero bene? Brady pensava che ci si potesse fidare di lui, ma ciò che era in gioco era troppo grosso per accontentarsi di questo. E Grant non si fidava di nessuno per principio. Mise a posto la scrivania e prese l'ascensore per scendere al piano terra. Appena la guardia all'ingresso lo vide, mise da parte il "National Enquirer" e si tolse frettolosamente le briciole di cioccolato dai pantaloni. «Buona sera, signor Grant», disse. «Lavora fino a tardi?». Grant mise una mano sul banco della reception. Sotto il suo sguardo azzurro, la guardia provò l'impulso di nascondere il giornale, come se fosse una cosa sporca. «Hai visto entrare il signor Ferulli?». «Ferulli? Ehm...». La guardia guardò lo schermo del computer. «Ah, sì, certo. Due minuti fa. Cioè...».
«Era solo?». La guardia sembrò confusa. «Chi?». Un'espressione di disgusto passò sul volto di Grant. «Di chi cazzo stiamo parlando? Ferulli». «La signora?». «Sto parlando di Mark Ferulli. Trentacinque anni. Italiano. Capo della tesoreria. Vado troppo veloce?» La guardia fissò ancora lo schermo del computer, come se sperasse di riceverne un aiuto. «Io non ho... Questa Ferulli era una donna. Di sicuro». Grant tolse la mano dal banco. «Una donna?». «Sissignore. L'ho vista altre volte, però. Voglio dire, sono sicuro che lavora qui». «Sei sicuro che lavora qui, ma non sai il suo nome?». La guardia si sentì arrossire. «Be', io... Ci saranno duecento persone in questo...». «Dove lavora? In quale dipartimento?». «Ehm... settimo piano. Sì, settimo». «È un'attuaria?». «È possibile. Io...». Grant stava già tornando verso gli ascensori. La guardia si alzò. «C'è qualche problema?». Grant non rispose. «Vuole che venga con lei?». Grant si girò, tenendo aperte le porte dell'ascensore. «No. Resta qui. Se vedi quella donna, fermala. Pensi di farcela?». C'erano zone del computer della Central Records che Alex conosceva come il palmo della propria mano e zone in cui non era mai entrata in vita sua. Il sistema in gran parte rifletteva l'organizzazione dell'azienda, essendo suddiviso in settori corrispondenti ai vari dipartimenti, ma alcuni dati chiave erano centralizzati e tenuti sotto voci diverse. In base alla sua esperienza, Alex sapeva che ciascun dipendente poteva accedere liberamente ai dati della propria sezione, ma per le altre c'erano delle restrizioni. L'azienda difendeva i suoi segreti dalla concorrenza con la stessa gelosia con cui difendeva la privacy dei suoi clienti. L'accesso libero non era consentito se non si aveva il grado necessario - o la password.
I diversi settori erano elencati in ordine alfabetico sulla prima schermata. Il settore Attuariale, quello che Alex conosceva meglio, era il primo. Ma per una volta non erano dati statistici quelli che cercava. Voleva trasformare i numeri in nomi, indirizzi, persone: le persone il cui destino genetico era stato scoperto alla Medan, le persone le cui analisi Eliot si era preso il disturbo di rubare. Se erano davvero persone che avevano chiesto un'assicurazione sulla vita, i loro dati personali dovevano trovarsi nel sistema. Se li trovava, poteva trovare le persone, parlare con loro. Non si sarebbero più nascoste dietro colonne di numeri. Se ci riusciva, era sicura di poter finalmente svelare la verità. Alex tirò fuori il taccuino su cui aveva scritto i numeri di polizza dei richiedenti. Poi fece scorrere il cursore finché apparvero le parole CENTRAL RECORDS e premette Return. Apparve una nuova serie di opzioni: CENTRAL RECORDS DATA 1. Polizze fino al 1990 2. Polizze dal 199 3. Polizze attive 4. Dati statistici 5. Altre opzioni Alex era già arrivata a questo punto in passato. I dati statistici sulle polizze della ProvLife erano il materiale su cui lavorava e in ogni caso erano disponibili a tutti. Ma questa volta scelse la opzione numero 2. Più di due anni alla ProvLife e questa era la prima volta che pensava di studiare un vero cliente! Non le era mai venuto in mente prima, ma era bizzarro il modo in cui il lavoro era parcellizzato. La lista delle opzioni scomparve e fu sostituita da due parole nel centro dello schermo: INSERIRE PASSWORD. Mark aveva apprezzato il suo suggerimento da Hemensway. In onore delle tue origini italiane e di tutti i soldi che guadagnerai. Era sicura che l'avrebbe usata. Ma allora era sicura di un sacco di cose. Respirò a fondo e batté i quattro caratteri L-I-R-A. Il computer sembrò riflettere per qualche istante sulla risposta. Poi apparve un messaggio che non aveva mai visto: ACCESSO NEGATO CHIEDERE AUTORIZZAZIONE
«Maledizione!». La sua voce risuonò forte nell'ufficio vuoto. Alex si voltò verso la porta, temendo che qualcuno l'avesse sentita. Ascoltando, si accorse di un leggero ronzio meccanico - il solito impianto di aerazione, probabilmente, o forse gli ascensori? Tornò di fretta al menu principale. Era possibile che avesse la password giusta, ma che non servisse per entrare nei file delle polizze. Mark era un direttore, ma il suo lavoro alla tesoreria non lo metteva in contatto con i clienti della ProvLife più di quanto facesse il lavoro di Alex. L'unica cosa che gli interessava erano i loro soldi. Forse la politica della ProvLife sui dati informatici era ancor più restrittiva di quanto pensava. In questo caso c'era ancora una cosa che poteva controllare. Dalla tasca interna della giacca tirò fuori il suo libretto degli assegni della Fleet Bank. Sul retro c'erano ancora scritti i numeri. La valigetta di Eliot non conteneva solo i test genetici; conteneva anche una lista di conti correnti bancari dell'agenzia di East Side della Ocean State Savings Bank. Apparentemente, la ProvLife aveva fatto dei pagamenti su quei conti per risarcire dei clienti. Pagamenti normali, le aveva detto Mark, per somme normali. Ma non era possibile. Le somme normali venivano pagate dai risarcimenti, non dalla tesoreria. Inoltre, se fossero state operazioni regolari, perché Michael Eliot voleva portare i dati con sé in Europa? Doveva esserci qualcosa di particolare. Se fosse riuscita a trovare i nomi dei titolari dei conti correnti, forse l'avrebbe scoperto. Dal menu di apertura, Alex selezionò l'ultima opzione: OPERAZIONI TESORERIA. Questa volta le venne chiesta immediatamente la password. Alex batté di nuovo il codice a quattro lettere L-I-R-A. Il cursore si bloccò un secondo e Alex vide apparire una seconda lista. TREASURY OPERATIONS DATA 1. Titoli correnti 2. Titoli storici 3. Situazione di cassa 4. Registro operazioni 5. Pagamenti 6. Previsioni Era dentro. Alex studiò le opzioni, incerta su quale scegliere per prima. Situazione di cassa, Previsioni - tutto appariva talmente normale che era
difficile credere che lì in mezzo si nascondesse qualcosa di illegale. Un mese prima, l'idea le sarebbe sembrata assurda. Come i dati con cui lavorava, era tutto troppo sensato, troppo freddo per nascondere una vera sorpresa. La vita quotidiana di una qualsiasi compagnia di assicurazioni. Ma sapeva che questo non poteva essere tutto. La morte di Michael Eliot le aveva permesso di gettare un'occhiata al di là dei numeri della ProvLife, nella vita delle persone della ProvLife. E una sensazione più forte della ragione le diceva che qualcosa non andava. Si costrinse a restare attenta. Aveva bisogno di documenti su grosse cifre pagate dalla ProvLife. Se c'erano, dovevano essere in Pagamenti. Spostò il cursore sull'opzione n. 5 e premette Enter. Ci vollero alcuni secondi perché il computer caricasse il software necessario, poi apparvero i dati. Finalmente Alex li vedeva: date, somme, codici, numeri di conto corrente, numeri di polizza, e nomi. I pagamenti erano disposti in ordine cronologico inverso. Il primo era un certo E. A. Daniels che, una settimana prima, aveva ricevuto la somma di 600.000 dollari. Ma a giudicare dal codice, la sua banca non era la Ocean State. Poi Alex vide quello che cercava: un'opzione in cima allo schermo che diceva RICERCA. La selezionò e inserì il codice dell'agenzia di East Side in cui si era recata. Immediatamente il cursore evidenziò un pagamento fatto alla fine di novembre a un certo S. D. Bradley. Alex controllò il numero di conto corrente con la lista di Eliot: 75 71252. Cercò ancora e trovò un altro pagamento fatto tre giorni prima, questa volta a un certo P. A. Trybowski. Anche questo numero di conto corrente era sulla lista. Alex incominciò a scrivere i dettagli sul suo taccuino. Era proprio come le aveva detto Mark, solo che... Alex smise di scrivere. I soldi non erano giusti. Il signor (o la signora) Trybowski non aveva ricevuto una somma normale, come aveva detto Mark. Non avevano preso centomila o centocinquantamila dollari, il valore medio di una polizza. Era stato pagato un milione di dollari. Alex usò di nuovo l'opzione ricerca. Un certo J. E. Player aveva ricevuto 1,2 milioni di dollari, M. J. C. Falkner 750.000, A. M. Moruzzi 1 milione e mezzo. Queste erano grosse cifre - non uniche, forse, ma tali che solo il dipartimento tesoreria avrebbe dovuto trattare. Perché Mark le aveva detto altrimenti? Aveva davvero controllato i pagamenti come gli aveva chiesto? Alex si portò la mano alla fronte. Le aveva mentito. Voleva che lasciasse perdere tutto. Credo che possiamo dimenticarci della tua idea del riciclaggio. E quando lei aveva colto l'incoerenza in quello che diceva - il fatto che i pa-
gamenti erano effettuati dalla tesoreria e non dai risarcimenti - si era messo sulla difensiva e si era arrabbiato. Si sentì disgustata. «Figlio di puttana». Voleva che lei avesse fiducia in lui e lo aiutasse, ma lui era pronto ad aver fiducia in lei? No. Almeno non più di quanto Michael Eliot avesse avuto fiducia in sua moglie. Era un'analogia giusta, un quadro di come avrebbe potuto essere il suo futuro. Dai segreti alle bugie, dalle bugie al tradimento. Nel caso di Eliot il percorso aveva richiesto anni; in quello di Mark era già quasi concluso. Riprese la penna. In tutto, i sei conti correnti della Ocean State avevano ricevuto poco più di sei milioni di dollari, tutti nel giro di un solo mese. Ma cosa era successo poi? Se questa era la fonte della ricchezza di Eliot, come aveva fatto a impadronirsene? Era in grado di stabilire che c'era un legame? Ricordò la sera in cui per la prima volta aveva sentito parlare dei dieci milioni di Eliot, la sua incredulità, la sicurezza di Liz: Versamenti, compravendila di titoli. È tutto qui. Alcune di queste operazioni hanno solo poche settimane. Gli estratti erano l'unica prova che Alex non avesse visto personalmente. Afferrò il telefono. Non notò, mentre faceva il numero, che il debole ronzio dell'ascensore si era fermato. Grant avvicinò il viso al vetro, cercando di superare il riflesso della luce del pianerottolo. Gli uffici dall'altra parte erano immersi nella semioscurità, le file di tavoli e di sedie erano vuote. Oltre l'angolo, una lampada era accesa e gettava un'ampia ombra contro il muro. Se c'era qualcuno lì dentro, era molto silenzioso. Improvvisamente si mise a riflettere. Qualcuno aveva preso in prestito il cartellino di Ferulli. E allora? Non era la prima volta. Forse stava diventando un po' paranoico. Era comprensibile, dati gli ultimi avvenimenti. Avrebbe detto al cretino della reception di controllare il palazzo. E poi gli avrebbe detto che era licenziato. Stava per tornare all'ascensore quando l'ombra sul muro si mosse. Sandra Betridge cacciò un urlo quando Grant entrò. Dal modo in cui teneva la mano nella giacca, sembrava che stesse per estrarre una pistola. «Cosa... Cos'è...?». Si fermò e si guardò intorno. Era solo una giovane attuaria che lavorava fino a tardi. Lasciò cadere le braccia. «Sei entrata qui pochi minuti far», chiese. Sandra sussultò. «Come?».
Grant riuscì a controllare la sua rabbia, ma nel suo modo di parlare c'era una precisione aggressiva. «Ti ho chiesto se sei appena entrata da fuori». Sandra non era sicura che fosse suo dovere rispondere. Non sapeva bene chi fosse Grant, anche se sapeva che aveva a che fare con i risarcimenti. D'altro canto, doveva essere più in alto di lei nella gerarchla aziendale. «Sono qui dalle otto e mezza di stamattina», disse, consolandosi con il tono orgoglioso della voce. «Ho degli esami tra poco». Grant rifletté un momento. «Quali altre... signore lavorano su questo piano?». Sandra aggrottò la fronte. Le venne in mente che forse Grant stava cercando in qualche modo di approfittare di lei, una donna sola di notte. Cercò di chiacchierare, per prendere tempo. «Dunque, ci sono... ehm... Janice Aitken, la segretaria di Randal White. Sue Kaufman. E io. E Alex Tynan, naturalmente, ma... Non sono sicura di doverla contare ancora. Sembra che sia stata licenziata per aver fatto qualcosa che non doveva». Liz parlava come se si fosse appena svegliata. Aveva la voce bassa a roca e ci mise un po' per capire con chi stava parlando. «Alex? Dove sei?». «In ufficio». Liz gemette. «Dio, come lavori fino a tardi». Alex non le aveva ancora detto del suo licenziamento e questo non era certo il momento giusto per farlo. «Ascolta, Liz, hai ancora quegli estratti conto bancari?», sussurrò. «Quelli di Michael in Svizzera». Si sentì il fruscio delle coperte. «Sì. Perché?». «Non sono bruciati nell'incendio?». «Li avevo con me. Li porto sempre con me, in realtà». «Bene. Ho bisogno che tu mi dia alcuni dati. Subito». Liz esitava. Improvvisamente non era più assonnata. «Perché? Avevi detto...». «Liz, non posso spiegartelo adesso», sibilò Alex. «Prendili e basta, va bene?». «D'accordo», disse Liz. «Cosa vuoi sapere?». «Ce li hai?».
Si sentì qualcosa che cadeva. Liz bestemmiò. Pochi istanti dopo tornò al telefono. «Sì». «Okay. Ho bisogno di sapere se Michael ha ricevuto dei soldi a novembre dell'anno scorso. Puoi controllare?». «Novembre, novembre». Liz sospirò contro la cornetta. «Lasciami...». «Dai, Liz». «Sì. Sì, li ha ricevuti. Uno, due, tre... Mi sembra che abbia fatto sei versamenti sul conto corrente principale». Sei. Sei conti bancari alla Ocean State Bank, sei pagamenti da parte della ProvLife e sei depositi sul conto corrente estero di Michael Eliot. E tutto nello stesso mese. Almeno i documenti di Eliot incominciavano ad acquistare un senso. «Le cifre, Liz. Date e cifre». «Okay. Il primo è stato il cinque novembre. Ottantamila dollari». Alex controllò il file. Il primo dei pagamenti della ProvLife era stato il due novembre, a un certo T. Sanderson, di 800.000 dollari - dieci volte tanto. Alex sospirò disperata. Era una coincidenza poco significativa: tre giorni di differenza e un decimo della cifra. «Il secondo versamento è stato fatto il dieci novembre», continuò Liz. «Centocinquantamila dollari». Alex fece scorrere i dati. A. M. Moruzzi aveva ricevuto 1 milione e mezzo dalla ProvLife quattro giorni prima. Controllò il calendario appeso all'angolo della scrivania: i giorni lavorativi erano tre. E la somma era esattamente dieci volte tanto. «Vai avanti, Liz», disse Alex. «Vai avanti». «Okay, poi ci sono... settantacinquemila dollari il sedici novembre». Eccolo di nuovo: tre giorni lavorativi prima, la ProvLife aveva pagato a un certo M. J. C. Falkner la somma di 750.000 dollari. «Gesù Cristo, prendeva il dieci per cento». «Cosa? Di cosa stai parlando, Alex?». «Non lo so, non lo so ancora, ma... Dimmene un altro... No, no, lasciami indovinare. Dunque: diciotto novembre, un versamento di centoventimila dollari». Per un momento ci fu silenzio all'altro capo della linea. «È... è giusto. Come hai fatto a scoprirlo?». «Perché la ProvLife ha pagato esattamente dieci volte tanto tre giorni prima a un tizio di nome J. E. Player».
