MARY HIGGINS CLARK LA CULLA VUOTA (The Cradle Will Fall, 1980) A Ray, sempre con lo stesso affetto Invecchia insieme con...
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MARY HIGGINS CLARK LA CULLA VUOTA (The Cradle Will Fall, 1980) A Ray, sempre con lo stesso affetto Invecchia insieme con me! Il meglio deve ancora venire, L'ultima parte della vita, per la quale è stata fatta la prima. ROBERT BROWNING «... perché alcuni ammalati, pur coscienti della gravità delle loro condizioni, riacquistano la salute per la fede che hanno nella perizia del medico.» IPPOCRATE 1 Se non fosse stata assorta nel pensiero della causa che aveva vinto, forse Katie non avrebbe imboccato la curva a velocità tanto sostenuta, ma l'intensa soddisfazione per il verdetto di colpevolezza l'assorbiva completamente. Aveva vinto per un soffio. Roy O'Connor era uno dei migliori avvocati del New Jersey. La confessione dell'imputato era stata invalidata dalla corte e ciò era stato un gran brutto colpo per l'accusa. Tuttavia, lei era riuscita a persuadere i giurati che Teddy Copeland era l'individuo che aveva barbaramente trucidato l'ottantenne Abigail Rawlings nel corso di una rapina. La sorella della signorina Rawlings, Margaret, presente in tribunale al momento del verdetto, subito dopo si era avvicinata a Katie. «È stata straordinaria, signora DeMaio», le aveva detto. «A vederla, la si direbbe una studentessa. Non credevo che ce la facesse. Invece quando ha cominciato a parlare ha saputo dimostrare tutti i punti. Ha fatto sì che sentissero quello che lui ha fatto ad Abby. E adesso, che cosa succederà?» «Dati i trascorsi, spero che il giudice decida di sbatterlo in galera per tutta la vita», aveva risposto Katie. «Dio sia ringraziato», aveva sospirato Margaret Rawlings. I suoi occhi, già umidi e appannati per l'età, si erano colmati di lacrime. Li aveva asciugati con calma, poi aveva aggiunto: «Sento tanto la mancanza di Abby. E-
ravamo noi due sole. Continuo a pensare alla paura che deve aver provato. Sarebbe stato orribile se quello l'avesse fatta franca!» Ma non l'ha fatta franca! Distratta da quel rassicurante pensiero, schiacciò il piede a fondo sull'acceleratore. L'improvviso aumento di velocità in curva fece sbandare la vettura sulla strada ammantata di nevischio. «Oh, no!» Katie strinse freneticamente lo sterzo. La strada era molto buia. Inarrestabile, l'automobile oltrepassò la linea bianca e si girò su se stessa. In lontananza, Katie vide avvicinarsi dei fari. Sterzò nella direzione in cui aveva sbandato. Non riuscì a controllare la macchina, che si ribaltò su un fianco contro la spalletta della strada lastricata di ghiaccio. Simile a uno sciatore che sta per spiccare il salto dal trampolino, l'automobile restò un attimo in bilico sul bordo della spalletta, quindi le ruote si sollevarono mentre essa precipitava per la scarpata scoscesa, fino ai campi punteggiati di alberi. Un'ombra scura si profilò davanti a lei: un albero. Katie avvertì il nauseabondo impatto mentre il metallo squarciava la corteccia. La macchina fece un sobbalzo. Il corpo di Katie fu scagliato contro lo sterzo, poi sbattuto indietro. Lei alzò le braccia davanti al viso, a proteggerlo dalle schegge di vetro che esplodevano dal parabrezza. Sentì un dolore acuto e pungente ai polsi e alle ginocchia. I fari e le luci del quadro si spensero. Un'oscurità nera e fitta come velluto calò su di lei, mentre da lontano arrivava l'urlo di una sirena. Il rumore dello sportello che si apriva. Una raffica di aria gelata. «Santo Dio! È Katie DeMaio!» Una voce conosciuta. Tom Coughlin, quel giovane poliziotto tanto simpatico che aveva testimoniato in un processo la settimana prima. «È svenuta.» Provò a dire di no, ma le labbra si rifiutavano di articolare le parole. Non ce la faceva ad aprire gli occhi. «Perde sangue dal braccio. Potrebbe essersi tagliata un'arteria.» Le reggevano il braccio. Glielo legavano stretto con qualcosa di duro. Un'altra voce: «Potrebbero esserci delle lesioni interne, Tom. Il Westlake è vicino. Io vado a chiamare un'ambulanza, tu resta qui con lei». Affioro. Affioro. Sto bene. Solo che non riesco ad arrivare fino a voi. Delle mani la sollevavano e l'adagiavano su una barella. Sentì che le buttavano addosso una coperta. Il nevischio che le batteva sul viso. La portavano via. Un'automobile si muoveva. No, era l'autoambulanza. Sportelli che si aprivano e si chiudevano. Se solo potessi farmi capire. Non
sono svenuta. Io vi sento. Tom stava dando il suo nome: «Kathleen DeMaio. Abita ad Abbington. È sostituto procuratore. No, non è sposata, è vedova. La vedova del giudice DeMaio». La vedova di John. Un acuto senso di solitudine. Il buio cominciava a dissolversi. Aveva una luce negli occhi. «Sta riprendendo i sensi. Quanti anni ha, signora DeMaio?» Una domanda concreta, una facile risposta. Finalmente le riuscì di parlare. «Ventotto.» Toglievano il laccio che Tom le aveva stretto intorno al braccio. Suturavano la ferita. Cercò di non sobbalzare per le fitte di dolore. La radiografia. Il medico del pronto soccorso. «Può dirsi fortunata, signora DeMaio. Qualche grossa contusione. Nessuna frattura. Ho ordinato una trasfusione di sangue: ha pochi globuli rossi. Ma non si preoccupi, andrà tutto bene.» «Il fatto è...» Si morse il labbro. Tornava alla realtà e riuscì a fermarsi prima di lasciarsi sfuggire di bocca quel terribile, irragionevole, infantile terrore degli ospedali. Tom le stava dicendo: «Vuoi che avvertiamo tua sorella? Ti trattengono qui fino a domani». «No, Molly è appena guarita dall'influenza. L'hanno avuta tutti, a casa.» Che voce fioca: Tom dovette chinarsi per afferrare le sue parole. «Come vuoi, Kate. Non ti preoccupare di niente. Provvederò io a far rimorchiare la macchina.» Sulla poltrona a rotelle la portarono in un angolo del pronto soccorso, riparato da tende. Il sangue cominciò a gocciare lentamente attraverso un tubetto che le avevano introdotto nel braccio destro. Ormai aveva riacquistato la lucidità. Il braccio sinistro e le ginocchia le facevano molto male. Tutto le faceva male. Stava in ospedale. Era sola. Un'infermiera le scostò i capelli dalla fronte. «Si sentirà subito meglio, signora DeMaio. Perché piange?» «Non è vero, non piango.» Invece, piangeva. Spinsero la poltrona a rotelle in una camera. L'infermiera le porse un bicchiere di carta pieno di acqua e una pillola. «L'aiuterà a riposare, signora DeMaio.» Katie era sicura che fosse un sonnifero. Non voleva sonniferi. Le davano gli incubi. Ma era più semplice non discutere.
L'infermiera spense la luce. Mentre usciva dalla stanza, i suoi passi emisero suoni sommessi e ovattati. La camera era fredda. Le lenzuola erano umide e fredde. Che fossero sempre così le lenzuola degli ospedali? Scivolò nel sonno, sapendo che l'incubo era inevitabile. Quella volta assunse una forma diversa. Era in un vagoncino, sulle montagne russe. Il vagoncino saliva, saliva sempre più in alto e lei non riusciva a controllarne la guida. Imboccò una curva, deragliò e cominciò a precipitare. Si svegliò tremando, un attimo prima che il vagoncino si schiantasse a terra. Il nevischio gelato batteva sui vetri. Vacillando, Katie provò ad alzarsi. La finestra era accostata e faceva sbattere le avvolgibili. Ecco perché la stanza era piena di correnti d'aria. Avrebbe chiuso la finestra e alzato le avvolgibili, forse cosi sarebbe riuscita ad addormentarsi. L'indomani mattina sarebbe tornata a casa: odiava gli ospedali. Barcollante, si avvicinò alla finestra. La camicia da notte che le avevano dato le copriva a malapena le ginocchia, aveva le gambe gelate. Il nevischio era misto a pioggia. Si appoggiò al davanzale e guardò fuori. Il parcheggio sottostante era solcato da rivoli d'acqua zampillanti. Katie afferrò la cinghia delle avvolgibili e guardò verso il parcheggio, due piani più in basso. Il portabagagli di una macchina si stava aprendo lentamente. Le girava la testa; vacillò, mollò la cinghia e le avvolgibili si alzarono di scatto con un rumore secco. Guardò di nuovo giù, dentro quel portabagagli: vi calava dentro, oscillando, una cosa bianca. Una coperta, un grosso pacco? Sto sognando, pensò Katie; poi si portò la mano alla bocca per soffocare il grido che le saliva alla gola. Alla luce del bagagliaio, attraverso gli scrosci di pioggia mista a nevischio che battevano contro i vetri della finestra, vide quel drappo bianco aprirsi e prima che il portabagagli si richiudesse scorse un viso, un viso di donna, grottesco nell'indifferente abbandono della morte. 2 Puntualmente, l'orologio l'aveva svegliato alle due. Lunghi anni di abitudine a destarsi per un caso di emergenza lo rendevano immediatamente lucido. Si era alzato, avviandosi al lavabo della stanza dove visitava le pazienti, quindi si era spruzzato l'acqua fredda sul viso, si era fatto il nodo alla cravatta, si era pettinato. I calzini erano ancora bagnati, freddi e umidi al
tatto quando li aveva presi dal termosifone appena tiepido. Con un gesto di stizza, se li era infilati, quindi si era messo le scarpe. Aveva allungato la mano per prendere il cappotto, rabbrividendo al tatto. Era fradicio. Appenderlo accanto al radiatore non era servito a nulla. Avrebbe rischiato una polmonite se lo avesse indossato. A parte ciò, i peli bianchi della coperta si sarebbero potuti attaccare sul blu scuro. E avrebbe dovuto fornire una spiegazione. Teneva un vecchio Burberry nell'armadio a muro. Avrebbe indossato quello, lasciando il cappotto bagnato che l'indomani avrebbe portato in tintoria. Ma l'impermeabile non era foderato. Sarebbe morto di freddo. D'altronde non aveva scelta. Inoltre il Burberry era un indumento così comune, un verde oliva spento, che gli andava largo essendo dimagrito. Se qualcuno avesse notato la macchina, avrebbe notato lui dentro la macchina: c'era meno probabilità che lo riconoscessero. Era corso al guardaroba, aveva staccato l'impermeabile dalla gruccia di ferro dove era sciattamente appeso e aveva nascosto nell'angolo più recondito dell'armadio il pesante cappotto bagnato a un petto. L'impermeabile sentiva di chiuso, uno spiacevole odore di polvere che gli aveva irritato le narici: aggrottando la fronte disgustato, se lo era infilato e abbottonato. Era andato alla finestra e aveva alzato l'avvolgibile di pochi centimetri. Nel parcheggio c'era ancora un numero sufficiente di auto perché la presenza o l'assenza della sua non venisse notata. Si era morso le labbra accorgendosi della sostituzione di una lampadina rotta che fino allora aveva avvolto in una oscurità discreta la parte più lontana del parcheggio. A quel punto la luce batteva proprio sulla parte posteriore della sua macchina. Avrebbe dovuto camminare nell'ombra delle altre auto e introdurre il corpo nel bagagliaio il più rapidamente possibile. Era ora. Aveva aperto lo stanzino dove teneva le scorte di medicinali e si era chinato. Con dita esperte aveva seguito il contorno del corpo sotto la coperta: brontolando sottovoce, aveva infilato una mano sotto il collo, l'altra sotto le ginocchia e aveva sollevato il corpo. Da viva pesava circa quarantacinque chili, ma aveva acquistato peso durante la gravidanza. I suoi muscoli avevano avvertito ogni grammo di quel peso, mentre la trasportava sul tavolo operatorio. Lì, alla sola luce di una torcia portatile puntata contro il tavolo, aveva avvolto il corpo nella coperta. Dopo aver esaminato con attenzione il pavimento, aveva richiuso a chiave lo stanzino. Senza far rumore, aveva aperto la porta che portava al par-
cheggio, stringendo tra due dita la chiave del bagagliaio dell'auto. Con calma era tornato al tavolo operatorio e aveva sollevato la donna morta. Poi, via per quei venti secondi che avrebbero potuto distruggerlo. Diciotto secondi dopo era accanto alla macchina. Il nevischio gelato gli sferzava la guancia; il fardello avvolto nella coperta gli intorpidiva le braccia. Spostando il peso in modo che per la maggior parte venisse a pesare su un solo braccio, aveva provato a infilare la chiave nella serratura del bagagliaio. Il nevischio vi aveva depositato una crosta di ghiaccio: l'aveva raschiata via nervosamente. Un attimo dopo la chiave era nella serratura e il tetto del bagagliaio aveva cominciato a sollevarsi lentamente. Aveva alzato gli occhi alle finestre dell'ospedale. Al secondo piano, nella stanza di centro, le avvolgibili si erano sollevate di scatto. Che ci fosse qualcuno affacciato a guardare? Nella fretta di infilare nel baule la sagoma avvolta nella coperta, di togliersela dalle braccia, aveva fatto un movimento troppo brusco. L'istante preciso in cui la sua mano sinistra lasciava la coperta, una raffica forte di vento ne aveva dischiuso i lembi, rivelando il viso della donna. Trasalendo, aveva depositato il corpo e chiuso il baule con un colpo secco. La luce aveva illuminato il viso. Che qualcuno avesse visto? Per la seconda volta, alzò gli occhi alla finestra dove erano state sollevate le avvolgibili. Si domandò se la stanza fosse occupata: non ne era sicuro. Che cosa si vedeva da quella finestra? Più tardi, avrebbe cercato di scoprire chi occupava la stanza. Raggiunse la portiera sul lato di guida; girò la chiave. Lasciò velocemente il parcheggio e non accese i fari finché non si fu inoltrato sulla strada provinciale. Incredibile che due volte nella stessa sera gli toccasse andare a Chapin River! E se non avesse lasciato l'ospedale mentre lei usciva dall'ufficio di Fukhito? Se lei non l'avesse fermato? Vangie era in uno stato di grande eccitazione. Gli era andata incontro zoppicando sotto il porticato, cercava di risparmiare la gamba destra. «Professore, non verrò da lei questa settimana. Domani parto per Minneapolis. Vado dal medico che avevo prima, il professor Salem. Forse mi fermerò lì, forse deciderò di partorire con lui.» Che disastro, se non l'avesse incontrata! Invece, era riuscito a convincerla a entrare con lui nello studio, le aveva parlato, l'aveva calmata offrendole un bicchier d'acqua. Eppure, all'ultimo
momento, lei doveva aver avuto qualche sospetto, aveva cercato di passargli accanto in fretta. Quel bellissimo viso, quel viso capriccioso, era pieno di paura. E poi, l'orrore di capire che, pur essendo riuscito a farla tacere, il rischio di venire scoperto era grosso. Aveva chiuso a chiave il corpo di lei nello stanzino dei medicinali e si era messo a pensare. Il pericolo più immediato era la macchina rosso pomodoro di lei. Era indispensabile toglierla dal parcheggio dell'ospedale. Dopo l'orario delle visite, l'auto avrebbe sicuramente dato nell'occhio, quel gioiello della Lincoln Continental, con l'aggressivo cofano metallizzato e ogni particolare della carrozzeria fatto apposta per fermare l'attenzione. Sapeva esattamente dove lei abitava a Chapin River. Gli aveva detto che il marito, pilota di una linea aerea americana, non sarebbe rincasato sino all'indomani. Così aveva deciso di portare la macchina nella proprietà di lei, di mettere la sua borsetta in casa, in modo da far sembrare che fosse rientrata. Nonostante i suoi timori, tutto era andato liscio. Dato il maltempo, c'era poco traffico. Il piano regolatore di Chapin River prevedeva un minimo di ottomila metri quadri per ogni casa. Le villette erano molto arretrate rispetto alla ferrovia, collegate da tortuose strade carrozzabili. Aveva aperto la porta del garage con il congegno automatico nel cruscotto della Lincoln, quindi vi aveva introdotto la macchina. La chiave di casa era infilata nel portachiavi dell'automobile, ma non gli era servita: la porta interna che dal garage immetteva nel salottino non era chiusa a chiave. C'erano delle piccole luci in tutta la casa, probabilmente i segnali luminosi degli antifurto. Attraversando velocemente il salottino, aveva raggiunto il corridoio dal quale si accedeva alla zona notte: cercava la camera dei padroni di casa. Nessun dubbio, era l'ultima a destra. C'erano altre due stanze da letto, una arredata a camera dei bambini, con nanetti colorati e agnellini che sorridevano dalla carta da parati appena messa, un lettino nuovo e un cassettone. Era stato in quel preciso momento che aveva capito che forse sarebbe riuscito a far passare per suicidio la morte della donna: se lei aveva cominciato ad arredare quella camera tre mesi prima del parto, la paventata perdita del bambino era una ragione più che sufficiente per suicidarsi. Era entrato nella camera da letto padronale. Il letto, grandissimo, era stato ravviato alla meglio, il pesante copriletto di ciniglia bianca buttato sciattamente sulle coperte. La camicia da notte e la vestaglia di lei stavano su
una dormeuse accanto al letto. Se solo fosse riuscito a riportare lì il corpo di lei e ad adagiarlo sul letto! Certo, era un'impresa pericolosa, ma non pericolosa quanto lo scaricare quel corpo in qualche parte del bosco, cosa che avrebbe provocato un'indagine meticolosa da parte della polizia. Aveva lasciato la borsa di lei sulla dormeuse. La macchina in garage e la borsa in camera erano elementi sufficienti a far supporre che lei fosse rincasata dall'ospedale. Poi aveva ripercorso a piedi i sei chilometri che lo separavano dall'ospedale. Aveva corso un grosso rischio: e se una macchina della polizia, scendendo da quella zona residenziale, lo avesse fermato? Non aveva nessuna ragione plausibile per trovarsi lì. Aveva coperto il percorso in meno di un'ora e, rasentando l'ingresso principale dell'ospedale, si era introdotto nello studio dalla porta posteriore che dava sul parcheggio. Erano le dieci in punto quando era rientrato. Cappotto, scarpe e calzini erano fradici. Rabbrividiva per il freddo. Si era reso conto che tentare di trasportare il corpo finché ci fosse stata la pur minima possibilità di incontrare qualcuno sarebbe stato troppo rischioso. Le infermiere iniziavano il turno di notte a mezzanotte. Aveva deciso di attendere ben oltre quell'ora prima di tentare la nuova sortita. L'ingresso di emergenza si trovava sul lato orientale dell'ospedale. Se non altro, non avrebbe dovuto preoccuparsi di imbattersi in ricoverati d'emergenza o in una macchina della polizia con a bordo un ferito. Aveva puntato la sveglia alle due e l'aveva appoggiata sul lettino per le visite, poi era riuscito a dormire fin quando la suoneria lo aveva destato. A quel punto stava lasciando il ponte di legno che portava a Winding Brook Lane. La casa di lei era sulla destra. Spegnere i fari; imboccare la carrozzabile; girare sul retro della casa; far marcia indietro fino alla porta del garage; togliersi i guanti da guida; infilarsi quelli da chirurgo; aprire la porta del garage; aprire il bagagliaio; trasportare la forma avviluppata al di là degli scaffali con le provviste fino alla porta interna. Entrò nel salottino. Tutto taceva in casa. Pochi minuti ed era salvo. Percorse lestamente il corridoio fino alla stanza da letto padronale, curvo sotto il peso del corpo. Adagiò la donna sul letto e da sotto sfilò la coperta. Nella stanza da bagno attigua alla camera mise dei cristalli di cianuro nel bicchiere azzurro a fiori, aggiunse acqua e versò la maggior parte del contenuto nel lavandino. Quindi lo sciacquò con cura e tornò nella stanza da letto. Accostando il bicchiere alla mano della donna morta, fece in modo
che le ultime gocce del liquido cadessero sul copriletto. Certamente, le impronte digitali di lei erano sul bicchiere. Il corpo aveva cominciato ad assumere la rigidità cadaverica. Le mani erano fredde. Piegò la coperta bianca con molta cura. Il corpo giaceva supino sul letto, gli occhi sbarrati, una smorfia sulle labbra, un'espressione di protesta nell'agonia. Tutto collimava: la maggior parte dei suicidi cambia idea quando è già troppo tardi. Aveva dimenticato qualcosa? No. La borsa di lei con dentro le chiavi stava sulla dormeuse; nel bicchiere erano rimaste tracce di cianuro. Doveva lasciarle il soprabito o toglierlo? Meglio lasciarlo. Meno la maneggiava, meglio era. Con o senza scarpe? Forse lei se le sarebbe tolte. Sollevò il lungo caffetano che la copriva e sentì il sangue gelarglisi nelle vene. Il piede destro, quello gonfio, era calzato da un mocassino in pessimo stato. Il piede sinistro era coperto solo dalla calza. Evidentemente, l'altro mocassino era caduto. Ma dove? Nel parcheggio? In studio? In casa? Uscì di corsa dalla camera da letto, cercando, rovistando, ripercorrendo i propri passi fino in garage. Furioso di perdere tempo, si precipitò alla macchina e frugò nel portabagagli. La scarpa non c'era. Probabilmente l'aveva persa mentre trasportava il corpo al parcheggio. Se fosse caduta mentre stavano nello studio, avrebbe sentito il tonfo e anche nello sgabuzzino dei medicinali la scarpa non c'era, ne era più che sicuro. Per via del piede gonfio, portava sempre quei mocassini. Aveva sentito la segretaria prenderla in giro a quel proposito. Gli toccava tornare indietro, perlustrare il parcheggio, trovare la scarpa. E se l'avesse raccolta qualcuno che gliel'aveva vista al piede? Certo, una volta scoperto il cadavere, ci sarebbero state infinite chiacchiere sulla sua morte. E se a qualcuno fosse venuto in mente di dire: «Sì, ho visto nel posteggio il mocassino che indossava. Che lo abbia perso lunedì sera, mentre tornava a casa?» Ma se avesse percorso anche pochi metri del parcheggio senza scarpa, la pianta della calza sarebbe stata orribilmente sporca. La polizia se ne sarebbe accorta. Non gli restava che tornare al parcheggio e trovare il mocassino. Tuttavia, rientrando nella camera da letto, aprì la porta della cabinaarmadio. Sparso sul pavimento, c'era un guazzabuglio di scarpe da donna. La maggior parte con tacchi assurdamente alti. Impossibile che qualcuno potesse credere che lei mettesse quelle scarpe, nelle sue condizioni e con
quel brutto tempo. C'erano tre o quattro paia di stivali, ma non sarebbe mai riuscito a chiudere la lampo su quella gamba gonfia. Poi le vide. Un paio di scarpe a tacco basso, banali, il genere di calzature che porta la maggior parte delle donne incinte. Avevano l'aria quasi nuova, ma una volta almeno erano state usate. Le afferrò, sollevato. Tornò nella camera da letto, tolse il mocassino dal piede della donna morta e infilò entrambi i piedi nelle scarpe che aveva appena trovato nel guardaroba. La destra era stretta, però riuscì ad allacciarla. Infilò il mocassino che le aveva tolto nell'ampia tasca del proprio impermeabile e prese la coperta bianca. Con quella sotto il braccio, lasciò la camera, percorse il corridoio, attraversò il salottino e uscì nella notte. Nevischio e pioggia erano cessati quando arrivò al parcheggio dell'ospedale, ma tirava vento e faceva molto freddo. Parcheggiò la macchina all'estremità più lontana. Se per un caso fosse passato il sorvegliante e gli avesse rivolto la parola, lui avrebbe semplicemente risposto di aver ricevuto una telefonata da una paziente che aveva le doglie. E se per una qualche ragione avessero voluto controllare quella storia, avrebbe assunto un'aria offesa e avrebbe detto che, evidentemente, si era trattato di una telefonata fasulla. Certo, era meglio che non lo vedessero. Tenendosi nell'ombra dei cespugli che delimitavano l'isola divisoria del parcheggio, si affrettò a ripercorrere i propri passi dal punto dove aveva lasciato la macchina fino alla porta dello studio. Sembrava logico che la scarpa fosse caduta mentre lui spostava il corpo per aprire il portabagagli dell'auto. Si piegò e perlustrò il terreno, avvicinandosi metodicamente all'ospedale. A quell'ora, in quell'ala, le stanze dei malati erano tutte al buio. Alzò gli occhi verso la finestra al centro del secondo piano. Le avvolgibili erano abbassate. Ci aveva pensato qualcuno. Carponi, avanzò lentamente sul selciato. Se lo avessero visto! Rabbia e frustrazione fecero sì che non sentisse il freddo pungente. Dov'era la scarpa? Doveva trovarla ad ogni costo. I fari di una macchina alla curva del parcheggio. Stridore di freni e brusco arresto della vettura. Il guidatore, probabilmente diretto al pronto soccorso, doveva aver capito di aver imboccato la curva sbagliata. Inversione a U, uscita veloce dal parcheggio. Doveva andarsene di lì al più presto. Restare non serviva a niente. Cadde in avanti mentre cercava di alzarsi. La mano scivolò sul selciato sdruccioloso. Fu allora che lo sentì: il cuoio sotto le dita. Lo afferrò, lo sollevò in alto. Nonostante la luce fioca ne fu subito certo. Il mocassino. L'aveva tro-
vato. Un quarto d'ora dopo girava la chiave nella serratura di casa sua. Si sfilò l'impermeabile, lo appese nell'armadio in ingresso. Lo specchio lungo all'interno dell'armadio riflesse la sua immagine. Con orrore constatò che in corrispondenza delle ginocchia i pantaloni erano bagnati e sporchi. Aveva i capelli in un disordine orrendo, le mani sudicie, il viso paonazzo e gli occhi, sporgenti di natura, gonfi e sbarrati. Sembrava una persona sotto choc, la caricatura di se stesso. Corse al piano superiore, si spogliò, smistò gli indumenti tra lavatrice e cesto della roba sporca, fece il bagno, indossò pigiama e vestaglia. Era troppo eccitato per dormire e, a parte ciò, aveva una fame da lupo. La donna di servizio gli aveva lasciato una porzione di agnello sul vassoio. Sul tavolo di cucina, nel piatto dei formaggi, c'era una fetta di Brie. Nel reparto frutta del frigorifero stavano alcune mele croccanti e asprigne. Preparò con cura un vassoio e lo portò in biblioteca. Dal mobile bar si versò un robusto whisky e si mise a sedere davanti alla scrivania. Mentre mangiava, passò in rassegna gli avvenimenti della serata. Se non si fosse fermato a controllare l'agenda, l'avrebbe mancata. Lei se ne sarebbe andata e non ci sarebbe più stato tempo per fermarla. Aprì con la chiave lo spazioso cassetto centrale della scrivania e fece scorrere il doppio fondo. Teneva lì il suo schedario personale, sempre aggiornato. C'era una cartella sola, a fisarmonica, di tela grezza. Prese un foglio di carta nuovo e scrisse le seguenti righe conclusive: 15 febbraio Alle 20.40 di questa sera, il sottoscritto medico chiudeva a chiave la porta posteriore dello studio. La paziente in cura, che aveva lasciato da poco il dottor Fukhito, si è fatta incontro al sottoscritto medico, comunicandogli che sarebbe tornata a Minneapolis, dove avrebbe partorito con il suo ginecologo di prima, il professor Emmet Salem. La paziente, in stato di grande agitazione, è stata convinta a entrare nello studio. Ovviamente, non si poteva farla partire. Sia pure con rincrescimento, il medico ha deciso di sopprimerla. Con la scusa di farle bere un bicchiere di acqua, ha sciolto alcuni cristalli di cianuro nel bicchiere e ha costretto la donna a ingerire il veleno. La paziente è spirata alle 21.15 precise. Il feto aveva ventisei settimane. È opinione del sottoscritto che, se fosse nato, sarebbe vissuto. La documentazione medica, precisa ed esauriente, è in questa cartella. Sostituisce e
annulla la documentazione esistente al Westlake Hospital. Con un sospiro, depose la penna, infilò il foglio conclusivo nella cartella e sigillò il tutto. Si alzò, si diresse all'ultimo scaffale della libreria. Allungando una mano dietro un libro, toccò un bottone e lo scaffale girò sui cardini aprendosi e rivelando una cassaforte. Con un rapido gesto, l'aprì e vi ripose la cartella, prendendo nota, quasi inconsciamente, del numero sempre crescente dei fascicoli. Ne conosceva i nomi a memoria: Elizabeth Berkeley, Anna Horan, Maureen Crowley, Linda Evans... settanta e più nomi: i successi e i fiaschi del suo genio medico. Chiuse la cassaforte, fece girare lo scaffale finché non tornò alla posizione originale, poi salì lentamente al piano superiore. Si tolse la vestaglia, entrò nel massiccio letto a colonne e chiuse gli occhi. Quando ormai era tutto finito, si sentiva spossato come dopo una malattia. Che gli fosse sfuggito qualcosa? Che avesse dimenticato un particolare? Aveva chiuso in cassaforte le fiale del cianuro. Ah, i mocassini. L'indomani sera, in qualche modo, se ne sarebbe liberato. Gli avvenimenti delle ultime ore gli turbinavano nella mente. Finché si trattava di agire, riusciva a mantenersi calmo. Ma quando tutto era finito, il suo sistema nervoso, come succedeva ogni volta, pareva ribellarsi. La mattina seguente, andando in ospedale, avrebbe portato la roba in tintoria. Pur ammettendo che Hilda era una domestica priva di immaginazione, avrebbe comunque notato il fango e le tracce di bagnato alle ginocchia dei pantaloni. Doveva scoprire chi era la paziente della camera al centro del secondo piano, ala est, e doveva controllare quanto si vedeva da quella finestra. Meglio non pensarci. Doveva dormire. Si puntellò su un gomito, aprì il cassetto del tavolino da notte, ne prese una scatolina di compresse. Un sedativo blando era ciò di cui aveva bisogno; sarebbe riuscito a dormire un paio d'ore. Le sue dita afferrarono e strinsero una piccola capsula. La inghiottì senza acqua, tornò a distendersi e chiuse gli occhi. Mentre aspettava che il farmaco facesse effetto, cercò di rassicurarsi dicendo a se stesso che ormai era salvo. Tuttavia, nonostante gli sforzi, non riuscì a ricacciare il pensiero che la prova più schiacciante del reato che aveva commesso non gli era accessibile. 3
«Scusi, se non le dispiace dovrebbe uscire dalla porta sul retro. La strada davanti all'ingresso principale è ghiacciata. Una squadra di operai sta lavorando a ripulirla.» «Dovessi anche uscire dalla finestra... Non m'importa, pur di tornare a casa mia», rispose impetuosamente Katie. «Purtroppo, venerdì devo tornare in ospedale. Sabato devo sottopormi a un piccolo intervento.» «Ah, sì?» L'infermiera diede un'occhiata alla cartella clinica di Katie. «Che cosa c'è che non va?» «Pare che abbia ereditato un disturbo di cui soffriva mia madre. Praticamente ogni mese, ho un'emorragia durante il mio periodo.» «Ecco perché l'esame del sangue che le hanno fatto quando è arrivata dava un numero così basso di globuli rossi! Ma non si preoccupi. Un raschiamento non è un gran che. Chi è il suo medico?» «Il professor Highley.» «Ah, è il migliore. Però lei sarà ricoverata nell'ala ovest. Come d'altronde tutte le pazienti di Highley. Vedrà, somiglia a un albergo di lusso. E lui è una celebrità, sa?» L'infermiera guardò di nuovo la cartella. «Non ha dormito molto stanotte, vero?» «Direi proprio di no.» Mentre si abbottonava la camicetta, Katie arricciò il naso: era macchiata di sangue, la manica sinistra cadeva penzoloni sul braccio fasciato. L'infermiera l'aiutò ad infilare il cappotto. Quella mattina il cielo era coperto, la temperatura rigida. Katie decise tra sé che febbraio era il mese più antipatico. Uscendo sul piazzale del parcheggio rabbrividì, ricordando l'incubo della notte. Il taxi stava arrivando. Con un senso di gratitudine, mosse qualche passo per andargli incontro, trasalendo per il dolore alle ginocchia. L'infermiera l'aiutò a salire in taxi, la salutò e chiuse la portiera. L'autista appoggiò il piede sull'acceleratore. «Dove andiamo, signora?» Dalla finestra della camera al secondo piano che Katie aveva appena lasciato, un uomo la osservava andar via. Teneva in mano la sua cartella clinica, che l'infermiera aveva dimenticato sul tavolo. Kathleen N. DeMaio, 10 Woodfield Way, Abbington. Luogo di lavoro: Ufficio della procura, Valley County. Un brivido di paura gli percorse la schiena: Katie DeMaio. Dalla cartella clinica, risultava che aveva preso un forte sonnifero. Stando alla sua storia medica, Katie DeMaio non prendeva medicinali di nessun genere, neppure tranquillanti o sonniferi. Evidentemente non li sopportava. Dunque, il farmaco che le avevano somministrato quella notte
doveva averla ben bene intontita. Sulla cartella c'era un'annotazione dell'infermiera: aveva trovato la paziente seduta sul letto alle 2.08 di mattina, in uno stato di grande agitazione. Lamentava di soffrire di incubi. Le avvolgibili di quella camera si erano alzate di scatto. Dunque, la paziente era andata alla finestra. Che cosa aveva visto? Se aveva notato qualcosa, anche ammettendo che ritenesse di avere avuto un incubo, l'esperienza professionale avrebbe cominciato a lavorarle dentro. Quella donna era un pericolo, un pericolo non accettabile. 4 Sedevano spalla a spalla in un séparé di legno in fondo al grande locale della Settima strada. Allontanando il piatto delle brioche senza neppure assaggiarne una, sorseggiarono cupamente il caffè. Il braccio della giacca dell'uniforme blu-pavone di lei poggiava sulla passamaneria dorata della manica di lui. Le dita della mano destra di lui si intrecciavano a quelle della mano sinistra di lei. «Mi sei mancata», disse lui, guardingo. «Anche tu, Chris. È per questo che mi dispiace vederti ora. In questo modo, non facciamo che peggiorare le cose.» «Joan, concedimi un po' di tempo. Giuro che ne verremo fuori. Dobbiamo farcela.» La donna scosse il capo. Lui si girò a guardarla e notò con sgomento la sua aria infelice. Gli occhi color nocciola erano turbati. I capelli castano chiaro, quel mattino raccolti in una crocchia, mettevano in risalto il pallore della carnagione, abitualmente rosea e liscia. Per l'ennesima volta, Chris si domandò perché non si fosse deciso a rompere definitivamente con Vangie quando, l'anno prima, lo avevano trasferito a New York. Perché aveva accettato la sua accorata proposta di fare un ennesimo tentativo di salvare il loro matrimonio, quando dieci anni di tentativi non erano approdati a nulla? E a quel punto il bambino. Pensò alla spiacevole lite con Vangie subito prima della partenza. Doveva dirlo a Joan? No, non sarebbe servito a niente. «Ti è piaciuta la Cina?» le domandò. Lei si rasserenò tutta. «È affascinante, assolutamente affascinante.» Joan era assistente di volo sulla Pan Am. Si erano incontrati sei mesi prima alle Hawaii, in occasione di un party dato da uno dei piloti, di nome Jack Lane.
Joan lavorava a New York. Abitava a Manhattan, dove divideva un alloggio con due colleghe. Pazzesco, incredibile, come due persone potessero stare bene insieme fin dal primo momento. Lui non le aveva nascosto di essere sposato, però le aveva anche detto (ed era la verità) che al momento del trasferimento dalla base di Minneapolis a New York aveva avuto l'intenzione di rompere con Vangie. Il tentativo in extremis di salvare il matrimonio era fallito. Senza colpa da parte di nessuno dei due. Semplicemente, non si sarebbero mai dovuti sposare. Poi Vangie gli aveva detto del bambino. Joan gli stava parlando: «Sei rientrato ieri sera». «Sì. Abbiamo avuto dei fastidi al motore a Chicago, così è stato deciso di cancellare l'ultima parte del volo. Siamo tornati indietro. Sono rientrato verso le sei e ho preso una camera all'Holiday Inn, nella Quinta strada.» «Perché non sei andato a casa tua?» «Perché non ti vedevo da due settimane e non ne vedevo l'ora. Ti dovevo vedere. Vangie non mi aspetta prima delle undici. Perciò non ti preoccupare.» «Chris, ti avevo detto di aver fatto domanda di trasferimento all'unità organica dell'America Latina. Bene, è stata accettata. Mi trasferisco a Miami la settimana prossima.» «Oh no, Joan!» «Non vedo altra soluzione. Senti, Chris, mi dispiace moltissimo, d'altronde non è nella mia natura mettermi con un uomo sposato. Non sono un'affossatrice di matrimoni.» «La nostra relazione è del tutto innocente.» «E chi ci crede in un mondo come il nostro? Il fatto stesso che tra poco mentirai a tua moglie circa l'ora del tuo ritorno significa molte cose, non trovi? E non dimenticare: io sono figlia di un pastore presbiteriano. Immagino la reazione di mio padre se gli dicessi che sono innamorata di un uomo il quale non solo è sposato, ma la cui moglie finalmente è rimasta incinta del bambino che ha desiderato per dieci anni! Sarebbe davvero fiero di me, mio padre, stanne certo!» Finì di bere il caffè. «Puoi dirmi quello che vuoi, Chris, ma io ho la netta sensazione che, se sparisco, esiste la possibilità di un riavvicinamento tra te e tua moglie. E sarai molto sorpreso di vedere che un bambino è capace di creare un legame molto stretto tra due persone.» Con gentilezza, sciolse le dita da quelle di lui. «Vado a casa, Chris. Ho fatto un lungo volo e sono molto stanca. Faresti bene ad andare a casa an-
che tu.» Si guardarono negli occhi. Lei gli sfiorò il viso con le dita, desiderosa di spianare quei profondi solchi di infelicità nella sua fronte. «Saremmo potuti stare meravigliosamente bene insieme.» Poi aggiunse: «Hai l'aria molto, molto stanca, Chris.» «Ieri notte non ho dormito molto.» Abbozzò un sorriso. «Non mi arrendo, Joan. Ti giuro che verrò a cercarti a Miami e quando verrò sarò libero.» 5 Katie scese dal taxi. Faticosamente, salì i gradini del porticato, infilò la chiave nella serratura, aprì la porta e mormorò tra sé: «Grazie a Dio, sono di nuovo a casa». Le sembrava di essere stata via parecchie settimane, non una sola notte, e con occhi nuovi apprezzò i riposanti colori ocra e terra di Siena nell'ingresso e nel soggiorno e i rampicanti che tanto l'avevano colpita la prima volta che aveva visto la casa. Sollevò da terra un vaso di violette africane e aspirò l'aspro profumo delle foglie. Aveva le narici piene dell'odore di disinfettanti e di medicinali. Si sentiva tutta rigida e dolorante, ancor più di quando si era alzata dal letto in ospedale. Ma almeno era a casa. John. Se fosse stato vivo, se la sera prima le avesse telefonato... Appese il soprabito, andò nel soggiorno e si lasciò cadere sul soffice divano di velluto color albicocca. Alzò gli occhi al ritratto del marito sopra il caminetto. John Anthony DeMaio, il giudice più giovane della contea di Essex. Ricordava benissimo la prima volta che lo aveva visto. Aveva tenuto una lezione al corso che lei frequentava presso la facoltà di legge a Seton Hall. Al termine, gli studenti gli si erano affollati intorno. «Giudice DeMaio, spero che la corte suprema respinga l'appello nella causa Collins.» «Giudice DeMaio, sono d'accordo con la sua sentenza nella causa Reicher contro Reicher.» Poi era stata la volta di Katie: «Giudice, devo farle presente che non sono d'accordo con la sua sentenza nella causa Kipling». John aveva sorriso: «È suo diritto, signorina...» «Katie... Kathleen Callahan.» Non aveva mai capito perché in quel momento fosse uscita con Kathleen. Ma lui l'aveva sempre chiamata così, Kathleen Noel.
Quel giorno, erano andati a bere un caffè insieme. La sera seguente lui l'aveva invitata a cena al Monsignor II, il ristorante di New York. Quando i suonatori di violino si erano avvicinati al loro tavolo, lui aveva chiesto che eseguissero Vienna, città dei miei sogni e, insieme con loro, aveva canticchiato a bassa voce: «Wien, Wien, nur Du allein...» Poi le aveva domandato: «È mai stata a Vienna, Kathleen?» «Non sono mai stata all'estero, tranne la volta che sono andata alle Bermude con la scuola. Ha piovuto quattro giorni di seguito.» «Mi piacerebbe portarla all'estero, un giorno. Per prima cosa, le mostrerei l'Italia. Quello sì che è un paese bellissimo...» La sera, accompagnandola a casa, le aveva detto: «Ha i più begli occhi azzurri che abbia avuto il piacere di vedere. Non credo che dodici anni di differenza siano troppi. Che cosa ne dice, Kathleen?» Tre mesi dopo, quando lei ebbe preso la laurea in legge, si erano sposati. Quella casa. John vi era cresciuto, poi l'aveva ereditata dai genitori. «Sono molto affezionato a questa casa, Kathleen. Ma devi essere sicura che ti piace. Forse preferisci qualcosa di più piccolo.» «John, sono cresciuta a Queens, in un alloggio di tre stanze. Dormivo su un divano-letto nel soggiorno. 'Intimità' era una parola che dovevo cercare nel dizionario. Adoro questa casa.» «Ne sono felice, Kathleen.» Si amavano moltissimo e inoltre erano ottimi amici. Gli aveva parlato del suo incubo. «Ti avverto che ogni tanto mi sveglio gridando come una prefica. È cominciato quando avevo otto anni, dopo la morte di mio padre. Era ricoverato in ospedale, si stava rimettendo da un infarto quando ebbe un secondo attacco. A quanto pare, il vecchio che stava in camera con lui si attaccò al campanello per chiamare un'infermiera. Ma non rispose nessuno. Quando finalmente qualcuno arrivò, era troppo tardi.» «E allora tu hai cominciato ad avere l'incubo.» «Penso di aver sentito raccontare così spesso questa storia, da averne riportato un'impressione indelebile. Il mio incubo è che sono in un ospedale e che vado di letto in letto in cerca di mio padre. In tutti i letti vedo facce di persone che conosco, tutte addormentate. Può trattarsi di compagne di scuola, di cugine, talvolta anche di gente qualsiasi. Io però cerco sempre di trovare papà. So che ha bisogno di me. Finalmente, vedo un'infermiera, le corro incontro e le domando dov'è papà. L'infermiera sorride e mi risponde: 'Oh, è morto. Tutta questa gente è morta. Anche tu morirai qui'.»
«Povera bambina.» «Capisci, John, razionalmente so che è assurdo non riuscire a superare questa cosa. Ma ti giuro che sono terrorizzata alla sola idea di dover mai mettere piede in un ospedale.» «Ti aiuterò io a liberarti da questi pensieri angosciosi.» Era riuscita a spiegargli ciò che aveva realmente provato dopo la morte del padre. «Mi mancava terribilmente, John. Gli sono sempre stata particolarmente affezionata. Molly aveva sedici anni e nella sua vita c'era già Bill, perciò credo che non ne sia stata colpita quanto me. Ma durante tutti gli anni della scuola, continuavo a pensare quanto sarebbe stato bello se alle recite ci fosse stato papà, se papà fosse stato presente alle feste di diploma. Ogni primavera paventavo la Festa del padre e della figlia!» «Non avevi uno zio o un parente che ti accompagnasse?» «Uno solo. E chissà quanto tempo ci sarebbe voluto perché fosse sobrio!» «Oh, Kathleen!» E tutti e due erano scoppiati a ridere, mentre John diceva: «Va bene, Kathleen, vuol dire che provvederò io a far sparire questo nodo di tristezza». «Già hai cominciato a farlo, mio caro giudice!» Avevano trascorso la luna di miele in Italia. Durante il viaggio era comparso quel dolore. Erano tornati in tempo per l'apertura dell'anno giudiziario. John era giudice al tribunale della contea di Essex. Lei aveva cominciato a lavorare nella sezione penale della contea di Valley. Un mese dopo il loro ritorno, John si era sottoposto a un check-up. La prevista giornata di degenza al Mount Sinai Hospital si dilatò in tre giorni di esami supplementari. Poi, una sera, lui l'aspettava vicino all'ascensore, elegantissimo e impeccabile nella vestaglia rosso scuro, sulle labbra un sorriso esangue. Lei gli era corsa incontro consapevole, come sempre, delle occhiate a lui dirette dai suoi compagni di ascensore, pensando che, anche in pigiama e vestaglia, John conservava un aspetto autorevole. Era sul punto di dirglielo, quando lui le aveva rivelato: «Siamo nei pasticci, cara». E anche allora, quel modo di esprimersi: «Siamo nei pasticci». In quei pochi, brevi mesi, sotto ogni punto di vista, erano diventati uno. Una volta in camera, le aveva spiegato: «È un tumore maligno. I due polmoni, a quanto pare. E pensare che non fumo!» Increduli, in un parossismo di dolore e di ironia, avevano cominciato a ridere. John Anthony DeMaio, giudice della corte suprema della contea di Essex, ex-presidente del Consiglio dell'Ordine del New Jersey, non ancora
trentenne, era stato condannato senza possibilità di appello a sei mesi di vita. Per lui nessuna speranza di essere lasciato libero sulla parola, nessuna possibilità di ricorso. Era tornato in tribunale. «Morire con la toga, perché no?» e aveva alzato le spalle. «Promettimi che ti risposerai, Kathleen.» «Chissà, forse un giorno. Sarà difficile trovarti un successore.» «Sono contento che tu la pensi così. Profitteremo di ogni minuto che ci resta.» E, nonostante tutto, erano riusciti a passare delle ore liete. Un giorno, di ritorno dall'ufficio, John aveva detto: «Credo che sia ora di smetterla con il tribunale.» Il cancro si era diffuso. Il dolore aumentava costantemente. I primi tempi, John andava periodicamente in ospedale qualche giorno per la chemioterapia. L'incubo di Katie era ricomparso, a scadenze regolari. Ma John tornava a casa e c'era ancora tempo. Lei aveva dato le dimissioni dal lavoro: voleva passare con lui ogni minuto. Verso la fine, lui aveva chiesto: «Ti farebbe piacere se dalla Florida tua madre venisse qui ad abitare con te?» «No, per carità! La mamma è una bravissima donna, ma abbiamo già vissuto insieme finché io non sono andata all'università. È stato sufficiente. Inoltre, a lei piace la Florida.» «Come vuoi. Sono contento che Molly e Bill abitino qui vicino. Ti terranno d'occhio. E i bambini ti terranno allegra.» Poi avevano taciuto entrambi. Bill Kennedy era medico ortopedico. Lui e Molly avevano sei figli e abitavano a Chapin River, due isolati più a sud. Il giorno del loro matrimonio, Katie e John avevano detto a Bill e a Molly di voler battere il loro primato: «Noi ne avremo sette!» aveva annunciato John. L'ultima volta che era andato a fare la chemioterapia, John non era tornato a casa. Era talmente debole che gli avevano consigliato di passare lì la notte. Era entrato in coma mentre parlava con lei. Avevano sperato entrambi che la fine sopravvenisse mentre lui era a casa, invece era morto in ospedale quella notte. La settimana seguente, Katie aveva fatto domanda per entrare nell'ufficio della procura ed era stata assunta. Era stata una saggia risoluzione. L'ufficio aveva perennemente penuria di personale e lei aveva sempre più casi di quanti ragionevolmente ne potesse trattare. Non le rimaneva tempo
da dedicare a se stessa. Tutto il giorno, ogni giorno, anche durante i fine settimana, si doveva concentrare su quel carico di lavoro. Era stata un'ottima terapia anche sotto un altro punto di vista. Quella rabbia che era seguita al dolore, l'impressione di essere stata truffata, il furore che John fosse stato defraudato di un grosso pezzo di vita, tutto ciò Katie rivolse alle cause di cui si occupava. E quando pronunciava la requisitoria per un reato grave, si sentiva come se tangibilmente stesse combattendo contro almeno una specie del male che distrugge le vite umane. Aveva tenuto la casa. John l'aveva nominata erede di tutti i suoi beni, piuttosto cospicui; ma anche così Katie sapeva che per una donna di ventotto anni con uno stipendio di due milioni il mese era insensato continuare a vivere in una villa del valore di oltre duecento milioni, circondata da due ettari di terra. Molly e Bill la esortavano a vendere la casa. «Non ti libererai del tuo passato con John finché non lo fai», le ripeteva Bill. Probabilmente aveva ragione. Katie si scosse e si alzò dal divano. Stava cedendo al sentimentalismo. Doveva telefonare a Molly. Se la sera precedente sua sorella l'aveva cercata senza ottenere risposta, certamente ne era stata felice: faceva novene perché Katie «trovasse qualcuno». Tuttavia, le sarebbe dispiaciuto se l'avesse cercata in ufficio e fosse venuta a sapere dell'incidente. Forse Molly poteva raggiungerla e trattenersi a colazione con lei. In casa c'era l'occorrente per fare un'insalata e gli ingredienti per un Bloody Mary. Molly era perennemente a dieta, ma per nessuna ragione al mondo avrebbe rinunciato a un Bloody Mary prima di colazione. «Per l'amor di Dio, Katie, non crederai che una che ha sei figli non senta il bisogno di una carica prima di colazione!» La sua rallegrante presenza avrebbe dissolto rapidamente quel senso di solitudine e di melanconia. Rammentò di avere la camicetta macchiata di sangue. Dopo avere parlato con Molly, in attesa della sua venuta, avrebbe fatto un bagno e si sarebbe cambiata. Lanciando una fugace occhiata allo specchio sopra il divano, si avvide che il livido sotto l'occhio destro stava assumendo un bel colore violaceo. La sua carnagione, olivastra di natura (la mamma la definiva l'eredità «nero-irlandese» dal lato paterno), era giallastra e malaticcia. I capelli castano scuro che le sfioravano le spalle, generalmente gonfi e naturalmente ondulati, spiovevano opachi lungo il viso e sul collo.
«Forse c'è di peggio», disse con un mesto sorriso. Il dottore le aveva raccomandato di non bagnare il braccio. Meglio avvolgerlo, fasciato com'era, in un sacchetto di plastica. Non ebbe il tempo di alzare il ricevitore e di formare il numero di Molly che il telefono squillò. È Molly, pensò tra sé. È un'indovina. Invece era Richard Carroll, il medico legale. «Katie, come stai? Ho appena saputo che hai avuto un incidente.» «Niente di serio. Ho pensato bene di fare una passeggiatina fuori strada. Il guaio è che c'era un albero.» «Quando è successo?» «Ieri sera, verso le dieci. Stavo rincasando dall'ufficio. Ero rimasta a lavorare fin tardi per mettermi in pari con certe pratiche. Ho passato la notte in ospedale e sono appena rientrata. Sono mostruosa, però sto bene.» «Chi è venuto a prenderti? Molly?» «No. Lei non sa ancora niente. Ho chiamato un taxi.» «Il Viandante Solitario come il solito, vero Katie?» disse Richard. «Perché diavolo non mi hai chiamato?» Lei si mise a ridere. La preoccupazione che traspariva dalla voce di lui era lusinghiera e al tempo stesso minacciosa. Richard e il marito di Molly erano ottimi amici. Negli ultimi sei mesi era capitato spesso che sua sorella invitasse intenzionalmente Katie e Richard a qualche cenetta da lei. Ma Richard era tanto cinico e brusco e lei si sentiva sempre un po' a disagio con lui. A ogni modo, non aveva intenzione di mettersi con nessuno, soprattutto non con uno con cui molto spesso aveva rapporti per ragioni di lavoro. «La prossima volta che vado a sbattere contro un albero lo farò», rispose. «Prenderai qualche giorno di riposo, vero?» «Oh, no», rispose lei. «Voglio sentire se Molly può fare colazione con me. Poi andrò in ufficio. A dir poco, ho una decina di scartoffie che mi aspettano e venerdì ho una causa importante.» «Inutile dirti che sei matta. Fai come vuoi. Adesso devo lasciarti. Suona l'altro telefono. Farò una capatina nel tuo ufficio verso le cinque e mezzo e ti porterò qualcosa da bere.» Riagganciò prima che lei avesse il tempo di replicare. Fece il numero di Molly. Quando rispose, sua sorella aveva la voce molto turbata. «Katie, penso che tu lo sappia già.» «Che io sappia che cosa?»
«Quelli del tuo ufficio stanno arrivando in questo momento.» «Arrivando dove?» «Alla porta accanto a noi. Dai Lewis. La coppia che è venuta ad abitare qui l'estate scorsa. Katie, quel poveruomo è appena rientrato da un volo notturno e l'ha trovata. Sua moglie, Vangie. Si è uccisa. Katie, era incinta di sei mesi!» I Lewis. I Lewis. Li aveva conosciuti da Molly e Bill alla veglia di Capodanno. Vangie era una bionda, molto bellina. Chris faceva il pilota. Attonita, sentì la voce costernata di Molly: «Katie, perché mai dovrebbe suicidarsi una donna che desiderava un figlio così ardentemente?» La domanda rimase sospesa nell'aria. Brividi di freddo scossero Katie. Quei lunghi capelli biondi spioventi sulle spalle. Il suo incubo. Strano, gli scherzi che può fare la mente. Non appena Molly aveva pronunciato il suo nome, l'incubo della notte prima era ricomparso. Il viso che aveva intravisto dalla finestra dell'ospedale era il viso di Vangie Lewis. 6 Richard Carroll parcheggiò nello spazio riservato alla polizia, a Winding Brook Lane. Fu molto scosso avvedendosi che i Lewis abitavano accanto a Bill e Molly Kennedy. Bill era interno al St. Vincent quando Richard, appena laureato, vi era capitato come assistente. Più tardi, lui aveva preso la specializzazione in medicina legale e Bill in ortopedia. Era stato con piacevole sorpresa che si erano incontrati di nuovo al tribunale della contea di Valley, dove Bill era stato chiamato in qualità di perito per una causa di negligenza colposa. La conoscenza fortuita dei giorni di St. Vincent si era trasformata in amicizia. Capitava spesso che giocassero insieme a golf e che dopo Richard si fermasse a bere qualcosa da lui. Aveva incontrato la sorella di Molly, Katie DeMaio, nell'ufficio della procura e subito si era sentito attratto da quella ragazza così impegnata. La giovane donna aveva in sé qualcosa che gli rammentava l'invasione dell'Irlanda a opera degli spagnoli, che aveva lasciato dietro di sé una progenie dalla pelle olivastra e i capelli scuri, in contrasto con gli occhi azzurro vivo dei celti. Ma lei lo aveva garbatamente scoraggiato quando le aveva proposto di mettersi insieme e lui si era filosoficamente rassegnato a cancellarla dai suoi pensieri. Dopotutto non gli mancavano le donne, anche molto carine, che dimostravano di apprezzare la sua compagnia. Ma ascoltando Bill, Molly e i ragazzi parlare di Katie, di quanto fosse
simpatica, di come fosse a pezzi dopo la morte del marito, il suo interesse per lei si era riacceso. Negli ultimi mesi era andato a un paio di feste in casa di Bill e di Molly e aveva scoperto con un certo rincrescimento di pensare a lei più di quanto volesse. Si strinse nelle spalle. Si trovava lì per una questione di competenza della polizia. Una donna di trent'anni si era uccisa. Spettava a lui scoprire qualche indizio clinico atto a dimostrare che Vangie Lewis non si era tolta la vita. Più tardi, avrebbe eseguito l'autopsia. Strinse i denti al pensiero del feto che la donna portava in sé: proprio non aveva avuto fortuna. Ma come conciliare quel gesto con l'amore materno? Sinceramente, obiettivamente, Richard già cominciava ad avere antipatia per la defunta Vangie Lewis. Un giovane poliziotto di Chapin River lo accompagnò in casa. Il soggiorno era a sinistra dell'ingresso. Un tale, con indosso l'uniforme di comandante di una linea aerea, stava seduto sul divano, chino in avanti, e chiudeva e apriva i pugni. Era assai più pallido di parecchi dei morti con i quali Richard aveva avuto a che fare e tremava violentemente. Provò per lui un breve impeto di simpatia. Decise di parlargli più tardi. «Da che parte?» domandò all'agente. «Qui dietro», rispose il poliziotto, e fece un cenno del capo verso il retro della casa. «La cucina è di fronte a noi, le stanze da letto a destra. La donna sta nella camera grande.» Richard vi si diresse rapidamente, cercando nel frattempo di assorbire l'atmosfera della casa. Una dimora dispendiosa, ma arredata senza cura, senza gusto, perfino senza amore. Un'occhiata al soggiorno gli era stata sufficiente per accorgersi di quella impronta tipica di un arredatore senza fantasia che era tanto comune nei negozi sul Corso in una cittadina di provincia. Richard aveva uno spiccato senso del colore. Riteneva che ciò lo aiutasse considerevolmente anche nel lavoro. E i colori stridenti lo ferivano quanto il suono di note stonate. In cucina c'era Charley Nugent, l'agente della squadra Omicidi. I due si scambiarono un breve cenno di saluto. «Che aspetto ha?» domandò Richard. «Parliamone dopo che l'hai vista.» Vangie Lewis, morta, non era bella da vedere. I lunghi capelli biondi avevano il colore del fango; il viso era stravolto; gambe e braccia, indurite nel rigor mortis, sembravano tese su fili di ferro. Il soprabito, abbottonato, forse a causa della gravidanza non arrivava alle ginocchia. Sotto un lungo caffetano a fiori, si intravedevano a malapena le suole delle scarpe.
Richard sollevò l'abito oltre le caviglie. Le gambe, ovviamente gonfie, deformavano il collant. I bordi della scarpa destra penetravano nella carne. Con mano esperta, sollevò un braccio, lo tenne alzato un momento, quindi lo lasciò ricadere. Osservò con attenzione le chiazze pallide intorno alla bocca, dove il veleno l'aveva bruciata. Charley gli stava accanto. «Quanto tempo credi che sia passato?» «Direi dalle dodici alle quindici ore. È molto rigida», spiegò Richard con voce neutra. Qualcosa turbava il suo senso dell'armonia. Cappotto infilato, scarpe ai piedi. Era appena rincasata, oppure stava per uscire? Che cosa l'aveva improvvisamente indotta a togliersi la vita? Sul letto, vicino al corpo, il bicchiere. Si chinò ad annusarlo. L'inconfondibile odore di mandorla amara tipico del cianuro gli penetrò le narici. Era incredibile il numero dei suicidi con il cianuro dopo quella terribile ecatombe del culto di Jones in Guayana! Richard si raddrizzò. «Ha lasciato un biglietto?» L'agente della Omicidi scosse il capo. Charley ha scelto la professione giusta, pensò Richard. Aria perennemente afflitta, palpebre melanconicamente pendenti sugli occhi. Sembrava avesse costantemente dei problemi di forfora. «Nessuna lettera, niente di niente. Sposata da dieci anni con il pilota, il tipo che è seduto in salotto. Sembra molto sciupata. Sono di Minneapolis, arrivati qui meno di un anno fa. Ha sempre desiderato un figlio. Finalmente era rimasta incinta ed era al settimo cielo. Aveva cominciato ad arredare la camera del bambino. Mattina, pomeriggio e sera non faceva che parlare del bambino.» «E poi uccide sé e il bambino?» «Secondo il marito, era molto nervosa negli ultimi mesi. Talvolta, aveva una specie di fissazione di perdere il bambino, altre volte sembrava avere molta paura di partorire. Forse, sapeva di avere sintomi di tossicosi gravidica.» «E si uccide piuttosto che partorire o correre il rischio di perdere il bambino?» Richard sembrava scettico. Scommetto che non ci crede neanche Charley, pensò tra sé. «C'è Phil?» chiese. Era il membro più anziano della squadra Omicidi in forza alla procura. «È andato in giro a parlare con i vicini.» «Chi l'ha trovata?» «Il marito. Era appena rientrato da un volo. Ha chiamato un'ambulanza e la polizia locale.» Richard esaminava le ustioni intorno alla bocca di Vangie. «Evidentemente, si è schizzata con il liquido», osservò pensoso. «Oppure, ha voluto
risputarlo, ma troppo tardi. Si può parlare con il marito, farlo venire qui?» «Certo.» Charley fece un cenno al giovane agente, il quale si girò affrettandosi lungo il corridoio. Quando Christopher Lewis entrò nella camera, pareva in procinto di avere un malore. Il suo incarnato era verdastro e malaticcio. Viscide e fredde gocce di sudore gli imperlavano la fronte. Si era sbottonato il colletto della camicia; non portava cravatta. Teneva le mani affondate nelle tasche. Il medico legale lo guardò attentamente, cercando di valutarlo. Lewis era sconvolto, sofferente, snervato. Ma mancava qualcosa: non aveva l'aria di un uomo la cui vita fosse stata stroncata. Richard aveva visto la morte infinite volte. Aveva visto i parenti prossimi ammutoliti nel dolore, ne aveva visto altri urlare come pazzi, gridare, piangere, buttarsi sul corpo del morto, toccarne la mano nel tentativo di capire. Si ricordò di un giovane marito, la cui moglie era stata colpita in una sparatoria mentre scendevano dalla macchina per andare dal droghiere. Quando lui era arrivato sul posto, il marito, attonito, reggeva il corpo della moglie e le parlava cercando di farsi sentire. Quello era il dolore. Quali che fossero in quel momento i sentimenti di Christopher Lewis, Richard ci avrebbe scommesso la testa che non erano quelli di un marito straziato. Charley stava interrogando Chris Lewis: «Comandante Lewis, sappiamo che per lei è una cosa penosa, ma il nostro compito sarà facilitato se ci consente alcune domande.» «Qui?» La domanda era una protesta. «Sì, e capirà il perché. Saremo brevi. Quando ha visto sua moglie l'ultima volta?» «Due sere fa. Dovevo fare la rotta della California.» «A che ora è rincasato?» «Circa un'ora fa.» «Ha parlato con sua moglie in questi due ultimi giorni?» «No.» «Quali erano le condizioni mentali di sua moglie quando lei è partito?» «Gliel'ho già detto.» «Se volesse ripeterlo al dottor Carroll...» «Vangie era inquieta. Aveva paura di abortire.» «E lei, comandante, condivideva questa preoccupazione?» «Vangie si era appesantita, sembra che ci fosse ritenzione di liquido, pe-
rò aveva delle pillole apposite e io so che è un disturbo abbastanza comune.» «Si era messo in contatto con l'ostetrico di sua moglie, per parlarne e per farsi rassicurare?» «No.» «D'accordo. Comandante, vuol dare un'occhiata alla stanza e dirci se le sembra che manchi qualcosa? So che non è facile, ma vuole esaminare con molta attenzione il corpo di sua moglie e vedere se vi scorge qualcosa di insolito? Per esempio, quel bicchiere. È sicuro che si tratti del bicchiere del vostro bagno?» Chris obbedì. Il suo viso si sbiancava man mano che osservava ogni particolare dell'aspetto di sua moglie. Con gli occhi socchiusi, Charley e Richard lo osservavano. «No», disse Chris infine, a voce bassissima. «No, niente.» D'un tratto, Charley diventò molto sbrigativo. «Come vuole, comandante. Non appena avremo scattato qualche foto, porteremo via il corpo di sua moglie per eseguire l'autopsia. Vuole aiuto per mettersi in contatto con qualcuno?» «Devo fare qualche telefonata. Il padre e la madre di Vangie. Saranno distrutti. Vado di là nello studio e li chiamo subito.» Appena fu uscito, Richard e Charley si guardarono. «Ha visto qualcosa che a noi è sfuggito», osservò Charley reciso. Richard fece un cenno di assenso. «Sì.» E i due uomini fissarono cupamente il corpo rattrappito. 7 Prima di riagganciare, Katie aveva informato la sorella dell'incidente e le aveva proposto di fare colazione insieme. Ma la figlia dodicenne di Molly, Jennifer, e i gemelli erano a casa, convalescenti dall'influenza. «Per Jennifer non mi preoccupo, ma non voglio che i due piccoli restino soli neppure per un minuto», aveva spiegato Molly, e avevano deciso che sarebbe passata a prendere Katie e l'avrebbe portata a casa sua. Aspettandola, Katie fece un bagno veloce e si arrangiò a lavarsi e asciugarsi i capelli usando la sola mano destra. Indossò un pesante maglione di lana e un paio di pantaloni di tweed di ottimo taglio. I capelli, morbidi e ondulati, le cadevano fino alla scollatura. Mentre faceva il bagno e si cambiava, provò a inquadrare razionalmente l'allucinazione della notte prima.
Era andata alla finestra davvero, oppure anche quello era parte del sogno? Forse le avvolgibili erano scattate da sole e l'avevano svegliata dall'incubo. Chiuse gli occhi, mentre ancora una volta tutta la scena le affiorava alla coscienza. Eppure, le era sembrato tutto così reale: la luce del bagagliaio che cadeva direttamente su quegli occhi sbarrati, su quei lunghi capelli biondi, su quelle alte arcate sopraccigliari. Per un momento, tutto era stato molto nitido. Ed era proprio quello a farle paura: la nitidezza dell'immagine. Anche nel sogno, quel viso le era familiare. Doveva parlarne a Molly? No, certo no. Negli ultimi tempi, sua sorella era in pensiero per lei: «Sei così pallida, Katie. Lavori troppo. E stai diventando troppo quieta». La sollecitava a sottoporsi al più presto all'operazione programmata. «Non puoi continuare così in eterno. Se ti trascuri, le emorragie diventano pericolose.» Poi aggiungeva: «Katie, renditi conto che sei una donna giovane. Hai bisogno di una vera vacanza, di rilassarti, di andare un po' via». Da fuori, le giunse il suono strombazzante di un clacson, mentre Molly arrivava sulla sua vecchia giardinetta. Katie si infilò in fretta una calda giacca di castoro, rialzò il collo fino alle orecchie e corse fuori rapida quanto le consentivano le ginocchia gonfie. Molly aprì la portiera e si piegò ad abbracciare la sorella. «Non sei esattamente un fiore», le disse guardandola con disapprovazione. «Quanto ti sei fatta male?» «Poteva andare peggio.» La giardinetta aveva un vago profumo di noccioline e di gomma americana, un profumo confortante e familiare, e Katie si sentì subito rinfrancata. Ma quella sensazione svanì di colpo quando Molly disse: «Il nostro palazzo è sottosopra. Quelli del tuo ufficio non fanno entrare in casa Lewis e c'è un poliziotto che va in giro a fare domande. Mi ha acchiappato mentre stavo uscendo. Gli ho detto che sono tua sorella e abbiamo celebrato le tue lodi». «Sarà Phil Cunningham, o Charley Nugent.» «Uno alto, grosso. Con un faccione. Simpatico.» «Allora è Phil Cunningham. Brava persona. Che tipo di domande faceva?» «Le solite: se siamo in grado di dire a che ora è uscita, a che ora è tornata. Insomma, le solite cose.» «E tu lo sai?» «Quando i gemelli sono malati e fanno i capricci, non mi accorgerei neppure di Robert Redford se venisse nella casa accanto! Inoltre, a malapena vediamo la casa dei Lewis quando c'è il sole, figurati di notte e per di
più con il temporale!» Stavano passando sul ponte di legno ed erano quasi all'altezza della curva per Winding Brook Lane. Katie si morse un labbro. «Molly, mi lasceresti davanti alla casa dei Lewis?» Lei la guardò stupita. «Perché?» Katie si provò a sorridere. «Be', dopotutto sono sostituto procuratore e, per quel che vale, sono anche consulente della polizia di Chapin River. Non che io sia tenuta ad andare, però, dato che mi trovo proprio da queste parti, mi pare opportuno farlo.» Il carro funebre, mandato dall'ufficio di medicina legale, stava imboccando a marcia indietro la strada che portava alla casa dei Lewis. C'era Richard sulla soglia di casa. Si avvicinò alla macchina di Molly. Lei gli disse in fretta: «Katie viene a colazione da me. Ha voluto fermarsi qui. Se puoi, vieni anche tu». Richard accettò mentre aiutava Katie a scendere dalla giardinetta. «Sono contento che tu sia qui», le disse. «In questa storia c'è qualcosa che non mi persuade.» In quel momento, sul punto di vedere la donna morta, Katie si sentì la bocca asciutta. Ricordava le fattezze del viso che le era apparso in sogno. «Il marito è nel salottino», disse Richard. «Lo conosco. Forse lo conosci anche tu. Era da Molly il giorno di Capodanno. No, tu sei venuto più tardi. Loro se ne erano già andati.» «Va bene. Ne parleremo più tardi. Ecco la stanza.» Katie si fece forza e guardò il viso già noto. Lo riconobbe immediatamente. Rabbrividì e chiuse gli occhi. Che io sia matta? «Katie, ti senti bene?» le domandò bruscamente Richard. Che stupida! «Sì, benissimo», rispose lei, e la sua voce le parve abbastanza normale. «Vorrei parlare con il comandante Lewis.» Quando arrivarono davanti al salottino, la porta era chiusa. Richard l'aprì silenziosamente, senza bussare. Chris Lewis stava al telefono e voltava loro le spalle. La sua voce era bassa, ma chiara: «So che è incredibile, ma ti giuro, Joan, che non sapeva di noi». Richard richiuse la porta senza rumore. Scambiò un'occhiata con Katie. Lei disse: «Dirò a Charley di stare qui. Io vado da Scott a proporgli di dare inizio a un'indagine molto approfondita». Scott Myerson era il procuratore. «Farò l'autopsia appena la porteranno», disse Richard. «Quando saremo sicuri che è stato il cianuro a ucciderla, cominceremo immediatamente a cercare dove lo ha trovato. Vieni, andiamo, e restiamo poco da Molly.»
