RUTH RENDELL LA DONNA VELATA (The Veiled One, 1988) 1 La donna giaceva sul pavimento, quando lui entrò. Era già morta, e...
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RUTH RENDELL LA DONNA VELATA (The Veiled One, 1988) 1 La donna giaceva sul pavimento, quando lui entrò. Era già morta, e coperta dalla testa ai piedi, ma Wexford lo seppe solo in seguito. Ripensando a quel momento, si rendeva conto dell'occasione che si era lasciato sfuggire, ma era inutile recriminare: lui non l'aveva vista, e non poteva farci niente. Quando era entrato nell'ascensore per scendere giù al parcheggio, era assorto nei suoi pensieri: pensava al regalo di compleanno della moglie che aveva nella borsa, all'architettura moderna, e al temporale del giorno prima che gli aveva abbattuto un pezzo della recinzione. Persino l'ascensore era diverso dai soliti. Quello era di ferro grigio, cigolante, nudo, decorato soltanto da nomi, numeri telefonici e spiritosaggini varie incise nel metallo, o scritte con la vernice rossa che colava come sangue dalle lettere irregolari. Wexford lesse che Steph era "uno scopatore diesel"; si chiese che cosa potesse significare, e si chiese anche dove potesse andare a controllare il significato dell'espressione. L'ascensore scendeva nelle viscere della terra, pensò, e in effetti il parcheggio faceva pensare a un intestino, con i suoi passaggi stretti a senso unico. Comunque, era meglio ricavare i parcheggi sotto terra, piuttosto che costruirli in superficie, soprattutto considerando che inevitabilmente li avrebbero costruiti nello stesso stile del centro commerciale, come bastioni, forse, o come mura antiche, a imitazione dell'architettura medievale. Wexford aveva appena lasciato il Barringdean Centre, il nuovo centro commerciale edificato a forma di castello, secondo l'orientamento dei moderni urbanisti, che ritenevano quello stile il più indicato per la periferia di un'antica cittadina del Sussex, dove non era rimasto più nulla d'autentico. Forse era appunto questo il motivo. In ogni modo, il centro faceva pensare più a un castello giocattolo che non a un vero castello: sembrava ricavato dall'assemblaggio di centinaia di pezzi di plastica. Costruito a forma di "I" maiuscola, era dotato di quattro torri alle estremità e di una fila di torrette lungo il lato. Voltandosi a guardarlo, Wexford si era quasi aspettato di vedere gli arcieri affacciarsi alle finestre gotiche e le frecce volare. Ma all'interno, tutto era rigorosamente moderno, stile ultimi decenni del ventesimo secolo. Al centro dell'atrio c'era una grande fontana, i cui spruz-
zi sfioravano il lampadario costituito da rettangoli di vetro smerigliato. Wexford aveva raggiunto l'atrio, passando attraverso le porte automatiche e lungo la passerella coperta, poi era salito con la scala mobile, il cui corrimano era umido di spruzzi, e a quel punto gli era venuto il sospetto che il negozio che cercava si trovasse invece al piano di sotto. Infatti, non era né Suzanne, il negozio di acconciature che vendeva anche parrucche e bigiotteria, né quello di biancheria per la casa e biancheria intima. Perciò, scese di nuovo con la scala mobile giù al Mandala, la cui area era delimitata da vasi di fiori disposti in cerchi concentrici: un giro di crisantemi marroni, un giro di crisantemi gialli, un giro di stelle di Natale bianche, e un giro di quelle piante che fanno frutti simili a ciliegie arancioni dal sapore che ricorda quello delle patate. La folla stava diradandosi. Erano quasi le sei di sera, ora di chiusura del centro commerciale. I commessi erano impazienti e nervosi, e persino i fiori sembravano stanchi. Un grande magazzino Tesco occupava l'intera barra della "I" su entrambi i piani, mentre l'altra barra era occupata dalla British Home Stores. In mezzo c'era la farmacia Boots, con W.M. Smith di fronte, e di fianco il Mandala. In un passaggio laterale che partiva dal parcheggio esterno, alcuni ragazzini giocavano con una zebra meccanica a strisce bianche e nere, si arrampicavano su per un quadrato, si divertivano a montare un drago con le ruote. Wexford trovò finalmente il negozio nella cui vetrina, la settimana precedente, Dora gli aveva indicato un pullover che le piaceva. Il negozio si chiamava Addresses. Di fianco c'era quello dove si vendeva cioccolato e altri dolciumi, e sull'altro lato Knits 'n' Kits, che vendeva lana e qualche capo confezionato. Wexford non era tipo da indecisioni, per un acquisto del genere, tanto più che Demeter, l'erborista di fronte, stava già per chiudere e, anche nella gioielleria accanto all'erborista, stavano già calando le sbarre all'interno della vetrina. Wexford entrò nel negozio e comperò il pullover. Non impiegò più di quattro minuti. Ora i clienti cominciavano a sciamare fuori dal centro commerciale. Davanti al bar Grub 'n' Grains, era fermo un tale che aveva tutta l'aria del buttafuori. Le luci si erano abbassate, gli spruzzi della fontana erano diminuiti fino a cessare del tutto, e la superficie dell'acqua nella vasca era diventata simile a vetro. Wexford si sedette su una panca di ferro battuto ad aspettare che la folla si diradasse, poi uscì a sua volta, passando dalla porta automatica e poi dalla passerella coperta. Si stava verificando un esodo massiccio dai parcheggi di superficie. Arrivato in fondo, Wexford si voltò indietro. In cima a ogni torretta del com-
plesso sventolavano bandiere triangolari gialle e rosse, o almeno, avevano sventolato tutto il giorno, agitate dal vento, e ora stavano immobili nella foschia della sera. Stretti rettangoli di luce trapelavano ancora dalle finestre gotiche del complesso. Wexford si ritrovò solo nell'entrata del parcheggio sotterraneo, dove l'unica prova del passaggio dei clienti era costituita dai carrelli della spesa abbandonati. Ce n'erano a centinaia, sparpagliati intorno, e sicuramente sarebbero rimasti lì fino al mattino successivo. Un cartello informava che chi ostruiva la strada con i carrelli era in contravvenzione, e come già gli era capitato in precedenza, a Wexford venne fatto di pensare che la polizia aveva cose ben più importanti di cui occuparsi. Quanto importanti fossero, nel suo caso particolare, l'avrebbe appurato presto. I pianificatori avevano decretato che questo parcheggio doveva essere sotterraneo. Wexford sbucò nel corridoio dove c'erano l'ascensore e le scale, oltrepassando una porta di ferro, la cui eco, dopo che l'ebbe chiusa, si udiva ancora mentre l'ascensore scendeva. Oltre al riverbero di quel suono, Wexford udì anche uno scalpiccio di piedi per le scale. Era un particolare che gli sarebbe tornato in mente in seguito. Lì sotto faceva sempre piuttosto freddo, e nell'aria si sentiva un odore acre, come di ingranaggi metallici lubrificati di recente. Wexford uscì dall'ascensore al secondo piano e si trovò nel passaggio grande tra le due file di pilastri. Quasi tutte le auto erano già andate via, e in loro assenza il posto sembrava più brutto, più desolato, più squallido del solito. D'altra parte, il parcheggio aveva uno scopo pratico, serviva a soddisfare una necessità precisa dei cittadini. Se fosse stato lui a dover decidere, come avrebbe realizzato le pareti, per esempio? Le avrebbe fatte dipingere di bianco, oppure le avrebbe decorate con murales, o rivestite di piastrelle in cui fossero raffigurati episodi della storia locale? Una scelta del genere sarebbe stata persino peggiore della soluzione reale. Stranamente, il posto gli ricordava qualcosa a cui non assomigliava neppure vagamente, cioè l'illustrazione di John Martin della scena del Pandemonio de Il Paradiso Perduto. L'auto di Wexford era parcheggiata da quella parte. Perciò non era necessario percorrere il parcheggio in tutta la sua lunghezza, né raggiungere i punti più bui, lungo il muro perimetrale. L'eco faceva rimbalzare il rumore dei suoi passi. Forse il suo spirito d'osservazione, in genere spiccatissimo, era meno acuto del solito, ma se non altro non si lasciò sfuggire il numero delle auto rimaste, il tipo e il colore. Ce n'erano tre, ferme tra la sua e il centro del parcheggio, dove si trovavano due rampe, una che saliva e l'altra che scendeva. La prima a sinistra era
una Metro rossa; dalla parte opposta, a destra, c'era una Escort grigio metallizzato e di fianco a questa una Lancia blu scuro. Il corpo della donna giaceva in mezzo alle due auto, più vicino alla Escort che non alla Lancia, coperto e nascosto alla visuale da un panno sporco, di velluto marrone, che lo rendeva simile a un mucchio di stracci. O almeno, questo gli dissero in seguito. In quel momento, notò soltanto le auto e i loro colori, alterati dalle luci al neon, resi più pallidi, quasi irreali. Wexford aprì il portabagagli e vi infilò dentro la borsa blu di Addresses, con il nome stampato in oro. Mentre chiudeva il portabagagli, passò un'auto rossa che procedeva a velocità piuttosto sostenuta. Le auto di colore rosso erano più numerose di quelle di qualsiasi altro colore, aveva letto da qualche parte. Gli automobilisti sono aggressivi, e il rosso è appunto il colore dell'aggressività. Entrato in auto, Wexford avviò il motore e diede un'occhiata all'orologio. Era un gesto che gli veniva istintivo, quello di guardare l'ora ogni volta che metteva in moto. Erano le diciotto e sette. Dopo avere innestato il cambio automatico, iniziò a risalire dalle viscere della terra. Su ciascun livello, la rampa d'uscita si snodava su metà del piano, nella parte opposta a quella in cui si trovavano l'ascensore e le scale, girando in senso antiorario per poi svoltare a destra, raggiunto il livello successivo. Wexford passò accanto alle tre auto in sosta, prima alle due a sinistra e infine alla Metro. Naturalmente si guardò bene dal guardare a destra, dove si trovava il cadavere. D'altra parte, che motivo aveva di guardare? La rampa d'uscita lo condusse, oltre la curva, sul tratto rettilineo della parte opposta. In quel punto non erano rimaste auto ferme. I posti erano tutti vuoti. Risalito al primo piano, Wexford voltò a destra e sbucò all'aperto, nel buio della sera. Forse c'era ancora qualche auto ferma al primo livello, ma lui non vi aveva fatto caso. Gli rimase in mente soltanto la Vauxhall Cavalier, con una ragazza al volante, che si era trovato di fronte al termine della rampa. La Vauxhall partì e s'infilò dietro a lui. La ragazza che la guidava sembrava impaziente di uscire dal parcheggio; dopodiché non avrebbe esitato a superare il limite di velocità. Oggigiorno le ragazze al volante sono più scatenate dei ragazzi, sosteneva Burden. Wexford, uscito dal parcheggio, scoprì che non era rimasto in giro quasi più nessuno. Erano le sei e dieci, e il centro commerciale chiudeva alle sei. Qualche ritardatario stava ancora raggiungendo la sua auto, nel parcheggio di superficie. La ragazza alla guida della Vauxhall lo superò appena poté. Wexford si era portato il più possibile a destra e aveva rallentato per fa-
cilitarne la manovra. Fu allora che vide la donna emergere dalla passerella coperta. La notò sia perché era l'unica persona ad andare verso il parcheggio, sia perché camminava senza fretta, scansando con calma i carrelli. La vide spingerne via con un piede uno che le ingombrava la strada. Piccola e snella, camminava eretta, in giacca e cappello. Portava due borse della spesa, due borse rosse del grande magazzino Tesco. La porta di ferro sbatté alle sue spalle, e Wexford proseguì, attraversò il parcheggio dove ormai erano rimaste pochissime auto, uscì dai cancelli e imboccò Castle Street immersa nella foschia, in direzione del centro cittadino. Il semaforo di High Street, all'altezza di Olive e Dove, diventò rosso mentre lui arrivava. Wexford tirò il freno a mano e diede una scorsa al giornale della sera, che aveva comperato prima di recarsi al centro commerciale, e che non aveva avuto il tempo di leggere. Si trovò davanti la faccia di sua figlia ed ebbe solo un lieve sussulto. Non era affatto raro vedere foto di Sheila sui giornali, meno frequente trovarle accompagnate da notizie come quella. C'era un'altra foto, oltre al primo piano. Wexford l'osservò un istante, fece una smorfia e sospirò forte. Il semaforo era diventato verde. Il centro commerciale Barringdean si trovava alla periferia di Kingsmarkham, ed era stato costruito sul terreno precedentemente occupato dal vecchio capolinea degli autobus, quando il capolinea era stato spostato dove prima sorgeva una grande fabbrica di malto. Ormai tutti facevano la spesa lì, e gli affari dei negozianti di High Street ne risentivano parecchio. Di giorno, il centro commerciale assomigliava a un enorme alveare dove la gente entrava e usciva in continuazione, ma di notte era lasciato al suo destino. In un anno di vita era già stato preso di mira due volte dai ladri. Oltre agli uomini del servizio di sicurezza e ai controllori dei negozi che lavoravano all'interno, c'era anche un guardiano che aveva il compito di aggirarsi intorno al centro commerciale per assicurarsi che andasse tutto bene; ma in effetti questo guardiano trascorreva la maggior parte del tempo seduto in un piccolo ufficio adiacente all'ascensore del parcheggio sotterraneo, intento a leggere il giornale e ad ascoltare cassette di Edwin Drood e Les Misérables. Ogni sera alle diciotto e quindici, David Sedgeman adempiva il suo ultimo dovere, mettendo in ordine i carrelli, cioè incastrandoli l'uno nell'altro e componendo lunghe file e andando a chiudere con catenaccio e lucchetto il cancello di Pomeroy Road, da cui entravano i pedoni. La recinzione, di rete di ferro, era alta due metri e mezzo. Chiuso il cancello, Sedgeman se ne andava a casa. Se qualcuno restava chiuso den-
tro, doveva andarsene passando dalla parte riservata agli automobilisti. Gli abitanti di Pomeroy Road ci avevano guadagnato, quando il capolinea degli autobus era stato spostato. C'era pace, adesso che non passavano più gli autobus dalle sei del mattino fino a mezzanotte. Dall'altra parte della strada, case vittoriane si alternavano a palazzine condominiali. In una di queste palazzine, proprio di fronte al cancello del centro commerciale, abitava Archie Greaves, con la figlia e il genero. Archie trascorreva la maggior parte della giornata seduto davanti alla finestra, a osservare la gente che passava. Era molto più divertente ora, rispetto ai giorni del capolinea. Archie guardava la gente entrare nella cabina telefonica, appena fuori dal cancello, sul lato destro, e qualcuno vedeva lui; infatti era capitato più di una volta che si avvicinassero, bussassero alla finestra e gli chiedessero moneta per il telefono. Archie guardava la gente arrivare e ripartire, e spesso si divertiva a prendere nota mentalmente dell'ora, per calcolare quanto tempo restavano all'interno del centro commerciale. Ormai aveva imparato a riconoscere i clienti abituali, e siccome era sempre solo, dato che la figlia e il genero lavoravano tutto il giorno, considerava quei clienti come suoi amici. Quella sera c'era foschia. Era scesa presto l'oscurità e alle sei era già buio come a mezzanotte. La nebbia, più evidente nei punti illuminati, aleggiava verdastra vicino ai lampioni. I tombini di Pomeroy Road erano ingombri di foglie cadute, i platani erano ormai spogli. Al di là dei cancelli aperti, le luci dei lampioni illuminavano i parcheggi quasi vuoti, e all'interno del centro commerciale, le cui torrette si stagliavano contro il cielo simili a denti di una gigantesca sega, le luci cominciavano ad abbassarsi. Tra qualche minuto si sarebbero spente del tutto. Da quando Archie si era seduto davanti alla finestra, verso le quattro del pomeriggio, il passaggio dei pedoni era stato costante. Il suo alito appannava il vetro. Archie lo pulì con la manica della camicia, giusto in tempo per vedere un giovane che correva fuori dal cancello. Era quasi un ragazzo, aveva le mani vuote, e correva all'impazzata. Chissà, forse era inseguito dal controllore di qualche negozio, si disse Archie. Una volta, aveva visto una donna correre fuori, inseguita da un po' di gente, e aveva pensato che doveva aver rubato qualche cosa. Quel ragazzo, non l'aveva mai visto prima di allora. Lo seguì con lo sguardo, finché non fu scomparso dalla visuale, sotto i platani avvolti nella foschia. Archie non aveva acceso la luce, perché al buio vedeva meglio fuori. Alle sue spalle, il vecchio caminetto elettrico rischiarava un angolo del loca-
le, alle sue spalle. Il ragazzo correva, ma nessuno l'inseguiva; forse aveva semplicemente fretta. La gente che se ne andava con tutta calma lo osservava con una certa curiosità e, come Archie, probabilmente pensava di riuscire a capirci qualcosa. Ma l'oscurità inghiottì anche loro. Archie vide un'auto emergere dal parcheggio sotterraneo, poi un'altra. Le luci che illuminavano le torrette del centro commerciale si spensero del tutto. A questo punto, Archie vide spuntare David Sedgeman da dietro l'angolo, con le chiavi del lucchetto in mano. A causa della foschia e siccome Archie non aveva acceso la luce, Sedgeman dovette sforzare la vista, per vedere il vecchio. Lo salutò con un cenno del capo e un gesto della mano. Archie rispose al saluto. Sedgeman chiuse il cancello, assicurò la catena alla rete di ferro, infilò il lucchetto al suo posto e lo chiuse, poi fece scorrere i due catenacci, uno in basso e l'altro sopra la sua testa. Prima di andarsene, salutò di nuovo Archie con un cenno della mano. Era il segnale per cominciare a darsi da fare. Archie si alzò. Andò in cucina, si preparò un tè con la bustina e prese dalla scatola due biscotti al cioccolato. Niente patate da pelare, quella sera, dato che la figlia e il genero erano invitati a una festa di fidanzamento. Così, quella sera Archie non avrebbe mangiato niente di cucinato. Per lui, era meglio così. Alla sua età, preferiva cenare con un po' di tè, qualche biscotto, qualche pezzetto di cioccolato. Tornato in soggiorno, accese il televisore. Ormai si era lasciato sfuggire la maggior parte delle notizie del telegiornale. Stavano parlando del processo in corso a carico di alcuni terroristi e di un'attrice, accusati di avere danneggiato materiale di proprietà del Ministero della Difesa. Archie non spense il televisore, ma abbassò il volume e accese la luce, avendo letto da qualche parte che, a forza di guardare la televisione al buio, si rischiava di diventare ciechi. Ora anche nella cabina telefonica c'era la luce accesa. Si accendeva automaticamente alle diciotto e trenta, quando la lampadina non era fatta bersaglio delle bravate di qualche vandalo, cosa che si verificava abbastanza spesso. Archie tornò a sedersi davanti alla finestra e si mise a guardare con un occhio la strada e con l'altro lo schermo, nella speranza di vedere qualcosa di divertente. Ormai il centro commerciale era completamente avvolto nell'oscurità, benché ci fossero due lampioni accesi nel parcheggio. Un uomo di mezza età, uno dei vicini, stava portando il suo cane a fare una passeggiata. Il cane alzò la zampa contro la porta rossa della cabina telefonica. Archie ebbe la tentazione di battere le dita contro il vetro della finestra, ma sapeva che sarebbe stato inutile. Cane e padrone si allontanarono
nella nebbia, mentre Archie beveva un sorso di tè, mangiava il secondo biscotto e tentava di decidere se andare a prenderne un terzo, oppure aspettare un'oretta. Ora stavano trasmettendo le previsioni del tempo. Non si sentivano le parole, ma a giudicare dalle nuvolette e dai trattini apparsi sullo schermo, il tempo doveva rimanere incerto come i giorni precedenti. Fuori c'era buio e silenzio. La nebbia si era un po' diradata, e le luci dei lampioni, semioscurate dai rami dei platani, la tingevano di un verdastro fosforescente. Il parcheggio di superficie era un buio deserto di cemento, in cui spiccavano soltanto due sfere debolmente luminose. Ma ora anche i due lampioni si stavano spegnendo, prima uno e poi l'altro. Restavano solo i lampioni di Pomeroy Street, e il riverbero di luce all'imboccatura del parcheggio sotterraneo, a rischiarare debolmente la zona oltre il cancello. Da dietro l'angolo del centro commerciale, nell'oscurità quasi assoluta, sbucò fuori una donna, forse uscita dall'ascensore del parcheggio. Mossi pochi passi avanti, la donna si girò verso il cancello, guardò in direzione di Archie, pareva cercasse qualcuno o qualcosa. Sembrava in preda a una collera repressa e contenuta, a giudicare da come si muoveva. Archie riusciva a intuirlo nonostante il buio. Chissà, forse aveva l'auto giù al parcheggio e non riusciva a farla partire. D'altra parte, lui non poteva farci niente, e un istante dopo la donna scomparve di nuovo dietro l'angolo. Archie spense il televisore, non sopportando la vista di ciò che era apparso sullo schermo: bambini africani con le pance enormi, bambini destinati a morire, altra gente che lui, nella sua impotenza, nella sua povertà, non poteva aiutare. Tornò a guardare fuori dalla finestra. Pensò di aspettare ancora un'ora o due, prima di andare a prendersi un altro biscotto. Doveva pure trovare il sistema di riempire la serata, dato che non poteva andarsene a letto prima delle nove, e mancavano ancora più di due ore. Con ogni probabilità, non sarebbe accaduto nulla fino alle otto del mattino successivo, ora di apertura del centro commerciale. Sarebbe solo passata qualche auto, forse un paio di persone si sarebbero servite della cabina telefonica. Stava pensando a questo, quando ricomparve la donna. Stavolta camminava decisa, come un felino che andasse verso la sua preda. Arrivata al cancello, lo scosse come se si aspettasse di riuscire ad aprirlo, come se il lucchetto potesse cadere a terra e i catenacci potessero scivolare indietro nelle loro guide. Archie si alzò, si appoggiò al davanzale. La donna era troppo piccola per arrivare al catenaccio superiore. Parve accorgersi solo in quel momento che il lucchetto era chiuso a chiave. Ag-
grappata al cancello, lo scosse con tutte le sue forze. Fissava la cabina telefonica, a pochi metri da lei, ma irrimediabilmente irraggiungibile al di là del cancello. La donna continuò a scuoterlo, con rabbia. Come faceva a non capire che era perfettamente inutile, visto che c'erano i catenacci e il lucchetto? Archie cominciò a pensare che fosse un po' tocca nel cervello. In casi del genere, di solito ignorava la scena, chiudeva gli occhi o se ne andava via. Ma la donna voleva raggiungere il telefono, tutta quella rabbia dipendeva dal fatto di non riuscire ad arrivarci. Be', c'erano sempre i vicini... Che ci pensassero loro a darle una mano, qualcuno che fosse più giovane e più forte di lui. Però nessuno mai si sognava d'intervenire. A volte, ad Archie capitava di pensare che avrebbero potuto assassinare una persona in Pomeroy Street, in pieno giorno, e nessuno avrebbe mosso un dito. Ora la donna si era messa a gridare, anzi a urlare con quanto fiato aveva in gola. Batteva i piedi per terra, scuoteva il cancello e gridava. Parole che Archie non udiva, ma che udì perfettamente dopo che si fu messo in testa il cappello e l'impermeabile sulle spalle, per uscire in strada. — La polizia! La polizia! Devo chiamare la polizia! Devo telefonare! Devo chiamare la polizia! Archie attraversò la strada. — Non serve a niente, tutto questo baccano. Cercate di calmarvi. Che cos'avete? — Devo telefonare alla polizia! C'è una donna morta, là dentro. Devo chiamare la polizia. Qualcuno l'ha uccisa. Le ha quasi staccato la testa dal collo. Archie si sentì raggelare, poi credette di star male, e gli tornò in bocca il sapore del tè e del cioccolato. Il mio cuore, pensò poi. Sono troppo vecchio per questo genere di cose. — Smettetela di scuotere il cancello — disse con un filo di voce. — Su, smettetela. Non posso farvi uscire di lì. — Voglio la polizia — strillò la donna, accasciandosi contro il cancello e scoppiando in singhiozzi. — Posso andare io a telefonare — disse Archie. Attraversata la strada, tornò in casa, lasciando la donna accasciata al suolo con le braccia appoggiate al cancello. Sembrava che qualcuno le avesse sparato mentre tentava di fuggire. 2 Il telefono squillò mentre Wexford parlava con Dora, la moglie. Aveva-
no cenato senza un briciolo d'entusiamo, e la borsa contenente il regalo di Dora giaceva dimenticata su una sedia. Wexford aveva voltato il giornale in modo che non si vedesse la prima pagina, ma poi non aveva resistito alla tentazione, all'ingrata tentazione, di riprendere in mano il giornale. — Guarda però che io lo sapevo, che le cose andavano male, tra lei e Andrew — osservò Dora. — Sapere che il matrimonio della figlia è in crisi, è molto diverso che leggere sul giornale che sta divorziando. — Ho l'impressione che ti preoccupi più per il suo matrimonio che non per il fatto che dovrà subire il processo. Wexford tornò ad abbassare lo sguardo sul giornale. L'articolo a cui si era dato maggior rilievo riguardava i tre uomini che avevano tentato di far saltare in aria l'Ambasciata Israeliana; c'era poi un accenno alla possibilità d'indire elezioni straordinarie. Il resto della pagina parlava di Sheila. C'erano due foto. La prima mostrava una recinzione fatta di rete di ferro, non molto diversa da quella che circondava il centro commerciale da cui era tornato da poco, con la differenza che questa terminava con filo spinato. Nel mondo moderno, rifletté, c'è una grande abbondanza di filo di ferro. La rete che si vedeva in fotografia era stata recisa e allargata per creare un passaggio, oltre il quale s'intravedeva una distesa di terra battuta, e al centro, un edificio simile a un hangar. Nella seconda foto, su uno sfondo scuro, spiccava il bel viso di sua figlia. Dall'espressione gli appariva preoccupata, addirittura sbalordita dal precipitare degli eventi. Dal berretto di lana che aveva in testa sfuggivano sottili ciocche di capelli biondi ricciuti. Il titolo diceva: SHEILA TAGLIA IL FILO, e sotto c'era tutta la storia, con i penosi particolari dell'arresto e della comparizione davanti ai magistrati. Oltre a queste notizie di cronaca sull'attrice protagonista della serie televisiva Il segreto di Lady Audley, era stata pubblicata anche quella del suo imminente divorzio dal marito, l'industriale Andrew Thoverton. — Sarebbe stato più giusto che ne fossi stato informato prima — riprese Wexford. — Del divorzio, intendo. Certo, non è pensabile che mi mettesse al corrente in anticipo della sua intenzione di fare irruzione in una base nucleare. Avremmo tentato di fermarla, naturalmente. — Avremmo tentato anche d'impedirle di divorziare. Fu allora che squillò il telefono. Visto che Sheila era stata rilasciata su cauzione, Wexford pensò che potesse essere lei a chiamare. Gli sembrava già di udire la sua voce, di sentire il suo tentativo di giustificarsi, visto che non capiva, avrebbe detto, come potesse essere trapelata la notizia che in-
tendeva divorziare. Quanto alla faccenda della base nucleare... Ma al telefono non era Sheila. Era invece l'ispettore Michael Burden. — Mike? Il tono era asciutto, quasi brusco, e un po' preoccupato. Ma era tipico di Mike. — C'è una donna morta al parcheggio del centro commerciale, quello sotterraneo. Non l'ho ancora vista, ma sicuramente si tratta di omicidio. — Ci sono stato al centro commerciale — mormorò Wexford, pensieroso. — Ne sono uscito un paio d'ore fa. — Va bene, ma nessuno pensa che sia tu l'assassino. Burden era diventato più acido, dal suo secondo matrimonio. Prima, non si sarebbe mai sognato di uscirsene con una simile trovata. — Arrivo subito. Chi c'è, adesso? — Io, o almeno ci sarò tra cinque minuti, e Archbold. E Prentiss. — Prentiss era l'incaricato sul luogo del delitto, Archbold un giovane agente. — Poi c'è Sumner-Quist. Sir Milary si trova nella sua tenuta. Nel mese di novembre? Be', la gente andava in ferie in qualunque mese dell'anno, ormai. A Wexford non dispiaceva affatto Sir Milary Tremlett, l'eminente patologo che pure a volte dava prova di un pessimo carattere. In compenso, provava meno simpatia per il dottor Basii Sumner-Quist. — Per l'identificazione della vittima, non ci sono problemi — continuò Burden. — Sappiamo già chi è. Il nome è Gwen Robson, ed era nota come "Signora Anni '50". Abitava nella zona di Highlands. A rinvenire il cadavere è stata una certa signora Sanders, che si è rivolta a un tizio della zona perché ci telefonasse. Erano le venti e cinque. — Sarà una faccenda lunga — disse Wexford a Dora. — Tornerò tardi. — Non so se telefonare a Sheila. — Aspetta che ti chiami lei — replicò Wexford, che aveva deciso di fare il duro. Prese la borsa che conteneva il regalo di Dora e la nascose nell'armadio dell'anticamera. Poco male, il suo compleanno era il giorno successivo. L'entrata del parcheggio sotterraneo era bloccata dalle auto della polizia. C'erano luci accese dappertutto. Qualcuno aveva spinto le file dei carrelli in un'altra zona del parcheggio per sgomberare l'area, e i carrelli rimasti intorno facevano pensare a tanti robots che osservassero la scena da una certa distanza. Il cancello attraverso il quale passavano i pedoni provenienti da Pomeroy Street era spalancato. Wexford allontanò alcuni carrelli che gli sbarravano la strada, passò zigzagando tra le auto ferme, aprì la porta che
conduceva all'ascensore e tentò di chiamarlo. L'ascensore non arrivò, e così decise di scendere i due piani a piedi. Le tre auto erano ancora lì, la Metro rossa, la Escort metallizzata e la Lancia blu scuro; ma la Lancia era stata spostata, senza dubbio per consentire al patologo, a Prentiss e al fotografo di esaminare il corpo senza intralci. Dopo un attimo di esitazione, Wexford s'incamminò verso il gruppo radunato intorno alla vittima. Burden si alzò, al suo avvicinarsi. Archbold, che aveva modi più antiquati, lo salutò con un cenno del capo. — Signore — mormorò. Quanto a Sumner-Quist, parve non vederlo neppure. Il fatto che si scansasse leggennente, tanto da permettergli di vedere la faccia e il collo della vittima, doveva essere una semplice coincidenza. Vedendo il corpo, Wexford capì immediatamente che la vittima era morta strangolata: il volto era gonfio, bluastro, sfigurato. Il segno circolare intorno al collo appariva così profondo, da far pensare che l'assassino le avesse tagliato la gola con un coltello. Le luci violente dei riflettori, in quel posto di solito scarsamente illuminato, mettevano in risalto l'orrore della scena, sia per quanto riguardava la vittima, sia per quanto riguardava l'ambiente stesso, con il cemento macchiato e scolorito, le parti in ferro impastate di sporcizia, i rifiuti sparsi in giro. La vittima indossava un cappotto di tweed marrone con il collo di pelo. In testa aveva ancora il cappello a tesa stretta, anch'esso di tweed. Piccola e snella, portava calze di pizzo marrone, e aveva ai piedi un paio di scarpe basse, in tinta con le calze. All'anulare della mano sinitra aveva la fede e l'anello di fidanzamento. — La sua auto era la Escort — l'informò Burden. — Aveva le chiavi in mano, quando è stata uccisa. O almeno sembrerebbe, visto che ora sono sotto il corpo. Nel bagagliaio ci sono due borse della spesa. Deve aver infilato dentro le borse, e dopo aver chiuso il bagagliaio, ha fatto il giro dell'auto per aprire la portiera dalla parte del volante, quando qualcuno l'ha aggredita. — Aggredita con che cosa? — Con un pezzo di corda, forse. Comunque, l'intenzione era di strangolarla. — Le capacità intellettive di Burden, come pure la sua prontezza di riflessi, erano migliorate con il suo secondo matrimonio. Ma era stata la nascita del figlio, a vent'anni di distanza dal primo matrimonio, a indurlo ad abbandonare l'abbigliamento formale di un tempo, per fargli prediligere indumenti più sportivi. Quella sera, per esempio, indossava un paio di jeans. Peccato che avessero le pieghe ben stirate e che li portasse con una
giacca color cammello, un abbinamento che non era dei più felici. — È più probabile che si trattasse di un sottile filo di ferro — commentò Wexford. La sua osservazione produsse un effetto immediato sul dottor SumnerQuist, che si alzò di scatto e rivolse la parola a Wexford con un tono da salotto, come se non si trovassero in un parcheggio, con una donna morta stesa a terra, e fossero invece a un party. — A proposito, quella ragazza della televisione, quella così graziosa, che stasera è su tutti i giornali, non è forse vostra figlia? Wexford provò a immaginare l'effetto che avrebbe fatto a Sheila sentirsi chiamare "ragazza della televisione". Non certo un bell'effetto. Annuì. — Ne ero quasi sicuro, tant'è vero che l'ho detto a mia moglie, per quanto incredibile potesse sembrare. Bene, qui ho fatto tutto ciò che potevo. Se il fotografo ha terminato il suo lavoro, potete anche spostarla, per quanto mi riguarda. Quanto alla storia di vostra figlia, secondo me è un gran peccato che non vadano a tagliare i fili spinati in Russia. Wexford non replicò a quest'osservazione. — Da quanto tempo è morta? — domandò. — Voi volete i miracoli, non vi sembra? Come faccio a sapere da quanto tempo è morta, dopo aver esaminato il cadavere per cinque minuti appena? Comunque, dev'essere passata nel mondo dei più verso le diciotto. Soddisfatto? E pensare che lui si trovava in quel parcheggio pochi minuti dopo... Sollevò la sudicia tenda di velluto marrone ammucchiata a poca distanza dai piedi della donna morta. — E questa cos'è? — Ricopriva il cadavere, signore — gli spiegò Archbold. — Intendi dire che il cadavere ne era avvolto, oppure che era semplicemente coperto? — Spuntava fuori un piede, e la donna che ha trovato il cadavere ha alzato un lembo della coperta per vedere il viso. — Chi è la donna che l'ha trovato? — Una certa signora Dorothy Sanders. Quella è la sua auto, quella rossa. È stata lei a rinvenire il cadavere, ma a chiamarci è stato un certo Greaves, un tale che abita in Pomeroy Street. Davidson sta interrogandolo. Ha trovato la signora Sanders che urlava, scuotendo il cancello come se volesse buttarlo giù. Stava dando i numeri, perché la cabina telefonica era al di là del cancello e lei non poteva uscire. Diana Pettit ha raccolto la sua dichiarazione, e poi l'ha portata a casa.
Tenendo in mano un lembo della coperta, Wexford aprì il bagagliaio della Metro rossa. Dentro, c'erano due borse della spesa della Tesco e una borsa di plastica trasparente che conteneva matasse di lana grigia legate insieme a mo' di pacco. Wexford alzò la testa. Aveva sentito il rumore dell'ascensore. Infatti, qualche istante dopo apparve un tale, che s'incamminò verso di loro con passo incerto e aria diffidente. Quando il suo sguardo incrociò quello di Wexford, il tizio smise di colpo di camminare. Archbold gli andò incontro e gli disse qualcosa. Il nuovo arrivato era un giovanotto pallido, dai lineamenti marcati e i baffi scuri. Il suo abbigliamento, che pure sarebbe stato indicato per un uomo dell'età di Wexford, era assolutamente inadatto a un giovane di ventuno, ventidue anni. Il pullover grigio con lo scollo a V, la cravatta a righe e i pantaloni di flanella grigia ricordavano a Wexford la divisa di qualche scuola. — Sono venuto a ritirare l'auto — annunciò il giovane. — Una di queste auto è vostra? — Quella rossa, la Metro. È di mia madre. Mi ha detto di venire a prenderla. Lanciò uno sguardo furtivo in direzione del cadavere, che ora era interamente ricoperto da un telo. Nessuno stava occupandosene, in quel momento: il patologo, il fotografo e il poliziotto si erano allontanati. A Wexford non sfuggì l'occhiata piena di paura, né la rapidità con cui il giovane aveva distolto lo sgardo. — Posso sapere il vostro nome? — domandò. — Mi chiamo Sanders, Clifford Sanders. — Siete parente della signora Dorothy Sanders? — s'informò Burden. — Sono suo figlio. — Vengo con voi — annunciò Wexford. — Vi seguo con la mia auto. Voglio parlare con vostra madre. — Aspettò che Clifford Sanders si allontanasse quanto bastava perché non udisse le sue parole. — Qual è il parente più prossimo della signora Robson? — domandò a Burden. — Il marito, ma ancora non è stato informato dell'accaduto. Dovrà procedere all'identificazione del cadavere. Volevo appunto andare da lui, adesso. — Sappiamo chi è il proprietario della Lancia blu? Burden scosse la testa. — È piuttosto strana, questa faccenda. Sono solo i clienti a utilizzare il parcheggio. Voglio dire, a chi altri può servire? Il centro commerciale è chiuso da oltre due ore. Ammesso che l'auto appartenga all'assassino, o all'assassina, perché non se l'è portata via? Quando ho visto l'auto, ho pensato che forse non partiva, e invece quando abbiamo
avuto bisogno di spostarla, il motore si è avviato al primo colpo. — Sarà meglio rintracciare il proprietario — suggerì Wexford. — Per la miseria, Mike, e pensare che ero qui, ho visto le tre auto, sono passato a poca distanza dal cadavere... — Avete visto qualcuno? — Non saprei. Dovrei pensarci su. Forse mentre scendeva con l'ascensore, pensò. Gli vennero in mente i passi che aveva udito, la ragazza al volante della Vauxhall rossa che stava dietro la sua auto, la mezza dozzina di persone sparse per il parcheggio di superficie, e la foschia che velava le immagini ma non impediva di vedere. Gli tornò in mente la donna con le due borse della spesa che percorreva la passerella coperta, camminando senza fretta e spingendo via i carrelli che le intralciavano il passaggio. Erano le sei e dieci. A quell'ora, l'omicidio era già stato commesso... S'infilò in macchina al fianco di Archbold. Clifford Sanders, al volante della Metro rossa, aspettava a pochi metri di distanza, mentre un agente in divisa, uno nuovo che Wexford non riconobbe, spostava i carrelli sparsi in giro per permettere alle auto di passare. La piccola auto rossa li precedette lungo High Street in direzione di Stowerton, per poi svoltare in Forby Road. Archbold sembrava conoscere il posto dove abitava Sanders, giù per un vicolo che si trovava a qualche centinaio di metri da una casa con annesso un grande parcheggio, località conosciuta con il nome di Sundays. Avevano percorso meno di cinque chilometri da Kingsmarkham, ma il vicolo era stretto e buio, e Clifford Sanders guidava con una prudenza eccessiva. Il vicolo era delimitato su entrambi i lati da grosse siepi già prive di fogliame. Di tanto in tanto c'era una piccola piazzuola, tanto da assicurare il passaggio se si fosse incrociata un'altra auto. Wexford non ricordava di essere mai stato da quelle parti prima di allora. Un vicolo del genere, pensava, poteva condurre soltanto al cancello di una cascina. Il cielo era scuro, senza luna e senza stelle. Il vicolo sembrava proseguire in una serie d'inutili curve. Non c'erano colline da aggirare, né un fiume da costeggiare. Tutt'intorno, nella campagna circostante, non si vedeva brillare neppure una luce. L'oscurità era assoluta, tranne la zona illuminata dai fari della loro stessa auto, dove spiccavano due punti rossi, i fanali della Metro che li precedeva. Ora Clifford Sanders aveva azionato la freccia di sinistra. Evidentemente era il tipo abituato a segnalare la sua intenzione di svoltare almeno cento metri prima della curva. Trascorsero alcuni secondi. Non si vedevano luci,
davanti, ma solo un'interruzione nella siepe. A quel punto, la Metro voltò a sinistra e Archbold la seguì. A metà tra lo spazientito e il divertito, Wexford pensò che quella poteva essere una scena tratta da un film di Hitchcock, dal momento che c'era in vista una sola casa. Una casa che forse di giorno dava un'impressione diversa, ma vista nell'oscurità, aveva un'aria cupa e misteriosa. Solo due delle finestre erano debolmente illuminate. Non c'erano altre luci accese, né alla porta d'ingresso né nel giardino. A mano a mano che gli occhi di Wexford si furono abituati all'oscurità, poté vedere che la casa era piuttosto grande, disposta su tre piani, con otto finestre che si aprivano sulla facciata anteriore e una piccola porta d'ingresso. Una corta rampa di scale senza ringhiera conduceva alla porta. Non c'era portico, né veranda. La facciata della casa era interamente ricoperta da foglie d'edera. Gli sembrava edera, o comunque una pianta rampicante. Tra le foglie, le due finestre illuminate parevano occhi di un enorme animale. La casa era circondata da un giardino, e il prato punteggiato di arbusti era delimitato da una recinzione di legno. Al di là del giardino, nell'oscurità, si estendevano campi dove crescevano radi alberi, e più oltre, in cima a una bassa collina, si trovava la città invisibile, che avrebbe potuto trovarsi anche a cento chilometri di distanza. Clifford Sanders si avvicinò alla porta. Il campanello era uno di quegli aggeggi antiquati, che si suonano azionando una levetta. Clifford però aveva la chiave. Aprì la porta, ma quando Wexford fece l'atto di seguirlo, lo fermò con la sua voce piatta. — Un attimo solo, per favore. Evidentemente la madre doveva essere avvertita del loro arrivo. Clifford scomparve, e un attimo dopo arrivò la madre. La prima cosa che colpì Wexford fu il suo aspetto: era piccola ed esile e aveva l'aria tremendamente fragile. In un secondo momento, la riconobbe: era la donna che aveva visto entrare nel parcheggio sotterraneo del centro commerciale mentre lui ne usciva. Dunque, solo qualche minuto più tardi doveva avere rinvenuto il cadavere che lui non aveva visto. La donna appariva pallidissima, addirittura tèrrea. Il viso rugoso era velato da una cipria chiara, e le labbra erano coperte da uno strato di rossetto scarlatto, che sarebbe stato più adatto a una donna giovane. Indossava una gonna di tweed marrone e un pullover beige, ai piedi aveva le pantofole. Lo strano odore che emanava era forse da attribuire alla sua recente macabra scoperta? Puzzava di disinfettante come un ospedale. — Potete entrare — disse. — Vi aspettavo. Dentro, la casa era fredda e spoglia. Evidentemente riscaldamento cen-
tralizzato e moquettes erano lussi che la signora Sanders preferiva non concedersi. Il pavimento dell'anticamera era di lastre di marmo del tipo più economico; nel soggiorno c'era un linoleum che imitava il legno e un paio di tappeti striminziti. Non c'erano soprammobili in giro, e neppure quadri, solo un grande specchio in una pesante cornice di mogano. Clifford Sanders aveva preso posto su un vecchio divano sconquassato con l'imbottitura di crine, davanti al camino in cui ardeva il fuoco. Aveva ai piedi soltanto i calzini, grigi; le scarpe erano vicino al camino, su un pezzo di giornale piegato. La signora Sanders indicò ai due poliziotti, glielo indicò letteralmente, allungando il braccio e puntando il dito, dove dovevano sedersi: Wexford in poltrona, Archbold dall'altra parte del divano. A quanto pareva, la signora Sanders sapeva riconoscere il grado e si rendeva conto dei privilegi che spettavano al grado superiore. — Vorrei che mi diceste come sono andate le cose questa sera, al parcheggio del Barringdean Centre — esordì Wexford, distogliendo a fatica lo sguardo dal giornale, su cui spiccava il volto di sua figlia, incorniciato dalle scarpe nere di Clifford Sanders. — Raccontatemi cos'è accaduto, dal momento in cui avete messo piede nel parcheggio. La voce della signora Sanders era bassa e il tono piatto come quello del figlio, ma c'era in più una nota metallica, come se la sua gola e il suo palato fossero fatti di un materiale rigido, inorganico. — Non c'è molto da dire — replicò. — Sono salita con la spesa per prendere l'auto. Ho visto qualcosa per terra e mi sono avvicinata per capire di che cosa si trattasse... Immagino che lo sappiate, di che cosa si trattava. — L'avete toccato? — Ho tirato indietro un lembo del tessuto che lo ricopriva, sì. Clifford Sanders guardava la madre con occhi privi d'espressione, ma non appariva rilassato. Al contrario, sembrava terribilmente depresso, mentre se ne stava immobile, le mani abbandonate tra le gambe divaricate. — Che ore saranno state, signora Sanders? — domandò Wexford, avendo notato l'orologio al quarzo che aveva al polso. — Erano le diciotto e venti esatte. — Per spiegare il fatto di essersi trattenuta fino all'ultimo momento nel supermercato, disse di avere avuto un contrattempo con il pescivendolo. Parlava con un tono pacato, misurato. A Wexford, che stava tentando di capire che cosa gli ricordasse quel tono di voce, vennero in mente le voci elettroniche che uscivano dalle macchine. — Sono arrivata al parcheggio alle sei e venti esatte — proseguì la signora Sanders. — E se per caso vi chiedeste come faccio a esserne tanto sicura,
sappiate che so sempre esattamente che ora è. Wexford fece un cenno affermativo con la testa. Gli orologi al quarzo sono stati creati apposta per persone di quel genere, gente che avverte la necessità di sapere esattamente che ora è, quando la lancetta dei minuti si trova, poniamo, tra le sei e dieci e le sei e un quarto. Per la maggior parte, si tratta di persone che vanno sempre di fretta, persone irrequiete, incapaci di rilassarsi. Questa donna invece sembrava una di quelle rare persone sempre coscienti dell'ora, benché non abbiano la mania di gareggiare contro il tempo. — Hai chiuso a chiave la porta del garage? — domandò la signora Sanders al figlio in tono gentile. Clifford annuì. — Lo faccio sempre. — Nessuno può affermare di fare sempre una determinata cosa. A volte può capitare di dimenticarsi. — Io non mi sono dimenticato — replicò il figlio, alzandosi. — Vado di là a vedere la televisione. La signora Sanders aveva la mania di puntare il dito, era un gesto che ripeteva in continuazione. Ora lo puntò in direzione del camino. — E non dimenticare di portarti via le scarpe — raccomandò al figlio. Clifford se ne andò con le scarpe in mano. Wexford si rivolse a Dorothy Sanders. — Che cos'avete fatto tra le dicio,tto e dodici e le diciotto e quarantacinque, ora in cui siete riuscita ad attirare l'attenzione del signor Greaves? — aveva preso nota mentalmente dell'ora della telefonata al commissariato di Kingsmarkham: mancavano quattordici minuti alle sette, nel momento in cui era arrivata la chiamata. — È trascorsa una mezz'ora, da quando avete rinvenuto il cadavere, fino a quando avete raggiunto il cancello per invocare aiuto. La donna non si scompose. — Era stato un brutto colpo. Ho dovuto cercare di riprendermi, e poi, quando sono arrivata al cancello, nessuno sentiva le mie grida. Wexford ripensò alla storia così come gliel'aveva raccontata Archbold. La donna urlava, scuoteva il cancello "come se volesse buttarlo giù". Dava i numeri, perché la cabina telefonica era dall'altra parte. Ora quella stessa donna se ne stava lì, calma e tranquilla, e guardandola si sarebbe detto che nessuna emozione avrebbe mai potuto turbare il suo equilibrio, né alterare il tono della sua voce metallica. — Quante erano le auto parcheggiate al secondo livello, a quell'ora? — Tre, compresa la mia — rispose la signora Sanders senza un attimo di
esitazione. Diceva la verità. Forse, non aveva mentito affatto. Wexford ricordava perfettamente di avere visto quattro auto, al secondo piano. Una era uscita dal parcheggio qualche istante dopo di lui. Al volante c'era quella ragazza impaziente, che non vedeva l'ora di sorpassarlo. Erano passate le sei da otto o nove minuti, quando aveva lasciato il parcheggio. — Avete visto qualcuno? — Non ho visto anima viva. Doveva essere vedova, si disse Wexford. Prossima all'età della pensione, ma senza un lavoro. E quindi dipendeva dal figlio sotto molti aspetti, sicuramente anche dal punto di vista economico. Quanto al figlio, doveva abitare poco lontano. In seguito, ricordandosi di queste sue considerazioni, pensò che più di così non avrebbe potuto sbagliarsi. Improvvisamente gli arrivò alle narici una zaffata di disinfettante. Fiutò l'aria, cosa che non sfuggì alla signora Sanders. — Dopo che ho toccato quel cadavere — gli spiegò — non ho potuto fare a meno di lavarmi le mani con il disinfettante. — Lo guardava fisso negli occhi, senza battere ciglio. Erano anni che Wexford non sentiva pronunciare la parola "cadavere". Mentre si alzava per andarsene, la signora Sanders si avvicinò alla finestra e tirò le tende. Con quella puzza in giro, sembrava di essere in una sala operatoria. Per poter vedere l'arrivo di Clifford con l'auto, perché doveva essere questo il motivo, la padrona di casa aveva lasciato aperte le tende, che erano di rayon marrone, non di velluto. Wexford rimase a guardarla mentre le chiudeva con uno strattone deciso e l'aria spazientita. Sopra la porta del soggiorno era fissato un bastone d'ottone con gli anelli per appendervi un tendone, ma il tendono non c'era. Dopo un attimo di riflessione, Wexford decise che non era ancora il momento di porre la domanda che gli era venuta alle labbra. Era capitato più di una volta a Michael Burden di dover portare cattive notizie alla gente, compresa quella tragica della morte di un parente stretto, come una moglie o un marito. Lui, che aveva perduto prematuramente la moglie, rifuggiva da un tale odioso compito. Senza contare che c'era una grossa differenza, tra l'annunciare a qualcuno che la moglie, supponiamo, era rimasta uccisa in un incidente d'auto, e il comunicargli invece che era stata assassinata. Nessuno più di Burden era conscio del fatto che, nella maggioranza dei casi, una persona morta assassinata è stata uccisa da un
parente prossimo. Per esempio, è molto probabile che una moglie uccisa sia stata liquidata proprio dal marito. Pochi momenti prima dell'arrivo di Wexford, aveva dato un'occhiata al contenuto della borsetta della vittima. Dopo che erano state scattate le prime foto e che era stato sollevato il tendone di velluto marrone, era stato possibile intravedere la borsetta, seminascosta sotto la coscia della vittima. Poi erano state scattate altre fotografie, Sumner-Quist aveva esaminato il corpo, e finalmente Burden aveva potuto prendere visione del contenuto della borsetta, che aveva preso in mano dopo essersi infilato i guanti. La borsa conteneva la solita serie di documenti: patente, carte di credito, ricevute della tintoria, oltre a due lettere nelle loro buste originali. Grazie a queste buste, Burden seppe il nome e l'indirizzo della vittima prima ancora di aprire gli altri documenti. Nella borsetta c'erano inoltre un libretto degli assegni, il portafogli, un portacipria, un pacchetto di fazzoletti di carta, una penna a sfera e due spille di sicurezza. La vittima era Gwen P. Robson, 23 Hastings Road, Highlands, Kingsmarkham KM102NW. Una busta era indirizzata alla signora G.P. Robson, la seconda al signor R. Robson e signora. Forse la notizia della morte della moglie non sarebbe stata sconvolgente per il signor Robson. Tra i compiti di Burden, rientrava anche quello di constatare se la notizia costituisse o no un trauma per chi la riceveva. Mentre l'auto s'arrampicava su per la salita che conduceva alla casa dei Robson, Burden formulava nella sua mente le parole che avrebbe usato per dare la brutta notizia. Anni addietro; quando Burden era arrivato a Kingsmarkham, la zona di Highlands non era altro che una vasta estensione di campagna, incorniciata da colline arricchite da un'abbondante vegetazione. A quei tempi, dalla sommità di Highlands, di giorno, si poteva vedere Barringdean Ring. Questa era una notte particolarmente buia, in cui solo le luci di qualche casa permettevano d'intravedere la linea dell'orizzonte, e Barringdean Ring, con le sue querce disposte ad anello, era assolutamente invisibile. Nelle immediate vicinanze della strada che Burden stava percorrendo, le case erano abbondantemente illuminate. Era, quella, la strada che Gwen Robson doveva necessariamente seguire, al volante della sua Escort grigio metallizzato, per tornarsene a casa dopo aver percorso Eastbourne Avenue ed avere svoltato a sinistra in Hastings Road. Prima di allora, Burden era stato in quei paraggi una volta sola, benché quei terreni fossero stati lottizzati circa sette anni prima. Da allora, gli alberi che crescevano nei giardini e lungo la strada erano cresciuti, maturati;
le case avevano perduto quell'alone di nuovo e ora non sembravano più casette-giocattolo, impressione che avevano dato all'inizio. Piccole palazzine non più alte di tre piani si alternavano a villette a schiera; di fronte al numero 23 c'era una fila di bungalows costruiti per gli anziani. Come concezione, non erano molto diversi dagli ospizi di un tempo, pensò Burden, la cui presa di coscienza dei problemi sociali risaliva al periodo del suo secondo matrimonio. Vicino alla porta della casa dei Robson c'era un cestello in filo di ferro plastificato rosso per le bottiglie del latte, sormontato da un bambolotto di plastica in giacca bianca con il braccio teso e la mano a pinza per contenere i biglietti delle ordinazioni; sotto il bambolotto si leggeva la scritta: GRAZIE, SIGNOR LATTAIO. Quest'oggetto assurdo ma rivelatore di una certa dose di serenità domestica, fece sì che Burden si sentisse ancora più depresso di prima. Guardò l'agente Davidson, che guardò lui, e suonò il campanello. Venne subito qualcuno ad aprire la porta. Quando una persona è in ansia, si precipita a rispondere al telefono e allo squillo del campanello, ma non è detto che l'ansia sia motivata dalla causa giusta. — Il signor Robson? — Sì. Chi siete? — Siamo della polizia, signor Robson — rispose Burden, mostrandogli la tessera di riconoscimento. Come addolcire la pillola? Come dargli la notizia? Non poteva certo iniziare dicendogli che non era il caso di preoccuparsi troppo. — Temo di avere cattive notizie da darvi. Possiamo entrare? Robson era piuttosto piccolo di statura, con la faccia da gufo e qualche chilo di troppo. Camminava appoggiandosi a un bastone, segno che ne aveva bisogno anche per muoversi in casa. — Si tratta di mia moglie? — domandò. Burden annuì, senza distogliere lo sguardo da lui. — Entriamo in casa — ripeté. Robson li fece entrare, ma si fermò dopo pochi passi. — Ha avuto un incidente? Un incidente d'auto? — incalzò. — No, signor Robson, non è stato un incidente. — Il brutto era che forse era solo finzione, forse Robson stava solo recitando la parte del marito preoccupato, una parte che magari provava da un po', in attesa dell'arrivo della polizia. — Forse sarà meglio entrare in... — È... Se n'è andata? Il solito vecchio eufemismo. Burden se ne servì a sua volta nella risposta. — Sì, se n'è andata. È morta, signor Robson.
Burden si voltò, s'incamminò verso il soggiorno, un ambiente caldo e bene illuminato, arredato con troppi mobili ammassati. C'era il televisore acceso, ma ciò che tradiva maggiormente lo stato di tensione nervosa in cui doveva essersi trovato Robson fino a poco prima, erano le carte da gioco disposte per un solitario sul tavolino davanti alla poltrona. Il sedile della poltrona e i cuscini di seta rosa recavano ancora l'impronta di qualcuno che vi si era seduto di recente. Solo un assassino che fosse anche un genio avrebbe potuto escogitare una simile messinscena, pensò Burden. Robson era diventato pallidissimo. Gli tremavano le labbra. Non si era seduto, ma se ne stava completamente appoggiato al bastone con tutto il peso del corpo. Scuoteva la testa, quasi incredulo. — Morta? Gwen? — Sedetevi, signor Robson. Cercate di stare calmo. — Volete bere? — gli domandò l'agente Davidson. — Non beviamo alcolici, in questa casa. — Alludevo all'acqua. — Davidson uscì dal soggiorno e tornò con un bicchiere d'acqua. — Ditemi com'è accaduto. — Ora Robson si era seduto, ma non guardava Burden, fissava le carte da gioco. Bevve distrattamente un sorso d'acqua. — Dovete prepararvi mentalmente a un brutto colpo, signor Robson. — Il brutto colpo l'ho già avuto. — Sì, lo so. — Burden spostò lo sguardo e vide sulla mensola del camino la foto incorniciata di una bella ragazza, un tipo sul genere di Sheila Wexford. Forse la figlia dei Robson? — vostra moglie è stata uccisa, signor Robson. Purtroppo non c'è altro modo per dirvelo. È stata assassinata, e il suo corpo è stato trovato nel parcheggio del Barringdean Centre. Burden non si sarebbe meravigliato, se Robson avesse gridato, se si fosse messo a piangere. Ma Robson non gridò e non pianse. Si limitò a fissare Burden, come impietrito. Passò un po' di tempo, forse un minuto. Robson si passò la lingua sulle labbra e prese a parlare. — Ci siamo sposati giovani — mormorò. — Quarant'anni fa. Niente figli. Non abbiamo mai avuto soldi, né figli, e questo ci ha fatto sentire più vicini. Lei è stata la moglie più devota che un uomo possa desiderare, avrebbe fatto qualsiasi cosa per me, avrebbe dato la vita per amore mio. — Ora grosse lacrime gli sgorgavano dagli occhi, gli colavano giù per le guance. Piangeva senza nascondersi il viso, seduto eretto, tenendo il bastone con tutt'e due le mani. Senza ritegno, come piangono i bambini.
