MICHAEL MOORCOCK LA FORTEZZA DELLA PERLA (The Fortress Of The Pearl, 1989) ... E quando Elric ebbe raccontato quelle tre...
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MICHAEL MOORCOCK LA FORTEZZA DELLA PERLA (The Fortress Of The Pearl, 1989) ... E quando Elric ebbe raccontato quelle tre bugie a Cymoril, la sua promessa sposa, e messo l'ambizioso cugino Yyrkoon sul Trono di Rubino di Melniboné in veste di Reggente, e allorché si fu congedato da Rackhir l'Arciere Rosso, partì verso terre sconosciute alla ricerca delle conoscenze che a suo avviso lo avrebbero aiutato a governare il suo regno come mai era stato governato. Ma Elric non aveva fatto i conti con un Destino pronto a mettere sulla sua strada esperienze e imprevisti che avrebbero avuto su di lui un profondo effetto. Già ancor prima di aver incontrato il capitano cieco e la Nave Che Salpava Sui Mari Del Fato, egli aveva scoperto che la sua vita, la sua anima, e tutti i suoi ideali erano in pericolo. A Ufych-Sormeer era stato ritardato da una questione nata da un malinteso fra quattro potenti maghi che amabilmente e senza volerlo stavano provocando la distruzione dei Reami Nuovi prima che questi avessero servito lo scopo finale dell'Equilibrio; e a Filkhar aveva avuto un'esperienza amorosa della quale era deciso a non parlare mai più con nessuno; stava imparando, a caro prezzo, che portare la Spada Nera significava potere e anche sofferenza. Ma fu nella città di Quarzhasaat, nel deserto, che ebbe inizio un'avventura da cui sarebbe stato stravolto il corso della sua vita per molti anni a venire... Le Cronache della Spada Nera PARTE PRIMA C'è forse un pazzo che abbia tal senno da mutar l'incubo in tranquillo sonno, e vincer dèmoni e il Caos imbrigliare, c'è forse un pazzo che voglia lasciare il suo regno e la sposa e la ricchezza per vivere alla mercé dell'incertezza? Le Cronache della Spada Nera
1 Un principe dannato e morente Fu nella desolata Quarzhasaat, destinazione di molte carovane ma punto d'arrivo di poche, che Elric, erede al trono imperiale di Melniboné, ultimo di una discendenza risalente a oltre diecimila anni addietro e un tempo uomo dalle grandi risorse, si ammalò e giacque in attesa della morte. Le droghe e le erbe che di solito prendeva per sostenersi erano state usate negli ultimi giorni del suo lungo viaggio attraverso la parte meridionale del Deserto dei Sospiri, e lui non aveva avuto modo di rinnovarne la scorta in quella città fortificata, nota più per i suoi tesori che per la capacità di mantenere in vita i suoi abitanti. Con mosse lente e deboli il principe albino aprì le dita color dell'osso ed espose alla luce la gemma sanguigna incastonata nell'Anello dei Re, l'ultimo simbolo che gli era rimasto delle sue responsabilità ereditarie; poi lasciò ricadere la mano. Per un effimero istante aveva quasi sperato che l'Actorios gli donasse nuova vita, ma la pietra era inutile se lui non aveva l'energia necessaria a dominarne i poteri. Non se la sentiva di evocare dèmoni incontrollabili in quel luogo. A portarlo lì a Quarzhasaat era stata solo la sua follia, e non aveva alcun motivo di vendicarsi su chi vi abitava. In effetti costoro avrebbero avuto una ragione per odiarlo, se avessero saputo chi era e da dove veniva. Un tempo lontano Quarzhasaat aveva governato su una terra di fiumi e vallate amene, con verdeggianti colline e pianure fertili dove abbondavano i raccolti; ma questo risaliva a prima che fossero pronunciati certi malaugurati incantesimi durante una guerra in cui Melniboné vestiva i panni dell'aggressore, circa duemila anni addietro. L'Impero di Quarzhasaat era stato perduto da entrambe le parti in lizza. Una immensa distesa di sabbia lo aveva ricoperto da un capo all'altro come un'onda di marea, lasciando alla capitale soltanto il ricordo di ciò che era stato e delle sue tradizioni, e questo era diventato praticamente l'unico motivo per cui la città continuava ad esistere. Poiché Quarzhasaat era sempre stata lì, affermavano i suoi abitanti, doveva restare così com'era ad ogni costo, fino alla fine del tempo. Che non avesse scopi e nulla giustificasse più la sua presenza importava poco alla gente, che si sentiva obbligata a tenerla in vita usando qualunque mezzo ed
espediente. Quattordici volte in quei secoli eserciti stranieri avevano tentato d'attraversare il Deserto dei Sospiri per saccheggiare la favolosa Quarzhasaat. E quattordici volte era stato il deserto a sconfiggerli. Nel frattempo la sua ossessione principale (qualcuno avrebbe detto il principale prodotto della sua economia) erano gli elaborati intrighi tessuti dai cittadini di maggiore spicco. Come repubblica, benché fosse tale solo di nome, Quarzhasaat era governata dal Consiglio dei Sette, ironicamente soprannominato dei Sei Più Un Altro, che controllava la maggior parte della ricchezza cittadina e dei suoi affari. C'erano poi numerosi uomini e donne influenti, che preferivano non far parte della Eptocrazia ma detenevano un grande potere pur tenendosi a distanza di sicurezza dai trabocchetti della vita pubblica. Una di questi, aveva appreso Elric, era Narfis, la Baronessa di Kuwai'r, che abitava in una villa semplice ma elegante nella zona meridionale della città e dedicava le sue pericolose attenzioni a un nobile noto per essere suo rivale: l'anziano Duca Ral, mecenate dei maggiori artisti di Quarzhasaal, il cui palazzo alla periferia nord era poco vistoso ma rinomato per le sue comodità. Ciascuno di questi due personaggi, da quanto era stato detto a Elric, aveva fatto eleggere tre membri del Consiglio, mentre il settimo membro, comunemente chiamato l'Esocrate (colui che governava i Sei) manteneva l'equilibrio, nel senso che aveva facoltà di far pendere ogni votazione a favore dell'una o dell'altra fazione. I favori dell'Esocrate erano quindi agognati da coloro che in città avevano degli interessi da difendere, primi fra tutti la Baronessa Narfis e il Duca Ral. Poco interessato com'era alle manovre politiche e alle beghe di Quarzhasaat, Elric non aveva avuto nessuna vera ragione per venire lì, a parte la curiosità e il fatto che Quarzhasaat era l'unica oasi di vita nei territori spogli a nord delle montagne senza nome che dividevano il Deserto dei Sospiri dalla Desolazione Piangente. Muovendo le sue stanche ossa sul sottile pagliericcio del letto, Elric si chiese con un sogghigno amaro se sarebbe stato sepolto lì senza che nessuno sapesse mai che l'erede al trono dei loro tradizionali nemici era morto in quella città. Visto come s'erano messe le cose, c'era da domandarsi se questo fosse il destino che gli riservavano gli Dèi; tutt'altro che quello grandioso da lui sognato, benché a suo modo non fosse stato privo di attrattive. Quando gli eventi piuttosto agitati accaduti a Filkhar l'avevano costretto a lasciare in fretta la costa di Raschii, s'era imbarcato sulla prima nave in partenza per Jadmar, e una volta qui aveva voluto fidarsi di un vecchio u-
briacone ilmiorano acquistando da lui un' antica mappa della favolosa Tanelorn. Come l'albino già temeva fin dall'inizio, la mappa s'era rivelata un falso e lo aveva portato in una zona lontana da qualsiasi genere di insediamento umano. A quel punto lui aveva esaminato l'idea di attraversare le montagne verso Karlaak, attraverso la Desolazione Piangente, ma dopo aver consultato la sua mappa, di disegno melniboneano e assai più affidabile, s'era accorto che Quarzhasaat era alquanto più vicina. Viaggiando a cavallo verso nord in groppa a un animale già mezzo morto per il caldo e la fame, aveva però trovato solo torrenti in secca e oasi senza un filo d'acqua nei pozzi, questo poiché era stato così previdente e saggio da inoltrarsi nelle terre desertiche proprio nella stagione più arida dell'anno. La favolosa Tahelorn s'era rivelata introvabile, e tutto faceva pensare che introvabile sarebbe rimasta, dato che nessuno degli scarsi abitanti di quella terra aveva mai sentito parlare di una città perduta con quelle caratteristiche. Come tutti gli antichi cronisti, neppure gli storici melniboneani avevano mai scritto molto sulle nazioni nemiche sconfitte, ma Elric ricordava di aver letto che alla rovina di Quarzhasaat (e alla fine delle sue attività ostili ai vicini semi-umani) aveva contribuito la stessa stregoneria praticata dai suoi cittadini: una runa sbagliata, a quanto gli risultava, pronunciata da Fophean Dals, il Duca Stregone, durante un incantesimo il cui scopo avrebbe dovuto essere quello di seppellire l'esercito melniboneano sotto la sabbia ed erigere nel contempo un bastione dello stesso materiale a difesa dei confini dell'intera nazione. Elric non aveva ancora saputo come giustificassero quell'incidente a Quarzhasaat. Avevano costruito miti e leggende per spiegare la sfortuna della città come un risultato della malvagità che esalava dall'Isola del Drago? Elric dovette riflettere che era stata la sua eccessiva passione per le leggende a portarlo lì, sull'orlo della fossa. «Nella mia scarsa attenzione ai particolari importanti» mormorò, volgendo gli occhi arrossati sull'Actorios, «ho dimostrato di avere qualcosa in comune con gli antenati di questa gente.» A circa quaranta leghe dal punto in cui aveva lasciato il cavallo morto, Elric era stato trovato da un ragazzo che perlustrava il territorio in cerca di gioielli e cose preziose, artefatti talvolta messi allo scoperto dalle tempeste di sabbia frequenti in quella regione. Tale attività (responsabile del malinconico nome del deserto) era una delle poche a cui Quarzhasaat doveva il suo sostentamento economico, oltre alle mura di altezza stupefacente che attiravano viaggiatori da altre terre. Se Elric vi fosse giunto in buone condizioni fisiche non avrebbe manca-
to di visitare i bellissimi monumenti cittadini. Il loro valore artistico derivava da un senso estetico evolutosi per secoli in quella zona soltanto, quasi privo di influenze straniere. Benché molti degli ziggurat arrotondati e dei palazzi fossero di dimensioni gigantesche, in essi non c'era nulla di volgare o grottesco; avevano una leggerezza di linee e un'eleganza stilistica nelle loro terracotte ocra e nei graniti grigio-argento, nei loro stucchi bianchi, nell'azzurro e nel verde dei mosaici, che li faceva sembrare magicamente usciti dall'aria. I prosperi giardini pensili verdeggiavano su terrazze meravigliosamente complesse. Le fontane e i fossati, alimentati da pozzi profondi, tintinnavano serenamente e profumavano l'aria delle antiche strade selciate in ciottoli e dei larghi viali alberati, e tutta quell'acqua (che avrebbe potuto esser sfruttata per irrigare gli orti) veniva usata al solo scopo di mantenere Quarzhasaat com'era stata ai tempi della sua potenza imperiale. In città i pozzi erano più preziosi delle miniere d'oro, e la legge puniva con spietata severità i ladri d'acqua che osavano attingere a quelle fontane. L'alloggio di Elric non poteva certo definirsi lussuoso: una stanza pavimentata in lastre di roccia, un letto tarlato, una finestra un po' troppo alta, un vecchio tavolo, una misera giara di terracotta, e una bacinella contenente l'acqua piuttosto salata che gli era costata il suo ultimo smeraldo. Le condutture d'acqua private non erano a disposizione degli stranieri, e l'acqua potabile era la merce che spuntava il prezzo più alto fra quelle in vendita. L'acqua di Elric era stata quasi certamente rubata da una fontana pubblica. La durezza delle pene comminate agli autori di quei furti era raramente criticata, anche nelle discussioni private. Elric aveva bisogno di erbe rare per rimediare alle deficienze del suo sangue, ma il loro costo, se anche fossero state reperibili, sarebbe stato al di sopra delle sue disponibilità, al momento rappresentate da poche monete d'oro; una fortuna in posti come Karlaak ma nulla più che spiccioli in una città dove l'oro era così comune che lo usavano per rivestire le tubature dell'acqua e perfino le fogne. Le sue peregrinazioni nelle strade alla ricerca di qualcosa di utile erano state vane e deprimenti. Una volta al giorno il ragazzo che aveva trovato Elric nel deserto procurandogli poi quella stanza gli faceva visita, forse soprattutto per rimirarsi l'albino come se fosse una bestia rara e misteriosa. Il ragazzo si chiamava Anigh e, sebbene parlasse la lingua franca dei Reami Nuovi derivata dal melniboneano, aveva un accento locale così stretto che talvolta lui non riusciva a capire quello che diceva. Elric sollevò ancora il braccio, ma di nuovo lo lasciò ricadere. Quel mat-
tino aveva cercato di rassegnarsi del tutto al pensiero che non avrebbe più rivisto la sua amata Cymoril, né si sarebbe mai seduto sul Trono di Rubino. Il rimpianto che provava, benché amaro, era tuttavia abbastanza vago, perché la malattia a quello stadio lo rendeva stranamente euforico. «Non ti nascondo che speravo di venderti.» Elric girò la testa e strizzò gli occhi verso le ombre sull'altro lato del singolo raggio di sole che tagliava la polvere sospesa nell'aria. Aveva riconosciuto la voce, anche se presso la porta vedeva solo una forma indistinta. «Ora invece sembra che tutto ciò che potrò portare al mercato settimanale sarà un cadavere, e i pochi oggetti personali che ti restano» disse Anigh. Il ragazzo sembrava ancor più depresso di lui alla prospettiva della sua morte. «Tu rappresenti ancora una rarità, naturalmente. La tua faccia è come quella dei nostri antichi nemici, benché sia bianca come l'osso, e non ho mai visto un uomo con gli occhi come i tuoi.» «Mi rincresce deludere le tue aspettative economiche.» Elric si alzò su un gomito, stancamente. Per prudenza aveva nascosto la sua origine, raccontando di essere un mercenario di Nadsokor. Nella Città dei Mendicanti c'era gente di ogni razza e ogni provenienza. «Avevo anche sperato che tu fossi uno stregone, e mi ricompensassi con qualche incantesimo arcano che avrei potuto usare per arricchire o per diventare membro dei Sei. Oppure che tu fossi uno spirito del deserto, disposto a conferirmi qualche potere magico. Ma sembra proprio che abbia sprecato la mia acqua. Tu sei soltanto un mercenario in disgrazia. Possibile che non ti sia rimasto niente di valore? Nessun oggetto curioso che potrebbe essere apprezzato da un collezionista, ad esempio?» E lo sguardo di Anigh si spostò sul lungo e sottile involto appoggiato al muro presso la testata del letto. «Questo non è un tesoro, ragazzo» lo informò cupamente Elric. «Si dice che su chi ne viene in possesso cada una maledizione che nessuno può esorcizzare.» Gli venne un sogghigno al pensiero di Anigh che cercava di smerciare la Spada Nera: avvolta nel malconcio fagotto di seta rossa la lama emetteva ogni tanto un borbottio, come un vecchio ormai senile che tentasse di ritrovare la parola. «È un'arma, non è vero?» domandò Anigh spalancando gli occhi, che in quel volto smunto sembravano ancor più grandi e azzurri. «Già» annuì Elric. «Una spada.» «Ed è antica?» Il ragazzo s'infilò una mano sotto il djellabah a strisce bianche e marroni, e si grattò la cicatrice su una spalla.
«Questo è un eufemismo.» Elric era divertito, ma quei pochi momenti di conversazione l'avevano già stancato. «Quanto antica?» Anigh fece ancora un passo avanti, e il raggio di sole lo illuminò in pieno. Il suo aspetto era quello di una creatura perfettamente adattata alla sopravvivenza fra le rocce cotte dal sole e le sabbie aride del Deserto dei Sospiri. «Forse diecimila anni.» Elric scoprì che l'espressione sbalordita del ragazzo lo aiutava a dimenticare, per effimeri istanti, il destino che lo attendeva. «O forse ancora di più...» «È una rarità, allora! Le rarità possono essere pagate molto bene dai nobili e dalle dame di Quarzhasaat. E anche alcuni dei Sei fanno collezione di queste cose. Sua eccellenza il Signore di Unicht Shlur, ad esempio, ha le armature di un intero esercito ilmiorano, ogni equipaggiamento addosso al corpo mummificato del guerriero che lo portava. E la mia Dama Talith ha una collezione di strumenti bellici, migliaia e migliaia, ciascuno diverso dall'altro: Lasciami prendere quell'arma, signor mercenario, e io troverò un compratore. Poi andrò a cercare le erbe di cui hai bisogno.» «Così tornerò abbastanza sano che tu possa vendermi, eh?» disse Elric, divertito. Anigh ebbe un'espressione d'innocenza offesa. «Non dire questo, signore. Una volta guarito potrai opporre resistenza, no? Io mi limiterò a chiederti una percentuale sul tuo prossimo ingaggio.» Elric provò un senso d'affetto verso il ragazzo. Attese un momento per radunare le forze, prima di parlare. «Ti aspetti che io possa interessare un datore di lavoro, qui a Quarzhasaat?» «Perché no?» Anigh sorrise. «Scommetto che saresti una discreta guardia del corpo per uno dei Sei, o almeno per uno dei loro dipendenti. Basterà il tuo aspetto insolito a procurarti subito un ingaggio. E il lavoro non manca; come ti ho detto, i nostri padroni non fanno che complottare uno contro l'altro.» «È rassicurante...» Elric fece una pausa per respirare, «sapere che qui a Quarzhasaat un onesto mercenario può guadagnarsi il pane in un ambiente ideale per la sua professione.» Cercò di vedere Anigh negli occhi, ma il ragazzo s'era ritratto dal raggio di sole per non esserne abbagliato. «Tuttavia le erbe che ti ho descritto sono coltivate, a quanto tu dici, solo sulle colline fertili intorno a Kwan, che dista molti giorni di viaggio da qui... alle pendici delle Colonne Scolpite. E se anche pagassi un mercante disposto ad andare là, sarei morto prima che questi arrivi a metà strada. Sei venuto a con-
fortare un morente, ragazzo? Oppure i motivi che ti portano qui oggi sono meno nobili?» «Signore, io ti ho detto che quelle erbe medicinali non possono crescere più vicino di Kwan. Ma cosa faresti se qualcuno fosse già andato là a procurarsi droghe di questo genere?» «Tu conosci un farmacista che ne è fornito? Ma quanto denaro vuole per delle erbe portate da tanto lontano? E perché non me ne hai parlato prima?» «Perché prima non sapevo che ci fossero.» Anigh sedette sulla soglia della stanza, dove c'era una corrente d'aria più fresca! «Dopo la nostra ultima conversazione ho fatto una ricerca. Io sono un umile popolano, caro signore, non una persona istruita, e neppure un indovino. Tuttavia so dove andare quando voglio porre rimedio alla mia ignoranza e sostituirla con la conoscenza. Perché io sono un ignorante, ma non sono uno sciocco.» «Per quanto alta sia l'opinione che hai di te, messer Anigh, devo ammettere che la condivido.» «Allora lascerai che io prenda la spada e trovi un compratore?» Il ragazzo tornò di nuovo alla luce e s'avvicinò al fagotto. Elric ricadde disteso e scosse il capo, con un sorrisetto. «Anch'io, giovanotto, sono un ignorante. Ma a differenza di te, può darsi che io sia uno sciocco.» «La conoscenza è potere» disse Anigh. «E il potere della conoscenza mi farà entrare fra le persone di fiducia della Baronessa Narfis, forse. Potrei diventare capitano delle sue guardie. Magari guadagnarmi perfino un titolo nobiliare!» «Oh, tu farai molta strada, non c'è dubbio.» Elric si riempì di aria afosa i polmoni infiammati, e fu scosso da un brivido. «Fai pure quel che vuoi, quand'è così, ma dubito che la spada si lascerà vendere volentieri.» «Posso vederla?» «Sicuro.» Con movimenti faticosi Elric si girò sul bordo del letto e sciolse il laccio del fagotto, scoprendo la spada. Incisa di rune che sembravano muoversi inquiete sulla scintillante lama di metallo nero, fittamente intarsiata con arte antica di misteriosi disegni, alcuni dei quali raffiguranti draghi e demoni avvinti nella lotta, la Tempestosa non era evidentemente un'arma qualsiasi. Il ragazzo imprecò e fece un passo indietro, come se fosse già pentito di aver proposto l'affare. «Ma... è viva?» Elric contemplava la sua spada con un misto di odio e d'attrazione quasi
sensuale. «Qualcuno forse direbbe che possiede una mente, e una volontà. Altri potrebbero supporre che sia un dèmone sotto mentite spoglie. C'è chi crede che sia fatta con le anime di tutti i peccatori così malvagi da essere rifiutati perfino dall'inferno, intrappolate nel metallo come il drago della leggenda, quello che si dice fosse imprigionato nell'elsa di una spada non troppo diversa.» Con un vago disgusto per se stesso s'accorse che il pallore apparso sul volto del ragazzo gli dava piacere. «Non avevi mai visto prima un oggetto risalente all'epoca del Caos, messer Anigh? O una persona sposata ad esso, o addirittura suo schiavo?» Abbassò una lunga mano bianca nella bacinella dell'acqua polverosa e si portò le dita alle labbra, per inumidirle. I suoi occhi rossi lampeggiavano come braci. «Durante i miei viaggi ho sentito un saggio dire che questa lama era la spada di guerra di Arioch, un'arnia capace di squarciare le mura fra i Reami stessi. Altri, poi morti sotto i suoi colpi, credevano che fosse una creatura vivente. C'è una teoria secondo la quale sarebbe il membro di una razza aliena, che attualmente vive nella nostra dimensione ma ha la capacità, se vuole, di convocare un milione di fratelli. Riesci a sentirla mentre parla, messer Anigh? Credi che la sua voce divertirà è affascinerà qualche acquirente, nel vostro mercato?» E dalla sua gola scaturì un suono che non era una risata, anche se vibrava di un disperato umorismo. Anigh s'affrettò a tornare nel raggio di sole. Si schiarì la gola. «Tu hai dato un nome a questo oggetto?» «Io la chiamo la Tempestosa, ma nei Reami Nuovi la gente la chiama con un altro nome, che talvolta appiccica anche a me. Il nome è Ladra di Anime. Ha bevuto molte anime.» «Tu sei un ladro di sogni!» Anigh non distoglieva lo sguardo dalla spada. «Perché non sei al servizio di qualcuno?» «Non ho mai sentito questo termine, e non so chi assumerebbe un «ladro di sogni».» Elric guardò il ragazzo, in attesa di una spiegazione. Ma gli occhi di Anigh restarono fissi sull'arma. «Berrebbe anche la mia anima, signore?» «Potrebbe farlo. Se io volessi rinnovare la mia energia per un poco, non dovrei far altro che lasciarti uccidere dalla Tempestosa, te e magari qualcun altro, e poi la lama passerebbe la sua energia a me. Fatto questo, non mi sarebbe difficile rubare un cavallo e andarmene altrove, diciamo a Kwan.» In quel momento la voce della Spada Nera salì di tono, come se approvasse quel progetto.
«Oh, Gamek Idianit!» Anigh gettò un'occhiata alla porta, come per tenersi pronto a infilarla al primo cenno di pericolo. «Questa è come la storia delle mura di Mass'aboon. Si racconta che quelli che provocarono il nostro isolamento portassero armi simili. I loro capi ne erano armati, sì. Il maestro della scuola lo disse, un giorno. Io c'ero. Ah, che cose terribili raccontava!» E corrugò la fronte, dimostrazione vivente di quanto poco un ragazzo poteva essere d'accordo coi moralisti che parlavano dei benefici dell'istruzione scolastica. Elric si pentì di averlo spaventato. «Stai tranquillo, Anigh. Io non sono così spietato da voler restare in vita a spese di chi non mi ha fatto alcun male. Forse è proprio per questa ragione che mi trovo oggi in disgrazia. Tu mi hai raccolto nel deserto, ragazzo. Io non ti farei mai del male.» «Oh, signore. Tu sei un uomo pericoloso!» Nel suo terrore Anigh aveva abbandonato il dialetto per parlare in una lingua ancor più antica del melniboneano, ed Elric, che nei suoi anni di scuola l'aveva studiata, la riconobbe. «Tu hai parlato in Opish. Dove hai imparato a esprimerti in questa lingua?» domandò l'albino. Nonostante la paura il ragazzo parve sorpreso. «Lo chiamano «gergo delle fogne», qui a Quarzhasaat. È un segreto dei ladri. Ma credo che in posti come Nadsokor lo parlino tutti.» «Già, proprio così. A Nadsokor lo parlano.» Elric s'era lasciato di nuovo distrarre da fatti secondari. Alzò una mano verso Anigh per rassicurarlo. Quel movimento ebbe invece l'effetto di far irrigidire ancor di più il ragazzo, che deglutì un groppo di saliva. Era chiaro che ormai lo temeva, e diffidava di ogni approccio amichevole. Senza dir altro Anigh gli volse le spalle; uscì dalla stanza, e lo scalpiccio dei suoi piedi nudi si perse nel corridoio e sugli scalini che portavano nella stradicciola esterna. Quando capì di avere stupidamente allontanato l'unica persona in grado di aiutarlo, Elric maledisse l'euforia che gli ottenebrava la mente. Di tutto ciò che aveva fatto e desiderato ora rimpiangeva soprattutto Cymoril, e si pentiva di non essere tornato a Melniboné quando ancora ne aveva il tempo, per mantenere la sua promessa e sposarla. Sapeva che era stato e sarebbe stato sempre riluttante a sedere sul Trono di Rubino, come sapeva che era suo dovere fare. La sorte a cui ora stava soccombendo se l'era scelta apposta per evitare quella responsabilità? Elric si rendeva conto che il suo sangue, per quanto vittima di quella strana tara, era tuttavia il sangue dei suoi antenati, e non gli sarebbe stato
facile dimenticare il destino che aveva ereditato per nascita. Aveva sperato che una volta sul trono sarebbe riuscito a trasformare Melniboné dall'impero crudele e decadente qual era in una nazione rinnovata e vitale, capace di portare giustizia e pace in tutto il mondo presentandosi come esempio di civiltà che altri avrebbero voluto imitare. Per una sola possibilità di tornare da Cymoril avrebbe volentieri ceduto la Spada Nera. Ma in realtà non credeva davvero che darla via fosse possibile. La Spada Nera era più che una sorgente di energia fisica e un'arma contro i suoi nemici. La Spada Nera lo legava all'antico alleato della sua stirpe, il Caos, e non riusciva a immaginare il Nobile Arioch nell'atto di consentirgli d'infrangere quel particolare patto. Quando rifletteva su quegli argomenti, e sulla tentatrice possibilità di un avvenire glorioso, finiva per sentirsi sempre così confuso che preferiva pensarci il meno possibile. «Be', se prima di morire volessi permettermi una pazzia, mi piacerebbe troncare quel legame e mandare alla malora le vecchie cattive amicizie di Melniboné.» Il respiro che traeva nei polmoni sembrava più sottile, tanto che la gola non gli bruciava più. Il sangue gli scorreva pigro nelle vene quando tentò di alzarsi e raggiungere il rozzo tavolo di legno dove c'era il suo scarso cibo. Ma non riuscì a far altro che guardare il pane raffermo, il vino amaro come aceto e la fetta ormai stantia di carne secca sulla cui origine era meglio non indagare troppo. Non poté alzarsi; non sapeva trovare in sé neppure la volontà di farlo. Aveva già accettato la morte, se non volentieri almeno con un certo grado di dignità. Quando ricadde nel malsano delirio dei ricordi ripensò al giorno in cui aveva deciso di partire da Melniboné, a sua cugina Cymoril addolorata e trepidante, alla malcelata gioia del suo ambizioso cugino Yyrkoon, e al discorso fatto a Rackhir, il Prete Guerriero di Phum, che era andato anch'egli alla ricerca di Tanelorn. Elric si chiese se Rackhir, l'Arciere Rosso, avesse avuto più fortuna di lui oppure se il suo corpo giacesse in qualche angolo inesplorato di quell'immenso deserto, il costume scarlatto sbrindellato dal vento che non cessava mai di soffiare, la carne mummificata dal calore della sabbia. Lui si augurava di tutto cuore che la ricerca di Rackhir fosse giunta a buon fine, e che nella mitica città avesse trovato la pace dei sensi. Poi la sua nostalgia di Cymoril si fece più dolorosa del solito, e non poté trattenere una lacrima. Il giorno addietro aveva soppesato l'idea di evocare il suo patrono Arioch, il Duca del Caos, per chiedergli di salvarlo, ma continuava a provare
una profonda avversione per quella soluzione. Temeva che esagerando nel domandare l'appoggio di Arioch avrebbe finito col perdere assai più che la sua vita. Ogni volta che quella potenza soprannaturale accettava di aiutarlo, questo rafforzava un legame implicito nella cosa e tuttavia misterioso. C'era anche un risvolto che riguardava le sue possibilità effettive di salire al trono, rifletté ironicamente Elric. Ultimamente Arioch aveva infatti tradito una certa riluttanza a venirgli in aiuto. Forse ciò significava che Yyrkoon stava prendendo il suo posto in più di un modo... Quel pensiero ebbe l'effetto di fargli sentire ancor più acutamente la mancanza di Cymoril. Cercò di alzarsi ancora. La posizione del sole era cambiata. Ad un tratto gli parve di vedere Cymoril in piedi davanti a lui, ma subito la ragazza assunse i lineamenti di Arioch. Che il Duca del Caos stesse giocando con lui, perfino in quel momento? Elric spostò lo sguardo sulla spada, che avvolta dal drappo di seta semiaperto sembrava fremere e sussurrare una specie di avvertimento, o forse una minaccia. Si girò dall'altra parte. «Cymoril?» Scrutò nella polvere del raggio di sole, seguendolo a ritroso fino al riquadro della finestra oltre cui splendeva intenso il cielo del deserto. Aveva la netta impressione che fra le ombre della stanza si muovessero altre ombre, alcune di forma umana, altre di bestie e di dèmoni. Quando alcune di quelle forme divennero più distinte cominciarono ad assomigliare ai suoi amici. C'era di nuovo Cymoril. Elric ansimò, disperato: «Oh, mia amata!» Vedeva Rackhir, Dyvim Tvar, perfino Yyrkoon. Lì chiamò per nome tutti. Nel sentire quanto fosse rauca e debole la sua voce capì che aveva la febbre, e che stava dissipando le sue già scarse energie in quelle fantasie oniriche. Il suo corpo si nutriva solo di se stesso, e la morte doveva essere vicina. Elric si portò una mano alla fronte e la sentì bagnata di sudore. Si chiese quanto avrebbe potuto costare ogni goccia di quel liquido al mercato settimanale. Era divertente speculare su particolari simili. Avrebbe potuto vendere abbastanza sudore da comprarsi un boccale d'acqua, o una giaretta di vino? O la sua così abbondante produzione di liquido corporeo stava infrangendo le bizzarre leggi dell' acqua di Quarzhasaat? Scrutò di nuovo oltre il raggio di sole e gli parve di vedere degli uomini sulla porta, forse le guardie della città venute a esaminare l'alloggio e a chiedergli di mostrare la sua licenza di produttore di sudore.
Ora sembrava che il vento del deserto, mai del tutto quieto, fosse entrato nella stanza tirandosi dietro una specie di elementale della natura, forse un'entità priva di mente venuta lì col solo compito di trasportare la sua anima alla destinazione ultima. Questo era un sollievo. Elric sorrise. Per più di un motivo era lieto che le sue tribolazioni fossero al termine. Chissà, forse Cymoril lo avrebbe raggiunto presto. Presto? Cosa poteva significare il tempo nel reame non-temporale? Forse che avrebbe dovuto attendere l'Eternità prima di potersi riunire a lei? Oppure un semplice istante? O non si sarebbero mai più rivisti? Cosa c'era oltre la soglia che stava per varcare: l'assenza di ogni cosa, il niente? O la sua anima sarebbe entrata in un altro corpo, magari un corpo tarato come quello abbandonato, per trovarsi davanti gli stessi dilemmi impossibili, le stesse tremende sfide fisiche e morali che lo avevano tormentato fin da quand'era diventato adulto? La mente di Elric fluttuava sempre più lontano dalla logica, come un topo che la corrente avesse spinto via dalla riva e continuasse a nuotare nella direzione sbagliata, preda dell'oblio ancor prima che della morte. Ridacchiò a quel pensiero, e poi pianse. Mentre il caldo faceva evaporare il prezioso liquido del suo corpo sventurato bianco come l'osso, dormicchiò a tratti ed ebbe altri deliranti sogni ad occhi aperti. Chi l'avesse guardato dalla soglia, senza conoscerlo, avrebbe pensato che su quel misero letto giaceva una creatura ridotta allo stato animalesco, grottescamente felice pur nell'agonia che la stava conducendo alla morte. Venne il buio, e con esso una vivace processione di gente che apparteneva al passato dell'albino. Rivide gli stregoni che lo avevano istruito nelle arti della negromanzia; vide la misteriosa madre da lui mai conosciuta, e lo straniero che era suo padre; gli amici crudeli della sua infanzia frequentando i quali, poco alla volta, s'era accorto di non apprezzare i contorti e sgradevoli sport di Melniboné; le caverne e le radure segrete dell'Isola del Drago, le torri sottili e gli elaborati palazzi dei suoi concittadini, i cui antenati non erano del tutto di questo mondo e che s'erano dati alle conquiste con una diabolica eleganza e una stanchezza interiore che lui riusciva a capire solo in quel momento, mentre scivolava nell'autoanalisi e nelle fantasie morbose. E gridò quando con gli occhi della mente vide Cymoril, nuda e sconvolta, sul cui bel corpo inerme Yyrkoon praticava osceni atti di libidine ridendo di orrido compiacimento. E di nuovo volle disperatamente vivere, tornare a Melniboné e salvare quella giovane donna, da lui amata al
punto che spesso doveva costringersi a non indugiare sull'intensità della sua passione. Ma tornare era impossibile. Ormai sapeva, mentre quegli spettri gli passavano accanto e inquadrato dalla finestra il cielo notturno palpitava di stelle, che presto lui sarebbe stato sepolto, e nessuno sarebbe andato a difendere la donna che aveva promesso di sposare. Quando giunse l'alba la febbre era calata, ed Elric seppe che gli restava un' ora o due prima della fine. Aprì gli occhi annebbiati e guardò il raggio di sole, ora morbido e dorato, non abbagliante come il giorno prima quando entrava direttamente, bensì riflesso dai mosaici esterni del palazzo davanti a cui quel tugurio era stato edificato. Quando d'improvviso sentì qualcosa di fresco sulle labbra screpolate girò la testa e cercò di allungare una mano verso la spada, perché gli parve che ciò che lo stava toccando fosse freddo acciaio pronto a tagliargli la gola. «Tempestosa...» La sua voce era fioca, e la sua mano troppo debole per alzarsi dal giaciglio e impugnare l'elsa della spada mormorante. Poi tossì, e si accorse che in bocca gli era stato versato del liquido. Non era l'acqua sporca che lui aveva comprato col suo smeraldo, ma un nettare fresco e cristallino. Allora bevve, sforzandosi di mettere a fuoco lo sguardo. Proprio davanti alla sua faccia c'era una fiasca d'argento intarsiato, sorretta da una mano dalla pelle liscia e dorata, un braccio avvolto in una manica di ricco broccato, e un volto che lui non aveva mai visto ma dall'espressione cordiale. Il liquido non era semplice acqua. Che il ragazzo avesse rintracciato e portato lì un farmacista molto comprensivo? Quell'elisir aveva il sapore del distillato che lui usava per sostenersi. Ebbe un rauco sospiro di sollievo, e guardò con stanca curiosità l'uomo che lo aveva, almeno momentaneamente, resuscitato. Il suo provvisorio salvatore sorrideva e si muoveva con studiata eleganza, a suo agio in quegli abiti pesanti e fuori stagione. «Buongiorno a te, messer Ladro. Confido che questo appellativo non ti offenda. Suppongo che tu sia un cittadino di Nadsokor, dove la gente è orgogliosa della sua abilità nel praticare ogni genere di ruberie e se ne vanta. È così?» Conscio della delicatezza della sua situazione Elric si guardò bene dal contraddirlo. Il principe albino annuì lentamente. Le ossa gli facevano ancora male. Alto e dal volto ben rasato, lo sconosciuto avvitò il tappo sulla fiasca. «Il ragazzo, Anigh, mi ha detto che hai una spada e pensi di venderla.»
«Forse.» Ormai sicuro che la sua ripresa fisica fosse soltanto provvisoria, Elric continuò a mostrarsi cauto. «Ma temo che questo sia un genere di affare che la maggior parte degli acquirenti si pentirebbe di aver fatto...» «Però non è la spada la merce principale che metti in vendita, eh? Sembra che tu abbia perduto il tuo bastone ricurvo.... che ne hai fatto? L'hai scambiato per un sorso d'acqua?» L'uomo annuì con aria saputa. Elric decise di non contrariarlo. E consentì a se stesso di sperare che sarebbe vissuto. L'elisir gli aveva ridato abbastanza chiarezza di mente, oltre a una piccola iniezione d'energia fisica. «Già» rispose, dando ragione al visitatore. «Diciamo pure così.» «E a che scopo? Cosa cerchi? Stai forse facendo pubblicità alla tua incompetenza? È questo che vi insegna la Compagnia dei Ladri di Nadsokor? O sei un masnadiero più sottile di quel che il tuo aspetto fa pensare, eh?» L'ultima frase era stata pronunciata nella stessa lingua cantilenante usata da Anigh il giorno prima. Elric si rese conto che quel ricco individuo s'era già formato un'opinione della sua identità e delle sue capacità, e che questo fatto, benché non corrispondente al vero, gli offriva l'opportunità di risolvere le sue difficoltà più immediate. Si fece più attento. «Tu vuoi noleggiare i miei servizi, giusto? La mia particolare abilità. È questo che t'interessa di me, oltre alla mia spada?» L'uomo esibì indifferenza. «Se non hai niente in contrario» assentì. Ma aveva l'aria di mascherare una certa urgenza. «Mi è stato detto d'informarti che la Luna di Sangue brillerà fra non molto sopra la Tenda Bronzea.» «Capisco.» Elric finse d'esser stato colpito da quelle che per lui erano parole prive di senso. «Allora dovremo agire in fretta, suppongo.» «Così afferma anche il mio signore. Quel che ti ho detto per me non significa niente, ma per te ha un senso ben preciso. E ho avuto l'ordine di offrirti un secondo sorso, se tu avessi mostrato di reagire positivamente a tali informazioni. Ecco qui.» E con un ampio sorriso gli pose ancora la fiasca alle labbra. Elric ne ebbe appena poche gocce ma si affrettò a berle, e quasi subito sentì che gli tornava un po' di forza; i dolori muscolari stavano sparendo. «Il tuo signore vuole assumere un ladro? Cosa mai desidera avere, che i ladri di Quarzhasaat non siano in grado di rubare per lui?» «Ah, messere, tu esibisci una finta ingenuità alla quale io non posso proprio credere.» L'uomo richiuse la fiasca. «Io sono Raafi as-Keeme, e servo uno dei personaggi più rilevanti di questo impero. Lui ha, se ho ben capito,
una commissione da affidarti. Qui tutti ben conosciamo le capacità professionali dei nadsokoriani, e da qualche tempo speravamo che qualcuno di voi capitasse in città. Progettavi di rubare qualcosa a noi? In tal caso vedi bene che non sempre le cose vanno come si vuole. Molto meglio rubare per noi, a mio avviso.» «Saggio consiglio, non posso negarlo.» Elric si alzò a sedere sul letto e poggiò i piedi sul pavimento di pietra. La forza che gli aveva dato l'elisir stava già scemando. «Forse puoi illustrarmi a grandi linee la natura dell'incarico che volete affidarmi, messere. Mi interessa.» Allungò una mano verso la fiasca, ma il visitatore fu svelto a infilarsela in una manica. «Saprai tutto, messere, non dubitarne» disse Raafi as-Keeme, «quando avremo parlato un poco delle tue esperienze professionali. Il ragazzo ha riferito che tu non rubi soltanto gioielli. Rubi anime, a quanto dice.» Un po' allarmato da quelle parole Elric guardò il suo interlocutore, sospettosamente. L'espressione dell'uomo restò illeggibile. «In un certo senso, se vogliamo dir così...» «Bene. Il mio signore pensa di poter fare buon uso delle tue capacità. Se avrai successo riceverai una giara di questo elisir, e potrai portarla via con te nei Reami Nuovi o dovunque vorrai andare.» «Tu mi stai offrendo la vita, messere» disse lentamente Elric: «E io sono disposto a pagare il prezzo che vale una vita.» «Mi fa piacere che tu dica questo, messere. Vedo che hai un preciso istinto mercantile. Sono certo che potremo metterci d'accordo. Te la senti di venire con me, subito, in un certo posto?» Con un sorriso Elric raccolse la Tempestosa e appoggiò le spalle al muro dietro il letto. Poi mise la spada sulle ginocchia e allargò le braccia a indicare il suo alloggio, in un gesto teatrale di ospitalità. «Non preferisci sederti alla mia tavola e accettare ciò che ho da offrirti, messer Raafi asKeeme?» L'elegante individuo scosse ironicamente il capo. «Meglio di no. Tu sei di certo abituato al puzzo di questa topaia e all'odore che emana dai tuoi indumenti, ma posso assicurarti che chiunque entri qui viene subito affascinato dalla prospettiva di uscire.» Elric rise, senza offendersi a quell'osservazione. Si alzò in piedi, raccolse il cinturone e infilò nel nero cuoio del fodero la mormorante spada incisa di rune. «Allora fammi strada, messere. Devo ammettere che sono curioso di sapere quali siano i pericoli che hanno impedito ai ladri di Quarzhasaat di accettare il certo ben pagato incarico offerto dal tuo signore.»
Ma nella mente di Elric ciò che voleva ottenere era già chiaro: non avrebbe permesso una seconda volta che la sua vita fosse a rischio in quel modo. Lo doveva non tanto a se stesso, rifletté, quanto a Cymoril. 2 La Perla nel Cuore del Mondo Fu in un salone illuminato da polverosi raggi di luce che scendevano da una griglia massiccia, posta al centro di una parete dipinta, in un palazzo chiamato Goshasiz i cui complessi interni erano qua e là chiazzati da qualcosa di più sinistro dell'umidità, che il nobile Gho Fhaazi intrattenne l'ospite offrendogli ancora quel misterioso elisir, e cibarie di un genere che a Quarzhasaat erano preziose almeno quanto i mobili, anch'essi importati. Lavato e rivestito a spese del padrone di casa Elric si sentiva pieno di nuova linfa vitale, anche se quell'abito di seta verde e azzurra stonava un poco con il candore della sua epidermide e dei suoi capelli. La spada incisa di rune era nel fodero, appeso allo schienale della pesante sedia, pronta per essere estratta se lui avesse scoperto che quell'invito nascondeva qualche trabocchetto. Il nobile Gho Fhaazi era pettinato e abbigliato all'ultima moda della città: una lucida lacca immobilizzava i perfetti riccioli dei capelli corvini e della barba; i lunghi mustacchi erano curvi all'insù e intrisi di cera rossa, mentre solo le sopracciglia bionde e gli occhi verde chiaro si accoppiavano al colore della sua pelle, artificialmente schiarita da una pomata che la rendeva bianca come quella di Elric. Le sue labbra erano dipinte in vivido scarlatto. L'uomo sedeva dall'altra parte di un tavolo che sul lato dell'ospite si allargava, quasi per far sentire quest'ultimo più stretto di torace al suo confronto, mentre stagliato contro la luce della grata lui si ergeva come un giudice assiso nel suo scranno dinnanzi a un imputato. Elric s'era accorto di quell'astuto sfruttamento della prospettiva, e non ne fu messo a disagio. Il nobile Gho era ancora piuttosto giovane, poco più che trentenne, e aveva una voce tenorile dal timbro gradevolmente misurato. L'uomo agitò le dita grassocce verso i vassoi di fichi freschi, di datteri avvolti in foglie di menta e di locuste fritte nel miele disposti fra loro due, e spinse ancora l'argentea fiasca dell'elisir in direzione di Elric. Il suo gestire rivelava, più che affabile ospitalità, la pazienza di chi sta concedendo un favore a un servo in via eccezionale.
«Caro messere, serviti ancora. Non fare complimenti» disse tuttavia. Non sembrava sicuro di aver capito che razza di pesce fosse Elric, si teneva sulle sue, e all'albino parve che in quella faccenda ci fosse un'urgenza che per il momento il nobile si sforzava di ignorare, così come non ne aveva parlato l'uomo mandato a cercarlo. «Hai forse necessità di un cibo particolare, qualcosa che non è stato apparecchiato sulla mia mensa?» Elric si portò alle labbra il tovagliolo di lino. «Ti sono davvero obbligato, nobile Gho. Non mangiavo così bene dal giorno in cui lasciai le terre dei Reami Nuovi.» «Ah-ha, ti credo. Si dice che laggiù ci sia una gran dovizia dei cibi più diversi.» «Abbondano come i diamanti qui, a Quarzhasaat. Hai mai visitato i Reami Nuovi?» «Qui a Quarzhasaat non sentiamo alcun bisogno di viaggiare» rispose il nobile Gho, sorpreso. «Cosa c'è mai nelle altre terre che noi possiamo desiderare?» Elric dovette dirsi che i concittadini del nobile Gho avevano molto in comune coi suoi. Prese un altro fico dal vassoio più vicino e lo masticò lentamente, assaporando la dolcezza del succo, poi esibì un'espressione franca. Posso chiederti come avete saputo degli usi e dei costumi di Nadsokor? «È ovvio che, pur non viaggiando, noi ci interessiamo molto agli stranieri. Alcuni di loro commerciano e conducono carovane a Karlaak e in altre località. A volte ci portano schiavi da terre lontane. Dovresti vedere come si divertono a raccontare favole, per il gusto di stupirci!» Gho rise, con fare tollerante. «Ma non dubito che ci sia un seme di verità in molto di ciò che dicono. Ad esempio: anche se i ladri di sogni sono assai circospetti e mantengono il segreto sulle loro origini, noi abbiamo sentito dire che i ladri di ogni genere sono ben accolti a Nadsokor. Non occorre molta fantasia per trarne le ovvie conclusioni...» «Specialmente se disponete già di tutte le informazioni che vi sono portate dagli schiavi, sulle altre terre e le altre genti» disse Elric con un sorriso. Il nobile Gho Fhaazi non si accorse del sarcasmo dell'albino, o preferì ignorarlo. «Nadsokor è la tua città natale, o vi sei giunto da un'altra terra?» «Ho abitato là negli ultimi anni» rispose Elric, arricchendo alquanto la verità. «Tu hai una somiglianza superficiale con la gente di Melniboné, le cui
malversazioni ci hanno condotto nella situazione attuale» lo informò il nobile Gho. «Fra i tuoi antenati ce n'è forse qualcuno di sangue melniboneano?» «Sì, di questo non ho dubbi.» Elric si chiese perché il nobile Gho non fosse giunto alla conclusione più ovvia. «Da queste parti il popolo dell'Isola del Drago è ancora odiato per quella vecchia storia?» «Il loro proditorio attacco al nostro impero, vuoi dire? Suppongo di sì. Ma l'Isola del Drago è sprofondata nelle acque da molto tempo, vittima della nostra giusta vendetta, e così anche il suo efferato impero. Perché dovremmo preoccuparci di una razza estinta che noi abbiamo duramente punito per la sua infamia?» «Dici bene.» Elric non mutò espressione. Dunque Quarzhasaat non s'era limitata a razionalizzare l'errore che l'aveva portata alla sconfitta, ma giustificava la sua successiva incapacità di reagire affermando di aver già distrutto il nemico. E con la storia antica così riscritta nessuno straniero poteva essere un melniboneano, dato che Melniboné non esisteva più. Di questo, almeno, lui poteva smettere di preoccuparsi. Tuttavia quella gente era così disinteressata al resto del mondo che il nobile Gho Fhaazi non mostrava altre curiosità nei suoi confronti. Il quarzhasaatiano aveva già stabilito chi era Elric, e tanto gli bastava. L'albino non finiva di stupirsi delle stranezze della mente umana, che una volta costruitasi una fantasia poteva difenderla come fosse la più solida realtà. L'unico problema di Elric restava ora il fatto che lui non sapeva molto della professione in cui si spacciava per esperto, sempre che fosse quello l'incarico che il nobile Gho pensava di affidargli. Il quarzhasaatiano immerse le dita in una ciotola d'acqua profumata e si inumidì la barba, lasciando con ostentata indifferenza che preziose gocce cadessero sui mosaici del pavimento. «Il mio servo mi ha riferito che tu hai compreso quella notizia» disse, asciugandosi le dita in una salvietta ricamata. L'uomo aveva camerieri e schiavi per servirlo a tavola in quei piccoli compiti, ma aveva deciso di cenare da solo con Elric, forse per timore che i suoi segreti fossero riferiti ad altri. «Le parole effettive delle profezie sono un po' diverse. Tu le conosci?» «No» rispose subito Elric, con franchezza. Si chiese cosa sarebbe successo se il nobile Gho avesse capito che lui era un millantatore. «Quando la Luna di Sangue trarrà la fiamma dalla Tenda Bronzea allora la Via della Perla sarà aperta.»
«Proprio così» disse Elric. «E i nomadi ci dicono che la Luna di Sangue sorgerà sulle montagne fra meno di una settimana. E brillerà sulle Acque della Perla.» «Esatto» disse Elric. «E di conseguenza, ovviamente, la strada per la Fortezza sarà rivelata.» Elric annuì con gravità, come a confermare ogni parola. «E un uomo come te, con la conoscenza del supernaturale e del non supernaturale, capace di destreggiarsi fra la realtà e l'irrealtà, edotto dei sentieri che scorrono sul confine fra la veglia e i sogni, può scardinare le difese, sopraffare i guardiani e rubare la Perla!» Nella voce del nobile Gho c'era un misto di cupidigia venale e desiderio lascivo, quasi sessuale. «Questo in teoria, certo» disse cautamente lui. Il nobile Gho parve apprezzare quella sana prudenza. «Sei disposto a rubare la Perla per me, messer Ladro?» Prima di rispondere, Elric si permise di riflettere un poco. «In un furto di questo genere è contenuta un'alta percentuale di rischio, come puoi immaginare.» «Naturalmente. È ovvio. La mia gente è da tempo convinta che nessuno, fuorché un esperto nella tua arte, abbia una possibilità di penetrare nella Fortezza e trafugare la Perla.» «E dove si trova questa Fortezza della Perla?» «Nel cuore del mondo, suppongo.» Elric corrugò la fronte. «Dopotutto» disse il nobile Gho con una certa impazienza, «il gioiello è appunto noto come la Perla nel Cuore del Mondo, no?» «Capisco ciò che vuoi dire» annuì Elric, sopprimendo l'impulso di grattarsi la testa. Ciò che lo interessava in realtà era solo quel meraviglioso elisir e l'idea di berne un altro sorso, anche se lo disturbava il motivo per cui quel delizioso liquore chiaro lo attraeva tanto. Cercò di concentrarsi sulla conversazione con Gho. «Puoi darmi altri particolari sulla... faccenda?» «Credevo che questo fosse il tuo campo, messer Ladro. Mi sembra ovvio che tu debba per il momento andare all'Oasi del Fiore d'Argento. I nomadi stanno per tenere là uno dei loro raduni. La cosa ha senza dubbio attinenza con la Luna di Sangue. È molto probabile che la via si apra per te proprio all'Oasi del Fiore d'Argento. Tu sai come arrivare all'Oasi, suppongo.» «Purtroppo ho perduto le mie mappe» si lamentò Elric. «Te ne sarà fornita una. Hai mai viaggiato sulla Strada Rossa?» «Come ti ho detto, nobile Gho, nel vostro impero io sono uno straniero.»
«Ma la geografia della regione da cui provieni è strettamente legata alla nostra, e così la sua storia!» «Temo di essere un po' ignorante in queste materie, nobile. Noi dei Reami Nuovi siamo vissuti tanto a lungo nell'ombra della maligna Melniboné che ancor oggi ci resta difficile dedicarci alle gioie dello studio e del sapere.» Il nobile Gho inarcò le sopracciglia artificialmente schiarite. «Già» ammise. «Suppongo che debba essere così. Comunque sia, messer Ladro, ti farò dare una mappa, anche se la Strada Rossa è facile da seguire, visto che conduce da Quarzhasaat all'Oasi del Fiore d'Argento e più oltre ci sono soltanto le montagne che i nomadi chiamano le Colonne Scolpite. Probabilmente quella è una zona di poco interesse per te, a meno che il Sentiero della Perla non ti porti fra quelle montagne. Si tratta di una via piuttosto misteriosa che peraltro è segnata su certe antiche mappe... nessuna delle quali è in nostro possesso. E noi abbiamo le biblioteche più fornite del mondo.» Elric intendeva prolungare il più possibile la sospensione della sua condanna a morte, e stabilì di proseguire con quella farsa finché non avesse avuto il modo di andarsene da Quarzhasaat, con tutto il necessario per sostentarsi durante il viaggio da lì ai Reami Nuovi. «Una mappa e un buon cavallo, spero. Puoi darmene uno?» «Avrai il migliore. Hai necessità di sostituire il tuo bastone ricurvo? O era soltanto un simbolo della tua arte?» «Posso procurarmene un altro.» Il nobile Gho si accarezzò la rigida barbetta riccioluta. «Se lo dici tu, messer Ladro.» Elric decise di cambiare argomento. «Non hai ancora accennato a quella che sarà la mia ricompensa.» Vuotò il boccale e lo spinse verso il nobile Gho, che pur riluttante a servirlo con le sue mani glielo riempì di nuovo. «Tu quanto chiedi, di solito?» domandò il quarzhasaatiano. «Be', questo è un lavoro tutt'altro che solito» scherzò Elric, che cominciava a divertirsi. «Come forse avrai già immaginato, vi sono pochi professionisti di abilità paragonabile alla mia nei Reami Nuovi, e pochi di loro avrebbero l'audacia di venire a cercare fortuna fin qui a Quarzhasaat...» «Se tu riuscirai a portarmi quella Perla, messer Ladro, io farò di te un uomo ricco. Tanto ricco che tornato nei Reami Nuovi tutti ti invidieranno. Io ti darò ciò che possiede un nobile: vesti di lusso, gioielli, un palazzo, schiavi. Oppure, se preferisci il potere, avrai una carovana carica di merci
così pregiate da assoldare un esercito privato. Potresti diventare un Duca nella tua terra, forse perfino un principe!» «Ammetto che è una prospettiva interessante per un uomo come me» disse l'albino cercando di celare l'ironia. «A questo aggiungi ciò che hai già avuto da me, e che non ti lesinerò ancora, e sarai d'accordo che la ricompensa è adeguata.» «Sì. Generosa, non c'è dubbio.» Elric non fece una piega e si guardò attorno in quell'elegante sala: mobili intarsiati, infissi dorati, cornici e colonne riccamente elaborate, soprammobili scintillanti di gemme e metalli preziosi. Non intendeva accettare subito, sapendo che l'altro si aspettava che lui contrattasse. «Tuttavia, se avessi un'idea di quello che è il valore della Perla per te, nobile Gho... voglio dire, mi chiedo che prezzo potrebbe spuntare qui in città. Devi ammettere che la ricompensa da te proposta non è poi eccezionale.» Il nobile Gho ebbe anch'egli un sorrisetto. «La Perla mi servirà per ottenere nel Consiglio dei Sei un posto che presto sarà vacante, ecco il valore che ha per me. La Settima Senza Nome ha accettato di favorirmi in cambio della Perla. Ecco perché devo averla al più presto. L'ho già promessa. Forse l'avevi immaginato, vero? Ho dei rivali, ovviamente, ma nessuno di loro ha offerto tanto.» «E questi rivali sanno della tua offerta?» «Senza dubbio ci saranno stati pettegolezzi e voci. Ma tu dovrai mantenere il segreto assoluto sulla natura del tuo incarico.» «Non temi che io potrei cercare una ricompensa maggiore presso qualcun altro, qui in città?» «Oh, non dubito che troveresti chi offrirebbe di più, se fossi così sleale da allearti a un mio avversario. Ma nessuno potrebbe darti ciò che io aggiungo all'offerta» disse il nobile Gho, e si permise un sogghigno crudele. «Perché no?» Elric si sentì improvvisamente in trappola, e d'istinto gettò un'occhiata alla Tempestosa. «Perché è una cosa che nessun altro possiede.» Il nobile Gho spinse la fiasca d'argento verso l'albino, e lui si rese conto che aveva bisogno di un altro sorso di elisir. Riempì il boccale e bevve, pensosamente. La verità cominciava a penetrare in lui, ed era una verità che non gli piaceva affatto: «Cosa può essere raro quanto la stessa Perla?» disse, poggiando il boccale sul tavolo. Aveva paura della risposta. Il nobile Gho lo fissava con intensità. «Tu lo sai già, credo» gli rispose. E sorrise ancora.
