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GIOVANNI FLORIS
LA FABBRICA degli IGNORANTI LADISFATTADELLASCUOLAITALIANA
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GIOVANNI FLORIS
LA FABBRICA degli IGNORANTI LADISFATTADELLASCUOLAITALIANA
Rizzoli Proprietà letteraria riservata © 2008 RCS Libri S.p.A, Milano
ISBN 978-88-17-02486-0 Prima edizione: settembre 2008 Realizzazione editoriale: Studio Editoriale Littera, Rescaldina (MI)
LAFABBRICA degli IGNORANTI
A Beatrice, perché pensavo che l’Università non sarebbe stata un granché. A Valerio e Fabio, perché hanno ancora tutta la Scuola da godersi. A noi quattro, finalmente.
Le idee sono la cosa più reale che esista al mondo. Albert Einstein
«Sacchi... 3W» Il professore di Italiano a Bruno Sacchi, da I ragazzi della III C
Introduzione
La professoressa di Greco entrò in classe il primo giorno di scuola e ci disse: «Iniziamo subito la lezione, perché il tem-po è l’unica cosa che nessuno potrà mai restituirvi». Il professore di Filosofa un giorno terminò la lezione di-cendo: «Domani vi spiegherò Feuerbach. Feuerbach sostiene che non è stato Dio a creare l’uomo, ma l’uomo a creare Dio». La prof di Lettere, al ginnasio, mi chiamò a sorpresa alla cattedra e mi interrogò. Alla fine, mandandomi a posto, si complimentò: «Bravo, perché non eri tanto preparato, ma ti sei buttato, e il coraggio alle volte fa buona parte del la-voro». Alle medie io e un compagno di classe ci prendemmo a botte per una cosa da poco; ci divise la bidella. Ero morti-ficato, la professoressa di Matematica (in genere piuttosto fredda e distaccata) mi prese da parte e mi tranquillizzò: «Giovanni, non ti preoccupare. Tu ti preoccupi sempre troppo». Che valore hanno questi ricordi? Che importanza hanno avuto nella mia vita questi episodi, queste parole, questi in-segnamenti, questi concetti? Il valore, per me, è inestimabi-le. Non esiste calcolo, non esiste rapporto numerico, non esiste stipendio o compenso che potrebbe pareggiare quan-to mi è stato dato queste e tante altre volte. Non esiste un valore della scuola. O meglio, «è uguale ad infinito» direbbe una prof. Chi forma un uomo, o una donna, forma l’intera società. La scuola, inoltre, non è solo studio. I miei compagni di classe sono tuttora miei amici e mia moglie l’ho conosciuta all’università. La scuola è esperienza: amicizia, amore, dolo-re, gioia, successo e fallimento. La scuola funzionerà sem-pre, anche se non funziona, perché non è fatta solo da quel-lo che possiamo soppesare, ma anche da tutto quello per cui non esiste unità di misura. E fatta, cioè, dalle singole persone. La fabbrica degli ignoranti, però, è la scuola italiana. Non è la scuola che ognuno di noi ricorda di aver frequentato, quella in cui abbiamo studiato, quella grazie alla quale ab-biamo conosciuto il mondo e noi stessi. La fabbrica degli ignoranti è la scuola italiana presa nel suo complesso, valuta-ta per quello che costa e per quello che produce, analizzata per il modo in cui gestisce le risorse umane che da essa di-pendono e che in essa si formano.
La scuola italiana la conosceremo nelle pagine che segui-ranno, in questa introduzione invece dobbiamo intenderci su che cosa intendiamo per «ignoranti». La definizione di «ignorante» che vi propongo è questa: è ignorante chi non sa farsi capire dagli altri e non riesce a comprenderli. Prima di approvarla pensateci bene, perché non si attaglia solo a chi non studia, ma anche a molti che hanno studiato tanto. Persino a chi ha studiato tantissimo, o troppo. Una persona intelligente resterà quindi sempre e co-munque intelligente, anche se non andrà oltre la quinta elementare, e un ignorante resterà tale anche se si laurea. Il punto è: a che livello vogliamo che la persona intelligente esprima le sue potenzialità? Se desideriamo che tutte le persone in gamba del Paese possano concorrere a diventare classe dirigente, o possano anche solo e semplicemente vivere meglio, bisogna dare lo-ro le armi per poterlo fare, e queste armi si chiamano: cultu-ra e sapere.
Asini 1 Di Napoleone e altre storie
Ognuno ha la sua Waterloo «Perché ho la faccia incazzata?» esordisce il giovane manager guardando torvo il suo pubblico, camminando su e giù per il palco della convention aziendale. «Ho la faccia incazzata perché respiro... sfìdùscia (sfiducia, sic)... respiro aria di aspettativa, respiro quelle facce da senso critico come quan-do uno vede le partite di pallone... non ce la fa... tutti sono professori... perché? Perché la gente legge i giornali, guarda il titolo... si rimbalza, si crea dei grandi film che sono tutte cazzate! Oggi non parlo di Alessandro...» continua restrin-gendo sempre di più il diametro del suo percorso sul palco, praticamente girando ormai su se stesso «oggi parlo di Na-poleone. Napoleone a Waterloo, una pianura in Belgio, fece il suo capolavoro: tutti lo davano per fatto, per cotto, per la supremazia degli avversari, c’aveva cinque grandissime na-zioni contro, delle forze in campo. Però strateggìa (strategia, sic), chiarezza delle idee, determinazione, forza... Napoleo-ne fece il suo capolavoro a Waterloo. Allora, le facce scetti-che, le facce de... non servono a un cazzo.» Ora, raggiunto quello che si rivelerà essere il cuore del suo discorso, fa una pausa, poi riprende, avviandosi verso il climax finale. «Questa è una delle aziende più belle che esiste al mondo. E allora, forte di questa convinzione, noi dobbiamo dimo-strare che questo è un fatto. Piangersi addosso non serve asso-lutamente a gnente (niente, sic). E come nel momento duro dagli spalti la gente ti dice: "Ehhh la squadra non gira, non corrono", bene: correte di più, stringete i denti, prova di ca-rattere. E allora dagli spalti vi applaudiranno perché voi an-drete e segnerete. Come fece Napoletone (Napoleone, sic) a Waterloo.» Il video di questo giovane e sfortunato manager che, con la calata romana, la voce un po’ arrochita, il piglio decisio-nista, la cravatta col nodone e l’orologio di (straordinario) valore al polso, racconta Al suoi dipendenti (basiti) che Na-poleone a Waterloo ha vinto, è immediatamente diventato il tormentone del web. Il giovane direttore generale della grande azienda (a quanto pare molto bravo nel suo lavoro) paga pegno per tutti, e si trova a saldare con la cultura il conto che il Paese aveva lasciato aperto da tempo. Era il 18 giugno del 1815, e nei campi vicini a Waterloo (effettivamente in Belgio) si confrontarono le truppe napo-leoniche con gli eserciti della settima coalizione, formata da Regno Unito, Austria, Russia, Prussia, Paesi Bassi, Svezia, Regno di
Sardegna e alcuni Stati tedeschi. La battaglia, una delle più cruente del XIX secolo, durò complessivamente otto ore e costò la vita a oltre 48 mila soldati: fu l’ultima combattuta da Napoleone e ne segnò definitivamente la sconfitta. Napoleone insomma a Waterloo non ha vinto, ha perso. Anzi, per dirla in termini da convention, l’Imperato-re in Belgio ha preso una suonata da paura. Teribbile. Sono però convinto che il manager in realtà sapesse come andò a finire a Waterloo. Lo sanno tutti in verità, essendo «Waterloo» la sconfitta per antonomasia, ormai un luogo comune, un modo di dire, un sinonimo di «batosta». È proba-bile che il giovane direttore generale, nell’inconscio, sapesse cosa passò l’Imperatore in Belgio, ma che non ci facesse caso, non gli importasse, lo ritenesse un particolare ininfluente e trascurabile Al fini del suo discorso. Un dettaglio inutile che può passare (ed effettivamente è passato) di mente. Alessandro Magno (diventato più confi-denzialmente «Alessandro» nel discorso), Napoleone, la guerra, il calcio, il bar, gli allenatori... avrà creduto nel profondo di sé: «Che differenza fa?». Il concetto è la riscossa dopo la sconfitta, avrà pensato, poi un nome vale l’altro. Come una stona vale l’altra. Mica siamo a scuola in fondo, mica siamo professori! Onorevole? Il manager che è inciampato su Napoletone è solo l’ultimo a finire nel tritacarne dell’esame random di cultura generale: negli ultimi tempi la gente normale si è fatta cattivella e, forse stimolata dal confronto tra la propria busta paga e quella delle persone «eccellenti», si è domandata: ma davve-ro questi qui sono meglio di me? Quando fai televisione, e per di più ti occupi di attualità, prima o poi qualcuno te lo domanda: «Ma perché non ti butti in politica?». Non è tanto la domanda che deve far ri-flettere (con quel «ti butti» che lascia perfettamente inten-dere dove andresti ad atterrare), quanto le ragioni per cui l’i-potesi di un passaggio in politica viene considerata allettan-te: «Lo sai quanto prende un parlamentare? 13.500 euro al mese 1 per premere un tasto al momento di votare! E se poi finisci all’Europarlamento, là la pacchia è completa. Per la stessa cifra lavori due giorni a settimana, e hai i biglietti ae-rei gratis!». 2 Diamo poco valore alla politica, e riteniamo valere poco chi (col nostro voto) mandiamo a fare politica; in realtà, però, se loro non sono un granché, vuol dire che non siamo un granché nemmeno noi. Soffermiamoci su di loro, i bersagli sicuramente più faci-li: i politici. La pentola fu scoperchiata da Sabrina Nobile, inviata del programma Le Iene, che ebbe l’idea di porre do-mande di cultura generale Al parlamentari che entravano e uscivano da Montecitorio. Nel mirino del programma fini-rono i cosiddetti peones, gli onorevoli meno conosciuti, quelli che nell’immaginario collettivo servono solo a preme-re i tasti al momento del voto. 3 La figuraccia fu immensa, il crollo di immagine del Pa-lazzo fu verticale. Quando l’inviata domandò chi fosse Nelson Mandela, (il leader sudafricano della lotta anti-apartheid), qualcuno ammise di non averne la più pallida idea, qualcuno cercò di scantonare la domanda sostenendo che ci fossero «diverse opinioni sulla
sua figura», un altro ne parlò come «il presi-dente sudamericano, brasiliano... anzi, scusi, intendevo su-dafricano, perdoni il capsus (lapsus, «V)». La prigione statunitense di Guantanamo, a Cuba, carcere per sospetti terroristi, da più parti accusata di violare le nor-me internazionali sulla detenzione e perciò conosciuta in tutto il mondo, per alcuni si trovava «in Iraq», per altri in «Affanighstan (Afghanistan, sic)». Un onorevole intervistato definiva l’«effetto serra» come un fenomeno di «raffredda-mento del pianeta». Una nota parlamentare non sapeva cosa fosse la Consob, l’autorità per il controllo sulla Borsa e la fi-nanza. Un altro onorevole spostava in Libano la regione afri-cana del Darfur mentre per un suo collega, esperto del tema, il Darfur era un modo di dire, sinonimo di «fare in fretta», «sbrigarsi» magari a tavola, quando è ora di mangiare. La scoperta dell’America da parte di Cristoforo Colom-bo (nel 1492, come insegnano alle elementari) venne datata da un onorevole nel 1892, da un altro nel 1640; la Rivolu-zione francese (1789) invece fu anticipata al 1500. Papa Ratzinger (Benedetto XVI) diventava per una deputata Giovanni Paolo VI, nonostante la collega cercasse di correg-gerla: «Bonifacio, si chiama Bonifacio!». Naturalmente il colpo alla già provata «casta» dei politici fu terribile. Gli editoriali delle più importanti testate gior-nalistiche condannarono l’ignoranza del Palazzo, derisero i rappresentanti del popolo, ma nessuno si domandò: cosa sarebbe successo se tutti i parlamentari avessero dato le ri-sposte esatte? Chi ci saremmo trovati davanti? Il livello della politica Il 24 gennaio 2008 il voto di sfiducia al governo Prodi fu preceduto dalle liti tra senatori («Frocio, checca squallida, mafioso!») che si sputavano in faccia, e fu seguito dai brin-disi di senatori che con una mano stappavano bottiglie e con l’altra si infilavano la mortadella in bocca. Scattò subito l’allarme per il basso livello a cui erano state trascinate le no-stre istituzioni (il presidente del Senato sbottò: «Insomma, non siamo in un’osteria!»). L’allarme in realtà sarebbe dovu-to essere duplice: la scena a cui si era abbandonata la più al-ta delle due Camere avrebbe dovuto farci riflettere sul basso livello cui era arrivato il Paese che aveva eletto simili rappre-sentanti. Qual è il livello della nostra classe politica? Per saperlo bisogna innanzitutto intendersi su cosa significa «livello». Un gruppo di economisti 4 ha studiato a fondo la nostra classe politica ed è arrivato a definire una serie di «indicato-ri di qualità»: primo fra tutti il livello d’istruzione, quindi il grado di assenteismo e infine la «abilità intrinseca di genera-re reddito nel mercato del lavoro», una sorta di risposta alla domanda: «Ma se non facessi politica, cosa faresti?». Per quanto riguarda il livello di istruzione, gli studiosi ci riferi-scono che Camera e Senato, col tempo, hanno ospitato onorevoli sempre meno titolati. I deputati della cosiddetta Prima Repubblica entravano in Parlamento con un’età me-dia di 44,7 anni, nella Seconda di 48,1. Nella I legislatura (1948-1953) il 91,4 per cento dei parlamentari era laurea-to, nella XV (2006-2008) solo il 64,6 per cento. Nello stes-so periodo, negli Stati Uniti, la percentuale dei parlamenta-ri laureati cresceva dall’88 per cento al 94 per cento.
Nella Prima Repubblica era maggiore anche la statura professionale dei parlamentari. Prima del 1993 deputati e senatori, nei loro mestieri da «civili», erano tutti (dalla De all’Msi, dal Psi al Pei) operatori superiori alla media nelle ri-spettive professioni. Oggi i deputati stanno mediamente al di sotto. «Quante volte» scriveva Gian Antonio Stella sul «Corrie-re della Sera» riportando i dati di questo studio, «ci siamo sentiti dire: "Faccio politica per passione, perché economi-camente guadagnavo di più prima"? Falso. Dati alla mano, quelli che nella Prima Repubblica ci perdevano a fare il de-putato, anziché il medico, il notaio o l’avvocato, erano il 24 per cento dei democristiani, il 21 per cento dei socialisti, il 19 per cento dei repubblicani... Oggi sono solo il 15 per cento degli azzurri, l’I 1 per cento degli ulivisti, l’8 per cento dei neo-democristiani, il 6 per cento dei nazional-alleati. Gli altri, a partire dai rifondaroli per finire Al leghisti, ci guadagnano e basta.» 5 Il 29 aprile 2008 si è aperta quella che «Il Sole 24 Ore» ha definito la legislatura «dei cinquantenni, degli avvocati e dei rieletti». 6 Sono ultracinquantenni 4 deputati su 10 (4,5 i senatori); un deputato su 100 ha un’età compresa tra i 25 e i 30 anni. Le donne sono 2 su 10 alla Camera e al Senato, 4 su 10 le matricole, 6 su 10 i rieletti. Il 14 per cento dei de-putati è avvocato, così come la stessa percentuale dei sena-tori, mentre gli altri professionisti (ingegneri, architetti...) sono il 13 per cento alla Camera e il 16 per cento al Senato. Undici onorevoli su 100 sono imprenditori (12 per cento al Senato); il 13 per cento dei deputati e il 7 per cento dei se-natori sono «professionisti della politica». Per quel che ci ri-guarda è bene sapere che la quota di insegnanti e docenti è appena del 4 per cento alla Camera e del 12 per cento al Se-nato. Tra il 4 e il 5 per cento la rappresentanza di operai e impiegati. La politica che ci meritiamo In fondo strano sarebbe stato se tutti i parlamentari, persino l’ultimo peone, avessero mostrato in televisione un livello di istruzione superiore a quello del Paese che li ha eletti. Ci sa-remmo trovati davanti a una casta (quella sì) di marziani: politici teletrasportati a Roma da un mondo parallelo, da una dimensione misteriosa in cui tutti leggono i giornali e si interessano di economia e di diplomazia. Ci saremmo tro-vati davanti a dei rappresentanti del popolo che del popolo non rispecchiano il carattere, a delle élite di intellettuali no-minati da un Paese che da intellettuali non è abitato. I poli-tici intervistati da Le Iene hanno dato le uniche risposte che potevano dare. Affrontiamo la realtà: il Parlamento è come il Paese. Pre-senta delle eccellenze e delle vergogne, ed è difficile separare le une dalle altre ricorrendo Al titoli di studio. Se ci lamen-tiamo del Parlamento, vuol dire che ci lamentiamo del Pae-se. Se non ci piace il primo, dovrebbe non piacerci neanche il secondo. In fondo, sapete chi erano i politici che sbarellavano su Nelson Mandela? A rimanere vittima del capsus era stato un onorevole che di professione è primario ospedaliero; a trac-cheggiare con le «diverse opinioni» su Mandela, cercando una via di fuga, era stata una giurista d’impresa, direttrice legale di alcune multinazionali; mentre era stato un com-mercialista a preoccuparsi del raffreddamento legato
all’ef-fetto serra. Il Darfur era un fast food per un onorevole che ha insegnato diciassette anni in un istituto tecnico del Notd. Una gravidanza dura «dieci settimane» per un ex pri-mario ospedaliero specializzato in pediatria e neonatologia; mentre era stato un sociologo a definire Pyongyang (capita-le della Corea del Nord) «il dittatore coreano che sta facen-do esperimenti sulla bomba atomica». Come dire: sono onorevoli, d’accordo, ma perché non dovremmo conside-rarli anche esponenti della società civile? In realtà due deputati su tre (della legislatura sotto accu-sa) erano in possesso di laurea. I dottori erano 426, quelli che avevano mollato poco prima di laurearsi ammontavano a 204. I deputati in possesso soltanto di licenzia media ap-pena 11. 2 La società civile
L’inglish Quando fui nominato corrispondente per la Rai da New York, non parlavo bene l’inglese. Lo parlavo e lo capivo, ma non ero come quei trendissimi professionisti bilingue. Lo avevo studiato alle medie e al liceo, avevo viaggiato molto come inviato del Giornale Radio, ma avendo frequentato il liceo classico trovavo più naturale recitare con i giusti ac-centi l’Ecloga I delle Bucoliche di Virgilio (Tityre, tu patulae recubans sub tegmine fagi...) che affrontare senza patema d’a-nimo la lettura del «Washington Post». Quando il direttore Ruffini mi comunicò che mi sarei dovuto trasferire un mese a New York per sostituire il colle-ga che andava in ferie (i fatti dell’11 settembre mi tennero poi in America per un intero anno), andammo a festeggiare in pizzeria con degli amici. Mia moglie mi prendeva in giro, immaginando George Bush che irrompeva in diretta duran-te un mio collegamento col Tg e iniziava a parlare velocissi-mo, contando sulla mia capacità di tradurlo. Nei nostri in-cubi io iniziavo a zoppicare nella traduzione, prendevo a in-ventare, Bush mi guardava basito e io facevo finta che scom-parisse l’audio, continuando a muovere la bocca tipo pesce. Infine scoppiavo in lacrime. In realtà (come sempre succe-de) , dopo pochi mesi a New York, acquistai sicurezza, sco-prii che la lingua non la conoscevo poi così male e colmai velocemente il gap che mi separava dai colleghi stranieri. Qualche tempo dopo il mio trasferimento nella sede di corrispondenza, rividi le mie paure materializzarsi nell’espe-rienza di due giornalisti appena arrivati a New
York. Li tro-vai in una stanza, piazzati davanti alla Tv che ascoltavano terrorizzati la Cnn e aspettavano il collegamento con l’Ita-lia. Nel giro di qualche minuto si sarebbero dovuti collegare con una radio privata per raccontare cosa stava succedendo in America. Il problema è che stava accadendo qualcosa di veramente strano. Ricorderete il caso di Richard Reid, il terrorista fermato mentre cercava di far saltare in aereo l’esplosivo che aveva nascosto nel tacco della scarpa. Anche se l’emittente ameri-cana aveva raccontato chiaramente come erano andati i fatti, i due giornalisti non si fidavano della loro capacità di com-prendere l’americano. I minuti passavano, il collegamento telefonico si faceva sempre più imminente e loro discuteva-no: «Ma sei sicuro? L’esplosivo nelle scarpe?» diceva uno. «Sì, ha detto così... nel tacco della scarpa...» rispondeva l’altro «o almeno mi sembra...» «Come mi sembra? Tra un po’ ci dan-no la linea...» «Aspetta, aspetta, fammi sentire... Vedi? Lo ha detto di nuovo: nelle scarpe!» «Ma come è possibile? Una bomba nelle scarpe? Trova qualcuno che ci traduca, presto!» «Aspetta, metti i sottotitoli per non udenti, così leggiamo...» «E come si mettono? Cavolo!» sbottava guardandosi intor-no. «Ma a New York non si trova qualcuno che sa l’ingle-se???!!» Intervenne un nostro collega bilingue e confermò la loro tesi, portando me e una giornalista italo-americana co-me garanti (conosciuti da entrambi, assicuravamo che la tra-duzione non fosse un tranello goliardico per farli fallire miseramente in diretta e ridere poi alle loro spalle). L’esplosivo era effettivamente nel tacco della scarpa: in uno dei momen-ti più tragici della storia contemporanea la realtà si era tra-sformata in paradosso, la cronaca (per quanto in lingua stra-niera) aveva superato la nostra immaginazione. La diretta poteva cominciare, alla faccia dell’inglese. La difficoltà dei due colleghi, la mia paura iniziale sono i dilemmi e le angosce che tormentano tutti gli italiani: l’in-glese non lo parliamo (bene). Siamo in grado di impararlo velocemente come tutti gli altri, ma non lo studiamo bene, e soprattutto viviamo in un Paese talmente chiuso in se stes-so che ci mancano le occasioni per entrare in contatto con la lingua che parla il resto del mondo. Chi vive e lavora in Ita-lia può tranquillamente convincersi che l’inglese non serva. È possibile svolgere lavori di grande responsabilità, avere in-carichi molto importanti, senza che ci venga richiesto di parlare le lingue. Un affermato professionista della nuova generazione, brillante e preparato, uno dei più autorevoli esperti del no-stro Paese nel suo campo, mi ha confessato un episodio di-vertente ed estremamente significativo. A un convegno cui era stato invitato esposero le loro relazioni diversi esperti italiani, poi si aggiunsero alcuni professori stranieri che les-sero le loro tesi in inglese. La seconda parte del convegno prevedeva una tavola rotonda in cui alcuni relatori (sei, per essere precisi: quattro italiani, un olandese e un danese) si sarebbero confrontati sui problemi aperti della loro discipli-na. Il moderatore, prima di dare il via al dibattito, precisò che la tavola rotonda si sarebbe svolta in inglese, come for-ma di cortesia verso gli ospiti stranieri. Il mio interlocutore racconta di aver cominciato a sudare freddo. Questo, gli or-ganizzatori del convegno, non glielo avevano detto! Lui era certo in grado di preparare e leggere una relazione in ingle-se, ma non si sentiva nelle condizioni di confrontarsi «a braccio» con i colleghi. Il dibattito intanto proseguiva, alcu-ni relatori citavano il suo intervento cercandolo con lo sguardo, come a dire «poi il professore
ci spiegherà...», lui faceva cenno con il capo che sì, quando sarebbe stato il suo momento avrebbe offerto tutte le delucidazioni e avrebbe risposto a tutte le osservazioni che il panel stava muovendo. Entro breve il moderatore avrebbe fatto il suo nome e gli avrebbe dato la parola. Come uscirne? «Maledetto il giorno che ho accettato quell’invito!» pensava. «Perché gli organiz-zatori di questi convegni vogliono sempre atteggiarsi ad in-ternazionali? Gli spagnoli, i greci, i portoghesi... con loro stai tranquillo, perché l’inglese lo conoscono quanto noi, e invece a rovinare tutto sono sempre questi insopportabili nordeuropei.» Alla fine capì che si sarebbe salvato solo con la fuga. Prima che arrivasse il suo turno fece finta di ricevere una telefonata, mandò un bigliettino al moderatore scusan-dosi, spiegò che la sua presenza era richiesta immediata-mente a casa, lasciò intendere che il problema fosse gravissi-mo e scappò via. «All’inglese», per l’appunto, cioè senza sa-lutare nessuno. Il moderatore successivamente spiegò le sue ragioni, tutti compresero, e lui salvò l’onore. Sia chiaro, il problema non è solo italiano. I frequentato-ri di consessi internazionali lo chiamano globish, alternativa appunto all’english, ed è quella lingua internazionale che nasce come inglese ma che, in bocca a tante persone di Pae-si diversi, si trasforma in una sorta di linguaggio nuovo, una lingua franca, semplice, povera di vocaboli, aperta Al neolo-gismi e con una struttura grammaticale fluida. In pratica, è l’inglese di chi lo sa parlare poco. È ormai talmente comune non conoscere l’inglese (non solo per gli esponenti dei Paesi citati dal nostro professionista in fuga) che la parlata che noi definiremmo «maccheronica» ha conquistato il mondo, e può capitare di trovarsi in discussioni in globish tra giappo-nesi, spagnoli, italiani, coreani e inglesi in cui gli unici a non capire sono questi ultimi, tagliati fuori dalla dilagante versione ignorant della loro stessa lingua. Resterà per sempre un cult la traduzione che i curatori del blog a lui intitolato fecero di una dichiarazione di Antonio Di Pietro, allora ministro delle Infrastrutture: «II Partito demo-cratico» recitava il comunicato in italiano «ha perso un’ottima occasione per potersi qualificare come tale». La versione inglish recitava to be able to qualify itself as democratic (qualificarsi = to qualify itself: traduzione letterale e maccheronica dall’italiano, in inglese frase senza senso, come quelle che seguiranno. La traduzione giusta sarebbe to prove itself worthy ofthe name) e continuava traducendo: «per potersi definire davvero demo-cratico deve essere aperto e pluralista, altrimenti semplice-mente non è, non esiste» con it doesn’t exist, nel più fedele ri-spetto delle commedie vanziniane («Alboreto is nothing» re-citava l’indimenticato cummenda Guido Nicheli nel primo Vacanze di Natale, sottolineando la sua abilità di pilota che lo aveva portato da Milano, via della Spiga, all’Hotel Cristallo di Cortina in 2 ore, 54 minuti e 27 secondi). Modi di dire tipica-mente italiani venivano fatti traslocare brutalmente in un’altra lingua, con un effetto da commedia all’italiana. La traduzione dipietrista era infatti un crescendo, perché «la mia esclusione dalla candidatura per la segreteria nazio-nale è semplicemente un furbo espediente per non avere tra i piedi un concorrente vero e reale» diventava a convenient smokescreen so as not to bave under their feet a true real competitor, fino ad arrivare al galattico a competitor who wouldhave broken the eggs in the basket che intendeva tradurre la
frase «un candidato che avrebbe rotto le uova nel paniere». Un passaggio da standing ovation (dove con ovation si intendono le uova, naturalmente), che rimandava al Jerry Cala che, in Vacanze in America, cerca di chiarire i propri gusti sessuali Al partecipanti alla festa gay a cui era stato er-roneamente invitato. 1 Colto in flagrante ignoranza da un indispettito Ivan Scalfarotto («Meno male che abbiamo un politico attento al futuro, uno che sta su YouTube e su Second Life, uno inter-nazionale, uno che vive in Europa...»), il furbo Di Pietro mostrò una volta ancora come una situazione sfavorevole possa essere giocata a proprio vantaggio. Concesse un’inter-vista per commentare la gaffe anglo-italiana, appollaiato su un trattore, al termine di un’intera giornata passata, disse, «a falciar via le cannucce infestanti, le piccole canne che fi-niscono nei fossi e fregano la terra al contadino». 2 Il ministro rivendicò la sua popolarissima ignoranza, spiegando che quel poco di inglese che sapeva era lo stretto necessario «per parlare, viaggiare ed ammiccare alle ragaz-ze». «Come si ammicchi in inglese non è facile da intuire...» commentava il giornalista che lo aveva intervistato. Ma la competenza linguistica alla Totò e Peppino dell’in-dimenticato nojo volevan savuàr! diventava manifesto politi-co quando l’ex pm sbottava: «Ma questi scalfarotti non han-no altro a cui pensare? E gente supponente, arrogante, con-vinta di sapere tutto, che parla in questo italiano fluido, per-fetto, con un intersecarsi di belle frasi. Che dici: "Bravo!", ma poi ti fermi e pensi: "E mo’ che ha detto?"». Di Pietro tutti i torti non li aveva, ma non c’è da ralle-grarsene. Alea iacta alè Il nostro vero problema non sono i peones politici ignoranti, che tanto alla fine fanno quello che dicono i leader (in gene-re più preparati). Il cruccio dell’Italia è che, in questo cam-po, i politici (come anche gli aspiranti magistrati) sono la perfetta espressione del Paese. Se Le Iene si fossero piazzate davanti a un ristorante o davanti a un ministero o all’uscita di un ufficio postale, avrebbero probabilmente ricevuto da-gli intervistati le stesse esilaranti risposte. Di sicuro le avreb-bero ottenute all’uscita di una scuola superiore. «L’analfabetismo c’è ma non si vede» spiega Tullio De Mauro. «Un magistrato [donna] di Firenze ci ha raccontato dei molti casi in cui i testimoni non sono in grado di legge-re la formula di rito sul dir la verità e di quanti, leggendola, arrivati alla "mia deposizione" restano smarriti (pensano a Gesù Cristo deposto dalla croce o, i più colti, a qualche so-vrano) e lei deve aiutarli e anzi, ci ha detto, ha deciso di la-sciare da parte la sacra formula e di suggerire qualcosa come Dirò la verità e so che potrò essere punito se dico il falso.»‘‘ Uno studente del liceo classico, alla professoressa che gli domandò a quale gioco in voga nell’antica Roma si riferisse Giulio Cesare quando, passando il Rubicone, sentenziò alea iacta est (il dado è tratto) rispose «le freccette». Il dottor Raf-faele Sollecito, laureato in Economia e Commercio e indaga-to per la morte di Meredith Kercher, scriveva nel memoriale dal carcere a pochi giorni dalla discussione della tesi: «Il ba-gno è sporco, ho chiesto che lo venghino a pulire». 5 Questi sono solo i primi
dei tanti esempi che Antonella Piperno e Karen Rubini utilizzano su «Panorama» per la loro ap-profondita inchiesta sulle conoscenze degli studenti italiani. Ma ce ne sono tanti altri: il verbo «allargare» diventa «allar-gare» nei temi di un istituto tecnico commerciale romano, e Paola Mastrocola, professoressa e scrittrice, racconta di aver ripristinato il dettato per i suoi alunni del liceo scientifico; «roba da seconda elementare», chiosano Piperno e Rubini. Giulio Ferroni racconta su «Panorama» di quello studen-te che «sentendo che Beatrice nel Purgatorio si presenta a Dante vestita di bianco, rosso e verde sostenne che essa "rap-presenta allegoricamente l’Italia del Risorgimento", fenome-no che [a suo dire] avrebbe avuto luogo nel ‘500», 6 o di quel-la studentessa che, alla richiesta di qualche dato sulla bibliografia manzoniana, disse che essa «non esisteva affatto», alle-gando, di fronte alla perplessità del professore, la pagina del manuale dove stava scritto che la bibliografia su Manzoni era, appunto, «sterminata», ovvero distrutta da un genoci-dio. Un altro alunno — continua Ferroni — sostenne con sicu-rezza che nel Passero solitario di Leopardi viene trattato il problema del sesso, inteso come problema «dell’uccello». Ma la fabbrica dell’ignoranza non produce solo politici o studenti scarsamente preparati. Il viaggio nelle professioni «alte» degli italiani sarà particolarmente tormentato, quindi è meglio allacciare le cinture di sicurezza. Il cane inascoltato «In tutta questa vicenda, il diretto e principale interlocutore, il cane, non è stato potuto ascoltare (sic).» Così nel 1999 un magistrato onorario chiudeva la motivazione della sentenza con cui poneva fine alla lite tra il proprietario di un dober-mann e il veterinario che gli aveva tagliato (malamente, so-steneva l’accusa) le orecchie. Silverio Marchetti ha raccolto nel suo In nome del popolo italiano 1 un brillante repertorio degli sfondoni dei giudici di pace. La giustizia civile, dimen-ticata da tutti, lontana dall’interesse dei media, concentrati sulle sfortune della giustizia penale, ha visto trasformare il giudice di pace in una sorta di magistratura minore, sebbene in questo ruolo operino laureati in Giurisprudenza, avvoca-ti, professori. Alle prese con procedure molto più complesse e farragi-nose di quelle previste dalle leggi penali, gli operatori del set-tore mettono a segno perle di rara bellezza: nei verbali dei giudici di pace raccolti da Marchetti «la possibilità dimostra-ta» diventava la «possibilità paventata», mentre in una sen-tenza riguardante un incidente stradale il giudice rilevava come «i carabinieri intervennero solo dopo il fatto» (ci manca-va che intervenissero prima!). Nei corridoi di un tribunale campano il magistrato appese un avviso in cui si avvertiva che «letto il provvedimento di rinvio della causa alla data 21.06.03 rilevato che tale rinvio veniva erroneamente dispo-sto... ecc ecc.. ritenuto dover "anticipare" l’udienza ad una data più recente...» dando sostanzialmente un appuntamen-to retroattivo. Roba da macchina del tempo. Il magistrato è la figura che più di chiunque incarna l’i-dea del Sapere: è saggio, sa discernere il Bene dal Male, sa punire o assolvere, se è il caso comprendere, comunque sa giudicare con equilibrio. Il giudice, insomma, deve Sapere. Concorso 2007 per entrare in magistratura: 380 posti da assegnare. Su 43 mila domande presentate, alla prova scritta si presentano solo 4000 candidati. Ammessi a
quella orale: 342. Di questi diventano giudici in 322, gli altri 58 posti ri-mangono vacanti. Gli aspiranti magistrati (tutti meno i 322 superstiti) si sono dimostrati troppo ignoranti per ottenere il posto, e la commissione d’esame ha preferito lasciare va-canti 58 posti piuttosto che affidare l’impiego a candidati impresentabili. Qualche esempio: il fondamento del diritto nulla poena sine lege (nessuna pena venga inflitta se non esiste una legge) diventava per un aspirante magistrato il più piccante (e dif-ficilmente traducibile) nullum pene sine lege; mentre una giovane giurista che faceva riferimento alla veperata quaestio lasciava interdetti gli esaminatori, finché uno di loro intuì che la candidata era abituata a scrivere messaggi sms con il telefonino, e quindi ad abbreviare il gruppo di lettere per di-gitando semplicemente una x. La veperata quaestio era in realtà una vexata quaestio (questione molto discussa), dal momento che la dottoressa (avendo a che fare con una com-missione d’esame) aveva pensato bene che fosse il caso di abbandonare lo slang telefonico. Bontà sua. Le indiscrezioni trapelate da chi ha corretto i compiti parlano poi di punteggiature assenti, punti, punti e virgola e due punti sparsi sui fogli come se a scrivere fossero stati i fratelli Caponi («che siamo noi»).* L’addove stava per laddove, frasi venivano interrotte a metà rigo o inserite di forza entro il margine, di modo da non essere costretti a calcolare le sillabe per andare a capo. La terza persona singolare dell’indicativo del verbo essere mancava spesso di accento, quella di avere mancava dell’h, e a un e qual seguiva sempre e comunque l’apostrofo. Riscuo-tere si imponeva a maggioranza nella versione con la q al po-sto della c. Il resto è (forse) leggenda: di la Corte dell’Aja che diventa-va la Corte dell’Ajax, o dei temi di amministrativo, che inizia-vano con citazioni classiche «finché la barca va» e «per fare un albero ci vuole un fiore», non ci sono testimonianze dirette. Le origini di questa «strafalcionaggine» di massa, così come quelle delle onorevoli figuracce, hanno ragioni profonde e non possono comportare semplicemente il pubblico ludibrio. Non siamo davanti al mero decadimento della nostra classe dirigente, ma all’espressione più ampia di uno scadimento ge-nerale dei nostri standard educativi. E solo uno dei tanti se-gnali da cui possiamo scoprire di essere diventati un Paese di ignoranti. E l’ignoranza ha un prezzo molto alto per un Paese che si ostina a immaginarsi moderno, competitivo, vincente. Avvocà... Pietro Pedicini, avvocato, è stato presidente per quattro anni di commissioni per l’esame all’albo degli avvocati a Napoli, un esame cui partecipano, va ricordato, solo candidati già laureati in Giurisprudenza. Pedicini ha valutato gli esami scritti degli studenti di Bologna e Roma. «Il livello di istru-zione generale» ci spiega 9 «è molto scarso. Al miei tempi ve-nivano esaminate 120 persone a sessione, oggi 7 mila. Giu-risprudenza spesso appare come la via più semplice per arri-vare ad una laurea e ad un mestiere, ci si iscrivono tutti, e molti riescono a laurearsi pur non avendo studiato bene; co-sì succede che almeno la metà dei candidati che si presenta-no al nostro esame è da bocciare. La cosa più stupefacente sono gli errori di ortografia dei
compiti scritti: ho letto ela-borati di dottori in Giurisprudenza in cui "un altro" era scritto con l’apostrofo o in cui le doppie venivano sbagliate. Non parliamo poi dello specifico professionale: in un com-pito in cui si parlava di usucapione, era citato il principio la-tino animus rem sibi habendi (l’intenzione di tenere il bene per sé), trasformato dallo studente in animus demme sibb abrendi, probabile trascrizione ad orecchio della soffiata di un amico. Mentre correggevo i compiti» continua Pedicini, «mi accorgevo subito se a scrivere il compito era stata una donna o un uomo: in genere le donne sono più precise e preparate, mentre i ragazzi sono un disastro. In una sessione ne abbiamo bocciati il 50 per cento, ma sia chiaro: della metà che ha superato l’esame si salvava in realtà appena il 10 per cento. Agli orali una studentessa, figlia di un avvocato e nipote di un magistrato, ci spiegò che, per quanto riguarda l’eredità, "il figlio naturale non riceve niente perché non è fi-glio a loro", dove per "loro" si intendevano i genitori.» I futuri avvocati non fecero una gran figura neanche quando a esaminarli fu Giovanna De Minico, professoressa di Diritto pubblico all’Università Federico II di Napoli. Nel 2006 De Minico ha fatto parte della commissione d’esame della Corte d’appello di Napoli per l’accesso all’albo degli avvocati. La sua commissione ha esaminato gli scritti degli studenti di Bologna, mentre nel capoluogo emiliano sono stati corretti gli scritti degli studenti di Napoli: «Si fa così per evitare imbrogli» spiega. «Alla correzione degli scritti» ci racconta De Minico, «sono rimasta colpita dalla poca conoscenza che i candidati hanno della lingua italiana. Gli aspiranti avvocati avevano problemi a fare anche una corretta divisione in sillabe delle parole, e quindi sbagliavano ad andare a capo. Molti li ab-biamo bocciati per questo motivo: chi ignora la divisione in sillabe non può neanche scrivere una lettera all’ammini-stratore di condominio. Conoscere l’italiano, o almeno le sue basi, è la prima cosa per poter svolgere alcuni mestieri, e per chi voglia intraprendere la professione di avvocato questo principio dovrebbe valere ancora di più. Tanto più che parliamo di laureati! I futuri avvocati confondevano ha verbo con <«che verbo non e, la è verbo con la ^ congiunzio-ne. Un errore può capitare a tutti, anche per una banale di-strazione, ma quando questo è ripetuto più volte vuol dire che si ignora la propria lingua. Per non parlare della pun-teggiatura. Ricordo candidati che usavano periodi anche di mezza pagina, senza spezzarli con un punto o una virgola: alla fine degli scritti ne bocciammo circa la metà e per la stragrande maggioranza di questi il motivo furono gli stra-falcioni grammaticali. I nostri laureati non conoscono l’ita-liano.» «Agli orali» continua De Minico, «le cose non andarono molto meglio. Le domande che facevamo non erano diffici-li, erano decisamente più facili di quelle che vengono rivolte al candidato di un esame universitario. Ricordo uno stu-dente al quale feci una domanda banale di diritto costitu-zionale: la differenza tra una crisi di governo parlamentare ed una extraparlamentare. Feci quella domanda perché sui giornali si parlava della crisi del governo Berlusconi. Ebbe-ne, non solo non conosceva la risposta che qualsiasi laureato in Legge avrebbe dovuto conoscere, ma ammise anche can-didamente di non sapere nulla di quanto stava accadendo al governo in carica. Non leggeva i giornali, non guardava la televisione, non chiacchierava di politica nemmeno con gli amici, a quanto pare. «Il problema di questi avvocati, o aspiranti tali, è di co-me si sono preparati. Molti
di quelli che abbiamo esamina-to hanno fatto male le scuole di base, poi hanno fatto male l’università.» Come crediamo che svolgeranno la loro professione? Il bello scrivere E ora tocca Al giornalisti, tanto per non guardare solo in ca-sa d’altri. L’esame del giornalista consiste in una prova scrit-ta, superata la quale si accede a quella orale. Per sostenere l’esame bisogna prima aver svolto un praticantato di 18 me-si in una redazione, oppure in una scuola di giornalismo. Massimo Signoretti ha fatto parte di molte commissioni d’esame e ci spiega che «quando correggi gli scritti trovi un po’ di tutto. Da quello preparato, che magari scrive solo di politica estera perché considera tutto il resto non adeguato al suo sapere, a quello che "si rifugia" nei titoli di sport o di cronaca, pensando (a torto) che siano più accessibili. La la-cuna più seria dei giovani colleghi? La storia, senza dubbio. Una volta a un praticante abbiamo domandato i nomi dei presidenti della Repubblica sardi: lui ci ha pensato a lungo. Non gli veniva neanche un nome. Poi gli si sono illuminati gli occhi, ci ha guardato e ha sentenziato: "Berlinguer!"». «Ad un altro» continua Signoretti «domandammo qual-cosa su Garibaldi. Lui seppe rispondere solo che "vestiva la camicia rossa".» Pierluigi Zanata è stato commissario d’esame nella ses-sione del 2005. Correggendo la prova scritta ha raccolto al-cune «perle» regalate dagli aspiranti professionisti e le ha pubblicate sul suo blog. 10 «Il giro d’affari della ‘ndrangheta» spiegava un candidato «corrisponde Al 6/5 del prodotto in-terno lordo della Calabria», mentre la Fiat, sottolineava un suo collega, «ha dimezzato di oltre 2/3 il risultato operati-vo». «La parabola dei prezzi s’impenna» per un futuro gior-nalista che commentava i dati sull’inflazione, mentre un al-tro candidato, impressionato dal costo della vita, scriveva che «i prezzi salgono in picchiata». Chi quell’anno aveva deciso di mettersi alla prova con il tema delle riforme istituzionali produsse passaggi come «la revisione della Carta costituzionale prevede l’approvazione della revisione dai due lati del Parlamento» (il famoso emici-clo quadrato), menile qualcun altro aveva previsto una sorta di passerella dei disegni di legge, dato che «l’itinerario vede due passaggi davanti a ciascuna Camera...», l’alta finanza si sposava con la vita quotidiana quando a parlare erano «l’am-ministratore delegato del condominio...» o il «commercialista del palazzo». Un titolo prevedeva che i candidati discutessero della pri-vatizzazione delle acque, tema piuttosto difficile se è vero che uscì fuori che «alla/wcr l’acqua minerale costa otto centesi-mi» o che «le bottiglie costano otto centesimi se si riempiono da sé» oppure che «... troviamo bottiglie d’acqua che vanno dai 23 centesimi per una boccia da un litro» e che «il percor-so torrenziale dei prezzi legati alle minerali si versa nei tavoli-ni all’aperto dei bar». Altre chicche riguardavano la legislazione sui minori («si possono pubblicare le foto dei minori se rapiti col consenso dei genitori»), l’efficienza dei servizi d’emergenza («i mezzi dei vigili del fuoco sono prontamente accorsi e stanno lavo-rando con ogni mezzo: l’edificio, sorto negli anni Sessanta, aveva manifestato
qualche crepa»). Qualcuno si era messo nei guai da solo inseguendo la bella scrittura, lasciandosi andare a figure retoriche sportivo-genitoriali («a risolvere i problemi degli azzurri e di Lippi ci penserà l’estro di Francesco Totti che, forse ispirato dalla gestazione della moglie, sembra non smettere di partorire gol») o avventuroso-urbanistico («a Cor-tina d’Ampezzo come in un film di Indiana Jones tutto si sno-da fra città sepolte nella giungla, mercanti d’alto borgo...»). Anche la teoria giornalistica creava qualche problema se è ve-ro che alla domanda: «Quali sono gli elementi di un titolo e la loro funzione?», la risposta era stata: «Il titolo che contiene la notizia più importante contenuta all’interno dell’articolo. L’occhiello introduce al luogo e al contenuto della notizia. Il catenaccio contiene un’altra notizia contenuta nell’articolo. Il sommario può esserci o no ed è quasi un cappello». Duro il giudizio di un candidato sui rappresentanti della comunità scientifica: «Non resta che ammirare la correttez-za reciproca tra gli studiosi. Un fatto non consueto in un mondo dove si muovono tombaroli e serpenti e animato da una forte invidia reciproca». Avesse saputo che il suo perio-dare sarebbe finito in un libro, avrebbe scritto la stessa cosa dei suoi colleghi giornalisti.
Sapienti-ignoranti Il fenomeno dei sapienti-ignoranti non è nuovo: «La pessima qualità degli insegnanti e dell’insegnamento» spiega il profes-sor Tullio De Mauro «è una questione antica, il sistema for-mativo italiano va rivisto, ma fino ad oggi la politica non ha avuto né la forza né la voglia di farlo. Fino agli anni Cinquan-ta alle superiori ci andava solo l’elite, poi la scuola (che già fa-ceva acqua da tutte le parti) è diventata di massa, e purtroppo i risultati sono stati questi. Nel 1958 Evaristo Breccia scrisse Somari in cattedra: l’autore analizzava i compiti dei giovani laureati che avevano partecipato Al concorsi a cattedra. Bene, i compiti analizzati sembravano scritti da semianalfabeti, ed erano in realtà quelli dei vincitori del concorso». 11 Persino l’esame di maturità in Italia è dato per approssi-mazione: nel giugno 2008 è stato domandato Al candidati di commentare una poesia di Montale, Ripenso il tuo sorriso. Il ministero ha chiesto agli studenti di individuare la «visione della realtà» del poeta e quella del «ruolo salvifico e consolato-rio della figura femminile». Peccato che la poesia fosse dedi-cata a un ballerino russo, caro amico di Montale, che sicura-mente salvava e consolava, ma che donna non era. E sia chia-ro che per scoprire che la poesia è dedicata a un uomo non serviva una gran cultura: bastava leggerla. «Codesto è il mio ricordo; non saprei dire, o lontano / se dal tuo volto [...]» Do-ve l’«o lontano» è un vocativo (evidentemente) maschile. La stessa tornata di esami è costata l’incarico a vari esper-ti del ministero, dal momento che le tracce 2008 sono state un vero disastro: un brano dei Promessi sposi veniva datato erroneamente; nel materiale dei saggi brevi dedicati alla figu-ra dello «straniero» veniva data e presentata come opera ro-mana una fotografia della statua del Galata morente, in realtà copia di un originale greco, che quindi con la figura dello straniero aveva poco a che fare. «A tutto ciò» scriveva Gior-gio De Rienzo sul «Corriere», «va aggiunta una sciatteria ge-nerale: sintassi traballante, punteggiatura capricciosa con virgole vaganti, uso a caso di corsivi o virgolette nei titoli dei libri da cui sono tratti brani, indicazioni sporadiche di tra-duttori e indicazioni bibliografiche ballerine.» 12 Sulla traccia di inglese gli esperti si erano comportati co-me il più sfacciato degli alunni da esaminare: taglia e incolla dal web, senza neanche rileggere il testo. Sfortunatamente per la pubblica istruzione, il sito da cui era tratto il testo su cui i candidati avrebbero dovuto lavorare era curato da una giornalista yemenita che l’inglese lo conosceva poco, e che quindi aveva commesso tantissimi errori, come il mancato utilizzo del genitivo sassone o la coniugazione sbagliata dei verbi (per esempio un «bave» al posto di un «has»). Ognuno ha la sua Waterloo, dicevamo, ma la Waterloo del ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca è ben più rovinosa di quella di un manager che si addentri nei meandri della storia. La storia della maturità italiana è comunque ricca di strafalcioni. 13 Nell’esame 2007 gli esperti del ministero si sbagliarono su Dante, attribuendo al domenicano San Tommaso l’elogio di San Domenico di Guzmàn, in realtà pronunciato dal vescovo francescano Bonaventura di Bagnoregio in un canto successivo a quello indicato dal titolo del tema. Nel 1987 la prova dell’Istituto d’arte attribuiva a Simone Martini
L’allegoria del buono e del cattivo governo, opera in realtà di Ambrogio Lorenzetti. Nel 2005 gli aspi-ranti grafici pubblicitari vennero invitati a realizzare la re-clame di un festival da tenersi a Urbino, secondo il ministe-ro provincia umbra, in realtà provincia marchigiana. È invece su internet che bisogna andare se si vuole racco-gliere il meglio degli strafalcioni professorali. Gli studenti si dimostrano senza pietà, e gli errori dei prof vengono riportati e resi indelebili sulla rete. Qualche anno la il gruppo di «Comix» ha anche invitato gli alunni alla delazione, chiedendo agli studenti di inviare per mail le migliori cadute degli inse-gnanti italiani al sito Sputtana il prof, che poi furono raccolte in un libro. 14 Titolo inequivocabile, e azzeccatissimo: «Uno, due e tre, ambedue dal preside!» (liceo Severi di Salerno), «Mi raccomando ragazzi, che sia un testo lungo, non un testicolo!» (liceo scientifico di Belluno), oppure «Io non so... Voi ragazzi ascoltate solo musica metallurgica» (liceo classico di Bologna). Ma il problema non sono le gaffes, o la credibilità di in-ternet nel riportarle. Quando «Panorama» 15 ha domandato a un campione di insegnanti di Scienze «perché usare un tele-scopio con una lente di grande diametro permette di osser-vare le stelle che hanno debole intensità luminosa?», solo il 35 per cento degli intervistati ha fornito la risposta corretta, e cioè che «più grande è la lente più luce raccoglie». Gli altri hanno detto che «la lente più grande ingrandisce di più» o che «le lenti più grandi permettono di vedere una maggiore porzione di cielo» o che «colgono i colori scuri delle stelle». I Tg, chi li capisce? Tempo fa si decise di far misurare la comprensibilità dei tele-giornali. Quanto capiscono gli italiani delle notizie che ven-gono loro raccontate ogni sera dalla televisione? Anzi, si do-mandò la società incaricata della ricerca, 16 quanto capisce di un Tg chi è laureato? Quanto chi è diplomato? Quanto chi ha la licenza media o elementare? Emerse che chi ha solo la licenzia media inferiore comprende facilmente poco più del 20 per cento dei testi dei telegiornali. I nostri concittadini senza alcun titolo di studio sono quasi 6 milioni (ma il dato è relativo alla popolazione dai 6 anni in su); 17 13.686.021 sono quelli che hanno conseguito la sola licenza di scuola elementare; poco oltre 16 milioni il numero di quelli che si sono fermati alla licenza media o al vecchio avviamento professionale. Il censimento 2001 ha contato che 800 mila italiani non sanno né leggere né scri-vere. Oltre 1 italiano su 3 non ha mai letto un libro nel suo tempo libero. 18 Quasi 1 italiano su 2 non legge neanche il giornale: solo il 58,3 per cento della popolazione Io sfoglia almeno una volta alla settimana e, tra i lettori, solo il 40,2 per cento dichiara di leggerlo abitualmente, almeno 5 volte alla settimana. Nel 2005 ciascun cittadino ha destinato alla cultura quasi il 7 per cento di tutto quello che ha speso, il 2 per cen-to in meno di quanto fatto l’anno precedente. La media eu-ropea è del 9,5 per cento, mentre si aggira sull’I 1 in Svezia, Regno Unito, Repubblica Ceca, Austria e Finlandia. Gli italiani spendono sempre meno per la cultura: primum vivere, deinde philosophari diceva Aristotele (prima si pensa a vivere, dopo a fare filosofia). In tempi di crisi eco-nomica le spese per libri, cinema, teatro, musica sono le pri-me a
saltare: è così che un Paese comincia ad «avvitarsi» su se stesso. Ignoranti in Tv A questo punto c’è bisogno di spiegare il successo dell’igno-ranza in Tv? In una ormai mitica puntata del reality La pupa e il secchione, una concorrente, vedendo la più classica delle immagini di Dante Alighieri (quella di tre quarti, con il capo coperto e l’alloro a cingergli le tempie), esclamò felice per averlo riconosciuto: «È un guerriero indiano!». La trasmis-sione di Italia 1 si incentrava sulla convivenza forzata di in-telligentissimi nerds e bellissime «sciacquette». In divertenti ma in realtà drammatiche prime serate (in gran parte recita-te, ma non è questo il punto), le concorrenti acconsentivano ad esporsi alla gogna mediatica rispondendo a domande di cultura generale. Fu sostenuto nell’ordine che «la Gioconda è stata dipinta da Giuseppe Verdi», che «il potere legislativo in Italia è detenuto dal Papa», che «la capitale della Cina è Mongolia», che «il sole sorge due volte all’anno». I campi su cui fu testata l’ignoranza delle concorrenti furono i più sva-riati. L’allora ministro dell’Economia Tommaso Padoa Schioppa veniva definito un «tassista /tassiere/ tassinista / taxista/ emissore /ministro delle Tasse»; l’ex giocatore Pelé era «Mandela/un mago dei tarocchi». Costrette (ma in realtà consenzienti e in parte complici) a dare un nome Al volti che venivano inquadrati, le concorrenti sostennero che Albert Einstein era «un pazzo/pittore/Frankenstein», Massimo D’Alema «un attore italiano», Mahatma Gandhi «un soldato africano», Adolf Hitler «un attore», Saddam Hussein «un di-rettore che vive a Bari/Bali». Quando il conduttore, Enrico Papi, domandò a una concorrente cosa avesse scritto Karl Marx, la risposta fu il si-lenzio più assoluto, e quando provò a suggerire «il ca... il ca...» la ragazza esplose ispirata: «Il Canzoniere!». Non erano previste vie di mezzo: o eri pupa o eri secchione. Era evidente il peso di una sceneggiatura che imponeva a pupe e secchioni il rispetto del ruolo, ma alle ragazze dire castronerie veniva facilissimo e, soprattutto, erano loro a piacere al pubblico. I secchioni erano visti (e in realtà lo erano) come dei mostri abbrutiti e resi grotteschi dal loro ottuso e inutile sapere. Cinquantanni fa gli italiani ammiravano la cultura di Gianluigi Marianini, campione plurilaureato di Lascia o rad-doppiai, che rispondeva a domande sulla storia della moda e del costume. Marianini era uno dei primi anticonformisti: capelli a spazzola, un filo di barba curatissima, atteggiamen-to dandy, vestiti improbabili, estroso, battutista e pazzerellone. All’epoca Mike Bongiorno lo trattava con rispetto. Oggi Enrico Papi lo appenderebbe a un trapezio, con una tuta aderente viola, sopra una piscina piena di acqua e fango. E tutti ne rideremmo. Ci sarà un motivo se le generazioni passate invidiavano i sapienti concorrenti di Lascia, o raddoppia? mentre i telespet-tatori di oggi si immedesimano in una ragazza che definisce Giuseppe Garibaldi «quello delle mille lire». Assistere a una concorrente che confonde il Dalai Lama con «Buddha/Dalamadò/Aladino», Camillo Benso Conte di Cavour con «un musicista» e Gianni Agnelli «con l’attore che ha fatto lo scia-mano nel film sui Doors» forse consola («C’è chi sta peggio di me...») oppure rincuora («Vedi che anche gli altri stanno come me?»). Di certo io stesso non ho perso una puntata di quel programma, e tutti, in famiglia, lo seguivamo con
inte-resse. Ci divertiva, non ci indignava.