La casa di sua sorella, come la sua giardinetta, era un rifugio di normalità. Spesso, rientrando dal lavoro, Katie vi si fermava per cena o a bere un bicchiere di vino. Un profumo di buona cucina; lo scalpiccio dei bambini su e giù per le scale; il chiasso della televisione accesa; il suono delle giovani voci che gridavano e discutevano. Per lei, era il ritorno al mondo reale dopo una giornata di lavoro spesa a occuparsi di assassini, sequestratori, rapinatori, vandali, trasgressori, appiccatori d'incendi, truffatori da strapazzo. E per quanto amasse teneramente i Kennedy, la visita le faceva apprezzare la pace della propria casa. Salvo, naturalmente, sentirne di più, talvolta, il vuoto e fantasticare su come sarebbe stato se John fosse stato ancora vivo e avessero avuto dei bambini. «Katie! Dottor Carroll!» I gemelli, urlanti, corsero a salutare. «Hai visto tutte quelle macchine della polizia, Katie? È successo qualcosa nella casa accanto!» Peter, di dieci minuti più anziano del gemello, fungeva sempre da portavoce. «Nella casa accanto!» fece eco John. Molly li chiamava «Parla e Ripeti». «Sparite, voi due!» ordinò. «Lasciateci mangiare in pace!» «Dove sono gli altri?» domandò Katie. «Grazie a Dio, stamane Billy, Dina e Moira sono tornati a scuola», rispose Molly. «Jennifer è a letto. Sono andata a vedere un momento fa e si è di nuovo appisolata, povera piccola. Sta ancora male.» Si misero a tavola in cucina, un locale grande, gaio, caldo. Molly tolse dal forno i toast che aveva messo a scaldare, offrì da bere (e loro rifiutarono), versò il caffè nelle tazze. Ha il bernoccolo della cucina, pensò Katie. Tutto quello che fa ha sempre ottimo sapore. Ma quando provò a mangiare, si accorse di avere la gola chiusa. Guardò Richard. Aveva spalmato la mostarda sulla carne e mangiava, visibilmente compiaciuto. Katie gli invidiò quella capacità di distacco: da una parte riusciva a godere di un buon toast, dall'altra, ne era sicura, continuava a pensare al caso Lewis: aveva la fronte aggrottata, il ciuffo castano scuro arruffato, gli occhi grigio-azzurri pensosi, le larghe spalle chine in avanti, mentre con due dita tamburellava sul tavolo. Era pronta a scommettere che stavano tutti e due chiedendosi la stessa cosa: chi era al telefono con Chris Lewis? Rammentò la sola volta che gli aveva parlato. Era Capodanno e avevano discusso di furti e di rapine. Lui aveva detto cose interessanti e intelligenti, era stato piacevole. Con quei suoi tratti irregolari, era un gran bell'uomo. E Katie ricordò che Chris e Vangie si erano messi ai due lati opposti di quel-
la stanza affollata e che lui non le era parso entusiasta quando lei gli aveva fatto i rallegramenti per il nascituro. «Molly, che cosa pensi dei Lewis, voglio dire, come credi che fossero i loro rapporti?» Sua sorella sembrò imbarazzata. «Onestamente, credo che fossero sull'orlo della rottura. Lei era così invasata dal fatto di essere incinta che, quando venivano qui, non faceva che parlare di bambini e lui, ovviamente, si irritava. E siccome io ero parte in causa nel fatto che lei fosse rimasta incinta, mi sentivo mortificata.» Richard smise di tamburellare sul tavolo e si drizzò sulla sedia. «Tu eri che cosa?» «Voglio dire... Be', tu mi conosci, Katie. Quando arrivarono qui, l'estate scorsa, io andai subito da loro e li invitai a cena. Vennero e senza porre indugio Vangie mi disse quanto desiderava avere un bambino e come le dispiacesse che fossero finiti gli anni migliori per le gravidanze, dato che aveva passato la trentina.» Molly bevve l'ultimo sorso del suo Bloody Mary e guardò con rincrescimento il bicchiere vuoto. «Allora le raccontai di Liz Berkeley, la quale non era mai riuscita a concepire finché non era andata da un ginecologo che è una specie di esperto della fecondità. Proprio in quei giorni, Liz aveva avuto una bambina e, naturalmente, era al settimo cielo. Insomma, ho parlato a Vangie del professor Highley. Lei c'è andata e un paio di mesi dopo è rimasta incinta. Ma, da allora, ho cominciato a rimpiangere di essermene impicciata.» «Il professor Highley?» Katie era sbigottita. Molly fece un cenno di assenso. «Sì, lo stesso che...» Katie fece di no ripetutamente con la testa, e la voce di Molly svanì nel nulla. 8 Edna Burns era soddisfatta del suo lavoro. Era segretaria-contabile dei due medici che reclutavano il personale e dirigevano il gruppo di lavoro del Progetto Maternità Westlake. «Il vero pezzo grosso è il professor Highley», raccontava agli amici. «Sapete, aveva sposato Winifred Westlake e lei gli ha lasciato tutto. Dirige lui la baracca.» Il professor Highley era ginecologo e, come spiegava Edna, «è uno spettacolo assistere alle reazioni delle sue pazienti quando finalmente restano
incinte: così felici che si direbbe abbiano inventato loro i bambini! È vero che lui si fa pagare un occhio della testa, però, praticamente, fa miracoli!» «D'altra parte», continuava Edna, «Highley è anche la persona a cui rivolgersi quando ti porti dentro un problema che non vuoi far crescere, non so se mi spiego!» aggiungeva, facendo l'occhietto. Il dottor Fukhito era psichiatra. Il Programma Maternità Westlake si basava sulla teoria olistica della medicina, secondo la quale mente e corpo debbono essere in armonia perché possa aver luogo una gravidanza coronata da successo e che molte donne non sono in grado di concepire perché emotivamente condizionate da timori e da ansie. Le pazienti di ginecologia consultavano il dottor Fukhito almeno una volta, ma alle donne incinte veniva imposto di sottoporsi a visite regolari. Edna si infervorava nel raccontare agli amici che il Programma Maternità Westlake era stato un sogno del vecchio professor Westlake, il quale era morto prima di realizzarlo. Poi, otto anni prima, sua figlia Winifred aveva sposato il professor Highley, aveva comprato la Clinica River Falls, sull'orlo della bancarotta, l'aveva ribattezzata con il nome del padre e aveva voluto che il marito esercitasse lì. «Lei e il professore erano innamoratissimi», sospirava Edna. «È vero che lei aveva dieci anni più di lui e non era quel che si suol dire una bellezza, però si amavano davvero. Capitava che un paio di volte la settimana lui mi dicesse di mandarle dei fiori e, con tutte le cose che aveva da fare, trovava il tempo di accompagnarla a comprarsi i vestiti. Lasciatemelo dire: è stato un colpo quando è morta, nessuno sospettava che avesse un cuore tanto mal ridotto. «Ma», soleva aggiungere con filosofia, «lui è molto attivo. Ho visto donne che non erano riuscite a concepire rimanere incinte due o tre volte. Ovviamente, molte non portano a termine la gravidanza, ma almeno sanno che la possibilità esiste. E dovreste vedere come sono assistite! Ho visto io il professor Highley portare delle donne in ospedale e costringerle a letto due mesi prima del parto. Costa un patrimonio, naturalmente, però, credetemi, se uno vuole un bambino e può permetterselo, paga qualsiasi cifra pur di averlo. D'altronde, presto potrete leggerlo voi stessi», aggiungeva. «La rivista Newsmaker sta pubblicando un articolo su di lui e sul Programma Maternità Westlake. Esce giovedì. Sono venuti la settimana scorsa e l'hanno fotografato nel suo studio accanto alle foto dei bambini che ha fatto nascere. Molto bello. E se vi sembra che adesso noi si abbia molto lavoro, aspettate di vedere che cosa succederà. Il telefono non tacerà un istante.»
Edna era una contabile nata. I suoi registri erano gioielli di precisione. Adorava le ricevute e provava un orgoglio sensuale nel fare depositi, frequenti e sostanziosi, sul conto del suo datore di lavoro. Un cartello, elegante ma bene in vista, informava che i pagamenti dovevano avvenire in contanti, che non sarebbero stati mandati conti mensili, che la signorina Burns avrebbe precisato l'ammontare dell'acconto e le modalità dei pagamenti. Il professor Highley le aveva dato disposizione, salvo indicazioni contrarie, di provvedere a fissare una serie di appuntamenti con le pazienti che lasciavano lo studio; e se per un motivo o per l'altro una paziente non rispettava l'appuntamento stabilito, Edna doveva telefonarle a casa e con molta energia fissarne un altro. Era un buon sistema e, diceva lei con un sorriso, un'ottima fonte di guadagno. Il professore si complimentava sempre con Edna per la sua diligenza nel tenere i libri contabili e per la sua abilità nel riempire di appuntamenti l'agenda. In un'unica occasione l'aveva aspramente ripresa, quando l'aveva sorpresa a parlare con una paziente dei problemi di un'altra. Edna riconosceva di avere commesso una leggerezza, ma quel giorno a colazione si era concessa un paio di Manhattan, che l'avevano messa a terra. Il professore aveva chiuso il rabbuffo con queste parole: «Se succede un'altra volta, lei è licenziata». E lei sapeva che diceva sul serio. Edna sospirò. Era stanca. Il giorno precedente i due medici avevano visitato fino a tarda sera; era stata una giornata febbrile. Poi lei aveva aggiornato i registri. Non vedeva l'ora che arrivasse sera per andare a casa e niente l'avrebbe indotta a uscire una seconda volta. Si sarebbe messa in vestaglia, avrebbe preparato un bricco di Manhattan. Nel frigo c'era una scatola di prosciutto, con cui avrebbe cenato. Poi avrebbe guardato la televisione. Mancava poco alle due. Ancora tre ore alla chiusura. Meglio profittare di quel momento di calma per controllare l'agenda del giorno prima e assicurarsi di aver segnato tutti gli appuntamenti dei giorni seguenti. Aggrottò la fronte a causa del suo sguardo da miope e appoggiò sulla grassa mano il suo viso largo e lentigginoso. Aveva i capelli in disordine. La sera prima non aveva avuto tempo di fare la messa in piega. Dopo un paio di bicchieri, si era sentita un po' stanca. Era troppo grassa per i suoi quarantadue anni, ne dimostrava dieci di più. La sua piatta giovinezza si era consumata badando agli anziani genitori. Quando guardava le foto dei tempi in cui frequentava la scuola Drake per segretarie, restava vagamente sorpresa di constatare che un quarto di seco-
lo prima era stata una ragazza molto carina. Sempre un tantino troppo pesante, ma molto carina. Si concentrava solo a metà sulla pagina che stava leggendo, quando d'un tratto qualcosa richiamò tutta la sua attenzione. Sospese la lettura. L'appuntamento alle venti della sera precedente per Vangie Lewis. Vangie era arrivata presto e si era seduta a chiacchierare con lei. La donna era indubbiamente agitata. Be', era sempre un po' lagnosa, però era talmente bellina che si provava piacere solo a guardarla. Da quando era rimasta incinta, era molto ingrassata, Edna supponeva a causa di una eccessiva ritenzione di liquido. Comunque, si augurava con tutto il cuore che il bambino nascesse bene. Vangie ci teneva tanto. Perciò Edna non l'aveva rimproverata per il suo malumore. Era chiaro che non stava bene. Da un mese aveva cominciato a portare quei mocassini, perché le altre scarpe non le entravano più. Glieli aveva mostrati: «Guarda. Ho il piede destro così malandato che riesco a portare solo queste scarpacce dimenticate dalla donna delle pulizie. L'altro mi esce». Edna aveva cercato di buttarla sul ridere: «Be', con queste scarpine di vetro, non mi resta che chiamarti Cenerentola. E chiameremo tuo marito il Principe Azzurro». Sapeva che lei era pazza del marito. Ma Vangie, tutta imbronciata, aveva risposto con stizza: «Oh, Edna, lo sanno tutti che il Principe Azzurro era il ragazzo della Bella Addormentata e non di Cenerentola!» Lei si era messa a ridere: «Si vede che mia madre ha fatto confusione. Quando mi raccontava la storia di Cenerentola, diceva che il Principe Azzurro era arrivato con la scarpina di vetro. Adesso non ci pensare, vedrai che in men che non si dica avrai il bambino e potrai rimetterti delle belle scarpe!» Vangie aveva sollevato l'orlo del caffetano che aveva cominciato a portare per nascondere la gamba gonfia. «Edna», si era lagnata, «a malapena riesco a infilare questa scarpaccia. E perché? Dio santo, perché?» Quasi piangeva. «Sei depressa, cara», le aveva risposto. «Hai fatto bene a venire da Fukhito. Vedrai che ti aiuterà a rilassarti.» Proprio in quel momento, il dottor Fukhito aveva suonato il cicalino, dando istruzioni perché facesse passare la signora Lewis. Vangie si era incamminata lungo il corridoio che portava allo studio. Subito aveva inciampato. La scarpa sinistra le era uscita dal piede. «Accidenti!» aveva esclamato, ma aveva proseguito. Edna aveva raccol-
to il mocassino, supponendo che Vangie sarebbe ripassata a prenderlo al termine del colloquio con Fukhito. Ogni lunedì Edna si tratteneva in ufficio fino a tardi a lavorare sui registri. Alle nove era pronta per andare a casa, ma Vangie non era ancora ripassata. Aveva allora deciso di arrischiarsi a telefonare al dottor Fukhito, per avvertire che lasciava la scarpa di Vangie in corridoio, davanti alla porta dell'ufficio. Dallo studio di Fukhito non aveva ottenuto risposta. Dunque, Vangie era uscita dall'ingresso che dava sul parcheggio. Che sciocca! Si sarebbe buscata un raffreddore bagnandosi il piede. Incerta sul da farsi, Edna aveva preso la scarpa e aveva chiuso l'ufficio. Poi si era diretta al parcheggio, in direzione della propria auto, in tempo per vedere uscire la grossa Lincoln Continental rossa di Vangie, con il professor Highley al volante. Si era affrettata per fargli un cenno di saluto, ma era stato inutile. Allora era andata a casa. Probabilmente, il professore aveva già provveduto a fissare un altro appuntamento con Vangie, tuttavia la segretaria decise di accertarsene con una telefonata. Senza indugio, formò il numero di casa Lewis. Il telefono squillò una, due volte. Infine una voce di uomo: «Pronto, casa Lewis». «La signora Lewis, per favore», disse Edna, assumendo il tono da scuola Drake, fermo, autoritario e amichevole al tempo stesso. Chissà se stava parlando con il comandante? «Chi parla?» «Lo studio del professor Highley. Desidero fissare il prossimo appuntamento per la signora Lewis.» «Attenda, prego.» Avevano messo la mano sulla cornetta. Voci velate parlavano tra loro. Che cosa succedeva? Forse Vangie si era sentita male. In quel caso, doveva avvertire subito il professore. La voce all'altro capo del telefono cominciò a parlare: «Sono l'agente Cunningham della procura della contea di Valley. La signora Lewis è morta improvvisamente. Voglia avvertire il suo medico che il nostro ufficio prenderà contatto con lui domani mattina.» «La signora Lewis è morta?» La voce di Edna era un urlo di costernazione. «Che cosa è successo?» Una pausa. «Pare che si sia tolta la vita.» Quindi riagganciarono. Lentamente, Edna riabbassò il ricevitore. Non era possibile. Non era as-
solutamente possibile. Gli appuntamenti delle due arrivarono contemporaneamente: la signora Volmer per il professor Highley, la signora Lashley per il dottor Fukhito. Lei le salutò meccanicamente. «Edna, si sente bene?» le domandò incuriosita la signora Volmer. «Mi sembra sconvolta.» Lei sapeva che talvolta la signora Volmer chiacchierava con Vangie in sala d'aspetto. Aveva una gran voglia di dirle che era morta. Ma un qualche istinto la avvertì di parlarne prima con il professore. L'appuntamento dell'una e mezzo usciva in quel momento dallo studio di Highley. Questi chiamò Edna con il cicalino: «Edna, faccia passare la signora Volmer». La segretaria guardò le due donne: non c'era modo di parlare con il professore senza che sentissero. «Professore, posso venire da lei un momento? Vorrei dirle una parola.» Che bella frase efficiente! Era molto soddisfatta del proprio autocontrollo. «Sì, certo.» Il professore non sembrava entusiasta. Era una persona un po' rude, ma non estranea alla gentilezza. Se ne era resa conto la sera prima. Edna trotterellò lungo il corridoio veloce quanto le permetteva il suo peso. Ansimava un po' quando bussò alla porta dello studio. Lui rispose: «Venga, Edna». L'irritazione traspariva dalla sua voce. Timidamente, la donna aprì la porta ed entrò nello studio. «Professore», partì tutta d'un fiato, «forse le interesserà sapere che ho appena telefonato alla signora Lewis, a Vangie Lewis, per fissare un appuntamento. So che, da adesso in poi, lei la voleva vedere ogni settimana.» «Sì, certo. Per amor di Dio, Edna, chiuda la porta. Altrimenti sentiranno la sua voce in tutto l'ospedale!» Lei obbedì prontamente. Cercando di abbassare il tono, proseguì: «Professore, quando ho telefonato a casa di Vangie, mi ha risposto un poliziotto. Ha detto che si è uccisa e che verranno qui da lei domani mattina». «La signora Lewis che cosa?» Sembrava molto impressionato. Potendo finalmente parlarne, le parole le si affollarono alla bocca e ne sgorgarono come un torrente: «Era tanto agitata ieri sera, vero professore? Voglio dire, noi due ce ne siamo accorti. Quel suo modo di parlare con me e di comportarsi, come se non gliene importasse niente di niente. Però, glielo voglio dire, professore: quando ho visto che lei l'accompagnava a casa in macchina, ieri sera, ho pensato che facesse una cosa bellissima. Ho provato a salutarla, professore, ma lei non mi ha visto. Credo che, tra tutti,
lei solo sapesse quanto Vangie stava male». «Edna, con quante persone ne ha parlato?» C'era qualcosa nel tono della voce di lui che la rese nervosa. Arrossì ed evitò il suo sguardo. «Mah, con nessuno, professore. L'ho saputo soltanto ora.» «Non ha parlato della morte della signora Lewis con la signora Volmer o con qualcun altro in sala d'aspetto?» «No... no, professore.» «E con il poliziotto al telefono?» «No, professore.» «Edna, domani, quando viene la polizia, lei e io diremo tutto ciò che sappiamo dello stato psichico della signora Lewis. Ora però mi ascolti.» Puntò l'indice verso di lei, chinandosi in avanti. Inconsciamente, lei si ritrasse. «Non voglio che pronunci il nome della signora Lewis davanti a nessuno, a nessuno, ha capito bene? La signora Lewis era una donna estremamente nevrotica e molto fragile. Però, il fatto è che il suo suicidio getta una pessima luce sul nostro ospedale. Che cosa scriveranno i giornali se salterà fuori che era una mia paziente? Certamente non permetterò che lei si metta a spettegolare in sala d'aspetto con le altre pazienti, alcune delle quali hanno una gravidanza molto precaria. Ha capito?» «Sì, professore», rispose Edna con voce tremante. Doveva aspettarselo, che lui pensasse che ne avrebbe fatto argomento di conversazione. «Edna, le piace il suo lavoro?» «Sì, professore.» «Allora non dica a nessuno, badi bene, a nessuno, una sola parola sul caso Lewis. Se la sento pronunciare questo nome, per lei qui è finita. Domani parleremo con la polizia e con nessun altro. Lo stato psichico della signora Lewis è una cosa riservatissima. Chiaro?» «Sì, professore.» «Esce con amici stasera? Sa come diventa quando beve.» Mancò poco che Edna si mettesse a piangere. «No, vado a casa. Non mi sento bene. Voglio essere in forma domani mattina quando dovrò parlare con la polizia. Povera piccola Cenerentola!» Inghiottì, mentre i suoi occhi si riempivano di lacrime. Poi vide l'espressione del viso di lui. Un'espressione corrucciata, sdegnata. Si raddrizzò, si passò la mano sugli occhi. «Faccio entrare la signora Volmer, professore. E lei non si preoccupi», continuò con fierezza. «Tengo in gran conto il nostro ospedale. So quello che il suo lavoro significa per
lei e per le nostre pazienti. Non dirò una parola.» Per il resto del pomeriggio fu molto occupata. Riuscì a respingere il pensiero di Vangie nel fondo della sua coscienza e intanto parlava con le pazienti, fissava gli appuntamenti, incassava e rinfrescava la memoria di chi era in ritardo con il pagamento. Finalmente, alle cinque poté andarsene. Avviluppata in un caldo cappotto di finto leopardo con cappello uguale, salì in macchina diretta al suo appartamento di Edgeriver, a dieci chilometri dall'ospedale. 9 Nella gelida sala delle autopsie all'obitorio della contea di Valley, Richard Carroll estrasse con delicatezza il feto dal cadavere di Vangie Lewis. Le sue lunghe dita sensibili sollevarono il piccolo corpo, notando che il liquido amniotico aveva cominciato a uscire. Vangie Lewis non avrebbe portato tanto a lungo il bambino. Richard Carroll valutò che pesasse meno di un chilo e mezzo. Era un maschio. Il primo figlio. Scosse il capo pensando a quello spreco, mentre deponeva il corpicino su un tavolo di pietra lì accanto. Vangie Lewis presentava una tossicosi grave. Incredibile che un medico le avesse permesso di andare avanti in quelle condizioni. Gli sarebbe piaciuto conoscere il conteggio dei globuli bianchi. Probabilmente molti, troppi. Aveva già mandato in laboratorio alcuni campioni di liquido. Nessun dubbio sul fatto che fosse stato il cianuro a uccidere la donna. Gola e bocca erano gravemente ustionate. Ne aveva inghiottito una grossa sorsata, Dio la perdoni. Le bruciature all'esterno della bocca? Richard le esaminò attentamente. Cercò di immaginare il momento in cui aveva ingerito il veleno. Aveva cominciato a inghiottire, aveva sentito il bruciore, aveva cambiato idea, aveva tentato di sputare. Il liquido era colato sulle labbra e sul mento. Eppure c'era qualcosa che non quadrava. Alcuni sottili fili di fibra bianca erano attaccati al cappotto di lei. Sembravano appartenere a una coperta. Li aveva mandati ad analizzare. Gli parve di ricordare che fosse distesa su una coperta di ciniglia. Aveva intenzione di mettere a confronto i fili del copriletto con quelli rilevati sul cappotto. Certo, l'indumento era molto consunto, i fili potevano esservi rimasti attaccati chissà quando. A causa dell'eccessivo gonfiore, sembrava che Vangie si fosse infilata
degli indumenti qualsiasi, purché la coprissero. Ad eccezione delle scarpe. Un'altra nota incongrua. Quelle erano di ottima fattura e palesemente care. Soprattutto, sembravano quasi nuove. Riteneva improbabile che se lunedì Vangie fosse uscita con quelle calzature, sarebbero state a quel punto in così buono stato: neanche un segno di pioggia o di neve, eppure, al punto delle caviglie, le calze mostravano schizzi di neve sporca. Tutto ciò non induceva forse a ritenere che fosse uscita, che fosse rientrata a casa, che avesse deciso di uscire una seconda volta, che si fosse cambiata le scarpe e poi si fosse suicidata? Neppure quello quadrava. E un'altra cosa. Quelle scarpe erano molto strette. Soprattutto la destra. Immaginò che avesse fatto fatica ad allacciarla, anche la tomaia era stretta. Come se si fosse messa una morsa. Considerando il resto del vestiario, perché si era data la pena di mettersi scarpe strette da morire? Scarpe strette da morire... La frase si impresse nella mente di Richard. Si raddrizzò. Aveva quasi ultimato il lavoro. Appena avesse avuto in mano il risultato del laboratorio, avrebbe comunicato a Scott Myerson ciò che aveva trovato. Di nuovo, si mise a esaminare il feto. Il cianuro era entrato nella circolazione sanguigna. Al pari della madre, anche il feto era morto tra gli spasmi. Richard lo guardò attentamente. Il miracolo della vita gli incuteva una specie di timore reverenziale, che aumentava a ogni nuovo contatto con la morte. Era sempre stupito di fronte al perfetto equilibrio del corpo umano: l'armonia delle parti, muscoli e fibre, ossa e tendini, vene e arterie; la complessità profonda del sistema nervoso, la capacità che ha il corpo umano di guarire le proprie ferite, di proteggere ciò che non è ancora nato. Di scatto, Richard si chinò nuovamente sul feto. Con un gesto rapido, lo liberò dalla placenta e lo esaminò sotto la luce forte. Possibile? Un sospetto. Un sospetto da verificare. Dave Broad era la persona giusta. Si occupava di ricerche prenatali al Mount Sinai. Gli avrebbe spedito il feto. Voleva il suo parere. Se quello che sospettava era vero, allora c'era un ottimo motivo perché il comandante Chris Lewis fosse stato sconvolto dalla gravidanza della moglie. Forse sconvolto al punto di ucciderla! 10
Scott Myerson, procuratore della contea di Valley, aveva fissato una riunione nel suo ufficio per le cinque del pomeriggio. Vi avrebbero partecipato Katie, Richard e i due poliziotti della squadra Omicidi che si occupavano del caso Lewis. L'ufficio di Scott non somigliava affatto all'immagine che dà la televisione dell'ufficio di un procuratore. Era una stanza piccola, con le pareti dipinte di giallo sporco, i mobili frusti e i vecchi schedari grigio scuro, come le navi da guerra. Le finestre si affacciavano sulla prigione. Katie arrivò per prima. Con cautela, si mise a sedere sull'unica seggiola dall'aspetto ragionevolmente comodo. Scott la guardò con un leggero sorriso. Era un uomo di bassa statura, dalla voce inaspettatamente profonda. Le lenti grandi e cerchiate, i baffi neri e curati, la giacca all'antica di ottimo taglio facevano pensare più a un banchiere che a un rappresentante della legge. Aveva passato la giornata in tribunale per una certa causa e aveva parlato con Katie soltanto al telefono. In quel momento osservò il braccio fasciato di lei, il livido sotto l'occhio e il piccolo fremito di dolore che le traversava il viso ad ogni movimento. «Grazie per essere venuta, Katie», le disse. «So che sei sovraccarica di lavoro e ti sono riconoscente. Però domani faresti bene a prendere un giorno di permesso.» Lei scosse il capo. «No, mi sento bene. Domani mattina saranno diminuiti anche i dolori.» «Come vuoi. Ma almeno prometti che se ti senti male torni subito a casa.» Poi assunse un tono ufficiale: «Il caso Lewis. A che punto siamo?» Richard e i due agenti sopraggiunsero mentre lei stava parlando. Senza fare rumore, si misero a sedere nelle tre sedie pieghevoli rimaste vuote. Scott tamburellava la scrivania con la matita. Si rivolse ai poliziotti: «Che cosa c'è di nuovo?» Phil Cunningham estrasse il taccuino: «Casa Lewis non è un luogo idilliaco. Ogni tanto i Lewis andavano alle feste dei vicini». Guardò Katie. «Credo che tua sorella si sia data da fare perché fossero invitati. Tutti avevano in simpatia Chris Lewis, mentre Vangie era ritenuta una lagna: gelosissima del marito, si rifiutava di prender parte alle attività della comunità. In realtà, non si interessava a niente. Alle feste, stava sempre appiccicata a lui e si irritava moltissimo se parlava per più di cinque minuti con un'altra donna. Lui era molto paziente. Mi ha raccontato una vicina che suo marito, dopo una di quelle feste, le ha detto che se Vangie fosse stata sua moglie l'avrebbe strozzata. Poi, quando restò incinta, diventò veramente insop-
portabile. Parlava solo e sempre di bambini.» Charley aprì il taccuino. «Hanno telefonato dallo studio del suo ginecologo per fissare un appuntamento. Ho risposto che saremmo andati domattina a parlare con il medico.» Richard cominciò a parlare pacatamente: «Vorrei rivolgere un paio di domande a questo medico sullo stato di salute di Vangie Lewis.» Scott lo guardò: «Hai terminato l'autopsia?» «Sì. Non c'è dubbio, è stato il cianuro. Morte istantanea. Bocca e gola mostrano segni di ustioni profonde. E questo ci porta al punto cruciale.» Una brocca per l'acqua e alcuni bicchieri di carta erano appoggiati sullo schedario. Richard si alzò, vi si diresse, versò parecchia acqua in un bicchiere. «Guardate. Questo bicchiere è pieno di una soluzione di cianuro. Io sto per uccidermi. Bevo un sorso abbondante.» Inghiottì rapidamente. Il bicchiere era ancora mezzo pieno. Gli altri lo guardavano attentamente. Richard alzò il bicchiere. «Secondo me, Vangie ha ingerito almeno i novanta grammi che ho bevuto io, per avere nell'organismo la quantità di cianuro che abbiamo trovato. E fin qui tutto quadra. Adesso, ecco il problema. Sulla parte esterna delle labbra, sul mento, perfino sul collo ci sono segni di lesioni profonde. La sola spiegazione di come ciò sia avvenuto è che lei abbia cercato di risputare una parte di questa roba... una parte cospicua, direi. D'altronde, se invece ha ingoiato tutto quanto in un sorso, se ne deduce che aveva la bocca vuota. A questo punto, ha bevuto un'altra sorsata e poi l'ha sputata? Non c'è alternativa. La reazione è stata immediata.» «Non potrebbe darsi che abbia inghiottito solo mezza sorsata e che abbia risputato il resto?» domandò Scott. Richard alzò le spalle. «Ce n'era troppo, sia nell'organismo sia sul viso, perché si possa pensare a mezza dose. Quello che ha rovesciato sulla coperta è una quantità trascurabile e nel fondo del bicchiere abbiamo trovato solo poche gocce. Dunque, se in mano aveva un bicchiere pieno, è probabile che un po' se ne sia versata sulle labbra e sul mento e che il resto lo abbia bevuto. Solo così si giustifica la quantità consumata. Potrebbe essere andata così, però io ne dubito. Il secondo problema riguarda le scarpe.» Espose concisamente la sua convinzione secondo la quale Vangie Lewis non avrebbe potuto camminare comodamente con le scarpe che le avevano trovato ai piedi. Mentre ascoltava, Katie vedeva davanti a sé il viso di quella donna. Il viso morto che le era apparso in sogno e il viso morto che aveva visto sul letto si avvicendavano nella sua mente. Si costrinse a pre-
stare attenzione a ciò che si diceva nell'ufficio e realizzò che Charley parlava con Scott: «...Richard e io abbiamo l'impressione che il marito abbia notato sul corpo qualcosa che non ci ha detto». «Potrebbe trattarsi delle scarpe», suggerì Richard. Intervenne Katie: «La telefonata di Chris Lewis. Te ne ho parlato poco fa, Scott». «Sì.» Il procuratore si appoggiò allo schienale della sedia. «Allora, facciamo così. Voi due», e con il dito indicò Charley e Phil, «scoprite tutto quello che potete sul conto del comandante Lewis. Cercate di capire chi è questa Joan. Sappiatemi dire a che ora è rientrato il suo aereo questa mattina. Controllate le telefonate di Vangie Lewis in questi ultimi giorni. Dite a Rita di mettersi in contatto con il medico curante della signora Lewis e di farsi dire il suo parere circa lo stato fisico e psichico della signora.» «Lo stato fisico te lo dico io», intervenne Richard. «Si poteva risparmiare il cianuro se non partoriva al più presto.» «Un'altra cosa», proseguì Scott. «Dove ha trovato il cianuro?» «In casa non ce n'è traccia», riferì Charley. «Neppure una goccia. Però, Vangie Lewis si dilettava un po' di giardinaggio. Forse ne aveva messo da parte una scorta l'estate scorsa.» «Nel caso le fosse venuta voglia di uccidersi?» Nella voce di Scott non c'era ironia. «C'è altro?» Richard esitò. «Forse sì», sillabò lentamente. «Ma è un filo così tenue... e alla luce di ciò che ho appena sentito, direi che sto seguendo una pista sbagliata. Perciò dammi ancora ventiquattro ore. Dopo di che, chissà che non abbia qualcosa da darti.» Scott annuì. «Vieni da me quando vuoi.» Si alzò. «Comunque, siamo tutti d'accordo di non archiviare questo caso sotto la voce suicidio.» Diede un'occhiata a Richard. «Ancora una domanda. C'è una possibilità che sia morta in un altro posto e che sia stata successivamente riportata nel suo letto?» Richard aggrottò la fronte. «Può darsi... però il modo in cui il sangue si è coagulato nel corpo sta a indicare che era distesa nella posizione in cui l'abbiamo trovata sin dal momento che ha ingerito il cianuro.» «Ho capito», disse Scott. «Era soltanto un'idea. Fermiamoci qui, per stasera.» Katie accennò ad alzarsi. «So che è pazzesco, però...» Sentì il braccio di Richard che la sosteneva. «Sei ancora parecchio arrugginita», disse questi, interrompendola. Per
un attimo, era stata sul punto di raccontare quel sogno pazzesco della notte precedente in ospedale, ma la voce di Richard l'aveva richiamata alla realtà. Avrebbero pensato che fosse una stupida. Grata, gli sorrise. «Arrugginita, soprattutto nella testa», disse. 11 Non poteva permettere che Edna distruggesse tutto ciò che aveva fatto. Le sue mani stringevano il volante. Le sentiva tremare. Doveva calmarsi. Ironia del destino, proprio lei, tra tutti, lo aveva visto al volante della Lincoln mentre usciva dal parcheggio. Naturalmente, era convinta che in macchina con lui ci fosse Vangie. Ma quando avesse raccontato la sua storia alla polizia, tutto sarebbe crollato. Gli pareva di sentire le domande: «Professore, lei ha accompagnato a casa la signora Lewis. Che cosa ha fatto quando l'ha lasciata? Ha chiamato un taxi? Che ora era, professore? Secondo la signorina Burns, lei è uscito dal parcheggio poco dopo le ventuno». L'autopsia avrebbe dimostrato che Vangie era morta circa a quell'ora. Quali supposizioni avrebbero fatto se lui avesse detto di essere tornato a piedi in ospedale, nonostante la bufera? Doveva far tacere Edna. La borsa da medico stava accanto a lui, sul sedile. Conteneva solo il fermacarte della scrivania dello studio. Ormai, non si dava più la pena di portarla con sé, però quel giorno l'aveva presa con l'intenzione di mettervi i mocassini. Si era proposto di cenare a New York e di buttare i mocassini in due diversi bidoni per la spazzatura: passavano a vuotarli la mattina. Quel giorno la domestica era arrivata di buon'ora. Si era fermata a chiacchierare nell'ingresso, mentre lui si infilava il soprabito grigio di tweed. Hilda gli aveva dato borsa e cappello. Era impossibile trasferire i mocassini dal Burberry alla borsa, in sua presenza. Chissà che cosa ne avrebbe dedotto. Ma non era importante. Il Burberry stava in fondo al guardaroba e Hilda non aveva ragione di andarlo a cercare. La sera, appena terminato con Edna, sarebbe rientrato a casa. Delle scarpe si sarebbe sbarazzato la sera seguente. Era una bella fortuna che Edna abitasse tanto vicino all'ospedale. Perciò, lui conosceva il suo appartamento. Gli era capitato di passare da lei dopo il lavoro, quando era costretta a casa dalla sciatica. Per maggior sicurezza, doveva controllare il numero dell'interno. Doveva farlo apparire come un
delitto commesso durante una rapina. Se ne sarebbe occupato l'ufficio di Katie DeMaio, ma sicuramente a nessuno sarebbe mai venuto in mente di collegare l'omicidio di una sconosciuta contabile con il suo datore di lavoro o con Vangie Lewis. Avrebbe preso il portafogli e agguantato tutto quel che c'era di gioielli. Strizzandosi le meningi, riuscì a ricordare che Edna possedeva una spilla a forma di farfalla con un minuscolo rubino e un anello di fidanzamento con un brillante invisibile. Glieli aveva mostrati qualche mese prima, quando era passato da lei per lasciarle del lavoro. «È l'anello di mia madre», gli aveva detto con fierezza. «Il babbo e lei si innamorarono al primo incontro e lui glielo portò al secondo. Mi crede, professore, se le dico che entrambi avevano già passato i quaranta? Il babbo lo diede a me, quando la mamma morì. Questo accadeva tre anni fa. Sa? Il babbo è vissuto due mesi soltanto senza di lei. Naturalmente, la mamma aveva le dita più sottili. Ecco perché io lo porto al mignolo. La spilla, gliel'ha regalata il babbo per il decimo anniversario.» Si era molto annoiato durante quel lungo monologo, ma in quel momento riconobbe che anche quello, come tutto il resto, poteva tornargli utile. Si era seduto accanto al suo letto. Lei teneva nel cassetto del comodino quel brutto portagioielli di plastica. L'anello e la spilla, come il portafogli che teneva in borsa, erano facilmente asportabili e avrebbero fornito la prova che l'omicidio era stato commesso durante un furto. Poi si sarebbe liberato dei gioielli e delle scarpe e con ciò tutto sarebbe finito. Salvo per quanto riguardava Katie DeMaio. Si passò la lingua sulle labbra. Aveva la bocca asciutta. Doveva concentrarsi sull'appartamento di Edna. Come fare a entrare? Poteva avere l'ardire di suonare il campanello, di farsi aprire la porta da lei? E se non fosse stata sola? Sarebbe stata sola, ne era sicuro. Andava a casa per bere. L'aveva osservata dal fondo del corridoio, l'aveva capito da come lei si muoveva, scattante, nervosa. Era eccitata, irrequieta, assorta a preparare il discorso che avrebbe fatto alla polizia l'indomani. Gli vennero i sudori freddi al pensiero che la donna potesse aver parlato di Vangie Lewis con le pazienti in sala d'aspetto prima di discutere con lui. Tutte le Edne di questo mondo hanno bisogno di un pubblico. Ascoltatemi! Fate attenzione alla mia persona! Io esisto! Ma non per molto, Edna, non per molto.
Aveva quasi raggiunto il complesso residenziale dove lei abitava. L'ultima volta che era stato lì, aveva lasciato la macchina nel parcheggio riservato ai visitatori. Gli conveniva fare lo stesso? Faceva freddo, tirava vento, era buio. Certamente c'era poca gente in giro. Chi rientrava andava di fretta e non avrebbe fatto caso a una banale macchina scura di media cilindrata. L'ultima volta aveva costeggiato il retro del complesso, dove lei occupava il pianterreno dell'ultima palazzina. Folti cespugli tentavano di mascherare la rete divisoria di filo di ferro arrugginito, tra il complesso residenziale e una fossa scoscesa di quattro o cinque metri che terminava vicino alle rotaie del raccordo ferroviario della linea principale. La camera da letto di Edna dava sul parcheggio. Sotto c'erano dei cespugli alti e non potati. La finestra era raso terra, abbastanza bassa, se ben ricordava. C'era la possibilità che non fosse chiusa. A quell'ora, sempre che i suoi calcoli fossero esatti, Edna doveva essere già ubriaca. Sarebbe potuto entrare e uscire dalla finestra. E ciò avrebbe confermato la tesi del furto. In caso contrario, avrebbe suonato il campanello, sarebbe entrato in casa, l'avrebbe uccisa e poi se ne sarebbe andato. Se lo avessero scoperto, se qualcuno lo avesse notato, avrebbe tranquillamente affermato di essere passato di lì con l'intenzione di lasciarle delle carte, ma di aver poi cambiato idea avendola trovata a bere. Sicuramente, qualcuno si era introdotto nell'appartamento più tardi. Nessuno in possesso delle proprie facoltà mentali avrebbe accusato un facoltoso medico di derubare una contabile squattrinata. Soddisfatto, rallentò avvicinandosi al complesso. Le unità bifamiliari, tutte uguali, sembravano stecchite e derelitte in quella fredda notte di febbraio. Nel parcheggio c'era mezza dozzina di macchine. Si fermò tra un camper e una giardinetta. La sua macchina sparì in uno spazio buio come una grotta, a causa delle auto più grosse che stavano ai lati. Si infilò i guanti da chirurgo e mise il fermacarte nella tasca del cappotto. Scivolò fuori della macchina con grande cautela, chiuse lo sportello senza fare rumore e sparì nell'ombra profonda dell'edificio. In silenzio, ringraziò tutti gli dei che Edna occupasse l'appartamento in fondo. Nessuna possibilità di errore circa la direzione. La tapparella della camera da letto era abbassata fino a sfiorare una pianta sul davanzale della finestra e si poteva vedere chiaramente l'interno. La stanza era illuminata dal faretto a muro dell'ingresso. I vetri della finestra erano socchiusi. Probabilmente, lei stava in salotto o nella zona pranzo. Gli giungeva il ronzio del televisore acceso. Sarebbe entrato dalla finestra.
Con una rapida occhiata, si accertò nuovamente che tutta la zona circostante fosse deserta. Con le dita guantate, forti come l'acciaio, spinse la finestra, senza fare rumore sollevò appena la tapparella e alzò la pianta, che appoggiò in terra. Più tardi, tutto ciò sarebbe stato la prova evidente di come si fossero introdotti nell'appartamento. Si issò sul davanzale. Per la sua corporatura, era sorprendentemente agile. Era in camera da letto. Nella luce fioca, assimilò l'ordine verginale, il copriletto a disegni, il crocifisso sopra il letto, le foto incorniciate di una coppia anziana, il centro di pizzo sulla superficie graffiata del cassettone impiallacciato di mogano. A quel punto, doveva affrontare l'ineluttabile, la parte che detestava. Tastò il fermacarte in tasca. Aveva deciso di ucciderla a forza di percosse. Aveva letto di un medico riconosciuto colpevole di omicidio a causa della perfezione delle pugnalate inferte. Non poteva correre il rischio che la sua competenza in campo medico lo tradisse. Del resto, era la sua competenza ad averlo condotto fin lì. In punta di piedi, attraversò il piccolo ingresso. A destra il bagno, a sinistra, un metro più avanti, il soggiorno. Vi sbirciò con prudenza. Il televisore era acceso, ma la stanza sembrava vuota. Sentì lo scricchiolio di una sedia. Forse era seduta al tavolo da pranzo. Con cautela, entrò nel soggiorno. Era giunto il momento. Se lo avesse visto e si fosse messa a urlare... Ma gli voltava le spalle. Avvolta in una vestaglia di lana azzurra, stava sprofondata in una sedia, a capotavola. Una mano accanto a un grande miscelatore per cocktail, l'altra ripiegata in grembo. Davanti a lei un bicchiere alto, semivuoto. La testa reclinata sul petto. Il respiro, fievole e regolare, gli disse che stava dormendo. Si sentiva l'alcool lontano un miglio. Valutò rapidamente la situazione. Lo sguardo gli cadde sul radiatore, che gorgogliava sulla destra della tavola da pranzo. Era il modello vecchio, a canne affilate e sporgenti. Forse, dopotutto, avrebbe fatto a meno del fermacarte... «Edna», sussurrò con dolcezza. «Che cosa?... Oh...» Lo guardò con gli occhi annebbiati. Turbata, fece per alzarsi e si impigliò goffamente nella sedia. «Professore...» Uno spintone potente la mandò a cadere all'indietro. Il capo si spaccò contro il radiatore. Delle luci accecanti le esplosero nel cervello. «Oh, che male! Oh, Dio, che male!» sospirò. Il calore confortante del sangue che zampillava la tenne sospesa nel buio. Il dolore si diffuse, aumentò, diminuì, scomparve.
Lui si ritrasse con un balzo, attento a non macchiarsi di sangue zampillante, poi si chinò su di lei. Mentre la guardava, la vena iugulare ebbe un fremito, poi si arrestò. Accostò il viso a quello di lei. Non respirava più. Rimise il fermacarte in tasca. Non gli serviva più. Non valeva la pena di inscenare un furto. Avrebbero creduto che fosse caduta. Che fortuna! Era destino che lui si salvasse. Senza indugio, tornò sui suoi passi, entrò in camera da letto. Diede un'occhiata per accertarsi che il parcheggio fosse ancora deserto, uscì dalla finestra, si ricordò di mettere a posto la pianta, abbassò la tapparella, riaccostò la finestra esattamente come l'aveva trovata. A quel punto udì l'insistente squillare di un campanello, il campanello di quella porta. Come un pazzo, si guardò intorno. Il suolo, duro e asciutto, non recava l'impronta dei suoi passi. Il davanzale era pulito, nessun segno di polvere smossa. Lo aveva scavalcato, dunque le scarpe non avevano macchiato la superficie bianca. Tornò di corsa all'automobile. Il motore rispose obbediente. Lasciò il complesso a fari spenti. Li accese solo quando fu nei pressi della provinciale numero 4. Chi poteva essere la persona alla porta di Edna? Voleva entrare in casa? Edna era morta. Non poteva più parlare di lui. Ma il pericolo era stato vicino, molto vicino. L'adrenalina pulsava veloce nelle sue vene. Ormai c'era un solo pericolo possibile: Katie DeMaio. A quel punto avrebbe incentrato i suoi sforzi per toglierlo di mezzo. L'incidente d'auto era un ottimo pretesto per iniziare subito la cura. Dalla cartella clinica dell'ospedale risultava che aveva pochi globuli rossi. Al pronto soccorso le avevano fatto una trasfusione. Le avrebbe prescritto un'altra trasfusione, con il pretesto di prepararla all'intervento. Le avrebbe somministrato pillole di cumadina, che avrebbero avuto un'azione catalizzatrice sul meccanismo della coagulazione, annullando i benefici della trasfusione. Venerdì, quando fosse entrata in ospedale, sarebbe stata sull'orlo del dissanguamento. Chissà che non gli riuscisse di fare un intervento di emergenza, senza darle altri anticoagulanti! Se necessario, le avrebbe iniettato dell'eparina, che avrebbe causato l'esaurimento totale dei fattori acceleranti della coagulazione. La paziente non sarebbe sopravvissuta all'operazione. L'iniziale povertà di globuli rossi, la cumadina e l'eparina avrebbero sor-
tito su Katie DeMaio il medesimo esito che il cianuro aveva sortito su Vangie Lewis. 12 Richard e Katie lasciarono insieme l'ufficio di Scott. Lei sapeva che Richard si sarebbe seccato se avesse proposto di chiamare un taxi per farsi accompagnare a casa. Infatti, quando arrivarono alla sua macchina, lui le disse: «E ora, andiamo a cena. Una bistecca e una bottiglia di vino rimetteranno in moto i tuoi succhi». «Quali succhi?» domandò Katie sospettosa. «Saliva, succhi gastrici e simili.» Richard scelse un ristorante che somigliava a una capanna, precariamente appollaiato su palafitte. La piccola sala da pranzo era scaldata da un bel fuoco scoppiettante e rischiarata dalla luce delle candele. «Oh, quant'è carino!» esclamò Katie. Evidentemente, il padrone lo conosceva bene. «Che piacere, dottor Carroll», disse accompagnandoli al tavolo di fronte al camino e scostando la seggiola per Katie. Lei si sedette sorridendo al pensiero che o Richard era molto conosciuto, oppure lei portava dipinto in viso il freddo e la tristezza che la opprimevano. Richard ordinò una bottiglia di St. Emilion, un cameriere portò delle bruschette calde. In un silenzio fatto di amicizia, sorseggiarono il vino e sgranocchiarono le bruschette. Lei si rese conto che era la prima volta che stavano insieme così, seduti a un piccolo tavolo uno di fronte all'altra, separati dagli altri avventori, guardandosi negli occhi. Lui era un uomo grande e grosso, dall'aria sana e vigorosa, che si palesava nel folto ciuffo di capelli castano scuro, nei lineamenti forti e regolari, nelle spalle larghe e quadrate. Quando sarà vecchio, somiglierà a un leone, pensò. «Stai sorridendo», osservò lui. «Il solito soldino per i tuoi pensieri.» Lei glieli rivelò. «A un leone.» Restò un momento pensoso. «A un leone d'inverno. Mi accontento. Ci sto. Vuoi sapere ciò che penso io?» «Sì, naturalmente.» «Penso che hai gli occhi molto tristi, quando il tuo viso è in riposo.» «Mi dispiace. Non vorrei che fosse così. Non penso a me come a una
persona triste.» «Sai che desideravo invitarti da almeno sei mesi? C'è voluto un incidente quasi mortale perché il mio desiderio si realizzasse.» «Non mi hai mai chiesto di uscire con te», replicò lei, elusiva. «Non hai mai voluto che te lo chiedessi. Tu emetti un segnale molto preciso: 'Non disturbate'. Perché?» «Perché, per principio, non trovo giusto uscire con colleghi di lavoro.» «Lo capisco benissimo. Ma non si tratta di questo. Stiamo bene insieme e lo sappiamo entrambi. Ma tu non vuoi ammetterlo. Ecco il menù.» Aveva cambiato tono, era diventato brusco. «Entrecote e steak au poivre sono le specialità del luogo», le disse e, vedendola incerta, la consigliò: «Prova lo steak, è eccezionale. Poco cotto», aggiunse speranzoso. «No, ben cotto», replicò lei. Allo sguardo inorridito di lui, Katie scoppiò a ridere. «Va bene, poco cotto», si arrese. Il viso di lui si rasserenò. Ordinò insalata mista e patate arrosto, poi si appoggiò allo schienale e si mise a guardarla con grande attenzione. «Tu non lo sopporti, vero Katie?» «Che cosa non sopporto? La bistecca? L'insalata?» «Via, Katie, non continuare a scantonare. D'accordo, non sono onesto. Sto provando a inchiodarti e tu sei un pubblico coatto. Raccontami quello che fai quando non sei né in ufficio né dai Kennedy. So che ti piace sciare.» «Si. Ho una compagna di scuola, che adesso è divorziata. L'inverno successivo alla morte di John mi ha trascinato con sé nel Vermont. Da allora, lei, io e altre due coppie prendiamo in affitto un alloggio a Stowe per la stagione invernale. Ci vado i fine settimana, ogni volta che posso. Non sono una sciatrice provetta, però mi piace.» «Anche a me piaceva sciare», disse Richard. «Ma ho dovuto smettere, per via di una distorsione a un ginocchio. Dovrei ritentare. Chissà che un giorno o l'altro tu non m'inviti.» Non aspettò la risposta. «Il mio sport è la vela. L'estate scorsa ho portato la barca ai Caraibi e ho navigato di isola in isola... 'Lo splendore dei giorni senza nuvole, quando le larghe vele panciute scivolano nel vento che alza la verde acqua'. Ma sta arrivando la tua bistecca», terminò Richard con tono leggero. «E tu stai citando William Carlos Williams», mormorò lei. In cuor suo, aveva sperato di impressionarlo mostrandogli di conoscere la citazione. Ma lui non batté ciglio. «Sì», si limitò a rispondere. «Buona questa insala-
ta, vero?» Stavano sorseggiando il caffè. Durante il pranzo Richard aveva cominciato a raccontare di sé. «Al secondo anno di medicina, mi fidanzai con la ragazza della porta accanto. Forse sai che sono di San Francisco.» «E poi, che cosa è successo?» «Continuavamo a rimandare il matrimonio. Naturalmente, lei ha sposato il mio migliore amico, si fa per dire.» Sorrise. «Sto scherzando, ovviamente. Jean era una cara ragazza. Però mancava qualcosa. Una sera, quando per la quarta o quinta volta stavamo dibattendo se sposarci o no, mi disse: 'Senti, Richard, noi due ci vogliamo bene, però sappiamo che al mondo esiste qualcosa di più grande'. Aveva perfettamente ragione.» «Niente rimpianti, niente ripensamenti?» domandò Katie. «Sinceramente, no. Sono passati sette anni. Mi meraviglio che quel 'qualcosa di più grande' non sia ancora accaduto.» Non sembrava aspettarsi reazioni da parte di lei. Anzi, portò il discorso sul caso Lewis. «Mi fa rabbia. Ogni spreco di vita scatena in me questa reazione. Vangie Lewis era giovane. Aveva ancora tanti anni da vivere davanti a sé.» «Sei sicuro che non si tratti di suicidio?» «Non sono sicuro di niente. Prima di affermare una cosa, ho bisogno di molti altri dati.» «Non riesco a vedere Chris Lewis nei panni dell'assassino. Chi vuole essere libero, divorzia facilmente oggigiorno.» «C'è anche un altro modo di pensare.» Richard strinse le labbra. «Parliamo d'altro.» Erano quasi le dieci e mezzo quando imboccarono il vialetto che conduceva alla casa di Katie. Richard guardò incuriosito la bella costruzione di pietra. «Quanto è grande?» domandò. «Voglio dire, quante stanze hai?» «Dodici», ammise lei riluttante. «Era la casa di John.» «Non immaginavo certo che tu l'avessi comprata con il tuo stipendio di sostituto procuratore», commentò lui. Lei fece il gesto di aprire lo sportello della macchina. «Aspetta», la trattenne lui. «Ti accompagno alla porta. Potresti scivolare.» Non si era riproposta di invitarlo a entrare, ma lui non le diede la possibilità di dirgli buona notte sulla soglia di casa. Le tolse di mano la chiave, la introdusse nella serratura, la fece girare, aprì l'uscio e seguì Katie all'interno. «Non mi trattengo», la rassicurò, «però non ti nascondo che ho molta voglia di vedere dove ti rintani.»
Lei accese le luci e aspettò, un poco irritata, che lui si guardasse intorno nell'ingresso e in corridoio. Richard fece un fischio di ammirazione. «Bello, molto bello.» Poi si avvicinò al ritratto di John e lo guardò attentamente. «Da quel che ho sentito, era una persona piuttosto eccezionale.» «Sì, infatti.» Con un certo disagio, Katie si accorse che praticamente su ogni mobile c'era una fotografia di John con lei. Richard si accostò alla più vicina. «Un viaggio all'estero?» «Il nostro viaggio di nozze.» Aveva la bocca asciutta. «Quanto tempo sei stata sposata, Katie?» «Un anno.» La osservava mentre uno sguardo triste le aleggiava sul viso, misto a un'espressione attonita, come se ancora non riuscisse a capacitarsi di ciò che era avvenuto. «Quando hai saputo che era malato? Un cancro, vero?» «Poco dopo il nostro ritorno dal viaggio di nozze.» «Sicché non hai fatto altri viaggi, no? Dopo, sarà stato tutta una veglia funebre. Scusa, Katie, è il lavoro a rendermi rude, troppo rude anche per i miei gusti, direi. Adesso me ne vado.» Ebbe un momento di esitazione. «Senti, perché non chiudi le tende quando sei sola?» Lei si strinse nelle spalle. «A che scopo? Chi vuoi che venga ad assalirmi?» Dovresti sapere meglio degli altri quanti furti ci sono. E in questo luogo rappresenti un ottimo bersaglio. Soprattutto se si sa in giro che sei sola. Posso?» Senza attendere risposta, Richard si avvicinò alle finestre e accostò le tende. «Adesso me ne vado. A domani. Come farai a venire in ufficio? È già pronta la macchina?» «No. Il meccanico me ne dà una in prestito. Me la porta domani mattina.» «Ah, bene.» Per un attimo stette con la mano sulla maniglia, poi con accento dialettale forte e persuasivo esclamò: «Ora ti lascio, Katie Rossella. Spranga la porta. Non vorrei che a qualcuno venisse in mente di introdursi a Tara.» Si chinò, la baciò sulla guancia e sparì. Con un sorriso, lei chiuse la porta. Un ricordo si affacciò alla sua memoria. Aveva cinque anni e giocava felice nello spiazzo fangoso dietro la casa. Era il giorno di Pasqua e indossava l'abitino delle feste. Il grido irato di sua madre, la voce divertita di suo padre nell'imitazione di Gerald O'Hara: «È la terra, Katie Rossella», poi, con voce carezzevole alla madre: «Non ti arrabbiare con lei. Tutti i buoni irlandesi amano la terra».
Il bel suono musicale della pendola. Dopo la calda, burbera presenza di Richard, la stanza le sembrò vuota. Svelta, spense la luce e salì al piano superiore. Il telefono squillò mentre lei entrava nel letto. Probabilmente è Molly, pensò alzando il ricevitore. Invece le rispose una voce maschile. «La signora DeMaio?» «Sì.» «Sono il professor Highley. Spero che non sia un'ora troppo tarda, ma ho provato a telefonarle parecchie volte stasera. Sono stato informato del suo incidente e del fatto che ha passato la notte qui da noi in ospedale. Come sta?» «Sto abbastanza bene, professore. È molto gentile a chiamarmi.» «E le emorragie? Dalla sua cartella risulta che ieri sera le hanno fatto una trasfusione.» «Penso di essere sempre allo stesso punto. Credevo di aver finito il mio periodo, ma ieri è ricominciato. Direi che è stato un capogiro a farmi perdere il controllo della macchina.» «Già. Come lei ben sa, è un anno, a dire poco, che sarebbe dovuta correre ai ripari. Ma non fa niente. Tra una settimana sarà tutto finito. Però, per prepararla all'intervento, desidero che lei faccia una nuova trasfusione di sangue e voglio anche che cominci subito a prendere certe pillole. Può passare in ospedale da me, domani pomeriggio?» «Sì. Avevo intenzione di passare comunque. Ha sentito della signora Lewis?» «Sì. Una cosa terribile e tristissima. Va bene. A domani, allora. Mi telefoni la mattina, così fissiamo l'ora.» «Va bene, professore. Grazie mille, professore.» Katie riagganciò. Mentre spegneva la luce, pensò alla prima volta che era andata a farsi visitare da lui. Il professor Highley non le era piaciuto, forse a causa del suo atteggiamento riservato. Freddo, per meglio dire. Ecco quanto è facile dare un giudizio sbagliato di una persona, decise tra sé. Stasera è stato davvero molto gentile a provare tante volte a mettersi in contatto con me. 13 Bill Kennedy suonò il campanello dei Lewis. Chirurgo ortopedico al Lenox Hill Hospital, aveva operato tutto il giorno e non seppe della morte
di Vangie che al suo ritorno a casa. Alto, i capelli prematuramente bianchi, scientificamente molto preparato, ma timido nella vita professionale, Bill diventava un altro appena entrava nel porto caldo e accogliente della casa che Molly aveva creato per lui. La presenza attiva e vitale di lei gli consentiva di accantonare i problemi del lavoro e di rilassarsi. Tuttavia, quella sera a casa trovò un'atmosfera del tutto diversa. Molly aveva già fatto mangiare i bambini, ai quali aveva ordinato di stare alla larga. Gli raccontò brevemente di Vangie: «Ho telefonato a Chris e l'ho invitato a cena e a passare la notte da noi, anziché starsene là tutto solo. Lui ha rifiutato, ma devi trascinarlo qui. Io credo che verrà, almeno a mangiare». Attraversando le altre proprietà diretto a casa di Chris, Bill pensava a quanto sarebbe stato orrendo rincasare dal lavoro e scoprire di avere perduto Molly. Certo, per Chris Lewis non era così. A nessuno, sano di mente, sarebbe venuto in mente di paragonare il matrimonio di Chris con il suo. Non aveva mai raccontato a sua moglie che una mattina, mentre prendeva un caffè in un locale accanto all'ospedale, aveva sorpreso Chris con una ventenne molto bellina. Che ci fosse qualcosa tra loro, lo portavano scritto in faccia. Che Vangie avesse scoperto della ragazza? Che fosse quello il motivo del suicidio? Ma un suicidio così violento! Rammentò una sera di fine estate, in cui Chris e Vangie erano da loro per un barbecue. Lei aveva cominciato a fare le caldarroste e aveva messo la mano troppo vicino alla fonte del calore. Le era cresciuta una vescica su un dito e si era comportata come se si fosse trattato di un'ustione di terzo grado. Urlando, era corsa dal marito, il quale aveva cercato di calmarla. Imbarazzato per lei, Chris aveva spiegato: «Vangie ha la soglia del dolore molto bassa». E quando Bill era tornato con un unguento da mettere sul dito, la vescica era già scomparsa. Che una persona così intollerante del dolore avesse avuto il coraggio di prendere il cianuro? Chiunque avesse letto qualcosa su quel veleno sapeva che la morte, sebbene quasi istantanea, sopravveniva tra spasmi atroci. No. Bill ci avrebbe giurato: se Vangie avesse deciso di suicidarsi, avrebbe ingerito dei sonniferi e si sarebbe addormentata. A riprova di quanto poco si sappia della mente umana... quanto poco ne sapeva perfino lui che, a sentire gli altri, conosceva bene le persone. Chris gli aprì la porta. Da quando lo aveva sorpreso con la ragazza, Bill si era tenuto un po' sulle sue. Non gli piacevano gli uomini che andavano in giro con altre donne mentre la moglie era incinta. In quel momento, pe-
rò, la vista del suo viso tirato e della sincera tristezza dei suoi occhi risvegliò in lui una schietta pietà. «Sono profondamente addolorato», disse, stringendo il braccio del giovane. Chris fece un cenno imbarazzato con il capo. Come una cipolla che si sbuccia strato dopo strato, gli sembrava che il significato di quella giornata lo sommergesse. Vangie era morta. Forse la lite che avevano avuto l'aveva determinata a uccidersi? Non lo credeva, eppure si sentiva solo, spaventato e colpevole. Accettò l'invito a cena di Bill. Doveva uscire di casa, lì gli era impossibile pensare. I Kennedy erano brava gente. Poteva confidare loro quanto sapeva? Poteva confidarlo a qualcuno? Intontito, prese una giacca e seguì Bill lungo la strada. L'amico gli versò un doppio whisky. Chris ne tracannò una lunga sorsata. A metà bicchiere, si impose di rallentare. Aprendosi un varco nella tensione, il whisky gli bruciava gola e petto. Calma, si disse, calma. Prudenza. I bambini Kennedy giunsero ad augurare la buona notte. Tutti molto bene educati. E bei bambini, anche. Billy, il maggiore, somigliava al padre. Jennifer era una bellezza, aveva i capelli scuri. Le bambine più piccole, Dina e Moira, erano bionde come Molly. I gemelli. Chris quasi sorrise. I gemelli erano identici. Lui aveva sempre desiderato dei figli. E a quel punto il figlio non nato era morto con Vangie. Un'altra colpa. Non era stato contento della gravidanza di lei. Il figlio, il figlio che non aveva voluto, neppure un minuto. E Vangie lo sapeva. Che cosa, chi l'aveva spinta a uccidersi? Chi? Ecco la domanda. Perché Vangie non era stata sola la notte precedente. Con la polizia non ne aveva parlato. Domandare alla polizia di aprire un'inchiesta equivaleva a dare la stura alla maldicenza. Dove sarebbero arrivati? A Joan, l'altra. E a lui. L'impiegato lo aveva visto mentre usciva dal motel la sera precedente. Si era diretto verso casa, per farla finita con Vangie. Si era perfino appuntato delle cifre da proporle. Lei poteva tenere la casa. Le avrebbe passato ventimila dollari l'anno, fino alla maggiore età del figlio; avrebbe stipulato una grossa assicurazione sulla vita, intestandola a lei; avrebbe provveduto alle spese per l'educazione del ragazzo. Lei avrebbe potuto continuare ad andare da quello psichiatra giapponese, al quale pareva tenere tanto. Però, lasciami andare via, Vangie. Per favore, lasciami andare. Non posso passare la vita con te. Ci distrugge tutti e due... Aveva raggiunto casa sua più o meno a mezzanotte. Era arrivato in mac-
china e quando la porta del garage si era aperta, aveva capito che c'era qualcosa di strano. Perché, per poco, non era andato a sbattere contro la Lincoln: l'aveva parcheggiata nello spazio riservato a lui. Anzi, qualcun altro aveva messo la Lincoln nello spazio riservato a lui. Vangie non era mai riuscita a infilare la sua macchina tra i pilastrini e il muro di destra. Il garage era molto grande e sull'altro lato poteva ospitare due macchine. E infatti, era il lato che usava sempre Vangie. E gliene serviva ogni centimetro. Era una pessima guidatrice, forse non aveva la visuale completa ai lati. Non sapeva calcolare lo spazio. Chris parcheggiava sempre la sua Corvette nel lato più stretto. Ma quella sera la Lincoln era parcheggiata da quella parte e per giunta molto bene. In casa non c'era nessuno. La borsa di Vangie abbandonata sulla dormeuse, in camera loro. Quel fatto lo aveva incuriosito, non allarmato. Probabilmente era uscita con qualcuno, con l'intenzione di passare fuori la notte. Anzi, era stato contento di poter supporre che sua moglie avesse un'amica con cui confidarsi. Spesso aveva tentato di farle stringere delle amicizie, di carattere era molto chiusa. Gli era sorto il dubbio che avesse dimenticato la borsa. Dimenticava tutto, però forse quella volta aveva preso una valigetta per passare fuori la notte e non aveva voluto caricarsi di un peso supplementare. La casa lo deprimeva. Aveva deciso di tornare al motel. Con Joan aveva taciuto della sua capatina a casa. Stava attento a parlarle il meno possibile di Vangie. Ogni accenno a sua moglie significava richiamare alla mente di Joan la sua posizione di intrusa. Se quella mattina le avesse raccontato del loro litigio e che Vangie evidentemente ne era stata sconvolta al punto di decidere di andare da un'amica piuttosto che restare sola in casa, Joan sarebbe stata disperata. Ma poi quel mattino aveva trovato Vangie morta. Qualcun altro aveva messo la Lincoln in garage prima della mezzanotte. Qualcuno l'aveva accompagnata a casa dopo la mezzanotte. E le scarpe. Un paio di mesi prima, l'unica volta che le aveva portate, non aveva smesso di lagnarsi. Era stato verso Natale, quando l'aveva portata a New York perché si divertisse un po'. Divertirsi? Dio, che giornata. Non le era piaciuta la commedia. Al ristorante non c'erano le piccatine di vitella, delle quali aveva una voglia matta. E tutto il giorno aveva parlato incessantemente della scarpa che le feriva la caviglia destra. Da settimane, ormai, non portava che quei luridi mocassini. Alle sue insistenze perché si procurasse delle calzature decenti, lei aveva risposto che
quelle erano le sole comode. Dov'erano? Chris aveva frugato in tutta la casa. Dove fossero, lo sapeva certamente chi l'aveva accompagnata a casa. No, non ne avrebbe parlato alla polizia. Non voleva coinvolgere Joan. Sono andato in un motel perché mia moglie e io avevamo litigato. Volevo divorziare. Poi ho deciso di tornare a casa e di provare a ragionare con lei. Non c'era e me ne sono andato. No, non sembrava necessario tirare tutto in ballo. Neppure le scarpe erano così importanti. Forse Vangie voleva essere ben vestita quando la trovavano. Quella gamba gonfia la mortificava. Era vanitosa. Ma avrebbe dovuto dire ai poliziotti che era stato lì e di come era stata parcheggiata la macchina. «Chris, vieni in sala da pranzo. Ti sentirai meglio se mangi qualcosa.» La voce di Molly era dolce e gentile. Stancamente, lui alzò gli occhi. La morbida luce dell'ingresso metteva in risalto il viso di Molly e per la prima volta Chris si accorse di quanto somigliasse a Katie DeMaio. Katie DeMaio. La sorella. Non poteva parlare con Billy e con Molly. Lei si sarebbe trovata in un dilemma. Come consigliarlo spassionatamente se ammettere o tacere il fatto di essere tornato a casa la sera prima, con una sorella all'ufficio della procura della contea? No, bisognava che decidesse da solo. Si passò una mano sugli occhi brucianti. «Sì, grazie, Molly, ne prendo volentieri un po'. Non so che cosa sia ma il profumo è molto invitante. Però devo andare via molto presto. Vengono quelli delle pompe funebri, per i vestiti di Vangie. E i suoi genitori desiderano vederla prima della sepoltura.» «Dove sarà sepolta?» domandò Bill. «La bara verrà spedita in aereo a Minneapolis domani pomeriggio. Io andrò con lo stesso aereo. Il servizio funebre avrà luogo dopodomani. Il medico legale ha rilasciato il corpo nel tardo pomeriggio di oggi.» Le parole gli martellavano in testa. Bara... Corpo... Funerale... Oh, Dio, pensò, sicuramente è un incubo. Volevo essere libero, Vangie, ma non volevo che tu morissi. Sono stato io a portarti al suicidio. Ha ragione Joan. Dovevo restare con te. Alle otto tornò a casa. Alle otto e mezzo, quando arrivò l'impresario delle pompe funebri, aveva già preparato una valigia con la biancheria di Vangie e il caffetano svolazzante che i genitori avevano mandato alla figlia per Natale.
Paul Halsey, l'impresario delle pompe funebri, fu cortese e comprensivo. Trascrisse rapidamente i dati che gli occorrevano. Nata il 15 aprile (annotò in fretta l'anno), morta il 15 febbraio. «Due mesi esatti prima di compiere trentun anni», commentò. Chris si passò le dita su un punto dolente, in mezzo agli occhi. C'era qualcosa di sbagliato. In tutta quella storia irreale, dove ogni cosa era sbagliata, c'era però una cosa precisa. «No», disse, «oggi è il 16, non è il 15.» «Dal certificato di morte, risulta che la signora Lewis è deceduta tra le venti e le ventidue di ieri, 15 febbraio», precisò Halsey. «Lei ha in mente il 16 perché l'ha trovata questa mattina. Ma il medico legale che ha effettuato l'autopsia è in grado di stabilire l'ora del decesso.» Chris lo fissò esterrefatto. Onde di sorpresa spazzarono via il precedente senso di spossatezza e irrealtà. A mezzanotte, lui era in casa e c'erano anche la macchina e la borsa di Vangie. Si era trattenuto circa mezz'ora prima di rimettersi in macchina per tornare al motel di New York. Quando era rincasato la mattina, aveva pensato che Vangie fosse tornata dopo che lui era andato via e si fosse uccisa. Invece, a mezzanotte Vangie era già morta da tre o quattro ore. Ciò significava che a qualche ora non precisata dopo la mezzanotte, quando lui se ne era già andato, qualcuno aveva portato in casa il corpo di sua moglie, l'aveva adagiato sul letto e le aveva posato accanto il bicchiere vuoto. Qualcuno voleva far credere che Vangie si fosse suicidata. E se si fosse uccisa in un altro luogo? Se qualcuno, non volendo essere immischiato, l'avesse riportata lì? No, sicuramente no. Vangie non si sarebbe mai sottoposta, di sua volontà, agli atroci dolori di una morte per cianuro. L'assassino di Vangie aveva inscenato il suicidio. «Cristo», mormorò. «Cristo.» Il viso di Vangie gli apparve nitido. Gli occhi grandi, provocanti, dalle folte ciglia; il naso corto e dritto; i capelli color del miele che le ricadevano sulla fronte; le labbra piccole, perfette. Certamente, all'ultimo momento, lei aveva capito. Qualcuno l'aveva immobilizzata, le aveva fatto ingurgitare il veleno e a tradimento aveva ucciso lei e il bambino che portava in grembo. Chissà che spavento, povera Vangie! Un violento impeto di pietà gli riempì gli occhi di lacrime. A nessuno, a nessun marito, era permesso tacere e lasciare impunite quelle due morti. Ma se avesse raccontato tutto alla polizia, se avessero aperto un'inchiesta, una persona sarebbe stata ineluttabilmente messa sotto accusa. Mentre l'impresario lo fissava, Chris disse ad alta voce: «Ho il dovere di parlare e
loro incolperanno me». 14 Highley riagganciò lentamente. Katie DeMaio non aveva sospetti. Nessuna allusione, neppure quando aveva pronunciato il nome di Vangie Lewis, al fatto che il suo ufficio volesse da lui qualcosa di più di una informazione sulle condizioni psichiche di Vangie. Ma l'incidente di Katie aveva avuto luogo soltanto ventiquattr'ore prima. Probabilmente lei era ancora sotto choc. Già aveva pochi globuli rossi. L'indomani, quando la cumadina fosse entrata in circolo, l'intero apparato della coagulazione avrebbe cominciato a cedere e, a causa di ulteriori perdite di sangue, si sarebbe sentita disorientata e con la testa vuota. Certo non avrebbe potuto conservare una capacità di analisi sufficiente a scindere un ipotetico incubo da un avvenimento reale. A meno che, naturalmente, non sorgessero troppi interrogativi sul suicidio. A meno che, nell'ufficio di Katie, non venisse proposta e discussa l'ipotesi che il corpo di Vangie fosse stato spostato. Il pericolo era ancora molto grave. In quel momento era in biblioteca, la biblioteca di casa Westlake, la sua casa, ormai. Era una villa stile Tudor. La biblioteca aveva il soffitto a volta, gli scaffali a muro, i caminetti di marmo, la vecchia carta da parati stampata a mano, le finestre con i vetri a piombo Tiffany. Una casa così ormai non si sarebbe più potuta costruire a nessun prezzo. Mancava la mano d'opera. Villa Westlake. L'ospedale Westlake. Il Progetto Maternità Westlake. Quel nome gli era stato utilissimo, gli aveva dato entratura sociale e professionale. Era l'affermato ginecologo che aveva conosciuto Winifred Westlake su un transatlantico, l'aveva sposata, si era stabilito in America per continuare l'opera del padre di lei. Quale scusa migliore per lasciare l'Inghilterra? Nessuno, neppure Winifred, sapeva niente degli anni che, prima di Liverpool, aveva passato al Christ Hospital nel Devonshire. Verso la fine, lei aveva cominciato a fargli delle domande. Erano quasi le undici e ancora non aveva cenato. La consapevolezza di quello che avrebbe fatto a Edna gli aveva tolto l'appetito. Ma risolto anche quel problema, era sopraggiunta la liberazione. L'appe-
tito si trasformò in bramosia. Andò in cucina. Hilda gli aveva lasciato la cena pronta nel forno a microonde: pollo di Cornovaglia arrosto e riso integrale. Doveva soltanto scaldarli. Quando aveva tempo preferiva cucinare da sé. La domestica cucinava senza fantasia, pur essendo abbastanza accurata. Hilda era anche una brava governante. A lui piaceva tornare nell'elegante ordine della sua casa, bere qualcosa, mangiare quando voleva, passare le ore a lavorare in biblioteca sui suoi appunti, senza il pericolo che qualcuno lo disturbasse, come invece capitava spesso nello studio in ospedale. Aveva bisogno di sentirsi libero in casa. Si era sbarazzato della domestica fissa che era stata con Winifred e con il padre di lei. Una strega, una nemica che lo guardava con occhi cattivi, astiosi, gonfi di pianto: «La signorina non è stata mai malata fino al giorno...» Lui l'aveva fissata e lei non aveva terminato la frase. Intendeva dire: «Fino al giorno in cui ha sposato lei». Il cugino di Winifred ce l'aveva con lui e aveva tentato di metterlo nei guai dopo la morte di sua moglie. Ma non era riuscito a provare niente. Non esisteva neanche uno straccio di prova. Avevano liquidato il cugino come un ex erede deluso. Di soldi non ne erano rimasti tanti. Winifred aveva investito moltissimo nell'acquisto dell'ospedale. Inoltre, la ricerca succhiava cifre da capogiro, la maggior parte delle quali derivava dai proventi della sua professione. Naturalmente, non poteva domandare una borsa. Però, anche così, ce la faceva. Le donne erano disposte a pagare qualsiasi cifra pur di concepire. Hilda aveva apparecchiato la tavola nella piccola sala da pranzo accanto alla dispensa. La chiamavano la «sala da pranzo del mattino». Non gli piaceva mangiare in cucina, però la sala da pranzo di sei metri per otto sapeva di esibizionismo ed era un po' ridicola per uno che cenava da solo. Quella camera, con il tavolo rotondo a piede centrale, la credenza Queen Anne e la vista sulla parte alberata del prato, era di gran lunga più simpatica. Scelse nel frigorifero una bottiglia ben fredda di Pouilly-Fuissé e si mise a tavola. Finì di cenare sovrappensiero, riflettendo sul dosaggio che avrebbe somministrato a Katie DeMaio. A morte avvenuta, la cumadina non lasciava tracce nella circolazione del sangue. La mancata coagulazione sarebbe stata imputata alle trasfusioni. Se fosse stato costretto a somministrarle l'eparina, tracce di questa e di cumadina sarebbero apparse solo da un'autopsia completa. Ma sapeva come fare per evitare tale rischio.