«Già.» Elric si sentiva completamente demoralizzato, e d'un tratto ebbe una paura abietta. Strinse i denti, irritato. «Ti riferisci all'elisir, suppongo.» «Oh, produrlo è relativamente facile... in effetti si tratta di un veleno, una pozione che si nutre di chi la beve, dandogli una vitalità che è solo apparente. Ma alla fine la droga consuma il corpo, e la morte che ne consegue è quasi sempre sgradevole. Che misera sorte per gli uomini e le donne che solo pochi giorni prima si sentivano così forti e potenti da dominare il mondo!» Il nobile Gho scoppiò in una risata che fece oscillare i riccioli della sua barba. «Gli sciocchi muoiono, e perfino sul letto di morte continuano a invocare un sorso della bevanda che li sta uccidendo. Non è l'ironia suprema, messer Ladro? Mi chiedi cos'altro è raro quanto la Perla? Dimmelo tu... perché la risposta dev'esserti chiara, a quest'ora, eh? La vita di un uomo lo è di certo.» «E così io sto morendo. Allora, perché dovrei lavorare per te?» «Perché esiste, ovviamente, un antidoto. Una droga che restituisce ciò che l'altra ha rubato, che non lascia assuefazione in chi la beve e gli rende la salute in pochi giorni, spegnendo nello stesso tempo la bramosia del veleno... quella che tu già senti. Così vedi bene, messer Ladro, che la mia offerta non è affatto da scartare. Io posso darti tutto l'elisir che vorrai bere durante il lavoro, e una volta terminato, purché tu torni qui per tempo, avrai l'antidoto. Nessuna ricompensa ti sembrerà più alta, credimi.» Elric raddrizzò le spalle e poggiò una mano sull'elsa della Spada Nera. «Ho già detto al servo che hai mandato da me quanto poco mi importi della vita. Sono altre le cose che hanno valore per me.» «Questo lo capisco» disse il nobile Gho Fhaazi con perfida giovialità. «E rispetto i tuoi ideali, messer Ladro. Hai detto una cosa giusta. Ma c'è un'altra vita da tenere presente, non credi? Parlo di quella del tuo amico.» «Io non ho amici qui, messere.» «Non ne hai, messer Ladro? Com'è triste sentire un uomo che dice questo. Sii così gentile da venire con me, prego.» Elric non si fidava di lui, ma si sentì indotto a seguirlo quando l'altro si avviò a passi alteri verso la grande arcata che si apriva su un corridoio. Appesa di nuovo alla sua cintura, la Tempestosa mugolava e fremeva come un felino accerchiato dai cani. Nei corridoi del palazzo, tappezzati con pannelli di marmo giallo e marrone e verde che davano l'impressione di attraversare una boscaglia, stagnava un gradevole profumo vegetale. Nelle vaste camere che oltrepassarono c'erano lunghe scaffalature colme di oggetti, armadi e bacheche di ve-
tro, vasche contenenti pesci e rettili vivi, un serraglio di animali feroci, un' armeria, e diversi magazzini chiusi a catenaccio. Il nobile Gho si fermò davanti a una porta a guardia della quale c'erano due militi che portavano la barocca armatura di Quarzhasaat, con lunghe barbe irrigidite dalla lacca in forme esagerate e bizzarre. All'avvicinarsi del padrone ritrassero di scatto il braccio con cui avevano tenuto le alabarde incrociate sulla porta. «Aprite» ordinò l'uomo, e uno dei militi si sganciò dal pettorale metallico una massiccia chiave, che infilò nella serratura. La porta si aprì su un piccolo cortile interno, al centro del quale campeggiava un minuscolo chiostro, accanto una fontana in secca. Sul fondo c'era l'ingresso di altre stanze. «Dove sei? Dove ti sei rintanato, razza di sciocco? Vieni subito fuori, muoviti!» chiamò il nobile Gho, spazientito. Ci fu un clangore metallico e dalla porta di fondo uscì un ragazzo miseramente vestito, con una prugna secca in una mano e una catena nell'altra. Era questa che lo rallentava nel camminare, perché gli era stata fissata intorno alla vita. «Ah, signore» disse a Elric appena lo vide, «è ben duro il prezzo che devo pagare per averti aiutato. Guarda come soffro per colpa tua.» Elric gli elargì un sogghigno aspro. «Prezzo è la parola che avevi in mente quando mi hai aiutato, ma non ti aspettavi d'essere tu a pagarlo, vero, Anigh?» Ebbe una smorfia d'ira. «Non sono stato io a metterti quella catena, ragazzo. Credo anzi che la scelta sia stata tua. Hai deciso tu di venire a mercanteggiare con un uomo che non conosce pietà, e gli stavi vendendo la mia pelle.» Il nobile Gho considerò con sospetto l'ostilità di Elric. «Questo ragazzo ha avvicinato un servo di Raafi as-Keeme» disse, volgendosi a scrutare Anigh, «e gli ha offerto i tuoi servizi. Ha detto che stava agendo come tuo rappresentante.» «Oh, in un certo senso è vero» annuì Elric, un po' impietosito dalla triste fine delle mire di Anigh. «Ma questo non è certo in contrasto con le vostre leggi, no?» «No, affatto. Ha mostrato un encomiabile senso degli affari.» «Allora perché lo hai incatenato qui?» «È una questione di convenienza. La sua sorte non ti addolora, messer Ladro?» «Se fosse stato un altro a compierla avrei detto che si tratta di un'azione infame» rispose cautamente Elric. «Ma poiché ti conosco come persona
corretta, nobile Gho, non oserei mai dire che stai usando questo ragazzo per ricattarmi. Sarebbe una stupida calunnia nei tuoi confronti.» «Spero infatti d'essere un uomo onesto, messere. Al giorno d'oggi non tutti i cittadini di questa città sono ligi agli antichi codici d'onore, purtroppo. Non quando sono in gioco le redini del potere. Tu stesso lo capisci bene, pur non essendo un nobile... né, data la tua professione, un gentiluomo.» «A Nadsokor c'è chi mi considera tale» disse Elric con enfasi. «Oh, non ne dubito. A Nadsokor.» Il nobile Gho indicò Anigh, che li guardava senza capire quello scambio di osservazioni. «E a Nadsokor saprebbero certo trovare un ostaggio più conveniente, se ce ne fosse uno.» «Ma questo non è giusto, signore» sbottò Elric, furente nel vedersi preso in giro oltreché ricattato. Doveva controllarsi per non sfoderare la Spada Nera, appesa al suo fianco sinistro. «Se io restassi ucciso nel corso del mio incarico, tu ti vendicheresti su questo innocente proprio come se fossi fuggito.» «Be', temo che ci sarei costretto per una questione di principio, messer Ladro. Ma conto che tu faccia ritorno, se non altro per dire a questo ragazzo che non sarà decapitato da un'alabarda.» Anigh non stava sorridendo, ma dopo quelle parole si fece grigio in faccia. «Oh, signore, abbi pietà!» «Non temere, qui sarà al sicuro.» Il nobile Gho poggiò una mano su una spalla di Elric, con fredda cordialità. «Perché tu tornerai con la Perla che sta nel Cuore del Mondo, non è vero?» Elric trasse un lungo respiro per calmarsi. Sentiva una nera brama agitarsi nel suo animo, un bisogno che non riusciva a identificare bene. Doveva estrarre la Spada Nera e rubare l'anima di quel degenerato intrigante? Con voce rigida disse: «Mio signore, se tu lasci andare questo ragazzo ti assicuro che farò del mio meglio... ti giuro che...» «Caro messer Ladro, Quarzhasaat è piena di uomini e donne che assicurano e che giurano, ed io non dubito che siano sinceri nel farlo. Danno solennemente la loro parola, giurano con voce tonante su ciò che hanno di più sacro. Ma quando la loro situazione migliora sono portati a sorvolare sui giuramenti, come se li avessero fatti in un momento di distrazione. Ecco dunque che un uomo prudente deve cautelarsi, per ricordare loro gli impegni presi. Noi stiamo, spero che tu lo apprezzi, giocando per una posta altissima. Non ce n'è una più alta nell'intero mondo. Un seggio nel Consiglio.» L'ultima frase non conteneva alcun sarcasmo. Era chiaro che il nobi-
le Gho Fhaazi non poteva immaginare un traguardo più elevato. Disgustato dai modi leziosi dell'uomo e dal suo disprezzo per chi veniva da fuori, Elric gli volse le spalle. Si rivolse al ragazzo. «Come puoi vedere, Anigh, quelli che hanno a che fare con me non hanno a che fare con la fortuna. Ti avevo avvisato. Tuttavia sappi che farò il possibile per tornare e per salvarti.» La frase che disse poi fu pronunciata nel dialetto delle fogne: «Ma non illuderti che questo sciacallo ti lascerà davvero vivere fino al mio ritorno, e cerca di fuggire con ogni mezzo, se appena puoi.» «Niente dialetto delle fogne!» gridò il nobile Gho, allarmato, «o morirete subito entrambi!» Evidentemente non capiva quel gergo, o almeno non bene come il suo emissario. «Ti consiglio di non minacciarmi, nobile Gho.» Elric poggiò una mano sull'elsa della spada. L'uomo rise. «Cosa, cosa? Quanta prosopopea! Evidentemente non hai capito bene che l'elisir date bevuto ti sta già uccidendo. Hai tre settimane di vita, dopodiché neppure l'antidoto potrà più salvarti. Non senti un verme che ti rode le budella... il terribile bisogno di un altro sorso dell'elisir mortale? Se questa pozione che ti rinvigorisce tanto fosse innocua, messer Ladro, non credi che tutti la berremmo per sentirci come degli Dèi?» Elric non sapeva ancora se fosse il suo corpo o solo la sua mente a sentire quell'anelito, ma capì che se da una parte l'istinto lo spingeva a uccidere il nobiluomo, dall'altra il bisogno di quella droga lo dominava già. Neanche mentre era vicino alla morte aveva provato un desiderio così forte delle sue erbe. Pervaso da quei due impulsi contrastanti il suo corpo tremava ancora quando dominò la rabbia. La sua voce fu gelida: «Questa non è un'offesa dappoco su cui si possa sorvolare, nobile Gho. Mi congratulo con te. Sei un uomo che non fa le cose a metà, neppure nel male. Anche quelli che fanno parte del vostro Consiglio sono così privi di scrupoli?» L'altro si fece ancor più ironico e verboso. «Questo è davvero poco gentile da parte tua, messer Ladro. Se tu sapessi osservare le cose col distacco del saggio, vedresti che io mi sto solo assicurando che tu faccia un lavoro degno di te. Anche se» e ridacchiò ancora, «dovrai farlo al mio servizio. Ma che c'è di sbagliato in questo? Io non credo proprio che un ladro sia autorizzato a criticare un nobile di Quarzhasaat per il solo motivo che questi sa fare i suoi affari!» L'odio di Elric per quell'individuo, che dapprima lui era riuscito a dissimulare sotto altre emozioni, aveva rischiato di sopraffarlo. Ma pian piano il suo autocontrollo tornava, e seppe imporsi la calma. «Tu stai dicendo
che sono tuo schiavo, nobile Gho.» «Se vuoi metterla così. Comunque lo sarai soltanto finché mi porterai la Perla che è nel Cuore del Mondo.» «E quando avrò rubato questa Perla per te, chi mi garantisce che mi darai l'antidoto del veleno?» Il nobile Gho scrollò le spalle. «Questo interrogativo riguarda solo te. Tu sei un uomo intelligente per essere uno straniero, e fino ad oggi sei sopravvissuto, ne sono certo, grazie alle tue capacità. Ma attento ai passi falsi: questo elisir viene miscelato solo per me, e non troverai l'identica formula da nessun'altra parte. Ti conviene rispettare i patti, messer Ladro, e quando te ne andrai da qui sarai ricco. Col tuo piccolo amico in un sol pezzo.» Elric lo considerò con aspro sarcasmo. Ora che gli erano tornate le forze, non importava quanto artificiosamente, avrebbe potuto scatenare la morte e la distruzione nel palazzo del nobile Gho, o perfino nell'intera città. Come se gli leggesse nella mente la Tempestosa si agitò al suo fianco, e il nobile Gho si concesse un rapido e nervoso sguardo alla grande spada incisa di rune. Ma a questo sarebbe seguita anche la sua morte, ed Elric intendeva uscire da quella situazione col minor danno possibile. Decise di prendere tempo, di accettare le condizioni imposte dal nobile Gho finché non ne avesse saputo di più su quell'individuo e sulle sue mire, cercando nel frattempo di scoprire qualcosa sulla natura dell'elisir per cui provava sintomi di assuefazione. Forse non era vero che quella droga uccideva. Forse era comune a Quarzhasaat e molti possedevano l'antidoto. Ma lui non aveva amici lì, a parte Anigh, né alcuna idea di quali avversari del nobile Gho avrebbero potuto accettare di aiutarlo. «Sbagli, se credi che m'importi qualcosa di questo ragazzo» disse, esibendo un'aria sprezzante. «Oh, no. Io sono un buon giudice di caratteri, messer Ladro. E tu sei come i nomadi, i quali sono molto simili in queste cose alla gente dei Reami Nuovi. Voi date un alto valore alla vita dei vostri amici e conoscenti. Queste ingenue forme di lealtà sono la vostra debolezza.» Elric fu costretto a riflettere all'ironia della cosa, perché gli stessi melniboneani si ritenevano superiori a sentimentalismi del genere, mentre lui era uno dei pochi che si preoccupavano anche di chi non apparteneva alla cerchia dei parenti più stretti. Spesso era per quella ragione che finiva nei guai. Il destino, pensò, gli stava insegnando che per i cinici le cose erano
molto più semplici. Fece un sospiro, conscio che non sarebbe riuscito ad avere nessuna garanzia da quell'uomo. «Se quando torno scoprirò che hai fatto del male al ragazzo, nobile Gho... se sarà stato soltanto ferito o maltrattato, il tuo destino sarà mille volte più terribile di quello che hai riservato a lui. O, potrei aggiungere, a me!» I suoi occhi rossi lampeggiavano fissando l'aristocratico, come se dietro di essi ardessero i fuochi dell'inferno. Il nobile Gho esitò, poi sorrise per mascherare le sue emozioni. «Bada, messer Ladro. Non è saggio minacciare chi tiene nelle sue mani la tua vita. E io non sono abituato a sentirmi parlare in questo tono.» Elric rise, e il fuoco nei suoi occhi non si placò. «Dovrai abituarti al pensiero che possa accaderti di peggio che sentirmi parlare in questo tono, nobile Gho. Mi hai capito bene? Io esigo che a questo ragazzo non sia fatto del male!» «Ti ho già detto che non puoi...» «E io ti ho avvertito che posso.» Le palpebre di Elric si abbassarono sui suoi terribili occhi, come se socchiudesse la porta del Regno del Caos, e il nobile Gho fece una smorfia. La voce dell'albino divenne un gelido sussurro: «Nel nome di tutti poteri occulti che io comando, ti dico questo: niente potrà fermare la mia vendetta. Neppure la mia stessa morte.» Stavolta il sorriso del nobile Gho risultò piuttosto debole e svanì subito. Anigh sembrava invece assai sollevato, come se avesse già ritrovato la serenità che aveva prima di quegli avvenimenti. A passi lunghi il principe albino si mosse verso il ragazzo, ma d'un tratto la sua andatura si fece così vacillante che dovette fermarsi. Trasse un profondo respiro per schiarirsi la testa. Evidentemente l'elisir stava già perdendo la sua efficacia, o nel nutrirsi del suo corpo gli giocava strani scherzi alle membra; non riuscì a capirlo. Non aveva mai fatto un'esperienza del genere. Aveva una gran voglia di berne un altro sorso. Sentiva un vago dolore nelle viscere e nel petto, come se qualcosa lo rodesse dall'interno. D'un tratto si accorse di ansimare. Nel guardarlo, il nobile Gho ritrovò parte del suo buonumore. «Se rifiuti di servirmi, la tua morte è inevitabile. Io ti consiglierei d'essere molto rispettoso con me, messer Ladro.» Elric raddrizzò dignitosamente le spalle. «Devi ricordare ciò che ti sto dicendo, nobile Gho Fhaazi. Se mancherai di parola, io scatenerò su di te e su Quarzhasaat una rovina tale che i superstiti malediranno il giorno in cui sono giunto qui. E tu saprai chi sono io, prima che la morte si abbatta su di
te e sui degenerati abitanti di questa città.» Il quarzhasaatiano parve sul punto di replicare rabbiosamente, ma si limitò a dire: «Hai tre settimane.» Con le forze che gli restavano, Elric estrasse dal fodero la Tempestosa. Il metallo nero pulsava emanando una luce oscura, mentre le rune incise sulla lama si torcevano e danzavano, e una maligna vibrazione sonora saliva di tono fra le mura del cortile disperdendosi verso le antiche torri e i minareti di Quarzhasaat. «Questa spada è avida di bere anime umane, nobile Gho. Potrebbe bere la tua in un istante, e poi darmi l'energia del tuo corpo rafforzandomi più di qualsiasi elisir. Ma tu hai un piccolo vantaggio su di me, per il momento. Accetterò il patto che mi hai proposto. Se però pensi di ingannarmi...» «Non ti ingannerò.» Il nobile Gho s'era allontanato dalla spada, prudentemente. «Non temere, messer Ladro, io terrò fede al patto. Tu rispetta l'impegno: portami la Perla che è nel Cuore del Mondo, ed io ti pagherò con le ricchezze che ho promesso. Al tuo ritorno il ragazzo sarà liberato.» La Spada Nera mugolava e strideva, avida di risucchiare lì e subito l'anima dal corpo del quarzhasaatiano. Incapace di sopportare quella vista, Anigh s'allontanò in fretta e rientrò nel locale in fondo al cortile. «Partirò domani mattina.» Con una smorfia aspra Elric rinfoderò a spada. «Dovrai dirmi da quale porta della città si esce per la Strada Rossa, e come si arriva all'Oasi del Fiore d'Argento. E voglio il tuo onesto consiglio su come razionare al meglio l'elisir di quella fiasca.» «Non dovrai razionarlo.» Il nobile Gho assunse un tono pratico, ora. «Ce n'è ancora, nel salone. Intendevo offrirtelo tutto. Non avevo intenzione di mettere a repentaglio la nostra collaborazione lesinandoti il necessario...» Elric si umettò le labbra già spiacevolmente aride. Esitò un momento, e guardò ancora verso la porta in cui Anigh era scomparso. «Vieni, messer Ladro.» Il nobile Gho gli poggiò una mano su una spalla. «Torniamo nel salone. L'elisir ti aspetta. Puoi berlo subito. Ne hai un gran bisogno, vero?» Era la sgradevole verità, ma Elric usò il suo odio per tenere a freno la bramosia della droga. Alzò la voce: «Anigh! Vieni fuori!» A passi lenti il ragazzo tornò in cortile. «Comanda, signore.» «Ti giuro che non ti accadrà del male, finché potrò evitarlo. Ora questo degenerato individuo ha capito che se ti uccidesse mentre io sono assente morirebbe fra i più atroci tormenti. Tuttavia, ragazzo, non dimenticare ciò
che ti ho detto, perché non so dove mi condurrà questa avventura» disse Elric, e aggiunse nel dialetto delle fogne: «Forse alla morte.» «Farò quel che dici» rispose Artigli nello stesso gergo. «Ma ti prego, signore, di non morire. Ho più di un motivo per desiderare che tu torni vivo.» «Basta così!» Il nobile Gho si avviò attraverso il cortile, accennando a Elric di seguirlo. «Andiamo. Ti consegnerò tutto ciò di cui avrai bisogno per trovare la Fortezza della Perla.» «E io ti sarò riconoscente, se non mi lascerai morire. Credimi, signore, saprò mostrarti la mia gratitudine» disse Anigh alle sue spalle, prima che le guardie richiudessero il portone. 3 Sulla Strada Rossa Fu così che il mattino successivo Elric di Melniboné lasciò l'antica città di Quarzhasaat senza sapere ciò che cercava né dove trovarlo; sapeva soltanto che avrebbe dovuto seguire la Strada Rossa fino all'Oasi del Fiore d'Argento, e là individuare la Tenda Bronzea, dove avrebbe appreso in che modo poteva proseguire sulla via che portava fino alla Perla nel Cuore del Mondo. E sapeva anche che se avesse fallito in quella problematica ricerca ci avrebbe rimesso la vita. Il nobile Gho Fhaazi non gli aveva dato altri particolari; c'era da credere che l'ambizioso politicante non fosse sicuro neanche del poco che aveva saputo dirgli: «La luna di Sangue deve trarre la fiamma dalla Tenda Bronzea, affinché la Via verso la Perla venga rivelata.» Essendo praticamente all'oscuro della storia e delle leggende di Quarzhasaat, nonché della geografia di quel territorio, Elric aveva deciso di seguire le indicazioni della mappa che gli era stata data. Non sembrava cosa difficile. Secondo la pergamena, la zona desertica fra Quarzhasaat e quell'oasi dallo strano nome era attraversata da una pista lunga cento leghe. Più oltre c'erano le Colonne Scolpite, una catena di alture non molto elevate. Sulla Mappa la Tenda Bronzea non appariva, né c'era alcun riferimento alla Perla. Il Nobile Gho pensava che i nomadi fossero meglio informati, ma non aveva garantito a Elric che sarebbero stati disposti a dirgli qualcosa. C'era dunque solo da sperare che quella gente, una volta capito che era solo un
viaggiatore e ammorbidita dal poco oro datogli dal nobile Gho, sarebbe stata amichevole, ma lui non sapeva nulla dell'interno del Deserto dei Sospiri, né delle tribù che lo abitavano. Il nobile Gho li giudicava dei rozzi barbari e deprecava che fosse loro permesso di entrare in città per commerciare. Elric si augurava che i nomadi fossero almeno più cortesi del popolo che ancora credeva che l'intero continente fosse sotto il suo dominio. La Strada Rossa meritava il suo nome: era una pista sassosa di terriccio color sangue, che serpeggiava attraverso il deserto chiusa fra argini scoscesi da cui si capiva che un tempo lontano era stata il fondo di un fiume, quello sulle cui rive avevano edificato Quarzhasaat. Ogni poche leghe gli argini si abbassavano dando modo di spaziare con lo sguardo in ogni direzione nel deserto: un mare di dune mobili accarezzate da un vento la cui voce, pur debole, era la somma dei sospiri dei viandanti e dei cercatori di antichità che per millenni avevano vagato su quelle piste. Il sole saliva lento in un cielo indaco, così chiaro che sembrava scolorito dal calore, e Elric cominciò ad apprezzare le vesti locali dategli da Raafi as-Keeme prima della partenza: un lungo cappuccio bianco, una larga blusa e pantaloni dello stesso colore, stivali di lino duro alti fino al ginocchio, e un visore trasparente con cui proteggere gli occhi. Il cavallo, un solido e resistente animale capace all'occorrenza di un galoppo veloce, era anch'egli avvolto in una gualdrappa di lino bianco, che aveva lo scopo di difenderlo dal sole quanto dalla polvere, continuamente sollevata dal vento. Ogni dieci leghe i quarzhasaatiani o i nomadi avevano eretto baracche in cui c'erano i rudimentali utensili usati da chi si preoccupava di mantenere agibile la Strada Rossa, che in caso contrario sarebbe stata sepolta dal deserto in pochi anni. Elric non aveva messo da parte l'odio per Gho Fhaazi e per la situazione in cui il nobile lo aveva costretto, né s'era indebolita la sua volontà di uscirne vivo e salvare Anigh, così com'era deciso a tornare a Melniboné per riunirsi a Cymoril. L'elisir era fonte di energia per il suo corpo, ed Elric ne aveva due fiasche nelle borse da sella. Era ormai certo che quella pozione lo avrebbe ucciso, alla fine, e continuava a dirsi che se il nobile Gho affermava di avere l'antidoto doveva essere vero. Questo pensiero rafforzava in lui la determinazione di vendicarsi ferocemente appena gli fosse stato possibile. La Strada Rossa sembrava proseguire senza fine. Nell'aria vibravano onde di calore mentre il sole saliva verso lo zenit. Ed Elric, che di solito o-
diava recriminare, continuava a maledirsi per aver acquistato la mappa dal marinaio ilmiorano ed essersi avventurato senza alcuna preparazione in quella zona del deserto. «Evocare l'aiuto di un'entità supernaturale in questo momento aggiungerebbe follia alla mia follia» disse alla desolazione che lo circondava. «E il brutto è che questo aiuto dovrò chiederlo, quando sarò alla Fortezza della Perla.» Sapeva di avercela con se stesso per l'imprudenza che continuava a tarare tutte le sue azioni; se fosse stato più accorto avrebbe previsto il tranello del nobile Gho, o comunque non avrebbe mai bevuto nulla dalla fiasca di un uomo che non conosceva. Perfino in quel momento dubitava delle sue capacità mentali. Fin dalla partenza sospettava d'essere seguito, ma dietro di lui non c'era un'anima. Aveva continuato a gettare occhiate alle sue spalle, a fermarsi senza preavviso, a tornare indietro per brevi tratti, e pur non vedendo nessuno quella sensazione continuava a tormentarlo. «Forse quel maledetto elisir mi sta annebbiando il senno» mormorò, dando una pacca sulla stoffa polverosa sul collo del cavallo. I grandi argini della strada lì s'erano abbassati molto, riducendosi a mucchietti di terra sui due lati. Elric d'un tratto scorse dei movimenti che non erano sabbia sollevata dal vento, e tirò le redini. C'erano in effetti delle piccole creature bipedi, in distanza, che correvano qua e là sulle zampe posteriori, rigide come manichini. E altre creature più grandi che sembravano strisciare a livello della sabbia mentre una nuvoletta oscura aleggiava sopra di esse e le seguiva intanto che procedevano con lentezza sulla superficie del deserto. Elric stava imparando che, almeno in quella regione del Deserto dei Sospiri, un territorio che a un primo sguardo appariva senza vita in realtà non lo era affatto. Si augurò che le creature più grosse che vedeva non considerassero l'uomo una possibile preda. Di nuovo la percezione di qualcuno alle sue spalle lo indusse a girarsi di scatto, e stavolta gli parve di aver visto qualcosa di giallo, forse un mantello, scomparire oltre un mucchio di terra. In un'altra circostanza si sarebbe fermato, approfittandone anche per riposare, ma era ansioso di raggiungere l'Oasi del Fiore d'Argento al più presto. Per trovare quella misteriosa Fortezza e fare ritorno con la Perla a Quarzhasaat aveva il tempo contato. Annusò l'aria. Il vento gli portò un odore nuovo. Se non fosse stato impossibile, avrebbe pensato che qualcuno stava bruciando rifiuti di cucina; era lo stesso sentore acre di vegetali carbonizzati. Poi socchiuse le palpebre e vide, a una certa distanza, un refolo di fumo grigio. C'erano dei no-
madi, così vicino a Quarzhasaat? Gli era stato detto che non si fermavano mai a meno di cento leghe dalla città, salvo che non avessero una ragione precisa. E se laggiù bivaccavano dei viaggiatori, perché non avevano fatto sosta più vicino alla strada? Lui non era stato avvertito di guardarsi dai briganti, così non temeva d'essere aggredito, ma adesso era all'erta e continuò il viaggio con una certa cautela. Gli argini tornarono ad alzarsi e gli occlusero la vista del deserto, ma l'odore di bruciato si fece così forte da diventare quasi insopportabile. L'aria gli riempiva i polmoni come una cosa solida, e ben presto i suoi occhi cominciarono a lacrimare. Era il puzzo più sgradevole che avesse mai sentito, come se qualcuno stesse bruciando cadaveri putrefatti. Di nuovo gli argini si abbassarono finché lui poté vedere oltre. A meno di una lega di distanza c'era una ventina di refoli di fumo scuro non già immobili bensì in movimento, e fra essi un polverone che sembrava sollevato da una quantità di ruote. Perplesso Elric si disse che doveva aver incontrato una tribù che teneva accesi i fuochi per cucinare anche mentre si spostava su carri di qualche genere. Tuttavia le dune rendevano impossibile capire che razza di veicoli fossero in grado di spostarsi su un terreno così infido e sabbioso, e lui si chiese ancora perché mai quella gente non viaggiasse sulla Strada Rossa. Pur tentato d'indagare sulla cosa, Elric sapeva che sarebbe stato rischioso lasciare la strada. Già in altre occasioni s'era perduto, e stavolta avrebbe potuto finire in un guaio peggiore di quello da cui l'aveva tolto Anigh parecchi giorni addietro, dall'altra parte di Quarzhasaat. Stava pensando si smontare e riposarsi gli occhi e la mente per un' oretta, quando l'argine più vicino a lui prese a scuotersi e vibrare, e su di esso si aprirono alcune larghe spaccature. Il ripugnante puzzo di bruciato si fece ancora più intenso, così soffocante che lui fu costretto a tossire, e il cavallo nitrì spaventato e cercò di caracollare via ignorando i suoi tentativi di farlo proseguire. All'improvviso una frotta di animali invase la strada, sbucando dalle spaccature appena comparse sull'argine. Erano quelli che in distanza Elric aveva scambiato per strani ometti. Ora che li vedeva da vicino notò che si trattava di bestie simili ai topi, ma topi che correvano sulle lunghe zampe posteriori, mentre quelle anteriori erano assai ridotte. Avevano musi grigi appuntiti, bocche piene di dentini aguzzi, e orecchi così larghi da far pensare che stessero spiegando le ali nel tentativo di alzarsi in volo. Risuonò un poderoso rombo seguito da alcuni schianti. Una nuvola di
fumo nero investì Elric, e il cavallo indietreggiò in cerca d'aria pura. Da uno squarcio dell'argine vide uscire una forma rapida: un corpo massiccio color del bronzo, fornito di una dozzina di zampe e di mandibole che sbattevano con avidità mentre si precipitava all'inseguimento dei ratti bipedi, che dovevano essere la sua preda naturale. Elric lasciò che il cavallo si portasse ancor più lontano e si girò a guardare quell'enorme insetto, che in altre terre tutti credevano estinto da molto tempo. Li chiamavano scarafaggi del fuoco. Per una bizzarria dell'evoluzione quelle creature secernevano un olio fotosensibile dai fori di cui era costellato il loro carapace. L'olio dei fori escretivi, esposto alla luce solare o al contatto di quello già infiammato di altri scarafaggi, prendeva fuoco, cosicché poteva accadere che ci fossero dieci o venti di quei fori in fiamme allo stesso tempo sull'impervio corpaccione di un insetto, che continuavano ad ardere finché questi non entrava nel terreno per scavarsi una tana nella stagione dell'accoppiamento. Questo era il fumo che Elric aveva visto in distanza. Gli scarafaggi del fuoco stavano cacciando. . Si muovevano con una velocità che lo sorprese. Almeno una dozzina di quei giganteschi insetti stavano arrivando sulla strada, ed Elric capì con orrore che lui e il cavallo erano finiti in una trappola destinata al branco dei topi bipedi. Sapeva che gli scarafaggi del fuoco non facevano distinzione fra una preda o l'altra, purché si trattasse di carne commestibile, e dunque lui stava per essere accidentalmente aggredito e divorato da una bestia che di regola non cacciava l'uomo. Il cavallo continuava a sbuffare e indietreggiare, e si decise a fermarsi soltanto quando le redini lo costrinsero a girare la testa. Appena ebbe sotto controllo l'animale Elric sfoderò la Tempestosa, ma imprecò al pensiero di quanto poteva essere poco efficace quella lama contro i bronzei corpi chitinosi da cui scaturivano fiamme e fiammelle. La Tempestosa non estraeva molta energia vitale da creature primitive come quelle. Poteva solo sperare di mettere a segno un colpo fortunato e uccidere una delle bestiacce, per uscire dal loro abile accerchiamento prima che fosse troppo tardi. Allorché uno scarafaggio del fuoco venne verso di lui, Elric abbatté la grande spada da battaglia e tagliò di netto una delle sue zampe. L'insetto macroscopico non parve neanche accorgersene e continuò ad avanzare. L'albino urlò furiosamente e colpì ancora, senza sfondare il carapace ma facendo volare dappertutto gocce di fiamma. Altri scarafaggi arrivarono. L'olio infuocato schizzava attorno ogni volta che lui vibrava un colpo, tuttavia la lama, pur incidendo a fondo la corazza chitinosa, non sembrava fe-
rire gli insetti in modo significativo. I nitriti del cavallo e i sonori tonfi della spada erano una musica continua a cui Elric aggiungeva le sue grida, mentre faceva deviare l'animale da una parte e dall'altra in cerca di una via di fuga, e intorno a loro saltavano i terrorizzati topi bipedi incapaci di scavarsi un nascondiglio in fretta nella dura terra battuta della strada. Il sangue inzaccherava le gambe e le braccia di Elric, e la candida gualdrappa di lino che proteggeva il cavallo fino ai ginocchi. Ogni tanto l'olio fiammeggiante di un insetto bruciava la stoffa, aprendovi un foro. Molti scarafaggi stavano mangiando, ora, e questo rallentava la loro avanzata. Ma nel loro accerchiamento non c'era un varco largo abbastanza perché il cavallo e il cavaliere potessero sfuggire. Elric pensò che forse il cavallo sarebbe riuscito a passare sui dorsi degli enormi scarafaggi, benché quei gusci tondeggianti fossero troppo unti d'olio perché gli zoccoli dell'animale non scivolassero. Non vedeva altra speranza. Stava per spronarlo avanti quando udì un ronzio intensificarsi tutto attorno a lui e all'improvviso l'aria fu piena di punti neri fitti come una pioggia: erano mosconi grossi e feroci, lo sciame famelico che seguiva gli scarafaggi del fuoco per nutrirsi di ciò che restava delle loro prede. I mosconi piombarono su di lui e sul cavallo, aggiungendo orrore all'orrore. Imprecando Elric cercò di scacciarli con le mani, ma gli insetti si accumulavano come uno strato spesso e fitto, ignoravano i suoi colpi e continuavano ad arrivargli addosso, coprendogli il naso e il visore trasparente al punto di accecarlo. Il cavallo nitrì terrorizzato e perse l'equilibrio. Elric cercò disperatamente di tenerlo fermo e guardare avanti. Il fumo e le mosche erano troppo sconvolgenti per la sua cavalcatura. I mosconi approfittavano della sua necessità di respirare per entrargli in bocca e nelle narici; lui si protesse la faccia con una mano e sputò gli insetti al suolo, dove i topi bipedi squittivano e morivano fra le mandibole a tenaglia degli scarafaggi del fuoco. Poi un altro rumore gli giunse agli orecchi, e come per miracolo i mosconi cominciarono a sollevarsi. Attraverso le lacrime che lo accecavano vide che gli scarafaggi si spostavano tutti in un'unica direzione, lasciando qualche spazio dove lui avrebbe potuto passare. Senza pensarci due volte spronò l'animale in un varco, ancora mezzo soffocato e incapace di capire se stava rompendo l'accerchiamento o finendo in mezzo a un altro branco di scarafaggi in caccia, perché il fumo era ancora impenetrabile e il rumore assordante. Continuando a sputare mosconi Elric si ripulì il visore e si guardò attor-
no. Sul tratto di strada dinnanzi a lui non gli sembrava di vedere scarafaggi, anche se li udiva alle sue spalle. Nel polverone e nel fumo si stavano muovendo forme assai più rassicuranti. Erano esseri umani: uomini a cavallo che avanzavano lungo la Strada Rossa, armati di lunghe lance con le quali colpivano al ventre e spingevano via gli scarafaggi, senza ferire gravemente i grandi insetti coperti di chitina bronzea ma molestandoli abbastanza da farli muovere, cosa che la spada di Elric non era riuscita a ottenere. I cavalieri indossavano larghi indumenti gialli che svolazzavano come stendardi al vento, e lavoravano con energia ed efficienza per liberare la strada dagli scarafaggi, spingendoli nel deserto. I topi bipedi, o almeno quelli di loro che uscivano vivi dalla mattanza grazie a quell'intervento, si stavano già disperdendo alla ricerca di buche nella sabbia. Elric non rinfoderò la Tempestosa. Era fin troppo chiaro che quei guerrieri l'avevano tolto dai guai soltanto per caso, e avrebbero potuto rivelarsi ostili nel vedere uno straniero sulla loro strada. L'altra possibilità, tutt'altro che da scartarsi, era che fossero briganti ai quali non garbava l'idea che gli scarafaggi rubassero una preda desiderata da loro. D'un tratto uno degli sconosciuti si distolse dal lavoro che stava facendo e spronò il cavallo in direzione di Elric, con la lancia sollevata verso di lui. «Ti sono grato, messere» disse l'albino. «Voi mi avete salvato la vita. Spero di non aver disturbato troppo la vostra caccia.» Il cavaliere era più alto di lui, molto magro e di pelle scura, con una faccia sottile e acuti occhi neri. Aveva la testa rasata, e le labbra coperte di tatuaggi colorati così fitti che potevano sembrare una maschera di tessuto applicata intorno alla bocca. La sua lancia era imbracciata in posizione di attacco ed Elric stava pronto a difendersi, pur sapendo che contro tutti quei cavalieri le sue probabilità non erano maggiori di quelle che aveva avuto contro gli scarafaggi del fuoco. L'uomo corrugò le sopracciglia nel sentire l'accento di Elric; parve un momento perplesso, quindi rispose: «Noi non stiamo cacciando gli scarafaggi del fuoco. Ci siamo accorti che un cavaliere era rimasto nel loro accerchiamento e non sapeva come uscirne. Siamo intervenuti per toglierli di mezzo. Io sono Manag Iss della Setta Gialla, e il Consigliere Iss è mio parente. Io faccio parte della gilda degli Avventurieri Stregoni.» Elric aveva già sentito nominare quelle sette, e sapeva che la casta di guerrieri negromanti di Quarzhasaat era stata responsabile dell'incantesimo che aveva sepolto il loro impero sotto la sabbia. Che fosse stato il nobile
Gho a mandarli dietro di lui, per assicurarsi che procedesse nella direzione voluta? O avevano avuto l'incarico di attendere il suo ritorno con la Perla per eliminarlo? «In tal caso ti sono ancor più riconoscente, Manag Iss, per il tuo intervento. È un onore incontrare un membro della vostra gilda. Io sono Elric di Nadsokor, e vengo dai Reami Nuovi.» «Sì, sappiamo già chi sei. Ti stavamo infatti seguendo, e aspettavamo d'essere a distanza di sicurezza dalla città per parlare con te.» «A distanza di sicurezza? Non è certo da me che devi temere qualcosa, messer Avventuriero Stregone.» Manag Iss non doveva essere uomo molto abituato a sorridere, perché quando ci provò la sua bocca dipinta parve contorcersi a fatica. Più indietro gli altri membri della setta tornavano verso di loro, infilando verticalmente le lunghe lance nei supporti delle selle. «Non temiamo niente da te, mastro Elric. Noi siamo venuti in pace e possiamo esser tuoi amici, se vuoi. La mia parente ti manda i suoi saluti. È la moglie del Consigliere Iss. La nostra famiglia ha lo stesso nome. Tutti noi, nella gilda, tendiamo a sposarci con gente del nostro stesso sangue.» «Lieto di fare la tua conoscenza.» Elric attese che l'uomo gli dicesse quello che era venuto a dire. Manag Iss allargò una sottile mano abbronzata, le cui unghie erano state tolte e sostituite con tatuaggi simili a quelli della bocca. «Vogliamo smontare e sederci comodamente a parlare? Siamo venuti a portarti messaggi e a offrirti doni.» Elric infilò la Tempestosa nel fodero e scivolò giù dalla sella, nella polvere della Strada Rossa. Si volse a guardare gli scarafaggi che si allontanavano, probabilmente alla ricerca di qualche altro branco di topi bipedi; il fumo dell'olio pestilenziale che bruciava sui loro dorsi gli faceva tornare a mente i fuochi nel campo dei lebbrosi, alla periferia di Jadmar. «La mia parente desidera farti sapere che lei e la Setta Gialla sono al tuo servizio, mastro Elric. Noi siamo pronti a darti tutto l'aiuto di cui avrai bisogno durante la ricerca della Perla nel Cuore del Mondo.» Elric sorrise educatamente a quell'inattesa dichiarazione. «Devo dire che tu mi sorprendi, messer Iss. Di quale perla stai parlando? Siete forse partiti alla ricerca di un tesoro?» La strana faccia dell'altro ebbe una smorfia d'impazienza. «Come tutti sanno, il tuo patrono, il nobile Gho Fhaazi, ha offerto la Perla che è nel Cuore del Mondo alla Settima Senza Nome, e in cambio lei gli ha promes-
so il posto che sarà disponibile nel Consiglio. Da tempo abbiamo risolto che un simile incarico può essere affidato soltanto a un ladro dalle capacità eccezionali. E Nadsokor è nota per i suoi abilissimi ladri. Si tratta di un'impresa che, non esito a confessartelo, è stata tentata invano da moltissimi Avventurieri Stregoni. Per secoli i membri di tutte le sette hanno cercato di trovare la Perla nel Cuore del Mondo, ogni volta che sorge la Luna di Sangue. I pochi che sono riusciti a tornare vivi a Quarzhasaat erano completamente pazzi, e sono morti subito dopo. Solo di recente abbiamo avuto qualche piccola informazione in più, e la prova che la Perla esiste veramente. Sappiamo dunque che tu sei un ladro di sogni, anche se non porti il bastone ricurvo per celare la tua vera professione, e questo perché nessun altro che un ladro di sogni dalle grandi capacità potrebbe giungere fino alla Perla e portarla via.» «Tu mi dici cose che io stesso non sapevo, Manag Iss» rispose con pacata serietà Elric. «Ammetto di esser stato assoldato dal nobile Gho Fhaazi, ma... sappi questo: è un incarico che ho accettato con molta riluttanza.» E poi, decidendo di fidarsi del suo istinto, gli rivelò con quale ricatto il nobile Gho lo tenesse in pugno. Manag Iss lo compatì educatamente. Le sue dita tatuate sfiorarono i tatuaggi delle sue labbra mentre ponderava su quell'informazione. «Questo elisir è ben noto agli Avventurieri Stregoni. Noi lo distilliamo da millenni. È vero che si nutre dell'organismo di chi lo beve. L'antidoto è assai più difficile da preparare. Mi sorprende che il nobile Gho affermi di possederlo. Soltanto certe sette degli Avventurieri Stregoni ne hanno piccole quantità. Se tu vorrai tornare con noi a Quarzhasaat, sono certo che potremo somministrarti l'antidoto entro un giorno o due.» Elric rifletté sulla proposta. Manag Iss era al servizio di uno dei rivali del nobile Gho. Questo bastava per fargli considerare con sospetto qualsiasi offerta, non importa quanto sincera e generosa sembrasse. Il Consigliere Iss, o la sua signora moglie, o chiunque avesse un candidato da piazzare nel Consiglio, era senza dubbio pronto alle azioni più efferate pur di ottenere il suo scopo. Per quanto Elric ne sapeva, quella di Manag Iss poteva essere una manovra per sottometterlo a una forma di ricatto ancor più contorta, oppure semplicemente per assassinarlo. «Tu mi scuserai se ti sembro poco entusiasta» disse l'albino, «ma non ho modo di sapere se mi stai dicendo la verità, messer Iss. Sappiamo bene che Quarzhasaat è una città dove l'intrigo e il tradimento sono occupazioni d'ogni giorno, e io non sono ansioso di finire ancor più avvolto nella ragnatela
di complotti che sembra appassionare tanto i tuoi concittadini. Se l'antidoto di cui parli esiste, comunque, io sarò disposto ad ascoltare le tue offerte se tu me lo porterai all'Oasi del Fiore d'Argento fra, diciamo, sei giorni da oggi. L'elisir che ho mi durerà per tre settimane, ovvero quanto basta per attendere la Luna di Sangue più il tempo del viaggio di andata e ritorno. Questo mi convincerebbe della tua sincerità.» «Sarò altrettanto franco» disse Manag Iss con voce fredda. «Io ho una missione accettata per legame di sangue, nonché per contratto giurato, e il mio onore di membro della nostra sacra gilda mi impone di portarla a termine. Questa missione sta nel convincere te, con ogni mezzo, a rinunciare alla tua ricerca oppure a vendere a noi la Perla. Se non desisterai io dovrò cercare di comprare la Perla da te pagandoti qualsiasi prezzo, escluso un posto nel nostro Consiglio. Di conseguenza non solo ti offro ciò che ti ha offerto il nobile Gho, ma a questo aggiungo tutta la ricchezza che la mia setta potrà darti.» Elric fece un sospiro triste. «Non puoi uguagliare l'offerta del nobile Gho, Manag Iss. C'è in gioco anche la vita del ragazzo di cui ti ho parlato. Lui non esiterà a ucciderlo.» «La vita di un ragazzo ha importanza relativa, no?» «Non ne dubito, se paragonata ai grandi giochi di potere che si svolgono a Quarzhasaat» disse stancamente Elric. Accorgendosi di aver sbagliato tattica, Manag Iss si affrettò a dire: «Salveremo quel ragazzo. Dimmi dove possiamo trovarlo.» «Credo che dovrò tener fede all'accordo fatto» disse Elric. «Non mi sembra di avere molta scelta, nonostante la tua offerta.» «E se il nobile Gho fosse assassinato?» Elric si strinse nelle spalle e fece per risalire in sella. «Ti ringrazio ancora del tuo intervento, Manag Iss. Penserò ancora all'offerta che mi hai fatto, mentre viaggio. Ma non posso fermarmi, come capirai. Ho poco tempo per cercare la Fortezza della Perla.» «Mastro Ladro, io ti avverto...» D'un tratto Manag Iss tacque e si spostò per guardare indietro, lungo la Strada Rossa. A non molta distanza c'era un polverone, ed Elric vide che stavano arrivando dei cavalieri vestiti con larghi e fluttuanti abiti verdi. Manag Iss imprecò. Il suo strano sorriso rimase tuttavia immutato, mentre il capo dei nuovi venuti s'avvicinava al galoppo. Dai loro indumenti Elric comprese che anche costoro dovevano essere Avventurieri Stregoni. Poco dopo vide che esibivano tatuaggi dello stesso genere, ma sulle palpebre e sui polsi, e i loro soprabiti erano ornati da un
fiore ricamato sia sugli orli inferiori che sulle maniche. L'uomo che li guidava affidò il cavallo a un compagno e s'incamminò verso Manag Iss. Era basso e attraente, con una barbetta sagomata secondo un disegno esageratamente elaborato, com'era tipico della moda di Quarzhasaat. A differenza dei membri della Setta Gialla lui e i suoi seguaci portavano la spada, appesa a cinghie di pelle invece che nel fodero. L'uomo fece un gesto che Manag Iss ripeté. «Ti saluto, Oled Alesham, e la pace sia con te. La Setta Gialla augura ogni successo alla Setta Guanto di Volpe. È un caso strano incontrarvi qui, sulla Strada Rossa. State forse partendo?» Manag Iss aveva parlato in tono formale, come pensando ad altro. Era chiaro che sapeva benissimo per quale motivo Oled Alesham e i suoi uomini si trovavano lì. «In effetti siamo partiti per dare protezione a questo ladro» disse il capo della Setta Guanto di Volpe, salutando Elric con un cenno del capo. «È uno straniero nella nostra terra, e si deve perciò offrirgli assistenza, come prescrivono le antiche usanze.» Elric sorrise, divertito da quell'approccio ma non troppo. «E posso chiederti, messer Alesham, se tu sei per caso imparentato con questo o quel membro del Consiglio dei Sei Più Un Altro?» Il senso dell'umorismo di Oled. Alesham era più sviluppato di quello di Manag Iss. «Oh, tutti siamo imparentati con tutti a Quarzhasaat, messer Ladro. Comunque, dato che noi ci stiamo recando all'Oasi del Fiore d'Argento, ho pensato che la nostra assistenza potrà esserti utile nella tua ricerca.» «Quest'uomo non sta facendo nessuna ricerca» intervenne Manag Iss, ma subito si accorse della stupidità della sua bugia: «Nessuna ricerca, cioè, a parte quella che conduce insieme ai suoi buoni amici della Setta Gialla.» «Poiché siamo obbligati dal giuramento della nostra gilda a non combattere fra noi, spero che non ci metteremo a litigare su chi ha diritto a scortare un viaggiatore bisognoso d'aiuto verso l'Oasi del Fiore d'Argento» disse Oled Alesham con una risatina. Evidentemente la situazione lo divertiva. «Anche voi fate lo stesso viaggio? E da ultimo riceveremo tutti una fetta della Perla?» «Non c'è nessuna Perla» disse Elric. «E continuerà a non esserci, se il mio viaggio sarà ulteriormente ritardato. Vi ringrazio, messeri, per le vostre attenzioni, e vi auguro buon pomeriggio.» Quelle parole produssero una certa costernazione fra gli uomini delle due sette rivali, che stavano ancora cercando di decidere il da farsi allor-
ché, oltre il fumo emanato dagli scarafaggi del fuoco in allontanamento, apparve un gruppo di cavalieri vestiti di nero, con le facce velate da ampi cappucci e le spade già sguainate. Elric ebbe il presentimento che costoro non meditassero nulla di buono nei suoi confronti, e si spostò fra i compagni di Mariag Iss e Oled Alesham in modo da esserne circondato. «Altri vostri compagni di gilda, messeri?» domandò, con una mano sull'elsa della spada. «Sono i Figli della Falena» lo informò Oled Alesham, «e sono dei rozzi assassini. Non fanno nient'altro che uccidere, messer Ladro. Ti conviene accompagnarti a noi. È chiaro che qualcuno ha deciso che devi essere sepolto nel deserto ancor prima di veder sorgere la Luna di Sangue.» «Voi mi aiuterete a difendermi da costoro?» domandò l'albino, pronto a battersi. «Purtroppo non ci è permesso» disse Manag Iss, con genuino dispiacere. «Non possiamo batterci contro altri membri della gilda. Ma poiché neppure loro possono colpirci, se stiamo intorno a te le loro armi non potranno arrivare a ferirti. Ti consiglio di agire saggiamente e accettare la mia offerta, messer Ladro.» A quel punto la rabbia che faceva ribollire il suo antico sangue reale prese il posto dell'impazienza, e senza dir altro Elric sfoderò la Tempestosa. «Sono stanco di queste misere beghe, messeri» disse. «Allontanatevi da me, voi e i vostri compagni, perché sto per dare battaglia.» «Ma sono troppi!» Oled Alesham era sbalordito. «Ti faranno a pezzi. Quelli sono uccisori esperti.» «Lo sono anch'io, mastro Avventuriero Stregone. Lo sono anch'io!» E detto questo Elric spronò il cavallo attraverso i ranghi stupiti dei Gialli e dei Guanti di Volpe, direttamente verso il capo dei Figli della Falena. La spada intarsiata di rune gridava all'unisono col suo padrone, i cui occhi brillavano rossi come braci infernali nel pallore della faccia albina. Solo allora gli Avventurieri Stregoni cominciarono a capire quale strano e preoccupante personaggio fosse venuto fra loro, e quanto lo avessero sottovalutato. Alta nella mano guantata di Elric, la Tempestosa sembrava cercare i raggi del sole e assorbirne la luce nel suo metallo nero. Poi la lama si abbatté con una terribile precisione che non era casuale, e spaccò in due il cranio del capo dei Figli della Falena, affondando lungo il collo e fino in mezzo al petto per succhiargli l'anima dal corpo nello stesso istante in cui moriva, con un trionfante ululato metallico. Elric si contorse sulla sella e la
spada ruotò in un ampio semicerchio per colpire il fianco dell'aggressore che gli arrivava addosso dalla parte opposta. «Aaah, mi ha colpito!» urlò l'uomo rovesciandosi all'indietro, e anch'egli cadde morto. Gli altri cavalieri dalla faccia velata rallentarono e si fecero più cauti, preferendo circondare l'albino a una certa distanza intanto che decidevano la loro tattica. Erano venuti lì in sette, nei loro tabarri neri, convinti di non aver bisogno d'altro che delle armi affilate, per raggiungere e fare a pezzi un ladro dei Reami Nuovi. Adesso erano rimasti in cinque. Un paio di essi chiamarono in aiuto i loro concittadini delle altre sette, ma né Manag Iss né Oled Alesham sembravano disposti a ordinare ai loro uomini di affrontare la micidiale lama che avevano appena visto in azione. Elric non intendeva perdere l'iniziativa. Appena ebbe fatto girare il cavallo assalì il più vicino Figlio della Falena, che parò il colpo abilmente e tentò perfino un fendente di risposta prima che il suo braccio fosse reciso di netto da un lampo nero. Con uno spasimo di dolore si rovesciò indietro sulla sella, fiottando getti di sangue dalle arterie del moncone. Un altro rapido affondo dell'arma, per metà opera di Elric e per metà della spada stessa, e anche quell'uomo ebbe l'anima strappata dal corpo. A quella vista, i suoi compagni dalle vesti nere fecero indietreggiare i cavalli fra i concittadini delle altre due sette. Nei loro occhi c'era la paura. Sapevano riconoscere la stregoneria, e quella che si trovavano davanti era di un genere più oscuro e potente di ciò che s'erano aspettati. «Basta così! Deponete le armi!» gridò Manag Iss ai neri. «Non è il caso che altri perdano la vita. Noi siamo qui per fare al ladro un'offerta. Voi siete stati mandati dal vecchio Duca Ral?» «Il Duca non vuole che l'uomo faccia i suoi intrighi con quella dannata Perla» ringhiò uno degli uomini velati. «Lui dice che una morte pulita è la soluzione migliore. Ma non eravamo noi a dover morire, oggi.» «La persona che ha inviato noi vuole patteggiare onestamente» disse Oled Alesham. «Messer Ladro, abbassa la tua spada. Noi non siamo qui per batterci con te.» «Oh, non ne dubito» sbottò Elric, aspro. In lui c'era ancora un'orrida sete di sangue, e faticava per tenerla sotto controllo. «Avreste preferito piantarmi un coltello nella schiena senza rischiare la pelle. Siete degli sciocchi. Ho già avvertito il nobile Gho che non tollero d'essere minacciato. Io ho il potere di distruggervi tutti. È una fortuna per voi che io abbia giurato a me stesso di non usare questo potere per sottomettere inutilmente gli altri o per raggiungere scopi egoistici. Ma non sono certo disposto a lasciarmi ucci-
dere da assassini prezzolati. Andatevene da qui! Tornate a Quarzhasaat!» L'ultima frase l'aveva quasi gridata, e la spada gli fece eco quando lui sollevò la lunga lama nera verso il cielo per avvertirli che sarebbe ricaduta su di loro se non avessero ubbidito. Manag Iss si rivolse a Elric con calma forzata: «Non possiamo farlo, messer Ladro. Siamo obbligati a svolgere l'incarico che ci hanno affidato. È una legge della nostra setta, ed è così per tutti gli Avventurieri Stregoni. Quando uno di noi ha accettato il compito esso va portato a termine. L'unica giustificazione per aver mancato a questo impegno è la morte.» «Allora dovrò ammazzarvi tutti» disse freddamente Elric. «E se non resto ucciso prima di avervi sterminati, è quello che farò.» «Possiamo ancora fare il patto di cui ti ho parlato» disse Manag Iss. «La mia proposta non era un inganno, messer Ladro.» «Anch'io sono venuto da te con una generosa offerta» aggiunse Oled Alesham. «Ma i Figli della Falena hanno giurato di uccidermi»ricordò loro Elric, con un sogghigno sardonico. «E voi non intendete difendermi da loro. Devo dedurne che all'occasione sceglierete di aiutare questi vostri concittadini ad ammazzarmi.» Manag Iss stava cercando di prendere le distanze dagli assassini intabarrati di nero, ma era chiaro che ciascuno pensava solo agli interessi e ai doveri della sua fazione. Poi Oled Alesham mormorò qualcosa a Manag Iss, ed il capo della Setta Gialla si fece pensoso; infine annuì fra sé e fece cenno ai Figli della Falena che voleva consultarsi con loro. Per qualche minuto gli uomini confabularono sottovoce, quindi Manag Iss tornò verso Elric. «Messer Ladro, abbiamo escogitato una soluzione che consente a te di proseguire il viaggio in pace e a noi di tornare onorevolmente a Quarzhasaat. Se ora ci ritiriamo, tu prometti di non seguirci?» «Solo se mi darai la tua parola che questi Figli della Falena non mi aggrediranno ancora.» Elric era più calmo adesso. Si appoggiò su un braccio la spada mormorante. «Mettete via le armi, fratelli!» gridò Oled Alesham, e i Figli della Falena ubbidirono al suo ordine. Elric esitò un poco prima di rinfoderare la Tempestosa. L'energia vitale estratta dal corpo degli uomini che avevano cercato di ucciderlo gli riempiva le membra, e in lui stavano riaffluendo tutta la nervosa sensibilità e l'arroganza e i poteri della sua antica stirpe. Rise in faccia agli avversari.
«Non tentate di uccidere un uomo che non conoscete, messeri. Potreste avere una brutta sorpresa.» Oled Alesham corrugò le sopracciglia. «Sto cominciando a sospettare la tua provenienza, messer Ladro. Si dice che i signori dell'Impero Luminoso portassero spade simili alla tua, al tempo dei tempi. Prima della storia scritta, quando tutto era ancora leggenda. E si dice che quelle lame siano cose viventi, una razza alleata della tua. Tu hai la faccia di quei nostri nemici scomparsi. Ciò significa forse che Melniboné non è stata sommersa dalle acque?» «Lascio a te la risposta a questo interrogativo, mastro Alesham.» Elric sospettava che quella gente meditasse un tranello, ma gliene importava poco. «Se voi v'intestardiste meno a conservare miti privi di ogni fondamento e studiaste il mondo che vi circonda, la vostra città avrebbe maggiori probabilità di sopravvivere. Invece sta crollando sotto il peso delle finzioni accumulate nella sua lunga decadenza. Le leggende che aumentano l'orgoglio di una razza incapace di affrontare la dura verità della storia sono cattive medicine per curare l'ammalato. Melniboné è sprofondata nei suoi difetti proprio come Quarzhasaat è sprofondata nella sabbia, mastro Avventuriero Stregone...» «Non è questo il momento di fare della filosofia» disse Manag Iss spazientito. «Non spetta a noi discutere le idee e gli scopi di chi ci ha assoldato. Questo è scritto nel nostro statuto.» «E di conseguenza dovete ubbidire.» Elric sorrise. «A questo modo festeggiate la vostra decadenza e opponete resistenza alla realtà.» «Vai, ora» disse Oled Alesham. «Non è affar tuo istruirci in questioni morali, e noi non siamo in vena di ascoltarti. Abbiamo studiato quando eravamo giovanetti, ma quel tempo è finito.» Elric prese atto dell'opinione dell'altro e fece di nuovo volgere il suo stanco cavallo verso l'Oasi del Fiore d'Argento. Non si prese la briga di voltarsi a controllare gli Avventurieri Stregoni, i quali avevano ricominciato a discutere fra loro. Mentre la Strada Rossa continuava a portarlo avanti nel deserto prese a fischiettare fra sé, euforico e allegro grazie all'energia rubata ai suoi nemici. Ora riusciva a pensare con maggiore serenità a Cymoril, e a Melniboné, e al progetto di assicurare la sopravvivenza del suo regno portando in esso gli stessi cambiamenti che aveva suggerito agli Avventurieri Stregoni. Quel giorno il suo obiettivo gli appariva raggiungibile, e non s'era mai sentito la mente così chiara. La sera venne in fretta e come sempre, a quella latitudine, anche la tem-
peratura scese finché l'albino si accorse di tremare. Di nuovo di cattivo umore smontò, tirò fuori dalle borse da sella un abito pesante, quindi accudì il cavallo e fece a pezzi un cespuglio spinoso per accendere il fuoco. Non aveva ancora toccato l'elisir a cui era appesa la sua vita, né prima né dopo l'incontro con gli Avventurieri Stregoni, e stava cominciando a capirne meglio la natura. Il bisogno s'era attenuato, benché lo avvertisse sempre, e ora sperava che sarebbe riuscito a liberarsi dell'assuefazione senza dover ricorrere ad altri patti col nobile Gho. «Tutto quel che devo fare» disse a se stesso mentre masticava la galletta e la carne secca, ammorbidendo i bocconi con qualche sorso d'acqua, «è di assicurarmi d'essere aggredito almeno una volta al giorno da un Figlio della Falena...» E con quel pensiero a rincuorarlo richiuse l'involto del cibo e si apprestò a dormire per terra, avvolto nel mantello. I sogni che lo visitarono furono gli stessi di sempre. Era ad Imrryr, la Città Sognante, e seduto sul Trono di Rubino con Cymoril accanto a sé contemplava la sua corte. Tuttavia quelli non erano i cortigiani di cui gli imperatori di Melniboné s'erano circondati per migliaia d'anni. I dignitari che si vedeva attorno erano uomini e donne provenienti da tutte le terre, da tutti i Reami Nuovi, gente di Elwher, dello Sconosciuto Oriente, di Phum, perfino di Quarzhasaat. E in quell'ambiente aperto tutti si scambiavano liberamente notizie, risultati di studi alchimistici, e teorie filosofiche. Il commercio era un fiume che alimentava il progresso. Quella era una corte le cui energie non erano riservate al tentativo di restare immutata per l'eternità, bensì allo sviluppo dell'arte ed alle discussioni umanistiche, una corte che apprezzava le idee nuove come necessarie al benessere invece di sentirsene minacciata, e la cui ricchezza era devoluta al mantenimento delle scuole e di chi studiava le scienze, oltreché all'assistenza dei bisognosi. La luce dell'Impero Luminoso sarebbe derivata non più dalla fosforescenza della putrefazione, ma dalla fiamma della ragione e della buona volontà. Questo era il sogno di Elric, d'un tratto più nitido e coerente di quanto fosse mai stato. Questo era il sogno che lo spingeva a girare il mondo, il motivo per cui aveva lasciato il potere che gli apparteneva e che gli dava la forza di rischiare la vita, la sanità di mente, la donna che amava e tutto ciò a cui sperava di tornare, perché era convinto che non valesse la pena di vivere se non si lottava per avere giustizia e conoscenza. Ed era per questo che i suoi compatrioti lo temevano. La giustizia, secondo lui, nasceva non dall'apparato che la amministrava ma dall'esperienza di vita. Un governante doveva apprendere cosa significasse soffrire ed essere
debole e umiliato, almeno fino a un certo punto, per apprezzare la liberazione da questi mali. Un governante doveva saper cedere parte del suo potere perché la gente avesse giustizia. Quella non era mai stata la logica dell'Impero, ma era la logica di un uomo che amava il mondo e desiderava veder sorgere un'epoca in cui tutti potessero perseguire uno scopo onesto con dignità, ed essere rispettati. Ah, Elric disse Yyrkoon scivolando fuori come un serpente da dietro il Trono di Rubino, tu sei un nemico per la tua stessa stirpe, un nemico dei nostri Dèi, un nemico di ciò che io venero e desidero. Ecco perché devi morire in una terra lontana, affinché io abbia tutto quel che era tuo. Tutto. A quel punto Elric si svegliò. C'era buio, e si sentiva la pelle fredda e umida. Allungò una mano in cerca della spada. Aveva sognato di Yyrkoon come un serpente, e ora avrebbe giurato che qualcosa stava strisciando sulla sabbia non lontano da lui. Il cavallo ne avvertì l'odore e sbuffò, mostrandosi sempre più innervosito. Elric si alzò in piedi, lasciando ricadere al suolo il pesante mantello. Il respiro del cavallo era una nuvoletta chiara. Una luna spargeva il suo vago lucore grigiastro sul deserto. Il fruscio si fece più vicino. Elric scrutò gli alti argini della strada, ma non riuscì a vedere niente. Era sicuro che non fossero gli scarafaggi del fuoco, e quel che sentì poco dopo lo confermò. Ci fu il tanfo nauseante di un respiro fetido, uno scalpiccio, un cupo grugnito, e lui seppe che un grosso animale si stava avvicinando. Poteva già dire che non era una bestia di quel deserto, né del resto del mondo. L'odore che avvertiva era quello di una creatura supernaturale, una creatura sbucata dalle fosse dell'inferno, evocata dai suoi nemici per assalirlo. E d'un tratto lui seppe per quale ragione gli Avventurieri Stregoni avessero rinunciato con tanta apparente facilità ai loro propositi, e di cosa parlassero quando lui era ripartito. Imprecando contro l'euforia che l'aveva accecato per tutto il pomeriggio Elric sfoderò la Tempestosa e corse via nelle tenebre, scostandosi dal cavallo. Dietro di lui risuonò un ruggito. Si girò di scatto e lo vide. Era un bestione dai movimenti felini, non dissimile da una tigre ma coperto di scaglie e con una coda arcuata da scorpione, con una fila di piastre ossee verticali lungo il dorso. I suoi artigli erano protesi per fare presa nella terra quando corse avanti e gli venne addosso, mentre lui si gettava di lato con un grido agitando la spada per tenerlo lontano. L'animale aveva scaglie multicolori che riflettevano la luce in toni spet-
trali, come se non appartenesse del tutto al mondo materiale. C'era poco da dubitare sulla sua provenienza. Bestie di quel genere erano state evocate spesso dagli stregoni di Melniboné, che le scatenavano contro chi non aveva le difese adeguate. Elric si frugò nella mente alla ricerca di un incantesimo, di un espediente che rimandasse il dèmone nella regione da cui era stato evocato, ma era trascorso troppo tempo da quando aveva praticato quel genere di magia. Il bestione aveva sentito il suo odore e adesso lo inseguiva, mentre lui correva in semicerchio per portarsi sottovento e mettere fra loro quanto più spazio possibile. Ci fu un ringhio stridulo e feroce. L'animale aveva fame, e non soltanto della carne di Elric. Quelli da cui era stato messo sulla pista di una preda umana gli avevano promesso anche la sua anima. All'improvviso, balzando vicinissimo dietro di lui, il bestione avventò gli artigli, ed Elric alzò la spada per parare il colpo. La Tempestosa fermò la grossa zampa e ne trasse rivoli di quello che poteva essere sangue. Elric sentì subito un flusso di energia entrare in lui e nutrirlo, così intensamente che nel voltarsi perse la concentrazione e inciampò. L'animale mandò un lungo ululato, spalancando fauci irte di denti da cui la luce lunare strappò riflessi multicolori. «Per Arioch» ansimò Elric, «sei un'orrida creatura. È mio dovere rimandarti all'inferno...» E la Tempestosa saettò verso la zampa già ferita. Ma stavolta il felino scaglioso evitò il fendente, e si preparò a balzare in un assalto da cui Elric sentiva di avere poche possibilità di uscire vivo. Un mostro supernaturale non era facile da uccidere come un gruppo di Figli della Falena armati di spada. Fu allora che udì un grido, e nel girarsi vide una figura che veniva verso di lui nella penombra lunare. Aveva forma umana, e montava un animale stranamente gobbo che galoppava sulla sabbia con velocità maggiore di qualsiasi cavallo. Il bestione infernale esitò incerto e si volse, ringhiando e soffiando, per fare a pezzi quella nuova preda prima di sbranare l'uomo appiedato. Intuendo che quella non era un'altra minaccia ma un viaggiatore di passaggio che interveniva per dargli aiuto, Elric gridò: «Attento a te, signore. Questa bestiaccia è supernaturale, e non la si può uccidere facilmente come se fosse di questo mondo!» La voce che gli rispose era profonda e vibrante, allegramente sfrontata. «Ne sono consapevole, signore, e ti sarei grato se tu cercassi di colpire la bestia mentre io attiro la sua attenzione su di me!» Detto questo il viaggia-
tore fece girare la sua strana cavalcatura e s'allontanò a velocità minore in direzione opposta. Il felino supernaturale non ne fu tuttavia ingannato. Chi l'aveva evocato era senza dubbio stato chiaro nell'indicargli la preda. Annusò l'aria e tornò a muoversi verso Elric. L'albino s'era gettato a sedere dietro una duna per riprendere le forze. Gli tornò in mente un incantesimo minore che, sfruttando l'energia extra assorbita dalla bestia demoniaca, avrebbe potuto ottenere un qualche effetto. Raccolse una manciata di sabbia, cominciò a cantarne le strofe nella bella lingua musicale che veniva chiamata Alto Melniboneano, e nel fare questo sparse nell'aria i granelli con movenze lente e armoniose. In pochi momenti dalla superficie delle dune si alzò una spirale di sabbia che prese a spostarsi verso di lui nel chiarore della luna, in un vortice che sibilava sempre più forte man mano che acquistava velocità. Il felino scaglioso aveva aggirato la piccola duna e corse avanti. Elric si trovava fra la spirale di sabbia e l'aggressore infernale; poi, all'ultimo momento, si spostò di lato. Il sibilo del vortice sabbioso salì di tono. Era soltanto un semplice trucco che gli stregoni insegnavano ai loro apprendisti per farli divertire, tuttavia ebbe l'effetto di accecare il bestione ed Elric approfittò di quei preziosi istanti per affrontarlo avventando la spada, che squarciò le squame e gli affondò profondamente nel petto in cerca degli organi vitali. Subito un flusso d'energia fu risucchiato dalla lama, e l'elsa lo trasmise ad Elric. La vibrazione che pervase le membra dell'albino fu così violenta da farlo gridare. L'energia degli esseri demoniaci non gli era nuova, ma restava così difficile da controllare che un uomo correva il rischio di tramutarsi in un dèmone. «Aaah! È troppa. Troppa!» gemette attanagliato da quell'agonia, mentre l'essenza di vita demoniaca gli saturava il corpo e il bestione infernale sussultava e moriva. Poi l'assorbimento ebbe termine ed Elric giacque senza fiato sulla sabbia, lo sguardo fisso sul corpo scaglioso che si dissolveva e svaniva per tornare nel reame da cui era stato evocato. Per qualche secondo l'uomo provò la tentazione di seguire la creatura in quella regione non terrena, perché l'energia rubata minacciava di schizzare fuori dalle sue ossa e dal suo sangue, ma le vecchie abitudini ebbero la meglio su quell'impulso pericoloso finché ritrovò il controllo di se stesso. Soltanto allora trovò la forza di tirarsi in piedi, e nella notte i suoi sensi captarono un rumore di zoccoli in avvicinamento sulla sabbia.