3 I veri ignoranti
Cosa è la cultura? Abbiamo definito «ignorante» chi non sa farsi capire dagli altri e non riesce a comprenderli, definizione che si attaglia bene anche a molti che hanno studiato tanto. Luciano Luigi Pellicani, al corso di Sociologia, ci spiegava che «un uovo deposto dalla gallina è natura, cotto in padella è cultura», intendendo che cultura è tutto ciò che viene trasfor-mato dall’uomo e che quindi dell’uomo porta il segno, il trat-to. Ovviamente è questa la definizione giusta, e ovviamente è sbagliata la definizione di uso corrente per cui è «cultura» tut-to ciò che è alto, tutto ciò che è per pochi, tutto ciò che spes-so risulta incomprensibile Al più. In realtà è impossibile soste-nere che Gargantua su Rai Tre sia cultura mentre I Cesaroni su Canale 5 no: tutto quello che non esiste in natura ma viene trattato dall’uomo possiede un tratto culturale. Questo libro non è un trattato di sociologia, e quindi ci limitiamo a dire che, per come la intendiamo noi, una per-sona colta non è una persona che sa tutto, ma è una persona che sa alcune cose e ha la capacità di godere di altre. Per esempio, un medico ha una preparazione da medico, un in-gegnere padroneggia materie utili alla sua professione, ma (se sono persone colte) quando vanno al cinema sanno go-dersi un bel film, quando vanno allo stadio riescono a gu-starsi una bella partita. La persona colta è chi sa ascoltare e capire qual è il problema, e riesce di volta in volta a trovare le soluzioni adeguate. Più capisce più vuol dire che ha stru-menti per capire, quindi più cultura (e più esperienza). Una persona colta ha una mente aperta e critica, pronta ad ascoltare le soluzioni che vengono da altrove e disponibile a correggere i propri errori. Una persona che sa argomentare le proprie tesi e che ha gli strumenti per capire gli altri. Possiamo poi dire che la cultura di un Paese si stabilisce misurando le capacità di chi esce dalle scuole. Se scopriamo che i nostri laureandi non sanno argomentare una tesi, op-pure che i nostri maturandi non sanno fare un riassunto, scopriamo che il nostro livello culturale è insoddisfacente. I più ignoranti di tutti La consapevolezza di non sapere è cultura. Quest’ultima non è definita solo dalle conoscenze specifiche, ma anche dalla capacità di riconoscere le abilità degli altri e di affidare alle persone giuste la soluzione dei problemi che incontria-mo. Lo studio
delle discipline non offre solo le conoscenze del campo specifico, ma anche una sorta di disciplina men-tale nel sapersi riconoscere come ignoranti. Paradossalmen-te si studia per capire quante cose non si sanno. «Davanti all’ignoranza siamo tutti uguali, perché l’igno-ranza è infinita» spiega il filosofo Dario Antiseri, intervistato da Mercedes Vela Cossio. 1 «Davanti all’infinito delle cose da sapere» continua Antiseri «uno è come mille: qualcuno può sapere alcune cose, l’altro ne può sapere altre... siamo tutti insegnanti, e siamo tutti ignoranti... La questione di fondo è che esistono conoscenze di situazioni particolari di tempo e di luogo che sono disperse fra milioni e milioni di uomini.» Nessuno è in grado di sapere tutto quello che c’è da sapere: né su un argomento né su tutti gli argomenti. A chiunque sfuggirà sempre qualcosa, e quel qualcosa farà di lui un non sapiente, quindi un ignorante. Nessuno può ritenersi dotto di fronte a un’altra persona: quest’ultima saprà sempre qual-cosa che io non so. «Noi siamo fallibili, e siamo tutti igno-ranti» conclude Antiseri. «L’ignoranza è un tratto costitutivo dell’umanità, e colui che pensa di non essere ignorante crea solo danni a se stesso e agli altri. 11 dogmatismo, la convin-zione di conoscere la verità assoluta, di essere l’interprete le-gittimato di valori esclusivi, è la base del fondamentalismo, ed è persino alla base di ogni sistema totalitario.» La consa-pevolezza della propria relativa ignoranza è libertà, la con-vinzione di essere onniscienti è l’anticamera della dittatura. Breve storia dell’ignoranza Gli inglesi hanno due termini distinti per indicare chi non sa leggere e scrivere e chi non sa usare i numeri: illiteracyh il primo, e noi lo traduciamo il più delle volte come «analfa-betismo», ma in realtà sbagliamo. Milletteralismo è più che altro l’incapacità di maneggiare gli strumenti della cono-scenza, della cultura, la fatica nel capire e nel farsi capire. Per indicare chi non sa usare i numeri gli inglesi parlano di innumeracy, che significa più o meno «non saper far di con-to». Noi italiani usiamo un solo termine, analfabetismo, per entrambi i fenomeni, forse perché siamo più tolleranti, e stare lì ad additare persino chi non sa fare le divisioni ci sembra eccessivo. Cosa significa non saper leggere, scrivere e far di conto? «Per alcuni millenni» spiega Tullio De Mauro, «leggere, scri-vere e far di conto furono un bene di cui si avvantaggiava l’intera vita sociale: era importante che alcuni lo sapessero fa-re per garantire proprietà, conoscenze, pratiche religiose, memorie di rilievo collettivo, amministrazione della giusti-zia. Ma nelle società aristocratiche a base agricola, purché ci fossero alcuni letterati, la maggioranza poteva fare tranquil-lamente a meno di queste capacità. I saperi essenziali veniva-no trasmessi oralmente e perfino senza parole. Anche i po-tenti potevano infischiarsene, purché disponessero di scribi depositari di quelle arti. Carlo V poteva reggere un immenso impero, ma aveva difficoltà perfino a fare la firma autografa. Le cose sono cambiate in tempi relativamente recenti [...]. E sopravvenuta l’idea che tutti i maschi abbienti, poi tutti i maschi in genere, infine perfino le donne, potessero avere parte nelle decisioni politiche. La "democrazia dei moderni" e i movimenti socialisti hanno fatto apparire indispensabile che tutti imparassero a leggere, scrivere e far di conto.» Al giorno d’oggi per essere cittadini a pieno titolo della nostra società «leggere, scrivere e far di conto servono sempre, ma per acquisire livelli ben più alti di conoscenza necessari
oggi all’inclusione, anzi a sopravvivere in autonomia». 2 Al sapere, ormai, è legato il nostro futuro, l’uomo libero è principal-mente colui che ha la possibilità di decidere il proprio desti-no, e che quindi ha l’opportunità di migliorarlo. «È con la Rivoluzione francese» spiega lo storico Gio-vanni Orsina «che nasce l’idea di una nuova società basata sull’individuo, dove ognuno sceglie per sé e dove il proprio destino non è stabilito dal ceto in cui si nasce. Il proprio fu-turo non va accettato con rassegnazione, ma può essere co-struito. L’individuo scopre di potersi muovere, di poter de-cidere e determinare autonomamente il proprio destino. Nell’Antico Regime il merito individuale è inutile, il futuro dell’individuo è preordinato alla sua nascita. Vige il sistema delle caste: i figli dei nobili sono destinati ad essere nobili, i figli degli artigiani, artigiani. Ognuno diventa quello che nasce: solo il clero e l’esercito danno una certa possibilità di mobilità sociale, ma comunque non per tutti.» 3 L’illetterato L’«illetteralismo» è quindi l’incapacità di maneggiare gli strumenti della conoscenza, della cultura, la fatica nel capire e nel farsi capire. Il professor Tullio De Mauro, citando due diverse indagini comparative svolte nel 1999-2000 e nel 2004-2005 in diversi Paesi, riassume così lo stato del nostro Paese: «Cinque italiani su cento tra i 14 e i 65 anni non san-no distinguere una lettera da un’altra, una cifra dall’altra. Trentotto lo sanno fare, ma riescono solo a leggere con diffi-coltà una scritta e a decifrare qualche cifra. Trentatré supe-rano questa condizione ma qui si fermano: un testo scritto che riguardi fatti collettivi, di rilievo anche nella vita quoti-diana, è oltre la portata delle loro capacità di lettura e scrit-tura, un grafico con qualche percentuale è un’icona incom-prensibile. Secondo specialisti internazionali, soltanto il 20 per cento della popolazione adulta italiana possiede gli stru-menti minimi indispensabili di lettura, scrittura e calcolo necessari per orientarsi in una società contemporanea».’ 1 Qualche anno fa «L’espresso» pubblicò una ricerca del Centro europeo dell’educazione sullo stato culturale del Paese. Il Cede 6 aveva sottoposto un campione di italiani ad alcuni test finalizzati a misurare il livello di confidenza con la parola e il suo significato. I risultati furono scioccanti, perché emerse che le generazioni nuove più scolarizzate so-stituiscono sì le vecchie (riducendo l’area di analfabetismo), ma «perdono sempre più la capacità di utilizzare l’alfabeto per capire e comunicare: sta aumentando la gente che si esprime con un vocabolario povero e capisce solo concetti elementari. Si estende sempre più quello che gli esperti chiamano il rischio alfabetico». 7 Il Cede denunciava come l’illetteralismo conquistasse terreno anche tra i ceti «che una volta si sarebbero definiti intellettuali, ma che dimostrano di non riuscire a utilizzare le proprie competenze linguisti-che al di fuori del loro ristretto campo specifico». Una nuova classe di italiani Il test funzionava più o meno così: 5 livelli di difficoltà, e chi superava il turno si metteva alla prova con l’esame successi-vo. I peggiori («con competenza alfabetica molto modesta, al limite dell’analfabetismo») si sono fermati al primo livel-lo, quello
in cui veniva chiesto Al candidati di «calcolare il totale da pagare in un conto della tintoria». Al secondo tur-no si sono fermati quelli che, davanti alle previsioni del tem-po, non sono riusciti a calcolare di quanto la temperatura di Napoli fosse superiore a quella di Aosta. Al terzo turno sono caduti i candidati che, con le istruzioni in mano, non hanno saputo dire in quali casi andava consultato il medico prima di assumere una medicina. Al quarto e al quinto turno (quello delle persone «colte») sono arrivati quelli in grado di «scegliere, consultando una guida, un albergo pronto ad ospitare cinquanta persone in occasione di un convegno che durerà due giorni». La sorpresa? L’8 per cento delle persone catalogate al li-vello più basso («quello» scriveva «L’espresso», «in cui si può essere in grado di tracciare la propria firma o di riconoscere l’insegna di un negozio, ma non si è in grado di utilizzare il linguaggio scritto per produrre o ricevere messaggi che ri-chiedono una pur modesta organizzazione del discorso») 8 era laureato. Il 10 per cento diplomato. Ma c’era un altro dato inquietante. Tutti noi, terminati gli studi, pendiamo a mano a mano la capacità (per esempio) di tradurre dal latino o di risolvere un’espressione. Manteniamo dentro di noi i concetti fonda-mentali, ma dimentichiamo molto spesso l’applicazione pratica delle discipline. Nelle ultime generazioni, invece, con il tempo che passa, «non si perdono più solo le cono-scenze di discipline specifiche. Ora si perde la cultura di ba-se, quella alfabetica». La stessa inchiesta del Cede, riportata da «L’espresso», metteva tra l’altro in luce come l’ignoranza, in Italia, non sia sinonimo di povertà, anzi. «Circa il 60 per cento delle per-sone che si collocano nei primi due livelli, quelli più bassi, ha un reddito da lavoro che supera i 42 milioni annui e un reddito familiare superiore Al 140 milioni.» La ricerca bat-tezzava insomma la nascita (già Al tempi della lira) di una nuova classe sociale: benestanti ma ignoranti. Pronti a spen-dere ma incapaci di capire, «avvantaggiati dal punto di vista dei consumi ma svantaggiati da quello dei diritti civili e po-litici». Ignoranti, ma non lo sanno. Ignoranti, ma non glielo si può dire. Ignoranti, e chiunque se ne può approfittare. Sia di destra, sia di sinistra, sia di centro; siano gli imprendi-tori, siano i sindacalisti, siano i laici, siano gli ecclesiastici, siano i pubblicitari, siano gli avvocati, siano i giornalisti o siano i notai. Potrebbe essere chiunque. La cultura è la miglior difesa del cittadino. Quale che sia il pericolo cui è esposto. I tanti e i pochi II problema maggiore di non avere un’istruzione, scriveva Gilbert Keith Chesterton, 9 è che corri il rischio di prendere sul serio le persone che ce l’hanno. Quando il fior fiore della classe dirigente (sia esso un manager da più di 800 mila euro l’anno o un politico che ri-copre un incarico importante) mostra disinteresse per il sa-pere, vuol dire che siamo davanti a quella che è solo la pun-ta dell’iceberg e che non dobbiamo preoccuparci della vetta ghiacciata, ma della montagna che si nasconde sottacqua. In Italia, attualmente, la conoscenza della propria storia, dei propri pensieri, delle proprie idee non è un valore tra i più riconosciuti; la preparazione (che non sia quella
specifi-ca per la soluzione di un determinato problema) non viene particolarmente apprezzata, l’abilità viene generalmente preferita alla capacità. «Somari» scrive Giulio terroni su «Panorama» «ci sono stati in tutti i tempi e in tutte le scuo-le: ma il somaro classico tendeva quasi sempre a prendere atto della propria ignoranza [...]. L’asinità contemporanea è invece lucidata, plastificata, arrogante, pretenziosa; ha per-duto ogni rapporto con il solido fondo della materia; non ha complessi e per lo più non riconosce se stessa, immersa in un brodo che le fa apparire tutto facile, tutto indifferen-te, tutto alla sua portata.» 10 Certo, la cultura piace ancora, e molto. Si usa internet per trovare citazioni che colpiscano l’immaginario colletti-vo, e magari si finisce per leggere in Parlamento un brano di Martha Medeiros scambiandolo per un’opera di Pablo Neruda, perché probabilmente il curatore del sito internet da cui si è pescato non aveva controllato bene le fonti. D’al-tronde non abbiamo visto fare così gli stessi esperti del mi-nistero alla maturità? Non abbiamo visto un governatore leggere al suo insediamento il discorso già letto dal presi-dente di un’altra regione? A essere sinceri non cambia molto, Al fini dell’utilizzo che viene fatto in una convention o in un discorso parla-mentare, se il generale sconfitto fosse Caio o Sempronio o se il poeta citato fosse in effetti Tizio o Caio, o se la poesia fosse dedicata a un uomo o a una donna. L’approssimazione nell’utilizzo del materiale, letterario o storico che sia, nasconde però un disinteresse per il sapere che emerge sempre e sol-tanto nei contesti che sottostimano il valore della formazio-ne, intendendo per formazione il processo che porta un in-dividuo, un gruppo, un Paese o una società a migliorarsi. All’Italia, insomma, non interessa migliorare. Quando la preparazione, l’amore per il sapere e la colti-vazione dell’intelletto diventano il gioco di un gruppetto ri-dotto e (spesso) stizzito, un’elite che il Paese non ammira ma che anzi deride, il campanello d’allarme per una società è suonato. Se il sapere, invece di essere destinato alla dillu-sione, diviene preda di risicate minoranze addette alla sua venerazione, se si trasforma in qualcosa di sacrale, oggetto di culto di pochi, tristi sacerdoti, si è in realtà trasformato in modernariato. 11 sapere, quando viene tutelato, nascosto, protetto, idolatrato, perde ogni suo significato, diventa un’arma che i pochi brandiscono contro i tanti, un’arma che comunque, alla fine, si trasforma sempre in un boomerang per chi la maneggia.
4 Il prezzo dell’ignoranza
Una sola parola Se dovessi usare una sola parola per indicare quello che ri-tengo di avere imparato a scuola, direi che ho imparato a concentrarmi. L’essenza stessa della concentrazione, la capacità di isola-re qualcosa dal contesto e leggerlo, studiarlo, ricordarlo, credo si impari alle elementari. Per essere precisi, sono con-vinto che all’asilo si impari a stare con gli altri, a seguire gli stimoli e a mettere a frutto un metodo, rispettando le tegole che la convivenza impone. È invece alle elementari che ci si incuriosisce, che ci si appassiona davanti alle cose che non si conoscono, ed è lì che si impara a gustare il tempo passato sui libri. Se non ami lo studio alle elementari, è probabile che l’opportunità di appassionarti a esso ti si ripresenti solo all’università. Alle medie credo di aver imparato a concentrarmi nono-stante. Alle medie si impara a concentrarsi nonostante tutto il rumore che c’è intorno, nonostante i compagni che ci di-straggono, nonostante gli interessi nuovi, le nuove esigenze e i nuovi ambienti che confondono (e però arricchiscono) un adolescente. Alle medie scopri di essere diverso da quello che sei, e riuscire a concentrarsi in un momento come quel-lo diventa un merito da Guinness. Riferisco una considera-zione che ho fatto insieme ad alcuni amici: se un ragazzo o una ragazza escono vivi dalle medie, il più è fatto. Al liceo se sei fortunato impari a concentrarti su quello che più ami, su quello che più ti interessa, ed è lì che comin-ci a mettere in relazione la concentrazione con un obiettivo, dando vita e alimentando una passione. Al liceo scopri che i secchioni non si godono la vita, ma che non se la godono neanche quelli che non studiano. Al liceo ho capito che leg-gere è un piacere e che non serve (solo) a prendere un bel voto, ma a vivere meglio, a comprendere l’esistente, a im-maginare quello che (ancora) non si conosce. All’università si impara a concentrarsi da soli, rinuncian-do alla rete di protezione del gruppo, a quella struttura che fornisce sostegno e ospitalità a ognuno di noi ma che ci ab-bandona di colpo una volta letti i quadri della maturità. Dopo l’università qualcuno trova lavoro, e la capacità di concentrarsi viene messa a dura prova: i più fortunati la uti-lizzano perché amano quello che fanno, i più rigorosi per-ché si sentono comunque in dovere di farlo anche se non apprezzano il proprio lavoro, i più sfortunati le dicono ad-dio, perché non trovano un motivo valido per concentrarsi, e passano il tempo a cercare di distrarsi. Anzi, a essere preci-si, la ricerca di una distrazione diventa l’unica ragione valida su cui concentrarsi, perché il resto annoia. Investimenti a lungo, a medio e a breve termine «Il Paese famoso per i suoi straordinari prodotti alimentati» scrive l’economista Giangiacomo Nardozzi «non è presente Al primi livelli delle multinazionali del settore, dove invece stanno stabilmente gli svizzeri della Nestlé. Non sono im-prese italiane quelle che portano per il mondo la pizza (Piz-za Hut), l’espresso e il cappuccino (Starbucks). Nel "sistema moda", società svedesi, spagnole, svizzere vengono prima di quelle italiane per capitalizzazione di Borsa. Siamo capaci di costruire i gioielli di Maranello ma la nostra grande indu-stria automobilistica è andata in crisi.» 1
Sono gli stranieri a fare i soldi con l’Italia, e gli economi-sti ci spiegano che è forte il legame tra gli indici dei livelli culturali e le capacità tecnologiche e produttive di una col-lettività, sia essa un Paese o anche una qualche area regiona-le. Se non riusciamo a trarre profitto da noi stessi, insom-ma, la colpa è anche di quanto siamo ignoranti. «L’analfabetismo italiano» scrive Tullio De Mauro «ha radici profonde. Ancora negli anni Cinquanta il Paese vive-va soprattutto di agricoltura e poteva permettersi di avere il 59,2 per cento della popolazione senza titolo di studio e per metà totalmente analfabeta (come oggi il 5 per cento). Fuga dai campi, bassi costi della manodopera, ingegnosità [...] lo hanno fatto transitare nello spazio di una generazio-ne attraverso una fase industriale fino alla fase postindu-striale. Nonostante gli avvertimenti di alcuni, l’invito a in-vestire nelle conoscenze non è stato raccolto né dai partiti politici né dalla mitica gente. Secondo alcuni economisti il ristagno produttivo italiano, che dura dagli anni Novanta, è frutto dei bassi livelli di competenza. Ma nessuno li ascol-ta; e nessuno ascolta neanche quelli che vedono la povertà nazionale di conoscenze come un fatto negativo anzitutto per il funzionamento delle scuole e per la vita sociale e de-mocratica.» 2 Investire nella scuola non vuole certo dire ottenere risul-tati immediati. Vuol dire magari alleggerire il presente di chi nella scuola oggi lavora, ma soprattutto significa pro-grammare il futuro delle prossime generazioni. Le teste degli italiani La crescita di un Paese passa attraverso le teste dei suoi citta-dini. Francesco Giavazzi ha scritto sul «Corriere della Sera» che «dal dopoguerra alla fine degli anni Ottanta la distanza fra il reddito dei laureati e quello di lavoratori poco istruiti è rimasta relativamente stabile; ma negli ultimi vent’anni quella distanza è esplosa. Innovazione tecnologica (internet, i computer, l’uso sempre più frequente di modelli fisici e matematici nella finanza) e globalizzazione hanno concorso a far crescere il "premio all’istruzione". La globalizzazione [...] premia l’istruzione perché le imprese, per sopravvivere, devono dedicarsi a produzioni che richiedono lavoro con un elevato livello di specializzazione. Chi ha smesso troppo presto di studiare, o chi ha avuto la sfortuna di frequentare scuole cattive, è perduto». 3 E questo discorso non vale certo solo per noi. La Dichia-razione di Berlino4 recita che «la ricchezza dell’Europa risie-de nella conoscenza e nelle competenze dei suoi cittadini». In Francia la Commissione Attali5 è arrivata alle conclusioni che «i francesi devono prima di tutto porre in essere una vera economia della conoscenza, sviluppando il sapere di tutti, dall’informatica al lavoro di squadra, dal francese all’inglese, dalle elementari agli studi superiori, dall’asilo alla ricerca». Nel mondo globalizzato non vince chi si protegge o chi resiste al cambiamento, ma chi studia e si migliora, al fine di comprendere e pilotare le trasformazioni. Questo vale per i Paesi e le economie, ma anche (se non soprattutto) per i sin-goli cittadini, e per migliorare le persone sinora non si è in-ventato nulla di meglio della scuola. «Negli Usa» continua Giavazzi «l’ampliamento del differenziale fra lavoratori istruiti e non istruiti dipende soprattutto dal fatto che, dagli anni Ottanta, il sistema educativo americano non ha tenuto il passo con i progressi della tecnologia e ha lasciato indietro un numero crescente di giovani.» Se non è la scuola a stare dietro al mondo
che cambia, il Paese segna il passo, e sem-pre più persone finiscono al margine. E la scuola a prepara-re alle sfide della vita, ed è la scuola a dover migliorare in continuazione: se resta indietro lei, restano indietro tutti. La vera sfida della vita, in fondo, potrebbe essere vista co-me quella di risolvere problemi. I problemi sono sempre di-versi, più complessi, più difficili, più rischiosi, ma sono sem-pre e solo problemi: si possono risolvere, a patto che siamo in grado di produrre soluzioni. Soluzioni da inventare, da pro-vare, eventualmente da scartare, possibilmente da applicare. Le soluzioni, però, possono essere prodotte solo con l’immaginazione, e l’immaginazione per funzionare richie-de un carburante: le idee. Albert Einstein sostenne che «le idee sono la cosa più reale che esista al mondo», e in effetti è così, perché solo con le idee si possono risolvere i problemi. Ma allora, come ci si rifornisce di idee? Il carburante delle idee Ci sono molti modi di comunicare. Si comunica con il lin-guaggio, ma anche con i movimenti, con i gesti, con le posi-zioni del corpo, con la musica... Prendiamo l’esempio del modo di vestire: è anch’esso si-curamente un modo di comunicare. Io posso vestire in mo-do classico, giacca, cravatta, e cercare di dare di me un’im-magine professionale e rassicurante, o presentarmi in jeans e camicia per suggerire l’idea del casual e moderno. 6 In linea di massima possiamo dire che un mittente invia un messaggio a un destinatario. Più il destinatario è colto, più ha studiato, più ha viaggiato, più esperienze ha avuto, più chiacchierate si è fatto con persone diverse da lui e più sarà in grado di tradurre ogni tipo di messaggio. Meno di queste esperienze avrà fatto, meno comprenderà. Più studi, più capisci. Più vivi, più comprendi. Si aumenta infatti la propria capacità di comprendere (e di farsi comprendere) viaggiando, lavorando, parlando, en-trando in contatto con gli altri, amando, odiando, vincen-do, perdendo, sbagliando, correggendosi. Anche (e soprat-tutto) studiando. Ci siamo più volte posti la domanda: a che serve studia-re? Poniamoci adesso la domanda inversa: se una persona non studiasse... cosa sarebbe? «Noi» ci spiega ancora Dario Antiseri «grazie alle idee che abbiamo in testa guardiamo il mondo, leggiamo la realtà che ci circonda e comprendiamo persino noi stessi; più idee abbiamo, più teorie conosciamo, più ipotesi siamo in grado di sviluppare e più comprendia-mo noi stessi e l’esistente. Senza la conoscenza la nostra vita sarebbe vuota.» 7 Studiare, conoscere, imparare serve quindi a vivere me-glio. «Karl Popper» 8 continua Antiseri «diceva che tutta la nostra vita è risolvere problemi: se noi non ne siamo capaci, se non siamo in possesso di teorie e metodi per risolvere i problemi, la nostra vita è non vita. È importante studiare e uscire dalla scuola con un patrimonio di idee che ci permet-tano di leggere e capire il mondo, che ci consentano anche di intervenire su noi stessi e su quel che ci circonda.» La scuola ci offre quindi gli strumenti per risolvere i no-stri problemi, ovvero per vivere meglio la vita. La scuola ci rifornisce di idee.
Prof1 Vita da prof
I professori Chi sono gli insegnanti? È difficile darne una definizione, perché è difficile scegliere quale aspetto metterne in eviden-za. Dal punto di vista statistico ne escono malissimo: sono tantissimi, presi tutti insieme costano parecchio, mentre ognuno di loro guadagna davvero poco. Nessuno di noi però è mai entrato in contatto con il cosiddetto «corpo do-cente»; ognuno di noi è entrato in contatto con diversi, sin-goli professori, individui che ci hanno reso in gran parte quello che siamo, aiutandoci, danneggiandoci, insegnando-ci a pensare, a parlare, a comunicare. Hanno contribuito a formare il carattere che abbiamo, hanno molte volte domi-nato i nostri pensieri, acceso le nostre speranze, scatenato le nostre paure. Se dovessi dire quali docenti sono stati importanti nella mia vita, ne dovrei nominare diversi. Il maestro delle ele-mentari, il sabato, ci insegnava a suonare la chitarra. La mattina, prima di iniziare la lezione, ci faceva fare ginnasti-ca in aula, mettendoci in fila e facendoci salire in piedi sui banchi, per poi saltare giù. Era severissimo, duro, ma molto intelligente: sapeva farci amare lo studio e la lettura, ma ave-va modi piuttosto spicci. Quando durante un’interrogazio-ne mi misi a fare lo spiritoso con un amico seduto al primo banco, mi diede uno scappellotto sulla nuca e mi mandò fuori dall’aula; se qualcuno lo facesse oggi a mio figlio, pro-babilmente penserei alla denuncia, quantomeno protesterei con la preside, ma non posso negare che allora compresi che c’è il momento per scherzare e il momento per essere seri. Alle medie la prof di Italiano era temutissima. Entrava in classe senza dire una parola, si sedeva in cattedra ed estraeva i nomi degli interrogati da un sacchetto della tombola. Quando si infuriava urlava «Che Dio vi strafulmini!», ma poi ingoiava la risata che le saliva da dentro. Anche lei era brava, e alla fine ne ho un buon ricordo, anche se all’epoca ci terrorizzava. Quelli del liceo li ricordo tutti. Al ginnasio la prof di Let-tere era rigorosissima, non concedeva nulla, e ci costringeva ad affrontare la realtà per quella che era: chi si lasciava anda-re anche solo un attimo a non pensare veniva immediata-mente richiamato alla concentrazione. La rispettavamo. Con il professore di Filosofia siamo ancora molto amici, gli devo moltissimo: ci ascoltava, scherzava con noi, ci face-va amare il pensiero e la storia del pensiero,
sosteneva gli sforzi che facevamo per essere diversi dagli altri. A centro-campo era fortissimo, per noi era «il Guerriero». Con quella di Italiano, al liceo, litigavamo e ci confron-tavamo, spesso a casa mi divertivo a pensare come le avrei comunicato, il giorno dopo, che secondo me aveva sbaglia-to tutto (cosa poi, naturalmente, non vera). La professoressa di Greco vestiva il camice come quello dei bidelli, lo faceva per non sporcarsi col gesso. Ci fece capire che tutti noi sia-mo la lingua che parliamo. Il prof di Ginnastica avrà avuto poco più di vent’anni: era un amico, con lui giocavamo a pallone, parlavamo di politica, di cose serie, mangiavamo la pizza insieme. Quella di Matematica era stranissima, un ge-nio: si rifiutava di segnare un confine tra i numeri e le idee, delle sue lezioni riuscivamo a comprendere poco, ma quel poco ci faceva intravedere la filosofia dietro le espressioni. Poi ha lasciato la scuola e si è messa a gestire un famoso bar del centro. I professori però non segnano solo in positivo la nostra vi-ta. Io andavo bene, me la cavavo più o meno in tutto, ma ho visto prof sbagliare completamente giudizio su ragazzi che dopo si sono fatti largo alla grande nella vita. Alcuni compa-gni sono stati bocciati perché non sono stati compresi, si so-no ritirati perché non sono stati stimolati a dovere o perché sono stati lasciati affogare in problemi che allora sembravano enormi, ma che oggi sappiamo essere risolvibili. I professori sono persone che hanno fatto la nostra vita, che ci hanno for-mato. Come facciamo a metterli tutti insieme e tirare una media del loro rendimento, del loro costo, del loro status? La professione del docente è unica. Il maestro, il profes-sore, hanno in mano le sorti degli individui, e quindi quelle del mondo intero. Ma se anche valutare la categoria nel suo insieme è un lavoro sporco, è pur vero che qualcuno deve decidersi a farlo. Le tasche del prof Tre milioni e 500 mila italiani lavorano per la pubblica am-ministrazione, più o meno un terzo di questi lavora nella scuola. I dipendenti della scuola hanno per lo Stato il costo pro capite più basso in assoluto, pari a 34.438 euro l’anno, ma visto che il comparto è quello più numeroso di tutti, un milione e 130 mila dipendenti, nel complesso è quello per cui lo Stato spende di più: circa 39 miliardi di euro. Anche se la media è fatta tra i trattamenti di tutto il personale scolastico (amministrativi, bidelli, insegnanti...) si può dire che i prof italiani sono tanti, costano tanto e guadagnano poco. È il classico paradosso italiano. I docenti, alla fine dei conti, costano tanto ma sono in-soddisfatti, sono i dipendenti a cui lo Stato dovrebbe tenere di più ma sono quelli, presi a uno a uno, più facilmente so-stituibili. Qualsiasi cosa dovesse succedere, non rimarremo mai a corto di professori. Un insegnante di scuola dell’infanzia con meno di otto anni di anzianità guadagna 14,6 euro l’ora, poco più di una collaboratrice domestica, mentre 15 anni di insegnamento garantiscono a un prof di secondaria superiore (il liceo) uno stipendio lordo di 27.500 euro l’anno. La media Ocse (Or-ganizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) è superiore a 40 mila euro l’anno: lavorasse in Germania
guadagnerebbe 20 mila euro in più, in Finlandia 16 mila. Un insegnante non la carriera: nasce e muore insegnan-te. Per diventare prof serve la laurea (quattro anni), più un’eventuale specializzazione di due. Totale, sei anni di stu-di, quanti quelli necessari a diventare medico, ma che apro-no le porte a uno stipendio di 1268 euro al mese; dopo cin-que anni di insegnamento arriviamo a 1385. Un insegnante della scuola media può arrivare a 20.068 euro lordi all’anno dopo due anni di insegnamento, e dopo 27 anni di lavoro a 26.544 euro lordi all’anno. Dopo 35 anni (a fine carriera) si arriva al picco di 30 mila euro lordi. Un insegnante del liceo dopo 35 anni può arrivare a 31.492 euro lordi annui (1400 in più del collega delle medie). In epoca di detassazione degli straordinari va ricordato che gli insegnanti non fanno straordinari: oltre le 18 ore di cattedra, i prof devono fare 80 ore all’anno, divise fra collegi dei docenti e ore funzionali all’insegnamento (scrutini, rice-vimento dei genitori...), e possono fare 6 ore settimanali per sostituire i colleghi (sotto i 16 giorni di assenza — nelle me-die e nelle superiori - non si chiama il supplente), ore che si fanno sacrificando i buchi dell’orario. Queste ore in più so-no tassate con l’aliquota ordinaria, mediamente il 27 per cento. In realtà il prof, poi, fa molto lavoro a casa, lavoro che non viene mai computato: correzione dei compiti, pre-parazione delle lezioni; è uno straordinario «morale», il cui adempimento viene lasciato alla coscienza di ogni insegnan-te. Ma la coscienza, sulla busta paga, non pesa. I prof a terra, gli alunni in piedi? «Nella scuola c’è oggi un problema più importante dei sol-di: il rispetto, dentro e fuori dall’aula» spiega Emma Bontempi, cinquant’anni, insegnante di Lettere in una scuola media della provincia di Brescia, intervistata da Jenner Meletti di «la Repubblica». 1 «Ogni volta che entro in classe fac-cio un confronto col passato, quando sui banchi c’ero io. La professoressa entrava, noi ci alzavamo in piedi, e se c’era un minimo di confusione l’insegnante batteva appena la mano sulla cattedra: subito c’era il silenzio assoluto. Adesso io che non sono una novizia e ho un’esperienza di quasi trenta an-ni, per ottenere il silenzio impiego fra i cinque e i dieci mi-nuti. Immagini i docenti alle prime armi.» Ma è negli incontri con i genitori che la Bontempi sco-pre quanto la professione dell’insegnante sia poco rispettata anche fuori dall’aula: «Solo qualche genitore, che ha una cultura e soprattutto una qualche sensibilità, ti dice che un lavoro importante come quello dell’insegnante oggi è paga-to una miseria. Gli altri, invece, quasi ti prendono in giro: voi professori fate tre mesi di vacanze, lavorate solo qualche ora e poi siete liberi tutto il santo giorno...». I genitori sono il metro per misurare la poca considerazione che dell’inse-gnante ha la società in cui viviamo: «L’altro giorno una madre mi ha contestato il risultato di una verifica» continua la prof intervistata. «"Conti bene" mi ha detto, "gli errori sono solo 59 e non 60 come ha scritto lei!" Insomma, io non mi permetterei mai di andare dal medico e, invece di ascoltarlo, insegnargli il mestiere. Con l’insegnante invece si può fare. Quando io ero l’alunna c’era il problema opposto: per i ge-nitori il professore aveva sempre ragione, anche quando non era il caso. Dal rispetto assoluto si è passati alla conside-razione zero.» «Un tempo» commenta Francesco Salma se-gretario generale della Cisl scuola, «la
nostra società ci misu-rava quello che facevamo, per il nostro ruolo all’interno del-la collettività, e l’insegnante aveva un ruolo speciale, di pre-stigio. I professori erano quelli che formavano le nuove ge-nerazioni: la misura dell’uomo, nei nostri tempi, è la sua re-tribuzione... e così gli insegnanti sono considerati zero.» 2 «La considerazione sociale è scarsa» spiega sempre a Jenner Meletti Giuseppe Magurno, insegnante al liceo classico di Brescia, «soprattutto per il docente maschio. Pensano che la tua sia stata una scelta di ripiego perché non sei riuscito a trovare una professione più redditizia. Le insegnanti donne sono invece più tollerate, in fin dei conti sono sempre don-ne... Ma io, quando mi metto dietro la cattedra, mi sento bene, lo ho scelto questo lavoro.» Quest’ultima dichiarazione ben evidenzia un rischio che corre l’insegnamento: diventare la professione dei «romanti-ci», la professione di chi sceglie una strada nonostante tutti gli spieghino che è un vicolo cieco. Quello dell’insegnante è un ruolo troppo importante per il Paese, e non può ridursi a essere la scelta di vita di persone che amano stare dietro alla cattedra. Deve tornare a essere un lavoro stimolante, difficile ma se ben fatto conveniente, in qualche misura selettivo. Non so se sia importante che gli studenti si alzino o no in piedi quando entra in aula il professore. Difficile dare una risposta, anche se in teoria bisognerebbe sottolineare come la questione sia irrilevante. Non è infatti facendo alza-re in piedi la classe al suo ingresso che un insegnante si gua-dagna il rispetto degli alunni. Il problema non è però così semplice, perché i tempi per i prof (e per la scuola) sono co-sì duri che il ritorno al riconoscimento anche solo formale dell’autorità del docente potrebbe essere di aiuto a’tutti, prof, presidi e ragazzi. In una società matura non sono i ruoli a dare autorevo-lezza, sono le persone a conquistarsela: sono passati i tempi in cui «il Notaio», «il Giornalista», «il Professore» erano un’autorità in forza della professione che svolgevano. Ormai si è capito che ognuno può essere o non essere apprezzato, dipende da come si comporta; nel particolare, da come svol-ge la sua professione. È pur vero che, come ci ha spiegato Francesco Scrima, in molti casi è semplicemente il reddito a testimoniare della reputazione di una persona, e che molto spesso a fare l’autorevolezza di una persona sono ormai la qualità di una giacca o la sfumatura di un’abbronzatura. L’insegnante vestito poveramente è un altro idealtipo. È così da sempre. Mia madre ricordava sempre che il suo prof di Greco al liceo portava sotto la giacca uno spaiato di ca-micia e dei polsini; dalle maniche della giacca si intravede-vano le braccia nude. Era considerato però un genio, e veni-va rispettato da tutti. Oggi verrebbe solo deriso. In realtà molti prof hanno perso credito perché ne ha perso il sistema formativo italiano. La nostra scuola produce diplomati che non trovano lavoro, oppure licenzia giovani meno preparati dei loro coetanei stranieri; la nostra univer-sità non inserisce i laureati nel circuito scientifico, ma li par-cheggia in attesa della cooptazione del barone di turno. In-somma, scuola e università sembrano non rispondere più alle esigenze dei cittadini, e il Professore paga per tutti.
2 A ognuno il suo
Arrivano i mostri II destino del professore (di valore o no che sia) è quello di rimanere confuso nella massa del «personale scolastico» e di lasciare che a rappresentare la propria categoria siano, nell’immaginario collettivo, i «mostri» che di volta si impongo-no all’attenzione dei media. Quali sono i professori destinati a farsi notare? Quelli che la combinano grossa. Scorriamo i titoli dei giornali: Mantova, rissa tra due maestre, i bambini fuggono in lacrime, oppure: La prof è severa e ci stressa, ragazzi ammutinati: 4 classi lasciano l’aula. Ancora: Il prof dei record: assente da scuola per 709 giorni, Il mitico prof M., che si curava al mare: l’artrite cervicale la sua croce, la cura sulla spiaggia, fino agli ormai episodi cult a luci rosse, finiti o meno su internet. Ol-tre Al professori colpevoli fanno notizia i professori vittime, quelli del genere «Bari, botte al preside anticellulari: lite con padre e nonno di un alunno. Un docente: gridavano "Vieni fuori che ti uccidiamo"». L’immagine del professore rotola, rotola, rotola giù: e se rotola giù lui, rotoliamo giù tutti noi. Siamo consapevoli del ruolo che svolgono veramente? Siamo tutti consapevoli di quanto siano importanti nella for-mazione del cittadino italiano? Il personale scolastico Ognuno di noi ricorda perfettamente i docenti che gli sono capitati in sorte: alcuni ci hanno fatto del bene, altri del ma-le. Tutti hanno contribuito a fare di noi quello che siamo. La categoria dell’eccellenza, peto, non è riconosciuta agli insegnanti, destinati a essere definiti e (soprattutto) valutati come un unico, immenso agglomerato. Basti pensare all’e-spressione «personale scolastico», quella con cui gli ammini-stratori, i politici, i sindacalisti indicano le persone che lavo-rano nella scuola. Tutte le persone che lavorano nella scuola. È «personale scolastico» il professore di Filosofia, la profes-soressa di Italiano, gli insegnanti di Greco, di Matematica, di Economia, di Storia dell’arte, ma è «personale scolastico» anche il segretario o la segretaria amministrativa, il bidello o la bidella che tengono pulite e in ordine le aule, gli scodellatori e le scodellatrici, le persone cioè che hanno il compito di riempire il piatto dei bambini con il cibo, che (sia detto per inciso) arriva nelle mense già cotto. Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo nel loro La Deriva 1 hanno fatto luce con esaustiva chiarezza su questo e altri fenomeni emblematici del settore. Il personale scolastico è dunque un’unica categoria che in-globa mondi, esperienze, compiti e responsabilità totalmente differenti, una massa informe che mastica e ingoia professio-nalità, curricula, responsabilità, funzioni e mansioni.
Le scuole italiane ingoiano tutto. Come nei film di av-ventura l’eroe che fugge nella giungla si imbatte prima o poi nelle sabbie mobili, così nel mercato del lavoro italiano il laureato deve stare attento a non finire al Provveditorato, macchina infernale che farà di tutto per far dimenticare all’insegnante quanto nobile e delicato sia il compito che aspetta un professore. Tutti come uno, uno come tutti Nella scuola non esiste alcun modo di misurare il merito degli insegnanti. Il sistema italiano rifiuta ogni valutazione meritocratica del loro lavoro. Il problema è stato trattato più volte, e naturalmente ri-guarda in generale il personale dello Stato. Basti pensare che dal 2003 al 2005 uno statale su tre ha fatto carriera. Ma se prendiamo (solo a titolo di esempio) l’ultimo rinnovo con-trattuale della scuola, scopriamo che prevede un aumento di 140 euro lordi per gli insegnanti e di 100 euro lordi per il personale amministrativo, tecnico, ausiliare: un aumento di circa il 6 per cento per entrambe le categorie. L’accordo ri-guarda un milione e 200 mila lavoratori, e tutti questi (oltre un milione di persone: pensateci bene a quante sono) avran-no uno scatto di stipendio di una decina di euro al mese a pioggia, ovvero qualunque sia stato il loro rendimento. Hanno faticato, si sono dedicati anima e cuore alla propria classe, sono andati a ripescare a casa gli studenti che non volevano più studiare? Dieci euro. Hanno convinto un alunno debole a non mollare, lo hanno spinto a credere in se stesso, gli hanno fatto scoprire il bello della letteratura o della matematica? Dieci euro. Lo stesso aumento che perce-pirà il professore che parla in dialetto, quello negligente, quello che fa sfogliare il manuale agli alunni mentre si legge il giornale. Il contratto non prevede alcun meccanismo di riconosci-mento del merito. Un articolo (il 24) perso tra gli altri si li-mita a rilevare «l’assenza di un sistema di valutazione nazio-nale» e, soprattutto, di risorse specifiche. Le parti (Aran e sindacati) non si riescono a mettere d’accordo su come va-lutate il merito a livello nazionale. I professori sono valutabili (o misurabili) solo in blocco. Settecentomila persone tutte uguali. Basti (ad esempio) pen-sate che in Italia non si può scegliere la classe da far frequen-tare al proprio figlio. Bisogna (almeno in teoria) affidarsi a un sorteggio, di modo che sia la sorte a decidere quali inse-gnanti debba avere uno studente. «Altrimenti» spiegano i presidi «chiederebbero tutti di stare nella classe migliore.» Ah sì? E che male ci sarebbe? La prof migliore Come sempre le leggi non riescono però a imbrigliare la realtà. Il merito trova sempre un modo per farsi valere. In tutte le scuole si viene presto a sapere chi funziona e chi no, e se anche i regolamenti impediscono di date soddisfazione a chi fa meglio degli altri, il riconoscimento all’insegnante che si è distinto trova altre strade per farsi largo. Gli alunni della IV A della scuola elementare Piaget di Roma hanno scritto al ministro una lettera chiedendo di non mandare in pensione la maestra. «”Egregio ministro della Pubblica istruzione, vorremmo informarla che la nostra
maestra di Italiano, Storia, Geografia, Immagine, Musica, l’anno prossimo deve andare in pensione...”. Deve, per legge» scriveva Marina Cavallieri di «la Repubblica», «ma loro vorrebbero che rimanesse almeno un altro anno, uno solo, lo sanno che non si può, ma sono qui proprio per questo, per chiedere una proroga, un picco-lissimo favore.» 2 «Sì, lo so che hanno scritto questa lettera, vorrebbero che rimanessi un altro anno solo per finire il ciclo, che facessi con loro anche la quinta, se me ne andassi lo sentirebbero come un tradimento. Le insegnanti di Matematica sono cambiate continuamente, solo io sono un punto di riferi-mento» dichiarava alla giornalista la maestra, Gisella Dona-ti, settant’anni appena compiuti, impegnata nell’organizza-zione del recital di fine anno dal titolo Giulietta e Romeo, «ma fatto ispirandosi a High School Music». «Quando ho iniziato a lavorare» spiegava, «mio padre e mio marito non volevano, preferivano che rimanessi a casa per la famiglia, ma poi ho insistito e cosi ho potuto insegna-re. Ho iniziato con 7000 lire e loro mi dicevano: "Te ne dia-mo 14 se stai a casa". Il fatto è che mi piace il rapporto con i bambini, faccio 5 ore e quando torno a casa non sono stanca. Anche oggi che gli alunni sono più vivaci, più intolle-ranti alle regole. Loro, i bambini, alla fine non sono molto cambiati.» 3 Naturalmente la maestra Gisella non potrà te-stare, la legge parla chiaro, ma almeno lei una soddisfazione se l’è tolta.
3 Carriere
Insegnanti e lauree Oltre la metà degli insegnanti italiani non è laureata. Sono più di 324 mila i docenti di ruolo che possiedono solamen-te il diploma su un totale di poco superiore a 707 mila: il 54,2 per cento, a essere precisi. A pesare sono soprattutto i settori della scuola materna ed elementare, ma nei calcoli rientrano anche la scuola media e gli istituti superiori con gli insegnanti tecnico-pratici. Prima di indignarvi, conside-rate che la scuola elementare (per insegnare nella quale è obbligatorio aver fatto l’università solo dal 1997) è considerata quella che in Italia funziona meglio, con tanti saluti al valo-re legale della laurea. 1 Nella scuola media, comunque, i diplomati sono il 20 per cento, e si tratta soprattutto degli insegnanti di Educazione tecnica, artistica e musicale, mentre nella scuola elementare sono l’82,6 per cento. Nella scuola dell’infanzia il 92,2 per cento. I supplenti annuali in genere non sono laureati (51,4 per cento), mentre lo sono quelli che restano «fino al termine delle attività» (65,1 per cento), soprattutto perché la maggior parte delle nomine si effettua nelle scuole secondarie. La vera sorpresa sono però i direttori dei servizi generali e ammini-strativi (Dsga), le persone a capo degli uffici di segreteria del-le scuole. Per accedere a quel ruolo occorre la laurea ma, gra-zie al contratto nazionale che, in prima applicazione, ne ha previsto la deroga, i laureati sono soltanto il 18,5 per cento. Come si diventa insegnante Difficilissimo dirlo. Le vie di accesso all’insegnamento sono un vero labirinto, un ginepraio che assicura frustrazione e fati-ca a chiunque decida di intraprendere la professione. Per anni non sono stati fatti concorsi, ma intanto molti hanno comin-ciato a insegnare, a frequentare le famose Ssis (Scuole di spe-cializzazione, di cui parleremo nelle prossime pagine), a rime-diare supplenze qua e là. Il panorama adesso è intasato da un’infinità di precari, che reclamano giustamente il riconosci-mento formale di un ruolo che hanno svolto per tanto tempo. Fatto sta che il funzionamento delle famigerate gradua-torie è un mistero anche per gli addetti Al lavori. Tutto comincia negli anni Settanta. A quei tempi per in-segnare si doveva superare un concorso nazionale organizza-to a livello provinciale: se erano disponibili (per esempio) 200 posti e si presentavano (sempre per esempio) 10 mila persone, 200 di
queste ottenevano il posto di ruolo a tempo indeterminato, mentre 600 entravano nelle graduatorie de-gli idonei senza cattedra, che venivano assorbiti a mano a mano che il turnover creava delle opportunità. La graduato-ria valeva tre anni, passati i quali un nuovo concorso im-metteva nel sistema altri docenti. Naturalmente, tra un concorso e l’altro si formavano delle sottograduatorie, per esempio per le supplenze a termine (come maternità, malat-tia...), occasioni di lavoro che non immettevano in ruolo ma che permettevano di guadagnare qualcosa. Si scoprì ben presto che tre anni non bastavano ad assor-bire tutti gli aventi diritto, e che i nuovi vincitori di concor-so andavano a sovrapporsi Al vecchi che ancora non avevano ottenuto una cattedra. Cominciarono a essere gestite più graduatorie, e un complesso meccanismo burocratico ge-nerò il cosiddetto doppio canale: attraverso il concorso ve-niva assegnato il 50 per cento dei posti disponibili, mentre l’altro 50 per cento era competenza degli «insegnanti abili-tati con 360 giorni di servizio», quelli cioè che avevano fatto un certo numero di supplenze. Coloro che, sulla base di una graduatoria precedente, avevano iniziato a lavorare e ad ac-cumulate giorni (e punti). Successivamente vennero create le Ssis, corsi di specializzazione post laurea che permetteva-no di immettersi direttamente in uno dei due canali. Lo scandalo Ssis La Ssis, Scuola di specializzazione per l’insegnamento secon-dario, nelle intenzioni del legislatore doveva essere un canale di formazione degli insegnanti alternativo alla logica dei con-corsone Venne presentata come una super scuola per super prof, ma si è tradotta in realtà in un super flop, un istituto che forma precari che vanno ad aggiungersi Al precari forma-tisi altrove. Secondo l’Associazione nazionale presidi, nell’an-no scolastico 2005-2006 meno di tre docenti su cento usciti da questi istituti sono finiti effettivamente in cattedra. Se-condo il «Corriere della Sera», 2 «su 34.777 docenti immessi in ruolo solo 985 provenivano dalla Scuola di specializzazio-ne. Si tratta di un esiguo 2,83 per cento di un pattuglione che dal 1999 a oggi conta ben 90 mila aspiranti disoccupati, che si aggiungono al carrozzone dei precari storici». Il cursus di chi frequenta la Ssis è impegnativo e di tutto rispetto, salvo poi scoprire che l’impegno profuso è inversamente propor-zionale alle possibilità di conquistare una cattedra. Racconta il «Corriere della Sera» che per frequentare la Ssis in Italia oc-corre sostenere un test di ammissione, che consiste nel supe-ramento delle prove formulate in base alle classi di concorso per cui si vuole ottenere l’abilitazione. I test della prova di in-gresso alle Ssis vertono sui programmi ministeriali dell’ulti-mo concorso a cattedre, che risale al 1999. La durata della Scuola di specializzazione per l’insegnamento è di due anni; i corsi prevedono un monte di 1200 ore, di cui 400 di tiroci-nio presso un «insegnante accogliente» all’interno di una scuola. Nei due anni di corso si devono sostenere 35 esami, e per frequentare la Ssis bisogna sborsare 5000 euro. Cinquemila euro buttati. «Ad oggi» scrive la giornalista, «la guerra dei poveri della lavagna conta 80 mila disoccupati provenienti dalla Ssis, di cui quasi 12 mila iscritti al biennio 2007-2009: sono attual-mente sui banchi e stanno frequentando il IX ciclo. Ma proprio loro rischiano di veder vanificati i loro sforzi perché potrebbero non essere inseriti nelle graduatorie. Queste ul-time, infatti, sono state chiuse con l’ultima Finanziaria e
trasformate in graduatorie ad esaurimento. E proprio que-sto negherebbe l’accesso agli studenti che ancora devono so-stenere l’esame di Stato finale.» Cinquemila euro buttati? No. Meglio dire una truffa da 5000 euro. Le sabbie mobili Gli aventi diritto aumentavano, il doppio canale diventava ingestibile, fu varata la cosiddetta «graduatoria permanen-te», unica per tutti gli abilitati, divisa in diverse fasce a se-conda della provenienza del docente. Impossibile spiegare come fu organizzata la graduatoria, perché è impossibile comprenderlo. La classificazione si risolse in un’infinita guerra tra poveri, insegnanti o aspiranti tali, armati di carta bollata, alla ricerca del punteggio che garantisse il passaggio dall’inferno al paradiso, con tanto di ricorsi al Tar e giornate passate a protestate davanti al Provveditorato. E scontato che, in questo caos, ognuno può ritrovarsi in diverse graduatorie, magari cercando di aumentare il proprio punteggio in una a scapito del posizionamento nell’altra, o difendendosi dall’avanzata del collega concorrente in una, dimenticando l’insegnante clic ti supera nell’altra. Nel gine-praio delle graduatorie, infatti, nessuno più corre per avan-zare, ma tutti corrono per non essere superati: si colleziona-no punti con costosissimi corsi di aggiornamento solo per-ché si viene a sapere che il tal dei tali si è iscritto; ci si mette in lista per una supplenza dall’altra parte del Paese perché co-sì ha fatto il rivale che alla fine ha ottenuto il posto. Gli insegnanti corrono contromano su un tapis roulant, cercando disperatamente di non essere buttati a terra. Con una legge del 2006, dalle graduatorie permanenti siamo passati a quelle «a esaurimento»: in elenco non entra più nessuno, e prima o poi dovranno essere tutti inseriti a ruolo. Ma al peggio non c’è mai fine, e resta aperto un cana-le di accesso alla professione: ogni istituto ha il diritto di creare delle proprie graduatorie per le supplenze, riservan-dosi di chiamare, alla bisogna, laureati da mettere in catte-dra. Nasce così una lista di attesa di insegnanti che non han-no nulla da attendere. Ma di loto parleremo dopo. Come si vive da prof La via d’accesso alla professione non prevede necessaria-mente la specializzazione universitaria (fatto salvo il tragico-mico caso delle Ssis), e solo il 50 per cento dei prof è diven-tato tale per concorso pubblico. In pratica si diventa inse-gnanti inserendosi nelle liste di precari, facendo supplenze, e questo comporta che spesso alcuni insegnanti rimangono precari sino al raggiungimento della pensione. Nel 2007 i professori precari in graduatoria erano circa 300 mila, di cui 190 mila in servizio. Otto su 10 sono don-ne, 6 su 10 sono nati al Sud. Il prof precario ha un’età media di 39 anni: il supplente, insomma, non è più il giovane che fa dimenticare in breve il titolare di cattedra malato. Ha la stessa età del titolare e, naturalmente (proprio per questo motivo), è in genere di pessimo umore. Il supplente una volta era agognato dagli alunni, adesso inizia a essere temu-to. Una volta era una ventata d’aria
fresca, adesso è un tipo cinico e arrabbiato. Onore al merito quindi a Lia Pacchioni, 115 contratti d’assunzione e 114 lettere di licenziamento, «alcune di que-ste ultime con la stessa data delle nomine: assunta la matti-na, licenziata la sera», come racconta Michele Smargiassi su «la Repubblica». 3 Lia ha cinquantatré anni e ha iniziato a fa-re supplenze quando ne aveva diciannove: «Cominciai nel ‘73, rimpiazzando maestre ammalate mentre facevo l’uni-versità. Al sindacato dicono che potrei essere la prima preca-ria pensionata dopo un’intera carriera da supplente». In ef-fetti, facendo i conti, Lia lavora da 34 anni ed è a un passo dal momento magico: tra poco andrà in pensione e non ha mai provato la soddisfazione di entrare «in ruolo». L’eroica Pacchioni spiega: «Si può insegnare bene in queste condi-zioni. Figlia di insegnanti, amo la scuola, altrimenti non avrei resistito. Bisogna adattarsi, e io mi sono adattata. An-zi, assuefatta! Certo, devi mantenerti forte e giovane quan-do sei precaria: è spiacevole sentir dire dai ragazzi: "Guarda quella, così vecchia e ancora supplente..."». 4 Un precario spera realisticamente di entrare in ruolo ver-so i 45-55 anni, di sistemarsi, insomma, quando dovrebbe essere a fine carriera. È chiaro che la conquista del posto fis-so diventa, per chi ha tanto penato, la fine di un percorso, non il principio di un’avventura, con tutto quello che ne consegue dal punto di vista della motivazione e della dedi-zione all’insegnamento. I docenti precari con dieci mensilità (per loro la disoccu-pazione coincide con le ferie) guadagnano in media 1150 euro, in un caso su dieci insegnano in una regione diversa da quella in cui abitano, e devono farsi carico anche delle spese per gli spostamenti. La scalata del precario verso il posto fisso è difficile e fru-strante. In genere il ministro dell’Istruzione di turno fissa un termine per l’azzeramento del precariato, e qualche gior-no dopo il collega all’Economia dichiara che ad assumere tutte quelle migliaia di docenti non ci pensa neanche. Al singolo precario allora non resta che affidarsi al punteggio, cercando di collezionare supplenze, corsi di abilitazione, corsi di aggiornamento. La graduatoria accende le speranze, ma perché poi queste vengano soddisfatte serve anche la di-sponibilità di posti: si può avere diritto a una cattedra, ma possono non esserci cattedre disponibili, e allora bisogna at-tendere che i posti si liberino. Intanto, si macinano punti. Anche pagando costosi corsi di aggiornamento. Ma di que-sto parleremo dopo. La scorciatoia religiosa Quella degli insegnanti di Religione è una questione ormai antichissima e veperata, come direbbe la nostra amica aspi-rante avvocato.’’ La normativa che riguarda i prof di Reli-gione è contestata da osservatori e giuristi per una serie di ragioni: innanzitutto, come spiega Curzio Maltese su «la Repubblica», «l’ora di religione è un insegnamento facoltativo e come tale non dovrebbe prevedere docenti di ruolo. Per giunta, gli insegnanti di Religione sono scelti dai vesco-vi e non dallo Stato». 6 In effetti la norma prevede che l’as-sunzione a tempo indeterminato venga disposta «dal diri-gente regionale d’intesa con l’ordinario diocesano compe-tente per territorio». Il vescovo può poi revocare l’idoneità all’insegnante, ma questo ormai risulta assunto dallo Stato, che se lo deve tenere, destinandolo (naturalmente se abilita-to
all’insegnamento di un’altra materia) a un’altra cattedra. Altro fatto strano da spiegare Al colleghi insegnanti: per l’accavallarsi di una serie di normative favorevoli, gli inse-gnanti di Religione guadagnano già dal primo giorno di la-voro il 10 per cento in più di un collega di un’altra materia. Nella scuola italiana il merito non viene riconosciuto, ma la vocazione viene rispettata. E retribuita.