«Non capisco. Chi è J. E. Player?». «Uno con un conto corrente all'agenzia di East Side della Ocean State Savings Bank». «Ma chi è questa gente?». Alex aggrottò la fronte guardando lo schermo. Eliot aveva raccolto tutte le prove. Era come se desiderasse che qualcuno un giorno ricostruisse la verità. Ma tutte le volte che trovava una risposta si trovava di fronte a nuove domande, domande sempre più difficili. Chi erano questi clienti che venivano pagati? Perché avevano tutti il conto corrente nella stessa agenzia della Ocean State? E perché erano disposti a lasciare a Eliot il dieci per cento di quello che la ProvLife dava loro?». «Devo vedere le polizze», disse Alex finalmente. «Devo controllarle. E devo parlare con le persone che hanno ricevuto i soldi. Tutti questi numeri non fanno che rincorrersi tra di loro». «Tutti i dati sulle polizze dovrebbero essere nel computer», disse Liz.«Hanno completato il trasferimento poco tempo fa». «Lo so, ma ci ho già provato. Non riesco a entrare. Non ho la password. Non è che tu...?». «Io? Stai scherzando. Non sono mai andata oltre la videoscrittura». «Maledizione. Non ci sono indirizzi qui. Queste persone potrebbero essere dovunque». Alex sospirò. «Potrei incominciare dall'agenda telefonica». «Perché non dai vecchi documenti cartacei?», disse Liz. «Quelli in cantina?». «Se queste persone hanno stipulato la loro polizza alcuni anni fa, i loro file dovrebbero essere ancora lì. Guarda, l'ultima cosa che ricordo è che stavano trasferendo i vecchi documenti a Iron Mountain. Se sono già là, puoi scordarteli». Grant salì usando le scale. Il pass di Ferulli portava all'ufficio di Ferulli. Non dava accesso a nessun altro posto, tranne che alla sala delle conferenze al nono piano. La stupidità della guardia era contagiosa. Non riusciva più a pensare chiaramente. Era stata una giornata molto lunga. All'ultima rampa, tirò fuori la pistola dalla giacca. Normalmente, non si sarebbe lasciato vedere dalle altre persone dell'ufficio. Poteva spingere la gente a pensare, e quel tipo di pensiero non era utile. Ma erano le undici passate e c'era un intruso nel palazzo e lui era il capo del settore investigativo, dopo tutto. Mentre raggiungeva il pianerottolo, notò che uno degli a-
scensori era in funzione. I numeri sopra la porta stavano cambiando: tre, due, uno. Era probabilmente quella Betridge che andava a casa. Sembrava piuttosto spaventata. Le porte si aprirono con un suono deciso. Grant entrò silenzio samente. Tutto era buio, tranne una fila di schermi, con colonne di numeri scintillanti. Per il resto, nulla. Accese le luci con il palmo della mano. Tubi al neon lampeggiarono e si illuminarono. Nessuno. Entrò nel box che sarebbe presto diventato l'ufficio di Ferulli. Non c'era niente di irregolare, nessun segno che qualcuno fosse stato lì. Grant si avvicinò alla scrivania. C'era un leggero odore di profumo, o di sciampo pulito, primaverile. Si allungò e toccò il computer. Era caldo. Le porte dell'ascensore si chiusero e Alex rimase al buio. Faceva caldo, l'aria era impregnata dell'odore di diesel dei boiler. Alex avanzò lungo il muro, cercando un interruttore e inciampando nello strato di cartone che copriva il pavimento. Avrebbe voluto che ci fosse Mac. Sentiva che l'avrebbe aiutata, se avesse potuto, o almeno le avrebbe detto dove cercare. Toccò l'interruttore per caso. Un singolo tubo al neon gettò un po' di luce nel passaggio sporco. A pochi passi di distanza dei teli di plastica opaca coprivano l'ingresso alla zona principale dell'archivio. Lesse un cartello: PERICOLO - AMIANTO. Alex si era dimenticata dell'amianto. Non sapeva esattamente quanto fosse pericoloso, solo che l'amianto e i mesoteliomi erano costati alle assicurazioni miliardi di dollari nel corso degli anni. Aveva studiato i dati, ma ancora adesso non aveva idea di quale livello di esposizione fosse effettivamente pericoloso. Aveva visto gli uomini che entravano e uscivano dall'edificio con tute e maschere. Staccò un pezzo di scotch e si infilò in un passaggio nella plastica. Dall'altra parte c'erano file di scaffali metallici, ai più alti dei quali si arrivava per mezzo di scale, come in una biblioteca vecchio stile. Altri teli di plastica erano attaccati ad alcune zone del soffitto e mascheravano una profusione di tubi e di cavi. Nei punti in cui stavano lavorando, la plastica pendeva come le quinte di un palcoscenico. Alex percorse lentamente il primo corridoio, con un fazzoletto premuto sul naso e sulla bocca. Minuscole particelle di polvere volteggiavano nell'aria, illuminate dal corridoio alle sue spalle. Ciascuno scaffale era individuato da una lettera dell'alfabeto. Sulla parete di sinistra le lettere andava-
no dalla A alla C, sulla destra dalla D alla F. Ma gli scaffali erano tutti vuoti, tranne che per qualche scatola di cartone abbandonata e qualche foglio di carta. Sembrava che fosse arrivata troppo tardi. Il lavoro di pulizia era finito. Cosa le aveva detto Mac pochi giorni prima? Se lo immaginò di fianco all'ascensore, con una pila di scatole. Stava fischiettando qualcosa, qualcosa che le aveva latto venire in mente Dustin Hoffman su una macchina sportiva rossa. God bless you please, Mrs. Robinson. Ecco. Robinson. È lì che erano arrivati. Alex seguì le lettere nel corridoio di fianco: da G a J e da K a M. Gli scaffali erano sempre vuoti. Andò nel terzo corridoio. Lì, vicino all'uscita di emergenza, parzialmente coperte da una tela cerata bianca e sporca, c'erano file e file di scatole di cartone, pronte per essere trasferite. Sulla porta dell'ascensore, si era illuminata la B di basement, cantina. Grant esitò, col dito premuto sul pulsante di chiamata. Cosa ci faceva qualcuno in cantina alle undici di sera? Non c'era niente, laggiù, a parte l'impianto di riscaldamento, i materiali per gli uffici e l'amianto. E i vecchi documenti. Alex si inginocchiò e aprì la cartelletta più vicina. Conteneva uno spesso fascicolo suddiviso in numerose cartellette più piccole, ciascuna delle quali chiusa da un nastro rosso. Alex ne tirò fuori una, avvicinando il contenuto alla fioca luce. Era una polizza sulla vita, di forse vent'anni prima, a nome di qualcuno di nome Taylor. Mac aveva lavorato bene: avevano finito la R e la S e adesso erano alla T. Tra un giorno o due avrebbero finito. «Maledizione, Mac». Alex tirò fuori di tasca il taccuino e controllò i nomi dei possessori di conti correnti alla Ocean State. C'era un Player, un Bradley, un Falkner. Era troppo tardi per questi. I loro documenti erano andati. C'era un Moruzzi e un... Trybowski. Alex passò allo scaffale successivo. Non sapeva quando avessero smesso del tutto di tenere documentazione cartacea. Se il signor Trybowski era morto solo un paio d'anni dopo aver stipulato la sua assicurazione, era possibile che la polizza esistesse solo nel computer della Central Records. Mentre cercava, non poteva fare a meno di immaginarselo. Doveva essere morto, ormai, naturalmente. Ma come era morto? Chi era? Un uomo ricco, probabilmente, per aver assicurato la propria vita per un milione di dollari... Probabilmente abitava nell'East Side - magari a
pochi isolati da Goebert o da Eliot. È possibile che fosse questo il rapporto? Queste persone erano tutte amiche di Eliot? Aprì un altra cartelletta. Il nome sulla polizza era Truscott. La mise da parte e ne verificò altre due. Truswell, Truuvert. E poi la trovò: una polizza sottoscritta dieci anni prima da Frederyck P. Trybowski, residente in Claremont Avenue 14, Mount Pleasant, Providence. La beneficiarla, una certa Patricia A. Trybowski, nata Lorrimer, era sua moglie. Grant era ancora sull'ultima lampa di scale quando sentì il rumore. Qualcuno si muoveva nel vecchio archivio. Scivolò lungo il passaggio e sollevò delicatamente l'estremità della plastica. Ci fu uno sbattere, poi una vibrazione metallica. Una corrente fredda gli investì il viso. Tolse la sicura alla pistola e si avvicinò alla fonte del rumore. Era buio, ma attraverso gli scaffali gli sembrò di scorgere una grande tela cerata bianca, dietro alla quale si muoveva qualcosa. Pensò di sparare. Il suono non sarebbe andato molto lontano. E avrebbe avuto tutto il tempo di ripulire. Ma bisognava ancora pensare a quell'idiota della guardia. Poteva scendere per indagare e ciò avrebbe reso le cose difficili. Se si fosse rivelato necessario, doveva trovare un altro modo. Qualcosa di più... probabile. Gli scaffali finirono. Grant alzò la pistola e si mise in piena luce. «Signorina Tynan!». Non ci fu alcuna risposta. Solo un nuovo rumore prodotto dalla porta dell'uscita di sicurezza, che si aprì per il vento e andò a sbattere contro le cartellette. Il vento afferrò alcuni documenti da una cartelletta aperta e li sparpagliò per terra. Grant guardò fuori, nel parcheggio. Attraverso la recinzione metallica vide dei fari che si accendevano, una macchina che si immetteva nella strada. Pochi secondi dopo era scomparsa. QUINTA PARTE La polizza 34 Il numero 14 di Claremont Avenue era una casa con la facciata di stucco che un venditore avrebbe definito molto caratteristica. Non un palazzo, ma un'accettabile fetta del sogno americano, con tre camere da letto, adatta a un impiegato di medio livello. E quello era il problema: gli impiegati di
medio livello non assicuravano la loro vita per un milione di dollari. Alex stimava che Frederick Trybowski avesse pagato premi intorno ai mille e duecento dollari al mese - quindicimila all'anno - che si sarebbero mangiati gran parte di uno stipendio di... cinquanta o sessantamila dollari. Sedette al volante della Camry davanti al numero 20, cercando il coraggio per andare a bussare alla porta. Questo era il suo piano: andare alla porta, dire che era della Providence Life - se le avessero fatto domande avrebbe mostrato il suo vecchio pass - poi spiegare che c'era stato un problema di software all'ufficio centrale, il che rendeva necessario controllare i dati dei pagamenti effettuati in passato. Così com'era, si trattava di un piano un po' debole, addirittura rischioso. La ProvLife aveva pagato a Patricia Trybowski un milione di dollari. E poi lei aveva girato il dieci per cento a Michael Eliot. Altri clienti avevano fatto lo stesso. Perché? Cos'aveva fatto di preciso Eliot per loro? Dopo essere tornata a casa dall'ufficio, Alex era crollata per la stanchezza, trovando a stento la forza per svestirsi. Ma aveva dormito male, svegliandosi in continuazione, sempre bagnata di sudore, anche se la sua stanza era gelata. Quando Oscar le era saltato sui piedi alle cinque della mattina, era quasi balzata fuori dal letto, col cuore in gola e capelli ritti sulla nuca, senza neanche sapere perché. Era come se la parte addormentata della sua testa si fosse chiusa in una trappola. Doveva aver avuto un incubo. Perché, altrimenti, era così tesa? Ma l'unica sensazione rimastale era una sensazione di pericolo e di negatività indefinibile. Stava succedendo qualcosa. Toccava la vita delle persone e la cambiava. Aveva cambiato Michael Eliot, aveva cambiato Liz Foster, aveva cambiato anche Mark Ferulli. Forse, in modi sconosciuti, stava cambiando perfino lei. Rimase a guardare senza vedere niente, mentre la pioggia cancellava lentamente la strada. Ancora non credeva che Mark le avesse deliberatamente mentito. Ma i tentativi di giustificare il suo inganno - era stato un malinteso, non aveva letto bene i dati, era stato troppo impegnato per poter controllare davvero - tutto questo cedeva di fronte al semplice fatto del suo comportamento. Era stato molto ansioso di porre fine alle sue domande e aveva cercato di tranquillizzarla con una stupida bugia. Non poteva fare a meno di dirsi, adesso, che la loro rottura era segnata da... qualsiasi cosa fosse che avvelenava la gente. Mark era pienamente coinvolto, per forza. Ripensò a come aveva preso il posto di Michael Eliot. Ricordò il suo viso sorridente mentre sedevano mangiando pesce da Hemensway. Era stato così compiaciuto, così sicuro di sé. Come se sapesse come sarebbero finite
le cose ancor prima che iniziasse qualsiasi discussione. Le venne un altro pensiero. Afferrò il volante della Camry, cercando di seguirlo. Non esattamente un pensiero, un'idea, ma piuttosto uno strano collegamento, un'eco. Riguardava il banchiere... come si chiamava?... Mullins, quello della Ocean State. Lo ricordava bene alla festa, in piedi mentre guardava Goebert che dava il suo addio. Si accarezzava il mento con la mano sinistra e non aveva più sul polso grasso e peloso il Patek Philippe. Quando gli aveva parlato al buffet era rimasta colpita alla vista di quel costoso orologio d'oro che spuntava dall'abito di Kmart e dalla camicia di Kmart. Le era parso strano: un orologio da ventimila dollari - almeno - su un uomo che indossava un vestito da duecento dollari al massimo, e vecchio per di più. Alla fine della serata non l'aveva più. Perché? Poi c'era Mark e la sua BMW - non una Porsche, d'accordo, non una Mercedes gran turismo, ma comunque una macchina da più di cinquantamila dollari - cinquantamila dollari che Mark non possedeva. Naturalmente c'erano molti modi per finanziare un simile acquisto, ma se aveva scelto uno di quei modi, perché poi aveva restituito la macchina? Un Patek Philippe che scompariva, una spider nuova di zecca che veniva restituita. E poi c'era Eliot, un uomo che abitava in una casa da... duecentomila dollari? Un multimilionario che muore appendendo uno scaffale in cantina. «Perché?». Il suono della propria voce la riportò alla strada e alla pioggia. Ed eccola lì, seduta fuori dalla casa di una vedova della ProvLife, una donna con un sacco di soldi - anche se non tutti quelli che le erano dovuti - che nondimeno sceglieva di vivere in una casa da... Alex scosse la testa. I numeri cominciavano a farla impazzire. Non corrispondevano alla realtà. La strada era immobile. La neve era stata spalata dai marciapiedi e formava mucchi terrosi all'ingresso dei vialetti di accesso alle case. La pioggia incominciava a scavare dei buchi nei mucchi. Dovette suonare il campanello due volte. Finalmente sentì la serratura che si apriva e qualcuno che borbottava una bestemmia. «Cosa vuole?». Occhi iniettati di sangue la scrutavano da dietro la porta chiusa con una catenella. Alex fece del suo meglio per sorridere e apparire professionale. «Signora Trybowski, mi chiamo...». «Si fermi subito».
«Prego?». «Non sono la signora Trybowski», dissero gli occhi. Alex sospirò di sollievo. Quella doveva essere la donna delle pulizie. «Oh, mi scusi. C'è la signora Trybowski?». «Non lo so. Dovrebbe suonare a casa sua». Alex fece un passo indietro, guardando lungo la via. Aveva sbagliato numero? La porta si aprì del tutto, rivelando una donna dal volto duro che si stava allacciando un grembiule rosa intorno a quella che un tempo doveva essere la vita. Non sembrava una donna delle pulizie. «Mi scusi», disse Alex. «Credevo...». «Sì, i Trybowski vivevano qui, ma se ne sono andati un paio di anni fa». «Ah, capisco». «Hanno dovuto lasciare la casa». La donna diede un'occhiata soddisfatta mentre Alex restava a bocca aperta. «Saprebbe dirmi...». Alex lottò per recuperare compostezza. «Saprebbe dirmi dove posso trovarla?». «Vorrei saperlo anch'io. E già che ci siamo», la donna scomparve un momento e poi riapparve con un mucchio di riviste e di buste, «può dirle di avvertire chi le manda la posta. Col cavolo che continuo a fargliela avere io». Tornata in macchina, Alex passò parecchi minuti a decifrare la scrittura della donna. Quando finalmente decifrò quello che aveva scarabocchiato sulla prima busta, la sua confusione aumentò: Patricia Trybowski era andata a vivere a Pawtucket. La pioggia e la grandine colpivano il parabrezza con violenti scrosci mentre percorreva la Chalkstone Avenue diretta a est. Entrò sulla statale e cercò la Route 1, che l'avrebbe portata nella zona di Pawtucket. Intanto cercava sempre di costruire uno scenario in cui tutti gli elementi avessero senso. C'erano moltissimi casi di persone che facevano una polizza a un certo momento della loro vita e poi scoprivano che era troppo costosa. Ma di solito in quei casi la lasciavano cadere, non pagavano più. Il signor Trybowski aveva continuato a pagare: per forza, se no la compagnia non gli avrebbe mai dato quei soldi. Ma perché uno continuava a pagare una polizza e perdeva la casa? Mentre lasciava l'autostrada, lo capì. Quante volte delle persone sull'orlo
del disastro finanziario - piccoli industriali, per esempio, braccati dal fisco, che sapevano che prima o poi sarebbero finiti a gambe all'aria - quante volte persone del genere avevano sottoscritto delle grosse polizze, avevano usato i loro soldi per sostenerle finché potevano e poi si erano uccisi per assicurare un futuro alle loro famiglie? Si erano uccisi per non lasciare la famiglia nei guai. Dovevano stare attenti, naturalmente. Le assicurazioni non pagavano nei casi di suicidio evidente, ma era sempre possibile ingannare gli investigatori. Bastava avere il coraggio di gettarsi con la macchina da una scarpata. Quante volte era successo? Naturalmente non esistevano dati statistici. I suicidi non riconosciuti come tali non erano registrati. Ufficialmente si trattava di morti accidentali. Alex pensò che comunque, se c'era stata frode, non era riuscita. Non si andava a Pawtucket per vivere meglio. Mentre oltrepassava il McCoy Stadium e trovava l'uscita per il camping dove adesso viveva la signora Trybowski, ciò era fin troppo chiaro. Fairlawn Park era miserabile anche secondo gli standard della zona. Soprattutto sotto la pioggia. La dozzina di case mobili che creavano un semicerchio sull'asfalto rovinato ricordavano dei denti malati. Ira l'una e l'altra c'era una piccola recinzione metallica, sorretta qua e là da pezzi di compensato e di filo spinato. Alex rimase seduta un momento, chiedendosi se fosse saggio scendere dalla macchina. Non che il posto sembrasse particolarmente pericoloso. Era solo deprimente. Considerava il proprio appartamento un po' bruttino, ma guardando i terreni pelati e fangosi e le patetiche roulotte, capì che si poteva scendere molto più in basso. C'era il sogno americano e c'era l'incubo americano. Una pioggia battente scendeva sul campeggio. Erano le undici di mattina, ma la luce incominciava a calare. Alex prese il mucchio di posta. La signora Trybowski era al n. 4, una casa mobile di tre metri per sei con un divano e due sedili d'automobile ad arredare la veranda. Alex si arrestò sui gradini di legno oscillanti e ascoltò per un attimo quella che sembrava una televisione o una radio. Bussò sulla porta leggera. «Chi è?». Una voce querula, educata. «Signora Trybowski? Salve, mi chiamo Alex Tynan. Vengo dalla...». La porta si aprì immediatamente e Alex si trovò di fronte una donna anziana con una tuta lisa e pantofole rosa sporche. Un nastro di seta colorato tratteneva i capelli grigi. C'era odore di fritto. «Chi?».
«Alex... Alex Tynan. Sono della Providence Life». Si aspettava una qualche reazione, ma la signora Trybowski si limitò a guardarla con i tristi occhi nocciola. Forse un tempo era stata graziosa, ma una contrazione della guancia le piegava la bocca come se avesse avuto un ictus. Si teneva le mani strette sul petto. «Sì. Cosa posso fare per lei?». «Sono della Providence Life, la compagnia di assicurazione». La signora Trybowski annuì. «Se vi devo dei soldi, siete capitati male». «Lei è la moglie... la vedova del defunto signor Frederick...». «Freddy, sì». Freddy. La realtà del cliente numero 8356322 colpì Alex che sussultò leggermente. «Sono andata al suo vecchio indirizzo di Mount Pleasant. La signora che abita lì mi ha detto della posta per lei». «Barbara Doxopoulis. Come sta la vecchia strega?». Prese la posta dalle mani di Alex mentre uno scroscio di pioggia investiva il lato della casa. Si guardarono un momento. «Perché non...?». Fece un passo indietro e accennò ad Alex di entrare. Era sorprendentemente caldo all'interno della casa mobile. Su un lato della stanza, c'erano scaffali fino al soffitto. Alex vide edizioni economiche di Tolstoj e Dostoevskij, una pianta rampicante. L'acqua incominciava a filtrare da una delle finestre di alluminio. C'era una radio. Niente TV. Un divano che doveva aprirsi e diventare un letto era coperto di vestiti. La signora Trybowski prese una manciata di calze e incominciò a metterle in uno zaino. Le giunture delle sue mani erano gonfie per l'artrite. «Sono appena tornata dalla lavanderia. Che tempo impossibile. Prima si gelava, adesso siamo in mezzo a un'inondazione». Alex vide in un lampo sua madre che toglieva delle tovagliette da una cassapanca. Fece un passo avanti. «La prego, non... non si preoccupi per me. Le ruberò solo un momento». La signora Trybowski si fermò, con una calza bucata in mano. «Non c'è problema, cara. Tutta la casa ha bisogno di una ripulita». Disse «tutta la casa» come se parlasse di un ranch. «Dunque, mi dica. Cosa desidera da me?». «Io... be', è una cosa un po' delicata. Io... Alla Providence Life abbiamo avuto un problema con uno dei nostri computer».
La signora Trybowski alzò gli occhi al soffitto macchiato e scosse la testa. «Computer», disse. «Freddy diceva che i computer ci avrebbero liberato da tutti i lavori più noiosi. Io ero un'impiegata, odiavo le carte. Freddy diceva - per consolarmi, sa, quando ero un po' giù - diceva che i computer avrebbero fatto tutte le cose più noiose e noi avremmo avuto più tempo per quelle interessanti. Invece hanno solo lasciato la gente senza lavoro». L'aveva detto tutto d'un fiato. Parlava come una persona che passava intere giornate senza dire una sola parola. Parlava come la madre di Alex. «Sì, capisco quello che vuole dire», disse Alex. «Comunque, abbiamo avuto questo problema e io sto facendo delle verifiche su alcuni pagamenti fatti dall'azienda l'anno scorso. A novembre dell'anno scorso, per la precisione». La signora Trybowski continuava a fissarla. «Potrebbe confermarmi l'importo esatto che ha ricevuto per l'assicurazione di suo marito dopo la sua morte?». «Temo di non seguirla, cara.». «Suo marito, è morto...». «L'anno scorso, sì. A gennaio. Non aveva nessuna assicurazione sulla vita. Aveva qualcosa anni fa... proprio con voi, adesso che ci penso. La ProvLife. Ma anni fa, quando...». Sembrò riflettere un momento, ripensando ai tempi in cui aveva denaro, e una casa, e un marito. Prima dell'ictus, prima che tutto crollasse. «Ma i premi erano troppo alti. Dopo il fallimento, be', l'ha lasciata perdere. Quando è morto, non ho avuto un centesimo». Guardò Alex un momento. «Cosa c'è, cara? Perché non si siede?». Indicò una vecchia sedia rovinata vicino a un mucchio di riviste. «Quella sedia ha ancora tutte le gambe». Preparò del tè e parlò per un'ora, la signora Trybowski, fornendo un resoconto dettagliato di una vita interessante, con i suoi alti e bassi. Freddy era un ballerino meraviglioso e socio di una buona ditta di impianti di riscaldamento. In un momento di cieco ottimismo - il cieco ottimismo era un'altra caratteristica di Freddy - aveva sottoscritto una grossa polizza sulla vita, in modo che la sua amata moglie non dovesse preoccuparsi del futuro. Purtroppo, la ditta era fallita in seguito a una causa - i boiler ogni tanto esplodevano - e la polizza era stata lasciata cadere. Mentre Alex ascoltava, diventava sempre più sconvolta. Finalmente la
signora Trybowski notò che qualcosa non andava. «Cara, se è preoccupata per il database», disse, «non ne vale la pena. Mi creda. Probabilmente basta che ripuliscano i floppy disk o lo riformattino o come diavolo si dice». Stava correndo verso la macchina quando le venne l'idea. Si bloccò immediatamente. Si girò e tornò ingobbita sotto la pioggia gelida verso la signora Trybowski, che era ancora in piedi sulla porta della sua triste casa, per salutarla educatamente. «Cosa c'è, cara? Si ammalerà in questo modo». Alex dovette gridare per superare il rumore dell'acqua. «Signora Trybowski, suo marito ha mai avuto un conto alla Ocean State Savings Bank?». La donna rifletté un momento prima di rispondere. «No», disse. «La nostra banca è la Providence Trust». Alex sedeva in un ristorantino da qualche parte tra Pawtucket e l'East Side. Tutt'intorno a lei, la gente si riparava dalla pioggia, mangiando ciambelle o uova e prosciutto e vivendo la giornata come se tutto fosse normale. Ma non era normale. A poca distanza da lì, la Providence Life, una delle compagnie più importanti, era defraudata di milioni di dollari. La polizza di Freddy Trybowski era scaduta anni prima, ma qualcuno si era accorto che i premi non venivano più pagati e aveva incominciato a pagarli lui. Cosicché, al momento buono - cioè quando Freddy era morto - aveva potuto incassare. E Freddy non era l'unico. Alex sospettava che i conti correnti della lista di Eliot nascondessero casi simili. Da quanto tempo durava? Se i soldi venivano sottratti con un ritmo del genere, perché non lo si notava nel bilancio dell'azienda? Era il solito vecchio problema. La Providence Life veniva derubata. Accanto ai pagamenti regolari, un gruppo di persone ottenevano risarcimenti falsi - e grossi - sempre dalla stessa compagnia. Perché dunque non lo si vedeva dal bilancio? Sorseggiò il proprio caffè freddo. Sembrava tutto irreale. Una cosa era abbastanza reale, però: dei soldi erano stati versati sul conto di Michael Eliot. Il dieci per cento dei risarcimenti, tre giorni lavorativi dopo il primo versamento. Chi prendeva il resto? Non la signora Trybowski. C'erano altre nove persone, ciascuna delle quali prendeva il dieci per cento? Per frodare l'azienda bisognava organizzare una cospirazione. Nessuno poteva farlo da solo. Alex cercò di considerare tutto.