Prima di coricarsi, si diresse al ripostiglio vicino all'ingresso. Voleva mettere i mocassini al sicuro dentro la borsa da medico, in modo da non ripetere l'incidente del mattino. Allungandosi fino al fondo del ripostiglio, infilò la mano in una tasca del Burberry e ne estrasse una scarpa sformata. Speranzoso, mise la mano libera nell'altra tasca, prima automaticamente, poi con insistenza. Infine, afferrò il soprabito e cominciò a frugare dappertutto. Poi si mise in ginocchio e rovistò tra tutte le sovrascarpe ordinatamente allineate sul pavimento del ripostiglio. Infine si alzò, fissando il mocassino sformato che teneva in mano. Di nuovo si vide nell'atto di sfilare la scarpa dal piede destro di Vangie. La scarpa destra. La scarpa che teneva in mano. Scoppiò in un riso isterico: suoni violenti e gutturali che uscivano dalla furia frustrata di tutto il suo essere. Dopo tutto il pericolo, dopo aver ignominiosamente camminato carponi per tutto il parcheggio, simile a un cane che fiuta il terreno per scovare la selvaggina, aveva rovinato tutto. Chissà come, nel buio, probabilmente quando si era buttato tra i cespugli sentendo il rombo di una macchina che entrava nel posteggio, la scarpa gli era scivolata di tasca. La scarpa che aveva trovato era quella che già aveva. E chissà dove quel mocassino sformato, logoro, brutto che Vangie calzava, aspettava di essere rinvenuto. Aspettava di ripercorrere le orme di lei che, inevitabilmente, portavano a lui! 15 Katie aveva puntato la radio-sveglia alle sei del mattino, ma era già del tutto desta molto prima che la voce risolutamente euforica dell'annunciatore della CBS le augurasse il buon giorno. Aveva dormito male, di un sonno agitato; parecchie volte, durante la notte, aveva sobbalzato, spaventata da un sogno impreciso e inquietante. Durante la notte abbassava sempre il termostato. Tremante di freddo, corse a rialzarlo; poi, svelta, preparò il caffè e se ne portò una tazza a letto, in camera sua al piano di sopra. Appoggiata ai cuscini, raggomitolata nel grosso piumone, Katie cominciò a bere avidamente il caffè, mentre il caldo della tazza le scaldava le dita. «Adesso va meglio», mormorò tra sé. «Ma che cosa ho che non va?» L'antico cassettone Williamsburg con lo specchio ovale in centro era collocato esattamente di fronte al letto. Katie si guardò di sfuggita nello
specchio. I capelli arruffati formavano una macchia marrone scuro sulle federe candide, rifinite con l'orlo a giorno. Il livido sotto l'occhio aveva assunto un colorito violaceo con venature giallastre. Gli occhi erano gonfi di sonno. Le occhiaie profonde accentuavano la magrezza del viso. Mamma direbbe che ho l'aria di un topo uscito da una fogna, disse tra sé. Ma c'era qualcosa in più, oltre l'aspetto. Qualcosa in più, oltre l'indolenzimento generale, dovuto all'incidente. Era un pesante senso di apprensione. Aveva avuto di nuovo quell'incubo strano, pauroso, la notte scorsa? Non ne era sicura. Vangie Lewis. Rammentò un versetto del servizio funebre per John: «Noi che siamo rattristati dalla certezza di dover morire...» Sì, la morte era una cosa sicura. Ma non quel genere di morte. Era già abbastanza orribile pensare che Vangie si fosse tolta la vita, ma sembrava impossibile che qualcuno avesse deciso di sopprimerla facendole ingurgitare il cianuro. Francamente, non riteneva Chris capace di una simile violenza. Pensò alla telefonata del professor Highley. Quella maledetta operazione! Oh, si contavano a migliaia i raschiamenti eseguiti ogni anno, su donne di ogni età. Ma non si trattava tanto dell'intervento in sé, quanto del motivo che lo rendeva necessario. E se il raschiamento non avesse eliminato le emorragie? Il professore aveva fatto capire che in quel caso sarebbe stato necessario ricorrere a una isterectomia. Se almeno fosse rimasta incinta durante l'anno trascorso con John! Ma non era avvenuto. E se un giorno o l'altro si fosse risposata? Che tristezza se non avesse potuto avere figli! Non ci pensare, raccomandò a se stessa. Ti ricordi quel verso del Faust? 'Versiamo lacrime per ciò che non potremo mai perdere'. Be', se non altro stava per togliersi il pensiero dell'operazione. Venerdì pomeriggio gli esami, sabato l'intervento, domenica a casa, lunedì in ufficio. Niente di grave. Molly aveva telefonato il giorno prima, dopo che lei era andata in ufficio. Le aveva detto: «Senti, Katie, ho capito che non volevi parlarne davanti a Richard. Non credi che sarebbe meglio se rimandassi l'intervento di un mese? Dopotutto, hai avuto una brutta scossa». Lei era stata perentoria: «Neanche per sogno. Voglio farla finita con questa storia. E poi, Molly, non mi stupirei se questa faccenda avesse in qualche modo a che vedere con l'incidente. Ho avuto dei capogiri un paio di volte lunedì». Sua sorella si era arrabbiata:' «Perché non me l'hai detto?»
«Via, Molly», aveva replicato lei. «Odiamo tutt'e due la gente che fa storie. Se le cose si mettono troppo male, ti giuro che ti avverto.» «Lo spero», aveva risposto Molly. «E capisco che tu voglia toglierti il pensiero.» Poi aveva chiesto: «Lo dirai a Richard?» Katie si era sforzata di non far trasparire la propria irritazione. «No. E non lo dirò neppure al ragazzo dell'ascensore, né al vigile, né a Voce Amica. Soltanto a te e a Bill. E ora, smettiamo di parlarne. D'accordo?» «D'accordo. Però tu smetti di fare la saputella.» E Molly aveva riagganciato. Il tono della sua voce era un misto di affetto e di autorità, era la voce allarmata che sua sorella assumeva quando uno dei figli usciva dai ranghi. Ma io non sono uno dei tuoi figli, Molly, pensava Katie. Ti voglio bene, ma non sono una tua figlia. E, sorseggiando lentamente il caffè, si domandò se non si appoggiasse troppo a Molly e a Bill, cercando in loro un sostegno affettivo; se, in realtà, rifugiandosi nella loro sicurezza non cercasse di sottrarsi al flusso della vita. Oh, John! Istintivamente, posò lo sguardo sulla sua fotografia. Quel mattino non era che quello: la fotografia di un bell'uomo, dallo sguardo grave, dagli occhi buoni e intelligenti. Una sera, non era ancora trascorso un anno dalla sua morte, Katie aveva preso in mano quella fotografia, l'aveva guardata fisso e, tra i singhiozzi, l'aveva sbattuta a faccia in giù sul cassettone gridando: «Come hai potuto lasciarmi?» Il mattino seguente, ripresasi completamente e vergognandosi di se stessa, si era fermamente ripromessa di non bere mai più di tre bicchieri di vino quando era depressa. Poi, raddrizzando la fotografia, si era accorta che la cornice d'argento a sbalzo aveva scheggiato il piano di quel bel vecchio cassettone. Aveva cercato di giustificarsi con la fotografia: «Non si tratta di autocommiserazione, giudice. Sono arrabbiata per te. Avrei voluto che tu avessi altri quarant'anni. Sapevi godere la vita, sapevi fare qualcosa di utile della vita». «Perché, chi conosce la mente del Signore? Chi è stato Suo consigliere?» I versetti della Bibbia le erano ronzati in mente tutto il giorno. E quando ricordo, pensò Katie, farò bene a tenerli presente. Si sfilò la camicia da notte verde chiaro, andò in bagno e aprì la doccia. Quando era all'università aveva una vera passione per i pigiama a righe. Ma in Italia John le aveva regalato alcune deliziose camicie da notte con vestaglia uguale. Sembrava giusto indossarle lì, nella casa di John, nella sua stanza da letto. Forse aveva ragione Richard. Forse la sua vita era una veglia al capezza-
le di un moribondo. E John sarebbe stato il primo a biasimarla. La doccia calda la rinfrancò. Aveva un tentativo di conciliazione alle nove, una sentenza alle dieci e due cause nuove da studiare perché il processo era fissato di li a una settimana. Doveva lavorare ancora parecchio sul processo di venerdì. Oggi è già mercoledì, pensò sgomenta. Devo darmi da fare. Si vestì in fretta. Scelse una gonna di morbida lana marrone, una camicetta nuova di seta turchese a maniche lunghe, per nascondere il braccio fasciato. La macchina mandata in prestito dal meccanico arrivò mentre finiva di bere un secondo caffè. Accompagnò l'autista in officina, fece un sibilo di disappunto vedendo il grosso danno al parafango della sua macchina, ringraziò Dio di non avere riportato ferite più gravi e andò in ufficio. Era stata una notte molto agitata, nella contea. Una ragazza di quattordici anni era stata violentata. La notizia di un tale che, guidando in stato di ubriachezza, aveva provocato un incidente con quattro morti era sulla bocca di tutti. La polizia locale chiedeva che il procuratore della contea facesse un confronto tra i vari sospettati fermati dopo una rapina a mano armata. Scott usciva in quel momento dall'ufficio. «Bella serata», commentò Katie. Il procuratore assentì. «Quel disgraziato figlio di buona donna che è andato a sbattere contro una macchina piena di ragazzi era talmente sbronzo da non reggersi in piedi. I ragazzi sono morti tutti e quattro sul colpo. Allievi di Pascal Hills, che andavano al ballo studentesco. A proposito, avevo deciso di mandare Rita a parlare con i medici del Westlake, invece è occupata con la faccenda dello stupro. Mi interessa lo psichiatra da cui andava Vangie Lewis. Voglio conoscere il suo parere sullo stato mentale della signora Lewis. Potrei mandare Charley o Phil, ma penso che una donna dia meno nell'occhio in quell'ambiente e possa andare un po' in giro a cercar di scoprire se la signora Lewis ha parlato con le infermiere o ha fatto amicizia con qualche paziente. Ma bisognerà rimandare a domani. Rita è stata in piedi tutta la notte e ora è fuori in macchina con la ragazzina violentata per vedere se riescono a riconoscere l'aggressore. Siamo quasi sicuri che abiti vicino a lei.» Katie ebbe un momento di esitazione. Non aveva in programma di dire a Scott che era paziente del professor Highley, né che venerdì sera sarebbe entrata in ospedale. D'altronde, sarebbe stato impensabile farglielo dire da
qualcuno dell'ufficio: decise di temporeggiare. «Forse posso essere di aiuto. Il professor Highley è il mio ginecologo. Combinazione, proprio oggi ho un appuntamento con lui.» Strinse le labbra e decise che non era necessario addentrarsi in una fastidiosa relazione sull'intervento programmato. Le sopracciglia di Scott si inarcarono. Come sempre accadeva quando era sorpreso, la sua voce si fece più bassa. «Che cosa pensi di lui? Ieri, Richard ha fatto qualche illazione sullo stato di salute di Vangie. Aveva l'aria di credere che Highley le facesse correre dei seri rischi.» Katie scosse il capo. «Non sono affatto d'accordo. La specialità di Highley sono le gravidanze difficili. Tutti dicono che fa miracoli. Il punto è proprio qui: lui tenta di rendere vitali i feti che gli altri dottori danno per persi.» Pensò alla telefonata che Highley le aveva fatto. «Garantisco che è un medico molto coscienzioso.» Scott aggrottò le sopracciglia e solchi profondi apparvero sulla sua fronte e intorno agli occhi. «È veramente questa l'opinione che hai di lui? Da quando lo conosci?» Sforzandosi di essere obiettiva, Katie cominciò a pensare al professore. «Non lo conosco né bene né da molto tempo. Il mio ginecologo di prima è andato in pensione e si è trasferito un paio di anni fa e io non mi sono data la pena di cercarne un altro. Poi, quando ho cominciato ad avere qualche disturbo, be', insomma, mia sorella Molly aveva sentito parlare di Highley da una sua amica che stravede per lui. Così ho preso appuntamento con lui il mese scorso. Highley è uno che sa il fatto suo.» Ripensò alla visita. Il professore era stato gentile, ma brusco. «Ha fatto bene a venire», le aveva detto. «Però devo farle presente che non avrebbe dovuto trascurare il suo disturbo per oltre un anno. Io ritengo che l'utero sia come una culla che deve sempre essere mantenuta in buone condizioni.» Quello che l'aveva più sorpresa era il fatto che non avesse un'infermiera. Il suo precedente ginecologo faceva sempre entrare l'infermiera prima di iniziare la visita; d'altronde, era di un'altra generazione. Riteneva che il professor Highley fosse sui quarantacinque anni. «Che programma hai per oggi?» domandò Scott. «Sono presa al mattino, ma per il pomeriggio si può vedere.» «Benissimo. Vai da Highley e parla anche con quello strizzacervelli giapponese. Cerca di capire se secondo loro Vangie Lewis era o no predisposta al suicidio. Scopri quando è stata l'ultima volta che l'hanno vista. Senti un po' se ha parlato del marito. Attualmente, Charley e Phil si occupano di Chris Lewis. Io sono stato sveglio metà della notte a rimuginare e
mi sono convinto che Richard ha ragione. Qualcosa non quadra in questo suicidio. Parla anche con le infermiere.» «No, con le infermiere no», rispose Katie con un sorriso. «Con Edna, la segretaria. Lei conosce i fatti di tutti. Un mese fa, ero arrivata nella sala d'aspetto da due minuti al massimo e già le raccontavo la storia della mia vita. Forse dovresti assumere lei per interrogare i testimoni.» «Dovrei assumere mezzo mondo», commentò Scott asciutto. «Lo farò presente al condominio. Ciao, a più tardi.» Katie andò in ufficio, prese le carte e corse all'appuntamento con il difensore di un imputato. Acconsentì a derubricare l'imputazione da «detenzione di eroina a scopo di commercio» a semplice «detenzione». Quindi si precipitò a un'aula del secondo piano, dove ascoltò pronunciare la condanna a sette anni nei confronti di un ventenne contro il quale lei aveva sostenuto la pubblica accusa. Avrebbe potuto prendere venti anni per rapina a mano armata con l'aggravante della particolare efferatezza. Di quei sette anni, probabilmente gliene avrebbero condonato un terzo e poi sarebbe tornato in strada. Lei conosceva a memoria la sua fedina penale. Con un tipo così, la rieducazione possiamo scordarcela, pensò. Nel fascio di messaggi che la aspettavano, trovò due telefonate del dottor Carroll. Una alle nove e un quarto, l'altra alle nove e quaranta. Richiamò subito. Richard era fuori per lavoro. La sensazione di urgenza, data dalle due telefonate consecutive, fu sostituita dalla delusione di non trovarlo. Telefonò allo studio del professor Highley, aspettandosi di sentire la calda voce nasale di Edna. Invece le rispose una sconosciuta, una voce femminile profonda e decisa: «Qui studi medici». «Oh!» Katie pensò rapidamente, poi decise di domandare di Edna: «C'è la signorina Burns?» Un breve silenzio, quindi: «La signorina Burns oggi non viene. Ha avvertito che non sta bene. Sono la signora Fitzgerald». Katie si rese conto di aver contato molto sul fatto di poter parlare direttamente con Edna. «Mi dispiace che la signorina Burns non stia bene.» Poi spiegò brevemente che il professor Highley aspettava una sua telefonata e che a lei interessava vedere anche il dottor Fukhito. La signora Fitzgerald la invitò a rimanere in linea e dopo pochi minuti tornò al telefono. «Sta bene per entrambi. Il dottor Fukhito è libero tra le quattordici e le diciassette, quindici minuti prima di ogni ora. Per il professor Highley, sarebbe preferibile fissare l'appuntamento per le ore quindici, se anche a lei
sta bene.» «Per me va benissimo alle quindici con il professor Highley. Per cortesia, confermi al dottor Fukhito per le quindici e quarantacinque.» Abbassò il telefono e si rimise al lavoro. All'ora di colazione, Maureen Crowley, una delle segretarie dell'ufficio, si affacciò alla porta e propose a Katie di portarle un panino. Assorta nella preparazione del processo di venerdì, Katie si limitò a un breve cenno di assenso con il capo. «Pane integrale, prosciutto, senape, insalata e caffè», recitò Maureen. Katie alzò gli occhi, sorpresa: «Sono così prevedibile, Maureen?» La ragazza aveva circa vent'anni, una lunga chioma rosso-dorata, gli occhi verdi smeraldo e la bella carnagione lattea caratteristica delle persone con i capelli rossi. «Ti dirò, Katie, per quello che concerne il cibo, sei un po' monotona.» La porta si chiuse dietro di lei. «Sei pallida e smunta.» «Vegli al capezzale di un moribondo.» «Sei monotona.» Un groppo le salì alla gola e con stupore si rese conto che stava per piangere. Se ho la pelle così delicata, pensò, vuol dire che sto male. Quando arrivarono panino e caffè, mangiò e bevve, a malapena cosciente di quanto inghiottiva. La causa sulla quale si sforzava di concentrarsi era tutta una nebbia. Davanti a sé vedeva perennemente il volto di Vangie Lewis. Perché le era apparso in un incubo? 16 Richard Carroll aveva trascorso una notte agitata. Il telefono aveva squillato alle undici, pochi minuti dopo che era rientrato dalla casa di Katie, per informarlo che all'obitorio c'erano quattro ragazzi. Lentamente aveva riagganciato. Abitava al diciassettesimo piano di un grattacielo residenziale a nord del ponte George Washington. Per qualche minuto, dalla lunga finestra panoramica, era rimasto a guardare il profilo di New York, le macchine che sfrecciavano in Henry Hudson Parkway, i lampioni dalla luce verde-azzurra che rivelavano e delineavano l'aerea struttura del ponte. In quello stesso momento, i telefoni squillavano per annunciare ai genitori di quei giovani che i figli non sarebbero tornati a casa. Richard si era guardato attorno nel salotto. La stanza era piacevole: un grande divano, alcune poltrone spaziose, un tappeto orientale nei toni del
marrone e del blu, una libreria a muro, dei tavolini di massello che avevano abbellito l'ingresso di una vecchia casa di famiglia nel New England. Acquerelli firmati con vedute di mare erano disposti con gusto sulle pareti. Richard aveva sospirato. La sua poltrona pieghevole di cuoio era accanto alla libreria. Aveva in programma di bere qualcosa, di leggere un'ora, poi di andare a letto. Ma a quel punto aveva deciso di recarsi all'obitorio per essere là quando i genitori fossero arrivati a riconoscere le salme. Dio sapeva quanto poco ci fosse da fare per quella povera gente, tuttavia era certo che si sarebbe sentito meglio se avesse fatto quanto era nelle sue possibilità. Era tornato a casa alle quattro del mattino. Spogliandosi si era chiesto se la professione che aveva scelto non lo incupisse troppo. Quei ragazzi tutti ammucchiati. L'impatto doveva essere stato atroce. Ma neppure la morte aveva offuscato completamente la loro bellezza. Una ragazza, soprattutto, lo aveva colpito. Capelli scuri, naso dritto e sottile, piena di grazia anche nella morte. Gli aveva ricordato Katie. Il pensiero dell'incidente automobilistico che le era occorso lunedì sera lo aveva di nuovo turbato. Gli pareva che nelle due ore passate insieme a cena avessero progredito anni-luce nella loro amicizia. Ma di che cosa aveva paura, povera ragazza? Perché insisteva nel volersi sentire tanto legata a John DeMaio? Perché non diceva: «Grazie dell'ottimo ricordo» e non continuava a vivere? Coricandosi, si era sentito mestamente appagato di essere riuscito ad aiutare un po' quei genitori. Aveva potuto affermare con certezza che i ragazzi erano morti sul colpo e che, probabilmente, non si erano neppure accorti o resi conto di quanto stava loro accadendo. Aveva dormito di un sonno inquieto per due ore. Alle sette era già in ufficio. Pochi minuti dopo era giunta la notizia che una vecchia signora si era impiccata in uno squallido quartiere di Chester, una piccola città nel nord della contea. Si era recato sul posto. La donna morta, fragile e somigliante a un uccello, aveva ottantadue anni. Appuntato all'abito aveva un biglietto: «Non lascio nessuno. Sono malata e stanca. Voglio stare con Sam. Scusate il disturbo». Quel biglietto aveva focalizzato nella mente di Richard qualcosa che lo turbava. Da quanto aveva appreso sul carattere di Vangie Lewis, sembrava logico dedurne che se avesse deciso di suicidarsi, avrebbe lasciato un biglietto di spiegazione o per attribuire al marito la causa del suo gesto.
Quasi sempre le donne lasciavano un biglietto. Rientrato in ufficio, Richard aveva telefonato due volte a Katie, sperando di raggiungerla tra un'udienza e l'altra. Voleva sentire il suono della sua voce. Chissà perché, era irritato di averla lasciata sola, la sera precedente, in quella grande casa. Purtroppo, non era riuscito a parlarle. Perché aveva la sensazione che ci fosse qualcosa che la spaventava? Andò in laboratorio e lavorò senza interruzione fino alle quattro e mezzo. Quindi tornò in ufficio, ritirò l'elenco delle telefonate in arrivo per lui e fu assurdamente felice di constatare che Katie lo aveva richiamato. Perché no, dopotutto? si domandò con cinismo. Un sostituto procuratore non può ignorare le telefonate del medico legale. La chiamò subito. Gli rispose il centralinista dell'ufficio del procuratore. Gli disse che Katie non c'era e che per quel giorno non sarebbe tornata in ufficio. Non seppe dirgli dove fosse. Accidenti! Significava che per quel giorno non sarebbe riuscito a parlarle. Aveva una cena a New York con Clovis Simmons, un'attrice di sceneggiati televisivi, Clovis era allegra e simpatica. Una compagnia piacevole, però c'era un vago sentore che lei volesse fare sul serio. Richard prese una decisione. Sarebbe stata l'ultima sera che portava fuori Clovis. Continuare a frequentarla non sarebbe stato leale nei suoi confronti. Non volendo indagare sulle ragioni recondite di quella decisione improvvisa, Richard reclinò lo schienale della poltrona e vi si appoggiò accigliato. Una specie di sveglia suonava a intermittenza nella sua testa. Gli ricordò un viaggio nel Midwest, quando d'improvviso una stazione radio aveva dato l'allarme: si avvicinava un tornado. L'allarme equivaleva a certezza, il pre-allarme a guai in vista. Non aveva esagerato dicendo a Scott che se Vangie Lewis non avesse partorito presto avrebbe avuto bisogno del cianuro. Quante erano le donne del Programma Maternità Westlake che si trovavano nella sua stessa condizione? Molly si era infatuata di quel ginecologo perché un'amica sua aveva avuto una gravidanza riuscita. Ma quanti erano gli insuccessi? E non c'era forse qualcosa di anomalo nell'alta percentuale di decessi tra le pazienti del Westlake? Tramite il citofono chiamò la segretaria e la pregò di raggiungerlo. Marge aveva tra i cinquanta e i sessant'anni. Portava i capelli ampiamente striati di grigio, accuratamente cotonati secondo la moda lanciata da Jacqueline Kennedy al principio degli Anni Sessanta. La gonna le arrivava due dita abbondanti sopra le ginocchia grassocce. Sembrava una onesta
massaia di provincia, in uno sketch pubblicitario alla televisione. In realtà, era un'ottima segretaria e sempre di buon umore. «Marge», le disse. «Vado a fiuto. Ho intenzione di fare un'indagine, ufficiosa, sul Westlake, solo sul reparto maternità. Il Programma Maternità è attivo da quasi otto anni. Vorrei sapere il numero delle pazienti morte di parto o in seguito a complicazioni sopravvenute durante la gravidanza e la percentuale di decessi sul totale delle pazienti ricoverate. Non voglio che la cosa si sappia in giro. Per questo non voglio chiedere a Scott di mettere i registri sotto sequestro. Sai di nessuno che lavori al Westlake e sia disposto a farti il favore di dare un'occhiata ai registri? Beninteso, con la massima discrezione.» Marge aggrottò la fronte. Il naso, non molto diverso dal becco di un canarino, ebbe un fremito. «Lascia fare a me», rispose. «Benissimo. Ancora una cosa. Controlla tutte le cause intentate ai medici del reparto maternità per negligenza professionale. Non m'importa come siano andate a finire: voglio sapere i motivi.» Soddisfatto delle risoluzioni prese, Richard corse a casa a fare una doccia e a cambiarsi d'abito. Pochi secondi dopo che aveva lasciato l'ufficio, giunse una telefonata del professor David Broad dal laboratorio ricerche prenatali del Mount Sinai. Il messaggio, preso da Marge, domandava a Richard di mettersi in contatto con Broad la mattina seguente. La cosa era urgente. 17 Katie uscì alle tre meno un quarto, diretta all'ospedale. Il tempo si era stabilizzato sul brutto, nuvolo, freddo. Ma se non altro il calore delle automobili aveva fatto sciogliere gran parte del nevischio, liberando le strade. Rallentò intenzionalmente all'imbocco della curva che era stata la causa iniziale dell'incidente. Arrivò all'appuntamento con qualche minuto di anticipo, ma avrebbe potuto risparmiarsi la fatica. La segretaria, signora Fitzgerald, fu freddamente cortese. Quando le domandò se le capitasse spesso di sostituire Edna, la signora Fitzgerald rispose asciutta: «Non succede quasi mai che la signorina Burns sia assente, perciò c'è poco bisogno di sostituirla». Parve a Katie che il tono della risposta fosse, inutilmente, sulla difensiva. Perplessa, decise di seguire quella traccia. «Mi spiace sentire che la signorina Burns oggi non sta bene. Niente di serio, spero?»
«No.» La donna era chiaramente nervosa. «Una cosa virale, sarà qui domani, sono sicura.» In sala d'aspetto c'erano parecchie gestanti, immerse nella lettura di riviste. Non ci fu modo di attaccare discorso. Una donna incinta, dal viso gonfio, i movimenti lenti e guardinghi, uscì dal corridoio che portava agli studi medici. Si sentì il ronzio del cicalino. La segretaria sollevò il citofono. «Signora DeMaio, il professor Highley l'aspetta», disse. Sembrava sollevata. Katie s'incamminò lungo il corridoio. Ricordava che lo studio di Highley era il primo. Adeguandosi alle istruzioni stampate su un cartello, bussò, aprì la porta ed entrò in una camera di media grandezza. Le parve uno studio accogliente. Scaffali di libri tappezzavano una parete. Fotografie di madri con bambini coprivano quasi interamente una seconda parete. Una poltrona era sistemata accanto a una scrivania massiccia e riccamente intagliata. Katie ricordò che uno stanzino per le visite, un gabinetto e un monolocale adibito a cucina e punto di sterilizzazione degli strumenti completava il tutto. Il professore era seduto dietro la scrivania.» Si alzò a salutarla: «Signora DeMaio». Il tono era affabile, il leggero accento inglese a stento distinguibile. Era un uomo di media statura, uno e settanta circa. Il viso, dalla carnagione liscia, con guance rotonde, finiva nel mento ovale e un po' pesante. Il corpo dava l'impressione di una forza dinamica, meticolosamente controllata. Si capiva che aveva tendenza a ingrassare. I capelli fini di un biondo rossiccio erano accuratamente divisi dalla scriminatura. Ciglia e sopracciglia, dello stesso colore, accentuavano gli occhi sporgenti grigio acciaio. Se considerati singolarmente, i lineamenti non facevano di lui un uomo bello, tuttavia l'insieme risultava solenne e autorevole. Katie arrossì, intuendo che il professore era consapevole e per niente contento del minuzioso esame cui lo aveva sottoposto. Si affrettò a sedersi e per rompere il ghiaccio lo ringraziò della telefonata. Il professore rispose che non era il caso. «Sarei contento se avesse qualcosa di cui ringraziarmi. Se avesse detto al medico di guardia che era mia paziente, le avrebbe assegnato una camera nell'ala ovest. Più confortevole, le assicuro. Ma più o meno la stessa vista.» Katie, che stava frugando nella borsa in cerca di taccuino e matita, alzò subito gli occhi. «La vista? Qualsiasi cosa sarebbe stata migliore di quanto ho creduto di vedere l'altra notte. Infatti...» Si interruppe. Il taccuino le ricordò che era lì per lavoro. Che cosa avrebbe pensato il professore se lo avesse intrattenuto sui suoi incubi? Incoscientemente, si sforzò di sedere
più eretta nella poltrona troppo bassa, troppo morbida. «Se non le dispiace, professore, per prima cosa parliamo di Vangie Lewis.» Sorrise. «Credo che, per qualche minuto almeno, i nostri ruoli debbano essere invertiti. Le devo fare alcune domande.» Il viso di lui assunse un'espressione triste. «Come vorrei che a rendere necessaria tale inversione di ruoli fosse una circostanza più felice. Povera donna! Da quando ho appreso la notizia, non riesco praticamente a pensare ad altro.» Katie assentì. «Conoscevo poco Vangie Lewis, però devo dire che ho avuto la sua stessa reazione, professore. Ora, si tratta di una pura formalità, naturalmente, in mancanza di uno scritto della defunta il mio ufficio desidera conoscere la sua opinione sullo stato mentale e fisico della suicida.» Fece una pausa, poi domandò: «Quando ha visto Vangie Lewis per l'ultima volta?» Il professore si appoggiò allo schienale. Incrociò le mani sotto il mento, mettendo in mostra unghie curatissime. Parlò con lentezza: «La sera di giovedì. Avevo raccomandato alla signora Lewis di venire da me una volta la settimana, avendo superato la prima fase della gravidanza. Ho qui la cartella». Additò la cartella di tela sulla scrivania. Un'etichetta: LEWIS, VANGIE. Un oggetto impersonale, pensò Katie, solo un promemoria a conferma del fatto che, esattamente una settimana prima, Vangie era sdraiata nello stanzino per le visite accanto allo studio a farsi misurare la pressione, a controllare il battito cardiaco del feto che portava in sé. «Come stava la signora Lewis», domandò Katie, «dal punto di vista emotivo e dal punto di vista fisico?» «Mi permetta di rispondere prima alla sua domanda a proposito dello stato di salute della signora Lewis. Esisteva il pericolo di una tossicosi gravidica, che io seguivo di continuo. Capisce, ogni giorno di gravidanza in più significava un aumento delle possibilità di vita del bambino.» «Avrebbe potuto portare a termine la gravidanza?» «Escluso. In realtà, giovedì scorso dovetti dire alla signora che, molto probabilmente, entro due settimane si sarebbe reso necessario il suo ricovero qui in ospedale per provocare il parto.» «Come reagì alla notizia?» Il professore aggrottò la fronte. «Ritenevo che la vita del bambino fosse la preoccupazione precipua della signora Lewis. Invece, il fatto è che più si avvicinava la data presunta del parto e più mi sembrava che la signora fos-
se spaventata dal meccanismo della nascita. Ho perfino pensato che Vangie Lewis non fosse molto diversa da una bambina che vuol giocare alla donna, ma sarebbe terrorizzata se la bambola si trasformasse in un bambino vero.» «Capisco.» Katie rifletteva e intanto faceva ghirigori sul taccuino che teneva in mano. «Ma manifestava segni evidenti di depressione?» Il professore scosse la testa. «Io non me ne sono accorto. Però penso che spetti al dottor Fukhito rispondere a questa domanda. Lui l'ha vista la sera di lunedì; inoltre, ha molta più pratica di me nel riconoscere questo tipo di sintomi, quando sono nascosti. La mia impressione generale è che Vangie Lewis avesse una paura morbosa di partorire.» «Un'ultima domanda», disse Katie. «Il suo studio confina con quello del dottor Fukhito. Ha visto la signora Lewis lunedì sera?» «No.» «La ringrazio, professore. Le sue informazioni sono preziose.» Fece scivolare il taccuino nella borsa a tracolla. «Adesso tocca a lei farmi delle domande.» «Non ne ho molte. Ha già risposto ieri sera. Quando avrà parlato con il dottor Fukhito, vada alla camera 101, nell'ala opposta dell'ospedale. Le faranno una trasfusione. E aspetti mezz'ora prima di andare via in macchina.» «Credevo che ciò valesse solo per i donatori di sangue», osservò Katie. «Tanto per accertarsi che non ci sia reazione. E poi...» Introdusse la mano nel cassetto più basso della scrivania. Katie intravide tante bottigliette allineate in perfetto ordine. Lui ne scelse una, con dentro nove o dieci pillole. «Ne prenda una stasera», disse. «Poi una ogni quattro ore domani. Lo stesso venerdì. Cioè, prenda quattro pillole domani e quattro venerdì. Qui ne ha a sufficienza. Devo insistere sull'importanza che non se ne dimentichi. Come lei sa, se questo intervento non risolvesse il suo problema, dovremmo prendere in considerazione l'eventualità di una soluzione più radicale.» «Prenderò le pillole», assicurò Katie. «Va bene. Venga in ospedale venerdì verso le diciotto.» Lei assentì. «Allora, d'accordo. Io finirò le mie visite pomeridiane, poi passerò da lei. Non è spaventata, vero?» Gli aveva già confessato il suo terrore degli ospedali nel corso della sua prima visita. «No», rispose, «non molto.»
Le aprì la porta. «Dunque a venerdì, signora DeMaio», disse con dolcezza. 18 La squadra investigativa di Phil Cunningham e di Charley Nugent tornò all'ufficio del procuratore alle quattro del pomeriggio. I due uomini trasudavano l'eccitamento e la tensione tipici dei segugi che hanno scovato la selvaggina. Irruppero nell'ufficio di Scott e cominciarono subito a raccontargli per filo e per segno ciò che avevano scoperto. «Il marito è un bugiardo», affermò Phil, perentorio. «Non doveva tornare prima di ieri mattina, invece il suo aereo ha avuto un guasto al motore. I passeggeri sono stati sbarcati a Chicago e lui e l'equipaggio hanno fatto dietro-front per New York. È rientrato lunedi sera.» «Lunedì sera!» esclamò Scott. «Già. Ed è sceso all'Holiday Inn, Cinquantasettesima strada ovest.» «E tu come lo sai?» «Ci siamo fatti dare l'elenco dell'equipaggio sul volo di lunedì e abbiamo parlato con tutti. Il commissario di bordo abita a New York. Lewis gli ha dato un passaggio in macchina fino a Manhattan e hanno cenato insieme. Gli ha raccontato una storia senza capo né coda sulla moglie che era via e sul fatto che lui intendesse passare la notte in città e andare a uno spettacolo.» «Ha detto così al commissario di bordo?» «Già. Ha messo la macchina all'Holiday Inn, ho controllato. Poi sono andati a cena. Il commissario di bordo lo ha lasciato alle diciannove e venti. Dopo di che, Lewis ha ripreso la macchina. Dai registri del garage, risulta che l'ha tenuta oltre due ore. L'ha riportata alle dieci. E adesso senti questa: se ne è andato di nuovo a mezzanotte, ed è tornato alle due del mattino.» Scott fece un fischio. «Ha mentito a noi circa il volo. Ha mentito al commissario di bordo circa la moglie. Tra le otto e le dieci di sera e tra mezzanotte e le due del mattino è andato in macchina da qualche parte. A che ora ha detto Richard che Vangie Lewis è morta?» «Tra le otto e le dieci di sera», rispose Ed. Fino allora Charley Nugent era stato zitto. «C'è dell'altro», intervenne a quel punto. «Lewis ha una ragazza, una hostess della Pan Am. Si chiama Joan Moore. Abita a New York, al numero 201 della Ottantasettesima
strada est. Secondo il portiere, ieri mattina il comandante Lewis l'ha accompagnata a casa in macchina dall'aeroporto. Lei ha lasciato la sua sacca da viaggio in portineria e sono andati a prendere un caffè di fronte a casa.» Il procuratore cominciò a tamburellare con la matita sulla scrivania, segno sicuro che stava per impartire ordini. I suoi uomini aspettavano, i taccuini in mano. «Sono le sedici», cominciò Scott, asciutto. «I giudici andranno via tra poco. Fatevene passare uno al telefono, domandategli di aspettare un altro quarto d'ora. Ditegli che stiamo per emettere un mandato di cattura.» Phil balzò dalla sedia e corse al telefono. «Tu», continuò Scott additando Charley, «scopri chi è l'impresario di pompe funebri che ha ricevuto la salma di Vangie Lewis a Minneapolis. Vacci. Il corpo non deve essere seppellito e assicurati che Chris Lewis non la faccia cremare. Forse dovremo lavorarci ancora. Lewis ha lasciato detto quando sarebbe tornato?» Charley annuì. «Ha detto che sarebbe tornato domani, subito dopo il servizio funebre e la sepoltura.» Scott grugnì. «Informati con quale aereo arriva e vallo a prendere. Portalo qui per l'interrogatorio.» «Non credi che tenterà di svignarsela?» «No, non credo. Proverà a fare lo gnorri. Se non è stupido, sa che non abbiamo in mano niente di preciso contro di lui. Voglio parlare anche con la sua ragazza. Che cosa sai di lei?» «Che divide un appartamento con altre due hostess. Che vuole passare alla filiale sudamericana della Pan Am e fare servizio a bordo. Adesso è a Fort Lauderdale per firmare il contratto per un appartamento. Rientrerà venerdì pomeriggio tardi.» «Vai anche al suo aereo», disse Scott, «e portala qui per qualche domanda. Dov'era lunedì sera?» «In volo per New York. Ne siamo certissimi.» «Molto bene.» Scott fece una pausa. «Un'altra cosa. Voglio le registrazioni delle telefonate da casa Lewis, soprattutto quelle della settimana scorsa. Quando te ne occupi, vedi anche se ci fosse, su uno dei telefoni, un congegno per rispondere. Lui è comandante di una linea aerea. Sarebbe logico che ne avesse uno.» Phil Cunningham riabbassava il telefono in quel momento. «Il giudice Haywood aspetterà.» Il procuratore prese il telefono, formò rapidamente il numero di Richard,
chiese di lui e borbottò a bassa voce: «Maledizione! L'unico giorno che è uscito presto dall'ufficio!» «Hai bisogno di vederlo subito?» La voce di Charley denotava curiosità. «Voglio sapere che cosa intendeva dire quando ha affermato che c'era un'altra cosa che non quadrava. Ti ricordi quella sua osservazione? Sarebbe interessante sapere di che si tratta. Va bene, mettiamoci al lavoro. Quando vai a perquisire la casa, passala al setaccio. Cerca il cianuro. Dobbiamo scoprire in fretta dove Vangie Lewis ha trovato il veleno che l'ha uccisa. «O dove l'ha trovato il comandante Lewis», aggiunse tra sé. 19 Forse per contrasto con lo studio del professor Highley, quello del dottor Fukhito sembrava più spazioso e più allegro. La scrivania, lunga e stretta, occupava meno spazio del massiccio tavolo inglese del professore. Graziose poltroncine con lo schienale di bambù e sedili e braccioli imbottiti sostituivano con un divanetto in stile le pesanti poltrone di cuoio dello studio attiguo. In luogo delle fotografie incorniciate di madri con bambini che tappezzavano lo studio di Highley, le pareti del dottor Fukhito erano rallegrate da una serie di riproduzioni molto belle delle xilografie della scuola Ukiyo-e. Considerato che era un giapponese, la statura del dottor Fukhito era notevole. A meno che, pensò Katie, non fosse un'impressione dovuta al suo portamento quanto mai eretto. No, doveva essere sul metro e settanta. Come il collega, anche Fukhito adottava un abbigliamento costoso e classico. Il completo gessato che indossava quel giorno era valorizzato dalla camicia azzurro pallido e dalla cravatta di seta in varie sfumature di blu. Capelli e baffetti, sottili e curati, completavano la carnagione color oro pallido e gli occhi scuri, più ovali che a mandorla. Il dottor Fukhito poteva dirsi un gran bell'uomo non solo in base ai criteri orientali, ma anche secondo quelli occidentali. E probabilmente anche un ottimo psichiatra, pensava Katie tra sé mentre cercava il taccuino, volutamente concedendosi tempo per meglio assorbire le sensazioni. Un mese prima, la visita con Fukhito era stata breve e informale. Con un sorriso, le aveva spiegato: «Il grembo della donna è una parte affascinantissima dell'anatomia umana. Talvolta, mestruazioni irregolari e disordina-
te sono la spia di un problema affettivo». «Nel mio caso lo escludo», gli aveva risposto Katie. «Mia madre ha sofferto per anni dello stesso mio disturbo che, a quanto so, è o può essere ereditario.» Si era informato della sua vita privata. «Supponiamo che un giorno o l'altro sia necessario fare un'isterectomia. Che cosa proverebbe?» «Sarei disperata», aveva risposto Katie. «Ho sempre desiderato dei figli.» «Allora ha in programma di sposarsi? Ha una relazione?» «No.» «Perché?» «Perché attualmente mi interessa di più il lavoro.» Quindi aveva posto bruscamente fine all'intervista: «Dottore, lei è molto gentile, ma, le assicuro, io non ho problemi emotivi. Desidero ardentemente guarire da questo mio disturbo, ma le assicuro che si tratta di una questione esclusivamente fisica». Lui aveva acconsentito con molto garbo, si era alzato subito e le aveva teso la mano. «Bene, qualora diventasse una paziente del professor Highley, la prego di ricordarsi che io sto qui. E se le venisse il desiderio di sfogarsi con qualcuno, chissà che non voglia provare me.» Parecchie volte, nel mese precedente, le era balenato nella mente che forse non sarebbe stata una cattiva idea avere un colloquio con lui, sentire un parere professionale e obiettivo sulla sua condizione psicologica. Oppure, si domandò Katie, quell'idea le era venuta molto più di recente... diciamo, per esempio, dalla cena con Richard, la sera prima? Respinse quel pensiero, si raddrizzò nella seggiola e alzò la penna. La manica scivolò rivelando il braccio fasciato. Con suo gran sollievo, Fukhito non le chiese niente. «Dottore, come sa, una paziente sua e del professor Highley, Vangie Lewis, è morta a un'ora imprecisata di lunedì sera.» Vide che le sopracciglia di lui si alzavano lievemente. Forse si era aspettato che lei affermasse decisamente che Vangie si era suicidata? Continuò: «Dottore, lei ha visto Vangie intorno alle venti di quello stesso giorno, vero?» Lui assentì. «L'ho vista precisamente alle venti.» «Quanto è rimasta da lei?» «Quaranta minuti circa. Aveva telefonato lunedì pomeriggio per avere un appuntamento. In genere il lunedì lavoro fino alle venti, ma fino a quel-
l'ora ero già pieno di appuntamenti. Gliel'ho detto e l'ho invitata a venire il martedì mattina.» «Che cosa ha risposto?» «Si è messa a piangere al telefono. Sembrava veramente disperata e così ho acconsentito che venisse. L'avrei ricevuta alle venti.» «Perché era così disperata, dottore?» Parlò lentamente, scegliendo le parole con cura. «Aveva litigato con il marito. Era persuasa che lui non la amasse o che non volesse il bambino. Fisicamente, lo stress della gravidanza cominciava a farsi sentire. Era veramente molto immatura: figlia unica, viziata e coccolata. Non tollerava il male fisico e d'improvviso era terrorizzata dalla prospettiva del parto.» Inconsciamente, gli occhi di lui si posarono sulla sedia a destra della scrivania, dove lei si era seduta lunedì sera avvolta nel lungo caffetano. Per quanto avesse sempre proclamato di volere un figlio, Vangie odiava gli indumenti premaman, non si rassegnava a perdere la sua figura slanciata. Nell'ultimo mese, si era sforzata di nascondere il corpo ingrossato e le gambe gonfie sotto abiti lunghi. Era un miracolo che non fosse inciampata e caduta per come le svolazzavano intorno ai piedi. Katie lo osservò incuriosita. Nessun dubbio, quell'uomo era nervoso. Quale consiglio aveva dato a Vangie, perché lei corresse a casa a uccidersi? Oppure, posto che fosse giusta l'ipotesi di Richard, l'aveva mandata da un assassino? La lite. Chris Lewis aveva taciuto di un alterco con la moglie. Sporgendosi lievemente, Katie disse: «Capisco, dottore, la sua volontà di tutelare il carattere confidenziale del suo colloquio con la signora Lewis, ma mi trovo qui in veste ufficiale. Per noi è di fondamentale importanza conoscere tutto quanto lei sa a proposito dell'alterco tra Vangie Lewis e il marito». Gli pareva che la voce di Katie provenisse da molto lontano. Vedeva gli occhi atterriti di Vangie che lo fissavano. Con sforzo, mise ordine nella propria mente e guardò Katie in viso. «La signora Lewis mi ha detto di essere convinta che il marito fosse innamorato di un'altra donna e di averlo accusato di questo. Inoltre lo aveva avvisato: se avesse scoperto l'identità della donna, le avrebbe fatto passare una vita d'inferno. Era arrabbiata, agitata, amara, spaventata.» «E lei che cosa le ha detto, dottore?» «Le ho promesso che prima e durante il parto le avremmo garantito tutta la nostra assistenza. Ho cercato di comunicarle la nostra speranza di farle
avere il bambino tanto atteso, che sarebbe potuto diventare lo strumento per prolungare il suo matrimonio.» «Come ha reagito?» «Dapprima si è calmata. Poi ho ritenuto necessario avvertirla che se neppure la nascita del bambino avesse consolidato il suo matrimonio avrebbe dovuto contemplare la possibilità di porvi fine.» «E poi?» «La signora Lewis è diventata una belva. Ha dichiarato che non avrebbe mai permesso al marito di lasciarla. Ha detto che io ero come gli altri, che stavo dalla parte di lui. Si è alzata e ha afferrato il soprabito.» «E lei che cosa ha fatto, dottore?» «A quel punto, ovviamente la cosa migliore era che non facessi niente. Le ho consigliato di andare a casa, di coricarsi e di telefonarmi il mattino seguente. Capivo che lei non era ancora in grado di affrontare il fatto, apparentemente irreversibile, che il comandante Lewis volesse divorziare.» «Se ne è andata così?» «Sì. Aveva lasciato la macchina nel parcheggio sul retro dell'ospedale. Talvolta mi domandava il permesso di usufruire del mio ingresso privato sul retro. Lunedì non mi ha chiesto niente, è uscita da quella porta e basta.» «E poi non ha più saputo niente di lei, dottore?» «No.» «Già.» Katie si alzò dalla sedia e si diresse alla parete dove erano appesi i quadri. Voleva che Fukhito continuasse a parlare. Era chiaro che nascondeva qualcosa. Era nervoso. «Anch'io sono stata ricoverata qui lunedì notte», disse. «Ho avuto un lieve incidente automobilistico e mi hanno portata qui.» «Sono lieto che l'incidente sia stato lieve.» «Sì.» Katie si era fermata davanti a uno dei quadri, Una stradina a Yabu Koji Atagoshita. «Quant'è bello», esclamò. «È della serie Cento panorami di Yedo, vero?» «Sì. Si intende di arte giapponese, mi pare.» «No. Il vero intenditore era mio marito e mi ha insegnato qualcosa. Anch'io possiedo qualche riproduzione della stessa serie, ma questa è bellissima. Non trova interessante l'idea di cento vedute dello stesso luogo?» Lui si mise sulla difensiva. Katie gli voltava le spalle e non vide che stringeva le labbra, fino a ridurle in una riga sottile. Katie si voltò. «Dottore, mi hanno portata in questo ospedale lunedì sera,
verso le dieci. Mi dica: potrebbe darsi che Vangie non fosse ancora andata a casa? Che si trovasse ancora in ospedale? Potrebbe darsi che alle dieci, quando mi hanno portata qui semincosciente, io l'abbia vista?» Il dottor Fukhito la fissò attonito, mentre una fredda, viscida paura gli serpeggiava nelle ossa. «Non vedo come sia possibile», rispose con un sorriso forzato. Ma Katie si accorse che le nocche delle sue dita erano serrate e bianche, come se facesse un grande sforzo per restare seduto, per non scappare, mentre qualcosa (era rabbia o paura?) gli balenava negli occhi. 20 Alle cinque del pomeriggio Gertrude Fitzgerald innestò la segreteria telefonica e chiuse a chiave la scrivania dell'ufficio. Nervosamente, formò il numero telefonico di Edna. Di nuovo nessuna risposta. Non c'era dubbio. Negli ultimi tempi, Edna beveva ogni giorno di più. Eppure, era una persona tanto cara, tanto buona, che amava sinceramente tutti. Facevano spesso colazione insieme, il più delle volte alla mensa dell'ospedale. Capitava talvolta che Edna proponesse: «Andiamo fuori a mangiare qualcosa di decente». Ciò voleva dire che aveva voglia di andare al ristorantino accanto all'ospedale, dove poteva bere un Manhattan. Sempre Gertrude doveva insistere perché si limitasse a uno solo. E la prendeva in giro: «Così stasera ne potrai bere due», soleva dirle. Capiva quel suo bisogno di bere. Lei non beveva, però conosceva quella struggente sensazione di vuoto che prende quando si trascorre ogni giorno al lavoro per poi tornare a chiudersi fra le quattro pareti di casa. Spesso ridevano assieme degli articoli che esortavano a fare lo yoga, a iscriversi a un'associazione di ornitologi, a seguire un corso. Edna diceva: «Con queste gambone, non riuscirei a sedermi a gambe incrociate; non arriverei a toccare terra senza piegare le ginocchia; sono allergica agli uccelli; alla fine della giornata sono troppo stanca per occuparmi di storia della Magna Grecia. Vorrei solo, un bel giorno, incontrare un brav'uomo che venisse a casa con me a passare la notte e, ti giuro, non me la prenderei neppure se si mettesse a russare». Gertrude era vedova da sette anni, però aveva figli e nipoti. Gente che le voleva bene, si occupava di lei e talvolta le domandava in prestito qualche bigliettone. Insomma, qualcuno che aveva bisogno di lei. Dio sapeva se anche lei non avesse dei momenti di solitudine, ma non era come per Edna. Lei, Gertrude, aveva vissuto. Aveva sessantadue anni, buona salute e
qualcosa da ricordare. Poteva giurarci: Highley aveva capito che stava mentendo quando gli aveva assicurato che Edna aveva avvertito che non stava bene. Le aveva detto lei stessa in passato di essere stata redarguita da Highley sul fatto del bere. Ma aveva bisogno di lavorare. Prima di morire, i vecchi genitori le erano costati un patrimonio. Non che Edna si fosse mai lamentata. Per quanto fosse stata una triste vicenda, avrebbe desiderato che loro ci fossero ancora, ne sentiva la mancanza. E se invece Edna non avesse bevuto? Se si fosse sentita male o qualcosa del genere? Il solo pensiero fece sobbalzare Gertrude. Non aveva scelta. Doveva andare a vedere. Doveva prendere la macchina e recarsi subito a casa di Edna. Se stava bevendo, l'avrebbe fatta smettere e le avrebbe fatto smaltire la sbornia; se si sentiva male, l'avrebbe assistita. Presa quella risoluzione, Gertrude si alzò dalla scrivania. Una cosa ancora. Quella signora DeMaio dell'ufficio del procuratore. Era stata gentile, ma le era parsa troppo insistente riguardo a Edna. Probabilmente l'indomani le avrebbe telefonato direttamente. Che cosa poteva volere da lei? E che cosa poteva dirle Edna della signora Lewis? Continuò a rimuginare su quel problema insolubile mentre percorreva in macchina i dieci e più chilometri che la separavano dalla casa di Edna. Non ne era venuta a capo quando parcheggiò nell'area dietro casa riservata ai visitatori e raggiunse a piedi la porta d'ingresso dell'appartamento di Edna. Le luci erano accese. Sebbene le tende sottili che Edna aveva foderato da sé fossero chiuse, Gertrude capì che la luce proveniva dal soggiorno e dalla piccola sala da pranzo. Mentre si avvicinava alla porta, sentì un fioco rumore di voci. Certo, la televisione. Ebbe un moto di stizza. Le sarebbe molto seccato trovare Edna placidamente sprofondata in poltrona e scoprire che non si era neppure disturbata a rispondere al telefono, mentre lei aveva dovuto lavorare per due, sostituirla in ufficio e come se non bastasse fare tutti quei chilometri per accertarsi che stesse bene. Suonò il campanello, che squillò in un duplice trillo acuto. Aspettò. Tese gli orecchi, ma non percepì alcun rumore di passi frettolosi oltre la porta, né il suono di una voce familiare che gridasse: «Eccomi, vengo!» Forse Edna si stava sciacquando la bocca con la soluzione dentifricia. Temeva sempre che d'improvviso capitasse uno dei medici a portarle del lavoro urgente. Era già successo un paio di volte e in quel modo Highley aveva
scoperto il suo punto debole. Nessun confortante rumore di voci o di passi. Gertrude rabbrividì mentre, decisa, suonava di nuovo il campanello. Forse Edna smaltiva la sbornia dormendo. Faceva così freddo. Anche Gertrude avrebbe voluto essere a casa. Al quarto tentativo, la stizza era scomparsa, sostituita da un'acuta preoccupazione. Inutile perdere tempo, c'era qualcosa di molto strano. Doveva riuscire a entrare in casa. Il custode, signor Krupshak, abitava proprio dirimpetto dall'altra parte del cortile. Gertrude corse da lui a raccontargli il fatto. L'uomo stava cenando e si mostrò visibilmente seccato, invece sua moglie Gana staccò subito il mazzo delle chiavi da un anello appeso sopra l'acquaio. «L'accompagno io», disse. Le due donne traversarono di corsa il cortile. «Edna è un'amica», incominciò spontaneamente Gana Krupshak. «Talvolta, la sera, vado a fare una capatina da lei e chiacchieriamo un po' bevendo qualcosa assieme. Mio marito disapprova tutti gli alcolici, vino compreso. Ieri sera sono passata un momento da Edna verso le otto. Abbiamo bevuto un Manhattan e mi ha raccontato che una delle sue più affezionate pazienti si era tolta la vita. Eccoci, siamo arrivate.» Le donne erano sulla piccola veranda che portava all'appartamento di Edna. La moglie del custode cominciò ad armeggiare con le chiavi. «È questa», disse infine. Infilò la chiave nella serratura e cominciò a girarla. «Questa serratura ha qualche cosa che s'inceppa, bisogna sempre scuoterla un po'.» In quel mentre la serratura scattò e lei aprì la porta. Le due donne videro Edna nello stesso istante. Riversa a terra, le gambe rannicchiate, la vestaglia azzurra aperta che lasciava intravedere la camicia da notte di flanella, i capelli grigi incollati al viso, gli occhi sbarrati, il sangue rappreso a formare una corona purpurea in cima alla testa. «No. No.» Gertrude udì la propria voce salire di tono, una voce acuta, penetrante, un'entità che non riusciva a controllare. Premette le nocche delle dita contro la bocca. Con voce soffocata, Gana Krupshak mormorò: «Solo ieri sera ero qui con lei. Edna...» La sua voce si spezzò. «Edna era completamente partita, non so se mi spiego, lei sa come si riduceva talvolta, e continuava a parlare di una paziente che si era tolta la vita. Poi ha telefonato al marito di quella donna.» Gana scoppiò in singhiozzi, suoni aspri, stridenti. «E adesso è morta anche la povera Edna!»
21 Ritto in piedi, accanto ai genitori di Vangie, a destra del feretro, Chris Lewis ascoltava distratto le parole di cordoglio degli amici. Quando, per telefono, aveva comunicato ai genitori la morte della figlia, loro si erano dichiarati d'accordo sull'opportunità di vedere la salma da soli, di celebrare la funzione funebre la mattina successiva e, subito dopo, la sepoltura in forma privata. Invece, quando era arrivato a Minneapolis quel pomeriggio, Chris aveva trovato che i genitori avevano disposto diversamente: amici e conoscenti avrebbero visitato la salma nel pomeriggio e la mattina seguente, dopo la cerimonia in chiesa, un corteo di persone avrebbe accompagnato Vangie fino al cimitero. «Tanti amici vogliono dire addio alla nostra bambina. Pensare che due giorni fa era viva e ora non c'è più!» diceva la madre tra i singhiozzi. Era soltanto mercoledì? A Chris pareva che fossero trascorse settimane intere da quando, il giorno prima, era entrato in quella scena da incubo, in camera da letto. Il giorno prima. «È bella la nostra piccina, vero?» stava dicendo la madre a un conoscente che si avvicinava alla bara. La nostra bambina. La nostra piccina. Se soltanto aveste saputo farla crescere, pensò Chris, forse tutto sarebbe stato diverso. L'ostilità che nutrivano nei suoi confronti non si manifestava apertamente, ma ribolliva sotto la superficie, pronta a esplodere. «Una ragazza felice non si toglie la vita», aveva sentenziato, accusatoria, la madre. Erano più vecchi, stanchi, segnati dal dolore. Persone semplici, che avevano sempre lavorato sodo, negandosi tutto, pur di allevare nel lusso la figlia non più aspettata, abituandola in quel modo a credere che ogni suo desiderio fosse legge. Sarebbe stato più facile per loro quando si fosse saputa la verità, cioè che era stato qualcuno a uccidere Vangie? Oppure avrebbe dovuto fare in modo che non ne sapessero niente, risparmiando loro quell'ultimo orrore? La madre già cominciava a trovare conforto nel costruirsi una versione con la quale convivere: «Chris era in viaggio e noi siamo tanto lontani. La mia piccina si sentiva così male, ha preso un sorso di qualcosa ed è andata a dormire». Oh, Dio, pensò Chris, come la gente distorce la verità e distorce la vita.
Sentì il bisogno di parlare con Joan. Era rimasta così sconvolta quando aveva saputo di Vangie, che quasi non era riuscita a parlare. «Sapeva di noi?» Alla fine, lui aveva dovuto ammettere che sua moglie sospettava qualcosa. Joan sarebbe rientrata dalla Florida venerdì sera. Lui sarebbe tornato nel New Jersey l'indomani pomeriggio subito dopo il funerale. Non avrebbe detto niente alla polizia finché non fosse riuscito a mettersi in contatto con Joan, ad avvertirla che probabilmente anche lei sarebbe stata immischiata in quella brutta faccenda. Certo, la polizia avrebbe cercato un movente che potesse avere indotto lui a uccidere Vangie. Ai loro occhi il movente sarebbe stato Joan. O era meglio non turbare le acque? Con che diritto trascinava Joan in quella storia? Aveva il diritto, svelando la sua relazione, di infliggere un nuovo dolore ai genitori di Vangie? C'era stato un altro nella vita di sua moglie? Guardò la bara, il viso sereno di Vangie, le mani pacatamente giunte. Negli ultimi anni non erano vissuti come marito e moglie. Erano giaciuti a fianco a fianco come due estranei, lui sentimentalmente prosciugato dai litigi senza fine, lei smaniosa di moine, come una bambina. Quando aveva proposto camere separate, lei aveva reagito con scene isteriche. Era rimasta incinta due mesi dopo il trasferimento nel New Jersey. Quando lui aveva acconsentito a fare un ultimo tentativo per salvare il matrimonio, si era impegnato a fondo. Ma l'estate era stata un disastro. Per tutto il mese di agosto praticamente non si erano parlati. Solo una volta, verso la metà del mese, avevano dormito assieme. Gli era parsa un'ironia del destino che, dopo dieci anni, lei fosse rimasta incinta proprio mentre lui incontrava un'altra donna. Un sospetto, fino allora annidato nel subconscio, d'un tratto prese consistenza. Poteva darsi che Vangie avesse una relazione con un altro uomo che non si volesse assumere la responsabilità di lei e del bambino? E che avesse minacciato anche costui? Già una volta aveva formulato una minaccia: se fosse venuta a sapere il nome della persona che Chris vedeva, le avrebbe fatto passare il desiderio di vivere. E se sua moglie avesse avuto una relazione con un uomo sposato? E se avesse istericamente minacciato anche lui? Chris si rese conto che fino a quel momento aveva stretto mani, mormorato ringraziamenti, guardato volti familiari senza realmente vederli: vicini di casa del condominio dove lui e Vangie avevano abitato prima di trasfe-
rirsi nel New Jersey, colleghi di lavoro, amici dei genitori di Vangie. I genitori di Chris, entrambi pensionati, erano andati a vivere nel North Carolina. Nessuno dei due era in buona salute e lui li aveva dissuasi dall'intraprendere il viaggio fino a Minneapolis, dato il freddo imperversante. «Mi dispiace moltissimo.» L'uomo che gli stava stringendo la mano era tra i sessanta e i settant'anni, esile, ma assai distinto, con i capelli grigi, le sopracciglia folte, gli occhi acuti e penetranti. «Sono il professor Salem», disse, «Emmet Salem. Ho fatto nascere Vangie e sono stato il suo primo ginecologo. Era una delle più graziose creature che ho fatto venire al mondo e non è mai cambiata. Se soltanto non fossi stato fuori quando mi ha chiamato in ufficio lunedì sera!» Chris lo fissò. «Vangie le ha telefonato lunedì?» «Sì. La mia infermiera mi ha riferito che era molto agitata. Io avevo un seminario a Detroit e l'infermiera le ha fissato un appuntamento per oggi. Da quanto so, Vangie aveva intenzione di venire in aereo ieri. Forse avrei potuto aiutarla.» Perché Vangie aveva telefonato a quel medico? Perché? Chris trovò la cosa incredibile. Che cosa aveva spinto Vangie a voler tornare da un medico che non vedeva da anni? Non stava bene, ma se voleva un consulto, perché scegliere un medico che abitava a duemila chilometri? «Era malata?» Il professor Salem lo guardò con curiosità, in attesa di una risposta. «No, non era malata», rispose Chris. «Forse lei sa che aspettava un bambino. Fin dagli inizi è stata una gravidanza difficile.» «Vangie che cosa?» La voce del professore era salita di tono. Fissava Chris, stupefatto. «Sì. Ormai non ci sperava più, ma nel New Jersey aveva cominciato a seguire il Programma Maternità Westlake. Forse lei ne ha sentito parlare, o ha sentito nominare il professor Highley, Edgar Highley...» «Comandante Lewis, permette una parola?» L'impresario delle pompe funebri lo aveva preso sottobraccio e lo spingeva verso il suo ufficio, al di là dell'ingresso che portava alla camera mortuaria. «Voglia scusarmi un momento, professore», disse Chris. Perplesso per l'agitazione dell'impresario, Chris non oppose resistenza e si lasciò guidare nell'ufficio. L'uomo chiuse la porta e lo guardò. «Proprio ora ho ricevuto una telefonata dall'ufficio della procura della contea di Valley, New Jersey», disse. «Sta per arrivare la conferma scritta. Abbiamo il divieto di dare sepoltura
alla salma di sua moglie. Il corpo di sua moglie verrà rispedito in aereo all'ufficio del medico legale della contea di Valley domani, subito dopo il funerale.» Sanno che non si tratta di suicidio, pensò Chris. Lo sanno già. Lui non poteva far niente per nascondere il fatto. Dopo aver parlato con Joan venerdì sera, sarebbe andato subito all'ufficio della procura a dire tutto quello che sapeva o che sospettava. Senza rispondere, Chris uscì dall'ufficio dell'impresario. Voleva parlare con il professor Salem, voleva scoprire ciò che Vangie aveva detto all'infermiera durante la telefonata. Ma quando tornò nell'altra stanza, il professore non c'era più. Se n'era andato, senza neppure rivolgere una parola ai genitori di Vangie. La madre si asciugava gli occhi rossi e gonfi con un fazzoletto umido e spiegazzato. «Che cosa hai detto al professore per farlo andar via in questo modo? Perché lo hai così terribilmente sconvolto?» 22 Mercoledì pomeriggio arrivò a casa alle sei. Hilda se ne stava andando. Il suo viso, banale e stolido, aveva un'espressione guardinga. Lui la teneva a distanza. Sapeva che aveva bisogno di quel lavoro e che le piaceva. D'altronde, perché no? Una casa che nessuno sporcava; niente padrona a impartirle continuamente ordini; niente bambini a fare confusione. Niente bambini. Andò in biblioteca, si versò uno scotch e pigramente si mise a osservare dalla finestra l'ampio corpo di Hilda che spariva lungo la strada verso la fermata dell'autobus, due caseggiati più avanti. Aveva scelto medicina perché sua madre era morta di parto, dandolo alla luce. Aveva ascoltato per anni, da quando aveva cominciato a capire qualcosa, quella storia raccontata dall'uomo timido e scialbo che era suo padre: «Tua madre ti ha voluto a tutti i costi. Sapeva di rischiare la vita, ma non le importava». Dopo, seduto nella farmacia di Brighton, a osservare il padre che preparava le ricette e a fargli infinite domande: «Questo che cos'è? A che cosa serve questa pillola? Perché su queste bottiglie c'è scritto 'pericolo'?» Affascinato, ascoltava avidamente le informazioni che ben volentieri gli elargiva il padre: il solo argomento di cui sapesse parlare, il solo mondo che conoscesse. Era entrato alla scuola medica e si era classificato tra i migliori del cor-
so. Gli avevano offerto internati nei più grossi ospedali di Glasgow e di Londra. Aveva finito con lo scegliere il Christ Hospital, nel Devonshire, con il laboratorio di ricerca stupendamente attrezzato, ottimo luogo sia per la ricerca sia per la pratica. Era passato di ruolo; la sua fama di ostetrico era rapidamente cresciuta. Però il suo progetto era stato accantonato, ritardato, marchiato dalla maledizione che lui non riusciva a farlo collaudare. A ventisette anni si era sposato con Claire, lontana cugina del duca di Essex, infinitamente superiore a lui per livello sociale, ma la fama di lui e le previsioni di una sua imminente celebrità avevano livellato la differenza di classe. Poi l'imprevedibile ignominia. Lui, proprio lui, l'esperto di nascite e di fecondità, aveva sposato una donna sterile. Lui, le cui pareti di casa erano tappezzate di foto di bambini che senza il suo intervento non sarebbero mai nati, non aveva speranza di diventare padre. Quando aveva cominciato a odiare Claire? C'era voluto molto tempo. Sette anni. Era accaduto quando aveva capito che a lei non importava niente; che non le era mai importato niente; che non se ne faceva un cruccio; che prima di sposarlo già sapeva di non poter procreare. Irrequieto, si ritrasse dalla finestra. Si preannunciava un'altra serata fredda e ventosa. Perché mai febbraio, il mese più corto dell'anno, sembrava sempre il più lungo? Appena tutto fosse finito, si sarebbe concesso un periodo di ferie. Cominciava a sentirsi irritabile, a non controllare più i nervi. Quel mattino per poco non si era tradito, quando Gertrude gli aveva riferito che Edna aveva telefonato per avvertire che stava poco bene. Si era aggrappato alla scrivania e aveva visto sbiancare le nocche delle sue dita. Poi aveva rammentato. Il polso intermittente che aveva cessato di battere, gli occhi opachi, i muscoli rilassati nell'abbandono della morte. Gertrude copriva l'amica. Gertrude mentiva. L'aveva fissata con occhi severi. «È assai spiacevole che oggi Edna sia assente. Voglio sperare che venga domani». Aveva funzionato. Lo aveva capito da come la donna si era passata nervosamente la lingua sulle labbra, da come aveva distolto lo sguardo. Pensava che lui fosse furente a causa dell'assenza di Edna. Probabilmente sapeva che l'aveva rimproverata per il vizio di bere. Dopotutto, Gertrude avrebbe potuto rivelarsi un'alleata.
