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Siena, oggi. Alla morte di zia Rose, Julie Jacobs riceve in eredità una piccola chiave e una lettera: "Vai a Siena. Questa è la chiave di una cassetta di sicurezza. Tua madre l'aveva in tasca quando è morta". Julie lascia gli Stati Uniti e parte per l'Italia, seguendo l'enigmatico filo che la zia le ha consegnato con quelle parole. Quando apre la cassetta di sicurezza, però, il mistero non si dipana affatto: quello che trova è un vecchio cofanetto consunto, al cui interno la madre ha nascosto un taccuino pieno di disegni, un albero genealogico, una logora copia della tragedia di Shakespeare Romeo e Giulietta, un crocefisso d'argento e alcuni testi antichi che riportano la cronaca di una vicenda realmente accaduta a Siena sette secoli prima. Quella di un certo Romeo Marescotti e di una Giulietta Tolomei. Siena, 1340. Un vecchio biroccio si avvicina alle porte della città. Trasporta un carico prezioso: il corpo - apparentemente senza vita, in realtà solo addormentato - di Giulietta, ultima superstite della famiglia Tolomei, quasi annientata dalla furia degli acerrimi nemici, i Salimbeni. All'improvviso un manipolo di briganti sbarra la strada al carro, ed è soltanto il provvidenziale intervento del coraggioso Romeo Marescotti a far sì che la missione di portare in salvo la ragazza vada a buon fine. Come unica ricompensa il giovane chiede di poter ammirare il volto di colei che ha soccorso e, davanti alla bellezza angelica di Giulietta, il suo cuore indomito deve arrendersi. Quando, di lì a poco, la fanciulla verrà promessa allo spietato messer Salimbeni per sanare l'annosa faida, Romeo ingaggerà una battaglia disperata per salvare la sua amata. Il cui esito è narrato negli annali dell'epoca, e ha ispirato la più grande tragedia sull'amore vero scritta in epoca moderna. Un grande romanzo, che unisce al ritmo incalzante del thriller il fascino misterioso della Storia e il romanticismo dei versi shakespeariani, giocando con il tempo e lo spazio per riportare in vita una delle opere letterarie più amate di sempre, consegnandoci una Giulietta e un Romeo completamente nuovi e ancora più indimenticabili.
COPERTINA: Design e illustrazioni di Shasti O'Leary Soudant, basate su immagini di Siena © Joe Comlsh/Getty Images e di una rosa © Simon Denson/iStockphoto ART DIRECTOR: Francesco Marangon GRAPHIC DESIGNER: Andrea Bonelli
Traduzione di Nicoletta Grill Juliet Copyright © 2010 by Anne Fortier ©2010 Sperling & Kupfer Editori S.p.A. I edizione Sperling Paperback aprile 2011 ISBN 978-88-6061-710-1 86-1-11 Per le citazioni da Romeo e Giulietta di William Shakespeare di pagina VII e dell'inizio dei capitoli, è stata usata la traduzione di Salvatore Quasimodo (Oscar Mondadori, Milano 2001). Questa è un'opera di fantasia. Ogni rassomiglianza con persone o fatti reali è puramente casuale.
Alla mia adorata mamma Birgit Mailing Eriksen che con la sua generosità e ricerca infinita ha reso possibile questo libro
L'autrice Anne Fortier è nata in Danimarca, ma nel 2002 si è trasferita negli Stati Uniti per lavorare nel cinema. Lo spunto per questo libro è nato dalla passione per Shakespeare e per l'Italia, che condivide con la madre, la quale ha sempre considerato Verona la sua seconda casa... finché non ha scoperto Siena. Grazie al suo aiuto, Anne ha potuto compiere nella città toscana le ricerche necessarie per questo romanzo. wuw.annefortier.com
Prologo DISSERO che ero morta. Il mio cuore cessò di battere, e non respiravo più. Agli occhi degli altri ero davvero morta. Alcuni sostengono che me ne andai per tre minuti, altri dicono quattro. Personalmente comincio a pensare che la morte sia soprattutto una questione di punti di vista. Essendo io Giulietta, suppongo che avrei dovuto aspettarmelo. Ma in quel momento volevo così tanto che non si ripetesse la stessa penosa tragedia della prima volta! Stavolta Romeo e io saremmo stati insieme per sempre. Il nostro amore non avrebbe dovuto rimanere sospeso per secoli nel buio della morte e della separazione. Ma non si può imbrogliare il Bardo. E così, quando si esaurirono le mie battute spirai come era mio dovere, e ripiombai nel pozzo eterno della creazione. O felice penna. Questo foglio è tuo. Ecco l'inchiostro, che si dia inizio al racconto.
PARTE PRIMA
Capitolo 1 Ahimè, che cosa vuol dire questo sangue sull'entrata della tomba? Ci ho messo un po' a stabilire da dove partire. Potreste controbattere che la mia storia è iniziata più di seicento anni fa, con una rapina avvenuta su una strada della Toscana medioevale. O, più di recente, durante un ballo a Castello Salimbeni, quando i miei genitori si incontrarono e si baciarono per la prima volta. Ma sarei rimasta all'oscuro di questi fatti senza l'evento che mise la mia vita sottosopra nel giro di una notte e che mi spinse a fare un viaggio in Italia alla ricerca del passato. Quell'evento fu la morte della mia prozia Rose. Umberto impiegò tre giorni per rintracciarmi e comunicarmi la triste notizia. Vista la mia abilità nell'arte della fuga, sono ancora sorpresa che ci sia riuscito. D'altro canto lui è sempre stato bravissimo a capire quello che mi passava per la testa e a prevedere i miei spostamenti, e poi in Virginia non è che ci fossero così tanti campi estivi dedicati allo studio di Shakespeare. Non so da quanto tempo lui fosse lì in fondo allo stanzone a guardare la rappresentazione. Come al solito io me ne stavo dietro le quinte, troppo impegnata a seguire il dialogo dei ragazzi e a preoccuparmi del materiale scenico per notare alcunché prima della calata del sipario. Quel pomeriggio, dopo la prova costumi, qualcuno aveva messo la fialetta del veleno nel posto sbagliato e, in mancanza di meglio, Romeo avrebbe dovuto suicidarsi ingurgitando delle mentine. «Ma mi danno acidità!» aveva esclamato l'attore con tutta la stizza piagnucolosa del quattordicenne che era. «Ottimo!» avevo ribattuto mentre soffocavo il bisogno materno di dargli una sistematina al berretto di velluto che aveva in testa. «Ti
aiuterà a entrare meglio nel personaggio.» Solo dopo che si furono riaccese le luci, e i ragazzi mi ebbero spinta sul palcoscenico per inondarmi di gratitudine, mi accorsi della figura familiare che si profilava accanto all'uscita e mi osservava tra gli applausi. Sobrio e statuario nel suo abito scuro e cravatta, Umberto risaltava come una solitaria fiaccola di civiltà in una palude primordiale. Era sempre stato così. Da che ricordavo, non aveva mai indossato nemmeno un accessorio che si potesse considerare casual. Secondo lui, bermuda e magliette erano indumenti per uomini che avevano perso ogni qualità, compreso il pudore. Più tardi, quando l'assalto dei genitori riconoscenti si fu attenuato e potei finalmente lasciare il palco, fui intercettata dal direttore dei programmi che mi afferrò per le spalle e mi scosse con affetto; mi conosceva troppo bene per tentare di abbracciarmi. «Gran bel lavoro con i ragazzi, Julie!» si entusiasmò. «La prossima estate posso di nuovo contare su di te, vero?» «Certamente», mentii, mentre mi allontanavo. «Ci vediamo.» Avvicinandomi a Umberto, cercai invano nei suoi occhi quel barlume di felicità che vi scorgevo ogni volta che non mi vedeva da un po'. Ma non c'era traccia di sorriso nel suo sguardo, neppure un accenno, e allora capii perché era venuto. Lasciandomi andare, muta, tra le sue braccia, desiderai di avere il potere di capovolgere la realtà come una clessidra, in modo che la vita non fosse un evento a termine ma piuttosto un flusso ininterrotto e perpetuo attraverso un piccolo foro nel tempo. «Non piangere, principessa», mi sussurrò tra i capelli, «a lei non sarebbe piaciuto. Non possiamo vivere in eterno. Aveva ottantadue anni.» «Lo so. Ma...» Mi scostai mentre mi asciugavo le lacrime. «Janice era con lei?» Gli occhi di Umberto diventarono due fessure, come succedeva ogni volta che veniva menzionata la mia sorella gemella. «Tu che dici?» Solo allora, da vicino, mi accorsi che appariva sciupato e amareggiato, come se avesse trascorso le ultime notti a stordirsi con l'alcol prima di andare a dormire. Forse era la cosa giusta da fare.
Senza zia Rose che ne sarebbe stato di Umberto? Dalla notte dei tempi li avevo sempre visti inesorabilmente uniti in una partnership di ferro - lei nel suo ruolo di bellezza in fase di sfioritura e lui in quello di maggiordomo paziente - e, malgrado le loro differenze, era chiaro che nessuno dei due neppure si sognava di vivere senza l'altro. La Lincoln era parcheggiata con discrezione in una via laterale, e non c'era nessuno in giro quando Umberto mise il mio vecchio zaino nel portabagagli e mi aprì la portiera posteriore con misurata sobrietà. «Voglio sedermi davanti. Posso?» Lui scosse il capo con disapprovazione ma mi aprì comunque la portiera del passeggero. «Lo sapevo che sarebbe andato tutto a carte quarantotto.» Ma non era mai stata zia Rose a dare importanza alle formalità. Benché Umberto fosse un dipendente, lei l'aveva sempre trattato come uno di famiglia. Quel gesto, tuttavia, non era mai stato ricambiato. Ogni volta che zia Rose invitava Umberto a unirsi alla nostra tavola, lui si limitava a rivolgerle uno sguardo di divertita indulgenza, come se non potesse che meravigliarsi di una tale richiesta e del motivo del suo reiterarsi. Lui consumava tutti i pasti in cucina, l'aveva sempre fatto e avrebbe continuato a farlo, e neppure i vari «Santocielo Umberto!» - pronunciati ogni volta in tono più esasperato - riuscirono mai a persuaderlo a sedere con noi, neppure per il Giorno del Ringraziamento. Zia Rose era solita definire questo strambo comportamento come una peculiarità tutta europea, per poi lanciarsi in un sermone riguardo tirannia, libertà e indipendenza che avrebbe culminato con lei che ci puntava la forchetta contro e sbuffava: «Ecco perché non andiamo in vacanza in Europa. Specialmente in Italia, Fine del discorso». Per contro, io ero quasi certa che Umberto preferisse mangiare da solo semplicemente perché considerava stare in compagnia di se stesso assai più allettante che stare con noi. Me lo vedo ancora bello placido in cucina, con la sua musica d'opera, il suo vino, il suo pezzo di parmigiano ben stagionato mentre zia Rose, Janice e io ce ne stiamo ad accapigliarci infreddolite fra le correnti
della sala da pranzo. Se me ne fosse stata data la possibilità, avrei passato anch'io tutto il giorno in cucina. Quella notte, mentre attraversavamo la Valle dello Shenandoah, Umberto mi raccontò le ultime ore di zia Rose. Era morta tranquillamente nel sonno dopo aver trascorso la serata ad ascoltare le sue canzoni preferite di Fred Astaire, un disco gracchiante via l'altro. Quando si era dispersa l'ultima melodia dell'ultimo pezzo, si era alzata ed era andata ad aprire la portafinestra che dava sul giardino interno, forse per odorare un'ultima volta il profumo del caprifoglio. Umberto mi disse che mentre se ne stava lì in piedi, alta e dinoccolata, con gli occhi chiusi, le lunghe tende di pizzo l'avevano avvolta in un silenzioso abbraccio come se fosse già diventata un fantasma. «Ho fatto la cosa giusta?» aveva chiesto sommessamente. «Certo che l'ha fatta», era stata la diplomatica risposta. Era quasi mezzanotte quando arrivammo al viale d'accesso di zia Rose. Umberto mi aveva già avvertita che Janice era arrivata quel pomeriggio dalla Florida con una calcolatrice e una bottiglia di champagne. Questo tuttavia non spiegava la presenza di una seconda decapottabile parcheggiata davanti all'ingresso della casa. «Spero di cuore», dissi, tirando fuori lo zaino dal portabagagli prima che ci arrivasse Umberto, «che non sia l'impresario delle pompe funebri.» Non avevo ancora finito la frase che già trasalivo per la mia sfrontatezza. Non era da me parlare così, e mi capitava solo quando pensavo che mia sorella mi potesse sentire. Dopo avere rivolto uno sguardo veloce alla vettura misteriosa, Umberto si sistemò la giacca come qualcuno che si assesti il giubbotto antiproiettile prima di un combattimento. «Temo ci siano diversi tipi di impresari.» Non appena varcata la soglia di casa, capii a che cosa si riferisse. I ritratti dell'ingresso erano stati rimossi dalle pareti e se ne stavano con il dorso contro il muro come tanti criminali di fronte al plotone di esecuzione. Era anche sparito il vaso veneziano da sempre collocato sul tavolo rotondo sotto il lampadario.
«Heilà?» gridai mentre mi saliva un moto di rabbia come non ne avevo più avuti dalla mia ultima visita. «C'è qualcuno ancora vivo?» Si sentì l'eco della mia voce attraversare il silenzio della casa ma, appena il rumore fu svanito, udii dei passi frettolosi nel corridoio del piano di sopra. Eppure, malgrado quella corsetta colpevole, Janice si sentì in obbligo di fare la sua consueta comparsa al rallentatore dall'alto dell'ampia scalinata: avviluppata in un attillato abito estivo che le metteva in evidenza le curve molto meglio che se non avesse avuto addosso nulla. Dopo una breve pausa a beneficio della stampa internazionale, si buttò indietro compiaciuta la lunga capigliatura e diede inizio alla discesa non prima di avermi rivolto un sorrisetto sprezzante. «Udite udite», declamò con voce glaciale, «è arrivata la vergitariana.» Soltanto in quel momento mi accorsi del maschio di turno che le stava appiccicato dietro, stralunato e fuori di sé come tutti quelli che passano un po' di tempo da soli con mia sorella. «Scusa il disturbo», dissi, mollando lo zaino sul pavimento con un tonfo, «posso aiutarti a far incetta di tutti gli oggetti di valore della casa, o preferisci lavorare da sola?» La risata di Janice faceva lo stesso effetto di una serie di campanellini posizionati sulla veranda di un vicino di casa al puro scopo di darti sui nervi. «Questo è Archie», mi informò tra lo sbrigativo e il casuale, «ci darà venti bigliettoni per tutto il ciarpame.» Li guardai entrambi con profondo disgusto mentre si avvicinavano. «Ma quant'è generoso. Evidentemente ha un debole per la spazzatura.» Janice mi lanciò un'occhiata al fulmicotone, ma si riprese subito. Sapeva benissimo che non me ne poteva fregare di meno di quello che pensava e che la sua rabbia aveva la capacità di divertirmi. Ero nata quattro minuti prima di lei. Poco importava quello che faceva o diceva, io sarei sempre stata quattro minuti più grande di lei. Anche se Janice si considerava una lepre supersonica e vedeva in me una tartaruga zoppa, era chiaro a tutte e due che, per quanti giri concentrici potesse fare attorno a me, mai e poi mai avrebbe colmato quel minuscolo scarto temporale tra di noi. «Bene», disse Archie rivolgendo lo sguardo alla porta aperta.
«Devo tagliare la corda. È stato un piacere conoscerti, Julie - ti chiami Julie, giusto? Janice mi ha detto tutto di te», risatina nervosa. «Avanti così! Fate la pace, non l'amore, come dicono.» Janice fece ciao-ciao con la manina ad Archie che si allontanava lasciando sbattere la porta schermata. Ma appena lui non fu più a portata d'orecchio, il suo viso angelico assunse un'espressione demoniaca, come un ologramma di Halloween. «Non osare guardarmi così!» ringhiò. «Sto cercando di tirar fuori un po' di denaro. Non è che tu ne stia guadagnando molto, o sbaglio?» «Ma io non ho il tuo tipo di... spese.» Feci cenno alle ultime migliorie, visibili sotto il vestito aderente. «Dimmi, Janice, come te la mettono dentro tutta quella roba? Attraverso l'ombelico?» «Dimmi, Julie», mi fece il verso mia sorella, «come ci si sente a non avere mai nessuno che ti mette qualcosa là sotto?» «Scusate signore», intervenne Umberto mettendosi tra di noi come aveva fatto innumerevoli volte in passato, «posso suggerire di spostare questa interessante conversazione in biblioteca?» Quando ci riunimmo in biblioteca, Janice si era già spaparanzata sulla poltrona preferita di zia Rose. Con un gin tonic sul cuscino con scena di caccia che avevo ricamato a puntocroce nell'ultimo anno di liceo, mentre lei era fuori a fare man bassa di prede a due gambe. «Che c'è?» ci squadrò con malcelato disprezzo. «Pensate che non mi tocchi neppure la metà degli alcolici?» Era tipico di Janice cercare la rissa sul corpo di un defunto, così le girai le spalle e mi avvicinai alla portafinestra. Fuori, sulla terrazza, gli amati vasi di terracotta di zia Rose erano allineati come partecipassero a un funerale e le piantine erano reclinate dallo sconforto. Faceva uno strano effetto. Umberto teneva sempre il giardino in perfetto ordine, ma forse non ne aveva più voglia adesso che era scomparsa la sua datrice di lavoro nonché estimatrice. «Sono sorpresa», disse Janice agitando il drink nel bicchiere, «che tu sia ancora qui, Birdie. Fossi stata in te, a quest'ora mi troverei già a Las Vegas. Con l'argenteria.» Umberto non rispose. Aveva smesso di parlare direttamente con Janice anni prima. Invece, si rivolse a me: «Il funerale è domani».
«Non posso crederci», esclamò lei, con una gamba a penzoloni su un bracciolo, «hai pianificato tutto senza neanche consultarci.» «Ho fatto come voleva lei.» «C'è qualcos'altro che dovremmo sapere?» Janice si liberò dall'abbraccio della poltrona e si lisciò il vestito. «Ritengo che avremo tutti la nostra parte, no? Non è che la zia si sia innamorata di qualche balordo ente per la protezione degli animali o roba del genere, giusto?» «Ti prego!» sbottai e, per un secondo o due, mia sorella parve redarguita. Poi diede una scrollata di spalle, come faceva sempre, e mise di nuovo la mano alla bottiglia di gin. Non mi disturbai neppure a guardarla mentre le sue sopracciglia ben curate si atteggiavano a finta sorpresa nel constatare che si era versata più liquore di quanto volesse. Come il sole che scompariva lentamente all'orizzonte, così Janice sarebbe sparita dentro un'ottomana lasciando agli altri il compito di dare una risposta ai grandi quesiti della vita. Purché qualcuno continuasse a versarle da bere. Mia sorella era così da quando ne avevo memoria: insaziabile. Quando eravamo piccole, zia Rose era solita esclamare piena di giubilo: «Che bambina! Riuscirebbe a uscire a morsi da una prigione di pan di zucchero», come se l'ingordigia di Janice fosse qualcosa di cui andar fieri. Ma allora zia Rose era in cima alla catena alimentare e - diversamente da me - non aveva nulla da temere. Ricordo che Janice era sempre in grado di snidare la mia riserva segreta di dolcetti per quanto mi dannassi a nasconderli. E che le mattine pasquali erano brutali e di breve durata. Si concludevano inevitabilmente con Umberto che la rimproverava per avermi rubato la mia parte di uova di Pasqua e con lei che - la bocca inzaccherata di cioccolata - sbraitava da sotto il letto che lui non era suo padre e non poteva dirle cosa fare. La cosa frustrante era che Janice non rispecchiava la sua personalità. Il suo incarnato rifiutava decisamente di svelare alcunché: era vellutato come la glassa satinata di una torta nuziale. I lineamenti sembravano cesellati come i frutti e i fiori di marzapane che solo un maitre patìssier riesce a creare. Né gin, né caffè, né
vergogna, né rimorsi erano riusciti a intaccare quella sua facciata rilucente. Era come se avesse dentro di sé una fonte perenne di vita, come se ogni mattina si svegliasse rinvigorita dal pozzo dell'eternità, non un giorno più vecchia, non un grammo più pesante, eppure sempre ferocemente affamata di umanità. Purtroppo non eravamo gemelle identiche. Una volta, nel cortile della scuola, avevo sentito che qualcuno si riferiva a me come a un Bambi sui trampoli e, benché Umberto si fosse fatto una risata e mi avesse detto che era un complimento, non ne ero affatto convinta. Anche dopo aver superato gli anni più complessi, sapevo che accanto a lei dovevo apparire una spilungona anemica. Ovunque andassimo o qualunque cosa facessimo, lei era la bruna esuberante, e io la timida slavata. Ogni volta che entravamo in una stanza insieme, le luci della ribalta si puntavano all'istante su di lei e, benché io fossi proprio lì accanto, semplicemente mi tramutavo in uno spettatore in più. Tuttavia, con il trascorrere del tempo, mi abituai al mio ruolo. Non dovevo mai preoccuparmi di portare a termine una frase perché c'era sempre Janice a finirla per me. Nelle rare occasioni in cui qualcuno mi chiedeva quali fossero i miei sogni e le mie aspettative di solito nel corso di un cortese tè delle cinque con un conoscente di zia Rose - Janice mi trascinava al pianoforte dove si sarebbe messa goffamente ai tasti mentre io giravo lo spartito per lei. Perfino adesso che ho venticinque anni, quando mi ritrovo a parlare con degli sconosciuti, mi sorprendo a contorcermi nella speranzosa attesa di un'interruzione, prima che debba coniugare verbo e complemento. Seppellimmo zia Rose sotto una pioggia a dirotto. Mentre me ne stavo lì accanto alla fossa, grosse gocce d'acqua mi cadevano dai capelli e andavano a mischiarsi alle lacrime che mi scendevano lungo le guance. In tasca, i fazzoletti di carta che mi ero portata da casa erano diventati una poltiglia da un pezzo. Benché avessi pianto tutta la notte non ero ancora preparata a quel senso di definitivo abbandono che provavo mentre il feretro veniva abbassato di sghimbescio nella buca. Una bara così grande
per un corpo così esile... all'improvviso mi pentii di non aver chiesto di vedere la salma, anche se per zia Rose la cosa non poteva ormai fare alcuna differenza. O forse sì? Forse ci stava osservando da qualche posto lontano, con la speranza di poterci dire che era arrivata sana e salva. Era un'idea che dava conforto, una distrazione di cui in quel momento avevo bisogno, e mi sarebbe piaciuto crederci. Alla fine delle esequie, l'unica a non sembrare un topo bagnato era Janice, che indossava galosce di gomma tacco dodici e un copricapo nero a significare tutto fuorché il lutto. Per contro, io portavo un completo che una volta Umberto aveva detto mi faceva sembrare un po' Giovanna D'Arco e un po' Santa Maria Goretti. Se gli stivali e la scollatura di Janice portavano sopra scritto venitemi dietro, i miei scarponcini da combattimento e l'abito abbottonato di sicuro comunicavano andate tutti al diavolo. Un certo numero di persone si fece vedere alla sepoltura, ma fu solo il signor Gallagher, l'avvocato di famiglia, a fermarsi a parlare con noi. Né io né mia sorella l'avevamo mai incontrato prima, ma zia Rose ne aveva parlato così spesso, e con tanto calore, che l'uomo in se stesso non poteva che deluderci. «Mi dicono lei sia una pacifista», commentò, mentre ci allontanavamo assieme dal cimitero. «Jules adora la guerra», interloquì Janice mettendosi tutta arzilla tra di noi, incurante che l'acqua della falda del cappello ci inondasse entrambi, «e adora scagliare oggetti sulle persone. Ha sentito quello che ha fatto alla Sirenetta?» «Adesso basta», dissi, cercando una porzione asciutta della mia manica per asciugarmi gli occhi un'ultima volta. «Oh, non fare la modesta! Eri in prima pagina!» «Lei, invece... sento che gli affari vanno a gonfie vele.» Il signor Gallagher si era rivolto a Janice e abbozzava un sorriso. «Deve essere una bella sfida far tutti felici.» «Felici? Cazzarola!» Janice per poco non finì in una pozzanghera. «Per il mio lavoro la felicità è il peggiore dei rischi. È di sogni che stiamo parlando. Frustrazioni. Fantasie che non si avverano mai.
Uomini che non esistono. Donne che non potrai mai avere. Ecco dove sta l'affare, appuntamento dopo appuntamento dopo appuntamento...» Janice continuava a parlare ma io avevo smesso di ascoltare. Una delle grandi ironie della sorte era che mia sorella, una delle persone meno romantiche mai esistite, gestisse un'agenzia matrimoniale. Malgrado il suo bisogno di flirtare con tutti gli uomini che incontrava, lei non li considerava che alla stregua di aggeggi da mettere in funzione alla bisogna, per poi disattivarli una volta esaurito il loro compito. La cosa bizzarra era che Janice, da bambina, aveva la mania di disporre ogni cosa in coppia, due orsacchiotti, due cuscini, due spazzole... Anche nei giorni in cui litigavamo lei, alla sera, sistemava le nostre due bambole l'una accanto all'altra sullo scaffale, spesso addirittura abbracciate. Da un certo punto di vista, con la sua vocazione a fare il Noè, non era dunque neppure tanto strano che si fosse dedicata professionalmente a mettere tutti in coppia. Solo che, al contrario del vecchio patriarca, si era dimenticata da tempo perché avesse cominciato. Era difficile dire quando le cose erano cambiate. Tutto a un tratto, al liceo, si era data come missione quella di infrangere ogni mio sogno sull'amore. Mentre passava da un ragazzo all'altro come consumasse dei collant di poco prezzo, Janice aveva cominciato a trarre un immenso piacere nel descrivermi tutti e tutto con toni così dispregiativi che avevo cominciato a chiedermi cosa le donne ci trovassero negli uomini. «Così questa è la tua ultima chance», mi aveva detto la sera prima del ballo di fine anno, mentre mi avvolgeva i capelli in grossi bigodini rosa. L'avevo guardata nello specchio, incerta sul significato della sua affermazione, ma impossibilitata a rispondere per via della maschera di fango verde mela che mi aveva spalmato sul viso e che nel frattempo era diventata dura come una roccia. «Insomma...» aveva fatto una smorfia impaziente, «la tua ultima chance di dare via la ciliegina. Il ballo è tutto qua. Perché pensi che i ragazzi si mettano eleganti? Perché gli piace ballare? Ma fammi il
piacere!» Mi aveva dato un'occhiata per controllare il suo operato. «Sai quel che dicono, se non lo fai al ballo di fine anno. Che sei una bigotta. A nessuno piacciono le bigotte.» Il giorno dopo avevo cominciato ad avvertire un forte mal di stomaco e, mentre si avvicinava l'ora del ballo, i dolori si erano intensificati. Alla fine zia Rose era stata costretta a chiamare i vicini per avvisarli che il loro figlio doveva trovarsi qualcun'altra per la serata. Intanto Janice era partita assieme a un tipo atletico di nome Troy fra uno stridore di pneumatici. Dopo avere ascoltato i miei lamenti per tutto il pomeriggio, zia Rose aveva insistito per portarmi al pronto soccorso, nel caso si trattasse di appendicite. Umberto l'aveva calmata dicendole che non avevo la febbre e che era sicuro non si trattasse di nulla di grave. Più tardi, quella stessa sera, con lui accanto al letto che mi osservava mentre facevo capolino da sotto le coperte, mi resi conto che Umberto aveva capito come era andata la faccenda e che, stranamente, era d'accordo con la mia sceneggiata. Sapevamo benissimo entrambi che non c'era nulla di sbagliato nel figlio dei vicini, solo che non corrispondeva all'idea che mi ero fatta di fidanzato. E se non potevo avere quello che volevo, tanto valeva perdermi il ballo. «Dick», disse a un certo punto Janice avviluppando il signor Gallagher in un sorriso mielato, «veniamo al sodo. Quanto?» Non cercai neppure di intervenire. Dopotutto, non appena Janice avesse avuto il denaro, se ne sarebbe subito ripartita alla sempiterna caccia del primate ideale, e io non avrei più dovuto trovarmela davanti. «Ebbene», rispose il signor Gallagher arrestandosi impacciato nel parcheggio, proprio accanto a Umberto e alla Lincoln, «temo che il patrimonio consista totalmente nella proprietà.» «Insomma», sbottò Janice, «lo sappiamo tutti che stiamo parlando di spartire tutto a metà fino all'ultimo centesimo, perciò diamoci un taglio. Zia Rose vuole che tiriamo una riga bianca proprio nel mezzo della casa? Okay, si può fare. Oppure...» diede un'alzata di spalle come se la cosa le fosse indifferente, «possiamo semplicemente vendere e dividere i soldi. Quanto?»
«La questione è che alla fine...» il signor Gallagher mi guardò con un certo rammarico, «la signora Jacobs ha cambiato idea e ha deciso di lasciare tutto alla signorina Janice.»
«Che cosa?» Fissai prima Janice, poi il signor Gallagher, infine
Umberto, senza ricavarne peraltro alcuna solidarietà.
«Porca vacca!» Il sorriso di Janice era a dir poco radioso. «La vecchia dopotutto aveva il senso dell'umorismo.» «Naturalmente», continuò accigliato il signor Gallagher, «c'è anche una somma riservata al signor - a Umberto - e ci sono anche delle istruzioni da parte della prozia affinché alcune fotografie in cornice siano consegnate alla signorina Julie.» «Come no», disse mia sorella spalancando le braccia, «mi sento generosa.» «Un momento», intervenni arretrando di un passo e sforzandomi di elaborare l'informazione, «tutto ciò non ha alcun senso.» Da sempre zia Rose aveva passato le pene dell'inferno per trattarci con equanimità. Santo cielo, una mattina a colazione l'avevo perfino sorpresa a contare le nocciole del nostro muesli per evitare che una di noi ne avesse più dell'altra. E aveva sempre parlato della casa come di qualcosa che noi - a un certo punto avremmo posseduto insieme. «Sentite ragazze», ci diceva spesso, «dovete imparare ad andare d'accordo. Non vivrò in eterno, lo sapete. E quando non ci sarò più, dovrete dividervi la casa.» «Capisco la sua delusione...» mormorò il signor Gallagher. «Delusione?» Avevo voglia di afferrarlo per il bavero, e invece affondai le mani in tasca. «Non pensi che ci caschi. Voglio vedere il testamento.» Mentre lo guardavo diritto negli occhi notai che era a disagio. «Sta succedendo qualcosa a mia insaputa...» «Non hai mai saputo perdere», rimarcò Janice con profonda soddisfazione, «ecco quello che succede.» «Tenga», il signor Gallagher aprì la sua cartella con mani tremanti e mi porse un documento. «Questa è la sua copia del testamento. Temo non ci sia spazio per recriminazioni.»
Umberto mi trovò in giardino, accovacciata sotto la pergola che aveva costruito per noi una volta che zia Rose era a letto con la polmonite. Mentre si sedeva accanto a me sulla panchina bagnata, non fece nessun commento sulla mia infantile sparizione di poco prima: mi porse invece un fazzoletto stirato alla perfezione e mi scrutò mentre mi soffiavo il naso. «Non è per il denaro», dissi, sulla difensiva. «Hai visto come sogghignava? Hai sentito quello che ha detto? Non le importa di zia Rose. Non le è mai importato. Non è giusto!» «Chi ti ha detto che la vita sia giusta?» Umberto mi osservava accigliato. «Io no.» «Lo so! Solo che non capisco... ma è colpa mia. Ho sempre pensato che facesse sul serio quando ci trattava con imparzialità. Ho preso a prestito del denaro...» Mi coprii il viso con le mani per evitare il suo sguardo. «Non dire una parola!» «Hai finito?» Feci sì con la testa. «Non t'immagini nemmeno quanto.» «Bene.» Aprì la giacca e ne estrasse una grande busta color paglierino, asciutta anche se un poco spiegazzata. «Perché lei voleva darti questa. È un segreto. Gallagher non sa nulla, Janice neppure. È solo per te.» Mi feci subito sospettosa. Non era da zia Rose darmi qualcosa all'insaputa di Janice, ma d'altro canto non era neppure da lei escludermi dal testamento. Chiaramente non conoscevo la zia di mia madre bene come pensavo, come d'altro canto non conoscevo neppure me stessa. La sola idea di stare lì seduta a piagnucolare per del denaro, e proprio in una giornata come quella! Benché avesse quasi sessantanni quando ci aveva adottate, zia Rose era stata come una madre per noi, e avrei dovuto vergognarmi di quella reazione. Quando finalmente l'aprii, la busta risultò contenere tre cose: una lettera, un passaporto e una chiave. «Questo è il mio passaporto!» esclamai. «Come ha fatto...?» Guardai di nuovo la pagina con la foto. Era proprio la mia foto, con
la mia data di nascita, ma il nome non era il mio. «Giulietta? Giulietta Tolomei?» «È il tuo vero nome. Tua zia l'ha cambiato quando ti ha portato qui dall'Italia. Ha cambiato anche quello di Janice.» Ero senza parole. «Ma perché...? Da quanto tempo lo sai?» Abbassò gli occhi. «Perché non leggi la lettera?» Spiegai i due fogli di carta. «L'hai scritta tu?» «Me l'ha dettata lei.» Umberto sorrise mestamente. «Voleva essere sicura che tu potessi leggerla.» Julie carissima, ho chiesto a Umberto di consegnarti questa lettera a funerale avvenuto, quindi suppongo che voglia dire che sono morta. A ogni buon conto, so che siete ancora arrabbiate perché non vi ho mai portato in Italia, ma credimi quando dico che l'ho fatto nel vostro interesse. Come avrei potuto perdonarmi se ti fosse successo qualcosa? Ma adesso non sei più una ragazzina. E c'è qualcosa, a Siena, che tua madre ti ha lasciato. Solo a te. Non so perché ma così era fatta Diane, che il Cielo la benedica. Aveva trovato qualcosa, e probabilmente è ancora lì. Ho avuto la sensazione che superasse in valore tutte le proprietà di cui io avessi mai potuto disporre. Ed è per questo che ho fatto quello che ho fatto e ho lasciato la casa a Janice. Speravo di poter evitare tutto ciò, e dimenticarmi dell'Italia, ma poi ho cominciato a pensare che facevo male a non dirti nulla. Ecco quello che devi fare. Prendi la chiave e vai nella banca di Palazzo Tolomei. A Siena. Penso che apra una cassetta di sicurezza. Tua madre l'aveva in tasca quando è morta. Lei conosceva un consulente finanziario della banca, un certo Francesco Maconi. Trovalo e digli che sei la figlia di Diane Tolomei. Oh, poi c'è quest'altra cosa. Ho cambiato i vostri nomi. Tu in realtà ti chiami Giulietta Tolomei. Però qui siamo in America. Ho pensato che Julie Jacobs fosse meglio, ma tanto non riescono a scriverlo giusto lo stesso. Cosa sta succedendo a questo mondo? No, no, ho avuto una vita felice. Grazie a te. Oh, un'altra cosa: Umberto ti procurerà un passaporto con il tuo vero nome. Non ho la più pallida idea di come abbia fatto ma lasciamo perdere, ci penserà lui.
Non ti dico addio. Ci vedremo di nuovo in Cielo, a Dio piacendo. Volevo essere sicura che tu avessi quello che ti spetta di diritto. Fa' solo attenzione quando sei là. Pensa a quello che è successo a tua madre. L'Italia può essere un posto molto strano. La tua bisnonna era nata là, naturalmente, ma credimi se ti dico che non ci sarebbe tornata neppure per tutto l'oro del mondo. Comunque, non parlare con nessuno di quello che ti ho detto. E cerca di sorridere di più. Hai un sorriso così bello, quando ti ricordi di sfoderarlo. Tutto il mio amore e che Dio ti benedica. Tua zia Ci misi un po' a riprendermi dalla lettera. Mentre la leggevo, mi sembrava quasi di sentire la dettatura squinternata di zia Rose, confusa in punto di morte come lo era sempre stata da viva. Quando ebbi finito di usare il fazzoletto di Umberto, lui non lo volle più indietro. Mi disse di portarlo con me in Italia in modo che mi ricordassi di lui quando avessi trovato il mio tesoro. «Dai!» Mi soffiai il naso un'ultima volta. «Lo sappiamo tutti e due che non c'è nessun tesoro!» Prese in mano la chiave. «Non sei curiosa? Tua zia era convinta che tua madre avesse trovato qualcosa di valore inestimabile!» «Allora perché non me l'ha detto prima? Aspettare fino...» sospirai. «Non ha nessun senso.» Umberto mi lanciò un'occhiataccia. «Intendeva farlo. Ma non c'eri mai.» Mi passai la mano sul viso, soprattutto per evitare il suo sguardo accusatorio. «Anche se volessi, lo sai bene che non posso tornare in Italia. Mi sbatterebbero dentro all'istante. Sai, mi hanno detto...» A onore del vero, loro - la polizia italiana - mi avevano detto molto più di quanto avessi mai riferito a Umberto. Ma lui ne conosceva il succo. Sapeva che una volta a Roma ero stata arrestata durante una manifestazione contro la guerra e che avevo trascorso una notte per niente piacevole in carcere prima di essere cacciata
fuori dal Paese, all'alba, con la preghiera di non farmi più vedere. Sapeva anche che non era colpa mia. Avevo diciott'anni e tutto quello che volevo era andare in Italia per vedere il posto dove ero nata. Un giorno, mentre ciondolavo accanto alla bacheca dell'università piena di vistosi annunci di viaggi-studio e dispendiosi corsi di lingua a Firenze, mi ero imbattuta in un minuscolo volantino che denunciava la guerra in Iraq e i Paesi che vi avevano preso parte. Uno di questi, scoprii costernata, era l'Italia. In fondo alla pagina erano indicate delle date e delle destinazioni: tutti quelli interessati alla causa erano invitati a partecipare. Una settimana a Roma - viaggio incluso - non mi sarebbe costata più di quattrocento dollari, esattamente quello che mi era rimasto sul conto. Come potevo immaginare che una tariffa così modesta nasceva dal fatto che quasi di sicuro non saremmo rimasti un'intera settimana e che, se tutto fosse andato secondo i piani, sarebbero state le autorità del posto, cioè i contribuenti italiani, ad accollarsi il volo di ritorno e i pernottamenti? E così, avendo capito ben poco dello scopo del viaggio, continuai ad andare avanti e indietro dalla bacheca prima di decidermi a iscrivermi. Quella stessa notte però, mentre mi rigiravo nel letto, mi resi conto di aver fatto la cosa sbagliata e che avrei dovuto sganciarmi al più presto possibile. Ma quando la mattina dopo ne parlai con Janice, lei alzò gli occhi al cielo e disse: «Qui giace Jules, che non ha fatto granché nella vita, eccetto quella volta che è quasi andata a Roma». Ovviamente dovetti partire. Mentre davanti al parlamento italiano cominciavano a volare le prime pietre - scagliate dai miei compagni di viaggio Sam e Greg non avrei desiderato di meglio che tornarmene nella mia stanza di dormitorio con un cuscino sopra la testa. Ma ero intrappolata nella folla come gli altri e quando la polizia romana ne ebbe abbastanza dei sassi e delle Molotov, fummo tutti battezzati con i lacrimogeni. Quella fu la prima volta che mi ritrovai a pensare: Adesso potrei morire. Mentre cadevo sull'asfalto e percepivo un groviglio di gambe, braccia e vomito attraverso una cortina di dolore e di
sbigottimento, dimenticai completamente chi fossi e dove la vita mi stesse portando. Come un martire delle epoche passate forse scoprii un posto altro, un luogo che non era né vita né morte. Ma poi tornarono il dolore e il panico e, a poco a poco, la cosa smise di sembrare un'esperienza religiosa. Mesi più tardi continuavo a domandarmi se mi fossi del tutto ripresa dagli avvenimenti romani. Quando mi costringevo a pensarci, provavo la fastidiosa sensazione di dimenticarmi qualcosa di cruciale sulla mia identità, qualcosa che era rimasto per sempre sull'asfalto di Roma. «Giusto.» Umberto aprì il passaporto per esaminare la foto. «Hanno detto che Julie Jacobs non può tornare in Italia. Ma cosa c'entra questo con Giulietta Tolomei?» Ebbi un soprassalto. Lo stesso Umberto che mi rimproverava ancora perché vestivo come una figlia dei fiori era qui a spingermi a infrangere la legge. «Mi stai dicendo...?» «Perché pensi che l'abbia fatto fare? Che tu vada in Italia è stato l'ultimo desiderio di tua zia. Non spezzarmi il cuore, principessa.» Vedendo tanta sincerità nei suoi occhi, lottai ancora una volta contro le lacrime. «E tu?» chiesi con voce roca. «Perché non vieni con me? Potremmo cercare il tesoro assieme. E al diavolo se non lo troviamo! Potremmo fare i pirati. Solcare mari...» Umberto mi si avvicinò e mi sfiorò dolcemente la guancia come se sapesse che, una volta partita, non sarei più tornata. E anche se ci fossimo di nuovo incontrati, non sarebbe più stato come ora, seduti l'uno accanto all'altra in un nascondiglio per bambini e con le schiene rivolte al mondo esterno. «Ci sono cose», mi disse sommessamente, «che una principessa deve fare da sola. Ti ricordi quello che ti confidai... che un giorno avresti trovato il tuo regno?» «Quella era solo una storia. La vita non è così.» «Tutto quello che diciamo è una storia. Ma niente di quello che diciamo è solo una storia.» Gli gettai le braccia attorno al collo, non ancora pronta ad andarmene. «E tu? Tu non resti qui, vero?»
Umberto rivolse un rapido sguardo alla pergola grondante. «Penso che Janice abbia ragione. È ora che il vecchio Birdie vada in pensione. Dovrei rubare l'argenteria e andare a Las Vegas. Ci vivrei una settimana. Voglio dire, con la mia fortuna. Mi raccomando, non dimenticare di chiamarmi quando trovi il tesoro.» Appoggiai la testa sulla sua spalla. «Sarai il primo a saperlo.»
Capitolo 2 Fuori la spada: ecco qualcuno di casa Montecchi. DA che ne ho memoria, zia Rose aveva fatto tutto il possibile per impedire a me e a Janice di andare in Italia. «Quante volte ve lo devo dire», era solita dichiarare, «che quello non è un posto per ragazze per bene?» Più tardi, quando si era resa conto che avrebbe dovuto cambiare strategia, aveva cominciato a scuotere la testa ogni volta che si toccava l'argomento per poi mettersi le mani sul cuore come se il solo pensiero potesse farla svenire. «Credetemi», sbuffava, «l'Italia è una gran delusione, e gli uomini italiani sono tutti dei maiali!» Quel suo inspiegabile pregiudizio nei confronti del Paese in cui ero nata mi aveva sempre infastidito, ma dopo gli eventi di Roma avevo finito per trovarmi d'accordo con lei: l'Italia era stata una delusione e gli italiani - per lo meno quelli con la divisa - facevano sembrare graziosi i maiali. Analogamente, quando le chiedevamo dei nostri genitori, zia Rose ci zittiva raccontandoci la solita vecchia storia. «Quante volte ve lo devo dire», brontolava, seccata per essere stata interrotta mentre leggeva il giornale con le mani inguantate per proteggersi dall'inchiostro, «che i vostri genitori sono morti in un incidente d'auto in Toscana quando voi avevate tre anni?» Per fortuna - la storia continuava più o meno così - che zia Rose e il povero zio Jim, benedetta l'anima sua, erano stati in grado di adottarci subito dopo la tragedia, visto che il caso non aveva dato loro dei figli. Dovevamo essere felici che non eravamo finite in un orfanotrofio italiano a mangiare spaghetti tutti i santi giorni. Guardatevi intorno! Eccovi qui a vivere in una tenuta in Virginia, viziate fino al midollo. Come minino, in segno di riconoscenza, avremmo dovuto smettere di tartassare zia Rose con domande a cui non sapeva rispondere. E che qualcuno mi prepari almeno un altro cocktail alla menta, che a
forza di darmi il tormento le articolazioni hanno ricominciato a farmi un male cane! Sull'aereo che mi portava in Europa, lo sguardo perso nella notte atlantica a ripensare ai conflitti del passato, mi resi conto con stupore che di zia Rose mi mancava tutto, non solo i bei momenti. Come sarei stata felice di trascorrere un'altra ora con lei, anche se l'avesse impiegata tutta a brontolare. Adesso che non c'era più, facevo fatica a credere di essermi arrabbiata spesso con lei, di aver sbattuto porte e salito le scale infuriata, ed era dura scoprire di aver sprecato tanto tempo prezioso barricata in camera in un mutismo ostile. Usando la patetica salvietta della compagnia aerea, mi detersi con stizza una lacrima dicendomi che i rimpianti erano una perdita di tempo. Certo, avrei dovuto scrivere a zia Rose più lettere e, certo, avrei dovuto chiamarla più di frequente dicendole che le volevo bene, ma adesso era troppo tardi. Non potevo passare una spugna sugli sbagli del passato. Oltre il dispiacere, provavo un'altra sensazione che mi mordeva le viscere. Una specie di presentimento? Non proprio. Un presentimento implica che stia per succedere qualcosa di brutto, ma il mio problema era che ignoravo se sarebbe successo qualcosa. Era del tutto possibile che l'intero viaggio si concludesse con un fiasco solenne. E sapevo anche che c'era una sola persona cui avessi il diritto di rinfacciare le ristrettezze in cui mi trovavo, e che quella persona ero io. Ero cresciuta nella convinzione che avrei ereditato metà del patrimonio di zia Rose, e di conseguenza non avevo neppure cercato di farmene uno per conto mio. Mentre altre ragazze della mia età si davano da fare per costruirsi una carriera solida, io accettavo solo impieghi che mi piacevano - come insegnare Shakespeare nei campi estivi - convinta che prima o poi l'eredità avrebbe colmato il debito crescente della mia carta di credito. Come risultato, avevo ben poco su cui fare affidamento se non un fantomatico lascito abbandonato in una landa lontana da una madre che non ricordavo neppure. Dopo aver lasciato la scuola di specializzazione postlaurea non avevo vissuto in nessun posto in particolare. Mi spostavo da un
divano di amici all'altro seguendo il movimento pacifista per poi allontanarmi ogni qualvolta avessi un allestimento di Shakespeare. Non so perché ma le opere di Shakespeare erano la sola cosa che mi rimanesse in testa e, per quanti sforzi facessi, Romeo e Giulietta non riusciva a stancarmi. Di tanto in tanto insegnavo agli adulti, ma preferivo di gran lunga i ragazzini, forse perché ero quasi certa di piacere loro. Me ne accorsi subito perché parlavano degli adulti come se io non fossi una di loro. Mi riempiva di gioia che mi accettassero come una coetanea, per quanto mi rendessi conto che non era un vero e proprio complimento. Voleva solo dire che sospettavano che non fossi del tutto cresciuta e che, anche a venticinque anni, venivo percepita come una goffa adolescente che cercava di dar voce - o, più spesso, nascondere - la poesia che le esplodeva dentro. Non mi aiutava a fare carriera il fatto che fossi totalmente incapace di programmare il futuro. Quando la gente mi chiedeva cosa volessi fare nella vita, non avevo la più pallida idea di cosa rispondere, e quando cercavo di visualizzarmi da lì a cinque anni, tutto quello che vedevo era un'enorme voragine nera. Nei momenti di depressione spiegavo questo buio incombente come un presentimento che sarei morta giovane e che la ragione per cui non riuscivo a immaginarmi il futuro era che non ne avevo nessuno. Mia madre era morta giovane, e così anche mia nonna, la sorella minore di zia Rose. Per qualche ragione, il destino non ci dava tregua, e quando mi ritrovavo a valutare un impegno a lungo termine, fosse un lavoro oppure un contratto d'affitto, all'ultimo momento mi defilavo ossessionata dall'idea che non ne avrei visto la conclusione. Tutte le volte che tornavo a casa per Natale o per le vacanze estive, zia Rose mi pregava di rimanere con lei invece che proseguire con la mia esistenza senza senso. «Sai, Julie», era solita dirmi mentre raccoglieva le foglie secche di una pianta o decorava l'albero di Natale, un angioletto alla volta, «potresti sempre tornare qui per un po' e pensare a quello che vuoi fare nella vita.» Ma anche se ero tentata, sapevo di non poterlo fare. Janice era là fuori per conto suo a far soldi accoppiando la gente e ad affittare appartamenti con vista su un lago finto. Per me tornare a casa
avrebbe voluto dire che aveva vinto lei. Adesso naturalmente era cambiato tutto. Traslocare a casa di zia Rose non era più fattibile. Il mondo che conoscevo fino a quel momento apparteneva a Janice e a me non restava null’altro che il contenuto di una busta color paglierino. Lì su quell'aereo, mentre rileggevo la lettera di zia Rose sorseggiando del vino acido da una tazza di plastica, mi resi conto all'improvviso di come fossi rimasta totalmente sola, con lei che se n'era andata da questo mondo e Umberto come unico superstite. Da ragazzina non ero mai stata brava a fare amicizia. Al contrario di Janice, per cui un bus a due piani sarebbe stato troppo piccolo per stiparci solo gli amici più intimi. Tutte le volte che mia sorella usciva alla sera con la sua banda sghignazzante, zia Rose si metteva a circumnavigarmi attorno nervosa con la scusa di cercare la sua lente d'ingrandimento o la matita speciale che usava soltanto per le parole crociate. Alla fine si sedeva accanto a me sul divano, apparentemente interessata al libro che stavo leggendo. Ma non era così. «Sai, Julie», mi diceva mentre raccoglieva pelucchi immaginari dai pantaloni del mio pigiama, «sono perfettamente in grado di intrattenere me stessa. Se vuoi uscire con i tuoi amici...» L'allusione sarebbe rimasta sospesa per un po', fino a quando non avessi rimediato la risposta adatta. La verità era che io non rimanevo a casa perché mi dispiaceva per zia Rose, ma perché non avevo interesse alcuno a uscire. Quando mi lasciavo trascinare in un qualche bar, mi ritrovavo sempre circondata da idioti o da mezze seghe che pensavano di far parte di una sceneggiata alla fine della quale - prima che la notte fosse conclusa - avrei dovuto scegliere uno di loro. Il ricordo di zia Rose seduta accanto a me che mi diceva, pur alla sua maniera gentile, di darmi una mossa mi procurò un'altra stretta al cuore. Mentre guardavo mesta attraverso la fuliggine dell'oblò, mi sorpresi a pensare che probabilmente tutto quel viaggio era una specie di punizione per come l'avevo trattata. Forse Dio avrebbe fatto cadere l'aereo, tanto per darmi una lezione. O forse mi avrebbe permesso di arrivare sana e salva a Siena per poi farmi
scoprire che qualcun altro aveva già messo le mani sul tesoro di famiglia. Anzi, più ci pensavo e più mi convincevo che la vera ragione per cui zia Rose non ne aveva mai fatto cenno quando era in vita, era perché si trattava di una bufala. Magari alla fine aveva avuto un attacco di demenza, nel qual caso il presunto tesoro sarebbe risultato essere null’altro che un pio desiderio. E anche se, contro ogni probabilità, a Siena ci fosse veramente stato qualcosa di valore, dopo che ce ne eravamo andate più di venti anni prima, quali erano le possibilità che si trovasse ancora là? Considerando la densità della popolazione europea e la scaltrezza dell'essere umano in generale, sarei stata davvero sorpresa se ci fosse rimasta ancora trippa per gatti dentro al labirinto, ammesso e non concesso che ce la facessi a raggiungerlo. L'unica cosa piacevole durante quel lungo volo insonne fu che, a ogni bottiglietta mignon offerta dalla hostess sorridente, mi allontanavo sempre più dal pensiero di Janice. Non aveva la minima idea che fossi in viaggio verso l'Italia, né che zia Rose mi avesse messa in caccia dell'araba fenice. Almeno potevo rallegrarmi di ciò. Perché se la mia avventura alla ricerca di qualcosa di significativo fosse finita nel nulla, avrei preferito non ritrovarmi intorno mia sorella a giubilarne. Era l'alba, o qualcosa di simile, quando atterrammo a Francoforte. Con gli occhi gonfi e un pezzo di strudel di traverso in gola, ciabattai giù dall'aereo nelle mie infradito. Visto che mancavano più di due ore al volo per Firenze, appena arrivata all'imbarco mi allungai su tre sedili e chiusi gli occhi. La testa appoggiata sulla mia borsa di macramè, ero troppo stanca per preoccuparmi se qualcuno se la fosse filata con il resto del bagaglio. Nel dormiveglia sentii una mano che mi sfiorava il braccio. «Accidenti...» esclamò una voce che sapeva di caffè e di sigaretta, «mi scusi!» Aprii gli occhi e vidi che la donna seduta accanto a me mi stava freneticamente spazzolando via delle briciole dalla manica. Mentre
pisolavo, l'area dell'imbarco si era riempita e la gente mi guardava come si guarda un senzatetto: un mix di disapprovazione e simpatia. «Non si preoccupi», dissi, mentre mi sollevavo, «sono già conciata da buttar via.» «Prenda!» mi porse metà del croissant, quasi a mo' di risarcimento, «deve essere affamata.» La osservai, sorpresa dalla sua gentilezza. «Grazie.» Definire questa donna elegante sarebbe stato un grossolano eufemismo. Ogni dettaglio, nella sua persona, era intonato. Non solo il colore del rossetto con lo smalto delle unghie, ma anche gli scarabei dorati che le adornavano le scarpe, la borsetta, e pure il cappellino insolentemente appoggiato sull'immacolata capigliatura dalla tinta perfetta. Ero più che convinta - e il suo sorriso birichino me lo confermava - che questa donna avesse ogni ragione di essere soddisfatta di se stessa. Forse godeva di un enorme patrimonio - o ne aveva sposato uno - fatto sta che sembrava non avere la minima preoccupazione al mondo salvo quella di mascherare un'anima vetusta in un corpo accuratamente preservato. «Sta andando a Firenze?» si informò con forte e piacevolissimo accento. «Va a vedere le cosiddette opere d'arte?» «A Siena, per la precisione», dissi a bocca piena. «Ci sono nata. Ma da allora non ci sono più tornata.» «Fantastico!» esclamò. «Ma bizzarro! Perché non è più tornata?» «È una storia lunga.» «Me la racconti. La voglio sentire tutta.» Quando vide che esitavo, alzò una mano. «Mi scusi. Sono una ficcanaso. Mi chiamo Eva Maria Salimbeni.» «Julie... Giulietta Tolomei.» Per poco non cascò dalla sedia. «Tolomei? Si chiama Tolomei? No, non ci credo! È impossibile! Un momento... dove è seduta? Sì, sull'aereo. Mi faccia vedere...» Diede un'occhiata alla mia carta d'imbarco e poi me la strappò letteralmente di mano. «Un momento! Non si muova!» La osservai mentre si fiondava sul banco e mi domandai se questo
era un giorno come un altro nella vita di Eva Maria Salimbeni. Immaginai che stesse cercando di cambiare l'assegnazione dei posti in modo che potessimo stare vicine durante il volo e, a giudicare da come sorrideva quando fece ritorno, ne dedussi che ci era riuscita. «Et voilà!» Mi consegnò la mia nuova carta d'imbarco. Dovetti sopprimere un gridolino di giubilo quando la esaminai: naturalmente, per poter continuare la nostra conversazione, avevo dovuto essere promossa in prima classe. Una volta a bordo, Eva Maria non ci mise molto per tirarmi fuori tutta la storia. Omisi solo la mia doppia identità e il fantomatico tesoro di mia madre. «Così», disse alla fine, la testa girata verso di me, «vai a Siena... per vedere il Palio?» «Il che cosa?» La domanda la fece trasalire. «Il Palio! La corsa dei cavalli. Siena è famosa per la corsa dei cavalli del Palio. Il domestico di tua zia - quel bravo Alberto - non ti ha mai detto niente?» «Umberto», la corressi. «Sì, immagino l'abbia fatto. Ma non sapevo che avesse ancora luogo. Quando ne parlava, sembrava una cosa medioevale, le armature, i cavalieri... e tutto il resto.» «La storia del Palio», continuò Eva Maria, «risale al Medioevo più buio. Oggigiorno la corsa si svolge nel Campo davanti al municipio, e i cavalieri sono fantini di professione. Ma si dice che nei tempi antichi i cavalieri appartenessero alla nobiltà e che percorressero al galoppo la distanza dalla campagna fino davanti alla cattedrale di Siena in sella ai loro destrieri da combattimento.» «Esaltante», dissi, ancora confusa per la sua estrema gentilezza. Ma forse considerava suo dovere istruire gli stranieri sulla storia di Siena. «Sì!» esclamò Eva Maria. «È il momento più esaltante della nostra vita. Per mesi e mesi, i senesi non parlano d'altro che di cavalli, di rivali e di accordi con questo o quell'altro fantino. È quella che noi chiamiamo una dolce pazzia. Una volta che l'hai provata, non vuoi più andartene.» «Umberto dice sempre che Siena non può essere spiegata»,
commentai, di colpo desiderando che fosse vicino a me ad ascoltare quella donna affascinante. «Per capire, devi essere lì e sentire i tamburi.» Eva Maria fece un sorrisetto condiscendente, come una regina che riceva un complimento. «Ha ragione. Devi sentirlo...» si sporse verso di me e mi sfiorò il petto con la mano, «lì dentro.» Se l'avesse fatto qualcun altro, sarebbe stato un gesto del tutto inappropriato, ma Eva Maria poteva permetterselo. Mentre l'assistente di volo versava a entrambe il secondo bicchiere di champagne, la mia nuova amica mi raccontò altre cose su Siena: «Così non ti caccerai nei guai», aggiunse facendomi l'occhiolino. «I turisti si cacciano sempre nei guai. Non si rendono conto che Siena non è solo Siena, ma diciassette quartieri diversi - o contrade - tutti con il loro territorio, i loro priori e i loro stemmi.» Eva Maria toccò il mio bicchiere con il suo con fare cospiratorio. «Se hai dei dubbi, puoi sempre guardare l'angolo in alto delle case. La piccola formella di porcellana ti dirà in quale contrada ti trovi. Per esempio, la tua famiglia, i Tolomei, appartiene alla contrada della Civetta e i vostri alleati sono l'Aquila e l'Istrice e... non ricordo chi altri. Queste contrade, questi quartieri, sono per i senesi quanto di più importante nella vita. Lì vivono i tuoi amici, i tuoi conoscenti, i tuoi alleati, e anche i tuoi rivali. Tutti i giorni dell'anno.» «Così la mia contrada è la Civetta», osservai divertita ricordando che Umberto talvolta mi definiva una civetta arruffata quando ero di cattivo umore. «Qual è la sua?» Per la prima volta, da quando avevamo iniziato la nostra lunga conversazione, Eva Maria distolse lo sguardo, come afflitta dalla mia domanda. «Non ne ho una», disse sbrigativamente. «La mia famiglia venne cacciata da Siena alcune centinaia di anni fa.» Molto prima che atterrassimo a Firenze, Eva Maria aveva cominciato a insistere per darmi un passaggio a Siena. Mi spiegò che non sarebbe stato di nessun disturbo visto che era proprio di strada verso casa sua in Val d'Orda. Le dissi che mi andava benissimo
prendere l'autobus ma lei chiaramente era una persona che non credeva nei trasporti pubblici. «Dio santo!» aveva esclamato, mentre io continuavo a rifiutare la sua offerta, «perché vorresti aspettare un autobus che non arriva mai, quando puoi venire con me comodamente seduta nell'auto nuova del mio figlioccio?» Vedendo che ero sul punto di cedere, mi rivolse un sorriso accattivante prima di andare all'affondo. «Giulietta, ci rimarrei così male se non potessimo prolungare un po' la nostra interessante conversazione.» E così passammo al controllo passaporti sottobraccio mentre il funzionario indugiò non poco sulla scollatura di Eva Maria. Più tardi, mentre riempivo i numerosi moduli color pastello a denuncia dello smarrimento del mio bagaglio, Eva Maria rimase accanto a me a tamburellare il pavimento con la sua scarpetta Gucci fino a quando l'addetto non giurò solennemente che avrebbe recuperato di persona le mie due valigie, ovunque si trovassero nel mondo, per poi riconsegnarmele lui stesso - anche in piena notte - all'Hotel Chiusarelli, il cui indirizzo Eva Maria aveva vergato per intero con il rossetto prima di infilarglielo in tasca. «Vedi Giulietta», mi spiegò tirandosi dietro il minuscolo bagaglio a mano mentre uscivamo assieme dall'aeroporto, «per un cinquanta per cento è quello che vedono, l'altro cinquanta è quello che credono di vedere. Ah... !» Fece cenni frenetici di saluto a una berlina nera parcheggiata nell'area riservata ai vigili del fuoco. «Eccolo! Bella macchina, vero?» Mi diede una gomitatina strizzandomi l'occhio. «È il nuovo modello.» «Sul serio?» dissi educatamente. Le auto non mi avevano mai interessato, soprattutto perché di solito erano corredate di guidatore maschio. Di certo Janice sarebbe stata capace di comunicarmi nome e modello del veicolo in questione, e che aveva già in agenda di fare l'amore con il proprietario dello stesso in un'area di parcheggio con vista sulla costiera amalfitana. Inutile aggiungere che la sua agenda era totalmente diversa dalla mia. Non troppo offesa per la mia mancanza di entusiasmo, Eva Maria mi fece avvicinare per sussurrarmi nell'orecchio: «Non dire una parola, voglio fargli una sorpresa! Ma guarda... non è splendido?» Ridacchiava felice mentre mi pilotava nella direzione dell'uomo che
usciva dall'auto. «Ciao, Sandro!» Il tipo girò attorno alla macchina per venirci incontro. «Ciao, madrina!» Baciò Eva Maria su entrambe le guance e non sembrò importargli che lei gli passasse un artiglio affettuoso attraverso i folti capelli neri. «Bentornata.» Eva Maria aveva ragione. Non solo il suo figlioccio faceva male agli occhi tanto era bello, ma era pure vestito da schianto e, benché non fossi certo un'autorità di comportamenti femminili avevo il sospetto che non gli mancassero vittime pronte a... schiantarsi. «Alessandro. Vorrei presentarti qualcuno.» Eva Maria stava facendo fatica a controllare la sua eccitazione. «Questa è la mia nuova amica. Si chiama Giulietta Tolomei. Riesci a crederci?» Alessandro si voltò per guardarmi con occhi color rosmarino fané, occhi che avrebbero spinto Janice a ballare la rumba in mutande brandendo una spazzola a mo' di microfono per tutta la casa. «Ciao!» gli dissi, domandandomi se avrebbe baciato pure me. Ma non lo fece. Guardò invece le mie trecce, i miei calzoncini flosci, le mie infradito, prima di riuscire a confezionare un sorriso e a dire qualcosa in italiano che non capii. «Mi spiace», mormorai, «ma non...» Appena si rese conto che, oltre al mio look disastrato, non parlavo neppure italiano, il figlioccio di Eva Maria perse ogni interesse nella sottoscritta. Invece di tradurre quello che aveva detto si limitò a chiedermi: «Niente bagagli?» «Tonnellate. Ma pare che sia andato tutto a Verona.» Alcuni secondi dopo ero seduta accanto a Eva Maria nel sedile posteriore dell'auto che attraversava a velocità sostenuta gli splendori di Firenze. Non appena mi convinsi che il mutismo assorto di Alessandro era forse da imputare a una modesta conoscenza dell'inglese - ma cosa me ne importava alla fin fine? - mi sentii invadere dall'eccitazione. Non solo ero tornata nel Paese che mi aveva buttata fuori due volte, ma mi stavo facendo delle amicizie importanti. Non vedevo l'ora di chiamare Umberto e raccontargli tutto.