4 Il prof itinerante
Il valzer dei prof Una maestra che ho conosciuto si fece portare da ogni bam-bino una foto tessera. La appuntava al registro, accanto al nome dell’alunno corrispondente, in modo da riconoscerlo alla bisogna, dal momento che, a dicembre, era appena arri-vata in quella classe: non aveva ancora raccolto le foto di tutti i bambini che fu spostata nell’aula accanto, in un’altra sezione dove ricominciò il lavoro di schedatura. Chissà se la maestra in questione si è arresa o se sta ancora collezionan-do effigi di piccoli sconosciuti che la accompagnino nella sua randomica docenza. In Italia 4 docenti su 10 cambiano classe ogni anno: al-meno un terzo degli alunni italiani non completa il corso con la stessa squadra di docenti. Pochissimi i fortunati che riescono a instaurare un rapporto che duri l’intero ciclo con gli stessi insegnanti. «Ci sono classi che cambiano due o tre professori anche nel corso dello stesso anno perché le graduatorie d’istituto vengono aggiornate ad anno ampiamente iniziato» si sfogava su «la Repubblica» Irma Caputo dell’Unione degli studenti. «Per apprendere occorre instaurare una relazione con l’inse-gnante, ma se questi cambiano di continuo, come si fa?» 1 Ogni anno, all’apertura delle scuole, 200 mila docenti cambiano cattedra o ruolo. Prof e maestri che vengono trasfe-riti in altre classi, istituti, città, province, regione, con conse-guenze immaginabili sulla continuità didattica e sulla forma-zione dei ragazzi, costretti ad adattarsi continuamente a nuo-vi interlocutori e metodi di studio. Un dato che può spaven-tare ma che è solo un aspetto di un fenomeno più generaliz-zato: basti pensare che le 18 poltrone da direttore degli uffici scolastici regionali (i manager che dovrebbero governare il si-stema e assicurare continuità amministrativa) sono state oc-cupate, negli ultimi sette anni, da 48 diversi direttori genera-li: girandole da spoils system, carne da macello per le guerre dei politici nazionali. In Italia funzionano 776 mila cattedre; i docenti assunti a tempo indeterminato sono 721 mila.2 I rimanenti posti non sono tutti occupati da supplenti annuali (impegnati nella stes-sa classe sino al 30 giugno), ma anche dai cosiddetti «supplen-ti
temporanei», demandati a coprire dai 40 Al 60 mila «spez-zoni di cattedra», periodi cioè inferiori alle 18 ore settimanali. Poche ore in quella classe, poche in quell’altra, magari qualco-sa in un istituto, poi qualcosa in un altro. Nel settembre 2007 (per fare un esempio) hanno cambiato scuola 73 mila inse-gnanti e circa 120 mila supplenti, mentre 42 mila docenti so-no andati in pensione. 3 Se si fanno bene i conti, almeno 4 do-centi su 10 ogni anno cambiano scuola o classe: è il risultato di un’infinità di meccanismi burocratici che mina la conti-nuità didattica, pilastro del buon insegnamento. Una giran-dola infinita di prof, maestri, supplenti, che non riconoscono gli alunni a cui insegnano, non conoscono la scuola in cui la-vorano, non fanno in tempo a impostare l’insegnamento o il recupero dei ragazzi che non lavorano bene. Si cambia classe perché si viene trasferiti, perché il titolare va in pensione, per-che viene assegnata un’altra supplenza in base alle graduatorie di istituto, ma anche perché arriva il distacco sindacale, quello all’università, perché si viene comandati negli uffici ammini-strativi. Pensate che i dirigenti scolastici, almeno in linea di massima, dovrebbero assegnare 18 ore di insegnamento a tut-ti i docenti; se in un istituto, da un anno all’altro, si forma una nuova classe (o una classe scompare), questo comporta un ter-remoto su tutti gli orari, che vanno spalmati tra il personale in modo che sia rispettata la regola delle 18 ore: questo obbliga il più delle volte i docenti a lasciare la classe che avevano gestito l’anno precedente. Regole e procedure pensate al centro han-no l’effetto di un terremoto in periferia. «Ci spostiamo di aula in aula come automi» racconta una maestra romana del primo ciclo. «Viviamo l’insegna-mento come si può vivere una giornata allo sportello delle poste: con i bambini bisognerebbe interagire a lungo, biso-gnerebbe avere a disposizione il tempo per capirli, bisogne-rebbe imparare a conoscerli per individuare le loro debolez-ze e proporre soluzioni. Come si fa in queste condizioni? Entro in classe consapevole che dopo una settimana verrò trasferita. Loro neanche più mi chiedono come mi chiamo, io cerco solo di non illuderli, di non far credere loro che ri-marrò in quell’aula. Ci sono bambini che più di altri hanno bisogno della maestra, e io non voglio deluderli.» I maestri che si preoccupano di non danneggiare i bam-bini, l’ultimo paradosso della scuola all’italiana. «In cosa ci siamo trasformati?» si domanda Elena, mae-stra precaria di Napoli, che insegna ad Arezzo. «Siamo di-ventati tappabuchi low cost, badanti di studenti. Quale pro-getto didattico costruisci se non sai dove sarai tra due mesi?» 4 Morale della favola: «L’Italia spende 39 miliardi di euro all’anno per il personale della scuola, ma non riesce ad assi-curare Al propri studenti un docente che li segua per tutto il ciclo scolastico». 5 L’avamposto perduto Vicino a Udine esiste una scuola in cui il turnover tra docen-ti precari ha battuto il record mondiale assoluto. Da un an-no all’altro sono cambiati tutti gli insegnanti: il 100 per cento del corpo docente ha dovuto abbandonare a se stessi gli alunni di una scuola media. A Paularo, piccolo paese del-la montagna friulana, tredici insegnanti su tredici, infatti, sono precari. «Abbiamo provato a sensibilizzare tutti» racconta il pre-side della piccola scuola.
Pasquale D’Avolio. «Nel 2006, 12 insegnanti su 13 erano supplenti annuali: abbiamo prote-stato, perché era dal 2002 che ogni anno cambiavano tutti i docenti, eccetto Educazione artistica e Tecnica. L’anno suc-cessivo le cose sono peggiorate, perché questi ultimi sono andati in pensione.» Il 2007 è l’anno clou, perché scatta il diritto alla pensione anche del preside, e con lui si accinge a lasciare la scuola anche la segretaria. Il nuovo anno avrebbe visto aprirsi le porte di un istituto completamente vuoto, in cui i nuovi arrivati non avrebbero saputo trovare neanche un cancellino. «Alla fine» spiega D’Avolio, «ho deciso di rimanere almeno io. Anche perché, se me ne fossi andato, i genitori mi avrebbero linciato!» 6 Il preside ci scherza, ma mettiamoci nei panni di un genitore di Paularo, un genitore che in tre anni ha visto il proprio fi-glio studiare con tre diversi insegnanti di Matematica, di Italiano, di Storia, di Inglese... «È un percorso scolastico ac-cettabile?» sbotta D’Avolio. «Ne dubito. E sia chiaro: non è colpa degli insegnanti; bisognerebbe prevedere un minimo di continuità, almeno tre anni, per assicurare la decenza.» E così il preside D’Avolio ha scritto nuovamente al ministero chiedendo non professori di ruolo (che sarebbe troppa gra-zia!), ma supplenti (almeno) triennali. Quello del piccolo centro friulano è un caso emblemati-co, ma non è solo un episodio limite. In molte zone di mon-tagna insegnanti di ruolo non ce ne sono, e la discontinuità didattica in queste aree raggiunge percentuali elevatissime. Se si guarda poi agli effetti che il turbinoso turnover ha avuto su-gli abitanti del paesino, si scopre che Paularo rischia di diven-tare una sorta di avamposto nel futuro del Paese: su 2775 abi-tanti, la percentuale senza alcun titolo di studio è dell’11 per cento (quasi il doppio di quella nazionale), i cittadini provvi-sti di sola licenza elementare sono il 34 per cento, così come quelli con la licenza di terza media. Gli abitanti di Paularo provvisti di un titolo superiore sono il 19 per cento, e i lau-reati l’1,2 per cento; tra i giovani di 18-34 anni i diplomati rappresentano il 32,84 per cento, la metà della media italia-na; i tassi di abbandono nella prima superiore sono intorno al 40 per cento. Se qualcuno pensava di organizzare un qualche test per scoprire quale influenza possa avere il turnover degli insegnanti sull’apprendimento degli alunni, non si deve sco-modare tanto, gli basta telefonare al preside D’Avolio. Le due Italie dei precari Il Mezzogiorno offre molti insegnanti, ma al Sud ne servono pochi. Al Nord aumentano le possibilità, ma trasferirsi da una parte all’altra dell’Italia non conviene: chi ci ha provato è tornato indietro, perché tra affitto, spostamenti e costo della vita i conti non tornano. Il Settentrione, per un meridionale che voglia insegnare, è come un muro di gomma: chi prova a inserirsi, viene rispedito indietro. «Grazie agli immigrati e al-la ripresa delle nascite» scrive Salvo Intravaia su «la Repubbli-ca», «al Nord la popolazione è più giovane di dieci anni fa. Al Sud è, invece, sempre più anziana. Nel 2008-2009 le scuole del Paese ospiteranno 10 mila alunni in più rispetto all’anno in corso, ma la crescita della popolazione scolastica non sarà affatto distribuita in modo uniforme. Gli istituti delle regio-ni settentrionali dovranno organizzarsi per trovare posto a circa 42 mila bambini e ragazzi in più, al Centro saranno 11 mila i posti da raggranellare, mentre al Sud le classi si svuote-ranno perdendo oltre 42 mila alunni. In
dieci anni, dal 1998-1999 al 2008-2009, il meridione d’Italia ha perso 278 mila alunni. Nello stesso periodo, al Nord la popolazione scolastica è cresciuta di 338 mila unità. [...] In appena tre an-ni, il Centro-Sud ha dovuto sacrificare sull’altare del risana-mento dei conti pubblici ben 24 mila cattedre. Solo al Nord il consistente incremento di alunni ha consentito una leggera espansione degli organici: più 3500 posti. Il tutto, proprio mentre l’ultimo aggiornamento delle graduatorie dei precari ha visto ritornare al Sud migliaia di precari meridionali che in passato hanno tentato la fortuna al Nord. Così, oggi, nelle regioni settentrionali le possibilità di essere assunti si molti-plicano, mentre al Sud tutto si complica.» 7 Non esiste lavoro più itinerante di quello dell’insegnan-te. Si va a vendere il proprio sapere così come nell’antichità gli artisti e i saltimbanchi si spostavano da centro in centro. Il professor Gianfranco Pignatelli, cinquantatré anni, in-segnante di Storia dell’arte alle superiori, per ottenere la sta-bilizzazione si è dovuto trasferire da Napoli a Cagliari. Do-po 28 anni di precariato qua e là, verrà finalmente sottopo-sto al periodo di prova che gli permetterà di passare di ruo-lo. Un anno la durata della prova, dopo tre anni è possibile chiedere il trasferimento. A parte l’assurdo di essere testato dopo 28 anni di insegnamento, Pignatelli è l’eroe della mo-bilità, essendosi spostato da Napoli a Cagliari pur di avere una chance di stabilizzazione. «C’è chi fa avanti e indietro da mattina a sera per trovare lavoro, io ho dovuto metterci il mare in mezzo» racconta Pignatelli. «Non sarei mai arrivato al posto fisso rimanendo in graduatoria a Napoli, e rischia-vo di andare in pensione da precario. Ho dovuto fare una scelta... Adesso faccio un anno di "straordinariato", di prova insomma. Mi hanno assegnato anche un tutor che deve giu-dicarmi. Sinceramente mi chiedo... insegno da 28 anni... Come hanno permesso che lo facesse un dilettante?» 8 «Ho lasciato la famiglia» continua, «e sono andato per un anno in Sardegna con la speranza di tornare un giorno con il trasferimento. Guadagno 1300 euro, faccio avanti e indietro il weekend, devo pagarmi una casa in Sardegna, ed ovviamente non è previsto nessun tipo di rimborso spese. Una vera follia, ma lo considero un investimento della di-sperazione: non potevo rischiare di andare in pensione da precario e ritrovarmi con una pensione sociale.» Quella di Pignatelli è la storia di tanti. «Una vita così» spiega, «un percorso professionale del genere non danneg-gia solo noi che lo facciamo, ma penalizza la qualità dello studio, la sua continuità, compromette i progetti a lunga scadenza. Non puoi portare avanti progetti di trenta giorni, un anno o sei mesi... Viene meno la possibilità di verificare il lavoro che fai sui ragazzi. Noi non siamo solo precari del lavoro, siamo precari della formazione, e questo ha un terri-bile riflesso sugli alunni. Paradossalmente c’è una maggiore continuità nella scuola privata: anche lì gli insegnanti sono precari, ma almeno occupano la stessa cattedra per anni: l’allievo lì studia con continuità, quello che la scuola pub-blica non può più permettersi.» Scriveva «la Repubblica» in un dossier pubblicato lo scorso anno che «su un terzo delle cattedre italiane siede un professore che non sa quando e dove tornerà ad insegnare». 9 L’altra faccia della medaglia: a studenti che non sanno chi è il proprio prof corrispondono prof che non sanno qual è la loro cattedra, prof che vagano nomadi alla ricerca di un po-sto fisso, che collezionano punteggi vivendo alla giornata, aspettando ogni santo giorno la telefonata di un istituto che abbia bisogno di
loro. A Ballarò scoprimmo quasi per caso il fenomeno dei prof alla stazione. Partivano prima delle cinque di mattina dalla provincia di Caserta, arrivavano alla stazione di Roma Ter-mini un paio di ore dopo e si mettevano al bar. Lì aspettava-no. Aspettavano che li chiamasse un qualche istituto romano per una supplenza. Bisognava insomma essere pronti a presentarsi, non si poteva correre il rischio di perdere una sup-plenza dovendo partire dalla provincia. A Roma ci sono più scuole, le probabilità di lavorare aumentano, quindi ogni mattina ci si lancia verso la supplenza romana. Se la chiama-ta non arriva, si riprende il treno, e si torna a casa. Successi-vamente alla trasmissione, «La Stampa» 10 scovò quello che venne chiamato «l’esercito del bus»: erano precari che veni-vano dalle province di Napoli e Avellino, e che definivano i prof di Caserta «più fortunati», perché almeno si muovevano in treno. Loro prendono il pullman alle 4,30 del mattino e si fermano ad aspettare la telefonata alla stazione Tiburtina. Se il cellulare non squilla, attendono fino al pomeriggio confi-dando nel turno serale, poi risalgono sul pullman, commen-tando con i colleghi i fatti della giornata. A volte qualcuno fa tardi, magari per un collegio dei do-centi, ed è costretto à rimanere a Roma: scatta una rete di solidarietà che permette Al precari nomadi di non intaccare lo stipendio con una notte in albergo, e si finisce per dormi-re a casa di parenti di amici, di amici di amici, di conoscen-ti di conoscenti. La mille miglia della supplente Come in tutte le vicende, al peggio non c’è mai fine: la gra-duatoria per le supplenze del singolo istituto è in effetti con-siderato l’ultimo gradino della precarietà. Qui troviamo pro-fessori che non potranno mai neanche sognare la stabilizza-zione. Daniela Milletta,11 trentatré anni, insegna Lettere alle scuole medie e si definisce «l’espressione più bassa del preca-riato scolastico»: «Sono nata» racconta «in provincia di Cro-tone e, subito dopo la laurea, ho capito che dalle mie parti non avrei mai avuto reale possibilità di fare punteggio. Al Sud ci sono poche scuole, quindi avrei avuto poche opportunità di fare supplenze; non mi potevo permettere l’iscrizione alla Ssis che costava troppo (mi avrebbe anche costretta a trasfe-rirmi a Cosenza, e pagarmi un affitto); non potevo ottenere l’abilitazione perché i concorsi erano bloccati da anni. Per questi motivi ho deciso di iscrivermi in una graduatoria che mi avrebbe garantito più occasioni di lavoro, e scelsi la pro-vincia di Varese, dove vive mia sorella, dalla quale mi sarei potuta far ospitare. Nel frattempo mi sono sposata, e la pri-ma chiamata mi è arrivata quando ero incinta, bloccata a let-to da una gravidanza a rischio. Mi hanno poi chiamato di nuovo per una supplenza di un anno quando la bambina aveva quattro mesi e mezzo. Ho preso la bimba e mi sono trasferita nella provincia di Varese, ma appena arrivata mi hanno detto che c’era stato un equivoco, e mi hanno rispedi-ta a Crotone. Duecentocinquanta euro di aereo buttati: ho chiesto il rimborso all’Istituto che mi aveva chiamato, e mi hanno risposto che a quanto pareva non avevo intenzione "di far partire col piede giusto il mio rapporto con la scuola". «La terza chiamata è arrivata quando la bambina aveva compiuto ormai un anno: una supplenza, sempre a Varese, di 16 giorni. Valore: 2 punti, quindi ho accettato. La
retri-buzione sarebbe stata di 700 euro, che avrei completamente bruciato tra spostamenti e pasti. Come la volta precedente, ho portato con me la bambina, ed è venuta con noi anche una nipote che mi avrebbe fatto da baby sitter. Ospite, sem-pre mia sorella. Insomma: i miei primi 2 punti me li ha re-galati la mia famiglia, completamente mobilitata per farmi fare un passetto avanti in graduatoria. «La quarta chiamata è arrivata (sempre da Varese) per una supplenza di quasi due mesi. Valore: 4 punti. Questa volta la-voravo su due scuole di due diversi paesi: per andare da una all’altra bisognava prendere il pullman. Vivevo sempre da mia sorella e la mia stupenda nipote era stata nuovamente assunta (gratis) per fare la baby sitter. Aereo, bambina e nipote anche per la quinta chiamata nel Varesotto (20 giorni, 2 punti), cui seguì la proposta di una supplenza di un anno (12 punti!), in un paese, però male collegato con casa di mia sorella. Non c’e-rano pullman, non potevo comprare una macchina per un so-lo anno di lezione, né affittare casa nel paesino, da sola, con una bimba. Mi sono arrangiata: sono andata, ho accettato l’in-carico, mi sono messa in "astensione facoltativa" [la legge con-sente di prendere il punteggio e il 30 per cento dello stipen-dio] e me ne sono tornata a Crotone. Sesta chiamata da Vare-se: 500 euro di aereo, valigie e visita alla ormai "santa sorella". Purtroppo questa volta niente baby sitter, perché mia nipote (ormai cresciuta) aveva gli esami all’università. Mia sorella ha quindi cambiato il turno di lavoro per stare con la bimba mentre io andavo a scuola. Così ho raggiunto il minimo dei punti necessario a farmi lavorare a Crotone, e nel 2007-2008 ho per la prima volta terminato un’intera stagione con ragazzi che, naturalmente, non potrò seguire l’anno prossimo. Ma co-me potrei lamentarmi dopo quello che ho passato? L’anno prossimo cosa farò? Non si sa. Nella mia provincia chiudono 30-40 classi. Sinceramente penso che non avrò mai l’abilita-zione, e sono consapevole di rischiare di passare tutta la vita a fare supplenze. Ma che devo fare?» C ’ è poco da aggiungere L’estate scorsa cercavamo una colf che ci aiutasse nella casa al mare e che ci desse una mano con i bambini. Io e mia moglie abbiamo telefonato a un’agenzia specializzata che ci ha subito inviato per mail un certo numero di curricula. Tra quelli di ragazze rumene, peruviane e ucraine spiccava il cv di una ragazza italiana di venticinque anni, già maestra di asilo nido. Abbiamo segnalato l’errore, spiegando alla re-sponsabile dell’agenzia che noi cercavamo una colf, non una baby sitter di lusso. Non c’era nessun errore, la ragazza stava cercando un lavoro a servizio, e la responsabile dell’agenzia ci tolse ogni dubbio portandoci a fare un semplice ragiona-mento: «Avete fatto i conti di quanto le dareste per un me-se? E sapete quanto guadagna una maestra?». Quanto può andare lontano un Paese che equipara il la-voro della colf a quello della maestra? Anzi, la domanda va riformulata: quanto può andare lontano un Paese in cui il lavoro di una colf vale più del lavoro di chi ha il compito di formare, per primo, i nostri bambini? A ripitturare l’appartamento di un mio collega del Tg, qual-che mese fa, si è presentata una squadra di albanesi e un ita-liano. Questo italiano era un professore di
Lettere del liceo, tuttora in attività. A potare le piante del terrazzo di un mio amico l’altro gior-no si è presentato un maestro di musica, diplomato in flau-to al conservatorio.
Studenti
1 L’altra faccia della scuola
Internet Nei giorni immediatamente precedenti l’esame della matu-rità del giugno 2008, il sito www.skuola.net ha ricevuto 600 mila contatti; www.studenti.it ha superato il milione.1 Con-siderando che i maturandi erano in tutto 470 mila, i soli due siti citati (e, dedicati alla scuola, ne esistono un’infinità) ave-vano avuto tre contatti per ogni candidato. Nel 2007 furono 100 milioni i contatti sui siti internet studenteschi che si do-mandavano: che traccia esce al compito di italiano? Internet è diventato un po’ la scatola nera della scuola italiana, una sorta di resoconto live, continuamente aggior-nato, della coscienza dei nostri studenti, ma anche del lato oscuro dei nostri centri di formazione. Quando a Ballarò abbiamo deciso di lavorare sulla scuola in internet, 2 ci sia-mo imbattuti in una vera e propria galleria delle assurdità, dedicata Al professori, agli alunni, Al bidelli. Per poter cono-scere tutti gli esemplari basta entrare nel mondo virtuale, andare (ad esempio) sul sito www.scuolazoo.com, intera-mente dedicato a ciò che accade dentro le aule, oppure sull’ormai famigerato YouTube, e anche voi potrete dare una sbirciatina all’universo-scuola e farvi un’idea di come lo ve-dono e lo vivono gli studenti di oggi. Digitando la parola «scuola», vi appariranno 25.700 video. Gli esemplari più visitati sono la professoressa di Monteroni, un paese in provincia di Lecce, ripresa da uno studen-te mentre viene palpeggiata da alcuni ragazzi, con dettagli sulla sua biancheria intima. Nel mondo reale la «sexy prof» è stata riammessa a scuola dopo un periodo di sospensione. A febbraio scorso sulla rete è finito il video di un professore di Educazione fisica di un istituto di Firenze, beccato men-tre fumava in classe, non una canna (come inizialmente si era creduto) ma una sigaretta da lui rollata. Anche lui, ama-tissimo dai suoi studenti, dopo un mese di sospensione è tornato a insegnare. Continuando la visita, vi imbatterete in un cult del vi-deo scolastico: il professore dormiente, frequentissimo in-ciampo dei docenti stremati che vengono prontamente ri-presi dai loro impietosi studenti. In una ripresa si vede l’in-segnante pesantemente addormentato diventare lo zimbello della classe, con gli alunni che iniziano a ballargli intorno inneggiando a Morfeo, dio del sonno. Un altro professore è stato filmato appisolato durante gli esami di maturità. Meglio il prof che dorme, comunque, rispetto a quello che si trasforma in Bruce Lee quando si accorge di essere ri-preso («Che cazzo stai filmando? Va bene, filma pure, l’im-portante è non finire su YouTube») e, presumibilmente per guadagnare il
consenso del pubblico, caccia uno studente ritardatario dalla classe tirandogli (senza centrarlo) un cal-cio a gamba tesa ad altezza viso all’urlo di «Perché arrivi in ritardo a disturbare la lezione?! Fuori!!!!». Titolo del filmato, ovviamente, Il prof di karaté, visto su YouTube da 424.709 persone. Non male per uno che sperava di non apparire su internet. Ma insieme a lui ce ne sono altri. Un professore tira fuori da un armadio un ragazzo che si era nascosto e lo prende a calci. Un altro dà uno schiaffo a uno studente che lo aveva ripetutamente provocato, e dietro di lui sul muro dell’aula si intravede la scritta «Scuola di merda». Altri filmati testi-moniano di un clima da stadio: cori da curva, con tanto di scenografie, di fronte a insegnanti basiti. Studenti che en-trano a scuola, corrono per i corridoi e arrivano fino in clas-se in motorino (sic), forse per evitare il ritardo. Tra i docenti ci sono anche gli sportivi. C’è il professore che palleggia in classe dando alla palla colpi di testa contro il muro, o quello che fa a gara di palleggi con un suo stu-dente; professori che giocano a carte, che ballano e fanno il gesto dell’ombrello. C’è veramente di tutto. Gli studenti, registi dei filmati, si trasformano spesso in protagonisti. In un video un ragazzo urla contro una professoressa perché ha preso una nota e va via dalla classe, in un altro il ragazzo cerca di baciare l’insegnante. Uno studente, chia-mato dal professore alla cattedra per l’interrogazione, scap-pa dalla finestra. C’è chi si butta a terra, fingendosi morto davanti all’insegnante per evitare l’interrogazione. C’è chi mangia in classe un piatto di spaghetti e chi, vestito da ausi-liare del traffico, finge di multare il suo docente interrom-pendo la lezione. Un altro video è girato interamente dentro un’aula e dura cinque minuti, un’eternità nello zoo virtuale: mostra alunni che giocano a carte, fanno la lotta, disegnano sui banchi mentre la professoressa sta appoggiata alla cattedra e assiste praticamente senza fiatare, come se fosse tutto drammaticamente normale. C’è perfino chi all’ultimo giorno di scuola manda a quel paese la sua insegnante, che ricambia l’invito davanti a tutta la classe. Il sesso, poi, per lo più simulato ma non solo, la fa da pa-drone. C’è lo studente che alle spalle della sua insegnante, mentre lei spiega alla lavagna, mima l’atto sessuale. Finte masturbazioni sotto i banchi di scuola durante la lezione. Falli finti che escono dai pantaloni. Ragazze che fanno finta di accoppiarsi sui banchi con i loro compagni. Spogliarelli più o meno espliciti. Una studentessa, incitata da un suo compagno, si nasconde dietro la lavagna, si scopre il seno e inizia a toccarsi in modo malizioso. Il suo volto è coperto ma facilmente riconoscibile. In qualche filmato, poi, non si fa finta per niente. Ma quei video sono in mano Al magistrati. Tutto ciò avviene in aula, anche durante la lezione, sotto gli occhi di insegnanti che o non vedono o fanno finta di non vedere, oppure vedono ma non reagiscono, davanti a studenti che non hanno paura di nulla. Un supplente, in-tento a spiegare la lezione alla lavagna, fa il grave errore di dare le spalle alla classe e uno studente ne approfitta per ti-rargli giù i pantaloni, lasciandolo, appunto, in mutande. C’è però anche chi non si rassegna e dà libero sfogo alla sua frustrazione, diventando lo zimbello della rete con il ti-tolo Sclero prof di Napoli. Urla disperato alla sua classe: «Nun ce la faccio cchiù... Nun venite cchiù... mannaggia uu diavolo!». Ci sono filmati che si stenta perfino a credere siano veri. Titolo: Cappottone. Un
professore viene coperto da una giacca e colpito dai suoi studenti che, non contenti, gli met-tono un casco in testa e giù con altri colpi: successo (e filma-to) in una scuola di Roma. Gli aspetti positivi della scuola sembrano non interessare a nessuno. Provate a cercare una bella interrogazione, un applauso a un docente amato, un comportamento virtuoso o semplicemente un bell’esempio di insegnamento: il nulla. Se digitate le parole «interrogazione grandiosa», un termine più consono al linguaggio dei ragazzi, il risultato vi stupirà. In questa sezione sono state messe interrogazioni imbaraz-zanti. Un ragazzo si esprime in un inglese improbabile: il personaggio di Un americano a Roma di Alberto Sordi al confronto parla come il principe Carlo. Una ragazza fa ri-prendere dalle amiche la sua interrogazione di matematica, preoccupata più di sorridere al telefonino che di rispondere alle domande. Il mercato nella rete Gli studenti usano internet anche per «migliorare» la loro istruzione o, meglio, per migliorare i loro risultati a scuola. Navigando si leggono messaggi di questo tipo: Versione Urgentissimaaaaa La versione è di Officina latinitatis si chiama Inviso per la troppa iustizia ed è di Nepote... inizia così... Quanto apud athenienses eloquentia antistaret innocentiae... e finisce... nihil omnimo in morte reliquerit... Per favoreee è urgentissimaaaaa mi serve per le 6... Grazie mille!!!! La rete si presta, diciamo così, a un apprendimento rapido. Su un sito sono elencati i 167 modi conosciuti dagli studen-ti per copiare senza essere scoperti, con tutte le istruzioni per Fuso. Sistemi sperimentati e garantiti. Se, invece, si cerca una tesina già fatta, niente di più facile: «Problemi con la tesi-na??? Un Cd che ne contiene 313 a soli 9,90 euro». Per chi fa l’università non c’è che l’imbarazzo della scelta: « Vendo tesi di laurea in Economia, recentissima, sui distretti industriali e le recenti politiche pubbliche a loro favore. Ottima per chi non ha voglia di perder mesi di ricerche e per chi lavorando non ha tem-po... completa dall’indice alla bibliografia... euro 300». Oppure: «Vendo tesine per università pronte, le eseguo e vele presento, poi a voi decidere se va bene o volete delle modifiche al prezzo di 70/80/90 euro luna. Per info chiedetemi l’elenco e ve lo farò avere... sono praticamente regalate e risparmierete 4 mesi di tempo almeno... le tesi sono fatte benissimo e tutti colo-ro che l’hanno acquistata sono rimasti molto soddisfatti... pro-vare per credere...». Non poteva mancare eBay, il portale in-ternet di aste on line più frequentato al mondo. Qui si trova di tutto, dalle tesine di laurea a quelle per la maturità, e an-che il kit comprensivo di istruzioni dettagliate che vi spiega come copiare durante qualunque tipo di esame. Internet mette in comunicazione tra loro anche i futuri maturandi. Digitate
«maturità» e vedrete apparire tra i pri-mi messaggi lo slogan La maturità non fa più paura, basta studiare. E ora di copiare!!! Per la prova del 2008 si offriva anche la maglietta-bigliettino, una T-shirt con impresse for-mule e informazioni in sette versioni diverse a seconda della prova da affrontare. Un gadget davvero economico ed effi-cace che non può mancare nella cartella di un furbo è la Penna Magica (ora ufficialmente vietata dal ministero), «la penna per copiare», un moderno ritrovato che consente di scrivere appunti con scrittura trasparente, leggibili illumi-nando il foglio dal retro. Costo: 15 euro. Internet suggerisce poi gli stratagemmi per copiare alla maturità, del genere «usare il vano bicchiere di un thermos per il caffè per recapitare bigliettini al più bravo della classe, aspettando che torni indietro con le risposte giuste». «Det-tare la versione al padre con il cellulare per farsela recapitare a scuola, tradotta, dentro un panino», fino all’incredibile «come portare il cellulare nelle mutande e da lì tentare di connettersi ad internet»! 3 L’offerta è altissima: la rete è piena di spie pronte a passa-re informazioni sui professori membri delle diverse com-missioni in tutta Italia. Per la maturità 2008 sono stati «stu-diati» dagli studenti 14 mila professori. Di loro si sa tutto: pregi e difetti, cosa chiedono abitualmente, se sono di «ma-nica larga» o meno. Chiudiamo con la storia cui abbiamo creduto tutti: quella dei titoli dei temi della maturità noti in Australia 12 ore prima, «perché lì li hanno già dettati quando noi ancora dobbiamo andare a letto»: il candidato con agganci interna-zionali che si sveglia all’alba per comunicare a tutti il tema non esiste. I temi per gli italiani all’estero sono diversi, quindi possiamo condannare a morte l’ennesima leggenda metropolitana. Attenzione quindi anche Al siti fasulli: com-paiono da un giorno all’altro assicurando di essere in pos-sesso delle tracce vere. Vengono oscurati dagli stessi autori (che così accreditano l’idea di sito osteggiato dalle istituzio-ni) e poi riappaiono, giusto in tempo per strappare qualche euro Al maturandi più disperati. Le note sul registro C’è un altro modo di conoscere la scuola italiana, ed è quel-lo di sbirciare nei registri di classe. Lo spazio riservato alle note disciplinari è un mondo a parte, che ti porta in una di-mensione dove la maleducazione fischia di sconfinare nel-l’arte, l’indisciplina nella filosofia. Nel film di Daniele Luchetti La scuola, lo studente peggiore della classe aveva un’u-nica abilità: sapeva imitare le mosche. Faceva la mosca così bene che alla fine del film si scopriva che riusciva anche a volare. Davanti ad alcune note che abbiamo pescato su in-ternet 4 verrebbe da chiedersi: ma questa è indisciplina o avanguardia? Facciamo naturalmente la tara sulla rete, ma se anche la metà di esse fossero vere... Ad esempio troviamo traccia di manifestazioni che, se poste in essere all’inizio del secolo scorso, sarebbero state definite surrealismo: «Durante l’ora di matematica, l’alunno E. E della classe accan-to entra in aula chiedendo se gli alunni hanno una padella e un ferro da stiro. Sorprendentemente gli alunni M.C. e A. A. tira-no fuori dai loro zaini i due oggetti richiesti consegnandoli a E. E che ringrazia e se ne va. Richiedo
provvedimenti.» Le note testimoniano poi di episodi di pura allucinazione, personale o collettiva: «L.D. sostiene insistentemente che il nonno conquistò Adua con un manipolo di amici del bar Sole.» «L’alunno CD. spesso si denuda in classe.» «S.E. e G.D. rispondono alla sollecitazione ad andare al po-sto facendo "il trenino"per la classe.» «L’alunno P.P. si mette in piedi sul banco, mi punta una riga contro e urla "È un eretico! Catturiamolo!", istigando così la classe al caos e alla violenza. Sono esterrefatto. » «In classe si odono versi provenienti da scimmie della foresta pluviale. Sembra di esserci trasferiti in Brasile!» «M.S. afferma che sono Lady Oscar.» «E.P. chiede euro 10per sospendere la sua attività di disturbo alla lezione. » «La classe si ubriaca con il fragolino. » «C.N. esibisce le sue ragguardevoli qualità canore durante il compito in classe di inglese.» «Durante l’odierna ora di biologia, l’alunna G.M. non vuole accettare il fatto che prima o poi tutti muoiono, sostenendo di essere immortale. » «L’alunno GB. entra in classe alle 8.50 sbattendo la porta ve-stito da Superman. Mettendosi in una posa pomposa recita bestemmie contro Dio. La classe lo acclama. » Poi ci sono i professori che riescono a passare dalla parte del torto: «La classe è distratta dal vestitino dell’alunna S.L.» E studenti che (magari) ripassano storia della scienza: «L.P. acceca la sottoscritta con ingegnosi giochi di luci e specchi. » Gli amanti delle tradizioni: «B.M. e M.A. durante la lezione di italiano giocano a tom-bola senza permesso. Chiedo seri provvedimenti.» E dell’azzardo: «L’alunno D.R. tra una lezione e l'altra estorce denaro Al compagni con il gioco delle tre carte, utilizzando la catte-dra come banco. Colto in flagrante, tenta di far sparire la cattedra. » Gli imprevedibili:
«M.P. durante la lezione di storia esce dalla finestra.» «L’alunno A.E. senza alcun motivo, durante l’ora di lezione, si diverte a smontare la porta della classe.» Quelli che sanno alternare l’impegno al disimpegno: «G.A. dopo aver espletato le sue funzioni di rappresentante in difesa del Tibet, decide di prendere il sole in giardino fino al termine della terza ora. » Gli autodistruttivi: «C.I. si comporta male durante l’ora di ricreazione abbatten-do violentemente la porta a testate.» I non violenti: «In segno di protesta verso la sottoscritta la classe segue la le-zione seduta sotto il banco. » Quelli che conoscono i propri diritti: «L’alunno P.T. continua a non presentarsi in classe il merco-ledì dicendo che è il suo giorno libero.» I leader: «La classe obbedisce alle richieste dell’alunno C. G. che urla "Chi è con me?" e tutti rispondono "Io!" e cominciano a can-tare tra stanghe evidenti Sei nell’anima di Gianna Nannini. » I non catalogabili: «P.O. telefona mentre è alla lavagna interrogata in matematica.» «L’alunno D. C. sostiene di poter comprare me e la mia vita.» Giustificato, alla fine, il crollo dell’insegnante: «La classe è ingestibile. Offensiva, ricerca lo scontro, non disponibile in nulla. Stanno allo stato dì patologia comporta-mentale con deriva di gruppo. Urge assistenza psicologica e so-ciologica. I singoli elementi si rifiutano di dare il loro nome nascondendosi nel branco. Questa è vigliaccheria oltre che im-maturità. La classe è totalmente in balia di se stessa, non gesti-bile, offensiva e indescrivibile come comportamento! Tranne una decina di studenti, siamo allo stadio di zoo umano. »
Driiinnn!
2 Lo studio
Il Sole e la Terra Sessantadue studenti italiani su 100 non sanno da cosa di-penda l’alternanza tra il giorno e la notte: interrogati in ma-teria dagli esperti dell’Ocse, solo 6 studenti su 10 (1 su 4 nelle Isole) hanno risposto correttamente, ovvero che «la Terra ruota intorno al suo asse». Gli altri hanno sostenuto che è il Sole a ruotare intorno al suo asse, oppure che la not-te arriva perché l’asse della Terra è inclinato (e quindi è il Sole a rotolare via), mentre qualcuno ha affermato che la notte arriva perché «la Terra ruota intorno al Sole». Povero Copernico, povero Galileo, quanta fatica sprecata. Tra l’altro, se le risposte degli studenti fanno piangere, quelle dei professori non mettono certo di buonumore. Le scienze sono un problema per tutti. «Panorama» 1 ha preso il questionario Ocse Pisa (Programme for International Student Assessment) del 2006, ha selezionato le domande più semplici rivolte agli studenti in materia scientifica e le ha poste a un campione di 100 professori: 46 insegnanti di Scienze delle scuole superiori e 54 delle scuole medie infe-riori. Sconcertanti i risultati, con una percentuale piuttosto bassa di prof che sono riusciti ad azzeccare le risposte. L’e-sempio più eclatante: alla domanda «perché la fermentazio-ne fa lievitare la pasta» ha dato la risposta giusta solo il 36 per cento degli intervistati (la pasta lievita perché produce un gas). Il 42 per cento ha sostenuto che funghi unicellulari si riproducono al suo interno, mentre il 17 per cento ritiene che la lievitazione è causata da un alcol che si produce den-tro l’impasto, e il 5 per cento è convinto che la pasta si gon-fi perché la fermentazione trasforma l’acqua in vapore. 2 La nostra istruzione L’Italia è poco istruita: sui banchi di scuola gli italiani di-ventano vecchi, e la metà della popolazione adulta ha con-seguito soltanto la licenza di terza media. 3 In particolare, nel nostro Paese la licenza media inferiore è il titolo di studio più elevato conseguito dal 48,2 per cen-to della popolazione in età compresa tra i 25 e i 64 anni, mentre la media Ue è del 30 per cento. Sardegna, Sicilia, Campania e Puglia raggiungono le quote più elevate di po-polazione adulta con la sola licenza media: intorno al 56-57 per cento. Più di 1 studente su 10 in Italia abbandona gli studi al primo anno delle scuole
superiori, 140 mila maturandi hanno vent’anni e oltre, e di questi 55 mila hanno ventun anni o più. Nella classifica Ocse dei 30 Paesi più istruiti l’Italia si piazza al terz’ultimo posto, seguita da Portogallo e Messico. Tra la popolazione più giovane (25-34 anni) abbiamo meno laureati (16 per cento) rispetto alla popolazione della fascia 55-64 anni nei Paesi Ocse (19 per cento). E i dati degli anni passati confermano il trend. Nel 2005 solo il 37,5 per cento degli italiani con un’età compresa tra i 25 e i 64 anni aveva almeno un titolo di scuola secondaria superiore, un valore inferiore di circa 8 punti rispetto alla media dei Paesi Ocse. Ancora più elevato il gap se si pensa alla quota di laureati, che in Italia raggiungeva appena il 12 per cento, la metà della media dei Paesi Ocse. I tassi di ab-bandono dell’università sono pari al 60 per cento, quasi il doppio rispetto alla media dei principali Paesi industrializ-zati. L’incidenza dei laureati che conseguono un titolo di specializzazione post laurea ci colloca quartultimi nella classifica Ocse. Se parliamo di adolescenti il discorso non cambia: in troppi non frequentano la scuola, e quelli che lo fanno mo-strano maggiori difficoltà nell’apprendere rispetto Al loro coetanei europei: nel 2004 solo 76 ragazzi su 100 consegui-vano il diploma, un valore tra i più bassi nel confronto con i Paesi avanzati. Ma questi dati non dicono tutto. Il drop out Lo studente drop out (letteralmente, to drop out significa «andarsene», «ritirarsi») è quello che si ritira, che abbandona la scuola, che lascia gli studi per i motivi più vari. Nei film americani è il ragazzo all’ultimo banco, con la sigaretta ap-poggiata all’orecchio, il giubbotto di pelle e i piedi sopra al banco mentre il professore spiega; nella tradizione italiana è più semplicemente Lucignolo, o Pinocchio se vogliamo dargli una speranza di redenzione. In Italia abbandonano 32 studenti su 100. In Europa, in media, sono solo 15 su 100 gli studenti che lasciano la scuola, ed è quindi necessa-rio, anche in questo caso, domandarsi perché la scuola ita-liana produca così tanti fallimenti. Su 1000 bambini che si iscrivono alla prima elementare, 4 36 abbandonano prima degli otto anni, 93 si fermano alla scuola media, 77 si ritirano al biennio superiore. La mattan-za è alle superiori, quando (in particolare nel primo bien-nio) vengono espulsi dalla scuola 460 ragazzi: 666 arrivano al diploma (numero inquietante, probabilmente testimonia che chi ce la fa ha fatto un patto col diavolo) e di questi 452 si iscrivono all’università. Solo in 171, però, diventeranno dottori. La soluzione che Luigi Berlinguer tentò di adottare per ri-solvere il problema (innalzare l’età dell’obbligo scolastico) non è servita: tanti in più si sono iscritti alle superiori, tanti più so-no stati gli abbandoni, e quindi, legge o non legge, il problema resta lo stesso: la scuola italiana espelle troppi studenti. Cosa non funziona? «Le cause sono diverse» spiegava il professor Benedetto Vertecchi a Raffaello Masci di «La Stampa». «La principale è legata alla preselezione sociale che avviene attraverso la scuola: il liceo è il primo gradino, i professionali l’ultimo. Gli insegnanti stessi hanno aspettati-ve diverse a seconda che insegnino in un tipo di scuola o in un altro. Al professionali si resta più facilmente indietro e, se si
è bocciati una volta, specie all’inizio, questo trascina-mento degli studi più facilmente evolve in espulsione dal si-stema.» 5 E poi sul drop out giocano altri due fattori impor-tanti: la famiglia di origine e il territorio in cui si vive. «Ad essere espulsi» spiega ancora Vertecchi «sono soprattutto i ragazzi che vengono da famiglie con basso livello di istru-zione e da realtà territoriali problematiche. Non solo perché inquinate dall’illegalità, come la Campania, ma anche capa-ci, come nel Triveneto, di proporre alternative di lavoro concorrenziali alla scuola.» Quella italiana è una scuola ci-nica, che salva chi si può salvare e non perde tempo con chi ha poche possibilità di farcela. Una scuola debole, che non riesce a rendersi apprezzabile da chi è convinto di poterne fare a meno. Il costo di Lucignolo Quanto durava il fascino del ripetente? Mi sembra di ricor-dare poco, solo alcune lezioni, e di solito si dissolveva alla prima interrogazione: lì il ripetente si guadagnava il rispetto di tutti se mostrava di aver studiato e di voler recuperare, si giocava l’ allure del bocciato se balbettava davanti all’impla-cabile prof. Duecentomila studenti nel corso delle elementari ab-bandonano la scuola o vengono bocciati. È quasi il 33 per cento degli studenti iscritti al primo anno di corso, cinque anni prima. Trentatremila ragazzi frequentano ancora la scuola quando hanno già compiuto vent’anni; quasi 100 mila si trovano ancora tra i banchi a vent’anni. Oltre 250 mila studenti che frequentano le superiori, in pratica 1 su 10, sono in ritardo di due o più anni; oltre 400 mila ragazzi sono in ritardo di «un solo» anno. Al primo an-no delle superiori gli studenti in regola sono circa 7 su 10, e a mano a mano che ci si approssima verso l’ultimo anno la percentuale scende fino ad arrivare al 68,5 per cento. Re-cord negativo degli istituti professionali, dove la percentua-le di studenti in ritardo di due o più anni si aggira attorno al 20 per cento in tutte le classi. Numerosi quelli che hanno incontrato i primi ostacoli già alla scuola elementare e alle medie, dove 22 mila ragazzi-ni di 15, 16 e 17 anni non si sono ancora diplomati. Due milioni di studenti, 7 su 10 dei ragazzi che frequen-tano le superiori, hanno riportato una o più insufficienze al termine del primo quadrimestre. In media ogni ragazzo è insufficiente in quattro materie. Negli istituti tecnici la me-dia sale e diventa oltremodo drammatica, con otto insuffi-cienti su dieci. Il 38,8 per cento dei quindicenni in Italia non raggiun-ge il livello di competenza giudicato minimo in una società avanzata, contro il 21,3 per cento della media dell’a-rea Ocse. Considerando che uno studente delle superiori costa 7666 (ci fosse davvero lo zampino del diavolo?) euro l’anno e sono 650 mila quelli in ritardo di uno, due o più anni, si può calcolare che, solo per i ripetenti e in un solo triennio, la scuola italiana brucia qualcosa come 8 miliardi di euro. La spesa per studente in Italia è tra le maggiori dell’area Ocse, e il rapporto insegnanti-studenti è molto più alto che altrove. Gli insegnanti sono circa 800 mila in organico, oltre 100 mila i precari, e il rapporto insegnanti-studenti è il più sbilanciato (9,3 professori ogni 100 allievi, per una media Ocse di 5,9): spendiamo di più, otteniamo di meno, come dimostrano i test internazionali sull’apprendimento degli
alunni. La Commissione tecnica del ministero delle Finanze che monitora ogni anno la spesa pubblica sottolinea come nella scuola italiana ci siano «difficoltà serie di organizzazio-ne e gestione del servizio: dalla programmazione degli orga-nici e della mobilità dei docenti alla gestione della rete scola-stica in rapporto con altri livelli di governo, fino alla man-canza di livelli di valutazione delle scuole, dei docenti e dei dirigenti scolastici». 6 La commissione arriva sostanzialmente a denunciare come il sistema non sia in grado neanche di va-lutare le proprie esigenze, le proprie spese, come si perda an-che solo la distinzione tra «organico di diritto e organico di fatto» e come i «frequenti interventi legislativi» non permet-tano alcuna forma di programmazione economica. Il pesce, d’altronde, puzza sempre dalla testa. Non si contano più gli spacchettamenti tra ministero dell’Univer-sità e della Pubblica istruzione, di governo in governo riuni-ti per poi essere separati di nuovo. Quale che sia poi il mini-stro che gestisce la scuola, si deve registrare nel bilancio co-me il 96 per cento 7 delle uscite finanzi la spesa corrente, gran parte legata al personale: la spesa insegue i rinnovi contrattatali, gli stanziamenti non coprono l’ammontate com-plessivo delle retribuzioni e gli uffici finiscono per indebi-tarsi. Chi ci rimette? Per esempio gli istituti, che non hanno risorse per ristrutturare aule e palestre o per comprare le at-trezzature per il laboratorio. 8 La scuola, secondo la commissione, finisce poi per forni-re servizi «estranei alla sua funzione istituzionale, svolgendo un’azione di supplenza rispetto ad altre istituzioni pubbli-che (Asl ed Enti locali) e alle stesse famiglie». È la scuola, per esempio, a farsi carico della tutela degli studenti diversa-mente abili, stipendiando gli insegnanti di sostegno in mi-sura «singolarmente variabile per regione».
