La Donna che Collezionava Segreti
A Michael e Alexander
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La Donna che Collezionava Segreti
A Michael e Alexander
1 In una splendida mattina di maggio romana, con il sole che riluceva attraverso la fitta coltre di smog, dando alla giornata un’aria brillante e pastosa, Flavia Di Stefano se ne stava seduta in macchina, imbottigliata in uno smisurato ingorgo che iniziava in piazza del Popolo e finiva dalle parti di piazza Venezia. Molte persone, perlomeno chi non aveva il suo stesso carattere, non se la sarebbero presa per un simile inconveniente, tanto comune a Roma, e avrebbero invece contemplato ciò che avevano intorno con una sorta di compiaciuta rassegnazione. Non ce n’erano tante, dopotutto, che potessero farsi scarrozzare in città da un autista al volante di una Mercedes con i finestrini rigorosamente oscurati e, per di più, a spese dei contribuenti. Ed erano ben poche quelle che, come Flavia, potevano fregiarsi, in così giovane età, del titolo di capo (anche se solo ad interim) di uno dei più famosi dipartimenti di polizia italiani, con un budget a disposizione oltre allo stipendio e ai rimborsi spese. E, almeno ufficialmente, nessuno dei membri della ristretta casta dei funzionari al vertice dei vari dipartimenti si serviva di un così sontuoso mezzo di trasporto per recarsi a palazzo Chigi, dove, secondo la convocazione arrivata la sera precedente a tarda ora, si sarebbe tenuta una non meglio specificata riunione. Ovviamente era quello il problema, il motivo per cui Flavia era indifferente allo splendore del sole mattutino e provava una sorta di indiscriminato disprezzo. Tanto per cominciare, il colletto le provocava un fastidiosissimo prurito, che le ricordava incessantemente la sua inesperienza e la sua ansia di fare sempre bella figura. Quella mattina, invece di godersi una tranquilla colazione a base di caffè e fette biscottate, aveva dovuto fiondarsi sotto la doccia, per poi cercare l’abito giusto e, cosa peggiore, truccarsi. Dopodiché, in un gesto di ribellione, si era tolta tutto, ma poi, dopo essersi data una calmata, si era rivestita e truccata di nuovo. Quindi, a peggiorare le cose, era rimasta ansiosamente in piedi ad aspettare l’arrivo dell’auto, mentre sbirciava dalla finestra la piazzetta sottostante e continuava a controllare il contenuto della borsetta. Come in un incubo, si immaginava di afferrare al volo la giacca e correre lungo le vie di Roma per arrivare in tempo. Ma un tacco le si rompeva sull’acciottolato e lei si presentava all’appuntamento trafelata e con i capelli in disordine, dando di sé la peggiore impressione possibile. Rovinandosi la carriera solo perché uno stupido autista non si era presentato. E oltretutto non si sentiva bene, aveva lo stomaco in subbuglio e provava un malessere generale. Un qualche virus, probabilmente influenza. O nervosismo. Era vicina a quei giorni, se lo
sentiva. «Flavia, smettila di agitarti a quel modo. Mi stai facendo diventare nervoso.» Jonathan Argyll, suo marito da quattro settimane, dopo essere stato per una decina d’anni il suo fidanzato e convivente, era seduto al tavolo di cucina e cercava di leggere il giornale. «Dopotutto, si tratta solo del primo ministro.» Flavia si era voltata a lanciargli un’occhiataccia. «Non voleva essere una battuta», aveva proseguito lui con calma, prendendo la marmellata di arance prima che lei potesse dirgli cosa ne pensava del suo senso dell’umorismo. «Sappiamo entrambi che sono sempre i portaborse a comunicare le brutte notizie. E poi, di recente non hai combinato nessun guaio, vero? O hai perso un Raffaello, distrutto un Michelangelo, sparato a un senatore o che so io?» Un’altra occhiataccia. «Allora sta’ tranquilla. Non hai nulla di cui preoccuparti», aveva continuato lui, alzandosi a darle un buffetto in segno di incoraggiamento. «Soprattutto ora che la tua auto è arrivata.» Aveva indicato in basso, salutando allegramente con la mano l’autista, una faccia vagamente nota, poi aveva salutato ancor più calorosamente Flavia, che si stava precipitando ad afferrare la borsetta e la giacca. «Cerca di stare calma. Ci proverai?» aveva aggiunto mentre lei apriva la porta. «Lo farò.» Stai calma, si ripeté lei una mezz’ora più tardi, dando per l’ennesima volta un’occhiata al proprio orologio. Imbottigliata nel traffico, quando mancava ancora un chilometro alla meta ed era in ritardo di cinque minuti. Almeno le era passato quello strano mal d’auto che le era venuto prima. Stai calma, pensò di nuovo. È tutta colpa di Bottardi, si disse. Il suo vecchio capo, ormai promosso a un incarico più prestigioso, era una di quelle persone che amavano dissertare sulle leggi universali, opinioni espresse sotto forma di aforismi che tornavano a tormentarti nei momenti meno appropriati. «I politici», aveva detto una volta mentre sorseggiava un bicchiere di brandy alla fine di un lungo pranzo, «ti possono rovinare la giornata. E i ministri, in particolare, l’intera settimana.» «E i primi ministri?» aveva chiesto Flavia. «I primi ministri? Oh, loro ti possono rovinare l’intera esistenza.» Per qualche strano motivo quella battuta le sembrò, ora, un po’ inquietante. Si chiese se non fosse il caso di chiedere all’autista di procedere un po’ più in fretta, ma ci rinunciò. Era un’altra delle regole di Bottardi: non dare mai a vedere il proprio nervosismo, soprattutto agli autisti, che sono notoriamente i peggiori pettegoli del pianeta. Perciò, come un condannato che si rassegna al proprio destino, Flavia si lasciò sfuggire un profondo sospiro, si appoggiò
allo schienale e smise di angosciarsi. Immediatamente i semafori passarono dal rosso al verde, il traffico riprese a circolare, finché non furono in vista di palazzo Chigi. Venne subito autorizzata a varcare i grandi portoni di legno fino al cortile, e in pochi minuti fu condotta, di anticamera in anticamera, davanti all’ufficio in cui Antonio Sabauda, che ormai da nove mesi rivestiva la carica di presidente del Consiglio, dava udienza. Aveva quattordici minuti di ritardo. Ma il suo angelo custode ce la stava mettendo tutta per darle una mano: Sabauda era più in ritardo di lei, che nei successivi quaranta minuti poté finalmente sfogarsi contro la maleducazione dei ritardatari. Infatti, quando la porta infine si aprì e lei fu invitata a entrare, il nervosismo si era dileguato, il timore reverenziale era svanito, lo stomaco si era sistemato e lei era tornata quella di sempre. Entrò in quella stanza sorprendentemente squallida, dandosi della stupida per essersi messa tutto quel rossetto e per essersi preoccupata tanto, strinse la mano al primo ministro senza troppa deferenza e si accomodò su una sedia prima che lui l’invitasse a farlo. Che le importava? Alle elezioni non aveva nemmeno votato per lui. Sulle prime, Sabauda segnò alcuni punti a proprio favore: non fece commenti sulla giovane età di Flavia né sul fatto che era una donna, dimostrando, inoltre, di non voler perdere tempo in chiacchiere. Poi però rovinò tutto, esprimendo la propria sorpresa per il fatto che non si fosse presentato Bottardi in persona. Flavia gli ricordò che al momento era lei, e non il generale Bottardi, a gestire il dipartimento per quanto riguardava le questioni di ordinaria amministrazione. «Però il capo è ancora lui, vero?» «Nominalmente sì. Però non svolge più alcun ruolo attivo nelle nostre operazioni. Si sta dedicando a quell’impresa europea, che assorbe tutto il suo tempo.» «E che sta mettendo a dura prova la sua pazienza», aggiunse il primo ministro, rivolgendole un pallido sorriso. «Capisco. E sono sicuro che con lei, dottoressa, siamo in buone mani. Me lo auguro, quantomeno. Perché temo ci sia un’emergenza. Le spiegherei tutto io stesso, non fosse che non conosco bene i dettagli. Il dottor Macchioli è informato su tutto, ed è appena arrivato. È questo il motivo per cui lei ha dovuto attendere tanto a lungo.» Ma certo, pensò Flavia. Ora tutto era chiaro. Guglielmo Macchioli era una di quelle persone adorabili che combinano disastri ovunque vadano. Mai puntuale nonostante tutti i suoi sforzi, sempre in rotta di collisione con oggetti inanimati che si materializzavano al suo passaggio, era la personificazione dello studioso con la testa fra le nuvole. Ma come esperto era veramente in gamba, almeno stando a ciò che le aveva detto Jonathan, ben più ferrato di lei sull’argomento. E, secondo Bottardi, Macchioli si era
rivelato eccezionale nel ruolo di direttore del Museo nazionale. Una nomina, la sua, avvenuta in un momento molto delicato. Il suo predecessore, un tipo ambizioso, intraprendente, deciso ad ammodernare l’ammuffito museo, era finito in galera. L’imbarazzo era stato considerevole, e Macchioli, il quale non solo non si sarebbe mai lasciato corrompere, ma con ogni probabilità non si sarebbe neanche accorto dei tentativi volti a corromperlo, era sembrato il successore più adatto, date le circostanze. Un uomo onesto, che si ispirava ai vecchi valori della professionalità, della cultura e della preservazione delle antichità. Una persona adorabile, insomma, peccato fosse incapace di difendere il suo territorio dalle incursioni dei burocrati, i quali non vedevano l’ora di tagliargli i fondi, di tirare in ballo potenziali finanziatori o di intromettersi nella gestione del suo caotico museo. E doveva essere anche un uomo infelice, pensò Flavia, a giudicare dall’aria agitata che aveva quando arrivò, mentre cercava di infilare le mollette usate dai ciclisti per fermare i pantaloni nella tasca già stracolma del suo completo trasandato. La faccenda diventava sempre più interessante. Macchioli si sedette e giocherellò con le mani, a disagio, mentre venivano fatte le presentazioni. «Che ne dice di iniziare?» lo sollecitò il primo ministro. «Ah, sì», ribatté Macchioli, con aria assente. «Lei ha un problema da sottoporre alla dottoressa, giusto?» Al direttore del Museo nazionale costò chiaramente uno sforzo titanico vuotare il sacco, quasi temesse che, non appena avesse parlato, ogni sorta di disastro lo avrebbe perseguitato. Dopo essersi dondolato avanti e indietro, aver ingobbito le spalle ed essersi sfregato il naso, esclamò, in un improvviso impeto decisionale: «Ho perso un dipinto. L’ha perso il museo. È stato rubato!» Flavia restò senza parole. Ecco perché era così sconvolto. Brutto affare, la perdita di un’opera d’arte, ma chiaramente il problema era un altro. Accadeva spesso che i quadri sparissero; capitava così di frequente che era stata messa a punto una specifica procedura. Si avvisava la polizia, la quale investigava e faceva quel che doveva, per poi mettere tutto nel dimenticatoio: si dava ragionevolmente per scontato che fosse improbabile ritrovare il dipinto. Niente di eccezionale. A parte il fatto che se ne stava parlando nell’ufficio del primo ministro. «Capisco», disse Flavia per incoraggiarlo, ma il povero Macchioli non intese le sue parole come un invito a proseguire e sprofondò in un altro angoscioso silenzio. «Vede, negli ultimi cinque anni siamo stati impegnati a preparare una mostra», ricominciò lui dopo un po’, avendo evidentemente deciso che era meglio prenderla alla larga. «Per celebrare il semestre di presidenza italiana al Consiglio dell’Unione europea, che inizierà fra quindici giorni. Una mostra
su tutti gli aspetti dell’arte europea, anche se temo che alcune persone...», e lanciò un’occhiata furtiva in direzione della scrivania dietro la quale sedeva il primo ministro, «alcune persone hanno cercato di darle una connotazione nazionalistica.» «Solo un piccolo promemoria del nostro contributo in campo culturale», mormorò orgoglioso il primo ministro. «Ragion per cui è stato un po’ più difficile del previsto ottenere in prestito le opere d’arte», proseguì Macchioli. «Anche se questo non c’entra nulla con il disastro che si è verificato...» Il primo ministro, dimostrandosi più paziente del previsto, sospirò in sottofondo. Ciò servì a distogliere Macchioli dalle proprie divagazioni e a indurlo a concentrarsi sul problema più urgente. «Tuttavia siamo riusciti, alla fine, a ottenere in prestito quasi tutti i dipinti che volevamo. La stragrande maggioranza proveniva da musei italiani, ovviamente, ma parecchi anche da pinacoteche e collezionisti privati di altri Paesi. Molte di queste opere non sono mai state esposte in Italia.» «Ma io tutto questo lo so già», sbottò Flavia, più spazientita del primo ministro. «Sono anni che veniamo coinvolti nei preparativi della mostra, e la settimana scorsa alcuni membri del mio dipartimento hanno scortato il primo invio di dipinti dall’aeroporto al museo.» «Sì. E avete fatto un ottimo lavoro. Niente da recriminare. Siete stati bravissimi. Purtroppo...» «Fra questi dipinti c’era anche quello che è stato rubato?» Macchioli assentì. «Quando?» «Ieri. All’ora di pranzo.» «All’ora di pranzo? E perché me lo dice soltanto adesso?» «Vede, tutto si è svolto in modo molto confuso. Non ero certo di quale fosse la cosa migliore da fare...» «Vuole che spieghi io alla dottoressa com’è andata?» lo interruppe il primo ministro, dopo aver dato un’occhiata all’orologio ed essersi reso conto che, di quel passo, l’incontro sarebbe andato avanti per l’intera giornata, senza che Macchioli riuscisse a spiegare alcunché. «La prego, mi corregga se sbaglio. Mi risulta che il dipinto sia stato rubato verso l’una e mezzo del pomeriggio di ieri. Un uomo incappucciato è piombato con un furgone nell’area del magazzino, minacciando con un’arma gli operai e costringendoli a caricare il dipinto, con tanto di cornice, sul retro dell’automezzo, poi è ripartito a tutta velocità. È andata così?» Macchioli assentì. Flavia, che si stava agitando sulla sedia, aprì la bocca per esprimere un’ovvia protesta per quello spreco di tempo, le tracce ormai perse e via di seguito. «Il suo dipartimento, dottoressa, non è stato contattato perché l’uomo ha
lasciato un messaggio in cui si intimava di non avvisare la polizia.» «Veniva chiesto un riscatto, giusto?» Macchioli si strinse nelle spalle. «Non esplicitamente. Il messaggio diceva soltanto che a tempo debito ne avremmo saputo di più. Ma immagino che alludesse ai soldi.» «È possibile. Di quale dipinto si tratta, esattamente?» «Di Paesaggio con Cefalo e Procri, di Claude Lorrain», rispose Macchioli, con una certa riluttanza. Flavia esitò. «Oh, non mi dica! Quello per cui il nostro governo è intervenuto ufficialmente, garantendone la sicurezza?» Lui assentì di nuovo. Ora capisco perché aveva l’aria tanto sconvolta, pensò Flavia. Non perché si trattasse di un capolavoro, sebbene a lei il Lorenese fosse sempre piaciuto molto. Non era certo un Raffaello, però quel dipinto aveva un passato turbolento. La fama di essere uno dei quadri più rubati al mondo gli conferiva un’importanza che andava ben oltre la qualità dell’opera. Argyll, senza dubbio, avrebbe potuto ricordare i dettagli della vicenda meglio di lei, che la conosceva solo a grandi linee. Il quadro era stato dipinto intorno al 1630 per un cardinale italiano, ma era finito prima nelle mani del duca di Modena che, in seguito a una battaglia, l’aveva trovato in un carro, e poi, alcuni anni dopo, in quelle di un generale francese. Durante la rivoluzione francese era stato rubato e rivenduto, per poi essere requisito da Napoleone nel corso di una scorribanda in Olanda. Nel XX secolo, poi, era stato rubato da alcuni ladri negli anni Trenta, dai tedeschi negli anni Quaranta e di nuovo dai ladri negli anni Cinquanta e Sessanta, finché il proprietario di allora l’aveva venduto al Louvre, nella speranza che il museo riuscisse a salvaguardarlo. E così era stato, almeno finché il dipinto non era arrivato in Italia. «Oh, santo cielo!» esclamò Flavia. «Lei si rende certamente conto del nostro problema», continuò il primo ministro. «Io in particolare mi trovo in una situazione estremamente incresciosa, perché ho garantito personalmente. A parte questo, la mostra doveva essere un fiore all’occhiello della nostra presidenza. Sarebbe un vero guaio se venisse screditata, cosa che accadrà se la notizia del furto verrà divulgata, perché è probabile che i proprietari chiedano l’immediata restituzione delle altre opere da noi ottenute in prestito; ma anche se ciò non avvenisse, la nostra reputazione sarebbe gravemente compromessa. Si figuri cosa direbbero di noi. Faremmo una figuraccia.» Flavia assentì. «Che dire? Non rimane che pagare il riscatto.» «Il guaio è che la legge non lo permette. Lei sa benissimo che in Italia chiunque segua quella strada per riavere indietro la moglie o i figli rapiti commette un reato, perciò come potremmo farlo noi per un semplice dipinto?»
Il silenzio calò nella stanza, come se i due uomini si aspettassero da Flavia una parola risolutrice. «Se ho capito bene, lei, signor primo ministro, desidera che sia io a ritrovare il dipinto.» «In condizioni normali gliene sarei profondamente grato, ma in questo caso, no. Quanti uomini impiegherebbe per una simile indagine?» Flavia ci pensò un attimo. «Tutti quelli di cui dispongo, se lei desidera un risultato rapido, che comunque non sono in grado di garantirle.» «Può almeno garantirmi che i mass-media ne rimarranno all’oscuro?» «Sì, ma per non più di sei ore.» «Proprio ciò che pensavo. E in un caso come questo la segretezza è un elemento vitale. Se anche lei riuscisse nell’impresa e recuperasse rapidamente il dipinto, la nostra reputazione potrebbe comunque subire un grave danno.» «Nel qual caso, le confesso che non so in quale altro modo potrei esserle d’aiuto. Lei esclude il pagamento del riscatto e pretende che io non svolga alcuna indagine. Che cosa vuole da me, esattamente?» «Noi non possiamo pagare il riscatto. Il governo non può autorizzare una cosa simile. Il denaro dei contribuenti non può essere sacrificato. E nessun funzionario pubblico dev’essere coinvolto nel pagamento. Sono stato chiaro?» Lo era stato. Ma Flavia, dopo aver trascorso anni a osservare come Bottardi riuscisse a schivare certi ostacoli, aveva imparato dal suo capo un paio di cosette. «Temo di non aver capito bene. Mi dispiace», rispose dolcemente. «Lei farà del suo meglio per ritrovare il dipinto nella maniera più riservata possibile. Ma io devo insistere categoricamente su un punto: cioè che non posso e non voglio utilizzare fondi pubblici per il pagamento di un riscatto.» «Ah.» «Se però a dare a questi criminali ciò che pretendono fosse un privato, di propria iniziativa, qualcuno disposto a infrangere la legge per quello che lui considera erroneamente il bene comune, ovviamente io non sarei in grado di impedirlo, per quanto la cosa possa dispiacermi.» «Capisco.» «Lei mi terrà informato giorno per giorno sull’andamento delle indagini e riceverà via via istruzioni in merito. Ribadisco comunque la necessità che tutto si svolga nella più assoluta segretezza.» «Così mi lascia poco spazio di manovra.» «Sono sicuro che saprà come cavarsela.» «E se io riuscissi a recuperare il dipinto per altre vie?» «Sarebbe meglio se non lo facesse. Non voglio rischiare che questa storia diventi di dominio pubblico.» Si alzò in piedi. «Per il momento direi che è
tutto. Mi tenga informato dei suoi progressi, se non le dispiace.» Due minuti più tardi, sia Flavia sia Macchioli si trovavano di nuovo nell’anticamera, lei un po’ perplessa sull’intera vicenda e il direttore del museo apparentemente in preda a un profondo sconforto. «Va bene», disse Flavia dopo un po’. «Credo che lei debba fornirmi qualche altra delucidazione a proposito di quanto è successo.» «Eh?» «La rapina, l’uomo armato. Ricorda?» «Sì, sì. Cosa vuol sapere?» «Ha idea di come contattare quell’individuo? Se devo consegnare a lui o ai suoi complici il denaro che pretendono, dovrò pur sapere da che parte cominciare.» Macchioli le rivolse uno sguardo vacuo. «Che cosa intende, con il fatto di consegnare il denaro? Mi pare che le sia stato appena spiegato che non tocca a lei fare una cosa simile.» Flavia sospirò. Il guaio con Macchioli era la sua assoluta ingenuità. Era davvero convinto che l’incontro a cui avevano partecipato poco prima fosse stato organizzato per comunicare a entrambi che non sarebbe stato pagato alcun riscatto. E questo, ovviamente, rappresentava un ulteriore problema. «Non importa. Dimentichi ciò che le ho detto. Nel messaggio non si accennava a come stabilire un contatto?» «No.» «Potrei dare un’occhiata a quel messaggio, per favore?» «È nel mio ufficio.» Sembrava di parlare a un bambino particolarmente ottuso. «Perché non andiamo nel suo ufficio, allora?» «Ecco qui», disse Macchioli quaranta minuti più tardi, dopo un silenzioso viaggio attraverso le vie di Roma. «È piuttosto stringato.» Flavia prese il foglietto, ormai era troppo tardi per preoccuparsi di impronte o di altre prove, e lo scorse. Si trovò d’accordo con il commento di Macchioli: non faceva una grinza. Sei parole soltanto, mirabilmente essenziali. Si appoggiò allo schienale della sedia e rifletté. Le dicevano niente, quelle parole? «Vi farò sapere qualcosa quanto prima.» Scritte e stampate con un computer, ma ormai chi non ne aveva uno? La carta era quella standard, di cui si consumavano ogni giorno miliardi di fogli. No, non le dicevano nulla, o, almeno, nulla che lo scrivente non le volesse far sapere. «Mi parli del furto», chiese, tornando a rivolgere la propria attenzione a Macchioli. Lui scrollò il capo. «Ho poco da aggiungere a quanto le ho già raccontato. Un furgoncino, tipo quello che i commercianti usano per consegnare frutta
e verdura. Un uomo vestito come Leonardo da Vinci...» «Cosa?» proruppe Flavia, allibita. Lui l’aveva detto come se fosse normale vedere ogni giorno aggirarsi nei pressi del museo individui travestiti da pittori rinascimentali o papi barocchi. «Aveva una di quelle maschere da Carnevale. Più una specie di mantello. E la pistola, ovviamente. Vuole darle un’occhiata?» Flavia lo fissò stancamente. In un certo qual modo le sembrava inadeguato prorompere in semplici esclamazioni di incredulità. «La pistola?» «Mentre se ne andava l’ha lasciata cadere. L’ha scagliata, per meglio dire. Sulla testa dell’uomo che l’aveva aiutato a caricare il dipinto nel furgoncino. Dopo aver distribuito in giro i cioccolatini.» «Cioccolatini?» chiese Flavia con un filo di voce. «Sì, scatolette di cioccolatini. Di produzione belga, se non vado errato. Sa, quelle che si comprano in pasticceria. Chiuse da un nastro.» «Certo. E dove sono adesso?» «Che cosa?» «I cioccolatini.» «Le guardie li hanno mangiati.» «Capisco. Uno shock causa senza dubbio un abbassamento dei livelli di zucchero nel sangue. A parte questo, c’è stato qualche atto di violenza?» «No.» «Mi piacerebbe parlare con i magazzinieri.» «È assolutamente indispensabile.» «Cosa intende dire?» «Qualcuno dovrà intimare loro di tenere la bocca chiusa.» «Non ci ha già pensato lei?» «Certo che sì. Ma a me nessuno dà mai retta.» Flavia sospirò. «Molto bene. Mi accompagni da loro, poi potrà farmi vedere la pistola.» Decise di adottare un approccio brutale. Non solo perché era uno di quei giorni e non era dell’umore giusto per andare tanto per il sottile, ma anche perché sapeva che il fatto di essere giovane, e per di più donna, rendeva a volte difficile convincere le persone, in particolar modo chi carica e scarica dipinti, a prenderla sul serio. «Bene», esordì non appena i due uomini si sedettero davanti a lei. «Vi dirò una cosa e non intendo ripeterla. Io sono il capo della squadra che dà la caccia ai ladri d’opere d’arte e sto investigando sul furto di un dipinto. Voi due siete i principali indiziati. Mi sono spiegata?» I due non risposero, ma Flavia, a giudicare dal lieve pallore che apparve sui loro volti, diede per scontato che avessero capito. «Desidero recuperarlo alla svelta, e persone più importanti di me vogliono
che ciò avvenga senza clamore. Se la notizia dovesse filtrare all’esterno, se qualcuno venisse a sapere cos’è accaduto qui, e io scoprissi che i responsabili siete voi due, vi posso assicurare personalmente che: a) finirete in galera per il reato di complicità e favoreggiamento; b) ci resterete per aver contribuito a ostacolare il corso della giustizia; c) sarete licenziati e perderete questo lavoro; e d) farò in modo che nessuno di voi due ne trovi mai più un altro. È tutto chiaro?» Il pallore si accentuò. «Per sfuggire a questa spiacevole prospettiva, non dovete fare altro che tenere la bocca chiusa. Non c’è stato alcun furto, voi non ne sapete niente, ieri non è accaduto nulla di particolare. È possibile che vi riesca difficile stare zitti, ma scoprirete che l’autocontrollo è una buona cosa. Mi sono spiegata bene?» Si complimentò con se stessa per quel discorso, pronunciato con la gelida sicurezza di un autentico apparatchik, capace di chiamare in causa non meglio identificati poteri occulti per instillare nell’innocente il terrore di chissà quali terribili conseguenze. Chiunque avesse un granello di sale in zucca avrebbe capito che era una totale sciocchezza e che lei in realtà non poteva fare proprio nulla, ma i due uomini sembravano troppo ottusi per rendersene conto. C’era solo da sperare che non lo fossero a tal punto da non afferrare il senso delle sue parole. Il che si sarebbe potuto appurare solo nei giorni immediatamente successivi, ma al momento, purtroppo, a essere evidente era la dabbenaggine di quei due, che li rendeva testimoni inattendibili. La loro descrizione del furto fu appena un po’ più dettagliata del breve resoconto che Macchioli le aveva già fatto. Gli unici particolari che seppero fornire erano che il furgoncino era abbastanza grande da contenere il dipinto del Lorenese, che era bianco e di una marca diversa dalla Fiat. Quanto al ladro, era di altezza media e forse (non ne erano sicuri) parlava con accento romanesco. Dopo venti minuti Flavia li lasciò andare, non senza aver prima pronunciato un altro minaccioso avvertimento, poi si recò a vedere la pistola. Macchioli la teneva in quella che considerava la sua cassaforte: un sacchetto di plastica che lui esibì con aria sconsideratamente fiera. «Ecco», disse, posandolo cautamente sulla sua scrivania. «Per fortuna l’arma non ha esploso un colpo quando è atterrata.» Flavia per poco non scoppiò in lacrime. Quando le capitavano giornate come quelle, in cui tutto sembrava andare a rovescio, si chiedeva come trovare la forza per continuare. Tirò fuori un fazzoletto, se ne servì per sollevare la pistola, l’esaminò per qualche istante e infine se la puntò alla testa. «Dottoressa Di Stefano! Faccia attenzione!» strillò Macchioli, allarmato. Lei gli lanciò un’occhiata triste, chiuse gli occhi e, sotto lo sguardo inorridito dell’anziano direttore, tirò il grilletto.
Dalla canna uscì, diffondendosi lentamente nella stanza, quello che in seguito fu identificato da un esperto, nel caso specifico, una segretaria, impiegata nel dipartimento di polizia, che era una fanatica di opera lirica, come una versione allegra dell’aria Teco io sto, gran Dio dal secondo atto di Un ballo in maschera, emessa da un minuscolo aggeggio profondamente inserito nel calcio dell’arma. Flavia riaprì gli occhi, si strinse nelle spalle e gettò la pistola sul ripiano della scrivania. «Se riuscissimo a trovare un negozio in cui sono state vendute di recente una maschera da Leonardo da Vinci e una pistola di plastica con un congegno musicale a un uomo che aveva con sé alcune scatole di cioccolatini, potremmo avere una pista da seguire», disse, rimettendo l’arma nel sacchetto di plastica e alzandosi. «La terrò al corrente.» Cinque minuti dopo, si accasciò sul sedile posteriore dell’auto, biascicando frasi irripetibili. Poi prese una decisione. Se anche tutte le altre persone coinvolte nel caso dovevano obbedire all’ingiunzione di tenere la bocca chiusa, lei aveva bisogno di parlarne con qualcuno. Disse al suo autista di dirigersi verso l’Eur.
2 Nonostante quanto accaduto in mattinata, durante il tragitto Flavia non pensò troppo al dipinto del Lorenese e alla sua incresciosa sparizione. Pensò invece a quel poveraccio del suo vecchio capo, il generale Taddeo Bottardi, costretto a un sontuoso esilio in quello squallido quartiere di periferia che era l’Eur, costellato di casermoni pieni zeppi di uffici, fra opere architettoniche risalenti agli anni Trenta e terreni incolti, in cui nulla sembrava mai accadere. Era già trascorso un anno da quando vi era stato mandato a dirigere una prestigiosa organizzazione europea, completamente tagliato fuori dal turbinio delle attività pratiche, come suggeriva la sede che gli era stata assegnata. Soltanto i banchieri potevano lavorare in un luogo così squallido, si disse Flavia; un luogo senza neppure un ristorante degno di questo nome in cui andare a pranzare. E Bottardi era un uomo che amava mangiare bene. Certamente lui rimpiangeva l’edificio che ospitava il Nucleo investigativo per la tutela del patrimonio artistico, uno splendido palazzo, anche se un po’ fatiscente, e in cui ferveva un’attività frenetica, nonostante i fondi ormai ridotti quasi al lumicino. Il suo nuovo impero aveva un’aria imponente e danarosa, ma era orrendo e di una noia mortale. Solo per entrare nell’edificio bisognava sottostare a tutte le procedure di sicurezza che servono di solito a difendere le sedi governative classificate come obiettivi sensibili. Tutto il personale vestiva in modo impeccabile, i pavimenti erano coperti da spesse moquette, le porte si aprivano e si chiudevano automaticamente con un lieve fruscio, e i computer ronzavano. Un vero paradiso per un poliziotto, dotato di risorse sufficienti a tenere sotto controllo il mondo intero. Poveretto, pensò Flavia. Ma, ogni volta che si incontravano, Bottardi si sforzava di apparire baldanzoso e lei gli rivolgeva un sorriso incoraggiante, fingendo entrambi che tutto andasse nel migliore dei modi: lui accennava alle splendide cose che la sua nuova organizzazione avrebbe di lì a breve realizzato, lei scherzava sui rimborsi spese dei funzionari europei. L’uno e l’altra sorvolavano sempre sul fatto che Bottardi sembrava invecchiato, che la sua conversazione era un po’ meno brillante, che le sue battute e il suo buonumore avevano un che di forzato. Soprattutto non prendeva più a cuore ciò che faceva; era più frequente che si assentasse, piuttosto che stare alla propria scrivania. Sembrava sempre sul punto di partire per le ferie, pronto a mollare tutto. Come se si stesse preparando ad andare in pensione. Che quelle ferie diventassero permanenti era solo questione di tempo. Ancora un paio d’anni, poi avrebbe dovuto ritirarsi comunque a vita privata, una prospettiva che lui, quando occupava
ancora il suo vecchio posto, faceva di tutto per ignorare, rifiutandosi anche solo di pensarci, perché, una volta in pensione, non avrebbe saputo cosa fare. Era una di quelle persone che non concepivano di vivere senza il proprio lavoro e la propria posizione nel mondo. A togliergli l’uno e l’altra era stata la promozione, concessa magari proprio a tale scopo. Promoveatur ut amoveatur. Ma forse Bottardi aveva già deciso di andarsene; avrebbe lottato maggiormente se non fosse stato già quasi persuaso a imboccare quella strada. In passato aveva vinto battaglie ben più dure contro nemici molto più agguerriti. Era possibile che ne avesse abbastanza. Flavia andava a trovarlo piuttosto spesso, non perché non potesse fare a meno dei suoi consigli, ma perché voleva che lui si sentisse ancora utile. Da un anno lei era alla guida del Nucleo investigativo e aveva ormai preso dimestichezza con quel lavoro. Anzi, si era resa conto di saperlo fare bene e di non aver più bisogno di stare sotto l’ala protettiva di nessuno. Nei primi tempi si era appoggiata molto a Bottardi, ma ormai non era più necessario. Ed era sicura che il generale se ne fosse accorto e se ne compiacesse. L’ultima volta in cui si era fatto vedere in dipartimento, pochi mesi prima, per controllare alcune vecchie pratiche e prendere qualche documento, Flavia aveva capito che lui stava semplicemente verificando che tutto procedesse per il meglio. Era anche certa che Bottardi non avesse avuto un reale motivo per fare quella visita, e che fosse rimasto per buona parte del pomeriggio, cincischiando, leggiucchiando qua e là, chiacchierando nei corridoi con gli impiegati e uscendo infine a bere qualcosa al bar, soprattutto perché non aveva granché da fare nel suo nuovo ufficio. Flavia si augurava soltanto che il generale non sospettasse che lei qualche volta, solo qualche volta, si dispiaceva per lui. Comunque stavolta aveva un reale motivo per andare a trovarlo. Lei stava per avventurarsi in acque profonde e vorticose e aveva bisogno che qualcuno le desse delle dritte. Sapeva già, a grandi linee, quali consigli le avrebbe dato, ma non di meno avvertiva la necessità di sentirseli dire. Bottardi uscì dal proprio ufficio per andarle incontro, le diede un bacio affettuoso e la fece accomodare. «Mia cara Flavia, che piacere rivederti. Non capita spesso di incontrare una persona come te in questa landa desolata. Che cosa posso fare per aiutarti? Perché immagino che tu non sia venuta fin qui solo per lustrarti gli occhi alla vista di un dipartimento appropriatamente finanziato.» Flavia sorrise. «Ovviamente mi piace sempre vedere come dovrebbero funzionare le cose. Però, a dire il vero, sono qui per attingere al suo miglior repertorio di consigli. Vorrei un premier cru, se non le dispiace.» Bottardi grugnì. «Sono sempre felice di mettere la mia esperienza al servizio dell’entusiasmo», replicò. «Come ben sai. Mi auguro soltanto che stavolta si
tratti di un problema reale, non di un consulto architettato solo per farmi sentire meno obsoleto.» Maledizione, se n’era accorto. Flavia si sentì terribilmente in colpa. «Tempo fa lei mi ha detto che un primo ministro ti può rovinare l’esistenza», ribatté. «È vero. Soprattutto se gli intralci la strada. Ma cosa c’entri tu con i primi ministri?» Dopo aver accennato brevemente al fatto che le era stato ordinato di non parlarne con nessuno, Flavia gli raccontò tutto. Il generale l’ascoltò attentamente, grattandosi il mento, alzando lo sguardo al soffitto, grugnendo ogni tanto durante l’esposizione dei fatti, proprio come era solito fare ai vecchi tempi quando insieme a lei esaminava un problema. E, mentre continuava il racconto, Flavia vide apparire nei suoi occhi un flebile bagliore, come se in una vecchia e malconcia torcia elettrica fosse stata appena inserita una batteria nuova. «Aaah!» esclamò Bottardi soddisfatto quando lei finì il racconto, appoggiandosi allo schienale della sedia, con l’aria di essersi proprio gustato quella storia. «Posso ben capire che ti serva un secondo parere. È un caso molto interessante.» «Proprio così. Ovviamente mi sono subito chiesta cosa ci fosse dietro un simile interessamento da parte delle alte sfere. In altre parole, è normale che il primo ministro convochi una riunione urgente per parlare del furto di un dipinto?» «Suppongo che ti tocchi accettare, come spiegazione, la presunta necessità che il semestre italiano di presidenza del Consiglio europeo non venga screditato davanti a osservatori esterni», replicò Bottardi pensieroso. «Se ricordo bene, il nostro governo dichiara che la salvaguardia della legge e dell’ordine pubblico è la sua priorità. Per il vecchio Sabauda sarebbe piuttosto difficile pontificare sulla sicurezza mentre tutti lo deridono dietro i propri appunti. A nessun politico piace fare la parte dello sciocco. Sono tutti molto suscettibili in proposito, ed è questo il motivo per cui confondono tanto spesso l’amor proprio con l’interesse nazionale.» «Sarà. Tuttavia ho l’impressione che, se qualcosa dovesse andar storto, e ci sono buone probabilità che ciò accada, a fare da capro espiatorio potrei essere proprio io.» «Nulla è stato messo nero su bianco, o sbaglio?» Vedendo Flavia scuotere la testa, Bottardi annuì soddisfatto. «Me l’immaginavo. E l’unica altra persona presente al colloquio era il vecchio Macchioli. Che è malleabile come una lamina di piombo.» Si interruppe un attimo, con aria meditabonda. «Ipotizziamo che qualcosa vada storto. La notizia viene ripresa dai mass media e scoppia un enorme scandalo. Il primo ministro, indignato, dichiara di averti personalmente richiesto di recuperare il dipinto, a costo di mollare ogni altra indagine, ma che tu non gli hai dato
retta. Mi segui?» Flavia fece un cenno d’assenso. «Però la situazione potrebbe prendere una piega peggiore se i mass-media non diffondessero immediatamente la notizia, perché in quel caso lo stesso primo ministro, più indignato che mai, esprimerebbe tutto il proprio sgomento all’idea che una funzionaria delle forze dell’ordine abbia raccolto una somma in contanti da fonti non meglio identificate allo scopo di pagare un riscatto.» Un altro cenno d’assenso. «Il che potrebbe costarmi la galera.» «Ci puoi scommettere, mia cara. Ti appiopperebbero come minimo due anni, senza contare le possibili aggravanti, perché potrebbero accusarti anche di corruzione e cospirazione contro lo Stato.» «Se invece tutto andasse bene...» «Se tutto andasse bene e tu recuperassi il dipinto, avresti fatto un ottimo lavoro, di cui però nessuno verrebbe mai a sapere. Però tu saresti al corrente del fatto che il primo ministro, un uomo che, pur avendo molti nemici, è riuscito a rimanere in sella per tanto di quel tempo da fugare ogni dubbio sulle sue capacità di sopravvivenza, ha permesso che si aggirasse la legge, in modo da potersi presentare a testa alta sulla scena internazionale. Essere al corrente di qualcosa può rivelarsi, a volte, molto pericoloso. Se tu fossi più spietata, potresti forse esercitare su di lui una lieve pressione, ma con ogni probabilità lui ti vedrebbe come un’onnipresente minaccia e reagirebbe di conseguenza. Subiresti una ritorsione subdola, in modo che, se mai aprissi bocca, ti si possa rispondere qualcosa come: ’Poveretta, vuol creare scompiglio perché non ha digerito il suo licenziamento per incompetenza’. Oppure ti farebbe passare per corrotta o depravata. Quel tanto che basta per assicurarsi che tu non venga presa sul serio da nessuno. Come ti ho già detto, i primi ministri possono rovinarti l’esistenza.» Mentre lui parlava, Flavia avvertì una stretta al cuore. Ovviamente aveva già preso in considerazione tutte le ipotesi che Bottardi le stava illustrando, ma sentirsele esporre in modo così esplicito non le risollevava il morale. «Cosa mi consiglia di fare?» Lui grugnì. «Non saprei proprio. Che alternative hai, al momento? Potresti fare una soffiata strategica e anonima alla stampa, seguita dalla tua pubblica promessa di non lasciare nulla di intentato eccetera. In questo caso eviteresti il rischio di finire prima o poi in galera, ma attireresti sicuramente la collera del primo ministro, che te la farebbe pagare cara. Fine di una promettente carriera. Oppure potresti seguire le direttive che ti sono state impartite. Una pessima idea, per ovvi motivi, specialmente se Macchioli dovesse dichiarare sotto giuramento che hai ricevuto l’ordine tassativo di non pagare neppure un centesimo.» «Non mi resta molto da fare, non le pare?»
«Al momento, no. Dimmi, questo denaro per il riscatto da dove dovrebbe saltare fuori?» «Non ne ho la più pallida idea. Forse un patriota estremamente facoltoso comparirà all’improvviso con un libretto d’assegni in mano.» «Sono accadute cose anche più strane di questa, perciò ipotizziamo che il denaro salti fuori. A questo punto cosa fai?» «Riprendo il dipinto, dopo di che do la caccia al ladro. Perché potrebbe sempre riprovarci, dopotutto.» Bottardi scrollò il capo. «Pessima idea. Ciò che devi fare è mantenere un basso profilo. Obbedire agli ordini e non prendere iniziative.» «Ma non ho capito bene cosa mi è stato detto di fare. È questo il guaio.» «Sto semplicemente cercando di spiegarti che quando gli altri giocano sporco, ti devi adeguare. Potrebbe essere saggio mettere tutto nero su bianco di fronte a un avvocato, così da rendere inequivocabile, se mai ce ne fosse bisogno, la tua versione di quanto è stato detto durante quell’incontro.» Flavia grugnì, proprio come lo stesso Bottardi era solito fare ogni volta che lei gli proponeva una soluzione assurda e lui recitava la parte del superiore prudente. Il generale udì quel verso, con tutto ciò che implicava, e sorrise gentilmente. Perché anche lui, a modo suo, si sentiva un po’ dispiaciuto per Flavia. Un’alta carica e l’autorità che ne derivava non erano esenti da svantaggi e, fra questi, il maggiore era l’obbligo di agire con grande circospezione e responsabilità. «Immagino che lei non se la senta di aiutarmi...» «Io?» ridacchiò il generale. «Santo cielo, no. E non potrei neanche. Sono troppo vecchio, mia cara, per correre di qua e di là tenendo sottobraccio un borsone pieno zeppo di banconote. Inoltre, devo difendere i miei interessi.» «Cosa intende dire?» «Sono stufo, Flavia», rispose Bottardi cupo. «Stufo marcio. È un anno che me ne sto qui seduto a occuparmi di scartoffie. Impartisco ordini a persone che impartiscono ordini ad altre persone, le quali di tanto in tanto fanno qualcosa di pratico, ma trascorrono la maggior parte del loro tempo a elaborare direttive internazionali. Perciò ho deciso che il troppo stroppia. Intendo ritirarmi a vita privata. La mia pensione sarà molto inferiore a quella che avevo previsto, ma mi basterà. E in questo momento non voglio rischiare di perderla. Ti darò ben volentieri tutti i consigli che possono servirti. Non appena sarò in pensione, ti garantirò tutta l’assistenza che desideri. Però al momento ho bisogno di tenere anch’io un basso profilo, proprio come dovresti fare tu.» «Mi dispiace moltissimo che lei se ne vada», ribatté Flavia, avvertendo all’improvviso un’ondata di panico all’idea di perderlo. «Te la caverai benissimo anche senza di me, ci scommetto. Inoltre sto
cominciando a perdere colpi. Dopo un po’, anche il lavoro più entusiasmante viene a noia e, come avrai certamente notato, ciò che sto facendo attualmente non mi entusiasma in modo particolare. Passando ad altro, quei cioccolatini... Hai detto che erano belgi?» «Sì.» «Ah.» «Perché me lo chiede?» «Per nessun motivo in particolare. Solo un piccolo dettaglio. Io ho sempre pensato che fossero sopravvalutati.» Flavia si alzò, dando un’occhiata al proprio orologio. Era tardi, tardi, tardi. Sarebbe stato sempre così d’ora in poi? Continuamente in riunione, continuamente di corsa. Mai un attimo per sedersi a chiacchierare amichevolmente con qualcuno? Dopo decenni di una simile esistenza, anche lei non avrebbe visto l’ora di piantare baracca e burattini. Strinse Bottardi in un breve abbraccio, gli disse di tenersi pronto a darle altri consigli e tornò alla sua auto. L’autista stava dormendo pacificamente sul sedile posteriore, in attesa che lei tornasse. Beato lui, pensò Flavia, mentre lo scuoteva per svegliarlo.
3 Flavia arrivò a casa presto, prima ancora di Jonathan, si preparò un aperitivo e andò a berlo in terrazza. Grazie alla sua promozione, al matrimonio e allo stipendio regolare, anche se non eclatante, che adesso Jonathan percepiva, finalmente lei e il marito si erano potuti permettere un appartamento di loro gusto: sempre a Trastevere, ma con quattro belle stanze, i soffitti alti e, appunto, quella terrazza che dava su una piazzetta silenziosa e dalla quale, sporgendosi, si vedeva uno scorcio di Santa Maria in Trastevere. Flavia era troppo bassa, ma Jonathan riusciva a scorgere la chiesa ed era compiaciuto del semplice fatto che fosse così vicina. Sebbene non fosse certo nata per fare la casalinga, Flavia si sforzava di mantenere l’appartamento pulito e in ordine. Questione d’età, forse. Aveva lasciato l’ufficio prima del solito perché voleva avere un po’ di tempo per pensare, cosa che sul luogo di lavoro non riusciva a fare perché veniva continuamente distratta da telefonate, andirivieni di segretarie, persone che facevano capolino nel suo ufficio per chiederle un parere o per farle firmare qualcosa. Di solito tutto quel trambusto le piaceva, ma le rendeva difficile fermarsi a riflettere per schiarirsi le idee. Questo le riusciva meglio quando fissava gli edifici color ocra che sorgevano sul lato opposto della piazzetta, osservava la gente impegnata a fare shopping e ascoltava il tranquillo brusio del traffico cittadino. E in quel momento aveva molto su cui riflettere, visto che da Bottardi non le era arrivato alcun suggerimento pratico. Aveva ripensato alle parole del generale, sviscerandole da cima a fondo, prendendo in considerazione, metodicamente, ogni possibile strada da seguire, e non era approdata a nulla di risolutivo. Però il concetto essenziale, mantenere un basso profilo, non prendere iniziative e, soprattutto, evitare ogni coinvolgimento, la faceva stare sulle spine. E le pareva altrettanto pericoloso tentare di fare qualcosa. Comunque andasse, la testa che rischiava di cadere era la sua. Bastava che andasse storto qualcosa, anche un nonnulla, e l’unica colpevole sarebbe stata lei. La facente funzione di capo. Una nomina non ancora confermata, tra l’altro, benché fosse già trascorso un anno. Toglierla rapidamente di torno sarebbe stato facilissimo; niente clamori, niente scandali, perché sarebbe bastato il semplice annuncio che al suo posto era stato nominato ufficialmente un nuovo capo, con una maggiore esperienza e predisposizione per quel tipo di lavoro. Ma cosa poteva fare? Sicuramente nulla di concreto senza farsi scoprire subito. E non poteva neppure andare a bussare alle porte dei ricconi d’Italia a chiedere se magari disponevano di una valigia piena di soldi di cui non sapevano che farsene. La raccolta di fondi non era mai stata una sua
specialità. Quel compito, ammesso che qualcuno fosse in grado di portarlo a termine, sarebbe dovuto toccare a Macchioli. Oggigiorno era ciò che facevano i direttori di musei. O ciò che avrebbero dovuto fare. Però, purtroppo, quell’uomo era notoriamente negato per quel genere di cose. Tuttavia valeva la pena di discuterne con lui seriamente, nel caso in cui fosse davvero arrivata una richiesta di riscatto. Argyll tornò a casa un’ora dopo. Era relativamente di buon umore, benché avesse trascorso la giornata cercando di ficcare in testa ai suoi studenti i rudimenti di storia dell’arte, e si stravaccò accanto a Flavia ad ammirare il panorama, poi, dopo essersi lustrato gli occhi il più possibile, le chiese come fosse andato l’incontro con il primo ministro. Ma lei non aveva voglia di parlarne, così eluse la domanda e, per distrarsi dai propri pensieri, chiese a sua volta, un po’ maliziosamente: «Come va la tua relazione?» Quello, per Argyll, era un punto dolente. Era stato assunto per insegnare l’arte barocca agli studenti stranieri che venivano per un anno a Roma, un incarico per cui si sentiva particolarmente tagliato. Ma a un certo punto il consiglio d’amministrazione dell’istituto, un ente anch’esso barocco, aveva deciso, per motivi che nessuno era riuscito a capire bene, che da quel momento in poi le retribuzioni dei docenti sarebbero state in parte stabilite sulla base di pubblicazioni accademiche, oltre che sulle ore effettive di insegnamento. Lo scopo era di accrescere il buon nome della scuola, che voleva essere considerata alla stregua di un vero e proprio ateneo e non di un liceo per rampolli di famiglie ricche. Come, in realtà, era. Però la conseguenza immediata di quella decisione era che, se volevi guadagnare di più, dovevi produrre articoli, saggi. O, meglio ancora, un libro o due. Il che era più facile a dirsi che a farsi. Argyll, che era refrattario alle imposizioni, alla sola idea di essere obbligato a scrivere qualcosa rizzava il pelo. Però qualche soldo in più gli avrebbe fatto comodo, così si era messo sotto e, senza farsi tanti scrupoli, aveva recuperato alcuni suoi vecchi appunti, ricavandone due articoli di straordinaria banalità che aveva inviato a due giornali di second’ordine, e accettato l’invito a redigere in poche settimane una relazione per un convegno che si sarebbe tenuto a Ferrara, perché così avrebbe superato il minimo di pubblicazioni richiesto. Il guaio era che lui non aveva una relazione da esporre al convegno e, mentre non aveva esitato a far pubblicare quei due articoli infarciti di ovvietà confidando nel fatto che sarebbero finiti su giornali che nessuno leggeva, non aveva il coraggio di alzarsi a declamare, di fronte a un pubblico attento, un mucchio di stupidaggini. Quindi niente relazione, neanche una riga. La cosa iniziava a preoccuparlo. Flavia fece del suo meglio per incoraggiarlo quando lo sentì dire ancora una volta che non riusciva a cavare un ragno dal buco, e alla fine Argyll cambiò argomento per non rovinare una bella serata.
«Oggi ho ricevuto una telefonata.» «Ah sì?» «Da Mary Verney.» Flavia posò il bicchiere e lo fissò. Oggi no, si disse. La giornata è già stata abbastanza stressante senza che ci si metta anche lei. Flavia sapeva che Mary Verney si era ritirata dall’attività: lo aveva annunciato lei stessa l’ultima volta in cui c’era mancato poco che l’arrestassero per un furto in grande stile. Però aveva detto la stessa cosa anche la volta precedente. «Mi ha chiesto di domandarti se hai qualcosa in contrario a un suo ritorno in Italia.» «Cosa?» Argyll glielo ripeté. «A quanto pare, ha una casa da qualche parte in Toscana. In questi ultimi anni ha evitato di andarci, perché si sentiva un po’ a disagio sapendo che tu non vedevi l’ora di sbatterla in galera. Perciò desidera semplicemente appurare se hai ancora un conto in sospeso con lei. Se la risposta è affermativa, resterà alla larga e venderà la casa; in caso contrario, si azzarderà a venire per controllare se il tetto è ancora in piedi. Le ho detto che te l’avrei chiesto. Non mi guardare in quel modo», concluse dolcemente. «Ambasciator non porta pena. Lo sai, non è a me che devi sparare.» Flavia andò su tutte le furie. «Sai, si dà il caso che abbia cose ben più importanti da fare che rassicurare una vecchia ladra.» «Me ne sono accorto.» «Cosa intendi dire?» scattò lei. «Non hai minimamente prestato ascolto al mio gustoso aneddoto sulla macchinetta del caffè nella stanza degli insegnanti. La mia storiella sul turista finito in ospedale perché un pezzo del Pantheon gli era caduto in testa non ti ha fatto minimamente sorridere, anche se conteneva un intelligente gioco di parole che normalmente ti avrebbe suscitato almeno un guizzo d’ilarità. E per ben due volte hai intinto la tua oliva nella zuccheriera e l’hai mangiata senza neppure accorgertene.» Era vero. Ora che ci pensava, quelle olive avevano uno strano sapore. Così Flavia, dopo essersi lasciata sfuggire un sospiro, parlò a Jonathan delle sue preoccupazioni. Quando finì il racconto, anche lui stava intingendo nella zuccheriera le proprie olive, trovandole però, diversamente da lei, abbastanza gustose, e si rendeva conto che i problemi di sua moglie mettevano effettivamente in ombra i capricci della macchinetta del caffè della sua scuola. Stranamente il problema più importante era stato solo leggermente sfiorato. Flavia non voleva un suggerimento di Jonathan a tale proposito, però lo ottenne ugualmente. Ma non era granché. «Potresti tirare in ballo il tuo stomaco», le consigliò. «Sono giorni ormai che fa le bizze. Che ne diresti di
scendere da Giulio perché ti prescriva un ricovero di una settimana per una serie di esami urgenti? Magari per sospetta ulcera o gastroenterite. Potresti dare la colpa al mio modo di cucinare. Giulio sarà ben felice di venirti incontro. Così potresti passare qualche giorno in pace e al sicuro da ogni seccatura.» Giulio era il medico che viveva al primo piano del loro stabile, in un appartamento molto più grande. E Flavia non dubitava che sarebbe stato ben disposto a farle quel favore, perché era una persona gentile. E in effetti il suo stomaco o, meglio, tutti i suoi organi interni, da qualche tempo la sconcertava, anche se al momento sembrava essersi calmato, probabilmente grazie all’aperitivo. Ma lei non avrebbe potuto scaricare su qualcun altro le proprie responsabilità, e Argyll lo sapeva bene, almeno quanto lei. «Non essere sciocco», replicò. «Se vuoi renderti utile, parlami del dipinto del Lorenese.» «Cosa posso dirti? È un paesaggio. E non è di grandi dimensioni, il che certamente lo rende appetibile per i ladri.» «Ma che mi dici del soggetto? Di Cefalo e Procri?» Argyll sventolò una mano, come per tagliare corto. «Non sono importanti. Sono soltanto due personaggi inseriti nel paesaggio al solo scopo di renderlo più adatto al gusto dei tempi. Claude Lorrain non ci sapeva fare con le figure umane. Dipingeva braccia e gambe troppo lunghe, chiappe al posto sbagliato. Ma, per essere preso sul serio come pittore, doveva farle.» «Sarà. Ma cosa racconta quel mito?» «Non ne ho la più pallida idea», rispose Argyll, poi, accortosi che Flavia non voleva continuare a parlare di quell’argomento, passò ad altro. «Dimmi di Bottardi. Ti mancherà, vero?» «Terribilmente. Sai, per me è una figura paterna. È scioccante rendersi conto che un punto fermo della tua vita di colpo comincia a vacillare. Tra l’altro, lui non è neppure felice della decisione che ha preso. E non è un bel modo di concludere la carriera dopo così tanti anni.» «Dovremmo fargli un regalo.» Flavia assentì. «Hai già in mente qualcosa?» «No.» «Neanch’io.» Tacquero entrambi. «Quanto a Mary Verney, cosa devo fare?» chiese Argyll. Flavia sospirò. «Mah, non saprei. In questo Paese ci sono già così tanti ladri che uno in più non farà alcuna differenza. Se non altro, abbiamo la certezza che non è stata lei a rubare il dipinto del Lorenese.»