Si girò di scatto alzando la spada, ma vide che era il viaggiatore venuto in suo soccorso. La Tempestosa non poteva provare sentimenti di gratitudine e fremeva nella sua mano, avida di bere l'anima di un amico come aveva rubato quella dei suoi nemici. «Non lui!» L'albino infilò l'arma nel fodero con uno sforzo. Si sentiva stordito e confuso dall'energia uscita dal corpo del dèmone, tuttavia riuscì ad accogliere lo sconosciuto con un inchino. «Ti ringrazio per essere intervenuto, straniero. Non mi aspettavo di trovare qualcuno così lontano da Quarzhasaat.» Nella scarsa luce vide che l'altro lo guardava con bonaria simpatia. Era giovane e molto attraente, nero di pelle e con occhi assai vivaci. Sui corti capelli riccioluti portava un elmetto rotondo ornato di penne di pavone, e aveva pantaloni e blusa di una stoffa nera che sembrava velluto, pesantemente ricamato in oro, il tutto coperto da un mantello color sabbia di modello comune in tutto il deserto. Cavalcava un animale d'aspetto bovino, fornito di zoccoli molto larghi e testa massiccia, che sul dorso aveva una grossa gobba simile a quella di certi tori che Elric aveva visto nel Continente Meridionale. Appeso alla cintura del viaggiatore c'era un bastone elegantemente intarsiato, con un' estremità ricurva, lungo poco più di un braccio, mentre sull'altro fianco pendeva una semplice spada a due tagli. «Neppure io mi aspettavo di trovare qualcuno da queste parti, tantomeno l'erede al trono imperiale di Melniboné!» esclamò il giovane, divertito. «I miei omaggi, Principe Elric. È un onore fare la tua conoscenza.» «Ma... non ci siamo mai visti prima d'ora. Come sai il mio nome?» «Oh, questi trucchetti sono nulla per me, Principe Elric. Io mi chiamo Alnac Kreb, e sono in viaggio per l'Oasi del Fiore d'Argento. Possiamo tornare dove hai lasciato la tua roba e il cavallo? Sono felice di poterti annunciare che non è stato ferito. Devo dire che tu hai nemici potenti, se riescono a mandarti dietro un dèmone così pericoloso. Hai per caso offeso gli Avventurieri Stregoni di Quarzhasaat?» «Sembra proprio di sì.» Elric s'incamminò al fianco del giovane, che s'era avviato verso la Strada Rossa. «Ti sono grato, mastro Kreb. Senza il tuo intervento ora sarei corpo e anima dentro quella brutta bestia, e diretto all'inferno da cui è sbucata. Ma devo avvisarti: con molta probabilità presto sarò di nuovo attaccato da quelli che l'avevano mandata.» «Io penso di no, Principe Elric. Quella gente deve essere sicura di averti eliminato, ma anche in caso contrario non credo che voglia aspettare la tua
vendetta, forse perché ha capito che non sei un comune mortale. Ho visto un nutrito gruppo di uomini, composto da membri di tre delle loro sgradevoli sette, che galoppava a spron battuto verso Quarzhasaat, non più di un'ora fa. Incuriosito da ciò che li ha messi in fuga ho tenuto gli occhi aperti, ed è così che mi sono accorto di te. Mi fa piacere averti reso un piccolo servizio.» «Io pure sto andando all'Oasi del Fiore d'Argento, anche se devo confessarti che non so bene cosa aspettarmi là.» Elric aveva provato un'immediata simpatia per quel giovane. «Per me sarà un piacere accompagnarmi a te, se sei d'accordo.» «È un onore, signore. Un onore!» Con un sorriso Alnac Kreb smontò dal suo quadrupede e lo legò al cespuglio semidivelto dal cavallo di Elric, che non era riuscito a strappare via le redini e si stava riprendendo dal terrore. «Non voglio rubarti ore di riposo prezioso finché è notte, signore» aggiunse Elric, «ma non ti nascondo che sono curioso di sapere come puoi conoscere il mio nome e la mia provenienza. Hai accennato a un trucchetto della tua arte. Di che professione si tratta, se posso chiedertelo?» «Be', signore» disse Alnac Kreb spazzolandosi via la polvere dalle brache di velluto, «credevo che l'avessi immaginato. Io sono un ladro di sogni.» 4 Un funerale nell'oasi «L'Oasi del Fiore d'Argento è più che una semplice sorgente d'acqua nel deserto circondata da un po' di vegetazione, come vedrai tu stesso» disse Alnac Kreb, asciugandosi delicatamente la bella faccia con un fazzoletto dal bordo di lucida seta verde. «È un importante luogo d'incontro per tutte le nazioni nomadi, dove circola molta ricchezza. E frequentata da Principi e da Re. Spesso vi si combinano matrimoni, e si tengono altre cerimonie. Vengono prese rilevanti decisioni politiche. Si stringono alleanze nuove e si perfezionano quelle vecchie. La gente si scambia notizie. Si compra e si vende o si baratta ogni genere di merce. E ci sono anche altre cose, poiché non si vive di solo pane. È un posto vivo e vitale, a differenza di Quarzhasaat, città dove i nomadi si recano solo quando non possono farne a meno.» «Perché non abbiamo ancora visto tracce di nomadi, amico Alnac?» do-
mandò Elric. «Evitano i dintorni della città. Per loro è un posto maledetto, e i suoi abitanti sono considerati esseri infernali. Alcuni credono che le anime dannate dei morti si reincarnino nei loro corpi. Quarzhasaat rappresenta tutto ciò che temono, tutto ciò che si oppone alle cose migliori della vita.» «Sarei tentato di condividere il punto di vista dei nomadi.» Elric si concesse un sorriso. Non aveva ancora bevuto un sorso di elisir, e il suo corpo cominciava a sentirne il bisogno. L'energia datagli dalla sua spada lo avrebbe sostentato per un tempo assai più lungo, in altre condizioni. Questa era un'ulteriore prova che l'elisir, come aveva detto anche Manag Iss, si nutriva dell'energia del suo corpo anche se temporaneamente e illusoriamente ristorava le sue forze. Elric immaginava l'elisir come un vampiro che gli stava succhiando il sangue, e che lo teneva in piedi iniettandogli una dose di droga. Ai suoi occhi era quasi una creatura vivente, come la sua arma. Tuttavia la Spada Nera non gli dava l'impressione d'essere controllato da un parassita. Con uno sforzo liberò la mente da quei pensieri sgradevoli. «Da come li descrivi, sento già una certa affinità con questi nomadi» aggiunse. «Non stento a credere che tu speri d'essere accolto bene da loro, Principe!» Alnac rise. «Anche se in effetti un antico nemico dei Signori di Quarzhasaat dovrebbe avere buone credenziali. Io conosco diverse persone nei clan. Dovresti consentirmi di presentarti a loro, quando sarà il momento.» «Volentieri» disse Elric. «Ma devi ancora spiegarmi come hai fatto a sapere chi sono.» Alnac annuì come se avesse dimenticato l'argomento. «Non è molto difficile da capire, però la cosa ha aspetti complicati per chi non conosce il funzionamento basilare del multiverso. Come ti ho detto, io sono un ladro di sogni. So cose che altri non sanno grazie al fatto che sono venuto a contatto di molti sogni. Diciamo che ho sentito parlare di te in un sogno, e che il mio destino prevede che per un certo tempo mi accompagni con te... anche se non troppo a lungo, suppongo, nella mia forma attuale.» «In un sogno? Devi ancora dirmi cos'è che fa un ladro di sogni.» «Be', ruba sogni, naturalmente. E un paio di volte all'anno noi portiamo il nostro bottino al mercato per barattarlo, proprio come fanno i nomadi con le loro merci.» «Commerciate in sogni?» Elric era sbalordito. Alnac sorrise della sua espressione. «Al mercato si trovano acquirenti disposti a pagare molto bene certi sogni particolari. A loro volta essi li ri-
vendono agli sfortunati che non sognano, o che hanno sogni banali e desiderano qualcosa di meglio.» Elric scosse il capo. «Tu parli per allegoria suppongo, vero?» L'altro scosse il capo. «No, Principe, io lo intendo alla lettera.» Si sganciò dalla cintura il bastone ricurvo. Ad Elric ricordava un pastorale, benché più corto. «Non si ottiene questo oggetto senza aver studiato gli elementi basilari dell'arte del ladro di sogni. Io non sono il migliore nel mio campo, ed è improbabile che lo diventi, ma in questa terra ed in quest'epoca fa parte del mio destino. Nella terra in cui viviamo ci sono pochi ladri di sogni, per motivi che senza dubbio apprenderai, e soltanto i nomadi e la gente di Elwher sanno della nostra professione. Noi non siamo conosciuti nei Reami Nuovi, fuorché a pochissime persone.» «Perché non vi recate là?» «Non ci viene chiesto di farlo. Hai mai sentito dire, nei Reami Nuovi, di qualcuno che richieda i servizi di un ladro di sogni?» «Mai. Ma perché non siete richiesti?» «Forse perché il Caos ha un'influenza prevalente nel Meridione e nell'Occidente. È laggiù che gli incubi più spaventosi possono facilmente diventare solida realtà.» «Voi temete il Caos?» «Quale individuo razionale non lo teme? Io temo i sogni di quelli che lo servono.» Alnac Kreb volse lo sguardo sul deserto. «Elwher e quello che voi chiamate lo Sconosciuto Oriente sono abitati da gente meno complicata. Laggiù l'influenza di Melniboné non è mai stata molto sensibile. Né lo è, ovviamente, nel Deserto dei Sospiri.» «Così è del mio popolo che avete paura?» «Io temo ogni popolo che si sia venduto al Caos e che faccia patti con gli esseri potenti del supernaturale, con i Duchi del Caos o con le Spade Dominanti. A mio avviso è poco saggio, anzi, mortalmente pericoloso, stringere accordi del genere. Io mi oppongo al Caos.» «Tu servi la Legge, allora?» «Io servo me stesso. Sono dalla parte di chi vive e lascia vivere, e si gode le cose belle del mondo.» «Una filosofia invidiabile, mastro Alnac. Anche a me piacerebbe seguirla, benché forse tu non mi creda se lo dico.» «Oh, io ti credo, Principe Elric. Io ho conosciuto molti sogni, e tu apparivi in alcuni di essi. In certi reami i sogni sono realtà, e viceversa.» Il ladro di sogni guardò l'albino con simpatia. «Un uomo che detiene un potere
millenario ed è capace di abbandonarlo, lascia una traccia dove passa.» «Tu mi comprendi abbastanza bene, mastro Ladro di Sogni.» «Oh, la mia comprensione è generalmente vasta in simili argomenti.» Alnac Kreb scrollò le spalle, come se fosse cosa di poco conto. «Io ho dedicato molto tempo alla ricerca della giustizia visitando terre dove si diceva che esistesse, nel tentativo di scoprire come la si possa ottenere, come la si possa applicare, affinché il mondo ne tragga beneficio. Tu hai sentito parlare di Tanelorn, Alnac Kreb? Si racconta che là regni la giustizia, e che i Signori Grigi, a cui è affidato l'equilibrio del mondo, abbiano grande influenza in quella città... se pure esiste.» «Tanelorn esiste» disse con calma il ladro di sogni. «E ha molti nomi. E tuttavia in alcuni reami, io temo, non è altro che un ideale astratto di perfezione. Sono questi ideali che alimentano in noi la speranza e l'anelito di trasformare i sogni in realtà. A volte ci riusciamo.» «Esiste la giustizia?» «Certo che esiste. E non è un' astrazione. Bisogna lavorare per realizzarla. Io credo che la giustizia, Principe, sia il dèmone che ti assilla, più di ogni altro Signore del Caos. Tu hai scelto una strada difficile e lastricata di dolore.» Alnac sorrise, lasciando vagare lo sguardo sulla pista che spariva all'orizzonte davanti a loro. «Più difficile, credo, della Strada Rossa che porta all'Oasi del Fiore d'Argento.» «Non sei molto incoraggiante, mastro Alnac.» «Tu dovresti già aver capito da un pezzo che nel mondo c'è poca giustizia se non si lotta per averla, e quella poca è conquistata duramente e mantenuta a caro prezzo. È nella nostra natura mortale gettare il fardello delle responsabilità sulle spalle altrui, oppure scegliere la via della forza, o sperare che alleandoci coi potenti riusciremo a cavarcela meglio. L'esperienza dimostra che soluzioni di questo genere funzionano, almeno a breve termine. E tuttavia ci sono dei folli come te, che lasciano il potere solo per caricarsi di responsabilità ancor più pesanti. Alcuni direbbero che questa follia è ammirevole, che rafforza il carattere e chiarisce gli obiettivi di vita, e che può condurre a una maggiore sanità di mente...» «Già. E altri direbbero che questa è solo follia, in contrasto coi nostri impulsi più normali. Io non so quali siano i miei ideali, messer Ladro di Sogni, ma cerco un mondo in cui il forte non possa schiacciare i deboli come insetti, dove una persona abbia modo di realizzare le sue oneste aspirazioni, dove tutti vivano con dignità e in buona salute, mai vittime di qualcuno più forte di loro...»
«Allora tu servi il padrone sbagliato, Principe, e dovresti tagliare i ponti col Caos. Perché l'unica giustizia che i Duchi dell'Inferno conoscono è quella del potere. Sono egoisti come bambini appena nati. Sono nemici di tutti i tuoi ideali.» Elric si accigliò, turbato, e rispose sottovoce: «Ma un uomo non può sconfiggerli usando le stesse forze che essi usano? O almeno sfidarne il potere e ristabilire l'Equilibrio?» «Soltanto l'Equilibrio può darti il potere che desideri. Ed è un potere sottile, talvolta terribilmente delicato.» «Allora non è un potere forte, temo, nel mondo da cui provengo.» «È forte solo quando sono in molti a crederci. Allora può avere più forza del Caos e della Legge insieme.» «Be', io faccio il possibile perché venga il giorno in cui l'Equilibrio cominci a pendere dalla parte giusta, mastro Alnac. Ma non credo che vivrò fino a veder sorgere l'alba di quel giorno.» «Se tu vivrai» disse con calma Alnac, «sospetto che esso non sorgerà mai. Ma ci vorranno molti anni prima che tu sia chiamato a suonare il Corno di Rolando.» «Un corno? Di che corno parli?» Ma Elric non si aspettava una risposta a quella domanda. Credeva che il ladro di sogni parlasse ancora per allegorie. «Guarda!» Alnac indicò avanti. «Vedi laggiù, in distanza? Quello è il primo segno dell'Oasi del Fiore d'Argento.» Alla loro sinistra il sole stava per tramontare e gettava ombre lunghe fra le dune e sugli argini della Strada Rossa, mentre l'orizzonte orientale si scuriva di sfumature violacee. Fu quasi al limite delle sue capacità visive che Elric distinse qualcosa di diverso, forme che non erano ombre né dune ma avrebbero potuto essere un assembramento di rocce. «Cos'è, un luogo che hai riconosciuto?» «I nomadi lo chiamano kashbeh. Nella nostra lingua noi lo definiremmo un castello, o magari un villaggio fortificato. Non abbiamo un termine specifico per simili località, perché in altre terre non esistono. Qui nel deserto sono una necessità. Il Kashbeh Moulor Ka Riiz è stato costruito molto prima della fine l'Impero di Quarzhasaat, e prende il nome da un saggio regnante, fondatore della dinastia Aloum'rit che tutt'ora custodisce la località a nome di tutti i clan nomadi ed è rispettata sopra ogni altra tribù del deserto. È un kashbeh in cui viene accolto ogni viaggiatore che ne abbia necessità, e i criminali in fuga che si fermano qui hanno la garanzia di un
equo processo.» «Dunque la giustizia esiste almeno nel deserto, se non altrove?» «Posti dello stesso genere si trovano, come ti ho detto, in tutti i reami del multiverso. Sono retti da uomini e donne che tutelano i più basilari principi umanitari...» «E non è possibile che questo kashbeh sia in realtà Tanelorn, la cui leggenda mi ha attirato qui nel deserto?» «Non è Tanelorn, perché Tanelorn è eterna. Il Kashbeh Moulor Ka Riiz continua a esistere solo grazie a una vigilanza costante. È l'antitesi di Quarzhasaat, e i Signori di quella città hanno più volte tentato di distruggerlo.» Elric sentì un dolore allo stomaco, e dovette fare uno sforzo per reprimere l'impulso di tirare fuori una delle fiasche d'argento. «Per caso lo chiamano anche «La Fortezza della Perla»?» A quella domanda Alnac Kreb rise, meravigliato. «Ah, mio buon Principe, è chiaro che tu hai una cognizione molto nebulosa del posto che vai cercando. Ti dirò una cosa: la Fortezza della Perla potrebbe esistere all'interno del kashbeh, così come il kashbeh potrebbe viceversa trovarsi all'interno della Fortezza della Perla. Ma i due non sono affatto lo stesso posto!» «Ti prego, mastro Alnac, non confondermi oltre! Se ti chiedo notizie di questo luogo e per due motivi: primo, perché desidero prolungare la mia vita; secondo, perché devo salvare quella di un'altra persona. Ti sarei grato se mi illuminassi meglio. Il nobile Gho Fhaazi mi ha scambiato per un ladro di sogni, e in base a questa supposizione ha detto che dovrei conoscere la Luna di Sangue, la Tenda Bronzea e la Fortezza della Perla.» «Già, forse. Alcuni ladri di sogni sono più informati di altri. E se per il compito che ti hanno affidato è richiesto un ladro di sogni, Principe, come tu mi hai detto, dato che gli Avventurieri Stregoni di Quarzhasaat non sono in grado di svolgerlo, io devo supporre che la Fortezza della Perla sia più che un semplice edificio di pietra e calcina. Essa riguarda reami familiari solo a un ladro di sogni assai capace... forse solo a un professionista più qualificato di me.» «Sappi, mastro Alnac, che io ho già viaggiato in strani reami per il conseguimento dei miei scopi. Non sono del tutto un profano su certi argomenti...» «I reami di cui parlo sono preclusi a molti.» Alnac sembrava riluttante a dire di più, ma Elric volle insistere.
«Dove sono questi reami?» chiese, stringendo le palpebre alla ricerca del profilo di Kashbeh Moulor Ka Riiz, ma il sole era ormai quasi sotto l'orizzonte. «Nell'Oriente? Più lontano di Elwher? O in un'altra parte del multiverso?» Alnac fece un gesto di rincrescimento. «Abbiamo giurato di parlare il meno possibile delle nostre conoscenze, salvo che l'urgenza di circostanze drammatiche ci imponga di farlo. Posso dirti solo che questi reami sono allo stesso tempo più lontani e più vicini di Elwher. Ti prometto che non ti confonderò più di quanto ho fatto finora. E se potrò illuminarti e aiutarti nella tua ricerca, lo farò.» Gli sorrise, per alleggerire quelle parole. «Meglio che ora ti appresti ad avere compagnia, Principe. Prima che scenda la notte conoscerai fin troppa gente nuova, se non vado errato.» La luna sorse prima che svanissero gli ultimi bagliori del tramonto, e i suoi raggi avevano steso veli di luce opalescente come quella di una perla rara quando i due viaggiatori, giunti alla sommità di una salita della Strada Rossa, videro dinnanzi a loro Centinaia di fuochi da campo. In quei riflessi rosati si stagliavano molte grandi tende, che allargavano baldacchini e passaggi coperti come animali distesi sul terreno per assorbirne il calore. All'interno di quei padiglioni erano accese lampade, e fra esse si aggiravano uomini, donne e bambini. Un misto di odori deliziosi fra cui primeggiava quello della carne arrosto unta e condita di spezie giungeva fino a loro, e refoli di fumo si alzavano nell'aria dinnanzi alle grandi rocce su cui sorgeva Kashbeh Moulor Ka Riiz, una costruzione torreggiante intorno alla quale era cresciuta una collezione di edifici alcuni dei quali dall'architettura assai fantasiosa. Il tutto era cinto da mura merlate di stile altrettanto vario ma sempre di dimensioni poderose, fatte della stessa roccia rossa che sembrava nata dalla sabbia del deserto. A intervalli regolari, sui merli, erano accese grandi torce, e si scorgevano sentinelle di guardia alle mura, mentre un notevole traffico di carriaggi e animali entrava e usciva dal monumentale portone, davanti al quale c'era un ponte intagliato nella roccia. Non era dunque, come Alnac Kreb lo aveva avvertito, il semplice luogo di riposo per le carovane di passaggio che Elric s'era atteso di trovare sulla Strada Rossa. Nessuno li fermò mentre scendevano verso le ampie polle d'acqua intorno a cui prosperava una quantità di palme, cipressi, pioppi, cespugli fioriti e cactus, ma molti li guardarono con curiosità evidente. E non tutti quegli
occhi curiosi erano amichevoli. I loro cavalli erano della stessa razza di quello di Elric, ma non pochi nomadi sellavano quadrupedi bovini come quello di Alnac. Da ogni parte si levavano muggiti, grida, belati, grugniti e squittii, ed Elric vide oltre le tende ampi recinti in cui erano chiuse capre, pecore e altri animali. Ma lo spettacolo che risaltava di più in quello scenario inatteso erano le cento o più torce accese in un vasto semicerchio presso la riva del laghetto principale. Ogni torcia era sorretta da una figura incappucciata avvolta in un mantello, e tutte ardevano di una fiamma bianca creando una luce intensa attorno alla piattaforma di legno scolpito che occupava il centro del grande campo. Elric e il suo compagno legarono le loro cavalcature a un albero per guardare cosa accadeva, affascinati non meno dei nomadi che lentamente si dirigevano verso lo spiazzo semicircolare per assistere a quella che con ogni evidenza era una cerimonia importante. Gli spettatori indossavano i costumi che identificavano i diversi clan, e parlavano sottovoce in atteggiamento rispettoso. C'erano individui di ogni colore; alcuni avevano la pelle nera come quella di Alnac Kreb, altri erano pallidi quanto Elric, con tutte le sfumature intermedie, ma i loro lineamenti erano assai simili: volti magri dall'ossatura forte, e occhi incassati profondamente nelle orbite. Sia gli uomini che le donne erano d'alta statura, e si muovevano con eleganza. Elric non aveva mai visto gente così ben fatta e fu colpito dalla loro dignità, in netto contrasto con l'arroganza e la decadenza che aveva visto a Quarzhasaat. Dalla collina stava scendendo una processione, in testa alla quale Elric vide sei uomini che portavano a spalla una cassa di legno intarsiato. A passi lenti e gravi l'oggetto fu condotto dinnanzi alla piattaforma. La luce bianca consentiva di vedere ogni dettaglio della scena. Gli uomini erano di clan diversi, ma tutti della stessa statura e di mezz'età. Un tamburo cominciò a suonare, con colpi che echeggiavano lenti nell'aria della sera. Poi ad esso se ne aggiunse un secondo, poi un altro ancora, finché furono venti i tamburi che rullavano fra le tende dell'oasi e le mura di pietra di Kashbeh Moulor Ka Riiz, con battiti che si alternavano in un ritmo lento ma così stranamente complicato che meravigliò Elric. «È un funerale?» domandò l'albino al suo nuovo amico. Alnac annuì. «Ma non so chi seppelliscano.» Indicò una fila di cumuli visibili oltre gli alberi. «Quello è un cimitero dei nomadi.»
Un uomo anziano e barbuto, con un largo copricapo bianco sulla testa canuta, si fece avanti e cominciò a leggere da un rotolo di pergamena che aveva tolto da una manica. Altri due sollevarono il coperchio della bara e con gran stupore di Elric ci sputarono dentro. Alnac ebbe un ansito. Si alzò in punta di piedi e guardò meglio, stringendo le palpebre per non essere abbagliato dalle torce. Poi si girò verso Elric, con aria incredula. «Nella bara non c'è niente, Principe. O è vuota, o il cadavere è invisibile.» Il ritmo dei tamburi accelerò e si fece più complicato. Le voci di un coro cominciarono a cantare, con note che salivano e scendevano come le onde del mare. Elric non aveva mai sentito musica di quel genere in vita sua. Scoprì che risvegliava in lui oscure emozioni. Provò rabbia. Provò tristezza. Sentì d'essere prossimo alle lacrime. E la musica proseguiva, sempre più intensa. Gli sarebbe piaciuto unirsi ai cantori, ma non capiva la loro lingua. Le poche parole che riusciva a distinguere gli davano l'impressione che fosse più antica di quella parlata a Melniboné, che risaliva a prima della fondazione dei Reami Nuovi. Poi, ad un tratto, il coro e i tamburi tacquero. I sei uomini sollevarono la cassa dalla piattaforma e la portarono via, verso il cimitero, seguiti dagli incappucciati che reggevano le torce. Mentre passavano fra gli alberi proiettando attorno strane ombre, la luce chiara illuminò qualcosa di bianco e scintillante che Elric non riuscì a identificare. Improvvisamente come avevano taciuto i tamburi e i coristi tornarono a farsi sentire, ma stavolta la musica aveva tonalità guerresche e trionfali. La gente che assisteva alla cerimonia alzò la testa, e da molte centinaia di gole emerse un lungo ululato acuto, evidentemente una risposta cerimoniale. Poi i nomadi cominciarono ad abbandonare lo spiazzo disperdendosi fra le tende. Alnac fermò una di loro, una donna vestita con un abito verde e oro pesantemente ricamato, e indicò la processione che portava via la bara. «Che significa questo funerale, sorella? Io non ho visto il corpo del defunto.» «Il corpo non è qui» rispose lei, sorridendo della loro confusione. «Il rito a cui avete assistito è parte di una vendetta, che tutti i nostri clan si sono assunti su richiesta di Raik Na Seem. Il cadavere non c'è perché l'uomo a cui appartiene quella bara non sa ancora d'essere morto, e forse non lo saprà per diversi altri mesi. Lo seppelliamo oggi perché non possiamo raggiungerlo. Non è uno di noi, non è uno del deserto. È già morto a tutti gli
effetti, anche se per il momento non se ne rende conto. Non c'è nessun errore. L'assenza del corpo è solo temporanea.» «È un nemico della vostra gente, sorella?» «Sì, è così. Un nemico. Ha mandato degli uomini a rubare il nostro più grande tesoro. Quei sicofanti hanno fallito, ma anche fallendo ci hanno fatto del male. Ma io ti conosco già, straniero. Tu sei proprio l'uomo che Raik Na Seem sperava di veder tornare. Ha mandato a cercare un ladro di sogni.» La donna si volse verso la piattaforma davanti alla quale era rimasta una figura massiccia, china come in preghiera. «Tu sei un nostro amico, Alnac Kreb. Ci hai già aiutato, in passato.» «Ho avuto il piacere di rendere un piccolo servizio alla vostra gente, sì» sorrise lui, lieto d'esser stato riconosciuto. «Raik Na Seem ti attende» disse lei. «Vai in pace, e la gioia sia con la tua famiglia e i tuoi amici.» Stupito Alnac tornò accanto a Elric. «Non so proprio perché Raik Na Seem mi abbia fatto cercare, ma mi sento obbligato a chiederglielo. Tu preferisci stare qui invece di accompagnarmi, Principe?» «Ammetto d'essere curioso di questa faccenda» disse Elric. «Se fosse possibile, vorrei saperne di più.» I due si incamminarono fra le palme e andarono a fermarsi fra la riva del laghetto e la piattaforma dove aspettarono rispettosamente alle spalle del vecchio, che non s'era mosso dalla sua posizione fin da quando la bara era stata portata via. Quando si voltò fu evidente che aveva pianto. L'uomo fece qualche passo prima di accorgersi di loro, ma quando riconobbe Alnac Kreb alzò le braccia in un gesto di benvenuto, con un gran sorriso. «Mio caro amico!» «La gioia sia con te, Raik Na Seem.» Alnac andò ad abbracciare il vecchio, che era di tutta la testa più alto di lui. «Sono venuto qui con un amico. Il suo nome è Elric di Melniboné, e il suo popolo è il più antico e feroce nemico di Quarzhasaat.» «Il nome di quella terra è già noto al mio cuore» disse Raik Na Seem. «La gioia sia con te, Elric di Melniboné. Qui tu sei il benvenuto.» «Raik Na Seem è il Primo Anziano del Clan Bauradim» lo presentò Alnac. «Ed è un padre per me.» «Gli Dèi hanno voluto darmi un figlio degno e coraggioso.» Raik Na Seem accennò verso le tende. «Venite. Mangerete e vi riposerete nella mia tenda.» «Con piacere» disse Alnac. «Non ti nascondo che sono curioso di sapere
perché avete sepolto una bara vuota, e chi è il nemico che ha meritato una così elaborata cerimonia.» «Oh, è il peggiore dei felloni, nessun dubbio su questo.» Il vecchio si lasciò sfuggire un sospiro mentre li guidava fra le tende, ma non disse altro, e poco dopo giunsero a un grande padiglione; qui li fece entrare, invitandoli a seguirlo sui tappeti multicolori della stanza centrale. La grande tenda era composta da una serie di locali chiusi fra pesanti drappi di stoffa opaca, ciascuno dei quali occupato da uno o più membri della famiglia di Raik Na Seem, che sembrava abbastanza numerosa da formare da sola una tribù. Dalla cucina giungeva un odore di cibarie che fece salivare la bocca dei due ospiti, ma la prima cosa che si videro offrire, una volta seduti sui cuscini, furono bacinelle d'acqua profumata in cui lavarsi le mani e la faccia. Poco più tardi, mentre mangiavano, il vecchio capoclan narrò loro la storia richiesta da Alnac, e nell'ascoltarla Elric si rese conto che il destino lo aveva portato all'Oasi del Fiore d'Argento in un momento assai favorevole, a quanto gli era dato di capire. All'epoca della più recente Luna di Sangue, disse Raik Na Seem, un gruppo di uomini s'era fermato all'Oasi del Fiore d'Argento per chiedere dove fosse la strada che conduceva al Luogo della Perla. I Bauradim avevano riconosciuto il nome perché apparteneva alla loro letteratura, ma consideravano quell'oggetto una metafora poetica, o comunque qualcosa che poteva essere discusso e interpretato solo da poeti e filosofi. Questo dunque era ciò che avevano detto ai nuovi venuti, augurandosi che subito dopo se ne andassero per non tornare più, perché erano quarzhasaatiani membri della Setta del Passero, della gilda degli Avventurieri Stregoni, noti per la loro crudeltà e perché si dilettavano di magia nera. D'altra parte i Bauradim non volevano inimicarsi nessun quarzhasaatiano, perché spesso dovevano commerciare con quella gente. Ma gli uomini della Setta del Passero non se n'erano andati, e avevano continuato a girare nell'oasi domandando a tutti notizie sul Luogo della Perla. Era stato così che avevano sentito parlare della giovanissima figlia di Raik Na Seem. «Varadia?» esclamò Alnac Kreb, stupito e allarmato. «Ma certo non potevano credere che la fanciulla sapesse qualcosa di quel gioiello!» «Gli uomini sentirono dire che era la nostra Vergine Sacra, la giovinetta che secondo la nostra fede era destinata a diventare la guida spirituale del Clan, a cui avrebbe portato saggezza e onore. Poiché noi usiamo dire che la Vergine Sacra è il ricettacolo di tutta la nostra conoscenza, costoro pensarono che doveva sapere dove si trova la Perla. Così tentarono di rapirla.» Alnac Kreb strinse rabbiosamente i pugni. «Cosa le hanno fatto, padre?»
«Le somministrarono una droga, e poi riuscirono a farla partire a cavallo con loro. Appena ci accorgemmo di quel crimine li inseguimmo, e riuscimmo a raggiungerli prima che avessero fatto la metà del viaggio di ritorno a Quarzhasaat, sulla Strada Rossa. Quando si videro circondati ebbero paura, e ci minacciarono parlando dei terribili poteri del loro padrone, l'uomo che li aveva mandati a cercare la Perla e che sembra deciso a usare ogni mezzo per avere quel gioiello.» «Costui è forse il nobile Gho Fhaazi?» domandò sottovoce Elric. «Sì, Principe, proprio lui.» Raik Na Seem lo guardò con curiosità. «Lo conosci?» «Lo conosco, e so di cosa sia capace. È lui l'uomo che avete sepolto?» «Sì, lui.» «Quando pensate di dargli la morte?» «Non lo pensiamo. Lo abbiamo giurato. Gli Avventurieri Stregoni tentarono di usare le loro arti contro i nostri uomini, ma noi pure abbiamo gente che conosce la stregoneria e il loro attacco fu subito rintuzzato. Non è cosa che ci piaccia usare, quella negromanzia, ma talvolta bisogna farlo. Una creatura demoniaca fu evocata da un sottomondo. Essa divorò gli uomini della Setta del Passero, e prima di andarsene pretese un impegno da noi, chiedendo che il loro padrone morisse entro l'anno: prima che la successiva Luna di Sangue fosse tramontata.» «E Varadia?» domandò Alnac Kreb, teso. «Che ne è stato della tua figlioletta, la vostra Vergine Sacra?» «Come ti ho detto, le avevano fatto bere una droga. Ma era viva. E la riportammo all'Oasi.» «E si è ripresa?» «La fanciulla si sveglia a metà, forse una volta al mese» rispose Raik Na Seem, senza mascherare la sua sofferenza. «Ma il sonno non la abbandona mai. Subito dopo esser stata ricondotta qui, aprì gli occhi e ci disse di portarla nella Tenda Bronzea, nient'altro. Ora è là che giace... dorme da quasi un anno, e ci è stato detto che soltanto un ladro di sogni può salvarla. Ecco perché ho mandato un messaggio con tutte le carovane e tutti i viaggiatori che noi nomadi abbiamo incontrato da allora, nella speranza che qualcuno trovasse un ladro di sogni. È una vera fortuna per noi, Alnac, che sia stato un caro amico come te a ricevere la nostra richiesta.» Il ladro di sogni scosse la sua bella testa. «Non è stato il tuo messaggio a portarmi qui, Raik Na Seem. Non l'ho mai avuto.» «Ad ogni modo» disse filosoficamente il vecchio, «ora tu sei qui. Tu
puoi aiutarci.» Alnac Kreb sembrava molto turbato, ma nascose la sua emozione. «Farò del mio meglio, te lo giuro. Domani mattina andremo alla Tenda Bronzea.» «Ora è ben sorvegliata, perché altri quarzhasaatiani sono passati di qui dopo i primi, non meno maligni e subdoli di loro, e abbiamo dovuto difendere la Vergine Sacra dalle loro manovre. Questo è stato abbastanza facile, in realtà. Ma tu hai conosciuto il nemico da noi sepolto, Principe Elric. Cosa sai dirmi di lui?» Elric radunò i pensieri qualche momento prima di rispondere. Disse a Raik Na Seem tutto ciò che era accaduto: com'era stato ingannato dal nobile Gho, ciò che aveva l'ordine di cercare, e il ricatto con cui l'uomo lo teneva in pugno. Non volle nascondere nulla al vecchio, che sentiva di rispettare, e vide che quel sentimento era ricambiato, perché il Primo Anziano si scurì in volto nel sentire il suo racconto, e quando lui ebbe finito di parlare gli poggiò una larga mano rugosa su una spalla con un sospiro di comprensione. «L'ironia della cosa, mio povero amico, è che il Luogo della Perla esiste soltanto nella poesia. Noi non abbiamo mai sentito parlare della Fortezza della Perla.» «Tu sai che io non farei mai del male alla vostra Vergine Sacra» disse Elric, «e che se potrò aiutare te o un altro della tua gente, lo farò senza esitare. Se dici questo, allora la mia ricerca finisce qui e adesso.» «Ma il veleno del nobile Gho ti porterà alla morte, se non trovi l'antidoto. E poi lui ucciderà anche quel tuo amico. No, no, Principe Elric, guardiamo il problema in modo più realistico. È un problema che io sento di avere in comune con te, perché entrambi siamo vittime di una droga dell'uomo che presto morirà. Bisogna pensare a come sventare i suoi piani. Non si può affatto escludere che mia figlia sappia qualcosa di questa favolosa Perla, perché lei è il vaso della nostra antica saggezza, e conosce più cose di quante la mia povera testa potrà mai contenere...» «La sua intelligenza e la sua sapienza colpiscono quanto la sua avvenenza e l'amabilità del suo carattere» disse Alnac, che ancora fumava di rabbia dopo aver saputo ciò che i quarzhasaatiani avevano fatto a Varadia. «Se tu la conoscessi, Elric...» S'interruppe e scosse il capo, accigliato. «Avete viaggiato tutto il giorno e dovete riposare» disse il Primo Anziano dei Bauradim. «Stanotte siete miei onorati ospiti, e domattina vi condurrò alla Tenda Bronzea e vedere la mia povera figlia addormentata. Spe-
riamo che in qualche modo si riesca a farla uscire dal sonno e riportarla in questa realtà.» Quella notte, mentre dormiva nel lusso che solo la tenda di un capoclan nomade poteva offrire, Elric sognò ancora Cymoril, che dopo aver bevuto un elisir da una fiasca d'argento datale da Yyrkoon cadeva in un sonno drogato. E sognò di dormire al suo fianco come se fossero una cosa sola, sensazione che aveva sempre provato quando trascorreva la notte con lei. Ma poi vide la dignitosa figura di Raik Na Seem ergersi su di loro e seppe che quel vecchio era il suo vero padre, non l'altro, il nevrotico tiranno che aveva tormentato la sua infanzia. E comprese che da quelle lontane sofferenze era nata la sua sete di giustizia e di moralità, e che gli uomini come quel Bauradim erano i suoi veri antenati. In lui scese allora un senso di pace, insieme ad altre nuove e inquietanti emozioni, ma quando il mattino dopo si svegliò dovette affrontare di nuovo la realtà del suo bisogno dell'elisir, che gli portava allo stesso tempo la vita e la morte. Cercò una delle fiasche nella borsa da sella e prima di alzarsi ne bevve un sorso; poi si lavò la faccia e raggiunse Alnac e Raik Na Seem che stavano facendo colazione nel locale centrale della tenda. Quand'ebbero mangiato, il vecchio chiese ai nipoti di portare tre delle ottuse cavalcature bovine di cui i Bauradim erano famosi allevatori, e i due giovani ospiti lo seguirono fuori dall'Oasi del Fiore d'Argento. A quell'ora le tende fremevano delle attività più diverse, e c'erano commedianti, giocolieri e incantatori di serpenti che si addestravano negli spettacoli che avrebbero eseguito in altre terre per guadagnarsi il pane, circondati da frotte di ragazzini lasciati lì dai loro genitori che erano andati a occuparsi del bestiame o della tessitura, o delle merci. I tre uomini cavalcarono verso le Colonne Scolpite, che nella foschia del mattino si ergevano vaghe e nebulose sull'orizzonte. Le impervie rupi di morbida roccia erano state consumate dal vento del Deserto dei Sospiri fino a prendere qua e là l'aspetto di colossali e deformi colonne rossicce, così alte da far pensare che fossero loro a sostenere il cielo. In certi punti Elric aveva addirittura l'impressione di vedere le rovine di qualche antichissima città. Alnac Kreb gli disse come stavano le cose: «Ci sono, in effetti, molti edifici in rovina su queste alture. Fattorie, piccoli villaggi, anche piccole città che talvolta il vento riporta alla luce quando spazza via la sabbia evocata dalla follia degli antichi stregoni di Quarzhasaat. Alcuni piccoli abitati furono costruiti qui perfino dopo la desertificazione del territorio, poiché quegli stregoni avevano affermato che la
sabbia se ne sarebbe andata così com'era venuta. Sogni e profezie mendaci, destinati a diventare polvere come molte delle cose fatte dall'uomo.» Raik Na Seem continuava a guidarli nel deserto con molta sicurezza, benché non avesse mappe né bussola. Evidentemente riconosceva la strada per istinto, dato che i punti di riferimento erano pochi e tutti ingannevoli. Più tardi si fermarono per una pausa presso un assembramento isolato di cactus tondeggianti che crescevano sulla sabbia arida. Raik Na Seem tolse dalla cintura un lungo coltello e tagliò alla radice un paio di piante, le sbucciò con gesti esperti e consegnò la parte carnosa ai due amici. «Un tempo da qui passava un fiume» disse, «e sotto questa superficie priva di vita ne resta il ricordo. I cactus non l'hanno dimenticato.» Il sole aveva raggiunto lo zenit. Elric cominciò a sentire che il caldo prosciugava la sua energia e fu costretto a bere ancora un po' di elisir, se non altro per tenere il passo degli altri due. Fu soltanto verso sera, quando le Colonne Scolpite erano ormai molto vicine, che Raik Na Seem indicò un oggetto che rifletteva gli ultimi raggi del sole. «Quella laggiù è la Tenda Bronzea, dove la gente del deserto si reca allorché deve meditare.» «È il vostro tempio?» domandò Elric. «È la cosa più vicina a un tempio che abbiamo. Là discutiamo con noi stessi. È una cosa non troppo dissimile da certe religioni dell'Occidente. Ed è là che teniamo la nostra Vergine Sacra, il simbolo di tutti i nostri ideali, il ricettacolo della saggezza della nostra stirpe.» Alnac lo guardò sorpreso. «La tenete là sempre?» Raik Na Seem scosse il capo, con un sorriso mesto. «Solo finché dorme del suo sonno innaturale, amico mio. Come tu sai, prima che questo accadesse mia figlia era una fanciulla del tutto normale, fonte di gioia per chi le stava intorno. Forse col tuo aiuto tornerà di nuovo com'era prima.» Alnac corrugò le sopracciglia. «Non vorrei che ti aspettassi troppo da me, Raik Na Seem. Come ladro di sogni io sono ancora inesperto. Questo è ciò che ti direbbero le persone da cui ho imparato l'arte.» «Ma sei l'unico ladro di sogni che abbiamo.» Raik Na Seem poggiò una mano su una spalla di Alnac Kreb, sospirando. «E inoltre sei un buon amico.» Il sole era appena tramontato quando giunsero a quella che da lontano era parsa una tenda non troppo diversa dai padiglioni montati all'Oasi del Fiore d'Argento, soltanto molto più grande. Elric vide che le sue pareti esterne erano di bronzo, lucidato dal vento e dalla sabbia. In quel momento la luna cambiò improvvisamente colore, nel cielo so-
pra di loro. Fu come se il sole, in un ultimo anelito prima di sparire sotto l'orizzonte, avesse alzato un raggio ad accarezzare coi suoi colori la sorella, perché il pallido disco d'argento s'infiammò di un bagliore che Elric non aveva mai visto a Melniboné, né in altre regioni dei Reami Nuovi. Ebbe un ansito di sorpresa, nel comprendere la natura della profezia. La Luna di Sangue era sorta sulla Tenda Bronzea. Qui lui avrebbe trovato la via che portava alla Fortezza della Perla. E anche se ciò significava che forse sarebbe riuscito a salvarsi la vita, il Principe di Melniboné scoprì che quella rivelazione lo riempiva di timore oscuro. 5 Il coraggio del ladro di sogni «Qui c'è il nostro tesoro» disse Raik Na Seem. «Qui custodiamo ciò che la perversa Quarzhasaat vorrebbe rubarci.» E nella sua voce c'erano tristezza e rabbia. Al centro geometrico del grande e fresco interno della Tenda Bronzea, dove piccole lampade a olio brillavano su centinaia di tappetini disposti in cerchio e occupati da uomini e donne assorti in profonda meditazione, c'era una piattaforma soprelevata che sosteneva un letto di legno cesellato con squisita sottigliezza, su cui scintillavano intarsi di madreperla, di turchese, di giada, di lucido argento e di oro giallo. Su di esso, con le piccole mani unite sul petto che s'alzava e abbassava con lenta regolarità, giaceva una fanciulletta di circa tredici anni. Aveva la bellezza e i lineamenti forti della sua gente, lunghi capelli color miele e pelle dorata. Si sarebbe potuto pensare che dormisse con la serenità di ogni giovinetta di quell'età se non fosse stato per il fatto sorprendente che i suoi occhi, azzurri come il Mare di Vilmiria, erano aperti e fissavano senza battere mai le palpebre il soffitto della Tenda Bronzea. «La mia gente ha sempre creduto che Quarzhasaat si fosse distrutta da sola duemila anni fa, in modo completo» disse Elric. «Vorrei che fosse così, oppure che Melniboné fosse stata meno sicura del fatto suo e avesse terminato l'opera cominciata da quegli stregoni!» Di rado provava emozioni così violente verso i popoli sconfitti dal suo, ma era sopraffatto dall'odio per il nobile Gho i cui uomini, ne era sicuro, avevano colpito quella giovinetta innocente. In ciò che vedeva poteva riconoscere la negromanzia,
un'arte a lui stesso non certo ignota, benché suo cugino Yyrkoon avesse mostrato interesse maggiore del suo e si fosse spinto a praticarne vari aspetti oscuri ed efferati che lui aveva evitato. «Ma chi può salvarla, ora?» disse sottovoce Raik Na Seem, forse un po' imbarazzato dalle parole irose di Elric in quel luogo di raccoglimento e di silenzio. L'albino riacquistò il controllo e fece un gesto di scusa. «Che tu sappia, si potrebbe risvegliarla da questo coma se trovassimo una pozione adatta, una medicina di qualche genere?» domandò. Raik Na Seem scosse il capo. «Abbiamo già consultato invano ogni medico e indovino. Vi è stato un incantesimo oltre alla droga, un malefizio gettato dal capo della Setta del Passero, e costui fu ucciso quando i nostri uomini lo raggiunsero, prima che si capisse che sarebbe stato meglio farlo vivere ancora.» Per rispetto alla concentrazione di chi sedeva nella Tenda Bronzea, Raik Na Seem li condusse di nuovo fuori. Qui c'era il ben nutrito corpo di guardia, con lampade e torce accese fra le tende, ma quella sera la luna rifletteva una luce scarlatta sul deserto, e le dune sembravano le onde di un mare di sangue. Elric ripensò a quando, da ragazzo, aveva guardato nelle profondità del suo Actorios, fingendo che la gemma fosse una porta verso altre terre, ogni sfaccettatura aperta su una diversa realtà, perché a quel tempo aveva già letto molto sul multiverso e su come si pensava che fosse costituito. «Ruba il sogno che l'ha intrappolata» stava dicendo Raik Na Seem, «e tutto ciò che abbiamo sarà tuo, Alnac Kreb.» Il giovane di pelle nera scosse la bella testa. «Averla salvata sarà il solo prezzo che chiederò, padre. Ma temo di non avere le capacità sufficienti... qualcun altro ha già tentato?» «Siamo stati illusi da persone ben intenzionate e da sedicenti esperti. Degli Avventurieri Stregoni di Quarzhasaat, o credendosi in possesso delle doti di un ladro di sogni o convinti di ottenere gli stessi risultati in altro modo, sono venuti da noi, fingendosi membri della tua arte. Li abbiamo visti confondersi e perdere la ragione dinnanzi ai nostri occhi. Alcuni sono morti. Altri hanno fatto ritorno a Quarzhasaat per avvertire i concittadini di non venire a rischiare la vita e farci perdere tempo.» «Stai dimostrando una grande pazienza, Raik Na Seem» disse Elric, che cominciava a capire perché il nobile Gho e altri suoi pari cercassero con tanto interesse un ladro di sogni per quel lavoro. Le notizie riportate a
Quarzhasaat da quegli Avventurieri Stregoni diventati pazzi erano state alquanto confuse. Il nobile Gho aveva riferito a lui quel poco che ne aveva capito. Ma ora l'albino si rendeva conto che ad avere la chiave della via che conduceva alla Perla nel Cuore del Mondo era la fanciulla stessa. Senza dubbio aveva appreso quel segreto nelle sue mansioni di custode dell'antica sapienza del suo popolo. Forse era un'informazione che la Vergine Sacra doveva tenere per sé. Comunque stessero le cose, era chiaro che per fare il primo passo su quella via Varadia doveva essere risvegliata dal suo sonno stregato. Ed Elric sapeva che se anche la fanciulla fosse emersa da quel malefizio non gli sarebbe stato facile chiederle di parlare, poiché non era nella sua natura supplicare una sconosciuta di rivelargli un segreto che lui non aveva alcun diritto di sapere. L'unica speranza era che lei glielo offrisse spontaneamente, ma era certo che in ogni caso non sarebbe riuscito a chiederlo. Raik Na Seem sembrò intuire il dilemma dell'albino. «Ragazzo mio, tu sei amico di un giovane che considero un figlio» disse, coi modi formali della gente nomade. Noi sappiamo che non ci sei nemico e che non ti trovi qui di tua volontà per rubare ciò che è nostro. Siamo certi che non prenderesti mai nulla dei tesori dei quali noi siamo i custodi. Sappi dunque, Elric di Melniboné, che se Alnac Kreb riuscirà a salvare la Vergine Sacra noi faremo tutto il possibile per farti proseguire sulla via che porta alla Fortezza della Perla. L'unica cosa che potrebbe impedircelo sarebbe se Varadia, dopo essersi svegliata, ci avvertisse di non darti questo aiuto. E in tal caso ti diremmo francamente la verità. «Non potrei chiedere una promessa più onesta» disse Elric, grato. «Nel frattempo, Raik Na Seem, io ti do la mia parola che aiuterò a difendere tua figlia contro tutti coloro che vogliono farle del male, e che veglierò qui finché Alnac riuscirà a riportarla a voi.» Alnac si era un po' scostato dagli altri due per andare a isolarsi nei suoi pensieri al limite della zona illuminata dalle torce, col bianco mantello notturno tinto di rosa dai raggi della Luna di Sangue. S'era staccato dalla cintura il bastone ricurvo, e quando lo sollevò in alto con ambo le mani si rivolse ad esso mormorandogli sottovoce delle frasi, quasi come faceva Elric allorché parlava con la spada intarsiata di rune. Infine il ladro di sogni tornò verso di loro, serio in viso. «Farò del mio meglio» disse, gravemente. «Mi appellerò a tutte le mie risorse, a tutto ciò che mi è stato insegnato, ma devo avvertirvi che ho dei punti deboli, difetti di carattere ai quali non sono ancora riuscito a porre rimedio. Sono man-
chevolezze che non risultano importanti quando vengo chiamato a esorcizzare gli incubi di un mercante o l'ossessione di un ragazzo incapricciato di una donna, ma ciò che mi vedo davanti qui è una dura sfida anche per il più abile fra i ladri di sogni che praticano l'arte. Non posso permettermi un successo parziale. O riuscirò, o fallirò. Ad ogni modo, date le circostanze e in nome della nostra amicizia, e poiché odio tutto ciò che gli Avventurieri Stregoni rappresentano, voglio tentare.» «È quello che speravo» disse Raik Na Seem, colpito dal tono di Alnac. «Se avrai successo, riporterai l'anima della fanciulla nel mondo a cui appartiene» disse Elric. «Ma se fallirai cosa perderai, mastro Ladro di Sogni?» Alnac scrollò le spalle. «Niente che valga troppo, suppongo.» Scrutando il volto del suo nuovo amico, Elric capì che mentiva. Ma vide anche che non voleva sentire obiezioni a ciò che aveva deciso. «Ora devo riposare» disse Alnac, «e mangiare qualcosa.» Si strinse nel mantello notturno e guardò Elric, come se desiderasse con tutto il cuore confidargli un segreto che invece non era sua facoltà condividere con altri. Poi d'improvviso cambiò espressione e rise forte. «Se grazie ai miei sforzi Varadia si svegliasse, e se sapesse davvero indirizzarti al luogo dove c'è la tua terribile Perla, allora potremmo dire, Principe Elric, che io avrò fatto una parte del tuo lavoro. E mi aspetterò una parte della tua ricompensa.» «La mia sola ricompensa sarà la morte del nobile Gho» disse Elric con calma. «Lo immaginavo» rispose Alnac, incamminandosi verso la Tenda Bronzea, che nel bagliore lunare fremeva e vibrava come un oggetto materializzato solo a metà dal mondo del Caos. «Questa è esattamente la ricompensa di cui voglio una parte.» Nella Tenda Bronzea c'era, oltre alla grande sala centrale, una serie di piccole camere dove i pellegrini potevano riposare dopo il faticoso viaggio che li aveva portati lì, e fu in una di esse che i tre uomini andarono a distendersi. Benché fossero stanchi restarono svegli, pensando al lavoro che li attendeva l'indomani. Non dissero parola, ma occorsero ore prima che si addormentassero. Al mattino, quando Elric, Raik Na Seem e Alnac entrarono nel salone che ospitava la Vergine Sacra, quelli che erano già lì a meditare si ritirarono rispettosamente a distanza dalla piattaforma. Alnac Kreb teneva il bastone ricurvo con la mano sinistra, senza stringerlo, appena bilanciato fra le dita, quando andò a guardare il bel volto della fanciulla a cui voleva be-
ne come a una figlia. Fece un lungo sospiro, ed Elric seppe che il sonno non lo aveva affatto ristorato. Aveva un'aria preoccupata e infelice. Si volse all'albino e tentò un sorriso. «Quando ti ho visto bere da quella fiasca d'argento, poco fa, sono stato tentato di chiedertene un sorso...» «Quell'elisir è un veleno mortale, e dà assuefazione» rispose Elric, sbigottito. «Credevo di avertelo spiegato.» «Sì, è vero.» Di nuovo l'espressione di Alnac Kreb rivelò che aveva pensieri che non poteva condividere. «Mi sono detto però che, date le circostanze, sarebbe inutile temere i suoi effetti.» «Questo perché tu non li conosci» disse Elric con enfasi. «Credimi, Alnac, se avessi il modo di darti aiuto in questa impresa lo farei. Ma offrirti del veleno non sarebbe un atto da amico, anzi il contrario.» Alnac Kreb sorrise ancora. «È giusto, lo so.» Si passò il bastone dei sogni nell'altra mano. «Ma tu veglierai su di me, hai detto.» «L'ho promesso, certo. E come tu hai chiesto, quando mi dirai di portare via il bastone dei sogni dalla Tenda Bronzea io ubbidirò.» «Questo è tutto ciò che tu potrai fare, ed io ti ringrazio» disse il ladro di sogni. «Ora comincerò il mio lavoro. Per il momento ti dico addio, Elric. Credo che il nostro destino sia d'incontrarci ancora, ma forse non in questa esistenza.» E dopo quella sorprendente affermazione Alnac si girò verso la fanciulla addormentata, poggiò di traverso il bastone sugli occhi aperti di lei, si chinò ad applicarle un orecchio sul cuore ed il suo sguardo si fece lontano e vitreo, come se anch'egli fosse entrato in trance. Si raddrizzò, vacillando, passò le braccia sotto la Vergine Sacra e la sollevò dal letto, per deporla con cura sul tappeto. Fatto questo si distese al suo fianco, poggiò una mano su quelle inerti di lei e nell'altra tenne il bastone dei sogni. Il suo respiro si fece sempre più lento e più profondo, e ad Elric parve di sentire il ritmo di un canto uscire insieme al fiato dalla gola del giovanotto. Raik Na Seem si piegò in avanti per scrutare il volto del ladro di sogni, ma questi non lo vedeva. Il vecchio girò allora il bastone ricurvo poggiandone un'estremità sulle loro mani unite, come per rafforzare il contatto fra i due. Con grande sorpresa Elric si accorse che il bastone dei sogni stava cominciando a illuminarsi di luce propria e a pulsare come una vena. Il respiro di Alnac rallentò ancora. Aveva gli occhi aperti, fissi verso l'alto ma ciechi, proprio come quelli di Varadia. Poco dopo Elric sentì un lieve mormorio uscire dalle labbra della fan-
ciulla, e notò che i due fremevano all'unisono. Anche il bastone ricurvo ora pulsava all'unisono con il respiro di Alnac e quello della Vergine Sacra, e si faceva più luminoso. All'improvviso il bastone si piegò e si contorse muovendosi fra i due corpi con sorprendente rapidità, quasi che fosse a contatto con le loro vene e pervaso dal passaggio del loro stesso sangue. Elric aveva l'impressione di vedere l'intreccio dei vasi sanguigni e dei nervi penetrati dalla strana luce del bastone. Poi Alnac mandò un gemito, e il suo respiro cessò d'essere quello profondo e fermo di prima: divenne fievole, quasi inesistente, mentre la fanciulla continuava invece a respirare con lo stesso ritmo tranquillo. Il bastone dei sogni era tornato ad Alnac, dentro di lui. Sembrava vivere nell'interno del corpo del giovane, quasi che si fosse fuso con il suo cervello e le sue ossa. L'estremità ricurva brillava nel suo cranio, e lo riempiva di una luminosità ultraterrena che rendeva visibile ogni organo, ogni osso, ogni vena. La Vergine Sacra sembrava immutata. Ma quando Elric si chinò a guardarla più da vicino vide, con orrore, che le iridi dei suoi occhi invece d'essere azzurre apparivano nere come il giaietto. E gli occhi del ladro di sogni erano diventati azzurri. Si sarebbe detto che i due corpi si fossero scambiati l'anima. Nonostante tutta la sua esperienza di negromanzia, l'albino non aveva mai visto niente del genere, e si sentì turbato. Pian piano cominciava a capire la strana arte del ladro di sogni, il motivo per cui poteva essere così pericolosa ed erano pochi a praticarla, pochi a chiedere di impararla. Un altro cambiamento cominciò ad aver luogo. Il bastone ricurvo si torceva, dando l'impressione di consumare la stessa sostanza fisica del ladro di sogni, assorbendo energia dalle ossa e dalla carne, risucchiando vita dal cervello e dal sangue. Raik Na Seem era pallido per l'orrore. Fece un passo indietro, incapace di controllarsi. «Ah, ragazzo mio! Cosa ti ho chiesto di fare!» Da lì a poco tutto ciò che restava del bel corpo di Alnac era un involucro rinsecchito, simile al bozzolo scartato da una farfalla. Ma il bastone dei sogni giaceva di nuovo trasversalmente, a contatto delle mani di Varadia, anche se appariva più grosso e brillava di una luce impossibile fatta di colori che attraversavano tutte le tonalità dello spettro, naturali e soprannaturali. «Credo che Alnac stia dando troppo, per salvare mia figlia» disse Raik Na Seem. «Forse più di quello che un uomo possa dare.»