3 Tempi e modi dell’ignoranza
A ognuno la sua Esistono le elementari? E le medie? Ma ragioneria esiste ancora? E come si sostiene l’esame di maturità? Oggi co-me oggi solo gli addetti Al lavori sanno come è organizza-ta la scuola. A mia memoria, quindi da una ventina d’an-ni a questa parte, non c’è un ministro della Pubblica istruzione che non abbia varato una pur piccola riforma della scuola. In un Paese che cerca (almeno a parole) l’in-tesa bipartisan su tutto, la scuola è sempre stata vista in-vece come terreno per scelte (alternate) di fazione. «Il ri-sultato» si legge nella rivista «il Mulino» «è sotto gli occhi di tutti: mentre continua ad essere giudicata nel comples-so positivamente la scuola primaria, medie e superiori soffrono l’assenza di una programmazione condivisa di lungo
periodo che sia rivolta all’individuo nel suo com-plesso, e che sappia però tenere conto delle nuove esigen-ze che la società ha imposto e continua a imporre con grande rapidità.» 1 Attraverso gli anni i governi che si sono succeduti hanno cambiato tutto e il contrario di tutto. Ogni maggioranza, sulla base di una propria (vaga) idea di fondo, ha modifica-to qualcosa. Così, per esempio, abbiamo visto comparire, scomparire e ricomparire gli esami di riparazione. Ma chiariamoci le idee: oggi la scuola italiana è organiz-zata in tre blocchi, scuola dell’infanzia, ciclo primario e ci-clo secondario. Per intenderci: asilo, elementari più medie, superiori. La «scuola dell’infanzia» (ovvero l’asilo) si rivolge a tutti i bambini che abbiano un’età compresa fra i tre e i cinque an-ni. I la durata triennale e non è obbligatoria. Subito dopo si apre davanti al bambino il cosiddetto «primo ciclo», formato dalla «scuola primaria», della du-rata di cinque anni, e da quella «secondaria di primo gra-do», della durata di tre anni rispettivamente (elementari e medie). Gli esami di riparazione Fino al 1995 era facile. A giugno venivano esposti i quadri, e si sapeva chi era stato promosso, chi era stato bocciato, chi «andava a settembre». Chi era sufficiente aveva 6, chi era in-sufficiente aveva sotto il 6. Animati da non si sa quale idea di fondo, nel 1995 si decise che chi era insufficiente non aveva un 5, un 4, un 3, ma aveva un 6 rosso, che voleva dire che non era un vero 6, ma qualcosa di meno: quando perciò l’alunno a giugno si trovava in pagella (ma non nei quadri) un 6 rosso (e non nero), veniva ammesso ugualmente alla classe successiva, portando con sé (però) un debito. Durante l’estate poteva studiare o non studiate, era un problema suo (e della fami-glia): dopo un mesetto dalla riapertura della scuola, gli si facevano fare un tema, una traduzione, un esercizio, a se-conda della materia in cui era insufficiente. Se dimostrava di aver colmato le lacune, era a posto. Se non le aveva supe-rate (e trovatemi un docente che abbia mai conosciuto un alunno che le avesse colmate), andava avanti lo stesso col suo debito, fino alla maturità. Arrivato a un passo dall’esa-me, a seconda della quantità di debiti che aveva accumula-to, avrebbe potuto anche non essere ammesso, ma nessuno in genere se la sentiva di bloccare, proprio alla fine del per-corso, un ragazzo che non era mai stato fermato prima. Tantomeno i commissari di esame. Quindi, promozione assicurata, anche se con voto basso. Al momento di andare in stampa con questo testo vige un nuovo (contestatissimo) metodo di recupero dei debi-ti. Si è parlato di ritorno dell’esame di riparazione, ma non si tratta di un vero e proprio ritorno al passato, in quanto non sono esami di riparazione veri e propri ma delle cosiddette verifiche intermedie: entro il 31 agosto (e comunque non oltre l’inizio dell’anno scolastico). Soste-nute queste verifiche, gli studenti vengono valutati entro il 7 settembre dai consigli di classe, che decidono se am-metterli o no all’anno successivo. Il ritorno «atipico» agli esami dopo le vacanze è stato imposto dai numeri, dal momento che 42 studenti su 100 vengono ammessi con debito alla classe successiva: 43,4 per matematica, 31,9 per lingua e letteratura straniera, 18 per materie tecnico-professionali, 16,1 per materie scientifiche, 14,4 per
lin-gua e letteratura italiana, 14,2 per lingua e letteratura lati-na, 13,1 per materie giuridiche ed economiche, 8,5 per fi-sica. Un esercito di «rimandati non rimandati» che do-vranno essere preparati (durante l’estate) dalle stesse scuo-le che, naturalmente, non hanno i fondi per pagare i prof e che quindi cercano in tutti i modi di ridurre il numero degli alunni da «verificare»: tantissimi promossi, tantissi-mi bocciati, pochissimi rimandati, e del problema riparle-remo la prossima estate. La maturità Prendiamo l’esame di maturità; detto per inciso, ora la de-nominazione ufficiale è «esame di Stato» ma tutti continua-no a chiamarlo «maturità». Qualcuno di voi genitori ha ca-pito come si sostiene? Quali materie «si portano»? Chi giu-dica chi? E come si viene valutati alla fine? In sessantesimi? In centesimi? A spanna? Iniziamo dalla commissione d’esame: fino al 1951 era formata esclusivamente da membri esterni, poi il ministro Gonnella introdusse la figura dei membri interni, prima due e poi uno. Così ha sostenuto l’esame la generazione di quelli che adesso sono genitori di studenti: un membro in-terno, e per il resto commissione esterna. Il membro inter-no aveva solitamente un destino infelice: se era buono, i col-leghi lo prendevano per fesso, pensavano che in qualsiasi ca-so avrebbe difeso gli alunni e non gli davano molta retta. Se era cattivo, veniva messo alla gogna perché non aiutava. Se era giusto, riceveva qualche complimento e otteneva po-chissimi risultati, perché poco adatto alla trattativa politica (dammi un voto in meno a questo, ma mi fai passare que-st’altro). Il membro interno, naturalmente, si intendeva co-munque di una materia sola, quindi «faceva il vago» duran-te gran patte delle interrogazioni. I commissari esterni, a loro volta, se erano intelligenti fa-cevano buone interrogazioni, se non lo erano sfogavano le repressioni di una vita sull’alunno sconosciuto o sui colleghi che lo avevano preparato («Ma come!, non avete fatto que-sto, il vostro prof non vi ha spiegato quello?»). Parecchi commissari nominati rinunciavano per l’esi-guità del compenso e venivano sostituiti da giovani senza esperienza, a volte preparati, spesso no. Per potersi mante-nere molti professori si facevano mandare nel paese di origi-ne, dove venivano ospitati a parenti che, terminate («finalmente!») le ore di esame, li accompagnavano a visitare la zo-na. Alla fine tutto il potere finiva nelle mani del presidente di commissione. Nel 1997 il ministro Berlinguer stabilì che i commissari (da quattro a otto) fossero per metà interni e per metà esterni, e che esterno fosse anche il presidente. I membri interni erano un gruppetto e si potevano sostenere a vicenda, inter-venire e controllare su più materie. Trovare i commissari non è mai stato facile, dato che i prof non vengono certo invogliati dai compensi: per un me-se circa di lavoro vengono destinati 1249 euro per i presi-denti, 911 per i commissari esterni, 399 per quelli interni: in più ci sono i compensi correlati alla distanza del luogo di residenza rispetto alla sede d’esame. Sono previsti 171 euro per il personale «nominato nel comune di servizio o di resi-denza o fuori del proprio comune di servizio o di residenza in una sede d’esame raggiungibile in non più di 30 minuti con i mezzi di linea extraurbani più veloci»; 568 euro per il «personale nominato fuori del proprio comune di servizio o di residenza in
una sede d’esame raggiungibile in un tempo compreso tra 31 e 60 minuti con i mezzi di linea extraurba-ni più veloci»; 908 euro per il «personale nominato fuori del proprio comune di servizio o di residenza in una sede d’esa-me raggiungibile in un tempo compreso tra 61 e 100 minu-ti con i mezzi di linea extraurbani più veloci»; 2270 euro per il «personale nominato fuori del proprio comune di ser-vizio o di residenza in una sede d’esame raggiungibile in un tempo superiore a 100 minuti con i mezzi di linea extraur-bani più veloci». Facevano prima ad attaccare un tassametro sulla schiena dei professori. Il compenso per ciascuna materia e ciascun candidato che spetta al personale impegnato negli esami preliminari dei candidati esterni (i privatisti) è di 15 euro, mentre è fissato in 840 euro il compenso massimo attribuibile al singo-lo componente del consiglio di classe o di specifica commis-sione impegnato negli esami preliminari. Forse per risparmiare sul costo pur misero delle diarie, la Moratti ha optato per la commissione tutta interna, con un unico presidente esterno per tutta la scuola. In questo modo i professori seri hanno continuato a la-vorare bene, mentre hanno avuto via libera gli scansafatiche (che esistono in tutte le professioni, ma che in genere nelle altre professioni trovano vita dura): per fare bella figura ven-gono presentati programmi fantastici, che includono argo-menti mai toccati, che «tanto poi non ve li chiedo»; vengo-no pilotate le tesine, sulle quali si concordano domande e risposte. «Io faccio da sempre lezioni private» ci spiega un prof che preferisce mantenere l’anonimato, «e ho visto cambiare il "mercato" davanti Al miei occhi: prima i ragazzi venivano per colmare le lacune del programma, per timore che i com-missari esterni chiedessero parti che il loro insegnante non aveva fatto, o aveva fitto in fretta. Dopo cominciarono a ve-nire per fare solo gli argomenti indicati dal loro professore: no, questo ha detto che non me lo chiede, invece devo ap-profondire quest’altro che mi ha indicato. Io lo chiamo l’e-same à la carte, su ordinazione!» Un presidente unico per tante commissioni, natural-mente, che può fare? Controlla solo che sia tutto in regola dal punto di vista burocratico, ma certo non può verificare il metodo di esame di ogni commissione. Inutile soffer-marsi su quale diluvio di promozioni si sia scatenato (in particolate) nelle scuole private, e inutile soffermarsi su quanto sia sceso il livello di preparazione dei maturati ita-liani. Il ministro Fioroni ha attuato ulteriori modifiche: com-missioni composte da un massimo di sei professori, per la metà interni all’istituto. Il presidente sarà esterno e vigilerà al massimo sulle prove di due classi. Il ministro, al momen-to di andare in stampa, è cambiato ancora. Come piacerà l’esame al ministro di oggi? Quando diventiamo ignoranti In quale momento viene compromesso il futuro degli italia-ni? Quando diventiamo ignoranti? Difficile rispondere con precisione, ma in qualche modo possiamo orientarci. Alle elementari i nostri bambini se la cavano, i problemi arrivano dopo, alle medie e alle superiori. I bambini italiani in effetti hanno la stessa capacità di lettura dei loro coetanei europei. Un’indagine europea 2 mette i nostri alunni di quarta elementare al sesto posto su 40 nazioni testate per capacità di lettura e comprensione. Un ottimo
risultato, de-stinato a essere dissipato nel giro di appena due anni: è alle medie infatti che nascono i problemi, è lì che si creano le la-cune che si approfondiranno in seguito al liceo. Più volte il livello di preparazione degli insegnanti delle medie è finito nel mirino dei ministri dell’Istruzione che si sono succeduti, così come sembra non funzionare il passaggio dal sistema di apprendimento basato sulle tre maestre a quello fondato sui tanti professori che si alternano. 3 Anche la forbice tra Sud e Nord del Paese si apre dopo le elementari, perché i maggiori livelli di apprendimento da parte dei giovani settentrionali sono sempre presenti, ma aumentano col passaggio alle medie e alle superiori. Per fare un esempio, nell’ultima rilevazione utile (giu-gno 2007), meno di 2 studenti su 10 hanno superato gli esami di scuola media con «ottimo», e oltre un terzo ha preso appena la sufficienza. Chi sta peggio, naturalmente, è chi non può contare sull’aiuto in famiglia: chi ha genito-ri non diplomati difficilmente va oltre il «sufficiente», e ad avere genitori diplomati in Italia sono in pochi, dal mo-mento che solo il 42 per cento degli adulti ha finito le su-periori e che solo il 6 per cento tra i nati nel 1968 (i geni-tori degli studenti di oggi) è laureato. «Nel resto d’Europa siamo su una media del 30 per cento» scrive «Panorama». 4 E se dalle medie ci spostiamo alle superiori il quadro resta fosco. «Alle superiori il 30 per cento dei quindicenni ita-liani non è in grado di interpretare una formula matemati-ca, un terzo non sa leggere un grafico. 11 65 per cento degli studenti del Sud non conosce (bene) l’italiano, il 50,4 per cento non sa cosa sia la matematica.» 5 E se il rapporto Iea (International Association for the Evolution of Educatio-nal Achievement) di qualche anno fa ci dice che i giovani italiani hanno competenze matematiche più o meno simi-li a quelle dei giovani statunitensi, è pur vero che la media è fatta dai risultati raggiunti in Trentino (dove regna l’ec-cellenza, e la competenza degli studenti raggiunge quella dei coetanei di Singapore, i più capaci al mondo) e da quelli ottenuti al Sud, dove le scuole congedano studenti in grado di competere al più con Marocco, Filippine e Sudafrica, i Paesi che hanno fatto registrare le peggiori performance. Agli scrutini di febbraio 2008 (ma sarebbero potuti esse-re gli scrutini di un qualsiasi anno precedente o successivo), due milioni di studenti delle superiori hanno totalizzato 8 milioni di debiti formativi. «Detta in maniera più rozza ma più comprensibile» spiegava Raffaello Masci su «La Stam-pa», «se l’anno scolastico si chiudesse ora, 7 studenti su 10 verrebbero rimandati in quattro materie.» 7 Le bestie nere sono la matematica e le lingue straniere, ma siamo drammaticamente scarsi anche in italiano: come dire, ci manca la capacità di leggere il mondo, la capacità di raccontarlo e la capacità di controllarlo. Una parentesi sulle elementari Il periodo dei saggi di fine anno, quello che i bambini iscritti generalmente ad asilo ed elementari mettono in scena nelle prime settimane di giugno, è forse quello in cui la scuola ita-liana mette in mostra tutto quello che potrebbe essere. Gli insegnanti inventano, realizzano, i bambini si appassionano, partecipano a un progetto che poi portano in scena, i genito-ri scoprono quello che i propri figli hanno imparato nel cor-so dell’anno. Ho assistito a una splendida recita in una scuo-la elementare dove gli alunni alternavano performance da teatro d’avanguardia a balletti da villaggio
vacanze: gli inse-gnanti erano riusciti a prendere il meglio di entrambi i mo-delli (soprattutto, non si erano fatti spaventare dal secondo). Eppure, sebbene i risultati testimonino come quella scuola elementare continui a essere la migliore tra le scuole italiane, anche qui negli ultimi anni si manifestano segni di declino. Qualche esempio: per ottenere fondi destinati all’acqui-sto di matite, gessi, carta, bisogna presentare dei «progetti». Non tutti i progetti ottengono l’approvazione, perché soldi ce ne sono pochi e se ne possono sostenere solo alcuni. Sic-come però il progetto è poco più di un modulo con il quale richiedere quello che è quotidianamente necessario per in-segnare, se un maestro vede bocciare il proprio progetto cer-ca di appoggiarsi a quello di un collega, in modo da non re-stare senza materiale di assoluta necessità. Finisce quindi che ci si spartisce il poco materiale che c’è, e alle famiglie tocca il più delle volte colmare le lacune dell’istituto. I geni-tori rappresentanti di classe in genere fanno una colletta a inizio anno, creano una cassa comune e con quella acquista-no carta, penne, gessetti. Ho visto un gruppo di genitori sfi-duciare il rappresentante perché «in classe mancano sempre i fogli», come se fosse stata realmente sua la responsabilità di rifornire l’istituzione. Un’approfondita inchiesta di «la Repubblica» ha mostra-to come nella scuola italiana il rapporto tra insegnanti di so-stegno e studenti diversamente abili sia squilibrato, e lo sia in maniera sospetta: «A fronte del 2 per cento di studenti portatori di handicap» scriveva Eugenio Occorsio, «ci sono 84 mila insegnanti di sostegno, il 10 per cento dei docenti complessivi, con delle anomalie (nel Lazio il rapporto è del 3,3 per cento degli studenti e del 13 per cento degli inse-gnanti) sulle quali occorre indagare». 8 Eppure (a ennesima dimostrazione di quanto illogica sia la distribuzione del personale nella pubblica amministrazione) in molte scuole ele-mentari è evidente la carenza di insegnanti di sostegno con preparazione specifica, soprattutto per bambini autistici e ipovedenti. I pochi laboratori di informatica sono affidati essenzialmente alle competenze degli alunni e dei loro geni-tori, dal momento che c’è una grande difficoltà ad avete tec-nici che sappiano aggiustare i terminali quando si guastano. Mancano arredi: armadi, stipetti. Non ci sono insegnanti sufficienti per il tempo pieno, e soprattutto al Sud e nelle Isole gli alunni prevalentemente escono all’una, mettendo nei guai i genitori (generalmente le madri), costretti a uscire prima dal lavoro. I disorientati Un ragazzino che abbia appena passato l’esame di scuola media si trova davanti a 715 indirizzi possibili di studio: una gamma infinita, «un immane spettro di possibilità che» scriveva Maurizio Crosetti su «la Repubblica» «va dalla tra-duzione di Seneca alla guarnizione di una torta Saint Honorè, spaziando da Heidegger alla filettatura di una vite». 9 Al termine del primo ciclo, i licei si contendono gli iscritti. Ogni anno circa 660 mila studenti devono scegliere la strada dei propri studi, e ogni anno le famiglie italiane ca-dono in preda al panico più profondo. I rappresentanti del-le superiori girano per le scuole medie cercando di convin-cere le famiglie a scegliere il proprio istituto. La corsa a ven-dersi spinge gli istituti a proporre i corsi più strani, più allet-tanti, più originali, più brillanti e più inutili: «la Repubbli-ca» 10 ha inventariato i corsi e ha
scoperto l’esistenza di corsi di archeologia, di hitball (una specie di palla a muro), brid-ge, vela, ascolto di musica jazz, lingua aggiuntiva, corsi di recitazione, di arte drammatica, e scambi culturali all’este-ro, viaggio e soggiorno (anche di sei mesi) compreso. Una volta, finite le medie, la scelta era facile: o si optava per la strada «classica» o per quella «tecnica». «Non dico fos-se l’ideale» spiega il linguista Tullio De Mauro, «però oggi abbiamo intere generazioni allo sbando. La mancanza di orientamento è la vergogna scolastica nazionale. Il vero pro-blema sono gli adulti, i quali dovrebbero aiutare i bimbetti tredicenni a scegliere: secondo le ultime indagini il 19,8 per cento dei grandi non possiede i requisiti minimi per orien-tarsi nelle decisioni, ed addirittura il 41 per cento fatica a decifrare uno scritto, anzi una scritta.» 11 Le conseguenze sono paradossali: alcuni licei scoppiano di iscritti e organizzano i test di ammissione come Harvard. Al-tri vengono dimenticati e abbandonati Al confini della civiltà. Ma proviamo a ricapitolare. A quattordici anni, superato l’esame di Stato che conclude il primo ciclo, si accede al se-condo: qui troviamo i licei (classico, scientifico, artistico), gli istituti tecnici (ragioneria, geometra, perito industriale, perito agrario...) e gli istituti professionali (grafico, pubbli-citario, audiovisivo...). Licei, istituti tecnici e professionali durano cinque anni. Negli istituti professionali il corso di studi è formato da un triennio più un biennio: al terzo anno il superamento di un esame attribuisce una qualifica, con due anni in più si ottiene il diploma con valore legale. In realtà, terminata la scuola che non si deve scegliere, non si capisce più nulla; infinite opzioni vuol dire nessuna opzione, e si finisce per scegliere in base a ragionamenti ele-mentari: si fa fare al bambino la scuola che hanno frequen-tato i genitori, se va male in matematica lo si manda al clas-sico (come se lì la matematica non esistesse), oppure lo si manda alla scuola dove vanno i compagni di classe o a quel-la vicino a casa, oppure nell’istituto che si è fatto una pub-blicità migliore degli altri. Le scelte attuate senza logica il più delle volte sono scelte sbagliate, e a pagare sono (naturalmente) i giovani studenti. Un tredicenne su tre in Italia viene bocciato al primo anno, oppure si ritira; il secondo tredicenne su tre finisce l’anno con il famoso «debito formativo» (come abbiamo visto, una sorta di promozione con riserva), solo il terzo dei tre chiude l’anno serenamente e viene promosso senza problemi. Il «ritardo» nel primo ciclo risulta legato soprattutto al passaggio dalla scuola primaria alla secondaria di primo gra-do: 2,7 per cento di ripetenti al primo anno. Nel ciclo di studi superiori i giovani restano indietro specialmente nei primi due anni: 8,5 per cento di ripetenti al primo anno di corso e 7,2 per cento al secondo. E se nei licei 90 ragazzi su 100 arrivano all’ultimo anno senza averne mai ripetuto uno, nei tecnici e professionali gli studenti senza ritardi so-no rispettivamente 63 e 57.
4 Scuola e politica
Generazioni Mi raccontava il responsabile newyorkese di un’importante agenzia di selezione del personale che i neolaureati di ultima generazione sono più determinati, più preparati e più sicuri di quanto non fossimo noi ragazzi degli anni Ottanta. Il mio amico sosteneva di essersi confrontato con due generazioni di neolaureati: i nati negli anni Settanta erano insicuri, chie-devano alle aziende di assicurargli un percorso di carriera, volevano certezze, volevano conoscere passo passo ogni mi-nima variazione dell’organigramma dal momento del loro ingresso a quello del loro pensionamento. Oggi le aziende non offrono più prospettive di carriera a medio-lungo termi-ne, perché chi si presenta al colloquio vuole soddisfazione immediata, non intende mettersi in fila aspettando che arri-vi il proprio turno di decidere, di guadagnare, di inventare. Alcune (grandissime) aziende sono arrivate persino a offrire al proprio personale la manicure o la sala massaggi pur di convincere i candidati ad accettare le loro proposte. Cosa è cambiato in una decina di anni? Cosa ha trasfor-mato il modo di essere dei giovani professionisti che hanno appena terminato gli studi? In realtà il tratto delle genera-zioni si conosce solo dopo. Gli studenti degli anni Settanta si conoscono quando ormai gli anni Settanta sono passati, quelli degli anni Ottanta quando sono passati gli anni Ot-tanta, e così via. In pochi, credo, riuscirebbero a individuare un tratto comune Al giovani che frequentano la scuola di oggi. In futuro sarà facile farlo, ma oggi è difficile vedere quello che abbiamo davanti agli occhi. Mi sono diplomato a Roma in un liceo classico di antica tradizione: il lasso. Il Tasso è da sempre considerato una scuo-la «di sinistra», cosa che non significa assolutamente che tutti gli studenti che lo frequentano diano alla sinistra il loro primo voto. L’essere un liceo «di sinistra» significa più che altro avere una lunga tradizione in tal senso, o forse significa esclusiva-mente che nella spartizione destra-sinistra degli anni Sessanta-Settanta la scuola di via Sicilia finì per essere colorata di rosso. Stesso discorso, naturalmente, vale per i licei «di destra». Io frequentai il Tasso negli anni Ottanta, e la politica la vi-vevamo in tutt’altro modo. Ricordo che il confronto politico tra Destra e Sinistra era mimato da alcuni nei modi e con le categorie che avevano mutuato dai fratelli maggiori, ma dai più era vissuto in maniera nuova, consapevole, più leggera e in qualche misura più fresca. Anche quando assumeva i con-torni della goliardia o (a essere più benevoli) dell’anarchismo: ricordo liste che si presentavano alle elezioni per il consiglio di istituto con il motto «La pietra che rotola non raccoglie mai sugo» o «Ognuno con la farina sua ci fa gli gnocchi che gli pare» (sia detto per inciso: queste liste stravinsero le elezio-ni). L’approccio alla cosa politica per noi era caratterizzato dal rifiuto, radicale ma leggero, delle regole condivise al di fuori della scuola. All’interno dell’istituto erano ammesse tutte le posizioni, che si confrontavano in maniera
profonda ma spensierata, aperta e sfacciata (fatte salve le inevitabili, ottuse, eccezioni, che venivano però immancabilmente — e automa-ticamente — emarginate). Il mancato confronto tra categorie politiche e realtà effettiva, l’assoluto disinteresse per la verifica logica delle proprie posizioni permetteva a ognuno di estre-mizzare le proprie idee, condurle a conclusioni paradossali, farsene portatore sano nel confronto con i portatori sani del-l’opposta fazione. Ma il portatore, lo sottolineo perché è que-sto secondo me il dato importante, era un portatore sano. La stessa approssimazione nell’affrontare il rapporto tra l’elaborazione teorica e la pratica politica aveva portato la ge-nerazione precedente alla nostra a vivere la politica in manie-ra ben diversa, e più tragica. La disillusione di chi viveva negli anni Ottanta, il pragmatismo che si respirava in un Paese che si sforzava di uscire da uno dei periodi più bui della sua storia diveniva motore per una nuova, potente, carica morale: più realistica ma non per questo meno profonda e valida di quel-la dei tempi andati. In qualche misura, anzi, più lucida e di-sincantata di quella, e quindi utile, a tutti noi, ancora oggi. Io non ricordo episodi di criminalità politica nel periodo del mio liceo. Un mio compagno di classe sarebbe diventato un esponente di quella criminalità feroce e allucinata passata sotto il nome di «nuove Brigate Rosse», questo ragazzo però, anche all’epoca nostra, non esprimeva un sentimento in qualche mi-sura diffuso. Era un isolato. Negli anni Settanta però, non era stato così. I professori erano sempre gli stessi, ma gli alunni era-no diversi: gli insegnanti sì che hanno visto l’Italia cambiare. Hanno visto le teste degli studenti trasformarsi, il pensiero di un Paese svilupparsi, evolversi, involversi, uscire dal pantano in cui era finito. La Sinistra «Il 16 marzo del 1978» ci racconta una professoressa del Tas-so 1 «stavo facendo lezione di italiano in una classe liceale, for-se una seconda. I ragazzi erano tranquilli, concentrati, sem-bravano anche interessati. A metà mattinata si spalancò im-provvisamene la porta della classe, con fragore. Apparve un gruppo di studenti allegri, chiassosi, vocianti. Uno si staccò dagli altri e annunciò con voce alta e ridente: "Hanno rapito Moro e ammazzato cinque uomini della scorta!". Nella classe ci fu un attimo di sorpresa, di silenzio. Poi scrosciò una risata collettiva, accompagnata da un applauso. Tutti si erano risve-gliati e partecipavano all’ilarità dei nuovi arrivati. Solo qual-cuno età rimasto silenzioso, interdetto, e mi guardava inter-rogativo. Ebbi bisogno di qualche attimo per capire, mi sem-brava una situazione irreale. I messaggeri stavano aggiungen-do particolari, pochi, visto che ancora ne erano stati dati po-chi, ma succosi. Le domande si succedevano e si intrecciavano. L’allegria aumentava. Ripresi fiato e, stravolta, cominciai a gridare. La voce» continua a raccontare la prof «mi si gon-fiava di rabbia, le parole si affollavano una sull’altra. Non le ricordo più. So che tentavo di riportarli indietro, verso la ra-gione, soprattutto verso la pietà. Cercavo di spostare la loro mente dall’immagine dell’uomo politico per portarla verso l’immagine dei morti, vittime, oggi diremmo "collaterali", di una follia lucida e terribile che tutto travolgeva. Ci volle tem-po. Di solito avevo polso con i ragazzi, ma anche affetto, li ri-spettavo e loro mi rispettavano. Questa volta si età aperta una falla troppo grossa; aveva travolto tutto, ragione, senti-menti, pietà.
Improvvisamente non li riconoscevo più. Co-me quando, nei film di fantascienza, inaspettatamente, sotto le sembianze di un parente, di un amico si rivela un alieno. Anche loro sembravano vittime di qualcosa che li aveva inca-psulati e modificati, che aveva fatto scomparire il senso del li-mite. A poco a poco le risate diminuirono, alcuni si lanciava-no occhiate dense di sottintesi ironici nei miei riguardi, qual-cuno cominciava a vergognarsi. Solo alla fine arrivai a parlare anche di un modo diverso di far politica, della necessità di di-stinguere fra una protesta giusta e una in cui ogni umanità veniva oscurata; della necessità di essere sempre presenti con il senso critico, con un giudizio personale, di fronte a fatti, insegnamenti, input esterni. Certo non si tornò a far lezione. Passarono giorni per ristabilire un rapporto normale sia sul piano umano che su quello didattico.» Ma la follia in quegli anni non aveva colore politico. La Destra La nostra prof ricorda bene anche cosa succedeva dall’altra parte, e rammenta un episodio che può sembrare nulla se si pensa a quello che successe in quegli anni, ma che può basta-re per comprendere quanto fosse incomprensibile il clima de-gli anni Settanta: «Il liceo» spiega oggi la professoressa «era frequentato prevalentemente da studenti di sinistra. Si sa co-me vanno queste cose: gli alunni si chiamano fra loro, gli amici e i fratelli vanno dove altri si trovano bene; a poco a po-co la scuola si connota con un colore politico. Altri istituti dei dintorni, eravamo al centro della città, si definivano "di de-stra". Nei primi anni Settanta, quindi, eravamo giornalmente in mezzo a scontri non solo di carattere ideologico, ma anche fisico. Spesso venivano sotto la nostra scuola gruppi di destra, il più delle volte armati di catene e altre armi improprie, ad aspettare l’ora dell’uscita degli studenti, e i più facinorosi del-l’una e dell’altra fazione si affrontavano rumorosamente. «Ricordo che una volta, dopo che si fu svolto uno dei soli-ti scontri, gli aggressori, neofascisti, non contenti di aver messo in fuga i loro avversari, si fermarono davanti alla scuo-la ad aspettare noi professori, che uscivamo più tardi per una delle tante riunioni improvvisate cui il preside ci chiamava per trovare soluzioni alla difficile situazione. Il preside ci con-sigliò di aspettare ad uscire, sperando che si stancassero, e fe-ce chiudere il portone. Noi, dentro, dalle alte finestre dell’an-tico palazzo ottocentesco, riuscivamo malamente a vedete la strada. Attivarono le due, le due e un quarto. L’uscita sem-inava libera, ma il preside consigliava ancora prudenza. Io però ad un certo momento decisi di rischiare, perché dovevo recuperare i bambini dalla casa dei nonni. Così spinsi le pe-santi ante del vecchio portone. La strada non era vuota, dagli alti davanzali delle finestre non avevo potuto vedere che pro-prio sui gradini dell’ingresso stazionava ancora un gruppetto di quelli che si facevano chiamare fascisti, ragazzi molto gio-vani, che silenziosamente guardavano qualcosa in terra in mezzo a loro. Mi ci trovai proprio sopra, scendendo i gradini: un ragazzetto del nostro istituto, forse un ginnasiale, giaceva in terra, tutto avvolto nello scotch, quello alto, marrone, da pacchi, dalla testa Al piedi, come una mummia. Restavano fuori solo naso e bocca e occhi, ma malamente, non del tut-to. Mi spaventai. Gridai: "Ma siete matti? Potrebbe morire! E un bambino!" e con decisione cominciai a staccate lo scotch, cominciando dalla testa. "Aiutatemi!" Nessuno rispose. I ra-gazzi
avevano formato un cerchio intorno a me e al ragazzino riverso, e mi guardavano in un silenzio inquietante. Io conti-nuai con affanno a "scartare" il ragazzetto, china su di lui, trovando difficoltà nei momenti in cui lo scotch si età so-vrapposto girando intorno al corpo, o infilandosi nella stoffa degli abiti. Nessuno fiatava e nessuno mi aiutava ("Professore, ieri ha rischiato brutto" mi disse il giorno dopo una mia alunna, facendomi capire che, al di là di quel cerchio, più lontano nella via, c’erano altri ragazzi, alunni della scuola, se-minascosti e spaventati, divisi fra il desiderio di allontanarsi per paura degli scontri e il turbamento di lasciarmi sola). «In un tempo che mi sembrò eterno arrivai a liberare del tutto il ragazzino che, appena recuperò l’uso dei piedi, scappò via spaventatissimo senza dire una parola. Io mi raddrizzai, ri-presi la borsa che avevo appoggiato in terra e guardai il cerchio ancora chiuso. Non sapevo che dire. Il cerchio si aprì un po’, il tanto per farmi passare. Me ne andai senza voltarmi indietro.» Studio e politica Ho iscritto i miei figli alla scuola pubblica, e così farò in futu-ro, perché voglio che si confrontino con la realtà per quella che è, e perché sono sicuro che cresceranno scoprendo la bel-lezza delle differenze. Molte persone che conosco hanno scelto invece per i loro figli la scuola privata, e non ci trovo assoluta-mente nulla di male. I miei bambini incontreranno persone che cercheranno di convincerli di idee che io non amo, e stes-sa sorte seguiranno i figli di chi la pensa diversamente da me. Una cosa mi chiedo: è possibile ridurre quello che si fa a scuo-la a una categoria politica? E possibile date un colore al sapere? Ovviamente penso che la risposta sia negativa. Le cate-gorie della politica sono troppo strette per ingabbiare quello che la scuola è e rappresenta. Affidare i propri figli a un isti-tuto che si ritenga di destra piuttosto che di sinistra vorreb-be dire aver smarrito il senso dello studio. I programmi, le linee guida di un percorso scolastico non possono che na-scere da scelte discrezionali, è ovvio, e ogni scelta, alla fine, è influenzata anche dall’orientamento politico di chi la fa. Ma l’idea che lo studio serva a imprimere un’inclinazione politica o una formazione politica allo studente è una con-vinzione datata, che poteva reggere quando (Al tempi di cui abbiamo appena parlato) si pensava che tutto fosse politica. La politica (e questo non è necessariamente un bene) oc-cupa ormai uno spazio forse addirittura esiguo nelle nostre vite, così come in quelle degli studiosi, e probabilmente, og-gi, anche in quelle dei professori. Di sicuro non trova molto spazio in quelle degli studenti. È il momento allora di ricor-darci a che cosa serve, davvero, lo studio.
5 Gli studi
Lo studio inutile Quando fu il momento di iscrivermi all’università ero dav-vero tormentato. Sognavo di laurearmi in filosofia, pensavo di dover accedere a una più pragmatica Giurisprudenza, op-tai per il compromesso Scienze politiche. In quegli anni quella facoltà non garantiva, nell’università pubblica, rigore e serietà: mi iscrissi alla Luiss, l’università della Confindustria, sinonimo per me e la mia famiglia di impiego sicuro una volta laureato. Consegnarsi a un’università privata vole-va dire per me e i miei amici arrendersi, predisporsi allo stu-dio serio, accantonare le velleità che arrivammo a definire «da poeta», dimenticare letteratura e filosofia e cominciare un percorso che ci avrebbe trasformato in aridi manager an-ni Ottanta. Naturalmente, come succede ogni volta che si è convinti di qualcosa, ci accorgemmo in breve che non era così. Ogni libro che aprivamo parlava di pensiero e di stona del pensiero, incontravamo Popper, Wirtgenstein, Kuhn e Feyerabend a ogni pagina che voltavamo. Ci stavamo real-mente innamorando del corso di studi che avevamo intra-preso, quando accadde che il rettore decise la chiusura della nostra facoltà. Noi saremmo stati gli ultimi laureati in Scienze politiche: eravamo appena iscritti e già eravamo sta-ti bollati come ultimi Mohicani. Il consiglio d’amministrazione si era domandato: «A che serve Scienze politiche?» e non aveva trovato risposta. Per noi una condanna a morte: cosa avremmo fatto con in ma-no una laurea definita inutile dalla stessa università che l’a-veva rilasciata? Il mondo si capovolse ancora una volta, e mentre i nostri amici che si erano iscritti alle università pub-bliche studiavano e preparavano gli esami, noi yuppies del-l’università privata occupammo gli istituti. Occupammo la Luiss. Facemmo manifestazioni, soste-nuti e sospinti da professori illuminati. Entravamo nelle au-le di Economia fischiando e battendo le mani, mentre futu-ri manager che aspettavano solo di finire gli esami e discute-re la tesi ci guardavano e commentavano: «Giusto a Scienze politiche potevano finire...». Non eravamo ribelli perché politicizzati: ci ribellavamo all’idea di essere inutili. È vero, avevamo scelto di studiare la Politica, non la Legge o l’Economia, e quindi sembravamo inadeguati a quell’ambiente e a quegli anni, ma non poteva-mo accettare che un’università decretasse inutili le nostre scelte, la nostra cultura. Dopo qualche mese il rettore fu sfi-duciato, l’università tornò sulle sue decisioni, e Scienze po-litiche continuò a vivere. Adesso molti miei colleghi di que-gli anni occupano posti importanti in aziende, nella pubbli-ca amministrazione, nel mondo della
comunicazione. Non esistono studi inutili. Studiare conviene? A guardare gli stipendi, non conviene. Nel suo complesso il salario di chi ha passato gli anni sui libri non è granché superiore a quello di chi, negli stessi anni, se ne andava a pas-seggio o a giocare a pallone invece di studiare. Gli stipendi in Italia sono appiattiti verso il basso, poco attenti al merito, alle capacità o alla produttività del singolo lavoratore. In Rai di tanto in tanto vengono distribuiti dei questio-nari per gli amministrativi, questionari che servono a scova-re i cosiddetti «cripto laureati», i laureati impiegati in com-piti inferiori alle loro potenzialità. Ho scoperto che in Rai abbiamo antropologi a montare servizi audio, etnomusicologi ad archiviare documenti, economisti addetti al mon-taggio dei servizi audio, grecisti che compilano le schede orario dei giornalisti. Ogni volta che arriva questo foglio da riempire, i cripto laureati sono costretti a ricordarsi cosa avevano studiato, qual era la loro passione, in che cosa «era-no bravi». Poi consegnano il foglio, e possono dimenticate di nuovo tutto. Ma torniamo Al salari. «Le retribuzioni di professioni non qualificate, di conduttori di impianti, di operai specializzati, di professioni qualificate nelle attività commerciali e degli impiegati» scriveva Fabio Pozzo su «La Stampa» 1 «si aggirano tutte tra i 21 e i 23 mila euro (lordi). Si va dai 21.170 euro di un lavoratore non qualificato Al 22.750 di un impiegato, an-che laureato. La differenza, si vede bene, è minima: in me-dia, di 1600 euro l’anno. Vale a dire, soltanto 120 euro al mese. Ergo: vale ancora la pena proseguire negli studi? Spen-dervi tre o quattro anni, nell’ipotesi più favorevole, ritardan-do l’ingresso nel mondo del lavoro (che non si trova, ma questo è un altro discorso)? Pagare rette sempre più alte agli atenei, per colmare i loro buchi di bilancio? E poi, non riu-scire a monetizzare (al di là del valore della cultura) queste spese, questi sacrifici?» Il mercato del lavoro italiano non premia il merito, e questo è un fatto, ma ciò nonostante lo studio resta l’unica possibilità di farcela. Effettivamente le statistiche ci dicono che su 100 neoassunti nel mondo dell’industria i laureati sono solo 6, 2 ma le statistiche (come sempre) ingannano. In realtà si tratta di una media: nelle imprese farmaceutiche so-no il 70 per cento, il 36 per cento in quelle chimiche, il 27 per cento nelle telecomunicazioni, il 13 per cento nelle in-dustrie meccaniche. Ad abbassare la media sono le imprese edili: 1,6 laureati ogni 100 assunti, percentuale fisiologica per il settore. Le imprese hanno (e avranno sempre di più) bisogno di laureati, questo è sicuro. I più ricercati sono i laureati in Eco-nomia, gli ingegneri, i laureati in materie scientifiche in ge-nere e i tecnici di livello intermedio. Nel 2006 sono stati as-sunti 39.370 dottori in Economia, 32 mila ingegneri e solo 3820 professionisti dell’insegnamento e della formazione. In realtà, a sentire i responsabili delle risorse umane delle gran-di aziende, la laurea è data per scontata se si cerca l’assunzio-ne. Chi non è laureato il lavoro di livello non lo troverà mai. Ormai il massimo dei voti è quasi una precondizione per chi spera di diventare manager, e i cacciatori di teste approfondi-scono aspetti più personali del candidato, come il suo corag-gio, la capacità di relazione, la
conoscenza delle lingue. Ma non è neanche (solo) una questione di lavoro. «Le discipline» spiega Antiseri «sono un insieme di teo-rie che cercano di risolvere famiglie più o meno connesse di problemi: abbiamo problemi di fisica, di biologia, di mate-matica... e così via. Ogni disciplina mette a disposizione un patrimonio di idee che cerca di risolvere famiglie di proble-mi.» In pratica, cerchiamo di organizzare in macrocategorie la vita che, come dicevamo, è fatta di nodi da sciogliere, di enigmi da capire, di problemi da risolvere. Più discipline studi, più possibilità hai di risolvere problemi: «La soluzio-ne dei problemi» conclude Antiseri «comporta l’utilizzo di pezzi teorici di diverse discipline. È questa l’importanza di avere quella che si chiama "una cultura generale": non possiamo uscire dalla scuola solo con il bagaglio di un’unica di-sciplina... Bisogna avere a disposizione più strumenti, essere ricchi di sapere, in modo da aumentare le possibilità di vive-re bene».’ È bene quindi sgombrare il campo dal luogo comune che considera alcune materie più importanti di altre o che, peggio ancora, ne condanna alcune come inutili. La matematica, la filosofia e le arti Date delle premesse, cosa succede? Un matematico si occu-pa più o meno di capire cosa discende da ipotesi prefissate. Inutile stare a sottolineate l’importanza pratica che ha lo studio delle forme teoriche come i numeri. Pensiamo solo all’importanza che hanno le applicazioni della matematica nella scienza, nella tecnologia, nell’economia, ma anche l’importanza che ha la matematica come fondamento e svi-luppo del pensiero razionale, il pensiero, cioè, che è alla ba-se del nostro vivere (almeno fino a che non ne troveremo uno migliore!). Prendiamo la filosofia, che indaga i quesiti che da sem-pre tormentano l’uomo come l’esistenza di Dio (metafisi-ca), la differenza tra Bene e Male (etica) e la riflessione sulla scienza (epistemologia). I problemi dello spazio e del tempo, dell’origine dell’u-niverso, del determinismo o dell’indeterminismo, del reali-smo, sono solo alcune delle questioni filosofiche di maggior rilievo che lo studioso di fisica prima o poi incontrerà. Così come il ricercatore in ambito biologico non potrà non im-battersi nel problema dell’origine della vita e in tutti gli in-terrogativi filosofici ed epistemologici connessi alla teoria evolutiva. «I problemi filosofici» spiega Antiseri «sono i valori più urgenti, perché la Terra è piena di sangue versato non in no-me di teorie scientifiche, ma in nome della religione e la fi-losofia. Un controllo critico di queste idee è la cosa più im-portante che un uomo possa avere.» 4 Albert Einstein, come abbiamo già ricordato, diceva che le idee sono la cosa più reale che esista al mondo. Prendia-mo l’arte: l’umanità ha capito se stessa (prima che venisse la scienza) tramite la storia dell’arte. Perché andiamo al mu-seo? «Per vedere» spiega Dario Antiseri «in quel quadro o in quella scultura cosa è la disperazione, la sofferenza, la gioia o il dolore. La Pietà parla della disperazione di una madre davanti alla morte del figlio, scopriamo cosa è la paura nei dipinti del Caravaggio...» Nelle immagini dei quadri o nelle pagine di un romanzo incontriamo modelli idealtipici. Quando, per esempio, Alessandro Manzoni descrive don Abbondio
delinea un tipo di uomo: l’arte ci dà un’informazione, ci rende edotti su un tipo di persona che possiamo incontrare. Quando di una persona si dice che è un «don Giovanni», si offre su di lei un’informazione né più né meno di quando un medico o un neurologo descrivono i tratti di uno stato della mente: parliamo di tipologie, in entrambi i casi. L’arte, come la scienza, ci arricchisce di sapere, di chiavi di lettura della realtà. «Ecco perché» conclude Antiseri «teatro, pittura, scultura, la grande letteratura, così come la satira, sono alta-mente formative. Attraverso di loro l’uomo ha espresso se stesso, ha ordinato le sue idee. Queste cose ci fanno capire veramente chi siamo noi, ci danno idee e ideali... e in più sono storia della nostra civiltà.» Anche la contrapposizione tra materie umanistiche e materie pratiche, tra istituti classici e tecnici è sbagliata. L’idea che dagli istituti tecnici si debba uscire avendo «imparato un mestiere» è errata: non bisognerebbe termina-re la scuola avendo imparato un mestiere, ma avendo impa-rato a cambiare mestiere. Viviamo in un mondo in cui i la-vori cambiano e si trasformano velocemente, muoiono e nascono alla velocità della luce. Anche gli studenti dei co-siddetti istituti «tecnici» dovrebbero assorbire teorie, non solo competenze, per essere in grado di cambiare idea, abi-tudini, comportamenti. L’uomo più pratico, d’altronde, è sempre quello in grado di sognare più degli altri, di imma-ginare soluzioni nuove, sperimentare ipotesi originali. Il nostro professore di Filosofia diceva: «Non c’è niente di più pratico di una buona teoria» e aggiungeva, cedendo al gusto del paradosso: «insegnare Al giovani un mestiere vuol dire ingannarli». Il latino fa chic? Secondo l’associazione Treellle le lingue classiche sono or-mai percepite esclusivamente «come un fattore di distinzio-ne sociale». 5 Tra i ragazzi che studiano latino o greco, secon-do Treellle, l’80 per cento ha il padre laureato (contro il 20 per cento di chi è agli istituti tecnici o professionali), il 71 per cento proviene da una famiglia di alto livello culturale (29 per cento nel caso degli istituti tecnici o professionali), il 78 per cento ha una biblioteca in casa (contro il 30 per cento degli altri). Ma il fatto che i figli dell’Italia colta studi-no il latino non vuol dite che lo conoscano. «Su un milione di studenti italiani delle superiori che si avvicinano alla lingua dei romani» conferma lo studio, «400 mila si rifiutano perentoriamente di impararla.» In genere, nel resto dell’Occidente, lo studio delle lingue classiche alle superiori è facoltativo. Le studiano 1 america-no su 100, 3 francesi su 100, 2 inglesi su 100. In Germania ci tengono, e quindi lo studiano 8 ragazzi su 100. Grecia e Italia la pensano diversamente: il 100 per 100 degli studenti ellenici si dedica allo studio della lingua dei padri, mentre in Italia è solo il 41 per cento degli studenti delle superiori ad affrontare i testi di Cicerone, Virgilio, Tacito. «Il caratte-re di obbligatorietà» spiegava a Raffello Masci il responsabi-le della ricerca Attilio Iliva «fa del latino una delle materie meno amate e quella che presenta un primato nei debiti for-mativi. Chi lo studia per scelta, infatti, come gli americani o gli inglesi, lo studia bene e lo sa. Quel 40 per cento di stu-denti di latino che convive con un debito formativo in que-sta materia per tutta la durata degli studi sta ad indicare che qui da noi esiste una "opzionalità
clandestina" di questa ma-teria, obbligatoria solo formalmente, ma di fatto snobbata e rifiutata.» 6 Ma allora perché si studia il latino? Le lingue morte Naturalmente presentare il latino e il greco come delle «lin-gue morte» non aiuta. La sensazione che dà questa espres-sione alla maggior parte della gente, anche di una certa cul-tura, è quella che «morte» implichi un giudizio negativo, una condanna definitiva, una collocazione fra ciò che non serve più. L’espressione «lingua morta», invece, ha un significato preciso: lingua «viva» è quella che viene parlata da gruppi, popoli, nazioni, e che quindi ancora si può modificare con l’uso, che può arricchirsi spontaneamente di termini nuovi quando nuove invenzioni o nuove situazioni lo rendano ne-cessario. Lingua «morta» è quella che non viene più parlata da un popolo o anche da un ristretto numero di persone, se non in situazioni artificiose, e quindi non può più né modi-ficarsi né arricchirsi spontaneamente. Il latino e il greco antico non si parlano più: l’italiano e il greco moderno sono ormai lingue diverse. Non importa che il latino venga usato in certi convegni dove la quantità di lin-gue in uso fra i partecipanti crea difficoltà o dove alcuni gruppi rifiutano per ragioni ideologiche la prevalenza del-l’inglese. Esistono trasmissioni radiofoniche, riviste e siti in-ternet in latino. Sono usi non spontanei, ristretti a gruppi di intellettuali molto dotti, che per l’occasione arrivano a co-struire termini nuovi necessari per dialogare oggi con una lingua, appunto, «morta». Così nascono penosi e faticosi neologismi che non appartengono ad alcuna comunità e che sono la prova del tempo passato da quando questa lingua è «morta». In internet è consultabile un divertente estratto dal Lexicon Recentis Latinitatis 7 (qualche esempio: drink, potio alcoholica; agente bancario, curator nunmularius...). In realtà, latino e greco si studiano, ad esempio, per par-lare meglio. I giovani che hanno studiato le lingue classiche possiedono, rispetto Al giovani che non lo hanno fatto, una maggiore ricchezza di termini, una facilità di eloquio e una prontezza di comprensione di linguaggi (anche specialistici) che rendono meno ostico ogni tipo di studio universitario. I termini della medicina, della matematica, della legge sono quasi tutti provenienti dal greco e dal latino: davanti a un vocabolo sconosciuto, diventa un’abitudine mentale quella di risalire all’origine etimologica, cercando di ricostruire su-bito il significato della parola. A condannare il latino e il greco sono anche alcuni luo-ghi comuni, del genere: «Si deve studiare il latino perché in-segna a ragionare». È così che sono diventati importanti nella nostra scuola gli esercizi di grammatica e le regole del-la sintassi, perché fungerebbero da «palestra di difficoltà». In realtà la stessa funzione potrebbero assolverla (forse an-che meglio) i cruciverba o i rebus, anche perché gli studenti odiano questo studio arido, fine a se stesso o finalizzato a esercitazioni. Altro mito da sfatate, caro a molti professori di latino e greco di vecchia formazione, è che le culture latina e greca abbiano importanza fondamentale in tutto il mondo: il no-stro sguardo è rispetto alla cultura europea come se fosse l’unica esistente; abbiamo difficoltà a relativizzare in questo campo. Nessuno nega che i
nostri grandi autori possano es-sere amati anche in America o in Cina, una volta che siano stati tradotti e diffusi in quei Paesi, ma per la cultura cinese, giapponese o indiana ci sono altri autori di corrispondente grandezza che noi non conosciamo, ma che sono importan-ti come Omero o Virgilio da noi. Siamo arrivati al punto: le culture latina e greca sono mediterranee, costituiscono le nostre radici, hanno prodot-to opere potenti, queste sì veramente «vive», vive ancora og-gi nelle nostre opere e nei nostri autori, e per questo noi fac-ciamo bene a studiarle. La conoscenza della lingua ci permette la lettura dei testi dei grandi autori nella versione originale, e questo è il vero fine dello studio di declinazioni, verbi e costruzioni. Al gio-vani bisognerebbe continuamente dimostrare che gramma-tica e sintassi non sono fini, ma strumenti, per conoscere non solo i testi, ma anche la mentalità dei popoli che sono alle nostre origini. Un esempio? La fondamentale differenza fra l’indicativo e il congiuntivo in latino risale alla potente chiarezza del di-scorso di scrittori che volevano che l’interlocutore (o il let-tore) capisse subito se una dichiarazione era veritiera, sicura (e allora usavano l’indicativo), o se l’autore stesso nutriva dubbi su quanto altri gli avevano raccontato (e in questo ca-so usava il congiuntivo). Le complicate costruzioni del pe-riodo ipotetico diventano comprensibili e vengono sentite come necessarie quando si capisce che chi parla non vuole che ci siano incertezze su quello che pensa: deve essere subi-to evidente se quella ipotesi è sentita come possibile o no; il destinatario del messaggio, diremmo oggi, deve essere mes-so in condizione di capire il senso profondo del discorso. Lo studio delle figure retoriche non deve essere finalizza-to a una caccia al tesoro su testi di cui si dimentica il conte-nuto pur di evidenziare omoteleuti o anafore: bisogna sem-pre ricordare che anticamente non si leggeva in silenzio, col pensiero, ma ad alta voce (esistevano addirittura gli schiavi «lettori»), e quindi le figure di suono si gustavano molto più di ora; la conoscenza delle figure retoriche deve essere un ul-teriore strumento per godere lo stile di un testo, semplice, scorrevole e chiaro, se deve raccontare una guerra (Cesare), complesso e ricco di connotazioni, potentemente ellittico, se deve raccontare trame, delitti, lotte per il potere (Tacito), sintatticamente elaborato e sapientemente «retorico», ap-punto, se deve convincete, commuovere, infuocare chi ascolta (Cicerone). Studiando il latino, insomma, si impara a comprendere l’effetto che fanno le nostre parole, si impara ad ascoltarsi, e quindi a gestire meglio quello che diciamo, li a capire (par-ticolare non poco importante) quello che gli altri ci dicono. Perché si studia l’italiano? «Il problema più grave» testimonia un insegnante di un liceo classico romano 8 «è il fatto che non si arrivi quasi mai a far studiare la letteratura moderna: nella farragine dei program-mi, nella ristrettezza degli orari, a malapena molti insegnanti arrivano a far leggere in terza liceo Pirandello, qualche volta uno sguardo veloce a Ungaretti, Montale, Quasimodo, tutti studiati in modo singolo, senza arrivare ad immergerli in un quadro culturale completo, storico, filosofico, artistico. Ren-diamoci conto, inoltre, che ormai è passato un secolo da questi "moderni". Al giovani vengono così
a mancare i testi della cultura contemporanea, quelli che potrebbero meglio comprendere se ricevessero gli strumenti per decodificarli, strumenti di cui hanno bisogno quando vanno a una mo-stra, quando vanno al cinema, quando guardano la televisio-ne e devono essere messi in grado di giudicare fiction, talk-show e programmi culturali.» Ecco perché le ore di letteratura sanno un po’ di «anti-co». E spesso di inutile: la letteratura passa sempre più per essere una materia d’«abbellimento per anime belle», che non assicura il pane. I genitori si spaventano quando una fi-glia, ma soprattutto un figlio, dice che vorrebbe iscriversi a Lettere all’università. Cosa farà poi? Il professore? Con gli stipendi che hanno? In realtà il mercato offrirebbe buone occasioni di lavoro anche al laureato in Lettere, o al giovane che al liceo si di-stingue in italiano: lo scrivere infatti non va inteso solo co-me produzione di alto livello artistico, ma come professione tout court . I giornali hanno bisogno di giornalisti che sap-piano scrivere; le case editrici cercano autori di novelle e ro-manzi, il mercato della fiction è in enorme espansione, e le reti televisive comprano serial in Paesi stranieri, ma cercano anche di produrne di propri, più adatti a spettatori italiani, affidandone le sceneggiature a giovani scrittori. A questo anche dovrebbe preparare la scuola. Il rischio è invece che la scuola sia la prima nemica della letteratura italiana, riproponendo vecchi schemi di insegna-mento. Perfettamente inutile ormai la formula del tema in classe, come elaborazione retorica di un argomento; si sono affiancate, se non sostituite, a esso le forme dell’analisi del te-sto, della relazione, del saggio breve, che hanno invece uno stretto rapporto con il mondo di oggi. Potrà capitare a chiun-que di dover stendere una relazione, qualsiasi lavoro faccia. La scuola deve preparare anche a questo. Ma il cambiamento deve essere reale: è velleitario e solo «di facciata» chiedere al-l’esame di maturità di stendere un testo sotto forma di sce-neggiatura o di articolo di giornale. Quanti professori sa-prebbero scrivere, e quindi insegnare a scrivere, un articolo di giornale? Apparentemente facilissimo, è uno dei testi più dif-ficili da produrre, cui le scuole di giornalismo preparano in due anni di corso. Peggio che mai una sceneggiatura, che ne-cessita di conoscenze specifiche in campo teatrale e cinema-tografico. Lo studio dell’italiano non dovrebbe quindi essere più «l’arricchimento per le anime belle», ma diventare con-creto, avviare a una possibile partecipazione a campi moder-nissimi del lavoro. Mentre la scuola arranca dietro al bello scrivere delle epoche passate, proliferano le scuole di scrittura di ogni tipo e livello. Nate inizialmente in Italia per spingere chi avesse problemi personali a sfogarsi scrivendo, alcune di esse stanno a poco a poco assumendo metodi e fini professio-nali, come è stato invece fin dall’inizio in America. La scuola ne dovrà mutuare programmi e finalità, e anche lo studio dell’italiano perderà quella connotazione solo idealistica che tanto spaventa i genitori pratici, che vorrebbero vedere i figli assunti e stipendiati il giorno dopo aver terminato gli studi. Lettere dal carcere Sul mio sito un giorno è arrivata la mail di una professoressa che era stata nominata presidente di commissione in un carcere. Mi sembra che sia interessante leggerla in conclusione di un capitolo in cui ci si è domandati a cosa serva studiare.
«Ormai» scrive la professoressa Valeria Floris, che inse-gna allo scientifico di Foligno 9 «sono nel mondo della scuo-la da 18 anni, ma è il primo anno che faccio gli ex esami di maturità come presidente di commissione e per di più den-tro a un carcere (il carcere di massima sicurezza di Spoleto). Mi ha colpito come la scuola sia ben radicata dentro una struttura del genere (molti detenuti studiano recuperando situazioni personali e familiari socialmente sfavorevoli). Mi ha colpito anche la voglia di riscatto che si percepisce in persone che magari non useranno mai un diploma (alcuni, o molti, devono scontare l’ergastolo). Mi ha stupito poi il fatto che anche l’università entri in carcere. La tristezza è ve-dere bambini che vanno a far visita a un padre dietro le sbarre (che racconteranno questi bambini Al loro compa-gni?). La rabbia è sapere che per i miei alunni, che vivono in famiglia e hanno tutto, lo studio è un dovere e non un pia-cere, è un percorso di vita dal quale cercare di sfuggire entro cinque anni. A quelli del carcere che non sono Santarelli, ma maliosi della più spietata specie, forse lo studio servirà per un futuro indulto, ma io non so se troverei la forza di stu-diare, perché noi liberi pensiamo sempre che lo studio ci serva per il raggiungimento di un posto di lavoro e non, pri-ma di tutto, per noi stessi. Pensate al paradosso: la scuola li-bera (quella fuori) e la libertà di volere una scuola (dentro).» Ci pensiamo? Ci è più capitato di pensarci?