4 Argyll era restio a criticare la sua dolce metà, specialmente tenendo conto che erano sposati da poco, e gli sembrava prematuro cominciare già a mettere i puntini sulle i, però trovò difficile soffocare un certo moto di stizza per come si era rifiutata di prestare ascolto a un ragionevole parere, il suo, sulla faccenda del Lorenese. Non che lui non capisse che il lavoro di Flavia consisteva nel recuperare le opere d’arte rubate, né che la biasimasse per il fatto di essere preoccupata. Normalmente era piuttosto la sua calma a lasciarlo esterrefatto, perché Jonathan era perfettamente consapevole che lui non sarebbe stato in grado di svolgere il mestiere della moglie senza trovarsi in un permanente stato di panico. Flavia invece sembrava non fare una piega davanti alla perenne possibilità che un’indagine si concludesse in modo disastroso, cosa che lui non sarebbe mai stato in grado di tollerare. Il peggio che potesse accadergli, nel suo attuale lavoro, era perdere gli appunti del testo che doveva scrivere, dato che ormai l’attività di mercante d’arte era diventata più un hobby che un mestiere. Secondo lui, era già abbastanza stressante doversi sbarazzare dei quadri rimasti per poter coprire le spese. Gliene rimanevano ormai solo due dozzine, che comprendevano sia opere passabili sia veri e propri obbrobri. Aveva venduto gli altri a un paio di clienti o li aveva rifilati ad altri mercanti, oppure se li era tenuti, finché, in un moto di insofferenza, aveva deciso di vendere all’asta quest’ultimo lotto ma, dato che non erano quadri di particolare valore, aveva giudicato più opportuno affidarli a una casa d’aste londinese, dal momento che non avrebbe avuto problemi a spedirli a Londra, dove avrebbero quasi certamente ottenuto una quotazione più alta. Per mandarli all’estero aveva dovuto però compilare una montagna di moduli, sui quali aveva sudato per mesi. Ormai quella maratona era quasi giunta al termine e la maggior parte dei dipinti era già chiusa in casse pronte a partire, ma restava un allarmante numero di documenti da compilare. Perciò non biasimava l’inquietudine di Flavia: c’era di che inquietarsi quando si aveva a che fare con lo Stato italiano in una delle sue manifestazioni di capricciosa irrazionalità. Ma lei sembrava affrontare quel problema in modo troppo avventato, cosa decisamente poco prudente. Non era stato per ingratitudine se Flavia aveva liquidato con una punta d’impazienza il suggerimento di Jonathan; l’aveva fatto perché era preoccupata. Da quando era stata convocata nell’ufficio del primo ministro, non aveva pensato ad altro che al dipinto del Lorenese, pur dovendo ostentare un’assoluta tranquillità. Una lunga telefonata di prima mattina con Sabauda per tentare di strappargli istruzioni più particolareggiate le era servita solo a ottenere una risposta fumosa e la convinzione che lui non
avesse idea di cosa fare in caso di richiesta di riscatto e per di più, dopo aver riattaccato, lei si era persuasa che la telefonata era stata registrata e sarebbe stata usata contro di lei, se mai ce ne fosse stato bisogno. La sua giornata era perciò iniziata male, ma a renderla ancora peggiore era la mancanza di qualsiasi novità: il ladro non si era fatto vivo e non aveva fornito ulteriori dettagli sulla cifra richiesta e sulle modalità di pagamento. Sempre che lo volesse, un riscatto. Il tempo stringeva, dopotutto, perciò Flavia trovava più che mai sorprendente quel modo di fare così sconclusionato. Anche il ladro meno scaltro, e chiaramente il personaggio in questione era tutto fuorché uno sprovveduto, doveva rendersi conto che più aspettava più cresceva il rischio che qualcosa andasse storto e allora, se la notizia del furto fosse diventata di pubblico dominio, lui avrebbe dovuto ridimensionare drasticamente le sue pretese. Ma, se non altro, ciò le concedeva il tempo per darsi da fare, anche se non nutriva grandi speranze di riuscire a combinare qualcosa di utile. Non poteva mandare in giro nessuno a fare domande, però poteva setacciare gli archivi per vedere se saltava fuori qualche caso precedente che potesse ricollegarsi al suo. A ostacolarla c’era, di nuovo, la sua incapacità di stabilire con precisione che cosa dovesse cercare, ma fortunatamente al dipartimento era stata assegnata una nuova recluta che, una volta tanto, era un giovane insolitamente sveglio ed entusiasta. Che di recente aveva trascorso troppo tempo a pattugliare le strade, come gli fece notare lei in tono severo, dopo averlo convocato. La recluta aveva un’aria talmente dispiaciuta che Flavia, per impedire che il suo morale finisse sotto i tacchi, si affrettò a specificare: «Non ho niente in contrario se scorrazzi in giro per la città con tanto di lampeggiante acceso per andare a sfondare le porte della gente, Corrado, perciò non metterti in testa che ti stia criticando. Sei molto bravo a sfondare le porte. Ma ai giorni nostri l’attività delle forze dell’ordine deve basarsi essenzialmente su un lavoro d’intelligence. Per scoprire in anticipo i piani dei criminali o cose del genere». Cercando di incoraggiarlo, aggiunse: «Tutte operazioni di estremo interesse», e concluse: «Perciò voglio vedere come te la cavi in un’esercitazione che ho preparato apposta per te». «Un’esercitazione?» ribatté la recluta, celando a malapena il proprio disgusto. «Intende dire che non si tratta di un caso reale?» «Un giorno potrebbe diventarlo. Hai con te il tuo taccuino? Bene. Prendi nota di quanto ti dico. Dunque, vediamo: rapina a mano armata in un museo; il ladro ha agito da solo; la refurtiva è un dipinto...» «Quale dipinto?» «Questo è un particolare irrilevante», ribatté Flavia. «Perché neanche nella vita reale ha mai importanza.»
«Oh.» «C’è una richiesta di riscatto. Pagamento in denaro o altro. Mi segui?» Corrado assentì. «Bene. Immaginiamo che tutto questo sia appena avvenuto. A te spetta il compito di fare ricerche negli archivi e compilare una lista di potenziali indiziati. Sai come si fa?» «Comincio col computer, quindi mi dedico ai fascicoli, esamino il furto stesso, confrontandolo con una lista di sospetti rapinatori.» Lo disse con un’aria così stanca e annoiata che Flavia si sentì un po’ dispiaciuta per lui, ma, in mezzo a quella sfilza di fandonie che gli aveva appena raccontato, c’era anche qualcosa di vero. Star seduti sulle chiappe a leggere fascicoli faceva ormai parte dell’attività investigativa. «Perfetto!» esclamò allegramente. «Mi rendo conto che sbufferai e ti lamenterai, perciò prima finisci, facendo però un buon lavoro, prima potrai tornare nel mondo esterno. Ora va’», concluse, con il suo miglior tono da maestrina, rivolgendogli un sorriso incoraggiante mentre lui usciva con aria torva dall’ufficio. Tutto era andato per il meglio e l’umore di Flavia si risollevò per un attimo, per poi subire un improvviso tracollo non appena ebbe finito di mangiare il suo panino. Mentre toglieva accuratamente le briciole dalla carta assorbente e le gettava nel cestino, la sua segretaria, è incredibile con quanta facilità ci si abitui ad averne una, le annunciò che c’era al telefono un giornalista del Mattino. Nulla di strano, perché capitava regolarmente che alcuni cronisti andassero a trovare Flavia per sapere se c’era qualche novità, cosa che lei accettava di buon grado, dimostrandosi molto più cordiale di quanto fosse mai stato Bottardi. Fra questi però non figurava Ettore Bossoni, che lei conosceva solo di nome, il quale non si era mai occupato, stando a quel che le risultava, né di arte né di furti. «Stavo pensando», esordì il giornalista, con un tono un po’ insinuante, «di scrivere un pezzo sulla sicurezza.» «Oh, davvero?» «Sì. Anche nei musei, come lei potrà ben capire. In particolare quando c’è un gran movimento di opere d’arte.» «Allude alle mostre?» chiese seccamente Flavia. «Esattamente. Lei sa di cosa parlo. I costi dell’assicurazione, il tipo di sorveglianza necessario, ciò che potrebbe accadere se qualcosa non andasse per il verso giusto e un dipinto sparisse...» «Un’ottima idea», disse Flavia in tono incoraggiante. «Però io non sono in grado di fornirle dati precisi. Sono anni che nessun nostro dipinto viene perso a quel modo...» «Ovviamente», l’interruppe Bossoni con voce così untuosa che Flavia iniziò a trovarlo antipatico. «Ma lei deve aver predisposto un preciso piano
d’azione da seguire nel caso in cui si verificasse qualcosa del genere.» «Faremmo indagini a tutto campo e cercheremmo di ritrovarlo», ribatté Flavia. «Come sempre. Nessun piano straordinario.» «Ma ipotizziamo che venga richiesto un riscatto.» «Pagare i riscatti è illegale», puntualizzò severamente Flavia. «Vuol dire che lei si rifiuterebbe di pagarlo?» «Io? Io personalmente? Come potrei? Questo dipartimento non è mio. In una circostanza simile non mi resterebbe altro da fare che trasmettere la richiesta a un’autorità superiore. Il più rapidamente possibile, potrei aggiungere, ma l’avviso che, se le venisse in mente di citare questo mio commento, non gliela farei passare liscia. Su come reagirebbero le alte sfere, le sue supposizioni valgono tanto quanto le mie. Glielo ripeto, pagare un riscatto è un reato.» Mise fine alla telefonata il prima possibile, poi sprofondò nella sedia, perplessa. Chiaramente quell’uomo aveva lanciato un’esca. Qualcuno gli aveva detto qualcosa, ma non abbastanza da fargli capire come utilizzare la soffiata. Riguardo all’informatore vi erano tre possibilità: a parlare poteva essere stato un dipendente del museo o un funzionario del primo ministro, oppure qualcuno direttamente coinvolto nel furto. Non valeva la pena di scervellarsi su chi fosse stato. Sollevò la cornetta e contattò chi di dovere per chiedergli di mettere sotto controllo il numero di Bossoni. Dieci minuti più tardi ricevette la risposta, ovvero un rifiuto. Era quello il guaio del rivestire il suo ruolo da troppo poco tempo: non aveva ancora alcun potere. Nessuno avrebbe rifiutato una richiesta di Bottardi. Anche se, a pensarci bene, neppure a lei, in precedenza, era mai stato rifiutato alcunché. Tale pensiero la mise di pessimo umore e quello stato d’animo continuò ad affliggerla finché Argyll non le offrì ancora una volta il suo consiglio, dettato dalle migliori intenzioni e forse degno di essere preso in considerazione. Mentre Flavia se ne stava in ufficio senza concludere nulla, Argyll, rimasto a casa, si sentiva terribilmente messo da parte, abbandonato e ignorato. In complesso non trovava nulla da ridire sul lavoro di Flavia; per anni erano andati d’accordo, tollerandosi reciprocamente, e solo di rado si erano verificati piccoli screzi. Lui aveva sempre sopportato le frequenti assenze della compagna, i suoi grattacapi e i momenti di malumore, in compenso, però, la professione di Flavia era per lui fonte di eccitanti diversivi. Si vantava persino, cosa che lei era pronta a riconoscergli, di averle dato concretamente, in svariate occasioni, un valido aiuto. Quell’intricato rapporto si era fatto un po’ più complesso da quando lei aveva ottenuto la promozione, specialmente perché passava più tempo a occuparsi di noiose investigazioni che non a cercare le opere d’arte rubate, ma anche perché in ufficio aveva cominciato ad assomigliare a Bottardi, cioè era diventata più
prudente, teneva in conto i pericoli e stava attenta alle trappole, ragion per cui di tanto in tanto assumeva persino un’aria furtiva, per non dire sospettosa. Invece Bottardi, come Argyll aveva notato con grande interesse, nel momento stesso in cui aveva lasciato il suo vecchio posto, era diventato più simile a Flavia, tali e tante erano le idee brillanti, anche se a volte fin troppo ardite, che gli venivano. Argyll in un certo senso si era aspettato quel cambiamento di Flavia, che di solito rappresentava per lui un problema trascurabile. In quel caso particolare, però, la vita domestica stava rapidamente diventando intollerabile. Per ottenere un’informazione da lei bisognava estorcergliela con la forza, del suo consueto buonumore non era rimasta neppure l’ombra, e non gli raccontava proprio più nulla, come invece faceva un tempo, di quanto le capitava. Per non menzionare la sua sciocca e rischiosissima decisione, almeno secondo Argyll, di farsi coinvolgere in quella storia. Il fatto che si trattasse del suo lavoro e che lei fosse stata tirata in ballo dal primo ministro non gli sembrava un motivo sufficiente per non tentare di tagliare la corda. Perciò, in attesa che la moglie rinsavisse, lui oziava sul divano, meditando su quale dei propri impegni affrontare per primo. Il che gli portò via un bel po’ di tempo che magari un tipo più rigoroso di lui avrebbe preferito sfruttare per portare a termine almeno uno di quegli impegni, ma Argyll era molto pignolo in proposito e voleva avere le idee ben chiare. La sua mente continuò quindi a vagare da un pensiero all’altro: scrivere la relazione; sbrigare le formalità per l’invio dei quadri; fare la spesa per la settimana. Per poi ricominciare da capo. All’improvviso gli venne un’idea per il regalo d’addio a Bottardi. Ovviamente, come capitava in quelle situazioni, si poteva sempre ripiegare su qualcosa di convenzionale, un oggetto qualsiasi, ma lui aveva voglia di trovare qualcosa di speciale. Aveva molta simpatia per il generale, che gliela ricambiava. Era convinto che quel vecchio amico sarebbe mancato a lui almeno quanto a Flavia. E l’idea che gli era venuta gli pareva ottima. Non molto tempo prima, lui e la moglie si erano recati a casa di Bottardi a bere qualcosa, ed era stata la prima volta che Argyll metteva piede in quell’appartamento, perché capitava raramente che il generale invitasse qualcuno. Anche perché casa sua era un po’ trascurata. Da scapolo qual era, Bottardi non aveva mai molto tempo per i lavori domestici. Per lui era esclusivamente un posto in cui dormire, farsi la doccia e appendere gli abiti, nulla di più, e infatti loro tre ci erano rimasti solo una ventina di minuti, poi erano andati a mangiare in una trattoria nei dintorni. Tanto maggiore, quindi, era stato lo stupore di Argyll nel vedere sopra il caminetto, spento da un’eternità, un quadretto che spiccava sulla vecchia carta da parati macchiata. Era infatti, in tutto l’appartamento, l’unica cosa
che non avesse una finalità strettamente pratica. Eppure Bottardi, benché avesse speso metà della sua lunga carriera nel tentar di recuperare le opere d’arte rubate, non gli era mai sembrato il tipo desideroso di averne una tutta per sé. Ma quel quadretto era delizioso: dipinto a olio su un supporto di legno di circa venti centimetri per trenta, un po’ rovinato dal tempo, raffigurava la Vergine con un angioletto che volava sopra di lei. Insolito e poco ortodosso. Una Vergine diversa dalle altre, in poche parole. Era di una bellezza rara; inoltre il pittore aveva dipinto due personaggi inginocchiati di fronte a lei, assorti in preghiera. Era un bel quadro, in condizioni decenti, adatto a stare su un caminetto. Benché qua e là fosse riconoscibile l’opera di un restauratore, gli interventi sembravano essere stati pochi e leggeri. Secondo Argyll, risaliva circa al 1480 ed era attribuibile a un artista dell’Italia centrale, anche se non aveva potuto essere più preciso, dal momento che l’opera apparteneva a un periodo di cui lui non era esperto. Ma, e quel «ma» non era trascurabile, nell’osservarlo aveva sentito uno strano formicolio lungo la schiena. «Cos’è?» aveva chiesto, avvicinandosi il più possibile. Bottardi si era girato a guardare. «Oh, quello», aveva detto con un lieve sorriso. «Un regalo che ho ricevuto tanto tempo fa.» «Beato lei. Cosa sarebbe?» «Non ne ho la minima idea. Ma il dipinto di per sé non ha nulla di speciale, direi.» «Da dove viene?» Il generale si era stretto nelle spalle. «Posso?» aveva chiesto Argyll, staccandolo dalla parete prima che Bottardi potesse dire che era meglio di no, che avrebbe preferito... L’aveva osservato più da vicino e aveva notato che i danni dovuti al passare del tempo, le scheggiature e le crepe erano prevedibili. Qua e là era scrostato e graffiato, ma nulla di irreparabile. Poi l’aveva girato. Sul retro non aveva trovato scritte, ma soltanto un foglietto di carta incollato, con sopra un timbro raffigurante, a quanto pareva, una casa, e un numero, 382, vergato con inchiostro ormai sbiadito. Non gli diceva niente. Facendo spallucce l’aveva rimesso a posto, ma più tardi aveva preso nota di quei particolari sul taccuino che, in uno dei suoi rari sprazzi organizzativi, aveva deciso di tenere per tali evenienze. Erano molto utili le etichette applicate dai proprietari; peccato che l’unico testo decente che le catalogava fosse stato pubblicato tre quarti di secolo prima e fosse talmente obsoleto e incompleto che solo in rarissimi casi si rivelava utile. Argyll aveva accarezzato l’idea di pubblicarne, un giorno o l’altro, un supplemento e assicurarsi così eterna fama. «Nell’Argyll c’è?» avrebbe chiesto la gente in futuro. Ovviamente l’avrebbe domandato solo se lui si fosse impegnato a
scriverlo. Ora, nove mesi più tardi, quel dipinto e la sua etichetta gli tornarono in mente. Ecco un bel regalo da fare a Bottardi: ricostruire la storia di quel dipinto. Scoprire cosa fosse, da dove provenisse, a chi fosse appartenuto. Raggruppare tutti quei dati in una breve ricerca. Un segno d’amicizia, niente di più, ma che avrebbe fatto piacere al generale, pensò. Un dono personale, pensato apposta per lui. Sempre meglio della piccola stampa o dell’acquerello che gli avrebbero probabilmente comprato con la cifra raccolta fra tutti i suoi colleghi d’ufficio. Una ricerca iconografica non lo aiutò granché, però gli servì come punto di partenza. Le Vergini con gli angioletti erano generalmente considerate una delle prime rappresentazioni dell’Immacolata Concezione, molto prima che la dottrina prevalesse sui sentimenti e la ragione dei devoti. I due personaggi inginocchiati davanti a lei con ogni probabilità raffiguravano i committenti dell’opera, oppure i genitori di Maria. E se si trattava davvero di un’Immacolata Concezione, quasi certamente il dipinto era destinato a un convento di francescani, da sempre convinti che la futura madre di Gesù fosse immune dal peccato originale. Ma, per quanto riguardava il nome del pittore, o perlomeno della sua scuola, Argyll brancolava nel buio, potendo fare solo supposizioni sulla datazione e il luogo d’origine. Tutto ciò che aveva in mano era l’annotazione riguardo al timbro dietro al quadro. Tuttavia, convinto che da piccole ghiande possano crescere enormi querce, telefonò all’ex principale, Edward Byrnes, il quale gli disse che avrebbe chiesto in giro. Peccato che lo dicesse sempre, per poi darsi davvero da fare solo raramente. Però quello fu uno dei rari casi: non era trascorsa neanche un’ora quando Byrnes gli comunicò via fax che un suo collega si era offerto di comprare uno dei dipinti che Argyll gli aveva dato da vendere e che, a suo parere, il prezzo era buono e valeva la pena di accettarlo, aggiungendo poi, in calce, che aveva rintracciato il contrassegno con la casetta. «Secondo le persone da me interpellate, vecchie abbastanza da ricordare certi particolari, è di sicuro da ricondurre a Robert Stonehouse, che nel periodo fra la prima e la seconda guerra mondiale aveva messo insieme una collezione tutt’altro che disprezzabile, andata però dispersa negli anni Sessanta. Ho controllato per te nel catalogo d’asta, e le notizie riguardo a quello che con ogni probabilità è il tuo quadretto non ti porteranno molto lontano. Viene detto che è ’di scuola fiorentina, risalente al tardo XV secolo’. Se però consideriamo quanto possa essere fantasioso chi stabilisce le attribuzioni, potrebbe anche trattarsi di un Picasso. Il dipinto fu venduto per novantacinque sterline, quindi desumiamo che, nella Londra di quegli anni, nessuno gli attribuì un gran valore. La villa che Stonehouse possedeva in Toscana è diventata proprietà di un ateneo statunitense, dove potrebbe
esserci qualcuno che ne sa di più.» Dopo un’altra ora trascorsa a sfogliare libri di consultazione, biografie e altri testi attinenti al commercio di opere d’arte, Argyll riuscì a trovare qualche notizia in più sulla collezione di Stonehouse, perlomeno abbastanza da convincerlo che il modo in cui Byrnes l’aveva definita, cioè «tutt’altro che disprezzabile», non le rendeva onore. Era stata infatti un’ottima collezione. Una storia da manuale, per quanto era riuscito a capire: il capostipite della famiglia Stonehouse aveva fatto i soldi con la iuta, o qualcosa del genere, e suo figlio, diventato un amante dell’arte, si era ritirato in una sontuosa villa italiana, approfittando di quel vantaggioso punto d’osservazione per comprare i vari pezzi della sua collezione, ma anche per tenere astutamente d’occhio l’andamento del mercato azionario, tanto che era stato uno dei pochi a uscire indenne dalla grande crisi del 1929. Una tragedia, questa, che aveva fatto crollare i prezzi delle opere d’arte in tutto il mondo, per la gioia dei collezionisti che non si erano impoveriti. La grande e classica vicenda della famiglia Stonehouse si era compiuta con il rampollo di terza generazione, Robert junior, il quale aveva i gusti raffinati del padre, ma non l’abilità del nonno in campo commerciale e finanziario, ragion per cui era stato costretto a vendere non solo la collezione, i cui pezzi si erano sparpagliati qua e là nei musei di tutto il mondo, ma anche la villa, finita in mano a un ateneo statunitense che organizzava una sorta di campo estivo nell’edificio in cui un tempo riecheggiavano le voci dei letterati e degli artisti più importanti d’Europa. Fin lì, niente di straordinario; nulla, in tutta quella vicenda, che potesse essere d’aiuto ad Argyll. C’era però un particolare interessante: a detta di molti, Robert Stonehouse senior si considerava un collezionista con ambizioni artistiche, perché i suoi pezzi non costituivano semplicemente un sovrabbondante ed eterogeneo bric-à-brac, per quanto di buona qualità, bensì un complesso che poteva definirsi artistico per l’attenzione con cui ogni dipinto, arazzo, bronzo, scultura, maiolica, stampa o disegno era stato acquistato, in modo che tutti insieme dessero vita a un qualcosa di perfettamente armonico. Una finalità implicita, certamente, che in realtà non tutti erano in grado di apprezzare; ciò non di meno, un’impresa meritoria. In un certo senso era un vero peccato che la collezione fosse stata smembrata, ma era proprio quello il punto. A modo suo, si disse Argyll mentre si versava ancora da bere e metteva i piedi sul divano per meglio riflettere sulla sua improvvisa illuminazione, il collezionismo poteva essere visto come la prima manifestazione d’arte, effimera, fluttuante ed evanescente. Esisteva solo per qualche breve istante e subito svaniva, spazzata via dai venti del cambiamento indotti da sistemi economici corrosivi. E il furto? In tale ottica, anch’esso poteva essere interpretato come un atto
estetico, parte del ciclo continuo dello scomporsi e ricomporsi di raccolte di quadri. Santo cielo, pensò, potrei farne il mio argomento per la relazione che devo scrivere. Avrebbe risolto in un colpo solo due problemi: il piccolo dono per Bottardi e la relazione per il convegno. Avrebbe preso due piccioni con uno Stonehouse, per così dire. Un argomento fumoso, senza dubbio, inconsistente e vago, forse, ma proprio il genere di relazione che si presta perfettamente a essere letta alle conferenze. Tra l’altro gli restava ormai ben poco tempo, doveva per forza mettersi al lavoro su qualcosa e al momento non gli erano venute altre idee. Ma tutti i suoi sforzi non erano ancora serviti a fargli appurare qualcosa sul quadretto della Vergine, nonostante lui ci sperasse. Se quell’opera aveva attirato Stonehouse, doveva avere una qualche attrattiva. Per aumentarne sensibilmente il valore, casomai Bottardi avesse deciso di venderlo, sarebbe bastato scoprirne la provenienza, però quel tipo di ricerca poteva trasformarsi in un hobby compulsivo, perché, una volta iniziato, era difficile smettere. Si tentava sempre di collocare la realizzazione del quadro un po’ più indietro nel tempo. Argyll era riuscito a risalire a non prima del 1966 e a individuare un solo proprietario. Ne sapeva ancora assai poco e in ogni caso l’idea di usarlo come argomento della sua relazione gli aveva solleticato la fantasia. Flavia era così preoccupata e scontrosa che si sarebbe a malapena accorta della sua assenza. Meglio starle alla larga per qualche giorno. Ci pensò su un attimo, poi si fece dare dal servizio informazioni il numero di telefono dell’ateneo statunitense e chiamò. Che persone gentili. Certo che avevano i documenti relativi a Stonehouse; certo che poteva consultarli; certo che l’avrebbero ospitato per una notte, se ne avesse avuto bisogno. Fosse stato sempre tutto così semplice… Mezz’ora più tardi Argyll stava già facendo la valigia per essere pronto a prendere la mattina seguente, di buon’ora, un treno diretto a Firenze.
5 Corrado, la recluta, aveva fatto un lavoro esemplare. Non solo era riuscito a rintracciare quasi tutti quelli che in Italia erano implicati in furti di opere d’arte, ricollegandoli ad altri soggetti con una certa propensione artistica, e a redigere un altro elenco in cui aveva inserito i collusi con il crimine organizzato, dividendolo per regioni (in base alla ragionevole convinzione che i criminali erano per la stragrande maggioranza pigri e non amavano spostarsi dal proprio campo d’azione), ma aveva dattiloscritto tutto in due dozzine di caratteri tipografici diversi, corredando il testo con splendide, seppur assolutamente superflue, tavole e inserendo tutto in un rapporto, dall’aspetto estremamente professionale, di ben quarantacinque pagine, completo di rinvii ai fascicoli dei vari casi. Flavia si sforzò di non dare a vedere quanto fosse rimasta impressionata. «Niente male», commentò più seccamente possibile, facendo cadere il rapporto sulla scrivania. «Ora non potresti dirmi in poche parole che cosa hai trovato?» «Nulla», rispose Corrado con ammirevole franchezza. «Nulla di nulla?» «Negli schedari non ho trovato nessuno con le caratteristiche da lei richieste. Cioè, sono andato in cerca di persone che hanno sempre lavorato per proprio conto e che hanno rubato qualcosa di simile. Ho anche separato le due cose e ipotizzato che il ladro del dipinto potesse averlo fatto su richiesta di qualcun altro, ma anche così non ho scovato nessuno che facesse al caso nostro. Non sono riuscito a controllare tutto, ovviamente, però...» Bene, pensò Flavia. Dopotutto anche lui non era infallibile. Il che le permetteva di dargli una strigliata. «Perché hai tralasciato qualcosa? In casi come questo, sai, è indispensabile essere estremamente meticolosi, altrimenti...» «Non sono riuscito a consultare tutti i fascicoli», la interruppe Corrado, togliendole il terreno da sotto i piedi proprio mentre lei stava facendo un passo più lungo della gamba. «Ne mancano alcuni.» Flavia digrignò i denti. La trascuratezza di alcune persone era una delle poche cose che la indispettivano veramente, soprattutto perché, un tempo, a tale proposito era stata lei la pecora nera del dipartimento. Quale segno della sua conversione sulla via di Damasco o, per così dire, del suo ingresso nel mondo della responsabilità, non appena si era trasferita nell’ufficio di Bottardi aveva come prima cosa inviato a tutti i sottoposti un promemoria in cui si ingiungeva di consultare un fascicolo solo dopo aver firmato l’apposito registro, di evitare, durante la lettura, di posarci sopra la tazzina
del caffè, e di rimetterlo quanto prima al suo posto. Quindi aveva recuperato tutti i fascicoli che si trovavano nel suo vecchio ufficio e li aveva rimessi lei stessa al loro posto in archivio. Il suo richiamo all’ordine aveva avuto lo stesso effetto delle ramanzine che Bottardi le aveva sempre fatto sullo stesso argomento. Nell’archivio continuavano a esserci spazi vuoti; i fascicoli venivano sistemati nell’anno o nella categoria sbagliati, sempre che venissero sistemati, e di tanto in tanto nell’edificio risuonavano le urla rabbiose di chi aveva trovato uno spazio vuoto al posto della risposta ai suoi problemi. «Allora sarà questo il tuo compito per il pomeriggio», replicò. «Sarà meglio che tu riesca a ritrovare quelli che mancano. Devono pur essere da qualche parte in questo edificio.» «Forse. Uno, però, non c’è di sicuro.» «Come fai a saperlo?» «L’archivista mi ha comunicato che si trova all’Eur. È stato il generale Bottardi a richiederlo.» «Fa’ a meno di quello, allora, ma rintraccia tutti gli altri.» Aveva rovinato la giornata al povero ragazzo, ne era consapevole. Corrado si era incupito perché sperava già di essersi guadagnato, grazie al suo ottimo lavoro, il permesso di tornare ad accompagnare Paolo nei pattugliamenti in giro per la città. «Quanto più rapidamente li rintracci, tanto prima tornerai a battere le strade», aggiunse Flavia mentre lui usciva a testa china dal suo ufficio, poi sprofondò nella sedia. Doveva fare assolutamente qualcosa per quel senso di nausea che non l’abbandonava. L’unico motivo per cui non si decideva a farsi visitare da un medico era il timore che lui le trovasse qualcosa che non andava. Nei recessi della sua mente aleggiava la parola «ulcera», il sine qua non di tutti i bravi burocrati. E lei non sopportava quell’idea. Poi il telefono squillò. Avevano finalmente chiesto un riscatto. Tutto era avvenuto in modo così classico e tradizionale che Flavia si insospettì. Una telefonata al museo, anche se, a quanto pareva, il povero ladro all’inizio aveva sudato sette camicie prima di riuscire a farsi ascoltare da qualcuno, poi una parola in codice per dimostrare di essere credibile. Cioccolatini, aveva detto l’uomo. Abbastanza chiaro, perché solo chi era al corrente del furto sapeva dei cioccolatini. Poi la richiesta: il corrispettivo di tre milioni di dollari in diverse valute europee, l’introduzione dell’euro avrebbe davvero semplificato la vita ai sequestratori. Le modalità di consegna saranno comunicate domani. «Credo che lei dovrebbe comunque venire qui», disse Macchioli, dopo averla informata dell’accaduto. «Perché? C’è forse dell’altro?»
«Solo il pacco.» «Quale pacco?» «Quello che un fattorino ha appena consegnato nel mio ufficio. Ho dovuto firmare io per lei.» Flavia scosse la testa. «Di cosa sta parlando?» «È arrivato cinque minuti fa. Tramite corriere. Non so chi l’abbia spedito. È indirizzato a lei, presso il museo.» «Perché mai qualcuno avrebbe dovuto mandarmi un pacco lì?» Silenzio all’altro capo del telefono. «Va bene. Verrò a prenderlo. Nel frattempo, cerchi di ricordare tutto il possibile su quanto le è stato detto al telefono. E si faccia dare la registrazione, così che io possa ascoltarla con le mie orecchie.» «Quale registrazione?» «Le abbiamo mandato i nostri tecnici, ricorda? Proprio in previsione di una telefonata. Quella squadra ha collegato un registratore alla linea telefonica, giusto?» «Oh, quello...» Macchioli aveva un tono dubbioso. A Flavia vennero i sudori freddi. E a ragion veduta. Perché i tecnici che avevano sistemato l’apparecchiatura avevano fatto un ottimo lavoro, sotto tutti i punti di vista, ma purtroppo si erano fidati della centralinista del museo, affidando a lei il compito di accendere ogni mattina il registratore. Cosa che aveva fatto nei primissimi giorni, spiegò la cicciona, oltretutto in tono rabbioso, però ci voleva poco a riempire una cassetta. Cosa pretendevano da lei? Possibile che la gente non capisse quanto fosse stancante e stressante il suo lavoro, tutto quel rispondere alle telefonate ogni giorno, dalla mattina alla sera, senza doversi anche preoccupare di sostituire continuamente la cassetta del registratore? Dopotutto non le davano uno stipendio da favola. Quante volte, aveva domandato retoricamente, aveva detto al direttore del museo che ci volevano ogni giorno almeno due persone al centralino? Però nessuno la stava mai a sentire... Flavia si accorse che neanche lei la stava ascoltando, così rivolse un sorriso cortese alla sdegnata e tremolante montagna di ciccia che aveva di fronte, poi rientrò nell’ufficio di Macchioli. «Niente registrazione?» chiese lui. «No.» L’uomo sorrise contrito, e Flavia dovette resistere alla tentazione di tirargli addosso qualcosa. «Le è tornato in mente qualche altro particolare?» «No. A parte il fatto che abbiamo ritrovato la cornice.» «Dove?» «Nell’ufficio del custode. A causa di tutto quel trambusto, ci eravamo
dimenticati di aver tolto la cornice al dipinto per spolverarla.» «Capisco. È il caso, suppongo, di comunicare al primo ministro che la richiesta di riscatto è arrivata.» «Oh, ci ho già pensato io.» «Quando?» «Quando è arrivata la telefonata.» «Cioè quando?» Macchioli diede un’occhiata al suo orologio. «Accipicchia, come vola il tempo», rispose. «Un paio d’ore fa.» Flavia pensò che non valeva la pena di fargli presente quanto si sentisse umiliata nel constatare che era sempre l’ultima a essere informata dei fatti, perché senza alcun dubbio Macchioli le avrebbe chiesto che differenza facesse. E, ovviamente, non faceva alcuna differenza. «Benissimo», disse. «Benissimo. Ora vediamo quel famoso pacco. Dov’è?» Macchioli le indicò uno scatolone avvolto da carta marrone, posato in un angolo. Flavia lo osservò sospettosa. Prima d’allora nessuno le aveva mai mandato una bomba, ma c’era sempre una prima volta, che in quel caso, secondo lei, sarebbe stata anche l’ultima. D’altra parte, perché mai avrebbero dovuto spedirgliela al museo? Lo sollevò, era sorprendentemente pesante, quasi contenesse libri , e provò a scuoterlo, poi si strinse nelle spalle e si fece dare da Macchioli un paio di forbici. Lo scatolone conteneva denaro. Molti soldi. Un mucchio, anzi una montagna, di soldi. Flavia ci rimise rapidamente il coperchio. A quanto ammontava? Poté facilmente intuire che lì dentro c’era, in diverse valute, il corrispettivo di tre milioni di dollari. E che quel denaro si era materializzato in seguito alla telefonata di Macchioli al primo ministro. «Santo cielo», disse il direttore del museo, che si era avvicinato e aveva sbirciato alle spalle di Flavia. «Che roba è?» Le domande inutili erano una sua specialità. «Oh», ribatté Flavia, «giorni fa ho compiuto gli anni.» Si alzò e sollevò la scatola. «Pensa che potrei parcheggiare la mia auto nel cortile sul retro? Mi dispiacerebbe perdere questa roba. A proposito, com’è la storia di Cefalo e Procri?» «Come, scusi?» «Mi riferisco al Lorenese. Cosa raffigura?» «Ah. La storia è di Ovidio, mi pare, ma nel Seicento venne conosciuta grazie a un’opera di Niccolò da Correggio. È molto complicata. C’entrano quei pasticcioni degli dei, come al solito. Diana regala a Cefalo una lancia magica, infallibile nel colpire il bersaglio, e lui in un bosco la scaglia contro quello che crede sia un cervo, ma per errore uccide Procri, la sua sposa. La storia ha un lieto fine perché Diana riporta in vita la donna. Perché lo voleva sapere?»
«Per curiosità. Non ne avevo mai sentito parlare.» «Davvero?» chiese Macchioli, sorpreso. «Be’, quando ero giovane, rientrava nel programma scolastico.» «In quale ambito?» «In mitologia. Tutti dovevano conoscerla a menadito. Mussolini ci teneva moltissimo, se non vado errato.» «Immagino che tutto sia cambiato negli anni Sessanta.» «Già», replicò Macchioli, con l’aria di ritenere che non fosse un miglioramento. «Rivela l’età di una persona. Presumo che chiunque abbia superato la quarantina conosca abbastanza bene la mitologia.» «In tal caso», ribatté Flavia, «smetterò di cercare un ladro giovane. Anche se non riesco a immaginare che il soggetto del dipinto gli interessi granché.»
6 Arrivare da Roma a Firenze fu abbastanza facile: Argyll non dovette fare altro che andare in stazione, montare sul treno e ammirare il panorama che diventava sempre più bello con il passare delle ore. Il treno era vuoto, per di più, non come capitava un tempo. Argyll stava invecchiando abbastanza da avvertire spesso un senso di rimpianto, e il fatto che avessero sostituito i vecchi vagoni verdi, che andavano a passo di lumaca ed erano affollati di schiamazzanti soldati di leva, con nuovi treni scintillanti, veloci e costosi, che offrivano le discutibili comodità degli aerei di linea, gli fece rimpiangere un’epoca di maggior semplicità. In compenso il viaggio durò molto meno. Argyll non aveva quasi neanche finito di leggere il giornale quando il treno rallentò ed entrò nella stazione di Firenze. A quel punto l’epoca di maggior semplicità si prese una rivincita. Per quanti progressi avesse comportato la modernità, essa aveva influito assai poco sul sistema del trasporto pubblico fiorentino, che, oltre a essere terrificante, era anche incomprensibile per chiunque non abitasse da lungo tempo in città. Argyll trascorse quindi i successivi quarantacinque minuti a saltabeccare tra una dozzina di fermate d’autobus fuori dalla stazione, nella speranza che un autista ammettesse finalmente di andare nella direzione giusta. Anche quando riuscì a superare quell’ostacolo, si accorse che i suoi guai non erano finiti, perché il pullman su cui era salito lo lasciò in piena campagna all’incrocio tra una stradina e un’altra ancora più piccola, senza neanche un cartello stradale né anima viva a cui chiedere informazioni. C’era solo la brezza primaverile della campagna, prima che la torrida estate toscana inaridisse il paesaggio. Il semplice fatto di trovarsi fuori Roma aveva comunque un notevole effetto tonificante: Argyll amava molto la capitale, però non poteva negare che di tanto in tanto vi aleggiasse una tremenda puzza, per non parlare del chiasso di cui ci si rendeva conto solo quando cessava, quando gli unici suoni erano la lieve brezza fra gli alti cipressi e il cinguettio dei pochi volatili che non erano ancora stati abbattuti a fucilate e mangiati. Tutto molto gradevole, ma non avrebbe sopportato di dover respirare aria buona tutto il giorno. Doveva imboccare una delle due strade: quella percorsa dalla corriera, oppure il viottolo alla sua destra. L’istinto gli suggeriva di scegliere quest’ultimo, perciò, come aveva stabilito, optò per l’altra, basandosi sul fatto che in questioni del genere il suo istinto si sbagliava sempre. Quindi, reggendo la borsa e cominciando a sudare, si avviò faticosamente finché, avendo percorso quasi un chilometro senza scorgere né una casa né un essere umano, si fermò a riprender fiato. Benché fosse
primavera, faceva già caldo e a lui, essendo inglese, bastava un lieve tepore per sentirsi liquefare. Tornare indietro sarebbe stato stupido, proseguire una follia. Se almeno ci fosse stata una cabina telefonica. Argyll si guardò attorno, cercando un’ispirazione, ma non vide nulla a portata di mano. Riprese a camminare sulla strada che svoltava bruscamente e trovò la salvezza in un uomo che indossava un assurdo abito gessato, completo di giacca, pantaloni e gilè, e fissava con aria perplessa una vecchia Volkswagen con il cofano alzato. «Mi scusi...» l’apostrofò Argyll in italiano. «Dannazione!» replicò l’uomo in inglese, senza prestargli attenzione. «Come, scusi?» «Questo maledetto trabiccolo. Quei dannati bastardi. Non vede? Qualcuno ha rubato il motore. Ti fermi un attimo, ti allontani e, quando torni, il motore non c’è più. Per forza che l’auto non va.» Argyll si sporse a guardare. Era vero. Il vano sotto il cofano era vuoto. «Ha provato a guardare dietro?» chiese. «Cosa?» «Nel vano posteriore. È lì che questo tipo di auto ha il motore, di solito.» L’uomo, alto e dritto come un fuso, con i capelli brizzolati a ciuffi e un’espressione esterrefatta sul volto, smise di fissare quello che in realtà era il portabagagli, completamente vuoto, e si voltò a guardare Argyll. «Lei è un meccanico?» «No. Però, se non mi crede, dia un’occhiata.» Ancora più perplesso di prima, l’uomo fece quanto gli era stato detto. A grandi passi raggiunse il retro della Volkswagen e sollevò il portello posteriore. «Buon Dio», disse. «Incredibile. Bene, bene.» Poi tornò a rivolgersi ad Argyll. «Che fortuna ho avuto a imbattermi in un meccanico. Ora lei potrebbe essere così gentile da farmi ripartire quest’auto?» «Non sono un meccanico.» «Ma chiaramente si intende di macchine.» «Be’, un po’...» «Ci provi, allora.» E Argyll fece ciò che faceva sempre con le vetture recalcitranti, cioè si assicurò che ci fosse benzina e che non si fosse staccato nessun cavo. Tutto risultò perfettamente a posto, però quei maneggi dovevano essere serviti a qualcosa dal momento che l’auto magnanimamente rafforzò la sua fama di mago dei motori accendendosi al primo colpo. Il suo nuovo compagno era rimasto a bocca aperta per l’ammirazione. «Non le chiederò come ha fatto», disse, «perché tanto non ci capirei nulla. Però la ringrazio di cuore.» Argyll accettò con modestia i complimenti. «Forse in cambio lei potrebbe
farmi un piccolo favore», disse. «Conosce per caso un posto chiamato Villa Buonaterra?» L’uomo più anziano ebbe una leggerissima esitazione, mentre sul viso gli appariva un’ombra di sospetto. «Sì», rispose, «lo conosco. Perché lo vuol sapere?» «Dovrei andarci, ma non riesco a trovarlo. L’autista della corriera mi aveva detto che mi avrebbe lasciato alla fermata più vicina, ma non so se l’abbia fatto davvero.» «Proceda per duecento metri, quindi svolti a sinistra.» L’uomo si girò bruscamente, montò sulla piccola auto e partì senza tanti ringraziamenti. Ma di colpo si fermò, fece marcia indietro fino a tornare dov’era prima e abbassò il finestrino. «Scusi la mia maleducazione», disse in tono severo. «È un mio difetto. Stasera, se non ha niente di meglio da fare, venga a bere qualcosa da me. Abito lungo questa strada, a circa un chilometro e mezzo da qui. In un cottage appena prima del paese.» E ripartì. Argyll lo seguì con lo sguardo, con l’impressione di aver appena ricevuto un invito che avrebbe probabilmente ignorato. Se almeno fosse stato avvisato che, dopo aver raggiunto in poco tempo il cancello d’ingresso, avrebbe dovuto percorrere ancora più di un chilometro e mezzo per arrivare alla villa vera e propria, Argyll sarebbe stato preparato. Invece, ci mise un’altra mezz’ora per arrivare, stanco e impolverato, davanti a uno degli esemplari più belli ed eleganti di architettura rinascimentale il cui campanello non aveva mai avuto il privilegio di suonare. Aspettò che venissero ad aprirgli, fermo in piedi sotto il portico d’ingresso, fra colonne ricoperte di stucco ocra friabile, godendosi la frescura dell’ombra. Davanti a lui correva un viale ghiaioso fiancheggiato da statue coperte di licheni, e, di lato, si stendeva un giardino all’italiana, geometrico e ordinato, ma senza la scarna severità che lo stile francese avrebbe in seguito introdotto. Al di là del giardino si innalzavano gli alberi, e poteva udire appena il fruscio di foglie mosse dalla lieve brezza. Il nome del posto, Buonaterra, era davvero azzeccato. Anche a lui, se avesse avuto molti soldi, sarebbe piaciuto vivere in un luogo simile arricchendolo con gli oggetti più belli che fosse riuscito a trovare. O, meglio, un mucchio di quattrini: negli anni Venti, quando stava comprando le opere della sua collezione, Stonehouse doveva competere solo con pochi ed eterogenei musei e con una manciata di eccentrici come lui, disposti a sborsare denaro sonante per accaparrarsi una Madonna quattrocentesca, o altre opere analoghe, mentre ormai la competizione era tra miliardari arricchitisi grazie a internet e multinazionali di ogni tipo. Argyll si chiese quanti pezzi della collezione Stonehouse, un tempo appesi alle pareti di quella villa, languissero in quel momento sotto le
oscure volte del caveau di una banca, però sospettava che fossero la stragrande maggioranza. Quindi adesso i quadri appartenevano a gente molto facoltosa e la villa, un tempo rifugio campestre della nobiltà fiorentina, era invasa da orde di studenti che giocavano a frisbee sui prati. Il progresso ha un prezzo. Quel suo malinconico senso di pace stava per trovare il ritmo giusto quando qualcuno venne ad aprirgli e la cantilenante pronuncia di un americano del Sud lo fece ripiombare nel nuovo millennio. Mezz’ora più tardi, dopo aver disfatto i bagagli ed essersi lavato, scese dabbasso, dove lo aspettava il suo nuovo amico che aveva reso possibile tutto ciò. «Quanti studenti avete qui?» domandò, incuriosito, rimirando quella che sembrava, sotto ogni punto di vista, una casa di campagna disabitata, splendidamente ammobiliata e priva di ogni minimo indizio che rivelasse l’uso che al momento se ne faceva. Si era aspettato che vi aleggiasse il solito tanfo di cavolo lesso, che le pareti fossero state ridipinte di un grigio nave da guerra, che ovunque si notassero chiari segni di deterioramento. Invece non c’era nulla del genere. «In realtà, quasi nessuno», rispose il suo ospite, il cui nome era James Kershaw. «Non so perché, ma l’opportunità di trascorrere svariati mesi a poltrire nella campagna toscana non sembra esercitare un grande fascino sui nostri studenti, anche se sospetto che il corpo docente che viene qui ogni anno faccia del suo meglio per scoraggiare chiunque dal tentare una simile esperienza. A quanto pare, l’intera operazione», proseguì, facendo strada ad Argyll verso la terrazza sul retro, apparecchiata per il pranzo, «ha prodotto una sorta di buco nero nei conti dell’amministrazione. La villa ci è stata praticamente regalata, ma con la clausola, imposta dall’eccentrico donatore, di non rivenderla ad altri. Negli ultimi anni le iscrizioni alla facoltà d’italiano si sono drasticamente ridotte e noi insistiamo affinché vengano qui solo studenti che conoscono già la lingua, perciò ne accogliamo soltanto una mezza dozzina all’anno, esclusi alcuni già laureati che si sono iscritti a un corso di specializzazione. E questo al momento non è ancora iniziato.» «Quindi per il resto dell’anno fate una vita da nobiluomini rinascimentali.» «Esattamente. Prima o poi qualcuno se ne accorgerà e metterà fine a questa pacchia, ma, finché dura, io intendo godermela il più possibile. Champagne?» chiese, affrettandosi a specificare: «Non autentico champagne, ovviamente. Se in otto ne facessimo fuori una cassa alla settimana, potremmo attirare l’attenzione su di noi». Argyll convenne che forse, date le circostanze, limitare le spese era più che giusto. «Mi fa piacere che lei sia venuto a trovarci. È una gioia avere compagnia in questo nostro esilio. Ma che cosa sta cercando, per la precisione?»
«Devo scrivere una relazione. Mi restano solo due settimane di tempo e ho intenzione di incentrarla sulla collezione Stonehouse. E vorrei cercare un dipinto che si trovava qui. Quando siete venuti in possesso di questa villa, che fine hanno fatto i carteggi relativi alla collezione?» «Li abbiamo tenuti noi. Nessun altro li voleva. Allora i documenti di un collezionista del Novecento non facevano gola alla confraternita degli storici dell’arte. Non che oggi la situazione sia molto cambiata. Se ricordo bene, non è mai venuto nessuno a chiedere di consultarli. Qual è il dipinto che le interessa?» «Una Madonna. Un’Immacolata Concezione, credo.» «E di chi è?» «Del Maestro dell’Immacolata Concezione di Buonaterra. In altre parole, lo ignoro.» «E vuole scoprirlo. Lei è un mercante d’arte?» Una domanda insidiosa. Confessare a un esponente della cerchia accademica di essere un mercante d’arte equivale ad ammettere di fronte a un consesso di mercanti d’arte di avere interessi accademici. Si ottengono comprensivi cenni del capo e sorrisi forzati, ma la conversazione prende subito un’inequivocabile piega sprezzante. I due gruppi non simpatizzano tra loro, perché gli accademici ritengono i commercianti d’arte interessati solo al denaro, mentre i mercanti d’arte considerano gli accademici fumosi e inutili. In realtà di solito è vero il contrario, ma questo non conta. Perciò Argyll, riluttante a confessare il suo infamante passato, farfugliò qualcosa. «È convinto che si tratti di un capolavoro di Giotto andato perso? È così?» «No, no. Questo dipinto è secondario. Ciò che m’importa è il testo che sto per scrivere. Una sorta di disquisizione filosofica sulle collezioni d’arte intese come opere d’arte in sé, con cui intendo accertare se e in quale modo tali raccolte e il successivo smembramento abbiano una loro peculiare forma estetica. Avrà capito a cosa alludo. A partire da Lucio Cornelio Silla che spoglia Atene per dare lustro a Roma, passando per Costantino che depreda Roma allo scopo di abbellire Bisanzio, per arrivare ai veneziani che razziano Bisanzio, a Napoleone che saccheggia Venezia e ai furti perpetrati dai nazisti a Parigi. Concludendo con lo smantellamento delle collezioni nell’ultimo dopoguerra per motivi fiscali, in conseguenza del quale un enorme numero di opere d’arte è finito negli Stati Uniti. Cercando di capire come ciò abbia contribuito a disseminare gli stili e ad aumentare il valore di certe opere. L’argomento del mio saggio è più o meno questo.» Kershaw, autore di saggi intitolati, per esempio, Genere e intertestualità nel tardo affresco veneziano, arricciò il naso. «Ed è per questo che le servono i carteggi sulle collezioni, immagino», commentò in tono dubbioso. «Già», ribatté cocciutamente Argyll. «Carteggi di cui al momento non dispongo, ecco perché mi trovo qui. E se lei fosse così gentile da portarmi a
vedere questa miniera d’oro, mi metterei subito al lavoro.» «Intanto finisca di pranzare. Di solito prendiamo il caffè sulla balconata, dopo di che ognuno, sazio e riposato, torna alle proprie incombenze. Intende cenare con noi, stasera?» «Probabilmente sì. Sono stato invitato a bere qualcosa da un inetto al quale ho fatto ripartire l’auto. Un inglese, a giudicare dall’accento, e, visto l’aspetto, una specie di militare in congedo. Per di più con qualche rotella fuori posto, direi, perciò non credo che mi tratterrò da lui molto a lungo.» «L’auto era una vecchia Volkswagen?» «Sì, esattamente. Di chi si tratta?» «Di Robert Stonehouse.» Argyll inarcò un sopracciglio. «Ha dovuto vendere la villa, però possiede ancora una bella casetta a circa un chilometro e mezzo da qui, proseguendo lungo la strada provinciale. Ovviamente ha dovuto rinunciare a uno stile di vita opulento, ma dispone ancora di una quantità di denaro tale che né lei né io vedremo mai in tutta la nostra vita. Noialtri non gli andiamo molto a genio. L’invito a bere qualcosa con lui le è stato rivolto prima o dopo che Stonehouse ha saputo dove lei fosse diretto?» «Dopo.» James parve impressionato. «Allora lei deve stargli simpatico. Di solito basta un minimo accenno alla villa per metterlo di cattivo umore. Non ha mai accettato la sua attuale condizione. D’altra parte, se desidera appurare qualcosa su quel dipinto, lui è la persona giusta a cui rivolgersi. Probabilmente le sarà più utile di qualsiasi documento lei possa consultare. Sempre che, all’epoca, lui si trovasse qui.»
7 Quando aveva saputo che Bottardi era andato a scartabellare nell’archivio dopo che lei gli aveva accennato al caso in questione, Flavia si era rammentata del suo sguardo sognante e aveva capito che lui stava per propinarle di nuovo il tormentone: «Noi vecchi saremo anche da rottamare, ma scoprirai che l’esperienza è sempre molto utile». Di solito lei lo assecondava, aspettando che estraesse il coniglio dal cilindro e, voilà!, con un’espressione soddisfatta le desse una dritta. Al che lei si sarebbe dimostrata incredibilmente impressionata e piena di gratitudine. Però stavolta aveva molta fretta, e non era questo il caso adatto per perder tempo con i colpi di teatro, quindi gli telefonò. «Il fascicolo», esordì. «Quello che lei si è portato via. A quale caso si riferisce?» Ma Bottardi, invece di adottare il solito tono soddisfatto e compiaciuto che lei si aspettava, parve seccato di sentirselo chiedere. «E io che speravo di farti una sorpresa», disse. «Povero me, sto proprio cominciando a perdere colpi. Se sarai tanto gentile da venire a pranzo con me, ti racconterò che cosa mi è passato per la mente. È possibile che sia irrilevante, ovviamente, però potrebbe darti uno spunto su cui meditare un po’.» Pranzare era l’ultimo dei pensieri di Flavia perché il suo stomaco continuava a fare le bizze ma, sapendo che il generale amava rispettare certi rituali del vivere civile, accettò. Forse sarebbe riuscita a mandar giù un’insalata e un bicchier d’acqua. «È stato per via dei cioccolatini», iniziò Bottardi quando, tre quarti d’ora dopo, lui e Flavia se ne stavano seduti al ristorante, dopo aver fatto le ordinazioni e sgranocchiato un paio di grissini. «Quanti anni hai, mia cara?» Flavia si rabbuiò. Il generale stava attaccando con i suoi prolissi convenevoli. Oh, be’, se alla fine di quella conversazione fosse scaturito qualche valido spunto, valeva la pena di sopportarli, facendo buon viso a cattivo gioco. «Trentasei», rispose. «Santo cielo!» esclamò Bottardi. «Davvero? Bene, bene. Non l’avrei mai detto. E scusa se te lo chiedo, perché non sono affari miei, lo so benissimo, ma tu e Jonathan siete sempre...» Flavia si rabbuiò ancora di più. A volte Bottardi riusciva a fare certi discorsi che le ricordavano in modo inquietante quelli di sua madre. Inoltre il ticchettio dell’orologio aveva iniziato a ricordarle che stava perdendo troppo tempo. «Come lei stesso ha appena detto», lo interruppe seccamente, «non sono affari suoi.» Bottardi si schiarì la voce. «E tra l’altro non c’entra niente», si affrettò ad
aggiungere. «Volevo solo sapere se ricordi il periodo intorno alla fine degli anni Settanta.» Sarebbe stato un lungo pranzo. «Abbastanza, credo. Perché?» «Maurizio Sabbatini. Ti dice niente?» «No.» Bottardi parve compiaciuto. «Non c’è motivo perché tu debba ricordartene. Non è mai stato un personaggio di spicco. Non è mai neanche comparso in un’aula di tribunale, perciò è sempre rimasto abbastanza nell’ombra. Eppure in quegli anni militava nell’estrema sinistra e ha partecipato ad alcune azioni terroristiche al fine di abbattere il capitalismo mondiale. Queste le rammenterai di certo.» Flavia assentì, paziente. Arrivarono le loro ordinazioni. Bottardi mangiò di gusto, lei invece si limitò a piluccare qualcosa. «Ha intenzione di continuare o no?» proruppe dopo un po’. «Sì, ovviamente», ribatté il generale, pulendosi la bocca sporca di crema al tartufo. «Nell’ottobre del 1979, sono sicuro della data perché, come sai, ho riletto il fascicolo, compie una rapina in una banca torinese. Agisce da solo, a quanto sembra, e d’altronde ci risulta che abbia sempre disdegnato il lavoro di gruppo. Per tutti i testimoni è un’esperienza terrificante e al tempo stesso bizzarra. Sabbatini, con il volto nascosto da una maschera, minaccia tutti con un’arma e si fa consegnare il denaro, poi scaraventa il bottino fuori della finestra, recita un poema sull’imminente rivoluzione, distribuisce manciate di cioccolatini, quindi fa un bell’inchino e se ne va.» Bottardi si interruppe, mentre i piatti venivano ritirati e i bicchieri riempiti di nuovo. «Cioccolatini», disse Flavia. «E una maschera sul viso. In quel caso, con le sembianze del pontefice di allora. Ha sempre dimostrato un grande senso dell’umorismo, a quanto pare, anche nella guerriglia urbana. E, per quanto nominalmente schedato come terrorista, ha sempre e solo operato ai margini dei gruppi realmente pericolosi. Ovviamente conosceva tutti quei criminali, ma lo annoiavano il loro rigore e la dedizione alla causa. I terroristi, dal canto loro, lo ritenevano troppo stravagante e inaffidabile. «In ogni caso queste sue bravate hanno fatto sì che venisse ben presto identificato. Però Sabbatini non ha mai subito alcun processo.» «Che strano.» «Già. Il fascicolo non dice nulla in proposito.» «E poi è diventato un ladro di opere d’arte, con un debole per i paesaggi seicenteschi in stile italiano?» «No. È diventato un artista, un performer.» Bottardi lo disse in un tono che rivelava un certo disprezzo. Secondo lui, c’era da essere contenti quando un oggetto d’arte successivo al 1850 veniva rubato, e questo era il suo
commento più benevolo. «Non ha riscosso un particolare successo, perché il genere di critica sociale da lui espresso con mano piuttosto pesante non è molto in sintonia con la nostra epoca così cinica. È tuttavia considerato un tipo abbastanza fantasioso e probabilmente riscuote l’interesse dei galleristi più per un senso di nostalgia che per una convinta ammirazione per ciò che fa. La maggior parte degli acquirenti delle sue opere è composta, dopotutto, da gente della sua stessa generazione. O, almeno, così sembra. Suppongo che il fatto di dare soldi a un terrorista, anche se questo in particolare è un po’ in là con gli anni, procuri un certo prestigio. «E ora arriviamo al punto. Su di lui abbiamo unicamente un fascicolo stilato al solo scopo di verificare alcuni riferimenti incrociati, perciò tutt’altro che completo, ma più che sufficiente a farci capire che il nostro uomo ha un debole per le stravaganti parodie di azioni criminali, per i cioccolatini e per le maschere da carnevale, e che agisce da solo. Aggiungi a tutto questo una carriera che non decolla e la possibilità di procurarsi grosse somme di denaro.» Flavia rifletté. Che Bottardi avesse colpito nel segno le sembrava quasi sicuro, però era seccata che avesse tenuto per sé quell’informazione tanto a lungo. Lui, se non altro, le fece la cortesia di sembrare imbarazzato. «Era mia intenzione di impacchettare il tutto e consegnartelo su un vassoio d’argento. Sarebbe stato il mio canto del cigno. Credimi, non volevo prendermi il merito. Un colpo d’ala finale, prima di ritirarmi dalle scene. Sfortunatamente...» «Oh, no.» «Magari è un fatto positivo. Sono stato contattato dalla segreteria del primo ministro e mi è stato detto di prendermi carico personalmente di questo caso. Ho interceduto per te, ma i miei interlocutori sono stati irremovibili.» Flavia si rabbuiò come le capitava fin troppo spesso negli ultimi tempi. «Ho anche fatto presente che io... che noi saremmo stati probabilmente in grado di recuperare il dipinto senza pagare alcun riscatto, se la fortuna ci avesse almeno in parte assistiti. Però mi è stato detto, con la massima fermezza, di non fare nulla del genere, né tu né io. Bisogna solo pagare, farsi ridare il dipinto e dimenticare tutto. Mi è stato fatto capire chiaramente che qualsiasi tentativo di denuncia sarebbe stato probabilmente stroncato tramite quei meccanismi tortuosi a cui lo Stato a volte ricorre. Immagino che ciò dipenda dalla convinzione che non si possa istruire un processo senza che la notizia diventi di pubblico dominio. E la pubblicità è proprio ciò che loro vogliono evitare.» «Mmh.» «Questo tuo mugolio è una reazione come un’altra», commentò Bottardi.