POLIZIA: Come ha reagito il professore, quando gli ha comunicato che la signorina Burns non sarebbe venuta? GERTRUDE: Si è molto arrabbiato. È una persona assai metodica. Odia tutto ciò che sovverte l'andamento normale delle cose. La scarpa mancante. Quel mattino, appena spuntato il giorno, era andato in ospedale e di nuovo aveva frugato in tutto il parcheggio e nello studio. Ma Vangie portava veramente al piede quella scarpa quando era andata nel suo studio lunedì pomeriggio? Si era reso conto di non esserne sicuro. Indossava quel lungo caffetano, sotto il cappotto pesante malamente abbottonato. L'abito le stava largo, il cappotto le tirava sul ventre. Vangie aveva sollevato il caffetano per mostrargli il gonfiore della gamba destra. Lui aveva visto il mocassino al piede destro, ma non aveva fatto caso all'altra scarpa. Francamente, non avrebbe saputo dire se l'avesse avuta al piede. Se la scarpa si era sfilata nel parcheggio, mentre lui trasportava il corpo alla macchina, sicuramente qualcuno l'aveva raccolta. Forse l'aveva vista un addetto alla manutenzione del parcheggio e l'aveva gettata via. Spesso le pazienti dimesse avevano dei sacchetti di plastica stracolmi, pieni di biglietti d'auguri, di piante o di piccoli oggetti personali che non erano entrati nella valigia e perdevano qualcosa nel tragitto tra la stanza dell'ospedale e il parcheggio. Era andato a vedere all'ufficio oggetti smarriti, ma non c'erano calzature. Forse la scarpa era stata semplicemente buttata in un cestino per i rifiuti. Riandò con la mente a quando aveva sollevato Vangie dal baule dell'auto e l'aveva trasportata al di là degli scaffali, in garage. Le mensole erano piene di attrezzi da giardino. Che la scarpa troppo larga si fosse impigliata in qualcosa di sporgente? Se l'avessero trovata su uno scaffale del garage avrebbero fatto un sacco di domande. D'altronde, se uscendo dallo studio di Fukhito Vangie fosse stata senza scarpa, la pianta della calza si sarebbe sporcata. Ma il portico che collegava gli studi medici era coperto. Se il piede destro fosse stato tanto sporco, lui se ne sarebbe accorto mentre la posava sul letto. L'orrore di scoprire di avere riportato la scarpa destra, la scarpa che con tanta fatica era riuscito a sfilare dal piede di Vangie, lo aveva mandato su tutte le furie. Un disastro. Dopo quel terribile, terribile pericolo! La scarpa destra stava ancora nella borsa da medico, dentro il baule della macchina. Era incerto se sbarazzarsene subito. No, forse era più prudente
essere prima sicuri che l'altra scarpa non si ritrovasse più. Nel caso la polizia avesse deciso di condurre un'inchiesta accurata sul suicidio, non esistevano prove contro di lui. La cartella clinica di Vangie che teneva nell'archivio dello studio era in grado di affrontare il più oculato esame, anche di uno specialista. Le schede vere, come tutte quelle dei casi speciali, stavano lì, chiuse in cassaforte. E sfidava chiunque a trovarla. Non era segnata neppure sulla pianta originale della casa. L'aveva installata il professor Westlake personalmente. Solo Winifred ne conosceva l'ubicazione, da viva. Nessuno aveva ragione di sospettare di lui. Nessuno, a eccezione di Katie DeMaio. Era stata sul punto di dirgli qualcosa quando lui aveva fatto quell'accenno alla vista dalla finestra della camera dell'ospedale, ma poi, bruscamente, aveva cambiato idea. Quella sera, mentre si accingeva a lasciare lo studio, Fukhito era andato da lui. Era nervoso. Gli aveva detto: «La signora DeMaio ha fatto un sacco di domande. Ritiene possibile che non credano al suicidio della signora Lewis?» «Non ne ho la più pallida idea.» Godeva nel vedere Fukhito tanto nervoso e ne conosceva il motivo. «L'intervista che ha rilasciato al Newsmaker; uscirà domani, vero?» Lo aveva guardato con disprezzo. «Sì. Però le assicuro che sono riuscito a dare la sensazione di servirmi di un buon numero di consulenti psichiatrici. Il suo nome, dottore, non compare nell'articolo.» Fukhito non sembrò sollevato. «D'accordo, però attirerà l'attenzione sull'ospedale, su di noi.» «Su di lei, non è questo che intende dire, dottore?» Era quasi scoppiato a ridere nel vedere l'espressione inquieta e colpevole del viso di Fukhito. In quel momento, mentre terminava il suo scotch, si avvide di avere trascurato un'altra possibile via di scampo. Se quelli della polizia fossero giunti alla conclusione che Vangie Lewis era stata assassinata; se avessero deciso di portare l'indagine fin dentro il Westlake, allora gli sarebbe stato facile suggerir loro con discrezione l'opportunità di interrogare il dottor Fukhito. Con particolare riferimento al suo passato. Dopotutto, risultava che era l'ultima persona ad aver visto Vangie Lewis in vita. 23
Dopo aver lasciato il dottor Fukhito, Katie si avvicinò all'ala est dell'ospedale per la trasfusione, che le venne praticata in una specie di cabina circondata da tende, vicino al pronto soccorso. Distesa su un lettino, con la manica rimboccata e l'ago nel braccio, si sforzò di ricostruire il suo arrivo in ospedale quel lunedì sera. Le pareva di ricordare che fosse stata in quella stessa stanza, ma non ne era sicura. Entrò il dottore che le aveva suturato la ferita al braccio. «Salve! Mi era parso di vederla al banco delle informazioni. Vedo che il professor Highley ha prescritto un'altra trasfusione. E spero che lei si sia decisa ad andare in fondo alle ragioni di questa anemia.» «Sì. Sono in cura dal professor Highley.» «Benissimo. Diamo un'occhiata al braccio.» Quindi glielo rifasciò. «Bel lavoro. Me lo dico da solo. Non resterà neanche una cicatrice da mostrare ai nipoti.» «Se mai ne avrò», disse Katie. «Senta, dottore, mi dica, sono già stata su questo lettino lunedì sera?» «Sì. L'abbiamo portata qui dopo la radiografia. Non ricorda?» «È tutto così confuso.» «Aveva perso una quantità di sangue ed era sotto choc.» «Già.» Terminata la trasfusione, Katie si ricordò che il professor Highley le aveva raccomandato di non guidare per almeno mezz'ora. Decise dunque di recarsi all'accettazione per compilare i moduli necessari al ricovero. Così non avrebbe dovuto occuparsene venerdì sera. Erano quasi le sei quando lasciò l'ospedale. Si trovò a girare automaticamente la macchina in direzione di Chapin River. Che sciocchezza, pensò. Già andrò da Molly e Bill domani sera. Rinunciamo a passare da loro anche stasera. Avendo così deciso, fece una conversione a U e si diresse verso Palisades Parkway. Cominciava ad avere appetito e l'idea di andare a casa non la attirava. Quale poeta aveva scritto sulle gioie della solitudine, terminando però la poesia con questi versi: «Non andare a casa sola dopo le cinque del pomeriggio / A meno di sapere che c'è qualcuno ad aspettarti»? Era vero, si era imposta di convivere con la solitudine e aveva imparato ad apprezzare le gioie di una serata tranquilla, leggendo e ascoltando un po' di musica stereo. Quel senso di vuoto che aveva cominciato a provare negli ultimi tempi
era una cosa del tutto nuova. Era all'altezza del ristorante dove la sera prima aveva cenato con Richard e, d'istinto, sterzò nell'area di parcheggio. Avrebbe provato l'altra specialità della casa, l'entrecôte. Forse nella calda, intima, tranquilla atmosfera del locale, sarebbe riuscita a pensare. Il proprietario la riconobbe e sorrise di piacere. «Buona sera, signora. Il dottor Carroll non ha prenotato, però ho un tavolo vicino al camino. Il dottore sta posteggiando la macchina?» Katie scosse il capo. «No, stasera sono sola.» Per un attimo l'uomo sembrò imbarazzato, però si riprese subito. «Questo vuol dire che ci siamo fatti una nuova e bellissima cliente, vero?» E l'accompagnò al tavolo vicino a quello che la sera prima aveva occupato con Richard. Accettando il suggerimento di un bicchiere di Borgogna, Katie si appoggiò allo schienale della sedia e provò lo stesso senso di rilassamento che aveva sperimentato la sera precedente. Se solo fosse riuscita a mettere ordine nei suoi pensieri, a vagliare le impressioni avute parlando di Vangie Lewis con il professor Highley e con il dottor Fukhito. Estrasse il taccuino e cominciò a scorrere gli appunti che aveva preso durante i colloqui. Il professor Highley. Come si era aspettata, Highley aveva parlato diffusamente, sostenendo la tesi delle gravi difficoltà incontrate da Vangie Lewis nel corso della gravidanza. Le sue argomentazioni le parevano perfettamente plausibili. Le osservazioni di Highley sulla reazione di Vangie al parto imminente erano del tutto credibili. Lui voleva dar tempo al bambino. Katie aveva sentito raccontare da Molly la storia della scenata isterica di Vangie, il giorno in cui si era scottata lievemente un dito. E allora? Che cos'altro poteva aspettarsi dal professor Highley? Ripensò al professor Wainwright, il cancerologo di New York che aveva curato suo marito. Dopo la morte di John, con volto e voce pieni di dolore, le aveva detto: «Vorrei che lei sapesse, signora DeMaio, che abbiamo fatto il possibile per salvarlo. Non abbiamo trascurato niente. Ma talvolta Dio ci toglie tutto di mano». Il professor Highley aveva mostrato rincrescimento per la morte di Vangie, non dolore. Certo, aveva il dovere di essere obiettivo. Quante volte Katie aveva ascoltato Richard e Bill discutere del dovere di mantenersi imparziali, quando si esercita la medicina. Altrimenti, dicevano, si è perennemente spaccati in due e si finisce per essere inutili.
Richard. Inconsciamente, gli occhi di Katie corsero al tavolo dove avevano cenato insieme. Le aveva detto: «Entrambi sappiamo che potremmo stare bene insieme». Aveva ragione e lei lo sapeva. Forse era proprio quello il motivo per cui, quando stava con lui, si sentiva turbata, come se la situazione le sfuggisse di mano. Possibile che potesse succedere due volte nella vita? Sapere fin dall'inizio che una cosa è giusta, che una persona è nel giusto. Il giorno precedente, quando lei e Richard stavano congedandosi dopo la veloce colazione da Molly, sua sorella li aveva invitati a cena entrambi giovedì, cioè l'indomani sera. Aveva aggiunto: «Verranno anche Liz e Jim Berkeley. È Liz Berkeley che considera Highley un padreterno. Forse vi interesserà parlare con lei». In quel momento Katie si rese conto di aspettarsi molto da quella serata. Riprese a leggere gli appunti. Il dottor Fukhito. C'era qualcosa che non andava. Aveva avuto l'impressione che soppesasse ogni parola, riferendole il suo colloquio di lunedì sera con Vangie Lewis. Era stato come guardare qualcuno procedere guardingo in un campo minato. Pur ammettendo la sua giusta preoccupazione di tutelare il segreto professionale, non c'era dubbio che temesse di lasciarsi sfuggire qualcosa a suo beneficio. Inoltre si era dimostrato apertamente ostile quando gli aveva domandato se era possibile che alle ventidue, ora in cui lei era stata ricoverata in ospedale, Vangie si trovasse ancora lì. E se lei avesse veramente intravisto Vangie? Nell'ipotesi che la donna avesse lasciato in quel momento lo studio di Fukhito e si stesse dirigendo a piedi in qualche luogo del parcheggio allora si sarebbe potuto spiegare facilmente come il suo viso le fosse apparso in quel folle incubo notturno. Il dottor Fukhito aveva affermato che Vangie era uscita dall'ingresso privato del suo studio. Nessuno l'aveva vista andare via. E se non fosse andata via? E se Vangie fosse rimasta in compagnia del dottore? Formulò l'ipotesi che Fukhito avesse lasciato l'ospedale con lei, o l'avesse seguita a casa; che intuendo le intenzioni suicide della donna ne fosse in qualche maniera responsabile... C'era di che renderlo nervoso. Giunse il cameriere a prendere le ordinazioni. Prima di riporre il taccuino, Katie scrisse un'ultima annotazione: «Indagare sul passato del dottor Fukhito».
24 Già prima di attraversare il ponte George Washington e di imboccare Harlem River e Franklyn Delano Roosevelt Drive, mercoledì sera Richard sapeva che avrebbe fatto meglio a disdire l'appuntamento con Clovis. Era tutto preso dal pensiero della morte di Vangie Lewis; il suo subconscio gli suggeriva che qualche cosa era sfuggito durante l'autopsia, qualche cosa che avrebbe desiderato esaminare più attentamente. Ma di che cosa si trattava? Inoltre era preoccupato per Katie. La sera precedente gli era parsa estremamente magra. E pallidissima. Solo dopo un paio di bicchieri di vino il suo viso si era lievemente colorito. Katie non stava bene. Quello era il fatto. Come medico, avrebbe potuto accorgersene prima. L'incidente. L'avevano esaminata a fondo? Sussisteva la possibilità che avesse riportato lesioni più gravi di quanto avessero diagnosticato? Quel pensiero continuò ad assillarlo anche mentre da Franklyn Delano Roosevelt Drive girava nella Cinquantesima strada e si andava a fermare davanti all'appartamento di Clovis, due isolati più avanti. Lei aveva preparato un bricco di martini extrasecchi e un vassoio di salatini con pasta di gambero ancora caldi di forno. Con la carnagione perfetta, il corpo alto e slanciato, i colori di una vichinga, Clovis ricordava a Richard Ingrid Bergman giovane. Fino a qualche tempo addietro, si era baloccato con l'idea che un giorno o l'altro, forse, si sarebbero messi insieme. Era una ragazza intelligente, divertente e aveva un buon carattere. Tuttavia, mentre con sincero affetto ricambiava il suo bacio, si rese conto che mai avrebbe sentito per lei quel genere di preoccupazione che nutriva per Katie DeMaio. Immerso in queste riflessioni, percepì finalmente la voce di Clovis: «...perciò sono rincasata da neppure dieci minuti. La parte da ripassare, un sacco di battute da riscrivere. Allora ho pensato di preparare martini e salatini e tu hai il tempo di rilassarti un po' mentre io mi cambio. Ehi, mi ascolti?» Lui accettò il martini e sorrise scusandosi: «Perdonami. Sto lavorando a un caso che non mi dà pace. Ti dispiace se faccio un paio di telefonate mentre ti prepari?» «Ma figurati!» rispose lei. «Fai tutte le telefonate che vuoi.» Prese il bicchiere e si diresse alla piccola anticamera che portava in stanza da letto e
in bagno. Richard estrasse dal portafogli la carta di credito. Nulla avrebbe potuto indurlo a fare una telefonata a una donna, sapendo che sarebbe stata addebitata sulla bolletta di un'altra. Comunicò al centralinista il numero del proprio conto. Quando fu in linea, lasciò squillare il telefono una dozzina di volta prima di riagganciare. Katie non era in casa. Allora provò da Molly. Chissà che non fosse andata da lei. No, in tutto il giorno Molly non aveva parlato con la sorella. «In realtà non l'aspettavo», gli disse. «Domani sera siete tutti e due a cena da me. Non te ne dimenticare. Però a quest'ora vorrei che fosse in casa. Dovrebbe riguardarsi di più.» Erano le parole che Richard aspettava per entrare in argomento. «Senti, Molly, che cosa ha Katie?» domandò. «Ha qualche disturbo, o sbaglio? Oltre all'incidente, voglio dire.» Molly esitò un momento. «Meglio che ne parli direttamente con lei.» Dunque, era così. Gocce di sudore freddo gli bagnarono il viso. «Molly, voglio sapere. Che cos'ha?» «Oh, niente di speciale», rispose in fretta lei. «Te lo giuro. E non vuole parlarne. Io, probabilmente, ti ho già detto più di quanto avrei dovuto. Ciao, a domani.» La comunicazione si era interrotta. Richard aggrottò la fronte guardando il telefono muto. Abbozzò il gesto di riagganciare il ricevitore alla forcella, poi, d'istinto, chiamò il suo ufficio. Parlò con l'addetto al turno di notte. «Niente di nuovo?» domandò. «Pochi minuti fa ci hanno telefonato chiedendo un furgone. Hanno trovato un cadavere in un appartamento di Edgeriver. Probabilmente è stata una disgrazia, però l'ufficio di polizia ritiene opportuno che si vada a dare un'occhiata. Gli uomini di Scott sono già partiti.» «Passami l'ufficio di Scott», disse Richard. Il procuratore non perse tempo nei preliminari. «Dove sei?» domandò. «Sono a New York. Hai bisogno di me?» «Sì. La donna trovata a Edgeriver è la segretaria che Katie aveva intenzione di interrogare oggi al Westlake. Si chiama Edna Burns. A quanto pare, ieri ha telefonato per avvertire che non sarebbe andata in ufficio perché stava poco bene, però non c'è dubbio che è morta da almeno ventiquattr'ore. Il corpo è stato rinvenuto da una sua collega del Westlake. Sto tentando di rintracciare Katie. Vorrei che andasse a vedere.» «Dammi l'indirizzo», disse Richard.
Lo annotò rapidamente e riagganciò. Katie aveva intenzione di domandare a quella Edna Burns alcune cose sul conto di Vangie Lewis ed Edna Burns era morta. Richard bussò alla porta della camera da letto di Clovis. Lei apri, avvolta in un accappatoio di spugna. «Ehi, che fretta c'è?» domandò sorridendo. «Ho appena finito di fare la doccia.» «Clo, sono desolato.» Le spiegò rapidamente ciò che era successo. Ormai non pensava che ad andarsene il più presto possibile. Lei era chiaramente delusa. «Sì, capisco, però contavo di stare con te stasera... Sono già più di due settimane, lo sai. Pazienza. Adesso vai, ma prometti che ceneremo insieme domani sera. D'accordo?» Richard temporeggiò. «Sì, ci vediamo presto.» Stava uscendo quando lei lo afferrò a un braccio e gli fece chinare il viso per baciarlo. «Domani sera», gli disse, decisa. 25 Sulla strada del ritorno dal ristorante, Katie ripensò alla conversazione avuta con Edna Burns in occasione della sua prima visita dal professor Highley. Quella donna sembrava fatta per ascoltare. Lei, invece, non era propensa a parlare dei fatti suoi, eppure, mentre Edna prendeva nota delle informazioni preliminari, si era messa a chiacchierare cordialmente. Quasi non aveva creduto alle proprie orecchie, quando si era sentita raccontarle tutto di John. Fino a che punto Vangie si era confidata con Edna? Dall'estate scorsa andava regolarmente al Westlake. E quanto di Fukhito sapeva Edna? Nel nervosismo del dottore c'era qualcosa di stranamente minaccioso. Ma perché avrebbe dovuto essere tanto nervoso? Katie accostò davanti a casa. Decise di lasciare fuori la macchina. Era mercoledì, il giorno della signora Hodges. La casa profumava delicatamente di cera. In corridoio, lo specchio brillava sulla mensola di marmo antico. Già sapeva che avrebbe trovato lenzuola fresche nel letto, piastrelle smaglianti in cucina, mobili e tappeti puliti con l'aspirapolvere, biancheria personale in ordine nei cassetti dell'armadio. Quando John era vivo, la signora Hodges lavorava da loro a tempo pieno. Ormai era in pensione, ma aveva chiesto a Katie di continuare ad andare là un giorno la settimana per occuparsi «della sua casa». Ma tutto ciò non poteva durare a lungo. Non era possibile. La signora Hodges aveva già superato i settanta.
Chi l'avrebbe potuta sostituire? Chi si sarebbe preso altrettanta cura di tutti quei ninnoli preziosi, degli oggetti antichi, dei mobili inglesi, dei raffinati pezzi orientali? È tempo che me ne preoccupi, pensò Katie. Lo so. Si tolse il cappotto e lo buttò su una sedia. Erano solo le otto meno un quarto. Edna le aveva detto di abitare a Edgeriver. Neanche venti minuti di macchina da casa sua. E se le avesse fatto una telefonata, proponendo di andarla a trovare? La signora Fitzgerald aveva detto che Edna sarebbe tornata in ufficio l'indomani, dunque tanto male non stava. E, dall'impressione che Katie se ne era fatta, avrebbe colto al balzo l'occasione di parlare di Vangie. La signora Hodges aveva l'abitudine di preparare un dolce, una crostata o dei pasticcini da lasciare a Katie. Avrebbe potuto portare qualcosa a Edna e bere insieme il tè. Davanti a una tazza di tè la conversazione si fa più sciolta. Trovò il recapito di Edna sull'elenco telefonico. Compose il numero. Il ricevitore venne alzato al primo squillo. Katie stava per dire: «Pronto, signorina Burns», ma non ne ebbe il tempo. Una voce maschile: «Sì?» Una voce tagliente, che le parve non del tutto estranea. «C'è la signorina Burns?» domandò Katie. «Sono la signora DeMaio, dell'ufficio della procura.» «Katie!» A quel punto riconobbe la voce. Era Charley Nugent, il quale le stava già dicendo: «Sono contento che Scott ti abbia rintracciata. Puoi venire subito?» «Venire?» Già aspettandosi il peggio, Katie domandò: «Che cosa fai in casa di Edna Burns?» «Come, non sai? È morta, Katie. È caduta o è stata spinta contro il radiatore. Ha il cranio spaccato.» La voce si fece più bassa: «Senti questa, Katie. L'ultima persona a vederla viva è stata una vicina che è venuta da lei ieri sera verso le otto». La voce si trasformò in un bisbiglio: «La vicina l'ha sentita parlare al telefono con il marito di Vangie Lewis. Edna Burns ha detto a Chris Lewis che avrebbe parlato con la polizia della morte di Vangie». 26
Terminato il secondo scotch, andò in cucina e aprì il frigorifero. Aveva detto a Hilda di non preparargli niente per cena, però le aveva lasciato una lista di compere. Abbozzò un gesto di soddisfazione vedendo i nuovi acquisti nel cassetto della carne: petti di pollo disossati, filetto mignon, cotolettine di abbacchio. Asparagi, pomodori e crescione fresco nel reparto verdure. Nella scatola dei formaggi Brie e provolone dolce. Si sarebbe preparato una cenetta a base di abbacchio, asparagi e crescione all'agro. Lo stress emotivo gli acuiva l'appetito. La sera in cui era morta Claire aveva lasciato l'ospedale (agli occhi del mondo era un marito distrutto dal dolore) ed era andato in un tranquillo ristorante dieci isolati più avanti, dove aveva mangiato come un lupo. Poi si era trascinato a casa, mascherando il prepotente senso di benessere sotto l'apparenza di un'accorata afflizione. Gli amici che lo avevano aspettato per abbracciarlo ed esprimergli la loro partecipazione, erano rimasti male. «Dove sei stato, Edgar? Eravamo preoccupati.» «Non so. Non ricordo. Mi sono messo a camminare.» Lo stesso dopo la morte di Winifred. Aveva lasciato amici e parenti di lei accanto alla tomba, declinando l'invito a cenare con loro. «No. No. Ho bisogno di rimanere solo.» Era tornato a casa, aveva risposto a un paio di telefonate, poi aveva avvertito la segreteria telefonica: «Se telefona qualcuno, dite che sono andato a riposare e che richiamerò io più tardi». Quindi aveva preso la macchina ed era andato al Carlyle a New York. Aveva domandato un tavolo tranquillo e aveva ordinato la cena. A metà del pasto, alzando gli occhi, aveva visto Glenn Nickerson, il cugino di Winifred, all'estremità opposta della sala. Glenn, istruttore di atletica leggera alle scuole superiori, erede di Winifred, finché non era comparso lui. Indossava lo stesso completo blu con cravatta bianca che portava al funerale, un abito di poco prezzo, tagliato male, chiaramente acquistato per quella particolare occasione. L'abbigliamento consueto di Glenn consisteva in una giacca sportiva, un paio di brache larghe e mocassini. Era evidente che Nickerson lo stava osservando: aveva alzato il bicchiere come per un brindisi, un sorriso ironico sul viso. Tanto valeva dire ad alta voce il proprio pensiero: «Al vedovo inconsolabile». Da parte sua, aveva fatto ciò che doveva: si era alzato, era andato al tavolo di lui senza mostrare il minimo imbarazzo e aveva parlato con cordialità: «Glenn, perché non sei venuto al mio tavolo quando ti sei accorto che ero qui? Non credevo che tu fossi un frequentatore del Carlyle. È sempre stato uno dei nostri luoghi favoriti. È qui che ci siamo fidanzati, non te l'ha
mai detto Winifred? Io non sono ebreo, però penso che una delle usanze più belle di questo nostro stupefacente mondo sia quella della religione ebraica, quando, dopo una morte, la famiglia si riunisce davanti a una cena a base di uova, a simboleggiare la continuità della vita. Io sono qui, a celebrare sommessamente la continuità dell'amore». Glenn lo aveva fissato con un viso di pietra. Si era alzato e aveva chiesto il conto. «Ammiro la tua abilità nel filosofare, Edgar», gli aveva risposto. «No, il Carlyle non è un mio luogo favorito. Ti ho semplicemente seguito fin qui, perché avevo deciso di venirti a trovare e quando sono arrivato davanti a casa tua, tu stavi uscendo in macchina. Ho avuto la sensazione che forse era opportuno non perderti d'occhio. E ho avuto ragione.» Aveva voltato la schiena a Glenn, dignitosamente era tornato al suo tavolo e non aveva più guardato in quella direzione. Pochi minuti dopo, lo aveva visto sulla soglia della sala da pranzo, in procinto di uscire. Una settimana più tardi Alan Levine, medico di Winifred, gli aveva detto scandalizzato che Glenn aveva preteso di vedere la cartella clinica di Winifred. «L'ho buttato fuori dello studio», aveva riferito con enfasi. «Gli ho detto che Winifred presentava i classici sintomi dell'angina. Gli ho consigliato, per il suo proprio bene, di consultare le statistiche aggiornate delle donne oltre i cinquanta sofferenti di cuore. Ciò nonostante, ha avuto la sfacciataggine di andare alla polizia. Ho ricevuto una telefonata dall'ufficio del procuratore, nella quale mi si chiedeva con molte parole e perifrasi se è possibile far insorgere un disturbo al cuore. Ho risposto loro che la vita di oggi è di per sé sufficiente a far insorgere una malattia di cuore. Hanno fatto subito marcia indietro, hanno ammesso che, ovviamente, si trattava di un parente diseredato voglioso di piantare una grana.» Sì, dottor Levine. È possibile far insorgere un disturbo di cuore. Basta organizzare cenette intime per la diletta mogliettina. Basta sfruttare la predisposizione di lei alla gastroenterite per far insorgere coliche così violente che l'elettrocardiogramma le registra come attacchi cardiaci. E dopo un certo numero di codesti attacchi, la signora in questione presenta una crisi apparentemente fatale. Muore in presenza del proprio medico, il quale arriva in tempo per trovare il marito medico che le pratica la respirazione bocca a bocca. A nessuno viene in mente di proporre un'autopsia. Ma anche in tal caso, il rischio sarebbe stato minimo. Ci sarebbe stato pericolo solo se qualcuno avesse ritenuto opportuno indagare sulla morte di Claire.
Le cotolettine erano quasi pronte. Con mano esperta condì il crescione, tolse gli asparagi dalla pentola a vapore, poi andò in dispensa a prendere una mezza bottiglia di Beaujolais dalla rastrelliera dei vini. Aveva appena cominciato a mangiare, quando squillò il telefono. Si domandò se far finta di nulla, poi decise che a quell'ora sarebbe stato un rischio non rispondere a una telefonata. Sbatté il tovagliolo sul tavolo, corse all'apparecchio, in cucina. «Qui parla il professor Highley», disse seccamente. Sentì un singhiozzo. «Professore, oh, professore! Sono Gertrude, Gertrude Fitzgerald. Professore, avevo deciso di passare da Edna tornando a casa.» Strinse le dita sul ricevitore. «Professore, Edna è morta. C'è la polizia. È caduta. Professore, può venire subito? Parlano di fare un'autopsia. Ha sempre odiato le autopsie. Ha sempre detto che è una cosa atroce fare a pezzi i morti. Professore, lei sa com'era Edna quando beveva. Ho detto che lei era stato qui in casa e che l'aveva sorpresa a bere. Professore, per carità, venga e dica loro come l'ha trovata talvolta. Oh, per favore, venga e li convinca che è cascata e che non hanno bisogno di tagliarla a pezzi!» 27 Prima di uscire di casa, Katie preparò una tazza di tè, che si portò in macchina. Guidando con una sola mano, con l'altra avvicinò il liquido bollente alle labbra. Aveva pensato di portare un dolce a Edna e di prendere il tè con lei. Ma Edna era morta. Possibile che una persona vista una sola volta le avesse fatto tanta impressione? Forse dipendeva dal fatto che era una così brava donna, compiacente e garbata con le pazienti. Il più delle volte la gente si mostrava così indifferente, egoista. In quell'unica occasione in cui aveva parlato con Edna, un mese prima, le era riuscito facile raccontare di John. Ed Edna aveva capito. Le aveva detto: «So che cosa significa assistere alla morte di una persona. Da un lato, si vorrebbe che lo strazio finisse subito, dall'altro non si vorrebbe che la persona se ne andasse mai». Anche Edna aveva sperimentato le conseguenze di una perdita: «Dopo la morte di mamma e papà, gli amici mi dicevano: 'Ora sei libera, Edna'. 'Libera per che cosa?' rispondevo io. Scommetto che lei ha sentito come me, vero?»
L'aveva rassicurata sul conto del professor Highley. «Per un problema ginecologico non poteva trovare di meglio. Perciò mi arrabbio tanto quando lo sento criticare. Quelli che protestano per negligenza colposa. Le assicuro, li ammazzerei con le mie mani. Ecco ciò che capita quando ti credono un Dio. Ritengono che tu possa fare l'impossibile. Le assicuro io che oggi, quando un medico perde un paziente, deve mettersi in guardia. E non parlo solo degli ostetrici. Parlo anche dei geriatri. Pare che nessuno possa più morire, oggigiorno.» Che cosa intendeva dire Charley riferendole della telefonata di Edna a Chris Lewis? Quel suo modo di bisbigliare, poi, sembrava sottintendere un intrigo. «No, non lo credo», disse Katie ad alta voce, mentre lasciava la provinciale numero 4 e imboccava la curva per Edgeriver. Piuttosto, sarebbe stato nel carattere di Edna telefonare a Chris Lewis per esprimergli la propria comprensione. O forse Charley pensava che in qualche maniera Edna intendesse minacciare Chris Lewis? Sapeva approssimativamente dov'era il complesso residenziale e vi arrivò senza difficoltà. Per essere un residence, pensò, mi sembra piuttosto trasandato. Quando avrò venduto la casa, andrò a vivere temporaneamente in uno di quei grattacieli con vista sul fiume, in un delizioso appartamento con terrazzo. Sarà bello abitare vicino a New York, poter andare ogni tanto a teatro o a vedere un museo. «Quando» avrò venduto la casa, pensava. In quale momento il «se» si era trasformato in «quando»? Charley aveva detto che l'appartamento di Edna era l'ultimo di una schiera di alloggi compresi tra il numero 41 e il numero 60. Le aveva consigliato di seguire la strada sul retro e di posteggiare in fondo. Katie rallentò, vedendo un'auto sbucare da un'altra strada, anch'essa diretta al parcheggio. Era una macchina nera, di cilindrata media. Per un attimo il guidatore parve esitare, poi andò a fermarsi nel primo posto libero a destra. Katie lo sorpassò. Se l'alloggio di Edna era l'ultimo a sinistra, tanto valeva avvicinarsi il più possibile. Trovò posto proprio dietro la palazzina e parcheggiò. Scese e capì di trovarsi sotto la finestra sul retro dell'appartamento di Edna. Era leggermente aperta. La tapparella sfiorava la cima di una pianta. Dall'interno filtrava una luce fioca. Katie pensò alla vista che godeva dalle finestre di camera sua: un piccolo stagno nel bosco dietro casa. Edna invece si affacciava sul posteggio, cintato da una rete di filo di ferro arrugginito. Eppure le aveva raccontato di amare moltissimo la propria casa, l'aveva definita così graziosa.
Katie avvertì uno scalpiccio alle sue spalle e si voltò di scatto. Nel parcheggio deserto, l'eco di quei passi aveva un che di sinistro. Apparve una figura, un contorno profilato dalla debole luce dell'unico lampione del parcheggio. Ebbe la netta sensazione che si trattasse di una figura conosciuta. «Le domando scusa. Spero di non averle fatto paura.» La voce di una persona colta, con un leggero accento inglese. «Professor Highley!» «Signora DeMaio. Non pensavamo che ci saremmo incontrati così presto e in circostanze così drammatiche, vero?» «Dunque ha saputo. L'ha avvertita il mio ufficio, professore?» «Fa freddo. Venga, prendiamo questo sentiero che costeggia la casa.» Sfiorandole il gomito con una mano, la seguì lungo il sentiero. «Mi ha telefonato la signora Fitzgerald. Oggi ha sostituito la signorina Burns. Evidentemente, l'ha trovata lei. Sembrava sconvolta e mi ha scongiurato di venire. Non conosco ancora i particolari.» «Neanch'io», disse Katie. Stavano girando l'angolo davanti alla casa, quando Katie udì il suono di rapidi passi. «Katie!» Sentì la stretta delle dita del professore farsi più forte, poi, d'un tratto, allentarsi. Lei si voltò. Era Richard. Fu assurdamente felice di vederlo. Lui la afferrò per le spalle. Con un gesto interrotto non appena iniziato, la avvicinò a sé. Poi abbassò le mani. «Ti ha avvertito Scott?» «No. Per caso, ho telefonato io a casa di Edna. A proposito, Richard, ti presento il professor Edgar Highley.» Rapidamente, fece le presentazioni. I due uomini si strinsero la mano. Tutto è tremendamente assurdo, pensò Katie. Me ne sto qui a fare le presentazioni e a pochi metri da noi, oltre quell'uscio, c'è una donna morta. Li fece entrare Charley. Sembrò molto contento di vederli. «A momenti arriveranno i tuoi uomini», disse a Richard. «Abbiamo fatto le fotografie, però vorrei che anche tu le dessi un'occhiata.» Katie era avvezza alla morte. Per via del suo lavoro, molto spesso si trovava in contatto con l'immagine vivida e cruenta che presenta la vittima di un delitto. Quasi sempre riusciva a mantenere un certo distacco e a concentrarsi sui risvolti legali di una morte violenta. Ma era tutt'altra cosa vedere Edna accasciata contro il radiatore, in quella specie di camicia da notte di flanella che anche sua madre riteneva un indumento indispensabile; osservare la vestaglia di spugna azzurra, tanto
simile a quelle che sua madre comprava nei saldi di fine stagione; verificare la prova concreta della solitudine: le fette di prosciutto in scatola, il bicchiere vuoto da cocktail. Edna era stata una persona di indole gaia e cordiale e aveva saputo crearsi una piccola felicità personale in quell'appartamento modestamente arredato. Ma perfino l'alloggio l'aveva tradita. Era diventato lo scenario della sua morte violenta. Gertrude Fitzgerald era seduta in un angolo del vecchio divano di velluto, all'estremità opposta della stanza a forma di L, da dove non si vedeva il cadavere. Singhiozzava sommessamente. Richard andò subito nella zona pranzo per esaminare il cadavere. Katie si avvicinò alla signora Fitzgerald e si sedette accanto a lei sul divano. Il professor Highley seguì Katie, portando una sedia a schienale rigido. Gertrude si sforzò di dire qualcosa: «Professore, signora DeMaio, che orribile cosa, vero?» Quelle parole furono seguite da un nuovo accesso di pianto. Con gentilezza, Katie le poggiò una mano sulle spalle tremanti. «Mi dispiace tanto, signora Fitzgerald. So quanto lei voleva bene alla signorina Burns.» «Era tanto gentile. E spiritosa, anche. Mi faceva sempre ridere. È vero, forse aveva quel piccolo vizio. Ma chi non ha qualche piccolo vizio? E poi, non importunava nessuno. Oh, professore, anche a lei mancherà moltissimo.» Katie osservò Highley chinarsi su Gertrude, un'espressione grave sul viso. «Sì, certo, signora Fitzgerald. Edna era una persona eccezionalmente efficiente. E fiera del suo lavoro. Fukhito e io scherzavamo spesso sul fatto che brava com'era a far rilassare le pazienti prima della visita, sarebbe stata in grado di fargli concorrenza!» «Professore!» esclamò d'un tratto la signora Fitzgerald. «Ho detto a quegli uomini che lei era stato qui altre volte. Sì, gliel'ho detto. Lei conosceva il piccolo vizio di Edna. È stupido sostenere che non è caduta. Perché qualcuno avrebbe dovuto farle del male?» Il professor Highley guardò Katie. «Edna soffriva di sciatica. Talvolta, quando doveva stare a riposo, mi è capitato di portarle del lavoro da fare a casa. Tre o quattro volte in tutto, mi pare. In una di queste occasioni, credendo che fosse ammalata, sono venuto senza preannunciarmi e così ho scoperto che aveva il vizio di bere.» Katie guardava oltre la sua spalla. Si accorse che Richard aveva terminato di esaminare il corpo. Si alzò, si avvicinò a Edna e la guardò. In silen-
zio, si mise a pregare: Eterno riposo concedi a lei, Signore. Fa' che la accolgano legioni di angeli. Fa' che sia condotta in un luogo di gioia, di luce, di pace. D'un tratto si sentì un nodo in gola. Inghiottì e chiese piano a Richard che cosa avesse trovato. «Finché non ho modo di accertare la gravità della frattura, non posso rispondere con precisione. A mio avviso, potrebbe essere andata in due modi. Sicuramente, è stata una collisione di estrema violenza. Se era ubriaca, e ovviamente lo era, può avere inciampato nel tentativo di alzarsi. Era di corporatura abbastanza pesante. D'altronde, c'è una gran differenza tra l'essere investiti da una macchina o da un treno. Ed è questa differenza che dobbiamo valutare.» «Segni di effrazione?» domandò Katie a Charley. «Nessuno. D'altro canto, questo tipo di serratura si apre con un soffio. E se era ubriaca, come noi riteniamo, chiunque sarebbe potuto entrare.» «Ma perché qualcuno sarebbe dovuto entrare? Che cosa mi stavi dicendo a proposito del comandante Lewis?» «La moglie del custode, si chiama Gana Krupshak, era amica di Edna. Era con la signora Fitzgerald quando è stato rinvenuto il corpo. L'abbiamo rimandata a casa un momento prima che arrivaste voi. È tremendamente scossa. A ogni modo, ieri sera è venuta qui verso le otto. Dice che Edna era già sbronza. Si è trattenuta fino alle otto e mezzo, poi ha deciso di prepararle il prosciutto, sperando che mangiasse qualcosa e smaltisse la sbornia. Edna le ha parlato del suicidio di Vangie.» «Che cosa le ha detto esattamente?» volle sapere Katie. «Niente di speciale. Ha parlato di Vangie e ha detto che era tanto carina. Poi la signora Krupshak è andata in cucina e ha sentito che Edna faceva un numero al telefono. Ha potuto udire quasi tutta la telefonata. Giura che Edna chiamava l'altro 'comandante Lewis' e che gli ha detto che l'indomani sarebbe andata alla polizia. E adesso senti questa. La Krupshak giura di avere sentito Edna spiegare a Lewis come arrivare qui in macchina e, subito dopo, dirgli qualcosa a proposito del Principe Azzurro.» «Del Principe Azzurro?» Charley si strinse nelle spalle. «Ne so quanto te. D'altronde la testimonianza è ineccepibile.» Intervenne Richard: «Naturalmente, tratteremo questo caso come un po-
tenziale delitto. Comincio a credere che Scott abbia qualche ragione di sospettare di Lewis». Diede un'occhiata al soggiorno. «La signora Fitzgerald mi sembra esausta. Katie, hai finito con lei?» «Sì. Per il momento non è in grado di rispondere ad altre domande.» «La faccio accompagnare a casa da una macchina della squadra», propose Charley. «Uno dei miei uomini può seguire con la sua.» Non posso credere che Chris Lewis abbia fatto questo a Edna, pensava Katie. Non credo che abbia ucciso sua moglie. Si guardò intorno. «Siete sicuri che non manchi niente di valore?» Charley alzò le spalle. «In una vendita all'asta, tutto quello che c'è qui dentro se ne andrebbe per quaranta bigliettoni. Il portafogli è dentro l'agenda: diciotto dollari. Le solite carte di credito. Apparentemente, niente di manomesso, tanto meno segni di scasso.» «D'accordo.» Katie tornò nel soggiorno, dal professore e da Gertrude. «Signora Fitzgerald», le disse gentilmente, «adesso la facciamo riaccompagnare a casa.» «Che cosa faranno a Edna?» «Dovranno accertare la gravità delle lesioni craniche. Non credo che faranno altro. Però, se dovesse affacciarsi il sia pur minimo dubbio che sia stato qualcuno a ridurla così, noi abbiamo il dovere di indagare. È il modo di mostrare quanto valutiamo la vita di Edna.» Gertrude tirò su con il naso. «Mi pare giusto.» Guardò Highley. «Professore, che faccia tosta ho avuto a farla venire qui! Le domando scusa.» «Per carità!» Highley si mise una mano in tasca. «Ho portato questi sedativi, nel caso ne avesse bisogno. Ne prenda uno, mentre aspetta che la portino a casa.» «Vado a prendere un bicchier d'acqua», si offrì Katie. Andò in bagno e si avvicinò al lavandino. Bagno e stanza da letto erano dietro un ingressetto, sul retro della casa. Mentre lasciava scorrere l'acqua, Katie si rese conto di provare molto fastidio al pensiero che Chris Lewis fosse sul punto di diventare l'indiziato principale in due casi di morte. Portò il bicchiere d'acqua alla signora Fitzgerald e di nuovo si mise a sedere accanto a lei. «Signora Fitzgerald», disse, «per nostra tranquillità personale, vorremmo avere la certezza che Edna non sia stata derubata. Lei sa se teneva in casa dei valori, che so? Qualche gioiello, per esempio?» «Be', Edna possedeva un anello e una spilla, dei quali andava fierissima. Li metteva solo nelle occasioni speciali. Non saprei dire dove li tenesse. Sa, è la prima volta che vengo in questa casa. Però, aspetti un momento.
Professore, se non sbaglio Edna mi ha detto di averle mostrato spilla e anello. Anzi, ora ricordo che mi ha detto di averle fatto vedere dove li aveva nascosti, una volta che lei era venuto qui. Forse può aiutare la signora DeMaio.» Katie fissò quei freddi occhi grigi. È furioso, pensò tra sé. È furioso di essere qui. Non vuole essere immischiato in questa storia. Che Edna fosse infatuata del professore? Che avesse esagerato il numero di volte che lui era stato lì a portarle il lavoro? Che avesse accennato a Gertrude di un eventuale interesse del professore per lei? Che, senza avere intenzione di alterare deliberatamente la verità, si fosse inventata un romanzo, si fosse immaginata una relazione tra il professore e lei? Stando così le cose, niente di strano che la signora Fitzgerald lo avesse scongiurato di accorrere, niente di strano che lui fosse tanto imbarazzato e a disagio. «Io non so di nessun nascondiglio», rispose il professore con voce fredda, sottesa da una vena di sottile ironia. «Una volta Edna mi mostrò una spilla e un anello che teneva in una scatola nel cassetto del comodino. Non direi che si possa parlare di nascondiglio.» «Le spiacerebbe accompagnarmi a vedere, professore?» chiese Katie. Attraversarono insieme il piccolo ingresso ed entrarono in camera da letto. Katie accese il lume, un vaso rossiccio di poco prezzo con un paralume di carta pieghettata. «Stava qui», disse il professore, indicando il cassetto del comodino, a destra del letto. Servendosi soltanto della punta delle dita, Katie aprì il cassetto. Sapeva che la polizia avrebbe ordinato una perquisizione completa e che avrebbe interpellato un perito di impronte digitali. Contrariamente alle apparenze, il cassetto era molto profondo. Allungò la mano ed estrasse un astuccio per gioielli di plastica azzurra. Quando aprì il coperchio, il cupo silenzio della camera fu rotto dallo scampanellio festoso di un carillon. Una piccola spilla e un vecchio anellino di brillanti erano adagiati sul velluto. «Suppongo che siano questi i tesori di Edna», disse Katie. «E così cade l'ipotesi del furto. Terremo questi effetti in ufficio, fin quando sapremo chi è il parente più prossimo.» Fece il gesto di chiudere il cassetto, poi si interruppe e si chinò a guardare. «Oh, professore, guardi.» Posò l'astuccio sul letto e allungò la mano nel cassetto. «Mia madre conservava il vecchio cappello nero di sua madre per motivi
sentimentali», disse. «Si direbbe che Edna facesse lo stesso.» Stava smuovendo una cosa, la tirava fuori, la teneva in alto perché lui la vedesse. Un mocassino marrone, scalcagnato, frusto, sformato, logoro. Aveva la forma del piede sinistro. Mentre Highley fissava attonito la scarpa, Katie aggiunse: «Probabilmente apparteneva a sua madre e lei lo riteneva un cimelio da conservare insieme con quei patetici piccoli gioielli. Oh, professore, se i ricordi sapessero parlare, ci racconterebbero un sacco di storie, non crede?» 28 Alle otto in punto di giovedì mattina, la squadra investigativa della sezione omicidi della contea di Valley si fermò davanti a casa Lewis. Constava di sei uomini, agli ordini di Phil Cunningham e di Charley Nugent. Ai periti, chiamati per l'esame delle impronte digitali, era stato raccomandato di concentrarsi sulla camera da letto, sul bagno padronale, sulla cucina. Le probabilità di trovare impronte che non appartenessero a Chris o a Vangie Lewis erano scarse. Ma l'esame di laboratorio aveva posto un quesito nuovo. Le impronte di Vangie comparivano sul bicchiere rinvenuto accanto al suo corpo, però era sorto un dubbio circa la loro posizione. Vangie non era mancina. Dunque sarebbe stato logico che per versare i cristalli di cianuro nel bicchiere avesse usato la destra e avesse retto il bicchiere con la mano sinistra. Invece, sul bicchiere figuravano solo le impronte della mano destra: un fatto incongruente e inquietante, che screditava ulteriormente la tesi del suicidio. Gli armadietti dei medicinali, sia nei due bagni sia nel gabinetto per gli ospiti, avevano subito una prima ispezione al ritrovamento del corpo. A quel punto li setacciarono di nuovo con la massima attenzione. Aprirono e annusarono tutte le bottiglie, a una a una. Ma non riuscirono a individuare quell'odore di mandorla amara che stavano cercando. Charley osservò: «Eppure, doveva tenere il cianuro dentro qualche cosa». «A meno che», suggerì Phil, «non abbia portato nel bicchiere solo la dose che ha usato e abbia gettato nella tazza del gabinetto le buste o gli involucri dove lo teneva riposto.» Avevano pulito la stanza da letto con l'aspirapolvere, nella speranza di
trovare un capello che non appartenesse a Vangie o a Chris. Phil soleva dire: «In tutte le case ci sono dei capelli: di fattorini, di vicini di casa, di chiunque. Perdiamo continuamente i capelli. Generalmente, la gente non porta in camera da letto neppure gli amici intimi. Dunque, se trovi un capello che non appartiene ai padroni della camera da letto, puoi dire di avere qualcosa in mano». Gli scaffali del garage furono esaminati con molta attenzione. Una quantità di barattoli semivuoti di vernice, di acqua ragia, qualche attrezzo da giardino, tubi di gomma per innaffiare, insetticidi, anticrittogamici, diserbanti. Phil imprecò quando la giacca gli si impigliò in una vanga che sporgeva dallo spigolo dello scaffale. Il manico era incastrato nell'interstizio tra la fine dello scaffale e un grosso barattolo di vernice. Mentre si chinava per liberare la manica della giacca, notò un pezzetto di cotone stampato impigliato nell'arnese. Quel cotone stampato. L'aveva visto di recente. Quella stoffa indiana sbiadita. L'abito che Vangie indossava quando era morta. Chiamò il fotografo della polizia che lavorava in garage. «Fotografa quell'attrezzo», disse. «Voglio un primo piano della stoffa.» Appena scattata la fotografia, Phil tolse delicatamente dalla vanga il pezzetto di stoffa e lo sigillò in una busta. Dentro casa, Charley esaminava lo scrittoio in soggiorno. Che strano, pensò. Ti fai un quadro preciso delle persone dal modo in cui tengono le carte. Chiaramente, era Chris Lewis a tenere i conti in famiglia. I tagliandi dei libretti di assegni erano compilati minuziosamente, i conti quadravano all'ultimo centesimo. Tutte le fatture risultavano saldate subito, appena arrivate. Nella parte più bassa dello scrittoio, in un cassetto molto capace, i fascicoli erano impilati in ordine alfabetico: AMERICAN EXPRESS, ASSICURAZIONI, BANK AMERICARD, CORRISPONDENZA PERSONALE. Charley prese la cartella delle lettere personali. La sfogliò rapidamente. Chris era in corrispondenza regolare con la madre. «Ti ringrazio molto dell'assegno, Chris. Ma non dovresti essere tanto generoso.» Quella era stata scritta solo due settimane prima. Una lettera di gennaio: «Ho comprato al babbo la televisione per la camera da letto e lui ne è molto soddisfatto». Una del luglio scorso: «Il nuovo condizionatore è una vera benedizione». Nonostante la delusione di non trovare niente di molto significativo, Charley dovette riconoscere che Christopher Lewis era un figlio generoso e sollecito del benessere degli anziani genitori. Lesse una seconda volta le
lettere della madre, nella speranza di trovare qualche accenno al rapporto tra Chris e Vangie. «Mi dispiace di sentire che Vangie non sta bene», oppure: «Talvolta le donne hanno delle gravidanze difficili». E ancora: «Di' a Vangie che facciamo il tifo per lei». A mezzogiorno, Charley e Phil decisero di tornare in ufficio e di lasciare il resto della squadra a continuare il lavoro in casa Lewis. Tra i vari impegni, sarebbe toccato a loro andare a prelevare Chris Lewis all'aeroporto, alle diciotto. Avevano potuto escludere l'effrazione. Né dentro casa, né in garage avevano trovato traccia del cianuro. L'analisi del chimo nello stomaco di Vangie dimostrava che lunedì notte la donna aveva consumato un pasto leggero: probabilmente, verso le cinque del pomeriggio aveva mangiato un toast e bevuto una tazza di tè. Da una pagnotta fresca, nella scatola del pane, mancavano due fette. I piatti sporchi nel lavello raccontavano la storia di quei giorni: un solo piatto, una tazza con il rispettivo piattino, l'insalatiera probabilmente stavano lì da domenica sera. Un bicchiere da bibita e una tazza, per la prima colazione di lunedì mattina. Una tazza con il suo sottopiatto, un piatto grande con le briciole del toast, dalla cena di lunedì sera. Sembrava che Vangie avesse cenato sola domenica sera; lunedì nessuno aveva mangiato con lei. Martedì mattina il bricco del caffè non era nel lavello. Certamente, Chris Lewis si era fatto un caffè solubile dopo aver rinvenuto il cadavere. Viale d'accesso e terreno circostante erano stati setacciati. Non era emerso niente di insolito. «Hanno lavorato tutto il giorno, ma almeno non è stato tralasciato niente», disse Charley reciso. «A parte il fatto che si è strappata il vestito con la vanga in quello scaffale in garage, non abbiamo trovato un bel niente. Però, un momento: non abbiamo controllato la segreteria telefonica.» Sulla scrivania in soggiorno trovò il numero dell'ufficio dell'addetto a rispondere alle chiamate in assenza dei padroni di casa. Telefonò e si fece riconoscere. «Mi riferisca, con decorrenza da lunedì, tutte le chiamate per il comandante e la signora Lewis», ordinò Charley. Prese blocco e penna e cominciò a scrivere. Phil gli era accanto e leggeva da sopra la sua spalla. Lunedì, 15 febbraio, ore 16 - Ufficio prenotazioni della Northwest Orient: la signora Lewis è confermata sul volo 235 delle ore 16 di martedì 16 febbraio, in partenza dall'aeroporto La Guardia, destinazione il Twin Cities di Minneapolis / St. Paul. Phil emise un piccolo fischio. Charley domandò: «Mi può dire se la si-
gnora Lewis ha ricevuto questo messaggio?» Tenne il ricevitore un po' discosto dall'orecchio, in modo che anche Phil sentisse. «Sì, certamente», rispose la centralinista. «Ero di turno lunedì sera e sono stata io a trasmettere il messaggio verso le diciannove e trenta.» La donna parlava con enfasi, sembrava soddisfatta di sé. «La signora parve molto sollevata, disse: 'Dio sia ringraziato'.» «Bene», disse Charley. «Che cos'altro c'è?» «Lunedì 15 febbraio, ore ventuno. Il dottor Fukhito prega la signora Lewis di richiamarlo a casa, appena torna. Dice che la signora conosce il suo numero di casa.» Charley inarcò un sopracciglio. «È tutto?» «Ancora un messaggio. Una certa signorina Edna Burns ha chiamato la signora Lewis lunedì alle ventidue. Voleva che la signora Lewis la richiamasse senza fallo e a qualsiasi ora.» Charley scarabocchiava triangoli sul blocco mentre la centralinista lo informava che né martedì né mercoledì l'ufficio aveva registrato altri messaggi. Però lei sapeva che era arrivata una telefonata martedì sera, alla quale aveva risposto il comandante Lewis. «Stavo per rispondere io», continuò la centralinista, «quando è arrivato lui, sicché io mi sono ritirata.» Alla domanda di Charley, la centralinista rispose senza esitare che la signora Lewis non aveva più preso contatto con il suo ufficio dopo le diciannove e trenta di lunedì. «Grazie mille», disse Charley. «Le sue informazioni ci sono preziose. Forse avremo bisogno della lista completa delle telefonate per i Lewis, anche nei giorni precedenti, in tal caso ci metteremo nuovamente in contatto con lei.» Riagganciò e guardò Phil. «Andiamo. È tempo di riferire il tutto a Scott.» «Tu che cosa ne pensi?» domandò Phil. «Che cosa vuoi che ne pensi?» bofonchiò Charley. «Alle sette e mezza di lunedì sera Vangie Lewis si preparava ad andare a Minneapolis. Un paio d'ore dopo era morta. Alle dieci di lunedì sera, Edna Burns voleva comunicare qualcosa d'urgente a Vangie Lewis. La sera dopo era morta e l'ultima persona a vederla viva l'aveva sentita dire a Chris che aveva delle informazioni da dare alla polizia!» «E lo strizzacervelli giapponese che ha telefonato a Vangie Lewis lunedì sera?» Chris alzò le spalle. «Katie è stata da lui ieri. Avrà da dirci qualcosa.»
29 A Katie, la notte tra mercoledì e giovedì era parsa eterna. Si era coricata subito, appena tornata dall'appartamento di Edna. Prima si era ricordata di prendere una delle pillole prescritte dal professor Highley. Aveva dormito male, a intervalli, resa inquieta dall'immagine del viso di Vangie che affiorava nel sogno. Prima di svegliarsi, il sogno si era dissolto in un altro sogno: il viso di Edna come l'aveva visto nella morte; il professor Highley e Richard chini su di lei. Al risveglio, si sentiva oppressa da una folla di interrogativi vaghi e inquietanti, che sembravano voler eludere il suo tentativo di metterli a fuoco. Il vecchio cappello nero gualcito di sua nonna. Perché le veniva in mente? Chiaro. Per via di quella vecchia scarpa tanto cara a Edna, che lei conservava con i gioielli. Ma perché una scarpa sola? Con una smorfia si alzò e si accorse che durante la notte i dolori si erano fatti più forti. Le ginocchia, che erano rimaste contuse nell'impatto contro il cruscotto, sembravano più rigide che non subito dopo l'incidente. Sono contenta che la maratona di Boston non abbia luogo oggi, pensò stizzita. Non avrei potuto vincerla. Sperando di trovare beneficio in un bagno caldo, andò nella stanza da bagno, si chinò e chiuse il tappo della vasca. Un forte capogiro la fece vacillare; per non cadere si aggrappò al bordo della vasca. Fu questione di pochi secondi, poi si riprese e si girò con lentezza, preoccupata di poter ancora svenire. Lo specchio rifletteva il pallore mortale del suo viso, le gocce di sudore che le imperlavano la fronte. È questa maledetta emorragia, pensò. Se domani sera non vado in ospedale, andrà a finire che mi ci dovranno portare in barella. Il bagno caldo sciolse un po' della rigidezza. Il fondo tinta color ocra attenuò il pallore. Un completo nuovo (gonna increspata, giacca di tweed in tinta, maglione a collo alto) coronarono lo sforzo di camuffarsi. Almeno così non avrò l'aria di star per svenire, anche se in realtà è vero, pensò. Con la spremuta di arancia inghiottì un'altra pillola del professor Highley e intanto rifletteva sull'incredibile morte di Edna. Usciti dall'appartamento di Edna, lei e Richard erano andati in una tavola calda, a bere un caffè. Lui aveva ordinato un hamburger. Avrebbe dovuto cenare a New York, le aveva spiegato. Certo in compagnia di un'amica, aveva pensato lei. Perché no, dopotutto? Era un uomo molto attraente. Certamente non
passava tutte le sere a casa o ospite di coppie amiche, com'erano Molly e Bill. Sorpresa e piacere si erano dipinte sul viso di Richard quando lei gli aveva raccontato di essere tornata al Palisades, il ristorante dove avevano cenato insieme. Poi, d'improvviso, Richard aveva assunto un'aria preoccupata, quasi distratta. Parecchie volte le era parso in procinto di domandarle qualcosa, poi aveva cambiato idea. Nonostante le proteste di Katie, aveva insistito per accompagnarla a casa, per entrare con lei, per controllare che porte e finestre fossero ben chiuse. «Non so perché, ma non mi piace saperti sola in questo posto», le aveva spiegato. Lei aveva alzato le spalle: «Edna abitava in un appartamento con le pareti sottili. Eppure nessuno si è reso conto che si era ferita, che aveva bisogno di aiuto». «No, non è così», le aveva detto Richard, secco. «È morta quasi subito. Katie, quell'Highley, lo conosci bene?» «Oggi pomeriggio l'ho interrogato su Vangie», aveva risposto lei, elusiva. La fronte di Richard si era spianata. «Già. È vero. Ciao, a domani. Credo che Scott ci convocherà per discutere il caso Edna Burns.» «Lo farà di sicuro.» Richard l'aveva guardata. Era turbato. «Spranga la porta», le aveva raccomandato. E niente bacio della buona notte sulla guancia. Katie mise il bicchiere dell'aranciata nel lavandino. Afferrò in fretta borsa e cappotto e si diresse alla macchina. Quella mattina Charley e Phil avrebbero cominciato la perquisizione in casa Lewis. Scott stava tessendo coscienziosamente una tela intorno a Chris Lewis, una tela fatta di indizi, certo, però robusta. Se soltanto lei fosse riuscita a dimostrare che c'era un'altra strada da battere prima che Chris fosse imputato. Il guaio di essere arrestati con l'accusa di omicidio sta nel fatto che, anche riuscendo a dimostrare la propria innocenza, una persona rimane marchiata a vita. La gente avrebbe sempre detto: «Ah, ecco il comandante Lewis. È stato indiziato della morte di sua moglie. Un avvocato in gamba è riuscito a farlo assolvere, ma lui è colpevole al cento per cento». Arrivò in ufficio che non erano ancora le sette e mezzo. Non fu stupita di trovarvi Maureen Crowley. Era la segretaria più coscienziosa di tutto l'ufficio. Inoltre, era una ragazza molto sveglia, in grado di svolgere le proprie mansioni senza stare a chiedere ordini in continuazione. Katie si fermò da-
vanti alla sua scrivania: «Maureen, avrei un lavoro per te. Vuoi venire nel mio ufficio, quando hai un attimo?» La ragazza si alzò prontamente. Aveva la vita sottile e un corpo giovane e pieno di grazia. Un pullover verde accentuava il verde brillante dei suoi occhi. «Che cosa ne diresti di un caffè, Katie?» «Ottima idea», rispose lei, poi aggiunse: «Senza prosciutto né pane integrale, almeno per ora». Maureen arrossì. «Mi dispiace per ieri. Tanto più che sei la sola a non essere un fossile.» «Di questo non sono tanto sicura.» Katie entrò nel suo ufficio, appese il cappotto e si mise a sedere con accanto il taccuino che aveva usato al Westlake. Maureen portò il caffè, avvicinò una sedia alla scrivania di Katie e aspettò in silenzio, il blocco da stenografa sulle ginocchia. «Il fatto è questo», cominciò lentamente Katie. «Nel caso di Vangie Lewis, la tesi del suicidio non ci persuade. Ieri ho parlato con i medici che l'hanno avuta in cura: il professor Highley e il dottor Fukhito, tutti e due del Westlake.» Sentì il respiro di Maureen farsi affannoso. Alzò gli occhi e guardò la ragazza: aveva il viso mortalmente pallido. Ma mentre lei parlava, le sue guance si fecero purpuree. «Che cos'hai, Maureen?» «Niente, niente. Scusami.» «Ho detto qualcosa che ti ha urtato?» «No. No davvero.» Poco persuasa, Katie abbassò gli occhi sul taccuino. «Da quanto ci risulta, il dottor Fukhito, lo psichiatra del Westlake, è stato l'ultimo a vedere Vangie Lewis in vita. Voglio scoprire di lui, e molto in fretta, tutto ciò che è possibile sapere. Controlla all'Associazione dei medici della nostra contea e presso l'Associazione medica americana. Ho sentito dire che Fukhito fa lavoro di volontariato presso il Valley Pines Hospital. È probabile che lì tu riesca a ottenere qualche informazione. Di' che si tratta di cosa strettamente confidenziale, però cerca di scoprire da dove viene, quali scuole ha frequentato, dove altro ha lavorato, insomma: tutto sul suo passato.» «Vuoi che vada a parlare anche con qualcuno del Westlake?» «No, per carità. Soprattutto, non voglio mettere la pulce nell'orecchio a quelli del Westlake.» Chissà perché, a quelle parole la ragazza parve sollevata. «Va bene, Ka-
tie. Mi metto subito al lavoro.» «Sembra sleale farti venire la mattina tanto di buon'ora per fare un lavoro e poi buttartene addosso un altro. D'altronde, la nostra cara contea non è in grado di pagare gli straordinari. E noi due lo sappiamo, vero?» Maureen si strinse nelle spalle. «Oh, non importa. Più lavoro qui e più questo ufficio mi piace. Chissà, forse un giorno mi deciderò a iscrivermi a giurisprudenza. Il che, però, significa quattro anni di college e tre di perfezionamento alla scuola di giurisprudenza.» «Diventeresti un buon avvocato», disse Katie, sinceramente convinta. «Mi sono sempre chiesta perché non hai continuato gli studi.» «Sono stata così pazza da fidanzarmi la stessa estate in cui ho finito le scuole superiori. I miei genitori mi hanno convinta a fare un corso per segretarie prima di sposarmi, così da avere almeno una sorta di specializzazione. Hanno avuto perfettamente ragione. Il fidanzamento non ha retto all'attesa.» «Perché non ti sei iscritta al college in settembre, anziché venire a lavorare qui?» Il viso della ragazza si fece pensoso. Che aria infelice, pensò Katie. Probabilmente, ha risentito molto della rottura. Evitando lo sguardo di Katie, Maureen rispose: «Ero molto irrequieta e non me la sentivo di fare la scolaretta. Forse è stata una decisione saggia». Uscì dalla stanza. Squillò il telefono. Era Richard: «Katie, ho appena parlato con Dave Broad, il responsabile del dipartimento ricerche prenatali del Mount Sinai. Assecondando una mia impressione, gli avevo mandato il feto di Vangie Lewis. Katie, la mia impressione era giusta. Vangie non era incinta di Chris Lewis. Il bambino che ho estratto dal suo ventre ha caratteristiche chiaramente orientali!» 30 Edgar Highley era rimasto a fissare Katie DeMaio, dritta davanti a lui con quella scarpa in mano, come nell'atto di offrirgliela. Lo stava prendendo in giro? Niente affatto: era veramente convinta di quanto diceva e cioè che quella scarpa fosse stata per Edna un ricordo di natura sentimentale. Doveva riuscire a impadronirsene. Purché Katie non ne parlasse al medico legale o alla polizia. E se lo avesse fatto? Gertrude Fitzgerald avrebbe potuto riconoscerla: era capitato molte volte che si trovasse in ufficio all'arrivo di Vangie e lui stesso aveva sentito Edna scherzare con lei a propo-
sito delle scarpette di vetro di Vangie. Katie aveva riposto il mocassino, aveva chiuso il cassetto ed era uscita dalla camera da letto, stringendo sotto il braccio il cofanetto portagioielli. L'aveva seguita, disperato, per sentire che cosa avrebbe detto, ma lei si era limitata a tendere il cofanetto al poliziotto. «L'anello e la spilla ci sono, Charley», aveva detto. «E questo, secondo me, esclude l'ipotesi del furto. Però non ho esaminato a fondo la scrivania né l'armadio a muro.» «Non importa. Se Richard ha dei dubbi sulle cause del decesso, domani mattina passeremo tutto al setaccio.» Bussarono alla porta. Katie andò ad aprire e fece entrare due uomini che portavano una barella. Edgar Highley tornò vicino a Gertrude, la quale aveva finito l'acqua che Katie le aveva portato. «Vado a prendergliene ancora, signora Fitzgerald», disse piano, lanciando una rapida occhiata dietro di sé: gli voltavano tutti le spalle, occupati com'erano a guardare gli uomini che sollevavano il cadavere. Era la sua occasione. Doveva tentare di prendere la scarpa in quel momento. Dato che Katie non ne aveva parlato subito, ormai era improbabile che sollevasse l'argomento. Raggiunse rapidamente il bagno, aprì il rubinetto e scivolò nella camera da letto, dall'altro lato del corridoio. Servendosi del fazzoletto per non lasciare impronte, aprì il cassetto del comodino e stava per prendere la scarpa quando sentì un rumore di passi nel corridoio. Richiuse svelto il cassetto, si ficcò il fazzoletto in tasca e fu di nuovo alla porta della camera da letto: proprio in quel momento i passi si arrestarono. Imponendosi il massimo controllo, si voltò e si trovò di fronte il medico legale, Richard Carroll, che si era fermato tra la porta del bagno e quella della camera da letto. Aveva un'espressione interrogativa negli occhi. «Professore», disse, «vorrei rivolgerle qualche domanda su Edna Burns.» La sua voce era fredda. «Certo.» Poi, nel tono più indifferente che gli riuscì, aggiunse: «Stavo proprio pensando alla signorina Burns. Che peccato, una vita così sprecata». «Sprecata?» ripeté Richard con rinnovato interesse. «Sì. Aveva un cervello matematico proprio di prim'ordine. In questa nostra era del computer Edna avrebbe potuto sfruttare il suo talento ed essere qualcuno. Invece era diventata un'alcolizzata obesa e pettegola. Forse le sembrerò troppo severo, ma se lo dico è con profondo rammarico. Ero affezionato a Edna e sinceramente mi mancherà. Ma mi scusi: sto lasciando
scorrere l'acqua. Volevo portare un bicchiere d'acqua fresca alla signora Fitzgerald... poveretta, è così giù!» Il dottor Carroll si fece da parte per lasciarlo passare. Chissà se le sue chiacchiere gli avevano impedito di chiedersi che cosa stesse facendo nella camera di Edna? Sciacquò il bicchiere, lo riempì e lo portò a Gertrude. Gli inservienti avevano portato via il cadavere e Katie DeMaio non era più nella stanza. «La signora DeMaio se n'è andata?» chiese al poliziotto. «No, è con la moglie del custode. Torna subito.» Non intendeva andarsene finché non fosse stato sicuro che Katie non avrebbe accennato alla scarpa davanti a Gertrude. Ma lei, tornando qualche minuto dopo, non ne fece parola. Se ne andarono insieme. La polizia avrebbe sorvegliato l'appartamento durante la perquisizione. Deliberatamente accompagnò Katie alla sua macchina, ma a quel punto il medico legale li raggiunse. «Andiamo a prendere un caffè, Katie», disse. «Conosci il Golden Valley, vero?» Aspettò che lei salisse in macchina, facesse manovra per uscire dal parcheggio, quindi aggiunse: «Buona sera, professor Highley», e si allontanò senza aggiungere altro. Guidando sulla strada di casa, Edgar Highley decise che doveva esserci un rapporto personale di un qualche tipo tra Katie DeMaio e Richard Carroll. Se lei fosse morta per un'emorragia, Richard avrebbe indagato sulle cause del decesso con un interesse privato oltre che professionale. Doveva stare molto, molto attento. Percepiva un'ostilità nell'atteggiamento di Carroll nei suoi confronti. Eppure non ne vedeva il motivo. Forse avrebbe dovuto esaminare attentamente il corpo di Edna. Ma che cosa poteva esserci che non quadrava? Non avrebbe dovuto darle quello spintone. Forse avrebbe dovuto derubarla, come del resto era stata originariamente sua intenzione. Se l'avesse fatto, oltre tutto, avrebbe trovato quella scarpa la sera prima. Ma Edna aveva parlato: aveva raccontato a Gertrude che lui era stato a trovarla; forse aveva addirittura esagerato la frequenza, l'importanza di quelle visite. Gertrude aveva detto a Katie che lui sapeva dove erano riposti quei miseri gioielli. Se fossero giunti alle conclusioni che si era trattato di un delitto, sarebbero arrivati a collegarlo con il lavoro di Edna all'ospedale? Che cos'altro era andata in giro a spifferare? Quel pensiero lo ossessionò per tutta la strada.