3 — È morta per garrottamento. Il tono di Sumner-Quist suonava piacevolmente eccitato, come se avesse telefonato per divertirsi a spettegolare un po' su un conoscente comune. — Mi avete sentito? Ho detto che è morta garrottata. — Sì, ho sentito — rispose Wexford. — Siete stato gentile a farmelo sapere. — Ho pensato che avreste gradito una notizia come questa in anteprima, in attesa del mio rapporto completo. Strane, le idee che si fa la gente sui gusti del prossimo, pensò Wexford, sforzandosi contemporaneamente di ricordare tutto ciò che sapeva sulla garrotta. — Garrottata con che cosa? — domandò. — Con una garrotta — rispose Sumner-Quist, allegramente. — Di quale tipo, non saprei dire. Fatta in casa, probabilmente. È un problema di vostra competenza. — Tra una risatina e l'altra, l'informò che la signora Robson era morta tra le diciassette e trenta e le diciotto, senza subire violenza carnale. — Garrottata e basta. — La garrotta era uno strumento usato per l'esecuzione della condanna capitale — disse Wexford a Burden, quando questi arrivò in ufficio. — Consisteva in un collare di ferro agganciato a un palo, e in questo collare s'infilava il collo del condannato. In che modo si riuscisse a infilare il collo del poveretto nel collare, è un particolare su cui è meglio non soffermarsi. Comunque, questo collare veniva stretto fino a provocare la morte per asfissia. Lo sapevi che questo tipo di pena capitale è rimasto in vigore in Spagna fino agli anni '60? — E noi credevamo che al massimo si divertissero con le corride. — C'è poi un altro aggeggio più primitivo che consisteva in un filo con due maniglie di legno. Burden si era seduto sull'orlo della scrivania di Wexford. — Mi sembra di avere letto da qualche parte che, se uno era condannato al rogo dall'Inquisizione, poteva ottenere dal boia, in cambio di una certa somma di denaro, il favore di essere ucciso prima con la garrotta. — Dev'essere di quel periodo, l'invenzione del filo con le due maniglie di legno. Chissà perché, proprio in quel momento a Wexford venne fatto di chiedersi se i jeans di Burden fossero "firmati". Piuttosto stretti alle caviglie, erano portati con calze della stessa tinta. — E secondo Sumner-Quist —
domandò Burden, inconsapevole di essere oggetto di tanta osservazione da parte di Wexford — Gwen Robson sarebbe stata uccisa in questo modo? — Con una garrotta, dice lui, o qualcosa del genere. Un'arma che l'assassino doveva avere con sé, fatto piuttosto strano, a pensarci bene, Mike, perché significa che ci troviamo di fronte a un omicidio premeditato, mentre la situazione era tale che non si poteva prevedere come sarebbero andate le cose. Il parcheggio poteva essere pieno di gente, per esempio. A meno che il nostro uomo abbia l'abitudine di portare sempre con sé una garrotta, così come io mi porto sempre una penna... Comunque, per il momento dobbiamo fermarci qui, finché non arriverà il rapporto completo. Intanto, che cosa sappiamo sul conto di Gwen Robson? La vittima, cinquantott'anni, senza figli, aveva lavorato presso il centro sociale di Kingsmarkham e poi era andata in pensione. Suo marito, Ralph Robson, aveva lavorato presso lo stesso centro sociale ed era in pensione da due anni. La signora Robson si era sposata a diciott'anni. All'inizio, lei e il marito aveva vissuto a Stowerton con i genitori di lui; in seguito, avevano preso in affitto un appartamento e poi una villetta. Successivamente, si erano messi in lista d'attesa per comperarsi la casa, cosa che avevano fatto non appena erano state costruite le prime case di Highlands. Nessuno dei due aveva raggiunto l'età per riscuotere la pensione dallo stato, ma Robson aveva diritto a una pensione che gli veniva corrisposta dal comune, e che permetteva alla coppia di vivere decorosamente. Possedevano una Escort che avevano acquistato due anni prima, e ogni anno andavano in vacanza in Spagna. Avevano trascorso l'ultima estate a casa, a causa della grave artrite che affliggeva Ralph Robson, provocandogli guai all'anca destra. Queste informazioni le aveva fornite lo stesso Ralph Robson e la nipote Lesley Arbel, l'originale della foto che Burden aveva visto sulla mensola del camino di casa Robson. — Questa nipote vive con loro? — No, a Londra — rispose Burden. — Ma era spesso ospite da loro. Mi pare di capire che fosse quasi come una figlia, piena di premure più di una figlia vera. O almeno, così sembrerebbe. Anche ora è ospite di Robson. È arrivata subito, non appena ha saputo della zia. Ralph Robson aveva dichiarato che la moglie aveva l'abitudine di andare a fare la spesa ogni giovedì pomeriggio. Fino a sei mesi prima, il marito l'aveva sempre accompagnata, ma poi l'artrite gliel'aveva impedito. Il giovedì precedente, cioè due giorni prima, la moglie era uscita con l'auto poco prima delle quattro e mezzo. Da quel momento, non l'aveva più vista. Tra
le sedici e trenta e le diciannove, era rimasto in casa, e aveva trascorso il pomeriggio guardando la televisione e preparandosi il tè. Più o meno come Archie Greaves, che aveva interrogato quel mattino, si disse Wexford. Il vecchietto poteva essere definito il testimone ideale di un poliziotto. L'ambiente ristretto in cui si muoveva e la sua mancanza d'interessi facevano di lui una specie di telecamera con registratore incorporato, a cui non sfuggiva nessun incidente che si verificasse nei paraggi. Purtroppo, però, non c'era stato granché da vedere: solo l'esodo dei clienti del centro commerciale, le luci che si spegnevano, e Sedgeman che chiudeva il cancello. — Poi ho visto un ragazzo che correva — disse Archie a Wexford. — Erano passate le sei, da uno o due minuti. C'era molta gente che usciva, soprattutto donne con le borse della spesa, e il ragazzo è spuntato fuori da dietro l'angolo di quel muro. Wexford seguì il suo sguardo, oltre i vetri della finestra. Il muro in questione era quello laterale del parcheggio sotterraneo; al di là del muro c'era l'entrata, intorno alla quale si era formato un capannello di curiosi. Non c'era niente da vedere, ma la gente aspettava ugualmente, fiduciosa. Il cancello era aperto. Sull'asfalto, un sacchetto della spesa vuoto svolazzava qua e là. Le bandiere in cima alle torrette sventolavano. E pensare che ero proprio qui, si disse Wexford con rammarico, sono uscito alle sei e dieci e non ho visto niente, ho visto soltanto quella tizia, Dorothy Sanders. — Ho pensato che fosse nei guai — continuò Archie Greaves. — Forse aveva fatto qualcosa che non doveva, si era fatto beccare e ora lo stavano inseguendo. — L'uomo era così vecchio, che la pelle del viso e quella delle mani era completamente punteggiata dalle macchie marroni che indicavano un cattivo fuzionamento del fegato, macchie che generalmente sono definite "marchi della morte". Magrissimo a causa dell'età, indossava pantaloni di flanella e un pullover confezionato a mano che non bastavano a mascherarne la magrezza. Ma gli occhi azzurro chiaro, cerchiati di rosa, vedevano altrettanto bene di quelli di una persona che avesse la metà dei suoi anni. — Era giovane, proprio un ragazzo, Aveva in testa un berretto di lana, addosso un giubbotto con la cerniera, e correva all'impazzata. — Ma nessuno lo stava inseguendo? — No, a quello che ho potuto vedere. Forse si sono stancati di rincorrerlo, dato che correva così forte, e hanno rinunciato. Infine, Archie Greaves aveva visto Dorothy Sanders, e l'aveva rivista ancora quando si era messa a scuotere il cancello, dapprima con rabbia
contenuta, poi in un'esplosione di collera e di terrore che l'aveva indotta a gridare forte, tanto che Greaves si era spaventato e aveva temuto per il suo vecchio cuore. Al commissariato di polizia di Kingsmarkham, il giovedì sera, era stato predisposto un ufficio, dove sarebbero confluite tutte le telefonate di chi si era trovato nel parcheggio del Barringdean Shopping Centre tra le diciassette e le diciotto e trenta. La rete televisiva locale aveva trasmesso subito un appello, in cui si chiedeva agli eventuali testimoni di farsi avanti; in seguito, Wexford aveva ottenuto che si trasmettesse un altro appello sulla rete nazionale, che sarebbe andato in onda durante il telegiornale delle ventidue. Le telefonate erano iniziate subito, prima ancora che sparisse dallo schermo il numero telefonico da comporre, gli aveva comunicato il sergente Martin; queste chiamate, però, per la maggior parte erano fuorvianti, benché chi telefonava fosse in buona fede, e lo erano a maggior ragione quando a chiamare era qualcuno che aveva tempo da perdere e poco sale nella zucca. Arrivò anche la telefonata di una giovane donna, una certa Sarah Cussons, proprietaria della Vauxhall Cavalier che aveva seguito Wexford fuori dal parcheggio. Si fece vivo anche il tizio che aveva l'auto parcheggiata accanto a quella di Gwen Robson. Quest'ultimo aveva visto entrare la vittima, al volante della sua Metro rossa, e fu in grado di precisare l'ora, venti minuti alle cinque. Per tutta la notte di giovedì continuarono a piovere le telefonate, anche da parte di chi aveva parcheggiato l'auto negli altri piani e non aveva notato nulla d'insolito. Furono interrogati tutti ugualmente. Il venerdì mattina presto arrivò la telefonata del proprietario della Lancia blu. La signora Helen Brook, incinta di nove mesi, aveva avuto le doglie mentre si trovava nel negozio di cibi dietetici del centro commerciale, verso le cinque del giorno precedente. Era stata chiamata un'autoambulanza, che l'aveva trasportata al reparto maternità dello Stowerton Royal Infirmary. Nessuno, tra quanti avevano telefonato in buona fede, aveva fornito descrizioni di persone incontrate nel parcheggio; al contrario, gli svitati che avevano chiamato soltanto per burlarsi della polizia, si erano inventati i personaggi più inverosimili. Telefonarono anche due commesse del Barringdean Centre, entrambe per dire che avevano servito Gwen Robson, un poco prima delle diciassette, e l'altra, Linda Naseem, che lavorava nel supermercato Tesco, una mezz'ora più tardi. Intanto due degli uomini di Wexford erano andati al centro commerciale per interrogare i dipendenti, e
Archbold aveva parlato con il commesso della pescheria, il quale aveva confermato di avere avuto una discussione con una donna che corrispondeva alla descrizione di Dorothy Sanders, intorno alle diciotto, cioè poco prima di chiudere il negozio. Tutto questo servì solo a confermare l'ora in cui la signora Sanders aveva raggiunto il parcheggio, particolare che sarebbe stato in grado di confermare lo stesso Wexford. La stessa mattina, Ralph Robson procedette all'identificazione formale del corpo della moglie, a cui qualcuno aveva pietosamente coperto il collo. Robson venne avanti, appoggiato al suo bastone, guardò un istante il volto sfigurato dal terrore, ora un po' meno bluastro di come l'aveva visto Wexford, fece un cenno affermativo con la testa. — Sì — mormorò, stavolta senza piangere. In quell'occasione, Wexford non l'aveva visto. Anzi, non l'aveva ancora mai visto. Aveva interrogato invece David Sedgeman, il custode del parcheggio, che avrebbe dovuto rivelarsi un testimone interessante, mentre in realtà non aveva visto né notato niente d'insolito. Ricordava di avere salutato Archie Greaves, perché era un gesto che ripeteva ogni sera, e per la stessa ragione ricordava di avere chiuso il cancello. Nella sua memoria però non c'era traccia di una donna dall'aria preoccupata, né di un ragazzo che correva a gambe levate, e neppure di un'auto che uscisse precipitosamente dal parcheggio. Tutto era andato esattamente come al solito, dichiarò con il suo tono piatto e monotono. Aveva chiuso il cancello e se n'era andato a casa come sempre, al volante della sua auto che aveva prelevato, come ogni giorno, dal parcheggio di superficie. L'aria di novembre era fredda, il cielo una cappa di piombo. Sospeso sopra i tetti c'era un sole rossastro; non era molto alto, e più di tanto non sarebbe salito. Burden indossava un giaccone imbottito grigio chiaro. Gli teneva caldo, e lo faceva sembrare robusto, cosa che in effetti non era. La moglie era via, stava con sua madre, convalescente in seguito a un intervento chirurgico. La sua assenza infastidiva Burden, lo rendeva nervoso e insicuro. Avrebbe trascorso la serata con lei e con il bambino, a casa della suocera, appena fuori Myringham, ma avrebbe preferito che la moglie e il figlio potessero tornare a casa con lui. Assunse un'aria irritata e anche un po' cinica, quando Wexford parlò. — Secondo te — disse Wexford, mentre si trovavano in macchina — Ralph Robson è il tipo che sarebbe capace di mettersi tranquillamente seduto a preparare una specie di garrotta, di cui intende servirsi per assassinare la moglie? — Be', visto che me lo chiedi, ti dirò che non so proprio che tipo possa
essere, un individuo del genere. Tieni presente che non aveva l'auto, perché l'aveva presa la moglie, e il centro commerciale dista un chilometro e mezzo da Highlands... — Sì, lo so. La sua artrite è reale o simulata? — Anche se fosse simulata, resta il fatto che lui non aveva l'auto. Certo, avrebbe potuto andare a piedi, oppure prendere l'autobus. Ma se intendeva uccidere la moglie, perché non l'ha fatto a casa, come succede nella maggior parte dei casi? Wexford non poté fare a meno di ridere di questa spensierata accettazione dell'omicidio commesso tra le pareti domestiche. — Può anche darsi che l'abbia fatto, ancora non lo sappiamo. Non sappiamo se è stata uccisa nel parcheggio, oppure se il suo corpo vi è stato portato in seguito. Non sappiamo neppure se al parcheggio è arrrivata al volante della sua auto. — Intendi dire che forse la guidava il marito? — Lo appureremo — rispose Wexford. Erano arrivati a Highlands. Fu Lesley Arbel ad aprire la porta d'ingresso. A Wexford, il suo aspetto non ricordò quello della figlia, lui non trovò nessuna somiglianza con Sheila. Vide semplicemente una bella ragazza, di cui saltava all'occhio l'eleganza, un'eleganza eccessiva, per un fine settimana da trascorrere in campagna, per il funerale di una zia morta di recente. La ragazza, dopo essersi presentata, gli spiegò di non avere rispettato gli accordi presi con gli zii, e di essere venuta in anticipo, cioè il venerdì mattina. — Mio zio è di sopra — riferì. — Sta riposando. È venuto il medico, e gli ha raccomandato di riposarsi il più possibile. — Non ha importanza, signorina Arbel. Vorremmo parlare anche con voi. — Con me? Ma io non so niente di quanto è accaduto. Io mi trovavo a Londra. — Però conoscevate vostra zia. Potete dirci che tipo di donna era, meglio di quanto non possa fare vostro zio. — Dunque, per essere precisi il mio vero zio è lui — replicò Lesley. — Cioè, mia madre era sua sorella. Lei era mia zia perché l'aveva sposato. Wexford annuì, spazientito, poi si disse che era meglio andarci piano, prima di decidere che un testimone è irrimediabilmente stupido. La ragazza li pilotò nel soggiorno dei Robson, dove Wexford rimase colpito dall'abbondanza dei disegni floreali: fiori sulla moquette, fiori un po' più sti-
lizzati sulle tende, alberi e frutti sulla tappezzeria, e davanti al camino un piccolo tappeto con la riproduzione di un sole arancione. Nel camino, le fiamme di un fuoco alimentato a gas lambivano carboni indistruttibili. Lesley si sedette con le spalle al camino. Dalla mensola, il suo ritratto sorridente la fissava, in una cornice d'argento. La prima domanda di Wexford destò la sua meraviglia. — Queste tende sono nuove? — Come avete detto? — Ciò che voglio sapere è se prima c'erano altri tendoni, a queste finestre. — Sì, mi pare che prima zia Gwen avesse dei tendoni rossi. Perché mi fate questa domanda? Wexford non rispose. Rimase a guardarla, mentre Burden la interrogava a proposito della telefonata che aveva ricevuto dallo zio, il giovedì sera. Gli abiti che portava la ragazza erano splendidi, evocavano l'eleganza irreale delle attrici brillanti di Hollywood negli anni '30, non sembravano affatto indumenti che si potessero indossare nella vita di tutti i giorni. File di catene d'oro, che avevano l'aria di pesare parecchio, tanto da essere addirittura scomode da portare al collo, adornavano la camicetta di seta color panna, tra i risvolti della giacca di seta marrone chiaro. Le unghie erano coperte da uno smalto di un rosso acceso. Lesley ne usò una per grattarsi delicatamente una guancia, mentre rispondeva alle domande di Burden. — Era vostra intenzione arrivare qui dagli zii il sabato, come facevate di solito? La ragazza annuì. — Ma giovedì sera, vi ha telefonato vostro zio per mettervi al corrente dell'accaduto? — Sì, mi ha chiamato giovedì sera. Volevo venire subito, ma lui mi ha dissuasa. C'era con lui una vicina di casa, una certa signora Whitton, e perciò mi sono un po' tranquillizzata, pensando che almeno non era solo. — Spostò lo sguardo su Wexford, poi tornò a guardare Burden. — Se non sbaglio, desideravate che vi parlassi di zia Gwen. — Tra qualche istante, signorina Arbel — replicò Burden. — Vi dispiacerebbe dirmi dov'eravate, giovedì pomeriggio? — Perché volete saperlo? — non era soltanto stupita, ma addirittura offesa, come se si sentisse insultata dalla domanda dell'ispettore. Accavallò le gambe lunghe ed eleganti. Ai piedi aveva scarpe beige dal tacco altissimo. — Perché me lo domandate? — tornò a ripetere. Chissà, forse il suo
era davvero innocente stupore. — È la prassi, signorina Arbel — rispose Burden. — Nel corso di un'inchiesta su un omicidio, è necessario sapere dove si trovavano il giorno del delitto le persone che interroghiamo. — Tentò di andarle nn aiuto. — Forse eravate al lavoro, non è così? — Giovedì sono tornata a casa presto. Non mi sentivo bene. Non volete sapere di zia Gwen? — Tra qualche istante. Dunque, siete tornata a casa presto perché non stavate bene. Avevate il raffreddore? La ragazza guardò Burden con aria perplessa. — Avevo il mio solito disturbo mensile — disse. — Ecco perché non mi sentivo bene. A questo punto, la porta si aprì ed entrò Ralph Robson, appoggiato al suo bastone. Era in vestaglia, ma sotto aveva la camicia e i pantaloni. — Ho sentito delle voci — spiegò, fissando Wexford con evidente perplessità. — Ispettore-capo Wexford, del Criminal Investigation Department di Kingsmarkham. — Felice di conoscervi — lo salutò Robson, che in realtà pareva tutt'altro che felice. — La vostra presenza qui mi fa risparmiare una telefonata. Forse qualcuno di voi mi sa dire che fine ha fatto la spesa? — Quale spesa, signor Robson? — La spesa che ha fatto Gwen giovedì. Dovrebbe essere nel bagagliaio. Mi rendo conto del fatto che non mi sarà possibile riavere l'auto ancora per qualche tempo, ma la spesa è tutt'altra cosa. C'è della carne in quelle borse, pane e burro e non so che altro ancora. Non dico di essere povero, ma non sono neanche tanto ricco da potermi permettere che si guasti la roba da mangiare. L'istinto dell'autoconservazione, il desiderio di continuare a vivere aveva sempre la meglio sul dolore per la perdita di una persona cara. Wexford lo sapeva bene, ma ciononostante ogni volta lo constatava con un certo stupore. Poteva darsi che quell'uomo non fosse addolorato, o addirittura che fosse lui l'assassino, ma poteva anche darsi che avesse cessato di provare emozioni per le cose e per le persone. A volte succede, alle persone di una certa età, e Wexford l'aveva notato con rammarico. D'altra parte, Burden gli aveva detto che Robson si era messo a piangere, quando l'aveva informato della morte della moglie. — Vi restituiremo la spesa più tardi, nel pomeriggio — gli assicurò We-
xford. Aveva ispezionato personalmente il contenuto delle borse, e aveva fatto mettere in uno dei frigoriferi della polizia gli alimenti deperibili. Non aveva trovato niente di particolarmente interessante, in quelle borse: oltre al cibo, dentifricio e borotalco; c'erano poi quattro lampadine acquistate ai British Home Stores, in una busta di carta con la scritta BHS. Probabilmente Gwen Robson aveva comperato le lampadine prima di fare la spesa. La borsetta della vittima, che sarebbe stata restituita presto al marito, e alla quale Burden aveva dato un'occhiata mentre si trovava giù al parcheggio, conteneva il portafogli con ventidue sterline, qualche spicciolo e un libretto d'assegni della Trustee Savings Bank. Le carte di credito erano due: una Visa, l'altra quella fornita ai clienti dallo stesso Barringdean Shopping Centre. Dei tre fazzoletti, uno normale e due di carta, nessuno era stato usato. Le lettere da cui la polizia aveva ricavato nome e indirizzo della vittima, le erano state spedite dalla sorella, da Leeds. L'altra busta conteneva un invito a una sfilata di moda che si sarebbe tenuta poco prima di Natale nel negozio dove Wexford aveva acquistato il pullover per la moglie. — Per caso, vi manca una tenda di velluto marrone, signor Robson? — A me? No. Che intendete dire? — Una tenda che avrebbe potuto trovarsi nel bagagliaio dell'auto, e che sarebbe potuta servire, per esempio, a riparare il parabrezza dal gelo? — Uso fogli di giornale, per il parabrezza. — Hai voglia di mangiare qualcosa, zio? — domandò Lesley Arbel di punto in bianco. — Magari qualcosa di leggero? Ralph Robson si era seduto e ora, chino sulla poltrona, si premeva una mano sulla coscia, i lineamenti alterati da una smorfia di dolore che non sembrava simulata. — Non ho voglia di niente, cara. — Ma adesso non prendi più quelle pillole che ti facevano venire il mal di pancia, vero? — Il medico mi ha fatto smettere la cura. Alcuni non la sopportano, ha detto. In certi casi, fa venire l'ulcera. — Voi soffrite d'artrite, vero, signor Robson? Annuì. — Se ascoltate bene, potete sentire il rumore dell'osso dell'anca. — In effetti, stando bene attento, Wexford percepì il rumore dell'osso che si muoveva nella sua sede, mentre Robson faceva una smorfia di dolore. Il suono era impressionante. — Per mia sfortuna, sono allergico agli antidolorifici — riprese Robson. — Mi tocca stringere i denti e sopportare il
male. Mi sono messo in lista d'attesa per un trapianto, ma ci sarà da aspettare qualcosa come tre anni. Dio solo sa in quale stato sarò, fra tre anni. Certo, sarebbe ben diverso se potessi farmi operare privatamente. Non era una novità per Wexford, che quel genere di trapianto poteva essere effettuato praticamente subito, se il paziente era disposto a pagarsi l'intervento, ma che attraverso la mutua i tempi diventavano molto più lunghi. L'ingiustizia della cosa era evidente, ma al momento a lui interessava concentrare la sua attenzione sulla veridicità dello stato d'inabilità di Robson. Spostò lo sguardo sulla nipote, che lo ricambiò con un'occhiata indecifrabile. — Dove lavorate, signorina Arbel? — Nel giornale Kim. — Potete darmi l'indirizzo? E anche quello della vostra abitazione londinese? Vivete sola, o dividete l'appartamento con qualcuno? — Abito con altre due ragazze. — Il tono di voce era petulante, mentre comunicava l'indirizzo. — L'ufficio di Kim è: Orangetree House, Waterloo Road. Wexford aveva avuto occasione di dare un'occhiata al giornale in questione: una volta la moglie l'aveva comperato, intendendo acquistare per corrispondenza un articolo pubblicizzato nelle sue pagine. Si trattava di una rivista con uscita settimanale, dedicata a lettori non più giovanissimi. Nel numero che Wexford aveva avuto per le mani, comparivano articoli che lui giudicava noiosi, ma che la rivista stessa definiva interessanti e d'attualità. Un titolo era: È LECITO ESSERE LESBICHE? Un altro diceva: VOSTRA FIGLIA È DAVVERO VOSTRA? — Ti andrebbe di mangiare un uovo strapazzato, zio, e un po' di pane e burro? Robson diede un'alzata di spalle, poi fece un cenno affermativo con la testa. Burden prese a interrogarlo sul conto della signora Whitton, la vicina di casa che era andata a fargli compagnia prima dell'arrivo di Lesley Arbel. In seguito, gli domandò se avesse visto o parlato al telefono con qualcuno, mentre la moglie era fuori a fare la spesa. Lesley si alzò. — Se volete scusarmi un momento... Mentre Robson parlava con Burden dei vicini di Hastings Road, strascicando le parole e precisando in continuazione che Gwen li conosceva tutti molto meglio di lui, Wexford uscì dal soggiorno. Trovò Lesley Arbel davanti alla cucina a gas. Si era messa un asciugapiatti a mo' di grembiule intorno alla vita, per evitare di sporcarsi la gonna di seta marrone. Vicino a
lei c'era una ciotola con dentro due uova, e accanto un frullatore, ma invece di preparare il pranzo allo zio, stava rimirandosi nello specchietto da borsetta e passandosi un pennello sul viso. Quando si accorse di Wexford, si affrettò a riporre in borsetta lo specchietto e il pennello, come se con quel gesto potesse fargli dimenticare ciò che stava facendo prima. Ruppe le uova, in modo piuttosto maldestro, facendo cadere nella ciotola un pezzetto di guscio, che recuperò con l'unghia. — Per quale ragione qualcuno poteva desiderare la morte di vostra zia, signorina Arbel? Non gli rispose subito. Aprì un armadietto, prese un piatto e un'oliera e li posò sul vassoio che aveva precedentemente ricoperto con un tovagliolo. Quando parlò, il tono era nervoso, irritato. — Dev'essere stato un folle, non credete? Al giorno d'oggi, si uccide il prossimo senza un motivo. E infatti, se leggiamo le dichiarazioni degli assassini pubblicate dai giornali, sono sempre su questo tono: "Non so perché l'ho fatto, ho dimenticato il motivo che mi ha spinto, ho una specie di vuoto nella memoria..." L'assassino di mia zia dev'essere quel genere di persona. Voglio dire, nessuno aveva un motivo per ucciderla. Nessuno. — Gli voltò le spalle, si mise a sbattere le uova. — Le volevano bene tutti? — domandò Wexford. — Non aveva nemici? Con una mano, Lesley teneva la padella, in cui friggeva un po' troppo vivacemente il burro; nell'altra mano aveva la ciotola delle uova sbattute. Rimase un istante così, senza decidersi a versare le uova nella padella. — Mi viene da ridere, a sentirvi dire queste cose. O almeno mi verrebbe da ridere, se non ci fosse di mezzo questa disgrazia. Mia zia era una donna meravigliosa, non lo sapete? Nessuno ve l'ha detto? Guardate zio Ralph. Ha il cuore a pezzi. L'adorava, e la zia adorava lui. Erano una magnifica coppia. Lo sono sempre stati, fino al momento della disgrazia. Questa storia lo porterà alla tomba, vedrete se non è vero. Sarà la sua fine. È invecchiato di vent'anni, in un giorno solo. La ragazza si voltò, travasò le uova nella padella e mescolò con la forchetta. Wexford aveva l'impressione che, per quanto sincere potessero apparire le sue parole, stesse comunque tentando d'impressionarlo favorevolmente, dimostrandosi matura ed efficiente. Le andò male, perché quando le uova furono cotte, si accorse di essersi dimenticata di preparare il pane imburrato. Piuttosto imbarazzata, tagliò fette mastodontiche di pane, su cui spalmò schegge di burro appena tolto dal frigorifero. Wexford le aprì la
porta per facilitarle il ritorno nel soggiorno con il vassoio. Provava quasi compassione per lei, e non ne capiva il motivo. Il grembiule improvvisato si sfilò e cadde per terra, mentre Lesley attraversava il soggiorno con passo stentato a causa dei tacchi vertiginosi. Ma nonostante tutto, quando poco prima la ragazza era passata davanti allo specchio del corridoio, non era riuscita a resistere alla tentazione di rimirarsi un istante. Impedita com'era dai tacchi alti, paonazza in viso, il vassoio in mano, aveva approfittato ugualmente dell'occasione per dare un'occhiata alla sua immagine riflessa dallo specchio... Robson, che si era messo comodo in poltrona, si era appisolato e dovette essere svegliato. La nipote gli piazzò un cuscino dietro la schiena, gli posò il vassoio in grembo. — Mi ha domandato se zia Gwen aveva nemici! — esclamò, rivolta a Robson, il tono risentito. — Figurarsi! Robson alzò la testa, guardò la nipote con occhi inespressivi. E, incredibile, venne la risposta: — Sta solo facendo il suo dovere, cara. — Zia Gwen — tornò a ripetere la ragazza in tono sentimentale. — Lei, che era come una madre per me. — A un tratto, il tono di voce cambiò, si fece più deciso. — Non che fosse una donna priva di carattere. Aveva i suoi principi, e voleva che fossero rispettati, non è vero, zio? Non aveva mai paura di dire la sua opinione. Per esempio, non approvava quei vicini di casa, quella coppia non sposata di cui mi sfugge il nome, che ha un laboratorio in casa. Io le dicevo che i tempi erano cambiati, da quando si era sposata lei, ma la zia mi rispondeva che certi principi non tramontano mai. Ormai ci sono tantissime coppie che convivono senza sposarsi, le ripetevo, ma era una cosa che lei non poteva accettare, vero, zio? La fissavano tutti, Robson compreso. Lesley si rese conto di essersi accalorata troppo, considerato che le era appena morta una persona cara, e arrossì. Tutto sommato, non era così affezionata alla zia come voleva dare a intendere, pensò Burden. — Ora vorremmo dare un'occhiata alla casa — disse. — Se non avete niente in contrario. Lesley avrebbe voluto protestare, ma lo zio, che non aveva mangiato quasi niente, respinse il piatto, annuì e alzò una mano, in un gesto che esprimeva il suo consenso. Fosse stato per Wexford, non si sarebbe curato della casa, convinto com'era di non trovarvi niente d'interessante che potesse illuminarli sulla vita o sulla morte della signora Robson. Cominciava a pensarla come Lesley Arbel, secondo la quale Gwen Robson aveva perduto la vita soltanto perché si trovava nel parcheggio a quell'ora, era una donna e perciò più fragile è indifesa. Comunque, andò con gli altri nella
camera da letto che aveva diviso con il marito, e vide intorno a sé chiari segni di armonia coniugale. Il letto era in disordine. D'impulso, senza una ragione particolare, Wexford alzò l'angolo di uno dei due cuscini, e vi trovò sotto la camicia da notte di Gwen Robson, piegata con cura, esattamente come lei doveva averla sistemata il giovedì mattina, nel rifare il letto. Una foto la ritraeva com'era stata un tempo, con i capelli folti e scuri, le labbra atteggiate al sorriso, un po' più in carne di come l'aveva vista lui. Era seduta, e il marito fissava un punto al di sopra della sua spalla, forse per dare l'impressione di essere più alto e imponente di quanto non fosse in realtà. Sul comodino di Gwen Robson c'erano due romanzi di Catherine Cookson; sul comodino del marito, l'ultimo uscito di Robert Ludlum. Sul tavolo da toeletta, una boccetta di Chique della Yardley, una spazzola per i capelli e un puntaspilli su cui erano appuntate tre spille d'oro di modeste dimensioni. Alle pareti, un numero incredibile di foto incorniciate che ritraevano marito e moglie; c'era poi un collage ricavato da varie cartoline, foto-ricordo di viaggi passati, e altre di cani e gatti, forse ritagliate da vecchi calendari. Inoltre, un ricamo probabilmente eseguito dalla stessa Gwen Robson, che raffigurava una casetta circondata da fiori. Le tende della finestra erano floreali quanto quel ricamo. Gwen Robson, pur vestendo con sobrietà, amava i colori vivaci, i rosa, gli azzurri e i gialli. Anche se le piaceva la tinta marrone, non se ne sarebbe servita per arredare la casa. Una piccola panca era occupata per metà da una pila di numeri della rivista Kim, e sopra c'era il giornale della sera del giorno precedente. Dunque, la sera dopo l'assassinio della moglie, a quanto pareva, Robson si era portato il giornale in camera per leggerselo tranquillamente. Già, come sempre, la vita doveva continuare. Forse aveva preso una pillola per dormire, e leggeva in attesa che facesse effetto. Wexford diede un'occhiata all'articolo di fondo e alla foto dell'avvocato Edmund Hope, bello e prestante quanto i dinamitardi arabi di cui chiedeva la condanna, poi distolse lo sguardo e rivolse la sua attenzione alla finestra della camera da letto. Al di là dei vetri, la vista che Gwen Robson aveva sotto gli occhi ogni giorno: Hastings Road, dove sorgeva la sua casa; Eastbourne Road, che conduceva in città; Battle Hill, che portava su fino alla cima della collina. I tetti delle case, visti dall'alto, ricordavano certe cittadine delle colline spagnole o portoghesi: gli edifici erano stati costruiti a bella posta in modo tale da formare angolazioni particolari, atte a creare quell'illusione. Nei giardini, conifere bluastre, verde scuro e verde dorato, perché le conifere sono
poco costose e crescono in fretta; poi vialetti ricoperti di ghiaia o di cemento, finestre in stile austriaco. C'era un'unica persona in vista, una donna anziana e corpulenta, in gonna lunga e giacca variopinta, intenta a spezzettare una fetta di pane per gli uccelli. La sua casa era la prima della fila, superata quella costituita dalle residenze degli anziani. Si voltò a guardare in direzione della casa dei Robson, come avrebbe fatto chiunque al suo posto, sapendo della disgrazia. Tipico della natura umana. Il suo sguardo incrociò quello di Wexford, e subito la donna voltò la testa dall'altra parte. Come aveva fatto Lesley Arbel, quando si era affrettata a mettere lo specchietto in borsetta, anche lei diede l'impressione di voler negare l'azione precedente. — Tanto vale andarsene — disse Wexford. — Daremo un colpo di telefono alla signora Sanders, per convocarla al commissariato. — Non vorresti andare tu da lei? — domandò Burden. — No, preferisco darle questo fastidio — replicò Wexford. 4 Era stesa sul tavolo nella stanza degli interrogatori, una tenda che un tempo era stata bella, di un velluto pesante color tabacco. Era foderata, e appesantita all'orlo da due piombini. Al centro c'era una grossa macchia scura, che avrebbe potuto essere sangue; ma Wexford aveva già appurato che non lo era. Oltre a quella macchia, ce n'erano altre più piccole, probabilmente più recenti; ma dal momento che la tenda era già rovinata, poco importava se si era sporcata ancora di più. Dorothy Sanders la guardò, batté le palpebre e tornò a guardare Wexford. L'ispettore capo notò che la donna aveva gli occhi nocciola. — È la tenda che avevo io in casa — dichiarò la signora Sanders. Wexford non fece commenti. — Ci sono ancora i ganci attaccati — continuò Dorothy Sanders. Wexford la guardava e taceva. Finalmente, soprappensiero, fece un cenno affermativo con la testa. Burden aveva le sopracciglia aggrottate. — Dove l'avete trovata? — domandò Dorothy Sanders. — Giù nel parcheggio? — Copriva il corpo della signora Robson — rispose Burden. — Non ve ne ricordate? La sua reazione fu istantanea. Dorothy Sanders fece un balzo indietro e si portò le braccia dietro la schiena, come se avesse toccato qualcosa
d'immondo. Arrossì violentemente, si morse il labbro, si coprì la bocca con la mano in un gesto istintivo, poi tolse la mano di colpo, ricordandosi ciò che aveva toccato. Ora, per la prima volta, Wexford si rese conto della trasformazione che poteva subire in situazioni particolari una donna calma e riflessiva come lei, e disse a se stesso che il vecchio Archie Greaves non aveva esagerato, nel descrivere la reazione di Dorothy Sanders. — L'avete toccata anche la prima volta signora Sanders — osservò. — Quando avete alzato un lembo della tenda per vedere che cosa c'era sotto. Dorothy Sanders ebbe un brivido. Teneva le mani lontane dal corpo. Pareva quasi che non le riconoscesse più come sue. — Venite a sedervi, signora Sanders. — Voglio lavarmi le mani. Dove posso andare a lavarmele? Wexford avrebbe preferito non lasciarsela scappare, ma a quel punto squillò il telefono, e mentre alzava il ricevitore, sentì bussare alla porta e vide entrare l'agente Marian Bayliss, che gli rivolse una domanda di lavoro. Le rispose distrattamente con un cenno del capo. — Vi dispiacerebbe accompagnare la signora alla toilette? — le domandò, rassegnato. Dorothy Sanders ricomparve cinque minuti dopo. Appariva calma e compassata, e si era stesa sulle labbra un velo di rossetto. L'odore del sapone liquido della toilette del commissariato era inconfondibile, e Wexford l'avrebbe riconosciuto a un chilometro di distanza. — Signora Sanders, come si può spiegare, secondo voi, il fatto che la vostra tenda sia stata utilizzata per coprire il corpo della signora Robson? — Non sono stata io a portarcela, la tenda. L'ultima volta che l'ho vista... — Ebbe un attimo di esitazione. — L'ultima volta che l'ho vista — ripeté — era in casa mia, ben piegata, su in solaio. Forse è stato mio figlio a prenderla, anche se non ne aveva il diritto, senza la mia autorizzazione. A Wexford balenò un'idea. — Vostro figlio abita con voi, signora Sanders? — Certo che abita con me. — Dal tono, dava l'impressione di ritenere che, pur sapendo che in alcuni casi i figli adulti hanno la sfacciataggine di voler vivere da soli, una tale situazione sia tanto rara da provocare incredulità se non addirittura disgusto. Sembrava quasi che ce l'avesse anche con Wexford, perché le aveva fatto una simile domanda. — Certo che abita con me — ripeté. — Dove credevate che vivesse? — Siete sicura che la tenda si trovasse in casa e non, magari, nel bagagliaio della vostra auto? Non era una stupida, o almeno, non lo era tanto da cascarci.
— Sì, a meno che non sia stato lui a metterla nel bagagliaio. — A chi si riferisse quel "lui", era evidente. Dorothy Sanders non era una di quelle donne, pensò Wexford divertito, capaci di proteggere il figlio, colpevole o innocente che fosse, a costo della loro vita. Il tipo che nasconde il figlio ricercato dalla polizia, che mente per proteggerlo, che considera il figlio non come parte di sé, ma come qualcosa d'infinitamente più prezioso. — Credo che sia stato lui a metterla nel bagagliaio — proseguì la signora Sanders. — Avevo ordinato da un catalogo di vendite per corrispondenza una di quelle fodere di plastica che servono a coprire l'auto. Ho spedito l'ordine almeno due mesi fa, ma quella gente fa le cose con calma. Evidentemente, lui non ha avuto la pazienza di aspettare. Dorothy Sanders alzò la testa e lo guardò, costringendolo a confessare a se stesso, come a volte gli capitava, di non conoscere affatto la natura umana: il prossimo e le sue abitudini continuavano a essere un mistero per lui. Finalmente, Dorothy Sanders gli appariva come un essere umano normale. — Mio figlio non è come me, non ha un briciolo di pazienza. Non può farci niente. Avrà pensato di prendere quella tenda e di usarla quando fosse arrivato il maltempo. Del resto, non si può aspettare un'eternità, non vi pare? — consultò l'orologio, spinta a farlo dal suo stesso riferimento al passare del tempo. Burden, fino a quel momento, aveva continuato a camminare avanti e indietro per la stanza senza intervenire. — L'auto è vostra, ma la usa vostro figlio? — domandò ora. — L'auto è mia — confermò Dorothy Sanders. — L'ho comperata io, l'ho pagata io, ed è registrata a mio nome. Ma lui deve pure andare a lavorare, no? Gliela lascio usare per andare al lavoro, e se mi occorre per fare la spesa, mi accompagna lui e poi passa a riprendermi. Non può farne a meno dell'auto. — Che lavoro fa vostro figlio, signora Sanders? Era una di quelle persone convinte che tutti debbano essere al corrente della loro vita privata, ma poi appaiono risentite se qualcuno dimostra di essere arrivato a capire, grazie al buonsenso o all'intuito, particolari che le riguardano. — È un insegnante, no? — E io come facevo a saperlo? — brontolò Burden. Arricciò il naso con aria di disgusto. — Insegna in una scuola di ragazzi che non riuscirebbero a passare agli esami senza insegnanti supplementari. Una scuola speciale, pensò Wexford. Probabilmente la Munster's, in High Street, a Kingsmarkham. La notizia lo lasciò piuttosto meravigliato.
Ma in fondo, che motivo aveva di stupirsi? Clifford Sanders poteva essere uno di quei giovani che continuano a vivere in casa con i genitori, anche mentre frequentano l'università. Sarebbe stato interessante appurare se almeno stavolta aveva fatto centro. — Lavora part-time — continuò Dorothy Sanders, e sorprese entrambi i poliziotti aggiungendo, con lo stesso tono indifferente: — Non potrebbe lavorare a tempo pieno, non ne è all'altezza. — Che cos'ha? È ammalato? — Oggigiorno, la considerano una malattia — rispose, quasi seccata. — Ai miei tempi, si parlava di "carattere debole". — Arrossì, a chiazze. Quel giorno era vestita di verde, verde scuro, con scarpe e guanti neri. Quando le chiazze rosse sparirono dalla pelle, il verde dell'abito parve metterne in risalto il pallore. — L'altro giorno, quando doveva passare a prendermi al centro commerciale, era dal suo psichiatra. O meglio, dal suo psicoterapista, come si usa chiamarli oggi. — Signora Sanders, state forse dicendomi che vostro figlio si trovava al Barringdean Shopping Centre, l'altro giorno? Dorothy Sanders tornò ad arrossire. Si era lasciata scappare quella frase senza volerlo. Dunque, non era diversa dalle altre madri, che pensano solo a proteggere il figlio. Gli voleva bene, ma quasi controvoglia. Forse la sua sventatezza era dovuta al fatto che non approvava gli psicoterapisti, non le erano simpatici, e pensando a questo, si era lasciata sfuggire la verità. Ora rispose con maggiore attenzione, pesando le parole. — Sarebbe dovuto esserci, ma non c'era. Era arrivato, l'auto era lì, ma lui no. — Seguì la spiegazione di com'erano andate le cose. In principio, quando aveva visto l'auto e il corpo, aveva creduto che fosse Clifford morto. Così, aveva alzato un lembo della stoffa marrone. Non era Clifford, ma si era impressionata ugualmente. Aveva dovuto restare un po' seduta in macchina, nel tentativo di calmarsi, di riprendersi. Clifford sarebbe dovuto passare a prenderla, come faceva ogni giovedì. Era un accordo fisso, anche se gli orari della scuola potevano variare. Consultò l'orologio, mentre diceva questo. Clifford l'accompagnava al centro commerciale, andava dallo psicoterapista, poi passava a prenderla. Lei non sapeva guidare. Quel giovedì, erano d'accordo di trovarsi al secondo piano del parcheggio, alle diciotto e quindici. Non appena era arrivata, era andata a farsi fare la messa in piega da Suzanne's, la parrucchiera dell'ultimo piano del centro commerciale, come sempre ogni giovedì; poi aveva fatto la spesa, ed era arrivata al parcheggio alle diciotto e venti.
Dopo lo shock di avere trovato il corpo, e dopo essersi un po' ripresa (Wexford stentava a credere a questa sua presunta fragilità), Dorothy Sanders era salita a cercare Clifford. Era andata un po' in giro, nella speranza che arrivasse presto (particolare che Archie Greaves aveva confermato), poi si era avvicinata al cancello dei pedoni... — E lì, non sono più riuscita a dominarmi — concluse, parlando con un tono piatto, assolutamente privo d'emozione. — Dov'era vostro figlio, allora? No, non occorre che rispondiate a questa domanda, signora Sanders. Ditegli che vogliamo parlare anche con lui, più avanti. E adesso ci fermiamo qui. Lui intanto può pensarci sopra. Daccordo? Dorothy Sanders si avviò alla porta. Qualcuno l'avrebbe accompagnata a casa. Sembrava quasi una sonnambula. O piuttosto, con quel suo modo di mascherare sentimenti ed emozioni, una donna velata. — Che cosa intendeva dire? — domandò Burden, dopo che se ne fu andata. — Che il figlio è matto? — Dipende da che cosa s'intende esattamente per "matto" — replicò Wexford, alzando la testa. — A quanto pare, Clifford Sanders è perfettamente in grado di lavorare, di guidare l'auto e di sostenere una conversazione. Dunque, secondo te può essere definito "matto"? — Naturalmente, no. Comunque, stando alla descrizione della madre, potrebbe essere lui lo psicopatico che, secondo Lesley Arbel, sarebbe l'assassino di sua zia. — "Caratteristica dominante è l'immaturità emotiva, riscontrabile nelle situazioni più disparate. Trattasi di individui impulsivi, deboli, incapaci di valutare i risultati dell'esperienza e di trarne insegnamento..." — Wexford ebbe un attimo d'incertezza. — "A volte dimostrano buona volontà, ma mancano totalmente di tenacia, sono abili nell'apparire degni di fede ma in realtà inattendibili, esigenti e nel contempo indifferenti alle esigenze altrui, affidabili esclusivamente sulla base della loro inaffidabilità, irrimediabilmente falsi, spietati, instabili, ribelli e scontenti." Burden lo fissava a bocca aperta. — È tutta farina del tuo sacco? — No, naturalmente. È la definizione di David Stafford-Clark dello psicopatico, o almeno una parte. L'ho imparata a memoria, pensando che potesse tornarmi utile, ma finora non posso dire che mi sia servito a qualcosa. — Wexford sorrise. — A parte ogni altra considerazione, mi piace questo genere di prosa forbita. L'espressione di Burden faceva capire chiaramente che non conosceva il
significato della parola "forbita". — Penso che possa tornare utile. Piace anche a me, soprattutto quando dice "affidabili esclusivamente sulla base della loro inaffidabilità". — È un ossimoro. — Che cos'è, un'altra forma di malattiva mentale? — Wexford si limitò a scuotere la testa. — Quel pezzo che mi hai fatto sentire — continuò Burden — è scritto in un libro? Posso procurarmelo? — Ti presterò il mio. Non dev'essere più in circolazione: devo averlo comperato una ventina d'anni fa. Comunque, la descrizione dello psicopatico non può essere applicata a Clifford Sanders, tanto più che non lo conosciamo neppure. — A questo si può rimediare — replicò Burden, cupo. Era buio, quando Wexford imboccò la strada di casa sua. Vide subito che c'era un'auto ferma nel viale, davanti al garage, e riconobbe la Porsche di Sheila. Ebbe un tuffo al cuore e subito se ne rammaricò. Amava teneramente le sue figlie, e Sheila era la sua preferita, ma questa volta la sua visita non gli avrebbe dato gioia. Desiderava soltanto trascorrere una serata tranquilla, in previsione di quelle movimentate che si prospettavano; poiché, a differenza di Burden, era convinto che il caso non fosse di facile soluzione. E ora invece, con Sheila in casa, ci sarebbe stato da parlare, da discutere. Al disappunto seguì l'irritazione: Sheila aveva lasciato la Porsche nel viale, impedendogli così l'accesso al garage, forse nella convinzione che la sua auto si trovasse già dentro, tanto più che quello sarebbe dovuto essere il suo giorno di riposo. Così, ora doveva lasciare la macchina in strada. Una volta entrata in casa, Sheila, pur avendo saputo che lui non c'era, nell'ansia di confidarsi con la madre si era dimenticata di lasciargli libero il passaggio. Gli pareva d'immaginarla, nell'atto di alzarsi ogni dieci minuti, con l'intenzione di andare a spostare l'auto prima che tornasse il suo "caro papà". Questa riflessione gli restituì la serenità e l'indusse a sorridere. Gli pareva di sentirla, la voce calda e suadente della figlia, con quel suo modo di parlare un po' precipitoso. Decise di non tirare in ballo l'argomento del filo spinato reciso e neppure il divorzio. Non l'avrebbe rimproverata, non avrebbe espresso il suo disappunto, non l'avrebbe neanche guardata con disapprovazione. Passando dietro la Porsche, ne sfiorò amorevolmente con la mano il finestrino posteriore. Chissà se Sheila andava alle dimostrazioni
a bordo di quell'auto? Be', in fondo era una Porsche piccola, e nera per giunta. Chissà se gli avrebbe dato un bacio, o se si sarebbe tirata indietro? Chissà! Entrò dalla porta di servizio, attraversò la cucina, appese la giacca all'attaccapanni. Sentiva la sua voce, proveniva dal soggiorno. Era la voce di Beatrice Cenci, la voce di Antigone, di Nora Helmer, e ora di Lady Audley, il personaggio che interpretava in quel periodo. La voce tacque. Wexford entrò in soggiorno, e un attimo dopo Sheila si precipitò tra le sue braccia. Al di sopra della spalla, vide il sorrisetto ironico di Dora. Abbracciò la figlia, poi l'allontanò di tutta la lunghezza delle braccia. — Tutto bene? — le domandò, guardandola. — Be', non lo so — rispose Sheila con una risatina. — Forse no. Non va tutto bene. Anzi, sono in un brutto pasticcio. E la mamma non ha fatto altro che brontolare. Sta comportandosi in un modo orribile, te l'assicuro. Dal suo sorriso, capì che non parlava sul serio. Per quanto sciocco fosse, benché se ne rendesse conto, ogni volta che la vedeva non poteva fare a meno di ammirare nuovamente il bel viso dallo sguardo intelligente, che con un po' di fortuna avrebbe sfidato il tempo, i capelli chiari lunghi e morbidi, gli occhi azzurri e limpidi come quelli di un bambino, ma non più così innocenti. Sulla mano sinistra non c'era la fede, ma del resto Sheila non aveva quasi mai anelli alle dita, così come evitava gli abiti eleganti, riservati alle apparizioni in pubblico. I jeans che indossava erano brutti, in confronto a quelli di Burden. Sopra ai jeans, un pullover blu più o meno della stessa tinta, e al collo una fila di perline di legno. — Ora che sei tornato a casa, caro — disse Dora — possiamo bere qualcosa insieme. Ne sento proprio la necessità. Anzi... — Spostò lo sguardo dal marito alla figlia e viceversa, con tatto, realizzando che forse avrebbero gradito restare soli per qualche minuto — anzi, vado subito a prendere qualcosa. Sheila si lasciò cadere nella poltrona da cui si era appena alzata. — Non mi chiedi perché? Il perché di tutto? — No. — Ti fidi ciecamente di me, qualsiasi cosa faccia? — Sai bene che non è così. — Fu tentato di aggiungere che Andrew, il marito da cui intendeva divorziare, gli era simpatico; ma si trattenne. — Di che cosa stiamo parlando, comunque? Di quale delle tue prodezze? — Oh, papà, non ho potuto fare a meno di tagliare quel filo spinato. Non l'ho fatto per isterismo, né per farmi pubblicità, né per un senso di sfida, né
per altri motivi. Semplicemente, dovevo farlo. Era un secolo che mi preparavo psicologicamente per arrivare a questo. La gente dà una grandissima importanza a quello che faccio, capisci? Non mi riferisco soltanto a me stessa, ma in generale a tutti i personaggi famosi come posso essere io. "Se Sheila Wexford ha fatto questo" pensa la gente "allora significa che ha un senso." — Com'è andata? — era davvero curioso di saperlo. — Ho comperato un paio di tenaglie in un negozio di Covent Garden. Eravamo in dieci, tutti membri del Panda, Promotori Azione Diretta Antinucleare, ma io ero l'unica famosa. Siamo andati in un posto nel Northamptonshire che si chiama Lossington, con tre auto, la mia e altre due. È una base della RAF, dove sono custoditi vecchi bombardieri. Non è importante il bersaglio, capisci, ma il gesto... — Certo, capisco — mormorò con un pizzico d'impazienza. — C'era questo enorme spiazzo, con un paio di baracche di cemento, qualche hangar, ed erba tutt'intorno, fango e filo spinato arrugginito. Chilometri e chilometri di filo spinato, talmente alto, che non c'era pericolo di perdere neanche una pallina, se uno si fosse messo a giocare a tennis. Così, ciascuno di noi ha cominciato a tagliare il filo di ferro, finché abbiamo aperto una breccia. Dopo, siamo andati alla città più vicina, al commissariato di polizia, siamo entrati e abbiamo confessato ciò che avevamo fatto, e... Dora arrivò con i bicchieri su un vassoio, birra per Wexford, vino per sé e per la figlia. — Avresti almeno potuto pensare a tuo padre — osservò, avendo udito le ultime parole di Sheila. — Oh, papà, in un primo tempo avevamo pensato di tagliare il filo spinato nella base della RAF di Myringford, ma io non ho accettato, proprio perché era la tua giurisdizione. Ho pensato a te, ma dovevo farlo, dovevo, capisci? — Tu non sei Antigone — replicò, lasciandosi prendere la mano dal malumore. — Per quanto abbia recitato quella parte. E non sei neppure Bunyan. Smettila di continuare a ripetere che "dovevi" farlo. Sei davvero convinta che il tuo gesto sia servito a mettere al bando le armi nucleari? Sono contrario anch'io, lo sai bene, e come me tantissima altra gente. Mi fanno troppa paura. Quando tu e Sylvia eravate piccole, tremavo per il vostro futuro. Il fatto che abbiamo mantenuto la pace per quarantacinque anni, non significa assolutamente niente, non esclude che in futuro possa scoppiare la guerra. Ma non sono così ingenuo da illudermi che un gesto come il vostro possa influire sulle decisioni del governo.
— Che altro possiamo fare? — ribatté Sheila. — A volte mi assale il dubbio che sia tutto inutile, ma che altro possiamo fare? Tutti pensano che la situazione si possa risolvere semplicemente eliminando i missili Cruise, ma in questo modo eliminano soltanto il dieci per cento dell'arsenale mondiale. L'unica alternativa è l'apatia, l'accettazione passiva della realtà. — Dunque, secondo te — riprese Wexford — se trionfa il male, è solo perché gli uomini buoni non hanno fatto niente per evitarlo? È questo che credi? — O credi forse — intervenne Dora — che dal momento in cui scatterà l'allarme a quello in cui scoppierà la bomba, se non altro ti resteranno dieci minuti di tempo, durante il quale potrai congratularti con te stessa per non avere affondato la testa nella sabbia come gli struzzi? Sheila si sedette più eretta, rimase qualche istante in silenzio. Pareva non avere udito le parole di sua madre. — Se sei un essere umano — disse, con molta calma — non puoi che essere contrario alle armi nucleari. È quasi un assioma, come quando si dice che i mammiferi allattano i loro piccoli, oppure che gli insetti hanno sei zampe. La definizione di essere umano dovrebbe esprimere il concetto di odio, paura, e il desiderio di distruggere le armi nucleari. Perché sono il simbolo del male, l'equivalente odierno del demonio, dell'Anticristo, dell'inferno. Dopodiché, disse Wexford a Dora, mentre Sheila si assentava per fare una telefonata, non c'era praticamente altro da aggiungere. Almeno per il momento. Dora si strinse nelle spalle. — Dice che Andrew è di destra, sostiene il capitalismo e non ha una vita interiore. — E tutte queste cose non le sapeva, prima di sposarlo? — osservò Wexford. — Adesso non è più innamorata di lui, e qui sta la differenza. — Il male che affligge oggi l'umanità non è tanto la depravazione, come si potrebbe pensare, quanto l'idealismo. Due giovani che si sposano pretendono di restare innamorati del proprio compagno per tutta la vita, in caso contrario non esitano a spezzare il vincolo per ricominciare daccapo. Tu sei ancora innamorata di me? — Oh, caro, lo sai che ti voglio bene, che sono una moglie devota, che mi sentirei perduta senza di te, che... — Appunto, proprio quello che intendevo dire — replicò Wexford con un sorriso, andando in cucina a prendersi un'altra birra. Non era stato fatto il minimo accenno all'eventualità che Sheila restasse
a dormire da loro. Era arrivata verso le quattro del pomeriggio, e quando arrivava a quell'ora, solitamente ripartiva per Londra intorno alle nove della sera. Il viaggio durava un'oretta. La telefonata che aveva fatto evidentemente la indusse a cambiare idea. Tornò in soggiorno con l'aria soddisfatta, molto più felice di come era apparsa fino a quel momento, e annunciò che se non disturbava (e figurarsi quanto poteva disturbare i genitori la sua presenza), si sarebbe trattenuta fino al giorno dopo, magari fino al pomeriggio. — La mamma è l'unica persona che conosca, che ogni domenica a pranzo cucini ancora arrosto di vitello e Yorkshire pudding. Wexford pensò che fosse lecito chiederle dove abitava attualmente, senza che lo si potesse accusare di essere un ficcanaso; in compenso, resistette alla tentazione di sottolineare quanto gli piaceva la casa di Hampstead. — Ho dovuto andarmene per forza. Non potevo continuare a vivere in Downshire Hill, nella casa di Andrew, pagata con i suoi soldi, e magari buttare fuori lui. — Sheila si era seduta per terra, e si teneva le ginocchia con le braccia. — Quella casa, ha detto qualcuno, vale due milioni di sterline. Io non posso certo permettermi di spendere una cifra del genere. Comunque, mi sono trovata un appartamento a Bloomsbury, Corani Fields. È molto carino, è perfetto per me. — Guardò il padre e sorrise. — Vedrai, ti piacerà. Dora aveva in grembo il Radio Times. — Tra poco inizia Lady Audley. Non voglio perdermi la puntata. Perciò, se tu non hai voglia di vederla, mi vedrò costretta a mandarti a letto. — Oh, mamma, pensi che non l'abbia già vista? Non mi dispiace di vederla ancora, insieme con te, ma comunque l'ho già vista in anteprima. Adesso vado fuori a spostare l'auto, così papà può entrare con la sua. Anzi, gliela porto dentro io. Non ha importanza, se perdo l'inizio della... — Non preoccuparti, mi occupo io delle auto — si offrì Wexford. — Mancano ancora cinque minuti. Dammi le chiavi, Sheila, per favore. Le pescò dalla tasca dei jeans e gliele porse. L'auto di Wexford era un po' troppo larga rispetto al garage, e lui si era offerto di spostare le auto non tanto per altruismo, quanto per il timore che la figlia gli graffiasse la carrozzeria della Montego nuova. Dora accese il televisore. Il vento si era placato e la serata era calma e buia, con un po' di foschia che creava un alone giallo intorno ai lampioni. Tra il giardino e il terreno confinante, dove nessuno aveva mai costruito, c'era un punto in cui la recinzione aveva ceduto, e la rete era caduta a terra, spinta dal vento. Le ultime foglie del ci-
liegio, nel prato antistante la casa, erano rimaste bloccate dal gelo precoce, e rimanevano attaccate ai rami ormai spogli. Sul terreno, c'erano foglie dappertutto; scure e fradice d'acqua, formavano un tappeto appiccicoso. Qualcuno aveva trovato un guanto da bambino e l'aveva posato sul muretto, nella speranza che si ritrovasse il proprietario. La strada era deserta. Attraverso una finestra della casa di fronte, incorniciata da due alti sempreverdi simili a sentinelle, tra le tende aperte, Wexford vide accendersi un televisore a colori, e un attimo dopo il primo piano di sua figlia riempiva interamente lo schermo. Sheila non aveva chiuso a chiave la Porsche. Aperta la portiera, Wexford entrò in macchina e si mise al volante. Strano, la sua auto era una vettura meno costosa, di minor prestigio, eppure aveva il cambio automatico, mentre la Porsche l'aveva manuale. Evidentemente, Sheila la preferiva così. La Montego aveva sei mesi di vita, e era la sua prima auto dotata di cambio automatico, eppure aveva quasi dimenticato l'uso del cambio manuale. Infatti, quando avviò il motore, non si accorse che il cambio era in quarta. La Porsche, avendo un motore potente, s'impennò come un cavallo imbizzarrito, poi il motore si spense. Wexford sorrise. E pensare che credeva di essere lui, dei due, l'automobilista più esperto. Altri cinque centimetri, e l'auto sarebbe andata a sbattere contro la porta del garage. Dopo aver messo in folle, tornò ad avviare il motore. Il piede sulla frizione, stava innestando la retromarcia, quando ebbe una sensazione strana, l'impressione di essere più vivo, più attento che mai. Era come se fosse tornato giovane, come se avesse il vigore e la disinvoltura di un giovanotto, come se nelle vene gli scorresse sangue nuovo. In quella serata buia e umida, al termine di una giornata di duro lavoro, si sentì pervadere da una sensazione di forza e di giovinezza, come se i suoi muscoli e i suoi nervi fossero quelli di un giovane atleta. Fu una sensazione che durò pochi istanti, poi fu come se improvvisamente ci vedesse chiaro. Aveva udito qualcosa? Il ticchettio di un orologio, forse, o era frutto della sua immaginazione, una specie di vibrazione che veniva dal cervello? La leva del cambio fece contatto, scivolò in retromarcia, e senza motivo, senza un ragionamento, Wexford spalancò la portiera e si catapultò fuori, mentre alle sue spalle si udiva un boato, qualcosa di simile a un terremoto, che gli procurò la sensazione più violenta della sua vita. Accadde tutto contemporaneamente: la bomba che esplodeva, il balzo fuori dall'auto dal destino segnato, il dolore lancinante, mentre batteva la
testa contro qualcosa di freddo e di duro come il ferro... 5 Dopo che Dorothy Sanders fu accompagnata a casa, Burden pensò di andare subito a Myringford dai suoceri; poi si accorse che era già tardi, e che non sarebbe arrivato in tempo per vedere mettere a letto il figlio. Del resto, la moglie si aspettava che lui arrivasse più tardi, e ora la casa sarebbe stata piena di parenti. Così, lasciò passare una decina di minuti e, senza avvertire nessuno delle sue intenzioni, seguì Dorothy Sanders. A giudicare dall'aspetto e dai modi del figlio, non doveva essere il tipo abituato a uscire il sabato sera. E infatti, fu lo stesso Clifford ad aprirgli la porta. La sua faccia era inespressiva come una maschera, l'espressione leggermente imbronciata. Non parve sorprendersi dell'arrivo del poliziotto. A Burden, venne in mente un cane che un tempo aveva posseduto un suo vicino di casa. Il vicino era fiero della totale sottomissione dell'animale, della sua obbedienza, e dei risultati ottenuti grazie a un severo addestramento. Poi un giorno, senza preavviso, senza apparenti mutamenti nel carattere dell'animale, il cane aveva sbranato un bambino. Clifford, una volta tanto, ebbe un'idea sensata, e stava per condurre Burden nel locale dietro il soggiorno, dove si era ritirato a guardare la televisione in occasione della precedente visita dell'ispettore in compagnia di Wexford. Ma a quel punto la madre aprì la porta del soggiorno e invitò Burden a entrare poiché, precisò, ciò che aveva da dire a suo figlio poteva essere udito anche da lei. — Preferisco parlare con vostro figlio da solo, per il momento — protestò Burden. — Spero che non vi dispiaccia. — E invece mi dispiace — replicò Dorothy Sanders, con un tono rude che però non era di sfida. Parlando, lo fissava negli occhi. — Non c'è motivo per cui io non debba essere presente. Questa è casa mia, e lui avrà bisogno di me, per ricordare come sono andate le cose. Clifford rimase impassibile, senza arrossire e senza impallidire. Fissava un punto davanti a sé e sembrava infinitamente triste. Molti anni addietro, Burden aveva imparato che non doveva permettere al prossimo di averla vinta. Con gli avvocati, a volte, era inevitabile, ma non con la gente comune. — In questo caso, vi chiedo di venire con me al commissariato, signor
Sanders — disse a Clifford. — Non può venire. Non sta bene. Ha il raffreddore. — Mi dispiace, ma non mi resta altra scelta. Ho qui la mia auto, signor Sanders. Se volete andare a infilarvi qualcosa di pesante. C'è molta umidità, stasera. Dorothy Sanders si arrese. Tornò in soggiorno e sbatté forte la porta, deliberatamente, non per sfogare il suo malumore. Burden aveva sempre sentito dire che i prepotenti finiscono per cedere, se trovano qualcuno che gli tiene testa, e per quanto gli pesasse ammetterlo, aveva constatato più volte che era vero. Chissà se Clifford avrebbe seguito il suo esempio? Probabilmente no. Ormai, la sua situazione non era rimediabile, se non con l'aiuto di uno specialista. Fu appunto di questo che Burden gli parlò, quando si trovarono soli nella sala da pranzo, arredata semplicemente con un tavolo, sei sedie dallo schienale diritto e il televisore. A una parete era appeso uno specchio, a un'altra un quadro grande e orribile, che rappresentava una nave in un mare in tempesta. — Sì, sono in cura da Serge Olson — ammise Clifford. — Volete il suo indirizzo? Burden annuì, prese nota. — Posso sapere perché andate da lui, dal dottor Olson? Clifford, che non aveva affatto l'aria di avere il raffeddore come sosteneva sua madre, guardava lo specchio, ma non dentro lo specchio. Burden era convinto che non vedesse neppure la sua immagine riflessa. — Ho bisogno di aiuto — rispose semplicemente. Qualcosa, nella rigidità del suo atteggiamento, nell'inespressività del suo sguardo, indusse Burden a non insistere sull'argomento. Gli domandò se fosse andato dallo psicoterapeuta giovedì pomeriggio, e a che ora avesse lasciato lo studio del professionista. — Mi fermo sempre un'ora, dalle cinque alle sei. Mia madre mi ha detto che lo sapete, che ero al parcheggio, che vi ho lasciato l'auto. — Sì. Perché non ce l'avete detto subito? Clifford girò la testa e guardò Burden, ma non negli occhi. Fissava un punto del suo stomaco. Quando rispose, Burden riconobbe la fraseologia, il modo di parlare di chi si fa psicanalizzare. — Mi sentivo minacciato. — Da che cosa? — Vorrei parlare con Serge, adesso. Se l'avessi saputo, mi sarei fatto dare un appuntamento, e così avrei potuto parlare prima con lui. — Temo che dovrete accontentarvi di me, signor Sanders.
A questo punto, Burden ebbe paura che Clifford si trincerasse dietro la barriera del silenzio, creando una situazione in cui anche l'investigatore più esperto si trova con le mani legate. Si sentiva la madre muoversi per la casa. Si era trasferita in cucina, e faceva tutto il baccano possibile, sbattendo gli oggetti invece di posarli normalmente e chiudendo rumorosamente gli sportelli. Burden trasalì, quando qualcosa andò in frantumi con grande fragore. Si era avvicinato alla finestra, e a un tratto udì un boato in lontananza, come un'esplosione. Burden rimase immobile, l'orecchio incollato al vetro della finestra, ad ascoltare le vibrazioni che piano piano si spegnevano. Smise di pensarci, quando Clifford iniziò a parlare. — Tenterò di dirvi come sono andate le cose. Avrei dovuto raccontarvelo prima, ma mi sentivo minacciato. Mi sento minacciato anche ora, ma sarebbe ancora peggio se tacessi. Dopo avere lasciato lo studio di Serge, sono andato al parcheggio per prelevare mia madre. Ho visto che c'era un morto per terra, prima ancora di fermare l'auto. Dopo aver parcheggiato, sono andato a vedere. Intendevo chiamare la polizia. Si capiva che la donna era stata uccisa. Lo si capiva a prima vista. — Che ore erano? Si strinse nelle spalle. — Era sera, le prime ore della sera. Mia madre voleva che la raggiungessi alle sei e un quarto, e probabilmente ero in anticipo. Doveva essere così, perché lei non c'era, e mia madre è sempre puntuale. — Perché non avete chiamato la polizia, signor Sanders? Clifford guardò il quadro appeso alla parete, poi spostò lo sguardo verso la finestra. Burden vedeva la sua immagine riflessa nel vetro: appariva impassibile, sembrava che non avesse un briciolo di sentimento. — Credevo che si trattasse di mia madre. Burden distolse lo sguardo dal vetro. — Che cosa credevate? Calmo, in tono paziente, Clifford ripeté ciò che aveva detto. — Credevo che si trattasse di mia madre. La signora Sanders aveva creduto che si trattasse del figlio. Come mai ciascuno dei due si aspettava di trovare l'altro morto? — Avete pensato che la signora Robson fosse vostra madre? — c'era una certa somiglianza tra le due donne, pensò Burden, se viste con gli occhi di un estraneo. Entrambe erano anziane, magre, vestivano nello stesso stile, con gli stessi colori sobri... Ma viste dal figlio... — In fondo lo sapevo, che non era mia madre. O almeno, dopo la prima sensazione, ho capito che non era lei. Non riesco a spiegarmi meglio di co-
sì. A Serge sì, potrei spiegarlo, ma con voi non riesco. Prima ho pensato che fosse mia madre, poi ho capito che non era lei, e infine mi è venuto il sospetto che qualcuno l'avesse fatto apposta, che avesse lasciato lì il corpo di proposito, per farmi del male. No, non è proprio così. Ve l'ho detto, non riesco a spiegarvi bene ciò che provavo. Posso solo dirvi che ho avuto paura. Era come se qualcuno mi perseguitasse, e mi avesse fatto quel brutto scherzo deliberatamente, eppure sapevo che non poteva essere vero. Sapevo tutt'e due le cose contemporaneamente. Mi sentivo confuso. Non mi capite, vero? — In realtà, non posso dire di capirvi, signor Sanders. Ma continuate. — Vi ho già detto che avevo paura. La mia "ombra" aveva avuto la meglio su di me. Dovevo andarmene, ma non potevo lasciare il corpo così come si trovava. Qualcun altro l'avrebbe visto, come l'avevo visto io. — Improvvisamente era arrossito, e si stringeva forte le mani. — Avevo nel bagagliaio una vecchia tenda che mi serviva per coprire il parabrezza d'inverno. L'ho presa e ho coperto il corpo. — Chiuse gli occhi, li strinse forte come a voler scacciare un'immagine spiacevole. — Non era coperto, quando l'ho trovato io. Così, l'ho coperto con la tenda e sono scappato via. Ho lasciato lì l'auto e sono corso via, fuori dal parcheggio. L'ascensore era occupato, e perciò ho fatto le scale a piedi. Sono uscito in strada e poi sono andato a casa. — Non vi è più venuto in mente che volevate chiamare la polizia? Riaprì gli occhi, trasse un sospiro. Burden ripeté la domanda. — Che importanza aveva? — ribatté Clifford, stavolta con un'ombra d'impazienza. — Qualcuno l'avrebbe chiamata di certo. Non era necessario che fossi proprio io. — Siete uscito passando dal cancello dei pedoni, immagino? — domandò Burden, ripensando alla dichiarazione di Archie Greaves, alla sua descrizione di un ragazzo che correva, da lui scambiato per un ladruncolo. Ripensò anche alle parole di Wexford, che aveva detto di avere udito i passi di qualcuno sulle scale, mentre si trovava nell'ascensore. — Avete corso per tutto il tragitto fino a casa? Saranno quasi cinque chilometri. — Sì, l'ho fatto tutto di corsa. — Ora il tono era quasi sprezzante. Burden lasciò cadere l'argomento. — Conoscevate la signora Robson? Il colorito di Clifford era tornato alla normalità, e così pure il suo sguardo inespressivo. Burden non l'aveva mai visto sorridere, né riusciva a immaginarselo sorridente. — Chi è la signora Robson? — domandò. — Suvvia, signor Sanders, possibile che non lo sappiate? La signora
Robson è la donna che è stata uccisa. — Credevo che fosse mia madre, ve l'ho detto. — Sì, ma quando vi siete accorto che non era lei? Per la prima volta, Clifford guardò Burden negli occhi. — Non ho più pensato a niente. — Era un'affermazione che dava da riflettere. — Ve l'ho detto, non ho più pensato a niente. Ho avuto paura. — Poco fa avete detto: "la mia ombra". Che cosa significa? Burden ebbe l'impressione che Clifford lo guardasse con aria di compatimento. — È la parte negativa della personalità di un individuo, la somma delle caratteristiche peggiori, che preferiremmo tenere nascoste. Per nulla soddisfatto della risposta, trovando incomprensibile se non addirittura sinistro il comportamento e la conversazione di Clifford, Burden decise comunque di chiudere così e di rimandare il resto al giorno successivo. In quello stesso momento, iniziò a prendere forma la sua determinazione di arrivare fino in fondo alla cosa, di riuscire cioè a capire la mentalità complessa di Clifford e le ragioni che avevano determinato le sue turbe psichiche. Il suo modo di fare era sospetto, appariva tutt'altro che ingenuo. Clifford stava tentando di fargli fare la figura del fesso, si considerava superiore e lo dava a vedere. Era un atteggiamento abbastanza comune, e provocava invariabilmente la stessa reazione, cioè il desiderio di dimostrare il contrario. Giustificabilissimo. Dopo che si fu trasferito in soggiorno, Burden parlò anche con Dorothy Sanders, ma non riuscì ad appurare se madre e figlio conoscessero la vittima oppure no. Clifford portò dentro una cesta piena di carbone, se ne servì per alimentare un fuoco non sufficiente a riscaldare il locale, uscì e tornò poco dopo con le mani che odoravano di sapone. Madre e figlio sostenevano di non avere conosciuto la signora Robson, ma Burden "aveva la strana sensazione che il figlio mentisse, o perlomeno che non dicesse tutta la verità, per motivi suoi particolari. Del resto, Clifford poteva avere ucciso senza motivo, e comunque senza un motivo valido dal punto di vista razionale. Per esempio, aveva visto una donna che gli ricordava la madre, rammentandogliene i lati peggiori, e per questo l'aveva uccisa. Dopo essersi congedato da madre e figlio, Burden percorse, al volante della sua auto, la stradina che, ora lo rammentava, si chiamava Ash Lane. In fondo, in posizione arretrata rispetto alla strada, sorgeva una casetta il cui nome, avvertiva il cartello appeso alla cancellata, era Ash Farm Lodge. Lo lesse alla luce dei fari. La casa era buia, ma mentre era fermo con il motore e i fari accesi, Burden vide illuminarsi una finestra e affacciarsi un
tale. Innestata la retromarcia, iniziò la manovra. Ci volle un po' di tempo, dato che la strada era stretta. Quando i fari dell'auto puntarono in direzione di Kingsmarkham, Burden ebbe un sussulto, vedendo che l'uomo era uscito di casa ed ora era fermo sulla porta, tenendo per il collare un retriever dall'aria piuttosto feroce. Intanto, si erano accese le luci, e Burden riuscì a distinguere le sagome di due baracche e un silos. Innestò la prima e partì. Non si sarebbe stupito se avesse udito partire uno sparo alle sue spalle, e avesse visto il cane slanciarsi all'inseguimento dell'auto. Ma non accadde nulla di tutto questo. C'era soltanto oscurità, silenzio, e una civetta fece sentire la sua voce. La notizia di ciò che era accaduto a Wexford arrivò alle orecchie di Burden nel modo peggiore. Colpa della fretta e del suo zelo eccessivo, pensò in seguito, che l'aveva indotto a comportarsi come un giovane poliziotto che ambisse alla promozione, mentre avrebbe potuto godersi in pace la sua giornata di riposo. A dire il vero, non avrebbe potuto riposarsi ugualmente, con la madre di Jenny che non gli dava pace, le zie venute dall'Irlanda, e Jenny costretta a salire e scendere in continuazione le scale. Anche se avesse dato una scorsa al giornale della domenica, prima di lasciare Myringford, si sarebbe limitato a leggere gli articoli che riguardavano i fatti dell'Ambasciata Israeliana, poiché non avrebbe trovato nessun accenno all'autobomba. L'esplosione si era verificata la sera, troppo tardi perché la notizia potesse essere pubblicata. E siccome la casa era piena di ospiti, nessuno aveva guardato la televisione, il sabato sera. Poco prima di uscire, telefonò a Ralph Robson. Gli rispose Lesley Arbel, che gli disse di andare pure da loro, benché non ne vedesse il motivo, dato che non avevano più niente da dirgli. Mentre percorreva la strada in salita che portava a Highlands, Burden disse a se stesso che effettivamente la sua visita si sarebbe rivelata inutile. Meglio sarebbe stato attendere il giorno successivo e rivolgersi al centro sociale di Kingsmarkham, che gli avrebbe fornito più informazioni di quanto potesse fare Ralph Robson. Anche stavolta, trovò il padrone di casa in vestaglia. Robson sembrava ulteriormente invecchiato, dall'ultima volta. Camminava ancora più curvo, con passi più stentati. Si sedette vicino al fuoco e si mise in grembo un vassoio rotondo con sopra una tazza di tè e un piatto di biscotti. Burden era stato appena pilotato in soggiorno dalla ragazza, che quel giorno indossava
una tuta di seta rosa con i pantaloni di foggia turca portati su un paio di scarpe in tinta, quando suonò il campanello e arrivò un altro ospite. Lesley Arbel l'accompagnò in soggiorno senza pensarci due volte, ben sapendo che Burden desiderava parlare a quattr'occhi con lo zio. La nuova venuta era la vicina di casa che lui e Wexford avevano visto dalla finestra, una certa signora Jago, se Burden ne aveva capito bene il nome quando gliel'avevano presentata. Era una delle solite visite di condoglianze. La signora chiese se Robson avesse bisogno di qualcosa, dato che il giorno successivo Lesley Arbel sarebbe ripartita. Burden non le prestò molta attenzione. Notò soltanto che era scura di capelli, piuttosto grassa, e parlava con un accento straniero che faceva pensare al centro Europa. Se non altro, la vicina ebbe il buonsenso di capire che Burden desiderava restare solo con il padrone di casa, e se ne andò quasi subito, dopo avere promesso che sarebbe tornata l'indomani mattina, prima di andare a fare la spesa. La porta si era appena chiusa, e Lesley Arbel stava percorrendo il corridoio, senza dimenticare di rimirarsi nello specchio passandovi davanti, quando Robson stupì Burden dicendo: — Adesso tocca a loro, fare qualcosa per noi. Se penso al bene che ha fatto mia moglie a tutti quanti, in questa benedetta strada, senza mai tirarsi indietro, senza mai voltare le spalle a nessuno... Bastava che sentisse che qualcuno aveva bisogno, e lei si precipitava lì, per vedere che cosa si poteva fare. Soprattutto quando c'erano di mezzo persone anziane. Lei da sola ha fatto più opere buone di tutti i cosiddetti servizi sociali messi insieme. Non è vero, Lesley? — E anche più di Zia Bontà — aggiunse Lesley. — A volte, per scherzo, le davo qualche nomignolo. Burden non capiva. — Zia Bontà? — mormorò. — Quando aveva qualche problema, la gente si rivolgeva a lei — disse Robson. — Mia nipote lavora per il giornale Kim — spiegò con orgoglio. — Collabora con Zia Bontà, rispondendo alle domande dei lettori che scrivono per avere consigli, se hanno problemi. Lesley è la sua assistente. — La sua segretaria, zio. — Un po' più di una segretaria, a mio modo di vedere. Il suo braccio destro. — Guardò Burden. — Credevo che lo sapeste. — No — rispose l'ispettore, scuotendo la testa. — No, non lo sapevo. Vostra zia, voglio dire, la vostra vera zia, la signora Robson, lavorava come assistente sociale, se non sbaglio? Fu Robson a rispondere, invece della nipote, e Burden dovette subirsi un
elenco interminabile di buone azioni compiute dalla moglie. A sentirlo, si sarebbe detto che tutti i vecchi, gli ammalati e i poveri di Kingsmarkham fossero stati aiutati da lei. Robson però non ricordava nessun nome in particolare. Enumerò tutti i favori che la moglie aveva fatto gratuitamente al prossimo, per associazione di idee gli venne in mente la spesa, poi le due borse di provviste che la polizia non aveva ancora provveduto a consegnargli. — Immagino già la vostra risposta — disse, con un tono piuttosto risentito. — Dopo quello che è accaduto ieri sera, mi risponderete, avete ben altro a cui pensare, voi della polizia, perché vi resti il tempo di occuparvi di una bazzecola come questa. — Quello che è accaduto ieri sera? — domandò Burden, perplesso. — L'autobomba — gli spiegò Robson. — Quella con dentro il vostro collega. — Quello che è stato qui con voi — intervenne Lesley Arbel. — O almeno, mi pare che abbiano fatto il suo nome, alla televisione. È sempre utile esercitarsi a mascherare le proprie emozioni, pensò Burden, ricordando a un tratto l'esplosione che aveva udito la sera precedente, mentre si trovava davanti alla finestra, a casa di Sanders. La necessità di conservare la propria dignità e la consapevolezza che sarebbe stato un errore ammettere la propria ignoranza, errore di cui in seguito avrebbe potuto pentirsi, lo trattennero dal rivolgere altre domande a Robson e alla nipote. Ma dentro di sé si sentiva scombussolato, tanto che si alzò per andarsene, dopo avere buttato lì un paio di domande, le prime che gli vennero in mente relative al caso di cui stava occupandosi. Ascoltò distrattamente le risposte, che subito dimenticò, ed ebbe la sensazione che i due lo guardassero con una certa curiosità e una punta di malizia, che forse era solo frutto della sua immaginazione. Robson tornò a parlare delle sue provviste. Voleva che gli fossero restituite l'indomani mattina, in modo che poi potesse preparare la lista della spesa da consegnare alla sua vicina, la signora Jago. A questo punto, finalmente, Burden riuscì a tagliare la corda, e soltanto dopo che Lesley Arbel ebbe chiuso la porta, poté correre verso la sua auto, come avrebbe fatto volentieri fin dal primo momento. Wexford abitava dall'altra parte della città. Per non perdere altro tempo, ma anche per calmarsi, poiché guidando in quello stato d'animo avrebbe potuto mettere a repentaglio la sua vita e quella di altra gente, Burden si fermò alla prima cabina telefonica che trovò, ma sfortuna volle che qualche vandalo l'avesse messa fuori uso. La seconda cabina telefonica era,
come le sue gemelle all'ingresso della stazione ferroviaria, del tipo dotato di apparecchi che funzionavano soltanto con la tessera Telecom. Burden tornò in macchina. Aveva le mani sudate, tanto che gli scivolavano sul volante. Quando finalmente svoltò nella strada in cui abitava Wexford, ebbe l'impressione di non avere respirato affatto, negli ultimi cinque minuti. Sperava soltanto che Robson e la nipote si fossero sbagliati. Tra breve, avrebbe scoperto la differenza, per usare un'espressione cara a Wexford, tra la trepidazione per un avvenimento che si paventava, e la certezza che l'avvenimento stesso si era purtroppo verificato. La vista della casa di Wexford gli provocò un secondo tuffo al cuore. Il garage non c'era più, e nemmeno il locale sopra il garage. La zona compresa tra ciò che restava della casa e il terreno confinante, dove nessuno aveva mai costruito, era ingombra di macerie, pezzi d'automobile, di stoffa, di vetro di metallo contorto. Il lato della casa dalla parte del garage era completamente aperto (per fortuna era una bella giornata), e nessuno aveva ancora provveduto a ripararlo con teli di plastica. In una delle stanze, spiccava un quadro sulla tappezzeria azzurra. Burden rimase in macchina, con il finestrino abbassato, a guardarsi intorno. Anche il giardino era devastato, gli alberi da frutta distrutti. Nel tratto di prato antistante la casa, il ciliegio era rimasto intatto, le foglie intirizzite dal gelo, e così pure i cespugli di lavanda che Wexford in quei giorni si riprometteva di potare; ma c'era un punto, tra una pianta e l'altra, dove sembrava che fosse passato un missile, e in quel punto i rami sopravvissuti erano schiacciati al suolo. Il muretto frontale c'era ancora, e alla recinzione era appeso il guanto di un bambino. Burden non riusciva a spiegarsi come fosse potuto finire là sopra. Tornò a guardare la casa, poi scese dall'auto e s'incamminò lentamente verso la porta, pur rendendosi conto del fatto che non avrebbe trovato nessuno, anche ammesso che Wexford e la moglie se la fossero cavata. Rimase come impietrito, incerto sul da farsi, quando vide un uomo uscire dalla casa vicina, o almeno quella che Wexford chiamava "la casa vicina", benché le due proprietà fossero separate da un lotto di terreno troppo piccolo perché ci si potesse costruire. — Come sta? — domandò l'uomo a Burden. — È... — Non so niente. Non sapevo nemmeno dell'autobomba. Era come se tutti attendessero proprio il suo arrivo, per avere notizie. Da una casa sbucò fuori una donna, da un'altra di fronte una coppia con un bambino.