«Suppongo che nel frattempo il nostro uomo sia sparito dalla circolazione, giusto?» «Certo. Non puoi pretendere che se ne resti tranquillamente a casa.» Flavia scosse la testa, incredula. «Lei avrebbe dovuto informarmi subito...» Bottardi assunse un’aria giustamente contrita. «Sì, avrei dovuto farlo. Hai proprio ragione, mia cara. Hai tutte le ragioni di questo mondo. Avrei dovuto informarti. Ma avrebbe fatto qualche differenza?» Flavia indugiò. «Immagino di no. È solo che io, da un po’ di tempo a questa parte, sembro essere sempre l’ultima a sapere le cose.» Tentò inutilmente di esprimere quell’obiezione senza che sembrasse dettata solo dal risentimento. «Perciò adesso dobbiamo giungere a una conclusione. Il che significa che abbiamo bisogno di trovare il denaro ed escogitare un modo per realizzare lo scambio.» Flavia si lasciò sfuggire un profondo sospiro e gli raccontò quanto era accaduto quel mattino. «Hai tre milioni di dollari in una valigetta nel tuo ufficio?» «Nella cassaforte. E sono in uno scatolone, non in una valigetta.» «Di chi è il denaro?» «E come faccio a saperlo? Di qualcuno vicino al primo ministro, ovviamente. A parte questo, non ho altri indizi.» «Si è già stabilito come effettuare lo scambio?» «Dovremmo saperlo entro un paio di giorni.» «Sarà meglio che ci pensi io, credo.» Flavia fece per protestare, ma Bottardi la zittì. «Sono gli ordini, Flavia, gli ordini. E, in ogni caso, probabilmente è meglio per te. Se qualcosa non dovesse andare per il verso giusto, sarò io, e non tu, a dovermene accollare la colpa. Ritengo che venerdì sarebbe il giorno giusto.» «Perché proprio venerdì?» «Perché da venerdì sarò ufficialmente in pensione. Fino ad allora, lo sai, devo andare con i piedi di piombo. Invece da venerdì in poi nessuno mi potrà togliere la pensione, anche se questa storia dovesse concludersi in un formidabile fiasco.»
8 Nel frattempo, Argyll faceva del proprio meglio per godersi quella vita da gentiluomo di campagna, immerso nella quiete e nella pace della Toscana rurale nel suo momento di massimo splendore. Dopo di che, seppure con una certa riluttanza, si trasferì nella sala dell’archivio notarile, dove un’efficientissima bibliotecaria aveva già rintracciato per lui gli incartamenti relativi a Stonehouse appoggiandoli su un tavolo accanto alla porta spalancata, e si sedette a leggerli. Vi riuscì abbastanza bene, date le circostanze, infatti l’afa continuava ad aumentare, le prime api ronzavano pigre e gli uccelli cinguettavano mentre volavano a farsi il nido in previsione della faticosa estate che stava per arrivare. Gli sarebbe riuscito molto più facile appoggiarsi allo schienale della sedia per rimirare gli andirivieni di quei pennuti, lasciando che i pensieri gli vagassero nella mente come gli esili e sfrangiati cirri che vedeva passare nel cielo con indolente lentezza. In realtà si concesse anche quel piacere, perché rivolse a molte di quelle nuvole un’attenzione maggiore di quanta meritassero. Però si riscosse abbastanza da riuscire a sfogliare le noiose pagine ingiallite dei fascicoli ammucchiati davanti a lui. Abbastanza, comunque, da ricavarne tutto ciò di cui aveva bisogno per la sua relazione, grazie all’aiuto della bibliotecaria e della sua fotocopiatrice. Poi, mentre la donna era impegnata a riprodurre i documenti che gli potevano far comodo, rivolse la propria attenzione al piccolo dipinto raffigurante la Vergine. Un’Immacolata Concezione della fine del Quattrocento, dipinta a olio su supporto ligneo, di cui non si conosceva la storia: nel 1940 era saltata fuori all’improvviso come una Madonna non meglio specificata, allorché Stonehouse l’aveva acquistata a Londra dov’era rientrato allo scoppio della guerra. A far luce in quel buio totale non c’era neppure il nome del mercante d’arte che l’aveva venduta. Quella mancanza di dati non era, tuttavia, particolarmente strana, perché erano ben pochi i dipinti che godessero del privilegio di una puntuale ricostruzione del loro più lontano passato; e la riluttanza dei banditori d’asta a mettere nero su bianco le compravendite non contribuiva certo a migliorare la situazione. Stonehouse si era aggiudicato quel dipinto pagandolo quaranta ghinee, una bella sommetta anche per quel periodo, e l’aveva portato con sé quando era tornato nella sua villa in Toscana, dove l’aveva fatto pulire, c’era ancora la ricevuta di 125 lire, e l’aveva appeso alla parete di una camera da letto al secondo piano, dove il quadro era rimasto finché non era stato trasferito a Londra e, nel 1966, messo in vendita con la maggior parte degli altri pezzi della collezione. Cosa che, secondo la stampa dell’epoca, aveva provocato
una sorta di scandalo; ed era stato un bene, perché non c’è nulla di meglio di un po’ di clamore per aumentare le quotazioni. I ritagli di giornali testimoniavano l’enorme risonanza che quella vendita all’asta aveva avuto; e non perché ad andare dispersa fosse una collezione di grande valore, ma perché si trattava del più insigne esempio, nella recente storia italiana, di vendita di contrabbando. Far uscire illegalmente dal Paese un singolo dipinto era una cosa, ma portarne via centoventiquattro in un colpo solo, senza uno straccio di autorizzazione, era tutt’altro. Stonehouse figlio aveva giustamente sostenuto che quasi tutte quelle opere erano state comprate a Londra e che pertanto lui non aveva fatto altro che riportarle nel Paese d’origine, mentre le autorità italiane asserivano altrettanto giustamente che facevano ancora parte del patrimonio artistico italiano e che, per trasferirle all’estero, c’era bisogno di un permesso. Per risolvere quel caso c’erano voluti sei mesi e un corposo scambio di lettere, nessuna delle quali, tuttavia, era necessaria per la relazione che Argyll doveva scrivere. Sfortunatamente, invece, le probabilità che il dipinto dell’Immacolata Concezione, per quanto certamente antico, fosse un autentico capolavoro sembravano farsi sempre più esigue. Cosa che suscitò in Argyll una profonda delusione, ma di cui non si stupì più di tanto. Nell’elenco delle opere della collezione Stonehouse l’attribuzione era la stessa che compariva nel catalogo d’asta, in cui tra l’altro non si dava un grande rilievo al dipinto, che era stato confinato in una stanzetta secondaria, dove a fargli compagnia c’erano alla sua sinistra un ritratto a pastello della nonna del collezionista, eseguito da uno dei meno noti pittori scozzesi di età edoardiana, e alla sua destra una stampa francese d’epoca rivoluzionaria raffigurante Maria Antonietta alla ghigliottina. Cosa si poteva dedurre? Che Stonehouse vedeva sua nonna in croce insieme alla Vergine Maria e alla regina di Francia? La risposta era semplice e ovvia: doveva andare a fare una breve passeggiata nel parco, poi sonnecchiare per il resto del pomeriggio e infine recarsi a bere qualcosa a casa dell’ultimo rampollo della famiglia Stonehouse. Concludere il tutto con una bella nottata di sonno e, l’indomani, tornare a Roma. Uno dei rari vantaggi della storia dell’arte è che, quando hai un bel po’ di tempo a disposizione, ti trovi spesso nelle migliori condizioni per farlo fruttare al massimo. Dopotutto ci dev’essere un qualche indennizzo per i quattro soldi che guadagni. Seguì quel piano alla lettera, fatta eccezione per un breve rinvio del sonnellino, cinque minuti che impiegò per telefonare a Flavia, senza tuttavia trovarla, e alle sei in punto stava già camminando lentamente lungo il viottolo che portava al cottage di Robert Stonehouse. O, per meglio dire, a quello che l’anziano inglese aveva definito un cottage. Perché l’ultimo degli Stonehouse poteva anche essere al verde, ma le sue tasche non erano certo
vuote quanto quelle della maggior parte dell’umanità. La sua dimora era infatti un’imponente costruzione, con un enorme atrio riccamente decorato e con un pavimento di marmo a riquadri bianchi e neri che sembrava scacciare la pesante afa pomeridiana e rendere l’interno piacevolmente fresco. Stonehouse lo accolse in modo molto ospitale, rivolgendogli un’infinità di scuse sia per i modi sgarbati del mattino, sia per l’impossibilità di offrirgli qualcosa di più di un paio di drink. «Non so cucinare», spiegò, senza il minimo rincrescimento. «So che dovrei esserne capace e mi rendo conto che è la dimostrazione di quanto viva ancora nel passato. Ma il fatto è che trovo quest’ultimo molto più piacevole del presente. Preferisco i vecchi tempi, in cui si mangiavano solo pane e formaggio, agli attuali, in cui un pover’uomo è costretto a mettersi ai fornelli.» «Dovrebbe nutrirsi un po’ meglio.» «Cinque volte alla settimana viene qualcuno dal paese qui vicino a prepararmi qualcosa, ma oggi è uno dei suoi giorni di riposo. Purtroppo è una vecchia signora e, se mai dovesse mancare, mi troverei a dover fare una scelta: adattarmi alla vita moderna o morire di fame. Cos’è meglio, secondo lei?» Argyll, che era abbastanza orgoglioso delle proprie prestazioni culinarie, un orgoglio, il suo, ampiamente ingiustificato, anche se in cucina se la cavava molto meglio della moglie, riconobbe che era una scelta difficile, ma fece presente che alcune persone provavano un gran piacere a cucinare. Senza però convincere Stonehouse. «Dover indossare un grembiule e ritrovarsi con le dita che puzzano d’aglio o di pesce? No. Per me il piacere consiste nel mangiare, un piacere che può essere paragonato solo alla contemplazione di un’opera d’arte. Ma a disgustarmi è la sensazione che i cuochi, o i pittori, se parliamo di quadri, non siano altro che volgari artigiani. Ha mai conosciuto un pittore gradevole e sagace? Una persona che lei sarebbe felice di ricevere a casa sua? Ovviamente no.» «Immagino che lei sia cresciuto in un ambiente frequentato da molti pittori.» «Santo cielo, no. Mio padre una volta fece lo sbaglio di invitarne uno, Modigliani, per la precisione, ma si affrettò a buttarlo fuori. Quel furfante aveva cercato di sedurre mia madre. Ovviamente questo avvenne prima che io nascessi.» «In effetti era un tipo piuttosto rozzo», convenne Argyll. «E per di più pretendeva che il ritratto gli venisse pagato», continuò l’anziano inglese, in tono più indignato.
«Lei ha un dipinto di Modigliani? Un ritratto di sua madre?» «Assolutamente no. Mio padre lo portò in giardino e gli diede fuoco. Non fu una gran perdita.» «Be’...» ribatté Argyll, cercando di ricordare a quale altissima quotazione fosse arrivato l’ultimo Modigliani messo all’asta. «Nella vita ci sono cose che contano ben più del denaro, Mr Argyll. Come crede che mi sarei sentito, sapendo che in qualche museo americano c’era un ritratto di mia madre completamente nuda?» «Capisco quel che intende dire», replicò Argyll, mentre pensava che ci sarebbero state molte altre domande da fare in proposito. In primo luogo, per esempio, come mai la madre del suo ospite aveva accettato di spogliarsi? Però, se gliel’avesse chiesto, avrebbe potuto sembrargli sfacciato. «È stato molto gentile da parte sua invitarmi qui stasera», si limitò a dire, passando a quello che si augurava potesse essere un argomento più leggero. «Vorrei parlarle di un certo dipinto della sua collezione. Ho trascorso la giornata a spulciare gli archivi di villa Buonaterra, ma non ho trovato ciò che cercavo.» Nel sentir menzionare la sua antica residenza, Stonehouse sembrò meditare se fosse il caso di indignarsi, ma decise di no. «Sarò felice di aiutarla, se posso», disse. «Si tratta di un’Immacolata Concezione.» Stonehouse aggrottò la fronte. «Un quadretto», continuò Argyll, speranzoso. «Su tavola. Di scuola fiorentina, forse. All’asta è stato venduto per poco. Era stato appeso in una cameretta ed era etichettato semplicemente come ’Madonna’. Che si tratti di un’Immacolata Concezione è solo una mia ipotesi.» «Oh, sì», ribatté il suo ospite. «Quel dipinto. Lo ricordo bene, ora. Quello che era stato rubato.» Argyll ebbe un tuffo al cuore, come gli accadeva sempre quando le parole «dipinto» e «rubato» apparivano l’una accanto all’altra, ma quello scompenso durò pochissimo. Dopotutto, non era lui il proprietario del quadro. «Una vicenda molto strana», stava dicendo Stonehouse. Argyll si sforzò di fare mente locale. «Ah.» «Non sono in grado di raccontarle il fatto in maniera dettagliata, perché sono arrivato quando stava già per concludersi, perciò molto di ciò che so è di seconda mano. A quanto mi risulta, una mattina qualcuno si rese conto che il dipinto era sparito. Mio padre chiamò la polizia e fu proprio un agente, otto giorni dopo, a ritrovarlo e a restituircelo. Fine della storia.» «Chi l’aveva rubato?» «Il ladro non è mai stato identificato. O, quantomeno, nessuno ci ha mai detto chi era. Ovviamente c’era chi ne sapeva molto più di quanto fosse trapelato.»
«Cosa glielo fa pensare?» «Perché ci fu detto che il dipinto era stato ritrovato in un fosso, a poco meno di un chilometro da qui. Secondo la versione ufficiale, il ladro se n’era impadronito, poi, resosi conto che non era quello il dipinto che voleva, era stato colto dal panico e se ne era liberato.» «Cosa non le torna in questa ricostruzione dei fatti?» «Il supporto del quadro era di legno. La parte dipinta era quasi impermeabile, ma il retro era assai poroso. E in quei giorni era piovuto molto. Perciò il dipinto avrebbe dovuto subire qualche danno, seppur minimo, invece ci fu restituito in condizioni perfette. Mio padre ne dedusse che negli otto giorni di sequestro era stato tenuto in un ambiente chiuso. Ma non ci prendemmo il disturbo di indagare. Dopotutto l’avevamo riavuto rapidamente e, se avessimo sollevato un vespaio, la compagnia d’assicurazione avrebbe potuto rizzare le orecchie e decidere di modificare la polizza, aumentandone il costo. Inoltre sono convinto che mio padre sapesse benissimo chi era il ladro.» «Davvero?» «O, se non altro, il mandante del furto. Ha mai sentito parlare di Ettore Finzi?» Vedendo Argyll fare un cenno di diniego con la testa, Stonehouse ridacchiò. «Grazie a lei, giovanotto, mio padre nella tomba avrà appena fatto un salto di gioia. Finzi era il suo peggior rivale per quanto riguardava questo genere di dipinti. Si fecero la guerra per oltre trent’anni. Non appena veniva a sapere che mio padre stava cercando di acquistarne uno, Finzi partiva all’attacco, anche se ciò lo costringeva a lasciare la sua casa romana e a viaggiare magari fino a Londra. Una rivalità che faceva lievitare senza motivo i prezzi delle opere che si contendevano. Finzi odiava mio padre, il quale aveva finito, a sua volta, per detestarlo a causa di quel suo comportamento.» «Era una semplice rivalità fra collezionisti?» «Oh, no. Un totale scontro di personalità. I due erano diversi sotto tutti i punti di vista. Mentre mio padre veniva da una famiglia ricca e aveva sempre vissuto negli agi, Finzi era partito dal nulla e si era fatto da sé. E, contrariamente a mio padre, che considerava un successo l’acquisto di un dipinto a prezzi stracciati, lui era ben contento di spendere il più possibile. Come avrà capito, non avevano nulla in comune.» «E questo particolare dipinto? Per quale motivo Finzi ci teneva tanto ad averlo?» «Secondo la storia che mio padre era solito raccontare, forse enfatizzandola un po’ per metterlo in ridicolo, il motivo consisteva nel fatto che Finzi non era riuscito a cambiare alla svelta un pneumatico della sua auto.» «Come, scusi?»
«Il mercante da cui mio padre acquistò questo dipinto stava a casa del diavolo, per quanto ne so. Ignoro chi dei due rivali abbia ricevuto per primo la notizia che il quadro era in vendita, ma entrambi partirono in quarta. Ad arrivare per primo fu mio padre, perché alla Rolls-Royce di Finzi si forò una gomma e lui non sapeva come sostituire il pneumatico. Perciò dovette percorrere a piedi l’ultimo tratto di strada, quasi un chilometro, per scoprire, una volta arrivato, che mio padre aveva già concluso l’affare per una cifra irrisoria. Per di più fu costretto dall’odiato rivale ad ammirare il dipinto in mezzo alla strada, mentre era ancora ansimante e frastornato. Mio padre fece anche in modo che nel giro di pochi giorni la storia fosse di dominio pubblico a Roma, e Finzi non glielo perdonò mai. Fu mio padre a raccontarmi tutto subito dopo il furto.» «Ma tutto questo quando avvenne?» chiese Argyll. «Nel 1938, se non sbaglio.» «È sicuro dell’anno? In base ai documenti che ho consultato, era il 1940.» «Oh, no. Il mercante stava a Roma, di questo sono più che sicuro. E mio padre lasciò l’Italia alla fine del 1939, poco prima che anche Finzi se la svignasse.» «Perché?» Stonehouse sembrò perplesso, poi si rese conto di aver trascurato alcuni particolari. «Era ebreo e aveva capito di dover fuggire dall’Italia alla svelta. Non so come ci sia riuscito, però, a quanto pare, quando arrivò in Inghilterra era in bolletta. Mio padre gli prestò un po’ di denaro per aiutarlo a tirare avanti, il che tuttavia non bastò a sanare il contrasto che c’era fra loro in campo artistico. E le ostilità si riaprirono su quest’ultimo fronte nel momento stesso in cui si erano chiuse sull’altro.» «E il dipinto fu rubato nel...» «Nel 1962.» «Come avrebbe potuto, dopo tanti anni, nutrire ancora propositi di vendetta?» «Lo dice perché non ha conosciuto Finzi», ribatté Stonehouse. «Aveva giurato che prima o poi quel dipinto sarebbe stato suo e sapeva di non avere più molto tempo a disposizione. Era vecchio e malato, l’anno seguente, infatti, morì, e aveva fretta.» «Ma non è mai stata provata la sua colpevolezza.» «Oh, no. Ma questo non aveva importanza. Lui non era riuscito a prendersi il dipinto e stava molto male. Perché perseguitarlo nei suoi ultimi mesi di vita? Anche se ho il sospetto che il fatto di sapere che mio padre non si era neppure preso il disturbo di tirarlo in ballo fu per lui la goccia che fece traboccare il vaso. È possibile che sia stata quest’ultima dimostrazione di disprezzo a portarlo alla tomba.» E se prendessi come argomento della mia relazione la psicologia dei
collezionisti? pensò Argyll. La rivalità che spinge gli uomini, sempre e solo maschi, perché quante sono state, nella storia, le donne collezioniste?, a compiere atti estremi, come quello di rubarsi a vicenda un’opera d’arte pur di possederla. Avrebbe potuto condire il suo testo sul collezionismo con un pizzico di Freud e una manciata di esempi storici. Perché no? «Ma chi, materialmente, rubò il dipinto?» La domanda non sembrò interessare Stonehouse. «Non ne ho idea. Io mi trovavo altrove, purtroppo. Nella villa, oltre a mio padre e a una giovane studentessa sua cara ospite, c’era solo un gruppetto di intenditori d’arte. Per la gran parte ormai sono tutti morti e sepolti, immagino, tranne Bulovius, che è ancora al mondo... anche se ormai non ne ha per molto. Deve aver già compiuto novant’anni.» Bei vecchi tempi davvero. Persino Argyll aveva sentito parlare di Tancred Bulovius, un personaggio a metà strada tra un collezionista e un cattedratico, come ormai non ne esistevano più. Uno dei più scrupolosi intenditori d’arte dell’epoca a cavallo tra gli anni Quaranta e i Cinquanta. Probabilmente un tipo detestabile, ma con una cultura enciclopedica, esponente di un mondo in cui gli studiosi potevano ragionevolmente sperare di entrare in possesso delle opere d’arte di cui discettavano, di scrivere e pubblicare testi solo quando avevano qualcosa da dire e di essere ospitati per varie settimane nelle ville di campagna di cui studiavano gli archivi. Bei tempi, quelli, ma ormai decisamente superati. Argyll, colto da un’improvvisa fitta di nostalgia, riuscì a comprendere l’avversione di Stonehouse per il mondo moderno. «Non l’ho mai incontrato.» «Se vuole conoscerlo, si affretti. Non resterà fra noi ancora a lungo. Non posso dire di averlo mai trovato di mio gusto. Non sapeva come comportarsi con i giovani, a parte stordirli con la sua logorrea. Però è possibile che, varcata la soglia dell’ottantina, sia diventato meno egocentrico. Se non altro, avrà rinunciato a dare la caccia a ogni gonnella nel raggio di sei chilometri.» «Non conoscevo questo lato del suo carattere.» «Oh, Cristo santo, era un vero dongiovanni. Assolutamente incorreggibile. E non tollerava di ricevere un rifiuto. La giovane studentessa ospite di mio padre fu costretta a lasciare la casa, tanto lui continuava ad assillarla. Povera ragazza. Fu un vero peccato che se ne andasse: era davvero deliziosa. Tra l’altro, si era appena sposata, se ricordo bene. Ma neanche quel piccolo particolare bastò a fermare Bulovius. Lei però mi sembra più interessato a parlare del dipinto, se non sbaglio.» «È proprietà di un mio amico, adesso», spiegò Argyll. «Perciò, quando ho visto sul retro il contrassegno di suo padre, ho pensato di ricostruirne quanto più possibile la storia. Posso avere la certezza che il mio amico non corra il rischio di essere considerato un ricettatore di merce rubata?»
«Stia tranquillo. Come le ho detto, il dipinto fu recuperato. E, in seguito, venduto regolarmente, come tutti gli altri pezzi della collezione.» «Però mi piacerebbe sapere qualcosa di più sul furto. Sono i dettagli piccanti come questo a rendere un’opera più appetibile.» Stonehouse rifletté per un attimo. «Non posso aiutarla. L’unica persona che potrebbe dirle qualcosa di più è quella studentessa...» «Come si chiama?» «Non ricordo. È rimasta qui solo pochi giorni. A quei tempi viveva nei pressi di Poggio di Amoretta, un paesino nei dintorni. Che, per puro caso, si trova vicinissimo alla fermata della corriera a cui è sceso lei. Poi ci sarebbe il magistrato che ha condotto l’indagine...» «Di nome?» chiese Argyll, speranzoso. «Ah, questo lo ricordo. Si chiamava Balesto. Me ne rammento perché l’ho letto sul suo necrologio circa sei mesi fa. Ho raggiunto un’età in cui fa piacere scorrere gli annunci mortuari altrui.» «Ah.» «E poi, ovviamente, Bulovius. Che invece è ancora vivo. Anche se per poco.» «Che mi dice del poliziotto?» Stonehouse lo guardò in tralice, con la testa piegata da un lato. «Il poliziotto», replicò. «Non posso dire di avergli prestato grande attenzione. Mi lasci pensare.» Dopo aver fatto uno sforzo erculeo per rammentare le particolarità delle persone da lui incontrate, aggiunse: «No, non ricordo. So solo che erano in due. Uno anziano, grasso e stupido, che cercava di darsi importanza. Immagino che volesse essere invitato a cena. L’altro era un giovane spilungone, con i capelli fin troppo lunghi. Ricordo che mi chiesi come mai i suoi superiori gli permettessero di tenerli così, in barba al regolamento». «E i loro nomi? Se ne ricorda almeno uno?» Stonehouse scosse la testa. «No. Tuttavia ritengo che lei li possa trovare nei documenti di mio padre a villa Buonaterra. Il poliziotto capellone fu tanto gentile da suggerire qualche sistema antifurto e mise tutto per iscritto affinché mio padre potesse farlo presente alla compagnia d’assicurazione. Se fa un’attenta ricerca, riuscirà probabilmente a trovare quell’appunto. Inoltre ci dovrebbe essere anche il verbale relativo al furto.» Argyll capì di essere finito in un vicolo cieco, perciò deviò il discorso sul padre di Stonehouse, sulla sua collezione, su cosa avesse significato trascorrere l’infanzia in una villa toscana dopo la guerra, sempre meglio che in una scuola inglese, a quanto sembrava, anche se questo lo sapeva già, e su tutti gli altri argomenti di cui il suo ospite amava parlare. Dopo un’ora, e altre due bottiglie di vino, se ne andò e si trascinò direttamente a letto. La serata era stata piuttosto divertente. L’indomani tornò a Roma, ma non prima di aver letto il fascicolo che
conteneva i documenti dell’assicurazione, fra i quali c’era anche il verbale di polizia. In quest’ultimo la storia del furto era raccontata a grandi linee, con pochi particolari in più rispetto alla descrizione iniziale di Stonehouse, a parte un dettagliato resoconto del ritrovamento del dipinto. Ma da quelle carte Argyll appurò che il poliziotto che l’aveva ritrovato era un giovane capellone allampanato e inesperto che si chiamava Taddeo Bottardi.
9 «Un capellone allampanato?» ridacchiò Flavia. «Non c’era una sua fotografia, per caso?» «Purtroppo no. Ma quello deve essere stato, più o meno, il primo impatto di Bottardi con il mondo dell’arte.» «Ma pensa un po’. Dovrò chiedergli di parlarmene.» «Anch’io. Potrebbe aggiungere ulteriori dettagli su quel dipinto.» Flavia, notò Jonathan, sembrava essersi trasformata in una vera e propria mogliettina tutta smancerie e sorrisi. Proprio ciò che un marito stanco, appena tornato a casa da un viaggio, poteva desiderare. Per lui fu un’autentica sorpresa. «Di nuovo al lavoro, finalmente», proruppe Flavia. «Ero stufa di passare tutto il tempo a girarmi i pollici. Con questo dannato mal di stomaco.» «Ora va meglio?» «Non proprio, ma non importa. Il fatto è che stasera pagherò il riscatto e riavrò il dipinto. Poi potrò ricominciare a lavorare come si deve.» «Davvero? Raccontami tutto.» «A mezzanotte, in fondo alla via Appia. Tutto molto drammatico. Sarò da sola, anche se Bottardi si è offerto di farmi da autista. Estremamente eccitante.» «Troppo eccitante. Non ti pare di correre un grosso rischio?» Flavia si strinse nelle spalle. «Direi di no. Non se ciò che il ladro vuole davvero è il denaro. Inoltre agisce da solo e non è considerato un tipo violento.» «Ma non mi avevi detto che era un terrorista?» «Non in senso stretto. Sai, lui usa pistole che suonano le opere di Verdi.» «E se invece stanotte ne avesse una che non suona?» Lei si strinse di nuovo nelle spalle. «Flavia, sto parlando seriamente.» «Anch’io. Voglio mettere fine a questa storia una volta per tutte. Non posso portare nessun altro per non correre il rischio che si capisca quanto sta accadendo e se ne cominci a parlare. E non intendo tirarla per le lunghe, anche se un rinvio potesse servire a qualcosa. Non ti preoccupare, Jonathan. Bottardi mi proteggerà. Sa quel che fa.» «Ha sessantacinque anni», protestò lui. «Ed è terribilmente sovrappeso. Non ti sarà di grande aiuto, a mio parere. Cosa potrebbe fare se tu finissi nei guai? Piombare addosso al tuo aggressore? Ti prego, lasciami venire.» «No.» «Flavia...» «No, assolutamente no. Se devi proprio preoccuparti, fallo qui.» Afferrò la
giacca. «Non ci metterò molto», disse mentre apriva la porta di casa. «Te lo prometto.» «Visto?» esclamò Flavia allegramente, quattro ore dopo, irrompendo in casa. «Te l’avevo detto.» Era un po’ troppo per Argyll, considerando il fatto che quelle quattro ore erano state le più lunghe della sua vita. Non solo non era riuscito a chiudere occhio, ed erano già quasi le due del mattino, ma aveva anche continuato a camminare avanti e indietro. Grugnendo e immaginando ogni sorta di orribili scenari. «Avresti potuto telefonare.» Flavia parve imbarazzata. «Scusa», replicò. «Hai ragione, avrei dovuto farlo. Ma non ci ho pensato.» Poi lo fissò attentamente. «Oh, Jonathan. Ti sei preoccupato molto?» Per rimediare, lo abbracciò forte, con aria contrita. «Già, chissà come mai...» ribatté lui, offeso. «Non vuoi sapere com’è andata?» «Se ti fa piacere», disse lui, deciso a non dargliela vinta, bensì a tenere duro e a non farsi prendere da sentimentalismi. «È stato un trionfo...» «Mmh.» «Un completo successo.» Argyll tirò su col naso, altezzosamente. «Un esempio da manuale su come condurre in porto un’azione del genere. O quasi.» Argyll le lanciò un’occhiata, poi si arrese. «Oh, benissimo», commentò stizzito, prima di sprofondare nel divano. «Va’ avanti.» Flavia si tolse la giacca e gli sedette accanto, stringendosi a lui. Poi si rialzò e andò a versarsi un bel bicchiere di whisky, che allungò con un goccio d’acqua. Avrebbe voluto metterci anche qualche cubetto di ghiaccio, ma si trattenne per non urtare suo marito. Era un ottimo whisky, dopotutto, e non era il caso di annacquarlo troppo. «Sono andata a prendere Bottardi», disse finalmente, «e siamo partiti, arrivando sul posto in anticipo di dieci minuti. Conosci il mausoleo della moglie di Erode Attico?» Argyll assentì. «Un’imponente costruzione rotonda, proprio al centro di una radura erbosa. Tutt’attorno non c’erano altre auto, per quanto sono riuscita a vedere, perciò il nostro uomo, per arrivarci, avrebbe dovuto camminare allo scoperto.» Bevve un sorso di whisky. «E a quel punto ci siamo scontrati.» «Chi?» «Io e Bottardi. Lui ha approfittato della propria carica e si è appellato al mio fair play.»
«Tu sei italiana. Non hai la benché minima idea di cosa sia il fair play.» «Invece sì. In ogni caso lui ha iniziato a dire che era una situazione troppo pericolosa per una povera donnetta. Un po’ come hai fatto tu. Gli ho intimato di togliersi di torno. Allora ha sostenuto che era ancora il mio superiore e che perciò dovevo obbedire al suo ordine di farmi da parte e lasciare che fosse lui a effettuare lo scambio. L’ho mandato al diavolo, al che mi ha fatto presente che era l’ultima azione che avrebbe compiuto nelle vesti ufficiali di funzionario di polizia e che non ci avrebbe rinunciato per nulla al mondo.» «Una valida motivazione», osservò Argyll. «E infatti l’ho accontentato.» «E poi?» «Tutto qui. Bottardi è sparito nel buio con la valigetta contenente il denaro e ne è riemerso dieci minuti dopo con il dipinto di Claude Lorrain in perfette condizioni, senza neppure un graffio. Il nostro uomo era lì, nascosto dietro un mucchio di calcinacci, e fra loro due si è svolta una breve conversazione, come fossero due uomini d’affari. Nessun pericolo. A detta di Bottardi, è stato un vero piacere trattare con un tipo simile. Un uomo di parola, il signor Sabbatini.» «Come fai a sapere che era proprio lui?» Flavia si strinse nelle spalle. «Non lo so. Bottardi mi ha detto che il volto era nascosto da un voluminoso paio di occhiali da sciatore. Ma quel poco che è riuscito a vedere coincideva con la descrizione di Sabbatini. Sinceramente, ormai la cosa non mi riguarda più. Abbiamo recuperato il dipinto e impedito che scoppiasse uno scandalo a livello nazionale.» «Ne sei sicura?» «Oh, sì», rispose Flavia, sorridendo della capacità di Argyll di immaginare sempre il peggio. «Avevo già messo in allerta Macchioli e siamo andati dritti filati al museo. Per tutto il tempo lui aveva camminato avanti e indietro, come avrai fatto anche tu, suppongo, e al nostro arrivo era un vero straccio. Ha esaminato il dipinto molto attentamente e ha tirato un sospiro di sollievo. Non ci era stata rifilata una copia, sperando che non ce ne accorgessimo, forse. Sul retro c’erano i segni visibili solo con i raggi ultravioletti, la tela era riparata nei punti giusti e così via.» «Ne sarà felice.» «Fa i salti di gioia. Come del resto il primo ministro. Be’, dire che Sabauda sia esultante è un po’ troppo, ma ci ha ringraziati, che è pur sempre qualcosa. C’è un unico piccolo neo: mi è stato ufficialmente chiesto di lasciare in pace Sabbatini.» «Perché?» Flavia si strinse nelle spalle. «Perché non possiamo perseguirlo in alcun modo senza rivelare al contempo che ci era stato sottratto un dipinto da
sotto il naso. E insabbiare questa storia, secondo i pezzi grossi, è più importante che sbattere un ladro in galera.» «Così Sabbatini si tiene il denaro come se niente fosse? Che tipo fortunato. O furbo.» «Già. Però», aggiunse Flavia, «nessuno mi impedirà di rendergli la vita un inferno. Se si azzarderà anche solo a parcheggiare in seconda fila, gliela farò pagare cara.» E sorrise, pregustando le future rappresaglie. «Vorrei ben vedere», ribatté Argyll. «Mi congratulo con te. Ma ora dimmi qualcosa sulla questione più importante. Hai parlato con Bottardi?» «A che proposito?» «Il quadro dell’Immacolata Concezione. Gli hai chiesto chi gliel’ha dato?» Flavia lo fissò perplessa. «Oh, è vero!» esclamò alla fine. «Scusa, ma me ne sono completamente dimenticata. Non appena lo rivedo, glielo domando. Ora possiamo andare a letto? Sono stanca da morire...» Nei giorni immediatamente successivi, la vita riprese il suo corso normale... anche se non si poteva definire proprio normale, perché era fin troppo tranquilla e silenziosa. Argyll tenne la sua ultima lezione, iniziò le ferie e fu sul punto di mettersi seriamente a lavorare sulla famosa relazione. Anche Flavia aveva ben poco da fare, come se in Italia i ladri, gli scassinatori e ogni sorta di criminali avessero momentaneamente perso l’ispirazione e l’entusiasmo per tentare nuovi colpi. Fatta eccezione per qualche banale indagine, che i suoi sottoposti potevano condurre facilmente, non c’era quasi nulla che le impedisse di riordinare la scrivania, gironzolare nei piani alti del dipartimento, quelli in cui stavano i pezzi grossi, per stabilire qualche utile contatto ed esercitare una piccola e silenziosa pressione in modo da ottenere altri fondi per la sua squadra. Però ancora non era stata confermata al suo posto. Quella era l’unica nube in un cielo primaverile altrimenti radioso. Ma lei si sforzava di non pensarci, per quanto possibile. Non c’era nulla, o quasi, che potesse fare. E non riusciva mai a parlare con Bottardi del suo dipinto, perché, mentre lei, seduta alla sua scrivania, attendeva che accadesse qualcosa e Argyll trascorreva pigramente le sue giornate, il generale aveva fatto pulizia nel proprio ufficio, compilato tutti i documenti necessari e, con una sorprendente imperturbabilità, vera o fittizia che fosse, si era ritirato dalla vita che aveva condotto per trent’anni, se non più. Stava per iniziare una lunga vacanza, ampiamente meritata, diceva. Da trascorrere da qualche parte, in pace. Un atteggiamento che aveva deluso Flavia. Lei era ovviamente felice che Bottardi avesse preso così bene la situazione, quasi senza rimpianti, ma al tempo stesso provava un po’ di rabbia. Era questa l’inevitabile conclusione di una bella carriera? Anche lei, al momento debito, sarebbe stata talmente
stufa del proprio lavoro da piantare baracca e burattini, amici, colleghi e la vita condotta fino ad allora senza neanche una punta di rincrescimento? Inoltre, aveva sempre ritenuto che fra lei e il suo vecchio capo ci fosse un rapporto speciale. Tanto meglio per Bottardi se non sentiva la mancanza dei collaboratori di un tempo, però lei si era augurata che, almeno nel suo caso, il generale facesse un’eccezione. Avrebbe potuto salutarla per bene, invece di limitarsi a una semplice telefonata. Quello fu l’unico momento di sconforto in un periodo peraltro tranquillo, da godere pienamente perché, Flavia ne era sicura, non sarebbe durato a lungo. Prima o poi sarebbe finito. E fu così, infatti, ma più prima che poi. Quella che all’inizio era una minuscola nube all’orizzonte, non più grande di una mano, si rivelò foriera di una violenta tempesta. Un performer rinvenuto privo di vita nel corso della propria esibizione. Un titoletto e un articolo pubblicati sul giornale solo perché l’intero Paese sembrava sprofondato in uno strano torpore, in cui il cronista aveva dato prova di grossolano umorismo. A quanto pareva, Maurizio Sabbatini era annegato nella vasca piena d’acqua e gesso in cui era solito immergersi per dare vita a un’esibizione artistica intitolata «Pompei rivisitata». L’artista, ispirandosi ai calchi dei cadaveri ottenuti dagli archeologi che avevano riportato alla luce la città romana, intendeva con quella sua performance offrire uno spaccato storico, così era scritto nel programma, della morte e richiamare l’attenzione del pubblico sul cinismo della scienza che trasforma una tragedia in un pezzo da museo. Perciò si calava nudo nella poltiglia gessosa e vi restava, quasi sdraiato, offrendosi allo sguardo dei visitatori della galleria che ospitava la sua esibizione, i quali restavano a osservarlo mentre lui fissava il vuoto, sonnecchiava o intonava tristi canzoni napoletane rivolgendosi a nessuno in particolare, consapevoli che tale spettacolo avrebbe dovuto indurli a riflettere sulla fugacità della vita, sulla permanenza dell’arte e sulla scomodità delle vasche da bagno. Ma non era detto: il guaio era che il pubblico reagiva in maniera soggettiva, almeno secondo l’opinione di un altro performer, il quale sosteneva pacatamente che proprio quello era il punto debole, una debolezza fatale, come i fatti avrebbero dimostrato, dell’artista Sabbatini. Ogni sua performance era così ermetica che nessuno riusciva mai a capire esattamente cosa volesse significare. Perciò, il giorno in cui aveva aggiunto troppa polvere di gesso all’acqua, immergendosi in uno stato di ubriacatura, altra sua debolezza, e soffocando per via della poltiglia che nel frattempo si era indurita, nessuno dei pochi visitatori che gli passavano davanti aveva sospettato che ci fosse qualcosa di strano. Anzi, erano trascorsi alcuni giorni prima che qualcuno si accorgesse che l’artista non si era mosso da lì, finché l’imbarazzo nella galleria era giunto al culmine e l’ilarità del cronista era
straripata. L’unica cosa che aveva allertato il pubblico, si diceva nel trafiletto, era stato il fatto che Sabbatini non aveva rimpinguato la scorta di cioccolatini di una nota marca che sparpagliava intorno a sé offrendoli ai visitatori. Quando una persona, per la precisione, la donna delle pulizie, si era resa conto che era morto e le autorità erano state avvertite, per estrarre il corpo era stato necessario usare un martello pneumatico e a quel punto l’autore dell’articolo doveva essersi talmente sbellicato dalle risate da perdere il filo della narrazione e dimenticarsi di registrare alcuni dettagli fondamentali, come per esempio il giorno preciso in cui il grande artista era effettivamente morto. Soltanto dopo aver letto due volte l’articolo, lasciandosi sfuggire qualche compiaciuto risolino moralistico per quell’evidente dimostrazione di giustizia divina, Flavia si rese conto che da qualche parte doveva esserci un bel mucchio di denaro e che lei avrebbe fatto meglio a darsi una mossa prima che qualcun altro se ne ricordasse. Non che non si fidasse dei colleghi, ovviamente, ma voleva evitare, nei limiti del possibile, di dover fornire spiegazioni. Il bello, quando si ha a che fare con i cadaveri, è che si può con estrema facilità passarne in rassegna gli oggetti personali senza timore di violarne la privacy o altri diritti. Farla in barba ai colleghi risulta più semplice, tanto più se non sei in grado di spiegare cosa stai cercando: la storia del furto del Claude Lorrain era ancora, dopotutto, un segreto di Stato. Però Flavia aveva imparato dall’esperienza che era meglio sviare i sospetti altrui con vaghi accenni a piste da seguire e generici metodi d’indagine, promettendo ulteriori ed esaustive spiegazioni. Purtroppo impiegò l’intera mattinata a sbrigare gli affari correnti, ed era già passata da un pezzo l’ora di pranzo quando decise di portarsi dietro Corrado, la recluta, affinché si facesse un po’ le ossa. «Ricordi l’ipotetico caso di cui ti ho parlato qualche settimana fa?» gli chiese, mentre attraversavano la città in auto. «Non era ipotetico.» «Me l’ero immaginato», rispose lo scrupolosissimo giovanotto. «Era tutto vero: il dipinto, il furto. E anche il ladro. Stiamo per andare a perquisire il suo appartamento.» «Alla sua presenza?» Flavia gli spiegò per sommi capi la situazione. Corrado diede prova di una sensibilità che nessun altro aveva fino ad allora dimostrato nell’apprendere quella vicenda. «Poveretto», disse. «Di quale dipinto si trattava?» «Questo è l’unico particolare che deve restare riservato.» «È così importante?» «No comment. In ogni caso l’ho recuperato.» Quelle parole provocarono nel giovane un moto di sincera ammirazione e sorpresa, che Flavia, pur sforzandosi di non farci caso, apprezzò molto.
«Torniamo al nostro uomo. In casa sua dobbiamo cercare le solite cose, direi. Appunti, diari, bollette telefoniche, roba del genere. Lui in passato ha militato nell’estrema sinistra, perciò immagino che fosse troppo esperto per lasciare in giro materiale compromettente, ma è sempre possibile che la fortuna ci assista. Per quanto ne sappiamo, era povero in canna. Pare che negli ultimi vent’anni abbia vissuto alla giornata, tirando la cinghia: fare il bagno nel gesso non doveva rendergli molto.» Aveva appena finito di dirlo quando l’auto si fermò davanti a uno dei più lussuosi condomini di tutto il quartiere dei Parioli. Flavia ignorò l’occhiata che le lanciò la recluta, in cui si leggeva un marcato scetticismo per le sue capacità deduttive, e chiese un po’ stizzosamente all’autista: «Sei sicuro di averci portato all’indirizzo giusto?» «Ci può giurare», fu la risposta ben poco rispettosa, ma Flavia non se la prese. Quell’uomo trattava tutti così. L’aveva sempre fatto. L’appartamento in cui aveva vissuto l’ex rivoluzionario antimaterialista povero in canna era ancora più lussuoso di quanto potesse sembrare dall’esterno. Estremamente moderno, ma pieno di mobili antichi e di dipinti che dovevano essere costati un occhio della testa, perlomeno quello che sembrava un autentico Chagall. Una più minuziosa perquisizione rivelò un armadio pieno zeppo di abiti firmati e un frigorifero che conteneva talmente tante bottiglie di champagne da far ubriacare la maggior parte di terroristi riuniti in un convegno mondiale; i pavimenti, poi, erano coperti da stupendi tappeti persiani di seta. «Forse guadagnava più del previsto», commentò Corrado serafico. «A quanto ammontava il riscatto?» «Chi ha mai parlato di riscatto?» «Oh, mi scusi... Avevo pensato che...» Flavia scosse la testa. «Non ti scusare, avevi visto giusto. Ma non può aver acquistato tutta questa roba con i soldi del riscatto.» Non si preoccupò di spiegargli dettagliatamente perché ne fosse tanto sicura. «E se in realtà fosse stato un ricattatore?» Flavia si fermò a osservare sconcertata una zuppa Campbell di Andy Warhol con tanto di autografo, poi scoppiò a ridere. «Ecco un chiaro esempio, ragazzo», disse, «di quanto sia rischioso giungere a conclusioni affrettate. Che ti serva da lezione.» Il giovane le sorrise in risposta, riconoscendo che sapeva ammettere con grazia le proprie figuracce. Era stata quella franchezza ad aver assicurato a Flavia la stima dei suoi collaboratori. Era difficile sostituire Bottardi e non essere considerata solo il suo rimpiazzo, ma non si era resa conto di tutti i progressi che aveva fatto. «Bene», tagliò corto Flavia, che si sentiva già meglio. «Fruga nei cassetti, raccogli tutte le carte e le fotografie che trovi. Io andrò a bussare alla porta
di qualche vicino per vedere se riesco a scoprire qualcosa su quest’uomo.» In simili circostanze ci vuole una persona che sia sempre stata in pessimi rapporti con il soggetto in questione, perché chi è interrogato da un poliziotto tende a restare sul vago se l’indagato è un amico. La frase «Oh, io non ne so nulla», così ricorrente quando si vuole evitare di dire qualcosa di sgradevole su un vicino di casa, ha sempre depistato molte indagini promettenti. Invece gli screzi fra vicini di casa sciolgono notevolmente la lingua. Purtroppo, Sabbatini non era il tipo che ascoltava musica a tutto volume alle due del mattino; non smerciava droga sul pianerottolo di casa; non lasciava fuori della porta il sacco dei rifiuti nei giorni sbagliati; si comportava, in altre parole, come un tranquillo e riservato membro dell’haute bourgeoisie romana. Infatti non era altro che quello. Flavia scoprì il suo oscuro segreto dopo aver inutilmente interrogato cinque suoi vicini, essendo consapevole che quasi tutte le informazioni di cui aveva bisogno si trovavano probabilmente nei corposi dossier da lei richiesti che non erano ancora arrivati. Però il sesto vicino aveva avuto con Sabbatini uno scontro molto aspro: l’oggetto del contendere era stato il garage condominiale. Ben più delle divergenze politiche e religiose e più ancora del fracasso, della sporcizia e degli atti osceni, la pretesa di utilizzare lo spazio riservato all’auto altrui era il genere di oltraggio che infiammava gli animi. E, a quanto pareva, fra Sabbatini e Alessandra Marchese c’era stata un’aspra contesa durata oltre sei mesi. Ogni volta che lui vedeva che il posto della condomina era libero, vi parcheggiava la propria auto, pur sapendo di non averne il diritto e infischiandosi del fatto che il suo invece era libero. Lo faceva deliberatamente, protestò la donna, con un’espressione oltraggiata e le mani tremanti per la rabbia. Era una cosa inconcepibile. Lei se n’era lamentata con l’amministratore dello stabile, il quale, ovviamente, aveva risposto di non poter fare nulla. Perché lui e Sabbatini erano in combutta, come il gatto e la volpe... Flavia assentì con aria comprensiva. Quella donna le stava antipatica perché era presuntuosa e altezzosa, ma rappresentava una sorta di gallina dalle uova d’oro. «Non potrebbe dirmi qualcosa di più?» mormorò. Mezz’ora dopo aveva saputo quanto le serviva. Certi particolari erano senza dubbio esagerati, qualcuno persino inventato, ma, nonostante i dettagli frutto di uno scatto rabbioso, il ritratto era chiaro. Infatti la signora Marchese prestava particolare attenzione ai movimenti di Sabbatini, come normalmente non avviene tra vicini di casa. Ogni volta che lo vedeva, lo udiva o anche solo avvertiva il sentore della sua colonia nell’ascensore, rabbrividiva e per alcune ore rimaneva turbata. Siccome apparentemente lei trascorreva molto del tempo a fare shopping, si
era scusata per non aver potuto fornire un perfetto quadro della situazione, ma in realtà c’era riuscita a meraviglia. Flavia uscì da casa sua con la descrizione di un uomo che, a parte il debole per le vasche piene di gesso e i posti d’auto altrui, conduceva un’esistenza straordinariamente tranquilla e riservata. Non faceva nulla, almeno in apparenza; si alzava tardi e non sembrava avere un’occupazione. In tutto ciò la signora Marchese non aveva trovato nulla di strano, perché lei stessa viveva così, e, quando Flavia le aveva chiesto dove lui trovasse il denaro per condurre una simile esistenza, si era stretta nelle spalle e aveva risposto: «Sarà stato ricco di famiglia». La spiegazione che davano tutti e che non significava nulla. Sabbatini aveva avuto pochi amici, pochi conoscenti e nessun partner fisso, donna o uomo che fosse. Per oltre una settimana era rimasto fuori di casa, ma il mercoledì precedente nel suo appartamento c’era stato qualcuno: lui, con ogni probabilità. La signora Marchese aveva sentito dei colpi e trascinamenti, come se i mobili venissero spostati. Se quell’uomo era veramente un artista, e la signora era parsa sconvolta da una simile eventualità, in quanto lo riteneva sì un poco di buono, ma non fino a quel punto, svolgeva la sua attività, quale che fosse, da un’altra parte. In definitiva, Sabbatini era il tipico e assolutamente rispettabile esemplare di ricco fannullone che si sollazzava qua e là, aveva le mani bucate quando si trattava di acquistare qualcosa per capriccio, e che non faceva del male a nessuno. Nel frattempo Corrado aveva raccolto altre preziose tessere del mosaico: ogni mese una cospicua somma veniva versata sul conto corrente di Sabbatini, e un pacco di lettere provenienti da uno studio legale attestava che da lì arrivavano quei versamenti regolari. Splendido, ma era meglio non mettere il carro davanti ai buoi. Flavia fece salire Corrado su un taxi e lo spedì a parlare con il medico legale, mentre lei sarebbe andata allo studio di Sabbatini. Se Flavia si fosse veramente preoccupata di fare sempre bella figura davanti ai suoi sottoposti, quella mossa sarebbe stata un errore; è sempre meglio passare il proprio tempo a conversare garbatamente con la gente rispettabile che andare in giro a sporcarsi le mani. E lo studio, poco più di un piccolo garage singolo sul retro di un fatiscente casermone, uno di quegli edifici sorti come funghi una ventina di anni prima, del tutto abusivi e costruiti con materiali così scadenti da essere già pericolanti, era una lurida tana. Pezzi di stucchi, orrende sculture di lattine riciclate e vecchi utensili, qualche brutto dipinto appeso alle pareti, tutto il bric-à-brac di un dilettante privo di talento, perché Sabbatini, secondo Flavia, come artista non valeva proprio nulla. Una cosa, però, era di vitale importanza e valeva il viaggio fin lì, anche se servì soltanto a confermare quanto già sapeva.
Nel cassetto di una scrivania c’era un’edizione economica in formato tascabile delle Metamorfosi di Ovidio. Niente di illuminante, si disse Flavia, se non fosse che quell’opera conteneva il mito rappresentato nel dipinto del Lorenese. Possibile che Sabbatini fosse il tipo di persona che legge Ovidio a tempo perso? Era una vera fortuna che fosse morto, vanificando così ogni probabilità di vederlo comparire in un’aula di tribunale, pensò Flavia. Riusciva a immaginare l’espressione che avrebbe fatto il magistrato inquirente quando lei avesse affermato che l’intero caso si basava su un racconto mitologico. Ma aveva comunque la certezza di procedere nella direzione giusta e sperava sempre di recuperare i soldi del riscatto. E per lei era inevitabile pensare che tutto ciò avrebbe parecchio aumentato le sue possibilità di restare a capo del Nucleo investigativo. Mentre tornava in ufficio pensò a cosa scrivere nel rapporto, poi ascoltò il resoconto di Corrado sull’autopsia, la prima a cui il giovane avesse assistito, con suo grande disgusto. Nulla di particolare. Sabbatini, nel cui sangue era stata rinvenuta una gran quantità di alcol, era morto per soffocamento. Non c’erano indizi che facessero sospettare un intervento esterno, ma non si poteva neanche escluderlo. Flavia dondolò il capo, assorta, mangiando un panino al prosciutto sotto lo sguardo disgustato di Corrado. «Quando è avvenuto il decesso?» chiese. «Immagino che non siano in grado di dirlo, come al solito.» «Giovedì mattina, al più tardi. Più probabilmente mercoledì sera.» Lei smise di mangiare. «Cosa?» Corrado, dopo aver ripetuto quanto aveva appena detto, aggiunse: «Perché quell’aria sconvolta?» Flavia lo liquidò in tutta fretta. Una recluta era l’ultima persona a cui lei avesse voglia di spiegare che Sabbatini non solo era morto prima che i soldi del riscatto venissero consegnati, ma che con ogni probabilità, quando quei soldi erano stati richiesti, lui aveva già tirato le cuoia.