«Allora, Giulietta», disse Eva Maria sistemandosi comoda sul sedile, «io ci andrei cauta... a dire a troppa gente chi sei.» «Io?» Per poco non mi misi a ridere. «Ma non sono nessuno!» «Nessuno? Sei una Tolomei!» «Mi ha appena detto che i Tolomei hanno vissuto qui molto tempo fa.» «Non sottovalutare il potere degli eventi di molto tempo fa. Questo è il tragico errore dell'uomo moderno. Ti do un consiglio, in quanto cittadina del nuovo mondo: ascolta più che puoi e parla meno che puoi. Questo è il luogo dove è nata la tua anima. Credimi, Giulietta, qui ci sono persone per cui tu sei qualcuno.» Spostai lo sguardo sullo specchietto retrovisore e vidi che Alessandro mi stava fissando con gli occhi a fessura. Conoscenza dell'inglese o meno, chiaramente lui non condivideva l'interesse della madrina nei miei riguardi, ma era troppo controllato per palesarlo. E tollerava la mia presenza nell'auto fintanto che fossi rimasta umile e riconoscente. «La tua famiglia, i Tolomei», continuò Eva Maria inconsapevole delle vibrazioni negative, «era una delle famiglie più ricche e potenti della storia di Siena. Erano dei banchieri, capisci, ed erano sempre in guerra con noi, i Salimbeni, per avere il predominio della città. Nel Medioevo il conflitto si fece così estremo che si bruciarono le case a vicenda e assassinarono gli uni i figli degli altri nei loro letti.» «Erano nemici?» chiesi stupidamente. «Oh sì! Della peggior specie! Credi nel destino?» Eva Maria appoggiò la mano sulla mia e me la strinse. «Io ci credo. Le nostre due casate, i Tolomei e i Salimbeni, nutrivano un vecchio rancore, un rancore omicida... Se fossimo nel Medioevo noi due ci saremmo già saltate alla gola. Come i Montecchi e i Capuleti di Romeo e Giulietta.» Mi fissò intensamente. «L'azione si svolge nella bella Siena, dove fra due famiglie di uguale nobiltà... conosci il dramma?» Mentre io mi limitavo ad assentire, troppo sottosopra per parlare, lei mi diede un colpetto rassicurante sulla mano. «Non preoccuparti, sono certa che tu e io, con la nostra nuova amicizia, riusciremo finalmente a sotterrare quella discordia per sempre. E questa è la
ragione...» Si girò di colpo sul sedile. «Sandro! Conto su di te affinché Giulietta sia al sicuro a Siena. Mi hai sentita?» «La signorina Tolomei», rispose Alessandro continuando a fissare la strada, «non sarà mai al sicuro da nessuna parte. E con nessuno.» «Che razza di discorso è questo?» lo rimproverò Eva Maria. «È una Tolomei: è tuo dovere proteggerla.» Alessandro mi lanciò uno sguardo dallo specchietto ed ebbi l'impressione che lui capisse molte più cose di me di quante ne capissi io di lui. «Forse non vuole la nostra protezione.» Da come pronunciò queste parole, capii che mi stava sfidando e capii anche che, malgrado l'accento, la mia lingua non gli poneva dei problemi. E ciò voleva dire che aveva altre ragioni per parlare a monosillabi con me. «Grazie davvero del passaggio», dissi sfoggiando il mio sorriso più grazioso. «Ma sono sicura che Siena è del tutto sicura.» Lui accettò il complimento con un lieve cenno del capo. «Che cosa la porta qui? Affari o piacere?» «Uhm... il piacere, credo.» Eva Maria batté le mani tutta felice. «Allora dobbiamo assicurarci che tu non venga delusa! Alessandro conosce ogni segreto di Siena. Vero, caro? Ti farà vedere i posti, posti meravigliosi che non potresti mai trovare da sola. Oh, se vi divertirete!» Aprii la bocca ma non seppi cosa dire. Così la richiusi. Era piuttosto chiaro dal cipiglio di Alessandro che portarmi in giro per Siena sarebbe rimasto in fondo alla sua agenda per un bel po'. «Sandro!» insistette Eva Maria con voce più stridula. «Farai del tuo meglio affinché Giulietta si diverta, giusto?» «Non posso immaginare piacere più grande», rispose Alessandro accendendo l'autoradio. «Visto?» Eva Maria mi pizzicò la guancia arrossata. «Che ne sapeva Shakespeare? Adesso siamo amici.» Fuori, il mondo non era che una distesa di vigne con il cielo sospeso sopra come un caldo manto celeste. Quello era il luogo dove ero nata, eppure mi sentivo come un'estranea - un'intrusa - che si fosse intrufolata dalla porta di servizio per reclamare qualcosa che
non le spettava. Fu un sollievo quando finalmente arrivammo all'Hotel Chiusarelli. Eva Maria era stata più che gentile durante tutto il percorso a raccontarmi aneddoti vari sulla città, ma non è che si possa fare questo granché di conversazione dopo aver perso una notte di sonno e l'intero bagaglio in un colpo solo. Tutto ciò che possedevo era in quelle due valigie. Praticamente ci avevo stipato tutta la mia infanzia. Subito dopo il funerale me ne ero andata da casa di zia Rose in taxi, con la risata di Janice che mi rimbombava ancora nelle orecchie. C'erano vari capi di abbigliamento, libri, stupide cianfrusaglie, il tutto ora a Verona, mentre io ero a Siena con poco più di uno spazzolino da denti, mezza barretta ai cereali, e un paio di auricolari. Dopo aver parcheggiato sul marciapiede dell'hotel e avermi doverosamente aperto lo sportello dell'auto, Alessandro mi scortò fino alla reception. Chiaramente non ne aveva nessuna voglia e io chiaramente non apprezzai il gesto, ma Eva Maria ci teneva d'occhio dai sedili posteriori della berlina e a quel punto avevo capito che lei era qualcuno cui obbedire senza discutere. «Prego», disse Alessandro mentre mi teneva aperta la porta, «dopo di lei.» Non c'era nient'altro da fare che varcare l'ingresso dell'hotel. Il palazzo mi avvolse in una calma serena: l'alto soffitto era sostenuto da colonne di marmo e da qualche parte, ai piani inferiori, si sentiva gente cantare in mezzo a un frastuono di pentole e coperchi. «Buongiorno!» Un signore impeccabile in giacca, pantaloni e gilè, si erse da dietro il bancone del ricevimento. Una targhetta d'ottone informava che il suo nome era Rossini, direttor Rossini. «Benvenu... ah!» Si interruppe all'apparire di Alessandro. «Benvenuto, Capitano.» Appoggiai le mani sul bancone di marmo verde sfoderando quello che mi auguravo essere un sorriso accattivante. «Salve. Sono Giulietta Tolomei. Ho una prenotazione. Mi scusi un attimo...» mi rivolsi ad Alessandro. «Ecco fatto. Adesso sono al sicuro.» «Sono molto spiacente, signorina», mi disse il direttore, «ma non
risulta nessuna prenotazione a questo nome.» «Oh! Ero sicura... c'è qualche problema?» «Il Palio!» sospirò sconsolata. «L'albergo è al completo! Ma...» ticchettò sulla tastiera controllando il monitor, «ho un numero di carta di credito a garanzia di Julie Jacobs. Prenotazione per una persona per una settimana. In arrivo oggi dagli Stati Uniti. È per caso lei?» Guardai Alessandro di sottecchi. Ricambiò il mio sguardo con totale indifferenza. «Sì, sono io», risposi. Rossini parve sorpreso. «Lei è Julie Jacobs? E anche Giulietta Tolomei?» «Ecco... sì.» «Ma...» Il direttore si spostò un po' di lato per guardare Alessandro con aria interrogativa. «C'è un problema?» «Nessun problema», intervenne Alessandro osservandoci entrambi con quella che poteva essere solo definita una non espressione. «Signorina Jacobs, si diverta a Siena.» Il figlioccio di Eva Maria scomparve non prima di avermi ammiccato e io mi ritrovai in un silenzio imbarazzante da sola con il direttor Rossini. Soltanto dopo che ebbi compilato ogni possibile modulo che mi fu messo davanti, il direttore si concesse infine di sorridermi. «Così... lei è un'amica del Capitano Santini?» Mi girai a guardarmi dietro. «Vuol dire l'uomo che era qui poco fa? No, non siamo amici. Si chiama così? Santini?» Il direttore dovette pensare che fossi dura di comprendonio. «Si chiama Capitano Santini. È, come si dice, a capo della Sicurezza del Monte dei Paschi. A Palazzo Salimbeni.» Dovetti sembrargli scioccata perché Rossini si affrettò a rassicurarmi. «Non si preoccupi, a Siena non ci sono criminali. È una città molto tranquilla. Una volta c'è stato un criminale...» sogghignò mentre chiamava il facchino con il campanello, «ma l'abbiamo sistemato per le feste.» Per ore non avevo pensato ad altro che a buttarmi sul letto. Ma adesso che finalmente potevo farlo, invece di rilassarmi, mi ritrovai
ad andare avanti e indietro per la camera, rodendomi al pensiero che Alessandro Santini decidesse di fare una ricerca con il mio nome e scoprisse il mio oscuro passato. L'ultima cosa di cui avevo bisogno in questo momento era che qualcuno a Siena mettesse le mani sul vecchio fascicolo intestato a Julie Jacobs, venisse a conoscenza della mia disavventura romana e ponesse inopportunamente fine alla mia caccia al tesoro. Più tardi, quando chiamai Umberto per dirgli che ero arrivata sana e salva, qualcosa nella mia voce lo mise in allarme perché capì subito che le cose non giravano per il verso giusto. «Oh, non è niente», dissi. «Solo un manichino vestito Armani che ha scoperto che ho due nomi.» «Ma è italiano», fu la giusta risposta di Umberto, «non gli importa se infrangi un pochino la legge, purché tu indossi delle magnifiche scarpe. Hai delle magnifiche scarpe? Hai le scarpe che ti ho regalato...? Principessa?» Abbassai lo sguardo verso le infradito. «Sono spacciata.» Quella notte non mi ero ancora trascinata nel letto che già mi trovavo catapultata in un sogno ricorrente che era stato parte della mia vita dall'infanzia. Nel sogno avanzavo all'interno di uno splendido castello con pavimenti di mosaico e soffitti a volta, e aprivo una porta dorata dopo l'altra domandandomi dove fossero gli abitanti. La poca luce proveniva dai vetri colorati di una stretta finestrella molto in alto sopra la mia testa, e i raggi variopinti facevano ben poco per illuminare gli angoli bui attorno a me. Mentre procedevo negli ampi saloni, mi sentivo come un bambino smarrito in un bosco, e mi angosciava percepire la presenza di altri senza poterli vedere. Se restavo immobile, potevo sentirli sussurrare e fluttuare attorno a me come fantasmi. Ma se davvero si trattava di presenze impalpabili, erano anch'esse intrappolate, come me, alla ricerca di una via d'uscita. Solo quando al liceo lessi il dramma scoprii che quello che gli spettri stavano sussurrando erano frammenti dal Romeo e Giulietta di Shakespeare. Ma non recitavano come fanno gli attori sul
palcoscenico, piuttosto farfugliavano in maniera sconnessa, come fossero parole di un incantesimo. O di una maledizione.
Capitolo 3 Fra tre ore la bella Giulietta si sveglierà. Ci vollero le campane della basilica dall'altra parte della piazza a svegliarmi. Due minuti più tardi Rossini bussava alla porta della mia camera come se sapesse che non avrei potuto continuare a dormire in mezzo a quel baccano. «Mi scusi!» Senza aspettare il mio permesso, trascinò una grossa valigia nella stanza e la piazzò sopra a uno sgabello vuoto. «Questa è arrivata ieri sera.» «Un momento!» Lasciai la maniglia della porta annodandomi l'accappatoio dell'hotel il più stretto possibile. «Quella non è la mia valigia.» «Lo so.» Estrasse un foulard dal taschino per detergersi il sudore dalla fronte. «La manda la contessa Salimbeni. Ecco, c'è un biglietto per lei.» Presi il biglietto. «Che cos'è esattamente una contessa?» «Di regola», dichiarò Rossini con una certa dignità, «non porto i bagagli. Ma visto che si trattava della contessa Salimbeni...» «Mi sta prestando i suoi vestiti?» Stavo leggendo incredula la breve nota scritta a mano da Eva Maria. «Anche le scarpe?» «Fino a quando non arrivano i suoi bagagli. Adesso sono a Frittoli.» In una calligrafia squisita, Eva Maria mi avvertiva che i suoi vestiti avrebbero anche potuto non andarmi a pennello. Ma, concludeva, sempre meglio che andare in giro nuda. Mentre esaminavo gli articoli della valigia uno dopo l'altro, fui felice che Janice non potesse vedermi. La casa dove eravamo cresciute non era abbastanza grande per due appassionate di moda e così - con immenso dispiacere di Umberto - avevo preso una strada che più diversa non si poteva. A scuola Janice riceveva i complimenti
di amiche le cui vite erano costellate dai nomi degli stilisti, mentre tutta l'ammirazione che ottenevo io arrivava da parte di ragazze che erano andate a frugare nei negozi di seconda mano ma che non avevano avuto l'illuminazione di comperare quello che comperavo io, né il coraggio di osare i miei abbinamenti. Non è che non mi piacessero i vestiti eleganti, semplicemente non volevo dare a Janice la soddisfazione di farle credere che me ne importasse. Perché qualsiasi cosa io avessi indossato, lei sarebbe sempre stata un passo avanti. Al termine dell'università, ero diventata come apparivo: un fiore di tarassaco in una serra. Caruccia, ma pur sempre una pianta infestante. Dopo aver messo le nostre foto di laurea l'una accanto all'altra sul pianoforte a coda, zia Rose aveva sorriso tristemente e osservato che, di tutte le materie che avevo studiato, pareva che i voti più alti li avessi presi nel corso anti-Janice. In altre parole i vestiti firmati di Eva Maria non corrispondevano affatto al mio stile. Ma cosa avrei potuto fare? Come conseguenza della conversazione telefonica avuta con Umberto la sera precedente, avevo deciso di lasciare le infradito a riposo e stare più attenta a fare bella figura. Dopotutto, volevo a tutti i costi evitare che Francesco Maconi, il consulente finanziario di mia madre, pensasse che fossi una poco di buono. Così provai gli indumenti di Eva Maria l'uno dopo l'altro, ammirandomi nello specchio del guardaroba, fino a quando trovai la mise meno vistosa - una gonna malandrina con giacchino rosso pompiere a grandi bolli neri - che dava l'idea fossi appena scesa da una Jaguar con un set di valigie in tinta e un cagnolino di nome Bijoux. Ma, soprattutto, davo l'idea che eredità nascoste e consulenti finanziari me li mangiassi a colazione. E poi avevo le scarpe intonate. Per arrivare a Palazzo Tolomei, mi spiegò il direttore, dovevo scegliere se risalire per via del Paradiso o scendere per via della Sapienza. Entrambe erano chiuse al traffico - come quasi tutte le strade del centro storico - ma Sapienza, mi aveva avvertita, era un filino più complicata mentre Paradiso, tutto considerato, era
probabilmente il percorso più sicuro. Mentre percorrevo via della Sapienza, le facciate delle antiche dimore incombevano su di me da tutti i lati e mi trovai presto intrappolata in un labirinto dove il tempo sembrava essersi fermato secoli prima. Sopra di me, la striscia azzurra del cielo era intersecata da stendardi i cui vivaci colori risaltavano tra i mattoni medioevali. A parte questo - e l'occasionale paio di jeans appeso ad asciugare non c'era quasi nulla che denunciasse che eravamo entrati nell'era moderna. Il mondo era andato avanti, ma Siena non se ne curava. Rossini mi aveva detto che per i senesi l'età d'oro era stata il Tardo Medioevo e, lungo il cammino, potevo vedere quanto avesse ragione. La città era avvinghiata alla propria anima medioevale con ostinato disinteresse per le attrattive del progresso. Qua e là vi erano tracce di Rinascimento ma, tutto considerato, come aveva commentato con disdegno il direttore dell'hotel, Siena era stata troppo saggia per lasciarsi sedurre dal fascino dei playboy della storia, i cosiddetti Maestri, che avevano trasformato le case in tante torte nuziali. La cosa più affascinante di Siena era quindi la sua integrità. Anche ora, in un mondo tutto volto all'apparire, Siena era ancora Saena Vetus Civitas Virginis cioè Siena vecchia, città della Vergine. E questo era sufficiente, aveva concluso Rossini appoggiando le mani aperte sul bancone di marmo verde, per renderla l'unica località al mondo in cui valesse la pena vivere. «Allora, dove ha vissuto oltre a Siena?» gli avevo chiesto, ingenuamente. «Sono stato a Roma due giorni», aveva risposto compunto. «Perché stare di più? Se dai un morso a una mela marcia, continui forse a mangiare?» Dopo l'iniziale immersione in quei vicoli silenziosi, alla fine emersi su una strada brulicante di pedoni. Secondo le indicazioni era Banchi di Sopra e Rossini mi aveva spiegato che era famosa a causa delle numerose banche usate dai forestieri che arrivavano in centro percorrendo la vecchia via Francigena. Attraverso i secoli milioni di
persone erano passate da Siena e numerosi tesori e valute stranieri avevano cambiato di proprietario. Il flusso incessante dei turisti moderni, in altre parole, non era che il proseguimento di una vecchia e redditizia tradizione. Era così che la mia famiglia, i Tolomei, mi aveva comunicato Rossini, era diventata ricca e così che i loro rivali, i Salimbeni, erano diventati anche più ricchi. Avevano fatto i commercianti e i banchieri e questa strada - la più importante della città - era fiancheggiata dai loro palazzi fortificati, dotati ciascuno di torri altissime che avevano continuato a crescere e a crescere fino a quando si erano schiantate al suolo. Mentre sorpassavo Palazzo Salimbeni, cercai invano i resti della vecchia torre. Si trattava ancora di un fabbricato impressionante con un vampiresco portone principale, ma non c'erano più tracce dell'antica fortezza. Da qualche parte, all'interno di quell'edificio, pensai mentre allungavo il passo tirandomi su il bavero, ci dovevano essere gli uffici del figlioccio di Eva Maria. Sperai che giusto in quel momento non fosse intento a spulciare gli archivi criminali alla ricerca del terribile segreto di Julie Jacobs. Più avanti, ma non di molto, ecco che si ergeva Palazzo Tolomei, l'antica e raffinata dimora dei miei antenati. Mentre ne ammiravo la splendida facciata medioevale, mi sentii di colpo orgogliosa di essere collegata alle persone che vi avevano un tempo abitato. Da quello che potevo vedere, non era cambiato molto dal quattordicesimo secolo: la sola cosa che lasciava trapelare che i potenti Tolomei avevano sbaraccato, e una moderna banca si era installata al loro posto, erano i variopinti cartelloni pubblicitari appesi ai finestroni infossati e protetti da sbarre di ferro. L'interno del palazzo non era meno austero dell'esterno. Con tutta la galanteria che gli permetteva la semiautomatica appesa al braccio, una guardia di sicurezza mi venne incontro ad aprirmi la porta. Ero troppo occupata a guardarmi intorno per farmi impressionare dalla sua gentilezza in divisa. Sei giganteschi pilastri di mattoni rossi sorreggevano il soffitto, altissimo se rapportato alla gente sotto. Benché ci fossero sportelli e sedie, e persone che si muovevano sul vastissimo pavimento di pietra, tutto questo
prendeva così poco spazio che le candide teste di leone sporgenti dagli antichi muri sembravano del tutto ignare della presenza di umani. «Sì?» L'impiegata mi scrutò da sopra la montatura all'ultimo grido di occhiali talmente sottili da non poter riflettere che una realtà assai approssimativa. Per rispetto della privacy, mi sporsi un poco in avanti. «Sarebbe possibile parlare con il signor Francesco Maconi?» L'impiegata riuscì malgrado tutto a mettermi a fuoco attraverso le lenti, ma non sembrò convinta di quello che vedeva. «Non c'è nessun signor Francesco qui», rispose con decisione. «Nessun Francesco Maconi?» A questo punto, l'impiegata ritenne necessario togliersi gli occhiali, ripiegarli con attenzione sul bancone, e rivolgermi quel sorriso incredibilmente soave con cui la gente ti fissa prima di piantarti una siringa nel collo. «No.» «Ma so che lavorava qui...» Non proseguii oltre perché una collega della donna alloggiata nello sportello accanto si inserì nella conversazione sussurrando qualcosa in italiano. Dapprima, la mia malmostosa impiegata disdegnò l'altra con una furente scrollata di testa, ma dopo un po' si mise a riflettere. «Mi scusi», disse alla fine, protendendosi verso di me per avere la mia attenzione, «lei intende il presidente, il dottor Maconi?» Avvertii un soprassalto di gioia. «Lavorava qui vent'anni fa?» Alla tipa venne un colpo. «Il dottor Maconi è sempre stato qui!» «E sarebbe possibile parlargli?» Le feci un bel sorriso benché non se lo meritasse. «E' un vecchio amico di mia madre, Diane Tolomei. Io sono Giulietta Tolomei.» Entrambe le donne mi fissarono come se un fantasma si fosse materializzato davanti a loro. Senza aggiungere altro, l'impiegata che mi aveva bistrattata, si riposizionò goffamente gli occhiali sul naso, prese il telefono e conversò brevemente con tono umile e sottomesso. Poi rimise giù sussiegosa il ricevitore e mi rivolse qualcosa di simile a un sorriso. «La vedrà subito dopo pranzo, alle
quindici.» Il mio primo pasto da che ero arrivata a Siena lo consumai in una pizzeria chiamata Cavallino Bianco. Mentre ero lì che facevo finta di leggere il dizionario di italiano appena acquistato, cominciai a rendermi conto che mi ci sarebbe voluto più di un vestito a prestito e di un po' di fraseologia per confondermi con i nativi. Sbirciando i sorrisi e l'esuberante gestualità delle donne intente a scherzare con il bel cameriere, Giulio, ebbi come il sospetto che possedessero qualcosa che io non avrei mai avuto, un'abilità difficile da definire, ma che doveva essere un elemento determinante per quel loro stato di grazia. Continuando la mia passeggiata, e sentendomi più impacciata e fuori posto che mai, ordinai un espresso al banco del bar Quattro Cantoni in piazza Postierla e chiesi alla formosa barista se poteva consigliarmi un negozio di abiti a prezzi ragionevoli nelle vicinanze. Dopotutto, la valigia di Eva Maria non conteneva - per fortuna indumenti intimi. Ignorando completamente gli altri clienti la barista mi esaminò con scetticismo e disse: «Vuoi tutto nuovo, no? Pettinatura nuova, vestiti nuovi?» «Ecco...» «Non preoccuparti, mio cugino è il miglior parrucchiere di Siena, forse del mondo. Ti farà una bellezza. Vieni!» Dopo avermi preso per il braccio e insistito che la chiamassi Malèna, la barista mi scortò da suo cugino Luigi, anche se, data l'ora di punta, nel locale c'era un pienone e i clienti le urlavano dietro esasperati mentre si allontanava. Si limitò a fare spallucce ridacchiando, anche perché sapeva benissimo che li avrebbe ritrovati a struggersi per lei quando fosse tornata, forse addirittura di più, adesso che avevano assaggiato la sua assenza. Quando entrammo nel salone, Luigi stava ramazzando capelli dall'impiantito. Aveva più o meno la mia età, ma lo sguardo penetrante di un Michelangelo. Tuttavia, quando rivolse quello sguardo nella mia direzione, non parve affatto impressionato. «Ciao, caro», disse Malèna dandogli due beccatine senza contatto
su entrambe le guance, «questa è Giulietta. Ha bisogno di una rimessa a nuovo totale.» «A dire la verità solo le punte», mi intromisi. «Due, tre centimetri.» Si rivelò necessaria una lunga e accesa discussione in italiano - che fui più che felice di non capire - prima che Malèna riuscisse a persuadere Luigi a farsi carico del mio caso disperato. Ma una volta deciso per il sì, lui prese la sfida assai seriamente. Subito dopo che Malèna se ne fu andata, mi fece sedere su una poltrona e si mise a studiare il mio riflesso nello specchio da ogni angolo possibile. Poi mi tolse gli elastici dalle trecce e li scagliò nei rifiuti con un'espressione di disgusto. «Bene...» commentò soddisfatto del risultato, molto tempo dopo, mentre mi dava un'ultima pettinata e mi guardava di nuovo allo specchio con un'espressione un filino meno critica. «Mica male, vero?» Quando, due ore più tardi, tornai verso Palazzo Tolomei, avevo aggravato il mio debito ulteriormente, ma ne era valsa la pena, fino all'ultimo dannato centesimo, che non avevo. Il tailleur rosso e nero di Eva Maria giaceva ora piegato con cura sul fondo di un sacchetto, con sopra le scarpe abbinate, e io indossavo uno dei cinque nuovi capi, tutti approvati da Luigi e da suo zio Paolo, acquistati nel negozio di abbigliamento dietro l'angolo. Lo zio Paolo - che non parlava una parola d'inglese ma che sapeva tutto quello che c'era da sapere in fatto di moda - mi aveva accordato uno sconto del trenta per cento sulla spesa totale a condizione di non indossare mai più il mio costume da coccinella. All'inizio avevo protestato, spiegando che i miei bagagli sarebbero arrivati da un momento all'altro, ma alla fine la tentazione era stata troppo grande! E poi cosa importava se le mie valigie fossero già state consegnate in hotel? Non contenevano comunque nulla che potessi indossare a Siena, forse con l'eccezione delle scarpe che Umberto mi aveva regalato per Natale e che io non avevo neppure provato. Appena uscita dal negozio presi a rimirarmi in ogni vetrina che
incontravo. Perché non l'avevo fatto prima? Dal liceo in poi avevo cominciato a tagliarmi i capelli da sola - giusto le punte - con un paio di forbici da cucina, più o meno ogni due anni. Ci impiegavo circa cinque minuti e, a dirla tutta, pensavo, chi poteva vedere la differenza? Però adesso la differenza la vedevo eccome. Luigi era riuscito, non so in quale modo, a dare vita ai miei poveri capelli che, ringalluzziti per la conquistata libertà, svolazzavano nella brezza e mi incorniciavano il viso come se fosse meritevole di essere incorniciato. Da bambina zia Rose mi portava dal parrucchiere del paese quando ne aveva bisogno anche lei. Ma era stata abbastanza saggia da non portare mai me e Janice allo stesso tempo. Solo una volta ci era capitato di trovarci sedute l'una accanto all'altra sulle poltrone del salone e, mentre eravamo lì a farci le boccacce a vicenda, il vecchio parrucchiere aveva sollevato i nostri codini e aveva esclamato: «Guardate! Una ha i capelli da pecorella e l'altra da principessa». Zia Rose non aveva fatto commenti. Era rimasta seduta in silenzio nell'attesa che avessimo finito. Appena terminato, aveva pagato e lo aveva ringraziato con quel suo tono di voce stringato di certe occasioni. Poi ci aveva trascinato fuori dalla porta come fossimo state noi, non lui, a comportarci male. Da quel giorno Janice non aveva perso occasione di prendermi in giro per i miei capelli da bella pecorella. Per poco non mi misi a piangere, al solo ricordo. Eccomi qua, tutta in ghingheri, mentre zia Rose era in un posto da cui non avrebbe più potuto accorgersi che alla fine ero uscita dal mio bozzolo di macramè. Sarebbe stata talmente felice di vedermi così almeno una volta - ma io ero stata troppo occupata a non farmi vedere da Janice. Il presidente Maconi si rivelò essere un cordiale sessantenne incravattato e vestito sobriamente. Portava i lunghi e radi capelli pettinati da un lato all'altro del cranio, sulla cui sommità erano stati sparpagliati con successo. Di conseguenza, teneva un portamento dignitosamente rigido, ma il calore genuino del suo sguardo spegneva ogni senso di ridicolo.
«Signorina Tolomei?» Apparve dal fondo della banca per stringermi la mano con foga come se fossimo vecchi amici. «Questa è una gioia inaspettata.» Mentre salivamo insieme le scale, il presidente continuò a scusarsi in un inglese impeccabile per i muri cadenti e il pavimento dissestato. Anche il più moderno intervento sugli interni, mi spiegò con un sorriso, sarebbe stato vano con un edificio che aveva quasi ottocento anni. Dopo una giornata di intoppi filologici fu un vero sollievo per me incontrare finalmente qualcuno fluente nella mia lingua. Un lieve accento britannico stava a indicare che il dottor Maconi doveva aver vissuto per un po' in Inghilterra - forse aveva studiato là - il che spiegava perché mia madre l'avesse scelto come consulente finanziario. Il suo ufficio era all'ultimo piano: dalle finestre a bifora si godeva una vista perfetta della chiesa di San Cristoforo e di molti altri splendidi palazzi nel vicinato. Mentre avanzavo, tuttavia, per poco feci un capitombolo su un secchio di plastica posto nel mezzo di un grande tappeto persiano. Dopo essersi assicurato che ero illesa, il presidente riposizionò il secchio nello stesso identico punto. «C'è una perdita dal tetto», mi spiegò alzando lo sguardo verso l'intonaco in frantumi del soffitto, «ma non riusciamo a trovarla. È molto strano, l'acqua continua a gocciolare anche quando non piove.» Si strinse nelle spalle e mi fece cenno di accomodarmi su una delle due sedie di mogano finemente cesellate di fronte alla scrivania. «Il presidente precedente era solito dire che il palazzo stava piangendo. Conosceva suo padre, per inciso.» Mentre si sedeva dietro la scrivania sprofondando nella poltrona di cuoio, il dottor Maconi giunse la punta delle dita e mi chiese: «Allora, signorina Tolomei, come posso aiutarla?» Non so perché, ma la domanda mi colse di sorpresa. Mi ero così concentrata su come arrivare fin lì che avevo dato scarso peso al passo successivo. Ero certa che Francesco Maconi sapesse benissimo che mi ero fatta avanti per il tesoro di mia madre e che anzi avesse aspettato con ansia tutti questi anni per poterlo finalmente consegnare al legittimo proprietario.
Ma il Maconi che avevo davanti non mi sembrò tanto disponibile. Cominciai con lo spiegare perché fossi venuta mentre lui mi ascoltava in silenzio, assentendo di tanto in tanto con il capo. Quando ebbi finito di parlare, lui mi guardò pensoso, senza tradire alcun tipo di reazione. «E così mi domandavo», proseguii, rendendomi conto che avevo omesso il punto più importante, «se mi può consegnare la cassetta di sicurezza.» Estrassi la chiave dalla borsetta e la deposi sulla scrivania ma lui non la degnò che di uno sguardo fugace. Dopo un momento di silenzio imbarazzante, si alzò e si diresse verso la finestra a osservare corrucciato, e con le mani dietro la schiena, i tetti di Siena. «Sua madre», disse dopo un po', «era una donna saggia. E quando Dio chiama a sé i saggi, lascia che la loro saggezza rimanga sulla Terra, per noi. Il loro spirito continua a vivere, volano attorno a noi in silenzio, come civette, con occhi che vedono nella notte mentre lei e io vediamo solo il buio.» Si arrestò per verificare un pannello impiombato che stava staccandosi. «Da un certo punto di vista, la civetta sarebbe il simbolo giusto per tutta Siena, non solo per la nostra contrada.» «Perché... tutti i senesi sono saggi?» mi azzardai, non del tutto sicura di dove volesse arrivare. «Perché la civetta ha un'antenata remota. Per i greci, era la dea Atena. Una vergine, ma anche una guerriera. I romani la chiamavano Minerva. Ai tempi dei romani, qua a Siena c'era un tempio dedicato a lei. Questa è la ragione per cui siamo sempre stati inclini ad amare la Vergine Maria, fin dai tempi antichi, prima della nascita di Cristo. Per noi lei è sempre stata qui.» «Dottor Maconi...» «Signorina Tolomei.» Alla fine si voltò guardandomi in viso. «Sto cercando di capire che cosa sua madre avrebbe voluto che facessi. Lei mi sta chiedendo di consegnarle qualcosa che le causò un enorme dolore. Sua madre davvero vorrebbe che l'abbia lei?» Sorrise fugacemente. «Ma non è una decisione mia, giusto? L'ha lasciato qua - non se n'è liberata - e quindi deve aver voluto che lo consegnassi a
lei, o a qualcuno. La domanda è: lei è sicura di volerlo?» Dopo aver convocato il custode di chiavi in seconda, il cupo signor Virgilio, il presidente scese con me da una scala secondaria una spirale di vecchi gradini di pietra che dovevano essere stati lì da sempre - che conduceva ai sotterranei più profondi della banca. Fu quella la prima volta che mi resi conto che sotto Siena c'era un mondo a parte: un mondo di grotte e di ombre in contrasto stridente con la luce di quello in superficie. «Benvenuta nei Bottini», disse il dottor Maconi mentre procedevamo attraverso uno stretto passaggio cavernoso, «questo è il vecchio acquedotto sotterraneo che fu costruito mille anni fa per fornire acqua alla città di Siena. È arenaria e, pur con gli attrezzi rudimentali di allora, gli ingegneri senesi furono in grado di scavare tutta una rete di tunnel che portava acqua potabile alle fontane pubbliche e anche in alcune cantine di dimore private. Ora naturalmente non è più in uso.» «Ma la gente viene quaggiù lo stesso?» domandai, sfiorando con la mano il ruvido muro di arenaria. «Oh, no!» Il presidente sembrò divertito dalla mia ingenuità. «Questo è un posto pericoloso. Ci si può perdere facilmente. Nessuno conosce tutti i Bottini. Ci sono storie, un sacco di storie, di tunnel segreti che conducono di qua e di là, ma non vogliamo persone in giro a esplorare. Vede, l'arenaria è porosa. Si sbriciola. E sopra ci sta tutta Siena.» Ritrassi la mano. «Ma questo muro... è rinforzato?» Maconi apparve un poco interdetto. «No.» «Ma è una banca. Mi sembra... pericoloso.» «Una volta», rispose accigliandosi, «alcuni tentarono di fare un colpo. Avevano scavato un tunnel. Ci avevano impiegato dei mesi.» «Com'è andata a finire?» Il presidente mi indicò una videocamera di sorveglianza alloggiata in un angolo buio. «Quando partì l'allarme scapparono attraverso il tunnel, ma
almeno non riuscirono a portare via nulla.» «Chi erano?» chiesi. «L'ha mai saputo?» «Criminali. Non sono più tornati.» Quando finalmente arrivammo, sia il dottor Maconi sia il signor Virgilio dovettero far passare le loro chiavi magnetiche da un lettore per poter aprire la massiccia porta della camera blindata. «Visto?» Maconi era orgoglioso del marchingegno. «Neppure il presidente può aprire il caveau da solo. Come si suol dire, il potere assoluto corrompe in modo assoluto.» All'interno della camera, le cassette di sicurezza coprivano completamente i muri, dal pavimento al soffitto. Per la maggior parte erano piccole, ma alcune erano grandi abbastanza da fungere da deposito bagagli in un aeroporto. La cassetta di mia madre risultò essere una via di mezzo e, appena Maconi mi ebbe aiutata a inserire la chiave, fui educatamente lasciata sola. Quando, alcuni secondi più tardi, udii lo sfrigolio di due fiammiferi, capii che lui e Virgilio avevano approfittato della pausa per farsi una sigaretta nel corridoio esterno. Dal momento in cui avevo letto la lettera di zia Rose, mi ero fatta un sacco di idee diverse sulla natura del tesoro di mia madre, e avevo fatto del mio meglio per tenere sotto controllo le mie aspettative in modo da non rimanere delusa. Tuttavia, nelle mie fantasie più sfrenate, mi vedevo davanti, chiuso a chiave e pieno di promesse, uno splendido cofanetto d'oro massiccio non dissimile dai forzieri del tesoro che nelle isole deserte i pirati dissotterrano. Mia madre mi aveva lasciato proprio una cosa così. Si trattava di un cofanetto di legno con fregi dorati e, ancorché non fosse propriamente chiuso a chiave - non c'era nessun lucchetto - la ruggine che bloccava il fermaglio ne impediva l'apertura consentendomi solo di scuoterlo piano per determinarne i contenuti. Era delle dimensioni di un tostapane, ma sorprendentemente leggero, il che escludeva da subito la possibilità che contenesse oro o gioielli. Ma, in fin dei conti, le ricchezze si palesano in fogge diverse e chi ero io per disdegnare della cartamoneta a due zeri? Mentre ci salutavamo, il presidente insistette per chiamarmi un
taxi. Gli risposi che non ne avevo bisogno dato che il cofanetto stava benissimo in una delle mie borse dello shopping, e che il Chiusarelli dopotutto era nelle vicinanze. «Farei attenzione», insistette, «ad andare in giro con quella roba. Sua madre era sempre cauta.» «Ma chi sa che sono qui? E che ce l'ho con me?» «I Salimbeni...» Lo guardai fisso, indecisa se stesse parlando sul serio. «Non mi dica che il vecchio conflitto fra le nostre famiglie sta ancora andando avanti!» Maconi distolse lo sguardo, chiaramente a disagio. «Un Salimbeni sarà sempre un Salimbeni.» Mentre mi allontanavo da Palazzo Tolomei, non feci che ripetermi quella frase, domandandomi che cosa significasse veramente. Alla fine giunsi alla conclusione che non c'era altro da aspettarsi da un posto del genere. A giudicare da quello che Eva Maria mi aveva raccontato sull'accesa rivalità ancora esistente nel Palio moderno, le vecchie schermaglie intrafamigliari del Medioevo continuavano in epoca moderna, anche se le armi erano cambiate. Conscia del mio retaggio Tolomei, quando raggiunsi Palazzo Salimbeni misi un pizzico di baldanza all'andatura giusto per avvertire Alessandro - nel caso stesse guardando dalla finestra in quel preciso momento - che in città era arrivato un nuovo sceriffo. E fu proprio allora, mentre giravo la testa all'indietro per vedere se ero stata chiara, che mi accorsi di un uomo che mi seguiva. Era qualcuno fuori contesto. La strada era piena di turisti rumorosi, di madri con le carrozzine, e di uomini d'affari che parlavano ad alta voce al cellulare con interlocutori invisibili. Quest'uomo, invece, indossava una tuta sdrucita e un paio di occhiali a specchio che non riuscivano a celare che stava fissando proprio le mie borse. O lo stavo solo immaginando? Forse le ultime parole di Maconi mi avevano resa nervosa? Feci una pausa davanti a una vetrina, nella speranza che il tipo mi sorpassasse e continuasse per la sua strada. Ma non lo fece. Appena mi arrestai, si fermò anche lui, con il pretesto di guardare un manifesto sul muro.
Per la prima volta nella mia vita, sentii «i morsicotti della paura», come li chiamava Janice e, inspirando profondamente, passai in rassegna le opzioni. Ma in verità c'era una sola cosa da fare. Se avessi continuato a camminare, con ogni probabilità mi avrebbe raggiunta per strapparmi le borse di mano o, peggio, mi avrebbe seguita per vedere dove stavo e farmi visita più tardi. Fischiettando, spinsi la porta del negozio e, non appena dentro, mi precipitai verso il commesso e gli chiesi se potevo uscire dal retro. Senza quasi alzare lo sguardo dalla sua rivista di motociclismo, mi indicò una porta all'altra estremità del locale. Dieci secondi dopo mi catapultavo in una stradina secondaria e quasi scaraventai giù una fila di Vespe parcheggiate l'una accanto all'altra. Non avevo la più pallida idea di dove mi trovassi, ma non importava. La cosa essenziale era che avevo ancora tutte le mie borse. Il taxi mi depositò all'entrata dell'hotel, e io sarei stata felice di pagare qualunque tariffa per la corsa. Ma quando diedi una mancia esagerata al conducente, lui fece di no con la testa e mi restituì il grosso della somma. «Signorina Tolomei!» Il direttore mi venne incontro tutto allarmato nell'attimo in cui entrai. «Dov'è stata? Il capitano Santini è appena passato. In divisa! Cosa succede?» «Oh!» arrangiai un sorriso. «Che volesse offrirmi un caffè?» Rossini mi guardò con grande disapprovazione. «Non penso che il capitano fosse qui con intenzioni galanti, signorina Tolomei. Le suggerisco caldamente di chiamarlo. Ecco...» Mi porse un biglietto da visita come fosse un'ostia consacrata. «Questo è il numero di telefono, sta scritto dietro, vede? Suggerisco...» Rossini dovette alzare la voce mentre lo aggiravo per raggiungere le scale, «...che lei gli telefoni immediatamente!» Mi ci volle circa un'ora - e numerosi viaggi alla reception dell'albergo - per aprire il cofanetto di mia madre. Dopo averci provato con tutti gli utensili a disposizione - la chiave della camera, lo spazzolino da denti e il ricevitore del telefono - dovetti correre a
pianterreno per chiedere in prestito delle pinzette, un tagliaunghie, un ago e alla fine un cacciavite, sempre più consapevole della crescente ostilità di Rossini ogni volta che mi vedeva. L'impresa tuttavia non fu aprire il fermaglio arrugginito, ma riuscire a sbloccare il meccanismo di chiusura, cosa che mi portò via un sacco di tempo anche perché il cacciavite che avevo recuperato era troppo piccolo. Ma avevo paura che Rossini sarebbe esploso se fossi apparsa ancora alla reception. Dopo quella faticaccia, le mie speranze e aspettative riguardo il contenuto del cofanetto erano salite alle stelle e, appena fui in grado di sollevare il coperchio, facevo fatica a respirare per l'eccitazione. Visto che era così leggero, mi ero convinta che dovesse contenere un oggetto molto fragile e di grande valore. Quando finalmente guardai dentro, mi resi conto dell'errore. Non c'era niente di fragile. Anzi, non c'era quasi null'altro che carta. E pure carta di poco conto. Niente banconote o azioni o atti legali o polizze, ma lettere nelle loro buste e numerosi fogli dattilografati, tenuti insieme da graffette o arrotolati a tubo con elastici sbrindellati. Gli unici veri oggetti erano un taccuino pieno di schizzi e annotazioni, un'edizione economica del Romeo e Giulietta di Shakespeare, e un vecchio crocefisso su una catena d'argento. Ispezionai il crocefisso a lungo per capire se fosse antico e avesse un qualche pregio. Ma ero scettica. Anche se si trattava di un gioiello d'antiquariato, era pur sempre d'argento e, da quanto potevo capirne io, non aveva nulla di speciale. Idem per il tascabile di Romeo e Giulietta. Feci scorrere le pagine diverse volte per determinarne il valore, ma non c'era niente nel libretto che mi sembrasse incoraggiante, neppure una singola nota a matita. Il taccuino invece conteneva alcuni disegni interessanti che, con un po' di buona volontà, potevano essere interpretati come un abbozzo di caccia al tesoro. O forse erano solo schizzi fatti durante visite ai musei. Su una scultura in particolare si era concentrata mia madre ammesso si trattasse di un suo taccuino e di suoi disegni - e guardandola ne capivo la ragione. Rappresentava un uomo e una donna: l'uomo era inginocchiato e reggeva la donna tra le braccia.
Se gli occhi della donna non fossero stati spalancati, avrei pensato che dormisse o fosse addirittura morta. C'erano almeno una ventina di disegni diversi della stessa scultura, ma molti di essi raffiguravano solo dettagli come un particolare del viso e, in tutta onestà, nessuno di loro era in grado di illuminarmi sul perché, tanto per cominciare, mia madre fosse stata così ossessionata dal soggetto in questione. In fondo al cofanetto c'erano anche sedici lettere private. Cinque erano di zia Rose: tutte pregavano mia madre di lasciar perdere con le sue «sciocche idee» e di tornare a casa. Anche altre quattro erano della zia, ma erano state spedite più tardi e mia madre non le aveva mai aperte. Le rimanenti erano in italiano, spedite a mia madre da persone che non conoscevo. A questo punto nel cofanetto non era rimasto nient'altro che i testi scritti a macchina. Alcuni erano spiegazzati e sbiaditi, altri più recenti e nitidi. Erano tutti in inglese eccetto uno, in italiano. Nessuno sembrava in originale, erano tutte traduzioni - a parte l'italiano - che avevano dovuto essere state scritte a macchina nel corso degli ultimi cento anni o giù di lì. Mentre osservavo la pila, si fece lentamente strada in me il pensiero che c'era una logica in quell'apparente caos e, una volta stabilito ciò, mi affrettai a sistemare i testi sul letto in una sorta di ordine cronologico. DIARIO DI MASTRO AMBROGIO (1340) LETTERE DI GIULIETTA A GIANNOZZA (1340) LE CONFESSIONI DI FRATE LORENZO (1340) LA MALEDIZIONE SUL MURO (1370) LA
TRENTATREESIMA SALERNITANO (1476)
NOVELLA
DI
MASUCCIO
GIULIETTA E ROMEO DI LUIGI DA PORTO (1530) GIULIETTA E ROMEO DI MATTEO BANDELLO (1554) ROMEUS AND JULIET DI ARTHUR BROOKE (1562) ROMEO E GIULIETTA DI WILLIAM SHAKESPEARE (1597) ALBERO GENEALOGICO DI GIULIETTA E GIANNOZZA
A ogni modo, una volta che ebbi tutti i testi sotto gli occhi, mi ci volle ancora un po' per venire a capo della raccolta. I primi quattro del quattordicesimo secolo - erano misteriosi e spesso frammentari, mentre gli altri erano più chiari. E, soprattutto, i testi più recenti avevano una cosa in comune: erano varianti della storia di Giulietta e Romeo e culminavano nella versione più conosciuta al mondo, La straordinaria e infelice storia di Romeo e Giulietta di Shakespeare. Benché mi fossi sempre considerata un po' un'esperta della tragedia in questione, fu per me un fulmine a ciel sereno scoprire che il Bardo in realtà non aveva inventato la storia ma si era limitato a saccheggiare scritti di epoche precedenti. Chiaro che Shakespeare era un genio con le parole e che, se non avesse frullato tutto al pentametro, forse non sarebbe diventato così famoso universalmente. Ma a pensarci bene, a mio modesto parere, la storia sembrava già niente male quando gli era capitata in mano. E, cosa assai interessante, la versione più remota - quella scritta da Masuccio Salernitano nel 1476 - non si svolgeva affatto a Verona, ma proprio qui a Siena. Questa scoperta letteraria riuscì quasi a distrarmi dal fatto che, a essere sinceri, avevo incassato una delusione di notevoli proporzioni. Nel cofanetto non c'era nulla che avesse il minimo valore monetario, né le carte che avevo esaminato fino a quel momento suggerivano l'esistenza di tesori di famiglia nascosti altrove. Forse avrei dovuto vergognarmi di pensare queste cose. Forse avrei dovuto apprezzare di più il fatto che avevo finalmente tra le mani qualcosa che era appartenuto a mia madre. Ma ero troppo confusa per ragionare. Cosa diamine aveva mai spinto zia Rose a pensare che ci fosse in ballo qualcosa di valore incommensurabile, qualcosa per cui valesse la pena fare un viaggio in quello che, secondo lei, era il posto più pericoloso al mondo? E perché mia madre aveva conservato il cofanetto nel ventre della banca? Adesso mi sentivo stupida, specie se pensavo al tizio in tuta. Chiaro che non mi stava seguendo. Anche quello era stato un parto della mia immaginazione troppo fertile. Cominciai a scorrere i testi più antichi, senza entusiasmo. Due di
loro, Le confessioni di Frate Lorenzo e le Lettere di Giulietta a Giannozza, non erano nulla più che una raccolta di frasi sconnesse come «giuro sulla Vergine che ho agito in accordo con le leggi del Cielo» e «tutto il percorso fino a Siena in una bara per paura dei banditi dei Salimbeni». Il Diario di Mastro Ambrogio era più leggibile ma avrei preferito il contrario. Chiunque egli fosse stato, era affetto da un tremendo attacco di diarrea verbale tanto il suo diario era zeppo di ogni minima sciocchezzuola capitata non solo a lui ma anche ai suoi amici nel lontano 1340. Da quel che ci capivo, gli scritti non avevano nulla a che spartire con me o con il resto del contenuto del cofanetto. Fu allora che mi cadde l'occhio su un nome scritto in una pagina del Maestro.