— Era nell'auto di sua figlia Sheila — disse il vicino di casa. — C'è stata una terribile esplosione, sembravano bombe, sembrava che ci fosse la guerra. Mia moglie e io siamo usciti di casa, ma c'era un grande fumo e non si vedeva niente. Per prima cosa, ho telefonato alla polizia, ma evidentemente qualcuno mi aveva preceduto. L'autoambulanza è arrivata come una saetta, e devo dire che non hanno perduto tempo. Però non si riusciva a vedere ciò che accadeva. Hanno caricato qualcuno in barella, poi alla televisione hanno parlato del signor Wexford e di un'autobomba, ma senza dare altri particolari. — Giaceva lì sul prato — disse la donna con il bambino. — Privo di sensi. — È stato scaraventato fuori dall'auto — continuò il marito. — Una cosa stranissima. Stavamo guardando Sheila alla televisione, quando a un tratto abbiamo sentito quel botto tremendo, e la sua auto era saltata in aria... — Dove sono in questo momento, Sheila e sua madre? — domandò Burden. — Qualcuno ha detto che sono andate dall'altra figlia, la maggiore. Non so dove abiti. Burden non disse altro. Scuotendo la testa, che si comprimeva con una mano come se avesse l'emicrania, tornò in macchina e avviò il motore. 6 Stava sognando un ciliegio, anzi il ciliegio che George Washington, si diceva, aveva abbattuto e sulla cui sorte era stato incapace di mentire al padre, quando questi l'aveva interrogato in proposito. Doveva essere un ciliegio dai fiori bianchi, come quelli che gli era capitato di vedere in una foto scattata lungo le rive del Potomac, forse piantati a ricordo del ciliegio di Washington. Probabilmente quell'altra specie di ciliegio, quello che fa fiori doppi color rosa che sembrano di carta crespata, all'epoca non esisteva ancora. Quello che cresceva nel suo giardino gliel'aveva regalato il suocero, un anno dopo il suo trasferimento nella nuova casa, e a lui non piaceva proprio, con quei fiori che sembravano di carta e i rami ricadenti in modo innaturale. Il suocero invece gli piaceva molto, era una persona in gamba. Il ciliegio era bello solo una settimana all'anno, verso la fine di aprile. Ora, non stava più sognando. Gli sembrava piuttosto di essere nel dormiveglia. Certi coltivatori di ciliegi mettevano spaventapasseri tra i rami, in altre zone coprivano le piante con fitte reti, per evitare che gli uccelli
mangiassero i frutti. Il suo albero era sterile, non faceva frutti. I fiori rosa, quando cadevano, non lasciavano tracce della loro esistenza. Sentì un dolore sordo alla testa, sopra la fronte, un dolore inspiegabilmente associato alle piante di ciliegio. Forse non tanto inspiegabilmente... Aprì gli occhi. — Per caso ho battuto la testa contro il ciliegio? — chiese, benché ignorasse se c'era qualcuno lì con lui. — Sì, caro. Dora era seduta in fondo al letto. Vide che le tende erano tirate. Tentò di mettersi seduto, ma lei lo fermò, allungando la mano, e scosse la testa. — Che ore sono? — Circa le undici. Le undici di domenica mattina. — Parve leggergli nel pensiero. — Non che tu sia rimasto privo di sensi fino a questo momento. Hai ripreso conoscenza mentre venivamo qui, nell'autoambulanza. Poi hai dormito. — Mi pare di non ricordare niente, tranne il fatto di avere battuto la testa contro il ciliegio. Ah, ricordo anche di avere fatto un balzo, ma non ne ricordo la ragione. Forse ero sulla porta di casa... Non mi ricordo. — C'era una bomba sotto l'auto — disse Dora. — Non la nostra, quella di Sheila. Tu hai fatto qualcosa, e la bomba è scoppiata. Voglio dire, sarebbe accaduto a chiunque fosse stato al tuo posto. Wexford digerì la notizia. Non riusciva a ricordarsi niente. Chissà se prima o poi gli sarebbe tornato alla memoria. Dora e Sheila stavano guardando la televisione, lui era uscito per qualche motivo, poi aveva fatto un grande balzo nell'oscurità, come se stesse volando in sogno, ed era andato a sbattere contro l'albero... Dora però gli aveva detto che lui era in macchina, nell'auto di Sheila. — Ero in macchina? — Eri uscito per spostare l'auto di Sheila e portare la tua in garage— La bomba era stata messa per Sheila? — Così sembrerebbe — rispose Dora. — Ma ora, cerca di stare tranquillo. Dovresti riposare. — Sto bene. Ho soltanto preso un colpo in testa. — Sei pieno di tagli e di graffi dappertutto. — La bomba era per Sheila — ripeté, soprappensiero. — Oh Dio, meno male che in macchina c'ero io. Dio, ti ringrazio. Non ricordo niente, ma probabilmente stavo spostando l'auto. Dove siamo? Al pronto soccorso di Stowerton? — Naturalmente. Il Capo della Polizia è qui sotto, vuole vederti. Anche
Mike non vede l'ora di venire a trovarti: credeva che fossi morto. Ne hanno parlato alla televisione, dell'autobomba. Molta gente credeva che tu fossi morto, caro. Wexford taceva, assorto nei suoi pensieri. Per il momento, preferiva non pensare a Sheila e al rischio che aveva corso di rimetterci la vita. Ci avrebbe pensato in seguito. Il suo innato senso dell'umorismo tornò a farsi sentire. — Be', almeno adesso non è più necessario riparare la recinzione — disse. — Un'autobomba. Già. La casa c'è ancora? — Non tormentarti, caro. Cerca di non prendertela troppo. È rimasta in piedi più di metà casa. Provvisoriamente, era Burden il responsabile del caso Robson. Era sua opinione che Wexford ne avrebbe avuto per una quindicina di giorni, benché Wexford sostenesse che sarebbe uscito dall'ospedale tra un giorno o due. Fu ciò che disse al Colonnello Griswold, Capo della Polizia, venuto a esprimergli la sua solidarietà. Griswold rimase incredulo, quando Wexford gli confessò di non ricordare nulla a proposito dell'autobomba, e se la prese irragionevolmente con Burden, che quella sera se n'era andato senza dire niente a nessuno. — Insisterò perché mi mandino a casa domani — disse Wexford a Burden. — Io non lo farei, al tuo posto, se la mia casa fosse ridotta com'è ridotta la tua. — Già. Dora mi ha detto che è rimasta in piedi poco più della metà. Comunque, la parte sopra il garage non mi ha mai convinto, ho sempre sostenuto che era fatta di gelatina. Forse è per questo che è crollata. Quando succede a qualcuno di restare senza casa, credo che risolvano il problema andando provvisoriamente a vivere in una roulotte. Wexford aveva la testa fasciata e una medicazione sulla guancia sinistra. L'altro lato del viso stava diventando nero, e Burden aveva l'impressione di vedere la pelle scurirsi ogni minuto di più. Mentre si trovava ancora lì, arrivò Sheila, che si precipitò ad abbracciare il padre, facendogli emettere un gemito di dolore. Dopo di lei, venne l'artificiere della Divisione di Myringham per interrogare Wexford. Burden e Sheila furono costretti ad allontanarsi. Ora Burden, con il rapporto medico di Sumner-Quist davanti a sé, stava cercando di decidere se sarebbe stato opportuno o no mostrarlo a Wexford, più tardi. Del resto, era probabile che Wexford chiedesse di ve-
derlo, e in questo caso Burden non avrebbe avuto scelta. Comunque, Burden era già al corrente della maggior parte di ciò che vi era scritto. L'ora del decesso della signora Robson era stata calcolata, con la massima precisione possibile, tra le diciassette e trentacinque e le diciassette e cinquantacinque. La vittima era morta nel luogo dove era stato rinvenuto il corpo. Era morta per asfissia, essendo stata soffocata da un legaccio intorno al collo. Sumner-Quist proseguiva precisando che il legaccio (nel rapporto non figurava la parola "garrotta"), era di filo metallico probabilmente rivestito di plastica, poiché minutissime particelle di questo materiale erano state rinvenute nella ferita al collo. Questo materiale, attualmente a disposizione della Scientifica per gli opportuni esami, era probabilmente costituito da polivinilcloruro flessibile e polivinilcloruro combinato con un polimero come lo stirene acrilonitrile. Burden fece una smorfia, leggendo quei paroloni, benché ritenesse di avere capito di quale tipo di materiale si trattasse: probabilmente doveva essere qualcosa di molto simile al rivestimento del filo elettrico della lampada che aveva sulla scrivania. Nel rapporto c'era scritto inoltre che questo filo doveva terminare alle estremità con due maniglie, che servivano a impugnare il filo stesso e a impedire di tagliarsi. Gwen Robson era una donna forte e sana. Alta uno e cinquantacinque, pesava cinquanta chili, e secondo il rapporto di Sumner-Quist, dimostrava tre anni meno di quanti ne avesse in realtà. Non aveva mai partorito, mai subito un intervento chirurgico di qualsiasi tipo. Il cuore e gli altri organi principali erano in ottimo stato. Aveva perduto un dente del giudizio e tre molari, ma per il resto la dentatura era sana e robusta. Se non l'avessero uccisa, pensò Burden, forse sarebbe vissuta altri trent'anni, sopravvivendo di parecchio al marito artritico e prematuramente invecchiato. Il servizio sociale era amministrato dal Consiglio di Contea, e com'era consuetudine, aveva sede in una di quelle villette che ospitano gli uffici amministrativi e sorgono nella proprietà di qualche grande casa privata, un po' dappertutto in Inghilterra. La grande casa in questione si chiamava Sundays e si trovava in Forby Road, in prossimità dell'incrocio con Ash Lane. Fino a pochi anni prima, era stata proprietà privata, e mentre vi si recava, a Burden venne in mente il festival di musica pop che vi. si era tenuto negli anni '70, e l'omicidio di una ragazza durante il festival. Per l'acquisto della casa era stata spesa una grossa cifra, cosa che aveva sollevato un vespaio tra i contribuenti. Comunque, la proprietà era stata acquistata, e ben presto intorno alla casa erano sorte quelle brutte casette a un solo pia-
no. La casa padronale, adibita in parte a uffici, era disponibile per conferenze e corsi di studio di vario genere. Proprio quel giorno, scoprì Burden, doveva appunto iniziare un nuovo corso di semantica. Aveva un appuntamento con la direttrice, ma fu la vice direttrice a riceverlo, e a dirgli subito che probabilmente non sarebbero stati in grado di aiutarlo molto. I loro registri si riferivano al massimo a tre anni prima, e la signora Robson se n'era andata da due. La vice direttrice si ricordava di lei, ma la direttrice occupava quel posto da meno di due anni. Fatte queste precisazioni, la vice direttrice consegnò a Burden un elenco di nomi e indirizzi di uomini e donne che Gwen Robson aveva assistito. — Che cosa significa la croce apposta a lato di alcuni nomi? — Significa che quella determinata persona è morta — gli spiegò la vice direttrice. Burden notò che la maggior parte dei nomi era seguita dalla croce. A prima vista, nessun nome gli parve particolarmente significativo. — Qual era la vostra opinione della signora Robson? — s'informò. Era la tecnica di Wexford, e benché Burden non fosse del tutto convinto che funzionasse, decise di sperimentarla almeno in quell'occasione. La risposta arrivò lentamente, dopo molta ponderazione. — Era una donna efficiente e fidata, una di quelle persone che non risparmiano le telefonate, magari solo per avvertire che arrivano con dieci minuti di ritardo. Anche stavolta, Burden trovò che la signora Robson e Dorothy Sanders avevano qualcosa in comune, in questo caso l'ossessione del tempo; ma quello che lui andava cercando era il punto d'incontro, la prova che la vittima e Clifford Sanders avevano avuto modo di conoscersi. — Non mi va di parlare male di lei. Gran brutto modo di morire, quello. — Non abbiate nessun timore — la rassicurò Burden, cominciando a sperare. — Ciò che direte resterà confidenziale. — Be', allora vi dirò che era una grande pettegola. Io non avevo molto a che fare con lei, e per essere sincera, cercavo di evitarla, ma più di una volta ho avuto l'impressione che si divertisse a scovare il segreto o i guai di qualche poveraccio, per poi divulgare la notizia. Cominciava col raccomandare che la cosa restasse tra queste quattro mura, e aggiungeva che lei, da parte sua, non l'avrebbe raccontata a nessun altro. Niente di male, intendiamoci, non penso che ci fosse malizia da parte sua. Anzi, raccontava le cose in un modo abbastanza simpatico, anche se era un po' troppo intransigente in fatto di moralità. Probabilmente immaginate il tipo: non si
può avere un figlio senza essere sposati, chi convive senza il vincolo del matrimonio non può conoscere le gioie di un matrimonio felice, eccetera. — Fin qui, niente di particolarmente grave. — Infatti. Era una donna che amava molto parlare, non stava mai zitta, e nemmeno questo è grave. Se c'è una cosa che devo riconoscerle, è la sua devozione al marito. Faceva parte di quella categoria di donne che, sposate a un uomo ordinario, vanno in giro a dire di avere per marito un uomo meraviglioso, e di essere state straordinariamente fortunate a trovare un uomo simile. Non so se fosse sincera, o se volesse soltanto dimostrare che il suo era un matrimonio come ce ne sono pochi. Un giorno, parlando di qualcuno che aveva vinto una grossa somma di denaro, ricordo di averle sentito dire che, se fosse capitato a lei, avrebbe regalato un'auto meravigliosa al marito, forse una Jaguar, e poi sarebbero partiti per una vacanza nei Caraibi. Comunque, ecco la vostra lista. È il massimo che posso fare per aiutarvi, e spero solo che possa servirvi. Burden era deluso. Non sapeva neppure lui che cosa si era aspettato di trovare, in quell'elenco; forse un nome collegato in qualche modo con un testimone del caso Robson. Comunque, ora che aveva la lista, non gli restava che controllare i nominativi a uno a uno. Poteva occuparsene Archbold, oppure Davidson. Tra i nomi seguiti da una croce, Burden notò quello di un tale che aveva abitato in una delle case per anziani di Highlands, di fronte ai Robson: Eric Swallow, 12 Berry Close, Highlands. Ma forse non significava assolutamente nulla. L'unica differenza, tra Eric Swallow e gli altri, era che il primo abitava a poca distanza dalla sua benefattrice. Una delle cose di cui Burden doveva occuparsi quel giorno, era l'alibi di Clifford Sanders. Lesse nei suoi appunti la dichiarazione di Clifford, il quale aveva detto di avere lasciato lo studio dello psicoterapeuta Serge Olson alle sei del pomeriggio. In Queen Street, dove Olson aveva il suo studio, sopra un negozio di parrucchiere, c'erano i parchimetri, e tranne il sabato mattina, si trovava facilmente da parcheggiare. Burden, che aveva appuntamento con Olson a mezzogiorno e mezzo, si trovava già in Queen Street e stava constatando che quel lunedì mattina sul tardi, erano liberi solo tre parchimetri su dodici. Se Clifford era uscito dallo studio dello psicoterapeuta alle sei, alle sei e due minuti poteva già essere ripartito a bordo della sua auto. A quell'ora, il traffico doveva essersi già fatto meno caotico, e quindi alle sei e dieci minuti avrebbe già potuto trovarsi al parcheggio del Barringdean Shopping Centre; ma era da escludere che, come so-
steneva, avesse raggiunto il parcheggio alle sei meno cinque. Dopo una breve telefonata al commissariato, Burden aveva chiamato l'ospedale e aveva saputo che lo stato di Wexford era soddisfacente. Quell'aggettivo, così vago, aveva la prerogativa di dare l'impressione, a chi telefonasse, che la persona di cui chiedeva notizie fosse in punto di morte. Perciò, Burden aveva telefonato a Dora, a casa della figlia maggiore. Dora l'informò che, se Wexford continuava a migliorare con quel ritmo, l'avrebbero dimesso dall'ospedale giovedì. Burden annunciò che il giorno successivo sarebbe stato fuori città. A casa Wexford era all'opera una squadra di artificieri, e finché non avessero terminato il loro lavoro, non si poteva iniziare a sistemare la casa. Concluse le telefonate, Burden si avvide di essere ancora in anticipo per il suo appuntamento, e così si mise a camminare. Passò davanti alla Midland Bank, dove erano in corso lavori di ristrutturazione, al negozio di scarpe e a quello di giocattoli. Pensava all'autobomba, e si chiedeva se fosse davvero destinata a Sheila. Perché mai qualcuno avrebbe dovuto ucciderla? Solo perché aveva tagliato il filo spinato di una base dell'aeronautica? Burden non approvava la Campagna per il Disarmo Nucleare, né i Verdi, né in genere le teste calde. Era uno dei pochi argomenti su cui non fosse d'accordo con la moglie, o per meglio dire, su cui la moglie non fosse ancora riuscita a convincerlo. Secondo lui, erano tutti svitati e anarchici, fuorviati o pagati dai russi. Ad ogni modo, era possibile che altre teste calde, non meno esecrabili di loro, tentassero di farli saltare in aria, così come era accaduto nel caso della nave Greenpeace, affondata nel sud del Pacifico. D'altra parte, era possibile che qualche nemico di Wexford, magari uno che c'entrava con il caso Robson, fosse a conoscenza dell'abitudine di Wexford di spostare l'auto di Sheila, quando la figlia andava a trovarlo, per poi poter portare in garage la sua. Burden non ne era certo, ma lo riteneva probabile, conoscendo il suo capo. Era stata una serata buia, peggiorata dalla foschia. Qualcuno avrebbe potuto intrufolarsi nella proprietà di Wexford, forse passando attraverso il terreno non edificato, e piazzare una bomba sotto la Porsche. Burden, purtroppo, ne sapeva ben poco in fatto di bombe. Il parrucchiere che si trovava sotto lo studio di Olson si chiamava Pelage. Una volta Wexford, che per togliersi la curiosità aveva cercato il nome sul vocabolario, gli aveva spiegato che il vocabolo indicava il pelo, o la pelliccia, o la pelle dei mammiferi. Il negozio era aperto da sei mesi soltanto, e dentro era arredato con pezzi d'alta tecnologia, tanto da ricordare l'in-
terno di un computer. L'edificio che l'ospitava, invece, era vecchio come tutta quella zona di High Street, e la scala stretta e ripida che Burden imboccò doveva avere almeno centocinquant'anni di vita. A giudicare dai fori dei tarli nei gradini, non aveva l'aria di resistere molto più a lungo. Se la donna che Burden incrociò non fosse stata magra quanto lui, l'investigatore avrebbe avuto difficoltà a passare, tanto più che nessuno dei due aveva dato l'impressione di essere disposto a cedere il passo. Arrivato in fondo alla scala, Burden vide una porta socchiusa. Non c'era il campanello, e perciò spinse il battente ed entrò. — Salve! — disse ad alta voce, per annunciare la sua presenza. Si trovò in un'anticamera dove non esistevano mobili. C'erano soltanto alcuni cuscini per terra, e un aggeggio piegato, grosso all'incirca quanto una valigia, che gli rammentò un tavolo pieghevole avuto in prestito per tappezzare le pareti di casa sua. Con la differenza che questo probabilmente era un lettino da massaggiatore. Sul soffitto erano dipinti, in modo piuttosto approssimativo, i segni dello zodiaco; alle pareti erano appesi strani poster, uno dei quali rappresentava un paio di stivali senza gambe dentro, ma con i segni ben visibili delle dita dei piedi e delle unghie. Se ci fosse stato Wexford, avrebbe potuto spiegargli che il poster era tratto da un quadro di Magritte. Un altro raffigurava alcuni gatti in mantello e stivali, in groppa a bianchi destrieri. Burden ripensò a ciò che gli aveva detto Clifford a proposito del suo stato d'animo, e decise che anche lui, lì dentro, si sentiva minacciato. Si aprì una porta in fondo al corridoio, e ne uscì un tizio, senza fretta. Si fermò sulla porta, incrociò le braccia. Piccolo di statura, era robusto ma non grasso, con spalle larghe, cosce poderose ma niente pancia. I capelli (il suo pelage, Burden non poté fare a meno di pensare), erano scuri e ricci, lunghi e folti come quelli di una donna. L'attaccatura era bassa, sopra la fronte; le basette lunghe ricciute si univano con la barba cespugliosa, che a sua volta faceva tutt'uno con i baffi leggermente rossicci. Tra tanto pelo, della faccia si vedeva ben poco: solo il naso appuntito, le labbra sottili e gli occhi scuri, che facevano pensare a quelli di un animale selvaggio. Al telefono, Burden gli aveva detto il suo nome per intero. — Accomodatevi, Michael — l'invitò Olson, tendendogli la mano. — O preferite che vi chiami Mike? Burden provava istintivamente antipatia, cosa che la moglie giudicava antiquata e ridicola, nei confronti di chi, pur non essendo suo amico, lo chiamava con il nome di battesimo. In quel momento, si rendeva conto
quanto fosse sciocco tanto formalismo da parte sua, visto che aveva a che fare con una persona più o meno della sua età. Perciò, diede un'alzata di spalle e seguì Olson nel suo studio. L'ambiente era molto simile allo studio di Freud, così com'era stato ricostruito nel museo londinese che lui e Jenny avevano visitato. Non mancavano neppure i tappeti orientali, e Burden fu certo dell'intenzione di Olson di imitare lo studio di Freud. Il locale era ingombro di mobili dozzinali, e non mancava il lettino da psicanalista. Alle pareti erano appesi vari poster, uno dei quali, antinucleare, rappresentava un mappamondo devastato, sormontato da una citazione da Einstein: La forza sprigionata dall'atomo ha cambiato ogni cosa, tranne il nostro modo di pensare, e questo ci condurrà inevitabilmente alla catastrofe. La frase indusse Burden a pensare a Wexford, e a riflettere sul fatto che il suo capo si sarebbe accostato a Olson con mente più aperta della sua. D'altra parte, a una certa età, non è facile vincere i propri pregiudizi. Olson si era appollaiato in fondo al lettino, in una posizione che probabilmente gli era abituale. Guardava Burden senza aprire bocca, altro atteggiamento che evidentemente faceva parte della prassi. — Mi risulta che il signor Clifford Sanders sia un vostro paziente, dottor Olson — esordì Burden. — Un mio cliente, sì — lo corresse Olson. — E io non sono dottore. Questo rammentò a Burden un articolo letto sul giornale, in cui si criticava la faciloneria di certi sedicenti psichiatri, a cui non doveva essere concesso di esercitare la professione, non avendo le opportune specializzazioni. — Ma sicuramente siete in possesso della qualifica necessaria. — Ho studiato psicologia — gli spiegò Olson con calma. Non intendeva giustificarsi: lui era quello che era, prendere o lasciare. Atteggiamenti di questo genere mirano a dare l'impressione di trovarsi di fronte a una persona onesta, che non ha nulla da nascondere, e perciò Burden si fece diffidente. A questo punto, Olson avrebbe dovuto domandargli che cosa desiderasse da lui, come sempre accadeva in situazioni analoghe. Olson invece non fece domande, rimase seduto in silenzio, a fissare Burden quasi con interesse professionale. — Suppongo che vi atteniate a una sorta di deontologia — proseguì Burden — data la professione che esercitate, per cui non sto a domandarvi se avete rivelato a qualcuno la diagnosi fatta sulla personalità del signor
Sanders. — Per la verità, Burden riteneva di essersi dimostrato fin troppo fiducioso, e gli diede piuttosto fastidio il fatto che Olson, invece di rispondergli, si limitasse a sorridere e a confermare con un lieve cenno del capo. — La questione che m'interessa di appurare ha carattere molto più pratico, infatti riguarda l'ora dell'ultima visita del signor Sanders. A quanto mi è parso di capire, aveva un appuntamento per le cinque del pomeriggio, e la seduta durava un'ora. Dunque, dovrebbe essersene andato dal vostro studio verso le sei. — No — replicò Olson. — No? Non è così? Tranquillo, senza ombra di nervosismo, Olson alzò lo sguardo verso il mappamondo e la predizione di Einstein. — Solitamente — spiegò — Clifford viene alle cinque, ma a volte mi è capitato di chiedergli di cambiare ora, cosa che ho fatto anche giovedì scorso. Avevo una conferenza a Londra alle diciannove e trenta, e volevo avere un po' più di tempo a disposizione. — Ma il signor Sanders è venuto da voi, giovedì? Doveva essere tipico di Olson sorridere con indulgenza delle preoccupazioni altrui, quando evidentemente le giudicava fuori luogo. Sorrise con aria indulgente. — È venuto. Gli avevo chiesto di venire con una mezz'ora di anticipo, e infatti è venuto venti minuti prima del solito. Se n'è andato alle cinque e mezzo. — Alle cinque e mezzo in punto, signor Olson? Oppure, dopo i convenevoli e l'appuntamento per la volta successiva, in realtà è uscito dal vostro studio, diciamo, alle sei meno venti? Olson si tolse l'orologio, lo posò sul tavolo accanto a sé, lo indicò. — Alle cinque e mezzo precise, prendo il mio orologio, e dico al mio cliente, in questo caso a Clifford, che la seduta è giunta al termine e che ci rivedremo la prossima settimana. Non una parola di più. Jenny, la moglie di Burden, si era rivolta a uno psicanalista, durante la gravidanza. Chissà se la prassi era la stessa? Burden si rese conto di non averla mai interrogata in proposito. Il lettino, per esempio, serviva per sdraiarcisi sopra? Che effetto faceva, parlare con lo psicanalista, raccontargli i propri segreti? Era come parlare con un enorme orecchio? Burden, pur non avendo fiducia in Olson, si rese conto che doveva essere quella la tattica giusta, l'unico sistema valido. — Allora, Clifford Sanders ha lasciato il vostro studio alle cinque e mezzo in punto?
Olson annuì, l'aria indifferente. Poco gli importava se Burden gli credeva oppure no. — Poi, siete andato a Londra? Avete tenuto la conferenza? — Sono uscito di qui alle sei e sono andato a piedi alla stazione, per prendere il treno che arriva a Victoria Station alle sette e dieci. La conferenza trattava dei fattori scatenanti la proiezione della personalità, ed era stata organizzata per i membri della MAPT, ossia la Metropolitan Association of Psychotherapists, nella sede dell'Associazione, a Pimlico. Ci sono andato in tassì. Olson sembrava molto sicuro di sé. Adesso, pensò Burden, mi parlerà di minacce alla psiche, sistemi di autodifesa e proiezioni. Invece, Olson si alzò e andò verso la scrivania, che era ingombra di carte e aveva tutta l'aria di essere stata un tempo un tavolo di cucina. Si mise a sfogliare l'agenda degli appuntamenti, soffermandosi su un punto in particolare. Consultò l'orologio, e inaspettatamente sorrise. Chiuse l'agenda e si voltò a guardare Burden. — Immagino che non vi sarà mai capitato di pensarci sopra, Michael, e quindi probabilmente non avete idea di quanta importanza abbia il fattore tempo sulla psiche umana. Non mi sembra troppo azzardato dire che esso può essere annoverato tra gli archetipi junghiani determinanti il subconscio collettivo. Certo è che da alcuni individui esso può essere associato all'idea dell'Ombra. Burden lo fissava. Che non avesse capito niente, glielo si leggeva in faccia. Pareva in preda a un profondo disgusto. — Proviamo a immaginare il Tempo scritto con la T maiuscola — continuò Olson. — È stato raffigurato come un dio su una carrozza alata, personificato come il Vecchio Padre Tempo. Immagino che vi sarà capitato di sentirlo definire in questo modo. Alcuni individui sembrano schiavi del tempo, di questo vecchio con un teschio al posto del volto e una scure in mano, da questo dio che li insegue a bordo della sua carrozza alata. Questi individui sono suoi servi, e si preoccupano, anzi si tormentano, se non riescono ad arrivare puntuali a riverirlo, a obbedire ai suoi ordini. Ma esistono altri individui, Michael, che odiano il tempo. Lo temono, e poiché la loro paura è grande e sempre presente, non possono fare altro che spingerlo via, nel subconscio. Ne hanno terrore, e perciò lo rifiutano. Di conseguenza, si comportano come se non esistesse, vivono in un mondo da cui l'hanno escluso. Per questi individui, le ore e le mezz'ore passano inosservate. Sono le persone, e tutti noi ne conosciamo qualcuna, che non riescono mai
ad alzarsi il mattino, e di notte spesso si stupiscono, accorgendosi a un tratto che sono le tre o le quattro e loro sono ancora in piedi. Arrivare puntuali a un appuntamento rappresenta per questi individui uno sforzo sovrumano. I loro amici, che ormai lo sanno, quando organizzano una festa li invitano una mezz'ora prima. Quanto alla nozione del tempo, è praticamente assente. Pretendere da loro che ricostruiscano con esattezza i tempi delle loro azioni è quasi un atto di violenza. Burden non aveva afferrato molto bene il significato del discorso, ma un punto gli sembrava di averlo capito. — State forse dicendomi che, per ottenere da Clifford Sanders che arrivasse qui alle cinque, gli davate appuntamento per le quattro e mezzo? Olson sorrise, annuì. — Ma se non sbaglio, poco fa mi avete detto che gli appuntamenti erano per le cinque? — Vi ho detto che lui viene alle cinque. Non è la stessa cosa. — Perciò giovedì scorso, quando gli avete telefonato, gli avete chiesto di venire alle quattro? — Ed è arrivato con dieci minuti di ritardo, cioè verso le cinque meno venti. — Olson sorrise, divertito. — Forse pensate che sia sleale nei confronti dei miei clienti, vero, Michael? Perché gioco con le loro nevrosi in un modo che gli sottrae la loro dignità umana, non è così? Ma anch'io devo pur vivere, capite, e sono costretto a riconoscere il Tempo come un elemento importante della mia vita. Non posso permettermi il lusso di sprecare mezz'ora, esattamente come il più abietto dei suoi schiavi. Nemmeno io, pensò Burden, alzandosi per andarsene. Con suo disappunto, mentre lo accompagnava alla porta, Olson gli mise una mano sulla spalla, in un gesto quasi affettuoso. — Non ve la sarete presa per questa lezione di psicologia vero, Mike? Burden guardò lui, poi il lettino, e recuperò un po' della sua disinvoltura. — Una volta tanto, immagino che sarà stato piacevole per voi parlare, invece che ascoltare — disse con un pizzico di sarcasmo. All'inizio Olson corrugò la fronte, poi la sua espressione si rasserenò. — Questo vale per i seguaci di Freud, che si attengono alla terapia dell'ascolto. Io invece parlo molto, li aiuto a pensare. — Sorrise. Aveva l'aspetto dell'uomo felice, assolutamente privo di preoccupazioni. — Si direbbe proprio che la bomba fosse destinata a vostra figlia — gli aveva detto il poliziotto di Myringham. — Mi pare che vostra figlia non vi
avesse avvertito in precedenza della sua intenzione di venire a farvi visita? — gli aveva domandato. Wexford gli aveva risposto che non era al corrente del suo arrivo, ma forse la moglie sì. — Dovrete domandarlo a lei — aveva suggerito. Il poliziotto gli aveva risposto di averlo già fatto. — No, anche per vostra moglie è stata una sorpresa, l'arrivo di vostra figlia. — Che cos'era stato a far esplodere la bomba? — si era informato Wexford. — Stavate per fare retromarcia, ricordate? Volevate spostare l'auto di vostra figlia, per entrare in garage con la vostra. Me l'ha detto vostra moglie. Pensiamo che la bomba sia esplosa dopo che avete innestato la retromarcia. Vostra figlia ha dichiarato di non avere avuto occasione di usare la retromarcia, da quando è partita da Londra fino a quando è arrivata a casa vostra, un'ora e mezzo più tardi. Infatti, è evidente che non aveva motivo di usarla. "Il tizio che ha messo la bomba sotto l'auto, non si è nemmeno posto il problema. Per lui non faceva differenza, che la bomba esplodesse cinque minuti dopo che vostra figlia si era messa al volante, o magari nei pressi dell'ospedale pediatrico di Great Ormond Street, oppure qui da voi, la domenica sera, quando vostra figlia fosse risalita in macchina per tornare a Londra. Per lui, era la stessa cosa. L'importante era che ci fosse vostra figlia, in macchina." Doveva esserci sua figlia in macchina, continuava a ripetersi Wexford, mentre se ne stava a letto. L'avevano svegliato alle quattro del pomeriggio, gli avevano fatto bere il tè, seduto insieme con molti altri uomini a un tavolo rotondo che avevano portato nella stanza. Un dinamitardo aveva tentato di uccidere Sheila e aveva fallito, ma certo questo non l'avrebbe fermato, non gli avrebbe impedito di riprovarci. Forse ce l'avevano con lei perché sbatteva contro le armi nucleari, o forse per altri motivi. Esistono tipi strani, balordi che invidiano chi è bello, chi è famoso, chi ha successo. Esiste persino gente che identifica l'attore con la parte; qualcuno poteva avere identificato Sheila con Lady Audley, una bigama e un'assassina. Così, Sheila doveva essere punita, per la sua bellezza, per il suo successo, e per la sua immoralità, per aver impersonato la parte della moglie infedele e per esserlo stata nella realtà. Come avrebbe fatto a vivere, a lavorare, ad andare avanti con quel chiodo fisso in testa, con il terrore che un assassino volesse uccidere Sheila? Tutti i giornali ne parlavano. Aveva tre quotidiani sul letto, e su tutt'e tre i giornalisti speculavano sul genere di terrorista che se la prendeva con Sheila. Come avrebbe fatto a sopportare quella situazione?
Sylvia, l'altra figlia, passò a trovarlo dopo avere accompagnato il piccolo Robin a scuola di musica. Verso sera, ricevette anche la visita di Burden, che gli portò il rapporto medico relativo al caso Robson. Burden gli parlò della sua convinzione che l'assassino fosse Clifford Sanders, gli riferì che Gwen Robson amava spettegolare del prossimo, e gli raccontò i punti salienti di una strana conversazione che aveva avuto con uno psicoterapeuta. — Questa storia, a proposito di certe persone che non riescono a esser puntuali (perché è questo il succo di tutto il suo discorso, in parole povere), non cambia la sostanza delle cose. Secondo Sumner-Quist, la signora Robson potrebbe essere stata uccisa alle sei meno cinque. Questo è il limite massimo. Clifford avrebbe potuto tranquillamente trovarsi al posteggio del centro commerciale, anche prima delle sei meno cinque. Poteva arrivarci, senza correre, già alle sei meno un quarto. Wexford si sforzò di capire che cos'avesse in mente Burden. — Dunque, secondo te è andato al parcheggio, sapendo di trovarci la signora Robson? E perciò sarebbe omicidio premeditato. Infatti, stando alla tua teoria, è da escludere che l'abbia incontrata per caso. È impossibile che sia arrivato al parcheggio con mezz'ora di anticipo, e per tutto quel tempo sia rimasto in macchina, in quell'ambiente così squallido, in attesa che arrivasse la madre. O stai forse dicendo che, non avendo l'esatta nozione del tempo, ignorava se fossero le cinque e mezzo oppure le sei meno un quarto? — Non sono io a dirlo — replicò Burden — ma Olson, lo strizzacervelli. Io non sono d'accordo. Secondo me, Clifford ha un atteggiamento perfettamente normale nei confronti del tempo, quando vuole. E poi, perché non potrebbe trattarsi di omicidio premeditato? Non credo proprio che Clifford pensasse, immaginasse, o credesse che Gwen Robson fosse sua madre. Dovrebbe essere completamente pazzo, per incorrere in un simile errore. E se intendeva uccidere la madre, poteva farlo a casa. No, il movente dev'essere di carattere più pratico, come avviene sempre. — Guardò Wexford quasi con aria di sfida, in attesa di essere contraddetto, cosa che Wexford non fece. — Supponi che Gwen Robson lo ricattasse? — continuò Benden. — Supponi che avesse scoperto qualche segreto che lo riguardava e se ne servisse per ricattarlo. — Per esempio? — domandò Wexford, con un tono stranamente indifferente. — Può darsi che sia un omosessuale, e avesse paura che la madre lo scoprisse. Un'ipotesi come un'altra. — Però finora non risulta che i due si conoscessero, vero? Non abbiamo
prove in questo senso. Generalmente, se un ragazzo conosce una donna dell'età di sua madre, è perché la donna è amica della madre, e Gwen Robson non era amica di Dorothy Sanders. Inoltre, Clifford non aveva bisogno di un'assistente sociale, non essendo né un ottuagenario né un invalido, e quindi il suo nome non figurava certo nell'elenco delle persone bisognose d'aiuto, cosa che avrebbe potuto farli conoscere. Infine, se non si può escludere che la signora Robson ricattasse la gente, non esistono prove che lo facesse. — Le troverò — ribatté Burden, convinto. — L'inchiesta si apre domattina. Ti farò un resoconto preciso di come sono andate le cose, domani sera a quest'ora. Sembrava che Wexford non gli prestasse più attenzione: guardò il suo vicino di letto, poi l'infermiera entrata in quel momento con il carrello dei medicinali. Burden pensò che doveva essere vero, che chi è ricoverato in ospedale perde ogni interesse per il mondo esterno. La stanza, il vicino di letto, ciò che ha detto l'infermiera e ciò che mangeranno a pranzo, finisce per essere il loro microcosmo. L'inchiesta fu aperta e subito aggiornata, come Burden aveva previsto. Non poteva essere altrimenti. Fu chiamato a deporre il dottor SumnerQuist, che se la spassò un mondo dissertando sulla garrotta. Poi fu la volta di un tizio della Scientifica, che sciorinò, a beneficio del magistrato inquirente, una sequela di termini astrusi come polimeri, poliesteri a filamenti e polietilene tereftalico. Si trattava di stabilire che tipo di materiale fosse quello che rivestiva il filo della garrotta, e quando l'esperto ebbe finito di parlare, Burden non aveva capito quasi niente, se non che doveva essere una specie di plastica grigia. Robson non era venuto in tribunale. Del resto, non avrebbe avuto motivo di esserci. Clifford Sanders e sua madre invece erano presenti. Clifford probabilmente, pensava Burden, si sarebbe beccato una lavata di capo dall'inquirente, per avere coperto il corpo ed essersela data a gambe. La prima teste fu Dorothy Sanders, che si avviò verso il banco dei testimoni con aria molto sicura di sé. Per l'occasione aveva indossato, sicuramente di proposito, abiti simili a quelli della vittima, persino lo stesso tipo di calze di pizzo marrone. L'uomo venuto con loro, seduto in quel momento vicino a Clifford, era il proprietario della fattoria di Ash Lane, quello che Burden aveva visto fermo sulla porta con il suo cane, mentre lui faceva manovra con l'auto.
7 Una casa senza donne, pensava Burden, era sempre riconoscibile ovunque. Non che le case abitate da uomini soli fossero particolarmente sporche o trascurate; ma la mancanza di una mano femminile si notava per l'assimmetria degli oggetti, alcuni dei quali trovavano collocazione nei posti più impensati. La cucina di Ash Farm Lodge era un locale grande, caratteristica indispensabile della cucina di una fattoria. Il tavolo era ingombro di libri contabili e di altre carte, sulla cucina a gas c'era un giornale con sopra un paio di stivali, un asciugapiatti era steso ad asciugare sullo schienale di una sedia, e appeso a un gancio che originariamente doveva servire a sostenere un aggeggio di cucina, c'era un fucile. L'uomo che Burden aveva visto in tribunale si chiamava Roy Carroll. Dimostrava una cinquantina d'anni. Aveva mani particolarmente grandi, arrossate e incallite, e la pelle del viso era rossa, solcata da piccole vene. Il cane era sdraiato non su un lettino, ma in un grande cassetto. Burden ebbe l'impressione che, prima di uscire da quel cassetto, ne avrebbe chiesto l'autorizzazione al padrone, naturalmente nel suo linguaggio canino. Carroll era un tipo brusco e decisamente poco socievole. Aveva fatto entrare in casa Burden controvoglia, e rispondeva alle sue domande a monosillabi, con un sì o con un no. Sì, conosceva "Dodo" Sanders, e anche Clifford, il figlio. Abitava in quella casa da quando era stata costruita. Quando? Venticinque anni prima. — Dodo? — ripeté Burden in tono interrogativo. — Era il soprannome che le aveva dato il marito, e così la chiamavano tutti, persino sua madre. E anch'io. — Siete amici? — In che senso? La conosco, ho fatto alcuni lavoretti per lei. Burden gli domandò se fosse sposato. — Che v'importa? — replicò Carroll. — Ora non lo sono. A proposito di Gwen Robson, disse di non averla mai sentita nominare, prima che dessero la notizia dell'omicidio alla televisione. In casa sua non aveva mai messo piede un'assistente sociale. Dov'era lui il giovedì pomeriggio precedente? Era andato a caccia, rispose, nella speranza di trovare una lepre da mettere in pentola. In quella stagione, era quasi sempre fuori a caccia, all'imbrunire. Burden notò un particolare interessante, che forse però non aveva nessuna attinenza con il caso. Il giornale su cui Carroll aveva
posato gli stivali era una copia di Kim, non certo il genere di lettura preferita da un tipo come Carroll. Gli venne in mente il poster che aveva visto nello studio di Olson, quello con gli stivali senza gambe dentro, con i segni delle dita ben distinti. Inspiegabilmente, ebbe un brivido. Era la mattina di un giorno feriale. A quell'ora, Clifford lavorava di certo. Burden telefonò alla Munster's, e chiese di parlare con il signor Sanders. Non era nemmeno sicuro che Clifford lavorasse in quella scuola, ma fece centro. Il signor Sanders era in classe. Voleva lasciare un messaggio? Wexford avrebbe agito con maggiore riservatezza, Burden se ne rendeva conto, ma per quanto lo concerneva, non gli sembrava il caso di farsi tanti scrupoli, considerato che aveva a che fare con un balordo, un bugiardo, un probabile omosessuale, un tipo che aveva sentimenti confusi nei confronti della madre e che comunque era uno psicopatico. Perciò, disse di riferire a Clifford Sanders che aveva telefonato l'ispettore Burden e che doveva recarsi al commissariato di polizia non appena avesse terminato la lezione. Nel frattempo, presentò domanda per ottenere un mandato di perquisizione, poiché era convinto di trovare qualcosa di simile a una garrotta in casa Sanders. Avrebbe potuto rivolgersi direttamente a Dorothy Sanders, chiedendole il permesso di perquisire la sua casa. In genere, la gente non rifiutava, ma Dorothy Sanders probabilmente l'avrebbe fatto. Mentre aspettava Clifford, a un tratto gli vennero in mente le borse della spesa di Robson. Incaricò l'agente Davidson di cercarle e di portarle a Highlands. Erano borse rosse della Tesco. Burden aveva effettuato ricerche intensive nel supermercato Tesco del Barringdean Shopping Centre. Vestita di marrone, pressappoco come la signora Robson, Marian Bayliss aveva tentato di ricostruire i suoi spostamenti all'interno del centro commerciale. Una delle cassiere ricordava di averla vista passare, il giovedì precedente, e riteneva che fossero state le diciassette e trenta. Burden si rilesse il rapporto dell'agente Archbold. Linda Naseem conosceva di vista la signora Robson, tanto da fare qualche commento sul buono o sul cattivo tempo e da chiederle notizie sulla salute del marito. Gwen Robson era cliente abituale del supermercato, dove faceva la spesa ogni giovedì pomeriggio. Il particolare che Burden trovò di maggiore interesse fu la dichiarazione di Linda Naseem di avere visto la signora Robson conversare con una ragazza. Era accaduto subito dopo che la signora Robson aveva pagato, mentre era intenta a sistemare la spesa nelle borse.
Linda Naseem non era in grado di descrivere la ragazza, essendo stata impegnata con la cliente successiva. Non l'aveva nemmeno vista in faccia, ma di schiena. La ragazza aveva in testa un cappello o un berretto. Dopo che la signora Robson aveva terminato di riempire le sue borse, lei e la ragazza si erano allontanate, forse insieme. Linda Naseem non ne era certa. Clifford arrivò al commissariato circa mezz'ora dopo la telefonata di Burden. Munster's School si trovava in High Street, a meno di duecento metri dal commissariato. L'ufficio di Burden era un ambiente abbastanza gradevole, dove uno poteva pensare di trovarsi in visita. Perciò, preferì ricevere Clifford in una stanza degli interrogatori, al pianterreno. Le pareti, nude, avevano lo stesso colore delle uova strapazzate, e il pavimento era di linoleum grigio. Burden fece accomodare Clifford su una sedia di ferro grigio e sedette di fronte a lui, su un angolo del tavolo il cui piano era rivestito di formica gialla. — Mi avevate detto di non conoscere la signora Robson — disse, senza preamboli. — E invece la conoscevate, vero? Clifford assunse un'aria cupa. — Non la conoscevo — rispose, con un tono che non tradiva la minima emozione. Arrivava sempre un momento, nel corso degli interrogatori, in cui Burden smetteva di usare il cognome della persona sotto interrogatorio e la chiamava per nome. Wexford chiedeva il permesso all'interessato, Burden no. Rivolgersi a una persona chiamandola per cognome, secondo lui, significava dimostrargli rispetto, ed era per questo motivo che preferiva essere chiamato "Signor Burden". Se qualcuno gli avesse domandato il motivo del suo comportamento, avrebbe risposto che a un certo momento perdeva ogni rispetto verso la persona che stava interrogando, smetteva di averne stima. — Dunque, Clifford, sarò sincero con voi. Francamente, ignoro dove e come l'abbiate conosciuta, ma so che la conoscevate. Perché non l'ammettete, risparmiandomi così la fatica di scoprirlo da solo? — Ma io non la conoscevo. — Dicendo questo, non aiutate voi stesso né riuscite a ingannare me. State solo perdendo tempo. — Non conoscevo la signora Robson — si ostinò Clifford. Posò le mani sul tavolo, se le rimirò. Le unghie erano mangiucchiate, Burden lo notò per la prima volta. Quelle mani grassocce e rosee, con le unghie rosicchiate, sembravano mani di bambino. — Va bene — disse. — Posso aspettare. Me lo direte quando vi sentirete
di farlo, quando vi sembrerà il momento giusto. — Non so che cosa significhi "il momento giusto" — replicò Clifford, inducendo Burden a domandarsi se stesse prendendolo in giro. Comunque, cambiò argomento. — Dovete essere arrivato al parcheggio molto prima delle sei. Il signor Olson mi ha detto che avete lasciato il suo studio non alle diciotto, ma alle diciassette e trenta. Al parcheggio, sarete arrivato al massimo alle diciassette e quarantacinque. Volete sapere a che ora è morta la signora Robson? Tra le diciassette e trentacinque e le diciassette e cinquantacinque. — Non so che ora fosse, quando sono arrivato al parcheggio. È inutile interrogarmi sull'ora. Non porto l'orologio, forse l'avete notato. — Alzò un braccio, in un gesto che a Burden parve effeminar to. I polsi erano bianchi e grassocci. — Non credo di essere andato direttamente al parcheggio. Sono rimasto seduto in macchina, a ripensare a ciò che avevo detto a Serge. Avevamo parlato di mia madre. Ormai, quasi più nessuno la chiama con il suo nome di battesimo, ma un tempo l'avevano soprannominata Dodo. È un diminutivo di Dorothy, naturalmente. Burden non fece commenti. Si chiedeva se quello fosse il suo modo abituale di parlare con gli estranei, oppure se Clifford si burlasse di lui. — I dodo sono grossi uccelli incapaci di volare, ora estinti. Furono sterminati dai marinai portoghesi nell'isola Maurizio. Mia madre non può affatto essere paragonata a un dodo. Serge e io abbiamo parlato della possibilità che sia la madre a plasmare l'anima del proprio figlio, e dell'influenza negativa che mia madre esercita su di me. In certi casi, se una persona è irritabile o tende a essere malinconica, la colpa è della madre. Mentre me ne stavo seduto in macchina, ripensavo a tutte queste cose. Mi piace rifletterci sopra qualche volta. L'auto era posteggiata vicino a un parchimetro. Avevo ancora dieci minuti di tempo. Così, sono sceso a mettere altre monete nel parchimetro. — Allora, qualche volta vi accorgete del tempo che passa, non è vero Clifford? Alzò la testa, guardò Burden con perplessità. — Perché mi fate tutte queste domande? Che cosa sospettate che abbia fatto? — Supponiamo che siate andato direttamente al centro commerciale. Non è questo che avete fatto in realtà, Clifford? Avete lasciato la macchina nel parcheggio, siete entrato nel centro commerciale e vi siete imbattuto nella signora Robson. Non è così? — Vi ho detto la verità. Sono rimasto seduto in macchina, in Queen
Street. Ditemi perché sospettate di me. — Vi consiglio di sedervi nella vostra macchina e di rifletterci sopra — disse Burden, lasciandolo libero di andarsene. Quella finta ingenuità gli dava sui nervi. I dodo, uccelli che non volano... Figurarsi! E poi quella storia dell'influenza negativa esercitata dalla madre... Gli adulti non si comportano e non parlano come bambini, soprattutto quando, come Clifford, sono insegnanti e hanno studiato all'università. L'espressione infantile di Clifford, la sua ingenuità, lo rendevano diffidente. Se l'aveva preso in giro, avrebbe avuto modo di pentirsene. Il mattino successivo, avrebbero perquisito la casa. Sarebbe stato magnifico, pensava Burden, riuscire a risolvere il caso prima che Wexford tornasse al lavoro. Sheila, come Wexford scoprì durante il tragitto dall'ospedale all'abitazione dell'altra figlia, alloggiava all'Olive and Dove, il migliore albergo di Kingsmarkham. Non c'era posto anche per lei a casa di Sylvia, visto che la stanza degli ospiti era occupata dai genitori. — In ogni modo, per lei è sicuramente più comodo l'albergo — disse Sylvia. — Così è libera di ricevere il suo spasimante quando vuole. Tra le due sorelle esisteva una certa rivalità. Sylvia mascherava la propria invidia, proclamandosi sposa felice e madre orgogliosa. Se desiderasse avere ciò che non mancava alla sorella, il successo, la fama, l'ammirazione generale, gli amanti presenti e quelli futuri, non era dato di sapere. Però veniva fatto di pensare che la sua virtù non fosse tanto una scelta, quanto una necessità. Ripeteva spesso che la fama e il denaro non danno la felicità, e che chi sta nel mondo dello spettacolo non ha mai relazioni durature. Sposata a diciott'anni, probabilmente Sylvia avrebbe voluto avere almeno il ricordo di spasimanti precedenti, e rimpiangeva la sua mancanza d'esperienza in fatto di uomini. Sheila, più obiettiva della sorella, era sincera quando affermava che doveva essere bello non avere preoccupazioni, nessuna paura del futuro, e per contro la possibilità di frequentare l'ambiente universitario, con la prospettiva di laurearsi senza fretta, e la sicurezza di un marito innamorato. Con molta probabilità, pensava Wexford, anche lei avrebbe voluto avere figli. Sylvia avrebbe voluto sapere dal padre se si era scoperto qualcosa, riguardo all'autobomba; ma Wexford preferiva evitare l'argomento. Poco dopo, Sylvia uscì per andare a prendere i bambini a scuola. — So che ha qualcuno — disse Dora, riferendosi a Sheila. — Ha parlato al telefono con un certo Ned, prima che tu uscissi e facessi esplodere la
bomba. — Ti ringrazio — mormorò Wexford. — Detto in questo modo, sembra quasi che l'abbia fatta esplodere di proposito. — Sai bene che cosa intendevo dire. Comunque, stasera quando viene Sheila, possiamo domandarle di quel Ned. — Io non le domando proprio niente — protestò Wexford. Ma Sheila telefonò per avvertire che non poteva andare da loro, e che sarebbe venuta a trovare il padre l'indomani mattina. Aveva avuto un contrattempo. — Il contrattempo sta arrivando con il treno da Londra — insinuò Sylvia. — Sarà un attore, o un Verde, o tutt'e due le cose. — Le insinuazioni, di qualsiasi genere, sono sempre deprecabili — l'ammonì il padre, tornando a sfogliare un numero del giornale Kim che aveva trovato in giro. Gli piaceva, il nome di quella rivista, sia perché lo trovava all'avanguardia, sia perché suonava bene. Trovò le pagine dedicate alla posta dei lettori. La "Zia Bontà" con cui collaborava Leslie era una certa Sandra Dale. In cima alla pagina c'era una sua foto: una donna grassottella, di mezza età, con i capelli biondi ricci e la faccia da buona. Alla prima lettera, era stata pubblicata solamente la risposta: T.M., Basingstoke: Giochetti come quello di cui mi parli nella tua lettera, possono essere divertenti e piacciono di sicuro al tuo ragazzo, ma vale la pena di compromettere la felicità della tua futura vita sessuale? Un giorno, quando sarai sposata o avrai comunque una relazione stabile, potresti pentirti amaramente di certe abitudini a cui non saprai rinunciare, che però ti impediranno di realizzarti pienamente come donna. Wexford si chiese se il vero scopo di questo genere di lettera non fosse per caso quello di stuzzicare l'erotismo dei lettori. Solo una persona completamente disinteressata all'argomento, oppure una che avesse profonde inibizioni, poteva fare a meno di speculare sulla natura delle abitudini sessuali di T. M., che scriveva da Basingstoke. Probabilmente era stata la nipote di Robson a scrivere a macchina le risposte a quelle lettere, mentre Sandra Dale gliele dettava. — C'è anche un articolo su Sheila — l'informò Sylvia. — Con parecchie foto tratte dalla serie televisiva.
Voltò le pagine e trovò le foto della figlia: Sheila con un abito da ballo bianco, poi con un vestito nero da passeggio e cappellino in testa. Quella sera sarebbe stata trasmessa l'ultima puntata di Il segreto di Lady Audley, che sarebbe stata ripetuta il sabato seguente. Chissà dove sarebbero stati loro, il sabato successivo? Neil voleva vedere un programma che parlava d'investimenti, su un altro canale, mentre il figlio maggiore, Robin, cercava di convincere sua madre a permettergli di restare alzato per vedere zia Sheila alla televisione. Stranamente, Sylvia appoggiò Dora, che ci teneva a seguire l'ultima puntata. Ricordò a Neil che non avrebbero avuto modo di vederla il sabato, essendo stati invitati a cena da certi amici. Neil perse la battaglia, e così pure Robin. Il ragazzino era sceso in pigiama, per la terza volta, e si era fermato sulla porta, nella speranza d'intenerire la madre. A un tratto, Wexford capì che non ce l'avrebbe fatta, a vedere la puntata. Aveva riletto il romanzo, mentre Sheila provava per l'adattamento televisivo, e sapeva perfettamente che Lady Audley quella sera avrebbe fatto una brutta fine: l'avrebbero rinchiusa in un manicomio. Con il suo stato d'animo, non avrebbe sopportato di vedere Sheila che urlava di dolore, mentre la seviziavano, pur nella finzione. Aveva l'emicrania e si sentiva stanco. Si alzò e, preso per mano il nipotino, annunciò che se ne sarebbe andato a letto anche lui. Mentre salivano le scale, udirono le dolci note della sigla; poi qualcuno chiuse la porta. Era una sensazione pericolosa, quell'eccitamento che gli derivava dalla caccia alla preda, o meglio dall'essersi creato una preda da cacciare. Burden se ne rendeva conto, e perciò diceva a se stesso che sarebbe stato saggio fermarsi, darsi una calmata. Sapeva quanto fosse sbagliato modellare i fatti in modo tale che rispondessero a una determinata teoria. D'altra parte, si sentiva sempre più convinto che l'assassino fosse Clifford Sanders. Ora doveva stare attento a non dare l'imbeccata ai testimoni. Doveva limitarsi a guidarli, ma evitare nel modo più assoluto d'influenzarli. Risoluto a essere il più obiettivo possibile, si recò a Highlands. Era mattino presto. L'aspettava una sorpresa: mentre svoltava in Hastings Road, vide Lesley Arbel ucire dalla casa dello zio e avvicinarsi alla sua auto, la Escort grigio metallizzata ferma sul ciglio della strada. Burden si affiancò alla Escort. — Tornate al lavoro, signorina Arbel? — s'informò. Quel mattino, l'abbigliamento di Lesley era molto serio: tailleur nero, camicetta bianca con cravatta nera, calze nere trasparenti con la riga dietro, scarpe nere con il solito tacco altissimo. Con i suoi capelli castani ben cu-
rati e il viso ovale truccato alla perfezione, a Burden rammentava una di quelle bambole con l'aspetto da adulte, che si regalavano alle bambine, complete di abiti e accessori. — Non lavoro, questa settimana. Frequento un corso di semantica. — Ah, al Sundays, se non sbaglio. — Sì, al Sundays Conference Centre. Mi hanno concesso due settimane di permesso, per darmi la possibilità di frequentare questo corso. Meglio di così, non poteva andare: in questo modo potrò restare vicina allo zio. — Fece l'atto di aprire la portiera, ci ripensò. — Ne sentirete quattro, da mio zio. Per la spesa che gli avete restituito. Dice che la carne si era guastata, e puzzava. Era un pezzo di manzo. Io non l'ho neanche visto. L'ha avvolto in un pezzo di carta e l'ha buttato, prima che tornassi a casa. Burden non seppe che cosa rispondere. In quel momento, arrivò un'auto, che si fermò dall'altra parte della strada. La vicina dei Robson, signora Jago, uscì di casa nel momento in cui dall'auto scendevano una giovane donna e una bambina di circa tre anni; sul sedile posteriore doveva esserci un'altra bambina più grande. La giovane donna, benché magrissima, somigliava alla signora Jago e quindi doveva essere la figlia. Una massa di capelli scuri ricciuti, simili a quelli di Serge Olson ma più lunghi e più lucidi, le copriva metà della schiena. La bambina, anche lei con i capelli lunghi e ricci, corse incontro alla nonna, che la prese in braccio. Ralph Robson impiegò parecchio tempo ad arrivare alla porta. Burden sentiva il rumore cadenzato del suo bastone, più forte a mano a mano che si avvicinava. Quando la porta si aprì, l'auto con le due bambine a bordo si era già allontanata. Quel mattino, Robson sembrava più che mai un rapace: il naso pareva più appuntito del solito, l'espressione più accigliata, gli occhi più rotondi. La giacca sportiva di tweed nelle varie tonalità di marrone accentuava la sua somiglianza con un pennuto, e la mano che stringeva il bastone faceva pensare anch'essa alla zampa di un rapace appollaiato su un ramo. Burden si preparava ai soliti convenevoli, ma Robson passò subito all'argomento che gli stava a cuore, come gli aveva preannunciato la nipote: voleva essere risarcito per essere stato costretto a buttare il pezzo di manzo. Quattro sterline e cinquantadue pence, era il prezzo della carne di cui chiedeva il rimborso. Burden gli disse di mettere per iscritto la sua richiesta e gli spiegò dove doveva mandarla. Sistemato il problema della carne, Robson passò all'altro argomento importante della sua esistenza, cioè all'artrite. I dolori erano aumentati, da quando era morta la moglie. L'anca gli doleva almeno dieci
volte tanto, rispetto a una settimana prima, e se appena accennava a muoversi, si sentiva subito lo scricchiolio dell'osso. Naturalmente, adesso che la moglie non c'era più, era costretto a muoversi parecchio per la casa, mentre prima lei badava a risparmiargli ogni fatica. In alcune località, disse, era possibile sottoporsi al trapianto attraverso la mutua, dopo un'attesa di poche settimane. Aveva chiesto al suo medico il giorno prima, quand'era andato a farsi visitare; ma purtroppo la risposta era stata negativa. Sarebbe stato diverso, ne era certo, se ci fosse stata ancora sua moglie. Lei sì, che avrebbe saputo far valere le sue ragioni. — Gwen si sarebbe fatta valere. Gwen non aveva peli sulla lingua. Se avesse saputo che esisteva la possibilità di trasferirmi in qualche ospedale, in un'altra parte del paese, non si sarebbe data pace finché non avesse ottenuto di farmici ricoverare. Ma ora a che serve recriminare? Ormai resterò conciato in questo modo per tutto il resto dei miei giorni, finché non sopporterò più il dolore e allora ci resterò secco con un'overdose. A Burden venne fatto di pensare che Robson era ossessionante, con quella storia dell'artrite. Dall'altra parte, con un male come il suo, era comprensibile che tendesse a escludere ogni altra cosa dalla sua esistenza. Il dolore fisico poteva persino distrarre la sua mente dal dolore psichico per la morte della moglie. Risoluto a evitare d'influenzare Robson, dopo che si furono seduti davanti al fuoco, gli domandò se ricordasse qualche commento della moglie sulle persone da lei assistite. Come aveva previsto, Robson gli rispose che era passato un mucchio di tempo. Burden insistette, ottenendo l'unico scopo d'indurre Robson a tirare ancora in ballo la sua artrite: Gwen non sapeva spiegarsi come se l'era beccata, né per quale motivo lei non ne era affetta. Questa volta, Burden fu sul punto di perdere la pazienza. Disse di non capire la sua riluttanza a collaborare, e aggiunse che avrebbe dovuto essere importante anche per lui, che si trovasse l'assassino della moglie. — Non dovreste parlarmi in questo modo — protestò Robson battendo il bastone per terra e facendo una smorfia di dolore. — Allora, sforzatevi di fare mente locale e di ricordare ciò che vi ha detto vostra moglie, sul conto dei suoi assistiti. Era una donna loquace, mi è stato riferito, una donna che aveva a cuore i suoi simili. Non vorrete farmi credere che tornasse a casa per il pranzo, oppure la sera, e non vi dicesse niente delle persone anziane di cui si occupava? Non vi ha mai raccontato, per esempio, che il signor Tal dei Tali nascondeva i soldi sotto il materasso?
Il timore di Burden d'influenzare Robson si rivelò completamente infondato. L'esempio che gli aveva portato, invece di stimolarne la memoria, suscitò soltanto stupore. — Non mi ha mai parlato di nessuno che nascondesse i soldi sotto il materasso. — Va bene, signor Robson — mormorò Burden, con quel briciolo di pazienza che gli era rimasta. — Di che cosa vi parlava, allora? Robson fece uno sforzo per ricordare. Pareva una macchina arrugginita che si mettesse faticosamente a funzionare. — C'era quel vecchio, dall'altra parte della strada... Gwen è stata molto buona con lui. Ha continuato ad andare a trovarlo, giorno dopo giorno, anche quando aveva smesso di lavorare come assistente sociale. Una figlia non avrebbe potuto fare di più. Doveva trattarsi di Eric Swallow, 12 Berry Close, Highlands, pensò Burden, con un cenno del capo che voleva essere d'incoraggiamento. — Signora Goodrich, si chiamava — riprese Robson. — Non era molto vecchia, ma era praticamente immobilizzata da non so più quale malattia. Era una donna in gamba, da giovane era stata un'ottima pianista, una concertista. Gwen diceva che aveva molta bella roba in casa, pezzi di valore. Si trattava di Julia Goodrich, pensò Burden. Un tempo aveva abitato in Paston Avenue, poi si era trasferita altrove. — Gli altri non me li ricordo. Erano dieci o dodici, non posso ricordare il nome di tutti. Una, per esempio, aveva raccontato a Gwen di avere avuto tre figli, ciascuno con un uomo diverso, e non si era mai sposata. Una cosa che a Gwen proprio non andava giù. Poi c'era un tizio che viveva soltanto con la pensione, eppure dava cinque sterline a Gwen ogni volta che lei gli tagliava le unghie dei piedi. Gli dedicava parecchio tempo, a volte si tratteneva anche più di un'ora. — Un tale dava cinque sterline a vostra moglie perché gli tagliasse le unghie? Burden era incuriosito. Immaginava i commenti che avrebbe fatto Wexford, se gli avessero raccontato una cosa del genere. Effettivamente, c'era da chiedesi se per il vecchio l'azione avesse in sé qualcosa di erotico. Era probabile di sì. — Non c'era niente di male — puntualizzò Robson, sulla difensiva. — Lui si sedeva, si toglieva le calze, e lei gli tagliava le unghie. Non le ha mai messo le mani addosso, Gwen non era quel tipo di donna. Poi c'era un altro tizio, che aveva bisogno di aiuto per farsi il bagno. Era convalescente, dopo una malattia. Diceva che Gwen aveva le mani di fata, era così delicata che gli ricordava la sua bambinaia. Poi c'era anche una vecchia zitella...