10 Seguire la pista Sabbatini non era più così importante perché, tanto per cominciare, vacillava l’idea che fosse stato lui a rubare il dipinto, ma Flavia sapeva essere così tenace e scrupolosa da obbligarsi a uscire dall’ufficio nonostante fosse scoraggiata e ormai certa di avere un’ulcera così grossa da risultare letale. Si trascinò fino allo studio legale che per tanti anni aveva versato quelle generose somme sul conto corrente di Sabbatini e, facendo leva sull’autorità che le derivava dall’essere capo del Nucleo investigativo, sulla sua capacità di persuasione e, soprattutto, sul suo fin troppo evidente malumore, costrinse il responsabile dello studio a parlare. Quel che apprese le complicò la vita una volta di più. Maurizio Sabbatini era il cognato di Giulio Di Lanna. «Interessante», fu l’unico commento che si lasciò sfuggire. Il legale non replicò, perché sarebbe stato superfluo. Mentre tornava in ufficio, Flavia continuò a pensarci, provando al contempo una fitta di rimpianto all’idea che Bottardi fosse in pensione e non potesse più consigliarla. Dover prendere di petto un membro della famiglia Di Lanna era quel genere di impresa che richiedeva tutto l’aiuto possibile. Certamente non era la più ricca famiglia italiana, ma, almeno al momento, una delle più potenti, e l’improvvisato partito politico che Di Lanna aveva personalmente creato sulle rovine prodotte dal caos che, negli ultimi anni, aveva travolto gli altri partiti faceva attualmente parte della coalizione di governo. Il Partito di ascesa democratica, denominazione che non si sapeva bene cosa significasse, o anche solo se fosse di destra o di sinistra, alla Camera disponeva soltanto di quattordici deputati, ma, siccome il governo nel complesso poteva contare su una maggioranza risicata di soli dodici deputati, a dispetto della sua esiguità, esercitava una grande influenza. Oltre a questo, i tentacoli di Giulio Di Lanna si protendevano su tutti i settori dell’industria e della finanza italiane: benché lui personalmente non possedesse alcunché e controllasse ben poco, grazie a una complessa rete di società d’investimento e finanziarie aveva messo lo zampino quasi ovunque. Aveva imparato alla perfezione l’arte di ottenere molto in cambio di poco. Era un uomo potente, ma di una potenza fittizia; un illusionista, perché la sua vasta influenza si basava sulla diffusa convinzione che fosse influente. E suo cognato era, apparentemente, un ex terrorista che nei suoi ultimi giorni di vita poteva essersi trasformato in un ladro di opere d’arte. Poiché lo stesso Di Lanna era uno dei quattordici deputati del suo partito, Flavia riuscì finalmente a rintracciarlo nel più improbabile dei posti: a
Montecitorio. Fatta eccezione per le occasioni ufficiali, in cui recitavano la loro parte davanti alle telecamere, i membri della Camera, in particolare i più importanti, raramente si facevano vedere in quell’edificio, perciò il fatto di trovare un personaggio di spicco nell’ufficio a lui assegnato in qualità di leader di un partito per poco non lasciò Flavia a bocca aperta dallo stupore. Per di più senza neanche una segretaria, senza guardie del corpo che cercassero di tenere alla larga i visitatori, senza il rumoroso andirivieni della gente giunta fin lì per consegnare una qualche petizione, a indicare la presenza in quell’ufficio di un così insigne individuo. Solo un piccolo cartoncino scritto a macchina e appiccicato con il nastro adesivo sulla porta, che, essendo di vetro, permetteva di scorgere che al di sotto c’era un’altra targhetta, fissa e stampata, dalla quale si apprendeva che quell’ufficio in passato era appartenuto a un esponente dell’ormai defunta Democrazia cristiana. Nella stanza regnava un tale silenzio che Flavia aveva dato quasi per scontato che non ci fosse anima viva e si era decisa a bussare solo perché le sembrava sciocco andare via senza averci provato. Non solo Di Lanna era in ufficio, ma spalancò personalmente la porta: un modo di fare anticonvenzionale. Nel mondo politico italiano, e non solo italiano, a pensarci bene, i pezzi grossi non aprono da soli la porta: un chiaro segno che, tutto sommato, non sono poi così importanti. Invece Di Lanna sembrava disposto a correre il rischio di sminuirsi di fronte agli altri, dal momento che le fece cenno di entrare senza tante cerimonie nel suo piccolo e ingombro ufficio. Si comporta da uomo comune, uno come tanti, pensò Flavia, per sembrare di sinistra? O è così informale, all’americana, per dimostrare che è un uomo d’affari favorevole al libero mercato? Poi scosse la testa. Doveva smettere di fare supposizioni. «È in anticipo», le disse Di Lanna. «Davvero?» replicò lei, un po’ sorpresa. «Sì. Se non sbaglio, non l’attendevo prima delle quattro. Ma non importa. Cominciamo pure, però non si aspetti che le riveli qualcosa di interessante.» «Neanche per sogno», si lasciò sfuggire Flavia e, con suo grande stupore, Di Lanna gettò indietro la testa e scoppiò a ridere, dicendo: «Si accomodi, si accomodi. A proposito, come si chiama?» Dopo di che si sedette a sua volta, fissandola attentamente con curiosità e uno sguardo malizioso. Flavia, ripensandoci più tardi, stabilì che era stato proprio quel suo sguardo a convincerla: nessuno fondamentalmente integerrimo, pensò irrazionalmente, poteva avere uno sguardo così malizioso. Di Lanna era uno di quei tipi che le andavano istintivamente a genio, però le ci volle un po’ di tempo per capire perché la sconcertasse tanto. Indossava un completo di tweed, un tempo tipico della classe dirigente, ispirandosi a un supposto stile inglese che evocava immagini di terre e valori nazionali. Ma tutto il resto richiamava la nuova sinistra: il taglio dei capelli, il modo di stare seduto, il
gesticolare. Un ostentato e deliberatamente contraddittorio insieme di riferimenti che aveva l’effetto di spiazzare i suoi interlocutori. «Chi crede che io sia?» gli chiese. «Una giornalista, non è così? Venuta qui, come tanti altri suoi colleghi, a domandarmi quando mi deciderò a pugnalare alla schiena il presidente del Consiglio.» Flavia gli mostrò il proprio tesserino, che Di Lanna osservò apparentemente impassibile, poi aggiunse: «Prima di tutto vorrei sapere se possiamo parlare in questo ufficio senza correre il rischio che la nostra conversazione venga ascoltata da orecchie indiscrete». Lui esitò un attimo. «Ogni mercoledì mattina qualcuno piazza in questa stanza un paio di cimici, che io, ogni mercoledì pomeriggio, faccio rimuovere. Loro lo sanno, eppure continuano a metterle. È per farmi capire che mi sorvegliano, non perché si aspettino di udire qualcosa di compromettente. Poiché oggi è giovedì, dovremmo essere abbastanza al sicuro.» «E chi mette le cimici?» Di Lanna si strinse nelle spalle. «E chi può dirlo? La mano oscura dello Stato, come avrà certamente capito. Mi spieghi lei, piuttosto, perché mai un alto funzionario di polizia che si occupa di furti d’arte è venuto qui a trovarmi.» Flavia indugiò, ma solo per una frazione di secondo. «Perché lei potrebbe aver avuto a che fare con un ladro di opere d’arte. Cosa che lei ben sa, dal momento che sono usciti dalle sue tasche i tre milioni di dollari utilizzati, la settimana scorsa, per pagare un riscatto.» Di Lanna fece una smorfia, come se sborsare tre milioni di dollari fosse roba da tutti i giorni. Il che probabilmente era vero, per uno come lui. «Ah», replicò. «Mi era stato detto che tutto si sarebbe svolto nella più completa discrezione. E che non ci sarebbe stata alcuna indagine. Questa sua iniziativa mi delude molto, me lo lasci dire.» «Non ha motivo di essere deluso. Io non sto facendo altro che sciogliere i nodi ancora irrisolti. La vicenda si è un po’ complicata, dopo la morte di suo cognato.» Notò che l’accenno a Sabbatini non gli aveva provocato la benché minima espressione di sgomento o cordoglio. Su quelle fattezze così controllate sembrò tutt’al più calare un velo di compiacimento. «Ero convinto che ciò le avesse semplificato le cose. Su di me ha avuto tale effetto.» «Per quanto mi riguarda, è stato esattamente il contrario», replicò Flavia. «A quanto pare, Sabbatini era già morto prima che il riscatto venisse chiesto e sicuramente lo era quando il denaro è stato ritirato. Perciò delle due l’una: o suo cognato aveva un complice, una persona che sa tutto di questa incresciosa vicenda e al momento ha in mano il denaro, o qualcuno ne ha
deliberatamente imitato lo stile istrionico al solo scopo di confonderci le idee.» Di Lanna parve incuriosito. «Presumibilmente non sono l’unica a conoscenza dei rapporti che intercorrevano fra lei e suo cognato», proseguì Flavia. «Dobbiamo pertanto prendere in considerazione l’ipotesi che tutta questa pagliacciata sia stata inscenata per nuocere più che altro a lei.» Il suo interlocutore si dondolò sulla sedia, un altro comportamento all’americana, poi congiunse le mani, avvicinando i polpastrelli alle labbra come un prete. Alla maniera dei democristiani di un tempo. «Mi sembra improbabile, non le pare? La cosa avrebbe funzionato solo se tutti fossero stati al corrente del legame di parentela fra me e Sabbatini. In questo caso, glielo concedo, avrei potuto subire un danno.» «Continuo a ritenere che potrebbe essere così. Il denaro non è stato ancora recuperato e c’è qualcuno che conosce tutta la storia, a partire dal furto per arrivare alla richiesta di riscatto, e, se è lui ad avere i soldi, ha in mano anche una prova convincente. Temo che da parte nostra ci sia ben poco da fare. Chiunque sia questo individuo, noi non possiamo toccarlo senza correre il rischio di rendere pubblico il fatto che lo Stato italiano si è lasciato rubare un dipinto che aveva promesso di salvaguardare a tutti i costi. Per non parlare del reato di cui alcuni alti esponenti del governo, fra cui lei in persona, si sono macchiati per riuscire a rientrarne in possesso. Cosa che, immagino, lei non desidera certo che accada.» «Effettivamente no.» «Perciò devo procedere con i piedi di piombo. Ritengo tuttavia di estrema importanza scoprire quanto più è possibile su questo ipotetico complice. Per ridurre al minimo le probabilità che una mattina, aprendo il giornale, ci capiti di avere una brutta sorpresa.» Di Lanna ci pensò un attimo, poi assentì. «Non ha tutti i torti. Ho sempre saputo che un giorno o l’altro quel miserabile bastardo mi avrebbe messo nei guai.» «Posso chiederle in quali rapporti fosse con suo cognato?» «Non avevo alcun tipo di rapporto con lui. Sono trascorsi quasi vent’anni dall’ultima volta in cui ho avuto occasione di incontrarlo o di parlargli. Per quanto mi riguarda, Maurizio non esisteva neppure. Era il tipo che tradiva chiunque venisse a contatto con lui.» «Però lei continuava a mantenerlo.» Di Lanna le lanciò un’occhiata interrogativa. «Ho parlato con il legale che gli versava mensilmente un’indennità.» «Erano soldi che lui aveva ereditato dal padre, un patrimonio gestito da un curatore fiduciario. Se fossi stato in grado di bloccare completamente quel versamento, l’avrei fatto. Ho intrapreso una serie di azioni legali che mi
sono costate un capitale per trovare il modo di farlo escludere dall’asse ereditario e, almeno in parte, ci sono riuscito. Però la somma che gli veniva ancora versata era tutt’altro che esigua, tanto da indurmi, quando ho saputo di quest’ultima bravata, a chiedermi perché mai l’avesse compiuta. Un punto a favore di mio cognato, l’unico, forse, era il suo sincero disinteresse per il denaro. Se l’aveva, lo spendeva; se non l’aveva, ne faceva a meno.» «Si vede che ultimamente aveva cambiato idea in proposito.» Di Lanna si strinse nelle spalle. «Può raccontarmi qualcosa su di lui riguardo agli amici, i conoscenti, gli ambienti che frequentava?» «Ritengo che i voluminosi fascicoli a suo nome che può trovare nell’archivio di polizia le saranno molto più utili», rispose Di Lanna, scuotendo la testa. «Glielo ripeto, evitavo persino di parlargli.» «Era un così cattivo soggetto?» «Sì. Ciò che ha fatto è gravissimo e imperdonabile.» «Ma non aveva combinato granché. A parte rapinare una banca.» «Per essere un funzionario di polizia, dottoressa Di Stefano, mi sembra fin troppo indulgente. Però non mi riferivo alle sue azioni terroristiche o alle sue megalomani buffonate. Stavo parlando dell’uccisione di mia moglie. Sua sorella.» Flavia esitò, cercando di riordinare le idee. «Mi dispiace», disse dopo un attimo. «Non riesco a seguirla.» «Maurizio era colluso con una vera e propria banda di criminali e, da quell’esibizionista che era, non aveva potuto trattenersi dal raccontare vita, morte e miracoli dei suoi parenti, perché si divertiva a impersonare il rivoluzionario, ma al contempo ostentava la sua appartenenza a una ricca e potente famiglia. Forse era il suo modo di ribellarsi al padre, che era un individuo eccezionale. Carismatico, determinato, pronto a tutto pur di non essere intralciato. Stravedeva per la figlia, ma trascurava il figlio maschio. Non so perché e non mi importa. «Quei furfanti nutrivano nei confronti di Maurizio lo stesso disprezzo che lui aveva per loro. Lo consideravano un buffone da cui spillare denaro, nulla di più. Quando decisero di realizzare un colpo decisamente grosso, ne approfittarono senza pietà. Lui raccontò tutto dei suoi familiari e di dove abitavano. E in particolare di sua sorella: i suoi negozi preferiti, i ristoranti che frequentava. Sua sorella era mia moglie, e io l’amavo alla follia, più di qualunque altra donna abbia mai amato in tutta la mia vita. Eravamo sposati da appena un anno e mezzo. «Il resto è molto semplice, anche se straziante. La rapirono, chiesero un riscatto. Mi procurai rapidamente il denaro, sarei stato pronto a pagare anche il doppio di quanto esigevano, ma, per una volta, la polizia si mosse con insolita efficienza e individuò la casa in cui si presumeva fosse tenuta
prigioniera mia moglie. Circondarono l’edificio, un assedio che si concluse con una violenta sparatoria. «Finì tutto in tragedia. Nella casa furono trovati alcuni terroristi già morti, ma non Maria. La reazione del resto della banda fu immediata e selvaggia. L’indomani mia moglie fu rinvenuta in una fossa dietro un cespuglio sul Gianicolo, con la testa trapassata da un proiettile. Aveva solo ventiquattro anni. Suo padre morì di dolore e io per poco non impazzii.» Flavia si appoggiò allo schienale della sedia, turbata. Non ricordava quel tragico episodio. «Lei probabilmente non ne sa nulla», continuò Di Lanna. «Fu una delle tante notizie insabbiate, per quanto era possibile. I terroristi ne avrebbero ricavato un’enorme notorietà, perciò di comune accordo decidemmo di negare loro almeno quella soddisfazione. Il cadavere fu portato via prima che sul posto arrivassero i giornalisti, e noi comunicammo che Maria era morta in un incidente stradale. Per me fu una grande sofferenza non poter spiegare pubblicamente quanto straziante fosse stata quella perdita, così che tutti capissero, ma era la cosa giusta da fare in quel momento. Ne ero convinto allora e lo sono ancora oggi.» «Mi dispiace. Non mi ero resa conto...» «E come avrebbe potuto?» Di Lanna tacque, pensoso, e riprese a dondolarsi sulla sua sedia, ma lentamente, stavolta, e senza alcuna affettazione. «A quei tempi Antonio Sabauda era ministro degli Interni e fu lui a comunicarmi la notizia. Mi rimase vicino, mi confortò.» Abbozzò un lieve sorriso e continuò: «Mi sento sempre chiedere quando mi deciderò a costringerlo alle dimissioni uscendo dal governo e tentando di aumentare il mio potere a sue spese. La risposta, che non renderò pubblica, è che non accadrà mai. Provo troppa gratitudine per lui, per come mi ha aiutato in quei momenti bui. Ovviamente non potrò mai ammetterlo, perché la mia credibilità di politico, secondo gli elettori, si frantumerebbe se si venisse a sapere che le mie azioni sono dettate dalla lealtà e dalla gratitudine, perciò sono costretto a parlare di unità e stabilità. Che ovviamente vengono scambiate per pretesti per ingannare il tempo in attesa del momento giusto per togliere di mezzo Sabauda». Flavia scosse di nuovo il capo e rimpianse i piccoli criminali comuni, dei quali si sa sempre, di solito, quantomeno, cosa stanno architettando. «Capisco», replicò. «O, almeno, credo. Secondo lei, qual era il piano ordito da Sabbatini?» «Non ne ho idea e non me ne importa nulla. Grazie a lei il dipinto è stato recuperato e mio cognato fortunatamente è morto. Che possa soffrire le pene dell’inferno. Tre milioni di dollari sono un piccolo prezzo per questo.» Poi si allungò sulla scrivania e prese una fotografia incorniciata che passò a
Flavia. Lei vide una giovane donna, che reggeva un mazzo di fiori bianchi e sorrideva all’obiettivo. L’immagine aveva già la patina del tempo. «Che bella donna», commentò, non sapendo che altro dire. «Era meravigliosa. Rappresentava tutto ciò che avessi mai desiderato. Non ha fatto in tempo a darmi un figlio, purtroppo. Un bimbo, se non altro, avrebbe lenito in parte il mio dolore. Maurizio mi ha tolto anche questo.» «Mi dispiace.» Di Lanna si sforzò di accantonare quei ricordi e tornare al presente. «Perché ha deciso di fornire il denaro per il riscatto?» «Perché Sabauda, nel momento stesso in cui ha saputo del furto, ha capito chi era il colpevole e, quando me ne ha parlato, mi sono offerto di aiutarlo. Bisogna rimediare alle colpe dei propri parenti, per quanto questi possano essere spregevoli. Sabauda era molto preoccupato all’idea di utilizzare denaro pubblico perché le probabilità che qualcuno se ne accorgesse sarebbero state altissime. Gli ho dato una mano. Tutto qui. Come le ho detto, per me si trattava di una bazzecola, economicamente parlando. Il costo emotivo, come può ben capire, è stato molto più alto.» A quel punto Di Lanna diede un’occhiata al proprio orologio. «Temo che dovrà scusarmi, dottoressa Di Stefano, ma ora...» disse gentilmente. Flavia si alzò. «Certo. Mi scusi. Ho abusato fin troppo del suo tempo.» «Adesso cosa farà?» «Agirò con cautela e vedrò se c’è un modo per sistemare le cose.» «Mi permette di darle un consiglio? Lasci stare. Non ne ricaverà nulla di buono. Mia moglie è stata sepolta senza tante spiegazioni. Maurizio può ben finire sottoterra allo stesso modo. Non merita un trattamento migliore. E», aggiunse, dimostrandosi per la prima volta minaccioso, anche se solo per un attimo e non in modo esplicito, ma abbastanza da impressionarla, «non si aspetti di essere ringraziata.»
11 Pur sforzandosi, Argyll non riusciva a togliersi dalla mente che ci fosse qualcosa di decisamente strano nel quadretto della Vergine appartenente a Bottardi, e quel pensiero continuava ad assillarlo. Non era certo un problema urgente, ma costituiva per lui una sorta di diversivo. E Argyll amava farsi distrarre da qualcosa, soprattutto quando Flavia era molto occupata e non c’era nulla, almeno in teoria, che gli impedisse di lavorare. Se le andava a cercare, in effetti, quelle distrazioni, approfittando di un pretesto qualsiasi che gli impedisse di sedersi al tavolo, concentrarsi e mettersi a scrivere. In quei momenti, infatti, veniva colto dalla frenesia e avvertiva l’assoluta e travolgente necessità di alzarsi e correre a fare qualcosa, che poteva essere controllare alcuni dettagli o verificare i dati. Il dipinto di Bottardi si prestava a meraviglia. Era un così perfetto diversivo che persino Argyll capì che ogni suo debole tentativo di resistergli sarebbe stato spazzato via dal primario e incalzante stimolo a rinviare, mettere in forse e accantonare il tema della collezione d’arte intesa come opera artistica. Si arrese, infatti, prim’ancora di essere riuscito a completare la frase iniziale del suo testo: «Lo studio del collezionismo ha una lunga storia, ma ogni singola collezione non è mai stata analizzata, a quanto mi risulta, come un vero e proprio oggetto estetico. In questo mio scritto intendo...» Un buon inizio, pensò, appoggiandosi allo schienale della sedia e rileggendolo per l’ennesima volta. Chiaro e conciso. Dopo tale dichiarazione d’intenti, bisognava solo esplicitare l’argomento. Ma, come sempre quando si parte con il piede giusto, era importante che la frase successiva fosse altrettanto efficace. Doveva stare attento a non dire banalità, a non cadere nel ridicolo. In caso contrario sarebbe stato un disastro. Improvvisamente conscio che quella seconda frase andava perfettamente limata, decise che, per riuscirci al meglio, aveva bisogno di una lunga riflessione. E lui rifletteva bene quando camminava. Però non tollerava l’idea di camminare senza una meta. Perché quindi non impiegare un po’ di tempo, mezz’ora, non di più, a cercare di appurare qualcos’altro su quella Vergine? Dopo essersi così convinto che sospendere la stesura della sua relazione fosse il modo migliore per portarla a termine, si concentrò su un altro problema: come contattare Tancred Bulovius, forse l’unica persona vivente in grado di raccontargli quanto fosse accaduto a villa Buonaterra nel 1962. Una prospettiva che non lo entusiasmava particolarmente; ci avrebbe rinunciato volentieri, se l’unica alternativa non fosse stata quella di tornare a scrivere la relazione. Provava nei confronti di quel grande vecchio, figura di spicco
nel mondo dei conoscitori d’arte, se non una vera e propria repulsione, certamente un profondo fastidio. Erano rari gli esperti d’arte alla mano: molti di loro soffrivano del complesso di superiorità. In altre parole, andavano presi con le molle. Ma c’era poco da fare: o Bulovius o la dura fatica dello scrivere. Dopo lunghe riflessioni, afferrò il telefono e trattenne il fiato. Un’ora più tardi era in strada, per andare a incontrare l’ultimo eminente studioso del Rinascimento italiano. Senza dubbio sarebbe stato più cortese da parte sua dimostrarsi meno frettoloso e fissare un vero e proprio appuntamento per l’indomani, o per la settimana seguente, ma ciò gli avrebbe lasciato il tempo per mettersi al lavoro. E poi, si disse, Bulovius aveva almeno novantadue anni ed era più prudente non procrastinare l’incontro con persone così anziane. Anche un’ora in più rischiava di fare la differenza, perché il vegliardo poteva tirare le cuoia da un momento all’altro. Inoltre, la persona che aveva risposto al telefono era sembrata molto felice all’idea di ricevere visite. Come facevano certuni, si chiese Argyll, una volta giunto sul posto, ad avere un simile tenore di vita? Forse dipendeva dal fatto che erano così vecchi, perché avevano avuto la fortuna di nascere quando la sterlina inglese svettava sulle varie valute straniere e quelli che, secondo gli standard inglesi, erano introiti modesti permettevano invece di vivere en grand seigneur in quasi tutto il resto d’Europa. Bei tempi davvero, quelli, se avevi il passaporto giusto, ma ormai finiti da un pezzo. Però Bulovius, pur vivendo a Roma solo alcuni mesi all’anno, alloggiava ancora nel piano nobile di un imponente palazzo, a un tiro di schioppo da piazza Navona, in cui era venuto ad abitare subito dopo la fine della guerra. Godeva probabilmente di un affitto bloccato, come molti romani. Il che era veramente ingiusto. Un palazzo è pur sempre un palazzo anche quando ha chiaramente bisogno di qualche piccola ristrutturazione, le finestre sono così marce che possono cadere da un momento all’altro, l’impianto idraulico lascia a desiderare e l’intero stabile pare non aver ospitato gente civile dai tempi in cui Roma era governata dal papa. Capita spesso di dover scegliere tra eleganza e comfort, e palazzo Agnello eccedeva forse un po’ in eleganza, però, almeno secondo Argyll, pur di abitarci valeva la pena di sopportare qualche scomodità. Fatta eccezione per l’inverno, quando la mancanza di un riscaldamento centralizzato diventava un handicap. Nel pomeriggio di una calda giornata primaverile non si notavano tanto questi inconvenienti, a parte la mancanza di balconi e terrazze su cui oziare, assenza dovuta al fatto che la vecchia aristocrazia romana disdegnava di stare all’aria aperta. L’abbronzatura era ritenuta volgare, e chiunque avesse un po’ di sangue blu nelle vene avrebbe preferito la morte alla perdita del proprio niveo incarnato. I tempi cambiano, i palazzi no, così fu in un grande salone immerso nella penombra che Bulovius ricevette Argyll, il quale
impiegò quasi dieci minuti ad abituare completamente la vista a quella semioscurità. Riuscì a malapena a scorgere alcuni quadri della famosa collezione Bulovius appesi alle pareti e li trovò per lo più di scarso interesse, anche perché i pezzi più pregiati erano stati di anno in anno trasferiti in Inghilterra e ora si trovavano nella casa, meno grandiosa, ma più pratica, che l’esimio esperto d’arte possedeva in Queen Anne’s Gate, dove attendevano la morte del loro proprietario. Bulovius aveva già da tempo stipulato un accordo con il governo inglese: in cambio della cessione dell’intera collezione alla National Gallery, l’ufficio delle imposte avrebbe chiuso un occhio per quanto riguardava le tasse di successione sul resto del patrimonio. Argyll, sulla base di quanto aveva sentito dire nel corso degli anni, sospettava che tale accordo si sarebbe rivelato con ogni probabilità poco vantaggioso per il governo: Bulovius nutriva nei confronti del denaro un amore identico a quello per l’arte, ed entrambi eguagliavano la sua antipatia verso qualsiasi tipo di imposta. In ogni caso la National Gallery avrebbe fatto bene ad affrettarsi a sgombrare un paio di stanze in cui accogliere quella collezione, perché Bulovius aveva l’aria di essere già con un piede nella fossa. Anzi, pensò Argyll mentre se ne stava seduto davanti al vecchio, sembrava già morto da alcuni anni. Non era certo il ritratto della salute: sprofondato nella poltrona, curvo, rinsecchito, ingrigito, quasi rimpicciolito, avviluppato in una spessa coperta di lana a quadri nonostante il piacevole tepore del pomeriggio, con gli occhi acquosi e le mani scosse da un tremito incontrollabile. Di prim’acchito Argyll era rimasto sorpreso: non era come si aspettava. E capì il motivo del suo stupore non appena quel vecchio decrepito aprì bocca. «Come posso aiutarla, giovanotto?» Invece di parlare con la voce prevedibilmente flebile e ansimante che ci si poteva attendere da una simile creatura, Bulovius emise una sorta di ruggito che riecheggiò per tutta la stanza. Argyll indugiò prima di rispondere, incerto se regolarsi in base all’aspetto del vecchio o in base alla sua voce. Decise che sarebbe stato più cortese dialogare con l’uomo dal tono stentoreo. «Be’», disse, «vorrei chiederle...» Non riuscì a proseguire. Bulovius scosse bruscamente la testa, fece una smorfia e si guardò attorno. «La porta è chiusa?» Argyll glielo confermò. «Bene. Raggiunga quella credenza. Su, si sbrighi. Dentro c’è una bottiglia. Me la porti.» Allarmato e convinto che il vecchio dovesse prendere una medicina senza la quale non avrebbe più trovato la forza di parlare, rovinandogli il pomeriggio, Argyll si alzò di scatto dalla sedia e attraversò rapidamente il salone nella direzione indicatagli. Ma non riuscì a trovare né pillole né pozioni.
Bulovius batté i denti in un fremito d’impazienza. «Whisky, figliolo, whisky. Ci dev’essere una bottiglia.» «No. Non c’è.» «Maledetta donna, deve averla trovata.» «Come, scusi?» «La mia infermiera. Continua a requisire il mio whisky. Dice che non mi fa bene. Lo so anch’io che mi fa male, ma, santo cielo, che importanza ha? Vada in cucina. La bottiglia dev’essere lì.» «E se la sua infermiera non fosse disposta a darmela?» «In questo momento dovrebbe essere fuori. Su, si sbrighi. E prenda un bicchiere anche per lei.» Dubbioso sull’opportunità di una simile iniziativa, ma condividendo il punto di vista del vecchio sull’inutilità di tenerlo a stecchetto per motivi di salute, Argyll si incamminò nella direzione indicata e sprecò i successivi dieci minuti a vagare nell’immenso appartamento in cerca della cucina e, dopo averla trovata, a passare in rassegna i vari armadietti per scovare la bottiglia che il suo ospite desiderava tanto ardentemente. «Dove diavolo era finito? Sarei potuto morire di vecchiaia, nell’attesa», protestò Bulovius quando lo vide finalmente ricomparire. Argyll gli lanciò un’occhiata incerta. «Stavo scherzando», continuò. «Non si preoccupi. Do dei punti a tanti altri, alla mia età. Ho novantatré anni. Non si direbbe, eh?» «Già...» «Ovviamente li dimostro. È questo che lei sta pensando, e ha ragione. Potrei crollare a terra morto da un momento all’altro. Proprio ora, qui davanti a lei. In tal caso lei cosa farebbe, eh?» «Non lo so», rispose Argyll. «Non mi è mai capitato, prima d’ora.» «Io, se fossi in lei, mi porterei via quel disegno.» «Come, scusi?» «Quello là. Vale molto.» Bulovius puntò il dito verso un piccolo disegno appeso accanto al caminetto, in un angolo così buio e polveroso che Argyll riusciva a stento a vederlo. «Potrebbe infilarselo in tasca e uscire, tanto chi se ne accorgerebbe? Su, vada a dargli un’occhiata. Che gliene pare?» Oh, santo cielo! Un giochetto. Argyll li odiava. Quei piccoli test a cui i vecchi rimbecilliti amavano sottoporre gli estranei. Ormai era da maleducati chiedere chi fossero i tuoi genitori, quali scuole avevi frequentato e soprattutto di quanto denaro disponevi, ma per qualche strano motivo quegli indovinelli erano ancora tollerati. Sa dire chi l’ha fatto? Attribuirlo a qualche scuola? Con estrema riluttanza Argyll si alzò dalla sedia e accettò la sfida. Se doveva essere sottoposto a quella prova, avrebbe fatto le cose per bene. Senza chiedere il permesso, staccò il disegno dalla parete e lo portò accanto alla finestra per poterlo osservare nella luce più adatta. Una bella cornice,
antica, ma questo significava ben poco; quanto al disegno in sé, era racchiuso in un quadrato di dieci centimetri per lato e raffigurava, con linee marcate e decise, tracciate con inchiostro seppia, il torso di un uomo nell’atto di lanciare qualcosa, una posa che metteva in evidenza i muscoli. L’ombreggiatura era altrettanto efficace perché essenziale, con un tratteggio semplicemente splendido. Come si fa a riconoscere la mano di un artista? Argyll, che pure trascorreva gran parte del suo tempo cimentandosi in tale impresa, dal cui buon esito, quando ancora faceva il mercante d’arte, ricavava gran parte dei suoi guadagni, non sapeva dirlo con precisione: non è qualcosa che si possa spiegare a parole. Anche l’abituale gergo dei conoscitori d’arte non è d’aiuto, perché descrive semplicemente un’impressione soggettiva davanti a un’opera. L’attribuzione a un artista piuttosto che a un altro non è il risultato di un processo logico di deduzione e non ha nulla di razionale. In quel particolare caso Argyll era sicuro al novantanove per cento che il disegno che stava osservando fosse di Giovanni Benedetto Castiglione, detto il Grechetto. In parte per la posa del soggetto, che gli ricordava un dipinto visto a Ferrara; in parte per il tratto così marcato, caratteristico di quell’artista. E un po’ anche per l’inchiostro utilizzato, la cui tonalità bruna ricordava il sangue rappreso. Ma restava sempre quell’un per cento di dubbio. Da cosa dipendeva? Perché esitava ad attribuire al Grechetto quel disegno? Che per altro era perfetto, di una bellezza impeccabile. Qual era il problema? Era forse troppo perfetto? Erano fin troppi gli indizi che rimandavano a quell’artista? Quale pittore, nell’abbozzare uno schizzo per un’opera più complessa, sciorina in pochi tratti tutto il proprio peculiare repertorio stilistico? Forse lo facevano tutti e non era possibile, sulla base del semplice buonsenso, permettere che quell’un per cento di dubbio cancellasse il novantanove per cento di certezza. Fino al punto di negare un’attribuzione. «Ritengo che sia una bellissima, e particolarmente ben fatta, copia», disse un po’ ansioso. Sapeva che si trattava solo di un giochetto, però, avendo accettato la sfida, non voleva tirarsi indietro. «Uno studio stilistico, un’esercitazione, qualcosa del genere. Eseguita, suppongo, nello stesso periodo e luogo, ma pur sempre un’imitazione.» Faceva parte del gioco alludere all’artista senza mai prendersi il disturbo di nominarlo. Veniva dato per scontato, era implicito, perché solo un dilettante si sarebbe preoccupato di menzionare, anche solo di sfuggita, un dettaglio così ovvio. Era tanto superfluo pronunciarne il nome quanto specificare che si trattava di un disegno a inchiostro. «Se lei dovesse cadere stecchito davanti a me, non credo che rischierei di trovarmi tra i piedi il suo spettro in vena di scherzi vendicativi per il furto di questo disegno. Piuttosto prenderei quello là.» Indicò, sullo scrittoio accanto
alla finestra, un piccolo e malconcio schizzo a olio, sorretto da un minuscolo cavalletto. «Mi è sempre piaciuto il Bamboccio.» Ce l’aveva fatta; ancora una volta l’istinto l’aveva salvato. Riuscì a vedere l’espressione leggermente delusa apparsa sul volto di Bulovius al posto dell’aria di trionfo, fatta sparire e rimandata ad altra occasione. Era quello il guaio con la generazione più giovane, doveva essersi detto il vecchio per rassicurarsi, cioè che nessuno più aveva occhio. Tutti molto istruiti, senza dubbio, attenti lettori di una pletora di «teorici», ma privi di occhio, e, senza quello, come potevano capire? Ma Argyll non aveva letto testi di teoria dell’arte e aveva trascorso gran parte degli ultimi sette anni non facendo altro che osservare. Da Bulovius non ottenne elogi, ma solo un burbero commento: «Lo rimetta al suo posto, allora. Non lo tenga al sole, perché l’inchiostro sbiadisce. Poi torni qui a dirmi cosa vuole». Una sorta di resa, immaginò Argyll. «Robert Stonehouse», esordì, adesso che si era conquistato l’attenzione del vegliardo. «Anno 1962. Lei fu suo ospite per qualche settimana, se non sbaglio.» «Se lo dice lei», ribatté Bulovius. «È passato un bel po’ di tempo. Come faccio a ricordarmelo?» «Mentre lei si trovava nella villa di Stonehouse, fu rubato un dipinto. Non se ne seppe nulla per alcuni giorni, poi fu ritrovato in un fosso. L’autore del furto non fu mai scoperto e nessuno sembra conoscere il motivo per cui rubò quel quadro. Vorrei che lei mi raccontasse tutto ciò che sa su quella storia.» Pur dubitando che Bulovius avesse granché da dire, Argyll era una persona scrupolosa e non voleva lasciare nulla di intentato. Non che qualche piccolo particolare potesse risolvere l’enigma, però voleva farsi un’idea quanto più possibile precisa della situazione. Con suo enorme stupore, il vecchio ricordò parecchie cose. Ma ciò che disse non fu esattamente quanto Argyll si aspettava di udire. Se è possibile avere contemporaneamente un’espressione turbata, divertita e sofferente, Bulovius ci andò vicino. «Cosa vuole? Una confessione? Va bene, allora», proruppe prima che Argyll potesse assicurargli che non intendeva nulla del genere. «Confesso. Cos’altro pretende che le dica?» Argyll lo fissò a bocca aperta, non sapendo cosa ribattere. «Fu, da parte mia, una vera stupidaggine, lo so. Un attimo di follia, causato dall’irritazione. Mi auguro che lei si renda conto che non ho mai più, né prima né dopo, compiuto un’azione simile. Tutti i dipinti, bronzi, stampe e disegni che possiedo sono stati regolarmente acquistati, grazie al mio fiuto e alla mia capacità di discernimento. Per ognuno sono in grado di farle vedere registrazioni e fatture e, cosa più importante, posso assicurarle...» «L’ha rubato lei?» riuscì a dire Argyll, realizzando finalmente che tutte le
elucubrazioni da lui ingenuamente fatte negli ultimi giorni erano totalmente sbagliate. Certo, era ancora in grado di riconoscere la mano di questo o quell’artista, ma chiaramente non era tagliato per risolvere questioni ben più intricate. «Sì, sì, l’ho rubato. E non posso neanche dire di averlo restituito spontaneamente, ma immagino che lo sappia già.» «Be’...» Argyll ci pensò su per qualche secondo, sforzandosi di metabolizzare l’inaspettata piega che la vicenda aveva preso. «E perché l’ha rubato?» «Perché quell’incompetente di Stonehouse non gli attribuiva il giusto valore. Non aveva la minima idea, quella testa di rapa, di ciò che aveva comprato. Un acquisto, tra l’altro, su cui ci sarebbe molto da ridire.» «Perché ci sarebbe da ridire? Mi risulta che abbia battuto sul tempo un certo Finzi, ma non lo si può sicuramente criticare per questo. Rientra nelle regole del gioco, in realtà.» Bulovius gli lanciò un’occhiata rabbiosa. «Di cosa sta parlando?» «Non ne sono più molto sicuro», replicò Argyll. «Mi risulta, per sentito dire, che Stonehouse l’avesse comprato nel 1938 da un mercante d’arte a Roma, però nello scorrere alcuni suoi documenti contabili ho avuto l’impressione che tale acquisto fosse avvenuto in realtà nel 1940... È stato il figlio a confermarmi che si trattava del 1938.» «No, no, no. Sciocchezze. Il figlio mente. O, quantomeno, ripete a pappagallo ciò che ha sentito dire dal padre, come ha sempre fatto. Finzi lo comprò. Acquistò due pannelli facenti parte di un trittico da un mercante a Roma. Stonehouse non era così abile da notarli. Ma Finzi non riuscì mai a rintracciare il terzo pannello. Il trittico doveva essere stato diviso in tre parti dopo aver lasciato la chiesa fiorentina di San Pier Gattolino.» Nell’udire che adesso aveva a che fare con due dipinti invece di uno, Argyll si sentì cadere le braccia. Si era augurato di semplificarsi l’esistenza, non di complicarsela ulteriormente. Però sorrise, per incoraggiare il vecchio a proseguire. «E quei due pannelli...?» «Per Finzi, come può ben immaginare, fu tutt’altro che facile lasciare l’Italia dopo che la situazione si era fatta molto pericolosa per gli ebrei. Perse gran parte del suo patrimonio per corrompere i funzionari italiani e dovette anche cedere molti dei suoi dipinti. Riuscì a salvarne alcuni, ma arrivò a Londra quasi senza un soldo. Stonehouse si offrì di prestargli un po’ di denaro, esigendo però che il nemico di un tempo gli consegnasse in garanzia le poche opere che ancora gli rimanevano della sua collezione. Dipinti che, dopo la fine della guerra, si rifiutò di restituire al legittimo proprietario, che nel frattempo aveva fatto soldi a palate, sostenendo di averli acquistati. Per Finzi fu un colpo tremendo. Il meglio della sua collezione era andato disperso e, quando finalmente riuscì a formarne una nuova, essa non
raggiunse mai l’eccellenza della precedente. Sono sicuro che lei possa immaginare quanto profonda fosse quella ferita.» «Robert Stonehouse mi ha raccontato una storia completamente diversa.» «Finzi era dotato di un fiuto straordinario, istintivo. Amava l’arte e, pur essendo un uomo d’affari, aveva un occhio particolare, di gran lunga superiore a quello di chiunque altro abbia mai conosciuto. Tutto ciò che comprava era un autentico capolavoro. Ed era anche un uomo gentile: quando non ero altro che un giovane squattrinato che studiava a Roma, mi affidò l’incarico di tenere in ordine la sua collezione e mi stipendiò finché non riuscii a trovare il mio primo impiego fisso. Nel suo testamento mi nominò anche principale erede dei suoi beni, nei quali non rientravano ovviamente i dipinti, destinati alla National Gallery.» Ah, pensò Argyll. Ecco il motivo per cui il vecchio parlava tanto bene di Finzi. «Stonehouse era un individuo odioso. Non aveva mai dovuto lottare per procurarsi i soldi, perciò non ne conosceva il valore, ma solo il potere. E acquistava paccottiglia. I pochi dipinti buoni della sua collezione c’erano finiti per caso. Ha mai sentito parlare del suo Modigliani?» «Vagamente», confessò Argyll. «È stato distrutto, non è così?» «Una reazione tipica di uno come lui. Troppo inetto da impedire che la moglie avesse una relazione con Modigliani, andò su tutte le furie quando lui la ritrasse nuda. La gente avrebbe potuto sospettare, capisce? E lui non lo poteva permettere. Gli importava solo di salvare le apparenze. In quel caso come in tutti gli altri.» «E il dipinto della Vergine...?» «Finzi aveva intuito cosa fosse. Io, dopo aver condotto qualche approfondita indagine, sono riuscito a provare che aveva visto giusto. Ho ricostruito la storia di quel trittico, ho rintracciato agli Uffizi alcuni schizzi preparatori, ho trovato la stampa che il Passarotti ne aveva ricavato, ma non ho mai messo nulla per iscritto. Non potevo farlo, almeno finché il dipinto fosse rimasto nelle mani di quell’uomo. Stonehouse non aveva la minima idea di che cosa si trattasse; si fidava dell’attribuzione fasulla che quel vecchio impostore di Berenson gli aveva fornito per scherzo. Berenson sapeva benissimo che cosa fosse, ma avrebbe preferito morire piuttosto che rivelarglielo. Stonehouse, che era sempre stato privo di senso dell’umorismo, non si rendeva mai conto di essere preso in giro da qualcuno. Quando vidi in quale stanza l’aveva appeso, lo portai via, impulsivamente. Era stato l’insulto finale. Se quel capolavoro fosse stato mio, avrei sgombrato la villa da ogni altro dipinto e lasciato solo quello, mettendolo nella miglior posizione possibile. Non l’avrei mai relegato in una cameretta, circondato da croste.» Argyll si trovava adesso tra le mani una questione molto delicata. Lui aveva il dipinto, o, meglio, l’aveva Bottardi, e Bulovius sapeva a chi attribuirlo. Mettere insieme le due cose sarebbe potuto essere più difficile di quanto
sembrasse. La gente spesso commette l’errore di pensare che il commercio di opere d’arte riguardi solo la vendita o l’acquisto di queste ultime, ma non è così: un suo aspetto importantissimo è determinare con certezza il loro autore. Chi è in possesso di tale informazione su un certo dipinto si trova generalmente in posizione di vantaggio rispetto al semplice proprietario. Bulovius ne era conscio, tanto quanto Argyll; anzi, di più. E quella consapevolezza era così radicata in lui che non avrebbe mai svelato il suo segreto, per una sorta di puntiglio, almeno finché non avesse ricevuto qualcosa in cambio. Toccava adesso ad Argyll estorcergli l’informazione decisiva. «La prego, mi faccia capire una cosa», disse, accantonando momentaneamente il suo problema. «Lei arriva alla villa, sapendo già che il dipinto si trova lì e avendo già deciso di impadronirsene...» «No, no», lo interruppe il vecchio, stizzosamente. «Per chi mi ha preso? Ovviamente sapevo che era lì, perché Finzi me l’aveva detto in svariate occasioni, e non vedevo l’ora di ammirarlo. Quando non lo trovai in nessuna delle stanze principali, fui colto da una specie di tremore. Finzi non aveva mai preso in considerazione l’ipotesi che Stonehouse potesse averlo tenuto per sé non per fare semplicemente un dispetto al legittimo proprietario, impedendogli di riaverlo, ma perché se n’era innamorato e non sopportava l’idea di separarsene, nel qual caso era degno di essere perdonato.» Si interruppe. Dannazione, pensò Argyll. Bastava che Bulovius continuasse a parlare e un nome sarebbe pur uscito. «Però, quando finalmente lo vidi, stretto in mezzo a un orribile ritratto e una stampa, rimasi inorridito. E disprezzai con tutto me stesso Stonehouse. Fu una cattiveria da parte mia, ma decisi di dargli una bella lezione. Se non aveva capito cosa fosse, poteva farne a meno.» «Così se lo portò via.» Bulovius si lasciò sfuggire un sospiro. «Sì. E devo ammettere che riuscii a capire quanto potesse essere affascinante una vita dedicata al crimine. Mi eccitai moltissimo a sgattaiolare di notte attraverso la villa, in punta di piedi, con il dipinto nascosto sotto la giacca. Anche se avevo i nervi a fior di pelle e alla fine mi ritrovai in un bagno di sudore.» «Dove lo nascose?» «Oh, nel primo posto che trovai. Temo di non essere portato per quel genere di cose, non ho abbastanza fantasia. Se ci avessi pensato un po’ di più, avrei escogitato qualcosa di meglio, ma avevo sprecato tanto di quel tempo prima di trovare il coraggio di rubarlo che non me n’era rimasto molto per pianificare il resto. Nel salone di Stonehouse c’era un enorme divano: orrendo ma pur sempre la cosa più comoda di quella stanza. Lo infilai lì sotto. Dovevano essere anni che nessuno spazzava più il pavimento in quel punto, così, dopo aver sistemato il dipinto in mezzo a cumuli di
polvere, rischiai di svegliare l’intera casa con i miei starnuti. L’indomani, quando vidi uno dei poliziotti sedersi proprio su quel divano, per poco non mi venne un colpo.» «E come fece a gettarlo nel fosso?» «Non fui io a mettercelo. So soltanto che, il giorno successivo al mio furto, qualcun altro lo rubò a me. E, circa una settimana più tardi, vidi dalla finestra un poliziotto e una ragazza, una certa Verney, che attraversavano il giardino, diretti verso il fosso in cui era stato nascosto il dipinto. E lo trovarono.» Argyll si riebbe dallo shock in maniera sorprendente. Non batté quasi ciglio; non emise balbettii e men che meno qualcosa di più patetico come un gemito; non si portò la mano al petto e non svenne, anche se, a pensarci bene, un simile comportamento sarebbe stato comprensibile. Ovviamente avrebbe dovuto intuire che in quella storia poteva esserci lo zampino di Mary Verney, ma quale fosse stato, con esattezza, il ruolo da lei svolto restava ancora per lui un punto disperatamente oscuro. «E chi era questa Verney?» chiese, soddisfatto del suo tono casuale. «Una studentessa, mi pare. Una graziosa figliola, anche se un po’ troppo sveglia per i miei gusti. Troppo intelligente, se capisce cosa intendo. E non mi piaceva il suo modo di fraternizzare con i poliziotti. Me la ricordo solo perché conosceva un mercante d’arte mio amico.» «Cosa intende con ’fraternizzare con i poliziotti’?» Bulovius ridacchiò e fece l’occhiolino ad Argyll, con un fare allusivo che risultò piuttosto disgustoso sul volto di un vecchio di novantatré anni. «Ronzava sempre attorno a loro, non so se mi spiego. Sembrava una ragazzina innocente, però a me dava sempre l’impressione di saperne molto di più di quanto lasciasse trasparire.» Una risposta vaga e inutile, ma Bulovius non era certo il tipo disposto a dare una mano a un estraneo. «Capisco», ribatté Argyll. «Ma il dipinto...» «Non ho molto altro da dirle», replicò il vecchio. «L’agente lo brandì con un’espressione di trionfo, suscitando l’ovvia irritazione del suo superiore, un individuo assai presuntuoso, poi, per quanto ne so, la vicenda fu archiviata. La versione della polizia fu che i ladri erano stati colti dal panico e se n’erano sbarazzati mentre fuggivano dalla casa. Una totale assurdità, ovviamente, e sono sicuro che anche Stonehouse fosse di questo parere. Lui, almeno apparentemente, non mi tirò in ballo, il che fu molto gentile da parte sua, anche se tuttora non mi spiego quel suo atteggiamento protettivo. In ogni caso io, la polizia e Stonehouse fummo ben felici che la cosa finisse lì e infatti non ci furono altri strascichi. Fine della storia.» Tacque e sorseggiò il suo whisky con un tale evidente piacere che Argyll fu contento di averglielo procurato e aspettò che il brivido di soddisfazione si trasmettesse a tutto il fragile corpo del vecchio prima di tentare di
affrontare l’argomento che più gli stava a cuore. «Mi parli dell’attribuzione del dipinto. Lei ne è sicuro al cento per cento?» «Ovviamente sì. Capisco che, secondo lei, sarebbe solo una mia fantasia, ma non è così. Lo confronti con quello che si trova a Fiesole, osservi bene lo stile e, soprattutto, si rilegga il suo Vasari. Non c’è alcun dubbio in proposito; ci sono tali e tante prove da convincere anche i più scettici. Prove schiaccianti, se considerate nel loro complesso. Molte opere d’arte vengono attribuite per molto meno. Se Finzi fosse stato in grado di recuperarlo, di completare...» Argyll tremava per l’impazienza. Non doveva fare altro che prendere il toro per le corna e chiedere a bassa voce, anche se avrebbe voluto gridare, chi mai, in nome di Dio, fosse l’autore del dipinto. Ma sapeva quale sarebbe stata la reazione: Bulovius si sarebbe chiuso a riccio. Anzi, il lieve scintillio negli occhi di quella vecchia carogna lasciava intuire che era perfettamente consapevole di avere in pugno la situazione. Alla fine avrebbe anche potuto sputare quel nome, ma solo dopo avergli fatto sudare sette camicie. Argyll insistette a lungo, sollecitando e sondando, poi si arrese, per paura che il vecchio s’impuntasse definitivamente. Se ne andò, il più educatamente possibile, e scese con passo pesante le scale, imprecando fra sé. Raggiunse l’appartamento di Bottardi e suonò il campanello più a lungo del necessario, nella speranza che il generale fosse ritornato a casa e lo lasciasse entrare, permettendogli di esaminare di nuovo il dipinto. Ma non era il suo giorno fortunato. Bottardi non c’era, e lo spesso uscio di legno rinforzato da una piastra d’acciaio impedì ad Argyll di fare irruzione nell’appartamento. Andò a dormire senza aver risolto nulla e l’indomani, quando decise di riprovarci e interrogare Bulovius senza tante cerimonie, si vide aprire la porta dall’infermiera, la quale, in tono contrito, lo informò che Tancred Bulovius era morto durante la notte, probabilmente perché quel vegliardo solido come una quercia era riuscito, chissà come, a scolarsi una bottiglia di whisky.
12 Più o meno nel momento in cui Argyll ascoltava, sempre più sconfortato, il resoconto dell’infermiera sugli ultimi istanti di vita di Bulovius, Flavia si accorse che era in arrivo una valanga di guai. Erano le due del pomeriggio e lei era stata appena chiamata al telefono dal giornalista che detestava. «Vorrei sapere», esordì Bossoni, «se può fornirmi la sua opinione su una storia che abbiamo intenzione di pubblicare.» «Mi dica di cosa si tratta», replicò Flavia. «Se posso, l’aiuterò.» «Riguarda il furto, avvenuto dieci giorni fa, di un dipinto al Museo nazionale e della relativa richiesta di riscatto.» Flavia ebbe un tuffo al cuore, mentre il suo stomaco si contraeva. «Questo lo dice lei», ribatté. «Io non ne so niente.» «Davvero?» commentò Bossoni, poco convinto. «Abbiamo appreso da una fonte autorevole che un dipinto destinato a essere esposto nella mostra d’arte europea che sta per essere inaugurata è stato rubato, poco dopo l’arrivo a Roma, da una banda armata di ladri, i quali sono riusciti a fuggire con la refurtiva nonostante gli eroici sforzi dei guardiani, che hanno fatto di tutto per fermarli.» «Cosa avrebbero fatto i guardiani?» «Secondo la nostra fonte, si sono avventati su un ladro e si sono arresi solo quando il resto della banda ha minacciato di uccidere uno di loro.» «Che coraggio», commentò Flavia. «Il dipinto è svanito nel nulla per riapparire una settimana più tardi. Ovviamente ne è stato pagato il riscatto.» «Ovviamente. Sempre che quanto lei afferma sia vero. Cosa dicono i dirigenti del museo?» «Con loro non ho ancora parlato.» «La sua fonte è uno degli eroici guardiani, immagino.» «Questo non posso proprio dirglielo. Lei è in grado di confermare il fatto?» «No. Anzi, affermo di non saperne niente.» «Non c’è stato alcun furto?» «Non sia ridicolo.» «Come avremmo fatto a tenerlo nascosto ai mass-media per tanto tempo?» «Non è stato pagato alcun riscatto?» «Da me assolutamente no. Se ricorda, me l’ha già chiesto una settimana fa e io le ho risposto che mai e poi mai il mio dipartimento avrebbe pagato un ricattatore, prima di tutto perché è illegale e, in secondo luogo, perché non disponiamo di somme di denaro tanto ingenti. Quanti soldi ha dato lei, piuttosto, al guardiano che le ha fatto questa pessima soffiata?» «Noi giornalisti non paghiamo mai gli informatori», rispose Bossoni. «Anche
per quanto ci riguarda, i soldi scarseggiano. Però mi è stato riferito che lei ha convocato i guardiani per intimare loro di tenere la bocca chiusa.» «Nel qual caso, non mi avrebbero dato retta, non le pare?» «Già. Ma lei non ha ancora risposto alla mia domanda. È vero che la settimana scorsa una banda armata ha rubato un dipinto dal museo?» «No di certo.» «Il suo dipartimento ha pagato un riscatto per riaverlo?» «Assolutamente no. Non c’è nessuna banda armata che abbia rubato alcunché dal museo la settimana scorsa. Né quella precedente.» «Non ha altro da aggiungere?» «Un consiglio: non si fidi mai della parola dei guardiani. Eroici o meno.» Flavia posò la cornetta e, accigliata, iniziò a riflettere. Nella mente le turbinavano inquietanti pensieri. Era solo questione di tempo: Bossoni non ci avrebbe messo molto a raddrizzare il tiro e scoprire come fossero andate esattamente le cose. Lei non aveva alcuna responsabilità, ma sentiva che stava per finire in un mare di guai. Date le circostanze, pensò che fosse una buona idea avvisare subito il primo ministro. E dare una lavata di capo a Macchioli per non essere riuscito a tenere sotto controllo i suoi dipendenti. Poi tornò a casa, dove trovò uno sconsolato Argyll, il quale le confessò immediatamente di essere, sotto tutti i punti di vista, un omicida. «Gli ho procurato io la bottiglia di whisky, maledizione! Come ho potuto essere così idiota?» Flavia non tentò neppure di dimostrargli un po’ di comprensione. «Sono veramente distrutto», proseguì Argyll. «Perché hai ucciso Bulovius o perché non sei riuscito a strappargli di bocca il nome dell’artista che ha dipinto quel quadro?» «Per il primo motivo, soprattutto. Ma anche per il secondo. Che ne pensi di Bottardi e del fatto che conoscesse benissimo Mary Verney? Non te ne aveva mai parlato quando tu volevi arrestarla, vero?» «Già. Però è possibile che non sapesse che era la stessa ragazza conosciuta tanto tempo prima. Dopotutto, a quanto pare, lei non era tra i sospettati. Non era stata indagata, ma solo sentita come testimone. Quanto a me, non riesco neppure a ricordare i nomi dei testimoni che ho sentito quattro giorni fa, figuriamoci quelli di quarant’anni fa.» «Mmh.» Argyll era poco convinto. Tutto quanto avesse a che fare con Mary Verney gli causava inquietudine. Per lui era diventata un incubo. Non l’aveva ancora perdonata per averlo ingannato fingendosi una dolce, innocua e leggermente svitata nobildonna di una certa età, interessata quasi esclusivamente ai parassiti che le infestavano le rose e alla raccolta fondi per restaurare la chiesa del paese. Di conseguenza la riteneva molto pericolosa. Se l’angelo del Signore fosse sceso sulla terra ad annunciare la fine del mondo, Argyll si sarebbe facilmente convinto che, tutto sommato, la
responsabilità di quell’evento fosse da attribuire proprio a Mary Verney, per qualche oscuro motivo che lei sola conosceva. E la temeva a tal punto da pensare che, persino a quasi quarant’anni di distanza, le sue azioni potessero scatenare il caos. «Il guaio è che si trovava proprio lì. Ora che Bulovius è morto, la mia unica speranza è lei. Se non altro, Bottardi sembra davvero ignorare che il dipinto sia speciale.» «Anche se non è detto.» «Giusto.» Argyll ci pensò un attimo, poi cercò di scrollarsi di dosso quel sinistro presentimento che aveva cominciato ad assillarlo fin da quando aveva saputo di Mary Verney a villa Buonaterra. «Dimmi di te, adesso. Hai avuto qualche seccatura?» «Nulla d’importante in confronto a quanto è accaduto a te», rispose Flavia, un po’ acida. «Soltanto giornalisti interessati a dipinti e riscatti. Comincio a sentirmi vulnerabile.» Dopo che lei gli ebbe fatto un rapido riassunto della sua giornata, Argyll assentì. «Avresti dovuto dirmelo subito, prima che io iniziassi a lamentarmi», la rimproverò. «Ora cosa intendi fare?» Flavia si strinse nelle spalle. «Niente. D’altronde come potrei reagire? Tutto dipende dal giornale, se pubblicherà o no la storia. Ho fatto del mio meglio. Al massimo potrò far presente di aver detto subito che sarebbe inevitabilmente andata a finire così. Quando in un museo avviene un furto, con o senza scasso, è difficile tenerne a lungo all’oscuro i mass-media. Però questo non impedirà che ogni colpa ricada su di me.» «Per cosa?» «Troveranno un pretesto qualsiasi. Per aver permesso che il furto avvenisse. Per aver pagato il riscatto nonostante il preciso ordine del primo ministro di non farlo. Per non essere riuscita a far tacere quegli stupidi guardiani. Per non aver arrestato il ladro finché era ancora in vita. O forse no. Forse si limiteranno a sbattermi fuori: dopotutto c’è un mucchio di gente che aspira al mio posto. Un’ottima opportunità, che non mancheranno di prendere al volo.» Si alzò e si stiracchiò. «In realtà non c’è nulla che possa fare, se non tentare di ritrovare il denaro, nel qual caso potrei contare sull’appoggio dell’onorevole Di Lanna, che metterebbe una buona parola per me. Anche se non è detto. A quanto pare, pure lui vuole che tutta questa storia venga insabbiata.» «Mi sembra una buona idea.» «Cambierai parere non appena quel dannato Bossoni scriverà il suo articolo.» «Però non mi sembri molto preoccupata.» «È strano, ma la cosa mi lascia quasi indifferente. Non so perché. Forse
dipende dal fatto che Bottardi è uscito di scena. È sempre stato lui a galvanizzarmi. Gli ero molto legata, sai. Ho sempre lavorato per lui, più che per il dipartimento. Anche dopo che se n’era andato, non ho mai smesso di immaginarlo al suo posto.» «C’era, in teoria.» «Eppure, a quanto pare, ha fatto i bagagli e se n’è andato, senza il minimo rimpianto. E, se l’ha potuto fare lui, dopo tanti anni di servizio, perché io continuo a dannarmi l’anima con questo lavoro? Che m’importa di correre qua e là a dare la caccia ai dipinti spariti?» «È un atteggiamento poco costruttivo, da parte tua.» «Già. Ma ci dev’essere qualcosa di più significativo da fare.» «Per esempio?» Flavia ci pensò un attimo. «Non lo so.» Mordicchiò un pezzo di formaggio, poi tornò a sedersi. «Nel frattempo ingannerò il tempo andando a Siena, domani. Dai fascicoli dell’archivio è saltato fuori l’indirizzo di una vecchia compagna d’armi di Sabbatini. Probabilmente sarà solo una perdita di tempo, ma non si può mai sapere.»