Giulietta Tolomei. Esaminai freneticamente il nome sotto la luce dell'abat-jour. No, non mi ero ingannata. Dopo lunghi arzigogolamenti sulla difficoltà di dipingere una rosa perfetta, mastro Ambrogio aveva scritto pagine e pagine e pagine su una giovane donna che, guarda un po', si chiamava proprio come me. Coincidenza? Mi stesi sul letto e iniziai a leggere il diario dalla prima pagina, di tanto in tanto confrontandolo con gli spezzoni degli altri testi. Fu così che cominciò il mio viaggio a ritroso nella Siena del 1340, e il mio legame con la donna con cui condividevo il nome.
PARTE SECONDA
Capitolo 1 Resterai in questo stato simile alla morte per quarantadue ore. Siena, 1340 OH, erano in balìa della fortuna! In cammino da tre giorni, giocavano a rimpiattino con la disgrazia e si nutrivano di pane duro come un sasso. Ora, finalmente, il giorno più caldo e infelice dell'estate, erano così vicini al termine del viaggio che Frate Lorenzo riusciva a vedere le torri di Siena ergersi ammiccanti all'orizzonte. E qui, purtroppo, era dove il suo rosario non riusciva più a proteggerlo. Alla guida del suo biroccio, sobbalzando fiacco assieme ai sei cavalieri che lo precedevano - tutti monaci come lui - il giovane frate aveva appena cominciato a immaginarsi il coscio di bue e il buon vino che li aspettava a destinazione, quando una decina di sinistri figuri a cavallo uscirono al galoppo da una vigna in una nuvola di polvere e accerchiarono i viaggiatori con le spade tratte. «Salve, stranieri!» sbraitò il loro capo, lurido e senza denti ma sontuosamente rivestito dei panni certamente appartenuti a qualche vittima precedente. «Chi osa sconfinare nel territorio dei Salimbeni?» Frate Lorenzo tirò le redini per fermare i cavalli, mentre i suoi compagni facevano del loro meglio per mettersi tra il carro e i banditi. «Come puoi vedere», rispose il più anziano dei monaci, mostrando al capo il proprio saio consunto a mo' di prova, «siamo umili frati di Firenze, mio nobile amico.» «Uhm!» Il capo dei briganti passò in rassegna i presunti monaci. Alla fine il suo sguardo si soffermò sul viso impaurito di Frate
Lorenzo. «Quale tesoro porti sul carro lì dietro?» «Nulla di valore per voi», rispose il più anziano mentre faceva retrocedere di un poco la sua cavalcatura per impedire che il bandito si avvicinasse al carro. «Per cortesia concedeteci il passaggio. Siamo uomini del Signore e non rappresentiamo minaccia alcuna per lor signori nobilissimi.» «Questa è una strada dei Salimbeni», fece notare il capo, sottolineando le parole con un roteare di spada, un segnale affinché i suoi compari si avvicinassero. «Se volete percorrerla, dovete pagare un pedaggio. Per la vostra sicurezza.» «Abbiamo già pagato cinque pedaggi ai Salimbeni, oggi.» La canaglia alzò le spalle. «La protezione è cara.» «Ma», argomentò l'altro con quieta ostinazione, attaccherebbe un gruppo di uomini di Dio diretti a Roma?»
«chi
«Chi? Quei cani rognosi dei Tolomei!» Per buona misura, il capo sputò a terra due volte e i suoi uomini si affettarono a fare altrettanto. «Quei bastardi assassini, ladri e stupratori!» «Ragione in più», disse il monaco, «per raggiungere Siena prima del calar della notte.» «Non è lontana», annuì il brigante, «ma in questi giorni i cancelli chiudono prima a causa dei biasimevoli attacchi che quei maledetti Tolomei continuano a sferrare all'onesta e industriosa popolazione di Siena e ancora più grave, vorrei aggiungere, alla nobile e generosa casata dei Salimbeni cui appartiene il mio augusto signore.» Il discorso del capo venne accolto dai grugniti di approvazione della marmaglia. «Per questo, come di certo apprezzerai», continuò, «siamo qua a proteggere, con tutta l'umiltà della bisogna, questa strada e la maggior parte dei camminamenti che conducono alla fiera repubblica - cioè a Siena - e quindi il consiglio che di tutto cuore ti do, siccome amico a un altro amico, è di affrettarti a pagare il pedaggio in modo che possiate entrare in città prima che chiuda i battenti. Ciò a evitare che viaggiatori innocenti quali voi siete cadano nelle sgrinfie dei farabuttissimi Tolomei, usi a uscire al calar
delle tenebre per far razzie e altri scompigli che non posso neppure nominare al cospetto di uomini di Dio.» Dopo che il furfante ebbe parlato ci fu un lungo silenzio. Accovacciato sul carro dietro ai suoi compagni, le redini molli nelle mani tremanti, Frate Lorenzo si sentiva il cuore ballare in petto come in cerca di un nascondiglio, e per un attimo temette di venir meno. Era stato uno di quei giorni - un sole cocente e neppure un filo di brezza - che facevano immaginare gli orrori dell'inferno. E non aveva di certo aiutato che avessero finito l'acqua molte ore prima. Se Frate Lorenzo fosse stato responsabile della cassa, avrebbe prontamente pagato qualunque somma pur di andare avanti. «Molto bene», disse il monaco più anziano, manco avesse sentito la supplica silenziosa di Frate Lorenzo, «quanto è dovuto dunque per la vostra protezione?» «Dipende.» Ghignò il bandito. «Che cosa trasportate su quel carro e qual è il suo valore?» «È una bara, nobile amico, e contiene una vittima della terribile peste.» La maggior parte dei briganti, a tali nuove, indietreggiò, ma il loro capo non era tipo da farsi intimidire facilmente. «Bene», proseguì con un ampio sogghigno, «diamo un'occhiata, giusto?» «Te lo sconsiglio!» affermò il monaco. «Il feretro deve restare sigillato, questi gli ordini.» «Ordini?» esclamò il capo. «Da quando voi umili monaci accettate degli ordini? E da quando...» fece una pausa a effetto mentre una smorfia gli aleggiava sulle labbra, «avete cominciato a cavalcare destrieri di Lipizza?» Nel silenzio che seguì queste parole, Frate Lorenzo sentì la sua baldanza piombargli in fondo all'anima. «E guardate qui!» continuò il brigante soprattutto per intrattenere i compagni. «Avete mai visto degli umili monaci indossare calzature talmente splendide? Ecco invece...» indicò con la spada i sandali aperti di Frate Lorenzo, «quello che avreste dovuto tutti indossare, amici miei sconsiderati, se il vostro intento era di evitare il balzello. Per quel che ne so io, di umile fraticello nei paraggi c'è solo il tipo
muto sul biroccio. Quanto a voi, ci scommetto gli zebedei che siete al soldo di qualche munifico padrone altri che Dio, e sono certo che il valore del feretro, per chi vi comanda, è ben superiore ai cinque miserabili fiorini che intendo farvi pagare.» «Sei in errore», rispose il monaco, «se ci consideri in grado di accollarci una somma del genere. Due fiorini sono tutto quello che riusciamo a mettere insieme. Il tuo padrone non ne vien fuori bene se la Chiesa viene tartassata con tale incommensurabile avidità.» Il bandito assaporò l'insulto. «Avidità, la chiami? Non sia mai detto, la mia colpa è la curiosità. Paga i cinque fiorini o si farà in altro modo. Il carro e la bara rimangono qua, sotto la mia protezione, fino a che il tuo padrone se li viene a prendere di persona. Perché mi garba assai d'incontrare il ricco bastardo che vi ha mandati.» «Presto non farete che proteggere il fetore della morte.» Il capo rise con noncuranza. «Il profumo dell'oro, amico mio, sovrasta ogni puzza.» «Nessuna montagna d'oro, per quanto alta sia», ribatté il monaco lasciando alla fine perdere l'umiltà, «sarebbe sufficiente a coprire la tua.» Sentendo l'insulto, Frate Lorenzo si morse il labbro e iniziò a guardarsi in giro alla ricerca di un nascondiglio. Conosceva abbastanza bene i suoi compagni di viaggio per prevedere gli esiti del battibecco, e non intendeva prendervi parte. Il brigante non rimase indifferente all'audacia della sua vittima. «Quindi hai deciso», disse piegando il capo di lato, «di perire della mia spada?» «Sono deciso», rispose il monaco, «a portare a termine la mia missione. E nessuna spada arrugginita delle tue potrà impedirmene il compimento.» «La tua missione?» gracchiò il bandito. «Udite, cugini, ecco un monaco che pensa che Dio l'abbia fatto cavaliere!» Tutti i briganti sghignazzarono, i più senza conoscerne il motivo, mentre il capo faceva un cenno in direzione del carro. «È giunto il
momento di eliminare questi stolti e portate carro e cavalli, a casa, Salim...» «Ho un'idea migliore», rise beffardo il monaco mentre si scostava il saio e rivelava l'uniforme sottostante, «perché invece non andiamo insieme da messer Tolomei, mio padrone, con la tua testa conficcata su un'alabarda?» Frate Lorenzo gemette dal profondo delle viscere mentre si avveravano le sue peggiori paure. Senza più tentare di celarsi, i suoi compagni - tutti in realtà cavalieri al soldo dei Tolomei - estrassero spade e pugnali da mantelli e bisacce. Al solo stridio del ferro, i briganti retrocessero sbigottiti, per poi invece lanciarsi urlanti assieme alle loro cavalcature in un attacco a fronte bassa. L'improvviso clangore fece sì che i cavalli di Frate Lorenzo si urtassero di lato per poi partire a spron battuto trascinandosi dietro il carro, e c'era ben poco che il monaco potesse fare se non aggrapparsi alle inutili redini e augurarsi calma e moderazione da parte di due animali che non avevano mai studiato filosofia. Dopo tre giorni di marcia, le bestie dimostravano una rimarchevole energia mentre, in uno stridore di ruote e con il feretro ballonzolante a destra e a manca sul punto di andare a fracassarsi giù dal carro, si allontanavano dal tafferuglio lungo la strada dissestata in direzione di Siena. In assenza di dialogo alcuno con i cavalli, Frate Lorenzo si era rivolto alla bara sperando in un miglior interlocutore. Usando mani e piedi, cercava di tenerla ferma ma, mentre lottava con l'indocile oggetto alla ricerca di un buon appiglio, un movimento sulla strada dietro di lui gli fece volgere gli occhi e prendere coscienza che la salvaguardia del feretro era l'ultima delle sue preoccupazioni. Era inseguito da due dei briganti che galoppavano a fianco a fianco per reclamare il tesoro. Mentre prendeva posizione per prepararsi alla difesa e trovava, come uniche armi, una frusta e un rosario, Frate Lorenzo notò con apprensione che uno dei banditi aveva raggiunto il carro e - pugnale tra le gengive sdentate - era riuscito ad afferrarsi alle sponde di legno. Scovando la necessaria temerarietà nel profondo di una natura peraltro pacifica, il frate fece schioccare lo staffile sul pirata all'arrembaggio e lo udì uggiolare dal
dolore mentre il nerbo di bue faceva zampillare il sangue. Sebbene una scudisciata sarebbe stata sufficiente alla canaglia, Frate Lorenzo si apprestò a colpire di nuovo e fu allora che il bandito afferrò il nerbo strappandoglielo di mano. Ora che a proteggerlo aveva solo il rosario e il crocefisso ciondolante, Frate Lorenzo iniziò a scagliare i resti del suo pasto sull'avversario. Malgrado la durezza del pane, fu incapace di impedirgli di issarsi finalmente a bordo. Vedendo che il frate aveva esaurito le munizioni, il brigante si erse in tutta la sua altezza e, con un sorriso di trionfo, si tolse il pugnale di bocca per esibirne la lunghezza al proprio tremante bersaglio. «Fermati, in nome di Dio!» esclamò il monaco, sollevando il rosario. «Ho amici in paradiso pronti a fulminarti!» «Davvero? Non vedo nessuno qui in giro!» Proprio in quel momento il coperchio della bara si sollevò e la sua inquilina - una giovane donna scarmigliata dagli occhi fiammeggianti come quelli dell'angelo della vendetta - si mise seduta con aria di profondo disconcerto. A cotanta vista il bandito lasciò cadere il pugnale dal terrore e si fece color cenere. Senza esitazioni, l'angelo si sporse dalla bara, si impossessò dell'arma o la conficcò veloce nelle membra del suo proprietario, tanto alto nella coscia quanto glielo permetteva la sua furia. Urlando di dolore, il ferito perse l'equilibrio e precipitò fuori del carro causandosi ingiuria ancor più grave. Con le gote accese dall'eccitazione, la fanciulla rivolse a Frate Lorenzo un sorriso trionfante e sarebbe uscita dalla bara se lui non glielo avesse impedito. «No, Giulietta!» si impuntò, spingendola giù. «Nel nome di Dio, stai dentro e non fiatare!» Dopo averle sbattuto il coperchio sul viso indignato, Frate Lorenzo si guardò in giro per vedere cosa fosse accaduto all'altro farabutto a cavallo. Purtroppo costui era meno ardimentoso del suo compagno e non aveva intenzione alcuna di salire a bordo del carro alla velocità cui andava. Invece, si mise a galoppare davanti al carro per afferrare le redini e far rallentare i cavalli, cosa che, con sommo disappunto del frate, cominciò a sortire un certo effetto. Dopo
poche centinaia di metri i cavalli furono gradualmente portati al piccolo galoppo, quindi al trotto, per poi arrestarsi del tutto. Solo quando il maramaldo si avvicinò al carro, dopo aver girato la propria cavalcatura, il religioso si accorse che non si trattava d'altri che dell'elegante capo dei briganti, ancora sogghignante e apparentemente indenne malgrado la mischia. Il sole del tramonto conferiva all'uomo un'aureola dorata del tutto immeritata, e Frate Lorenzo fu visibilmente scosso dal contrasto tra la luminosa bellezza della campagna e la pura malvagità dei suoi abitanti. «Senti qua, frate», disse la canaglia con imprevista gentilezza, «ti lascio salva la pelle, anzi, puoi financo tenerti questo bel carro e questi nobili cavalli, e niente balzelli, in cambio di quella fanciulla.» «Ti ringrazio di cotanta generosa offerta», replicò Frate Lorenzo con gli ultimi raggi che gli abbacinavano gli occhi, «ma ho giurato sulla mia vita di proteggere la nobile signora, e non posso consegnartela. Se lo facessi, andremmo entrambi all'inferno.» «Bah!» Questa stona il brigante l'aveva già sentita. «Quella ragazza non è signora più di quanto lo siamo tu e io. Anzi, ho il forte sospeso che sia una puttana dei Tolomei!» Dalla bara trapelò un grido d'indignazione e il frate mise veloce un piede sul coperchio per tenerlo abbassato. «La signora sta molto a cuore a messer Tolomei, questo è vero», spiegò, «e chiunque osi posare una mano su di lei farà scatenare una guerra contro la propria casata. Di certo il tuo padrone, il Salimbeni, aborrirebbe una siffatta faida.» «Ah, voi monaci con tutti i vostri sermoni!» Il bandito si avvicinò ancor di più al carro e solo allora la sua aureola si dissolse. «Non paventare una guerra, piccolo predicatore, perché è la cosa che so far meglio.» «Ti imploro di lasciarci andare!» esclamò Frate Lorenzo brandendo il rosario ondeggiante e sperando che catturasse uno degli ultimi raggi di sole. «O giuro su questi sacri grani e sulle ferite di nostro Signore Gesù Cristo che i cherubini scenderanno dal paradiso per incenerire i tuoi figli nei loro letti!» «Magari!» La canaglia sfoderò di nuovo la spada. «Ne ho già fin
troppi!» Con l'agilità di un ballerino, fece passare la gamba sulla testa del suo cavallo per saltare a bordo del carro. Rise vedendo che il religioso si tirava indietro, terrorizzato. «Perché tanta sorpresa? Pensavi davvero che ti lasciassi salva la vita?» Mentre la lama della spada arretrava, Frate Lorenzo cadde prostrato in ginocchio, il rosario fra le mani, in attesa del fendente che gli avrebbe abbreviato le preghiere. Era crudele perire a diciannove anni, specie se nessuno assisteva al tuo martirio, eccetto il Signore che sta nei Cieli, e che peraltro non aveva fatto granché per salvare il proprio figliolo.
Capitolo 2 Qui sedete, sedete, mio buon cugino Capuleti, perché per voi e per me non è più tempo di ballare. NON riesco a ricordare quanto avanti andai nella storia quella notte, ma gli uccellini avevano cominciato a cinguettare quando finalmente mi appisolai in un mare di carte. Adesso coglievo il collegamento tra gli svariati e numerosi testi contenuti nel cofanetto di mia madre. Erano tutte versioni ante-Shakespeare, ognuna con delle varianti, di Romeo e Giulietta. Anzi, i testi del 1340 non erano narrativa, bensì trascrizioni di fatti realmente avvenuti che avevano portato alla nascita del famoso dramma. Benché il misterioso mastro Ambrogio non fosse ancora apparso nel suo stesso diario, mi parve di capire che avesse conosciuto di persona le vere identità dei protagonisti della storia più infelice mai scritta. Dovevo tuttavia riconoscere che per il momento i testi si sovrapponevano ben poco alla tragedia shakespeariana, ma era pur vero che erano trascorsi più di due secoli e mezzo tra i fatti realmente accaduti e il dramma del Bardo, e che la storia doveva essere passata di mano in mano numerose volte. Scoppiando dalla voglia di condividere la mia scoperta con qualcuno che l'apprezzasse - non tutti avrebbero trovato divertente che milioni di turisti si fossero accalcati per anni e anni nella città sbagliata per vedere il balcone e la tomba di Giulietta, dopo essermi fatta la doccia chiamai Umberto sul suo cellulare. «Congratulazioni!» esclamò, quando gli dissi che con il mio fascino avevo convinto il presidente Maconi a consegnarmi il cofanetto della mamma. «Allora, di quanti milioni stiamo parlando?» «Uhm», risposi, dando un'occhiata alla confusione sul mio letto. «Non penso che il tesoro sia nel cofanetto. Ammesso che il tesoro
esista.»
«Certo che c'è un tesoro», ribatté Umberto, «per quale motivo tua madre l'avrebbe messo nel forziere della banca? Cerca meglio.» «C'è un'altra cosa...» Feci una breve pausa, sforzandomi di trovare un modo di dirlo senza sembrare sciocca. «Penso di essere imparentata con la Giulietta di Shakespeare.» Immagino che non avrei dovuto biasimare il fatto che Umberto scoppiò in una risata, ma la cosa mi seccò comunque. «So che suona strano», continuai, malgrado la sua ilarità, «ma perché dovremmo avere lo stesso nome, Giulietta Tolomei?» «Vorrai dire Giulietta Capuleti...» mi corresse lui. «Odio essere io a dirtelo, principessa, ma non penso Giulietta sia veramente esistita...» «Certo che no!» contrattaccai, mentre mi pentivo di avergliene parlato. «Ma parrebbe che la storia si sia ispirata a fatti veri... insomma, non importa! Tu come te la stai passando?» Dopo aver riattaccato, cominciai a sfogliare le lettere in italiano che mia madre aveva ricevuto più di venti anni prima. Di sicuro doveva esserci ancora qualcuno a Siena che aveva conosciuto i miei genitori e che poteva rispondere a tutte le domande che zia Rose aveva di continuo ostinatamente eluso. Ma non conoscendo la lingua, era per me difficile capire quali lettere fossero scritte da amici e quali da parenti. L'unico appiglio era che una di queste missive cominciava con le parole «Carissima Diane...» e che il nome del mittente era Pia Tolomei. Spiegai la mappa della città che avevo acquistato il giorno prima assieme al dizionario, e mi misi alla ricerca dell'indirizzo scarabocchiato sul retro della busta. Alla fine lo individuai in una minuscola piazza chiamata piazzetta del Castellale, nel centro di Siena. Era proprio nel mezzo della contrada della Civetta, il territorio dei miei avi, non lontano da Palazzo Tolomei dove il giorno precedente avevo incontrato Maconi. Se ero fortunata, Pia Tolomei - chiunque lei fosse - viveva ancora lì e non vedeva l'ora di parlare con la figlia di Diane Tolomei, e magari di raccontarle un po' di cose. La piazzetta del Castellare era come una piccola fortezza dentro la
città e non così facile da scovare. Dopo esserci passata davanti diverse volte, alla fine scoprii che dovevo entrare in un vicolo coperto che avevo dapprima confuso con l'ingresso di un cortile privato. Una volta all'interno della piazzetta, mi trovai intrappolata tra alti e silenziosi edifici, e mentre osservavo tutte le imposte sbarrate, avevo come l'impressione che fossero state sprangate nel Medioevo e mai più aperte. Anzi, non fosse stato per un paio di Vespe parcheggiate in un angolo, un gatto soriano con la collarina nera e lucente appisolato su uno scalino, e della musica che proveniva dall'unica finestra aperta, avrei potuto supporre che le case erano da tempo state abbandonate alla mercé dei ratti e dei fantasmi. Estrassi la lettera che avevo trovato nel cofanetto e verificai l'indirizzo ancora una volta. Secondo la mappa, ero nel posto giusto, ma quando feci il giro dei portoni non riuscii a vedere nessun Tolomei su nessuno dei campanelli, né il numero civico indicato sulla busta. Per consegnare la posta in un luogo del genere, pensai, sarebbe stato indispensabile avere la sfera di cristallo. Non sapendo cos'altro fare, cominciai a suonare i campanelli, uno dopo l'altro. Proprio mentre mi accingevo a premere il quarto, una donna spalancò le persiane sopra di me e gridò qualcosa in italiano. Come risposta, agitai la lettera. «Pia Tolomei?» «Tolomei?» «Sì! Sa dove abita? Abita ancora qui?» La donna indicò una porta dall'altra parte della piazzetta e disse qualcosa che poteva solo significare: «Provi là» Soltanto in quel momento notai un uscio dall'aspetto più contemporaneo: era dotato di un'elaborata maniglia bianca e nera e, quando la girai, la porta si spalancò. Sostai sulla soglia, indecisa sul tipo di etichetta da adottare quando si entra nelle case private di Siena. Nel frattempo la donna alla finestra dietro di me continuava, a cenni, a spronarmi a procedere - di sicuro le sembravo inverosimilmente tonta - e così procedetti. «Permesso?» Feci un timido passo oltre la soglia e mi trovai immersa in una fresca oscurità. Rimessa a fuoco la vista, scorsi un
ampio ingresso dal soffitto assai alto, tappezzato di arazzi, dipinti e oggetti d'antiquariato nelle loro bacheche. Lasciai andare la porta e gridai: «C'è qualcuno? Signora Tolomei?» Ma non sentii nient'altro che l'uscio che si chiudeva dietro di me con un fruscio. Incerta su come muovermi, iniziai a percorrere il corridoio, guardando nel contempo le opere d'arte. Tra di loro c'era anche una collezione di lunghi stendardi verticali con figure di cavalli, torrioni e donne che somigliavano tutte alla Vergine Maria. Alcuni erano piuttosto vecchi e sbiaditi, altri più recenti e sgargianti. Solo quando arrivai al termine dell'esposizione cominciò a farsi in strada in me l'idea che questa non era una casa privata ma una sorta di museo o di edificio pubblico. Poi, finalmente, udii il rumore di passi irregolari e qualcuno che chiedeva a gran voce di un certo Salvatore. Mi voltai e mi ritrovai di fronte l'inconsapevole padrone di casa che emergeva, appoggiandosi a una stampella, da una stanza adiacente. Si trattava di un uomo in là con gli anni, sicuramente oltre i settanta, con un cipiglio che lo faceva sembrare più vecchio. «Salva...?» Appena mi vide, si fermò di botto e disse qualcos'altro che non suonò di benvenuto. «Ciao!» esclamai, con tono forzatamente vivace, brandendo la lettera come si brandisce un crocefisso davanti all'aristocrazia transilvanica, tanto per stare sul sicuro. «Sto cercando Pia Tolomei. Era amica dei miei genitori.» Puntai il dito nella mia direzione. «Giulietta Tolomei. To-lo-mei.» L'uomo mi si avvicinò, appoggiandosi pesantemente alla stampella, e mi sfilò rapido la lettera di mano. Esaminò la busta con sospetto e la girò diverse volte per rileggere il nome del mittente e del destinatario. «È stata mia moglie a mandare questa lettera», disse infine in un inglese sorprendentemente sciolto, «molti anni fa. A Diane Tolomei. Lei era mia... ehm... zia. Dove l'ha trovata?» «Diane era mia madre», risposi, e la mia voce risuonò stranamente chioccia nella grande stanza. «Sono Giulietta, la prima nata delle due gemelle. Ho voluto venire a visitare Siena per vedere dove mia
madre aveva vissuto. Lei... se la ricorda?» Il vecchio non rispose subito. Scrutò il mio viso con sguardo pieno di meraviglia, poi allungò una mano a sfiorarmi una gota come a sincerarsi che non fossi finta. «La piccola Giulietta!» esclamò. «Vieni qua!» Mi prese per le spalle e mi strinse in un abbraccio. «Sono Peppo Tolomei, il tuo padrino.» Non avevo la più pallida idea di come comportarmi. Di regola, non ero una che andava in giro ad abbracciare la gente - questo lo lasciavo fare a Janice - ma l'esuberanza del simpatico vecchietto non mi diede alcun fastidio. «Scusa l'irruzione...» cominciai, per poi fermarmi perché non sapevo come continuare. «No-no-no-no-no!» mi contraddisse Peppo. «Sono così felice che tu sia venuta! Vieni, ti faccio vedere il museo!» Non sapeva da che parte cominciare e saltellava sulla stampella alla ricerca di qualcosa di rimarchevole da mostrarmi. Poi vide la mia espressione e si arrestò. «No! Tu non vuoi vedere il museo! Tu vuoi parlare! Sì, dobbiamo parlare!» Alzò le braccia per aria e per poco con la stampella centrò una scultura. «Devi raccontarmi tutto. Mia moglie... dobbiamo andare a cercare mia moglie. Sarà così felice. Lei è a casa... Salvatore!.. .ma dove si è cacciato?» Dieci minuti più tardi uscivo come una scheggia dalla piazzetta del Castellare a cavalcioni del sellino posteriore di una motoretta rossa e nera. Peppo mi ci aveva fatto salire con la galanteria di un mago che sistemi la sua giovane e graziosa assistente all'interno della scatola destinata a essere segata in due. Con me abbarbicata stretta alle sue bretelle, Peppo si fiondò lungo il vicolo coperto senza frenare per nessuno. Aveva insistito per chiudere subito il museo e portarmi a casa con lui, in modo che potessi incontrare sua moglie Pia e chiunque altro fosse presente. Avevo accettato l'invito con gioia pensando che la casa cui si riferiva fosse giusto dietro l'angolo. Ma ora, mentre passavamo davanti a Palazzo Tolomei, mi rendevo conto dell'errore. «È lontano?» strillai, aggrappandomi meglio che potevo. «No-no-no!» rispose Peppo, mancando per un pelo una suora che
spingeva un anziano in carrozzella. «Stai tranquilla, chiamiamo tutti e facciamo una bella riunione di famiglia!» Eccitato dalla pensata, iniziò a descrivere i famigliari che avrei presto incontrato, benché nel frastuono lo potessi udire a malapena. Era così distratto che non si accorse, mentre passavamo di fronte a Palazzo Salimbeni, che avevamo tagliato giusto in due un manipolo di guardie di sicurezza, obbligando tutti a balzare di lato. «Occhio!» esclamai, domandandomi se Peppo fosse cosciente del fatto che rischiavamo di tenere in guardina la nostra bella riunione di famiglia. Ma le guardie non fecero cenno alcuno di stopparci e si limitarono a osservarci sfrecciar via, come cani alla catena che vedono uno scoiattolo attraversare la strada. Purtroppo, fra di loro c'era Alessandro, il figlioccio di Eva Maria, e fui quasi certa che lui mi riconobbe, perché sembrò colpito dalle mie gambe a ciondoloni, e forse si chiese dove fossero finite le infradito. «Peppo!» urlai, tirando mio cugino per le bretelle, «non ci tengo a finire in prigione, okay?» «Non preoccuparti!» replicò lui mentre imboccava una curva in accelerazione. «Vado troppo veloce per la polizia!» Pochi momenti dopo ci fiondavamo attraverso un antico varco della città, e ci ritrovammo immersi in un quadro intitolato «Un'estate in Toscana». Seduta lì dietro ad ammirare il paesaggio sopra la sua spalla, avrei tantissimo voluto sentirmi travolta dai déjà-vu, come se stessi veramente tornando a casa. Ma tutto attorno a me era nuovo, le profumate esalazioni delle piante aromatiche, le distese dei campi uno in fila all'altro... anche la colonia di Peppo possedeva una nota estranea assurdamente piacevole. Ma quanto riusciamo realmente a rammentarci dei nostri primi tre anni di vita? Talvolta avevo come l'impressione di ricordare di aver abbracciato un paio di gambe nude che di certo non appartenevano a zia Rose, e sia Janice che io eravamo sicure di ricordarci una larga ciotola di cristallo piena di tappi di sughero ma, a parte queste cose, era arduo dire quali frammenti appartenessero a che cosa. Ogni qualvolta riuscivamo a mettere insieme dei ricordi di quando eravamo bambine, andava sempre a finire tutto in un parapiglia. «Sono sicura che quel tavolino traballante a scacchiera era
in Toscana», cominciava a dire Janice. «Dove altro poteva essere? Zia Rose non ne ha mai avuto uno.» «Allora come lo spieghi», ribattevo io, «che quando l'hai ribaltato è stato Umberto a sculacciarti?» Siccome Janice non se lo spiegava, alla fine si limitava a borbottare «Be', forse era qualcun altro. Quando hai due anni tutti gli uomini sembrano uguali». Per poi ghignare: «Accidenti, anche adesso». Da adolescente mi facevo dei filmini in cui tornavo a Siena e di colpo mi ricordavo tutto della mia infanzia. Adesso che ero finalmente sul posto, e che infilavo una stradina dopo l'altra senza rammentare un bel niente, cominciai a domandarmi se l'aver vissuto lontana non avesse per caso in qualche modo inaridito una parte essenziale del mio spirito. Pia e Peppo Tolomei vivevano in una cascina in una piccola vallata, circondati da vigneti e boschi di ulivi. La loro proprietà era incastonata tra collinette degradanti e la pace di quell'isolamento bucolico compensava la mancanza di un panorama più ampio. La casa non era affatto grandiosa. Nelle crepe dei muri giallini crescevano erbe selvatiche, le persiane verdi necessitavano di ben più di una mano di vernice e il tetto di coppi dava l'idea di non riuscire a superare un altro temporale - forse neppure uno starnuto - perché sarebbero venute giù tutte le tegole. Eppure la gran quantità di rampicanti e i vasi di fiori posizionati dappertutto riuscivano a mascherare i cedimenti strutturali rendendo il posto assolutamente incantevole. Dopo aver parcheggiato la motoretta e afferrato una stampella appoggiata al muro, Peppo mi portò direttamente in giardino. Lì, all'ombra della casa, su uno sgabello sedeva sua moglie Pia, attorniata da nipoti e pronipoti cui stava insegnando a fare trecce d'aglio, come un'immortale dea delle messi attorniata dalle sue ninfe. Ci vollero diversi tentativi prima che Peppo riuscisse a farle capire chi fossi e perché mi avesse portata lì. Ma una volta che Pia ebbe deciso di credere alle sue orecchie, infilò i piedi nelle ciabatte, si alzò con l'aiuto di tutti i presenti e mi strinse in un abbraccio commosso.
«Giulietta!» esclamò, tenendomi stretta al petto per poi baciarmi in fronte. «Che meraviglia! È un miracolo!» La sua gioia nel vedermi era talmente genuina che quasi mi vergognai di me stessa. Quella mattina non ero andata al Museo della Civetta alla ricerca dei miei remoti padrini, né mi era mai passato per la testa prima di quel momento che ne avessi, e che potessero essere così felici di ritrovarmi in salute. Eppure eccoli lì tutti contenti di vedermi, e il loro calore mi fece pensare che per tutta la vita non mi ero mai sentita la benvenuta da nessuna parte, neppure a casa mia. Certamente non quando c'era anche Janice. Nel giro di un'ora la casa e il giardino si riempirono di persone e di vettovaglie. Era come se ognuno fosse stato in febbrile attesa dietro l'angolo, con qualche manicaretto a portata di mano, alla ricerca di un buon pretesto per celebrare. Alcuni erano parenti, alcuni amici e vicini di casa, e tutti quanti dichiararono di aver conosciuto i miei genitori e di essersi domandati cosa ne fosse stato delle gemelle. Nessuno disse niente di esplicito ma capii che, dopo l'incidente, zia Rose si era precipitata a reclamare Janice e me contro il volere della famiglia Tolomei - grazie a zio Jim aveva delle conoscenze al Dipartimento di Stato - e che eravamo sparite senza lasciare tracce, con grande disappunto di Pia e Peppo. «Quel che è stato è stato!» continuava a dire Peppo dandomi colpetti sulla schiena, «adesso siamo insieme e possiamo finalmente parlare.» Il difficile era però decidere da dove iniziare. C'erano tante domande in attesa di risposta, inclusa la strana assenza di mia sorella. «Era troppo occupata questa volta», dissi, distogliendo lo sguardo, «ma sono certa che prestissimo verrà a trovarvi.» Non aiutava che solo pochissimi degli ospiti parlassero inglese, e che ogni risposta a ogni domanda dovesse prima essere capita, e poi tradotta, da un intermediario. Eppure erano tutti così amichevoli e disponibili che anch'io, dopo un poco, cominciai a rilassarmi e a divertirmi. Non importava granché che non potessimo capirci del tutto, quello che contava erano i sorrisi e i cenni di assenso che significavano più di tante parole. A un certo punto, Pia arrivò con un album di fotografie e si sedette accanto a me per mostrarmi istantanee del matrimonio dei
miei genitori. Non appena aprì l'album, altre donne si unirono a noi, ansiose di partecipare e di aiutare a girare le pagine. «Ecco!» Pia indicò una grande fotografia, «tua madre indossa l'abito che indossavo io al mio matrimonio. Oh, non erano una splendida coppia...? Ed ecco tuo cugino Francesco...» «Aspetta!» cercai di impedirle di girare la pagina ma non mi fu possibile. Probabilmente non si rendeva conto che non avevo mai visto prima una foto di mio padre e che l'unica istantanea disponibile di mia madre adulta era quella ufficiale della maturità, un ritratto che zia Rose teneva sul pianoforte. L'album di Pia mi colse di sorpresa. Non tanto perché mia mamma era chiaramente incinta dentro al suo abito bianco, ma perché mio padre sembrava un vecchio. Ovviamente non lo era ma, di fianco a lei - una giovincella con le fossette che aveva mollato l'università - lui pareva il canuto Abramo della mia Bibbia illustrata per ragazzi. Detto questo, insieme sembravano felici e, benché non ci fossero istantanee di loro che si scambiavano un bacio, la maggior parte delle foto mostravano mia madre sottobraccio al marito mentre lo guardava con grande ammirazione. Così, dopo un po', lasciai da parte lo stupore e decisi di accettare la possibilità che, in quei luoghi felici, concetti come tempo ed età avessero scarsa importanza. Le donne accanto a me confermarono la mia teoria. Nessuna di loro dava l'impressione di trovare inusuale questa unione. Da quello che potevo capire, il loro intenso chiacchiericcio - tutto in italiano - si riferiva soprattutto all'abito di mia madre, al velo, e alle complicate parentele di ogni singolo invitato in relazione a mio padre e a loro stesse. Dopo le foto del matrimonio arrivarono quelle del nostro battesimo, dove i miei genitori non apparivano quasi mai. Le immagini mostravano Pia con in braccio una neonata che poteva essere sia Janice sia me - era impossibile distinguerci e lei non lo ricordava - e Peppo, tutto orgoglioso, con in braccio l'altra. Pareva ci fossero state due cerimonie distinte, una all'interno di una chiesa e una all'aperto, in pieno sole, accanto al fonte battesimale della contrada della Civetta.
«Fu proprio un bel giorno», sorrise Pia con mestizia. «Tu e tua sorella diventaste Civettine. Peccato che...» Non terminò la frase ma chiuse l'album con delicatezza. «È stato tanto tempo fa. Delle volte mi domando se il tempo davvero lenisca...» Fu interrotta da un improvviso trambusto all'interno della casa e da una voce che la chiamava con impazienza. «Vieni!» Pia si alzò, tutto a un tratto agitata. «Deve essere Nonna!» L'anziana nonna Tolomei, o Nonna, come la chiamavano tutti, viveva con una delle nipoti nel centro di Siena, ma quel pomeriggio era stata convocata alla fattoria perché potesse incontrarmi, un evento che chiaramente era entrato in conflitto con il suo programma della giornata. Adesso era in piedi nell'ingresso, mentre con una mano si sistemava nervosamente sul capo un pizzo nero e con l'altra si appoggiava faticosamente alla nipote. Se fossi stata insensibile come Janice, l'avrei definita all'istante la personificazione perfetta della strega delle favole. Le mancava solo un corvo nero appollaiato sulla spalla. Pia corse a salutare la vecchia signora che, di malavoglia, le permise di baciarla su entrambe le guance e poi di scortarla fino a quella che doveva essere la sua poltrona preferita nel soggiorno. Ci vollero alcuni minuti per far stare comoda Nonna, con grande dispiego di cuscini che venivano collocati e risistemati, e una limonata speciale che fu subito rimandata indietro per riapparire, poco dopo, con uno spicchio di limone in bilico sull'orlo del bicchiere. «Nonna è nostra zia», mi sussurrò Peppo nell'orecchio, «la sorella più giovane di tuo padre. Vieni che ti presento.» Rimorchiandomi dietro di sé, mi lasciò in attenti davanti alla vecchia signora mentre, in italiano, le spiegava con slancio la situazione, chiaramente aspettandosi un qualche segno di giubilo da parte sua. Ma Nonna rifiutò di sorridere. Per quanto il nipote la sollecitasse addirittura la implorasse - a rallegrarsi come avevano fatto gli altri, lei non si lasciò convincere a esprimere il minimo piacere alla mia apparizione. Peppo mi chiese addirittura di avvicinarmi in modo che mi vedesse meglio, ma quello che Nonna scorse non fece che aumentare il suo cipiglio e, prima che Peppo riuscisse a togliermi di
torno, lei si piegò in avanti e ringhiò qualcosa che non capii ma che provocò in tutti un sussulto imbarazzato. Pia e Peppo mi evacuarono praticamente dal soggiorno, scusandosi tutto il tempo. «Mi spiace davvero tanto!» ripeteva Peppo di continuo, fin troppo mortificato per guardarmi in faccia. «Non so cosa le è preso! Credo stia diventando matta!» «Non preoccuparti», lo rincuorai, troppo sbalordita per provare alcunché. «Non la biasimo per non crederci. È tutto nuovo, anche per me.» «Facciamo un giretto», disse Peppo, ancora avvilito, «e torniamo dopo. Ti devo far vedere le loro tombe.» Il cimitero del paese era un'oasi accogliente e sonnolenta, molto diverso da tutti gli altri camposanti che avevo visto. L'intero spazio era un labirinto di muri imbiancati a calce, senza nessun tetto a coprirli, e le pareti stesse, dall'alto in basso, alloggiavano un mosaico di tombe. Nomi, date e foto identificavano ogni singolo individuo dietro le lastre di marmo, e dei portavasi di ottone contenevano, a beneficio dell'ospite temporaneamente incapacitato, i fiori portati dai visitatori. «Da questa parte...» Pur tenendomi una mano sulla spalla per reggersi, Peppo riuscì cavallerescamente ad aprire per me un cancello cigolante che dava accesso a una cappelletta in disparte rispetto il viale principale. «Questa è una porzione dell'antico... ehm... sepolcro dei Tolomei. Per la maggior parte è interrato, ma non ci scendiamo più da tempo. Qua è meglio.» «È bellissimo.» Procedetti nel piccolo locale e mi fermai ad ammirare le innumerevoli placche di marmo e i mazzi di fiori freschi sull'altare. Una candela si consumava lentamente in un contenitore di vetro rosso che mi pareva vagamente familiare. Ovviamente il sepolcro dei Tolomei era un posto di cui la famiglia si prendeva molta cura. Provai all'improvviso una fitta di rimorso al pensiero che Janice non fosse con me, ma fui veloce a liberarmene. Se fosse stata presente, avrebbe magari rovinato il momento con qualche frase fuori luogo.
«Ecco tuo padre», mi indicò Peppo, «e tua madre è proprio lì accanto a lui.» Fece una pausa come a soffermarsi su un ricordo lontano. «Era così giovane. Avevo pensato che mi sarebbe sopravvissuta di un bel pezzo.» Osservai le due targhe di marmo che indicavano tutto quello che era rimasto del professor Patrizio Scipione Tolomei e di sua moglie Diane Lloyd Tolomei, e sentii una fitta al cuore. Da quando avevo memoria i miei genitori erano stati poco più di ombre distanti in un sogno a occhi aperti, e non mi ero mai immaginata che un giorno mi sarei trovata così vicino a loro, almeno fisicamente. Anche quando fantasticavo del mio viaggio in Italia, per qualche motivo non mi era mai passato per la testa che il mio primo dovere, non appena arrivata, sarebbe stato di andare a visitare le loro tombe. Provai una calda ondata di gratitudine nei riguardi di Peppo che mi aveva aiutato a fare la cosa giusta. «Grazie», gli dissi sottovoce, stringendogli la mano che era ancora appoggiata alla mia spalla. «Il modo in cui sono morti è stata un'orribile tragedia», mi spiegò scuotendo il capo, «come pure il fatto che tutto il lavoro di Patrizio sia stato distrutto dall'incendio. Aveva una splendida cascina a Malamerenda... tutto in cenere Dopo il funerale tua madre acquistò una casetta vicino a Montepulciano e andò a viverci con le gemelle con te e tua sorella - ma non fu più la stessa. Tutte le domeniche veniva a portare dei fiori sulla tomba, ma...» fece una pausa per estrarre un fazzoletto di tasca, «non fu mai più felice.» «Aspetta un momento...» Controllai le date sulla tomba dei miei genitori. «Papà è morto prima della mamma? Ho sempre pensato che fossero morti assieme...» Ma prima ancora di aver finito la frase, mi accorsi che le date confermavano la nuova verità. Mio padre era morto più di due anni prima di mia madre. «Quale incendio?» «Qualcuno... no, non dovrei dirlo...» Peppo si rimproverò da solo. «Ci fu un incendio, un incendio terribile. La cascina di tuo padre venne interamente distrutta dal fuoco. Tua madre fu fortunata perché si trovava a Siena a far spese con voi bambine. Fu una tragedia, una tragedia enorme. Avrei detto che Dio la proteggeva se non che due anni più tardi...»
«L'incidente d'auto», mormorai. «Uhm...» Peppo cominciò a scavare per terra con la punta della scarpa. «Non conosco la verità. Nessuno la conosce. Ma ti dirò una cosa...» Finalmente mi guardò negli occhi. «Ho sempre sospettato che i Salimbeni fossero coinvolti.» Non seppi che cosa ribattere. Rividi Eva Maria e la sua valigia piena di vestiti che mi aspettava nella camera dell'hotel. Era stata così gentile con me, così desiderosa che diventassimo amiche. «C'era un giovanotto», continuò Peppo, «Luciano Salimbeni. Era un poco di buono. Cominciarono a circolare delle voci. Non voglio...» Mi guardò angosciato. «L'incendio. L'incendio che uccise tuo padre. Dicono che non fu un incidente. Dicono che qualcuno volesse assassinarlo per porre termine alla sua ricerca. Fu terribile. Una casa così bella. Ma sai, credo che tua madre mise qualcosa in salvo. Qualcosa di importante. Documenti. Aveva paura a parlarne, ma dopo l'incendio, iniziò a fare delle strane domande su... delle cose.» «Che tipo di cose?» «Un sacco di cose. Non sapevo le risposte. Mi chiese dei Salimbeni. Di certi tunnel sotterranei. Voleva trovare un sepolcro. Aveva qualcosa a che fare con la peste.» «La peste... bubbonica?» «Sì, quella tremenda. Del 1348.» Peppo si schiarì la voce, era a disagio con l'argomento. «Vedi, tua madre credeva che un'antica maledizione perseguitasse ancora i Tolomei e i Salimbeni. E stava cercando di trovare una maniera per interromperla. Era ossessionata dall'idea. Volevo crederle, ma...» Si allentò il colletto della camicia, come se gli fosse venuto caldo all'improvviso. «Era così decisa. Era convinta che fossimo tutti condannati. Morte. Distruzione. Incidenti. Una peste su entrambi i casati... ecco quello che diceva.» Tirò un profondo sospiro, come se risentisse il dolore del passato. «Citava sempre Shakespeare. L'aveva presa a cuore... Romeo e Giulietta. Pensava fosse accaduto proprio qua a Siena. Aveva una teoria...» Peppo scosse il capo con scetticismo. «Era ossessionata. Non so. Non sono un professore. Tutto quello che so è che c'era un uomo,
Luciano Salimbeni, che voleva trovare un tesoro...» Non potei farne a meno, dovetti chiedere: «Che tipo di tesoro?» «E chi lo sa?» rispose Peppo alzando le braccia al cielo. «Tuo padre passava tutto il suo tempo a spulciare vecchie leggende. Parlava di tesori andati persi. Ma tua madre una volta mi disse qualcosa a proposito di... come lo chiamava...? forse gli Occhi di Giulietta. Ignoro cosa volesse dire ma ritengo si trattasse di qualcosa di grande valore, e penso che anche Luciano Salimbeni lo stesse cercando.» Morivo dalla voglia di saperne di più, ma ora Peppo sembrava esausto, quasi sofferente, tanto che perse l'equilibrio e mi afferrò il braccio per restare in piedi. «Se fossi in te», continuò, «sarei molto ma molto cauta. E non mi fiderei di nessuno che fa Salimbeni di cognome.» Notando la mia espressione, si fece più serio. «Pensi che sia pazzo? Eccoci qua accanto alla tomba di una donna che è morta troppo giovane. Tua madre. Chi sono io per dirti chi le ha fatto che cosa, e perché?» Mi strinse più forte il braccio. «Lei è morta. Tuo padre è morto. Questo è quanto so. Ma il mio vecchio cuore Tolomei mi dice che devi stare molto attenta.» Nell'ultimo anno di liceo, Janice e io ci proponemmo per la rappresentazione annuale che, guarda caso, era proprio Romeo e Giulietta. Dopo le audizioni, Janice venne scelta per la parte di Giulietta, mentre il mio ruolo fu quello di albero nel giardino dei Capuleti. Naturalmente mia sorella dedicò più tempo alla manicure che allo studio dei dialoghi e, tutte le volte che provavamo la scena del balcone, ero io quella che le suggeriva la prima parola delle battute, essendo convenientemente posizionata sul palcoscenico con i rami al posto delle braccia. La notte del debutto, tuttavia, Janice era stata particolarmente cattiva con me. Sedute al trucco, aveva continuato a ridere della mia faccia marrone e a spostare le foglie dai miei capelli, mentre lei veniva agghindata con trecce bionde e fard rosa. Giunte alla scena del balcone, la voglia di collaborare mi era del tutto passata. Anzi, feci proprio il contrario. Quando Romeo disse: «E per che cosa devo allora giurare?» io le sussurrai: «Tre parole!»
E Janice ripete immediatamente: «Tre parole, mio caro, e poi davvero buonanotte!» cosa che fece deragliare Romeo e concludere la scena nella confusione più totale. Più tardi, mentre nella camera di Giulietta interpretavo un candelabro, feci svegliare Janice accanto a Romeo con la battuta: «Dunque, presto, va via!» Il che non creò l'atmosfera giusta per il resto della romantica scena. Inutile dire che Janice era così furiosa che dopo mi inseguì per tutta la scuola, giurandomi che mi avrebbe rasato le sopracciglia. All'inizio era stato divertente ma quando, al termine la rappresentazione, si era chiusa a chiave nel bagno e aveva pianto per un'ora, pure io avevo smesso di ridere. Molto dopo mezzanotte, mentre chiacchieravo in soggiorno con zia Rose, con il timore di andare a letto e addormentarmi vicino a una Janice armata di rasoio, era sopraggiunto Umberto con del Vin santo per entrambe. Senza dire una parola, ci aveva porto i calici, e zia Rose non aveva fiatato sul fatto che io fossi troppo giovane per gli alcolici. «Ti piace davvero quel dramma?» mi aveva invece chiesto. «Sembra tu lo conosca a memoria.» «Non è che mi piaccia così tanto», avevo confessato, sorseggiando il mio drink con aria distratta. «Solo che ce l'ho... lì, stampato in testa.» Zia Rose assentì lentamente, assaporando il Vin santo. «Tua madre era uguale. Lo conosceva a memoria. Era... un'ossessione.» Trattenni il fiato, non volendo interrompere il filo dei suoi pensieri. Aspettavo un altro cenno a mia madre, ma non ce ne furono. Zia Rose alzò gli occhi, si schiarì la voce e prese un altro sorso di vino. E questo fu quanto. Quella fu l'unica cosa che mi raccontò di mia madre senza essere stata sollecitata, e io non riferii nulla a Janice. La nostra reciproca ossessione per il dramma di Shakespeare era un piccolo segreto che condividevo con lei e con nessun altro, così come non avevo mai parlato con nessuno del mio timore più grande: che siccome mia madre era morta a venticinque anni, anch'io sarei andata all'altro mondo in giovane età.
Non appena Peppo mi depositò di fronte all'hotel, mi recai dritta nel più vicino Internet café a cercare «Luciano Salimbeni» su Google. Mi ci vollero diverse acrobazie lessicali per produrre una ricerca incrociata che fornisse qualcosa di remotamente utile. Solo dopo almeno un'ora e molte, moltissime, frustrazioni causa l'idioma locale, ero arrivata alle seguenti conclusioni irrefutabili. Primo. Luciano Salimbeni era morto. Secondo. Luciano Salimbeni era stato un tipo raccomandabile, forse addirittura l'autore di una strage.
poco
Terzo. Luciano ed Eva Maria Salimbeni erano in qualche modo imparentati. Quarto. Nell'incidente d'auto in cui era perita mia madre, c'era stato qualcosa di poco chiaro e Luciano Salimbeni era stato convocato come persona informata sui fatti. Stampai tutte le pagine in modo da poterle rileggere con comodo più tardi con l'ausilio del dizionario. La ricerca aveva prodotto poco di più di quanto mi avesse detto Peppo Tolomei nel pomeriggio, ma almeno ora sapevo che il mio anziano cugino non si era semplicemente inventato tutta la storia. Vent'anni prima o giù di lì, a Siena si era veramente aggirato un tipo pericoloso di nome Luciano Salimbeni. Le buone notizie però lo davano per defunto. In altre parole, non poteva assolutamente trattarsi del maniaco in tuta che, forse sì forse no, il giorno prima mi si era messo alle calcagna quando ero uscita da Palazzo Tolomei con il cofanetto di mia madre. Poi ebbi un ripensamento e digitai «Gli Occhi di Giulietta» su Google. Non mi sorpresi di non ottenere alcun esito circa un eventuale tesoro leggendario. Quasi tutti gli articoli contenevano divagazioni semiscientifiche sul significato degli occhi nel Romeo e Giulietta di Shakespeare. Lessi tuttavia con attenzione un paio di passaggi del dramma, alla ricerca di un messaggio in codice. Uno di questi diceva:
Ahimè! Il pericolo è più nei tuoi occhi
che non in venti delle loro spade. Bene, pensai tra me e me, se il malvagio Luciano Salimbeni aveva veramente ucciso mia madre per un tesoro chiamato Occhi di Giulietta, allora la dichiarazione di Romeo rispondeva alla verità: qualunque fosse la natura di questi occhi misteriosi, essi erano potenzialmente più pericolosi di qualsiasi arma, tutto qui. Per contro, il secondo passaggio era un filino più complesso:
Due fra le stelle più lucenti, che girano ora in altre zone, pregano i suoi occhi di splendere nelle sfere senza luce, fino al loro ritorno. E se i suoi occhi fossero nel cielo veramente e le stelle nel suo viso? Non feci che rimuginare su questi versi mentre percorrevo via del Paradiso. Romeo stava chiaramente cercando di fare un complimento a Giulietta dicendole che i suoi occhi erano come stelle lucenti, ma certo aveva un modo balordo di esprimere il concetto! Immaginarsi come sarebbe stata se le avessero scavato fuori gli occhi, a mio modesto parere, non era il sistema migliore per conquistare una ragazza. Ma, tutto considerato, questi versi erano un piacevole diversivo dopo gli altri fatti di cui ero venuta a conoscenza quel giorno. Entrambi i miei genitori erano morti in modo orribile, uno dopo l'altro, e forse addirittura per opera di un assassino. Anche se erano ore che avevo lasciato il cimitero, stavo ancora cercando di digerire la terribile scoperta. E oltre allo shock e al dolore, sentivo anche i «morsicotti della paura», proprio come il giorno prima, quando pensavo che qualcuno mi seguisse uscendo dalla banca. E se Peppo aveva ragione a dirmi di stare attenta? Possibile che fossi davvero in pericolo, anche dopo tanti anni? Se così era, avrei potuto presumibilmente mettermi al sicuro tornando a casa in Virginia. Ma
se il tesoro esisteva sul serio? E se il cofanetto di mia madre conteneva la soluzione per trovare gli Occhi di Giulietta, qualsiasi cosa essi fossero? Persa nei miei pensieri, mi trovai in un giardinetto recintato non lontano da piazza San Domenico. Si stava facendo tardi e sostai un momento sotto il portico di una loggia, assaporando gli ultimi raggi di sole mentre le ombre della sera si arrampicavano lente lungo le mie gambe. Non avevo ancora voglia di rientrare in hotel, dove il diario di mastro Ambrogio mi stava aspettando per trasportarmi nell'anno 1340, e per farmi passare un'altra notte insonne. Mentre me ne stavo lì nel crepuscolo, a elucubrare pensieri riguardo i miei genitori, all'improvviso lo vidi... Il Maestro. Stava camminando nell'ombra del loggiato di fronte; trasportava un cavalletto e svariati altri oggetti che continuavano a scivolargli di mano costringendolo a fermarsi per ridistribuire i carichi. All'inizio mi limitai a fissarlo. Era impossibile non farlo. Era diversissimo da tutti gli altri italiani che avevo incontrato fino a quel momento. Aveva una lunga capigliatura grigia, un cardigan sformato, e dei sandali aperti che lo rendevano tale e quale un sopravvissuto di Woodstock. Lui non mi vide subito e, quando lo raggiunsi per porgergli il pennello che aveva lasciato cadere, sobbalzò dallo spavento. «Scusi», dissi, «ma penso che questo sia suo.» Lui fissò il pennello senza dar segno d'intendimento, e quando alla fine lo prese in mano, aveva l'aria perplessa come se ne ignorasse l'impiego. Poi mi guardò, sempre confuso, e chiese: «Ti conosco?» Prima che potessi rispondere, un sorriso gli illuminò il viso mentre esclamava: «Certo che ti conosco! Mi ricordo di te. Tu sei... oh! Rammentamelo... chi sei?» «Giulietta Tolomei. Ma non penso...» «Sissisì, ecco! Dove sei stata?» «Sono... appena arrivata.»