«Lui darà tutto» commentò Elric. «Credo che sia nella sua natura farlo. Ecco perché tu lo chiami figlio e ti fidi di lui.» «Sì» rispose Raik Na Seem. «Ma ora temo di aver perso un figlio, oltre a una figlia.» E sospirò, scuro in faccia, forse chiedendosi se fosse stato saggio chiedere i servizi di Alnac Kreb. Per oltre un giorno e una notte Elric restò seduto nella Tenda Bronzea, insieme a Raik Na Seem e agli uomini e alle donne del clan Bauradim, silenziosi e con gli occhi fissi sul corpo di Alnac Kreb, il ladro di sogni, da cui ogni tanto proveniva un fremito o un mormorio, accartocciato come una delle carcasse mummificate di capra che ogni tanto riemergevano dalla sabbia delle dune. In un'occasione Elric credette di udire la Vergine Sacra emettere un suono, e in un'altra occasione Raik Na Seem si alzò per poggiare una mano sulla fronte di sua figlia. Poi il vecchio tornò indietro, scuotendo il capo. «Non è ancora il momento di cedere alla disperazione, padre del mio amico» disse Elric. «Sì.» Il Primo Anziano dei Bauradim raddrizzò le spalle quindi si fermò accanto a lui. «Noi diamo molta importanza alle profezie, qui nel deserto. Talvolta penso che le troppe necessità materiali abbiano tarato la nostra ragione.» I due uomini uscirono dalla tenda, nell'aria chiara del primo mattino. Il fumo dei fuochi di quella notte, sulle cui braci veniva scaldata la colazione, si alzava verso un cielo dai toni lilla, spinto da una lieve brezza meridionale. L'odore del cibo caldo fu una sofferenza per Elric, ma la preoccupazione per lo stato dell'amico gli faceva trascurare la fame. Ogni tanto aveva bevuto un sorsetto dell'elisir del nobile Gho, incapace di controllare gli spasimi da assuefazione, e quando Raik Na Seem gli offrì la sua borraccia d'acqua lui scosse il capo. Troppi conflitti lo tormentavano. Sentiva per quella gente un forte cameratismo, sentimento che Raik Na Seem apprezzava molto. Temeva per la sorte di Alnac Kreb, che lo aveva soccorso con un impulso di generosità tipico del suo carattere. Era grato per la fiducia che i Bauradim avevano in lui. Dopo aver sentito che era venuto lì al servizio di un quarzhasaatiano, sarebbe stato loro diritto scacciarlo dall'Oasi del Fiore d'Argento, o peggio. Invece lo avevano addirittura accolto nella Tenda Bronzea mentre sorgeva la Luna di Sangue, consentendogli di eseguire le istruzioni del nobile Gho nella certezza che lui non avrebbe abusato di quella fiducia. Ora lo legava a loro un obbligo di lealtà che non poteva infrangere. Forse i nomadi contavano su questo. Forse avevano letto
nei suoi occhi che era come Alnac. Quella loro spontanea accoglienza lo commuoveva, anche se rendeva più difficile la sua missione, e lui era determinato a non tradirli e non deluderli in nessun modo. Raik Na Seem annusò il vento e guardò in direzione dell'Oasi del Fiore d'Argento, invisibile da lì. Una colonna di fumo nero si alzava all'orizzonte, sempre più larga e scura, anche quella inclinata verso settentrione dalla brezza. Non faceva pensare a niente di buono. «C'è stato un altro attacco» disse infatti Raik Na Seem. Non sembrava molto preoccupato. «Speriamo che sia l'ultimo, per quest'anno. Stanno bruciando i corpi dei caduti.» «Chi vi attacca?» «Gruppi di Avventurieri Stregoni, o altri. Le azioni contro di noi sono sempre collegate agli scossoni della loro politica interna. Si battono di continuo per i favori di questo o quel personaggio... forse ora è in ballo quel seggio nel Consiglio di cui hai parlato. Ogni tanto le loro macchinazioni coinvolgono anche noi. Non c'è niente di nuovo in questo. Ma stavolta qualcuno ha voluto offrire un prezzo alto: la Perla che è nel Cuore del Mondo. E così, dopo che la notizia si è sparsa, molti uomini armati sono passati di qui alla ricerca del misterioso gioiello!» Raik Na Seem sogghignò, con truce umorismo. «Speriamo che a forza di ammazzarsi fra loro restino a corto di uomini. Chissà, forse alla fine rimarranno solo i nobili, a litigare per un seggio nel Consiglio di una città deserta.» Poco dopo Elric assisté al passaggio di un'intera tribù di nomadi che si dirigevano all'Oasi del Fiore d'Argento, passando a breve distanza dalla Tenda Bronzea per indirizzarle cenni di venerazione. Erano gente abbronzata, di pelle bianca, con occhi azzurri come quelli della giovinetta che fissava il niente nella Tenda e capelli anch'essi biondo-miele. I loro abiti erano però molto diversi da quelli dei Bauradim. Predominava il lino color lavanda, con ricami in oro e in verde scuro. Stavano portando verso chissà quali pascoli il loro bestiame, per lo più bovini dai larghi zoccoli che Alnac aveva definito adatti alle terre desertiche. «I Waued Nii» spiegò Raik Na Seem. «Sono sempre gli ultimi ad arrivare ai raduni. Vengono dall'estremità più lontana del deserto, e commerciano con Elwher. Arrivano sempre carichi di lapislazzuli e monili di giada, che alle nostre donne piacciono molto. D'inverno, quando le tempeste di sabbia li mettono in difficoltà, si danno alle razzie nelle pianure e nelle città. Si vantano di aver saccheggiato anche Phum, ma secondo noi era qualche altro posto, più piccolo, che loro scambiarono per quel regno.» Lo dis-
se come se fosse una battuta che i nomadi del deserto usavano per prendere in giro i Waued Nii. «Io ho un amico nativo di Phum» disse Elric. «Si chiama Rackhir, ed è partito alla ricerca della perduta Tanelorn.» «Ho conosciuto un uomo di nome Rackhir. Un bravo arciere. Ha viaggiato con noi per qualche settimana, l'anno scorso.» Elric fu lietamente sorpreso da quella notizia. «Dici davvero? E stava bene?» «Era in ottima salute.» Raik Na Seem sembrava ansioso di distrarsi per qualche momento da ciò che stava accadendo a sua figlia e al loro giovane amico. «Lo abbiamo ospitato, e ha cacciato per noi quando siamo passati presso le Colonne Scolpite, dove c'è della selvaggina di solito troppo astuta per noi. Ci ha parlato di un suo amico... uno che aveva troppi pensieri nella testa e che finiva sempre per mettersi nei guai. Si riferiva a te, senza dubbio. Ricordo che disse che eri molto pallido. E si chiedeva dove fossi finito. Era preoccupato per te, credo.» «Anch'io mi preoccupo per lui. Abbiamo molte cose in comune. È lo stesso legame che io sento con voi e con Alnac Kreb.» «Avete affrontato dei pericoli insieme, mi sembra di aver capito.» «Sì, pericoli e strane esperienze. Lui però era stanco di quel genere di esistenza e voleva ritirarsi a vivere in pace. Sai dov'è andato, quando si è separato da voi?» «Sì. Come tu hai detto stava cercando la mitica Tanelorn. Quando ha saputo tutto ciò che noi potevamo dirgli, ci ha salutato e si è diretto all'Ovest. Io gli ho consigliato di non perdere tempo dietro una leggenda, ma lui era convinto di sapere quel che faceva. Non starai meditando di seguirlo?» «I miei doveri mi chiamano altrove. Ma non nego di aver cercato anch'io Tanelorn, per un po'.» Elric ne avrebbe parlato ancora, ma pensò bene di lasciar perdere. Quei discorsi lo stavano portando a ricordare problemi che per il momento preferiva accantonare. I suoi pensieri erano per Alnac Kreb e per la fanciulla. «Sì, ora ricordo... Rackhir disse che sei il sovrano della tua terra. Ma un sovrano riluttante a occupare il trono, se non sbaglio. Un dovere pesante per un giovane, eh? Ci si aspetta molto da te, e tu devi caricarti il peso delle tradizioni, degli ideali, e della lealtà che un intero popolo si aspetta di avere. Governare bene è difficile, e farsi un'idea reale delle cose per dispensare la giustizia è spesso impossibile. Noi Bauradim, qui, non abbiamo Principi e Re, ma solo un gruppo di uomini e donne eletti dal clan, e io
credo che sia meglio questa soluzione per condividere il peso delle decisioni. Se tutti condividono la responsabilità, nessuno si trova a dover sopportare un fardello troppo pesante per lui.» «Io viaggio appunto alla ricerca di metodi più saggi per governare e amministrare la giustizia» disse Elric. «Ma devo confessarti, Raik Na Seem, che il mio popolo è crudele e corrotto quanto quello di Quarzhasaat, ed è molto più numeroso e potente. Noi abbiamo solo una rozza idea della giustizia, e chi detiene il potere sì occupa soprattutto di trovare nuovi modi per schiacciare gli avversari e terrorizzare e derubare il popolo. Il potere, nella mia terra, è una droga come il veleno che io devo bere per restare in vita. È una bestia affamata, che divora chi la possiede e chi la odia... e alla fine divora anche se stessa.» «Questa bestia affamata non è il potere» lo corresse il vecchio. «Il potere non è buono né cattivo. È l'uso che l'uomo ne fa ad essere buono o cattivo. Io so che un tempo Melniboné dominava il mondo, o almeno quella parte su cui poteva allungare le mani dopo aver distrutto chi si opponeva.» «Sembra che voi conosciate la mia terra assai meglio di quanto noi conosciamo la vostra.» L'albino sorrise. «Nell'antichità il mio popolo si ritirò in questo deserto proprio per allontanarsi da Melniboné, e prima ancora aveva già avuto a che fare con Quarzhasaat. Entrambe quelle nazioni erano violente e corrotte, e a noi non importava quale avrebbe distrutto l'altra. Speravamo che si estinguessero in breve tempo, ma non fu così. Tuttavia accadde che Quarzhasaat seppellì se stessa sotto questa sabbia, e Melniboné finì per dimenticare il vecchio nemico... e altre popolazioni, fra cui i nomadi. Si dice che poco dopo quella guerra Melniboné decise che le guerre d'espansione costavano troppo, e preferì rinsaldare il suo dominio sui Reami Nuovi per dissanguarli con le tasse. Ma poi abbiamo saputo che ha perduto anche quelli.» «Ora governa solo sull'Isola del Drago.» Elric s'accorse che la sua mente tornava a Cymoril, e cercò di pensare ad altro. «Varie nazioni hanno approntato delle flotte di navi a vela, per invadere e saccheggiare l'Impero, ma hanno scoperto a loro spese che Melniboné era ancora troppo forte. I Reami Nuovi preferiscono commerciare con la mia terra, al giorno d'oggi.» «Il commercio arricchisce una nazione più dei balzelli imposti a una terra conquistata» disse Raik Na Seem mentre tornavano dentro la Tenda Bronzea. Poi strinse i denti, guardando il corpo rinsecchito di Alnac. Il bastone dei sogni stava di nuovo tremando e illuminandosi di luce interna, come aveva continuato a fare ogni tanto da quando il giovane s'era disteso
accanto a Varadia. «È uno strano organismo» mormorò Raik Na Seem. «Sembra che abbia risucchiato energia dal suo corpo...» Stava per dire qualcos'altro, quando le palpebre di Alnac ebbero un fremito e dalle sue labbra esangui uscì un debole gemito. I due uomini corsero a chinarsi su di lui. Gli occhi di Alnac erano ancora azzurri, e quelli di Varadia sempre neri. «Il ragazzo sta morendo» sussurrò il Primo Anziano. «È così, Principe Elric?» Lui non ne sapeva più del Bauradim. «Cosa possiamo fare per lui?» domandò Raik Na Seem. Elric toccò quel corpo freddo, rigido come il cuoio. Sollevò una mano leggera e non gli parve di sentire alcuna pulsazione. Fu in quel momento che, con loro sorpresa, gli occhi di Alnac da azzurri tornarono neri, e quando guardarono Elric in essi c'era la piena e lucida consapevolezza. «Ah, amico, sei venuto ad aiutarmi. Ho saputo dov'è la Perla. Ma è troppo ben protetta.» La voce del ladro di sogni usciva in un sussurro dalla bocca arida. Elric raccolse il giovane fra le braccia. «Sì, Alnac, io ti aiuterò. Ma dimmi come.» «Non puoi far niente per me. Ci sono delle caverne... questi sogni mi stanno risucchiando. Mi tirano giù, annegherò dentro di essi. Io sono condannato a raggiungere chi ha già conosciuto questo destino. Una ben triste compagnia per uno come me, Principe Elric. Triste compagnia...» Il bastone dei sogni pulsava e luccicava, bianco e liscio come un osso scarnificato. Gli occhi di Alnac tornarono azzurri per qualche momento, poi di nuovo neri. Un esile filo d'aria uscì dalla gola secca. All'improvviso il suo volto si torse in una smorfia d'orrore. «Oh, no! Devo trovare la forza di volontà!» Il bastone dei sogni si mosse come un serpente nell'interno del suo corpo, scivolò dentro quello di Varadia, tornò ancora in lui. «Oh, Elric» disse la sua voce fievole, «aiutami, se puoi. Sono in trappola. Mai ho trovato una così orribile, così tremenda...» Le parole del giovane sembravano uscire dalle lontane profondità di un sepolcro, come se fosse già morto. «Elric, se solo ci fosse un modo...» Tacque, e il suo corpo sussultò come se un lungo e profondo respiro lo gonfiasse. Il bastone dei sogni si agitò e brillò di luce bianca, poi restò immobile di traverso sopra le loro mani unite, tornando nella posizione i-
niziale. «Ah, amico mio, sono stato uno sciocco nel credermi capace di sopravvivere a questa...» La sua voce s'indebolì. «Avrei dovuto conoscere meglio la natura della sua mente. È così forte. Così forte!» «Di chi parla?» domandò Raik Na Seem. «Di mia figlia? O di chi la sta trattenendo? Varadia è in parte di razza Sarangli. Sua nonna poteva gettare un incantesimo su centinaia di persone e convincerle che stavano morendo di peste. Questo l'ho detto ad Alnac. Cos'è che non capisce?» «Ah, Elric, lei mi ha distrutto!» Nella fragile mano che si tendeva verso l'albino ci fu un tremito. Ma d'un tratto, senza che nulla lo facesse prevedere, il colore della vita tornò in Alnac. Il suo corpo si dilatò alle dimensioni originali riempiendosi di vitalità. Il bastone ricurvo tornò ad essere l'oggetto inanimato che Elric aveva visto infilato nella cintura del giovane. Sul bel volto del ladro di sogni apparve un sorriso di sorpresa e di gioia. «Io vivo! Elric, io vivo!» Strinse meglio il bastone fra le dita e fece per alzarsi. In quel momento tossì, e dalla bocca gli scivolò fuori qualcosa di ripugnante, una specie di gigantesco verme semi-digerito. Fu come se avesse rigurgitato un organo marcio del suo corpo, e lo scostò con un gesto tremante e disgustato, mentre nei suoi occhi tornava il terrore. «No, ahimè.» La voce di Alnac era rassegnata. «Ho esultato troppo presto. Sto morendo, naturalmente.» E collassò di nuovo sul tappeto, prima che Elric potesse sorreggerlo. Scosse il capo, con un bagliore della vecchia ironia. «È troppo tardi, a quanto pare. Non è destino che tu ed io siamo compagni, Messer Campione, in questo piano d'esistenza.» Elric, per cui quelle parole non avevano alcun senso, pensò che Alnac stesse delirando e cercò di calmarlo. Il bastone scivolò via dalle dita del ladro di sogni e rotolò da parte, quindi dalla gola del giovane scaturì un gemito stridulo, e nell'aria si diffuse un puzzo così soffocante che per poco non fece fuggire Elric e Raik Na Seem fuori dalla Tenda Bronzea. Fu come se il corpo si putrefacesse davanti ai loro occhi, mentre ancora orribilmente vivo il poveretto cercava di parlare senza riuscirci. Poi Alnac Kreb giacque immobile, senza vita. Nel guardare i resti mortali di quel bravo e coraggioso amico, Elric fu dolorosamente certo che il suo destino e quello di Anigh erano segnati. La tragica fine del ladro di sogni lasciava capire che c'erano in gioco forze
delle quali lui non sapeva nulla, a dispetto della sua esperienza di stregoneria. Mai aveva sentito parlare di incantesimi che conducessero a una morte simile. Aveva visto cose peggiori accadere a chi aveva osato praticare la negromanzia, ma lì era all'opera una stregoneria che lui non sapeva interpretare. «È andato, allora» mormorò Raik Na Seem. «Sì.» Elric aveva la voce rauca. «Sì. Il suo coraggio era più grande di quello che chiunque, io compreso, potesse pensare.» Il Primo Anziano andò a passi lenti accanto alla figlia, ancora immobile e chiusa nel bozzolo della sua terribile trance. Si chinò a guardare nei suoi occhi azzurri come se sperasse di scorgere ancora in fondo ad essi gli altri due, quelli neri. «Varadia?» La fanciulla non rispose. Serio e accigliato il vecchio raccolse dal tappeto la Vergine Sacra e la depose di nuovo sul letto, sistemandole i cuscini e la veste come se la giovane figlia dormisse di un sonno naturale. Elric guardava il corpo esanime del ladro di sogni. Ora sapeva che l'amico aveva saputo fin dall'inizio ciò che il fallimento gli sarebbe costato, e forse era quello il segreto che non aveva voluto condividere con lui. «È tutto finito» disse Raik Na Seem sottovoce. «Ormai non so più quale altro rimedio ci sia. Alnac ha dato la vita, e neppure questo è bastato.» Stava lottando per non gridare la sua disperazione, mortificato da una tragedia di cui si sentiva responsabile. «Devo cercare di pensare al da farsi. Vuoi aiutarmi in questo, amico del giovane che era un figlio per me?» «Se posso.» Mentre Elric si rialzava, ancora scosso e vacillante, sentì dei passi dietro di loro. Dapprima pensò che fosse qualche Bauradim venuto a meditare dinnanzi alla Vergine Sacra. Voltandosi a mezzo scorse appena i contorni della figura che si avvicinava, stagliata contro la luce intensa della porta. Era una giovane donna, ma non del clan Bauradim. Alla piattaforma centrale rallentò il passo, e quando vide il povero corpo di Alnac steso sul tappeto i suoi occhi si riempirono di lacrime. «Oh, no... sono arrivata troppo tardi, dunque!» La sua voce musicale era incrinata dal dolore. Si portò una mano agli occhi, come per non vedere, poi la riabbassò. «Non avrebbe dovuto tentare una cosa tanto pericolosa. All'Oasi del Fiore d'Argento mi hanno detto che eravate qui, e sono accorsa subito. Ma perché avete agito così in fretta? Se
soltanto aveste aspettato un altro giorno...» Con grande sforzo la giovane donna controllò la sua sofferenza, ma non riuscì a fermare le lacrime. Elric, che la guardava, sentì d'un tratto una specie di legame indefinibile con lei. La ragazza fece un altro passo verso il cadavere. Era soltanto un pollice più bassa di Elric, con un volto ovale incorniciato da lisci capelli castani. Snella e robusta, indossava un giustacuore imbottito coi lacci aperti, e sotto di esso una camicetta di seta rossa, pantaloni di velluto dello stesso colore, morbidi stivali da sella, e un lungo mantello di leggerissimo cotone contro la polvere del deserto, in. quel momento gettato dietro la schiena. Alla cintura portava una spada nel fodero, e appeso alla sua spalla sinistra c'era un bastone ricurvo, d'ebano intarsiato d'oro, una versione più elaborata di quello che giaceva sul tappeto accanto al corpo di Alnac Kreb. «Gli ho insegnato io tutto ciò che sapeva della nostra arte» disse. «Ma non era sufficiente per ciò che ha voluto affrontare. Come ha potuto pensare che ce l'avrebbe fatta! Doveva immaginare che non ci sarebbe riuscito. Il suo carattere non era adatto.» Distolse lo sguardo e si passò una mano sugli occhi. Quando si fu asciugata le lacrime si voltò verso Elric e Raik Na Seem. «Tu hai mandato a chiamare un membro della mia arte» disse al Primo Anziano dei Bauradim, con un lieve inchino. «Io sono Oone, signore, la ladra di sogni.» PARTE SECONDA C'è una donna che di neve abbia la pelle, e rosse come rubino possan le sue pupille vedere dentro reami di sogno la cui trama s'oppone al principe che giustizia brama? C'è una donna che nei reami di sogno nata abbia il sangue d'antica stirpe destinata ad unirsi a quel nobile come sposa divina per diventare della sua patria la regina? Le Cronache della Spada Nera 6
Come una ladra può erudire un imperatore Oone si sputò il seme di dattero su una mano e lo seppellì nella sabbia dell'Oasi del Fiore d'Argento. Poi si accostò a uno dei cactus i cui grandi fiori dai riflessi metallici davano all'oasi il suo nome e lo accarezzò delicatamente con le lunghe dita. Stava mormorando una lenta e triste melodia fra sé, sottovoce, ed Elric ebbe l'impressione che fosse un canto funebre. L'albino mantenne un rispettoso silenzio e restò seduto con la schiena poggiata a una palma, a guardare le attività nel vasto assembramento di tende. La giovane donna gli aveva chiesto di accompagnarla, ma non s'erano ancora scambiati più di dieci parole. Dall'alto del kashbeh provenne un richiamo, e girandosi in quella direzione lui non vide nulla. Sul deserto spirava la solita brezza, e veli di polvere fluttuavano verso le lontane Colonne Scolpite, all'orizzonte. Era quasi il mezzodì. Poco prima avevano fatto ritorno all'Oasi del Fiore d'Argento, dove quella sera i resti mortali di Alnac Kreb sarebbero stati bruciati con tutti gli onori secondo le usanze del Clan Bauradim. Voltandosi notò che Oone non aveva più il bastone ricurvo appeso alla spalla. Lo teneva con ambo le mani e lo girava da una parte e dall'altra, osservando i lucidi intarsi sulla sua superficie come se li vedesse per la prima volta. S'era infilata nella cintura l'altro bastone, quello di Alnac. «Il mio lavoro sarebbe più facile» disse d'un tratto, «se Alnac non fosse stato così precipitoso. Non poteva immaginare che io stessi arrivando, lo so bene, e voleva salvare la fanciulla. Ma se si fosse preso un po' di riposo non soltanto lo avrei salvato, ma mi sarei potuta avvalere del suo aiuto, e le nostre probabilità di successo sarebbero aumentate.» «Non riesco a capire cosa gli sia accaduto» disse Elric. «Neppure io saprei dire quali siano state le cause del suo fallimento.» Oone venne a guardare un cactus più vicino a lui. «Ma non intendo sottovalutarle. È per questo che ti ho chiesto di venire con me. Non voglio rischiare d'essere sopraffatta. E desidero la tua parola che manterrai il segreto.» «Di solito cerco d'essere discreto, Dama Oone.» «Voglio che tu rispetti il segreto per sempre.» «Per sempre?» «È necessario che tu mi prometta di non dire mai ad anima viva ciò che io ti dirò oggi, e di non riferire a nessuno gli avvenimenti che ne conseguiranno. Dovrai legarti al codice d'onore dei ladri di sogni, anche se non sei
membro della nostra gilda.» Elric era perplesso. «Per quale ragione?» «Vuoi salvare la Vergine Sacra? Vuoi vendicare Alnac? Vuoi liberarti dalla schiavitù a quella droga? Vuoi riparare certe ingiustizie accadute a Quarzhasaat?» «Sai bene che farò di tutto per riuscirci.» «Allora dobbiamo raggiungere un accordo, perché è sicuro che, se non ci aiutiamo a vicenda, tu e la figlia di Raik Na Seem e forse anch'io saremo morti prima che tramonti la Luna di Sangue.» «È sicuro?» Elric era cupamente divertito. «Tu sei anche un oracolo, Dama Oone?» «Tutti i ladri di sogni lo sono un poco.» La ragazza era un po' spazientita, come se parlasse a un bambino testardo. Controllò il suo tono. «Scusami. Dimenticavo che la nostra arte è sconosciuta nei Reami Nuovi. In effetti è raro che noi attraversiamo questo piano di realtà.» «Io ho incontrato molte creature soprannaturali in vita mia, cara signora, ma poche sembravano umane come te.» «Umane? È ovvio che sono umana.» La ragazza lo guardò stupita. Poi la sua fronte si schiarì. «Già. scordavo che tu sei nello stesso tempo più istruito e più ignorante di quelli che la pensano come me.» Gli sorrise. «Non mi sono ancora ripresa dall'inutile sacrificio di Alnac.» «Anch'io credo che non avrebbe dovuto sacrificarsi» disse Elric con voce piatta. Pur avendo conosciuto poco Alnac gli si era subito affezionato. Non faticava a capire il dolore di Oone. «Non c'è modo di riportarlo in vita, vero?» «Ha perso tutta la sua essenza» disse Oone. «Invece di rubare un sogno, è stato derubato di tutti i suoi.» Tacque un momento, poi continuò in fretta, quasi che temesse di pentirsi di quelle parole: «Vuoi aiutarmi, Principe Elric?» «Sì» rispose lui senza esitare. «Se servirà a vendicare Alnac e salvare la fanciulla.» «Anche se rischierai la stessa sorte del mio collega? Di morire nel modo in cui hai visto morire lui?» «Anche così. Credi che sia peggio che morire del veleno del nobile Gho?» «Sì» disse lei, convinta. Elric rise di quella franchezza. «Ah, benissimo. Sia pure, Dama Oone. Siamo d'accordo. Qual è il patto che mi chiedi?»
La ragazza sfiorò i petali argentei di un fiore del cactus, tenendo leggermente il bastone fra le dita dell'attira mano. Aveva corrugato le sopracciglia, non molto certa della saggezza della sua decisione. «Credo che tu sia uno dei pochi mortali di questa terra in grado di capire la mia professione, nel senso che sai seguirmi quando parlo della natura dei sogni e della realtà, e di come le due cose si intrecciano. Penso inoltre che la tua mentalità faccia di te un alleato, se non perfetto almeno tale che potrò affidarmi a te fino a un certo punto. Noi ladri di sogni abbiamo cercato di trasformare in una scienza un'arte che, logicamente, non tollera d'essere legata a leggi immutabili. Questo ci consente di professarla con un certo successo ma, secondo me, conta soprattutto il fatto che riusciamo a imporre la nostra volontà al Caos che dobbiamo affrontare. Ciò che dico ha senso per te, Principe?» «Credo di sì. Nella mia terra ci sono filosofi che affermano che buona parte della magia consiste nella capacità d'imporre la forza di volontà alla trama della realtà. Potremmo definirla la capacità di far avverare i sogni. C'è chi dice che la stessa struttura del cosmo sia creata dalla parte non cosciente della nostra volontà.» Oone sembrò compiaciuta. «Bene. Sapevo che non avrei avuto bisogno di spiegarti certe teorie.» «Ma cosa vuoi che io faccia, Dama Oone?» «Dovrai affiancarmi. Insieme potremo trovare una strada per quella che gli Avventurieri Stregoni chiamano la Fortezza della Perla, e nel far questo uno di noi potrà rubare il sogno che costringe la fanciulla in un perpetuo sonno e farla svegliare, per restituirla alla sua gente che sembra averne tanto bisogno.» «Le due cose sono collegate, allora?» Elric si alzò in piedi, ignorando l'onnipresente fitta allo stomaco che lo spingeva a bere l'elisir. «Voglio dire, la Perla e la Fanciulla?» «Credo di sì.» «E qual è il legame fra loro?» «Quando lo scopriremo, senza dubbio sapremo anche come liberarla.» «Scusami se te lo dico, Dama Oone» osservò Elric, «ma tu sembri ignorante quanto me.» «In un certo senso è vero. Prima di proseguire oltre, però, devo chiederti di giurare di rispettare il codice dei ladri di sogni.» «D'accordo» annuì Elric, e alzò la mano su cui scintillava l'Actorios, per mostrare che chiamava a testimonianza una delle più venerate tradizioni
del suo popolo. «Io lo giuro, sull'Anello dei Re.» «Allora ti dirò quello che so, e ciò che desidero da te» disse Oone. Gli poggiò la mano libera su una spalla e lo condusse fra le palme e i cipressi in cerca di un luogo appartato. Quando notò in lui un tremito, sapendo della sua sete per la terribile droga del nobile Gho lo guardò con una certa comprensione. «Un ladro di sogni» cominciò, «fa esattamente quello che il suo titolo indica. Noi rubiamo sogni. In origine, la nostra gilda non faceva altro che questo: alcuni esseri umani particolarmente dotati appresero il modo di entrare nei sogni della gente, e di appropriarsi di quelli più dettagliati e affascinanti, o più strani. Col tempo, però, molti presero a chiedere i nostri servizi per liberarsi di sogni che non volevano... e dei sogni che ossessionavano come trappole i loro amici e parenti. Così alcuni si specializzarono nel furto di quelli. Molto spesso un sogno di tale genere non è affatto pericoloso per l'altra gente, ma soltanto per chi cade in suo potere...» Elric la interruppe: «Stai dicendo che un sogno ha una consistenza materiale? Che può essere preso, come un libro di poesia o una borsa di monete, e sottratto al suo proprietario?» «Essenzialmente, sì. O meglio, dovrei dire che la nostra gilda ha appreso il trucco per rendere un sogno abbastanza concreto da poterlo maneggiare!» La ragazza rise della sua aria confusa, e le sue preoccupazioni la abbandonarono per un momento. «Occorre un certo talento, e un lungo e difficoltoso apprendistato.» «Ma cosa ci fate con questi sogni rubati?» «Be' Principe Elric, li vendiamo al Mercato dei. Sogni, due volte all'anno. C'è un florido commercio per sogni d'ogni genere, perfino per i più bizzarri o terrificanti. Ci sono mercanti che li vendono e clienti che li comprano. Noi li distilliamo, se così si può dire, in una forma che consente di trasportarli, e in seguito trasferirli. E poiché diamo sostanza fisica ai sogni, essi sono un pericolo per noi. Questa sostanza ci può distruggere. Tu hai visto cos'è successo ad Alnac. Occorre un certo carattere, una certa forma mentale, una certa attitudine dello spirito, il tutto combinato insieme, per proteggere chi si addentra nei Reami del Sogno. Ma poiché abbiamo suddiviso in categorie questi reami, siamo anche fino a un certo punto capaci di manipolarli.» «Devi spiegarmi meglio questa faccenda, Dama Oone» disse Elric, «se vuoi che io venga con te.» «D'accordo.» La ragazza si fermò oltre gli ultimi alberi, dove la terra
cominciava a diventare secca nella zona intermedia fra l'oasi e il deserto. Abbassò lo sguardo a scrutare le crepe del suolo come se fossero una mappa complicata, una geometria che soltanto lei poteva capire. «Abbiamo individuato delle regole» disse con voce lontana, come se parlasse fra sé, «e riunito in forma utilizzabile tutti i dati scoperti nel corso dei secoli. Eppure, viaggiando in quei reami siamo ancora sottoposti a pericoli spesso inimmaginabili...» «Un momento, Dama Oone. Stai forse dicendo che Alnac Kreb, grazie a una stregoneria conosciuta solo dalla vostra gilda, è entrato nei sogni della Vergine Sacra e laggiù ha vissuto avventure e pericoli come io potrei fare nel mondo reale?» «Buona domanda.» Lei lo guardò con un sorrisetto strano. «La risposta è sì. La sostanza di Alnac e andata in quel sogno e ne è stata assorbita, rafforzando la sostanza dei sogni di lei...» «I sogni che lui sperava di rubare.» «Alnac contava di rubarne soltanto uno. Quello che la imprigiona in un continuo sonno.» «E poi lo avrebbe venduto, magari, al vostro Mercato dei Sogni?» «Forse.» La ragazza sembrava reticente a parlare di quell'aspetto della cosa. «Dove si tiene il mercato?» «In un reame oltre questo, un luogo dove soltanto chi appartiene alla nostra gilda o lavora con noi può recarsi.» «Tu potresti portarmi là?» domandò Elric, incuriosito. Lei fece un sorrisetto fra cauto e divertito. «Forse. Ma prima bisognerà portare a termine il lavoro. Dovremo rubare un sogno, se vogliamo venderlo là. Ti assicuro, Elric, che voglio sinceramente informarti su tutto quel che desideri sapere, ma ci sono cose difficili da spiegare a uno che non ha studiato per entrare nella nostra gilda.» «Cose che possono soltanto essere mostrate, o di cui si deve fare l'esperienza diretta. Io non sono nata nel tuo mondo, né lo sono la maggior parte dei ladri di sogni di questa sfera. Noi siamo vagabondi... nomadi, potresti dire, di molte epoche e molti posti. Noi abbiamo appreso che quello che è un sogno in un reame può essere realtà in un altro, e ciò che qui sembra normalissimo altrove può essere l'incubo più fantastico. «Tutta la creazione è così malleabile?» domandò Elric, con una smorfia. «Tutto ciò che creiamo lo è, finché non si distrugge» rispose lei, stringendosi nelle spalle.
«La lotta fra la Legge e il Caos rispecchia, allora, quella che c'è dentro di noi fra i sentimenti positivi e le emozioni sfrenate» disse Elric, divertito nell'intuire che quello delle emozioni sfrenate era un argomento che lei preferiva evitare. Oone seguì con la punta di uno stivale una spaccatura nel terreno. «Per saperne di più dovresti diventare un apprendista ladro di sogni.» «Non mi dispiacerebbe» disse Elric. «Ormai sono molto curioso, Dama Oone. Hai parlato di regole. Di che si tratta?» «Alcune istruiscono, altre descrivono. Comincerò col dirti che ogni Reame di Sogno ha sette aspetti, da noi individuati ciascuno col suo nome. Dando loro un nome che li descrive, noi contiamo di costringere ciò che non ha forma ad assumere una forma, e di avere un controllo su ciò che pochi riescono appena a controllare. Tramite queste imposizioni abbiamo imparato a sopravvivere in mondi dove altri sarebbero distrutti. Tuttavia, anche mentre operiamo queste imposizioni, può accadere che quanto la nostra volontà riesce a definire si trasformi uscendo dal nostro controllo. Se tu vuoi accompagnarmi e aiutarmi in questa impresa, devi sapere che io dovrò passare attraverso sette lande. La prima landa è chiamata Sanador, o la Landa dei Sogni in Comune. La seconda è Marador, detta anche la Landa dei Vecchi Desideri. La terza è Parador, la Landa delle Certezze Perdute. La quarta è nota ai ladri di sogni come Celador, la Landa degli Amori Dimenticati. La quinta è Imador, la Landa delle Nuove Ambizioni. La sesta è Falador, la Landa della Follia...» «Nomi affascinanti, Dama Oone, lo ammetto. La Gilda dei Ladri di Sogni annovera anche dei poeti, scommetto. E la settima? Come si chiama?» Lei non rispose subito. I suoi occhi scuri lo fissarono come se volessero scrutarlo fino in fondo all'anima. «Quella non ha nome» disse piano, «o ha il nome che i suoi abitanti le danno. Ma è là, e in nessun altro luogo, che tu troverai la Fortezza della Perla.» Elric si sentiva intrappolato da quello sguardo gentile ma fermo. «E come possiamo entrare in queste lande?» Per concentrarsi doveva ignorare gli spasimi con cui ogni cellula del suo corpo bramava un sorso dell'elisir del nobile Gho. Lei si accorse della sua tensione, e la mano che gli poggiò su una spalla fu un tentativo di calmarlo, di rassicurarlo. «Entreremo attraverso la fanciulla.» Elric ripensò a ciò che aveva visto nella Tenda Bronzea ed ebbe un brivido. «Come sarà possibile una cosa del genere?»
Oone aggrottò la fronte, e la sua mano si strinse. «Lei è la porta, e i bastoni del sogno sono le nostre chiavi. Non potremo farle del male in nessun modo, Elric. Quando avremo raggiunto il settimo aspetto, la Landa Senza Nome, tu ed io dovremo trovare la chiave per la sua particolare prigione.» «Dunque la fanciulla è un tramite, è così? È questo che le è successo? Credi che gli Avventurieri Stregoni, conoscendo questa sua facoltà, l'abbiano fatta andare in trance per arrivare alla Perla attraverso di lei?» Di nuovo Oone esitò, poi annuì. «Ci sei andato abbastanza vicino, Principe Elric. Nella nostra storia, anche se abbiamo molte storie e alcune sono inaccessibili per noi nelle biblioteche di Tanelorn, è scritto: «Ciò che sta all'interno ha sempre una forma all'esterno, e ciò che sta fuori ha sempre preso forma dentro.» In altre parole, ciò che è visibile ha sempre un aspetto invisibile, proprio come tutto l'invisibile deve sempre essere ancorato a qualcosa di visibile.» Elric trovò quel concetto troppo indecifrabile per lui, anche se gli erano familiari i giri di parole e la terminologia strana della negromanzia. Non le scartò affatto, comunque, conscio che occorreva riflettere e fare esperienze pratiche prima di capirne il senso a fondo. «Tu parli di reami supernaturali, Dama Oone. I mondi abitati dai Signori della Legge e del Caos, dagli elementali della terra, dai semidei e simili. Io so qualcosa di quei reami, e ho perfino viaggiato un poco in alcuni di loro. Ma non avevo mai sentito dire che si potesse lasciare indietro la forma fisica, per viaggiare in quei reami attraverso una fanciulla addormentata!» Lei lo guardò qualche momento, come se pensasse che stava facendo l'ingenuo. Poi scrollò le spalle. «Troverai che i reami dei ladri di sogni sono abbastanza simili. E ti consiglio di tenere a mente il nostro codice e non trasgredirlo mai.» «I tuoi ordini sono inderogabili, dunque, Dama Oone.» «Se vogliamo sopravvivere, sì. Alnac aveva l'istinto di un buon ladro di sogni, ma non si atteneva strettamente alla disciplina. Questa è stata una delle ragioni del suo fallimento. Tu però sai già quanto sia importante la disciplina, altrimenti non avresti potuto praticare la stregoneria. Senza un rigido rispetto delle regole, il negromante viene ucciso dai dèmoni che evoca.» «Queste sono cose che oggi rinnego, Dama Oone.» «Meglio per te. Ti credo. Ma suppongo che tu non abbia perso un certo atteggiamento mentale. O almeno lo spero. La prima regola a cui un ladro di sogni deve ubbidire, dice: «L'offerta di una guida deve essere sempre
accettata, ma non fidartene mai.» La seconda dice: «Attento a ciò che è familiare.» La terza: «Accetta ciò che è strano, ma con cautela.» Ce ne sono altre, ma un ladro di sogni che infrange una di queste tre non vive a lungo.» La ragazza sorrise. Con quell'espressione sembrava dolce e vulnerabile, ed Elric capì che era stanca. Forse il dolore l'aveva sfinita. Il melniboneano si volse a guardare le grandi rocce rossastre che proteggevano dal vento l'Oasi del Fiore d'Argento. Dalle tende non venivano molte voci, a quell'ora. Centinaia di spirali di fumo si levavano verso il cielo color indaco. «Quanto tempo vi occorre di solito per istruire un apprendista?» Lei colse l'ironia nel suo tono gentile. «Cinque anni o più» rispose. «Alnac era membro della gilda da sei anni.» «E dopo undici anni di pratica non è riuscito a sopravvivere nel reame dov'è prigioniero lo spirito della Vergine Sacra?» «Alnac era, nonostante le sue capacità, soltanto un essere umano, Principe Elric.» «E tu credi che io sia qualcosa di più?» Lei rise, divertita. «Tu sei l'ultimo Imperatore di Melniboné. Sei l'uomo più potente del tuo popolo, che è un popolo ben noto per la sua propensione alla stregoneria. Inoltre hai lasciato la tua sposa ad aspettarti, e messo tuo cugino Yyrkoon sul Trono di Rubino nelle vesti di Reggente fino al tuo ritorno... due decisioni che pochi oserebbero prendere. Di conseguenza non puoi venire a raccontarmi che sei un uomo comune.» Nonostante il suo tremendo bisogno di un sorso del velenoso elisir, Elric si trovò a ridere con lei. «Se pensi che io abbia delle doti notevoli, Dama Oone, come spieghi che mi sia fatto intrappolare da un piccolo politicante, che mi avvelena e mi usa per i suoi scopi?» «Non ho detto che sei più astuto di un politicante, mio signore. Ma sarebbe sciocco negare ciò che hai fatto, e ciò che potrai fare in futuro.» «L'idea di avere un futuro mi affascina assai più di quel che potrò fare.» «Pensa al destino della povera figlia di Raik Na Seem. Pensa al dolore di questi nomadi privati del loro oracolo, del loro simbolo. Pensa alla sorte che attende te, condannato a morte dalle manovre di un sordido politicante in una terra lontana, senza aver realizzato i tuoi ideali.» Elric dovette annuire, con una smorfia. Lei continuò: «È probabile che nel tuo mondo tu non abbia rivali come negromante. Benché queste capacità particolari non servano a niente nell'avventura che io ti ho proposto, la tua esperienza, il tuo atteggiamento
e la tua capacità di affrontare l'ignoto possono fare la differenza fra il successo e il fallimento.» Elric non aveva più voglia di parlare. Il bisogno di droga che torturava il suo corpo era ormai insopportabile. «Va bene, Dama Oone. Mi troverai d'accordo con tutte le tue decisioni.» Lei girò intorno a un cactus e lo guardò con distacco. «Meglio che torni alla tua tenda, ora, a bere quell'elisir» disse sottovoce. La disperazione che aveva tenuto a bada in quei giorni fece stringere i denti all'albino. «È quel che farò, Dama Oone. È quel che farò.» E detto questo s'allontanò a passi lunghi verso le tende dei Bauradim. Mentre s'addentrava nell'Oasi non rispose che con un distratto cenno del capo a chi lo salutava. Raik Na Seem non aveva toccato niente nella sezione della tenda che l'albino aveva diviso con Alnac Kreb; lui s'affrettò a togliere una fiasca dalla borsa da sella, bevve un lungo sorso e poté sentire, almeno per brevi momenti, il sollievo e il ritorno dell'energia, l'illusione di buona salute che la pozione del quarzhasaatiano gli dava. Con un sospiro si girò, giusto nel momento in cui Raik Na Seem entrava nel padiglione. Il vecchio venne verso di lui, accigliato, gli occhi colmi di un dolore che faticava a celare. «Hai accettato di aiutare la ladra di sogni, Elric? Cercherai di riportare fra noi la Vergine Sacra? Ormai non c'è più molto tempo. La Luna di Sangue tramonterà presto.» Elric poggiò la fiasca sul tappeto che copriva il suolo. Si chinò e raccolse la Spada Nera, che uscendo con Oone aveva deposto su una stuoia. La lama fremette fra le sue dita, e lui si sentì leggermente nauseato. «Farò ciò che mi è stato chiesto» disse. «Bene.» Il vecchio lo prese per le spalle. «Oone mi ha detto che sei un grande uomo con un grande destino, e questo è certo un momento importante nella tua vita. Per noi è un onore essere parte di questo destino, e ti siamo grati della tua premura...» Elric accettò le parole di Raik Na Seem con tutta la sua antica buona grazia. S'inchinò. «Sono del parere che la salvezza della vostra Vergine Sacra sia più importante della mia sorte. Farò tutto il possibile per riportarla fra voi.» Oone entrò, alle spalle del Primo Anziano dei Bauradim. Sorrise all'albino. «Sei pronto, ora?» Elric annuì e fece per agganciare alla cintura il fodero della Spada Nera. Oone lo fermò con un gesto. «Troverai nel posto in cui ci rechiamo le armi di cui hai bisogno.»
«Ma questa spada è più di una semplice arma, Dama Oone!» esclamò lui, irrigidendosi per l'apprensione. La ragazza gli porse il bastone dei sogni di Alnac. «Questo è tutto ciò che ti serve per la nostra avventura, Altezza Imperiale.» La Tempestosa mormorò con violenza quando Elric la lasciò sulla stuoia della tenda. Sembrava quasi minacciarlo, contrariata. «Io dipendo molto da...» cominciò lui. Lei scosse il capo, dolcemente. «Non è così. Tu credi che questa spada sia parte della tua identità, ma non è vero. È la tua nemesi. È la parte di te che rappresenta la tua debolezza, non la tua forza.» Elric sospirò. «Io non ti capisco, mia signora. Ma se tu vuoi che io non la porti con me, ti accontenterò.» Un altro suono, una sorta di grugnito aspro, venne dalla spada, ma Elric lo ignorò. Lasciò nella tenda sia l'arma che le fiasche dell'elisir e si avviò verso la staccionata a cui avevano legato i cavalli, per tornare di nuovo alla Tenda Bronzea. Durante il tragitto, mentre Raik Na Seem li precedeva, Oone affiancò il cavallo a quello di Elric e gli disse qualcosa di ciò che la Vergine Sacra significava per i Bauradim. «Come probabilmente hai già capito, la fanciulla conserva nella sua mente l'intera storia, la cultura e le aspirazioni dei Bauradim... la loro saggezza collettiva, potresti dire. Tutto ciò che hanno appreso e che per loro ha un valore è contenuto in lei. Sin da piccola è stata istruita per diventare anche la rappresentazione vivente di ciò che i nomadi erano un tempo, prima che fossero costretti a trasformarsi in abitanti del deserto. Se la perdessero, sono convinti che tutto il loro passato sarebbe perso, e che perciò la loro storia dovrebbe ricominciare daccapo... imparare di nuovo le lezioni duramente apprese, rivivere le esperienze, rifare gli errori che hanno dolorosamente insegnato la sopravvivenza a questo popolo negli ultimi millenni. Lei è la Storia, se vogliamo dir così... la loro biblioteca, il museo, la religione, la cultura personificata in un essere umano. Se morisse di malattia saprebbero come sostituirla, ma riesci a immaginare, Principe Elric, cosa vorrebbe dire per loro perderla in questo modo così anomalo? Lei è l'anima dei Bauradim, e quest'anima è imprigionata in un luogo dove soltanto chi ha certe capacità può rintracciarla, per non dire di quanto può essere difficile liberarla.» Elric toccò il bastone dei sogni che aveva sostituito la spada intarsiata di rune sul suo fianco sinistro. «Anche se fosse una ragazza qualsiasi, con
una famiglia angosciata per le sue condizioni, mi sentirei spinto a darle tutto l'aiuto possibile» disse, «perché la sua gente mi piace, e così suo padre.» «Il destino della fanciulla e il tuo sono collegati» disse Oone. «Quali che siano i tuoi sentimenti in merito, mio signore, credo che tu non abbia molta scelta.» Quelle parole non piacquero a Elric. «Io ho l'impressione, signora mia, che voialtri ladri di sogni la sappiate un po' troppo lunga sulla mia persona, sulla mia famiglia, sul mio popolo e sul mio destino. E non posso dire che la cosa mi rallegri. Sembra che tu ne sappia più di chiunque altro, a parte la mia promessa sposa, sui miei conflitti interiori. Come mai ti trovi in possesso di questi poteri divinatori e profetici o cos'altro sono?» Lei rispose in tono discorsivo: «C'è una landa che ogni ladro di sogni ha visitato. Laggiù tutti i sogni si intersecano, e vi si incontrano tutte le cose che gli uomini hanno in comune. Noi la chiamiamo la Landa della Nascita, dove l'umanità ha assunto per la prima volta realtà e sostanza.» «Questa è mitologia da popolazioni primitive!» «Mitologia dal tuo punto di vista. Verità per noi. E un giorno lo scoprirai tu stesso.» «Se Alnac poteva leggere il futuro, perché non ha atteso il tuo arrivo e il tuo aiuto?» «Di rado noi conosciamo il nostro destino; vediamo solo il movimento generale delle maree della storia, e delle figure che emergono dalla massa degli uomini. Tutti i ladri di sogni conoscono il futuro, questo è vero, perché metà della loro vita trascorre dove il tempo non c'è. Per noi non esistono il passato e il futuro, ma solo un presente in continua evoluzione. Noi siamo liberi da queste catene particolari, che legano invece tutti gli altri.» «Ho già letto di teorie simili, ma per me significano poco.» «Perché tu manchi delle esperienze che darebbero loro un maggiore significato.» «Tu hai parlato della Landa dei Sogni in Comune. La Landa della Nascita è lo stesso posto?» «Forse. I membri della mia gilda sono incerti su questo.» Provvisoriamente rinvigorito dalla droga Elric poteva concentrarsi sulla conversazione e la trovava interessante, anche se per buona parte gli sembrava troppo astratta. Senza la spada intarsiata di rune al fianco provava una leggerezza di spirito che gli ricordava i mesi in cui corteggiava Cymoril, in quegli anni relativamente sereni prima che le crescenti ambizioni di
Yyrkoon cominciassero ad avvelenare la vita di tutti alla Corte di Melniboné. Gli tornarono in mente dei particolari della storia del suo popolo. «Si dice spesso che il mondo è quello che i suoi abitanti vogliono che sia, nulla di meno e nulla di più. Ricordo di aver letto qualcosa del genere ne La Sfera Parlante: «Chi può stabilire quale sia il mondo interiore e quale quello esterno? Ciò che per noi è concreto può essere soltanto il frutto della nostra volontà, e ciò che chiamiamo sogno potrebbe essere la vera grande realtà.» Questa filosofia è vicina alla tua, Dama Oone?» «Abbastanza vicina» rispose lei, «ma alquanto vaga e imprecisa.» Continuarono a cavalcare chiacchierando a quel modo, come se fossero due colti commensali seduti a tavola, finché giunsero alla Tenda Bronzea. Il sole stava tramontando quando entrarono nella grande sala centrale, dove uomini e donne meditavano intorno al letto su cui giaceva la fanciulla che simbolizzava la loro esistenza stessa. A Elric parve che i bracieri e le lampade spargessero meno luce del giorno addietro, e che la giovinetta fosse più pallida, ma nel volgersi a Raik Na Seem si costrinse a mostrargli un'espressione fiduciosa. «Stavolta non falliremo» disse. Oone approvò il tono di Elric, e poi diresse le donne che accudivano Varadia mentre là fanciulla veniva deposta su un materasso imbottito abbastanza largo per tre persone, a sua volta sistemato su una spessa stuoia e circondato da mucchi di morbidi cuscini. Indicò poi all'albino di sdraiarsi sul lato destro della dormiente, e lei prese posizione alla sua sinistra. «Prendila per mano, Altezza Imperiale» disse Oone, usando quel titolo un po' ironicamente, «e poggia la parte curva del bastone dei sogni sulle vostre mani unite, come hai visto fare ad Alnac.» Elric provò una certa trepidazione nel fare ciò che l'altra diceva, ma non aveva paura per sé. Era preoccupato solo per la giovinetta e la sua gente, per Cymoril che lo aspettava a Melniboné, e per il ragazzo di Quarzhasaat che pregava di vederlo tornare col gioiello agognato dal suo carceriere. Con la mano sinistra stretta alla destra della fanciulla ebbe la sensazione che il bastone dei sogni lo unisse a lei in un contatto che, pur non spiacevole, bruciava di una strana fiamma fredda. Girandosi verso Oone la vide fare la stessa cosa. Subito sentì un potere estraneo impadronirsi di lui, e per qualche momento il suo corpo divenne leggero, così leggero che la brezza più lieve avrebbe potuto portarlo via. La vista gli si confuse, anche se poteva sempre
scorgere Oone. La ragazza appariva molto concentrata. Guardò il volto della Vergine Sacra e gli parve che la sua pelle si fosse sbiancata ancor di più. Gli occhi di lei erano diventati rossi come i suoi, e uno strano pensiero gli sovvenne: Se io avessi una figlia, avrebbe un aspetto simile a... E poi fu come se le sue ossa e la sua carne si fondessero, e la sua mente e il suo spirito si sciogliessero. Elric lasciò che quella sensazione s'impadronisse di lui, come aveva deciso di dover fare, poiché stava servendo gli scopi di Oone, e il suo corpo diventò fluido come l'acqua corrente, le vene piene di sangue furono solo strisce rosse nell'aria, il suo scheletro scorse via come il mercurio mescolandosi con quello della fanciulla ed entrò in lei, filtrando attraverso e oltre lei, in caverne e tunnel e golfi oscuri, in posti dove interi mondi esistevano entro la roccia vuota, dove voci lo chiamavano e lo conoscevano e cercavano di rassicurarlo o di spaurirlo, o di raccontargli verità che lui non voleva sapere. E poi l'aria acquistò di nuovo luce, e sentì Oone che lo guidava, tenendolo per mano, quasi uno stesso corpo con lui, parlandogli con il tono fiducioso e allegro di chi s'incammina verso pericoli che conosce bene, pericoli che ha sventato molte volte. E tuttavia in lei c'era una tensione da cui Elric comprese che la ladra di sogni, per quanto esperta, non aveva mai affrontato un rischio terribile come quello che avevano davanti, e che c'era la possibilità che loro due non tornassero mai più nella Tenda Bronzea e nell'Oasi del Fiore d'Argento. Poi intorno a loro nacque una musica, e lui seppe che si trattava della stessa anima della fanciulla trasformata in suono. Musica dolce e triste, che parlava di solitudine. Musica così bella che lui avrebbe pianto, se non fosse stato più incorporeo dell'aria. All'improvviso vide il cielo azzurro dinnanzi a sé, e un deserto color ocra che si estendeva fino all'orizzonte, chiuso da una catena di montagne rossastre. E fu in quel momento che ebbe la stranissima impressione d'essere tornato a casa, in una terra che lui aveva chissà come perduto nella sua infanzia e poi dimenticato. 7 Sulle piste intorno al Cuore Mentre sentiva le sue ossa tornare solide e la carne riassumere peso e forma intorno ad esse, Elric notò che il territorio in cui erano entrati non
sembrava molto diverso da quello che avevano lasciato. Davanti a loro c'era un deserto sabbioso, e in distanza si levavano montagne frastagliate dai toni rossicci. Era un panorama così familiare che Elric si girò, aspettandosi di vedere la Tenda Bronzea, ma con estremo stupore vide che subito dietro di lui si spalancava un abisso, così largo che l'estremità opposta era del tutto invisibile. L'improvvisa vertigine rischiò di fargli perdere l'equilibrio, e Oone rise delle sue imprecazioni. Vestita degli stessi pratici abiti da viaggio in seta e velluto con cui era arrivata all'Oasi, la ladra di sogni parve divertita dalla sua reazione. «Ah, Principe Elric, ora puoi veramente dire d'essere sull'orlo del mondo. Qui abbiamo soltanto tre direzioni da prendere; la quarta, quella che ci consentirebbe di tornare indietro, non è fra le nostre scelte.» «Me ne sono accorto, signora mia.» Nel guardare meglio quei monti Elric notò che erano assai più lontani e più alti di quel che aveva dapprima giudicato, ed avevano tutti la stessa inclinazione, quasi che fossero stati piegati da un vento terribile. «Sono come i denti di un immane carnivoro primevo» disse Oone, con la smorfia di chi era andato molto vicino a guardare dentro quel genere di zanne, in qualche periglioso momento della sua carriera. «A quanto pare, il primo stadio del nostro viaggio comincia da qui. E la regione che noi ladri di sogni chiamiamo Sanador, la Landa dei Sogni in Comune.» «Però mi hai dato l'impressione che questo panorama ti fosse ignoto.» «L'aspetto del territorio varia. Noi ne conosciamo soltanto la natura. I particolari possono cambiare. Ma i luoghi dove viaggiamo sono pericolosi non perché siano sconosciuti, bensì perché ci sono familiari. Questa è la seconda regola del ladro di sogni.» «Stai alla larga da quello che conosci.» «Proprio così, hai buona memoria.» Oone appariva compiaciuta di quella risposta, come se avesse dubitato della sua capacità di descrivere una cosa e ne avesse avuto la conferma dalle parole di lui. Elric cominciava a capire le difficoltà di quell'avventura, e in lui tornò quella selvaggia noncuranza, quella voglia di vivere l'attimo fuggente e fare qualsiasi esperienza, che lo differenziava tanto dagli altri nobili di Melniboné, le cui vite erano attanagliate alla tradizione e al desiderio di mantenere il potere ad ogni costo. Sorridendo, e con una vitalità nuova che gli brillava nello sguardo, l'albino s'inchinò alla compagna. «Quand'è così, Dama Oone, fammi strada! Che il nostro viaggio verso la Catena delle Zanne abbia inizio!»
Un po' stupita dai suoi modi Oone corrugò le sopracciglia. Ma poi s'incamminò a passi svelti. La sabbia era così fine che ruscellava come acqua intorno ai suoi stivali. Elric le tenne dietro. «Devo ammettere» le disse quando marciavano ormai da un'ora e la lunghezza delle loro ombre non era aumentata di un dito, «che più tempo sto in questo posto, e più mi lascia perplesso. Poco fa ero convinto che il sole fosse velato da una foschia, ma ora mi accorgo che nel cielo non c'è nessun sole.» «Anormalità di questo tipo vanno e vengono, nella Landa dei Sogni in Comune» lo informò Oone. «Mi sentirei più sicuro con la mia spada al fianco.» «Le spade non sono difficili da reperirsi, qui» disse lei. «Spade bevitrici di anime?» «Forse. Ma senti davvero il bisogno di sostentarti in quel modo peculiare? Hai voglia di bere la droga del nobile Gho?» Elric ammise con sorpresa che ancora non gli sembrava di aver perso energia. Per la prima volta da quand'era adulto aveva l'impressione d'essere fisicamente come tutti gli altri, in grado di ristorare le sue forze senza ricorrere a qualche artificio esterno. «Mi viene da pensare» disse poi, «che per me non sarebbe una cattiva idea mettere su casa da queste parti.» «Ah, ecco che ora mi sembri caduto in un'altra delle trappole di questo reame» gli annotò in tono discorsivo Oone. «Prima il sospetto e magari la paura. Poi ti rilassi, senti di appartenere a questo luogo e lo vedi come la patria che potresti adottare, o ne avverti il richiamo spirituale. Sono sensazioni comuni a chi viaggia, come certo sai già. Ma qui bisogna opporre resistenza alle sensazioni, perché sono qualcosa di assai più insidioso: possono essere trappole messe per adescarti e distruggerti. Sii lieto di avere un'energia fisica maggiore del solito, ma tieni presente un'altra regola del ladro dei sogni: «Ogni vantaggio lo paghi. O prima o dopo averlo avuto.»» Elric si disse che qualunque fosse il prezzo per quel senso di benessere valeva la pena di pagarlo. Fu in quel momento che vide la foglia. Stava svolazzando sopra la sua testa ed era una larga foglia di quercia dai toni dorati, che cadeva con la leggerezza di ogni foglia autunnale staccatasi da un ramo, e atterrò sulla sabbia davanti ai suoi piedi. Senza trovarci nulla di straordinario, almeno in un primo momento, lui si chinò a raccoglierla. Oone, che lo aveva visto, ebbe dapprima un gesto come per fermarlo;
poi cambiò idea. Elric tenne la foglia sul palmo di una mano e la guardò. Non aveva nulla di particolare, salvo che in vista non c'era neppure un albero. Stava per chiedere a Oone una spiegazione di quel fenomeno, quando s'accorse che la ragazza guardava qualcosa dietro di lui. «Buona giornata a voi» disse una voce allegra. «È una felice combinazione incontrare due viaggiatori in una terra così desolata. Quale capriccio della Ruota vi conduce in questi luoghi?» «Salve a te, signore» rispose Oone con un sorriso. «Devo dire che indossi vesti poco adatte al deserto che attraversi.» «Per il vero, non mi è stata detta né la mia destinazione né che stavo lasciando...» Elric s'era voltato di scatto, e vide che a pochi passi da loro c'era un ometto segaligno il cui volto magro, dall'espressione gaia, era ombreggiato da un gran turbante di seta gialla. Il voluminoso copricapo, più largo delle sue spalle, era ornato di una grossa gemma verde la cui montatura sorreggeva tre belle piume di fagiano. Indosso sembrava avere diversi strati di abiti tutti molto colorati, di seta e di lino, compresa una larga fascia ricamata alla cintura, e sul tutto una blusa assai elegante di stoffa azzurra, con bordi e cuciture in ogni sfumatura di quel colore. I pantaloni erano di seta rossa, e ai piedi portava babbucce verdi e gialle con un'alta punta ricurva. Era disarmato, ma in braccio aveva un gatto bianco e nero dal cui dorso spuntava un paio di lucide ali nere. L'ometto s'era inchinato a Oone e fece lo stesso con Elric. «I miei rispetti, caro signore. Lei è, devo presumere, l'incarnazione del Campione di questo piano. Io sono...» Si accigliò un istante, come se avesse dimenticato il suo nome. «Io sono qualcosa che comincia con la «J» e qualcosa che comincia con la «C». Mi tornerà a mente fra poco, ne sono certo, o quel nome oppure un altro. E sono anche il vostro... come si dice, uh, amanuense?» Indicò il cielo. «Questo è uno di quei mondi senza sole, pare. Non avremo neppure la notte, eh?» Elric guardò Oone, che non si mostrava insospettita o contrariata da quell'apparizione. «Io non ho chiesto un segretario, signore» disse all'ometto. «Né mi aspetto che me ne venga assegnato uno. Il mio compagno e io siamo in questo mondo per una ricerca...» «Sì, una ricerca, ovviamente. È il vostro ruolo, così come il mio è di accompagnarvi. È tutto regolare, signori. Io mi chiamo...» Ma di nuovo il suo nome lo eluse. «Il vostro è?»
«Questa dama è Oone, la ladra di sogni. Io sono Elric di Melniboné.» «Ah. Dunque devo supporre che questa sia la landa che i ladri di sogni chiamano Sanador. Quand'è così, il mio nome è Jaspar Colinadous. E il mio gatto è Baffo, come sempre.» A quella presentazione il gatto diede voce ad alcuni mormorii che sembravano avere un preciso significato, e che il suo padrone ascoltò con attenzione, annuendo. «Ora riconosco questa landa» disse l'ometto. «Voi cercate la Porta Marador, eh? Per la Landa dei Vecchi Desideri?» «Anche tu sei un ladro di sogni, messer Jaspar?» domandò Oone, un po' sorpresa. «Ma come sei arrivato qui?» lo interrogò Elric. «Attraverso un medium? Hai usato anche tu una persona in carne e ossa, come noi?» «Messere, le tue parole sono misteriose per me.» Jaspar Colinadous si aggiustò meglio il turbante, mentre il gatto gli stava accovacciato su un avambraccio, gli artigli confitti nella manica di seta. «Io viaggio fra i mondi, in apparenza a caso, ma in realtà sospinto da forze che non capisco, e spesso mi trovo ad accompagnare o a fare da guida ad avventurieri quali voi sembrate. Non che io» aggiunse, sospirando, «sia sempre abbigliato in modo appropriato a quel reame, o al momento del mio arrivo. A quanto pare stavo sognando d'essere il sultano di qualche fiabesca città, padrone di tesori meravigliosi, ed ero servito nelle mie necessità intime da incantevoli...» Arrossì e distolse lo sguardo da Oone. «Scusatemi. Nel sogno ero vestito. Ora mi sono svegliato. Sfortunatamente gli abiti mi hanno seguito dal sogno a qui...» Elric pensava che quell'individuo stesse vaneggiando, ma per Oone le sue parole sembravano avere un senso. «Tu conosci la strada per la Porta Marador, dunque?» gli chiese. «Dovrei conoscerla, se questa è la Landa dei Sogni in Comune.» Si spostò il gatto su una spalla e cominciò a frugarsi in tutte le tasche della blusa, in quelle della camicia, nelle maniche e nei calzoni, tirandone fuori uno stupefacente assortimento di foglietti, di piccoli libri, scatolette, calamai, carte assorbenti, alcune penne d'oca, pennini, pezzi di spago e trecce di tabacco, finché la vista di un rotolo di pergamena gli strappò un'esclamazione di gioia. «Eccola qui... o almeno credo! La nostra mappa.» Ripose tutti gli altri oggetti nelle stesse tasche da cui li aveva estratti e srotolò la pergamena. «Proprio così. Proprio così. Questa ci indica la strada fra le montagne più vicine.»
«L'offerta di una guida...» citò Elric. «E attento alle cose familiari» disse sottovoce Oone. Poi scosse il capo. «Qui abbiamo già un conflitto, come puoi vedere, perché ciò che è sconosciuto a te è familiare a me. La cosa è parte della natura di questa landa.» Si rivolse a Jaspar Colinadous. «Messere, posso vedere la tua mappa?» L'ometto gliela consegnò senza esitare. «Una strada dritta. È sempre la strada più dritta, eh? E ce n'è soltanto una. Questo è il bello dei Reami del Sogno. Uno può interpretarli e controllarli con un semplice metodo. A meno che, ovviamente, essi non lo inghiottano in un boccone. Cosa che sono fin troppo portati a fare.» «Tu hai un vantaggio su di me» gli disse Elric, «perché io non so niente di questo mondo. Non sapevo neppure che ce ne fossero altri dello stesso genere.» «Ah, allora devi prepararti a molte meraviglie, caro signore! Ne vedrai, di cose straordinarie! Io te ne parlerei volentieri, ma la mia memoria non è mai quella che dovrebbe essere. Ciò che ricordo continua a cambiare. Ma c'è un'infinità di mondi, alcuni dei quali non ancora nati, altri che stanno morendo di vecchiaia, non pochi fatti solo di sogni, e qualcuno distrutto dagli incubi.» Jaspar Colinadous assunse un'espressione di scusa. «Ma il mio entusiasmo mi fa straparlare. Io non voglio confonderti le idee, caro signore. Sappi anzi che sono più confuso di te. Lo sono sempre. La mia mappa ha un senso per te, dama ladra di sogni?» «Sì.» Oone consultava la pergamena, con faccia aggrondata. «C'è solo un passo attraverso queste montagne, che sono chiamate le Zanne dello Squalo. Se presumiamo che questa catena di monti si trovi a nord rispetto a noi, allora dobbiamo andare a nord-est e trovare la Gola dello Squalo; questo è il nome scritto qui. Ti siamo molto obbligati, messer Jaspar.» Arrotolò la mappa e gliela restituì. L'oggetto disparve in una manica dell'ometto e il gatto Baffo tornò ad accovacciarsi sul suo braccio, ronfando. Per un poco Elric aveva supposto che quel piacevole individuo fosse stato evocato dall'immaginazione di Oone anche se, vista la sua complessità e originalità, non poteva escludere che fosse una persona reale. In effetti l'albino stava cominciando a chiedersi se lui stesso non fosse una creatura di sogno. «Vi accadrà di notare che sul passo ci sono dei pericoli» disse Jaspar in tono discorsivo, incamminandosi con loro. «Quando saremo più vicini lascerò che Baffo vada in esplorazione per noi, se volete.» «Te ne saremo molto obbligati, messere» disse Oone.
Continuarono il loro viaggio a piedi in quel territorio arido e desolato, distratti dalle chiacchiere di Jaspar Colinadous che parlava delle sue avventure (che ricordava solo in piccola parte) delle persone che aveva conosciuto (i cui nomi gli sfuggivano) e degli importanti momenti a cui era stato presente nella storia di molti mondi (dei quali non rammentava perché fossero importanti). Ascoltare i suoi racconti era come percorrere i vecchi corridoi in rovina di Imrryr, sull'Isola del Drago, sulle cui grandi finestre dai vetri dipinti erano un tempo raffigurate le storie dei grandi melniboneani del passato e di come essi erano giunti nella nuova patria. Ora di quei vetri restavano soltanto schegge, frammenti della storia, vividi particolari il cui contesto poteva essere immaginato vagamente ed era ormai perduto per sempre. Elric smise di seguire la conversazione di Jaspar Colinadous ma, come aveva appreso a fare con quei frammenti di vetro, lasciò che quei pochi dettagli lo divertissero coi loro colori e la loro tecnica artistica. L'intensità della luce aveva però cominciato a fargli dolere gli occhi, e alla fine interruppe le chiacchiere dell'ometto per chiedergli se anche lui ne fosse infastidito. Jaspar Colinadous colse quell'occasione per fermarsi e sfilarsi le pantofole, da cui scosse fuori la sabbia, mentre Oone li aspettava poco più avanti con aria impaziente. «No, signore. I mondi supernaturali sono di frequente senza sole, poiché non ubbidiscono alle leggi fisiche a noi note. Possono essere piatti, emisferici, concavi, discoidali, perfino cubici. Essi esistono solo come satelliti di quei reami che noi definiamo «reali», e di conseguenza il loro ordine interno non comprende un sole o una luna o un sistema planetario, bensì dipende dalle richieste (spirituali, filosofiche, stregonesche e via dicendo) di quei mondi che hanno bisogno di un sole che li scaldi e di una luna che muova le loro maree. Una teoria dice invero che sono i nostri mondi ad essere satelliti, mentre questi reami supernaturali sono il luogo di nascita di tutte le nostre realtà.» Con le pantofole finalmente libere dalla sabbia Jaspar Colinadous riprese a marciare sulle orme di Oone, che troppo impaziente per aspettarli ancora aveva preso una trentina di passi di vantaggio. «Forse questa è la landa governata da Arioch, il mio patrono, Duca dell'Inferno» disse Elric. «La landa da cui proviene la Spada Nera.» «Oh, non si può escludere. Principe Elric. Perché, vedi, c'è una creatura infernale che in questo stesso momento sta piombando sulla tua amica, e noi non abbiamo neppure un'arma!» L'uccello a tre teste doveva aver volato a grande altezza fino a poco pri-
ma per nascondere il suo avvicinamento, ma adesso s'era gettato in picchiata a terribile velocità e Oone, avvertita dalle grida di Elric, cominciò a correre, forse nella speranza di attirare la sua attenzione su di lei. Sembrava un corvo gigantesco, con le due teste laterali incassate fra le spalle e quella centrale protesa più in avanti, le ali spalancate e gli artigli allargati pronti per ghermire la giovane donna. Elric prese a correre in quella direzione, agitando le braccia e urlando. Si augurava che la sua iniziativa distraesse la creatura abbastanza da farle cambiare rotta e sbagliare bersaglio. Con un terrificante squittio che parve riempire tutto il cielo, il mostro rallentò un poco la picchiata allo scopo di arrivare con maggior precisione addosso alla ragazza. Fu allora che Jaspar Colinadous gridò, alle spalle di Elric: «Jack Tre Becchi, stupido uccello, sei diventato orbo?» Il volatile ondeggiò nell'aria mentre girava tutte e tre le teste verso l'ometto col turbante che avanzava a passi fermi sulla sabbia. Il gatto fra le sue braccia aveva rizzato il pelo. «Che ti prende, Jack? Credevo che ti fosse stato proibito toccare gli esseri viventi!» Il tono di Jaspar Colinadous era altezzoso, irritato. Baffo soffiava e mostrava i denti al grande uccello nero, esibendo un'audacia che contrastava con le sue dimensioni. Con uno squittio di sfida il corvo a tre teste atterrò sulla sabbia, e usando le zampe invece delle ali partì di gran carriera verso Oone, che all'intervento di Jaspar Colinadous s'era voltata per guardare cosa succedeva. La ragazza riprese a fuggire, col terribile uccello alle calcagna. «Jack! Jack! Ricorda la punizione!» Lo squittio del volatile fu quasi sprezzante. Elric corse da quella parte più svelto che poté, sperando di trovare un modo per salvare la ladra di sogni. Fu allora che sentì un rapido frullio d'ali, mentre un'inaspettata corrente d'aria fresca gli sfiorava la testa, e alzando gli occhi vide una forma scura volare velocemente verso il mostro che Jaspar Colinadous aveva chiamato Jack Tre Becchi. Era il gatto bianco e nero di nome Baffo. Il piccolo felino alato piombò sul collo del gigantesco volatile e gli affondò gli artigli fra le penne. Stridendo furiosamente il corvo si girò da una parte e dall'altra, mentre ciascuna delle sue tre teste cercava senza riuscirci di colpire l'aggressore col becco.