13 Il viaggio fino a Siena filò liscio e si rivelò anche piacevole. È molto difficile essere preoccupati e in ansia quando si deve stare attenti al traffico italiano che trama costantemente per mandarti fuori strada alla minima distrazione. Flavia era diretta a un paesino situato una ventina di chilometri a nord-est di Siena, ma si fermò in città a mangiare un boccone e a dare un’occhiata all’istituto linguistico in cui lavorava al momento la persona che stava cercando, una certa Elena Fortini, che, secondo quanto riportava il fascicolo, era italo-americana e parlava un ottimo inglese. Ciò le aveva permesso di trovare un lavoro e guadagnarsi da vivere. E doveva condurre un’esistenza molto tranquilla, pensò Flavia. Chiunque si fosse rintanato in quel pacifico angolo di mondo non poteva non amare la quiete e il silenzio. In passato quella donna era stata anche una specie di artista, sebbene il genere di opere da lei create non incontrasse molto il gusto di Flavia. Era stata per Sabbatini una sorta di musa in campo ideologico e anche, come aveva intuito Flavia leggendo fra le righe il documento che Corrado le aveva trovato, la mente che aveva ideato le azioni politiche che lui, l’esecutore, aveva materialmente compiuto. Mentre Sabbatini si era schierato con gli estremisti solo perché allora era di moda stare dalla loro parte, pensò Flavia, Elena Fortini aveva dato prova di una maggiore serietà: le sue opinioni e i suoi comportamenti erano il frutto di una più attenta e razionale riflessione. Il suo compagno d’armi non aveva fatto altro che obbedirle, cercando con le proprie azioni di attirare l’attenzione su di sé. Come molte persone che avevano partecipato ai movimenti rivoluzionari negli anni Settanta, la donna si era resa conto, ben prima della maggioranza dei suoi compagni, che la battaglia non sarebbe mai stata vinta. Di conseguenza aveva accettato di diventare una dei tanti pentiti, cioè di confessare ogni crimine compiuto e di dare informazioni sui suoi compagni di un tempo, in cambio di pochi anni di carcere da scontare. Un appunto allegato al fascicolo esprimeva irritazione per il fatto che le notizie da lei fornite fossero state non solo poche, ma pure completamente inutili. Anche quando si trattava di salvare la pelle, quella donna aveva fatto in modo di non tradire gli amici. Rintracciarla era stata un’impresa estremamente facile: chi è stato un criminale politico non smette di esserlo, ragion per cui la Fortini aveva l’obbligo di comunicare ogni sei mesi il suo indirizzo, anche se questo era rimasto immutato da anni. L’ultima comunicazione era allegata al fascicolo che Flavia si era fatta dare in visione dai colleghi dell’antiterrorismo. Dopo aver pranzato, essersi riposata e preparata mentalmente all’incontro, Flavia rimontò in macchina e percorse gli ultimi chilometri che la
dividevano dall’abitazione della donna. Era un piccolo cascinale malandato, una di quelle costruzioni antiche, anche se stabilire a quando risalisse esattamente era difficile, perché poteva essere stata costruita in un arco di tempo che andava dal Seicento all’Ottocento, che in Italia si trovano un po’ ovunque. Tutt’altro che grande, in origine, ma con svariate ali aggiunte successivamente, cosicché il tetto di tegole di coccio si estendeva ondulato e con le più svariate angolature. Una dimora ambita, ora che tanti inglesi, tedeschi e olandesi erano disposti a tutto pur di procurarsi una casa estiva; mentre dieci o vent’anni prima la si sarebbe potuta comprare per un tozzo di pane, al momento doveva valere una fortuna. Tutti gli stereotipi che aveva immaginato Flavia cominciarono a incrinarsi non appena lei, raggiunta la porta d’ingresso, notò alcuni sacchi di mangime per polli ammassati ordinatamente sulla piccola veranda, una corda da bucato coperta di indumenti infantili e una certa aria di indigenza, qualche tegola mancante, una larga crepa nello spesso muro di pietra, che aleggiava dappertutto. Indigenza, ma non trascuratezza: evidentemente chi abitava in quella casa se ne prendeva anche cura. In giro c’erano chiari segni di attività. Dal retro giungeva l’inconfondibile baccano prodotto da ragazzini intenti a giocare, ridendo, strillando e schizzandosi addosso l’acqua, tra l’indifferenza di due chiocce che razzolavano forsennatamente di qua e di là, gli occhi a palla fissi sul terreno, in cerca degli ultimi granelli di mangime, e di un gatto che dormiva beatamente, ignorando il resto del mondo; dall’interno arrivava la voce di una donna che cantava da sola, ovviamente da sola, perché nessuno avrebbe mai osato stonare in quel modo in presenza di un ascoltatore. Tutto stava a indicare che i proprietari della casa erano poveri, che facevano tutto da sé e che non si permettevano lussi di alcun genere. Flavia avvertì una dolorosa e incontrollabile fitta di nostalgia. C’era chi riusciva a vivere confortevolmente e gioiosamente ovunque si trovasse, in qualunque circostanza, e in quella casa abitava gente così. Una constatazione che suscitò in lei uno stupore grande quanto l’invidia che provava. Quando bussò alla porta, il canto si interruppe di colpo, poi, dopo un lungo indugio, una donna sulla cinquantina venne ad aprirle, asciugandosi le mani. Aveva un bel viso, quell’ex ideologa del terrorismo, e in altri tempi doveva aver fatto strage di cuori. Ora, invecchiata, sciupata e stanca, non sembrava più preoccuparsi del proprio aspetto. Eppure c’erano in lei una calma e un’allegria che nascevano dal profondo. «Elena Fortini?» chiese Flavia. «Posso parlarle un attimo, se non le dispiace?» Nella risposta risuonò una punta di sospetto, ma non paura né incertezza. «I servizi segreti vogliono verificare che non stia fabbricando bombe, per caso? Entri pure, si accomodi.»
Flavia varcò la soglia e si ritrovò in un ambiente domestico caldo e ospitale. «Faccio parte della polizia, ma non ho nulla a che vedere con i servizi segreti», disse. «Però mi piacerebbe visitare questa fabbrica di esplosivi. In campagna adoro giocare alla caccia al tesoro.» Elena la fissò attentamente, indugiò un attimo, poi scoppiò in una risata. «Più tardi, se proprio vuole.» Le fece strada fino a un enorme locale con il pavimento di pietra che fungeva da cucina, stanza da lavoro, lavanderia, sala da pranzo e salotto. In un angolo c’era un televisore, in un altro un pianoforte a ridosso di una lavatrice così vecchia che sarebbe stata bene in un museo. In giro c’era tanta di quella roba da lavare che Flavia provò un moto di simpatia per lei. «Sempre luridi come porcelli, i miei figlioli», commentò Elena. «Trascorro la vita a lavare e rilavare.» «Quanti ne ha?» «Due. Lo so, nel vedere questo disordine avrà pensato che ne avessi almeno otto. Ma due bastano e avanzano per distruggere tutto. Ho una vaga idea di cosa sia la pulizia, proprio come alcuni ne hanno una dell’eternità in paradiso: non riesci mai a raggiungerla, ma è bello credere che un giorno o l’altro ce la farai.» Mentre versava il caffè nelle tazzine, fece cenno a Flavia di sedersi al tavolo. «Gli inglesi sostengono che una persona è sulla soglia della vecchiaia quando i poliziotti iniziano a sembrarle giovani.» «Ho l’impressione che abbia voluto farmi un complimento», replicò Flavia, «però in questo momento mi sento tutt’altro che giovane.» Elena la fissò attentamente, poi assentì. «Non mi stupisce più di tanto», ribatté sibillina. «Immagino che, se le dicessi di andarsene, avrei tutto da perdere.» «Mi dispiace, ma è così. Però non credo che finirò per portarle via molto tempo. Noi della polizia non le diamo troppo fastidio, vero?» «Più di quanto dovreste. Dopotutto, non posso avere sempre qualcosa di nuovo da dirvi.» «Forse stavolta sì. Sono venuta qui per farle qualche domanda su fatti recenti, avvenuti il mese scorso.» «Nell’ultimo mese non sono praticamente uscita di casa.» «Ha avuto visite?» «Non incoraggio nessuno a venire.» «Telefonate?» «In casa non c’è il telefono.» «Lettere?» «Esclusivamente fatture. Senta, perché non mi fa domande più dirette? Così potrei darle risposte più utili.» «Va bene. Maurizio Sabbatini.»
Elena alzò gli occhi al cielo. «Avrei dovuto capirlo subito. Cos’altro ha combinato quel vecchio imbroglione?» «È morto, tanto per cominciare.» La donna fece una smorfia. «L’ho sentito dire.» Si strofinò il naso per qualche secondo, sforzandosi, secondo Flavia, di trattenere le lacrime. «Era un vero impostore, sa. Non faceva altro che fingere, quando pensava, parlava o agiva. Era sincero come uno scarafaggio e perseverante come un lombrico. Sono trascorsi dieci anni dall’ultima volta in cui l’ho visto, perché da allora non ho più voluto avere rapporti con lui, eppure la notizia della sua morte mi ha sconvolta. Riesce a spiegarselo?» «Forse perché con lui è morta una parte del suo passato.» «Una spiegazione troppo facile e superficiale.» «Può darsi, ma io non vi conosco, perciò posso solo formulare ipotesi facili e superficiali.» «Era un tipo divertente. Rideva sempre. Anche la volta in cui svaligiò una banca, si comportò come se stesse recitando una commedia. E fece sbellicare dalle risa anche tutti gli altri. Persino il direttore della banca aveva le lacrime agli occhi dal ridere prima che lui tagliasse la corda. Era solito venire alle nostre riunioni, in cui si discuteva accanitamente sulla dittatura del proletariato, e nel giro di mezz’ora tutti si ritrovavano a ridacchiare come matti. Maurizio non prendeva mai nulla sul serio.» «Come mai, allora, lei non ha più voluto vederlo?» «Nella vita c’è poco da ridere. Su certe cose non si può scherzare.» Dietro quelle parole si intuiva un mondo di cose non dette. Flavia attese, sperando che la donna si confidasse, ma Elena si limitò ad alzare lo sguardo e a fissarla. «Lui è morto e lei è qui. Non sarebbe meglio se mi dicesse chiaramente per quale motivo è venuta?» «Speravo di sentirlo da lei.» «Forse potrei accontentarla e magari lo farò. Però non può certo aspettarsi che mi confidi con una poliziotta piombata in casa mia di punto in bianco. Non so chi lei sia e cosa voglia. Dovrà guadagnarsi ogni mia parola. Non le sembra giusto?» Non era giusto. Elena Fortini era una rea confessa, Flavia un funzionario di polizia. L’ex terrorista non poteva esimersi dal rispondere a tutte le domande che le venivano poste. Almeno in teoria. In pratica, invece, quello non sarebbe stato il modo migliore per farla parlare, dedusse Flavia, ben sapendo che quella donna aveva retto a interrogatori assai più efficaci e brutali di quanto lei sarebbe mai riuscita a fare. Elena avrebbe dovuto rivelarle volontariamente le informazioni che servivano, non c’era altro modo. «Guadagnarmela come?» «Dicendomi perché si interessa tanto a quel buffone. Mi parli di quel
vecchio pagliaccio, poi, forse, le racconterò io qualcosa su di lui. Tanto ormai lei non può fargli niente, e a me non importerebbe nemmeno se potesse.» Così Flavia gli raccontò qualcosa: accennò al furto del dipinto e al fatto che era stato qualcun altro a restituirlo in cambio della somma chiesta come riscatto, perché Sabbatini in quel momento era già morto. Senza tuttavia fornire alcun particolare, restando assolutamente sul vago. «È stata fatta l’autopsia? Era ubriaco?» «Abbastanza. Ma non poi così tanto da perdere conoscenza, a pensarci bene. Una sbronza appena sufficiente a farlo cadere addormentato e a impedirgli di svegliarsi mentre il gesso che si stava rapprendendo lo soffocava.» «Ha preso in considerazione l’ipotesi che qualcuno l’abbia tenuto immerso in quella poltiglia?» Flavia non l’aveva fatto. Un simile sospetto non l’aveva neanche sfiorata, perché era stato facile considerarlo un artista fallito, amorale e irresponsabile, incapace perfino di restare sveglio in una vasca da bagno. Ora ci rifletté. «Se è stato così, ci troviamo probabilmente di fronte a un delitto perfetto. Nessuno ha visto, udito o sospettato nulla. Non c’è uno straccio di prova.» Elena scrollò il capo. «Proprio come l’altra volta.» Flavia inarcò un sopracciglio. «Quando è morta sua sorella», spiegò la donna. «Ah. Ne ho sentito parlare.» Elena la scrutò attentamente. «Mi chiedo perché», disse. «Però mi racconti lei com’è andata. Non conosco bene i particolari di quella vicenda», la sollecitò Flavia. «Se li cerchi da sé. Nell’archivio di polizia ci sarà certamente un fascicolo, giusto? Una giovane innocente assassinata da spietati terroristi…» «È stato quell’omicidio a convincerla a pentirsi? Se ricordo bene, la sorella di Sabbatini fu uccisa nel 1981, e lei si arrese poco dopo.» La donna si strinse nelle spalle. «Crede che io, in quanto donna, ne fossi rimasta disgustata? No; mi arresi perché odio le cause perse. Non ci fu nessun altro motivo. Ma mi era parso di capire che fosse venuta qui a discutere del presente, non del passato.» «Sono qui per parlare di Sabbatini.» «Maurizio era un buffone, inattendibile e inaffidabile, ma amava la sorella alla follia. Quando lui fu arrestato, Maria fu rapita solo per fargli capire che avrebbe fatto bene a tenere la bocca chiusa. Poi lei fu uccisa. Maurizio non si riprese mai completamente da quel colpo; si riteneva responsabile, e lo era. Smise di ridere. Le basta o vuole sapere altro?» Flavia si alzò e andò a versarsi un’altra tazza di caffè, senza nemmeno chiederlo. Era strano quanto si sentisse a proprio agio in quella casa, in compagnia di quella donna misteriosa, così dolce e gentile nonostante il suo
passato da terrorista. Con il tempo Flavia era arrivata a fidarsi del proprio istinto: se qualcuno le andava immediatamente a genio, ciò significava di solito che quella persona, oltre che simpatica, era anche degna di fiducia. Stavolta tra ciò che le diceva l’istinto e quanto aveva appena ascoltato c’era un tale abisso che tutto le sembrava assurdo. «Perché è venuta a vivere qui?» «Mi sono ritirata», rispose Elena con un lieve sorriso. «Non potevo più continuare in quel modo. Mi trovavo davanti a un bivio: accettare i sempre più spietati atti di violenza per sostenere una causa ormai persa, o farmi da parte. Ho scelto la seconda via, a differenza di tanti altri.» «E Maurizio?» «Lei lo sa bene quanto me. Sarà rimasta colpita, presumo, nel constatare come il furto del dipinto rievocasse le sue buffonate di un tempo. Quasi volesse farsi riconoscere, affinché fosse ben chiaro, a certe persone, se non a lei, chi era il ladro.» Flavia assentì. «E il denaro?» «Maurizio non ha mai avuto alcun interesse per i soldi.» Flavia scosse la testa. «Non capisco. Non ha senso tutta questa storia. Sono abituata a persone che compiono reati per motivi semplicissimi, a volte persino accettabili. E il desiderio di arricchirsi è il principale.» Elena si strinse nelle spalle, poi si alzò, osservò dalla finestra i suoi figlioli che, sul retro della casa inondato dal sole, continuavano a giocare e iniziò a riordinare la cucina. Sembrava non avere altro da aggiungere, ma, di colpo, dopo aver fatto spallucce, riprese a parlare. «Lei mi ha fatto le sue domande e io le ho risposto. Però la tesi che Maurizio abbia rubato il dipinto per i soldi non sta in piedi. E neppure quella secondo cui aveva un complice. In passato ha sempre fatto tutto da sé. Non ha mai voluto lavorare nemmeno con me. Non si fidava di nessuno, né degli amici né dei compagni. E ora lei viene a raccontarmi che all’improvviso Maurizio si era preso un complice ed era interessato al denaro. È molto improbabile. Tuttavia», aggiunse, mentre accompagnava Flavia alla sua auto, «sta a lei trarre le conclusioni. Mi dica solo un’ultima cosa», continuò, osservando la sua visitatrice che apriva lo sportello della macchina e si apprestava ad andarsene. «Quale?» «È maschio o femmina?» Flavia sgranò gli occhi, sorpresa. «Chi?» «Il bambino che aspetta. Maschio o femmina?»
14 Sapendo che Flavia era partita per compiere un’indagine di routine e che sarebbe tornata non appena avesse finito, cioè l’indomani o il giorno successivo, Argyll decise che non valeva la pena di restare a casa ad aspettarla, anche perché lui aveva parecchie cose da fare, molte delle quali si sarebbero potute rivelare piuttosto complicate. Telefonò quindi a Byrnes, il suo antico mentore londinese, per appurare se dalle sue parti girassero per caso documenti relativi alla collezione Finzi, ma ricevette la risposta che in un certo senso si aspettava: tutte quelle carte erano rimaste in mano a Tancred Bulovius. Convinto che non fosse il caso di spiegare come mai lui non se la sentisse, in quel momento, di andare a rovistare nei cassetti del vecchio, chiese invece a Byrnes di fargli avere un elenco dei dipinti lasciati in eredità alla National Gallery, tanto per farsi un’idea dei gusti di Finzi in fatto d’arte. E gli raccontò per sommi capi la conversazione avuta con Bulovius, per vedere se Byrnes avesse qualche consiglio da dargli. «Si tratta del dipinto di cui ti ho parlato. Secondo Bulovius è un autentico capolavoro, però non sono riuscito a farmi dire da quel vecchio bizzoso il nome dell’autore. Se non troverò il minimo indizio...» «Nessun altro l’ha mai ritenuto speciale?» «Non sono stati in molti a dargli un’occhiata. Quantomeno negli ultimi cinquant’anni. A detta di Bulovius, basta guardarlo per capire al volo chi l’ha dipinto, ma per me non è stato così. Cosa ne pensi?» «È possibile che avesse ragione lui», rispose Byrnes. «Aveva una cultura straordinaria. Purtroppo ha pubblicato ben poco, anche perché non mi risulta che scrivesse molto.» Argyll grugnì. «E le persone con una cultura pari alla sua», proseguì Byrnes, rigirando il coltello nella piaga, «si possono contare sulle dita di una mano. Inoltre possedeva un fiuto particolare. Il suo parere aveva un grande peso.» Argyll digrignò i denti. «Stai facendo un mucchio di versacci», commentò Byrnes in tono di disapprovazione. «Riflettono la mia frustrazione. Sospetto di avere a che fare con uno dei dipinti più importanti che mi siano passati fra le mani, ma non so di chi sia e non ho modo di scoprirlo.» «Gli darò un’occhiata io, se ti fa piacere. Magari mi viene in mente qualcosa.» «Ti ringrazio. Ma, senza una prova irrefutabile, l’attribuzione resterebbe comunque incerta. Maledizione!»
«Cosa c’è?» «Nulla.» Argyll lo ringraziò di nuovo e posò la cornetta, poi proruppe in una serie di imprecazioni, dopo di che fece qualche altra telefonata. Infine riempì una ventiquattrore con il necessario per una notte e, poiché Flavia stava usando la loro auto, corse verso la stazione per montare sul primo treno diretto a Firenze. Avrebbe fatto meglio a prendersela con maggior calma. Arrivò troppo tardi per poter combinare qualcosa di utile e fu costretto a trascorrere la serata vagando per la città, tanto per ingannare il tempo, e dandosi dell’idiota perché avrebbe potuto benissimo passare la notte a casa, nel suo letto, invece che in una stanza d’albergo troppo costosa. Ma l’idea che gli era venuta l’aveva messo in uno stato di frenesia e, quando si era reso conto di aver forse preso un granchio, era ormai troppo tardi. In altri tempi, neanche tanto lontani, poche cose gli sarebbero sembrate più deliziose del trascorrere una serata a Firenze, tutto solo e senza impegni. Aveva passato buona parte della sua esistenza, e certamente molti dei momenti più belli della sua vita, a fare qualcosa di simile in svariate decine di città sparse in tutta Europa. Ma aveva via via notato che il piacere della solitudine iniziava a incrinarsi. Quella sera gli capitò quasi subito di avvertire il peso di ritrovarsi da solo, di sentire la mancanza di qualcuno con cui scambiare quattro chiacchiere. Attaccò discorso con alcuni clienti del ristorante in cui era andato a mangiare, ma li trovò un po’ noiosi. Così andò a letto presto e rilesse la copia delle Vite del Vasari che si era portato dietro. Era ancora in preda a un lieve turbamento per l’affievolirsi degli antichi piaceri quando, la mattina seguente, si alzò e si avviò a piedi verso la chiesa di San Pier Gattolino menzionata da Bulovius. Ma non trovò nulla. Allora noleggiò un’auto, un’altra spesa inutile, e si fece strada nel traffico mattutino fino a Fiesole. E lì tutto divenne chiaro. Certo che sì. Nella chiesa di San Francesco, ovviamente francescana, c’era in bella mostra una versione dell’Immacolata Concezione, anch’essa con elementi figurativi atipici, che non era identica a quella di Bottardi, ma corrispondeva perfettamente a ciò che Argyll stava cercando. Tirò fuori il Vasari e, ora che sapeva dove cercare, gli balzò subito agli occhi il riferimento a un dipinto, «una nostra donna con figure», che nel 1550 si trovava nella chiesa di San Pier Gattolino e che non era più lì. Nessuno ne aveva mai sentito parlare. Poi uscì e, sedutosi su una comoda panchina dalla quale si poteva ammirare tutta Firenze, meditò su quanto aveva scoperto. Nulla di risolutivo; dimostrava soltanto che Bulovius riteneva di avervi trovato la conferma che aveva visto giusto. Ma, ora che l’artista aveva un nome, Argyll poteva andare agli Uffizi a cercare gli schizzi preparatori menzionati dal vecchio. Un
ulteriore passo in avanti, che avrebbe dovuto portarlo vicinissimo alla conclusione. Con quell’idea che continuava a ronzargli in una testa già piena di fantastiche ipotesi sui pannelli mancanti, rimontò in macchina e si diresse a nord. La sua meta era Poggio di Amoretta, un piccolo agglomerato di casolari più che un vero e proprio paesino, appollaiato in cima a una collina a quindici chilometri da Firenze e a circa tre da villa Buonaterra. Ci mise più di quanto avrebbe dovuto, in parte a causa del traffico, ma soprattutto perché, dopo aver sbagliato più volte strada, si perse completamente; cosa di cui alla fine smise di preoccuparsi perché è difficile continuare a pensare agli affari quando sbuchi in un borgo sconosciuto e ti trovi intrappolato in una minuscola piazza, di fronte alla facciata incompiuta di una chiesa romanica con una porta aperta che ti invita a entrare, su, vieni a vedere, e a una piccola trattoria con un vecchio cameriere intento a disporre sui tavoli linde tovaglie ben stirate nella speranza che improbabili avventori decidano di fermarsi a mangiare proprio lì. Argyll tornò immediatamente di buonumore. Erano le undici e tre quarti di una giornata di maggio. L’aria era tiepida, ma senza la minima traccia dell’afa pomeridiana. A parte i lievi rumori prodotti dal cameriere, nella piazza regnava un silenzio assoluto, tanto che Argyll riuscì a udire il rassicurante brontolio di un trattore che lavorava sulla collina adiacente. La distesa di vigneti era in perfetto ordine, con le viti ben tagliate e pronte a dare il meglio. La decisione fu presto presa, perché non c’erano alternative. D’altronde, perché vivere in Italia se non si approfittava di una possibilità come quella? E, soltanto per la seconda volta nell’arco di oltre un decennio, Argyll, nel respirare quell’aria pulita e fresca, pensò che la vita a Roma non era, forse, un’esperienza così perfetta come si diceva. Dopotutto ce n’erano, nell’Urbe, di svantaggi: il fracasso, il puzzo e l’eccessivo affollamento non sempre venivano compensati dal piacere di starci. Scese dalla macchina, salutò il cameriere con un amabile cenno del capo, appurò che per almeno un’altra mezz’ora non sarebbe stato possibile mangiare qualcosa ed entrò in chiesa, un po’ di malavoglia, per uscirne venti minuti più tardi, con il volto che aveva perfettamente ripreso la sua espressione serena e rilassata. La chiesetta si era rivelata graziosa, con una splendida pala d’altare e alcune sculture piuttosto belle. Come al solito, si rammaricò di non aver avuto la fortuna di nascere in Toscana, attorno al 1280, per poter intraprendere la professione di capomastro, la migliore possibile nel più civile di tutti i periodi storici. Sarebbe stato stupendo edificare una chiesa. Un bicchiere di buon vino bianco gelato, un piatto di pasta fatta in casa, una fettina di vitello e due caffè lo convinsero a prendersela comoda. Chiacchierò con il cameriere, che aveva poco altro da fare, poi con la moglie
di lui, che aveva preparato la pasta e cucinato. Infine rimase seduto dov’era, a guardarsi attorno e ad ascoltare. Una capra gli passò davanti. Era tutto molto interessante. Non crollò propriamente addormentato, cadde soltanto per un po’ in una specie di dormiveglia, da cui però non riusciva a scuotersi. Si ridestò completamente solo dopo che l’orologio del campanile della chiesa ebbe fragorosamente annunciato le due. Controllò l’ora sul proprio orologio. Le due e un quarto. Un vero disastro. Entrò nella trattoria, trovò un telefono e chiamò Flavia per dirle che avrebbe fatto tardi. Non avendola trovata in casa, le lasciò un messaggio in segreteria. Poi si stiracchiò, tornò lentamente alla sua auto e percorse il chilometro che mancava a Poggio di Amoretta. Aveva deciso di recarsi in quel paesino sulla base di un ragionamento che aveva una sua validità, almeno in teoria: essendo riuscito finalmente a contattare un abitante di Weller, il villaggio del Norfolk in cui viveva Mary Verney, aveva più o meno appurato dove si trovasse al momento l’anziana donna. Di certo non in Inghilterra, bensì, con ogni probabilità, in Toscana, dove aveva una casa. Purtroppo l’uomo del Norfolk non conosceva il nome esatto della località toscana, però Argyll, basandosi su quanto si era ricordato Stonehouse, cioè che all’epoca del furto nella villa Buonaterra la ragazza loro ospite abitava di solito a Poggio di Amoretta, e su quanto gli aveva detto la stessa Mary, cioè che voleva tornare in Italia per trascorrere una vacanza nella casa che possedeva in una località non meglio specificata, aveva tirato le debite conclusioni. Giunse così a Poggio di Amoretta, anche se ormai era un po’ sfiduciato. Eppure, continuava a dirsi, il ragionamento era fondato: si basava più che altro sulla profonda conoscenza che lui aveva di Mary Verney e sul buonsenso. Inoltre la donna, prima di ereditare la sontuosa abitazione nel Norfolk, lascito ottenuto prematuramente e solo dopo aver fatto fuori chi vi abitava, come lei stessa aveva confessato, doveva essere vissuta da qualche parte e, a giudicare dalla sua perfetta conoscenza della lingua italiana, c’era da scommettere che avesse trascorso parecchi anni in Italia. Un bell’esempio, perfino elegante, di deduzione di cui Argyll andava esageratamente orgoglioso. Che si basava, anche se lui tendeva ad accantonare quel particolare, per non incrinare la soddisfazione che provava nel constatare le proprie capacità deduttive, sul fatto che nell’elenco telefonico del paesino compariva una certa Maria Verney. Arrivato a destinazione, parcheggiò l’auto, chiese informazioni su come raggiungere la casa e, poiché la strada era ripida e sterrata, si avviò a piedi. A circa trecento metri dall’abitazione riuscì a scorgere Mary Verney seduta su una piccola veranda, con un turbante in testa per proteggersi dal sole. Si trovava a duecento metri quando notò che la donna non era sola.
Maledizione, aveva un ospite. Rallentò il passo, si fermò, poi meditò sul da farsi, perché, per motivi che gli sfuggivano, di colpo provava una certa riluttanza a interromperli, anche se non sapeva bene cosa avrebbe interrotto. Rimase per un po’ fermo dov’era, dondolandosi nervosamente sulle gambe, poi girò sui tacchi e tornò indietro. Tempo prima aveva provato un’esperienza unica, che aveva sempre desiderato rivivere. Riguardava un dipinto che aveva acquistato, un paesaggio con alcune figure danzanti in primo piano. Un quadro vecchio, sporco, costato una miseria. L’aveva fatto pulire e restaurare, cercando di spendere il meno possibile e, dopo averlo riottenuto, l’aveva appoggiato alla parete in un angolo del suo appartamento, sistemandolo in modo che Flavia, magari soprappensiero, non rischiasse di dargli una pedata, poi se n’era completamente dimenticato. Finché, una mattina, mentre si era casualmente fermato per un attimo a fissarlo, non aveva sentito un brivido d’eccitazione corrergli lungo la schiena. Aveva riconosciuto la posa di una figura che danzava felice nel fascio di luce che il pittore aveva voluto attraversasse il suo quadro. Per quanto lo riguardava, quella posa era stata più che sufficiente a fargli capire con la massima certezza chi fosse il pittore, neanche l’avesse visto all’opera coi propri occhi. Quel quadro era, al novantanove per cento, di Salvator Rosa. Nulla di straordinario, né di eclatante, non certo un capolavoro che potesse illuminare il mondo; anzi, a dire il vero, anche dopo averlo identificato, ne ricavò una somma appena sufficiente a coprire le spese, perché, almeno secondo i banditori d’asta e i collezionisti che insistevano per avere uno straccio di certificazione, c’era sempre quell’elemento di dubbio sufficiente a far sì che al quadretto fossero negati un’indiscussa attribuzione e un reale valore. Ma questo non aveva importanza; quello che contava era il piacere del riconoscimento che Argyll aveva provato quando l’istinto l’aveva indotto a guardare nel punto giusto, facendogli alla fine volgere gli occhi verso la ballerina, con il braccio teso verso l’alto, la testa leggermente ripiegata su un lato, l’abito azzurro che fluttuava al ritmo della musica di una lira. Aveva sperato di provare la stessa sensazione con il quadretto di Bottardi, ma, quando l’aveva visto per la prima volta, non aveva avvertito altro che un lieve fremito d’interesse e in seguito non era più riuscito a dargli un’occhiata più approfondita. Mai e poi mai avrebbe pensato di sperimentarla di nuovo, come gli era appena successo, nel vedere a duecento metri da sé una donna di sessant’anni seduta nella sua veranda, che si girava a salutare un visitatore. L’improvvisa e inaspettata ricomparsa di quel brivido d’eccitazione l’aveva sconvolto. Forse a richiamarlo era stato di nuovo il movimento della testa, o magari il modo in cui il braccio della donna si era curvato, ricalcando per un attimo la sagoma della collina sullo
sfondo: il genere di espediente pittorico a cui avrebbe potuto ricorrere lo stesso Salvator Rosa. O forse, ancora una volta, a lasciarlo quasi senza fiato era stato l’effetto del chiaroscuro che rendeva immutabile e quasi impressionistica la gioia altrui. Scorse a circa un chilometro e mezzo di distanza, a metà del pendio di una collina, proprio sul ciglio di quello che sembrava un viottolo facilmente percorribile, una cappellina, una di quelle costruzioni sorte tanti secoli prima per motivi ormai ignoti. Si incamminò da quella parte. L’aria balsamica e un po’ di esercizio fisico, pensò vagamente, avrebbero potuto schiarirgli le idee. Se non altro, permettergli di ingannare il tempo. Così, con le mani in tasca e la testa china, proseguì il cammino, senza fretta. Mentre camminava, la sua immaginazione si scatenò, tanto da impedirgli di dare un’occhiata al panorama e da fargli perdere totalmente la nozione del tempo. Quando tornò indietro, Argyll non avrebbe saputo dire se quella passeggiata fosse durata venti minuti o due ore. Molte delle sue fantasie non si basavano su fatti concreti, ma questo non aveva importanza, così come non contava qualche discrepanza nei dettagli. La sua immaginazione tratteggiò la scena fin nei minimi particolari, basandosi su quanto lui sapeva, sospettava o presumeva. Su quanto aveva appreso da Stonehouse e da Bulovius e dai dossier della polizia. Sulla sua conoscenza di Mary Verney e di Bottardi, di ciò che era logico e plausibile. Argyll riusciva a vederla, quella scena, ma in un bianco e nero leggermente sgranato, perché la sua immaginazione si era talmente nutrita di film del neorealismo italiano da non poter concepire in altro modo la Toscana del 1962. Il dipinto era sparito da villa Buonaterra, e un po’ in ritardo, dato che sulle prime tutti i presenti si erano impegnati a cercarlo, era stata chiamata la polizia. L’arrivo delle forze dell’ordine era tutto un programma, anche se solo nell’immaginazione di Argyll. La macchinina della polizia, una Fiat, aveva deciso lui, non solo era grigia, vecchia e malconcia, con il fumo che usciva dal tubo di scappamento, ma era anche arrivata scoppiettando poco dignitosamente fino al grandioso ingresso, dove si era fermata di botto per lo spegnimento del motore, con una serie di rantolanti sobbalzi che avevano strapazzato i passeggeri. Uno dei due, il più anziano, vestito in vecchi abiti civili, si era fatto avanti per primo, seguito obbedientemente dall’altro, più giovane, che indossava una divisa un po’ stretta che lo faceva sembrare più goffo di quanto in realtà non fosse. Non avevano parlato tra loro; ognuno doveva attenersi al proprio ruolo. Il più anziano, arrivato davanti alla porta, si era scostato e con il capo aveva accennato al campanello, al che il suo sottoposto aveva salito i gradini e suonato, con un volto impassibile che non lasciava trasparire la frustrazione che probabilmente provava. Faceva già terribilmente caldo: un particolare non segnalato nel rapporto della polizia,
ma siccome era luglio e ci si trovava in Toscana, non poteva essere altrimenti. La domestica aveva aperto la porta e, benché i due fossero attesi, aveva comunque chiesto formalmente cosa volessero, poi li aveva fatti entrare in un salottino adibito esclusivamente ad accogliere i visitatori la cui condizione sociale non fosse stata sufficientemente chiarita e li aveva lasciati lì, per andare ad annunciarli al proprietario della villa, il quale aveva in realtà già visto tutto dalle finestre del suo studio. Il commissario Tarento è sulle spine, così, almeno, se l’immagina Argyll, come qualunque altro funzionario di polizia di una cittadina in circostanze simili. È più abituato a dare la caccia ai ladri di biciclette che ai ladri di opere d’arte. Tanto il reato quanto la vittima non rientrano nel suo normale campo d’azione. Perciò tenta di assumere un’aria brusca e impaziente. Ma in lui torna a manifestarsi l’innata deferenza che gli scorre nelle vene come un fluido vitale e che è stato il motivo principale per cui si è arruolato nelle forze dell’ordine: una combinazione di orgoglio, invidia e rispetto per chi è più ricco e benestante di lui, che è parte integrante della sua natura e anche della sua generazione e che si manifesta con tutta la sua forza davanti a eminenti personaggi stranieri di incommensurabile ricchezza, di cui può solo immaginare, e lo fa spesso, lo stile di vita sfarzoso e raffinato. Stranamente, il suo sottoposto sembra più a proprio agio, ora che non deve badare solo al commissario. Tarento non riesce a capire come possa essere così disinvolto. Conosce bene le origini di Bottardi: nato in un paesino a nord di Napoli dove vive ancora la sua famiglia, poverissima e tuttavia rispettabile, anche se uno zio è comunista, dopo aver fatto il servizio militare si era arruolato nella polizia per sfuggire all’esistenza grama a cui erano stati costretti i suoi genitori e imboccare una strada che gli offrisse maggiori prospettive. Aveva soltanto due alternative: fare il militare oppure l’operaio nelle fabbriche di Torino e di Milano che avevano un tremendo bisogno di manodopera meridionale. Già da adolescente, Bottardi aveva pensato che la vita potesse offrirgli qualcosa di meglio di una busta paga più o meno esigua e di un appartamento con le pareti di cemento armato che trasudano ancora umidità per essere state costruite troppo frettolosamente. A Tarento non piace quel suo giovane agente, anche se non riesce a capire il perché: dopotutto ha un comportamento impeccabile, non batte certo la fiacca e sembra nato per fare il poliziotto. Forse è proprio questo il problema, perché il commissario ha raggiunto l’apice della propria carriera e ne è ben consapevole. Anche in quel suo ambiente in cui abbondano i corrotti e gli incompetenti, non può più aspettarsi una promozione. Non è così, invece, per Bottardi, il quale ha già attirato l’attenzione di un pubblico ministero e, se non commetterà errori, è destinato a salire di grado più in fretta di Tarento e a sopravanzarlo. Tale consapevolezza e il fatto che
Bottardi si dimostri già più sicuro di sé e più disinvolto del suo superiore hanno indotto il commissario ad assumere nei suoi confronti un atteggiamento scostante e sgarbato, ben al di là dei limiti della sua posizione, per far valere il proprio grado finché ancora può farlo. Quando Stonehouse entra nella saletta e dà il benvenuto ai nuovi arrivati con tutta la grazia e l’eleganza di un aristocratico, Tarento riesce perlomeno a trattenersi dall’inchinarsi e sorridergli ossequiosamente, ma poi, ignaro com’è delle sottili distinzioni sociali inglesi, si siede con ostentazione su una poltrona del Seicento rivestita da una pregiata tappezzeria di Bruxelles come se per lui fosse un fatto normale e ne loda addirittura la bellezza, però si accorge che, per qualche motivo, il suo tentativo di mostrarsi disinvolto risulta meno gradito del silenzio indifferente con cui Bottardi si è a sua volta seduto, perché Stonehouse accoglie il complimento con una lieve e sconcertante espressione di vago stupore. Basta quello a mettere ancor più a disagio il commissario. Tenta perciò di assumere un’aria professionale, da rappresentante dello Stato italiano con la potenza della legge dalla sua parte, e inizia a fare domande ringhiose che ottengono risposte cortesi e concise, espresse per di più in un ottimo italiano. «È stato rubato un quadretto», gli dice Stonehouse. Il furto era stato notato quella mattina stessa e lui in persona aveva chiamato la polizia. «Com’è l’oggetto sparito?» Stonehouse prende dalla scrivania alcuni fogli scritti accuratamente a mano: li ha appena tolti, immagina Argyll, dall’inventario della collezione che al momento si trova ancora nell’archivio notarile di villa Buonaterra. «Li ho tirati fuori apposta per lei», spiega. «Di ogni mio quadro conservo una precisa descrizione. Quello rubato è un dipinto ligneo raffigurante la Madonna. Sebbene eseguito nel Quattrocento da un artista fiorentino, non ha un gran valore. Quantomeno rispetto alle altre opere d’arte che si trovano in questa casa.» «Come si chiama il pittore?» «Non si sa, anche se il mio amico Berenson si è sbizzarrito a dargli svariate attribuzioni. Ma i suoi sforzi, a parer mio, non hanno prodotto grandi risultati. Ben più rilevante è il fatto che si tratti di un dipinto di dimensioni piuttosto ridotte, non c’era quindi bisogno di essere in due per portarlo via, e che la cornice è stata tolta con estrema cura. In altre parole, il ladro non ha agito frettolosamente e si è preoccupato di non danneggiare l’opera.» «Tocca a me decidere cos’è rilevante o meno», replica stizzosamente Tarento, compiacendosi nel vedere che Stonehouse è mortificato. «Che sistemi di sicurezza avete installato?» «Nessuno.» Tarento finge una certa sorpresa, anche se non ne ha motivo: quegli anni
erano ben diversi dagli attuali, in cui tutti, ricchi o poveri, sentono l’assoluto bisogno di difendersi dal mondo esterno. «Anzi», prosegue Stonehouse, «tutte le finestre erano spalancate. La mia domestica era convinta che ieri notte non sarebbe piovuto, a ragione, come hanno dimostrato i fatti, e ha lasciato tutto aperto nella speranza di creare una corrente d’aria che rinfrescasse le stanze oppresse dalla calura.» Su questo ha ragione, pensa il commissario: negli ultimi quindici giorni ha fatto un caldo tremendo, come non accadeva da tempo. Un’afa così pesante da togliere le forze, deprimere l’umore e intorpidire cervello e corpo. «Dunque la sua domestica, lasciando le finestre spalancate, ha permesso ai ladri di entrare», commenta con l’aria di chi la sa lunga. «Dovrò parlare con questa donna.» Lui le conosce bene, le domestiche, perché sua moglie, prima di sposarlo, è stata a servizio presso un’importante famiglia fiorentina. «Le parli pure», replica Stonehouse, «però la informo fin d’ora che ha sessantacinque anni, da venti lavora in questa casa, tanto da diventare quasi una persona di famiglia, e ha una reputazione adamantina. Non posso e non potrò mai sospettare di lei.» «Ciò nonostante, dovrò interrogarla», ribatte fermamente il commissario. «Come vuole», dice Stonehouse. «Gradisce un bicchiere di vino? O preferisce un po’ d’acqua?» All’idea di bere qualcosa insieme al padrone di casa, di stabilire con lui un rapporto più amichevole, Tarento non riesce a dire di no: si immagina già intento a sorseggiare la bevanda, accattivandosi via via il favore di quell’uomo, così da indurlo a rispettarlo, se non addirittura stimarlo, e a trattarlo con maggiore confidenza. Ma a rompergli le uova nel paniere c’è quel dannato Bottardi, che gli lancia un’occhiata quando lui accetta il bicchiere di vino. Così, per toglierselo dai piedi, dice: «Mentre parliamo, il mio agente potrebbe fare un giro attorno alla casa. Sa, per cercare eventuali orme. È il tipo di indagine che gli è più congeniale». Ha parlato come se lì ad ascoltarlo non ci fosse Bottardi, ma un cagnolino, il suo piccolo cocker. E Bottardi si alza, saluta e se ne va, come gli è stato detto di fare, lasciando soli i due uomini. Bottardi, sempre nell’immaginazione di Argyll, va in cerca delle presunte orme. Sebbene l’ordine che ha appena ricevuto meriti solo disprezzo, il terreno è duro e compatto come cemento, e persino un carro armato potrebbe passarci sopra senza lasciare tracce, lui non è ancora abbastanza sicuro di sé da sapere come cavarsela in un simile frangente. Perciò dà una rapida occhiata alle zone ghiaiose, all’erba avvizzita del prato, alle siepi piegate dalla siccità, poi si volta a fissare la villa, cercando di indovinare in quale stanza si trovasse il dipinto rubato. «Quella lassù», dice un’allegra voce alle sue spalle. Bottardi si gira per vedere chi abbia parlato. «Ultimo piano, seconda da sinistra», continua la
voce, poi colei che ha parlato, una ragazza che con una mano si tiene fermo in testa un cappello di paglia e con l’altra sta indicando la finestra, rivolge al poliziotto un sorriso accattivante. Anzi, qualcosa di più: un sorriso delizioso, al tempo stesso birichino e seducente. «Grazie», replica Bottardi, serio. «Perché se ne sta in piedi qui fuori? Finirà per sciogliersi in un lago di sudore.» «Sto ispezionando la scena del crimine», risponde Bottardi, cercando di far trasparire dal suo tono di voce che lui pure è convinto che si tratti di una perdita di tempo. «Capisco. Lei scruta la casa da un centinaio di metri, nota che un comignolo è leggermente storto e ne deduce che il ladro è atterrato sul tetto dopo essersi lanciato con il paracadute da un aliante. Non da un qualsiasi altro tipo di velivolo, perché qualcuno avrebbe sentito il rombo del motore. Sa, la notte scorsa nessuno è riuscito a chiudere occhio a causa dell’afa.» «Interessante ricostruzione», commenta Bottardi. «Lei deve avermi letto nel pensiero.» La ragazza scoppia a ridere. «È stato facile. Da qui, nessuno potrebbe aspettarsi di vedere altro.» «Ha ragione.» «Ha già visto la vera scena del crimine? Il segno sulla parete lasciato dal capolavoro rimasto appeso lì per anni?» Siccome Bottardi le ha risposto con un segno di diniego, lei esclama: «Allora, su, venga con me! Glielo mostrerò. Poi potrà sedersi e, in santa pace, bere qualcosa di fresco. Le sarà molto più utile che vagare qui fuori, con il rischio di beccarsi un colpo di calore». «Lei abita nella villa?» le chiede Bottardi mentre si incamminano sul viottolo ghiaioso. «È un membro della famiglia?» «Oh, no», risponde la ragazza. «Io sono solo una studentessa. Amica di un amico del padrone di casa. Sono venuta in visita. Possiedo un villino a una ventina di chilometri da qui. E, poiché lei è evidentemente un uomo sospettoso, le dico subito che mi trovavo a casa mia quando il dipinto è scomparso.» «Parla molto bene l’italiano.» «Grazie.» Salgono le scale in fila indiana, molto lentamente, per non sentire ancora più caldo al minimo sforzo, e Bottardi, che sta dietro, cerca in tutti i modi, anche se a malincuore, di non guardare la ragazza, di distogliere gli occhi da quel corpo che, messo in risalto da un leggero abito di cotone, si muove con disinvoltura. «Eccoci», dice lei, spalancando una pesante porta. «Allora, chi è stato?» Lo fa entrare in una piccola camera da letto dai colori vivaci, il cui mobilio consiste praticamente in un vecchio letto di legno e in un armadio
massiccio. Bottardi vede che sulle pareti, rivestite da una carta da parati in stile vittoriano, antiquata e inadatta, sono appesi un ritratto e alcune vecchie stampe, proprio come diceva l’inventario della collezione e Argyll ha constatato quando si è introdotto di soppiatto nella stanza durante la sua visita alla villa, e che su una in particolare spicca un piccolo rettangolo più chiaro rispetto al resto. Allora cammina sul pavimento, che scricchiola molto, come ha avuto modo di notare Argyll, ed esamina attentamente quel segno lasciato dal dipinto rubato, pur sapendo che non ne ricaverà nulla di utile. Poi si guarda attorno. Una sola finestra, aperta, con gli scuri che sporgono immobili verso l’esterno e lasciano entrare i raggi di luce solari. «Mr Stonehouse ha detto alla domestica di non chiudere, come al solito, gli scuri, pensando alle impronte digitali», spiega la ragazza. «Ah, sì», ribatte Bottardi. «Bene.» I loro sguardi si incontrano e, per una frazione di secondo, restano incollati. Ma quel poco basta e avanza. Però, proprio mentre si sorridono a vicenda, la porta si apre di nuovo, lasciando entrare il commissario Tarento, tremendamente seccato. «Ti avevo detto di dare un’occhiata attorno alla villa, Bottardi», sbotta seccamente. «Non di gironzolare per casa come un turista.» «Sono stata io a insistere perché venisse qui», interviene la ragazza. «Volevo avere la certezza che per noi non ci fosse alcun pericolo. Non mi piace l’idea che, entrando in qualche stanza, ci si possa imbattere in un ladro o in un assassino. Il suo agente è stato molto gentile.» Un altro sorriso, beffardo questa volta, che Bottardi afferra e che il suo superiore non riesce neanche a notare. Tarento, rabbonito, assume l’aria di condiscendenza con cui ci si rivolge a una sciocca ragazzina e le chiede: «E tu chi sei?» «Mi chiamo Verney», risponde lei. «Mary Verney.» Da quel momento in poi, conclude l’immaginazione di Argyll, tutto diventa chiarissimo. Non c’è bisogno di ripercorrere il resto della storia: la scomparsa del quadretto con la Vergine; il suo ritrovamento; la sua ricomparsa nel salotto di Bottardi; la brusca decisione del generale di andare in pensione; la piega del braccio di Mary Verney mentre versa un bicchiere di vino in un’assolata e frizzante giornata primaverile; la richiesta di riscatto per il dipinto del Lorenese; la frustrazione di Flavia nel vedersi costantemente messa in disparte. Una ricostruzione non avallata da prove sicure, tutt’altro, ma la sfrenata immaginazione di Argyll aveva provveduto a colmarne le lacune. E il tutto era molto sconcertante.
15 Per Flavia, il fatto di non riuscire a sapere dove fosse andato a finire Argyll era stato soltanto l’irritante prologo di un’altra orribile giornata. Più o meno mentre lui stava partendo per Firenze, era rientrata a Roma dopo una breve sosta a Siena per sistemare alcune banali questioni con la polizia locale ed era andata direttamente in ufficio, dove aveva trovato un messaggio in cui era scritto che doveva recarsi al ministero con la massima urgenza. Il fatto che la riunione a cui doveva partecipare, almeno a giudicare dall’ora indicata, fosse presumibilmente iniziata già da cinque minuti non migliorò certo il suo umore già pessimo. Flavia aveva infatti passato un’orrenda notte a rimuginare su quanto aveva notato Elena Fortini. Una cosa così evidente che persino un cieco se ne sarebbe accorto, e lei non riusciva a capacitarsi di non averci pensato subito. Il suo mondo era cambiato per sempre. Poco ma sicuro. Ci sarebbe voluto un po’ di tempo per abituarsi all’idea. Non riusciva neppure a immaginare come avrebbe potuto conciliare la dedizione al suo lavoro con la dedizione che, a quanto ne sapeva, un neonato giustamente esigeva. L’unica cosa di cui si rendeva conto era che stava pensando a come trovare spazio per il lavoro nella sua nuova vita, e non il contrario. Era così scioccata che non riusciva a capire se fosse felice o meno di aspettare un figlio. Era ancora troppo soprappensiero quando finalmente arrivò al ministero, per quell’incontro in cui, secondo lei, non si sarebbe fatto altro che discutere per ore e ore sull’addestramento del personale, o sull’entità del budget, o su altre scocchezze, senza concludere nulla. Era un aspetto della burocrazia che aveva notato da tempo: quanto più banale era l’argomento, tanto più formali e urgenti erano le convocazioni. Di solito, quantomeno. Perciò non prestò la minima attenzione all’aria estremamente imbarazzata con cui i due funzionari statali presenti nella sala delle riunioni, due tizi che non aveva mai visto prima d’allora, seguitarono per un bel po’ a sfogliare incartamenti. «Adesso, temo, dovremo affrontare alcune questioni più importanti», disse il più anziano, dopo aver concluso i preliminari. «Si tratta del futuro del Nucleo investigativo, ora che il generale Bottardi è andato in pensione. Noi riteniamo... cioè, il ministro ritiene che sia necessaria una chiara linea di comando, per assicurare il mantenimento dell’alto profilo e degli ottimi risultati che negli ultimi anni hanno contraddistinto l’operato della squadra incaricata del recupero delle opere d’arte rubate.» «Sono perfettamente d’accordo», convenne Flavia, che non si rendeva ancora conto del baratro che le si stava aprendo davanti. «Tenere alto il morale della squadra è, a mio avviso, estremamente importante se vogliamo
continuare a ottenere i successi che il ministro sembra apprezzare tanto.» Nel pronunciare quelle parole provò un moto d’orgoglio, perché dimostravano come lei stesse imparando il gergo manageriale che ultimamente sembrava essere diventato così di moda nella cerchia dei burocrati statali. Sapeva che erano tutte sciocchezze, ma era disposta a conformarsi a quell’andazzo, come chi, stando a Roma, non poteva fare a meno di apprendere un po’ di latino. L’altro funzionario emise un grugnito e assunse un’aria ancora più imbarazzata. «Certo. Ma non è questo il motivo per cui oggi l’abbiamo convocata. Non è facile trovare le parole per dirlo, perciò andrò dritto al punto. Sono spiacente di doverle comunicare che nelle alte sfere è stato deciso di non affidare a lei il comando permanente del Nucleo investigativo.» Flavia, spiazzata, non oppose quasi resistenza. Si limitò a chiedere: «Posso sapere in base a cosa è stata presa questa decisione?» «Temo di non poterle rispondere», ribatté il funzionario. «Come lei sa benissimo, simili questioni sono strettamente riservate.» Nella sua voce risuonò una punta di rincrescimento, che fece capire a Flavia quanto il suo interlocutore si rammaricasse di non poter essere più esplicito. «Il valido lavoro che lei ha svolto da un anno a questa parte è stato notato e molto apprezzato. La prego di non credere che qualcuno abbia espresso critiche nei suoi confronti o messo in discussione le sue capacità. Siamo però giunti alla conclusione che il capo della squadra debba essere una figura con maggiore esperienza e, forse, più disposta a adeguarsi alle direttive.» «Cosa intende, esattamente, con ’adeguarsi alle direttive’?» ribatté Flavia, ottenendo in risposta solo un lieve sorriso contrito. «Non vorrà per caso alludere al fatto che io sono una donna?» Sul volto del secondo funzionario apparve un’espressione atterrita, come se avesse appena ricevuto la notifica a comparire innanzi alla Corte europea dei diritti umani. «Oh, santo cielo, no», si affrettò a dire. «Neanche a pensarci.» Flavia restò in silenzio. I due uomini si agitarono più che mai sulle loro sedie, scambiandosi una serie di occhiate. In realtà dovevano aver preso in considerazione anche quell’aspetto del problema. Ovviamente gli argomenti da tirare in ballo erano stati concordati in precedenza. «Comprendiamo che non è facile per nessuno tornare a un ruolo subordinato dopo aver avuto in mano il comando di un’organizzazione. E ci rendiamo perfettamente conto che da questo momento in poi potrebbe rifiutare un suo rientro nei ranghi.» Era peggio di quanto Flavia si fosse mai immaginata, anche nei suoi incubi più paranoici. Così rizzò le antenne, per non farsi sfuggire niente. «Volete che dia le dimissioni?»
«Potrebbe prendere in considerazione questa ipotesi nel suo stesso interesse e anche per il bene del dipartimento», rispose il funzionario. «Mi sento in dovere di aggiungere che, per impedire qualsiasi soluzione di continuità nel periodo di passaggio delle consegne, preferiremmo risolvere subito la questione.» «Volete che me ne vada ora, su due piedi?» Flavia era esterrefatta. Seguirono una lunga pausa e un tramestio sulla scrivania. «Possiamo offrirle due vie d’uscita. La prima consiste nel trasferimento a un incarico amministrativo di alto livello...» «Dove?» «Ah... A Bari.» «Bari?» ripeté Flavia in tono disgustato. «Ovviamente, se tale soluzione non le sembra accettabile, potremmo garantirle una generosa buonuscita...» «Ma è ridicolo», l’interruppe Flavia. «Per quanto mi risulta, nessuno è mai stato trattato in modo tanto indecoroso. Dover lasciare il proprio posto a qualcun altro è, suppongo, una cosa che capita spesso, anche se, in tutta franchezza, non conosco nessuno in grado di svolgere questo lavoro meglio di me. Ma essere sbattuta fuori così, quasi a calci nel sedere, come se fossi stata sorpresa con le mani nella marmellata, be’, questo è veramente oltraggioso.» «Sapevo che questo nostro incontro non sarebbe stato facile né piacevole», replicò il primo funzionario contrito. «Per quanto ci riguarda, posso solo dirle che ha tutta la nostra comprensione. Tuttavia le istruzioni che abbiamo ricevuto parlano chiaro.» «Mi par di capire di avere il sacrosanto diritto, se accetto di essere rimpiazzata, di tornare a ricoprire il ruolo che avevo quando a comandare la squadra era il generale Bottardi, giusto?» «Sì. In teoria.» «E in pratica?» Per tutta risposta ricevette sulle prime solo un’occhiata. Ma un’occhiata densa di significati. «È raro, credo», esplicitò poi uno dei funzionari, «che all’avvento di un nuovo capo i sottoposti si trovino a proprio agio come con quello precedente, con il quale avevano imparato a convivere. Perciò al suo successore potrebbe venire l’ovvio sospetto che lei non sia intenzionata a svolgere le sue funzioni di vice con la stessa solerzia che ha sempre dimostrato nei confronti del generale Bottardi. E non è da escludere che il nuovo capo del Nucleo investigativo porti con sé alcuni suoi uomini fidati, rimandandola al lavoro che ufficialmente le compete, cioè quello di agente investigativo. Pertanto le conviene valutare seriamente se tale situazione le convenga.»