Katie era la chiave di tutto. Katie DeMaio. Una volta tolta di mezzo lei in modo pulito, nessuna prova più lo avrebbe collegato alla morte di Vangie, né a quella di Edna. In ospedale il suo archivio era in perfetto ordine e tutte le pazienti che al momento aveva in cura si potevano esporre senza rischi anche agli esami più approfonditi. Imboccò il vialetto d'accesso a casa, portò la macchina in garage e finalmente entrò in casa. Le cotolette d'agnello erano ancora sul piatto, fredde e bordate di grasso; gli asparagi sembravano avvizziti e l'insalata era calda e molliccia. Avrebbe riscaldato le pietanze nel forno a microonde, preparato un'altra insalata e in qualche minuto la tavola avrebbe ripreso l'aspetto che aveva prima della telefonata. Mentre era occupato a prepararsi di nuovo da mangiare, scoprì che cominciava a rilassarsi. Gli ci mancava così poco per essere in salvo e presto il mondo intero avrebbe beneficiato del suo genio. Aveva già riportato il suo successo e poteva dimostrarlo senza possibilità di dubbio. Un giorno o l'altro sarebbe stato in grado di proclamarlo ad alta voce. Non ancora, ma un giorno o l'altro. E non sarebbe andata come quello spaccone che pretendeva di essere riuscito a effettuare una clonazione, ma rifiutava di fornirne la minima prova. Lui aveva dati precisi, una documentazione scientifica, fotografie, radiografie, i resoconti graduali, giornalieri, di tutti i problemi che gli si erano presentati e del modo in cui li aveva risolti. Tutto negli schedari della sua cassaforte segreta. A suo tempo avrebbe bruciato le cartelle che contenevano le prove degli insuccessi e preteso il riconoscimento che gli era dovuto. Ed entro allora ci sarebbero stati certo altri trionfi da vantare. Niente doveva ostacolarlo. Vangie era stata sul punto di rovinare tutto. Che cosa sarebbe successo se non l'avesse incontrata proprio mentre usciva dallo studio di Fukhito? E se lei non gli avesse comunicato la sua decisione di consultare Emmet Salem? Fatalità. Fortuna. Comunque la si volesse definire. Tuttavia, era stato anche per fatalità che Katie DeMaio si era affacciata alla finestra proprio mentre lui stava trasportando il cadavere di Vangie. E il colmo dell'ironia che avesse interpellato lui per primo. Si risedette a tavola. Con profonda soddisfazione constatò che la cena gli appariva ugualmente appetitosa, ugualmente squisita di quando l'aveva preparata la prima volta. Il crescione era fresco e croccante; le cotolette deliziosamente gonfie; gli asparagi caldi si profilavano sotto una delicata salsa olandese. Versò il vino in uno slanciato bicchiere a calice, deliziato dal-
la preziosa sensazione come di seta che gli provocava il contatto del cristallo. La robusta fragranza del Borgogna non deluse le sue aspettative. Mangiò lentamente. Come sempre, il cibo gli restituì una sensazione di benessere. Avrebbe fatto quello che era necessario e poi sarebbe stato al sicuro. L'indomani, giovedi, il Newsmaker sarebbe stato in edicola con l'articolo: ottima cosa per il suo prestigio sociale oltre che professionale. Il fatto di essere vedovo gli conferiva un particolare fascino. Sapeva quel che le pazienti dicevano di lui: «Il professor Highley è così brillante. È talmente distinto. Ha una bellissima casa a Parkwood». Dopo la morte di Winifred aveva lasciato cadere le amicizie di lei. Vi indovinava troppa ostilità, come in quel cugino che non la smetteva di fare insinuazioni. Lui lo sapeva e perciò in quegli ultimi tre anni non si era curato di nessun'altra donna. Non che la solitudine fosse un sacrificio: il suo lavoro lo assorbiva completamente ed era per lui di massima soddisfazione. E il tempo che gli aveva dedicato era stato ben ricompensato: i suoi critici più severi in campo professionale ormai ammettevano che era un buon medico, che l'ospedale vantava un'attrezzatura perfetta, che il Programma Maternità Westlake era ormai seguito da altri medici. «In gravidanza le mie pazienti non devono né bere né fumare», aveva detto alla giornalista del Newsmaker durante l'intervista. «Devono seguire una dieta particolare. Molte donne cosiddette sterili avrebbero tutti i bambini che vogliono se dimostrassero la stessa diligenza che caratterizza gli atleti durante gli allenamenti. Molti disturbi di vecchia data che riscontriamo oggi sarebbero stati completamente evitati se le madri non avessero adottato un'alimentazione errata o assunto medicine sbagliate. Abbiamo avuto l'esempio evidente degli effetti della talidomide su tante sfortunate vittime. Sappiamo che una madre drogata può dare alla luce un bambino tossicomane; una madre alcolizzata partorirà spesso un bambino ritardato, di peso inferiore alla media, con squilibri emotivi. Ma che cosa dire dei numerosi problemi che consideriamo semplicemente destino dell'uomo: bronchite, dislessia, ipertiroidismo, asma, menomazioni dell'udito e della vista? Credo che tutti questi disturbi vadano combattuti non nei laboratori di ricerca, ma nell'utero materno. Io non accetto pazienti che non siano disposte a collaborare con i miei metodi e d'altro canto potrei parlarle di dozzine di donne venute da me dopo una serie di aborti e che ora sono madri. Sarebbero molto più numerose quelle in grado di provare la stessa gioia, se fossero disposte a cambiare abitudini, in particolare le abitudini
alimentari e quelle del bere. Molte altre concepirebbero e partorirebbero regolarmente se non avessero turbe emotive tali che in realtà funzionano come contraccettivi mentali, molto più efficaci di qualsiasi pillola che si possa acquistare in farmacia. Queste sono le ragioni, le basi, del Programma Maternità Westlake.» La corrispondente del Newsmaker era rimasta colpita, ma la domanda successiva era colma di implicazioni: «Professore, sta però di fatto che le sono state rivolte critiche a causa delle sue parcelle esorbitanti, vero?» «Esorbitante è una parola sua. I miei onorari, oltre a coprire le mie esigenze vitali che sono assolutamente spartane, sono destinati a migliorare l'attrezzatura dell'ospedale e a rendere possibili le ricerche nel settore prenatale.» «Professore, mi risulta però che un'alta percentuale delle sue pazienti ha abortito parecchie volte mentre era in cura da lei, anche dopo aver seguito rigidamente le sue prescrizioni... e dopo aver sborsato diecimila dollari, oltre alle spese di ospedale e di laboratorio, o sbaglio?» «Sarebbe follia da parte mia affermare che sono in grado di far arrivare a termine tutte le gravidanze difficili. Vi sono stati casi in cui la desiderata gravidanza si è conclusa con un aborto spontaneo. Quando questo si è ripetuto più d'una volta, ho consigliato alla paziente di adottare un bambino e l'ho aiutata a raggiungere una soluzione soddisfacente in questo senso.» «Dietro congruo compenso.» «Gentile signora, presumo che la paghino per intervistarmi. Perché non dedica il suo tempo a un lavoro volontario?» Era stato assurdo attaccarla in quel modo. Assurdo rischiare il suo rancore, assurdo darle un qualsiasi motivo per screditarlo, per andare a scavare nel suo passato. Le aveva detto di esser stato primario di ostetricia quand'era a Liverpool, prima del suo matrimonio con Winifred. Ma naturalmente non aveva accennato al Christ Hospital del Devon. La domanda successiva era stata chiaramente formulata per coglierlo in fallo. «Professore, lei esegue degli aborti, o no?» «Sì, ne eseguo.» «Non è contraddittorio per un ostetrico? Tentare di salvare un feto ed eliminarne un altro?» «Diciamo che l'utero è come una culla. Io sono contrario all'aborto e deploro il dolore di cui sono testimone in donne che si rivolgono a me perché non riescono a rimanere incinte, quando ciò accade a causa di un prece-
dente aborto in cui hanno avuto l'utero perforato da medici incapaci, ignoranti, negligenti. Credo che tutti, compresi alcuni miei colleghi, sarebbero meravigliati di scoprire quante donne si vedono preclusa ogni speranza di maternità in seguito alla decisione di ricorrere all'aborto per scongiurare una gravidanza indesiderata. Personalmente desidero che ogni donna possa portare felicemente a termine la sua gravidanza, ma per quelle che non vogliono farlo se non altro posso fare in modo che quando alla fine desidereranno un bambino siano ancora in grado di averlo.» L'argomentazione era stata recepita bene e l'atteggiamento della giornalista appariva modificato. Terminata la cena, si appoggiò più comodamente allo schienale e si versò dell'altro vino: si sentiva rilassato, a suo agio. Le leggi stavano cambiando. Nel giro di qualche anno sarebbe stato in grado di rivelare il suo genio senza pericolo di incriminazioni. Vangie Lewis, Edna Burns, Winifred, Claire... sarebbero state elementi di una statistica senza alcun rapporto tra loro. La pista sarebbe stata fredda. Sorseggiò il vino assaporandolo; poi riempì di nuovo il bicchiere e bevve ancora. Era stanco. L'indomani mattina aveva in programma un cesareo, un altro caso difficile che avrebbe aggiunto lustro alla sua fama. Era stata una gravidanza difficile, ma il battito del feto era robusto e sarebbe nato senza inconvenienti. La madre apparteneva all'importante famiglia Payne; il padre, Delano Aldrich, era funzionario della Fondazione Rockefeller, insomma, il tipo di famiglia il cui appoggio sarebbe stato determinante nella malaugurata ipotesi che lo scandalo del Devon fosse tornato a galla. Rimaneva solo un ostacolo. Si era portato a casa dallo studio la cartella di Katie DeMaio. A quel punto si accingeva a prepararne un'altra che avrebbe sostituito quella autentica: la cartella che avrebbe mostrato alla polizia dopo la morte di lei. In luogo dei dati che lei gli aveva fornito (mestruazioni prolungate durante l'ultimo anno) avrebbe scritto: «La paziente lamenta frequenti emorragie spontanee senza alcun rapporto con il ciclo mensile». Nessun accenno all'ipertrofia delle pareti uterine, probabilmente una caratteristica ereditaria cui si poteva ovviare quasi all'infinito con un semplice raschiamento. La sua diagnosi avrebbe riscontrato danni vascolari. Anziché un'emoglobina leggermente bassa, avrebbe annotato che l'emoglobina era costantemente a livello di pericolo. Passò nella biblioteca. Il fascicolo contrassegnato KATHLEEN DEMAIO, che aveva portato dall'ospedale, era sulla scrivania. Prese dal cas-
setto una cartella nuova, vi appose il nome di Katie e per mezz'ora lavorò senza sosta, consultando di quando in quando la cartella originale per l'anamnesi della paziente. Finalmente la nuova cartella fu pronta per essere riportata nell'archivio dell'ospedale. Allora aggiunse alcune annotazioni a quella originale, ripromettendosi di riporla nella cassaforte a muro quando fosse stata completata. La sera di lunedì 15 febbraio la paziente ha avuto un piccolo incidente automobilistico. Alle due del mattino, sotto l'effetto dei sedativi, dalla finestra della sua camera ha visto il proprio medico trasportare i resti di Vangie Lewis. La paziente ancora non si rende conto di aver assistito a una scena reale e ritiene di aver avuto un'allucinazione. Risulta in leggero stato di choc conseguente all'incidente e alla persistente emorragia. Inevitabilmente sarà presto in grado di ritrovare il ricordo preciso di quanto ha osservato e per questo motivo non si può permettere che continui a rappresentare una minaccia per il proprio medico. Lunedì sera è stata sottoposta a trasfusione presso il pronto soccorso dell'ospedale. Il sottoscritto medico ha prescritto una seconda trasfusione motivandola come preparatoria all'intervento cui sarà sottoposta sabato. Ha inoltre prescritto un trattamento anticoagulante a base di cumadina in compresse da assumere regolarmente fino a venerdì. Le labbra contratte, depose la penna: immaginava facilmente come avrebbe completato la cartella. La paziente entrava in ospedale alle 18 di venerdì 19 febbraio, lamentando vertigini e debolezza generale. Alle 21 il sottoscritto medico, accompagnato dall'infermiera Renge, constatava la presenza di un'emorragia. La pressione del sangue si stava abbassando rapidamente. Alle 21.45 veniva tentato un intervento di emergenza con trasfusione di sangue intero. La paziente, Kathleen Noel DeMaio, è spirata alle ore 22. Sorrise, pregustando la conclusione di quel caso fastidioso. Aveva preparato alla perfezione ogni particolare, compreso quello di assegnare, per il turno di notte al piano, l'infermiera Renge, giovane, inesperta e piena di sacrosanto terrore nei suoi confronti. Dopo aver provvisoriamente nascosto la cartella nel cassetto più alto
della scrivania, salì nella sua camera da letto e dormì profondamente fino alle sei del mattino. Tre ore dopo portava alla luce con parto cesareo il robusto neonato della signora Delano Aldrich e accettava come dovuta la lacrimosa riconoscenza della paziente e di suo marito. 31 Il servizio funebre per Vangie si svolse giovedì mattina alle dieci nella cappella di un'agenzia di pompe funebri di Minneapolis. Con il cuore che gli doleva di compassione per i genitori di Vangie, Chris assistette alla cerimonia in piedi accanto a loro, sentendosi colpire come da una martellata da ognuno dei loro singhiozzi soffocati. Avrebbe potuto far sì che le cose andassero diversamente? Se non avesse in un primo momento tentato di placare Vangie, lei forse non sarebbe stata lì distesa. E se anni prima avesse insistito con lei sulla necessità di consultare insieme uno specialista di problemi della coppia, forse il loro matrimonio ne avrebbe tratto beneficio. Lui gliel'aveva proposto, ma senza nessun risultato. «Non ho bisogno di consigli», aveva replicato lei. «Ogni volta che mi arrabbio tu dici che ho qualche cosa che non va. Ma è proprio il contrario: tu non ti arrabbi mai per niente, a te non importa di niente o di nessuno. Sei tu il problema, non io.» Oh, Vangie. Vangie. Forse la verità stava nel mezzo. Ma lui aveva smesso di curarsene da molto tempo, quasi dall'inizio del loro matrimonio. La notizia che non si poteva procedere alla sepoltura e che la salma sarebbe stata rimandata nel New Jersey era stata un duro colpo per i genitori di Vangie. «Ma perché?» «Proprio non lo so.» Inutile rispondere altro, per il momento. «Grazia mirabile, così dolce il tuo suono.» L'a solo del soprano riempiva la cappella. «Ero smarrita, ma sono stata trovata.» Mesi prima, l'estate precedente, la vita gli era parsa squallida e disperata. Poi era andato a quella festa, alle Hawaii. E c'era anche Joan. Ricordava il momento preciso in cui l'aveva vista: era sulla terrazza in mezzo a un gruppo di persone. A una sua battuta, tutti erano scoppiati a ridere; anche lei rideva, gli occhi socchiusi, le labbra aperte, il capo riverso. Si era munito di un bicchiere e aveva raggiunto il gruppo; e da quella sera non si era più allontanato da lei. «... ero cieca e ora vedo.» Il medico legale non avrebbe permesso che
portassero via la salma, martedì notte, se avesse sospettato qualcosa di poco chiaro. Che cos'era intervenuto a fargli cambiare idea? Pensò alla telefonata di Edna. Chissà quante chiacchiere era andata in giro a fare. Sarebbe stata in grado di far luce in qualche modo sulla morte di Vangie? Prima di lasciare Minneapolis, doveva telefonare al professor Salem. Doveva scoprire che cosa sapeva di Vangie da far sì che apparisse così sconvolto la sera prima. Perché Vangie aveva preso appuntamento con lui? Nella vita di sua moglie c'era stato qualcun altro, a quel punto ne era sicuro. E se si fosse uccisa in presenza di una persona e questa l'avesse riportata a casa? Dio sapeva che avrebbe avuto tutte le occasioni che voleva per vivere una storia con un altro uomo, dal momento che lui era assente almeno per metà del mese. Forse aveva conosciuto qualcuno dopo che si erano trasferiti nel New Jersey. Ma Vangie era il tipo da farsi del male? Lo escludeva. Il pastore stava pronunciando la preghiera conclusiva: «... quando ogni lacrima si sarà asciugata...» Chris accompagnò i suoceri all'ingresso e rimase con loro ad accettare le espressioni di cordoglio degli amici che avevano preso parte alla cerimonia. I genitori di Vangie si sarebbero stabiliti presso dei parenti. Si erano accordati perché dopo la cremazione, che avrebbe avuto luogo nel New Jersey, l'urna fosse rispedita per la tumulazione nella tomba di famiglia. Finalmente Chris poté congedarsi. Erano appena passate le undici quando arrivò al Circolo di ginnastica di Minneapolis, proprio in centro, e con l'ascensore salì al quattordicesimo piano. E lì, nel solarium, ordinò un Bloody Mary e se lo portò accanto all'apparecchio telefonico. Quando gli risposero dallo studio del professor Salem, disse: «Sono il marito di Vangie Lewis. Ho bisogno di parlare immediatamente con il professore». «Sono spiacente», rispose l'infermiera, «il professore è partito da poco per recarsi al congresso dell'Associazione dei medici, a New York. Tornerà la settimana prossima.» «New York.» Chris assimilò l'informazione. «Può dirmi dove lo potrei trovare, per piacere? Può darsi che debba mettermi in contatto con lui.» L'infermiera esitava. «Ritengo di poterglielo dire, perché so di sicuro che il professore desiderava vederla. Mi aveva chiesto di cercare il suo numero telefonico del New Jersey e so che ha portato con sé la cartella e le analisi
di sua moglie. Ma, nel caso non riuscisse a trovarla, lei può telefonargli all'Essex House di Central Park South, a New York. Camera 3219.» Chris aveva estratto da uno scompartimento del portafogli l'agendina e ripetendo il numero e l'indirizzo annotò tutto rapidamente. L'inizio della pagina era già scritto: c'era l'indirizzo di Edna Burns e le istruzioni per raggiungere il suo appartamento a Edgeriver. 32 A mezzogiorno Scott convocò nel suo ufficio le stesse quattro persone che avevano partecipato un giorno e mezzo prima alla riunione in cui si era discusso della morte di Vangie Lewis. L'atmosfera che vi si respirava era alquanto diversa: entrando nell'ufficio Katie avvertì la maggior tensione. Scott ordinò a Maureen di tenersi pronta con carta e penna. «Faccio portare dei panini», disse. «Devo tornare in tribunale all'una e mezzo e dobbiamo agire rapidamente nei confronti del comandante Lewis.» Katie non si era sbagliata: il procuratore stava prendendo di mira Chris. Guardò Maureen, che era avvolta in un'aureola di nervosismo quasi visibile. È cominciato stamattina quando le ho dato quell'incarico, pensò. La ragazza colse il suo sguardo e le rivolse un mezzo sorriso. Katie annuì: «Ehm... Il solito». Poi aggiunse: «Hai avuto fortuna con quella telefonata?» Maureen guardò Scott, che però stava esaminando una pratica e la ignorava. «Non molta, finora. Il dottor Fukhito non è membro dell'Associazione medica americana, né dell'Associazione dei medici della contea. Dedica gran parte del suo tempo ai bambini con disturbi mentali della clinica psichiatrica di Valley Pines. Devo telefonare all'Università del Massachusetts: ha studiato medicina là.» «Chi te l'ha detto?» chiese Katie. Maureen esitò: «Ricordo di averlo sentito da qualche parte.» Katie avvertì una certa evasività nella risposta, ma, prima che potesse approfondire, Richard, Charley e Phil fecero il loro ingresso nell'ufficio. Sbrigarono in fretta le ordinazioni per lo spuntino e Richard portò una sedia accanto a Katie. Appoggiò il braccio sulla sedia di lei fino a toccarle la nuca; le dita calde e forti le massaggiarono per un attimo i muscoli del collo: «Accidenti», disse, «quanto sei tesa».
Scott sollevò lo sguardo dalla pratica che stava esaminando, grugnì e cominciò a parlare. «Bene, ormai sapete tutti che il bambino di cui Vangie Lewis era incinta aveva caratteristiche orientali. Ciò apre due possibilità. La prima: nell'imminenza della nascita, è possibile che la donna, colta dal panico, si sia uccisa. Doveva essere terrorizzata sapendo che non avrebbe mai potuto contrabbandare il bambino come figlio di suo marito. La seconda possibilità è che Christopher Lewis avesse scoperto che la moglie lo tradiva e perciò l'abbia uccisa. Seguiamo questa ipotesi. Supponiamo che sia rincasato di sorpresa lunedì sera. Hanno bisticciato. Perché lei aveva intenzione di tornare di corsa a Minneapolis? Per paura di lui? Fatto rilevante, Lewis non ha mai ammesso che sua moglie avesse intenzione di tornare dai suoi e lei aveva programmato di andarsene prima che il marito rientrasse dal suo viaggio. A quanto dice Katie, lo psichiatra assicura che quando è uscita dal suo studio era sull'orlo di una crisi isterica.» «Lo psichiatra giapponese», sottolineò Katie. «Ho appena incaricato Maureen di raccogliere delle informazioni sul suo conto.» Scott la guardò. «Vuoi dire che secondo te c'era qualche cosa tra lui e Vangie?» «Io non voglio dire proprio niente, per ora», rispose Katie. «Il fatto che sia un orientale non significa che Vangie non potesse conoscere un altro asiatico. Tuttavia, una cosa posso affermare: ieri, quando gli ho parlato, era chiaramente nervoso e assai guardingo nelle sue risposte. Sono sicura che non mi ha detto tutta la verità.» «Il che ci porta a Edna Burns», fece Scott. «Che cosa ci dici in merito, Richard? È caduta o l'hanno spinta?» Il medico legale si strinse nelle spalle. «Non si può escludere che sia caduta. Il tasso di alcool nel sangue era di zero virgola venticinque. Era partita. Ed era una donna pesante.» «Ma non si dice che gli ubriachi e i bambini cadono sempre senza farsi male?» azzardò Katie. Richard scosse la testa. «Può anche essere vero per quanto riguarda il fatto di non rompersi per esempio una gamba, ma non funziona quando uno va a sbattere il cranio contro un oggetto appuntito di metallo. Direi che se non salta fuori qualcuno che confessa di aver ucciso Edna, noi non riusciremo mai a dimostrarlo.» «Ma è possibile che sia stata assassinata?» insistette Scott. Richard si strinse nelle spalle. «Certo.» «E l'hanno sentita parlare con Chris Lewis a proposito di un Principe
Azzurro.» Katie parlava lentamente. Stava pensando all'affascinante psichiatra: una come Edna lo avrebbe definito un Principe Azzurro? E sarebbe stata capace di telefonare a Chris dopo la morte di Vangie per dirgli che sospettava una relazione? «Non lo credo», disse. Gli uomini la guardarono con aria interrogativa e il procuratore chiese: «Che cosa non credi?» «Non credo che Edna fosse cattiva. So che non lo era. Secondo me non avrebbe mai telefonato a Chris Lewis, dopo la morte di Vangie, allo scopo di ferirlo raccontandogli che sua moglie lo tradiva.» «Forse le faceva tanta pena che ha voluto fargli capire che in fondo non aveva perso niente», ipotizzò Richard. «O magari cercava soltanto di rimediare qualche dollaro», azzardò Charley. «Forse Vangie le aveva detto qualche cosa lunedì sera. Forse era al corrente del loro litigio e ne conosceva anche il motivo. Edna Burns non aveva un soldo: a quanto pare, non aveva ancora terminato di pagare le spese mediche per i suoi genitori, morti da un paio d'anni. Magari ha pensato che non ci fosse niente di male a farsi dare qualche dollaro da Lewis. Ha minacciato di andare alla polizia.» «Ha detto che aveva qualche cosa da raccontare alla polizia», corresse Katie. «Almeno, questa è la versione della moglie del custode.» «Bene», disse Scott. «Veniamo alla perquisizione in casa Lewis. Che cosa avete scoperto?» Charley si strinse nelle spalle. «Non molto, finora. C'è un numero telefonico con il prefisso 612 scarabocchiato sul taccuino accanto al telefono in cucina. Non è il numero dei genitori di Vangie, questo lo sappiamo. Pensavamo di provare a chiamarlo da qui. Forse Vangie si confidava con un'amica, l'aveva messa a parte dei suoi progetti. L'altra cosa è che si era strappata il vestito che aveva indosso con una vanga che sporgeva dallo scaffale del garage.» «Che cosa intendi per 'il vestito che aveva indosso'?» chiese Scott. «Il vestito con il quale l'hanno trovata. Non si poteva non notarlo. Era una tunica lunga con uno di quei motivi indiani stampati.» «Dove sono gli abiti che indossava?» chiese il procuratore a Richard. «Probabilmente ancora in laboratorio», rispose questi. «Li abbiamo esaminati secondo la prassi.» Scott prese il taccuino con il numero che Charley gli aveva dato e lo lanciò a Katie. «Perché non provi adesso a fare quel numero? Se ti risponde una donna, forse ne cavi qualche cosa.»
Katie formò il numero. Dopo un attimo di silenzio si udì la suoneria. «Studio del professor Salem.» «È uno studio medico», bisbigliò lei, coprendo con la mano il ricevitore. E alla persona che le aveva risposto: «Forse mi può aiutare. Sono Kathleen DeMaio, della contea di Valley, nel New Jersey, ufficio della procura. Stiamo conducendo una indagine sulla morte della signora Vangie Lewis, avvenuta lunedì scorso, e abbiamo trovato il numero del professore sul suo taccuino». Fu interrotta: «Che combinazione! Ho appena finito di parlare con il comandante Lewis. Stava cercando il professore. Come ho già detto a lui, il professore è in viaggio per New York dove parteciperà al congresso dell'Associazione dei medici. Può trovarlo più tardi all'Essex House Hotel a Central Park South.» «Bene. Lo chiameremo.» Poi volle fare un altro tentativo e aggiunse: «Lei sa niente della telefonata della signora Lewis? Parlò con il professore?» «No. Non ha parlato con lui. Ha parlato con me. Aveva telefonato lunedì e parve così delusa quando le dissi che non avrebbe potuto trovarlo fino a mercoledì. Le fissai un appuntamento d'emergenza per mercoledì perché il professore sarebbe ripartito subito e la signora diceva che doveva assolutamente vederlo.» «Ancora una domanda», disse Katie. «Qual è la specializzazione del professor Salem?» Il tono della donna vibrò di orgoglio: «Oh, è un ginecologo di fama». «Ho capito. La ringrazio. Lei mi è stata di grande aiuto.» Katie riattaccò e riferì la conversazione ai presenti. «E Chris Lewis era informato di questo appuntamento», osservò Scott, «sicché adesso vuole parlare con il professore. Sono impaziente di riuscire a trovarlo stasera: avremo un sacco di domande da fargli.» Bussarono alla porta e Maureen entrò senza attendere risposta. Portava un vassoio di cartone con le tazze di caffè e un sacchetto pieno di panini. «Katie», disse, «è arrivata quella telefonata da Boston a proposito del dottor Fukhito. Vuoi rispondere?» Katie annuì; Richard sollevò il ricevitore e glielo porse. Mentre aspettava che le passassero la comunicazione, Katie cominciò a rendersi conto di una strisciante e persistente emicrania. Battendo la testa contro lo sterzo, l'urto non era stato tanto violento da provocare una commozione cerebrale, eppure, pensandoci, in quegli ultimi giorni l'emicrania l'aveva sempre infa-
stidita. Sto semplicemente funzionando a tre cilindri, si disse. C'erano tante cose che la tormentavano. Che cosa stava cercando di ricordare, per esempio? Un fatto, forse un'impressione. Spiegò chi era e la misero subito in comunicazione con il capo del personale della facoltà di medicina, all'Università del Massachusetts. La voce dell'interlocutore era guardinga: «Sì, il dottor Fukhito si è laureato in questa università qualificandosi tra i primi del suo corso. Ha lavorato come interno al Massachusetts General e in seguito è diventato effettivo, pur svolgendo anche la professione privata. Ha lasciato l'ospedale sette anni fa». «Perché se ne andò?» chiese Katie. «Tenga presente che si tratta di un'indagine giudiziaria. Tutte le informazioni che ci fornirà saranno considerate confidenziali, però dobbiamo appurare se nel passato del dottor Fukhito c'è qualche fatto di cui dovremmo essere al corrente.» Dopo una breve pausa di silenzio, il capo del personale rispose: «Sette anni fa chiedemmo al dottor Fukhito di dimettersi e per un anno fu sospeso dall'albo del Massachusetts. Era stato ritenuto colpevole di comportamento contrario all'etica professionale in un processo che era stato intentato contro di lui». «Di che cosa era accusato?» chiese Katie. «Una sua ex paziente lo aveva citato in giudizio dichiarando che l'aveva indotta a una relazione personale con lui mentre l'aveva in cura. Era divorziata da poco e psicologicamente stava attraversando un periodo molto difficile. In conseguenza della relazione, la signora era rimasta incinta del dottor Fukhito.» 33 Molly sfaccendava in cucina, contenta che i bambini fossero di nuovo tutti a scuola. Anche Jennifer, dodici anni, quella mattina stava abbastanza bene e aveva insistito perché la lasciassero andare. «Sei identica a Katie», l'aveva rimproverata la madre, «quando ti metti in testa una cosa. Be', va bene, però non puoi andarci a piedi, fa troppo freddo. Ti accompagno io in macchina.» Bill sarebbe andato a New York solo nel pomeriggio per seguire uno dei seminari del congresso dell'Associazione dei medici. Si stavano godendo la rara opportunità di chiacchierare in pace. Lui, seduto al tavolo, sorseggiava il caffè e Molly preparava la verdura. «Sono sicura che Katie e Richard si troveranno bene con i Berkeley», stava dicendo lei. «Jim è intelli-
gente e spiritoso. Come mai la maggior parte di quelli che lavorano nella pubblicità è così interessante?» «Perché il loro capitale è costituito dalle parole», azzardò Bill. «Anche se devo dire che ne ho conosciuto qualcuno con cui non sarei disposto a perdere altro tempo.» «Ah, certo», convenne Molly distrattamente. «Be', purché Liz non passi tutta la serata a parlare della bambina... Benché debba riconoscere che sta migliorando. L'altro giorno, quando le ho telefonato per invitarli, mi ha intrattenuto solo venti minuti parlandomi dell'ultima bravura di Maryanne... che, tra parentesi, consiste nello sputare la sua pappa di orzo per tutta la stanza quando la imboccano. Delizioso, vero?» «Certo che lo è, quando si tratta della tua prima bambina e l'hai desiderata per quindici anni», commentò lui. «Se non ricordo male, ogni volta che Jennifer starnutiva tu lo scrivevi nel suo 'diario del bebé'!» Molly cominciò a tagliare le coste di sedano. «Ricordati che quando tua zia mi regalò un diario analogo per i gemelli, non lo scartai neppure... Comunque, dovrebbe andare bene. E poi, può darsi che tutte le chiacchiere di Liz a proposito della bambina abbiano un qualche effetto su Katie e Richard.» Bill inarcò le sopracciglia. «Molly, ci vai con la delicatezza di un martello pneumatico. Faresti meglio a stare attenta, altrimenti quelli cominceranno a non sopportarsi.» «Sciocchezze! Non hai visto come si guardano? Sotto sotto c'è qualcosa e non solo sotto sotto. Dio mio, Richard mi ha telefonato ieri sera chiedendo se c'era Katie; poi mi ha domandato se lei aveva qualche cosa. Dovevi sentire com'era preoccupato! Ti dico che è pazzo di lei, ma è abbastanza intelligente da non dimostrarlo per non farla scappare.» «Gli hai parlato dell'operazione?» «No. Katie mi ha fatto una ramanzina l'altra mattina quando le ho chiesto se gliel'aveva detto. Com'è vero Dio, se pensi a come la maggior parte delle donne mette tutto in piazza, ormai! Ma non potrebbe dire a Richard: 'Ho questo problema, è una seccatura, mia mamma doveva farsi un raschiamento ogni due anni circa e pare che io sia fatta nello stesso modo'? Invece, quel poveretto è chiaramente preoccupato che ci sia qualcosa di serio e non mi sembra leale comportarsi così nei suoi confronti.» Bill si alzò, si avvicinò al lavello e sciacquò tazza e piattino prima di metterli nella lavastoviglie. «Credo che tu non ti sia mai resa conto di quanto Katie abbia sofferto per la perdita dei due uomini che amava e su
cui faceva affidamento... vostro padre quando aveva otto anni e poi John quando ne aveva ventiquattro. Mi fa pensare all'ultima scena di Via col vento, quando Rhett dice a Rossella: 'Ti ho dato il cuore e l'hai spezzato. Poi l'ho dato a Diletta e l'ha spezzato. Non correrò il rischio una terza volta'. Il problema di Katie è un po' lo stesso, ma francamente credo che debba risolverlo da sola. Non può aiutarla il fatto che tu le svolazzi sopra come un'aquila sui suoi piccoli. Niente mi piacerebbe di più che vederla mettersi con Richard Carroll. Sarebbe l'uomo giusto per lei.» «E gioca a golf con te», interloquì Molly. Lui annuì. «Sì, anche questo.» Prese un gambo di sedano e cominciò a rosicchiarlo. «Comunque da' retta a me. Se Katie non vuole che Richard sappia dell'operazione, non dirgli niente. Non sarebbe leale verso di lei. Se Richard continua a preoccuparsi per lei, questo dovrebbe pure farle capire qualche cosa. Tu li hai fatti incontrare. Adesso...» «Adesso sparisci», sospirò Molly. «Qualcosa del genere. E domani sera, quando Katie entra in ospedale, tu e io ce ne andiamo al Met. Sono mesi che ho preso i biglietti per l'Otello e non ho nessuna intenzione di cambiarli. Sabato mattina, quando uscirà dalla sala operatoria, tu ci sarai, ma intanto non le farà male desiderare di aver qualcuno accanto a sé. Può darsi che venerdì sera ci faccia sopra un pensierino.» «Lasciarla entrare in ospedale da sola?» protestò Molly. «Da sola», rispose Bill irremovibile. «Ormai è cresciuta.» Squillò il telefono. «Prega Iddio che non sia l'infermiera della scuola che ci avverte che uno dei bambini sta di nuovo male», brontolò Molly; quindi rispose con un cauto: «Pronto». Poi la sua voce si animò. «Salve, Liz. Adesso non mi dire che vuoi disdire l'invito di questa sera.» Rimase un attimo in ascolto, poi ancora: «Ma, per amor del cielo, portala. Hai il passeggino pieghevole... Certo, la mettiamo in camera mia e starà benissimo... Ma naturale che non ci bado. Così se si sveglia la portiamo giù e la facciamo partecipare alla festa. Sarà come tornare ai vecchi tempi, qui da noi... Ottimo. Ci vediamo alle sette. Ciao». Abbassò il ricevitore. «La baby-sitter che solitamente va da loro l'ha avvertita all'ultimo minuto che non può e Liz ha paura di lasciare la bambina con una che non conosce, perciò la porta.» «Bene.» Bill consultò l'orologio della cucina. «Sarà meglio che vada, si sta facendo tardi.» Baciò Molly sulla guancia. «Vuoi smetterla di preoccuparti per la sorellina?»
Lei si morse le labbra. «Non posso. Ho questa strana sensazione, come se dovesse succederle qualche cosa.» 34 Rientrato nel suo ufficio, Richard rimase a lungo a guardare dalla finestra. La vista che si godeva da lì era sotto un certo aspetto più piacevole di quanto si vedeva dall'ufficio di Scott. Accanto all'angolo nord-est della prigione locale era visibile uno scorcio del piccolo parco situato di fronte al palazzo di giustizia. Solo parzialmente consapevole di quanto vedeva, rimase a osservare le raffiche di nevischio colpire l'erba ghiacciata e già scivolosa. Che splendido tempo, pensò. Alzò lo sguardo verso il cielo, dove si stavano addensando nuvole grevi di neve. Con il volo delle due e mezzo la salma di Vangie Lewis sarebbe partita da Minneapolis alla volta di Newark. Sarebbero andati a ritirarla alle sette e l'avrebbero portata all'obitorio, dove l'indomani lui avrebbe proceduto a un nuovo esame. Non che si aspettasse di trovare qualcosa oltre a quanto sapeva già. Poteva escludere con certezza la presenza di ematomi. Tuttavia, qualcosa alla gamba o al piede sinistro aveva in un primo tempo richiamato la sua attenzione, qualcosa che poi aveva tralasciato, ritenendolo non importante. Rimosse quel pensiero. Era inutile starci a rimuginare finché non avesse riesaminato la salma. Certo, Vangie era stata un tipo molto emotivo. Possibile che fosse stata spinta al suicidio da Fukhito? Se aspettava un bambino da lui, il medico doveva essere terrorizzato: come dottore avrebbe chiuso se avessero scoperto che era di nuovo implicato in una storia con una paziente. Ma Chris Lewis aveva un'altra donna: una buona ragione per desiderare di sbarazzarsi della moglie. E se fosse stato al corrente della sua relazione? A quanto pareva, neppure i genitori di Vangie sapevano che lei progettava di tornare a Minneapolis. Possibile che avesse sperato di partorire con l'aiuto dell'ostetrico di quella città e di mettere la cosa a tacere? Forse avrebbe raccontato di aver perso il bambino. La volontà di salvare il suo matrimonio avrebbe potuto spingerla a tanto. Oppure sé avesse capito che il divorzio era inevitabile, allora la prova incontrovertibile della sua infedeltà avrebbe pesato negativamente sulle conseguenti disposizioni legali. Istintivamente, sentiva che nessuna di quelle ipotesi era giusta. Sospirando, Richard chiamò Marge al telefono interno. Quando era tor-
nato dalla riunione nell'ufficio di Scott lei era a colazione, perciò non gli aveva ancora riferito le chiamate. Marge entrò con un fascio di foglietti in mano. «Niente di importante», lo informò. «Però c'è stata una chiamata appena lei è uscito per recarsi dal procuratore Myerson. Un certo professor Salem. Non ha chiesto specificamente di lei: voleva il medico legale. Poi ha domandato se avevamo eseguito l'autopsia di Vangie Lewis. Ho risposto che lei era il medico legale e che l'aveva eseguita personalmente. Stava andando all'aeroporto, ma la prega di chiamarlo verso le cinque all'Essex House di New York. Pareva ansioso di parlarle.» Richard strinse le labbra in un fischio muto. «Sono io ansioso di parlare con lui», disse. «Ah, ho ricevuto le statistiche relative alle pazienti di ostetricia al Westlake», aggiunse Marge. «Negli otto anni da che funziona il Programma Maternità Westlake sono morte sedici pazienti, di parto o di tossicosi gravidica.» «Sedici?» «Sedici», ripeté Marge con enfasi. «Comunque, la clientela è molto vasta. Il dottor Highley è considerato un ottimo specialista. Alcune delle gravidanze portate a termine sono quasi miracolose e tutte le donne decedute erano state avvertite da altri medici che avrebbero avuto gravidanze ad alto rischio.» «Dovrò studiare tutti i casi di decesso», disse Richard, «ma se chiediamo a Scott di acquisire all'inchiesta tutte le cartelle cliniche dell'ospedale, li metteremo sul chi vive e non voglio ancora arrivarci. C'è altro?» «Può darsi. In questi otto anni due persone hanno sporto denuncia contro il dottor Highley: entrambi i processi si sono conclusi con un non luogo a procedere. E c'è stato anche un cugino della moglie di Highley il quale ha dichiarato di non credere che sua cugina fosse morta per crisi cardiaca. La procura ha interrogato il medico personale della signora e questi ha detto che il cugino era matto. Se Winifred Westlake non avesse sposato il dottor Highley, il cugino sarebbe stato il suo unico erede, perciò questo può spiegare il suo tentativo.» «Chi era il medico personale di Winifred Westlake?» «Il dottor Alan Levine.» «È un internista di prim'ordine», osservò Richard. «Bisognerà che gli parli.» «Che cosa ne dice dei tipi che hanno denunciato il dottor Highley? Vuo-
le sapere chi sono?» «Certo che lo voglio.» «Me l'immaginavo. Ecco.» Richard lesse i due nomi sul foglio che Marge gli porgeva. Anthony Caldwell, Old Country Lane, Peapack, N.J. e Anna Horan, 415 Walnut Street, Ridgefield Park, N.J. «Hai fatto un buon lavoro, Marge», disse. Lei annuì: «Lo so», ribatté in tono soddisfatto. «A quest'ora Scott è in tribunale. Vuoi lasciargli un messaggio, pregandolo di chiamarmi quando tornerà in ufficio? A proposito, di' a quelli del laboratorio che voglio che i vestiti di Vangie Lewis siano pronti in modo che si possa rivestirla domani mattina presto. Tutti gli esami devono essere completati entro oggi pomeriggio.» Marge uscì, lasciando Richard a sbrigare il lavoro che era accumulato sulla sua scrivania. Erano passate le quattro quando Scott ritelefonò. Richard gli comunicò la sua decisione di interrogare gli autori delle denunce contro Highley, ma lui chiaramente non ne rimase impressionato. «Sta' a sentire, al giorno d'oggi non esiste medico, a prescindere dalle sue capacità, che non venga colpito da denunce di questo genere. Tanto per dire, se fosse ancora vivo il dottor Schweitzer dovrebbe anche lui, in mezzo alla giungla, difendersi da questa iattura. Ma va' pure avanti in quella direzione, se ci tieni. Quando sarai pronto acquisiremo gli archivi dell'ospedale. M'interessa andare a fondo sul numero elevato di decessi tra le donne del reparto ostetricia, benché forse lo si possa spiegare. La persona in questione tratta soprattutto gravidanze ad alto rischio.» La voce di Scott si fece più cupa: «Soprattutto m'interessa quello che ha da dirci il dottor Salem. Dopo aver parlato con lui, vieni da me, poi entro in ballo io. Tra tutti e due, Richard, credo che metteremo a carico di Chris Lewis un processo indiziario così ben congegnato da costringerlo a confessare. Sappiamo che non ha alibi per lunedì sera, quando sua moglie è morta. Sappiamo che Edna Burns gli ha telefonato martedì sera. Adesso sappiamo che il funzionario delle pompe funebri lo ha lasciato prima delle nove, martedì sera. Dopo di che è rimasto solo e sarebbe potuto benissimo uscire. Mettiamo che sia andato a trovarla. È abile e Charley mi dice che ha un sacco di arnesi nel suo garage. Edna era ubriaca fradicia, si può dire, quando gli ha telefonato, questo ce l'hanno detto i vicini. Mettiamo che sia arrivato in macchina fino a casa sua, abbia forzato la serratura, sia entrato
nell'appartamento e abbia dato uno spintone alla povera signora prima che lei se ne accorgesse. Francamente, è così che la vedo e stasera lui sarà qui e dovrà raccontarci come sono andate le cose». «Può darsi che tu abbia ragione», disse Richard. «Però io voglio controllare quella gente.» Trovò il dottor Levine proprio mentre questi stava lasciando il proprio studio. «Beviamo qualcosa insieme», propose Richard. «Non ti prenderò più di un quarto d'ora.» Si diedero appuntamento al Parkwood Country Club: era comodo per entrambi e aveva il vantaggio di essere molto tranquillo nei giorni feriali. Avrebbero potuto parlare nel bar senza preoccuparsi di essere sentiti o senza essere interrotti continuamente da qualche conoscente. Alan Levine era il sosia di Jimmy Stewart a cinquantacinque anni, particolare questo che gli conquistava i suoi pazienti più anziani. I rapporti tra i due medici erano improntati alla piacevole cordialità di due professionisti che si rispettano a vicenda: bevevano qualcosa insieme se le loro strade s'incrociavano, si salutavano calorosamente da lontano sui campi di golf. Richard entrò in argomento senza preamboli: «Per varie ragioni ci stiamo interessando del Westlake Hospital. Winifred Westlake era tua paziente. Suo cugino ha cercato di insinuare che non morì di una crisi cardiaca. Che cosa mi puoi dire in proposito?» Alan Levine lo guardò negli occhi, sorseggiò il suo martini, lanciò un'occhiata attraverso l'ampia finestra al canale gelato e coperto di neve e strinse le labbra. «A questa domanda devo rispondere su due livelli», rispose lentamente. «Primo: sì, Winifred era mia paziente. Per anni aveva avuto una quasi ulcera. In particolare, aveva tutti i sintomi classici dell'ulcera duodenale, nonostante non risultasse mai nelle radiografie. Quando, periodicamente, accusava dolori, le facevo fare la solita radiografia, che risultava negativa, prescrivevo la dieta per l'ulcera e quasi immediatamente lei stava meglio. Insomma, era una cosa da poco. «Poi, l'anno prima che facesse la conoscenza di Highley e lo sposasse, ebbe una grave gastroenterite che effettivamente modificò il suo elettrocardiogramma. La feci ricoverare per sospetta crisi cardiaca. Ma dopo due giorni di degenza l'elettrocardiogramma tornò su valori normali.» «Perciò, potrebbe aver avuto un'insufficienza cardiaca come potrebbe non averla avuta?» chiese Richard. «Io non credo che l'avesse. Non si rivelò mai negli esami normali. Ma sua madre era morta di cuore a cinquantotto anni. E Winifred ne aveva
quasi cinquantadue quando morì. Era più vecchia di Highley di una decina d'anni, capisci. Diversi anni dopo il suo matrimonio cominciò a venire da me con più frequenza, accusando sempre dolori al petto, ma gli esami non rivelavano niente di significativo. Le dissi di stare attenta alla dieta.» «E quando ebbe l'attacco fatale?» chiese Richard. L'altro annuì. «Una sera, durante la cena, ebbe un collasso. Edgar Highley telefonò immediatamente alla segreteria telefonica. Diede il mio numero, il numero dell'ospedale, disse di chiamare la polizia. Da quanto mi fu detto, Winifred si era accasciata al tavolo della sala da pranzo.» «Eri presente al momento del decesso?» s'informò Richard. «Sì. Highley stava ancora cercando di rianimarla, ma non c'erano speranze. Morì alcuni minuti dopo il mio arrivo.» «E sei convinto che si trattò di insufficienza cardiaca?» chiese Richard. Di nuovo percepì un niente di esitazione. «Da un paio d'anni lamentava dolori al petto. Non tutti i vizi cardiaci risultano dall'elettrocardiogramma. Nei due anni antecedenti alla morte soffriva periodicamente di pressione alta. Ed è fuori discussione che i disturbi cardiaci sono ereditari. Sì. A quell'epoca ero convinto.» «A quell'epoca.» Richard sottolineò le parole del collega. «Immagino che l'assoluta convinzione espressa dal cugino secondo il quale c'era qualche cosa che non andava in quella morte mi abbia turbato in questi tre anni. Praticamente lo buttai fuori dal mio studio quando venne e giunse ad accusarmi di aver falsificato gli atti. Lo vedevo come il parente deluso che odia il tipo che ha preso il suo posto nella successione ereditaria. Ma Glenn Nickerson è un brav'uomo. È allenatore al liceo di Parkwood e adesso i miei figli vanno lì. Sono tutti entusiasti di lui. È un uomo molto premuroso per la sua famiglia, attivo nella sua chiesa, membro del consiglio comunale; certamente non il tipo che parte in quarta se lo diseredano. E di certo doveva sapere che Winifred avrebbe lasciato tutto al marito: era pazza di lui, anche se non ne ho mai capito il perché. Highley è un pezzo di ghiaccio come ne ho conosciuti pochi.» «Capisco che non ti piaccia.» Alan Levine vuotò il suo bicchiere. «Non mi piace per niente. Hai letto sul Newsmaker quell'articolo che parla di lui? È uscito proprio oggi. Ne fa una specie di semidio. Diventerà ancora più insopportabile, immagino. Ma una cosa devo riconoscergliela: è un ottimo medico.» «Ottimo al punto da riuscire a indurre con mezzi chimici un infarto in sua moglie?»
Il dottor Levine lo guardò con franchezza. «In coscienza, mi sono spesso pentito di non avere insistito per procedere all'autopsia.» Richard fece un cenno al cameriere per il conto. «Mi sei stato di grande aiuto, Alan.» L'altro si strinse nelle spalle. «Non capisco in che modo. A che cosa ti potrà servire quanto ti ho detto?» «Per il momento, parlare con qualcuno mi suscita delle intuizioni. Dopo, chissà?» All'ingresso del bar si separarono. Richard si frugò in tasca cercando un po' di spiccioli, poi si diresse verso il telefono pubblico e formò il numero dell'Essex House di New York. «Il professor Emmet Salem, per favore.» Ci fu il rumore lacerante di un telefono d'albergo che suonava. Tre, quattro, cinque, sei volte. Poi il centralinista l'interruppe: «Spiacente, non risponde nessuno». «È sicuro che il professor Salem sia arrivato?» chiese Richard. «Sì, signore. Ha chiamato apposta per dire che aspettava una telefonata importante e voleva esser sicuro che gliela passassero. Questo è successo solo venti minuti fa. Ma probabilmente ha cambiato idea o qualcosa del genere. Perché stiamo chiamandolo proprio nella sua stanza e non risponde nessuno.» 35 Terminata la riunione da Scott, Katie chiamò nel suo ufficio Rita Castile, con la quale si mise a esaminare il materiale che le sarebbe stato necessario per i processi che l'aspettavano. «Per quella rapina a mano armata del 28», disse, «abbiamo un imputato che si è fatto tagliare i capelli la mattina successiva al fatto. Ci servirà la deposizione del barbiere. Non c'è da meravigliarsi che i testimoni non siano riusciti a identificarlo. Anche se gli abbiamo fatto mettere una parrucca mentre era in fila con gli altri, il risultato non poteva essere lo stesso.» «Bene.» Rita annotò l'indirizzo del barbiere. «È un gran peccato che tu non possa dire ai giurati quanti precedenti ha come delinquente minorile.» «È la legge», sospirò Katie. «Spero proprio che un giorno o l'altro la smetterà di farsi in quattro per proteggere i criminali. Per il momento mi pare non ci sia altro, ma dato che non verrò per tutto il fine settimana, la prossima settimana sarà un caos. Tienti pronta.» «Non verrai?» Rita inarcò le sopracciglia. «Be', era ora. Sono un paio di
mesi che non ti concedi tutto un fine settimana di vacanza. Spero che avrai in programma di andare da qualche parte a divertirti.» Katie abbozzò una specie di sorriso. «Non so quanto sarà divertente. A proposito, Rita, ho il sospetto che Maureen abbia qualche cosa che la sconvolge, oggi. Non voglio fare la ficcanaso, ma sai se c'è qualche cosa che non va? È ancora depressa per la rottura con il suo fidanzato?» Rita scosse la testa. «No, affatto. Era solo una cosa da ragazzi e lei lo sapeva. La solita storia che si trascina da quando avevano quindici anni, con l'anello di fidanzamento la sera del ballo scolastico. L'estate scorsa entrambi si sono resi conto di non essere maturi per il matrimonio. Lui adesso è all'università, perciò, nessun problema.» «Allora perché ha un'aria così infelice?» chiese Katie. «Un rimpianto», rispose Rita semplicemente. «Più o meno nel periodo in cui ruppero il fidanzamento lei si accorse di essere incinta e abortì. Ciò le ha lasciato un grosso senso di colpa. Mi ha raccontato che sogna sempre il bambino, lo sente piangere e lo cerca. Dice che farebbe qualsiasi cosa per non aver abortito, anche se poi avrebbe dato il bambino in adozione.» Katie rammentò quanto avesse sperato di concepire un figlio da John e la sua irritazione, dopo la morte di lui, ai commenti secondo i quali poteva ritenersi fortunata di non ritrovarsi con il peso di un bambino. «La vita è così assurda», osservò. «Si resta incinte quando non si dovrebbe e poi è così facile fare uno sbaglio che bisognerà sopportare per tutto il resto della vita. Comunque, questo spiega tutto. Ti ringrazio di avermelo raccontato: temevo di essere stata io a ferirla in qualche modo.» «Tu non c'entri per niente», disse Rita. Raccolse i fascicoli che Katie le aveva affidato e si congedò: «Va bene. Farò notificare questi mandati di comparizione e mi metterò alla ricerca del barbiere». Rimasta sola, Katie si appoggiò allo schienale e cominciò a riflettere. Voleva parlare ancora con Gertrude Fitzgerald e con Gana Krupshak. La Fitzgerald ed Edna erano state amiche, facevano spesso colazione insieme. E la Krupshak andava di frequente a trovarla la sera. Poteva darsi che Edna avesse detto qualche cosa a proposito di Fukhito e di Vangie Lewis a una di loro. Valeva la pena di fare un tentativo. Telefonò al Westlake Hospital e le fu detto che la signora Fitzgerald era a casa in malattia. Si fece dare il suo numero telefonico privato. Quando la donna rispose, capì immediatamente che era ancora sconvolta. La sua voce era fievole e tremula. «Ho la mia solita emicrania, signora DeMaio», disse, «e non è affatto strano. Ogni volta che penso a come l'abbiamo trovata, po-
vera Edna...» «Stavo per proporle di incontrarci, qui o a casa sua», spiegò Katie. «Ma domani sarò tutto il giorno in udienza, perciò penso che dovremo rimandare a lunedì. Però avrei da chiederle una cosa, signora Fitzgerald. Ha mai sentito Edna chiamare uno dei medici con cui lavorava 'Principe Azzurro'?» «Principe Azzurro?» ripeté la donna alquanto stupita. «Principe Azzurro? Dio mio. Il dottor Highley o il dottor Fukhito? E a chi mai verrebbe in mente di chiamare l'uno o l'altro così? Santo cielo, no.» «Benissimo, era solo un'idea.» Katie la salutò, quindi compose il numero della signora Krupshak. Le rispose il custode: la moglie era fuori, spiegò, e sarebbe stata di ritorno verso le cinque. Katie consultò l'orologio: le quattro e mezzo. «Crede che le seccherebbe se tornando a casa mi fermassi a parlare qualche minuto con lei?» «Faccia un po' come le pare», rispose l'uomo secco, poi aggiunse: «A che punto siete con l'appartamento della Burns? Ci vuole molto prima che sia sgomberato?» «In quell'appartamento non si può entrare né toccare niente finché questo ufficio non lo autorizza», ribatté pronta Katie. Riattaccò, mise alcune pratiche nella borsa e s'infilò il cappotto. Aveva appena il tempo di fermarsi a parlare con la signora Krupshak prima di andare a casa a cambiarsi. Non voleva fare tardi da Molly, quella sera: aveva bisogno di una buona notte di sonno prima dell'operazione e sapeva che in ospedale non avrebbe dormito bene. Era appena in anticipo sul traffico della sera e la moglie del custode era già tornata quando suonò alla sua porta. «Però, che tempismo!» esclamò la Krupshak vedendola. Lo choc conseguente alla scoperta del corpo di Edna aveva già cominciato ad attenuarsi ed era chiaro che a quel punto cominciava a godersi l'eccitazione dell'inchiesta giudiziaria. «Questo è il mio pomeriggio della tombola», spiegò. «Quando ho raccontato alle mie amiche che cosa era successo quasi non riuscivano più a tenere in mano le cartelle.» Povera Edna, pensò Katie. Ma poi si rese conto che sarebbe stata felice di essere al centro di un'animata discussione. La signora Krupshak la fece accomodare in un soggiorno a L, immagine speculare di quello in cui era vissuta Edna e che lei aveva arredato con un antiquato divano di velluto, due poltrone a schienale rigido e uno sbiadito
tappeto orientale. Come Edna, l'appartamento aveva una sua innata dignità. La moglie del custode aveva un divano imitazione pelle con una poltrona, un enorme tavolino basso il cui tocco finale era costituito da un centrotavola di fiori di plastica, messo esattamente nel mezzo, e uno scialle dai toni autunnali appeso sopra il divano a riprendere i toni ferocemente brillanti del tappeto. Katie si sedette. Che cattivo gusto, rifletté, che mancanza di fantasia; eppure tutto è lindo e confortevole e si ha la sensazione che, anche se suo marito è un uomo brusco e poco socievole, Gana Krupshak sia una donna felice. E a quel punto si chiese perché tutt'a un tratto le interessasse tanto definire la felicità. Scrollando mentalmente le spalle, tornò alle domande che aveva in mente di rivolgere. «Signora Krupshak», cominciò, «abbiamo già parlato ieri sera, ma naturalmente lei era sotto choc. Forse adesso potrebbe rivedere con me molto attentamente quello che è successo martedì sera: quanto tempo è rimasta con Edna, di che cosa avete parlato, se ha avuto l'impressione, quando l'ha sentita parlare con il comandante Lewis, che stessero fissando un appuntamento.» La donna si accomodò meglio sulla sua sedia, lasciò vagare lo sguardo dietro Katie, socchiuse gli occhi e si morse le labbra. «Be', vediamo un po'. Sono andata da Edna alle otto in punto, perché Gus ha cominciato a guardare il basket alla televisione e io ho pensato: al diavolo il basket, vado un momentino da Edna e ci facciamo una birra.» «E c'è andata», l'incoraggiò Katie. «Ci sono andata. Solo che Edna aveva preparato una caraffa di Manhattan e ne mancava già circa la metà, perciò era piuttosto partita. Capisce, qualche volta le capitava di avere le paturnie, era depressa, per intenderci, e ho pensato che quella sera fosse così. Per esempio, giovedì scorso era il compleanno di sua madre, io sono passata un attimo a trovarla e lei stava piangendo, ripeteva che la mamma le mancava tanto. Ora, non voglio dire che lo facesse pesare agli altri, assolutamente, ma quando mi sono affacciata giovedì stava seduta con le foto dei suoi in mano, la scatola dei gioielli sulle ginocchia e le lacrime le rigavano le guance. L'ho abbracciata e ho detto: 'Edna, adesso ti verso un bel Manhattan e facciamo un brindisi alla tua mamma. Se lei fosse qui, si unirebbe a noi'. Insomma, capisce, scherzavo per alzarle il morale e lei si riprendeva. Così martedì sera, quando sono andata da lei e l'ho vista un po' partita, ho pensato che avesse ancora il magone, che si sentisse sola.» «Martedì sera le ha detto che era ancora depressa?» chiese Katie.
«No, no. Cioè. Era come eccitata. Mi ha farfugliato qualcosa a proposito di una paziente che era morta, bella come una bambola, e quant'era stata male e che lei, voglio dire Edna, poteva raccontarne di belle alla madama su quella donna.» «Poi che cosa è successo?» «Be', mi sono fatta un paio di Manhattan con lei, poi ho ritenuto meglio andarmene perché Gus si arrabbia se non sono a casa quando lui va a letto. Ma mi spiaceva che Edna continuasse a bere, perché sapevo che la mattina dopo sarebbe stata proprio male, perciò ho preso quella bella scatola di prosciutto, l'ho aperta e gliene ho tagliato qualche fetta.» «Ed è stato allora che lei ha telefonato?» «Esattamente come le ho raccontato ieri sera.» «E ha parlato al comandante Lewis del Principe Azzurro?» «Dio m'è testimone.» «Benissimo, ma c'è un'ultima cosa, signora Krupshak: sa se Edna conservasse come ricordo alcuni capi di abbigliamento di sua madre?» «Abbigliamento? No, aveva una bella spilla di diamanti e un anello.» «Sì, sì, li abbiamo trovati ieri sera. Ma... be', per esempio, mia madre conservava per motivi sentimentali nel suo armadio un vecchio cappello di feltro nero di sua madre. Nel cassetto dove Edna teneva i gioielli ho notato un vecchio mocassino. Era molto malridotto. Gliel'ha mai mostrato o gliene ha mai parlato?» Gana Krupshak guardò Katie negli occhi. «Assolutamente no», rispose senza ombra di dubbio. 36 Il Newsmaker con l'articolo era uscito il giovedì mattina. Appena era arrivato in studio dopo il parto della signora Aldrich, erano cominciate le telefonate e lui aveva dato disposizione alla centralinista di passargliele direttamente. Voleva sentire i commenti ed essi avevano superato ogni sua aspettativa. «Professore, vorrei un appuntamento. Mio marito e io desideriamo tanto un bambino. Posso prendere l'aereo per venire quando le fa più comodo. Dio la benedica per quello che sta facendo.» Avevano chiamato dalla facoltà di medicina di Dartmouth: il professore avrebbe accettato di tenere una lezione da loro? Un giornalista del Ladies' Home Journal chiedeva di intervistarlo. E quelli dell'Eyewitness News volevano sapere se il professor Highley e il dottor Fukhito avrebbero accettato di comparire in-
sieme nel loro programma. Quest'ultima richiesta lo aveva turbato. Aveva messo ogni attenzione per dare alla giornalista del Newsmaker l'impressione che si avvalesse di numerosi psichiatri, un po' come l'avvocato di famiglia accetta che i suoi clienti consultino uno qualsiasi di una dozzina di loro consiglieri. Aveva chiaramente lasciato capire che il programma era sotto il suo esclusivo controllo e non frutto di un lavoro di équipe. Ma la giornalista aveva avuto il nome di Fukhito da diverse pazienti sicure che lui le aveva indicato perché potesse intervistarle e nell'articolo rappresentava Fukhito come lo psichiatra che assieme al professor Highley aveva la responsabilità del Programma Maternità Westlake. Fukhito sarebbe rimasto sconvolto da tanta pubblicità. In realtà era proprio quello il motivo per cui l'aveva scelto, perché Fukhito sarebbe stato costretto a tenere la bocca chiusa anche qualora avesse cominciato a sospettare qualcosa. La sua posizione non era tale da consentire che il benché minimo scandalo investisse il Westlake, in quanto personalmente ciò l'avrebbe rovinato per sempre. Fukhito stava diventando un bel peso. Sarebbe stato abbastanza facile sbarazzarsi di lui, a quel punto. Stava dedicando molto del suo tempo a un lavoro volontario nella clinica di Valley Pines, dove certamente avrebbe potuto ormai essere regolarmente assunto. Probabilmente Fukhito sarebbe stato contento di avere un posto in cui rimanere nell'ombra. E lui avrebbe potuto cominciare a passare da uno psichiatra all'altro; a quel punto ne conosceva parecchi talmente incompetenti da non essere in grado di analizzare nessuno e che lui avrebbe raggirato con facilità. Fukhito doveva andarsene. Presa la decisione, aveva fatto entrare la prima paziente. Era alla prima visita, come del resto le due pazienti successive. La terza era un caso interessante di utero retroverso che non sarebbe mai arrivata al concepimento senza un intervento. Sarebbe stata la sua prossima Vangie. La telefonata era arrivata a mezzogiorno, proprio mentre stava uscendo per la colazione. L'infermiera di servizio al centralino si era scusata: «Professore, è una teleselezione di un certo professor Emmet Salem da Minneapolis. Telefona dall'aeroporto e insiste per parlare con lei subito.» Emmet Salem! Aveva afferrato il ricevitore: «Sono Edgar Highley». «Professor Highley.» La voce era fredda come il ghiaccio. «Il professor
Highley che era al Christ Hospital di Devon?» «Sì.» Una paura gelida, sgradevole, gli rendeva la lingua pesante e le labbra come di gomma. «Professor Highley, ho saputo ieri sera che lei aveva in cura una mia ex paziente, la signora Vangie Lewis. Io sto partendo, sarò a New York all'Essex House Hotel. Devo avvertirla che è mia intenzione parlare con il medico legale del New Jersey a proposito della morte della signora Lewis. Ho con me la cartella clinica della paziente. Per correttezza le propongo di vederci e di parlarne prima che io formuli delle accuse,» «Professore, il suo tono e le sue insinuazioni sono offensive.» A quel punto riusciva a parlare, la voce dura come schegge di granito. «L'aereo sta partendo. Sarò nella stanza 3219 dell'Essex House Hotel poco prima delle cinque. Può telefonarmi lì.» La comunicazione era stata interrotta. Stava aspettando nell'Essex House quando Emmet Salem emerse dal taxi. Sparì rapidamente nell'ascensore e salì al trentaduesimo piano, oltrepassò la camera 3219 seguendo il corridoio che girava ad angolo retto. Un altro ascensore si fermò al piano. Sentì il rumore di una chiave che girava nella toppa e un facchino disse: «Eccoci qua, professore». Un minuto dopo l'uomo uscì: «Grazie, signore». Aspettò fino a quando sentì il facchino risalire in ascensore. I corridoi erano silenziosi, ma non lo sarebbero rimasti per molto. Molti dei delegati al congresso dell'Associazione dei medici probabilmente scendevano lì e c'era sempre il pericolo di incappare in qualcuno che conosceva. Ma doveva correre il rischio, doveva far tacere Salem. Aprì rapido la borsa di pelle e ne estrasse il fermacarte con il quale solo quarantott'ore prima aveva pensato di mettere a tacere Edna. Assurdo, impossibile... che lui, il medico, quello che guarisce, fosse ripetutamente costretto a uccidere. Fece scivolare il fermacarte nella tasca del cappotto, si mise i guanti, afferrò con mano ferma la borsa e bussò. Emmet Salem spalancò la porta. Si era tolto la giacca. «Dimenticato qualche cosa?» Poi la voce gli morì sulle labbra. Chiaramente si era aspettato di ritrovarsi davanti il facchino. «Professor Salem!» Tese la mano per afferrargli la sua. Al tempo stesso avanzò nella stanza, costringendo l'altro, più anziano, a indietreggiare; quindi richiuse la porta dietro di sé. «Sono Edgar Highley. Felice di rive-
derla! Lei ha interrotto la telefonata così bruscamente che non ho potuto dirle che sono qui a cena con parecchi colleghi che partecipano al congresso. Ho solo qualche minuto, ma sono sicuro che potremo chiarire ogni cosa.» Continuava ad avanzare, costringendo l'altro a indietreggiare. La finestra alle spalle di Salem era spalancata, probabilmente se l'era fatta aprire dal facchino. La camera era molto calda. Il davanzale era basso. I suoi occhi si strinsero. «Ho cercato di telefonarle, ma il telefono della sua camera era isolato.» «Impossibile, ho appena parlato con il centralino.» Il professor Salem si irrigidì, il viso di colpo sospettoso. «Allora mi scuso. Ma non c'è problema. Sono soltanto ansioso di esaminare con lei la cartella della Lewis: l'ho qui con me nella borsa.» Afferrò il fermacarte che gli pesava nella tasca, poi gridò: «Professore, attento, dietro di lei!» L'altro girò su se stesso. Il fermacarte, stretto nel suo pugno, calò pesantemente sul cranio di Salem, che crollò contro il davanzale della finestra. Edgar Highley si ficcò di nuovo il fermacarte in tasca, poi con le mani unite intorno a un piede di Salem lo sollevò e lo spinse verso l'esterno. «No, no, per pietà.» L'uomo, stordito dal colpo ricevuto, scivolò dalla finestra. Senza alcuna emozione, Highley seguì la caduta del corpo, che atterrò sul tetto di un'ala aggiunta, circa quindici piani più giù, con un tonfo sordo. Qualcuno aveva visto? Comunque doveva affrettarsi. Dalla giacca di Salem, distesa sul letto, trasse un mazzo di chiavi. La più piccola apriva la ventiquattr'ore appoggiata sulla rastrelliera portabagagli. La cartella di Vangie Lewis era in cima; la prese e la infilò nella propria borsa, chiuse di nuovo con la chiave la ventiquattr'ore di Salem e rimise il mazzo delle chiavi nella tasca della giacca. Poi prese il fermacarte che aveva in tasca e infilò anche quello nella borsa: dalla ferita non era sprizzato sangue, ma il fermacarte era vischioso. Chiuse la borsa e si guardò rapidamente attorno. La stanza era in perfetto ordine, nessuna traccia di sangue sul davanzale della finestra. Gli ci erano voluti meno di due minuti. Socchiuse la porta cautamente e guardò fuori: il corridoio era vuoto. Uscì. Mentre richiudeva la porta, il telefono nella camera di Salem si mise a squillare. Ritenne un'imprudenza prendere l'ascensore a quel piano. Il Newsmaker
aveva pubblicato una sua fotografia assieme all'articolo. Ci sarebbe stata un'indagine. Qualcuno avrebbe potuto riconoscerlo. All'estremità del corridoio c'era la scala antincendi. Scese quattro piani, fino al ventottesimo, dove rientrò nel corridoio moquettato. Un ascensore si stava fermando al piano e quella volta lo prese, facendo scorrere un rapido sguardo sugli altri passeggeri: parecchie donne, una coppia di adolescenti, una coppia anziana. Ma nessun medico, ne era certo. Raggiunse la hall, si diresse rapidamente verso l'uscita che dava sulla Cinquantottesima, girò a ovest, poi a sud. Dieci minuti dopo ritirava la sua macchina dal parcheggio automatico della Cinquantaquattresima ovest, chiudeva la borsa nel portabagagli e si allontanava. 37 Chris arrivò all'aeroporto Twin Cities all'una meno dieci. Mancava un'ora alla partenza del suo volo per Newark. Il corpo di Vangie sarebbe stato messo su quell'aereo; il giorno prima, scendendo lì, non era riuscito a pensare ad altro che a quella bara nella stiva dell'aereo. Si era aggrappato a qualche parvenza di normalità adagiandosi nel pensiero rassicurante che presto tutto sarebbe finito. Doveva vedere il professor Salem. Non riusciva a comprendere il motivo di tanto turbamento. Quella sera, al suo arrivo a Newark, il medico legale sarebbe stato in attesa del corpo di Vangie. E l'ufficio della procura avrebbe aspettato lui. Quella certezza lo ossessionava. Del resto, era ovvio. Qualunque sorta di sospetti nutrissero sulla morte di Vangie, si sarebbero rivolti a lui per averne spiegazioni. Sarebbero stati ad aspettarlo per portarlo in ufficio e interrogarlo. Potevano addirittura arrestarlo. Se avevano fatto delle indagini, ormai sapevano che era ritornato lunedì sera nel New Jersey. Ma doveva vedere il professor Salem, e se lo avessero trattenuto per interrogarlo, forse non avrebbe più avuto la possibilità di parlargli. D'altra parte non intendeva parlare del professor Salem con quelli della procura. Ancora una volta pensò a Molly e Bill Kennedy. Che importanza aveva che lei fosse la sorella di Katie DeMaio? Erano brave persone, sincere e leali. Si sarebbe dovuto fidare, confidarsi con loro. Aveva un bisogno assoluto di parlare con qualcuno. Doveva parlare con Joan. Il bisogno di lei diventò acuto. Nell'attimo stesso in cui avesse comincia-
to a dire la verità, l'avrebbe coinvolta. Joan, che in un mondo così inconsistente conservava intatti i suoi principi, stava per essere trascinata nel fango. Aveva il numero di telefono della hostess che era con lei in California. Senza sapere che cosa avrebbe detto, chiamò, automaticamente diede il numero della sua carta di credito e rimase in attesa. Gli rispose Kay Corrigan. «Kay, c'è Joan? Sono Chris.» Kay sapeva di lui e Joan; la sua voce era preoccupata. «Chris, Joan ha cercato tanto di telefonarti. Ha telefonato Tina dall'appartamento di New York. I funzionari della procura della contea di Valley sono andati in giro a fare un sacco di domande su voi due. Joan è terrorizzata!» «Quando torna?» «Adesso è nel nuovo appartamento e non c'è telefono. Da lì deve andare all'ufficio del personale della compagnia a Miami. Non sarà qui prima delle otto stasera, più o meno.» «Dille di rimanere a casa e di aspettare la mia telefonata», rispose Chris. «Dille che devo parlarle. Dille...» Fu lui a interrompere la comunicazione, crollando poi sul telefono e cercando di dominare i singhiozzi. Oh, Dio, era troppo, tutto era troppo. Non riusciva a pensare, non sapeva che cosa fare. Ancora poche ore e lo avrebbero arrestato, sospettandolo di aver ucciso Vangie... forse accusandolo di aver ucciso Vangie. No, forse c'era una via d'uscita. Doveva prendere il primo aereo per New York, aeroporto La Guardia. Poteva ancora farcela. Poi sarebbe andato a Manhattan e avrebbe potuto vedere il professor Salem più o meno al suo arrivo all'albergo. Quelli della procura fino alle sei non avrebbero capito che non aveva preso il volo per Newark e forse in qualche modo il professore avrebbe potuto aiutarlo. Riuscì miracolosamente a imbarcarsi per New York: in classe turistica non c'era più posto, ma prese un biglietto di prima classe e riuscì a partire. E non si preoccupò per il suo bagaglio, già registrato e in volo per Newark. In aereo accettò dalla hostess qualcosa da bere, rifiutò il cibo e distrattamente si mise a sfogliare l'ultimo numero del Newsmaker. Nella pagina dedicata a Scienza e Medicina lo sguardo gli cadde su un titolo: «Il Programma Maternità Westlake, una nuova speranza per le coppie sterili». Westlake. Lesse il primo paragrafo: «Da otto anni una piccola clinica privata del New Jersey ha avviato quello che viene chiamato il Programma Maternità Westlake, che ha reso possibile il concepimento in donne prima sterili. Il programma, che prende nome da un eminente ginecologo del
New Jersey, è seguito dal professor Edgar Highley, un ginecologo che era il genero del dottor Franklin Westlake...» Il professor Edgar Highley. Il medico di Vangie. Strano che non gli avesse mai parlato molto di lui; parlava sempre dello psichiatra. «Il dottor Fukhito e io abbiamo parlato di mamma e papà oggi... ha detto che si vede che sono figlia unica... Il dottor Fukhito mi ha chiesto di dipingergli mamma e papà come li vedo io; è stata una cosa affascinante. Il dottor Fukhito ha chiesto di te, Chris.» «E tu, che cosa gli hai detto, Vangie?» «Che mi adori. Perché mi adori, vero Chris? Voglio dire, malgrado quel tuo modo di criticarmi e di rimproverarmi, è vero che sono la tua bambina, no?» «Preferirei che tu pensassi di essere mia moglie, Vangie.» «Lo vedi, con te non si può dire niente. Diventi subito cattivo...» Si domandò se la polizia avesse interrogato l'uno o l'altro dei medici di Vangie. Nell'ultimo mese, le sue condizioni erano peggiorate. Le aveva proposto di chiedere un consulto, con specialisti che il medico della compagnia avrebbe potuto indicarle. Anche Bill Kennedy sarebbe stato certamente in grado di consigliarle qualche medico del Lenox Hill. Ma naturalmente lei aveva rifiutato il consulto. Poi, per conto suo, aveva fissato un appuntamento con il professor Salem. L'aereo atterrò alle quattro e mezzo. Chris attraversò rapidamente il complesso aeroportuale e uscendo fece cenno a un taxi. Una delle poche cose buone che gli erano capitate in quella giornata disgraziata era che aveva un certo vantaggio rispetto all'ora di punta, le cinque. «L'Essex House Hotel, per favore», disse al conducente. Erano esattamente le cinque e due minuti quando vi arrivò e si diresse subito verso un telefono nella hall. «Il professor Salem, per favore?» «Subito, signore.» Una pausa, poi: «Occupato, signore». Riappese con un certo sollievo: se non altro il professore era in albergo e gli sarebbe stato possibile parlargli. Si ricordò di aver annotato il numero della camera del professore nella sua agendina, lo cercò e quella volta formò lui stesso il 3219. Il telefono suonò... ancora... e ancora. Alla sesta volta, interruppe e chiamò il centralino: spiegò che pochi minuti prima il telefono era occupato e lo pregò di riprovare.