Prima trovavano le polizze lasciate cadere. Perché? Se si chiedevano risarcimenti falsi, perché non si inventavano delle polizze false? Ma capì subito perché: quando veniva stipulata una nuova polizza, essa recava sempre il nome di un agente o di un venditore. C'erano commissioni da pagare, telefonate da fare. I venditori erano migliaia. Ma le polizze lasciate cadere erano un argomento chiuso, storia passata. Le commissioni erano state pagate da anni. Nessuno se ne interessava. Alex annuì tra sé. Aveva senso. Quante più bugie c'erano, tanto più grande era la possibilità che ne venisse a galla qualcuna. Era per questo che l'unica polizza che era riuscita a individuare apparteneva a un residente di Rhode Island? Certo. I cittadini di Rhode Island spesso si servivano della Ocean State. Quelli del Tennessee o del Minnesota non usavano certo un'agenzia dell'East Side. Chi doveva essere coinvolto? Ovviamente qualcuno del settore risarcimenti. E di quello investigativo, anche. I nomi e i dipartimenti lampeggiavano davanti ai suoi occhi: Ralph McCormick, Dean Mitchell, Donald Grant. David Mullins, anche, per creare quei conti correnti fantasma alla Ocean State e inviare il denaro all'estero nello stesso giorno. E Eliot, naturalmente, capo della tesoreria, che scriveva gli assegni con quelle grosse cifre e faceva in modo che nessuno facesse domande. Ma poi Eliot era morto. E avevano dovuto cercare un sostittito. Qualcuno che ci stesse. Di cui potessero fidarsi. Alex sentì che le si rizzavano i capelli sulla nuca. Quella persona era Mark. Giovane, ambizioso, pronto a uscire un po' dalle regole. Il sangue le rombava nelle orecchie. Ecco perché avevano ignorato Drew Coghill: era esperto, competente, ma maledettamente onesto. Un tizio con una pesante camicia da taglialegna urtò il tavolo di Alex passando. «Scusa, dolcezza». Lo guardò appena. Doveva fare qualcosa. Doveva dirlo a qualcuno. Si alzò. Ma a chi poteva parlare? Pensò alla polizia. Aveva prove sufficienti per convincerli? O sufficienti almeno perché controllassero la sua storia? Forse. O forse no. La verità è che non aveva molto. Solo una vecchia polizza che in sé non dimostrava nulla - una polizza che lei aveva rubato intrufolandosi illegalmente all'interno di un'azienda da cui il giorno prima era stata licenziata. Inoltre, se le persone della ProvLife erano furbe, non c'erano documenti cartacei. Come il resto dell'azienda, avevano operato elettronicamente. Aveva la curiosa
sensazione che non appena la polizia fosse arrivata al dodicesimo piano, il computer della Central Records si sarebbe bloccato. 35 Liz si svegliò improvvisamente al suono di una risata selvaggia, quasi da pazzo. Si rizzò a sedere, guardando lo schermo della TV. C'era una sit-com che non conosceva. Un tizio con una camicia di lana era congelato in uno strano atteggiamento, mentre il pubblico dello studio rideva e applaudiva. Cercò a tentoni il telecomando, lo trovò sotto di sé e premette il pulsante, accorgendosi solo allora di un dolore pungente agli occhi. Osservò l'orologio incastrato nella testiera. Le grandi cifre rosse indicavano le 20:30. Aveva dormito quasi tre ore. Non c'era da stupirsene. Tra le preoccupazioni per il proprio futuro e il tizio che russava nella camera di fianco, la notte prima non aveva dormito che un paio d'ore. Si alzò e andò in bagno. La pelle sembrava gialla e lucida sotto il neon, intorno agli occhi era gonfia e arrossata. Gemette e spense di nuovo la luce. Attraverso la parete di truciolato sentiva un'altra TV. Sembrava la stessa sit-com. Si sentì prendere dalla nausea, da un senso di sete - probabilmente a causa dello scotch che aveva incominciato a bere alle quattro e mezza. Si aggrappò al lavabo. Aveva preso un sacco di cattive abitudini ultimamente, viveva come una sciattona, come se non le importasse più di niente. Doveva darsi una regolata. Aprì il rubinetto e mise la testa sotto il getto d'acqua, bevendo dalle mani. «Signorina Foster?». Non era sicura di averlo sentito davvero. Chiuse il rubinetto e cercò di ascoltare attraverso il rumore della TV e dell'acqua che gocciolava nel lavabo. Qualcuno bussava alla porta. «Signorina Foster!». Doveva essere qualcuno del motel. Solo Alex sapeva dov'era. Liz afferrò una salvietta. «Chi è?». Per un momento non ci fu risposta, solo il rumore del traffico sulla statale, lo scorrere dei pneumatici nella fanghiglia. «Mi chiamo Jackson, agente Tom Jackson». La voce era gentile, efficiente, ufficiale. «Sono del dipartimento di polizia di Providence». Liz aprì la porta di qualche centimetro, senza togliere la catenella. Era
un po' più giovane di quanto si era aspettata, più alto della media e magro, con capelli biondi sottili ben regolati. Indossava un cappotto lungo, col bavero alzato contro la pioggia. Nell'oscurità, non gli vedeva gli occhi. «Lei viene da Providence?». «Sì, signora». Le venne l'idea che fosse venuto per arrestarla. «Ma qui siamo in Connecticut», disse. «Fuori dalla sua giurisdizione». «Lo so, signora». La voce era amichevole, ora, informale. «Speravamo che lei potesse aiutarci comunque. Vorremmo solo delle informazioni». «Come ha fatto a sapere che ero qui?». L'uomo si strinse un po' nel cappotto. Un camion passò nelle vicinanze, coprendo quasi le sue parole. «Immagino che lei conosca Alexandra Tynan?», chiese mostrando un cartellino di identificazione che nell'oscurità non si riusciva a leggere. «Lei ci ha detto dove trovarla. Mi spiace disturbarla in questo modo, ma le chiedo di farmi entrare. Potrei annegare, qua fuori». Alexandra. Certo. Era l'unica che sapeva. Era strano che fosse andata dalla polizia senza dirglielo prima. Le cose dovevano essersi sviluppate più in fretta di quanto pensava - o forse Alex non si fidava più di lei? In ogni caso, Liz si sentì sollevata. Si era sentita mancare il terreno sotto i piedi e aveva corso il rischio di essere uccisa. Non voleva più avere paura. Tolse la catenella e aprì la porta. Jackson gettò un'occhiata nel parcheggio ed entrò. Alla luce, Liz vide che aveva la pelle macchiata e rovinata, soprattutto sulle guance, e la faccia sembrava quella di uno che si fosse sentito male da poco e si fosse appena rimesso. Aveva dei guanti di pelle marrone, ma non accennò a toglierseli. «Abbiamo verificato alcune operazioni della ProvLife», disse chiudendo lui stesso la porta. «Operazioni illegali. Lei lavorava in quell'azienda, vero?». «Esatto, nel dipartimento tesoreria. Ci lavoro ancora, credo, ufficialmente». Jackson guardò la stanza, notando il letto disfatto e i resti degli spuntini della giornata. Era tutta in disordine. «È sola?». Liz annuì. «Dove è diretta?». «Da nessuna parte. Io...». Liz si sentì improvvisamente a disagio. Si infi-
lò la camicia nei pantaloni e incominciò a cercare le scarpe. «Non ho nessuna meta. Ho solo deciso di lasciare la città. Non ve l'ha detto Alex? Dell'incendio e di tutto il resto?». Jackson annuì. «Sì, sì, ci ha spiegato tutto. Una vera sfortuna». «Sfortuna?». Liz trovò le scarpe di fianco al letto e sedette per infilarsele. «Io credo che la sfortuna non c'entri. E lei?». Jackson annuì pensieroso. «Verif icheremo anche questo, stia tranquilla». «Alex sta bene?». Jackson sbatté le palpebre, poi sorrise. «Certo. Perché non dovrebbe?». «Non lo so... Stava cercando delle prove, ha detto. Mi sembra rischioso. Vuole sedersi?». Jackson guardò la poltrona col rivestimento di nylon come se il problema se sedersi o no non gli fosse familiare. «Va bene così», disse. «Lei conosceva Michael Eliot, giusto?». Se lo conosceva? Era un'espressione ben strana per indicare il loro rapporto. «Sì, io... lo conoscevo. Ma non sapevo che fosse coinvolto in qualcosa di illegale», si affrettò ad aggiungere. «Naturalmente. Mi hanno detto che ha lasciato in suo possesso certi documenti riguardanti la sua situazione finanziaria?». Liz annuì. Ecco perché Alex non le aveva detto di essere andata dalla polizia. Probabilmente temeva che Liz non volesse cedere i documenti, che cercasse di nasconderli da qualche parte. Forse se l'avesse avvertita, avrebbe potuto cercare di farlo. Una parte di dieci milioni di dollari era qualcosa a cui si rinunciava con difficoltà, anche se erano solo una parte. Prese la borsetta e ne tolse una busta bianca. «Ecco», disse porgendoglielo. «Ha idea di che cosa siano questi?». Jackson aprì la busta e sfogliò il contenuto, anche se dal modo in cui lo faceva Liz ebbe l'impressione che non capisse quello che vedeva. «Ci stiamo lavorando», disse Jackson. «E tutto quello che ha?». «Avevo degli altri documenti, ma li ho dati ad Alex». Jackson alzò gli occhi. «E cos'erano, esattamente?». «Non lo so. Credo che Alex volesse scoprirlo. Non ve ne ha parlato?». Jackson si mise in tasca i resoconti bancari. «Non le ho parlato personalmente. Se ne occupa un mio collega. Ci ha dato un sacco di informazioni». Sorrise. «Siamo ancora nella fase di ap-
prendimento, per così dire». Liz non faceva fatica a crederlo. Un crimine da colletti bianchi era probabilmente una rarità per il dipartimento di polizia di Providence. Si immaginò i poliziotti che cercavano di seguire Alex Tynan nell'arcano mondo delle procedure contabili di una compagnia di assicurazioni. Il fatto che li avesse convinti ad ascoltarla testimoniava le sue capacità di persuasione. «So che è un po' tardi», disse Jackson, «ma le sarei molto grato se potesse venire al distretto locale a fare una dichiarazione. Dobbiamo agire rapidamente se vogliamo arrivare in fondo a questa storia». «Intende dire adesso?». «Temo di sì. I soldi si muovono velocemente, oggi, signorina Foster, e le persone anche. Sono sicuro che lo capisce». Liz esitò. Perché non potevano parlare qui? Perché doveva essere tutto ufficiale? «Be', io... Se si tratta di... di qualche accusa, voglio vedere un avvocato». Jackson sorrise di nuovo. «Non è accusata di niente, gliel'assicuro. È solo che abbiamo bisogno di testimonianze giurate per ottenere un mandato». Andò verso una sedia e prese la giacca a vento di Liz. «Non si sta parlando di un localino di Providence Sud dove spacciano crack, ma della Providence Life. Un punto di riferimento per la comunità. Credo che il vecchio Goebert conosca tutti i giudici della città». «Testimonianza giurata su cosa?», chiese Liz. «Gliel'ho detto, non ne so niente, di azioni illegali». Jackson le sostenne la giacca. «Parleremo di tutto al distretto». Una Plymouth senza scritte era parcheggiata all'estremità del posteggio, proprio dietro all'insegna luminosa con la scritta rosa CAMERE LIBERE. Liz non si accorse che c'era qualcuno al volante finché Jackson non aprì la portiera per farla entrare. «Questo è il mio socio. Saluta, Calvin». Calvin si guardò intorno ed emise un grugnito che poteva essere un «salve» o il suono di uno che si schiarisce la gola. Alla luce della lampadina interna Liz non lo vide bene, ma capì che era più scuro di Jackson e più pesante, con la barba di un giorno e dei capelli unti pettinati all'indietro che gli toccavano il colletto. Nella macchina c'era un odore dolce nauseante, come di disinfettante troppo profumato. «La signorina Foster ha accettato di rilasciare una dichiarazione al di-
stretto», disse Jackson salendo di fianco a lei. «Proprio come avevo detto». Jackson sembrava improvvisamente contento di sé, come se avesse vinto una scommessa. «Calvin era convinto che lei non avrebbe collaborato», disse a mo' di spiegazione. «E vero?». Calvin non rispose. Inserì la marcia e si immise sulla statale, facendo stridere leggermente le ruote sulla rampa. La pioggia ora cadeva più forte e lavava via i mucchi di neve ai lati della strada. Al primo incrocio svoltarono e si diressero verso sud lungo la costa, lasciando sulla sinistra la luminosità fosforescente della città. Poco per volta, il trafficò diminuì fino quasi a scomparire, mentre i magazzini e i motel di periferia lasciavano il posto alle vecchie industrie, alcune abbandonate, a giudicare dalle finestre rivestite di cartone e dalle recinzioni rovinate. In cima a un'alta costruzione di mattoni, Liz vide le paiole STOCKER MARINE ENGINEERING scritte con una vernice bianca scolorita. «È una scorciatoia di cui ci hanno parlato», disse Jackson seguendo il suo sguardo. Si chinò in avanti. «A sinistra alla prossima, okay, Calvin?». Calvin tacque anche questa volta. Alla luce dei lampioni che passavano, Liz riusciva a vedere i suoi occhi nello specchietto retrovisore. Non ne era sicura, ma pensò che la stesse guardando. Rabbrividì e si strinse nel cappotto. «E da quanto tempo lei e questo... Eliot eravate insieme?». La domanda sembrò spuntare dal nulla. Liz ci mise un momento per concentrarsi. «Lavoravo con lui da circa tre anni». «Sì, ma non parlo di lavoro», disse Jackson. «Volevo dire, da quanto tempo voi due...». Adesso Calvin la stava proprio guardando. «Circa diciotto mesi». «Ah. E lui ne ha mai parlato alla moglie?». La domanda fece voltare la testa a Liz, ma Jackson continuava a guardare davanti a sé. «No. Non credo». «Che gran figlio di...». Sorrise. «Non intendevo mancare di rispetto. Ma giocava tenendo le carte ben strette al petto». Liz non sapeva cosa dire. Jackson si era presentato formale e amichevole. Adesso stava diventando volgare e maleducato, come se avesse ormai risolto il caso e cercasse una lode.
«Vuole un chewing-gum?». Ne tirò fuori un pacchetto dalla tasca e ne offrì uno a Liz. «No, grazie». Jackson ne scartò uno per sé e se lo ficcò in bocca. «Per come la vedo io, un tizio del genere», masticò con forza emettendo qualche cic ciac, «uno che, diciamo, è arrivato... non rivela un gran carattere, una gran fibra morale, il fatto di volersene andare in quel modo. Dico, un uomo ha certe responsabilità. Certi obblighi. Capisce cosa voglio dire?». Liz non rispose. Voleva dire qualcosa in difesa di Michael, ma non sapeva se doveva farlo o no. «Forse no», disse Jackson. «Insomma, lei avrebbe condiviso tutti i suoi soldi, giusto? Cosa ne avrebbe fatto? Si sarebbe comprata un cavallo da corsa?». «Gliel'ho detto. Io non sapevo niente dei soldi, finché... fino a quando Michael è morto». «Già, è vero», disse Jackson con il suo sorriso da schiaffi. «Era solo una cosa d'amore». «Sì, lo era davvero». Jackson masticò per un po', guardando fuori dal finestrino una fila di magazzini col tetto di lamiera ondulata. Non dovevano essere a più di mezzo miglio dal fiume, ma non sembrava che si avvicinassero alla città. «Che tragedia», disse alla fine. «Tutto pronto per la grande fuga, e lui tocca un cavo col trapano. Quello che non capisco è, perché stava mettendo su degli scaffali per la sua vecchia se aveva intenzione di lasciarla? Forse...». Alzò la voce, rivolgendosi a Calvin. «Ehi, forse pensava che lei si sarebbe dedicata alla lettura, senza di lui, e avrebbe avuto bisogno di un posto dove mettere i libri». Calvin emise una risata nervosa, come se non volesse ridere, ma non riuscisse a trattenersi. Liz si sentì improvvisamente a disagio. Voltandosi, vide le luci di New London che svanivano in lontananza. «Cosa ne dice, Liz?», chiese Jackson. «Non crede che possa essere stato qualcosa di diverso da un incidente? Magari un suicidio?». «No. Naturalmente no. Avevamo progettato di... No». «Allora pensa magari che qualcuno l'abbia fatto fuori? Abbia montato una messa in scena? Crede che sia possibile?». Liz inghiottì a fatica. Stavano cercando di spaventarla, di farla crollare? Forse speravano che dicesse qualcos'altro sui soldi, che confessasse qual-
cosa. Forse non avevano creduto a tutto quello che Alex gli aveva detto. Forse credevano che, qualsiasi cosa fosse quella in cui era coinvolto Michael, vi fosse coinvolta anche lei. «Io... Non lo so. Ditemelo voi. Siete voi i poliziotti». Mentre lo diceva, si accorse che non lo credeva più. Il cuore incominciò a batterle con forza. «Bisognerebbe pianificarlo bene», disse Jackson riflettendo. «Ed essere molto esperti. Ma è possibile. Insomma, il vecchio trapano che usava era di per sé un'arma letale. Rivestimento di metallo, isolante fottuto. Penso che quello potesse essere sufficiente a farlo fuori, se l'avesse tenuto in mano abbastanza a lungo. Il buco nel cavo eccetera si poteva fare dopo. La gente cerca sempre di fare due più due, capisce cosa voglio dire?». «Lei... ha visto il suo corpo?». Jackson la guardò, un'ombra di sorriso sulle labbra. «Sì. Glielo potrei descrivere, ma non voglio turbarla». Stavano rallentando adesso. Attraverso i finestrini bagnati, Liz vide una corrente d'acqua scura, che sembrava un canale. Pezzi di ghiaccio galleggiavano ancora sulla superficie. Non riusciva a ragionare bene. Non capiva cosa doveva fare adesso. «Cos'è questo?», chiese con la gola chiusa per la paura. «Dove stiamo andando?». Stavano abbandonando la strada, scendevano lungo un sentiero. La macchina ondeggiava per le buche piene di fango. «Come ho detto, è una scorciatoia», disse Jackson, e si slacciò il cappotto. «Gesù, che notte. Se continua ancora un po' ci sarà un'inondazione». Liz lo vide mettere una mano nella giacca. Non aspettò che tirasse fuori la pistola. Tirò la maniglia della portiera e la spinse con tutto il proprio peso. Vide schizzi e neve sotto di sé. «Ehi! Che cazzo...?». Jackson si allungò e l'afferrò per la spalla. «Vieni dentro, troia!». Liz guardò il terreno, aggrappandosi alla carrozzeria, incapace di lasciarsi andare. I freni bloccarono l'auto, facendole sbattere la testa contro la portiera. La macchina sbandò paurosamente. Jackson continuava a urlare e a tirarla per la spalla. Liz si gettò contro di lui, graffiandogli la faccia. Lo sentì gridare e si trovò improvvisamente libera. Per un secondo vide il suo volto che la fissava, con un rivolo di sangue sotto all'occhio, la testa che si avvicinava alla portiera aperta. Senti l'aria fredda della notte nei capelli.
Poi toccò terra: prima uno sbandamento, come se le strappassero la vita, poi un impatto, duro e nero. Calvin uscì dall'auto e tornò nel punto in cui giaceva Liz. Jackson lo seguiva, tamponandosi l'occhio con un fazzoletto. «Allora?», disse. Calvin rimasse immobile qualche istante, guardando il corpo contorto. Con un piede scostò da un lato la testa. Poi, senza dire niente, le afferrò i polsi e la trascinò vicino al canale. «E morta?», chiese Jackson con voce irritata. «Che differenza fa?», ribatté Calvin. Grant era sulle scale quando arrivò la chiamata sul suo telefonino. La voce all'altro capo non si identificò, ma Grant sapeva chi era. L'incarico era stato svolto, disse, non esattamente secondo i piani, ma l'avevano portato a termine. Grant voleva sapere cos'era successo, ma questo non era né il momento, né il luogo. «Mi farò sentire», disse. Fece per interrompere la comunicazione, ma la voce non aveva finito. «Chi le ha detto dove trovarla?», chiese. Grant aggrottò la fronte. Un paio di tizi del marketing parlavano all'estremità della sala. Capiva bene perché la gente fosse nervosa. Le cose erano diventate un po' strane, ultimamente, un po' troppo esposte. Ma questa non era una ragione per allentare l'attenzione. «Nessuno me l'ha detto, l'ho sentito io», disse staccando un mazzo di chiavi dalla cintura. «Stava ascoltando dal buco della serratura?». Grant entrò nella Sala Comunicazioni sul retro della reception. Lì si trovava la centralina interna e tutti gli strumenti di controllo. «No», disse Grant cercando di non lasciar emergere la sua impazienza. «Stavo ascoltando una registrazione. Noi controlliamo le telefonate dei nostri dipendenti. Semplifica le cose per chi controlla. Anzi, sto proprio per fare un controllo del genere. Per verificare che non abbiano cancellato niente. Sei contento adesso?». «No, non sono contento. Quella troia mi ha quasi cavato un occhio». Grant non rispose. Non voleva sentire queste cose. Non su un telefonino. «Andiamo fuori città per qualche giorno», disse finalmente la voce. «La chiameremo».
36 Alex sedeva sul divano, accarezzando meccanicamente le orecchie vellutate di Oscar, immaginando quello che avrebbe detto l'azienda, quello che avrebbe detto Neumann se lei avesse incominciato a fare delle accuse: «Dovete capire che la signorina Tynan ha perso recentemente il suo impiego presso di noi. In queste circostanze, credo non sia ignoto che...». Neumann sarebbe stato diplomatico, distaccato, devastante. Era il pensiero di affrontarlo di nuovo, anche in presenza di un poliziotto, che l'aveva fatta decidere. Doveva parlare con White. Era l'unico modo per andare avanti. White era l'unico che conosceva l'azienda - la struttura e le persone - l'unico che la conosceva abbastanza bene per portare avanti le sue scoperte. Ma parlare con White si stava rivelando difficile. La maggior parte delle linee per Newport erano interrotte. Secondo le notizie della TV, il disgelo si stava rivelando ancor più distruttivo del gelo. I servizi di emergenza erano impegnati in tutta Rliode Island per evacuare villaggi inondati, recuperare persone bloccate in macchina, pulire le strade dagli alberi caduti. Alex andò alla finestra e guardò fuori. Sull'erba c'erano ancora macchie irregolari di neve, ma per la maggior parte la strada era stata ripulita dalla pioggia battente. Nel centro di Providence, il fiume aveva inondato i bei viali restaurati dal sindaco Montanelli, ma lassù erano al sicuro. Malgrado ciò, gli abitanti di East Side stavano dimostrando la loro solita solidarietà. Quella mattina, mentre Alex guidava per la città in cerca dei Trybowski, persone di due diversi gruppi comunitari avevano fatto visita a Maeve Connelly per assicurarsi che tutto andasse bene. Una voleva portarle un pasto caldo, mentre l'altra, un uomo col volto pallido e butterato, si era preoccupato della temperatura della casa. Maeve l'aveva detto ad Alex al suo rientro. L'uomo aveva perfino insistito per controllare l'isolamento di tutta la casa, spiegando che numerosi anziani erano già morti per ipotermia. «Gli ho detto chiaramente», spiegò Maeve, infastidita dal fatto che qualcuno si riferisse a lei con il termine «anziani», «gli ho detto che se avevo intenzione di morire assiderata l'avrei fatto due giorni fa, senza aspettare il disgelo». Alex si era messa a ridere e poi era rimasta mezz'ora sulle scale a parlare del tempo terribile. Di solito non era così gentile con Maeve, ma pensò che era meglio avere la vecchia dalla sua quando avrebbe dovuto spiegare perché non poteva pagare l'affitto più caro che proponeva Kenneth. L'allegra
conversazione l'aveva fatta sentire la più grande ipocrita di Rhode Island. Un furgoncino grigio era posteggiato sull'altro lato della strada e due donne con impermeabili azzurro chiaro stavano portando vassoi di alluminio e un thermos Day-Glo al numero 27, dove abitava una coppia di anziani. Guardandole svolgere il loro lavoro, Alex si accorse di aver saltato il pranzo. Erano le quattro e mezza del pomeriggio, era quasi buio e non aveva mangiato niente dalla colazione. Ma non aveva molta fame e anzi si sentiva un po' di nausea. Aveva anche un principio di malditesta. Si toccò la fronte per controllare se avesse la febbre. Ci mancava solo un'influenza e l'inverno sarebbe stato davvero completo. Oscar miagolava di nuovo. Era tutto il pomeriggio che lo faceva, che camminava avanti e indietro miagolando pietosamente. Saltò giù dalla sedia e venne vicino a lei. «Cosa c'è, amore?». Lo prese in braccio e incominciò ad accarezzargli la testa. Ma lui restava teso fra le sue braccia e faceva scattare le orecchie come se lei gli desse fastidio. Lo accarezzò sotto al mento, una strategia che di solito nel giro di due secondi lo rendeva un invertebrato, completamente ipnotizzato. Ma questa volta non funzionò. Oscar saltò giù e riattraversò la stanza. Guardò il cibo nella sua vaschetta e poi, con rimprovero, Alex. «È salmone e coniglio, Oscar. Il tuo preferito». Poi fece qualcosa che Alex non gli aveva mai visto fare. Si appoggiò al buffet, come se fosse stanco, continuando a miagolare senza interruzione. Alex prese il telefono e fece il numero di White. La linea era ancora interrotta. «Maledizione!». Il sangue sembrava pulsarle nelle tempie. La testa le faceva così male che non riusciva a pensate. Buttò giù la cornetta e afferrò il cappotto. Trovò un supermercato aperto sulla Tabor Avenue e comperò pane e formaggio e Tylenol. Camminare all'aria fresca le schiarì le idee. Tornò all'appartamento poco dopo le sei e provò a fare di nuovo il numero di White. Nessuna risposta. Si preparò un sandwich, ma quando sedette a mangiarlo scoprì di non avere appetito. Anzi, il pensiero di metterselo in bocca la fece sentire male fisicamente. Rimase seduta guardandolo stupidamente con la fronte aggrottata, poi si alzò in piedi. Andò nella cucinetta e lo buttò nella spazzatura: il panino si attaccò immediatamente al coperchio del contenitore.