Aspettate, forse mi ricordo il suo nome. Si chiamava Mac... Mac... — McPhail — l'aiutò Burden. Robson non parve sorprendersi del fatto che lui conoscesse quel nome. Come molta altra gente, era convinto che i poliziotti fossero onniscienti, e che interrogassero le persone nella speranza di prenderle in castagna, o per puro divertimento. — La signorina McPhail di Forest Park — precisò Burden. — Sì, proprio lei. Era ricca, aveva una casa enorme che stava andando in rovina, per mancanza di manutenzione, e un giardino grandissimo. C'era uno studente che lavorava lì come giardiniere, nei giorni di vacanza. La signorina McPhail voleva che Gwen lavorasse da lei a tempo pieno. Era disposta a pagarla cento sterline la settimana, quattro anni fa. Ma Gwen le rispondeva sempre che aveva un marito a cui badare. Non sarebbe stato un lavoro faticoso, bastava che cucinasse per lei e le tenesse compagnia. Gwen era tentata di accettare l'offerta, ma io mi sono sempre opposto. Robson cambiò posizione, e stavolta Burden ebbe l'impressione di udire scricchiolare l'osso. Robson fece una smorfia di dolore. — Vi ho detto abbastanza, ora? Siete soddisfatto? Burden non rispose, ma si alzò per andarsene. La signorina McPhail ormai era morta, pensò. Nell'elenco, il suo nome era tra quelli seguiti da una croce. Passando da casa, Burden entrò per telefonare a Wexford e avere sue notizie, pòi si rimise in macchina e si recò a Ash Farm, dov'era in corso una perquisizione già da un paio d'ore. Clifford non era in casa, ma Dorothy Sanders l'aspettava, gli occhi fuori dalle orbite. Aveva bisogno di qualcuno con cui sfogarsi. — Mi avevano assicurato che ci avrebbero impiegato due ore al massimo — si lamentò. — Hanno iniziato alle nove, e non hanno ancora finito. — Sono solo le undici e dieci, signora Sanders — osservò Burden. — Non capisco perché la gente se ne infischia di mantenere la parola data. — Ormai avranno quasi finito. Vedrete, vi rimetteranno tutto a posto come prima, non dovrete preoccuparvi di niente. Salì al piano di sopra, sapendo di trovarvi Davidson e Archbold. Quest'ultimo gli indicò la scala che portava al piano superiore e gli disse che là sopra i locali erano ingombri di vecchi mobili e cianfrusaglie varie, ragione per cui avevano impiegato più tempo del previsto a controllare dappertutto. Burden decise di dare un'occhiata fuori. Diana Pettit si era incaricata di perquisire il garage e una specie di baracca per gli attrezzi, che si trova-
va sul retro della casa. Burden imboccò il corridoio che portava in cucina, con l'intenzione di uscire dalla porta di servizio. Dorothy Sanders era lì, il naso incollato al vetro della finestra. All'arrivo di Burden, non mosse neanche un muscolo. Il poliziotto uscì all'aperto. Dietro la casa, il terreno circostante era aperta campagna, senza altri edifici in vista. Una collina a forma di dorso di cammello tagliava fuori Kingsmarkham dalla visuale. Sopra la collina erano sospesi nuvoloni scuri. Diana si voltò, non appena vide Burden. — Qui non c'è niente, signore — l'informò. — Dipende da ciò che cercate, Diana. Immagino che vi abbiano detto che cosa dovete cercare? — Sì, una garrotta, anche se non so bene come sia fatta. Burden aprì la cassetta degli attrezzi. Era di ferro, con i due cassetti superiori estraibili. Burden prese due oggetti. — Questi possono servire ottimamente allo scopo — disse. 8 Diana Pettit e l'agente Martin dissero a Burden che oggetti come quelli si potevano trovare praticamente in ogni cassetta degli attrezzi, così come si possono trovare un martello e un cacciavite. Tutti possiedono un rocchetto di filo plastificato, o del filo di nylon che serve per raddrizzare le siepi. Burden disse che lui non l'aveva, né aveva mai avuto occasione di vederlo. L'agente Pettit era certa che si usasse quell'arnese per le siepi? Due manici di metallo, con un solco ciascuno per trattenere il filo, erano uniti appunto da un filo di nylon, ma questo era facilmente sostituibile con filo di ferro plastificato, e in questo modo l'oggetto sarebbe potuto essere utilizzato come garrotta. Burden sequestrò i due manici e il filo, dopo avere incaricato Diana di dare una ricevuta a Dorothy Sanders. Il filo fu consegnato alla Scientifica perché lo analizzassero e confrontassero con i frammenti di plastica rinvenuti nella ferita della vittima. Dopo avere acquistato del filo simile ed averlo assicurato ai due manici di ferro, Burden si chiuse nel suo ufficio, dove si esercitò nell'uso della garrotta improvvisata, dapprima con la lampada a stelo e poi con una gamba della scrivania. Purtroppo, né il sostegno della lampada né la gamba della scrivania avevano dimensioni simili a quelle del collo di un essere umano. Il mattino successivo, Linda Naseem tornò al suo posto alla cassa del supermercato, poiché il mercoledì era il suo giorno di riposo. Burden pre-
ferì andare a parlarle personalmente. Era trascorsa una settimana esatta dal giorno in cui Gwen Robson era entrata nel supermercato, dopo avere lasciato l'auto al secondo livello del parcheggio sotterraneo. Era arrivata alle cinque meno venti. I tre quarti d'ora successivi, li aveva trascorsi probabilmente guardando le vetrine e comperando due articoli da Boots, dove una commessa si ricordava perfettamente di lei. Dentifricio e borotalco erano stati trovati in una delle borse della spesa, insieme con i generi alimentari e le lampadine del British Home Stores. In quest'ultimo negozio, nessuno ricordava di averla vista, ma ciò era prevedibile. Molto probabilmente, era entrata nel supermercato Tesco verso le cinque e dieci, e dopo aver preso un carrello o un cestino, aveva cominciato a girare per le corsie, prendendo ciò che le occorreva. A quell'ora, Clifford Sanders si trovava sicuramente nello studio di Olson. Nel calcolare i tempi, Burden si rese conto di avere sbagliato: Gwen Robson doveva essere entrata nel supermercato un po' più tardi, cioè verso le cinque e venti. Infatti, aveva raggiunto la cassa verso le cinque e trentacinque, forse anche qualche minuto dopo. C'erano cinque ragazze alle casse. Quella che cercava Burden era indiana. Tre delle cinque cassiere potevano avere origini indiane. Si avvicinò alla prima, che gli indicò una sua collega, intenta a cambiare il rullino di carta della cassa. La ragazza era bionda, eterea, con la pelle chiara. Avvicinandosi, Burden notò che aveva la fede al dito. Capì che il nome Naseem doveva essere quello del marito, e rimproverò a se stesso di avere tratto conclusioni affrettate e di essere quindi incorso in quell'errore. Wexford non avrebbe mancato di farglielo notare. Era uno sbaglio imperdonabile, per uno che aveva la sua esperienza. La cassiera lo condusse in uno stanzino, sulla cui porta c'era la scritta PRIVATO. — Conoscevate di vista la signora Robson, vero? — iniziò Burden. La giovane donna annuì, e assunse subito un'aria preoccupata. — A che ora avete detto che è passata dalla vostra cassa, giovedì scorso? Linda Naseem esitava. — Lo so, all'altro poliziotto ho detto che erano le cinque e un quarto, ma in seguito ci ho ripensato. Credo che fosse più tardi. Ricordo di avere guardato l'orologio e di avere visto che mancavano venti minuti alle sei. Bene, mi sono detta, ancora una mezz'ora e poi me ne vado a casa. Il supermercato chiude alle sei, ma a quell'ora c'è sempre qualche cliente che deve ancora passare alla cassa. — Quanto tempo dopo? — domandò Burden.
— Come? — Quanto tempo dopo aver visto la signora Robson, avete consultato l'orologio e constatato che erano le sei meno venti? — Non lo so. Difficile dirlo con certezza. Dieci minuti dopo, forse. Dieci minuti, o cinque, o forse due, pensò Burden. Domandò particolari sul conto della ragazza che aveva parlato con la signora Robson. Era proprio sicura che si trattasse di una ragazza? — Come? — ripeté Linda. — L'avete vista di schiena, avete dichiarato. Aveva un cappello in testa, e probabilmente indossava una giacca o un cappotto. Siete sicura che fosse una ragazza, e non un ragazzo, o meglio un uomo? — Be', mi sembrava... — mormorò Linda. — Sì, doveva essere una ragazza. Aveva in testa un cappello, anzi, un berretto. — Non è possibile che si trattasse di un uomo, signora Naseem? — Io ho avuto l'impressione che fosse una donna. Burden non le rivolse altre domande. Ripensandoci a posteriori, si rivide nel ruolo dell'avvocato difensore, che con il suo serrato interrogatorio riesce a confondere le idee al teste, inducendo la giuria a trarre precise conclusioni dalle sue incerte risposte. Non c'era nessuna giuria, nel supermercato, ma se ci fosse stata, sicuramente i suoi membri sarebbero giunti a questa conclusione: il giovedì precedente, Gwen Robson era stata vista mentre parlava con un giovanotto, alle sei meno venti. Burden scese al piano inferiore del centro commerciale e si fermò al Mandala. Quel giorno, c'erano stelle di Natale bianche e rosse, e fiori blu di cui ignorava il nome. Un gesto di patriottismo, visto che era il 26 novembre? Con ogni probabilità, pura coincidenza. Il fiorista aveva scelto quei fiori e quei colori perché ne aveva molti a disposizione. Burden fece un salto da Boots, poi diede un'occhiata alla vetrina di Knits 'n' Kits, dove erano esposti canovacci per il ricamo a piccolo punto, con stampati musi di cani e di gatti, e infine diede un'occhiata anche alla vetrina di Demeter, che vendeva filtri per rubinetti e umidificatori. In nessuno di questi tre negozi ricordavano di avere visto Gwen Robson. La fontana funzionava, e spruzzi d'acqua lambivano i rettangoli più bassi del lampadario. Burden se ne andò, passando dall'uscita principale, da cui si accedeva al parcheggio di superficie. Sentì subito il contrasto tra l'aria calda e asciutta del centro commerciale e quella pungente all'esterno. Quanto tempo l'avrebbero fatto aspettare, quelli della Scientifica? Parecchi giorni, probabilmente. Burden provò a telefonare a casa della figlia di
Wexford, ma il numero era occupato. Allora, trasse dal cassetto della scrivania la sua garrotta improvvisata e si allenò a impugnare i manici. Si aveva una presa migliore, infilando le dita nelle fessure. Gli serviva qualcosa che assomigliasse al collo di un essere umano, dal momento che la gamba del tavolo era troppo piccola. Gli venne in mente il vaso da fiori di polistirolo marmorizzato, a forma d'anfora, lasciato dall'agente Polly Davies, ora in maternità, con le debite istruzioni per la cura del ciclamino che il vaso conteneva. Il ciclamino era morto subito, e il vaso era finito nell'ufficio di Wexford. Lo stelo dell'anfora doveva essere pressappoco della misura giusta e avere all'incirca la stessa flessibilità. Con la garrotta in mano, Burden salì con l'ascensore e percorse il tratto di corridoio che lo separava dall'ufficio di Wexford. La porta era socchiusa. Spinse il battente ed entrò. Wexford era seduto alla scrivania, con addosso il suo vecchio cappotto di tweed, le spalle curve, la testa incerottata, il viso pieno di lividi di un brutto giallo-verdastro. Gli occhi grigi che puntò su Burden esprimevano preoccupazione, cosa insolita per lui. La frase che gli rivolse, invece, era tipica di Wexford. — E così, sei tu l'assassino. Burden rise. — Mi sono procurato quest'aggeggio, e volevo vedere se funzionava con il tuo vaso. Non fare quella faccia. Mi sembra piuttosto buona, come idea. — Se lo dici tu, Mike. — A proposito, che ci fai qui? Avresti dovuto riposarti fino alla fine della settimana. — Siamo già verso la fine della settimana — ribatté Wexford, sistemandosi meglio in poltrona e flettendo le dita. — Mi sono letto tutta questa roba. — Tutto ciò che riguarda il caso Robson era stato portato sulla sua scrivania. Burden, che aveva la mania di mettere tutto per iscritto, compresi i suoi pensieri, aveva contribuito con decine di fogli dattiloscritti. — Ci sono alcuni punti veramente interessanti. Per esempio, il fatto che la signora Robson si beccasse cinque sterline solo per tagliare le unghie dei piedi al vecchietto. — Lo immaginavo, che ti sarebbe piaciuto. — Mi chiedo quante altre stranezze ci fossero. La storia del bagno, per esempio. Credo che valga la pena di approfondire. — Burden alzò un sopracciglio. Non era certo di avere interpretato nel modo giusto le parole di Wexford, ma si sentiva comunque nauseato dalle indagini che evocavano. Prese il vaso dal davanzale della finestra e si accinse a strangolarlo con la
sua garrotta. Wexford lo seguiva con lo sguardo, pensieroso. — Ci sono parecchie cose che mi piacerebbe sapere — disse — anche se finora nessuno ci ha dato peso. Lesley Arbel, per esempio. Dov'era, giovedì pomeriggio? Non lo sappiamo. Sappiamo, invece, che alle cinque e mezzo Gwen Robson stava parlando con una ragazza. — Con un uomo — lo corresse Burden. — Alle sei meno venti, non alle cinque e mezzo. — Tirò il filo della garrotta, e sentì il polistirolo cedere con uno scricchiolio, e il filo affondare nel materiale che aveva la consistenza della carne. — Capisco. Certo, sarebbe utile appurare per quale motivo era sempre qui, e cosa ci trovasse d'interessante in quella coppia anziana. — Prese in mano l'unica foto che avevano di Gwen Robson, l'istantanea pubblicata dal Kingsmarkham Courier. — Una di quelle tipiche facce inglesi — disse — che una volta viste, non si ricordano più. — I Sanders sostengono di non ricordarsela, anzi, di non averla mai vista prima. Ma io so che Clifford la conosceva, me lo sento nel sangue. — Per amor del cielo, piantala con queste sciocchezze, Mike. Le sue visite a domicilio sono un'altra cosa da chiarire. Non so se l'hai notato, ma pare che non perdesse tempo con chi aveva poco o niente da offrire. Chissà che cosa aveva da offrire il vecchio signor Swallow, quello che abitava di fronte. Tagliava le unghie anche a lui? Conosceva forse qualche tecnica erotica particolare? — Disgustoso, vero? Wexford sogghignò, si strinse nelle spalle. — È così importante? — Burden si mise la garrotta in tasca e andò a sedersi sull'angolo della scrivania. Wexford non rispose alla domanda, ma rimase a fissare il vuoto con aria divertita. — Sai, non hai affatto un bell'aspetto — mormorò Burden. — Credo che avresti fatto bene a riposarti ancora un po'. — Passerò una giornata tranquilla — replicò Wexford. — Vedrò quante tazze di tè riuscirò a bere dalle due alle cinque di questo pomeriggio. — Tornando sull'argomento lavoro: — Credo che sarebbe opportuno indagare più a fondo sui vicini dei Robson. Rimase seduto alla scrivania anche dopo che Burden se ne fu andato. Se non avesse toccato il calorifero e non l'avesse trovato bollente, avrebbe giurato che il riscaldamento non funzionava. Se non avesse avuto addosso la sua vecchia giacca, avrebbe sentito ancora più freddo. Sheila era tornata a Londra. Non avrebbe voluto lasciarla partire, ma naturalmente si era
guardato bene dall'interferire. Potendo fare di testa sua. l'avrebbe rinchiusa da qualche parte e si sarebbe messo di guardia davanti alla porta. Ma lei era partita per Londra al volante di un'auto presa a nolo, per far ritorno all'appartamento di Coram Fields, dove quei teppisti, quei terroristi, quei fanatici sapevano che lei abitava. Sylvia teneva la radio accesa tutto il giorno, e perciò Wexford poté seguire ogni notiziario radiofonico. Tutte le volte, si aspettava di sentirlo iniziare con le parole: "Un'esplosione..." Era questo il vero motivo che l'aveva spinto a tornare così presto al lavoro. Esperti artificieri di Scotland Yard erano venuti a parlare con lui, e si era rifatto vivo anche il tizio di Myringham. Wexford aveva domandato che cosa intendessero fare per proteggere Sheila, e quelli ce l'avevano messa tutta per tranquillizzarlo, ma non vi erano riusciti. Non avrebbe avuto tanta paura, se Sheila fosse stata ancora con il marito, per quanto illogico fosse. Se qualcuno gli avesse detto che sarebbe stato contento di sapere che sua figlia stava con un uomo, mentre era ancora sposata con un altro, non ci avrebbe creduto. Eppure, era così che stavano le cose. Si sarebbe sentito più tranquillo se il nuovo amico di Sheila, quel Ned della telefonata, fosse stato con lei giorno e notte. Si sarebbe tranquillizzato ulteriormente, se le cose fossero andate come auspicava Neil, il genero. — Fate in modo che la pianti con questi atti criminosi. Anzi, sarebbe bene che ammettesse la sua colpa e promettesse pubblicamente di non commettere più simili bravate. Stranamente, era stata Dora a controbattere. — Nutriresti ancora rispetto per lei, se facesse una cosa del genere? — Essere vivi è più importante che essere rispettati, direi. — Non farà mai una simile dichiarazione — aveva osservato Wexford, di malumore. — Non può tradire quelli che sono i suoi principi, non ti pare? Lei non si considera colpevole. Al contrario, ritiene che sia sbagliata la legge, o per essere più esatti, che la legge sia il vero colpevole. Sylvia parve sbalordita. — Strane parole, in bocca a un poliziotto. Non ti sembra, papà? Wexford non aveva aggiunto altro. La cosa che desiderava maggiormente, oltre all'incolumità di Sheila, era di evitare discussioni con Sylvia e Neil. Il giorno precedente, per telefono, il capo della polizia aveva accennato alla possibilità di farli alloggiare in una casa di proprietà della polizia, in attesa che la loro casa fosse riparata, o meglio praticamente ricostruita. Considerata la lentezza dei lavori di ricostruzione nel campo dell'edilizia, sarebbe trascorso circa un anno, prima che potessero tornare nella loro ca-
sa. Lì in ufficio, se non altro c'era pace. Sentiva freddo, ma non per colpa del riscaldamento insufficiente. Era giù di morale, e doveva sforzarsi di reagire, diceva a se stesso, mentre scendeva al bar a prendersi qualcosa da mangiare. Si fece portare una minestra calda e un hamburger con patatine fritte, un cibo che se non era sano, se non altro gli avrebbe scaldato un po' le ossa. Mangiando, pensava al momento in cui sarebbe stato costretto a rimettersi al volante di un'auto. L'aveva accompagnato Neil in ufficio, l'aveva lasciato davanti al commissariato. Donaldson, il suo autista, l'avrebbe portato a Highlands; ma prima o poi avrebbe dovuto vincere il timore di ricominciare a guidare, e soprattutto d'innestare la retromarcia. Sentiva che la sua mano sinistra si sarebbe rifiutata di manovrare il cambio, sarebbe stata come paralizzata. La notte precedente, aveva rivissuto in sogno l'esplosione che credeva di avere dimenticato. Non ne aveva parlato con nessuno, nemmeno con Dora. Il modo di vita era cambiato lentamente ma radicalmente, da quando Wexford era entrato a far parte della polizia e aveva iniziato a interrogare testimoni. A quei tempi, gli uomini erano fuori a lavorare, le donne invece stavano a casa. Il sistema dei turni sul lavoro, il progresso in fatto di preparazione culturale e professionale e di libertà femminile, l'iniziativa privata e anche la sottoccupazione aveva cambiato questo stato di cose. Dopo che Donaldson l'ebbe portato a destinazione, Wexford non si meravigliò eccessivamente, quando venne ad aprirgli la porta della prima casa dove si recò, un giovanotto con un bambino in braccio e una bimbetta di tre anni attaccata ai jeans. Il giovanotto in jeans era John Whitton, studente e padre di due figli, la cui moglie lavorava come analista. Era stata sua moglie a tenere compagnia a Ralph Robson in attesa dell'arrivo della nipote. La casa, all'interno, aveva l'odore caratteristico perfettamente riconoscibile da chi ha avuto a che fare con bambini piccoli: un misto di latte, borotalco e ammoniaca. Il giovane papà viveva due porte più in là rispetto alla signora Robson da tre anni, cioè da quando si era sposato e gli era stata assegnata la casa a Highlands. Ciononostante, disse a Wexford che la loro era stata una conoscenza superficiale. Sapendo che aveva lavorato in qualità di assistente sociale e che era disponibile in caso di necessità, una volta lui e la moglie le avevano chiesto di fare da baby-sitter al figlio. — La nostra solita baby-sitter aveva un impegno, e per noi si trattava di
un'occasione speciale, il nostro terzo anniversario, per la precisione. Rosemary, mia moglie, era in attesa del secondo e il momento del parto era imminente. Sapevamo che sarebbero trascorsi mesi, prima che avessimo di nuovo la possibilità di passare una serata fuori. Così, ho chiesto alla signora Robson. Aveva accettato di venire, ma ci aveva chiesto una cifra spropositata, e così lasciammo perdere. Non potevamo permettercerlo, dal momento che ci entrava in casa un solo stipendio. E poi, nostro figlio Scott non si sveglia più, una volta che si è addormentato. Dodici sterline, per starsene tranquillamente seduta a vedere la televisione, ci sembravano decisamente troppe. Era quasi una domanda inutile, ma Wexford decise di rivolgergliela ugualmente. Domandò a John Whitton se il giovedì precedente, nel pomeriggio, gli fosse capitato di vedere Ralph Robson, magari verso le sedici e trenta. Whitton scosse la testa. Era rimasto in casa tutto il pomeriggio, dato che l'auto l'aveva presa la moglie, ed era stato occupato a fare il bagno ai bambini e a preparargli il tè. Non ricordava neppure di avere visto uscire Gwen Robson. Nella casa accanto, tra i Whitton e i Robson, abitava la coppia che Gwen Robson disapprovava, Trevor Morrison e Nicola Resnick. Wexford li trovò entrambi in casa, dove lavoravano. Erano titolari di una piccola impresa commerciale che vendeva per corrispondenza libri usati. Wexford aveva il sospetto che questi libri fossero di un genere un po' particolare. Morrison gli disse che stavano per prendere il tè e l'invitò ad accettarne una tazza. Era un tè aromatizzato, con un fiore disegnato sulla bustina, e l'infuso di un colore rosso poco allettante. Wexford prese anche un biscotto marrone scuro all'avena. Nicola Resnick, per quanto moderna ed emancipata potesse apparire, in felpa, blue-jeans e stivali, risultò esser amante dei pettegolezzi almeno quanto poteva esserlo stata sua nonna. — Cercava d'indurre il vecchio che abitava di fronte a fare testamento a suo favore. Lui andava in giro a raccontare a tutti dei soldi che aveva in banca. Doveva avere cent'anni vero, Trev? — Ne aveva ottantotto, quand'è morto — precisò Trevor Morrison. — Sì, già, era molto vecchio. Piagnucolava sempre, diceva di non farcela a pagare i conti, soprattutto d'inverno con il riscaldamento acceso. E usava parecchio il telefono. Aveva una figlia in Irlanda, o qualcosa del genere, e la chiamava abbastanza spesso. Diceva che sarebbe stato inutile aspettare che gli telefonasse lei. A forza di sentirlo lamentarsi, un giorno gli
ho consigliato di chiedere il sussidio per i poveri. Perché non avrebbe dovuto farlo? Ne aveva tutto il diritto, e secondo me non si dovrebbe mai rinunciare a niente. Ma sapete come sono certi anziani, traboccanti di stupido orgoglio. Si lavora tutta la vita, e quindi si ha diritto a tutto ciò che concede lo stato. Ma il vecchio mi ha risposto che a lui il sussidio non l'avrebbero concesso, perché aveva una somma in banca e non poteva tenerlo nascosto. Aveva tremila sterline depositate alla Trustee Savings Bank. Se le cose stavano davvero così, aveva ragione lui: il sussidio gli sarebbe stato negato. — Questo vecchietto si chiamava forse Eric Swallow? — s'informò Wexford, sforzandosi di buttar giù un sorso di tè all'ibisco. — Sì, Eric. Il cognome, credo di non averlo mai saputo. E tu, Trev? Comunque, andava in giro a dirlo a tutti, di quelle tremila sterline che aveva in banca. Se ne vantava, e diceva anche che sua figlia ci faceva affidamento, su quel gruzzolo, ma che non avrebbe dovuto essere tanto sicura d'intascarlo, visto che i soldi erano suoi e poteva farci quello che voleva. Questo lo diceva quand'era arrabbiato con la figlia, perché non si faceva viva. — Aveva in mente di fare testamento? — Dev'essere stato un anno fa, e anche prima. Gwen Robson non lavorava più come assistente sociale, ma la si vedeva in giro tutti i giorni. Ero seduta qui, ad aggiornare il nostro catalogo, e c'era anche Trev con me, quando ha suonato alla porta e ci ha chiesto se potevamo fare da testimoni per un documento del vecchio Eric. La cosa mi ha stupito, dal momento che la conoscevo appena, e che lei mi ignorava, quando ci incontravamo per la strada. Il vecchio Eric, mi ha spiegato, doveva firmare quel documento alla presenza di due testimoni. E poi, sentite un po' che altro mi ha detto: che era meglio che non ci sposassimo, Trev e io. Ci sono rimasta di stucco. Quanto al documento del vecchio Eric, ero convinta che si trattasse della richiesta del sussidio; ma Trev l'ha domandato a Gwen Robson, e lei gli ha risposto che non era niente d'importante, un semplice modulo. Naturalmente, Trev non era soddisfatto della risposta. Le ha detto che dovevamo sapere esattamente di cosa si trattava, visto che occorreva anche la nostra firma, e allora Gwen Robson ci ha rivelato che si trattava del testamento di Eric. — Ci sono rimasto di sasso, come potete immaginare — intervenne Trevor. — La cosa mi puzzava un po'. — Già, puzzava eccome — confermò Nicola. — Comunque, le ho ri-
sposto che eravamo molto presi con il lavoro, e che quindi non contasse su di noi. Lei mi ha risposto che non aveva importanza, che avrebbe trovato qualcun altro, e che l'indomani sarebbe arrivata la nipote. Immagino che abbiate conosciuto la nipote, quella che sembra un'indossatrice? Le informazioni raccolte erano decisamente interessanti, e si sarebbero rivelate anche utili, se Gwen Robson fosse stata sospettata d'omicidio, e la vittima fosse stata Eric Swallow o qualcun altro dei suoi vecchietti. Wexford domandò se avessero visto Ralph Robson, il giovedì precedente. Nicola Resnick gli rispose di avere udito dei rumori in casa Robson, il giovedì pomeriggio sul tardi. I muri tra le due case erano tanto sottili, che si sentiva persino il rumore degli interruttori quando si accendeva o si spegneva la luce, il ticchettio del bastone di Ralph Robson e, naturalmente, anche la televisione. Wexford le domandò come facesse a ricordarsi di quel particolare giovedì. Robson stava ascoltando un programma per i ragazzi dal titolo Blue Peter, gli spiegò lei. Quel programma iniziava alle diciassette e cinque, ed era seguito da un altro che parlava di cibi sani e genuini. Siccome le interessava il. problema dell'alimentazione, Nicola aveva acceso il suo televisore, anche se avrebbe potuto farne a meno, visto che quello dei vicini aveva il volume al massimo. Era di nuovo giovedì pomeriggio, una settimana esatta dal delitto. Sette giorni prima, Clifford Sanders aveva imboccato Queen Street da High Street, al volante dell'auto della madre, e l'aveva posteggiata sul lato sinistro della strada, vicino a un parchimetro in cui aveva inserito, se asseriva il vero, i quaranta pence necessari per un'ora di parcheggio. Ma mancavano venti minuti alle cinque, quand'era arrivato, e perciò quando aveva lasciato lo studio di Olson, aveva ancora diritto a dieci minuti di parcheggio. In quei dieci minuti, era rimasto seduto in macchina a meditare su quanto aveva detto a Olson, su tutte quelle stupidaggini cui Burden si rifiutava di credere. Entrò in tutti i negozi che si trovavano da quella parte della strada, dal droghiere, dal pescivendolo, dal fruttivendolo, nel negozio di vini, nei due di abbigliamento e da Pelage, il parrucchiere. Nessuno ricordava di avere visto Clifford Sanders seduto in macchina, davanti al parrucchiere. Il fatto era che la Metro rossa era lì ogni giovedì pomeriggio, e perciò era difficile ricordare quando c'era e quando non c'era. Uno dei parrucchieri che lavo-
rava da Pelage disse a Burden di avere visto più di una volta il giovanotto in questione seduto in macchina, e restarci un bel po' assorto nei suoi pensieri, senza leggere e senza guardare fuori dal finestrino. Nascosto dietro la vetrina del negozio di vini, Burden spiò l'arrivo di Clifford, alle cinque meno dieci. Non c'erano parchimetri liberi, e perciò Clifford fu costretto a proseguire fino all'incrocio di Castle Street, dove eseguì l'inversione di marcia, per poi tornare indietro lentamente. Intanto, un'auto stava per lasciare un posto libero. Clifford aspettò qualche istante, poi s'infilò nel posto vuoto, scese dall'auto e chiuse a chiave la portiera. Era una giornata fredda e umida. Clifford indossava un cappotto di tweed e si era protetto la testa con un berretto di lana ben calato sulle orecchie. Visto da lontano, pensò Burden, assomigliava più a una vecchia che non a una ragazza. Clifford inserì due monete nel parchimetro, benché dovesse essere rimasto del tempo a disposizione, dopo che se n'era andato l'automobilista che l'aveva preceduto. Sistemata l'auto, Clifford attraversò la strada senza fretta, come se fosse in anticipo e non in ritardo di quasi venticinque minuti all'appuntamento con Olson. Burden si disse che Serge Olson faceva bene, a fissargli l'appuntamento con mezz'ora di anticipo, ben sapendo che sarebbe arrivato verso le cinque. Dopo che Clifford fu inghiottito dal portone attiguo al negozio di parrucchiere, Burden si recò in Castle Street, per rivolgere un avvertimento a un gioielliere che sospettava di traffici illegali. Poi, trovò una cabina telefonica e chiamò la moglie per informarla che avrebbe fatto un po' tardi, e probabilmente sarebbe arrivato a casa verso le otto e mezzo. Fatta la telefonata, entrò al Queen's Café, dove si fece dare una tazza di tè e una pasta. A questo punto, mancavano due minuti alle sei. Tornò in Queen Street. Si era messo a piovere e c'era buio come a mezzanotte, anche se la luce dei lampioni illuminava a tratti l'asfalto, accendendovi riflessi argentati. A un tratto, la pioggia si trasformò in nevischio. Clifford sbucò dal portone di Olson alle sei e due minuti. Camminava adagio, ma meno lentamente di quand'era arrivato. Burden stava riparandosi dalla pioggia e dalla vista di Clifford, dietro la vetrina del fruttivendolo. Era quasi ora di chiusura, e i clienti frettolosi lo urtavano in continuazione con i loro carrelli pieni di cicoria e di melanzane. Clifford salì in macchina senza controllare il parchimetro, avviò il motore e si staccò dal marciapiede. L'orologio di Burden faceva le sei e cinque. Wexford aveva letto e sentito di gente, che aveva visto il marchio di un
campo di concentramento sul braccio di qualcuno, ma a lui non era mai capitata quell'esperienza. Né gli capitò in quell'occasione, poiché Dita Jago, in quel freddo pomeriggio, aveva le braccia coperte da un indumento di lana, che poteva esser considerato un vero capolavoro: eseguito con i ferri da maglia in fili di lana dalle tinte brillanti, era un trionfo di verdi, rossi e blu. Quando Wexford guardò incuriosito la pila di fogli dattiloscritti, i blocchi degli appunti e gli altri fogli sparsi sul tavolo, Dita Jago fece un cenno con la testa. — La mia autobiografia — disse, con un sorriso che voleva essere di modestia. — Le mie memorie dei giorni di Oswiecim. — Auschwitz? — le domandò. Dita Jago annuì, prese il primo foglio della pila e lo voltò, in modo che fosse visibile la parte bianca. 9 Il locale era della stessa forma e misura del soggiorno di Robson, della stanza che Trevor Morrison e Nicola Resnick utilizzavano come ufficio, e di quella adibita a nursery da John Whitton. Si trovava dall'altra parte della strada e aveva un'esposizione diversa, ma la principale differenza consisteva nell'abbondanza degli oggetti curiosi e interessanti che vi si trovavano, nelle pile di libri e carte, e nell'originalità dei quadri appesi alle pareti. A meno di non guardare fuori dalla finestra, da cui si vedeva un tratto di strada, qualche albero, e le case di fronte, si sarebbe potuto credere di trovarsi in qualsiasi altra località che non fosse la periferia di una cittadina inglese. Impossibile stabilire se le pareti fossero tinteggiate o imbiancate, visto che erano ricoperte quasi interamente da quadri. In un primo momento, Wexford aveva avuto l'impressione che fossero ricamati a piccolo punto, ma poi, osservandoli meglio, aveva constatato che erano completamente lavorati a maglia. Fu in grado di capirlo, avendo avuto spesso sott'occhio i lavori di Dora, che si prodigava a confezionare magliette e pullovers per i nipotini. Ma questi erano eseguiti in tutti i colori possibili e immaginabili, che ben si sposavano e contrastavano in modo armonioso gli uni con gli altri creando disegni astratti di grande complessità o immagini precise, che gli ricordavano la pittura naïf, e in particolare le tele di Rousseau. Uno di questi quadri raffigurava una tigre che avanzava tra fronde verdi e rami carichi di frutti; un altro, una ragazza avvolta in un sarong, circondata da pavoni. Il quadro più grande, che occupava un'intera parete e probabilmente
era composto da più pannelli, era ambientato in Cina. Vi si poteva ammirare un paesaggio verdeggiante con le colline punteggiate da piccoli templi e un branco di gazzelle intente a brucare l'erba in prossimità di un laghetto. Dita Jago sorrise, notando il suo interesse. Wexford sapeva che era lei l'artefice di quei capolavori, avendo notato su un tavolo rotondo, accanto a un piccolo zoo di animali di vetro di Murano e ad alcune uova di porcellana dipinte, un altro lavoro avviato, che pendeva da un ago circolare e rappresentava altri animali nella giungla. — Siete una donna molto impegnata, signora Jago — osservò. — Mi piace avere sempre qualcosa da fare. — L'accento era leggermente gutturale, forse polacco o cecoslovacco, ma l'inglese era grammaticalmente e sintatticamente perfetto. — Sto lavorando da due anni al mio libro, e ora è quasi terminato. Dio solo sa se qualcuno pubblicherà mai un romanzo come questo, ma l'ho scritto per una mia soddisfazione personale, e perché sentivo la necessità di mettere su carta le esperienze vissute. È vero, ciò che si dice comunemente. — Abbozzò un sorriso. — Mettendoli per iscritto, i ricordi non sono più tanto terribili. Non è una cura radicale, ma giova. — Gli unici esseri umani veramente liberi sono gli scrittori, ha detto qualcuno. — Chiuque sia stato, ha detto una cosa vera. Dopo essersi seduta di fronte a lui, la signora Jago prese in mano il suo lavoro a maglia. Dopo il tè all'ibisco di Nicola Resnick e una seconda tazza di tè normale, offertagli da una certa signorina Margaret Anderson, che non aveva mai avuto occasione di parlare con la signora Robson, né l'aveva mai sentita nominare se non quando era stata uccisa, Wexford trasse un sospiro di sollievo, al pensiero che la signora Jago non gli avrebbe propinato altro da bere. Ora le sue dita si muovevano agili e sicure, spostando gruppi di fili colorati, scegliendone uno, lavorando due o tre punti, e cambiando di nuovo colore. Erano dita affusolate e grassocce, e la fede matrimoniale affondava nella pelle. La signora Jago era una montagna di donna, ma non rozza né volgare, con gambe discrete, caviglie sottili e piedi piccoli. Il viso, roseo e pieno, conservava ancora tracce di una bellezza zingaresca. Gli occhi neri vivaci circondati da piccole rughe sembravano gioielli, i capelli ancora neri e lucidi erano raccolti in un grosso chignon. — Siete andata dal signor Robson per chiedergli se dovevate comperargli qualcosa, mentre andavate a fare la spesa — esordì Wexford. — Ne deduco che li conoscevate abbastanza bene.
La signora Jago alzò la testa dal lavoro, e per qualche istante le sue dita rimasero immobili. — Non li conoscevo affatto — precisò. — Al massimo, sarà stata la seconda volta che rivolgevo la parola a Robson, se non per augurargli il buongiorno quando l'incontravo. Wexford ne fu deluso. Aveva sperato molto in quella donna, pur senza averne motivo. Qualcosa, in lei, l'induceva a ritenere che fosse un tipo schietto. — Era un semplice vicino di casa — riprese la signora Jago — e aveva perduto la moglie, uccisa in un modo orribile. Era il minimo che potessi fare per lui. — Ricordava il suo nome, benché avesse avuto sotto gli occhi la sua tessera d'identificazione solo per qualche istante. — Non sarebbe stato un grosso sacrificio per me, signor Wexford. Non sono la buona Samaritana. Mi porta mia figlia a fare la spesa, e a volte la fa lei per me. — Non conoscevate lui, ma la moglie la conoscevate, non è vero? La signora Jago aveva terminato il giro. Voltò il ferro. — Non molto bene. Ci credereste se vi dicessi che quella era la prima volta che mettevo piede in casa loro? Chiarisco subito una cosa: non voglio farvi perdere tempo, dal momento che ho poco da dirvi. Quando sono uscita dal campo di concentramento, mi hanno portata in un ospedale dell'esercito. C'era, nell'ospedale, un soldato che s'innamorò di me. Ancora non mi spiego come abbia fatto, dal momento che ero ridotta a uno scheletro e mi erano persino caduti i capelli. — Sorrise. — Stentate a crederlo, vedendomi adesso, non è così? Comunque, non vedevo l'ora d'ingrassare di qualche chilo, per una questione estetica ma soprattutto per la salute. Bene, quel soldato, caporale Jago, Arthur Jago, mi ha sposato e ha fatto di me un'inglese. — Indicò la pila di fogli dattiloscritti. — C'è tutto, nel mio libro. — Riprese a sferruzzare. — Ma per quanto mi sia sforzata — proseguì — non ce l'ho fatta a diventare veramente inglese, signor Wexford. Non sono mai riuscita a imparare a fingere, come gli inglesi, che in giardino sia tutto bello. Capite che cosa intendo dire? Non tutto è bello, nel giardino. Ci sono i serpenti tra l'erba, i vermi sotto i sassi, e la metà delle piante sono velenose... Wexford sorrise dell'immagine che la signora Jago aveva evocato. — Per esempio, il signor Robson quel poveraccio, probabilmente dirà che era destino, che forse è meglio così, che la vita deve continuare. E la signorina Anderson, che abita in fondo alla strada, e all'età di sessant'anni aveva trovato un uomo deciso a sposarla, e quest'uomo è morto una settimana prima del matrimonio, sapete che cosa dice? Che forse era troppo
tardi per sposarsi, che entrambi avrebbero potuto pentirsene. Io non ci riesco, a pensarla così. — Ma queste sono le regole della sopravvivenza, cara signora Jago. — Può darsi, ma non credo che si sopravviva meno a lungo se prima si piange, ci si arrabbia, si mostrano le proprie emozioni, i propri sentimenti. In ogni modo, non è un comportamento che mi si addica. Per rassegnarmi, mi occorre un po' di tempo. Wexford, che avrebbe continuato volentieri ad analizzare le emozioni e l'assenza di emozioni degli inglesi, ritenne che fosse però venuto il momento di andarsene. Cominciava ad avvertire la stanchezza e gli era tornata l'emicrania, un cerchio intorno alla testa. Fu un colpo di fortuna, un puro caso, che lo portò a menzionare il vecchietto di Berry Close, a poche case di distanza. — Eric Swallow — disse. — Conoscevate anche lui quasi soltanto di vista? — Credo di capire a che cosa vi riferite — replicò la signora Jago, interrompendo il lavoro a maglia. — È una storia buffa, anche se non c'entra con la morte della signora Robson, e forse non varrebbe neanche la pena di parlarne. — Se è buffa, mi piacerebbe sentirla. Nel mio mestiere, è raro che capiti l'occasione di farsi una risata. — Quel poveretto stava morendo. Questo non è affatto buffo, naturalmente. Se fossi inglese, forse direi che aveva finito di soffrire. — Ma non era così? — Be', era molto vecchio, aveva quasi novant'anni. Aveva una figlia, ma viveva in Irlanda e non era più giovane neanche lei. La sinora Robson si prodigava per lui, voglio dire, anche dopo che aveva smesso di fare l'assistente sociale, andava a trovarlo quasi tutti i giorni. Alla fine, quando non ha più potuto alzarsi dal letto, l'hanno portato in ospedale, e lì è morto. Wexford l'ascoltava, guardando il lavoro a maglia che progrediva lentamente, quando a un tratto il rumore di un portiera d'auto che sbatteva gli fece alzare la testa. Subito dopo, squillò il campanello. La signora Jago si alzò, lo pregò di scusarla un momento e uscì dalla stanza con passo sorprendentemente agile e leggero. Si udirono alcune voci, soprattutto voci di bambini; poi la porta d'ingresso si richiuse e la signora Jago tornò accompagnata da due bimbette, la più piccola in braccio. L'altra, che doveva avere cinque o sei anni, indossava la divisa di una scuola: giacca blu scuro, sciarpa gialla e blu, berretto con una fascia a righe gialle e blu.
— Queste sono le mie nipotine, Melanie e Hannah Quincy. Abitano in Down Road, ma qualche volta la loro mamma me le porta per un'ora o due, e allora ne approfittiamo per prendere il tè insieme, non è vero, bambine? — le nipotine non parlarono, dovevano essere timide. Dita Jago mise a terra la più piccola. — Il tè è pronto. Lo prenderemo alle cinque in punto. Avvertimi tu, Melarne, quando mancano tre minuti. La mamma mi ha detto che hai imparato a leggere l'ora. Hannah si avvicinò immediatamente al tavolo dove c'erano gli animaletti di vetro e le uova dipinte. La sorella, benché avesse un libro in mano e l'avesse aperto con l'intenzione di leggere, teneva d'occhio la piccola, nel timore che le sfuggisse di mano uno di quegli oggetti fragilissimi. Wexford conosceva per esperienza personale i vantaggi e gli svantaggi del rapporto che s'instaura tra fratelli, e sapeva molto bene che a volte nel periodo dell'infanzia possono nascere piccole rivalità, gelosie, problemi che poi si trascinano irrisolti per tutta la vita. Dita Jago aveva ripreso tranquillamente a lavorare a maglia. — Stavo parlandovi del vecchio Eric Swallow. Dunque, un pomeriggio, un giovedì se non sbaglio, di un anno fa o poco più, ho sentito suonare il campanello. Era la signora Robson, che mi chiedeva di andare con lei a casa del signor Swallow. Il vecchietto aveva bisogno di due testimoni, e la signora Robson sapeva che mia figlia Nina era qui, avendo visto la sua auto ferma in strada. In seguito, ho scoperto che aveva già chiesto il favore a una coppia che abita dall'altra parte della strada. Lui si chiama Morrison, e il nome di lei non lo conosco. Comunque, le avevano risposto picche, non so per quale ragione. "Come vi ho già detto, quasi non la conoscevo, e lei non aveva mai visto mia figlia Nina. Ho dovuto fare le presentazioni. Questo non le ha impedito di chiederci di andare con lei da Eric Swallow." — Hannah, mi arrabbierò moltissimo, se romperai quel cavallino — disse Melanie. Seguì un corpo a corpo, durante il quale la bambina più grande si diede da fare per strappare un animaletto di vetro azzurro dalle mani della sorella. Hannah, contrariata, pestava i piedi. — Sarà un grande dispiacere per la nonna, se lo rompi. Piangerà. — No, non piangerà. — Dammelo, Hannah, per favore. Fai quello che ti si dice. — Hannah piangerà. Hannah griderà. A Wexford vennero in mente Sylvia e Sheila quand'erano piccole. Dita
Jago intervenne, prendendo in braccio la nipotina minore, che aveva messo in pratica la sua minaccia e strillava a pieni polmoni. Melanie fece il broncio. — Gli uccellini del nido dovrebbero andare d'accordo — osservò la signora Jago, con un'ombra d'ironia, accarezzando i riccioli scuri di Hannah. — All'inizio, pensavamo di dover firmare qualche documento per... Come lo chiamate? Il sussidio per i poveri, insomma. Ci sono sempre moduli e moduli da compilare, non è forse vero? In ogni modo, siamo andate dal signor Swallow insieme con lei, e quando siamo arrivate, lui era a letto che dormiva. La signora Robson ci è rimasta molto male. Mia figlia le ha domandato di quale documento si trattasse e se lui l'aveva già firmato. La signora Robson era reticente, e risoluta a svegliare il signor Swallow, con la scusa che era importante e lui sarebbe stato ben contento di essere svegliato per definire la questione. Hannah, che intanto aveva smesso di piangere, si mise il pollice in bocca e aprì il pugno dell'altra mano, per mostrare il cavallino alla sorella. Lo richiuse immediatamente, non appena Melanie fece l'atto di correre da lei per portarle via il suo tesoro. Melanie assunse un'aria altezzosa. — Mancano cinque minuti alle cinque, nonna — annunciò. — Va bene, però ti avevo detto di avvisarmi quando mancavano tre minuti. Dunque, il documento da firmare era sul tavolo, voltato in modo che non si potesse leggere ciò che c'era scritto. O almeno, noi sospettavamo che fosse quello, e avevamo ragione. Nina lo prese in mano e gli diede un'occhiata. Indovinate un po' di che cosa si trattava? Wexford pensava proprio di saperlo, ma preferì non togliere alla signora Jago la soddisfazione di sbalordirlo. — Era un testamento, redatto su un modulo apposito. Nina non è riuscita a leggerlo, perché la signora Robson gliel'ha praticamente strappato dalle mani, ma era facile indovinare che cosa c'era scritto. Sicuramente, lasciava il suo denaro alla signora Robson. Tremila sterline, si vantava di avere in banca. Qui lo sapevano tutti. E la signora Robson voleva intascarsele. I soldi le piacevano, su questo non c'era dubbio. Comunque, io e mia figlia ci siamo tirate indietro. Nessuna delle due si sarebbe mai lasciata convincere a firmare. E se la figlia si fosse rivolta al tribunale, e il giudice ci avesse convocate, e ci avesse chiesto perché avevamo firmato? — Come ha reagito la signora Robson? — Mancano tre minuti alle cinque, nonna — annunciò Melanie.
— Vengo subito, tesoro. Be', la signora Robson non era affatto contenta, ma che cosa poteva farci? Quando siamo uscite, ci siamo fatte due risate, io e mia figlia. In seguito, abbiamo saputo che si è rivolta ad altri vicini di casa, ma non è riuscita a spuntarla. Solo la nipote ha accettato di firmare. Pochi giorni dopo, hanno portato il vecchietto in ospedale, e quando è morto, siccome non esisteva un testamento, ha ereditato tutto la figlia, com'era giusto che succedesse. E ora, devo mantenere la promessa che ho fatto alle mie nipotine. La signora Jago mise a terra la piccola, posò il lavoro a maglia sul tavolo e si alzò. — Vi trattenete a prendere il tè con noi? Così potrete assaggiare la mia versione della "sachertorte". Wexford la ringraziò, ma scosse la testa. Aveva detto a Donaldson di passare a prenderlo alle cinque, e non vedeva l'ora di sedersi in macchina, appoggiare la testa al sedile e rilassarsi un po'. Hannah si era avvicinata furtivamente al tavolo e aveva rimesso al suo posto il cavallino di vetro, sbirciando in continuazione la sorella nel timore che stesse osservandola. A Wexford venne in mente un episodio che riguardava Sheila quand'era piccola. Stava giocando con un soprammobile di porcellana che Sylvia (soltanto lei e nessun altro) le aveva proibito di toccare. E Sheila si era comportata come Hannah, stuzzicando la sorella e voltandosi a guardarla con un sorrisetto stile Gioconda sulle labbra. — Per amore di sincerità, bisogna precisare che quei soldi non li voleva per sé — puntualizzò Dita Jago, interrompendo le sue riflessioni. — Erano per lui, sempre e soltanto per lui. — L'accompagnò alla porta. — Non volete sapere dove sono stata giovedì scorso? — domandò di punto in bianco. Wexford sorrise. — Ditemelo pure. — Mia figlia va sempre di giovedì a fare la spesa, e di solito mi porta con sé. Ma giovedì scorso, mi ha lasciato davanti alla biblioteca di High Street, insieme con le bambine, ed è passata a riprenderci alle cinque e mezzo. Perché aveva voluto dirglielo a tutti i costi? Forse semplicemente per evitare che tornasse una seconda volta. Passando davanti allo specchio del corridoio, Wexford intravide la sua immagine e voltò la testa dall'altra parte. Era pallido e aveva il viso segnato da un livido ancora perfettamente visibile. In ogni caso, non era mai stato un narcisista, e non amava guardarsi allo specchio. La porta si chiuse alle sue spalle. L'intervento rumoroso delle nipotine
aveva impedito alla signora Jago di dilungarsi nei convenevoli di prammatica. Mancavano pochi minuti alle cinque. Evidentemente l'orologio di Dita Jago era avanti. Wexford si dispose ad aspettare l'auto che doveva passare a prenderlo, con l'ansia di uno che stesse male e attendesse l'arrivo dell'ambulanza. Fu costretto ad accosciarsi a terra e ad appoggiare la schiena al muretto, e quando si abbassò, si sentì scricchiolare le ossa. Non era stata una bella idea, quella di riprendere subito il lavoro, anche se non lo si poteva definire un lavoro faticoso. Avrebbe dovuto lasciare che Mike si occupasse da solo di questo caso, tanto più che era perfettamente in grado di cavarsela. Qualcuno, come per esempio Serge Olson, avrebbe detto che lui, Wexford, era in difetto, incapace com'era di delegare qualcun altro a fare il suo lavoro. E avrebbe insinuato che aveva paura, paura che Mike usurpasse il suo posto. La psicologia, gli venne fatto di pensare, e non per la prima volta, spesso non rispecchia la realtà delle cose. Le auto gli passavano davanti. Con un brivido, tentò d'immaginare che effetto gli avrebbe fatto trovarsi di nuovo al volante, innestare la marcia. Al solo pensiero di azionare la leva del cambio, gli pareva di udire un rumore assordante, che in realtà non aveva udito, l'esplosione della bomba. Chiuse gli occhi un istante, nella speranza di vedere arrivare Donaldson, quando li avrebbe riaperti. Un lampo di genio che nemmeno lui sapeva spiegarsi, permise a Burden d'intuire che Clifford Sanders era diretto al parcheggio del Barringdean Centre. Non poteva seguirlo, non avendo un'auto a portata di mano, e pedinarlo sarebbe stata una perdita di tempo. Del resto, nessuno l'avrebbe fatto, nessuno sarebbe tornato sulla scena del delitto a otto giorni esatti da quando era stato commesso. Nessuno, con un'eccezione... Entrò nel centro commerciale dall'ingresso dei pedoni dove, una settimana prima, Dorothy Sanders si era affannata a scuotere il cancello e a gridare aiuto. Ma prima era sceso giù al parcheggio sotterraneo, al secondo livello. Clifford non aveva lasciato l'auto dove aveva parcheggiato il giovedì precedente, ma forse soltanto perché il posto era già occupato. Stavolta, l'auto era dalla parte opposta, lontano dalle scale e dall'ascensore. Clifford non c'era. Presumibilmente era entrato nel centro commerciale. Alla stessa ora del giovedì precedente, si disse Burden, dando un'occhiata all'orologio. Erano le diciotto e ventidue, ma lui, Burden, era arrivato con un po' di ritardo rispetto a Clifford, e poi aveva perduto un po' di tempo a cercare la sua auto. Clifford si era recato da Olson al solito orario,
cioè alle cinque, ma forse quel giorno aveva appuntamento con la madre più tardi, magari verso le sei e mezzo. Siccome il centro chiudeva alle sei, e si svuotava verso le sei e un quarto, lei era disposta ad aspettarlo? Mentre Burden faceva queste considerazioni, e le ultime auto uscivano dal parcheggio, udì il rumore dell'ascensore che scendeva. Ne uscirono Clifford e la madre. Burden li vide incamminarsi verso la loro auto. Clifford portava due borse della Tesco e una cesta di vimini. Visto di spalle, si disse Burden, poteva essere scambiato per una ragazza, forse a causa dei fianchi piuttosto pronunciati e del suo modo di camminare, a piccoli passi. Li raggiunse nel momento in cui Clifford apriva il bagagliaio della Metro. La signora Sanders si voltò, lo guardò con aria indifferente. Non portava il cappello, e aveva una pettinatura voluminosa che non le donava. Il rossetto di un rosso deciso spiccava sulla carnagione chiara. Burden si era chiesto più volte che cosa gli rammentasse il colore della sua pelle. Ora, improvvisamente, capì che gli ricordava quello del pesce crudo, quasi trasparente, di un bianco appena rosato. Dorothy Sanders appariva perfettamente calma, e il suo tono di voce era freddo. — Meglio sarebbe stato se non avessi fatto parola con nessuno di avere trovato quel cadavere. Mi pento di non avere tenuto la bocca chiusa. — Burden cominciava a capire il motivo per cui il figlio si lasciava intimidire da lei. Così era stato, probabilmente, fin da quando era ragazzo. — Di solito non faccio stupidaggini, mi tengo alla larga dai guai. Avrei dovuto seguire il suo esempio. — L'esempio di chi, signora Sanders? — domandò Burden. Dorothy Sanders consultò l'orologio che aveva al polso, poi si chinò a guardare quello sul cruscotto della Metro. — Lui è scappato via, no? — rispose distrattamente. — Se lo dite voi... Credo proprio di sapere che cos'ha combinato, e il fatto che sia scappato non è il lato peggiore della cosa. — Clifford stava aprendo la portiera. — Non ti dispiace di darmi un passaggio, vero? Prima accompagneremo a casa tua madre, poi noi due ci faremo un'altra chiacchierata al commissariato. Clifford non protestò. Salì in macchina e aprì anche l'altra portiera. Durante il tragitto fino a Ash Lane, nessuno dei tre aprì bocca. Metà della carreggiata di Forby Road era interrotta per lavori in corso, e perciò si era formata una lunga fila di auto. Dorothy Sanders si abbassò il guanto e si alzò il bordo della manica per dare un'occhiata al suo orologio da polso. Chissà perché ci teneva tanto a calcolare il tempo che avevano impiegato per arri-
vare fin lì dal parcheggio del centro commerciale? Ma forse non era questo il motivo che l'aveva spinta a consultare l'orologio. Più semplicemente, avvertiva sempre la necessità di sapere che ora fosse, ogni giorno, praticamente ogni minuto. Clifford si accostò al marciapiede. — Prendo io le borse — disse Dorothy Sanders. — Non è necessario che mi accompagni. Clifford scese ugualmente dall'auto, estrasse le borse dal bagagliaio e le portò fino all'ingresso, aprì la porta e si scansò per lasciar passare la madre. A questo punto, Burden capì: Dorothy Sanders era una di quelle persone che dicono una cosa ma ne pensano un'altra, il tipo capace di dire: "Non preoccuparti per me", ma poi solleva un putiferio se l'altro non si preoccupa davvero. La suocera di Burden era un tipo simile, ma Dorothy Sanders era mille volte peggio. Clifford tornò a sedersi al volante, e Burden rimase seduto dietro. Non gli importava di parlare con Clifford. Avrebbero parlato comunque, una volta arrivati al commissariato. Come sempre, Clifford conduceva l'auto con molta prudenza, attento a segnalare le sue intenzioni, usando spesso i freni. Ruppe il silenzio, nel momento in cui s'infilava nell'ultimo posto libero del parcheggio. — Di che cosa mi sospettate esattamente? Burden era restio a rispondere a domande del genere. Gli pareva di abbassarsi al livello di semplicità e d'ingenuità di Clifford. — Ne parliamo dopo, quando saremo dentro — rispose. Mandò a chiamare Diana Pettit, e insieme condussero Clifford nella stanza degli interrogatori. Era buio, naturalmente, era buio già da due ore, e nella stanza la luce era fredda e anonima come quella del parcheggio del Barringdean Centre, ma molto più forte. C'era il riscaldamento acceso, lì come in tutto il resto del palazzo. I poliziotti, esattamente come le persone da sottoporre a interrogatorio, aveva osservato Burden una volta, erano costretti a restare in quella stanza per ore. Clifford, che sentiva più caldo lì che non a casa sua, chiese il permesso di togliersi il cappotto e il berretto. Era il classico tipo che chiede sempre il permesso, prima di fare qualsiasi cosa. Un'abitudine che sicuramente gli era stata inculcata nell'infanzia, e gli era rimasta. Dopo essersi seduto, cominciò a guardare prima Diana, poi Burden e viceversa, come uno scolaretto che ancora non conoscesse le regole della nuova scuola. — Vorrei che mi diceste di che cosa mi accusate. — Non sto ancora accusandoti di niente, per il momento — rispose Bur-
den. — Di che cosa mi sospettate, allora. — Non lo sai, Clifford? Non ne hai proprio la minima idea? Credi che sia una bella cosa rubare i soldi delle elemosine, in chiesa? — Io non vado mai in chiesa — replicò Clifford, con un sorriso così forzato, che Burden s'irritò. — Allora, forse hai rubato un'auto, o strappato la borsetta a una vecchia signora. — Mi dispiace. Non capisco dove volete arrivare. — Hai qualche obiezione, se registro la nostra chiacchierata? — domandò Burden, brusco. — Farebbe qualche differenza? — Certo che sì. Nel nostro paese vige la democrazia, non un regime totalitario. — Fate come volete — rispose Clifford in tono indifferente, seguendo con lo sguardo Diana, che metteva in funzione il registratore. — Stavate per dirmi di che cosa mi sospettate. — Ti dirò come si sono svolti i fatti, a mio parere. Credo che tu abbia incontrato la signora Robson all'interno del centro commerciale, alla Tesco. Non la vedevi da un po', ma la conoscevi bene, e lei ti conosceva. Sapeva qualcosa, sul tuo conto, che preferivi tenere segreto. Non ho idea di che cosa potesse trattarsi, sono sincero, ma questo me lo racconterai tu. Stasera, spero. — Quando ho visto la signora Robson al centro commerciale — dichiarò Clifford in tono piatto — era giù al parcheggio, morta. Prima di quel momento, non l'avevo mai vista in vita mia. — E così, Clifford — riprese Burden, ignorando l'interruzione — hai approfittato dell'occasione per agire. Eravate soli, e tu volevi togliertela dai piedi per sempre... Burden dovette fare uno sforzo per ricordare a se stesso che aveva a che fare con un uomo, non con un ragazzo o un adolescente. E neanche con un ritardato mentale. Clifford era un insegnante, aveva frequentato l'università. Il suo sguardo era inespressivo, ma negli occhi gli si era accesa una scintilla. Quando riprese a parlare, la sua voce ebbe un'incrinatura. Paura o senso di colpa? Di qualsiasi cosa si trattasse, aveva combinato un brutto scherzo alle sue corde vocali, e ora la voce pareva quella di un eunuco. — Non penserete che abbia potuto uccidere qualcuno? Io? È questo che intendete dire?
— Ecco che finalmente comincia ad arruffare le penne — mormorò Burden, che non voleva stare al gioco e non sopportava la presunzione di chi era convinto di poterla fare franca. Un attimo dopo, sia lui sia Diana schizzarono in piedi. Clifford si era alzato di colpo, con la faccia e le labbra bianchissime, come se fosse davvero in preda a una violenta emozione, aveva afferrato un lato della scrivania e aveva cominciato a scuoterla con tutte le sue forze. Probabilmente, come sua madre quando si era sentita in trappola al parcheggio. — Io? Uccidere qualcuno? Voi siete matto! Siete tutti pazzi! Perché mi avete preso di mira? Non immaginavo che miraste a questo, con tutte le vostre domande. Non l'avrei mai pensato. Credevo di essere un semplice testimone. Io, uccidere qualcuno? La gente come me non uccide nessuno. — Chi è, allora, la gente che uccide, Clifford? — Burden domandò con molta calma, tornando a sedersi alla scrivania. — Sembra che chiunque sia capace di uccidere. Incrociò il suo sguardo. Clifford era tutto sudato, e una goccia di sudore stava scivolando giù dal labbro superiore, verso i baffi. Burden stava perdendo la pazienza. Provava disgusto per quell'individuo che, tra l'altro, non sapeva recitare bene la sua parte. Sarebbe stato interessante ascoltare la registrazione, soprattutto il punto in cui era stata pronunciata la parola "uccidere". L'avrebbe fatta ascoltare a Wexford, e avrebbe sentito come la pensava. — Siediti, Cliff — intimò. — Adesso noi due facciamo una lunga chiacchierata. Stanco morto, quando l'auto lo lasciò da Sylvia, Wexford avrebbe desiderato riposarsi a casa sua, e avere intorno soltanto la moglie. Invece, si trovò costretto a bere un whisky. E pensare che il dottor Cracker gliel'aveva assolutamente proibito. Qualcuno aveva lasciato in giro il giornale della sera. In prima pagina molto spazio era dedicato a un tale che "aveva collaborato per tutto il giorno con la polizia, nell'intento di far luce sul responsabile dell'autobomba di Kingsmarkham". Com'era logico, non c'era né la foto, né il nome, né una descrizione che potesse eventualmente permettere d'individuare quest'uomo che, spinto da un odio freddo e impersonale motivato da questioni politiche, aveva tentato di uccidere Sheila. I ragazzi stavano guardando la televisione, mentre Sylvia stendeva una relazione sui maltrattamenti psicologici agli anziani. — Sono pratico, di queste cose — scherzò Wexford. — Se vuoi, puoi in-
tervistare me. — Tu non sei anziano, papà. — Però mi sento tale. Dora entrò e si mise seduta accanto a lui. — Sono andata a dare un'occhiata alla nostra casa — annunciò. — Sono arrivati gli operai, e hanno coperto tutta la parte sventrata dalla bomba con grossi teloni di plastica. Se non altro, adesso non pioverà più dentro. Ah, dimenticavo di dirti che ha telefonato il Capo della Polizia, a proposito di una casa dove potremmo trasferirci, se siamo d'accordo. Siamo d'accordo, vero, Reg? Wexford non voleva mostrarsi ingrato verso Sylvia. — Ti ha detto dove si trova quella casa? — s'informò. — A Highlands, mi pare. Sono quasi sicura che ha parlato di Highlands. 10 Rimorso era una parola troppo forte. Ciò che Burden provava nei confronti di se stesso era piuttosto disapprovazione e anche un po' di vergogna. Lo disse tra sé, e lo disse anche alla moglie, che era tornata a casa con il figlio. Le disse che era il suo mestiere, che quello era il lavoro della polizia. — Il fine giustifica i mezzi, vero, Mike? — gli domandò lei. — Sarebbe inutile negarlo. Quando abbiamo avuto quei problemi con Mark, e abbiamo deciso di lasciarlo piangere, nella convinzione che dopo un paio di notti le cose si sarebbero sistemate, ci siamo detti appunto che il fine giustifica i mezzi. Prese il bambino in braccio. Jenny sorrise. — Non insegnarglielo però, mi raccomando. Dopo avere giocato per una mezz'ora con Mark e avere mangiato, Burden tornò nella stanza degli interrogatori, al commissariato, dove si trovò di nuovo a faccia a faccia con Clifford. Decisamente, quel compito non gli piaceva. Non c'era una grande differenza, dopo tutto, tra quel tipo d'interrogatorio e la tortura. Clifford Sanders era costretto a restare in quell'ambiente scomodo, lasciato a se stesso anche per un'ora intera, e al momento del pranzo, un agente che se ne infischiava di lui, gli portava qualcosa da mangiare su un vassoio. Sarebbe stato meno peggio, se Clifford fosse stato un tipo più duro, mentre invece era paragonabile a un bambino. Ora, il suo stupore aveva lasciato il posto a una sorta di stoicismo. Aveva l'aria del ragazzo coraggioso deciso a resistere ancora un po'. Ma giunto a questo pun-
to delle sue riflessioni, Burden si diede dello sciocco. Clifford era un uomo, uno che aveva studiato, forse nevrotico ma sano. Semplicemente, aveva un carattere debole ed era privo di personalità. E che cosa aveva combinato? I fatti parlavano da soli. Era andato al centro commerciale, dove era stato visto in compagnia della signora Robson. Aveva con sé una garrotta. Se n'era servito, poi se l'era data a gambe. Era pensabile che avesse trovato il corpo, l'avesse coperto perché gli rammentava sua madre, e poi fosse fuggito? Nessuno si comportava così, se non nelle pagine di psichiatria popolare. Tutte quelle storie che tiravano in ballo gli psichiatri, e con ogni probabilità anche Serge Olson, a proposito di nevrotici che si mettono con una ragazza mentre in realtà hanno bisogno di una madre, oppure che identificano la figura dell'insegnante con quella paterna, e che non hanno una vita sessuale normale, essendogli capitato durante l'infanzia di vedere la madre mezzo nuda, agli occhi di Burden non erano altro che stupidaggini, roba che andava bene soltanto per i libri e per il lettino dello psicanalista. Era sciocco da parte sua provare compassione per Clifford Sanders. Si era ficcato in testa di uccidere la signora Robson e ci era riuscito. Non era forse per questo motivo che era uscito di casa armato di garrotta? Forse tutti i suoi dubbi dipendevano dal fatto di non avere ancora trovato un collegamento tra Clifford e Gwen Robson. Sapeva che esisteva, e quando l'avesse accertato, non avrebbe più provato quel senso di colpa, così poco professionale e così raro in lui. Mentre stava per riprendere l'interrogatorio, stavolta affiancato dall'agente Archbold, che manovrava il registratore, Burden rammentò a se stesso che la polizia aveva interrogato Sutcliffe, soprannominato "lo Strangolatore dell'Yorkshire", ben nove volte prima di procedere al suo arresto. Nel frattempo, Sutcliffe aveva assassinato la sua ultima vittima. Sai che meraviglia, se Clifford avesse ucciso di nuovo, solo perché lui, Burden, si era fatto qualche scrupolo! Prese posto sulla sua sedia. Clifford, che stava mordicchiandosi un'unghia, tolse via di colpo la mano, come se improvvisamente si fosse ricordato che non doveva mangiarsi le unghie. — Tua madre è mai stata malata, Clifford? — domandò Burden. Un'occhiata di perplessità. — Che cosa intendete dire? — Se le è mai capitato di essere costretta a letto da qualche malattia, e se ha mai avuto bisogno di qualcuno che l'assistesse. — Una volta ha avuto... Non mi viene in mente il nome... Una specie di eczema, che però fa male.
— Il fuoco di Sant'Antonio — gli suggerì Archbold. — Già, il fuoco di Sant'Antonio. Una volta lo ha preso. — È venuto qualcuno in casa ad assisterla, Clifford? Questo genere di domande non portava alcun frutto. Dodo Sanders era stata confinata a letto da qualche indisposizione pochissime volte, nel corso della sua vita. Burden lasciò perdere l'argomento. Meglio tornare a parlare della sequenza degli eventi, da quando Clifford aveva lasciato lo studio di Olson, fino al momento in cui era scappato via dal centro commerciale, passando dal cancello riservato ai pedoni. Clifford fece una gran confusione con l'ora. In un primo momento, dichiarò di essere arrivato al Barringdean Centre alle diciassette e trenta; poi si corresse e disse che dovevano essere le diciotto e dieci. Burden sapeva che mentiva. Tutto stava andando secondo le sue aspettative. L'unica cosa che lo meravigliò, fu quando Clifford lo corresse sull'uso del proprio nome. — Perché avete smesso di chiamarmi Cliff? Potete chiamarmi così, se volete. Non mi offende, anzi mi piace. Ad aspettarlo sulla sua scrivania, Burden trovò il rapporto della Scientifica sul filo plastificato trovato nella cassetta degli attrezzi dei Sanders. Anche stavolta, abbondavano le parole difficili, come polimeri e altre del genere, ma il nocciolo della questione era che i frammenti di plastica prelevati dalla ferita della vittima, non erano dello stesso materiale del filo sequestrato ai Sanders. Be', dunque si era sbagliato. Questo significava che Clifford doveva essersi sbarazzato del filo utilizzato per la garrotta. Forse l'aveva buttato nel fiume, o tra la spazzatura. Ad ogni modo, Burden decise di lasciarlo nel suo brodo per un paio di giorni. Ora doveva pensare a Wexford. Il dottor Crocker aveva proibito all'ispettore capo di tornare al lavoro. Quindi, se voleva parlargli, Burden doveva raggiungerlo a casa di Sylvia. — Se non altro, sarò lì in zona — l'informò Wexford. — Mi danno una casa a Highlands. Che te ne pare? Burden sorrise. — Già, ci sono due o tre case di proprietà della polizia. Quando ti trasferisci? — Ancora non lo so — rispose Wexford, sfogliando le carte che gli aveva portato Burden. — Non credo che la persona vista dalla cassiera della Tesco mentre parlava con la signora Robson fosse Clifford Sanders. Sono più propenso a credere che si trattasse di Lesley Arbel. Però, su una cosa sono d'accordo con te, quando dici che la signora Robson ricattava la gen-
te. Lo credo anch'io. Burden annuì, soddisfatto. Gli faceva molto piacere, quando Wexford approvava qualcuna delle sue idee. — Le piacevano i quattrini — disse. — Era praticamente disposta a tutto, per i soldi. Prendiamo la storia del testamento del vecchietto. Si è fatta in quattro per trovare i testimoni che le servivano, ha bussato a tutte le porte. E quell'altra storia delle unghie dei piedi? Poteva essere considerato un lavoro umiliante e persino disgustoso, ma a lei non interessava. L'importante era che la pagassero bene. E chissà quante cose ancora non sappiamo. — Secondo la signora Jago, si sacrificava per il marito. Questo dovrebbe servire a giustificarla. A meno che questa giustificazione non se la fosse inventata di sana pianta, mentre in realtà i quattrini le facevano gola. — Perché Ralph Robson aveva tanto bisogno di soldi? — domandò Burden. — Cioè, se dicessi che mi occorre del denaro, in realtà questo denaro servirebbe a Jenny, a Mark e a me. A tutta la famiglia, insomma. E se lo dicessi tu, alluderesti a te e a Dora, non è vero? Wexford si strinse nelle spalle. — Abbiamo controllato il suo conto corrente alla TSB. Aveva un bel gruzzolo, più di quanto si potesse prevedere. Robson aveva il suo conto personale. Ciascuno dei due aveva il proprio. Gwen Robson aveva messo da parte qualcosa come milleseicento sterline. Può darsi che le abbia racimolate ricattando il prossimo. Dunque, secondo te, Gwen Robson avrebbe avuto le prove che Clifford aveva qualcosa da nascondere, e perciò lo ricattava? Burden annuì. — Sì, qualcosa del genere. A un certo momento, il verme si è ribellato. Clifford è paragonabile a un verme, sotto certi aspetti. Nulla vieta di pensare che si sia comportato come un verme anche in questa occasione. — Di che cosa poteva essere responsabile Clifford? Forse di un omicidio commesso precedentemente. Ormai, nessuno fa più caso alle tendenze sessuali della gente, per quanto anomale possano essere. — La signora Robson ci faceva caso — osservò Burden. — Questo è vero. Ma a chi poteva raccontarlo? Non certo alla scuola dove insegna Clifford. Se ne sarebbero infischiati, e così pure Dorothy Sanders. — Scoprirò qual era il suo segreto — disse Burden, deciso. — Sto già dandomi da fare in questo senso. — Osservò il volto di Wexford. I lividi si erano schiariti parecchio, ma la cicatrice forse sarebbe rimasta per sempre. — Hanno dovuto lasciarlo andare, quel tizio dell'autobomba, che si sospet-
tava fosse il responsabile. L'ho sentito stamattina alla televisione. Wexford annuì. Aveva ricevuto una telefonata in quel senso, e al termine della telefonata, gli era stato chiesto di intervenire a un dibattito che si sarebbe tenuto a Scotland Yard. Il dottor Crocker l'aveva autorizzato, sia pure con una certa riluttanza, a partecipare; ma non sapeva che Wexford intendeva recarsi a Scotland Yard in macchina. Dopo che Burden se ne fu andato, Wexford s'infilò la giacca e si avvolse intorno al collo una sciarpa di Robin, che aveva trovato appesa in anticamera, per evitare prediche nel caso in cui Dora e Sylvia fossero rientrate prima del previsto, cogliendolo in flagrante. La sua auto era nel vialetto davanti al garage. Per la prima volta (nessuno si era sognato di dirglielo), notò che la carrozzeria era parecchio rovinata. Si sedette al volante. Gli faceva uno strano effetto, come se non guidasse l'automobile da anni. Chiuse la portiera, rimase un attimo fermo, la mano sulla chiavetta dell'accensione. Se quello fosse stato un film giallo, e lui un personaggio marginale, o un cattivo, avrebbe girato la chiave, e in quell'istante l'auto sarebbe saltata in aria. Avrebbe voluto riderci sopra, ma proprio non ne era capace. Non si ricordava ancora dell'esplosione, e i botti che udiva non erano frutto della memoria, ma della sua immaginazione. Forza, buttati, ordinò a se stesso. Prese fiato, girò la chiave. Non accadde nulla, il motore non si mise neppure in moto. Per forza, Dora aveva lasciato il cambio automatico in posizione di marcia. Spostò la leva meccanicamente, senza rendersi conto di quello che faceva, senza accorgersi che era arrivato il momento della verità. A questo punto, non c'era altro da fare, se non girare di nuovo la chiave dell'accensione. Burden stava camminando in High Street, e di tanto in tanto lanciava un'occhiata alle vetrine già addobbate per il Natale, quando vide Serge Olson venire verso di lui. Lo psicoterapeuta indossava una giacca a quadri con il collo di pelo sintetico. Aveva il bavero alzato per proteggersi dal vento. Salutò Burden come se fossero vecchi amici. — Salve, Mike, sono contento di rivedervi. Come va? Sorpreso, Burden gli rispose che stava bene. Olson gli domandò se stava facendo progressi per quanto riguardava le indagini. Burden non era abituato a sentirsi rivolgere domande simili, gli pareva un'impertinenza. Rispose evasivamente che le cose procedevano bene. A questo punto, Olson
lo sorprese di nuovo, dicendo che faceva troppo freddo per stare all'aperto, e invitandolo al Queen's Café a bere una tazza di tè in sua compagnia. Burden pensò che avesse qualcosa d'importante da comunicargli, altrimenti che senso aveva il suo invito? Benché Olson si rivolgesse a lui usando il suo nome di battesimo, si erano visti una volta sola, prima di quel giorno, e soltanto perché a Burden occorreva la sua testimonianza. Ma quando furono seduti al tavolino, invece di confidargli segreti, Olson si mise a parlare del processo contro i terroristi arabi, delle gravi imputazioni di cui dovevano rispondere i tre, e della minaccia mossa da un'organizzazione di terroristi simpatizzanti di fargliela pagare cara al Pubblico Ministero. Burden si vide costretto a domandargli se ci fosse qualcosa di particolare di cui desiderava parlargli. — Qualcosa di particolare? — ripeté Olson con il suo solito tono pacato. — Che cosa intendete dire, Mike? — Be', siccome mi avete invitato a bere il tè con voi, pensavo che ci fosse qualcosa di speciale che voleste dirmi. Olson scosse la testa. — Che cosa dovrei dire? Forse che Clifford Sanders potrebbe diventare un assassino, in determinate circostanze? Oppure che i suoi modi erano strani, quella sera quando se n'è andato dal mio studio? O ancora, che un giovanotto di ventitré anni che vive ancora con la madre è uno psicopatico per definizione? No, non avevo in mente nessuna di queste tre cose. Avevo freddo, e ho preferito venire a bere un tè caldo qui al bar, piuttosto che prepararmelo da solo. — Siete sicuro, che non intendevate dirmi nessuna di quelle tre cose? — insistette Burden, che non aveva voglia di darsi per vinto. — Olson scosse di nuovo la testa. — Certo, è piuttosto strano per un uomo continuare a vivere con la madre, anche se lei è vedova. Del resto, la signora Sanders non si può definire vecchia. — Avete mai sentito parlare della Fallacia di Enkekalymmenos? — La fallacia di chi? — La parola significa "donna velata". Funziona più o meno così. — Riconosci tua madre? — la risposta è sì. — Riconosci questa donna velata? — ora, la risposta è no. — Questa donna velata è tua madre. Perciò, tu puoi riconoscere tua madre, così come puoi non riconoscerla. La signora Sanders poteva ricordare una donna velata. La sua stessa faccia era una specie di velo, pensava Burden, meravigliandosi lui per primo della sua trovata. — Che cosa c'entra questa storia con Clifford? — domandò, con il tono tipico del poliziotto.