Genitori 1 I conti in tasca
La caccia al bidello I bidelli? «Non riesco ad impastarli e ad alitarci sopra.» Giu-seppe Gambale, l’ex assessore all’Educazione, Trasparenza e Legalità del comune di Napoli 1 cita la Creazione e le Sacre Scritture per rispondere alla nostra domanda. Una doman-da semplice, per la quale in teoria non bisognerebbe scomo-dare i testi sacri. La domanda era: come è riuscito il comune di Napoli con i suoi oltre 13 mila dipendenti a non trovare sei bidelli per tre asili, tra i quali un nido inaugurato e nuovo di zecca, rimasto però chiuso per cinque mesi? Come si è ar-rivati a dover assumere ex novo del personale quando dipen-dono dallo Stato 167 mila bidelli (considerate che i carabi-nieri in Italia sono 118 mila)? Eppure, a Napoli, la ricerca di sei bidelli è durata da settembre a febbraio, fino a che il co-mune della Iervolino si è arreso e ha emanato un bando ur-gente per assumerne di nuovi, spendendo 62 mila euro. La vicenda è quella dell’asilo nido di Chiaia, un asilo nuovo nuovo, rimasto chiuso fino a febbraio proprio perché manca-vano due bidelli. Una municipalità di Napoli conta in genere decine di migliaia di abitanti: nel quartiere Chiaia risultava aperto solo un micronido con sedici posti, cosi a settembre 2007, dopo mesi di lavoro, viene inaugurato un nido in via Giordano Bruno. Costo, fino a quel momento, 120 mila euro. L’asilo è bello, accogliente, nuovo fiammante, come di-mostrano anche le foto che il comune di Napoli pubblica sul suo sito. È intitolato a don Peppino Diana, un prete uc-ciso dalla camorra a soli trentasei anni. Ci sono lettini, com-puter, armadietti, ampi spazi. All’inaugurazione sono pre-senti tutti i politici che ci devono essere: il ministro, il sin-daco, gli assessori. È presente anche il padre del religioso uc-ciso dalla camorra. Applausi, sorrisi, taglio del nastro e grande soddisfazione. A metà settembre è già pronta la lista dei bambini am-messi, una trentina, che dal 1° ottobre potranno andare al ni-do. L’asilo però rimane chiuso per settimane, anzi mesi: man-cano i bidelli, due bidelli, il minimo per poter aprire i cancel-li. Mancano perché sono malati: i primi due assegnati all’asi-lo presentano il certificato medico e quindi vanno sostituiti. Si scopre a questo punto che non mancano i bidelli solo per l’asilo di Chiaia ma anche per altre due scuole dell’infanzia del napoletano. Come si
fa a trovare sei bidelli in un comune che ha circa 13 mila dipendenti? Si cercano quelli che sono in organico, per metterli a fare il loro lavoro. L’assessorato inizia una ricognizione e chiede alle altre municipalità se, per caso, «avanzasse loro qualche bidello da mandare alle scuole sprovviste». La risposta è «niente da fare», fanno già fatica a mandare avanti i loro istituti e non si sognano certo di pre-stare i bidelli agli altri. L’assessorato si mette allora a cercare gli «imboscati», categoria alla quale appartengono quelli che erano entrati al comune come bidelli ma che nel frattempo sono riusciti a farsi impiegare in altro ruolo, come segretari (per esempio) a disposizione dei gruppi al consiglio comuna-le. Se ne individuano quattro, ma anche loro presentano cer-tificati medici. Alcuni documentano limitazioni funzionali che non permettono loro neanche di stare in piedi. A questo punto si fa un altro tentativo: si cercano quelli che sarebbero idonei a fare i bidelli, ma che al momento sono impiegati co-me giardinieri o come uscieri. Dalla ricognizione risultano circa 30 nomi, persone idonee secondo il comune a svolgere il compito di bidelli. Ma indovinate un po’? Una volta chia-mati, presentano tutti un certificato medico. Un’epidemia. Per alcuni sono spuntate anche delle limitazioni fisiche mai dichiarate prima. A nulla sono servite le visite fiscali chieste e sollecitate alla Asl dall’assessore. Si va avanti così per cinque mesi, anche perché, spiega Giuseppe Gambale «dovevo provarle tutte prima di rivol-germi all’esterno e assumere nuovo personale con i soldi del comune, altrimenti la Corte dei Conti avrebbe potuto fare obiezioni sul mio operato». Intanto dalla lista degli iscritti, nel famoso asilo di Chiaia, 22 bambini si sono ritirati o hanno rinunciato. A febbraio il presidente del municipio, Fabio Chiosi, aveva anche restituito le chiavi del nido al comune. Alla fine si è proceduto a una gara pubblica urgente, in modo da reperire (pagando) i bidelli necessari. Una soluzio-ne, così è scritto nel bando, di carattere «sperimentale». 11 co-sto per coprire i rimanenti quattro mesi e terminare l’anno scolastico è stato di 62 mila euro, che diviso per sei bidelli si-gnifica più o meno 10 mila euro a bidello, 2500 euro al mese per ognuno. Per l’anno in corso la soluzione è sperimentale, e costosa. Ma l’anno prossimo, chi farà il bidello all’asilo di Chiaia? La sete di sapere, e i rubinetti chiusi Se investi più degli altri, pretenderai di ottenere di più? Pro-babilmente sì, ma non in Italia. Noi spendiamo più della media Ocse sia per ogni studente della scuola dell’obbligo, sia per ogni studente della scuola secondaria. Spendiamo di più ma otteniamo di meno. Abbiamo il più alto rapporto numerico tra docenti e studenti: in Italia ogni 100 alunni abbiamo 9,4 insegnanti delle secondarie, 9,2 delle elemen-tari, mentre la media Ocse è 7,4 e 6,1; 8,5 e 6,8 nella media dei Paesi europei. Certo, ad alzare la media italiana sono l’ampia assistenza agli studenti diversamente abili e le scuo-le dei piccoli centri, ma il divario con gli altri Paesi è tal-mente elevato che la popolazione italiana dovrebbe essere più preparata delle altre, non meno. Ogni anno si spendono 4 miliardi di euro per tenete pu-lite le scuole. In Italia ci sono 167 mila collaboratori scola-stici (quelli che una volta venivano chiamati bidelli). C’è un collaboratore ogni due classi virgola due, un esercito di bi-delli che
dovrebbe garantire (in linea teorica) la lucentezza di aule, bagni e corridoi. Spendiamo troppo per la scuola, 2 ma investiamo sempre meno nell’istruzione: l’incidenza della spesa per l’istruzione sulla spesa pubblica totale si è ridotta nel 2006 all’8,8 per cento, mentre nel 1990 era pari al 10,3 per cento. Il dossier 2008 di «Tuttoscuola» 5 ci spiega che «fatto pari a 100 l’am-montare delle risorse pubbliche con il quale il Paese fa fron-te alle proprie esigenze, dalla sanità alla previdenza, dall’or-dine pubblico alla difesa, è come dire che la quota destinata alla formazione e al sapere è stata ridotta in questo arco di tempo del 15 per cento. Insomma è stata considerata, in termini relativi, del 15 per cento meno importante a benefi-cio di altre priorità. Le quote relative alla protezione sociale e alla sanità si sono incrementate notevolmente, ma per esempio quella destinata alle spese per la difesa è rimasta in-variata, a differenza dell’istruzione». Se questo è il trend a livello centrale, bisogna dire che, da quando la legge Bassanini ha ampliato il decentramento amministrativo, gli enti locali hanno investito sempre meno nell’istruzione. Nel 1996, prima della riforma Bassanini, le amministrazioni locali spendevano l’11,1 per cento delle proprie risorse nell’istruzione, mentre nel 2005 erano arri-vate a impegnarne il 7,8 per cento: come a dire, se devono scegliere gli enti locali, le priorità sono altre (vedere natural-mente alla voce «sanità»). Insomma, invece di affrontare il problema della qualità della spesa, nei momenti di crisi ci limitiamo a chiudere il rubinetto, magari dirottando risorse dalla scuola alla sanità, altro gioiello dell’«azienda Italia». È come se noi, avendo a disposizione un’automobile vecchia, disastrata, che consuma troppo, invece di cambiar-la ci limitassimo a ridurre continuamente la benzina che le mettiamo nel serbatoio. Risultato: la macchina si ferma. Null’altro. In realtà, mentre un’automobile si può fermare, la scuola non lo può lare. La macchina scuola deve continuare neces-sariamente a marciare, e quindi sapete chi li mette i soldi per il carburante? La spesa delle famiglie Ogni anno le famiglie versano 500 milioni di euro alle scuo-le, a titolo di «contributo». Sono soldi non dovuti, non pre-visti da alcuna disposizione, una sorta di elemosina che va a colmare le lacune degli istituti. Parliamo di spese di laboratorio, assicurazione degli alunni, acquisto delle pagelle (!). Naturalmente versano questi contributi anche le famiglie esentate dalle tasse scolastiche. Senza questi 500 milioni di euro il sistema collasserebbe. Nelle scuole italiane spesso sono le famiglie a portare la carta per scrivere, le penne, persino la carta igienica. Sempre più spesso i genitori rappresentanti di classe sono anche am-ministratori di una cassa comune finalizzata all’acquisto del materiale scolastico mancante. Ma questo è niente. La politi-ca si confronta continuamente con il problema del carolibri. I libri di testo, che nel migliore dei mondi possibili sarebbero forniti alle famiglie (almeno alle più bisognose) dallo Stato, costano in Italia veramente troppo. Le associazioni dei consu-matori denunciano che i prezzi salgono del 10 per cento all’anno, l’Antitrust è arrivata a concordare con le case editrici delle misure per il contenimento dei prezzi, il governo ha re-centemente varato
dei provvedimenti tampone. Ma in realtà la spesa di ogni famiglia, in questo campo, è tutta legata alla fortuna: osservando gli elenchi dei testi richiesti, ci si accorge che tra una classe e l’altra si possono determinare differenze anche di 400 euro. Il quotidiano «la Repubblica» ha condotto un’indagine sull’argomento, e ha scoperto che «basta cam-biare città, indirizzo scolastico o addirittura sezione nell’am-bito della stessa scuola per ritrovarsi a spendere il doppio». Nella classifica delle città Torino sembra essere la meno cara, Palermo la più costosa. «Senza tetti di spesa» si legge nell’indagine, «il costo totale della dotazione libraria può ar-rivare a cifre vertiginose, basta aggiungere alla lista dizionari e atlanti. Ma il budget varia anche in relazione al numero dei libri da acquistare e al loro prezzo. Secondo la nostra indagi-ne, basata su un campione di oltre 260 classi, la spesa media per la prima classe della scuola secondaria di secondo grado si aggira attorno Al 322 euro. Scorrendo le liste dei libri si scoprono mille curiosità ma, soprattutto, si impara che con un po’ di attenzione è possibile fare risparmiare diverse deci-ne di euro alle famiglie. Perché, se i prezzi dei testi scolastici sono uguali in tutto il territorio nazionale, quello che può appesantire il conto è il numero di libri richiesti dai singoli insegnanti.» Alcuni esempi: «La I C del liceo classico Vitto-rio Emanuele II di Palermo è, con buona probabilità, la classe più "cara" d’Italia: una lunghissima lista di 23 volumi che farà sborsare Al malcapitati genitori 694,10 euro. Per una so-la materia, il Latino, i ragazzi dovranno acquistare 5 libri e un dizionario per l’equivalente di 175,50 euro. Quanto ba-sta agli studenti di un’altra classe palermitana, la I Q dell’Ipsia Salvemini, che con 5 centesimi in meno (175,45 euro) acquisteranno tutti i libri richiesti». Ma anche il costo dei singoli volumi peserà nei bilanci familiari. «A fronte di una spesa media di 35 euro, al liceo classico D’Azeglio di Torino, per acquistare la grammatica di Greco occorrerà pagare 43,70 euro. La lista più pesante sarà invece quella che ritire-ranno mamme e papà dei ragazzi iscritti in I M al liceo clas-sico Umberto I di Napoli. Dizionari esclusi, l’elenco conta 25 libri per un totale di 507,75 euro. In totale vengono ri-chiesti alle famiglie 4 testi di Latino, 4 di Circeo e 6 di Ingle-se. Sommando il costo medio di 4 dizionari (Inglese, Latino, Greco e Italiano che dovranno acquistare coloro che ne sono sprovvisti) si può oltrepassare gli 800 euro. Anche allo scien-tifico le differenze tra classi di istituti diversi sono abnormi. In I H all’Avogadro di Roma si spendono 264,95 euro, mentre in I B al Benedetto Croce di Palermo occorrerà sbor-sare 554,23 euro. Stralciando il costo di 3 dizionari (188,65 euro) resta fra le due classi una differenza di circa 100 euro.» Dall’anno scolastico 2008-2009 è stato introdotto un tetto per la spesa in libri di testo. Si va da un massimo di 370 euro per gli studenti del terzo anno del liceo classico Al 120-140 euro per la quinta classe degli istituti professionali; ma il conto non torna. Mettiamoci nei panni dei capofamiglia delle famiglie più povere: su quali basi secondo voi decideranno il destino dei propri figli? Mentre i giovani benestanti avranno la possibilità di scegliere il percorso di studio che più si attaglia al proprio talento, quali calcoli si troveranno a fare i più bisognosi quan-do dovranno scegliere tra il tecnico, il classico e lo scientifico?
Orari e salti mortali Se fosse per la scuola italiana, le madri starebbero tutte a ca-sa a crescere i figli. Le lezioni nelle scuole medie finiscono tra l’una e le due, e così alle superiori. Alcuni istituti offrono un doposcuola, ma nulla di più. I ragazzi escono e arrivano a casa all’ora di pranzo, dove trovano qualcuno solo se mamma ha lasciato il lavoro, o se ha abbastanza risorse per pagare una colf, o se è così fortunata da avere un buon rap-porto con sua madre o con la suocera. In genere, poi, il ra-gazzo tornato da scuola si butta sul divano e ingurgita (in-sieme a budini e merendine) ore e ore di televisione, o di in-ternet, in attesa che arrivi l’ora di cena (a meno che, naturalmente, la famiglia non abbia le risorse sufficienti a iscriverlo a nuoto, calcio, inglese, teatro, canto, danza afro, ukulele). I padri che decidano di non rifugiarsi nel ruolo che con-segna loro la tradizione italiana in genere attraversano la città in motorino a ore improbabili per andare a prendere i figli a scuola, li scaraventano in un posto sicuro e riattraver-sano la città in giacca e cravatta per tornare al posto di lavo-ro. Riconosci i padri più moderni alle feste di bambini, quel-le infrasettimanali delle quattro di pomeriggio. Buttati da una patte, si fanno segare il collo da strizzatissime cravatte, e intanto ingurgitano pizzette o noccioline senza dire una pa-rola, sguardo allucinato, la testa alla riunione lasciata mezz’ora prima e l’occhio incollato al figlio che insegue un animatore vestito da pagliaccio. Personalmente mi sono fatto molta pena i giovedì del nuoto, mentre con una mano infilavo l’accappatoio a un bambino di quattro anni e con l’altra rispondevo alle mail che mi arrivavano sul palmare. Una scuola disegnata per la famiglia attuale dovrebbe ga-rantire un orario più lungo, almeno fino al momento del ri-torno dei genitori dal lavoro, non per offrire un «babysitte-raggio» di Stato, ma più che altro per sfruttare meglio il tempo che i ragazzi sprecano a casa. Un progetto difficile, certo, ma bisogna tornare sempre alla domanda fondamentale: a che serve la scuola? Se serve per formare gli italiani, allora non basta metterli sul banco per cinque ore la mattina. La scuola del secolo scorso era tutta incentrata sul lavoro in aula, alla lavagna; la società contemporanea richiede diversi percorsi formativi. «Oggi» scrive Francesco Alberoni sul «Corriere della Sera», «avrem-mo bisogno di college diurni in cui i ragazzi fanno letture, scrittura, sport, teatro, cinema, imparano attività artigianali che nessuno più insegna loro. Una scuola che richiede edifici scolastici nuovi o completamente riadattati e un corpo insegnante serio, autorevole e preparato. [...] La famiglia da sola non ce la fa più e la vecchia scuola perde credito ogni giorno, ha quasi smesso di educate [...]. Occorre uno sforzo immenso per sorreggere i genitori.» 5 E invece sono i genitori a fare un immenso sforzo per sorreggere la scuola italiana. I conti di Alessandro Alessandro Spalvieri è impiegato, come sua moglie. Hanno quattro figli: la più grande ha quindici anni e fa la seconda superiore, il secondo ne ha quattordici e fa la terza media, il terzo dodici e fa la prima media, mentre il più piccolo, cin-que anni, va
all’asilo. Tutti iscritti alla scuola pubblica. «... e mi costano tantissimo!» Spiega Alessandro: «Cominciamo dal più piccolo, quello che mi costa meno: la retta mensile dell’asilo è di 41 euro, cui vanno aggiunti il corso di inglese, il materiale (come i colori, le penne, i fogli) e qualche picco-la gita. Il tutto fa 20 euro extra, per un totale di 60 euro al mese. Quelli alle medie mi costano solo di libri 300-400 eu-ro ognuno, e a questi vanno aggiunti 200 euro di materiali vari (disegni, quaderni, gite Al musei...). A fine anno, poi, arriva la gita, cui non puoi dire di no perché in classe la fan-no tutti. Quella costa altri 200 euro per ognuno di loro, ed ecco che i figli che studiano alle medie mi costano 700 euro l’anno l’uno. La grande al liceo vale un capitale: 400-500 euro di libri (solo il dizionario di latino ne costa 130). Alle superiori si paga anche l’iscrizione a scuola, 100 euro, cui vanno aggiunti i soliti 200 euro di materiale e qualche pic-cola gita. Arriviamo a quota 800. «Facendo un calcolo a spanna, spendo circa 2500 euro all’anno per mandarli a scuola. È tanto, ma se questo è il prezzo del loro futuro... lo devo fare». «La spesa che meno digerisco?» continua Alessandro. «Quella per i libri, senza dubbio. Riuscissero almeno a pas-sarseli l’un l’altro... Invece ognuno ha i suoi, e anche se il ti-tolo è lo stesso l’edizione cambia ogni 24 mesi. Ho provato a prenderli anche di seconda mano ma quasi sempre sono già troppo vecchi. Ho letto una statistica che dice che mandare a scuola un ragazzo, cioè formarlo per tredici anni, costa allo Stato 200 mila euro... Ma che ci fanno? Come li spendono questi soldi? Per quella che è stata la mia esperienza la mi-gliore scuola è l’asilo, e anche alle elementari si ha un po’ più di cura e attenzione per i piccoli; poi a mano a mano che cre-scono è un po’ come la vita, li cominciamo ad abituare ad ambienti più disagiati, ad arrangiarsi... Magari così impara-no subito cosa significa diventare grandi... (ride !). A cosa si rinuncia?... Per scherzare parlo sempre della mia Mercedes, e tutti mi dicono: "Ma che Mercedes? Tu hai una Golf, pure sgangherata!". Io rispondo che la mia Mercedes sono i miei figli. Giro con uno scassone, ma investo su di loro.»
2 Le nostre (le loro) paure
Lo stress dei ragazzi Molti psicologi si interrogano su quale sia il livello di ten-sione raggiunto dagli studenti sotto pressione. Cosa succede nella testa degli alunni quando è il momento dell’interroga-zione, dello studio o, peggio, dell’esame finale? E ancora: cosa possono fare i genitori e la scuola davanti a uno stu-dente che perde colpi, che non riesce a inserirsi, che inizia ad avere addirittura paura della scuola? Il pediatra Italo Farnetani, per esempio, ha indagato sul comportamento di set-te milioni di ragazzi in primavera, l’epoca in cui i nodi dello studio vengono più o meno al pettine. 1 Circa un milione e 200 mila giovani presentano in questo periodo gli stessi sin-tomi: mal di testa, insonnia, poca voglia di mangiare. Sono sotto stress, hanno paura della verifica o di essere rimandati e di doversi quindi rovinare l’estate. Hanno il terrore di fal-lire: «Una bocciatura» spiega il pediatra 2 «nel periodo cru-ciale della vita, quando si strutturano i rapporti relazionali con la società mette lo studente in condizioni di inferiorità rispetto Al coetanei.» Farnetani arriva quindi a bocciare l’i-dea stessa degli esami a settembre: «Sono un errore, perché creano tensione emotiva, stress e disagio. Inoltre l’estate non è il momento giusto per studiare: le alte temperature indeboliscono l’organismo e si rischia il calo dell’autostima a studiate mentre i coetanei si divertono in spiaggia». Quante attenzioni, eh? Ma prima di farvi un’opinione con queste teorie vi chiediamo di aspettare e di arrivare a leggere nelle Appendici il paragrafo sugli studenti cinesi. Così, tanto per fare un confronto con i tenori di stress a cui un ragazzo dall’altra parte del mondo può essere sottoposto. Noi in Italia crolliamo sotto il peso della tensione con una certa facilità. La paura dei figli Il fenomeno del doping non è nuovo. Ricordo che alla mia maturità (parliamo quindi del 1986) un commissario, do-po aver letto il curriculum deludente dell’esaminato che aveva davanti, mosso a compassione gli rivolse la classica «domanda a piacere». Quello lo guardò con occhi spiritati e cominciò a urlare: «Bastardi! Proprio quello che non so mi chiedete?!». Un altro collega esaminando, sempre nell’86, si presentò carico come una pila alle 8 di mattina. Rideva, parlava a vo-ce alta, rispondeva come un razzo a tutte le domande che gli venivano poste. Si sedette in pizzo alla sedia aspettando il suo turno
all’orale, turno che però, per sua sfortuna, arrivò a pomeriggio inoltrato. L’effetto del doping era svanito, era subentrato il down, e poco mancò che si addormentasse tra le braccia del commissario esterno, farfugliando qualcosa su D’Annunzio. Un mio compagno di classe più naif aveva esagerato col ginseng, e passò la mattinata chiuso nel bagno dei professori squassato dai dolori di pancia. Il Forum prevenzione di Bolzano ha misurato il fenomeno del doping dei maturandi, e ha calcolato che il 20 per cento degli esaminati in Alto Adige si è presentato all’ultima maturità assumendo farmaci e droghe di vario ti-po, convinti che la bomba li avrebbe aiutati a essere pro-mossi. Il fenomeno è gravissimo, tanto più che gli studenti si passerebbero le medicine sulla base di convinzioni assur-de, come quella secondo cui prendere la medicina contro l’Alzheimer aiuterebbe a ricordare tutto ciò che non si rie-sce a tenere a mente. Ma i metodi utilizzati sarebbero mol-ti: dal tradizionale caffettone (ottenuto mettendo nella moka al posto dell’acqua il caffè fatto alla prima tornata), alle medicine (farmaci come il Ritalin contro i deficit di attenzione, o il Modafinil contro la sonnolenza diurna), al-le droghe (cocaina per aggredire, spinelli per tranquilliz-zarsi), le ricette? Non servono, dal momento che su inter-net si sarebbe sviluppato un mercato parallelo dei farmaci più richiesti, come antidepressivi, eccitanti, stimolanti, an-tifatica. Il fenomeno è diffusissimo, tanto che l’Accademia inglese delle scienze mediche è arrivata a proporre (provo-catoriamente ma non troppo) l’esame antidoping per gli studenti. Naturalmente tutte queste droghe oltre a essere dannose sono pure inutili. Il farmacologo Silvio Garattini ha spiega-to a «la Repubblica» che «non esistono scorciatoie allo stu-dio, molti studenti ricorrono agli ansiolitici, per esempio, per ridurre l’ansia, ma gli ansiolitici possono ridurre la capa-cità di concentrazione. I sonniferi vanno usati con attenzio-ne, perché code di sedazione possono durare il giorno del-l’esame. Non esiste alcuna prova poi che gli aminoacidi contenuti in bevande stimolanti possano migliorate le pre-stazioni cerebrali. Il trucco per superare gli esami è avere di-sciplina. Prepararsi per tempo, cercare di dormire bene, in modo regolare. E arrivare tranquilli perché si è studiato, non perché si è preso un tranquillante». 3 I genitori elicottero, e altri Qual è l’insegnante degno di tuo figlio? Nessuno, in genere. Gli esperti inglesi hanno creato una categoria sociale, quella dei «genitori elicottero», quelli che sovrastano la vita dei figli, volteggiano loro sopra, sovrintendendo a ogni loro scelta e osservando ogni loro azione. Un genitore elicottero volteggia anche sopra il maestro di scuola, lo giudica, lo contesta, ne mette in luce continuamente l’incapacità di in-dividuare e sviluppare il talento del figlio. Il genitore elicot-tero, davanti a un ostacolo incontrato dal figlio, non aiuta il bambino a superarlo, denuncia piuttosto l’esistenza dell’o-stacolo e cerca di rimuoverlo in tutti i modi. Il bambino aspetta, mentre babbo e mamma fanno atterrare l’elicottero vicino al luogo del delitto e risolvono la questione. Questa non è altro, spiega Ammaniti, che «un’intrusione dei genitori nella vita dei figli, che per certi versi rimangono a lungo dipendenti dai propri genitori, incapaci di prendere le proprie decisioni e affrontare la vita con le proprie gambe»/’
Il genitore che si intromette nella vita del figlio può assu-mere diversi aspetti: può essere l’agente del figlio, compor-tandosi, racconta Cinzia Sasso su «la Repubblica», «come il procuratore di un campione di calcio: prende gli accordi, definisce i contratti, smussa gli angoli delle difficoltà». 5 Può essere un genitore cavaliere, «che si materializza appena sor-ge un problema. Arriva, lo risolve, sparisce di nuovo dietro le quinte». Può essere un falco, «temuto da professori e dato-ri di lavoro, è disposto a fare di tutto pur di garantire al fi-glio una posizione di rilievo». Il banchiere risolve i problemi finanziari, il bodyguard sostituisce il figlio in tutte le situa-zioni imbarazzanti: ti vergogni di fare qualcosa? Arriva papà. Ricordo un padre che affittò una moto per il figlio che doveva andare a una festa fuori Roma, visto che la sua era dal meccanico e che non sarebbe stato dignitoso, per un sedi-cenne, essere accompagnato dai genitori. Ricordo la lesta per il settimo compleanno di una bam-bina organizzata nelle sale dell’Hilton di Roma. Agli angoli della sala camerieri vestiti da Cenerentola, Biancaneve, To-polino, Shrek servivano hamburger e hot dog Al piccoli in-vitati, mentre colleghi in livrea servivano il salmone Al geni-tori. Una stanza dell’hotel era stata affittata come magazzi-no, per tenere i regali ricevuti e quelli di ospitalità: ogni bambino intervenuto alla lesta se ne sarebbe andato via con una pista Polistil o con un set Barbie. Quando è stato domandato a tate e badanti straniere di dare un giudizio sui nostri bambini6 rumene, moldave o fi-lippine hanno bocciato in toto il nostro modello educativo. Il 50,9 per cento delle intervistate ha definito maleducati i nostri bambini: questi ultimi risultano Al loro occhi viziati, capricciosi, disobbedienti. I genitori, secondo donne che ormai vivono stabilmente nelle nostre famiglie e che quindi hanno maturato un giudizio piuttosto circostanziato, «do-vrebbero essere più severi». La dittatura del figlio Chi di voi è genitore? Per quelli di voi che lo sono, è il mo-mento di mettersi una mano sulla coscienza e rispondere con sincerità: quanti amici «storici» avete perso da quando sono nati i bambini? Magari li avete persi perché loro non hanno avuto figli o solo perché le mille attività dei vostri piccoli vi hanno succhiato tutto il tempo che avete a dispo-sizione, impedendovi di continuare a vedere gli amici di sempre. E adesso la domanda più dura: quante frequenta-zioni dovete alla socialità dei vostri figli? Babbi e mamme una volta brillanti, socievoli, pieni di interessi e iniziative, si adattano a frequentare persone con cui in comune hanno magari solo gli orari del nuoto, o decidono di frequentare persone che non hanno mai sopportato, ma che il fato ha voluto concepissero un figlio nel loro stesso periodo. Naturalmente parliamo per paradossi, dato che spesso proprio alle conoscenze dei figli i genitori devono alcune delle loro migliori amicizie. È un fatto, però, testimoniato da diverse ricerche, 7 che sempre più le scelte dei figli diven-tano quelle dei padri, sempre più le esigenze dei figli traina-no le opzioni dei genitori. Concita De Gregorio su «la Repubblica» arriva a parlare di «dittatura del figlio»: «La dittatura del figlio ha soppian-tato una qualsiasi anche blanda forma di intimità coniugale e di vita sociale: dormono nel letto dei genitori, dettano la dieta e i tempi di
vita, le amicizie. La maggior parte di fre-quentazioni fra adulti è conseguenza delle amicizie dei figli: compagni di scuola o di sport. Magari i genitori si sarebbero scelti comunque, forse no». 8 Ed è il demografo Roberto Volpi a spiegare come «il figlio unico di genitori quaranten-ni è il destinatario di tutte le aspettative: o lui o nessun al-tro. Non c’è più nessuna capacità di accettare l’idea di ri-schio. Dalla gravidanza in poi la nascita di un figlio è una questione affidata agli specialisti. Ecografie, diagnosi prena-tali sofisticate che scongiurano la possibilità di anomalie e difetti. Parti pilotati e anestetizzati. Infanzie concepite co-me slalom tra timori da scongiurare: vaccini, profilassi, tu-tori. Per tutto si chiede il parere della scienza: dai giochi si-curi Al lettini anatomici». 9 La eccessiva protezione del figlio è ormai diventata la norma, e di ciò ha preso atto anche l’in-dustria della sicurezza per bimbi: «Nelle catene di negozi per bambini» scrive ancora Concita De Gregorio, «interi re-parti sono dedicati alla sicurezza: angoli di gomma per tavo-li e reggisportelli, cancelletti per scale e cuscini antisoffoca-mento. La notizia di premi Nobel cresciuti orfani e fra gli stenti del vagabondaggio non inficia le vendite. I prodotti per sterilizzate gli alimenti sono il top di gamma. Le nonne dicevano che mangiate un po’ di terra faceva bene agli anti-corpi: roba dell’altro mondo nell’era Napisan. Roberto Vol-pi fa notare come alla sovrabbondanza di stimoli "culturali" dei piccoli cresciuti come baby-manager non consegua un miglior rendimento scolastico dei medesimi: i nostri risulta-ti nei test europei sono tra i peggiori. Crede che l’ansia da prestazione inculcata dai padri corrisponda più ad un’esi-genza di gratificazione (o di compensazione delle frustrazio-ni) degli adulti che non ad una risorsa dei piccoli, che fini-scono per somigliare a robottini identici e sostanzialmente incapaci di affrontare le vere difficoltà». Bambini iperprotetti, genitori scioccati dalle proprie re-sponsabilità, una scuola inefficiente che preferisce soprasse-dere piuttosto che affrontare i propri obblighi. E questo il contesto in cui crescono i nostri figli? E così che in Italia amministriamo il nostro capitale umano? Le consulenze Ho sempre pensato che quando nasce il primo figlio paten-ti e amici finiscano per suddividersi in tre categorie di «con-sulenti». La prima è quella dei lottatori, e riguarda quelli che ti insegnano a tenere lontani i parenti: espongono dettaglia-te tattiche opposte, ma in realtà simili, a seconda che si ri-volgano al neobabbo o alla neomamma. Sono utili, ma scontano i difetti di tutti i monotematici, e alla lunga sem-brano ossessionati. La seconda categoria è quella dei buonsensisti, che sono le persone più importanti per un neogenitore: ti danno in-dicazioni, appunto, di buon senso. Sono quelli che ti sugge-riscono, di volta in volta, come risolvere i problemi pratici, quando avere o non avere paura, quelli che alla fine, insom-ma, ti aiutano veramente a uscire vivo dal tifone bambino. La terza categoria è quella dei pedagoghi, ed è la più temibi-le. Hanno sempre in mano un libro scritto da un qualche psicologo stranièro dal nome impronunciabile, e per le teo-rie di quest’ultimo sono disposti a combattere, magari scon-trandosi con i (tanti) sostenitori delle idee del pedagogo an-tagonista. I pedagoghi vivono e si riproducono su internet o alle riunioni dei genitori,
teorizzano ritualità estremamente complesse e rigorose, ti spingono per esempio a sviluppare la manualità di tuo figlio facendogli toccare solo il legno o solo il ferro, quasi mai la plastica. Ti spiegano che i bambini devono giocare solo con giocattoli a forma di U o di B, si spendono fino allo spasimo per far prendere loro (o non prendere) un preciso prodotto omeopatico, e provano a convincerti che tuo figlio, se la vuole fare, deve poter fare la pipì in salotto. Le teorie sui ruoli familiari sono innumerevoli, e tutte terrorizzano i genitori. Ti spiegano fino all’ultimo particola-re cosa si deve o non si deve fare, promettono disastri se non le seguirai. Un pediatra dell’Università di Verona ha persino dichia-rato che «una ricerca norvegese condotta su 7343 ragazzi ha dimostrato una relazione tra rendimento scolastico e prima colazione: chi non la fa corre un rischio tre volte maggiore di scarsi risultati nei test di verifica degli studi». Guarda ca-so, si è poi scoperto che la dichiarazione era stata diffusa dalla Kellogg’s, la multinazionale che inscatola i cereali per il primo mattino. 10 Ultimamente hanno avuto una grande fortuna le idee del filosofo Bernhard Bueb, il quale (dopo aver diretto per trent’anni un prestigioso collegio tedesco) si è convinto che i bambini non possono crescere se i genitori non riscoprono l’autorità e la severità. C’è da chiedersi se avrebbe sviluppato teorie libertarie nel caso fosse stato diret-tore di un collegio (che so?) giamaicano. «La libertà» scrive comunque Bueb «non è solo indipen-denza, né arbitrio: genitori e insegnanti devono ricercare un equilibrio fra intransigenza e amore, giustizia e bontà, con-trollo e fiducia. La vera autorità non incute paura, ma anzi genera sicurezza: è la mancanza di punti fermi, piuttosto, a rendere gli adolescenti di oggi disorientati e insicuri. Solo cosi i nostri figli sapranno conoscere se stessi e il mondo, vi-vere con pienezza le loro esistenze ed essere felici.» 11 Bueb in sostanza contesta i metodi libertari che hanno caratterizzato la pedagogia post sessantottina. Quest’ultima ha comunque dei fans sfegatati ancora in attività, fans che si raccolgono spesso in gruppi estremistici che spingono le mamme a rifiutare ogni aiuto che la moder-nità possa offrire loro. Ricordo che mia moglie, durante la prima gravidanza, fu quasi sequestrata da una lega che le vo-leva imporre un parto che anche le puerpere dell’Alto Me-dioevo avrebbero considerato doloroso. Non parliamo dell’allattamento: esistono sette che strizzerebbero una madre con il torchio pur di non farle acquistare una scatola di latte in polvere. Tra le tante teorie che ho sbocconcellato aspettando di diventare padre, ho subito amato quella dell’Università di Uppsala, i cui ricercatori hanno spiegato come nella crescita di un bambino sia essenziale il ruolo del padre: avranno suc-cesso nella vita, spiegano gli svedesi, solo i figli di padri pre-senti, attenti e determinati a dire la propria nell’educazione dei figli. Cito questo studio con spirito fazioso, perché sono un padre, non per altro, ed è evidente che potrebbero essere trovate ricerche altrettanto autorevoli che insistono sul ruolo del nonno, della zia, della famiglia unita o della famiglia al-largata (inutile sprecare anche una sola riga sull’importanza del ruolo della madre). Ognuno di noi, all’interno di ogni famiglia, è condannato ad avere un ruolo decisivo nella for-mazione dei più giovani e, al di là degli scherzi, molti autore-voli studiosi hanno provato a far luce su quel mistero che è l’educazione dei figli. «A proposito dei comportamenti dei genitori» scrive Massimo Ammaniti, «sono abbastanza note le ricerche americane fatte da Steinberg sui genitori
autore-voli oppure quelli poco presenti nella vita dei figli, che li tra-scurano. Sicuramente si trattava di ricerche psicologiche de-gli anni Ottanta, quando erano riconoscibili gli stili dei ge-nitori e i figli in ogni famiglia erano ancora abbastanza nu-merosi. Da allora molte cose sono cambiate. Perlopiù in ogni famiglia vi è un solo figlio o al massimo due e i genitori investono tutte le loro aspettative su quell’unico figlio. Lo proteggono in modo spesso eccessivo, cercano di anticipare o perlomeno di assecondare i suoi desideri, lo seguono fa-cendogli fare danza, musica e judo, lo aiutano a socializzare invitando i suoi amichetti a casa e organizzando piccole fe-sticciole. È quasi inevitabile che il bambino diventi il capita-le sociale della famiglia e dopo averci investito così tante ri-sorse i genitori devono difendere il figlio dagli insegnanti che non lo apprezzano quanto meriterebbe.» 12
3 Il capitale
La via verso il successo II mondo non è mai prevedibile. Quando parliamo di siste-ma bloccato, che favorisce chi proviene da una famiglia col-ta e benestante e ostacola chi non ha avuto questa fortuna, non vogliamo dite che il destino di ognuno di noi sia scritto già nella dichiarazione dei redditi dei genitori. La vita può essere sempre trasformata, cambiata, migliorata. Se il Paese deve obiettivamente rimettere in moto il cosiddetto ascen-sore sociale, questo non significa che ognuno di noi non possa intanto inventarsi un modo per arrivare al piano di sopra. Alcuni sociologi insistono anzi sul fatto che le moti-vazioni ad «arrivare», ad avere successo, sono più forti in chi parte da condizioni relativamente svantaggiate, e che questi ultimi hanno quindi un paradossale vantaggio rispetto Al cosiddetti «figli di papà». Eccovi alcune storie (scelte a caso, e molte altre ne avremmo potute trovare) di gente che ce l’ha fatta, tanto per tirarci un po’ su di morale. Mario Renato Capecchi, premio Nobel per la medicina nel 2007, nacque a Verona nel 1937. Rimase presto orfano di padre, e quando aveva solo cinque anni la madre, un’ar-tista di origine americana, fu arrestata dai fascisti e depor-tata a Dachau come prigioniera politica. Mario fu sfollato e finì in una casa di contadini che, non essendo più in grado di mantenerlo, dopo un anno lo abbandonarono alla stra-da. «Mi cacciarono via» racconta a Vittorio Zucconi, 1 «e non andai da nessuna parte. Ricordo che vagando per le strade fra Bolzano e Verona incontrai una banda di bambi-ni come me, senza adulti, che vagavano cercando di man-giare quello clic potevano.» Con lavoretti? Domanda il cor-rispondente di «la Repubblica». «No, rubando» risponde il premio Nobel. «Rubavamo nelle cascine, nelle città che at-traversavamo camminando verso sud. Ci davano la caccia, noi ci nascondevamo nei barili vuoti, nelle stalle, spostan-doci in continuazione. Cominciai a stare malissimo e non ricordo neppure bene come, mi ritrovai in una corsia di ospedale a Reggio Umilia, nel 1945.» Chi l’aveva ricoverato? «Qualcuno, un ignoto, un samaritano italiano. Ero stato colpito dal tifi) e sarei morto se i medici di quell’ospedale non mi avessero curato.» Fu lì che Lucia, sua madre, la trovò? «Sì. Era sopravvissuta a Dachau e quando gli ameri-cani avevano liberato il campo era tornata in Italia, comin-ciando a cercarmi. Un giorno me la trovai davanti al letto d’ospedale, avevo da poco compiuto otto anni.» E lei decise di emigrare. «Immediatamente. Ci imbarcammo su una na-ve di profughi e sbarcammo a New York, dove ci aspettava suo fratello Henry, mio zio, che eravamo riusciti ad
avverti-re. Appena fummo esaminati e spidocchiati a Ellis lsland, l’isola degli emigrati, lo zio ci mise su un treno diretto a sud e poche ore dopo eravamo a Princeton, dove lui inse-gnava alla facoltà di Fisica. C’era ancora Einstein, a quell’e-poca, e ricordo di averlo visto. Ma allora che sapevo di Ein-stein?» Da allora, andò a scuola negli Stati Uniti. «Il giorno dopo, si rende conto, il giorno dopo essere uscito da Ellis lsland con mia madre ero già in una classe elementare, dove non capivo niente. Non sapevo neppure leggere bene, ero solo un bimbo di strada.» Come campavate? «Prima con l’aiuto dello zio Henry, poi con i guadagni di mia madre, che aveva trovato lavoro come interprete negli ospedali del New Jersey e di New York.» Un piccolo vagabondo (oggi diremmo uno zingaro) salva-to dallo studio offre al mondo quello che il mondo voleva ne-gargli, regalando le sue idee e le sue scoperte a tutti noi. Ca-pecchi ha sviluppato una tecnologia di gene targeting (lette-ralmente, «bersagliamento di un gene», una tecnica che per-mette di rendere inoperativi alcuni specifici geni), utile allo studio di vari aspetti della biologia dei mammiferi, inclusi gli studi sul cancro, sull’embriogenesi, sull’immunologia, sulla neurobiologia e in pratica su tutte le malattie umane. Sono tante le persone che hanno saputo trasformare una condizione svantaggiata di partenza in una occasione di suc-cesso. Dario Po, premio Nobel della letteratura, è figlio di un ferroviere e di una contadina. Il senatore Umberto Vero-nesi, già ministro, uno dei pionieri della lotta contro i tumo-ri in Italia, primo italiano presidente dell’Unione interna-zionale di oncologia e fondatore della Scuola europea di on-cologia (Eso), è figlio di un contadino. «Noi veniamo dal mondo agricolo» raccontava a Luciano Onder. 2 «Mio padre era un fittavolo nella pianura lombarda, stavamo fuori Mila-no, anche se non lontanissimi. La vedevamo come la grande meta di chi vive nei sobborghi. Quindi la nostra grande spe-ranza era di diventate "cittadini": si andava a scuola facendo 4-5 chilometri a piedi tutte le mattine, anche in pieno inver-no, con i nostri calzoni corti, con quella cultura naturalistica del mondo agricolo. La conquista è stata lenta ma ci ha mol-to gratificato come tutte le grandi forme di emancipazione.» In un’intervista concessa ad Andrea Vianello,3 il grande giornalista Enzo Biagi raccontò: «Una volta a scuola chiede-vano: "Che mestiere fa tuo padre?" per metterlo nei registri. Mio padre era operaio, ma io alla maestra risposi: "Impiega-to"; lo avevo promosso! Poi lo raccontai a mia madre, alla quale dicevo le cose che facevo. La mattina dopo ho visto mia madre che si infilava il suo cappottino, le ho detto: "Dove vai?". Mi ha risposto: "Vengo a scuola con te". E ve-nuta in classe, ha detto alla professoressa: "Enzo è qui per scusarsi, con lei e con i suoi compagni. Suo padre non è un impiegato, suo padre è un operaio". Questa cosa qui» sotto-lineava Biagi «io l’ho ricordata per tutta la vita». Figlio di operaio è stato anche un ministro dell’Univer-sità, Fabio Mussi, e l’economista Renato Brunetta, ministro della Funzione pubblica al momento in cui questo libro va in stampa, raccontava ad Aldo Cazzullo del «Corriere della Sera»: «Sono orgoglioso di essere figlio di gente povera. Fi-glio della Venezia popolare. Ha presente Thomas Mann e Visconti? La Venezia letteraria, crepuscolare? Ecco, tutto il contrario. Da bambino andavo a vedere i siori che mangia-vano il gelato a San
Marco. Soldi per i gelati io non ne ave-vo. Andavo a pescare i granchietti e le anguelle, quei pescio-lini trasparenti, da fare fritti. E andavo a lavorare con mio padre, venditore ambulante di gondoete, gondole di plastica nera. Vetri di Murano. Souvenir. Avevamo una bancarella in lista di Spagna, accanto alla stazione. E li, sui marciapiedi di Cannaregio, ho imparato tutto. Il lavoro, il sacrificio. Vive-vamo in nove in novanta metri quadri, con i miei due fratel-li, mia zia vedova e i suoi tre figli. E comunque in casa mia non c’era un libro. Cominciai a studiare il greco la notte, di nascosto. Cosi ho dato l’esame per passare al Foscarini. Il fi-glio dell’ambulante, il piccolino, al liceo dei siori. Alla ma-turità fui il primo della classe». 4 Il padre di Franco Marini, ex presidente del Senato, era un operaio della Snia che aveva messo al mondo sette figli: Franco si laureò in Giurisprudenza e cominciò quasi subito a lavorare nel sindacato. Per spostarci nel campo degli imprenditori, basti l’esem-pio di Leonardo Del Vecchio, secondo la rivista «Forbes» il secondo uomo più ricco d’Italia, con un patrimonio netto di 10 miliardi di dollari. Del Vecchio trascorse i suoi primi anni, orfano, nel collegio dei Martinitt. Divenne poi ap-prendista in una fabbrica di stampi per ricambi automobili-stici e montatine per occhiali, in qualità di incisore. Nel 2006 gli è stata conferita la laurea ad honorem in Ingegneria dei materiali dal Politecnico di Milano. Al netto però dei grandi esempi, dobbiamo riconoscere che in Italia non è facile migliorare la propria condizione. Un signore anziano, intervistato in Tv, faceva un ragiona-mento molto amaro, ma purtroppo molto giusto. «Una vol-ta» raccontava, «mio padre si vergognava a parlare davanti a me, perché parlava peggio di me. Io studiavo, lui non lo aveva potuto fare, temeva di sbagliare, e di perdere la faccia davanti al figlio. Adesso, quando sento parlare mio figlio, mi vergogno per lui, perché è lui a non saper parlare. 1 miei genitori avevano fatto tanti sacrifici per farmi fare un passo avanti, mio figlio, il loro nipote, fischia di riportarci tutti al-la casella di partenza.» I sociologi lo chiamano «ascensore sociale», ed è quello che, in una società che funziona, prendi quando migliori il tuo status sociale, culturale, economico. Nella società delle caste, durante il feudalesimo, nell’ancien regime, si moriva sempre e comunque nelle condizioni socioeconomiche in cui si era nati. Nelle società moderne, dovrebbe poter essere l’individuo a decidete del proprio destino. L’Italia, invece, è un Paese immobile. Non è più il titolo nobiliare a essere tra-smesso col sangue e a fare la differenza, ma oggi sono le pro-fessioni e le ricchezze a essere trasmesse con il Dna. Nella Penisola essere figlio di un ricco è meglio di una assicurazione sulla vita, essere figlio di un povero è quasi una condanna. Le statistiche 5 ci dicono che, in media, un figlio di libero professionista su 4 rimane nella posizione del padre, mentre solo 3 figli di operai su 100 riescono a diven-tare imprenditori, dirigenti o liberi professionisti. La scuola ingiusta Il nostro Paese è bloccato fin da quando i piccoli italiani si siedono sui banchi di scuola: nel nostro Paese i giovani che provengono dalle fasce più basse smettono di
studiate pri-ma, e se la preparazione è scarsa, minore è la possibilità di migliorare il proprio status sociale. Il nostro sistema scola-stico non riesce a porre riparo alle disuguaglianze sociali, e il grado di istruzione e il reddito delle famiglie di provenienza rimangono determinanti nel definire le sorti di uno studen-te: solo i genitori istruiti riescono a guidare i propri figli ver-so gli studi e le professioni migliori. Se sei ricco, ce la fai, spesso anche se non meriti; se sei povero, non ce la fai, spes-so anche se meriti. La scuola italiana oggi non è selettiva, è cinica: premia i figli dei ricchi che (magari) non hanno vo-glia di studiare e penalizza i figli dei poveri che (magari) so-no bravi, ma sono soli, senza aiuto, senza sostegno. La scuola italiana, da questo punto di vista, è inutile: lo studente che si iscrive ha pochissime speranze di cambiare il destino che gli toccherebbe se a scuola non entrasse. Il gra-do di istruzione e il reddito della famiglia di provenienza so-no determinanti nel definire il futuro dello studente: buona famiglia, buon futuro. Famiglia umile, futuro umile. Uno studio pubblicato dalla Banca d’Italia testimonia co-me rendano meno gli studenti nati da famiglie povere o quasi povere. 6 Da questo punto di vista è marcata anche la differen-za di preparazione e rendimento tra gli studenti nati al Nord e quelli nati nel Meridione, inutile stare a dire a vantaggio di chi. «E ampiamente riconosciuto» si legge nello studio «che le differenti condizioni sociali e culturali, già a partire dall’età prescolare, influiscono in maniera decisiva sulle abilità cogni-tive, sulla capacità di esprimere se stessi, di percepire i colori, di comprendere spazi e forme, di rappresentare fenomeni di natura quantitativa.» I più poveri pagano il dazio specialmen-te nei primi anni di scuola. In matematica, per esempio, «il punteggio ottenuto da uno studente con lo status sociale più elevato supera del 25 per cento circa quello ottenuto da uno studente con lo status sociale più basso». 7 Le differenze si attenuano quando arriva il momento di scegliere a quale scuola media superiore iscriversi. Lì i più bravi (siano del Nord o del Sud) si iscrivono Al licei, gli altri (il 70 per cento degli studenti italiani) vanno all’istituto tec-nico. Naturalmente le differenze uscite dalla porrà rientrano dalla finestra, perché sono soprattutto gli studenti di fami-glie benestanti o agiate a iscriversi Al licei. «In base Al dati Pi-sa 2003» recita lo studio, «la probabilità di uno studente ap-partenente alla classe sociale più elevata di essere iscritto a un liceo è sette volte più alta di quella di uno studente con le più sfavorevoli condizioni familiari. Tali evidenze sono ri-correnti in tutte le aree geografiche.» La scuola italiana non migliora la società, lo studio nel nostro Paese non offre al cittadino l’opportunità di modifi-care la propria condizione e le proprie prospettive. La denuncia dell’immobilità sociale non è denuncia di una scuola di classe, quanto piuttosto quella di una scuola che non aiuta gli studenti a passare da una classe all’altra, esigen-za legittima, motore dello sviluppo di un Paese, che dovrebbe essere assecondata dalle istituzioni. Dalla scuola ci si deve aspettare la promozione delle capacità del singolo, quali che siano le sue origini sociali. Non solo per ragioni etiche, ma anche perché conviene al Paese non disperdere i talenti dei propri cittadini, talenti che possono nascere in qualsiasi quar-tiere, in qualsiasi famiglia, in qualsiasi contesto. Ricchi e poveri all’università
In Italia i poveri pagano gli studi Al ricchi. Iscriversi all’università costa relativamente poco: le statistiche ci dicono che ogni studente paga in media il 15 per cento dei suoi studi, e che quindi il conto totale viene saldato dalla fiscalità gene-rale. 8 Viene saldato da tutti, insomma, da chi si laurea e da chi non si laurea. Se andiamo a vedere chi si laurea e chi non ce la fa, scopriamo che a laurearsi sono soprattutto i figli dei ricchi o, per essere più precisi, gli appartenenti alle classi medio-alte. Se prendiamo 10 ragazzi nati negli anni Settan-ta da genitori con la terza media, scopriamo che 3 di loro si fermano alla licenza media come babbo e mamma, 6 arriva-no al diploma superiore, uno solo arriva alla laurea. Se an-diamo a controllare le chance che gli iscritti all’università hanno di laurearsi, scopriamo che gli studenti con genitori di bassa condizione sociale hanno appena il 3 per cento di possibilità di farcela. Ricapitolando, si iscrivono tutti, ricchi e poveri, pagano tutti, ricchi e poveri, ma a laurearsi sono soprattutto i figli dei ricchi. La conclusione è elementare: i poveri pagano gli studi Al ricchi. Aggiungiamo ancora che, in genere, i rampolli della me-dia e alta borghesia possono scegliere di frequentare l’uni-versità migliore sul territorio nazionale, mentre agli altri non resta che arrangiarsi con l’università più vicina a casa. Figli di farmacisti, notai, professori universitari? Vanno a studiare a Milano. Figli di operai? Studiano al paese, se-guendo i corsi di professori figli di professori. Lo status sociale della propria famiglia di origine insegue i giovani italiani per tutta la loro vita lavorativa. Basti pensa-re che, secondo i dati di AlmaLaurea, a cinque anni dal conseguimento del titolo un laureato figlio di operai guadagna 1238 euro al mese, mentre un suo collega, con la stessa identica laurea ma che provenga da una famiglia più agiata, guadagna 1437 euro. Duecento euro in più ogni trenta giorni, una vera e propria tassa sulla classe di provenienza. Lo scotto dell’ambizione: vuoi fare meglio dei tuoi genitori? In Italia devi pagate pegno. Queste differenze valgono quali che siano gli studi che si è deciso di intraprendere. «Tra gli ingegneri» scrive Federico Pace di «la Repubblica», «la differenza è di poco inferiore Al 200 euro (1574 euro contro i 1759 euro), tra i giuristi e i laureati del gruppo politico sociale siamo sempre sopra Al 100 euro al mese. Per chi esce da Economia e Statistica di-ventano anche più acute: 1276 euro Al figli di operai e 1519 euro Al figli di chi sta più in alto nella gerarchia sociale.» 4 Nella maggior parte dei casi il destino si eredita, non si costruisce. Se confrontiamo i titoli di studio di padre e fi-glio, scopriamo che «buona parte dei padri architetti (il 44 per cento) ha un figlio laureato in Architettura, 4 giuristi su 10 hanno un figlio laureato in Giurisprudenza e lo stesso accade agli ingegneri, Al farmacisti e Al medici, con evidenti ricadute sui percorsi occupazionali. Tanto che il 16 per cen-to dei figli di dirigenti arriva, dopo solo cinque anni dal ti-tolo di laurea, a ricoprire la carica di funzionario o dirigen-te, mentre a più del 40 per cento dei figli di impiegati succe-de di ripercorrere il sentiero professionale del padre». 10
4 Le scelte
Libertà e ignoranza Ogni fatto può essere raccontato in milioni di modi diversi: la verità di cui ognuno di noi è portatore trova conferma o smentita nel confronto tra opinioni differenti. Anche (so-prattutto) la verità scientifica (quella insomma che viene in-segnata nelle scuole) si ottiene attraverso il confronto: tra teorie e fatti, tra teorie magari opposte che spiegano gli stes-si fatti. La comunità scientifica vaglia, confronta, sopprime o rilancia iporesi che spiegano o raccontano quello che è av-venuto in passato, quello che avviene nel presente, quello che avverrà in futuro. Si elimina quello che non funziona (che non spiega) e si prova quello che potrebbe funzionare (quello che potrebbe spiegare qualcosa che non si capisce). Tutti devono essere pronti ad ammettere i propri errori, tut-ti devono essere pronti a inventarsi qualcosa per risolvere un problema al momento irrisolvibile. Tutti sono fallibili, tutti possono avere ragione, ma que-sto non significa che si possa dire qualsiasi cosa, e che qual-siasi cosa sia degna di essere insegnata. Sembrerebbe non pensarla così il filosofo Giacomo Samek Lodovici: «L’esistenza di scuole non statali garantisce un principio morale fondamentale e irrinunciabile, che non è certo di parte: la libertà dei genitori di scegliere per i figli una scuola conforme alle proprie convinzioni. Infatti, la scuola dovrebbe proseguire il diritto naturale dei genitori di educare i figli, ed essere un complemento educativo della fa-miglia, mai un sostituto. Lo Stato deve cioè garantire la pos-sibilità che i genitori di sinistra possano mandare i figli in scuole di sinistra, quelli liberali in scuole liberali, quelli cat-tolici in scuole di ispirazione cattolica, ecc. Insomma, la po-sta in gioco non è la tutela degli interessi dei cattolici, bensì la salvaguardia della libertà delle famiglie di educare i figli secondo i propri valori e principi, quali che siano, purché non siano principi criminali. Poiché la trasmissione cultura-le dovrebbe essere trasmissione della verità» conclude Gia-como Samek Lodovici, «la scuola dovrebbe trasmettere principalmente (non esclusivamente) la verità. Cioè quelle tesi e quei valori che essa e i genitori che l’hanno scelta con-siderano veri». 1 Secondo Dario Antiseri: «La società aperta — vai la pe-na ripeterlo - è chiusa solo Al violenti e agli intolleranti. Ed ecco, allora, che se israeliti, cattolici, valdesi, testimoni di Geova, musulmani volessero aprire loro scuole, mante-nete la loro specifica identità culturale, approfondire la lo-ro cultura, tramandare Al loro figli quel patrimonio culturale di prospettiva sulla vita e di valori che essi ritengono la cosa più importante, forse l’unica necessaria, con quali argomenti si vorranno vietare tali scuole ad "orientamento confessionale", una volta che siano stati accettati i punti
fondamentali di riferimento della nostra Costituzione? Non esistono argomenti per vietare di istituire scuole "neutre" - statali e non statali - e, accanto a queste, scuole "protestanti" e scuole "cattoliche", come accade in Ger-mania. In Olanda sono state istituite di recente scuole "indiaste"; e c’erano già scuole "musulmane". Forse che la Germania e l’Olanda - e il Belgio e l’Inghilterra, ecc. - so-no Paesi meno democratici dell’Italia? E poi: solo le scuole statali sarebbero scuole in cui si insegna la tolleranza e la democrazia? Forse che le scuole cattoliche o il liceo israeli-tico di Roma sono stati covi di indottrinamento antidemocratico?». 2 Il supermercato del sapere, la libertà assoluta di scelta nel campo dell’istruzione: è giusto essere liberi di scegliere i propri studi o gli studi dei propri figli? Senza dubbio sì. Ma è giusto scegliere quale verità studiare? E giusto che siano i genitori a ritagliare in base alle proprie esigenze e Al propri gusti la cultura che i Figli dovranno indossare? Qui le cose si ranno un po’ più complesse. Secondo Stefano Rodotà «la scuola dovrebbe essere il luogo in cui i cittadini si riconoscono reciprocamente. Se coltiviamo invece identità separate, ci troveremo con scuo-le cattoliche, comuniste, islamiche, aree e chi più ne ha più ne metta. Il risultato è quello che chiamo balcanizzazione della società». 3 Gian Antonio Stella sul «Corriere della Se-ra» 4 gioca sul paradosso delle «scuole su misura» e ipotizza un mondo in cui ognuno possa scegliere i testi su cui for-mare i propri figli, arrivando a immaginare scuole prèt-à-porter, in cui «un papà e una mamma sono di sinistra? Hanno diritto a una scuola di sinistra. Sono di destra? Scuola di destra. Certo, c’è un problemino: "quale" sini-stra? Quella bertinottiana o pecoraroscania, veltroniana o pannelliana, dilibertiana o turigliattiana? Mica facile, tro-vare la scuola giusta. E "quale" destra? Berlusconiana o finiana, buttiglionesca o mussoliniana, rotondiana o santanchesca? Quanta dose di simpatie trotzkiste può essere tolle-rabile per un bravo genitore post diessino? Quanti fez e ga-gliardetti e busti del Capoccione possono essere accettati sopra l’armadio in classe da un bravo genitore liberale? E può essere davvero democratica una scuola non perfetta-mente aderente alle specifiche "verità" di Franco Giordano e Marco Ferrando, Salvatore Cannavo e Livio Maitan, Ftancesco Caruso e Luca Casarini? Immaginiamo già il pri-mo incontro genitori-insegnanti: "Scusi, professore, ma lei non è in linea con la mia verità"». Incredibile la rassegna dei libri di testo «faziosi» a cui po-trebbe attingere un genitore in cerca della verità da insegnare al figlio: Stella racconta come, in L’età contemporanea di Ortoleva-Rivelli, si possa leggere che la figura di Stalin «appari-va rassicurante nella sua immensa autorità e nella sua salda permanenza al potete. Il timore da essa ispirato poteva quasi essere sentito positivamente, come il rispetto dovuto ad un’autorità dura ma giusta». Negli Elementi di storia di Ca-mera-Fabietti, la differenza tra i lager nazisti e i gulag sovieti-ci viene spiegata così: i primi furono la conseguenza «logica e necessaria» di un regime fondato «sulla sopraffazione e l’eli-minazione delle "razze inferiori"», mentre l’«ignominia» dei secondi non va imputata al comunismo che «esprimeva l’esi-genza di uguaglianza come premessa di libertà» ma al «tenta-tivo utopico» di tradurre immediatamente «questo sacrosan-to ideale» in atto o peggio ancora alla «conversione di Stalin al tradizionale imperialismo». Ma ce n’è anche per la Destra. I nuovi sentieri della storia di Federica Bellesini
presenta così la differenza tra Destra e Sinistra storica: «Gli uomini della Destra erano aristocratici e grandi proprietari terrieri. Essi facevano politica al solo scopo di servire lo Stato e non per elevarsi socialmente o ar-ricchirsi»; a Sinistra invece «erano professionisti, imprenditori e avvocati disposti a fate carriera in qualunque modo, talvolta sacrificando perfino il bene della nazione Al propri interessi». Stella arriva a citare (più come monito che come altro) il caso della professoressa del Lucrezio Caro, liceo ro-mano, «che Al suoi liceali, con il Manifesto di Marx e il Con-cordato, ha fatto adottare Le conversazioni segrete di Adolf Hitler, con commossa prefazione del neonazista Franco Freda: "Dinanzi alle parole e Al detti memorabili dei Capi e dei Maestri i semplici devoti devono stare in raccoglimento e osservare il silenzio"». Pubblica o privata I miei figli frequentano la scuola pubblica, e così faranno, credo, anche in futuro. Mia moglie e io abbiamo deciso di iscriverli alla scuola pubblica perché crescano e si confronti-no col mondo com’è, non come a noi piacerebbe che fosse. Nella scuola pubblica troveranno il bene e il male che incontriamo tutti noi, troveranno il buono e il cattivo, si confronteranno con coetanei che la penseranno in modo oppo-sto a loro, avranno a che fare con famiglie completamente diverse dalla loro, studieranno con professori che si fanno portatori di idee differenti l’uno dall’altro. Considero la scuola pubblica una scelta di apertura, la scuola privata co-me una scelta difensiva, di chiusura. La scuola privata mi sembra un po’ come la provetta in laboratorio: delimiti un ambiente protetto, ti assicuri che tutti la pensino allo stesso modo sui valori che ritieni più importanti e poi ci inietti dentro tuo figlio, senza considera-re che prima o poi da quella scuola dovrà uscire, e si troverà a confrontarsi con una babele di idee, valori, visioni di vita. Come dicevo, però, io stesso ho frequentato un’univer-sità privata, e quando entrai alla Luiss i miei amici mi disse-ro che sbagliavo, proprio perché, dal loro punto di vista, mi stavo infilando nella provetta di cui sopra. Resto convinto però che una cosa sia formarsi in un’ele-mentare, una media, un liceo pubblici e un’altra non farlo, e penso che l’università sia un discorso a parte, che infatti af-fronteremo in seguito. La realtà però è che nessuno in un campo come questo ha la verità in tasca. Sul rapporto tra scuola pubblica e scuola privata si sono esercitati in molti. Dario Antiseri pensa che «Senza la com-petizione la scuola italiana non si salva. Al cittadini lo Stato dovrebbe consegnare un bonus da spendere presso una scuola piuttosto che un’altra, pubblica o privata che sia. In questo modo le scuole entrerebbero in competizione, reagi-rebbero alla decadenza, organizzerebbero una proposta for-mativa valida temendo che gli allievi abbandonino l’istitu-to. Bisogna fare come si fa con il fornaio: se quello da cui vado non mi soddisfa, lo cambio. La competizione» insiste Antiseri «aiuterebbe tutte le scuole a diventare migliori, per-ché risulterebbe evidente che ci sono scuole migliori e peg-giori, con professori migliori e peggiori, con biblioteche fornite e con biblioteche meno fornite. Il bonus scuola» continua «è una carta di liberazione per le famiglie meno abbienti; oggi chi manda il
figlio ad una scuola privata è uno che paga due volte, paga le tasse per un servizio di cui non usufruisce e paga anche per la retta della scuola priva-ta... la famiglia povera magari vorrebbe mandarlo anche alla privata e non può». 5 Allo Stato, nel sistema immaginato da Antiseri, resterebbe il potere di controllare gli istituti, ga-rantire il livello e la qualità dell’educazione, «perché ovvia-mente bisogna controllare dove vanno a finire i soldi pub-blici: lo Stato però deve avere il controllo, non il monopolio della gestione... la gestione la deve fare chi la sa fare. Sia esso un pubblico o un privato». Di diversa posizione è Tullio De Mauro: «Non possiamo non parlare di scuola pubblica se non parliamo prima del-l’enorme sforzo che la scuola ha fatto in questi anni: negli anni Cinquanta il 59,2 per cento della popolazione era pri-vo di licenza elementare: la scuola pubblica ha preso i figli di queste persone e li ha, letteralmente, portati in classe. Poi li ha fatti studiare, portando l’obbligo dai cinque agli otto anni di scuola. La scuola privata non ha in realtà alcuna rile-vanza. Se guardiamo al panorama complessivo della scuola italiana la realtà privata è una piccolissima realtà: briciole, diciamo pure. In Italia solo nella scuola nell’infanzia si può tenete conto dell’apporto dato dalla scuola privata. In que-sto settore ci sono stati investimenti solo dall’Umbria in su, e specie al Sud è stato estremamente importante il lavoro svolto da benemerite suore che hanno fatto moltissimo per le famiglie italiane. Il resto della scuola privata, come dice-vo, è una realtà piccolissima. Della sua qualità, poi, è im-possibile parlare: non se ne sa niente. Chi ci entra in quelle scuole per controllare? «Delle superiori private non sappiamo niente, se non che costano un sacco di soldi a chi le frequenta e anche allo Stato, che si è messo a finanziarle. Le superiori pubbliche sono monitorate, dal ‘71 in poi si sono succedute indagini sull’apprendimento: sappiamo che non vanno, la qualità è pessima, non funziona, non va... questo è un dato di fatto... ma questo è un buon motivo per intervenire, per migliorar-le, non per altro! All’estero le scuole superiori sono state riformate quattro o cinque volte... da noi se n’è parlato tan-to ma nessuna riforma è stata mai veramente compiuta, portata avanti fino in fondo. Non è cambiato mai niente dal 1923... ci sono solo chiacchiere... dalla politica, dai mini-stri, dai giornali ma mai una riforma portata avanti... tutte abortite prima di metterle in campo, capisce? Abbiamo una catapecchia di inizio secolo e parliamo di pubblico e priva-to? Di bonus per le famiglie? Di scuole religiose e soldi da dare? Di competizione? Nel pubblico c’è tutto da fare e il privato è inesistente... che discorsi sono? Di cosa ci mettia-mo a discutere?». 6 In effetti è sempre sembrato strano anche a me che uno Stato con i bilanci messi come quelli italiani e con le scuole ridotte come le nostre trovasse dei fondi da destinare Al pri-vati che decidono di aprire un istituto. Ognuno (se rispetta determinati parametri) può fondare una scuola, ognuno può iscriversi all’istituto che vuole, ma (dato lo stato delle risorse pubbliche), secondo me lo do-vrebbe fare con i soldi propri.