Con stupore di Elric il gatto sembrava diventare più grosso a ogni istante, come se si nutrisse della vitalità del volatile, mentre quest'ultimo rimpiccioliva a vista d'occhio. «Stupido Jack Tre Becchi! Scemo di un uccellaccio!» La figuretta di Jaspar Colinadous, ridicolmente piccola e indifesa a confronto del mostruoso corvo, si fermò dinnanzi a lui agitando un dito ammonitore, che la bestiaccia minacciò con alte strida ma non osò colpire. «Eri già stato avvisato. E ora dovrai morire. Come hai fatto ad arrivare qui? Hai seguito me, suppongo, quando ho lasciato il mio palazzo fiabesco.» Si grattò la testa. «Non che io riesca a ricordare di aver lasciato il palazzo. Oh, be'...» Jack Tre Becchi squittì ancora, girandosi a fissare con pupille colme di nera furia omicida la preda che aveva adocchiato. Oone si stava avvicinando di nuovo. «Questo grosso uccello è un tuo animale da compagnia, messer Jaspar?» «Certamente no, mia signora. È un mio nemico. Sapeva di aver avuto un ultimatum, ma credo che non si aspettasse di trovarmi qui e supponesse di poter aggredire prede vive impunemente. Non è così, eh, Jack?» Il gracidio di risposta fu quasi patetico, ora. Il piccolo gatto volante avrebbe potuto essere un pipistrello vampiro, da come succhiava e assorbiva la vita del mostro. Oone restò a guardare inorridita mentre il corvo si riduceva a una piccola forma nera e vuota, immobile. Seduto sui suoi resti, enorme e grasso, Baffo cominciò a ripulirsi il muso ronfando con felina soddisfazione. Jaspar Colinadous andò a grattarlo dietro un orecchio, palesemente compiaciuto. «Ottimo lavoro, Baffo. Ora il nostro Jack non infastidirà più i viaggiatori indifesi.» Si volse a sorridere ai due compagni, con orgoglio. «Questo gatto mi ha salvato la vita in non poche circostanze.» «Come mai avevi dato un nome a quel mostro?» volle sapere Oone. Il suo bel viso era arrossato, e aveva ancora il fiato grosso. Qualcosa in lei ricordò Cymoril ad Elric, anche se non avrebbe saputo dire esattamente cosa. «Be', questo insulso volatile era la minaccia più irritante per la provincia in cui mi trovavo prima di venire qui.» Jaspar Colinadous indicò i suoi ricchi vestiti. «Devo a lui se ho avuto tangibili segni di gratitudine dalla gente di quella terra. Jack Tre Becchi conosceva già il potere di Baffo, e aveva imparato a temerlo. Quando io sono arrivato là stava terrorizzando i popolani. Io gli ho dato una bella lezione (o meglio, gliel'ha data Baffo) ma l'ho lasciato vivere, dato che era un mangiatore di carogne e anche lui avrebbe
potuto svolgere una funzione utile, specialmente col calore dell'estate. Quando sono caduto attraverso quella particolare falla nel tessuto del multiverso il corvaccio deve aver seguito lo stesso percorso, senza immaginare che io e Baffo fossimo già qui. C'è un certo mistero nell'intera faccenda, Dama Oone.» Lei allargò le braccia. «Be', ti sono grata dell'aiuto, messere.» Lui s'inchinò. «Ora non sarebbe saggio continuare a dirigerci verso la Porta Marador? Dinnanzi a noi si parano altri, seppure non troppo inaspettati perigli, nella Gola dello Squalo. La mappa li enumera.» «Vorrei avere un'arma appesa al fianco» sospirò Elric. «Mi sentirei più sicuro, anche se fosse soltanto un'illusione.» Ma poi non disse altro e riprese la marcia con gli altri due, in direzione delle montagne. Il gatto era rimasto indietro a leccarsi i baffi e completare la sua igiene personale, simile in tutto a un qualsiasi felino domestico che avesse appena tolto di mezzo un topo particolarmente nocivo. Il terreno prese finalmente a salire e si avviarono su per le pendici inferiori delle Zanne di Squalo. Da lì a poco videro più avanti una spaccatura alta e stretta, piena d'ombra, che si apriva fra due montagne: la Gola, che li avrebbe condotti su verso la landa successiva del loro viaggio. Visto dal deserto arido e caldo, il passo montano appariva più fresco, quasi attraente, anche se fin da lì Elric poteva vedere delle minuscole figure che si muovevano lontano. Ombre bianche fremevano sullo sfondo scuro della Gola. «Che razza di individui abitano in questa zona?» domandò a Oone, che non gli aveva fatto vedere la mappa. «Soprattutto gente che ha perso la strada, o che ha troppa paura per proseguire il viaggio verso l'interno. L'altro nome della zona che porta al passo è la Valle degli Animi Timorosi.» Oone scrollò le spalle. «Sospetto però che non saranno costoro a darci dei fastidi. Almeno, non gravi. Mirano piuttosto ad allearsi con il potere che domina il passo.» «E la mappa non indica la natura di questo potere?» «Dice solo che bisogna andare molto cauti.» Nell'aria dietro di loro ci fu un rumore ed Elric si girò di scatto, aspettandosi una minaccia; ma era soltanto Baffo, tornato alle sue dimensioni normali, o forse un po' più grassottello, che arrivava in volo a ricongiungersi con loro. Jaspar Colinadous rise e lasciò che il gatto gli si appollaiasse su una spalla. «Non abbiamo nessun bisogno di portarci dietro delle armi, giusto? Non con un bel gattone come questo che ci protegge.»
Il felino gli leccò una guancia. Elric continuava a sbirciare nell'oscurità della gola, per capire cosa poteva aspettarli lassù. Per un momento gli parve di vedere un cavaliere all'ingresso della grande spaccatura, un uomo in arcioni a un destriero dalla criniera argentea, con indosso un'armatura di tipo inconsueto, bianca e grigia e gialla. Mentre il quadrupede indietreggiava e il cavaliere spariva nell'ombra Elric ebbe la netta sensazione di conoscerlo, benché non avesse mai visto quelle armi e quei colori. Oone e Jaspar Colinadous non mostrarono di aver notato quella figura e continuarono a marciare di buon passo verso la gola. Sul duro terreno in salita era adesso evidente una pista abbastanza battuta. Elric non disse nulla del cavaliere, ma domandò a Oone come mai stavano camminando da molte ore e non provavano stanchezza né fame. «È uno dei vantaggi di questo reame» rispose lei. «Ci sono però anche dei considerevoli svantaggi, poiché qui uno perde il senso del tempo e può dimenticare la strada, o i suoi scopi. Dobbiamo tenere bene a mente, tuttavia, che se non abbiamo l'impressione di essere affamati o a corto d'energia fisica, stiamo consumando energie di altro genere. Saranno soltanto psichiche e spirituali, ma sono preziose, come tu capirai di certo. Conserva quelle energie, Principe Elric, perché fin troppo presto ne avrai bisogno!» Elric si chiese se anche la ragazza avesse visto il cavaliere pallido, ma per una ragione che non seppe spiegarsi era riluttante a domandarglielo. Le alture li sovrastavano da tutti i lati, ora che la pista si addentrava nella Gola dello Squalo. C'era meno luce di quanto si sarebbe potuto credere, sul fondo di quel canalone, ed Elric sentì un brivido che non era dovuto affatto alla frescura ombrosa. Mentre salivano verso la Gola ci fu uno scalpiccio, e l'albino vide Jaspar Colinadous che prendeva la corsa su per un monticello. L'ometto li sorpassò e andò a guardare giù dal dirupo che avevano di fronte. Quando si girò verso di loro ebbe un gesto di stizza. «La strada è sbarrata da un profondo burrone, in fondo al quale scorre un fiume. Per proseguire bisogna trovare un ponte» disse. Mormorò qualcosa al suo gatto alato, che immediatamente prese il volo sopra l'abisso e scomparve nell'ombra fra le rupi. Costretto a fermarsi Elric ebbe qualche minuto per riflettere, e si accorse che quella situazione non gli piaceva affatto. Incapace di capire la sua mancanza di bisogni fisiologici, roso dall'incertezza per ciò che stava accadendo nel mondo che avevano lasciato, conscio che il tempo passava e che il nobile Gho avrebbe potuto sfogare il suo nervosismo torturando a
morte Anigh, cominciò a pensare che era stato uno stupido a imbarcarsi in quell'impresa per compiacere un capotribù nomade, soprattutto quando aveva già visto come poteva finire tragicamente anche per un esperto. Si chiese se non fosse stata una stregoneria a indurlo a fidarsi così di quella ladra di sogni, Oone, che lui non conosceva neppure. Forse era stato tanto sconvolto dalla morte di Alnac Kreb da perdere di vista le necessità più razionali... Una mano gli toccò una spalla. Oone lo stava scrutando. «Tieni a mente quello che ho detto, Principe: la tua stanchezza non è fisica, però si manifesta in altri modi, nell'umore e nelle energie mentali. Qui bisogna cercare assistenza spirituale, come altrove cercheresti cibo e acqua.» Lui la guardò negli occhi e vide il suo calore umano, la sua amicizia. Subito sentì che il malumore si dissolveva. «Devo ammettere che cominciavo ad avere forti dubbi...» «Quando queste sensazioni s'impadroniscono di te, dimmelo senza esitare» gli raccomandò la ragazza. «Io so bene come insorgono, e posso aiutarti a liberartene.» «Dunque sono anima e corpo nelle tue mani, Dama Oone» disse lui, con serietà. «Pensavo che l'avessi capito, quando hai accettato di venire con me» rispose pacatamente lei. «Sì.» Elric si volse, giusto in tempo per vedere il gatto che atterrava su una spalla di Jaspar Colinadous. L'ometto si aggiustò il turbante colpito da un'ala e ascoltò i mugolii di Baffo con attenzione. Elric non poteva dubitare che il felino gli stesse parlando in un linguaggio comprensibile. Dopo quel breve rapporto Jaspar Colinadous annuì. «C'è un buon ponte a neppure un quarto di lega da qui, e da esso parte una pista che conduce su verso il passo. Baffo mi dice che a guardia del ponte c'è un guerriero a cavallo. Possiamo senz'altro sperare, a mio avviso, che costui ci lasci passare senza fare difficoltà.» Seguirono la riva del fiume verso sinistra, mentre il cielo su di loro si faceva sempre più scuro ed Elric si augurava che, così come non avvertiva la stanchezza e la fame, non avrebbe sofferto per la temperatura che continuava ad abbassarsi. Invece da lì a poco cominciò a tremare di freddo. L'unico che sembrava a suo agio era Jaspar Colinadous. Le muraglie che si alzavano quasi verticalmente intorno a loro delimitavano un canyon dall'andamento ricurvo, e da lì a poco i tre viaggiatori videro il ponte: una stretta sporgenza naturale di roccia grigia che sormonta-
va il baratro, in fondo al quale spumeggiavano le rapide di un fiume. L'unico rumore della zona era il rombo delle acque che consumavano le pareti d'arenaria. La sentinella di cui aveva riferito il gatto non si vedeva da nessuna parte. Elric prese la testa e avanzò con cautela, accennando agli altri di restare indietro. Un'arma lo avrebbe fatto sentire più sicuro. Giunse al ponte e vi poggiò sopra un piede. Molto più in basso il rumore delle acque aveva un tono strano, in cui vibravano note di trionfo e altre di disperazione, come se il fiume fosse una creatura vivente. Elric fece una smorfia, insospettito, e avanzò di un altro passo. Ma fra le ombre della sponda opposta non si scorgeva un'anima. Un terzo passo lo portò sullo stretto passaggio aereo, e lì dovette fare uno sforzo per non guardare giù. Le acque sembravano chiamarlo. Da quel fiume emanava uno strano fascino, e lui si rese conto che se fosse rimasto lì a guardarlo e ad ascoltarne il rumore avrebbe potuto restarne ipnotizzato... e attirato a gettarsi nel vuoto. «Vedi qualcuno di guardia, Principe Elric?» gli gridò Jaspar Colinadous. «Nessuno» gridò di rimando lui, e fece un altro passo. Dietro di lui era venuta Oone, che lo seguì con la stessa cautela. Lui avanzò, scrutando attentamente l'altro lato del ponte. Sopra di loro si levavano grandi lastroni di roccia nuda, qua e là chiazzata da licheni, e rupi che sparivano in un cielo annebbiato da foschia scura. Miste al rumore del fiume gli pareva ora di udire voci umane, tonfi metallici, esclamazioni, scalpiccio di piedi, ma continuava a non vedere niente. Quando giunse a metà del ponte Elric scorse il vago profilo di un cavallo nelle ombre che riempivano la gola, e in groppa ad esso la forma chiara di un cavaliere abbigliato con vesti e armi biancastre. «Chi è là?» gridò l'albino, aguzzando gli occhi. «Fatti avanti, messere. Noi veniamo in pace, e non facciamo del male a nessuno.» Forse fu soltanto l'acqua, ma gli sembrò di avere in risposta una risatina sgradevole, sprezzante. Poi fra le rocce echeggiò un rumore diverso, e sopra il ruggito del fiume lui udì il tonfo sonoro di zoccoli sulla roccia nuda. Come se avesse preso forma dalla nebbia e dall'ombra un guerriero a cavallo apparve all'altro capo del ponte, al galoppo, diretto verso di loro e con uno spadone bianco sollevato e pronto a colpire. Voltarsi e scappare via era impossibile. L'unico modo per evitare l'assalto era di gettarsi giù dal ponte, nelle acque spumeggianti. Elric si rese con-
to che sarebbe stato difficile spostarsi sul lato opposto alla spada, evitare il fendente e aggrapparsi ai finimenti del cavallo, ma non c'era altro metodo per fermarne l'impeto e dare a Oone la possibilità di fuggire fra le rocce. Ad un tratto ci fu di nuovo un frullare d'ali e una piccola forma bianca e nera piombò sull'elmo del guerriero, colpendolo dritto in faccia. Era Baffo, che soffiava e graffiava con la furia che un comune felino avrebbe avuto solo se stretto all'angolo da un branco di cani. Il cavallo rallentò. Gridando di rabbia e di dolore il guerriero lasciò le briglie, per avere una mano libera con cui strapparsi via dalla faccia il gatto inferocito. Baffo fu invece svelto a balzare in volo, e si spostò fuori portata. Elric vide due occhi argentei, scintillanti, una pelle deformata dalle rughe e dai bubboni della lebbra, ma subito dopo il cavallo scivolò sulla roccia umida, cercò vanamente una presa con gli zoccoli e cadde di lato. Per qualche momento sembrò ancora che forse ce l'avrebbe fatta, mentre il cavaliere urlava come un animale impazzito agitando la lunga spada bianca. Poi entrambi si rovesciarono oltre il bordo del ponte di roccia e piombarono giù, caotico intreccio di arti umani e zampe, verso le rapide turbinanti del corso d'acqua. Il tonfo con cui scomparvero nella schiuma non si udì neppure. Elric stava ansimando come se avesse corso. Jaspar Colinadous venne accanto a lui e lo tenne fermo per un braccio, poi l'ometto prese per mano Oone e li aiutò a tenersi in equilibrio sullo stretto ponte finché furono in salvo sull'altra sponda. «Ringrazia Baffo da parte mia, messer Jaspar» disse Elric con un sogghigno, ancora incredulo per avercela fatta. «È piuttosto utile, per essere un gatto.» «È più utile di quello che credi» disse l'ometto con enfasi. «Ha giocato un ruolo importante nella storia di più di un mondo.» Alzò una mano ad accarezzare il felino appollaiato sulla sua spalla, che ronfava soddisfatto. «È un piacere esservi utile, comunque.» «Be', del guardiano del ponte ce ne siamo liberati.» Elric gettò un'altra occhiata al fiume, poi tornò a guardare avanti. «Saremo ancora aggrediti da avversari così irragionevoli, Dama Oone?» «È più che probabile» disse lei. Aveva corrugato la fronte, come distratta da pensieri poco piacevoli. Un centinaio di passi più avanti Jaspar Colinadous si mordicchiò un labbro. «Ahimè» disse, «guardate come la gola si restringe. Qui diventa un tunnel.»
Era vero. Le rocce si inclinavano verso il centro, riducendo il passaggio a una caverna così bassa che un uomo alto come Elric poteva entrarci a stento senza chinare la testa. C'erano alcuni rozzi gradini che conducevano all'ingresso, e nel buio interno si vedeva ogni tanto qualche lontano lucore giallastro, come se il luogo fosse illuminato da torce. Jaspar Colinadous fece un sospiro. «Avevo sperato di viaggiare con voi ancora per qualche tempo, ma ora devo tornare indietro. Questa sembra la Porta Marador, e io non posso oltrepassarla. Se ci provassi sarei distrutto. Credo proprio che dovrò trovare altri compagni, nella Landa dei Sogni in Comune.» Sembrava sinceramente dispiaciuto. «Addio, Dama Oone. Lieto di averti conosciuto, Principe Elric. Vi auguro di uscire vivi da questa avventura.» Detto questo l'ometto col turbante si volse e tornò a passi svelti verso il ponte, senza mai voltarsi indietro. Li aveva abbandonati non meno all'improvviso di come s'era unito a loro, e prima che gli altri due potessero dir parola lui e il suo gatto erano scomparsi fra le ombre. Oone parve trovare del tutto normale quella defezione, e allo sguardo interrogativo di Elric rispose: «Questi personaggi vanno e vengono. Un'altra regola che i ladri di sogni devono imparare è: «Non portarti dietro nulla, fuorché la tua anima.» Ne capisci il motivo?» «Io capisco solo che un ladro di sogni finisce per essere una persona molto sola, signora mia.» E con quelle parole Elric cominciò a salire gli alti e consunti scalini di granito che conducevano alla Porta Marador. 8 Le meraviglie delle caverne più profonde Non avevano fatto che una ventina di passi nel tunnel quando il percorso cominciò a scendere rapidamente. Da lì a poco l'aria, che più in alto era stata fredda, si fece così calda e umida che Elric se la sentiva appiccicare addosso come una nebbia. Le piccole fonti di luce che lui aveva creduto torce o lanterne si rivelarono per delle fungosità naturali, simili a vesce carnose e traslucide, che emanavano una notevole fluorescenza. Oone e lui si accorsero di parlare a sussurri, quasi che fossero timorosi di svegliare . gli abitanti di quel luogo. Tuttavia Elric non aveva paura. Nel tunnel c'era l'atmosfera di un santuario, e lui notò che Oone aveva perso l'atteggiamen-
to cauto e sospettoso, benché l'esperienza certo le insegnasse a diffidare di ogni pericolosa illusione di normalità. Fra la landa di nome Sanador e Marador non ci fu alcuna transizione avvertibile, salvo forse un lieve mutamento nel loro umore quando il tunnel sfociò in una grande caverna naturale ricca di efflorescenze azzurre e verdi, giallo oro e rosa scuro, che colavano a onde una sull'altra come lava appena raffreddata, più simili a piante lussureggianti che alle rocce che erano. I profumi intensi che stagnavano nell'aria, simili a quelli dei fiori più amabili, diedero a Elric l'impressione di essersi addentrato in un giardino non troppo diverso da quelli che aveva conosciuto da bambino, in un luogo in cui regnavano la sicurezza e la tranquillità. Eppure non poteva esserci dubbio che il luogo fosse una caverna, e che per arrivarci loro fossero scesi nel sottosuolo. Dapprima deliziato da quello spettacolo, Elric finì per sentirsi invaso da una certa malinconia, perché fino a quel momento non aveva più ripensato ai giardini della sua infanzia, e all'ingenua felicità che per un melniboneano era così rara qualunque fosse la sua età. Ripensò a sua madre, morta nel darlo alla luce, e al cupo e testardo lutto di suo padre, il quale aveva sempre rifiutato la vicinanza di un figlio che, secondo lui, aveva ucciso sua moglie. D'un tratto nei recessi di quella caverna ci furono dei movimenti ed Elric temette che si trattasse di un'altra aggressione, ma la gente che stava uscendo dalla penombra verso di loro era disarmata, e li guardava con occhi colmi di pacata mestizia. «Siamo arrivati a Marador» gli sussurrò in tono sicuro Oone. «Siete qui per unirvi a noi?» domandò una donna. Indossava vesti fluttuanti che scintillavano d'ogni sfumatura dell'arcobaleno, colorate quanto le rocce delle pareti e del soffitto. Aveva lunghi capelli d'oro, e un'epidermide simile a peltro opaco. Quando si accostò per sfiorare in segno di saluto una mano di Elric, lui sentì che aveva dita gelide. Aveva l'impressione d'essere già contagiato dalla tranquilla infelicità di quella gente, e si disse che c'erano destini peggiori che restare lì a rimembrare i desideri e i piaceri del suo passato, quando la vita gli appariva più semplice e il mondo era un regno che lui avrebbe migliorato senza alcuno sforzo. Alle sue spalle Oone disse, con voce che gli parve secca e ostile in modo irritante: «Noi siamo viaggiatori di passaggio nella vostra landa, signora mia. Non facciamo male a nessuno, ma non possiamo fermarci.» Un uomo domandò: «Viaggiatori? Cosa cercate?»
«Stiamo cercando» disse Elric, «la Fortezza della Perla.» La sua franchezza non piacque a Oone. «Non abbiamo intenzione di sostare a Marador. Vogliamo soltanto sapere da che parte si va per la prossima porta, la Porta Parador.» L'uomo ebbe un sorrisetto sofferto e annuì. «Lo immaginavo, ma temo proprio che quella porta sia introvabile. È perduta, per tutti noi. Ma è una perdita di cui non ci lamentiamo. Questa è una landa dove ci si può consolare... non lo senti?» Li guardò entrambi con occhi annebbiati, vaghi e lontani. «È inutile cercare ciò che può solo deludervi. Qui noi preferiamo ricordare ciò che un tempo volevamo di più, e com'era doloroso volerlo tanto...» «Ed è meglio così che continuare a cercarlo?» Elric fu sorpreso dal proprio tono, quasi comprensivo. «Perché cercare, messere, quando la realtà può dimostrarsi così inadeguata rispetto alle nostre speranze?» «Capisco. Questa è la tua opinione, messere?» Elric era pronto a riflettere sulla validità della proposta, ma Oone lo stava tirando con insistenza per una manica. «Non dimenticare il nome che i ladri di sogni danno a questo luogo» gli mormorò lei. Elric pensò che quella era veramente la Landa dei Vecchi Desideri. Tutte le cose che da ragazzo aveva sospirato gli tornavano in mente, portando con sé un senso di pace e di semplicità. Ora ricordava quanta frustrazione avesse sostituito quelle emozioni dolci quando s'era reso conto di come fossero difficili da realizzarsi i suoi sogni nell'ambiente corrotto che lo circondava. S'era avventato con rabbia su quel mondo. Aveva cominciato ad appassionarsi allo studio della negromanzia. Aveva fatto suo il dovere di cambiare le cose, di portare maggiore libertà e vera giustizia, usando tutto il potere di cui disponeva. Ma i suoi concittadini melniboneani s'erano rifiutati di volgere lo sguardo sulla strada che lui indicava. I suoi sogni giovanili avevano cominciato ad appassire, e con essi le speranze che gli allargavano il cuore. Adesso qui c'era la possibilità di farle rivivere. Forse dunque esistevano reami dove i desideri si avveravano. Forse dunque Marador era uno di quei mondi. «Se tornassi a casa, prendessi con me Cymoril e la portassi qui, credo che potremmo vivere in armonia con questa gente» disse a Oone. La ladra di sogni sbuffò, sprezzante. «Questa è chiamata la Landa dei Vecchi Desideri, non la Landa dei De-
sideri che si Avverano! C'è una differenza. Le emozioni che provi sono facili, e facile è restare aggrappati ad esse... mentre la realtà resta fuori dalla tua portata, mentre ti limiti ad anelare l'irraggiungibile. Quando tu avrai lavorato per ottenere qualcosa, Elric di Melniboné, per poco che sia, avrai assunto una statura maggiore nel mondo. Volta le spalle a quella decisione, rinuncia alla volontà di costruire un mondo dove regni più giustizia, e avrai perso il mio rispetto, oltre a perdere il rispetto di te stesso. Resta qui e ti rivelerai solo capace di mancare ai tuoi impegni, e io sarò stata una sciocca a chiederti di aiutarmi a salvare la Vergine Sacra!» Elric fu colpito dalla sua aggressività, che in quell'atmosfera serena strideva sgarbatamente, offensiva. «Ma ormai io credo che sia impossibile costruire un mondo più giusto. Meglio conservare l'aspirazione di riuscire, dunque, piuttosto della consapevolezza del fallimento.» «Così è come la pensano in questo reame. Resta pure qui, se vuoi, a pascerti in eterno di queste vuote aspirazioni. Ma io credo che un uomo debba continuare a operare per la giustizia, non importa quanto scarse siano le possibilità di successo!.» Elric si sentiva insonnolito e avrebbe voluto sdraiarsi a riposare da qualche parte. Non riuscì a reprimere uno sbadiglio. «Questa gente sembra aver capito certi misteri fondamentali della vita. Mi piacerebbe parlare un po' con loro, prima di continuare.» «Fermati qui, e Anigh morirà. La Vergine Sacra morirà. E morirà anche tutto ciò che ha un valore dentro di te.» Oone non alzava la voce; parlava come chi espone dei semplici fatti. Ma nel suo tono c'era una tensione che modificò l'umore di Elric. Non era la prima volta che lui esaminava l'idea di abbandonare certe aspirazioni. Se l'avesse fatto, e se avesse mandato in esilio Yyrkoon invece di affidargli il trono, la sua vita sarebbe stata assai più gradevole fra gli agi della corte. Il pensiero delle viziose ambizioni del cugino, e quello di Cymoril che lo attendeva per diventare la sua sposa, ebbero l'effetto di ricordare a Elric il motivo per cui si trovava lì. La tentazione di riconciliarsi con i difetti del mondo e di accettarli scomparve. Si inchinò agli abitanti delle caverne che continuavano a invitarlo a restare con vaghi sorrisi e mesti accenti. «Vi ringrazio per la vostra generosità, gentili dame e nobili signori, ma il mio viaggio deve proseguire verso la Porta Paranor.» Fu tuttavia con rammarico che l'albino si lasciò alle spalle quella malinconica gente, seguendo Oone per altre caverne piene di luci e di colori. «Queste lande meritano il loro nome» disse la sua compagna. «Attento a
ciò che ti è familiare.» «Forse avremmo potuto riposarci là, parlare un poco con quelle persone e rinnovare le nostre energie, no?» disse Elric. «Sicuro, e rattristarci con loro fino alla morte.» Nel guardarla lui si accorse, sorpreso, che la ragazza non sembrava contagiata da quell'atmosfera malinconica. «È questo che ha portato a morte Alnac Kreb?» «No, naturalmente!» Oone accelerò il passo. «Era troppo esperto per cadere in una trappola così ovvia.» Elric provava ora un po' di vergogna. «Ho fallito la prima vera prova della mia forza di volontà e del mio autocontrollo.» «Noi ladri di sogni abbiamo il vantaggio di esser stati messi alla prova innumerevoli volte» disse lei. «E ogni volta, benché la tentazione resti, la sfida è più facile.» «Per te, forse.» «Perché dici questo? Credi forse che io non abbia avuto desideri, aspirazioni, un'età perduta fatta delle illusioni e dei sogni delle fanciulle?» «Scusami, Dama Oone.» Lei scrollò le spalle. «C'è un'attrattiva nella possibilità di rinchiudersi nel passato, o di tornare all'infanzia, suppongo. Ma spesso dimentichiamo altri aspetti del nostro passato... quelli che ci spingevano a isolarci nelle fantasticherie.» «Tu allora sei un'adoratrice del futuro, eh?» scherzò Elric. La roccia su cui camminavano s'era fatta scivolosa, e poiché il tunnel continuava a scendere furono costretti a rallentare il passo, attenti a dove mettevano i piedi. Elric aveva l'impressione di sentire un rumore di acqua corrente, forse lo stesso fiume di prima che penetrava nel sottosuolo. «Nel futuro ci aspettano tante trappole quante ce n'erano nel passato» disse lei con un sorriso. «Io sono un'adoratrice del presente, caro signore. Dell'eterno presente.» Ma nella sua voce ci fu un'incertezza, come se non si fosse sempre attenuta a quel principio. «Le speculazioni e i rimpianti sono una specie di droga, credo» disse Elric. Poi ebbe un ansito, alla vista di quel che c'era più avanti. Il lucente flusso giallo che scendeva giù lungo due profondi canali scavati nella parete rocciosa, che convergevano a V, era senza dubbio oro fuso. Il metallo scorreva velocemente, e quando i due viaggiatori furono più vicini s'accorsero che non era arroventato. Qualche altro agente aveva l'effetto di fonderlo, forse una sostanza chimica della roccia stessa. A livello
del fondo della caverna l'oro passava in un'ampia polla, da cui defluiva un ruscello colmo del prezioso metallo lucente, e attraverso questa via l'oro veniva condotto in un altro fiumiciattolo sotterraneo che sembrava pieno d'acqua comune. Ma guardando meglio Elric vide che si trattava invece di argento, anch'esso fuso allo stato freddo, e che i due elementi si mescolavano formando una lega d'oro bianco. Seguendo con lo sguardo il corso di quest'altro torrente lui constatò che ad un centinaio di passi di distanza questo sfociava in un terzo, nel quale scorreva un vitreo materiale scarlatto che avrebbe potuto essere rubino liquido. In tutti i suoi viaggi, sia nei Reami Nuovi che in regioni supernaturali, Elric non aveva mai visto niente di simile. Fece per avviarsi da quella parte, con l'idea di esplorare oltre, ma Oone lo fermò. «Siamo giunti alla porta successiva» gli disse. «Ignora le meraviglie che ti attraggono, mio signore. Guarda laggiù.» La ragazza indicava un punto a metà fra i due ruscelli convergenti d'oro fuso, dove lui poteva a malapena scorgere un'arcata e delle vaghe ombre. «Là c'è Paranor. Sei pronto a entrare in quella landa?» Ripensando al nome che i ladri di sogni le davano, lui sorrise. «Più pronto che mai, mia signora.» Fu allora, mentre si avviavano verso la porta, che dietro di loro risuonò un rumore di zoccoli al galoppo. L'eco s'era dispersa e indebolita rimbalzando nei soffitti e nelle pareti di centinaia di piccole caverne, ed Elric la udì solo all'ultimo momento; ebbe appena il tempo di voltarsi che qualcosa lo colpì a una spalla, gettandolo da parte. Mentre riprendeva l'equilibrio vide un cavallo bianco come il gesso, montato da un guerriero chiuso in un'armatura di avorio e madreperla, con una spada candida. Lo sconosciuto passò attraverso la porta incorniciata dai ruscelli d'oro, e un istante dopo era scomparso nell'ombra. Ma Elric non aveva dubbi: quel guerriero indossava armi identiche a quello che li aveva attaccati sul ponte. Ne era certo, e inoltre aveva sentito la sua risata, anch'essa derisoria e sprezzante, prima che il tonfo degli zoccoli fosse assorbito da quello che c'era oltre la porta. «Abbiamo un nemico» disse Oone. Accigliata la ragazza si mise le mani sui fianchi, mordicchiandosi un labbro. «Siamo già stati identificati. La Fortezza della Perla non si limita a difendersi. Ci attacca.» «Conosci già questi cavalieri? Li hai visti da qualche parte?» Lei scosse il capo. «So contro chi combattono. Nient'altro.» «E non abbiamo modo di evitarli?» «Non ne sono sicura.» La ragazza rifletté un poco, taciturna, come se
considerasse un problema che non intendeva discutere con lui. Poi sembrò metterlo da parte; prese l'albino a braccetto e lo condusse sotto l'arcata dei ruscelli d'oro freddo fino a un'altra caverna lunga e stretta, in cui stagnava una dolce penombra verdolina simile a quella prodotta da pergolato fitto di foglie in un pomeriggio autunnale. E alla mente di Elric tornò l'antica Melniboné, quella che era stata al massimo del suo potere, quando i suoi abitanti erano forti e orgogliosi e si proclamavano padroni di tutte le terre conosciute, e le nazioni vicine chinavano il capo rimodellandosi secondo il loro volere. In fondo a quel passaggio un' altra arcata li introdusse in una caverna così vasta che per un momento lui pensò di non essere più nel sottosuolo: dinnanzi a loro si alzavano le torri e i minareti di una città cinta da mura, anch'essa dalle sfumature verdoline e belle come la sua amata Imrryr, la Città Sognante, che in gioventù lui aveva esplorato a fondo. «Ma... è uguale a Imrryr, e tuttavia non è affatto Imrryr» commentò, stupito. «Sicuro» disse lei. «È uguale a London. È uguale a Tanelorn. È uguale a Ras-Paloom-Atai.» Ma non aveva un tono sarcastico. Parlava come se fosse anche lei convinta che la città somigliava a quelle tre, due delle quali l'albino non aveva mai sentito nominare. «Ma tu sei già stata qui. Come si chiama?» «Non ha nome» rispose Oone. «Ha tutti i nomi. Puoi chiamarla con quello che preferisci.» E si fermò su un lato della pista come se volesse riposarsi un poco, prima di condurlo giù lungo la strada che aggirava la città. «Non credi che ci converrebbe visitarla? Forse troveremo qualcuno che potrà aiutarci a proseguire più in fretta.» Oone ebbe un'espressione scettica. «Troveremmo più facilmente chi vorrebbe mandarci fuori strada. Ormai dovrebbe esserti chiaro, Principe Elric, che la nostra missione è avversata da entità decise a fermarci a ogni costo.» «Pensi che gli Avventurieri Stregoni ci abbiano seguito?» «O preceduto, lasciando qui di guardia qualcuno di loro.» La ragazza scrutava la città con aria insospettita. «Sembra una regione molto pacifica» disse Elric. Più guardava la città e più era impressionato dall'architettura dei suoi edifici, quasi tutti costruiti con la stessa pietra di colore verde, qua e là con materiale edile giallo, o azzurro.
C'erano ponti e passaggi aerei fra una torre e l'altra, e minareti spiraliformi sottili e delicati ma così alti che sembravano sparire nel soffitto della caverna. Aveva l'impressione che quel luogo riflettesse una parte della sua personalità, qualcosa di lui che al momento non riusciva a capire o ricordare. E provò risentimento verso il modo in cui Oone lo stava guidando, benché si fosse impegnato a seguirla. Inoltre cominciava a sospettare che la ladra di sogni si fosse perduta, e che non avesse le idee più chiare di lui sul modo di raggiungere il loro obiettivo. «Dobbiamo andare avanti» disse Oone. Il suo tono era più pressante, ora. «Io so che in questa città posso trovare qualcosa che renderà Imrryr di nuovo grande. E quando sarà tornata potente io potrò portarla a dominare il mondo. Ma stavolta, invece di usare le armi e la violenza, porterà a tutti onore e buona volontà.» «Sei più proclive alle illusioni di quel che pensavo, Principe Elric» lo rimproverò Oone. Lui la guardò irosamente. «Cosa c'è di sbagliato in queste ambizioni?» «Non sono realistiche. Sono irreali come questa città.» «La città mi sembra fin troppo solida.» «Solida? Certo, a suo modo. Appena avrai varcato le sue porte ti abbraccerà come un amante atteso da anni. Vuoi provarci, signor mio? Va bene, andiamo!» Oone sembrava aver perso la calma quanto lui, e si avviò a passi lunghi sulla strada lastricata d'ossidiana che scendeva dalle alture in direzione della città. Stupito dal suo repentino cambiamento d'idea Elric la seguì. Ma ora la sua rabbia si stava sciogliendo. «Ascolta, Dama Oone... forse ho parlato affrettatamente. Ti chiedo scusa, ma devi capire...» Lei non lo ascoltava neppure. In pochi minuti furono sotto le mura della città, così imponenti che gettavano lontano la loro ombra, e alzando lo sguardo si sentirono minuscoli e sopraffatti dalle enormi cupole e dalle torri, così alte che sembrava impossibile valutarne le dimensioni reali. «C'è una porta, laggiù» disse Oone. «Vai pure! Attraversala, e ci diremo addio qui. Io andrò da sola alla ricerca di ciò che imprigiona la Vergine Sacra, e tu potrai dedicarti alle tue Certezze Perdute, fino a perdere anche quelle poche che ti erano rimaste.» Ma ora che Elric poteva vedere da pochi passi di distanza quelle mura, giallo-verdi e trasparenti come l'ambra, scorse delle forme scure dentro di esse, e sbalordito si rese conto che erano uomini, donne e bambini. Fece
qualche passo avanti per osservarli meglio e imprecò fra i denti: erano facce vive, occhi dietro cui c'era una mente ancora attiva, palpebre che non potevano sbattere, bocche aperte in grida senza suono, espressioni di spavento, di angoscia, di dolore. Erano come innumerevoli insetti imprigionati nell'ambra. «Questo è il passato immutabile. Principe Elric» disse Oone. «Questo è il destino di chi resta aggrappato a una fede già perduta senza sforzarsi di cercarne un'altra. Questa città ha un nome, in effetti: i ladri di sogni la chiamano la Città della Paura di Vivere. Non è difficile capire la mentalità dei molti che scelgono questa strada. Ma il brutto è che costringono chi li ama a dividere il loro stesso destino. Vuoi restare là dentro anche tu, Principe Elric, a nutrirti delle tue convinzioni perdute?» L'albino si voltò, con un fremito. «Ma se costoro potevano vedere cos'era accaduto a chi era giunto qui prima di loro, perché hanno voluto entrare nella città?» «Hanno scelto di chiudere gli occhi all'evidenza. Questo è il trionfo dei bisogni animaleschi sulle più nobili aspirazioni dell'intelligenza e dello spirito umano.» I due tornarono insieme sulla strada che aggirava la città, e se ne allontanarono di buon passo. Per Elric fu un sollievo quando, più tardi, uscirono dalla caverna e non sentì più dietro le spalle la presenza di quegli edifici di giada e dei loro abitanti. Dopo quella grande caverna ce ne furono altre, ciascuna con la sua città, benché nessuna fosse affascinante come la prima. Queste non diedero a Elric alcun desiderio di visitarle, anche se vide muoversi in esse delle persone d'aspetto normale e, come gli disse Oone, probabilmente non erano pericolose come la Città della Paura di Vivere. «Tu hai chiamato Reame del Sogno queste lande, signora mia» disse l'albino, «ed è un nome indovinato, perché sembra che siano piene di molti e diversi sogni, oltre a qualche incubo. È un posto che sembra nato dalla mente di un poeta, tanto sono strane alcune delle sue bellezze.» «Ti ho spiegato» disse lei, parlando con più calore ora che lo vedeva consapevole del pericolo, «che quel che vedi qui è il seme di certe realtà che altri mondi, come il tuo e il mio, vedono avverarsi in diversa forma. Fino a che punto qui ci siano realtà filtrate da altri luoghi io non lo so. Posti come quelli che vedi si sono formati nei secoli attraverso le visite di innumerevoli ladri di sogni, ognuno dei quali ha imposto una forma in ciò che dapprima non aveva forma.» Elric stava cominciando a capire meglio quel che gli era stato detto da
Oone nell'oasi. «Invece di disegnare una mappa di ciò che esiste, voi imponete le vostre mappe su ciò che ancora non esiste.» «In un certo senso. Noi non inventiamo nulla. Noi descriviamo, se così si può dire. Grazie a questo possiamo seguire la giusta strada attraverso migliaia di Reami dei Sogni, perché soltanto in questo tutti i reami si mescolano uno all'altro.» «Nella realtà allora potrebbero esserci migliaia di lande diverse in ciascun reame?» «Puoi vederla anche così. Oppure un'infinità di lande, oppure una sola con un'infinità di aspetti. Le strade servono a far sì che un viaggiatore privo della bussola non finisca troppo lontano dalla sua destinazione.» Oone ridacchiò senza troppa allegria. «I nomi che abbiamo dato a questi luoghi non sono dovuti a un impulso poetico, ma alla necessità. La nostra sopravvivenza dipende anche dal descrivere le cose con precisione.» «Le tue parole sono sagge e pregnanti, cara signora. Ma la mia sopravvivenza richiede spesso l'uso di una spada affilata.» «Finché tu dipendi dalla spada che hai, Principe Elric, ti condanni a un destino poco allegro.» «Prevedi la mia morte, è così, Dama Oone?» Lei scosse il capo, e la sua bella bocca si piegò in un sorriso comprensivo. «La morte è inevitabile per quasi tutti, che giunga in un modo o nell'altro. Io posso ammettere, Principe Elric, che se il Caos fosse distrutto tu saresti uno dei principali strumenti di quella notevole vittoria. Ma sarebbe triste se, nel distruggere il Caos, tu fossi legato a un patto che portasse alla distrazione anche te, e tutti quelli che ami.» «Ti prometto, Dama Oone, che farò il possibile per evitare una sorte di questo genere.» Elric si stupì dello sguardo che c'era negli occhi della ladra di sogni, e decise di non insistere oltre su quell'argomento. La loro pista li stava portando in una foresta di stalattiti e di stalagmiti che emanavano forte luminosità, alcune rosse, altre verdi, altre ancora azzurre. Dal soffitto continuavano a piovere gocce d'acqua, ma nella caverna c'era un caldo così secco che i loro abiti si asciugavano in pochi momenti. Avevano cominciato a rilassarsi, camminando a braccetto con un'allegra spensieratezza, quando si accorsero che fra le grandi zanne di roccia calcarea scivolavano silenziose figure armate. «Spadaccini» mormorò Elric, e con una smorfia aggiunse: «Ecco una situazione in cui la spada mi sarebbe utile, no?» La sua mente era per metà tesa a ciò che vedeva, per metà nel mondo stregato degli elementali alla ri-
cerca di un incantesimo di qualche genere, di un aiuto supernaturale, ma non arrivava a niente. Sembrava che tutti i sentieri mentali che lui era abituato a seguire gli fossero preclusi. I guerrieri erano velati. Indossavano ampi mantelli fluttuanti, e avevano pesanti elmi di metallo e cuoio. Elric vide sotto quelle visiere occhi freddi e duri dalle palpebre tatuate, e seppe che si trattava di membri della gilda degli Avventurieri Stregoni di Quarzhasaat, certo lasciati indietro dai loro compagni durante un loro fallito tentativo di penetrare nel Reame dei Sogni. Senza dubbio non erano riusciti a portarsi più avanti, restando così intrappolati in quella landa. Comunque fosse era già chiaro che non intendevano parlamentare con lui e Oone, perché si stavano allargando per attaccarli da più lati. C'era però in quegli individui qualcosa di strano che colpì Elric. I loro movimenti non erano molto agili, e mentre alcuni di loro si facevano più vicini notò i loro occhi: così trasparenti che si poteva vedere l'osso del cranio dietro di essi. Quelli non erano comuni mortali, o meglio non lo erano più. Elric aveva già visto occhi di quel genere molti anni prima, a Imrryr, in una delle rare occasioni in cui suo padre Sadric lo aveva portato con sé. Alla periferia della città c'era una vecchia arena, fra le cui alte mura si usava rinchiudere fino alla morte i melniboneani che avevano perduto l'anima durante pratiche imprudenti di magia nera, ma i cui corpi ancora vivevano. Anch'essi avevano occhi vuoti, gesti goffi, e una gelida e rabbiosa aggressività verso tutti quelli che non erano come loro. Oone mandò un grido e fu svelta a chinarsi con un ginocchio a terra, per evitare una spada che le passò un palmo sopra la testa vibrata in un fendente orizzontale. L'arma rimbalzò sonoramente contro una larga stalagmite appuntita. Quelle deformi colonne naturali erano così fitte e ingombranti che per gli spadaccini non era facile sferrare colpi larghi e violenti. Il Principe di Melniboné e la sua compagna balzarono qua e là schivando diversi affondi, finché l'albino si sentì toccare un braccio e vide, con stupore, che dalla piccola ferita colava sangue vero, rosso e caldo. Elric sapeva che, se lì si poteva morire in quel modo, era solo questione di tempo prima che lui e Oone fossero uccisi. Poco dopo, mentre vacillava indietro contro una lunga stalattite acuminata che pendeva dal soffitto, sentì l'estrusione di roccia cedere sotto il suo peso. Appena ne ebbe la possibilità la colpì con una spallata, e dall'alto caddero pezzi di roccia. In fretta la mosse avanti e indietro finché gli rimase fra le mani. Poi, imbracciando la pesante lancia di roccia con tutta la sua forza si precipitò addosso a uno
degli avversari che si stava voltando. La punta della stalattite penetrò nel torace dell'Avventuriero Stregone sfondando il suo pettorale di cuoio e le costole. L'uomo mandò un grido rauco, agonizzante, e uno strano sangue violaceo comparve intorno all'arma improvvisata, senza però allargarsi a inzuppare i vestiti, quasi che fosse subito riassorbito dalla ferita. Dopo averlo rovesciato al suolo Elric balzò avanti e strappò la sciabola dalle mani dell'avversario, impadronendosi anche della daga alla sua cintura. Fece appena in tempo a voltarsi per parare la lama di un altro che gli arrivava alle spalle. Appena ebbe un'arma, tutta la sua foga e la sua capacità di battersi tornarono in lui. Già da ragazzo, assai prima di entrare in possesso della Tempestosa, era stato addestrato a combattere con la spada e col pugnale, con l'arco, con la lancia, e non ebbe bisogno dell'aiuto della spada incantata per affondare una lama in corpo al secondo aggressore, e poi squarciare la gola a un terzo. Dopo aver gettato la corta daga a Oone, che fu sorprendentemente abile nel prenderla al volo e a colpire subito a una coscia l'uomo più vicino, Elric corse nel labirinto fra le sporgenze di roccia calcarea multicolore assalendo uno alla volta gli avversari. Le loro movenze goffe erano adesso un pesante svantaggio contro un combattente esperto, ma nessuno indietreggiava o lo sfuggiva. Oone s'era affrettata a mettersi schiena a schiena con lui alla prima occasione, mostrando così d'essere assai capace nell'uso delle armi. Elric poté ammirare la sua eleganza, la flessuosità delle mosse con cui parava e rispondeva. Per quanto corta fosse, la sua daga aggirava le lente scimitarre degli indemoniati, che perdevano sangue e cadevano al suolo incapaci di scalfirli. Elric approfittò di un attimo di pausa per voltare la testa, e le sorrise. «Per una che finora ha continuato a denigrare il possesso delle armi a favore dell'uso della parola, non te la cavi male con una lama in mano, Dama Oone.» «Spesso fa comodo avere un'esperienza in entrambi i campi, per poter scegliere il più adeguato alla situazione» disse lei. Colpì alla faccia un altro assalitore, e poi al petto. «Ma ammetto, caro Principe, che con certi individui una lama riesce a farsi intendere meglio della frase più convincente!» I due continuarono a battersi insieme come se lo facessero da anni. Il loro modo di usare le armi non era simile, né complementare, ma sapevano sostenersi a vicenda. Entrambi si battevano come soldati di professione, senza crudeltà e senza il piacere di uccidere, ma con l'intenzione di porre termine allo scontro al più presto, causando il minor dolore possibile anche
ai loro avversari. Quegli avversari, tuttavia, non mostravano alcun sintomo di dolore allorché venivano colpiti, ma nel momento della morte emettevano lo stesso inquietante gemito d'angoscia, e il sangue che si spargeva al suolo aveva sgradevoli riflessi violacei. Alla fine l'albino e la sua compagna restarono padroni del campo e si guardarono intorno ansimando, con le lame rubate in pugno, in preda entrambi a quel senso di nausea che spesso segue una battaglia. Poi, prima che Elric potesse chinarsi ad alzare la visiera dell'elmo per vedere in faccia uno degli aggressori, i loro cadaveri divennero evanescenti e sparirono, lasciando al suolo soltanto le armi che avevano usato. Anche il sangue si dissolse, e nella caverna piena di stalattiti non rimase più molto a testimoniare che lì era avvenuto un combattimento. «Dove sono finiti?» Oone raccolse un fodero e ci mise dentro la sua daga. Nonostante ciò che aveva detto prima, ora sembrava decisamente intenzionata a non fare un altro passo senza un'arma, e quando trovò una scimitarra s'infilò nella cintura anche quella. «Finiti, dici? Mmh...» Si strinse nelle spalle. «Di nuovo dentro il serbatoio di ectoplasma semivivo da cui erano usciti. Erano sostanzialmente degli spettri, Principe Elric, ma non del tutto. Erano, come ti ho detto, ciò che gli Avventurieri Stregoni avevano lasciato di se stessi dopo aver tentato di penetrare in queste lande.» Elric non aveva compreso bene quel concetto. «Vuoi dire che solo una parte dei loro corpi è tornata nel nostro mondo, com'è successo ad Alnac?» «Proprio così.» La ragazza parve sul punto di spiegarsi meglio. Lui la interruppe: «Se è così, perché non potremmo trovare qui anche Alnac, ancora vivo?» «Perché non siamo qui per cercare lui» disse Oone, con voce così aspra e decisa che Elric osò fare appena un'altra domanda sull'argomento. «Forse, ad ogni modo, non è qui che lo troveremmo, insieme agli Avventurieri Stregoni, nella Landa delle Certezze Perdute. È così?» «Infatti» disse lei. Qualcosa nella sua espressione spinse Elric a prenderla fra le braccia, e per qualche momento i due restarono in silenzio, stretti l'uno all'altra, finché non si sentirono pronti a riprendere il cammino in cerca della Porta Celador. Più tardi, mentre Elric la aiutava ad attraversare un altro ponte naturale sotto cui scorreva un fiume di liquame marrone, Oone disse: «Questa non
è un'impresa del genere a cui sono abituata, Principe Elric. È per questo che avevo bisogno che tu venissi con me.» Un po' perplesso nel sentirle mettere in parole ciò che entrambi, dopotutto, già sapevano, Elric non rispose. Quando le donne col naso a proboscide li attaccarono, armate di reti vegetali e lunghe spine, non occorse loro molto tempo per aprirsi la strada fra quelle strane creature, costringendole alla fuga. Né furono messi in difficoltà dagli umanoidi volpini che si fecero loro attorno cercando di colpirli con zampe artigliate da uccello. E riuscirono perfino a ridere divertiti, mentre scacciavano a calci un branco di animali simili a cavalli grossi come cani, la cui bocca era in grado di pronunciare con voce umana parole peraltro prive di un significato comprensibile. Seguendo quella pista giunsero così al confine di Parador, dove il territorio cambiava bruscamente. Davanti a loro sorgevano due larghi torrioni di roccia scolpita, su cui c'erano balconi e finestre, terrazze e scalinate, il tutto ricoperto da un'edera centenaria e da grossi rampicanti su cui crescevano frutti gialli. «Questa è la porta Celador» disse Oone. Sembrava riluttante ad avvicinarsi. Con una mano sull'elsa della spada e l'altro braccio unito a un braccio di Elric si fermò; poi fece un sospiro pensoso. «È la terra delle foreste.» «Non hai detto che è la Landa degli Amori Dimenticati?» «Sì, quello è il nome che le hanno dato i ladri di sogni.» La ragazza ebbe una risatina sarcastica. Senza saper cosa pensare di quel suo cambiamento d'umore, anche Elric rimase lì a guardare la porta. Poi si rivolse a lei, ma non osò farle la domanda personale che gli era salita in gola. La ragazza alzò una mano ad accarezzargli una guancia, bianca come l'osso. Lei aveva la pelle abbronzata, vibrante di vitalità e di energia fisica. Lo guardò in faccia. Poi, senza dir niente, lo prese per mano e s'incamminò di nuovo, conducendolo con sé verso la porta. Non appena furono passati fra le due torri, le narici di Elric si empirono di un ricco odore di vegetazione e humus fertile. Dinnanzi a loro s'infittivano querce massicce, olmi alti decine di braccia, betulle, faggi, e alberi di molte altre specie, ma sebbene fossero così lussureggianti che le loro chiome si univano in una massa compatta essi non crescevano sotto un cielo aperto nutriti dai raggi del sole, bensì nello smorto lucore di un'immensa caverna, chiusi fra un pavimento e un soffitto di
roccia. Elric non avrebbe mai immaginato che piante simili potessero crescere nel sottosuolo, e si meravigliò dell'aspetto normale e prospero della vegetazione. Il suo stupore non aumentò dunque di molto quando vide sbucare dalla boscaglia una strana creatura bipede, che si piantò a gambe larghe sul sentiero sbarrando loro la strada. «Altolà! Dichiarate le vostre intenzioni!» intimò. La sua faccia era coperta di pelo marrone e aveva denti tanto sporgenti, orecchi così alti e grandi occhi talmente larghi da somigliare a un coniglio troppo cresciuto, benché indossasse un'armatura di solido ottone. Anche l'elmo che aveva in testa era dello stesso morbido metallo, e così le sue armi: una spada e una lancia dal manico di legno. «Noi siamo viaggiatori» lo accontentò Oone, «e vogliamo soltanto attraversare questa landa senza fare del male a nessuno.» Il guerriero-coniglio scosse il capo. «Troppo vago» disse. Girò la lancia e con gesto improvviso la piantò nel tronco della quercia più vicina. L'albero mandò un gemito. «Anche costui mi aveva detto la stessa cosa. E guardate cosa gli è accaduto, a lui e a tutti gli altri.» «Questi alberi erano viaggiatori?» domandò Elric. «Il tuo nome, messere.» «Io sono Elric di Melniboné, e come la mia compagna, Dama Oone, viaggio senza fare del male a nessuno. Stiamo andando a Imador.» «Io non conosco nessun Elric e nessuna Oone. Io sono il Conte di Magnes Doar, e questa è la mia terra. Mi appartiene per diritto di conquista. Il più antico dei diritti. Voi dovete tornare indietro e uscire dalla porta che avete appena attraversato.» «Non possiamo» lo informò Oone. «Tornare indietro sarebbe la nostra distruzione.» «E andare avanti, o donna, significa la stessa cosa. Decidete. Volete forse restare accampati sulla soglia per sempre?» «No, messere.» Oone portò una mano all'elsa della spada. «Se sarà necessario ci apriremo la strada con la forza in questa foresta. La nostra missione è urgente, e non intendiamo fermarci.» Il guerriero-coniglio svelse la punta della lancia dalla corteccia della quercia, che smise di lamentarsi, e la conficcò nel tronco di un altro albero. Anch'esso gridò e pianse, finché il Conte di Magnes Doar grugnì irosamente alla pianta di tacere ed estrasse l'arma. «Allora dovrete battervi con me» li avvertì.
Fu allora che udirono un grido di sfida alle loro spalle, e voltandosi videro uscire da dietro uno dei torrioni un cavaliere bianco. Era un altro dei guerrieri dall'armatura d'avorio e di madreperla, e nella fessura del suo elmo scintillavano occhi pieni d'odio. Doveva essere arrivato in quel momento, perché quando Elric e Oone avevano attraversato la porta nella zona non c'era nessuno. Senza por tempo in mezzo, il cavaliere partì alla carica. L'albino e la ladra di sogni estrassero le armi per difendersi, ma con loro sorpresa fu il sedicente Conte di Magnes Doar che corse avanti brandendo la lancia contro l'aggressore. La punta di ottone rimbalzò innocua sul pettorale della corazza senza scalfirlo neppure, e un momento dopo fu la spada bianca che si abbatté, quasi con disprezzo, sull'elmo giallo dell'individuo appiedato, spaccando il metallo e il cranio. Il guerriero-coniglio lasciò cadere la spada e la lancia, e portandosi le mani alla testa barcollò indietro. I suoi grandi occhi parvero allargarsi ancor di più, mentre dalla bocca gli usciva un fiotto di sangue, poi girò su se stesso e cadde in ginocchio. Elric e Oone s'erano appostati dietro il tronco di una quercia, preparandosi a sostenere l'attacco del cavaliere bianco. Per vederli meglio lo sconosciuto fece spostare di lato il cavallo, che scalpitava con la stessa ferocia del suo padrone, ed Elric ne approfittò per correre avanti a raccogliere la lancia. Quando l'ebbe in pugno fu svelto ad aggredire il cavaliere, e con micidiale precisione diresse la punta dell'arma fra l'orlo del pettorale e la base dell'elmo, conficcandogliela in gola. Ci fu dapprima un rantolo strozzato, ma subito dall'elmo uscì la solita risatina sprezzante e il cavaliere fece girare il cavallo, allontanandosi da loro lungo il sentiero che s'addentrava nella boscaglia. Vacillava da una parte e dall'altra come se agonizzasse, ma sembrava ancora in grado di tenersi in sella. I due lo videro sparire fra la vegetazione. Elric era teso come un arco. «Se non l'avessi visto ammazzarsi precipitando da quel ponte, a Sanador, giurerei che è sempre lo stesso individuo. C'è qualcosa di stranamente familiare in lui.» «Non lo abbiamo visto morire» precisò Oone, «solo cadere nelle acque del fiume.» «Be', se non è morto allora morirà adesso. Gli ho quasi staccato la testa dal collo.» «Ne dubito» disse lei. «Secondo me lui è il nostro nemico più agguerrito. E dovremmo fare di tutto per evitarlo, finché non saremo alla Fortezza
della Perla.» «È lui che difende la Fortezza?» «Lui e molti altri.» La ragazza gli diede una pacca su una spalla, poi andò a chinarsi sul Conte di Magnes Doar. Nella morte aveva assunto qualcosa di umano, ma era preda di un cambiamento che oltre a far dissolvere la peluria del suo volto lo stava tramutando in una mummia rinsecchita, a vista d'occhio. Il bell'elmo di ottone era diventato un cartoccio di latta. Ad Elric tornò a mente la morte di Alnac, e con una smorfia distolse lo sguardo dal cadavere. Oone si alzò in fretta, e aveva gli occhi umidi. Le sue lacrime non erano per il defunto Conte di Magnes Doar. L'albino la abbracciò dolcemente per consolarla. Anche lui si sentiva pervaso dalla disperata nostalgia di una persona che ricordava vagamente, come un vecchio sogno di gioventù, una persona forse reale, o forse esistita soltanto nel sogno di un ragazzo. Tenendo Oone stretta a sé la sentì scossa da un breve tremito. Nei suoi occhi riapparve l'immagine di una barca alla deriva, di una fanciulla dai capelli scuri distesa priva di sensi sul pianale, e di lui stesso che deviava la sua barca a vela verso quella di lei, ansioso di soccorrerla e fiero di avere il privilegio di salvarla. Eppure non aveva mai vissuto una scena del genere, ne era certo; poteva soltanto dire che Oone gli ricordava quella fanciulla con qualche anno di più. Oone ebbe un ansito e si scostò da lui. «Per un momento mi è parso che tu fossi... era come se ti conoscessi da sempre...» Si coprì il viso con le mani. «Oh, questa dannata landa merita il nome che ha, Elric!» Lui non poté che annuire. «Ma che tipo di pericolo c'è qui, per noi?» le domandò. La ragazza scosse il capo. «Chi lo sa? Grande, piccolo, o forse nessuno. I ladri di sogni dicono che proprio nella landa degli Amori Dimenticati vengono prese le decisioni più importanti. Quelle che hanno le conseguenze di più vasta portata.» «Così è preferibile non fare niente, qui? Evitare di prendere qualsiasi decisione?» Lei si passò una mano fra i capelli. «Se non altro è bene essere consapevoli che le conseguenze delle nostre decisioni si faranno sentire lungamente in futuro.» Si lasciarono alle spalle il cadavere del guerriero-coniglio e proseguirono sotto le chiome degli alberi. Ora che ne conosceva la natura Elric aveva l'impressione di vedere delle facce che lo sbirciavano, da quelle ombre
verdi. A un certo punto fu certo di vedere la figura di suo padre, Sadric, che s'aggirava fra le piante attanagliato dal luttuoso ricordo della madre di Elric, l'unica persona che avesse mai amato. Era una figura così nitida che lui chiamò: «Sadric! Padre! È questo il limbo dove vaga la tua anima?» Oone lo prese subito per un braccio, allarmata. «No, non chiamarlo. Non attrarre la sua attenzione su di te. Non renderlo reale. Questa è una trappola, Elric. Un'altra trappola.» «Mio padre?» «Tu lo amavi?» «Credo di sì, anche se era un amore piuttosto infelice.» «Pensa a questa infelicità. Non chiamarlo qui. Sarebbe osceno risvegliare la sua immagine in questa galleria delle illusioni.» Elric capì cosa volesse dire, e fece ricorso al suo controllo per liberarsi dall'ombra del padre. «Una volta cercai di dirgli quanto soffrissi per lui, nel vederlo tormentato dal dolore per la perdita di mia madre.» Aveva le lacrime agli occhi. Si accorse di tremare, scosso da un'emozione che credeva di aver dimenticato da tempo. «Sai, Oone, da ragazzo avrei dato la vita pur di restituirgli la persona amata. Pensi che qui ci sia il modo di...» «Desideri di questo genere sono privi di significato» disse lei, stringendogli il braccio con forza. «Soprattutto qui. Ricorda l'obiettivo della nostra ricerca. Abbiamo già attraversato tre delle sette lande, e ci troviamo nella quarta. Ciò significa che siamo a metà strada per la Fortezza della Perla. Fatti forza, Principe di Melniboné. Pensa alle persone la cui vita dipende dal successo della nostra missione.» «Ma se qui avessi l'opportunità di raddrizzare un torto, di porre rimedio a una sventura...» «Questo riguarda solo i tuoi sentimenti, non ciò che può essere fatto in realtà. Vuoi inventare delle ombre e incaricarle di recitare i tuoi sogni? Questo riporterebbe davvero la tua povera madre al tuo defunto padre?» Elric si girò a guardare ancora nella boscaglia. Non c'era più nessuna traccia di suo padre. «Mi sembrava così reale. Fatto di carne e ossa!» «Convinciti che tu e io siamo i soli, in questa landa, ad essere di carne e ossa. E perfino noi siamo...» Non volle dir altro. Si sporse a baciarlo su una guancia. «Ora riposeremo un poco, se non altro per recuperare le energie mentali.» La ragazza condusse Elric sul terreno coperto di morbide foglie, fuori dal sentiero. Quando si furono distesi lo baciò sulla bocca, e lo accarezzò, slacciandogli le vesti, mentre lui faceva lo stesso. E pochi momenti dopo
Oone era diventata tutte le donne che Elric aveva amato e perduto, così come lui sentiva d'essere diventato tutto ciò che lei non si era mai concessa di trovare in un uomo. E seppe, senza rimorsi e sensi di colpa, che il loro amore carnale fatto lì non aveva passato, e che il futuro di quell'amore giaceva oltre le loro vite, oltre tutti i reami che avrebbero mai visitato in quella, e che nessuno dei due ne avrebbe mai visto le conseguenze. Ma nonostante quella triste certezza si amarono con passione, e ne furono soddisfatti, e si diedero a vicenda la forza di cui sapevano di avere bisogno per restare saldi nella decisione di giungere alla Fortezza della Perla. 9 L'intervento di una guida Ancora sorpreso dalla lucidità di pensiero sopravvenuta in lui dopo aver fatto all'amore con Oone, Elric oltrepassò con la sua compagna di viaggio lo scintillante arco d'argento della Porta Imador, e fu nella regione che per qualche loro motivo i ladri di sogni avevano chiamato Landa delle Nuove Ambizioni. Pochi passi più avanti la vegetazione si aprì, e i due videro d'essere alla sommità di un'interminabile scalinata che, curva dopo curva, scendeva fino a una pianura estesa fino all'orizzonte, o meglio fino alla pallida foschia azzurrina che l'occhio poteva scambiare per un vero cielo. Dapprima Elric aveva creduto che lui e Oone fossero soli, ma a un secondo sguardo la grande scalinata risultò piena di gente. C'erano gruppetti di persone occupati in accese conversazioni, d'individui che litigavano o contrattavano, e di coppiette che si abbracciavano, mentre molti erano riuniti intorno a santoni che facevano proseliti, ad arruffapopoli che arringavano gli scontenti, a insegnanti, a preti o a cantastorie, e tutti costoro sembravano avidi di ascoltare oppure di parlare. Le rampe di scalini che si susseguivano fino alla pianura erano ravvivate da tutti gli aspetti dei rapporti umani, pubblici e privati. Elric vide anche che c'erano incantatori di serpenti, ammaestratori d'orsi, giocolieri e acrobati. In genere vestivano secondo lo stile del deserto: larghi pantaloni di seta verde, azzurra, dorata, rosa e vermiglia; turbanti, cuffie ornate di nappe e berretti di stoffa ricamata; bracciali d'argento, collane d'oro e monili preziosi d'ogni genere. Abbondavano perfino gli animali, e c'erano recinti per cavalli e altri quadrupedi addobbati con ricchi finimenti d'ottone e rame, e variopinte gualdrappe di tessuto.