— È una storia che riguarda un po' tutti noi, e anche i nostri genitori, spesso relegata nel subconscio. All'ingresso del tempio di Delfi c'era la scritta CONOSCI TE STESSO. Parlo di moltissimo tempo fa. Nei due o tremila anni trascorsi da allora, abbiamo seguito questo consiglio? — Olson sorrise, e aspettò un istante per dare a Burden il tempo di rifletterci sopra. — E comunque, non è vedova — aggiunse. — Non è vedova? — ripeté Burden, trattenendo a stento un sospiro di sollievo, poiché quest'argomento era molto meno impegnativo e non lo faceva sentire a disagio. — Allora, significa che il padre di Clifford è ancora vivo? — Lei e il marito divorziarono parecchi anni fa, quando Clifford era ancora bambino, I parenti di Charles Sanders erano fattori, e quella casa apparteneva alla sua famiglia da molte generazioni. Ci abitava con i genitori, quando si è sposato. Dorothy era la loro cameriera. Arrivava'lì ogni giorno, per pulire la casa. Non ci è dato di sapere come l'abbiano presa i genitori di lui. Naturalmente, Clifford lo ignora. Non fate quella faccia, Mike. Non sono uno snob. Non è tanto la sua mentalità che non mi va a genio, quanto la sua mancanza di simpatia, di personalità. Probabilmente, da giovane era abbastanza carina, e con il lavoro che faccio, ho scoperto che in nove casi su dieci l'aspetto fisico di una donna conta più di ogni altra cosa, dal punto di vista maschile. Cinque anni dopo, comunque, il marito ha piantato in asso lei e il figlio, lasciandogli la casa. — Si sa qualcosa dei nonni? — s'informò Burden. Olson, che si era mangiato due paste glassate e una fetta di plumcake, si passò un tovagliolo di carta sulla barba, per togliere le briciole. — Clifford ha un ricordo abbastanza vago di loro. Quando il padre se n'è andato di casa, lui e la madre vivevano con la nonna, poiché il nonno era morto da poco. Di soldi ne circolavano pochi, a quanto pare Charles Sanders non li aiutava finanziariamente. Era una vita dura, la loro, e per niente allegra. Non ho mai messo piede in quella casa, ma immagino che non sia un bell'ambiente. Dorothy Sanders lavorava come donna di servizio, e quando capitava, anche come sarta. Devo darle atto che è stata una buona madre, da questo punto di vista. Ha voluto a tutti i costi che il figlio andasse all'università, e l'ha mandato all'University of the South, qui a Myringham. Lui viveva in casa, e durante le vacanze estive si dava da fare per trovarsi qualche lavoretto. Non dubito che la madre si sentisse sola, e volesse tenere il figlio con sé. Burden si alzò per pagare. Provava un senso di riconoscenza nei con-
fronti di Olson perché, dopo le prime fasi incomprensibili che aveva pronunciato, aveva evitato la terminologia tecnica e il greco, per parlare come una persona normale. C'era qualcosa, tra quanto gli aveva riferito, che desiderava approfondire. — Sono stato io a invitare voi e non viceversa — disse Olson — ma se mi assicurate che sono i contribuenti a pagare il conto, lascio fare a voi molto volentieri. — Poco fa, mi avete detto che d'estate Clifford lavorava. Che genere di lavoro faceva? — Le solite cose, Mike. Oggigiorno però è difficile trovare anche questi lavori occasionali. Lavoro non specializzato, s'intende. Un po' di giardinaggio, o commesso in un negozio. — Giardinaggio? — ripeté Burden. — Sì, ha fatto anche questo. Me ne ha parlato con abbondanza di particolari, probabilmente perché era un genere di lavoro che detestava. Non è adatto per il lavoro all'aria aperta, e non piacerebbe neanche a me, per la verità. Niente da fare, pensò Burden. Non è facile vedere realizzati così, in quattro e quattr'otto, i propri desideri. Sarebbe troppo comodo. — Non ricordate il nome della persona per cui lavorava, suppongo? — No, non me lo ricordo. Comunque si trattava di una vecchia zitella che viveva in una grande casa di Forest Park. 11 Mentre aspettava in anticamera, Wexford si sentiva in colpa per avere disobbedito agli ordini del dottor Crocker. Più che altro, la sua era paura di essere preso in castagna. Dora, Crocker o Burden avrebbero potuto scoprire che non era andato direttamente a Scotland Yard. Probabilmente, non avrebbe telefonato a quella donna, né sarebbe andato da lei, se non si fosse sentito gasato per essere riuscito ad avviare il motore e a guidare l'auto fino alla stazione. Meglio fingere di credere che fosse questa la molla che l'aveva spinto, e non la preoccupazione per la lentezza con cui procedeva il caso Robson. Ormai la gente aveva smesso di guardarlo con una certa curiosità, dato che i lividi erano quasi spariti del tutto, e il taglio sulla guancia non dava nell'occhio, poiché poteva esserselo fatto nel radersi. Certo, avrebbe dovuto essere ubriaco, per conciarsi in quel modo. Comunque, nessuno avrebbe
mai sospettato che fosse rimasto vittima di un'esplosione. Ora, aveva quell'alibi da controllare, e qualche curiosità da togliersi. La più colorata delle due segretarie, quella con i riccioli arancioni, gli disse che Sandra Dale non l'avrebbe fatto aspettare molto, poi che doveva avere pazienza ancora un paio di minuti, e infine che Sandra Dale stava arrivando. Intanto, Wexford ammazzò il tempo guardando le copertine di Kim appuntate sulla tappezzeria di stoffa che ricopriva la parete, insieme con alcune foto ritagliate dal giornale e un diploma incorniciato, probabilmente a ricordo di un premio vinto. A un tratto, si sentì toccare la spalla. — Il signor Wexford? Trasalì, ma la donna parve non accorgersene. Era giovane, più di quanto apparisse in fotografia. — Sono Rosie Unwin — si presentò. — L'assistente di Sandra Dale. Volete accomodarvi da questa parte, prego? Mi rincresce di avervi fatto aspettare. Percorsero alcuni corridoi, entrarono in un ascensore, salirono una rampa di scale e percorsero un altro corridoio. Per fortuna, non era uno di quegli uffici privo di pareti divisorie, dove è impossibile parlare in privato. Rosie Unwin aprì la porta in fondo al corridoio e Wexford vide, seduta alla scrivania, una donna non somigliante alla foto, non più della sua assistente. La donna si alzò, gli tese la mano. — Sono Sandra Dale. — Ebbe un attimo di esitazione. — È il mio vero nome, non uno pseudonimo. — Piacere, signorina Dale. Nella foto pubblicata sul giornale, si era fatto in modo che Sandra Dale apparisse meno giovane, più robusta, più materna, o meglio più "zia". In realtà, non doveva avere superato di molto la trentina. Giovane, dunque, snella, con le gambe lunghe, la fronte spaziosa, il viso rotondo e i capelli biondi. Una bella ragazza. Nella foto, si era voluto che apparisse come una donna degna di fiducia, che ispirasse le confidenze altrui, una donna saggia capace di dare buoni consigli. Sandra Dale l'invitò ad accomodarsi e tornò al suo posto, seduta alla scrivania. L'assistente rimase nell'ufficio. — Lesley non è qui — annunciò Sandra Dale. — Ma forse lo sapete già. Sta frequentando un corso di studio, e intanto io cerco di sbrigarmela da sola. — È con voi che desidero parlare — chiarì Wexford. — E forse anche con la signorina Unwin. L'ufficio era spazioso e vi regnava il caos, ma forse in quel disordine si
lavorava meglio. La scrivania di Rosie Unwin era disseminata di lettere. Wexford si chiese se fossero più o meno dello stesso tenore di quelle che aveva letto su Kim. Era sperabile di no. Le lettere erano quasi tutte scritte a mano. Ce n'era un'altra pila sulla scrivania di Sandra Dale. — In media, riceviamo circa duemila lettere la settimana — precisò, notando la direzione del suo sguardo e fraintendendo i suoi pensieri. Wexford annuì. C'era una piccola libreria e due scaffali carichi di libri: un dizionario medico, un'enciclopedia di medicina alternativa, un dizionario di psicologia, la Piccola Guida per il Dilettante di Psichiatria e Psicanalisi di Eric Berne, e molti altri volumi. Rosie Unwin premette un tasto del computer che aveva accanto a sé, e dallo schermo scomparvero le cifre che vi erano apparse. — Vi va di bere un caffè? — domandò a Wexford, che annuì. — Vi avverto che è caffè istantaneo, e lo servono nei bicchieri di plastica. Wexford si rivolse a Sandra Dale. — Immagino che abbiate sentito parlare della donna assassinata a Kingsmarkham. Lo sapete che era la zia di Lesley Arbel? — Non ho più visto Lesley, da quando è accaduto. Certo, sono al corrente. Lesley è stata coraggiosa, veramente in gamba, a frequentare ugualmente il corso di semantica, considerato che la signora Robson era quasi una madre per lei. — La sua vera madre è morta? Sandra Dale gli lanciò un'occhiata di traverso che Wexford non riuscì a decifrare. — È soltanto la mia segretaria — disse — ma so moltissime cose sul suo conto. Qui dentro, ci conosciamo tutte molto bene. È quasi come se fossimo parenti. Dev'essere il tipo di lavoro, le lettere delle lettrici che ci coinvolgono, ci fanno sentire più unite. Sono sicura che Lesley non se ne avrà a male, se vi racconto che la sua vera madre l'ha abbandonata quando aveva dodici anni, e da allora gli zii hanno badato a lei. Non l'hanno adottata perché era già grandicella, ma è come se fosse la loro figlia. — Squillò il telefono sulla scrivania. — Sì, sì, va bene — mormorò Sandra Dale. E a Wexford: — Scusatemi un momento. Rosie tornerà subito qui. E invece, Wexford rimase solo per qualche minuto. La curiosità fine a se stessa, che non c'entrava affatto con il caso Robson, lo spinse a dare una sbirciatina alla prima lettera della pila che stava sulla scrivania di Rosie Unwin. Non dovette neppure alzarsi, gli fu sufficiente piegarsi da un lato. Con il passare degli anni, era diventato sempre più presbite, tanto che non riusciva più a leggere tenendo il libro o il giornale in mano e il braccio te-
so. Il braccio era troppo corto, la distanza insufficiente. Lesse: Cara Sandra Dale, so che è una cosa orribile, disgustosa, ma non me la sento più di fingere, e perciò ho deciso di confessarti che provo una grande attrazione fisica nei confronti di mio figlio, ormai adolescente. Credo di essere innamorata di lui. Ogni volta cerco di vincere questa sensazione di cui mi vergogno profondamente, ma... Wexford interruppe la lettura e si raddrizzò sulla sedia, vedendo comparire Rosie Unwin con il caffè. Aveva fatto in tempo a vedere che c'era un indirizzo sulla busta e che la lettera era firmata. Strano. Aveva sempre creduto che le lettere fossero anonime. — Solo una piccolissima percentuale — gli spiegò Rosie Unwin, quando la mise a parte delle sue riflessioni. — Tutti gli altri mettono la propria firma, e a volte scrivono su carta intestata. — Con quale criterio scegliete le lettere da pubblicare? — Non scegliamo le più bizzarre — rispose Rosie Unwin. — Quella che stavate leggendo voi, per esempio, è decisamente atipica. Stavate leggendola, vero? Tutti quelli che vengono qui si mettono a leggere le lettere dei lettori. Non resistono alla tentazione. — Sì, vi confesso che stavo leggendola. Questa non la pubblicherete, immagino? — Probabilmente no. Sarà Sandra a decidere, e se dovessero esserci problemi, ne risponde il direttore. — Per esempio se qualche storia dovesse finire in tribunale — mormorò Wexford. — Sandra sceglie quelle che, a suo parere, possono interessare maggiormente ai lettori. Quelle che espongono i problemi più comuni, più umani, se preferite. Le lettere come quella della tizia che si è innamorata del figlio, invece, non le pubblichiamo. Pubblichiamo solo la risposta, con il nome dell'interessata. Pensate, la settimana scorsa abbiamo ricevuto una lettera di una nostra lettrice, che voleva sapere quante proteine contiene il liquido seminale. Pazzesco, ma vero. La lettera dovrebbe essere qui in giro... L'arrivo di Sandra Dale offrì a Wexford il pretesto per non dover replicare. Aspettò che si fosse seduta. — Allora, quand'è stata l'ultima volta che avete visto Lesley Arbel? — domandò. — Giovedì 19 novembre?
— Esatto. Il giorno dopo non si è presentata. Mi ha telefonato per dirmi di sua zia, anche se io lo sapevo già, avevo capito che era lei la donna assassinata perché conoscevo il suo nome. Poi, il lunedì successivo, cioè il 23, Lesley ha iniziato il suo corso. È stata una fortuna, se si può parlare di fortuna in un caso come questo, che il corso si tenga proprio nella città in cui abita suo zio. — È andata via da qui il giovedì pomeriggio, vero? Che ore saranno state? Le cinque? Le cinque e mezzo? Sandra Dale apparve sorpresa. — No, no, nel pomeriggio non è venuta in ufficio. Credevo che lo sapeste. Wexford si limitò a sorridere, senza replicare. — Ha terminato alle tredici. Nel pomeriggio, doveva andare a Kingsmarkham, se non sbaglio per iscriversi al corso. Aveva già compilato un modulo d'iscrizione, ma c'era qualcosa che non andava, e così aveva tentato di rimediare con una telefonata, ma il telefono non funzionava e non è riuscita a mettersi in contatto con la sua segretaria. Per la verità, ero piuttosto contrariata, dal momento che avrei dovuto fare a meno della sua collaborazione per una quindicina di giorni, e qui il lavoro non manca di certo. Wexford la ringraziò. Non si era aspettato di ricevere simili rivelazioni. Si era rivolto a Sandra Dale nella speranza di scoprire che tipo era Lesley Arbel. Tutto lì. E invece Sandra Dale aveva distrutto l'alibi della sua collaboratrice. Bel colpo! — Scusate, c'è una curiosità che vorrei togliermi, se non vi dispiace — gli disse Rosie Unwin, prima che se ne andasse dall'ufficio. — Siete per caso parente di Sheila Wexford? Era avvezzo alla domanda, ma stavolta ebbe un tuffo al cuore. — Perché me lo chiedete? — domandò a sua volta. La giovane donna apparve perplessa. — Be', semplicemente perché mi piace molto. Voglio dire, è una bella ragazza, e una splendida attrice. Wexford trasse un sospiro di sollievo. Per un attimo, aveva temuto che fosse accaduto qualcosa a Sheila, che la notizia fosse già stata data dalla radio o dalla televisione. — È mia figlia — disse. La notizia fece colpo, le due segretarie e Rosie Unwin cominciarono a tempestarlo di domande, sembrava che non volessero più lasciarlo andare. Avrebbe fatto bene a dirlo subito, che Sheila era sua figlia. Una delle due segretarie, la più giovane, disse la solita cosa che prima o poi gli dicevano tutti, e cioè che Sheila non gli somigliava affatto. Come tutti, alludeva al
fatto che Sheila era bella e lui no. Nessuna delle ragazze tirò in ballo la bravata di Sheila, per fortuna. Insieme, lo accompagnarono alla porta. Entro mezz'ora, Wexford avrebbe dovuto trovarsi a Scotland Yard per la storia dell'autobomba. Decise di percorrere a piedi almeno parte della strada. Attraversò il ponte di Waterloo. L'acqua del fiume scorreva lenta, sembrava olio. Sopra la sua testa, non soltanto il sole ma anche il cielo era invisibile. Erano trascorsi tre giorni dall'ultima volta che aveva visto Clifford Sanders, e nel frattempo Burden aveva appurato che Clifford aveva lavorato come giardiniere per la signorina Elizabeth McPhail di Forest House, Forest Park, Kingsmarkham. I vicini di casa si ricordavano di lui, e una di costoro in particolare si rammentava anche delle visite di Gwen Robson. A Burden sarebbe piaciuto trovare qualcuno che li avesse visti insieme, che li avesse visti parlare, ma forse era pretendere troppo. Non c'erano dubbi sul fatto che Gwen Robson, quattro anni prima, aveva ricevuto un'offerta di lavoro da parte della signorina McPhail, che la voleva come domestica fissa. All'epoca, Clifford aveva ventidue anni ed era al primo anno d'università. Burden preparò il suo piano d'azione. Clifford doveva essere a scuola, il martedì lavorava fino alle diciassette. Sarebbe tornato a casa stanco, e non gli avrebbe fatto male trovare lui, Burden, ad aspettarlo per un'altra chiacchierata lì in casa, oppure al commissariato. Davidson guidava l'auto. Passarono davanti a Sundays Park. Alle cinque meno dieci, c'era già buio, e i banchi di nebbia che impedivano la visibilità rendevano necessaria una guida prudente. La facciata della casa, ricoperta d'edera, spuntò fuori a un tratto dall'oscurità. Sembrava quasi viva, faceva pensare a un albero sognato in chiave surrealista. Le foglie erano bagnate, luccicanti. Solo i fari dell'auto consentivano di vedere la massa verde del fogliame, poiché la casa era completamente buia. Come trascorreva il tempo Dorothy Sanders, sempre lì in quella casa, senza la possibilità di usare l'auto perché serviva al figlio, con la fermata dell'autobus più vicina a Forby o a Kingsmarkham, cioè a tre chilometri di distanza? Una volta la settimana, Clifford l'accompagnava al Barringdean Shopping Centre, si recava al solito appuntamento da Olson, poi passava a riprenderla. Chissà se aveva qualche amica? Che rapporti aveva con Carroll, il fattore? Ciascuno dei due era stato lasciato dal suo compagno, e avevano più o meno la stessa età... La porta si aprì e Dorothy gli apparve davanti. — Di nuovo qui? Mio fi-
glio non è in casa. Burden pensò ai commenti che aveva fatto Wexford sul suo conto. Era difficile immaginare che avesse principi morali, valori in cui credere. In quel momento, Burden ebbe una percezione di cui non si sarebbe creduto capace, l'impressione che Dorothy Sanders emanasse un che di freddo, come se la sua temperatura corporea fosse al di sotto di quella normale, come se il suo sangue non fosse caldo. Gli venne fatto di pensare che non gli sarebbe piaciuto toccarla, sarebbe stato come toccare un morto. Ebbe un brivido, che Dorothy avrebbe senz'altro attribuito all'aria gelida. — Vorremmo scambiare due parole con voi, signora Sanders — disse Burden. — Chiudete la porta, allora, altrimenti entra la nebbia. — Sembrava che pensasse alla nebbia come a un fantasma che stesse in agguato, pronto a intrufolarsi in casa. Aveva la faccia incipriata, le labbra dipinte di un rosso violento, e in testa un foulard che le copriva completamente i capelli. Gonna e pullover erano marroni, la sua tinta preferita; le calze erano a coste, le scarpe marroni senza tacco. Mentre la seguiva in soggiorno, Burden notò il suo portamento eretto e la sottigliezza del suo corpo, cosicché rimase colpito vedendo la sua immagine riflessa nello specchio del soggiorno, il suo collo rinsecchito, la fronte solcata di rughe. Faceva freddo, nel soggiorno. Sembrava che la nebbia fosse entrata ugualmente, anche con la porta chiusa. Burden ebbe di nuovo un brivido. In tutto il locale, l'unico punto riscaldato era la zona intorno al fuoco. Guardò la mensola del camino, di marmo grigio, il cassettone e la credenza di legno scuro. Tutte le superfici erano spoglie, senza neanche un soprammobile. — Posso sedermi? — Dorothy Sanders annuì. — Vostro figlio ha lavorato come giardiniere per una certa signorina McPhail di Forest Park, mi risulta. A quell'epoca, aveva appena iniziato l'università? La signora Sanders l'interpretò come una critica. — Era già adulto, e gli adulti devono lavorare. Non potevo permettermi di mantenerlo agli studi, con le mie sole forze. — La signora Robson lavorava dalla signorina McPhail, l'aiutava nelle faccende domestiche — continuò Burden. Non aveva ancora terminato la frase, quando si accorse che Dorothy Sanders già reagiva con la solita pantomima, come se stentasse a ricordare chi era la signora Robson e poi finalmente ci arrivasse con un lungo processo mentale.
— Mio figlio non la conosceva — dichiarò, con la sua voce meccanica, da robot. — Se lui non la conosceva, né sapeva che lavorava dalla signorina McPhail, come mai voi invece lo sapevate? Dorothy Sanders rimase impassibile, non diede a vedere di essersi tradita. — Lei lavorava in casa e lui in giardino, l'avete detto voi stesso. Lei non aveva motivo di uscire in giardino, lui non aveva motivo di entrare in casa. Il giardino era molto grande. Burden lasciò cadere l'argomento. — Avete mai affittato le stanze di sopra a qualcuno? — s'informò, ripensando a quanto le aveva detto Diana Pettit, a proposito di tutti quei mobili che avevano rallentato le ricerche. — Perché me lo domandate? — il robot parlava di nuovo, con il suo tono piatto. — Per dire la verità, signora Sanders, mi ha colpito il fatto che qui l'arredamento è piuttosto scarno, mentre di sopra c'è una grande abbondanza di mobili. Così mi è stato riferito. — Potete salire a vedere, se volete. — La frase non mancava di cordialità, non così il tono della voce. Era come il lupo di Cappuccetto Rosso, quando diceva che aveva la bocca grande per mangiarla meglio. — Sta arrivando mio figlio — disse la signora Sanders. I fari della Metro che si fermava davanti al cancello disegnavano giochi di luce e ombre sul soffitto e sui muri. Dorothy Sanders, in silenzio, sembrava aguzzare le orecchie, come in attesa di udire un rumore particolare. Si sentì in lontananza quello di una porta di legno che si chiudeva, poi quello della serratura. Dorothy Sanders parve rilassarsi. Al rumore della chiave che girava nella serratura seguì quello prodotto da Clifford mentre si puliva la suola delle scarpe sullo zerbino. Doveva avere visto l'auto di Burden, e perciò non aveva fretta. Aprì la porta lentamente, entrò, guardò Burden e Davidson come se non li conoscesse, poi andò a sedersi sull'unica sedia libera, come se fosse in stato d'ipnosi. Ma un attimo prima che si sedesse, la madre fece una cosa stranissima. Pronunciò il suo nome, e quando Clifford si voltò a guardarla, inclinò la testa e spostò la guancia verso di lui. Clifford le andò vicino, si chinò e le diede un bacio. — Possiamo fare due chiacchiere, Cliff? — domandò Burden, rivolgendosi a lui come se fosse un ragazzino di dieci anni, che si fosse appena preso uno spavento e avesse bisogno di essere rincuorato. — Vorrei parlare con te della signorina McPhail. Ma prima andiamo di sopra, voglio dare
un'occhiata alle stanze. Clifford voltò la testa, guardò un attimo la madre, distolse lo sguardo. Con quell'occhiata, non stava chiedendole l'autorizzazione d'accompagnare Burden al piano di sopra; il suo era piuttosto uno sguardo incredulo, come se non gli paresse vero che l'autorizzazione era già stata accordata. Dodo Sanders si alzò, e salirono tutt'e quattro insieme. Un tempo, la casa era un fattoria, e quindi la prima rampa di scale era larga e comoda, mentre l'altro tratto era stretto e ripido, e perciò era necessario aggrapparsi alla ringhiera. Arrivato in cima, Burden vide davanti a sé soltanto porte chiuse. C'era odore di muffa, l'odore dell'abbandono. Burden trovò un interruttore, accese la luce. Una luce debole, di una lampadina da pochi watt. Aprì la prima porta. Madre e figlio erano alle sue spalle, Davidson dietro di loro. La stanza era ingombra di mobili, di quadri e di suppellettili varie, disposte senza alcun ordine, i quadri accatastati contro il muro. Sulle sedie c'erano oggetti di porcellana e libri, e in un angolo una pila di cuscini. Non c'era niente di valore, niente d'antico. Al massimo, i mobili erano pezzi degli anni '20 e '30. Erano capovolti, e scheggiati ai bordi. Al piano di sotto, c'era tutto pulito. Tra le sue buone qualità, Dodo Sanders doveva avere quella di essere una brava massaia. Qui sopra invece, sarebbe stato necessario l'uso di una scopa e di uno straccio per la polvere. Anche le scale erano sporche. Dai soffitti pendevano numerose ragnatele, ed erano rimaste prigioniere alcune mosche. Siccome la casa si trovava in campagna, dove il passaggio delle auto era abbastanza limitato, la polvere non era spessa né filacciosa, ma ogni superficie era coperta da un velo sottile. La stanza successiva era molto simile alla prima. Qui però c'erano due testate di letto, due materassi e due piumoni, mucchi di copriletti di satin rosa legati con fettucce, guanciali cilindrici avvolti in vecchie coperte, tappeti di lana lavorati a mano a disegni geometrici. C'erano altri quadri, ma stavolta si trattava di foto incorniciate. Burden entrò nella stanza, prese una delle foto e la guardò. Un uomo alto, in giacca di tweed e cappello di feltro; una donna, anche lei con il cappello in testa, e addosso un abito dal collo a scialle e la gonna lunga svasata; in mezzo a loro, un ragazzo con il berretto della scuola, calzoni corti e calzettoni al ginocchio. Un tipico gruppo di famiglia degli anni '30. La madre e il ragazzo si somigliavano. Il ragazzo poteva essere Clifford: stessa aria imbronciata, stesse labbra grosse, stessi occhi inespressivi. Ma c'era qualcosa, in quelle facce, che a Clifford mancava. Che cos'era? L'aria sicu-
ra di sé, o almeno della propria posizione sociale. Portando il ritratto con sé, Burden andò a dare un'occhiata alle altre due stanze, seguito da Davidson, da Clifford e dalla madre. Trovò altri mobili, altri tappeti arrotolati, alcuni acquarelli incorniciati in legno dorato, libri, animaletti di porcellana, sedie con i cuscini rosa, un servizio da tè, alcuni cuscini ricamati a disegni floreali. Era tutto sporco e in cattivo stato, roba senza valore, ma niente di sinistro, niente di anormale. Come mai tutta quella roba era finita lassù? Era la domanda che si poneva Burden mentre scendeva le scale. I mobili del piano di sotto non erano migliori, e neppure più nuovi. Inoltre scarseggiavano, tanto da indurre Burden a sospettare che madre e figlio mangiassero con i piatti in mano, probabilmente davanti al televisore. Cibi in scatola, forse. Non riusciva a immaginare quella donna intenta a cucinare come la gente normale. — Quelli sono i miei nonni e mio padre — l'informò Clifford, indicando il ritratto. Dorothy Sanders si rivolse a lui come se avesse a che fare con uno scolaretto. — Portalo di sopra, Clifford. Rimettilo dov'era prima. — Burden si sarebbe meravigliato, se Clifford avesse tentato di protestare, o anche se avesse avuto un attimo di esitazione; si stupì ancora di più, vedendo Clifford obbedire all'istante. — Vorrei che mi parlassi dei tuoi rapporti con la signora Robson, Cliff — gli disse, non appena furono tutti riuniti in soggiorno. — Si chiama Clifford — protestò Dorothy Sanders. — Il mio cognome da nubile. E non ha mai avuto rapporti con la signora Robson. — Formulerò la domanda in altri termini. Dimmi quando l'hai conosciuta. È stato dalla signorina McPhail, vero? Dorothy Sanders imboccò il corridoio in direzione della cucina. Clifford guardò Burden con aria perplessa, poi disse che in passato aveva fatto lavori di giardinaggio per la signorina McPhail. Anche lui sembrava avere dimenticato chi fosse la signora Robson. Burden glielo ricordò, poi chiese se fosse mai entrato nella casa della signorina McPhail, forse per bere una tazza di tè o per portare dentro dei fiori. — C'era una donna delle pulizie che a volte mi offriva il tè, sì. — Era la signora Robson, vero? — No, non era lei. Non ricordo il suo nome. Anzi, non l'ho mai saputo. Comunque, non era la signora Robson. La madre tornò in soggiorno e Clifford la guardò. Uno sguardo infantile, che invocava aiuto. Dorothy era andata a lavarsi le mani, e ora puzzava di
disinfettante. Perché ne aveva sentito la necessità? A causa dei mobili polverosi del piano di sopra, o dei due poliziotti? — Vi ho già detto che lei stava in casa, lui in giardino — ribadì. — Vi ho detto anche che non l'ha mai conosciuta. Sembra quasi che non comprendiate la lingua inglese. — Va bene, signora Sanders, come volete voi. — Burden distolse lo sguardo dalla sua persona. — Desidero che tu venga al commissariato con me, Clifford. Parleremo con calma. Clifford lo segui con la docilità di un cagnolino. Tornarono in città. Nella stanza degli interrogatori, si sedette vicino al tavolo. Guardò Burden, poi l'agente Marian Bayliss, e infine rimase a fissare il piano del tavolo. — State accusandomi di omicidio — mormorò con un filo di voce. — Incredibile. Stento a convincermi che stia accadendomi questo. L'abilità di un poliziotto consiste tanto nell'afferrare le occasioni al volo, quanto nel lasciar perdere determinati argomenti. — Dimmi come sono andate le cose — iniziò Burden — da quando sei entrato nel centro commerciale e hai incontrato la signora Robson. — Ve l'ho già detto, non l'ho incontrata — protestò Clifford. — Ho semplicemente visto il suo corpo. Ve l'ho detto e ripetuto un mucchio di volte. Sono sceso giù al secondo livello del parcheggio e stavo fermando l'auto, quando ho visto il corpo disteso a terra, il corpo di una donna morta. — Come hai fatto a capire che era morta? Clifford puntellò i gomiti sul tavolo, abbassò la testa, si mise una mano sulla fronte. — Aveva la faccia bluastra, non respirava. A forza di ascoltarvi, mi viene il dubbio che le cose siano andate diversamente. Con le vostre domande, è come se mi costringeste ad alterare la verità, quasi non riesco più a distinguere ciò che è accaduto da ciò che non lo è. Chissà, forse l'ho conosciuta e non riesco a ricordarmene. Forse sono pazzo, l'ho uccisa e me ne sono dimenticato. È questo che volete sentirmi dire? — Voglio che tu mi dica la verità, Clifford. — Vi ho detto la verità. — Si voltò, rivolse a Burden uno sguardo quasi supplice. — Prima mi chiamavate Cliff — disse. La sua voce non era cambiata, ma il tono era quello di un bambino di sette anni. — Perché avete smesso? Perché ve l'ha ordinato Dodo? In seguito, ripensando a quelle parole, Burden si rese conto che in quel momento aveva cessato di considerare Clifford sano di mente. 12
Appoggiato al cancello, Wexford osservava la casa di Highlands, dove avrebbe abitato per almeno sei mesi. Era una di quelle giornate che a volte si vedono anche nel mese di dicembre, con il cielo limpido, il sole e la temperatura abbastanza mite. Il gelo che sarebbe sopraggiunto nella notte avrebbe rivestito d'argento ogni filo d'erba, e trasformato le piccole conifere in tanti alberi di Natale. Alle spalle della casa, in cima alla collina, Barringdean Ring sembrava un cappello di velluto nero su un cuscino verde. In fondo a Battle Lane si vedeva l'incrocio con Hastings Road, il tetto di casa Robson, dei Whitton e di Dita Jago. Quello era il punto più alto di Highlands, il che gli consentiva d'intravedere anche le case per gli anziani di Berry Close. Il camion del trasloco, appena arrivato con la metà dei mobili prelevati dalla casa sinistrata, impediva la visuale e non gli consentiva di vedere il resto della città. Sylvia aveva accompagnato a scuola i bambini, poi li aveva raggiunti nella nuova casa per dare una mano alla madre. Wexford decise di andare al commissariato a piedi. Eventualmente, se non se la fosse sentita di farsi quella camminata anche al ritorno, avrebbe chiesto a Donaldson di accompagnarlo. Dora avrebbe sicuramente avuto bisogno dell'auto. Entrò in casa per salutarla, si guardò intorno, tentò di immaginare come sarebbe stato vivere là dentro, con quei muri di carta velina che lasciavano filtrare tutti i rumori dei vicini, e con un pezzetto microscopico di giardino delimitato da una rete. Pazienza! Era già qualcosa avere una casa a disposizione, e non essere costretti a restare ospiti di Sylvia. Si pentì immediatamente di avere pensato una cosa simile, vedendo apparire Sylvia con le braccia cariche dei suoi amati libri. L'aria era frizzante, il sole caldo ma già basso all'orizzonte, e le ombre si allungavano. Per andare in città, percorse Hastings Road ed Eastbourne Drive. Non c'era nessuno in giro, e poche auto in strada. Il corso frequentato da Lesley Arbel era arrivato all'ultimo giorno, ma sicuramente la ragazza avrebbe trascorso il fine settimana in casa dello zio. Erano passate più di due settimane dalla morte di Gwen Robson, e all'incirca lo stesso numero di giorni da quando avevano tentato di uccidere Sheila. I lividi e i tagli erano quasi guariti, e ormai Wexford stava recuperando le forze. Aveva guidato l'auto in diverse occasioni, sentendosi perfettamente a suo agio al volante. Gli artificieri si erano messi spesso in contatto con lui, sottoponendolo sempre a un fuoco di fila di domande. Sforzatevi di ricordare. Che cos'è accaduto esattamente da quando siete salito in macchina? Avete ne-
mici? Chi sono i nemici di vostra figlia? Perché siete saltato giù dall'auto? Cos'è stato a mettervi sul chi vive? Wexford non ricordava niente di tutto questo, e credeva che non sarebbe mai riuscito a ricostruire quei cinque minuti della sua esistenza. Soltanto di notte, in sogno, riviveva il momento dell'esplosione; ma siccome non ricordava com'erano andate le cose, riviveva l'esperienza a modo suo. Qualche volta capitava che morisse lui, oppure Sheila, altre volte il mondo intero sembrava scomparire, e lui restava sospeso in un vuoto dove regnava il buio assoluto. La notte precedente, nel sogno, invece del boato dell'esplosione aveva udito una musica suonata in sordina, e invece del corpo di Sheila, aveva visto dei cerchi ruotare nell'oscurità, e all'interno dei cerchi una miriade di disegni geometrici. Per tutto il resto del tragitto fino al commissariato, Wexford si sforzò di scacciare queste immagini della sua mente e di essere più razionale. Quando arrivò, capì subito senza che nessuno l'informasse che Burden era in compagnia di Clifford, e si era ritirato con Archbold nella stanza degli interrogatori. Verso la fine della mattinata, Burden era uscito dalla stanza e vi aveva lasciato Clifford da solo. Gli aveva fatto portare del caffè e dei biscotti. Wexford ignorava che aspetto avesse Clifford, dopo tanti interrogatori. Quanto a Burden, appariva pallido, teso, stanco. — Una volta, abbiamo parlato dell'Inquisizione — disse Wexford. — E dei boia che si facevano pagare per uccidere i condannati a morte con la garrotta, prima che andassero al rogo. Burden annuì, si lasciò cadere pesantemente sulla sedia. Aveva davvero l'aria esausta. — Mi avevi detto di avere letto qualcosa sull'argomento — riprese Wexford. — Be', io ho letto che gli Inquisitori soffrivano quasi quanto le loro vittime. La fatica di fargli il lavaggio del cervello li riduceva come stai riducendoti tu. È il fatto di assistere alla tortura che non si riesce a sopportare. Bisogna essere persone speciali, per assistere alla tortura di un uomo senza esserne traumatizzati. — Clifford Sanders non è sotto tortura. Se prima avevo qualche dubbio in proposito, ora non ne ho più. È un interrogatorio serrato, possiamo anche definirlo pesante, ma non una tortura. — Fisicamente no, forse, ma non credo che si possa separare con tanta disinvoltura il corpo dalla mente. — Non è che lo tenga sveglio per forza, o sotto la luce violenta delle lampade, o senza mangiare e senza bere. E nemmeno che lo costringa a restare sempre qui. Se ne va a casa a dormire. Anzi, adesso lo spedisco a ca-
sa subito. Ne ho abbastanza per oggi. — Stai perdendo tempo, Mike — disse Wexford in tono gentile. — Stai perdendo tempo, e lo fai perdere anche a lui, perché non è colpevole. — Scusami, ma non sono d'accordo con te. Non sono affatto d'accordo. — Burden si raddrizzò sulla sedia, indignato. — Aveva il motivo, e anche i mezzi per commettere il delitto. Tanto per cominciare, è uno psicopatico. Ti ricordi di quel libro che mi hai prestato, quello che parla degli psicopatici, scritto da un certo Stafford-Clark? Caratteristica dominante è l'immaturità emotiva, riscontrabile nelle situazioni più disparate... Dunque, poi che cosa dice? Io non ho una memoria come la tua. A volte dimostrano buona volontà, ma mancano totalmente di tenacia, sono abili nell'apparire degni di fede ma in realtà inattendibili, esigenti e nel contempo indifferenti alle esigenze altrui, affidabili esclusivamente sulla base della loro inaffidabilità... — Mike — l'interruppe Wexford — non hai uno straccio di prova. Ti sei costruito la storia come faceva comodo a te. L'unica prova che hai è che Sanders ha visto il corpo e, invece di informare la polizia, se l'è data a gambe. Non hai altro in mano. Non conosceva Gwen Robson. Ha lavorato come giardiniere in una casa dove lei è stata qualche volta, nella sua qualità di assistente sociale. Può darsi che si siano salutati una o due volte. Nessuno l'ha visto parlare con lei al centro commerciale. Non possiede né ha mai posseduto una garrotta, né un oggetto che possa essere utilizzato come tale. — E invece aveva un motivo per uccidere quella donna. Non sono ancora riuscito a dimostrarlo, ma sono convinto che in passato si fosse reso colpevole di un crimine, che la signora Robson ne fosse al corrente e che lo ricattasse. Solo che può essere pericoloso, ricattare uno psicopatico. — Che genere di crimine? — Omicidio, naturalmente — rispose Burden con aria di trionfo. — Tu stesso hai accennato a questa probabilità. Se il suo segreto fosse stato in relazione con qualche anomalia sessuale, hai detto, non avrebbe scandalizzato nessuno, quindi deve trattarsi di omicidio. — Soppresse a stento uno sbadiglio. — Chi fosse la vittima, ancora non lo so, ma sto indagando in
questo senso, raccogliendo notizie sul suo passato. Chissà, forse ha ucciso la nonna, o magari la signorina McPhail. Ho già incaricato qualcuno di segnalarmi gli eventuali casi di morte per cause non completamente accertate. — Stai perdendo tempo — ripeté Wexford. — E non soltanto il tuo ma anche il nostro. Era un'accusa che Burden non sopportava. Cominciava ad apparire arrabbiato, oltre che stanco. Fece la solita smorfia di quando era contrariato. — L'ha incontrata per caso al centro commerciale — disse con freddezza. — Lei gli ha chiesto altri soldi, lui l'ha seguita giù al parcheggio, l'ha strangolata con un mazzetto di fili elettrici che aveva nel bagagliaio, insieme con la tenda. I fili elettrici li ha portati via, per sbarazzarsene strada facendo, mentre tornava a casa. — Perché mai avrebbe perso tempo a coprire il corpo, visto che poi se l'è data a gambe? — Non si possono spiegare certe incoerenze, quando si ha a che fare con uno psicopatico. Comunque, può avere pensato che il corpo avvolto nella coperta sarebbe stato rinvenuto meno facilmente, e che quindi avrebbe avuto più tempo per mettersi al sicuro. Linda Naseem l'ha visto parlare con la signora Robson. Archie Greaves l'ha visto scappare. — Mike, che è scappato lo sappiamo, ce l'ha detto lui stesso. E Linda Naseem ha visto una ragazza con un berretto in testa. Burden si alzò, si mise a passeggiare avanti e indietro per la stanza, poi si avvicinò a Wexford, si appoggiò alla sua scrivania. Sembrava cercare le parole adatte per dire una cosa spiacevole con la massima diplomazia possibile. — Senti, tu hai subito un brutto trauma, e non stai ancora molto bene. Hai visto che cos'è accaduto, quando hai ricominciato a lavorare, benché fosse prematuro? E poi lo so che sei preoccupato da morire per Sheila. — D'accordo — convenne Wexford, asciutto. — Ma questo non significa che non sono più in grado di ragionare. — Temo proprio di sì, per il momento. Tutto ciò che sappiamo di questo caso induce a ritenere che il colpevole sia Clifford. Non so per quale motivo, ti rifiuti di crederlo, e a mio avviso dipende proprio dal fatto che non ti sei ancora ripreso completamente, non hai ancora superato il trauma dell'autobomba. Francamente, ti dirò che avresti dovuto stare a casa a riposarti ancora un po'. "In modo da lasciarti carta bianca", pensò Wexford, guardandosi bene
dal dirlo, benché cominciasse a sentirsi in collera. — Metterò Clifford in ginocchio, e lo farò a modo mio. È solo questione di tempo. Lascia fare a me. Non chiedo il tuo aiuto, e neanche consigli, per la verità. So quello che faccio. Quanto alla storia della tortura, è semplicemente ridicola. Non ho fatto assolutamente niente di male, ho la coscienza a posto. — Può darsi — osservò Wexford. — Ma forse faresti meglio a ricordare le ultime righe della definizione che dà Stafford-Clark dello psicopatico, quando asserisce che è un individuo spietato, risoluto ad arrivare con ogni mezzo allo scopo che si è prefisso. Burden lo guardò storto, girò sui tacchi e uscì, sbattendo forte la porta. Non gli era mai capitato in precedenza di litigare con Mike. Qualche discussione l'avevano avuta, magari abbastanza accesa, come quando Mike, dopo essere rimasto vedovo ed essersi disperato per la scomparsa della moglie, si era lasciato incastrare in un'avventura sentimentale che avrebbe fatto meglio a lasciar perdere. In quell'occasione, Wexford si era arrabbiato parecchio e aveva assunto un atteggiamento paternalistico. Ma da quando si conoscevano, non erano mai arrivati al punto d'insultarsi a vicenda. Naturalmente, Wexford non intendeva affatto dare dello psicopatico a Mike, ma doveva ammettere che le sue parole potevano essere interpretate in quel senso. Aveva pronunciato quella frase spinto dalla collera, dicendo la prima cosa offensiva che gli era saltata in mente. Non tutto ciò che aveva detto Mike era sbagliato. Per esempio, aveva visto giusto nel giudicare Gwen Robson. Quella donna avrebbe fatto qualsiasi cosa, pur di intascare quattrini. E alla fine, aveva fatto qualcosa che le era costato la vita. Wexford lo sapeva, come lo sapeva Burden. Ma per quanto riguardava l'assassino, Mike si sbagliava di grosso: non era stato Clifford Sanders a uccidere Gwen Robson. Wexford guardò fuori della finestra, e vide che stavano pilotando Clifford verso una delle auto. Davidson stava per riaccompagnarlo a casa. Clifford camminava normalmente, non teneva la testa bassa né le spalle curve, ma si capiva ugualmente che era disperato. Si poteva paragonarlo a un tizio che avesse un sogno ricorrente e potesse trovare pace soltanto nel risveglio, ma sapesse che il sogno si sarebbe ripetuto la notte successiva. Sciocchezze, disse Wexford a se stesso, mentre l'auto partiva con Davidson al volante e Clifford seduto dietro. Che cosa avrebbe trovato, al suo ritorno a casa? La madre, un tipo freddo e prepotente, e quella casa grande
e spoglia, fredda anch'essa; quella casa dove, stando a Burden, tutto ciò che poteva renderla più accogliente era stato relegato su in soffitta. Inutile chiedersi perché non se ne andava. Era giovane, sano e istruito. Avrebbe potuto lasciare quella casa, farsi una vita sua. Wexford non ignorava che molta gente è prigioniera di se stessa e con le sue stesse mani blocca con sbarre invisibili la porta aperta sul mondo. Se gliel'avessero domandato, Clifford avrebbe risposto: "Non posso lasciare mia madre. Ha fatto tanti sacrifici per me, mi ha allevato da sola, mi ha dedicato tutta la sua vita. Non posso lasciarla, devo fare il mio dovere". Ma forse, nel corso delle sue sedute da Serge Olson, non era questo che gli diceva. Wexford sarebbe rimasto ancora a lungo nel suo ufficio, a meditare sull'incidente con Burden, se non fosse arrivata una telefonata da un certo Stephen Brook. In un primo momento, non riuscì a ricordare chi fosse, poi gli venne in mente la Lancia blu e la storia della donna colta dalle doglie mentre si trovava al centro commerciale. Brook gli disse che la moglie aveva qualcosa da dire alla polizia. Il pensiero di Wexford andò immediatamente a Clifford Sanders. Chissà, forse la dichiarazione di quella donna sarebbe servita a scagionare definitivamente Clifford. Poteva darsi che lo conoscesse. In una cittadina piccola come Kingsmarkham, non era esagerato affermare che si conoscevano tutti, o quasi tutti. Sarebbe stato un bel colpo, riuscire a tirare fuori dai guai Clifford, e contemporaneamente fare la pace con Burden. Possibilmente senza che Mike perdesse la faccia. I Brook abitavano nella zona di Sundays, e precisamente in Forby Road, in un appartamento. Dalla finestra del loro soggiorno si vedeva il parco, il prato, gli alberi e le auto in sosta di chi frequentava il corso di semantica. La stanzetta in cui si trovavano era ben riscaldata, e il bambino della signora Brook giaceva scoperto in una culla di vimini. Il mobilio dei Brook era costituito da due sedie sgangherate, un tavolo e un grande numero di scatole di legno e di cartone rivestite con tessuti dai colori vivaci. C'erano poster appesi ai muri, e i soprammobili erano stati ottenuti con vasetti di vetro contenenti fiori secchi. Il tutto era stato realizzato con una minima spesa, ma l'effetto era abbastanza gradevole. La signora Brook era vestita di nero. Sembrava che si fosse messa addosso un tendone lavorato a uncinetto. Portava calze a righe bianche e nere e scarpe nere da ginnastica. Agli occhi di Wexford apparve una ben strana Madonna, quando la giovane donna prese il bambino dalla culla, si sbottonò l'abito e gli offrì il seno bianco e tondo. Il marito, in jeans, camicia e
giubbotto chiuso da una cerniera, sarebbe apparso più normale se non avesse avuto i capelli tagliati in un modo stranissimo e tinti di arancione e blu. Sembrava che avesse in testa una strelitzia, quel fiore tropicale comunemente noto come uccèllo del paradiso. L'accento con cui parlavano e il gergo che usavano, consentirono a Wexford di capire che avevano frequentato la Myringham University, cosa che in un primo momento sbalordì Wexford. I due dovevano essere coetanei di Clifford Sanders, ma quant'era diversa la loro vita dalla sua. — Non ve l'ho detto prima — cominciò Helen Brook — perché non sapevo che era lei. Voglio dire, mi trovavo all'ospedale e stavo mettendo al mondo Ashtoreth, e perciò non ho fatto molto caso a quella storia. Ashtoreth. Be', era un nome abbastanza musicale, il nome di una divinità, come Diana. — Cioè, è stata una cosa piuttosto scioccante. Volevo partorire a casa mia, e avevo già predisposto tutto. Avrei partorito accosciata sul letto, non sdraiata, in quella posizione così innaturale. Tre mie amiche sarebbero venute a darmi una mano. I medici dell'ospedale ce l'avevano a morte con me, perché avevo deciso di avere mia figlia in modo naturale, ma sapevo di avere ragione e gliel'avrei dimostrato. Ma mi hanno beccato. È come se mi avessero teso una trappola per costringermi a entrare in ospedale, anche se Steve sostiene di no, che non è possibile. — Già, la tua è paranoia, tesoro — disse Stephen Brook. — Sì, comunque le doglie sono iniziate mentre ero da Demeter. — Da chi? — domandò Wexford, e subito si rammentò che Demeter era l'erborista del Barringdean Shopping Centre. — Da Demeter — tornò a ripetere la signora Brook. — Stavo comperando le mie capsule alla calendula. Ho alzato la testa e l'ho vista attraverso la vetrina. Parlava con una ragazza. Per un momento, ho avuto la tentazione di uscire e di mostrarle il mio pancione. Chissà come avrebbe reagito, visto che continuava a ripetermi che sperava che non avessi figli. — Non sa di che cosa parli, tesoro — le fece osservare il marito. Wexford confermò con un cenno del capo, mentre Helen Brook offriva l'altro seno alla figlia, reggendole la testolina con la mano. — Chi avete visto? — domandò Wexford. — La donna che è stata uccisa. Solo, non sapevo chi fosse. Cioè, non sapevo come si chiamasse. Mi era parso di averla vista da qualche parte; poi, quando abbiamo letto sul giornale che aveva fatto l'assistente sociale e abbiamo visto dove abitava, ho detto a Steve: "Quella è la donna che cura-
va la vicina di casa di mia madre". Dunque, ero da Demeter e l'ho riconosciuta, anche se non la vedevo da un secolo. Aveva saputo, non so da chi, di come era stato celebrato il nostro matrimonio, e non approvava affatto. — Perché, che cos'aveva di strano il vostro matrimonio? — Cioè, Steve e io non siamo andati da un giudice di pace e nemmeno in chiesa, per via delle nostre convinzioni. La nostra è stata una cerimonia stupenda, a Stonehenge, all'alba, alla presenza di tutti i nostri amici. Cioè, adesso non si può più camminare in mezzo alle pietre come una volta, ho saputo da mia madre, ma comunque è stato bello ugualmente vedere Stonehenge. Steve aveva un anello d'osso, io un anello di legno di tasso. Ce li siamo scambiati, e poi un nostro amico musicista ha iniziato a suonare il sitar, e tutti si sono messi a cantare. In ogni modo, la cooperativa assegna l'appartamento anche se non ci si sposa nel modo tradizionale. Mia madre gliel'ha detto, a quella tizia... Come si chiamava? Gwen? Gliel'ha detto, ma lei ha continuato a criticarci. E una volta, quando ci siamo incontrate per la strada, è venuta fuori con questa trovata, che sperava che non avessimo figli. È successo un paio d'anni fa, e da allora non l'ho più rivista, se non una quindicina di giorni fa, da Demeter. Si è messa a parlare con quella ragazza, poi sono entrate insieme alla Tesco. Avevo una mezza idea di seguirle per poi fermarla e dirle: "Visto, aspetto un bambino!" È stato allora che sono iniziate le doglie. Helen Brook sorrise. La piccola Ashtoreth aveva smesso di poppare e ora stava per addormentarsi. Wexford pregò Helen di descrivergli la ragazza. — Non sono molto brava nel descrivere la gente. Cioè, quello che conta è come sono fatti dentro, non è vero? La ragazza doveva" avere qualche anno più di me, aveva i capelli lunghi e scuri ed era vestita in un modo da lasciare a bocca aperta. — Intendete dire che era ben vestita? — Wexford si rese conto che il suo modo di esprimersi era antiquato, e infatti Helen Brook pareva perplessa. — Era particolarmente elegante? — si corresse. — Che genere di capi indossava? Nuovi? Di buon gusto? Alla moda? — No, non direi alla moda. Eleganti è la parola giusta. — Aveva in testa un berretto? — Un berretto? No, non aveva niente in testa. Aveva capelli stupendi, era veramente una bella ragazza. Se lo diceva lei, una sua coetanea, non c'era da metterlo in dubbio. Le informazioni che gli aveva dato coincidevano con la dichiarazione di Lin-
da Naseem? Oppure no? Comunque, si fa presto a togliersi un berretto. Se Linda Naseem ed Helen Brook avevano visto la stessa ragazza, significava che Gwen Robson l'aveva incontrata al centro commerciale, aveva fatto il giro del supermercato in sua compagnia, e infine le due donne erano scese insieme al parcheggio sotterraneo. Ammesso che si trattasse della stessa ragazza... Capita abbastanza di rado di riconoscere una persona che sta al volante di un'auto. Generalmente si riconosce l'auto, poi si guarda chi c'è al volante. Al momento, erano le Escort metallizzate ad attirare l'attenzione di Wexford, come pure le Metro rosse. Guardando meglio quella che stava avvicinandosi, si accorse che a bordo c'era Ralph Robson. Dunque, quel giorno Lesley Arbel era a piedi. — Gira qui — disse a Donaldson. — Portami al Sundays. Quando arrivarono, dalla palazzina in stile Regency stava sciamando fuori la gente, segno che il corso era appena terminato. Le donne e gli uomini più o meno si equivalevano, e per la maggior parte erano giovani. Lesley Arbel, che usciva in quel momento dalla porta, spiccava tra tutti gli altri per il suo aspetto e per l'abbigliamento. Quando Wexford l'aveva vista per la prima volta, gli aveva rammentato le attrici dei primi anni del cinema parlato, e anche in quel momento gli ricordò i film degli anni '30. Solo che nei film, dove era necessario far capire subito quali erano le comparse e quale la diva, una scena del genere era giustificata; ma siccome quello non era un film e Lesley Arbel non era un'attrice, il suo aspetto era abbastanza ridicolo, in contrasto con le giacche di tweed, le giacche a vento, i giubbotti. Scese i gradini con passo traballante sui tacchi altissimi. L'autobus di Kingsmarkham percorreva Forby Road e si fermava davanti al cancello di Sundays Lodge. Ne stava arrivando uno giusto in quel momento, ed era evidente che Lesley avrebbe voluto prendere quello, ma i tacchi alti e la gonna stretta la costringevano a camminare adagio, per cui non sarebbe riuscita a salire su quell'autobus. Wexford cacciò fuori la testa dal finestrino e le domandò se voleva un passaggio fino a casa. Colta alla sprovvista, Lesley trasalì. Wexford ebbe l'impressione che sarebbe saltata in macchina di corsa, se non fosse stata impacciata dagli abiti che indossava. Dunque, si avvicinò lentamente. Wexford scese dall'auto e le aprì la portiera posteriore. La giovane donna abbassò la testa ed entrò in macchina, reggendo in una mano il cappello di grosgrain nero. — Vorrei parlarvi un attimo a quattr'occhi — annunciò Wexford. —
Senza la presenza di vostro zio. Lesley era troppo nervosa per parlare. Rimase seduta con le mani in grembo, fissando le spalle di Donaldson. Wexford vide che le sue unghie, che solitamente sporgevano di almeno un centimetro e mezzo dal polpastrello, erano corte e prive di smalto. Donaldson guidava lentamente sulla strada fiancheggiata di alberi. Il sole era appena tramontato, e le sagome degli alberi disegnavano un ricamo nero sullo sfondo straordinariamente rosso del cielo. — Non me l'avevate detto che eravate a Kingsmarkham, il giorno in cui è stata uccisa vostra zia — esordì Wexford in tono pacato. Lesley gli rispose senza esitare, come se la domanda non la preoccupasse affatto. — No, ero sconvolta e me ne sono dimenticata. — Suvvia, signorina Arbel. Mi avevate detto di essere uscita presto da Orangetree House perché non vi sentivate bene. — E infatti non stavo bene — mormorò. — Però, la vostra indisposizione non vi ha impedito di venire a Kingsmarkham. — Non ho pensato che era importante dire dove mi trovavo, date le circostanze. È questo che intendevo, poco fa. Per un istante, gli era parsa preoccupata, ma ora era tornata tranquilla. Segno che probabilmente non le aveva rivolto la domanda che temeva. — Certo, è molto importante stabilire dove vi trovavate. A quanto mi risulta, siete venuta qui per accertarvi che il vostro nome figurasse tra quelli degli iscritti al corso di semantica, che doveva iniziare il lunedì seguente. È così? — Lesley annuì, visibilmente rilassata. — Non ci sarà difficile controllare, sapete, signorina Arbel. — È la verità, sono venuta per assicurarmi che fosse tutto in regola. — Non potevate farlo per telefono? — Ho tentato, ma i loro apparecchi non funzionavano. — Dopo aver sistemato la faccenda, vi siete recata all'appuntamento con vostra zia, al Barringdean Centre? — No! — protestò Lesley con foga, forse spaventata, o più semplicemente meravigliata da una tale illazione. — Non l'ho vista. Non l'ho vista affatto. Perché avrei dovuto andare al Barringdean Centre? — Questo dovete spiegarmelo voi. E se vi dicessi che siete stata vista da almeno un testimone? — Vi risponderei che quel testimone mente.
— Come avete mentito voi, quando mi avete detto che il 19 novembre non vi sentivate bene, e perciò siete tornata a casa presto dal lavoro? — Non vi ho mentito. Credevo che non fosse così importante, il fatto che ero venuta qui a firmare un modulo e a verificare l'iscrizione, per poi tornarmene di nuovo a casa. È esattamente ciò che ho fatto. Non sono neanche andata vicino al Barringdean Centre. — Siete arrivata e ripartita in treno? Lesley annuì. Era caduta nella trappola. — Eravate molto vicino al centro commerciale, allora, considerato che l'entrata dei pedoni si trova nella strada parallela a quella che conduce alla stazione. Non sarebbe più esatto dire che stavate recandovi alla stazione, quando vi siete ricordata che vostra zia doveva trovarsi all'interno del Barringdean Centre, come ogni giovedì, e perciò siete entrata e vi siete incontrata con lei? Lesley negò con enfasi, ma ancora una volta, Wexford ebbe la sensazione che a spaventarla non fosse l'idea di essere stata vista in compagnia della zia, mezz'ora prima che fosse assassinata. — Rischio di perdere il mio posto di lavoro — aggiunse Lesley in tono quasi disperato, cosa che accrebbe lo stupore di Wexford. Il rischio di perdere il posto non era niente, in confronto a quello ben più grave di essere coinvolta nell'omicidio. Wexford lasciò correre. L'auto si fermò davanti alla casa di suo zio, e Wexford le aprì la portiera. Dopo che lei fu scesa, rimase fermo qualche istante a guardare la casa. Attraverso le tende della finestra si vedeva la luce accesa. Lesley percorse il vialetto di buon passo, e stava armeggiando con la chiave, quando venne lo zio ad aprirle la porta, che si richiuse subito. E ora, li aspettava una lunga serata, pensò Wexford. Bisognava preparare il tè, e forse anche le uova strapazzate; poi ciascuno dei due avrebbe parlato della giornata trascorsa, lui si sarebbe lamentato dell'artrite e lei avrebbe cercato di confortarlo; e infine sarebbe stato un sollievo per entrambi mettersi davanti alla televisione. Chissà come se la cavavano in questi casi, prima dell'avvento della televisione? Era impensabile. Era bontà d'animo, la sua? Lesley aveva voluto bene davvero alla zia, e ora amava e compativa lo zio? Una santa, un vero angelo, che si sacrificava a trascorrere un altro fine settimana in quella casa, mentre a Londra doveva avere un'infinità di amici disponibili, e per Londra c'erano ben tre treni all'ora. Secondo Wexford, non era una santa, e non era neanche particolarmente buona. Generalmente vanità ed egocentrismo non sono compa-
tibili con l'altruismo. Chissà perché aveva negato con tanta foga di essersi incontrata con la zia? La figlia di Dita Jago era passata a prendere le bambine. — Puoi riportare indietro l'auto e poi andartene a casa, se vuoi — disse Wexford a Donaldson. — Io vado a piedi. Donaldson lo guardò con una certa perplessità, poi gli venne in mente che Wexford aveva traslocato in un'altra casa. Wexford attraversò la strada. I lampioni di Highlands facevano una luce diversa da quella dei lampioni davanti a casa sua. Questi diffondevano nell'aria una sorta di foschia e tingevano i passanti di un marrone verdastro simile a quello di certi rettili. Melarne e Hannah Quincy (era questo il cognome delle due bambine?) sembravano tubercolotiche, con i begli occhi scuri spenti, le guance rosee divenute spettrali. La loro mamma indossava una delle creazioni di sua madre, un pullover di tanti colori simile a un tappeto persiano, e una gonna a pieghe sciolte che ondeggiavano al vento. Come si chiamava? Nina? Un attimo dopo, la signora Jago chiamò la figlia. Nina Quincy fece salire le bambine in macchina, si avvicinò alla madre, l'abbracciò e la baciò. Strano, pensò Wexford, dato che si vedevano tutti i giorni... La signora Jago salutò ancora la figlia e le nipotine agitando il braccio, mentre l'auto si staccava dal marciapiede. Quel giorno, aveva le spalle coperte da uno scialle che terminava con una frangia. Le si addiceva. Con quel corpo mastodontico, meglio evitare un abbigliamento troppo moderno. Vide Wexford e lo salutò. — Vi siete trasferito da queste parti, mi hanno detto. Annuì. — Come vanno le vostre memorie? — Non ho scritto granché. — Lo guardò con una strana espressione, come se volesse confidargli qualcosa ma non fosse sicura di far bene. — Entrate un attimo a bere qualcosa.. Una chiacchieratina con una vicina di casa, al ritorno dal lavoro, magari un bicchiere di sherry. Perché no? Ma la signora Jago non gli offrì uno sherry. Gli versò invece un liquore molto forte, ghiacciato, leggermente dolciastro. Wexford rimase a bocca aperta, con l'impressione che gli si fossero rizzati i capelli in testa. — Ne avevo proprio bisogno — mormorò la signora Jago, dopo aver bevuto. La pila di fogli dattiloscritti era esattamente dove l'aveva vista Wexford l'ultima volta. Sopra c'era un cappello, proprio come la volta precedente. La signora Jago non aveva fatto progressi nella stesura del suo romanzo,
ma in compenso aveva lavorato a maglia, e la giungla era cresciuta di parecchi centimetri, tanto che s'incominciava già a vedere il cielo. A Wexford venne un'idea. — La signora Robson lo sapeva, che state scrivendo la vostra autobiografia? — domandò. — La signora Robson? — il tono era indifferente, forse anche troppo. — È venuta a casa mia una sola volta, non credo che l'abbia notato. — Forse avrebbe aggiunto che Gwen Robson non era il tipo di donna che amasse leggere. Invece, Dita Jago lo lasciò di stucco, cambiando di colpo argomento. — Mia figlia e mio genero si sono separati — annunciò. — Se ne sono andati ciascuno per la propria strada, come si usa dire oggigiorno. Non l'avrei mai pensato, non avevo notato niente di strano. Questo pomeriggio, Nina è venuta e mi ha confidato che il suo matrimonio è andato a monte. Mio genero se n'è andato di casa stamattina. — Anche mia figlia si è separata dal marito — mormorò Wexford. — Nel suo caso, è molto diverso — osservò Dita Jago, con una mancanza di tatto che non le era abituale. Ma forse non aveva tutti i torti. — Un'attrice famosa, ricca, con un marito facoltoso, conosciuta da tutti... — C'era da aspettarselo, intendete dire? Dita Jago era troppo vecchia e troppo smaliziata per arrossire. — Scusatemi, non era questo che intendevo dire. È solo che Nina ha due figlie, ed è un'esperienza terribile per le bambine. E le donne costrette ad allevare i figli con le loro sole forze, conducono una vita miserevole. Nina guadagna così poco con il suo lavoro, ed è solo part-time. Il marito le lascia la casa, alle bambine dovrà provvedere lui, ma nonostante questo... Se solo ne capissi il motivo! Credevo che il loro fosse un matrimonio felice. — Chi può saperlo, che cosa accade nei matrimoni altrui? — osservò Wexford. Lasciata la casa di Dita Jago, si accinse a salire su per la collina. La sua terza regola, pensava, avrebbe dovuto essere: scegli sempre la casa alla base della collina, così il mattino, quando sarai fresco e riposato, la salita sarà meno dura da percorrere. La strada era piuttosto ripida, davvero una bella salita. Vedeva davanti a sé la sua nuova abitazione, e siccome non c'era il garage, la sua auto era fuori in strada. Dietro c'era quella di Sylvia, e dietro ancora, un'auto che non conosceva, forse di qualche vicino. Il camion dei traslochi se n'era andato. Nonostante la camminata, non era senza fiato quando aprì il cancello e si diresse verso la porta. Devo cercare di essere in forma, pensò mentre girava la chiave nella serratura e apriva la porta. Im-
mediatamente, le sue orecchie furono assalite dalla voce di Sylvia, forte, acuta, penetrante, perfettamente udibile attraverso le pareti sottili. — Dovresti pensare a papà! Dovresti pensare che metti in pericolo la sua vita, con i tuoi inutili eroismi! 13 L'altra auto doveva appartenere a Sheila, forse presa a nolo, oppure acquistata in sostituzione della Porsche. Le due sorelle, entrambe in piedi, si squadravano con aria di sfida ai lati opposti della stanza, ma siccome il locale era angusto, non c'era molta distanza tra di loro. C'era una porta che dava accesso al soggiorno, un'altra alla cucina, e mentre Wexford passava da una porta, Dora entrava dall'altra, accompagnata dai nipotini. — Piantatela! — ordinò Dora. — Smettetela di gridare! I bambini erano rimasti indifferenti alla scenata. Erano entrati l'uno (Robin), per cercare la calcolatrice tascabile, l'altro (Ben), per procurarsi un blocco di carta da disegno. Si misero a frugare nelle rispettive cartelle, senza far caso né alla madre né alla zia. La loro reazione sarebbe stata ben diversa, si disse Wexford, se a litigare fossero stati i genitori. Guardò prima una figlia, poi l'altra. — Cosa sta succedendo? Per tutta risposta, Sylvia alzò le braccia in aria e andò a buttarsi in poltrona. Sheila, rossa in viso, con i capelli scompigliati, forse ad arte, si degnò di rispondere. — Il mio caso sarà presentato in tribunale martedì prossimo. Loro vogliono che mi dichiari colpevole. — Chi sono "loro"? — La mamma e Sylvia. — Scusa — protestò Dora — ma io non ti ho detto niente del genere. Ti ho semplicemente raccomandato di non prendere la cosa alla leggera. — Ho riflettuto molto. Praticamente, non riesco a pensare ad altro, e ne ho discusso con Ned fino alla nausea. Ne ho discusso con lui perché è un avvocato, oltre che... Be', il mio ragazzo, o comunque vogliate chiamarlo. E per essere sincera, questa faccenda non giova affatto alla nostra relazione. Robin e Ben interruppero le ricerche, presero le loro cartelle e si trasferirono in cucina. Con molto tatto, Ben chiuse la porta alle sue spalle. Fu come un segnale per Sylvia, che si sentì libera di parlare apertamente. — Faccia pure quello che vuole — sbottò in tono stizzoso. — Se intende andare in tribunale a dire che lei non è colpevole, ma sono colpevoli i go-
verni che se ne infischiano delle Leggi internazionali o come cavolo si chiamano, be', lo faccia pure. E se dovrà sborsare dei soldi e si rifiuterà di farlo, che vada pure in prigione, se è questo che desidera. Wexford la interruppe. — È questo che intendi fare, Sheila? — Per forza — rispose la figlia. — Altrimenti, non avrebbe senso. — Ma non ci va di mezzo soltanto lei — riprese Sylvia. — Ci andiamo di mezzo anche noi. Tutti sanno chi è, tutti sanno che è tua figlia, che è mia sorella. Che effetto farà quando si saprà che tu, funzionario di polizia, hai una figlia in galera? Viviamo in un paese democratico, e se vogliamo cambiare le cose, ciascuno di noi ha a disposizione un voto per farlo. Si può sapere per quale motivo lei non si accontenta del suo voto per tentare di cambiare il governo, come gli altri comuni mortali? — Questa è la fregatura più grossa di tutte — replicò Sheila, calma. — Che cosa si può ottenere con un voto, quando la proporzione è centosessanta a uno? — Ma c'è di peggio — riprese Sylvia, ignorando l'intervento della sorella. — Quando quelli che hanno tentato di ucciderla sapranno esattamente come la pensa, perché lei lo dirà in tribunale, ci riproveranno di certo. C'è da giurarci. Per un pelo non hanno ammazzato te per sbaglio, e forse prima o poi ci riusciranno, magari di proposito. A meno che non se la prendano con me, o con uno dei miei figli... Wexford trasse un sospiro. — Ho bevuto un bicchierino di grappa con una signora che conosco. — Strizzò l'occhio a Dora. — Avrei fatto bene a portarmi via la bottiglia. — È davvero imperdonabile, disse a se stesso, il fatto che io non ami le mie due figlie allo stesso modo. Si rivolse a Sheila. — Credo che tu debba fare ciò che ti sembra giusto. — Ma mentre andava in cucina a prendersi la birra che sperava di trovare nel frigo, fu a Sylvia che fece una carezza. Gli animi si calmarono, per fortuna. Poco dopo, Sylvia se ne andò a casa con i figli, per preparare la cena. Sheila e i genitori andarono a mangiare fuori. Nessuno si sentiva a suo agio in quella che Dora aveva definito "orribile casetta". Sheila parlò di Ned. Nella sua posizione, le aveva detto, era meglio evitare di far sapere in giro che aveva una storia con una che stava dall'altra parte della barricata. Fedele ai suoi principi, Wexford non chiese spiegazioni. — E pensare che la pace è così bella — osservò Sheila. — Allora, perché trattano come criminali chi lotta per mantenere la pace? Passando davanti al commissariato, di ritorno da Pomfret, dove si trovava il ristorante,
Wexford vide che c'era la luce accesa in una stanza degli interrogatori. Non c'era ragione di pensare che dentro ci fosse Burden con quel poveraccio di Clifford Sanders, ma Wexford lo temeva. Per un attimo, dimenticò Sheila e i suoi problemi. Mi sentirò a disagio quando vedrò Mike, si disse, e cercherò di ritardare quel momento. Come devo regolarmi? Burden non aveva intenzione di far tornare Clifford al commissariato. Al contrario, intendeva richiamare i cani e lasciare che la preda trascorresse il fine settimana in pace. La metafora l'aveva inventata sua moglie, non lui, e non gli era piaciuta affatto. Ora si pentiva di averle parlato del caso. Meglio sarebbe stato obbedire alla regola, in genere ben poco osservata, secondo la quale era preferibile non portarsi il lavoro a casa. — Mi sono sentito dire le stesse stupidaggini in ufficio — disse a Jenny, evitando di nominare Wexford, perché era in collera con lui. — Non riesco a capire tutto questo pietismo nei confronti di individui capaci di uccidere a sangue freddo. Bisognerebbe pensare un po' di più alle vittime, tanto per cambiare. — Non è la prima volta che lo dici — ribatté Jenny, con un tono non proprio gentile. Fu la goccia che fece traboccare il vaso. Dopo cena, tornò al commissariato e incaricò Archbold di andare a prendere Clifford. Stavolta, usò la stanza degli interrogatori del pianterreno, quella la cui finestra si affacciava su High Street. Per la prima volta, Clifford non attese che fosse Burden a parlare. — Lo sapevo, che oggi mi avreste fatto chiamare di nuovo — disse in tono rassegnato. — Me lo sentivo. È per questo che non ho nemmeno iniziato a guardare la televisione, sapevo che sarei stato interrotto nel bel mezzo di un programma. Lo sapeva anche mia madre. Mi osservava, aspettava di sentir suonare il campanello. — Anche tua madre ti ha sottoposto a un interrogatorio, vero, Cliff? Ancora una volta, a Burden venne fatto di pensare che Clifford somigliava a uno scolaretto, anche per il suo modo di vestire. Quella sera, indossava pantaloni di flanella grigia con i risvolti e le pieghe ben stirate e camicia della stessa tinta, cravatta a righe, pullover grigio con lo scollo a V, fatto a mano. Doveva averlo confezionato la madre. I bordi intorno al collo e le cuciture lasciavano molto a desiderare. Dorothy Sanders doveva essere il tipo di donna capace di fare molte cose, ma nessuna con la precisione necessaria. Probabilmente le mancava la pazienza.