Notò un'esitazione, poi la voce del centralinista che parlava con qualcun altro e infine la risposta: «L'ho appena detto a un'altra persona che chiedeva di lui. Il professor Salem è arrivato in albergo, si è messo in contatto con me per avvertire che aspettava una telefonata importante e voleva esser sicuro che gliela passassimo, poi a quanto pare dev'essere uscito. Perché non riprova tra qualche minuto?» «Va bene, grazie, farò così.» Indeciso, Chris riattaccò, si diresse a una poltrona di fronte agli ascensori sud e si sedette. Gli ascensori si aprivano e scaricavano clienti, poi si riempivano un'altra volta e scomparivano con un succedersi di bagliori sul pannello dei piani. Gli occupanti scaricati dopo uno dei viaggi dell'ascensore attrassero la sua attenzione: qualcuno aveva un'aria vagamente familiare. Che fosse il professor Salem? Li esaminò rapidamente tutti: tre donne, alcuni adolescenti, una coppia anziana, un uomo di mezza età con il bavero del cappotto rialzato. No, niente professor Salem. Alle cinque e mezzo riprovò. Poi alle sei meno un quarto. Alle sei e sei minuti sentì dei bisbigli serpeggiare nella hall, come lingue di fuoco. «Qualcuno è caduto da una finestra. Il corpo è stato individuato sul tetto dell'ala aggiunta.» Da un punto imprecisato sulla Central Park South l'ululato di un'ambulanza e le sirene delle macchine della polizia cominciarono a prendere consistenza, frenetiche esplosioni sempre più vicine. Con la certezza della disperazione, Chris si avvicinò al tavolo del concierge. «Chi è stato?» Il tono tagliente, autoritario, di chi ha il diritto di sapere. «Il professor Salem. Era un pezzo grosso dell'Associazione dei medici. Camera 3219.» Con l'andatura misurata di un automa, Chris arrivò alla porta girevole e uscì dall'ingresso che dava sulla Cinquantottesima. Un taxi stava incrociando verso est; lo chiamò, salì e si abbandonò contro lo schienale, chiudendo gli occhi. «L'aeroporto La Guardia, per favore», disse. «Linee nazionali.» C'era un volo per Miami alle sette, poteva farcela appena appena. Nel giro di tre ore sarebbe stato con Joan. Doveva raggiungerla, cercare di farle capire prima che lo arrestassero. 38
La dodicenne Jennifer spalancò la porta mentre Katie stava risalendo il sentiero. «Ciao, Katie.» La voce era allegra, l'abbraccio pieno di calore. Si sorrisero. Con i suoi occhi di un azzurro intenso, i capelli scuri e la carnagione olivastra, Jennifer era una copia più giovane di Katie. «Ciao, Jennie. Come ti senti?» «Benissimo. Ma tu? Ero così in pena quando la mamma mi ha raccontato dell'incidente. Sei sicura di stare bene, adesso?» «Mettiamola così: la prossima settimana sarò in gran forma.» Poi, cambiando discorso: «C'è già qualcuno?» «Tutti. C'è anche il dottor Richard... Lo sai che cosa ha chiesto prima di tutto?» «No.» «'È già arrivata Katie?' Giurerei che si è preso una cotta per te, Katie. Anche il papà e la mamma ne sono convinti, ho sentito che ne parlavano. E tu? Hai una cotta per lui?» «Jennifer!» Un po' divertita e un po' irritata, Katie salì la breve scalinata che portava al salotto sul retro, poi si voltò per chiedere: «E i fratelli?» «La mamma li ha spediti con una baby-sitter a mangiare da McDonald e poi al cinema. Ha detto che la bambina dei Berkeley non avrebbe mai dormito con i gemelli in giro.» «Buona idea», mormorò Katie, avviandosi lungo il corridoio. Dopo la breve visita a Gana Krupshak era tornata a casa a farsi una doccia e a cambiarsi. Era uscita alle sette meno un quarto, pensando che di lì a poco Chris Lewis avrebbe subito un interrogatorio nell'ufficio di Scott... Come si sarebbe giustificato per aver taciuto che lunedì sera si trovava nel New Jersey? Perché non l'aveva subito ammesso spontaneamente? Si domandò se Richard avesse già parlato con il medico del Minnesota. Forse quel colloquio avrebbe chiarito molte cose. Si ripromise di chiederglielo in separata sede. Strada facendo, aveva deciso di non pensare a tutta quella storia per il resto della serata. Forse dimenticarla per un po' l'avrebbe aiutata a ritrovare quei fili inafferrabili che continuavano a sfuggirle... Quando entrò nel salotto, Liz e Jim Berkeley erano seduti sul divano e le voltavano le spalle. Molly stava passando i salatini. Bill e Richard, in piedi accanto alla finestra, parlavano. Katie studiò Richard: indossava un completo blu scuro gessato che non gli aveva mai visto; per la prima volta notò qualche striatura grigia nei suoi capelli bruni. Le dita che reggevano il bicchiere a stelo erano lunghe e affusolate. Strano come in quell'ultimo anno
lo avesse visto come un insieme, senza notarne mai i particolari. Le parve di essere stata fino a quel momento una macchina fotografica bloccata su una posizione e di ricominciare appena allora a mettere a fuoco le cose. Richard aveva un aspetto serio, la fronte corrugata. Katie si domandò per un momento se stesse raccontando a Bill la faccenda del feto Lewis, ma subito scartò l'idea: lui non ne avrebbe discusso neppure con Bill. In quel momento lui si voltò e la vide. «Katie.» Il suo sorriso si accordava con l'intonazione lieta della voce. Si affrettò ad andarle incontro: «Avevo l'orecchio teso per sentire il campanello». Quante volte, negli ultimi tre anni, entrando in una casa aveva fatto la parte della spaiata, la sola, tra tante coppie. Ma quella sera Richard era rimasto in attesa di lei, tendendo l'orecchio per sentirla arrivare. Prima che avesse il tempo di analizzare i propri sentimenti, Molly e Bill la salutarono affettuosamente, Jim Berkeley si era alzato e c'era in atto la solita confusione dei saluti. Mentre passavano nella sala da pranzo, riuscì a chiedere a Richard se avesse potuto parlare con il professor Salem. «No. Sembra che alle cinque l'abbia mancato per poco. Poi ho riprovato dal mio ufficio alle sei, ma non ha risposto nessuno. Ho lasciato il numero di qui al centralino dell'albergo e alla mia segreteria telefonica. Sono molto ansioso di sapere che cosa ha da dirci.» Come per tacito accordo, nessuno di loro accennò al suicidio della Lewis fin quasi alla fine della cena, quando Liz Berkeley disse: «Che fortuna. Devo riconoscere che sono stata con il fiato sospeso per paura che Maryanne si svegliasse e cominciasse a fare storie. Povera cocca, ha le gengive così gonfie e proprio non sta bene». Jim Berkeley rise. Era un bell'uomo bruno con gli zigomi alti, occhi di carbone e sottili sopracciglia nere. «Quando Maryanne era appena nata, Liz la svegliava ogni quarto d'ora per essere sicura che respirasse. Ma da quando ha cominciato a mettere i denti Liz è diventata come tutte le madri.» Imitò la voce della moglie: «Zitti, fate piano, non svegliate la bambina». Sua moglie, un tipo alla Carol Burnett, di una magrezza angolosa, con un viso aperto e simpatico dagli scintillanti occhi scuri, gli rivolse una smorfia: «Dovete riconoscere che sto tornando alla normalità. Ma questa bambina per noi è un miracolo. Io avevo quasi deposto ogni speranza. Abbiamo anche cercato di adottarne una, ma ormai proprio non ci sono bambini in condizioni di adottabilità. E, soprattutto, considerato che siamo tutti
e due vicini ai quaranta, ci avevano detto di scordarcelo. Poi è venuto il professor Highley. Fa miracoli, quell'uomo». Katie vide gli occhi di Richard stringersi. «Lo pensa veramente?» chiese. «Assolutamente. Voglio dire, il professor Highley non è esattamente la persona più cordiale che ci sia...», cominciò Liz. «Quello che vuoi dire è che è un bastardo pieno di sé e una faccia da poker», la interruppe il marito. «Ma chi se ne frega? L'importante è che conosce il suo mestiere e devo dire che ha seguito Liz in un modo straordinario. L'ha ricoverata in ospedale e l'ha tenuta a letto per quasi due mesi prima del parto, controllandola personalmente tre o quattro volte al giorno.» «Segue così tutte le gravidanze difficili», disse Liz, «non soltanto la mia. State a sentire, io per quell'uomo prego tutte le sere. Non so spiegarvi quale differenza la bambina abbia portato nella nostra vita. E non vi fate ingannare da questo signore.» Fece un cenno in direzione del marito. «Si alza dieci volte la notte per essere sicuro che Maryanne sia coperta e che non le arrivi una corrente d'aria. Di' la verità...», continuò guardandolo, «prima, quando sei andato in bagno, non sei passato a darle un'occhiata?» Lui rise. «Certo che ci sono passato.» Molly disse ad alta voce quello che Katie stava pensando: «Vangie Lewis avrebbe fatto lo stesso con il suo bambino». Richard guardò Katie con aria interrogativa e lei scosse la testa. Sapeva che si stava domandando se avesse detto a Molly e Bill che il bambino dei Lewis era orientale. Allontanando deliberatamente la conversazione da Vangie, Richard si rivolse a Jim: «Se non sbaglio, lei viveva a San Francisco. Io ci sono cresciuto. Anzi, mio padre esercita tuttora al San Francisco General». «È una delle città che amo di più», rispose Jim. «Noi ci torneremo presto, vero Liz?» Katie seguiva solo parzialmente la conversazione, intervenendo lo stretto indispensabile a non dare nell'occhio con il suo silenzio. Aveva tante cose su cui riflettere e i pochi giorni che avrebbe passato in ospedale gliene avrebbero dato la possibilità. Si sentiva stordita e stanca, ma non le andava di congedarsi troppo presto per paura di metter fine alla serata. Afferrò l'occasione quando si alzarono da tavola per passare a bere un ultimo bicchiere nel soggiorno. «Credo che vi darò la buona notte», disse. «Devo dire che non ho dormito bene per tutta la settimana e sono distrutta.»
Molly conosceva la ragione di quella partenza affrettata e non protestò. Richard disse: «Ti accompagno alla macchina». «Bene.» L'aria della notte era fredda e Katie rabbrividì mentre si incamminavano lungo il vialetto. Richard fu pronto ad accorgersene e disse: «Katie, sono preoccupato per te. So che non sei nella solita forma. A quanto pare non hai voglia di parlarne, ma almeno ceniamo insieme domani sera. Da come si sta mettendo il caso Lewis, direi che domani in ufficio ci sarà una bella baraonda». «Richard, mi spiace. Non posso. Questo fine settimana sarò fuori.» Si rese conto di aver usato un tono di scusa. «Che cosa? Con tutto quello che sta succedendo in ufficio? Scott lo sa?» «Ho... ho un impegno.» Debole e sciocca come scusa, pensò Katie; e poi tutto questo è ridicolo. Adesso gli dico che devo farmi ricoverare. Il viso di lui, illuminato dalle luci della strada, rivelava inequivocabilmente delusione e disapprovazione. «Richard, non è una cosa cui abbia dato molta pubblicità, ma...» Il portone della casa si spalancò. «Richard, Richard!» La voce di Jennifer era eccitata e incalzante. «Clovis Simmons al telefono.» «Clovis Simmons!» esclamò Katie. «Non è l'attrice di quella serie televisiva?» «Sì. Oh, accidenti, dovevo telefonarle e me ne sono dimenticato. Aspettami, Katie, torno subito.» «No, ci vediamo domani mattina. Tu spicciati.» Katie entrò in macchina e chiuse la portiera. Cercò nella borsetta la chiave dell'accensione, la trovò e mise in moto. Richard rimase un momento indeciso, poi rientrò in fretta in casa, l'orecchio teso al motore della macchina che si allontanava. Il suo «Salve, Clovis» fu piuttosto brusco. «Ah, dottore, che guaio doverti rincorrere, ma avevamo parlato di cena, ricordi?» «Clovis, mi dispiace tanto.» No, cara, sei stata tu a parlare di cena, non io. «Bene, naturalmente adesso è troppo tardi.» Il tono era freddo. «Veramente, sono appena rientrata dalla sala di registrazione e volevo scusarmi nel caso ti fossi tenuto libero per la serata. Avrei dovuto regolarmi meglio.» Richard lanciò un'occhiata a Jennifer, ferma accanto a lui. «Senti, Clovis, lascia che ti chiami domani mattina. Adesso non posso
spiegarti.» Udì lo scatto improvviso della comunicazione interrotta. Richard riappese lentamente. Clovis era arrabbiata, ma soprattutto ferita. Quante volte diamo per scontati i sentimenti degli altri, pensò. Solo perché per me non era una cosa seria, non mi sono preoccupato dei suoi sentimenti. Non gli restava che richiamarla l'indomani, scusarsi ed essere abbastanza leale da dirle che c'era un'altra. Katie. Dove doveva andare per il fine settimana? Che ci fosse un altro, per lei? Aveva un'aria così turbata, così preoccupata. Che non l'avesse mai capita? Aveva attribuito la sua riservatezza, la mancanza di interesse nei suoi confronti al fatto che vivesse ancora nel passato. Ma forse, invece, nella sua vita era entrato qualcun altro. Forse era altrettanto cieco riguardo ai sentimenti di lei di quanto lo era stato con quelli di Clovis. Quella eventualità annullò di colpo il piacere della serata. Doveva scusarsi e andarsene: non era ancora troppo tardi per riprovare a telefonare al professor Salem. Rientrò nel soggiorno dov'erano riuniti Molly, Bill e i Berkeley. Avvolta nella copertina, sulle ginocchia di Liz, c'era la bambina. «Maryanne ha deciso di unirsi alla compagnia», disse Liz. «Come le pare?» E con un sorriso orgoglioso la girò per mostrargliela. Richard fissò i solenni occhi verdi spalancati nel visetto a cuore. Jim Berkeley era seduto accanto alla moglie e Maryanne tese la manina per afferrargli il pollice. Richard contemplava la famigliola. Avrebbero potuto posare per una bella foto di copertina: i genitori sorridenti, il bel pargoletto. I genitori belli, colorito olivastro, occhi scuri, visi quadrati; la bambina chiara di carnagione, biondo rossiccia, con splendidi occhi verdi. A chi pensano di darla a bere? pensò Richard. Quella bambina dev'essere stata adottata. 39 Phil Cunningham e Charley Nugent aspettavano, molto seccati, che gli ultimi ritardatari defluissero attraverso la sala d'aspetto dall'uscita numero 11 dell'aeroporto di Newark. Charley aveva un'espressione più lugubre del solito. «Ecco qua», osservò con una scrollata delle spalle. «Lewis dev'essersi immaginato che lo aspettavamo. Andiamocene.»
Si avviò verso il più vicino telefono a gettone e formò il numero di Scott. «Puoi tornartene a casa, capo», disse. «Al comandante non dev'essere andata l'idea di prendere l'aereo stasera.» «Non c'è? E la bara?» «Quella è arrivata. Gli uomini di Richard la stanno prendendo in consegna. Vuoi che ci tratteniamo? Ci sono uno o due voli non diretti con i quali potrebbe ancora arrivare.» «Scordatelo. Se non si fa vivo domani, emetterò un ordine di comparizione come testimone oculare nei suoi confronti. E domani mattina, per prima cosa, voglio che andiate nell'appartamento di Edna Burns e lo passiate al setaccio.» Charley riappese il ricevitore, poi si rivolse a Phil: «Se conosco bene il capo, direi che domani a quest'ora avrà già firmato un mandato d'arresto contro Lewis». Phil annuì: «E quando avremo messo le mani su Lewis, spero che troviamo qualche cosa per inchiodare lo strizzacervelli, se è stato lui a mettere incinta quella povera figlia». Con passo stanco i due uomini scesero le scale dirigendosi verso l'uscita. Oltrepassarono la zona bagagli, ignorando il piccolo gruppo delle persone in attesa intorno al percorso del nastro trasportatore. Qualche minuto dopo non c'era più nessuno. Un'unica sacca non reclamata continuava a girare sul nastro: un borsone nero, debitamente etichettato, secondo le norme della compagnia aerea: CAPT. CHRISTOPHER LEWIS, 4, WINDING BROOK LANE CHAPIN RIVER, N.J. Nella sacca, infilata all'ultimo minuto, c'era la fotografia che i genitori di Vangie avevano voluto a tutti i costi dare a Chris. Era la fotografia di una giovane coppia in un night. La dedica diceva: «In ricordo del mio primo appuntamento con Vangie, la ragazza che cambierà la mia vita. Con affetto, Chris». 40 Richard telefonò all'Essex House appena rientrato dalla cena dai Kennedy. Ma di nuovo al numero del professor Salem non gli rispose nessuno. Quando la centralinista riprese la comunicazione, chiese: «Sa se il professor Salem ha avuto il mio messaggio? Gli avevo chiesto di telefonarmi. Sono il dottor Carroll».
La voce della donna suonò stranamente esitante: «Controllo subito». Aspettando, Richard allungò la mano per accendere il televisore. Era appena cominciato il telegiornale. La telecamera era puntata su Central Park South. Richard vide profilarsi sullo schermo la pensilina dell'Essex House Hotel. Esattamente mentre la centralinista diceva: «Le passo il mio capo», Richard cominciò ad ascoltare il servizio della giornalista Gloria Rojas: «Questa sera, nel prestigioso albergo Essex House, attualmente quartier generale del congresso dell'Associazione medica americana, un illustre ginecologo di Minneapolis, il professor Salem, ha trovato la morte precipitando, accidentalmente o deliberatamente, dalla finestra della sua camera». 41 Joan Moore sedeva, smarrita, accanto al telefono. «Quando ha detto che avrebbe telefonato, Kay?» chiese con voce tremula, mordendosi un labbro. L'amica la guardò preoccupata. «Te l'ho detto, Joan. Ha telefonato stamattina verso le undici e trenta. Ha detto che si sarebbe messo in contatto con te stasera, che tu restassi a casa ad aspettare la sua telefonata. Sembrava sconvolto.» Il campanello della porta d'ingresso suonò con insistenza, facendola sobbalzare. Kay disse: «Non aspetto nessuno». Ma una specie di istinto fece correre Joan a spalancare la porta. «Chris... Oh, Dio, Chris!» Gli gettò le braccia al collo. Era mortalmente pallido, gli occhi iniettati di sangue, e Joan lo sentì vacillare mentre lo abbracciava. «Chris, che cosa c'è?» «Joan, Joan.» La voce di lui quasi un singhiozzo, il suo abbraccio frenetico. «Non so che cosa stia succedendo. C'è qualche cosa di strano nella morte di Vangie e adesso è morta anche l'unica persona che forse poteva spiegarcelo.» 42 Aveva progettato di tornare direttamente a casa dall'Essex House, ma una volta uscito dal parcheggio, immettendosi nel traffico congestionato dell'autostrada West Side, cambiò idea. Aveva una fame terribile, non aveva mangiato niente in tutto il giorno. Di regola non mangiava mai prima di operare e quella mattina la telefonata di Salem era arrivata proprio quando stava uscendo per recarsi a colazione.
Quella sera non aveva voglia di perdere tempo a prepararsi la cena. Sarebbe andato al Carlyle. E se mai si fosse posta la questione di dove avesse passato la serata, avrebbe potuto in tutta sincerità ammettere di essere stato a New York. Il maître avrebbe vigorosamente assicurato alla polizia che il professor Highley era uno stimato cliente abituale. Avrebbe ordinato salmone affumicato, vellutata di patate, sella di agnello... Aveva già l'acquolina in bocca. Risolto anche quel problema, era necessario compensare quel terribile e improvviso dispendio di energia. E c'era ancora l'indomani. Inevitabilmente alla morte di Kathleen DeMaio sarebbe seguita un'inchiesta molto approfondita; ma il suo ginecologo precedente, ormai in pensione, si era trasferito e non ci sarebbe stato nessuno che potesse metterlo in pericolo, emergendo dal passato con vecchie cartelle cliniche. Dopo sarebbe stato salvo. Proprio in quei giorni, al congresso dell'Associazione medica, era probabile che i colleghi stessero discutendo dell'articolo sul Newsmaker e del Programma Maternità Westlake. Le loro osservazioni avrebbero tradito sfumature di gelosia, naturalmente, ma ciò nonostante non gli sarebbero mancate le offerte di parlare ai prossimi seminari dell'Associazione medica. Ormai era destinato alla fama, mentre colui che avrebbe potuto fermarlo, Salem, era finito. Non vedeva l'ora di esaminare l'anamnesi di Vangie, custodita nel dossier che gli aveva sottratto. Anzi, si riprometteva di inserirla nella propria cartella: avrebbe avuto un valore incalcolabile per le sue future ricerche. L'ultima paziente che aveva visitato per la prima volta quella mattina sarebbe stata la prossima. Accostò davanti al Carlyle. Erano quasi le sei e mezzo; il divieto di parcheggio terminava alle sette, perciò bastava che restasse in macchina fino a quell'ora, il che gli avrebbe oltretutto consentito di calmarsi. La borsa era chiusa nel portabagagli. Conteneva il dossier di Vangie, il fermacarte e la scarpa. Come poteva sbarazzarsi della scarpa e del fermacarte e dove? In uno qualsiasi degli straripanti cesti per i rifiuti della città, dove nessuno sarebbe andato a ripescarli. Li avrebbero portati via il mattino seguente, assieme alle tonnellate di immondizia che si accumulavano ogni ventiquattr'ore in quella città di otto milioni di abitanti, sperduti nel lezzo di cibi in decomposizione e giornali scartati... L'avrebbe fatto tornando a casa, con il favore delle tenebre, senza essere notato da nessuno. Fiducioso nell'evolversi positivo degli eventi, si sentì infondere da un
certo ottimismo e d'un tratto si raddrizzò sul sedile. Sporgendosi un poco, si guardò nello specchietto retrovisore: aveva la pelle lucida, come se stesse trasudando da tutti i pori; le palpebre e la pelle sotto gli occhi rivelavano depositi di grasso; l'attaccatura dei capelli, veramente, non dava ancora segno di retrocedere, ma i capelli biondo rossiccio scuro erano ormai spruzzati d'argento... Cominciava a invecchiare. Quella subdola trasformazione che ha inizio qualche anno dopo i quaranta lo stava attaccando. In effetti aveva quarantacinque anni. Era ancora abbastanza giovane, però era tempo che acquistasse coscienza del rapido trascorrere degli anni. Risposarsi? Procreare figli suoi? Li aveva desiderati, se li era aspettati da Claire; quando non erano venuti, si era sottoposto al conteggio degli spermatozoi, aveva trovato un indice sorprendentemente basso e in segreto si era incolpato di tutti quegli anni di sterilità di Claire. Finché non aveva scoperto che si era presa gioco di lui. L'idea di avere un figlio da Winifred non gli sarebbe spiaciuta, ma lei aveva praticamente superato l'età feconda all'epoca del loro matrimonio. Poi, quando lei aveva cominciato a insospettirsi, non si era più preoccupato di toccarla: quando progetti di eliminare una persona, lei è già morta per te. E il sesso è per i vivi. Quello che ci voleva per lui era una donna più giovane, una donna diversa da Claire e da Winifred. Claire, che lo umiliava, arrogante con i suoi sarcastici commenti sulla farmacia di suo padre; Winifred, la patronessa, con le sue buone cause e le opere di bene. Aveva bisogno di una moglie che oltre a vantare una buona estrazione sociale amasse anche ricevere, viaggiare, coltivare le amicizie. Tutte cose che lui odiava e verso le quali, se ne rendeva conto, non sapeva neppure dissimulare il proprio disprezzo. Ebbene, aveva bisogno di qualcuno che se ne occupasse per lui, migliorando in tal modo la sua immagine. Un giorno avrebbe potuto svolgere il suo lavoro alla luce del sole. Un giorno avrebbe ottenuto la fama che meritava. Un giorno gli sciocchi che liquidavano come impossibile il suo lavoro sarebbero stati costretti a riconoscere il suo genio. Erano le sette. Scese dalla macchina e la chiuse con cura, poi si avviò verso l'ingresso del Carlyle, il bel completo blu scuro sotto il cappotto di cashmere blu, le scarpe discretamente lucidate, i capelli spruzzati d'argento impeccabili malgrado le gelide folate notturne. Il portiere tenne la porta spalancata per lui. «Buona sera, professore.
Gran brutto tempo, vero?» Annuì senza rispondere e si avviò verso la sala da pranzo. Il tavolo in angolo che lui preferiva era prenotato, ma il maitre dirottò rapidamente gli attesi commensali verso un altro tavolo e gli fece strada verso l'angolo. Il vino lo riscaldò e lo calmò. La cena, come si era aspettato, lo rinvigorì. Il caffè e il brandy lo rimisero in perfette condizioni di equilibrio. Il suo cervello era limpido e lucidissimo. Passò in rassegna ogni grado del procedimento che avrebbe condotto Katie DeMaio alla morte per emorragia. Non ci sarebbero stati sbagli. Stava firmando il conto quando il maitre si avvicinò al suo tavolo, il passo insolitamente affrettato, l'atteggiamento nervoso. «Professor Highley, temo che ci sia un guaio.» Le dita rattrappite sulla penna, alzò lo sguardo sul maitre. «Professore, hanno visto un giovanotto che forzava il portabagagli della sua macchina. Il portiere l'ha visto proprio nel momento in cui lo spalancava. Prima che potesse fermarlo, quello ha rubato una borsa. Il poliziotto, qui fuori, crede si tratti di un drogato che ha scelto la sua macchina per via del contrassegno di medico.» Le sue labbra erano come gomma. Difficile formare le parole. Come una macchina per radiografie, passò mentalmente in rassegna il contenuto della borsa: il fermacarte macchiato di sangue, la cartella di Vangie con l'intestazione di Salem, il mocassino. Quando parlò, la sua voce era sorprendentemente ferma: «La polizia ritiene che la mia borsa possa essere recuperata?» «È esattamente quanto ho chiesto, professore. Temo che non lo sappiano neppure loro. Il ladro potrebbe abbandonarla a qualche isolato di distanza, una volta preso ciò che voleva, ma può anche darsi che non la si ritrovi più. Solo il tempo può dirlo.» 43 Prima di coricarsi, Katie preparò una ventiquattr'ore con l'occorrente per la degenza in clinica. Poiché l'ospedale si trovava a metà strada tra l'ufficio e la casa sarebbe stata un'inutile perdita di tempo tornare a prendere il bagaglio. Si accorse che stava svolgendo quei preparativi con un senso di ineluttabilità. Non vedeva l'ora che fosse tutto finito: il fatto di sentirsi fisicamente fuori fase la spossava psichicamente. Uscendo per recarsi da Molly era sta-
ta quasi ottimista, ma a quel punto si sentiva come svuotata, esausta, depressa. Supponeva che tutto dipendesse dalle sue condizioni fisiche. Oppure era il dubbio tormentoso che Richard avesse una relazione con un'altra a favorire quello stato di depressione? Forse, quando non avesse più avuto quella spada di Damocle sulla testa, sarebbe stata in grado di ragionare con maggior chiarezza. Era come se il suo cervello fosse infestato da pensieri incompleti, tormentosi come sciami di zanzare, che si posano e pungono, ma fuggono senza che si possa raggiungerle. Perché aveva la sensazione di perdere il filo di qualche cosa, di non fare le domande giuste, di non saper interpretare i segnali? Ma già lunedì sarebbe stata meglio e avrebbe ragionato a dovere. Stancamente, si fece la doccia, si spazzolò denti e capelli e si coricò. Un minuto dopo, appoggiandosi su un gomito, protese la mano per afferrare la borsetta, dalla quale estrasse la boccetta che le aveva dato il professor Highley. Quasi quasi mi dimenticavo di prenderla, pensò mentre inghiottiva la pillola con un sorso d'acqua dal bicchiere sul suo comodino. Poi spense la luce e chiuse gli occhi. 44 Gertrude Fitzgerald lasciò scorrere l'acqua del rubinetto nella stanza da bagno in modo che fosse ben fredda e aprì la boccetta. L'emicrania cominciava a diminuire. Purché non avesse incominciato a dolerle l'altra parte del capo, la mattina dopo sarebbe stata a posto. Quell'ultima pillola sarebbe dovuta bastare allo scopo. C'era qualcosa che la tormentava... qualche cosa sulla morte di Edna e al di là di quella morte. Aveva a che fare con la telefonata della signora DeMaio. Era stato così assurdo chiederle se Edna avesse mai chiamato il dottor Fukhito o il professor Highley «Principe Azzurro». Una totale idiozia. Sì, però... Principe Azzurro. Edna ne aveva parlato. Non in rapporto con i due medici, ma vi aveva in qualche modo accennato nel corso delle ultime due settimane. Se solo fosse riuscita a ricordarsi. Se la DeMaio le avesse semplicemente chiesto se Edna aveva mai parlato del Principe Azzurro, avrebbe potuto aiutarla a ricordare esattamente. Invece la cosa le sfuggiva, le sfuggivano le circostanze in cui l'amica ne aveva parlato. Oppure se lo stava semplicemente immaginando? La forza della sugge-
stione. Quando le fosse passato il mal di testa sarebbe riuscita a ragionare. A ragionare veramente. E magari a ricordare. Inghiottì la pillola e si mise a letto. Chiuse gli occhi e la voce di Edna le risuonò alle orecchie: E io ho detto che il Principe Azzurro non... Non riuscì a ricordare il resto. 45 Alle quattro del mattino Richard rinunziò ad ogni tentativo di dormire, si alzò e si fece un caffè. Aveva telefonato a casa di Scott per comunicargli la morte di Emmet Salem e il procuratore aveva immediatamente avvertito la polizia di New York della sua disponibilità a collaborare nell'indagine. Più di quello non era stato possibile fare. A Minneapolis la signora Salem non risultava in casa e la segreteria telefonica del professore si limitava a fornire il numero di un sostituto per i casi di emergenza e non dava indicazioni su come rintracciare l'infermiera. Richard cominciò ad annotare qualche punto. 1. Perché il professor Salem ha telefonato al nostro ufficio? 2. Perché Vangie aveva preso appuntamento con lui? 3. La bambina Berkeley. La chiave di tutto era la piccola Berkeley. Il Programma Maternità Westlake era veramente riuscito come si voleva far credere? Oppure era una copertura per le adozioni destinate a donne incapaci di concepire ovvero di portare a termine una gravidanza? E il fatto che venissero ricoverate in ospedale e costrette a letto due mesi prima della supposta data del parto non poteva servire a mascherare quella che sarebbe stata in modo evidente una condizione di non gravidanza? Adottare un bambino non era facile. Liz Berkeley aveva apertamente ammesso di aver tentato quella strada assieme a suo marito. E se Highley avesse detto loro: «Non avrete mai un bambino vostro. Io posso farvene avere uno, ma vi costerà e dovrà essere una faccenda assolutamente riservata»? Loro ci sarebbero stati, ci avrebbe scommesso la testa. Però Vangie Lewis incinta lo era stata davvero, quindi l'ipotesi dell'adozione nel suo caso non funzionava. Pur ammettendo che desiderasse disperatamente un bambino... come diavolo poteva aspettarsi di contrabbandare come figlio di suo marito un bambino orientale? Che potesse esserci sangue orientale nella famiglia di lui o in quella di lei? Non ci aveva mai pen-
sato. I processi per incapacità professionale. Doveva scoprire il motivo per cui Highley era stato trascinato in giudizio da quelle pazienti. E per che cosa Emmet Salem aveva curato Vangie. Nello studio del professore dovevano essere conservate tutte le osservazioni mediche su di lei: da lì bisognava cominciare. Il corpo di Vangie era ritornato con l'aereo che Chris Lewis non aveva preso. Si trovava già nel gabinetto di medicina legale. Il mattino seguente, per prima cosa, avrebbe riesaminato i risultati dell'autopsia, quindi avrebbe studiato di nuovo la salma. C'era qualcosa... in un primo tempo gli era parso irrilevante e l'aveva trascurato; concentrato com'era sull'esame del feto e delle ustioni da cianuro. Era possibile che Vangie si fosse semplicemente versata addosso il cianuro? Forse era spaventosamente nervosa, ma in tal caso sul bicchiere ci sarebbero state più impronte. Lo avrebbe preso, riempito; e ci sarebbe stato qualche cosa, una bustina, una fiala, contenente dell'altro cianuro. Le cose non erano andate così. Alle cinque e mezzo Richard spense la luce; aveva puntato la sveglia alle sette e finalmente si addormentò. E sognò Katie. Era ferma dietro l'appartamento di Edna Burns e guardava nella finestra. E il professor Highley guardava lei. 46 In carattere con la sua professione di contabile, Edna aveva lasciato disposizioni molto precise. Quando gli uomini incaricati della perquisizione, diretti da Phil Cunningham e da Charley Nugent, si misero all'opera nel suo appartamento, quel venerdì mattina, trovarono una semplice dichiarazione nell'antiquato buffet: Poiché i miei consanguinei non si sono mai curati di chiedere notizie o di mandare una cartolina ai miei genitori quando erano malati, ho deciso di lasciare i miei beni terreni alle mie amiche, Gertrude Fitzgerald e Gana Krupshak. Alla signora Fitzgerald lascio il mio anello con brillante e qualsiasi oggetto domestico desideri. Alla signora Krupshak andrà la mia spilla di brillanti, il mio cappotto imitazione pelliccia e tutto ciò che la signora Fitzgerald non desidera. Ho già dato disposizioni per il mio funerale alla ditta che così bene ha curato quello dei miei genitori.
La mia polizza di assicurazione di diecimila dollari, detratte le spese per il funerale, desidero sia devoluta al pensionato nel quale i miei genitori sono stati così bene assistiti e verso il quale sono ancora in debito. Metodicamente gli uomini sparsero la polverina per rilevare le impronte digitali, passarono l'aspirapolvere in cerca di capelli e fibre, scrutarono a palmo a palmo per trovare segni di effrazione. Un grumo di terra sul vaso appoggiato sul davanzale della camera da letto diede da pensare a Phil, il quale girò intorno al palazzo arrivando sul retro, scavò un po' di terra battuta, resa dura dal gelo, e la mise in una busta; poi, con la punta delle dita, spinse la finestra della camera da letto. Una persona di statura media avrebbe potuto agevolmente issarsi sul davanzale. «È possibile», disse Charley. «Qualcuno può essersi introdotto da lì e averla colta di sorpresa. Ma il terreno è talmente gelato che non si riuscirà probabilmente a dimostrarlo.» Da ultimo, suonarono a tutti i vicini del cortile e rivolsero a tutti la stessa, semplice domanda: martedì sera qualcuno aveva notato estranei nelle vicinanze? In realtà, non si aspettavano di cavarne molto. La sera di martedì faceva freddo e non c'era la luna. Gli arbusti non potati, lì accanto, potevano nascondere chi volesse rimanere acquattato accanto al palazzo. Ma all'ultimo appartamento ebbero una fortuna insperata. Un ragazzino di undici anni era appena tornato a casa per il pranzo e li sentì rivolgere la solita domanda alla madre. «Ah, io ho indicato a un tale l'appartamento in cui viveva la signorina Burns», disse. «Ti ricordi, mamma, quando mi hai detto di portare fuori il cane prima di andare a letto, subito dopo Happy Days...» «Cioè alle nove e mezzo», disse la donna, aggiungendo con tono di rimprovero: «Non mi avevi detto di aver parlato con qualcuno». Il ragazzino alzò le spalle. «È stata una cosa da niente. Un tale ha parcheggiato accanto al marciapiede mentre io stavo tornando indietro lungo l'isolato. Mi ha chiesto se sapevo qual era l'appartamento della signorina Burns e io gliel'ho detto. Tutto qui.» «Che aspetto aveva?» chiese Charley. Il ragazzo aggrottò la fronte. «Ah, era simpatico. Aveva i capelli scuri, era alto e la macchina era una bomba. Una Vette, era.» Charley e Phil si guardarono. «Chris Lewis», disse Charley, reciso.
47 Venerdì mattina Katie arrivò in ufficio alle sette e cominciò a riesaminare il materiale del processo di cui si stava occupando. Gli imputati erano due fratelli di diciotto e diciassette anni accusati di aver devastato due scuole appiccando il fuoco in dodici aule. Maureen arrivò alle otto e mezzo con una caffettiera fumante. Katie alzò gli occhi dal fascicolo. «Accidenti, questi due con me non la passeranno liscia», disse. «L'hanno fatto per divertirsi! Quando pensi ai sacrifici di chi paga le tasse per mantenere le scuole dove andranno i loro figli, questa storia ti dà la nausea; è peggio di qualsiasi delitto.» Maureen prese la tazza di Katie e la riempì. «Una di quelle scuole è dalle mie parti e la frequentano i figli dei nostri vicini. Quello di dieci anni aveva appena terminato un progetto per la giornata della scienza. Era fantastico: un impianto di riscaldamento solare. Quel povero bambino ci ha lavorato sopra dei mesi. È finito nel fuoco... non ne è rimasto proprio niente.» Katie annotò qualche cosa in margine alla dichiarazione introduttiva che aveva appena scritto. «Mi hai dato qualche argomento in più. Grazie.» «Katie...» Maureen esitava. Katie alzò lo sguardo a fissare gli occhi verdi, pieni di turbamento. «Sì?» «Rita mi ha detto di averti raccontato del... del bambino.» «Sì, è vero. Mi dispiace moltissimo, Maureen.» «Il fatto è che mi sembra di non riuscire a superarlo. E adesso questa storia di Vangie Lewis... con tutto quello che se ne dice... non fa altro che ricordarmelo. Ho cercato tanto di dimenticarlo...» Katie assentì. «Maureen, avrei dato qualsiasi cosa pur di avere un bambino quando John è morto. Desideravo terribilmente aspettare un figlio suo, perché mi rimanesse qualcosa di lui. Quando penso a tante mie amiche che hanno deciso di non avere bambini o che abortiscono con la stessa disinvoltura con cui vanno dal parrucchiere, mi domando come funzioni la vita. E prego Dio che mi faccia avere un bambino mio, prima o poi. Lo avrai anche tu, naturalmente, e sapremo apprezzarli, proprio perché prima non abbiamo avuto quelli che volevamo.» Gli occhi di Maureen si riempirono di lacrime. «Speriamo. Ma a proposito della storia di Vangie Lewis, il fatto è...» Squillò il telefono e Katie rispose. Era Scott. «Sono contento di trovarti, Katie. Puoi fare un salto da me, un minuto?» «Certo.» Si alzò. «Adesso Scott mi vuole, ma ne parleremo dopo, Mau-
reen.» E impulsivamente l'abbracciò. Il procuratore stava in piedi a guardare dalla finestra, ma Katie era sicura che non vedesse le inferriate del carcere locale. Si voltò quando lei entrò nella stanza. «Hai udienza oggi... i fratelli Odendall?» «Sì. Il processo si mette bene per noi.» «Quanto tempo durerà?» «Quasi tutta la giornata, ne sono sicura. Porteranno testimonianze sul carattere dei ragazzi, cominciando dalle maestre dell'asilo in poi, ma li batteremo.» «Di solito ci riesci, Katie. Hai saputo del professor Salem?» «Intendi dire quel professore di Minneapolis che aveva telefonato a Richard? No, non ho ancora parlato con nessuno, stamattina. Sono andata direttamente nel mio ufficio.» «È caduto, o è stato buttato, da una finestra dell'Essex House ieri sera, alcuni minuti dopo il suo arrivo nell'albergo. Stiamo lavorando in collaborazione con la polizia di New York. E, a proposito, la salma di Vangie Lewis è arrivata ieri sera da Minneapolis, ma Lewis non era su quel volo.» Katie lo fissava. «Che cosa vuoi dire?» «Voglio dire che probabilmente Lewis ha preso il volo per l'aeroporto La Guardia. In tal caso, sarebbe arrivato a New York all'incirca contemporaneamente all'arrivo di Salem all'albergo. Voglio dire che se scopriamo che era in un posto qualsiasi nelle vicinanze di quell'albergo, probabilmente saremo in grado di chiudere questo caso. Non mi piace il suicidio di Vangie Lewis, non mi piace la morte accidentale di Edna Burns e non mi piace l'idea che Salem sia caduto da una finestra.» «Io non credo che Chris Lewis sia un assassino», dichiarò Katie. «Dove pensi che sia, adesso?» Scott si strinse nelle Spalle. «Nascosto a New York, probabilmente. Secondo me quando parleremo con la sua amica ci porterà da lui. E la ragazza torna dalla Florida stasera. Sei reperibile stasera?» Katie esitava. «Proprio questo fine settimana devo andare via. È un impegno che non posso annullare. Ma, Scott, per essere sincera, mi sento talmente uno straccio che non riesco neppure a ragionare come si deve. Porterò a termine questo processo... mi sono preparata bene; ma dopo parto.» Scott la esaminava. «Questa settimana ho continuato a ripeterti che non saresti dovuta venire», osservò, «e ora sei ancora più pallida di martedì
mattina. Va bene, risolvi quel processo e fila. La prossima settimana avremo un sacco di lavoro per il caso Lewis. Esamineremo tutto lunedì. Pensi di esserci?» «Certamente.» «Dovresti sottoporti a un check-up.» «Devo vedere un medico, questo fine settimana.» «Bene.» Scott abbassò lo sguardo sulla scrivania, segno che il colloquio era terminato, e Katie tornò nel suo ufficio. Erano quasi le nove e doveva recarsi in udienza. Mentalmente rilesse la ricetta che il professor Highley le aveva dato. Aveva preso una pillola la sera prima, poi una alle sei del mattino; doveva prenderne una ogni tre ore. Meglio perciò inghiottirne una prima che cominciasse l'udienza. Si aiutò con l'ultimo sorso di caffè rimasto nella tazza sulla sua scrivania, poi riordinò il suo fascicolo. L'angolo appuntito della copertina le ferì il dito. Rimase un momento senza fiato per l'improvviso dolore; poi prese dal primo cassetto della scrivania un fazzolettino di carta, se lo avvolse intorno al dito e si affrettò a uscire. Mezz'ora dopo, mentre assieme a tutti i presenti in aula si alzava all'arrivo del giudice, notò che il fazzolettino era ancora umido di sangue. 48 Edna Burns fu sepolta il venerdì mattina dopo che, alle undici, era stata celebrata una messa funebre nella chiesa di San Francesco Saverio. Gana Krupshak e Gertrude Fitzgerald seguirono la bara fino al vicino cimitero e, le mani serrate, la osservarono calare nella tomba che già accoglieva i suoi genitori. Il prete, padre Durkin, curò quell'ultima cerimonia, spruzzò l'acqua benedetta sulla bara e le riaccompagnò alla macchina di Gertrude. «Posso offrirvi una tazza di caffè?» chiese. Gertrude si passò un fazzoletto sugli occhi e scosse la testa: «Veramente, devo andare al lavoro. Sostituisco Edna finché non trovano un'altra segretaria e tutti e due i dottori ricevono, oggi pomeriggio.» Anche la Krupshak declinò l'invita. «Ma, padre, se sta tornando alla canonica potrebbe darmi un passaggio? Cosi non faccio allungare la strada a Gertrude.» «Sicuro.» Gana si voltò verso Gertrude e impulsivamente disse: «Perché non viene a cena da noi stasera? Ho un bell'arrostino da preparare».
Gertrude, che già era angosciata al pensiero di tornarsene nel proprio appartamento solitario, fu pronta ad accettare l'invito. Sarebbe stato bello, quella sera, parlare di Edna con qualcuno che le era stato amico. E poi avrebbe fatto osservare a Gana come fosse vergognoso che nessuno dei medici avesse partecipato al servizio funebre, anche se il dottor Fukhito, se non altro, aveva mandato dei fiori. Forse poterne parlare l'avrebbe aiutata a mettere ordine nei propri pensieri e sarebbe riuscita ad afferrare quel pensiero che continuava a ronzarle nella testa, a proposito di qualche cosa che Edna le aveva detto. Si accomiatò da Gana e da padre Durkin, salì in macchina, mise in moto e tolse il freno a mano. Le si affacciò alla mente il viso del professor Highley: quegli occhi grandi, impenetrabili. Sì, con lei era stato abbastanza gentile martedì sera, le aveva dato una pillola per calmarla e tutto il resto. Ma le era parso strano, quella sera. Per esempio, quando era andato a prenderle un bicchier d'acqua, lei si era mossa per seguirlo. Non voleva essere di peso. Lui aveva aperto il rubinetto dell'acqua, poi era entrato nella camera da letto. Dal corridoio lo aveva visto prendere il fazzoletto dalla tasca e cominciare ad aprire il cassetto del comodino. Poi quel simpatico dottor Carroll era sopraggiunto in corridoio e Highley aveva chiuso il cassetto, aveva ficcato il fazzoletto in tasca ed era indietreggiato in modo che paresse semplicemente fermo sulla soglia della camera da letto. Gertrude si era lasciata superare dal dottor Carroll, poi era di nuovo sgusciata nel soggiorno: non voleva che pensassero che stesse cercando di sentire quello che si dicevano. Ma se il professor Highley voleva qualche cosa che stava in quel cassetto, perché non l'aveva detto e non se l'era presa? E perché diavolo si era servito del fazzoletto per aprire il cassetto? Certo non poteva essere che non volesse toccare perché l'appartamento di Edna era sporco; accidenti, era uno specchio! Il professor Highley era sempre stato un uomo strano e, a essere sinceri, tanto lei quanto Edna ne avevano sempre avuto un po' paura. Se le avessero offerto il posto di Edna non lo avrebbe assolutamente accettato. Ben risoluta su quel punto, Gertrude abbandonò la strada del cimitero e voltò in Forest Avenue. 49 Il corpo senza vita di Vangie Lewis fu deposto sul tavolo della sala delle
autopsie nel centro di medicina legale della contea di Valley. Impassibile, Richard stette a guardare il suo assistente spogliarla del caffetano di seta con cui era stata rivestita dopo la morte. Quello che nella luce ovattata della camera ardente era parso naturale e non privo di dolcezza, a quel punto assomigliava a un manichino dei grandi magazzini, nella totale assenza di vita che caratterizzava i lineamenti. I capelli biondi erano stati acconciati con cura perché ricadessero morbidamente sulle spalle, ma induriti dalla lacca cominciavano a dividersi in piccole ciocche dure e sottili. Fugacemente, Richard ricordò che San Francesco Borgia aveva rinunciato a una vita a corte e aveva preso i voti dopo aver assistito al disfacimento del corpo di quella che era stata in vita una bella donna, una regina. Risolutamente, rivolse la propria mente ai problemi professionali che gli si stavano presentando. Martedì pomeriggio qualcosa nel corpo di Vangie gli era sfuggito. Ne era sicuro. Un particolare delle sue gambe o dei suoi piedi. A quel punto vi avrebbe dedicato la massima attenzione. Un quarto d'ora dopo trovò quanto cercava: un graffio lungo pochi centimetri sul piede sinistro di Vangie. La prima volta l'aveva trascurato, occupato com'era a studiare le ustioni da cianuro e il feto. La graffiatura era recente. Non c'era segno di un inizio di cicatrizzazione. Ecco che cosa gli aveva dato da pensare. Vangie aveva riportato quella lieve ferita poco prima della morte e Charley aveva trovato un lembo di stoffa del vestito che la donna indossava al momento della morte impigliato in un attrezzo sporgente nel garage. Si rivolse all'assistente: «Al laboratorio dovrebbero aver concluso l'esame degli abiti che la signora Lewis indossava quando l'abbiamo portata là. Vuole recuperarli, per cortesia, e rimetterglieli? Mi chiami quando è pronta». Rientrato nel suo ufficio, annotò su un taccuino: Scarpe indossate da Vangie al momento del ritrovamento. Scarpe eleganti da passeggio, piuttosto accollate sui lati. Impossibile che le avesse ai piedi quando si è graffiata. Poi volle rivedere gli appunti presi durante la notte. La piccola Berkeley. Sarebbe andato a parlare con Jim Berkeley, sarebbe riuscito a fargli ammettere che la bambina era adottata. Ma che cosa avrebbe dimostrato con ciò? Niente di per sé, ma sarebbe stato un motivo sufficiente per aprire un'inchiesta. L'intero Programma Maternità Westlake sarebbe stato smascherato
come un imbroglio colossale. Ci sarebbe stato qualcuno capace di uccidere per evitare che ciò avvenisse? Doveva vedere la cartella di Vangie Lewis redatta dal professor Salem. Ormai, Scott doveva esser riuscito a mettersi in contatto con il suo studio a Minneapolis. Rapidamente formò il numero del procuratore: «Hai potuto parlare con l'infermiera di Salem?» «Sì, e anche con sua moglie. Sono entrambe terribilmente scosse. E giurano che non aveva guai come pressione alta o capogiri. Niente problemi personali, niente problemi di denaro e i prossimi sei mesi completamente impegnati in un corso di lezioni. Perciò, dico io, scordiamoci tanto l'ipotesi del suicidio quanto quella della disgrazia.» «Riguardo a Vangie Lewis l'infermiera sa qualcosa?» «Ieri mattina, in studio, il professore le aveva chiesto di portargli la cartella di Vangie. Poi, proprio mentre stava uscendo per andare all'aeroporto, ha fatto una telefonata in teleselezione.» «Che potrebbe essere quella che ha fatto a me.» «Può darsi. Ma l'infermiera sostiene che, a quanto il professore le aveva detto, doveva fare altre telefonate in teleselezione, per le quali però avrebbe usato la sua carta di credito dall'aeroporto, dopo essersi fatto registrare per il volo. A quanto pare aveva la fissazione di arrivare all'aeroporto con molto anticipo.» «L'infermiera ci ha già mandato la cartella di Vangie? Desidero vederla.» «No, non l'ha mandata.» La voce di Scott di colpo si indurì. «Il professor Salem l'aveva portata con sé. L'infermiera ha visto che la metteva nella sua ventiquattr'ore, che in effetti è stata trovata nella sua camera. Però la cartella di Vangie non c'era. E stai a sentire questa: dopo che il professore era partito, ha telefonato in studio Chris Lewis. Ha detto che doveva parlare con Salem. L'infermiera gli ha dato il nome dell'albergo di New York, addirittura gli ha indicato il numero della camera. Ascoltami, Richard: entro oggi penso di emettere un mandato di arresto contro Lewis.» «Intendi dire che secondo te in quella cartella c'era qualche cosa per ottenere la quale Chris sarebbe capace di uccidere? Non posso crederci.» «Qualcuno voleva quella cartella», ribatté Scott. «Questo è chiaro, no?» Richard riagganciò. Qualcuno voleva quella cartella. La cartella medica. Chi poteva sapere che il suo contenuto rappresentava un pericolo? Un altro medico.
Che Katie fosse nel giusto nel far ricadere i propri sospetti sullo psichiatra? Ed Edgar Highley? Era arrivato nella contea di Valley coperto dal nome di Westlake, un nome rispettato negli ambienti medici del New Jersey. Improvvisamente impaziente, Richard cominciò a frugare nella scrivania, cercando il foglietto su cui Marge aveva annotato i nomi delle due pazienti che avevano trascinato in giudizio Edgar Highley per pratiche illecite. Anthony Caldwell, Old Country Lane, Peapack. Anna Horan, 415 Walnut Street, Ridgefield Park. Chiamò Marge sul telefono interno e le chiese di telefonare a entrambi. La segretaria arrivò qualche minuto dopo nel suo ufficio. «Anthony Caldwell non abita più a quell'indirizzo. Si è trasferito nel Michigan un anno fa. Però ho parlato al telefono con una vicina. Dice che la moglie di Caldwell è morta di una gravidanza tubarica e lui ha denunciato il medico, ma il procedimento si è concluso con un non luogo a procedere. Pareva molto desiderosa di parlare: sembra che altri due medici avessero detto alla signora Caldwell che non sarebbe stata in grado di concepire, ma che appena cominciò a seguire il Programma Maternità Westlake fosse rimasta incinta. Tuttavia soffrì terribilmente, finché al quarto mese morì.» «Per il momento mi basta», dichiarò Richard. «Acquisiremo all'inchiesta tutte le cartelle cliniche dell'ospedale. E per quanto riguarda la signora Horan?» «Ho trovato il marito a casa. Studia legge a Rutgers. Dice che la moglie lavora come programmatrice di computer e mi ha dato il suo numero di ufficio. Devo chiamargliela?» «Sì, per favore.» Sul telefono di Richard, Marge formò il numero di Anna Horan e chiese di lei; un momento dopo annunciava: «Signora Horan, un attimo, prego. Il dottor Carroll vuole parlarle». Richard prese il ricevitore: «La signora Horan?» «Sì.» La sua voce aveva un'inflessione cantilenante, un accento che lui non riuscì a individuare. «Signora Horan, l'anno scorso lei ha portato in giudizio il professor Edgar Highley per una questione inerente alla sua attività professionale. Dovrei rivolgerle alcune domande in merito. Può parlare?» Dall'altro capo della linea la voce suonò di colpo agitata: «No... non qui.»
«Capisco. Ma è una cosa urgente. Le sarebbe possibile, dopo l'ufficio, fermarsi qui da me in modo che possiamo parlare?» «Si... benissimo.» Trapelava dalla sua voce l'urgenza di chiudere al più presto quella conversazione. Richard le diede l'indirizzo del suo ufficio e cominciò a spiegarle come raggiungerlo, ma fu interrotto. «Sono pratica della zona... sarò da lei verso le cinque e mezzo.» La comunicazione venne interrotta. Richard guardò Marge e si strinse nelle spalle: «Non le fa piacere parlarne, ma verrà.» Era quasi mezzogiorno. Richard decise di recarsi in tribunale dove Katie doveva essere ancora occupata nel processo Odendall. L'avrebbe invitata a colazione. Voleva parlarle delle sue idee su Edgar Highley. Katie lo aveva interrogato: che impressione le aveva fatto? Chissà se avrebbe convenuto con lui nel ritenere che ci fosse qualcosa di sospetto nel Programma Maternità Westlake, un commercio di neonati o un medico che giocava d'azzardo, in modo criminale, con la vita delle sue pazienti. Nell'aula d'udienza del tribunale non era rimasto nessuno, a parte Katie, ancora seduta al tavolo della pubblica accusa. Immersa com'era nei suoi appunti, alzò appena gli occhi su di lui e scosse il capo quando le propose di andare a colazione insieme. «Richard, non ne posso più di questo processo. Quei farabutti hanno ritrattato la confessione. Adesso cercano di far credere che è stato un altro ad appiccare il fuoco e sanno mentire cosi bene che scommetto che riusciranno a darla a bere ai giurati. Devo prepararmi il controinterrogatorio.» Riabbassò gli occhi sugli appunti. Lui la studiava: la carnagione normalmente scura era mortalmente pallida; gli occhi, quando li alzava su di lui, erano stanchi e cerchiati. Notò il fazzolettino avvolto intorno al dito e, con dolcezza, le prese la mano e lo tolse. Katie alzò lo sguardo. «Che cosa... ah, quella dannata idiozia. Dev'essere profondo, non ha smesso di sanguinare tutta la mattina. Mi mancava anche questa.» Lui esaminò il taglietto: non più compresso dal fazzolettino, ricominciava a sanguinare rapidamente. Premendo di nuovo il fazzolettino sulla ferita, prese un cerotto e ve lo applicò. «Lascialo così per una ventina di minuti; dovrebbe fermarsi. Hai qualche difficoltà di coagulazione, Katie?» «Sì, un po'. Ma, Richard, adesso non ne posso parlare. Questo processo mi sta sfuggendo di mano e mi sento uno straccio.» La voce di colpo si
ruppe. Erano soli in quell'aula. Richard l'avvicinò a sé e la circondò con le braccia, la testa di lei contro il suo petto. Appoggiò le labbra sui suoi capelli: «Katie, me ne vado subito. Ma ovunque tu vada questo fine settimana, cerca di riflettere. Perché io mi sto mettendo in lista. Ti voglio. Voglio prendermi cura di te. Se devi vedere qualcuno, digli che non gli sarà facile vedersela con me, perché, chiunque lui sia, non si sta preoccupando per te. Se è del passato che non riesci a liberarti, ho la ferma intenzione di provare io a liberartene». Si raddrizzò. «Adesso continua a lavorare e vinci questo processo. Puoi farlo. E, per amor di Dio, stai tranquilla questo fine settimana. Lunedì avrò bisogno del tuo contributo per mettere a punto un'ipotesi che comincio a intravedere per il caso Lewis.» Per tutta la mattina aveva sentito tanto freddo, così disperatamente freddo, e non era servito a niente neppure il vestito di lana con le maniche lunghe. In quel momento, così vicino a Richard, le si comunicò il calore del corpo di lui. E mentre Richard si voltava per andarsene, impulsivamente gli prese la mano e se la portò al viso. «Lunedì», disse. «Lunedì», fece eco lui, e uscì dall'aula. 50 Prima di allontanarsi dal complesso residenziale in cui era vissuta Edna, Charley e Phil suonarono alla porta dei Krupshak. Gana era appena rientrata dal funerale. «Noi abbiamo finito i rilevamenti nell'appartamento», annunciò Charley. «Adesso può entrarci.» Le mostrò il foglio lasciato da Edna. «Devo solo controllare se questo può essere considerato un testamento, ma nel complesso i suoi averi valgono sì e no mille dollari, perciò penso che vi restituiremo i gioielli e lei e la signora Fitzgerald potrete dividerveli, assieme ai mobili. Intanto, potete andare a dare un'occhiata e cominciare a decidere tra voi; ma non portate via ancora niente.» I due investigatori tornarono in ufficio e si recarono immediatamente nel laboratorio, dove depositarono il contenuto del sacchetto dell'aspirapolvere, la pianta che aveva ornato il davanzale della finestra e un po' di terra prelevata dal terreno. «Esaminate subito questo materiale», ordinò Phil. «Precedenza assoluta.» Scott li aspettava nel suo ufficio. Quando seppe che Chris era stato visto
nelle vicinanze dell'appartamento di Edna il martedì sera emise un grugnito di soddisfazione. «Si direbbe che Lewis sia stato un po' dappertutto, questa settimana», osservò, «e in tutti i posti in cui è andato è morto qualcuno. Ho mandato Rita a New York stamattina con una foto di Chris Lewis. Due concierge lo hanno identificato senza possibilità di errore con una persona che si trovava nella hall dell'Essex House verso le cinque del pomeriggio. Sto per emettere un mandato d'arresto contro di lui e diramare un avviso a tutte le unità di polizia.» Squillò il telefono; affrettandosi a rispondere, Scott si qualificò. Poi, con la mano sopra il microfono, rivolto agli altri due: «È l'amica di Chris Lewis, dalla Florida... Pronto, sì, sono il procuratore.» Dopo un momento di silenzio: «Sì, stiamo cercando il comandante Lewis. Lei sa dove si trova?» Charley e Phil si scambiarono un'occhiata; la fronte di Scott si andava solcando di rughe via via che ascoltava. «Benissimo. Sarà con lei sull'aereo che arriva alle sette a Newark. Mi fa piacere che si costituisca spontaneamente. Se vuole consultare un avvocato, può averne uno qui. Grazie.» Riappese il ricevitore. «Lewis è in arrivo», disse. «Entro stasera avremo risolto il caso.» 51 Nel corso della lunga notte insonne, Edgar Highley aveva vagliato attentamente le implicazioni del furto della sua borsa. Era possibile che non si ritrovasse più. Se il ladro l'aveva abbandonata dopo averne passato in rassegna il contenuto, con ogni probabilità non l'avrebbe più vista. Era difficile che qualcuno si prendesse la briga di cercare di restituirgliela; più probabile che conservasse semplicemente la borsa e gettasse il contenuto. Ma se la polizia di New York avesse recuperato la borsa intatta? Dentro c'erano il suo nome e l'indirizzo dell'ospedale. Se lo avessero chiamato, probabilmente gli avrebbero chiesto una lista di ciò che conteneva. Lui avrebbe ricordato solo alcuni medicinali di routine, qualche strumento e parecchie cartelle cliniche. Una cartella medica intestata a Vangie Lewis a loro non avrebbe detto niente. Probabilmente non si sarebbero occupati di esaminarla, avrebbero semplicemente dato per scontato che fosse sua. Se lo avessero interrogato a proposito della scarpa e del fermacarte macchiato di sangue, avrebbe negato di saperne qualcosa, anzi avrebbe osservato che evidentemente doveva averceli messi il ladro. Sarebbe andato tutto bene ed entro sera l'ultimo pericolo sarebbe stato
eliminato. Alle cinque aveva rinunciato a ogni tentativo di addormentarsi; si era fatto una doccia, rimanendo dieci minuti buoni sotto il getto di acqua calda, mentre la stanza da bagno si riempiva di vapore. Poi, avvolto in un pesante accappatoio che gli arrivava alle caviglie, era sceso in cucina. Non si sarebbe recato in studio fino a mezzogiorno, dopo aver fatto un breve giro di visite in ospedale. Aveva tutta la mattina per rivedere gli appunti in cui erano registrate le varie fasi delle sue ricerche. La paziente del giorno precedente sarebbe stata il soggetto del suo prossimo esperimento, ma ancora non aveva scelto la donatrice. 52 Alle sedici, Richard, Scott, Charley e Phil stavano esaminando il corpo di Vangie Lewis, rivestito come al momento della morte. Il pezzetto di stoffa a fiori trovato sulla vanga nel garage collimava esattamente con lo strappo vicino all'orlo del vestito. Sul piede sinistro il collant recava uno strappo di cinque o sei centimetri in perfetta corrispondenza della piccola ferita. «Nessuna traccia di sangue sulla calza», osservò Richard. «Era già morta quando il piede ha strusciato contro quella punta.» «A che altezza è lo scaffale su cui si trovava la vanga?» chiese Scott. Phil si strinse nelle spalle. «A circa sessanta centimetri da terra.» «Il che significa che qualcuno ha trasportato Vangie attraverso il garage, l'ha stesa sul suo letto e ha cercato di dare a tutto quanto l'apparenza di un suicidio», concluse il procuratore. «È indubbio», convenne Richard, subito accigliandosi. «Quant'è alto Chris Lewis?» chiese. Scott si strinse nelle spalle. «È un tipo alto. Forse qualcosa più di uno e novanta. Perché?» «Facciamo un esperimento. Aspettate un momento.» Uscì dalla stanza e tornò poco dopo con una riga. Con cura fece alcuni segni sulla parete, all'altezza di sessanta, novanta centimetri e un metro e venti. «Supponendo che sia stato Chris Lewis a portare in casa Vangie, io dico che la donna non sarebbe stata ferita da quella punta». Si rivolse a Phil: «Sei sicuro che lo scaffale sia a sessanta centimetri da terra?» Phil si strinse nelle spalle. «Centimetro più, centimetro meno.» Charley assentì. «Benissimo. Io sono alto un metro e ottantotto.» Delicatamente, passò
un braccio sotto il collo della morta e l'altro sotto le sue ginocchia. La sollevò e fece qualche passo lungo la parete. «Guardate a che altezza passano i piedi. Era piccola di statura. Se a portarla fosse stato un uomo alto, il piede non sarebbe stato sfiorato da nessun oggetto posto ad altezza inferiore ai novanta centimetri. E d'altra parte...» Si mosse verso Phil. «Tu quanto sei alto... Circa uno e settantacinque?» «Sì, circa.» «Benissimo. Chris Lewis è quindici centimetri più alto di te. Prendila in braccio e guarda a che punto sono i suoi piedi mentre la porti.» Phil accettò cautamente il corpo e camminò lungo la parete. I piedi di Vangie sfioravano il segno più basso fatto da Richard. Phil la depose rapidamente sul piano di marmo. Scott scosse la testa. «Non significa niente. Non si può sapere come siano andate le cose. Forse lui era curvo, cercava di tenerla discosta da sé.» E rivolto all'assistente: «Questi indumenti ci servono come prova. Ne prenda cura. E faccia qualche foto della ferita, delle calze e del vestito.» Si incamminò con Richard verso il suo ufficio. «Stai ancora pensando allo psichiatra, vero?» chiese. «È circa un metro e settantacinque.» Richard esitò e decise di non dire niente finché non avesse parlato con Jim Berkeley e con la paziente che aveva denunciato Highley. Cambiò argomento: «Come va il processo di Katie?» Il procuratore scosse il capo. «Difficile a dirsi. Quei farabutti scaricano la responsabilità di quegli atti di vandalismo su un loro amico che è rimasto ucciso lo scorso mese di novembre in un incidente di motocicletta. Secondo là loro ultima versione, se ne erano assunta la responsabilità per riguardo verso i genitori dell'amico, ma adesso il pastore li ha convinti che è loro dovere verso la propria famiglia dire la verità.» Richard sbuffò: «La giuria non ci cascherà, vero?» Scott disse: «Adesso è in camera di consiglio. Stai a sentire, per quanto ci si sforzi di scegliere con cura la giuria, questa comprenderà sempre almeno una persona dal cuore tenero che si lascia raggirare da una storia lagrimosa. Katie ha fatto un ottimo lavoro, ma per il momento sono aperte tutte le possibilità. Bene. A più tardi». Alle quattro e mezzo Jim Berkeley richiamò Richard: «Ho saputo che mi aveva cercato.» La voce era guardinga. «Sì.» Richard cercò di mantenere la sua voce sullo stesso tono impersonale dell'altro. «È importante che io possa parlare con lei. Può fermarsi nel mio ufficio quando torna a casa?»
«Sì, certo.» La voce di Jim parve rassegnata. «E credo di sapere di che cosa desidera parlarmi.» 53 Edgar Highley si allontanò dal lettino sul quale aveva visitato la paziente. «Adesso può rivestirsi.» La ragazza aveva dichiarato di avere vent'anni, ma lui era sicuro che non ne avesse più di sedici o diciassette. «Sono?...» «Sì, mia cara. Lei è incinta senza possibilità di dubbio. Di cinque settimane circa, direi. Voglio che torni domani mattina. Procederemo all'interruzione della gravidanza.» «Pensavo: non crede che forse dovrei avere il bambino e farlo adottare?» «Ne ha parlato con i suoi genitori?» «No. Rimarrebbero sconvolti.» «Allora le consiglio di rimandare la sua maternità almeno di parecchi anni. Domani mattina alle dieci.» Uscì, rientrò nel suo ufficio e cercò il numero di telefono della nuova paziente che aveva scelto il giorno precedente. «Signora Englehart, sono il professor Highley. Desidero cominciare la cura. Vuole per favore venire in ospedale domani mattina? Si prepari a trascorrervi una notte.» 54 Mentre i giurati erano in camera di consiglio, Katie andò alla tavola calda del tribunale. Scelse attentamente un tavolino all'estremità della sala e sedette dando la schiena agli altri tavoli: non voleva che qualcuno si mettesse al suo tavolo o anche solo la notasse. La sensazione di capogiro era continua; si sentiva debole e stanca e tuttavia non aveva appetito. Solo una tazza di tè, pensò. La mamma era sempre convinta che una tazza di tè potesse guarire tutti i mali del mondo. Ricordò quand'era tornata a casa dal funerale di John e la voce della madre preoccupata, dolce: «Ti faccio una bella tazza di tè caldo, Katie». Richard. A sua madre sarebbe piaciuto. Le erano sempre piaciuti gli uomini alti. «Tuo padre era piccolo e magro, ma, Katie, come sembrava alto!» Proprio così, dava l'impressione che fosse alto. Sua madre sarebbe arrivata per Pasqua. Mancavano sei settimane esatte.
E quanto sarebbe stata felice se lei e Richard si fossero messi insieme. Io lo voglio, vero? si chiese, sorseggiando il tè. E non solo perché questa settimana la solitudine mi pesa tanto. Era qualcosa di più. Molto di più. Ma quel fine settimana in ospedale le avrebbe dato l'opportunità di analizzare la situazione, di valutarla tranquillamente. Rimase seduta quasi un'ora, assente, sorseggiando il suo tè, intenta a passare in rassegna punto per punto la sua requisitoria. Era riuscita a convincere i giurati che i ragazzi Odendall stavano mentendo? Il pastore. Lì aveva segnato un vantaggio. Il pastore aveva ammesso che nessuno dei due ragazzi era un frequentatore abituale della chiesa, che nessuno di loro lo aveva mai consultato prima per nessuna ragione. Era possibile che lo stessero usando per rendere plausibile la loro storia? Il pastore aveva annuito: «Sì», aveva risposto, «è possibile». Lì aveva segnato un punto, ne era sicura. Alle cinque tornò in aula. Mentre entrava, i giurati avvertirono il giudice che avevano raggiunto un accordo. Cinque minuti dopo, il loro portavoce pronunciava il verdetto: «Robert Odendall, non colpevole in ordine a tutte le imputazioni ascrittegli. Jonathan Odendall, non colpevole in ordine a tutte le imputazioni ascrittegli». «Non lo credo.» Katie non sapeva se avesse parlato ad alta voce. Il viso del giudice si indurì lasciando trasparire l'ira. Congedò bruscamente i giurati e ordinò agli imputati di alzarsi. «Avete avuto molta fortuna.» Il tono era irato. «Più fortuna di quanta spero avrete mai più nella vostra vita. Adesso sgombrate la mia aula e se siete intelligenti non capitatemi più davanti.» Katie si alzò. Non aveva importanza che il giudice dimostrasse apertamente di ritenere sbagliata la sentenza: aveva perso la causa. Avrebbe dovuto fare di più. Sentì, più che non vedesse, il sorriso trionfante lanciatole dall'avvocato difensore. Aveva un groppo in gola che le impediva di inghiottire. Era sul punto di scoppiare in lacrime. Quei due criminali sarebbero tornati in libertà, dopo che si erano presi gioco della giustizia. E un ragazzo morto era stato etichettato come criminale. Stivò i suoi appunti nella borsa. Forse se per tutta la settimana non si fosse sentita uno straccio avrebbe condotto meglio quel processo. Se avesse risolto quel suo problema delle emorragie un anno prima, anziché rimandare sempre a causa della sua assurda e puerile paura degli ospedali, non avrebbe avuto quell'incidente lunedì sera.
«La pubblica accusa vuole avvicinarsi?» Katie alzò il viso. Il giudice stava chiamandola e lei si avvicinò. Il pubblico stava defluendo dall'aula; Katie sentì levarsi dei gridolini di felicità mentre gli Odendall abbracciavano le loro amichette masticatrici di gomma e liberate dalla schiavitù del reggiseno. «Vostro onore.» Riuscì malgrado tutto a mantenere la voce ferma. Il giudice si chinò a bisbigliarle: «Non ti abbattere, Katie. Avevi fornito tutte le prove sufficienti e comunque questi piccoli bastardi torneranno qui tra due mesi con altre imputazioni. Noi due lo sappiamo bene e la prossima volta li metteremo con le spalle al muro». Katie si sforzò di sorridere. «È proprio questo che temo: che torneranno. Dio sa quanti danni riusciranno a fare prima che noi possiamo metterli con le spalle al muro. Comunque grazie, giudice.» Lasciata l'aula, rientrò nel suo ufficio. Maureen le lanciò uno sguardo speranzoso, ma Katie scosse la testa e vide un'espressione di sincera solidarietà dipingersi sul viso della ragazza. Si strinse nelle spalle: «Che cosa ci vuoi fare?» Maureen la seguì. «Il procuratore Meyerson e il dottor Carroll sono in riunione e non vogliono essere disturbati. Ma naturalmente tu puoi andarci.» «No, sono sicura che parlano del caso Lewis e in questo momento non sarei di nessuna utilità né a loro né a nessun altro. Lunedì mi rimetterò in pari.» «Va bene, Katie. Mi dispiace per la sentenza Odendall, ma cerca di non prendertela così. Davvero si direbbe che stai male: sei sicura di poter guidare? Non ti gira la testa o qualcosa del genere?» «No, sul serio. Non devo andar lontano. Devo guidare per appena un quarto d'ora e poi me ne sto immobile fino a domenica.» Avviandosi alla macchina, Katie rabbrividì. Il pomeriggio la temperatura era salita fino a quattro o cinque gradi, ma a quel punto si stava di nuovo abbassando rapidamente. L'umidità dell'aria penetrava nelle maniche larghe del suo ampio mantello di lana rossa e si faceva sentire attraverso le calze di nailon. Pensò con nostalgia alla sua camera, al suo letto: sarebbe stato meraviglioso potervi ritornare, semplicemente per mettersi a letto con un ponce caldo e dormire per tutto il fine settimana. All'ospedale, l'ufficio accettazione aveva ricevuto i suoi formulari compilati. L'impiegata era brillante e briosa.