Non aveva tutti i torti. Negli ultimissimi anni Flavia si era abituata ad avere, anche se solo ufficiosamente, una certa autorità, per non parlare della notevole indipendenza di cui godeva. Sarebbe stata dura perdere tutto ciò. Così giocò la sua ultima carta. «Vi rendete conto», ribatté, «di quanto vi costerebbe, in termini di denaro e di discredito, sbarazzarvi di me in questo modo, se decidessi di rivolgermi a un giudice del lavoro? Licenziare un funzionario d’alto livello, cosa che io sono attualmente, che vi piaccia o no, solo perché aspetta un bambino...» Fu un colpo basso che li colse totalmente alla sprovvista. Entrambi la fissarono a bocca aperta, neanche lei avesse appena comunicato di essere la figlia del papa. Flavia poté quasi udire il loro piano strategico andare in mille pezzi. «Oh.» Lei sorrise. «È illegale, lo sapete. E, ancora peggio, è una brutta cosa. Orribile.» «Be’...» «Che seccatura, vero?» osservò Flavia, comprensiva. «Quanti guai procurano le donne, eh?» «Ovviamente ci congratuliamo con lei.» «Grazie. E sono certa che adesso non potrete non rendervi conto di quanto sia necessario, date le circostanze, rivedere leggermente la vostra posizione. Non vorrei girare il coltello nella piaga, ma voi, che non vedete l’ora di liberarvi di me in sordina, rischiate invece di suscitare un enorme clamore. Vi conviene riconsiderare l’offerta che mi avete fatto... per quanto magnanima fosse.» Flavia tornò a sorridere. Nonostante la stanchezza e lo shock provato, ricavò un considerevole piacere dall’evidente sconforto di quei due. Anche se neppure per un attimo si illuse di aver vinto. Era stata una scaramuccia, nulla di più, però le guerre si vincono dopo tante battaglie vittoriose e da qualche parte bisogna pur cominciare. Convinta di aver guadagnato un po’ di tempo per prepararsi al nuovo scontro, Flavia uscì dal ministero e raggiunse la propria auto. Ma l’idea di combattere non la rallegrava. Voleva il suo lavoro, si era impegnata a fondo per ottenerlo, lo sapeva fare e se lo meritava. Da dodici anni il Nucleo investigativo era tutta la sua vita. Eppure, all’improvviso, lo viveva con distacco. Non considerava più quel lavoro una parte di sé, ma qualcosa che era costretta a fare. Con un sussulto di scioccante consapevolezza capì di avere le scatole piene di quella routine, dei suoi colleghi, dell’obbligo di alzarsi ogni mattina per andare a leggere i rapporti su casi che non avrebbe mai risolto. Era stufa di dover mantenere alto l’umore dei suoi sottoposti e lottare continuamente per ottenere solo una misera parte della sovvenzione che le serviva. Non ne poteva più di
combattere contro personaggi ambigui come i due funzionari di prima. Se si era ribellata, l’aveva fatto solo per una questione di principio, si rese conto, e nient’altro. Perché non accettava di essere trattata in quel modo. Ma il suo cuore era altrove. Non erano soltanto i due funzionari, concluse, a dover riconsiderare la propria posizione. Una frase che continuava a ronzarle in testa era quella su una sua presunta indisponibilità a adeguarsi alle direttive, qualunque cosa significasse. In realtà negli ultimi mesi il suo unico sgarro era stato quello di non obbedire all’ordine di lasciar perdere il caso del furto del Lorenese. Ma a chi poteva aver dato fastidio? Lei aveva solo tentato di sciogliere qualche nodo irrisolto, il più discretamente possibile. Non sarebbe stato più giusto ringraziarla, invece di sbatterla fuori? Per andare al sodo, senza perder tempo, decise di informare dell’accaduto chiunque potesse essere interessato a saperlo e chiedergli un parere. Nel bene e nel male. Se qualcuno intendeva farle la guerra, lei non si sarebbe tirata indietro, e il modo migliore per cominciare era far sapere a quanti erano al corrente di quel misterioso furto che, per indurla a tacere, non conveniva metterla spalle al muro. Un segreto condiviso è un segreto di Pulcinella, come diceva una massima di Bottardi. Scelse di iniziare a parlarne con tre persone: Paolo, che da sempre desiderava soffiarle quel posto e ora rischiava di vederselo sfumare per sempre; Corrado, la recluta; e Giulia, la sua assistente. Al momento non c’era nessun altro nei paraggi. «A quanto pare, è stato il mio coinvolgimento nel caso», concluse dopo aver raccontato tutto, «a provocare la decisione di togliermi di torno. Per impedirmi di continuare a ficcare il naso in questa storia. Ignoro il motivo per cui non dovrei farlo.» «Ma si tratta solo di un dipinto», ribatté Paolo, il quale non mancava mai di insinuare che la semplice ricerca delle opere d’arte rubate, per quanto divertente, era uno spreco delle sue enormi potenzialità. Anelava ancora a occuparsi di delitti. Flavia si strinse nelle spalle. «È vero. Si tratta, però, di un dipinto che ha qualcosa a che fare con personaggi di spicco e assai influenti.» Paolo si stiracchiò. «Be’, se è così», disse pigramente, «abbiamo bisogno di tutti i dossier su cui possiamo mettere le mani qui da noi. Concernenti questo Sabbatini e il suo illustre, potente e pericoloso cognato. Ex cognato. E di appurare chi fossero i criminali ai quali Sabbatini si era legato, all’incirca una decina d’anni fa, e trovarne i relativi fascicoli. Per questo potrò dimostrarvi quanto sia utile fare favori alla gente. Conosco l’uomo giusto. Più tardi gli farò una telefonata, esercitando qualche piccola pressione. Così
potremo capire cosa c’è dietro questa storia, non ti pare? Aspetta a impacchettare le tue cose, okay?» Flavia gli rivolse un’occhiata calorosa. Considerando che Paolo avrebbe avuto ogni interesse a infischiarsene, a non alzare neppure un dito per aiutarla, quell’atteggiamento le parve ancora più apprezzabile. Per tutta risposta ricevette un breve sguardo d’intesa e una lieve alzata di spalle, il cui significato era che ovviamente desiderava ancora soffiarle il posto, ma non in quel modo. Lei allora gli chiese: «Non potresti tentare di ottenere anche qualche tabulato telefonico? Magari di quel Bossoni, se ci riesci. Mi piacerebbe sapere chi gli fornisce le informazioni. Potrebbe essere una buona idea dargli qualche altra bella soffiata, uno di questi giorni». Quel suggerimento strappò a tutti un sorriso di gioia. Ci sono pochi piaceri tanto gratificanti quanto quello di dare a qualcuno un’informazione, dicendogli che è strettamente riservata, e l’indomani vederla in prima pagina sui giornali. «Ancora una cosa», concluse Flavia. «Da qualche parte ci dev’essere un rapporto sull’omicidio della moglie dell’onorevole Di Lanna. Capisco tenere all’oscuro i mass-media, ma escludo che su un simile fatto di sangue si sia omesso di svolgere un’indagine. Varrebbe la pena di dare un’occhiata a quel fascicolo.» Rimasta sola, sedette per un po’ a guardarsi intorno in quel suo ufficio luminoso che aveva ereditato da Bottardi da meno di un anno e a chiedersi per quanto tempo ancora ci sarebbe potuta restare. Incontrò Ettore Bossoni in un piccolo e sudicio bar nei pressi dello stadio Olimpico e, quando cominciarono finalmente a entrare nel merito, lei e il giornalista uscirono a fare quattro passi attorno allo stadio. Era stato lui, dopo che Flavia gli aveva telefonato, a proporle di incontrarsi in quel posto: non gli piaceva parlare di argomenti importanti di fronte ai colleghi. Con gli anni aveva imparato a essere cauto, aveva aggiunto, perché sapeva bene quali e quanti aggeggi elettronici fossero disseminati un po’ ovunque. Uno stadio spazzato dal vento avrebbe messo fuori combattimento anche gli strumenti più sofisticati e garantiva che fra loro e un eventuale ascoltatore ci fossero parecchi metri di distanza. A Flavia tutte quelle precauzioni parvero esagerate, ma si dimostrò più che disposta ad assecondarlo. Passarono quindi varie volte davanti alle torve statue di pietra calcarea raffiguranti l’ideale di maschio italico, almeno secondo Mussolini, mentre Flavia cercava di proporgli un affare. Il problema era che lei non aveva molto da dargli in cambio. Il suo era solo un modo per verificare se fosse possibile scoprire qualcosa senza ricorrere a espedienti sconvenienti. Bossoni era un tipo grasso e flaccido che pareva non rendersi conto di non essere più giovane, snello e atletico. Perciò aveva un modo di camminare
strano, fintamente giovanile: un’andatura saltellante che gli faceva tremolare le guance e gli imperlava di sudore il collo, semistrangolato da un colletto diventato troppo stretto già da almeno un lustro. «Allora?» chiese a Flavia, dopo che avevano girovagato per un bel po’. «Intende minacciarmi prospettandomi terribili conseguenze se non le rivelerò le mie fonti?» «No.» «Cosa vuole, dunque?» «Lei conosceva da tempo Maurizio Sabbatini, giusto?» «Questa è un’informazione che compare probabilmente in qualche fascicolo della polizia», rispose Bossoni, «perciò sarebbe sciocco da parte mia negarlo.» «Aveva di lui una pessima opinione come chiunque altro?» Il giornalista ci pensò un attimo, poi scosse la testa. «No, io no. Le sembrerà strano, ma io lo stimavo, e anche molto, credo.» «Perché?» «Perché non era uno sciocco, diversamente da tutti gli altri. Stia a sentire. Eravamo duecento studenti, o forse anche duemila, tutti intenti a discutere ingenuamente su ciò che avremmo fatto dopo aver sconfitto il capitalismo mondiale. Maurizio era l’unico a restare in disparte, sbellicandosi dalle risa, e ci faceva notare che magari la cosa non sarebbe filata poi così liscia e che al massimo saremmo riusciti a ottenere, se la fortuna ci avesse assistito, che il nostro movimento si ricoprisse di ridicolo. Noi seguitavamo a discutere di rivoluzione, lui a scherzare. Né Maurizio né qualcun altro di noi ha combinato qualcosa nella vita, ma con una piccola differenza: lui lo sapeva in partenza. Ha sempre riso di ognuno di noi.» «Ma a un certo punto ha smesso di ridere.» Bossoni assentì. «Già. E lei sa perché, non è così? Suppongo che sia al corrente di quella famosa vicenda.» «Dopo essere sparito dalla circolazione per circa una ventina d’anni, in cui è vissuto da bohémien, ma senza uscire dai limiti della rispettabilità, all’improvviso si è fatto vivo di nuovo con una clamorosa bravata a cui lei avrebbe dovuto dare il massimo risalto mediatico, non è così?» Bossoni ci pensò attentamente, poi fece un cenno d’assenso. «Sì, credo che l’idea di Sabbatini fosse proprio questa. Mi ha detto che intendeva suscitare un enorme scandalo, come aveva già fatto in passato. Anzi, ancora più sensazionale. Stava per mettere a nudo l’ipocrisia dello Stato... eccetera eccetera. Io provavo ancora un certo affetto per lui, ma negli ultimi due decenni il suo linguaggio non era minimamente cambiato. Sembrava una caricatura dei nostri vecchi comunicati studenteschi, ma forse era persino peggio.» «Però lei non ha pubblicato nulla. Perché?»
«Stavo aspettando la prova inconfutabile che lui avesse davvero fatto qualcosa e che non si trattasse solo di aria fritta. Siccome mi aveva detto di aver rubato un dipinto, ho telefonato a lei, che mi ha fermamente risposto di non saperne nulla. Per inciso, complimenti per la sua capacità di mentire.» «Grazie. Ho fatto molta pratica.» «Poi Maurizio mi ha chiamato di nuovo e mi ha detto che, se il venerdì successivo fossi riuscito a radunare un bel po’ di gente al Gianicolo, avrei potuto scrivere il più sensazionale articolo della mia vita.» «Lei si era fatto un’idea di ciò che aveva in mente?» «No. Non l’avevo capito allora e ancora adesso brancolo nel buio. Maurizio voleva che facessi accorrere un folto pubblico attorno alla grande statua di Anita Garibaldi. La conosce? La donna che dall’alto del suo cavallo guarda tutta la città. Non ha specificato a quale tipo di spettacolo avrebbe assistito il pubblico. Ovviamente gli ho detto che non avrei fatto nulla per lui se prima non mi avesse spiegato che diavolo stava combinando. Ha replicato che non poteva farlo, perché era troppo pericoloso. Però disponeva di una bomba che avrebbe scosso il Paese dalle fondamenta. Dovevo semplicemente fidarmi di lui.» Bossoni s’interruppe e scrollò il capo. «Fidarmi di lui! Ah! Gli ho chiesto se stava scherzando, perché non mi sarei fidato di lui neanche se da ciò fosse dipeso il mio lavoro. Allora ha interrotto la comunicazione. Mi ha sbattuto giù il telefono, ma per modo di dire, perché credo che in realtà stesse parlando da un cellulare, e come si fa a sbattere giù un cellulare? Premere il pulsante dello spegnimento non è di grande effetto, anche se il gesto è rabbioso.» «Non lo so. Non ci ho mai pensato. E poi?» Il giornalista scosse la testa. «Poi nulla. L’ultima volta in cui ne ho sentito parlare è stato quando l’hanno ritrovato cadavere nella sua vasca piena di gesso. Ho pensato che fosse andato a monte qualcuno dei suoi soliti trucchetti e che per la delusione Maurizio si fosse preso una bella sbronza. Devo ammettere di aver tirato un sospiro di sollievo per aver avuto il buonsenso di stare alla larga da uno come lui.» Non era granché, certo. Forse non era valsa la pena di darsi tanto da fare per indurre Bossoni a parlare. Che l’avesse fatto di proposito o meno, in pratica non le aveva detto nulla di interessante. E ora insisteva affinché fosse lei a raccontargli ciò che sapeva. Be’, perché no? Flavia non aveva più alcun obbligo di mantenere i segreti altrui. «Va bene. A grandi linee, ecco qual è la storia: viene rubato un dipinto e, cinque giorni dopo, io consegno una certa somma e lo recupero...» «Come?»
«Uno scambio diretto. Un uomo che sulle prime è stato identificato come Sabbatini, anche perché portava una stupida maschera.» «Ma non era Sabbatini.» «Così sembra.» «Strano», commentò Bossoni. «Molto strano.» «Lei per caso conosce una certa Elena Fortini?» Bossoni fu scosso da qualcosa di molto simile a un brivido. Flavia lo fissò, con aria interrogativa. «Lei la conosce?» chiese di rimando il giornalista. «Sì. L’ho incontrata un paio di giorni fa.» «E come le è sembrata?» «Abbastanza simpatica. Aveva un’aria... sensibile, gentile.» Bossoni gettò indietro il capo e scoppiò in una risata. «Non mi meraviglia che siano così pochi i dipinti rubati che lei e gli uomini della sua squadra riuscite a recuperare», disse, «se siete tutti così perspicaci.» «Come, scusi?» «Ho sentito definire Elena in molti modi, però mai sensibile o gentile», proseguì il giornalista. «Crudele, spietata. Altro che sensibile.» «Non mi ha fatto questa impressione.» «È l’essere più efferato che abbia mai conosciuto», continuò Bossoni. «Le faccio un esempio. Dopo l’arresto di uno dei suoi compagni, avvenuto di venerdì santo, lei suggerì, quale risposta più appropriata da dare allo Stato, di gettare alcune bombe nella basilica di San Pietro durante la messa solenne di Pasqua. Quando qualcuno le fece notare che sarebbero morte centinaia di persone, replicò che durante la celebrazione del rito pasquale non poteva esserci nulla di più adatto di un sacrificio cristiano. Quanto più numerose fossero state le vittime, tanto meglio. Elena ha sempre amato i gesti simbolici. Le cosiddette azioni esemplari, ricorda? Era una grande sostenitrice delle bombe a grappolo. Sa, quelle che dilaniano chiunque ci metta accidentalmente un piede sopra.» «Nel fascicolo che la riguarda non c’è nulla del genere.» «Era bravissima a restare nell’ombra. E i suoi compagni ne avevano talmente paura che non parlavano di lei, neanche quando venivano catturati. Era molto più intelligente di chiunque altro. Il povero vecchio Maurizio era il suo burattino, perché era lei a dirgli cosa fare: lui, di per sé, era un inetto, ma quando si trattava di quella donna, tutto era così pieno di messaggi nascosti da diventare surreale. Elena Fortini era un’artista della violenza. Non aveva pietà per nessuno. Ha mai visto qualcuna delle opere, cosiddette artistiche, create da Maurizio negli ultimi anni?» «Un paio. Nel suo studio.» «Niente di che, vero?» «Sì, mediocri.»
«Confuse, sgraziate, incoerenti. Era tutto quanto riuscisse a fare quel povero disgraziato.» «Allora il furto del dipinto non sarebbe altro che un ritorno agli atti simbolici di un tempo», commentò Flavia. «Molto diretto.» «Sì, ma cosa significava? Come andava interpretato? Era questo il guaio, con lui. Al momento cruciale Maurizio diventava incoerente, incomprensibile. Nelle sue azioni non c’era la minima profondità intellettuale, una mancanza a cui suppliva Elena, molto più colta, più scaltra.» Diversamente da Bossoni, Flavia non trovava l’atmosfera dello stadio Olimpico piacevole né stimolante. Per riordinare le idee scelse di fare una lunga passeggiata. Di solito le faceva con Argyll: insieme, per vari anni, avevano girovagato per le vie e i colli di Roma, amichevolmente e in perfetta armonia. Un passatempo molto corroborante, ma tutt’altro che adatto a favorire la concentrazione. Lo sconfinato entusiasmo di Jonathan per ogni traccia di antica costruzione romana che spuntasse in mezzo ai muri di un edificio moderno, per qualche statua rovinata o per un tratto della classica pavimentazione a lastroni di pietra la contagiava. Lui continuava a emettere gorgoglii di gioia mentre si avvicinava per esaminare attentamente questo o quello e, dopo aver soddisfatto la propria curiosità, tornava indietro e riprendeva la conversazione dove l’aveva bruscamente interrotta. «Oh, guarda, è delizioso!» seguitava a esclamare, indicando a Flavia una cosa davanti alla quale lei poteva essere passata centinaia di volte senza averla mai assolutamente notata. Ma quel giorno non aveva alcuna voglia di ammirare un particolare architettonico, una scultura o una stranezza dell’impianto urbanistico. Girò per le vie cittadine con le mani affondate nelle tasche della giacca, il viso accigliato, gli occhi bassi, camminando rapidamente, finché, attraversata la città e superato il fiume, non giunse in cima al colle chiamato Gianicolo su cui si ergeva l’imponente statua di Anita Garibaldi a cavallo. Quello stesso colle sul quale, vent’anni prima, era stato ritrovato il cadavere di Maria Di Lanna e, più recentemente, Sabbatini aveva progettato di inscenare l’azione che avrebbe scosso dalle fondamenta... cosa, esattamente? Flavia si sedette accanto alla statua, pensando al messaggio simbolico del gesto. Un concetto entusiasticamente ripreso e messo in atto dagli ex compagni di Sabbatini. Strano quanto risuonasse ormai obsoleto, al pari di una moda artistica morta e sepolta. Flavia iniziò ad assemblare i fatti, quasi fossero tessere di un mosaico, per tentare di ricavarne un disegno sensato, poi, non essendoci riuscita, fece l’inverso: cercò di immaginarsi prima di tutto il disegno, per stabilire quindi quali tessere vi si adattassero.
Alcuni fatti si incastravano facilmente: a ricollegarli erano in particolare le date. Sabbatini aveva rubato il dipinto di lunedì, poi non si era più fatto vivo. Ora Flavia sapeva che lui aveva progettato qualcosa per il venerdì successivo, il 25 maggio. E proprio il 25 maggio del 1981 sua sorella era stata uccisa. Il cadavere era stato abbandonato a poca distanza dal punto in cui Flavia se ne stava al momento seduta e dalla statua attorno alla quale Sabbatini avrebbe voluto che il riluttante Bossoni radunasse un folto pubblico e uno stuolo di telecamere. Fin lì, tutto bene. Ma perché proprio quel dipinto? Per un motivo ben preciso o solo perché la limitata intelligenza di Sabbatini non era riuscita a concepire nulla di meglio, come aveva suggerito Bossoni? Era difficile capire come un paesaggio del Lorenese potesse avere un significato nascosto. Cefalo e Procri. Quella leggenda aveva persino un lieto fine. Forse Sabbatini aveva semplicemente scelto un quadro abbastanza famoso e architettato un furto le cui modalità gli sarebbero valse una notevole pubblicità. Forse dietro quell’azione non c’era altro. Possibile che fosse proprio quello il suo scopo? Un gesto clamoroso per dimostrare a un gruppetto di ex terroristi che lui non li aveva dimenticati? E cosa c’entrava questo con le presunte conseguenze, cioè una scossa al Paese fin dalle fondamenta, come aveva detto a Bossoni? E la richiesta di riscatto? Come rientrava in quel disegno? Che ci fossero due messaggi? Forse il piano, quale che fosse, era saltato a causa della sua morte, e il complice, Flavia non aveva ancora scartato completamente l’ipotesi che, da una settimana all’altra, Bossoni si fosse improvvisamente trovato a disporre di tre milioni di dollari, aveva deciso di salvare capra e cavoli, restituendo il dipinto in cambio di un bel po’ di soldi. Flavia si sedette sulla panchina accanto alla statua di Anita Garibaldi, cercò una sigaretta, l’accese, poi se la strappò di bocca e la gettò a terra, schiacciandola sotto un piede. Oh, accidenti, pensò, non posso più neanche permettermi di fumare. Ma di colpo si rese conto di provare una gioia infinita e scoppiò in lacrime. I pochi turisti la fissarono comprensivi. «Ho cercato quel rapporto sul sequestro della moglie di Di Lanna che mi avevi chiesto», le disse più tardi Paolo, quando si ritrovarono tutti e quattro in una trattoria a cenare e discutere dei progressi fatti fino a quel momento. Lui aveva cominciato tirando fuori un file con i tabulati telefonici e scusandosi per non aver avuto tempo di passarli in rassegna. E non c’era da meravigliarsene. A nessuno piaceva fare quel lavoro. «Purtroppo con il rapporto non ho avuto fortuna. Però è una storia strana, che si è conclusa di recente.» «Cioè?»
«Come hai detto tu, era stata completamente insabbiata. O, meglio, a quanto risulta, era diventata una di quelle vicende di cui tutti erano al corrente, ma che nessuno si azzardava a menzionare pubblicamente. Ciò nonostante, un magistrato, uno di quei tipi ambiziosi sempre pronti a sollevare un vespaio, aveva deciso di indagare. Sfortunatamente per un motivo tutto suo: a quanto pare, aveva simpatie di sinistra e, più che tentar di stabilire cosa realmente fosse accaduto, cercava lo spunto per suscitare uno scandalo. Ricevette l’ordine di interrompere l’inchiesta e fu a sua volta sottoposto a indagini dalle quali saltò fuori che era corrotto fino alle ossa. Alla fine, per evitare l’imbarazzo di rendere pubblica l’esistenza di una mela marcia nell’ambiente giudiziario, gli proposero una via d’uscita: se avesse dato le dimissioni, sarebbe stato lasciato in pace. Fine della storia.» Flavia sorrise: «Grazie. E i recenti sviluppi?» «Il magistrato è morto qualche mese fa.» «All’improvviso?» Paolo scosse la testa. «No. Stava già male da un bel po’. Da tempo era malato di cirrosi, così un anno fa era stato costretto a un trapianto di fegato, ma l’operazione non aveva dato gli esiti sperati. La sua è stata una morte annunciata. Nulla di sospetto, se è a questo che stavi pensando.» Flavia si accigliò: «Continuo a non capirci nulla», disse alla fine. «Ammettiamo che Bossoni abbia ragione e che dietro questa storia ci sia ancora Elena Fortini, con la sua mania per le azioni clamorose. Ammettiamo pure che esista un nesso fra il dipinto del Lorenese e l’assassinio di Maria Di Lanna. Qual è il messaggio? Cosa stava tentando di provare Sabbatini? E perché proprio adesso? Perché pochi mesi fa Di Lanna è entrato a far parte della compagine governativa?» Si guardò in giro. Vide attorno a sé solo volti inespressivi. «Forza!» esclamò. «Vi è venuta qualche idea?» Silenzio. «Nulla di nulla?» li sollecitò. Ancora silenzio. Flavia sospirò. «Be’, grazie comunque. Mi siete stati di grande aiuto. È bello sapere che siete tutti in perfetta forma.» Finirono di cenare parlando di questioni lavorative meno astruse, poi Paolo si offrì di accompagnare Flavia a casa, il che fu molto gentile da parte sua, anche se in realtà lui intendeva approfittare di quella camminata per parlarle a quattr’occhi. «Oggi pomeriggio abbiamo avuto una visita», disse. «Mentre tu eri fuori. Un ometto dall’aria cupa, che si è presentato come funzionario dei servizi segreti, è entrato da noi, si è diretto senza colpo ferire nel tuo ufficio e vi è rimasto un’ora a frugare tra le tue carte e i tuoi fascicoli. L’ho tenuto d’occhio, per quanto mi è stato possibile, e ho avuto l’impressione che non avesse trovato nulla di ciò che sperava di scoprire.»
Flavia rimase senza parole. «A quanto pare, in un modo o nell’altro hai mandato in bestia un pezzo grosso», proseguì pensieroso Paolo. «Se sono arrivati al punto di tirare in ballo i servizi segreti, mi sembra ragionevole dedurne che con te la partita è ancora aperta.» «Non posso farci nulla.» «Probabilmente no. Ma se sei proprio decisa a continuare a occuparti di questa storia, dovresti almeno prendere qualche precauzione.» «Quale, per esempio?» «Non rientrare in casa, in primo luogo», rispose Paolo, proprio mentre lui e Flavia stavano svoltando l’angolo ed entrando nella piazzetta di fronte allo stabile in cui lei abitava, e si affrettò a tirarla gentilmente indietro, in un angolo buio. «Dopotutto c’è un’auto di quegli spioni proprio davanti alla tua porta.» «Come fai a dirlo?» «Dal colore della carrozzeria, dalla marca, dal numero di targa e dalla minuscola antenna satellitare fissata sul retro. Sai, ho fatto qualche piccola ricerca sui servizi segreti. In altri tempi mi era quasi venuta voglia di diventare uno di loro.» «Perché ci hai rinunciato?» «Ho fatto un colloquio. In vita mia non mi era mai capitato di avere un contatto diretto con quelle teste di rapa. Nella polizia non riuscirebbero a sopravvivere una settimana. Ma ciò che conta adesso è che sono lì a sorvegliare casa tua.» «Ma io devo rientrarci perché ho bisogno di parlare con Jonathan.» «Telefonagli.» Tirò fuori il cellulare, digitò il numero e passò l’apparecchio a Flavia. Lei sentì che stava chiamando e udì in lontananza, seppure debolmente, la suoneria del telefono che squillava sul tavolo in camera da letto. Sulla segreteria di quell’apparecchio era rimasto registrato il breve messaggio che le aveva lasciato Argyll, in cui le diceva che sarebbe andato in Toscana per un paio di giorni al massimo. Il telefono continuò a squillare, ma nessuna luce fu accesa e nessuna voce amichevole rispose all’altro capo del filo. Flavia non sapeva se essere irritata o felice. «Jonathan non ha per caso un cellulare?» chiese Paolo. Flavia sbuffò. «Anche se l’avesse, puoi star certo che la batteria sarebbe scarica.» Si grattò la testa, meditando. «No, hai ragione tu. Andrò a cercarmi una stanza in albergo per stanotte.» Paolo la invitò a dormire a casa sua, offerta che Flavia rifiutò perché in troppe occasioni aveva avuto a che fare con i figlioletti del collega e sapeva benissimo che in un piccolo appartamento risonante di strilli infantili non sarebbe praticamente riuscita a chiudere occhio. A quanto sembrava, di lì a qualche mese non avrebbe più avuto un attimo di pace, perciò non voleva
sprecare neppure una delle poche notti di sonno che le restavano. Mezz’ora più tardi, invece di angosciarsi pensando ai servizi segreti o a Maurizio Sabbatini, andò a dormire in una stanzetta con la finestra che dava su piazza Farnese, meditando su quanto fosse generalmente angusto, a Roma, lo spazio vitale. Essendo giunta alla conclusione che, se la stavano aspettando sotto casa allo scopo di controllare i suoi movimenti, l’ultimo posto in cui sarebbero andati a cercarla era un convento, Flavia aveva deciso di chiedere ospitalità per quella notte proprio alle suore. L’ordine di santa Brigida di Svezia aveva un delizioso convento in piazza Farnese, che era stato parzialmente convertito in ostello da quando era cominciato a calare drasticamente il numero di ragazze che prendevano i voti. Quella sorta di B&B era economico e si trovava in una zona di Roma che per Flavia era quasi perfetta; quanto alle suore, non solo erano adorabili, ma la conoscevano bene, perché in passato si erano prestate in un paio di occasioni a ospitare alcune testimoni che non dovevano farsi vedere in giro. Molte di queste, una volta cessato il pericolo, erano tornate nel convento a trascorrervi le vacanze, e una in particolare si era trovata talmente bene con quelle religiose da decidere di entrare nel loro ordine, e l’ultima volta in cui Flavia aveva avuto notizie di quella ragazza, stava svolgendo un ottimo lavoro nel Burkina Faso. Mentre faceva colazione con pochi e semplici prodotti genuini, Flavia passò in rassegna i fascicoli e i ritagli di stampa che Paolo le aveva consegnato la sera precedente, poi si sforzò di tenere a bada la persistente voglia di fumare una sigaretta prendendo appunti e riflettendo. Dopo essere rimasta a lungo con lo sguardo fisso nel vuoto, si rese conto del motivo per cui trovava tanto frustrante l’intera vicenda. Si era concentrata troppo sull’aspetto simbolico del gesto di Sabbatini, ma ora le era diventato chiaro che in quella storia c’erano due diversi aspetti, incompatibili fra loro. Sabbatini aveva rubato il dipinto e programmato, per quel venerdì 25 maggio, una specie di azione clamorosa sul Gianicolo, destinata ad attrarre l’attenzione sull’assassinio di sua sorella. Tutto molto lampante e diretto. Il secondo aspetto era relativo al riscatto. Una vicenda che in realtà era parallela alla prima. Era possibile che Sabbatini volesse mettere in discussione il fatto che ci si preoccupava di recuperare le opere d’arte rubate, ma non di salvare le persone sequestrate. Però non era stato lui a chiedere il riscatto. L’aspetto della vicenda su cui bisognava concentrarsi, pensò Flavia mentre si imburrava un altro panino, era l’azione al Gianicolo. Venerdì arrivano frotte di telecamere più uno sparuto gruppo di curiosi e a quel punto entra in scena Sabbatini. E cosa fa? Presumibilmente un gesto oltraggioso. E allora? Tutti i presenti si scandalizzano o si divertono, a seconda del modo in cui
tale gesto viene compiuto. Alla fine Sabbatini è tratto in arresto e portato via a forza. E lui avrebbe architettato quel piano elaborato perché andasse a finire così? No, dietro doveva esserci qualcos’altro. Elena Fortini, magari. A quel punto Flavia si accigliò, pensando sconcertata all’enorme differenza fra l’impressione che l’ex terrorista le aveva fatto e ciò che quel giornalista ciccione le aveva raccontato. Possibile che lei avesse preso una simile cantonata? In vita sua, certo, aveva conosciuto criminali affascinanti, però Bossoni aveva descritto Elena come una persona incline all’efferatezza. Una simile descrizione poteva essere compatibile con l’atmosfera di intimità domestica che lei aveva avvertito così fortemente? I malvagi preparano il pane in casa? I mostri stirano gli indumenti dei figli? E poi c’era da tenere presente Bossoni, che si era intromesso prepotentemente in quel caso. Un ex estremista che si era dato al giornalismo, come tanti altri suoi compagni di un tempo, gettandosi alle spalle il passato. Un facile cambio di rotta. Perché no? Non c’era nulla di sospetto nel suo comportamento, anzi, era plausibile che non avesse tagliato i ponti con le vecchie conoscenze, casomai gli fossero tornate utili. Ma su di lui non c’era alcun fascicolo. Come mai? La polizia italiana aveva schedato tutti coloro che in quegli anni avevano avuto a che fare con gruppi eversivi, perciò era abbastanza facile trovare notizie su di loro, se ci si rivolgeva alle persone giuste. Paolo aveva ottenuto informazioni su Sabbatini, sulla Fortini, su Di Lanna, senza incontrare ostacoli. Su Bossoni, però, non c’era nulla. Che strano. Di solito, il passo successivo sarebbe stato semplice: prendere il telefono e fare domande, ma adesso Flavia provava una certa riluttanza a rivelare ciò che le interessava. Era già stato uno sbaglio lasciare che lo facesse Paolo, la sera precedente. Perciò lei doveva cercare altre fonti e pensarci bene prima di contattare quella che riteneva potesse servirle. Finì di bere il suo caffè, era il caso di rinunciare anche a quello? Avrebbe dovuto informarsi. E, tanto per restare in argomento, non le si erano già gonfiati un po’ i piedi?, e disse alle suore che sarebbe rimasta da loro un’altra notte, se la stanza era ancora disponibile, poi uscì nella brillante luce del sole mattutino e si diresse verso il Vaticano. Ci mise parecchio a varcarne le porte: non aveva esibito il tesserino della polizia, dal momento che non voleva attirare l’attenzione su di sé, ma, se anche l’avesse fatto, non avrebbe accelerato di molto i tempi perché il Vaticano è, da sempre, piuttosto restio a concedere ai funzionari italiani il permesso di entrare. Alla fine ovviamente glielo consente, però è pur sempre uno Stato indipendente e si sforza di salvaguardare i propri privilegi. Perciò Flavia, dopo essersi presentata all’ingresso come una normale visitatrice, fu
costretta ad attendere per quasi quaranta minuti, in una stanza squallida e sporca, prima che Aldo Morante vi irrompesse e la salutasse con un bacio poco consono a un prete. Flavia, quando pensava a padre Aldo Morante, non riusciva mai a trattenere una piccola smorfia. Anche dopo più di un decennio, lui sembrava sempre un attore che recitasse la parte di un prete in modo assai maldestro. Era semplicemente troppo egocentrico, esuberante, chiassoso e, a quanto pareva, poco portato a rispettare i voti di castità per risultare davvero convincente. Ciò nonostante, era davvero un prete, essendosi convertito, una quindicina di anni prima, dal comunismo al cattolicesimo: una conversione avvenuta di colpo, senza l’usuale trafila di disincanto, scetticismo e sottomissione alle regole. Perché mai, le aveva detto una volta, sprecare tanto tempo? Un giorno o l’altro tutti si sarebbero comunque ritrovati in ginocchio al cospetto di Dio. Tanto meglio farlo subito, portarsi avanti con il lavoro. In altri tempi, però, aveva focosamente sventolato la bandiera dell’estremismo: non c’era assemblea politica a cui non partecipasse, pamphlet che non leggesse e comizio in cui non facesse sentire la propria voce, urlando preferibilmente in un megafono. Flavia, pur essendo più giovane di lui di dieci anni, lo conosceva perché le rispettive madri erano amiche, e Aldo le aveva sempre dimostrato un bonario affetto, sopravvissuto persino alla scelta di lei di entrare in polizia. Decisione che le era stata perdonata a causa della totale mancanza di interesse da parte di Flavia per la politica e perché i legami tra le famiglie erano sempre stati considerati, a ragione, di gran lunga più importanti delle ideologie, che andavano e venivano. Con il passare degli anni Flavia aveva visto Aldo fare un giro su se stesso: da chierichetto a rivoluzionario, a umile devoto. L’aveva tenuto d’occhio a distanza quando aveva iniziato una nuova vita in una parrocchia, per poi stancarsi di quell’attività e sforzarsi di trovare un posto in Vaticano, dove era ormai diventato un ambizioso e abbastanza potente sottosegretario dell’equivalente pontificio del ministro degli Esteri. Una leggera ostentazione era sempre stata una sua caratteristica, perciò Flavia si rese perfettamente conto che il fatto che lui la scortasse nel proprio ufficio tenendole un braccio attorno alla vita aveva il puro e semplice scopo di attirare l’attenzione della gente stipata nei corridoi che stavano percorrendo. Però, nonostante quel suo comportamento così teatrale, Aldo non era tipo da perdere tempo in chiacchiere. «Allora, cosa vuoi?» chiese nell’attimo stesso in cui richiudeva la porta dell’ufficio. «Aiuto. E urgentemente», rispose Flavia. Non c’è nulla di meglio di un amico d’infanzia per liberarti dalla necessità di esprimerti in modo formale. «Su, parla. Spiegami tutto.»
Lei gli raccontò ogni cosa: dal furto del dipinto del Lorenese agli agenti dei servizi segreti accampati davanti alla porta di casa sua. «Dunque», commentò Aldo, dopo che lei aveva concluso, «se ho capito bene, tu sospetti che Ettore Bossoni menta solo perché quella donna si è accorta prima di te che aspetti un figlio.» Flavia aprì la bocca per esprimere un’aspra smentita, ma ci ripensò. «In parte è proprio così», replicò invece, dopo una breve esitazione. «Almeno credo. Anche perché Bossoni mi ha detto di aver parlato al telefono con Sabbatini, ma dai tabulati telefonici di quest’ultimo non risulta. Ho controllato stamattina. Non che questo provi alcunché, naturalmente.» «In ogni caso, congratulazioni per il prossimo lieto evento», proseguì Aldo. «Sarai un’ottima madre. Confido che questo sia il primo di una nidiata di almeno sei. Li battezzerò tutti io, tanto per fare un po’ di pratica. Ora torniamo a Bossoni. Mi ricordo di lui. C’era sempre un’aura fetida intorno a lui, se capisci cosa intendo.» «C’è ancora.» «Non parlo di igiene personale, perché allora lavarsi non era di moda. Tutti puzzavano. Tu eri troppo ingenua per capire che il deodorante era una trappola capitalistica. Intendo dire che Bossoni ispirava sempre un certo disgusto. Tutti nutrivano dubbi su di lui.» «Cioè?» «Se ti aspetti che sparli di qualcuno, ti avviso che non mi è consentito farlo perché sono un prete e non mi posso permettere valutazioni che non siano improntate alla massima benevolenza. Pertanto ti darò un libro su di lui.» «Quale libro?» «Qui siamo in Vaticano, figliola. Noi sappiamo tutto. In quegli anni, non dimenticarlo, la Chiesa, che allora poteva contare sui migliori servizi segreti, era in combutta con il governo italiano. Ci passavamo informazioni riservate: notizie dagli altri Stati in cambio di informazioni del governo su quanto avveniva nel nostro Paese. Nel tuo, per meglio dire. E controllavamo ogni dato, confrontandolo con quelli ottenuti tramite le nostre stesse fonti.» «E tu hai a disposizione tutto quel materiale?» «Sono un pezzo grosso, come ben sai. L’anno prossimo diventerò monsignore.» «Congratulazioni.» «Mmh. In realtà aspiro al cappello cardinalizio. Il rosso porpora è un colore che mi dona. Ma, ovviamente, non posso mostrarti i nostri dossier, perché devono restare assolutamente riservati. Però mi è possibile leggerli al posto tuo e rispondere alle domande che mi farai in proposito. È un’idiozia, lo so benissimo, ma qui da noi le cose funzionano così. Le regole sono regole. Siccome ci metterò un po’ di tempo a procurarmi ciò che ti serve, perché nel frattempo, per ingannare l’attesa, non dai un’occhiata alla nostra
collezione di quadri?» «Li ho già visti tutti», rispose Flavia. «Parecchie volte.» Aldo sventolò una mano. «Oh», ribatté, «non sto parlando di quelli che intendi tu. Quelli nei Musei vaticani. Mi riferisco ad autentici capolavori che non sono esposti al pubblico.» E, per tenere Flavia occupata mentre lui andava a cercare ciò che aveva in mente, Aldo la condusse attraverso una serie di corridoi riservati ai religiosi e di stanze addobbate in modo sempre più antiquato finché non giunse davanti a una porta. «Entra», la invitò. «Fatti un giro. Quando avrò finito, verrò a riprenderti.» Mentre Aldo si allontanava fluttuando, Flavia pensò distrattamente a quanto sarebbe stato strano vederlo nei panni di cardinale. E se non si fosse fermato lì? Che figura avrebbe fatto, tutto vestito di bianco? Ma le bastò aprire la porta per accantonare di colpo quei futili pensieri. Trascorse la successiva mezz’ora a fissare a bocca aperta una collezione di dipinti che metteva in ombra gli stessi Musei vaticani. È buffo come il tempo voli quando ci si trova davanti a qualcosa di sbalorditivo. L’unico pensiero consapevole che Flavia riuscì a formulare in quella mezz’ora fu il rammarico che Jonathan non fosse lì con lei, anche se quello spettacolo l’avrebbe talmente emozionato che per molti giorni sarebbe rimasto come inebetito. Flavia rimpianse più che mai di non averlo al suo fianco quando arrivò davanti a un quadro particolare che raffigurava la dormitio Virginis, cioè la Madonna sul letto di morte, prima dell’Assunzione in cielo. Lei non aveva il fiuto di Argyll, neanche un po’, eppure riconobbe il dipinto o, per meglio dire, identificò il volto. Le ricordava moltissimo quello della Madonna sul caminetto di Bottardi. E la tavola del dipinto aveva più o meno le stesse dimensioni dell’altra, un’uguale tonalità di rosso nell’abito. Flavia non era un’esperta, perciò non poteva esserne certa al cento per cento, però aveva dedicato molto tempo non solo a cercare i dipinti, ma anche a osservarli sotto l’attenta guida di Argyll. Fra i due pannelli c’erano somiglianze fin troppo evidenti, tanto da far pensare che facessero parte di un trittico. L’unica differenza consisteva nel fatto che quello che aveva sotto gli occhi disponeva di una vera e propria cornice, con tanto di minuscoli cardini di ferro che dovevano servire a tenerlo unito al pannello centrale, più grande, sul quale, presumibilmente, era raffigurata un’altra scena della vita della Vergine. Ma di chi era? Guardò attentamente, però non c’era nessuna indicazione, nessuna targhetta esplicativa. Accidenti. Cominciò a capire cosa provasse Argyll in casi come quello. «Ti sono piaciuti?» chiese Aldo, quando ritornò, rapido e silenzioso come un alito di vento, senza che Flavia potesse dire se la sua assenza fosse durata un’ora o due. «Ero convinto che saresti stata felice di vederli.»
«Di cosa si tratta?» chiese lei, indicando la piccola tavola. Aldo fece spallucce. «Non ne ho idea. Non è il mio campo. Io mi occupo di politica estera, non di arte.» «Chi può saperlo?» Lui si strinse nelle spalle, con aria disinteressata. «Da dove sono arrivati tutti questi dipinti?» chiese ancora Flavia. Lui fece ancora spallucce. «Oh, un po’ da tutte le parti. E la stragrande maggioranza, in tutta onestà, non dovrebbe trovarsi qui. È questo il motivo per cui non vengono esposti.» «Cosa significa?» Aldo sembrò imbarazzato. «Comincio a pentirmi di averteli mostrati. Anzi, non avrei proprio dovuto farlo. Perciò basta con le domande. Torniamo al tuo problema», tagliò corto, cambiando argomento e zittendo Flavia. «Eccomi qui. Ora puoi chiedermi quello che vuoi e io ti risponderò dall’alto della sapienza di chi, contrariamente a te, ha letto i dossier.» Flavia si sforzò anzitutto di ricordare perché mai fosse andata a trovarlo, poi distolse, seppure controvoglia, lo sguardo dal piccolo dipinto e chiese: «Bossoni?» «Ora lo ricordo benissimo. Era un informatore della polizia.» «Davvero?» «Già. Uno spione, ambiguo e disposto a fare il doppio gioco, per non dire di peggio. Ai tempi conosceva un mucchio di gentaglia, fin troppa, e probabilmente la frequenta ancora.» Flavia scosse la testa e meditò su quanto aveva appena appreso, mentre Aldo passeggiava avanti e indietro, fissando con annoiata indifferenza questo o quel dipinto. Nonostante l’ambiente in cui viveva, era rimasto un po’ rozzo, si disse Flavia. «E tutto questo si troverebbe nel fascicolo che il mio collega non è riuscito a procurarsi? Non mi meraviglia che sia stato secretato. E che puoi dirmi del sequestro della Di Lanna? Esiste un dossier anche su questo caso?» «Sì, e molto corposo. In gran parte si tratta di notizie che tu conosci già, e di nuovo c’è ben poco, a parte il fatto che Di Lanna, quando ha ottenuto il controllo del patrimonio della defunta moglie, ha devoluto grosse somme alla Democrazia cristiana e con il resto ha cercato di strappare il comune di Bologna ai comunisti. Al tempo stesso, presumo, ha rimpinguato le tasche di molti politici. In quegli anni il nostro beneamato presidente del Consiglio è infatti diventato sorprendentemente ricco, ma va detto che la gratitudine è una gran cosa e, a quanto pare, lui ha sinceramente fatto del suo meglio.» «E che puoi dirmi del magistrato e della sua inchiesta?» «Quasi niente. Su questa storia abbiamo ben poche informazioni. Praticamente solo ritagli stampa.» «Nient’altro?»
«È tutto qui. Qual è il problema? Hai l’aria delusa.» «Speravo in qualcosa di più sostanzioso.» Il futuro monsignore le lanciò un’occhiata di disapprovazione. «Ho fatto tutto il possibile. Cosa ti aspettavi? Un miracolo? Per questo genere di cose, sai, non è il Vaticano il luogo più indicato.» Ma dove diavolo era finito Jonathan Argyll? Flavia se lo chiese mentre si faceva largo a fatica tra un mucchio di eccitati turisti accalcati sull’autobus diretto verso il centro della città. Perché doveva sempre sparire dalla circolazione proprio quando lei ne aveva più bisogno? Era in momenti come quelli che Flavia contava su di lui, perché si sedesse ad ascoltarla e commentasse, con osservazioni che in parte erano irrilevanti, ma a volte coglievano nel segno e che in ogni caso la costringevano sempre a ragionare e cercar di chiarire cosa le passasse per la mente. Senza di lui, Flavia aveva l’impressione di perdere la propria lucidità; non conosceva nessun altro così abile a stimolare il suo ragionamento. L’unico, forse, che ci riuscisse un po’ era Bottardi, che tuttavia possedeva solo una parte infinitesimale della particolare dote di Argyll. Ma la situazione era quella che era. Il telefono di casa continuava a suonare a vuoto e, per quanto riguardava Bottardi, che lei aveva cercato di contattare, anche lui sembrava sparito dalla faccia della terra. Perciò Flavia, proprio ora che doveva affrontare uno dei più importanti momenti della sua vita, si sentiva sola e abbandonata dalle uniche due persone di cui si fidasse veramente. Anche la creatura più comprensiva si sarebbe infuriata. E Flavia, dopo averci pensato per cinque minuti, si sentì talmente inviperita da rovesciare la propria rabbia su un adolescente foruncoloso semisdraiato su un sedile e pacificamente assorto negli affari suoi. «Non sai che bisogna cedere il posto alle donne incinte?» lo sgridò come se fosse sua madre. Il ragazzo la guardò allarmato. «Forza», continuò Flavia, «alzati.» Lievemente soddisfatta nel vedere il poverino arrossire di vergogna e alzarsi controvoglia, farfugliando qualcosa, aggiunse allegramente: «Grazie, giovanotto», sedendosi al suo posto. In Italia c’era almeno questo di buono, pensò. L’autorità materna sapeva ancora farsi valere. Vediamo di fare il punto della situazione, pensò, mentre, comodamente seduta, si sfilava una scarpa per massaggiarsi le dita di un piede. Bossoni: un estremista e al contempo informatore della polizia, oltre che giornalista. Presumibilmente Maurizio Sabbatini non conosceva tutti i suoi trascorsi, altrimenti non si sarebbe rivolto proprio a un tipo così losco... Ma Aldo aveva detto che tutti ne erano al corrente e, nonostante il suo modo di fare, non era tipo da parlare a vanvera. Flavia si stava massaggiando
l’alluce quando sentì che la mente le si schiariva e iniziò lentamente ad afferrare cosa tutto ciò implicasse. Possibile che Sabbatini fosse stato tanto stupido da tirare in ballo qualcuno che sospettava essere un informatore della polizia, se non addirittura qualcosa di peggio? Certamente no. Perciò la fonte da cui Bossoni aveva avuto la soffiata sul furto del dipinto non poteva essere Sabbatini. Non era stata lei, ovviamente, e neppure il direttore del museo, perché questo le sembrava assolutamente poco probabile. Quindi ne restava una sola. Ogni altro pensiero svanì. L’autobus aveva raggiunto la fermata a cui Flavia doveva scendere, ma lei si accorse di non riuscire, per qualche strano motivo, a rimettersi la scarpa e fu costretta a raggiungere l’uscita saltellando, il che, se non altro, procurò una leggera soddisfazione al ragazzo foruncoloso.
16 Anche se un po’ invecchiata, nel complesso Mary Verney era ancora decisamente bella. Aveva quel tipo di volto che migliora quando il trascorrere degli anni lo smagrisce. Era vestita in maniera strana, come le capitava spesso, e portava avvolto attorno alla testa, per difendersi dal sole, quello che più che un turbante sembrava uno strofinaccio, anche se simili stravaganze erano riservate ai momenti d’intimità, perché in pubblico non mancava mai di sfoggiare una straordinaria eleganza. Aveva pure un modo di fare affascinante che le derivava da anni e anni di pratica, anche se, a quanto pareva, un incontro imprevisto poteva a volte mandare in tilt quello strumento così ben oliato. E lei non se l’aspettava proprio, quel visitatore. Quando Argyll, avendo finalmente smesso di tergiversare, si presentò a casa sua, un’ora dopo, il benvenuto di Mary non fu così caloroso come sarebbe potuto essere se le fosse stato dato un preavviso anche solo di pochi minuti. Ciò nonostante, reagì abbastanza bene, porgendo prima l’una e poi l’altra guancia ai baci di prammatica, schioccando la lingua per esprimere una gioiosa sorpresa e l’immenso piacere di rivederlo, invitandolo ad accomodarsi. Più rilassato, Argyll sorrise e si lasciò trascinare sui quattro consunti gradini che portavano alla veranda e al tavolo, dove fu presentato all’ospite che già si trovava lì. Una presentazione superflua. «Buon pomeriggio, Jonathan», disse Taddeo Bottardi, alzandosi in piedi per stringergli la mano. «Sono veramente sorpreso di vederti. Cosa possiamo fare per te?» «Ero da queste parti e ho pensato che potevo fare una deviazione fin qui», rispose Argyll, sorridendo scioccamente. «No. A dire il vero, sono venuto appositamente a chiedere a lei, Mrs Verney, notizie su un certo dipinto», aggiunse, pensando che, date le circostanze, tanto valeva mettere da parte cortesi ed esitanti giri di parole. «È l’unica persona in grado di aiutarmi.» Un buon inizio, che però lui sciupò subito adottando una tattica dilatoria. «Avevo appurato dove lei abitasse e mi trovavo in zona. Sulla strada per Poggio di Amoretta, per la precisione. Ho pranzato nel paesino, nella piccola trattoria in piazza. Un locale molto gradevole. E ho dato un’occhiata alla chiesa. Ci è mai entrata? Ha visto la pala d’altare? A me è piaciuta moltissimo.» «Ci sono stata parecchie volte», rispose pazientemente Mary Verney. «È venuto da solo?» «Oh, sì.» «E dov’è sua moglie?» «Flavia?» chiese Argyll.
«Ha forse più di una moglie?» «Oh, no. Ne ho solo una. Che mi basta e avanza, a dire il vero. Flavia è rimasta a Roma, a cercare di sbrogliare la faccenda del dipinto del Lorenese. Non è particolarmente felice, temo. Anzi, è molto scoraggiata. E anche delusa.» «Come mai?» Argyll ci pensò un attimo. «In realtà, non lo so. Di recente è stata piuttosto depressa. Distratta, imbronciata. Ha scoperto una cosa di cui sospetto che lei, generale Bottardi, fosse al corrente da anni, cioè che i suoi superiori sono più infidi dei ladri di opere d’arte. E meno schietti.» «Gliel’avevo detto», commentò Bottardi con un lieve sorriso. «Però prima lei la proteggeva da loro», replicò Argyll. «E Flavia sta cominciando adesso a rendersi conto di quanto dev’esserle grata. Ma il suo pensionamento e il modo in cui se n’è andato le hanno tolto le ultime illusioni. Questo e l’affare del Lorenese, ovviamente. È arrivata a un punto di saturazione, come non l’avevo mai vista prima.» Quelle parole intristirono Bottardi. «Ora», riprese Argyll, rinfrancato dall’aver concluso i preliminari del colloquio, «parliamo del dipinto per cui sono venuto.» Si scolò un altro bicchiere di vino che Mary Verney, incoraggiandolo con un sorriso a proseguire, gli aveva versato, anche se non poté fare a meno di pensare che quel giorno stava bevendo un po’ troppo e che il caldo non migliorava certo la situazione, poi aggiunse: «E di un delitto», come per mettere tutti a proprio agio, per riportare i suoi due interlocutori in un mondo che entrambi conoscevano fin troppo bene. Però non ottenne il risultato sperato, perché i due, seduti l’uno accanto all’altra, sembrarono stringersi ancor di più. Se Argyll fosse stato più calmo, avrebbe trovato commovente quell’atteggiamento. E sarebbe stato felice per loro, capaci di ricavare un simile conforto, e un tale piacere, dalla reciproca compagnia. Infatti formavano una coppia perfetta, se li si guardava di sfuggita, trascurando i piccoli dettagli per i quali in realtà non si sarebbero neanche dovuti rivolgere la parola. Tralasciando, per esempio, il piccolo particolare che Mary Verney aveva passato la vita a rubare opere d’arte e che Taddeo Bottardi non aveva avuto altro scopo, in tutta la sua esistenza, che quello di recuperarle. Entrambi erano persone cortesi, di larghe vedute e, per quanto Argyll ne sapeva, con molti interessi in comune, anche se visti da un’angolazione piuttosto diversa. E tutti e due (come sospettava da tempo Flavia, quando le capitava di disquisire su un tale argomento) disperatamente soli, di una solitudine che aumentava con il passare degli anni. Argyll si rese conto che quelle divagazioni lo stavano portando fuori strada, mentre i due restavano pazientemente seduti aspettando che lui arrivasse al
punto, così, nel tentativo di rompere gli indugi, ricapitolò: «Il dipinto. E il furto...» «Cerchi di essere più preciso, Jonathan», l’interruppe Mary Verney in modo un po’ brusco. «Lo so che le piace fingere di essere distratto, ma ora sta proprio esagerando. Ci dica una buona volta perché mai è venuto a trovarmi, poi faccia quello che si è proposto di fare.» Argyll la fissò, meditando se fosse il caso di offendersi, e infine decise che l’anziana donna aveva probabilmente ragione. «Come vuole, allora», replicò. «Buonaterra, anno 1962.» Dall’espressione stupita che fecero entrambi, benché subito governata, Argyll si rese conto che i collegamenti da lui ipotizzati erano giusti, ragion per cui proseguì. «Un crimine perfetto», disse. «O quasi. Per meglio dire, un crimine nascosto dentro un altro. Ma sono le sue motivazioni e la conclusione a lasciarmi perplesso. È per questo che sono venuto qui.» «Perciò, ricapitolando: qualcuno ruba il dipinto per ragioni che non hanno nulla a che fare con il denaro, e lo nasconde. A quel punto lei, Mary Verney, si fa avanti e lo sottrae al ladro. Della prima parte sono certo; la seconda è una mia supposizione. Lei, Mary, non corre rischi perché il ladro non può denunciare la sparizione della refurtiva e la polizia non ha alcun valido motivo per sospettare di lei. Dopotutto, non era presente quando si è verificato il primo furto, perché si trovava qui, in questa casa.» «Ora, ciò che mi lascia perplesso è il fatto che il dipinto sia stato restituito al suo proprietario. Considerando che chi l’aveva ripreso era un’abile ladra di professione che non correva alcun rischio di essere scoperta, non si spiega perché l’abbia restituito.» «Se ci fosse stata di mezzo una richiesta di riscatto», ipotizzò, «cioè se il proprietario, pur di riaverlo, avesse offerto una grossa somma di denaro, allora potrei giustificare la decisione di farlo riapparire. Molto meglio ottenere soldi in contanti che doversi preoccupare di piazzare il dipinto: la parte più complicata della sua professione, a quanto mi risulta. Ma in quel caso non si è mai parlato di una ricompensa. Perciò, vede, questa vicenda ha molti punti oscuri.» Un’esposizione dei fatti non particolarmente brillante, pensò Argyll. Si era ripromesso di fornire un riassunto più incisivo dell’accaduto, non le rudimentali divagazioni che invece aveva pronunciato. Tuttavia funzionò. Ciò che aveva detto colpì nel segno, ma ancor più lo fece ciò che non aveva detto. Bottardi sembrò cedere a Mary Verney il ruolo di protagonista: rimase infatti seduto in silenzio e lasciò che fosse lei a replicare. Forse perché, dopo tutti gli anni trascorsi in polizia, era ormai più abituato a fare le domande che a rispondere. O forse perché si trovava in casa sua.