— Tanto vale che ve lo dica — riprese Clifford, con la sua solita espressione indifferente; — Ora vi dirò la verità, non vi nasconderò nulla. Spero che mi crediate. Mia madre dice che non vi ostinereste a interrogarmi continuamente, giorno dopo giorno, se non ci fosse sotto qualcosa. Dice ehe evidentemente sono quel tipo di persona, altrimenti non continuereste a mandarmi a chiamare. — A che genere di persona si riferisce, Cliff? — Al tipo capace di uccidere una donna. — Allora, tua madre sa che sei colpevole, vero? — Non si può sapere qualcosa che non è vera — replicò Clifford. — Non si può né crederla né sospettarla. Lei dice che sono quel tipo d'individuo, non che sono io l'assassino. — S'interruppe, guardò Burden con occhi da pazzo, o così parve al poliziotto. — Forse è vero, che sono quel genere di persona. Come si fa a capirlo, prima di avere commesso il fatto? — Allora, Cliff, prova a descrivermi quel genere di persona. — Dovrebbe essere un infelice, uno che si sente minacciato in continuazione. Uno che vorrebbe farla finita con il tipo di vita che conduce, ma non ci riuscirà mai. perché i suoi sogni non sono destinati a realizzarsi. È come un topo in gabbia. Fanno di questi esperimenti, gli psicologi. Lasciano aperto lo sportello della gabbia, e bloccano l'uscita con una lastra di vetro. Il topo crede di avere via libera e tenta di scappare, ma non ce la fa, sbatte la testa contro il vetro. A questo punto, si toglie il vetro e il topo rinuncia ugualmente alla fuga, perché sa che fa male sbattere la testa contro quella cosa invisibile che c'è fuori. — Stai descrivendo te stesso? Clifford annuì. — Parlare con voi mi è servito a farmi capire che tipo di persona sono. Mi hanno giovato più i vostri discorsi, che non le sedute da Olson. — Fissò Burden negli occhi. — Dovreste mettervi a fare lo psicoterapeuta. — Rise. — Pensavo che foste stupido, ma ora ho capito che non lo siete affatto. Siete riuscito ad aprirmi la mente, è un bel risultato. Burden non era sicuro di avere interpretato bene le sue parole. Come chiunque altro, non amava sentirsi dare dello stupido, anche se l'insulto era stato ritrattato. Comunque, aveva l'impressione che Clifford sarebbe stato ancora più sincero, se loro due fossero rimasti da soli. Così, con il pretesto di mandare Archbold giù al bar a prendere del caffè, si sbarazzò di lui. Clifford era tornato sorridente, senza averne motivo. — State registrando la conversazione? — gli domandò. Burden annuì.
— Bene. Grazie a voi, ho capito di che cosa sono capace. È spaventoso. Come il topo, so di non poter sfondare la parete invisibile, ma in compenso posso fare in modo che la sfondi chi ce l'ha messa. — Fece una pausa, mostrò i denti in una caricatura di sorriso. — Dodo, il grande uccello. Solo che non è un grande uccello, è un piccolo uccellino con il becco e gli artigli in proporzione. Sapete una cosa? Certe volte mi sveglio, di notte, e penso a ciò che sono capace di fare, a ciò che potrei fare, e allora mi viene voglia di mettermi a urlare, ma mi trattengo perché altrimenti la sveglierei. — Già — mormorò Burden — già. — Non gli piaceva la piega che aveva preso la conversazione. Era troppo difficile per lui, inoltre ne aveva abbastanza, e avrebbe rispedito volentieri Clifford a casa sua. — Che cosa saresti capace di fare? — domandò, senza troppa convinzione. Clifford non rispose. Archbold ricomparve con il caffè e, a un cenno di Burden, se ne andò di nuovo. — Alla mia età — riprese Clifford — non dovrei più aver bisogno della mamma. E invece è così. In molti frangenti, dipendo completamente da lei. — Continua — l'invitò Burden. Ma Clifford continuò il discorso a modo suo. — Voglio parlarvi di me. A voi sta bene? Per la prima volta, Burden avvertì una sensazione quasi di paura, anche se non l'avrebbe mai ammesso. La paura di essere solo con un pazzo. — Continua — tornò a ripetere. — Quand'ero piccolo — riprese Clifford con voce sognante — un ragazzino, intendo dire, vivevamo con i genitori di mio padre. La famiglia Sanders aveva abitato in quella casa a partire dagli ultimi anni del '700. Mio nonno morì, poi si sfasciò il matrimonio di mio padre e mia madre. Un mattino, mio padre se ne andò di casa per sempre, e in seguito ci fu il divorzio. Restammo con la madre di mio padre. La mamma la portò in un istituto per gli anziani, poi si sbarazzò di tutto ciò che le ricordava mio padre e i suoi genitori: portò su in soffitta i mobili, le coperte, i servizi di porcellana, le lenzuola, ogni cosa. "In casa restammo senza mobili. Avevamo soltanto due materassi per terra, un tavolo e due sedie. I tappeti e tutte le altre suppellettili erano chiuse in soffitta. Non vedevamo mai nessuno, non avevamo amici. Mia madre non voleva mandarmi a scuola, voleva che studiassi con lei, a casa. Dodo! Figuriamoci! Aveva fatto la donna di servizio, prima di sposarsi. Non aveva le carte in regola per provvedere alla mia istruzione, e a un certo punto lo scoprirono e la costrinsero a mandarmi a scuola. Ogni mattina, mi ac-
compagnava a Kingsmarkham, e il pomeriggio tornava a prendermi. Sono quasi cinque chilometri, una bella camminata! Quando mi lamentavo, perché non avevo voglia di camminare, sapete che cosa mi diceva? Minacciava di mettermi sul mio vecchio passeggino. Avevo sei anni. Naturalmente, non facevo più storie per camminare; non volevo che la gente mi vedesse nel passeggino. Esisteva l'autobus della scuola, ma io non lo sapevo. Trascorsi due anni, quando scoprii che potevo prendere quell'autobus, ne approfittai. Se capitava che mia madre dovesse punirmi per qualche marachella, non mi picchiava, mi chiudeva su in solaio in mezzo a tutti quei mobili." — Bene, Cliff — disse Burden, dando una rapida occhiata all'orologio — fermiamoci qui. — Clifford si alzò, obbediente, e Burden si rese conto di aver parlato con il tono dello psicoterapeuta, lo stesso che avrebbe adottato Serge Olson. La sera precedente, si era aspettato una confessione da Clifford. Quel suo tono confidenziale, quel suo modo di parlare per la prima volta senza reticenze, l'uso ripetuto del soprannome della madre, sembravano preparare il terreno per una confessione. Pareva che dovesse arrivare da un momento all'altro, e invece era stata una delusione. Clifford aveva portato il discorso sugli anni della sua infanzia, argomento che a Burden non interessava affatto. Ma un risultato, Burden l'aveva ottenuto: quello di non sentirsi più in colpa, di non sentirsi più a disagio. Jenny si era sbagliata, e anche Wexford. Clifford poteva essere pazzo, poteva essere lo psicopatico che lui, Burden, lo giudicava, ma non si lasciava spaventare facilmente, non perdeva il suo sangue freddo, non si lasciava affatto prendere dalla disperazione. Appariva invece di buon umore, in vena di parlare, sicuro di sé. Insomma, per quanto inverosimile potesse sembrare, dava l'impressione di essere contento di quelle chiacchierate, addirittura di aspettare con ansia che gli si ripresentasse un'altra volta l'occasione. Ormai, doveva essere solo questione di tempo. Burden non aveva voglia di discutere con Wexford, ma gli avrebbe fatto piacere se fosse stato presente all'interrogatorio successivo, magari intervenendo con qualche domanda a Clifford. Ora Burden non si sentiva più un inquisitore, non riteneva che i suoi interrogatori potessero essere considerati una forma di tortura, ma sentiva gravargli sulle spalle tutto il peso della responsabilità che si era assunto. Il mattino successivo, Sheila chiese scusa ai genitori.
— Sylvia pretendeva che mi presentassi in tribunale ad annunciare di essere pentita — disse. — Lo immaginate? Dovrei abbassarmi a ritrattare tutto, chiedere scusa a un gruppo di terroristi, dichiararmi colpevole e promettere di non farlo più. — Non è questo che intendeva dire tua sorella — ribatté Dora. — Io penso di sì. Comunque, non voglio chiedere scusa a nessuno, se non a te e a papà. Mi dispiace di avere provocato quella scenata nella vostra... nella vostra nuova casa. Soprattutto considerando che è praticamente colpa mia, se la vostra vecchia casa è ridotta in quello stato. Li salutò, li baciò entrambi e partì alla volta di Coram Fields, e di Ned. Una mezz'ora dopo, telefonò Sylvia per scusarsi, disse, di quell'inutile scenata. Stava pensando di venire a casa loro, per spiegare meglio il suo punto di vista riguardo alla faccenda di Sheila. — Va bene — rispose Wexford — ma solo se mi porti tutti i numeri del giornale Kim che hai in casa. Sylvia rispose che ne aveva parecchi, che li conservava perché le interessavano i modelli di lavori a maglia. Nel pomeriggio, arrivò con una tale pila di giornali, che si resero necessari più viaggi per scaricarli dall'auto. Erano più di duecento, pubblicati in un periodo di circa quattro anni. In circostanze normali, Sylvia non avrebbe mai confessato al padre di leggere riviste, soprattutto riviste frivole come Kim, ma in quel momento si sentiva in colpa e voleva farsi perdonare, e così l'aveva accontentato. Dora non fece commenti, quando vide i giornali, ma apparve piuttosto contrariata quando Sylvia li impilò tra la libreria e il televisore. Sistemate le riviste, Sylvia tenne una specie di comizio, per illustrare la sua opinione sulle armi nucleari, sul ruolo dei personaggi pubblici nelle contestazioni contro le istituzioni dello stato, sulla protesta portata avanti con metodi pacifici. Wexford rimase ad ascoltarla pazientemente, ben sapendo che avrebbe dato retta a Sheila, e si sforzò di essere equo nei confronti della figlia che amava meno. Questa consapevolezza lo faceva sentire terribilmente in colpa. E se Sylvia era davvero preoccupata per lui, se temeva che potesse essere vittima di un altro attentato, allora avrebbe dovuto mettersi in ginocchio e ringraziarla di preoccuparsi tanto per lui. Così, rimase seduto ad ascoltarla fino in fondo, annuendo con brevi cenni del capo e esprimendo con calma il suo dissenso, quando non la pensava come lei. Ma trattenne a stento un sospiro di sollievo, quando sentì suonare il campanello e, guardando fuori dalla finestra, vide l'auto di Burden posteggiata davanti alla casa. Stranamente, non pensò al senso d'imbarazzo che
aveva temuto di provare, trovandosi a faccia a faccia con Burden. Il poliziotto aveva con sé la moglie Jenny e il figlio Mark. Se Sylvia avesse avuto due figlie femmine, le bambine avrebbero immediatamente preso sotto la loro protezione il piccolo Mark, che aveva soltanto due anni, avrebbero parlato con lui, avrebbero giocato a fare le mamme. Ma i figli di Sylvia, essendo maschi, si limitarono a guardare Mark con indifferenza, e quando la madre li invitò a mostrare al piccolo il loro Lego, le domandarono se fosse proprio necessario. — Volevo invitarti fuori a bere qualcosa con noi — disse Burden — ma Jenny ha in antipatia i locali pubblici. — E ha assolutamente ragione — approvò Sylvia. Nella casa vecchia, Wexford avrebbe fatto accomodare Burden in sala da pranzo, ma qui la sala da pranzo non esisteva, c'era solo un piccolo spazio dietro la cucina, chiamato "zona pranzo". Ma la cucina, benché angusta, era dotata di un tavolo e di due sedie usufruibili solo da chi avesse un deretano di moteste proporzioni. Nel locale, torreggiava il grande frigorifero. Wexford prese due lattine di birra. — Mi dispiace, Mike — iniziò a dire, nello stesso istante in cui Burden mormorava: — Senti, mi dispiace di avere detto quelle cose, ieri... Scoppiarono in una risata, poi l'imbarazzo ebbe il sopravvento. — Oh, santa cielo! — esclamò Wexford. — Facciamola finita. Non volevo affatto darti dello psicopatico. Non era certo questo che avevo in mente. — Nemmeno io facevo sul serio, quando ti ho detto che non ti sei ancora ripreso del tutto dall'incidente. Chissà perché ci siamo lasciati prendere dall'ira in quella maniera? Basterebbe riflettere un momento, prima di parlare. Si guardarono, ciascuno dei due con la lattina di birra in mano, ciascuno dei due poco propenso a servirsi dei bicchieri che Wexford aveva tratto dalla credenza. Burden fu il primo a distogliere lo sguardo. Abbassò la testa, armeggiò con la chiusura della lattina. — Senti — disse — voglio parlarti a proposito di Clifford Sanders. Voglio che tu senta tutto ciò che mi ha detto ed esprima la tua opinione. E poi vorrei un'altra cosa, ma non credo che risponderai di sì. — Ti ascolto. — Vorrei che tu fossi presente, a una delle nostre sedute. — A una delle vostre... — Scusa, volevo dire interrogatori.
— Raccontami ciò che ti ha detto. — Potrei farti ascoltare la registrazione. — Non ora. Raccontami con le tue parole. — Mi ha parlato diffusamente della sua infanzia, e di quello strano tipo che è sua madre. Continua a chiamarla Dodo, e poi ride. Non mi va di considerarlo malato di mente, vale a dire, non mi sta bene che se la cavi con la scusa dell'infermità mentale, ma credo di non avere scelta. — A questo punto, Burden gli riferì com'era andato l'interrogatorio della sera precedente, senza tralasciare nessun particolare. — È meglio che io non ci sia — osservò Wexford. — Si chiuderà nel suo guscio, se sarò presente io. — Però hai cambiato idea, vero? Adesso la pensi come me, sei convinto che sia colpevole? — No, non è vero, Mike. Affatto. Semplicemente, mi sembra che la tua convinzione abbia basi più fondate di quanto credessi. Comunque, non l'hai trovato in possesso dell'arma del delitto, né hai scoperto quale potesse essere il suo movente, e francamente ti dirò che, a mio avviso, Clifford non ha nemmeno avuto l'opportunità di commettere il delitto. Non riuscirai mai a dimostrare che è lui l'assassino, a meno che non ottenga una confessione. — È proprio questo che spero. Lunedì ricomincio a metterlo sotto pressione. Dopo che furono usciti tutti, nella piccola casa di Battle Hill tornò la pace, una pace turbata dai rumori dei vicini: interruttori della luce che entravano in funzione, risate autentiche e televisive, bambini che correvano, strani tonfi. Wexford se ne stava tranquillamente seduto, assorto nella lettura dell'ultimo lavoro di A.N. Wilson, quando squillò il telefono. Andò Dora a rispondere. — Se è qualcun altro che vuole venire a chiedere scusa, digli che sono a sua completa disposizione. Era Sheila. Wexford sentì Dora pronunciare il suo nome, avvertì preoccupazione e terrore nel suo tono di voce, e scattò in piedi. — Sta bene — lo tranquillizzò Dora, staccando la bocca dal microfono. — Ha telefonato per evitare che sentissimo la storia alla televisione. Le è arrivata una lettera esplosiva, ma... Wexford le strappò di mano il ricevitore. — L'ho trovata insieme al resto della posta. Non so perché, aveva un aspetto che non mi piaceva. La polizia è arrivata come un fulmine. Hanno preso la lettera, non so che cosa abbiano fatto, e la lettera è esplosa...
Sheila scoppiò in singhiozzi. Il resto delle sue parole fu incomprensibile. Wexford udì una voce maschile che tentava di consolarla. 14 — Nonna Sanders aveva del denaro — disse Clifford — ma lo lasciò tutto a mio padre. Non lo rividi mai più. Se ne andò via quando avevo cinque anni, senza neppure salutarmi. Me ne ricordo perfettamente. Era in casa, la sera quando sono andato a dormire, e il mattino dopo quando mi sono svegliato, lui non c'era più. Mia madre mi disse semplicemente che mio padre ci aveva lasciato, ma che l'avrei rivisto spesso, che sarebbe venuto a prendermi e mi avrebbe portato fuori. Invece non tornò più e io non lo rividi mai. Non c'è da meravigliarsi, che mia madre abbia deciso di togliersi di torno ogni cosa che potesse ricordarglielo. Fu questo il motivo che la spinse a trasportare tutto su in soffitta. Involontariamente, Burden seguì la direzione del suo sguardo, verso il plafone della sala da pranzo scolorito e solcato da crepe. Attraverso i vetri della porta-finestra s'intravedeva il giardino avvolto nella foschia, e la collina che impediva la visuale di Kingsmarkham. Era domenica pomeriggio, e benché fossero solo le tre meno un quarto, cominciava a farsi buio. Burden non aveva avuto intenzióne di andare da Clifford. Pensava di riprendere l'interrogatorio l'indomani, come aveva detto a Wexford. Ma Clifford gli aveva telefonato mentre terminava di mangiare. Non era difficile trovare il suo numero telefonico, era nell'elenco, ma Burden si stupì di ricevere quella telefonata, e sentì rinascere la speranza. Tra non molto, Clifford avrebbe sicuramente confessato. Lo confermava il suo tono di voce, basso, come se temesse che la madre potesse sentirlo, e la velocità con cui riagganciò, non appena Burden gli ebbe detto che sarebbe andato da lui. Probabilmente Dodo Sanders era entrata nella stanza nel corso della telefonata, e se avesse udito le parole del figlio, avrebbe intuito le sue intenzioni e tentato di fermarlo. Fu Clifford ad aprirgli la porta e a farlo accomodare in casa. La madre mise fuori la testa da un locale che doveva essere il bagno e guardò Burden senza aprire bocca. Aveva la testa avvolta in un asciugamano, e quindi doveva essersi lavata i capelli, benché fosse andata dal suo parrucchiere tre giorni prima. A Burden venne in mente ciò che aveva detto Olson a proposito della "donna velata". Naturalmente, Olson si riferiva a un velo immaginario, capace di nascondere gli aspetti più nascosti della personalità, del
carattere. La testa avvolta nel turbante si ritrasse e la porta si chiuse. Burden guardò Clifford, il cui aspetto non era diverso dal solito. Anche quel giorno, benché fosse domenica, era vestito come uno studente, senza nessuna concessione al casual. C'era però qualcosa di differente nei suoi modi, qualcosa d'indefinibile che Burden non riusciva a individuare. Fino al giorno prima, aveva accettato con rassegnazione la presenza di Burden, mentre stasera l'aveva accolto nella sua casa, se non come un amico, almeno come una persona di fiducia. Tant'è vero che era stato lui a invitarlo. In sala da pranzo c'era il fuoco acceso e faceva abbastanza caldo. Burden era certo che era stato Clifford ad accendere il fuoco. Aveva anche avvicinato due sedie al camino, sedie scomode dallo schienale diritto, ma non aveva di meglio da offrirgli. Burden si sedette e Clifford riprese a raccontargli la storia della sua vita. — I bambini non si chiedono come campano, da dove arrivano i soldi, voglio dire. Ero già grandicello, quando ho saputo da mia madre che mio padre non le aveva più dato neanche un centesimo. Aveva tentato di costringerlo attraverso il tribunale, ma non erano riusciti a rintracciarlo. E pensare che lui poteva permettersi il lusso di vivere di rendita. Mia madre invece fu costretta a fare la donna di servizio, per tirare avanti, e in casa lavorava coma magliaia e all'occorrenza anche come sarta. L'ho saputo quando sono diventato un po' più grande. Prima, lei non mi aveva detto niente. Ero a scuola, quando lei andava a lavorare, e naturalmente non potevo immaginarlo. Burden non sapeva quali domande rivolgergli, e perciò non disse nulla. Si limitò ad ascoltare, sempre sperando in una confessione. Il registratore era sul tavolo da pranzo. Ce l'aveva messo lo stesso Clifford. — Devo tutto a lei — rispose il giovane. — Si è sacrificata per me per tutta la vita, ha sgobbato sodo per non farmi mancare nulla. Serge dice che non dovrei pensare a questo, perché in realtà facciamo tutti ciò che desideriamo, e mia madre aveva fatto la sua scelta come tutti. Ma io non ne sono convinto. Voglio dire, so che sostanzialmente ha ragione lui, ma non posso farci niente, continuo a sentirmi in colpa. Quando ho terminato la scuola, a diciott'anni, avrei potuto trovarmi un lavoro. Il padre di un mio compagno mi aveva offerto un impiego, ma mia madre ha voluto che andassi all'università. Ha sempre desiderato il meglio per me. Ho ottenuto una borsa di studio, la cifra più alta che si potesse raggiungere, ma non era sufficiente, le ero ugualmente di peso dal punto di vista economico. Io non guadagnavo quasi niente, solo pochi quattrini che racimolavo con qualche lavoretto
di giardinaggio, come quando ho lavorato per la signorina McPhail. Quando ho iniziato a frequentare la Myringham University, non vivevo al campus, tornavo a casa ogni sera. — Clifford guardò per un attimo Burden, distolse di nuovo lo sguardo. — Non può restare sola di notte, capite? Non in questa casa, intendo, e lei è sempre in casa. Dove altro potrebbe andare? — fece una pausa. — Ha paura dei fantasmi. Burden si sentiva parecchio a disagio, soprattutto dopo quest'ultima dichiarazione. — Già, capisco — mormorò. Fuori, si era fatto buio. Clifford aprì le tende di velluto marrone e rimase in piedi, con un lembo della tenda in mano. — Mi sento sempre terribilmente in colpa — ribadì. — Dovrei esserle riconoscente, e in un certo senso lo sono. Dovrei amarla, ma non ci riesco. — Abbassò la voce, guardò la porta chiusa, si chinò su Burden — La odio — gli confidò, parlandogli all'orecchio. Burden lo guardò senza aprire bocca. — Poi morì anche l'altra nonna — riprese Clifford. — La madre di mia madre, nonna Clifford. — Tornò a sedersi, sorrise. — Mia madre ereditò il suo mobilio e i pochi soldi che aveva all'ufficio postale. Non era una grossa cifra, e l'abbiamo spesa per acquistare l'auto, la Metro. Perciò, ho preso la patente. Sono in grado d'imparare le cose, non sono uno stupido. Però non sono altrettanto bravo a guadagnare soldi, e questa è un'altra cosa che mi fa sentire in colpa, perché so che dovrei ripagare mia madre di tutti i sacrifici che ha fatto per me, magari comperarle un appartamento dove possa vivere senza la paura dei fantasmi. Così io potrei continuare a vivere, da solo, in questa casa. Mi piacerebbe molto. Lei se ne andrebbe, portando via con sé la lastra di vetro che blocca l'uscita, e io... La porta si aprì e comparve Dodo Sanders, vestita come sempre di marrone, con le scarpe basse, e quella sua faccia pallida solcata di rughe, in cui spiccavano le labbra di un rosso violento. Invece dell'asciugamano, si era messa in testa un foulard a quadretti marroni, sistemato anche quello a mo' di turbante. Sotto il foulard, probabilmente aveva i bigodini. Guardò il figlio, poi Burden, costretto suo malgrado a sostenere lo sguardo. — Vi sbagliate, se pensate sia stato lui a uccidere quella donna. Burden cercò d'immaginare che suono avrebbe avuto quella voce metallica ascoltata attraverso il registratore. — Sono sicuro di non sbagliare, signora Sanders — disse in tono pacato — qualunque sia la mia opinione in proposito. — È impossibile — insistette Dorothy. — Lo so. Il mio istinto non sba-
glia mai. So tutto di lui. Clifford fece l'atto di prendersi la testa tra le mani, ma cambiò idea. Trasse un sospiro. — Possiamo parlare ancora domani? — domandò a Burden. Il poliziotto gli rispose di sì. Si sentiva confuso, impotente. Sheila stava bene, non le era accaduto nulla di male. La lettera era indirizzata "all'inquilino", e forse la destinataria non era lei, né "un inquilino" particolare. Forse a chi toccava, toccava... Questo pensava Wexford, mentre scendeva giù da Battle Hill, con l'ombrello in mano per ripararsi dalla pioggia torrenziale di quel lunedì mattina. Solo che lui non ci credeva. Non era verosimile, una tale coincidenza. La settimana successiva, Sheila avrebbe dovuto presentarsi in tribunale, sotto l'accusa di aver contravvenuto al Criminal Donage Act del 1971. Probabilmente, l'imputazione sarebbe stata la seguente: "Giovedì 19 novembre, trovandovi nella base della RAF di Lossington, nella Contea di Northamptonshire, ed essendo in possesso di un paio di tenaglie, le avete utilizzate per danneggiare oggetti di proprietà dello stato, vale a dire la cinta perimetrale di proprietà del Ministero della Difesa. .." Il tono sarebbe stato più o meno questo. Aveva ragione Dora, come pure Sylvia e Neil. Sheila avrebbe dovuto dichiarare di essere stata fuorviata, ammettere la sua colpa, pagare ciò che ci sarebbe stato da pagare e farla finita. In questo modo, l'avrebbero lasciata in pace, l'avrebbero lasciata vivere. Era una grossa tentazione: in cambio di tanto poco, Sheila avrebbe avuto l'incolumità, la felicità, un secondo matrimonio, forse anche dei figli, e la possibilità di continuare la carriera. Ma naturalmente, Sheila non poteva abbassarsi a tanto. Solo a pensarci, gli veniva da ridere. All'idea che le cose sarebbero andate diversamente, Wexford si sentì sollevato. Non fu Ralph Robson ad aprirgli la porta, ma Dita Jago. Wexford scosse l'ombrello per farlo sgocciolare e lo lasciò sotto il portico. — Siamo venute a vedere se ha bisogno di qualcosa, intanto che siamo fuori — l'informò la signora Jago. Nina Quincy aveva portato le bambine a scuola e ora si trovava lì, seduta in soggiorno, mentre Ralph Robson aveva preso posto in poltrona, all'altro lato del caminetto. Per sentire meno il dolore, aveva adottato la posizione tipica di chi soffre d'artrite, con la gamba tesa e una spalla alzata rispetto all'altra, ma nonostante questo stratagemma, aveva i lineamenti contratti in una smorfia di dolore. La figlia di Dita Jago, giovane, bella e sana, contra-
stava nettamente con la sua persona. Nina non era truccata, ma aveva ugualmente le guance rosee e gli occhi splendenti, i capelli castani resi voluminosi da un'ondulazione leggera le arrivavano alle spalle. Sia lei sia la madre indossavano indumenti usciti dalle mani sapienti di Dita Jago; la figlia una tunica di ciniglia scura ravvivata da farfalle stilizzate rosse e blu. la signora Jago presentò Nina a Wexford. Nina gli tese la mano. — Voglio che sappiate che sono un'ammiratrice di vostra figlia — disse inaspettatamente la giovane donna. — È stata magnifica, nell'ultima serie televisiva. Non vi assomiglia per niente, vero? Aveva una vocetta esile, che mal si adattava a una donna giovane e graziosa come lei. Wexford ci rimase male, e si stupì che una persona potesse avere l'aria intelligente, e poi bastassero poche parole a dimostrare che non lo era. Invece di rispondere, scosse leggermente la testa, quindi si rivolse a Robson. — Vostra nipote è tornata a Londra? — È partita ieri sera — rispose Robson. — Sentirò la sua mancanza. Non so che cosa farei, senza di lei. — La vita deve continuare — intervenne Dita Jago. — Vostra nipote deve guadagnarsi il pane quotidiano, non può restare qui per sempre. — Si è data da fare, mentre era qui. Mi ha pulito tutta quanta la casa, da cima a fondo. Pulizie pasquali. Pulizie pasquali nel mese di dicembre? Un'usanza che Wexford riteneva fosse caduta in disuso da un pezzo. Inoltre, non era facile immaginare Lesley Arbel, sempre così ben vestita e ben pettinata, intenta a sgobbare in casa dello zio. Wexford inarcò le sopracciglia con aria interrogativa. — Tanto valeva dare una bella pulita dappertutto, dal momento che era qui, mi ha detto. Non che la casa fosse sporca: Gwen la teneva sempre perfettamente in ordine, era una donna precisa. Ma Lesley ha insistito tanto. Chissà quando sarebbe capitata di nuovo l'occasione, mi ha fatto notare, e su questo punto aveva perfettamente ragione. Ha svuotato i mobiletti della cucina e anche gli armadi, ha preso tutti gli indumenti di Gwen e li ha portati da Oxfam. Gwen aveva una bella giacca per l'inverno praticamente nuova, dato che l'aveva comperata l'anno scorso, e così ho pensato che forse Lesley se la sarebbe tenuta volentieri per sé. Ma evidentemente non le è piaciuta. Wexford guardò Nina Quincy e dalla sua espressione capì che cosa le passava per la mente. — È persino salita su in soffitta — riprese Robson
— benché le avessi detto di lasciar perdere. L'aspirapolvere è troppo pesante, per portarlo di sopra, e non ne valeva la pena. Così come non valeva la pena di spostare i tappeti. Ma quando Lesley fa una cosa, la fa veramente bene, e adesso la casa è splendente come se fosse nuova. Mi mancherà, quella ragazza. Mi sentirò perso, senza di lei. Nina Quincy si alzò. Dal suo atteggiamento, dalla sua espressione era facile capire che si annoiava facilmente. Doveva essere il tipo di donna perennemente alla ricerca di nuove sensazioni. — Allora, noi andiamo — disse con uno sbadiglio — se ci date la vostra lista della spesa. Wexford salutò le due donne quando furono al cancello. Anche stavolta, rimase colpito dall'andatura agile e leggera della signora Jago, che seguì con lo sguardo mentre si avvicinava all'auto della figlia. Nina reggeva l'ombrello. Senza una ragione precisa, Wexford si ritrovò a pensare a Defoe, che aveva scritto il romanzo La Peste di Londra, descrivendo quella calamità come se ne fosse stato testimone, mentre all'epoca aveva soltanto un anno. Burden era in ufficio. Aspettava l'arrivo di Clifford Sanders, che Davidson era andato a prelevare. La sera prima, quando Clifford gli aveva chiesto se l'indomani avrebbero potuto parlare ancora, Burden ci era rimasto di stucco, poi aveva ricominciato a sperare in una confessione imminente. — Mai mi sarei aspettato che un indiziato per omicidio si offrisse di collaborare con la polizia per il buon esito delle indagini — disse, quando Wexford entrò. Era un argomento delicato, e l'ispettore capo ritenne opportuno mostrare il suo interesse. — Vuole venire per forza qui, stamattina. Forse è un modo come un altro per schivare il lavoro. Wexford rimase un attimo senza parlare. — Devo dirti una cosa interessante. Lesley Arbel ha fatto le pulizie pasquali in casa di Robson, svuotando mobili e armadi, ha pulito persino la soffitta, ha spostato i tappeti. Che cosa cercava? — Forse intendeva semplicemente pulire la casa. — Chi, lei? Perché mai avrebbe dovuto farlo? La casa era già abbastanza pulita. E poi le ragazze d'oggi, non hanno molta simpatia per le faccende domestiche, Mike. Non sanno neanche farle, o comunque non hanno voglia d'imparare. Sarebbe diverso se fosse venuta a trovare Robson, e avesse constatato che la casa era sporca. Allora, avrebbe avuto un motivo. Certo, sarebbe stato molto carino da parte sua, anche se veramente non mi sembra
il tipo. Per non parlare delle sue unghie. All'inizio della settimana, le aveva lunghe e ben curate, ma quando l'ho vista, venerdì, ho notato che le aveva tagliate. Questo significa che può essersi spezzata un'unghia mentre faceva le pulizie, oppure che ha pensato bene di tagliarsele prima d'iniziare le faccende domestiche. Una ragazza come lei doveva andare fiera delle sue unghie. Un bel sacrificio, per amore dello zio... — Forse se le è tagliate per poter scrivere a macchina più comodamente. Wexford si strinse nelle spalle. — Sono anni che scrive a macchina probabilmente, ma ciò non le ha impedito di farsi crescere le unghie. No, le ha tagliate con il solo, nobile scopo di pulire la casa dello zio. — Dove vuoi arrivare? — Che non ha fatto nessuna pulizia della casa, oppure che era solo un pretesto per mettersi alla ricerca di una certa cosa, senza insospettire lo zio. Non so di che cosa possa trattarsi, anche se qualche idea l'avrei. Non so neppure se abbia trovato ciò che cercava, comunque penso che per un po' non la vedremo in giro, vuoi perché ha ottenuto il suo scopo, vuoi perché ha capito di non cavare un ragno dal buco. Per quanto riguarda la cosa che cercava, o non si trova in casa di Robson, oppure è talmente ben nascosta che non ce l'ha fatta a trovarla. — Noi non abbiamo perquisito la casa — osservò Burden, invece di rivolgergli la domanda più ovvia. — Dovremmo provvedere? Squillò il telefono. Burden alzò il ricevitore. Forse era arrivato Clifford. — Devo andare. Ma prima dimmi, secondo te che cosa cercava Lesley? — Il materiale che consentiva a Gwen Robson di ricattare le sue vittime, naturalmente. — Ma no, Gwen Robson non ricattava nessuno — lo contraddisse Burden. — I suoi non erano che pettegolezzi, roba da poco. — Senza attendere la risposta di Wexford, scese al pianterreno, nella stanza degli interrogatori. La pioggia scorreva sui vetri della finestra, rendendoli opachi. Clifford, seduto al tavolo, aveva davanti a sé un bicchiere di carta pieno di caffè. Diana Pettit era intenta a leggere la pagina legale dell'Independent. Si alzò, Burden le fece capire con un'occhiata di andarsene, dopo aver messo in funzione il registratore. Clifford si alzò a metà dalla sedia e gli tese la mano e Burden, soprappensiero, gliela strinse. — Possiamo cominciare? — domandò Clifford, traboccante di buona volontà. La perplessità di Burden aumentava di minuto in minuto. Per la prima volta, da quando era nella polizia, gli sorgeva il dubbio che ci fossero la-
cune nel suo addestramento, o che avessero trascurato d'insegnargli qualcosa. — Di che cosa vorresti parlarmi? — domandò, incerto sul da farsi. — Vi stavo spiegando che tipo di persona sono, e ciò che penso. — Sorrise, malizioso. — Sto cercando di dirvi che cosa mi ha spinto a farlo. — Spinto a farlo? — ripeté Burden, piegandosi in avanti. — A fare ciò che faccio — chiarì Clifford. — A vivere in questo modo. — Rise. — Stavo scherzando. Vi ho tratto deliberatamente in inganno, con quella frase ambigua, per farvi credere che mi riferissi all'omicidio della signora Robson. Vi chiedo scusa. Forse ho fatto male. — Trasse un sospiro, si schiarì la voce. — Sono prigioniero. Lo sapete? Burden non replicò. Che cosa poteva dire? — Sono il secondino di me stesso. È stata Dodo, a fare in modo che ciò accadesse. Per quale motivo, direte voi. Alcuni nascono destinati a essere prigionieri, altri a fare i tiranni. Sono l'unica persona su cui Dodo abbia mai avuto autorità. Gli altri hanno opposto resistenza, hanno tagliato la corda. Volete che vi racconti come ha fatto mia madre a conoscere mio padre? Mio nonno era un gentiluomo di campagna, possedeva trecento acri di terra. Il terreno è stato venduto tutto quando mio padre era piccolo, per consentire alla famiglia di continuare a vivere secondo il tenore di vita a cui era abituata. Una buona parte di Kingsmarkham è stata costruita sul terreno che un tempo apparteneva a mio nonno. Burden era arrabbiato per lo scherzetto che gli aveva fatto Clifford, e le sue chiacchiere lo esasperavano. — Forse anche la vostra casa — continuò Clifford — dovunque si trovi, sorge su un terreno che un tempo era di proprietà della mia famiglia. — La frase ebbe il potere d'innervosire ulteriormente Burden. Clifford bevve il suo caffè, tenendo la tazza con tutt'e due le mani. Aveva le unghie rosicchiate in modo drastico, ridotte davvero male. — Dodo lavorava come domestica in casa dei genitori di mio padre. Vi stupisce, eh? Non era una cameriera fissa, ma una domestica a ore, quella che faceva i lavori più pesanti. Prima della guerra, avevano avuto diverse cameriere e anche l'autista. Dopo la guerra, dovettero accontentarsi di mia madre. Non so come abbia fatto a indurre mio padre a sposarla. Lei sostiene che erano innamorati, ma non ne sono sicuro. Comunque, io sono nato due anni dopo il matrimonio, e perciò è da escludere che mia madre fosse incinta. Dopo sposata, ha voluto essere lei la padrona, la padrona e l'aguzzina. — Come fai a sapere queste cose? — domandò Burden, che cominciava
a capire meglio il concetto di "fallacia" che gli aveva illustrato Olson. Le parole successive confermarono ulteriormente la teoria di Olson applicata a Clifford. — Conosco mia madre. Mio nonno morì. Era molto vecchio ed era stato ammalato a lungo. Subito dopo il funerale, mio padre ci lasciò. Il giorno successivo, per la precisione. Me ne ricordo, anche se avevo soltanto cinque anni. Mi ricordo di essere andato al funerale, con mio padre, mia madre e mia nonna. Dovevo andarci per forza: non c'era nessuno che potesse tenermi, non avevo ancora iniziato ad andare a scuola. Mia madre indossava una giacca rossa e un cappello della stessa tinta, con la veletta. Era una giacca nuova. Non gliel'avevo mai vista addosso, prima di allora. Quando mia nonna scese dabbasso, era vestita di nero. "Perché non ti sei vestita di rosso, nonna?" le domandai, e Dodo scoppiò in una risata. "Adesso che sono diventato adulto, a volte mi capita di pensare che mio padre ha fatto male ad abbandonare mia madre. Voglio dire, non era giusto che se ne andasse, ma soprattutto non era giusto lasciare sua madre con Dodo. Naturalmente, non potevo fare questa considerazione quand'ero bambino. Non ho mai pensato molto a mia nonna, a che tipo di persona fosse. Mia madre la portò in un istituto per anziani, pochi giorni dopo che mio padre se n'era andato. "Anni dopo, ho domandato a mia madre come aveva fatto, e lei me l'ha spiegato. Non è facile far ricoverare un anziano, così sui due piedi. Mia madre è molto fiera di questa sua prodezza. Sapete come ci riuscì? Chiamò un tassì, vi fece salire mia nonna con il pretesto di una passeggiata, e si fece portare all'istituto. Alla direttrice disse che intendeva lasciare lì mia nonna, e che avrebbero dovuto accudirla. A Dodo non importa niente del prossimo, dice tutto ciò che le viene in mente, infischiandosene delle reazioni della gente. È una sua caratteristica, che la rende forte. Se decide di essere villana con qualcuno, lo fa senza pensarci due volte. "Mia nonna visse altri dieci anni, prima nell'istituto, poi verso la fine in un ospedale. Tentarono di convincere mia madre a riprendersela in casa, ma non vi riuscirono. Non potevano costringerla. Subito dopo essersi sbarazzata di mia nonna, trasferì il mobilio e le suppellettili su in soffitta, facendosi aiutare dal signor Carroll. Lui e la moglie erano le uniche persone che vedessimo. In seguito, quando..." — Perché mi racconti tutte queste cose, Clifford? — l'interruppe Burden. Clifford l'ignorò, o finse d'ignorarlo. Forse rispondeva soltanto alle do-
mande che voleva sentirsi rivolgere. Burden era sempre più teso, si aspettava da un momento all'altro che Clifford scattasse in piedi e si mettere a urlare. Ma per il momento, appariva perfettamente calmo. — Quando le disobbedivo — riprese — o quando la facevo arrabbiare, mi chiudeva su in soffitta. Una volta in un locale, una volta in un altro. Non impiegai molto tempo a capire che mi avrebbe sempre aperto la porta prima che venisse buio. Non sarebbe mai salita in soffitta col buio, perché aveva paura dei fantasmi. Penso che siano l'unica cosa di cui mia madre abbia paura. Ci sono punti del giardino, dove lei non andrebbe mai, quando c'è buio. Comunque, me ne stavo seduto su in soffitta, a guardare tutte quelle facce... — Quali facce? — Quelle delle foto. — Tacque un istante. A Burden venne l'idea di fare come Serge Olson, di togliersi l'orologio e di metterlo sul tavolo, davanti a sé. Clifford guardò l'orologio. — Osservavo le facce dei miei antenati — proseguì — e mi dicevo: tutte quelle signore con le gonne lunghe e grandi cappelli, tutti quei signori con i cani e i fucili, sono finiti tutti quanti dentro di me. Guardavo le facce finché la luce cominciava ad affievolirsi, e a quel punto sapevo che sarebbe venuta a liberarmi. Arrivava piano, con calma, apriva la porta e in tono tranquillo, come se niente fosse accaduto, mi diceva di scendere perché era pronto il tè. Burden prese in mano l'orologio. — È finito il tempo, Clifford — annunciò. Si alzò, obbediente. — Volete che torni questo pomeriggio? — Ti chiameremo noi — rispose Burden. Dopo che Clifford se ne fu andato, salì nel suo ufficio e si mise a sfogliare i rapporti di Archbold e di Marian Bayliss, che avevano ricevuto l'incarico di appurare se nel passato di Clifford vi fossero casi di omicidio irrisolti. Apparentemente, l'esito era stato negativo. Le due nonne erano morte per cause naturali: la vecchia signora Sanders in seguito a un attacco cardiaco, mentre la signora Clifford era stata trovata morta nel suo letto da una vicina di casa. Quanto a Elizabeth McPhail, era morta in ospedale dopo un lungo periodo d'invalidità. Comunque, bisognava continuare a torchiarlo, anche quel pomeriggio, e se necessario il giorno dopo, e il giorno dopo ancora, finché il racconto di Clifford non fosse giunto al momento presente. E allora, gli avrebbe raccontato con quel suo tono monotono di avere assassinato Gwen Robson. Wexford si trovava nella Midland Bank di Queen Street. Erano le quattro e mezzo del pomeriggio, e già da un'ora la banca era chiusa al pubblico.
Il direttore si era dimostrato disposto a collaborare, e aveva risposto a tutte le sue domande senza protestare. Sì, il signor Robson aveva il conto corrente nella loro agenzia. No, la signora Robson non aveva il conto corrente, e logicamente nemmeno la cassetta di sicurezza. Non che Wexford se lo fosse aspettato. Qualunque cosa stesse cercando Lesley Arbel, era nascosta da qualche altra parte, a meno che non l'avesse già trovata. Per quanto riguardava la signora Sanders, il direttore si rifiutò di dargli informazioni, pur ammettendo che aveva il conto corrente nella sua banca. Forse perché la signora Sanders era ancora viva. Quando Wexford uscì dalla banca, il cielo si era scurito e piovigginava. La merce dell'ortolano sembrava bagnata, benché fosse riparata dal tendone. Nella vetrina della boutique, erano in mostra i soliti abiti da pochi soldi, color macedonia di frutta. Serge Olson entrava nel negozio di vini, e sulla porta incrociò un'altra persona che Wexford conosceva: John Whitton, il vicino di Ralph Robson. Aveva in braccio il bambino, profondamente addormentato, e reggeva con l'altra mano due borse colme di bottiglie. Il figlio più grandicello, imbacuccato fino agli occhi in giacca a vento e sciarpa di lana, camminava aggrappato all'orlo del giubbotto di suo padre. Whitton guardò Wexford senza riconoscerlo, e si diresse verso la Peugeot posteggiata lì davanti. Gli restavano solo un paio di minuti, prima che scattasse il parchimetro, e un vigile stava già dirigendosi da quella parte. Whitton mise il bambino in un seggiolino fissato al sedile posteriore, sistemò in fretta le due borse del vino, e si era appena rialzato, quando il piccolo cominciò a strillare. Il figlio maggiore s'infilò in macchina e guardò il fratello con quell'espressione di blando interesse che i più grandicelli spesso dimostrano nei confronti dei fratellini minori. Wexford osservava la scena, chiedendosi come avrebbe fatto quel poveretto a uscire dal parcheggio senza urtare né l'auto che lo precedeva né quella dietro. La Peugeot aveva già una vistosa ammaccatura sul parafango sinistro e un faro completamente distrutto. Comunque, Wexford avrebbe distolto lo sguardo, sapendo quanto fosse seccante essere osservati da qualcuno mentre si sta facendo manovra, ma Whitton, che ora si era messo al volante, lo chiamò. — Scusate, vi dispiacerebbe dirmi se tocco? Wexford aveva in antipatia quelle persone che s'impicciano dei fatti altrui, elargendo consigli e impartendo ordini a chi sta facendo manovra. Ma in questo caso era diverso, Whitton stesso gli aveva chiesto di aiutarlo. La Peugeot si mosse in avanti, e Wexford fece cenno a Whitton di fermarsi, quando l'auto fu a pochi centimetri dal parafango della Mercedes che la
precedeva. — Al prossimo giro di sterzo, dovreste farcela — disse, mentre Whitton innestava la retromarcia. Fu allora che Whitton lo riconobbe. — Siete il poliziotto che sta occupandosi del caso Robson — disse a voce alta, per farsi udire nonostante gli strilli del bambino. Il motore dell'auto si spense, Whitton lanciò un'imprecazione, si sforzò di riacquistare la calma, sorrise. — Meglio sarebbe se evitassi d'innervosirmi in questo modo. Ecco un esempio di ciò che succede, quando uno perde la calma. — Indicò l'ammaccatura sul parafango anteriore. — Quella è opera di mia moglie. Ha avuto una piccola disavventura con un parchimetro, qui in questa strada, tre settimane fa. Wexford sapeva che Whitton gli raccontava l'episodio, soltanto perché lui era un poliziotto, e la gente in genere è convinta che tutti i poliziotti, senza distinzione, non la lascino passar liscia agli automobilisti colpevoli d'infrazioni al codice stradale. Ora si sarebbe messo a parlare in difesa della moglie, nel timore che Wexford prendesse il taccuino delle contravvenzioni. — Per fortuna non ha urtato nessun veicolo — riprese Whitton — ma è stato un vero miracolo, e non certo per merito del giovanotto al volante della Metro. Wexford stava per salutarlo, quando a un tratto qualcosa gli balenò nella mente. — Quand'è successo esattamente, signor Whitton? — domandò, benché non nutrisse grandi speranze. A Whitton piaceva chiacchierare. Era cordiale per natura, e avendo assunto per necessità il ruolo di donna di casa, era costretto a passare il tempo con due bambini, e non gli capitava spesso l'opportunità di fare due chiacchiere. Prima di tutto, si voltò verso il sedile posteriore, prese il figlio e lo tenne in braccio. Il piccolo smise di strillare ma continuò a piangere, un po' più in sordina. — Tre settimane fa, come vi ho detto — rispose Whitton, disponendosi a una piacevole chiacchierata. — Doveva essere il giorno in cui è stata uccisa la signora Robson, se non sbaglio. — Wexford aguzzò le orecchie. — Sì, è stato quel giorno. L'auto l'aveva Rosemary. Nel tornare a casa, si è fermata a comperare un po' di frutta e un po' di verdura. Dovevano essere circa le sei meno un quarto, meno dieci al massimo... 15
Burden aveva deciso di ricevere Clifford nel suo ufficio, invece che in una stanza degli interrogatori. Non sopportava più quell'ambiente anonimo e spoglio. E così, Clifford fu condotto di sopra. Si presentò come se fosse in visita di cortesia, sorridente, con la mano tesa per stringere quella di Burden, che non si sarebbe meravigliato, se Clifford gli avesse domandato come stava. Ma Clifford se ne astenne. Le tende alla veneziana erano state abbassate e c'era la luce accesa. Non era una luce violenta. Proveniva dalla lampada da scrivania e da due faretti installati sul soffitto. Burden sedette alla scrivania, Clifford prese posto di fronte, su una sedia dal sedile imbottito che gli aveva avvicinato Diana Pettit. Diana si trovava ancora nell'ufficio, seduta vicino alla porta, ma Clifford non faceva caso a lei. Indossava una camicia grigia che Burden non gli aveva mai visto addosso, e un pullover di un grigio un po' più scuro lavorato a trecce con parecchi punti sbagliati. — Vorrei che mi parlassi dei tuoi rapporti con l'altra nonna — iniziò Burden. — Nonna Clifford, intendo. La madre di tua madre. La vedevi spesso? — Mia madre non è poi tanto male — disse Clifford, invece di rispondere alla domanda. — Dovete esservi fatto una cattiva opinione di lei. In realtà, è come chiunque altro, un misto di virtù e di difetti. Con la differenza che la sua Ombra è molto forte. Posso raccontarvi una storia? È una storia romantica. Me l'ha raccontata nonna Clifford. — Ti ascolto — l'incoraggiò Burden. — Quando mia madre era piccola, viveva a Forbydean con i suoi genitori. Per andare a scuola, passava con la sua bicicletta davanti ad Ash Farm, e così conobbe mio padre, poco più giovane di lei. Presero l'abitudine di giocare insieme. Giocavano ogni volta che potevano, soprattutto quando c'erano le vacanze, perché mio padre studiava in un collegio. Quando mia madre aveva tredici anni e mio padre dodici, i genitori di mio padre seppero della loro amicizia e vollero porvi fine. Pensavano che mia madre non fosse all'altezza del loro figlio, non fosse degna neppure di giocare con lui. Mio padre non si ribellò, accettò senza battere ciglio la loro decisione, e quando mia madre tornò per giocare con lui, non le rivolse la parola, la ignorò. Mia nonna uscì di casa e disse a mia madre di andarsene e di non tornare più. Burden annuì distrattamente, chiedendosi quanto tempo ci sarebbe voluto per arrivare alla fine di quella storia. Una storia simile a tante altre, accaduta ai tempi della sua infanzia, quando non era conveniente che i ragaz-
zini giocassero in strada. — Vi racconto questo per farvi capire che anche mia madre ha lati buoni — gli spiegò Clifford. — Vi avevo preannunciato che era una storia romantica. In seguito, a distanza di qualche anno, mia madre trovò lavoro in casa loro. Non avevano riconosciuto in lei la ragazzina a cui avevano proibito di giocare con il loro Charles. Non l'aveva riconosciuta nemmeno lui. Mio padre glielo rivelò dopo che si furono sposati. Chissà come la presero, tutti quanti? Burden non era sufficientemente interessato per avanzare ipotesi. — Nonna Clifford veniva a trovarti, quand'eri bambino? Andavi a casa sua con tua madre? Clifford trasse un sospiro. Forse avrebbe preferito continuare la conversazione a modo suo. — A volte penso di aver trascorso l'infanzia camminando. Si andava sempre a piedi dappertutto. Devo aver fatto centinaia di chilometri, forse migliaia. Mia madre non cammina molto veloce, ma io ero sempre senza fiato, per stare al passo con lei. — Andavate a piedi a trovare tua nonna? Clifford sospirò di nuovo. — Quando ci andavamo, andavamo a piedi. C'era l'autobus, ma mia madre non voleva spendere soldi per il biglietto. Dovete tenere presente che mia madre non ama la gente, e non amava neanche sua madre. Dunque, mio nonno morì all'improvviso, e dopo che mio padre se ne fu andato e nonna Sanders fu ricoverata in quell'istituto per anziani, la casa rimase tutta per noi. Credo che mia madre ne fosse contenta. — S'interruppe, si guardò le unghie rosicchiate. — A modo suo, mi vuole bene, a patto che non le disobbedisca. Ha fatto di me uno schiavo e un protettore. Mi ha forgiato come mi voleva lei, così come Frankenstein ha creato il mostro, per fare del male. — Clifford rise, forse per mitigare il senso delle sue parole, ma ottenne lo scopo di renderle più agghiaccianti. Burden lo guardava, spazientito. Gli era venuto in mente che Gwen Robson potesse avere avuto modo di conoscere la madre di Dorothy Sanders, nella sua veste di assistente sociale, e stava per formulare la domanda, ma Clifford riprese a parlare. — Una volta le avevo disobbedito, e lei mi ha rinchiuso nella stanza dei ritratti, su in soffitta, e poi ha smarrito la chiave. Non so come le sia accaduto, non me l'ha mai detto. Gliene succedono sempre di tutti i colori, perché non pensa a quello che fa, è troppo distratta. Comunque, ha tentato di buttare giù la porta da sola. È piccola, sapete, ma ne ha di forza. Io ero dentro, e ascoltavo il rumore che faceva, nel tentativo di sfondare la porta. Era inverno, cominciava a farsi buio, e lei
aveva paura. Forse temeva che i fantasmi l'avessero seguita su per le scale. Abbozzò un sorriso, poi rise di gusto. — Quella volta, ha dovuto andare a chiedere aiuto. Avevo paura, quando ho sentito che se ne andava, temevo di restar chiuso lì dentro per sempre. Non ero che un bambino, avevo freddo, ed ero chiuso in quella stanza, quasi al buio, con tutti quei mobili e quelle facce. Mia madre aveva tolto le lampadine dappertutto, e perciò non potevo accendere la luce. Questo significava che non poteva accenderla neanche lei... — Clifford sorrise di nuovo, scosse la testa. — Si è rivolta al signor Carroll, che è venuto e ha sfondato la porta. Da quel giorno, mia madre non mi ha più rinchiuso in soffitta. Era venuta da noi anche la signora Carroll. Ricordo bene ciò che ha detto a mia madre. Aveva una mezza idea di denunciarla per maltrattamento di minorenne. Non so se la cosa abbia avuto un seguito, ma credo proprio di no. "La signora Carroll ha lasciato il marito sei mesi fa. L'ha piantato per un altro uomo, mi ha detto mia madre. È stata lei a darne la notizia al signor Carroll. Prima ha accennato all'esistenza di quest'uomo, poi senza altri preamboli gli ha detto chiaro e tondo che sua moglie se n'era andata. Per un attimo, ho avuto l'impressione che lui l'avrebbe aggredita, che stesse per saltarle addosso. Ma mia madre se la cava sempre con la gente, nessuno le ha mai torto un capello, almeno finora. Il signor Carroll è scoppiato in singhiozzi, piangeva disperato. E sapete che cosa ho pensato io, che cosa ho sperato? Mio padre aveva lasciato mia madre, e ora la signora Carroll aveva lasciato il marito. Sarebbe stato bello, se il signor Carroll avesse sposato Dodo. Finalmente sarei stato libero. Mi chiedo se avrei provato un po' di gelosia, un po' di dispiacere... Fu interrotto da qualcuno che bussava. Un attimo dopo apparve Archbold, venuto a dire a Burden che Wexford desiderava vederlo. — Adesso? Subito? — Dice che è urgente. Burden lasciò Clifford in compagnia di Diana. Forse una pausa gli avrebbe fatto bene. Non gliene importava niente dell'infanzia di Clifford, ma lasciandolo parlare a ruota libera avrebbe almeno ottenuto il risultato di scioglierlo, d'indurlo ad aprirsi del tutto. Di portarlo, insomma, verso la sospirata confessione. Invece di prendere l'ascensore, Burden salì a piedi. La porta di Wexford era socchiusa. Di solito, Wexford era seduto alla scrivania, oppure in piedi vicino alla finestra, assorto nelle sue riflessioni mentre guardava High Street. Quel mattino, invece, Burden lo trovò intento a osservare la pian-
tina di Kingsmarkham, appesa alla parete sinistra. Voltò la testa, sentendo arrivare Burden. — Ah, Mike... — Volevi vedermi? — Sì. Scusami per l'interruzione, ma forse qualche minuto di tregua ti farà bene. Clifford Sanders, non è lui il colpevole. Non può essere stato lui ad uccidere la signora Robson. Tanto vale che lo lasci andare. — Senti, ne abbiamo discusso un'infinità di volte — replicò Burden, cominciando ad alterarsi. — No, Mike, ascolta. È stato visto seduto in macchina in Queen Street, il 19 novembre alle sei meno un quarto. A vederlo è stata una certa Rosemary Whitton. Si sono anche parlati. — La signora Whitton stava uscendo da un posteggio — spiegò Wexford. — Aveva poco spazio, e faceva fatica a uscire... — Ah, le donne al volante! — l'interruppe Burden, serio come un comico mentre dice la sua battuta. — Oh, Mike, smettila! Clifford era seduto nell'auto dietro alla sua, e aveva spazio sufficiente per indietreggiare. Così, la signora Whitton gli ha chiesto se poteva spostarsi per facilitarle la manovra. "Andatevene via, lasciatemi in pace" le ha risposto. — Come fa a sapere che era Clifford? — Me l'ha descritto con molta precisione. L'auto era una Metro rossa. Questa donna non è una stupida. Tanto per cominciare, lavora come analista, è una persona in gamba. — E dice che erano le sei meno un quarto? — Aveva fretta, era in ritardo. Le donne come lei sono sempre in ritardo, è inevitabile. Doveva arrivare a casa prima delle sei, ora in cui andavano a letto i suoi bambini. Non appena è salita in macchina, ha dato un'occhiata all'orologio, un'abitudine che ho anch'io. Erano esattamente le sei meno un quarto. Dopodiché, ha avuto quello scambio con Clifford, ha fatto manovra e ha scassato un faro della sua auto, andando a sbattere contro un parchimetro. Quindi, è passato altro tempo. — Ha scassato il faro dell'auto? — ripeté Burden, e Wexford temette che fosse in arrivo un'altra battuta sul conto delle donne al volante. — E perché Clifford non mi ha detto niente? — Forse non si ricorda dell'incidente. La signora Whitton dice che ha spostato l'auto, quando ormai era troppo tardi.
Ora sarebbe stato necessario verificare la dichiarazione e, nel frattempo, sospendere l'interrogatorio di Clifford. Burden non se la sentiva di trovarsi di nuovo a faccia a faccia con lui. L'ira, il senso di frustrazione che avrebbe sfogato volentieri su Wexford gli avrebbero fatto correre il rischio di cedere alla tentazione di prendersela con Clifford. Avrebbe potuto telefonare giù al suo ufficio e parlargli al telefono, ma non se la sentiva di dargli spiegazioni, e perciò spedì Archbold a riferirgli che poteva andare, che non avrebbe più avuto bisogno di lui. — Se tu fossi stato nei panni di Gwen Robson, Mike, quale posto avresti scelto per nascondervi qualcosa? — Di che genere? — domandò Burden a sua volta, di pessimo umore per lo smacco subito. — Fogli di carta. — Lettere, intendi dire? — Non lo so — rispose Wexford. — Lesley Arbel ha cercato quei fogli, ma non credo che sia riuscita a trovarli. Non sono in banca, e neanche alla Kingsmarkham Safe Depository Limited. Ho appena controllato. — Come fai a sapere che Lesley non li ha trovati? — L'ultima volta che l'ho vista, venerdì scorso, appariva tesa e aveva l'aria infelice. Se avesse trovato ciò che cercava disperatamente, tanto da mettere sottosopra tutta la casa, sarebbe stata al settimo cielo. — Mi chiedo se Clifford può avere ammazzato l'altra nonna, la madre di sua madre. È davvero un tipo molto strano. Ha tutte le caratteristiche dello psicopatico, ma... Si può sapere perché ridi? — Finiscila, Mike — disse Wexford. — Mettici una pietra sopra. E lascia la psicanalisi a Serge Olson. A Burden tornò in mente l'ultima raccomandazione di Wexford quando, il mattino successivo, ricevette la telefonata di Olson. Fino a quel momento, aveva pensato quasi esclusivamente a Clifford Sanders e al suo alibi. Aveva persino interrogato personalmente Rosemary Whitton e, non accontentandosi di questo, era andato a parlare con l'ortolano di Queen Street. Se nessuno si ricordava di Clifford al volante della Metro, in compenso molti negozianti si rammentavano della signora Whitton e della sua disavventura con il parchimetro. Il gerente del negozio di vini ricordava perfettamente l'ora dell'incidente, occorso poco prima delle diciotto, ora di chiusura. Aveva appunto appeso il cartello CHIUSO, dopo essere andato a esaminare i danni. Poco convinto, ma costretto comunque a cedere, Bur-
den spostò la sua attenzione da Clifford al padre di Clifford, almeno temporaneamente. Avrebbe iniziato ad indagare sul suo conto. Aveva appena preso questa decisione, quando gli telefonò Olson. — Mike, mi è sembrato opportuno avvertirvi che mi ha appena telefonato Clifford per annullare il suo appuntamento per giovedì, e anche tutti i successivi. Gliene ho domandato la ragione, e mi ha risposto che non ha più bisogno della mia cura. Pensate un po'! — Perché me lo dite, signor Olson... Serge? — Be', state sottoponendolo a un interrogatorio piuttosto duro, mi pare. È una situazione delicata. Clifford è un mio cliente, e quindi non mi va di tradirlo, raccontando ad altri le confidenze che mi ha fatto. Ma quando una persona come Clifford decide di sospendere la terapia, è una faccenda seria. Mike, Clifford ne ha bisogno. Non necessariamente di me, ma di qualcuno che l'aiuti. — Può darsi che abbia trovato un altro psicoterapeuta — osservò Burden. — Per quanto riguarda gli interrogatori, non dovete preoccuparvi. Sono terminati, almeno per il momento. — Mi fa piacere di saperlo, Mike. Davvero. In fondo, era un sollievo anche per Burden. Sottoporre Clifford a interrogatorio non era affatto piacevole, così come non era simpatico ascoltare le sue confidenze. Ne avrebbe fatto a meno volentieri, almeno finché non fossero saltati fuori elementi nuovi, nuove tracce da seguire. Fatta questa considerazione, Burden si mise a guardare fuori della finestra. Stavano addobbando un albero con le decorazioni natalizie, giù nel cortile del commissariato. Non era un abete, e nemmeno una conifera, ma un frassino che però aveva il pregio di avere le dimensioni adatte. Burden rimase a guardare i due uomini mentre lavoravano. Era stata sua l'idea di fare l'albero di Natale, e il Capo della Polizia l'aveva spalleggiato, ritenendo che la presenza di un simbolo natalizio avrebbe migliorato i rapporti con i cittadini. Wexford ne aveva riso. Eppure, secondo Burden, l'albero di Natale sarebbe servito egregiamente allo scopo, avrebbe rallegrato gli animi, creato un clima più distensivo. Quanto a lui, quel mattino non si sentiva né disteso né rilassato, e se qualcuno avesse fatto commenti poco simpatici sul suo albero di Natale, gliene avrebbe detto quattro. Diana Pettit aveva già avuto un assaggio della sua disposizione d'animo, quando aveva suggerito di appendere all'albero solo lucine blu. Squillò il telefono. Burden alzò il ricevitóre. — Sì, pronto? Era Clifford Sanders. — Posso fare un salto da voi?