«Mio Dio, signora DeMaio, si rende conto, spero! Il professor Highley le ha assegnato la camera da letto dell'appartamento 1 al terzo piano. È come farsi una vacanza. Non le parrà neppure di trovarsi in ospedale.» «Me ne ha accennato», mormorò Katie. Non aveva certo intenzione di confidare a quella donna la sua paura degli ospedali. «Può darsi che si senta un po' sola, lassù. Ci sono solo tre appartamenti su quel piano e al momento gli altri due sono vuoti. Il professor Highley sta facendo ridipingere il salotto del suo appartamento. Non capisco perché, l'avevano fatto meno di un anno fa. Ad ogni modo, a lei non servirà, dal momento che si trattiene solo fino a domenica. Di qualsiasi cosa abbia bisogno, basta che prema il campanello. Le infermiere di turno al secondo piano nano in consegna anche le pazienti del terzo. In ogni caso, sono tutte pazienti del professor Highley. E ora, ecco la sua sedia a rotelle. Se vuole sedersi in un baleno la portiamo di sopra.» Katie la fissò costernata. «Non vorrà dirmi che adesso devo usare una sedia a rotelle?» «Regole dell'ospedale», rispose l'impiegata con fermezza. John sulla sedia a rotelle che andava al piano di sopra per la chemioterapia. Il suo corpo che si rimpiccioliva mentre lei lo osservava morire. La voce di John sempre più debole, il suo umorismo tetro, stanco, mentre la sedia a rotelle veniva avvicinata al suo letto: «Dondola dondola, dolce carrozzella che vieni a portarmi a casa». L'odore antisettico dell'ospedale. Katie si sedette e chiuse gli occhi. Non poteva tornare indietro. L'inserviente, una volontaria robusta di mezza età, spinse la poltrona lungo il corridoio fino all'ascensore. «È fortunata a essere in cura dal professor Highley», informò Katie. «Le sue pazienti sono le più curate di tutto l'ospedale. Basta che suoni il campanello e in trenta secondi ha un'infermiera ai suoi ordini. Il professore è molto severo. Quando lui è in giro il personale trema, ma è bravo.» Erano arrivate all'ascensore. L'inserviente premette il pulsante. «Qui è così diverso dalla maggior parte degli ospedali. Dalle altre parti di solito non vogliono vedere la paziente fino al momento del parto, poi la buttano fuori quando il bambino ha due giorni. Ma il professor Highley no. L'ho visto tenere a letto per due mesi delle donne incinte, solo per precauzione. Per questo ha degli appartamenti, in modo che le signore possano avere un'atmosfera accogliente e familiare. La signora Aldrich è nell'appartamento del secondo piano; ieri ha avuto un parto cesareo e non ha smesso un minuto di piangere. È talmente felice. E il marito altrettanto. Ieri notte ha
dormito sul divano, nel salotto dell'appartamento, qui in ospedale. Il professore è contento che si faccia cosi. Bene, ecco l'ascensore.» Parecchie altre persone vi entrarono con loro e tutte guardavano Katie con curiosità. Dalle riviste e dai fiori che reggevano, Katie immaginò che fossero visitatori dei malati e si sentì stranamente diversa da loro. Non appena diventi un paziente, pensò, perdi la tua identità, diventi un caso. Arrivarono al terzo piano. Una moquette verde pallido ricopriva il corridoio. Alle pareti erano appese ottime riproduzioni di quadri di Monet e Matisse, valorizzate da cornici in rilievo. Suo malgrado, Katie si sentì rassicurata. La volontaria la spinse lungo il corridoio, poi voltò a destra. «Lei è nell'appartamento in fondo», esclamò. «Piuttosto isolato. Credo che non ci siano altre pazienti su questo piano, oggi.» «Per me va benissimo», mormorò Katie. Ricordò la camera di John. Loro due che volevano assorbire ognuno il più possibile dell'altro, colmarsi della presenza dell'altro in vista della separazione. E i pazienti in grado di muoversi che si affacciavano alla porta, che gettavano un'occhiata all'interno: «Come va oggi, giudice? L'aspetto è migliore, vero signora DeMaio?» E lei che mentiva: «Ha ragione, molto migliore». Andatevene, andatevene, abbiamo così poco tempo. «Non m'importa di essere sola su questo piano», ripeté. Entrarono in una camera da letto. Le pareti erano color avorio e, sul pavimento, lo stesso verde pallido del corridoio. I mobili bianchi in stile antico. Il copriletto era di un tessuto stampato a delicati disegni verde e avorio. «Che bella stanza!» esclamò Katie. L'inserviente parve contenta. «Ero sicura che le sarebbe piaciuta. Tra qualche minuto verrà l'infermiera. Nel frattempo potrebbe sistemare la sua roba e mettersi comoda.» Rimasta sola, un po' incerta, Katie si spogliò, indossò una camicia da notte e una vestaglia calda. Mise i suoi oggetti da toeletta nel mobiletto in bagno e appese i vestiti nell'armadio a muro. Che cosa avrebbe fatto, santo cielo, in tutta la lunga, temibile serata, che l'aspettava? La sera prima, alla stessa ora, si stava vestendo per andare alla cena di Molly; e quand'era arrivata Richard le aveva detto di averla aspettata con ansia. Si rese conto che stava barcollando e istintivamente cercò la toeletta e vi si aggrappò. Il senso di vertigini svanì: probabilmente era stato solo la conseguenza della fretta, dell'esito del processo e... Chiamiamo le cose con
il loro nome, si disse. Della paura. Si trovava in un ospedale. Per quanto tentasse di respingere l'idea, si trovava in un ospedale. Incredibile, puerile, che non riuscisse a superare la paura. Papà. John. I due esseri che più aveva amato al mondo erano entrati in un ospedale ed erano morti. Per quanto cercasse di raziocinare, di riflettere freddamente, non riusciva a vincere quella terribile sensazione di panico. Bene, forse quei giorni di degenza sarebbero serviti a fargliela superare. La notte di lunedì, dopotutto, non era stata così terribile. Sulla camera si aprivano quattro porte: quella dell'armadio a muro, la porta del bagno, l'ingresso che dava sul corridoio. L'ultima doveva essere la porta di comunicazione con il salotto; l'aprì e diede un'occhiata all'interno. Come le aveva detto l'impiegata dell'accettazione, era tutta sottosopra. I mobili erano ammucchiati nel centro e ricoperti di teli per impedire che si macchiassero di vernice. Katie accese la luce. Il professor Highley doveva essere un perfezionista, perché a quanto poteva vedere le pareti erano assolutamente in ordine. Non c'era da meravigliarsi che le spese di degenza fossero proibitive. Stringendosi nelle spalle, spense la luce, chiuse la porta e si avvicinò alla finestra della sua camera. L'edificio aveva una pianta a U, con le due ali parallele che formavano un angolo retto sul retro con il corpo principale. La stanza che aveva occupato lunedì notte si trovava nell'altra ala, esattamente dirimpetto. Le automobili dei visitatori gremivano il parcheggio. Dov'era il posto macchina che aveva sognato? Ah, certo, quello là, sul lato opposto, proprio sotto l'ultimo lampione. Vide che proprio lì era parcheggiata una macchina nera; anche nel suo sogno c'era una macchina nera. Quei sottili raggi metallici, il loro scintillio alla luce del lampione. «Come si sente, signora DeMaio?» Si girò. Il professor Highley era fermo nella camera con una giovane infermiera che si dava da fare intorno a lui. «Ah, mi ha fatto paura. Sto bene, professore.» «Ho bussato, ma lei non ha sentito.» Una vena di rimprovero nella voce. Si avvicinò alla finestra e accostò le tende. «Per quanto si faccia, con queste finestre c'è sempre qualche spiffero», commentò. «Non voglio che si prenda un raffreddore. Prego, si sieda sul letto e lasci che le misuri la pressione. E sarà necessario anche prendere qualche campione di sangue.» L'infermiera lo seguiva e Katie notò che le tremavano le mani. Chiaramente il professore la terrorizzava. Highley le avvolse intorno al braccio il bracciale per misurare la pres-
sione; in un'ondata di capogiro, parve a Katie di vedere le pareti della camera allontanarsi. Si aggrappò al materasso.. «Qualcosa non va, signora DeMaio?» La voce del medico era garbata. «No, niente di grave: mi sento solo un tantino debole.» Lui cominciò ad azionare la pera di gomma. «Infermiera Renge, per cortesia, metta un panno bagnato sulla fronte della signora», ordinò. L'infermiera si precipitò diligentemente nel bagno; lui stava studiando il valore della pressione: «Un po' bassa. C'è qualche altra cosa?» «Sì.» La sua stessa voce le parve quella di un'altra, o forse era semplicemente come rimandata dall'eco. «Mi è ricominciato il ciclo. Terribilmente abbondante da mercoledì.» «Non mi sorprende. Francamente, se lei non avesse messo in programma questo intervento, sono sicurissimo che si sarebbe trovata a doverlo fare d'urgenza.» L'infermiera tornò dal bagno con un panno accuratamente ripiegato, mordendosi il labbro inferiore nel tentativo di non rabbrividire. Katie provò uno slancio di simpatia per lei; non desiderava né credeva di aver bisogno di una compressa fredda per la fronte, ma si appoggiò al cuscino e se la lasciò applicare. Il panno era inzuppato e l'acqua gelata le gocciolò lungo l'attaccatura dei capelli, ma resistette all'impulso di tergerla con la mano: il professore l'avrebbe notato e Katie non voleva che l'infermiera subisse un rimprovero. Per un attimo, il suo senso della comicità le rialzò il morale; si vedeva già raccontare a Richard: «E quella povera bambina spaventata in pratica stava per farmi affogare. Probabilmente mi sono presa una borsite cronica all'arcata sopraccigliare, in questo modo». Richard. Avrebbe dovuto dirgli che aveva in programma l'intervento; lo avrebbe voluto con sé, in quel momento. Il professor Highley reggeva un ago. Katie chiuse gli occhi quando lui aspirò il sangue da una vena del suo braccio destro. Poi lo osservò deporre sul vassoio che l'infermiera gli porgeva le provette riempite di sangue. «Voglio che le analisi siano eseguite immediatamente», disse brusco. «Si, professore.» L'infermiera si affrettò a uscire, chiaramente felice di allontanarsi. Il professor Highley sospirò. «Temo che questa timida fanciulla sia di turno stanotte. Ma lei non avrà bisogno di niente di speciale, ne sono sicuro. Ha preso tutte le pillole che le avevo dato?» Katie si rese conto di aver saltato la pillola delle tre ed erano ormai pas-
sate le sei. «Temo di aver dimenticato quella delle tre», si scusò. «Ero in udienza e, a parte il processo, mi è passata di mente ogni cosa; per di più credo di essere in ritardo per l'ultima pillola.» «Le ha portate?» «Sì, sono nella borsetta.» E diede un'occhiata alla toeletta. «Non si alzi. Gliela prendo io.» Katie prese la borsetta dalle mani di lui, aprì la chiusura lampo, frugò all'interno ed estrasse la boccetta. Vi erano rimaste appunto due pillole. Sul comodino era appoggiato un vassoio con una caraffa d'acqua fresca e un bicchiere. Highley riempì il bicchiere e glielo porse: «Le finisca», disse. «Tutte e due?» «Sì, sì, sono molto leggere e io volevo che le prendesse prima delle sei.» Le porse il bicchiere e fece scomparire in tasca la boccetta vuota. Ubbidiente, Katie inghiottì le pillole, sentendo gli occhi di lui fissi su di sé. Gli occhiali dalla montatura metallica, che lui portava, scintillavano alla luce del lume centrale. Lo scintillio. I raggi metallici delle ruote che scintillavano. Sul bicchiere, quando lo riappoggiò sul vassoio, era rimasta una traccia di sangue; lui la notò, le prese la mano ed esaminò il dito: il fazzolettino era di nuovo inzuppato di sangue. «Che cos'è?» «Ah, niente. Mi sono tagliata con il cartone, ma dev'essere profondo. Continua a sanguinare.» «Vedo.» Si raddrizzò. «Ho ordinato un sonnifero per lei. Per favore, lo prenda appena l'infermiera glielo porterà.» «Preferisco non prendere sonniferi, professore, veramente. Provocano una reazione esagerata su di me.» Voleva parlare con veemenza, ma la voce le uscì fiacca, quasi indolente. «Temo di dover insistere sul sonnifero, signora DeMaio, specialmente trattandosi di una persona come lei che con ogni probabilità se non lo prendesse passerebbe una notte insonne e angosciosa. La voglio ben riposata domani mattina. Ah, ecco la sua cena.» Katie vide una donna esile sulla sessantina entrare nella camera con un vassoio, lanciando occhiate nervose al medico. Li terrorizza tutti, pensò. Anziché il solito vassoio da ospedale di plastica o metallo, quello era di vimini bianco, completato da un cestino laterale contenente il giornale della sera. La porcellana delle stoviglie era finissima e l'argenteria ornata di
motivi delicati. Un vaso dalla linea slanciata conteneva un'unica rosa rossa. Due lombatine d'agnello erano tenute calde da una cupola d'argento che copriva il piatto da portata. Insalata di ruchetta, fagiolini, pasticcini caldi, tè e succo di frutta completavano il menù. L'inserviente si voltò per andarsene. «Aspetti», ordinò il professor Highley. Quindi, rivolgendosi a Katie: «Come potrà constatare, tutte le mie pazienti ricevono pasti che non sfigurerebbero in ristoranti di lusso. Credo che uno degli sprechi costanti degli ospedali sia costituito dalle tonnellate di cibi gettate quotidianamente perché ogni giorno i parenti dei pazienti portano da casa generi alimentari di ogni tipo». Corrugò la fronte. «Tuttavia, ritengo preferibile che lei non mangi, stasera. So per esperienza che più a lungo il paziente digiuna prima dell'intervento, meno disturbi proverà dopo.» «Non ho fame», disse Katie. «Bene.» Highley fece un cenno all'inserviente, che riprese il vassoio e si affrettò a lasciare la camera. «Ora la lascio», disse il medico. «Lei prenderà il sonnifero.» Il cenno con cui lei gli rispose non era impegnativo. Sulla soglia il medico si fermò. «Ah, mi dispiace, a quanto pare il suo telefono non funziona. Il tecnico se ne occuperà domani mattina. Aspettava qualche telefonata stasera? O forse qualcuno verrà a trovarla?» «No. Né telefonate né visite. Mia sorella è la sola che sappia che sono qui e stasera è andata all'opera.» Lui sorrise. «Capisco. Be', buona notte, signora DeMaio. E, per piacere, si rilassi. Può stare tranquilla che la curerò come si deve.» «Sì, certo.» Finalmente era uscito. Katie si adagiò sul cuscino, chiudendo gli occhi. Galleggiava chissà dove e il suo corpo si lasciava trasportare, trasportare come... «Signora DeMaio.» Il tono della giovane voce era di scusa. Aprì gli occhi. «Che cosa... ah, devo essermi assopita.» Era l'infermiera Renge. Reggeva un vassoio con una pillola in un bicchierino di carta. «Adesso deve prendere questo: è il sonnifero prescritto dal professore. Mi ha detto di rimanere per assicurarmi che lei lo prenda.» Sebbene il professor Highley se ne fosse andato, la ragazza appariva nervosa. «È sempre tremendo dover svegliare una paziente per darle il sonnifero, ma qui funziona così.» «Ah.» Katie prese la pillola, se la mise in bocca e trangugiò l'acqua dalla caraffa.
«Vuol sistemarsi a letto, adesso? Posso ripiegarle le coperte.» Solo allora Katie si avvide di aver dormito sopra il copriletto. Annuì all'infermiera, si alzò e andò nella stanza da bagno. Allora si tolse la pillola da sotto la lingua; aveva cominciato a sciogliersi, ma lei riuscì a sputarne la maggior parte. Niente affatto, pensò. Preferisco rimanere sveglia che avere gli incubi. Si spruzzò l'acqua sul viso, si lavò i denti e ritornò nella camera da letto. Si sentiva terribilmente debole, ondeggiante. L'infermiera l'aiutò a coricarsi. «È proprio stanca, vero? Be', adesso le rimbocco le coperte e sono sicura che si farà un bel sonno tutta la notte. Se ha bisogno di qualche cosa suoni.» «Grazie.» Si sentiva la testa così pesante. Gli occhi parevano incollarsi. L'infermiera Renge si avvicinò alla finestra e abbassò le avvolgibili. «Ha ricominciato a nevicare, ma vedrà che la neve diventerà pioggia. È una nottataccia, proprio la notte giusta per starsene a letto.» «Apra le tende e alzi appena un po' le persiane, per piacere», mormorò Katie. «Mi piace avere aria pura in camera da letto.» «Certo. Adesso spengo la luce, signora DeMaio?» «Sì, per favore.» Voleva solo dormire. «Buona notte, signora DeMaio.» «Buona notte. Ah, che ora è?» «Le otto in punto.» «Grazie.» L'infermiera uscì e Katie chiuse gli occhi. Dopo alcuni minuti il suo respiro si fece regolare. Alle otto e mezzo non percepì il rumore, così lieve, della maniglia della porta di comunicazione con il salotto che cominciava a girare. 55 Gertrude e i due Krupshak si attardavano sulla cena preparata da Gana. Su insistenza di quest'ultima, Gertrude aveva accettato volentieri una seconda porzione di arrosto e una grossa fetta di torta di cioccolata fatta in casa. «Di solito non mangio tanto», si scusò, «ma non ho buttato giù un boccone da quando abbiamo trovato la povera Edna.» Gana annuì discretamente. Suo marito raccolse la propria tazza da caffè e il piatto del dolce. «Ci sono i Knicks che giocano stasera», annunciò. «Io me li vedo alla tivù.» Il tono brusco non era scortese. Si accomodò in sog-
giorno e accese il televisore. Gana sospirò. «I Knicks... i Mets... i Giants... E così un mese dopo l'altro. Ma, se non altro, sta qui. Guardo dall'altra parte della stanza e lui c'è. Oppure, quando torno a casa dopo la partita a carte, so che non troverò un appartamento vuoto, come toccava sempre alla povera Edna.» «Lo so.» Gertrude pensò alla propria casa solitaria, poi la mente le andò alla maggiore delle sue nipoti. «Nonna, perché non vieni a cena?» oppure: «Nonna, sei a casa domenica? Pensavamo di venire a farti un salutino». La sua situazione non era delle peggiori. «Forse potremmo andare a dare un'occhiata all'appartamento di Edna», suggerì Gana. «Non voglio farle fretta... Voglio dire, ancora un po' di caffè o un'altra fetta di torta?...» «No, no, grazie. Sì, dovremmo andare. È una cosa odiosa, ma non si può evitarla.» «Vado a prendere la chiave.» Attraversarono a passo svelto il cortile. Durante la cena, aveva ricominciato a cadere quella neve semisciolta mista a pioggia. Gana affondò il mento nel colletto del cappotto e pensò al bel mantello di Edna, imitazione leopardo. Forse avrebbe potuto portarselo subito a casa, dopotutto era suo. Entrando nell'appartamento, ammutolirono. La polverina per rilevare le impronte digitali che era stata utilizzata dagli agenti era ancora visibile sul piano dei tavoli e sulle maniglie delle porte. Senza rendersene conto, si trovarono entrambe a fissare il punto dove avevano trovato il corpo contratto di Edna. «Il radiatore è ancora macchiato di sangue», mormorò Gana. «Penso che Gus lo ridipingerà.» «Sì.» Gertrude si scosse. Vediamo di sbrigarcela alla svelta. Conosceva i gusti della nipote. Oltre al divano di velluto, le sarebbero piaciute molto le poltrone che l'accompagnavano, a schienale alto, con zampe e braccioli di mogano. Una delle due era un dondolo. Edna le aveva raccontato, ricordava, che quand'era bambina le poltrone erano ricoperte di velluto azzurro con un bel motivo a foglie. Lei le aveva rifatte con una stoffa di poco prezzo e sospirava sempre: «Non sono più le stesse». Se Nan le avesse fatte ricoprire con il velluto sarebbero state di nuovo molto belle. Poi c'era quel tavolino tondo con il bordo del piano smerlato. Da Altman ce n'erano di simili, nel reparto mobili in stile, e costavano un patrimonio. Certo, quello era abbastanza rovinato, ma il marito di Nan sarebbe stato capace di rimetterlo a posto. Oh, Edna, pensò Gertrude, eri più
intelligente della maggior parte di noi, conoscevi il valore delle cose. Gana stava prendendo il mantello imitazione leopardo dall'armadio a muro. «L'anno scorso Edna me lo prestò», disse. «Dovevo andare a una serata con Gus. Mi piace molto.» Non ci misero molto per completare la divisione. A Gana i mobili non interessavano, perciò quelli che Gertrude non voleva furono destinati all'Esercito della Salvezza; però fu felice quando Gertrude le propose di prendersi le posate placcate argento e la porcellana buona. Quanto al guardaroba di Edna, si trovarono d'accordo nel destinarlo all'Esercito della Salvezza, dato che erano entrambe più alte e più magre di Edna. «Penso che non ci sia altro», sospirò Gana. «A parte i gioielli che la polizia ci restituirà tra poco. Lei avrà l'anello, a me ha lasciato la spilla.» I gioielli. Edna li teneva nel cassetto del comodino. Gertrude ricordò il martedì sera: era proprio quel cassetto che il professor Highley aveva cominciato ad aprire. «A proposito», disse. «Non abbiamo guardato lì dentro. Vediamo se non abbiamo dimenticato niente.» Lo aprì. Sapeva che la polizia aveva tolto la scatola dei gioielli, ma il profondo cassetto non era vuoto: un mocassino sformato giaceva sul fondo. «Be', qùant'è vero che sono qui!» esclamò Gana. «Mi sa dire perché mai Edna conservasse una cosa simile?» Lo prese e lo espose alla luce: completamente sformato, aveva il tacco consumato e macchie bianche che parevano suggerire il contatto con la neve salata. «Ci sono!» gridò Gertrude. «Ecco che cosa mi ha messo fuori strada!» Poi, vedendo l'espressione stupita di Gana, cercò di spiegare: «La signora DeMaio mi ha chiesto se per caso Edna non chiamasse uno dei medici 'Principe Azzurro' e così mi sono confusa. Naturalmente, lei non chiamava nessuno 'Principe Azzurro', però mi aveva raccontato che la signora Lewis portava dei vecchi mocassini orribili quando andava a farsi visitare. Anzi, me li fece notare solo un paio di settimane fa, mentre la signora Lewis stava uscendo. Edna mi disse che la prendeva sempre in giro. La scarpa sinistra era troppo grande e la signora Lewis la perdeva sempre. Edna per scherzo le diceva che evidentemente aspettava che il Principe Azzurro raccogliesse la sua scarpina di vetro». «Ma il Principe Azzurro non è il fidanzato di Cenerentola», protestò Gana. «Lui è nella favola della Bella Addormentata.» «Glielo dissi anch'io. Feci osservare a Edna che si era confusa, ma lei rise e mi raccontò che la signora Lewis aveva detto la stessa cosa. Però sua
madre gliel'aveva raccontata in quel modo e per lei andava bene così.» Gertrude rifletteva. «La signora DeMaio era così preoccupata quando mi ha chiesto la storia del Principe Azzurro. E poi mercoledì sera... mi domando se il professor Highley in quel cassetto non cercasse proprio il mocassino della signora Lewis. Possibile? Sa una cosa, ho una mezza idea di andare nell'ufficio della signora DeMaio per parlarle, o almeno per lasciarle un messaggio. Non so perché, ma ho la sensazione che non si debba aspettare fino a lunedì.» Gana pensò a Gus, che sarebbe rimasto con gli occhi incollati al televisore fin quasi a mezzanotte. Il suo desiderio appassionato di qualcosa di interessante la pungolava. E non era mai stata nell'ufficio della procura. «La signora DeMaio mi ha chiesto se per caso Edna non conservasse per motivi sentimentali una scarpa vecchia di sua madre», disse. «Scommetto che parlava proprio di questo mocassino. Sa che cosa le dico? Vengo con lei. Gus non se ne accorgerà neppure.» 56 Jim Berkeley lasciò la macchina nel parcheggio del tribunale ed entrò dall'ingresso principale. Dal quadro apprese che l'ufficio del medico legale era al secondo piano, nell'ala vecchia del palazzo. Aveva notato l'espressione di Richard Carroll la sera prima, mentre guardava la bambina. Ira e rancore lo avrebbero spinto a dire: «E allora, la bambina non ci assomiglia? E con ciò?» Ma sarebbe stato stupido da parte sua. Peggio, sarebbe stato inutile. Dopo essersi perso parecchie volte in quel labirinto che era il palazzo del tribunale, trovò l'ufficio di Richard. Non c'era nessuno al tavolo della segretaria nell'ingresso, ma la porta dell'ufficio era aperta e Richard uscì appena lo sentì arrivare. «Jim, che piacere vederla.» Ovviamente, cercava di mostrarsi cordiale, nel tentativo di dare a quel colloquio un tono ufficioso. Così il nuovo venuto adottò un tono di cauta riservatezza. Entrarono nell'ufficio: Richard lo fissava e Jim restituiva impassibile lo sguardo. Non v'era traccia dell'atmosfera distesa e leggera della sera precedente. Richard raccolse il messaggio e di colpo adottò un atteggiamento professionale; Jim, a sua volta, si irrigidì ulteriormente. «Jim, stiamo conducendo un'indagine sulla morte di Vangie Lewis. La signora Lewis era in cura presso la Maternità del Westlake. È lì che sua moglie ha partorito?»
Jim annuì. Era evidente che Richard stava scegliendo le parole con cura. «Alcuni problemi emersi da questa indagine ci turbano. Ora, vorrei farle qualche domanda e le giuro che niente di quanto dirà uscirà da questo ufficio. Ma lei può esserci di immenso aiuto se...» «Se le dico che Maryanne è stata adottata. È così?» «Sì.» La collera stava abbandonando Jim. Pensava alla figlioletta: qualunque ne fosse il prezzo, valeva la pena di averla. «No, non è stata adottata. Io ho assistito alla nascita e l'ho filmata. Maryanne ha una piccola voglia sul pollice sinistro e nel film si vede.» «È del tutto improbabile che genitori con gli occhi scuri abbiano un bambino con gli occhi verdi», replicò Richard reciso. Poi s'interruppe. «È lei il padre?» chiese piano. Jim si fissava le mani. «Mi sta chiedendo se Liz può aver avuto una relazione con un altro? No. Sono disposto a giocarmici la vita e l'anima.» «E per quanto riguarda la fecondazione artificiale?» chiese ancora Richard. «Il professor Highley è un esperto in questo campo.» «Liz e io avevamo preso in considerazione questa possibilità», rispose Jim, «ma entrambi la scartammo alcuni anni fa.» «È possibile che Liz abbia cambiato idea e gliel'abbia taciuto? Non è più una prassi tanto eccezionale: ogni anno circa quindicimila bambini nascono così negli Stati Uniti.» Dalla tasca della giacca Jim estrasse il portafogli. Aprendolo con un colpetto, mostrò a Richard due fotografie che ritraevano Liz, se stesso e la bambina. Nella prima, Maryanne era una neonata, gli occhi ancora quasi chiusi. La seconda era una foto a colori recente: il contrasto tra colore della carnagione e degli occhi dei genitori e quello della bambina era indubbio. Jim disse: «L'anno prima che Liz rimanesse incinta, abbiamo saputo che per noi era quasi impossibile adottare un bambino. Prendemmo in considerazione la fecondazione artificiale. Entrambi eravamo contrari, sebbene io lo fossi più di lei. Quando è nata, Maryanne aveva i capelli castani e gli occhi azzurri. Molti bambini all'inizio hanno occhi azzurri, che poi prendono il colore di quelli dei genitori. Perciò, solo in questi ultimi mesi ho cominciato a capire che qualche cosa non quadrava. Non che me ne importi. Quella bambina è tutto per noi». Guardò Richard. «Mia moglie è perfino incapace di dire una bugia, diciamo così, da salotto. È la persona più onesta che abbia mai conosciuto. Il mese scorso ho voluto appianarle la
strada e le ho detto che avevo avuto torto a proposito della fecondazione artificiale, che capivo benissimo che tanta gente vi ricorresse.» «E quale è stata la sua reazione?» chiese Richard. «Ha capito dove miravo, naturalmente. Ha detto che se credevo che lei avesse potuto prendere una decisione del genere senza dirmelo, significava che non avevo capito niente del nostro rapporto. Io mi sono scusato, le ho giurato che non ci pensavo affatto; ho cercato in tutti i modi di rassicurarla. Alla fine mi ha creduto.» Guardò la fotografia che aveva in mano: «Ma, naturalmente, so che mentiva», aggiunse, come a se stesso. «Oppure non sa che cosa le ha fatto Highley», disse Richard reciso. 57 Dannyboy Duke attraversò zigzagando la Terza avenue, diretto in gran fretta verso la Cinquantacinquesima e la Seconda dove aveva parcheggiato la macchina. La donna si era accorta della mancanza del portafogli proprio mentre lui saliva sulla scala mobile. L'aveva sentita gridare: «Quell'uomo, quello con i capelli neri! Mi ha scippata». Si era fatto largo a spintoni tra la ressa di clienti che affollava il piano principale da Alexander, ma quella strega si era precipitata dietro di lui sulla scala mobile, urlando e segnandolo a dito mentre usciva dalla porta. Era probabile che l'agente di guardia davanti all'ingresso lo stesse inseguendo. Se solo fosse riuscito a raggiungere la macchina. Non poteva sbarazzarsi del portafogli, gonfio com'era di biglietti da cento dollari. Li aveva visti e aveva bisogno di una dose. Era stata una buona idea andare nel reparto pellicce di Alexander. Le clienti del grande magazzino erano fornite di contanti, per evitare la trafila di controlli necessari per gli assegni o le carte di credito. L'aveva scoperto lavorando lì come magazziniere, quando ancora frequentava le secondarie. Quella sera si era infilato una giacca che gli dava l'aria da magazziniere e nessuno gli aveva badato. La donna aveva una di quelle borse molto grandi, aperte e la teneva da una cinghietta mentre rovistava tra le pellicce. Era stato facile estrarne il portafogli. Chissà se lo stavano seguendo. Non osava guardarsi alle spalle per paura di attirare troppa attenzione su di sé. Meglio correre rasentando i palazzi. Tutti camminavano in fretta, con quel maledetto freddo. Finalmente poteva permettersi una dose, un sacco di dosi.
Entro un minuto sarebbe stato in macchina, non più uno che corre per la strada. Si sarebbe allontanato, attraversando il ponte della Cinquantanovesima, e avrebbe raggiunto casa sua, in Jackson Heights. Si sarebbe fatto. Si guardò alle spalle. Nessuno che lo inseguisse, niente polizia. La sera prima era stata schifosa: il portiere che quasi lo pizzicava mentre forzava l'auto di quel medico. E per che cosa aveva corso un rischio simile? Nella borsa non c'erano droghe: solo una cartella clinica, un fermacarte sporco e una scarpa vecchia, Cristo. Poi la borsa scippata alla vecchia, con dieci luridi dollari: a malapena aveva potuto procurarsi la roba necessaria a superare la giornata. Le due borse, quella della vecchia e quella del medico, erano sul sedile posteriore della sua macchina. Doveva sbarazzarsene. Raggiunse l'automobile, l'aprì, sgusciò dentro. Mai e poi mai, per quanto squattrinato potesse essere, l'avrebbe data via. I poliziotti non si aspettano che te la fili in macchina: quando ti scoprono, controllano le stazioni della metropolitana. Infilò la chiave dell'accensione e avviò il motore. Prima ancora di vedere il balenio della luce sul tetto, sentì la sirena della macchina della polizia che sopraggiungeva come un bolide, percorrendo la strada in senso vietato. Manovrò per uscire dal parcheggio, ma la macchina della polizia lo bloccò. Un poliziotto, la mano sul calcio della pistola, balzò fuori. I fari lo abbagliavano. L'agente spalancò la portiera, guardò dentro e tolse la chiave dell'accensione. «Dannyboy», esclamò. «Siamo ancora a questo punto? Non impari mai qualche nuovo giochetto? Adesso fuori, maledizione, tieni le mani bene in vista e lasciati leggere i tuoi dannati diritti costituzionali. Sei a che cosa... una terza recidiva? Calcola da dieci a quindici anni, se il giudice è clemente.» 58 L'aereo girava sopra Newark. La discesa era difficoltosa. Chris lanciò un'occhiata a Joan, che gli stringeva una mano. Sapeva che non aveva niente a che vedere con il volo. Joan ignorava la paura in aereo. L'aveva sentita discutere con persone che odiavano volare: «Statisticamente, si è molto più sicuri in aereo che in macchina, in treno, in motocicletta o nella vasca da bagno», diceva. Il suo viso era tranquillo. Aveva insistito per bere qualcosa quando ave-
vano servito i cocktail. Nessuno dei due aveva cenato, però avevano preso il caffè. L'espressione del suo viso era seria, ma serena. «Chris», aveva detto, «posso sopportare qualsiasi cosa eccetto l'idea che Vangie si sia uccisa per causa mia. Non ti preoccupare di trascinarmi in questa storia. Tu di' la verità quando ti interrogano e non nascondere niente.» Joan. Se mai fossero riusciti a uscirne, avrebbero vissuto bene insieme. Era una donna. Chris aveva ancora tanto da scoprire su di lei. Non si era neppure reso conto di poter contare su di lei semplicemente dicendole la verità, forse abituato com'era a proteggere Vangie, a cercare di evitare le discussioni. Aveva tanto da scoprire su se stesso, oltre che su Joan. L'atterraggio fu brusco e parecchi passeggeri inveirono mentre l'aereo sobbalzava. Chris sapeva che il pilota aveva fatto un buon lavoro: c'era un fortissimo vento discendente; se fosse durato probabilmente avrebbero chiuso l'aeroporto. Joan gli sorrise. «Dev'essere stata la hostess a portarci giù.» Era una battuta comune nelle compagnie aeree. «O forse avevano molta fretta.» Rimasero silenziosi mentre l'aereo rullava verso l'uscita. La gente in attesa dei viaggiatori doveva aspettare oltre il cancello. Ma Chris non fu sorpreso di scorgere che ad accoglierlo c'erano i due agenti che erano andati a casa sua quando aveva trovato Vangie. «Comandante Lewis. Signorina Moore.» «Sì.» «Volete favorire con noi.» La voce di Ed era formale quando si rivolse a lui: «Devo informarla che è indiziato della morte di sua moglie, Vangie Lewis, e anche di diversi altri possibili omicidi. Tutto quello che dirà potrà essere usato contro di lei. Non è obbligato a rispondere alle nostre domande ed è suo diritto chiamare un avvocato». Joan rispose per lui: «Non ha bisogno di un avvocato e vi dirà tutto quello che sa». 59 Molly si appoggiò allo schienale appena l'orchestra accennò le battute iniziali dell'Otello. Bill adorava l'opera, a lei piaceva. Ciò spiegava in parte il fatto che non riuscisse a rilassarsi, mentre Bill era già totalmente assorbito dalla musica, un'espressione serena e pensosa dipinta sul viso. Lanciò
qualche sguardo intorno a sé: il Met era strapieno, come il solito. I loro posti erano ottimi, com'era logico dato che Bill li aveva pagati ben settanta dollari. I grandi lampadari brillavano, poi le luci cominciarono ad affievolirsi e si dissolsero nell'oscurità. Avrebbe dovuto insistere per andare a trovare Katie in ospedale quella sera stessa. Bill non capiva, non poteva capire, il suo terrore degli ospedali e non si poteva fargliene una colpa, dal momento che Katie si vergognava di parlarne. Il brutto era che la sua paura era giustificata: il babbo non era stato soccorso tempestivamente, il vecchio che divideva la sua stanza lo aveva detto chiaro. Perfino Bill ammetteva che negli ospedali si facevano tanti sbagli. Sobbalzò agli applausi che salutavano la discesa dalla nave di Placido Domingo: non aveva sentito niente dell'opera. Bill si voltò a guardarla e lei cercò di assumere un'espressione deliziata. Dopo il primo atto avrebbe telefonato a Katie. Ciò avrebbe contribuito a rassicurarla. Sarebbe bastato sentire dalla sua voce che andava tutto bene. E, quant'è vero Dio, sarebbe andata in ospedale la mattina dopo, presto, prima dell'intervento, per assicurarsi che Katie non fosse troppo nervosa. Il primo atto le parve interminabile: non si era mai accorta che fosse così lungo. Finalmente arrivò l'intervallo. Molly rifiutò la proposta di Bill di andare a bere un bicchiere di champagne nel foyer e si affrettò verso un telefono. Rapidamente formò il numero, infilando nella fessura le monete necessarie. Qualche minuto più tardi, pallidissima, tornò di corsa da Bill. Quasi singhiozzava, gli si aggrappava al braccio. «È successo qualcosa, è successo qualcosa... Ho telefonato in ospedale. Non hanno voluto passarmi la camera di Katie, hanno detto che il professore aveva proibito le telefonate. Mi sono fatta passare l'infermiera di turno e ho insistito perché andasse a controllare Katie. È tornata subito, è molto giovane, aveva una crisi isterica. Katie non è nella sua camera. È scomparsa.» 60 Uscendo dalla camera di Katie, un sorriso di soddisfazione gli aleggiava sulle labbra. Tutto procedeva a dovere. Le pillole avevano prodotto il loro effetto: c'era un inizio di emorragia e quel dito dimostrava che il sangue aveva perso la capacità di coagulazione. Era sceso al secondo piano e si era fermato dalla signora Aldrich. Il neo-
nato era in una culla accanto al letto della madre; anche il padre era nella camera. Rivolgendo un sorriso misurato ai genitori, si era chinato sul bambino. «Proprio un bell'esemplare», aveva dichiarato. «Credo che non lo scambieremo.» Sapeva che i suoi tentativi di umorismo erano maldestri, ma qualche volta era necessario. Si trattava di persone importanti, molto importanti: Delano Aldrich poteva convogliare sul Westlake migliaia di dollari dei fondi per la ricerca, che appunto avrebbero reso possibile potenziare le ricerche. Avrebbe potuto lavorare in laboratorio su animali, riferire i suoi successi. Poi, quando avesse cominciato a lavorare sulle donne alla luce del sole, tutta la sperimentazione degli anni precedenti gli avrebbe inevitabilmente procurato un successo immediato. Il fatto che la gloria non fosse ancora giunta non significava necessariamente che non sarebbe mai arrivata. Delano Aldrich guardava suo figlio con un viso che tradiva rispetto e ammirazione. «Professore, ancora non riusciamo a crederci. Tutti gli altri si erano sbagliati.» L'ostacolo principale era stata l'apprensione della donna. Se ne era accorto Fukhito: nella famiglia paterna di lei c'erano casi di distrofia muscolare e la donna sapeva che aveva la possibilità di essere portatrice. In più aveva un utero fibromatoso. Lui aveva pensato ai fibromi e la signora Aldrich era rimasta incinta. Allora aveva fatto un'analisi precoce del liquido amniotico e aveva potuto rassicurarla a proposito della distrofia. Rimaneva il fatto che era una donna di tipo molto emotivo, quasi ipertiroideo. Più di dieci anni prima aveva avuto due aborti spontanei. L'aveva tenuta a letto negli ultimi due mesi della gravidanza. E aveva funzionato. «Ritornerò domani mattina.» Sarebbero stati due testimoni zelanti a suo favore se qualcosa nella morte di Katie DeMaio fosse risultato sospetto. Ma non ci sarebbero stati problemi del genere. Il calo di pressione sarebbe stato registrato sulla cartella clinica. L'intervento di emergenza si sarebbe svolto in presenza delle infermiere più stimate. Avrebbe perfino chiesto l'intervento del chirurgo del pronto soccorso e di turno quella notte c'era Molloy: un brav'uomo, il migliore. Molloy avrebbe potuto dire ai familiari di Katie e all'ufficio della procura che era stato impossibile arrestare l'emorragia, che il professor Highley aveva diretto una équipe medica la quale aveva lavorato in modo frenetico. Congedatosi dagli Aldrich, era andato dall'infermiera Renge: era stato molto abile nel manipolare i turni in modo da far capitare lei quella notte. Un'infermiera più esperta avrebbe controllato Katie ogni dieci minuti. Ma
non era il caso della Renge. «Infermiera Renge.» «Professore.» Si era alzata di scatto, agitando nervosamente le mani. «Sono preoccupato per la signora DeMaio. La pressione è bassa, ma entro i limiti normali. Tuttavia temo che l'emorragia vaginale sia stata più grave di quanto la signora pensi. Io esco a cenare, ma tornerò. Voglio che sia pronto l'esame emocromocitrometrico. Non voglio angosciarla, ha il terrore degli ospedali, da sempre, ma non mi sorprenderebbe che dovessimo operare stanotte. Deciderò al mio ritorno, tra circa un'ora. L'ho convinta a non mangiare stasera, se chiedesse qualsiasi cibo solido non glielo dia.» «Sì, professore.» «Le dia il sonnifero e non le faccia capire in nessun modo che forse sarà necessario operarla d'urgenza. È chiaro?» «Sì, professore.» «Benissimo.» Si era fatto un dovere di parlare con parecchie persone nell'ingresso principale. Aveva deciso di cenare nel ristorante adiacente al giardino dell'ospedale. Non era male, si poteva ordinare una bistecca decente e lui voleva, in seguito, poter presentare l'immagine del medico coscienzioso. Ero preoccupato per la signora DeMaio. Anziché rincasare ho cenato qui vicino e sono tornato direttamente in ospedale per ricontrollarla. Grazie al cielo l'ho fatto. Almeno, abbiamo tentato il possibile. Altro particolare importante. Anche in una nottataccia come quella, non sarebbe stato strano andare a piedi fino al ristorante. Così, non si sarebbe potuto determinare con sicurezza quanto tempo fosse stato fuori. Perché, aspettando che gli servissero il caffè, avrebbe fatto l'ultima mossa necessaria. Aveva lasciato Katie alle sette e cinque. Alle otto meno un quarto era al ristorante. A Katie il sonnifero sarebbe stato somministrato alle otto, un sonnifero molto forte, che l'avrebbe messa immediatamente fuori combattimento, dato il suo stato di debolezza. Alle otto e mezzo avrebbe potuto con tutta sicurezza salire al terzo piano passando dalle scale di servizio, entrare nel salotto dell'appartamento, assicurarsi che Katie dormisse e praticarle l'iniezione di eparina, il potente anticoagulante che, associato alle pillole che le aveva già somministrato, avrebbe fatto cadere la pressione sanguigna e diminuire il numero dei globuli. Poi sarebbe ritornato al ristorante per prendere il caffè, avrebbe pagato il
conto e avrebbe fatto ritorno in ospedale. Avrebbe portato con sé l'infermiera Renge per controllare Katie. Dieci minuti dopo, sarebbe stata in sala operatoria. Gli aveva reso le cose più facili evitando di ricevere visite quella sera. Naturalmente, quella eventualità non l'avrebbe colto impreparato, perché in quel caso avrebbe messo l'eparina nella trasfusione che le sarebbe stata praticata durante l'intervento. Sarebbe stato un metodo altrettanto efficace, sebbene più rischioso. La bistecca era discreta. Strano che simili circostanze gli mettessero tanto appetito. Avrebbe preferito rimandare la cena a quando tutto fosse risolto, ma sarebbe stato quasi impossibile. Non avrebbero potuto rintracciare la sorella di Katie fin dopo la mezzanotte, dato che era all'opera, e lui avrebbe dovuto aspettarla in ospedale, dirle qualche parola di conforto. Lei si sarebbe ricordata, in seguito, quant'era stato gentile il professore. Insomma, prima delle due o delle tre non sarebbe rientrato e non poteva restare digiuno tutto quel tempo. Si era concesso un bicchiere di vino. Avrebbe preferito la solita mezza bottiglia, ma quella sera non era possibile. Comunque, anche quell'unico bicchiere lo aveva riscaldato, lo aveva reso lucido, aiutandolo a passare mentalmente in rassegna tutte le eventualità, a prevedere l'inaspettato. Il pericolo sarebbe completamente cessato nella notte. La sua borsa non era ricomparsa, né probabilmente sarebbe mai ricomparsa. Eliminata la minaccia di Salem: a proposito della sua morte i giornali dicevano che era «caduto» o si era «gettato». Edna doveva essere stata sepolta nella mattinata. Vangie Lewis il giorno prima. Il mocassino rimasto nel cassetto di Edna non avrebbe detto nulla a chi avesse ereditato quei suoi quattro stracci. Una settimana terribile. E talmente inutile. Doveva essergli concesso di continuare il suo lavoro alla luce del sole. Solo una generazione prima la fecondazione artificiale era considerata immorale e a quel punto migliaia di bambini ogni anno nascevano grazie a quel metodo. Tornando indietro di qualche secolo, gli arabi riuscivano a distruggere i loro nemici facendo infiltrare nei loro campi uomini che avevano il compito di fecondare le giumente con cotone inzuppato dello sperma di stalloni di qualità inferiore. Geniale da parte loro aver pensato a un simile espediente. Geni erano pure quei medici che avevano portato a termine con successo le prime fecondazioni in provetta. Ma il suo genio li superava tutti. E nulla gli avrebbe impedito di mietere
le ricompense che gli erano dovute. Il premio Nobel. Un giorno o l'altro gliel'avrebbero attribuito, per il suo contributo a una medicina che prima di lui non era parsa neppure possibile. D'un sol colpo aveva risolto il problema dell'aborto e quello della sterilità. E la cosa tragica era che, se ciò fosse stato noto, come Copernico sarebbe stato considerato un criminale. «La cena andava bene, professore?» La cameriera aveva un volto familiare... ah, sì: qualche anno prima l'aveva fatta partorire: un maschio. «Benissimo, grazie. E come sta suo figlio?» «Splendidamente, professore, proprio splendidamente.» «Ottimo.» Incredibile che quella donna e suo marito avessero potuto pagare le sue parcelle: semplicemente l'avevano fatto con il denaro messo da parte per la caparra di un appartamento. Dopotutto, la donna aveva avuto quello che voleva. «Vorrei un cappuccino, per favore.» «Certo, professore, però dovrà aspettare una decina di minuti.» «Va bene. Intanto farò qualche telefonata.» Si sarebbe allontanato per meno di dieci minuti e la cameriera non avrebbe notato la sua assenza. Guardando dalla finestra, notò che aveva smesso di nevicare. Non poteva, naturalmente, riprendere il cappotto al guardaroba. Sgusciando dalla porta laterale attigua al corridoio dove si trovavano i telefoni e le toilette, ripercorse precipitosamente la strada fatta poco prima. Il freddo gli mordeva il viso, ma lui quasi non se ne accorse: stava programmando ogni fase della sua azione. Era facile tenersi nell'oscurità. Aveva la sua chiave dell'uscita di sicurezza sul retro dell'ala della maternità. Nessuno passava mai di lì. Entrò. Le scale erano bene illuminate. Spense la luce: in quell'ospedale avrebbe potuto trovare la strada a occhi chiusi. Al terzo piano aprì cautamente la porta e rimase in ascolto: non sentì niente. Silenziosamente entrò nel corridoio e un attimo dopo era nel salotto dell'appartamento di Katie. Aveva già previsto e risolto un altro problema, cioè l'eventualità che qualcuno l'avesse accompagnata in ospedale, la sorella, un'amica, e che avesse chiesto di trascorrere la notte sul divano letto del salotto. Il Westlake incoraggiava apertamente il fatto che qualche congiunto passasse la notte con il paziente, se questi lo desiderava. Facendo ridipingere il salotto, aveva scongiurato efficacemente una tale possibilità. Pianificare, pianificare. Era tutto lì il segreto: utile e necessario nella vita come in laboratorio.
Quel pomeriggio aveva lasciato la siringa con l'eparina nel cassetto di un tavolino che gli imbianchini avevano ricoperto con i teli, assieme agli altri mobili. La luce del parcheggio che filtrava dalla finestra gli fu sufficiente a trovare subito il tavolino. Prese l'ago. Era giunto il momento cruciale. Se Katie si fosse svegliata e l'avesse visto, lui sarebbe stato in pericolo. D'accordo, probabilmente si sarebbe subito riaddormentata. Di certo, non avrebbe mai messo in dubbio l'iniezione. Ma quando, in seguito, tornando assieme all'infermiera Renge, se per una malaugurata ipotesi l'avessero trovata ancora sveglia e avesse accennato all'iniezione, sarebbe stato pericoloso. Oddio, non che non si potesse spiegare facilmente: era confusa, si riferiva ai prelievi di sangue per le analisi. A ogni modo, meglio che non si svegliasse. Era nella camera di lei. Si chinò sul letto. Le prese il braccio. Le tende erano in parte aperte e una fievole luce filtrava nella camera. Poteva scorgere il suo profilo. Il viso era voltato dall'altra parte. Il respiro irregolare. Parlava nel sonno, ma lui non riuscì a cogliere le parole: probabilmente stava sognando. Le infilò l'ago nel braccio, iniettò il liquido. Lei aggrottò la fronte e sospirò. Gli occhi, pesanti di sonno, si aprirono mentre girava il capo. In quella luce incerta lui riuscì a vedere le pupille dilatate. Lo guardava con un'aria perplessa. «Professor Highley», mormorò, «perché ha ucciso Vangie Lewis?» 61 Scott Myerson era più stanco che seccato. Dal ritrovamento del cadavere di Vangie Lewis, martedì mattina, erano morte altre due persone. Due persone irreprensibili: una segretaria tutta casa e lavoro, che si meritava qualche anno di libertà dopo aver mantenuto e curato gli anziani genitori; e un medico che aveva dato preziosi contributi alla medicina. Erano morti perché lui non si era mosso abbastanza in fretta. Chris Lewis era un assassino, non aveva dubbi. La rete che si stava chiudendo intorno a lui non presentava la minima falla. Perché non si erano resi conto subito che la morte di Vangie Lewis era un omicidio? Avrebbe dovuto trattenere immediatamente il marito per interrogarlo. Forse sarebbero riusciti a farlo crollare ed Edna Burns ed Emmet Salem a quel punto sarebbero stati vivi. Scott non poteva aspettare il buon volere del caso per mettere le mani su
Lewis. Un uomo capace di uccidere la propria moglie incinta poteva commettere qualsiasi delitto a sangue freddo. Lewis lo aveva dimostrato. Era il peggior tipo di criminale, quello che non ne ha proprio l'aspetto. Quello del quale uno si fida e a cui perciò volta le spalle. Lewis e la sua amica sarebbero atterrati alle sette. Per le otto sarebbero stati da lui. Lewis era freddo e calmo, benissimo. Aveva capito che era meglio non scappare e pensava di poter salvare la faccia. Sapeva che era un caso esclusivamente indiziario. Ma le prove indiziarie potevano rivelarsi molto migliori di una testimonianza oculare se presentate come si deve in giudizio. Il procuratore in persona avrebbe condotto il processo. Sarebbe stato un piacere per lui. Alle otto meno dieci Richard entrò nell'ufficio di Scott. Non perse tempo in preliminari. «Credo che abbiamo scoperchiato una fogna», disse. «Una fogna che si chiama Programma Maternità Westlake.» «Se vuoi dire che lo strizzacervelli probabilmente se la spassava con Vangie Lewis, sono d'accordo», ribatté Scott. «Ma mi pareva che lo avessimo già chiarito nel pomeriggio. In ogni caso, sarà piuttosto facile scoprirlo. Fatti fare le analisi del sangue del feto e possiamo incastrare Fukhito. Non può rifiutare di sottoporsi all'analisi del sangue, un rifiuto sarebbe un'evidente ammissione di colpa. E se risulta provata un'altra attribuzione di paternità, quello ha chiuso con la medicina.» «Non sto parlando di questo», lo interruppe Richard, spazientito. «È a Highley che sto appresso. Credo che conduca esperimenti sulle pazienti. Ho appena parlato con il marito di una di loro: non è assolutamente il padre del bambino, eppure era presente al parto. Lui pensa che sua moglie si sia sottoposta alla fecondazione artificiale senza chiederglielo, ma per me le cose vanno ancora più in là. Io credo che Highley effettui la fecondazione artificiale all'insaputa delle pazienti. È così che donne in cura da lui hanno prodotto bambini-miracolo.» Scott sbuffò: «Vorresti dire che secondo te Highley avrebbe inseminato Vangie Lewis con lo sperma di un donatore orientale sperando di farla franca? Via, Richard.» «Forse non sapeva che il donatore era orientale. Può darsi che abbia commesso un errore.» «I medici non commettono errori del genere. Anche dando per buona la tua teoria... e francamente io non la bevo... questo non farebbe di lui l'assassino di Vangie Lewis.» «C'è qualcosa che non quadra in Highley», insistette Richard. «L'ho sen-
tito fin dalla prima volta che ho posato gli occhi su di lui.» «Ascolta, faremo delle indagini sulla maternità del Westlake. Nessun problema. Se sono state commesse delle infrazioni, lo scopriremo e li porteremo in giudizio. Se tu hai ragione e Highley sottopone a fecondazione artificiale donne non consenzienti, le buscherà. È un'evidente violazione della legge sui delitti contro la persona. Ma di lui ci preoccuperemo più in là. In questo momento prima di tutto devo pensare a Chris Lewis.» «Dammi retta», insistette Richard. «Per i controlli su Highley vai più indietro nel tempo. Io ho già cominciato a riguardare quei processi intentati contro di lui. Una donna, una certa signora Horan, deve venire qui tra poco a dirmi perché lo denunziò. Ma l'articolo del Newsmaker riferisce che prima di venire qui Highley era in Inghilterra, a Liverpool. Telefoniamo là e vediamo se non si può trovare qualche indizio di scorrettezza professionale. Ti diranno quello che sanno.» Scott si strinse nelle spalle: «E va bene, vai avanti». Il cicalino sulla scrivania si fece sentire. Alzò il ricevitore del telefono interno: «Lo porti qui», disse. Poi, lasciandosi andare contro lo schienale della sedia, guardò in faccia Richard. «Il vedovo inconsolabile, il comandante Lewis, è qui con la sua amante», disse. 62 Alla stazione di polizia, Dannyboy Duke era seduto su una sedia, miserevolmente ingobbito. Sudava; stavano per saltargli i nervi. Le sue braccia tremavano. Era dura a pensarci: altri trenta secondi e sarebbe stato in salvo. In quel momento sarebbe stato a casa sua e il sollievo benedetto della dose gli avrebbe inondato il corpo. Invece, quell'inferno umido di sudore. «Datemi una tregua», bisbigliò. Gli agenti non si lasciarono impressionare. «Dai tu a noi una tregua, Danny. Su questo fermacarte c'è del sangue. Chi hai colpito con questo fermacarte? Forza, Danny. Sappiamo che non è stata la vecchia signora a cui hai scippato la borsa ieri sera. Quella l'hai fatta cadere. Si è fratturata un femore. Una brutta faccenda, quando si hanno settantacinque anni, Danny. Pare che andrà a finire con la polmonite. Può darsi che muoia. È omicidio preterintenzionale, Dannyboy. Se tu ci aiuti, vedremo quello che possiamo fare per te, capito?» «Non so di che cosa stiate parlando», bisbigliò Danny.
«Ma certo che lo sai. La borsa del medico era nella tua macchina. E c'era pure quella della vecchia signora. Il portafogli che avevi appena sfilato da Alexander l'avevi in tasca. Sappiamo che hai rubato la borsa ieri sera. Hanno telefonato proprio al nostro distretto. Il portiere ti ha visto davanti al Carlyle, può identificarti. Ma chi hai colpito con il fermacarte, Danny? Parlacene un po'. E che cosa ci racconti della scarpa, Danny? Da quando in qua collezioni scarpe vecchie? Parlacene un poco.» «Era nella borsa», sussurrò Danny. I due agenti si guardarono. Uno di loro si strinse nelle spalle e si immerse di nuovo nel giornale che era sul tavolo davanti a lui. L'altro rimise nella borsa la cartella che aveva sfogliato fino a quel momento. «Benissimo, Danny. Adesso telefoniamo al professor Salem per sapere che cosa aveva in questa borsa. Così risolviamo la questione. Potrebbe essere più facile se tu collaborassi. Dovresti aver vissuto abbastanza per capirlo.» Il primo agente alzò gli occhi dal giornale. «Il professor Salem?» La voce era allarmata. «Sììì. C'è scritto il suo nome sulla cartella. Ah, un momento. La targhetta della borsa dice professor Edgar Highley. Immagino che avesse la cartella di una paziente in cura da un altro medico.» Il più giovane dei due agenti si avvicinò al tavolo dell'altro con la copia del Daily News del mattino. Aprì la cartella ed esaminò i fogli di carta intestata che recavano l'intestazione PROF. EMMET SALEM. Poi indicò la terza pagina del Daily News: «Salem è quel medico che è stato trovato ieri sera sul tetto dell'ala aggiunta dell'Essex House. L'ufficio della procura della contea di Valley si sta occupando di questo caso assieme ai nostri». I due funzionari di polizia guardarono Dannyboy con rinnovato interesse, gli occhi stretti, pieni di sospetto. 63 Osservò Katie chiudere gli occhi e il suo respiro farsi di nuovo regolare. Si era riaddormentata. La domanda che aveva fatto a proposito di Vangie era riaffiorata dal suo inconscio, forse messa in moto da un riprodursi del suo stato mentale di lunedì notte. Forse non si sarebbe neppure ricordata di averla formulata, ma lui non poteva correre il rischio. Avrebbe potuto riparlarne davanti all'infermiera Renge o agli altri medici in sala operatoria prima che le fosse somministrata l'anestesia. Il suo cervello brancolava alla ricerca di una soluzione. Il fatto che lunedì notte lei fosse stata alla finestra
poteva ancora distruggerlo. Doveva ucciderla prima che l'infermiera Renge sopraggiungesse per il controllo. Aveva meno di un'ora. L'iniezione di eparina avrebbe avuto immediatamente l'effetto anticoagulante sul sangue, ma ci sarebbero volute diverse ore per completare il tutto. Era quello che lui aveva progettato, ma a quel punto non poteva più aspettare. Doveva praticarle immediatamente una seconda iniezione. Nel suo studio aveva dell'eparina. Non osava avvicinarsi al dispensario dell'ospedale. Avrebbe dovuto scendere dalle scale antincendio fino al parcheggio, entrare nello studio dall'ingresso privato, riempire di nuovo la siringa ipodermica e ritornare al terzo piano. Ci sarebbero voluti almeno cinque minuti. Al ristorante, la cameriera avrebbe cominciato a stupirsi della sua assenza prolungata, ma non poteva farci niente. Sicuro che Katie dormisse, uscì di corsa dalla camera. 64 Il tecnico del laboratorio di medicina legale della contea di Valley si trattenne oltre l'orario di lavoro quel venerdì sera. Il dottor Carroll gli aveva chiesto di raffrontare tutti i microscopici reperti provenienti dalla casa della presunta suicida Vangie Lewis con tutti i microscopici reperti prelevati nell'appartamento della presunta vittima di morte accidentale Edna Burns. Con infinita attenzione lui aveva setacciato il contenuto del sacchetto dell'aspirapolvere passato in casa Lewis e di quello passato nell'appartamento della Burns, diligentemente cercando qualche sostanza insolita. Il tecnico sapeva di essere dotato di uno straordinario istinto nei confronti delle prove microscopiche, di un fiuto che raramente gli faceva difetto. Lo interessavano particolarmente i capelli e gli piaceva dire: «Siamo come animali da pelliccia. È sorprendente quanti capelli perdiamo in continuazione, anche quelli di noi che sono praticamente calvi». Nei reperti provenienti da casa Lewis trovò in abbondanza capelli biondo cenere della vittima. Rinvenne anche, nella camera da letto, dei capelli castani: indubbiamente del marito, perché quegli stessi capelli si trovavano anche nel soggiorno e nel salottino. Ma nella camera da letto della vittima c'era anche una certa quantità di capelli grigiorossicci. Quello era un particolare fuori del comune: in cucina o nel soggiorno potevano trovarsi facilmente capelli provenienti da un ospite o da un fattorino, ma in camera da letto? Solo assai raramente gli e-
stranei alla famiglia vengono invitati a entrare nella camera da letto, perciò assume un particolare significato quanto viene trovato lì. Quelli, in particolare, appartenevano a un uomo, lo suggeriva automaticamente la lunghezza. Capelli dello stesso tipo si trovavano anche sul cappotto indossato dalla vittima. Poi il tecnico trovò quel punto di contatto che Richard Carroll stava cercando. Parecchi capelli biondorossicci con le radici grigie erano sull'accappatoio azzurro sbiadito di Edna Burns. Li studiò attentamente al potente microscopio e coscienziosamente li sottopose ai sedici punti della prova di controllo. Assolutamente non c'erano dubbi. La stessa persona era stata vicino a entrambe le donne morte; abbastanza vicino da tenere la testa accanto al petto di Edna Burns, da sfiorare con il capo la spalla di Vangie Lewis. Il tecnico si diresse al telefono e chiamò il dottor Carroll. 65 Aveva cercato di alzarsi. C'era stato un piccolo scatto, il chiudersi di una porta. Qualcuno era entrato nella stanza. Il braccio le doleva. Il professor Highley. Si era assopita... Che cosa aveva detto al professor Highley? Qualche minuto dopo Katie si svegliò e tutto le tornò alla mente: la macchina nera, i raggi scintillanti delle ruote e lo sfavillio sugli occhiali di lui. Aveva visto tutto ciò nella notte di lunedì. Il professor Highley aveva portato Vangie Lewis nella sua macchina lunedì notte. Il professor Highley aveva ucciso Vangie. Richard sospettava qualcosa. Aveva cercato di dirglielo, ma lei non l'aveva ascoltato. Il professor Highley sapeva che lei sapeva. Perché gli aveva fatto quella domanda? Doveva andarsene subito, o presto avrebbe ucciso anche lei. E tutti quegli incubi a proposito degli ospedali. Inconsciamente aveva sempre saputo che sarebbe morta in un ospedale. Dov'era andato Highley? Sarebbe tornato, lo sapeva, sarebbe tornato per ucciderla. Aiuto. Aveva bisogno di aiuto. Perché era così debole? Il dito sanguinava... Erano le pillole che lui le aveva dato: da quando le prendeva si sentiva così male. Le pillole. Erano loro a provocarle l'emorragia. Oh, Dio, ti prego, aiutami. Il telefono. Il telefono! Lo cercò a tentoni, lo urtò con la mano, debole e incerta. Scuotendo la testa, forzando gli occhi a rimanere aperti, lo tirò su dal filo e finalmente accostò il ricevitore all'orec-
chio. Era muto. Freneticamente, a più riprese, abbassò la forcella, cercando di entrare in contatto con il centralino. Il professor Highley aveva detto che stavano riparando il telefono. Suonò il campanello per chiamare l'infermiera. Lei l'avrebbe aiutata. Ma non ci fu il piccolo scatto a indicare che la luce fuori della porta si era accesa e Katie fu sicura che anche sul quadro dell'infermiera non si fosse accesa nessuna luce. Doveva andarsene prima che Highley tornasse. Ondate di capogiro le diedero la nausea quando si alzò in piedi. Doveva. Vangie Lewis. Quei lunghi capelli biondi, quella petulante, puerile smania di un bambino. Highley l'aveva uccisa. Aveva ucciso il suo bambino. Forse altri ancora? Scese dal letto, reggendosi alla testata. L'ascensore. Sarebbe scesa al secondo piano con l'ascensore. Lì c'erano altre persone, altre pazienti, infermiere. Udì una porta chiudersi non lontano dalla sua camera. Stava ritornando. Terrorizzata, guardò la porta aperta che dava sul corridoio: se fosse uscita di lì lui l'avrebbe vista. La porta del bagno non aveva chiave. L'armadio a muro: lì l'avrebbe trovata. Per pura forza di volontà riuscì ad arrivare, incespicando, fino alla porta di comunicazione con il salotto, l'aprì, entrò e se la chiuse alle spalle prima che lui entrasse nella camera da letto. Dove poteva andare? Lui l'avrebbe cercata immediatamente, non poteva rimanere lì. Se avesse cercato di raggiungere gli ascensori, sarebbe dovuta passare davanti alla porta aperta della camera da letto e lui l'avrebbe vista. Doveva uscire sul corridoio, girare a sinistra, percorrere il lungo tragitto fino all'ascensore. Era troppo debole per competere con lui, dove poteva andare? Sentì aprirsi una porta. Era nella camera da letto e la cercava. E se si fosse nascosta sotto i drappi messi dai pittori per proteggere i mobili? No, no, sarebbe rimasta intrappolata. Lui l'avrebbe trovata, l'avrebbe trascinata fuori. Si morse le labbra mentre lo stordimento artigliava lo spazio dietro i suoi occhi. Aveva le gambe molli, la bocca e la pelle arida. Inciampando arrivò alla porta del salotto, quella che dava sul corridoio. C'era un'altra porta nel corridoio, l'uscita di sicurezza. L'aveva vista quando l'avevano portata con la poltrona a rotelle. Da lì sarebbe scesa fino al secondo piano, avrebbe trovato aiuto. Era nel corridoio, un attimo ancora e lui sarebbe stato alle sue spalle. La porta che dava sulla scala antincendi era pesante; la tirò, la tirò anco-
ra... finalmente cedette. L'apri, varcò l'uscio. La porta si richiudeva così lentamente, chissà se lui l'avrebbe vista chiudersi? Le scale. Era buio, terribilmente buio, ma non poteva accendere la luce, lui l'avrebbe vista. Forse stava correndo per il corridoio verso l'ascensore. In quel caso lei avrebbe avuto un minuto di vantaggio. Aveva bisogno di quel minuto. Aiuto, aiuto. Si afferrò alla ringhiera, le scale erano ripide. I piedi nudi non facevano rumore. Quanti scalini per ogni rampa? Tredici. No, tredici erano nelle case. Lì c'era un pianerottolo dopo otto scalini, poi un'altra rampa. Ancora otto scalini, poi sarebbe stata salva. Sette... cinque... uno. Era arrivata alla porta, cercava di girare la maniglia. Era chiusa a chiave, si apriva solo dall'interno. Sopra di sé, sentì aprirsi la porta del terzo piano. Un passo pesante cominciò a scendere le scale. 66 Chris rifiutò di chiamare un avvocato. Sedeva di fronte al procuratore. Si era preoccupato tanto di quel colloquio, aveva avuto tanta paura che non gli credesse. Ma Joan gli credeva. Gli aveva detto: «È logico che sospettino te, Chris. Di' tutto quello che sai. Ricordati quello che dice la Bibbia: 'La verità vi farà liberi'». Chris spostò lo sguardo dal procuratore ai due agenti che l'avevano prelevato all'aeroporto. «Non ho niente da nascondere», dichiarò. Scott non parve impressionato. Arrivò un giovane dall'aria pedante con un blocco da stenografo, si sedette, aprì il blocco e prese una penna. Il procuratore guardò Chris negli occhi: «Comandante Lewis, è mio dovere informarla che lei è sospettato della morte di Vangie Lewis, di Edna Burns e del professor Emmet Salem. Può non parlare. Non è obbligato a rispondere a nessuna domanda. In qualsiasi momento può rifiutarsi di continuare a rispondere. Ha diritto all'assistenza di un avvocato. Tutto quello che dirà potrà essere usato contro di lei. Quanto le ho detto è perfettamente chiaro?» «Sì.» «Sa leggere?» Chris gli lanciò un'occhiata. Stava facendo dell'ironia? No, Scott era mortalmente serio. «Sì.» Il procuratore gli allungò un foglio attraverso il tavolo. «Qui sono scritti i diritti costituzionali, che lei ha appena sentito. La prego di leggerli con
attenzione. Si accerti di aver capito tutto e poi, se se la sente, firmi il foglio.» Lui lesse rapidamente, firmò e restituì il foglio. «Benissimo.» Scott lo mise da parte. A quel punto il suo atteggiamento cambiò, in un certo senso diventando più veemente. Chris capì che l'interrogatorio formale cominciava allora. Strano, pensò, ogni sera della tua vita, se ti va, puoi assistere a un film poliziesco o imperniato su un processo e non pensi mai che possa capitare a te. Il procuratore, era chiaro, pensava che lui avesse ucciso Vangie. Era una pazzia rifiutare l'avvocato? No. Il procuratore stava parlando: «Comandante Lewis, è stato sottoposto a maltrattamenti o è stato ingannato?» «No.» «Desidera bere un caffè, o mangiare qualche cosa?» Chris si passò la mano sulla fronte: «Vorrei un caffè, grazie. Ma sono pronto a rispondere a tutte le sue domande». Ma, malgrado tutto, non era preparato alla domanda di Scott: «Ha ucciso sua moglie, Vangie Lewis?» Chris gli rivolse uno sguardo schietto. «Non ho ucciso mia moglie. Non so se sia stata uccisa. Ma so questo: se è morta prima della mezzanotte di lunedì, non si è uccìsa a casa.» Scott, Charley, Phil e lo stenografo lo guardavano e lo stupore che i loro visi tradivano non era professionale; Chris, tranquillamente, stava dicendo: «Lunedì sera, poco prima della mezzanotte, sono stato a casa. Vangie non c'era. Me ne sono ritornato a New York. Alle undici del mattino seguente l'ho trovata nel suo letto. Solo quando l'incaricato delle pompe funebri è venuto a casa a prendere i vestiti con cui preparare mia moglie per il funerale e mi ha detto l'ora della morte, solo allora ho capito che doveva esser stata riportata a casa già morta. Ma anche prima avevo capito che c'era qualcosa che non quadrava. Mia moglie non si sarebbe mai messa, né avrebbe tentato di mettersi, le scarpe che calzava quando è stata trovata. Erano sei settimane che non riusciva a infilarsi altro che un paio di mocassini sformati dimenticati a casa nostra da una donna delle pulizie. Aveva la gamba e il piede destro molto gonfi. Usava quei mocassini anche come pantofole quando scendeva dal letto...» Era più facile di quanto non si fosse aspettato. Ascoltò le domande successive: «Lunedì sera lei ha lasciato l'albergo alle otto e vi ha fatto ritorno alle dieci. Dov'è andato?»
«In un cinema del Greenwich Village. Poi sono tornato al motel, ma non riuscivo a dormire; così ho deciso di prendere la macchina e arrivare fino a casa per parlare con Vangie. Era da poco passata mezzanotte.» «Perché non è rimasto ad aspettare sua moglie?» E poi la domanda che gli arrivò come una martellata allo stomaco: «Sapeva che il bambino che sua moglie stava portando era giapponese?» «Oh, Dio!» Si sentì pervadere da un'ondata di terrore misto a un senso di sollievo. Quel bambino non era suo. Giapponese. Lo psichiatra, possibile che fosse stato così carogna da farle una cosa simile? Lei aveva avuto una tale fiducia in lui. Oh, Dio, povera piccola, non c'era da stupirsi che avesse tanta paura del parto. Per quello doveva aver telefonato al professor Salem. Bambina com'era, aveva voluto nascondere quanto era accaduto. Le domande continuavano a piovere: «Lei non sapeva che sua moglie avesse una relazione con un altro uomo?» «No, assolutamente.» «Perché si è recato nell'appartamento di Edna Burns martedì sera?» Arrivò il caffè. Lui cercò di formulare nel miglior modo possibile la risposta: «Aspetti, per favore... posso raccontare come sono andate le cose?» Cominciò a sorseggiare il caffè, gli faceva bene. «È stato martedì sera, dopo che mi ero reso conto che Vangie era stata portata a casa già morta, che ha telefonato quella donna, Ednà Burns. Parlava in modo alquanto incoerente. Vaneggiava di Cenerentola e del Principe Azzurro, poi disse che aveva qualche cosa per me, qualche cosa che avrei voluto avere e che aveva una storia da raccontare alla polizia. Ho pensato che forse sapesse con chi era stata Vangie. Ho pensato che se me lo avesse detto non avrei avuto bisogno di raccontare che ero stato a casa lunedì notte. Volevo tenere Joan fuori di tutto questo.» Appoggiò sul tavolo la tazza di caffè, ricordando quel martedì sera: sembrava successo tanto tempo prima. Tutte le proporzioni erano falsate. «Con l'automobile ho raggiunto il complesso dove abitava la signorina Burns. Un ragazzino che stava portando a spasso il cane mi ha indicato il suo appartamento. Ho suonato il campanello e ho bussato alla porta. Il televisore era acceso e così la luce, ma lei non rispondeva; ho pensato che fosse svenuta e che fosse inutile cercare di parlarle. Dopotutto, forse era un po' suonata. Così sono ritornato a casa.» «Non è entrato per niente dalla Burns?» «No.» «Che ora era?»
«Circa le nove e mezzo.» «Bene. E poi, che cosa ha fatto?» Domande, una dopo l'altra; Chris bevve dell'altro caffè. La verità, la verità pura e semplice. Era molto più facile di qualunque sotterfugio. Pensò al futuro. Se gli avessero creduto, lui e Joan avrebbero avuto una vita da vivere insieme. Pensò al modo in cui lei lo aveva guardato quando gli aveva gettato le braccia al collo, la sera prima, a casa sua. Per la prima volta in vita sua, aveva capito che c'era qualcuno a cui poteva rivolgersi nei momenti difficili, qualcuno che sarebbe stato disposto a dividerli con lui. Tutti gli altri, Vangie, i suoi stessi genitori, si erano sempre appoggiati a lui. Nel bene, nel male. Per loro sarebbe stato il bene. Joan, amore, pensò. Fece un profondo respiro: gli stavano chiedendo del professor Salem. 67 Seduto alla scrivania di Katie, Richard aspettava che il direttore del Christ Hospital, nel Devon, gli rispondesse. Aveva dovuto insistere molto sull'urgenza di parlare con qualcuno che più di dieci anni prima avesse ricoperto una posizione di responsabilità nell'ospedale, per ottenere il numero del telefono privato di quella persona. Aspettando, si guardò intorno. Il tavolo dietro la scrivania di Katie era carico di fascicoli sui quali lei stava lavorando: non c'era da meravigliarsi che non si fosse concessa un po' di riposo dopo l'incidente. Tuttavia, per quanto occupata, sarebbe dovuta restare a casa. Quel pomeriggio l'aveva vista proprio uno straccio. E il fatto di aver perso quel processo doveva averla abbattuta ulteriormente. Si rammaricava di non averla vista prima che se ne andasse. Il telefono continuava a squillare. Il tipo doveva essere uscito, oppure stava dormendo. Forse si poteva aspettare fino al mattino. No. Voleva vederci chiaro subito. C'erano alcune istantanee in una cornice sulla scrivania di Katie. In una era ritratta con una donna anziana, probabilmente sua madre. Lui sapeva che viveva in Florida, da qualche parte. Katie con Jennifer, la più grande dei figli di Molly; Katie pareva appena la sorella maggiore di Jen. Ancora con un gruppo di persone in tute da sci: probabilmente gli amici con cui era stata nel Vermont. Nessuna fotografia di John DeMaio; logico, perché Katie non era certo il
tipo da ricorrere a mezzucci del genere per ricordare alle persone con cui aveva rapporti di lavoro che era la vedova di un insigne giudice. Ma certo, in tutta la casa, aveva una quantità di fotografie di lui. Il telefono continuava a squillare. Si concesse ancora un minuto. A un tratto si rese conto che l'assenza di una qualsiasi fotografia di un altro uomo sulla scrivania di Katie lo rendeva contento. Aveva cercato di analizzare la propria reazione quando Katie gli aveva detto che sarebbe stata fuori per il fine settimana. L'aveva attribuita alla sorpresa che lei si allontanasse mentre stava scoppiando un caso importante. Diavolo! Non c'entrava niente: gli dispiaceva semplicemente che potesse essere con un altro! «Pronto.» Era una voce seccata e insonnolita. Richard si raddrizzò, strinse il ricevitore. «Il signor Reeves? Il signor Alexander Reeves?» «Sì.» Richard entrò subito in argomento. «Mi scuso infinitamente per averle telefonato a quest'ora, ma si tratta di una faccenda di estrema importanza. Sto chiamando dagli Stati Uniti; sono il dottor Richard Carroll, medico legale della contea di Valley, New Jersey. Ho bisogno di alcune notizie sul professor Edgar Highley.» Ogni traccia di sonno svanì dal suo interlocutore. La sua voce si fece profonda e circospetta: «Che cosa vuole sapere?» «Ho appena parlato con la Queen Mary Clinic di Liverpool e sono stato sorpreso di apprendere che il professor Highley ha fatto parte dello staff medico di quella clinica per un periodo relativamente breve. Eravamo stati indotti a credere diversamente. Mi hanno però riferito che il professor Highley è stato membro del personale sanitario del Christ Hospital per almeno nove anni. Quest'informazione è esatta?» «Edgar Highley è stato interno da noi subito dopo la laurea a Cambridge. È un medico brillante e fu perciò invitato a entrare nello staff, come ostetrico e ginecologo.» «Perché se ne andò?» «Dopo la morte della moglie si stabilì di nuovo a Liverpool. In seguito abbiamo saputo che era emigrato negli Stati Uniti, il che non è eccezionale, naturalmente. Molti dei nostri medici non accettano il nostro sistema di medicina socializzata, con remunerazioni relativamente basse.» «Non vi furono altri motivi per le dimissioni del professor Highley?» «Non capisco la sua domanda.» Richard rischiò: «Credo che lei mi capisca benissimo, signor Reeves.