Baroni
1 La laurea al chilo
Il mercato dei crediti Quando durante una cena un collega citò il fenomeno dei «laureati precoci», pensammo tutti si trattasse di giovani fe-nomeni che erano riusciti a terminare gli studi in tempi da record. In realtà i precoci non sono dei fenomeni, sono quel-li che, grazie alle convenzioni stipulate dagli enti in cui tavo-lano o dagli ordini professionali di cui fanno parte, si sono potuti iscrivere direttamente al secondo o al terzo anno del corso di laurea. Con questo metodo ci si laurea in fretta, dal momento che allo studente vengono riconosciuti i crediti formativi per attività extrauniversitarie come il lavoro e i corsi di formazione. Così li descrive la relazione annuale 2007 sullo stato del-le università curata dal Centro di valutazione del sistema universitario: «Dall’analisi della distribuzione per anno ac-cademico di prima immatricolazione dei laureati nei corsi triennali del nuovo ordinamento dell’anno solare 2006 emerge un certo numero di soggetti che conseguono il tito-lo prima dei tempi previsti. Questi laureati — che si possono denominare ironicamente "precoci" — sono nel 2006 oltre 7500. Concentrati soprattutto nelle lauree triennali». Lau-reare l’esperienza: era questo lo slogan utilizzato al momento dell’entrata in vigore della riforma della Moratti. Nel 2006 l’ex ministro Fabio Mussi ha messo un tetto di 60 crediti su 180 nel caso delle lauree triennali, meno rispetto a prima, ma sempre un anno su tre di fatto abbonato. In questi anni, anche dopo il limite imposto da Mussi, di convenzioni le università ne hanno firmate parecchie. Nel gioco delle con-venzioni, d’altronde, ci guadagnano tutti: i dipendenti — che con la laurea faranno più carriera — e le università che grazie alle convenzioni aumentano i clienti. Le diverse università hanno convenzioni con enti pub-blici come ministeri, polizia, guardia di finanza, carabinieri, istituti penitenziari, regioni, Inps, ma anche ordini profes-sionali, sindacati, associazioni di categoria, fino Al dipen-denti della presidenza del Consiglio dei ministri. In ballo, oltre Al riconoscimenti dei crediti sulla base dell’esperienza formativa, anche sconti, rateizzazioni, varie ed eventuali. Sempre nella relazione del 2007 del Centro di valutazione del sistema universitario, riferita Al laureati del 2006, si legge: «con riferimento poi alla distribuzione per ateneo del rappor-to percentuale tra laureati "precoci" e laureati totali si rileva una ulteriore (onte di variabilità. Oltre alle università telema-tiche, che in due casi raggiungono il 100 per cento, occorre segnalare che tre atenei statali hanno una percentuale di lau-reati "precoci" superiore al 40 per cento. Infine occorre nota-re che, degli oltre
7500 laureati "precoci", più del 46 per cen-to risultano essere concentrati in due soli atenei statali». La scandalo dei crediti In alcune università per l’anno accademico 2006-2007 si raggiungeva anche il 100 per cento del totale dei laureati grazie all’abbreviazione. Tre atenei, tutti privati, hanno il primato: la Libera Università di Bolzano, la Kore di Enna e l’ateneo telematico 1 Leonardo da Vinci. Altre sfiorano l’en plein: un’altra telematica, la Telma, con il 90 per cento di laureati prima della durata normale, un’altra privata, la San Pio V, con l’85,7 per cento e per finire, l’università pubbli-ca della Tuscia con l’83 per cento di precoci. All’Università Bocconi, tanto per intenderci, questa percentuale nel 2006-2007 età appena dello 0,2 per cento. Una bella diffe-renza. Ma per avere un’idea di quali dimensioni abbia la co-siddetta caccia Al crediti basta andare sul sito www.forzearmate.org. Nel gennaio del 2006 (e quindi prima del tetto di Mussi) è stata pubblicata la lettera di un sottuffi-ciale dell’aeronautica militare: il militare si lamentava del fatto che i colleghi dell’esercito avevano ottenuto una convenzione con un’università pubblica migliore della loro. [...] sono venuto a conoscenza che un mio vecchio amico, sot-tufficiale dell’Esercito, stava per laurearsi in quanto la sua F.A. [forza armata] aveva stipulato tempo addietro una con-venzione con l’Università degli Studi della T.U.S.C.I.A. di Viterbo con la quale gli veniva riconosciuto l’iter formativo della propria carriera lavorativa, comparandolo con un certo numero dì crediti formativi universitari, alfine del consegui-mento della laurea di I livello in «Scienze Organizzative e Gestionali». [...] Infatti, considerando che al mio collega dell’E.I. [eserci-to italiano] gli hanno riconosciuto 150 Cfu [Crediti forma-tivi universitari] (ne occorrono 180 per conseguire la laurea) e che ha dovuto sostenere ulteriori tre esami, ho scoperto, leg-gendo il telegramma che riguarda il personale A. M. [aeronautica militare] che, per il sottufficiale dell’Arma Azzurra [aeronautica militare] (con la medesima università e il me-desimo corso di laurea) è stata stipulata una diversa conven-zione. Praticamente verranno riconosciuti soltanto 80 credi-ti, più eventuali altri 30... [...] non sarebbe stato più giusto riconoscere almeno quanto dato Al colleghi dell’esercito italiano (150 Cfu)? Firmato Adolfo 1
Della serie: a lui la laurea la tirano dietro e a me no? Consideriamo che «il pezzo di carta», la laurea, non ser-ve solo al prestigio personale. Avendo un valore legale, ti dà la possibilità di fare carriera, accedendo a concorsi dai qua-li prima si era esclusi perché diplomati. E gli altri? Quelli che si sono laureati senza tutti questi sconti e che, fessi, hanno sgobbato sui libri per fare tutti gli esami? Nessuna differenza, il valore del titolo è sempre lo stesso: sia che tu abbia studiato in internet, sia che tu abbia studiato alla Bocconi. Questa lettera è stata pubblicata sul sito del quotidiano telematico www.altromolisc.it. È firmata da un maresciallo della guardia di finanza, che così termina il suo sfogo: [...] io ho studiato con moltissimi sacrifici, sperando che la laurea mi desse qualche opportunità in più rispetto a tanti altri che preferivano non studiare; con le lauree «facili» o «regalate» (come le ha definite il ministro Mussi) sono stati annullati ex lege i miei sacrifici ed
eliminato un vantaggio che io e altri colleghi ci siamo sudati nelle aule universitarie vere [...]. Perché io dovrei accettare di competere nei concorsi interni con persone alle quali è stato abbonato il 90per cen-to del percorso di studi e che, magari, essendo raccomandatissimi, si approprieranno di quei pochi posti (4 all’anno) di-sponibili per i laureati che ambiscono alla carriera da uffi-ciale? Ma quando finiranno questi soprusi nei confronti di chi si impegna seriamente e lealmente per migliorare se stesso e l’or-ganizzazione a cui appartiene? Distinti saluti. Claudio M. Maresciallo della Gdf
La trattativa Abbiamo provato a capire come funziona oggi il sistema del riconoscimento dei crediti. Il collega Giulio Valesini è andato su un sito di un ateneo telematico 3 e ha chiesto una valutazio-ne dei suoi potenziali crediti in base alla sua supposta esperien-za lavorativa. Abbiamo scelto il profilo di un addetto alle ven-dite nel settore alimentare, in pratica un commesso, che aspi-rava a laurearsi in Scienze dell’educazione e della formazione (non c’era molta scelta in verità... o questa o Giurisprudenza). Mandiamo poche righe con lo striminzito curriculum del nostro aspirante dottore («Ho svolto due corsi professio-nali regionali nel 2004: il primo di computer e il secondo di lingua inglese, entrambi della durata di tre mesi. Grazie per l’attenzione. Cordiali saluti»), ed ecco che (forse abbagliati dal brillante cv che abbiamo prodotto) i responsabili dell’u-niversità spediscono subito via mail uno schema di piano di studi e un pre-riconoscimento di ben 30 crediti (18 per l’e-sperienza lavorativa e 12 per i corsi regionali). Qualche an-no di lavoro alle spalle e due corsi di formazione regionali in informatica e inglese fatti nel passato (un impiegato dell’u-niversità ci aveva detto che quelli valgono molto!): metà an-no universitario già alle spalle grazie a una telefonata, niente male. Ma noi abbiamo fretta di ottenere «il pezzo di carta» e siamo interessati alle scorciatoie. Insieme a questa pre-valu-tazione ci arriva anche una proposta. L’offerta è questa: basta partecipare a un corso di forma-zione intensivo post diploma di appena sei mesi e si possono ottenere ben 60 crediti (un anno di università), 60 crediti che si aggiungerebbero Al 30 a cui abbiamo diritto per l’esperien-za. Questo corso permette di recuperare l’anno accademico in corso che in pratica è agli sgoccioli. È come nelle scuole su-periori: si può recuperare l’anno perso. In un’unica sessione di esami straordinaria a novembre si possono dare tutti gli ot-to esami dell’anno accademico. Non è neanche difficile, ci di-cono, perché si tratta di esami tutto sommato brevi. Ricapitolando: 60 crediti del corso di formazione più i 30 dell’esperienza e a novembre, in un colpo solo, siamo già a metà del secondo anno, a metà strada verso la laurea. I vantaggi non finiscono qui: se facciamo il corso di forma-zione, otteniamo lo sconto del 50 per cento sulla retta e in più abbiamo diritto a un altro sconto di 500 euro per l’iscri-zione all’anno successivo. Non rispondiamo all’email, loro probabilmente hanno paura di perdere il cliente, e dopo qualche giorno ci manda-no un’altra proposta. Un programma che ci permette di iscriverci in prova, gratuitamente, all’anno accademico 2008-2009 e direttamente al
terzo anno. Non sappiamo neanche come, ma siamo arrivati già all’ultimo anno, a un passo dalla laurea. Così scrivono dall’università: Egr. signore Le invio la nuova prevalutazione redatta dalla commissione. Come può vedere, la commissione Le riconosce altri 12 Cfu per i corsi di formazione che mi ha specificato. Sicuro di un gradito riscontro, porgo cordiali saluti.
Replichiamo, facendo finta di non capire: Veramente ho capito poco... sono pur sempre un commesso!! Quindi sarei già diciamo a metà laurea... giusto? Lei mi par-la già del secondo anno?
Secca la replica dell’ateneo: Il programma di cui Le parlavo Le dà la possibilità di imma-tricolarsi all’anno accademico successivo, 2008-2009. Nel Suo caso si parla del terzo anno.
Abbiamo smesso di scrivere. Che dite, si arrenderanno o ci porteranno la laurea direttamente a casa?
2 L’università dei pochi
Faje pena Un mio amico andò a reclamare una spettanza dal titolare della cattedra presso cui aveva vinto una borsa di studio. Il dipartimento aveva organizzato un corso post laurea e, in base alla legge e Al regolamenti interni dell’amministrazio-ne, il mio amico riteneva di avere il diritto di insegnare in quel corso. Bussò alla porta del capo, entrò nel suo ufficio, gli ricordò che a suo modo di vedere aveva diritto di inse-gnare al corso. Ne usci con le ossa rotte. Raccontò che il prof lo aveva guardato quasi con com-miserazione e gli aveva detto che non bisognava date per scontato niente visto che in realtà niente gli spettava. Io ascoltavo e mi innervosivo, seccato per l’arroganza del ba-rone, lui prospettava ricorsi legali, quando un nostro co-mune amico, più raffinato conoscitore delle regole del po-tere all’italiana, chiosò: «Così non vai da nessuna parre... je devi fa’ pena» (in romanesco, «gli devi fare pena»). «Co-me hai detto?» domandò il mio amico, e lui ribadì: «Faje pena». Naturalmente aveva ragione lui. Il mio amico tornò qualche giorno dopo
nell’ufficio del capo, gli parlò della sua si-tuazione familiare, mise il proprio futuro nelle sue mani e gli riconobbe il massimo di rispetto che gli poteva riconoscere. Baciata la pantofola del potete, ottenne in quattro e quattr’otto le ore di insegnamento che gli spettavano. In Italia (e anche, se non soprattutto, nell’università ita-liana) per ottenere qualcosa non bisogna meritarsela; se deve fa’ pena a qualcuno. I sistemi chiusi sono quelli che, isolati ermeticamente dalla realtà circostante, finiscono per vivere una vita pro-pria, basata su regole, valori, principi non condivisi da altri che non siano quelli che del sistema fanno parte. In un’organizzazione chiusa abbiamo capi che altrove sarebbero gre-gari, abbiamo criteri di valutazione delle performance che in nessun altro ambiente verrebbero riconosciuti come tali, abbiamo numeri uno che in altri contesti non verrebbero classificati. Abbiamo baroni che altrove sarebbero scudieri. Chiaramente chi riesce a blindarsi dentro a un sistema ermetico ha il potere di fare le regole, di disegnarle, tratteg-giarle e adattarle Al propri interessi. Decide chi entra nel si-stema, decide chi ne esce, decide chi sale e chi scende al suo interno. Decide cosa deve fare chi vuole far parte del clan, decide persino cosa deve pensare chi voglia aver accesso alla bolla di cristallo di cui lui è padrone. Così è l’università italiana: un sistema chiuso per defini-zione. Naturalmente le pratiche e gli imbrogli che sono stati più volte denunciati non devono spingere alla conclusione che tutti, in questo mondo, siano dediti ad attività disone-ste o poco professionali; ci sono tante persone per bene che credono nel loro lavoro e lo fanno onestamente, e molte di loro hanno accettato di raccontarci episodi, abitudini e fatti che abbiamo utilizzato per la nostra inchiesta. Come ci si fa strada Quando si parla di docenti universitari bisogna fare il ragio-namento opposto a quello fatto per gli insegnanti di scuola: se questi ultimi sono tantissimi e tutti sostituibili, all’univer-sità i professori sono pochi e, a quanto pare, insostituibili. A essere precisi i professori sono pochi in assoluto, troppi rispetto al contesto in cui lavorano. Secondo il libro verde sulla spesa pubblica del ministero dell’Economia, nelle uni-versità italiane c’è «una composizione del corpo docente ina-deguata, con troppi professori ordinari e associati rispetto al numero dei ricercatori». La presenza negli atenei italiani di un numero eccessivo di professori ordinari (18.000) e asso-ciati (18.000) rispetto al numero insufficiente di ricercatori (21.000) — secondo il Tesoro — rende la docenza universita-ria «più simile ad un cilindro che non ad una piramide» ed è dovuta al fatto che «per anni le università hanno preferito spendere risorse per garantire la progressione di carriera dei docenti piuttosto che assumere nuovi ricercatori». Da questo dipende «l’invecchiamento del corpo docen-te». Nel 1998 l’età media degli ordinari era di 58,5 anni, nel 2007 era di 59,2. Il 42 per cento dei nostri prof universitari ha più di cinquant’anni, mentre in Spagna e in Germania questa percentuale scende a circa il 27 per cento. La percentuale di docenti ultrasessantenni raggiunge in Italia il 22,5 per cento, il 13,3 in Francia, l’8 per cento nel Regno Unito. Ovviamente sono quasi tutti uomini.
La percentuale di docenti d’età inferiore a trentacinque anni è del 4,6 per cento in Italia, contro il 16 per cento nel Regno Unito e l’I 1,6 per cento in Francia. Gli ordinari so-no 19.275 e sono piuttosto avanti con gli anni: quelli con meno di 34 anni di età sono appena 10, e sono 171 quelli tra i 35 e i 39. In 16.358 oscillano tra i 50 e i 65 anni. Gli associati sono 19 mila, 23 mila i ricercatori universitari. Il paradosso è che il vero cuore dell’università sono gli 87.985 contrattisti, pagati poche migliaia di euro per tenete un numero sempre maggiore di corsi. Al riparo da valutazioni di autorità indipendenti, protet-ti da un sistema che non mette mai alla prova le loro effetti-ve capacità di insegnamento o di ricerca, i professori univer-sitari italiani hanno due soli nemici: il tempo che passa e la legge. I professori universitari hanno ingaggiato col legisla-tore una battaglia secolare: i Parlamenti che si sono succe-duti dal dopoguerra a oggi hanno sempre cercato di pensio-nati! prima, loro hanno messo in campo ogni forza per ri-manere incollati alla cattedra. Al momento l’età di pensio-namento è fissata a settant’anni, ma la norma viene applica-ta solo a chi è stato assunto successivamente all’entrata in vigore della riforma Moratti. E in fondo, domandiamoci, se non costretto dalle pressioni del management dell’univer-sità, o dagli alti standard di ricerca imposti dalla comunità scientifica internazionale, perché un barone italiano do-vrebbe lasciare il posto che occupa? Razza barona È un po’ di tempo che l’oncologo Massimo Federico dell’U-niversità di Modena si vede scomparire la terra da sotto i piedi. Perde ogni incarico: addio alla presidenza della Com-missione contratti e contenzioso, addio alla direzione della scuola di oncologia. La convenzione con l’Istituto superiore di sanità, che aveva promesso 148 mila euro all’università per le ricerche da lui coordinate, è bloccata. «E persino nel giornalino dell’università si evita accuratamente di parlare della pur prolifica attività di Federico e dei suoi collaborato-ri.» 1 La storia di ordinaria baronia è raccontata da Davide Caducei su «la Repubblica» e inizia come tutte le brutte storie universitarie: con un concorso per professore ordinario in Odontoiatria, vinto da un professore associato in Der-matologia. «E come se un calciatore avesse vinto la coppa Davis» sbotta Massimo Federico. Come può un dermatolo-go assicurarsi una cattedra di Odontoiatria? Può, se è il fi-glio del rettore. L’idoneo dello scandalo ha trentasei anni, e l’ex preside della facoltà di Medicina, Maurizio Ponz de Leon, spiega: «Non si è mai verificato, almeno negli ultimi trent’anni di storia della nostra facoltà, che un ricercatore riuscisse a diventare ordinario in soli sei anni e quattro mesi dalla nomina a ricercatore. Certo, potrebbe avvenire per meriti eccezionali. Ma, come visto dall’esame del curriculum, questi meriti non esistono». Spiega Carlucci che «il docente insegna da sei anni, ha un’esperienza all’estero di soli due mesi e i suoi punti di impact factor (il riscontro del-l’attività di ricerca nelle pubblicazioni scientifiche) riguar-dano solo la dermatologia: non il Med50, il settore, cioè, per il quale ha vinto il concorso. Altra stranezza: il concorso non ha visto la partecipazione di nessuno degli associati e dei ricercatori della nostra facoltà. [...] In Italia esistono 26 professori associati di quel settore ma nessuno ha fatto do-manda». I concorsi per diventare professore o ricercatore universitario sono in genere
predeterminati secondo logiche non meritocratiche, la selezione dei giovani che un giorno (lon-tano) arriveranno a occupare la cattedra è frutto di una ge-stione combinata proprio da quelli che dovrebbero essere sostituiti dai più giovani. Chi è al trono sceglie e ammette al soglio il principe. In genere Al concorsi partecipano tanti candidati quanti sono i posti in palio, perché la selezione è in realtà una procedura di cooptazione. La carriera di un giovane universitario è spesso proporzionata alla sua abilità di trovarsi un padrino, di accodarsi a una cordata che gli ga-rantisca (in tempi lunghi) una cattedra e un ruolo, nel ri-spetto dei principi del clan. Il numero dei promossi Al con-corsi coincide in genere col numero dei candidati, in base a quello che il giuslavorista Umberto Romagnoli definì un si-stema di «cooptazione, rigidamente centralizzato di stile staliniano». 2 È sempre Caducei su «la Repubblica» 3 a citare il caso di quel rettore indagato perché il presidente della società che si è aggiudicata i lavori per la realizzazione della città universitaria (8,8 milioni di euro) è anche titolare della cattedra di Estimo all’università, oltre che presidente della commissione che ha promosso a ricercatrice in Estimo la figlia del rettore. Un professore universitario dovrebbe insegnare, fare ri-cerca e gestire il potere necessario a portare a termine l’inca-rico avuto dall’università per cui lavora. Il problema è che in Italia i docenti, da tempo, hanno la possibilità di limitarsi a gestite. Ogni cattedra da noi è un ambito di potere, la rete tra le cattedre della stessa materia diventa una rete di potete, un sistema in cui a pochi basta accordarsi per determinare il successo e l’insuccesso di tutti gli altri, di tutti gli outsiders. Chi mette le mani su una cattedra non la molla più, e può permettersi di costruire il suo sistema di potere: i privilegi e il prestigio legati all’insegnamento permettono di coltivare interessi, e così essere professore universitario può diventare un modo per ottenere commesse, consulenze, contratti, contatti e lavori utili agli studi privati. Senza passaggi di de-naro, ma solo attraverso lo scambio di favori e gentilezze, si consolida un sistema di potete che taglia fuori chi potere non ha (e, così restando le cose, non avrà mai). Gli idonei I baroni sono incredibili. Non contenti di fare e disfare a loro piacimento gli organigrammi di oggi, sono riusciti a escogitare un metodo per prenotare gli organigrammi di domani. I concorsi non licenziano solo i vincitori di catte-dra, ma stabiliscono anche quelli che sono «idonei» ad avere una cattedra. Gli idonei sono coloro che non vinco-no il concorso, ma che, superando un determinato pun-teggio, conquistano il diritto a ottenere anche loro una cattedra, appena si libererà un posto. In pratica, bandendo un concorso per un posto, finisci per assegnarne almeno due. Comodo no? Paghi uno, porti via due (o tre, o quat-tro, o cinque...). Tra il 1999 e il 2007, 29.700 concorsi banditi hanno individuato oltre 44 mila «idonei». Secondo il rapporto del Comitato nazionale per la valutazione del sistema universi-tario, «la pluralità di "idonei" per ciascun posto a concorso ha determinato un numero molto ampio di soggetti che potevano essere utilizzati per un inquadramento nei moli dei professori. Nei fatti, ciò che era originariamente previ-sto per ridurre gli oneri per nuove selezioni — potendo qualsiasi università attingete liberamente alle liste dei già riconosciuti idonei - ha determinato la chiamata degli
ido-nei generalmente nell’ateneo di appartenenza» 4 Traduzio-ne: si pensava di creare la categoria degli idonei per fare meno concorsi, ma il sistema è stato utilizzato in modo da creare un bacino infinito da cui ogni università attinge alla bisogna. L’idoneità è usata spesso anche per dare un contentino al candidato preparato che rischia di rompere le uova nel pa-niere del barone: il concorso nasce per un prescelto, ma si iscrive anche un candidato particolarmente coriaceo che ri-fiuta di ritirarsi e lasciar vincere chi di dovere. Per evitare ri-corsi, intoppi, imprevisti e magari anche uno scandalo, si offre l’idoneità al candidato testardo, sperando che quello incassi e non si faccia più vedere. Cosa che in genere (naturalmente) accade. Università come funghi L’università è prestigio, e il prestigio chiama il potere. L’in-treccio tra facoltà, politica e consenso è sempre più ampio e vistoso. Proliferano le università, che arrivano ad avere sede nei più piccoli centri abitati, università che chiamano in cattedra (naturalmente) i politici locali. Questi ultimi aiuta-no i rettoti a ottenere convenzioni, agevolazioni e finanzia-menti, e così il sistema soddisfa e alimenta se stesso, con tanti saluti alle sue finalità istituzionali: la formazione e la ricerca. Gli esempi sono molti: «Con Luigi Berlinguer pri-ma e con Letizia Moratti poi» scriveva Davide Carlucci su «la Repubblica», «s’è compiuta la più grande mutazione ge-netica della storia dell’università italiana: i corsi di studio sono diventati 3264, le facoltà 545 e hanno sede nei posti più incredibili. A Locri, a Bressanone, a Ozieri, a Bracciano: i comuni che ospitano almeno un corso sono passati da 196 a 251 in sette anni. Il record è della Lombardia: le sedi sono 39, tra cui due paesini della Val Camonica. Esiste anche una "università diffusa" dell’Iglesiente». 5 La proliferazione delle università produce infatti la pro-liferazione dei corsi in facoltà. Nascono cattedre assurde, che hanno come fine essenziale quello di fare insegnare al docente una materia assurda. «L’offerta formativa in questi anni» scrive sempre Carlucci 6 «è esplosa in una pioggia di denominazioni che vanno dalla scienza della produzione e della trasformazione del latte dell’Università di Milano, sede di Crema, alle Scienze per la pace di Pisa, dalle Scienze del fiore e del verde di Pavia, alle Scienze e tecnologie del fitness di Camerino. Fino alle Scienze e tecniche equine di Parma, alle quali si contrappongono le Scienze dell’allevamento, igiene e benessere del cane e del gatto dell’Università di Bari.» Sempre a Parma troviamo il corso cult : Scienza e tecnologia del packaging. Figli di un Dio maggiore Cosa ha a che fare l’economia agraria con la medicina? Nien-te, almeno apparentemente. Ma nel 2002, all’Università di Firenze, fu messo a concorso un posto per ricercatore in Agraria nella facoltà di Medicina. Stranezze del sistema universitario. Quel concorso attirò l’attenzione non solo per lo strano accostamento delle materie, ma anche perché fu vinto da un giovane ricercatore che era il figlio del rettore dell’uni-versità. Il rettore in questione è anche docente di Agraria: il giovane
ricercatore che ha seguito (è davvero il caso di dirlo) le orme del padre, non è il primo e non sarà l’unico. D’altro canto non esiste una legge che vieta Al figli dei rettori di parte-cipare Al concorsi banditi dagli atenei guidati dal genitore, e un figlio d’arte può naturalmente essere un ottimo docente. Sono le dimensioni del fenomeno a spaventare. A fare una verifica ci si mette un attimo. Sul sito del mini-stero dell’Università è possibile controllare i nomi e le posi-zioni dei docenti in organico negli atenei. Clicchi il cognome del tuo prof e vedi quanti altri con lo stesso cognome escono. Se si vuole passare del tempo sul sito che svela l’organico delle nostre università, ci si accorge che i cognomi spesso si ripeto-no, tanto che a volte raggiungono anche la doppia cifra (e non si tratta solo dei soliti Bianchi e Rossi, di cui è piena l’Ita-lia...). La ricerca si può fare anche per singole università e (in questo caso) i cognomi spesso si ripetono a coppie, ma anche quattro, cinque, sei volte. Docenti e ricercatori con lo stesso cognome. Un caso? Forse, ma molto spesso si tratta proprio di parenti. Provate (www.miur.it) e vi divertirete. Anche se in realtà c’è poco da ridere. Molti di questi co-gnomi illustri appartengono a rettori o a ex rettori: tanto per fare un esempio, c’è un prorettore a Roma (che è anche preside di facoltà) i cui due figli insegnano nella stessa fa-coltà, mentre la moglie, docente ordinario, risulta in organico alla stessa università, stessa facoltà e anche stesso dipar-timento del matite II prorettore in questione ha superato anche il suo rettore, che nella sua università si è limitato a far entrare i canonici due figli. Se ci concentriamo solo sulle famiglie di rettori in carica e di ex rettori, troviamo tantissimi casi di parentela: da Sie-na a Cagliati, da Roma a Firenze, da Modena a Salerno, da Cosenza a Benevento. 7 Prendete gli ultimi due presidenti della Crui (Conferen-za dei rettori delle università italiane), entrambi con un fi-glio a testa docente nell’ateneo dove lavora papà. E fare l’e-lenco dei presidi di facoltà che hanno inserito i figli al lavo-ro sarebbe lungo. Per questo non serve fare nomi: il feno-meno è generalizzato, e trovare di volta in volta il capro espiatorio preferito servirebbe forse a far vendere un paio di copie in più (be’, forse più di un paio...) a questo libro, ma non risolverebbe il problema. L’Italia deve decidersi ad aprire il sistema dell’università alla concorrenza e agli outsiders, non deve mettere alla go-gna un paio di famiglie di baroni (cosa che ha in genere l’ef-fetto di esorcizzare il problema e di ringalluzzire i diretti concorrenti degli sfortunati). Riformare un sistema è cosa diversa dal denunciare un paio di persone che di quel siste-ma vivono: sarebbe bene spazzare via i baroni, ma sarebbe bene spazzarli via tutti insieme e una volta per tutte, non eliminarne qualcuno e sostituirlo con qualcun altro. In Italia sembra che la consanguineità sia diventata una conditio sine qua non per affrontare la carriera universitaria. L’Alto commissario anticorruzione all’inizio dell’anno fece un’indagine sulle modalità di reclutamento del perdonale docente a tempo determinato all’Accademia delle Belli Arti di Lecce. Risultò che circa il 30 per cento dei vincitori dei concorsi tra il 2000 e il 2006 erano parenti di un membro delle commissioni. Il prefetto di Torino Paolo Padoin ha aperto il sito www.rinnovareleistituzioni.it. Dentro ci sono tante storie di come funzionano, o meglio non funzionano, le cose nel
no-stro Paese. Un intero capitolo è dedicato all’università, dai troppi casi di parentela alla mala gestione degli atenei, dal punto di vista economico e amministrativo. Padoin ci spiega: «Nonostante sull’università ci siano state molte inchieste della magistratura e dei giornali, so-prattutto a livello locale, e tante denunce, spesso non si è ar-rivati a risultati concreti, perché le maglie della legislazione sono troppo larghe, e quindi dimostrare l’abuso d’ufficio è difficile, come nei casi di alcuni concorsi per ricercatori de-gli ultimi anni. Quello che emerge rispetto alla situazione delle nostre università è che, all’interno di tante materie scientifiche, ci sono esponenti più potenti che riescono ad influenzare la carriera dei loro discepoli, parenti o non pa-renti. Poi ci sono anche altri problemi: la mala gestione eco-nomica e amministrativa, la moltiplicazione delle cattedre e la cosiddetta gemmazione degli atenei, che sta portando ad aprire sedi universitarie dove non servono e con magari po-chissimi iscritti. Sono tutti fenomeni legati tra di loro». 8 Per non lasciarli soli Perché non sembri che ce la prendiamo solo con il mondo universitario, è bene fare un breve giro di orizzonte, alzare lo sguardo per ricordarci in quale Paese viviamo.9 L’Italia vive di sistemi chiusi: gli ordini professionali so-no l’esemplificazione palese del modo in cui vengono inter-pretate le regole del libero mercato, ma è generale la tenden-za a chiudere in un recinto i propri interessi e alzare barriere a loro difesa: una volta trovata la posizione sul mercato, si cerca immediatamente di trasformare il profitto in rendita, erigendo ostacoli per la concorrenza o accordandosi con gli altri attori del settore in modo da tener fuori quelli che si potrebbero proporre come nuovi operatori. «I candii» ha ricordato il presidente dell’Antitrust, Antonio Catricalà 10 «non sono peccati veniali; sono gravi misfatti contro la so-cietà perché corrompono la libera competizione delle forze economiche sul mercato: negli Stati Uniti sono considerati fatti criminosi, puniti con la prigione.» Certo, è difficili fare discorsi del genere in un Paese abi-tuato a proteggere lavori e professioni con albi e ordini pro-fessionali: in Italia anche i lavori sono immobili, o almeno così li vede la politica. Basti pensare che fra i primi disegni di legge depositati appena insediate le Camere, ce n’è uno mirato al riconoscimento della qualifica di pizzaiolo, con tanto di apposito albo. L’8 maggio 2008 un deputato del Popolo della Libertà ha presentato il disegno in cui è previ-sta l’istituzione dell’albo professionale pizzaioli italiani, nonché l’istituzione della patente europea pizzaioli (pep) senza la quale non si può accedere all’albo. Lo stesso onore-vole ha presentalo un disegno di legge per l’istituzione del-l’albo professionale nazionale di maestro di ballo. Nel dise-gno son specificati anche gli orientamenti tecnici per gli aspiranti ballerini: a) modem dance; b) ballo da sala e liscio unificato; c) stile internazionale standard; d) stile interna-zionale latino; e) danze jazz; f) balli folk; g) tango argenti-no; h) ballo sociale. Il 9 maggio 2008 un senatore dell’Italia dei Valori ha presentato un disegno di legge per «individua-re il profilo professionale del conducente di autovetture adi-bite al servizio di trasporto degli organi istituzionali». Per diventare autista di auto blu, è previsto anche un esame con il quale ottenere
l’attestato di qualifica. L’esame prevede: «Una prova scritta, una prova orale di teoria e una esercita-zione pratica, da patte di un’apposita commissione nomina-ta dall’amministrazione di appartenenza, composta da tre membri, di cui uno nominato dal direttore del personale, uno dal capo di gabinetto e uno dal sindacato di categoria che rappresenta l’autista di rappresentanza». Il 7 maggio un senatore di centrodestra ha presentato un disegno di legge per l’istituzione dell’albo nazionale dei cuochi professionisti perché, si legge nel documento, «la cu-cina italiana tradizionale, genuina ed equilibrata, necessita per il suo sviluppo di professionalità e di competenza». Al maestri di fitness ha pensato un eletto della Lega Nord, chiedendo di istituire l’iscrizione a un apposito elenco regionale, mentre un suo collega, sempre della Lega, ha pro-posto l’istituzione dell’albo nazionale degli agenti di polizia privata presso il ministero dell’Interno. Una deputata Udc ha proposto (sarebbe bello poter scrivere «infine», ma non saremmo onesti) l’istituzione della figura professionale del-l’animatore di corsia ospedaliera.
3 Il pezzo di carta
Come funziona l’università Come abbiamo fatto con la scuola, è bene chiarire come funziona l’università, perché dopo la riforma del 2002 an-che in questo campo non è facile costruite una mappa. Le lauree oggi sono due, non più una sola: 1 dopo tre an-ni si può ottenere la laurea di primo livello, mentre con ul-teriori due anni si può arrivare a quella specialistica. Al ter-mine del triennio o al termine dei cinque anni si può acce-dere facoltativamente al master universitario, rispettiva-mente di primo o secondo livello. Per ottenere una laurea di qualsiasi tipo è obbligatorio Io studio di almeno una lingua straniera europea ed è necessa-rio raggiungere 180 Cfu, una nuova «unità di misura» che serve a dare un peso alle «fatiche» degli studenti. A ogni cre-dito corrispondono infatti tot ore (presunte) di studio, e ogni esame avrà un numero di crediti corrispondente al-l’impegno (sempre presunto) necessario per superarlo: fre-quenza alle lezioni, presenza a seminari ed esercitazioni, stu-dio individuale a casa. Alle lauree specialistiche (quelle che una volta erano le uniche lauree) si accede dopo la laurea (triennale), scegliendo tra le molte specializzazioni previste (oltre il doppio rispetto Al corsi di laurea), destinate alla pre-parazione a specifiche professioni. Le lauree sanitarie rappresentano un caso a parte. Far-macia, Odontoiatria, Veterinaria, Medicina sono lauree a ciclo unico (di cinque o sei anni), mentre le altre
lauree sa-nitarie sono di tre anni. Per Medicina rimangono le diver-se specializzazioni (Pediatria, Cardiologia, Ortopedia...) post laurea. I titoli dei corsi vengono scelti discrezionalmente dall’a-teneo, ma le nuove lauree, comunque si chiameranno, ap-parterranno a delle classi di lauree predefinite, e sarà questa appartenenza a stabilire il loro valore legale. Per esempio, ci si può laureare tanto in Economia quanto in Economia e Commercio, dipende dall’università in cui ci si iscrive, ma entrambi i corsi appartengono alla classe di laurea in «Scien-ze economiche». Le lauree servono? In realtà sono molto pochi gli studenti che si fermano dopo i primi tre anni di studio. Una ricerca di AlmaLaurea del 2006 (a cinque anni dall’entrata in vigore della riforma co-siddetta del «3+2») riferisce che ben 83 laureati su 100 del primo livello intendono proseguire gli studi fino al raggiungimento della laurea specialistica. Persino il 43 per cento dei laureati del quinquennio intende continuare a studiare con il master o con altri percorsi di ricerca. In fondo non c’è un motivo per terminare gli studi: il mercato del lavoro non aspetta a braccia aperte i laureati del quinquennio, figuria-moci quelli del triennio. I contenuti dei corsi non sono cambiati, si insegnano le stesse cose che si insegnavano pri-ma, e quindi, a conti fatti, non ha avuto senso spacchettare i diplomi. È stata insomma una riforma apparente, priva di contenuti sostanziali. Secondo l’economista Luigi Zingales questo è il proble-ma più profondo dell’università italiana: il rapporto tra for-ma e sostanza. «Il nostro è un sistema perverso» scrive Zin-gales, «dove lo Stato distorce sia la domanda che l’offerta per l’istruzione universitaria, causando una forte riduzione della qualità. Lo Stato crea la domanda, riconoscendo valo-re legale ad un pezzo di carta conseguito secondo regole pu-ramente formali, indipendentemente dal contenuto di sa-pete. [...]. Privi di alcun feedback dal mercato, i professori continuano ad insegnare quello che vogliono (o sanno) sen-za alcuna attenzione a quello di cui gli studenti avrebbero bisogno.» 2 Il problema è quindi quello di un sistema che giustifica se stesso: si pensa, si ripensa, si disegna e si ridisegna in base a quelle che sono le sue necessità, ma non si confronta con il mondo esterno dimenticando quella che dovrebbe essere la sua funzione. A cosa serve l’università? Se serve a farti dire che ti sei laureato, è un conto. Se deve in-vece servire a te e al tuo Paese, il conto è un altro. Il nostro si-stema non forma la classe dirigente. Non prevede un percor-so utile a dare nozioni e strumenti agli italiani potenzialmen-te in grado di guidare il Paese. Nel resto del mondo indu-strializzato (e non solo in quello) esistono ormai da tempo reti di istituzioni e sistemi educativi che forniscono capitale umano di qualità alla stanza dei bottoni. In Francia, per esempio, non esiste naturalmente un’unica via, ma il sistema si organizza intorno all’Ena (École nationale d’administration), che fornisce ogni anno al Paese 500 studenti pronti a prendersi
responsabilità di ogni livello e tipo. L’Ena ha perso molto del suo antico fascino e della sua tradizionale autore-volezza, ma resta pur sempre il percorso attraverso cui sono passati 72 dei 200 presidenti delle grandi imprese francesi. Marco Alfieri ha ricostruito su «Il Sole 24 Ore» la situazione in Gran Bretagna, 3 dove gran parte della classe dirigente pro-viene da un piccolo gruppo di scuole private riconosciute (Eton, Harrow, Sr. Paul, Westminster, Winchester). Nella pubblica amministrazione inglese il 60 per cento dei quadri più elevati sono occupati da laureati di Oxford o Cambrid-ge, mentre il 60 per cento degli amministratori delegati delle prime 200 imprese si è laureato a Oxbridge. In Germania la classe dirigente si forma dal basso, proviene insomma da tante scuole differenti, ma passa in genere per un program-ma di dottorato (il Ph.D. successivo alla laurea): la Germa-nia licenzia circa 22 mila dottorati all’anno in materie come ingegneria, informatica, chimica, biologia molecolare. In Italia il ministero riconosce (e in parte finanzia) sei scuole di eccellenza autonome, la Normale di Pisa, la Sant’Anna di Pisa, la scuola di studi avanzati di Trieste, lo Iuss di Pavia, l’Istituto di scienze umane di Firenze e flint di Luc-ca. Sappiamo però che non sono questi istituti (o meglio non questi più di altri) a formare la classe dirigente italiana. È difficile ricostruire un percorso unico delle élite italia-ne, ma forse è difficile ricostruire un percorso tout court. Una volta i canali di formazione esistevano, si imparava la politica formandosi negli apparati dei partiti, o si governavano le aziende dopo essersi formati nelle aziende stesse o nei centri studi di alcune associazioni, o istituzioni. Pensiamo Al labo-ratori che furono l’Ini, l’Eni, la Confindustria, il sindacato o la Banca d’Italia. Adesso questi canali in patte sono scomparsi o hanno ridimensionato il proprio ruolo, e chi aspira a di-ventare classe dirigente non ha le possibilità di crescere che ha avuto chi della classe dirigente ha fatto parte in passato. Le nuove leve non sanno dove formarsi, spesso decidono di farlo all’estero, e una volta che si è scoperto come funziona-no le cose altrove, difficilmente si torna indietro. «Il prodotto "laurea"» scrive ancora Zingales «si è tal-mente svalutato da metterne in dubbio la sua stessa utilità. L’Istat ci informa che a tre anni dalla laurea solo il 62 per cento dei giovani ha un’occupazione. E paragoni interna-zionali rivelano che il reddito dei 30-34enni italiani in pos-sesso del titolo universitario supera quello dei diplomati so-lo del 26 per cento, contro il 100 del Portogallo e l’80 di Regno Unito e Stati Uniti.» 4 La classifica delle università Le università in Italia sono 93, 58 sono quelle che hanno goduto nel 2006 di finanziamenti statali. Come sono que-ste università? Fra le classifiche annuali più note che si fanno sulle mi-gliori università del mondo c’è quella curata da QS Network e pubblicata dal «Times Higher Exiucation Supplement» («Thes»), una delle più autorevoli riviste dedicate al mondo accademico. La classifica del «Thes» è il multato di quattro indicatori:
- La qualità della ricerca, calcolata in base alla valutazione di un gruppo di studiosi internazionali e dal numero di citazioni su riviste specializzate. - La capacità di impiego, quella cioè di far fare strada Al propri allievi. - Il tasso di internazionalizzazione, ovvero la percentuale del personale accademico e degli studenti provenienti da altri Paesi, una sorta di capacità di attrazione. - La qualità dell’insegnamento.