— A che scopo? — domandò Burden. — Per parlare. — Non precisò l'ora in cui intendeva arrivare, ma ormai Burden conosceva il suo atteggiamento, riguardo al tempo. — Ieri abbiamo interrotto presto, e avevo ancora molte cose da dirvi. Mi chiedevo se possiamo riprendere il discorso. "Quando lo deciderò io, ragazzo", pensò Burden. — No — disse. — Ormai abbiamo finito. Puoi riprendere a lavorare, a vivere la tua vita. D'accordo? — non attese risposta. Riagganciò. Il telefono tornò a squillare dieci minuti dopo. Nel frattempo, il più giovane e audace dei due uomini si era arrampicato in cima a una scala e aveva iniziato ad attorcigliare intorno ai rami più alti del frassino il filo elettrico con le lampadine. Burden pensò che sarebbe stato un bel disastro, se l'uomo fosse caduto e si fosse fatto male, per non parlare dei commenti che sarebbero apparsi sui giornali. Rispose al telefono con un "sì" un po' più mite del precedente, e sentì dall'altra parte del filo la voce di Clifford, che espresse il suo disappunto perché era caduta la linea. Burden gli disse che non gli risultava. — Vorrei venire lì da voi, questo pomeriggio — riprese Clifford. — Se è possibile. — Non è possibile — replicò Burden, realizzando immediatamente che, anche stavolta, si rivolgeva a Clifford come se avesse a che fare con un bambino. — Sono occupato, questo pomeriggio. — Posso venire domattina, allora. — Clifford, adesso riaggancio. Hai capito? Non pensare che sia caduta la linea. Con te, ho finito. Non ho tempo per discutere. Arrivederci. Per qualche oscura ragione, questa seconda telefonata turbò Burden. La stessa sensazione avrebbe provato qualcuno che non avesse dimestichezza con gli handicappati, e a un tratto si trovasse a faccia a faccia con uno di quei poveretti. Burden si vergognava un po', mentre riappendeva il ricevitore, si sorprese a guardare il telefono come se Clifford fosse lì dentro. Che stupido! Che cosa gli aveva preso? Alzato di nuovo il ricevitore, chiamò il centralino e ordinò di non passargli altre telefonate di Clifford Sanders, ed eventualmente di sapergli dire quante volte aveva chiamato. Sarebbe stato inutile perquisire la casa. Lesley Arbel aveva avuto due settimane di tempo per farlo, e non aveva ottenuto alcun risultato. Certo, non aveva l'esperienza degli uomini di Wexford, ma in compenso aveva avuto tutto quel tempo a disposizione, e inoltre essendo la diretta interessa-
ta, sapeva bene ciò che stava cercando. Un testamento, forse? Gwen Robson non aveva niente da lasciare in eredità. Qualcosa che la incriminasse? Era impensabile che Gwen Robson ricattasse la nipote. Eppure, Lesley Arbel ce l'aveva messa tutta per cercare quelle carte, dovevano essere terribilmente importanti per lei. Ammesso che si trattasse di carte. — Perderò il mio posto di lavoro! — aveva esclamato, parlando con lui. Sembrava davvero un'esagerazione. A un certo momento, le aveva domandato per quale motivo non gli aveva detto che il giovedì precedente si trovava a Kingsmarkham, e invece di preoccuparsi per questa domanda, Lesley aveva manifestato la sua paura di perdere il posto di lavoro. Wexford arrivò in fondo al vialetto della signora Jago. Suonò il campanello. La padrona di casa venne subito ad aprirgli, sorridente e agile nonostante la corporatura. Il sorriso gli parve piuttosto forzato, ma non doveva essere per causa sua. — Sola soletta, oggi? — le domandò. — Il martedì, Nina non lavora, né va a fare la spesa. È stata qui ieri. — Entrarono in soggiorno. Il manoscritto non era più sul tavolo. Dita Jago seguì la direzione del suo sguardo. — Non me la sentivo di vederla anche oggi. È una pena. Si riferiva al dolore di una moglie, piantata in asso dal marito? O alle lamentele di una giovane donna, che a un tratto si vedeva costretta ad allevare due figli con le sue sole forze? Wexford non chiese spiegazioni. Domandò invece se avesse idea di dove Gwen Robson potesse avere nascosto qualcosa che non poteva lasciare in giro, e soltanto dopo aver formulato la domanda, si rammentò che Dita Jago sosteneva di avere conosciuto solo superficialmente la signora Robson. La padrona di casa prese il ferro circolare da cui pendeva il suo ultimo lavoro a maglia, ma invece di riprendere a sferruzzare, tenne in mano le due estremità del ferro. Wexford notò che aveva già eseguito un bel pezzetto di cielo. Dita Jago lo guardò, distolse lo sguardo. — La conoscevo così poco. Come faccio a saperlo? — La vostra casa è molto simile alla sua — osservò Wexford. — Pensavo che potrebbe esserci un posto adatto per nascondervi qualcosa, un angolino di cui un estraneo non sospetterebbe mai l'esistenza. — Come per esempio un pannello scorrevole, o qualcosa del genere? — Per la verità, non era questo che avevo in mente. — Può darsi che l'assassino abbia trovato questo qualcosa, di qualunque cosa si trattasse, e l'abbia portato via. Vi va di bere un goccio?
Wexford scosse la testa. — Che ne è stato del manoscritto? — domandò, tanto per parlare. — Avete terminato il romanzo e l'avete mandato a un editore? — Non l'ho terminato, e probabilmente non lo farò mai. Stanotte, mi è venuta la tentazione di bruciarlo, ma poi mi sono chiesta che senso aveva, un gesto così melodrammatico, e allora l'ho ficcato in un cassetto. È stata una giornataccia, quella di ieri. Mi ha proprio scombussolata. È strano, ma mi piacerebbe parlarne con voi. Posso? Non c'è nessun altro con cui mi possa confidare. — Per me è un diversivo — replicò Wexford. — Non mi capita spesso, di trovare qualcuno che abbia voglia di parlare con me. — Voi mi piacete — disse Dita Jago, senza farsi inutili scrupoli e senza malizia. Semplicemente, con sincerità. — Mi piacete, ma non posso dire di conoscervi a fondo, così come voi non conoscete me. E probabilmente non avremo mai occasione di conoscerci meglio. — Lo guardò. Wexford fece un cenno d'assenso. — Chissà, forse è la situazione ideale, per confidarsi. — Tacque, rimise sul tavolo il ferro con il lavoro a maglia. — Mia figlia mi ha confessato di avere avuto una relazione con un tale. No, non esattamente una relazione, ma un'avventura durata una sola notte. Ed è stata tanto sciocca da raccontarlo al marito. Non subito, dopo un po' di tempo. Avrebbe dovuto dimenticare l'incidente, metterci una pietra sopra, e invece ha confessato. Lui stava raccontandole di un suo peccatuccio, e allora mia figlia ha tirato in ballo quella storia. Ma invece di essere comprensivo come lei, mio genero le ha detto che quel suo errore cambiava tutto, era un colpo troppo grosso per il suo orgoglio. — Come in Tess dei d'Ubervilles — commentò Wexford. — E noi pensiamo che i tempi siano cambiati, ormai! Vostra figlia non vi aveva detto niente di tutto questo, prima di ieri? — No. Le avevo domandato se c'era qualche probabilità che facessero la pace. Anzi, mi sono azzardata a chiederle che cos'era accaduto esattamente tra di loro. Siete un genitore anche voi, e perciò probabilmente mi capite, se dico "mi sono azzardata a chiederle". Non amano sentirsi fare domande, anche quando sono dettate dalle migliori intenzioni. — È vero — convenne Wexford. — Avete ragione. — Rifletté un istante. — Potrei... — Appariva stranamente imbarazzato. — Mi permettereste di leggere il manoscritto? Dita Jago rimase sbigottita. — Perché mai dovreste leggerlo? — domandò con grande spontaneità. — Conoscete per caso un editore?
In effetti, Wexford ne conosceva uno. Il cognato di Burden, Amyas Ireland, che con il passare degli anni era diventato un amico. Ma Wexford non se la sentiva d'infondere false speranze, e tanto meno di confessarle la vera ragione per cui gli interessava il manoscritto. — Sono semplicemente curioso di leggerlo — mentì. — Me lo consentite? E fu così che Wexford si trovò a inerpicarsi su per la salita, che quella sera gli sembrava ancora più ripida della sera precedente, reggendo una borsa della Tesco che pareva pesare almeno cinque chili. La borsa conteneva l'autobiografia della signora Jago. Quella sera, aveva avuto intenzione di terminare di leggere il romanzo di A.N. Wilson, anche perché era curioso di sapere come andava a finire. Ma questo manoscritto era molto più importante. Era ancora troppo presto per accendere le luci dell'albero di Natale, pensava Burden. Era soltanto l'8 dicembre. Con le luminarie spente, i passanti non dovevano neppure essersi accorti dell'esistenza degli addobbi natalizi. La serata era buia e fuligginosa. Da quanti giorni ormai non si vedeva più il sole? E da quante sere non appariva la luna? Giù nel cortile del commissariato c'erano le solite auto ferme. La scena, illuminata dalla luce debole dei lampioni, faceva pensare a una foto vecchia e sbiadita. Nel cortile entrò una Metro, ma non era possibile distinguerne il colore. Indifferente, Burden prese l'impermeabile dall'attaccapanni e s'infilò nell'ascensore. Una volta tanto, sarebbe arrivato a casa presto. Avrebbe trovato il figlio ancora in piedi, pulito e profumato di borotalco, che correva per la casa in pigiama, e la radio accesa perché Jenny la preferiva alla televisione. Ci sarebbe stato un profumo di cose buone da mangiare, magari qualcosa di esotico, come spezzatino cucinato con cinque spezie. A Jenny piaceva cimentarsi con piatti un po' diversi dal solito. L'avrebbe trovata stanca ma soddisfatta di sé, contenta del suo ritorno a casa. Burden amava pregustare quei momenti. Mentre attraversava l'atrio, qualcuno si alzò da una sedia e gli andò incontro. Era Clifford Sanders. — È tutto il pomeriggio che cerco di mettermi in contatto con voi — l'informò Clifford. — Hanno continuato a ripetermi che eravate occupato. Burden ebbe la tentazione di andare a dirne quattro al sergente Camb, al banco della ricezione; ma poi gli venne in mente di non aver dato istruzioni né a lui né a nessun altro di impedire a Clifford di entrare al commissariato. Infatti, non aveva preso in considerazione l'eventualità che Clifford
venisse lì. Inoltre non sapeva se fosse lecito mandarlo via. Benché fosse in collera con lui, si sforzò di dominarsi. — Ho avuto da fare — disse freddamente — e sono impegnato anche ora. Scusatemi, ho fretta. Clifford lo fissava con aria perplessa, la fronte corrugata. — Ma ho ancora molte cose da dire — protestò. — Ho appena iniziato. Ho bisogno di parlarvi. Burden pensò che se non l'avesse conosciuto, e l'avesse incontrato per la prima volta in strada, l'avrebbe giudicato un minorato mentale. In un certo senso, forse lo era. Minorato non nel cervello, ma nell'animo, nella psiche. Burden avvertì improvvisamente una sensazione di disgusto e si ritrasse, non sopportando l'idea che Clifford potesse sfiorarlo. Non ne poteva più di guardare i suoi occhi dall'espressione infantile, né il tremolio delle sue labbra. — Ti ho già spiegato che non abbiamo più niente da dirci. — Mio Dio, sembrava uno che stesse troncando una relazione con una donna! — ci hai aiutati nelle indagini, e ti ringrazio, ma in futuro non avremo più bisogno di te. Detto questo, sgattaiolò via. Avrebbe voluto andarsene di corsa, ma ovviamente non poteva farlo. Mentre si avviava verso la porta girevole, si rese conto che Camb l'adocchiava con una certa curiosità; che Marian Bayliss, sopraggiunta in quel momento, si era fermata a guardare la scena, e che Clifford era rimasto fermo al centro dell'atrio, con le braccia tese. Burden aprì la porta e, una volta fuori, corse verso la sua auto. La Metro rossa era posteggiata lì vicino. Clifford doveva averlo fatto di proposito. Mentre girava la chiavetta dell'accensione, vide Clifford uscire dal commissariato e correre fuori, chiamandolo per nome. Per fortuna, Burden non aveva bisogno di far manovra. Fatta partire l'auto, infilò il cancello di gran carriera. 16 — È un caso di transfert — sentenziò Serge Olson. — Un chiaro caso di transfert. — Non conosco il significato di questa parola — confessò Burden. Si trovavano tutt'e tre nell'ufficio di Wexford. Burden aveva pensato di recarsi nello studio dello psicoterapeuta, ma Olson si era offerto di venire lui al commissariato, dato che il giovedì mattina non aveva clienti. Per tut-
ta la giornata precedente, Clifford si era fatto in quattro per riuscire a parlare con Burden. Naturalmente non gli avevano passato la comunicazione, ma alla fine della giornata, Burden aveva saputo, con suo grande disappunto, che Clifford aveva telefonato quindici volte. E per finire in bellezza, aveva tentato d'intercettarlo mentre usciva dal commissariato per andarsene a casa, esattamente come aveva fatto la sera prima. Ma era stata la sua presenza in cortile, quel mattino (Burden aveva visto dalla finestra la Metro rossa e Clifford seduto in macchina), a far traboccare il vaso. Ne aveva abbastanza. Si era precipitato a telefonare a Olson, e un quarto d'ora dopo lo psicoterapeuta era lì. — Vi spiego di che cosa si tratta, Mike — disse. — Transfert è il termine usato in psicanalisi per indicare il processo di trasposizione inconsapevole, nella persona dell'analista, di sentimenti provati dal soggetto nei riguardi di persone che ebbero importanza nella sua vita infantile. Possono essere sentimenti positivi o negativi, odio o amore. È una cosa che mi è capitata spesso con i miei pazienti. Non con Clifford, però. — L'espressione poco convinta di Burden indusse Olson a rivolgersi a Wexford. — Credo che abbiate capito ciò che intendo dire, vero Reg? Wexford annuì. — Non è un concetto difficile. Sembra un atteggiamento logico, a pensarci bene. — Volete forse dire che si è affezionato a me? — Esatto, Mike. — Ma che cosa ho fatto? — sbottò Mike. — Vorrei proprio sapere che cos'ho fatto, perché succedesse una cosa simile. L'ho semplicemente sottoposto ad alcuni interrogatori, l'ho trattato esattamente come ho trattato centinaia d'indiziati. Ma una cosa del genere, non mi era mai capitata. Anzi, tutti gli altri non vedevano l'ora di sbarazzarsi di me e di filarsela da qui. Wexford si era avvicinato alla finestra. La Metro rossa era ancora lì, ferma a pochi centimetri dall'albero di Natale. Clifford, seduto al volante, non leggeva né guardava fuori del finestrino. Se ne stava lì a testa bassa. — Le persone sono molto diverse l'una dall'altra — disse Olson. — Ciascuna di esse è un individuo, Mike. Non c'è da meravigliarsi, se non vi era mai capitata un'esperienza simile. Forse siete stato particolarmente gentile con lui? Avete avuto un atteggiamento paterno? Badate bene, non intendo dire paternalistico. Vi siete mostrato sensibile, comprensivo? — a giudicare dalla sua espressione, pareva poco convinto di quest'ultima possibilità. — Non mi pare. Non lo so. Mi sono limitato ad ascoltare, a lasciarlo parlare, pensando che fosse il sistema migliore per arrivare allo scopo.
— Ah! — mormorò Olson con un sorriso. — Ascoltare, lasciar parlare il paziente... È il sistema usato dai freudiani. Evidentemente, a Clifford sarebbe più utile questo tipo di terapia. A un tratto iniziò a piovere. Wexford voltò le spalle alla finestra, scuotendo la testa. — Che cosa si può fare, adesso? — La regola più importante, Reg, è quella di non piegarsi al volere del paziente. Tra i suoi tanti problemi, c'è quello di volere plasmare il mondo come gli piacerebbe che fosse, ma questo mondo inventato da lui non gli dà la felicità, né riesce a guarirlo. È solo un modo di semplificarsi l'esistenza. Mi capite, Mike? Se accettaste di vedere Clifford in questo momento, gli consentireste di plasmare il mondo e la gente come lui li vorrebbe. Per farvi un esempio, dato che Clifford non ha padre, nel suo mondo vorrebbe far impersonare a voi la figura paterna. Se fosse bene per lui, vi direi "fate pure", ma sarebbe un errore, perché in questo modo si acuirebbe il transfert e ci si discosterebbe dalla realtà. — Dunque, dovrei incaricare qualcuno di rispedirlo a casa? — domandò Wexford. — Mi sembrerebbe una dimostrazione di scarso senso di responsabilità. Olson si alzò. Per non correre rischi nel caso fosse cambiato il tempo, si era infilato un eskimo. Chiuse la cerniera, si mise il cappuccio in testa. L'eskimo era giallo, color canarino. — La sua mente è molto malata, Reg. Su questo punto avete ragione. Ma voi e Mike dovete tenere presente che io sono un professionista. La prima volta che ci siamo visti, Mike, avete avuto la bontà di chiamarmi "dottore". Non sono dottore, come vi ho spiegato, ma ho la mia etica professionale da rispettare. Non posso andare da Clifford per dirgli di tornare da me. Non posso costringerlo a venire nel mio studio questo pomeriggio alle cinque, com'era in programma. Posso soltanto salire in macchina con lui, in veste d'amico, e tentare di convincerlo a vedere la vostra figura nella giusta prospettiva. Rimasero a guardarlo entrambi dalla finestra. La pioggia scrosciava più forte di prima, e la visibilità era scarsa. Dopo un po' videro Olson avvolto nell'eskimo giallo attraversare di corsa il cortile ed entrare nell'auto. La portiera della Metro si richiuse. — Mi pare che non manchi di logica, ciò che ha detto Olson sull'opportunità di non incoraggiarlo a crearsi il suo mondo personale. In parole povere, non bisogna dargli corda. Però, ti confesso che sono preoccu-
pato. — Preoccupato di che? — domandò Burden, brusco. Wexford immaginò, in rapida successione, un incidente d'auto provocata da una guida spericolata, una manciata di pillole ingoiate con l'aiuto di un bicchiere di cognac, una corda assicurata a una trave... Non disse nulla. La Metro indietreggiò lentamente tra le pozzanghere, sollevando spruzzi tutt'intorno, girò a sinistra e si diresse verso il cancello, con Olson ancora a bordo. — Per un po' è sistemato — disse Burden. — Grazie a Dio. E adesso finalmente possiamo vedere di andare avanti con il nostro lavoro. Uscì e chiuse la porta un po' troppo energicamente. Wexford si staccò dalla finestra. Pensava al suo sogno ricorrente, in cui gli apparivano cerchi all'interno dei quali danzavano piccoli disegni geometrici. Dipendeva forse dal fatto che per due sere di fila, prima di dormire, aveva letto l'autobiografia di Dita Jago con la descrizione degli orrori del campo di concentramento? Si era portato il manoscritto in ufficio, era lì sulla scrivania. — Com'è? — gli aveva domandato Dora. — Non ti risponderei, se tu non fossi mia moglie. Francamente, non mi sembra un granché. È più brava come magliaia che come scrittrice. — Sei poco gentile, Reg. — Che importanza ha, dal momento che siamo tra le pareti domestiche? Comunque, non sono un critico letterario, sono un poliziotto. Non è lo stile né l'atmosfera, ciò che m'interessa in questa autobiografia. Discreta come sempre, Dora non gli aveva domandato per quale motivo stesse leggendola, né gli aveva chiesto quale ragione avesse per sfogliare in continuazione i numeri della rivista Kim. Wexford cercò il punto in cui aveva infilato un segnalibro, circa a metà del manoscritto. La giovane Dita Kowiak aveva iniziato a lavorare all'Auschwitz Krankenbau, cioè all'ospedale, in qualità d'inserviente. Wexford avrebbe dovuto commuoversi, leggendo la descrizione dei pazienti emaciati, delle iniezioni intracardiache praticate per la somministrazione di sostanze tossiche, delle masse di cadaveri nudi ammonticchiati sui camion. Dita era riuscita a sopravvivere, perché almeno per un certo periodo chi lavorava nell'ospedale poteva contare su pasti regolari, sia pure a base di minestra di rape e pane ammuffito. Dita raccontava dei prigionieri di guerra russi finiti nelle camere a gas, e di cinquecento cadaveri arsi nello spazio di un'ora. Ma invece di commuoversi, d'immedesimarsi nel racconto, Wexford aveva l'impressione di avere già letto altrove di tutte quelle atrocità.
Dita non aveva il dono di saper descrivere i posti, né di dar vita ai personaggi. Lo stile era privo di personalità e ripetitivo, e leggendo il manoscritto, non si aveva l'impressione che l'autrice avesse sofferto in prima persona. Al contrario, sembrava quasi che non fosse mai stata in un campo di concentramento, come se avesse copiato le autobiografie dei superstiti. Del resto, ce n'erano un'infinità, di queste autobiografie. Chissà, forse aveva davvero plagiato qualcuno. A Wexford era capitato parecchie volte, nel corso della lettura, di accorgersi che mancava qualche foglio, ma poi li aveva trovati più avanti. I fogli non erano numerati, e questo complicava le cose. C'era un punto, però, dove il racconto s'interrompeva bruscamente, a metà di una frase, nel bel mezzo di un aneddoto su un medico dell'ospedale, un certo dottor Dehring. Wexford sfogliò fino in fondo il manoscritto, ma non trovò altri punti in cui si parlasse di questo medico. Mancava almeno una cartella, forse due. D'altra parte, Dita Jago avrebbe acconsentito a consegnargli il manoscritto, se avesse contenuto qualcosa di compromettente? Non le sarebbe stato difficile trovare un pretesto qualsiasi per non darglielo. Per quanto potesse essersi dato da fare, Serge Olson non aveva ottenuto alcun risultato con Clifford che, nel corso del pomeriggio, telefonò cinque volte al commissariato di polizia. Il mattino successivo, Burden ricevette una lettera di Clifford, spedita a casa sua. Se la lettera fosse arrivata al commissariato, poteva capitare che la leggesse chiunque, ma a casa naturalmente era Burden ad aprire la sua corrispondenza. La missiva di Clifford iniziava cosi: "Caro Mike". Il suo nome di battesimo doveva averlo saputo da Olson. La calligrafia sembrava quella di un bambino, o di un insegnante, precisa, rotonda, perfettamente leggibile, con la parte superiore delle lettere leggermente inclinata verso sinistra. Caro Mike, ho molte cose da dirvi, e penso che v'interesserebbe sentirle. Sicuramente vi fa piacere che vi consideri mio amico, e posso assicurarvi che vi giudico tale. Infatti, non mi è mai stato facile confidarmi con il prossimo, mentre con voi non ho avuto problemi. Andiamo d'accordo, noi due, su questo non c'è dubbio. Burden interruppe un attimo la lettura, sospirò, e riprese: Ci sono persone, tra i vostri superiori, che v'impediscono di rive-
dermi. Non posso biasimarvi, se vi adeguate nel timore di perdere il posto di lavoro. Perciò, suggerirei di vederci fuori, quando non siete in servizio. Non credo che ci troverebbero qualcosa da obiettare, se ci vedessero insieme. Ciascuno ha diritto alla propria vita privata, e nessuno può impedirgli di scegliersi gli amici che preferisce. Vi telefono domani... Anche stavolta, Burden notò che non era precisata l'ora. Avvertiteli che aspettate una mia telefonata, così se sarete fuori, prenderanno nota del messaggio che lascerò per voi. O meglio ancora, vi telefono questa sera, a casa vostra, o durante il fine settimana. I più cordiali saluti dal vostro amico, Cliff. Il figlio di Burden si era arrampicato sulle sue ginocchia, e lui gli accarezzò i capelli, stringendolo a sé. Che cosa tremenda sarebbe stata, se il suo Mark fosse diventato, da grande, un tipo come Clifford. Chi poteva sapere che cosa riservava il futuro? Un tempo, forse anche Clifford era stato un bambino coccolato, capace d'ispirare amore. Ma io, pensava Burden, non lo lascerò solo, non me ne andrò via quando lui avrà cinque anni. Si sforzò di provare un po' di compassione per Clifford, ma non ci riusciva. Gli faceva soltanto rabbia. — Non passatemi le sue telefonate — raccomandò, quando fu al commissariato. — E ditegli chiaro e tondo di non lasciare messaggi, perché sarebbe perfettamente inutile. Sistemata questa faccenda, Burden si rimise al lavoro. Stava cercando di rintracciare Charles Sanders. Visto che non aveva sborsato un soldo per la moglie e il figlio, benché fosse suo dovere, era evidente che sarebbe stato inutile cercarlo tramite il tribunale o i servizi sociali. Il suo nome era abbastanza comune. Negli elenchi telefonici e nei registri elettorali, risultavano parecchi Charles Sanders. Archbold, Davidson, Marian Bayliss e Diana Pettit avevano parecchi nominativi da controllare. Quanto ad Archbold, aveva scovato un Charles Sanders a Manchester, che sarebbe potuto essere il loro uomo. Burden aveva una mezza idea di andare da lui, ma prima preferiva parlargli per telefono. Finora non era riuscito a mettersi in contatto con lui. Segnali di libero si alternavano a quelli di occupato, come se Sanders staccasse il telefono tra una chiamata e l'altra. Il mattino successivo, quando Burden vide la Metro rossa spuntare dal
cancello del commissariato ed entrare in cortjle, a un tratto ebbe paura. Si sentiva braccato, perseguitato. Immaginò un futuro in cui Clifford Sanders lo pedinava, lo seguiva passo per passo, lo tormentava con continue telefonate. Peggio ancora, immaginò di guardarsi allo specchio e di vedere Clifford sbucare fuori alle sue spalle. Sono un poliziotto, disse a se stesso, faccio questo mestiere da anni. Era vergognoso lasciarsi scombussolare in quel modo da un ragazzo. Certo, Clifford non era una persona normale, era un paranoico. Bastava leggere la sua lettera per averne conferma. Ripensò al momento in cui, per la prima volta, si era accorto della pazzia di Clifford.. Subito dopo, gli venne in mente una cosa che gli aveva raccontato la moglie, appassionata di storia. Sul finire dell'Ottocento, era di moda andare a vedere i pazzi rinchiusi a Bedlam. Era un passatempo diffuso, come i safari fotografici nel secolo attuale. Che razza di divertimento! Per quanto lo riguardava, preferiva tenere alla larga i matti, ignorarne l'esistenza, mettere un muro tra sé e loro. Burden alzò il ricevitore, parlò con il sergente Martin e l'incaricò di ordinare a Clifford di andarsene, con la scusa che il cortile era proprietà privata, e non poteva restarvi. Si chiese se Wexford si fosse accorto della presenza di Clifford, e sentì la necessità di parlarne con lui. Sarebbe stato sincero sul conto di Clifford e dell'effetto che gli faceva, più sincero di quanto non fosse mai stato. Ma mentre metteva piede nell'ascensore, si ricordò che Wexford, per qualche sua misteriosa ragione, era andato al Barringdean Shopping Centre. Burden tornò nel suo ufficio. Aveva voglia di bere qualcosa, o magari di prendere un tranquillante, benché in genere fosse contrario a quel genere di farmaci. Si sedette alla scrivania, si prese la testa tra le mani. Il panino imbottito che aveva scelto Wexford al Grub'n' Grains si chiamava "American style". Era pane di segale con formaggio molle e pastrami. Se non gli avessero detto che quello era pastrami, cioè una specialità della cucina ebraica a base di manzo affumicato e spezie, Wexford sarebbe stato convinto di mangiare carne salata. Aveva ricostruito mentalmente l'omicidio più di una volta, ma l'esercizio sarebbe stato più efficace, pensava, se l'avesse effettuato sulla scena del delitto, cioè esattamente dove era stato commesso. Gli spruzzi della fontana nascondevano le scale mobili e l'entrata del British Home Street, ma di fronte, Wexford vedeva i vari negozi, compreso Demeter, l'erborista. Terminò di bere il cocktail di frutta tropicale, pagò
il conto e si diresse da quella parte. I medicinali a base di erbe erano sugli scaffali alla sinistra della vetrina, e Wexford trovò subito le capsule a base di calendula, le stesse che stava cercando Helen Brooks, quando aveva visto Gwen Robson intenta a conversare con una ragazza molto elegante. A quel punto, avevano avuto inizio le doglie, cosa che le aveva impedito di avvicinarsi alla signora Robson e di parlarle. Wexford si chinò, prese dallo scaffale un flacone di capsule e lo mise in un cestello della spesa, poi si raddrizzò e guardò fuori dalla vetrina. Si vedeva la farmacia e il negozio accanto, quello delle lane. Il Mandala, quel giorno decorato con crisantemi e solani dalle bacche rossoscarlatto, impediva la visuale dell'entrata del Tesco. Gwen Robson era entrata in farmacia, dove aveva acquistato il dentifricio e il borotalco, forse si era soffermata a guardare i fiori del Mandala, e lì aveva incontrato la ragazza che Helen Brook aveva visto in sua compagnia. Probabilmente Lesley Arbel, che avendo un po' di tempo a disposizione prima che partisse il treno per Londra, aveva fatto un salto lì al centro commerciale, sicura di trovarvi la zia. Le due donne avevano chiacchierato un po', e quindi si erano salutate, dopo che Lesley aveva promesso di tornare la sera successiva. O il loro incontro era stato più sinistro? Se la ragazza in compagnia di Gwen Robson era davvero Lesley Arbel, sicuramente non aveva perso tempo ammirando i fiori, ma aveva preferito curiosare nel negozio d'abbigliamento e in quello di scarpe. Wexford guardò le vetrine, compresa quella di Knits 'n' Kits, dove faceva bella mostra di sé un piccolo arazzo ricamato a piccolo punto. Inevitabilmente pensò a Dita Jago. Chissà se si serviva in quel negozio? Wexford si avviò verso la porta, assorto in meditazione, con il cestello sul braccio, quando fu fermato da un grido d'indignazione. — Scusatemi, ma non avete pagato le capsule! Wexford rise, pensando al paradosso di un ispettore di polizia sorpreso a rubare in un negozio. Avrebbe fatto più o meno lo stesso effetto della notizia che sua figlia era finita in prigione, se ciò malauguratamente fosse accaduto. Ma ora non voleva pensarci. Sotto lo sguardo accusatore della commessa del negozio, rimise il flacone sullo scaffale, lasciando per terra il cestello della spesa. Quell'idea si era fatta strada nel suo cervello già da un po' di tempo, ma si era fermata nel subconscio, non era venuta a galla. Gwen Robson era morta da tre settimane. Fu quell'idea a spingerlo verso la vetrina, a cui aveva già dato una sbirciata mentre entrava da Demeter. Gli aghi per la-
vorare a maglia erano appesi a un pannello sul lato destro della vetrina, disposti a zigzag. A sinistra c'erano le matasse di lana, e al centro il lavoro a piccolo punto. Wexford ebbe un attimo di esitazione, poi s'infilò nel negozio. Non capitava spesso che vi mettesse piede un uomo. C'erano due commesse dietro il banco. Una delle due stava sfogliando un blocchetto di campioncini. Wexford si avvicinò a un supporto di metallo a cui erano appesi i ferri da lavoro e scelse il paio che gli interessava. Forse Lesley Arbel era entrata in quel negozio, prima d'incontrarsi con la zia. Non era impossibile. Conosceva il negozio e sapeva ciò che voleva. Lo stesso si poteva dire di Dita Jago. Con uno strattone deciso, Wexford trasse il ferro circolare dal sacchetto di plastica trasparente che lo conteneva e lo prese in mano reggendolo come se fosse una lenza, poi impugnò le due estremità e tese il filo. I due ferri erano rivestiti di plastica grigia. Guardandosi intorno, Wexford trovò il soggetto ideale per il suo esperimento, un manichino di polistirolo con il collo da giraffa e la testa inclinata in una posizione innaturale. Avvicinatosi al manichino con la garrotta pronta, stava per dare inizio all'esperimento, quando si accorse di uno strano silenzio. Girò la testa e vide due paia d'occhi che lo fissavano con aria stralunata. Si affrettò allora a riporre il ferro nel sacchetto di plastica. Ora poteva affermare di avere praticamente trovato l'arma del delitto. 17 Clifford Sanders si presentò a casa di Burden alle nove di sera. Per Burden, non fu una sorpresa: si era aspettato di vederlo arrivare fin da quando era entrato in casa, e non aveva fatto altro che pensare al modo migliore di toglierselo di torno. Pensò di mandare la moglie ad aprire, se fosse suonato il campanello, o il figlio maggiore, John, che era a cena da loro. Oppure di portare tutti quanti a mangiare fuori. In un momento di pazzia improvvisa, gli venne l'idea di passare fuori anche la notte, in albergo. Ma poi, quando arrivò il momento cruciale, andò personalmente ad aprire la porta. Erano passati diversi giorni, dall'ultima volta che aveva parlato con Clifford. Il giovane indossava un impermeabile blu scuro. Sembrava quasi un poliziotto. Appariva pallido, ma forse per colpa della luce del portico. Alle sue spalle, si vedeva solo una foschia verdastra. Clifford gli tese la mano. Burden non gliela strinse. — Mi dispiace che tu abbia fatto la strada per
niente — disse — ma ti ho già spiegato che non ho altre domande da rivolgerti. — Per favore, mi permetta di parlarle ancora. Stava già entrando in casa, ma Burden gli si parò davanti, bloccandogli il passaggio. — Cerca di capire che non abbiamo più bisogno di te per continuare le indagini — disse. — È finita. Grazie della collaborazione, ma ora non c'è altro che tu possa fare. — A Clifford tremarono le labbra. Pareva un bambino in procinto di piangere. Burden non sopportava quella vista, ma non se la sentiva di trattarlo male. — Ti auguro la buona notte, allora — concluse, non sapendo che altro dire. — Buona notte. — Fece un passo indietro, chiuse energicamente la porta. Rimase dietro la porta, in ascolto. Si aspettava che Clifford suonasse di nuovo il campanello. L'avrebbe fatto di sicuro, o come minimo avrebbe bussato. Invece non accadde nulla. Burden sudava. Gocce di sudore gli imperlavano la fronte, e una gli colò sul naso. Mark era a letto, Jenny e John in sala da pranzo, nella parte posteriore della casa. Burden entrò in soggiorno a luce spenta, si avvicinò alla finestra camminando a tentoni e sbirciò fuori. La Metro rossa era lì, davanti alla casa, e Clifford seduto al volante nel suo solito atteggiamento. Chissà, forse trascorreva in macchina parecchie ore al giorno. Burden era ancora alla finestra, quando squillò il telefono. Rispose senza accendere la luce, continuando a guardare fuori. Era Dorothy Sanders. Non disse di essere lei, né chiese se stesse parlando con l'ispettore Burden. Mike la riconobbe dalla voce. — Avete intenzione di arrestare mio figlio? In altre circostanze, Burden avrebbe dato una risposta vaga, ma quello era un caso particolare. — No, signora Sanders. Non ne ho la minima intenzione, ve l'assicuro. — Per un attimo, ebbe l'assurda speranza di conquistarne la fiducia, anzi addirittura di trovare in lei un'alleata. — Non desidero vederlo — disse. — Non ho altre domande da rivolgergli. — È per questo che continuate a farlo venire lì da voi? Perché non lo lasciate in pace? Non sta mai in casa, non lo vedo quasi più. Il suo posto è qui in questa casa, con me. — Sono perfettamente d'accordo — replicò Burden. — Non immaginate quanto. — Mentre parlava, vide Clifford uscire dall'auto e dirigersi di nuovo verso la casa. Lo squillo del campanello gli provocò quasi una sensazione di dolore fisico. Il campanello suonò di nuovo. Burden stringeva il ricevitore con forza, e aveva la mano sudata. — Sarà a casa tra dieci mi-
nuti — disse alla signora Sanders, dominando a stento la rabbia che aveva in corpo. — Potrei denunciarvi alle autorità competenti, sapete? Potrei rivolgermi al Capo della Polizia. Anzi, sappiate che lo farò. — Rimase un istante in silenzio. — Non è stato lui a uccidere quella donna — riprese in tono più pacato. — Non la conosceva neppure, e non ha niente da dirvi. — Allora, è meglio che lo ternate chiuso in casa, signora Sanders — sbottò Burden, perdendo la pazienza. Riagganciò, e nello stesso istante udì la voce di John, che era stato preavvertito e quindi sapeva come comportarsi con Clifford. — Buona sera — concluse John, congedando l'intruso. Burden rimase in soggiorno, al buio, a spremersi le meningi per cercare di risolvere il problema. Per impedire a Clifford di continuare a perseguitarlo, avrebbe potuto rivolgersi a un giudice perché gli mandasse un'ingiunzione, e poi spedirlo in galera se si fosse ostinato a importunarlo. Sentì sbattere la portiera della Metro, e attese, con il cuore in gola, di udire avviarsi il motore. Gli parve che passasse un secolo, poi finalmente la Metro si mise in moto. Burden attese ancora qualche istante, prima di guardare di nuovo fuori dalla finestra, e quando si decise a farlo, la Metro finalmente era sparita. Fuori, in strada, non si vedeva altro che nebbia. Quando restituì il manoscritto alla signora Jago, Wexford le domandò dove fossero finite le pagine che mancavano, ma la domanda non parve metterla in imbarazzo. — Sì, me ne sono accorta subito dopo che siete andato via. Avevo tolto due pagine per portarmele in biblioteca e controllare una certa cosa. — Lo guardò senza battere ciglio. — Sono andata in biblioteca il giorno in cui è stata uccisa la signora Robson, come ho avuto già occasione di dirvi. Ve ne ricordate? Volevo verificare un particolare a proposito di un certo Dehring. — Non gli domandò se l'autobiografia gli era piaciuta. — Avete letto fino a quel punto? — gli chiese soltanto. Mentre Dita Jago andava a prendere i due fogli che mancavano, Wexford ne approfittò per esaminare velocemente il ferro da cui pendeva il lavoro a maglia. Le due estremità, essendo molto più sottili di quelle del ferro che aveva trovato al Barringdean Centre, non avrebbero resistito a una pressione eccessiva. Ma questo non significava niente. Probabilmente Dita Jago possedeva ferri di varie misure. Quando tornò con i fogli, Wexford lesse le correzioni apportate con una penna rossa. La signora Jago
non fece commenti, non gli chiese il motivo del suo interesse. Ma mentre si allontanava, Wexford si accorse che stava guardandolo dalla finestra. Ralph Robson stava lavando l'auto, passatempo molto popolare a Highlands, il sabato pomeriggio. Se la stava cavando bene anche senza il bastone, tanto più che poteva appoggiarsi alla carrozzeria. Wexford lo salutò e gli disse che forse era un'imprudenza, da parte sua, fare una simile sgobbata nelle sue condizioni. — Se non la lavo io, chi me la lava? — si lamentò Robson. — Non ho nessuno che mi dia una mano. Quando succede una disgrazia come quella capitata a me, all'inizio tutti si precipitano a offrire aiuto, ma dopo un po' di tempo non si fa vedere più nessuno. Persino Lesley sembra essersi dimenticata di me. Pensate, è da una settimana che non la vedo, e non mi ha neanche telefonato. Né lo farà, pensò Wexford. Non si sarebbe più fatta viva, o perché aveva trovato ciò che cercava, oppure perché aveva rinunciato a cercare. — Però una cosa è andata bene — riprese Robson, chinandosi per sciacquare lo straccio nel secchiello e facendo una smorfia di dolore. — Mi faranno il trapianto. Fra due settimane, mi ricoverano in una clinica a Sunderland, grazie all'interessamento del mio medico. Lì eseguiranno il trapianto. Mentre Wexford iniziava la salita che portava a casa sua, gli passò accanto una Saab. I suoi pensieri erano passati dal caso Robson a Sheila, come gli accadeva spesso in quei giorni. Quella notte, Sheila avrebbe dormito da loro. Erano anni che non si faceva vedere così spesso come in quelle ultime settimane, e Wexford cercava di capirne la ragione. Forse Sheila si rendeva conto di quanto fosse preoccupato per la sua incolumità, oppure le dispiaceva che fossero costretti a vivere in quella casa piccola e scomoda. A meno che non fosse un misto di tutt'e due le cose. La Saab si era accostata al marciapiede. Un attimo dopo, ne spuntò fuori Sheila. Come sempre quando la vedeva, Wexford ebbe un tuffo al cuore. — Papà, questo è Ned. L'uomo seduto al volante era giovane, scuro di capelli, distinto. Wexford ebbe l'impressione di averlo già visto da qualche parte. Si strinsero la mano. Wexford prese posto sul sedile posteriore. — Ned non si ferma da noi, deve proseguire per Brighton. Mi ha soltanto dato un passaggio. — Come mai? — mormorò Wexford. — Hai preferito avvertirlo in anticipo del nostro scarso senso dell'ospitalità?
Ned rise, ma senza eccessiva convinzione. — Oh, papà, non era questo che intendevo — protestò Sheila. — Spero almeno che accetti di bere una tazza di tè in nostra compagnia? — domandò Dora, quando arrivarono a casa. — Ma certo, con molto piacere. Sia Wexford sia Dora avevano dato per scontato che, avendo sposato tutt'e due le figlie, una situazione analoga a quella non si sarebbe più ripetuta. Non ci sarebbero più stati pretendenti da ricevere in casa, pretendenti che inevitabilmente suscitavano delusioni, o rassegnazione, o speranza. Sylvia si era sposata giovanissima, e prima di Neil aveva avuto solo un paio di ragazzi, ma niente di serio. I corteggiatori di Sheila, invece, si erano susseguiti uno dopo l'altro, finché l'apparizione del prescelto, Andrew Thoverton, non aveva messo fine a quel carosello. O almeno, questo avevano creduto gli ingenui genitori che, data la loro età, consideravano il matrimonio, almeno nella loro famiglia, come un legame definitivo. Questo Ned era un probabile secondo marito? Difficile a dirsi. Sheila si dimostrava tutt'altro che espansiva con lui. Era già ripartito per Brighton, quando Wexford venne a conoscenza del suo cognome. Prima che partisse, Sheila gli aveva detto di non preoccuparsi per lei: sarebbe tornata a Londra in treno. — Bella, quell'auto — commentò Wexford, tanto per dire qualcosa. — Sarà bella, ma ha sempre bisogno di riparazioni. Anche quella volta che sono venuta a trovarvi, quando stavate ancora nella casa vecchia, l'auto di Ned era dal meccanico. Anzi, mi ero offerta di prestargli la mia, ma considerando ciò che è accaduto, è stato un bene per lui che ne abbia presa una a nolo. Tornarono in casa. Cominciava a scendere l'oscurità ed era calata la nebbia. Wexford chiuse la porta. — Mi pare di averlo visto da qualche parte — mormorò. — Non so se di persona, oppure in fotografia. — Naturalmente, papà. C'era la sua foto su tutti i giornali, quando c'è stato il processo a quei terroristi arabi. — Vuoi dire che è Edmund Hope? Il tuo "Ned" è l'avvocato Edmund Hope? — Ma certo! Credevo che lo sapessi. — Non capisco come tu abbia potuto pensare che lo conoscessimo — intervenne Dora — dal momento che non ce l'hai presentato. "Questo è Ned" ci hai detto. Non vedo come si potesse capire. Sheila si strinse nelle spalle. Aveva i capelli legati a coda di cavallo con
un nastro rosso. — Comunque, non avrei potuto presentarvelo come il "mio" Ned. Non stiamo più insieme. Siamo rimasti amici e basta. Abbiamo vissuto insieme per quattro lunghi giorni. — Rise, ma non era una risata convinta. — A volte si dice: "Non sono d'accordo con le tue idee, ma sarei pronto a dare la vita perché tu possa avere la libertà di esprimerle". Nella realtà, non è vero niente. Ho scoperto che Ned è esattamente come tutti voi, be', papà escluso. Si vergognerebbe di me, se finissi in prigione. — Non è vero, Sheila. Sei scortese e ingiusta. Io non mi vergognerei mai di te. — Scusami, mamma. Allora, escludo anche te. Per quanto riguarda Ned, evitava persino di far sapere in giro che mi conosceva. E io lo assecondavo, pensate un po'! — si avvicinò al padre, che l'ascoltava in silenzio. — Papà...? — l'abbracciò, gli diede un bacio sulla guancia. Era sempre stata affettuosa, espansiva, piena di calore. — Che cosa c'è? Hai forse visto un fantasma? — È vero che ti sei offerta di prestare la tua auto a Edmund Hope per il fine settimana, mentre era in corso il processo contro quei terroristi? — Non arrabbiarti, papà. Perché non avrei dovuto farlo? — Non sono arrabbiato. Raccontami come sono andate le cose. Dimmi esattamente come e quando gli hai proposto di prendere la tua Porsche. Sheila si staccò dall'abbraccio. — Santo cielo, meno male che non sono uno dei tuoi criminali! Dunque, Ned si era fermato a dormire da me, e il mattino seguente, quando ha tentato di avviare la sua auto, non è riuscito a partire. Così, l'ho accompagnato io in tribunale, all'Old Bailey. E prima di salutarlo, gli ho detto che poteva prendere in prestito la mia auto, se voleva. — È possibile che qualcuno ti abbia sentito? — Oh, sì, penso di sì. Era fermo sul marciapiede, e io gliel'ho gridato stando in macchina, perché l'idea mi era venuta in quel momento. "Puoi prendere la mia auto per il fine settimana" gli ho gridato, o qualcosa del genere, sapendo che sarebbe stato ospite di amici nel Galles e quindi la macchina gli occorreva. Mi ha risposto che eventualmente ne avrebbe approfittato. Mi sono ricordata solo in un secondo tempo che dovevo venire qui, e perciò sono stata ben contenta, quando la sera mi ha telefonato per dirmi che la sua auto sarebbe stata pronta l'indomani mattina. — Improvvisamente, Sheila impallidì. Aveva capito ciò che aveva in mente suo padre. — Oh, papà, come ho fatto a non pensarci prima? Oh, Dio, che cosa terribile!
— Quella bomba era per lui — disse Wexford. — Allora, anche la lettera. È arrivata mentre lui stava da me. — Sarà bene informarne chi di dovere. — Wexford alzò il ricevitore. Si sentiva felice. La notte era trascorsa serena, senza incubi. Burden era rimasto sveglio a lungo, pensando a Charles Sanders numero uno, quello che abitava a Manchester e che, come avevano appurato, quando finalmente aveva risposto al telefono, aveva solo ventisette anni, e a Charles Sanders numero due, di Portsmouth, che aveva figli grandi più o meno dell'età di Clifford, una moglie giovane, e l'accento australiano. Ma Burden non aveva grossi motivi di preoccupazione e, quando si addormentò, dormì profondamente e senza interruzioni. La domenica mattina, quando si svegliò, dopo che Jenny e Mark si erano già alzati, vide attraverso i vetri della finestra che aveva nevicato. Era stato lo squillo del telefono a svegliarlo. Pensò che forse era Clifford. Il telefono smise quasi subito di squillare. Doveva aver risposto Jenny dall'altro apparecchio. Burden alzò il ricevitore e, con suo grande sollievo, udì la voce di Wexford che, dopo averlo messo al corrente della soluzione dell'enigma dell'autobomba, gli comunicò che avrebbe fatto un salto da lui nel pomeriggio, per parlargli della soluzione di un altro enigma, quello dell'arma usata dall'assassino di Gwen Robson. Burden non gli parlò della visita di Clifford né della telefonata della madre. Gliel'avrebbe detto nel pomeriggio, o magari mai. La mattina passò senza incidenti. Generalmente c'era molto traffico in Tabard Road, ma quel mattino circolavano poche auto, forse a causa della nebbia. Chissà, poteva essere proprio la nebbia a tenere Clifford chiuso in casa. O c'era qualche altro motivo? Il potere che sua madre esercitava su di lui era sufficiente a fermarlo? Probabilmente sì. Non aveva altro modo di trattenerlo, essendo meno forte di lui fisicamente. La nebbia, a differenza dei giorni precedenti, non si diradò, anzi parve diventare più fitta nel pomeriggio. Sua sorella Grace con il marito e il fratello di Jenny, avevano pranzato da loro. Burden pensava quanto sarebbe stato imbarazzante se Clifford si fosse fatto vivo di nuovo, ma per fortuna ciò non accadde. Gli ospiti se ne andarono via verso le quattro, quando cominciò a farsi buio. Abitavano tutti in zona ed erano venuti a piedi. Mentre li guardava allontanarsi dalla finestra del soggiorno, Burden intravide Amyas in compagnia di Wexford, appena fuori del cancello. Nella
nebbia, i due uomini sembravano avvolti in un velo di garza. — Mi sono tolto un grosso peso dallo stomaco — esordì Wexford non appena fu entrato in casa, togliendosi il giaccone. — A pensarci bene, non dovrei dire una cosa simile. Posso stare tranquillo per mia figlia, ma ci sarà un altro padre in pena, il padre di Edmund Hope. — Può darsi che non sia più in pericolo nemmeno l'avvocato Hope. A quest'ora, è possibile che abbiano trovato un altro bersaglio. Dopo tutto, sono trascorse più di tre settimane. — Già, più di tre settimane anche dalla morte di Gwen Robson. Che te ne pare di questa garrotta, Mike? — Wexford trasse di tasca il ferro circolare acquistato al Barringdean Centre. Le due estremità, che avevano un diametro di circa zero e sessantacinque, costituivano manici robusti, facilmente impugnabili. — In fatto di materie plastiche, sei tu l'esperto. Pensi che potrebbe essere l'arma del delitto? — Il colore è quello giusto. Sì, credo proprio che possa essere stato utilizzato un aggeggio come questo. Dev'essere necessariamente una donna a usarlo? Entrarono nel soggiorno. Nel caminetto era stato acceso il fuoco, che illuminava il locale con la sua luce guizzante. Burden sistemò il parafuoco in modo da evitare guai, se fosse entrato Mark. — È stato un omidicio premeditato — riprese Wexford — ma soltanto nel senso che l'assassino aveva in mente da un pezzo di uccidere Gwen Robson, e aspettava l'occasione giusta per mettere in atto il suo proposito. Ma escluderei che sia arrivato al parcheggio con l'arma pronta in mano. L'aggeggio dev'essere stato acquistato nel negozio dove ho comperato questo, vuoi dall'assassino stesso, vuoi da un'altra persona, uomo o donna che fosse. Fuori, stava passando una macchina. Avanzava lentamente, cosa abbastanza normale, con quella nebbia. Burden scattò in piedi, andò a guardare fuori dalla finestra. No, non era Clifford, ma il vicino di casa, che ora stava aprendo il cancello per mettere l'auto in garage. — È un po' troppo presto per chiudere le tende? — domandò Burden. — Non credo che ci sia un'ora precisa per farlo — replicò Wexford, guardandolo con una certa perplessità. — Mi sembra un peccato sprecare l'ultima luce che viene dall'esterno. Fuori, c'era un grigio impenetrabile, e l'osservazione di Burden suonò decisamente fuori luogo. Non si vedeva la strada, e quasi nemmeno il marciapiede. Burden chiuse le tende e accese una lampada, nell'istante in cui
suonava il telefono. Burden trasalì e Wexford se ne accorse. — Pronto? Al telefono si alternavano la voce della moglie e quella della suocera. Jenny aveva risposto dall'altro apparecchio. Burden non riuscì a trattenere un respiro di sollievo. — Clifford Sanders ti perseguita — domandò Wexford, con il suo solito intuito. Burden annuì. — Sì, però credo che adesso abbia smesso. In tutta la giornata, non mi ha telefonato e non si è fatto vivo. — Qui in casa tua, intendi dire? — Sì. È venuto ieri sera, due volte. Ma adesso credo che sia finita. Comunque, non ha importanza — mentì. — Non è un problema. Dunque, pensi che sia Dita Jago l'assassina? Wexford non rispose alla domanda. — Dita Jago probabilmente subiva i ricatti di Gwen Robson — disse. — E aveva la possibilità di ucciderla. Lei, più di chiunque altro, aveva motivo di acquistare un ferro da maglia nel negozio del Barringdean Centre. D'altra parte, sostiene di essersi recata alla biblioteca pubblica, quel pomeriggio, insieme con le nipotine. Non mi va d'interpellare le bambine per controllare l'alibi della signora Jago, e non lo farò, se non sarà necessario, ma... — Non terminò la frase. — Le carte che Lesley Arbel cercava disperatamente — riprese — non erano i fogli mancanti del manoscritto della signora Jago, ma lettere fotocopiate. — Lettere che Gwen Robson aveva sottratto ai suoi assistiti? Lettere compromettenti, di cui si era procurata una fotocopia? È questo che intendi? — No, erano lettere che le procurava la nipote. Anzi, fotocopie. Lesley gliele dava da leggere senza malizia, semplicemente perché erano strane, e divertenti. Perché Gwen Robson, nonostante le sue arie pudiche, ci prendeva gusto a leggere le confidenze di chi aveva storie un po' spinte da raccontare. — Ti riferisci alle lettere di "Zia Bontà"? — Naturalmente. Lesley Arbel poteva procurarsele con facilità, e in ufficio aveva a disposizione la fotocopiatrice. Alcune lettere venivano pubblicate da Kim (sapessi, Mike, quanti numeri ho sfogliato di quella rivista, in questa settimana...), ma la maggior parte non poteva essere pubblicata, nemmeno ora che i tempi sono cambiati. Esiste una legge non scritta, per i collaboratori della casa editrice, secondo la quale non è lecito divulgare le confidenze dei lettori, ma ciononostante Lesley era convinta che il suo fosse un giochetto innocuo, sicura com'era che il segreto sarebbe rimasto
chiuso tra le quattro pareti di Hastings Road. Che cosa c'è, Mike? Qualcosa che non va? Burden era schizzato in piedi, tendeva le orecchie. — Hai sentito arrivare una macchina? — Di macchine ne sento arrivare almeno una al minuto, se sono sveglio — replicò Wexford, asciutto. — È inevitabile, purtroppo. La porta si aprì e apparve Mark, seguito dalla madre. Burden restò in ascolto e tese distrattamente una mano al figlio. Mark non era affatto timido. Si avvicinò a Wexford, gli chiese la matita che aveva in mano e il taccuino degli appunti, si arrampicò sulle sue ginocchia. Burden si avvicinò alla finestra, scostò un lembo della tenda e guardò fuori. — Oh no, non sarà tornato un'altra volta! — esclamò Jenny. — Ho paura di sì — rispose Burden, voltando le spalle alla finestra e guardando Wexford. — Senti, sarei esagerato, se decidessi di mandargli un'ingiunzione? Anche stavolta Wexford non rispose alla domanda. — È meglio che vada — disse, alzandosi e posando a terra il piccolo Mark, a cui aveva deciso di sacrificare matita e taccuino. — Mi raccomando, non scrivere sulla moquette, altrimenti dovrò fare i conti con tua madre. Mentre usciva in anticamera, suonò il campanello. Wexford aspettò di sentirlo suonare un'altra volta. Burden lo raggiunse, si fermò alle sue spalle. All'esterno, qualcuno stava toccando la cassetta delle lettere; poi si udì bussare alla porta. Attraverso l'apertura della cassetta apparve una mano, e la vernice chiara della porta rimase macchiata. Burden trattenne il fiato. Wexford s'avvicinò alla porta, l'aprì. Vedendoselo davanti, Clifford fece un passo indietro. Fissava un punto alle spalle di Wexford, e quando vide Burden, sorrise. Wexford lo fissava, ammutolito, perché Clifford era coperto di sangue. La camicia, il pullover, il giubbotto, i pantaloni di flanella grigia, la cravatta, le calze e persino le scarpe erano sporchi di sangue, e in certi punti il sangue non si era ancora asciugato, e luccicava. Clifford, sorridente, visto che nessuno lo fermava, entrò in anticamera. Nello stesso istante, il piccolo Mark uscì dal soggiorno. Burden lo prese in braccio. — Non fateglielo vedere! — gridò. — Per amor del cielo, non fateglielo vedere! 18 Il sedile dell'auto di Dorothy Sanders, dove Clifford aveva l'abitudine di
restare seduto per ore, assorto in chissà quali meditazioni, era sporco del sangue che macchiava i suoi indumenti. Benché ci fosse buio e nebbia fitta, Wexford volle che si coprissero il sedile e il volante, incrostato di sangue, prima che l'auto fosse trainata via. Ora, a bordo della prima auto della colonna, con Clifford seduto tra lui e Burden, avanzavano nella nebbia. Al volante c'era Donaldson. I fari formavano due coni di luce verdastra, e la visibilità era ridotta a pochi metri. Dietro di loro c'era una seconda auto, poi una terza. Procedevano alla velocità di venti chilometri l'ora. Clifford aveva Burden tutto per sé, ora, e la sua espressione era un misto di serenità e di follia. Aveva ottenuto ciò che voleva, e a pensarci bene, era una cosa agghiacciante. Clifford era in vena di parlare, non taceva un istante, e gesticolava con quelle sue mani sporche di sangue che già avevano macchiato la vernice della porta di Burden, quelle mani dalle dita rosicchiate nere di sangue rappreso, e di tanto in tanto se le rimirava con aria compiaciuta. Aveva già raccontato a Burden ciò che aveva combinato e, a modo suo, gli aveva spiegato il motivo che l'aveva spinto a farlo. Ma dopo che ebbe terminato, ricominciò dall'inizio, come se fosse orgoglioso della sua impresa. — Mi ha spedito su in soffitta, Mike, con l'idea di rinchiudermi lì dentro come faceva quand'ero bambino. Aveva preso la scusa che occorreva una lampada, perché quella del soggiorno si era rotta, e mi ha chiesto di portarle quella dei nonni. Ma io sono furbo, Mike, e soprattutto sono più intelligente di lei. Sapevo bene che avrebbe preferito starsene seduta al buio, piuttosto che usare la lampada dei nonni. Burden lo guardava con un'espressione che poteva sembrare indifferente. Non per Wexford, che lo conosceva bene, e si rendeva conto di quanto grande fosse la sua esasperazione, benché si sforzasse di controllarsi. — La verità è che voleva impedirmi di vedervi. Quando mi ha detto di avervi telefonato per dirvi che non dovevamo più incontrarci, ho visto rosso. Ma non gliel'ho detto, non gliel'ho fatto capire, non ho fatto commenti. Sono salito su in soffitta come un bambino obbediente. Ancora non sapevo che cos'avesse in mente, mi scervellavo per capirlo. Mi sono accorto che mi seguiva, e mi sono chiesto: "perché sale in soffitta anche lei, se mi ha mandato di sopra a prendere la lampada? Se doveva salire, tant'era che la portasse giù lei". — E allora — l'interruppe Burden, facendo uno sforzo su se stesso per parlare — tu che cos'hai fatto, Clifford? — era la domanda a cui Clifford aveva già risposto precedentemente, mentre si trovavano ancora nell'anti-
camera di Burden, dopo che questi gli aveva recitato i suoi diritti con voce strozzata. — Non era la stanza dov'ero rinchiuso quella volta, quando il signor Carroll ha dovuto buttare giù la porta a spallate — continuò Clifford, con lo stesso tono confidenziale. — Quella porta, non l'abbiamo mai fatta riparare, quella della stanza dei ritratti. Stavolta, mi trovavo in quel locale dove ci sono i mobili delle camere da letto. — Avvicinò la testa a quella di Burden. — Sapete a quale stanza mi riferisco, vero? — gli domandò sottovoce. Donaldson frenò bruscamente, trovandosi a un tratto un camion di fronte. Era un camion mastodontico, che trasportava gru e altri macchinari per l'edilizia. Lentamente, il convoglio passò oltre. Avevano superato Sundays Park, e ora percorrevano la strada semiabbandonata che conduceva soltanto alla proprietà di Carroll e alla casa dei Sanders. In quella nebbia, le due case non si vedevano. Ormai dovevano essere quasi' arrivati. Donaldson frenò un paio di volte, si rimise in marcia. Clifford non aveva guardato fuori dal finestrino neppure una volta. Aveva Burden accanto, e ciò gli bastava. — Dentro, c'erano tutti quei materassi — riprese — le coperte, i copriletti e tutto il resto. Penso che ve la ricordiate, quella stanza. C'era anche la lampada, proprio come aveva detto lei. È furba, non parla mai a vanvera, non dimentica i particolari. Ma stavolta ha commesso un errore. La spina della lampada era diversa da quelle che si usano oggigiorno, un tipo antiquato, privo del filo della terra. Era una situazione così assurda, che mi sarei messo a ridere, se il momento non fosse stato così grave, così delicato. Donaldson, chissà come, aveva capito di essere arrivato a destinazione. Voltò a sinistra, e si udì un rumore di ghiaia sotto le ruote. Ora s'intravedeva la facciata della casa dei Sanders, l'edera che la ricopriva quasi interamente. Clifford girò la testa, ma la vista della sua casa lo lasciò indifferente. — Si è fermata alle mie spalle, senza far rumore, ma io sapevo che stava arrivando. Strano, Mike, vero? È un tipo pieno di misteri, è come se avesse il viso coperto da una maschera, e come tutte le persone misteriose, cammina adagio, si muove come un fantasma. Ma io la conosco bene, e sapevo che cos'aveva intenzione di fare. Era talmente ovvio... Ha posato una mano sulla maniglia per sfilare la chiave. Ero lì, con la lampada in mano... — Forza, Clifford — l'interruppe Burden. — Siamo arrivati. L'aria era umida e fredda. Wexford s'incamminò verso la porta. Il dottor
Cracker stava scendendo dalla seconda auto, insieme con Prentiss, l'incaricato sul luogo del delitto, e un fotografo nuovo, che Wexford non conosceva. Clifford non si staccava da Burden, che gli stava vicino tanto da sfiorarlo. Se l'avesse toccato, Mike avrebbe trattenuto a stento un grido di raccapriccio. Era già abbastanza impressionante, il fatto di avere il vestito sporco di sangue. Se ne sarebbe sbarazzato, vi avrebbe dato fuoco. Wexford chiese a Clifford la chiave di casa. Per tutta risposta, Clifford si rivoltò la tasche del giubbotto e dei pantaloni. Erano vuote. Aveva lasciato la chiave della Metro nel cruscotto dell'auto. Che fine avevano fatto le altre? — Mi saranno cadute da qualche parte. Devo averle perdute. Forse saranno qui in giardino. Tra l'erba bagnata, o magari in strada, davanti alla casa di Burden. Wexford prese una decisione. — Buttiamo giù la porta. Non questa, è troppo pesante. Quella posteriore. Girarono intorno alla casa in lenta processione. Le torce elettriche di Archbold e Davidson illuminavano la porzione di giardino sul retro della casa fino al muro di cinta, e nient'altro era visibile oltre il muro. I raggi di luce puntarono contro la porta di servizio, solida ma non massiccia e pesante quanto quella di legno di quercia dell'entrata principale. Davidson era il più atletico dopo Wexford, e anche il più giovane di tutti, ma fu Burden a farsi avanti e a dare una spallata alla porta. Sentiva la necessità di dare sfogo in qualche modo alla sua energia. Occorsero due tentativi perché la porta cedesse. Clifford scoppiò in una risata, e continuò a ridere anche mentre scavalcavano il battente sfondato e il vetro rotto. Per lui, quella barriera abbattuta era il simbolo della libertà conquistata, avrebbe detto Olson. A questo pensava Wexford, mentre accendeva la luce. Fu quasi un sollievo, vedere il locale illuminato, sia pure debolmente, dato che la signora Sanders tendeva a risparmiare al massimo l'elettricità. Dentro faceva più freddo che fuori. Sembrava che fosse entrata in casa la nebbia. Burden pensò alla volta in cui la signora Sanders si era affrettata a chiudere la porta, appunto per evitare che entrasse la nebbia. — Vuoi smetterla di ridere? — disse a Clifford. Clifford si fece serio immediatamente. — Scusatemi, Mike. Salirono di sopra, Wexford in testa. Forse per incuria, o per spilorceria, l'impianto elettrico non prevedeva che si potesse accendere la luce del piano di sopra da quello sottostante, e perciò dovettero salire praticamente al
buio, prima di poter girare l'interruttore del pianerottolo. Salita la prima rampa di scale, imboccarono la seconda, molto più stretta, che portava su in soffitta. In cima alla seconda rampa non si vedeva altro che buio. Wexford allungò una mano per farsi dare la torcia da Archbold. Il debole raggio di luce illuminò una porta socchiusa, di fronte alla scala. L'interruttore era più avanti, nel corridoio oltre il pianerottolo. Wexford distolse deliberatamente lo sguardo dalla porta socchiusa, finché la luce non fu accesa; poi entrò nella stanza, seguito da Burden, da Clifford e dagli altri. Accese la luce nella stanza, e soltanto allora si decise a guardare. Dorothy Sanders giaceva supina su uno dei materassi. Benché piccola e magra, era stata una donna di ferro, ma nelle sue vene era scorso il sangue esattamente come nelle vene di qualsiasi altro essere umano, e ora sembrava che fosse uscito quasi tutto dal suo fragile corpo. Il viso e la testa erano un ammasso di sangue, carne, materia cerebrale e ossa. Intorno a questo ammasso confuso c'erano i capelli, completamente inzuppati di sangue, e dello stesso colore rosso scuro era tinto il materasso. Accanto al corpo, non scagliata lontano ma posata su un comodino, c'era una lampada stile art nouveau, lo stelo composto da un giglio che nasceva dalla base della lampada, il paralume di seta lacerata in più punti. Quella lampada avrebbe fatto la felicità di quelli della Scientifica: la base era incrostata di sangue misto a capelli, e la seta del paralume, un tempo verde, era diventata marrone scuro. Tra i presenti, Clifford era l'unico non abituato a vedere scene simili a quella, ed era anche l'unico che sorridesse. Era molto tardi. Avevano fatto tutto, sbrigato tutte quelle che il sergente Martin chiamava "le formalità"; ma l'idea di tornare a casa non aveva ancora sfiorato né Wexford né Burden. Quest'ultimo aveva l'espressione di chi ha appena assistito a una scena orripilante. Burden non riusciva a darsi pace. In piedi nell'ufficio di Wexford, ne evitava lo sguardo. Teneva la testa bassa e si premeva le dita sulle tempie. — È meglio che ti siedi, Mike. — Lo so, tra un minuto dirai che non è stata colpa mia. — Non sono né uno psichiatra, né un filosofo. Come faccio a sapere queste cose? Burden si mosse, si avvicinò a una sedia, camminando con le mani dietro la schiena, ma rimase in piedi. — Se solo l'avessi lasciato in pace... — Non terminò la frase.
— Per essere esatti, era lui che non ti lasciava in pace. Era inevitabile che tu l'interrogassi, e non potevi certo prevedere come sarebbe andata a finire. — Sì, ma se non l'avessi respinto, quando voleva parlarmi... Buffo, vero? Prima era lui che non voleva parlare con me, poi io che non volevo parlare con lui. Pensi che avrei potuto evitare tutto questo, Reg, se gli avessi dato la possibilità di parlarmi ancora? — Vorrei che ti sedessi. Non so che cosa vuoi sentire da, me Mike. La verità nuda e cruda, o qualcosa che ti consoli? — La verità, naturalmente. — Allora, probabilmente la verità è (capisco quanto sia duro accettarla), ma la verità è che quando hai respinto Clifford, per usare la tua stessa espressione, lui ha avvertito la necessità di fare qualcosa per attirare la tua attenzione. E per attirare l'attenzione di un poliziotto, che cosa c'è di meglio se non diventare un assassino? Non dimentichiamo che Clifford, dopo tutto, non è sano di mente, e che le sue reazioni non sono normali. Ha ucciso la madre per impedirle di rinchiuderlo in quella stanza, è vero, ma avrebbe potuto ottenere lo stesso risultato con sistemi meno drastici. Era più forte di lei. Poteva sopraffarla, rinchiudere lei in quella stanza. E invece l'ha ammazzata, per attirare la tua attenzione. — Lo so, me ne rendo conto. L'ho capito subito, mentre eravamo lì dentro. Ma aveva già ucciso in precedenza. Perché non l'ha ammesso, di avere assassinato Gwen Robson? Se ci teneva ad attirare la mia attenzione, in questo modo ci sarebbe riuscito di sicuro. Secondo te... — Burden trasse un sospiro, prese fiato. Si era finalmente deciso a sedersi e stava chino in avanti, aggrappato al bordo della scrivania di Wexford. — Secondo te, è questo che intendeva dirmi quando continuava a insistere per vedermi? Pensi che volesse confessare? — No, non credo. Wexford desiderava porre fine alla conversazione. La domanda successiva che gli avrebbe rivolta Burden era preferibile rimandarla al mattino seguente. Burden era già abbastanza depresso, meglio non dargli altri motivi di sentirsi in colpa. Certo, il mattino successivo bisognava metterlo al corrente, prima che si costituisse il tribunale speciale. — Ti va di bere qualcosa, Mike? — gli domandò. — Ho una bottiglia di whisky nell'armadietto. Non fare quella faccia: non bevo di nascosto, e neppure apertamente, se è per questo. La bottiglia me l'ha data uno dei nostri conoscenti, per tenermi buono, e siccome pen-
savo che potesse tornare utile in qualche occasione, gliel'ho pagata il prezzo corrente. Sei sterline e quarantotto pence, se non sbaglio. — Wexford parlava tanto per dire qualcosa, per evitare argomenti più delicati. — Io però non le voglio — continuò. — Vai a prendermi i nastri degli interrogatori di Clifford, se non ti dispiace, poi ti accompagno a casa. Bevi un goccio, poi ti darò un passaggio. — Non ho voglia di bere. Mi sentirò distrutto, domani mattina. Se solo avessi una giustificazione, per ciò che ho fatto... Se solo potessi dire a me stesso che non c'era altro modo per incastrarlo, se non aspettare che commettesse un altro delitto. Dargli corda, insomma. Secondo te, allora non intendeva affatto confessare? — Non credo proprio, Mike. Andiamo a casa? — Che ore sono? — Quasi le due. Chiusero la porta dell'ufficio, percorsero il corridoio debolmente illuminato. Clifford era al piano di sotto, in una cella. Le celle, al commissariato di Kingsmarkham, erano un po' meno peggio di quelle della maggior parte dei penitenziari. C'erano due coperte sulla branda e una federa azzurra sul cuscino, e un piccolo vano in cui trovavano posto il gabinetto e il lavandino. Uscendo dall'ascensore, Burden diede un'occhiata da quella parte. Al banco della ricezione c'erano il sergente Bray e l'agente Savitt, intento a cercare qualcosa nello schedario. Wexford augurò a entrambi la buona notte, ma Burden rimase muto. Per la prima volta, le luci dell'albero di Natale erano accese. Burden le aveva notate quando erano arrivati al commissariato con Clifford e gli erano sembrate irreali, avvolte com'erano nella nebbia. Strano che le luci fossero ancora accese, a quell'ora. O si era guastato il meccanismo che ne regolava l'accensione, oppure si erano dimenticati di spegnerle. Prima apparivano i rossi, i blu e i bianchi per quindici secondi, poi i gialli, i verdi e i rosa, poi restavano accesi tutti insieme, e infine tornavano a brillare i rossi, i blu e i bianchi. Ora la nebbia si era un po' diradata, e i colori apparivano più vividi. — Questo significa sprecare i quattrini dei contribuenti — brontolò Burden. — Non ho qui la mia auto — disse Wexford. — Me n'ero dimenticato, con tutto quel putiferio. Si vede che volevo darti un passaggio con la tua auto. — Ti accompagno io.