Si rimproverò della propria stupidità. «Certamente che sei appena arrivata! Non farci caso. Sei appena arrivata. E sei qui. Giulietta Tolomei. Più bella che mai.» Sorrise e scosse il capo. «Non l'ho mai capita questa cosa, il tempo.» «Perfetto», osservai, un po' scombussolata, «è sicuro di star bene?» «Io? Oh! Sì, grazie. Ma... devi venire a trovarmi. Devo farti vedere qualcosa. Sai dove ho lo studio? È in via Santa Caterina. Il portoncino azzurro. Non bussare, entra e basta.» Solo in quel momento mi venne in mente che mi aveva scambiato per una turista cui vendere qualche souvenir. Come no, amico, pensai, vengo subito. Quando a sera tarda chiamai Umberto, sentii che era profondamente turbato per quello che avevo appreso sulla morte dei miei genitori. «Ma sei sicura?» continuava a ripetere, «sei sicura che sia vero?» Gli dissi di sì. Non solo esistevano le prove che vent'anni prima forze oscure avevano tramato in tal senso ma, da quello che potevo vedere, queste forze oscure erano ancora in giro a caccia di qualcosa. «Sei certa che stesse seguendo te?» obiettò Umberto. «Forse...» «Umberto», lo interruppi, «indossava una tuta.» Sapevamo tutti e due che nell'universo-mondo di Umberto solo un malvagio di cuore avrebbe percorso in abiti sportivi una strada elegante del centro. «Be'», disse lui, «magari voleva soltanto rubarti il borsellino. Ti ha visto uscire dalla banca e ha pensato avessi ritirato del denaro...» «Sì, può darsi. Certo che non capisco perché qualcuno dovrebbe volermi rubare il cofanetto. Non riesco a trovarci niente all'interno che abbia a che fare con gli Occhi di Giulietta.. » «Gli Occhi di Giulietta?» «Già, è quanto ha detto Peppo.» Sospirai e mi lasciai cadere sul letto. «Apparentemente è questo il tesoro. Ma se me lo chiedi, io penso sia una grossa bufala. Me le vedo mamma e zia Rose che dal cielo si stanno facendo una bella risata. Comunque... tu cosa
combini?» Chiacchierammo almeno per altri cinque minuti prima che scoprissi che Umberto non era più in casa di zia Rose ma in un albergo di New York a caccia di un lavoro, qualsivoglia significato lui volesse dare al termine. Non lo immaginavo intento a servire ai tavoli a Manhattan o a grattugiare parmigiano sulla pasta di qualcun altro. Probabilmente si sentiva come me, perché pareva stanco e scoraggiato. Avrei voluto così tanto comunicargli che ero sul punto di mettere le mani su un tesoro immenso. Ma sapevamo entrambi che, sebbene avessi recuperato il cofanetto di mia madre, non avevo la minima idea da dove cominciare la ricerca.
Capitolo 3 La morte, che ha già succhiato il miele del tuo respiro, nulla ha potuto sulla tua bellezza. Siena, 1340 IL fendente fatale non giunse mai. Invece, Frate Lorenzo, ancora in ginocchio innanzi al brigante, udì un breve, spaventoso fruscio seguito da un tremore che fece sussultare il carro e dal rumore di un corpo che cadeva per terra. E poi... silenzio di tomba. Una sbirciata veloce da un occhio semiaperto confermò che il suo presunto assassino non gli stava più sopra con la spada sguainata, così Frate Lorenzo si protese cautamente in avanti per vedere dove la canaglia fosse andata a finire. Ed eccolo là, in una pozza di sangue sul ciglio della roggia, lo stesso uomo che - pochi momenti prima - era stato il capo baldanzoso di un manipolo di banditi di strada. Come sembra fragile e umano ora, pensò Frate Lorenzo, con il manico di un pugnale che gli fuoriusciva dal petto e il sangue che gli colava dalla bocca demoniaca per giungere fino all'orecchio che aveva udito tante inascoltate preghiere. «Madre Santissima!» Il monaco alzò le mani giunte verso il cielo. «Grazie, beatissima Vergine, per aver salvato il tuo umile servitore!» «Che tu sia il benvenuto, frate, ma non sono vergine.» Sentendo come una voce dall'aldilà e rendendosi conto che proveniva da qualcuno assai vicino e d'aspetto piuttosto minaccioso con tanto di elmo piumato, corazza, e lancia in resta, Frate Lorenzo schizzò in piedi. «Nobile
San
Michele!»
esclamò,
al
contempo
esaltato
e
terrorizzato, «mi hai salvato la vita. Quell'uomo lì per terra, quel manigoldo, era sul punto di uccidermi!» San Michele alzò la celata dietro cui si nascondeva il viso di un giovane uomo. «Sì», rispose, adesso con voce umana, «questo l'avevo compreso. Ma devo continuare a deluderti: non sono neppure un santo.» «Qualunque siano i tuoi attributi, nobilissimo cavaliere», continuò il religioso, «la tua comparsa è stata un tale miracolo che sono certo che la santa Vergine saprà ricompensarti dall'alto dei cieli!» «Ti ringrazio», rispose il cavaliere, con occhi pieni di arguzia, «ma la prossima volta che parli con lei, non potresti dirle che mi accontenterei di un compenso qua sulla terra? Un altro cavallo, forse? Perché questo, sicuro come l'oro, mi farà finire insieme ai porci del Palio.» Frate Lorenzo aguzzò la vista una volta, forse due, prima di cominciare a capire che il suo salvatore aveva detto il vero. Non era punto un santo. E a giudicare dal modo in cui il giovanotto aveva parlato della Vergine Maria - con irrispettosa confidenza - non era neppure un'anima pia. Fu arduo coprire il lieve scricchiolio del coperchio della bara mentre la sua inquilina cercava di dare una sbirciatina al coraggioso salvatore, ragion per cui Frate Lorenzo ci si sedette sopra in tutta fretta mentre il suo istinto gli diceva: Ecco qua un giovane e una giovane che sarà meglio non si incontrino mai. «Ehm», disse, determinato a essere gentile, «e dove ti conduce la battaglia, nobile cavaliere? O sei in cammino in difesa della Terrasanta?» L'altro lo guardò incredulo. «Ma da dove arrivi, frate mattacchione? Di certo un uomo così vicino a Dio sa che il tempo delle crociate è finito.» Protese un braccio in direzione di Siena. «Quelle colline, quelle torri... ecco la mia Terrasanta.» «Allora sono per davvero felice», osservò frettoloso Frate Lorenzo, «di non essermi imbattuto in un malintenzionato!» Il cavaliere non apparve convinto. «Posso chiederti», domandò guardandolo fisso, «quale occorrenza ti conduce a Siena? E cosa porti dentro quella bara?»
«Niente!» «Niente?» Il giovane rivolse lo sguardo verso il cadavere per terra. «È assai improbabile che i Salimbeni rischino la ghirba per niente. Devi di sicuro avere qualcosa di valore!» «Niente di niente!» insistette Frate Lorenzo, ancora troppo sconvolto per fidarsi di un altro forestiero dalle comprovate abilità mattatone. «Nella bara giace uno dei miei poveri fratelli, orrendamente sfigurato dopo la caduta dalla torre campanaria, complice il vento, tre giorni or sono. Devo consegnarlo a messer... insomma... alla sua famiglia, a Siena, questa sera stessa.» Con grande sollievo del frate, l'espressione sul viso del cavaliere, da ostile quale stava diventando, si fece compassionevole, e nulla più fu chiesto riguardo la bara. Poi il giovane girò il capo per scrutare con impazienza la strada dietro di lui. Seguendo il suo sguardo, Frate Lorenzo non vide null'altro che il sole di ponente, e la cosa gli ricordò che grazie al suo salvatore, miscredente o meno, sarebbe stato in grado di godere del resto del giorno e, Dio volendo, di molti altri a venire. «Cugini», urlò il giovane a squarciagola, «i nostri allenamenti sono stati procrastinati da questo monaco sfortunato!» Solo allora Frate Lorenzo scorse altri individui a cavallo che sopraggiungevano da ponente e, man mano che si avvicinavano, principiò a rendersi conto che si trattava di una compagine di giovani uomini adusi a qualche tipo di gioco equestre. Nessuno indossava l'armatura, ma uno di loro - poco più di un ragazzino trasportava una clessidra. Quando il giovanetto si accorse del cadavere nel fosso, l'arnese gli sfuggì di mano e cadde al suolo, frantumando il vetro in due parti. «Ecco un cattivo presagio per la nostra corsa, cuginetto», disse il cavaliere al ragazzo, «ma forse il nostro santo amico qui presente può porvi rimedio con una prece o due. Che ne dici, frate, ce l'avresti una benedizione per il mio cavallo?» Frate Lorenzo diede un'occhiataccia al suo salvatore, pensando di essere vittima di una burla. Ma l'altro pareva del tutto sincero mentre se ne stava comodamente seduto lì in sella come altri
sederebbero su uno scranno di casa loro. Vedendo l'aria corrucciata del monaco, tuttavia, il cavaliere sorrise. «Come non detto. Nessuna benedizione sarebbe comunque di aiuto per questo ronzino. Ma dimmi, prima che le nostre strade si dividano, ho salvato un amico o un nemico?» «Nobile signore!» Sconvolto per esser stato tentato di pensar male, anche se per pochi istanti, dell'uomo che Dio gli aveva inviato per salvargli la pelle, Frate Lorenzo si alzò di scatto giungendo le mani sul cuore. «Ti devo la vita! Come potrei non essere che il tuo servo devoto per il resto dei miei anni?» «Belle parole! Ma dove poni la tua alleanza?» «La mia alleanza?» Frate Lorenzo passò in rassegna tutti i volti, alla ricerca di uno spiraglio. «Sì», intervenne il ragazzo che aveva lasciato cadere la clessidra, «per chi parteggi durante il Palio?» Sei paia di occhi lo guardavano fisso mentre il religioso si ingegnava a mettere insieme la risposta giusta. Il suo sguardo prima si soffermò sull'elmo piumato a foggia di becco del cavaliere, poi passò alle nere ali sullo stendardo fissato alla lancia e giunse infine all'enorme aquila che campeggiava sull'armatura. «Ma certo», si affrettò, «parteggio... per l'aquila? Sì! La grande aquila... regina del cielo!» Con enorme sollievo, la risposta provocò un applauso unanime. «Allora sei in verità un amico», concluse il cavaliere, «e son felice di aver ucciso lui e non te. Vieni, ti accompagniamo in città. Porta Camollia non autorizza l'entrata di carri dopo il tramonto. Dobbiamo affrettarci.» «La tua gentilezza mi confonde», disse Frate Lorenzo. «Ti prego di dirmi il tuo nome in modo che io possa benedirti nelle mie preghiere ora e per sempre.» L'elmo a becco d'aquila fece un breve cenno di magnanimo assenso. «Sono l'Aquila. Vengo chiamato Romeo Marescotti.» «Marescotti è il tuo nome mortale?»
«Cosa significa un nome? L'Aquila vive per sempre.» «Solo il Cielo», replicò Frate Lorenzo, la cui pignoleria eclissò per breve tempo il senso di gratitudine, «può accordare la vita eterna.» Il cavaliere si rallegrò. «Allora, con tutta evidenza», ribatté, soprattutto per il divertimento dei suoi compagni, «l'Aquila deve essere la creatura alata che la Vergine preferisce!» Una volta che Romeo e i suoi cugini ebbero finalmente consegnato monaco e carro alla destinazione indicata dentro la città di Siena, il crepuscolo si era trasformato in buio, e un silenzio circospetto avvolgeva cose e persone. Porte e imposte erano adesso sbarrate a tener lontani i demoni della notte e, non fosse stato per la luna o il solitario passante armato di torcia, Frate Lorenzo avrebbe da tempo perso ogni orientamento nel labirinto di strade e stradine. Quando Romeo gli aveva chiesto chi andasse a trovare, il monaco aveva mentito. Era perfettamente a conoscenza del sanguinario conflitto tra Tolomei e Salimbeni e del fatto che, nella compagnia sbagliata, sarebbe stato fatale ammettere che veniva a Siena per incontrare il nobile messer Tolomei. Per quanto Romeo e i suoi cugini si fossero dimostrati desiderosi di aiutare, era difficile prevedere come avrebbero reagito una volta saputa la verità, o quali squallide storie avrebbero raccontato ad amici e parenti. E così Frate Lorenzo gli aveva detto che era diretto alla bottega del Maestro Ambrogio Lorenzetti, visto che era l'unico altro nome in Siena che gli fosse venuto in mente. Ambrogio Lorenzetti era un pittore, un vero Maestro, famosissimo ovunque per i suoi affreschi e i suoi ritratti. Frate Lorenzo non l'aveva mai incontrato di persona, ma aveva ricordato che qualcuno gli aveva detto che il grand'uomo viveva a Siena. Il monaco aveva fatto il nome del pittore con una certa trepidazione, e quando Romeo non aveva trovato nulla da obiettare, si era convinto di aver compiuto la scelta giusta. «Bene, dunque», affermò Romeo, fermando il cavallo nel mezzo di una stretta stradina, «eccoci giunti. Il portoncino azzurro è qui.» Il frate si guardò intorno, meravigliato che il famoso pittore non
abitasse in un quartiere più elegante. Spazzatura e lerciume imbrattavano l'intera strada e gatti macilenti stavano in agguato dagli angoli scuri e dagli androni in rovina. «Gentiluomini, davvero vi ringrazio», disse il religioso scendendo dal carro, «per il vostro grande aiuto. A tempo debito il cielo vi compenserà.» «Fatti da parte, monaco», rispose Romeo smontando da cavallo, «e permettici di portare dentro il feretro per te.» «No! Non toccarlo!» Frate Lorenzo si piazzò tra il giovane e la bara. «Mi hai già aiutato a sufficienza.» «Bagattelle!» Poco mancava che Romeo spintonasse il monaco di lato. «Come pensi di farlo entrare in casa senza il nostro aiuto?» «Non lo faccio io... ci penserà Iddio! Il Maestro mi darà una mano.» «I pittori hanno cervello, non muscoli. Ecco...» Così dicendo Romeo fece spostare il frate, ma con garbo, consapevole che aveva a che fare con un avversario debole. L'unico a non rendersi conto della propria debolezza era Frate Lorenzo. «No!» esclamò, nella foga di proteggere il feretro. «Ti scongiuro... ti ordino...!» «Tu mi ordini?» Romeo parve divertito. «Parole così non fanno che destare la mia curiosità. Ti ho appena salvato la vita. Come mai la mia gentilezza adesso ti stomaca?» Dall'altra parte della porta azzurra, all'interno della bottega, mastro Lorenzetti era impegnato a fare quello che faceva sempre a quell'ora della notte: mischiava e provava i colori. La notte apparteneva agli arditi, ai folli e agli artisti - spesso la stessa persona e quello per lui era un momento magico per lavorare perché tutti i clienti erano a casa, a mangiare o a dormire come fanno i comuni mortali, e non sarebbero venuti a bussare alla sua porta se non dopo il sorgere del sole. Beatamente immerso nel suo lavoro, mastro Lorenzetti non fece caso al baccano in strada fino a quando il cane Dante non cominciò a ringhiare. Senza deporre il mortaio, il pittore fece qualche passo verso la porta per stabilire la gravità della discussione che - a giudicare dalle voci - stava avvenendo sulla soglia di casa sua. Gli
venne in mente la grandiosa morte di Giulio Cesare, pugnalato da un'orda di senatori e morto molto scenograficamente tra le colonne di marmo, e con tutto quel vermiglio sui gradini. Chissà mai che un qualche senese di lignaggio fosse venuto a defungere in maniera analoga, dandogli il destro di riprendere la scena sull'affresco di un muro. Proprio in quel momento qualcuno picchiò alla porta e Dante prese ad abbaiare. «Ssst!» disse Ambrogio al cane. «Ti consiglierei di andare a nasconderti, nel caso sia quello con il piede forcuto che vuole entrare. Lo conosco assai meglio di te.» Nell'attimo in cui aprì la porta, un turbinio di voci concitate si sparse all'interno travolgendo il Maestro in una discussione accalorata che aveva a che fare con un certo oggetto che doveva essere trasportato in casa. «Dì loro, mio caro fratello in Cristo», lo sollecitò il monaco trafelato, «dì loro che ce la facciamo da soli!» «Ce la facciamo cosa?» volle sapere mastro Ambrogio. «La bara», rispose qualcun altro, «con dentro il campanaro defunto! Guarda!» «Penso che abbiate sbagliato casa», disse mastro Ambrogio, «non l'ho ordinata io.» «Vi prego di farci entrare», supplicò il monaco, «vi spiegherò tutto.» Non c'era null'altro da fare che mettersi da parte, così mastro Ambrogio spalancò la porta per permettere ai giovani di portare la bara nella bottega e di depositarla in centro al piantito. Non si sorprese affatto di vedere che il giovane Romeo Marescotti e i suoi cugini stavano di nuovo facendo cagnara. Quello che lo incuriosì era la presenza del monaco che si torceva le mani. «Questo è il feretro più leggero che abbia mai trasportato», osservò uno dei compagni di Romeo. «Il tuo campanaro doveva essere un uomo molto esile, Frate Lorenzo. La prossima volta accertati di sceglierne uno che riesca a stare in piedi quando sul
campanile soffia il vento.» «Lo farò!» esclamò il frate sbrigativo. «E ora, gentiluomini, grazie ancora per i vostri servigi. Grazie, messer Romeo, per averci, avermi salvato la vita! Ecco...» estrasse da qualche parte sotto la cappa una monetina ammaccata, «un centesimo per il disturbo!» La monetina rimase per un po' a mezz'aria, non reclamata da nessuno. Alla fine Frate Lorenzo se la rificcò tra gli stracci con le orecchie che gli ardevano come carboni colpiti da improvviso turbine di vento. «Tutto quello che ti chiedo», disse Romeo in tono scherzoso, «è che tu ci mostri quello che c'è nella bara. In quanto non si tratta di monaco, grasso o magro che esso sia, di questo ne son certo.» «No!» Il nervosismo di Frate Lorenzo si tramutò in panico. «Non posso permetterlo! Ti giuro, giuro a tutti voi, e mi è testimone la Vergine Maria, che la bara deve rimanere chiusa, o un'enorme sciagura ci colpirà tutti!» Mastro Ambrogio stava intanto riflettendo che non si era mai soffermato sulle fattezze di un pennuto. Un passerottino caduto dal nido, con le piume arruffate e gli occhi a punta di spillo pieni di angoscia... ecco quello a cui somigliava quel giovane frate lì impalato alle prese con i gattacci più feroci di tutta Siena. «Forza, monaco», insistette Romeo, «stasera ti ho salvato la vita. Non dovrei essermi guadagnato ormai anche la tua fiducia?» «Temo», fece notare il Maestro a Frate Lorenzo, «che dovrai dar seguito alla tua minaccia e lasciare che la sciagura ci colpisca. Lo esige il tuo onore.» Frate Lorenzo scosse il capo a fatica. «E sia, dunque! Aprirò la bara. Ma prima, lasciate che vi spieghi...» Per un attimo vagò con lo sguardo come alla ricerca dell'ispirazione, poi annuì con la testa e cominciò: «Hai ragione, in questa bara non giace nessun monaco. Ma qualcuno di altrettanto sacro. È l'unica figlia del mio generoso protettore, e...» si schiarì la voce per parlare con più convinzione, «è morta, assai tragicamente, due giorni or sono. Il padre mi ha mandato qui con le sue spoglie per pregarti, Maestro, di catturarne i lineamenti su una tela prima che si perdano per sempre.»
«Due giorni?» Mastro Ambrogio sussultò, seppur tutt'orecchi per la comanda. «È morta da due giorni? Mio caro amico...» Senza aspettare l'autorizzazione del monaco, sollevò il coperchio della bara onde prendere visione dei danni. Per fortuna che la giovine lì dentro non era ancora stata devastata dalla morte. «Sembrerebbe», disse il pittore, felicemente sorpreso, «che s'abbia ancora del tempo. Anche se è indispensabile che inizi subito. Il tuo protettore ha specificato il modello? Di regola io vado di Vergine Maria semplice dalla vita in su, ma in questo caso, visto tutto il cammino che vi siete fatti, ci butto dentro un Bambin Gesù senza sovrapprezzo alcuno.» «Penso... credo che la Vergine Maria semplice vada bene», rispose Frate Lorenzo guardando nervosamente Romeo che si era inginocchiato accanto alla bara in ammirazione della defunta, «e anche il Nostro Santissimo Salvatore, visto che è gratis.» «Ahimè!» esclamò Romeo ignorando lo sguardo minaccioso del monaco, «come può Dio essere così crudele?» «Fermo!» urlò Frate Lorenzo, ma era troppo tardi. Romeo aveva già sfiorato con le dita la gota della fanciulla. «Una siffatta bellezza», continuò il giovane commosso, «non dovrebbe mai morire. Anche la Signora con la Falce, stanotte, odia il suo mestiere. Guardate, le sue labbra ancora non hanno traccia di violaceo.» «Attento!» lo ammonì Frate Lorenzo cercando di chiudere il coperchio, «tu non sai di quali infezioni codeste labbra possano essere foriere!» «Se ella fosse mia», proseguì Romeo bloccando gli sforzi del monaco e facendosi beffe della prudenza, «la seguirei in paradiso per portarla indietro. O rimarrei con lei là per sempre.» «Sessessé», disse Frate Lorenzo, forzando il coperchio e quasi stritolando il polso dell'altro. «La morte tramuta tutti gli uomini in grandi amanti. Ma avrebbero lo stesso ardore se la dama fosse ancora in vita?» «Come hai ragione, monaco», assentì Romeo, mentre finalmente si rialzava. «Orsù, ho visto e udito abbastanza sofferenza per una sola notte. La taverna mi chiama. Ti lascio a questa triste bisogna e
andrò a fare un brindisi per l'anima di questa povera fanciulla. Anzi, mi scolerò diversi calici e chissà mai che il vino mi mandi diritto in paradiso a incontrarla di persona e...» Frate Lorenzo fece un balzo in avanti e sibilò, senza motivo apparente: «Controlla la tua lingua, Romeo, prima che ti faccia cadere in disgrazia!» Il giovane ridacchiò: «...rivolgerle i miei rispetti». Frate Lorenzo sollevò nuovamente il coperchio della bara, non prima che i giovinastri fossero tutti usciti dalla bottega e lo scalpitio degli zoccoli fosse svanito. «Adesso siamo al sicuro», mormorò, «puoi venir fuori.» Dopo tante peripezie la fanciulla aprì gli occhi e si sollevò, le guance scavate dalla tensione. «Dio misericordioso!» farfugliò mastro Ambrogio, facendosi il segno della croce con il pestello, «che razza di stregoneria è mai questa?» «Vi supplico, Maestro», implorò il frate, aiutando gentilmente la fanciulla a mettersi in piedi, «di scortarci a Palazzo Tolomei. Questa giovane dama è la nipote di messer Tolomei. È stata vittima di atroci malvagità e io la debbo portare in salvo al più presto possibile. Ci potete aiutare?» Mastro Ambrogio spostava la sguardo dal monaco alla fanciulla, ancora incapace di persuadersi di quello che era successo. Malgrado le proprie ambasce, la giovane stava eretta, la capigliatura scarmigliata che riverberava alla luce della candela e occhi blu come un cielo senza nuvole. Era, senza dubbio alcuno, la creatura più perfetta in cui si fosse mai imbattuto. «Posso chiederti», chiese il pittore al monaco, «cosa ti ha spinto a fidarti di me?» Frate Lorenzo fece un ampio gesto con la mano indicando i quadri tutti attorno. «Un uomo che nelle cose terrene riesce a vedere il divino, è sicuramente un fratello in Cristo.» Anche il Maestro si guardò in giro ma non riuscì a vedere che bottiglie di vino vuote, opere non ultimate, e ritratti di persone che avevano cambiato idea quando avevano visto il conto. «Sei troppo generoso», disse, scuotendo la testa, «ma non ti biasimo per questo.
Non temere, vi condurrò a Palazzo Tolomei, ma prima soddisfa la mia incivile curiosità e dimmi cosa è accaduto a questa giovane dama, e perché è stata messa in una bara.» Per la prima volta, Giulietta prese la parola. La sua voce era morbida e pacata così come il suo viso era tirato dal dolore. «Tre giorni fa», cominciò, «i Salimbeni hanno fatto irruzione in casa mia. Hanno ucciso tutti quelli che portavano il nome Tolomei - mio padre, mia madre, i miei fratelli - e chiunque altro si siano trovati dinanzi, eccetto quest'uomo, il mio devoto confessore, Frate Lorenzo. Ero nel confessionale della cappella quando l'attacco ha avuto luogo, altrimenti anch'io sarei stata...» Distolse lo sguardo, annichilita dalla disperazione. «Siamo venuti qui a chiedere protezione», continuò Frate Lorenzo, «e per riferire a messer Tolomei quello che è successo.» «Siamo venuti qui a cercar vendetta», lo corresse Giulietta, con gli occhi lividi di odio e i pugni chiusi premuti contro il seno come a scongiurare un moto di violenza, «e a sbudellare quel mostro di Salimbeni, per poi impiccarlo con le sue stesse viscere...» «Ehm...» intervenne Frate Lorenzo, «naturalmente eserciteremo il cristiano perdono...» Giulietta, invasata, non stava ad ascoltare «...e darlo in pasto ai cani, pezzo a pezzo!» «Sono addolorato per te», disse mastro Ambrogio, con il desiderio di prendere tra le braccia quella sublime fanciulla per darle consolazione, «troppo hai patito...» «Non ho patito nulla!» I suoi occhi blu trafissero il cuore del pittore. «Non affliggetevi per me, usateci solo la cortesia di accompagnarci a casa di mio zio senza ulteriori indugi.» Solo all'ultimo momento aggiunse sottovoce un «per favore». Dopo aver consegnato senza intoppi monaco e fanciulla a Palazzo Tolomei, mastro Ambrogio ritornò alla sua bottega al galoppo, o per lo meno tale sembrava la velocità. Non si era mai sentito così. Provava le estasi dell'amore, provava le pene dell'inferno... anzi, provava tutte queste cose assieme mentre
l'ispirazione gli svolazzava impazzita nel cervello e gli attanagliava dolorosamente lo stomaco alla ricerca di una via d'uscita da quella prigione che è l'involucro mortale di un uomo di genio. Spaparanzato sul piantito, eternamente perplesso nei confronti dell'umanità, Dante seguiva da un solo occhio semiaperto e iniettato di sangue i movimenti del pittore che mischiava i colori e cominciava a innestare i lineamenti di Giulietta Tolomei sul dipinto di una Vergine Maria fino a poco tempo prima priva di testa. Non poté fare a meno di iniziare dagli occhi. Era impossibile trovare nella sua bottega un colore simile, anzi era impossibile trovare una sfumatura così in tutta Siena. Perché lui quel colore l'aveva inventato quella stessa notte in un momento di febbrile follia, mentre l'immagine della giovinetta gli era ancora impressa nella mente. Incoraggiato dal risultato, non indugiò a tracciare l'ovale di quel viso stupendo incorniciato dalla cascata iridescente dei capelli. I movimenti del pittore erano magicamente fluidi e sicuri: se la giovinetta avesse posato per lui immobile, in carne e ossa, non sarebbe stato in grado di lavorare con maggiore esaltato trasporto. «Sì!» fu la sola parola che gli sfuggì mentre con bramosia, quasi famelico, riportava in vita quelle fattezze sublimi. Una volta terminato il dipinto, fece alcuni passi indietro e afferrò il bicchiere di vino che si era versato in una vita precedente, cinque ore prima. Proprio in quel momento bussarono di nuovo alla porta. «Sstt!» disse mastro Ambrogio, ammonendo con un dito il cane che si era messo ad abbaiare, «ti figuri sempre il peggio. Forse è un altro angelo.» Ma nell'attimo in cui aprì la porta per vedere quale demone il fato gli avesse inviato a quell'ora scellerata della notte, si rese conto che Dante ci aveva azzeccato meglio di lui. Fuori, al lume tremolante di una torcia a muro, stava Romeo Marescotti, con un sorriso ebbro che gli troncava in due un viso per altri versi incredibilmente amabile. Oltre all'incontro appena avvenuto, il Maestro conosceva il giovane fin troppo bene dalla settimana prima, quando gli uomini della famiglia Marescotti avevano posato uno a uno davanti a lui, che era stato incaricato di ritrarli tutti in un grandioso nuovo murale di palazzo Marescotti. Il paterfamilias, il comandante Marescotti, aveva insistito in una
riproduzione dell'intero clan, passato e presente, con tutti gli antenati presentabili - più alcuni impresentabili - al centro, in qualche modo impegnati nella famosa battaglia di Montaperti, mentre i viventi incombevano dall'alto del cielo a raffigurare, opportunamente abbigliati, le sette virtù capitali. Con grande divertimento di tutta la combriccola, a Romeo era toccato il ruolo a lui meno consono, e di conseguenza mastro Ambrogio si era trovato a dover travisare non solo il passato ma anche il presente mentre applicava sapientemente le fattezze del seduttore più celebre di Siena alla figura dignitosa collocata sul trono della Castità. Ora la castità fatta persona spinse da parte il suo gentile creatore, si addentrò nell'atelier e si avvicinò alla bara che giaceva ancora, coperta, nel centro della stanza. Il giovane era chiaramente bramoso di dare un'altra occhiata al corpo all'interno, ma questo avrebbe significato dover spostare la tavolozza del Maestro e numerosi pennelli ancora gocciolanti che poggiavano sul coperchio. «Non hai ancora finito l'effigie?» chiese invece. «La voglio vedere.» Mastro Ambrogio chiuse adagio la porta dietro di loro, del tutto consapevole che il visitatore aveva bevuto troppo per mantenere l'equilibrio. «Perché vorresti desiderare di vedere l'effigie di una fanciulla defunta? Lì fuori ce ne sono a dozzine di vive, ne sono certo.» «Vero», asserì Romeo, guardandosi in giro e finalmente posando gli occhi sulla nuova opera, «ma sarebbe troppo facile, giusto?» Si spinse verso il dipinto e lo esaminò con la concentrazione di un esperto: non un esperto di arte, ma di donne. «Niente male. Le hai fatto degli occhi spettacolari. Come hai potuto...» «Grazie», disse il Maestro affrettatamente, «ma la vera bravura è stata quella di Dio. Ancora un poco di vino?» «Perché no?» Il giovane accettò una coppa e si sedette sopra il feretro, evitando con cura i pennelli bagnati. «Che ne dici di un brindisi al tuo amico Dio e a tutti i suoi tiri mancini?» «È molto tardi», rispose mastro Ambrogio spostando la tavolozza e sedendosi sulla bara accanto a Romeo. «Devi essere stanco, amico mio.»
Come ipnotizzato dal ritratto che gli stava di fronte, Romeo non riuscì nemmeno a spostare gli occhi verso il pittore. Quando finalmente parlò, c'era una sincerità nella sua voce del tutto nuova, anche per lui. «Non è che sia stanco», spiegò, «è che non sono mai stato così sveglio. Mi domando se non sia mai stato sveglio prima di stasera.» «Questo capita spesso quando si è nel dormiveglia. Solo allora l'occhio che abbiamo dentro si spalanca sul serio.» «Ma non sto dormendo, né desidero farlo. Non dormirò mai più. Penso che verrò tutte le notti a sedermi qui invece di andare a dormire.» Sorridendo dell'accalorata dichiarazione, osservò il suo capolavoro. «Allora ti piace?»
mastro
Ambrogio
«Mi piace?» Romeo per poco non si strozzò. «L'adoro!» «Potresti dunque venerare una siffatta reliquia?» «Non sono forse un uomo? Eppure, siccome uomo, non posso che provare enorme dispiacere alla vista di tanta bellezza sprecata. Se solo la morte si facesse convincere a restituirla!» «Allora cosa?» Il Maestro si costrinse ad apparire opportunamente corrucciato. «Cosa faresti se quest'angelo fosse vivo e vegeto?» Romeo inspirò a fondo, ma le parole gli sfuggivano. «Non... non so. Senza dubbio alcuno l'amerei. Ignoro come si ami una donna. Ne ho amate tante.» «Allora forse è meglio che non esista. Perché credo che questa fanciulla necessiterebbe di un impegno maggiore. Anzi, mi figuro che per fare la corte a una signora di tale fatta, uno dovrebbe entrare dalla porta principale, non strisciare sotto il suo balcone come un ladro nella notte.» Vedendo che l'altro era stranamente ammutolito, il Maestro continuò serio con maggiore sicurezza. «Vedi, c'è il desiderio, e poi c'è l'amore. Sono due cose correlate eppure molto diverse. Per indulgere nel primo è sufficiente qualche bel discorsetto infiocchettato e un cambio di vestiti, per ottenere l'altro, per contro, un uomo deve rinunciare a una delle sue costole. In cambio, la sua donna cancellerà il peccato originale e lo ricondurrà in paradiso.»
«Ma come fa un uomo a capire quando è il momento di rinunciare alla propria costola? Ho molti amici che son rimasti senza costole, e ti assicuro che non hanno mai visto il paradiso neppure una volta.» Il piglio preoccupato sul viso del giovane coinvolse vieppiù mastro Ambrogio. «L'hai detto tu stesso», confermò. «Un uomo lo capisce. Un ragazzo no.» Romeo sbottò in una risata. «Ti ammiro!» Mise una mano sulla spalla del Maestro. «Hai del coraggio!» «Cosa c'è di tanto meraviglioso nel coraggio?» ribatté il pittore, più baldanzoso, adesso che il suo ruolo di mentore era stato approvato. «Sospetto che questa virtù, da sola, abbia ucciso molti uomini saggi più di tutti i vizi messi assieme.» Di nuovo Romeo rise di gusto, come se il piacere di una tale conversazione animata gli accadesse di raro, e il Maestro, a sua volta, scoperse di colpo che questo giovane uomo, contro ogni aspettativa, gli piaceva. «Spesso sento gli uomini dire che farebbero di tutto per una donna», continuò il giovane, desideroso di non cambiare argomento, «poi, alla prima richiesta, piagnucolano e se la danno a gambe.» «E tu? Anche tu te la dai a gambe?» Il sorriso di Romeo scoprì una fila di denti sorprendentemente sani per qualcuno che si diceva facesse volentieri a pugni con chiunque. «No», rispose, sempre di buonumore. «Ho un fiuto sopraffino per le donne che non chiedono niente di più di quanto io voglia dar loro. Ma se una donna così esistesse...» fece un cenno in direzione del ritratto, «mi spaccherei volentieri tutte le costole pur di conquistarla. Anzi, di più, entrerei dalla porta principale, come hai detto tu, e chiederei la sua mano prima ancora di averla sfiorata. E non solo, ne farei la mia unica sposa e non guarderei mai più un'altra donna. Lo giuro! Sono certo che ne varrebbe la pena.» Soddisfatto di quello che aveva sentito e desideroso di credere che la sua opera d'arte avesse avuto cotanto effetto da distogliere il giovane uomo dalle vie della dissolutezza, il Maestro fece un cenno
d'assenso con il capo, compiaciuto di come stava andando la serata. «Eccome se ne vale la pena!» Romeo fissò il pittore stralunato. «Ne parli come se fosse ancora viva.» Mastro Lorenzetti rimase in silenzio per alcuni secondi a studiare il viso del giovane e a valutare la solidità della sua risolutezza. «Di nome fa Giulietta», confessò infine. «Credo che tu, amico mio, l'abbia sottratta alla morte quando questa sera l'hai sfiorata. Dopo che ci hai abbandonati per la taverna, ho visto le sue leggiadre forme che si sollevavano dal feretro...» Romeo saltò su da seduto come se le fiamme gli ardessero sotto. «Queste sono parole demoniache! Non so se il gelo che sento è per la paura o la felicità!» «Hai paura delle macchinazioni degli uomini?» «Degli uomini, no. Di Dio, grandemente.» «Allora rallegrati per quello che sto per dirti. Non è stato Dio a farla giacere nella bara come morta, ma il monaco, Frate Lorenzo, per poterla portare in salvo.» Romeo strabuzzò gli occhi. «Vuoi dire che non è affatto morta?» Mastro Lorenzetti sorrise all'espressione del giovane. «È viva come lo sei tu.» Romeo si mise la testa tra le mani. «Ti stai celiando di me! Non posso crederti!» «Credi a quello che vuoi», disse il Maestro alzandosi e spostando i pennelli, «o apri la bara.» Dopo attimi di grande sofferenza impiegati ad andare avanti e indietro, Romeo finalmente si fece forza e sollevò d'un colpo il coperchio. Invece di rallegrarsi di trovarla vuota, il giovane guardò fisso il Maestro con rinnovato sospetto. «Dov'è lei?» «Questo non te lo posso dire. Tradirei la fiducia che mi è stata concessa.» «Ma è viva?»
Il Maestro fece spallucce. «Lo era l'ultima volta che l'ho vista, sulla soglia della casa di suo zio, mentre mi salutava.» «E chi sarebbe suo zio?» «Te lo ripeto: non te lo posso dire.» Romeo fece un passo verso mastro Lorenzetti, tormentandosi le mani. «Mi stai dicendo che dovrò fare serenate sotto ogni balcone di Siena finché appare la donna giusta?» Dante, quando sentì che il giovane aveva tutta l'aria di minacciare il suo padrone, saltò su ma, invece di emettere un ringhio di avvertimento, si limitò a buttare la testa indietro in un lungo ed espressivo ululato. «Non apparirà su nessun balcone», replicò il Maestro, mentre accarezzava il cane. «Non è in vena di serenate. Forse non lo sarà mai più.» «Allora perché», esclamò Romeo sul punto di dare un calcio al ritratto sul cavalletto dalla frustrazione, «mi stai dicendo tutto ciò?» «Perché», rispose mastro Lorenzetti, divertito dall'esasperazione dell'altro, «per gli occhi di un artista è increscioso vedere una colomba immacolata circondata da corvacci.»
PARTE TERZA
Capitolo 1 Che c'è nel nome? Quella che chiamiamo rosa, anche con altro nome avrebbe il suo profumo. LA vista dall'antica fortezza medicea era spettacolare. Non solo potevo distinguere i tetti di coppi di Siena che cuocevano nel sole pomeridiano, ma almeno trenta chilometri di colline si affastellavano attorno a me in un oceano di sfumature che andavano dal verde al blu più intenso. Di continuo, alzavo gli occhi dalle pagine per fare mio il vasto paesaggio davanti a me nella speranza di liberarmi di tutta l'aria insalubre che avevo nei polmoni e inebriarmi con gli effluvi dell'estate. E poi, ogni volta che abbassavo lo sguardo e riprendevo a leggere il diario di mastro Lorenzetti, venivo risucchiata nei drammatici avvenimenti del 1340. Avevo trascorso la mattinata nel bar di Malèna in piazza Postierla a sfogliare le pagine delle versioni primeve di Romeo e Giulietta, scritte da Masuccio Salernitano e Luigi da Porto, pubblicate postume rispettivamente nel 1476 e nel 1530. Era interessante vedere come la vicenda si fosse sviluppata e come da Porto avesse conferito un tocco letterario alla storia, che Salernitano affermava basarsi su fatti veri. Nella versione di Salernitano, Romeo e Giulietta - ovvero Mariotto e Giannozza - vivevano sì a Siena ma i loro genitori non erano in conflitto. Si erano sposati in segreto, dopo aver corrotto un frate, ma il vero dramma era cominciato solo quando Mariotto aveva ucciso un cittadino di spicco e aveva dovuto andare in esilio. Nel frattempo i genitori di Giannozza - ignari che la figlia era già maritata - le avevano imposto di sposare qualcun altro. Per la disperazione, la giovane aveva chiesto al frate di prepararle un potente sonnifero il cui effetto fu tale che quegli imbecilli dei suoi genitori la presero per morta e si affrettarono a darle sepoltura. Per fortuna il buon vecchio frate era riuscito a estrarla dal sepolcro,
dopo di che Giannozza si era messa in viaggio, in segreto, per Alessandria, dove Mariotto si stava dando alla bella vita. Tuttavia, il messaggero che avrebbe dovuto informare Mariotto del piano del sonnifero era stato catturato dai pirati, ragion per cui, nel ricevere le novelle del decesso di Giannozza, Mariotto era tornato a spron battuto a Siena per morire al suo fianco. Arrivato in città, era stato catturato dai soldati e decapitato. Zac. E Giannozza aveva trascorso il resto dei suoi anni in convento a consumare pile di fazzoletti. Da quel che potevo capire, gli elementi chiave di questa versione originale erano: il matrimonio segreto, il bando di Romeo, la furbata del sonnifero, la sparizione del messaggero e la determinazione suicida di Romeo provocata dall'erroneo convincimento della morte di Giulietta. L'elemento spiazzante, naturalmente, era che il tutto sembrava avere avuto luogo a Siena. Se Malèna fosse stata presente le avrei chiesto se ciò fosse di dominio pubblico. Ne dubitavo altamente. La cosa interessante era che quando da Porto aveva ripreso la storia, mezzo secolo più tardi, anche lui aveva voluto agganciare la storia a fatti accaduti, come chiamare Romeo e Giulietta con i loro veri nomi di battesimo. Ma pur così, si era fatto intimidire dall'ambientazione e aveva trasportato l'intera vicenda a Verona, cambiando tutti i cognomi. Assai probabilmente per evitare richieste di danni da parte del potente clan coinvolto nello scandalo. Ma lasciamo perdere la logistica: secondo la mia interpretazione supportata da svariate tazze di cappuccino - da Porto aveva scritto una storia molto più intrigante. Era stato lui a introdurre la scena del ballo e quella del balcone, e anche il genio che aveva macchinato il doppio suicidio. L'unica cosa che non mi girava giusta era che aveva fatto morire Giulietta facendole trattenere il respiro. Ma forse da Porto sentiva che il suo pubblico non avrebbe apprezzato spargimenti di sangue... scrupoli che Shakespeare, per fortuna, non aveva. Dopo da Porto, qualcuno chiamato Bandello si era sentito in dovere di scrivere una terza versione aggiungendo una quantità di dialogo melodrammatico senza, a mio avviso, alterare il succo della storia. Da quel momento in poi gli italiani ne ebbero abbastanza e la
storia prima si spostò in Francia, poi in Inghilterra per andare finalmente a finire sullo scrittoio di Shakespeare, pronta per essere immortalata. Da quello che potevo vedere, la differenza più notevole fra tutte queste versioni poetiche e il diario di mastro Lorenzetti era che nella realtà erano state coinvolte tre famiglie, non due. I Tolomei e i Salimbeni erano state le due casate in conflitto - in altre parole i Capuleti e i Montecchi - mentre Romeo era un Marescotti, cioè un foresto. Sotto questo rispetto, l'antica trasposizione di Salernitano era quella che più si avvicinava alla realtà: ambientata a Siena e senza menzione alcuna di una faida tra famiglie. Più tardi, mentre lasciavo la Fortezza con il diario di mastro Lorenzetti stretto al petto, mi misi a osservare tutte le persone felici attorno a me e, di nuovo, sentii come la presenza di un muro invisibile tra me e loro. Eccole che camminavano, facevano jogging, mangiavano il gelato, incuranti del passato e non sconfortate, come me, all'idea di non fare del tutto parte di questo mondo. Quella stessa mattina, davanti allo specchio del bagno, avevo provato la catena con il crocefisso d'argento proveniente dal cofanetto di mia madre e avevo deciso che avrei iniziato a portarla. Dopotutto, si trattava di qualcosa che le era appartenuto e il fatto che fosse stata lasciata nel cofanetto chiaramente significava che era destinata a me. Forse, pensai, mi avrebbe in qualche modo protetta dalla maledizione che aveva condannato mia madre a una morte prematura. Stavo diventando pazza? Forse. Ma in fondo ci sono molti tipi di demenza. Zia Rose aveva sempre dato per scontato che il mondo intero fosse in uno stato di continua e mutabile follia, e che la nevrosi non fosse una malattia, ma un fatto della vita, come i foruncoli. Alcuni ne hanno tanti, alcuni ne hanno pochi, ma solo la gente veramente anormale non ne ha neanche uno. Questa filosofia spiccia mi aveva dato spesso conforto nel passato, e me lo dava anche adesso. Quando feci ritorno in hotel, il direttore mi si parò incontro come un messaggero di Maratona, ansioso di aggiornarmi. «Signorina Tolomei! Dov'è stata? Deve andare! Immediatamente! La contessa
Salimbeni la sta aspettando al Palazzo Pubblico! Vada, vada...» Mi fece sciò sciò con le mani come qualcuno che voglia cacciare un cane alle prese con gli avanzi. «Non può farla aspettare!» «Un momento!» Indicai due oggetti bene in vista nel mezzo della reception. «Quelle sono le mie valigie!» «Sississì, le hanno appena consegnate.» «D'accordo, vorrei salire in camera mia e...» «No!» Rossini spalancò la porta e mi fece cenno di varcarla. «Deve andare subito!» «Ma non so neppure dove!» «Santa Caterina!» Sebbene sapessi che fosse intimamente deliziato di avere un'altra opportunità di erudirmi su Siena, il direttore alzò gli occhi al cielo e lasciò andare la porta. «Venga, le faccio uno schizzo!» Entrare nel Campo fu come entrare in una conchiglia gigante. Tutto attorno ai lati c'erano ristoranti e caffè e là dove avrebbe dovuto essere posizionata la perla, al fondo della piazza in discesa, si ergeva il Palazzo Pubblico, l'edificio che fungeva da municipio fin dal Medioevo. Mi fermai un attimo ad assaporare il mormorio delle voci sotto la cupola blu del cielo, i piccioni che svolazzavano intorno, e la fontana di marmo bianco con la sua acqua turchese, fino a quando sopraggiunse un'ondata di turisti che mi trascinò via con sé ad ammirare stralunata la magnificenza di quella piazza gigantesca. Mentre mi tracciava le indicazioni, Rossini mi aveva garantito che il Campo era considerato la piazza più bella d'Italia, e non solo da parte dei senesi. Anzi, neppure riusciva a ricordare le innumerevoli occasioni in cui clienti dell'hotel provenienti dai quattro angoli del mondo - persino da Firenze - lo avevano avvicinato per magnificare le meraviglie del Campo. Lui naturalmente aveva protestato nominando lo splendore di altre località - ce ne dovevano essere di certo anche altrove - ma le persone si erano rifiutate di ascoltare. Avevano ostinatamente insistito che Siena era la città più incantevole e meglio preservata del globo, e di fronte a tanta convinzione
cos'altro poteva fare il direttore se non confermare che forse era proprio così? Mi infilai in borsa le istruzioni e mi diressi verso il Palazzo Pubblico. L'edificio non passava inosservato con la sua snella torre campanaria, la Torre del Mangia, la cui costruzione il direttore mi aveva illustrato con tale dovizia di particolari che mi ci erano voluti diversi minuti per rendermi conto che, di fatto, l'edificio non era stato eretto in sua presenza ma in un'epoca remota del Medioevo. Un giglio, l'aveva definita, un fiero monumento alla purezza muliebre con il suo fiore di marmo bianco sorretto da un alto stelo vermiglio. E, curiosamente, era stata costruita senza le fondamenta. La Torre del Mangia, aveva dichiarato, stava in piedi da sei secoli, sorretta solo dalla grazia di Dio e dalla fede. Mi feci ombra con la mano e osservai la torre che si stagliava nel blu infinito del cielo. In nessun altro posto avevo mai visto la purezza femminile celebrata da un oggetto fallico alto oltre cento metri. Ma forse era un mio problema. Si sentiva letteralmente una certa gravità emanare dal Palazzo Pubblico e dalla sua torre, come se il Campo sprofondasse sotto tutto quel peso. Rossini mi aveva detto che se avessi avuto dei dubbi, avrei dovuto immaginarmi di posare una pallina per terra: ovunque mi trovassi la sfera sarebbe rotolata dritta verso il Palazzo. C'era qualcosa in quell'immagine che mi aveva incantato. Forse il pensiero di una pallina che rimbalza sul selciato di pietre. O forse il modo in cui aveva pronunciato quelle parole, con tono cospiratorio, come un illusionista che intrattiene un bimbo di quattro anni. Il Palazzo Pubblico, come il governo stesso, era cresciuto con gli anni. All'origine usato come luogo di convegno per i nove governatori della città, si era trasformato in una struttura imponente. Entrai nel cortiletto interno con la sensazione di essere spiata. Non tanto dalla gente presente, immagino, quanto dalle ombre incombenti delle generazioni passate, generazioni che si erano dedicate alla vita di una città che una volta non era nulla più di un piccolo appezzamento di terreno.
Eva Maria Salimbeni mi stava aspettando nella Sala della Pace. Era seduta su una panca nel mezzo della stanza e guardava in su, come se stesse intrattenendo una silenziosa conversazione con Dio. Nell'attimo in cui varcai la porta, lei si girò verso di me mentre il volto le si distendeva in un sorriso felice. «Così alla fine sei venuta!» esclamò mentre si alzava per baciarmi su entrambe le guance. «Stavo cominciando a preoccuparmi.» «Mi scusi se l'ho fatta aspettare. Non sapevo...» Il suo sorriso interruppe qualsiasi cosa volessi aggiungere. «Adesso sei qui. È la sola cosa che conta. Guarda...» Fece un ampio gesto in direzione degli immensi affreschi che adornavano le pareti della stanza. «Hai mai visto niente di più magnifico? Il nostro grande Maestro, Ambrogio Lorenzetti, li ha eseguiti circa a metà del quattordicesimo secolo. Probabile che abbia terminato questo qua sopra le porte nel 1340. Si chiama Gli effetti del buon governo in
città e in campagna.»
Mi voltai per ammirare l'affresco che mi stava indicando. Ricopriva l'intera lunghezza della parete e per eseguirlo dovevano essere stati necessari complicati congegni di scale e di impalcature, forse addirittura ponteggi appesi al soffitto. La metà di sinistra rappresentava una tranquilla scena urbana con cittadini nelle loro faccende affaccendati, la metà di destra un paesaggio campestre al di là delle mura di cinta. Poi qualcosa mi scattò in testa e dissi, sconcertata: «Vuol dire... mastro Ambrogio?» «Oh, sì», confermò Eva Maria, per nulla sorpresa che fossi a conoscenza del nome. «Uno dei maggiori Maestri. Dipinse queste scene per celebrare la fine del lungo conflitto tra le nostre due famiglie, i Tolomei e i Salimbeni. Poi, nel 1339, ci fu la pace.» «Davvero?» Pensai a Giulietta e a Frate Lorenzo che fuggivano dai banditi al soldo dei Salimbeni sulle strade intorno a Siena. «Avevo come l'impressione che nel 1340 i nostri antenati stessero ancora dandosele di santa ragione. Almeno fuori le mura.» Eva Maria fece un sorriso ambiguo. O era compiaciuta che mi fossi preoccupata di leggere gli aneddoti di famiglia, o era stizzita perché avevo osato contraddirla. In quest'ultimo caso fu abbastanza
amabile da darmi retta. «Hai ragione. La pace portò a delle conseguenze imprevedibili. Capita ogni volta che i burocrati si impicciano.» Sollevò le braccia. «Se la gente vuole dar battaglia, non puoi fermarla. Se glielo impedisci dentro la città, combatteranno in campagna, e là può succedere di tutto. Ma almeno a Siena gli scontri furono interrotti prima che si perdesse il controllo. Perché?» Mi guardò come se sapessi la risposta che naturalmente non conoscevo. «Perché», continuò agitando un dito professorale davanti al mio naso, «a Siena abbiamo sempre avuto la milizia. Se volevano tenere i Salimbeni e i Tolomei sotto controllo, i senesi dovevano essere in grado di adunare e inviare in pochi minuti tutti i battaglioni nelle strade della città.» Annuì con vigore alle sue stesse parole. «Credo che questo sia il motivo per cui ancora oggi l'appartenenza alla contrada è così sentita. La dedizione della milizia di quartiere fu, nei tempi remoti, quello che rese possibile una repubblica senese. Se vuoi averla vinta sui malvagi, assicurati che i buoni siano armati.» Sorrisi della sua conclusione e feci del mio meglio per non sembrare in qualche modo coinvolta. Non era questo il momento per comunicare a Eva Maria che non credevo nelle armi e che, per esperienza diretta, i cosiddetti buoni non erano migliori dei malvagi. «Bella, no?» proseguì lei indicando l'affresco. «Una città in pace con se stessa!» «Suppongo di sì», dissi, «benché debba ammettere che la gente non appare particolarmente felice. Guardi...» Indicai una giovane donna che dava l'impressione di essere intrappolata in un cerchio di fanciulle danzanti. «Quella sembrerebbe... non so. Persa nei suoi pensieri.» «Forse aveva appena visto passare un corteo nuziale?» suggerì Eva Maria, indicando un gruppo di persone al seguito di quella che si poteva ritenere una sposa su un cavallo. «E magari la cosa le aveva fatto venire in mente un amore perduto.» «Sta fissando il tamburo», suggerii, facendo di nuovo un cenno con il dito, «o il tamburello. E le danzatrici sembrano... cattive. Guardi come l'hanno intrappolata nel mezzo. E una di loro le sta
fissando il ventre.» Scrutai di sottecchi Eva Maria ma era difficile interpretare la sua espressione. «O forse mi sto solo immaginando delle cose.» «No», disse lei adagio, «è chiaro che mastro Ambrogio vuole che la si noti. Ha fatto questo gruppo di danzatrici più grande di ogni altro elemento del dipinto. E se osservi meglio vedrai che lei è l'unica con una tiara nei capelli.» Aguzzai gli occhi e vidi che aveva ragione. «E chi sarebbe? Lo si sa?» Eva Maria fece spallucce. «Ufficialmente non lo sappiamo. Ma detto tra noi...» si protese verso di me abbassando la voce, «penso che sia la tua antenata. Giulietta Tolomei.» Fui così scioccata a sentirla pronunciare quel nome - il mio nome e articolare lo stesso identico pensiero che avevo comunicato a Umberto per telefono, che ci misi un po' prima di rivolgerle l'unica domanda possibile: «Come caspita fa a saperlo? Che sia la mia antenata, intendo...» Eva Maria per poco non scoppiò in una risata. «Ma non è ovvio? Perché mai tua madre ti avrebbe dato quel nome? Anzi, per essere precisi, è stata proprio lei a dirmelo... che discendi in linea diretta da Giulietta e Giannozza Tolomei.» Benché elettrizzata dalla notizia - data con tanta sicurezza - mi resi conto che queste erano più informazioni di quante ne potessi gestire in una sola volta. «Non sapevo che conoscesse mia madre», mormorai, domandandomi perché non me l'avesse detto prima. «Un giorno venne a trovarmi. Con tuo padre. Ancora prima che si sposassero.» Eva Maria fece una pausa. «Era molto giovane. Più giovane di te adesso. Era in corso una festa con cento invitati ma noi, tua madre, tuo padre e io, trascorremmo l'intera serata a parlare di mastro Ambrogio. Furono loro a dirmi quello che adesso ti sto raccontando. Sapevano moltissime cose delle nostre due famiglie. Quello che successe dopo fu tragico.» Rimanemmo un attimo in silenzio. Eva Maria mi stava fissando con un sorriso sardonico, come se fosse al corrente della domanda che bruciavo dalla voglia di fare senza averne il coraggio: quale
fosse, se c'era, il suo legame con l'empio Luciano Salimbeni, e quanto sapesse della morte dei miei genitori. «Tuo padre credeva», continuò lei senza lasciar tempo a investigazioni, «che mastro Ambrogio avesse nascosto una storia nel suo dipinto. Una tragedia avvenuta ai suoi tempi e che non poteva essere menzionata apertamente. Guarda...» Indicò un particolare dell'affresco. «La vedi quella gabbietta appesa alla finestra lassù in alto? E se ti dicessi che quell'edificio è Palazzo Salimbeni e che l'uomo che si scorge all'interno è Salimbeni in persona, ossequiato come un re mentre la gente si inchina ai suoi piedi per chiedere denaro a prestito?» Intendo che quel racconto in qualche maniera era per lei doloroso, feci un sorriso a Eva Maria, decisa a non permettere che il passato si mettesse tra di noi. «Non sembra molto orgogliosa di lui.» Lei fece una smorfia. «Oh, era un grand'uomo. Ma a mastro Ambrogio non piaceva. Non vedi? Osserva... c'è un matrimonio... una fanciulla triste che danza... e poi un uccellino in gabbia. A che conclusione arrivi?» Visto che non rispondevo, Eva Maria rivolse lo sguardo fuori dalla finestra. «Sai, avevo ventidue anni. Quando l'ho sposato. Salimbeni. Lui ne aveva sessantaquattro. Pensi fosse vecchio?» Mi guardò fissa negli occhi come a voler leggere dentro la mia testa. «Non necessariamente», dissi. «Come sa, mia madre...» «Insomma, io lo pensavo», mi interruppe lei. «Pensavo che fosse molto vecchio e che presto sarebbe morto. Ma era ricco. Ho una casa splendida. Devi venire a trovarmi. Presto.» Ero così sconcertata da quella spavalda confessione - e dal successivo invito - che mi limitai a dire: «Certo, mi farebbe piacere». «Ottimo!» Mi appoggiò sulla spalla una mano possessiva: «E adesso devi trovare l'eroe dell'affresco!» Per poco non risi. Eva Maria Salimbeni era una vera professionista nell'arte di cambiare argomento. «Dai», mi sollecitò come un'insegnante rivolta a una classe di studenti svogliati, «dov'è l'eroe? C'è sempre un eroe. Guarda bene.»