Naturalmente, si tratta di argomento strettamente confidenziale, ma io non posso perdere tempo facendole discorsi cauti e discreti. Credo che il professor Highley arrivi a condurre degli esperimenti su pazienti in gravidanza, forse anche a rischio della loro vita. Può dirmi qualcosa che suffraghi questa mia ipotesi?» Ci fu una lunga pausa; le parole che seguirono erano lente e ben ponderate: «Nel periodo trascorso da noi, il professor Highley non si limitava a praticare la sua professione medica, ma si interessava anche con molto zelo di ricerche prenatali. Condusse a termine esperimenti estremamente interessanti su embrioni di rane e di mammiferi. Poi un collega cominciò a sospettare che conducesse esperimenti su feti di aborti umani, il che è, naturalmente, proibito dalla legge». «Quali provvedimenti vennero adottati?» «La cosa fu tenuta nascosta, certo, ma Highley venne sorvegliato attentamente. Poi accadde una tragedia: la moglie del professor Highley morì all'improvviso. Non avevamo assolutamente modo di provarlo, ma nutrivamo il sospetto che avesse trapiantato in lei un feto abortito. Gli fu chiesto di dare le dimissioni. Naturalmente quanto le ho detto è del tutto confidenziale. Non esiste alcuna prova e io le chiedo di considerare questa conversazione riservatissima.» Richard assorbiva quello che aveva appreso. Dunque, il fiuto non l'aveva ingannato. Quante erano le donne che Highley aveva ucciso sottoponendole ai suoi esperimenti? Gli salì alle labbra un'altra domanda, un tentativo alla cieca, uno sparo nel buio. «Signor Reeves, conosce per caso un certo professor Emmet Salem?» La voce si fece immediatamente cordiale: «Certo che lo conosco. Un buon amico. Il professor Salem era legato all'ospedale da un contratto a tempo all'epoca dello scandalo Highley». 68 Silenziosamente, Katie scese veloce la rampa che portava al primo piano. Si afferrò disperatamente alla maniglia, cercò di aprire la porta, ma non c'era niente da fare: era chiusa a chiave. Il rumore dei passi, sopra di lei, si era interrotto: certamente stava controllando la porta del secondo piano, per assicurarsi che lei non gli fosse sfuggita. Il rumore dei passi ricominciò. Lui stava di nuovo scendendo. Inutile gridare, nessuno l'avrebbe sentita. Le pesanti porte erano di materiale incombustibile. Non le giungeva
nessun rumore proveniente dall'interno dell'ospedale. Eppure oltre quella porta c'erano tante persone: pazienti, infermiere, amici e parenti in visita. A meno di quindici centimetri da lei. Ma non potevano sentirla. Stava arrivando. L'avrebbe raggiunta, uccisa. Sentì un dolore sordo, profondo, al bacino. Stava perdendo molto sangue. I farmaci che lui le aveva dato, di qualunque cosa si trattasse, avevano provocato l'emorragia. Aveva le vertigini, ma doveva fuggire. Era riuscito a far apparire la morte di Vangie come un suicidio e poteva ancora farla franca. Disperatamente, riprese a precipitarsi per le scale; rimaneva un'ultima rampa, che probabilmente portava nel seminterrato, e lui avrebbe dovuto spiegare come e perché lei fosse arrivata fin lì. Più andava lontano, più domande gli avrebbero fatto. Inciampò sull'ultimo gradino. Non cadere, non farlo sembrare un incidente. Anche Edna era caduta, oppure?... Aveva ucciso anche Edna? Era in trappola. C'era un'altra porta, ma anche quella sarebbe stata chiusa a chiave. Scosse disperatamente la maniglia. Lui era sul pianerottolo a metà rampa. Nel buio, poteva intravedere i suoi movimenti, sentire una presenza incombente. La porta si aprì. Il corridoio era fiocamente illuminato. Si trovava nel seminterrato. Più avanti c'erano delle stanze, ma tutto era silenzioso, terribilmente silenzioso. Poi la porta sbatté, proprio dietro di lei. Dove nascondersi? Aiuto, aiuto. Vide un interruttore sulla parete e lo premette, macchiandolo di sangue. Il corridoio piombò nell'oscurità proprio nell'istante in cui, pochi passi dietro di lei, la porta delle scale antincendio si spalancava. 69 Highley era sospettato di aver provocato la morte della sua prima moglie. Il cugino di Winifred Westlake lo riteneva responsabile della morte della seconda moglie. Era un brillante ricercatore; era possibile che avesse condotto esperimenti su alcune delle sue pazienti. Era possibile che avesse inseminato Vangie Lewis con lo sperma di un donatore orientale. Ma perché? Come aveva potuto sperare di farla franca? Certamente conosceva il passato di Fukhito e forse avrebbe potuto accusare lui. Ma perché? Oppure si era trattato di un incidente, semplicemente si era sbagliato nella scelta dello sperma. Forse Vangie aveva avuto una relazione con Fukhito e i probabili esperimenti di Highley non avevano alcun rapporto con la sua gravi-
danza. C'era una serie di domande cui Richard non poteva dare risposta. Era seduto alla scrivania di Katie e girava tra le dita l'elegante penna di lei. Katie la portava sempre con sé; probabilmente quella sera l'aveva dimenticata per la fretta di andarsene. Ma, certo, doveva essere sconvolta. Il fatto di aver perso quel processo doveva averla molto scossa. Se la sarebbe presa molto, c'era un sacco di cose per cui se la prendeva molto. Se almeno avesse saputo dove trovarla. Voleva parlarle. Quel dito sanguinava in modo eccessivo. Doveva chiedere a Molly se sapeva che Katie avesse le piastrine diminuite. Poteva trattarsi di un problema serio. Un brivido gli fece irrigidire le dita: poteva essere un sintomo di leucemia. Oh, Dio, lunedì l'avrebbe trascinata da un medico, a costo di incatenarla. Un colpetto discreto fu bussato alla porta e Maureen si affacciò nell'ufficio. Aveva gli occhi, grandi e allungati, di un verde smeraldo. Begli occhi. Bella ragazza. «Dottor Carroll.» «Maureen, mi dispiace di averle chiesto di rimanere. Credevo che la signora Horan sarebbe arrivata da un pezzo.» «Non ha importanza. La signora Horan ha telefonato: è per strada, ha dovuto trattenersi più a lungo in ufficio. Ma ci sono due donne, di là, amiche di quella signorina Burns che è morta. Volevano vedere Katie, ho detto che se n'era andata e una delle due ha fatto il suo nome, dottore. Dice che l'ha conosciuta l'altra sera, nell'appartamento della signorina Burns. Una certa signora Fitzgerald.» «Fitzgerald?... Certo, la signora Fitzgerald è segretaria part-time al Westlake.» Il nome, Westlake, lo fece irrigidire. «Le faccia entrare, ma forse è meglio chiamare anche Scott.» «Non si può assolutamente disturbare il procuratore Myerson: sta interrogando il comandante Lewis assieme a Charley e a Phil.» «Va bene. Parlerò io a quelle donne e se appena c'è qualche cosa le farò aspettare.» Entrarono insieme. Gli occhi di Gana scintillavano per l'eccitazione; a malincuore aveva deciso di non mettersi la pelliccia di leopardo di Edna, era proprio troppo presto, ma la sua storia da raccontare l'aveva. Gertrude teneva il mocassino in un sacchetto di carta. I suoi capelli grigi erano impeccabili; portava un foulard armoniosamente annodato al collo. Il ricordo della buona cena stava svanendo e desiderava soprattutto tornare
a casa e mettersi a letto. Però era contenta di parlare con il dottor Carroll: gli avrebbe raccontato che quella sera, nell'appartamento della povera Edna, il professor Highley aveva aperto il cassetto del comodino e là dentro non c'era niente eccetto la scarpa. Il dottor Carroll credeva forse che il professor Highley volesse prendere quella scarpa, per chissà quale ragione? Alla signora DeMaio interessava tanto quella storia del Principe Azzurro. Forse anche il dottor Carroll voleva saperla; avrebbe potuto raccontarla alla signora DeMaio al suo rientro, lunedì. Lui le stava guardando con aria interrogativa. Gertrude si sporse in avanti, scosse il sacchetto di carta e lasciò cadere sulla scrivania di Katie il mocassino malandato. Poi, compitamente, cominciò a spiegare: «Questa scarpa è il motivo per cui siamo qui». 70 Procedeva zigzagando lungo il corridoio. Forse lui sapeva dov'era l'interruttore della luce, ma avrebbe osato accendere? E se laggiù ci fosse stato qualcuno? Avrebbe dovuto provare a gridare? Lui conosceva il suo ospedale. Dove poteva nascondersi? Aveva visto una porta all'estremità del corridoio, l'ultima porta. Forse lui avrebbe aperto prima le altre. Poteva chiudersi a chiave in qualche posto. Ignorare le porte che si aprivano sul corridoio e proseguire dritta fino alla parete in fondo. La porta era proprio nel mezzo. Il suo dito sanguinava. Avrebbe cercato di macchiarla. Se l'infermiera, durante il suo giro di controllo, non l'avesse trovata, avrebbero cominciato a cercarla e forse avrebbero notato le macchie di sangue. Lui ancora non si muoveva. Era teso per cogliere il minimo rumore. Avrebbe scorto un'ombra quando lei avesse aperto la porta? Tendendo la mano davanti a sé, Katie sfiorò una parete fredda. Oh, Dio, fa' che la trovi. La sua mano corse lungo il muro e incontrò il telaio di una porta. Dietro di sé, udì un leggero cigolio: lui aveva aperto la prima porta. Ma a quel punto non si sarebbe curato di cercarla lì. Doveva essersi reso conto che, non avendo udito quel cigolio prima, lei non era entrata in quella camera. La sua mano trovò una maniglia, la girò decisa, strusciandovi contro il dito ferito. Un intenso odore di formaldeide le riempì le narici. Alle sue spalle le arrivò un rumore di passi affrettati. Troppo tardi, era troppo tardi. Tentò di richiudere la porta, ma era tutta spalancata. Inciampò e cadde. La testa le girava terribilmente. Tese la mano e toccò la stoffa di un pantalone.
«È finita, Katie», mormorò il professor Highley. 71 «È sicuro che questa scarpa fosse di sua moglie?» chiese Scott. Stancamente, Chris annuì: «Assolutamente sicuro. Questa era quella che le calzava così larga... la sinistra». «Quando Edna Burns le ha telefonato, le ha detto di avere questa scarpa?» «No, ha detto che aveva qualcosa da raccontare alla polizia e che mi voleva parlare.» «Lei non ha avuto l'impressione che fosse un ricatto... una minaccia?» «No, era piuttosto una loquacità da ubriachi. Sapevo che era del Westlake, ma non capii, allora, che era la segretaria di cui mi aveva spesso parlato mia moglie. Vangie diceva che Edna la prendeva sempre in giro a proposito delle sue scarpine di vetro.» «Va bene. La sua dichiarazione sarà immediatamente battuta a macchina. La legga attentamente, la firmi se la trova esatta e poi può andare a casa. Vogliamo di nuovo parlare con lei domani mattina.» Per la prima volta Chris ebbe la sensazione che il procuratore cominciasse a credergli. Si alzò per andarsene. «Dov'è Joan?» «Ha terminato di rilasciare una dichiarazione. Può andar via con lei. Ah, un'altra cosa: qual è la sua impressione del professor Highley?» «Non l'ho mai visto.» «Ha letto questo articolo che parla di lui?» Scott gli porgeva il Newsmaker. Chris scorse l'articolo e la fotografia del professor Highley. «L'avevo visto ieri sull'aereo per New York.» Poi qualcosa scattò nella sua memoria. «Ecco», disse. «Ecco quello che non riuscivo a collegare.» «Di che cosa sta parlando?» chiese Scott. «È questo l'uomo che scendeva dall'ascensore all'Essex House ieri sera, mentre stavo cercando di telefonare al professor Salem.» 72 Highley accese la luce. Come attraverso una nebbia, Katie vide il suo viso dalle guance piene, gli occhi sporgenti che la fissavano, la pelle lucida
di sudore, i capelli rossicci che gli cadevano disordinatamente sulla fronte. Riuscì barcollando a rimettersi in piedi. Si trovava in un ambiente piccolo che pareva una sala d'aspetto. Faceva molto freddo. Alle sue spalle c'era una spessa porta di acciaio; indietreggiò di nuovo appoggiandosi alla porta. «Mi ha reso le cose così facili, signora DeMaio.» Le stava sorridendo. «Tutti quelli che la conoscono sanno della sua paura per gli ospedali. Quando, tra qualche minuto, l'infermiera Renge e io faremo il giro di controllo, penseremo che lei se ne sia andata dall'ospedale. Telefoneremo a sua sorella, ma non sarà a casa se non tra qualche ora, vero? Solo molto più tardi cominceremo a cercarla all'interno dell'ospedale. Certamente a nessuno verrà in mente di cercarla qui. «Stasera è morto un vecchio al pronto soccorso e lo hanno messo in uno di quei loculi; quando domani mattina verrà l'incaricato delle pompe funebri a ritirare il cadavere, troverà anche lei. Allora sarà chiaro quanto è successo. Lei aveva un'emorragia, ha perso il senso dell'orientamento, era quasi in coma. Per una tragica fatalità, è arrivata quaggiù ed è morta dissanguata.» «No.» Il volto di lui era sempre più sfocato. Le girava terribilmente la testa, si sentiva ondeggiare. Highley la fece da parte, aprì la porta d'acciaio, la spinse dentro, la sostenne mentre scivolava a terra. Era svenuta. Inginocchiato accanto a lei, le iniettò l'ultima dose di eparina: probabilmente non avrebbe ripreso conoscenza, ma anche se così non fosse stato non avrebbe potuto cavarsela. La porta non si apriva dall'interno. La guardò pensoso, poi si rialzò e con la mano spazzolò i pantaloni sporchi di polvere. Finalmente, con Katie DeMaio aveva concluso. Chiuse la porta d'acciaio che divideva i loculi dall'ingresso dell'obitorio e spense la luce. Aprì con cautela l'uscio che dava sul corridoio e lo percorse in fretta, uscendo poi nel parcheggio dalla stessa porta attraverso la quale, un quarto d'ora prima, era entrato in ospedale. Qualche minuto dopo, sorseggiava il suo cappuccino tiepido, rifiutando con un gesto della mano l'offerta di uno caldo da parte della cameriera. «Al telefono ho perso un po' più tempo del previsto», spiegò. «E adesso devo ritornare in fretta in ospedale: ho una paziente per la quale sono molto preoccupato.» 73
«Buona notte, dottor Fukhito. Sto molto meglio, grazie.» Il viso ancora quasi infantile riuscì a produrre un sorriso. «Sono contento. Dormi bene stanotte, Tom.» Jiro Fukhito si alzò lentamente. Il giovane ce l'avrebbe fatta; aveva sofferto di una terribile depressione con pulsioni suicide per parecchie settimane. Mentre guidava a centoquaranta l'ora aveva avuto un incidente, nel quale suo fratello minore aveva perso la vita. Dolore e senso di colpa, opprimenti, erano stati più di quanto il ragazzo fosse in grado di sopportare. Jiro Fukhito sapeva di averlo aiutato a superare il peggio. Il suo lavoro poteva essere così gratificante, rifletté percorrendo lentamente il corridoio del Valley Pines Hospital. Il lavoro che svolgeva lì, il lavoro volontario... era lì che avrebbe voluto esercitare. In realtà, aveva fatto abbastanza anche per molte pazienti del Westlake. Ma ce n'erano altre cui non aveva dato nessun aiuto, che non gli era stato permesso di aiutare. «Buona notte, dottore.» Molti pazienti del reparto psichiatrico lo salutarono mentre si dirigeva all'ascensore. Gli avevano chiesto di entrare a far parte dell'organico del Valley Pines a tempo pieno e lui desiderava sinceramente accettare l'offerta. Ma era giusto mettere in moto l'indagine che inevitabilmente lo avrebbe schiacciato? Edgar Highley non avrebbe esitato un momento a rivelare l'episodio del Massachusetts se avesse solo avuto il sospetto che il suo socio avesse parlato con la polizia di una sua paziente. Però anche la signora DeMaio sospettava qualche cosa e si era accorta del suo nervosismo quando l'aveva interrogato. Salì in macchina, si sedette, indeciso. Vangie Lewis non si era suicidata. Era escluso che si fosse tolta la vita ingerendo cianuro. Durante una delle loro sedute, parlando di religione, lei aveva affrontato l'argomento della setta del reverendo Jones. La vedeva ancora, seduta nel suo studio. Riudiva la sua esposizione, superficiale, ma appassionata, delle sue convinzioni religiose. «Non sono di quelle che vanno sempre in chiesa, dottore. Voglio dire che a Dio ci credo, ma a modo mio. Qualche volta penso a Dio. È meglio che scaldare i banchi di una chiesa pensando ad altro, non crede? E quelle sette, poi. Sono dei suonati, non capisco come la gente possa farsi suggestionare da loro. Si ricorda di tutte quelle persone che si sono uccise perché era stato loro detto
di farlo? Ha sentito le registrazioni di come gridavano dopo aver ingerito quella roba? A me hanno fatto venire gli incubi. E poi erano talmente sfigurati.» Dolore fisico, abiezione. Vangie Lewis? Non li avrebbe mai affrontati. Jiro Fukhito sospirò: sapeva quel che doveva fare. Ancora una volta la sua carriera avrebbe scontato il terribile errore di dieci anni prima. Ma doveva raccontare alla polizia ciò che sapeva. Vangie era uscita in fretta dal suo studio diretta al parcheggio. Ma quando lui se ne era andato, un quarto d'ora dopo, la Lincoln Continental di lei era ancora là ferma. Dentro di sé, Jiro Fukhito non aveva più dubbi: Vangie era andata nello studio di Edgar Highley. Lasciò il parcheggio dell'ospedale e si diresse verso l'ufficio della procura della contea di Valley. 74 Scott reggeva il mocassino. Richard, Charley e Phil erano seduti intorno alla sua scrivania. «Riepiloghiamo», disse il procuratore. «Vangie Lewis non è morta a casa sua. Vi è stata portata tra la mezzanotte e le undici del mattino. L'ultimo luogo in cui è stata vista è lo studio del dottor Fukhito, all'ospedale. Lunedì sera Vangie calzava i mocassini. Ne ha perso uno in qualche punto dell'ospedale ed Edna Burns lo ha ritrovato. Chi ha riportato a casa Vangie, chiunque fosse, le ha infilato delle altre scarpe nel tentativo di nascondere la perdita dei mocassini. Edna Burns ha trovato la scarpa e ha cominciato a parlarne in giro. Ed Edna Burns è morta. «Emmet Salem voleva parlarti, Richard. Voleva parlarti della morte di Vangie. È venuto a New York e qualche minuto dopo il suo arrivo è caduto o è stato spinto dalla finestra. Ed è morto. Nello stesso tempo è scomparsa la cartella di Vangie che aveva portato con sé.» «E Chris Lewis giura di aver visto Edgar Highley all'Essex House», interruppe Richard. «Il che può essere o non essere vero», gli ricordò Scott. «Ma il professor Salem era al corrente dello scandalo del Christ Hospital», osservò Richard. «Highley certamente non voleva che tutto saltasse fuori quando stava raggiungendo la fama a livello nazionale.» «Questo non è un movente per uccidere qualcuno», obiettò Scott. «E che cosa ne dici di Highley che cerca di prendere quella scarpa dal
cassetto di Edna?» chiese Charley. «Questo noi non lo sappiamo. Quella donna dell'ospedale sostiene che stava aprendo il cassetto. In effetti non ha toccato niente.» Scott corrugò la fronte. «Non c'è niente che quadri veramente. Ci stiamo occupando di un medico importante. Non possiamo partire in quarta perché dieci anni fa questo medico è stato coinvolto in uno scandalo, che del resto è stato soffocato. Il grosso problema è il movente. Highley non aveva un movente per uccidere Vangie Lewis.» Il telefono interno squillò. Scott premette il pulsante. «È arrivata la signora Horan», annunciò Maureen. «Va bene, accompagnala qui e per favore rimani a scrivere la sua dichiarazione.» Richard si appoggiò alla scrivania: quella era la donna che aveva promosso l'azione legale contro Edgar Highley per pratica illecita. La porta si aprì e una giovane donna precedette Maureen nella stanza. Era una ragazza giapponese poco più che ventenne, con i capelli lunghi sciolti sulle spalle. Il rossetto di una sfumatura vivace costituiva una nota incongrua sul colorito bronzeo. L'andatura aggraziata pareva far fluttuare persino il completo pantaloni da poco prezzo che indossava. Scott si alzò. «Signora Horan, la ringraziamo molto di essere venuta. Cercheremo di non farle perdere troppo tempo. Prego, si accomodi.» Lei si sedette, con evidente nervosismo si inumidì le labbra e di proposito ripiegò le mani in grembo. Maureen si sedette con discrezione dietro di lei e aprì il suo blocco da stenografia. «Vuole dire il suo nome e indirizzo?» chiese Scott. «Sono Anna Horan. Abito al numero 415 di Walnut Street, a Ridgefield Park.» «Lei è o è stata paziente del professor Edgar Highley?» Richard si voltò di scatto sentendo Maureen sussultare, ma la ragazza si era ripresa e, a testa china, aveva ricominciato a scrivere. Il viso di Anna Horan si era indurito. «Sì, ero paziente di quell'assassino.» «Quell'assassino?» ripeté Scott. E allora le parole sgorgarono come l'acqua di un torrente: «Mi recai da lui cinque mesi fa. Ero incinta e mio marito è studente di legge, al secondo anno. Viviamo del mio stipendio. Perciò decisi di abortire; non volevo, ma ritenevo di doverlo fare». Il procuratore sospirò. «Il professor Highley eseguì l'intervento dietro
sua richiesta e adesso lei gliene dà la colpa?» «No, non è così. Mi disse di ritornare l'indomani. E io tornai. Mi portò in una sala operatoria dell'ospedale. Mi lasciò sola e io capii, veramente lo capii, che volevo il mio bambino, a ogni costo. Il professor Highley ritornò; io mi ero alzata a sedere. Gli dissi che avevo cambiato idea.» «E lui probabilmente le rispose che in quelle stesse circostanze una donna su due dice la medesima cosa.» «Disse: 'Si sdrai', e mi spinse sul tavolo.» «C'era qualcun altro nella stanza? L'infermiera?» «No, solo il professore e io. E io dissi: 'So benissimo quello che dico', e...» «E si lasciò persuadere da lui?» «No, no. Non so che cosa avvenne. Mi conficcò l'ago di una siringa mentre cercavo di alzarmi. Quando mi svegliai mi ritrovai su una barella. L'infermiera disse che era finito tutto, che dovevo riposarmi un poco.» «Non ricorda l'intervento?» «Niente, niente. L'ultima cosa che ricordo è che tentavo di scappare.» Apriva e chiudeva la bocca in modo convulso. «Tentavo di salvare il mio bambino. Volevo il mio bambino. Il professor Highley me lo ha strappato.» Un gemito di dolore fece eco ai singhiozzi disperati di Anna Horan. Maureen aveva il viso sconvolto, la voce come un lamento: «Esattamente quello che ha fatto a me». Richard guardò le due ragazze piangenti: la ragazza giapponese; Maureen, con i suoi capelli di oro rosso e gli occhi verdi come smeraldo. E seppe con assoluta certezza dove aveva già visto quegli occhi prima di allora. 75 Scese dall'ascensore al secondo piano dell'ospedale e di colpo avvertì la tensione che era nell'aria. Infermiere dall'aria spaventata sgambettavano per il corridoio. Un uomo e una donna in abiti da sera erano in piedi accanto al banco dell'infermiera Renge. Vi si diresse svelto. La sua voce era secca e colma di disapprovazione quando chiese: «Infermiera Renge, c'è qualcosa che non va?» «Professore, si tratta della signora DeMaio. È scomparsa.» La donna, sui trentacinque anni, aveva un aspetto familiare. Sicuro! Era la sorella di Katie DeMaio. Che cosa l'aveva indotta ad arrivare in ospeda-
le? «Sono il professor Highley», le disse. «Che cosa significa tutto questo?» Molly non riusciva a parlare. A Katie era successo qualcosa, lo sapeva. E non se lo sarebbe mai perdonato. «Katie...» La voce le venne meno. L'uomo che era con lei interloquì: «Sono il dottor Kennedy», si presentò. «Mia moglie è la sorella della signora DeMaio. Lei quando l'ha vista, professore, e quali erano le sue condizioni?» Quello non era uno che si potesse ingannare con facilità. «Ho visto la signora DeMaio poco più di un'ora fa. Le sue condizioni non sono buone. Come probabilmente saprà, questa settimana ha avuto due unità di sangue intero. In laboratorio stanno eseguendo l'analisi del sangue. Temo che i valori siano bassi. Come può dirle l'infermiera Renge, prevedo di dover eseguire un raschiamento stanotte senza aspettare fino a domani mattina. Credo che la signora DeMaio non abbia rivelato a nessuno la gravità dell'emorragia.» «Oh, Dio, allora dov'è?» si disperò Molly. Highley spostò lo sguardo su di lei: quella era più facile da convincere. «Sua sorella ha una paura quasi patologica degli ospedali. Non può darsi che sia semplicemente scappata?» «Ci sono i suoi vestiti nell'armadio a muro, professore», disse l'infermiera Renge. «Può darsi che alcuni vestiti siano nell'armadio a muro», corresse lui. «Ha disfatto lei il bagaglio della signora?» «No.» «Allora non può sapere se avesse con sé altri indumenti.» «Può essere», concesse Bill lentamente; poi, rivolto a Molly: «Tesoro, lo sai che può essere così». «Saremmo dovuti stare con lei», si lamentò Molly. «Professore, sta molto male?» «Dobbiamo trovarla e riportarla qui. Non potrebbe essere andata a casa sua o a casa vostra?» «Professore.» La timida voce dell'infermiera Renge era scossa da un tremito. «Professore, quel sonnifero avrebbe dovuto far addormentare la signora. Era la cosa più forte che lei abbia mai prescritto.» Lui la guardò indignato. «L'avevo prescritto proprio perché mi rendevo conto dello stato di ansia della signora DeMaio. Le era stato ordinato di assicurarsi che l'inghiottisse, visto che non voleva prenderlo. Lo ha fatto?» «Ho visto la signora mettere in bocca la pillola.»
«L'ha vista inghiottirla?» «No... proprio inghiottirla no.» Highley voltò le spalle all'infermiera con un moto di disprezzo e, rivolto a Molly e a Bill, aggiunse con voce pensosa, preoccupata: «Non posso credere che la signora DeMaio stia gironzolando per l'ospedale. Siete d'accordo che può esser scappata di sua volontà? Potrebbe semplicemente aver preso l'ascensore, aver raggiunto l'ingresso ed essere uscita mescolandosi ai parenti e agli amici dei degenti, che vanno e vengono tutta la sera. Siete d'accordo che può essere andata così?» «Sì, sì, io sì.» Molly pregava: Fai che sia cosi. «Allora speriamo che la signora DeMaio arrivi a casa molto rapidamente.» «Voglio accertarmi se la sua macchina è nel parcheggio», disse Bill. La macchina. Non ci aveva pensato. Se avessero cominciato subito a cercarla in ospedale... Ma Bill corrugò la fronte. «Accidenti, ha ancora la macchina che ha affittato. Molly, che automobile è, che marca? Io non credo di averla vista.» «Non... non lo so», rispose lei. Edgar Highley sospirò. «Credo che anche se foste in grado di riconoscere la sua automobile, perdereste tempo a cercarla nel parcheggio. Vi consiglierei di telefonare a casa sua. Se non c'è, andate ad aspettarla là. Non è neppure un'ora che se n'è andata. Quando la trovate, vi prego di insistere perché ritorni in ospedale. Lei può rimanere con sua sorella, signora Kennedy. Dottore, se crede che questo possa servire a tranquillizzare la signora DeMaio, sarei lieto che rimanesse con me in sala operatoria. Ma dobbiamo cercare di fermare quell'emorragia. Le condizioni della signora DeMaio sono gravi.» Molly si morse le labbra. «Ho capito. Grazie, professore, lei è molto gentile. Bill, andiamo a casa di Katie. Può darsi che ci sia e che non risponda al telefono.» Se ne andarono. Gli avevano creduto e non avrebbero proposto che si facessero delle ricerche nell'ospedale, almeno per parecchie ore. Era esattamente quanto gli serviva. Si volse di nuovo all'infermiera. Con il suo comportamento goffo e stupido gli era stata di grande aiuto: naturalmente Katie non aveva mai inghiottito quel sonnifero e naturalmente lui aveva tutte le giustificazioni per averlo prescritto. «Sono sicuro che tra poco avrà notizie della signora DeMaio», disse.
«Mi telefoni immediatamente, sarò a casa.» Sorrise. «Devo completare alcune relazioni.» 76 «Dobbiamo sequestrare la documentazione del professor Highley prima che abbia la possibilità di distruggerla. Per quanto lei ne sa, tiene in studio tutta la documentazione del suo lavoro?» Jiro Fukhito guardò Richard. Era andato nell'ufficio del procuratore pronto a rilasciare una dichiarazione. Lo avevano ascoltato quasi con impazienza, poi il dottor Carroll aveva esposto la sua incredibile teoria. Era possibile? Jiro Fukhito passò in rassegna tutte le occasioni in cui nella sua mente erano sorti dei sospetti, placati poi dalla considerazione delle grandi capacità di Highley in campo ginecologico. Sì, era possibile. La documentazione. Gli avevano chiesto notizie della documentazione. «Edgar Highley non terrebbe mai nel suo studio in ospedale la documentazione comprovante pratiche illecite», rispose lentamente. «C'è sempre il rischio di una denuncia. Però, si porta spesso a casa cartelle di pazienti. Non avevo mai capito perché.» «Fatti rilasciare immediatamente dei mandati di perquisizione», ordinò Scott a Charley. «Andremo contemporaneamente nel suo studio e a casa. Io dirigerò la perquisizione a casa e tu, Richard, vieni con me. Charley, tu e Phil perquisite lo studio. Fermeremo Highley come testimone essenziale. Se non c'è, voglio che la polizia stia di guardia intorno alla casa, in modo che lo prendiamo appena rientra.» «Quello che preoccupa è che forse in questo momento sta conducendo esperimenti su qualcuno», disse Richard. «Scommetto che i capelli che le analisi di laboratorio hanno scoperto sui corpi di Edna e di Vangie sono di Highley.» Consultò l'orologio, erano le nove e mezzo. «Entro stanotte lo sapremo», aggiunse. Avrebbe voluto che Katie fosse con loro; sarebbe stato un sollievo per lei sapere che Chris Lewis stava per essere scagionato da ogni sospetto: il suo intuito si era rivelato giusto, per quanto riguardava Lewis. Ma anche lui, Richard, l'aveva vista giusta per quanto riguardava Highley. Il dottor Fukhito si alzò. «Avete ancora bisogno di me?» «Per ora no, dottore», rispose Scott. «Ci terremo in contatto con lei. Se per caso avesse notizie del professor Highley prima che noi lo arrestiamo, la preghiamo di non fargli parola di questa indagine. Siamo intesi?»
Jiro Fukhito sorrise debolmente. «Highley e io non siamo amici, non avrebbe motivo di telefonarmi a casa. Si serviva di me perché sapeva di tenermi in pugno. Quanto aveva ragione. Stanotte analizzerò il mio comportamento per capire quante volte ho ricacciato sospetti che avrei dovuto approfondire. Ho paura delle conclusioni a cui arriverò.» Uscì dalla stanza e mentre percorreva il corridoio vide una targhetta su una porta: K. DEMAIO. Katie DeMaio. Non si sarebbe dovuta ricoverare in ospedale proprio quella sera? Ma di certo, non si sarebbe mai sottoposta all'intervento finché Highley era sotto inchiesta. Jiro Fukhito si avviò verso casa. 77 Andava alla deriva lungo un corridoio buio. Proprio in fondo c'era una luce, laggiù avrebbe avuto caldo, quando fosse arrivata. Avrebbe avuto caldo e sarebbe stata al sicuro. Ma qualcosa la tratteneva. C'era una cosa che doveva fare prima di morire. Doveva far loro sapere che cos'era il professor Highley. Dal dito le scorreva il sangue, lo sentiva. Era sdraiata sul pavimento. Faceva tanto freddo. Per tanti anni aveva sofferto di incubi nei quali si vedeva morire in un ospedale, ma dopotutto non era poi così terribile. Aveva avuto tanta paura di restare sola, sola senza papà, poi sola senza John. Tanta paura del dolore fisico. Siamo tutti uguali: soli alla nascita e soli alla morte. In realtà non c'era proprio niente di cui aver paura. Forse poteva scrivere sul pavimento, con il dito sanguinante, il nome di Highley. Era un pazzo, andava fermato. Lentamente, con dolore, Katie spostava il dito sul pavimento. Una linea verticale, una orizzontale, di nuovo una linea verticale. H... 78 Rientrò a casa alle nove e un quarto. Il pensiero gratificante di aver finalmente eliminato l'ultima minaccia gli dava una sensazione di ottimismo totale. Aveva terminato di cenare neppure un'ora prima, ma chissà perché a stento ricordava di aver mangiato. Forse Hilda gli aveva lasciato qualcosa per uno spuntino. Era meglio di quanto avesse sperato. E la fondue di Hilda era molto buona, probabilmente la sua creazione culinaria migliore. Accese il fornello a spirito sotto la casseruola, regolò la fiamma bassa. In un cestino c'era
una forma croccante di pane francese, coperta con un tovagliolino di damasco. Si sarebbe preparato un'insalata; doveva esserci della ruchetta: aveva incaricato Hilda di comprarne. Mentre la fondue si riscaldava, avrebbe completato la cartella di Katie DeMaio. Era ansioso di porvi fine. Voleva riflettere sulle due pazienti del giorno seguente: la donatrice e la beneficiaria. Era fiducioso di poter ripetere il successo già ottenuto. Ma era sufficiente? Non sarebbe stato più interessante dare alla beneficiaria due gemelli da portare? Due feti estranei provenienti da due diverse donatrici? La teoria immunoreattiva da lui messa a punto poteva non reggere. Anzi, quasi certamente non avrebbe retto. Ma quanto tempo avrebbe richiesto apportarvi i necessari ritocchi? Quali problemi in particolare si sarebbero presentati? Entrò nella biblioteca, aprì il cassetto della scrivania e prese la cartella di Katie DeMaio dallo scomparto segreto. All'ultima pagina scrisse l'epilogo. La paziente è entrata in ospedale alle 18 circa, pressione 100/60, emoglobina non superiore ai dieci grammi. Il suo medico le ha somministrato le ultime due pillole di cumadina. Alle 20,30 è ritornato nella camera della signora DeMaio e le ha somministrato per iniezione 5 mi. di eparina. La paziente si è svegliata un momento. In condizioni quasi comatose ha chiesto al suo medico: «Perché ha ucciso Vangie Lewis?» Il medico ha lasciato la signora DeMaio per andare a fornirsi di altra eparina. Naturalmente, non era possibile permettere che potesse ripetere la domanda in presenza di testimoni. Ritornato nella sua camera, ha constatato che la paziente se n'era andata. Probabilmente rendendosi conto di quello che aveva detto, tentava di fuggire. La paziente è stata raggiunta e le sono stati somministrati altri 5 ml. di eparina. Morirà dissanguata entro la notte al Westlake Hospital. Questa cartella viene così completata. Depose la penna, si stirò, si avvicinò alla cassaforte a muro e l'apri. Nella luce proiettata dai candelabri di cristallo, le cartelle nelle loro copertine color crema avevano uno splendore quasi d'oro. Erano d'oro: prove e documentazione del suo genio lì a portata di mano. Con un moto di affetto le estrasse tutte, le sparpagliò sul piano della scrivania. Come un Mida che assaporasse i suoi tesori, fece scorrere le dita
sulle etichette con i nomi. Berkeley e Lewis: i suoi grandi successi. Le dita si fermarono, il suo viso s'incupì. Appleton, Carey, Drake, Elliot... i fallimenti. Più di ottanta. Non veri fallimenti, però. Aveva imparato tanto e tutte vi avevano contribuito: quelle che erano morte e quelle che avevano abortito. Facevano tutte parte della storia. Lewis. Doveva apportare una postilla. Alla cartella di Vangie aggiunse il resoconto del suo incontro con Emmet Salem. La fondue doveva essere pronta. Guardò le cartelle, indeciso se riporle subito o concedersi il piacere di rileggerne alcune. Forse avrebbe dovuto studiarle; la settimana appena trascorsa era stata così difficile e a quel punto aveva bisogno di rivedere alcune delle combinazioni di prodotti farmaceutici che gli sarebbero state necessarie per il nuovo caso. Un suono lontano, proveniente da chissà dove, cominciò a filtrare nella biblioteca: il suono lacerante e lamentoso delle sirene della polizia, portato da un vento gelido che penetrava le ossa. Era un suono in crescendo, che poi di colpo s'interruppe. Si precipitò alla finestra, scostò le tende e sbirciò fuori. Una macchina della polizia! Erano lì, da lui! Avevano trovato Katie e lei era stata in grado di parlare? Rapido come il lampo corse alla scrivania, radunò le cartelle, le ripose nella cassaforte ancora aperta, chiuse lo sportello e vi fece scivolare davanti il pannello che lo nascondeva. Calma, doveva mantenere la calma. Si sentì la pelle umida, mentre labbra e ginocchia erano di gomma. Doveva controllarsi. Aveva, nel suo mazzo, un'ultima carta disperata che avrebbe potuto sempre giocare. Se Katie aveva parlato, tutto era finito. Ma se la polizia era lì per un'altra ragione, forse lui era ancora in grado di batterli d'astuzia. Forse Katie era già morta e avevano trovato il suo corpo. Ricordati quante domande e quante accuse quando morì Claìre. Non portarono a niente perché non esistevano assolutamente le prove. Tutte le possibilità e le conseguenze gli esplosero insieme nella mente; era esattamente come durante un'operazione o un parto, quando all'improvviso qualcosa andava male e lui doveva prendere una decisione irrevocabile. Poi arrivò. La calma gelida, decisa, la sensazione di potere, l'onniscienza da dio che non gli aveva mai fatto difetto negli interventi più difficili. Se ne sentì pervadere il corpo e il cervello. Un colpo fu battuto alla porta, secco e autoritario. Con gesto lento, deci-
so, si lisciò i capelli. Le sue dita, ora miracolosamente asciutte e calde, strinsero il nodo della cravatta. Si avviò alla porta d'ingresso e l'aprì. 79 Mentre l'auto della polizia sfrecciava verso la casa di Edgar Highley, Scott aveva ripassato metodicamente tutte le dichiarazioni rese in quelle ultime ore da Chris Lewis, Gertrude Fitzgerald, Gana Krupshak, Jiro Fukhito, Anna Horan e Maureen Crowley. Apparentemente, puntavano tutte in una direzione: il professor Edgar Highley, indicandolo come responsabile di pratiche illecite, azioni criminose, omicidio. Neppure tre ore prima, gran parte di quelle stesse prove indiziarie avevano portato a Chris Lewis. Gli era tornato in mente il gioco del mah-jong, che soleva fare da piccolo. Consisteva nel togliere da un mucchio i bastoncini, uno alla volta, senza spostare tutti gli altri; bastava far sussultare un altro bastoncino e avevi perso. Le prove indiziarie erano qualcosa del genere. Considerate nell'insieme sembravano schiaccianti; guardandole una alla volta, franavano. Richard sedeva accanto a lui sul sedile posteriore della macchina della polizia. Era perché Richard aveva insistito nel vedere in tutte le prove un'accusa contro Edgar Highley che a quel punto percorrevano a gran velocità e a sirene spiegate tutta Parkwood. Si era battuto per accelerare quell'inchiesta, sostenendo che Highley avrebbe potuto, sapendosi sospettato, distruggere le prove. Edgar Highley era un medico noto, un ottimo ginecologo. Una quantità di persone importanti si sentiva profondamente in debito con lui perché aveva assistito qualche parto nelle loro famiglie. Se tutto si fosse risolto in una caccia alle streghe, l'ufficio della procura sarebbe stato bersaglio degli attacchi della stampa e del pubblico. «Non va, non va.» Scott non si era reso conto di aver parlato ad alta voce. Richard, profondamente assorto nei suoi pensieri, si era girato a guardarlo, la fronte aggrottata. «Che cosa non va?» «Tutta la faccenda: questa perquisizione, questo presupposto che Highley sia nello stesso tempo un genio e un assassino. Richard, che prove abbiamo? Gertrude Fitzgerald 'crede' che Highley cercasse la scarpa nel
cassetto del comodino. Chris Lewis 'crede' di averlo intravisto all'Essex House. Tu 'credi' che Highley abbia compiuto dei miracoli sotto il profilo medico. «Stai a sentire, se anche il gran giurì decidesse per l'incriminazione, e io ne dubito, un buon avvocato potrebbe far crollare tutta l'accusa magari anche senza processo. Ho una mezza idea di fare subito dietro-front.» «No!» Richard gli aveva afferrato il braccio. «Per amor di Dio, dobbiamo sequestrare tutta la sua documentazione.» Il procuratore era tornato a rannicchiarsi sul sedile, liberandosi il braccio. «Scott», lo aveva incalzato Richard, «dimentica tutto il resto; pensa solo al numero dei decessi per parto al Westlake. Già questo è un motivo sufficiente per un'inchiesta.» All'angolo, l'auto della polizia deviò bruscamente. Si trovavano nell'elegante settore occidentale di Parkwood. «E va bene», aveva ringhiato Scott. «Ma ricordati, Richard, che già domani mattina è possibile che rimpiangiamo questa gita.» «Ne dubito», aveva ribattuto lui seccamente. Avrebbe voluto riuscire a superare l'ansia crescente che gli attanagliava la bocca dello stomaco e che non aveva niente a che fare con quel momento e con quel caso. Era a causa di Katie. Irrazionalmente, disperatamente, era in pena per lei. Ma perché? L'auto infilò un vialetto. «Bene, ci siamo», aveva esclamato Scott, acido. I due agenti seduti sui sedili anteriori erano balzati dalla macchina; Richard, che stava a sua volta scendendo, aveva notato un movimento nei tendaggi di una finestra all'estrema destra della casa. Avevano parcheggiato dietro un'automobile nera con i contrassegni da medico. Scott aveva toccato il cofano. «È ancora caldo, dev'essere arrivato da poco.» L'agente più giovane, che era stato alla guida, bussò seccamente al portone. Aspettarono. Scott batteva i piedi impaziente, nel tentativo di riscaldarli. «Perché non suoni il campanello?» ringhiò. «È lì per questo.» «Ci ha visti», disse Richard. «Sa che siamo qui.» Il giovane agente stava appunto alzando la mano al campanello quando la porta si aprì e Highley apparve immobile sulla soglia. Scott fu il primo a parlare: «Il professor Highley?» «Sì?» Il tono era freddo e interrogativo. «Professor Highley, sono Scott Myerson, procuratore della contea di
Valley. Abbiamo un mandato di perquisizione nei suoi confronti ed è mio dovere informarla che lei è sospettato di omicidio nei confronti di Vangie Lewis, Edna Burns e del professor Emmet Salem. Ha il diritto di consultare un avvocato. Può rifiutare di rispondere alle domande che le verranno rivolte. Tutto quello che dirà potrà essere usato contro di lei.» Sospettato. Non erano sicuri, non avevano trovato Katie. Qualsiasi prova di cui disponessero doveva essere indiziaria. Si fece da parte, aprendo di più la porta per farli entrare. La sua voce vibrava di ira contenuta quando disse: «Non riesco a capire il motivo di questa intrusione. Comunque entrate, signori. Risponderò a tutte le domande che vorrete pormi; perquisite pure la mia casa e sarete i benvenuti. Devo però avvertirvi che se consulterò un avvocato sarà per citare in giudizio la contea di Valley e ognuno di voi individualmente». Deliberatamente li guidò verso la biblioteca: sapeva che, da dietro la massiccia scrivania seicentesca, faceva un effetto imponente. Era fondamentale fiaccarli, far sì che avessero paura di sottoporlo a un interrogatorio troppo stringente. Con un gesto che non riuscì a non essere sprezzante, indicò loro il divano e le poltrone di pelle. Il procuratore e il dottor Carroll sedettero, mentre gli agenti rimasero in piedi. Scott gli tese il foglio su cui erano enunciati i diritti costituzionali e lui lo firmò sdegnosamente. «Procediamo con la perquisizione», disse cortesemente l'agente più anziano. «Dove tiene la sua documentazione medica, professor Highley?» «Nel mio studio, naturalmente», ringhiò Highley. «Comunque, prego, accomodatevi. Sono certo che lo farete. In questa scrivania c'è un cassetto raccoglitore con i miei documenti personali.» Si alzò, si avvicinò al bar e versò del Chivas Regal in un bicchiere di cristallo; con una certa ostentazione aggiunse ghiaccio e uno spruzzo d'acqua. Tuttavia, non completò il rituale offrendo da bere anche agli altri. Se fossero arrivati anche solo qualche minuto prima, avrebbero trovato ancora la cartella di Katie nel cassetto della scrivania. Erano investigatori esperti, avrebbero potuto notare il doppio fondo del cassetto. Ma la cassaforte non l'avrebbero mai scoperta, a meno che non facessero a pezzi la casa. Si sedette nella poltrona di velluto a righe, a schienale alto, accanto al camino, sorseggiando lo scotch e fissandoli con freddezza. Quand'era entrato nella biblioteca, era talmente preoccupato che non si era accorto del fuoco che Hilda gli aveva acceso. In quel momento ardeva magnificamente; più tardi, si sarebbe seduto lì a gustare la fondue con il vino.
Cominciavano a piovere le domande. Quando aveva visto per l'ultima volta Vangie Lewis? «Come ho detto alla signora DeMaio...» «È sicuro, professore, che la signora Lewis non sia venuta nel suo studio lunedì sera, dopo aver lasciato il dottor Fukhito?» «Come ho detto alla signora DeMaio...» Non avevano prove, non avevano assolutamente prove. «Dove è stato lunedì sera, professore?» «A casa. Esattamente dove mi vedete ora. Sono venuto direttamente a casa dallo studio.» «Ha ricevuto qualche telefonata?» «Nessuna che io ricordi.» La segreteria telefonica non aveva preso messaggi lunedì sera, aveva controllato. «È stato nell'appartamento di Edna Burns martedì sera?» Il suo sorriso sprezzante: «Direi di no». «Abbiamo bisogno di qualche campione di suoi capelli.» Capelli. Ne avevano trovati su Edna o in quell'appartamento? E Vangie? Ma nell'appartamento di Edna lui era stato con la polizia mercoledì sera; e quanto a Vangie, indossava sempre quel cappotto nero quando si recava nel suo studio. Anche se avevano trovato capelli suoi vicino alle due donne morte, si poteva spiegarlo. «Lei si trovava all'Essex House Hotel ieri pomeriggio dopo le cinque?» «Assolutamente no.» «Abbiamo un testimone disposto a giurare di averla vista uscire dall'ascensore verso le cinque e mezzo.» Chi l'aveva visto? Si era guardato intorno nella hall, mentre usciva dall'ascensore; era sicuro che non ci fosse nessuno che lo conoscesse bene. Forse stavano bluffando e comunque l'identificazione da parte di un testimone era notoriamente inattendibile. «Non sono stato all'Essex House ieri sera. Sono stato a New York al Carlyle! Vado spesso a cenare lì; anzi, mi sono molto seccato perché mentre ero a cena mi è stata rubata la mia borsa da medico.» Fornisci gratuitamente qualche informazione; dai l'impressione di essere disposto a collaborare. Era stato un errore nominare Katie DeMaio. Sarebbe stato naturale informarli che era sparita dall'ospedale? Ovviamente non sapevano che era ricoverata, la sorella non si era ancora messa in contatto con loro. No, meglio non parlarne: segreto professionale. Però era stata una sciocchezza menzionare il furto.
«Che cosa c'era nella sua borsa?» L'interesse del procuratore sembrava meccanico. «L'occorrente per il pronto soccorso, alcune medicine. Il ladro ha perso tempo a rubarla.» Doveva dire che c'erano delle cartelle? No. Il procuratore quasi non lo ascoltava, anzi si rivolse all'agente più giovane: «Vai a prendere quel pacco in macchina». Quale pacco? Highley strinse le dita sul bicchiere. Forse era solo un trucco. Durante l'attesa nessuno parlò; poi tornò l'agente e tese a Scott un pacchetto stretto da un elastico. Il procuratore tirò l'elastico e tolse la carta, esibendo una scarpa malandata. «Professore, riconosce questo mocassino?» Highley si passò la lingua sulle labbra. Attento, attento. Quale piede poteva calzare? Dipendeva tutto da quello. Si chinò sull'oggetto e lo esaminò: era la scarpa sinistra, quella finita nell'appartamento di Edna. Non avevano trovato la sua borsa. «No, certo. Dovrei riconoscerlo?» «Vangie Lewis, sua paziente, lo calzava in continuazione da parecchi mesi. Lei la vedeva diverse volte la settimana e non l'ha mai notato?» «La signora Lewis portava un paio di scarpe piuttosto malandate. Certo io non pongo una particolare attenzione a riconoscere una determinata scarpa che mi viene messa davanti.» «Ha mai sentito parlare di un certo professor Emmet Salem?» Lui si morse le labbra: «Può darsi. Il nome mi sembra familiare. Dovrei sfogliare i miei appunti». «Non faceva parte del personale sanitario assieme a lei al Christ Hospital del Devon?» «Ma certo. Sì. Fece parte dell'organico per un periodo limitato. Sì, sì, lo ricordo.» Che cosa sapevano del Christ Hospital? «È stato a trovare il professor Salem ieri sera all'Essex House?» «Credo di aver già risposto a questa domanda.» «Lei sapeva che Vangie Lewis portava in sé un bambino orientale?» Ecco che cos'era! Con calma, spiegò: «La signora Lewis era sempre più terrorizzata all'idea di partorire. Adesso si spiega, no? Sapeva che non avrebbe mai potuto far credere a nessuno che il marito fosse padre del bambino». A quel punto cominciavano a far domande su Anna Horan e Maureen Crowley; stavano andando sempre più vicino, troppo vicino, come cani che latrano incalzando la preda.
«Il caso delle due ragazze è esemplare; sono molte, infatti, a chiedere di abortire e poi ad accusare il medico quando si sentono travolgere dall'intensità delle loro reazioni emotive. Non è affatto strano, sapete: chiedetelo a chiunque dei miei colleghi.» Richard ascoltava mentre Scott proseguiva nel suo interrogatorio. Il procuratore ha ragione, pensò freddamente. Messe insieme, tutte quelle circostanze avevano una certa consistenza. Ma, se considerate singolarmente, ognuna di esse era confutabile, spiegabile. Highley era così calmo, così sicuro. Richard cercò di immaginare come avrebbe reagito suo padre, che era un neurologo, se fosse stato interrogato sulla morte sospetta di uno dei suoi pazienti. Come avrebbe reagito Bill Kennedy? E come avrebbe reagito lui stesso, Richard, come medico e come uomo? Non come quell'individuo, con quel sarcasmo, con quel disprezzo. Stava recitando. Richard ne era sicuro: Edgar Highley stava recitando, ma come dimostrarlo? A un tratto si rese conto, con raccapricciante certezza, che nella documentazione di Highley non avrebbero mai trovato niente con cui incriminarlo. Era troppo furbo. Scott era arrivato alla bambina Berkeley: «Professore, lei è al corrente del fatto che la signora Elizabeth Berkeley ha partorito una bambina dagli occhi verdi. Non è impossibile, geneticamente, quando entrambi i genitori e i quattro nonni hanno gli occhi scuri?» «Direi anch'io, ma è chiaro che il signor Berkeley non è il padre della bambina.» Con quell'ammissione colse del tutto impreparati sia Scott sia Richard. «Con ciò non voglio dire di sapere chi sia il padre», aggiunse in tono conciliante, «ma dubito fortemente che sia compito del ginecologo scavare in fatti di questo genere. Se una mia paziente vuole raccontarmi che suo marito è il padre del bambino, così sia.» Peccato, pensava Highley. Avrebbe dovuto aspettare un altro poco la gloria; ormai non avrebbe più potuto vantare il successo del caso Berkeley. Ma ce ne sarebbero stati altri. Il procuratore guardò Richard, sospirò e si alzò. «Professor Highley, quando si recherà nel suo studio domani apprenderà che abbiamo sequestrato tutti gli schedari e le cartelle che teneva in ospedale. Ci preoccupa molto il numero di decessi verificatisi nel reparto maternità dell'ospedale e stiamo sottoponendo a serrata indagine questo aspetto della sua attività.» Lì non correva rischi. «Mi auguro che venga fatto l'esame più minuzioso
di tutta la documentazione concernente le mie pazienti. Posso affermare che il tasso di mortalità nella maternità del Westlake è notevolmente basso, tenuto conto dei casi di cui ci occupiamo.» Il profumo della fondue stava inondando la casa. Provò un desiderio acuto di mangiarla, aveva una fame terribile. E si sarebbe bruciata, se non l'avesse mescolata. Questione di qualche minuto. Squillò il telefono. «Lascio che risponda la segreteria telefonica», disse, poi capì che non poteva. Di certo, lo stavano chiamando dall'ospedale per comunicargli che la signora DeMaio non era rientrata a casa e che sua sorella era disperata. Poteva essere l'occasione giusta per informare il procuratore e il dottor Carroll della scomparsa di Katie. Prese il ricevitore: «Parla il professor Highley». «Professore, qui è il tenente Weingarten del Diciassettesimo distretto di polizia di New York. Abbiamo appena arrestato un uomo che corrisponde alla descrizione della persona che ieri sera ha rubato una borsa dal portabagagli della sua auto.» La borsa. «È stata ritrovata?» Qualche cosa nella voce lo stava tradendo. Il procuratore e il dottor Carroll lo osservavano in modo strano. Con calma, il procuratore si avvicinò alla scrivania e ostentatamente sollevò il secondo ricevitore. «Sì, abbiamo recuperato la sua borsa, professore. Proprio qui è il punto. Alcuni degli oggetti che vi sono contenuti possono portare a incriminazioni molto più serie del furto. Può descrivermi il contenuto della sua borsa?» «Alcuni medicinali... qualche medicina di base; l'occorrente per il pronto soccorso.» «Che cosa può dirmi della cartella di una paziente proveniente dallo studio di un certo professor Salem, di un fermacarte macchiato di sangue e di una scarpa vecchia?» Si sentiva addosso lo sguardo duro, sospettoso del procuratore. Chiuse gli occhi. Quando parlò, la sua voce era estremamente controllata: «Vuol scherzare?» «Me l'aspettavo. Stiamo collaborando con l'ufficio della procura della contea di Valley nell'indagine concernente la morte del professor Emmet Salem, avvenuta in circostanze dubbie ieri sera. È possibile che l'indiziato abbia ucciso il professor Salem nel corso di un furto. La ringrazio, professore.» Sentì Scott Myerson ordinare al poliziotto di New York: «Non riaggan-
ci!» Lentamente, riappoggiò sulla forcella il ricevitore che aveva in mano. Era finita. Ormai avevano la borsa. Era finita. Le sue possibilità di bluffare, uscendo indenne dall'inchiesta, erano finite. Il fermacarte sporco del sangue di Emmet Salem. La cartella medica di Vangie Lewis che contraddiceva quanto contenuto nella documentazione che lui teneva nello studio. La scarpa, quel sudicio, miserabile oggetto. Se la scarpa va... Si guardò i piedi, contemplando con obiettività la bella patina delle sue calzature inglesi di capretto. A quel punto non avrebbero smesso di cercare finché non avessero trovato le cartelle vere. Se la scarpa ti va bene mettitela. A Vangie Lewis quei mocassini non erano mai andati bene: ironia suprema della sorte, calzavano perfettamente a lui! Con la precisione che avrebbero dimostrato se ci avesse camminato, lo legavano irrimediabilmente alla morte di Vangie Lewis, di Edna Burns, di Emmet Salem. Una risata isterica gli salì dentro gorgogliando, scuotendo quella sua imperturbabilità. Il procuratore aveva finito di parlare al telefono. «Professor Highley», disse in tono ufficiale. «Io la dichiaro in arresto per l'omicidio del professor Emmet Salem.» Manette, carcere, un processo. Dei rifiuti di umanità avrebbero giudicato lui. Lui che era diventato padrone dell'atto primario della vita, del processo della nascita, sarebbe diventato un comune carcerato. Si raddrizzò. La sua forza indomabile stava ritornando. Aveva effettuato un'operazione e malgrado fosse brillantemente riuscita il paziente era clinicamente morto. Non c'era altro da fare che spegnere il dispositivo che lo teneva in vita. Il dottor Carroll lo stava guardando in modo strano. Dal momento in cui si erano incontrati mercoledì sera, Carroll gli era stato ostile. Senza sapere come, Highley era sicuro che fosse stato il primo a nutrire dei sospetti su di lui. Ma avrebbe avuto la sua vendetta: la morte di Katie DeMaio era la sua vendetta su Carroll. L'agente si stava avvicinando; le manette rimandarono il bagliore del fuoco. Gli sorrise educatamente. «Mi è venuto in mente che ho alcune schede mediche che potrebbero interessarvi», disse. Si avvicinò alla parete, sganciò la molla che tratteneva il pannello di copertura e lo fece scivolare.
Meccanicamente aprì la cassaforte. Poteva raccogliere tutte le schede, in un balzo raggiungere il camino; il fuoco acceso da Hilda ardeva forte. Prima che riuscissero a fermarlo poteva sbarazzarsi delle cartelle più importanti. No. Lascia che conoscano il tuo genio. Lascia che lo rimpiangano. Estrasse le cartelle dalla cassaforte, le ammucchiò sulla scrivania. Tutti lo stavano fissando. Carroll si avvicinò alla scrivania, il procuratore teneva ancora la mano sul telefono, un agente era in attesa con le manette. «Ah, c'è un'altra scheda che vi servirà.» Si avvicinò al tavolino accanto al focolare e prese il suo scotch; portandolo verso la cassaforte, lo sorseggiò con disinvoltura. La fialetta era lì, in un angolo recondito della cassaforte: ve l'aveva riposta lunedì sera, per qualche futura eventualità. Il futuro era arrivato. Mai aveva immaginato che potesse finire così. Ma aveva ancora il controllo della vita e della morte. La decisione suprema era solo sua. Un odore di bruciato stava invadendo la stanza; capì con rammarico che era la fondue. Una volta alla cassaforte, si mosse con rapidità: con un colpetto aprì la fiala e fece cadere nel bicchiere i cristalli di cianuro. Mentre un lampo negli occhi di Richard gli diceva che il medico legale aveva capito, alzò il bicchiere in un beffardo brindisi. «No!» gridò Richard, lanciandosi attraverso la stanza mentre Highley portava il bicchiere alle labbra e ne inghiottiva il contenuto. Gli strappò il bicchiere di mano mentre cadeva, ma sapeva che era troppo tardi. I quattro uomini osservarono impotenti le grida e i lamenti di Highley svanire nelle contorsioni della morte. «Oh, Dio!» esclamò l'agente più giovane, e scappò dalla stanza, verde in viso. «Ma perché l'ha fatto?» chiese l'altro agente. «Che modo orribile di morire.» Richard si chinò sul corpo: il viso di Highley era contratto e la schiuma gli copriva le labbra; gli occhi grigi sporgenti erano sbarrati. Avrebbe potuto fare tanto bene, pensò Richard, e invece era un ingegno teso solo a soddisfare le proprie ambizioni e a sfruttare i doni datigli da Dio per fare esperimenti sulle vite umane. «Quando ha sentito che ero in comunicazione con la polizia di New York ha capito che non poteva continuare a mentire o a uccidere per salvarsi», disse Scott. «Avevi ragione, Richard.» Rialzatosi, Richard si avvicinò alla scrivania e cominciò a scorrere in
fretta i nomi che contrassegnavano le varie cartelle. BERKELEY. LEWIS. «Ecco la documentazione che cercavamo.» Aprì la cartella che recava il nome Berkeley. La prima pagina cominciava: Elizabeth Berkeley, di anni 39, è diventata oggi mia paziente. Non potrà mai concepire un figlio. Ho deciso perciò che sarà la prossima paziente straordinaria. «Qui c'è tutto il resoconto medico», mormorò. Scott era fermo accanto al cadavere. «Se pensi che un pazzo simile era il medico di Katie», commentò. Richard alzò gli occhi dalla cartella di Liz Berkeley. «Che cosa hai detto?» chiese. «Vuoi dire che Highley aveva in cura Katie?» «Katie aveva un appuntamento con lui mercoledì», rispose Scott. «Aveva che cosa?» «Casualmente me lo ha detto quando...» Il telefono lo interruppe e Scott alzò il ricevitore. «Pronto. No, spiacente, non sono il professor Highley. Chi lo desidera, prego?» Poi la sua espressione cambiò: Molly Kennedy. «Che cosa succede, Molly?» Richard lo guardava, attanagliato dal panico. «No», stava dicendo Scott. «Non posso passarti il professor Highley. Di che cosa si tratta?» Rimase ad ascoltare, poi, coprendo il microfono con la mano, sussurrò: «Signore. Highley ha fatto ricoverare stasera Katie al Westlake. E adesso Katie è sparita». Richard gli strappò il telefono di mano. «Molly, che cosa è successo? Perché Katie era ricoverata? Che cosa significa che è sparita?» Rimase un momento in ascolto, poi: «Avanti, Molly. Katie non scapperebbe mai da un ospedale, dovresti saperlo. Aspetta un attimo». Abbandonò il ricevitore e freneticamente cominciò a sparpagliare le cartelle sul piano della scrivania. In fondo al mucchio trovò quello che aveva temuto di trovare: DEMAIO, KATHLEEN. L'aprì, scorse le schede a gran velocità, impallidendo man mano che leggeva. Finalmente arrivò all'ultimo paragrafo. Con la calma della disperazione riprese il ricevitore. «Molly», ordinò, «passami Bill.» Scott e gli agenti lo ascoltavano ammutoliti. «Bill», stava dicendo Richard, «Katie si sta dissanguando in qualche punto del Westlake. Telefona subito al laboratorio dell'ospedale. Il momento stesso in cui la troviamo dobbiamo farle una trasfusione, Rh negativo gruppo zero. Di' al
laboratorio che si tengano pronti a prelevarle il sangue per le analisi: emoglobina, ematocrito, prove crociate di incompatibilità sanguigna per quattro unità di sangue intero. Di' che tengano pronta una sala operatoria. Ci troviamo in ospedale.» Riattaccò. Incredibile, pensava. Si può continuare a funzionare sapendo che forse è già troppo tardi. Poi si rivolse all'agente fermo davanti alla scrivania: «Telefona all'ospedale. Avvisa la squadra che sta perquisendo lo studio di Highley e di' loro che comincino immediatamente a cercare Katie. Che guardino dappertutto... in ogni camera, in ogni armadio a muro. Che si facciano aiutare da tutto il personale dell'ospedale. Ogni secondo è vitale». Senza aspettare ulteriori istruzioni, l'agente più giovane si precipitò alla guida della macchina. «Forza, Richard», ringhiò Scott. Lui afferrò la cartella di Katie. «Dobbiamo sapere tutto quello che le ha fatto.» Poi guardò il corpo di Highley: per qualche secondo non erano riusciti a impedire la sua morte. Anche per Katie sarebbero arrivati troppo tardi? Accanto a Scott, era rannicchiato sul sedile posteriore dell'auto della polizia che sfrecciava nella notte. Highley aveva somministrato l'eparina a Katie più di un'ora prima. Era un preparato ad azione rapida. Katie, perché non me l'hai detto? Katie, perché hai pensato di dover agire da sola? Nessuno può far tutto da solo. Katie, potremmo stare così bene insieme. Oh, Katie, potremmo avere quello che hanno Molly e Bill, è lì per noi a portata di mano. Katie, lo sapevi anche tu e hai voluto resistere. Perché, perché? Se solo avessi avuto fiducia in me, mi avessi detto che dovevi vedere Highley. Non avrei mai lasciato che ti si accostasse. Perché non ti ho costretta a dirmelo? Ti voglio, Katie, aspettami, lascia che ti trovi, resisti... Erano arrivati all'ospedale; altre auto della polizia sopraggiunsero rombando nel parcheggio. Salirono i gradini esterni e si precipitarono nel grande ingresso. Phil, il viso segnato da rughe profonde, dirigeva le operazioni di ricerca. Anche Bill e Molly arrivarono correndo nell'ingresso dell'ospedale. Lei era in singhiozzi, lui mortalmente calmo. «Sta arrivando John Pierce, è il miglior ematologo del New Jersey. Qui hanno a disposizione una quantità ragionevole di sangue intero e altro possiamo trovarne alla banca del sangue. L'hai trovata?» «Ancora no.» In quel momento si spalancò la porta della scala antincendi, che era in
parte socchiusa, e ne uscì di corsa un giovane poliziotto. «È per terra nell'obitorio. Credo che sia partita.» Solo qualche secondo più tardi, Richard la teneva dolcemente tra le braccia, quasi cullandola. «Katie, Katie.» Il suo colorito era cianotico, il polso impercettibile. Bill lo afferrò per le spalle. «Portiamola di sopra. Dobbiamo darci da fare, se ancora abbiamo una possibilità di farcela.» 80 Era in un lungo tunnel. All'estremità c'era una luce. Faceva caldo alla fine del tunnel. Sarebbe stato così facile lasciarsi scivolare in quella direzione. Ma qualcuno le impediva di lasciarsi andare, qualcuno la tratteneva. Una voce. La voce di Richard: «Forza, Katie, forza». Lei non desiderava tornare indietro. Era così duro e la strada così buia. Oh, come sarebbe stato più facile scivolare via. «Forza, Katie.» Sospirando, si voltò e cominciò a tornare indietro. 81 La sera del lunedì, Richard entrò in punta di piedi nella camera di Katie, con una dozzina di rose fra le mani. Dalla domenica mattina era fuori pericolo, ma non era mai stata sveglia abbastanza a lungo da dire più di una o due parole. La guardò: aveva gli occhi chiusi e lui pensò di uscire per chiedere all'infermiera un vaso per le rose. «Basta che me le appoggi sopra.» Lui si voltò con una giravolta. «Katie.» Tirò una sedia accanto al letto. «Come ti senti?» Lei aprì gli occhi e rivolse una smorfia alla fleboclisi. «Sento i vampiri che mi fanno la guardia. Li sto mettendo fuori combattimento.» «Stai meglio.» Richard sperò che non si notasse quell'improvviso luccichio nei suoi occhi. Lei l'aveva notato: allungò piano la mano libera e gli passò un dito sulle palpebre. «Prima che mi riaddormenti un'altra volta, per piacere, raccontami che cosa è successo. Perché Highley ha ucciso Vangie?»
«Conduceva degli esperimenti sulle sue pazienti, Katie. Avrai certo sentito parlare del bambino della provetta, in Inghilterra. «Highley era molto più ambizioso, non gli bastava riuscire semplicemente a produrre bambini in vitro per i genitori naturali. Quello che si avviava a fare era prelevare il feto dalle donne che abortivano e impiantarlo nell'utero di donne sterili. E l'ha fatto! «Ha ottenuto un caso di successo completo. Ho mostrato la documentazione che ha raccolto al laboratorio di ricerche sulla fertilità del Mount Sinai Hospital. Dicono che ha fatto compiere un progresso straordinario alle ricerche nel campo blastocistico ed embrionale. «Ma dopo quel successo ha voluto battere strade del tutto nuove. Anna Horan, che lui ha fatto abortire, dichiara che aveva cambiato idea a proposito dell'aborto, ma lui l'addormentò e le prese il feto mentre si trovava in stato di incoscienza. E ha ragione. Vangie Lewis si trovava contemporaneamente nella camera accanto in attesa dell'impianto. Naturalmente, era convinta che lui l'avrebbe semplicemente sottoposta a una cura che l'aiutasse a restare incinta. Highley non aveva mai sperato che Vangie trattenesse così a lungo il feto orientale, malgrado si fosse talmente perfezionato che il problema della razza del bambino non aveva veramente nessuna importanza. «Quando si accorse che Vangie non abortiva spontaneamente, trovò intollerabile l'idea di distruggere il feto. Decise di farglielo portare a termine e poi chi avrebbe dato la colpa a lui se Vangie aveva un bambino mezzo orientale? Perché la madre naturale, Anna Horan, è sposata con un uomo di razza bianca.» «Era in grado di sopprimere il sistema immunitario?» «Sì, e senza danno per il bambino. Per la madre il pericolo era molto maggiore: in questi ultimi otto anni ha ucciso sedici donne. Anche Vangie era molto malata. Disgraziatamente per lei, lunedì sera, dopo essere uscita dallo studio di Fukhito, andò da Highley e gli disse che aveva intenzione di consultare il suo ginecologo di Minneapolis. Sarebbe stato un rischio, perché Vangie aveva una possibilità su un milione di una gravidanza naturale e qualsiasi ginecologo che l'avesse avuta in cura doveva saperlo. «Ma fu solo quando fece il nome di Emmet Salem che la sua sorte fu decisa. Highley sapeva che Salem avrebbe immaginato che cosa era successo quando Vangie avesse partorito un bambino mezzo orientale e poi avesse giurato di non aver avuto una relazione con un uomo orientale. Salem si trovava in Inghilterra quando la prima moglie di Highley morì ed
era al corrente dello scandalo. «Ma adesso basta con queste cose», concluse Richard. «Tutto il resto può aspettare.» «No... Hai detto che Highley ha riportato un successo. Era riuscito veramente a effettuare il trapianto di un feto e a farlo portare a termine?» «Sì, e se giovedì sera tu fossi rimasta cinque minuti di più da Molly e avessi visto la bambina dei Berkeley, potresti indovinare chi è la madre naturale. Liz Berkeley ha portato a termine nel proprio utero la bambina di Maureen Crowley.» «La bambina di Maureen Crowley!» Katie sgranò gli occhi e cercò di sollevarsi. «Piano. Su, fai uscire l'ago.» Dolcemente le passò una mano dietro le spalle, sorreggendola finché non si fu di nuovo adagiata sui cuscini. «Highley ha redatto un diario completo del procedimento che ha seguito dal momento in cui ha fatto abortire Maureen e ha trasferito il feto nell'utero di Liz. Ha descritto ogni fase.» «Maureen lo sa?» «Era onesto raccontare tutto a lei e ai Berkeley e mostrare la documentazione ai Berkeley. Jim Berkeley viveva con l'idea che sua moglie gli avesse mentito e si fosse sottoposta alla fecondazione artificiale. E Maureen... tu sai come aveva preso quell'aborto, era una cosa che la distruggeva. È andata a vedere la sua bambina. Adesso è felice, Katie. Ma credo che tu stia per perdere una buona segretaria: il prossimo autunno Maureen riprenderà gli studi.» «E la madre del bambino di Vangie?» «Anna Horan è ancora disperata per quell'aborto e ci è sembrato inutile farle per di più sapere che il suo bambino sarebbe nato se Highley non avesse ucciso Vangie la settimana scorsa. Avrà altri bambini.» Katie si morse le labbra. La domanda che fino allora aveva paventato. Doveva sapere. «Richard, ti prego, dimmi la verità. Quando mi hanno trovata, mi stavo dissanguando. Fino a che punto sono dovuti intervenire?» «È tutto a posto. Ti hanno fatto un raschiamento. Ma certo te l'hanno detto.» «Sì, ma solo quello?» «Solo quello, Katie. Puoi avere anche dodici figli, se li vuoi.» La sua mano si tese per coprire quella di lei. Quella mano che era là a tirarla indietro quando lei era arrivata così vicino alla morte. Quella voce che le aveva fatto desiderare di tornare indietro.
Posò un lungo sguardo tranquillo su Richard. Quanto ti amo, pensò. Quanto, quanto ti amo. Il viso di lui, ancora turbato e con un'espressione interrogativa, si aprì di colpo in un largo sorriso. Doveva essere soddisfatto di quello che aveva visto nel suo viso. Katie gli rispose con una smorfia. «Piuttosto sicuro di sé, vero, dottore?» chiese allegramente. FINE