«Maledizione». Stava davvero diventando una giornata no. Si chinò per ripulire il contenitore, col dolore che le premeva dietro agli occhi, in due punti nettamente distinti. Un pezzo di carta asciugante coperto di macchie nere si era incastrato sotto al coperchio e gli impediva di funzionare bene. Lo spinse nella spazzatura e il sandwich scomparve immediatamente alla vista. Prese due Tylenol, in piedi davanti al lavandino, bevendo dal rubinetto, poi andò a sedersi sul letto. Oscar era imbronciato in un angolo, non nella sua cesta, ma incuneato tra il davanzale della finestra e la parete. «Oscar, dolcezza, cosa fai:'». Il gatto aveva gli occhi chiusi e respirava a scatti, come se avesse un incubo. Alex non l'aveva mai visto dormire fuori della sua cesta. Si accorse di essere anche lei assonnata. Decise di distendersi. Nella stanza c'era un piacevole tepore. Proprio di fronte al suo letto, nello sgabuzzino con il boiler Mercury, il monossido di carbonio si stava accumulando. Non c'era traccia di impronte nel punto in cui dita esperte avevano stretto e spezzato il vecchio sigillo di gomma sul tubo di scarico. Era un vecchio boiler. Non era stato neppure necessario bloccare il bruciatore di ossigeno. Bruciava con la fiammella gialla di avvertimento e c'erano perfino tracce di fuliggine intorno alla porta di servizio, altro segno di cattivo funzionamento. La vecchia signora non l'aveva mai fatto revisionare, questo era ovvio. Era un modello vecchio, probabilmente aveva sempre prodotto una certa quantità di CO, per la cattiva combustione. Finché il sistema era adeguatamente ventilato, finché i gas di scarico - l'anidride carbonica e il più mortale monossido di carbonio - uscivano all'aria aperta, non c'era pencolo. Ma se il sistema di scarico si rompeva... La polizia, se pure avesse voluto controllare, non avrebbe visto nient'altro che un'ennesima caldaia domestica rottasi con conseguenze fatali. Impianti di riscaldamento difettosi o mal ventilati, camini bloccati, uso di barbecue in ambienti chiusi, uso di cucine a gas per riscaldare i locali - le cause di quegli incidenti erano numerose e le compagnie d'assicurazione le conoscevano tutte. Non era una cosa che succedeva in continuazione, ma succedeva. Era una cosa che succedeva agli studenti, o alle persone che vivevano in case popolari, persone che avevano l'abitudine di confidare nella Provvidenza. La porta dello sgabuzzino era appena socchiusa. Il gas filtrava nella stanza, un metro cubo ogni dieci minuti, invisibile, inodore, insapore.
Alex respirava profondamente, con le labbra leggermente aperte. Era in piedi su una spiaggia. Il cielo era grigio e il mare nero completamente liscici. Sembrava vetro, ma si vedeva che era liquido. Si muoveva lentamente, ruotando, torpido, increspandosi alla superficie. Mark era su una barca a remi. Si protendeva verso di lei. Voleva farla salire sulla barca. Ma lei restava lì, immobile. Lui incominciò ad accennare col braccio, indicando i suoi piedi. Aveva gli occhi neri e lucidi come il mare. Alex cercò di chiamare, ma era senza voce. Il cuore cominciò a batterle nel petto, come se volesse balzarle fuori. Il CO penetrava e si diffondeva in profondità nei suoi tessuti polmonari, un vento di molecole che cercavano l'emoglobina del suo sangue, con cui avevano particolare affinità. Dove il CO si legava all'emoglobina, l'ossigeno di cui il suo corpo aveva bisogno veniva meno. Alex incominciò ad asfissiare. Con il sangue avvelenato al trenta per cento, avrebbe incominciato a sentir pulsare le tempie; al quaranta, confusione, nausea, perdita della vista. Il sonno si sarebbe trasformato in coma, il coma in morte. Nel suo sogno, Alex vide un nome sulla barca. Alzò gli occhi e vide che Mark capiva che stava leggendo il nome. Ci volle uno sforzo di volontà per decifrare le lettere: L-I-R-A. Mark indicava freneticamente. Alex abbassò lo sguardo e vide che il liquido nero stava salendo - le si infiltrava già fra le dita dei piedi. Era gelido. Capì che l'acqua era la morte. Guardò di nuovo Mark, ma stava scivolando via da lei, già lontano all'orizzonte, sul mare nero e lucente. Poi lui e la barca non furono che un puntino all'orizzonte. Solo quando fu scomparso completamente Alex capì che il nome della barca non era LIRA, ma LIAR, bugiardo. Si portò le inani al volto e gridò questa parola. E si guardò in giro nella stanza. Era seduta nel letto. Un dolore quale non aveva mai provato sembrava spezzarle il cranio. Si toccò i capelli, cercando con le dita una ferita. Le dite le dolevano. Poi vide che aveva le unghie rosse. Sussultò, avvicinandole agli occhi. Sembrava che fossero pitturate con smalto Day-Glo, un tipo che non metteva mai. E allora, dalle profondità della sua mente, venne l'intuizione di ciò che rappresentava quel colore: carbossiemoglobina. La stavano asfissiando. Incominciò a lottare. Guardò Oscar. Era nello stesso posto in cui si trovava quando si era distesa, ma qualcosa era cambiato: con un'improvvisa scarica di adrenalina, si accorse che non respirava più. Si alzò in piedi. Il pavimento sembrava rollare e beccheggiare come il ponte di una nave. Arrivò con difficoltà vicino a Oscar e prese il suo corpo
afflosciato. Aveva gli occhi vitrei e immobili sotto le palpebre mezze chiuse. Un singhiozzo asciutto le uscì dalla gola. Tornò indietro, tenendo in mano quella cosa morta. Le sembrò di impiegare un tempo infinito per trovare la porta d'ingresso. Le dita si affannavano sulla serratura, finalmente l'aprirono e Alex respirò l'aria delle scale. Vogliono ucciderti. Il pensiero le venne come se qualcun altro stesse cercando di spiegarglielo. Vogliono ucciderti. Mise giù il gatto e tornò nella stanza. Con entrambe le mani alzò la finestra a ghigliottina e rimase lì, inghiottendo l'aria. La pioggia gelata la fece tornare in sé. Si passò la mano sulla faccia. Si sentì prendere da una rabbia dolorosa. Andò direttamente al ripostiglio e aprì la porta. Non sapeva cosa si aspettava di trovare, ma non c'era niente. Solo un vecchio boiler sporco. Poi ricordò la carta asciugante sporca. Avevano boicottato il boiler e si erano puliti le mani. Lasciò andare la maniglia della porta. Doveva fare attenzione a non distruggere le prove. Entrò e spense il bruciatore. Chiamò il 911. Fu solo quando il poliziotto le disse di calmarsi che si accorse di essere in lacrime. «Mi scusi, io...». Strinse gli occhi, facendone uscire le lacrime. «Mi scusi, hanno ucciso... hanno ucciso il mio gatto». «Cosa?». L'uomo sembrava arrabbiato. «Hanno ucciso il mio gatto. Qualcuno...». «Senta, signora. Se qualcuno ha ucciso il suo gatto deve venire qui domani mattina e...». «No, non capisce, hanno cercato di uccidermi». «Ma lei ha detto...». «Hanno cercato di uccidere me, ma hanno ucciso il mio gatto». «Chi?». Alex lottò per chiarirsi le idee e per essere logica. Con la finestra aperta, nella stanza si gelava. Il tavolo si stava inumidendo. «Li ha visti?», chiese ancora la voce arrabbiata. «Li ha visti in faccia?». «No, io...». «Sono ancora nell'edificio?». «lo non... no, non credo». «Bene, ascolti». Parlava come se avesse almeno altri due telefoni sotto al mento. «Se può darmi il suo nome e il suo indirizzo, manderemo subito qualcuno».
Alex disse dove si trovava e mise giù il telefono. «Hanno cercato di avvelenarmi», disse alla stanza vuota. Andò alla finestra aperta. Cosa avrebbero fatto adesso, adesso che avevano fallito? Sarebbero tornati per spararle? Guardando fuori in strada, si chiese se la stavano sorvegliando anche in questo momento. Guardò nelle ombre tra le vecchie case, cercò delle facce all'interno delle macchine posteggiate, ascoltò per sentire dei passi attraverso il rumore insistente della pioggia. Uscì sul pianerottolo e prese il corpo di Oscar. Lacrime le caddero sulla sua pelliccia lucente. La domanda continuava a risuonare nella sua testa. Chi erano? Chi era che la voleva morta? Le stesse persone che avevano distrutto la casa di Liz? Persone abbastanza esperte da attaccare una stufa a una presa della corrente? Da fingere una morte per scossa elettrica? La certezza venne improvvisa, e si chiese perché non le fosse mai venuta in mente prima. Michael Eliot non era morto accidentalmente. L'avevano fatto sembrare un incidente, proprio come la sua morte sarebbe sembrata un incidente. Proprio come l'incendio della casa di Liz era sembrato un incidente. E chi poteva essere più esperto di incidenti di una compagnia di assicurazioni? 37 Harold Tate si massaggiò la sommità del naso e si costrinse a concentrarsi di nuovo sul tavolo luminoso, sopra al quale si trovavano due negativi in bianco e nero delle dimensioni di una radiografia. Ciascuno mostrava una serie di barre nere poco definite, che costituivano delle lunghe colonne. Un pacco di negativi simili, ciascuno protetto da un foglio di carta marrone, giaceva da una parte. Erano le undici passate e il laboratorio era vuoto. Tate aveva mal di testa. Voleva andarsene, ma mancavano solo pochi negativi da controllare e poi avrebbe potuto dimenticarsi di tutta questa storia. Avrebbe potuto considerarla un caso di contaminazione e smetterla di preoccuparsi. Perché si era preoccupato molto. Non era solo l'esigenza di precisione. Era la malattia stessa. La corea di Huntington. Quanto più la studiava, tanto più si allarmava. Le persone non si limitavano ad ammalarsi e morire. Prima cambiavano - personalità, carattere. Avevano violenti sbalzi d'umore. Spesso diventavano paranoiche, vendicative. Imprevedibili. E qualcuno, alla ProvLife, ce l'aveva. Naturalmente, poteva essere un impiegato qualsiasi, qualcuno che non
sapeva niente. Poteva essere un semplice caso di contaminazione. Ma Michael Eliot era a conoscenza delle procedure. Sarebbe davvero stato così superficiale da permettere che avvenisse con il proprio campione? Altrimenti, esisteva la possibilità - una possibilità remota, ma che tormentava Tate giorno e notte - che il campione di DNA fosse stato attribuito a qualcun altro deliberatamente. E solo qualcuno che era a conoscenza dei test poteva pensare di fare una cosa del genere. L'attrezzatura per l'elettroforesi non era molto usata alla Medan in questo periodo. I sistemi automatici usavano tags fluorescenti che cercavano sequenze genetiche specifiche in una soluzione. L'elettroforesi era uno strumento più generale, usato per individuare intere sezioni di DNA e capire com'erano fatte. Era spesso usata nei laboratori scientifici della polizia per analizzare frammenti di pelle, capelli, sangue o sperma trovati sulla scena di un delitto. Certe sezioni di DNA, come se impronte digitali, erano caratteristiche uniche di ciascun individuo. La Medan aveva usato l'elettroforesi all'inizio della sua attività, quando la maggior parte degli sforzi erano rivolti alla ricerca originale. L'idea di Tate era semplice. Se il campione di un'altra persona era stato assegnato a Michael Eliot, forse quello di Michael Eliot era stato assegnato a quella persona. Lui aveva preso l'insolita iniziativa di prelevare un secondo campione da Michael Eliot, perché erano amici, e ciò gli forniva la possibilità di fare un confronto. Se lo trovava tra i campioni della ProvLife, il mistero si sarebbe chiarito. Avrebbe saputo chi aveva la malattia. E se non lo trovava, avrebbe potuto concludere tranquillamente che il DNA di qualcun altro era entrato per caso nel sistema. Si avvicinò al tavolo, col volto a pochi centimetri della luce bianca. Da una parte una foto del DNA di Eliot, una piccola regione del nono cromosoma. Dall'altra parte il campione di un altro dipendente della ProvLife, indicato con un numero di serie a margine. Si avvicinava l'ultimo campione. Usando un righello di plastica trasparente, Tate seguiva le colonne confrontando la forma delle barre, lottando per evitare che gli occhi gli si riempissero di lacrime. Le tempie gli pulsavano per lo sforzo di concentrazione. Erano identici. Tate si alzò, sbatté gli occhi, poi ripeté l'esercizio, più lentamente questa volta. Era stanco. Poteva essergli sfuggito qualcosa. Ma non c'erano dubbi: le due sezioni di DNA erano identiche. Venivano dalla stessa persona. Ebbe un momento di trionfo. Semplice, logico, metodico, aveva affron-
tato il problema e aveva ottenuto il risultato. Proprio come lo scienziato che era, o che era stato. Segnò i numeri di serie e corse nel proprio ufficio. Il computer gli avrebbe detto a chi appartenevano quei numeri, la persona il cui campione era stato scambiato con quello di Eliot, la persona che aveva davvero il gene della corea di Huntington. Mentre digitava i necessari comandi, Tate si fece una promessa: questa volta non avrebbe preavvertito, non sarebbe stato gentile, non avrebbe fornito i suoi consigli. Che scoprisse la verità al momento giusto. Che l'informazione finisse nelle mani di chi aveva pagato per averla. Diversamente, le cose finivano per complicarsi. Il file dei dipendenti della ProvLife apparve. Tate digitò il numero di serie, un dito per volta, attento a non sbagliare. Lo schermo diventò bianco, poi presentò una lista di nomi in ordine alfabetico. In basso, uno di essi lampeggiava lentamente. Era un nome che conosceva. Neumann aveva un piede sul primo gradino quando sentì suonare il telefono. Lo prese nello studio. «Walter?», disse la voce. «Sono Harold. Io... spero di non...». «Credo che abbia sbagliato numero», disse Neumann interrompendolo. «Lo so», disse Tate. «So tutto. Ma c'è qualcosa che devi sapere, qualcosa... di terribile. Che non può aspettare». Per un momento, Neumann non parlò. Tate senti il suo respiro vicino alla cornetta. «Allora sarà meglio che tu venga qui e me ne parli», disse. 38 Era sul ponte a Fall River quando cominciarono a dare gli avvisi per radio. Parecchi fiumi nel nord di Rhode Island e nel Massachusetts avevano già rotto gli argini e adesso la polizia avvertiva gli abitanti delle zone rurali di tenersi lontani dalle strade e di viaggiare solo se assolutamente necessario. La pioggia continuava a cadere - non torrenziale, ma continua, ininterrotta, come se non dovesse finire mai. I deboli fari di Alex colsero dell'acqua che copriva la strada. Rigagnoli fangosi scendevano dalle scarpate e dagli argini alberati, attraversando le distese di neve che svanivano rapidamente. Lasciata l'autostrada, Alex andava per lo più in seconda o in terza, temendo di perdere del tutto la strada. Erano quasi le sette e l'avvertimento della polizia sembrava inutile. Guidò miglio dopo miglio, senza mai
incontrare un'altra macchina. Il vecchio centro di Newport non era mai sembrato più autentico. Buio e vuoto, illuminato solo da deboli lampioni stradali, con i negozi per turisti e le insegne invisibili nell'oscurità, per la prima volta ricordava davvero il triste porto di mare della Nuova Inghilterra creato dai suoi fondatori. Se possibile, Alex si sentì ancora più vulnerabile, qui, più in vista. Dirigendosi verso il mare, non poté evitare l'impressione di essere entrata in un culde-sac, che se l'avessero trovata qui non avrebbe avuto nessuna via di scampo. E nessun aiuto. Controllò lo specchietto retrovisore e si diresse verso la spiaggia. Nel porto dondolavano molte piccole barche, con gli alberi bianchi ondeggianti e i ponti coperti di tela cerata. All'orizzonte, al largo, un'unica luce rossa ammiccava lentamente, accendendosi e spegnendosi. Ben presto si lasciò la città alle spalle. La strada aggirava dolcemente le colline verso Brenton Point. Il cancello della casa di White era chiuso e Alex dovette uscire dall'auto per aprirlo. Una fanghiglia bagnata alta alcuni centimetri copriva il vialetto e schizzava di fianco ai suoi stivali. Mentre entrava con la Camry, le ruote scivolavano e sbandavano, il motore incominciava a fare fatica. In nessun modo avrebbe potuto riportarla a casa. Non c'erano luci accese. Alex guardò la casa, pregando che Randal fosse lì. Nel punto in cui aveva visto la Lincoln non c'era nient'altro che un rettangolo in mezzo alla fanghiglia. Alex avanzò faticosamente, sperando che White avesse appena messo l'auto in garage. Si chiese cosa avrebbe fatto se non c'era nessuno. Non era sicura neanche che la Camry riuscisse a tornare a Newport. Era ancora sul vialetto quando la porta si aprì. «Alex? Sei tu?». Sembrava White, ma Alex non ne era sicura. L'uomo arretrò dalla soglia, mezzo nascosto dalla porta. All'improvviso, Alex si sentì a disagio. Non aveva pensato all'effetto che poteva fare il suo arrivo in questo modo. «Ho cercato di telefonarti. Ho scoperto delle cose che devi sapere, Randal. Scusa se...». «Vieni dentro. Per l'amor di Dio, vieni dentro». Alex si affrettò a entrare. C'erano voci provenienti da un'altra stanza. Sembrava una riunione. Poi capì che era la televisione. «Sei venuta sola?». «Sì, io...».