«Quanto è bella questa gente!» non poté fare a meno di esclamare Elric. E infatti, benché fossero della statura e dei lineamenti più diversi, quelle persone avevano un'avvenenza sorprendente. La loro pelle era sana e abbronzata, gli sguardi limpidi, le movenze agili e dignitose. Si mostravano di buon umore e sicuri di sé, e anche quando si distraevano dalle loro chiacchiere per osservare i due viaggiatori che scendevano la scalinata li accoglievano con cenni cordiali, senza preoccuparsi di salutarli o di chiedere loro chi fossero e dove andassero. Cani, gatti e scimmie si aggiravano dovunque, e dozzine di bambini di tutte le età giocavano o sedevano in semicerchio davanti ai precettori. L'aria era calda, balsamica, piena degli odori della frutta e dei fiori e di altre merci messe in vendita sulle bancarelle. «Vorrei che tutti i mondi fossero come questo» disse Elric, sorridendo a una giovane venditrice di stoffa che gli offriva la sua merce. Oone acquistò un cestino di arance da un ragazzino che l'aveva accostata, pagando con una moneta di rame che aveva in tasca. Ne porse una a Elric. «In questo reame la vita è dolce, è vero. Non mi aspettavo che fosse così comoda.» Ma quando masticò uno spicchio si accigliò, e lo sputò quasi subito. «Non ha nessun sapore!» Elric assaggiò la sua arancia e anch'egli la trovò del tutto insipida. La sua delusione fu così grande che si abbandonò a uno scatto d'ira sproporzionato alla cosa: scaraventò via l'arancia. Il frutto rimbalzò su una rampa, più in basso, e rotolò via fra i piedi della gente. La pianura grigioverde sembrava spopolata. C era una strada che l'attraversava, liscia e larga, ben fatta, ma su di essa non si scorgeva un solo viaggiatore, nonostante l'affollamento della scalinata. «Mi chiedo perché laggiù non ci sia nessuno» disse Elric a Oone. «Forse che di notte questa gente dorme qui, sugli scalini? O tutti vanno in qualche altro reame, dopo aver fatto quel che erano venuti a fare?» «Senza dubbio le tue domande troveranno una risposta fra non molto, mio caro.» La ragazza proseguì, a braccetto con lui. Dopo aver fatto l'amore nel bosco fra loro era cresciuto un legame più intimo del semplice cameratismo. Elric non si sentiva in colpa; nel suo cuore sapeva di non aver tradito nessuno, e in quanto a Oone era chiaro che non aveva problemi del genere. In qualche strano modo ciascuno dei due aveva rinnovato le energie dell'altro, moltiplicandole invece di consumarle nel contatto dei sensi. Era un rapporto personale di un tipo nuovo per l'albino, che ne fu felice. Sentiva di aver appreso qualcosa d'importante dalla ladra dei sogni, qualcosa che gli sa-
rebbe stato utile quando fosse tornato a Melniboné per riprendere il trono affidato a Yyrkoon. Mentre scendevano verso le rampe inferiori gli parve che i vestiti fossero sempre più elaborati, i gioielli e le armi e gli ornamenti più ricchi ed esotici, mentre la gente fra cui passavano era più alta e più bella. La curiosità lo spinse a fermarsi ad ascoltare un cantastorie che stava affascinando una piccola folla coi suoi racconti, ma l'uomo parlava in una lingua dai toni acuti che lui non aveva mai sentito. Poco più avanti c'era una venditrice di granaglie, ed Elric e Oone le domandarono cortesemente se la gente riunita su quella scalinata provenisse da nazioni diverse. La donna corrugò la fronte, scosse il capo e rispose in una lingua del tutto incomprensibile. Sembrava composta da poche parole ma molte tonalità di voce. Solo quando furono avvicinati da un venditore di sorbetti, un ragazzo che parlava in una lingua molto simile alla loro, poterono avere una risposta a quella domanda. Il ragazzo faticò un poco per costruire una frase grammaticalmente comprensibile. «Sì» disse, «noi siamo il popolo della grande scala. Ognuno di noi ha il suo posto, alcuni in alto, altri in basso.» «E più si è ricchi e importanti, più si sta in basso, vero?» volle sapere Oone. Il ragazzo si accigliò. «Ognuno di noi ha il suo posto» ripeté, come offeso e spaventato da quella domanda, e corse via verso l'alto, fra la gente. Elric stava anche notando che intorno a loro c'era meno ressa, come se il numero degli abitanti della grande scala diminuisse sulle rampe più vicine alla pianura. «Ciò che vediamo qui è un'illusione?» domandò sottovoce a Oone. «Sembra tutto molto irreale.» «È una tua impressione, dovuta al fatto che ti senti un estraneo» disse lei. «Questo influisce sul modo in cui la tua mente percepisce questo luogo, credo.» «Ma il luogo è un'illusione?» «Non è ciò che si può chiamare illusione» rispose la ragazza. Fece uno sforzo per trovare una parola più adatta, poi scosse il capo. «Più ti sembra un'illusione, più diventa illusione. Questo significa qualcosa per te?» «Non ne sono tanto sicuro.» Il fondo della scalinata era ormai vicino. Stavano scendendo per l'ultima rampa quando, volgendo lo sguardo sulla pianura, videro un cavaliere che arrivava al galoppo sollevando un gran polverone. La gente alle loro spalle mandò grida allarmate. Girandosi Elric si accor-
se che tutti avevano preso la corsa su per la scala, e il suo primo impulso fu di unirsi a loro, ma Oone lo trattenne. «Ricorda che non possiamo tornare indietro» disse. «Dobbiamo affrontare i pericoli che ci aspettano, salvo che non sembrino insuperabili.» Scesero sulla pianura, e da lì a poco la figura in groppa al cavallo fu meglio visibile. Era ancora lo stesso guerriero dall'armatura d'avorio e madreperla, o un altro identico a lui. Brandiva una lancia bianca, con la punta d'osso affilato, e quando abbassò l'arma fu per puntarla dritto al cuore di Elric. L'albino corse avanti, contando che quella mossa avesse l'effetto di confondere l'assalitore. All'ultimo momento si spostò di lato con un balzo e colpì con un fendente la lancia, che s'era allargata a seguire il suo spostamento. Riuscì a deviarla, ma barcollò via sbilanciato. Nel frattempo Oone, agendo all'unisono con lui come se fossero in contatto telepatico, era corsa sul lato sinistro del cavaliere, e vibrò la sua scimitarra dal basso in alto per ferirlo al fianco. Il suo colpo fu parato dal guanto metallico destro dell'individuo, con un gesto rapido e preciso. Elric era comunque riuscito a vederlo in faccia chiaramente per la prima volta: un volto magro, esangue, con occhi vacui e una bocca simile a una grigia crepa nel granito contorta in una smorfia sprezzante. Ma, sbigottito, si rese conto che somigliava in qualche modo ad Alnac Kreb. La lancia girò dalla parte opposta e colpì di piatto Oone a una spalla, facendola cadere al suolo. Elric s'era rimesso in guardia prima che l'altro girasse di nuovo la lancia verso di lui, e avventò la spada per tagliare le briglie del cavallo, trucco appreso dai briganti vilmiriani, ma la sua lama fu bloccata da un gambale dell'altro, e la lancia tornò a cercare il suo petto, mentre lui saltellava da una parte e dall'altra per distrarlo e dare a Oone il tempo di rialzarsi. Benché Elric e la ladra di sogni si battessero con grande abilità, il loro avversario sembrava capace di prevedere ogni loro gesto e di precederli. L'albino cominciava a pensare che quel cavaliere fosse di origine supernaturale, e mentre faceva finte per ingannare se non lui almeno il cavallo spinse la mente nel reame degli elementali, alla ricerca di qualsiasi genere d'aiuto purché immediatamente disponibile. Ma non trovò niente. Era come se quel reame fosse vuoto, quasi che nel giro di una notte gli elementali della terra, i demoni e gli spiriti fossero stati banditi nel limbo. Arioch non lo avrebbe assistito. E la sua capacità di negromante era del tutto inutile senza quegli appoggi.
Oone gridò di dolore, ed Elric vide che era caduta malamente contro gli scalini più bassi. La ladra di sogni cercò di rialzarsi, ma dopo un breve e goffo tentativo ricadde priva di forze, come paralizzata. Sembrava incapace di muovere le gambe. Il cavaliere bianco fece girare il cavallo, con una risata chioccia, e tornò verso la ragazza ormai inerme abbassando la lancia. Elric ruggì il suo vecchio grido di battaglia e corse verso il loro aggressore, sperando di attirarlo su di sé. Era terrorizzato dalla possibilità che accadesse qualcosa alla compagna, con cui aveva fatto all'amore e per la quale provava ormai un affetto profondo, ed era disposto a farsi ammazzare pur di salvarla. «Arioch! Arioch! Sangue e anime!» Ma lì non c'era una spada intarsiata di rune ad aiutarlo. Tutto ciò che aveva erano la sua destrezza e la sua esperienza. «Alnac Kreb» gridò, «è questo tutto ciò che resta di te?» Il cavaliere si volse con uno scatto d'ira, rallentò il cavallo e come tutta risposta cercò di colpire con la lancia l'uomo che arrivava di corsa. Elric non aveva previsto una reazione così rapida; si gettò di lato, ma il cavallo ebbe uno scarto e lo colpì con una spallata, facendolo rotolare nella polvere; la sua mano destra perse il contatto con l'elsa poco familiare di quella sciabola, ma lui annaspò sulle mani e sulle ginocchia e tornò indietro per recuperarla. Prima di arrivarci vide però che l'uomo aveva sfoderato la sua spada bianca e spronava il suo animale verso Oone, che incapace di alzarsi giaceva ancora sugli scalini. Inginocchiato al suolo impugnò allora la corta daga e la scagliò, con tutta la sua forza. Per pura combinazione l'arma arrivò di punta e sfondò l'armatura di madreperla dell'avversario all'altezza della scapola destra. Il braccio armato di spada si abbassò, e il cavallo compì un largo semicerchio. Elric ebbe il tempo di raccogliere la sciabola, ma mentre si metteva di nuovo in guardia vide, inorridito, che il cavaliere girava un'altra volta verso Oone con la spada sollevata per colpire, ignorando la ferita alla spalla. «Alnac, ascoltami!» Elric non era neppure certo che una parte del defunto ladro di sogni fosse lì, né che quell'appello potesse risvegliare qualcosa in lui, ad ogni modo esso fu completamente ignorato. Nell'aria risuonò di nuovo quell'odiosa risata disumana, e il cavallo sbuffò con ferocia incalzando con gli zoccoli la ragazza che si trascinava via sugli scalini. Imprecando fra i denti Elric aggirò il posteriore del cavallo e balzò ad-
dosso al guerriero, nel tentativo di agguantarlo e tirarlo giù della sella. L'individuo ringhiò e si volse a mezzo. La sua spada, vibrata orizzontalmente, tagliò l'aria andando a impattare sonoramente contro la scimitarra dell'albino, che con uno sforzo disperato riuscì finalmente a disarcionarlo. I due caddero sul terreno sabbioso a un passo di distanza dallo scalino dove giaceva Oone. La mano in cui Elric stringeva la spada restò schiacciata dall'armatura sotto la schiena dell'avversario, ma lui lasciò l'elsa per recuperare la daga ancora confitta nella sua spalla e gliela avrebbe piantata in uno di quei ripugnanti occhi morti se l'altro non fosse stato svelto ad afferrarlo per il polso. «Dovrai uccidermi prima di torcerle un capello!» urlò Elric, sputandogli in faccia con rabbia. L'altro si limitò a ridere, e in quel momento in lui non c'era niente di Alnac. Lottarono corpo a corpo per un poco, senza che nessuno dei due riuscisse ad avvantaggiarsi. Elric sentiva solo il pulsare del sangue negli orecchi, i grugniti dell'individuo in armatura, lo scalpiccio del cavallo e l'ansito di Oone che si sforzava di tirarsi in piedi. «Guerriero della Perla!» A parlare era stata una voce di donna. Non quella di Oone, bensì una voce sconosciuta, e in vibrante tono autoritario. «Guerriero della Perla, non devi commettere altri atti di violenza contro questi due viaggiatori!» Il guerriero ringhiò, ma non fece alcun caso all'ordine della donna. Aveva i denti scoperti, protesi verso la gola dell'albino, e con le mani cercava di fargli girare la daga per piantargliela nel cuore. Da un lato della bocca gli colava un rivolo di bava, densa come quella di un cane idrofobo. «Guerriero della Perla!» All'improvviso l'individuo cominciò a parlare, sussurrando concitato all'orecchio di Elric come se fossero due cospiratori: «Non la ascoltare! Io posso aiutarti. Perché non vieni con noi, a caccia di carovane sulla Grande Steppa, dove c'è sempre un ricco bottino? Là crescono ciliege grosse come meloni, e le donne hanno il fuoco in corpo. Io ti darò abiti e gioielli. Non ascoltarla, non ascoltarla. Sì, io sono Alnac, il tuo amico. Sono io!» Elric fu disgustato da quel borbottio demenziale ancor più che dall'orribile faccia e dalla folle violenza dell'individuo. «Pensa a tutto il potere che otterrai. Tutti avranno paura di te. Tutti avranno paura di noi due. Io non sono libero, ma tu potrai viaggiare dove vorrai. Io non sono libero, ma tu realizzerai tutti i tuoi desideri. Io non so-
no libero, Elric, ma ho molti schiavi a mia disposizione. Saranno tuoi. Ti offro una ricchezza insperata e nuovi grandi ideali, nuovi modi di realizzare le tue aspirazioni. Io ho paura di te e tu hai paura di me. Questo ci lega uno all'altro. È l'unico legame che significa qualcosa. Loro sognano di te, tutti loro. Perfino io, che non sogno più. Tu sei il solo nemico che...» «Guerriero della Perla!» Con un clangore di pezzi snodabili d'avorio e di madreperla il guerriero dalla faccia lebbrosa riuscì a districarsi dalla presa di Elric. «Insieme potremo sconfiggerla» sibilò in tono pressante. «Non ci sarà forza capace di resisterci. Io ti donerò la mia ferocia!» Nauseato da quell'individuo l'albino si alzò in piedi e fece un passo verso Oone, che s'era seduta su uno scalino e si massaggiava una gamba, con l'aria di riprendersi pian piano. Poi si girò a guardare ciò che la ladra di sogni stava guardando. Una donna, più alta di lui, era venuta a fermarsi alla base della scalinata. Aveva un cappuccio in testa, e il volto nascosto da un velo che le lasciava scoperti soltanto gli occhi. Il suo sguardo si spostava da loro al cavaliere che aveva chiamato «Guerriero della Perla», e nella destra stringeva un lungo bastone che batté al suolo con impazienza. «Guerriero della Perla, quando io do un ordine tu devi ubbidire!» L'individuo era furente. «Non mi piace che mi si parli così» grugnì, sistemandosi il cinturone mezzo staccato. «Tu mi stai irritando, Dama Gemente!» «Questi due sono sotto la mia protezione, e me ne occupo io. Vattene, Guerriero della Perla. Vai ad ammazzare qualcun altro. Cerca i veri nemici della Perla.» «Io non accetto ordini da te!» Il tono dell'individuo era quello di un bambino capriccioso. «Tutti sono nemici della Perla. Anche tu, Dama Gemente.» «Tu sei uno sciocco presuntuoso. Vattene!» esclamò lei, e alzò il bastone a indicare oltre la scalinata, dove si vedevano solo rocce sempre più alte che sparivano nella foschia. Il guerriero alzò un dito ammonitore. «Ora mi stai facendo perdere la pazienza, Dama Gemente. Io sono il Guerriero della Perla. Io ho la forza che viene dalla Fortezza.» Si rivolse a Elric come a un vecchio camerata: «Unisciti a me, e insieme uccideremo subito questa femmina. Poi regneremo insieme... tu con la tua libertà, io anche se sono schiavo. Domineremo questo reame e altri ancora, sconosciuti ai ladri di sogni. In essi c'è la
salvezza eterna. Sposati con me, diventa mio e saremo uniti in matrimonio: Sì, per sempre...» Con una smorfia Elric volse le spalle al Guerriero della Perla. Si chinò accanto a Oone e la aiutò ad alzarsi in piedi. La ladra di sogni riusciva a muovere le gambe, ma era ancora un po' stordita. Si girò a guardare la scalinata che saliva dietro di loro fino al cielo di roccia. Di tutta la gente che poco prima sostava sulle sue rampe non si vedeva più neppure un'anima. A disagio Elric osservò la nuova venuta. La sua lunga veste era in diverse tonalità di azzurro; si muoveva dignitosamente, con lenta grazia, e nei suoi occhi sembrava esserci una scintilla divertita. Nel frattempo il Guerriero della Perla s'era tirato in piedi e stava in disparte con atteggiamento di sfida, senza rinunciare agli orridi sorrisetti di complicità diretti a Elric e gettando occhiate astiose a Dama Gemente. Elric le domandò: «Dov'è andata la gente della grande scalinata?» «Sono tornati tutti a casa loro, messere» rispose Dama Gemente. Nella sua voce, quando si rivolse a lui, c'era un tono cordiale ma ancora la stessa autorità con cui aveva ordinato al Guerriero della Perla di mettere fine alle ostilità. «Io sono Dama Gemente, e vi do il benvenuto in questa terra.» «Ti siamo grati per il tuo intervento, signora» disse Oone, ritrovando la voce. Elric capì che era insospettita. «Sei tu che comandi, qui?» «Io sono soltanto una guida, un ufficiale di rotta.» «Questo indemoniato accetta i tuoi ordini, però» disse Oone, massaggiandosi una gamba, con un cenno del capo verso il Guerriero della Perla. Lui sbuffò e distolse lo sguardo, irritato dal modo in cui Dama Gemente lo fissava. «Costui è incompleto» lo etichettò con indifferenza Dama Gemente. «Fa la guardia alla Perla, ma ha un'intelligenza così scarsa che non capisce la natura del suo lavoro, né sa distinguere gli amici dai nemici. Può fare solo un numero limitato di scelte, il povero bastardo senz'anima. Anche quelli che gli hanno affidato questo incarico, del resto, non capiscono bene quali dovrebbero essere i requisiti di un guerriero di questo genere.» «Bugiarda! Non è vero!» Il Guerriero della Perla fece udire di nuovo la sua risata aspra. «L'incapace sei tu. Sei tu!» «Vattene via!» gridò ancora Dama Gemente agitando il bastone verso la scalinata. Nella fessura orizzontale fra il velo e il cappuccio i suoi occhi mandavano lampi. «Non hai più niente da fare qui!» «La morte non è mai una scelta saggia, signora mia» disse il Guerriero
della Perla, alzando le spalle con acre arroganza. «Guardati dalla tua stessa ingenuità. Tutti noi potremmo dissolverci se questi due ottenessero ciò che cercano.» «Vattene, stupido bruto!» ordinò lei, indicando il cavallo. «E lascia al suolo quella lancia. Sei soltanto un essere distruttivo, insensato e grottesco.» «Secondo me» disse Elric a Oone, sottovoce «costui non ha fatto che dire cose insensate. Tu che ne pensi?» «Forse» annuì Oone. «Ma potrebbe aver detto più verità lui di quelli che vogliono proteggerci.» «Tutto arriverà, e tutto dovrà essere respinto» fu l'oscura ultima dichiarazione del Guerriero della Perla mentre rimontava in sella. Diresse il cavallo sul punto in cui era caduta la sua lancia. «È per questo che noi siamo qui.» «Vattene! Vattene!» Lui si piegò di lato, protendendo una mano in basso verso la lancia. «No!» gli disse fermamente lei, come se parlasse a un bambino capriccioso. «Ti ho già detto di lasciar stare le armi. Guarda cos'hai già fatto, Guerriero della Perla. Io ti proibisco di aggredire ancora queste persone.» «E va bene, nessuna alleanza... per ora! Ma presto io otterrò la libertà, e tutto sarà diverso!» Il pazzoide fece udire un'altra delle sue incomprensibili risatine, affondò gli speroni nei fianchi del cavallo e si allontanò al galoppo nella direzione da cui era arrivato. «Ci metteremo d'accordo, messere, vedrai! Oh, se lo vedrai!» «Le sue parole significano qualcosa per te, Dama Gemente?» domandò in tono discorsivo Elric, quando l'individuo fu scomparso nel polverone che il cavallo si lasciava dietro. «Alcune, sì» fu la risposta della donna. Dietro il velo parve sorridere. «Non è colpa sua se ha un cervello deforme. Ci sono pochi guerrieri in questo mondo, sapete. Lui è forse il migliore.» «Figuriamoci gli altri, allora.» Dama Gemente non replicò all'osservazione sarcastica di Oone. Accennò loro di avvicinarsi con un gesto della mano sinistra, su cui scintillavano piccoli anelli d'aspetto delicato. «Io sono, come vi ho detto, una guida. Posso condurvi in isole incantate, fatte per dare l'eterna gioia a due amanti. C'è un luogo segreto, noto a me sola, dove potrete vivere al sicuro. Volete che vi porti là?» Elric guardò la compagna, chiedendosi se quel genere di proposta potes-
se interessarla. Non pensava più allo scopo della loro missione. Sarebbe stato bello trascorrere una vacanza idilliaca in compagnia di Oone. «Questa landa è Imador, non è così, Dama Gemente?» «Così la chiamano i ladri di sogni, ho sentito dire, sì.' Ma non è il nome che le diamo noi» rispose l'altra, con aria contrariata. «Ti saremo grati dell'aiuto che vorrai darci, dama» disse Elric, per fare ammenda, pensando che Oone era stata un po' troppo brusca. «Questa signora è Dama Oone, della gilda dei ladri di sogni, e io sono Elric di Melniboné. Mi è parso di capire che sai già che stiamo cercando la Fortezza della Perla.» «È vero. E la strada che avete davanti conduce da quella parte. Io posso farvi da guida verso la Fortezza. Ma non necessariamente lungo la via più breve, se mi consentite un consiglio. Sono in grado di portarvi a destinazione per qualunque strada vogliate» disse la donna. Il suo atteggiamento era adesso alquanto distaccato, come se fosse scivolata in pensieri suoi. Appariva distratta, fredda, ed Elric si chiese se qualcosa l'avesse offesa. «Ti siamo debitori, Dama Gemente, e apprezziamo il tuo consiglio. Tu cosa ci suggerisci?» «Di assoldare un esercito, direi, come prima cosa. Per la vostra incolumità. Alla Fortezza della Perla ci sono difese terribili. E anche sulle strade che portano là, quanto a questo. Voi siete due coraggiosi, è evidente. E le strade che possono condurvi al successo sono diverse. Al termine delle altre attende solo la morte. Sono certa che vi rendete conto di questo...» «Dove potremmo reclutare un esercito adeguato?» le domandò Elric, ignorando l'occhiata d'avvertimento di Oone. Aveva l'impressione che la ladra di sogni esagerasse, mostrandosi insospettita da quella dama così dignitosa. «C'è un lago, non lontano da qui. E in quel lago c'è un'isola. La gente di quell'isola anela di battersi. Seguirà chiunque prometterà loro guerra e sangue. Vogliamo intanto recarci là? È un luogo assai ameno. C'è un clima ideale, e mura entro cui sarete ben difesi. I giardini sono splendidi, e si mangia bene.» «Le tue parole hanno un risvolto pratico che dimostra buonsenso» disse Elric. «Varrebbe la pena fare una sosta laggiù, e reclutare abili soldati. Inoltre mi è stata offerta alleanza dal Guerriero della Perla. Pensi che ci aiuterebbe? Possiamo fidarci?» «Per lo scopo che avete in mente? Sì, credo.» La donna corrugò la fronte. «Perché no?»
«Lasciamo perdere quest'isola, Dama Gemente» disse Oone, con voce secca e decisa. «Ti saremo grati se ci farai da guida, comunque. Puoi condurci alla Porta Falador? Sai di cosa parlo?» «So dov'è quella che tu chiami Porta Falador, ragazza. E qualunque cosa tu cerchi o desideri, io posso trovarla per te.» «Qual è il nome che voi date a questa landa?» «Nessun nome.» Dama Gemente parve confusa da quella domanda. «Non c'è bisogno di un nome. È questo posto. È il luogo dove siamo. Ma io posso farvi da guida in lungo e in largo.» «Ti credo, dama.» Oone mise una mano su un braccio di Elric, e il suo tono si ammorbidì. «L'altro nome che noi le diamo è Landa delle Nuove Ambizioni. Ma le nuove ambizioni sono ingannevoli. Spesso noi le inventiamo quando quelle vecchie diventano troppo difficili da raggiungere. Vero?» Elric capì quel che gli stava dicendo. Si sentì stupido. «Tu vuoi portarci a caccia di farfalle, vero, Dama Gemente?» «Non userei questa espressione.» La donna velata scosse il capo. In quel grazioso atteggiamento di rimprovero parve ferita dalla franchezza di quella domanda. «Un nuovo traguardo è talvolta preferibile, quando gli ostacoli diventano insuperabili.» «Ma qui non vedo ostacoli insuperabili, Dama Gemente» disse Oone. «Non ancora.» «Questo è vero.» La donna annuì impercettibilmente. «Io vi offro tutta la verità che conosco, e ne conosco ogni aspetto.» «Noi ci atterremo agli aspetti della verità che giudichiamo più solidi» disse dolcemente Oone. «E ti ricompenseremo per l'aiuto che vorrai darci.» «La scelta è vostra, Dama Oone. Venite.» La donna velata girò su se stessa, facendo svolazzare il lungo abito appesantito da ricami e pizzi e si allontanò dalla scalinata precedendoli fino a una lunga serie di monticelli. Dietro di essi il terreno si abbassava, e i due compagni di viaggio ebbero la sorpresa di vedere un fiume di modeste dimensioni. Ormeggiata a un moletto c'era una bella imbarcazione a vela. La sua prora si alzava in una curva che ricordava l'estremità di un bastone dei sogni, e le fiancate erano coperte di sottili strati d'oro battuto, d'argento e di bronzo scuro. C'erano finiture di lucido ottone sulle ringhiere e sull'albero maestro, e la vela, azzurra con ricami d'argento come l'abito di Dama Gemente, era ammainata intorno al pennone. L'equipaggio non si vedeva. La loro guida piegò il bastone a indicarla. «Quella è la barca su cui viaggeremo fino alla porta da voi cer-
cata. Dama Oone, messer Elric, sappiate che io ho un motivo personale per volervi proteggere. Non dovete temermi.» «Mia signora, non vedo perché dovremmo temerti» disse Oone con evidente ironia. Non sembrava tuttavia contraria a fidarsi di lei. Elric era perplesso per i suoi modi, ma cercò di dirsi che aveva più esperienza di lui e poteva meglio giudicare la situazione. «Che ne pensi?» mormorò alla compagna, mentre scendevano verso il moletto di legno. «Credo che siamo più vicini alla Fortezza della Perla di quanto credessimo» disse Oone. «Questa donna ci condurrà nella direzione giusta, suppongo, ma non so perché agisca così.» «Ti fidi di lei?» «Se abbiamo fiducia in noi stessi, possiamo anche fidarci di lei, almeno fino a un certo punto. Dobbiamo farle le domande giuste.» «Se posso fidarmi degli altri nella misura in cui mi fido di me, sarò costretto a fidarmi di tutti» scherzò Elric, ma nello sguardo serio della ragazza vide che dietro quell'apparente controsenso c'era una verità. Ubbidendo alle cortesi insistenze di Dama Gemente i due salirono subito a bordo dell'elegante imbarcazione che oscillava appena sulle acque scure. Notando la forma regolare delle sponde Elric rifletté che quello doveva essere un canale artificiale, di larghezza e di profondità uniformi. Vide che il suo corso era rettilineo, e che a circa una lega di distanza faceva una curva e spariva nella pianura. Alzò lo sguardo e scrutò l'atmosfera, ancora incerto se quello fosse il cielo o il soffitto d'una caverna più larga delle altre. Anche da lì poteva scorgere la grande scalinata, e di nuovo si chiese dove fosse andata tutta quella gente dopo che l'arrivo del Guerriero della Perla l'aveva spaventata. Dama Gemente tolse la cima d'ormeggio, slegò la vela quadra, poi si mise al timone e con destrezza guidò la barca al centro del corso d'acqua. Quasi subito gli argini si abbassarono molto e fu possibile vedere il territorio desertico su ogni lato. Più avanti, dopo la curva apparvero dinnanzi a loro delle piccole alture su cui sembrava esserci una certa quantità di vegetazione. Nell'aria c'era una luce morbida e soffusa che ricordava a Elric le sere d'autunno della sua terra, e gli parve quasi di risentire il profumo dei roseti, degli alberi umidi di pioggia e dei fertili orti di Imrryr. Seduto presso la prua, accanto a Oone che gli teneva una mano su una spalla mentre lo scafo oscillava appena, l'albino sospirò di piacere. «Se nelle tue ricerche di sogni da rubare ci sono momenti come questo,
Dama Oone, sarò lieto di poterti accompagnare in molti altri viaggi.» Anche la ragazza era di buonumore. «D'accordo. Ma non parlarne con nessuno, altrimenti tutti quanti vorranno diventare ladri di sogni.» La barca girò lungo un'ansa del canale e i due compagni tacquero, messi in allarme dalla comparsa di molti uomini e donne in piedi su entrambe le rive. Visti da vicino risultarono però del tutto innocui; erano individui silenziosi, dall'aria triste, vestiti di bianco o di giallo, e guardavano il passaggio della barca con le lacrime agli occhi, quasi che assistessero al funerale di una persona cara. Elric poteva esser certo che non stavano piangendo per lui o per Oone, e li chiamò, chiedendo loro cos'avessero, ma quelli parvero non sentirlo neppure. All'ansa successiva se li lasciarono indietro, e videro intorno a loro terreni collinosi coltivati a terrazza, verdi di vigneti e di ulivi. Nell'aria si sentiva l'odore dolciastro del mosto, e fra i cespugli della riva apparve un piccolo quadrupede simile a una volpe, che corse per un poco a fianco della barca prima di deviare fra le piante. Poco più avanti videro un gruppetto di uomini piccoli e bruni, completamente nudi, che camminavano a quattro zampe sull'erba e non fecero molto caso alla barca. Il canale faceva ora svolte continue, e Dama Gemente doveva gettare tutto il suo peso sulla barra del timone per tenersi a distanza di sicurezza dalla riva. «Perché mai qualcuno dovrebbe aver scavato un canale qui?» si girò a domandarle Elric, quando furono di nuovo in un tratto rettilineo. «Quello che prima era sopra di noi adesso è davanti, e quello che era sotto è dietro» rispose la donna velata. «Questa è la natura della terra che stiamo attraversando. Io sono una guida, e lo so. Ma più avanti, dove c'è il buio, il canale è dritto. Ciò allo scopo di aiutare la comprensione, credo.» Le sue parole erano indecifrabili quanto quelle del Guerriero della Perla, ed Elric cercò di capirle meglio ponendole altre domande: «Il canale aiuta la comprensione di cosa, Dama Gemente?» «Della loro natura. Della natura di lei, di ciò che voi dovrete incontrare... ah, guardate!» Le rive si allargarono e il fiume sfociò in un lago. C'erano vasti canneti, e aironi dalle piume d'argento che alla loro comparsa si levarono in volo nel cielo grigio. «L'isola di cui vi ho parlato non è molto lontana» disse Dama Gemente. «Forse sarebbe prudente andare là, lo dico per il vostro bene.» «No, grazie» rispose Oone, con aria decisa. «Attraversiamo il lago, per favore, verso la Porta Falador.»
«Mi chiedi un favore che...» Dama Gemente scosse il capo. «Non vorrei condurvi alla morte.» «Non moriremo. Siamo qui per salvare una persona... quella «lei» a cui ti riferivi, suppongo.» «Lei ha paura.» «Lo sappiamo.» «Anche gli altri dicevano di volerla salvare. Ma loro... loro hanno fatto scendere il buio su di lei, e ora lei è in trappola...» «Lo sappiamo» ripeté Oone. S'era accostata alla donna velata e le mise una mano su una spalla per rassicurarla, mentre lei dirigeva la barca attraverso il lago. Elric domandò: «State parlando della Vergine Sacra e degli Avventurieri Stregoni? Cos'è che la imprigiona, Dama Gemente? Tu sai dirci come potremmo liberarla? Noi vogliamo restituirla a suo padre e alla sua gente.» «Oh, tu stai mentendo! Ora taci, abbiamo degli ostacoli sulla nostra rotta» esclamò la donna. Stava indicando una figuretta che nuotava nell'acqua giusto verso di loro, e gli altri due poterono vedere che si trattava di una bambina. Ma subito s'accorsero che aveva la pelle metallica, o dipinta di lucido argento, e sulla sua faccia liscia e scintillante c'era un'espressione di supplica. La strana piccola nuotatrice rivolse loro un breve sguardo e s'immerse, sparendo sott'acqua. «Ci avviciniamo alla Porta Falador» commentò Oone, accigliata. «Anche chi vorrebbe impadronirsi di lei la difende» disse Dama Gemente. «Ma lei non appartiene a loro.» «So anche questo» annuì Oone. Il suo sguardo era fisso su ciò che li aspettava più avanti. Sul lago era scesa la nebbia, anche se non sembrava più densa della foschia che poteva formarsi su un terreno umido in un mattino autunnale. Ma ciò che la stava insospettendo era la tranquillità di quel panorama ameno. Elric si volse a scrutare il volto della loro guida, ma l'espressione della donna era nascosta dal velo e nei suoi occhi non c'era alcun indizio sul genere di pericolo che presto avrebbero dovuto affrontare. L'imbarcazione deviò sulla destra e da lì a poco nel grigiore apparve la terraferma. Elric vide alti cipressi neri che si levavano oltre cumuli di rocce spezzate. Sulla sinistra la luce morbida delineava costoni di arenaria biancastra dal profilo arrotondato, in cui si aprivano scure cavità forse artificiali. Si domandò se Dama Gemente non li avesse portati proprio sull'isola di cui aveva parlato, e glielo stava chiedendo quando vide che sulla parete rocciosa c'era un massiccio portale di pietra scolpita. Sorgeva diretta-
mente dall'acqua del lago, e i suoi battenti chiusi erano adorni di mosaici consunti e scuriti dai secoli. «La Porta Falador» annunciò Dama Gemente, non senza una certa trepidazione. Ad un tratto i poderosi battenti coperti di mosaici si abbatterono nell'acqua, e ne emerse un vento così terribile che li fece vacillare contro la ringhiera, quasi strappando loro gli abiti di dosso. La barca cominciò a rullare con violenza negli ululati delle raffiche d'aria e fra gli schizzi. Temendo che si capovolgesse Elric corse al timone per aiutare Dama Gemente a tenere la prua al vento. Il velo con cui la donna si mascherava era volato via, e la faccia che l'albino vide, pur non essendo giovane, somigliava in modo stupefacente a quella della fanciulla addormentata nella Tenda Bronzea, la Vergine Sacra dei Bauradim. Afferrando la barra, mentre Dama Gemente ne approfittava per nascondersi di nuovo il viso con un altro velo, Elric pensò che Raik Na Seem non gli aveva parlato della sua sposa, se pure Varadia aveva una madre. Oone stava lottando con la vela per ammainarla. Ma pochi momenti dopo la forza del vento scemò, e fu possibile dirigere la barca nelle acque basse verso l'ingresso oscuro e dall'odore strano che la cornice di pietra del portale inquadrava dopo la caduta dei due battenti. Da quella penombra uscirono ad un tratto tre cavalli, con le code e le criniere sventolanti nella corsa. I quadrupedi proseguirono sul fondale fangoso verso l'imbarcazione e dopo esserle passati accanto, al galoppo, svanirono in un banco di nebbia. Nessuno dei tre animali aveva la testa. Adesso Elric era spaventato. Ma era un genere di paura che ogni negromante conosceva bene, e in breve riuscì a riprendere il controllo di se stesso. Ora sapeva che, qualunque nome le avessero dato, quella in cui stavano per entrare era una landa dove regnava il Caos. Fu solo mentre la barca veniva spinta dalla corrente oltre il portale di roccia scolpita, in una caverna lunga e stretta di cui non si vedeva la fine, che Elric ripensò agli incantesimi e agli esorcismi dei quali non poteva servirsi. Lì lui non disponeva più dell'aiuto dei suoi alleati, né di quello del suo patrono, il Duca dell'Inferno. Tutto ciò che aveva era il coraggio di un comune mortale. E in quel momento dubitava molto che questo gli sarebbe bastato per uscirne vivo. 10
Una triste regina che non poteva regnare L'imponente barriera d'ossidiana nera che sbarrava loro la strada cominciò improvvisamente a scorrere come lava. Una massa vetrosa piombò nell'acqua, che sibilò e gorgogliò, mentre nubi di vapore bollente si alzavano davanti alla prua. Quando la visuale si schiarì il fiume che apparve ai loro occhi era alquanto diverso. Questo scorreva fra le ripide pareti di un profondo canyon e sembrava di origine naturale, tanto che Elric, sempre alla ricerca di una chiave per interpretare ciò che vedeva, si chiese se non fosse lo stesso fiume in cui aveva affrontato la prima volta il Guerriero della Perla, sul ponte di roccia. L'imbarcazione su cui stavano viaggiando, che fin'allora gli era parsa piuttosto solida, veniva adesso sollevata e scrollata come una pagliuzza dalla tumultuosa corrente, così rapida da far credere che li avrebbe portati in poco tempo nel cuore del mondo. In piedi sull'ondeggiante poppa Elric e Oone aiutarono Dama Gemente a tenere il timone, per non sbattere contro le pareti della gola. Ma d'un tratto le rapide ebbero termine e dopo aver superato un'ultima cascatella piombarono in un laghetto d'acqua ferma, dove la barca proseguì per forza d'inerzia finché smise di beccheggiare: Su di loro c'era un cielo grigio come peltro polveroso, nel quale forme scure color del cuoio volavano lente, comunicando con strida desolate, sopra palmizi le cui chiome immobili sembravano sfoglie di lamiera rugginosa in attesa di un sole che non sarebbe mai sorto. Nella zona c'era un denso odore di humus, e si udiva echeggiare in distanza il monotono rumore delle rapide, l'unico oltre lo stridere dei volatili a rompere il silenzio sulle rocce e sulla vegetazione che li circondava. Faceva caldo, ma Elric ebbe un tremito. Oone si tirò su il colletto della blusa, e anche Dama Gemente si abbottonò meglio la scollatura dell'abito. «Dama Oone, tu sai dove ci troviamo?» domandò Elric. «So che hai già visitato più volte questo reame, ma sembri perplessa quanto me.» «Ci sono sempre nuovi aspetti, nuovi posti. È la natura stessa di questi reami. Forse Dama Gemente conosce la regione a sufficienza, comunque, no?» disse lei, inclinando cortesemente il capo verso la loro guida. La donna s'era fissata il velo più saldamente. Sembrava alquanto seccata che Elric l'avesse vista in faccia. «Di questa terra io sono la Regina» dichiarò con voce piatta, senza emozione. «Allora hai dei cortigiani o dei servi che possono aiutarci?» «Questa landa è la mia Regina così come io sono la sua. Io non ho alcun
potere su di lei, ma soltanto la sua protezione. È la landa che voi chiamate Falador.» «Ed è irata con noi?» «Ha molte difese.» «Le quali tengono dentro anche chi vorrebbe andarsene» disse Oone, più a se stessa che a lei. «Tu hai paura di quelli che proteggono Falador, Dama Gemente?» «Io sono la Regina Gemente, qui.» La donna velata raddrizzò le spalle, se con alterigia vera oppure scherzosamente Elric non seppe dirlo. «Io sono protetta. Voi no. Neppure io ho la possibilità di difendervi, qui.» La barca continuava a galleggiare avanti lentamente, nel corso d'acqua che usciva dal laghetto. Il muschio sulle rocce sembrava muoversi come un animale disturbato dal loro passaggio, e sotto la superficie dell'acqua c'erano strane ombre che innervosivano Elric. Avrebbe sfoderato la spada, ma non voleva apparire un po' troppo apprensivo agli occhi di Oone. «Da cosa è necessario difendersi, qui?» domandò alla Regina. La corrente li stava portando intorno a una larga piattaforma di roccia, sopra la quale era venuto a fermarsi un cavaliere. Era di nuovo il Guerriero della Perla, che abbassò lo sguardo su di loro con lo stesso miscuglio di sprezzante sarcasmo e odio demenziale. Mostrò la lancia di cui s'era fornito dopo aver perso l'altra: un bastone non scortecciato su cui aveva legato il corno appuntito di qualche animale. La Regina Gemente agitò un pugno verso di lui. «Un Guerriero della Perla non deve far questo! Un Guerriero della Perla non può sfidare me, neppure qui!» L'individuo fece udire la sua solita risata maligna, girò il cavallo e scese dalla roccia, dileguandosi fra la vegetazione. «Ci attaccherà ancora?» domandò Oone alla Regina. La donna era tornata a occuparsi del timone, e con una lenta virata condusse la barca in un piccolo ramo del fiume che si staccava dal suo corso principale. Forse per allontanarsi dalla zona in cui prevedeva un' aggressione del cavaliere. «Quel prepotente non ha il permesso di battersi qui» li informò. L'acqua aveva assunto una tonalità vermiglia, e sulle rive rocciose cresceva fitto un lucido muschio marrone, mentre intorno a loro si alzavano ora imponenti pareti di granito. Elric vide delle facce vecchie e rugose sporgersi a spiarli dagli anfratti e sopra gli assembramenti di macigni, ma non gli parve che quei miserabili selvaggi fossero minacciosi. Il liquido
rosso su cui galleggiavano sembrava vino, e ne aveva perfino l'odore. Che la Regina Gemente conoscesse tutti i segreti luoghi tranquilli di quella landa, e li guidasse dall'uno all'altro per evitare i pericoli? «Qui ha molta influenza il mio amico Edif» disse la donna. «È un governante che s'interessa soprattutto di poesia. Ci difenderà? Non lo so affatto.» Gli altri due s'erano abituati alle sue dichiarazioni un po' oscure, e in un certo senso questo li aiutava a capirle meglio, anche se non avevano la minima idea di chi fosse Edif. Tuttavia poco più avanti si lasciarono alle spalle le rupi e il fiume prese a scorrere in una terra spoglia e piatta. Su entrambi i lati cominciò a vedersi il deserto, sempre più giallo e sabbioso, e più avanti apparvero delle palme, come se stessero andando verso un'oasi. Ma anche le palme passarono via e non apparve nessuna oasi. Il cielo assunse un brutto color fegato quando il corso d'acqua si addentrò nuovamente fra alte rupi grigie, e nell'aria si addensò un odore opprimente che ricordò a Elric l'anticamera di una corte dove nessuno apriva mai le finestre: profumi un tempo dolci ma ora misti ad aria viziata, cibi che erano stati appetitosi prima di inacidirsi sui piatti, fiori recisi che avevano perso la fragranza e marcivano in vasi d'acqua sporca. Sulle rocce giallastre ai lati del fiume si aprivano grandi caverne colme d'acqua dove sciabordavano le onde, traendo echi dall'oscurità del fondo imperscrutabile. La Regina Gemente sembrava innervosita da quelle aperture, e manteneva accuratamente l'imbarcazione al centro del fiume. Elric vide delle ombre muoversi in quegli antri, sia sopra che dentro l'acqua. Vide rosse fauci animalesche aprirsi e chiudersi, e pallidi occhi inespressivi guardare il loro passaggio. Avevano l'aria di creature nate dal Caos, e lui rimpianse di non avere la spada intarsiata di rune, né l'aiuto del suo patrono, il Duca dell'Inferno, né il suo repertorio di sortilegi e incantesimi. Non fu troppo sorpreso quando da una di quelle caverne una voce tonante gridò: «Io sono Balis Jamon, Signore del Sangue, e ho fame. Voglio un rene da ciascuno di voi.» «Noi non intendiamo fermarci!» strillò in risposta la Regina Gemente. «Io non sono il tuo cibo, e non lo sarò mai.» «Un rene, un caldo rene umano!» insisté ferocemente la voce. «È un'eternità che devo accontentarmi di pesci e granchi. Ora voglio un rene, rosso di sangue! Uno per uno, se volete proseguire!» Elric sfoderò la sciabola. Oone aveva già la daga in pugno. «Non avrai niente da me» disse l'albino.
«Neppure da me» aggiunse Oone, scrutando negli anfratti in cerca di chi stava parlando. C'erano molte aperture, e non si capiva bene da dove uscisse la voce. «Io sono Balis Jamon, Signore del Sangue. Per passare nella mia terra si paga il pedaggio. Siete in tre, ma io mi accontenterò di due reni.» «Ti farò mangiare i tuoi, se hai tanta fame» lo sfidò Elric. «Miserabile mortale, osi opporti a me?» Da una delle caverne più avanti venne un forte sciacquio, e ne uscirono piccole onde bianche di spuma. Poi una figura apparve, procedendo a guado nell'acqua bassa. Il suo corpo lardoso era ricoperto di piante acquatiche grondanti fanghiglia nera, e nel suo tozzo volto fornito di un corno al posto del naso due piccoli occhi laidi li fissavano. Le curve zanne da cinghiale che sbucavano dalla bocca semiaperta erano cariate, giallastre, e quando la lingua grigia saettò verso di loro dei pezzi di carne masticata caddero nell'acqua. Il mostro si teneva una zampa artigliata premuta sul petto, e quando la abbassò mise allo scoperto un foro oscuro nel punto in cui avrebbe potuto esserci il suo cuore. «Io sono Balis Jamon, Signore del Sangue» ripeté, con voce assai più umana del suo aspetto. «Guardate come sono costretto a vivere, nella miseria. Abbiate compassione, ricchi esseri umani. Datemi un rene voi che ne avete due, e vi lascerò passare. Io non ho niente, neppure il cuore nel petto, mentre voi siete completi e avete corpi sani. Giustizia vuole che dividiate il vostro corpo con me.» «Questa è l'unica cosa che dividerò con te, Balis» disse Elric alzando la spada, che contro quell'enorme individuo gli appariva inadeguata come uno stecco. «Tu non sarai mai completo, Balis Jamon!» gridò la Regina Gemente. «Sei senza cuore perché sei malvagio.» «Io sono onesto. Un rene, e vi lascerò passare!» Il mostro agitò una zampa verso Elric, che cercò di colpirla con la spada. L'albino sbagliò mira e gli squarciò la carne sotto un'ascella, senza che l'altro rivelasse alcun dolore. La grossa mano artigliata afferrò la lama della spada, ed Elric ritrasse l'arma. Con un grugnito di frustrazione Balis Jamon continuò ad avanzare verso la barca e riuscì ad agguantare la balaustra metallica di poppa. «Va bene, va bene, ti pagherò il pedaggio!» gridò Oone, frugando in un sacco tirato fuori da uno scomparto dietro il timone. «Ecco il tuo rene, Balis Jamon. Ora lasciaci andare. Sei stato pagato.»
«Un rene!» Il mostro prese al volo l'oggetto che la ragazza gli gettò, e se lo ficcò nel foro del petto. «Buono. Andate.» E tornò indietro a guado verso l'antro da cui era uscito. Già preparato a vedergli rovesciare la barca, Elric fu sbalordito dalla facilità con cui s'era concluso il pericoloso incontro. «Cosa gli hai dato, Dama Oone?» «Una zucca, almeno credo che fosse questo» rispose la ragazza. Indicò il sacco. «Qui ci sono dei rifornimenti di cibo, e delle piccole zucche ricurve. Dubito che quel mostro abbia sentito la differenza di sapore, visto che se l'è ficcata direttamente nello stomaco.» Lo sguardo della Regina Gemente era volto al cielo, anche mentre manovrava la barra del timone per girare in un vasto specchio d'acqua, oltre le caverne. Sulla riva, alcuni bufali che si stavano abbeverando alzarono la testa, fissandoli con sospettosa attenzione. Elric seguì lo sguardo della loro guida velata, ma vide soltanto lo stesso cielo plumbeo di prima. Rimise la spada nel fodero. «Queste creature del Caos hanno una mente semplice. Ne ho incontrate di più ripugnanti, ma non è difficile raggirarle.» «Sì» annuì Oone, per nulla sorpresa dalle sue parole. «Dove hai avuto occasione di incontrarne...?» Erano appena penetrati in un canyon quando la barca fu spinta verso l'alto, e per un momento Elric pensò che quel Balis Jamon li avesse seguiti per vendicarsi dell'inganno, ma vide che si trattava soltanto di un'onda. Il livello dell'acqua salì velocemente intanto che lo scafo veniva sollevato ancora fra strette sponde di terreno roccioso, e dai cespugli più in alto sbucarono gruppi di figure umane, lacere e deformi. Erano individui di ogni età, zoppi, guerci, monchi, che si sorreggevano a vicenda o usavano rozze stampelle, ed Elric li trovò simili alle orde di mendicanti che s'aggiravano nelle strade di Nadsokor, anch'essi vestiti di stracci che lasciavano in orrida evidenza mutilazioni e piaghe e malattie della pelle. Erano sporchi. Biascicavano lamenti. Guardavano l'imbarcazione con occhi avidi, leccandosi le labbra. All'arrivo di quella torma di affamati Elric desiderò più che mai avere la Tempestosa con sé. Soltanto la vista della spada intarsiata di rune avrebbe spaurito e messo in fuga quei disperati disposti a tutto. Ma aveva solo le armi prese agli Avventurieri Stregoni. Non gli restava che affidarsi a quelle, all'aiuto di Oone, e alle loro energie fisiche che per fortuna non accennavano a scemare. La barca ebbe un altro scossone quando l'onda che l'a-
veva sollevata si ritrasse, lasciandola in secca nel fango della riva erbosa alquanto più in alto rispetto al fiume, e in pochi momenti decine di cenciosi individui li circondarono, ansando e grugnendo, le mani bramose tese verso le insperate prede. Elric non perse tempo a parlamentare, ma saltò giù dalla prua della barca e abbatté la sciabola sugli assalitori più vicini. La pesante arma era ben affilata, e mozzò teste, squarciò petti e dilaniò la carne. L'albino restò in piedi sui corpi sanguinanti degli uccisi e ululò come un lupo in faccia agli altri. «Fatevi sotto, canaglie!» gridò, esibendo il furibondo agonismo che aveva appreso dai pirati degli Stretti Vilmiriani. «Voglio ammazzarvi tutti, e non sarò soddisfatto finché non avrò strappato il cuore e le budella dai vostri cadaveri!» I cenciosi aggressori non s'erano aspettati quella ferocia. Esitanti borbottarono insulti e imprecazioni, si scambiarono occhiate fosche, agitarono le mazze e i forconi di cui erano armati. D'un tratto anche Oone scese sulla riva accanto all'albino. «Lasciane qualcuno anche per me, Elric!» gridò. «Voglio un po' di sangue anche sulla mia lama!» E detto questo balzò avanti, conficcando la daga nel petto di un individuo armato con un' ascia di bella fattura, sicuramente rubata a qualche altro viaggiatore. La Regina Gemente si fece udire, dietro di loro. «Questa gente non ci ha attaccato» li rimproverò. «Ci ha soltanto minacciato. È giusto ferirli e ucciderli come state facendo?» «Non abbiamo altra scelta, donna!» sbottò Elric senza voltarsi, e avventò la spada verso altri due esseri a malapena umani. «No, no! Non c'è niente di eroico in questo. Cosa può fare un guardiano che non sia più un eroe?» Neppure Oone riuscì a dare un senso a quelle parole, è quando Elric si volse a interrogarla con lo sguardo lei scrollò le spalle. La folla dei miserabili riprese coraggio e si strinse intorno a loro, guardandoli con bestiale avidità e ringhiando minacce. Le loro facce deformi o butterate da orride malattie erano piene d'odio. Poi furono addosso ai tre viaggiatori, ed Elric ricominciò ad abbattere la scimitarra su tutti quelli che gli si paravano davanti. Benché cominciasse a perdere il filo a forza di colpire le loro rozze protezioni di rame e di zinco ammaccato, la lama tagliava braccia e teste e spaccava le ossa col suo peso. Oone si batteva spalla a spalla con lui, mentre dal lato del fiume erano protetti dalla barca, sulla quale nessuno degli aggressori sembrava però an-
sioso di salire. Dietro la ringhiera la Regina Gemente appariva disperata e piangeva, sconvolta da ciò che vedeva, ma era chiaro che non aveva alcuna autorità sulle creature del Caos. «No, no, questo non la aiuterà a dormire meglio! No, non uccideteli! Lei ha bisogno di loro, io lo so!» Fu a quel punto che Elric sentì un rumore di zoccoli, e vide, sopra l'agitarsi della turba che li attorniava, la bianca armatura del Guerriero della Perla. «Questi sono i servi del guerriero!» gridò Elric, colto da un'improvvisa intuizione. «È il suo esercito, e ce l'ha mandato addosso lui, per vendicarsi!» «No!» La voce della Regina Gemente era fioca, adesso, come se venisse da lontano. «Ciò che fate non serve a niente! Questo esercito è vostro, e vi sarà fedele!» Sentendo quelle parole Elric dovette farsi delle domande inattese: e se neppure quella donna fosse del tutto umana? E se lei ed i cenciosi aggressori fossero soltanto dèmoni di qualche genere, che avevano assunto un'ingannevole forma umana? Questo avrebbe spiegato la strana logica di quella donna, le sue parole spesso incomprensibili e senza molta attinenza con la situazione. Ma non c'era tempo per quegli interrogativi, perché gli aggressori incalzavano lui e Oone così da vicino che loro avevano appena lo spazio per manovrare le armi e tenerli indietro. Il sangue pioveva sul fango, arrossava le lame e le mani, chiazzava le vesti. Elric pensò che avrebbe potuto finire ucciso dal puzzo di quelle disgustose creature, ancor prima di cadere sotto i colpi dei loro bastoni appuntiti. Cominciava ad essere chiaro che la folla li avrebbe sopraffatti col semplice numero, ed Elric imprecava contro la sorte che l'aveva portato così vicino all'obiettivo della sua ricerca per poi farlo travolgere dagli abitanti del Caos. Poi vide altri aggressori abbattersi nel sangue, troppo lontani perché potesse esser stato lui a colpirli nella mischia. Anche Oone se ne accorse, e disse qualcosa, stupita. Quando alzarono lo sguardo stentarono a credere a ciò che vedevano. Il Guerriero della Perla si stava facendo strada fra la marmaglia colpendo a destra e a sinistra; infilzava corpi con la sua lancia improvvisata, spaccava teste con la spada e mandava grida bestiali ogni volta che spegneva una vita, con occhi sfolgoranti di gioia. Il suo cavallo non era da meno, e aggrediva chi gli sbarrava il passo con gli zoccoli e coi denti.
«Sì, questa è la cosa giusta!» approvò la Regina Gemente, battendo le mani a quella scena. «Sì, così si fa! È questo il vero modo in cui puoi farti onore!» In breve tempo, incalzati alle spalle dalla foga del Guerriero della Perla, gli accattoni che assalivano Elric e Oone cominciarono ad averne abbastanza. Da lì a poco molti stavano già fuggendo lungo la riva fangosa, e altri si gettavano nel burrone in fondo a cui scorreva il fiume pur di sfuggire alla micidiale spada bianca del cavaliere e alla sua lancia. Le grida sprezzanti dell'individuo continuarono ad accompagnare i suoi colpi mentre si avventava su tutti quelli rimasti nei pressi: «Pezzenti, debosciati! La morte è su di voi, canaglie! Fuggite, sì, bastardi! Io vi distraggo! Vi anniento!» Elric e Oone si appoggiarono alla murata dell'imbarcazione per riprendere fiato. «Ti ringrazio, Guerriero della Perla» disse l'albino, quando il cavaliere tornò verso di loro. «Ci hai salvato la vita.» «Sì.» L'individuo annuì gravemente, guardandoli con occhi da cui la luce della follia sembrava scomparsa. Proprio così. Ora noi saremo uguali. Poi conosceremo la verità. Io non sono libero come te. Tu mi credi? «L'ultima domanda era rivolta a Oone.» La ragazza annuì. «Ti credo, Guerriero della Perla. Anch'io sono felice che tu sia venuto in nostro aiuto.» «Io ho il compito di proteggere. Ciò che ho fatto doveva essere fatto. Capisci? Io ero vostro amico.» Oone si girò verso la Regina Gemente e vide che stava annuendo con energia, le braccia allargate come in offerta di una verità preziosa e sentita. «Qui io non sono vostro nemico» disse il Guerriero della Perla, col tono di chi cerca di far ragionare due bambini testardi. «Se io fossi completo saremmo un grande terzetto! Sul serio! Dovete esserne convinti. Per me non c'è niente di personale. Queste parole sono di lei. Capite? O almeno credo.» E con quell'incomprensibile dichiarazione il guerriero girò il cavallo e galoppò via sul terreno cespuglioso. «Troppi difensori, ma pochi protettori» disse Oone, altrettanto sibillina. Prima che Elric potesse chiederle di spiegarsi meglio, la ladra di sogni s'era rivolta alla Regina Gemente. «Signora, sei stata tu a chiamare in aiuto il Guerriero della Perla?» «Sì, è stata lei a chiamarlo da voi.» La donna sembrava quasi in trance.
Era strano sentirla parlare di sé in terza persona. Elric si chiese se un tale comportamento fosse normale in quel reame, e di nuovo gli venne il dubbio che quelli non fossero esseri umani ma creature d'altro genere in forma umana. L'onda li aveva lasciati a una certa altezza rispetto al fiume. Elric andò sul bordo del canyon e guardò in basso. Vide soltanto alcuni cadaveri impigliati fra le rocce e altri che galleggiavano via in preda alla corrente. Non gli dispiacque che la barca fosse fuori da quel corso d'acqua così strano e infido. «Come proseguiamo, da qui in poi?» domandò Oone. Per un attimo Elric vide se stesso e lei nella Tenda Bronzea, distesi ai lati della Vergine Sacra. Tutti e tre stavano morendo. Ebbe uno spasimo di desiderio al pensiero della droga, come se fosse stata questa a chiamarlo fuori dal Reame dei Sogni per ricordargli la sua assuefazione. Ripensò ad Anigh, prigioniero in un palazzo di Quarzhasaat, e alla sua amata Cymoril che lo aspettava a Imrryr. Era stato saggio lasciare che Yyrkoon governasse al suo posto? Ora ogni decisione presa in passato gli sembrava ingenua. Il suo rispetto di se stesso, mai eccessivo, era sceso al livello più basso. La sua imprevidenza, i suoi errori, le sue follie, tutto gli diceva che non solo aveva una grave tara fisiologica ma era anche assai scarso di senso comune. «È nella natura dell'eroe» disse la Regina Gemente, senza che nessuno le avesse chiesto qualcosa. Poi li osservò con sguardo caldo e affettuoso. «Siete salvi.» «Io penso che il tempo stringa, invece» disse Oone a Elric. «Ho questa impressione. Anche tu?» «Sì. C'è un pericolo nella realtà che abbiamo lasciato?» «Forse. Regina Gemente, siamo ancora lontani dalla Porta Senza Nome? Come proseguiamo il viaggio?» «A trasportarci saranno le falene» rispose lei. «Qui la barca resta in secca ogni volta, e io ho le mie falene. Non dovremo aspettare molto il loro arrivo. Sono già per strada.» Il suo tono era pratico, sicuro. «Purtroppo avete messo in fuga un esercito che avrebbe potuto essere vostro. Ormai è fatta. Ma sono cose che io non posso prevedere. Ogni nuova trappola è un mistero per me come per voi. Vi farò da guida durante la navigazione. Questo perché ci sono degli obblighi, come sapete.» Sull'orizzonte si accendevano ricami di luce che palpitavano come un'aurora boreale. Quando la Regina Gemente se ne accorse sospirò e sorrise, annuendo. Era soddisfatta.