Scrutai il dipinto dubbiosa. «Potrebbe essere chiunque.» «L'eroina è dentro le mura con l'aria molto triste», affermò, indicando la fanciulla, «quindi l'eroe deve essere...? Guarda! Sulla sinistra è raffigurata la vita di ogni giorno entro le mura della città. Poi hai Porta Romana, l'accesso sud alla città, che taglia il dipinto in due. E sul lato destro...» «Okay, ora lo vedo», dissi, stando al gioco. «È il tizio a cavallo che sta lasciando la città.» Eva Maria sorrise, non a me, ma all'affresco. «È affascinante, vero?» «Uno schianto. E che ci fa con il berretto di feltro?» «È un cacciatore. Osservalo bene. Ha con sé un falcone da caccia e sta per liberarlo, ma qualcosa lo trattiene. L'altro uomo, quello più scuro che avanza a piedi sorreggendo la cassetta da pittore, sta cercando di dirgli qualcosa e il nostro giovane eroe si sta inclinando indietro sulla sella per ascoltarlo.» «Forse il tipo a piedi vuole che torni in città?» azzardai. «Forse. Ma cosa succederebbe se lo facesse? Guarda cosa ha dipinto più in alto mastro Ambrogio. La forca. Una spiacevole alternativa, no?» Eva Maria sorrise. «Chi pensi che sia?» Non risposi seduta stante. Se il mastro Ambrogio che aveva dipinto l'affresco era di fatto lo stesso mastro Ambrogio il cui diario stavo leggendo, e se la sconsolata fanciulla danzante con la tiara era davvero la mia antenata Giulietta Tolomei, allora il giovane a cavallo non poteva che essere Romeo Marescotti. Ma non ero sicura di voler rivelare a Eva Maria l'estensione delle mie recenti scoperte, né la fonte del mio sapere. Dopotutto, lei era una Salimbeni. Così, mi limitai ad alzare le spalle e dire: «Non ne ho nessuna idea». «Supponi che ti dica», mi comunicò Eva Maria, «che è il Romeo di Romeo e Giulietta... e che la tua antenata, Giulietta è la Giulietta di Shakespeare...» Riuscii a confezionare una risata. «Ma non si svolgeva a Verona? E Shakespeare non li ha inventati? Nel film Shakespeare in Love...»
«Shakespeare in Love!» Eva Maria mi guardò come se avessi detto
una bestialità. «Giulietta...» mi pose una mano sulla guancia, «credimi quando ti dico che è successo proprio qua a Siena. Molto, molto prima di Shakespeare. È tutto lì, su quel muro. Romeo che va in esilio e Giulietta che si accinge a sposare un uomo che non può amare.» Sorrise all'espressione del mio viso e alla fine ritrasse la mano. «Non preoccuparti. Quando vieni a trovarmi parleremo ancora di queste dolorose vicende. Che cosa fai stasera?» Feci un passo indietro, nella speranza di nascondere quanto fossi sconvolta dalla sua conoscenza della storia della famiglia. «Pulisco il balcone.» Eva Maria non batté ciglio. «Quando hai finito, vorrei che tu mi accompagnassi a un fantastico concerto. Ecco...» pescò in borsetta ed estrasse un biglietto d'ingresso, «è un programma splendido. L'ho scelto io. Ti piacerà. Alle sette. Dopo ceniamo assieme e così ti racconto dell'altro sui nostri antenati.» Mentre più tardi mi avviavo alla sala del concerto, potevo sentire che qualcosa mi tormentava dentro. Era una bellissima serata e la città traboccava di gente felice, ma io non potevo condividerne la letizia. Percorrendo le strade a lunghi passi, i miei occhi non vedevano null'altro che il selciato. Poi, a poco a poco, mi ripigliai e fui in grado di individuare la causa del mio malumore. Mi stavano manipolando. Appena ero giunta a Siena, la gente si era premurata di dirmi cosa fare e cosa pensare. Specie Eva Maria. Le sembrava più che naturale assecondare i propri desideri o programmi manovrando i miei movimenti - incluso il look - e ora stava pure cercando di interferire nei miei ragionamenti. E se io non avessi voluto discutere con lei degli avvenimenti del 1340? Insomma, peggio per me, perché non avevo scelta. Eppure, bizzarramente, lei mi piaceva. Per quale motivo? Forse perché era il contrario esatto di zia Rose, che aveva sempre paura di fare qualcosa di sbagliato e quindi non faceva mai niente? O Eva Maria mi piaceva perché non avrebbe dovuto piacermi? In questo c'era lo zampino di Umberto: il modo più sicuro per farmi avvicinare ai Salimbeni era dirmi di stare bene alla larga da loro. Immagino si trattasse di una caratteristica giuliettesca.
Insomma, forse per Giulietta era arrivato il momento di razionalizzare. Secondo Maconi, i Salimbeni si sarebbero sempre comportati da Salimbeni, il che stava a significare, a sentire mio cugino Peppo, un sacco di guai per ogni Tolomei che si fossero trovati tra i piedi. Questo era stato comprovato nel tumultuoso Medioevo e anche ora, nella Siena odierna, lo spettro del probabile assassino Luciano Salimbeni non aveva ancora abbandonato la scena. O non era stato proprio questo tipo di pregiudizio a mantenere in vita l'antico conflitto tra famiglie per generazioni e generazioni? E se l'elusivo Luciano Salimbeni non avesse neppure sfiorato i miei genitori ma fosse sempre stato un sospetto semplicemente a causa del nome? Non c'era da stupirsi che se ne fossero perse le tracce. In un Paese dove vieni giudicato presunto colpevole, il boia non è tipo che aspetti con pazienza che il processo si concluda. A dirla tutta, più ci pensavo e più la bilancia pendeva a favore di Eva Maria. Dopotutto, era lei quella che sembrava più decisa a provare che - malgrado la nostra ancestrale rivalità - potevamo ancora essere amiche. E se le cose stavano veramente così, non volevo certo essere io a rovinare la festa. Il concerto di quella sera era offerto dall'Accademia Musicale Chigiana nel Palazzo Chigi-Saracini, proprio di fronte al salone di parrucchiere del mio amico Luigi. Entrai nell'edificio attraverso un cancello coperto ed emersi in un cortile con una loggia e un vecchio pozzo nel centro. Cavalieri con tanto di corazza, pensai tra me e me, avranno tirato su l'acqua da quel pozzo per abbeverare i loro destrieri da battaglia. Sotto i miei sandali a tacco alto, l'acciottolato del suolo era levigato da secoli di zoccoli e di birocci. Il posto non era né troppo grande né troppo imponente, ma possedeva una sua sobria dignità che mi fece riflettere se gli avvenimenti esterni a quel quadrilatero senza tempo fossero davvero importanti. Mentre me ne stavo lì ad ammirare a bocca aperta il soffitto a mosaico sotto la loggia, un usciere mi porse un dépliant e mi indicò la porta per salire alla sala del concerto. Sulle scale diedi un'occhiata al dépliant pensando si trattasse del programma musicale. L'opuscolo illustrava invece la storia del palazzo, in diverse lingue:
Palazzo Chigi-Saracini, uno dei più belli di Siena, apparteneva in origine alla famiglia Marescotti. Il corpo centrale dell'edificio è molto antico. Nel corso del Medioevo, la famiglia Marescotti iniziò a incorporare le costruzioni limitrofe e, come altre potenti famiglie senesi, avviò l'edificazione di una torre. Fu da questa torre che, al rullo di tamburi, venne annunciata la vittoria di Montaperti nel 1260. Mi arrestai a metà delle scale per rileggere il passaggio. Se ciò era vero, e se non avevo fatto confusione con i nomi contenuti nel diario di mastro Ambrogio, allora io in quel momento mi trovavo in quello che originariamente era Palazzo Marescotti, cioè la casa di Romeo nel 1340. Solo quando la gente dovette cominciare a fare manovre sugli scalini per superarmi, scrollai via la sorpresa e mi mossi anch'io. E anche se fosse stata la casa di Romeo? Lui e io eravamo separati da quasi settecento anni, senza considerare che allora lui aveva la sua Giulietta personale. Malgrado i vestiti e la pettinatura nuovi, io non ero altro che una patetica imitazione della creatura da sogno che lei era stata. Se fosse venuta a conoscenza delle mie romantiche fantasticherie, Janice avrebbe riso di me. «Eccoci di nuovo», avrebbe sogghignato, «Jules che sogna di un uomo che non può avere.» E avrebbe avuto ragione. Solo che talvolta queste sono le fantasticherie migliori. La mia bizzarra ossessione per i personaggi storici mi era venuta fuori a nove anni con il presidente Jefferson. Mentre tutti gli altri inclusa Janice - avevano tappezzato le camere da letto con poster delle loro eroine pop con le tette di fuori, la mia stanza era il santuario del mio padre fondatore preferito. Mi ero data da fare un sacco per imparare a scrivere «Thomas» in bella grafia, e avevo perfino ricamato un cuscino con una T gigantesca da abbracciare prima di addormentarmi. Per mia sfortuna, Janice aveva scoperto il mio diario segreto e l'aveva fatto circolare in classe causando
unanimi ululati di ilarità alla visione dei disegnini che mi raffiguravano in velo e abito da sposa di fronte a Monticello, la tenuta del presidente, mano nella mano con un assai muscoloso presidente Jefferson. Da allora, tutti avevano iniziato a chiamarmi Jeff, anche gli insegnanti, che non sapevano il perché e - incredibilmente - non si accorgevano di come la cosa mi desse fastidio. Alla fine avevo semplicemente smesso di alzare la mano in classe, per starmene lì seduta all'ultimo banco, nascosta dai capelli, con la speranza che nessuno mi notasse. Al liceo - grazie a Umberto - avevo cominciato a interessarmi al mondo degli antichi, e le mie fantasticherie si erano spostate da Leonida lo spartano a Scipione il romano, per arrivare all'imperatore Augusto, finché non avevo messo a nudo il lato oscuro del personaggio. Una volta alle soglie dell'università, mi ero proiettata così indietro nel tempo che il mio eroe era diventato un anonimo cavernicolo della steppa siberiana, un tipo che uccideva pelosi mammut e che, solo soletto nelle notti di plenilunio, intonava melodie di caccia sul suo flauto d'osso. L'unica a farmi notare che i miei fidanzati avevano tutti una cosa in comune fu naturalmente Janice. «Peccato», aveva detto una notte che stavamo cercando di prendere sonno sotto una tenda montata in giardino dopo che era riuscita a farmi sputare tutti i miei segreti più reconditi in cambio di caramelle che erano in origine mie, «che siano tutti morti e sepolti.» «Non è così!» avevo protestato già pentita di averle rivelato i miei segreti. «La gente famosa vive per sempre!» Al che, Janice si era limitata a ribattere: «Forse, ma chi vuole baciare una mummia?» Malgrado i notevoli sforzi di mia sorella, tuttavia, mi venne del tutto naturale provare una certa eccitazione al pensiero che stavo «tampinando» Romeo nella sua stessa dimora. L'unico requisito affinché la nostra stupenda relazione potesse continuare era che lui restasse nello stato in cui era: defunto.
Eva Maria stava tenendo banco nella sala del concerto, circondata da uomini in abito scuro e donne vestite di lustrini. Era un locale dagli alti soffitti decorato in una tonalità lattemiele e rifinito con accenni dorati. Circa duecento poltroncine erano a disposizione del pubblico e, a giudicare dalle persone già presenti, non si sarebbe fatto fatica a occuparle tutte. All'estremità della sala i membri dell'orchestra stavano accordando gli strumenti mentre una cicciona in rosso aveva purtroppo tutta l'aria di voler cantare. Come in quasi tutta Siena, non c'era nulla di moderno che disturbasse la vista, a parte qualche raro adolescente con le scarpe da tennis sotto i calzoni con la piega. Nell'attimo in cui mi vide entrare, Eva Maria mi fece segno di avvicinarmi con un cenno regale del braccio. Mentre eseguivo, la sentii presentarmi al gruppo con superlativi che non meritavo, e in pochi minuti diventai pappa e ciccia con alcuni alti esponenti della cultura senese, uno dei quali era il presidente del Monte dei Paschi di Siena a Palazzo Salimbeni. «Il Monte dei Paschi», mi spiegò Eva Maria, «è il maggiore protettore delle arti a Siena. Niente di quello che vedi qua attorno sarebbe stato possibile senza il supporto finanziario della Fondazione.» Il presidente mi guardava con un lieve sorriso, come pure sua moglie, abbarbicata al di lui gomito. Al pari di Eva Maria, anche la signora era estremamente elegante e, benché anch'io mi fossi data da fare per l'occasione, il suo sguardo mi diceva che avevo ancora molto da imparare. Mi parve addirittura che facesse un commento in tal senso con il marito. «Mia moglie mi sta dicendo che lei non ci crede», disse scherzosamente il presidente, con un timbro di voce così drammatico che pareva stesse recitando i versi di un poema. «Forse lei pensa che noi si sia...» fece una pausa alla ricerca delle parole, «troppo fieri di noi stessi?» «Non necessariamente», risposi mentre mi si imporporavano le guance a causa del loro insistente scrutinio, «trovo solo... paradossale che la casa dei Marescotti dipenda dai buoni uffici dei Salimbeni per sopravvivere, ecco tutto.»
Il presidente accolse la mia osservazione con un lieve accenno di assenso, come a confermare che i superlativi di Eva Maria avessero un fondamento. «Sì, un paradosso.» «Ma il mondo è pieno di paradossi», intervenne una voce dietro di me. «Alessandro!» esclamò il presidente, all'improvviso tutto giulivo, «devi venire a conoscere la signorina Tolomei. Si sta comportando in maniera molto... severa con tutti noi. Specialmente con te.» «Chiaro che lo fa.» Alessandro mi prese la mano e la baciò con beffarda cavalleria. «Se non lo facesse, non crederemmo mai che è una Tolomei.» Mi guardò fisso negli occhi prima di lasciarmi il polso. «Giusto, signorina Jacobs?» Ci fu un momento di gelo. Chiaramente Alessandro non s'aspettava di incontrarmi al concerto, e la sua reazione non era stata lusinghiera per nessuno dei due. Ma non potevo certo biasimarlo per la villania, dato che non l'avevo mai richiamato dopo che era venuto in hotel a cercarmi tre giorni prima. Per tutto quel tempo il suo biglietto da visita era rimasto sul mio tavolino come una predizione nefasta trovata in un biscotto della fortuna. Solo quella mattina l'avevo alla fine strappato in due e buttato nel cestino, immaginando che se avesse voluto arrestarmi l'avrebbe già fatto. «Sandro, non pensi che stasera Giulietta sia uno splendore?» intervenne Eva Maria mal interpretando quel momento di tensione. Alessandro si sforzò di sorridere. «Una favola.» «Sissì», interloquì il presidente, «ma chi sta di guardia al denaro, mentre tu sei qui?» «Il fantasma dei Salimbeni», replicò Alessandro, senza distogliere lo sguardo da me. «Una forza invincibile.» «Basta!» Segretamente soddisfatta delle parole del figlioccio, Eva Maria finse di corrucciarsi e lo colpì sulla spalla con il programma arrotolato. «Saremo tutti dei fantasmi anche troppo presto. Stanotte si celebra la vita.» Dopo il concerto Eva Maria insistette che noi tre si andasse a cena
assieme. Alle mie obiezioni, tirò fuori la scusa del suo compleanno e disse che per quella particolare serata, «nel corso della quale avrebbe girato un'altra pagina di quella commedia splendida e dolorosa che è la vita», il suo unico desiderio era di andare nel suo ristorante preferito con due delle sue persone preferite. Stranamente Alessandro non fece obiezioni. A Siena evidentemente non si contraddiceva la propria madrina in un giorno così importante. Il ristorante preferito di Eva Maria era in via delle Campane, appena fuori i confini della contrada dell'Aquila. E il suo tavolo preferito risultò essere su una pedana sopraelevata all'esterno, davanti un negozio di fiorista che stava chiudendo le serrande. «Insomma», mi disse dopo aver ordinato una bottiglia di Prosecco e un piatto di antipasti, «non ti piace l'opera?» «No, mi piace!» protestai, seduta di traverso con le gambe raggomitolate nell'esiguo spazio sotto il tavolo. «L'opera mi piace. Il cameriere di mia nonna l'ascoltava sempre. Soprattutto l'Aida. Solo che... Aida dovrebbe essere una principessa etiope, non un peso massimo sulla cinquantina. Spiacente.» Eva Maria rise di gusto. «Dovresti fare quello che fa sempre Sandro. Ascoltare a occhi chiusi.» Diedi un'occhiata ad Alessandro. Durante il concerto era seduto dietro di me e avevo sentito il suo sguardo fisso sulla mia nuca per tutta la durata. «Perché? È pur sempre la stessa donna che canta.» «Ma è una voce che arriva dall'anima!» sostenne Eva Maria, chinandosi verso di me, «devi solo stare ad ascoltare e riuscirai a vedere Aida com'è veramente.» «Ciò è molto generoso.» Mi rivolsi ad Alessandro. «Anche lei è sempre così generoso?» Non rispose. Non era necessario. «La magnanimità», replicò Eva Maria assaggiando il Prosecco e giudicandolo degno di essere consumato, «è la più grande delle virtù. Stai lontana dai gretti. Sono intrappolati in animucce da nulla.» «Secondo il cameriere di mia zia», confidai, «la bellezza è la più grande delle virtù. Ma avrebbe aggiunto che la generosità è una
forma di bellezza.» «La verità è bellezza», disse Alessandro, finalmente prendendo la parola. «La bellezza è verità. Secondo Keats. La vita è molto facile se ci credi.» «Lei non ci crede?» «Non sono un'urna.» Cominciai a ridere ma lui neppure sorrise. Per quanto volesse che diventassimo amici, Eva Maria era incapace di lasciare il pallino a noi soli. «Dicci di più su tua zia!» mi sollecitò. «Perché pensi che non ti abbia mai rivelato chi eri?» Guardai prima l'una e poi l'altro, consapevole che avevano parlato di me ed erano in disaccordo. «Non ne ho idea. Credo che avesse paura... o forse che volesse...» abbassai lo sguardo nel mio piatto. «Non lo so.» «A Siena il nome che portiamo significa tutto», affermò Alessandro tormentando il suo bicchiere d'acqua. «Nomi, nomi, nomi!» sospirò Eva Maria. «Quello che non capisco è perché questa tua zia - Rosa? - non ti abbia mai portato a Siena.» «Forse temeva che la persona che ha assassinato i miei genitori potesse assassinare anche me», risposi, questa volta più risoluta. Eva Maria si appoggiò indietro sulla sedia. «Che pensiero tremendo!» «Be', buon compleanno!» presi un sorso di Prosecco, «e grazie di tutto.» Fissai decisa Alessandro obbligandolo a incrociare il mio sguardo. «Non si preoccupi, non rimarrò a lungo.» «No», rispose con un cenno d'intesa, «immagino che qui sia tutto troppo pacifico per lei.» «La pace mi piace.» Catturai un cenno di avvertimento dalle profondità dei suoi occhi color foresta. Fu inquietante. «Ovviamente.» Invece di rispondere, feci un sorriso tirato e rivolsi le mie attenzioni all'antipasto. Purtroppo Eva Maria non si accorse delle sfumature più recondite delle mie emozioni, ma solo del mio viso
paonazzo. «Sandro», disse, cavalcando quello che le era sembrato un inizio di flirt, «perché non hai fatto vedere a Giulietta le cose belle della città? Le piacerebbe.» «Ne sono certo.» Alessandro infilzò un'oliva senza mangiarla. «Ma purtroppo non abbiamo statue di sirenette.» Fu allora che ebbi la conferma che aveva rintracciato il mio dossier e che aveva trovato tutto quello che c'era da sapere su Julie Jacobs: Julie Jacobs la manifestante pacifista che non era ancora tornata da Roma che già si era fiondata a Copenhagen per protestare contro la partecipazione della Danimarca alla guerra in Iraq con azioni di vandalismo ai danni della statua della Sirenetta. Disgraziatamente, il fascicolo non riportava che si era trattato solo di un grosso equivoco e che in realtà Julie Jacobs era andata in Danimarca al solo scopo di far vedere a sua sorella che, sì, lei era una con le palle. Con in gola un cocktail infernale di rabbia e paura, allungai la mano alla cieca verso il cestino del pane, augurandomi di non far trapelare il panico. «No, ma abbiamo altre statue altrettanto belle!» Eva Maria scrutò prima me e poi lui nel tentativo di capire cosa stesse succedendo. «E fontane. Devi portarla a Fontebranda...» «Forse alla signorina Jacobs farebbe piacere vedere via dei Malcontenti», suggerì Alessandro interrompendo la propria madrina. «Era il posto dove portavamo i criminali, in modo che le loro vittime potessero lanciar loro addosso della roba mentre venivano condotti alla forca.» Visto che non c'era più bisogno di fingere, ricambiai il suo sguardo feroce con uno altrettanto feroce. «Nessuno veniva mai graziato?» «Come no! Si chiamava esilio. Si diceva loro di andarsene da Siena e di non tornare più indietro. In cambio, avevano salva la vita.» «Ah, capisco», replicai, «proprio come la sua famiglia, i Salimbeni.» Guardai di sottecchi Eva Maria che era, per la prima volta, senza parole. «Giusto?»
Alessandro non rispose immediatamente. A giudicare dal guizzo dei muscoli della mascella, gli sarebbe piaciuto moltissimo rispondere a tono, ma sapeva che di fronte alla madrina gli era impossibile. «La famiglia Salimbeni», disse alla fine con voce strozzata, «fu espatriata dal governo nel 1419 e obbligata a lasciare la repubblica di Siena.» «Per sempre?» «Evidentemente no. Ma fu un esilio molto lungo.» Il modo in cui mi guardava mi spinse a pensare che stesse di nuovo parlando di me. «E probabilmente se lo meritavano.» «E cosa sarebbe successo... se fossero tornati indietro comunque?» «Allora...» Fece una pausa a effetto, e fui colpita che il verde dei suoi occhi non somigliasse al fogliame che si trova in natura ma fosse gelido e cristallino come la scheggia di malachite che avevo portato in classe in quarta elementare, presentandola come qualcosa di speciale, prima che la maestra mi dicesse che si trattava di un minerale da cui si estraeva il rame, con danni evidenti per l'ambiente. «Dovevano avere una ragione molto importante.» «Basta!» Eva Maria alzò il bicchiere. «Niente più esili. Niente più battibecchi. Adesso siamo tutti amici.» Per circa dieci minuti riuscimmo ad avere una conversazione civile. Dopo di che Eva Maria si scusò per andare alla toilette così Alessandro e io tornammo ai ferri corti. Lo sorpresi mentre mi stava squadrando con attenzione e, per qualche breve momento, riuscii a convincermi che si trattava solo della strategia del gatto con il topo per vedere se ero abbastanza resistente da tenergli testa per una settimana. Bene, pensai tra me e me, qualsiasi cosa il gatto stia complottando, ne vedrà delle belle. Cercai di afferrare una fetta di salame. «Crede nella redenzione?» «Non mi interessa quello che hai fatto a Roma. O altrove», disse Alessandro sospingendo il vassoio verso di me e passando al tu. «Ma m'importa di Siena. Allora, dimmi, perché sei qui?» «È un interrogatorio?» chiesi con la bocca piena. «Devo chiamare l'avvocato?» Si sporse verso di me. «Ti potrei sbattere in prigione così...» Mi
fece schioccare le dita davanti al naso. «È quello che vuoi?» «Sai», ribattei mentre impilavo altro cibo nel piatto e speravo che non vedesse come mi tremavano le mani, «le prove di forza con me non hanno mai funzionato. Può darsi che funzionassero alla grande con i tuoi antenati ma, se ricordi bene, ai miei antenati non facevano un baffo.» «D'accordo...» si appoggiò allo schienale e cambiò tattica. «Che ne dici: ti lascio in pace a una condizione. Che tu stia lontana da Eva Maria.» «Perché non lo dici direttamente a lei?» «È una donna molto speciale e non voglio che soffra.» Posai la forchetta. «Invece io lo vorrei? Che soffra? È questo quello che pensi di me?» «Davvero lo vuoi sapere?» Alessandro mi passò di nuovo al vaglio manco fossi un oggetto messo in vendita a un prezzo spropositato. «Penso che tu sia stupenda, intelligente... una grande attrice...» Vedendo la mia confusione, si accigliò e continuò con voce fredda: «E penso che qualcuno ti abbia pagato un sacco di soldi per venire qui a far finta di essere Giulietta Tolomei». «Cosa?» «...e ritengo che parte del tuo incarico sia stato di avvicinarti a Eva Maria. Ma sai una cosa? Non permetterò che succeda più.» Non sapevo neppure da che parte cominciare. Per fortuna che le sue accuse erano così surreali da non riuscire neanche a ferirmi. «Perché non credi che io sia Giulietta Tolomei?» chiesi. «È perché non ho gli occhi color del mare?» «Vuoi sapere perché? Te lo dico io.» Si sporse verso di me appoggiando i gomiti sul tavolo. «Giulietta Tolomei è morta.» «Allora come lo spieghi che sto seduta qua?» replicai sporgendomi anch'io in avanti. Mi scrutò per alcuni interminabili minuti alla ricerca di qualcosa nel mio viso che evidentemente non c'era. Alla fine distolse gli occhi, la bocca contratta, e seppi che per qualche ragione non ero riuscita a convincerlo e che probabilmente non ce l'avrei mai fatta.
«Sai una cosa?» Spinsi indietro la sedia e mi alzai. «Seguirò il tuo consiglio e mi priverò della compagnia di Eva Maria. Dille che la ringrazio del concerto e della cena, e riferiscile che può avere indietro i suoi vestiti non appena lo desidera. Non ne ho più bisogno.» Non aspettai la sua reazione, ma caracollai giù dalla pedana e fuori dal ristorante, senza voltarmi indietro. Appena girato il primo angolo, e fuori portata, sentii lacrime di rabbia che mi salivano agli occhi e, malgrado le scarpette, cominciai a correre. L'ultima cosa che volevo era che Alessandro mi raggiungesse per scusarsi della sua villania, ammesso fosse abbastanza uomo per farlo. Tornando in hotel quella notte, scelsi le strade maggiormente in ombra e meno frequentate. Mentre avanzavo nel buio, più con la speranza che con la sicurezza di essere nella direzione giusta, ero così sconvolta a causa della mia discussione con Alessandro - e più precisamente per le cose brillanti che avrei potuto dire e che non avevo detto - che ci misi un po' a rendermi conto che qualcuno mi stava seguendo. Da principio fu solo la sgradevole sensazione di essere osservata. Ma presto cominciai a sentire il suono soffocato di una presenza che si muoveva furtiva dietro di me. Tutte le volte che acceleravo potevo distinguere un fruscio di vestiti e suole di gomma, ma, se rallentavo, il fruscio scompariva e non restava che un silenzio minaccioso che era quasi ancora peggio. Girando di colpo in una strada a caso, con la coda dell'occhio fui in grado di catturare il movimento e la sagoma di un uomo. A meno che prendessi una cantonata, si trattava dello stesso brutto ceffo che mi aveva seguita alcuni giorni prima, quando ero uscita da Palazzo Tolomei con il cofanetto di mia madre. Il mio cervello aveva ovviamente archiviato quell'incontro sotto la voce «pericolo» e, adesso che ne aveva riconosciuto le sembianze, dentro di me era scattato un assordante sistema d'allarme in grado di annullare ogni pensiero razionale. Mi tolsi le scarpe e, per la seconda volta quella notte, iniziai a correre.
Capitolo 2 Ha amato mai il mio cuore? Negate, occhi: prima dì questa notte non ho mai veduto la bellezza. Siena, 1340 ERA una notte che si prestava alle bricconerie. Dopo essere sgattaiolati da casa Marescotti, Romeo e i suoi cugini si assieparono a un angolo di strada tenendosi la pancia dalle risate. Quella sera era stato fin troppo facile scomparire in quanto Palazzo Marescotti traboccava di parenti in visita da Bologna e il padre di Romeo, il comandante Marescotti, aveva di malavoglia messo insieme un banchetto con dei musici per intrattenere il gruppo. Dopotutto, cosa aveva Bologna da offrire che Siena non potesse elargire moltiplicato per dieci? Ben consapevoli che stavano nuovamente violando il coprifuoco del comandante, Romeo e i suoi cugini persero alcuni secondi per sistemarsi le sgargianti maschere di carnevale che indossavano sempre nelle loro smargiassate serali. Mentre erano lì a sbrogliare i nodi dei legacci, apparve, assieme a un assistente munito di torcia, il norcino di famiglia con un coscio di prosciutto destinato alla festa. Visto che un giorno Romeo sarebbe diventato il padrone, e dunque colui che pagava le spese, il norcino fece finta di non riconoscere i ragazzi. Quando le maschere furono finalmente indossate, i giovani si rimisero i copricapo di velluto e sistemarono entrambi con perizia al fine di ottenere la migliore copertura possibile. Sogghignando dell'aspetto degli amici, uno di loro estrasse il liuto che aveva con sé e iniziò a pizzicarne le corde. «Giu-u-u-lietta!» procinto di iniziare le danze, il portamento del giovane rivelava un'inequivocabile nascita
aristocratica. «Che fortuna che ho avuto stanotte», farfugliò la donna, attenta a non farsi sentire se non dal suo cavaliere. «Ma ditemi, siete venuto qui con qualche altro ghiribizzo per la testa o... solo per danzare?» «Devo confessare», disse Romeo sornione, attento a non promettere troppo o troppo poco, «che sono pazzo per il ballo. Potrei continuare ore e ore senza prender fiato.» La donna fece una risatina discreta, per il momento soddisfatta. Durante la danza, tuttavia, lei si prese più libertà di quanto Romeo avrebbe apprezzato, e di tanto in tanto passava la mano sulle pieghe del velluto di lui alla ricerca di qualcosa di più solido che fosse celato sotto. Romeo era troppo distratto per tenerla a bada. La sua unica missione per quella notte era trovare la giovane donna cui aveva salvato la vita, e i cui adorabili lineamenti mastro Ambrogio aveva così egregiamente catturato nel suo straordinario dipinto. Il Maestro si era rifiutato di dirgli come si chiamava, ma Romeo non ci aveva messo molto per scoprirlo per conto suo. Non era ancora trascorsa una settimana dall'arrivo della fanciulla che in città aveva cominciato a girare la voce che messer Tolomei era andato alla messa domenicale in compagnia di una bellezza forestiera, una bellezza forestiera con gli occhi color del mare e che di nome faceva Giulietta. Guardandosi in giro ancora una volta - la sala traboccava di splendide fanciulle piroettanti in abiti vistosi e di uomini in procinto di catturarle - Romeo non si capacitava che Giulietta non fosse tra loro. Di certo, un simile bocciolo sarebbe passato di cavaliere in cavaliere, mai libero di sedersi a riposare. L'unica sfida era quella di liberarla da tutti gli altri giovani bramosi d'attenzione. Era una sfida in cui Romeo si era spesso cimentato con sommo divertimento. La sua prima mossa sarebbe stata la pazienza, come quella di un principe greco di fronte alle mura di Troia. Pazienza e sopportazione fino a quando tutti gli altri pretendenti si fossero resi ridicoli. Poi ci sarebbe stato il primo contatto, un accenno divertito di sorriso d'intesa, come a dirle «sono dalla tua parte». Più tardi, da lontano, ad attraversare l'intera sala, sarebbe partita l'occhiata: uno sguardo grave e intenso e, per Dio, quando le loro mani si fossero intrecciate
nella danza, il cuore di lei le sarebbe talmente balzato in petto che lui ne avrebbe potuto seguire i palpiti nel nudo collo. Ed era lì, proprio lì, sul collo di lei, che lui avrebbe deposto il primo bacio... Ma anche l'omerica pazienza di Romeo stava per esaurirsi mentre le danze si susseguivano e i ballerini roteavano come corpi celesti a formare ogni possibile costellazione, eccetto l'unica che gli stava a cuore. Visto che ogni fanciulla era mascherata, Romeo non poteva essere del tutto sicuro della sua assenza, ma a giudicare dalla parte visibile del sorriso e dei capelli, colei che era venuto a corteggiare non c'era. Mancarla quella notte sarebbe stato una catastrofe visto che solo un ballo mascherato gli avrebbe permesso di entrare clandestinamente a Palazzo Tolomei. Si sarebbe dovuto rassegnare a cantare serenate sotto il suo balcone - ammesso gli fosse possibile individuarlo - con una voce che il Creatore non gli aveva certo dato per gorgheggiare. C'era naturalmente anche il pericolo che la diceria non fosse vera, e che la fanciulla con gli occhi azzurri che era stata vista a messa non fosse Giulietta. Se le cose stavano così, fare il galletto nella sala da ballo di messer Tolomei significava solo perdere tempo, visto che la fanciulla che era venuto a incontrare probabilmente stava dormendo beata in un'altra casa di Siena. Romeo aveva appena cominciato a deprimersi quando, nel bel mezzo dell'inchino previsto nell'esecuzione di una ductia, provò la forte sensazione di essere osservato. Esibendosi in una piroetta dove una piroetta non era contemplata, Romeo fece correre lo sguardo lungo l'intera sala. Ed ecco che all'improvviso la vide: aveva il viso quasi celato dai capelli e lo stava guardando fisso dall'oscurità della loggia in cima allo scalone. Ma ancora non aveva finito di identificare la sagoma ovale come il capo di una donna, che la stessa scomparve nell'ombra, come per tema d'essere scoperta. Romeo fece una giravolta e si trovò di fronte la sua compagna di danze. Era stravolto dall'eccitazione. Anche se il caso gli aveva permesso di scorgere la fanciulla in alto solo di sfuggita, il suo cuore gli diceva che la figura che aveva visto era quella dell'adorabile Giulietta. E anche lei lo stava cercando, come se sapesse chi fosse e
perché era venuto. L'esecuzione solenne di un'altra ductia lo costrinse a percorrere l'intero salone, e poi ci fu un'estampie prima che Romeo individuasse finalmente uno dei cugini e riuscisse a farlo avvicinare con una serie di occhiatacce. «Dove sei stato?» gli sibilò, «non vedi che mi sta vendendo un colpo?» «Mi devi dei ringraziamenti, altro che insulti...» rispose l'altro, inserendosi nella figurazione, «visto che questa è una ben misera festa, con un misero vino e altrettante misere donne, e... dove vai?» Ma Romeo aveva già tagliato la corda, sordo ai richiami del cugino e indifferente all'occhiata di rimprovero della vedova. In una notte come quella, lo sapeva, nessuna porta sarebbe stata abbastanza sbarrata per un uomo temerario. Con tutti i servi e le guardie impegnati al piano di sotto, quello che stava di sopra era per l'innamorato come uno stagno nella foresta per il cacciatore: una dolce promessa per chi è stato paziente. Visti dall'alto, i vapori inebrianti della festa rendevano i vecchi giovani, i saggi sciocchi, e gli avari generosi. Mentre percorreva la galleria superiore, Romeo passò accanto a innumeri angoli in ombra gravidi di fruscii di sete e risatine soffocate. Qua e là l'improvviso apparire di qualcosa di niveo tradiva la rimozione strategica di un indumento e, avvicinandosi a una nicchia particolarmente vivace, poco ci mancò che Romeo si fermasse ad ammirare l'incredibile flessuosità delle membra umane. Tuttavia, quanto più si allontanava dallo scalone, tanto più silenziosi si facevano gli oscuri recessi della galleria e, quando finalmente fece il suo ingresso nella loggia affacciata sul salone da ballo, ogni presenza umana era sparita. Lì dove prima c'era Giulietta, seminascosta da una colonna di marmo, adesso si scorgeva solo, nel vuoto più completo, una porta che chiudeva la loggia di lato. Porta che neppure Romeo ebbe il coraggio di valicare. La sua delusione fu profonda. Perché mai non si era sottratto prima dalle danze, come una stella cadente che fugga dalla noia immortale del firmamento? Perché era stato così sicuro che lei fosse ancora lì ad aspettarlo? Follia. Si era raccontato una favoletta e ora era giunto il momento della tragica conclusione.
Proprio in quel momento, mentre era sul punto di girarsi per andarsene, la porticina di lato alla loggia si aprì e un'esile figura, con i capelli come un'aureola, scivolò tra i battenti, simile a un'antica driade sfuggita dal passato, mentre la porta si richiudeva con un tonfo sordo. Per alcuni secondi nulla si mosse e nessun suono fu udito, salvo la musica ai piani inferiori. Tuttavia Romeo credette di sentire il respiro di qualcuno, qualcuno che aveva avuto un soprassalto nel vederlo lì in agguato nell'ombra, qualcuno che ora stava cercando di prendere fiato. Forse Romeo avrebbe dovuto proferire una parola di cortesia, ma la sua eccitazione era troppo enorme per essere imbrigliata dalle buone maniere. Invece di porgere delle scuse per l'intrusione, o meglio ancora rivelare il nome dell'intrusore, lui si tolse la maschera e fece un passo avanti, smanioso di fare uscire la figura dall'ombra per vedere finalmente il suo volto. Lei non gli fece resistenza, né arretrò; si spostò invece fino al limite del balconcino a guardare i ballerini. Incoraggiato Romeo la seguì e, quando lei si appoggiò alla balaustra, ebbe la soddisfazione di ammirare il suo profilo illuminato dalle torce sottostanti. Se mastro Ambrogio poteva aver esagerato nel delineare la sinuosità della sua avvenenza, non aveva però fatto giustizia al bagliore dei suoi occhi e al mistero dello sguardo. E quanto alla tumida morbidezza delle sue labbra, aveva certamente lasciato che Romeo lo scoprisse da solo. «Di certo questa deve essere la famosa corte del re dei codardi», annunciò la fanciulla. Sorpreso dal tono amaro della sua voce, Romeo non seppe cosa rispondere. «Chi altri mai», continuò lei, senza voltarsi, «spenderebbe la notte a coprire una statua di grappoli d'uva mentre degli assassini si aggirano in città magnificando i loro misfatti? E quale uomo rispettabile darebbe un banchetto come questo quando suo fratello è stato...» Non poté andare avanti. «Molti pensano che messer Tolomei sia un uomo d'onore», affermò Romeo con una voce che pure lui stentò a riconoscere.
«Ergo molti sono in torto», replicò lei. «E voi, signore, state perdendo il vostro tempo. Stasera non danzerò. Il mio cuore è troppo gravido di dolore. Perciò tornate da mia zia e cibatevi delle sue carezze. Da me non ne riceverete punto.» «Non sono qui per danzare», ribatté il giovane avvicinandosi più sicuro di sé. «Sono qui perché non posso stare lontano. Non volete guardarmi?» Lei rimase interdetta, imponendosi di non indietreggiare. «Perché dovrei guardarvi? La vostra anima è dunque così inferiore al vostro volto?» «Non conoscevo la mia anima finché non l'ho vista riflessa nei vostri occhi», disse Romeo chinandosi verso il suo cuore. Lei non rispose subito ma quando lo fece la sua voce era abbastanza severa da scalfire la sua baldanza. «E quando avreste posseduto i miei occhi con la vostra immagine? Voi per me non siete altro che la sagoma distante di un eccellente ballerino. Quale demone ha rubato i miei occhi per darli a voi?» «Colpevole fu il sonno», confidò Romeo mentre le scrutava il profilo nella speranza di un sorriso. «Li ha sottratti dal vostro infido cuscino per portarli fino a me. Ah, il dolce tormento di quel sogno!» «Il sonno è il padre di tutte le menzogne!» replicò la fanciulla con il capo ancora ostinatamente girato. «Ma la madre della speranza.» «Può darsi. Ma il primo nato della speranza è il male.» «Ne parlate con tanta familiarità come si trattasse di parenti.» «Oh no!» esclamò lei con voce resa acuta dall'amarezza. «Mai millanterei dei natali blasonati. Quando sarò morta, e se morissi con tutti gli onori della Chiesa, saranno gli studiosi a discutere della mia casata.» «Nulla m'importa della vostra casata», disse Romeo sfiorando audacemente con la mano il collo di lei, «salvo le tracce che ha lasciato sulla vostra pelle.» Per un momento la carezza di lui la lasciò ammutolita. E quando alla fine parlò, il suo tono affannato era in aperta contraddizione
con il rifiuto che voleva lanciare. «Allora temo che sarete deluso. Perché la mia pelle non racconta una bella vicenda, ma una storia di massacri e vendette.» Più coraggioso ora che il suo primo emissario era stato accettato, Romeo strinse le spalle della fanciulla tra le sue mani e si protese in avanti per sussurrarle parole in mezzo alla serica cascata dei capelli. «Ho sentito della vostra perdita. Non c'è anima a Siena che non condivida il vostro dolore.» «Eccome se c'è! Abita a Palazzo Salimbeni ed è incapace di sentimenti umani!» Allontanò le mani dello sconosciuto. «Quanto spesso ho desiderato d'esser nata uomo!» «Essere uomo non esenta dalle sofferenze.» «Sul serio?» Si volse finalmente verso di lui, come ad assodare la sua buona fede. «E quali sarebbero, di grazia, le vostre sofferenze?» Gli occhi di lei, che brillavano seppur al buio, lo esaminarono con ironia dall'alto in basso per poi tornare verso il volto. «Ahimè, come sospettavo, siete troppo belloccio per provare delle sofferenze. Piuttosto, voi possedete le sembianze e la voce di un ladro.» Accorgendosi della sua indignazione, Giulietta fece una risatina perfida e continuò: «Sì, un ladro. Ma un ladro cui si dà più di quello che prenda lui, e che quindi si considera generoso anziché avido, e un alleato anziché un nemico. Contradditemi, se ne siete in grado. Voi siete un uomo cui non è mai stata negata regalia alcuna. Come potrebbe un tale uomo provare la sofferenza?» Romeo incrociò il suo sguardo canzonatorio senza batter ciglio. «Nessun uomo ha mai intrapreso una ricerca senza desiderarne il termine. Eppure, quale pellegrino, nel corso del viaggio, direbbe di no a un pasto e a un giaciglio? Non rimproveratemi la lunghezza del percorso. Se non fossi stato un viaggiatore, mai sarei approdato sulla vostra spiaggia.» «Ma quale esotica creatura selvaggia può trattenere un navigante per sempre nel porto? Quale pellegrino alla fine non si stanca del suo scranno casalingo per partire alla ricerca di lontani miraggi ancora da scoprire?» «Le vostre parole non rendono giustizia a nessuno dei due. Orsù,
non chiamatemi incostante prima ancora di conoscere il mio nome.» «È nella mia selvaggia natura.» «Non vedo nient'altro che pulcritudine.» «Allora non mi vedete affatto.» Romeo le afferrò la mano e se l'appoggiò aperta contro la gota. «Vi ho vista, o mia splendida selvaggia, prima che voi vedeste me. Eppure voi sentiste la mia voce, prima che io sentissi la vostra. Avemmo potuto continuare a vivere così, il nostro amore diviso dai nostri sensi, se la dea Fortuna, stanotte, non avesse concesso a voi gli occhi e a me le orecchie.» La fanciulla lo guardò perplessa. «I vostri versi sono misteriosi. Avete l'intenzione di farvi capire o state sperando che io prenda la mia ottusità per vostra arguzia?» «Signore Onnipotente!» esclamò Romeo, «la dea Fortuna si è pur presa gioco di noi. Vi ha concesso la vista ma ha preteso l'udito in cambio. Giulietta, non riconoscete la voce del vostro cavaliere?» Le sfiorò la gota come aveva fatto quando giaceva come morta nella bara. «Non riconoscete il tocco di questa mano?» aggiunse con un sussurro. Per alcuni brevissimi secondi Giulietta si sentì illanguidire e si appoggiò alla mano di Romeo come a trarre conforto da quel contatto. Ma proprio quando lui pensava che la resa fosse vicina, gli occhi di lei si rabbuiarono di colpo. Invece di aprirgli le porte del suo cuore - fino a quel momento socchiuse - Giulietta arretrò all'improvviso, allontanandosi dalla sua mano. «Mentitore! Chi vi ha mandato a prendervi gioco di me?» Lui rimase senza fiato dalla sorpresa. «Dolce Giulietta...» Ma lei non volle ascoltarlo e lo spinse per allontanarlo. «Andatevene! Andate a ridere di me con i vostri amici!» «Vi supplico di credermi!» Romeo non arretrò di un passo e cercò di afferrarle le mani che lei non gli concesse. In mancanza di alternative, la prese per le spalle e la tenne immobile, deciso a raccontarle tutto. «Sono io l'uomo che vi ha salvata sulla strada assieme a Frate Lorenzo», insistette, «ed è sotto la mia protezione che
entraste in città. Poi vi vidi nella bottega del Maestro quando giacevate nella bara...» Mentre parlava, Romeo si accorse dall'espressione degli occhi che la fanciulla si rendeva conto che lui stava dicendo la verità ma, anziché di riconoscenza, il volto le si riempì d'inquietudine. «Capisco», disse lei con voce rotta. «E ora, immagino, siete venuto a riscuotere.» Solo allora, notando la sua paura, Romeo prese coscienza di essere andato oltre i limiti quando le aveva afferrato le spalle tra le mani, e che la sua presa doveva averla allarmata circa le proprie intenzioni. Maledicendosi per essere stato così impulsivo, la lasciò andare con gentilezza e arretrò di un passo, con la speranza che lei non corresse via. Quest'incontro non stava andando secondo i piani, assolutamente no. Per così tante notti Romeo aveva sognato il momento in cui Giulietta sarebbe uscita sul balcone, attratta dalla sua serenata, e avrebbe giunto le mani sul seno in ammirazione, se non della canzone, almeno della sua persona. «Sono venuto per sentire la vostra dolce voce che pronuncia il mio nome. Ecco tutto», spiegò lui mentre con lo sguardo chiedeva ancora venia. Sentendo la sua sincerità, lei abbozzò un sorriso. «Romeo. Romeo Marescotti. Benedetto dal cielo. Che altro vi devo?» sussurrò. Per poco Romeo non avanzò di nuovo, ma riuscì a controllarsi e lasciar spazio tra di loro. «Voi nulla mi dovete, ma io voglio tutto. Vi ho cercata in ogni angolo della città dal momento che ho saputo che eravate viva. Sapevo che dovevo vedervi... e parlarvi. Ho persino pregato Iddio...» gli si spezzò la voce dall'imbarazzo. Giulietta lo guardò a lungo, sbalordita, senza distogliere i suoi occhi di un blu profondo. «E che cosa vi ha detto Dio?» Romeo non riuscì più a controllarsi e si impossessò della mano di lei per portarla alle labbra. «Mi ha detto che voi eravate qui e che mi aspettavate.» «Allora siete voi la risposta alle mie preghiere.» Lei lo fissò sgomenta mentre lui le baciava la mano, una volta e poi ancora un'altra. «Solo questa mattina, mentre ero in chiesa, ho pregato che
un uomo - un eroe - venisse a vendicare l'orrenda fine della mia famiglia. Ora vedo di essermi sbagliata a sperare in uno sconosciuto. Poiché foste voi a uccidere il bandito sulla mia strada e a proteggermi fin dal primo momento. Sì...» gli sfiorò il viso con l'altra mano, «credo siate voi l'eroe.» «Voi mi onorate», disse Romeo, «non mi augurerei nient'altro che essere il vostro eroe.» «Ottimo», replicò Giulietta, «perciò vi chiedo un piccolo favore. Andate a snidare quel bastardo di un Salimbeni e fatelo soffrire come lui ha fatto soffrire la mia famiglia. E quando avete finito, portatemi la sua testa in una scatola in modo che se ne vada in giro decapitato nei cunicoli del purgatorio.» Romeo deglutì a fatica ma riuscì a fare un cenno d'assenso. «Il vostro desiderio è legge per me, adorato angelo. Mi concederete un po' di giorni per questa bisogna, o il Salimbeni deve soffrire stanotte?» «Questo lo lascio a voi», rispose Giulietta con garbato riserbo, «siete voi l'esperto di codeste uccisioni.» «E quando l'avrò fatto, mi concederete un bacio per il disturbo?» chiese il giovane prendendole entrambe le mani. «Quando l'avrete fatto», replicò Giulietta mentre osservava Romeo che le baciava prima un polso e poi l'altro, «vi concederò tutto quello che desidererete.»
Capitolo 3 Sembra pendere sul volto della notte come ricca gemma all'orecchio d'una Etiope. LA città di Siena dormiva fino negli angoli più reconditi. I vicoli lungo cui corsi quella notte non erano altro che oscuri rivoli di silenzio, e ogni oggetto attorno a me - motociclette, bidoni della spazzatura, automobili - era velato da una nebbiolina lunare che lo faceva sembrare immobile, come incantato in quella stessa identica posizione da centinaia di anni. Le facciate delle case erano altrettanto indifferenti. I portoni sembravano non avere maniglie e ogni singola finestra era sbarrata e sigillata dalle imposte. Qualunque cosa potesse accadere di notte in questa antica città, i suoi abitanti preferivano ignorarlo. Arrestandomi un attimo, potei sentire che - da qualche parte nelle tenebre dietro di me - anche il manigoldo aveva cominciato a correre. Non faceva nulla per nascondere che mi stava inseguendo. I suoi passi erano pesanti e irregolari, e la suola delle sue scarpe scricchiolava sul selciato sconnesso. Quando si fermava per riprendere la mia scia, respirava faticosamente come qualcuno non abituato allo sforzo fisico. Ciononostante, non fui capace di distanziarlo perché, per quanto silenziosamente e velocemente mi muovessi, lui restava sulle mie tracce e mi veniva dietro a ogni angolo, quasi conoscesse le mie intenzioni. Con i piedi nudi ammaccati dal selciato, arrancai attraverso uno stretto passaggio al termine di un vicolo, sperando ardentemente che in fondo ci fosse un'uscita, magari anche più d'una. Ma non c'era. Mi ero cacciata in una via senza uscita ed ero intrappolata su ogni lato da alti fabbricati. Non c'era neppure un muro o un recinto che potessi scavalcare, né un bidone della spazzatura dietro cui nascondermi. L'unica arma di difesa consisteva nei tacchi appuntiti delle mie scarpe.