Gli ultimi dati 2007 ci dicono che fra le prime 100 università al mondo le italiane non ci sono. Se decidiamo di cerca-re ancora e allargare la nostra ricerca alle prime 400, sco-priamo che sono 9 (!) le nostre università classificate. Tro-viamo Bologna al 173° posto, La Sapienza di Roma al 183° e l’Università di Siena al 394°. Per trovare un ateneo del Sud, dobbiamo scorrere l’elenco fino al 457° posto, dove ri-posa la Federico II di Napoli. Frustrante la ricerca nella classifica delle migliori univer-sità divise per insegnamento: primi 50 atenei medici? Nien-te. Primi 50 atenei tecnologici? Niente. Primi 50 atenei di scienze sociali? Niente. Primi 50 atenei di scienze naturali? Eccoci! La Sapienza si piazza al 40° posto. Primi 50 atenei di lettere e materie umanistiche? Altra soddisfazione, con Bologna al 47° posto. Anche se limitiamo la nostra ricerca alla classifica delle università europee, i dati non sono molto confortanti. Tra i primi 100 troviamo il 71° posto di Bologna e il 76° de La Sa-pienza. Poi più niente, sino al 137° posto di Padova, al 143° di Pisa e al 147° di Firenze. Cinque classificate su 93, un ma-gro bottino. I nostri primati sono altri: nella classifica delle università più antiche del mondo troviamo 7 università italiane fra le prime 20. Bologna, in particolare, è al secondo posto, fondata nel 1088, otto anni prima di Oxford. Le nostre classifiche sono invece meno desolanti quando parliamo di singoli individui. Il Consiglio europeo della ri-cerca (Ere) finanzia la ricerca di frontiera, cioè eseguita da singoli gruppi, destinando i finanziamenti alle proposte di qualità provenienti dai singoli ricercatori. L’Italia è il primo Paese per numero di proposte presen-tate, il secondo Paese per numero di proposte accettate, ma il quinto Paese (dopo Germania, Inghilterra, Francia e Olanda) se si considera il luogo dove i ricercatori hanno de-ciso di spendere i fondi ottenuti. Prendi i soldi e scappa, in-somma. All’estero, naturalmente, dove si lavora meglio. «Dottori» da ricoverare Quanti sono i laureati in Italia? I dottori in Italia sono l’8,8 per cento della popolazione (la media Ocse è del 15 per cento), ma molti di loro restano ignoranti anche dopo la laurea. «Dirimere un’ambiguità lessicale» scrive Michele Smargiassi su «la Repubblica» «è un problema per un lau-reato su cinque. A dir la verità» aggiunge, «anche solo com-prendere la frase che avete appena letto è un problema per un laureato su cinque.» 5 È sempre l’Ocse 6 a fare gli esami Al laureati italiani e a scoprire che 21 laureati su 100 non rie-scono ad andare oltre il livello elementare di decifrazione di una pagina scritta. «Gli studiosi» spiega Smargiassi 7 «prefe-riscono chiamarlo "illetteratismo": non si tratta infatti di incapacità brutale di compitare
l’abicì, di decifrare una sin-gola parola; ma della forte difficoltà a comunicare efficace-mente e comprensibilmente con gli altri attraverso la scrit-tura.» 8 Tanti (troppi) laureati riescono cioè a comprendere le istruzioni di un elettrodomestico, le indicazioni stampate sulla confezione di un medicinale, ma non di più: riescono a scrivere messaggi semplici, ma non un testo minimamente complesso, come per esempio una lettera di proteste all’am-ministratore del condominio. Si tratta sempre di una mino-ranza, certo, e può confortare che invece un laureato su due in Italia raggiunga il livello massimo di conoscenza della propria lingua, ma è una minoranza comunque allarmante, se si considera che, per esempio, negli Stati Uniti i laureati così malmessi sono appena il 14 per cento. Stiamo parlando di persone che dopo aver concluso l’in-tero circuito di studi non sanno parlare, non hanno confidenza con le parole. Non sanno scrivere (se non a livello ele-mentare) e non capiscono quello che leggono: queste) anche (forse soprattutto) perché hanno poca confidenza con i testi scritti in genere. In Italia il 7 per cento dei laureati non leg-ge mai, e la percentuale si basa sul numero di quelli che hanno avuto il coraggio di ammetterlo davanti all’intervi-statore, e non registra quindi quelli che non leggono ma non avrebbero mai il coraggio di dirlo. Un laureate su tre possiede meno di cento libri, praticamente tiene in casa so-lo i libri di testo del proprio corso di laurea oppure i roman-zi che gli hanno fatto leggere al liceo. Un dottore su cinque non ha in casa un’enciclopedia, quasi nessuno (il 73 per cento) va in biblioteca e, quando ci va, lo fa solo per consul-tare un testo, ma non esce con un libro preso in prestito. Quali sono le ragioni che tengono lontani gli italiani dai testi scritti? «Manca il tempo» e «sono troppo stanco» sono le spiegazioni che danno i dottori, e in effetti è difficile dare loro torto. Meno facile stare dalla loro parte quando sosten-gono che «leggere oggi non serve» o che il libro è «un me-dium lento» oppure che ormai si preferiscono «altre forme di comunicazione sociale». Il testo scritto è diventato ormai l’incubo di ogni lau-reando. «La trasmissione del sapere universitario è regredita dalla scrittura all’oralità» spiega Franco Frabboni, preside della facoltà di Scienze della formazione a Bologna. 9 «Pro-fessori sempre più incerti fanno lezione con diapositive, se-guendo una traccia fissa. Al laureandi si lascia esporre la tesi con presentazioni Powerpoint. I "test oggettivi" d’ingresso sono crocette su questionari. La competenza linguistica non è considerata un prerequisito indispensabile: devi guada-gnarti cinque crediti per la lingua straniera, e cinque per l’informatica, ma non c’è alcun obbligo per quanto riguarda la buona pratica dell’italiano.» Si è persa l’abitudine a legge-re, e si ha ritegno anche a far riferimento alla parola scritta: «Quando un professore assegna più di 150-180 pagine» conclude Frabboni «davanti al mio ufficio c’è la fila di stu-denti che protestano». Gli ignoranti laureati e i dotti ignoranti In Italia «il pezzo di carta» è utilizzato ancora come una cla-va. Silvio Berlusconi, dottore in Legge, accusò i suoi avver-sari di non essere per lo più «neppure laureati», e si ramma-ricò di non avere a che lare con competitori del suo livello culturale: «Possono fare i pittori» aggiungeva, ma qualcuno ricorderà anche una
puntata di Ballarò in cui il ministro della Giustizia Castelli (ingegnere) rispondeva a Eugenio Scalfari che non rinunciava a citate il latino: «Guardi che la capisco, ho fatto il classico!», come a dire: ogni altra prova è inutile, carta canta. In realtà l’università non sempre ci rende migliori, e non è conquistando una laurea che si diventa sapienti, o meno ignoranti. Anche in questo caso ci soccorrono molti esempi: basti pensare che Andrea Camilleri è stato iscritto alla fa-coltà di Lettere ma non ha mai conseguito la laurea, anche se ha ricevuto diverse lauree honoris causa. Il grande scritto-re, a dir la verità, non ha mai neanche sostenuto l’esame di maturità, perché a metà maggio del 1943 stavano per sbar-care gli Alleati in Sicilia, e il preside del liceo classico di Agrigento, frequentato da Camilleri, decise che sarebbe val-so il solo scrutinio per essere licenziati col diploma. Anche uno dei maggiori animatori del nostro dibattito culturale e politico, Giuliano Ferrara, non si è mai laureato; Enzo Biagi, anche lui non laureato, ha segnato il tratto del giornali-smo italiano prima di ricevere quattro riconoscimenti hono-ris causa da altrettante università italiane. Ma, più in generale, molte personalità che hanno rico-perto con successo alti incarichi, anche istituzionali, non hanno concluso gli studi universitari:10 l’ex presidente della Camera Fausto Bertinotti è perito industriale, l’ex ministro dei Beni culturali Rutelli ha la maturità classica, così come il suo predecessore Walter Veltroni è diplomato cineoperatore. Massimo D’Alema non ha mai discusso la tesi preparata in Filosofia, mentre Stefania Prestigiacomo è diplomata in lingue, Umberto Bossi ha il diploma di liceo scientifico e una «specializzazione in elettronica applicata alla medici-na», Maurizio Gasparri si è fermato alla maturità classica, Altero Matteoli al diploma in ragioneria. Significativo il curriculum di Daniel Pennac, romanziere di lama mondiale, padre di Malaussène e della tribù di Belleville, tre milioni di copie vendute. Pennac ha scritto un li-bro, Diario di scuola, 11 e ha snocciolato i voti della sua pa-gella alle medie: 4 e 5 in matematica, 2 in inglese, 3 e 6 in scienze. Certo, sarebbe interessante sapere quanto prendeva in francese, perché è con quello che è diventato ricco. Laurea non è neppure sinonimo di competenza: si può essere i massimi esperti in una materia e aver conseguito la laurea in un’altra. Carlo Azeglio Ciampi, l’uomo che grazie alle sue competenze in materia finanziaria ha più volte tira-to fuori il nostro Paese dal baratro, si è laureato prima in Lettere e poi in Giurisprudenza. Pierluigi Bersani, l’uomo che nel centro-sinistra ha l’ultima parola nelle questioni economiche, si è laureato in Filosofia con una tesi sul pen-siero di San Gregorio Magno. Il sindaco di Roma, per anni esperto di An per le questioni economiche e sociali, Gianni Alemanno, è laureato in Ingegneria. Questi esempi valgono anche per zittire quelli che parlano di titoli di studio «utili» (in genere le materie attinenti all’economia) contrapponen-doli a quelli «inutili» (in genere le materie umanistiche). I talenti in realtà scelgono sempre la propria strada. Sembra invece ormai chiaro perché molti e autorevoli osservatori sostengono sia ormai il caso di abolire anche so-lo il valore legale della laurea. La circolazione dei cervelli Il fatto che in Italia si parli ancora di fuga dei cervelli ci dà l’idea di quella che è la nostra situazione. Il fenomeno dei giovani laureati che lasciano il proprio Paese per
andare a proseguire gli studi all’estero è il problema dei Paesi in via di sviluppo: lamentano la fuga dei cervelli i Paesi poveri di op-portunità, i Paesi a cui le nazioni più ricche e moderne strappano le risorse migliori offrendo maggiori prospettive e sostanziose remunerazioni. La fuga dei cervelli è il proble-ma con cui si confrontano, per esempio, diverse nazioni africane, o alcuni Paesi dell’Estremo Oriente: Paesi che per-dono, con le loro forze migliori, l’opportunità di crescere e inserirsi nel circuito internazionale di quelli «che contano». Il mondo sviluppato non si confronta con la fuga dei cervelli, ma con la circolazione dei cervelli. Qualcuno se ne va, qualcuno arriva, la comunità internazionale vive dello scambio di idee e della mescolanza tra culture e capacità: basti pensare che il 30 per cento degli amministratori dele-gati in possesso di Ph.D. delle nuove imprese high-tech nel-la Silicon Valley sono nati in India o in Cina, oppure basti sapete che l’80 per cento dei circa 850 mila indiani e il 54 per cento di circa un milione di cinesi residenti negli Stati Uniti sono in possesso di laurea o dottorato. L’Italia da questo scambio di cervelli è tagliata fuori. Noi esportiamo 30 mila studiosi l’anno e ne importiamo appena 3000. Se nel dopoguerra emigravamo per lavorare, ora emi-griamo per studiate, e così scopriamo che dal dicembre 2001 al maggio 2006 i laureati iscritti all’Aire (Associazione italia-na residenti all’estero) sono passati da 39.013 a 59.756, con un aumento di oltre 4600 unità l’anno, mentre tra il 1996 e il 2002 i laureati che ogni anno si trasferivano all’estero era-no 3300. 12 Se ne vanno in tanti, ma pochi arrivano da noi per stu-diare e fare ricerca. L’Italia è ultima nell’area industrializzata per percentuale di studenti stranieri iscritti a programmi di dottorato: lo 0,1 per cento contro il 40 per cento della Sviz-zera, il 32 per cento del Belgio, il 28 per cento del Regno Unito, il 27 per cento degli Stati Uniti. In questa graduato-ria l’Italia è preceduta, per esempio, da Messico, Repubblica Slovacca, Turchia e Corea. Solo lo 0,3 per cento dei laureati residenti in Italia sono stranieri, mentre per quanto riguar-da la percentuale di stranieri con titoli post laurea impegna-ti in attività lavorative, il nostro Paese non compare neppu-re nelle statistiche, dal momento che i valori sono «non si-gnificativi e trascurabili». Al contrario, una percentuale compresa tra il 3 e il 5 per cento dei neolaureati lascia l’Ita-lia, dato tanto più significativo se si pensa che il tasso di emigrazione è più elevato tra i laureati delle migliori univer-sità e tra le aree più rilevanti per la ricerca e per la crescita economica: informatica, ingegneria, scienze della vita, eco-nomia, management. Non c’è da meravigliarsi, naturalmente. In Europa sia-mo il Paese che investe meno per università e ricerca, e se guardiamo oltre l’Unione ci accorgiamo che siamo stati su-perati anche da India e Corea. Ma il problema non è solo un problema di investimenti: l’università italiana non respi-ra, le manca l’aria. Se guardiamo alla percentuale di studenti stranieri pre-senti da noi, si tratta di appena il 2 per cento: 1/5 di quanti non ce ne siano in Francia, 1/6 della Germania, 1/8 della Gran Bretagna. Noi non attiriamo nessuno: il progetto Marco Polo, che era stato varato per far arrivare in Italia 10 mila studenti cinesi, è servito ad attirarne appena 1000. 13 L’Italia, che già offre un sistema universitario poco at-traente, è soffocata da regole e regolette che dirottano altro-ve allievi e ricercatori. Dopo aver presentato
mille fotoco-pie, plichi e moduli, uno studente straniero può impiegare anche quattro mesi per ottenere un visto di ingresso trime-strale e quindi un permesso di soggiorno che scade di anno in anno (a patto che si siano sostenuti due esami, altrimenti scatta l’espulsione). Vision and value (una società di consulenza che opera per conto della Commissione europea) ha realizzato una ri-cerca sul rema, e i 1000 studenti stranieri del Politecnico di Torino hanno tutti confessato di aver scelto l’Italia per i più disparati motivi personali, tutti prescindenti dalla qualità degli studi. Uno studente extracomunitario, prima ancora di sottoporsi all’esame di italiano per l’ammissione, deve presentare persino garanzie bancarie che coprano sin da su-bito l’intero ammontare delle spese che presumibilmente dovranno essere sostenute durante il soggiorno, compreso il biglietto aereo di ritorno. Tutti questi problemi si incontra-no se si vuole studiare. Esistono delle procedute di immi-grazione celere, ma riguardano due categorie ben precise: le modelle e il clero. Sugli studiosi, noi, siamo più pignoli. Storia di Keti La storia di Ketevan (Keti) Bochorishvili, georgiana di ven-tisette anni, è emblematica. Keti parla quattro lingue, è lau-reata in Relazioni internazionali, ha frequentato un master negli Stati Uniti e ha lavorato presso il Consiglio americano per la formazione internazionale e il ministero della Scienza e della Formazione della Georgia. Ha anche lavorato presso l’ambasciata della Georgia negli Stati Uniti, in Canada e in Messico e ha partecipato a programmi promossi all’Univer-sità di Georgetown, all’Incocca Institute e alla Charles Uni-versity. Insomma, Keti è una che ha girato il mondo, una che ha studiato, una che ci sa fare. Se questo non bastasse, diciamo anche che è una ragazza sveglia, tanto da aver vinto il premio Eurasia World of Difference «per le sue ecceziona-li abilità diplomatiche, l’ingegnosità e la flessibilità». Terminata l’esperienza americana, Kerevan decide di av-vicinarsi a casa e continuare la sua formazione in Europa. Sceglie un master di management alla Bocconi e si propone di presentare la documentazione per entrare in Italia. Così comincia la sua avventura: «La prima volta che ho presenta-to la domanda» ci racconta, «mi hanno accettata, ma poi non ho fatto in tempo ad ottenere il visto. Lì per lì ho pen-sato che fosse colpa mia, così l’anno successivo ho presentato una nuova domanda e sono stata accettata. Per non sba-gliare di nuovo, ho deciso di preparare tutte le carte necessa-rie per il visto con quattro mesi di anticipo. Non avrei mai immaginato a cosa sarei andata incontro. Andavo avanti e indietro dal consolato italiano in Georgia, ogni volta man-cava qualcosa richiesto dal nostro Paese: timbri, traduzioni, diplomi, c’era sempre un motivo per cui farmi tornare. Mi sembrava che in realtà nessuno sapesse di preciso quali do-cumenti dovessi presentare. Dopo tre mesi che andavo avanti e indietro con le carré, il 29 maggio mi hanno detto che i termini per presentare una certa documentazione era-no scaduti nove giorni prima. Non so se l’hanno fatto per-ché non volevano più vedermi o perché anche loro l’aveva-no scoperto davvero in quel momento, ma a quel punto ho fatto come mi hanno suggerito degli amici, e ho usato alcu-ni contatti personali per arrivare all’ambasciata italiana. In questo modo sono riuscita ad avere una chance. Il 1 5
giu-gno (un giovedì) mi hanno dato come ultima data il 18 giu-gno (una domenica); a questo punto avevo un solo giorno a disposizione per: scrivere una lettera al ministro dell’Educa-zione georgiano e ottenere una "verifica" dei miei diplomi; ottenere dall’università l’autentica della mia laurea (l’uni-versità georgiana non ha un archivio elettronico, l’avrebbe-ro dovuta cercare materialmente nell’archivio); ottenere dal ministero una lettera indirizzata agli uffici italiani compe-tenti, rivolgermi ad un notaio per autenticare la lettera del ministero, portare la lettera al ministero di Giustizia, conse-gnarne copia al ministero degli Affari esteri. Alla fine, avrei dovuto consegnare il dossier al consolato italiano della Georgia. «Mi sono attrezzata, ho fatto i salti mortali, speso il quin-tuplo di quello che dovevo spendere e il lunedì alle 11 mi so-no presentata al consolato italiano con tutto il materiale ne-cessario. Mi hanno accettata con riserva, essendo passato il termine stabilito, solo quando, calendario alla mano, ho di-mostrato loro che non avrei potuto consegnare il dossier di domenica. Hanno preso il malloppo e mi hanno salutata scrollando la testa, e mi hanno lasciato capire che tutto l’in-cartamento non avrebbe fatto molta strada. Alla fine invece ho ottenuto il visto per motivi di studio, ma ho subito sco-perto che dovevo ottenere un permesso di soggiorno entro otto giorni dal mio arrivo in Italia. Ho impiegato tre mesi pei farlo, settembre è il periodo peggiore dell’anno: la fila era sempre troppo lunga e non riuscivo mai ad arrivare allo sportello. Fra l’altro dovevo frequentare le lezioni, trovare un appartamento, organizzare la mia nuova vita in Italia. Alla fi-ne sono andata in commissariato alle due di notte per pren-dere posto nella fila, ho fatto sette ore in piedi per strada e al-le nove del mattino sono riuscita ad entrare: ci ho messo altre cinque ore per le pratiche. Sono uscita con il mio permesso alle due del pomeriggio (dopo 12 ore!). «Il permesso durava un anno, e anche questa volta mi so-no mossa in anticipo, prima che scadesse: anche se scadeva solo a settembre a luglio ho spedito tutto. Come è andata a finire? Sto ancora aspettando risposta! Non ho il permesso, ma solo una carta che dice che il permesso è in via di rinno-vo. Il problema è che con questo foglio provvisorio non pos-so uscire dal Paese: dovrei partecipare a delle conferenze all’estero, ma non posso lasciate l’Italia. Fra due settimane co-munque torno in Georgia, e poi cambierò progetti. Andrò altrove in Europa, da voi non si riesce a stare. E troppo stres-sante. Mi dispiace davvero, la gente è carina, ma il vostro modo di fare mi sta penalizzando dal punto di vista profes-sionale. Questo Paese è un incubo. Non vi sto a raccontare cosa ho passato per trovare casa, per aprire un conto in ban-ca... Me ne andrò in Francia, o in Germania. Lì è molto di-verso, il permesso te lo danno in cinque giorni...». 14
La rivincita 1 Tre idee e un post
Le riforme che tutti vogliono Ci sono due modi di ragionare sulla scuola: uno è pensare all’immediato, l’altro è pensare al medio-lungo periodo. Se-condo Tullio De Mauro «pensare alla scuola è un investi-mento a lungo termine: spendi oggi e, se spendi bene, avrai frutti tra dieci, venti anni. La scuola non può incidere im-mediatamente sul retroterra culturale degli allievi. Allievi che partono da ambienti segnati da arretratezza culturale partono svantaggiati». 1 Per cambiare un Paese, quindi, la scuola ci mette tanto tempo; anche un Paese, per cambiare la scuola, non può che metterci tanto tempo. Investire oggi vuol dire scommettere sulle potenzialità di chi potrà dare il suo apporto in futuro. Nell’immediato, quindi, si può far «salire di livello» la nostra scuola, nel medio lungo-termine si può darle una nuova identità, una nuova missione. Nel lungo termine è possibile pensare a politiche di totale rinnovamento del per-sonale docente, più giovane, scelto e selezionato in maniera più razionale, motivato da nuove e soddisfacenti politiche salariali. La ristrutturazione immediata del sistema può portare a una gestione amministrativa più razionale, a una mag-giore qualità della spesa, a una riqualificazione delle profes-sioni interne. Nel corso della campagna elettorale 2008 Confindustria ha raccolto i punti in comune dei programmi di Pd e Pdl ri-guardanti la riforma scolastica. «Il primo elemento in co-mune» raccontava «Il Sole 24 Ore» 2 «è l’autonomia. Il Pd annuncia scuole più libere, con flessibilità negli orari e nella gestione dell’organico, mentre il Pdl punterà a rafforzare l’autonomia secondo il principio di sussidiarietà.» In comu-ne poi l’attenzione al merito, a una «maggiore libertà di scelta per le famiglie, il rilancio dell’istruzione tecnica e del-la cultura scientifica». In effetti la scuola è ormai diventata come tutte le emer-genze del Paese: sanno tutti cosa va fatto, si cerca solo di tro-vare chi è in grado di attuarlo. L’autonomia degli istituti viene ormai indicata dalla maggioranza degli osservatori come uno dei passaggi-chiave nel percorso che dovrebbe portare a un innalzamento del li-vello della nostra scuola. Istituti che possano assumere do-centi, premiare gli insegnanti migliori, ingaggiare tecnici di laboratorio. Lo svecchiamento del personale (anche quello, ormai, in attesa di essere
stabilizzato) è un altro punto-chiave delle riforme tratteggiate dagli esperti, anche se poi i disegni di chi vuole una scuola nuova nel futuro si scontrano con i di-ritti di chi la scuola la sta portando avanti nel presente, i tanti professori precari di cui abbiamo parlato. In molti in-sistono sulla necessità di accelerare sul fronte dell’insegna-mento dell’inglese e delle materie scientifiche, mentre gli osservatori si dividono sull’opportunità di promuovere l’e-mulazione e la competizione tra scuole (pubbliche o priva-te che siano) per innescare un processo virtuoso di concor-renza. In attesa della rivincita della scuola pubblica I problemi della scuola italiana, oggi, sembrano essere es-senzialmente due: il caos organizzativo e la carenza di fondi. Del primo è figlio per esempio l’eccessivo numero di dipen-denti, del secondo la cattiva qualità dell’attività all’interno degli istituti. Lo svilimento della professione dell’insegnan-te sembra essere una conseguenza dei due fattori incrociati. La scuola serve a migliorare il presente e il futuro di chi ci entra, quale che sia stato il suo passato. Serve a renderci più colti, e quindi più creativi quando si tratta di inventare la nostra vita, più comprensivi quando si tratta di decodifi-care quella degli altri, più reattivi quando si tratta di risolve-re un problema. Serve in sostanza a dare un’opportunità in più a chi la frequenta. Così com’è organizzata, la scuola frustra quello che è il motore dello sviluppo di una collettività, la legittima aspira-zione a migliorare la propria condizione economico-sociale. Una scuola debole (come un Paese debole) si rifugia nelle idee forti, e probabilmente la fortuna di molti istituti privati, che (legittimamente) rivendicano identità nette e si struttura-no attorno a sistemi di valori ben delineati, è legata anche a questo fenomeno. La scuola pubblica, che dovrebbe insegnare la varietà del sapere, la fallibilità della scienza e che non do-vrebbe mettere bocca nelle convinzioni personali dei singoli studenti, sembra non credere più nella propria missione e per questo segna il passo davanti all’aggressività di molti, efficien-ti, istituti privati. Bisogna paradossalmente essere molto convinti, sicuri e determinati per rinunciare alle idee forti: tanto convinti, forti e determinati da non temere neanche il legittimo sviluppo degli istituti privati, istituti di cui una scuola pubblica ben rodata non subirebbe di certo la con-correnza. Sono convinto che, se la scuola pubblica funzio-nasse davvero, in pochi si rivolgerebbero alle scuole private. Ma intanto che si aspettano gli interventi di medio, lun-go o lunghissimo periodo, che si fa? Che si fa, domani, che c’è lezione? Domani siamo tutti nelle nostre mani: le mani di chi nella scuola lavora, di chi la scuola la frequenta, di chi alla scuola affida i propri figli. L’eccellenza si ottiene facendo ogni volta un po’ meglio della volta precedente: non c’è altra strada, e non importa da dove si parte. 3 La scuola italiana può non essere (e non lo è) d’eccellenza, ma l’eccellenza può insegnarla. Miglioran-dosi, ogni giorno, poco a poco. Ognuno di noi. Siamo tutti Ct
La scuola italiana è stata pensata più volte, in tanti modi e da tante persone. Sono state tante le riforme ideate, attuate, cancellate e ridisegnate, e non è obiettivo di questo libro proporne una nuova. Obiettivo di questo libro è solo quello di proporre una riflessione sullo stato del Paese e ricordare, semplicemente, a cosa serve la scuola. È però ora che anche chi scrive libri sulla scuola (e non solo sulla scuola) si prenda le proprie responsabilità. Rischio l’osso del collo, e da profa-no butto là tre proposte, che potranno piacere, potranno non piacere, ma che secondo me aiuterebbero nel concreto professori, studenti e genitori. Tre idee pratiche. Se fossi il Cr della Nazionale ripartirei da Buffon, De Rossi, Aquilani, Amauri, Chiellini e Pirlo. Se avessi la possi-bilità di intervenire sull’istruzione pubblica farei tre cose: re-stituirei Al genitori la possibilità di scegliere la sezione in cui iscrivere i figli; reinserirei il vero voto di condotta; metterei a disposizione dei professori una «carta oro» da utilizzate solo per spese volte ad acculturarsi come visitare musei, andare al cinema e acquistare libri. Tutto qua.
Proposta 1 Scegliere la sezione
Le lezioni private Il complesso e contestatissimo ritorno agli esami di ripara-zione (o meglio alla verifica sui crediti a settembre) ha fatto rifiorire un mercato che era andato in letargo nel 1995, an-no in cui i debiti formativi avevano salvato quelli che teme-vano di essere rimandati. Sono tornate le ripetizioni private: lezioni a casa di professori in vacanza, in pensione, a casa di studenti universitari. Un giro d’affari (quasi totalmente in nero) di 100-150 milioni di euro l’anno. Un’inchiesta del «Corriere della Sera»‘ ha rivelato il listi-no prezzi delle ripetizioni private: si va dai 15 Al 45 euro l’o-ra, ma si può arrivare anche Al 60 euro per una lezione di un professore particolarmente rispettato. Il Greco e la materia più gettonata. È Al docenti di Greco e a quelli di Latino che vanno ver-sati anche 60 euro l’ora: le loro lezioni vengono prenotate da un anno all’altro, e non si trovano in giro molti annunci che li riguardino, dato che i genitori si passano i numeri dei più bravi come uno scommettitore passerebbe al migliore amico la soffiata sul cavallo vincente. Vanno forte anche i prof di Matematica (materia indigesta a 5 studenti su 10) che chiedono 44 euro l’ora, mentre si scende ad appena 10 euro per ripetizioni Al ragazzi delle medie. Se consideriamo che lo Stato destina 50 euro lordi l’ora al professore che sia
disponibile a rispiegare durante l’estate il suo programma Al ragazzi, capiamo perché il mercato del-le lezioni a casa sia particolarmente fiorente. Dicevamo che gran parte di questo giro d’affari è in ne-ro. Secondo l’Eures 4 prof su 5 non hanno mai emesso una fattura. Insomma, sembra proprio che i cittadini italiani (come privati cittadini) siano disposti a pagate bene la pro-fessionalità degli insegnanti, mentre, nei panni dello Stato, gli stessi cittadini valutino ben poco il loro lavoro. Il prof, poco considerato se seduto alla cattedra di un’aula, diventa un docente di prim’ordine se indossa la veste di libero pro-fessionista, alla scrivania del suo studio. Sia chiaro, non è con intento moralistico che sottolineo questo paradosso, tutt’altro: la valutazione che sembra più equa delle lezioni dei nostri insegnanti è senza dubbio quel-la che offre il mercato delle lezioni private, non quella che emerge dai contratti nazionali del comparto. Quando sce-gliamo e valutiamo i professori secondo una logica di mer-cato, le cose vanno effettivamente meglio, per loro e per noi, rispetto a quando lo Stato (che sia chiaro, siamo sem-pre noi) li sceglie e li valuta secondo una logica diversa. Qual è questa logica? Qual è la logica perversa che frustra l’impegno e il sapere di un professionista schiacciandolo e immiserendolo con stipendi da fame? La professionalità di un (buon) professore sembra essere svalutata di circa 2/3 se si prende a parametro quello che il mercato è disposto a offrire per entrare a casa sua e sentirlo parlare in un ambiente diverso dalla scuola. Chiaramente, e questo è il punto, il professore che paghi tanto è quello che puoi scegliere e valutare. Il sapere oggi come oggi ha un alto valore di mercato e lo ha perché c’è molta ignoranza in giro. L’insegnante però ha un basso valore di mercato, perché di insegnanti ce ne sono troppi, e perché è impossibile differenziarli uno dall’altro. In Italia ab-biamo due problemi: non rimarremo mai privi di docenti e non sapremo mai distinguere quali di loro valga la pena pagare. Una qualsiasi riforma della scuola passa attraverso il ri-conoscimento del valore del singolo insegnante. Il valore del prof Il valore dell’insegnante non può che essere misurato sui ri-sultati degli studenti, ma attenzione: valutate i prof sulla ba-se dei voti che prendono gli alunni (voti che danno gli stessi prof) sarebbe come chiedere all’oste se il vino è buono. Le ipotesi che si possono lare per misurare la bravura dei professori sono tante, e sono state elencate da molti osserva-tori. Se valutati da una commissione esterna (o da una com-missione mista), i risultati ottenuti dalla classe all’esame di maturità o a un esame appositamente previsto possono esse-re un metodo di valutazione del rendimento del prof; un al-tro metodo (piuttosto costoso) potrebbe essere quello di af-fidare a società specializzate la valutazione del corpo inse-gnante scuola per scuola. Probabilmente, però, almeno in linea di principio, il procedimento più diretto per conoscere il valore di un pro-fessore è valutare l’effetto che il suo insegnamento esercita sugli studenti e sulle loro famiglie: se lo cercano, è un pro-fessore bravo; se da lui scappano, è un professore scarso.
Da quel che ricordo, è sempre stato così: quando si arri-vava in una scuola, si sapeva subito quali fossero i professori buoni e quali quelli da evitare. E durante l’anno poi che si scopre quale professore è preparato, quale no, quale è intelligente, quale è ottuso, quale è serio, quale è sciocco, quale è brillante, quale è frustrato. Eppure in Italia non si può scegliere la classe da far fre-quentare al proprio figlio. Bisogna (almeno in teoria) affi-darsi a un sorteggio, di modo che sia il destino a decidere quali insegnanti debbano occuparsi di uno studente. Naturalmente, prima di arrendersi al sorteggio, molti genitori ri-solvono all’italiana, cercando «in qualche modo» di ottenere l’iscrizione nella sezione migliore. Morale della favola: le classi rischiano oggi di essere formate in due modi e cioè quelle peggiori a caso (raccolgono i sorteggiati, quelli che non avevano armi da giocare o santi da invocare per entrare nelle sezioni più gettonate), quelle migliori sulla base di fa-vori fatti a questo o a quello. Il fenomeno in realtà è più che naturale: sappiamo tutti che alcuni professori sono bravi e che altri non lo sono, che alcuni docenti si impegneranno per far crescere i nostri bambini e che altri non lo faranno. Sappiamo bene che al-cuni professori saranno utili Al nostri figli, e che altri li dan-neggeranno. In realtà l’unica cosa che non va è che si debba venire a sapere quali sono i professori migliori grazie a una soffiata estorta a mezza bocca dal preside amico, e la cosa strana è che i professori della sezione indicata da tutti come la migliore guadagnino come i colleghi della sezione che tutti suggeriranno di evitare a ogni costo. Perché non dovremmo avere voglia di sceglierli? Un buon genitore punta al meglio, è ovvio, ma il meglio (nella scuola italiana) non si può riconoscere. Scegliere la sezione Il metodo che propongo per misurare il valore dei professo-ri è quello di lasciare libere le famiglie di scegliere la sezione in cui iscrivere il figlio. In un breve lasso di tempo verrebbe-ro palesati i valori dei prof che ci lavorano, i presidi potrebbero premiare quelli bravi e richiamare quelli scadenti, e potrebbero mettersi al lavoro perché, l’anno successivo, sia-no almeno due le sezioni che tutti richiedono. Chiaramen-te, una volta preso atto che tutti chiedono di studiate mate-matica col prof Rossi, bisognerebbe domandarsi perché: se è perché è bravo, Rossi andrebbe premiato, con un aumento ad personam. E se il preside non lo premia?, magari perché non lo ama o perché non ne riesce proprio ad apprezzare le capacità? Bisognerebbe permettere a Rossi di andarsene, di accetta-re l’offerta di un altro istituto, e bisognerebbe quindi che i presidi fossero in grado di procedere a una vera e propria campagna acquisti di docenti, liberi di scegliere i professioni-sti migliori dalle liste, e liberi di allontanare i docenti peggio-ri. A quelle che oggi sono considerate scuole di serie B (quelle in zone difficili o disagiate) bisognerebbe dare l’opportunità di costruire una nuova classe docente e, ricorrendo a oppor-tune politiche mirate, di valorizzare giovani insegnanti. Il preside verrebbe naturalmente ritenuto responsabile della politica del personale dell’istituto che dirige. Perché sia chiaro: non si può decidere di valutare i professori senza mettere in moto un processo analogo del lavoro dei presidi.
Dalle classi Al gruppi di lavoro L’introduzione della libertà di indicare la sezione preferita comporterebbe una serie di conseguenze che proviamo a elencare, una sorta di «effetto domino» meritocratico che andrebbe in qualche modo, nel tempo, gestito e pilotato. Potendo indicare la sezione preferita, molti genitori con ogni probabilità indicheranno la medesima sezione, e quin-di non si potranno accontentare tutte le richieste. Come scegliere chi far entrare? Si porrebbe ricorrere Al preesami di valutazione degli alunni, valutazione finalizzata alla formazione di gruppi di studio efficienti. L’esame di ammissione non verrebbe fatto quindi per mettete tutti i migliori nella sezione migliore, ma per poter conoscere da subito quelle che sono le esigen-ze e le caratteristiche dei futuri studenti. In quest’ottica la valutazione degli studenti dovrebbe ser-vire a creare dei gruppi che lavorino bene, in cui ognuno possa essere d’aiuto all’altro, in cui ognuno possa trarre profitto dal lavoro proprio e da quello dei compagni. Dei grup-pi misti, per carattere e preparazione, per personalità e talen-to, soddisfacendo naturalmente le richieste di più studenti possibile. Non sarebbe utile (e sarebbe ingiusto) che si creassero se-zioni-ghetto con i ragazzi supposti più deboli (quelli che poi, in genere, nella vita reale dimostrano di essere i più for-ti) e delle sezioni di élite composte da secchioni terribili (quelli che molto spesso poi naufragano sul posto di lavo-ro). Il sistema scolastico che funziona sviluppa il meglio di ognuno, non scarta nessuno, fa lavorare tutti e ottiene da tutti il meglio. Si studia in gruppo perché si vive in gruppo, si lavora in gruppo, e in gruppo (in genere) si riesce o si fal-lisce. Nella scuola il gruppo che funziona è quello variegato, composto da diverse personalità e tipologie di studente: lo studente che parte con un handicap formativo magari mi-gliora se affiancato a quello più bravo, quest’ultimo (maga-ri) rende e matura solo se integrato in un gruppo più am-pio, dove siano altri a colmare sue lacune di altro tipo. Le classi esistono per questo, altrimenti basterebbero i precet-tori privati. Neanche la Nazionale di calcio è fatta dagli undici mi-gliori giocatori italiani. Un qualsiasi gruppo di lavoro che venisse composto scegliendo i più grandi esperti del settore naufragherebbe dopo poco. Ognuno di noi è sapiente in qualche cosa, ignorante in altro, ognuno di noi ha dei difet-ti e delle capacità. Tutti abbiamo un talento, e dovrebbe es-sere la scuola ad aiutarci a capire qual è. Alexander Stille su «la Repubblica» racconta che negli Sta-ti Uniti, dove invece una spietata selezione degli aspiranti stu-denti è in genere finalizzata all’inserimento degli studenti ri-tenuti migliori nella scuola ritenuta migliore, «la follia comin-cia subito dopo il lieto evento. C’è gente che mette i figli in li-sta d’attesa per l’asilo appena nati [...] la selezione avviene at-traverso una cosiddetta intervista, il bimbo di tre anni viene fatto giocare una mezz’ora sotto gli occhi del personale dell’a-silo. Il clima generale porta il genitore a pensare che se il figlio non frequenterà il nido giusto, l’asilo giusto e poi le elemen-tari giuste non riuscirà mai a entrare ad Harvard o a Yale, in una delle università che sono garanzia di un futuro brillan-te». 2 Un sistema come quello americano che riesce a mettere in competizione i bambini che vogliono entrare in un asilo nido è molto rischioso, socialmente dispendioso, e basterà leggere le Appendici di questo libro per scoprire perché.
Proposta 2 Reinserire il voto in condotta
Il senso del gruppo Sono tante le qualità di una persona che si apprezzano sul la-voro: la preparazione, la serietà, la responsabilità, la capacità di inventare, la capacità di fare squadra, la capacità di essere sempre positivi e orientati al risultato. Tutte qualità che po-tremmo riassumere in una sola: la professionalità. La profes-sionalità di una persona non è (ovviamente) quella certifica-ta dal tesserino dell’ordine; la professionalità di una persona viene conquistata sul campo, sul luogo di lavoro, giorno do-po giorno, mese dopo mese, anno dopo anno. C’è un elemento che, pur concorrendo in materia deter-minante a qualificare una persona come «professionale», viene da sempre sottostimato: la «fedeltà», al gruppo e all’a-zienda. Negli anni Ottanta e Novanta si è diffusa l’idea che un lavoratore professionista potesse cambiate datore di lavoro senza pagare mai pegno, passando magari da un’impresa al-l’acerrima concorrente senza alcun problema. Il curriculum s’arricchisce d’esperienza, si diceva, ed è giusto lavorare per chi ti paga meglio. Col tempo si è capito che (sia giusto o sia sbagliato) il fatto di cambiare continuamente lavoro pesa su un curriculum: si dà l’idea di chi non si affeziona a un pro-getto, di chi non lega con la propria squadra, si dà l’idea di una persona su cui è meglio non fare troppo affidamento. Finora si pensava che questo fosse più che altro un pericolo che correvano i grandi campioni dello sport (cui non si per-donava il tradimento della maglia) o gli showmen che cam-biavano rete televisiva (in genere condannati a pagare un periodo iniziale di diffidenza da parte del pubblico). Oggi si inizia a guardare con la stessa diffidenza anche chi, sul più semplice dei posti di lavoro, non riesce ad affezionarsi al team di cui fa parte. Probabilmente è un effetto dell’aumen-tata, e sempre più qualificata, domanda di lavoro: se tutti sono sostituibili e tutti sono bravi, perché non prendere chi difenderà fino alla fine il progetto per cui lavora? Il senso di appartenenza La fedeltà al gruppo io l’ho imparata a scuola. L’ho impara-ta anche facendo sport, certo, l’ho impalata grazie alla mia famiglia, ma l’ho imparata anche a scuola. Gli amici di scuola non si tradiscono, le regole si rispettano, le idee val-gono più
della convenienza, e tutto ciò di irrituale che capi-ta di fare con qualcuno del gruppo va nascosto a chi del gruppo non fa parte. Sia chiaro, non difendo il clima che si crea tra un gruppo di amici alle medie o al liceo, lo descrivo, e (aggiungo) penso sia inevitabile che si crei. Da quello che è inevitabile, sono poi convinto, non resta che prendere il positivo. Nell’Introduzione ho ricordato diversi momenti che non dimenticherò mai legati al mio rapporto con i professo-ri, ma ce ne sono almeno altrettanti legati al mio rapporto con i compagni di classe. Rapporto, sia detto per inciso, che dura con alcuni ancora oggi, e che con altri che non fre-quento potrebbe riprendere anche adesso, se li incontrassi dopo anni. Che valore ha avuto per me la gira a Parigi? E quella di Jesolo? Che valore dare alla notte infinita che ci ha portato alla mattina in cui sono stati esposti i quadri della matu-rità? E alla festa nella notte in cui Reagan fece bombardare la Libia? Le partite al campone e la metro fino a Ostia, che valore hanno? Le botte prese allo stadio? La finale con il Liverpool? Il concerto di David Bowie, le vacanze a Tropea, quelle all’isola d’Elba, che valore hanno? Anche queste esperienze hanno un valore infinito, e stavolta non per me-rito dei professori; anzi, molti di questi ricordi nascono da trasgressioni Al divieti da loro posti o alle regole da loro in-carnate. Ognuno di noi, li abbia amati o no, ha condiviso gran parte dei momenti importanti della propria vita con la scuola, o meglio con i compagni di scuola. I rapporti che si formano a scuola sono eterni, perché in quegli anni tutto sembra eterno, fondamentale, inevitabile. Eppure le prove che si superano a scuola, viste col sen-no di poi, non hanno nulla di particolare. Un amore anda-to male, una regola infranta, un giuramento rispettato: i legami che si formano tra i banchi e nei corridoi, le emo-zioni che si vivono, le paure che si combattono, analizzati freddamente ad anni di distanza sono poca cosa, e visti con un po’ di cinismo sono uguali per tutti. Vissuto all’e-poca di scuola, invece, ogni avvenimento è unico, impor-tante, epico, fondamentale e ricco di implicazioni e signi-ficati che dureranno per tutta la vita che verrà. Sono con-vinto che il valore vero di questi episodi sia effettivamente quello che si dà loro nel momento in cui vengono vissuti. Ma non è giusto che lo studente si confronti solo con il proprio metro di giudizio. La condotta degli alunni Che valore può avere, davanti a sentimenti e significati del-la portata che abbiamo descritto, una regola? Una stupida regola come il rispetto di un orario, di un codice di compor-tamento, di una persona che ritiene di potetti zittire quan-do vuole lei?, magari per parlarti di un autore morto mille anni fa, o per spiegarti come calcolare il diametro di un insi-gnificante cerchio tracciato col gesso alla lavagna? È giusto copiare o far copiare? È sbagliato fare uno scherzo a un compagno di classe? È corretto prendere in gi-ro il professore? Al di là degli episodi, delle avventure, delle paure, delle goliardie, dei tradimenti e delle prove di fedeltà che tutti noi abbiamo sperimentato a scuola, posso dire tranquilla-mente che a me il compagno di classe che non aiuta gli altri (specie nell’emergenza) non è mai piaciuto, così come mi convince poco lo studente che
accetta l’autorità dell’inse-gnante a prescindere, come direbbe Totò. Se è veto peto che uno studente che non fa copiare è uno studente che (almeno a mio modo di vedere) mostra più di-fetti che qualità, è pur vero che a copiare i compiti degli al-tri non si va lontano, e se è vero che lo studente che accetta in maniera acritica ogni parola del prof rischia di perdere un’occasione per riflettere e approfondire, è pur vero che se l’insegnante insegna è perché lui ha qualcosa da insegnarti, e tu molto da imparare. Aggiungiamo a questo che se è vero che le regole all’in-terno del gruppo si rispettano, è veto pure che chiunque de-ve saper rispettare gli altri, tanto più dentro una scuola, e che il compagno di classe detestabile è sempre stato quello che si approfitta di chi, in un dato momento, sembra essere più debole. Sebbene infatti io trovi positivo che nella vita scolastica abbia un così alto valore il senso del gruppo, la solidarietà tra pari può facilmente (se malintesa) tracimare nell’omertà e nel cosiddetto «familismo amorale». 1 Se lasciato degenerare il senso di appartenenza può trasformarsi addirittura in bullismo, financo in senso del branco. A segnare il confine tra il positivo e il negativo (con tutte le infinite sfumature intermedie che l’esperienza ci insegna) è, a mio modo di vedere, il senso del limite, la regola, la disciplina. Appunto, la condotta. In Italia non esiste voto di condotta. Anzi, a dire il vero (formalmente) esiste, ma non ha più alcun effetto sui risulta-ti di fine anno. Il 7 non comporta più che si debbano soste-nere gli esami in tutte le materie, il 6 non implica più la bocciatura secca. La valutazione della condotta è attualmente una som di indicatore dell’attitudine verso i compagni e i professori, non fa media e non ha effetto, ed è stata pensata più che altro come un contributo da fornire alle famiglie. In queste pagine spiegherò perché, a mio modo di vede-re, vada reintrodotto il vero voto in condotta, quello che implica una sanzione per lo studente che superi il suddetto limite. La condotta dei prof (e dei genitori) Mario Pirani in un articolo apparso su «la Repubblica» 2 rac-conta che nella scuola media di Porto Ercole tre studenti, davanti a una decina di spettatori, «hanno afferrato un ragazzino di dodici anni, il primo della classe, colpevole di aver opposto un rifiuto a chi voleva copiargli il compito, gli hanno infilato la testa nel water, lo hanno sputacchiato e, infine, tirato la catena. Nessuno dei compagni è intervenu-to. [...] Anche più grave la risposta del preside che ha consi-derato l’episodio una semplice "bravata" e non un atto di teppismo, poiché "non preceduta da minacce e insulti". Quindi era bastata una lievissima punizione: tre giorni di sospensione». Quello di Porto Ercole è solo un episodio, e purtroppo non il peggiore, del fenomeno noto alle cronache come «bullismo». È un fatto importante, però, proprio perché de-nuncia il quadro desolante in cui i tre bulli si sono mossi: «I genitori» racconta Pirani «negano la responsabilità dei figli, giungendo a sostenere che la vittima "già in precedenza e di sua spontanea volontà aveva introdotto la testa nel water". Chiacchiere tra ragazzi avrebbero portato poi, sostiene il preside, i tre alunni "puniti" a emulare il gesto, non renden-dosi conto della gravità dell’atto che
avrebbero preso come un gioco». Cos’è il bullismo? In molti siamo stati vittime o carnefici a scuola. Spesso siamo stati sia vittime che carnefici, in tem-pi e luoghi diversi. Qualche volta ci hanno messi in mezzo, altre volte siamo stati noi a mettere in mezzo qualcuno. Al-cune volte gli scherzi che abbiamo fatto sono stati simpatici, altre volte hanno superato le nostre intenzioni, e spesso ci siamo resi conto in ritardo dei loro effetti. Alcune volte gli scherzi che abbiamo subito ci hanno fatto male, altre volte ci siamo passati sopra, alcune volte (sarebbe sbagliato negar-lo) ci hanno dato la spinta a cambiate noi stessi e gli altri. Tutti abbiamo vissuto comunque (subendolo o sfruttando-lo) quel clima a tratti soffocante e a tratti esaltante che si viene a creare Al tempi della scuola. Quelli di noi più fortu-nati e più attrezzati sono riusciti sempre a rispettare gli altri, quelli di noi più deboli o più sfortunati hanno smarrito il senso della responsabilità. E qualcuno (oltre a loro stessi) ne ha fatto le spese. Il bullismo di cui si parla sui giornali è solo quello estre-mo, quello tragico dei pestaggi di gruppo, dei capelli incen-diati, delle vessazioni a disabili o a giovani ritenuti «diversi»; come spesso accade, però, non è solo la punta dell’iceberg a doverci preoccupare, quanto piuttosto quel gigantesco blocco di ghiaccio culturale che gli sta alla base. «Per chi nella scuola vive» ci spiega una ricerca di Cittadinanzattiva 3 «le violenze maggiormente diffuse sono psicologiche, e per-ciò assai più striscianti, meschine e invisibili di quelle fisi-che. Ben 1771 ragazzi (su oltre 5000) raccontano di quanto siano frequenti le dicerie e gli insulti per mettere un compa-gno in cattiva luce, gli scherzi per renderlo ridicolo, i tenta-tivi di escluderlo.» Intervistato da Fabio Curri del «Corriere della Sera», Marco Maggi, formatore e membro della commissione na-zionale del ministero dell’Istruzione che combatte il feno-meno, spiega che «dai dati emerge che il ruolo di vittima o di carnefice sia sempre più spesso assunto da ragazzi stranie-ri, ovvero quelli maggiormente esposti al senso di emargina-zione che spesso genera questi comportamenti». 4 Ma a sof-frire è il diverso in genere; si paga qualsiasi cosa che renda diversi dal gruppo: se si è troppo alti, troppo magri, troppo bassi o troppo grassi. Troppo timidi o troppo brillanti. Se si studia troppo o troppo poco. Nei corridoi viene premiata l’omologazione. E non solo: uno studente su due afferma di aver assistito a episodi di violenza; 4 studenti su 10 ammettono di esserne stati vittime. Secondo la ricerca citata 5 «un terzo degli inter-vistati dice di non intervenire mai di fronte a un’aggressione nei confronti di chi è percepito come "diverso" (il 5 per cen-to la addirittura il tifo per il prepotente) e il 39 per cento af-ferma di non aver mai visto nessuno difendere un suo com-pagno. Stessa linea non interventista per gli atti vandalici, di fronte Al quali la percentuale di chi non muove un dito sale a quota 71. Non solo, per il 45 per cento degli studenti lascia-re i rubinetti aperti nei bagni è considerato un comporta-mento "solo moderatamente scorretto". E proprio la perce-zione della violenza l’aspetto su cui i ragazzi vacillano: insul-tare un compagno è giudicata l’azione meno violenta in as-soluto (un 23 per cento la ritiene addirittura un comporta-mento "non violento"), mentre è solo il 26 per cento chi considera il furto in classe una cosa "molto violenta"». Dalla stessa ricerca emergono le responsabilità di inse-gnanti e genitori. Secondo gli alunni i docenti hanno il di-fetto di «date il cattivo esempio (48 per cento), avere
pre-giudizi (45), ricorrere alle punizioni collettive e non sanzio-nare il singolo responsabile (37)». 6 Il prof ideale per gli stu-denti italiani invece dovrebbe essere forte (11 per cento), farsi rispettare (23 per cento) e dovrebbe rispettare le regole a sua volta (11 per cento). Quando i ragazzi tornano a casa dopo aver subito atti di bullismo, non riescono a raccontarlo Al genitori. Lo fa solo una vittima su 10, che il più delle volte viene invitata a «la-sciai state» (risponde così il 31 per cento dei genitori coin-volti), mentre il 28 per cento esorta il giovane «a difendersi» e il 20 per cento non trova nulla da dire. Scrive Mario Pirani su «la Repubblica»: «[Questa è la] questione centrale con cui ci si scontra: la soggezione di fronte alla caduta degli elementari principi dell’etica pubblica e privata. Troppe fa-miglie, vilmente complici, e troppi insegnanti, impauriti e resi scettici dalle tante frustrazioni, hanno rinunciato a tra-smettere e imporre valori come il rispetto dei genitori, del-l’altro, del diverso, dell’inabile o del debole, delle bambine e delle ragazze, dell’insegnante e della scuola, anche come edificio comune, infine dello studio. Lo smottamento ha portato a piegare le regole in maniera tale da renderle istitu-zionalmente corrive al loro svuotamento di senso (vedi il 6 rosso, il trascinamento dei debiti, l’abolizione del vecchio e temuto 7 in condotta). Di conseguenza si è persa la conce-zione stessa di limite, il confine oltre il quale l’ignoranza non può essere premiata e il comportamento offensivo as-solto in partenza». 7 La condotta dei figli È così come scrive Pirani? Il fenomeno del bullismo è solo la palese evidenza di un fenomeno più ampio, la scomparsa dei confini e delle responsabilità di tutto il mondo che gira intorno allo studente? 11 bullismo nasce dalla perdita di sen-so del concetto stesso di formazione? Forse nasce da qualco-sa di più semplice e allo stesso tempo più complesso: la per-dita del potere e della amorevolezza da parte dei due forma-tori per eccellenza, ovvero genitori e maestri. Secondo il vi-cepresidente dell’Associazione nazionale presidi, Mario Ru-sconi, «c’è una sorta di perdonismo e minimalismo da parte dei genitori per ciò che fanno i loro figli: i genitori di oggi hanno molto meno potere formativo di una volta. Bisogna però capire che la condotta che si impara a scuola è utile fuori, nella vita. E se non si agisce per tempo finiremo come a Columbine». 8 Su «La Stampa» del 4 marzo 2007 appariva tra le lettere al direttore una missiva di insegnanti che poi sarebbe stata ripresa da Mario Pirani nella sua rubrica Linea di confine 9 La lettera recitava: «Noi insegnanti siamo stufi di rischiare la salute e la nostra incolumità di fronte ad alunni maledu-cati che sanno benissimo di non aver nulla da perdere a mo-strarsi violenti, aggressivi, prepotenti... Siamo stufi di aver paura di ricorsi e ritorsioni più o meno legali se soltanto osiamo dare delle insufficienze... Siamo stufi di subite pres-sioni da parte di presidi che pretendono il maggior numero possibile di promossi... Siamo stufi delle minacce di genito-ri... Di intimidazioni e di violenze, di trovare le ruote buca-te, le carrozzerie rigate ogniqualvolta pretendiamo di cor-reggere un errore madornale o di criticare un comporta-mento diseducato... Siamo stufi di governi che promettono di fidare autorevolezza Al docenti e poi li abbandonano a lo-ro stessi o li sanzionano se un
qualsiasi adolescente tira fuori il suo telefonino, filma una bravata qualsiasi e la diffonde via internet... Che tipo di armi abbiamo contro il bullismo? Ricorrere alla famosa nota sul registro? Ci ridono sopra, co-perti da genitori che magari si prendono pure il disturbo di venirti a minacciare... Ridateci il voto di condotta, il vec-chio voto di condotta. Quello che al di sotto dell’8 compor-tava un recupero di tutte le materie, quello che influiva, ec-come, sulla valutazione del profitto. Ridateci la possibilità di educare i giovani». L’obbedienza no, la disciplina sì Ho ascoltato in un convegno 10 il banchiere Pietro Modiano esprimere un concetto, a mio modo di vedere, molto giusto: sul lavoro un buon manager non cerca l’obbedienza di chi lavora con lui, ne apprezza però la disciplina. In una scuola gli interessi, i ruoli, le idee di studenti e professori sono spesso, per loro natura, confliggenti. Invoca-re l’obbedienza degli alunni vuole dite soffocarne le poten-zialità: pretendere però la disciplina vuol dire porre le basi per un corretto sviluppo delle loro personalità. L’obbedienza è il rispetto di qualcosa che non necessariamente si condivi-de, la mera esecuzione di un ordine, magari messa in atto per necessità o per debolezza o per opportunismo; la disciplina è la condivisione di un metodo, la partecipazione a un proget-to, il rispetto dei compagni, l’adesione a una regola di cui si intuisce (magari solo in un secondo tempo) la validità. Il termine «disciplina» può assumere diversi significati." Può essere inteso come materia di insegnamento o come il rispetto di una serie di regole del collettivo cui si appartiene, oppure può significare il dominio di sé, la padronanza dei propri istinti. Può ancora essere l’organizzazione metodica e rigorosa di un’attività, può essere il parametro a cui rapportare la propria condotta morale, può essere il complesso del-le norme (e la loro osservanza) grazie alle quali si assicura il raggiungimento di un obiettivo. La disciplina può anche es-sere uno sport, con il suo carico di regole, obblighi e fatiche. Si tratta sempre e comunque di principi, regole, norme a cui ci si deve conformare se si vuole ottenere un risultato: possono costare fatica, ma devono essere rispettate. Le disci-pline positive, poi, naturalmente, sono quelle che permet-tono lo sviluppo delle diversità e che lasciano aperte le porte all’innovazione, ma qui il discorso ci porterebbe troppo lontano. Basti ora sottolineare come difficilmente, senza una disciplina, un risultato possa essere raggiunto. Dietro ogni disciplina c’è uno scotto da pagare. Dietro ciascun obiettivo centrato c’è uno sforzo, dietro un successo c’è la fatica, il rigore cui ci si sottopone. Questo sforzo, que-sto rigore, va misurato, in modo da capire se bisogna aumen-tare o ridurre l’impegno, dare un premio o correre Al ripari. La misura della disciplina è la condotta, e qualcuno della condotta deve essere responsabile.
Proposta 3 La Carta Atena
L’aggiornamento Quando abbiamo parlato della carriera (inesistente) degli insegnanti, abbiamo lasciato in sospeso il discorso sui corsi di aggiornamento. I corsi di aggiornamento servono a rega-lare qualche punto in più Al professori precari che cercano la stabilizzazione, ma sono in realtà un altro scandalo tutto italiano. Funzionano così: «Ti mandano a casa qualche li-bro» spiega a «la Repubblica» la professoressa Lia Pacchio-ni, 1 «e con un esame porti a casa il tuo punticino da aggiun-gere alla raccolta». Seicento euro circa a punto, insomma, per acquistare libri «che nessuno legge mai» confessa Rober-to D’Alessandro, 2 altro prof precario storico, che aggiunge: «Lo sanno tutti che i libri si comprano, è il pizzo da pagare: ma non per vincere la gara, solo per non farsi sorpassare!». E chiaro, infatti, che i punti così li possono fare tutti e che quindi il gruppone dei precari si muove sempre tutto in blocco: avanzano tutti, le distanze restano immutate, ogni sforzo è vano. Eppure, senza quello sforzo, si finisce per es-sere superati dagli altri. Un meccanismo infernale, che mor-tifica il merito, che sfinisce i meno adatti Al calcoli matema-tico-burocratici, e che evidenzia infine come non possa es-sere il fine dell’aggiornamento fare qualche passo avanti in una chilometrica lista di nomi. Aggiornarsi vuol dire stare dietro Al giorni, Al cambiamenti, al mutare delle teorie e dei tempi. Significa anche semplicemente andare al cinema, a teatro. Vuol dire viaggiare, partecipare a convegni, compra-re libri, frequentare mostre, eventi culturali. Ma è possibile farlo guadagnando in media 1500 euro al mese? Semplicemente, non è possibile. Riformare la scuola vuol dire spendere denaro, questa è la realtà. Vuol dire di certo razionalizzare la spesa, riorganiz-zare il sistema, ma vuol anche dire investire sulle persone. Gli insegnanti formano i cittadini italiani, attraverso le loro teste pensano gli kaliani di domani. Dobbiamo coltivare i professori, dobbiamo fare in modo che riescano a tenere la mente aggiornata. E se guadagnano poco, dobbiamo offrire loro gratis la cultura, perché è quella cultura che potranno restituire Al nostri figli. Se avessi il potere di farlo, istituirei una carta oro per gli insegnanti. La chiamerei la «Carta Atena». Farei in modo che possano ottenere gratis quello che regaleranno Al miei figli. Perché se Al professori non dai niente, loro non po-tranno dare niente agli alunni.