White chiuse immediatamente a chiave la porta. Aveva addosso lo stesso maglione verde dell'altra volta, con pantaloni di velluto e scarpe da ginnastica. Teneva in mano qualcosa, nascondendolo in parte alla vista di Alex. Lo sguardo di White seguì quello di lei. Era una pistola automatica, grossa, nera e pesante, una Browning o una Beretta. In mano a White sembrava bizzarra, grottesca, parte di una terribile metamorfosi dal raffinato al brutale. Alex istintivamente arretrò. «Una semplice precauzione», borbottò White imbarazzato. «Ho visto l'auto da sopra. Ci sono stati degli... incidenti, ultimamente». Sembrava teso, scosso, come se si aspettasse una visita meno piacevole. Aprì un cassetto nel tavolo dell'ingresso e vi mise dentro la pistola. «Ecco. Mio Dio, sei tutta bagnata. Vieni da questa parte». La portò in cucina, dove c'era odore di aglio e i resti di un'anatra arrosto su un piatto in mezzo alla tavola. «Hai fame? Hai cenato?», chiese White accennando all'anatra. «Posso prepararti un panino, o...». «No, sto bene». «Del caffè, allora? Sì, farò un caffè». Aprì il frigorifero e incominciò a spostare delle cose. «Randal, io credo di sapere...». «Non sono ancora riuscito a parlare a Walter Neumann», disse tirando fuori un cartone di latte e un pacchetto di caffè macinato. «Del tuo... caso. Io... non me la sono sentita di andare in ufficio, oggi, per essere sincero. E credo che sia meglio trattare la faccenda a quattrocchi. Appena torno in ufficio, ti prometto...». «Non è per questo che sono venuta», disse Alex. White interruppe quello che stava facendo e si voltò. «Credo di sapere quello che è successo alla ProvLife. Almeno in parte. So come ha fatto Michael Eliot a procurarsi quei soldi». White aggrottò la fronte. Mise il latte e il caffè sul tavolo. «Ti ricordi l'anomalia che ho scoperto qualche settimana fa? Gli strani dati della Central Records che sembravano modificati?». «Certo. Ti ho chiesto di fare una verifica». Alex annuì. «Proprio così. Questa è la ragione per cui ti sto dicendo tutto questo. Una delle ragioni». White sussultò. «Mi stai dicendo cosa, Alex? Io credevo... avevamo stabilito che la spie-
gazione più probabile era che i dati reali fossero stati persi e che qualcuno avesse nascosto l'errore». «Non credo che sia andata così», disse Alex. «Non più. Credo che ci siano un sacco di dati falsi nel sistema. Polizze che non esistono, richieste di risarcimento false, pagamenti che non dovevano essere fatti». White sembrava molto pallido. Aggirò il tavolo della cucina e si sedette. «Michael Eliot faceva risorgere le polizze morte», disse Alex. «Non so come facesse esattamente, ma di una cosa sono certa: non avrebbe potuto farlo senza l'aiuto di qualcuno della Central Records. Qualcuno come Ralph McCormick». White scosse la testa. Alex non pensava che le sue parole gli avrebbero fatto piacere. Era l'attuario anziano dell'azienda, il guardiano della verità. Se i suoi preziosi dati erano stati corrotti, lui era stato ingannato più di chiunque altro. La guardò. «McCormick è morto. Non lo sapevi? L'hanno trovato stamattina. Un'overdose. Cocaina contaminata». Improvvisamente Alex capì perché White credeva di aver bisogno di una pistola. Il cuore incominciò a batterle. «Ma... Gesù, Gesù... Io credevo che fosse in riabilitazione». «Si è dimesso dopo pochi giorni. È tornato a casa. Ha detto a tutti che era guarito, apparentemente. Dalla sua dipendenza, dico». Per un momento, Alex rimase senza parole. C'erano solo poche persone della ProvLife che dovevano essere coinvolte nella cospirazione, poche persone verso cui puntavano le prove, e due di loro erano già morte. Chi restava? Qualcuno al settore risarcimenti, probabilmente, forse anche a quello investigativo. Ma chi? E la tesoreria, la sottoscrizioni? 1 dirigenti? Il consiglio di amministrazione? «Randal, credo che sia ora di andare dalla polizia e dire tutto quello che sappiamo. Forse possiamo...». «La polizia? Perché dovremmo farlo?». Alex si chinò sulla tavola. Capiva che W'hite era nervoso, sconvolto addirittura, ma non sembrava capace di ammettere la verità. «Randal, non credi che sia stato un incidente, vero?». White si passò una mano sulla faccia. «Ralph era un cocainomane. Si è fatto una dose tagliata male. Capita in continuazione». Si alzò e andò al lavandino. «Lui ed Eliot erano coinvolti in qualcosa», insistette Alex. «Eliot ha de-
ciso di sparire senza dirlo a nessuno, McCormick si è dato alla droga. Entrambi sono diventati inaffidabili e adesso sono morti. Non capisci?». Lo guardò mettere due grossi cucchiai di caffè nella caffettiera, spargendone un po' ai lati. Gli tremavano le mani. «Anche... anche se avessi ragione, Alex, cosa diremmo? Che sospettiamo che la morte di McCormick non sia accidentale? Su quali basi? Chi possiamo accusare, Alex?». «Non dico subito. Dobbiamo prima andare alla ProvLife e procurarci altre prove. Ancora qualcuna». «So che vuoi riavere il tuo posto, ma...». «Non è questo. È successo qualcosa di molto brutto. Sto parlando di frode. Una frode grave. E di omicidio». White tirò giù dal lavandino due tazze. «È una teoria interessante, Alex, ma senza prove...». «Non è una teoria». Incominciava ad arrabbiarsi. Era come se White rifiutasse di capire. «Randal, il dipartimento tesoreria ha pagato risarcimenti per polizze che non esistevano, polizze lasciate scadere anni fa. Ne ho una. Ho fatto un'indagine. La ProvLife ha pagato un milione di dollari per una polizza morta, una polizza scaduta, ed Eliot ha preso il dieci per cento. Ci sono stati altri sei pagamenti come questo, tutti nel mese di novembre». White rimase al lavandino, a guardarla. «Puoi provarlo?». «Potrei», disse Alex. «Se riuscissi a fare entrare la polizia alla Central Records prima che qualche provvidenziale disastro provochi la perdita di metà dei file. Questo è il problema: tutte le prove sono digitali. Anche la vecchia polizza che ho preso non prova niente se non posso dimostrare che c'è stato un pagamento relativo». White rimase immobile, con le braccia strette al petto, appoggiato al lavandino. «Tu capisci», disse lentamente, «che per fare una cosa del genere Eliot avrebbe avuto bisogno di ben altro aiuto che di quello di McCormick. Praticamente tutta l'area operativa dell'azienda avrebbe dovuto essere coinvolta, in un modo o nell'altro». Alex annuì. «Per questo Eliot prendeva solo il dieci per cento», disse. «Il resto andava agli altri. Gli unici dipartimenti di cui non aveva bisogno sono il marketing e forse le sottoscrizioni. E il nostro. Gli attuari si limitano a manipolare dei dati. Non verifichiamo se corrispondono alla realtà».
La testa di White cadde leggermente. «Ci crediamo tanto intelligenti, Randal. Ma la verità è che, quando si tratta del mondo reale, siamo gli ultimi a sapere». White si voltò. «E dov'è il buco, allora? Se abbiamo perso... cosa dici? cento milioni di dollari...?». «In sei o sette anni, forse». «Perché non l'abbiamo notato? Perché non ha influito sui nostri profitti? Finanziariamente siamo una delle mutue più sane del paese». Alex capì che questo era il suo estremo tentativo per convincerla - per convincere se stesso - che si era sbagliata, che i dati non sostenevano le sue ipotesi. «Non lo so, Randal», disse. «Non lo so. Ma riconosco dei dati falsi quando li vedo, e riconosco una polizza falsa». White emise uno stanco sospiro. Fino a quel momento Alex non aveva pensato a ciò che poteva significare per lui il fatto che la ProvLife venisse coinvolta in un grave scandalo. In quanto membro del consiglio di amministrazione, era sicuro di non dover affrontare una causa? E l'azienda sarebbe sopravvissuta? Lei aveva dato per scontato che la cosa giusta da fare era scoprire la verità, che Randal White non si aspettava niente di diverso. Ma forse non era affatto così scontato. «Non riesco ancora a crederci... non posso...». Si sedette al tavolo. «Lavoro in quel posto da quasi venticinque anni. Potrei andare in pensione tra sette. Cosa devo fare?». Alex si allungò e gli toccò un braccio. «Cosa vuoi fare?», si sentì chiedergli. White mise la sua mano sulla sua, guardandola in viso. «Ti dirò quello che voglio», disse con la voce poco più che un sussurro. «Voglio che tu la smetta di correre rischi. Questa storia non deve più preoccuparti». «Ma...». «No, Alex, ascoltami. Voglio che d'ora innanzi la lasci gestire a me. Io sono in una posizione migliore per farlo, in ogni caso. Se solo metà di quello che hai detto è vero, abbiamo di fronte gente molto pericolosa. Non voglio che se la prendano con te». Improvvisamente gli occhi le si riempirono di lacrime. «L'hanno già fatto», disse. Per un momento fu incapace di continuare. Sedette lottando contro le la-
crime e schiarendosi la gola. Randal sembrava sconvolto. «Questa sera il mio appartamento... l'aria, si è riempita di monossido di carbonio. Qualcuno ha manomesso il boiler. Sono quasi...». Non aveva pensato a quando o come dirglielo. Aveva avuto paura che White sarebbe andato direttamente dalla polizia. E voleva avere altre prove, prima che ciò accadesse. Ma la notizia della morte di McCormick aveva in qualche modo cambiato il quadro. White la fissò per un momento. «Oh, mio Dio», disse. Le afferrò le mani attraverso la tavola. «Mio Dio, Alex. Perché... perché non mi hai detto niente? Perché non...?». Per un momento, Alex lasciò che la stretta delle sue mani la confortasse. Non si sentiva a disagio. La loro vicinanza era improvvisamente naturale. «Sto bene, Randal, sto bene», disse. «Ma sono sicura che mi stavano sorvegliando. E ci proveranno di nuovo. È per questo che... che devo reagire alla svelta». Randal la guardò intensamente. Nei suoi occhi azzurri Alex vide improvvisamente qualcosa di più della gentilezza e della saggezza, qualcosa di più forte e vitale. Era lì da sempre, eppure lei aveva sempre rifiutato di riconoscerlo, a causa degli anni che li separavano, perché in fondo non avrebbe mai potuto funzionare. Si preparò ad appoggiarsi all'indietro, per ristabilire la distanza che era sempre esistita prima. Ma quando sentì la sua stretta che si allentava, si trovò a trattenerlo, desiderosa di non lasciarlo andare via. Rimase sveglia a lungo nel grande letto matrimoniale, ascoltando la pioggia fuori e il vento che gemeva tra gli alberi. Per un po' dormì, le inondazioni invasero i suoi sogni agitati. Nella cucina di Randal l'acqua arrivava alla vita, le sedie galleggiavano sulla superficie. La casa di Phillips Street si torceva e gemeva mentre le fondamenta scivolavano lentamente giù per la collina. Vide Oscar disteso in cima alla scala antincendio, la signora Connelly che lottava per uscire da una finestra. Alex cercò di nuotare verso di lei, ma la corrente era troppo forte. Si aggrappò alle auto sommerse e ai paletti bianchi delle recinzioni. Poi stava guardando il palazzo della ProvLife, l'acqua sfiorava la targa che segnava il punto massimo dell'inondazione del '38. Il grande disgelo stava per trascinare in mare tutta Providence, e lei con gli altri. Almeno Mark sarebbe sopravvissuto. Lui era al sicuro a New York. E allora le venne in mente che Mark l'aveva abbandonata, tradita. Se lo immaginò lontano, in Europa, con i suoi dieci milioni
di dollari. Al suo fianco, col suo abito da sera da millecinquecento dollari, c'era Liz Foster. Alex capì di essere stata presa in giro da tutti e due. Alzarono i loro bicchieri verso di lei e risero. Poi si svegliò di nuovo, col cuore che batteva. Mark era al suo fianco, respirava lento e regolare. Emise un lungo sospiro e si abbandonò sul cuscino, sentendo la paura e la disperazione che l'abbandonavano in un solo momento di euforia. Era come se avesse sognato per giorni interi. Poi, con un sussulto, capì dov'era. Era Randal White che dormiva al suo fianco, non Mark. Perché Mark l'aveva tradita. Avevano fatto l'amore. Nella semioscurità, quasi senza parlare. Lo rievocò nella sua testa, quasi incapace di crederci. Lui l'aveva guidata di sopra e lei l'aveva seguito, perché questo era quello che voleva fare. Ricordava il tocco delle sue mani sul suo corpo, una gentilezza e un rispetto che Mark aveva perso da tempo. Ricordava la sensazione di fare la cosa giusta, di cui aveva bisogno, che annullava tutti i suoi dubbi. E ricordava il piacere. Si girò a guardarlo. Un braccio era fuori dalle lenzuola, la sua forma ben scolpita scura contro il lino. Si allungò per toccarlo, ma qualcosa la fece esitare. Cosa doveva succedere adesso? Si rimise sulla schiena e guardò il soffitto pallido sopra di lei. In verità, non ne aveva idea. Non c'erano state promesse, né dichiarazioni. Dovevano continuare come se non fosse successo niente? O era troppo tardi per questo? Il pensiero che aveva impresso alla sua vita una svolta in una nuova direzione senza sapere affatto dove l'avrebbe portata le fece provare un'improvvisa ondata di panico. Che cosa voleva che succedesse, lei? Si alzò lentamente a sedere e guardò la finestra. Le tende non erano tirate e attraverso il profilo dei rami spogli riusciva a vedere il leggero bagliore di Newport in lontananza. Era al sicuro, per il momento, questa era la cosa principale. White la faceva sentire sicura. Poteva cercare di vivere alla giornata, per una volta, prendere quello che poteva e andare avanti di momento in momento. A che cosa serviva fare programmi quando tante cose erano incerte? Randal White l'avrebbe capita. Sentiva che lui capiva un sacco di cose. Uscì dal letto. Non voleva rimettersi a dormire e aveva un gran bisogno di mangiare qualcosa. Erano giorni che non faceva un pasto come si deve. Cercò i vestiti, trovò il maglione e i jeans e se li infilò il più silenziosamente possibile. Era in fondo alle scale quando lo sentì. Riconobbe il rumore, sempre
presente in sottofondo alla ProvLife, parte dell'eterno rumore d'ambiente che si impara a ignorare: la stampante di un computer. Si arrestò, girando la testa di qua e di là nel tentativo di isolare il suono, incerta se fosse reale o immaginario. Andò verso la cucina e si fermò di fronte a una porta sulla destra nel corridoio. Rimase in ascolto. Il rumore era quasi impercettibile, adesso. Fuori, sentiva il sibilo continuo della pioggia. Da qualche parte, l'acqua precipitava da una grondaia intasata. Tornò indietro di un paio di passi. Guardò in giù. C'era una fessura nel pavimento. Si inginocchiò e mise l'orecchio per terra. Il rumore veniva dalla cantina. Le ci volle solo un momento per trovare le scale. Poi aprì una porta e scese nella completa oscurità. Un odore di muschio saliva dalle fondamenta della vecchia casa, leggermente dolciastro, come di cartone vecchio. Il rumore si sentiva più chiaramente, adesso. I suoi piedi nudi toccarono del cemento freddo. Da qualche parte entrava della luce. Quando i suoi occhi si furono abituati, scorse un passaggio. White si voltò sulla schiena e guardò il soffitto. Il letto era vuoto e per un attimo pensò di aver sognato. Fu il suo corpo a dirgli quello che era successo. E l'odore di lei. Un odore che era dappertutto. «Alex». La chiamò sottovoce. Ascoltò un momento. Poi buttò le gambe fuori dal letto e si alzò. Alex avanzava, i piedi nudi silenziosi sul pavimento di cemento. La stampante era ancora in piena attività - la sentiva benissimo adesso - a getto d'inchiostro, a giudicare dalle vibrazioni del rullo. Si trovò davanti a una stanza chiusa. Ascoltò per sentire se c'erano altri rumori - fruscio di vestiti, un respiro - ma non sentì nulla. Toccò la maniglia. Non era chiusa a chiave. La spinse dolcemente. I cardini emisero un gemito appena udibile. Vide scaffali di metallo pieni di rapporti rilegati, una scrivania, una lampada orientabile col paralume verde, un video e una tastiera, e poi la stampante da un lato. Non era uno studio. Quello era di sopra. Era piuttosto una postazione di lavoro. Entrò. Il computer e la stampante erano ancora al lavoro. Sembravano dei dati provenienti da qualche parte, che venivano registrati sull'hard disc e contemporaneamente stampati. Il computer doveva far parte di una rete simile alla rete interna della ProvLife - a meno che Randal non avesse navigato in internet e si fosse dimenticato di uscire. Stava per andarsene
quando la colpì un'idea: e se questa macchina fosse davvero parte della rete ProvLife? Quando White lavorava da casa, aveva le stesse possibilità di accedere alla Central Records di quando era in ufficio? Perché, in questo caso, raccogliere le prove sarebbe stato molto più semplice. Si avvicinò alla scrivania. Come se sentisse la presenza di un'estranea, la stampante si fermò immediatamente: l'ultimo foglio di carta uscì dal rullo e si depositò ordinatamente in cima al mucchio. Sullo schermo del video, apparve un riquadro con la scritta DATI RICEVUTI E VERIFICATI RIPETI ANALIZZA ESCI Alex si chiese quali dati arrivavano in piena notte. Certo non dati attuariali. I dati attuariali venivano faticosamente elaborati a partire dai dati grezzi, le tavole e le tendenze più recenti pubblicate in periodici di settore. Erano statistiche di seconda mano. Avvicino l'ultima pagina stampata alla luce. Immediatamente capì di avere davanti agli occhi qualcosa di familiare. Due tabelle di numeri identici, righe e colonne, con in cima le note formule: MCP1B, LQTS1, HTCH4. Erano i risultati di un altro test genetico, come quello che Michael Eliot aveva fatto alla Medan. Ed ecco il numero del richiedente nell'angolo in alto a destra: AP1005178. Alex incominciò a sentirsi a disagio. Perché l'attuario anziano della ProvLifè si preoccupava di controllare i risultati dei test genetici delle persone? Perché Randal White doveva interessarsene, quando aveva sempre detto di essere contrario ai test genetici per principio? Prese un'altra pagina, e un'altra ancora. Ciascuna recava i risultati di un test diverso, di richiedenti diversi. La stessa struttura, numeri differenti. Continuò a prendere nuove pagine. I fogli le caddero ai piedi: formavano un'intera risma. C'erano dozzine, centinaia di test. Tanti test, in un mese, quante erano le richieste che riceveva la ProvLife. E allora capì: questi non erano alcuni degli esami a cui veniva sottoposto chi sottoscriveva una grossa polizza, da un milione di dollari in su. Erano troppi. La ProvLife testava chiunque. Benny non le aveva forse detto che il procedimento sembrava automatico? Non si metteva in piedi un procedimento automatico se non si avevano quantità di lavoro industriali. Premette A per Analizza. Per un paio di secondi non accadde nulla, poi nella parte alta dello schermo apparvero alcune righe di testo:
N.:AP1005178
Nome: T. J. Adair Sesso: M Lotto: 84.98JA1 Nato il: 17-03-59 POSITIVI: Nessuno Nessun fattore di rischio conosciuto RISCHIO: BASSO >ACCETTARE< PRECEDENTE SUCCESSIVO RICERCA ESCI Il numero del richiedente indicava che Alex stava guardando l'analisi del primo test del mucchio, quello di un uomo di nome Adair - un uomo la cui richiesta di polizza, a quanto pareva, sarebbe stata accettata. Nove geni testati, nove risultati negativi. Era un buon rischio. Niente corea di Huntington per lui, niente cancro alla prostata, niente - qual era il gene per cui Benny si era tanto emozionato? MCP1B. Il killer numero uno, aveva detto. Il gene dell'attacco cardiaco. White si arrestò a metà delle scale. Qualcosa si muoveva dietro le tende del pianerottolo. Andò avanti, col cuore che gli batteva in gola. Qualcuno era entrato in casa sua, aveva rapito Alex. Aprì di colpo le tende. Il vento e la pioggia entravano da un'incrinatura del vetro. Il ghiaccio doveva aver fatto gonfiare il telaio di legno finché si era distorto e aveva provocato la rottura. Lo fissò per un momento, trattenuto dal suono malinconico. Poi riprese a scendere. Raggiunse il tavolino all'ingresso e tirò fuori la pistola. Alex si sedette sulla sedia. Non ci aveva pensato, finora. Gli attacchi cardiaci erano di gran lunga la principale causa di richieste di risarcimento per le compagnie di assicurazione sulla vita -rappresentavano quasi un terzo del totale. Se si potevano individuare alcune delle vittime potenziali, alcuni di questi potenziali risarciti, quanto si sarebbe risparmiato? Quanti milioni, anno dopo anno, avrebbe guadagnato una compagnia di assicurazioni? Cosa sarebbe successo ai profitti di una compagnia come la ProvLife? Il cuore incominciò a batterle. Tornò alla tastiera e premette C per Cerca. In mezzo allo schermo apparve un riquadro che le chiedeva di specificare ciò che voleva cercare. Alex batté ATTACCO CARDIACO. Il cursore lampeggiò, poi apparve un messaggio:
NESSUN FILE TROVATO CERCA ANCORA? SÌ / NO «Stupida». Attacco cardiaco non era un termine preciso, né per i medici, né per gli attuari. Alex provò di nuovo, battendo questa volta le parole INFARTO MIOCARDICO. Il cursore lampeggiò di nuovo. Poi apparve una nuova pagina di analisi. N. : AP1004812
Nome: W. A. Hewitt Sesso: M Lotto: 81.97NO2 Nato il: 18-11-55 POSITIVI: 1 RISCHIO:
Gene MCP1B Trombosi coronarica/ Infarto miocardico ALTO Probabilità morte in < 10 anni = 60% >RIFIUTARE<
PRECEDENTE SUCCESSIVO RICERCA ESCI Andò alla pagina successiva: un altro gene maligno, un altro rischio ancora più alto, stavolta, perché un secondo gene minacciava il verificarsi di una cosa chiamata sindrome da QT lungo. La terza pagina era simile alla prima, ma si riferiva a una donna e il suo rischio per qualche ragione era minore. Alex passò di pagina in pagina, sempre più veloce, scorrendo nomi e verdetti di persone i cui destini genetici erano stati analizzati e trovati difettosi senza che loro ne sapessero nulla. E in fondo a ogni pagina la stessa semplice raccomandazione: RIFIUTARE. Per un attimo, Alex temette di sentirsi male. Si portò le mani alla fronte, sbattendo le palpebre per combattere la confusione. Li vedeva, là fuori, nei camping per case mobili, nei condomini popolari, nei ricoveri dell'assistenza sociale: i soggetti a rischio, quelli venuti male, i geneticamente corrotti. Non assicurabili. Non assumibili. Fardelli sulle spalle sempre più deboli della società. Era proprio l'incubo di cui Randal White parlava conti-