La città che dormiva sembrava una città abbandonata, come se gli abitanti fossero scappati tutti, lasciando qualche luce accesa. — Ancora non riesco a capire come abbia fatto a ucciderla — mormorò Burden, mentre imboccavano Eastbourne Road. — Gwen Robson, intendo. Clifford doveva trovarsi nel parcheggio alle sei meno un quarto, e quando lei è scesa per prendere l'auto e andarsene a casa, l'ha uccisa. Deve averlo fatto per un impulso improvviso, senza premeditazione, un'idea folle che gli è balenata nella mente in quel momento. Comunque, adesso ci dirà tutto. Wexford stava per obiettare quanto fosse assurdo pensare che un giovane come Clifford possedesse un ferro da maglia circolare, e l'avesse a portata di mano in quell'istante, quando improvvisamente un gatto, sbucato fuori dal giardino dei Whitton, sfrecciò in strada, passando davanti all'auto e costringendo Burden a frenare di colpo. Il gatto s'arrampicò su un muretto, e da lì saltò su un albero. — Maledette bestiacce! — sbottò Burden. — In questi casi, non si dovrebbe frenare, non bisognerebbe dar retta all'istinto. Pensa se avessi avuto una macchina, dietro. Sarebbe successo un incidente, per colpa di uno stupido gatto. Senti, Reg, quella Rosemary Whitton dev'essersi sbagliata. Ho preso per buone le sue parole, ma è stato un errore, avrei dovuto verificare. Wexford sospirò. — L'ho fatto io. — Che cosa? Sei stato tu a prendere per buone le sue parole, intendi dire? Comunque, sta di fatto che ha preso un granchio, e così pure il tizio del negozio di vini. Rosemary Whitton deve aver visto Clifford dieci minuti prima di quanto crede, e lui se n'era già andato, quando lei ha urtato il parchimetro. Ha sbagliato. In buona fede, ma ha sbagliato. Erano passati davanti alla casa dei Robson e a quella di Dita Jago e ora erano davanti a casa di Wexford. Le luci erano tutte spente. Dora dormiva da un pezzo. Wexford si sganciò la cintura di sicurezza. — Senti, riparliamone domattina, d'accordo? Dopo avere salutato Burden si trascinò faticosamente di sopra e si buttò sul letto, esausto; ma si svegliò di colpo irrimediabilmente, e capì di avere davanti a sé lunghe ore insonni. Il mattino successivo, non appena fosse tornato al commissariato per prepararsi a far comparire Clifford davanti ai magistrati, avrebbe dovuto rivelare a Burden la verità. Avrebbe dovuto dirgli che aveva verificato la dichiarazione di Rosemary Whitton. Non solo aveva parlato con il gerente del negozio di vini e con i tre inquilini che abi-
tavano sopra, ma anche con il vigile, sopraggiunto per constatare i danni causati al parchimetro. Mentre parlava con Rosemary Whitton, il vigile aveva visto Clifford allontanarsi a bordo della Metro rossa. Erano le sei meno cinque. 19 Dorothy Sanders non aveva mai divorziato dal marito. L'aveva appurato Davidson a seguito delle sue indagini. Né era stata costretta a lavorare a maglia o di cucito, per mantenere se stessa e il figlio, secondo vecchie tradizioni letterarie. In tutti quegli anni, Dorothy aveva attinto il denaro necessario per vivere dal conto corrente intestato a lei e al marito. Ora che lei non c'era più, la polizia aveva avuto dalla banca tutte le informazioni possibili. Il denaro che affluiva nel conto corrente era frutto degli investimenti di Charles Sanders, in massima parte obbligazioni. Da diciott'anni a quella parte, cioè da quando marito e moglie si erano separati, soltanto Dorothy aveva prelevato soldi dal conto corrente. Dall'atteggiamento del direttore, Wexford capì che all'interno della banca nessuno aveva mai fatto caso a questa stranezza. Il direttore, un tipo contrario alle moderne tecnologie, attribuiva la colpa di tanta disattenzione al fatto che ormai il lavoro della banca era svolto quasi interamente dai computer. Wexford era stupefatto al pensiero che Dorothy fosse riuscita a mantenere il segreto per tutti quegli anni. Pur non mettendo in dubbio che Clifford fosse figlio di Charles Sanders, cominciò a sospettare che Dorothy e Charles non si fossero mai sposati. Dalle indagini effettuate in tal senso, risultò che effettivamente i due si erano uniti in matrimonio. La cerimonia era stata celebrata nella chiesa di St.Peter's, a Kingsmarkham, nell'ottobre del 1963. Clifford era nato nel febbraio del '66. Wexford si fece portare ad Ash Farm, e insistette perché Burden l'accompagnasse. Non era stato facile convincere Burden che Clifford non era responsabile del primo omicidio, ma alla fine aveva dovuto arrendersi all'evidenza dei fatti, e allora si era acuito il suo senso di colpa. Gli appariva chiaro, e Wexford non poteva negarlo, che la morte di Dorothy Sanders era stata provocata dal suo rifiuto di rivedere Clifford. Per un po', Burden rimase in silenzio. — Credo che dovrò dare le dimissioni — annunciò a un tratto. — Santo cielo, ma perché?
— Se è vero, com'è vero, che sono stato capace di spingere un uomo a uccidere, allora significa che non sono adatto a lavorare nella polizia. Il mio dovere consiste nel prevenire il crimine, non nel provocarlo. — Allora, secondo te non avresti dovuto sottoporre Clifford a interrogatorio? Benché sospettassi che fosse stato lui a uccidere Gwen Robson, avresti dovuto ignorarlo perché era uno squilibrato, che avrebbe potuto avere reazioni anomale? — Non ho detto questo. Dico solo che, dopo averlo interrogato, non avrei dovuto piantarlo in asso di punto in bianco. — Cioè, avresti dovuto continuare a parlare con lui, giorno dopo giorno, è questo che vuoi dire? Per quanto tempo? Settimane, mesi? E il tuo lavoro? E il tuo equilibrio psichico? Come disse Caino: "Sono forse io il custode di mio fratello?" Burden preferì interpretare la frase, forse retorica per lo stesso Caino, in senso letterale. — Be', sì, forse sarei dovuto esserlo. E la risposta di Dio a Caino, qual è stata? — Dio non ha risposto niente, neanche una parola — replicò Wexford. — Su, Mike, piantala con questa sciocchezza delle dimissioni. Piuttosto, vieni con me sul luogo del delitto. In macchina, Burden rimase seduto accanto a Wexford senza aprire bocca. Era una giornata né fredda né calda, con il cielo pallido e un sole incerto che a tratti compariva all'orizzonte. Le vetrine di High Street erano splendenti, come ogni anno nel periodo prenatalizio. Davanti al Barringdean Centre faceva bella mostra di sé un enorme albero di Natale, dono di una cittadina tedesca che nessuno aveva mai sentito nominare e che, si scoprì, era gemellata con Kingsmarkham. Attraverso un altoparlante, la Tesco annunciava che all'interno si potevano acquistare regali di Natale per tutti i componenti della famiglia, e ricordava che mancavano solo nove giorni alla festività. ' — A proposito, perché stiamo andando ad Ash Farm? — domandò Burden. Erano già in vista della casa, le cui finestre spuntavano tra l'edera che ne rivestiva la facciata. C'erano due auto della polizia, e un agente in divisa ai piedi della scala. — Veramente, non pensavo di entrare — mormorò Wexford. — Non mi avevi detto che saremmo venuti sul luogo del delitto? Wexford non rispose. Ricambiò il saluto dell'agente Léonard, e rimase assorto nei suoi pensieri. Nonostante lo spettacolo raccapricciante che gli si era presentato davanti la sera precedente, stentava a credere che Dorothy
Sanders fosse morta, che quella sua voce metallica fosse stata messa a tacere per sempre. Vedendo i resti di un fuoco nel caminetto, pensò che tra un attimo sarebbe comparsa. Ma no, se gli fosse apparsa sarebbe stata un fantasma, e lei aveva paura dei fantasmi, del buio e della nebbia che s'infiltrava in casa. Seguito da Burden e da Donaldson, Wexford girò intorno alla casa. Non aveva mai visto la parte posteriore del giardino. Burden ci era andato da solo, il giorno della perquisizione in casa Sanders, quando aveva trovato la sua versione di garrotta nella baracca degli attrezzi. Strano posto per installare una baracca, proprio a ridosso del muro di cinta. Per raggiungerla, bisognava attraversare un bel pezzo di terreno, e d'inverno sia la terra sia l'erba sono sempre bagnate, anche se non ha piovuto di recente. I piedi affondavano nel terreno molle. Dorothy Sanders aveva trascurato il giardino almeno quanto la casa, ma se non altro aveva ottenuto che si presentasse ordinato, benché spoglio. C'erano poche piante coltivate, di cui si stentava a riconoscere la specie, in quella stagione. Gli alberi più alti avevano subito potature drastiche, e i rami nuovi erano cresciuti con strane angolazioni. Il cielo si era tinto leggermente di rosa, segno che il sole stava tramontando. Tra poco sarebbe scesa l'oscurità. Mancavano nove giorni a Natale, sette giorni e sette notti al solstizio, un giorno solo all'appuntamento di Sheila in tribunale. Quelle giornate così corte, che terminavano a metà del pomeriggio, gli impedivano di fare progressi. La natura dettava legge, per ora, tanto più che Wexford non sapeva se valesse la pena di spendere la cifra occorrente per mettere in funzione potenti riflettori. Arrivato in fondo al giardino vide, in lontananza, il tetto di quella che doveva essere Ash Farm Lodge, seminascosta da una fila di cipressi. — Vorrei che mi presentassi il signor Carroll. Tornarono in macchina, ripercorsero l'ultimo tratto di strada e scesero dall'auto. Con un sibilo, un maschio di fagiano si alzò in volo dalla siepe, agitando le ali poco adatte al volo. Si udì uno sparo, seguito da un secondo. — È Carroll — disse Burden. — Ora che Kingsmarkham si è urbanizzata, a volte tendiamo a dimenticare che abitiamo in campagna. Il cane di Carroll gli andò incontro. Avanzava adagio. Forse era pauroso, oppure guardingo e si preparava ad attaccare. Wexford allungò la mano verso di lui. — Non toccatelo! — intimò una voce. Il fattore apparve con una lepre intorno al collo e due pernici nella mano
sinistra. — Il signor Carroll? — domandò Wexford. — Sono l'ispettore capo Wexford, del Criminal Investigation Department di Kingsmarkham. Credo che conosciate già il mio collega, ispettore Burden. — Sì, è stato qui una volta. — Possiamo entrare in casa? — A che scopo? — domandò Carroll. — Desidero parlarvi. Se non volete farci entrare in casa potete venire con noi al commissariato. Per noi è indifferente. Decidete voi, come preferite. Il cane li precedette in casa, a testa bassa, con la coda tra le gambe. Carroll gli fece un verso strano, una specie di ringhio più adatto a un cane che non al suo padrone. Quello doveva essere l'ordine di andare a cuccia, e l'animale obbedì immediatamente, acciambellandosi sul suo lettino e posando la testa sulle zampe. Carroll appese al suo posto il fucile automatico, si sfilò gli stivali e li piazzò sul foglio di giornale spiegazzato che stava sulla cucina a gas, quello stesso numero di Kim che Burden aveva già notato la volta precedente. Dalla lepre e dalle pernici sgocciolava sangue che colava nel lavandino. Sul tavolo erano sparse carte, estratti conto della banca, libretto degli assegni, registri dell'IVA e fatture stropicciate. Wexford, sapendo che il padrone di casa non l'avrebbe invitato ad accomodarsi, si sedette su una sedia e fece segno a Burden d'imitarlo, mentre Carroll era intento a infilarsi le pantofole. — Dov'è vostra moglie, signor Carroll? — domandò Wexford. — E a voi che cos'importa? — Carroll si avvicinò ai due poliziotti, ma rimase in piedi. — E la tizia che stava in fondo alla strada, che è morta, ed è stato quel deficiente del figlio a farle la pelle. Occupatevi di questa faccenda, mettetelo in galera per il resto dei suoi giorni, e così avrete abbastanza da fare, e non vi resterà il tempo di occuparvi dei fatti miei. — Corre voce che vostra moglie vi abbia piantato — disse Wexford. Per un attimo pensò che il fattore stesse per balzargli addosso. Per spiacevole che potesse essere, gli avrebbe fornito un pretesto per arrestarlo. Ma Carroll abbassò le mani e fece un passo indietro, stringendo i pugni. Wexford decise di alzarsi ugualmente, tanto più che la sua statura superava quella di Carroll. La cucina stava diventando buia. Wexford si avvicinò all'unico interruttore che c'era nel locale. Si accese una luce violenta. Carroll batté le palpebre.
— Se n'è andata circa sei mesi fa, vero? Verso la fine di giugno? — se Carroll non voleva rispondere, non poteva costringerlo. Cambiò tattica. — Parlatemi del vostro vicino, Charles Sanders. Lo conoscevate? Abitavate qui, quando c'era lui? Carroll emise un ringhio come quello che gli era servito per mandare a cuccia il cane. — Era morto suo padre — disse finalmente. — Se l'è svignata il giorno dopo il funerale. Perché me lo chiedete? — Non siete voi che dovete interrogare la polizia, Carroll — intervenne Burden. — Siamo noi che dobbiamo interrogarvi. Altro ringhio. Era quasi divertente. — Non è più tornato — riprese Wexford. — Non è mai tornato a trovare il figlio, né si è preoccupato di provvedere al loro mantenimento. Ha lasciato la madre alla mercè della moglie, che non ha perso tempo a rinchiuderla in un istituto per persone anziane. Sarò franco con voi, signor Carroll, e mi auguro che facciate altrettanto. Sono passati diciott'anni da quando Sanders se n'è andato. Voi eravate sposato da poco, eravate appena venuto ad abitare in questa casa. Io non credo che se ne sia andato. Credo piuttosto che sia morto. Voi che cosa ne pensate? — Come faccio a sapere che cos'è successo? Non sono affari miei. — E vostra moglie? Qual era la sua opinione in proposito, signor Carroll? Lei sapeva, vero? In un modo o nell'altro, aveva scoperto la verità sul conto dei Sanders. È venuta a dirvelo, o si è tenuta la scoperta tutta per sé? Chissà, forse l'ha confidato a una sola persona. — Quale persona? Con quell'ultima frase, Wexford non aveva inteso dire niente di speciale, ma Carroll vi lesse un'insinuazione che evidentemente non gli piacque. Divenne paonazzo. Rimase fermo dov'era, ma si capiva che tramava qualcosa. Burden si alzò, spinse indietro la sedia. Fu come un segnale. Carroll agguantò il fucile, l'imbracciò e lo puntò contro i due poliziotti, da una distanza di circa un metro e mezzo. — Posate il fucile — gli intimò Wexford. — Non fate sciocchezze. — Vi do tempo un minuto per andarvene. Ora avrebbero potuto trarlo in arresto, pensava Wexford. Carroll, dalla posizione in cui si trovava, aveva la possibilità di vedere l'orologio a muro senza distogliere lo sguardo dai poliziotti. Dal suo lettino, il cane osservava la scena con un occhio solo. Era un linguaggio che conoceva: il fucile puntato, la preda che stava per soccombere. Quando mi piegherò in due, con una pallottola nella pancia, pensò Wexford, forse mi afferrerà per il
collo per riportarmi al suo padrone. Burden guardò verso la porta, come se sentisse dei rumori. — Sta arrivando Donaldson — disse. Era un trucco, e per fortuna funzionò. Carroll voltò la testa, e Wexford gli mollò un cazzotto alla mascella. Mentre Carroll cadeva, dal fucile partì un colpo, e lo sparo echeggiò come l'esplosione di una bomba. Il fucile gli sfuggì di mano. Pezzi d'intonaco si staccarono dal soffitto. C'era fumo, odore di polvere da sparo, e il cane si mise ad abbaiare con violenza. Poi Donaldson arrivò davvero. Lo si sentì correre sul vialetto. La porta si spalancò. — Tutto bene, signore? Che cos'è successo? — Non immaginavo di essere così forte — rispose Wexford. Gli venne la tentazione di dare un colpetto a Carroll con la punta della scarpa, ma ci ripensò e l'afferrò per le spalle. Carroll gemette, la testa gli ricadde in avanti. — Immagino che non abbiamo un paio di manette in macchina, vero? — Credo di no, signore. — Allora, bisognerà farne a meno. Ma non credo che ci darà del filo da torcere. Carroll era un uomo robusto, e dovettero mettercisi tutti e tre insieme per caricarlo in macchina. Chiusero il cane in cucina e Donaldson, che amava i cani, gli mise accanto una ciotola d'acqua fresca e la lepre. — Era il modo migliore di buttare all'aria anni di addestramento, in una sola mezz'ora — disse allegramente. Nell'ufficio di Wexford erano sparsi oggetti di vario genere, che in tribunale sarebbero stati definiti "reperti". Tra questi oggetti, figuravano il fucile automatico di Carroll, una copia infangata della rivista Kim, un ferro da maglia circolare numero sei, e il contenuto delle tasche della giacca della vittima. Colpiva soprattutto il rossetto scarlatto, e la cipria chiara, che probabilmente era stata messa in commercio per una clientela più giovane, sul tipo di Lesley Arbel. C'era poi un libretto degli assegni intestato a C.L. Sanders e D.K. Sanders. In un periodo di due anni, Dorothy aveva prelevato mensilmente dalla sua banca la modesta somma di cento sterline. Davvero poco, ma negli ultimi due anni madre e figlio avevano tirato avanti con lo stipendio di Clifford. Quel mattino, i magistrati di Kingsmarkham l'avevano rinviato a giudizio sotto l'accusa di omicidio, decretando che restasse sotto custodia fino al
giorno del processo. Anche Burden ormai si era convinto che non era stato Clifford a uccidere Gwen Robson. L'aveva visto salire sul furgone che doveva portarlo al carcere preventivo di Myringham; dopodiché, lui e Wexford si erano diretti verso Ash Farm e non avevano più parlato di lui. Ora, Burden entrò nell'ufficio di Wexford. — Sai, pensavo che avrei dovuto presentarmi davanti ai magistrati e fare una dichiarazione in cui ammettevo la mia parte di responsabilità. Insomma, la parte che ho avuto nella prodezza di quel poveraccio. Poveraccio, lo chiamava lui. Lui, che aveva sempre sostenuto che la pietà doveva essere riservata alle vittime? Wexford era intento a leggere una lettera che sembrava procurargli grande soddisfazione. Fece una smorfia, udendo a un tratto un rumore sordo e ripetuto che pareva provenire dalle viscere del palazzo. Alzò la testa e guardò Burden, irritato. — Mi sono comportato male fino in fondo, nei suoi confronti — si lamentò Burden. — Avrei dovuto ammettere pubblicamente la mia responsabilità. — Ti saresti coperto di ridicolo. Immagina i commenti di quella che un tempo si chiamava la stampa, e oggigiorno per qualche oscura ragione si chiama mass media... Scusami un momento. — Il telefono stava squillando. Wexford alzò il ricevitore. — Sì, sì, grazie — disse. — La registrazione l'avete nel computer, vero? Potrei avere uno stampato? Sì, certo. Manderò qualcuno a ritirarlo prima che chiuda la biblioteca. A proposito, a che ora chiudete? Alle diciotto e trenta? Manca ancora un'ora. Bene. Grazie della collaborazione. — Che cos'è questo baccano? — Burden aprì la porta, tese le orecchie. Si rivolse a Wexford. — Che cos'era quella telefonata? — L'alibi di una donna. Mi è stato confermato. E tra non molto riceverò la conferma di un secondo alibi, anche se ormai è praticamente cosa fatta. Ti ricordi di quella tempesta che abbiamo avuto verso la metà del mese scorso? Quella che ha interrotto le linee telefoniche di Sundays e Ash Lane? — Mi giudichi un idiota, vero? Lo so, faccio la voce grossa, ma sotto sotto sono un debole. Clifford mi faceva paura, lo sai? Quando si è presentato a casa mia, avevo paura ad aprirgli la porta. — Però l'hai fatto. — Mi chiedo perché mi sono ostinato tanto. Perché mi sono fissato che fosse lui l'assassino, benché le prove tendessero a escluderlo? — Se non altro, c'è di buono che adesso l'ammetti. — Il tono di Wexford
sembrava annoiato. — Che cosa vuoi che ti dica? Qualsiasi cosa aggiunga, suonerebbe come se ti facessi pesare che ti avevo avvertito. Una cosa potrei dirtela, e cioè: "Ti serva di lezione". Scommetto che saresti contento, se te lo dicessi. — Wexford si alzò, si avvicinò alla finestra, guardò fuori. Sull'albero di Natale si accendevano a intermittenza le luci colorate. Il cielo era scuro ma sereno, una cupola blu costellata di stelle. — Mike, sono convinto che se non l'avesse uccisa ieri, l'avrebbe fatto ugualmente, un giorno o l'altro. Domani, o la prossima settimana, o tra un anno. L'omicidio è contagioso. Ci hai mai pensato? Clifford ha ucciso sua madre perché era lì a portata di mano, perché lo ostacolava e anche... be', per attirare la tua attenzione. Ma forse l'ha uccisa perché gli era entrata quell'idea in mente, perché aveva capito, se così si può dire, che si può uccidere. Aveva visto una donna assassinata, e all'inizio l'aveva scambiata per la madre. O forse, aveva sperato che si trattasse di lei. Può darsi. Comunque, l'idea si era fatta strada nel suo cervello. Se altri potevano uccidere, era in grado di farlo anche lui. Una specie di contagio. — Lo credi davvero? — l'espressione di Burden era speranzosa. — Sinceramente? — Domandalo a Olson, vedrai che te ne darà senz'altro conferma. Andiamocene a casa, Mike. E intanto che scendiamo, sentiamo un po' come va il nostro prigioniero. Il telefono squillò di nuovo mentre erano sulla porta. Wexford tornò indietro per rispondere. La voce dall'altra parte del filo era così chiara, che la sentiva anche Burden a tre metri di distanza. — Ho Sandra Dale in linea. — Non importa — disse Wexford al telefono — ormai non mi serve più. — Restò un attimo in ascolto. — Non mi stupisce — continuò. — Ormai non la troviamo più. Dopo che ebbe ringraziato e salutato, scesero dabbasso. L'agente Savitt li informò che Carroll, rinchiuso nella cella precedentemente occupata da Clifford, ora si era messo tranquillo. Il dottor Crocker era andato da lui e gli aveva offerto un sedativo, che stranamente Carroll aveva accettato. Prima di quel momento, aveva minacciato di spaccare tutto, ma si era accontentato di sollevare la branda e di farla ricadere a terra con ritmo cadenzato. — Non avete sentito il fracasso che faceva, signore? — Ho l'impressione che lo sentissero fino al Barringdean Centre. Burden si fermò appena fuori dalla porta girevole. — È strano, come si possa mettersi un'idea in testa e credervi ciecamente, senza mai un'ombra
di dubbio. E poi magari, a una settimana di distanza, si capisce di avere sbagliato e si stenta a credere di essersi potuti ostinare a tal punto. Viene quasi da dubitare di essere sani di mente. È ciò che sta accadendomi in questo momento. — Ho freddo — disse Wexford. — Non mi va di restare qui fuori. — Già, hai ragione, scusami. Che cosa stavi leggendo, poco fa? Wexford salì in macchina. — La lettera che cercava Lesley Arbel, la stessa che cercava Sandra Dale e il sottoscritto. Finalmente è saltata fuori. — Non vuoi dirmi che cosa c'è scritto? — No — rispose Wexford, chiudendo la portiera. Abbassò il finestrino a metà. — L'avrei fatto, ma ormai è troppo tardi, hai perduto il treno. Te lo dirò domani mattina. — Sogghignò. — Ti racconterò tutto, domattina. Si allontanò, mentre Burden seguiva l'auto con lo sguardo, chiedendosi che cosa significasse esattamente quel "ti racconterò tutto domattina". 20 Burden scese al secondo livello del parcheggio e fermò l'auto il più vicino possibile al punto in cui era stato rinvenuto il cadavere di Gwen Robson, quasi un mese prima. I posti per le auto erano quasi tutti occupati, e così sarebbe stato fino al giorno di Natale e anche oltre, in occasione delle svendite di fine stagione. Serge Olson fu il primo a scendere dall'auto. Era arrivato al commissariato proprio mentre loro due stavano uscendo, per sapere se gli sarebbe stato consentito di andare a trovare Clifford nel carcere preventivo. Wexford l'aveva invitato ad andare con loro. Ora, al posto della Escort di Gwen Robson e della Lancia blu dei Brook, erano posteggiate una Opel Kadett e una Ford Granada. Arrivò una Vauxhall, alla ricerca di un posto libero, ma siccome non ce n'erano, proseguì verso il terzo livello del parcheggio. Non c'era in giro nessuno. — In questi ultimi giorni — disse Wexford — ci siamo occupati poco di Gwen Robson. Non è stata lei la prima vittima, ma in compenso è stata la prima di cui siamo venuti a conoscenza, quella che ha attirato la nostra attenzione e fatto sì che ci occupassimo del caso. — Burden lo guardava con aria interrogativa. Wexford scosse la testa. — È stata assassinata perché se l'è voluto, a forza di ricattare il prossimo. E come ricattatrice, era piuttosto ingenua. Se la prendeva con le persone sbagliate. Probabilmente tentava di giustificarsi ai suoi stessi occhi,
ripetendosi che lo scopo per cui le servivano i quattrini era nobile: quei soldi le servivano per il marito, perché potesse sottoporsi al trapianto di cui aveva bisogno. Se avesse aspettato che l'intervento si facesse attraverso la mutua, sarebbero trascorsi anche tre anni, e nel frattempo il marito avrebbe potuto restare immobilizzato per sempre. Per pagare l'intervento chirurgico occorrevano tre o quattromila sterline, degenza compresa. Al momento della sua morte, era riuscita a metterne da parte circa milleseicento. — Wexford guardò Olsen, poi l'agente che gli faceva da autista. — Entriamo nel centro commerciale, d'accordo? Era una di quelle rarissime giornate di dicembre in cui si aveva l'impressione che fosse aprile; mancavano soltanto i germogli sui rami degli alberi, per completare l'illusione. Le bandiere sulle torrette del Barringdean Centre sventolavano allegramente, sospinte dalla brezza, e il cielo era d'un azzurro brillante punteggiato da qualche nuvola che sembrava di bambagia. Usciti dall'ascensore, rimasero un attimo abbagliati dalla luce. — Come ti ho già detto, Mike — riprese Wexford — Lesley Arbel procurava alla zia le fotocopie delle lettere indirizzate a "Zia Bontà", la rubrica del giornale Kim di cui Lesley è una collaboratrice. Gwen Robson si divertiva a leggere certe confidenze un po' scabrose, ma ciò che la interessava maggiormente erano le lettere inviate al giornale da persone che abitavano in questa zona. Stavano percorrendo la passerella coperta che li avrebbe condotti all'entrata principale. — Non so come abbia fatto a venirle in mente l'idea di ricattare la gente — riprese Wexford — ma comunque era un'idea che poteva fruttare bene. Poteva capitarle di leggere notizie compromettenti sul conto di qualcuno dei suoi clienti, ma in questo caso le sarebbe stato difficile procurarsi le prove, e quindi sarebbe stato tutto inutile. Aveva tentato con altri mezzi d'intascare quattrini, per esempio facendo strani lavoretti per i suoi clienti, ma poi i vecchietti che la pagavano per certi favori erano morti. E inoltre, le era andata buca anche con Eric Swallow, non essendo riuscita a fargli redigere il testamento a suo favore. Non le restava che il ricatto, e per metterlo in atto, doveva scoprire i segreti di quelle donne che, non trovando il coraggio di confidarsi con qualcuno di loro conoscenza, preferivano rivolgersi a un ascoltatore anonimo, come la "Zia Bontà" di una rivista femminile. "Tra le tante lettere, due in particolare avevano attratto l'attenzione di Gwen Robson, sia per il contenuto, sia per gli indirizzi del mittente. La prima lettera era stata spedita da Margaret Carroll di Ash Farm Lodge, Ash
Lane, Forbydean, e l'altra... Ecco, siamo a metà tra la Tesco e il British Home Stores. Preferite che andiamo a prenderci un caffè al bar, oppure un sano succo di frutta da Demeter?" L'unico a preferire il succo di frutta era Olson, che si arrese subito e si fece portare un caffè decaffeinato. — Per un certo periodo — riprese Wexford — i ricatti le hanno fruttato un po' di soldi. Le due vittime, in cambio del suo silenzio, sborsavano i quattrini. Non certo grosse cifre, perché non potevano permetterselo. La storia dev'essere continuata così per qualche settimana, forse per qualche mese. E ora, siamo arrivati al giorno fatidico, il 19 novembre, un giovedì, alle quattro e mezzo del pomeriggio, ora in cui al Barringdean Centre affluisce circa la metà della popolazione di Kingsmarkham. Gwen Robson arriva alle quattro e mezzo, posteggia l'auto al secondo livello ed entra al centro commerciale probabilmente dalla stessa parte da cui siamo entrati noi. Sappiamo esattamente che cos'ha acquistato, anche se ignoriamo in quale ordine, e possiamo solo cercare d'indovinare quanto tempo abbia trascorso semplicemente guardando le vetrine. Però sembrerebbe logico desumere che abbia iniziato il suo giro dal British Homes Stores, dove ha comperato le lampadine, e successivamente sia entrata da Boots, per acquistare il borotalco e il dentifricio. A questo punto, saranno state all'incirca le cinque. "Helen Brook si trova nel negozio di Demeter, qui attiguo, per acquistare le sue capsule alla calendula. Vede la signora Robson attraverso la vetrina, la riconosce, le viene in mente ciò che le ha detto tempo addietro a proposito dell'opportunità di non avere figli, e decide di farsi vedere per mostrarle che è incinta. A questo punto, sopraggiungono le doglie, ed Helen Brook deve rinunciare al suo proposito. Intanto, aveva visto Gwen Robson intenta a conversare con una donna giovane ed elegante. Chi conosciamo noi, che possa corrispondere alla descrizione di Helen Brook? Lesley Arbel, naturalmente. Lesley, la nipote dei Robson, che quel pomeriggio, come sappiamo, si trovava a Kingsmarkham. "L'assassino era in possesso di un ferro da maglia circolare, che come sappiamo ha utilizzato per commettere il delitto" continuò Wexford, dopo aver bevuto il suo caffè. "Ma non è detto che questo ferro sia stato acquistato dall'assassino stesso. Può darsi che l'abbia comperato la signora Robson nel negozio delle lane, poco prima d'imbattersi nella giovane donna con cui si è trattenuta a conversare. E che innocentemente abbia mostrato il ferro all'assassino. C'è un particolare che pareva difficile da spiegare, e
cioè quale motivo ha spingo Lesley a venire a cercare la zia al centro commerciale, quando l'avrebbe vista comunque il giorno successivo. Voleva farsi restituire le fotocopie delle lettere, essendosi pentita di avergliele date. Ecco spiegato il motivo della sua presenza qui. "Lesley Arbel è una narcisista, una che si preoccupa soltanto del suo aspetto e dell'impressione che fa alla gente. La mia descrizione è giusta, Serge?" — Direi di sì — rispose Olson. — Il narcisismo è una forma eccessiva d'amore nei confronti di se stessi. Il lato spirituale è praticamente inesistente, e ne consegue una certa dose di disadattamento. Una persona affetta da narcisismo rimane bloccata nel suo sviluppo psicosessuale in uno stadio infantile, in cui l'oggetto sessuale è rappresentato dalla sua stessa persona. Vi risulta che questa ragazza abbia amiche, o corteggiatori? — Può darsi, ma non ci risulta. L'unica persona che le piacesse davvero, pare che fosse la zia. Come pensate che abbia potuto accadere, visto che i narcisisti, come ci avete spiegato, se ne infischiano del prossimo? — Forse questa zia funzionava da specchio. Gwen Robson era più vecchia di lei e probabilmente non era bella, ma ammirava sinceramente la nipote, l'adulava, forse si vantava di essere sua zia. Stando così le cose, era l'unico tipo di "amicizia" che Lesley potesse tollerare. La zia aveva la funzione di riflettere come uno specchio l'immagine meglio riuscita della nipote. Moltissime ragazze hanno questo tipo di rapporto con le loro madri, e il profano tende a ritenere che sia il rapporto ideale. — Penso proprio che le cose stessero così — disse Wexford. — Comunque, Lesley ci teneva al suo lavoro, aveva molta paura di perdere il posto. Tanto per cominciare, oggigiorno è difficile trovare lavoro, e inoltre, se nell'ambiente si fosse saputo che aveva commesso una simile scorrettezza, trovare un altro posto sarebbe stato ancora più difficile. Lesley ne era convinta, e per quanto ne so io, credo che avesse ragione. Dunque, voleva farsi restituire a tutti i costi quelle fotocopie, e voleva anche accertarsi che non ne esistessero altre. — E allora, secondo voi avrebbe assassinato la zia per questo motivo? — domandò Olson, aggrottando la fronte. — No, non l'ha fatto — rispose Wexford. — Soltanto dopo aver saputo che era morta, ha cominciato a preoccuparsi seriamente per quelle fotocopie, e ha messo sottosopra la casa dello zio, nel tentativo di recuperarle. Per quanto ne sappiamo, Gwen Robson non aveva l'abitudine di lavorare a maglia. In casa sua, non abbiamo trovato niente che potesse servire allo
scopo. E Lesley Arbel non è certo il tipo capace di apprezzare un simile passatempo. Quindi, né la zia né la nipote hanno acquistato un ferro da maglia, il pomeriggio in questione. Lesley, poi, non ha neppure messo piede nel centro commerciale. È vero, si trovava qui a Kingsmarkham, ma era venuta a controllare la sua iscrizione al corso di semantica, esattamente come lei ha dichiarato. Mi sono rivolto alla British Telecom, da cui ho saputo che effettivamente quel giorno a Sundays i telefoni erano fuori uso, a causa dei cavi danneggiati dal vento la sera precedente. Lesley non è riuscita a mettersi in contatto telefonicamente, e perciò è venuta di persona. Poi, sistemata la cosa che le stava a cuore, è andata direttamente alla stazione e ha preso un treno per Londra. A quell'ora, la zia non si era ancora mossa da casa. — Ma Helen Brook l'ha vista — obiettò Burden. — No, ha visto una donna giovane ed elegante, Mike. Erano circa le cinque. A quell'ora, Clifford Sanders era a metà della sua seduta nel vostro studio, Serge: E Dita Jago, dove si trovava? Fin dall'inizio, mi sono sempre interessato a quella donna. Di tutti i possibili indiziati, era l'unica che avesse in casa almeno una dozzina di ferri da maglia circolari di varie misure. Poteva essere una delle persone ricattate da Gwen Robson, chissà, forse per il suo passato ad Auschwitz. Quel pomeriggio, come sappiamo, la figlia l'ha lasciata alla biblioteca pubblica, probabilmente in compagnia delle nipotine. A meno che l'alibi non fosse un'invenzione delle due donne. Forse Dita Jago ha lasciato che la figlia entrasse da sola al centro commerciale, preferendo restare in macchina giù nel parcheggio. — Chi mai potrebbe aver voglia di restare in macchina in un parcheggio sotterraneo? — Una persona come Dita Jago forse l'avrebbe fatto volentieri, Mike. Soprattutto avendo a disposizione un lavoro a maglia, oppure un libro da leggere. Ora, supponiamo che Gwen Robson, dopo essersi congedata dalla giovane donna elegante, chiunque ella fosse, sia entrata nel supermercato della Tesco, abbia preso il carrello e abbia iniziato a fare la spesa. Linda Naseem, la cassiera, sostiene di averla vista verso le cinque e venti, forse anche più tardi. Probabilmente erano quasi le cinque e mezzo. Di nuovo, è stata vista in compagnia di una ragazza, che stavolta però era di spalle. Può darsi che si trattasse della stessa ragazza di prima, può darsi di no. Di lei, sappiamo soltanto che era snella e che aveva un berretto in testa. A quell'ora, Serge, Clifford aveva quasi terminato la seduta nel vostro studio; dopodiché si sarebbe rifugiato nella sua auto a meditare. — Wexford fece una
pausa. — Vogliamo uscire a fare quattro passi? — Pagano i contribuenti? — domandò Olson, gettando un'occhiata allo scontrino da pagare. — Perché no? — replicò Wexford, facendo strada verso l'uscita. Quel giorno, il Mandala era decorato con altre Stelle di Natale disposte in cerchio, e il cerchio successivo con piante grasse. — Mandala — mormorò Olson. — Solo a uno schizofrenico poteva venire in mente un'idea simile. In sanscrito, mandala significa cerchio. Nel buddismo tibetano, il vocabolo designa un oggetto rituale, o mantra. A proposito di cerchi, a Wexford venne fatto di pensare al ferro da maglia che aveva ucciso Gwen Robson, poi gli venne in mente il suo sogno, quello in cui gli apparivano cerchi colmi di disegni geometrici. — L'ordine in cui sono disposti i cerchi — stava dicendo Olson — dovrebbe compensare il disordine, lo stato di confusione in cui si trova la psiche. Può essere un modo di tentare di guarirsi da soli. Si soffermarono qualche istante davanti al negozio delle lane. Quel giorno, erano esposti solo canovacci per il ricamo a piccolo punto. Gli aghi da maglia e le matasse di lane erano stati ritirati. — Continuate, Reg — disse Olson. — Gwen Robson parla con la ragazza col berretto, sistema la spesa in due borse ed esce dal centro commerciale, passando dalla porta del supermercato, cioè circa duecento metri a sinistra della passerella coperta. Da lì arriva al parcheggio, poi scende con l'ascensore al secondo livello. Erano circa le sei meno venti, non più tardi. "Dita Jago, seduta nell'auto della figlia, la vede arrivare e decide di cogliere l'occasione al balzo. Sfila il ferro dal lavoro a maglia, scende dall'auto, arriva alle spalle di Gwen Robson, intenta ad aprire la portiera della Escort, e la strangola con l'arma improvvisata". — Pensi che sia andata davvero così? — domandò Burden, mentre entravano nel supermercato. Prese un cestello, temendo di fare cattiva impressione girando a mani vuote, e giunse al punto di acquistare un lucido da scarpe in confezione spray. — Con quella roba, contribuisci a distruggere lo strato di ozono — osservò Wexford. — Per colpa tua, la terra sarà avvolta in una schiuma nera, e solo perché ci tieni ad avere le scarpe lucide, narcisista che non sei altro. — Si rifece serio. — No, non credo che sia stata Dita Jago a uccidere Gwen Robson. Anzi, so per certo che non è lei l'assassina. La bibliotecaria di High Street l'ha vista in biblioteca dalle cinque meno dieci alle cinque e
mezzo, in compagnia delle due bambine. Controllava alcuni dati per l'autobiografia che sta scrivendo, esattamente come sosteneva. La bibliotecaria si ricorda di loro, perché le bambine continuavano a chiedere che ora fosse, invece di leggere, e a un certo momento è stato necessario zittirle. Dita Jago ha portato via tre libri, come risulta dalla registrazione sul computer della biblioteca. Burden portò il suo lucido da scarpe alla cassa di Linda Naseem, che non diede segno di riconoscerlo. La porta del supermercato si aprì al loro avvicinarsi, e un attimo dopo erano all'aperto, sotto il sole. C'era una panchina, là fuori, e una striscia d'erba che divideva il centro dal parcheggio di superficie. Wexford prese posto in mezzo, con Olson alla sinistra e Burden a destra. — Torniamo alle fotocopie di quelle lettere — riprese Wexford. — Mi rendevo conto che il tenore di quelle lettere doveva essere di un genere un po' particolare, non certo il tipo di lettera che scrive una ragazzina, se il fidanzato vuole convincerla a dargli la "prova d'amore". Lettere, insomma, che nemmeno di questi tempi la rivista Kìm si azzarda a pubblicare. Me ne ha fornito un esempio la segretaria di "Zia Bontà", raccontandomi di una tizia che voleva sapere quante proteine contiene il liquido seminale. — Dici sul serio? — domandò Burden, sconcertato. — No, stai scherzando. — Magari avessi tanta immaginazione, Mike — replicò Wexford con una risata. — Comunque, una cosa l'ho capita subito, e cioè che fine avevano fatto quelle lettere. L'assassino le ha sottratte dalla borsetta di Gwen Robson, dopo averla uccisa. Quella che riguardava l'assassino stesso, e anche l'altra. Delle due, una era stata scritta da Margaret Carroll, che però Gwen Robson non aveva mai ricattato, non avendone motivo. E così, passiamo all'altra lettera. "Mia figlia Sylvia mi ha procurato i numeri vecchi della rivista Kim, usciti nell'arco di quattro anni, cioè circa duecento copie del giornale. Quando ho cominciato a scorrere le pagine di "Zia Bontà", non cercavo una lettera. Cercavo invece una risposta, perché quando l'argomento è molto scabroso o comunque delicato, il testo della lettera non viene pubblicato. Speravo, attraverso le scarne informazioni che precedono la risposta per dar modo all'interessata di riconoscersi, di riuscire a individuare la persona che aveva inviato la lettera. "Tra le iniziali di nomi, ce ne sono di comuni e d'insolite. Le mie iniziali, per esempio, RW, sono piuttosto comuni, e così pure le tue, Mike, MB.
Se si dovesse leggere 'MB, Kingsmarkham', non sarebbe possibile capire che si tratta di te. Le vostre iniziali, Serge, sono molto meno frequenti: SO è una combinazione abbastanza rara. Ma quella che cercavo io, era ancora più strana della vostra." Wexford fece una pausa. "Be', comunque l'ho trovata. Guardate un po' qui". — NQ, Sussex — lesse Burden a voce alta. — Capisco, il tuo problema e mi rendo conto della sua gravità. Se esiste la minima possibilità che l'uomo di cui parli possa essere un portatore di AIDS, devi farti vedere al più presto dal tuo medico. Così, sottoponendoti alle opportune analisi, potrai metterti l'animo in pace una volta per tutte. È inutile lasciarsi tormentare dai rimorsi, inutile vergognarsi. Renditi conto, piuttosto, che ritardare il momento della verità può mettere in pericolo tuo marito, il tuo matrimonio, la vita stessa di chi ti sta vicino. Con tanti auguri che tutto si sistemi per il meglio, Sandra Dale. — Nina Quincy? — domandò Burden, non appena ebbe terminato di leggere. — La figlia di Dita Jago? — Questa lettera, che naturalmente non è stata pubblicata, è stata però fotocopiata da Lesley Arbel, che l'ha mostrata a Gwen Robson. Sull'originale, naturalmente, figuravano nome, cognome e indirizzo. Gwen Robson ha capito subito di chi si trattava: aveva avuto modo di conoscere Nina Quincy a casa della signora Jago, quando era alla ricerca di due persone disposte a firmare in calce al testamento di Eric Swallow. Nina le era stata presentata, e il nome decisamente insolito doveva esserle rimasto impresso nella mente. Nina Quincy abita in una grande casa di Down Road, e possiede un'auto tutta per sé. A una donna come Gwen Robson, doveva sembrare ricca, la persona ideale da ricattare. "Per un certo periodo, presumo che Nina abbia pagato. Ha un lavoro part-time, e probabilmente consegnava a Gwen Robson la maggior parte dello stipendio. Potete immaginare quanto doveva essere preoccupata. Per lei, dev'essere stato tremendo. Il marito era all'estero per lavoro, lei era andata a una festa, aveva bevuto troppo e aveva trascorso la notte in compagnia di un tale che, aveva scoperto in seguito, era bisessuale e conviveva con un uomo ammalato di AIDS. Non aveva il coraggio di rivolgersi a un medico, anche perché il marito era tornato a casa per un breve periodo e, presumibilmente, avevano normali rapporti sessuali. Non ho letto la sua lettera, perché la copia non esiste più e l'originale sembra sparito, benché generalmente le lettere dei lettori vengano conservate per un periodo di tre anni.
"Il 19 novembre Nina Quincy, che ancora non si era decisa a consultare un medico e men che meno a informare il marito dell'accaduto, benché la risposta alla sua lettera sia stata pubblicata nel numero di maggio della rivista, è venuta come ogni giovedì al Barringdean Centre, dopo avere lasciato madre e figli in biblioteca. Erano le cinque meno cinque. Il primo negozio in cui è entrata è stato quello delle lane, dove ha acquistato il primo oggetto della lista della spesa di sua madre, ossia un ferro da maglia circolare numero otto. Non era la prima volta che comprava un ferro del genere per conto della madre. "Uscita dal negozio, si è imbattuta in Gwen Robson a poca distanza dal Mandala. E qui, ci siamo cascati in pieno. Non ci ha neppure sfiorato il sospetto che lo standard dell'eleganza, dal punto di vista di Helen Brook, poteva essere molto diverso dal nostro. A Helen Brook probabilmente non sarebbero piaciute le gonne a tubo e i tacchi a spillo di Lesley Arbel. Ma Nina Quincy era vestita secondo i suoi gusti: un pullover lavorato a mano con molti colori, un berretto da cui spuntavano i capelli lunghi fino alla schiena, forse uno scialle, e una gonna stile contadina. Vedete come mi sono documentato? Che cosa può aver detto Nina Quincy a Gwen Robson? Forse ha tentato di convincerla a non pretendere altri soldi, ma evidentemente non vi è riuscita. Gwen Robson avrà replicato che quel denaro le serviva per un motivo molto serio, e che se Nina non era disposta a pagare, avrebbe dovuto evitare di comportarsi in quel modo vergognoso. Gwen era il tipo di donna capace di dare una risposta del genere. "Se avete finito di crogiolarvi al sole, possiamo andare a guardare il loro albero di Natale, per vedere se è più bello del nostro, e poi ci tufferemo di nuovo nel sotterraneo". — State per caso dicendoci — domandò Olson — che Nina l'ha pedinata mentre faceva la spesa? Mi sembra ridicolo. — Non è detto che l'abbia pedinata. Avrebbe potuto fare in modo di raggiungerla alla cassa. Diciamo che le due donne si sono trovate di nuovo dopo aver pagato, e hanno parlato ancora un po'. Dalla sua posizione, Linda Naseem ha visto Nina Quincy solo di spalle. Sono uscite separatamente dal supermercato, per incontrarsi ancora, per la terza volta in quel pomeriggio, giù al parcheggio. — Quelle luci bianche sono un po' fredde, non ti sembra? — gli domandò Burden. — Preferisco l'effetto arcobaleno del nostro albero. I tre uomini si erano fermati sotto l'albero. Un cartello annunciava che Babbo Natale sarebbe stato a disposizione dei bambini, a partire da marte-
dì 22 dicembre. Wexford ricordò improvvisamente che proprio quel giorno Sheila doveva comparire in tribunale. Doveva essere uscita da qualche ora, e ormai se n'erano andati anche i fotografi e gli operatori cinematografici della televisione. Forse l'esito del processo era già su tutti i giornali, e anche la sua foto. Sheila non era il tipo da coprirsi il viso con le mani o con il bavero della giacca. Al contrario, ci teneva che la vedessero tutti, il paese intero doveva sapere... Wexford s'incamminò, seguito da Burden e da Olson. — Non ci è dato di sapere con certezza che cos'è accaduto a questo punto — riprese Wexford. — In ogni modo Nina Quincy, avendo sistemato la faccenda e sentendosi un po' più tranquilla, si è messa al volante della sua auto, è andata a prendere la madre e le figlie e le ha portate a casa. Non ci sarebbero stati più ricatti, Gwen Robson non l'avrebbe più tormentata. Ora però le restava un'altra cosa da fare. Adesso che il primo problema era risolto, doveva andare dal suo medico e mettersi d'accordo per le analisi. "Finalmente si è decisa, e il risultato del test era negativo. Non aveva più niente da temere, e sapeva che il marito era un tipo vendicativo. Eppure, quando lui le ha confessato una sua scappatella, è stata tanto stupida da raccontargli tutta la storia, e lui l'ha piantata". Al di là del cancello, in Pomeroy Road, c'era Archie Greaves seduto come sempre alla finestra. Wexford alzò una mano in segno di saluto, pur sapendo che il vecchietto non sarebbe riuscito a vederlo, e comunque non l'avrebbe riconosciuto. Ma Archie agitò la mano, salutandolo come avrebbe fatto un qualsiasi altro cliente del centro commerciale. I tre infilarono la porta dell'ascensore, scesero al secondo livello. Un'auto passò un po' troppo veloce, spruzzando in giro l'acqua di una pozzanghera. Un'auto rossa, naturalmente. — Non c'è l'avevi detto, che è stata lei a sottrarre le lettere dalla borsetta di Gwen Robson — osservò Burden. — Per forza, non è stata lei a prenderle. — Ma allora, chi... — Una volta presa la sua decisione, Nina Quincy non aveva più niente da temere da quella lettera. Aveva già informato Gwen Robson, quando si erano trovate all'interno del centro commerciale, che poteva smetterla di ricattarla, poiché ormai aveva deciso di andare dal medico e di confessare la sua colpa al marito. Ora lo spazio occupato dalla Escort dei Robson era rimasto vuoto, e così pure quello della Lancia blu. Burden si fermò al centro, con le braccia lar-
ghe e i piedi divaricati, uno a destra e l'altro a sinistra della riga bianca. E con la voce resa stridula dall'esasperazione, chiese a Wexford di spiegargli per quale motivo, allora, Nina Quincy aveva assassinato Gwen Robson. 21 Rimasero fermi qualche istante nel punto in cui era stata uccisa Gwen Robson. — Sai, Mike — disse Wexford — credo che tu non ti sia soffermato a riflettere su lato più raccapricciante di questo delitto. Poche persone sarebbero state capaci di commettere un omicidio di questo genere. Prova a immaginarti nei panni dell'assassino, che si avvicina alla vittima con l'intenzione di strangolarla. La vittima cerca disperatamente di difendersi, si divincola, scalcia, fa tutto il possibile per salvarsi. Chi può mettersi in testa di uccidere un essere umano in questo modo atroce, se non uno dei tuoi cari psicopatici? — Veramente, mi sembrava strano che un tipo come Nina Quincy potesse essere stata capace di tanto — osservò Olson. — Ma io non sono un poliziotto, e certe cose non posso saperle. — Quando ho affermato che Nina Quincy, avendo sistemato la faccenda, si sentiva un po' più tranquilla — riprese Wexford — mi riferivo alla sua decisione di neutralizzare Gwen Robson e di consultare un medico. Naturalmente, non è stata lei a ucciderla, anche se chissà quante volte le sarà venuta la tentazione di farlo. Per poter arrivare alla biblioteca di High Street entro le cinque e mezzo, deve aver lasciato Barringdean Centre al massimo alle cinque e venti, e noi sappiamo che Gwen Robson non è morta prima delle cinque e trentacinque. L'odore acre della benzina indusse Wexford ad arricciare il naso. — Se vogliamo salvare i nostri polmoni, sarà bene tornare in macchina. Prima di andare avanti con il nostro racconto, sarà bene prendere in esame altri due personaggi, cioè Roy e Margaret Carroll. Sappiamo già che la moglie del fattore era l'autrice della seconda lettera. Una donna che aveva una coscienza, ed è andata su tutte le furie quando ha scoperto che la sua vicina di casa aveva l'abitudine di castigare il figlioletto, rinchiudendolo in una stanza della soffitta, al freddo e al buio. — Sapete di chi stiamo parlando? — domandò Burden a Olson. — I vicini di casa di Clifford e Dodo Sanders. Li avete sentiti nominare? — Clifford mi ha parlato della moglie. Un giorno ha minacciato Dodo
Sanders di denunciarla per maltrattamento di minore. — Esatto. Ma Margaret Carroll era al corrente di un altro segreto che riguardava i Sanders. Un sospetto che le è venuto solo l'estate scorsa. Strano, vero, che proprio l'anno scorso, tra maggio e giugno, siano saltate fuori all'improvviso tutte queste belle cose? La sua non doveva essere una vita facile, con quell'energumeno che si ritrovava per marito. A proposito, ieri sera stava per farci fuori con il suo fucile da caccia. Mike ve l'ha raccontato? Olson aggrottò le sopracciglia. — E adesso dov'è? — Al fresco, dove spero che resterà a lungo. — E la moglie? Che cosa ne è stato di lei? — Se n'è andata l'estate scorsa. Altra cosa accaduta in quel periodo, verso il mese di giugno, credo. Strano che non se ne sia andata prima. Be', no, sto imbrogliandovi, e non voglio farlo. Dunque, sembra che lei l'abbia lasciato. Insomma, è scomparsa dalla circolazione. Clifford è convinto che avesse un altro uomo, e sembra credervi anche il marito. Io invece la penso diversamente. Io credo che Margaret Carroll sia morta, così come è morto Charles Sanders. Un anno dopo che i Carroll si erano stabiliti ad Ash Farm Lodge. Ecco perché non è più tornato a trovare il figlio, ha dato l'impressione di avere abbandonato la propria madre, e non ha contribuito a mantenere il ragazzo. E detto tra parentesi, questo spiega anche il motivo per cui Mike non è riuscito a rintracciarlo. — Andiamocene, se siete d'accordo. Abbiamo rivisto il posto e credo che ora resterà impresso nella nostra mente, in caso avessimo bisogno di ricordare qualche particolare. Burden effettuò l'inversione di marcia e si avviò verso la rampa d'uscita. — È per questo che hai mandato alcuni uomini ad Ash Lane? — domandò a Wexford. — A cercare il corpo di Charles Sanders? — Be', ciò che resta del suo corpo, Mike. È morto da diciott'anni, ormai. Francamente, non so da dove iniziare a cercare Margaret Carroll. Comunque, risolveremo anche questo problema. — Vedete, la signora Carroll ha cominciato a sospettare che Charles Sanders fosse morto, un giorno in cui si trovava alla Midland Bank, e ha visto Dorothy Sanders cambiare un assegno staccato da un libretto intestato a due persone. O almeno, credo che le cose siano andate così, e mi sembra che l'ipotesi non manchi di logica. A quel punto, ha cominciato a porsi qualche interrogativo. Forse ha ripensato alla morte improvvisa e inaspettata del padre di Charles Sanders, seguita a poco tempo di distanza dalla
fuga di Charles. Forse, le è venuto in mente di aver visto scavare in giardino, magari al buio. Comunque, non aveva elementi sufficienti per venire da noi, oppure glien'è mancato il coraggio. Peccato! Se si fosse rivolta alla polizia, forse a quest'ora sarebbe ancora viva. Mentre l'auto svoltava in High Street, Wexford pensò a Sheila e alla prova che aveva dovuto affrontare quel giorno. A quell'ora lei o qualcuno incaricato da lei doveva avere già telefonato a Dora. Comunque, avrebbe trovato la notizia relativa al processo sul giornale della sera. I giornali di Londra arrivavano a Kingsmarkham verso le tre del pomeriggio, e ora erano quasi le quattro. Il sole stava per tramontare, tingendo il cielo di un colore dorato che poi sarebbe diventato rosa e infine avrebbe cominciato a scurirsi. — Mike — disse — ferma l'auto vicino a un parchimetro di Queen Street. Devo comperare il giornale. C'era la foto di Sheila sul giornale. Non sorrideva, non si copriva il volto per proteggersi dai fotografi. La sua espressione era seria, grave. La foto era stata scattata mentre usciva dall'aula, e non occorreva molta perspicacia per capire dove stava andando e con chi. Wexford non poté fare a meno di leggere il titolo dell'articolo, benché preferisse aspettare di essere a casa per leggere il resto. Il titolo era: SHEILA VA IN PRIGIONE. La didascalia diceva: La protagonista del Segreto di Lady Audley trascorrerà una settimana in carcere. L'uomo che vendeva i giornali, un indiano dalla faccia sorridente e l'espressione gentile, guardava meravigliato quello strano cliente, che prendeva il giornale e si dimenticava di pagarlo. Tossicchiò per attirarne l'attenzione. Wexford mise sul banco due monete da dieci pence, piegò il giornale e se lo ficcò in tasca. Olson e Burden erano scesi dall'auto. Si erano fermati davanti a Pelage. — Venite un momento su da me — li invitò Olson. — Vi preparo una tazza di tè. La scala ripida e stretta ricordava un po' quella che portava alla soffitta di Ash Farm, pensava Burden. Con la differenza che questa non era squallida. Gli venne in mente la prima volta che era andato nello studio di Olson, e aveva visto il poster con il mappamondo e i continenti in rovina, e la frase tremenda di Einstein. Arrivato in cima alla scala, Wexford vide il po-
ster a sua volta, gli tornò in mente Sheila e rabbrividì. Chissà se gli altri se n'erano accorti? Ma in fondo, che cosa gliene importava, se anche l'avevano notato. Olson versava cucchiaiate di polvere nera nelle tazze. Tè istantaneo, spiegò. A Wexford venne da ridere: in un momento grave come quello, come faceva a badare a certe sciocchezze? — Grazie ai tuoi nastri registrati, Mike — disse — sono al corrente di ciò che ti ha detto Clifford. Sperava, ti ha confessato, che sua madre e Roy Carroll potessero mettersi insieme, magari anche sposarsi. Ti ha detto che Margaret Carroll aveva un amante, e che era stata Dorothy Sanders a riferirlo al fattore. Per forza, lei era la vicina di casa, e perciò poteva sapere chi andava e veniva da Ash Farm Lodge quando Carroll era fuori a lavorare nei campi. E nessuno le impediva d'inventare amanti inesistenti. — Carroll è un uomo geloso, possessivo. Dorothy Sanders alimentava la sua gelosia, lo feriva nell'orgoglio, poiché aveva le sue brave ragioni per farlo. Clifford si sbagliava, pensando che Carroll potesse sentirsi attratto da sua madre. Lei gli serviva soltanto per tenerlo informato sull'infedeltà della moglie. Quando sua moglie è scomparsa, Carroll credette di sapere con chi se n'era andata e perché, ma preferiva evitare che anche gli altri sapessero. Questo è il motivo per cui non ne ha denunciato la scomparsa, il giugno scorso. E quando qualcuno, come abbiamo fatto noi, insinuava che la moglie se ne fosse andata con un altro uomo, andava in collera. Burden beveva con gusto il suo tè, come se fosse stato preparato nel modo tradizionale e non con la polverina. — Allora, non è stato Carroll a ucciderla? — domandò. — C'era un'unica persona capace di commettere tutti questi delitti — replicò Wexford — e ormai è fuori dalla nostra portata. Castigo di Dio, se così vuoi definirlo, oppure caso fortuito, o sfortuna, una di queste tre cose l'ha messa in ginocchio. Soltanto Dorothy Sanders avrebbe potuto uccidere il marito, privando un figlio del padre, e una madre del figlio. Soltanto Dorothy Sanders avrebbe potuto trovare il coraggio di strangolare la sua vittima. "Questa è la lettera inviata la primavera scorsa da Margaret Carroll a Kim." Wexford porse la fotocopia a Burden. "Ieri sera sono tornato a Ash Farm, e l'ho trovata nascosta nella cornice di una fotografia, su in soffitta. La foto, incidentalmente, forse raffigurava Charles Sanders con i genitori. Mi chiedo come mai non l'ha bruciata, questa lettera. Forse perché l'aveva indotta a uccidere, e quindi in un certo senso era preziosa. O forse perché
in futuro avrebbe potuto servirle per mostrarla a Clifford o a Carroll. Non lo sapremo mai. Lesley Arbel, non riuscendo a trovare le fotocopie delle due lettere, ha rubato gli originali e li ha distrutti". Burden lesse a voce alta: Cara Sandra Dale, ho un grosso problema e non riesco a prendere una decisione sul da farsi. Sono così preoccupata, che non ce la faccio neanche a dormire. Ho motivo di credere che una mia vicina di casa abbia ucciso una persona della sua famiglia, quasi vent'anni fa. Quella persona era il marito. Non sto a raccontarti che cosa mi ha indotto a crederlo, dopo tanti anni, ma recentemente è accaduta una cosa che mi ha fatto riflettere su certi interrogativi che mi ero posta in passato. Il suocero di questa donna è morto all'improvviso, pur essendo un uomo sano e relativamente giovane. Mio marito non ha simpatia per la polizia, e non approverebbe che mi rivolgessi a loro, non sopporterebbe di essere interrogato e tutto il resto. Non posso fare nomi, in questa lettera. Mi sono occorsi mesi per decidermi a scriverti. Apprezzerei molto il tuo consiglio... Burden guardò Wexford. — Sandra Dale le ha risposto? — Sì, certo. Non attraverso le pagine del giornale, però. Le ha scritto direttamente, per consigliarle di rivolgersi a noi senza perdere altro tempo. Purtroppo Margaret Carroll non ha seguito il consiglio. Aveva troppa paura del marito, evidentemente. E in seguito, Gwen Robson è venuta in possesso della lettera, o meglio della fotocopia che le aveva procurato la nipote. — Come ha fatto a individuare la vicina di Margaret Carroll? — domandò Olson. — Abitava anche lei a Kingsmarkham, conosceva bene la zona e sapeva che i Carroll avevano un'unica vicina di casa. Chissà, forse si ricordava di Clifford, che aveva conosciuto quando lavorava per la signorina McPhail. A quel punto, Gwen Robson ha fatto visita a Dorothy Sanders per ricattarla. I pagamenti potevano essere fatti settimana per settimana, se le era più comodo. Era disposta anche a farsi pagare a rate. In cambio, non avrebbe riferito alla polizia ciò che c'era scritto in quella lettera. Intanto, Gwen Robson aveva già incominciato ad intascare i quattrini di Nina Quincy, che metteva da parte per l'intervento chirurgico del marito.
"Non le importava niente di Margaret Carroll, e non avrebbe fatto differenza, se avesse scoperto che la donna era scomparsa subito dopo che Dorothy Sanders aveva sborsato, diciamo, la prima rata. D'altra parte, era suo interesse stare alla larga da Margaret Carroll che, se fosse stata al corrente di ciò che stava accadendo, forse si sarebbe decisa a venire da noi. Dorothy Sanders non ha sborsato altri quattrini, dopo la prima volta. Quel giovedì pomeriggio, quando si è imbattuta per caso in Gwen Robson al Barringdean Centre, e si è sentita chiedere altri soldi, ha preferito risolvere altrimenti il suo problema, in modo definitivo". — Ma tu stesso non l'hai vista entrare nel parcheggio alle sei e dieci? — obiettò Burden. — Quando l'ho vista io, era la seconda volta che veniva al Barringdean Centre, Mike. — Ed è tornata di nuovo? — domandò Olson. — Dopo aver commesso un omicidio? Perché non se n'è andata a casa per restarvi? — Non era una persona come tutte le altre, la nostra Dodo. L'abbiamo già appurato. Non aveva sentimenti, emozioni, reazioni normali. Questa è la mia interpretazione dei fatti, e non sapremo mai se le cose sono andate davvero in questo modo. Tanto per cominciare, è lei che Linda Naseem ha visto di spalle mentre parlava con Gwen Robson. Era snella, e vista da dietro, poteva sembrare una ragazza. Forse lei e Gwen Robson sono scese insieme al parcheggio, magari discutendo e litigando, oppure la Sanders l'ha seguita. Secondo me, l'ha seguita. Non erano ancora le cinque e mezzo, vedete, e lei non aveva ancora terminato di fare la spesa. "Dunque, sono scese al parcheggio quasi contemporaneamente. Mentre Gwen Robson apriva la portiera della sua auto, Dodo le è arrivata alle spalle e l'ha strangolata con il ferro da maglia che aveva acquistato nel negozio delle lane, dopo essere uscita dal parrucchiere. Sappiamo che è stata in quel negozio, dato che aveva in macchina della lana grigia, se ben ricordi, Mike. Sistemata la faccenda, è tornata al centro commerciale." — Perché? Se aveva intenzione di avvisarci della morte di Gwen Robson, perché non l'ha fatto subito? — Perché doveva finire di fare la spesa, Mike. Aveva l'abitudine di andare al supermercato una volta la settimana, e non voleva rinunciare alla spesa. Doveva ancora comperare il pesce e altre cose. L'abbiamo detto e ripetuto, non era una persona normale. Dodo era speciale, diversa da chiunque altro. Con molta probabilità aveva già ucciso il suocero, poi il marito, presumibilmente con lo stesso sistema della garrotta fatta in casa, e
quindi una vicina. Chissà, forse ha usato lo stesso ferro circolare per confezionare i pullover di Clifford. Meglio evitare gli sprechi. Dunque, è tornata al supermercato e ha finito di fare la spesa. Mancava un quarto d'ora alle sei. Può aver pensato che qualche automobilista di passaggio avrebbe potuto vedere il corpo, perché a quell'ora nel parcheggio c'erano ancora molte auto. Comunque, sta di fatto che nessuno l'ha visto, tranne Clifford, che è arrivato alle sei. Clifford ha pensto che si trattasse di sua madre, e così ha fatto una cosa abbastanza strana, tipica per lui. Ha preso la tenda marrone dal bagagliaio dell'auto, ha coperto il corpo ed è scappato via di corsa. Erano i suoi passi quelli che ho udito, mentre mi trovavo nell'ascensore. Clifford è uscito di corsa dal cancello riservato ai pedoni, e Archie Greaves l'ha visto dalla finestra. "Dodo è tornata indietro alle sei e dieci, e così l'ho vista spuntare dalla passerella coperta, ed è arrivata al parcheggio sotterraneo alle sei e dodici minuti, esattamente come ha detto a noi. Il fatto che mi trovassi qui al Barringdean Centre mi è stato utile solo perché ho potuto vederla. Aveva le due borse della Tesco, ma non il pacco della lana, ecco perché ho capito che era già scesa in precedenza giù al parcheggio. Quando è tornata giù, forse si aspettava di trovare un capannello di gente, o magari anche la polizia. Invece, era rimasto tutto come prima. Tranne che qualcuno aveva coperto il corpo. Chi? Forse un poliziotto, o un automobilista che nel frattempo era andato a cercare aiuto? Una cosa era chiara: a quel punto, non poteva più lavarsene le mani. Al parcheggio c'era la sua auto, ma non Clifford. Se ci fosse stato, probabilmente se ne sarebbero andati senza perdere tempo. Ma Clifford non c'era, e lei non sapeva guidare. Come doveva regolarsi? "E se fosse tornato il proprietario dell'unica auto rimasta, la Lancia blu? Dov'era finito Clifford? Dove era andata a cacciarsi la persona che aveva coperto il corpo di Gwen Robson? Dodo non si era accorta che era stata usata la sua tenda marrone, o meglio una delle tende che aveva su in soffitta. Non sapendo che pesci pigliare, è uscita per andare a cercare Clifford, e in quel momento Archie Greaves l'ha notata per la prima volta. La seconda volta che l'ha rivista, urlava e scuoteva disperatamente il cancello. Le avevano ceduto i nervi, a forza di aspettare, di non sapere quale decisione prendere, di non capire che cos'era accaduto." Olson annuì. Offrì a Wexford dell'altro tè, che il poliziotto si affrettò a rifiutare, poi si passò una mano nei capelli. — Che motivo aveva avuto di uccidere, le prime volte? Nessun motivo, credo. Era psicopatica? Nel suo
interesse, era meglio che il marito restasse in vita. Perché l'ha ammazzato? — Oh, il motivo l'aveva — replicò Wexford. — L'ha ucciso per vendetta. — Di che cosa voleva vendicarsi? — Questo può spiegarvelo Mike. Lui conosce la storia, gliel'ha raccontata Clifford, che la considerava una storia romantica, perché non riusciva a vedere la madre attraverso il velo che le copriva il viso. Per tutta la vita, Dodo Sanders aveva meditato di porre in atto la sua vendetta, contro i Sanders che non la ritenevano all'altezza del figlio, e contro il marito che la pensava come i suoi genitori. — Era una donna che non esitava a uccidere, ma aveva paura delle sue vittime, dopo che erano morte. Si disinfettava le mani per non farsi contaminare, e aveva paura dei fantasmi. Burden e Olson si erano buttati a capofitto in una discussione sulla paranoia, l'infantilismo e il transfert. Wexford rimase ad ascoltarli per qualche istante. — Non si ha mai finito d'imparare nella vita — mormorò Burden, inducendo Wexford al sorriso. — L'importante è vivere — disse Wexford, e se ne andò. Raggiunse a piedi il commissariato ed entrò nella sua auto, posteggiata sotto l'albero di Natale. Rimase seduto al volante, a leggere di Sheila. Lesse la sua dichiarazione, e seppe del suo rifiuto di pagare la cauzione per farsi rimettere in libertà. Nella dichiarazione, Sheila diceva tra l'altro che avrebbe rifatto tutto quanto daccapo, quando fosse tornata libera. Una bella sfida, una bella dimostrazione di coraggio. — Ha telefonato il Capo della Polizia — l'informò Dora quando arrivò a casa. — Vuole vederti il più presto possibile, tesoro. Non è riuscito a trovarti in ufficio. Penso che vorrà parlarti di questa casa. Wexford non la pensava così. Sapeva di che cosa voleva parlargli il Capo della Polizia. Si batté una mano sulla tasca della giacca, e il fruscio della carta del giornale gli parve rassicurante. Senza una ragione precisa, diede un bacio a Dora, che lo guardò con una certa perplessità. — Non credo che starò via molto — disse, ben sapendo che non era vero. Era quasi buio, poco prima delle cinque. Per recarsi a Middleton, dove abitava il Capo della Polizia, Wexford dovette percorrere la sua vecchia strada. Era la prima volta che passava davanti alla sua casa, dal giorno dell'autobomba. Si rese conto di averlo evitato di proposito. Il cielo era di un
blu intenso, e le finestre lungo la strada brillavano di luci natalizie. Preparandosi psicologicamente a vedere la sua casa semidistrutta, Wexford rallentò non appena giunto all'altezza del terreno non edificato confinante con la sua proprietà. Accostò al marciapiede, frenò, guardò. Dal cancello stavano uscendo tre uomini, che si diressero verso un camion su cui c'era una lunga scala. Wexford vide le assi, le scatole di mattoni, la betoniera coperta da un telo come protezione contro il gelo. Scese dall'auto, si guardò intorno. Avevano iniziato a ricostruire la sua casa. FINE