Girandomi verso il mio destino, mi preparai allo scontro. Che cosa poteva volere da me quel farabutto? La mia borsetta? Il crocefisso che avevo al collo? Me? O forse voleva sapere dove fosse il tesoro di famiglia, cosa che d'altra parte anch'io volevo conoscere. Considerando che non c'era nulla che potessi rivelargli a quel proposito, niente avrebbe potuto dargli soddisfazione. Sfortunatamente, la maggior parte dei rapinatori - così mi aveva detto Umberto - sono dei cattivi incassatori per cui recuperai di gran fretta il portafoglio dalla borsetta augurandomi che le mie carte di credito sembrassero abbastanza succulente. In fin dei conti lo sapevo solo io che valevano un debito di circa ventimila dollari. Mentre me ne stavo lì impalata, aspettando l'inevitabile, i battiti impazziti del mio cuore furono attutiti dal rombo di una moto che si avvicinava. Invece di veder comparire il farabutto trionfante all'ingresso della stradina, ci fu un lampo di metallo nero mentre il motociclista mi circumnavigava per dirigersi di nuovo da dove era venuto. Tuttavia, anziché scomparire, la moto si arrestò con un stridore di pneumatici per poi fare un altro paio di giri mantenendo sempre una certa distanza da me. Solo allora percepii il rumore di qualcuno in scarpe da tennis che se la dava a gambe ansimando, per poi sparire dietro un angolo con la moto alle calcagna, come una preda che cerchi di sfuggire al predatore. E poi ci fu un silenzio di tomba. Passarono diversi secondi - forse addirittura mezzo minuto - ma non riapparvero né il manigoldo né il motociclista. Quando finalmente osai emergere dal vicolo, non riuscivo neppure a vedere fino all'angolo della strada adiacente, in nessuna direzione. Essermi persa nel buio era comunque il minore dei mali che mi fosse capitato quella notte. Era il momento di andare alla ricerca di un telefono pubblico e di chiamare Rossini in albergo per farsi dare delle indicazioni che lui sarebbe stato sicuramente felice di fornirmi. Imboccai una strada a casaccio e ne percorsi pochi metri prima che qualcosa catturasse la mia attenzione: una motocicletta perfettamente immobile in mezzo alla strada con il motociclista che guardava nella mia direzione. La luce della luna si rifletteva sul casco del centauro e sul metallo della moto, e lasciava intravedere una
figura coperta di cuoio nero. Con la visiera abbassata, l'individuo era in paziente attesa di vedermi sbucare. La paura sarebbe stata una reazione naturale ma, mentre me ne stavo lì perplessa con le scarpe in mano, quello che provai fu solo confusione. Chi era quel tipo? E perché se ne stava lì seduto ad aspettarmi? Era stato lui a salvarmi dal manigoldo? In caso affermativo, stava forse aspettando che andassi a ringraziarlo? Il mio nascente senso di gratitudine venne di colpo soffocato quando il tipo accese le luci e i fari quasi mi accecarono. Mentre alzavo le mani per proteggermi gli occhi, lui mise in moto e diede gas un paio di volte, giusto per farmi vedere con chi avevo a che fare. Feci dietrofront e mi incamminai in senso opposto, ancora parzialmente accecata, e furiosa con me stessa della mia stupidità. Chiunque fosse quel tipo, non era chiaramente un amico. Con tutta probabilità si trattava di qualche balordo del posto abituato ad ammazzare il tempo in quella maniera patetica: guidare in giro a terrorizzare le brave persone. Il caso aveva voluto che la sua ultima vittima fosse il mio inseguitore, ma questo non faceva di noi degli amici, proprio no. Mi lasciò correre per un po', anzi attese perfino che girassi il primo angolo, prima di mettersi alle mie calcagna. Non a piena velocità, come se dovesse sorpassarmi, ma abbastanza forte da farmi sapere che non ce l'avrei fatta a sfuggirgli. Fu allora che vidi il portoncino azzurro. Avevo appena girato un altro angolo e sapevo di avere solo pochissimo tempo prima che i fari mi individuassero di nuovo, quando lo vidi di fronte a me: il portoncino azzurro dell'atelier del pittore, magicamente socchiuso. Non mi soffermai neppure un istante a domandarmi se a Siena si trovasse più di una porta di quel colore, o se fosse una buona idea intrufolarmi in casa d'altri in piena notte. Entrai e basta. Appena fui dentro, sprangai la porta e mi ci appoggiai contro mentre ascoltavo ansiosamente il rombo della moto che transitava e che alla fine scompariva. A onor del vero, quando ci eravamo incontrati il giorno
precedente nel giardino recintato, il pittore capellone mi era parso un filino suonato. Ma quando dei tipacci ti danno la caccia attraverso i vicoli medioevali, è meglio non fare troppo i difficili. All'atelier di mastro Lippi bisognava farci l'occhio. Sembrava che fosse deflagrata una bomba stracolma di ispirazioni divine, ma non una volta sola, innumerevoli volte, tanto il luogo era zeppo di dipinti, sculture e creazioni artistiche varie. Il Maestro, apparentemente, non era qualcuno i cui talenti potessero essere incanalati in un singolo modulo espressivo ma, come un genio della parola, lui parlava lingue diverse a seconda dello stato d'animo, usando arnesi e materiali con la bravura di un virtuoso. E nel mezzo del caos ringhiava un cane che sembrava l'improbabile incrocio tra un barboncino ricciuto e un doberman inferocito. «Ah», disse mastro Lippi, emergendo da dietro un cavalletto non appena sentì la porta che si chiudeva, «eccoti qua. Mi stavo domandando quando saresti venuta.» Poi sparì senza aggiungere altro. Quando, pochi secondi dopo, riapparve, aveva in mano una bottiglia di vino, due bicchieri e un filone di pane. Vedendo che non mi ero ancora mossa, fece una risatina. «Non far caso a Dante. Con le donne fa sempre il diffidente.» «Il cane si chiama Daniel» Abbassai lo sguardo verso l'animale che adesso mi stava offrendo una vecchia pantofola ciancicata per scusarsi di avermi abbaiato contro. «Bizzarro... era anche il nome del cane di mastro Ambrogio Lorenzetti!» «Be', questo è il suo studio», mi spiegò mastro Lippi versandomi un bicchiere di vino rosso. «Lo conosci?» «Vuole dire l'Ambrogio Lorenzetti? Del 1340?» «Ma certo!» Il mio ospite sorrise e alzò il bicchiere in un brindisi. «Bentornata. Brindiamo a molti altri felici ritorni come questo. Brindiamo a Diana!» Per poco non mi strozzai con il vino. Lui conosceva mia madre? Prima che potessi emettere alcun suono, l'anziano si chinò verso di me con fare cospiratorio. «C'è una leggenda su un fiume, il fiume Diana, che scorreva profondissimo sottoterra. Non è mai stato
trovato, ma alcuni sostengono di svegliarsi talvolta di soprassalto nel cuore della notte e di sentirlo scorrere. Sai, ai tempi antichi, nel Campo c'era un tempio dedicato a Diane. I romani lo usavano per i loro giochi, la lotta con i tori e i combattimenti. Adesso, in onore della Vergine Maria, abbiamo il Palio. È lei la madre che ci dà l'acqua perché si possa nuovamente crescere, come tralci di vite, fuori dalle tenebre.» Per alcuni istanti rimanemmo lì a guardarci senza parlare, e io provai la strana sensazione che, se avesse voluto, mastro Lippi avrebbe potuto svelarmi molti segreti che avevano a che fare con me, con il mio destino e quello di molti altri. Segreti che avrei impiegato mesi a scoprire da sola. Ma ancora non avevo formulato questo pensiero che ne venni distolta dal Maestro, che mi strappò di botto il bicchiere di mano e lo posò sul tavolo con un sorriso enigmatico. «Vieni! Ho qualcosa da mostrarti. Ricordi che te l'avevo detto?» Mi fece strada in un'altra stanza che era, se possibile, ancora più traboccante di opere d'arte del laboratorio. Era un locale interno senza finestre, chiaramente usato come deposito. «Un attimo...» Mastro Lippi si immerse nel caos e andò a scostare un telo che copriva un piccolo dipinto appeso alla parete più distante. «Guarda!» Avanzai per vedere meglio ma quando fui troppo vicina il Maestro mi bloccò. «Attenzione! È molto antico. Non respirarci sopra.» Era il ritratto di una fanciulla, una fanciulla stupenda con grandi occhi blu che fissavano sognanti qualcosa dietro di me. Pareva triste, ma allo stesso tempo fiduciosa, e teneva in mano una rosa con cinque petali. «Credo che ti rassomigli», disse mastro Lippi spostando lo sguardo da me al dipinto e viceversa, «o forse sei tu che le somigli. Non gli occhi, non i capelli, ma... qualcosa d'altro. Non saprei. Tu che ne pensi?» «Penso che lei mi stia facendo un complimento che non merito. Chi l'ha dipinto?» «Aha!» Il Maestro si avvicinò con un sorriso furtivo. «L'ho trovato
quando sono subentrato nell'atelier. Era nascosto dentro a un muro in una scatola di metallo. E c'era anche un libro. Un diario. Penso...» Prima ancora che mastro Lippi portasse a termine la frase, mi venne la pelle d'oca, e seppi esattamente cosa stava per dire «...no, anzi, sono sicuro che fu Ambrogio Lorenzetti a nascondere la scatola. Era il suo diario. E penso anche che sia stato lui a eseguire il ritratto. Lei si chiama come te, Giulietta Tolomei. L'ha scritto dietro.» Osservavo il dipinto ancora incapace di credere che si trattava del ritratto di cui avevo letto nel diario. Aveva un effetto quasi ipnotico, come avevo immaginato. «Ha ancora il diario?» «No. L'ho venduto. Ne avevo parlato con un amico che ne aveva parlato con un altro amico ed ecco che all'improvviso salta fuori quest'uomo che lo vuole acquistare. Un professore. Il professor Tolomei.» Mastro Lippi mi guardò in tralice. «Anche tu sei una Tolomei. Lo conosci? È molto anziano.» Mi lasciai cadere sulla seggiola più vicina. Era sfondata ma non ci feci caso. «Era mio padre. Ha tradotto il diario in inglese. Lo sto leggendo in questi giorni. Non parla che di lei...» indicai il dipinto, «Giulietta Tolomei. Apparentemente si tratta di una mia antenata. Nel diario Lorenzetti descrive i suoi occhi... ed eccoli lì.» «Lo sapevo!» Mastro Lippi fece una giravolta per ammirare il quadro con gioioso entusiasmo. «È la tua antenata!» Fece una risata e mi afferrò per le spalle. «Sono così felice che tu sia venuta a trovarmi.» «Quello che non capisco è perché mastro Ambrogio si sentì in dovere di nascondere tutto nel muro», dissi. «Ma forse non è stato lui ma qualcun altro...» «Non ti arrovellare!» mi ammonì il Maestro. «Ti vengono le rughe sulla fronte.» Fece una pausa, come colpito da subitanea ispirazione. «La prossima volta che vieni, ti faccio il ritratto. Quando torni? Domani?» «Maestro...» Sapevo che dovevo approfittare della sua attenzione mentre si trovava ancora in orbita attorno alla realtà. «Mi domandavo se potevo rimanere qua un po' più a lungo. Stanotte.» Mi guardò incuriosito, come se fossi io e non lui a dare segni di
pazzia. Mi sentii in dovere di fornire delle spiegazioni. «C'è qualcuno lì fuori... non so cosa stia succedendo. C'è questo tizio...» Scossi il capo. «Può sembrare folle, ma qualcuno mi sta seguendo e io non so perché.» «Ah», disse mastro Lippi, poi ricollocò con grande attenzione il telo sul ritratto di Giulietta Tolomei e mi riaccompagnò nell'atelier. Lì mi fece accomodare su una sedia e mi rimise in mano il bicchiere prima di sedersi anche lui, di fronte a me, come un bambino in attesa che gli si racconti una storia. «Penso che tu lo sappia. Dimmi chi ti sta seguendo.» Nel corso dell'ora successiva, vuotai il sacco. Dapprincipio non ne avevo l'intenzione ma, una volta iniziato a parlare, non potei più fermarmi. Il Maestro aveva qualcosa - forse il modo di guardarmi con gli occhi che gli brillavano dall'eccitazione, forse i suoi continui cenni d'incoraggiamento - che mi induceva a pensare che mi potesse aiutare a individuare le verità nascoste. Ammesso ce ne fossero. E così gli raccontai dei miei genitori e degli incidenti in cui avevano perso la vita, e menzionai Luciano Salimbeni come la persona forse responsabile di entrambe le morti. Poi cominciai a descrivere il cofanetto pieno di documenti di mia madre e il diario di mastro Ambrogio. Gli dissi anche che mio cugino Peppo aveva accennato a un tesoro sconosciuto chiamato gli Occhi di Giulietta. «Ne ha mai sentito parlare?» chiesi quando vidi mastro Lippi sobbalzare. Invece di rispondermi, lui si alzò e restò immobile per un secondo, come stesse ascoltando una voce distante. Quando si mosse, capii che gli dovevo andare dietro, così lo seguii in un'altra stanza e poi su una rampa di scale fino a una lunga e stretta biblioteca piena zeppa di scaffali con i ripiani ricurvi. Appena lì, non potei far altro che osservarlo mentre andava avanti e indietro, moltissime volte, in quello che sembrava un tentativo di localizzare un particolare libro che non voleva farsi trovare. Quando finalmente ci riuscì, strappò il tomo dal ripiano con aria trionfante. «Sapevo che l'avevo visto da qualche parte!» Il libro si rivelò essere una vecchia enciclopedia di mostri e tesori
leggendari (apparentemente le due cose vanno a braccetto e non possono essere separate). Quando il Maestro iniziò a scorrere le pagine, fui in grado di scorgervi diverse illustrazioni che avevano più attinenza con le favole che con la mia vita fino a quel momento. «Guarda qua!» Indicò con il dito una delle voci dell'enciclopedia. «Che ne dici di questo?» Incapace di aspettare oltre, accese un barcollante paralume e lesse il testo ad alta voce mischiando concitato italiano e inglese. Il succo della storia era che gli Occhi di Giulietta consistevano in una coppia di abnormi zaffiri dell'Etiopia, originariamente chiamati i Gemelli Etiopi. Secondo il testo, erano stati acquistati da messer Salimbeni da Siena nell'anno 1340 come dono di fidanzamento alla sua futura sposa, Giulietta Tolomei. Più tardi, a seguito della tragica fine di Giulietta, erano stati incastonati, al posto degli occhi, nella statua d'oro posta accanto al sepolcro. «Senti qua!» Mastro Lippi fece scorrere un dito impaziente in fondo alla pagina. «Anche Shakespeare sapeva della statua!» E proseguì nella lettura di alcune tra le righe finali del Romeo e Giulietta, citate nell'enciclopedia sia in italiano sia in inglese:
Io innalzerò una statua tutta d'oro a Giulietta; e finché duri la città di Verona, nessun 'altra immagine sarà tanto onorata, come quella della pura e fedele Giulietta. Quando terminò di leggere, mastro Lippi mi mostrò l'illustrazione della pagina e io la riconobbi immediatamente. Era la statua di un uomo e una donna. L'uomo era in ginocchio e reggeva lei tra le braccia. A parte pochi dettagli, si trattava della stessa identica statua che mia madre aveva cercato di tratteggiare almeno venti volte nel taccuino che avevo trovato all'interno del cofanetto. «Santa paletta!» avvicinai il viso all'illustrazione. «Non dice niente riguardo l'ubicazione esatta della tomba?» «La tomba di chi?»
«Di Giulietta.» Indicai il testo che mi aveva appena letto. «Il libro dice che una statua d'oro fu posta accanto alla sua tomba... ma non dice dove si trova esattamente la tomba.» Lui richiuse il libro e lo ficcò a caso su uno degli scaffali. «Perché vuoi sapere dov'è la tomba?» chiese con tono d'un tratto bellicoso. «Così puoi portarti via gli occhi? Se è priva d'occhi, come farà a riconoscere il suo Romeo quando lui la va a svegliare?» «Non le porterei mai via gli occhi!» protestai. «Vorrei solo... vederli.» «Allora penso che dovresti parlare con Romeo», mi consigliò il Maestro mentre spegneva la lampada pericolante. «Non so chi altri ne possa essere a conoscenza. Ma fai attenzione. Qui girano molti fantasmi, e non tutti sono amichevoli come me.» Stupidamente divertito a spaventarmi, si accostò a me nel buio e mi sibilò: «La peste! La peste su tutte e due le casate!» «Grandioso», dissi, «grazie davvero.» Rise di cuore percuotendosi le ginocchia. «Dai! Non fare il pulcino! Stavo solo scherzando!» Tornati a pianterreno, e dopo innumerevoli bicchieri di vino, fui finalmente in grado di riportare la conversazione sugli Occhi di Giulietta. «Che cosa intendeva veramente dire», chiesi, «quando ha affermato che solo Romeo sa dov'è la tomba?» «Romeo sa dov'è la tomba?» Adesso mastro Lippi pareva confuso. «Non ne sono sicuro. Penso che glielo debba chiedere tu. Su queste cose ne sa più di me. È giovane. Io sto cominciando a dimenticare tutto.» Cercai di sorridere. «Perché ne parla come se fosse ancora vivo?» Il Maestro fece spallucce. «Va e viene. È sempre notte fonda quando arriva e si mette là davanti ad ammirarla.» Fece un cenno nella direzione dello sgabuzzino con il ritratto di Giulietta. «Penso che l'ami ancora. Ecco perché lascio sempre la porta socchiusa.» «A parte gli scherzi», dissi, prendendogli la mano, «Romeo non esiste. Almeno non più. Giusto?» Mastro Lippi mi diede un'occhiata di traverso, quasi offeso. «Ma
tu esisti! Perché lui non dovrebbe esistere? Pensi che anche lui sia un fantasma? Insomma! D'accordo, non lo si sa per certo, ma non credo. Ritengo che ci sia davvero.» Fece una breve pausa come a valutare i pro e i contro, poi continuò con più sicurezza: «Romeo beve vino. Gli spettri non bevono vino. Ci vuole pratica, e loro non amano far pratica. Sono una compagnia molto noiosa. Preferisco la gente come te. Sei buffa. Prendi...» mi riempì di nuovo il bicchiere, «ancora un goccetto». «Quindi, se volessi fare delle domande a questo Romeo...» proseguii, mentre obbediente mandavo giù un altro sorso, «come devo muovermi? Dove lo trovo?» «Ecco», rispose il Maestro mentre soppesava la domanda, «temo che dovrai aspettare finché sia lui a trovarti.» Vedendo il mio disappunto, mastro Lippi si protese sul tavolo per guardarmi attentamente in viso. «Ma forse non c'è bisogno perché penso che ti abbia già trovata.» Poi aggiunse: «Proprio così. Già trovata. Te lo leggo negli occhi».
Capitolo 4 Con le ali leggere d'amore volai su questi muri: per amore non c'è ostacolo di pietra... Siena, 1340 ROMEO stava passando la cote sulla lama con movimenti lenti ed esperti. Era da un po' che non usava la spada e sulla lama c'erano macchie di ruggine che bisognava raschiar via prima di oliarla. Di regola, per l'incarico che gli era stato affidato, lui preferiva usare il pugnale, ma quell'arma era da considerarsi persa, conficcata nella schiena di un bandito. In un momento di inconsueta distrazione aveva dimenticato di rimpossessarsene dopo l'uso. Senza contare che Salimbeni non era individuo da poter infilzare alle spalle come un criminale comune. No, avrebbe dovuto sfidarlo a duello. Per Romeo era una cosa nuova doversi arrovellare su una questione di cuore. Ma, d'altro canto, nessuna donna fino a quel momento gli aveva chiesto di commettere un omicidio. Gli venne in mente la conversazione avuta con mastro Ambrogio due settimane prima, quella notte fatale, quando aveva detto al pittore che lui aveva un gran fiuto per le fanciulle che non chiedevano mai nulla che lui non fosse disposto a dare. Lui, diversamente dai suoi amici, non era tipo da scodinzolare alla prima richiesta di una femmina. Le cose stavano ancora così? Era davvero disposto ad avvicinare il Salimbeni a spada tratta, e con tutta probabilità andare incontro alla morte prima ancora di aver goduto della sua ricompensa, o semplicemente rivisto gli occhi celestiali di Giulietta? Con un profondo sospiro, rivoltò la spada e cominciò a lavorare sull'altro verso. Senz'altro i suoi cugini si stavano domandando dove fosse e perché non andasse fuori con loro a far baldoria. Suo padre, il comandante Marescotti, l'aveva convocato già diverse volte, non
per fargli delle domande, ma per invitarlo a esercitarsi al bersaglio. Intanto era trascorsa un'altra notte insonne e l'amabile luna era stata di nuovo cacciata da un sole spietato. E Romeo, sempre seduto al tavolo, si domandava una volta di più se fosse arrivato il suo giorno. Proprio allora sentì un rumore provenire dall'esterno, seguito da un bussare insistente. «No, grazie!» sbraitò, come aveva già fatto diverse volte. «Non ho fame!» «Messer Romeo? Avete visite!» Finalmente il giovane si mise in piedi, con i muscoli che gli dolevano per tutte le ore trascorse senza muoversi e senza dormire. «Chi è?» Ci fu un breve borbottio dall'altra parte dell'uscio. «Un certo Frate Lorenzo e un Frate Bernardo. Dicono che hanno notizie importanti e che vogliono un'udienza privata.» La menzione di Frate Lorenzo - il compagno di viaggio di Giulietta, se ricordava bene - spinse Romeo ad aprire subito la porta. Ad aspettare in corridoio c'erano un servo e due monaci incappucciati e dietro di loro, nel cortile interno, numerosi altri servi stavano allungando il collo per vedere cosa alla fine avesse convinto il figlio del padrone a uscire dalla tana. «Svelti, entrate!» Incalzò entrambi i religiosi a varcare la soglia. «E tu, Stefano...» guardò minaccioso il servo, «neppure una parola a mio padre di questa visita.» I due monaci entrarono nella stanza con qualche titubanza. I raggi mattutini del sole filtravano dal balcone spalancato e illuminavano il letto intonso di Romeo e un piatto di pesce fritto mai assaggiato sopra il tavolo accanto alla spada. «Perdonaci», disse Frate Lorenzo mentre si assicurava che la porta fosse sbarrata, «se ci presentiamo a quest'ora, ma non potevamo aspettare...» Il monaco non aveva ancora finito di parlare che il suo compagno si fece avanti abbassando il cappuccio del saio e rivelando l'elaborata acconciatura che si celava sotto. Non era stato un confratello ad
accompagnare Frate Lorenzo a Palazzo Marescotti quella mattina, ma Giulietta stessa che, con le guance accese dall'eccitazione, pareva più incantevole che mai, malgrado il travestimento. «Per amor di Dio, ditemi che non avete ancora... eseguito la cosa!» Per quanto eccitato e sorpreso di vederla, Romeo parve imbarazzato e distolse lo sguardo. «Non ho fatto ancora nulla.» «Oh, sia lodato il Signore!» La fanciulla giunse le mani sollevata. «Perché sono venuta a scusarmi e a pregarvi di dimenticarvi per sempre che vi ho chiesto una cosa così orrenda.» Romeo ebbe un soprassalto di speranza. «Non lo volete più morto?» Giulietta si fece seria. «Lo voglio morto con ogni palpito del mio cuore. Ma non a spese vostre. Sono stata assai ingiusta ed egoista a rendervi ostaggio del mio dolore. Potete perdonarmi?» Lo fissò intensamente e, poiché Romeo esitava nella risposta, le labbra cominciarono a tremarle. «Perdonatemi, ve ne supplico.» Adesso, per la prima volta da giorni, Romeo sorrise. «No.» «No?» Gli occhi di lei si rabbuiarono come prima di una tempesta. Fece un passo indietro. «Ciò è estremamente villano!» «No», insistette Romeo, per celia, «non vi perdono in quanto mi prometteste una grossa ricompensa e ora state venendo meno alla parola data.» Giulietta ansimò. «Ma non è così! Vi sto salvando la vita!» «Oh! E m'insultate pure!» Romeo si premette una mano sul petto. «A insinuare che non sopravvivrei a questo duello... Donna! Vi fate gioco del mio onore come un gatto col topo! Mi ferite e godete a vedermi zoppicare!» «Oh, sentite!» Gli occhi di Giulietta si stavano facendo sospettosi. «Siete voi che vi state facendo gioco di me! Non ho mai detto che sareste perito per colpa di Salimbeni, come sapete benissimo, ma sono certa che i suoi scagnozzi non vi darebbero scampo. E che...» distolse lo sguardo, ancora turbata per colpa di lui, «insomma sarebbe un peccato.»
Romeo considerò l'atteggiamento confuso della fanciulla con grande interesse. Quando capì che lei sarebbe stata un osso duro, si rivolse a Frate Lorenzo. «Posso chiederti di lasciarci soli per un momento?» Frate Lorenzo chiaramente non era punto contento della richiesta ma, visto che Giulietta non aveva fatto obiezioni, non poté che ubbidire. Così acconsentì e si ritirò sul balcone con la schiena rispettosamente girata. «Ora, perché mai sarebbe un peccato che io morissi?» domandò Romeo a voce così bassa che solo Giulietta riuscì a distinguere le parole. Lei deglutì a fatica. «Mi avete salvato la vita.» «Tutto quello che volevo in cambio era di essere il vostro cavaliere.» «A cosa serve un cavaliere privo di testa?» Romeo fece un sorriso e si avvicinò. «Vi assicuro che, purché mi stiate vicina, non c'è motivo di preoccuparsi.» «E ho la vostra parola?» Giulietta lo fissò negli occhi. «Mi promettete che non cercherete di sfidare Salimbeni?» «Parrebbe», osservò Romeo assai divertito dal dialogo, «che mi stiate chiedendo un secondo favore... e questo molto più impegnativo del primo. Ma sarò generoso dicendovi che il prezzo è lo stesso.» Giulietta lo guardò esterrefatta. «Il prezzo?» «La ricompensa, o comunque la vogliate chiamare. È invariata.» «Briccone!» sussurrò lei sforzandosi di reprimere un sorriso. «Sono venuta qui a liberarvi da una promessa mortifera e voi vi ostinate ad attentare alla mia virtù!» Romeo borbottò. «Un bacio non insidierebbe di certo la vostra virtù.» La giovane si drizzò in tutta la sua altezza per resistere all'assalto. «Dipende da chi mi bacia. Sospetto fortemente che un vostro bacio polverizzerebbe sedici anni di risparmi.»
«A che cosa servono i risparmi se non se ne fa mai uso?» Proprio quando Romeo pensava di averla alla sua mercé, un violento colpo di tosse dal balcone fece arretrare Giulietta di soprassalto. «Cerca di pazientare, Lorenzo!» disse seccamente. «Ce ne andiamo fra pochissimo.» «Tua zia comincerà a chiedersi per che razza di confessione ci voglia tanto tempo.» «Ancora un momento!» Giulietta si girò desolata verso Romeo. «Devo andare.» «Confessatevi a me...» le sussurrò lui afferrandole le mani, «e vi darò un'assoluzione che varrà per sempre.» «Il bordo del vostro calice», rispose Giulietta lasciando che lui la tirasse a sé, «è ricoperto di nettare. Mi domando quale tremendo veleno possa contenere.» «Se è un veleno, ci ucciderà entrambi.» «Oh cielo... devo veramente piacervi se preferite perire con me piuttosto che vivere con qualsiasi altra donna.» «È proprio così.» La prese tra le braccia. «Baciatemi o di certo morrò!» «Di nuovo morire? Per un uomo condannato due volte mi sembrate piuttosto in vita!» «Forse il veleno ha perso il suo potere», disse Romeo girandole il volto verso di lui e non lasciandole scampo. Ci fu un altro rumore dal balcone ma questa volta Giulietta non si mosse di un passo. «Un attimo, Lorenzo! Ti prego!» «Devo proprio...» Come un falco che solleva da terra la sua preda per portarla in cielo, così Romeo si impadronì delle labbra di Giulietta prima che lei fuggisse di nuovo. Sospesi tra l'inferno e il paradiso, la vittima cessò di dibattersi e il predatore, incerto se avrebbero più fatto ritorno, dispiegò le ali e lasciò che il vento li trascinasse via. Stretto in quell'abbraccio, Romeo divenne consapevole di un sentimento mai provato prima. Qualunque fossero state le sue
intenzioni iniziali dopo aver scoperto che la fanciulla nella bara era viva - intenzioni oscure persino a lui stesso - adesso sapeva che quanto aveva detto a mastro Ambrogio era stato profetico. Con Giulietta tra le braccia, tutte le altre donne - passate, presenti e future - semplicemente cessavano di esistere. Quando rientrò a Palazzo Tolomei nella tarda mattinata, Giulietta venne accolta da una raffica di domande e di accuse, inframmezzate da commenti sul suo comportamento grossolano. «Forse per i campagnoli è d'uso», ringhiò sua zia mentre l'afferrava per un braccio, «ma qui in città le ragazze non maritate di buona famiglia non se ne vanno in confessione e tornano diverse ore dopo con le gote accese e...» monna Antonia stava cercando sul viso di Giulietta altri segni di cattiva condotta, «tutta scarmigliata! D'ora in poi queste uscite sono finite, e se davvero devi intrattenerti con il tuo prezioso Frate Lorenzo, che la cosa accada sotto questo tetto. Andarsene in giro alla mercé di tutti i pettegolezzi e i balordi della città non è più tollerato!» aveva concluso trascinando la nipote sulle scale e chiudendola di nuovo in camera da letto. «Oh, Lorenzo!» si lamentò Giulietta quando il monaco finalmente andò a trovarla nella sua prigione dorata. «Non mi lasciano più uscire! Penso che impazzirò!» Camminava avanti e indietro in camera strappandosi i capelli. «Che cosa penserà di me? Gli ho detto che ci saremmo rivisti... gliel'ho promesso!» «Abbassa la voce, cara», disse Frate Lorenzo cercando di metterla a sedere, «e calmati. Il gentiluomo in questione è al corrente della tua situazione e la cosa non ha che rafforzato il suo affetto. Mi ha pregato di dirti...» «Hai parlato con lui?» Giulietta afferrò il monaco per le spalle. «Oh, benedetto, benedetto Lorenzo! Che cosa ha detto? Racconta in fretta!» «Ha detto...» il monaco mise una mano sotto il saio ed estrasse un rotolo di pergamena sigillato dalla ceralacca, «di consegnarti questa lettera. Eccola, prendila. È per te.» Giulietta ricevette la lettera come fosse una reliquia e la tenne un
attimo tra le mani prima di rompere il sigillo con l'aquila. Con le pupille dilatate, srotolò la missiva e prese visione del fitto testo vergato con inchiostro color ocra. «È magnifico! Non ho mai letto niente di più forbito nella mia vita!» Restò un attimo immobile, tutta presa dal suo tesoro, e poi girò le terga a Frate Lorenzo. «È un poeta! Scrive splendidamente! Che bravura, che... perfezione. Deve averci lavorato tutta la notte.» «Credo che ci abbia lavorato diverse notti», commentò il frate con una punta di cinismo. «Ti assicuro che questa lettera è costata svariate pergamene e molte penne d'oca.» «Ma non capisco questa parte...» Giulietta fece una giravolta per mostrargli un passaggio della missiva. «Perché dice che i miei occhi non appartengono al mio volto ma al cielo notturno? Immagino potrebbe essere preso per un complimento, ma di certo sarebbe stato sufficiente dire che i miei occhi hanno una sfumatura celestiale. Non riesco a seguire il ragionamento.» «Non è un ragionamento», le fece osservare Frate Lorenzo prendendo la lettera. «Si tratta di poesia e dunque manca di logica. Lo scopo non è di persuadere ma di piacere. Non ti è piaciuta?» Lei ansimò: «Ma certo!» «Allora la lettera ha raggiunto lo scopo», affermò il monaco con fare sbrigativo, «e adesso ti suggerisco di dimenticarla.» «Un momento!» strillò Giulietta mentre strappava il foglio dalle mani del religioso prima che lui lo potesse danneggiare. «Devo scrivere la risposta.» «La cosa è poco fattibile dato che non possiedi né penna, né inchiostro, né pergamena. Giusto?» fece notare Frate Lorenzo. «Giusto», rispose Giulietta per nulla scoraggiata, «ma tu mi procurerai tutto il necessario. Di nascosto. Intendevo chiedertelo in ogni caso, anche per poter scrivere alla mia amata sorella...» Scrutò ansiosa il frate come ad aspettarsi che lui rimanesse sull'attenti in attesa di ordini. Quando notò invece che la sua fronte esprimeva diniego, lei alzò le mani esasperata. «Adesso cosa c'è che non va?» «Non condivido questo comportamento», borbottò scuotendo la testa. «Nessuna fanciulla ancora da maritare dovrebbe rispondere a
una lettera clandestina. Specialmente...» «Ma una maritata, potrebbe?»
«...specialmente se pensiamo al mittente. In qualità di vecchio e
fidato amico debbo metterti in guardia sui tipi come Romeo Marescotti, e ...aspetta!» Frate Lorenzo alzò una mano per impedire a Giulietta di interromperlo. «Va bene, d'accordo. Non nego che possa avere un qualche fascino ma, agli occhi di Dio, lui è un obbrobrio.» Giulietta ebbe un singulto. «Non è un obbrobrio. Sei tu a essere invidioso.» «Invidioso?» ribatté il monaco. «Non mi importa nulla dell'aspetto, perché esso riguarda solo la carne e sopravvive per quel breve spazio tra la culla e il nulla. Quello che volevo dire era che è la sua anima a essere obbrobriosa.» «Come puoi parlare in siffatto modo dell'uomo che ci ha salvato la vita!» controbatté Giulietta. «Un uomo che hai appena incontrato. Un uomo di cui non sai nulla.» Frate Lorenzo alzò un dito d'avvertimento. «Ne so abbastanza da predire la sua triste sorte. Su questo mondo ci sono piante e creature che non hanno altro scopo che infliggere dolore e miseria a tutti coloro con cui vengono in contatto. Ma guardati! Questo incontro già ti tormenta.» «Tuttavia...» Giulietta fece una pausa per prendere fiato, «le sue azioni generose nei nostri confronti devono aver cancellato qualunque colpa lui possa aver commesso in precedenza!» Vedendo che il monaco era ancora poco convinto, aggiunse con grande serietà: «Di certo il Cielo non avrebbe scelto Romeo come strumento della nostra salvezza se Dio stesso non ne avesse voluto la redenzione». Frate Lorenzo l'ammonì nuovamente. «Dio è essenza divina e come tale non ha desideri.» «Giusto, ma io sì. Voglio essere felice.» Giulietta si premette la lettera sul seno. «So quello che stai pensando. Come vecchio e fidato amico, desideri proteggermi. E temi che Romeo mi farà soffrire. Secondo te un amore grandissimo non potrà che causare sofferenze
grandissime. Ebbene, forse hai ragione. Forse dovrei mettere la testa sotto la sabbia, ma preferirei di gran lunga che mi venissero cavati gli occhi dalle orbite, piuttosto che essere nata senza.» Dovettero passare molte settimane e molte lettere prima che Giulietta e Romeo potessero incontrarsi di nuovo. Nel frattempo, il febbrile crescendo del tono della loro corrispondenza era culminato - malgrado gli inauditi sforzi di Frate Lorenzo di buttare acqua sul fuoco - con una reciproca dichiarazione di amore eterno. L'unica altra persona al corrente dei sentimenti di Giulietta era la sorella gemella Giannozza, il solo parente al mondo rimasto alla fanciulla dopo che i Salimbeni le avevano massacrato la famiglia. Giannozza si era sposata l'anno precedente e si era stabilita al Sud nei possedimenti del marito. Le due ragazze erano molto affezionate e si tenevano in contatto con un fitto scambio epistolare. Per delle fanciulle saper leggere, scrivere e far di conto era poco comune ma anche il padre delle due era poco comune: odiava tenere la contabilità e fu felice di delegare il compito domestico a moglie e figlie, anche perché non avevano molto altro da fare. Per quanto si scrivessero sovente, la consegna delle lettere di Giannozza era a dir poco infrequente, e Giulietta aveva il sospetto che anche i messaggi inviati nell'altra direzione arrivassero in ritardo, ammesso e non concesso che arrivassero. Anzi, dopo il suo arrivo a Siena non aveva ancora ricevuto una sola lettera da Giannozza, anche se aveva già spedito numerosi resoconti del terribile assalto alla loro casa e del successivo infelice riparo - che era diventato reclusione - nel palazzo di zio Tolomei. Anche se aveva totale fiducia che Frate Lorenzo facesse uscire le sue lettere di casa, Giulietta sapeva che il monaco non aveva controllo alcuno sulla loro destinazione una volta in mani foreste. Non possedeva denaro per pagare una consegna sicura ma doveva fidarsi della gentilezza e responsabilità dei viaggiatori diretti nelle prossimità di sua sorella. E ora che era agli arresti domiciliari, c'era anche il pericolo che qualcuno fermasse Frate Lorenzo mentre entrava o usciva per chiedergli di vuotare le tasche. Consapevole del pericolo, cominciò a nascondere le epistole
indirizzate a Giannozza sotto un'asse del pavimento, invece di inoltrarle. Era già abbastanza dover chiedere a Frate Lorenzo di consegnare le sue lettere d'amore a Romeo. Per il religioso sarebbe stato oltremodo crudele dover anche spedire i resoconti delle audaci attività di Giulietta. E così tutte quelle missive finirono sotto l'impiantito - i fantasiosi racconti dei suoi incontri con Romeo nell'attesa del giorno in cui lei potesse pagare un messaggero per mandarle tutte assieme. O in cui le avesse distrutte con il fuoco. E per quanto concerneva le sue lettere a Romeo, Giulietta riceveva risposte infiammate a ciascuna di esse. Quando lei parlava di centinaia, lui replicava di migliaia, e quando lei diceva di amare, lui rispondeva di adorare. Lei fu ardita e lo chiamò il suo fuoco, lui fu più ardito e la chiamò il suo sole. Lei gli confidò di sognare loro due assieme mentre danzavano, lui di non pensare ad altro che a loro due da soli... Una volta dichiarata, questa passione ardente poteva andare soltanto in due direzioni: verso la sua consumazione, o verso la delusione. Lo stallo era impossibile. E così una domenica mattina, quando a lei e alle cugine fu concesso di confessarsi in San Cristoforo dopo la messa, Giulietta si avvicinò al confessionale solo per scoprire che non c'era nessun prete dall'altra parte del divisorio. «Perdonatemi, padre, perché ho peccato», iniziò rispettosamente aspettandosi che il prete le chiedesse i dettagli. Fu invece una voce sconosciuta a sussurrare: «Come fa l'amore a essere un peccato? Se Dio non voleva che ci amassimo, allora perché ha creato una bellezza pari alla tua?» Giulietta boccheggiò per la sorpresa e il timore. «Romeo?» Per fugare il dubbio si inginocchiò verso la filigrana di metallo e, dall'altra parte della grata, poté scorgere le sembianze di un sorriso che non aveva nulla di mistico. «Come osi venire qui? Mia zia è a soli dieci passi!» «Ci sono maggiori pericoli nella tua dolce voce che in venti delle tue zie», si lamentò Romeo. «Ti prego, parlami ancora, e finiscimi del tutto.» Premette la mano contro la grata con la speranza che Giulietta facesse lo stesso. Lei lo fece, e benché i loro palmi non potessero toccarsi, lei sentì il calore di quello di Romeo contro il suo.
«Come vorrei che fossimo dei bifolchi liberi di incontrarci ogniqualvolta ci pungesse vaghezza», sussurrò lei. «E cosa faremmo, da bifolchi, nel corso dell'incontro?» replicò il giovane. Giulietta fu sollevata che lui non la vedesse mentre arrossiva. «Non ci sarebbero grate fra di noi.» «Immagino che lo potremmo chiamare un miglioramento», osservò Romeo. «Tu di certo cominceresti a poetare a rima baciata come fanno tutti gli uomini quando vogliono sedurre delle donzelle riluttanti», continuò Giulietta infilando un dito nella griglia. «E più la donzella è riluttante più la poesia è seducente.» Romeo dovette fare uno sforzo per soffocare una risata. «Primo, non ho mai sentito un bifolco che parlasse in versi. Secondo, mi domando quanto raffinate dovrebbero essere le mie rime. Non molto, credo, se si pensa alla donzella.» Lei boccheggiò. «Malandrino! Ti farò vedere che hai torto facendo la virtuosa e rifiutando i tuoi baci.» «Facile a dirsi con questa barriera che ci divide», ridacchiò lui. Rimasero in silenzio per alcuni attimi, cercando di respirarsi l'un l'altra attraverso il divisorio di legno. «Oh, Romeo, è tutto qui il nostro amore?» sospirò Giulietta rattristandosi. «Un segreto da tenere al buio, mentre il mondo là fuori brulica di vita?» «Non per molto, se posso evitarlo.» Romeo chiuse gli occhi vagheggiando che, invece della parete, fosse la fronte di Giulietta a premere contro la sua. «Oggi ti volevo vedere per dirti che ho intenzione di chiedere a mio padre di concedere il benestare al nostro matrimonio e poi contatterò tuo zio al più presto con la proposta.» «Desideri... sposarmi?» Non era sicura di aver capito correttamente. Lui non ne aveva parlato come di una possibilità, ma come di un dato di fatto. Forse a Siena si faceva così. «Non c'è alternativa», rispose lui. «Ti devo avere tutta per me, alla
mia tavola e nel mio letto, o mi consumerò come un prigioniero affamato. Adesso lo sai, perdona la mancanza di poesia.» Per un po' non vi fu che silenzio dall'altra parte del tramezzo e Romeo cominciò a temere di averla offesa. Stava già maledicendo la propria franchezza quando Giulietta riprese a parlare, e così facendo disperse quei piccoli timori passeggeri con l'annuncio di una minaccia ancora più grande. «Se è una moglie che stai cercando, allora devi conquistare Tolomei.» «Con tutto il rispetto che ho per tuo zio, avevo però sperato che fossi tu, e non lui, la persona da portare tra le braccia in camera mia.» Adesso finalmente Giulietta si lasciò andare a una breve risatina. «È un uomo con grandi ambizioni. Assicurati che tuo padre abbia con sé il suo albero genealogico quando si presenta.» Romeo sussultò all'evidente insulto. «La mia famiglia portava elmetti piumati e serviva i Cesari quando tuo zio Tolomei indossava pelli d'orso e serviva il pastone ai maiali!» Rendendosi conto di aver reagito in modo infantile, andò avanti a parlare con più calma: «Tolomei non dirà di no a mio padre. Tra le nostre due casate c'è sempre stata pace». «Ci fosse stato invece un fiume ininterrotto di sangue!» sospirò Giulietta. «Non capisci? Se le nostre famiglie sono già in pace, a che pro accettare la nostra unione?» Lui si rifiutò di capirla. «Tutti i genitori vogliono la felicità dei loro figli.» «Per questo ci danno degli amari beveroni che ci fanno piangere.» «Ho diciotto anni. Mio padre mi tratta da pari a pari.» «Sei un vecchio, dunque. Perché ancora scapolo? O hai già seppellito la tua sposa bambina?» «Mio padre non crede nelle madri ancora da svezzare.» Il timido sorriso di lei, appena distinguibile attraverso la grata, era oltremodo consolatorio dopo tante pene. «Ma crede nelle vecchie zitelle?» «Non hai neppure sedici anni.»
«Appena compiuti. Ma chi conta i petali di una rosa appassita?» «Quando saremo sposati», sussurrò Romeo baciando la punta delle dita di lei come meglio poteva, «ti innaffierò e ti farò allungare sul mio letto per contare tutti i petali.» Giulietta finse di accigliarsi. «E le spine? E se ti pungessi mandando in frantumi l'incanto?» «Credimi, il piacere supererà di gran lunga ogni patimento.» E così continuarono, ad angustiarsi e a punzecchiarsi, fino a quando qualcuno bussò impaziente alla parete del confessionale. «Giulietta!» sbraitò monna Antonia facendo sobbalzare di paura la nipote, «non può rimanerti molto da confessare. Affrettati perché ce ne stiamo andando!» Mentre si scambiavano gli ultimi brevi ma poetici addii, Romeo ripeté la sua intenzione di sposarla, ma Giulietta non ebbe l'animo di crederci. Avendo visto sua sorella Giannozza maritata di forza a un uomo che avrebbe dovuto procurarsi una bara e non una moglie, era ben consapevole che il matrimonio non era cosa che dei giovani amanti potessero pianificare per conto loro. Il matrimonio era soprattutto una questione di politica ed eredità. Non aveva nulla a che fare con i desideri della sposa o dello sposo, ma tanto a che fare con le ambizioni dei loro genitori. A sentire Giannozza - le cui lettere da sposata avevano ridotto Giulietta in lacrime - l'amore arrivava sempre più tardi, e con qualcun altro. Era raro che il comandante Marescotti si compiacesse dell'operato del suo primogenito. La maggior parte delle volte, come nel caso di quasi tutte le febbri, non esisteva rimedio alla gioventù se non dare tempo al tempo; questo il comandante se lo ripeteva in continuazione. O il giovane irrequieto ci lasciava le penne, oppure i suoi dispiaceri alla fine si dissipavano. Non c'era nient'altro da fare che portare pazienza. Purtroppo il comandante Marescotti era sprovvisto di questa particolare virtù. Nel suo cuore di padre albergava un mostro a molte teste pronto a scatenarsi in sfuriate furibonde, quasi sempre senza esito. E quel giorno non faceva eccezione.
«Romeo!» disse, abbassando l'arco dopo quello che era stato il tiro più atroce della mattinata. «Non intendo più ascoltarti. Sono un Marescotti. Per molti anni, Siena è stata governata da questa casata. In questo cortile sono state pianificate delle guerre. La vittoria di Montaperti è stata annunciata da questa torre! Queste mura lo sanno bene!» Il comandante Marescotti se ne stava dritto impalato nel suo cortile come davanti al suo esercito. Ancora non in grado di apprezzare in pieno il genio del pittore o la grandiosità del dipinto, osservò accigliato il nuovo affresco cui stava lavorando tutto giulivo mastro Ambrogio. Doveva tuttavia ammettere che la variopinta scena di battaglia conferiva un po' di calore all'aspetto monastico del palazzo e che la famiglia Marescotti in posa riusciva a infondere un che di virtuoso al tutto. Ma perché diavolo ci metteva tanto a finire? «Ma padre!» «Basta!» Questa volta il comandante Marescotti alzò la voce. «Non mi assocerò a quel tipo di persone! Possibile che tu non riesca ad apprezzare il fatto che abbiamo vissuto in pace per tanti anni mentre tutti questi avidi nuovi venuti, i Tolomei, i Salimbeni e i Malavolti, si facevano a pezzi nelle strade? Vuoi che il loro sangue malvagio si mescoli con il nostro? Vuoi che i tuoi fratelli o cugini vengano assassinati nella culla?» Dall'altra estremità del cortile, mastro Ambrogio non poté fare a meno di osservare il comandante che di raro lasciava trapelare le sue emozioni. Tuttora più alto del figlio - ma soprattutto grazie alla postura - il padre di Romeo era uno degli uomini più ammirevoli che avesse mai ritratto. Né il volto né la figura indicavano alcun segno di eccesso. Ecco un uomo che mangiava solo quello di cui il suo corpo aveva bisogno per restare in forma, e che dormiva esclusivamente per quel tanto di riposo necessario. Suo figlio, al contrario, mangiava e dormiva quando gli garbava e confondeva incurante la notte con il giorno per le sue scorribande, e il giorno con la notte per delle pennichelle inopportune. Eppure, a guardarli sembravano assai simili - entrambi vigorosi e testardi - e malgrado l'abitudine di Romeo di violare le regole di casa, era raro fossero coinvolti in uno scontro verbale come quello
in corso, tutti e due così accaniti a far valere il reciproco punto di vista. «Ma padre!» ribatté Romeo nuovamente e, ancora una volta, venne ignorato. «E per che cosa? Per una donna!» Il comandante Marescotti avrebbe pure fatto roteare gli occhi se non li stesse usando per prendere la mira. Questa volta la freccia colpì il fantoccio di paglia dritto nel cuore. «Solo una donna, una donna qualsiasi, quando lì fuori c'è un'intera città zeppa di femmine. Come se tu non lo sapessi!» «Non è una donna qualsiasi, è la mia donna», replicò Romeo contraddicendo tranquillo il suo sire. Ci fu un momento di silenzio mentre altre due frecce colpivano il bersaglio in rapida successione, facendo ballonzolare allegramente il fantoccio come un uomo appeso alla forca. Alla fine il comandante Marescotti prese un profondo respiro e parlò di nuovo, questa volta con più calma, come fosse il depositario di una saggezza inconfutabile. «Può darsi, ma la tua signora è nipote di un idiota.» «Un idiota potente.» «Se gli uomini non nascessero già idioti, sicuramente la politica e l'adulazione farebbero il resto.» «Dicono sia molto generoso con la sua famiglia.» «È sopravvissuto qualcuno?» Romeo rise, ben consapevole che suo padre non aveva voluto fare dello spirito. «Alcuni di certo, adesso che c'è pace da due anni.» «La chiami pace?» Il comandante Marescotti ci era già passato. Le vane promesse lo infastidivano ancora più delle falsità lampanti. «Quando la schiatta dei Salimbeni si adopera ad assalire i castelli dei Tolomei e a derubare i religiosi per strada, ebbene, ricordati di queste parole, anche quella che tu chiami pace è vicina alla fine.» «Allora perché non assicurarci adesso un'alleanza con i Tolomei?» insistette Romeo. «E farci nemici dei Salimbeni?» Il comandante Marescotti scrutò suo figlio con severità. «Se tu avessi prestato attenzione a quello che
avviene in città anziché interessarti solo di donne e di vino, figlio mio, saresti al corrente che Salimbeni si sta mobilitando. Il suo scopo non è soltanto di annientare Tolomei e di bandire tutte le banche dal centro, ma di scatenare un attacco al cuore della città dagli avamposti nelle campagne. Vorrei sbagliarmi ma temo intenda impadronirsi delle briglie della repubblica.» Il comandante assunse un'aria corrucciata mentre camminava avanti e indietro. «Conosco l'uomo, Romeo, l'ho guardato negli occhi, e ho deciso di sbarrare orecchie e porte alla sua ambizione. Non so ancora se siano peggio i suoi amici o i suoi nemici, e così ho stabilito di non dare fiducia a nessuno dei due. Un giorno, forse presto, Salimbeni farà un tentativo folle di sbaragliare la legalità, e sulle nostre strade scorreranno fiumi di sangue. Verrà fatta entrare la soldataglia straniera e gli uomini dovranno stare di guardia nelle loro torri nell'attesa di un colpo alla porta. Io non sarò tra loro.» «Chi dice che tutto questo disastro non possa essere evitato?» perseverò Romeo. «Se decidessimo di allearci con i Tolomei, altre nobili casate si metterebbero al seguito dello stendardo dell'aquila e Salimbeni presto perderebbe terreno. Uniti, potremmo dar la caccia ai briganti e rendere ancora le strade sicure. Con il suo denaro e la vostra integrità potrebbero essere attuati grandi progetti. L'alta torre nel Campo potrebbe essere portata a termine nel giro di alcuni mesi. E la nuova cattedrale costruita in pochi anni. E tutti ricorderebbero la lungimiranza dei Marescotti nelle loro preghiere.» «Un uomo non dovrebbe essere ricordato in nessuna preghiera finché non è morto», sentenziò il comandante Marescotti mentre si fermava a incoccare una freccia. Il dardo trapassò la testa del fantoccio e andò a fermarsi in un vaso di rosmarino. «Dopo morto può fare quello che vuole. I vivi, figlio mio, dovrebbero essere alla ricerca della vera gloria, non delle adulazioni. La vera gloria è tra te e Dio. L'adulazione sfama i poveri di spirito. Privatamente puoi rallegrarti di aver salvato la vita di quella fanciulla, ma non cercare riconoscenza o compensi dagli uomini. La vanteria non si addice ai gentiluomini.» «Non sono alla ricerca di un compenso», si difese Romeo con un tono improvvisamente infantile a discapito della sua età, «voglio solo lei. Non mi cale di quello che sanno o pensano gli altri. Se non
benedite la mia intenzione di sposarla...» Il comandante Marescotti sollevò una mano guantata per impedire al figlio di pronunciare parole che, una volta dette, non avrebbero più potuto essere dimenticate. «Non minacciare ritorsioni che farebbero più male a te che a me. E non comportarti al mio cospetto in questa maniera puerile, o ti tolgo l'autorizzazione di partecipare al Palio. Anche i giochi degli uomini - ahimè soprattutto i giochi - necessitano di un decoro da uomini. La stessa cosa vale per il matrimonio. Non ti ho mai promesso a nessuna...» «E fosse anche solo per questo amo mio padre!» «...perché ho voluto capire il tuo carattere fin da quando eri bambino. Se fossi stato un uomo malvagio, con qualche amico da punire, avrei preso in considerazione di portargli via la sua unica figlia lasciando che tu facessi scempio del suo cuore. Ma non sono un uomo del genere. Ho atteso con enorme pazienza che tu perdessi il tuo pelo incostante e che ti accontentassi di una conquista alla volta.» Romeo ci rimase malissimo. «Ma padre, sono cambiato!» rispose con fervore. «Ho fatto della costanza la mia vera natura! Non guarderò mai un'altra donna per il resto dei miei giorni o, piuttosto, le guarderò come se fossero sedie o tavoli. Naturalmente non che io intenda sedermi su di esse o apparecchiarle per il desco, ma insomma... le guarderò come fossero oggetti inanimati. O piuttosto dovrei dire che rispetto a Giulietta esse sarebbero come la luna paragonata al sole...» «Non paragonarla al sole», lo avvertì il padre mentre si avvicinava al fantoccio per recuperare le frecce. «Hai sempre preferito la compagnia della luna.» «Perché vivevo nella notte eterna! Di certo la luna è la regina degli infelici perché non hanno mai veduto il sole. Ma per me, padre, il nuovo giorno si sta aprendo in un turbinio dorato di arredi nuziali! È l'alba della mia anima!» «Ma il sole si ritira ogni notte», concluse il comandante Marescotti. «E anch'io mi ritirerò!» Romeo si strinse un pugno di frecce al
cuore. «E lascerò il buio ai gufi e agli usignoli. Inizierò le giornate con energia e non correrò più la cavallina quando dovrei dedicarmi al sonno ristoratore.» «Non fare promesse sulle ore notturne», disse il comandante appoggiando finalmente una mano sulla spalla del figlio. «Se tua moglie è solo la metà della creatura che dici che sia, ci sarà ben poco sonno ristoratore.»