nuamente: un'eugenetica segreta. La comprensione fu seguita dal rifiuto. Non voleva crederci. A niente. Rimase seduta lì, sconvolta, poi respirò una, due volte, si impose di riflettere. C'era almeno un problema con le sue ipotesi. Se la ProvLife testava i richiedenti, avrebbe dovuto prendere dei campioni - di sangue, pelle, saliva. E ciò era impossibile. Sì, coloro che facevano richiesta per polizze molto grosse si sottoponevano a esami medici, ma erano una piccola percentuale del totale. Normalmente, solo i venditori entravano in contatto diretto con i potenziali clienti. L'unico materiale fisico che passava dai richiedenti all'azienda erano i moduli standard che aveva visto lavorare a migliaia alla PrimeNumber. Si mise una mano sulla bocca, scoppiando quasi a ridere al ricordo: Roberta e le altre donne che aprivano le buste prepagate con i loro tagliacarte di plastica, ammucchiandole ordinatamente di fianco alla scrivania, pronte per il recupero. Le buste. Erano le buste. Heymann è un maniaco del riciclo. È una cosa da imparare quando si arriva qui. Tom Heymann non le era mai sembrato il tipo dell'ecologista. Non sorprendeva che si fosse messo un po' in allarme quando una giovane apprendista era comparsa dagli uffici centrali, ansiosa di imparare gli aspetti del lavoro della ProvLife legati all'acquisizione di dati. Era un peccato che se ne fosse andata così presto. Altrimenti si sarebbe potuta chiedere perché i furgoni della Greenfield Recycling venivano tutti i giorni e dove andavano effettivamente: non a qualche cartiera fuori dallo stato, ma alla Medan Diagnostics, ad appena un paio di miglia di distanza. E a questo serviva la PrimeNumber. Adesso lo capiva. L'accordo con la compagnia esterna non aveva affatto lo scopo di ridurre i costi. Era solo più sicuro svolgere l'operazione lontano dagli uffici centrali, in qualche posto da schiavi dove le donne ubbidivano agli ordini e nessuno faceva domande. Negli uffici centrali c'erano decine di quadri intermedi pagati per occuparsi di cose come il riciclo della carta, che potevano chiedere perché le nuove domande non si potevano trattare un po' più rapidamente. Da quanto tempo esisteva quell'accordo? Secondo White, da almeno sette anni. Anche i test erano incominciati allora, o ancora prima? Sette anni fa la ProvLife lottava e cercava di salvarsi mediante una fusione o delle alleanze. Poi le cose avevano incominciato ad andare meglio, anno dopo anno, finché l'azienda era diventata una delle compagnie assicuratrici più ricche del paese. E non era neppure illegale, solo poco etico. Nessuna legge diceva che non si poteva analizzare la saliva di qualcuno, se ve la manda-
va. E migliaia e migliaia di persone l'avevano fatto, mescolandola alla colla dal sapore cattivo, sulle loro buste prepagate. Che audacia. Che semplicità. E tra quelle migliaia, un dirigente della ProvLife: Michael Eliot. Perché dopo tanti anni aveva improvvisamente voluto conoscere i risultati del suo test genetico? Perché aveva aspettato fino a novembre per servirsi della straordinaria strumentazione aziendale? Alex si sentì rizzare i capelli sulla nuca. Conosceva la risposta. A novembre l'azienda aveva lanciato il suo progetto pilota sulla sanità, quello rivolto ai dipendenti. Tutti avevano aderito, come clienti qualsiasi, solo che a loro non veniva chiesto di pagare. Anche lei aveva aderito. Il vento rinforzava di nuovo, lo sentiva sopra di lei. Poi ci fu qualcos'altro. Dei passi? Il pavimento scricchiolò sulla sua testa. Trattenne il respiro e premette di nuovo C per Cerca. Questa volta batté le cinque lettere del suo cognome. Il computer sembrò metterci un tempo infinito per far passare tutti i file. Il disco rigido girava, la lucina verde lampeggiava. Poi si fermò. Alex incominciava a pensale che la linea si fosse interrotta, come i telefoni in precedenza. Invece, improvvisamente, se lo trovò di fronte. N.: AP5000438
Nome: A. S. TYNAN Sesso: F Lotto: 80.97NO1 Nato il: 25-06-73 POSITIVI: 1 RISCHIO:
Gene BRCA1 Tumore seno / ovaie ESTREMO >RIFIUTARE<
PRECEDENTE SUCCESSIVO RICERCA ESCI 39 Le macchine incominciarono ad arrivare davanti alla casa di Neumann, il rumore dei motori si confondeva con quello della pioggia. Da una finestra al piano superiore, Harold Tate le contò. Sei, finora. Berline normali, confortevoli, ma non vistose. Grigie, nere, blu scuro. Macchine tipiche,
medie. Ciascuna guidata da un multimilionario. La Oldsmobile di Guy Pilaski fu l'unica che Tate riconobbe. I fari di un'altra macchina illuminarono il tronco di una piccola sequoia e poi girarono diretti verso la casa. Una Lexus nera. Così erano sette in tutto. Tate sentì porte che sbattevano e voci che sussurravano. Attese, passeggiando su e giù per lo studio, chiedendosi se aveva fatto la cosa giusta raccontando a Neumann quello che sapeva, chiedendosi cosa avrebbero fatto adesso. La bocca del suo stomaco gli diceva che poteva essere qualcosa che lui non voleva fare. Poi Neumann apparve sulla porta. «Siamo pronti per te, adesso», disse. Erano seduti a un tavolo rotondo in salotto, sotto una cappa di fumo azzurrino. Apparivano stanchi, irritabili, ansiosi. Quando Tate entrò nella stanza, lo guardarono tutti come se fosse l'imputato in un processo per un omicidio particolarmente efferato. Tate riconobbe Newton Brady e Donald Grant e credette di individuare un paio di altre facce viste al funerale, ma per il resto erano degli estranei. I suoi contatti con la ProvLife erano sempre stati minimi, volutamente. Tom Heymann e Mark Ferulli sedevano ai lati di Bradv, mentre Grant sedeva di fronte a David Mullins, Guy Pilaski e Dean Mitchell. Neumann prese posto a capotavola e accennò a Tate di sedersi al suo fianco. Qualcuno nell'ingresso chiuse le porte. «Ho chiesto a Harold di essere presente perché credo che dobbiate sentire le novità direttamente da lui», disse Neumann. Rivolse il suo sguardo cupo su Tate. «Harold, perché non ci racconti esattamente quello che é successo con il campione di Michael Eliot?». Gli ci vollero circa cinque minuti per spiegarlo. Descrisse le procedure di sicurezza della Medan, procedure destinate a evitare proprio il tipo di confusione che sembrava essere capitato. Poi parlò dei test di Eliot e del fatto che il secondo non corrispondeva al primo. «Non capisco perché non sei venuto da me, Harold». Era Guy Pilaski che aveva parlato. Scrutava Tate al di sopra di un paio di buffi occhiali di tartaruga. «lo... semplicemente non ho...». «Cosa diavolo stai dicendo?». Era Newton Brady. Fumava un grosso Cohiba, già umido e mangiucchiato a un'estremità. «Che Michael Eliot non ha mai avuto quella roba di Huntington? È?». Tate annuì. Parecchie persone si agitarono sulla seggiola. Tate si chiese
se lo sapessero già. Se Margaret Eliot gliel'avesse detto. Sembrava di no. Era qualcosa, almeno. «Gesù Cristo. E allora perché voleva scappare?». «Lui... credeva di averla». «Perché tu gliel'hai detto», disse Neumann. «Giusto, Harold?». Tate scosse la lesta. Aveva infranto le regole. Ufficialmente e personalmente, la Medan non doveva avere alcun contatto con la ProvLife. Allora non ci aveva visto niente di male. Solo adesso incominciava a capire quanto male in realtà ciò comportava. «Era... eravamo vecchi amici. Sentivo di doverglielo dire personalmente. Prima che i risultati dei test venissero rimandati all'azienda. Pensavo solo che fosse giusto che lo sapesse per primo. Nessuno ci ha visto». Tate era sicuro che Neumann non avrebbe lasciato cadere la cosa, non se la sarebbe cavata con delle semplici scuse. Per un momento, ci fu silenzio. «Michael ti ha chiesto di tenere segreti i risultati del test, vero? Di non farceli sapere». Tate l'aveva già detto a Neumann, ma Neumann voleva che sentissero tutti. «Ti ha chiesto di trattenerli fino all'inizio dell'anno». «È così», disse Tate. «E tu hai accettato». «Sì». «Però non hai mantenuto la parola, giusto?». «Non credevo che...». «Giusto, Harold?». Tate scosse la testa. «No. Randal White mi ha telefonato. Voleva i risultati prima di Natale. Sapeva che li avevamo. Non sapevo come negarglieli». Neumann sorrise. Sembrava quasi che si stesse divertendo. «Hai fatto la cosa giusta, Harold. Grazie a te, siamo stati allertati. Abbiamo potuto incominciare a tenerlo d'occhio». Le teste si chinarono intorno al tavolo. Le persone si interessarono improvvisamente alle loro mani, o a una penna o a un accendino. Brady si occupava della cenere del suo sigaro. Non volevano ricordare quello che era successo a Michael Eliot, soprattutto ora. Ferulli continuava a guardale di qua e di là, col viso rosso. Neumann notò la reazione con i suoi occhi a cui non sfuggiva nulla e continuò. «Ci siamo chiesti che cosa voleva fare Michael con un set di valige nuove di zecca. Perché aveva prenotato l'aereo per l'Europa. Ci siamo chiesti se in qualche modo non avesse scoperto la sua malattia, e perché non ce ne
aveva parlato». Tate si mise la mano sulla faccia. «Tutto grazie a te, Harold». «No, io... io non ho...». «Ma sì, invece, Harold. Hai rimediato alla tua precedente... indiscrezione in maniera splendida». Per un momento, Tate credette di non capire. Dentro di sé, aveva sempre saputo, ma in qualche modo non aveva mai voluto crederci: l'avevano ucciso. Ed era colpa sua. Se solo Eliot gli avesse detto quello che aveva in mente di fare, gli avesse spiegato ciò di cui aveva paura, almeno Tate avrebbe potuto avvertirlo. Ma Eliot non si era fidato di lui. Il fatto che avesse rubato gli esami lo dimostrava. Aveva voluto delle prove, adesso era chiaro - prove dei test, in modo che se gli altri lo inseguivano, poteva minacciare di rivelare l'intera operazione. E che ne sarebbe stato del suo buon amico Harold Tate, allora? Sarebbe finito insieme agli altri. «Doveva dircelo», ruggì Brady. «Michael era su una cattiva strada». Si tolse il sigaro di bocca e puntò l'estremità mangiucchiata verso Tate. «Ero molto deluso da lui. Molto deluso. Credevo che avesse più carattere. Più... fibra morale. Ci ha tradito». Tate alzò gli occhi e incontrò lo sguardo di Mark Ferulli. Si chiese chi fosse. Oltre a lui, era l'unico ad apparire spaventato. «Allora chi l'aveva?». Tutte le teste si voltarono verso Donald Grant. «Chi aveva il gene della malattia?», disse. «Se Eliot non l'aveva. Non ci verrai a dire che le tue macchine se lo sono sognato, no?». Grant era una persona che Tate non conosceva. Lui e Guy Pilaski erano stati soci, un tempo, anche se Tate non sapeva bene in che campo. Nei primi tempi, Grant era stato la principale liaison tra la Medan e la ProvLife, e aveva aiutato a organizzare le cose. E qualsiasi cosa Grant dicesse, Pilaski la faceva. Neumann annuì, apprezzando la domanda di Grant. «Harold pensa che il campione di Eliot sia stato sostituito deliberatamente, prima che lui lo vedesse. Da Randal White». «Sostituito?», chiese Brady. «Non capisco. Con quale campione l'avrebbe sostituito, per Dio?». «Con il suo», disse Neumann freddamente. «Secondo me, ha semplicemente scambiato le buste, mandando a Eliot quella corrispondente alla propria domanda. Eliot probabilmente non ha notato che i numeri non cor-
rispondevano. Brady rimase a bocca aperta, col sigaro a pochi centimetri dalle labbra. Nessuno parlò. «Quindi White ha la malattia», disse finalmente Grant. «Ne sei sicuro?». Neumann appoggiò le lunghe mani pallide sul tavolo e le guardò. «Ti ricordi, Don, quel pranzo che abbiamo fatto al Capitol Grille? Il novembre scorso, all'inizio di novembre». Grant non rispose. «White disdisse l'appuntamento. Non venne». «Me ne ricordo», disse Brady. «Era ammalato». «Aveva un appuntamento col suo medico, quella mattina. Credo che allora abbia avuto la cattiva notizia». Qualcuno disse: «Gesù Cristo». Dean Mitchell. Neumann lo ignorò. «Vi immaginate come si dev'essere sentito? L'intera operazione dei test è stata un'idea sua. Lui aveva tutti i numeri. Sapeva come potevamo salvarci. Oh, lo so che Richard Goebert amava prendersi il merito», gettò un'occhiata a Mullins e Pilaski, «ma è stato White quello che l'ha pensata, che ha immaginato come si poteva fare e come si poteva tenere segreta. E poi un giorno, dopo anni che si individuavano ed eliminavano i soggetti a rischio, scopre che lui stesso rischia di essere eliminato. Era tutta una sua idea, e lui sarebbe stato l'unico a non goderne i frutti. Tutta... tutta quell'intelligenza a vantaggio di gente come Michael Eliot». «Povero figlio di puttana», disse Brady scuotendo la testa. «Sapevo che non gli piaceva Eliot, ma...». «Forse pensava solo di prendere tempo», disse Neumann senza molta convinzione. «Forse non voleva farcelo sapere, non riusciva a sopportare... l'umiliazione. Se avesse rifiutato di partecipare al progetto pilota e di fare la sua domanda, sarebbe sembrato molto strano. Avremmo indovinato che cercava di nascondere qualcosa. Così, invece, ha fatto una sostituzione». «Era molto ansioso di fare i test, me ne ricordo», disse Mitchell. «Ha insistito». «Puoi scommetterci», disse Grant. «Poi telefona a Tate e dice mandami i risultati di quei test - prima di Natale. Sapeva che forse Eliot sarebbe scappato e avrebbe fatto qualche altra cazzata, e voleva che lo sorvegliassimo. Bastardo figlio di puttana». «In ogni caso», disse Neumann, voltandosi ancora una volta verso Tate con un sottile sorriso, «se tu non fossi stato così diligente da fare un secondo test sul tuo amico, con un nuovo campione, la... duplicità di Randal
non sarebbe mai emersa. Sembra che ti dobbiamo essere grati anche per questo». Tate sentì un'ondata di panico. Neumann stava facendo in modo che tutto sembrasse una sua iniziativa, e che anche il passo successivo - Tate lo sentiva arrivare - fosse una sua idea. «Sentite, io ho solo pensato che dovevo sapere. Non mi assumo nessuna responsabilità...». «Tutti ci assumiamo la responsabilità», lo interruppe Grant. «Di tutto. Nella stessa misura. Questo dicono i patti. Harold. Questo dice la polizza. E sai cosa dice ancora? Dice che continuiamo finché non è il momento di smettere. E allora ci salutiamo. Ciascuno per sé. Nessuno deve turbare il progetto». «Si, ma...». «Niente ma, Harold. Tu hai firmato. White ha firmato. Fine della storia». Tate si azzitti. «Per come la vedo io», disse Neumann cercando di apparire più positivo, «questa è un'occasione per lasciarci alle spalle un capitolo infelice. Se ci pensiamo bene, tutte le nostre difficoltà datano dalla... non collaborazione di Randal. Finora la nostra forza è sempre stata la capacità di pianificazione, ma in ogni sistema esiste la possibilità di sorprese. Il punto è affrontarle». Grant guardò intorno al tavolo, fissando tutte le facce, assicurandosi che tutti capissero di cosa si stava parlando. Brady sbuffò. «A me sembra che Randal non sia più dei nostri», disse facendo cadere un altro centimetro di cenere nel portacenere. «Credo... credo che questa malattia l'abbia sopraffatto». «Dicono che la demenza sia uno dei sintomi», disse Neumann comprensivo. «Un simile deterioramento mentale può portare a comportamenti molto... imprevedibili». Mullins tirò fuori il fazzoletto e si tamponò la fronte. Sembrava che sudasse molto. Grant lo studiò un momento. «La verità è che probabilmente non gliene frega più un cazzo», disse. «Chi può dargli torto? Non ha più un futuro, no?». Mormorii dispiaciuti si levarono da tutte le parti. Poi la stanza rimase silenziosa. Sembrava che nessuno volesse fare il passo successivo. «Come al solito, Don ha messo il dito sul problema fondamentale. La domanda, la domanda a cui dobbiamo rispondere ora, è: quanto futuro
possiamo concedere ancora a Randal White?». 40 Premette Stampa. Poi lesse l'intero documento una, due volte, controllando la data di nascita e il nome, come se potesse riferirsi a qualcun altro, e si concentrò, con le mani che le tremavano, sulla sua nuova sigla, il nuovo termine che la definiva: BRCA1. La sigla era compressa, criptica. Le faceva pensare ai tatuaggi che si vedevano ancora sui sopravvissuti ai campi di concentramento. Le faceva venire in mente sindrome di Down, thalidomide, Alzheimer, Huntington - tutti i termini neutri usati per indicare i diversi tipi di incubi a occhi aperti. Oltre la sigla, spuntavano realtà dure e precise: cancro al seno; cancro alle ovaie. Il suo futuro. Quello che sarebbe successo. Chiuse con forza gli occhi e ne strizzò fuori un basso gemito di angoscia. «Alex? A-lex?». La cantilena di White giunse attenuata attraverso il soffitto. All'improvviso fu presa dal panico, si allontanò dal video, afferrò il fascio di stampate scivolate per terra, cercò di metterle in ordine, di fare sembrare tutto come se quello che era appena successo non fosse successo, di riportare indietro l'orologio. Raggiunse l'interruttore e lo premette. Era al buio, appoggiata alla porta, e si sforzava di sentire dei passi sulla scala di legno. Ma non c'era niente, solo il rumore lontano della pioggia e il suo respiro irregolare. Poi vide quello che stava facendo. Si passò una niano sulla faccia e inghiottì le lacrime. Si stava nascondendo come se quello che aveva scoperto fosse un furto qualcosa che riguardava un'altra persona. Ma non era così. Riguardava proprio lei. Era il suo destino, e il destino di altre persone - che arrivava su un nastro trasportatore come piselli in scatola in attesa di essere scelti. White le aveva mentito. Su tutto. Aprì di scatto la porta e risalì le scale facendo due gradini alla volta. Non c'era segno di lui nell'ingresso o nel salotto. Lo trovò in piedi al buio in cucina, il suo corpo seminudo illuminato solo dalla luce verdastra del frigorifero aperto. L'espressione era vacua, la bocca aperta. Alex si avvicinò alla porta, vide la pistola, si bloccò. Leggeva tutto in maniera diversa, ora. La pistola, aveva detto White, era per proteggersi. Ma il fatto che lo dicesse lo rendeva vero? Non più. White sembrava non essersi accorto della sua presenza. Canticchiava
qualcosa tra sé, guardando la luce fredda. Alex stava per parlare, quando la testa dell'uomo improvvisamente si alzò di scatto, come se fosse stata colpita. Vide i tendini del suo collo tendersi come i raggi di una ruota e la sua testa oscillare dolorosamente di qua e di là. Così come aveva incominciato, smise. Sbatté le palpebre stupidamente per un momento, poi si chinò nel frigorifero. Quando tirò fuori la inano, aveva qualcosa che luccicava. Se la mise in bocca e la inghiottì, poi si leccò le dita e il palmo, avidamente. «Randal?». Sobbalzò e si girò. Aveva qualcosa intorno alla bocca e sul mento. La guardò un momento, poi guardò il foglio che aveva in mano. «Alex. Cos'hai in mano?». Lei glielo porse come se fosse un biglietto malizioso che adesso lui doveva spiegarle. «Il mio futuro», disse semplicemente. «Il mio futuro». White guardò il foglio, annuì, si portò la pistola alle labbra. «Ho visto», disse. «Mi hai mentito». La voce di Alex era poco più che un sussurro. «Sai...». White aggrottò la fronte e si pulì distrattamente la bocca con la canna della pistola. «Sai, c'è una serratura su quella porta. Di solito la chiudo. Sempre. Ma... questo, questo è accaduto pochi giorni fa. Quello di cui sto parlando. È accaduto pochi giorni fa. E allora ho perso la chiave. Ho perso la... maledetta chiave». Cercò di sorridere, ma la sua guancia era sottoposta a una tensione intermittente che gli tirava la bocca all'ingiù. «Avrei perso la testa... se non fosse che...». Si strinse nelle spalle, rinunciando alla frase per stanchezza. Puntò l'arma verso di lei - non verso di lei, intuì Alex, ma verso il foglio che aveva in mano». «Mi dispiace molto, Alex. Avrei... Non è colpa mia. Non è colpa di nessuno». Alex guardò il pezzo di carta. Dieci centimetri di informazioni che si concludevano con la parola RIFIUTARE. Lo strinse nel pugno e gridò. Poi si gettò su di lui, graffiandolo, picchiandolo e scalciando. «Fottuto... fottuto bugiardo, schifoso bugiardo...». White arretrò, allungando le braccia, cercando di bloccarla, di tenerla ferma. Caddero contro gli armadietti della cucina, scivolarono di lato. Attraverso il suono dei propri singhiozzi, lo sentì piangere e pregare. «Devi credermi, Alex... per l'amore di Dio... devi credermi». Poi le forze l'abbandonarono. Cadde su di lui, sentì le sue braccia che la
circondavano, sentì la pistola contro la spalla. «Non è giusto». Non sapeva se stava dicendo le parole, o solo pensandole. «Non è giusto». L'auto prese una cunetta a tutta velocità, facendo sobbalzare i passeggeri, trattenuti dalle cinture di sicurezza. Il grande tergicristallo andava avanti e indietro, avanti e indietro. Ferulli guardava il volto di pietra infantile di Grant. Grant teneva il piede premuto, come se non credesse alla possibilità che qualcuno venisse in direzione contraria. Si muoveva troppo veloce, sorrideva troppo, fumava Kent senza interruzione - e correva, tutto eccitato. «Un casino del diavolo», disse. Era la prima cosa che diceva da quando avevano lasciato la casa di Neumann, e fece trasalire Ferulli. «Cosa?». «Un casino del diavolo - tutta questa storia». Ferulli non sapeva cosa dire, non sapeva neanche se Grant volesse fare conversazione. Alla fine decise di non dire niente e si limitò a guardare in avanti attraverso il parabrezza, osservando i lampioni che scomparivano nella pioggia. Era incredibile che fosse arrivato dov'era così alla svelta cioè in acque profonde, dove non toccava, ben lontano da qualsiasi posto per lui riconoscibile. Capì che si trovava esattamente dove volevano che si trovasse: Grant stava andando a uccidere White. Questo era il patto. Niente di esplicito era stato detto alla riunione, a parte l'accenno al futuro limitato di White. Neumann aveva semplicemente guardato i volti lì riuniti e aveva detto a Grant: «Credo che siamo tutti d'accordo». Era stata un'idea di Grant quella di portarlo con sé. «Prendo il ragazzo», aveva detto con atteggiamento rozzo. Grant aveva una pistola, Ferulli lo sapeva, e c'erano due fucili sul sedile posteriore, avvolti in un cappotto. Ma cosa sarebbe successo? Anche limitandosi ad assistere all'omicidio senza fare niente per impedirlo l'avrebbe reso complice. Ma aveva la sensazione che Grant volesse qualcosa di più compromettente. «Come...?». Ferulli non sapeva come dirlo. Soprattutto, come sempre, voleva apparire freddo, controllato. «Come si...?». La testa di Grant si voltò di scatto. «Cosa?».