«A proposito, come mai tanto interesse da parte sua, Jonathan, per questo dipinto?» chiese l’anziana donna. «Volevo fare un regalo al qui presente generale, in occasione del suo pensionamento», rispose mestamente Argyll. «Lui aveva sempre detto che si trattava di un dipinto privo di valore, ma io avevo avuto l’impressione che fosse tutt’altro che una crosta. Quando ho saputo da Flavia che il generale era preoccupato per la sua pensione, perché temeva che risultasse inferiore al dovuto per aver deciso di lasciare il lavoro prima del previsto, mi sono messo a cercare notizie su quel pannello, a partire da quelle sui precedenti proprietari, in modo che Bottardi, se avesse voluto venderlo...» «Che pensiero gentile da parte sua.» «Ma poi, ovviamente, la mia ricerca ha preso uno strano andazzo, rilevando un sacco di lati oscuri che hanno cominciato ad assillarmi. Sono riuscito a stabilire che il dipinto ha con ogni probabilità un enorme valore... o, se non proprio enorme, notevole, come mi ha detto Bulovius prima di morire. Non ho potuto, però, almeno finora, appurare di chi sia, o, per l’esattezza, trovarne le prove. E ancora non so con precisione quale parte voi due abbiate avuto in questa storia, anche se certamente ci siete dentro fino al collo.» «Ne è sicuro, vero?» ribatté Mary Verney con un lieve sorriso. «Be’, in tal caso suppongo che lei debba conoscere anche il resto. Vuole un altro goccio di vino?» «No, grazie.» Lei si strinse nelle spalle, meditò un attimo, poi iniziò. «Sono dispiaciuta per i giovani d’oggi, gliel’assicuro», esordì. «Le loro vite sono così infelici rispetto alle nostre. Non succede mai nulla di nuovo. Ovunque si vada, si vedono gli stessi disgustosi fast food che pare siano stati inventati in Kansas e che non si sarebbero mai dovuti esportare altrove. Quando io ero giovane, i Paesi stranieri erano davvero stranieri; la vita costava terribilmente poco, e un lavoro, se si era così sfortunati da averne bisogno, si rimediava sempre. «La gente era molto fiduciosa, non come capita adesso, che persino in chiesa puoi dirti fortunato se non ci trovi una telecamera che riprende ogni tua genuflessione, perché non si sa mai... Mi considero una privilegiata per essere stata giovane nel momento di massimo splendore della civilizzazione. Non ho più molto da vivere, ma, quando me ne andrò, non rimpiangerò i piaceri che la morte mi negherà. Be’, qualcuno forse sì», aggiunse, lanciando un’occhiata in tralice a Bottardi. «In ogni caso, dalla fine degli anni Cinquanta alla fine dei Sessanta la mia vita è stata meravigliosa. Senza dubbio la vecchiaia, unita alla memoria selettiva, me la fa sembrare migliore di quanto sia stata realmente, però,
almeno secondo me, in quell’arco di tempo la ricchezza non aveva ancora prodotto un’esplosione di cattivo gusto; la libertà non si era ancora trasformata in strafottenza, e il brivido del cambiamento era intriso di speranza, non era una disperata ricerca di ripetitive novità. E io, non avendo nessuno da compiacere se non me stessa, ero decisa ad approfittarne.» «E lo feci. Come lei sa fin troppo bene, intrapresi una carriera per la quale ero straordinariamente dotata, assicurandomi guadagni più che generosi. Tuttavia, sotto ogni altro punto di vista ero una persona assolutamente rispettabile; ciò a cui realmente aspiravo, credo, era la vita di una donna normale. Un marito che si prendesse cura di me, un paio di figli e una bella casa, preferibilmente circondata da cespugli di rose. Ero persino disposta a condividere il mio bricco di caffè mattutino con le domestiche. Senza dubbio questi desideri derivavano da un’infanzia priva di punti fermi e, non appena me ne capitò l’occasione, cercai più o meno di realizzarli. Conobbi Jack Verney e, pur essendo perfettamente consapevole che non era il marito adatto a me, in tutti i sensi, lo sposai. Jack era, ed è, un brav’uomo, ma anche l’essere più noioso che sia mai esistito. Nel dirlo, non gli faccio un torto, perché è lui stesso ad ammetterlo e a vantarsi della propria capacità di far crollare addormentati gli invitati a cena, grazie a uno dei suoi interminabili resoconti di partite a golf. «Fortunatamente viaggiava molto, lasciandomi libera di occuparmi dei miei affari, e, quando alla fine tornava a casa, coglievo al volo la prima opportunità che mi capitava per venire in Italia, dove avevo comprato questa casa. Mi era costata centocinquanta sterline, non molto, anche per allora, e l’avevo presa perché mi ripromettevo di trasferirmi qui con mio marito e i miei figli, quando li avessi avuti. Intanto continuavo a rimpinguare il gruzzoletto che tenevo in una banca svizzera. «In quel periodo, sa, non avevo ancora cominciato a operare in grande stile, per così dire. Da giovanissima avevo rubato un solo dipinto, furto dal quale non avevo ricavato neanche un soldo, almeno per me, e in seguito avevo compiuto un paio di altri colpi, tanto per non morire di fame, ma dopo il matrimonio avevo cambiato vita. Poi Ettore Finzi contattò un mercante d’arte affinché gli trovasse qualcuno in grado di portare a termine un certo incarico, e il mercante d’arte si rivolse a me. Ero disposta, dietro generoso compenso, a rubare un dipinto raffigurante l’Immacolata Concezione dalla villa di Stonehouse? A quanto sembrava, Finzi sosteneva che due pezzi della sua collezione gli fossero stati sottratti con l’inganno. Se io fossi riuscita a recuperare il primo, lui era disposto a darmi in seguito un’altra somma sostanziosa per il recupero del secondo.» «Il quale dove si trovava?» Mary Verney si strinse nelle spalle. «Non lo so. Non siamo mai arrivati a quel punto. Ma, per quanto riguarda il primo, accettai l’incarico perché
avevo intenzione comunque di venire qui in Italia e, dopo aver valutato attentamente la situazione, mi ero convinta che si trattasse di un’impresa abbastanza semplice, dal momento che a quei tempi rubare in una casa privata era facile come bere un bicchier d’acqua. Riuscii con qualche trucchetto a farmi invitare a vedere la collezione di villa Buonaterra e mi preparai ad agire. Devo dire, per essere precisa, che allora non avevo la minima idea di cosa fosse esattamente quel dipinto. E lo ignoro tuttora. Finzi era vecchio, malato e tremendamente sospettoso. Mi fornì solo una descrizione di ciò che dovevo rubare. Sapevo, ovviamente, che la rivalità tra lui e Stonehouse era di così vecchia data che nessuno si ricordava più quando fosse nata, e in ogni caso in realtà non avevo bisogno di saperne di più. «Così arrivai in villa, mi sistemai, rendendomi utile mentre mi preparavo al colpo, quando, di punto in bianco, arrivò quell’idiota di Bulovius che mandò tutto all’aria. Non solo passava gran parte delle sue giornate a darmi la caccia attorno ai cespugli di rose, senza lasciarmi un attimo di tregua, così che non riuscivo neanche a stare sola il tempo necessario per soffiarmi il naso né, tanto meno, per rubare il dipinto, ma decise all’improvviso di dimostrare a Finzi quale buon amico lui fosse. Si era ingraziato il vecchio con espedienti quasi disgustosi, credo avesse subodorato che Finzi intendeva menzionarlo nel testamento, e doveva essersi convinto che, se gli avesse riportato il dipinto, avrebbe dato una tale dimostrazione di lealtà da assicurarsi buona parte dell’eredità. Ovviamente presumo che a lei, Jonathan, Bulovius abbia dato una diversa motivazione. «Intanto avevo già predisposto tutto: avevo trovato il modo migliore per far uscire il dipinto dalla villa e ingaggiato un paio di delinquentelli, uno dei quali doveva aspettarmi in fondo al vialetto per prendere il dipinto, così che non fossi costretta a tenerlo per più di qualche minuto, e portarlo nel deposito bagagli della stazione, dove il complice l’avrebbe prelevato e fatto uscire dal Paese. Tutto era pronto: Stonehouse mi aveva invitato a cena e a me sarebbero bastati solo cinque minuti per alzarmi da tavola, salire nella stanza in cui si trovava il dipinto, prenderlo, correre in giardino a consegnarlo al mio complice e tornare a tavola in tempo per il dessert. Il giorno prima di quello fissato per il furto tornai qui, a casa mia, a dormire, e l’indomani, appena rimesso piede nella villa, venni a sapere che il dipinto era sparito. La polizia era ovunque, e Bulovius aveva stampata sul volto una nauseante e livida espressione di terrore e senso di colpa. Quel giorno il suo comportamento fu così ridicolo che mi riuscì difficile trattenermi dal chiedergli di consegnarmi il quadro. «La presenza dei poliziotti non mi preoccupava particolarmente, perché mi sembrava poco probabile che riuscissero seriamente a mettermi i bastoni fra le ruote. Il superiore... come si chiamava?»
«Tarento», rispose Bottardi, aprendo bocca per la prima volta. «Già, Tarento. Un tipo assolutamente ridicolo, uno dei poliziotti più stupidi che abbia mai incontrato. Ma, a modo suo, dolce e cordiale», proseguì Mary Verney, demolendo parte della ricostruzione immaginata da Argyll, che franò ulteriormente quando lei aggiunse: «E anche incredibilmente gentile con lui», indicando il generale. «Perciò ero sicura di non dovermi preoccupare di loro. Invece mi sbagliavo, perché, se Tarento era completamente privo di fiuto investigativo e di entusiasmo, Taddeo ne aveva per due. Ben presto mi accorsi che osservava Bulovius con quell’estremo interesse che solo un barlume di sospetto poteva suscitare. Per tentare di valutarne le capacità mi presi la briga di attaccare discorso con lui. E quello fu un terribile sbaglio. Per dirla in breve, mi innamorai perdutamente di Taddeo. «Ora, io non sono un’anima romantica, tutt’altro. Mi ero sempre ritenuta insensibile all’innamoramento, perciò avevo sposato Jack. Ero convinta che fra un uomo e una donna un blando affetto fosse più che sufficiente. Un tale sentimento, così inaspettato, così istantaneo, e per la persona meno adatta a me che esistesse al mondo, mi tolse letteralmente il fiato. E mi indusse ad agire da sciocca, come non ero mai stata prima d’allora. Il peggio era che Taddeo, per quanto riuscivo a capire, non contraccambiava i miei sentimenti e, per di più, cominciava sì a provare per me un certo interesse, ma di tutt’altro genere: cioè professionale. Aveva iniziato infatti a tenermi d’occhio come un falco scruta la sua preda. Se anch’io fossi stata in grado di comportarmi in modo razionale, probabilmente non sarebbe successo nulla. Iniziai quasi a farneticare, immaginando che la polizia avesse aperto un dossier su di me, che Taddeo e il suo capo mi sospettassero già del furto e che sarei stata costretta a trascorrere svariati anni in galera per l’unico dipinto che non avevo rubato. Ciò che non mi passò neppure per l’anticamera del cervello fu il sospetto di aver suscitato in quell’uomo gli stessi sentimenti che provavo per lui. Avevo un’alta considerazione delle mie capacità, ma non mi ero mai considerata una donna in grado di far innamorare qualcuno. «Il momento peggiore fu quando dovetti andare a Firenze a incontrare il mio secondo complice, per rimandare a data da destinarsi l’espatrio del dipinto, se mai fossi riuscita a impossessarmene. Fu una mossa stupida: per la prima e unica volta mi trovai a trattare di persona con un personaggio estremamente losco. Per fortuna ne avevo scelto uno poco noto alle forze dell’ordine, altrimenti la mia comparsa davanti all’edificio in cui l’uomo abitava sarebbe stata più che sufficiente a insospettire anche il poliziotto più ottuso. «E, siccome Taddeo era tutt’altro che stupido, nel vederlo fermo in piedi sul marciapiede di fronte alla casa del mio complice e intento a fissarmi mentre
uscivo dal portone, fui colta da una sensazione di panico che non avevo mai provato. A peggiorare la situazione fu il suo comportamento: non arrivò direttamente al punto, ma si limitò a rivolgermi la parola, dicendo che era fuori servizio e chiedendomi se mi sarebbe piaciuto fare quattro passi assieme a lui. Fu il più strano interrogatorio che mi fosse capitato di subire, perché, presumo, non intendeva esserlo. Ci limitammo infatti a passeggiare. Per ore e ore. Visitammo chiese e musei, attraversammo cortili, vagammo lungo larghi viali e stretti vicoli. Lei fa lo stesso con Flavia, lo so. Non c’è nulla di più bello al mondo del condividere con qualcuno il piacere di una piccola scoperta, di un nuovo panorama o di un dipinto mai visto prima. In vita mia non mi ero mai sentita così felice di stare in compagnia di un’altra persona. Non scenderò nei particolari, se non le dispiace. Aggiungo soltanto che alla fine venimmo qui, nella mia casetta, e vi trascorremmo insieme un piacevolissimo fine settimana. «Peccato che ci fosse quel piccolo neo: lui era un poliziotto. Il che rappresentava un ostacolo insormontabile. Giunsi alla conclusione che Taddeo avesse voluto mettermi sull’avviso. Sappiamo tutto di te, mi stava dicendo. Sta’ attenta a quello che fai. «Mi comportai di conseguenza. Non avevo voglia di pagare il prezzo della follia altrui, no, grazie tante. Mi trovavo in una situazione molto delicata, come lei, Jonathan, può ben immaginare. Da un lato volevo impadronirmi del dipinto; dall’altro sapevo di correre un grosso rischio, e a me non è mai piaciuto andare allo sbaraglio. «Perciò attesi e pian piano mi rassicurai. La polizia sembrava aver perso interesse per tutta quella storia e la situazione era tornata tranquilla. Io, che avevo continuato a tenere d’occhio Bulovius e notato il suo nervosismo ogni volta che qualcuno si sedeva sul divano, avevo ormai intuito dove si trovasse il dipinto, così una notte, sul tardi, dopo aver trascorso un’ora in giardino in attesa che tutti andassero a dormire, rientrai di soppiatto nella villa, infilai il dipinto in una piccola borsa e uscii. «Finendo direttamente fra le braccia di Taddeo. Da giorni lui trascorreva la notte in giardino, a vegliare. Aspettando che accadesse qualcosa. Era una splendida notte, con una bellissima luna piena, e io riuscii a scorgere sul suo volto un’espressione vagamente divertita. Siccome ero rimasta senza parole, fu lui a prendere l’iniziativa. ’Congratulazioni’, mi disse. ’L’hai trovato.’» «Risposi che, sì, avevo trovato il dipinto e che potevo spiegargli tutto.» «Non ce n’è bisogno. So perfettamente cos’è successo. Stavi cercando un orecchino che avevi perso, hai guardato sotto il divano e hai visto il dipinto. Così l’hai tirato fuori e hai deciso di portarlo tu stessa alla stazione di polizia.» «Mi sembrò una spiegazione perfettamente logica, perciò assentii.» «Tuttavia potrebbe non essere tanto facile farlo capire a Mr Stonehouse,
proseguì Taddeo. ’Lui pretenderà magari di sapere perché lo stavi portando fuori dalla villa. Forse andrà su tutte le furie e, tirando le somme, si chiederà se non sia stata tu, in realtà, a farlo sparire fin dal primo giorno.’» «Replicai che sarebbe stato terribilmente scortese da parte sua anche solo ipotizzare una cosa simile, ma Taddeo seguitò: ’Non credi che sarebbe meglio, sempre che tu sia disposta a rinunciare ai ringraziamenti per averlo recuperato, se non accennassimo alle modalità del ritrovamento? Se il dipinto venisse scoperto altrove, per puro caso?’» «Non mi rimase che accettare, ed entrambi, dopo averlo chiuso in una borsa, andammo a depositare il dipinto in un fosso, dal quale la mattina seguente Taddeo, accompagnato da me in veste di testimone, lo tirò fuori e lo consegnò al proprietario, fra gli applausi di tutti i presenti. Quel pomeriggio stesso decisi, anche se per me fu un vero strazio, di lasciare la villa e tornare in Inghilterra, dopo di che rimasi alla larga dall’Italia per un certo tempo. Quando ricominciai a lavorare, lasciai passare almeno un decennio prima di accettare di rubare qualcosa sul suolo italiano.» «Però, in ricordo dei vecchi tempi, quando venni a sapere che la collezione Stonehouse stava per essere messa all’asta mi procurai un catalogo, vidi che quel dipinto c’era ancora e lo comprai. Lo mandai quindi a Taddeo, a mo’ di tardivo ringraziamento... con tanto di fattura rilasciata dalla casa d’aste, affinché non pensasse male. Quando ci capitò di incontrarci di nuovo, fui felice di vedere che se l’era tenuto. Significò molto per me.» «Comunque, per i successivi trentacinque anni mi gettai alle spalle Taddeo Bottardi e ripresi la mia vita, che continuò a essere quanto mai soddisfacente finché Flavia non prese a investigare su di me e io mi trovai di nuovo faccia a faccia con lui. A quel punto capii che certe cose non possono essere semplicemente rimosse. E, quando lui mi fece capire che condivideva totalmente i miei sentimenti, decidemmo che eravamo troppo vecchi per aspettare ancora. Io avevo già rinunciato al mio lavoro, lui fece di tutto per andare in pensione il prima possibile, e ora eccoci qui. E qui, mi auguro di cuore, intendiamo restare.» Durante quel lungo racconto Bottardi era rimasto praticamente sempre in silenzio; si era limitato a restare seduto dov’era, a lanciare occhiate benevoli sia a Mary sia a Jonathan, a sorridere di tanto in tanto e a sorseggiare il suo vino. Quando la narrazione finalmente si concluse, Argyll fissò l’anziana coppia con aria tetra. A incupirlo non era tanto ciò che Mary Verney aveva evitato di menzionare, ma il fatto che lei stava chiaramente dicendo la verità. Nel vedere come Bottardi guardava la donna, si rese conto di conoscere bene l’espressione che il generale aveva sul viso e i sentimenti che questa esprimeva. Era così che lui fissava Flavia. Conosceva abbastanza entrambi per capire che avevano condotto un’esistenza sostanzialmente infelice, perché ambedue
erano pieni d’amore, ma non avevano mai trovato la persona giusta su cui riversarlo. Avevano sperimentato quella gioia una volta, passeggiando per le vie di Firenze, e ora se la tenevano ben stretta, con la disperazione che solo chi è stato molto solo può gestire. Sarebbe toccato a lui guastare quel momento? Era veramente compito suo distruggere tutto? «Sa», disse, evitando di guardare Mary Verney e puntando invece gli occhi un po’ annebbiati dall’alcol verso il sole che iniziava a calare dietro ai pini quasi in cima alla collina di fronte, «Flavia ha sempre avuto una notevole stima per lei. Dal punto di vista professionale, intendo.» «Mi lusinga sentirglielo dire.» «Mmh. Una volta, sa, mi spiegò che, rispetto a tutti i ladri con cui aveva avuto a che fare, lei aveva una dote peculiare.» «Quale dote?» «La disciplina. Una rigorosa autodisciplina. Spesso i criminali vengono arrestati perché si impigriscono, per citare testualmente Flavia, e finiscono per diventare prevedibili. Quando un particolare modo di rubare funziona, continuano a servirsene. Più e più volte. Lei è stata la sola a cambiare tecnica in continuazione, lasciando immutati solo due piccoli particolari di cui si è accorto una volta il qui presente generale, consistenti nel fatto che nessuna opera d’arte da lei rubata era mai stata fotografata e che nessuna, almeno finora, è mai stata recuperata.» «Ognuno di noi ha il proprio marchio di fabbrica.» «A parte questo, quasi nulla. Il che è un bene, davvero.» Lei lo fissò e gli sorrise dolcemente. «Lo credo anch’io», disse.
17 Nel rendersi conto di aver raccontato quasi tutto ciò che sapeva a un uomo che, stando a quanto le risultava, poteva ancora essere strettamente legato ai servizi segreti, Flavia cadde quasi in preda a una crisi di paranoia. A tal punto che, prima di mettersi al volante della propria auto di cui, grazie al cielo, teneva sempre in tasca la chiave invece di lasciarla a casa, la controllò accuratamente, dentro e fuori, sotto, nel vano motore e attorno al serbatoio della benzina. Erano accadute troppe cose strane e inquietanti. Dato che tutto sembrava in ordine, partì alla svelta, seguendo un percorso tortuoso, infilandosi in vicoletti, fermandosi spesso, effettuando inversioni di marcia proibite, imboccando sensi unici, tanto per assicurarsi di non essere pedinata. Anche quando prese l’autostrada, continuò a compiere strane manovre, nonostante la sua vescica e uno strano mal d’auto la costringessero comunque a frequenti soste. Ma nello specchietto retrovisore nessuno la inseguiva, né la fissava in modo sospetto, così iniziò a poco a poco a rilassarsi. Fu un lungo viaggio, ed erano ormai le tre del pomeriggio quando raggiunse di nuovo Siena. Parcheggiò accanto a un giardinetto chiamato La Lizza, un angolo della città che compare raramente sulle cartoline illustrate destinate ai turisti, esitò un attimo, chiedendosi se stava facendo la cosa giusta, poi si incamminò verso la scuola in cui Elena Fortini si guadagnava da vivere. Dovette aspettare, perché Elena stava facendo lezione in una classe e non avrebbe finito prima di una ventina di minuti. Un’attesa che lei ingannò stando un po’ seduta, girovagando nella scuola, leggendo le pubblicità delle agenzie di viaggi e le offerte di camere in affitto o di auto usate in vendita che costellavano la bacheca e, alla fine, guardando fuori della finestra, chiedendosi come mai il tempo sembrasse tanto spesso scorrere con estrema lentezza. Quella scuola era insolita, diversa dalle altre: nessuna campanella segnalò la fine delle lezioni, e non si udirono il consueto chiacchiericcio e lo scalpiccio che contraddistinguono di solito la frenetica uscita degli allievi dalle classi. Era un istituto serio, destinato a studenti insoddisfatti di come veniva insegnato l’inglese nelle università, a uomini d’affari che tentavano di dimostrare quanto fossero desiderosi di tenersi al passo con i tempi, o ad aspiranti impiegati alberghieri che dovevano conoscere le lingue per trattare con i clienti. Un ambiente chiuso, di una noia mortale. Persa in quei suoi pensieri che nulla avevano a che fare con il presente, Flavia quasi non si accorse dell’arrivo di Elena Fortini. Solo quando sentì una mano batterle leggermente sulla spalla, tornò con i piedi per terra e si voltò. «Mi avevano comunicato che qualcuno era venuto a cercarmi», disse Elena.
«Sono contenta che lei non abbia detto di appartenere alla polizia.» «Possiamo parlare in qualche posticino tranquillo?» Elena si strinse nelle spalle. «Va bene. Al chiuso o all’aperto? È una così bella giornata che potremmo parlare passeggiando. Se lei è d’accordo.» Flavia acconsentì, ma dopo una decina di minuti iniziò a sentirsi tremendamente stanca, così le due donne entrarono nel bar di un albergo in cui Flavia era già stata una volta, molti anni prima, e, dopo aver ordinato due caffè e una bottiglia d’acqua minerale gelida, si sedettero in un piccolo chiostro, all’ombra. Era un posto quasi fin troppo bello per discutere di cose serie. Perciò entrambe non aprirono bocca per un po’, ma rimasero sedute l’una accanto all’altra, con Flavia sempre più convinta che ciò che le suggeriva l’istinto fosse, dovesse essere, più inconfutabile di qualsiasi altra prova. C’era però un solo e unico modo per averne la conferma. «Mentre indagavo su di lei e su Sabbatini», iniziò, «mi sono imbattuta in testimonianze contraddittorie. Per esempio, di lei mi è stato detto che in passato era famosa per aver commesso atti di un’efferatezza inaudita, e di Sabbatini che non era lui a ideare gli atti che compiva. A suggerirglieli e a progettarli sarebbe stata sempre lei, che restava nell’ombra, al sicuro. Ho anche appurato che lei mi ha mentito, almeno riguardo a un certo particolare. Mi ha detto infatti che erano trascorsi dieci anni dall’ultima volta in cui aveva sentito Sabbatini, ma non è vero.» La donna sorrise. «Può provarlo?» «Quel tanto che basta. In febbraio Sabbatini ha telefonato alla sua scuola. Sono i tabulati telefonici a dirlo.» «E lei come fa a saperlo?» chiese Elena sprezzante. «Mi sta domandando come posso saperlo dal momento che lui chiamava sempre da una cabina telefonica? È semplice. Perché Sabbatini era uno sciocco e per pagare la telefonata ha usato la sua carta di credito.» «Il che non significa che mi abbia parlato. Magari in quel momento io stavo insegnando.» «Lo verificheremo, non dubiti.» «O ero fuori a bere un caffè.» «La telefonata è durata tredici minuti. Non ci avrebbero messo tanto per dirgli che lei non c’era.» «Allora l’avevo dimenticato. Mi scusi. Deve essermi sfuggito di mente.» «Ettore Bossoni.» Dopo aver pronunciato quel nome, Flavia notò che la donna sembrava più cauta. «Perché le interessa?» «È stato lui a informarmi che lei è una persona eccezionalmente violenta e pericolosa.» «Se ha ragione, allora lei, dicendomelo, si espone a un bel rischio.»
«Adesso fa il giornalista e mi ha chiamata subito dopo il furto per avere notizie sull’accaduto. Sostiene che Sabbatini avesse tentato di convincerlo a sollevare un gran polverone mediatico sull’intera vicenda. A mentire è lui, stavolta.» «Non le sfugge proprio niente», ribatté Elena sorridendo. «No, scusi, non intendevo essere sarcastica. Dico sul serio. Vada avanti, la prego.» «Sono più che certa che Bossoni abbia saputo del furto da qualcuno che è in contatto con il governo, come minimo. Mi stava mettendo alla prova, per verificare che tenessi la bocca chiusa, come mi era stato ordinato. Vent’anni fa lavorava per i servizi segreti e probabilmente lo fa tuttora. Un paio d’ore dopo che ci eravamo parlati, qualcuno ha piazzato un’auto davanti all’ingresso dello stabile in cui abito, cosa che mi preoccupa un po’.» «E giustamente», replicò la donna, con un’espressione improvvisamente seria. «Perché?» «Continui pure. Alla fine, a seconda di quanto mi avrà raccontato, deciderò se spiegarglielo o no.» «Sulla base di ciò che sono riuscita ad appurare finora, la mia ricostruzione dei fatti sarebbe questa: lunedì Sabbatini ruba il dipinto e progetta una specie di atto clamoroso per il venerdì successivo, anniversario della morte della sorella. Il mercoledì, ci arriva la richiesta di riscatto. Due giorni dopo, sulla via Appia, il denaro viene consegnato da me, o, per la precisione, da un mio collega, in cambio del dipinto. Fine della storia. Ma...» Elena Fortini le lanciò un’occhiata interrogativa. «Ma chi ha restituito il dipinto e preso il denaro? Ci sono solo due possibilità: o è stato Bossoni o è stata lei, Elena.» Flavia si girò a vedere come fosse stata accolta quella sua conclusione. Non molto bene. Elena Fortini, dopo aver bevuto un sorso d’acqua, scrollò il capo, limitandosi a dire: «Si sbaglia». Poi aggiunse: «O, perlomeno, sbaglia a sospettare di me. Per quanto riguarda Bossoni, ovviamente, non sono in grado di giudicare. Ma proprio quella sera stavo tenendo una lunga lezione di ripasso che si è protratta fino alle dieci passate. I miei allievi avevano un difficile esame da sostenere il lunedì successivo e necessitavano di tutto il mio aiuto. A provare che ero qui, a Siena, ho pertanto una ventina di testimoni. E, se lei ritiene che sia stata in grado di uscire da questa scuola e arrivare sulla via Appia in meno di due ore, deve aver scambiato quel vecchio catorcio della mia auto per una macchina da corsa». «Sono pronta ad accettare ogni suggerimento.» «E cosa farà se dovessi dirle qualcosa di interessante?» «Non lo so. La mia intenzione originaria era di risolvere le questioni rimaste in sospeso senza creare imbarazzo, come ci si può aspettare da un funzionario pubblico ligio al dovere. A quanto pare, la situazione ha preso
un’altra e più complessa piega. Ero convinta di avere a che fare con il furto di un’opera d’arte, ma il dipinto ormai sembra contare ben poco. È diventato un dettaglio di un contesto ben più ampio, che tuttora mi sfugge. Però Sabbatini è morto, sua sorella è stata assassinata e una grossa somma di denaro manca ancora all’appello. E nessuno vuole che mi intrometta in questa storia. Mi piacerebbe sapere perché e scrollarmi di dosso questa gente che mi sta col fiato sul collo.» «Se le cose stanno così, non le dirò nulla», ribatté Elena. «Non intendo mettermi in mezzo solo per permetterle di sentirsi a suo agio. È troppo pericoloso. E non faccio la tragica.» Flavia la fissò seria. «Ascolti, io potrei arrestarla, accusandola di complicità. Ma non lo farò e non intendo neppure lasciarle questa spada di Damocle sulla testa. Può restare seduta qui a bere la sua acqua, senza dire nulla, o anche andarsene. Non ci saranno conseguenze, nessun rapporto, nulla di nulla. Se mi dirà invece ciò che sa e potrò in qualche modo utilizzare le sue informazioni, lo farò. Ma voglio essere sincera con lei: dubito di riuscirci.» Elena si dondolò avanti e indietro sulla sedia, meditabonda. «Dubito anch’io.» Si interruppe ed emise un profondo sospiro. «Sono stata io a rapire Maria Di Lanna. Questo era scritto nei vostri dossier?» «No.» «Bene. Temevo che Maurizio, dopo il suo arresto, raccontasse tutto su di noi. Il coraggio non era il suo forte, e sapevo che avrebbe confessato qualsiasi cosa pur di tirarsi fuori dai guai. Ma avevamo bisogno di fargli chiaramente capire che doveva tenere la bocca chiusa. Il rapimento di Maria fu concepito come una sorta di messaggio che lui avrebbe per forza dovuto cogliere.» Flavia si trattenne a stento dal replicare che probabilmente il fatto di aver sparato in testa a quella povera donna aveva raggiunto lo scopo. «Così la rapimmo e la tenemmo segregata. Stranamente, Maria era molto in gamba. Viziatissima, com’era più che naturale, ma non lagnosa. Mi piacque molto. Benché sulle prime fosse ovviamente assai sconvolta e impaurita, si calmò quando le assicurammo che sarebbe rimasta nostra prigioniera per non più di una settimana. E non mentivamo. Il nostro piano consisteva nel tenerla il tempo necessario per permettere a Maurizio di venire a saperlo e recepire il messaggio.» «Il giorno prima di quello in cui avevamo previsto di liberarla, arrivò la polizia. In pieno assetto di guerra. Io, per puro caso, ero fuori: siccome Maria aveva chiesto un po’ di cornflakes, ero uscita a comprarglieli. Avevo acquistato anche una piccola torta. Con una candelina. Avevamo infatti deciso di tenere quella stessa sera una festicciola, come regalo d’addio. Ci crede?» Scrollò il capo. «Avevo persino comprato alcuni buffi cappellini.» «Ma non ci fu alcuna festa. Mentre stavo uscendo dal negozio vidi le auto
della polizia circondare il nostro covo e rimasi a osservare la scena da lontano. Udii i colpi d’arma da fuoco, vidi gli agenti speciali fare irruzione e dal fragore della raffica di spari intuii che stavano sterminando i miei amici e compagni. Loro non riuscirono neppure a rispondere al fuoco, perché erano stati colti completamente di sorpresa. Erano in cinque e nel giro di pochi secondi furono tutti uccisi.» Si interruppe. «Non mi pare che il mio resoconto l’abbia sconvolta.» «Avrebbe dovuto?» «No, suppongo di no. Le ho raccontato questo fatto per farle capire che gli agenti non tentarono minimamente di arrestare i miei compagni. Spararono per uccidere, senza alcun preavviso. In un certo senso ce l’aspettavamo, però non sono ancora riuscita a superare lo shock. Anche se è avvenuto tanto tempo fa e ormai non ha più molta importanza. Ma ciò che conta è che, una volta finita la sparatoria, vidi Maria che veniva trascinata fuori dalla casa, sana e salva, e fatta salire su un’auto in attesa.» «Viva? Non morì durante la sparatoria? Ne è sicura?» «Viva e illesa. Mi creda. Non potrò mai dimenticare la scena: Maria, mentre veniva condotta verso l’auto, di colpo lanciò un’occhiata dall’altra parte della strada e vide me, impietrita, con il sacchetto di cornflakes stretto al petto. Cristo, pensai, adesso mi indica ai poliziotti, così mi preparai a scappare, ma lei non fece nulla del genere. Sa come reagì, invece? Si limitò a strizzarmi un occhio, con un sorriso lieve. Poi si voltò e si lasciò introdurre nella vettura che partì a tutta velocità.» Si interruppe, come se stesse ripensando a quel lieve sorriso, poi scosse la testa e prese a tamburellare con le dita sul piano di marmo del tavolino. Erano dita corte, tozze, notò Flavia. Come quelle di chi, per sopravvivere, svolge un lavoro manuale. «L’indomani mattina la notizia era su tutti i giornali. Ereditiera morta in un incidente stradale. Ma girava la voce che fosse stata assassinata dai terroristi. Non sono mai riuscita a sapere come abbiano fatto a trovarci, però da un certo punto di vista per me fu una fortuna che i miei compagni fossero stati tutti uccisi. Non c’era nulla che potesse coinvolgermi in quella storia. Nei due anni successivi mi diedi alla macchia, ma alla fine fui presa e, a modo mio, mi arresi alle autorità. Ormai era tutto finito; non c’era più nulla da fare.» «Ero convinta che quella brutta vicenda fosse stata completamente archiviata. Ero stata tanto fortunata da restare viva e da non aver attirato su di me alcun sospetto di complicità in quel rapimento, perciò, quando seppi da Balesto, il magistrato, che lui aveva ripreso a indagare sulla morte di Maria e voleva quindi parlarmi, rimasi atterrita. Cristo, pensai, la fortuna mi ha abbandonata. Avrei voluto fuggire il più lontano possibile, ma, siccome mi trovavo ancora in carcere, non potevo.»
«A parlare di me al magistrato era stato, ovviamente, Maurizio. Ma le sue erano solo illazioni, perché non disponeva della minima prova; ragion per cui non correvo alcun rischio. Fu lo stesso Balesto a dirmelo chiaramente, non appena ci incontrammo. E lui non aveva alcun interesse a tirarmi in ballo. Anzi, mi offrì l’immunità per qualsiasi reato mi venisse imputato in futuro, a patto che gli raccontassi tutto. E io lo accontentai.» «Si fidò di lui? Posso chiederle perché? Una simile decisione è in contrasto con l’immagine che mi sono fatta di lei, di com’era allora, quantomeno.» «Sì, ha ragione. In teoria non avevo certezze che Balesto avrebbe mantenuto la parola. Ma a spingermi a parlare fu qualcosa di più puerile e sciocco.» Si interruppe e abbozzò un sorriso. «Avevo un terribile senso di colpa nei confronti di Maria, per la quale avevo provato un’istintiva simpatia. Dovevo sforzarmi di rimediare in qualche modo. Anche se non ero preparata a correre gravi rischi ed ero quasi convinta che dire tutto non sarebbe servito a granché. Ma in quel momento ero in attesa del mio primo figlio e forse fu questo a fare la differenza. Magari anche a lei capiterà di provare qualcosa di simile.» Flavia tirò su col naso. «In un certo senso l’incontro con Balesto cambiò la mia vita, anche se al momento non me ne accorsi. Era un brav’uomo, dall’animo coraggioso. Capisce cosa intendo?» «Credo di sì.» «Diversamente da me, aveva fiducia nella giustizia ed era deciso a farla rispettare, anche a costo di fare la figura dello sciocco. Rischiò molto e finì male, rovinato da quella gentaglia. Anche la decisione di incontrarmi fu un notevole atto di coraggio: parecchi magistrati erano già stati uccisi, e credo lui fosse consapevole che quanto stava facendo non gli avrebbe procurato amici nelle alte sfere.» «Non aveva certo l’aspetto di un eroe, perché era basso e tarchiato, però era un uomo tutto d’un pezzo. Aveva una visione molto chiara di ciò che stava facendo. Era l’onestà fatta persona. Prima di allora non avevo mai incontrato un tipo simile. A lei è capitato?» Flavia assentì. «Ne ho conosciuto uno, forse. Lavoravo per lui. Come ha detto lei, sono creature rare.» «In ogni caso gli raccontai tutto e lui, mentre parlavo, continuava ad annuire e alla fine mi disse che conosceva già, in gran parte, quella storia.» «Come mai?» «Non me lo spiegò. Accennò solo che era già nel rapporto investigativo. Disse che la sua inchiesta stava quasi per concludersi. Ma una settimana dopo, più o meno, fu sospeso dal suo incarico, perché accusato di reati infamanti, e il fascicolo da lui compilato fu fatto sparire.» «Perciò non può provare nulla di quanto mi ha riferito.»
«Invece no, sono in grado di farlo. È proprio questo il punto. Maurizio aveva ricevuto un pacchetto, spedito dal legale del magistrato subito dopo la morte di quest’ultimo. Al pacchetto era allegata una lettera in cui Balesto gli diceva di non aver fatto nulla dopo essere stato sospeso dal suo incarico perché temeva, se avesse parlato, di mettere in pericolo la propria famiglia. Aveva ricevuto in tal senso chiare minacce, che riteneva di dover prendere molto sul serio. Temendo che tutte le sue carte gli venissero sottratte, com’era infatti avvenuto, si era cautelato facendo una copia del rapporto da lui redatto e mettendo in un luogo sicuro sia quella copia sia la prova che avvalorava la conclusione a cui era giunto.» «Quale prova?» «Non lo so. La lettera terminava dicendo che lui non si era azzardato a servirsene, ma ormai, essendo in punto di morte, non aveva più nulla da perdere. Se Maurizio avesse voluto agire al posto suo e rendere noto il suo rapporto, che gli allegava, lo autorizzava a farlo.» «Cosa c’era scritto nel rapporto?» «Non l’ho mai avuto per le mani. Lessi soltanto la lettera che Maurizio mi mostrò quando venne a trovarmi .» «Perché?» «Per avvisarmi che me l’avrebbe fatta pagare. Voleva spaventarmi tanto da togliermi il sonno.» «E ha fatto quel che ha fatto solo per punire lei?» chiese Flavia, incredula. «Per punire tutti. Io ero solo un insignificante dettaglio. In ogni caso, dopo avermelo detto svanì di nuovo nel nulla. Cercai di contattarlo, ma non rispose mai al telefono né mi richiamò. Era sparito dalla circolazione. E sentii di nuovo parlare di lui in occasione della sua morte. Non so neppure se nel frattempo fosse riuscito a procurarsi la famosa prova.» «Non l’aveva ricevuta insieme al rapporto?» «No. Balesto mi ha detto di averla lasciata tempo addietro nelle mani di un uomo chiamato Bottardi, l’unica persona di cui si fidasse ciecamente, sicuro che l’avrebbe custodita a dovere. Perché fa quella faccia? Ha già sentito parlare di quest’individuo?» Flavia assentì. Ormai non c’era da stupirsi più di nulla. «È il mio capo. Lo era, per l’esattezza. Ma prosegua. A cosa alludeva quando ha detto che lei era solo un insignificante dettaglio?» Elena le lanciò un’occhiata sprezzante. «Ma non ha capito? Non ha ancora afferrato cosa c’è dietro tutta questa storia?» «Sinceramente no.» «Non si è resa conto che ad aver ordinato di sparare a Maria è stato Antonio Sabauda, il presidente del Consiglio attualmente in carica? Che l’obiettivo di Maurizio era far saltare il governo?» Flavia, rimasta senza fiato, la fissò. In effetti non aveva assolutamente capito
dove Elena stesse andando a parare. «Ma lei non può affermarlo con tanta sicurezza. Non ha visto la prova in questione», protestò. Poteva anche ammettere che i politici ne combinassero di tutti i colori, ma questo era davvero troppo. «Oh, andiamo», ribatté rabbiosamente la donna. «Sabauda è riuscito a imporsi grazie al pugno di ferro con cui ha trattato i terroristi e alla fermezza dimostrata nel caso di Maria Di Lanna. Ha dato la colpa alle leggi troppo permissive, al rifiuto del Parlamento di concedergli maggiori poteri, e ha ottenuto tutto ciò che voleva. Si è conquistato il favore della famiglia Di Lanna che, grata per come lui aveva tentato di tutto pur di liberare quella poveretta, lo ha ampiamente finanziato, ragion per cui Sabauda è riuscito a superare brillantemente tutte le crisi politiche dei due decenni successivi. All’epoca era lui ad avere il controllo dei servizi segreti. L’uccisione di Maria e il modo in cui è stata gestita quella vicenda, poi insabbiata, sono serviti a Sabauda per porre le basi della sua futura carriera. Era da un pezzo che aspettava qualcosa di simile e, quando si è reso conto che stava attendendo troppo, ha forzato la mano. Cristo, Maria è stata portata via da alcuni agenti dei servizi segreti e l’indomani è stata trovata morta. Secondo lei, chi altri potrebbe averla uccisa?» «Maurizio era giunto a questa stessa conclusione?» «Oh, sì. E anch’io. Quando uscii di prigione, dopo che Balesto era caduto in disgrazia, ricevetti la visita dei servizi segreti. Mi fu detto che avevano letto il rapporto del magistrato e che erano quindi al corrente del ruolo che avevo avuto nel sequestro della Di Lanna. Che potevo ritenermi fortunata di essere ancora in vita, ma che non lo sarei rimasta se avessi aperto bocca con qualcuno sull’intera vicenda.» «Ma perché non hanno ucciso anche lei? Se quella gente è così spietata, se non ci pensa due volte a far fuori i testimoni scomodi, come lei sembra ritenere, perché l’hanno lasciata in vita?» Elena si strinse nelle spalle. «Perché non si può mai sapere. Magari la mia testimonianza sarebbe potuta tornare utile in un altro momento. Sabauda era in rapporti amichevoli con i servizi segreti, ma le situazioni possono anche cambiare radicalmente. E se a qualcuno dei servizi fosse venuta voglia di toglierlo di mezzo? In un caso simile mi sarei rivelata il loro asso nella manica.» «Non ha mai pensato di lasciare l’Italia?» «Certo che ci ho pensato, ma a cosa sarebbe servito? Mi avrebbero trovata comunque. Adesso però sono decisa ad andarmene. Quel rapporto sta girando da qualche parte ed evidentemente i servizi segreti lo sanno. È arrivato il momento di fare i bagagli.» Flavia scosse la testa. «E cosa può dirmi del dipinto del Lorenese? Cosa c’entrava in questa storia?»
«Se quel Bottardi è il suo capo, credo che il motivo per cui è stato rubato sia più che ovvio. Maurizio, per mettere le mani su quella famosa prova, voleva procurarsi qualcosa da scambiare. Qualcosa che costringesse Bottardi a mollare l’osso. Con ogni probabilità aveva in mente di minacciare di bruciarlo. Perché il rapporto da solo non bastava: per quanto schiacciante fosse la ricostruzione dei fatti, ci voleva una prova inconfutabile.» Flavia scrollò il capo. «No», disse. «C’è qualcosa che non torna. Se Sabbatini voleva semplicemente scambiare il dipinto con la prova, perché ha deciso di fare un atto dimostrativo, quel venerdì, davanti alla stampa?» Elena si strinse nelle spalle. «Quanto a questo, non posso esserle d’aiuto. Come le ho detto, non sono più riuscita a rimettermi in contatto con Maurizio. Le mie sono solo supposizioni. Ora lei deve continuare con le sue gambe. Come farò anch’io. Non mi cerchi più. Non mi troverebbe.»
18 Argyll poteva anche disprezzare a tal punto i cellulari da rifiutarsi di portarne uno con sé, ma non si faceva tanti scrupoli a usare quelli degli altri. Prima di lasciare la coppia di piccioncini a tubare nel loro rustico nido e di tornare nel paesino da cui era venuto, si fece prestare quello di Mary Verney e telefonò a Flavia. Che, a quell’ora, si trovava in un bar, tanto assorta in fantasticherie quanto la sua nuova condizione di astemia le permetteva. Poiché lui non sapeva ancora che sua moglie ultimamente era diventata paranoica, provò una lieve irritazione nel sentirla così riluttante a dirgli dove si trovasse al momento. Ma alla fine ebbe un’illuminazione e capì che Flavia, nel proporgli di incontrarsi nel locale del tartufo, intendeva un ristorantino a metà strada tra Firenze e Siena, in cui avevano trascorso, un paio d’anni prima, alcune splendide ore. Perché lei non glielo avesse detto chiaramente e come mai non avesse scelto un posto un po’ più vicino erano due interrogativi che lo lasciarono vagamente perplesso, ma, essendosi in linea di massima abituato ai suoi piccoli enigmi, partì a tutta birra per raggiungerla il prima possibile. Lei gli aveva detto di avere importanti novità, e lui pure. Quando finalmente si incontrarono, trovarono il locale già chiuso, ma, grazie alle loro pressanti suppliche, ottennero dal proprietario il permesso di sedersi comunque a un tavolo e parlarono per un’ora filata. Entrambi erano convinti che le proprie scoperte fossero di gran lunga più eclatanti di quelle dell’altro, però Argyll fu costretto ad ammettere che Flavia l’aveva battuto di una buona lunghezza. Le sue novità, cioè che lei fosse incinta, controllata dai servizi segreti e in cerca della prova che il primo ministro italiano era un assassino, gli sembrarono molto più sorprendenti della scoperta dei due amanti che si davano appuntamento nel nascondiglio toscano di Mary Verney, soprattutto perché lui aveva tralasciato di rivelare alcune sue fantasiose supposizioni. Se non altro, però, fu in grado di rispondere a un interrogativo di Flavia rimasto insoluto, ovvero perché la prova fosse stata consegnata proprio a Bottardi. «Quando lui prestava servizio a Firenze, negli anni Sessanta, fu preso molto a benvolere da un magistrato, che era appunto Balesto, il quale, convinto che quel giovane agente fosse dotato di un fiuto straordinario, scrisse ad alcuni pezzi grossi della polizia, raccomandandolo. Ho trovato questa notizia nel rapporto sul furto a villa Buonaterra di cui ti ho parlato. Quell’intervento contribuì probabilmente parecchio alla futura carriera di Bottardi, che si sentì sempre in debito nei confronti di Balesto. Vuoi che andiamo a chiederglielo?»
«Sarebbe proprio il caso.» Flavia guardò fuori della finestra e sorrise. «Se quella gente mi lasciasse in pace, sarei in realtà ben felice di dimenticare l’intera vicenda. Vuoi sapere una cosa? Almeno per il momento, non mi importa un fico secco del primo ministro, o di quegli antichi delitti, o del motivo per cui è stato fatto sparire il dipinto del Lorenese. Sai cosa vorrei fare?» «No.» «Tinteggiare le pareti del nostro appartamento. È tutto il giorno che ci penso.» «Cosa?» «Già. È strano, non ti pare?» «Eccome. Ma, prima di tutto, non sarebbe meglio risolvere un paio di altre questioni? Per esempio quella relativa a come riuscire a rientrarci, nel nostro appartamento.» «Forse. Però sono quindici anni che lavoro come una matta senza concedermi mai una vera vacanza, e non desidero altro che rilassarmi e innaffiare le piante. O dedicarmi allo shopping. Invece sono costretta a contrastare il tentativo di estromettermi dal mio posto di lavoro, quindi non potrò fare nessuna di queste cose.» «Allora perché ti intestardisci invece di mollare tutto?» «Parli sul serio?» «Sì, certo.» «Cosa mi resterebbe? Cioè, potrei mettermi a fare la mamma, dedicando tutto il mio tempo al bambino, ma non voglio consacrarmi a questa occupazione. Inoltre, anche la più generosa buonuscita non dura per sempre. E, una volta finiti quei soldi, come sbarcheremmo il lunario?» Argyll ci pensò su. L’idea che Flavia dedicasse tutte le proprie notevoli energie e facoltà mentali solo a risolvere problemi di scarso interesse, come, per esempio, trovare i pannolini migliori, lo sconcertava. «Noi due potremmo lavorare insieme nella ricerca di opere d’arte rubate, che ne dici? Quelle sparizioni di cui nessuno parla perché i proprietari vogliono evitare la polizia. Potremmo prendere Bottardi come consulente...» «E magari anche Mary Verney», aggiunse Flavia con una punta di sarcasmo. «Devi ammettere che quella donna potrebbe essere molto utile. E ci faremmo pagare profumatamente dai clienti in cambio di un servizio efficace e soprattutto discreto.» «Sempre ammesso che si riesca a trovare i clienti e a fornire il servizio.» «Sarebbe tanto difficile?» «Sì. Sai, non credere che basti andare in giro a fare domande per far saltar fuori un dipinto dal cilindro. Senza fascicoli e un archivio, e senza i colleghi, non si va da nessuna parte.» «Ma stavolta non ce n’è stato bisogno.»
«Questo è un caso particolarissimo. E non credere che a me o a Bottardi sarà possibile sfruttare ancora per molto i nostri contatti per ottenere informazioni ufficiali. Nel momento stesso in cui esci dal gioco, perdi tutto. Quello che riuscirei a procurarmi, e questo vale anche per Bottardi, sarebbero soltanto le briciole.» «Era solo un’idea. Mi era venuta mentre stavo valutando l’ipotesi di trasferirci altrove.» «Cosa intendi dire? Perché dovremmo farlo?» «Pensa a un neonato e ai pannolini. Ti rendi conto di quanto spazio richiederanno? Il nostro appartamento è appena sufficiente a contenere noi due e non basterebbe ad accogliere vagonate di variopinti giocattoli di plastica e altri affari.» «Non possiamo permettercene uno più grande.» «Non se restiamo a Roma», ribatté Argyll meditabondo. «Non vorrai mica lasciare Roma? Non stai parlando seriamente, vero?» Se lui le avesse detto che intendeva arruolarsi nell’esercito, Flavia sarebbe rimasta meno stupita di quanto fosse in quel momento. Argyll la guardò mesto. «Non lo so», rispose sommessamente. «È solo che mi è venuta voglia di cambiare aria, credo.» «Allora, andiamo?» lo sollecitò Flavia, avendo deciso che era arrivato il momento di far sparire dal volto del marito quell’espressione sognante. «Dove?» «A chiedere a Bottardi tutto ciò che sa su questa storia.» «Eh? Oh, già. Sì, certo.» «Per inciso, tu non hai detto nulla sulla mia novità.» «No. Sono ancora sotto shock.» «Ma ne sei felice o no?» «Sì, sono felice», rispose cautamente Argyll, prima di gettare ogni reticenza alle ortiche. «Sono veramente entusiasta», aggiunse. «Sono al settimo cielo dalla gioia. Sono così contento che...» «Va bene, va bene», tagliò corto Flavia. Non era abituata a vedere Jonathan che dava pienamente sfogo alle proprie emozioni, e quello spettacolo la metteva un po’ a disagio. «Ora piantala. Ho solo voluto sapere come l’avevi presa. Muoviamoci.» Risalirono in macchina. Fu un viaggio silenzioso. Flavia stava quasi per appisolarsi e Argyll era intento a meditare sulle implicazioni di quella che Flavia aveva definito «la mia novità». Alla fine, senza alcun dubbio, avrebbe metabolizzato la cosa, ma al momento era ancora sotto shock. Chiunque altro dotato di buonsenso sarebbe certamente filato a dormire subito dopo essere arrivato, rimandando tutto all’indomani mattina, ma gli altri non erano stanchi, quindi Flavia cercò di stare sveglia il più possibile.
Perciò, dopo che Mary Verney ebbe acceso le lampade della veranda e fu andata a prendere una bottiglia d’acqua minerale per Flavia e una di grappa per sé e i due uomini, tutti e quattro si sedettero nella silenziosa aria notturna e presero a discorrere a bassa voce. Iniziò Flavia, elencando dapprima le peripezie dei giorni precedenti e comunicando per ultima il suo lieto annuncio, che, stranamente, finì invece per essere messo al posto d’onore, perché, in confronto, guai e tribolazioni sembravano cose di minore importanza. Poi affrontò l’argomento più scabroso. Tutto si rivelò straordinariamente semplice. Non appena lei ebbe concluso, Bottardi sorrise. «Hai fatto un ottimo lavoro. Avrei dovuto immaginare che saresti riuscita a capire tutto. È stato davvero stupido da parte mia non metterti subito al corrente.» «Perché non l’ha fatto? Questo suo modo di comportarsi mi è parso un po’ scorretto nei miei confronti.» «Non ti ho informata per lo stesso motivo per cui chi è vittima di un ricatto tiene la bocca chiusa. Sabbatini mi aveva fatto capire chiaramente che se la notizia fosse trapelata all’esterno, lui avrebbe bruciato il dipinto. Avendo letto il fascicolo che lo riguardava, sapevo che era un tipo tanto strampalato da fare una cosa simile. Perciò avevo deciso di stare al suo gioco finché non avessi recuperato il dipinto.» «E poi? Cosa avvenne?» «Circa una ventina di minuti dopo che tu eri venuta a riferirmi del tuo incontro con il presidente del Consiglio, fui chiamato al telefono da Sabbatini, il quale mi disse che voleva il pezzo di carta che Balesto mi aveva consegnato e che in cambio mi avrebbe dato il dipinto. E bando agli indugi, alle contrattazioni e alle concessioni. Un semplice scambio, altrimenti...» «Rimasi senza parole. Da una ventina d’anni non mi capitava di pensare a quella faccenda. Dopotutto, l’inchiesta di Balesto era stata condotta più o meno di nascosto; non mi aveva neanche detto che ci stava lavorando. Tutto ciò che sapevo era che mi aveva pregato di custodirgliela. Ai tempi Balesto era già un vecchio amico. Quando ero giovane, mi aveva preso in simpatia e in seguito eravamo sempre rimasti in contatto. Ogni volta che andavo a Firenze mi recavo a fargli visita, e lui veniva a trovare me se gli capitava di fare un salto a Roma. Una cosa che avveniva non più di una volta all’anno, o anche meno.» «Quando mi consegnò quella famosa busta, non mi spiegò cosa contenesse e io non glielo chiesi. Mi limitai a infilarla in un fascicolo e me ne dimenticai. Il che non è strano, anche se può sembrarlo: per me Balesto era un amico, perciò fui ben contento di fargli un favore, senza tentennamenti né curiosità. Per quanto mi riguardava, in quella busta poteva esserci qualsiasi cosa, magari una copia del suo testamento.»
«Dopo di allora non lo rividi più, anche se ci provai. Quando fu espulso dalla magistratura, gli scrissi esprimendogli la mia solidarietà, facendogli presente che non credevo minimamente alle accuse che gli erano state rivolte, ma non ebbi alcuna risposta. Una volta mi recai persino a casa sua, ma lui non volle vedermi. Aveva aperto un suo studio legale e trascorreva la vita, quel poco che gli restava, a difendere delinquenti da strapazzo o automobilisti che avevano violato i limiti di velocità. Non frequentava più nessuno, neppure i suoi vecchi amici, me compreso. Quell’atteggiamento scostante all’inizio mi ferì, ma alla fine me ne feci una ragione. Se non voleva vedermi, non potevo farci nulla.» «La lettera da lui scritta a Sabbatini fa intuire che erano state rivolte serie minacce alla sua famiglia.» «Davvero? Non è da escludere. Forse Balesto non voleva farsi vedere in mia compagnia perché lo riteneva un rischio per entrambi. In ogni caso mi ero completamente dimenticato di quella busta, che non mi sarebbe mai tornata in mente se quell’idiota di Sabbatini non avesse cominciato a minacciarmi. Date le circostanze, non c’era molto che potessi fare, se non prestarmi al suo gioco. Prima di consegnargli la busta, l’aprii, ovviamente, ma ciò che conteneva non mi disse nulla. Era semplicemente un estratto conto bancario.» «Di quale banca?» «Non ne ho idea. Era un istituto bancario che aveva sede in Belgio, e il conto era anonimo. Erano indicati svariati versamenti in un altro conto milanese, ma vi comparivano solo cifre, niente nomi. Un bel mucchio di soldi, calcolando che si trattava del 1981. Cinque versamenti da venticinquemila dollari l’uno, effettuati fra giugno e settembre. Come ho già detto, non ci capii nulla. Non riuscii neanche a spiegarmi perché Sabbatini ci tenesse tanto ad averlo. Ma se era quello il prezzo del riscatto del Lorenese, che se lo prendesse pure. Dopo aver fatto una fotocopia di quell’estratto conto, mi recai al luogo dell’appuntamento, che era stato fissato in una piazzola di una stradina di campagna, una trentina di chilometri a sud di Roma. Dovevo fermarmi in quel piccolo spiazzo, scendere dalla macchina e aspettare che arrivasse.» «Sabbatini, ovviamente, cercò di fare il furbo. Arrivò a bordo di un furgoncino bianco, si fermò e spalancò la portiera in modo che vedessi il dipinto che si trovava all’interno. Io gli mostrai l’estratto conto e dall’espressione di trionfo apparsa sul suo volto capii che era proprio ciò che si aspettava e che voleva a tutti i costi. Quando gli chiesi cosa significasse tutta quella storia, mi puntò contro una pistola e rispose che avrei saputo tutto il venerdì successivo. Poi ripartì a tutta velocità con la busta, il dipinto e le chiavi della mia auto.» Flavia scrollò il capo. «Un bello scherzo. Imbarazzante, per lei. Ma...»