PARTE QUARTA
Capitolo 1 E se dovessimo incontrarli, non potremmo evitare una lite; in queste giornate torride, il sangue s'infuria e ribolle. ERO di nuovo nel mio castello di fantasmi bisbiglianti. Come sempre, nel sogno attraversavo una stanza dopo l'altra alla ricerca di persone che sapevo intrappolate lì come me. Stavolta però le porte dorate si aprivano davanti a me prima che le sfiorassi. Era come se l'aria fosse gremita di mani invisibili che mi indicavano il cammino e mi trascinavano con loro. E così continuavo ad avanzare, lungo vasti corridoi e sale da ballo deserte che assumevano le forme di parti del castello fino ad allora inesplorate, sino a quando giunsi a un grande portone fortificato. Poteva essere questa l'uscita? Osservai i pesanti cardini di ferro e feci per aprire il catenaccio. Ma prima ancora di toccarli, i battenti si spalancarono da soli rivelando un'enorme voragine nera. Ferma sulla soglia, aguzzai la vista per individuare qualcosa qualsiasi cosa - che mi indicasse se avessi davvero raggiunto il mondo esterno, o semplicemente un'altra stanza. Mentre me ne stavo lì, accecata e lacrimante, dalle tenebre davanti a me si sollevò un vento gelido che mi avvolse tutta e mi fece perdere l'equilibrio, tanto era il suo impeto. Quando mi aggrappai alla cornice della porta per non cadere, il vento aumentò di vigore e cominciò a strapparmi i capelli e i vestiti, ululando paurosamente mentre mi spingeva verso l'abisso. Era tale la violenza che la cornice della porta iniziò a sgretolarsi mentre allo stesso tempo il pavimento sprofondava sotto ai miei piedi. Cercando a tentoni di salvarmi, lasciai andare la cornice e mi girai all'indietro per fuggire nella direzione da cui ero venuta, nuovamente all'interno del castello. A quel punto fui accerchiata da una colonna senza fine di
demoni invisibili. Cantilenavano sguaiatamente versi di Shakespeare che conoscevo benissimo e mi spingevano da ogni parte ansiosi anch'essi di abbandonare il castello portandomi con sé. E così caddi a terra e scivolai all'indietro cercando nel contempo con le unghie di appigliarmi a qualcosa che mi trattenesse. Proprio mentre stavo cadendo oltre l'abisso, qualcuno vestito con una tuta nera da motociclista si lanciò verso di me per afferrarmi e tirarmi su. «Romeo!» urlai, allungandomi verso di lui, ma quando guardai in alto vidi che non c'era nessun volto dietro la visiera del casco, ma solo del vuoto. Dopo, caddi giù, giù, giù... fino a farmi sommergere dall'acqua. Ed ebbi di nuovo dieci anni, sotto il pontile di Alexandria, in Virginia, quando un giorno rischiai di annegare in un brodo di alghe e di rifiuti mentre Janice e i suoi amici mi guardavano in preda alle risate con un cono gelato in mano. Mentre risalivo furiosamente in cerca di ossigeno e di una cima cui aggrapparmi, mi svegliai di colpo per trovarmi sul divano di mastro Lippi, con una coperta pungente ingarbugliata attorno alle gambe e Dante che mi leccava la mano. «Buongiorno», disse il Maestro mentre mi piazzava davanti una tazza di caffè. «A Dante Shakespeare non piace. È un cane molto intelligente.» Mentre più tardi tornavo in albergo, con un sole splendente che mi illuminava il cammino, gli avvenimenti della sera precedente sembravano stranamente irreali, come se il tutto fosse consistito in una gigantesca rappresentazione teatrale messa in scena per intrattenere qualcuno. La mia cena con i Salimbeni, la fuga per le strade buie, e il bizzarro salvataggio nell'atelier di mastro Lippi parevano il frutto di un incubo, e l'unica prova che tutto fosse realmente accaduto erano lo sporco e i graffi sotto i miei piedi. Il punto era che quei fatti erano accaduti veramente, e prima avessi smesso di cullarmi in un ingannevole senso di sicurezza, meglio sarebbe stato per la sottoscritta. Era la seconda volta che qualcuno mi inseguiva, e adesso non si trattava solo di un casuale farabutto in
tuta ma anche di un tizio in moto. Perché? Non ne avevo la più pallida idea. E, a peggiorare le cose, c'era anche il fatto che Alessandro era perfettamente informato sui miei precedenti penali e non avrebbe esitato a usarli contro di me se avessi nuovamente osato avvicinarmi alla sua preziosa madrina. C'erano eccellenti ragioni per tagliare la corda, ma Julie Jacobs non era una fifona e neppure Giulietta Tolomei, per quanto ne sapessi. Dopotutto c'era in ballo un tesoro piuttosto sostanzioso, se le storie di mastro Lippi erano vere e se fossi mai stata capace di trovare la tomba di Giulietta e mettere le mani sulla leggendaria statua con gli occhi di zaffiro. O forse la statua era solo un mito. Forse, nella realtà, per me la vera ricompensa dopo tutte quelle peripezie era la scoperta che alcuni suonati pensassero che fossi imparentata con l'eroina di Shakespeare. Zia Rose si era sempre lamentata che, benché fossi in grado di memorizzare un'opera dall'inizio alla fine e dalla fine all'inizio, in realtà non mi importasse poi molto della letteratura o dell'amore. E aveva aggiunto che un giorno avrei visto il chiarore della verità illuminare i miei atteggiamenti sbagliati. Uno dei miei primi ricordi di zia Rose era lei seduta in piena notte a una grande scrivania di mogano a esaminare qualcosa, con l'ausilio del solo paralume e di una lente d'ingrandimento. Ricordo ancora il contatto con la zampa dell'orsacchiotto di peluche nella mia manina e il timore di essere rimandata a letto. Dapprima non mi aveva vista ma poi, alzati gli occhi, la zia aveva fatto un sobbalzo come se fosse apparso uno spettro. Un attimo dopo mi trovavo sulle sue ginocchia e osservavo anch'io quella vasta distesa di carta. «Guarda qua», mi aveva detto reggendomi la lente, «questo è il nostro albero genealogico, e qui c’è la tua mamma.» Rammento un'ondata di eccitazione seguita dalla più amara delle delusioni. Non si trattava affatto di una foto di mia madre ma di una serie di parole in fila che non avevo ancora imparato a leggere. «Che cosa vuol dire?» dovevo aver chiesto, perché ricordo ancora adesso fin troppo bene la risposta di zia Rose. «Dice», aveva continuato con enfasi insolitamente drammatica, «'Cara zia Rose, per favore occupati della mia bambina con amore. È
molto speciale. Mi manca tanto.'» E fu allora che mi accorsi, con orrore, che mia zia stava piangendo. Era la prima volta che lo vedevo fare da un adulto. Fino a quel momento non mi era mai passato per la testa che potesse capitare. Man mano che Janice e io diventavamo grandi, zia Rose ci avrebbe raccontato, di tanto in tanto, un fatterello isolato riguardo nostra madre, ma mai la storia completa. Un giorno, quando eravamo già all'università e un po' più coraggiose, l'avevamo costretta a sedere in giardino sotto un bel sole con caffè e ciambelle a portata di mano e le avevamo chiesto chiaro e tondo di raccontarci tutto. Fu un caso più unico che raro di sinergia tra noi sorelle. Insieme, la stordimmo di interrogativi. A parte il fatto che erano morti entrambi in un incidente d'auto, com'erano esattamente i nostri genitori? E come mai non avevamo nessun contatto in Italia quando i nostri passaporti dichiaravano che eravamo nate lì? La zia era rimasta seduta tranquilla ad ascoltare il nostro fuoco di fila di domande senza neppure toccare le ciambelle e, una volta terminato, aveva fatto un cenno di assenso. «Avete ogni diritto di fare queste domande e un giorno avrete le risposte. Ma per il momento dovete portare pazienza. È per il vostro bene che vi ho raccontato così poco della vostra famiglia.» Non capii mai perché avrebbe dovuto essere un male sapere tutto dei propri genitori. O almeno qualcosa. Ma avevo rispettato la decisione di zia Rose sulla questione e avevo rimandato l'inevitabile scontro a data da destinarsi. Un giorno mi sarei seduta accanto a lei e avrei preteso una spiegazione. Un giorno mi avrebbe detto ogni cosa. Anche quando compì ottant'anni continuai ad aspettarmi che sarebbe arrivato il momento in cui avrebbe risposto a tutte le nostre domande. Ora naturalmente era troppo tardi. Il direttore era al telefono sul retro quando rientrai in hotel e così sostai un attimo nella hall nell'attesa che avesse finito. Tornando dall'atelier di mastro Lippi, avevo meditato sulla menzione che l'artista aveva fatto a proposito di un visitatore notturno chiamato Romeo, ed ero giunta alla conclusione che era tempo che cominciassi a indagare sui possibili attuali discendenti della famiglia
Marescotti. Immaginai che il primo passo logico sarebbe stato di chiedere a Rossini la guida del telefono della città, cosa che intendevo fare immediatamente. Ma dopo un'attesa di quasi dieci minuti, rinunciai e mi allungai sopra il banco per prendere la chiave della mia camera. Seccata con me stessa per non avere fatto domande a mastro Lippi sui Marescotti quando ne avevo la possibilità, salii lentamente le scale mentre le ferite sotto ai piedi mi facevano vedere le stelle a ogni gradino. E certo non aiutava il fatto che non fossi abituata a portare tacchi alti, specie se si contavano i chilometri che avevo macinato negli ultimi due giorni. Tuttavia, nel momento in cui aprii la porta della mia camera, tutti i miei doloretti svanirono come per incanto. La stanza era stata messa sottosopra. Un vandalo molto determinato, se non addirittura un intero gruppo, aveva letteralmente strappato dai cardini i battenti dell'armadio e distrutto i cuscini, alla ricerca di qualcosa. Vestiti, attaccapanni e articoli da toilette erano sparsi ovunque. Addirittura un po' della mia biancheria nuova pendeva floscia dal lampadario centrale. Non avevo mai visto esplodere una bomba in una valigia, ma ero sicura che questo fosse il risultato. «Signorina Tolomei!» Con il fiatone, il direttore finalmente mi aveva raggiunta. «La contessa Salimbeni ha chiamato per sapere come stava... Santa Caterina!» Nell'attimo in cui si accorse della devastazione in camera mia, Rossini dimenticò di botto quello che era venuto a dirmi. Per alcuni secondi rimanemmo entrambi impalati a osservare lo sfacelo in un silenzio tombale. «Bene», dissi, appena mi resi conto di avere un pubblico, «almeno non dovrò disfare le valigie.» «Ma è spaventoso!» strepitò lui, meno disponibile a vedere il lato positivo della cosa, «non posso crederci! Attenta, non metta i piedi sul vetro.» Il pavimento era coperto dai vetri della porta del balcone. Il rapinatore era di certo venuto per il cofanetto di mia madre - che naturalmente era sparito - ma perché mettere a soqquadro tutta la
stanza? Stava forse cercando anche qualcosa d'altro? «Cavolo!» ansimò Rossini, «adesso mi tocca chiamare i carabinieri, che verranno a fare delle foto, e così tutti i giornali diranno che il Chiusarelli non è sicuro!» «Un momento!» lo interruppi. «Non chiami la polizia. Non ce n'è bisogno. Sappiamo per cosa sono venuti.» Mi avvicinai al tavolino su cui avevo posato il cofanetto. «Non torneranno. Bastardi!» «Oh!» Il direttore di colpo si rasserenò. «Ho dimenticato di dirglielo. Ieri, quando di persona ho portato su le sue valigie...» «Sì?» «.. .ho notato che lei aveva un pezzo assai prezioso su quel tavolino. Così mi sono preso la libertà di toglierlo dalla sua stanza per metterlo nella cassaforte dell'albergo. Spero non le dispiaccia. Di regola non m'impiccio...» Provai un tale sollievo che neanche mi passò per la testa di prendermela per l'eccesso di zelo o di stupirmi per la sua lungimiranza. Lo afferrai invece per le spalle. «Mi sta dicendo che il cofanetto è ancora qua?» Dopo aver seguito Rossini nell'ufficio del pianterreno, trovai il cofanetto di mia madre comodamente sistemato nella cassaforte dell'albergo in mezzo a libri contabili e a candelabri d'argento. «Che il Signore la benedica!» esclamai, e non stavo scherzando, «questo cofanetto è molto speciale.» «Lo so», annuì lui tutto serio, «mia nonna ne aveva uno identico. Non li fanno più. È una vecchia tradizione senese. Si chiamano 'scatole dei segreti' perché contengono degli scomparti nascosti. Si usano per celare cose ai propri genitori. O ai propri figli. O a chiunque.» «Vuol dire... che c'è uno scomparto segreto?» «Sì!» Il direttore prese il cofanetto in mano e cominciò a esaminarlo. «Stia a vedere. Bisogna essere di Siena per trovarlo. Mica è facile. Non sono mai nello stesso posto. Quello di mia nonna era di lato, proprio qui, ma questo è diverso. Questo è molto più complicato. Vediamo un po'... qui no... neppure qui...» Ispezionò il
cofanetto da ogni verso, felice della sfida. «Mia nonna ci teneva una ciocca di capelli, null’altro. Un giorno che dormiva la trovai. Non le chiesi mai... aha!» In qualche modo, Rossini era riuscito a individuare e a fare scattare la levetta dello scomparto segreto. Sorrise soddisfatto mentre un quarto del fondo cadeva sul tavolo, seguito da un cartoncino rettangolare. Capovolgemmo il cofanetto per esaminare l'interno dello scomparto ma non c'era nient'altro. Solo il cartoncino. «Sa cosa vogliono dire?» Mostrai al direttore le lettere e i numeri stampati sul cartoncino con quella che sembrava un'antiquata macchina da scrivere. «Sembrerebbe una sorta di codice.» «Questa è una vecchia... scheda di registrazione», disse, prendendomi il cartoncino di mano. «Le usavamo prima che arrivassero i computer. Prima che lei nascesse. Ah, il mondo è proprio cambiato! Ricordo di quando...» «Ha idea da dove possa arrivare?» «Questo? Forse da una biblioteca? Non saprei. Non sono un esperto. Ma...» mi scrutò per verificare se fossi degna di quel livello di fiducia, «conosco qualcuno che lo è.» Mi ci volle un po' per localizzare il negozio di libri usati che il direttore aveva descritto e, una volta trovatolo, naturalmente era chiuso per pranzo. Mi sforzai di controllare attraverso le vetrine se ci fosse qualcuno dentro, ma non vidi nulla se non libri e ancora libri. Girando l'angolo di piazza del Duomo, per far passare il tempo, mi sedetti sulla scalinata della cattedrale. Malgrado i turisti che uscivano ed entravano continuamente dall'edificio, c'era qualcosa di sereno in quel posto, qualcosa di profondo ed eterno che mi faceva pensare che, se non avessi avuto una missione da portare a termine, avrei potuto stare lì ferma per sempre, come la chiesa stessa, a osservare con un misto di nostalgia e affetto la rinascita perenne dell'umanità. Il particolare più impressionante della cattedrale era la torre campanaria. Non era alta come la Torre del Mangia, il giglio virile del Campo declamato da Rossini, ma a renderla particolare erano le
strisce, come quelle di una zebra. Sottili strati alternati, bianchi e neri, si susseguivano fino in cima, come una scala di biscotti diretta in paradiso. Non potei fare a meno di domandarmi se in quel disegno non ci fosse un significato simbolico. Forse non ce n'era nessuno. Forse lo scopo era stato solo quello di renderla inconfondibile. O forse era una riproduzione dello stemma di Siena - la Balzana - in parte nero e in parte bianco, come un calice riempito a metà da un vino scuro come lo Stige, particolare anche questo che pure mi lasciava perplessa. Rossini mi aveva raccontato qualcosa di due gemelli dell'antica Roma che erano sfuggiti a uno zio malvagio in sella a un cavallo bianco e nero, ma non ero convinta che questa fosse la ragione dei colori della Balzana. Doveva avere qualcosa a che fare con l'effetto del contrasto. Come l'arte sottile di mettere insieme energie opposte arrivando a compromessi. O la consapevolezza che la vita nasce da un fragile equilibrio di forze diverse e che il bene perderebbe di valore se non ci fosse il male a combatterlo. Ma non ero un filosofo e il sole stava dicendomi che era arrivata l'ora in cui solo i cani rabbiosi e gli inglesi si esponevano ai suoi raggi. Rigirando l'angolo vidi che la libreria era ancora chiusa, così tirai un sospirane e consultati il mio orologio domandandomi dove avrei potuto rifugiarmi nell'attesa che l'amica d'infanzia della mamma del direttore si degnasse di tornare. L'atmosfera dentro il Duomo di Siena era piena di ori ed ombre. Tutto attorno a me possenti colonne sorreggevano un'ampia volta celeste cosparsa di stelline. Sentii che il cuore mi batteva come se l'ambiente mi fosse in qualche modo familiare. Come se ci fossi già stata alla ricerca dello stesso Dio, molti, moltissimi anni fa. Mi resi conto all'improvviso, per la prima volta, che mi trovavo all'interno di un edificio somigliante al castello del mio incubo, fantasmi bisbiglianti compresi. O forse, ragionai mentre ammiravo la volta brulicante di stelle in quella silenziosa foresta di colonne argentee come betulle, qualcuno mi aveva portato lì da piccola e io avevo immagazzinato tutto nella memoria senza veramente sapere cosa
fosse. L'unica altra occasione in cui ero entrata in una chiesa di quelle dimensioni era stato quando, a Washington, Umberto mi aveva portato nella Basilica del Santuario Nazionale, un giorno che avevo saltato la scuola dopo una visita dal dentista. Non potevo aver avuto più di sei o sette anni ma ricordo vividamente che eravamo entrambi inginocchiati nel mezzo di uno spazio vastissimo quando Umberto mi aveva chiesto: «Li senti?» «Sento cosa?» avevo domandato, stringendo nella mano il sacchettino di plastica con dentro un nuovo spazzolino rosa. Lui aveva inclinato il capo con aria furbetta. «Gli angeli. Se stai in perfetto silenzio li puoi sentire che ridacchiano.» «Di cosa ridono?» avevo voluto sapere. «Di noi?» «Stanno prendendo lezioni di volo, lassù. Non c'è vento, solo il fiato di Dio.» «È quello che li fa volare? Il fiato di Dio?» «Per volare c'è un segreto. Me lo hanno detto gli angeli.» Fece un sorriso alla mia espressione sbalordita. «Devi dimenticare ogni cosa della tua natura umana. Come umano scopri che odiare la terra ti conferisce un grande potere. E che quasi ti fa volare. Ma non ce la farai mai.» Ero confusa. «Allora qual è il segreto?» «Ama il cielo.» Mentre me ne stavo lì a rivivere uno dei rari momenti di commozione da parte di Umberto, un gruppo di turisti inglesi mi raggiunse da dietro con la loro guida che parlava con enfasi dei numerosi tentativi falliti per portare alla luce la vecchia cripta, apparentemente costruita nel Medioevo e ora quasi di certo perduta per sempre. Ascoltai per un po', divertita dallo stile sensazionalista della guida, prima di lasciare la cattedrale ai turisti e incamminarmi lungo la via del Capitano per poi trovarmi di nuovo - con mia grande sorpresa in piazza Postierla proprio di faccia al bar di Malèna. La piazzetta, gremita le altre volte che ci ero passata, oggi era
piacevolmente tranquilla forse per la siesta e il caldo spietato. Un piedestallo con una lupa e due poppanti troneggiava di fronte a una fontanella sovrastata da un uccello di ferro dall'aspetto feroce. Due bambini, un maschio e una femmina, si buttavano l'acqua addosso strillando e correndo avanti e indietro, mentre una fila di anziani seduti non distanti nell'ombra, senza giacca ma con il cappello in testa, osservavano con occhi teneri la loro immortalità. «Ehi, ciao!» disse Malèna quando mi vide entrare. «Luigi ha fatto un bel lavoro, no?» «È un genio.» Mi avvicinai e mi appoggiai sul fresco piano del bancone, sentendomi stranamente come a casa mia. «Finché c'è lui, da Siena non me ne vado.» Lei sbottò in una fragorosa risata d'intesa che, ancora una volta, mi fece domandare quale fosse l'ingrediente segreto della vita di queste donne. Qualsiasi cosa fosse, chiaro che a me mancava. Era qualcosa di molto più dell'autostima. Sembrava una capacità di amare se stesse anima e corpo, con entusiasmo e senza remore, e con la certezza assoluta che ogni uomo sulla faccia della terra è ai tuoi piedi. «Ecco...» Malèna mi piazzò di fronte un espresso e ci aggiunse un biscotto facendomi l'occhiolino, «mangia. Ti darà... come si dice,
carattere.»
«Una creatura minacciosa», commentai, indicando la fontana all'esterno. «Che razza di uccello è?» «È la nostra aquila. La fontana è, come dire...» si mordicchiò il labbro alla ricerca del termine giusto. «Per il battesimo... una fonte battesimale? Sì! È dove portiamo i neonati per farli diventare aquilini.» «Questa è la contrada dell'Aquila?» osservai gli altri clienti mentre mi veniva la pelle d'oca. «È vero che il simbolo dell'aquila proviene originariamente dalla famiglia Marescotti?» «Sì», annuì, «ma naturalmente noi non abbiamo inventato niente. L'aquila arrivava dall'antica Roma, poi se n'è impossessato Carlo Magno, e poiché i Marescotti facevano parte del suo esercito, fummo autorizzati a usare questo simbolo imperiale. Ma nessuno se
ne ricorda più.» La guardai sorpresa quasi certa che avesse fatto riferimento ai Marescotti come se fosse, a pieno titolo, una di loro. Mentre mi accingevo a porle la domanda, tra di noi si inserì la faccia sghignazzante del cameriere. «Solo quelli che hanno la fortuna di lavorare qui. Noi si sa tutto sull'aquila.» «Ignoralo», disse Malèna facendo finta di colpirlo in testa con il vassoio. «Lui è della contrada della Torre.» Fece una smorfia. «Sono dei buffoni.» Proprio in quel momento, mentre nel bar c'era uno scoppio d'ilarità, qualcosa dall'esterno catturò la mia attenzione. Era una motocicletta nera e il guidatore, con la visiera del casco abbassata, rallentò brevemente per guardare attraverso le vetrine, poi accelerò con un boato e sparì. «Ducati Monster S4», recitò il cameriere come se avesse appena memorizzato la pubblicità di una rivista, «un vero mostro della strada. Motore con raffreddamento a liquido. Fa sognare agli uomini l'odore del sangue e così si svegliano in un bagno di sudore e cercano di afferrarla... Ma non c'è niente cui appigliarsi. Perciò...» si passò la mano sul pancione con fare allusivo, «non invitare una ragazza a salire a meno tu abbia un sistema di frenaggio incorporato.» «Basta, basta, sciocchezze!»
Dario!» lo
ammonì
Malèna.
«Stai
dicendo
«Conosci quel tipo?» le chiesi con aria noncurante mentre non lo ero affatto. «Quel tipo?» Sollevò gli occhi al cielo, per niente colpita. «Sai che si dice... di quelli che fanno tutto quel rumore, che gli manca qualcosa nella parte bassa.» «Non faccio un gran rumore!» protestò Dario. «Non stavo parlando di te, stupido! Stavo parlando di quel moscerino sulla moto.» «Sai chi è?» chiesi di nuovo. Lei fece spallucce. «Gli uomini mi piacciono con l'auto. Quelli con
la moto... sono dei playboy. Certo puoi far sedere la tua ragazza dietro, ma i bambini, le damigelle e la suocera?» «Giustissimo», dichiarò Dario con lo sguardo complice, «sto appunto mettendo via i soldi per comprarmene una.» Nel frattempo diversi altri clienti in coda dietro di me cominciarono a rumoreggiare impazienti e, per quanto Malèna sembrasse beatamente felice di farli aspettare per tutto il tempo che le garbava, decisi di rimandare a un'altra data la domanda sui Marescotti e sui loro possibili discendenti. Mentre mi allontanavo dal bar, continuai a guardarmi in giro per individuare la moto, ma si era volatilizzata. Ovviamente non ne ero certa al cento per cento, ma la mia intuizione mi diceva che si trattava dello stesso tipo che mi aveva molestata la notte prima. In tutta onestà, se costui davvero era un playboy alla ricerca della bellezza di turno da scarrozzare in giro, allora io potevo suggerirgli metodi migliori per fare conoscenza. La proprietaria della libreria, finalmente rientrata dal pranzo, mi trovò seduta sul gradino dell'entrata, appoggiata alla porta e quasi sul punto di rinunciare all'impresa. Ma la mia pazienza fu compensata in quanto la donna - una deliziosa anziana signora il cui esile corpicino sembrava essere sostenuto da null'altro che un'enorme curiosità - diede un'occhiata al cartoncino e subito annuì. «Ah, sì», disse per nulla sorpresa e in un inglese scorrevole, «proviene dall'archivio dell'università. La sezione storica. Credo che usino ancora la vecchia catalogazione. Mi faccia vedere un po'... sì, ecco, questo significa Tardo Medioevo. E questo significa locale. E guardi...» mi mostrò i codici della scheda, «questo sta a indicare lo scaffale, K, e questo il numero del cassetto, 3-17b. Ma non dice cosa contiene. Comunque questo è quel che vogliono dire i codici.» Visto che aveva risolto il mistero così rapidamente, mi scrutò attenta sperando in qualcos'altro. «Come mai ha questa scheda?» «Mia madre, cioè, mio padre, penso che insegnasse all'università. Il professor Tolomei?» L'anziana signora si illuminò come un albero di Natale. «Me lo
ricordo! Ero una sua studentessa! Sa, era stato lui a organizzare l'intera sezione. Era un disastro. Ho passato due estati a incollare etichette sui cassetti. Ma... mi domando perché abbia tirato fuori questa scheda. Si arrabbiava moltissimo quando la gente le lasciava in giro.» Le facoltà dell'Università di Siena erano sparpagliate in tutta la città ma l'archivio storico si trovava a distanza relativamente breve, verso Porta Tufi. Mi ci volle un po' a trovare l'edificio giusto in mezzo alle altre facciate anonime ai lati della strada. Quello che mi fece capire che ero arrivata a destinazione fu un'accozzaglia di manifesti di protesta sulla recinzione esterna. Contando di confondermi con la massa studentesca, entrai dalla porta che la libraia mi aveva indicato e mi incamminai dritta verso i sotterranei. Forse perché era ancora l'ora della siesta - o forse perché in estate non c'era in giro nessuno - fui in grado di scendere le scale senza incontrare anima viva. Il posto era deliziosamente fresco e tranquillo. Fu quasi troppo facile. Senza nient'altro a guidarmi se non la scheda stessa, andai su e giù tra gli archivi diverse volte alla ricerca degli scaffali giusti. Era una sezione separata dalle altre, mi aveva spiegato la libraia e, anche ai tempi di mio padre, in pochi la frequentavano. Avrei dovuto individuare la parte più remota dell'archivio, ma le istruzioni ricevute erano complicate dal fatto che tutte le parti mi sembravano remote. Inoltre gli scaffali che vedevo non avevano cassetti. Erano dei normali ripiani coperti di volumi. E non c'era nessun raccoglitore etichettato K 3-17b. Dopo aver vagato per almeno venti minuti, mi venne infine in mente di provare una porta all'estremità più lontana del locale. Era una porta di metallo con serratura, simile a quelle in uso nelle camere blindate delle banche. Si aprì senza problemi e diede accesso a un'altra stanza, più piccola, dove era in funzione una specie di sistema di controllo della temperatura che conferiva all'aria un odore molto particolare, come di naftalina mista a cioccolato. Ora, finalmente, la mia scheda aveva un senso. Qui i ripiani erano infatti pieni di cassetti, esattamente come aveva detto la libraia. E la sezione era organizzata cronologicamente, partendo dall'epoca
etrusca e finendo - diedi per scontato - l'anno in cui mio padre era morto. Era anche assai evidente che nessuno vi accedeva mai, visto che uno spesso strato di polvere copriva ogni cosa. Inoltre, quando cercai di spostare la scaletta movibile, sentii che le rotelle arrugginite facevano resistenza contro il pavimento. Quando finalmente riuscii a farla scorrere, causando uno squittio di protesta, lasciai sul pavimento di linoleum grigio una serie di piccole impronte marroni. Posizionai la scaletta contro lo scaffale K, e salii per vedere meglio il ripiano numero 3, che consisteva in un paio di dozzine di stipetti di misura media, tutti perfettamente inaccessibili a meno di avere una scala a portata di mano e un'idea precisa di quello che si cercava. Dapprima mi parve che lo stipetto numero 17b fosse chiuso a chiave e solo dopo che lo colpii ripetutamente con il pugno cedette e potei estrarlo. Con tutta probabilità nessuno aveva aperto quel cassetto da quando l'aveva richiuso mio padre una ventina di anni prima. All'interno trovai un voluminoso pacco strettamente avvolto, come sottovuoto, con della plastica marrone. Tastando adagio con le mani sentii che conteneva qualcosa di simile a una stoffa spugnosa. Incuriosita, tirai fuori il pacchetto dal cassetto, discesi la scala, e mi sedetti sull'ultimo scalino per ispezionare la mia scoperta. Invece di strappare l'involucro, con un dito feci un forellino nella plastica. Appena la superficie si lacerò, potei sentire il sibilo dell'aria che fuoriusciva mentre un angolo di tessuto bluastro faceva capolino dal buco. Feci un foro ancora più largo e tastai il tessuto con la punta delle dita. Non ero un'esperta ma sospettai si trattasse di seta estremamente antica, nonostante l'ottimo stato di conservazione. Ben consapevole che stavo esponendo qualcosa di delicato sia all'aria sia alla luce, estrassi la stoffa dalla plastica e me la dispiegai in grembo. Nel far questo, un oggetto cadde sul pavimento con un clangore metallico. Si trattava di un grosso coltello dentro una guaina dorata. Era stato celato tra le pieghe della seta. Sollevandolo da terra notai che sul manico era incisa un'aquila. Mentre ero lì seduta a soppesare quel tesoro inaspettato, all'improvviso udii un rumore proveniente dall'altra parte degli
archivi. Sapevo di essere entrata abusivamente in un luogo che di certo conteneva numerosi cimeli di grande valore, così scattai colpevole in piedi mentre alla meglio occultavo il mio bottino sotto gli abiti. L'ultima cosa che volevo era di essere sorpresa in una sofisticata camera di sicurezza con le mani nella marmellata. Il più silenziosamente possibile, tornai a passi furtivi nel salone principale, dopo aver accostato la porta di metallo dietro di me. Nascosta dietro l'ultima fila di scaffali, mi misi in spasmodico ascolto. Ma l'unico suono che riuscii a intendere era il mio respiro affannoso. Tutto quello che dovevo fare era risalire le scale e lasciare l'edificio con la stessa nonchalance con cui ero entrata. Mi sbagliavo. Avevo appena deciso di muovermi quando sentii un rumore di passi. Non i passi del bibliotecario che rientra da pranzo o di uno studente alla ricerca di un libro, ma quelli minacciosi di qualcuno che non voleva farsi sentire, qualcuno la cui presenza in archivio era ancora più illecita della mia. Sbirciando attraverso i ripiani, vidi che stava venendo nella mia direzione: sì, era lo stesso farabutto che mi aveva inseguita la notte prima. Avanzava come un serpente tra una scaffalatura e l'altra, con gli occhi fissi sulla porta metallica della camera di sicurezza. Ma questa volta aveva in mano una pistola. Questione di secondi e sarebbe arrivato dove mi stavo nascondendo. Quasi morta di paura, strisciai lungo lo scaffale fino a raggiungere l'estremità più lontana. Da lì partiva un corridoio che portava alla scrivania del bibliotecario. Lo percorsi in punta di piedi finché ne ebbi il coraggio e poi, tirando dentro la pancia, mi appiattii dietro la spalliera di una libreria, sperando di essere rintanata quel tanto che avrebbe permesso al farabutto di oltrepassare il corridoio senza vedermi. Mentre me ne stavo lì, troppo terrorizzata perfino per respirare, dovetti lottare contro la voglia pazza di darmela a gambe. Sforzandomi di rimanere assolutamente immobile, aspettai ancora alcuni secondi prima di allungare il collo a guardare. Lo vidi che si infilava silenzioso nella camera di sicurezza. Dopo essermi tolta le scarpe con mani tremanti, galoppai lungo tutto il corridoio, girai l'angolo accanto alla scrivania del
bibliotecario e mi buttai sulle scale a tre gradini alla volta, senza voltarmi mai. Peppo Tolomei fu sorpreso quanto me nel rivedermi così presto al Museo della Civetta. «Giulietta!» esclamò mentre lasciava cadere il trofeo che stava spolverando. «Cos'è successo? Che cos'è quella roba?» Stavamo guardando entrambi il pacco mezzo sfatto che tenevo in mano. «Non ne ho la minima idea», confessai. «Ma penso appartenesse a mio padre.» «Metti qua.» Fece spazio su un tavolo e io vi depositai con grande attenzione la seta azzurra con dentro il coltello. «Hai idea da dove possa venire?» gli domandai, sollevando il coltello. Ma Peppo non stava guardando l'arma. Stava invece dispiegando la seta con gesti deferenti. Una volta che l'ebbe distesa del tutto, si allontanò di un passo e, attonito, si fece il segno della croce. «In nome del cielo, dove l'hai trovata?» mi chiese con voce che era poco più di un sussurro. «Faceva parte della raccolta di mio padre all'università. Era avvolta attorno al coltello. Non mi sono resa conto che fosse qualcosa di speciale.» Peppo mi fissò meravigliato. «Non sai di che cosa si tratta?» Ispezionai più da vicino la seta azzurra. Era molto più lunga che larga, quasi come uno stendardo, e ci era stata dipinta sopra una figura di donna con una capigliatura circondata da un alone di luce e le mani sollevate a benedire. I colori erano sbiaditi dagli anni ma il suo incanto era rimasto integro. Anche una miscredente come me poteva capire che si trattava di un'immagine della Vergine Maria. «E' un drappo religioso?» «Questo è un cencio, il premio più importante del Palio», disse Peppo con la voce rotta dalla commozione. «Ed è molto antico. Vedi le cifre romane nell'angolo? Indicano l'anno.» Si chinò di nuovo a controllarle. «Sì! Santa Madonna!» Si rivolse verso di me con gli
occhi fuori dalle orbite. «Non solo si tratta di un cencio antico, è il cencio più leggendario mai esistito! Tutti pensavano che fosse andato perduto per sempre. Invece eccolo qua! È il cencio del Palio del 1340. Un tesoro immenso! Era foderato di code di vaio. Guarda...» mi indicò gli orli consunti del tessuto, «erano lì e lì. Sono una specie di scoiattoli. Scoiattoli particolari. Adesso sono estinti.» «Così questa roba quanto varrebbe oggi? In denaro?» «Denaro?» Il concetto era estraneo a Peppo, che mi guardò manco gli avessi chiesto quale fosse la tariffa oraria di Gesù Cristo. «Ma questo è il premio! È una cosa molto speciale... un onore enorme. Fin dal Medioevo il vincitore del Palio riceveva uno splendido drappellone di seta foderato di pellicce preziose. I romani lo chiamavano pallium e questa è la ragione per cui la corsa si chiama Palio. Osserva...» mi indicò con la gruccia alcuni degli stendardi appesi alle pareti attorno a noi, «ogni volta che la nostra contrada vince il Palio, riceviamo un nuovo cencio per la collezione. I più antichi di questi hanno sui duecento anni.» «Così di cenci del quattordicesimo secolo non ce ne sono?» «Oh, no!» Peppo scosse energicamente il capo. «Questo qua è davvero molto speciale. Vedi, nei tempi antichi, il vincitore avrebbe usato il cencio per farne un abito da indossare in segno di trionfo. Ecco perché sono andati tutti perduti.» «Dunque deve pur valere qualcosa», insistetti. «Voglio dire, se è così raro.» «Soldi-soldi-soldi!» mi punzecchiò Peppo. «I soldi non sono tutto. Non capisci? Stiamo parlando della storia di Siena!» L'entusiasmo di mio cugino era in rotta di collisione con il mio stato d'animo del momento. A quanto pareva, quel giorno, avevo messo a repentaglio la mia vita per un coltello arrugginito e una bandiera stinta. D'accordo, si trattava di un cencio, e come tale di un reperto di valore incommensurabile e quasi prodigioso per i senesi. Ma purtroppo un vecchio straccio inutile se lo facevo uscire da Siena. «E il coltello? L'hai mai visto prima?» Peppo rivolse la sua attenzione al tavolo e prese in mano l'arma. «Questo è un pugnale», disse, estraendo la lama arrugginita dal
fodero ed esaminandolo sotto il lampadario. «Un'arma molto maneggevole.» Poi ispezionò l'incisione da vicino e fece cenni di assenso con il capo come se la questione cominciasse finalmente a chiarirsi. «Un'aquila. Sicuro! Ed era nascosta con il cencio del 1340. E pensare che sono riuscito a vivere abbastanza per vedere una cosa del genere. Perché non me ne ha mai parlato? Immagino sapesse cosa avrei detto. Questi sono tesori che appartengono a tutti i senesi, non solo ai Tolomei.» «Peppo, cosa pensi massaggiandomi le tempie.
che
dovrei
farmene?»
gli
chiesi
Si girò a fissarmi, ma aveva lo sguardo perso, come fosse in parte nell'epoca attuale e in parte nel 1340. «Ricordi quando ti confidai che i tuoi genitori pensavano che Romeo e Giulietta avessero vissuto qua a Siena nel 1340? Bene, nel 1340 ci fu un Palio che fece clamore. Dissero che il cencio sparì, questo cencio, e che un cavaliere morì durante la gara. Raccontano anche che Romeo avesse partecipato a quel Palio. Credo si tratti del suo pugnale.» Alla fine la curiosità ebbe la meglio sulla mia delusione: «Vinse Romeo?» «Non ne sono certo. Alcuni ritengono che fu lui a morire. Ma tieni a mente quello che ti dico...» Peppo mi fissava, gli occhi come due fessure. «I Marescotti farebbero qualsiasi cosa per mettere le mani su questi oggetti.» «Vuoi dire i Marescotti che vivono a Siena oggi?» Alzò le spalle. «A prescindere dal cencio, il pugnale apparteneva a Romeo. Vedi l'aquila incisa proprio qui sull'elsa? Puoi immaginarti un tesoro più importante per loro?» «Suppongo che potrei restituirlo...» «No!» L'atteggiamento estatico di mio cugino era sparito di colpo per far posto a qualcosa di meno amabile. «Devi lasciare tutto qui! Questo è un tesoro che ora appartiene alla totalità dei senesi, non solo agli aquilini o ai Marescotti. Hai fatto bene a venire qui. Dobbiamo discutere della cosa con i priori delle contrade. Loro sapranno cosa fare. Nel frattempo metto tutto in cassaforte, al riparo da luce e aria.» Cominciò a riavvolgere freneticamente il cencio. «Ti
garantisco che ce ne prenderemo la massima cura. La nostra cassaforte è a prova di bomba.» «Ma i miei genitori li hanno lasciati a me...» osai obiettare. «Sississì, ma ti ripeto che questo non è qualcosa che debba appartenere a una singola persona. Non preoccuparti, i priori sapranno cosa fare.» «E se invece...» Peppo mi lanciò uno sguardo severo. «Sono il tuo padrino. Non ti fidi di me?»
Capitolo 2 Che ne dici? Puoi amare quel gentiluomo? Questa notte lo vedrai alla nostra festa... Siena, 1340 PER mastro Ambrogio la notte prima della festa dell'Assunzione era sacra come la vigilia di Natale. Nel corso della notte di vigilia, il Duomo di Siena, quasi sempre buio, si sarebbe riempito di centinaia di giganteschi ceri votivi - alcuni dei quali pesavano più di venti chili - mentre una lunga processione di dignitari provenienti da ogni contrada avrebbe percorso la navata centrale fino all'altare aureo per onorare la Vergine Maria e celebrare la sua ascesa in cielo. Il giorno successivo, nella ricorrenza della Madonna Assunta, la maestosa cattedrale sarebbe stata illuminata da una selva di luci tremolanti quando i vassalli dalle città e dei paesi limitrofi fossero arrivati a pagare il loro tributo. Ogni anno nello stesso giorno, il 15 agosto, veniva chiesto loro per legge di donare alla sacra regina di Siena un preciso quantitativo di candele di cera, mentre gli ufficiali municipali avrebbero presidiato la chiesa per controllare che ogni vassallo pagasse il dovuto. Il fatto che la cattedrale fosse già abbondantemente illuminata dalle fiammelle votive era una conferma di quello che i forestieri già sapevano: che Siena era un posto straordinario, benedetto da una Signora onnipotente, e che farne parte valeva la spesa. Mastro Ambrogio preferiva di gran lunga la funzione notturna alla processione alla luce del giorno. Succedeva qualcosa di magico quando i fedeli con le candele rischiaravano le tenebre. Era come se il fuoco illuminasse le loro anime e, a guardare con attenzione, anche i loro sguardi erano carichi di stupore attonito. Ma quella notte non avrebbe partecipato alla processione come
faceva di solito. Da quando aveva cominciato i grandi affreschi del Palazzo Pubblico, i priori di Siena si erano messi a trattarlo da pari, di certo perché volevano che il Maestro li dipingesse sotto una luce lusinghiera. Eccolo quindi installato sul podio assieme ai Nove, i magistrati della Biccherna, il Capitano della Guerra e il Capitano del Popolo. L'unica consolazione era che da quel punto riusciva a vedere lo spettacolo notturno nella sua interezza: i musici nelle loro uniformi scarlatte, i tamburini e gli sbandieratoli con i loro stemmi, i preti con le loro tuniche svolazzanti, e la processione a lume di candela che sarebbe continuata fin tanto che ogni contrada avesse porto i suoi rispetti alla sacra regina che li avvolgeva tutti nel suo manto protettivo. Era difficile perdersi la famiglia Tolomei alla testa della processione nel rione di San Cristoforo. Vestiti d'oro e di scarlatto come il loro stemma, messer Tolomei e sua moglie avanzavano verso l'altare maggiore con la pomposità di una coppia reale che si avvicini al trono. Seguiva, immediatamente dietro, un gruppo di altri membri della famiglia, e mastro Ambrogio ci mise assai poco a individuare Giulietta tra di loro. Anche se aveva i capelli coperti da un velo celeste - celeste come la purezza e la maestà della Beata Vergine - e il viso non era illuminato che da un minuscolo cero stretto con devozione tra le mani, la sua avvenenza eclissava ogni cosa, anche i preziosi orpelli delle cugine. Ma Giulietta non notò chi la guardava ammirato mentre si avvicinava all'altare. I suoi pensieri erano chiaramente tutti rivolti alla Vergine Maria e, intanto che gli altri avanzavano verso l'altare maggiore felici di esser stati munifici, la fanciulla tenne gli occhi al suolo finché non andò a inginocchiarsi con i cugini, dopo avere consegnato il cero ai preti. Alzandosi, fece un doppio inchino e mostrò il volto al mondo. Solo allora sembrò rendersi conto della grandiosità che la circondava, perché vacillò brevemente sotto l'ampia volta nel guardare l'umanità attorno a lei con un misto di ansia e di curiosità. Mastro Ambrogio non avrebbe desiderato altro che correre al suo fianco per offrirle il suo umile sostegno ma l'etichetta gli imponeva di rimanere dov'era. Così si limitò ad ammirare la sua bellezza da lontano.
Il Maestro non fu l'unico a notarla. I priori, fino a quel momento impegnati a fare accordi e a stringere mani, di colpo si zittirono nel vedere il volto radioso di Giulietta. E sotto il podio, abbastanza vicino a esso da dare l'impressione di farne parte, anche l'altero messer Salimbeni alla fine si girò per capire come mai tutti avessero smesso di parlare. Ora, mentre se ne stava lì in piedi ad ammirare Giulietta all'altra estremità della chiesa, a un occhio non addestrato Salimbeni avrebbe potuto sembrare il ritratto della benevolenza, mentre il Maestro si accorgeva che, sotto i lussuosi broccati dell'uomo, era già in atto una trasformazione. «Dico io», mormorò uno dei Nove abbastanza forte da farsi sentire da mastro Ambrogio, «Tolomei è pieno di sorprese. Dove l'ha tenuta nascosta tutto questo tempo?» «Non scherzare», replicò il più anziano dei priori. «Mi dicono che è l'unica sopravvissuta alla strage ordinata da Salimbeni. Hanno messo la sua casa a ferro e fuoco mentre era in confessione. Ricordo suo padre molto bene. Era una persona unica. Non riuscii mai a intaccare la sua integrità.» L'altro sbuffò. «Sei sicuro ci fosse anche lei? Non è da Salimbeni lasciarsi scappare una simile perla.» «È stata messa in salvo da un prete, credo. Tolomei ha preso entrambi sotto la sua protezione.» Niccolino Patrizi tirò un sospiro e bevve un sorso di vino da un calice d'argento. «Spero solo che questo non faccia nuovamente esplodere la faida, adesso che l'abbiamo sotto controllo.» Messer Tolomei aveva temuto quel momento per settimane. Sapeva perfettamente che alla vigilia dell'Assunzione si sarebbe trovato faccia a faccia con il suo più odiato nemico, Salimbeni, e che, per il suo onore, avrebbe dovuto vendicare lo sterminio della famiglia di Giulietta. E così, dopo un cenno del capo verso l'altare, si era mosso in direzione del podio dove tutti i nobili si stavano radunando, allo scopo far venire Salimbeni allo scoperto. «Buona serata a voi, mio caro amico!» All'approcciarsi del suo
antico rivale, Salimbeni aprì fraternamente le braccia. «Spero che la vostra famiglia sia in buona salute.» «Più o meno», replicò Tolomei con la mascella serrata, «una parte è stata massacrata di recente, come di certo avrete saputo.» «Ho sentito delle voci», disse Salimbeni concludendo il suo gesto d'amicizia con un'alzata di spalle, «ma non ci ho dato retta.» «Allora io sono più fortunato», ribatté Tolomei che, pur sovrastandolo per statura e per modi, non riusciva a dominare l'interlocutore, «perché ho dei testimoni che sono pronti a giurarlo con una mano sulla Bibbia.» «Sul serio?» Salimbeni distolse lo sguardo come se l'argomento già cominciasse ad annoiarlo. «E quale tribunale sarebbe così sciocco da starli a sentire?» Alla domanda seguì un silenzio di tomba. Tolomei, e tutti quelli che gli stavano attorno, era consapevole di star sfidando una potenza che avrebbe potuto schiacciarlo e distruggere ogni suo avere - vita, libertà e ricchezze - in poche ore. E i magistrati non avrebbero mosso un dito per proteggerlo. C'era troppo oro di Salimbeni nelle loro casseforti private, e altro ne sarebbe arrivato, perché chiunque di loro desiderasse la rovina del tiranno. «Mio caro amico», riprese Salimbeni con rinnovata bonarietà, «spero che questi eventi lontani non rovinino la vostra serata. Dovreste piuttosto rallegrarvi che i nostri giorni burrascosi siano finiti e che si possa guardare a un futuro di armonia e fratellanza.» «Ed è questo quello che chiamate armonia e fratellanza?» «Forse potremmo considerare...» Salimbeni fece errare lo sguardo intorno, e tutti, a parte Tolomei, capirono a che cosa stesse alludendo, «di sigillare la pace con un matrimonio?» «Ma certo!» Tolomei stesso aveva proposto quella soluzione diverse volte nel passato ma non era mai stato ascoltato. Se il sangue dei Salimbeni si fosse mischiato a quello dei Tolomei, aveva pensato, di certo il tiranno sarebbe stato meno propenso a farlo scorrere. Ansioso di battere il ferro finché era caldo, Tolomei, sbracciandosi
con impazienza, convocò la moglie poco distante. Monna Antonia ci mise un po' a capire che gli uomini desideravano la sua presenza. Come una schiava alle prese con un padrone imprevedibile, la donna si avvicinò docilmente a Salimbeni e al marito, non del tutto tranquilla. «Il mio buon amico messer Salimbeni», le spiegò, «suggerisce un matrimonio tra le nostre due famiglie. Che ne dici, mia cara? Non sarebbe una cosa meravigliosa?» Monna Antonia si portò estasiata le mani al petto. «Davvero lo sarebbe! Una cosa meravigliosa.» Per poco non fece un inchino a Salimbeni prima di rivolgersi direttamente a lui: «Visto che siete stato così gentile da proporlo, messere, vi annuncio che ho una figlia appena tredicenne che non sarebbe punto inappropriata per quel vostro affascinante figliolo, Nino. È un esserino poco loquace, ma pieno di salute. Eccola là...» monna Antonia indicò qualcuno nella folla, «accanto al primogenito, Tebaldo, che domani correrà nel Palio, come forse saprete. E, se dovesse andarsene prematuramente, ci sarebbe sempre la sorella più piccola che ora ha undici anni.» «Vi ringrazio della generosa offerta, gentile signora», disse Salimbeni producendosi in un inchino ossequioso, «ma non stavo pensando a mio figlio. Stavo pensando a me.» Sia Tolomei sia monna Antonia rimasero paralizzati dalla sorpresa. E tutto intorno ci fu un soprassalto spontaneo di incredulità che presto si smorzò in un mormorio sommesso. Anche dal podio tutti stavano seguendo la scena con profonda apprensione. «Chi è quella fanciulla là in fondo?» continuò Salimbeni incurante della tensione. «È già promessa?» Dal tono di voce di Tolomei si poté percepire una traccia dell'ira di poco prima. «È mia nipote. La sola sopravvissuta dei tragici eventi di cui vi ho appena detto. Credo che viva solo nella speranza di vendicarsi dei responsabili della strage della sua famiglia.» «Capisco.» Salimbeni sembrò tutt'altro che scoraggiato. Anzi, parve stuzzicato all'idea della sfida. «Un tipetto vivace, giusto?» Monna Antonia non ce la fece a rimanere zitta e avanzò di un passo: «Proprio così, messere. Una ragazza piuttosto sgradevole.
Penso che vi trovereste molto meglio con una delle mie figlie. Non faranno obiezioni». Salimbeni fece un sorrisetto, quasi tra sé e sé. «A onor del vero, preferisco un po' di obiezioni.» Anche da lontano, Giulietta sentiva che tutti gli sguardi erano puntati su di lei, e non sapeva dove andare a ficcarsi per evitare quello scrutinio. I suoi zii si erano staccati dai parenti per mischiarsi ad altri nobili e ora stavano parlando con un uomo che emanava il decoro e la magnanimità di un imperatore, ma che aveva gli occhi di una bestia famelica. La cosa sconvolgente era che quegli occhi quasi non smettevano di fissarla. Rifugiatasi dietro un pilastro, la fanciulla fece una serie di respiri profondi e si ripeté che tutto sarebbe andato per il meglio. Quella mattina Frate Lorenzo le aveva portato una missiva di Romeo nella quale lui le comunicava che suo padre, il comandante Marescotti, avrebbe avvicinato appena possibile lo zio Tolomei con la domanda di matrimonio. Da quando aveva ricevuto la lettera, Giulietta non aveva fatto nient'altro che pregare Iddio affinché la proposta fosse accettata in modo da dimenticare al più presto la propria dipendenza dalla famiglia acquisita. Sbirciando da dietro la colonna, Giulietta fu in grado di individuare - a meno si sbagliasse - il suo bel Romeo nella folla dei nobili. Il giovane si stava a sua volta dannando per trovarla e innervosendo non scorgendola da nessuna parte. Accanto a lui c'era un uomo che non poteva che essere il comandante Marescotti, suo padre. Nel vederli, Giulietta ebbe un sussulto di gioia, sapendo quanto fossero determinati a farla entrare nella loro famiglia. Quando poi capì che si stavano avvicinando entrambi a suo zio, riuscì a stento a trattenersi. Si mosse cauta da un pilastro all'altro fino ad arrivare a portata di udito senza il rischio che gli uomini si accorgessero della sua presenza. Per sua fortuna, erano tutti presi in una conversazione molto animata per notare dell'altro. «Comandante!» esclamò Tolomei quando vide che i Marescotti si avvicinavano. «Dite, il nemico è alle porte?»
«Il nemico è già entrato.» Rispose il comandante con un breve cenno di saluto all'uomo con gli occhi ferini accanto a Tolomei. «Il suo nome è corruzione, e non si ferma alle porte.» Fece una breve pausa per chi volesse farsi una risata. «Messer Tolomei, c'è una questione un po' riservata di cui vorrei parlarvi. In privato. Quando posso venire a farvi visita?» Tolomei si sorprese della richiesta del comandante Marescotti. Tuttavia, anche se i Marescotti non possedevano le ricchezze dei Tolomei, la fiamma del valore risplendeva sulla loro casata da quando, cinque secoli prima, si era accesa sul campo di battaglia di Carlo Magno. Giulietta dava quasi per scontato che nulla avrebbe fatto più piacere a suo zio che entrare in affari con qualcuno di quella fama. E infatti Tolomei girò le spalle all'uomo con gli occhi da belva e allargò le braccia: «Esprimetevi liberamente». Il comandante Marescotti esitò, scontento che la cosa si svolgesse in pubblico e con tante orecchie ad ascoltarli. «Mi è difficile immaginare che messer Salimbeni possa trovare questa faccenda di suo interesse.» Udendo il nome Salimbeni, Giulietta si sentì irrigidire dal terrore. Solo in quel momento si rese conto che l'uomo con gli occhi da bestia - lo stesso che aveva appena indotto monna Antonia a un comportamento servile - era l'uomo responsabile dell'eccidio della sua famiglia. Giulietta aveva trascorso molte ore a immaginarsi a cosa potesse somigliare quel mostro. Adesso che finalmente lo vedeva in carne e ossa, era sconvolta nel notare che, a parte gli occhi, non era affatto fedele al personaggio. Si era immaginata qualcuno di tozzo e spaventevole con un corpo fatto per la guerra e la distruzione. Vide invece un uomo che di certo non aveva mai maneggiato un'arma, e che sembrava nato per l'arte del bel parlare in pubblico. Tra il comandante Marescotti e messer Salimbeni non poteva esistere contrasto più grande: l'uno, esperto di guerre, non desiderava altro che la pace; l'altro, pur trasudando civiltà da tutti i pori, sotto le vesti pregiate celava solo sete di sangue. «Siete in errore, comandante», intervenne Salimbeni godendo nell'inserirsi d'autorità nella conversazione, «sono sempre interessato
alle faccende che non possono aspettare il mattino dopo. E come sapete, data la profonda amicizia che mi lega a messer Tolomei...» e qui ebbe l'onestà di sghignazzare delle sue stesse parole, «sono certo che il mio umile parere su questa faccenda così importante sarà ben accetto.» «Scusate», disse il comandante saggiamente congedandosi con un inchino, «avete ragione. La cosa può aspettare fino a domani.» «No!» Romeo fu incapace di allontanarsi senza aver prima dichiarato la sua intenzione, quindi fece un brusco passo in avanti prima che suo padre riuscisse a trattenerlo. «Non posso aspettare! Messer Tolomei, desidero sposare vostra nipote Giulietta.» Tolomei rimase talmente sorpreso dalla proposta così diretta che gli fu impossibile dare subito una risposta. Ma non fu il solo a restare ammutolito all'improvvisa intrusione di Romeo nella conversazione dei due uomini. Tutte le persone intorno stavano allungando il collo per vedere chi avrebbe avuto l'ardire di parlare per primo. Dietro il pilastro, Giulietta si era portata una mano alla bocca. Benché profondamente toccata dalla determinazione del giovane, era sconvolta che lui avesse agito così impulsivamente, e di certo contro la volontà di suo padre. «Come avete sentito, vorrei proporre un matrimonio tra il mio primogenito Romeo e vostra nipote Giulietta», disse il comandante Marescotti con calma rimarchevole allo stupefatto Tolomei. «Sono sicuro saprete che siamo una famiglia dotata di capitali e di reputazione e, con tutto rispetto, prometto che vostra nipote non soffrirà di comodità o di condizione inferiori. Alla mia morte mi succederà Romeo come capofamiglia e Giulietta entrerà in possesso di un patrimonio formato da numerosi palazzi e vasti appezzamenti di terreno, i cui dettagli mi sono permesso di elencare in un documento. Quando vi farebbe comodo che io venissi a farvi visita per consegnarvi di persona questo incartamento?» Tolomei non rispose. Delle strane increspature gli traversavano il volto come un branco di squali che stiano accerchiando una vittima sotto il pelo dell'acqua. Era chiaramente turbato e stava cercando un modo per uscire dall'ambascia. «Se è la felicità di vostra nipote a preoccuparvi», continuò il
comandante non del tutto soddisfatto dell'esitazione di Tolomei, «ho la fortuna di assicurarvi che mio figlio non ha nessuna obiezione a questo matrimonio.» Quando finalmente Tolomei parlò, il suo tono di voce non era dei più incoraggianti. «Stimatissimo comandante», disse, fortemente a disagio, «con questa proposta mi fate un grande onore. Prenderò in esame il documento e considererò la vostra offerta...» «Assolutamente no!» Salimbeni si interpose tra i due uomini, furibondo per essere stato ignorato. «Considero conclusa la faccenda.» Il comandante Marescotti fece un passo indietro. Per quanto fosse alla testa di un esercito, e sempre all'erta circa eventuali attacchi a sorpresa, Salimbeni era pur sempre più pericoloso di qualsiasi nemico straniero. «Perdonate, ma credo che messer Tolomei e io fossimo nel bel mezzo di una conversazione.» «Potete avere tutte le conversazioni che vi garbano», lo apostrofò Salimbeni, «ma la ragazza mi appartiene. È la mia condizione per mantenere questa ridicola pace.» A causa del tumulto generale che si scatenò dopo l'oltraggiosa dichiarazione di Salimbeni, nessuno poté udire l'urlo di orrore di Giulietta. Schiacciata dietro il pilastro, si premette entrambe le mani sulla bocca e formulò una velocissima preghiera affinché quello che le era sembrato di capire non fosse esatto e la fanciulla di cui stavano parlando non fosse lei, ma un'altra. Quando finalmente osò alzare di nuovo lo sguardo vide che suo zio si scostava da Salimbeni e si rivolgeva al comandante Marescotti con l'espressione sconvolta dal disagio. «Caro comandante», disse con voce malferma, «questa è, a quanto pare, una questione delicata. Ma di certo possiamo addivenire a qualche tipo di accordo...» «Come no!» Monna Antonia finalmente riprese la parola, questa volta per accostarsi ossequiosamente al corrucciato comandante. «Ho una figlia, tredici anni appena compiuti, che sarebbe una moglie perfetta per vostro figlio. È là in fondo... la vedete?» Il comandante non girò neppure la testa per guardare. «Messer
Tolomei, la nostra proposta vale solo per vostra nipote Giulietta», disse, facendo un grosso sforzo per controllarsi. «E fareste bene a consultare anche lei sulla questione. Non siamo più nell'età barbarica in cui il parere di una donna si poteva semplicemente ignorare...» «La ragazza appartiene a me, e posso farne quello che voglio!» sbraitò Tolomei, furioso che sua moglie fosse intervenuta e seccato di essere la vittima di un predicozzo. «Vi ringrazio dell'interesse, comandante, ma per lei ho altri piani.» «Vi consiglierei di valutare tutto con attenzione», lo ammonì Marescotti avanzando d'un passo. «La ragazza è affezionata a mio figlio, che considera il suo salvatore, e di certo vi darà un sacco di problemi se le chiederete di sposare qualcun altro. Specie qualcuno...» e nel dirlo rivolse uno sguardo di disgusto verso Salimbeni, «che sembra prendere sottogamba la tragedia che ha colpito la sua famiglia.» Di fronte a una tale inconfutabile logica, Tolomei fu incapace di porre obiezioni. Giulietta provò addirittura un breve palpito di simpatia per lo zio che, preso in mezzo tra i due uomini, pareva sul punto di annegare alla disperata ricerca di una trave cui aggrapparsi. Uno spettacolo non bello da vedersi. «Devo dedurne che vi opponete al mio diritto, comandante?» chiese Salimbeni di nuovo frapponendosi ai due uomini. «Di certo non vorrete mettere in dubbio l'autorità di messer Tolomei come capofamiglia! E di certo...» fu impossibile ignorare la minaccia del suo sguardo, «la casata dei Marescotti non vorrà dar inizio a un conflitto tra i Tolomei e i Salimbeni...» Da dietro il pilastro, Giulietta non riuscì più a controllare il pianto. Avrebbe voluto correre in mezzo a quegli uomini e dir loro di smetterla, ma sapeva che la sua presenza avrebbe solo peggiorato la situazione. Quando, quel giorno nel confessionale, Romeo aveva per la prima volta menzionato la sua intenzione di sposarla, aveva anche aggiunto che tra le loro due famiglie c'era sempre stata pace. Adesso pareva che quelle parole non rispondessero più al vero, e la colpa era sua.