Ferulli si schiarì la gola. «Come facciamo? Come hai intenzione di fare?». Il sorriso di Grant diventò teso e cattivo. Diede un tiro alla sigaretta. «Bruciamo i documenti in padella», disse. «Ci vuole un minuto. Gli tagliamo la testa. Gliela facciamo saltare per aria». «Cosa?», disse stupefatto. «Non hai mai fatto saltare per aria una testa? Certo, così bisogna fare. Per i denti. Pallottole in bocca, labbra chiuse con la colla. La metti in forno al massimo. Boom». Gli gettò un'occhiata, sempre sorridendo, succhiandosi il fumo nei polmoni. «Rilassati, piccolo. Non siamo ancora arrivati». Ferulli sentiva che stava arrivando, adesso. Sapeva che Grant lo prendeva in giro, ma lo vedeva ficcare una pallottola nella testa di White e poi dargli la pistola perché gliene ficcasse un'altra nel corpo. Qualcosa del genere. Era così che uccidevano la gente, no? Che si garantivano la lealtà delle persone. Aveva le mani fredde, posate in grembo. Non poteva farlo. Assolutamente no. Non era un assassino, per Dio. Cosa avrebbe detto Grant se rifiutava? Cosa avrebbe fatto? Sentiva ancora le paiole di Newton Brady: Mi sembra che Randal non sia più dei nostri. Ferulli guardò fuori nel buio. Pensa ai soldi, si disse. Pensa ai soldi. C'era voluto solo un mese perché il primo pagamento finisse sul suo conto corrente. Centoquarantamila. Non erano mancati i consigli da parte di Mullins su come impiegarli. Aveva già un conto a Grand Cayman. Ben presto ne avrebbe avuti in Lussemburgo, Svizzera. Troppi conti, aveva obiettato. Ma Mullins era stato irremovibile. «Il mese prossimo sarà lo stesso», aveva detto. «Ricordatene». Il mese prossimo sarebbe stato lo stesso, e il successivo, e il successivo ancora, e i conti si sarebbero accumulati finché lui sarebbe stato un uomo ricco. Era come un sogno che si avverava. Nel giro di un anno sarebbe stato... unì le mani e le strinse insieme, eliminando l'ondata di frustrazione. Dall'inizio, tutto era stato rimandato. La prima cosa che avevano fatto era stata di costringerlo a restituire la macchina. Brady gli aveva parlato nel suo ufficio. «Comprati una Porsche, comprati una Aston Martin, comprati una fottuta Ferrari», aveva detto, «ma fallo al momento giusto». Ma il momento giusto era a quasi otto anni di distanza. Fino ad allora, non doveva fare niente che attirasse l'attenzione su di lui. Mentre lasciava l'ufficio di Brady, il boss aveva detto: «Nel frattempo, comprati una normale berlina. E, Mark, assicurati che sia grigia o di un colore simile».
Grigia. Questo era quello che volevano. Perché così doveva essere lui: incolore, normale, medio - come l'andamento di Providence stessa, proprio in mezzo al mucchio delle altre compagnie. Così adesso non poteva restare un'ora senza pensare a come sarebbero state le cose l'anno prossimo, o l'anno successivo, o fra dieci anni. Aveva incominciato a comprare delle riviste, passava ore a studiare cataloghi e dépliant - col naso appiccicato alle scintillanti finestre che davano sul suo futuro dorato. Ma per il resto era bellissimo. Come un trucco magico. Nessuno veniva danneggiato. Nessuno veniva danneggiato per quei soldi. Era come se venissero dal niente. Tutto ciò che facevano era utilizzare le informazioni, selezionare le persone. Non ne soffrivano. Andavano semplicemente altrove. Quelli che venivano danneggiati - Eliot, McCormick - era per colpa loro. Avevano firmato l'accordo, avevano avuto i benefici, e poi avevano cercato di tirarsi fuori. Ferulli aggrottò la fronte, osservandosi le unghie. Non ci si poteva tirare fuori, questo era chiaro. La sua unica preoccupazione era Alex. Quello che le era accaduto era difficile da giustificare. Era sbagliato. Ma era una ragazza in gamba, decisa, anche. Non ci avrebbe messo molto a rimettersi in pista. E dopo tutto, se non fosse stato per lui - che l'aveva allontanata dalla traccia - si sarebbe trovata in guai molto peggiori. E White... be', White era una necessità. Se lo meritava. «Un bel casino del diavolo», disse Grant, di nuovo in forma. «Se lo merita», disse Ferulli, sorpreso dal tono della propria voce. E quando Grant lo guardò: «White... è pazzo. Ha cercato di rovinare l'intera operazione. Non ne aveva il diritto». Grant annuì con forza. «Sono contento che la pensi così, Marky», disse. E scoppiò in una delle sue risate fumose a bocca aperta. «Renderà molto più facile quello che devi fare». Erano seduti a tavola, con la pistola tra di loro. White indossava un cappotto adesso e beveva Château Pétrus da un calice. Non si erano neanche preoccupati di accendere la luce. Il frigorifero era aperto, ronzante, e gettava ombre sul tavolo, come se fosse la maniera più normale per illuminare una stanza. White parlava tenendosi la bottiglia davanti alla bocca, gli occhi fissi sulla venatura del tavolo, come un uomo in trance. Voleva farle capire, voleva raccontarle tutta la storia. Solo allora lei avrebbe potuto giudicare. Alex lo guardava, confusa, priva di energie, affondata nella sua nuova realtà.
Era incominciato tutto nell'87. La ProvLife, i cui profitti stavano già calando, aveva toccato il fondo quando una serie di investimenti immobiliari erano andati male. Improvvisamente, il bilancio si trovò pieno di buchi. Si era parlato di trasformarla in una piccola compagnia azionaria, e di fonderla con un concorrente. Tutti loro sapevano che la quotazione azionaria avrebbe portato alla compravendita, mentre la fusione avrebbe significato per molti la perdita del posto. Nessuna delle due opzioni era molto attraente. Coinvolgere la Medan Diagnostics era stata un'idea di White. Era strano, una svolta quasi casuale. La ProvLifè aveva messo piede alla Medan all'inizio degli anni Ottanta, e il consiglio di amministrazione era ben consapevole dei numerosi passi avanti che avevano fatto quei laboratori. L'azienda era promettente, ma commercialmente zoppa. Aveva avuto successo nell'individuare un paio di geni che sembravano responsabili di comuni malattie cardiache, la principale causa di risarcimenti per le assicurazioni. Ma si era all'inizio, e non era affatto chiaro quali sarebbero state le applicazioni della nuova tecnologia, o all'interno di quali regole si sarebbe dovuto operare. La ProvLife aumentò il proprio peso nell'azienda, poi se ne impadronì. Nuovi finanziamenti portarono a rapidi progressi nei procedimenti diagnostici. «All'improvviso... fu come se potessimo vedere al buio», disse White. Alex ricordava quello che aveva detto Ben Ellis sulle stampate, che indicavano un'importante scoperta. «Ma questa scoperta», disse. «Perché non l'avete divulgata? Perché non l'avete fatta conoscere a tutti?». White scosse la testa e sorrise. «Perché sarebbe stato da stupidi farlo. La scienza è un business, Alex. Senza dubbio lo era, alla Medan. Il problema era come guadagnarci. Scoprire un gene cattivo non vuol sempre dire che si possa fare qualcosa. L'azienda avrebbe potuto lavorare vent'anni e non approdare a nulla. E la verità era che non potevamo permetterci di aspettare tanto a lungo». Alex non rispose. Non sapeva cosa credere. White si mosse sulla sedia e continuò «Per le polizze superiori ai centomila dollari avevamo incominciato a fare gli esami del sangue per l'AIDS - e, segretamente, per l'alcol e i narcotici, come molti dei nostri concorrenti. Fu facile utilizzare la tecnologia della Medan per migliorare quei test. Dove trovavamo una predisposizione - alle malattie cardiache, all'Alzheimer, al tumore al seno o alle ovaie, al tumore
alla prostata, al morbo di Huntington - proponevamo un premio molto alto e il contratto veniva firmato altrove. I pagamenti incominciarono a diminuire, non tanto da risolvere la nostra pericolosa situazione finanziaria, ma abbastanza perché un attuario diligente lo notasse. Ben presto fu ovvio che ciò di cui avevamo realmente bisogno era un sistema di selezione su tutte le domande di polizza. Il problema era che le persone che si assicuravano per meno di centomila dollari non volevano fare gli esami del sangue. C'erano delle regole sulla privacy, norme non scritte applicate in tutto il settore». «Così avete incominciato a usare le buste», disse Alex senza espressione. White sorrise. «Non è stata un'idea così geniale. Succedeva già in tutte le sezioni della polizia scientifica. Si potevano prendere esempi di DNA dal retro dei francobolli. Ci siamo chiesti perché non potevamo fare qualcosa di simile. Capivamo che il nostro tipo di azienda - un'azienda con grande volume d'affari e poco margine - era perfettamente adatta. Noi raggiungiamo la maggior parte dei nostri clienti attraverso i loro datori di lavoro». «Lo so. E allora?». «In questo modo i richiedenti sigillano da sé le buste, senza lasciarle al coniuge - abbiamo pensato anche a questo. E poi siamo passati ai tentativi. Harold Tate ha lavorato sugli adesivi per ottenere risultati ottimali per quanto riguarda la ritenzione di DNA. Non potevamo cambiare la colla usata dalle poste degli Stati Uniti, ma potevamo fare le nostre buste. Era nato il modulo di adesione della ProvLife». Alex prese il bicchiere di vino e bevve. «La PrimeNumber», disse. «Tutte quelle donne con i tagliacarte. Evitavate la contaminazione, mantenendo intatte le chiusure». «Era così semplice», disse White. «E funzionava. Come in un sogno». «Come in un incubo». White annuì, abbassò lo guardo. «Istruimmo i venditori della ProvLife affinché lasciassero i moduli di iscrizione al consumatore», disse. «Abbiamo anche creato uno slogan pubblicitario: 'I venditori della ProvLife non concludono un affare, aprono un dialogo'. Qualcosa del genere. Le persone potevano riflettere sul contratto che gli offrivamo. Quando erano pronte, potevano spedire il modulo direttamente alla PrimeNumber o riconsegnarlo al venditore in ufficio. Questo voleva dire che chiudevano le buste. Alla fine avevamo due serie di dati:
quello che ci dicevano loro, e i dati oggettivi che lasciavano nella colla». Alex incominciava a capire come tutto si tenesse. «Naturalmente c'erano dei problemi», continuò White. «I campioni non sempre arrivavano in buone condizioni: c'erano contaminazioni, oppure le buste venivano chiuse dalle persone sbagliate. Non era un sistema perfetto. Ma non doveva essere perfetto. Ci bastava un margine, ma ottenemmo molto di più. Scoprimmo che potevamo eliminare i rischi su scala industriale». «Ma ... è tutto così...». «Poco etico», disse White. Guardò Alex con un'espressione di tristezza divertita. «Naturalmente sì. Ma i problemi erano meno chiari, allora. Tutto questo settore stava appena incominciando a...». Ma Alex non era tanto stanca da lasciar correre. «Stronzate, Randal. Sapevate esattamente cosa...». «Non facevamo del male a nessuno, Alex. Non dimenticarlo. Le persone che rifiutavamo andavano da qualche altra parte, e intanto... intanto noi sopravvivevamo. La ProvLife sopravviveva». «Ma, Gesù Cristo, ma tutti i tuoi discorsi sull'imperativo morale, tutte le tue prese di posizione?». «Ipocrisia», disse White. «Ipocrisia necessaria. Ma la creazione di... come dire?... una sottoclasse, diventa un problema solo se tutto il settore incomincia a fare quello che facevamo noi. E chi sa cosa stanno già facendo? In un certo senso, il fatto che facessimo una selezione, il fatto che guadagnassimo grazie a ciò, ci rendeva possibile assumere una posizione antiselezione, umanitaria». «Una posizione che vi faceva molto comodo». «Sì, certo. Era logico, commercialmente, che fossimo contro la selezione, ma eravamo contro comunque». Alex provava schifo. Guardò fuori dalla finestra della cucina, scuotendo la testa. Era tutto così distorto. E la cosa peggiore è che White riusciva a trovare un modo per salvarsi la coscienza. Poi un altro frammento andò al suo posto. Alex era rimasta così confusa, così sconvolta dalle cattive notizie, che non aveva capito il rapporto, ma adesso vide come tutto si collegava. «I soldi», disse continuando a guardare la pioggia. «Ecco da dove venivano. Avete creato... avete creato i conti correnti fasulli, quelli della Ocean State, per incrementare i pagamenti. Stavate guadagnando troppo». «La selezione si rivelò molto più efficace di quanto avevamo previsto,»
disse White. «Da una posizione svantaggiata rispetto al resto del settore, rischiavamo di stracciare tutti. Il margine di guadagno continuava a crescere. Minacciava di farci scoprire. Le persone l'avrebbero notato, si sarebbero chieste perché. Così, all'inizio, i falsi conti correnti furono fatti solo per tenere i guadagni sotto controllo. Per evitare gli eccessi. Scegliemmo delle polizze scadute di clienti del posto e modificammo i dati in modo che le nostre statistiche restassero in linea con le medie del settore». «Le statistiche sugli attacchi cardiaci, per esempio». «Soprattutto per gli attacchi cardiaci. Sai, Alex, l'anno scorso l'incidenza dei veri risarcimenti per attacco cardiaco alla ProvLife è stata di quasi il ventinove per cento più bassa di quello che avrebbe dovuto essere secondo le tavole attuariali. Ventinove per cento». «Dev'essere stato un buon anno». «McCormick ha dovuto lavorare duro per sistemare le cose». White sorrise con un angolo della bocca. «Purtroppo, Ralph non capiva i numeri casuali neanche lontanamente bene quanto te». «E ha aumentato il numero dei proprietari di spider finché non ha corrisposto alla media del settore». «Molto goffo», disse White. «Avrei dovuto controllare personalmente, ma non mi è mai venuto in mente di fare una verifica incrociata così bizzarra. Attacchi cardiaci e spider...». Scosse la testa divertito. «E mi hai mandato alla PrimeNumber per mettermi fuori strada», disse Alex. «In modo che tu potessi entrare nel sistema e rifare i numeri a caso». White si strinse nelle spalle. «E per mettere Heymann in difficoltà. Non mi è mai piaciuto». «E i soldi?». Per un attimo, White sembrò deluso. Fece un sospiro incerto. «Abbiamo creato una serie di conti correnti bancari a nome dei falsi risarciti...». «Con Mullins». «È stato Neumann a organizzare la cosa. Dovemmo pagare Mullins, naturalmente. Perché quello che gli chiedevamo di fare era... illegale. Poi.. poi, be'...». Per la prima volta White parve sinceramente a disagio. 1 suoi occhi assunsero un'espressione supplichevole. «Avete pensato che dovevate essere pagati anche voi», disse Alex.
Grant inserì le cartucce nei fucili a pompa e ne spinse uno tre le mani gelate di Ferulli. Si mise una manciata di proiettili nelle tasche e fece cenno a Ferulli di restare in silenzio. Incominciarono a muoversi lungo il vialetto, verso la casa. Attraverso la pioggia si scorgeva una luce accesa al piano di sopra. Da basso, una finestra era illuminata da una strana luce verdastra. Ferulli si trovò quasi immediatamente inzuppato. Quando Neumann gli aveva telefonato, si era infilato rapidamente un impermeabile e un paio di mocassini. Le scarpe resistettero circa un minuto, poi i suoi piedi incominciarono a sguazzare nell'acqua. A sei o sette metri dalla casa, Grant si fermò è indicò col dito. Disse qualcosa che Ferulli non capì per il rumore dell'acqua. Dovette avvicinarsi per sentire. «È in cucina», disse Grant, il suo alito caldo contro l'orecchio di Ferulli. Lo afferrò per il mento e lo guardò negli occhi. «Tu resti qui fuori e aspetti. Io troverò un modo per entrare. Okay?». Ferulli annuì, sbattendo gli occhi per liberarli dalla pioggia. Grant si chinò verso di lui. «Okay?». «Sì, okay». Ferulli dovette gridare al di sopra della pioggia. «Anche questo è lavoro», disse Grant. «Nient'altro». Ferulli guardò Grant che spariva oltre l'angolo della casa. «All'inizio eravamo in dodici», disse White. «E ciascuno reggeva un angolo della rete. Ma anche dividendo per dodici, i soldi arrivavano come un torrente in piena». Si versò l'ultima goccia di vino dalla bottiglia. «Diventò un problema. Eravamo inondati di soldi. Ce n'erano troppi. Era chiaro fin dall'inizio che nessuno doveva sapere, al di fuori del nostro circolo, né fidanzate, né mogli». Alex pensò a Margaret Eliot. Ecco cos'aveva avvelenato il suo matrimonio: i soldi. Ecco cos'aveva cambiato l'atmosfera della ProvLife: i soldi. Pensò a Mullins con il suo Patek Philippe. Pensò a Mark con le sue riviste porno-automobilistiche. Scoppiavano tutti dalla voglia di spendere, ma dovevano farlo discretamente, furtivamente, o non farlo del tutto. Indicò la bottiglia sul tavolo. «Il vino che stai bevendo, quanto?». White lo studiò un momento. «Alex, non credo...». «Il prezzo. Mi piacerebbe saperlo».
«Quella bottiglia? Tremila dollari». «Tremila dollari la cassa?». «La bottiglia. Il mio agente l'ha presa a Londra da Sotheby». Alex rimase senza fiato. «Sono... sono cinquecento dollari al bicchiere, cinquanta dollari per ogni sorsata. È osceno». «Alex, sono solo...». «Solo soldi», disse Alex. «Lo so». White scuoteva la testa. «Alex, sto cercando di... di spiegarti come tutto...». Lo sguardo di disprezzo della ragazza lo bloccò. Alex attese un momento, poi si strinse nelle spalle. «Continua. Non scappo mica. Almeno finché non smette di piovere». «Alex, non potevo tirarmi indietro, anche se avessi voluto». «Di cosa stai parlando?». «Della polizza. Così la chiamiamo. Uno scherzo, in un certo senso, credo. Sei anni fa c'è stato... uno scontro. Goebert voleva ritirarsi prima del previsto. Gli altri non erano d'accordo. "Se se ne va lui, perché non posso andarmene anch'io?". E così via. Eravamo a casa di Neumann. Ci rendemmo conto allora, quel pomeriggio, che se uno di noi si ritirava, dovevamo sostituirlo, e la cosa poteva rivelarsi molto rischiosa. Inoltre, se le persone incominciavano ad andarsene e a spendere i loro soldi, potevano essere notate e qualcuno poteva fare delle domande. Per cui facemmo un patto. Stabilimmo per quanto tempo il piano doveva andare avanti, come saremmo andati tutti in pensione o ci saremmo trasferiti altrove in momenti prestabiliti nel corso degli anni seguenti. Ciascuno di noi aveva una data, una data di rilascio... qualcosa da aspettare. Non potevamo semplicemente prendere i soldi e scappare. La cosa doveva finire poco per volta in modo che le persone che entravano in azienda non si accorgessero di niente. E avrebbe funzionalo. Poco per volta, dovevamo semplicemente lasciar passare sempre più clienti a rischio». «A rischio come me?». White la fissò, ma non disse nulla. «Ma poi Eliot tentò di scappare», disse Alex. «Esatto. E noi... ci prendemmo cura di lui». «Vuoi dire che l'avete assassinato». «Proprio come avrebbero assassinato me. Aveva rotto il patto. Senza pensare alla situazione in cui ci lasciava, era scappato. Gli mancavano solo cinque anni».
«Cinque anni che non credeva di avere. Anni che erano diventati più preziosi di tutti i soldi messi da parte». White fissò la luce fredda del frigorifero. «Sì... credo di sì». «Quindi l'hai ucciso tu». «L'ha ucciso Grant», disse White. «Io non c'entro niente». «Grant? Credevo si occupasse solo di indagare sugli incidenti». White scosse la testa. «Lui... Il suo curriculum è un po' più complesso. Usano lui perché... be', con tutta la sua esperienza, tutti gli incidenti che ha visto, è... possiamo dire un esperto nel suo campo». «Ed è stato Grant che ha cercato di uccidere anche me?». «Grant o uno dei suoi uomini. Non capisci ancora? Devi venire via con me. Io posso proteggerti. Posso darti tutto quello di cui hai bisogno, tutto quello che vuoi». Alex rise. Non era una risata divertita. Non sembrava affatto sua. «Alex, non c'è più niente per te, qui», disse White sottovoce. «Non c'è più niente per te a Providence. Vieni con me». «Venire dove? In Francia? Nel tuo convento?». «Perché no? Saremmo liberi, Alex. Tu saresti libera». Le stava chiedendo di andare a vivere la vita di una milionaria nel sud della Francia. Era la stessa offerta che Michael Eliot aveva fatto a Liz. White si chinò in avanti. «Pochi anni di felicità, Alex, in...». Un rumore all'interno della casa - un click deciso - fece gli voltare la testa. Rimasero in ascolto per un momento. La mano di White afferrò la Beretta. Una corrente gelida aveva incominciato a soffiare dall'ingresso. White si alzò in piedi, con la Beretta nella destra. Accese la luce. Dal punto in cui si trovava, Ferulli lo vedeva chiaramente. Era in piedi e dava le spalle alla finestra, guardava verso la porta che portava verso l'interno buio della casa. Poi vide la pistola che White teneva in mano e si irrigidì. Sperò che Grant sapesse quello che faceva. Guardò il proprio fucile e si accorse con un sussulto che la luce della cucina illuminava anche lui. Arretrò nell'ombra. E vide Alex. «Cos'è?», disse Alex ammiccando alla luce violenta. Donald Grant apparve sulla soglia e sparo. La prima scarica colpì White,
gettandolo contro la tavola come un pupazzo di stoffa. Alex urlò e si gettò da una parte. All'esterno, Ferulli incominciò a correre diretto verso la finestra, con l'arma alzata, urlando. «Lei no». Tre passi. Due battiti cardiaci. Il tempo dilatato. Grant mise un proiettile in canna, prese la mira, premette il grilletto. Ferulli sparò per primo. La finestra esplose con uno schianto. Schegge di legno colpirono il soffitto. Ferulli sbatté con forza contro la parete. Sparò, sparò, sparò - tre colpi nel riquadro dove prima c'era la finestra. Frammenti di vetro e di stucco caddero a terra. Il fumo si alzò verso il soffitto come una lenta lingua di fuoco. Non c'era segno di Grant. Ferulli scavalcò l'infisso rotto della finestra. «Alex?». Alex era appoggiata a un armadietto, con la faccia sporca di sangue. «Alex, sei ferita?». Non sembrò riconoscerlo. Respirava con affanno, le pupille erano puntini terrorizzati. Teneva la pistola tesa davanti a sé. «Mark?». Grant sembrò emergere dal pavimento. Ferulli si voltò, sparò troppo tardi. Grant gli ficcò due proiettili nel corpo, colpendolo al torace da una distanza di un metro e scagliandolo contro la finestra, morto. Grant emetteva un gorgoglio faticoso dalla gola. Alex scorse i suoi denti fracassati nella bocca piena di sangue mentre si voltava per cercarla con quello che rimaneva dei suoi occhi. La Beretta le sussultò in mano. Non smise di sparare finché non ebbe vuotato il caricatore. Pioveva. Non aveva mai smesso. Un ruggito continuo. Alex era crollata a terra, con le gambe piegate sotto di sé. Il suono dei propri singhiozzi a riportò alla realtà. La pioggia entrava bagnando le tende. Guardò la pistola che aveva in mano. Sapeva che era quella di White, ma non capiva come aveva fatto a prenderla. Sembrava incapace di lasciarla. Aveva le nocche bianche per la tensione della presa. «Axe». Una voce. Indistinta, sepolta. Come se venisse da sotto terra. Alex la riconobbe. Si trascinò sul pavimento. White era disteso su un fianco, con gli occhi che sbattevano, e lottava per respirare.