«Come puoi immaginare, ci rimasi un po’ male», proseguì Bottardi con finta indifferenza. «E non soltanto perché non mi restava praticamente altro da fare che venire a confessarti quanto ero stato stupido. Decisi perciò di cercare prima di tutto un modo per correre ai ripari. Ovviamente non mi aspettavo di trovare Sabbatini a casa sua o nel suo studio, ma, siccome sono un tipo coscienzioso, e non sapendo da quale altra parte cominciare, mi recai al suo appartamento. Vidi che le luci all’interno erano accese, così mi fermai in strada ad aspettare che uscisse. Un’attesa che durò quasi quattro ore. E alla fine non fu Sabbatini a varcare il portone, ma un tipo basso e grassoccio, con un involto stretto sotto il braccio. L’uomo salì sul sedile posteriore di un’Alfa Romeo nera, che partì a tutta birra. L’oscura mano dello Stato, pensai, deducendone che la situazione fosse ormai probabilmente sotto controllo, cosa che placò in parte il senso di panico provato fino a quel momento, dopo di che mi avviai verso lo studio di Sabbatini.» «Lui non era neanche lì. Sapevo che avrebbe dovuto esibirsi, così, come ultima chance, raggiunsi la galleria in cui teneva il suo spettacolo, la sua performance, o quel che era. Trovai la porta sul retro aperta ed entrai: lui era sdraiato nella vasca piena di acqua e gesso non ancora rappreso. Morto stecchito. Ora, se ci pensi bene, è plausibile che chi ha compiuto un colpo come quello si precipiti a esibirsi in uno stupido spettacolo? Sospettai immediatamente che tra il tipo uscito dal suo appartamento e lui cadavere nella vasca ci fosse uno stretto legame e che lui fosse stato tenuto sott’acqua fino ad annegare.» «Ne discussi con Mary, avrei dovuto parlarne con te, mia cara, a quel punto, ma avevo pensato che tanto meno ne sapevi, tanto più al sicuro saresti stata, e decisi che la cosa migliore fosse quella di tenermi fuori dal gioco. Non stavo scherzando quando ti dissi che non volevo mettere a repentaglio il mio pensionamento, perché la situazione era piuttosto brutta. Poi saltò fuori la richiesta di riscatto. Al momento, a dir la verità, anche ora, non ci capii nulla, ma, se non altro, era tutto molto semplice. Mi preoccupai soltanto di impedire che tu fossi coinvolta in quello scambio, perché avresti potuto correre un rischio veramente grosso, così ti obbligai a restare in macchina. Se qualcuno doveva lasciarci la pelle a causa della mia stupidità, dovevo essere io. Il resto andò come hai immaginato, a parte il fatto che la persona che si fece consegnare il denaro non somigliava minimamente a Sabbatini. Ma non chiedermi che aspetto avesse, perché non riuscii a vederlo molto bene.» Flavia meditò su quella spiegazione, anche se in cima ai suoi pensieri c’era una gran voglia di bere un goccio di whisky e fumare una sigaretta. «Non è stata certo la sua impresa più gloriosa», commentò alla fine, un po’ seccamente.
Bottardi parve mortificato. «Elena Fortini è convinta che a ordinare di uccidere Maria Di Lanna sia stato Sabauda e che Sabbatini stesse cercando di dimostrarlo.» «E di renderlo clamorosamente noto bruciando il dipinto?» replicò Bottardi. «È possibile. Ritengo che non si sbagliasse nel pensare di aver bisogno di compiere un gesto eclatante per impedire che lo scandalo venisse insabbiato. Non gli sarebbe servito a nulla comunicarlo agli organi di stampa, perché questi non ne avrebbero fatto parola.» «Tutto questo però non spiega per quale motivo abbia scelto quel particolare dipinto», commentò stizzosamente Flavia. «È tanto importante?» «No. È solo un dettaglio. Però Sabbatini si è dato parecchio da fare per rubarlo, quando invece ci sarebbero stati modi molto più semplici per attirare l’attenzione, se era questo che voleva.» «Pensavo che, secondo te, quel dipinto nascondesse un significato», intervenne Argyll. «Evidentemente mi sbagliavo. Però c’è qualcosa che mi sfugge. La storia dei due personaggi mitologici raffigurati nel dipinto ha, tra l’altro, un lieto fine.» «Non è vero.» «Sì, invece. Me l’ha detto Macchioli.» «Quella è la versione edulcorata che fu adottata durante il Rinascimento, quando tutto doveva concludersi nel migliore dei modi. Ho fatto qualche ricerca in proposito. Nella stesura originaria, la povera Procri veniva trafitta dalla freccia magica di Cefalo e tirava le cuoia, senza che nessuna dea accorresse a riportarla in vita.» «E allora?» «Allora niente. Te l’ho detto solo per dimostrare quanto io sia abile nelle ricerche. Dopotutto hai sempre sostenuto che Sabbatini fosse un tipo a corto di idee.» Bottardi si sarebbe spazientito per la piega che aveva preso la conversazione se la tiepida aria della sera e l’illuminazione soffusa della veranda non avessero favorito l’insorgere in lui e negli altri tre di un umore sorprendentemente sereno. Quattro persone che si conoscevano intimamente, intente a godersi una rilassante serata, chiacchierando e mantenendo un tono di voce basso, come capita sempre quando la luce che sta svanendo crea striature di un azzurro tendente al rosa e il silenzio della campagna è rotto solo dal frinire delle cicale fra gli alberi. «Quanto a Sabauda, non so cosa dire. Si è sempre saputo che i servizi segreti usavano modi altrettanto violenti di quelli dei terroristi, ma da qui ad affermare che agivano in base a precise direttive ce ne corre. E non riesco a capire cosa c’entri l’estratto conto con tutto ciò. Forse la spiegazione è nel
rapporto di Balesto, che però non abbiamo. Disponiamo solo di una fotocopia dell’estratto conto...» Bottardi si interruppe, distratto da un rumore che diventava sempre più forte. Una fastidiosa serie di tonfi e stridori metallici indicava che qualcuno stava malamente guidando un’auto, lungo l’irregolare e ghiaioso viottolo che portava alla casa. Lanciò un’occhiata a Mary, che si strinse nelle spalle. Non aspettava nessuno. Qualche attimo dopo apparve una vecchia e scoppiettante Fiat rossa, che si fermò di fronte alla casa con il piccolo motore che ansimava per la fatica. Il guidatore lo spense, rendendo l’improvviso silenzio ancora più sorprendente, e smontò, sbattendo rabbiosamente la portiera. «Oh, santo cielo, è Bossoni!» esclamò Flavia, lanciando uno sguardo in tralice a quella sagoma debolmente illuminata dalle lampade della veranda. Era stata l’aria della sera, pensò in seguito, a far sì che lei provasse solo una lieve irritazione per l’inaspettato arrivo di quello sgradito ospite. Un estraneo, un intruso venuto a intromettersi nella loro conversazione. «Chi?» «Giornalista e informatore della polizia», rispose, mentre Bossoni, madido di sudore e, a giudicare dal modo in cui si muoveva, in preda a uno scatto d’ira, girava attorno all’auto per controllare in quella pallida luce il parafango brutalmente ammaccato da un grosso sasso contro cui aveva sbattuto a metà del viottolo. «Non so quale delle due cose sia peggio.» Dopo aver sferrato un calcio alla piccola utilitaria, il giornalista si girò verso la casa e si avviò a passi decisi in direzione dei quattro. «Dovreste tenerlo meglio, quel vialetto», sbraitò rabbiosamente quando distava ancora una trentina di metri. «È un viottolo, non un vialetto», commentò dolcemente Mary Verney. «Dove crede di trovarsi, nella periferia milanese?» Bossoni sbuffò. «Be’, se non altro la macchina non ha tirato le cuoia.» «Buonasera», lo salutò Flavia. «Cosa fa da queste parti? Com’è riuscito a trovarci?» «Oh, è stato abbastanza facile. Tenevo sotto controllo il suo cellulare e ho intercettato la telefonata che le ha fatto suo marito. Sa, ho utilizzato uno di quei piccoli congegni che ormai si trovano in ogni negozio di elettronica. Aggeggi che fanno miracoli.» «Capisco. Ma cos’è venuto a cercare?» «Be’, due cose. Anzitutto Elena Fortini, e mi stavo chiedendo se lei sapesse dove trovarla.» «Mi era parso di capire che volesse starle alla larga, o sbaglio?» ribatté Flavia, notando che il perenne velo di sudore sulla fronte di Bossoni scintillava alla luce delle lampade, conferendogli un aspetto lugubre. «Ho cambiato idea.»
«Non so dove si trovi. Aveva intenzione di sparire. A quanto pare, non ha perso tempo.» «Maledizione.» «Posso chiederle per quale motivo la sta cercando?» Bossoni assunse un’espressione leggermente imbarazzata mentre estraeva da una tasca una pistola, poi fissò l’arma con aria perplessa, quasi si stesse chiedendo come fosse finita lì. «Mi ero più o meno ripromesso di ucciderla», rispose, abbassando la voce fino a ridurla a un sussurro, come se fosse riluttante a disturbare la quiete della campagna. «Proprio come ho deciso di far fuori voi quattro. Mi dispiace.» Puntò l’arma verso Flavia. «Aspetti un attimo», intervenne Mary Verney, con quel tono di voce mellifluo che Argyll aveva imparato a riconoscere, perché era quello che lei usava quando stava per compiere qualche misfatto. «Può spiegarmi qual è il preciso motivo per cui intende ucciderci? Sa, non è molto gentile da parte sua.» Bossoni sembrò esitare, poi evidentemente decise che non avrebbe fatto differenza. «Voglio assicurarmi che alcuni fatti non diventino di pubblico dominio. In altre parole, intendo far sparire certi documenti che devono restare segreti e avere l’assoluta certezza che chiunque sia al corrente della loro esistenza non possa più aprire bocca. Questa spiegazione la soddisfa?» rispose con un sorriso contrito. «Oh, santo cielo», ribatté Mary Verney, torcendosi le mani. «Mi dispiace, ma ciò che lei ha appena detto mi sembra insensato. E le assicuro, giovanotto, che può fare benissimo a meno di ucciderci. Ne conviene, Jonathan?» «Sono d’accordo con lei», rispose Argyll, dopo aver indugiato a valutare obiettivamente la situazione. «Io invece no», disse Bossoni, sempre a voce bassa. Forse era l’oscurità, o forse la pistola, a renderlo così calmo. «Non voglio che un documento in cui mi si accusa di aver ucciso quella donna finisca nelle mani sbagliate.» «Ma noi non abbiamo nulla», intervenne Flavia. «Lo so», replicò Bossoni, quasi in tono di scusa. «Ho avuto da Sabbatini tutto ciò che cercavo. Però voi siete al corrente di questa storia. Quindi...» Flavia lo fissò. «È stato lei a ucciderla? Quella povera donna?» «Sì.» «Perché?» «Perché mi è stato intimato di eliminarla. E io obbedisco agli ordini. Ho fatto lo stesso con Sabbatini. Ma adesso ritengo che, una volta tanto, tocchi a me prendere in pugno la situazione.» «Chi le aveva dato l’ordine?» Il giornalista scosse la testa. «Mi dispiace, ma non glielo posso dire.» «Ma non c’è un modo per convincerla a rinunciare a questa follia e
andarsene?» chiese Mary. «Ne dubito.» «Guardi qui», ribatté Mary, con voce diventata improvvisamente stridula, mentre sollevava da terra una valigetta marrone, cosa che indusse Bossoni a puntarle contro la pistola. «La prego, non lo faccia. Potrebbe pentirsene, in seguito. Lo so per certo. Qui dentro, sa, c’è parecchio denaro. Il generale stamattina ha ritirato tutto ciò che aveva in banca. Lei se lo può prendere tutto. Sono i soldi di due mesi di pensione...» Bossoni parve stancarsi di quell’insensato tira e molla. Dopo aver controllato meticolosamente la pistola che impugnava, si spostò dietro la sedia su cui stava Argyll e gli puntò l’arma alla testa. Dire che Argyll si spaventò sarebbe un eufemismo. Chiuse gli occhi, sforzandosi di tenere sotto controllo il panico che l’attanagliava. Ma quando li riaprì e fissò Mary Verney, si sentì di colpo stranamente rassicurato. A rincuorarlo fu lo sguardo di lei, attento, indagatore, penetrante. E fu anche la consapevolezza che dietro quel suo frenetico agitarsi e balbettare frasi sconnesse, oh, attenzione, l’arma potrebbe essere carica, c’era una perfetta padronanza della situazione. Padronanza che, purtroppo, Argyll non aveva, ragion per cui non riuscì completamente a rilassarsi. «Sta’ fermo», intimò Bossoni. «Stia attento, giovanotto», seguitò Mary, farfugliando come tendono a fare le anziane signore che per la prima volta sperimentano cosa voglia dire trovarsi in pericolo. «Sa, basta un nonnulla e si verifica un incidente. Ricordo ancora quanto capitò a mio cugino Charles mentre puliva la sua Purdey. Fu nel 1953... No, mi sbaglio, doveva essere il 1954...» «Chiuda il becco, vecchia stupida», proruppe Bossoni, ma, nel dirlo, allontanò la pistola dalla testa di Argyll e, per enfatizzare quell’ordine, la puntò verso Mary Verney, la quale si lasciò sfuggire un grido di terrore e fece cadere a terra la valigetta, poi, agitatissima, si chinò verso il pavimento e iniziò a raccogliere quanto vi si era sparso, spiegando tra infiniti balbettii che le carte del generale non potevano andare disperse, perché lui era un uomo così importante, davvero molto importante... La pazienza di Bossoni era evidentemente giunta al culmine. Il giornalista fece due passi verso l’anziana donna, ma non riuscì ad avanzare ulteriormente perché Mary Verney sollevò lo sguardo, prese scrupolosamente la mira e, con la pistola che aveva estratto dalla valigetta di Bottardi, gli sparò tre pallottole in pieno petto. Il fragore fu spaventoso quanto l’effetto prodotto dal colpo. L’impatto delle pallottole sollevò Bossoni da terra e lo fece precipitare di spalle addosso ad Argyll, il quale lanciò uno strillo di terrore e prese a divincolarsi per tentare di scrollarselo di dosso, perché l’odore che emanava dal corpo era orrendo, ma ancora più raccapricciante era il suo aspetto, poi, quando finalmente
riuscì a liberarsi, si accucciò sotto il tavolo e restò lì per un po’, prima di tornare a guardarsi attorno. Mentre le cicale continuavano a frinire, la luce delle lampade sulla veranda si rifletteva ancora pacificamente sui bicchieri pieni di vino rosso e faceva brillare le dense pozze di sangue che iniziavano a rapprendersi, uno spettacolo che fece venire in mente ad Argyll, in modo quasi irriverente, un dipinto da lui visto qualche tempo prima, raffigurante il martirio di santa Caterina sulla ruota, di un pittore veneto. Le stesse tinte forti, marcate, che contraddistinguevano gli artisti veneti. Era di Giorgione quel dipinto? Forse no. Argyll non riusciva a ricordare di chi fosse, ma poi rammentò che non aveva alcuna importanza in quel contesto. Né Flavia né Bottardi si erano mossi. Erano rimasti seduti dov’erano e si limitavano a fissare la scena, senza aprire bocca. Dopotutto, c’era ben poco da dire. In un momento come quello, esclamazioni tipo «Santo cielo!» o «Mio Dio!» sarebbero state assolutamente incongrue, così come strilli o gemiti, ormai decisamente inutili. Anche perché, fatta eccezione per il cadavere riverso sulla sedia di Argyll, per le macchie di sangue sul pavimento, per quell’odore di morte e per Mary Verney che, ancora seduta al suo posto, con la pistola sempre stretta in pugno, osservava freddamente ciò che aveva appena compiuto, tutto era perfettamente normale. «Perché l’ha fatto?» Argyll riuscì finalmente a chiederle, dopo averla vista alzarsi e avvicinarsi a Bossoni per sentirgli il polso e frugargli nelle tasche. «Dove ha trovato quell’arma?» «Questa?» replicò Mary Verney. «Oh, è di Taddeo. Quando è andato in pensione, si è dimenticato di restituirla. Una bella imprudenza, da parte sua, lasciarla carica. Anche se, date le circostanze, credo che per una volta gliela si possa perdonare. Ci vuole un sorso di grappa, direi.» Dimostrava una calma eccezionale, che dava un po’ i brividi. Versò da bere con mano ferma, notò Argyll, che non riusciva quasi a reggere il bicchiere, tanto le sue gli tremavano. Ecco il motivo per cui Mary era una ladra così abile, si disse il giovane, mentre lui non sarebbe stato in grado neanche di rubare un uovo a una gallina. Quell’anziana donna gli sembrava ancora più inquietante di Bossoni. «Sa, ci avrebbe ucciso tutti», disse Mary, a mo’ di rassicurazione. «Non creda che stesse scherzando. O che noi saremmo riusciti a convincerlo a parole che non era il caso di farci fuori. Si trattava soltanto di decidere se toccava a noi morire o a lui.» «Ma doveva proprio ucciderlo?» «Cosa avrei dovuto fare? Fargli saltare di mano la pistola? La mia vista è così scarsa che sono stata fortunata a colpirlo. Non ho molta pratica in questo genere di cose, sa.» «E adesso cosa facciamo?» Forse era colpa dello shock se Argyll continuava
a fare domande sciocche. Lei ci pensò un attimo. «Abbiamo due possibilità. O ci sbarazziamo del cadavere...» «Oppure?» Argyll stava facendo sempre più la figura dell’idiota. «Oppure chiamiamo la polizia.» «E se ci fosse qualche suo complice, sulla strada, ad aspettarlo?» «In tal caso saremmo nei guai. Avevo dato per scontato che fosse solo. E, a pensarci bene, non può che essere così. Il comportamento di Bossoni era sotto tutti i punti di vista quello di un uomo che agisce per proprio conto. Il suo era un piano affrettato, malamente concepito. Un criminale con un minimo di professionalità non va in giro a uccidere le persone in questo modo.» Argyll scosse la testa. La situazione era un po’ troppo assurda per i suoi gusti. Eccola qui, una sessantenne dai capelli grigi raccolti in una crocchia, pistola alla mano, che discuteva di uccidere la gente come se si trattasse di cuocere una crostata di frutta. «Ritengo che, date le circostanze, chiamare adesso la polizia sia imprudente», intervenne Bottardi, a voce bassa, riscuotendosi finalmente dallo shock. «Sarebbe meglio, prima, sistemare un paio di cose.» «Quali?» chiese rabbiosamente Argyll. Doveva essere proprio lui l’unico dei presenti a mostrare qualche segno di allarme o di inquietudine per quanto era appena accaduto? Il solo a pensare che la presenza, su quella veranda, di un corpo insanguinato fosse una cosa leggermente fuori dell’ordinario? «Credo che dovremmo assicurarci che questo fatto non si ripeta», rispose Bottardi. «Che ne dici, Flavia?» Lei assentì e si alzò in piedi, un po’ imbambolata. «Sì», disse. «Andiamo?» «Dove?» chiese Argyll. «A Roma. A chiarire le cose», gli rispose Flavia. «A parlare con Di Lanna. È l’unico ad avere sufficiente potere per fare qualcosa. In realtà, dovremo cercare di ottenere la sua protezione e spero sinceramente che non ce la neghi. Ma se gli riveliamo chi è stato a uccidere sua moglie, non potrà non sentirsi in debito nei nostri confronti. Mi dispiace soltanto che non ci sia una prova inconfutabile da mostrargli.» «Fermi un attimo», sbottò Argyll, un po’ petulante. «E di lui che facciamo?» Indicò il cadavere. «Non possiamo lasciarlo qui.» Bottardi assunse un’aria pensierosa. «No. Dovrai spostarlo tu.» «Io? Perché proprio io?» «Non pretenderai che ci pensi Mary, vero? Non è abbastanza forte. E non fare quella faccia. Se non fosse stato per lei, a quest’ora saresti morto.» «E ora», disse Mary Verney, dopo che avevano visto le luci posteriori dell’auto di Bottardi sparire dal viottolo, quando il generale e Flavia erano
partiti per Roma, «potrebbe essere tanto cortese, Jonathan, da rimuovere quel cadavere dalla mia veranda?» Argyll, che trovava leggermente disgustosa la disinvoltura dell’anziana donna, la fulminò con lo sguardo. «No», rispose. La sensazione di essere l’unica persona normale rimasta al mondo cominciava a dargli molto fastidio. «Oh, ma deve farlo. Ha sentito cos’ha detto il generale. Io da sola non ci riuscirei mai. E se nel frattempo arrivasse la polizia? O magari il droghiere? Cosa succederebbe?» «Non me ne importa un fico secco. Lo toglierò di torno solo dopo che lei mi avrà spiegato tutto con la massima sincerità. So che è incline a mentire, ma ci provi, si sforzi, almeno per una volta. Altrimenti dovrà tenersi il signor Bossoni sulla veranda per tutta la prossima settimana.» «Che tono minaccioso... E anche un po’ offensivo. Io cerco sempre di essere sincera. Quasi sempre, almeno. Cosa vuole sapere esattamente?» «Dov’è il denaro?» «Quale denaro?» «I tre milioni di dollari.» «Oh. Quel denaro.» «Sì, proprio quello.» Mary lo fissò, esitò un attimo, poi si lasciò sfuggire un profondo sospiro. «È in Svizzera. Ce l’ho portato lunedì scorso. L’ho versato su un conto corrente.» «Intestato a lei?» «Be’, sì. Visto che me lo chiede, sì, l’ho versato sul mio conto.» Siccome lei non proseguiva, Argyll la sollecitò. «E com’è riuscita ad averlo?» «Le risponderò, visto che non la smette di fare il ficcanaso», ribatté Mary. «È stato semplicissimo. Taddeo mi aveva parlato dell’incontro che stava per avere e io ero preoccupata per lui. Così l’ho seguito, di nascosto, con la mia piccola auto, e ho visto tutto: dall’arrivo di Sabbatini nella piazzola alla sua fuga con il dipinto ancora a bordo del furgoncino. Questo l’ho capito da come Taddeo si agitava furibondo. Allora ho seguito Sabbatini, tenendomi a debita distanza, per non essere notata, finché lui non si è fermato in una stazione di servizio. Ha mai fatto caso che, una volta smaltita l’adrenalina, voi uomini dovete correre in bagno?» Argyll replicò che la sua vita era fortunatamente priva, per lo più, di episodi emozionanti. Anche se, ora che glielo faceva notare... Sparì in casa per qualche istante, poi ricomparve. «Cosa stava dicendo?» Mary infatti non sembrava disposta a fornirgli volontariamente alcuna informazione se lui non gliela cavava di bocca. «Be’, per Sabbatini era così. Corse in bagno a tutta velocità e, mentre era via, mi impadronii del suo furgoncino», riprese l’anziana donna, con un sorriso.
Argyll la guardò aggrottando la fronte. «Come se niente fosse?» esclamò. «Più o meno. Cioè, lui aveva portato via le chiavi, ma il suo era un vecchio trabiccolo e non ci misi molto a rubarlo. Tutto qui. Semplicissimo davvero.» «Dopo di che lei ha abbindolato il generale facendogli credere...» «Santo cielo, no.» Argyll la fissò per qualche istante prima di comprendere. «No?» esclamò. «Intende dire che lo ha messo al corrente di tutto? E che lui ha deciso di non restituire il denaro? Dopo tutta un’esistenza all’insegna dell’onestà, ha scelto di infrangere la legge?» Mary Verney sembrò allibita. «Non dica sciocchezze», replicò. «Ci siamo trovati in una situazione molto imbarazzante. Chi può volere tre milioni di dollari? Ha idea di quanto sia difficile gestire una simile quantità di denaro sporco?» Argyll rispose che non ne aveva la minima idea. «È una seccatura. E io, grazie tante, ho denaro più che a sufficienza. Quanto a Taddeo, è un tipo di poche pretese, fatta eccezione per i ristoranti. No. Abbiamo tenuto il denaro perché non sapevamo che cos’altro farne. Sabbatini era stato ucciso e i servizi segreti avevano perquisito il suo appartamento. Taddeo aveva capito che questo doveva avere qualcosa a che fare con la storia della Di Lanna e, molto semplicemente, non voleva restarci immischiato. Può biasimarlo, alla luce di quanto è appena accaduto qui? Se di punto in bianco avesse tirato fuori il dipinto, sarebbe stato costretto a spiegare come l’aveva avuto. Abbiamo ritenuto che fosse molto meglio convincere tutti che il dipinto era stato rubato per ottenere in cambio una bella somma, inventando un presunto complice di Sabbatini e restando il più possibile nell’ombra. In quel momento, in mancanza di meglio, ci era sembrata la soluzione più accettabile.» «Uno di voi due avrebbe dovuto dirlo a Flavia.» «Sarebbe stata obbligata a fare qualcosa. Taddeo si è sforzato di tenerla fuori da questa storia, ordinandole di lasciare a lui il caso. Se Flavia avesse obbedito e si fosse tirata da parte, come le avevano detto sia il generale, sia il primo ministro, sia Di Lanna e, immagino, anche lei, Jonathan, tutto si sarebbe concluso nel migliore dei modi. Invece adesso ci troviamo in un bel guaio.» «Non può certo darne la colpa a Flavia!» «Non sto accusando nessuno. So soltanto che se Taddeo si fosse fatto avanti, con il dipinto in mano, quella gente gli avrebbe chiesto come fosse riuscito a recuperarlo.» «Lei avrebbe potuto ritrovarlo in un fosso. Non sarebbe stata la prima volta.» «Non dica sciocchezze. Non ce la saremmo cavata, stavolta. Già nell’altra
occasione ne eravamo usciti per il rotto della cuffia. Ora, per favore, non potrebbe togliere di mezzo quel cadavere?» «Aspetti un attimo», rispose Argyll severo. «Prima non stavo alludendo alla settimana scorsa. Quando le ho chiesto perché non l’avete detto a Flavia, intendevo stasera. Come mai siete rimasti zitti?» Osservò attentamente il viso dell’anziana donna. «Avete intenzione di tenervi quel denaro, giusto?» aggiunse in tono accusatorio. Se non altro, Mary Verney ebbe il buonsenso di mostrarsi imbarazzata. «Dopo quarant’anni di impeccabile e leggendaria onestà, Bottardi la incontra di nuovo e, in poche settimane, taglia la corda con tre milioni di dollari nascosti nei pantaloni.» Scrollò il capo. «Lei è davvero una combinaguai.» «Non è il momento di preoccuparci del denaro», replicò la donna, indicando ancora una volta il corpo di Bossoni. «No, il momento è proprio questo.» «Perché?» «Perché lei, stando a quel che mi ha appena detto, possiede già più denaro di quanto le serva, mentre Flavia ha perso il lavoro proprio grazie a voi due vecchi delinquenti. E se non vi fosse venuta la disonorevole idea di tenervi tutto, non avreste avuto motivo di non parlarne a Flavia. Invece avete sempre tenuto la bocca ermeticamente chiusa. Anzi, Bottardi aveva detto a Flavia una bugia bella e buona, sostenendo di aver consegnato il denaro a un uomo dal viso nascosto da un passamontagna.» «Occhiali da sciatore», lo corresse lei. «Qualunque cosa fosse, Bottardi ha mentito, il che la dice lunga.» Mary Verney abbozzò una smorfia, come chi sta per spiegare qualcosa di molto semplice a un idiota. «Jonathan, cosa avremmo dovuto farne? Restituirlo sarebbe stato solo uno spreco. Dopotutto, quei soldi erano la ricompensa destinata a chi avesse riportato il dipinto, cosa che noi abbiamo fatto. L’ho recuperato io. E, come lei ben sa, non lavoro gratis.» «E Bottardi era d’accordo?» «Dopo che me lo sono lavorato un po’, sì. È incredibile quale effetto faccia il pensionamento anche sul più integerrimo degli uomini.» «Be’, non intendo essere io a riferire a Flavia questa storia.» «Mi auguro che non tocchi a me. Flavia andrà su tutte le furie e molto probabilmente non capirà.» «Ma il silenzio, come dice il proverbio, è d’oro. Perciò dovremo trovare il modo di venirci reciprocamente incontro.» Mary Verney lo scrutò attentamente. «Caspita!» esclamò. «Non mi aspettavo un simile ricatto da un tranquillo e inoffensivo studioso come lei.» «Chi va con lo zoppo impara a zoppicare», ribatté Argyll. «E lei ha una
pessima influenza. Inoltre, come saprà benissimo, tutti noi discendiamo da gente che per sopravvivere era costretta a cacciare e a cibarsi di radici.» «Va bene», ribatté Mary con un sospiro. «Affare fatto. Per quanto riguarda i dettagli, potremo discuterne in seguito, se è d’accordo. O nutre nei miei confronti una così scarsa fiducia?» «Neanche per sogno. Ora pensiamo al cadavere...» Dopo un attimo di esitazione risalirono sulla veranda e fissarono il corpo di Bossoni disteso sul pavimento. Poi Mary andò in casa a prendere un telone impermeabile in cui, con aria profondamente disgustata, lei e Argyll avvolsero la salma, che trascinarono lentamente verso l’auto del giornalista. «Suppongo che sia meglio metterlo nel portabagagli», disse Argyll con calma. È incredibile la velocità con cui ci si adegua alle situazioni più estreme. «È così che fate normalmente voialtri, non è vero?» «Cosa intende con ’voialtri’? Guardi che non è mia abitudine fare queste cose.» «Non si sa mai.» Argyll aprì il portabagagli e alla luce di una torcia elettrica esaminò l’interno. A parte i soliti attrezzi, scorse un mucchio di fogli sparsi, alcuni sacchetti alimentari e dei giornali. Stava spostando di lato tutta quella roba per fare spazio al cadavere quando notò la spessa busta marrone. La fissò, rifletté, poi la sollevò e ne sbirciò il contenuto. Di colpo cominciò a capire cosa fosse. Con mani tremanti scosse la busta finché da questa non uscì qualcos’altro. Un fascicolo di cui sollevò la copertina e lesse: «Rapporto sull’omicidio della signora Maria Di Lanna, verificatosi nel maggio... » «Oh, mio Dio», proruppe. «L’ha tenuto per tutto il tempo nella sua auto. Non l’ha consegnato a chi di dovere. Intendeva servirsene lui personalmente.» Dimenticandosi quasi del cadavere, che stava appoggiato contro la fiancata della macchina come se stesse facendo un sonnellino, Mary Verney e Argyll si sedettero per terra, a leggere alla luce dei fari della Fiat. E, via via che le parole scorrevano sotto i loro occhi, Argyll sentì che il sangue gli si ghiacciava nelle vene e avvertì di nuovo una sensazione di panico molto più violenta della precedente. «Cristo, Flavia sta per cadere in una trappola mortale», bisbigliò quando finì di leggere le conclusioni a cui era giunto il magistrato. Rientrò di corsa in casa, afferrò il telefono e digitò il numero del cellulare di Flavia. Qualche istante dopo, dalla borsa che Flavia aveva dimenticato sul tavolo della veranda si levò un ronzio. Argyll fissò la borsa, atterrito. «Prenda la sua auto e si precipiti a Roma. Rintracci Flavia e Bottardi. Se la fortuna l’assiste, arriverà in tempo. Se non dovesse trovarli di persona, li metta sull’avviso e faccia in modo che stiano alla larga da quell’uomo.»
Argyll la fissò. «Ma...» «Ci penserò io a togliere di mezzo il cadavere. A una cinquantina di chilometri da qui c’è un bel bosco. Poi pulirò da cima a fondo la veranda. Su, Jonathan. Si sbrighi.»
19 Quanto più si avvicinava a Roma, tanto più Flavia diventava nervosa, talmente nervosa che finì per non accorgersi più dell’ormai consueto mal d’auto di cui soffriva. Lo shock per la sanguinosa morte di Bossoni cominciava a fare effetto; lei si sentiva raggelata, tremante e come intontita. Si guardava continuamente attorno per vedere se qualcuno li stesse seguendo, scrutava ogni agente della polizia stradale per accertarsi che non desse il minimo segno di allerta nello scorgere l’auto di Bottardi o il volto della passeggera. Peggio ancora, il suo umore contagiò quello del generale a tal punto da indurlo a fare una deviazione per passare davanti all’ingresso della casa di Flavia. Dopo aver rallentato di quel tanto che bastava a verificare che la Fiat nera fosse ancora parcheggiata in strada, con due uomini strategicamente posizionati davanti e dietro, Bottardi emise un grugnito, perché non c’era bisogno di fare ulteriori commenti. A quel punto lui si diresse verso il proprio appartamento. Un’altra auto nera, altre due paia di occhi vigili. «Maledizione!» esclamò Flavia. «Anche casa sua, generale, sarà stata perquisita.» «In tal caso ho fatto bene a non dare una pulita prima di andarmene», replicò Bottardi, perfettamente calmo. Rimise in moto l’auto, che aveva fermato per guardare meglio, svoltò bruscamente a destra e filò via il più discretamente possibile. «Temo che l’abbiano vista», commentò Flavia. «Io lo so per certo», replicò Bottardi, «però conosco questa zona della città molto meglio di loro, ci scommetto. Mai sopravvalutare l’intelligenza di quei tipi.» Non era detto che avesse ragione, ma neanche che fosse stato troppo ottimista. In ogni caso Flavia non notò auto che li pedinassero. Quando Bottardi raggiunse un quartiere residenziale alle spalle del Vaticano, rimasero tutti e due seduti in macchina ad attendere che spuntasse il giorno. Per tutto il tempo non aprirono bocca; solo Bottardi, che aveva l’aria preoccupata, si girò a un certo punto verso Flavia per dirle qualcosa, ma lei si era addormentata pacificamente. Lui, fissandola con un affetto misto a rimpianto, la lasciò tranquilla, senza però riuscire a prendere sonno. Non appena i primi bar iniziarono finalmente ad aprire i battenti, Bottardi la svegliò e andarono insieme a bere un caffè e mangiare qualcosa. Per svegliarsi del tutto Flavia cercò anche di lavarsi un po’, alla maniera dei gatti. Poi rimontarono in macchina e Bottardi si diresse verso il Colosseo, parcheggiando in una stradina laterale. Si incamminarono verso la stazione della metropolitana, entrando da una parte e uscendo subito da quella
opposta, e montarono sul primo autobus di passaggio. Scesero nei pressi del Campidoglio e si mischiarono alla calca dei turisti, infilandosi nel Foro romano che era stato appena aperto. Gironzolarono fra le rovine finché non trovarono un mucchio di vecchie pietre un po’ in disparte e poterono finalmente sedersi e parlare, mentre tutt’intorno a loro i turisti mattinieri trottavano di qua e di là, scattando fotografi e, sfogliando guide e consultandone le piantine con aria concentrata, continuando a girare lo sguardo da queste ai monumenti e viceversa nel tentativo di capire cosa avessero davanti. «Non abbiamo una mano di carte tale da garantirci di vincere la partita, non le pare?» esordì Flavia. «Non possiamo esibire né il rapporto del magistrato né la famosa prova. Presumibilmente se li è presi entrambi Bossoni. Ciò di cui disponiamo è una fotocopia che vale ben poco. Mi chiedo cosa possiamo fare.» Bottardi assentì. «È vero. E contro di noi sembrano esserci come minimo qualche frangia deviata dei servizi segreti e un primo ministro con l’acqua alla gola. Quanto a questo abbiamo le mani legate: non c’è alcuna probabilità che i torti vengano riparati o che giustizia venga fatta. Almeno credo. Ciò che possiamo fare è assicurarci l’immunità. E Di Lanna è l’unica persona in grado di aiutarci.» Si lasciò sfuggire un sospiro. «Puoi sempre offrirgli in cambio la restituzione del suo denaro», aggiunse con aria mesta. «Questo potrebbe servirci.» Flavia lo fissò. «Ma noi non l’abbiamo», puntualizzò. «Be’...» iniziò Bottardi. «E in ogni caso questo non ha importanza», lo interruppe lei. «Se anche l’avessimo, non capisco perché diavolo dovremmo restituire qualcosa a qualcuno.» «Come, scusa?» «Quando è troppo, è troppo. No, se riusciamo a mettere le mani su quel denaro, ce lo teniamo. Noi quattro potremmo averne proprio bisogno, diversamente da Di Lanna che già sguazza nell’oro, perché rischiamo di dover rispondere di una serie infinita di infrazioni alla legge, in modo particolare ora che Bossoni è morto. Mi dispiace dirlo, ma, se questo tentativo dovesse andare a vuoto, saremo probabilmente costretti a nasconderci almeno per un po’. Non mi interessa constatare fino a che punto può arrivare Sabauda pur di restare in sella.» «Stai cominciando a parlare come Mary.» «Alle spalle di uomini idealisti c’è sempre una donna saggia. Ma non lo dica a Jonathan. Lui ne sarebbe sgomento.» Flavia scrollò la testa, con aria incredula. «Una settimana fa ero a capo di una squadra che lavora per recuperare le opere d’arte rubate, come lei ben sa», disse, «e ora me ne sto seduta su una pietra a discutere su come tagliare la corda con una valigia
piena di denaro sporco. Cos’è successo?» «Tutta colpa dei primi ministri», commentò Bottardi. «Non puoi dire che non ti avessi avvisata.» Rimasero seduti un’altra mezz’ora, se non più, a valutare diverse vie d’uscita, come per esempio rivolgersi a un magistrato o contattare un giornalista («A che pro?» chiese Bottardi), ma non cavarono un ragno dal buco. Così decisero di attenersi al piano iniziale. Si alzarono e per un attimo si fissarono negli occhi. «Buona fortuna», disse Bottardi a bassa voce. «Ne avrai bisogno. Sei sicura di non volere che ti accompagni?» Flavia scosse la testa. «No, preferisco andare da sola. Lo conosco e fra noi due c’è stata una buona intesa.» Abbozzò un sorriso. «Sa, c’è un’unica cosa che mi piacerebbe fare: ritinteggiare la cucina.» Anche Bottardi sorrise. «E io godermi una lunga e tranquilla vita da pensionato. Mi dispiace di averti coinvolta in questa brutta storia.» «A me dispiace di non essermene tenuta alla larga. Avrei dovuto darle retta quando mi diceva che i primi ministri ti possono rovinare l’esistenza, ma non avevo capito di dover prendere le sue parole alla lettera.» Poi gli diede un rapido bacio sulla guancia e si incamminò. Da quel momento in poi, il più grosso problema per Flavia consistette nel tenere a bada i nervi. Era infatti convinta che qualcuno potesse di punto in bianco fare capolino da dietro un lampione e spararle. In realtà, tutto filò perfettamente liscio. Dopo essersi parzialmente nascosto il viso sotto un cappello comprato a una bancarella che vendeva souvenir ai turisti, si avviò verso Montecitorio. Nessuno sembrò prestarle la minima attenzione. Giunta davanti al palazzo che ospitava la Camera dei deputati, si infilò in un gruppo di turisti ed entrò nell’edificio senza che le venisse chiesto di esibire un documento d’identità. Una mancata applicazione delle misure di sicurezza che lei trovò più che sconcertante. Anche quando si incamminò negli squallidi corridoi che portavano all’ufficio dell’onorevole Di Lanna, nessuno le chiese il motivo per cui si trovasse lì o si limitò anche solo a seguirla con sguardo sospettoso. Ma, quando era ormai sul punto di raggiungere la relativa sicurezza dell’ufficio a cui era diretta, Flavia ebbe un attimo di esitazione e seguitò a camminare finché non trovò una piccola panca su cui sedersi. Aveva l’affanno, la tachicardia, e fu costretta a farsi forza per vincere l’ansia che si era impadronita di lei. Si era improvvisamente ricordata di qualcosa che Argyll le aveva detto. Ma cosa, esattamente? Un commento sullo stile di un artista che ne nasconderebbe un altro. Ma in quale contesto? Quella sorta di esame a cui Bulovius l’aveva sottoposto. E allora? Come mai non riusciva a toglierselo dalla mente? E perché lo ricollegava alla precisazione
che Argyll aveva fatto riguardo al dipinto del Lorenese? Dopotutto non c’era alcun lieto fine, erano state le sue parole. Flavia ripensò ai suoi anni scolastici. Mitologia classica. Una materia che rientrava nel programma di studi della scuola media. Ma quanto più si sforzava di ricordare, tanto più la sua memoria si faceva nebulosa. Rimase seduta sulla panca per cinque minuti, se non più, con il cervello che si rifiutava di riportare in superficie le vecchie nozioni di cui aveva bisogno. Perché Sabbatini aveva scelto quel particolare dipinto? Questa era una domanda che si era posta varie volte. Perché aveva rubato di proposito proprio quello e non un altro? Alla fine scosse il capo e si alzò. Non c’era motivo di perdere altro tempo. Stavolta trovò una segretaria a sbarrarle l’ingresso nell’ufficio. Disse di non avere alcun appuntamento, tuttavia l’onorevole Di Lanna l’avrebbe certamente ricevuta. Si trattava di una questione urgente. Pochi minuti dopo, la segretaria la invitò a entrare. Non appena Flavia mise piede nel piccolo e modesto ufficio, Di Lanna si alzò dalla sedia per darle il benvenuto, le fece cenno di accomodarsi sulla stessa sedia di legno sulla quale si era seduta la prima volta e le sorrise. Lo stesso sorriso, leggermente triste, apparentemente schietto, esibito nella precedente occasione. «Buongiorno, dottoressa Di Stefano. Sono felice di rivederla. Mi auguro che stavolta sia venuta a portarmi qualche buona notizia.» Flavia aprì la bocca e stava già per parlare quando di colpo si bloccò, perché tutte le questioni irrisolte e tutti i ragionamenti fatti si stavano improvvisamente concatenando a formare un grande e preciso disegno. Nonostante quel turbinio di idee, così frenetico da darle l’impressione di avere le vertigini, Flavia si rese conto di aver finalmente capito. Perché non poteva essere altrimenti. Per risolvere un crimine bastava a volte proprio quell’intuizione scaturita dall’istinto a cui faceva riferimento Argyll quando si trattava di attribuire un dipinto a questo o quell’artista, intuizione che poteva a volte avere la meglio su un’infinità di prove materiali. Dalla sua mente era improvvisamente sparito ogni minimo dubbio. Anni di addestramento e di esperienze avevano affinato la sua sensibilità, rendendola consapevole di eventuali contraddizioni o aspetti secondari rimasti irrisolti. Sapeva di essere molto abile nel suo lavoro e in quel momento ne ebbe la conferma, ma, al tempo stesso, capì che quella sua bravura non le sarebbe servita a nulla. Che spreco, pensò distrattamente, accorgendosi che in realtà tale constatazione non le faceva né caldo né freddo. «Temo di no», ribatté, lottando per controllare il tono di voce. «Anche se dubito che possa prendersela troppo a male per quanto sto per dirle.» «La prego, prosegua.» «Immagino che abbia già fatto bonificare il suo ufficio da tutte quelle
fastidiose cimici, giusto?» Di Lanna assentì. «In tal caso possiamo parlare apertamente, rinunciando ai soliti infingimenti. Sono venuta a proporle di scendere a patti», continuò Flavia. «Mi piacerebbe vederla in galera, però, per essere realistici, non lo ritengo possibile.» Lui la fissò stupito e vagamente divertito. «In galera?» replicò sarcastico. «Santo cielo. E quale colpa avrei commesso?» «Ha ucciso sua moglie e suo cognato», rispose pacatamente Flavia. «Non di persona, ovviamente, ma servendosi di un sicario, cioè Bossoni.» L’uomo rimase pietrificato. L’espressione fissa incuteva paura. Flavia aveva forse commesso un madornale errore? Aveva appena accusato un uomo del peggior crimine possibile. Nessuno che si fosse macchiato di una simile colpa avrebbe potuto farla franca. Ma lui fino a quel momento c’era riuscito e avrebbe continuato a sottrarsi alla giustizia. Non c’era nulla che Flavia fosse in grado di fare per porre fine a quella situazione, perciò avrebbe dovuto agire con la massima scaltrezza per non mettere a rischio la propria vita. Di Lanna riprese a parlare con una voce dalla quale era sparita ogni traccia del suo fascino disinvolto. «A farla giungere a tale conclusione è stato un ragionamento logico o una prova materiale?» Per Flavia era arrivato il momento di mentire. Come poteva dirgli di non aver mai letto il rapporto redatto da Balesto, di cui lei aveva solo immaginato il contenuto basandosi sull’interpretazione del folle comportamento di Sabbatini? Lei aveva individuato e interpretato il significato dei suoi atti per afferrare qualcosa che era ben al di là della sua portata. Non poteva certo rivelare di esserci arrivata perché non c’era nulla di casuale nel fatto che Sabbatini avesse deciso di rubare un certo dipinto del Lorenese: lui, non appena aveva appreso dalla stampa che quel quadro stava per arrivare a Roma, aveva posto fine agli indugi e messo in atto ciò che da tempo aveva in mente. Perché la vera storia di Cefalo e Procri non ha un lieto fine: Cefalo scaglia contro la sua sposa la freccia letale che lei stessa gli ha dato, e nessuna dea interviene a riportare in vita la vittima. Procri mette nelle mani del suo sposo il potere e lui se ne serve per ucciderla. Anche Maria, grazie al ricco patrimonio della sua famiglia, aveva reso potente il marito, e Di Lanna ne aveva approfittato per toglierla di mezzo. A dimostrarlo c’era l’estratto conto bancario, nel quale erano indicati i versamenti di denaro a Bossoni affinché portasse a termine quell’omicidio. Dopo di che Di Lanna, fingendosi affranto per la morte della moglie, si era accanito contro Sabbatini, cercando di togliergli l’eredità paterna, di cui era comunque riuscito a ottenere la maggior parte, cosa che gli aveva permesso
di acquisire ancora più potere. Chi mai avrebbe avuto la forza di mettersi contro Di Lanna? La quasi totalità dei politici dipendeva finanziariamente da lui, e tutti sapevano quale fine avesse fatto Balesto, l’unico che ci avesse provato. Di Lanna era intoccabile. La sua fine avrebbe implicato quella di tutti gli altri. Però Flavia si trattenne dal dirlo. Perché non ne aveva le prove, perché la sua ricostruzione dei fatti era basata su illazioni. Bluffò. «A farmi giungere a questa conclusione sono stati il rapporto di Balesto e un documento relativo ai versamenti bancari che il magistrato era riuscito a procurarsi.» Di Lanna sorrise. «Ne dubito fortemente», ribatté. «Perché Bossoni era riuscito a impadronirsene? È vero, li aveva presi lui entrambi, ma li ha tenuti per sé. A lei non sono mai arrivati, non è così? Bossoni ha deciso di sfruttarli a proprio vantaggio.» «Cosa glielo fa credere?» «Me l’ha detto lui in persona. Ma lei non ha motivo di preoccuparsi.» «Davvero? Come mai?» «Bossoni è morto. È questo che sono venuta a comunicarle.» «Quindi al momento lei è l’unica persona al corrente di tutta questa storia?» «Esattamente. Com’è andata?» Di Lanna indugiò un attimo, poi si strinse nelle spalle. «Subito dopo la sparizione del dipinto, ricevetti un fax. La fotocopia di una pagina delle Metamorfosi di Ovidio. Maurizio voleva assicurarsi che avessi afferrato il messaggio. Tipico, da parte sua. Avrebbe dovuto essere ovvio ma, come al solito, la sua mente era così contorta che ciò che aveva fatto non sarebbe stato compreso senza una spiegazione. Contattai subito Bossoni perché risolvesse la questione. Invece, a quanto pare, lui pensò bene di approfittare della situazione. L’avevo pagato in anticipo, ma Bossoni, dopo aver messo a tacere Maurizio ed essersi impadronito del rapporto, diventò più esigente. Quando arrivò la richiesta di riscatto, capii immediatamente che proveniva da lui. Tre milioni di dollari. Pagai. Immagino che non le sfugga il motivo per cui desideravo che tutta questa storia venisse insabbiata.» «È chiaro come il sole.» «E ora lei quanto vuole?» chiese Di Lanna con aria annoiata. «Nulla. Lei non avrà mai né il rapporto né la prova dei suoi versamenti, ma io non me ne servirò mai, se non sarò proprio costretta a farlo. La lascerò in pace, però, in cambio, lei lascerà in pace me.» «Può spiegarmi il motivo di tale decisione?» «Da quanto tempo il primo ministro è al corrente di questa storia?» replicò Flavia, ignorando la domanda. «Ha saputo tutto subito. Perché mai, secondo lei, avrei scelto di diventare uno dei suoi più grandi sostenitori?» Lui lanciò a Flavia un’occhiata mesta.
«Sono ormai oltre vent’anni che ho questa spada di Damocle sulla testa.» «Cosa si aspetta da me? Compassione?» «No. Negli ultimi sei mesi fra alcuni membri del mio partito è cominciata a serpeggiare l’idea di uscire dal governo. È stato Sabauda a smuovere le acque, mandando a Maurizio il rapporto di Balesto, per lanciarmi un avvertimento. Se fossi uscito dai ranghi, mi avrebbe distrutto.» «Ero convinta che Sabbatini avesse avuto il rapporto dal magistrato stesso.» Di Lanna le lanciò un’occhiata sprezzante. «Non sia ridicola. È stato uno degli sporchi trucchi di Sabauda.» «Il nostro primo ministro sta in piedi solo grazie a lei, Di Lanna, che però rischia grosso se perde l’appoggio di Sabauda.» «Già, è proprio così.» «In tal caso non riesco a pensare a una più severa punizione per entrambi. Siete degni l’uno dell’altro. Se potessi sbattervi ambedue in galera, lo farei subito. Ma dubito di avere la forza di mettermi contemporaneamente contro di lei e contro il capo del governo.» Parole che strapparono a Di Lanna un sorriso di assenso. «Tuttavia neppure voi potete toccarmi. Alzate anche solo un dito e il rapporto verrà reso di pubblico dominio. Magari non segnerà la sua rovina definitiva, ma certamente la danneggerà molto. Lei finirebbe per trovarsi perennemente invischiato in una serie di cause legali con gli amministratori del patrimonio di suo suocero. E sarebbe costretto a dire addio alla sua carriera politica. Questo, almeno, ritengo di essere in grado di farlo. Grazie al rapporto e alla prova.» Che non ho, pensò. Di Lanna assentì. «Sì», replicò con aria convinta, «almeno questo risultato potrebbe ottenerlo. E, se perdo il controllo del patrimonio di famiglia, perdo il partito. È verissimo. Tuttavia lei ha appena sostenuto che non intende denunciarmi. Perché?» «Perché tutti voi mi avete nauseata. Se anche lei finisse in carcere, il suo posto verrebbe subito preso da uno della sua stessa risma, se non peggio. Per quale motivo, dunque, dovrei darmi tanto da fare? Otterrei solo di rovinarmi l’esistenza, e inutilmente, perché alla fine lei riuscirebbe a cavarsela. Voi politici ce la fate sempre. Perciò desidero non avere più niente a che fare con tutto questo.» Lui annuì. «Allora, siamo d’accordo?» Annuì di nuovo. «Bene», proseguì Flavia. «Ma lei dovrà anche intervenire presso il ministero competente affinché mi venga data la più cospicua liquidazione nella storia delle forze di polizia. Dopo di che noi due staremo a distanza. Lei mi lascerà in pace e io farò altrettanto. Entrambi sappiamo quali sarebbero le conseguenze se venissimo meno al nostro accordo.» Si alzò, imitata da Di Lanna che le tese la mano, ma lei uscì dall’ufficio senza
stringergliela. Appena fuori, le tornò l’affanno, la testa le girava e aveva la nausea, quindi affrettò il passo, precipitandosi verso l’uscita. La varcò e si trovò fuori, al sole, dove scorse Argyll che, dopo aver setacciato per ore le vie di Roma per trovarla, le correva incontro con un’espressione ansiosa sul viso, e, senza ricordarsi che lui si sarebbe dovuto trovare ancora in Toscana e senza attendere che le dicesse qualcosa, gli vomitò sulle scarpe.
20 Se l’entità della liquidazione concessa a Flavia era un eloquente indizio di quanto Di Lanna fosse desideroso di rispettare la parte dell’accordo che lo riguardava, c’era di che stare tranquilli. Nell’ambiente del ministero ci fu chi rimase senza fiato e chi arricciò le labbra, mentre i volti dei colleghi di Flavia furono oscurati da un velo d’invidia che però svanì rapidamente, come le nuvole in un cielo autunnale. Persino Flavia ne rimase esterrefatta, ma non ricavò alcun piacere dal fatto che ora, per non fare nulla, percepiva una somma un po’ superiore a quella che avrebbe guadagnato se avesse lavorato come una matta per anni. Ciò che era stata costretta a fare per ottenere quel compenso le pesava, e la consapevolezza che comunque non le sarebbe stato possibile in alcun modo cambiare la situazione non bastava a rasserenarla. Portò via dall’ufficio tutte le sue cose, poi lei e Argyll lasciarono il loro appartamento romano e si trasferirono in una tranquilla casa, trovata dopo una breve ricerca, a una trentina di chilometri da Firenze, poco distante da un grazioso paesino di pochissimi abitanti. Con il passare dei mesi, mentre la sua andatura si faceva sempre più ondeggiante e i piedi diventavano sempre più gonfi, Flavia riacquistò a poco a poco la serenità. Tinteggiò la sua nuova cucina, ne scelse le tendine, cucinò, preparò conserve, riempì di vivande il freezer. Iniziò a trascorrere sempre più tempo seduta pacificamente all’ombra, a sonnecchiare. Argyll si adattò a modo suo al nuovo nido. Irritava tremendamente Flavia standole sempre attorno, dandole lunghe occhiate di rimprovero ogni volta che lei passeggiava per più di cento metri senza fare una sosta. Cominciò a osservare ogni bambino in carrozzina che gli passasse davanti, al solo scopo di capire come fossero fatte quelle creature, ottenendo in cambio strilli infantili e sospettose occhiate materne. Siccome l’aver dato le dimissioni dal lavoro l’aveva sollevato appena in tempo dall’obbligo di consegnare la sua fumosa relazione sul collezionismo d’arte, riuscì finalmente a caricare sul camion diretto a Londra i suoi dipinti destinati alla vendita. Prima di recarsi a sua volta in Inghilterra per assistere all’asta, andò a dare un’altra occhiata alla Madonna di Bottardi e riuscì a convincere Aldo, l’amico di Flavia, a fargli vedere la collezione segreta del Vaticano. Non appena Argyll si trovò davanti a tutti quei capolavori, per poco non scoppiò a ridere di gioia, finché non si rese conto di come fossero finiti lì.
Bastava vederli nel loro complesso perché tutto diventasse perfettamente ovvio. E, ripensando agli schizzi conservati agli Uffizi, capì di non avere più bisogno delle rivelazioni di Bulovius. La vendita all’asta ebbe un clamoroso successo. Grazie a Mary Verney, che, celandosi dietro alcuni intermediari, rilanciò più volte il valore di ogni pezzo in vendita e alla fine pagò in contanti ciò che aveva acquistato, le quattro serate in cui furono battuti i dipinti di Argyll finirono quasi per stabilire un nuovo leggendario record, almeno per quanto riguardava le opere minori, nel mercato dell’arte. Ognuno fu venduto per una cifra di gran lunga superiore a quella di partenza, raggiungendo quotazioni vertiginose. Uno schizzo a penna di Rossini, valutato 200 sterline, fu acquistato per 3500 e un piccolo olio su tavola di Contarini, raffigurante la Deposizione, dalle 1500 sterline iniziali giunse a 14.500. E a lievitare, oltre ai prezzi dei dipinti, fu anche la stima per l’Argyll collezionista, perché furono in molti a giudicarlo più accorto di quanto sembrasse. Quando l’asta si concluse, risultò che i pezzi venduti erano stati settantatré e che un’accettabile parte del denaro del riscatto, passata attraverso gli ingranaggi finanziari delle case d’asta e ormai perfettamente lavata, pulita e stirata, si era trasferita sul conto corrente intestato ad Argyll, mentre Mary Verney, anche se sostanzialmente ci aveva perso, si ritrovava in possesso di alcune dozzine di opere di artisti minori che non sapeva neppure dove sistemare. Durante il ricevimento di inaugurazione di una piccola mostra nella galleria londinese di Edward Byrnes, Argyll si lasciò sfuggire che lui e Flavia, e forse anche Bottardi, in veste di consulente, stavano meditando di aprire una loro agenzia investigativa, per ritrovare con la massima discrezione i dipinti rubati a chi non era dell’idea di tirare in ballo la polizia. «Davvero?» si informò un anziano collezionista di stampe che viveva nell’Italia settentrionale, al confine con l’Austria, che Argyll conosceva, anche se solo superficialmente, da anni e che gli era sempre stato simpatico. «In tal caso, potrei magari consultarla a proposito di una delicata questione che da qualche tempo continua ad assillarmi...» Argyll esitò, poi sorrise. «Va bene», disse. «Potremo riparlarne. La terrò al corrente della situazione. Prima, però, devo concludere un certo affare con il Vaticano.» «Davvero?» ripeté il vecchio. «Sì. C’è di mezzo un trittico. Un’opera importante.» «Davvero? Di quale artista?» Argyll sorrise, indugiò un attimo, poi bisbigliò qualcosa all’orecchio del suo