«Bene, bene. Non è ancora troppo tardi. Ecco che vengono.» Nel cielo ingrandirono lente forme scure. Quando furono più vicine Elric poté vedere che si trattava di grandi ali sottili come sfoglie e corpi snelli, più da farfalla che da falena, larghe molte decine di braccia. I colossali insetti scesero senza esitazione, finché i tre viaggiatori furono investiti dal vento che creavano, nell'ombra delle immense ali. «In barca, presto!» chiamò la Regina. «Salite. Si parte!» Elric e Oone s'affrettarono a ubbidire, e quando le tre paia di zampe di una delle gigantesche creature afferrarono la barca furono subito sollevati nell'aria. Per un poco volarono paralleli al corso del canyon, poi si abbassarono pian piano nell'abisso. «Io stavo guardando, ma non c'era niente» disse la Regina Gemente a Elric e Oone, col tono ragionevole di chi sta spiegando qualcosa. «Ora continueremo il viaggio.» L'enorme insetto depositò la barca a vela a galla nel fiume con uno scossone che fece cadere i passeggeri, quindi salì di quota fra le pareti del canyon e raggiunse le altre falene in attesa più in alto. Il vento se le portò via, ed Elric si passò le mani sulla faccia. «Questa è la Landa della Follia, dannazione» borbottò. «Comincio a pensare che se non sono ancora pazzo lo diventerò ben presto, Dama Oone.» «Stai perdendo la fiducia in te stesso, Principe Elric» disse con fermezza lei. «È proprio la trappola da cui bisogna guardarsi, in questa landa. Si cade preda dell'impressione che la mancanza di logica stia in noi, non nelle cose che accadono e che vediamo. Abbiamo già imposto la nostra sanità di mente sulla realtà di Falador. Non disperare. All'ultima porta non può mancare molto.» «E là cosa troveremo?» chiese lui, sarcastico. «La luce della ragione?» Si sentiva esausto in modo strano. Fisicamente era sempre in grado di proseguire, ma la sua mente e il suo spirito erano svuotati dal ritmo in cui si succedevano quelle esperienze. «Non posso immaginare neppure vagamente ciò che troveremo nella Landa Senza Nome» lo informò lei. «I ladri di sogni hanno scarso potere su ciò che accade oltre la settima porta.» «Mentre invece finora hai avuto molta influenza sull'andamento delle cose, vero?» disse lui. Ma non voleva offenderla, e sorrise per chiarire che stava scherzando. Davanti a loro echeggiò un ululato, così acuto e assordante che la Regina Gemente si coprì gli orecchi con le mani. Era simile al verso di un cane
mostruoso, e rimbalzando fra le pareti del canyon vibrava con tale violenza da far credere che avrebbe fatto crollare a pezzi la roccia. Quando la barca ebbe girato l'ansa successiva videro la bestia, un enorme quadrupede peloso che stava alzando la testa da lupo per ululare ancora. La corrente investiva le sue poderose zampe affondate nell'acqua, trascinando di lato la sua coda grigia più lunga della barca. Ma ebbero appena il tempo di guardarlo bene, poi l'animale si dissolse come nebbia, e di lui non restò che l'eco dell'ultimo ululato sempre più lontano. La velocità della corrente aumentò. La Regina Gemente aveva tolto le mani dal timone per tapparsi gli orecchi, e l'imbarcazione andò a urtare duramente contro una roccia. La donna non fece alcun tentativo di riprendere la barra. Elric s'affrettò allora a mettersi al timone, ma il fiume li stava trascinando con tanto impeto che i suoi tentativi di governare la barca non ottennero alcun risultato. Alla fine rinunciò a farlo, con un'imprecazione. Il fiume scorreva verso il basso sempre più veloce, e la sua portata d'acqua aumentava. Le pareti del canyon si fecero così alte che sul fondo non arrivava più molta luce. Sui macigni c'erano esseri umani che li fissavano, femmine nude in atteggiamento laido e provocante, uomini che esibivano bestialmente la loro virilità. Lunghe braccia pallide si protendevano invitanti verso di loro, e ognuna di quelle facce aveva qualcosa di familiare. Elric cominciò a pensare che tutte le anime dei morti da lui conosciuti si fossero date convegno in quella gola per tormentarlo. Poi vide anche la sua faccia su alcuni di quei corpi, e quelle di Cymoril e di Yyrkoon. Nella penombra sepolcrale venivano combattuti vecchi duelli, vecchie battaglie, delle quali lui riconobbe qualche stralcio. E in lui tornarono emozioni antiche, affetti e ostilità che gli fecero sentire la nostalgia di ciò che aveva fatto parte della sua vita di un tempo ed era morto, perduto. E da lì a poco anche la sua voce si unì a quelle che imprecavano, chiamavano, gridavano, borbottavano, finché Oone lo scosse energicamente e lo schiaffeggiò per tirarlo fuori da uno scenario che minacciava d'inghiottirlo. «Elric! L'ultima porta! Ci siamo quasi! Resisti, Principe di Melniboné. Finora sei stato forte e pieno di risorse. Dovrai esserlo ancora, perché non è finita, e quella che ci attende è la parte più dura!» Questo fece ridere Elric. Rise del suo destino, delle disgrazie della Vergine Sacra, della sorte che aspettava Anigh e delle ansie di Oone. Rise nel pensare a Cymoril che lo aspettava sull'Isola del Drago senza sapere neanche se lui fosse vivo o morto, libero o schiavo. E quando Oone lo schiaffeggiò ancora, le rise in faccia..
«Elric! Tu ci stai tradendo!» Lui smise di ridere per il tempo sufficiente a dire, in tono quasi trionfante. «E sia pure, signora mia. Io vi tradisco. Perché te la prendi? Io sono destinato a tradire tutti quanti.» «Non tradirai me, dannazione!» La ragazza lo prese a pugni, gli diede forti calci negli stinchi e gli tirò i capelli. «Non tradirai me, e neppure la Vergine Sacra!» D'un tratto Elric sentì un dolore intenso, non quello delle percosse ma uno che nasceva dalla sua stessa mente, e cominciò a piangere. «Oh, Oone, cosa mi sta succedendo?» «Questa è Falador» fu la risposta di lei. «Ti sei ripreso, Principe Elric?» Le facce e i corpi lo provocavano ancora dalle rocce. L'aria era piena di presenze e di emozioni che lui temeva, di tutti i difetti che sapeva di avere, di tutti gli errori che aveva fatto. Stava tremando e piangendo, non aveva il coraggio di sostenere lo sguardo della ladra di sogni, ebbe vergogna e cercò di reagire. «Io sono Elric, l'ultimo della stirpe reale di Melniboné» disse. «Ho visto orrori d'ogni sorta, ho anche corteggiato il Duca dell'Inferno. Perché dovrei temere ciò che vedo qui?» Oone non rispose, ma lui non s'era aspettato che lo facesse. La barca rullava, beccheggiava, si alzava e abbassava fra le onde. All'improvviso Elric ritrovò la calma. Prese una mano della compagna e la strinse, in un semplice gesto d'affetto. «Sono di nuovo me stesso» la informò. «Laggiù, ecco la porta» disse la Regina Gemente alle loro spalle. Aveva ripreso la barra del timone e con l'altra mano indicava avanti. «Là c'è quella che voi chiamate Landa Senza Nome» disse la donna. Ora parlava in modo comprensibile, non con le frasi sibilline che aveva usato fin dal loro primo incontro. «Là troverete la Fortezza della Perla. Ma lei non vi accoglierà con favore.» «Lei chi?» la interrogò Elric. Le acque del fiume erano calme. Una lenta corrente li portava verso una grande arcata d'alabastro traslucido, incorniciata da rampicanti verdi e da cespugli. «La Vergine Sacra?» «Lei può essere salvata» disse la Regina Gemente, «soltanto da voi due, suppongo. Io l'ho aiutata a restare qui, ad aspettare un aiuto. Ma di più non posso fare. Io ho paura, capite?» «Non sei la sola, signora mia» sospirò Elric, annuendo. L'imbarcazione fu attratta da una corrente laterale e rallentò ancora,
presso la riva, come riluttante ad oltrepassare l'ultima porta del Reame dei Sogni. «Ma io non sono di nessun aiuto» disse la Regina Gemente. «Forse ho perfino cospirato per attirarla qui. Degli uomini crudeli ne sono responsabili. Poi sono venuti a cercarla loro stessi, e dopo di loro sono giunti altri ancora. Lei non ha potuto che ritirarsi, sempre più indietro. Vorrei conoscere le parole necessarie. Le darei a voi, se le avessi. Ah, qui la vita è dura!» Vedendo il turbamento di quegli occhi Elric capì che probabilmente la donna era prigioniera di quel mondo, più di lui e di Oone. Aveva l'impressione che volesse fuggirne, e che fosse trattenuta lì solo dalle sue emozioni, protettive nei confronti della Vergine Sacra. Eppure lei doveva trovarsi lì da prima che Varadia ci arrivasse... o no? La barca stava ora passando sotto l'arcata d'alabastro. Nell'aria c'era un gradevole odore di salmastro, come se fossero vicini alla riva di un mare durante la bassa marea. Elric decise di farle la domanda che aveva in mente. «Regina Gemente» disse, «tu sei la madre di Varadia?» Il dolore negli occhi della donna velata si fece più intenso, e un singhiozzo la scosse mentre gli voltava le spalle. «Chi lo sa?» gridò, disperatamente. «Chi lo sa?» PARTE TERZA C'è un principe sì folle che il Fato lo muova a cedere la sua patria per cercarne una nuova e abbattere antiche città, e chiese razziare, e la ricchezza e l'amore in un sogno gettare? C'è un uomo capace d'annientare la sua stirpe e rinunciare alla pace per battersi col turpe e infine lasciare di sé solo una salma immota su cui perfino la mosca di poggiarsi rifiuta? Le Cronache della Spada Nera 11 Alla corte della Perla
Quando girò lo sguardo sul territorio che aveva davanti Elric ebbe di nuovo la strana impressione di conoscerlo già, benché fosse certo di non aver mai visto niente di simile in vita sua. Una tenue nebbiolina azzurra stagnava intorno ai cipressi, alle palme da dattero, agli aranci e ai pioppi il cui fogliame era d'un verde altrettanto pallido. Dalle ondulazioni dei pascoli spuntavano qua e là tondeggianti macigni biancastri, e in distanza si alzavano le candide vette di monti coperti di neve. Era uno scenario che un artista avrebbe potuto dipingere solo coi suoi acquarelli più dolci e delicati. Era una visione di paradisiaca serenità, decisamente inaspettata dopo la follia di Falador. La Regina Gemente s'era trincerata nel silenzio dopo aver risposto alla domanda di Elric, e sui tre viaggiatori era scesa un'atmosfera più tesa e pesante. Tuttavia quel disagio non impedì all'albino di apprezzare la vista del mondo in cui erano entrati. Il cielo (se cielo poteva chiamarsi) era cosparso di nuvolette cotonate, tinte di delicate sfumature gialle e rosa, e una spirale di fumo bianco si levava dal camino di una casupola dal tetto piatto, a non molta distanza da loro. La barca era andata a fermarsi in uno stagno d'acqua limpida e scintillante, e la Regina Gemente accennò loro di scendere, ma non seguì Oone sulla riva erbosa. «Tu non verrai con noi fino alla Fortezza?» domandò la ladra di sogni. «Lei non lo sa. Io non so se sia permesso» disse la donna. I suoi occhi, sopra il velo, erano foschi e socchiusi. «Allora possiamo salutarci qui» disse Elric. Le baciò la mano, con un mezzo inchino. «Ti ringrazio per il passaggio in barca, signora. E scusa se a volte sono stato di modi sgraziati.» «Sei perdonato, messere» annuì lei, ed Elric rialzando lo sguardo ebbe il sospetto che stesse sorridendo. «Anch'io ti sono grata, mia signora» disse Oone dalla sponda, col tono intimo di chi ha un segreto in comune. «Sai dirci come possiamo trovare la Fortezza della Perla?» «Laggiù abita una persona che lo sa.» La Regina indicò la casupola lontana. «Salutiamoci pure qui, dunque. Voi potete salvarla. Soltanto voi.» «Arrivederci, e dovunque tu vada fai buon viaggio» le augurò Elric. Saltò agilmente sul terreno erboso e seguì Oone, che s'era già avviata sui campi verso la piccola fattoria. «Questa regione è un sollievo per i sensi, mia cara. Un vero balsamo dopo la Landa della Follia.» «Già» rispose lei con tono cauto, e poggiò una mano sull'elsa della scia-
bola. «Ma. non dimenticare, Principe Elric, che la follia prende forme diverse in ogni mondo.» Lui non permise che quell'avvertimento gli guastasse l'umore. Era deciso a ritrovare tutte le sue energie mentali, per essere pronto ad affrontare ciò che li attendeva, qualunque cosa fosse. Oone fu la prima a giungere alla porta della casetta bianca. Sull'aia c'erano due galline che razzolavano fra i sassi, un vecchio cane legato a un barile che nel vederli arrivare scoprì i denti in uno svogliato ringhio d'avvertimento, e due gatti argentati a coda mozza che oziavano sul tettuccio del pollaio. Oone bussò, e pochi istanti dopo la porta fu aperta. Sulla soglia comparve un giovanotto alto, ben fatto, vestito di una tunica marrone a maniche lunghe e con un rustico berretto di lana in testa. Parve lieto di quella visita imprevista. «Benvenuti, signori» disse, dopo che Oone si fu presentata. «Io sono Chamog Borm. Portate notizie da Corte? Se è così, spero che siano buone.» «Mi spiace, ma non abbiamo notizie di questo genere» disse Oone. «Siamo soltanto viaggiatori, e cerchiamo la strada per la Fortezza della Perla. È da queste parti, per caso?» «Si trova nel bel mezzo di quelle montagne.» Il giovanotto indicò i picchi nevosi. «Volete entrare a bere qualcosa?» Il nome che il padrone di casa aveva dato, oltre al suo aspetto, costrinse Elric a frugarsi nella memoria per capire perché quell'uomo gli desse l'impressione di essergli già noto. Eppure gli sembrava di non averlo mai visto in vita sua. Quando furono nel fresco interno della casa, Chamog Borm servì loro da bere una tisana. Sembrava fiero delle sue capacità domestiche, e non aveva affatto l'aspetto di un qualsiasi contadino. In un angolo della cucina erano appese un paio di ricche armature d'acciaio, con cesellature in argento e oro; alcuni elmi decorati a sbalzo con falchi e serpenti in lotta o sormontati da un corno ricurvo; due lance, una spada ricurva nel suo fodero, quattro o cinque splendide daghe e una certa quantità di accessori, il tutto tirato a lucido e di gran bell'effetto. «Tu sei un guerriero di professione?» domandò Elric, sorseggiando la tisana bollente. «Hai delle armi davvero belle.» «Un tempo, alla Corte della Perla, mi fregiavo del titolo di Eroe» disse tristemente Chamog Borm, «ma poi venni cacciato.» «Cacciato via?» Oone lo guardò con interesse. «Con quale accusa?»
Chamog Borm abbassò gli occhi: «Si parlò di codardia. Ma io resto convinto che la colpa non fu mia, e che ero stato colpito da una stregoneria.» In quel momento Elric ricordò dove avesse già sentito il nome. Dopo il suo arrivo a Quarzhasaat, mentre si aggirava nelle piazze e nei mercati per ascoltare i cantastorie alla ricerca di notizie sulla perduta Tanelorn, aveva sentito almeno tre di loro raccontare le avventure di Chamog Borm, un eroe leggendario, l'ultimo coraggioso cavaliere dell'Impero. Il suo ricordo era venerato ovunque, perfino fra le tribù dei nomadi. Eppure a Elric risultava che Chamog Borm era vissuto (sempreché fosse esistito davvero) non meno di mille anni prima. «Qual è stato l'atto poco onorevole di cui ti hanno accusato?» gli domandò. «Ho fallito nel tentativo di salvare la Perla da un incantesimo, e oggi essa giace più che mai sotto il suo influsso, che ci condanna tutti a una perpetua sofferenza.» «Di che incantesimo si trattava?» volle subito sapere Oone. «Era una maledizione imprigionante, che costringeva la nostra Regina e molti cortigiani a restare nell'interno della Fortezza. Io fui incaricato di liberarli. Invece, purtroppo, peggiorai le cose, facendo ricadere quell'incantesimo su tutti quanti. E la mia punizione è contraria alla loro. Essi non possono uscire, e io non posso ritornare là.» In quel breve racconto la sua voce s'era fatta sempre più malinconica. Elric, ancora stupito di trovarsi a conversare con un eroe che avrebbe dovuto essere morto da secoli, non ebbe commenti da fare, ma Oone sembrava trovare la cosa del tutto normale e annuì con aria comprensiva. «È possibile trovare la Perla, nella Fortezza?» domandò Elric, memore del patto con il nobile Gho e della necessità di salvare il povero Anigh da una morte che sarebbe stata certo dolorosa. «Naturalmente» disse Chamog Borm, sorpreso. «Alcuni affermano che sia essa a governare la Corte, o forse addirittura il mondo.» «Ed è sempre stato così?» «Nient'affatto, non prima dell'incantesimo. Pensavo di essermi spiegato.» Il giovane li guardò come fossero villici ottusi. Poi abbassò di nuovo il capo e parve perdersi nel doloroso ricordo della sua umiliazione. «Noi speriamo di liberarla» disse Oone. «Ti piacerebbe aiutarci in questa impresa?» «Non posso. Lei non ha più fiducia in me. Ti ho detto che mi ha bandito, no?» rispose lui. «Ma posso concedervi l'uso della mia corazza e delle mie
armi. Esse sono parte di me, così sarà come se io continuassi a battermi per lei.» «Grazie» disse Oone. «Sei generoso.» Chamog Borm ritrovò vivacità mentre li aiutava a scegliere dal suo ben fornito equipaggiamento. Elric trovò un pettorale e due gambali che gli andavano a misura, e un solido elmo. Qualcosa del genere fu trovato anche per Oone, e stringendo flange e fibbie poté essere adattato alla sua corporatura snella. Una volta abbigliati con quelle belle armi si sentirono ambedue animati da spirito bellicoso e capaci di abbattere ogni ostacolo, impressione che Elric conosceva da antica data e non gli dispiacque. L'armatura non gli dava solo un senso di protezione, ma lo rendeva più consapevole della sua forza interiore, un'energia a cui sapeva che avrebbe potuto fare appello nei momenti difficili da cui erano attesi. Era certo che Oone non scherzava quando parlava dei pericoli della Fortezza della Perla. Ormai in vena di regali, Chamog Borm insisté per mostrare loro due cavalli grigi, che teneva in una piccola scuderia dietro la casa. «Questi sono Taron e Tadia. Sono fratello e sorella, e li ho allevati insieme. Non sono mai stati separati. Li ho anche portati in battaglia, nell'anno in cui presi le armi contro il nostro eterno nemico dell'Isola del Drago. Ora sarà l'ultimo Imperatore di Melniboné a cavalcarli, per incoronare e concludere il mio stesso destino portando l'attacco alla Fortezza della Perla.» «Tu sai chi sono?» Stupito, Elric guardò l'attraente giovanotto per vedere se stesse facendo dell'ironia, ma negli occhi fermi che incontrarono i suoi c'era una grande franchezza. «Un eroe riconosce sempre un altro eroe, Principe Elric.» Chamog Borm afferrò l'avambraccio destro dell'albino nel gesto d'amicizia della gente del deserto. «Possa tu compiere l'impresa che ti sei prefisso, e con onore. Lo stesso auguro a te, Dama Oone. Il vostro coraggio è grande. Addio.» L'esiliato li seguì con lo sguardo da una finestra della sua casetta finché furono fuori vista. Giunti all'estremità della valle i monti alti e imponenti li circondarono con le loro braccia, e fu lì che i due viaggiatori a cavallo videro un' ampia strada bianca che si addentrava fra essi. La luce era quella di una sera d'estate verso il tramonto, anche se Elric non avrebbe saputo dire se sopra di loro ci fosse il cielo o il lontano soffitto di un'immensa caverna, perché il sole non si vedeva. Che il Reame dei Sogni fosse una serie di caverne situate nel centro del mondo? Oppure i ladri di sogni penetravano in un mondo dove la superfi-
cie esterna esposta al sole e alle stelle non esisteva? E se loro due avessero attraversato le montagne, e la Landa Senza Nome e un'ultima porta, sarebbero giunti di nuovo nella Landa dei Sogni in Comune? E avrebbero trovato là Jaspar Colinadous ad aspettarli dove l'avevano lasciato? La strada, quando vi furono sopra, risultò essere lastricata in marmo, ma i cavalli erano ferrati così bene che non scivolarono neppure allorché aumentarono l'andatura. Il rumore dei loro zoccoli al galoppo echeggiava alto fra i passi montani, e branchi di camosci e di capre di montagna al pascolo guardavano giù verso di loro con occhi stupiti: due cavalieri d'argento su cavalli d'argento, in marcia verso la battaglia contro le forze oscure che tenevano in loro potere la Fortezza della Perla. «Tu conosci questa gente da più tempo di me» disse Elric alla compagna quando la strada cominciò a salire con dei tornanti verso il centro delle montagne, e la luce s'era fatta più fredda in un cupo cielo grigio. «Sai cosa dobbiamo aspettarci di affrontare, alla Fortezza della Perla?» Oone scosse il capo, rammaricata. «Per me è come capire il senso di un messaggio scritto in un'altra lingua, ma senza riuscire a leggere le parole singole» gli spiegò. «Sappiamo però che c'è un potere abbastanza forte da riuscire a scacciare un eroe come Chamog Borm.» «Io di lui so soltanto quel poco che ho sentito raccontare al Mercato degli Schiavi di Quarzhasaat. Tu come interpreti ciò che ha detto?» «In realtà è stato convocato dalla Vergine Sacra appena lei ha capito d'essere minacciata dagli Avventurieri Stregoni. Questo è ciò che penso io, per quel che vale. La fanciulla non si aspettava che un eroe così famoso la deludesse. Ma in qualche modo lui è riuscito a peggiorare la situazione. È stata lei a mandarlo via dopo essersi sentita tradita nelle sue speranze, e forse lo ha incaricato di accogliere e di aiutare chiunque arrivi qui per soccorrerla. Questo spiega anche perché ci sono state date queste armi e questi cavalli: anche noi dobbiamo avere un aspetto nobile e battagliero da Eroi.» «Però noi conosciamo questo mondo assai meno di Chamog Borm. Come possiamo avere successo dove lui ha fallito?» «Forse la nostra stessa ignoranza ci sarà d'aiuto» disse lei. «O forse no. Non so cosa risponderti, Elric.» La ragazza cavalcava al suo fianco, così vicina che sporgendosi verso di lui poté baciargli la parte della guancia non riparata dall'elmo. «Una cosa posso dirtela. Io non tradirò mai la Vergine Sacra e, se ne sarò capace, neppure te.»
«Ma se dovrò scegliere fra voi due, temo che dovrò scegliere lei. Elric la guardò stupito. «E cosa potrebbe costringerti a fare una scelta simile?» Lei scosse le spalle, poi sospirò. «Non lo so, Elric. Ma guarda lassù. Credo che siamo arrivati alla Fortezza della Perla!» Era un possente e meraviglioso castello, così candido che sembrava scolpito da un artista nell'alabastro più delicato. Le mura merlate che si stagliavano contro il cielo grigio poggiavano sulla roccia coperta di neve delle montagne, e dietro i bastioni si levavano torri e palazzi, ponti che collegavano i diversi edifici, tetti a cupola o spioventi, e strutture d'aspetto misterioso alcune delle quali non apparivano sorrette da nulla, come congelate in volo. C'erano ponti aerei e scalinate, mura ricurve, portici, terrazze, tetti con giardini pensili colmi di piante d'ogni colore e aspetto, dai fiori ai rampicanti agli alberi secolari. In tutti i suoi viaggi Elric aveva visto soltanto un luogo paragonabile alla Fortezza della Perla, e si trattava della sua città, Imrryr. E tuttavia la Città Sognante era esotica, ricca, fantasiosa e romantica... superficiale, se paragonata all'austera complessità di quel castello. Mentre si avvicinavano lungo la strada di marmo Elric cominciò a notare che la Fortezza non era del tutto bianca: appariva screziata di ombre azzurrine, argentee, rosate, qua e là anche gialle o verdi, e gli venne il pensiero che l'intera struttura fosse stata scolpita in una sola enorme perla. Da lì a poco giunsero davanti all'ingresso delle mura esterne, una grande apertura circolare chiusa da una grata di spine d'ogni lunghezza e inclinazione innestate lungo la circonferenza, con le punte rivolte verso il centro. La Fortezza era colossale, e dinnanzi a quell'imponente porta gli esseri umani erano minuscoli. Elric non vide nessun modo di annunciarsi se non a voce. «Aprite, nel nome della Vergine Sacra!» gridò. «Siamo venuti a batterci con quelli che tengono imprigionato qui il suo spirito!» Le sue parole echeggiarono fra le immense torri e si persero verso le montagne dietro di esse, immerse in un silenzio sepolcrale. Fra le ombre dietro la grata di spine si mosse qualcosa, e l'albino ebbe l'impressione di vedere una veste scarlatta sparire dietro un angolo. Da lì a poco nell'aria si sparse un profumo floreale, misto a cui si avvertiva l'odore di salmastro e di mare che i due avevano già sentito al loro arrivo nella Landa Senza Nome. Poi le spine si ritirarono, così in fretta che parvero svanire, e sul portale
circolare venne a fermarsi un cavaliere, la cui risata sardonica era fin troppo nota ai due compagni. «È così che doveva essere, suppongo» disse l'individuo. «Alleati con noi, Guerriero della Perla» disse Oone con tutta l'autorità che riuscì a esibire. «È lei che lo vuole.» «No. Questo sarebbe un tradimento. Voi dovete sparire. Sarete scacciati! Morirete! Vi annienterò!» Nel gridare quelle parole il furore del cavaliere bianco aumentò sempre più, finché parve latrare come un cane rabbioso. Elric estrasse la spada dal fodero. La lama scintillò della stessa luce argentea che emanava quella del Guerriero della Perla. Oone fece lo stesso, benché con riluttanza. «Noi passeremo, Guerriero della Perla. Fatti da parte!» «Nessuno entrerà qui! Io voglio la vostra libertà!» «Sarà lei ad averla!» replicò Oone. «Non è tua, a meno che lei stessa non la ponga su di te!» Elric non capì il senso di quella strana conversazione, ma decise di non perdere altro tempo. Appoggiò la lancia al muraglione, spronò avanti il cavallo, agitando la spada scintillante. Era un'arma così ben bilanciata e l'impugnatura si adattava tanto alla sua mano che per un attimo, candida com'era, gli parve uguale e contraria rispetto alla spada intarsiata di rune. Che fosse una lama forgiata dalla Legge per servire i suoi scopi, così come la Tempestosa era stata, a quanto lui ne sapeva, forgiata dal Caos? Il Guerriero della Perla rise, spalancando la ripugnante bocca. Nei suoi occhi, fatti di morte, c'era la morte. Abbassò la rustica ma efficiente lancia che s'era fatto da solo tempo addietro ed Elric vide che il corno era incrostato di sangue annerito. Rimase dov'era a sostenere il suo assalto con la lunga arma puntata verso gli occhi dell' albino, e questi non ebbe altra scelta che spostarsi di lato mentre gli passava accanto. Il suo fendente violento rimbalzò sul petto dell'avversario senza farlo vacillare. Dopo il loro ultimo incontro quel demenziale individuo sembrava aver acquistato più forza. «Anima misera!» Il Guerriero della Perla storse la bocca con disgusto nel pronunciare quello che doveva apparirgli il commento più sprezzante. E ridacchiò ancora, stavolta perché Oone era partita al galoppo verso di lui, con la lancia nella mano destra, la spada nella sinistra, e le redini fra i denti. La lancia della ragazza incontrò quella dell'avversario, ma invece di cercare il bersaglio non fece altro che spostarla di lato, mentre a colpire con vera violenza fu la spada. Ci fu un tonfo secco quando l'arma s'abbatté sul pettorale della corazza, e la dura ma fragile madreperla si spaccò come
il carapace di un grosso crostaceo. Elric restò meravigliato da quella tattica, che vedeva per la prima volta e non avrebbe mai creduto efficace. La capacità di combattere di Oone era stupefacente in una donna che non faceva certo la vita del soldato, e l'albino si chiese dove avesse acquistato tanta destrezza. Il colpo era stato micidiale, e la lama aveva morso profondamente la carne sotto il pettorale spezzato. Ma il Guerriero della Perla non cadde morto. Gridò di dolore, rise come una iena, vacillò. Estrasse la spada e la alzò di traverso per proteggersi il torace, come se quel fendente non fosse stato abbastanza. Il suo bellicoso cavallo indietreggiò nel cortile del castello, dilatando le narici, e sbuffò con furia. Oone, che nello scontro aveva perduto la lancia, fece compiere un semicerchio alla sua cavalcatura e tornò indietro. Elric era pronto per una nuova carica, e stavolta usò la lancia, mirando a colpire nello stesso punto l'armatura già danneggiata, ma un'abile parata della spada bianca ne deviò la punta. L'albino perse l'equilibrio, e il Guerriero della Perla fu svelto ad approfittarne: mentre si fermavano fianco a fianco la sua spada lo colpì sulla schiena e gli rimbalzò sulla parte posteriore dell'elmo, con un clangore così assordante che i suoi occhi si riempirono di scintille colorate. Elric cadde in avanti sul collo del cavallo, stordito e per un momento incapace di girarsi a bloccare il colpo successivo. Con un gesto disperato estrasse la daga e la avventò di lato, e sentì un grugnito sordo. Girando la testa vide che il Guerriero della Perla lo fissava a occhi sbarrati. Aveva la bocca semiaperta, e nel gorgogliare un ultimo insulto vomitò un rivolo di sangue. Solo quando cadde in avanti, rovesciandosi addosso a lui e al cavallo, l'albino vide che la sua daga s'era conficcata nel punto dove il pettorale dell'avversario era stato spaccato da Oone, trapassandogli il cuore. «Non finisce qui!» rantolò il Guerriero della Perla. Era una minaccia. «Io non posso fare quello che...» Poi tacque, scivolò del tutto giù di sella, e con gran rumore piombò sul polveroso selciato del cortile. A pochi passi da loro una grande fontana ornamentale rappresentante un branco di tritoni a riposo fra gli scogli cominciò a emettere forti getti d'acqua, e il liquido traboccò dalla vasca inondando il cortile. Il cavallo disarcionato nitrì, s'impennò, caracollò attorno come impazzito e infine uscì al galoppo dalla porta circolare, allontanandosi sulla strada di marmo.
Elric scese di sella a esaminare il corpo del Guerriero della Perla per accertarsi che fosse morto, e svelse la daga dallo squarcio dell'armatura. Era ancora ammirato per il colpo inferto da Oone. «Non ho mai visto una tattica come la tua» le disse. «Eppure ho combattuto con guerrieri di ogni provenienza.» «Una ladra di sogni deve conoscere le cose più diverse» disse lei, accettando il complimento con un cenno del capo. «Questa mossa l'ho imparata da mia madre. Era molto abile con le armi e andava in battaglia come gli uomini.» «Tua madre era una ladra di sogni?» «No» rispose distrattamente lei, controllando il filo della sua spada. Raccolse quella del Guerriero della Perla. «Era una Regina.» Provò il bilanciamento della spada, lasciò al suolo la sua, cercò d'infilare l'altra nel fodero e scoprì che era troppo larga. Con una smorfia sganciò allora il fodero e lo gettò via, quindi si infilò l'arma del morto nel cinturone. L'acqua che usciva dalla fontana arrivava già alle loro caviglie e stava disturbando i cavalli. Li presero per le brighe e li portarono più all'interno, sotto un'arcata che dava in un altro cortile. Anche qui c'erano belle fontane, ma queste non gettavano acqua. Erano scolpite in un marmo nero e rappresentavano corvi e avvoltoi, che spalancavano il becco con aria di sfida verso il cielo. A Elric rammentarono le statue che aveva visto nelle piazze di Quarzhasaat, benché nella Fortezza non si respirasse l'atmosfera di decadenza e di consunzione che ormai caratterizzava la città del deserto/Possibile che la Fortezza fosse stata costruita dagli antenati degli attuali signori di Quarzhasaat, il Consiglio dei Sei Più Un Altro? Possibile che un Re fosse fuggito da quella città, millenni addietro, per venire nel Reame dei Sogni a costruirsi un castello fra le montagne? Era per questo che la gente di Quarzhasaat si sentiva ancora così attratta dalla leggenda della Perla? Senza vedere nessuno Elric proseguì oltrepassando cortile dopo cortile, ognuno diverso dal precedente ma tutti di splendida architettura, finché cominciò a chiedersi se quel percorso non avrebbe finito per portarli fuori sul lato opposto della Fortezza. «Per essere un castello così ben fatto, non si può dire che sia molto popolato» commentò, voltandosi verso Oone. «Troveremo chi lo abita fra poco, credo» mormorò lei. Gli fece cenno di avviarsi su per una rampa che risaliva a spirale intorno a un grande edificio
a cupola, che sovrastava gli altri. Benché fosse di linee disadorne e austere Elric non trovò che la sua architettura fosse fredda; c'era anzi qualcosa di organico in certi particolari, come in un corpo di carne che si fosse solidificato nel marmo. Giunti a un portale entrarono, sempre tirandosi dietro i cavalli, i cui zoccoli ora procedevano in silenzio su una lunga passatoia rossa, e andarono avanti lungo corridoi e saloni ornati di mosaici e arazzi. L'albino notò che nessuna opera d'arte raffigurava esseri viventi animali o vegetali, ma soltanto elaboratissimi disegni geometrici. «Ci avviciniamo al cuore della Fortezza, credo» gli disse Oone in un sussurro. Parlava come se temesse d'essere ascoltata, ma non si vedeva traccia di esseri umani. La ragazza si girò a guardare fra due alte colonne, verso una serie di stanze illuminate dalla luce solare che arrivava lì grazie a qualche cortile interno. Elric ebbe l'impressione di vedere un abito azzurro sparire oltre una porta. «Cos'è stato? Hai visto anche tu?» «Non importa» disse Oone, fra sé. «Non importa.» Aveva però impugnato la spada, e accennò all'albino di fare lo stesso. Passarono in un altro cortile. Questo era aperto al cielo, lo stesso cielo grigio che avevano visto sopra le montagne. Intorno a loro c'erano portici e balconate, una sopra l'altra, per molti piani fino al tetto. Elric ebbe l'impressione di vedere facce che lo spiavano ritrarsi in fretta, ma aveva appena alzato lo sguardo che un liquido oleoso gli piovve addosso, bagnandogli il volto e l'armatura. Rosso e denso come sangue umano stava ruscellando in abbondanza giù lungo i muri e le colonne, e nel centro del cortile arrivava già fino alle ginocchia. Dall'alto venne un mormorio di voci, una risatina acuta e divertita. «Basta così!» gridò l'albino. «Siamo qui per negoziare con voi. Vogliamo la restituzione della Vergine Sacra! Liberate la sua anima, consegnatela a noi, e ce ne andremo senza fare del male a nessuno!» Come tutta risposta gli venne gettato addosso dell'altro sangue, e l'albino imprecò, portandosi dietro il cavallo fino al portone successivo. Questo era chiuso. Lui cercò catenacci o chiavistelli, ma non vide niente, e colpirlo a spallate risultò inutile. Oone, che era rimasta indietro per ripulirsi del sangue che l'aveva insozzata, gli accennò di lasciar fare a lei. La ragazza infilò un dito in un foro laterale e premette qualcosa. Il portone si aprì, con molta lentezza e quasi controvoglia, ma si aprì. Lei gli sorrise. «Come molti uomini, mio caro Principe, quando hai paura reagisci come un selvaggio.» Elric non apprezzò la spiritosaggine. «Non mi aspettavo che ci fossero
metodi così sottili per aprire un portone così massiccio.» «Aspettati solo l'imprevisto in futuro, e forse riuscirai a restare vivo più a lungo nella Fortezza» disse lei. «Perché questa gente non vuole parlamentare con noi?» «Probabilmente perché il nostro aspetto non li persuade che siamo qui per negoziare pacificamente» disse Oone. Poi aggiunse: «Ogni avventura nel Reame dei Sogni è diversa dall'altra, Principe. Vieni.» S'incamminò fra una serie di vasche piene d'acqua calda, da cui si alzava il vapore. Doveva essere un bagno pubblico, ma non c'erano segni di presenza umana. A Elric parve di vedere piccole creature, forse pesci, nelle profondità di una vasca, e si chinò a guardarci dentro. Oone lo tirò indietro. «Tu dimentichi ciò che ti ho detto: la tua imprudente curiosità potrebbe portare alla morte anche me.» Nella vasca qualcosa di grosso salì fin quasi alla superficie, emise una quantità di bolle e tornò a immergersi. Ad un tratto l'intero bagno pubblico cominciò a tremare, il vapore s'intensificò, e sul pavimento marmoreo apparvero delle crepature sempre più larghe. I cavalli nitrirono spaventati mentre i loro zoccoli scivolavano sul terreno che sussultava. Elric per poco non cadde dentro una delle spaccature. Era come se un violento terremoto stesse scuotendo le montagne. Ma dopo che ebbero percorso in tutta fretta la galleria successiva, che sfociava su un tranquillo prato, il terremoto cessò di farsi sentire. Qui finalmente videro un uomo, che sembrava aspettarli e venne subito verso di loro. Era basso e anziano, vestito come la Regina Gemente. La sua lunga barba bianca penzolava sul pettorale di una tunica ricamata in oro, e sulle mani aveva un vassoio con due borse di pelle. «Voi riconoscete l'autorità della Fortezza della Perla?» domandò. «Io sono il Gran Siniscalco.» «Chi è il monarca che servi?» lo interrogò Elric. Aveva la spada puntata, perché l'altro capisse che era pronto a usarla alla prima mossa falsa. Il Gran Siniscalco parve stupito. «Io servo la Perla, naturalmente. Questa è la Fortezza della Perla.» «Chi è che comanda qui, vecchio?» volle sapere Oone. «La Perla, come vi ho appena detto.» «E nessuno domina la Perla?» chiese ancora Elric, insospettito. «Non più, signore. E adesso prendete quest'oro e andatevene. Non abbiamo altre energie da sprecare con voi. Badate che sono scarse, ma non ancora esaurite. Andatevene, o vi dissolverete presto.» «Noi abbiamo infranto tutte le vostre difese» disse Oone. «Perché do-
vremmo accontentarci di due borse d'oro?» «Desiderate forse la Perla?» Prima che Elric potesse rispondere, Oone lo azzittì con un gesto d'avvertimento. «Noi siamo qui soltanto per liberare la Vergine Sacra.» Il Gran Siniscalco sorrise. «Anche gli altri hanno detto la stessa cosa, ma ciò che volevano era la Perla. Non posso crederti, signora.» «Come possiamo dimostrarti che diciamo la verità?» «Non potete. Noi sappiamo già qual è la verità.» «Non ci interessa parlare con te, messer Siniscalco. Se tu servi la Perla, a chi ubbidisce la Perla?» «Alla fanciulla, credo.» L'uomo corrugò la fronte. Elric vide che la domanda, benché apparentemente semplice, lo aveva confuso, e la sua ammirazione per l'abilità della ladra di sogni aumentò. «Cerca di capirmi: questa è proprio la cosa in cui possiamo darvi l'aiuto che vi serve» disse Oone. «Lo spirito della fanciulla è prigioniero. E finché resta prigioniero voi pure sarete chiusi nella stessa trappola.» Il vecchio le porse nuovamente il vassoio. «Prendete il nostro oro e andatevene.» «Penso che sia inutile parlare ancora» disse con fermezza Oone, e oltrepassò il Gran Siniscalco tirandosi dietro il cavallo. «Andiamo, Elric.» L'albino esitò. «Forse potremmo fargli qualche altra domanda, Oone, non credi?» «Costui non ha altre risposte da darci.» Il Gran Siniscalco le corse dietro, e nella foga di raggiungerla fece cadere a terra le pesanti borse; il vassoio rotolò via sulle pietre. «Non dovete avvicinarla! Questo le farà male! Questo sarà molto doloroso! Sarà terribile!» Elric provava una certa pena per quel vecchio. «Oone... potremmo ascoltare almeno ciò che dice.» La ragazza non rallentò il passo. «Vieni. Devi seguirmi subito.» Lui aveva imparato a fidarsi della sua opinione. Passò accanto al Gran Siniscalco ignorando i suoi tentativi di mettergli in mano le borse d'oro e le lacrime che gli colavano sulle guance e fra la barba. Gli occorse coraggio per trattare così quel poveretto, ma rifiutò di lasciarsi commuovere dal suo pianto. Davanti a loro c'era un'altra larga galleria ricurva, adorna di stucchi e mosaici, colonne di giada e pannelli di marmo azzurro coi bordi d'argento
cesellato. Sul fondo, una porta a due battenti di legno nero, coi cardini e i rinforzi in lucido ottone, bloccava loro il passaggio. Oone non bussò. Alzò una mano contro di essa, sfiorandola appena con la punta delle dita in una dolce carezza. Pian piano, proprio come l'altra porta, anche questa cominciò ad aprirsi. Dall'interno provenne un mormorio luttuoso, come un coro di gemiti. I due battenti continuarono a ruotare sui cardini finché furono del tutto spalancati. Elric era rimasto immobile sulla soglia, sbalordito da ciò che vedeva. Nel grande salone che s'era aperto dinnanzi a loro stagnava una luce dorata, strana e innaturale. Emanava dalla sommità di una colonna alta quanto un uomo, sopra la quale campeggiava un globo traslucido. Al centro del globo scintillava una perla di dimensioni enormi, grossa quasi quanto il pugno di Elric. La colonna era alla sommità di una rampa di scale circolare che la attorniava da ogni lato, e in piedi sugli scalini c'erano quelle che dapprima l'albino scambiò per file di manichini. Solo dopo qualche istante si rese conto che erano persone vive: uomini, donne e bambini che indossavano gli abiti più diversi, benché la maggior parte di loro fossero vestiti nella foggia di Quarzhasaat o dei nomadi del deserto. Il Gran Siniscalco li raggiunse, col fiato mozzo. «Non fate del male agli innocenti!» «Noi dobbiamo difenderci, messere» replicò Oone senza neanche voltarsi. «Questo è tutto ciò che posso dirti.» Lentamente, sempre tirandosi dietro i due cavalli argentati e con le loro lucide spade in pugno, Elric e Oone avanzarono nella morbida luce che stagnava nel salone come un'energia viva traendo riflessi incantati dalle loro stesse armature. «Qui non deve entrare chi uccide. Non deve entrare chi offende e distrugge. Non deve entrare chi ruba.» Elric ebbe un fremito quando riconobbe la voce. Guardò verso la lontana parete sinistra del salone e vide laggiù il Guerriero della Perla, ancora coperto di sangue e con l'armatura spaccata, la faccia ridotta a una piaga, gli occhi che sembravano prendere fuoco e poi spegnersi. E in quel volto c'era di nuovo qualcosa di Alnac. Ciò che il guerriero disse subito dopo fu patetico: «Io non posso combattere contro di voi. Non più.» «Noi non vogliamo farvi del male» disse Oone. «Siamo qui per liberarvi.» Fra le figure in piedi sulla scala ci fu un movimento. Fra loro apparve
una donna vestita d'azzurro e con la faccia velata. Negli occhi della Regina Gemente luccicavano le lacrime. «Ed è per salvarci che venite con la morte in pugno?» disse, indicando le loro spade. «Ma i nostri nemici non sono qui, se volete loro.» «Saranno qui presto» disse Oone. «Molto presto, credo, mia signora.» Stupito Elric si girò a guardare la porta, come se temesse di veder apparire i nemici di cui le due donne stavano parlando. Poi fece qualche passo verso la Perla nel Cuore del Mondo, col solo scopo di ammirare più da vicino quella meraviglia. Le figure immobili presero subito vita, bloccandogli la strada. «Voi volete rubarla!» gemette il Gran Siniscalco, con voce ancor più disperata e più impotente di prima. «No» disse Oone. «Non è per questo che siamo qui. Dovete capire che dico il vero. A mandarci è stato Raik Na Seem, per cercare la sua amata figlia.» «Lei sta bene. Ditegli che è perfettamente al sicuro.» «Non è al sicuro. Presto si dissolverà.» Oone si girò verso la piccola folla da cui si alzavano mormorii allarmati. «Lei è stata separata, come siamo stati separati noi. E la causa di tutto questo è la Perla.» «Tu menti!» disse la Regina Gemente. «Tu menti!» le fece eco il Guerriero della Perla sputando sangue. E nel suo petto ferito vibrò una risata aspra. «Tu menti!» balbettò il Gran Siniscalco, e andò a porgerle di nuovo le due borse d'oro. «Non siamo venuti qui per rubare, ma per difendervi. Guardate!» Oone fece un largo movimento circolare con la spada, per mostrare ai presenti ciò che evidentemente nessuno di loro aveva ancora visto. Uscendo attraverso i muri del salone, armati fino ai denti con armi di ogni genere, fecero il loro ingresso gli uomini incappucciati e tatuati di Quarzhasaat. Gli Avventurieri Stregoni. «Non ce la faremo a respingerli» disse Elric sottovoce alla compagna. «Sono in troppi.» E si preparò a morire. 12 La lotta nella Fortezza Invece di mostrarsi scoraggiata, Oone balzò in sella al suo cavallo e alzò
la spada argentea. «Elric, fai quello che faccio io!» gli gridò. E affondò i talloni nei fianchi dell'animale, che con un sonoro clangore di zoccoli partì al galoppo sul pavimento liscio del salone. Deciso a non soccombere senza portare con sé quanti più avversari poteva, Elric montò anch'egli in arcioni, staccò la lancia dal supporto della sella, impugnò le redini nella stessa mano in cui aveva la spada e si gettò contro gli Avventurieri Stregoni. Soltanto quando costoro gli furono attorno agitando picche e mazze ferrate, scimitarre e bipenni, l'albino capì che l'iniziativa della sua compagna non era stata dettata dalla disperazione. Nonostante l'aspetto combattivo quegli uomini avanzavano a passi pesanti vacillando come ubriachi, e avevano occhi velati e gesti lenti privi d'energia. Le armi di Elric e di Oone che si abbattevano su di loro trovavano meno resistenza di falci in un campo di grano, spaccando teste, mozzando mani e braccia, infilzando e tagliando carne umana ovunque si girassero. Chiazze sempre più larghe di sangue vischioso insozzavano il bel pavimento dove i corpi si abbattevano a decine, e ben presto le flebili grida di quegli uomini così ciechi e inetti mossero a compassione Elric. Se non avesse giurato di seguire Oone si sarebbe fatto da parte, disgustato, lasciandola sola a proseguire quel massacro. Non era molto il pericolo d'essere feriti dai miseri individui che continuavano a uscire dai muri solo per incontrare armi d'acciaio affilato troppo veloci per loro. Al centro della sala, radunati sugli scalini intorno alla colonna della Perla, i cortigiani osservavano inorriditi. Non sembravano accorgersi di quanto fosse ridicolo l'attacco che i due cavalieri argentati stavano rintuzzando. Poi dalle pareti non ne apparvero altri. Tutto intorno al perimetro del vasto locale c'erano mucchi di cadaveri decapitati o sventrati. Elric e Oone volsero le spalle a quei poveri resti e si guardarono, scuri in faccia, per nulla orgogliosi di ciò che avevano fatto. «È finita» disse Oone. «Non credo che gli Avventurieri Stregoni siano più una minaccia per noi.» «Voi due siete davvero grandi eroi!» La Regina Gemente scese dalla scala e venne verso di loro, con le braccia protese e gli occhi colmi d'ammirazione. «Noi siamo comuni esseri umani» disse Oone. «Ma sappiamo batterci e abbiamo sconfitto coloro che insidiavano la Fortezza della Perla.» Le sue parole suonavano ancora rituali, come tutto ciò che la ladra di sogni faceva, ed Elric si disse che quel suo modo di comportarsi doveva ave-
re uno scopo preciso. «Voi siete i figli di Chamog Borm, il Fratello e la Sorella della Luna Bianca, i Figli dell'Acqua dell'Amicizia, i Protettori del Fiore e dell'Albero...» A parlare così era il Gran Siniscalco, che aveva lasciato al suolo le borse d'oro e piangeva commosso. Con quell'espressione di sollievo e di gioia, pensò Elric sorpreso, era molto somigliante a Raik Na Seem. Oone scese da cavallo e si lasciò abbracciare dalla Regina Gemente. Subito dopo un clangore di stivali metallici e una risatina aspra fecero voltare Elric; dietro di loro c'era il Guerriero della Perla. «Non c'è altro da fare qui, per me» disse, con la voce di Alnac. Nei suoi occhi c'era la rassegnazione. «Queste spoglie mortali ora possono dissolversi...» E si abbatté faccia a terra sul pavimento marmoreo, con le braccia e le gambe spalancate. Pochi istanti dopo non c'era più carne in quel corpo, e ciò che rimase del Guerriero della Perla furono soltanto ossa nude e un carapace bianco, simile a un granchio seccato al sole su una spiaggia. La Regina Gemente s'avvicinò a Elric e gli tese le braccia. Era alquanto più bassa di statura, come se nel loro precedente incontro avesse portato tacchi ridicolmente alti, e ora gli arrivava appena al mento. Quando lo abbracciò fu con un calore sincero. Poi il velo che le celava il viso ricadde, e l'albino vide che insieme alla statura aveva anche perso molti anni di età. Quella che aveva davanti era una fanciulla non più che tredicenne. Alzò lo sguardo. Alle spalle della Regina Gemente, Dama Oone stava sorridendo del suo stupore. Elric sollevò il mento della giovinetta con un dito, le sfiorò i capelli color miele e restò senza fiato. Era Varadia. Era la Vergine Sacra dei Bauradim, la fanciulla il cui spirito loro avevano promesso di liberare. Oone gli venne accanto e poggiò una mano protettiva su una spalla di Varadia. «Ora sai che siamo tuoi amici, non è così?» Varadia annuì e si volse a guardare i cortigiani, che continuavano a restare immobili sulla scala intorno alla colonna. «Il Guerriero della Perla era la miglior difesa che avessi» disse. «Non ho potuto chiamarne uno più capace. Chamog Borm mi ha deluso; gli Avventurieri Stregoni erano troppo forti per lui. Ora posso richiamarlo dal suo esilio.» «Noi abbiamo unito le sue forze alle nostre» disse Oone. «La tua forza, più la nostra. Questo ci ha dato il successo.» «Noi tre non siamo ombre» esclamò Varadia, come se quella fosse una rivelazione che la colpiva. «Questo ci ha dato il successo.» Oone annuì. «Ci ha dato il successo anche questo, Vergine Sacra. Ora
bisogna pensare a come riportarti alla Tenda Bronzea, fra la tua gente. Tu incarni tutta la loro storia e il loro orgoglio.» «Lo so. Era una cosa che avrei dovuto proteggere. E in questo ho fallito.» «Non è vero» la corresse Oone. «Gli Avventurieri Stregoni non ci attaccheranno più?» «No» la tranquillizzò Oone. «Né qui, né altrove. Elric e io abbiamo già provveduto.» Solo allora l'albino si rese conto che era stata Oone a chiamare dentro gli Avventurieri Stregoni, a sfidarli con la sua presenza, ad attrarre lì quelle ombre umane per dimostrare alla fanciulla che c'erano degli avversari e loro li avevano sconfitti. Oone, che lo stava guardando, lo avvertì con lo sguardo di tenere per sé quei pensieri. Ma Elric non poteva fare a meno di pensare che, sebbene il pericolo fosse stato reale, loro due avevano combattuto contro avversari creati dal sogno di una fanciulla tredicenne. L'eroe leggendario, Chamog Borm, non aveva potuto salvarla perché lei sapeva che si trattava di un personaggio mitologico. Il Guerriero della Perla, anch'esso almeno in buona parte di sua invenzione, aveva avuto lo stesso svantaggio. Ma lui e Oone erano persone reali, non meno solide di Varadia stessa. Nel suo sogno lei aveva assunto i panni di una Regina alla ricerca di un potere che, come aveva detto durante il viaggio in barca, non era alla sua portata. Incapace di sfuggire al sogno, sapeva però distinguere la differenza fra questo e le cose che non era stata lei a inventare: lei stessa, Oone ed Elric. Ma Oone aveva dovuto farle vedere la sconfitta di ciò che restava degli uomini che l'avevano rapita e drogata, e mostrandole quella scena le aveva aperto la strada del ritorno. A dispetto di ciò si trovavano ancora dentro il sogno, tutti e tre. La grande Perla pulsava di luce come quand'erano entrati lì dentro, e la Fortezza con il suo labirinto di corridoi e di cortili era sempre la loro prigione. «Tu li capivi» disse Elric a Oone. «Sapevi di cosa stavano parlando. Il loro era il linguaggio di una bambina... era il modo in cui una bambina vede il potere.» Ma ancora una volta Oone, con un'occhiata d'avvertimento, si affrettò ad azzittirlo. «Varadia ora sa che il potere non è qualcosa che ha vero valore quando ci ritiriamo. Tutto ciò che il potere può fare mentre ci ritiriamo è distruggere chi ostacola la nostra fuga, o darci un nascondiglio mentre la tempesta ci passa sopra la testa. Non lo si può usare per costruire, ma solo
per salvarsi. E alla fine uno deve sempre confrontarsi col male.» Nel dirlo sembrava quasi in trance, ed Elric capì che stava recitando un precetto della sua gilda. «Voi non siete venuti a rubare la Perla, ma per liberarmi da questa prigione» disse Varadia, mentre Oone le stringeva le mani. «È stato mio padre a mandarvi?» «Tuo padre ha chiesto il nostro aiuto, e noi siamo stati lieti di darglielo» rispose Elric. Accorgendosi di avere ancora in pugno la spada insanguinata la infilò nel fodero. Si sentiva sciocco nell'armatura di un eroe da favola. Oone notò il suo disagio. «Dobbiamo restituire a Chamog Borm le sue cose. Dama Varadia, quel valoroso ha il tuo permesso di fare ritorno alla Fortezza?» La fanciulla sorrise. «Naturalmente. Sia posto fine al suo esilio.» Batté le mani, e la grande porta della sala si aprì di nuovo. Chamog Borm, ancora vestito degli abiti da contadino, entrò con andatura eretta alla Corte della Perla e s'inginocchiò dinnanzi alla sua Regina. «Altezza Reale!» disse. Nella voce mascolina dell'Eroe c'era una grande emozione. «Io ti restituisco l'armatura e le armi, i due cavalli fratelli Tadia e Taron, e tutto il tuo onore, o mio prode Chamog Borm!» proclamò Varadia in tono adatto alla situazione. Poco dopo, liberi dal peso delle armi, Elric e Oone erano di nuovo vestiti coi loro robusti abiti da viaggio. Chamog Borm indossò il pettorale e i gambali intarsiati d'oro e d'argento, con la spada al fianco e le altre armi appese addosso ai suoi due cavalli. Terminò di caricare sulla groppa di Tadia l'altra armatura, e poi poggiò ancora un ginocchio al suolo davanti alla sua Regina. «Mia signora» disse, «quale missione vuoi che io vada a compiere in tuo nome e per la tua gloria?» Varadia ci pensò un momento. «Sei libero di viaggiare nelle terre che vorrai, mio prode Chamog Borm. Una sola cosa ti chiedo: combatti il male dovunque tu vada, e non permettere mai più agli Avventurieri Stregoni di attaccare la Fortezza della Perla.» «Sarà come tu chiedi. Io lo giuro.» Con un inchino a Oone e un cenno di saluto a Elric il leggendario guerriero condusse fuori i suoi cavalli e lasciò la Corte, a testa alta e pieno di nobili propositi. Varadia era soddisfatta. «Ho fatto di lui la stessa persona che era prima che lo chiamassi qui. Ora so che le leggende non hanno potere. Il potere lo
hanno coloro che sanno fare buon uso delle leggende. E ne fanno buon uso quando vivono secondo i loro ideali.» «Tu sei una fanciulla saggia» disse Oone, ammirata. «Potrei forse non esserlo, signora? Io sono la Vergine Sacra dei Bauradim» disse Varadia in tono ironico e scherzoso. «E sono anche l'Oracolo della Tenda Bronzea.» Abbassò lo sguardo, facendosi d'un tratto malinconica. «Fra poco sarò di nuovo soltanto la figlia di un nomade del deserto. Credo che sentirò la mancanza di questo palazzo, e delle lande su cui esso regna...» «Qui si lascia sempre qualcosa.» Oone le batté una pacca su una spalla. «Ma in compenso si impara molto.» Varadia si voltò verso la Perla. Seguendo il suo sguardo Elric vide che l'intera Corte era svanita, proprio com'era svanita la folla dalla grande scalinata mentre loro venivano attaccati dal Guerriero della Perla, poco prima dell'incontro con Dama Gemente. Ora capiva che la fanciulla aveva fatto tutto ciò che poteva per guidarli verso di lei ed essere salvata. Li aveva raggiunti proiettandosi verso di loro, e pur parlando per enigmi s'era accertata che non smarrissero la strada. Varadia salì lentamente gli scalini, con le mani protese verso la Perla. «Questa è la causa di tutte le nostre disgrazie» disse. «Cosa possiamo fare con lei?» «Distruggerla, forse» disse Elric. Ma Oone scosse il capo. «Finché essa resterà un tesoro nascosto, gli uomini sogneranno la possibilità di rubarla. Questo è il motivo che ha portato gli Avventurieri Stregoni a interessarsi di Varadia, a drogarla, a cercare di sottometterla e farla finire in trappola nel Reame dei Sogni. Il male non viene dalla Perla, ma dalle azioni degli uomini che la bramano.» «Allora cosa pensi di farne?» le domandò Elric. «Venderla al Mercato dei Sogni la prossima volta che andrai là?» «Forse distruggerla sarebbe una soluzione. Ma non il modo migliore per assicurare la tranquillità futura di Varadia, capisci?» «Finché la Perla sarà una leggenda, ci sarà sempre chi cercherà di scoprire se esiste realmente.» «Proprio così, Principe Elric. Così non la distruggeremo, credo. Non qui.» Lui scrollò le spalle, poco interessato. Era così assorbito dal sogno in cui si trovava, e dalla rivelazione dei livelli di realtà che esistevano nel Reame dei Sogni, da aver dimenticato il movente originale della sua ricerca: la
minaccia alla sua vita e a quella di Anigh. Fu Oone a ricordarglielo. «Tieni presente, Elric di Melniboné, che a Quarzhasaat ci sono individui che non sono soltanto tuoi nemici. Sono anche nemici della fanciulla. Nemici dei Bauradim. Tu avrai ancora una questione in sospeso, dopo che saremo tornati nella Tenda Bronzea.» «Allora consigliami tu, Dama Oone» disse Elric con semplicità. «In questa terra sei tu l'esperta.» «Non posso darti un consiglio migliore di quello che ti daresti da solo» disse lei, a disagio per un complimento di cui non si sentiva all'altezza. «Ma posso prendere una decisione, qui. Dobbiamo reclamare il possesso della Perla.» «Da quanto ho capito io» osservò Elric, «la Perla non esisteva prima che i nobili di Quarzhasaat la concepissero, prima che uno di loro scoprisse la sua leggenda, prima che gli Avventurieri Stregoni venissero qui alla sua ricerca.» «Ma esiste ora» disse Oone. «Dama Varadia, sei disposta a darmi la Perla?» «Volentieri» rispose la Vergine Sacra. Corse su per gli scalini, tolse il globo esterno dal supporto e lo gettò al suolo, facendo rimbalzare schegge di cristallo lattescente dappertutto, anche sui resti disseccati del Guerriero della Perla. Poi afferrò il favoloso gioiello, così come un bambino avrebbe afferrato una palla. Con un sorriso si passò la Perla da una mano all'altra, esaminandola senza nessuna paura. «È molto bella. Non mi meraviglio che quei nobili la vogliano.» «Sono stati loro a farla, e poi l'hanno usata per intrappolare te.» Oone alzò le mani a prenderla al volo, quando Varadia gliela gettò. «È una vergogna che gente capace di concepire tanta bellezza possa compiere atti così malvagi per impadronirsene...» D'un tratto corrugò le sopracciglia, preoccupata. Nella Corte della Perla la luce stava diminuendo. Da tutte le direzioni provenne un suono sconvolgente, un ruggito d'angoscia, un coro di ululati e gemiti e urla agonizzanti, come se tutte le anime dannate dell'universo avessero improvvisamente dato voce alla loro sofferenza. Quell'esplosione di rumore li fece vacillare. Si tapparono gli orecchi guardandosi attorno terrorizzati, mentre il pavimento del salone sussultava e si ondulava, e le pareti d'avorio coperte di mosaici deliziosi cominciavano a squarciarsi dinnanzi ai loro occhi, sgretolandosi e cadendo a pezzi,
come l'arredamento di un antico sepolcro esposto all'aria e alla luce. E d'un tratto, sopra quel caos di urla e schianti, udirono la risata. Era una risata dolce e melodiosa. La risata innocente di una fanciulla. La risata di uno spirito libero. Quella di Varadia. «Si sta dissolvendo, alla fine. Si dissolve! Oh, amici miei, io non sono più schiava!» In mezzo alla devastazione e allo sconvolgimento, in mezzo al materiale polverizzato che grandinava attorno, lì nel centro della gigantesca rovina che stava diventando la Fortezza della Perla, Oone venne verso di loro. Si muoveva in fretta ma con l'aria di sapere quel che faceva, quando prese per mano la Vergine Sacra. «Non ancora! È troppo presto! Potremmo dissolverci anche noi, insieme a tutto quanto!» La ragazza disse a Elric di prendere l'altra mano di Varadia, e insieme corsero via in quella distruzione attraverso la polvere e la tenebra sempre più fitte, fuori dal salone, lungo i corridoi che crollavano, oltre i cortili dove le fontane erano ridotte in pezzi, fra edifici costruiti di carne pietrificata che ora stava marcendo e si abbatteva putrefatta intorno a loro. Oone li costrinse a correre senza rallentare l'andatura finché furono all'ultimo cortile ed uscirono dal portale circolare. Ansimando proseguirono sulla strada di marmo, girando sulla destra. Davanti a loro c'era un ponte. Oone dovette quasi trascinare gli altri due verso di esso, vacillando e correndo fra gli scossoni del suolo, mentre la Fortezza della Perla crollava su se stessa e si polverizzava, ruggendo come una bestia ferita a morte negli ultimi terribili sussulti dell'agonia. Il ponte sembrava infinito. Elric non riusciva neppure a vedere l'estremità opposta. Ma infine Oone smise di correre e permise loro di proseguire al passo, perché erano giunti a una porta. La porta era scolpita nell'arenaria rossa. I montanti erano ornati con tasselli geometrici e bassorilievi che raffiguravano antilopi, leopardi e cammelli. Aveva un aspetto architettonico quasi prosaico dopo tanti edifici monumentali, ma nell'avvicinarsi ad essa Elric si sentiva fremere. «Ho paura, Oone» disse. «Senti la morte che ti aspetta là dove torniamo, lo so. Ma non fermarti» lo incitò la ladra di sogni. «Tu sei un coraggioso, Principe Elric. Continua a essere così, ti prego.» Lui controllò quella paura. La sua stretta sulla piccola mano di Varadia si fece ferma e rassicurante.
«Stiamo tornando a casa, vero?» domandò la Vergine Sacra. «Cos'è che temi di trovare là, Principe Elric?» Lui le sorrise, quasi grato per quella domanda. «Niente di particolare, Dama Varadia. Forse soltanto me stesso, e nulla più.» Tenendosi per mano oltrepassarono insieme l'ultima porta. 13 Festeggiamenti nell'oasi del Fiore d'Argento Quando si svegliò accanto alla fanciulla ancora immersa nel sonno, Elric fu sorpreso di sentirsi così fresco e riposato. Il bastone dall'estremità curva, che li aveva aiutati a ottenere concretezza fisica nel Reame dei Sogni, univa sempre le loro mani, e guardando sull'altro lato della Vergine Sacra lui vide che Oone cominciava a muoversi. «Dunque avete fallito, è così?» Era la voce di Raik Na Seem, colma di luttuosa rassegnazione. «Cosa?» Oone si girò verso Varadia. Pochi istanti dopo, mentre la scrutavano, il volto di lei cominciò a riprendere colore e gli occhi si aprirono, incontrando quelli ansiosi del padre chino su di lei. La fanciulla sorrise. Era il semplice e spontaneo sorriso che Oone ed Elric avevano già conosciuto. Il Primo Anziano del Clan Bauradim cominciò a piangere. Piangeva come aveva pianto il Gran Siniscalco alla Corte della Perla; le sue erano lacrime di sollievo, lacrime di gioia. Strinse la figlia fra le braccia e non provò neppure a parlare, ammutolito dalla gioia che gli allargava il cuore. Tutto ciò che poté fare fu di allungare una mano a stringere quelle dei suoi amici, l'uomo e la donna che erano entrati nel Reame dei Sogni per liberare lo spirito della fanciulla, rintanato laggiù per sfuggire agli individui senza scrupoli al soldo del nobile Gho. I due gli batterono una pacca su una spalla e uscirono dalla Tenda Bronzea. Fecero qualche passo insieme sotto le stelle, nel deserto, poi si fermarono presso un fuoco semispento, fra le tende. «Ora abbiamo un sogno in comune» disse Elric sottovoce, in tono dolce e affettuoso. «Porterò sempre con me questo ricordo, Dama Oone.» Lei alzò una mano a carezzargli il viso. «Tu sei un uomo saggio, Principe Elric, e sei coraggioso. Ma ci sono esperienze, le piccole cose della vita di ogni giorno, che ancora ti mancano. Spero che tu le trovi.»