Post Scriptum
Sulle università E come Post Scriptum che mi permetto di ricordare quello che molti, autorevoli osservatori hanno suggerito di fare con l’università: abolire il valore legale della laurea. Nessuna laurea, secondo questa teoria, dovrebbe avere un valore san-cito da una norma, ma tutte le lauree dovrebbero conquistarsi un valore all’interno della comunità scientifica o sul mercato del lavoro. Se anche l’abolizione del valore legale può sembrare una misura radicale, bisognerebbe in ogni ca-so combattete il paradosso per cui la laurea ha sempre lo stesso valore formale, quale che sia l’università che la ha concessa. È difficile ipotizzare una riforma complessiva del siste-ma, ma è certo che il rinnovamento non può che passare at-traverso un processo di selezione meritocratica dei docenti e degli studenti, poggiato quest’ultimo su un sistema diffuso di borse di studio che permetta anche Al più poveri di met-tere a frutto il proprio talento. Sia la prova dei fatti a stabilire quale laurea ha un valore e quale non lo ha. Sia il merito dei docenti a fare la buona laurea, e siano gli atenei i responsabili degli insegnanti e de-gli insegnamenti che offrono agli studenti. In questo modo le università correrebbero ad accaparrarsi i docenti migliori, e tanti baroni che oggi soffocano la ricerca si ritroverebbero magari al telefono a offrire crediti e rateizzazioni in cambio di una iscrizione. Magari a un giornalista camuffato.
Appendici 1 Giro del mondo un po’ consolatorio
Gli esami cinesi Per finire, un breve giro d’orizzonte veloce sulle fabbriche dell’ignoranza altrui: un po’ per consolarci con gli insuccessi degli altri, un po’ per imparare dai loro successi. Partiremo dall’Estremo Oriente, ma prima vi consigliamo di tornare alla pagina 157 e rileggervi il paragrafo Lo stress dei ragazzi. Fatto? Bene, ora chiudete gli occhi, dite addio a tante precauzioni, a tanti dubbi e a tante attenzioni e spostiamoci in Cina. Lì, andare a scuola può trasformarsi in un vero in-cubo. Soprattutto sostenere gli esami può diventare una prova di selezione di una durezza per noi inimmaginabile. Lì, quando ti siedi sui banchi, senti sul collo il fiato di oltre un miliardo di persone. Il Gaokao è l’esame statale di ammissione all’università. Ogni anno oltre 10 milioni di diplomati si giocano, nel giro di tre giorni, 5 milioni e 990 mila immatricolazioni univer-sitarie. Il meccanismo è semplice: più alto è il punteggio raggiunto all’esame, migliore è l’università a cui si ha acces-so. Il clima che si respira in quei giorni nella terra del comu-nismo liberista è letteralmente irrespirabile. Racconta il corrispondente Ansa da Pechino: «Il Gaokao è la chiave d’accesso che apre molte pone in un mondo del lavoro sempre più esigente e competitivo, e la preparazione dell’esame fa pensare a una versione moderna dei temuti esa-mi imperiali della Cina dinastica. Per proteggete il segreto del testo d’esame minacciato dalla diffusione di internet (in Cina ci sono oltre 200 milioni di utenti) e dalla crescente scaltrezza delle giovani generazioni, le autorità hanno dispo-sto quest’anno per la prima volta speciali misure di sicurezza: vere e proprie squadre di vigilantes per scongiurare ogni "comportamento improprio". Come se non bastasse, que-st’anno [2008] l’esame cade nel giorno del Duanwujic (Fe-stival delle Barche) che il calendario lunare cinese fissa per l’8 giugno. Quest’anno vige il "divieto di festeggiamenti": le barche a forma di drago usate per le tradizionali gare del Fe-stival resteranno immobili nei corsi d’acqua vicino alle scuo-le per non disturbare gli esaminandi. «Con la stessa premura, le autorità invitano le famiglie al-la cautela verso i nuovi "business da esame". C’è chi affitta per esempio stanze a prezzi esorbitanti agli esaminandi che risiedono nelle periferie. Speciali numeri di "pronto soccorso studenti" saranno attivati per accompagnare i ritardatari. Ma ancora più stressati dei ragazzi sono i genitori, Al quali il sito del ministero dell’Istruzione offre indicazioni e suggerimen-ti, da che cosa mangiare a come comportarsi con i figli. In molti hanno chiesto addirittura qualche giorno di ferie per assistere nello studio i "piccoli imperatori" (così sono chiamati in Cina i figli unici). Il quotidiano "Xinjingbao" loda i "bimbi prodigio", 29 bambini dai tredici Al quindici anni che sosterranno l’esame a Pechino. Si tratta di una classe spe-ciale che raccoglie in tenera età le menti migliori, in grado di completare in soli quattro anni gli studi che i bambini nor-mali finiscono in otto. A quale prezzo? Le statistiche dimo-strano che il carico di studio degli adolescenti è troppo pesante. Oltre il 50 per cento dei bambini della capitale è co-stretto a imparare a suonare uno strumento musicale in te-nera età, il 90 per cento frequenta almeno un corso facoltati-vo, spesso più di tre. Il tutto in vista del Gaokao. Lo sviluppo senza pari della Cina rincorre se stesso. E se fino a qualche tempo fa una laurea all’estero era un’altrettanto valida alter-nativa per un giovane
rampante cinese, oggi è spesso la stra-da più semplice per rimediare a una brutta performance al-l’esame statale». 1 Una vera e propria mattanza di aspirazioni, teste, talenti. Una selezione ottusa e all’ingrosso dettata da un feroce sistema teoricamente votato all’eccellenza, in pra-tica ridotto a un metodo di sfoltimento indifferenziato degli aspiranti dottori. Paura la notte prima dell’esame? Pensate Al cinesi, e fate-vi colaggio! Le ispezioni inglesi Se vi ha colpito il ritratto dei «genitori elicottero» e se pen-sate che in Italia i genitori tendano a seguite con eccessiva attenzione lo studio dei figli, sappiate che la riforma del si-stema scolastico tratteggiata in Gran Bretagna prevede che i genitori possano sollecitare un’ispezione ministeriale nelle classi dei propri figli qualora ritengano che gli insegnanti non siano all’altezza del proprio compito. Nonostante il sindacato degli insegnanti contrasti duramente questa ipo-tesi di riforma, sottolineando come in questo modo «la scuola vivrà nel terrore dei genitori degli alunni», prossima-mente gli istituti verranno ispezionati periodicamente: ogni sei anni le scuole migliori, ogni anno le scuole peggiori, e nei periodi intermedi potranno essere i genitori a chiedete l’intervento del ministero. Un ultimo particolare: a quanto paté, i genitori potranno fare le denunce rimanendo anonimi, in modo che i loro figli non debbano assaggiare la vendetta degli insegnanti. Genitori delatori e prof vendicativi: un bel clima, sir, non c’è che dire. Le piazze francesi Chi lavora alle riforme in Francia non se la deve vedere (come noi italiani) con una classe politica spesso confusa e poco de-terminata, ma deve fare i conti con studenti estremamente motivati, pronti a scendere in piazza ogniqualvolta che si par-li di interventi sulla scuola. Ogni intervento legislativo varato o anche solo ipotizzato dai governi che si sono succeduti alla guida del Paese è stato contrastato da manifestazioni podero-se, che spesso hanno avuto l’ultima parola sulle questioni al-l’ondine del giorno. Quello che vi proponiamo è un breve ca-lendario della piazza francese, a partire dagli anni Settanta. Nell’aprile del 1973, 2 100 mila liceali e universitari mani-festarono contro il progetto di legge Debré sul servizio mili-tare, al grido: «No Al licei-caserme». La legge — entrata poi in vigore — prevedeva la soppressione del rinvio automatico del-la leva. Nel maggio del 1975 il governo propose di sopprime-re l’esame di quinta elementare e instaurare la scuola media unica. Scesero in piazza in 80 mila (per la scuola elementare! Oggi sembra impossibile...) con lo slogan: «Liceali, universi-tari, lavoratori: la stessa lotta». La legge alla fine entrò in vi-gore, ma ci vollero due anni per approvarla. Tra il marzo e l’a-prile del 1976, 50 mila studenti scesero in piazza contro la riforma universitaria al grido di: «No alla facoltà del padro-nato». Gli insegnanti scioperarono per due mesi, ma alla fine la riforma passò e si spezzò in due il percorso universitario (la licerne — diploma di terzo anno — e la maìtrise, diploma di quarto anno). Nel novembre 1986 in 500 mila manifestarono contro il progetto di legge Devaquet per l’aumento del-l’autonomia delle scuole. Lo slogan
era: «No alla selezione». Dieci giorni dopo la prima manifestazione, la morte dello studente Malik Oussekine - colpito per errore dalla polizia -portò alle dimissioni del ministro dell’Educazione e al ritiro del progetto da patte dell’allora primo ministro, Jacques Chirac. Nel novembre 1990 Lionel Jospin, ministro dell’E-ducazione, concesse 45 miliardi di franchi supplementari per i licei, dopo che le piazze francesi si erano unite al grido di: «Jospin, sei fregato, i licei sono nelle strade». Siamo al marzo 1994, quando nel mirino degli studenti finì il Cip (Contrat-to di inserimento professionale) che permetteva di assumere un giovane in apprendistato all’80 per cento del minimo sa-lariale. Alla fine il premier Edouard Balladur - contro il qua-le venne coniato lo slogan: «Cip, il padronato l’ha voluto, Balladur l’ha fatto» — abbandonò il progetto. Nel febbraio 1995 i giovani manifestano contro la riforma della filiera tec-nologica avanzata da Ftancois Fillon, riforma che sarà ritira-ta. Nell’ottobre 1998, 500 mila studenti scendono in piazza contro le cattive condizioni dei licei. Lo slogan, «Non siamo delle mucche Allegre», si rivolge a Claude Allegre, che alla fi-ne presenta un «piano d’emergenza» di milioni di franchi a favore dei licei. Nel maggio 2003 viene ritirato il progetto di legge di Lue Ferry sull’autonomia delle università: aveva sca-tenato uno sciopero degli insegnanti e migliaia di studenti erano intervenuti a disturbare gli esami in alcuni istituti. L’ultima riforma ritirata è del febbraio 2005: era sempre di Fillon e riguardava la maturità, prevedeva la sostituzione di alcuni esami di fine anno con delle prove annuali. 100 mila studenti avevano manifestato al grido: «Fillon, get back». Il 3 aprile del 2008 tocca infine a Sarkozy resistere alla protesta contro il taglio di 8800 insegnanti: manifestano non solo i docenti, ma anche gli studenti del liceo, in una sorta di soli-darietà intrascolastica. I drop out americani Il fenomeno dell’abbandono scolastico negli Stati Uniti ha le dimensioni di una piaga sociale e riguarda ormai uno stu-dente su tre. In genere i drop out non hanno la fortuna di Bill Gates (il fondatore della Microsoft, ultramiliardario, che pure abbandonò le superiori): di regola chi lascia la scuola non trova un impiego, finisce a fare lavoretti per campare e, come testimonia una terribile statistica diffusa qualche anno fa negli Stati Uniti, muore anche prima di chi ha studiato. Perché vivono peggio, in genere, ma anche per-ché spesso finiscono in brutti giri. Il legame tra abbandono degli studi e criminalità si è co-sì consolidato che Paolo Mastrolilli racconta su «La Stam-pa» che «il giudice del Connecticut Thomas West aveva im-postato la soluzione al contrario: ordinava la frequenza sco-lastica come condizione per lasciare in libertà i giovani cri-minali, e spediva in prigione chi non rispondeva presente all’appello, prima ancora che potesse andare in giro a com-binare qualche guaio. Per esempio quando aveva beccato il diciassettenne Antonio Alvarez a rubare in un negozio di Danbury, lo aveva condannato a due anni di libertà vigilata, in cambio dell’impegno a frequentare le aule dell’high school locale. Appena i professori avevano avvertito il giudi-ce che Alvarez ci marciava, West lo aveva spedito in carcere per diciotto mesi». 3 Nei 100 distretti scolastici più grandi degli Stati Uniti4 il 31 per cento degli iscritti non arriva al diploma, e in alcune città il fenomeno riguarda un giovane su due. Lasciano la scuola 2500 ragazzi ogni giorno, oltre 900 mila l’anno. Co-me dicevamo
in precedenza, chi lascia la scuola vive in me-dia nove anni in meno di chi la frequenta, oltre a veder cre-scere esponenzialmente le chance di diventare povero. Sette detenuti su dieci sono drop out; gli Usa sono solo al decimo posto nella classifica mondiale dei Paesi con più di-plomati, e le statistiche non registrano chi lascia gli studi alle medie o chi abbandona la scuola perché finisce in prigione. In America si arriva con difficoltà anche alla laurea: solo il 50 per cento di chi si diploma continua gli studi, e di que-sti solo uno su quattro diventa «dottore». Secondo Franklin Schargel, uno dei massimi esperti ame-ricani della questione, «vi sono quattro motivi che contribui-scono alla dispersione: gli errori dei ragazzi che si lasciano tentare dalla droga e dal crimine; le famiglie e i loro proble-mi, quali quelli dei genitori che a loro volta non hanno ter-minato la scuola e preferiscono avviare i propri figli a un la-voro; la cultura della violenza che prevale nelle comunità; i modelli arretrati della scuola che risalgono a 200 anni fa». Duecento anni? Non male! Roba da far sentire l’Italia una nazione all’avanguardia. Il paradiso finlandese Il 70 per cento del territorio finlandese è coperto da foreste? Ogni classe sceglie una porzione di territorio in cui studiare scienze, ecologia, biologia animale, climatologia. Un terzo del Paese vive nel Circolo polare artico? Nei mesi in cui il so-le scompare, gli studenti al Polo studiano il cielo, l’aurora boreale, l’astronomia. Gli spazi tra un centro abitato e l’altro sono infiniti? Gli alunni che vivono lontano dall’istituto vengono portati a lezione (e quindi riaccompagnati a casa) da un taxi pagato dall’istituto. Quella finlandese è considerata la migliore scuola d’Europa: «Panorama» ci racconta come lo è diventata. 6 «In un territorio poco più grande dell’Italia la scuola dell’obbligo si rivolge a 590 mila ragazzi dai 7 Al 16 anni. Dai 17 Al 19 ci sono i licei e le scuole professionali per 280 mila studenti. Ogni anno 40 mila giovani affrontano la maturità ma per entrare all’università ci sono appena 18 mi-la posti disponibili. Quindi: numero chiuso. I professori non universitari sono 43 mila e hanno uno stipendio medio di 2500 euro, i presidi di 4500 euro. Lo Stato spende per la scuola 1’ 11 per cento del Pil. L’istruzione parte da un presup-posto: aiutate i giovani a trovare la loro strada, dar loro con-cretezza, aperta visione della realtà. Allora si può scegliere, già nella scuola preuniversitaria, indirizzi di informatica, ecologia, chimica applicata all’industria, educazione civica, riciclaggio dei rifiuti, ma anche nuoto, alpinismo, hockey, danza, atte applicata.» 7 Il paradiso finlandese nasce nel 1995, anno in cui il siste-ma venne completamente riformato. Presentando la riforma il ministro dell’Educazione pubblica disse che sognava una scuola adatta a «stimolare creatività e riflessione, divertire e non mortificare». L’ha avuta, a quanto pare. E noi?
2 Gli strafalcioni degli altri
Avvocati americani Recentemente il «Massachusetts Bar Association Lawyers Journal» ha riportato 19 domande realmente (così almeno dicono...) poste da avvocati (A) a testimoni (T) durante lo svolgimento di processi. 1 1) «Dunque dottore, non è forse vero che quando una persona muore mentre dorme, non se ne rende conto fino al mattino?» 2) «Era presente quando le scattarono questa sua fotografia?» 3) «Il figlio più giovane, quello di vent’anni, quanti an-ni ha?» 4) «Fu lei o suo fratello a morire in guerra?» 5) «Vi ha ucciso?» 6) «Quanto erano distanti i veicoli al momento della colli-sione?» 7) «Lei era lì finché non se n’è andato, giusto?» 8) «Quante volte si è suicidato?» 9) A: «Così, la data di concepimento [del bambino] fu l’8 di Agosto?» T: «Sì.» A: «E che cosa stava facendo in quel momento?» 10) A: «Lei ha tre figli, giusto?» T: «Sì.» A: «Quanti sono maschi?» T: «Nessuno.» A: «Qualcuno di loro è femmina?» 11) A: «Lei afferma che le scale andavano giù fino al piano terra.» T: «Sì.» A: «E queste scale tornavano anche su?» 12) A: «Signor Slatery, lei ha avuto una luna di miele parti-colare, vero?» T: «Sono andato in Europa.» A: «E ci ha portato la sua nuova moglie?» 13) A: «Da cosa è stato interrotto il suo primo matrimonio?» T: «Dalla morte.» A: «E dalla morte di chi è stato interrotto?» 14) A: «Può descrivere l’individuo?» T: «Era di media altezza e aveva la barba.» A: «Si trattava di un maschio o di una femmina?» 15) A: «Dottore, quante autopsie ha eseguito su persone morte?» T: «Tutte le mie autopsie sono eseguite su persone morte!» 16) A: «Tutte le tue risposte devono essere orali, okay? Che scuola frequenti?» T: «Orali.» 17) A: «Si ricorda l’ora in cui ha esaminato il corpo?» T: «L’autopsia è iniziata attorno alle 20,30.» A: «E il signor Dennington era morto?»
T: «No, era sdraiato sul tavolo desideroso di sapere per-ché gli stavo facendo un’autopsia!» 18) A: «Può fornirci un campione di urina?» T: «Lo posso fare sin da quando ero piccolo!» 1 9) A: «Dottore, prima di eseguire l’autopsia, ha controlla-to la presenza del battito cardiaco?» T: «No.» A: «Allora ha controllato la pressione del sangue?» T: «No.» A: «Ha controllato se respirasse?» T: «No.» A: «Allora è possibile che il paziente fosse vivo quando ha cominciato l’autopsia?» T: «No.» A: «Come può esserne così sicuro, dottore?» T: «Perché il suo cervello era in un contenitore sulla mia scrivania.» A: «Ma è tuttavia possibile che il paziente possa essere stato ancora vivo?» T: «SI, è possibile che fosse vivo e che stesse facendo l’av-vocato da qualche parte!» Giornalisti spagnoli Alcune citazioni estratte da Estupidario. Antologia del dispa-rate radiofonico (Stupidario. Antologia degli strafalcioni ra-diofonici). 2 Tre giornalisti spagnoli hanno raccolto le gaffes dei loro colleghi alla radio. «Con el incensarlo en la mano, el Papa comienza a incinerar a la multitud. » Con il turibolo in mano, il Papa comincia a incenerire la moltitudine. «Acompanaba al solista un numeroso cuarteto.» Accompagnava il solista un numeroso quartetto. «Son las dos de la tarde, es la una en BUbao. » Sono le due del pomeriggio, Funa a Bilbao [in Spagna solo nelle isole Canarie c’e il Fuso orario diverso e perciò la frase Famosa con cui aprono ogni giorno i giornali radio e Tg è: sono le due, Funa alle Canarie]. « Tres muertos gravesy dos leves. » Tre morti gravi e due lievi. «El cadàverpresentaba heridas, alparecer mortales. » Il cadavere presentava Ferite gravi, all’apparenza mortali. «Las prdcticas de los bomberos de Fuenterrabia se celebran todos los sàbados una vez al rnes. » Le esercitazioni dei vigili del Fuoco di Fuenterrabia si Fanno tutti i sabati una volta al mese. «La conducción tuvo lugar a las 7de la tarde desde eldomicilio del afligido cadàver. » Il funerale ha avuto luogo alle sette di sera dal domicilio del-l’inconsolabile defunto. «Paseando entre elganado saludamos al se fior alcalde. » Passeggiando fra il
bestiame salutiamo il signor sindaco. «En las proximidades del monte Ibardin se han comprobado varìaspisadas de lobo. En opinion de los expertosy dado el sen-tiamo de la orientación de las huellas, se supone que el citado lo-bo era extranjero. » In prossimità del monte Ibardin si sono trovare varie tracce di lupo. È opinione degli esperti che dall’orientamento del-le impronte si tratti di un lupo straniero. «Con gran dolor para los amantes de la naturaleza, por ordendel Ayuntamiento, los letìadores procedieron a cortar un drbol centenario de mas de 1000 anos.» Con gran dolore per gli amanti della natura, per ordine del comune i taglialegna hanno abbattuto un albero centenario di più di mille anni. «Es de noche, y sin embargo llueve.» È notte, e nonostante questo piove. «Ayer, dia de Todos los Santos, se encontraba rnuy animado el cementerio. » Ieri, giorno dei morti, il cimitero era molto movimentato. Sudditi di Sua maestà Un sito internet inglese’ ha deciso di sottoporre un cam-pione rappresentativo di cittadini inglesi adulti a un test di cultura generale preparato per bambini tra i 7 e gli 11 anni. Le domande, secondo il curatore del sito, erano sem-plici, facilmente affrontabili da un bambino, e quindi era presumibile che la maggioranza degli adidti potesse cen-trare il 100 per cento di risposte esatte. In lealtà solo il 5 per cento del campione ha dato 10 risposte esatte: i risul-tati sono tali da suggerire agli editori britannici la messa in cantiere immediata di una Fabbrica degli ignoranti d’Ol-tremanica. Secondo il 12 per cento degli intervistati, Shakespeare non si chiamava William, ma Waltet. Tra le domande — ol-tre al nome di battesimo di Shakespeate figuravano quesi-ti come: «Qual è la capitale della Svezia?» (matita rossa per il 58 per cento dei partecipanti); «Qual è il fiume più lungo della Gran Bretagna?» (48 per cento di errori); «Qual è il pianeta più vicino al Sole?» (63 per cento); «Le date della Seconda guerra mondiale» (25 per cento) e «Quale monarca sedeva sul trono nel 1900?» (39 per cento). Il primo pianeta del sistema solare secondo i sudditi del Regno Unito sarebbe la Terra (e non Mercurio), il monarca d’inizio secolo sarebbe Enrico Vili (il celebre re dello sci-sma vissuto nel XVI secolo). Ma, sottolineava il redattore Ansa che riportava la notizia in rete, niente è peggio di aver chiamato Shakespeare Walter: sarebbe come se un italiano chiudesse la Divina Commedia e sospirasse: «Però, questo Davide Alighieri...!».
3 Lettere famose
E per chiudere, due lettere famose scritte (benissimo...) da quattro glandi italiani.1 La prima la scrivono Totò e Peppino... In Totò Peppino e... la malafemmena(1956, regia di Camillo Mastrocinque), Totò (zio Antonio) e Peppino (zio Peppino) sono possidenti terrieri, i fratelli Caponi. Loro nipote Gian-ni (interpretato da Teddy Reno) studia per diventare medi-co, ma si innamora di una ballerina di rivista e decide di seguirla a Milano. I fratelli Caponi partono per la capitale del Nord decisi a sbarazzarsi della presunta «malafemmina» e riportare Gianni sulla retta via. Appena arrivati a Milano, scrivono alla giovane questa lettera, dando vita a una scena che resterà per sempre nella storia del cinema italiano. T: Giovanotto... carta, calamaio e penna, su... scriviamo! Hai scritto? P: (si siede asciugandosi il sudore) Che ho scritto!? Un momento. T: Oooooh (spazientito, inizia la dettatura)... signorina... signo-rina... P: (girandosi a guardare) Dove sta? T: Chi? P: La signorina! T: Ma quale signorina!? P: E che ne so! (girandosi verso la porta) Avanti! T: Animale! Signorina è l’intestazione autonoma della lettera (ri-prende)... Ooooh! Signorina... (Peppino Cambia foglio) T: Non era buona quella «signorina» lì...? Signorina, veniamo «noi» con questa mia addirvi. P: A dirvi. T: Addirvi. Una parola. P: A dirvi una parola. T: Che... P: Che! T: Che... P: Uno... quanti? T: Che? P: Uno... quanti? T: Che? P: Uno che? T: Che. P: Uno. T: Uno che?? Che! Scusate se sono poche, ma settecentomila lire ci fanno, specie che quest’anno, una parola, c’è stato una grande moria delle vacche, come voi ben sapete! Punto! Due punti. Ma sì, fai vedere che abbondiamo. Abbondandis in abbondandum. Questa moneta servono che voi vi consolate. Scrivi presto! P: Conninsolate. T: Che voi vi consolate. P: Ah! Avevo capito con insalata. T: E non mi far perdere il filo..., che ce l’ho tutto qui.
P: Avevo capito con l’insalata. T: Dai dispiacere che avreta... che avretta... e già, è al femminile, che avreta perché... (guarda Peppino interrogativamente) perché? P: Non so. T: Che è che non so? P: Perché che cosa? (interrompendo la scrittura) T: Perché che?? Ooooh!! Dai dispiaceri che avrete... Perché è ag-gettivo qualificativo, no! P: Ah! Perché qua. (indicando la lettera) T: Perché dovete lasciare nostro nipote, che gli zii medesimi che siamo noi, medesimo di persona. P: ... (Peppino si asciuga il sudore) T: Ma che stai facendo una fatica che ti asciughi il sudore?... di persona vi mandiamo questo (alzando un pacchetto con le ma-ni), perché il giovanotto è studente che studia, che si deve prendere una Laura... P: Laura... T: Laura. T: Che deve tenere la testa al solito posto, cioè... P: Cioè... T: Sul collo. Punto, punto e virgola..., un punto e un punto e vir-gola. P: Troppa roba... T: Lascia fare! Che dice che siamo provinciali, che siamo tirati. Salutandovi indistintamente... indistintamente... sbrigati!!! I fratelli Caponi, che siamo noi... apri una parente e dici che sia-mo noi, i fratelli Caponi. P: Caponi. T: Hai aperto la parente? Chiudila. P: Ecco fatto. T: Vuoi aggiungere qualcos’altro? P: Io, insomma, senza nulla a pretendere, non c’è bisogno... T: In data odierna? P: Eh, ma poi? T: Ma no, va bene, si capisce. P: Sì, sì, si capisce. In Non ci resta che piangere (1984, regia di Massimo Troisi e Roberto Benigni), Mario (Traisi, un bidello) e Saverio (Be-nigni, un maestro elementare) si imbattono in una sfasatura temporale e precipitano nel 1492. Una serie di avventure li porterà a confrontarsi con Savonarola, con Leonardo da Vinci, poi, una volta prese le misure con il nuovo ambiente, decideranno di fermare Cristoforo Colombo e impedirgli di scoprire l’America. Partiranno per Palos, ma arriveranno troppo tardi. Nella lettera che segue cercano di intercedere a favore del loro ospite Vitellozzo, finito nel mirino del terri-bile Savonarola. B: (seduto) Prendi un foglio... Mi dai un foglio della macelleria? T: (inpiedi) Ma è bianco, puoi scrivere qua, no? B: Dietro a un foglio con i conti della macelleria, ma vuoi rispar-miare? Dammi una
penna. Guarda (si alza e stacca una penna da un’oca appesa al soffitto)... qui c’è la cartoleria a portata di mano... Ecco qua... (si risiede)... le penne (indicando l’oca). T: (seduto) Mi raccomando, Saverio!!! Non facciamoci riconoscere. B: Stai tranquillo. T: Con educazione... B: Caro... T: Cerchiamo di fare una cosa. B: Allora dettala te la lettera, eh...? Vai! T: Avanti! Caro Savonarola... B: Aspetta! Prima la data, no? Frittole... T: Frittole. B: Quanto sarà? T: Quasi millecinquecento. B: Frittole quasi millecinquecento. T: ‘O ssaje tu quant’ n’avimmo? B: Perché tu scrivi una lettera «Roma, quasi duemila?». T: Non lo mettere... estate quasi millecinque, dai! Isso ‘o sape. B: Be’, aspetta mi informo io. Allora: caro... T: Aspetta... B: Caro no, non è un nostro amico. T: Aspetta, non scrivere subito... B: San... San... Sant... T: Santissimo Savonarola. B: Santissimo!!! T: Come sei bello... per esempio... cum si vulessm ricere... B: Santissimo Savonarola. T: Savonarola!!! B: Santissimo... T: Savonarola! B: Quanto ci piaci! T: Quanto ci piaci. B: A noi due. T: Accussì, già vere che simm’ seguaci. B: L’esclamativo ce l’avrà? T: Mettilo! B: Vabbe’!!! T: Metti scusa le volgarirà. B: Scusa le volgarità... ma come... a Savonarola? T: Per quello ogni cosa è peccato... se vede il punto esclamativo può dire: eche è sto’ coso qua?? Un uomo con il puntino... metti scusa le volgarità... B: ... volgarità... allora mettiamo una freccia. T: No, no, scusa le volgarità eventuali. B: Eventuali, perché? T: Eventuali, pecche sennò... ‘a vuo’ scrivere come dico io Save-rio?? Altrimenti quello dice: perché, volevano essere volgari e non ci sono riusciti? B: (acconsentendo suo malgrado) Eventuali. Punto... eh come va?... no, non va!! T: Santissimo, noi... non... B: Santissimo Savonarola, lascia vivere Vitellozzo.
T: Lascia... potresti lasciar vivere Vitellozzo? B: Vitellozzo! T: Se puoi, eh? B: Savonarola! T: Savonarola. Mo’ adesso bisogna spiegare per bene perché lui fa così. B: Anche a dirgli... lui è proprio uno che... eeh, che c’è? T: Appunto! E che è? B: E che è??? Diamoci... T: Non solo a lui... B: Diamoci, come dire, tutti insieme, una calmata, eh! Oh! T: Eh! Tra parentesi. B: Eh! Oh! T: Poi scrivi nel caso scusa la parenresi... e che è, e che è? Qua pa-re... che ogni cosa, uno non si può muovere... che e questo e quello e pure per te... Ooooh!!!! B: Questo e quello, oooh!!! T: Due personcine per bene, noi siamo personcine per bene... B. Che non facciamo male a nessuno... T: Che non farebbero male nemmeno a una mosca. B: Figuriamoci... T: Figuriamoci ad un santo come te. B: Figuriamoci ad un santone come te. T: A un santone come te. B: Anzi, varrai più di una mosca, no? T: No, pare che lo metti in competizione... B: Vabbe’... T: Anzi dice tutto. B: Anzi, ciao! T: No, no, no, qua ci vuole un saluto per bene... cioè da peccatori umili. Noi ti salutiamo. B: Ti salutiamo con... T: Con... non sappiamo neanche noi. B:Noi... T: Aspetta. Scrivi... ti salutiamo con la nostra faccia sotto i tuoi piedi... proprio il massimo del peccatore. B: Con la nostra faccia sotto i tuoi piedi. T: ... sotto i tuoi piedi senza neanche chiederti di stare fermo. Puoi muoverti. B: Cioè che vuol dire... T: Che con la faccia sotto i piedi può camminare su due umili, ca-pito? B: Bellissima immagine. T: Esatto. B: E puoi muoverti quanto ti pare e piace e noi zitti sotto. T: Va bene. B: E noi zitti sotto. Punto. T: Scusa il paragone tra il frate e la mosca, non volevamo mini-mamente offendere. I peccatori di prima. B: Dobbiamo salutare.
T: Con la faccia dove sappiamo. B: Ormai gli si è detto. T: I due peccatori con la faccia dove sappiamo. B: Sempre zitti. T: Sempre zitti. B: Sotto!
4 Tabelle
Note
ASINI Capitolo 1
1. La cifra comprende: 5486,58 euro d’indennità + 4003,11 euro mensili di diaria (ridotta di 200 euro al giorno in ca-so di assenza con votazione elettronica) + 4190 euro di rimborso forfetario per spese per i rapporti con gli elettori, erogato tramite il gruppo parlamentare di appartenenza. Totale: 13.679 euro. 2. AL momento gli eurodeputati ricevono lo stesso stipendio dei parlamentari nazionali, ma dalla
prossima legislatura nel 2009 il sistema cambierà, anche se con molte deroghe, e riceveranno uno stipendio unico equivalente al 38,5 per cento del salario di un giudice della Corte di giustizia eu-ropea, pari a circa 7400 euro al mese. A questo si aggiun-gono i rimborsi per i viaggi, la diaria pari a 287 euro per coprire i costi di albergo e alloggio, una indennità generale di 4052 euro per i costi dell’ufficio nel Paese di provenien-za e infine il rimborso per gli assistenti, che può arrivare fi-no a 16.914 euro al mese. 3. ... e che invece dovrebbero garantire al partito che li ha fat-ti eleggere il collegamento col territorio e i problemi reali dei cittadini. 4. La ricerca // mercato del lavoro dei politici è stata redatta da un gruppo di economisti: Antonio Merlo (University of Pennsylvania), Vincenzo Galasso (Università Bocconi), Massimiliano Landi (Singapore Management University) e Andrea Mattozzi (California Institute of Technology) ed è stata presentata a Gaeta il 24 maggio 2008 a un con-vegno promosso dalla Fondazione Rodolfo Debenedetti. 5. Gian Antonio Stella, Un posto in Parlamento aumenta il reddito del 78 per cento, «Corriere della Sera», 22 maggio 2008. 6. // Parlamento dei cinquantenni (a cura di Antonello Cherchi, Luciano Fassari, Francesca Malaguti, Serena Riselli, Alessandra Tibollo), «Il Sole 24 Ore», 21 aprile 2008. Capitolo 2 1. l’assaggio cult, non citabile. 2. Alessandro Fiocino, Di Pietro e l’inglese maccheronico: mi serve per le donne, «Corriere della Sera», 9 agosto 2007. 3. In Potò, Peppino e... la malafemmina i fratelli Caponi (Foto e Peppino, ovviamente), arrivati a Milano, pensano di dover parlare in un’altra lingua, e si rivolgono così a un vigile in piazza Duomo. Nojo volevan savuàr... ovvero: «Noi volevamo sapere...». 4. Tullio De Mauro, Se un mattino di primavera un governan-te..., Conversa/ione alla scuola Mauri per librai, Venezia, gennaio 2006. 5. Antonella Piperno, Karen Rubini, Tra gli ultimi della classe, «Panorama», 10 gennaio 2008. 6. Giulio Ferroni, Asini: e se fosse troppo tardi per salvare la scuola?, «Panorama», 20 settembre 2Ò07. 7. Silverio Marchetti, In nome del popolo italiano (l’autore ha stampato il volumetto a proprie spese). 8. Totò e Peppino, i fratelli Caponi del film Votò, Peppino e... la malafemmina, scrivevano un’esilarante e sgrammaticata lettera, entrata di diritto nella storia del cinema, che si con-cludeva con la firma: «I fratelli Caponi, che siamo noi». 9. Le interviste sulla preparazione dei candidati agli esami professionali sono state raccolte da Giulio Valesini tra il 12 e il 20 giugno 2008. 10. www.pierluigizanata.blog.lastampa.it/ 11. Intervista raccolta da Mercedes Vela Cossio il 24 aprile 2008. 12. Giorgio De Rienzo, Errori e virgole vaganti. Il ministero ci ricasca, «Corriere della Sera», 19 giugno 2008. 13. Si veda il sito www.ilsole24ore.com, 18 giugno 2008, per tutti gli strafalcioni degli esami di maturità. 14. Sputtana il prof. Gli strafalcioni dei professori, Mondadori, Milano 2006. 15. Giulio Ferroni, Asini: e se fosse troppo tardi per salvare la scuola?, art. cit. 16. Ricerca svolta nel novembre 2003 sull’edizione serale di Tg1, Tg3 e Tg5. Leggibilità Culpease rilevata con Failogos cknsor (www.eulogos.net). 17. Dati Unta (Unione nazionale per la lotta contro l’analfa-betismo). 18. Dati Istat diffusi il 7 maggio 2008: 100 statistiche per il Paese. Indicatori per conoscere e valutare. Capitolo 3 1. 2. 3. 4.
Intervista raccolta da Mercedes Vela Cossio il 7 giugno 2008. Tullio De Mauro, Analfabeti d’Italia, «Internazionale», n. 734, 6 marzo 2008. Intervista raccolta da Mercedes Vela Cossio il 10 agosto 2007. Tullio De Mauro, Analfabeti d’Italia, art. cit.
5. Romeo Bassoli, Bel Paese di ignoranti. Ricerca del Cede: Com-petenza alfabetica in Italia, «L’espresso», 1° febbraio 2001. 6. Oggi Invalsi (Istituto nazionale per la valutazione del siste-ma educativo di istruzione e di formazione). 7. Competenza alfabetica in Italia, art. cit. 8. Ibidem. 9. Gilbert Keith Chesterton (Londra, 1874 - Beaconsfield, 1936), scrittore e giornalista inglese. 10. Giulio Ferroni, Asini: e se fosse troppo tardi per salvare la scuola?, art. cit.
PROF Capitolo 1 1. Jenner Meletti, In cattedra, «la Repubblica», 12 giugno 2008. 2. Intervista raccolta da Mercedes Vela Cossio il 5 giugno 2008. Capitolo 2 1.
Gian Antonio Stella, Sergio Rizzo, La Deriva, Rizzoli, Mi-lano 2008.
Capitolo 4 1. Giangiacomo Nardozzi, La creatività rimodella le imprese, «Corriere della Sera», 25 settembre 2004. 2. Tullio De Mauro, Analfabeti d’Italia, art. cit. 3. Francesco Giavazzi, La promozione del merito, «Corriere della Sera», 12 maggio 2008. 4. Approvata dal Consiglio europeo in occasione del 50" an-niversario del Trattato di Roma. 5. Dal nome del presidente della Commissione per la libera-lizzazione e la crescita della società francese. 6. Più approfonditamente in Giovanni Floris, Pergentina Pedaccini, Filippo Nanni, batti chiarì, CDG edizioni, Roma 2006. 7. Intervista raccolta da Mercedes Vela Cossio il 7 giugno 2008. 8. Karl Popper, nato a Vienna nel 1902 e morto a Londra nel 1994, è considerato uno dei più influenti filosofi della scienza del Novecento. Popper è anche ritenuto un filosofo politico di statura considerevole, difensore della democrazia e del liberalismo e avversario di ogni forma di totalitarismo. Alla base del suo metodo, il rifiuto e la critica dell’induzio-ne, la proposta della falsificabilità come criterio di demarca-zione tra scienza e metafisica, la difesa della «società aperta». 2. Episodio raccontato da Marina Cavallieri in Caro mini-stro, non mandi in pensione la nostra maestra, «la Repubbli-ca», 27 maggio 2008. 3. Ibidem. Capitolo 3 1. L’attivazione dei corsi di laurea specialistica in Scienza del-la formazione primaria per gli insegnanti di scuola mater-na ed elementare è prevista dalla legge 341 del 1990 che ha definitivamente cancellato la validità dei diplomi di scuola secondaria, fino a quel momento sufficienti per in-segnare. Successivamente un decreto interministeriale del 10 marzo 1997, ha disciplinato i tempi e i modi del pas-saggio dal vecchio al nuovo ordinamento. 2. Ambra Craighero, Poveri della lavagna, «Corriere della Se-ra», 22 aprile 2008. 3. Michele Smargiassi, Scuola, il popolo dei precari a vita, «la Repubblica», 2 aprile 2007. 4. Ibidem. 5. Si veda la p. 31 di questo volume. 6. Curzio Maltese, Religione, il dogma in aula, un’ora che vale un miliardo, «la Repubblica», 24 ottobre 2007. Capitolo 4
1. Salvo Intravaia, Scuola, il valzer dei prof. Quattro su 10 cambiano ogni anno, «la Repubblica», 14 gennaio 2008. 2. Stima ministero, dati 2007-2008. 3. Salvo Intravaia, Scuola, il valzer dei prof art. cit. 4. Michele Smargiassi, Scuola, il popolo dei precaria vita, art. cit. 5. Dossier «Tuttoscuola» 2007. 6. La vicenda è nota grazie a una serie di atti parlamentari, ma è stata anche pubblicata da «Tuttoscuola», con allegata una lettera del preside D’Avolio al direttore. 7. Salvo Intravaia, Scuola, il Mezzogiorno si spopola e al Nord classi sempre più piene, «la Repubblica», 19 febbraio 2008. STUDENTI Capitolo 1 1. 2. 3. 4.
Le sette ansie capitali, «La Stampa», 18 giugno 2008. Ricerca effettuata da Giulio Valesini. l e sette ansie capitali, art. cit. www.notadisciplinare.it
Capitolo 2 1. Antonella Piperno, Karen Rubini, Tra gli ultimi della classe, art. cir. 2. Esempio già citato anche da Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo in La Deriva, op. cit. 3. I dati sono dell’lstat e si riferiscono al 2007. 4. Ricerca di Daniele Gecchi, Università di Milano, riportata da Raffello Masci su «La Stampa» del 29 novembre 2006 nell’articolo L’abbandono costa 2,5 miliardi l’anno. 5. Ibidem. 6. Rapporto sulla revisione della spesa della Commissione tecnica per la finanza pubblica. 7. In realtà, il libro bianco sulla scuola di Fioroni e Padoa Schioppa di settembre 2007 dice che la spesa corrente co-stituisce il 93,5 per cento del totale del bilancio e che solo il 14,2 per cento non è destinato alla remunerazione del personale. 8. Sempre nel libro bianco, a p. 39, si legge che «lo squilibrio della spesa a sfavore della spesa in conto capitale (cioè gli investimenti, come costruire o mettere a posto le scuole) è 8. Intervista raccolta da Mercedes Vela Cossio. 9. Salvo Intravaia, Scuola, il valzer dei prof, art. cit. 10. Rosaria Talarico, E il prof a giornata aspetta in stazione, «La Stampa», 22 marzo 2007. 11. Intervista raccolta da Mercedes Vela Cossio il 15 giugno 2008. coerente con la percezione diffusa di problemi nella qualità e nell’agibilità del patrimonio materiale delle scuole. Per quanto riguarda le modeste spese per servizi complementa-ri, esse indicano una limitata propensione ad accompagna-re o facilitate il servizio di istruzione con attività che com-portino il prolungamento dell’orario o il trasporto. In Ita-lia, gli enti locali concentrano oltre l’85 per cento della spe-sa in conto capitale per l’istruzione e, malgrado una ten-denza generale in crescita dal 1996 ad oggi, la spesa per stu-dente mostra segnali di una contrazione, specialmente nel Sud del Paese, con un’accentuazione del divario». Capitolo 3 1. 2. 3. 4.
Ripartire dalla scuola, «il Mulino», febbraio 2008. Dati Iea (International Association for the Evolution of Educational Achievement). Antonella Piperno, Karen Rubini, Tra gli ultimi della clas-se, art. cit. Ibidem.
5. Ocse, Programme for International Student Assessment. 6. Le due Italie della scienza, «L’espresso», 1 ° febbraio 2001. 7. Raffaello Masci, La Caporetto della scuola, «La Stampa», 11 marzo 2008. 8. Eugenio Occorsio, Scuola, troppi insegnanti e gli studenti costano caro, «la Repubblica», 2 gennaio 2008. 9. Maurizio Crosetti, Scuola, i bocciati della prima B, «la Re-pubblica», 30 gennaio 2008. 10. Ibidem. 11. Ibidem. Capitolo 4 1.
Che intende rimanere anonima.
Capitolo 5 1.
Fabio Pozzo, Ma studiare conviene?, «La Stampa», 9 mag-gio 2008, su dati Unioncamere.
2. Rapporto Excelsior 2006. 3. Intervista raccolta da Mercedes Vela Cossio il 7 giugno 2008. 4. Ibidem. 5. Raffaello Masci, E se bocciassimo il vecchio latino?, «La Stampa», 30 maggio 2008. 6. Ibidem. 7. Pubblicato dalla libreria Vaticana di Roma nel 1997. 8. L’intervistato vuole restare anonimo. 9. Lettera a www.giovannifloris.it del 27 giugno 2008. GENITORI Capitolo 1
1. Intervistato da Giulio Valesini il 4 giugno 2008. 2. Così come testimoniano i numeri scelti dal dossier 2008 elaborato da «Tuttoscuola» e la pubblicazione 2008 sulla dispersione scolastica del ministero della Pubblica istruzio-ne. Su questo dossier si è tenuto, organizzare da «Tutto-scuola», un confronto alla Camera dei deputati il 1° aprile 2008. 3. Ibidem. 4. Salvo Intravaia, Libri, a Palermo la classe più cara d’Italia, «la Repubblica», 29 agosto 2007. 5. Francesco Alberoni, 1genitori senza tempo, i loro figli senza (vere) scuole, «Corriere della Sera», 4 febbraio 2008. Capitolo 2
1. In Annachiara Sacali, E tutti i giorni qualcuno soffre di mal di prof «Corriere della Sera», 14 maggio 2008. 2. Ibidem. 3. In Carlo Brambilla, Maturità: e allarme per gli studenti «dopati», «la Repubblica», 27 giugno 2008. 4. Massimo Ammaniti, // capitale della famiglia, «la Repub-blica», 4 gennaio 2008. 5. Cinzia Sasso, I genitori elicottero, «la Repubblica», 4 gen-naio 2008. 6. Inchiesta Iref pubblicata su «la Repubblica», 11 febbraio 2008, in un articolo di Sara Strippoli intitolato Bocciati dalle badanti. 7. Focalizzate sulla figura del cosiddetto «bambino perfetto». 8. Concita De Gregorio, Il bambino perfetto, «la Repubbli-ca», 11 gennaio 2008. 9. Intervista raccolta da Concita De Gregorio, e riportata in // bambino perfetto, att. cit. 10. Le sette ansie capitali, art. cit.
11. Bernhard Bueb, Elogio della disciplina, Rizzoli, Milano 2007. 12. Massimo Ammaniti, Il capitale della famiglia, art. cit. Capitolo 3 1. Vittorio Zucconi, Ero un ragazza di strada e mia madre mi ha salvato, «la Repubblica», 9 ottobre 2007. 2. Intervista rilasciata a «Mondo Salute», gennaio 2008, di Luciano Onder. 3. Intervista trasmessa a Ballarò il 7 novembre 2007. 4. Aldo Cazzullo, Io ministro ma vendevo gondolette, «Corrie-re della Sera», 1 5 giugno 2008. 5. Si vedano gli studi di Antonio Schizzerotto, anche in Gio-vanni Floris, Mal di merito, Rizzoli, Milano 2007. 6. Condotto da Pasqualino Montanaro, che mette a con-fronto le principali indagini internazionali sulla scuola, da quella delI’Ocse (Pisa) alla Timss e Invalsi. 7. Si veda a riguardo Rosaria Amato, Scuola, gli studenti più poveri rendono meno, soprattutto al Sud, «la Repubblica», 10 giugno 2008. 8. Si vedano Francesco Delzio, Generazione Tuareg, Rubbet-tino, Catanzaro 2006 e Giovanni Floris Mal di merito, op. cit. 9. Federico Pace, L’Italia immobile dei laureati, «la Repubbli-ca», 28 febbraio 2008. 10. Ibidem. Capitolo 4 1. Giacomo Samek Lodovici, Soltanto una scuola libera sarà anche pertinente, «Avvenire», 24 febbraio 2008. 2. Intervista raccolta da Mercedes Vela Cossio il 7 giugno 2008. 3. Stefano Rodotà, I soldi sono pochi e servono tutti alle pub-bliche..., «Corriere della Sera», 30 aprile 1996. 4. Gian Antonio Stella, Elogi a Stalin, Dostoevskij bandito, la pazza idea delle scuole su misura, «Corriere della Sera», 28 febbraio 2008. 5. Intervista raccolta da Mercedes Vela Cossio il 7 giugno 2008. 6. Intervista raccolta da Mercedes Vela Gossio il 24 aprile 2008. BARONI Capitolo 1 1. Le università telematiche furono volute dai ministri Mo-ratti e Stanca nel precedente governo Berlusconi. In pratica, permettono agli studenti di fare tutto attraverso Internet (scaricare le dispense, seguire le lezioni). Sono 11 quel-le autorizzate, tutte dalla Moratti, a rilasciare titoli di stu-dio. Dicevamo della riforma Mussi che ha messo un tetto di 60 al riconoscimento libero dei crediti, che sono pur sempre un terzo di laurea già in tasca ancora prima di ini-ziare a studiare. 2. Quindi oggi non sarebbe possibile vedersi riconoscere in partenza i 100 e passa crediti dell’esercito italiano che avrebbe voluto anche il sottoufficiale dell’aeronautica che ha scritto la lettera. 3. Non citiamo il nome perché riportiamo stralci del carteg-gio e perché le stesse offerte le avrebbe potute fare, con ogni probabilità, qualsiasi altro ateneo del genere. Capitolo 2 1. Davide Carlucci, Il crepuscolo dei baroni, «la Repubblica», 23 gennaio 2008. 2. Dichiarazione rilasciata a Enrico Marro e pubblicata sul «Corriere della Sera» del 16 giugno 2005. 3. Davide Carlucci, Il crepuscolo dei baroni, art. cit. 4. Vili Rapporto sullo stato del sistema (2007), Comitato nazionale per la valutazione del sistema
universitario, mi-nistero dell’Università e della Ricerca. 5. Davide Carlucci, Università, tra equini e fitness ecco l’Italia delle lauree pazze, «la Repubblica», 28 febbraio 2008. 6. Ibidem, ma si veda anche Come ti erudisco il pupo di Salva-tore Casillo, Sabato Aliberti e Vincenzo Moretti, Ediesse, Roma 2007. 7. Un’approfondita inchiesta sull’argomento è apparsa in più puntate sul quotidiano «il Riformista» nel luglio 2008. 8. Intervista raccolta da Giulio Valesini il 5 giugno 2008. 9. Per approfondimenti: Giovanni Floris, Monopoli, Rizzoli, Milano 2005; Giovanni Floris, Mal di merito, op. cit. 10. Nel corso della relazione annuale 2008. Capitolo 3 1. Come fonte della ricostruzione è stato utilizzato il lavoro di Marta Ferrucci consultabile su www.studend.it: Rifor-ma universitaria, una guida in pillole. 2. Luigi Zingales, Università a prestito, «L'Espresso», 21 set-tembre 2007. 3. I percorsi italiani ed esteri sono stati ricostruiti da «Il Sole 24 Ore»: Marco Alfieri, Dove studia la classe dirigente, l’ec-cellenza in sei scuole, 30 gennaio 2008. 4. Luigi Zingales, Università a prestito, art. cit. 5. Michele Smargiassi, Nell’Italia dei laureati che non sanno scrivere, «la Repubblica», 6 febbraio 2008. 6. Ocse, Rapporto 2006. 7. Michele Smargiassi, Nell’Italia dei laureati che non sanno scrivere, art. cit. 8. Si vedano i dati citati nel paragrafo Una nuova classe di ita-liani alla pagina 48 di questo volume. 9. Michele Smargiassi, Nell’Italia dei laureati che non sanno scrivere, art. cit. 10. Dati raccolti da Mattia Feltri in È bipartisan l’esercito dei senza lauree, «La Stampa», 28 gennaio 2006. 11. Daniel Pennac, Diario di scuola, Feltrinelli, Milano 2008. 12. Elaborazione dati Istat, dossier immigrazione 2006. 13. Emilio Marrese, Università: qui davvero non passa lo stra-niero, il «Venerdì di Repubblica», 18 gennaio 2008. 14. Intervista raccolta da Mercedes Vela Cossio il 18 aprile 2008. LA RIVINCITA Capitolo 1 1. Tullio De Mauro, Se un mattino di primavera un governan-te..., op. cit. 2. Istruzione, decalogo di Confindustria, «Il Sole 24 Ore», 27 marzo 2008. 3. Si veda, per esempio, Francesco Alberoni, Se vuoi ottenere l’eccellenza non fare sconti a te stesso, «Corriere della Sera», 8 marzo 2007. Proposta 1 1. Annachiara Sacchi, Scuola, tutti a ripetizione, «Corriere della Sera», 11 marzo 2008. 2. Alexander Stille, Bambini in carriera, «la Repubblica», 6 luglio 2008. Proposta 2 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7.
Per approfondimenti si veda: Giovanni Floris, Mal di merito, op. cit. Mario Pirani, Quei bulli a scuola: dolcetto o scherzetto?, «la Repubblica», 4 febbraio 2008. Cittadinanzattiva, indagine sul bullismo 2007. Fabio Cutri, Bullismo, il compagno di banco, «Corriere del-la Sera», 12 giugno 2008. Cittadinanzattiva, indagine cit. Ibidem. Mario Pirani, Quei bulli a scuola: dolcetto o scherzetto?, art. cit.
8. Intervista di Paola Ancora, Bene il rigore, ma la scuola non e una caserma, «Il Messaggero», 23 dicembre 2007. 9. Mario Pirani, Liberate la scuola dai genitori protettivi, «la Repubblica», 12 marzo 2007. 10. Patria, lavoro carriera: ha ancora senso impegnarsi per un paese che si ama?, Luiss, 30 maggio 2008. 11. Si consulti Wikipedia alla voce «disciplina». Proposta 3 1. Michele Smargiassi, Scuola, il popolo dei precari a vita, art. cit. 2. Ibidem. APPENDICI Capitolo 1 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7.
Cina: università, lo stress del «grande esame», Ansa, 6 giugno Ricostruzione Ansa del 20 marzo 2006, Francia: quando Paolo Mastrolilli, La grande fuga dai licei, «La Stampa», 29 novembre 2006. Dati contenuti in Ibidem. Intervista ti portata in Ibidem. Fabrizio Carbone, E la foresta diventa un’aula a cielo aperto, «Panorama», 10 gennaio 2008. ibidem.
Capitolo 2 1. Pubblicati da www.math.unipd.it/-favero/varie/awoca-tiit.html 2. Ramon Gabilondo, Luis Del Val, Gorka Zumeta, Estupidario. Antologia del disparate
radiofonico (disparate si può tradurre come assurdità, strafalcioni...), edizione El Pai’s-Aguilar 1999. 3. www.thinkalink.co.uk. Sito del blogger inglese Andy Salmon. Capitolo 3 1. Le sceneggiature delle due lettere sono consultabili in www.tuttobenigni.it, a cura di Claudia Verardi. La sceneg-giatura della lettera tratta da Non ci resta che piangere h sta-ta «italianizzata».
Ringraziamenti
Per quanto riguarda i contenuti, il primo grazie va a Merce-des Vela Cossio e a Giulio Valesini, due ottimi colleghi, bril-lanti e affidabili, che mi hanno aiutato a completare e arric-chire il quadro con interviste, documentazioni, idee. Grazie a Michela Gallio, che ha la capacità unica di sapere guidare e seguire, nel contempo. Grazie, naturalmente, a tutta Ballarò. Per quanto riguarda il resto, grazie a mia madre e a mio padre, che mi hanno insegnato cosa vuol dire la scuola: sia quando c’è da stare in classe, sia quando c’è da uscirne, con o senza il permesso. Grazie Al miei amici, che se non ci fosse stata la scuola non sarebbero stati tali. Grazie a La Pappardella e agli appuntamenti a piazza Fiume. Grazie a tutti i miei insegnanti e a tutti i miei compagni di classe. Grazie a Bea, che (spesso) ha ragione. Grazie a Valerio e Fabio. Grazie a Daniela, Marco e i bambini. Per la legge delinquenti, per l’A.S. Broda combattenti. E su questo non si discute.
Indice Introduzione ASINI
1. Di Napoleone e altre storie 2. La società civile 3.1 veri ignoranti 4. Il prezzo dell’ignoranza prof
1. Vita da prof 2. A ognuno il suo 3. Carriere 4. Il prof itinerante studenti
1. L’altra faccia della scuola 2. Lo studio 3. Tempi e modi dell’ignoranza 4. Scuola e politica 124 5. Gli studi 131 genitori
1. I conti in tasca 147 2. Le nostre (le loro) paure 157 3. Il capitale 167 4. Le scelte 176 baroni
1. La laurea al chilo 187 2. L’università dei pochi 194 3. Il pezzo di carta 207 la rivincita
1. Tre idee e un post 225 Proposta 1. Scegliere la sezione 229 Proposta 2. Reinserire il voto in condotta 236 Proposta 3. La Carta Atena 247 Post Scriptum 249 appendici
1. Giro del mondo un po’ consolatorio 253 2. Gli strafalcioni degli altri 261 3. Lettere famose 267 4. Tabelle 273 Note Ringraziamenti 289 303
Finito di stampare nel mese di agosto 2008presso il Nuovo Istituto Italiano d’Arti Grafiche – Bergamo Printed in Italy