«Alxe». Cercava di dire il suo nome. Buttò via la pistola e gli afferrò il volto con le mani. C'era una sola ferita, profonda, alla sommità del naso. «Randal, sei ferito?». C'era sangue dappertutto. Troppo. Sangue misto a terra, vetro, stucco, legno. Cercò altre ferite, ma non ne trovò. «Axe». Lo mise sulla schiena e cercò di sollevarlo a sedere. Qualcosa si ruppe con un rumore sommesso di carne. Attraverso il buco del cappotto si vide una costola arrossata. Il cappotto era inzuppato di sangue. White rabbrividì violentemente e agitò convulsamente le gambe. «Alex», disse, ora con voce perfettamente chiara. «Sono qui». I suoi occhi vagarono un po', poi la trovarono. «Mi... mi dispiace molto, Alex». La vista di Alex si oscurò. White cercava di dire ancora qualcosa, ma lei non riusciva a sentirlo al di sopra della pioggia. Si avvicinò alla sua bocca. «Volevo solo...», bisbigliò White. Cercò di inumidirsi le labbra con la lingua. «Sì?». «Insieme». Alex arretrò e lo guardò in viso. Aprì il cappotto e inorridì. C'era un buco delle dimensioni di un ananas. Un lembo di pelle era impigliato tra le costole frantumate. Il sangue sgorgava ritmicamente. «Volevo che noi...». Le prese la mano e gliela strinse. Alex lo guardò trattenendo il fiato. «Tutti e due», disse lui. «Nella stessa...». La lingua si muoveva all'interno della bocca. Inghiottì dolorosamente e tossì, lottando per riprendere fiato. «Randal?». «Tutti e due», rispose. Un'espressione di profonda sorpresa gli si dipinse sul volto e spinse in avanti le labbra, come per un bacio. Alex uscì sotto la pioggia. Veniva giù come se fosse la fine del mondo, come un Diluvio finale. La guardò lavare il sangue dalle sue mani, prima i palmi, poi il dorso. Il sangue sotto le unghie creava delle mezzelune scure.
21 AGOSTO Alex, seduta al volante del camioncino, guardò Robby e Buck Leith, il tizio dell'azienda che aveva fornito i finanziamenti, che percorrevano lo stretto sentiero, col vento che gli sollevava le falde della giacca e scompigliava i documenti che avevano sotto il braccio. Robby camminava rigido, ancora teso per la litigata che avevano dovuto interrompere perché lui potesse presentarsi a Leith sorridente e professionale. Il contadino che erano andati a trovare era al lavoro su un grosso John Deere 530. Alla sua destra e alla sua sinistra, tremavano e ondeggiavano campi di orzo. All'orizzonte, in lontananza, un silo di metallo si levava alto e bianco contro il cielo sempre più scuro. Alex si morse le labbra e pregò che il tempo reggesse. Ci sarebbe mancata solo la pioggia: secondo le previsioni di Robby, il tempo sarebbe rimasto asciutto almeno per una settimana ancora. L'umidità aumentava, ma le masse d'aria sui Grandi Laghi dovevano essere ancora abbastanza calde da impedire una condensazione significativa. Certo, statisticamente parlando, un temporale imprevisto non significava che l'intero modello Sunscape fosse inutile, ma a cosa serviva a un contadino che aveva in gioco la sua fonte di reddito - che voleva sapere quando era meglio seminare e raccogliere? Sunscape doveva dimostrare la sua validità, oppure Leith e la sua azienda non avrebbero investito. Da quando aveva lasciato Providence, Alex era stata contenta di gettarsi nel mondo della meteorologia e della climatologia, aiutando Robby a perfezionare i complessi modelli informatici che aveva creato l'anno precedente. Poco per volta, in maniera quasi impercettibile per molte persone, il clima del Midwest stava cambiando. Le temperature massime stavano salendo. Le minime salivano ancora più rapidamente, prolungando la stagione del disgelo, ma favorendo anche lo sviluppo di parassiti e piante perenni. Robby aveva avuto ragione in una cosa: l'idea che l'uso ottimale dei terreni stava cambiando aiutava a stimolare il mercato delle tecnologie predittive. Metà dei contadini del Michigan erano già collegati alle informazioni satellitari e informatiche del National Climate Data Center. Era stata proprio l'occasione di cui Alex aveva bisogno. Dedicandosi al lavoro, godendosi lo spazio e la libertà del Midwest, affezionandosi a Robby di giorno in giorno - le era sembrato di ricominciare da capo. Ma ben presto l'inizio era finito e Alex si era trovata nel pieno di quella che sua madre avrebbe definito «una situazione». Malgrado i continui dubbi
sul futuro dell'azienda - Robby non si stancava mai di spiegare che loro lavoravano in quel campo - avevano raggiunto una specie di stabilità domestica; ma forse a causa della natura instabile della zona in cui lavoravano, Robby aveva incominciato a insistere perché lei prendesse una decisione. Dopo tre mesi che dormivano insieme, Alex aveva chiaramente capito che Robby voleva soprattutto una moglie e una famiglia. Tutte le volte che lei esprimeva dei dubbi in proposito, lui immediatamente, a volte scherzando, la prendeva come un'osservazione sulle sue capacità di farsi strada nel mondo, di riuscire in quello che faceva, di costruirsi una famiglia. Lei lo amava, no? La loro riunione, dopo due anni di lontananza, era stata quasi comicamente appassionata. E allora cosa c'era? Il litigio che avevano appena interrotto riguardava i bambini, o più precisamente il figlio appena nato di un amico e l'esempio che esso offriva dei vantaggi della procreazione. Robby, come al solito, sosteneva che l'unica ragione per cui Alex non voleva impegnarsi seriamente era che lo considerava instabile, generatore di instabilità. Ma c'erano anche altre ragioni, naturalmente. La notte degli omicidi se la ricordava ormai con difficoltà. La sua violenza l'aveva ferita da qualche parte, lo sapeva, come se le avesse bruciato un relè nel cervello. Di punto in bianco, vedeva Grant che si girava per cercarla, e sentiva un'ondata di terrore, come se fosse ancora sul pavimento della cucina - lo stesso terrore, non diluito dal passare dei mesi. Robby le diceva che era più tesa di un tempo, e aveva incominciato a soffrire di emicranie. Alcuni istanti le continuavano a tornare in mente. Era all'aperto, sotto la pioggia, tremante - per il freddo, lo shock, o entrambe le cose. Poi veniva colta dal desiderio di scappare, di allontanarsi senza guardarsi indietro. Era il senso di disgusto più forte che avesse mai provato. Il solo pensiero di entrare in casa la faceva svenire. Era di nuovo in macchina, con la mano sulla chiave, quando capiva quello che voleva dire la sua fuga: più tempo per gli altri per scappare, cancellare i file e distruggere le prove. Più possibilità di restare liberi. E un giorno sarebbe stato di nuovo il suo turno di restare vittima di un disgraziato incidente, uno di quegli incidenti che capitano tutti i giorni. Aveva preso il telefonino nel vano per i guanti e aveva fatto il 911. Gli interrogatori andarono avanti all'infinito, o così le era parso. Erano arrivate molte macchine, con le luci rosse lampeggianti. Il rumore della pioggia era stato sostituito poco per volta dal gracchiare delle radio della polizia. Le luci si erano accese e spente in tutta la casa. Una serie di estra-
nei le avevano fatto domande, molti di loro le stesse, come se cercassero di coglierla in contraddizione. L'ululalo delle sirene aveva interrotto le sue risposte. Qualcuno le aveva portato una coperta. Poi una tazza di caffè da un thermos. Quando due donne poliziotto l'avevano scortata all'ufficio dello sceriffo della contea, l'intera casa era circondata dal nastro che indicava il luogo di un delitto. I detective non avevano avuto fretta di accusarla di omicidio. C'erano troppe pistole e troppi cadaveri per questo. Alle cinque avevano smesso di fare domande e avevano incominciato ad ascoltare Alex che rendeva una piena deposizione, spiegando tutto quello che aveva saputo sulla ProvLife e le sue operazioni illegali. Alle otto una serie di mandati di cattura erano stati emessi a nome di parecchi dirigenti della ProvLife e altre persone implicate nella congiura. Alex era stata finalmente riaccompagnata a casa alle quattro del pomeriggio seguente. Al suo arrivo, aveva trovato un altro poliziotto che interrogava la signora Connelly a proposito dell'uomo che aveva fatto visita alla sua casa e gli addetti della scientifica che cercavano impronte digitali sul suo boiler. Il mattino seguente il corpo di Liz Foster era stato trovato in un canale all'estrema periferia di New London. Individuare i principali sospetti aveva richiesto un certo tempo. I diligenti della Medan, Harold Tate e Guy Pilaski, erano stati presi a casa; così pure Dean Mitchell, direttore del settore risarcimenti. David Mullins era andato al lavoro come se niente fosse alla Ocean State, aveva fatto una telefonata e aveva immediatamente deciso di avere un impegno urgente altrove. I detective l'avevano preso mentre usciva. Nella sua valigetta aveva due milioni di dollari in titoli al portatore europei. Newton Brady era stato arrestato all'aeroporto poiché la partenza del suo volo per Montreal era stata ritardata dal maltempo. La Lexus di Tom Heymann era stata trovata abbandonata al Bradley International Airport, presso Hartford, Connecticut, ma il suo nome non si trovava su nessuna lista di passeggeri. In seguito si scoprì che era fuggito in Canada. Da allora non si era più saputo niente di lui. Walter Neumann era riuscito ad arrivare in Europa con un passaporto falso, ma era stato preso in custodia a Ginevra ed era in attesa di estradizione negli Stati Uniti. I procedimenti per l'estradizione erano in corso anche per l'ex presidente Richard Goebert, che era andato a vivere in Venezuela. Finora, tali procedimenti erano risultati inefficaci. Per quanto riguarda i due uomini che avevano commesso l'omicidio di Liz Foster, non erano mai stati identificati. Il compito di sporgere denuncia - per frode, se non per omicidio - si era
dimostrato più facile. Harold Tate e David Mullins avevano fornito delle prove, e la loro conoscenza di entrambi i lati dell'intrigo - l'esame dei richiedenti e la creazione di pagamenti falsi - insieme alla testimonianza di Alex, erano sufficienti a completare il quadro. Si scoprì che nei sette anni da quando era incominciata l'operazione, la ProvLife aveva guadagnato più di centoventicinque milioni di dollari in falsi pagamenti - dichiarando nello stesso tempo un costante aumento dei profitti. Era difficile sapere esattamente a chi appartenevano questi fondi nascosti. In quanto mutua, la ProvLife non aveva azionisti, e benché tecnicamente i clienti fossero i proprietari dell'azienda, chiedere dei soldi ottenuti in maniera tanto immorale era difficile, soprattutto per il rischio di un numero ancora imprecisato di cause civili. Intanto, una serie di processi penali erano previsti a partire dalla fine di settembre. Alex sapeva che sarebbe stata convocata per testimoniare, probabilmente parecchie volte. Temeva il ritorno, i ricordi di quell'inverno, proprio come temeva di svegliarsi alla dura realtà della propria condizione. Ma, come per i risultati dei test della Medan, ignorarla non avrebbe migliorato le cose. Due settimane prima era andata da un medico a Rochester e aveva chiesto un test genetico. Non che sperasse che i risultati sarebbero stati diversi da quelli ottenuti dalla ProvLife. Era semplicemente ora di discutere le implicazioni pratiche con qualcuno che le capiva, per quanto spiacevoli fossero. Ed era ora di dirlo a Robby. Finora non ne aveva avuto il coraggio, ma una volta che le informazioni sul proprio futuro le fossero appartenute ufficialmente, dietro sua richiesta - non avrebbe più avuto scuse per tenerle segrete. Avrebbe dovuto dirgli la verità: che con ogni probabilità non sarebbe arrivata viva ai quarant'anni, e che se anche ci fosse arrivata, i necessari trattamenti preventivi potevano lasciarla sterile. E poi avrebbe dovuto lasciarlo. Perché, per quanto potesse protestare - e sapeva che l'avrebbe fatto - non aveva il diritto di condannarlo a questo destino. Lui, o qualcun altro. Qualunque fosse il suo futuro, avrebbe dovuto affrontarlo da sola. Quella mattina l'ospedale aveva lasciato un messaggio sulla segreteria telefonica, chiedendole di richiamare. Mentre Robby cercava di impressionare Leith, poteva farlo. Annuì a se stessa mentre scendeva dal camioncino, incominciando finalmente ad accettare ciò che sapeva di non poter evitare. Avrebbe comunque dovuto tornare a Providence per qualche giorno, per i processi. Allora avrebbe rotto con Robby, dicendogli che era finita. E sarebbe sparita di nuovo, tornata da sua madre. Si asciugò gli occhi con il
dorso della mano. La sua breve, dolce stagione di sogni stava per finire. Attraversò il cortile diretta alla fattoria, tenendo d'occhio preoccupata le nuvole che si radunavano. Un collie che sonnecchiava sulla veranda si alzò in piedi e abbaiò il suo benvenuto. Alex stava per bussare alla porta quando una donna comparve all'angolo della casa, con un rotolo di filo spinato. «Signora Harris?». «Sono io», rispose allegramente la donna. «Lei dev'essere una di quelli del tempo. Come sta?». La donna depose il filo vicino alla porta e offrì ad Alex la mano. Era fra i trenta e i quarant'anni, con lunghi capelli castani raccolti in una coda e pallide lentiggini intorno al naso. «Alex Tynan». «Becky. Vuole una tazza di caffè, o preferisce una bibita?». «E molto gentile, ma sono a posto. Mi chiedevo se posso usare il suo telefono. Solo un minuto». «Certo. Venga con me». Condusse Alex in un piccolo ingresso. Stivali dai colori vivaci erano allineati lungo la parete e una grande scatola di cartone piena di mele bloccava in parte l'accesso alla scala. «Non è proprio una casa da Better Homes and Gardens», ridacchiò la signora Han is, togliendo un dinosauro di gomma dal pavimento. «Un giorno, magari. Il telefono è lì». Alex fece il numero dell'ospedale di Rochester e le fu passato il dottor Sussman. Dal tono della sua voce, Alex capì immediatamente che non sapeva come gestire la cosa. Era nuovo del mestiere, e probabilmente pensava che la presenza di un gene del cancro arrivasse come una novità assoluta. «Dunque, sono arrivati i risultati dei suoi esami», disse finalmente quando ebbe finito di chiedere ad Alex come si sentiva e di raccontarle quanto lavoro aveva da fare. «E pensavo che sarebbe stata ansiosa di sapere... Ma c'è una cosa che mi stupisce, però». Alex sospirò. Perché non glielo diceva e basta? «Come mai le è venuto in mente di fare questo test? Ci sono precedenti di... malattie particolari nella sua famiglia?». «Intende dire tumori?». «Be'...». «Non che io sappia». «E dunque perché...?».
«È una lunga storia, dottore. Diciamo che è un'intuizione. Devo prendere un appuntamento per parlarne? Per parlare delle cose da fare?». Il dottor Sussman esitò. «Be', naturalmente, se vuole. Se pensa che vi siano altre ragioni per preoccuparsi». Alex sussultò. «Altre ragioni? Non capisco. Il gene non è una ragione sufficiente?». Il dottor Sussman si schiarì la voce. «Di quale gene si tratterebbe?». «BRCA1. Tumore al seno e alle ovaie. Ottantacinque per cento di probabilità. Giusto?». «Be', io... Non credo che siano così alte. E in ogni caso, lei non ce l'ha». Alex si appoggiò alla parete per sorreggersi. Non era possibile. Si era sbagliato. Aveva visto i risultati con i propri occhi, sul computer di Randal White. Le analisi della Medan avevano portato ai cospiratori della ProvLife più di cento milioni di dollari di profitti extra. Come potevano essere sbagliate? «Dottore, vuole dire che sono a posto? Che non ho il gene?». «Il BRCA1? No, assolutamente no. Per questo le chiedevo della sua famiglia. Mi chiedevo perché pensa di avere un problema». Alex chiuse gli occhi, lasciandosi sommergere dall'ondata di sollievo, sentendoselo correre nelle vene come una droga potente. Era stata sicurissima che l'analisi della Medan fosse corretta. Qualsiasi cosa rendesse cento milioni di dollari era difficile da trascurare. Ma era sbagliata. E lei aveva sbagliato a crederci, proprio come Michael Eliot. Per un momento, tenne la cornetta lontana dall'orecchio. Nel caso di Michael Eliot la Medan non aveva sbagliato, in realtà. I campioni erano stati scambiati ancor prima di arrivare al laboratorio. Da Randal White. L'aveva dichiarato Harold Tate, c'era stato sui giornali. Era possibile...? Nella sua testa, risentì ancora una volta le ultime parole di White: Volevo che stessimo insieme. Aveva cercato di spiegarglielo. In qualche punto della procedura - probabilmente dopo che i dati erano stati immessi nel sistema - aveva falsificato i risultati del suo test. Voleva che lei li trovasse. Voleva che trovasse il suo mondo, il suo futuro, improvvisamente compresso in pochi anni. Così avrebbe fatto quello che aveva pensato di fare Eliot - quello che lei effettivamente aveva fatto: fuggire. Sarebbe fuggita con lui, perché il lungo periodo non avrebbe più avuto importanza. E perché la sua ricchezza poteva procurarle qualsiasi vita voleva. Quale sarebbe
stata l'alternativa? Passare i suoi ultimi anni a lavorare dietro a una scrivania, a faticare per ottenere una qualificazione che probabilmente non avrebbe mai potuto usare. Non sorprende che non avesse fretta di farla riassumere alla ProvLife. Aveva altri piani per lei: una vita di attenzioni per lui e per la sua casa in Francia, la fedeltà assicurata dalla prospettiva di ereditare tutto. Forse aveva perfino concordato il suo licenziamento, solo per aggiungere un po' di urgenza alla proposta. Si sentì prendere dall'ira. Era un egoismo da lasciare senza fiato. Il dottor Sussman parlava all'altro capo della linea. Alex riaccostò la cornetta all'orecchio. «Scusi, dottore. Sono... un po' scioccata. Lei ha ragione, però, non mi aspettavo dei risultati così buoni». Lo sentì ridere. «Be', per quanto riguarda il BRCA1 può stare tranquilla. Non c'è problema». Alex lo sentì sfogliare un paio di pagine. «C'è però... aspetti che lo trovo... Sì, eccolo, se vuole il quadro completo, devo dirle che abbiamo trovato una piccola anomalia al cromosoma sette. Vi sono alcuni indizi, non più che indizi, che ciò possa portare a...». «Aspetti», lo interruppe bruscamente Alex. «La prego, aspetti». «Chiedo scusa?». «Non dica altro, dottor Sussman. Vede... vede, la verità è che preferisco non saperlo». Tornato nel camioncino, Robby era nervoso e scontento. Alex ebbe l'impressione che le cose non erano andate troppo bene con Buck Leith. Era difficile riuscire a non dirgli la sua bella novità, ma non era un argomento che poteva affrontare adesso. Era stata una cosa mollo importante, e gliel'aveva nascosta. Inoltre, Robby aveva altri problemi per la lesta. «Naturalmente non l'ha detto», disse mentre tornavano sulla strada, «ma non credo che vedremo quei soldi». «Ma il signor Harris non era entusiasta?». «Oh, sì, lui sì. Un tipo simpatico. Ha detto che qualsiasi cosa lo aiutasse a capire le informazioni che riceve sarebbe benvenuta. Non è uno sciocco. Sa un sacco di cose sulla meteorologia, in realtà». «E allora qual è il problema?». «L'altro tizio, Leith. Non credo che capisca. Continuava a guardare quei nuvoloni che arrivavano, e ti dico che non capiva niente. Non aveva nessun parametro: né quote di mercato, né analisi dei flussi monetari. Se aves-
simo cercato di vendere piastrelle da bagno, sarebbe stato molto più felice». Alex guardava Robby che parlava, incapace di seguire i suoi discorsi, anche se sicuramente li aveva già sentiti. La sua testa continuava a tornare all'ultima volta che aveva visto White. L'uomo aveva cercato di manipolarla, di ingannarla, come se la sua vita non avesse alcuna importanza. White. Ancora non riusciva a vedere il suo nome sulla stampa senza sentirsi arrabbiata e confusa. L'aspetto più inquietante dell'intera faccenda ProvLife era stato scoprire che White era al centro del programma di selezione e poi aveva scoperto di essere lui stesso geneticamente irregolare, un intoccabile. Il fatto che White non sarebbe mai stato processato aveva dato a certi giornalisti un senso di libertà nell'affrontare questo caso. Il suo destino, ciò che la corea di Huntington aveva in serbo per lui, era stato analizzato fin nei più luridi dettagli. La profondità e l'estensione delle sue sofferenze, reali e anticipate, rendevano difficile ad Alex rimanere arrabbiata a lungo, ogni volta che pensava a lui. Era talmente una vittima, nell'intera faccenda, che era difficile considerarlo cattivo. Ora che l'ultimo legame con lui - la sua crudele menzogna sul suo futuro - era infranto, tutto ciò che le restava era un senso di tristezza. Furono bloccati da un passaggio a livello, mentre gli ultimi vagoni di un treno merci passavano lentamente. Robby era girato, sul suo sedile, e parlava con passione. Alex capì che doveva aver interpretato il suo silenzio come un ennesimo dubbio sul loro futuro insieme. Adesso era partito davvero e le stava riassumendo il senso della vita. «...continuare a provare», disse finalmente. «Lo so che per te è difficile vivere in questo modo, ma in fondo sai anche tu che, con i computer che abbiamo adesso, col software che abbiamo sviluppato, questa cosa non può sbagliare». Il treno attraversò l'incrocio e rimasero per un attimo a guardale la strada davanti a loro, diritta e lucente come metallo, che divideva in due la campagna. Poi le nuvole si ruppero. Un'improvvisa cateratta cancellò tutto, tranne la X gialla del passaggio a livello. Robby fissò a bocca aperta il parabrezza bagnato mentre la pioggia tamburellava sul tetto. Alex non riuscì più a trattenersi. «Ops», disse, e incominciò a ridere. FINE