«È per questo che ho cominciato a girare il mondo, signora mia, lasciando sul Trono di Rubino mio cugino Yyrkoon come Reggente. So di avere molto da imparare.» «È stato bello sognare con te» disse lei. «Tu hai perso l'uomo che amavi» disse Elric. «Sono felice di averti aiutato a superare il dolore di quella perdita.» Lei restò un momento perplessa, poi la sua fronte si schiarì. «Stai parlando di Alnac Kreb? Gli volevo bene, signor mio, ma per me era più un amico che un amante.» Elric esitò, imbarazzato. «Scusa se ho frainteso, Dama Oone.» La ragazza alzò gli occhi al cielo. La Luna di Sangue non era ancora tramontata. Spargeva i suoi raggi vermigli sulle sabbie, e sul lucido bronzo della tenda dove Raik Na Seem si stava godendo il ritorno di sua figlia. «Per me non è facile amare nel senso che tu intendi.» La voce di lei era ferma. Ebbe un sospiro. «Hai sempre intenzione di tornare a Melniboné, dalla tua fidanzata?» «Devo» disse lui. «La amo. E il dovere mi chiama a Imrryr.» «Un dovere che ti chiama al piacere!» Il tono di lei era ironico. Si scostò di un paio di passi e abbassò lo sguardo, con le mani sui fianchi. Diede un paio di calcetti alla sabbia color sangue sporco. Elric aveva da tempo imparato a controllare le sofferenze d'amore. Poté solo restare lì ad aspettare, finché la ragazza tornò verso di lui. Era riuscita a ritrovare il sorriso. «Be', Principe Elric, che ne dici di unirti ai ladri di sogni e di guadagnarti da vivere con questo lavoro, per un po' di tempo?» Lui scosse il capo. «È un impegno che richiederebbe tutto me stesso, signora mia. Sono contento di quest'avventura e di ciò che mi ha insegnato, sia su me stesso che sul mondo dei sogni. Non che io ne capisca molto più di prima. Non so bene cosa fossero i luoghi in cui abbiamo viaggiato, e le creature che vi abbiamo incontrato. Non so quanta parte del Reame dei Sogni fosse creata da Varadia, e quanta da te. È stato come essere spettatore in un duello di cantastorie. E ho contribuito anch'io ad esso? Non lo so.» «Oh, senza di te credo proprio che avrei fallito, Principe Elric. Tu hai conosciuto mondi diversi, e hai letto molto. Non voglio analizzare certe creature e certi luoghi che noi abbiamo trovato nel Reame dei Sogni, ma ti assicuro che il tuo contributo l'hai dato. Forse più di quanto saprai mai.» «Possibile che la realtà nasca anche dalla trama di quei sogni?» si domandò lui.
«Nei Reami Nuovi c'era un avventuriero di nome Earl Aubec» disse la ragazza. «Lui sapeva quale potente creatrice di realtà fosse la mente umana. Alcuni dicono che siano stati lui e i suoi compagni a costruire il mondo dei Reami Nuovi.» Elric annuì. «Anch'io ho sentito quella vecchia storia. Ma credo che siano soltanto favole, signora mia, come quella di Chamog Borm.» «Pensa pure ciò che vuoi.» Oone si girò a guardare verso la Tenda Bronzea. Il vecchio patriarca e sua figlia ne stavano uscendo. Nel grande locale interno i tamburi della tenda cominciarono a farsi udire, poi crebbe di volume un coro di voci armoniose e sempre più alte e forti. Pian piano la gente che aveva vegliato e pregato presso il corpo senz'anima della Vergine Sacra uscì all'aperto, e fece cerchio intorno a Raik Na Seem e a Varadia. La canzone che cantavano a gola spiegata esprimeva una gioia intensa. Le loro voci sembravano riempire il deserto e trarre echi dalle lontane montagne. Oone prese a braccetto Elric, in un gesto di cameratismo e di riconciliazione. «Vieni» disse. «Uniamoci al coro.» Avevano però fatto solo pochi passi quando furono presi e sollevati a spalla dai nomadi, che li portarono in trionfo qua e là finché anch'essi scoppiarono a ridere, travolti dall'entusiasmo generale. Da lì a poco Raik Na Seem gridò alcuni ordini e tutti ripartirono per l'Oasi del Fiore d'Argento. I festeggiamenti ebbero inizio fin dal loro arrivo all'oasi, come se i Bauradim e gli altri clan del deserto fossero già pronti da tempo per quell'occasione. Cibarie d'ogni genere furono preparate e messe sui fuochi; l'aria si riempì di profumi appetitosi, e parve che tutte le dispense e i magazzini di spezie del mondo fossero stati svuotati per imbandire le lunghissime tavole montate all'aperto. Dovunque crepitavano fuochi, arrosti rosolavano, pentole bollivano, e i ragazzi appendevano ai pali e alle corde lampioncini di carta colorata. Dal Kashbeh Moulor Ka Riiz, che sovrastava la grande oasi, uscirono i guardiani Aloum'rit, eleganti nelle loro belle armature antiche, con gli elmi e i pettorali intarsiati d'oro rosso, e le armi di lucido bronzo, di ottone e di acciaio. Altri nomadi avevano barbe biforcute e nastrini di seta intrecciati alle corna degli elmi con cui minacciavano scherzosamente le ragazze, e indossavano vesti di broccato e stivaloni di pelle ricamata. Erano uomini orgogliosi, che nelle festività sprizzavano allegria, e in molti clan le mogli e le figlie adulte cavalcavano accanto ai mariti e ai fratelli armate come loro,
benché con archi più facili da tendere e lance più leggere. Ma quali che fossero le loro usanze ora le tribù si univano e si mescolavano in una sola enorme folla. Al centro dell'oasi c'era una grande piattaforma, con sopra un bel seggio di legno, e Varadia era stata fatta sedere su di esso, affinché tutti vedessero che la Vergine Sacra era stata restituita alla sua gente e che con lei tornava l'orgoglio della loro cultura, il ricordo del passato e la speranza per il futuro. Raik Na Seem aveva ancora la faccia bagnata di lacrime. Quando l'uomo si vide davanti Oone ed Elric li abbracciò di nuovo, li ringraziò con le parole più elette che riusciva a trovare, e gridò a tutti quanto fosse dolce per un uomo avere amici così sinceri, così sapienti, così eroici. «I vostri nomi saranno ricordati dai Bauradim per tutti i secoli dei secoli. E qualunque favore vorrete chiederci, purché si tratti di cosa onorevole, come non dubito, vi sarà fatto. Se sarete in pericolo a diecimila leghe da qui, basterà che mandiate un messaggio alla mia gente e noi accorreremo in vostro aiuto. Perché non vi è merito maggiore che liberare l'anima di una fanciulla pura dalla prigionia avvilente del malefizio.» «Questo è il solo premio che volevamo» disse Oone. «Le nostre ricchezze vi appartengono» replicò il vecchio. «A noi la ricchezza non serve» gli rispose Oone. «Entrambi abbiamo scoperto da tempo che ci sono cose più importanti, credo.» Elric fu d'accordo con lei. «Inoltre c'è un uomo a Quarzhasaat che ha promesso di comprarmi un regno, in cambio di un piccolo servizio. Potrebbe farmi diventare Re... chissà, magari perfino Imperatore.» Oone rise della sua teatrale smorfia di bramosia. Raik Na Seem si accigliò, preoccupato. «Devi tornare a Quarzhasaat? Hai degli affari da concludere, là?» «Sì» annuì Elric. «C'è un ragazzo che aspetta il mio ritorno con molta ansia.» «Ma prima farai festa con noi, figlio mio, vero? E starai un po' con me e con Varadia. Voglio che tu la conosca... non hai scambiato con lei che poche parole, da quando vi siete svegliati.» «Penso di averla già conosciuta quanto basta da farmi un'opinione di lei» disse Elric. «È senza dubbio il tesoro più prezioso dei Bauradim, messer Raik Na Seem.» «Hai potuto far conversazione con lei nel cupo reame onirico in cui era tenuta prigioniera?» Elric pensò che forse era il caso di illuminare un po' il Primo Anziano,
ma Oone fu svelta a togliergli la parola, mentre gli rammentava con un'occhiata il suo voto di silenzio. «Abbiamo parlato a lungo con lei, Raik Na Seem. Io sono stata impressionata dall'intelligenza della fanciulla, e dal suo coraggio.» Le sopracciglia del vecchio tornarono a corrugarsi quando un altro pensiero gli sovvenne. «Figlio mio» disse a Elric, «sei riuscito a sostenerti in vita senza soffrire, nel Reame dei Sogni?» «Non ho sofferto, te l'assicuro» rispose lui. Poi si rese conto di ciò che aveva detto. Per la prima volta capì quali benefici avesse avuto da quell'avventura. «È così, messere. A fare l'apprendista di una ladra di sogni ci sono anche dei vantaggi. Specialmente uno, che soltanto ora mi accorgo di non aver apprezzato!» Con l'animo più leggero Elric si unì ai festeggiamenti, godendosi quelle ultime ore con Oone, coi Bauradim e con gli altri clan dei nomadi. Si sentiva di nuovo come se fosse tornato a casa, tanto era a suo agio fra quella gente, e dovette fare uno sforzo per non pensare troppo a quanto gli sarebbe piaciuto trascorrere qualche anno con loro, per apprendere le loro usanze, la loro filosofia, e forse anche conoscere meglio le loro donne così fiere e libere. Quella sera dopo cena, mentre si riposava su una stuoia sotto le palme da dattero rigirando fra le dita uno dei fiori d'argento dell'oasi, alzò lo sguardo verso Oone seduta lì accanto e disse: «Di tutte le tentazioni che ho affrontato nel Reame dei Sogni, nessuna è grande quanto questa, Oone. La vita dei nomadi è semplice e non ha nulla di straordinario, ma non vorrei lasciarla. E mi piacerebbe stare ancora con te.» «Le nostre strade si dividono qui, temo» sospirò lei. «Se ci rivedremo non sarà in questa vita, né in questo mondo. Tu diventerai una leggenda vivente, forse, ma quando sarai morto non resterà più nessuno a ricordarti.» «Neppure i miei amici? Spariremo tutti nel nulla?» «Ho paura di sì. Tu hai scelto di servire il Caos.» «Io servo me stesso e il mio popolo.» «Se tu volessi davvero ciò che dici, dovresti fare qualcosa di più per ottenerlo. Hai creato una tua realtà, in questo livello, e forse potrai crearne altra ancora. Ma il Caos è un alleato fatto per tradirti. Alla fine abbiamo soltanto noi stessi da migliorare. Nessuna causa, nessuna forza, nessuna sfida potrà mai alterare questa verità...» «È per migliorare me stesso che io viaggio, Dama Oone» le ricordò lui.
Lasciò vagare lo sguardo sul deserto illuminato dalla luna, sui tranquilli laghetti dell'oasi, e respirò a fondo l'aria fresca e profumata. «E te ne andrai presto?» volle sapere lei. «Domani.» Elric si strinse nelle spalle. «Ci sono costretto. Ma sarei curioso di sapere quale realtà ho creato, come dici tu.» «Oh, credo che un sogno o due si siano avverati» rispose lei in tono misterioso, e lo baciò su una guancia. «E ce n'è un altro che sta per realizzarsi... anche se non è il tuo.» Lui non le chiese quale, perché la ragazza s'era tolta di tasca la grande Perla e gliela stava porgendo. «Allora esiste davvero! Non è la leggenda che credevamo, non è un sogno. Tu... sei riuscita a portarla via!» «È per te» disse Oone. «Puoi farne ciò che vuoi. È stata lei a portarti qui all'Oasi del Fiore d'Argento. È stata lei a portarti da me. Non mi piacerebbe venderla al Mercato dei Sogni. Voglio che la abbia tu. Credo che sia giusto così, Elric. La Vergine Sacra l'ha data a me, e io la lascio a te. È per questa che Alnac Kreb è morto, così come sono morti tutti quegli assassini mandati a cercarla...» «Ma tu hai detto che la Perla non esisteva prima che gli uomini di Quarzhasaat cominciassero a sognare di trovarla.» «Ed è vero. Ma ora esiste. È qui. La Perla nel Cuore del Mondo. La grande Perla della leggenda. Vuoi forse dirmi che non sai cosa farne?» «Devi spiegarmi come...» cominciò lui, ma Oone alzò una mano. «Non chiedermi come fanno i sogni ad acquistare sostanza, Principe Elric. Questa è una domanda che i filosofi di ogni epoca e ogni terra continuano a farsi. Te lo chiedo ancora: sai cosa farne, tu?» Lui esitò, poi tese le mani e prese la splendida sfera lucente. La sollevò girandola fra le dita, per capire da dove venissero i riflessi lattescenti che sembravano pulsare fuori dalla superficie. «Sì» mormorò. «So cosa devo farne.» Oone attese di vedergli riporre l'oggetto in una tasca, poi disse: «Io credo che sia una cosa malvagia, questa Perla.» Elric non poté impedirsi di annuire. «Lo credo anch'io. Ma qualche volta il male può essere usato contro il male.» «È un ragionamento che non posso accettare.» Oone evitò il suo sguardo, a disagio. «Lo so» sospirò Elric. «Non è necessario che tu dica altro.» E fu lui, stavolta, a sporgersi verso di lei per baciarle la bocca con dolcezza. «Il Desti-
no si diverte a giocare con noi. Sarebbe meglio se ci offrisse una sola strada immutabile. Invece ci mostra che possiamo sempre scegliere... e quando abbiamo scelto ride, mentre noi ci domandiamo se la nostra scelta sia stata davvero la migliore.» «Noi siamo mortali.» Oone si strinse nelle spalle. «Ma questa domanda ci rende più umani.» Gli poggiò una mano sulla fronte. «Nella tua mente ci sono troppi dilemmi, mio signore. Credo che ruberò un paio dei sogni che ti tormentano di più.» «Puoi rubare anche il dolore, Oone, e trasformarlo in qualcosa che i frequentatori del tuo mercato vogliano comprare?» «Oh, non è insolito» disse lei. La ragazza gli prese la testa in grembo e cominciò a massaggiargli le tempie. Il suo sguardo era tenero. Lui disse, insonnolito: «Non posso tradire Cymoril. Lei si aspetta che...» «Io non ti chiedo di far altro che dormire un poco» disse lei. «Un giorno avrai molti rimpianti e conoscerai il rimorso, quello vero. Oggi posso soltanto liberarti di cosette dappoco.» «Cosette dappoco?» mormorò Elric, mentre le sue palpebre si chiudevano lentamente. «Dappoco per te, mio caro, anche se non sono tali per me...» E la ladra di sogni cominciò a cantare. Intonò una ninnananna. Le parole narravano di un bambino ammalato e di una madre che soffriva al suo capezzale. Narravano della semplice felicità della donna quando il figlioletto guariva. Ed Elric dormì. E mentre dormiva la ladra di sogni mise in atto una semplice magia e gli tolse alcuni ricordi, vaghi e confusi, che avevano tormentato le sue notti in passato e avrebbero potuto disturbarle anche in futuro. E quando Elric si svegliò, il mattino dopo, fu con il cuore più leggero e la coscienza a posto, solo un vago ricordo della sua avventura nel Reame dei Sogni, un immutabile affetto per Oone, e la decisione di tornare a Quarzhasaat al più presto per portare al nobile Gho la cosa che lui desiderava di più al mondo. Il suo addio ai Bauradim fu commovente, e la gente che volle abbracciarlo e stringergli le mani era sinceramente rattristata di vederlo partire. Lo supplicarono di ritornare, di unirsi a loro in qualche viaggio e di accompagnarli a cacciare sui monti, come tempo addietro aveva fatto il suo amico Rackhir.
«Farò il possibile per tornare in queste terre, se un giorno ne avrò l'occasione» disse lui. «Ma prima ho più di un impegno da portare a termine.» Un ragazzo trepidante e innervosito gli portò la grande spada nera da battaglia. Nel prenderla in mano Elric sentì che la Tempestosa mormorava piano, come se fosse felice di riunirsi a lui. Fu Varadia, tenendogli le mani sulle spalle, che lo baciò sulla bocca e gli diede la Benedizione del Viaggiatore a nome del suo clan. E Raik Na Seem dichiarò ad alta voce che Elric di Melniboné era adesso suo figlio adottivo, fratello di Varadia e Bauradim fra i Bauradim per sempre. Poi Oone venne verso di lui. La ragazza aveva deciso di restare per qualche tempo ospite dei nomadi. «E così è il momento di lasciarci, Elric. Forse ci incontreremo ancora. In circostanze migliori.» Lui fu divertito da quell'aggettivo. «Circostanze migliori?» «Per me, ad ogni modo.» La ragazza allungò una mano a sfiorare l'elsa della spada intarsiata di rune ed ebbe una smorfia. «Ti auguro di riuscire a diventare padrone di questa cosa, sempre che sia possibile.» «Sono già il suo padrone, credo, da un pezzo» disse lui. Lei scrollò le spalle. «Voglio andare un po' a cavallo. Ti accompagnerò per un breve tratto, sulla Strada Rossa.» «È un piacere, mia cara.» Fianco a fianco come nel Reame dei Sogni, Elric e Oone si avviarono sulla pista chiacchierando pacatamente di piccole cose. E sebbene non ricordasse più come s'era sentito o cos'aveva fatto l'albino provò la piacevole impressione di rivivere un momento felice, di ritrovare un'esistenza piena perché lei gli era accanto. Così fu con grande malinconia che si separò da Oone per proseguire da solo verso Quarzhasaat. «Addio, amica mia. Non dimenticherò mai come hai sconfitto il Guerriero della Perla, alla Fortezza. Quello è un ricordo che non svanirà.» «Mi lusinga pensare che mi ricorderai per le mie capacità di combattente» disse la ragazza, con una strana malinconica ironia che lui non capì. «Addio, Principe Elric. Ti auguro di ottenere quello che cerchi, e di trovare la pace quando un giorno tornerai nella tua Melniboné.» «Ho tutte le intenzioni di riuscirci, mia signora.» L'albino alzò la mano in un rapido saluto, per non prolungare quella tristezza, e spronò il cavallo. Con occhi che rifiutavano di piangere la ladra di sogni lo guardò allontanarsi al galoppo, sulla lunga Strada Rossa che conduceva a Quarzhasaat.
14 Certi affari in sospeso a Quarzhasaat Quando Elric di Melniboné entrò dalla Gloriosa Porta Imperiale Orientale delle mura di Quarzhasaat era afflosciato sulla sella come un cadavere. Non riusciva neppure a governare il cavallo, e i popolani che nel vederlo così prostrato gli vennero attorno vollero sapere se fosse malato, non tanto per solidarietà umana quanto perché temevano che portasse la pestilenza nella loro bella città, sospetto questo che sarebbe bastato a farlo scacciare a frustate nel deserto. L'albino riuscì appena ad alzare la testa per ansimare il nome del suo patrono, il nobile Gho Fhaazi, e assicurò loro che era soltanto stremato, giacché aveva finito la scorta di una bevanda che quel nobile poteva dargli. «Devo avere quell'elisir» disse con un fil di voce, «o sarò morto prima di aver portato a termine l'incarico che lui mi ha affidato...» «Già, l'elisir. Ne sappiamo qualcosa» borbottò un vecchio, e tutti si allontanarono per i fatti loro. Gli antichi palazzi e i minareti di Quarzhasaat erano una vista dolce e riposante negli ultimi raggi del grande sole rosso, e a quell'ora c'era la pace che stagna nelle vie quando gli affari della giornata sono terminati e la gente pensa ai tranquilli piaceri della cena e della casa. Un mercante d'acqua, ansioso di avere i favori di un nobile che presto avrebbe potuto essere eletto nel Consiglio, condusse personalmente il cavallo di Elric lungo gli ampi viali e le eleganti strade del centro, fino al grande palazzo del nobile Gho Fhaazi, adorno di stucchi dorati che il tempo aveva chiazzato di muffa verdastra. Il mercante fu ricompensato dalla promessa del maggiordomo di menzionare il suo nome al padrone di casa, ed Elric, che ogni tanto mugolava e gemeva leccandosi le labbra screpolate, fu condotto attraverso i verdi giardini interni che circondavano l'ala più riservata del palazzo. Avvertito da un servo il nobile Gho gli uscì incontro. L'uomo rise divertito, nel vedere l'albino coperto di polvere e ridotto in quelle condizioni. «Salve a te, Elric di Nadsokor! Salve, eroico e bellicoso signore dei ladri venuto a mostrarci la tua arte eletta. Guarda guarda... oggi non sembri più gonfio di boria come quando te ne sei andato. Il mio elisir ti rendeva entusiasta e altezzoso... ma ora l'hai finito e torni strisciando a supplicarne un sorso. Più malridotto della prima volta che questa città ebbe il dubbio pia-
cere di vederti arrivare.» «Il ragazzo...» mormorò Elric, mentre un paio di servi lo tiravano giù dal cavallo. Le sue gambe si piegarono, e gli uomini dovettero affiancarlo e sostenerlo di peso. «È vivo?» «Direi che sta meglio di te, messere!» I pallidi occhi del nobile Gho scintillarono maliziosamente, intanto che assaporava le sue spiritosaggini. «D'altronde, tu sei stato molto chiaro su questo prima di andartene. E io sono un uomo di parola.» Si passò le dita sulla barbetta irrigidita in riccioli gialli da una lucidissima cera, e inarcò un sopracciglio. «E tu, messer ladro, hai mantenuto la tua parola?» «Sì, l'ho mantenuta» sussurrò l'albino. I suoi occhi arrossati si rovesciarono indietro, e per un poco parve sul punto di rendere l'anima. Poi il suo sguardo sofferente cercò di rimettere a fuoco il volto del nobile Gho. «Mi darai l'antidoto e tutto quello che hai promesso? L'acqua, l'oro, la ricchezza, e la vita del ragazzo?» «Oh, certo, non dubitarne. Ma al momento attuale non mi sembri un uomo che possa permettersi di avere molte pretese, messer ladro. Che mi dici della Perla? L'hai trovata? O sei qui soltanto per farmi rapporto sul tuo fallimento?» «L'ho trovata. Ma l'ho nascosta» disse Elric. «Avevo finito l'elisir, e ora devo berne un sorso per...» «Sì, sì, so benissimo perché devi berne un sorso. Devi avere una costituzione molto forte per essere ancora in grado di spiccicare parola, a quest'ora.» Il quarzhasaatiano parlò con le guardie e coi servi dei due sessi che avevano seguito Elric nei freschi giardini interni del palazzo; lo fece mettere a giacere su grandi cuscini di velluto rossi e azzurri, quindi gli offrì cibo e acqua. Nel vedere che non aveva quasi la forza di mangiare ebbe un sogghigno. «Il bisogno di quella roba è ancora peggiore quando hai qualcosa nello stomaco, eh?» disse l'uomo dopo qualche minuto. Lo sguardo sofferente dell'albino lo divertiva. «Solo l'elisir può nutrirti, come lui si nutre di te... finché di te non resta niente, e se un'anima generosa non ti offre l'antidoto è la fine. Ma tu stai cercando di mercanteggiare con me, vero, messer ladro? Hai detto di aver nascosto la Perla. Perché? Non ti fidi di me? Io sono una persona molto stimata, nella più civile città del mondo.» Elric si mosse sui cuscini, sporcandoli di polvere. Raccolse un tovagliolo e lo usò per coprirsi la bocca quando tossì raucamente. «L'antidoto, mio signore...»
«Tu sai che non posso, per onestà verso me stesso, neanche parlare dell'antidoto finché non ho la Perla qui fra le mie mani» disse il nobile Gho in tono ragionevole. «A dire il vero, caro messer ladro, tu non mi sembri molto coerente. Più dell'antidoto, direi che ti serve urgentemente un altro sorso di elisir. Vuoi che, con la mia ben nota generosità, lo faccia portare?» «Non ne sento molto il bisogno, ma fallo pure portare, se credi.» Elric aveva cercato di esibire un tono noncurante, ma il nobile Gho poteva vedere che non era stato il deserto a ridurlo così, e che anelava disperatamente la droga. Si volse a dare istruzioni ai servi. Elric s'era sollevato su un gomito. «Fai venire qui il ragazzo» disse. «Voglio vedere coi miei occhi come sta, e sentire dalla sua bocca che non gli è stato fatto del male dopo la mia partenza...» «È una richiesta facile da esaudire. Ti accontenterò.» Il nobile Gho fece un cenno a una guardia. «Porta il ragazzo, quell'Anigh.» Mentre aspettavano, il padrone di casa si fece portare una sedia più larga, con un cuscino di suo gradimento, e sedette a sorseggiare un liquore rosato. «Sai, non mi aspettavo che tu tornassi vivo da questa impresa, messer ladro, e tantomeno che tu riuscissi a rubare la leggendaria Perla. I nostri Avventurieri Stregoni sono guerrieri abili e coraggiosi, addestrati in ogni aspetto della magia e della stregoneria. Eppure tutti quelli che io ho inviato, e tutti quelli inviati da altri, hanno fallito! Questo dunque è un giorno felice per me. Io ti rimetterò la vita in corpo, stanne certo, così potrai riferirmi quel che è successo. I Bauradim hanno cercato di tenderti agguati? Come hai fatto a sfuggire? Ne hai uccisi molti? Devi farmi un rapporto preciso, così, quando presenterò la Perla alla persona che mi eleverà alla carica più ambita, potrò spiegarle com'è giunta nelle nostre mani. È una questione di prestigio, capisci? Allorché sarò eletto, tutti dovranno sapere di quale impresa è stata capace la mia persona. I membri del Consiglio impazziranno per l'invidia.» L'uomo si leccò le labbra dipinte di rosso. «Hai dovuto sventrare quella maledetta ragazzina per riuscirci? A quali astuzie sei dovuto ricorrere, quando sei arrivato all'Oasi del Fiore d'Argento?» «Mentre entravo all'oasi era in corso un funerale... Elric si schiarì la voce, con un gesto stanco.» Sì. Non avevo mai visto gente così ansiosa di seppellire un uomo. Due guardie portarono dentro una figura magra e miseramente vestita che imprecava e cercava di liberarsi dalle loro mani. Il ragazzo non parve granché entusiasta quando vide Elric accasciato sui cuscini. «Ah, mio si-
gnore! Hai un aspetto ancor peggiore di quando ti trovai moribondo nel deserto» lo compatì. Smise di contorcersi e cercò di mascherare il suo disappunto. Su di lui non c'erano segni di tortura, non zoppicava e non aveva lividi in faccia. «Sei stato maltrattato, Anigh?» «Sono stato tenuto prigioniero, e questo non significa trattare bene un uomo che ha una famiglia da mantenere. Ma non posso dire d'essermi annoiato. Avevo una catena intorno al collo, legata al soffitto, e ogni giorno la accorciavano di un palmo. Stamattina ho dovuto cominciare a camminare in punta di piedi. Se tu non fossi arrivato...» «Bada a quello che dici, ragazzo» grugnì il nobile Gho. «Devi essere tornato con la Perla» disse Anigh, guardandosi attorno. «Dico bene, signore, vero? Ce l'hai, altrimenti non saresti qui.» Annuì fra sé e sorrise, sollevato. «Allora siamo a posto. Possiamo andarcene?» «Non avere tanta fretta, bastardo» brontolò una guardia. «L'antidoto, nobile» disse Elric. «Ce l'hai qui?» «Sei troppo impaziente, messer ladro. Vedo che hai molta fretta di mercanteggiare, ma la fretta è una cattiva consigliera.» Il nobile Gho ridacchiò, agitando un dito ammonitore. «Io devo avere una prova certa che tu possiedi la Perla. Forse per il momento sarà bene che tu mi dia la tua spada, come garanzia. Del resto sei troppo debole per tenerla in mano. A te in questo momento non serve, no?» Si piegò in avanti e allungò una mano per afferrare l'elsa dell'arma, ma con un debole movimento Elric si ritrasse. «Suvvia, messer ladro. Non diffidare di me. Siamo soci in questo affare. Dov'è la Perla? Il Consiglio si riunisce fra tre clessidre, al Palazzo della Municipalità. Se fossi in grado di portare la Perla fin d'ora a quella persona... stanotte stessa avrei la carica che spetta a un nobile del mio rango!» «Chi è abituato alle fogne può essere topo ancora per un giorno» borbottò Elric, a denti stretti. «Non far arrabbiare il nobile, signore!» gridò Anigh, allarmato. «Ricorda che non sai ancora dove tiene l'antidoto!» «Io devo avere la Perla, subito!» L'impazienza rendeva petulante il tono del nobile Gho. «Dove l'hai nascosta, ladro? Nel deserto? Da qualche parte qui in città?» Lentamente Elric si alzò a sedere sui cuscini. «La Perla era un sogno» disse. «Sono stati i vostri sicari a farla diventare reale.» Il nobile Gho Fhaazi corrugò le sopracciglia, grattandosi la fronte artificialmente sbiancata, e sbuffò di frustrazione. Poi scrutò Elric con occhi so-
spettosi. «Se vuoi dell'altro elisir farai meglio a non insultarmi, ladro. Non fare il furbo con me. Il ragazzo può morire a un mio cenno, e tu anche, e io non sarei in una posizione peggiore di quella che avevo ieri.» «Ma è una posizione che tu vuoi migliorare molto, nobile, se non sbaglio. Ottenendo un posto nel Consiglio. Giusto?» Elric sembrava più in forze ora, e si teneva eretto sul ricco cuscino di velluto. Accennò ad Anigh di accostarsi a lui. I due che lo tenevano per le braccia guardarono il loro padrone, ma lui scrollò le spalle. Il ragazzo s'incamminò verso l'albino, con aria incuriosita. «Tu sei avido, signor mio. E come gli altri nobili di questa città decadente vorresti appropriarti dell'intero mondo senza muoverti dal tuo comodo palazzo. È patetico vedere cosa resta dell'antico orgoglio del vostro impero.» Il nobile Gho fece una smorfia. «Ladro, se vuoi ritrovare la vita, se vuoi l'antidoto che ti renderà libero dalla droga che hai nel sangue, farai bene a trattarmi con più rispetto...» «Oh, certo.» Elric annuì pensosamente, frugandosi in una tasca interna della blusa. Ne tirò fuori una borsa di pelle. «Devo rispettare l'uomo che mi ha reso schiavo, è vero.» Sorrise. Aprì la borsa. Sul palmo della mano aperta sotto di essa rotolò il gioiello per avere il quale il nobile Gho Fhaazi avrebbe pagato metà della sua ricchezza, per avere il quale aveva mandato molti uomini incontro alla morte, per avere il quale lui stesso aveva commesso dei crimini ed era disposto a commetterne di assai peggiori. Il politicante quarzhasaatiano restò qualche momento immobile a bocca aperta, col fiato mozzo. I suoi occhi dipinti erano sbarrati. Quando si piegò in avanti stava tremando visibilmente. «È vero, dunque» disse, con voce rauca. «Tu l'hai trovata. Hai rubato la Perla nel Cuore del Mondo...» «Diciamo che è stato il regalo di un'amica» disse Elric. Sempre tenendo la Perla sulla mano si alzò, e passò un braccio intorno alle spalle di Anigh. «Ma quando l'ho avuta mi sono accorto che il mio corpo non richiedeva più il tuo elisir, e che di conseguenza il tuo antidoto non mi serviva più, nobile Gho.» L'altro non lo sentì neppure. Il suo sguardo era fisso sulla grande Perla. «È incredibilmente grossa... proprio come si raccontava. Ed è vera. Io me ne intendo di perle, e posso vederla. Il colore... la luce, ah...» Allungò una mano verso di essa. Elric ritrasse la mano su cui la teneva. Accigliato, il nobile Gho lo guar-
dò, con occhi lucidi per la bramosia. «La ragazzina è morta? La Perla era davvero, come alcuni dicevano, dentro il suo corpo? L'hai sbudellata?» Al fianco di Elric, Anigh non represse una smorfia. Pur disgustato l'albino mantenne un tono discorsivo. «No, no. Di mia mano non è morto nessuno che non fosse già morto. Anche tu, ad esempio, sei morto da molti giorni. Il funerale che vidi all'Oasi del Fiore d'Argento era il tuo. I nomadi ti considerano già defunto, a causa del male che hai fatto a loro e alla Vergine Sacra.» «Io? Ma caro messere, anche altri hanno mandato uomini armati! Tutti i membri del Consiglio e metà dei candidati hanno pagato gli Avventurieri Stregoni perché mandassero qualcuno alla ricerca della Perla. Buona parte di questi soldati hanno fallito o sono morti. Altri, tornati vivi, sono stati giustiziati per non aver tentato con la necessaria insistenza. Dici di non aver ucciso nessuno? Allora non ti sei sporcato le mani di sangue. Buon per te. Hai meritato la ricompensa, messer ladro. E ora...» Fremendo per l'emozione il nobile Gho si alzò dall'elegante scranno e tese le mani grassocce verso la Perla. Elric sorrise e, con stupore di Anigh, lasciò che l'uomo prendesse il globo opalescente fa le dita. Osando a stento respirare per non offuscare l'oggetto dei suoi sogni lo accarezzò con dolcezza. «Ah, quanto è bella. Com'è perfetta...» Con lo stesso tono leggero Elric chiese: «E la ricompensa?» «Cosa?» L'altro lo guardò appena, distrattamente. «Sì, certo. La vostra vita. Tu dici che non hai più bisogno dell'antidoto. Meglio così. Allora potete andarvene.» «Credevo che tu mi avessi offerto anche una fortuna. Metà delle tue sostanze, servi e schiavi, un'intera carovana di merci pregiate.» Il nobile Gho ebbe un gesto seccato. «Sciocchezze. Ti ho dato la mia parola solo per l'antidoto, lo ricordo benissimo. In quanto alla ricchezza, tu non sapresti mantenerla a lungo. Occorre essere nati nobili e sapere cosa significa, per farne uso saggio e durevole. Ti darò un buon consiglio: abbandona queste ambizioni. Ma ti fornirò vesti nuove e ti regalerò il cavallo, quando andrai via. Io sono un uomo generoso.» «Stai dicendo che non terrai fede al patto, mio signore?» «Ci sono state parole... ma nulla di scritto. L'unico mio impegno riguardava l'antidoto, e la libertà del ragazzo. Hai capito male.» «Così, non ricordi più le tue promesse?» «Non c'è stata nessuna promessa.» I rigidi riccioletti della barba del no-
bile si contorsero, alla sua smorfia sprezzante. «E... hai dimenticato anche la mia?» «Ora mi stai facendo perdere la pazienza.» Gli occhi dell'uomo erano sempre fissi sulla Perla. Se la rimirava come un padre avrebbe guardato il figlio appena nato. «Fatti dare delle vesti decenti da un servo e vattene, messere, finché sono di buon umore.» «Io ho delle promesse da mantenere» disse Elric. «E non sono uno che le dimentica.» Il nobile Gho si girò a guardarlo con faccia dura. «Ora sono stanco di questa storia. Stanotte io sarò membro eletto del Consiglio dei Sei Più Uno. Chi minaccia me, minaccia il Consiglio. Perciò tu sei un nemico di Quarzhasaat. Voi due siete colpevoli di tradimento verso l'Impero, e sarete trattati di conseguenza. Guardie!» «Vedo che tu sei un folle, messere!» disse Elric. Accanto a lui Anigh alzò le braccia, perché non aveva dimenticato il potere della Spada Nera. «Dai a questo straniero quel che chiede, nobile Gho!» gridò il ragazzo, temendo non per la vita degli altri quanto per la sua. «Ti supplico, grande signore, fai quello che lui dice!» «Non è così che si parla a un membro del Consiglio.» Il tono del nobile Gho era quello di un uomo giusto adirato per un giusto motivo. «Guardie, portate i due criminali fuori da questa sala. La loro condanna a morte sarà eseguita subito, mediante decapitazione.» Le due guardie non sapevano nulla della spada intarsiata di rune. Ciò che vedevano era un uomo malconcio dalle vesti lacere e un giovane accattone dall'aria inerme. Sorrisero duramente, come se fossero più che d'accordo sul modo in cui il loro padrone trattava i miserabili, ed estrassero le spade avanzando su di loro. Elric spinse Anigh dietro di sé. Con l'altra mano cercò l'elsa della Tempestosa. «Ciò che state facendo non è saggio» disse alle guardie. «Io non ho un particolare desiderio di uccidervi.» Alle spalle degli uomini armati, le cameriere e i servi che erano in sala aprirono la porta e s'affrettarono a uscire nel corridoio. Elric fece un cenno del capo verso di loro. «Vi consiglio di fare lo stesso» disse. «Essi hanno intuito cosa succederà qui, se un'arma si alzerà verso di me.» I due uomini risero forte a quelle parole. «Costui è un pazzo» disse uno di loro. «È necessario ucciderlo, come ha detto il padrone!» Mentre si gettavano su di lui con le armi in pugno la lama coperta di rune ululò, alzandosi nell'aria fresca della ricca sala; ululò come un lupo af-
famato libero dalla sua gabbia e avido di uccidere e di saziarsi. Elric sentì un fiotto d'energia saettargli nelle vene quando la lama si abbatté sulla guardia più vicina, spaccandogli verticalmente il cranio fino al collo. L'altro uomo, cercò di cambiare direzione e fece una finta, ma scivolò sul pavimento e fu infilato dalla spada che lo passò da parte a parte. I suoi occhi si riempirono d'orrore mentre il metallo nero gli risucchiava via l'anima dal corpo. Il nobile Gho fece un passo indietro e ricadde a sedere sul suo scranno, ansante e sbigottito. In una mano stringeva la grande Perla; l'altra era sollevata come per ripararsi da quella terribile arma. Ma Elric, rafforzato dall'energia rubata, rinfoderò la lama nera e tornò accanto al sedile di legno, scalciando via i cuscini per toglierli di mezzo. L'uomo accasciato su di esso gemette di terrore. «Riprenditi la Perla. Te la lascio...» balbettò. «È tua. Ma non uccidermi, messer ladro...» Elric accettò il gioiello che 'gli veniva offerto, ma non si mosse. Da una tasca interna della blusa tirò fuori una fiasca dell'elisir che il nobile Gho gli aveva dato. «Vuoi qualcosa che ti aiuti a mandarla giù?» L'uomo fu scosso da un tremito. Il sudore gli stava sciogliendo la tintura bianca della pelle, ma sotto di essa la sua faccia era ancora più bianca. «Non ti capisco, ladro» sussurrò. «Voglio che tu mangi la Perla, signor mio. Se potrai inghiottirla e restare vivo, be', allora vorrà dire che il tuo funerale è stato prematuro.» «Inghiottirla? È troppo grossa. Non credo che riuscirei neppure a mettermela in bocca.» Il nobile Gho tentò un sorriso, sperando che l'albino scherzasse. «Io invece penso che ci riuscirai, mio signore. E scommetto che potrai inghiottirla. Del resto, come supponevi che fosse entrata nel corpo di una fanciulla?» «Ma era un... dicevano che la Perla fosse... un sogno...» «Già. Allora inghiottirai un sogno. Chissà, forse la Perla ti porterà nel Reame dei Sogni, dove potrai sfuggire al tuo destino. Devi farlo, signore, altrimenti la mia spada nera berrà la tua anima. Cosa preferisci?» «Oh, messere, risparmiami! Questo non è giusto. Noi abbiamo fatto un patto!» «Apri la bocca, nobile Gho. Chissà, magari la Perla diventerà più piccola, o forse la tua gola si allargherà come quella di un serpente. Un serpente riuscirebbe a ingoiare la Perla senza fatica, e tu non sei certo inferiore a un serpente, no?»
Davanti a una finestra che dava nel cortile, da dove assisteva alla scena con l'aria di volersene andare da lì anche senza la vendetta che certo aveva sognato, Anigh disse: «I servi, messer Elric. Hanno dato l'allarme alla città.» Negli occhi slavati del nobile Gho balenò una scintilla di speranza, che però si spense quando l'albino poggiò la fiasca su un bracciolo dell'elegante scranno e sfoderò di nuovo la spada coperta di rune. «La tua anima mi aiuterà a combattere contro i soldati che stanno per accorrere, signor mio.» Lentamente, singhiozzando e gemendo, il quarzhasaatiano cominciò ad aprire la bocca. «Ecco, nobile, questa è la Perla. Mangiala. Fallo subito, te lo consiglio, perché questo è il solo modo di salvarti la vita.» La mano con cui l'uomo teneva il bellissimo gioiello tremava violentemente. Ma infine riuscì a spingerselo fra i denti, forzando la mandibola a spalancarsi. Elric prese la fiasca dell'elisir e versò un po' del contenuto sulle labbra tese allo spasimo. «Ora inghiottila, nobile Gho. Inghiottì la Perla per avere la quale hai ordinato di uccidere una fanciulla. E poi io ti dirò chi sono...» Non molto tempo dopo la porta si aprì, e l'albino vide entrare un uomo la cui faccia tatuata non gli era nuova: Manag Iss, il capo della Setta Gialla, parente della nobildonna Dama Iss. Con la spada in pugno il nuovo venuto avanzò lentamente nella sala, guardò Elric e Anigh, poi abbassò lo sguardo sul corpo del nobile Gho, che giaceva al suolo accanto allo scranno di legno rovesciato. «Non è riuscito a farlo» disse sottovoce il ragazzo, come tutta spiegazione. Manag Iss non domandò cosa. «Messer Elric» disse duramente. «Mi hanno detto che eri tornato. Hanno detto che sembravi morente. È chiaro che era un trucco per ingannare il nobile Gho.» «Sì» annuì l'albino. «Dovevo liberare questo ragazzo.» Manag Iss tenne bassa la spada. «Hai trovato la Perla?» «L'ho trovata?» «La mia padrona, Dama Iss, mi ha mandato a cercarti. È disposta a offrirti tutto ciò che vuoi, per averla.» Elric sorrise. «Dille che sarò al Palazzo della Municipalità fra mezza clessidra. Porterò la Perla con me.» «Ma là ci saranno anche gli altri. Lei vuole trattare l'affare in privato.» «Non credi che mi converrebbe di più mettere all'asta una cosa tanto
preziosa?» disse Elric. Manag Iss rinfoderò la spada, con un sogghigno storto. «Vedo che non sei uno sciocco. Forse nessuno di loro sa quanto sei astuto, come non sa chi sei. Dovrò riferire a tutti le tue intenzioni.» «Oh, puoi dir loro ciò che ho appena detto al nobile Gho. Ovvero che io sono l'ultimo erede al Trono di Rubino, l'Imperatore di Melniboné» disse Elric in tono discorsivo. «È la pura e semplice verità. Il mio Impero, infatti, è sopravvissuto assai meglio e con più successo del vostro.» «Questo potrebbe renderli molto ostili a te. Io preferirei essere tuo amico, melniboneano.» «Ti ringrazio, Manag Iss, ma non ho bisogno di altri amici qui a Quarzhasaat. Limitati a fare come ti ho detto, per piacere.» Manag Iss guardò i cadaveri insanguinati delle guardie e quello del nobile Gho, che erano diventati di un colore strano, e gettò un'occhiata all'innervosito Anigh. «La riunione al Palazzo della Municipalità avrà luogo fra mezza clessidra, Altezza Imperiale di Melniboné» disse, e dopo un cenno di saluto lasciò il vasto locale. Poco più tardi, quand'ebbe dato ad Anigh alcune precise istruzioni circa i viaggi e le merci prodotte a Kwan, Elric uscì nel giardino. Il sole era tramontato, e moltissime torce si stavano accendendo sui tetti di Quarzhasaat, come se la città si aspettasse un attacco. Nel palazzo del nobile Gho non c'era più neppure un servo. Elric andò nelle scuderie e controllò le condizioni del cavallo su cui era arrivato. Quando vide che era riposato e lo avevano rifocillato, lo sellò di nuovo, caricò dietro la sella un pesante fardello avvolto in una tenda di velluto, quindi gli salì in groppa e uscì al trotto nelle strade diretto al Palazzo della Municipalità, seguendo le indicazioni di Anigh. La città era insolitamente silenziosa. Era chiaro che le guardie avevano impartito l'ordine del coprifuoco alla cittadinanza, perché porte e finestre erano chiuse e in giro non si vedeva un'anima. Senza spronare il cavallo a un'andatura più svelta Elric percorse il Viale del Vittorioso Esercito Imperiale, la Via delle Grandi Antiche Conquiste e una dozzina di strade dal nome non meno altisonante finché, nella piazza centrale, vide un lungo edificio d'aspetto così semplice da far pensare che neanche i politicanti quarzhasaatiani riuscissero più a illudersi di detenere molto potere. L'albino tirò le redini. Al suo fianco la nera spada incisa di rune mormo-
rava un poco, come chiedendo un' altra razione di sangue. «Devi essere paziente» le disse lui. «Può anche darsi che non ci sia bisogno di battersi.» Gli parve di vedere delle ombre che si spostavano fra gli alberi e i cespugli nella piazza davanti al Palazzo della Municipalità, ma non se ne preoccupò affatto. Non gli importava che qualcuno complottasse o lo spiasse. Lui aveva una missione da compiere. Aggirò gli alberi e giunto al portone dell'edificio lo trovò aperto; non ne fu sorpreso. Smontò di sella, si caricò in spalla il fardello che aveva portato e a passi pesanti attraversò l'atrio fino a una larga sala illuminata da molte lampade, priva di ornamenti al punto di sembrare spoglia, al centro della quale un massiccio tavolo di quercia era circondato da sette sedie dallo schienale alto. In semicerchio, dietro il tavolo, c'erano sei persone con la faccia velata dagli occhi in giù secondo lo stesso stile di certe sette degli Avventurieri Stregoni. La settima figura portava un copricapo conico che le nascondeva il volto. Fu questa persona a parlare, ed Elric non fu stupito di sentire che aveva una voce femminile. «Ti trovi alla presenza del Consiglio dei Sette, straniero. Io sono la Settima Senza Nome» disse la donna. «Mi è stato riferito che hai portato a Quarzhasaat un grande tesoro, da aggiungere alle glorie dell'Impero.» «Se pensate che io vi abbia portato qualcosa che vi servirà, allora il mio viaggio non è stato inutile» rispose Elric. Depose al suolo il lungo fardello. «Manag Iss vi ha riferito ciò che gli ho detto?» Uno dei Consiglieri fece un passo avanti e sbottò, in tono che grondava odio: «Ci ha detto che affermi d'essere progenie imperiale della malaterra di Melniboné, affondata nelle acque molto tempo fa.» «Melniboné non è mai stata sommersa. E non si è mai isolata dal mondo circostante come avete fatto voi» disse Elric, sprezzante. «Venti secoli or sono voi sfidaste il nostro potere, e foste sconfitti dalla vostra stessa follia. Ora è stata la vostra avidità a farmi tornare a Quarzhasaat, quando avrei preferito lasciarmi alle spalle questa città senza essere notato.» «Tu osi accusarci di avidità?» disse una donna velata. «Tu che vieni a spargere sangue? Tu che discendi da quella degenerata stirpe di sub-umani che si accoppiava con le bestie, e che ha prodotto» alzò un dito accusatore verso di lui, «esseri del tuo aspetto!»
Elric non fece una piega. «Manag Iss non vi ha detto che vi conviene guardarvi da me?» domandò con calma. «Ci ha detto che affermi di avere la Perla, e che hai una spada stregata. Ma ha detto anche che sei solo.» La Settima Senza Nome si schiarì la gola. «È vero che hai portato qui la Perla che è nel Cuore del Mondo?» «Ho portato la Perla e ciò che la contiene» disse Elric. Si chinò a svolgere il velluto, e mise allo scoperto il corpo senza vita del nobile Gho Fhaazi. Il volto del defunto era contorto in un'orrida smorfia, e sul suo collo c'era un gonfiore simile a un mostruoso gozzo. «Questo è l'uomo che mi ha incaricato di andare alla ricerca della Perla.» «Ci è stato detto che l'hai assassinato con un tranello» disse la Settima Senza Nome in tono di disapprovazione. «Ma immagino che sia un'azione normale per un melniboneano.» Elric sorvolò su quelle parole. «La Perla è nella gola del nobile Gho Fhaazi. Volete che io la tiri fuori per voi, nobili signori?» Vide un certo turbamento negli occhi dei presenti, e sorrise. «Voi avete assoldato sicari per uccidere, torturare, rapire e perpetrare infamie d'ogni genere al vostro servizio, ma storcete il naso al pensiero di vedermi usare il coltello su questo corpo. Avevo dato al nobile Gho la scelta fra questo e la mia spada. Lui ha scelto ciò che vedete. Era così bramoso di avere la Perla che immaginavo gli sarebbe riuscito facile inghiottirla. Ma proprio quando sembrava che forse ce l'avrebbe fatta, ha avuto un collasso ed è morto. Vi lascio immaginare la mia costernazione.» «Tu sei un criminale!» Uno degli uomini velati venne avanti ed esaminò il suo defunto concittadino. «Sì, è proprio il povero Gho. Il suo colorito da morto non è peggiore di quello che era da vivo.» La Settima Senza Nome non apprezzò quella spiritosaggine. «Manag Iss» chiamò una donna velata, voltandosi. «Fatti avanti, messere. Il Consiglio ti chiede di entrare.» L'Avventuriero Stregone apparve da una porta in fondo al salone e venne avanti. Guardò Elric con una smorfia scontenta e sfoderò il coltello. Sapeva perché era stato chiamato. «Non tolleriamo che un melniboneano spilli sangue quarzhasaatiano in questo luogo» disse la Settima Senza Nome. «Manag Iss aprirà la salma per estrarre la Perla.» Il capo della Setta Gialla trasse un lungo respiro e si chinò sul cadavere. In fretta fece quel che doveva fare, e il sangue colò dalle sue dita quando sollevò davanti ai presenti la Perla che era stata nel Cuore del Mondo.
I membri del Consiglio sbarrarono gli occhi, impressionati. Alcuni imprecarono sottovoce, altri mormorarono commenti stupefatti. Elric non dubitava che non gli avessero creduto, tanto erano normali per loro le menzogne e gli inganni. «Fagliela vedere bene, Manag Iss» lo esortò l'albino. «Questo è l'oggetto che bramate tanto da pagarlo con quel poco che resta del vostro onore.» «Bada a te, straniero!» esclamò la Settima Senza Nome. «Finora siamo stati pazienti con te. Hai parlato di un'asta. Chiedi il prezzo che vuoi, e facciamola finita.» Elric rise. Non fu un suono piacevole. Era una risata melniboneana. Mai come in quel momento s'era compiaciuto d'essere un cittadino dell'Isola del Drago. «Benissimo» annuì. «Ciò che io voglio è questa città. Non i suoi abitanti, non i suoi tesori, non i suoi animali e le merci, e neppure la sua acqua. Voglio che voi membri del Consiglio e i nobili la abbandoniate, portandovi dietro tutti i vostri averi. Io reclamo il possesso della città e nient'altro. Perché essa è mia, capite? Mi appartiene per diritto ereditario.» «Cosa? Questo è un controsenso. Come potremmo accettare?» «Dovrete accettare» disse Elric. «O dovrete combattere.» «Combattere contro di te? Tu sei soltanto uno.» «È inutile perdere altro tempo» disse una delle donne. «Costui è un pazzo. Dev'essere eliminato come un cane idrofobo. Cugino Manag Iss, chiama i tuoi fratelli di setta e le guardie del palazzo.» «Non credo questa sia la cosa più consigliabile, cugina» disse Manag Iss. «A mio avviso sarebbe meglio cercare un accordo.» «Cosa? Sei diventato timido come un verme della sabbia?» lo derise la donna, evidentemente Dama Iss. «Forse che questo furfante straniero ha un esercito con sé?» L'uomo si grattò la barba. «Cugina, sto semplicemente...» «Chiama i tuoi fratelli, Manag Iss!» Il capo della Setta Gialla esitò ancora, accigliato. «Principe Elric, tu stai sfidando la mia città. Noi non abbiamo mandato nessuno a minacciarti, anzi il Consiglio ti ha onestamente invitato qui per acquistare la Perla...» «Manag Iss, tu ripeti le loro menzogne. E questo non è onorevole da parte tua. Se il Consiglio non vuole farmi del male, perché fuori di qui mi state preparando un agguato? Ho visto almeno duecento uomini armati strisciare nel buio intorno a questo palazzo.» «Quella è solo una precauzione» disse la Settima Senza Nome. Si rivolse ai suoi colleghi. «Ve l'ho detto che era stupido far arrivare subito tutti quei
soldati.» Con voce piatta Elric disse: «Tutto ciò che voi avete fatto era stupido, messeri. Siete stati crudeli, avidi, avete calpestato la vita e la libertà altrui. E la vostra politica è miseramente cieca alle necessità della gente e priva d'immaginazione. A mio avviso un governo così incurante di tutto fuorché dei suoi gretti interessi va sostituito. Quando voi avrete lasciato Quarzhasaat io eleggerò un governatore che saprà meglio servire questa città. In futuro, forse, permetterò ad alcuni di voi di tornare purché...» «Oh, uccidetelo!» esclamò la Settima Senza Nome. «Chiudete la bocca a questo criminale. Quando sarà sepolto decideremo fra noi a chi deve appartenere la Perla.» Elric sospirò, quasi rammaricato, e disse: «Rivolgiti a me quando parli, signora mia, prima che io perda la pazienza. Quando avrò estratto la spada non sarò più una persona pietosa e ragionevole...» «Uccidetelo!» insisté lei. «E facciamola finita!» Manag Iss aveva la faccia di chi ha appena ascoltato la sua condanna a morte. «Nobile signora, io ti ho avvisato con tutta la sincerità possibile di...» La donna avanzò verso di lui facendo ondeggiare furiosamente il copricapo conico, e gli sfilò la scimitarra dal fodero. Poi sollevò l'arma per abbatterla sul capo di Elric. L'albino reagì in fretta. Il suo braccio sinistro scattò avanti come un serpente. La afferrò per il polso. «Non provarci, donna! Bada che non sono abituato a ripetere un avvertimento troppe volte!» Lei lasciò cadere la scimitarra con un gemito di dolore e indietreggiò, massaggiandosi il polso indolenzito. Manag Iss venne a chinarsi fra loro e raccolse l'arma dal pavimento facendo l'atto d'infilarsela di nuovo nel fodero. Ma all'improvviso si girò brandendola dal basso verso l'alto e cercò di configgerla nel petto di Elric. Con una smorfia di disapprovazione l'albino fece un passo di lato, evitando una mossa fin troppo facile da prevedere, e nello stesso movimento estrasse la Spada Nera. Nell'aria echeggiò la demoniaca voce del metallo mentre la luce delle lampade a olio veniva assorbita da una radiazione oscura. Manag Iss mandò appena un rantolo quando il suo cuore fu trapassato. La mano in cui stringeva la Perla ebbe uno scatto in avanti, come per restituirla a Elric. Poi il gioiello rotolò sul pavimento. Tre Consiglieri vennero avanti per impadronirsene, videro gli occhi morti di Manag Iss e si fermarono impietriti.
«Allarme! Allarme! Accorrete!» gridò la Settima Senza Nome, ed Elric non fu sorpreso quando da tutti gli angoli del palazzo e da fuori arrivarono centinaia di Avventurieri Stregoni di ogni setta, con le armi in pugno. L'albino mandò allora il suo terribile grido di battaglia, con gli occhi rossi che scintillavano e il volto irrigidito in una maschera di furia e di morte. L'arma che alzava in quella sala era il simbolo della vendetta del suo popolo, della vendetta dei Bauradim, e della vendetta di tutti coloro che nei millenni avevano sofferto per le ingiustizie di Quarzhasaat. E offrì le anime che avrebbe preso al suo patrono Arioch, il Duca dell'Inferno, che s'era arricchito con le innumerevoli vite dedicate a lui da Elric e dalla sua Spada Nera. «Arioch! Arioch! Sangue e anime per il mio signore Arioch!» Poi la morte cominciò a mietere il suo orrido raccolto. Fu un massacro che rese altri eventi dello stesso genere pallidi e insignificanti al confronto. Fu un massacro destinato a restare per sempre negli annali dei nomadi del deserto, che ne avrebbero udito i racconti dalla gente che quella notte fuggì da Quarzhasaat... la gente che preferì avventurarsi sulle sabbie senza acqua né cibo, piuttosto di fronteggiare il mostruoso cavaliere che percorse al galoppo le strade impartendo alla città una lezione da cui, comunque, nessuno avrebbe tratto giovamento. «Arioch! Arioch! Sangue e anime!» I popolani avrebbero narrato con voce tremante dell'essere infernale dalla faccia bianca e dagli occhi rossi fiammeggianti di rabbia, la cui spada mandava lampi di luce nera, e che appariva posseduto lui stesso da un'entità soprannaturale che lo governava come un golem demoniaco. Lo spaventoso individuo uccise senza pietà, senza fare distinzioni, senza perdere tempo in inutili crudeltà. Uccise come uccidono i lupi. E mentre uccideva, rideva. Quella risata non avrebbe mai più lasciato Quarzhasaat. Sarebbe rimasta nel vento che soffiava dal Deserto dei Sospiri, nella musica delle fontane, nel clangore dei martelli dei fabbri e nel cigolio delle ruote dei carri. E neanche l'odore del sangue sarebbe mai più evaporato dalle pietre, inciso sopra di esse come le immagini dello sterminio che lasciò la città senza un Consiglio e senza un esercito. Ma pur senza apprendere alcuna lezione dall'accaduto, Quarzhasaat avrebbe smesso di vantarsi del suo potere perduto, perché quella notte esso apparve più perduto che mai. Avrebbe smesso di guardare dall'alto in basso i nomadi del deserto. Avrebbe smesso di pascersi dei miseri resti dell'
orgoglio di un impero nato dalla crudeltà dei nobili e morto insieme ai loro vizi. E quando il massacro ebbe termine, Elric di Melniboné restò seduto in sella madido di sudore, rinfoderò una Tempestosa ormai sazia e fremette e ansimò, gonfio dell'energia stregonesca che continuava a pulsare nel suo corpo. Poi si tolse di tasca la grande Perla e nella luce dell'alba la sollevò verso l'astro nascente. «Hanno pagato il prezzo che vali» disse. Gettò il gioiello fra le erbacce e i liquami di uno scarico, dove l'unico a interessarsene fu un piccolo cane che leccò il sangue di cui era ingrumato. Alti nel cielo gli avvoltoi, richiamati dalla prospettiva di un festino che speravano memorabile, cominciavano già a scendere verso le belle torri e i giardini di Quarzhasaat. Sul volto di Elric non c'era alcuna soddisfazione per ciò che aveva fatto quando mise il cavallo al trotto sulla pista che tagliava il deserto verso occidente, diretto al posto in cui aveva chiesto ad Anigh di aspettarlo. Il ragazzo aveva promesso di fargli trovare le erbe provenienti da Kwani, un paio di cavalli, e abbastanza cibo e acqua da lasciare il Deserto dei Sospiri per fare ritorno alle più familiari disavventure politiche e stregonesche dei Reami Nuovi. Non una volta si girò a guardare la città che i suoi lontani antenati avevano combattuto, e che lui aveva definitivamente soggiogato. 15 Un epilogo, al tramonto della Luna di Sangue I festeggiamenti all'Oasi del Fiore d'Argento continuarono a lungo, dopo che i nomadi seppero quale fosse stata la punizione di Elric a chi aveva cercato di uccidere la Vergine Sacra dei Bauradim. La notizia fu portata dai quarzhasaatiani fuggiti dalla città, evento che non aveva precedenti nella loro storia millenaria. Oone, la ladra di sogni, che stava indugiando nell'oasi più a lungo del previsto ed era riluttante ad andarsene per riprendere la sua attività, apprese della vendetta di Elric senza rallegrarsene. Sentir descrivere il massacro la rattristò, perché aveva sperato in qualcosa di diverso. «Lui serve il Caos come io servo la Legge» disse a se stessa, «e chi può affermare che la sua servitù sia peggiore della mia?» Ma poi fece un sospi-
ro, e si gettò nei festeggiamenti con un'energia dietro cui c'era solo la voglia di non pensare a niente. I Bauradim e gli altri clan nomadi non se ne accorsero, perché la notizia aveva moltiplicato la loro gioia. S'erano liberati di una tirannia e dei suoi sgherri, l'unica cosa che minacciava la tranquillità della loro vita in quelle terre desertiche. «Quando il cactus ci punge le carni, lo fa per dirci che lì c'è l'acqua» commentò Raik Na Seem. «Noi abbiamo sofferto, ma grazie a te, Oone, e ad Elric di Melniboné, conosciamo la fine del dolore e il principio di una speranza. Presto i nostri rappresentanti andranno a Quarzhasaat e faranno sapere a quali condizioni potremo commerciare in futuro. I prezzi delle merci saranno più equi, senza le spade degli Avventurieri Stregoni sul piatto della bilancia.» Il vecchio sogghignò divertito. «Ma prima dovremo aspettare che i loro cadaveri siano stati mangiati dagli avvoltoi.» Varadia prese per mano Oone, e le due ragazze s'incamminarono fra i laghetti della grande oasi. Era notte, la Luna di Sangue s'era ridotta a una falce, e i petali argentei dei fiori stavano seccando. Presto il mese lunare si sarebbe concluso, i fiori avrebbero perduto i loro petali, e per le tribù del deserto sarebbe venuto il momento di andare ciascuna per la sua strada. «Tu ami quell'uomo dai capelli bianchi, vero?» domandò Varadia all'amica. «Lo conosco appena, bambina.» «Io ho visto come vi guardavate, ed era lo sguardo di due che sanno uno dell'altra quanto basta.» Varadia sorrise. «Non ti aspettavi che una fanciulla della mia età lo capisse, forse. Ma è così, non puoi negarlo.» Oone fu costretta ad annuire. «Il fatto è che per certe persone non c'è futuro. Il nostro destino è diverso. E io ho poca simpatia per certe scelte che lui ha fatto.» «Lui è spinto. Non è di quelli che vanno solo dove vogliono andare.» La fanciulla si scostò dal volto una ciocca di capelli color miele. «Forse» disse Oone. «Ma alcuni di noi rifiutano il destino che i signori della Legge e quelli del Caos ci hanno imposto, e nonostante ciò sopravvivono, e creano qualcosa che neppure gli Dèi possono toccare.» Varadia ebbe un cenno d'assenso. «Quello che noi creiamo resta un mistero» disse. «Io non riesco a capire come ho fatto a creare la Perla, proprio la cosa che i miei nemici cercavano, e proprio allo scopo di sconfiggerli. Ed è diventata reale!»
«Io l'ho visto succedere molte altre volte» disse Oone. «È il genere di creazione che un ladro di sogni cerca, e grazie al quale si guadagna la vita.» Scosse il capo, ridendo. «Quella Perla mi avrebbe fruttato un buon guadagno, se l'avessi portata al Mercato dei Sogni.» «Come accade che la realtà prende forma dai sogni, Oone?» La ragazza bruna lasciò vagare lo sguardo sulle acque in cui si rifletteva l'ultima rosea falce di luna. «Un'ostrica, disturbata da un oggetto penetrato dall'esterno, cerca di isolare quel dolore costruendogli intorno strati che infine diventano una perla. A volte è così che accade. Altre volte il desiderio degli uomini è così forte che alla fine succede ciò che sembrava impossibile. Non è insolito, Varadia, che un sogno diventi realtà. Questo è uno dei motivi per cui riesco a mantenere il mio rispetto per gli esseri umani, nonostante le ingiustizie e gli orrori che devo vedere nei miei viaggi.» «Credo di capire» disse la Vergine Sacra. «Oh, col tempo lo capirai molto meglio» le assicurò la ladra di sogni, «perché tu sei una di quelli che sanno creare.» Pochi giorni dopo, mentre Oone si stava preparando a lasciare l'Oasi del Fiore d'Argento verso lo Sconosciuto Oriente, Varadia la cercò per parlarle un'ultima volta. «Io so che tu hai anche un altro segreto» le disse. «Non vuoi condividerlo con me?» Oone restò sbalordita. Il suo rispetto per l'intuito della Vergine Sacra aumentò alquanto. «Vuoi forse parlare delle cose stranamente reali che possono accadere dentro un sogno?» «Io credo che tu aspetti un bambino, Oone» disse con franchezza la fanciulla. «Non è così?» Oone incrociò le braccia e si appoggiò con una spalla alla sella del suo cavallo. Scosse il capo, con una risatina divertita. «Vedo che non scherzano quando dicono che in te c'è tutta la saggezza della tua gente, mia cara.» «È il figlio di un uomo che hai amato e che hai perduto?» «Già. Una femmina, credo. Forse due gemelli, maschio e femmina, se ho ben interpretato certi sintomi. Nei sogni non si concepiscono soltanto Perle, Varadia.» «E il padre saprà mai di questi figli?» le domandò dolcemente la Vergine Sacra. Oone cercò di parlare e scoprì di non riuscirci. Per un poco il suo sguardo si perse sull'orizzonte, verso la lontana Quarzhasaat. Fu solo quando il cuore ebbe smesso di batterle forte che ritrovò la voce.
«Mai» disse. FINE