Niccolino Patrizi, uno dei nove governatori di Siena, aveva seguito l'esplodere del conflitto sotto il podio con crescente preoccupazione. E non era l'unico. «Quando erano nemici mortali li temevo enormemente», rifletté ad alta voce un suo collega, senza distogliere lo sguardo da Tolomei e Salimbeni, «adesso che sono amici, ne ho ancora più paura.» «Siamo il governo! Dobbiamo rimanere al di sopra di questi umani sentimenti!» esclamò Patrizi, alzandosi dallo scranno. «Messer Tolomei! Messer Salimbeni! Perché questi intrallazzi clandestini alla vigilia dell'Assunzione? Spero non stiate parlando d'affari nella casa del Signore!» Nell'udire queste parole provenienti dal podio, un silenzio di tomba cadde su tutto il nobile assembramento. Anche il vescovo, dall'altare maggiore, smise momentaneamente di benedire. «Assai onorevole messer Patrizi», replicò Salimbeni con una deferenza piena di sarcasmo. «Non è degno di noi, e neppure di voi, dire una cosa del genere! Piuttosto, dovreste congratularvi dato che il mio ottimo amico messer Tolomei e io abbiamo deciso di celebrare una pace duratura con un matrimonio.» «Le mie condoglianze per la morte di vostra moglie!» sputò fuori Niccolino Patrizi. «Non sapevo della sua dipartita!» «Monna Agnese», replicò Salimbeni, imperturbabile, «non arriverà alla fine del mese. È alla Rocca di Tentennano. Non si muove più dal letto e ha cessato di nutrirsi.» «È difficile nutrirsi quando non ti danno da mangiare», mormorò uno dei magistrati della Biccherna. «Per celebrare un matrimonio fra ex nemici dovrete chiedere il benestare del Papa, e dubito che l'otterrete!» insistette Patrizi. «Tra le vostre due casate è scorso un tale fiume di sangue che nessun uomo degno di questo nome chiederebbe a sua figlia di attraversarlo. Uno spirito maligno...» «Solo un matrimonio può cacciare gli spiriti maligni!» «Il Papa non la pensa così!» «Può darsi», replicò Salimbeni mentre un sorriso sgradevole gli
compariva sulle labbra, «ma il Papa mi deve denaro. E anche voi. Tutti voi.» La grottesca sparata sortì l'effetto desiderato. Paonazzo dalla rabbia, Niccolino Patrizi si risedette, mentre Salimbeni sfidava con lo sguardo il resto dei governatori per vedere se qualcun altro avesse da ridire sul suo progetto. Ma il podio rimase muto. «Messer Salimbeni!» in mezzo al mormorio di indignazione si sentì una voce e tutti allungarono il collo per vedere chi avesse parlato. «Chi parla?» Salimbeni era sempre felice di avere un pretesto per rimettere al loro posto quelli che considerava inferiori. «Non siate timido!» «Io sono timido come voi siete virtuoso», disse Romeo, palesandosi. «E cosa avreste mai da dirmi, di grazia?» domandò messer Salimbeni tenendo la testa eretta per poter guardare il suo contendente dall'alto in basso. «Solo questo», spiegò Romeo, «che la signora su cui avete messo gli occhi appartiene già a un altro uomo.» «Sul serio?» Salimbeni guardò Tolomei in tralice. «E come mai?» Il giovane Marescotti si erse in tutta la sua statura. «La Vergine Maria l'ha consegnata nelle mie mani affinché non me ne separassi mai. E quello che il Cielo ha unito, l'uomo non può separarlo.» Salimbeni dapprima parve incredulo, poi scoppiò in una risata. «Ben detto, ragazzo, adesso ti riconosco. Di recente un mio buon amico è morto a causa del tuo pugnale, ma sarò generoso e non ti serberò rancore dato che hai accudito così bene la mia futura sposa.» L'uomo si girò come a significare che per lui la conversazione era conclusa. Ora tutti gli occhi erano puntati sul volto sfigurato dalla rabbia di Romeo. Molti provarono pietà per quel giovane, vittima così evidente del malizioso putto con le frecce. «Andiamocene, figlio mio», lo esortò il comandante Marescotti allontanandosi. «Inutile indugiare quando la partita è persa.» «Persa?» si ribellò Romeo, «non c'è neppure stata, la partita!»
«Qualsiasi tipo di accordo quei due uomini abbiano fatto, si sono stretti la mano sotto l'altare della Vergine», disse suo padre. «Sfidali, e sfiderai Iddio.» «Ed è quello che farò!» esclamò. «Visto che il Cielo ha rinnegato se stesso permettendo questa infamia!» Quando il giovane fece un passo avanti per parlare, non ci fu bisogno di zittire nessuno perché tutti gli occhi erano nervosamente puntati su di lui, in attesa. «Santissima Madre di Dio!» gridò Romeo prendendo di sorpresa l'intera folla visto che si stava rivolgendo alla volta della cattedrale anziché a Salimbeni. «Un orrendo crimine è stato commesso nella tua stessa dimora, sotto il tuo stesso manto, proprio questa notte! Ti prego di mostrarti e di punire i malvagi, affinché essi non dubitino del tuo volere divino! Fai che colui che vincerà il Palio sia il prescelto! Concedimi il tuo santo vessillo così che io lo possa stendere sul mio letto nuziale e su di esso giacere con la mia legittima sposa! Fatta giustizia, io te lo renderò, oh Madre Misericordiosa, perché l'avrò vinto per tua intercessione e ricevuto dalle tue stesse mani, affinché tutti vedano chi ritieni meritevole!» Quando Romeo ebbe terminato, non uno solo dei presenti osò guardarlo negli occhi. Alcuni erano pietrificati dalla bestemmia, altri si vergognavano che il giovane Marescotti avesse voluto stringere un accordo così egoista e inconsueto con la Vergine Maria. I più erano dispiaciuti per il padre, il comandante, un uomo rispettato dalla comunità intera. Una cosa era però chiara a tutti. O per mano divina a causa di una tale profanazione o a ragione di macchinazioni politiche, Romeo Marescotti non sarebbe sopravvissuto al Palio.
Capitolo 3 Sì, sì, un graffio; ma perdio, basta. Dov'è il mio paggio? Va', furfante, cerca un medico! MENTRE lasciavo il Museo della Civetta ero dibattuta. Da un lato provavo sollievo che il cencio e il pugnale di Romeo si trovassero nella cassaforte di Peppo. Dall'altro, mi ero pentita di averli ceduti così in fretta. E se mia madre avesse voluto che li usassi io per uno scopo preciso? E se avessero contenuto un indizio per localizzare la tomba di Giulietta? Per tutta la strada dovetti resistere all'impulso di tornare al museo per reclamare i miei tesori. Non lo feci solo perché sapevo che la soddisfazione di riappropriarmene sarebbe presto stata annullata dal timore di perderli di nuovo. Chi poteva dire che sarebbero stati più al sicuro nella cassaforte del Chiusarelli che in quella di Peppo? Dopotutto il farabutto sapeva dove alloggiavo - altrimenti come avrebbe potuto fare irruzione in camera mia? - e prima o poi avrebbe capito dove tenevo i miei oggetti. Credo di ricordare di essermi bloccata in mezzo alla strada. Fino a quel momento non mi era neppure passato per la testa che tornare in albergo sarebbe stata la cosa meno intelligente da fare, anche se non avevo più con me i miei reperti. Il farabutto era senz'altro là che mi aspettava. E dopo aver giocato a nascondino negli archivi dell'università, non sarebbe stato neppure di umore benevolo. Chiaro che dovevo cambiare d'albergo, e dovevo farlo senza lasciare tracce. O forse non era addirittura arrivato il momento buono per saltare sul primo aereo per la Virginia? No. Non potevo mollare tutto. Non quando mi sembrava di vedere uno spiraglio. Avrei cambiato albergo, forse stanotte stessa, con il buio. Sarei diventata invisibile, scaltra, implacabile. Questa volta Giulietta si sarebbe armata senza partire.
Nella stessa strada del Chiusarelli c'era un posto di polizia. Ci sostai un po' davanti a guardare gli agenti che entravano e uscivano e a domandarmi se sarebbe stata una mossa intelligente. Quella cioè di presentarmi alle autorità locali con il rischio che scoprissero la mia doppia identità. Alla fine decisi per il no. Le mie esperienze di Roma e Copenhagen mi avevano fatto capire che i poliziotti sono come i giornalisti: dispostissimi a sentire la tua versione, ma poi preferiscono scrivere la loro. E così tornai a dirigermi verso il centro, voltandomi ogni dieci passi per controllare se qualcuno mi seguisse e arrovellandomi su una possibile strategia da adottare. Feci persino un salto a Palazzo Tolomei per vedere se il dottor Maconi fosse disposto a ricevermi per darmi qualche consiglio. Purtroppo non fu possibile, ma l'impiegata con gli occhiali sottili - ora tutta latte e miele - mi assicurò che il presidente sarebbe stato più che felice di vedermi da lì a dieci giorni, una volta rientrato da una vacanza sul lago di Como. Dal mio arrivo a Siena ero già passata diverse volte di fronte all'imponente ingresso del Monte dei Paschi. E ogni volta la roccaforte dei Salimbeni mi faceva affrettare il passo, per timore di essere avvistata, e anche abbassare la testa, per paura che gli uffici del capo della sicurezza dessero sull'entrata. Ma oggi era diverso. Oggi era il giorno in cui avrei afferrato il toro per le corna e gli avrei dato una bella scrollata. E così oltrepassai il portone gotico ed entrai, facendo del mio meglio perché le telecamere di sorveglianza riprendessero in pieno la mia nuova sicumera. Per un palazzo che era stato ridotto in cenere da famiglie rivali tra cui la mia -, che era stato distrutto dalla furia del popolo, che era stato ricostruito diverse volte, che era stato confiscato dal governo, e alla fine era rinato come istituzione finanziaria nell'anno 1472, diventando così la banca più antica del mondo ancora in funzione, Palazzo Salimbeni emanava un'incredibile aria di solidità e serenità. Gli interni mescolavano con naturalezza elementi medioevali a elementi moderni e, mentre raggiungevo la reception, il vuoto spaziotemporale mi avvolse completamente.
L'addetto alla ricezione era al telefono, ma coprì il ricevitore con la mano prima di chiedermi - prima in italiano e poi in inglese - con chi dovessi parlare. Quando lo informai che ero un'amica personale del capo della sicurezza, e che avevo urgente bisogno di vederlo, l'uomo sorrise e mi disse che potevo trovare la persona che stavo cercando nei sotterranei. Piacevolmente sorpresa che mi avesse lasciata passare così, senza essere né accompagnata né annunciata, cominciai a scendere i gradini con deliberata nonchalance, mentre una schiera di topolini si era messa a ballare il can-can nel mio stomaco. Stranamente le bestiole non si erano mosse quando qualche ora prima avevo dovuto fuggire dal manigoldo in tuta. Adesso invece si stavano dando alla pazza gioia, e solo perché ero sul punto di incontrare Alessandro. Dopo averlo mollato nel ristorante, la sera precedente, non mi era rimasta nessuna voglia di rivederlo. E di certo il sentimento era reciproco. Eppure ora eccomi qua che mi consegnavo a lui senza altra ragione che l'istinto. Janice mi aveva detto che l'istinto è la ragione che va di fretta, ma io non ne ero così sicura. La ragione mi diceva che con tutta probabilità Alessandro e i Salimbeni non erano estranei ai guai in cui mi ero cacciata, mentre l'istinto mi diceva che potevo fidarmi di lui, non foss'altro per sentirmi dire quanto poco fossi di suo gradimento. In fondo alle scale si apriva uno stretto e buio corridoio fiancheggiato da porte con griglie di ferro che facevano somigliare il luogo a una segreta. Cominciavo a temere di aver sbagliato strada quando, da una porta socchiusa, sentii un improvviso scoppio di voci seguito da grida di giubilo. Mi avvicinai con un certo nervosismo. Che trovassi Alessandro oppure no, avrei dovuto dare un bel po' di spiegazioni e la logica non era mai stata il mio forte. Facendo capolino, vidi un tavolo coperto di panini mezzi mangiati, pareti rivestite di fucili e tre uomini in maglietta e pantaloni d'ordinanza - uno dei quali era Alessandro - attorno a un piccolo apparecchio tv. Dapprima pensai che stessero osservando le registrazioni di una delle telecamere di sicurezza dell'edificio, ma quando si misero tutti a brontolare e a
prendersi la testa tra le mani, capii che stavano guardando una partita di calcio. Visto che nessuno aveva reagito al mio bussare, avanzai di un poco e mi schiarii la voce. Finalmente Alessandro girò il capo per vedere chi avesse l'ardire di interrompere la partita. Quando mi vide lì, impalata sulla soglia, fece la faccia di qualcuno appena colpito da una padellata in testa. «Scusa il disturbo», mormorai, cercando di non avere troppo l'aria della timida cerbiatta che sentivo invece di avere, «ce l'hai un minuto?» In pochi secondi gli altri due uomini lasciarono la stanza non prima di essersi cacciati in bocca i panini sbocconcellati e aver afferrato le armi e le giacche dell'uniforme. «Buone nuove, immagino», disse Alessandro dopo aver spento la tv e appoggiato il telecomando. Chiaramente non pensava che avessi bisogno del resto della frase. Il modo in cui mi osservava mi dava l'idea - malgrado appartenessi alla feccia della società - che non fosse del tutto dispiaciuto di vedermi. Mi sedetti su una sedia facendo scorrere sull'armamentario alle pareti. «Questo è il tuo ufficio?»
lo
sguardo
«Già», si rialzò le bretelle e si sedette all'altro capo del tavolo. «Qui è dove interroghiamo la gente. Soprattutto americani. Una volta era la camera della tortura.» La sfida che gli leggevo negli occhi mi fece dimenticare il disagio e la ragione per cui mi trovavo lì. «Sembra fatta per te.» «Ne ero certo.» Appoggiò uno stivale al tavolo e sì inclinò con la sedia fin contro al muro. «Okay, ti ascolto. Devi avere una ragione molto buona per venire qui.» «Non la chiamerei esattamente una ragione.» Distolsi lo sguardo cercando invano di rammentarmi la storia che mi ero preparata scendendo le scale. «Chiaramente tu mi reputi una perfetta stronza...» «Ne ho viste di peggio.» «...e anch'io faccio fatica a definirmi una tua fan.»
Fece un sorriso sardonico. «Eppure eccoti qua.» Incrociai le braccia sul petto soffocando una risatina nervosa. «Tu non credi io sia Giulietta Tolomei e, sai una cosa? Non me ne importa. Il punto è che...» deglutii per far uscire le parole, «qualcuno sta cercando di uccidermi.» «Vuoi dire, oltre a te stessa?» Il suo sarcasmo mi fece riacquistare la calma. «C'è un tizio che mi segue. Un brutto ceffo. In tuta. Certo della malavita. Pensavo fosse amico tuo.» Alessandro non mosse neppure un muscolo. «Così, cosa vuoi che faccia?» «Non saprei...» cercai un barlume di simpatia nei suoi occhi, «aiutarmi forse?» Il barlume ci fu, ma soprattutto di trionfo. «E ricordarmi perché dovrei farlo?» «Ehi!» esclamai, sinceramente sconvolta dal suo atteggiamento. «Sono... una damigella in pericolo!» «E chi sarei io, Zorro?» Ingoiai un ruggito, furiosa con me stessa per aver pensato che si sarebbe preoccupato. «Pensavo che gli uomini italiani fossero sensibili al fascino femminile.» Lui ponderò l'idea. «È così. Quando ce lo troviamo davanti.» «Okay», dissi, cercando di controllare la rabbia. «D'accordo. Vuoi che me ne vada all'inferno, e ci andrò. Tornerò negli Stati Uniti e non disturberò più né te né la tua madrina. Ma prima voglio che tu scopra chi è questo tizio e che qualcuno gli dia una lezione.» «E quel qualcuno sono io?» Gli lanciai un'occhiataccia. «Forse no. Pensavo solo che qualcuno come te non volesse che qualcuno come lui girasse a piede libero nella tua preziosa Siena. Ma...» feci cenno di alzarmi, «vedo che non hai capito.» Finalmente Alessandro si protese in avanti e appoggiò i gomiti sul tavolo facendo finta di essere preoccupato. «D'accordo, signorina
Tolomei, dimmi perché pensi che qualcuno voglia ammazzarti.» A parte il fatto che non avevo dove rifugiarmi, me ne sarei andata su due piedi, non fosse stato che Alessandro mi aveva finalmente chiamata «signorina Tolomei». «Ecco, che ne dici di uno che...» mi agitai tutta sul bordo della sedia, «mi segue per la strada, fa irruzione nella mia camera d'albergo e non più tardi di stamattina mi viene dietro con una pistola...» «Questo non significa che voglia farti fuori», disse Alessandro con grande pazienza. Poi studiò il mio viso con attenzione. «Come vuoi che ti aiuti quando non mi stai dicendo la verità?» «Ma è la verità! Te lo giuro!» Cercai di immaginare un altro modo per convincerlo ma fui distratta dai tatuaggi sul suo avambraccio destro, che il mio cervello aveva notato e che era tutto intento a elaborare. Questo non era l'Alessandro che mi ero aspettata di trovare a Palazzo Salimbeni. L'Alessandro che conoscevo era elegante e riservato, se non addirittura démodé, e certamente non aveva una libellula - o cos'altro diamine fosse - disegnata sul polso. Se riuscì a leggermi dentro, non lo diede a vedere. «Non tutta la verità. Ci sono un sacco di pezzi mancanti in questo puzzle.» Saltai su. «Cosa ti fa pensare che ci sia dietro una storia più grossa?» «C'è sempre una storia più grossa. Allora, dimmi che cosa vuole il tizio.» Inspirai profondamente, fin troppo consapevole di essermi messa da sola in quella situazione e che era legittimo aspettarsi delle spiegazioni più dettagliate. «D'accordo, penso che il tizio voglia mettere le mani su qualcosa che mi ha lasciato mia madre», mi decisi a dire. «Dei cimeli di famiglia che i miei genitori hanno trovato molti anni fa e che mia madre voleva passassero a me. Così li ha nascosti in un posto che potessi trovare solo io. Perché? Perché, che ti garbi o meno, io sono Giulietta Tolomei.» Lo guardai con aria di sfida e notai che stava studiando il mio viso con un accenno di sorriso sulle labbra. «E li hai trovati?» «Non credo. Non ancora. Quello che ho trovato è stata una
scatola piena di carte... un vecchio stendardo e una specie di pugnale. Francamente non vedo come...» «Aspetta!» Alessandro fece un gesto con la mano per frenarmi. «Che tipo di carte e che tipo di pugnale?» «Racconti, lettere. Roba di poco conto. Lasciamo perdere. E lo stendardo, a quanto pare, è un cencio del 1340. L'ho trovato avvolto attorno a un pugnale, tutto lì, in un cassetto...» «Un momento! Stai dicendo che hai trovato un cencio del 1340?» Mi sorpresi che la notizia lo facesse reagire anche più violentemente di mio cugino Peppo. «Sì, penso di sì. Apparentemente è parecchio speciale. E il pugnale...» «Dov'è adesso?» «In un posto sicuro. L'ho lasciato al Museo della Civetta.» Vedendo che non capiva, aggiunsi: «Mio cugino Peppo Tolomei ne è il curatore. Mi ha detto che l'avrebbe messo da parte per me». Alessandro si mise entrambe le mani fra i capelli. «Che c'è?» chiesi. «Non è stata una buona idea?» «Merda!» Si alzò, estrasse una pistola da un cassetto e la infilò nella fondina che aveva nella cintura. «Dai, andiamo!» «Calma! Cosa succede?» Mi misi in piedi riluttante. «Non mi dirai che andiamo a trovare mio cugino con... quella pistola?» «No, non te lo dirò neppure. Muoviti!» Mentre percorrevamo di corsa il corridoio, lui diede un'occhiata ai miei piedi. «Ma puoi correre con quei trampoli?» «Ascolta», dissi, sforzandomi di stargli dietro, «voglio solo che una cosa sia assolutamente chiara. Non credo nelle armi. Voglio la pace. D'accordo?» Alessandro si bloccò in mezzo al corridoio, tirò fuori la pistola e ci strinse attorno la mia mano prima che me ne rendessi conto. «La senti? È una pistola. Esiste! E là fuori c'è un sacco di gente che crede nelle pistole. Perciò scusami se mi prendo cura di questa gente in modo che tu possa godere della tua pace.»
Lasciammo la banca da un'uscita posteriore e percorremmo di corsa una strada aperta al traffico. Non era lo stesso percorso che conoscevo, ma ci portò comunque dritti alla piazzetta del Castellare. Mentre ci avvicinavamo alla porta del Museo della Civetta, Alessandro estrasse la pistola ma io feci finta di niente. «Stai dietro di me», mi intimò, «e se le cose si mettono male, sdraiati a terra e copriti la testa.» Senza aspettare la mia risposta, si mise un dito sulle labbra e aprì piano piano la porta. Come da istruzioni, entrai nel museo tenendomi alcuni passi dietro di lui. Non avevo alcun dubbio che stesse esagerando, ma l'avrei lasciato arrivare a quella conclusione da solo. E difatti l'edificio era immerso nel silenzio e non c'era nessun segno di attività criminale. Attraversammo una stanza dopo l'altra, a pistola spianata, e alla fine mi fermai. «Okay, senti...» Ma Alessandro mi appoggiò di botto una mano sulla bocca per farmi tacere e, mentre ce ne stavamo lì bloccati, tutti e due sul chi vive, lo udii anch'io: il borbottio di qualcuno che si lamentava. Affrettando il passo per arrivare alle ultime stanze, raggiungemmo presto la fonte dei lamenti: lo studio di mio cugino. Dopo che Alessandro ebbe verificato che non si trattava di un trabocchetto, ci precipitammo dentro e trovammo Peppo disteso a terra, malconcio ma vivo. «Oh, Peppo!» gemetti, cercando di tirarlo su. «Stai bene?» «No!» ululò. «No, che non sto bene! Penso di essere caduto. Non riesco a muovere la gamba.» «Resisti...» Mi guardai in giro per vedere dove avesse messo la stampella e gli occhi mi caddero sulla cassaforte nell'angolo. Aperta, e vuota. «Hai visto chi è stato?» «Chi è stato che cosa?» Peppo cercò di mettersi seduto ma fece una smorfia di dolore. «Oh, la mia testa! Dove sono le mie pillole? Salvatore! Oh no, un momento. Salvatore oggi non c'è. Che giorno è oggi?» «Non ti muovere!» Alessandro si inginocchiò ed esaminò brevemente la gamba di Peppo. «Penso che la tibia sia rotta. Chiamo un'ambulanza.»
«No, aspetta!» Evidentemente Peppo non voleva un'ambulanza. «Voglio solo andare a chiudere la cassaforte. Avete capito? Devo chiuderla.» «Pensiamoci dopo alla cassaforte», dissi. «Il pugnale... è in direzione. Stavo cercandolo in un libro. Deve tornare nella cassaforte. È malefico!» Alessandro e io ci scambiammo un'occhiata. Non era proprio il momento di dire a Peppo che era troppo tardi per chiudere la cassaforte. Chiaramente il cencio non c'era più, come non c'era più nessuno degli altri tesori che mio cugino custodiva. Così mi alzai ed entrai in direzione dove trovai il pugnale appoggiato sul tavolo accanto a una guida per collezionisti di armi medioevali. Con il cimelio stretto nella mano, tornai nello studio di Peppo da cui in quel momento Alessandro stava chiamando i soccorsi. «Ah, eccolo lì», esclamò mio cugino vedendo il pugnale. «Svelta, mettilo in cassaforte. Quell'affare non porta bene. Guarda cosa mi è successo. Il libro dice che ha dentro lo spirito del male.» Peppo aveva subito una piccola commozione cerebrale e aveva un osso rotto. Dopo averlo collegato a vari macchinari, la dottoressa insistette per trattenerlo in ospedale quella notte, giusto per scrupolo. Purtroppo insistette anche per farsi raccontare che cosa gli fosse capitato di preciso. «Le sta dicendo che qualcuno l'ha colpito in testa e gli ha portato via tutto quello che c'era in cassaforte», mi mormorò Alessandro traducendomi l'animata conversazione tra la dottoressa e il suo irascibile paziente, «e anche che vuole parlare con un dottore vero, e che nessuno dovrebbe colpirlo in testa proprio nel suo museo.» «Giulietta!» esclamò Peppo quando finalmente riuscì a liberarsi della dottoressa, «che cos'è questa storia? L'infermiera dice che un rapinatore è entrato nel museo!» «Temo sia vero», gli dissi prendendogli la mano. «Mi spiace così tanto. È tutta colpa mia. Se non avessi...» «E chi è quello lì?» Peppo guardò Alessandro con sospetto. «È qua
per far rapporto? Digli che non ho visto niente.» «È il capitano Santini», gli spiegai. «Ti ha salvato, ricordi? Se non fosse stato per lui, staresti ancora... molto male.» «Ah!» Peppo non era ancora disposto ad ammansirsi. «L'ho già visto. È un Salimbeni. Non ti avevo detto di stare alla larga da quella gente?» «Sssh! Ti prego!» Cercai di tranquillizzarlo come meglio potevo ma sapevo che Alessandro aveva sentito tutto. «Adesso devi riposare.» «No, niente riposo! Ho bisogno di parlare con Salvatore. Dobbiamo scoprire chi è stato. C'erano molti tesori in quella cassaforte.» «Temo che il ladro volesse impossessarsi solo del cencio e del pugnale», dissi. «Se non te li avessi dati, niente di tutto questo sarebbe successo.» Peppo sembrò confuso. «Ma chi vorrebbe... oh!» Gli occhi gli si annebbiarono in maniera strana, come se stesse ricordando un passato dai contorni incerti. «Certo! Perché non ci ho pensato? Ma lo farebbe davvero?» «Di chi stai parlando?» Gli strinsi la mano cercando di mantenerlo lucido. «Sai chi è stato?» Peppo mi afferrò il polso e mi fissò con sguardo febbrile. «Diceva sempre che sarebbe tornato. Patrizio, tuo padre. Diceva sempre che un giorno Romeo sarebbe tornato a riprendersi... la sua vita... l'amore... tutto quello che gli avevamo portato via.» «Peppo», gli dissi, carezzandogli il braccio, «penso che dovresti cercare di dormire un po'.» Con la coda dell'occhio vidi che Alessandro stava soppesando con aria intenta il pugnale di Romeo come se ne volesse verificare il potere occulto. «Romeo», continuò mio cugino mezzo addormentato ora che il sedativo aveva cominciato a fare effetto. «Romeo Marescotti. Va bene, non puoi fare il fantasma per sempre. Forse questa è la sua vendetta. Su tutti noi. Per come abbiamo trattato sua madre. Era, come si dice, un figlio illegittimo...? Capitano?» «Nato al di fuori del matrimonio», aggiunse Alessandro, unendosi
infine alla conversazione. «Sì, sì!» annuì Peppo. «Nato al di fuori del matrimonio! Fu un grosso scandalo. Oh, ma lei era una ragazza talmente bella... così lui li ha cacciati...» «Chi?» «Marescotti. Il nonno. Era un uomo all'antica. Ma molto attraente. Ricordo ancora la comparsa del 1965, il gruppo di figuranti che rappresenta la contrada nel corteo storico. Fu la prima vittoria di Aceto, sai? Ah, Topolone, che splendido cavallo! Non ne fanno più così. A quei tempi non prendevano le storte e si facevano squalificare. E non avevamo bisogno di tutti quei veterinari e autorità che ci dicessero se potevamo correre... uffa!» Scosse il capo disgustato. «Peppo?» Gli diedi un colpetto sulla mano. «Stavi parlando dei Marescotti. Di Romeo. Ricordi?» «Oh, sì! Dicevano che il ragazzo avesse delle mani malvagie. Tutto quello che toccava... lo rompeva. I cavalli perdevano. La gente moriva. È quello che dicevano. Perché era stato chiamato come Romeo, capisci? Proveniva da quella stirpe. È nel sangue... guai e solo guai. Tutto purché fosse veloce e rumoroso, non poteva stare fermo un minuto. Sempre scooter, motociclette...» «Lo conoscevi?» «No, so solo quello che diceva la gente. Non sono più tornati. Lui e sua madre. Nessuno li ha più visti. Dicono che fosse cresciuto a Roma come uno sbandato, e che poi divenne un criminale. Che avesse ucciso delle persone. Dicono... dicono che morì. A Nassiriya. Sotto falso nome.» Mi girai a guardare Alessandro e incontrai il suo sguardo, inaspettatamente torvo. «Dov'è Nassiriya?» sussurrai. «Lo sai?» Per qualche ragione la mia domanda gli andò di traverso ma non fece in tempo a rispondermi perché Peppo fece un sospirone e andò avanti: «Secondo me è solo una leggenda. La gente ama le leggende. E le tragedie. E i complotti. Qui d'inverno è molto tranquillo». «Così, non ci credi?»
Peppo sospirò di nuovo, mentre le palpebre gli si appesantivano. «Come faccio a sapere a cosa credo ancora? Oh, perché non arriva un medico?» Proprio in quel momento la porta si spalancò per lasciar entrare l'intera famiglia Tolomei, accorsa, tra grida e lamenti, al capezzale dell'eroe caduto. Ovviamente la dottoressa doveva aver già fornito un sunto dell'accaduto visto che Pia, la moglie di Peppo, mi trapassò con un'occhiataccia mentre mi spingeva via per prendere il mio posto accanto al marito. Nessuno espresse alcunché che potesse essere interpretato come un cenno di riconoscenza. Per completare la mia umiliazione la vecchia nonna Tolomei varcò traballando la soglia nel preciso momento in cui pensavo di darmi alla fuga attraverso quella stessa soglia. L'anziana signora non fece nulla per nascondere che riteneva responsabile dell'attacco la sottoscritta, e non il ladro. «Tu», imprecò puntandomi un dito contro il petto, «bastarda!» Disse anche molte altre cose che non capii. Paralizzata da tanta furia, come un cervo sul punto di essere investito da un treno, me ne stetti lì impalata, incapace di muovermi, finché Alessandro, stufo della sceneggiata, mi prese per un gomito e mi portò al sicuro oltre la porta. «Caspita se è arrabbiata la nonna! Da non credere che è mia zia! Che cosa ha detto?» «Lascia perdere», mi rispose Alessandro, percorrendo il corridoio dell'ospedale con l'espressione di qualcuno che vorrebbe avere una granata a portata di mano. «Ti ha chiamato Salimbeni!» osservai, orgogliosa di aver capito almeno quello. «Come no! E non era un complimento.» «Me, come mi ha chiamata? Non ho capito.» «Non è importante.» «Sì che lo è.» Mi arrestai in mezzo al corridoio. «Come mi ha chiamata?» Alessandro mi guardò negli occhi con aria stranamente intenerita.
«Ha detto 'figlia bastarda, non sei una di noi'.» «Oh!» Feci una pausa per digerire le parole. «A quanto pare nessuno crede che io sia Giulietta Tolomei. Forse me lo merito. Forse questo è una specie di castigo riservato alle persone come me.» «Io ti credo.» Lo guardai sorpresa. «Sul serio? Questa è nuova. E da quando?» Fece spallucce e riprese a camminare. «Da quando sei entrata nel mio ufficio.» Non seppi cosa rispondere a questa improvvisa gentilezza e così facemmo il resto del percorso in silenzio. Fuori dall'ospedale ci trovammo in quella morbida luce dorata che segna la fine del giorno e l'inizio di qualcosa di meno prevedibile. «Così Giulietta», disse Alessandro girandosi verso di me con le mani sui fianchi, «c'è nient'altro che dovrei sapere?» «Ecco», risposi, strizzando gli occhi nel riverbero, «ci sarebbe anche questo tizio in moto...» «Santa Maria!» «Ma lui è diverso. Lui semplicemente... mi segue. Non so cosa voglia...» Alessandro alzò gli occhi al cielo. «Non sai quello che vuole! Vuoi che te lo dica io quello che vuole?» «No, basta così.» Mi diedi un'aggiustatina al vestito. «Non è un problema. Ma quell'altro tipo, quello in tuta, è entrato in camera mia. Penso che forse dovrei cambiare albergo.» «Tu pensi questo?» Alessandro non era convinto. «Ti dico io cosa dobbiamo fare. Per prima cosa andiamo alla polizia...» «No, la polizia, no!» «Sono gli unici che possono dirti chi ha attaccato Peppo. Dal Monte dei Paschi non ho accesso alle foto segnaletiche. Non preoccuparti, vengo con te. Li conosco.» «Come no!» Per poco non gli diedi uno spintone. «Questa è una furbata per farmi sbattere in prigione.»
Alessandro alzò le braccia spazientito. «Se ti volessi in prigione, non sarebbe necessario che facessi il furbo, o no?» «Ehi, stammi a sentire!» mi drizzai in tutta la mia altezza. «I tuoi giochetti di potere continuano a non piacermi!» Il mio atteggiamento lo fece sorridere. «Allora perché continui a giocare?» La sede della polizia di Siena era un luogo molto tranquillo. Non si sapeva bene quando, in passato, l'orologio a muro avesse esaurito le pile e si fosse fermato alle sette meno dieci. Quella sera, mentre facevo scorrere foto dopo foto di malviventi, cominciai anch'io a sentirmi esaurita. Più osservavo quei volti sullo schermo del computer, più mi rendevo conto che, in tutta onestà, non avevo la più pallida idea di come fosse da vicino il mio molestatore. La prima volta che lo avevo visto, portava occhiali da sole. La seconda volta era troppo buio perché scorgessi alcunché. E la terza volta - cioè quel pomeriggio - ero stata troppo concentrata sulla pistola che aveva in mano per soffermarmi sui dettagli del suo grugno. «Mi dispiace...» mormorai ad Alessandro che era rimasto pazientemente seduto accanto a me con i gomiti sulle ginocchia nell'attesa del mio grido di vittoria, «ma non riconosco nessuno.» Feci un sorriso imbarazzato all'agente di polizia responsabile del computer. «Scusatemi.» «Nessun problema», mi rispose lei con un sorriso, dato che ero una Tolomei, «fra non molto potremo fare un confronto con le impronte digitali.» La prima cosa che Alessandro aveva fatto appena giunto al posto di polizia era stato notificare la rapina al Museo della Civetta. Due pantere della polizia erano state subito mandate sul posto con quattro agenti a bordo fin troppo felici di occuparsi finalmente di un vero crimine. Se il manigoldo era stato tanto fesso da lasciare tracce nel museo, specie impronte digitali, sarebbe stata solo una questione di tempo scoprire chi fosse, ammesso naturalmente che fosse stato arrestato in precedenza. «Mentre aspettiamo», dissi, «non pensi che dovremmo cercare se
c'è un Romeo Marescotti?» Alessandro mi scrutò perplesso. «Davvero credi a quello che ha detto Peppo?» «Perché no? Forse è lui. Forse era sempre lui.» «In tuta? Non credo.» «Perché no? Lo conosci?» Alessandro inspirò. «Sì, e non è nel computer. Ho già controllato.» Lo guardai esterrefatta e ammutolita. Prima che potessi approfondire la cosa, entrarono due ufficiali di polizia. Uno di loro reggeva un portatile che mi piazzò davanti. Entrambi non parlavano inglese, così Alessandro dovette tradurmi quello che mi stavano dicendo. «Hanno trovato un'impronta digitale nel museo», mi spiegò, «e vogliono tu dia un'occhiata alle foto per vedere se riconosci qualcuno.» Mi girai a guardare il monitor. Era apparsa la registrazione di cinque uomini l'uno accanto all'altro in un confronto all'americana. Tutti sembravano guardarmi con un misto di apatia e schifo. Dopo alcuni secondi dissi: «Non ne sono certa al cento per cento, ma se volete sapere quello che più somiglia al tipo che mi inseguiva, direi che è il numero quattro». Dopo un breve scambio di battute con gli ufficiali, Alessandro fece un cenno di assenso. «È l'uomo che ha fatto irruzione nel museo. Adesso vogliono sapere perché ci è entrato e per quale motivo continua a seguirti.» «E se invece mi diceste chi è?» Studiai le loro espressioni serie. «È una specie di... assassino?» «Si chiama Bruno Carrera. In passato è stato coinvolto nel crimine organizzato ed è stato legato ad alcuni bruttissimi ceffi. Era sparito da un po' ma ora...» Alessandro fece un cenno al monitor, «è tornato.» Guardai nuovamente la foto. Bruno Carrera non era sicuramente uno di primo pelo. Strano che avesse avuto voglia di uscire dal ritiro per rubare un pezzo di vecchia seta di nessun valore commerciale. «Giusto per curiosità», parlai senza pensare, «Carrera è mai stato
collegato a un certo Luciano Salimbeni?» «Bella mossa», mi mormorò Alessandro sarcastico, «pensavo tu non volessi rispondere a nessuna domanda.» Alzai gli occhi e vidi che gli ufficiali mi stavano studiando con rinnovato interesse. Chiaramente si stavano domandando cosa ci facessi a Siena e quante informazioni in più a proposito del furto al museo avessi omesso di fornire. «La signorina conosce Luciano Salimbeni?» chiese uno di loro ad Alessandro. «Di' loro che è stato mio cugino Peppo a parlarmi di Luciano Salimbeni», lo pregai. «Apparentemente era già interessato ai cimeli di famiglia vent'anni fa. La cosa ha il vantaggio di essere vera.» Alessandro venne in mio soccorso come meglio poté ma gli agenti non erano affatto soddisfatti e continuarono a chiedere altri particolari. Fu uno strano confronto: i poliziotti mostravano un evidente rispetto per Alessandro, ma nella mia storia c'era qualcosa che non quadrava. A un certo punto i due uscirono dalla stanza e io mi rivolsi confusa ad Alessandro. «Abbiamo finito? Possiamo andare adesso?» «Pensi davvero che ti lasceranno andare prima di aver spiegato come mai la tua famiglia è coinvolta con uno dei criminali più ricercati di questo Paese?» mi chiese lui stancamente.
«Coinvolta? Tutto quello che ho detto era che Peppo
sospettava...»
«Giulietta...» Alessandro si curvò verso di me per non farsi sentire da nessuno, «perché non mi hai raccontato tutto?» Prima che potessi rispondere, i due agenti tornarono con una stampata del file di Bruno Carrera e chiesero ad Alessandro di farmi delle domande specifiche su un punto o due. «Sembra che tu abbia ragione», mi disse scorrendo il testo. «Bruno di tanto in tanto svolgeva degli incarichi per conto di Luciano Salimbeni. Una volta fu arrestato e raccontò alla polizia una storia su una statua con gli occhi d'oro...» Mi guardò intensamente come a soppesare la mia sincerità. «Ne sai qualcosa?»
Seppure un po' costernata nell'apprendere che la polizia era al corrente della statua d'oro - anche se quello che sapeva non era del tutto preciso - riuscii tuttavia a scuotere la testa con forza. «Non ne ho la più pallida idea.» Per alcuni secondi i nostri sguardi restarono fissi l'uno nell'altro, e io riuscii a non abbassare il mio. Alla fine, Alessandro tornò alla stampata. «Sembra che Luciano sia stato anche coinvolto nella morte dei tuoi genitori, giusto poco prima che sparisse dalla circolazione.» «Sparisse? Pensavo fosse morto.» Alessandro non mi guardò neppure. «Stai attenta. Non ti chiederò neppure chi te l'ha detto. Sono nel giusto se ne deduco che non intendi dire nient'altro a questi ufficiali?» Aspettò la mia conferma e poi proseguì: «In questo caso ti consiglio di cominciare a sembrare sotto shock in modo da potercene andare. Hanno già chiesto due volte il tuo numero di previdenza sociale». «Prima che ce ne scordiamo sei stato tu a trascinarmi qui!» sibilai sottovoce. «E ora ti trascinerò fuori.» Mi cinse con un braccio carezzandomi nello stesso tempo i capelli, come avessi bisogno di essere consolata. «Non preoccuparti per Peppo. Si riprenderà.» Gli diedi corda e mi abbandonai sulla sua spalla, emettendo anche un profondo singulto che sembrava quasi vero. Alla vista del mio stato confusionale, gli agenti alla fine si allontanarono e ci lasciarono soli. Dopo cinque minuti ce ne andavamo assieme dal posto di polizia. «Ottimo lavoro», disse Alessandro non appena fummo fuori portata d'orecchio. «Anche il tuo. Benché questa non sia stata una delle mie giornate migliori, perciò non aspettarti che faccia i salti di gioia.» Si fermò per guardarmi con aria seria. «Almeno adesso conosci il nome del tuo inseguitore. Non era per questo motivo che sei venuta nel mio ufficio?» Mentre eravamo alla polizia erano calate le tenebre e i lampioni coprivano tutto di una morbida luce dorata. Non fosse stato per le
Vespe che ci saettavano intorno, l'intera piazza sarebbe sembrata il palcoscenico di un teatro. «Che cosa significa esattamente 'ragazza'?» chiesi a un tratto. «Qualcosa di brutto?» Alessandro si sprofondò le mani in tasca e cominciò a camminare. «Avevo capito che se non gli avessi detto che eri la mia fidanzata, o ragazza, avrebbero continuato a chiedermi il tuo numero di previdenza sociale. E il tuo numero di telefono.» Feci una risata. «E non si sono domandati che cosa diavolo ci stesse a fare Giulietta con un Salimbeni?» Alessandro abbozzò un sorriso ma mi accorsi che la battuta l'aveva turbato. «Temo che non insegnino Shakespeare all'accademia di polizia.» Passeggiammo per un po' in silenzio. Sarebbe stato il momento di andare ognuno per la propria strada, ma non avevo voglia di separarmi da Alessandro. Senza contare il fatto che Bruno Carrera avrebbe potuto essere lì che mi aspettava quando fossi rientrata in albergo. Rimanere accanto ad Alessandro mi sembrava la cosa più giusta da fare. «Adesso potrebbe essere il momento adatto per ringraziarti?» gli dissi. «Adesso?» Controllò l'orologio. «Assolutamente sì. Adesso è il momento adatto.» «Che ne dici se ti invito a cena?» La mia proposta sembrò divertirlo. «Perché no? A meno che tu preferisca intrattenerti sul balcone nell'attesa che arrivi Romeo.» «Qualcuno è entrato in camera mia passando dal balcone. Ricordi?» «Capisco.» Mi guardò fisso. «Vuoi qualcuno che ti protegga.» Aprii la bocca per dargli una rispostaccia ma scoprii che non ne avevo voglia. La verità era che, dopotutto quello che era successo e che poteva ancora succedere, desideravo solo che Alessandro - con tanto di pistola - rimanesse al mio fianco per tutta la durata del mio soggiorno a Siena. «Ebbene», confessai, ingoiando il mio orgoglio,
«suppongo che non avrei nulla da obiettare.»
Capitolo 4 Tu sei innamorato: fatti prestare le ali di Cupido e vola al di là di ogni limite. Siena, 1340 ERA il giorno del Palio e le genti di Siena stavano lietamente galleggiando in un mare di melodie. Ogni strada si era fatta rivolo, ogni piazza vortice di estasi religiosa, e quelli trasportati dalla corrente continuavano ad agitare vessilli e stendardi come a voler toccare con essi la Madre di tutti che sta nei Cieli. La marea di umanità devota aveva da tempo sfondato gli sbarramenti della città per disperdersi in campagna fino a Fontebecci, alcuni chilometri a nord di Porta Camollia. Qui, centinaia di teste ondeggianti fissavano intente i quindici cavalieri del Palio che emergevano dai loro padiglioni in pieno assetto da battaglia, pronti a onorare la Vergine incoronata di fresco con un dispiego di virile possanza. Mastro Ambrogio ci aveva messo quasi tutta la mattinata per abbandonare la città, facendosi strada a gomitate nella ressa. Si fosse sentito meno in colpa sull'intera faccenda, ci avrebbe rinunciato e avrebbe già fatto dietrofront un migliaio di volte, prima ancora di essere a metà del cammino per Fontebecci. Ma non poteva. Come si sentiva disperato quella mattina il vecchio artista! Che piega tremenda aveva preso il suo intervento negli affari privati dei due giovani! Se non avesse avuto tanta fretta a congiungere beltà con beltà in nome della beltà, Romeo non avrebbe mai saputo che Giulietta era viva, e lei da parte sua non sarebbe stata contagiata dalla passione. Il presagio di disastro imminente che provava il Maestro non era tuttavia condiviso dalla folla giubilante attraverso cui arrancava nella
sua furia di giungere a Fontebecci prima che iniziasse la corsa. La fiumana avanzava compatta ma nessuno sembrava avere una fretta particolare di proseguire fino alla meta, una volta assicuratosi un posto di vedetta ai margini della strada. Di sicuro all'area di partenza, circondata dai padiglioni, ci sarebbero state cose interessanti da vedere. Per non parlare delle false partenze e della parata di aristocratici i cui figli erano in gara. Ma dopotutto, quale spettacolo sarebbe stato più esaltante del boato provocato da quindici destrieri da guerra al galoppo? Quando infine mastro Ambrogio giunse a destinazione, si diresse immediatamente verso lo stendardo con l'aquila dei Marescotti. Romeo era già emerso dalla sua tenda gialla, circondato dagli uomini di famiglia. Sui loro visi, neanche l'ombra di un sorriso. Persino il comandante Marescotti, che era conosciuto per avere sempre una parola d'incoraggiamento per tutti, a prescindere dalla gravità della situazione, aveva l'aspetto di un soldato consapevole di essere caduto in un'imboscata. Fu lui a trattenere il cavallo mentre Romeo montava in sella, e fu anche il solo a rivolgere direttamente la parola a suo figlio. «Non temere», il Maestro sentì che diceva mentre sistemava la placca di metallo sul muso dell'animale, «ha le sembianze di un angelo, ma vedrai che Cesare correrà come un demonio.» Romeo si limitò ad assentire, troppo eccitato per parlare, poi prese la lancia con il vessillo dell'Aquila che gli veniva porta. Avrebbe dovuto cavalcare con essa per tutto il tragitto e, con l'aiuto della Vergine Maria, una volta giunto al traguardo, quella stessa lancia sarebbe stata rimpiazzata dal cencio. Senza l'aiuto della Vergine, invece, lui sarebbe stato l'ultimo a piantare lo stendardo di fronte alla cattedrale e in cambio avrebbe avuto un porcellino a simboleggiare la sua vergogna. Proprio mentre stavano per consegnargli l'elmo, Romeo si accorse dell'arrivo di mastro Ambrogio e la sua sorpresa fu tale che il cavallo si innervosì sotto di lui. «Maestro!» esclamò con tono comprensibilmente amareggiato, «siete venuto a dipingere la mia rovina? Vi assicuro che sarà un bello spettacolo per l'occhio di un artista!»
«Giusta rampogna», replicò mastro Ambrogio. «Ti ho fornito la mappa di un disastro e ora voglio porvi rimedio.» «Rimedia in fretta, vecchio!» disse Romeo. «Vedo che i canapi sono in posizione.» «Intendo farlo, se mi lasci parlar chiaro.» «Non abbiamo tempo che per un discorso chiaro», intervenne il comandante Marescotti. «Quindi, sentiamo!» Mastro Ambrogio si schiarì la voce. Il monologo che si era preparato fin dalla mattina ora gli era uscito di testa, e a malapena ricordava la prima frase. Ma l'emergenza ebbe presto la meglio sull'eloquenza, e così sciorinò le informazioni man mano che gli venivano in mente. «Sei in grave pericolo», cominciò, «e se non mi credi...» «Vi crediamo!» ringhiò il capitano. «Dateci i dettagli!» «Hassan, uno dei miei studenti», continuò il Maestro, «la scorsa notte ha sentito per caso una conversazione a Palazzo Salimbeni. Stava lavorando a un angelo sul soffitto, credo un cherubino...» «All'inferno il cherubino!» ruggì il comandante. «Diteci che cosa Salimbeni ha in mente per mio figlio!» Mastro Ambrogio prese fiato. «Credo che il piano sia il seguente: qui a Fontebecci non succederà nulla perché ci sono troppi occhi in giro. Ma a metà percorso, prima di Porta Camollia, dove lo stradone si allarga, il figlio di Tolomei e qualcun altro cercherà di bloccarti o spingerti nel fossato. Se il figlio di Salimbeni avesse molto vantaggio su di te, si accontenteranno di farti rallentare. E questo è solo l'inizio. Una volta entrato in città, presta la massima attenzione nell'attraversare le contrade controllate da Salimbeni. Quando costeggi i palazzi nei quartieri di Magione o di Santo Stefano, ci saranno individui nelle torri che ti getteranno delle cose addosso, se sei fra i primi tre cavalieri. Una volta arrivato a San Donato e Sant'Egidio, saranno meno audaci, però se hai molte lunghezze di vantaggio e sei prossimo al traguardo, oseranno qualunque cosa.» Romeo guardò suo padre. «Che cosa ne pensate?» «La stessa cosa che pensi tu», rispose Marescotti. «Non è una
sorpresa, me l'aspettavo. Ma grazie al Maestro, ora non ci sono più dubbi. Romeo, appena partito devi lanciarti davanti al gruppo e rimanere in testa. Non risparmiare il cavallo, vai come il vento. Una volta che arrivi a Porta Camollia, devi lasciare che ti sorpassino uno dopo l'altro fino a quando non ti trovi in quarta posizione.» «Ma...» «Non interrompermi! Voglio che tu rimanga al quarto posto finché non sei fuori da Santo Stefano. Poi puoi recuperare il terzo o il secondo posto. Ma non il primo. Non prima di essere oltre Palazzo Salimbeni, hai capito?» «È troppo vicino al traguardo! Non potrò più superare!» «Ma lo farai.» «È troppo vicino! Non ci è mai riuscito nessuno!» «E da quando in qua una cosa del genere può fermare mio figlio?» disse il capitano più gentilmente. Uno squillo di chiarina dalla linea di partenza pose fine alla conversazione. L'elmo con l'aquila fu piazzato sulla testa di Romeo e la celata venne chiusa. Il prete di famiglia impartì una rapida benedizione al giovane - probabilmente l'ultima - e il Maestro si ritrovò a fare gli auguri anche al nervoso destriero. Dopo di ciò sarebbe toccato alla Vergine proteggere il suo campione. Mentre i quindici cavalli si allineavano ai canapi di partenza, la folla cominciò a scandire i nomi dei favoriti e anche quelli degli avversari. Ogni casata aveva i suoi sostenitori e i suoi antagonisti. Nessuna era amata o disprezzata dalla totalità della gente. Anche i Salimbeni avevano la loro compagine di clienti affezionati ed era in occasioni come quelle che i signori più ambiziosi si aspettavano di vedere la loro ripetuta prodigalità compensata da un entusiastico dispiego di pubblico sostegno. Tra i cavalieri stessi quasi nessuno pensava a qualcos'altro che non fosse il percorso che lo aspettava. Gli sguardi erano fugaci, i santi protettori venivano invocati come le locuste in Egitto, e insulti dell'ultimo minuto venivano lanciati come proiettili contro i battenti di un accesso negato. Non c'era più tempo né per pregare, né per accettare consigli, né per scantonare da alleanze concluse.
Qualunque demone, buono o malefico, fosse stato evocato dallo spirito collettivo delle genti di Siena, ora questo demone aleggiava tutto intorno, e solo la tenzone avrebbe fatto giustizia. Non c'erano leggi ma il destino, non c'erano diritti ma la casualità. La vittoria era la sola verità degna di essere conosciuta. «Allora, che questo sia il giorno in cui tu, Vergine Divina, celebri la tua incoronazione nell'alto dei cieli concedendo la tua grazia a noi poveri peccatori, vecchi e giovani», pensò mastro Lorenzetti. Ti scongiuro di aver pietà di Romeo Marescotti e di proteggerlo dalle forze del male che stanno inghiottendo questa città fin dalle sue stesse budella. E ti prometto, se lo vorrai salvare, che dedicherò il resto della mia vita alla tua bellezza. Ma se oggi lui muore, sarà solo per mano mia e, in segno di dolore e pentimento, questa mia stessa mano non dipingerà mai più. Mentre si avvicinava all'area di partenza con lo stendardo dell'Aquila, Romeo sentì chiudersi attorno a sé la vischiosa ragnatela del complotto. Tutti avevano visto come avesse audacemente sfidato Salimbeni, e sapevano che ne sarebbe scaturito un conflitto tra famiglie. Conoscendo i contendenti, per la maggioranza delle persone la questione non era tanto chi avrebbe vinto la corsa, ma chi ne sarebbe uscito vivo. Romeo passò in rivista gli altri cavalieri, cercando di capire quali fossero le sue probabilità. La Falce di Luna - cioè Tebaldo, figlio di Tolomei - era ovviamente alleato con la Losanga - cioè Nino, figlio di Salimbeni - e anche il Gallo e il Toro lo stavano fissando con sguardi che trasudavano ostilità. Solo la Civetta gli fece un cenno benevolo di simpatia ma, d'altro canto, la Civetta aveva molti amici. Quando abbassarono i canapi, Romeo non era neppure del tutto all'interno dell'area ufficiale di partenza. Era stato troppo occupato a osservare gli altri cavalieri onde capirne le intenzioni per tenere d'occhio il giudice in carica. Inoltre, il Palio iniziava sempre con diverse false partenze e il mossiere non si faceva scrupolo a richiamare indietro i partecipanti per ricominciare anche dozzine di volte. Anzi, faceva tutto parte del gioco. Ma non quel giorno. Per la prima volta nella storia del Palio, non
ci fu nessuno squillo di chiarina ad annunciare l'annullamento della prima partenza. Malgrado la confusione e un cavallo che era rimasto indietro, gli altri quattordici fantini furono autorizzati a continuare. La corsa era cominciata. Troppo agitato per sentire null'altro che un impeto di rabbia per l'irregolarità, Romeo piegò la lancia in avanti dopo essersela sistemata saldamente sotto il braccio, poi piantò i talloni nei fianchi del destriero e partì all'inseguimento. Il gruppo era così lontano che era impossibile dire chi conducesse. L'unica cosa che Romeo riusciva a vedere attraverso le fessure dell'elmo erano la polvere e i visi increduli degli spettatori che si aspettavano lui fosse già in testa ai suoi rivali. Ignorando gli urli e i gesti - alcuni d'incoraggiamento, altri di derisione - Romeo galoppò dritto in mezzo alla mischia mollando del tutto le redini e sperando che il cavallo gliene fosse grato. Dando a suo figlio uno stallone, il comandante Marescotti aveva corso un rischio calcolato. Con una giumenta o un castrato, Romeo avrebbe avuto delle buone possibilità, ma delle buone possibilità non è abbastanza quando c'è la tua vita in gioco. Almeno, con uno stallone, sarebbe stato o tutto o niente. Sì, era possibile che Cesare attaccasse briga con un altro cavallo, o che si mettesse a seguire una giumenta, oppure anche che disarcionasse il cavaliere per fargli vedere chi comandava ma, in compenso, possedeva quella potenza necessaria per cavarsela in situazioni difficili e, cosa più importante, aveva lo spirito di un vincitore. Cesare aveva anche un'altra qualità, qualcosa che in circostanze normali sarebbe stato del tutto irrilevante per correre al Palio ma che adesso Romeo vedeva come la sua unica possibilità di raggiungere il gruppo. Il cavallo era un saltatore di enorme vigoria. Le regole del Palio non dicevano nulla riguardo la strada da percorrere. Ogni cavaliere era un vincitore potenziale purché avesse iniziato la sua corsa a Fontebecci e l'avesse terminata di fronte al Duomo di Siena. Non era mai stato necessario stabilire il percorso esatto perché nessuno era mai stato così pazzo da non seguire la strada maestra. I campi su entrambi i lati erano pieni di cunette, di bestiame al pascolo e di covoni di fieno e, soprattutto, erano intersecati da numerosi recinti e cancelli. In altre parole, tentare una
scorciatoia attraverso i campi significava imbattersi in una miriade di ostacoli, ostacoli divertenti per un cavaliere vestito leggero, ma impossibili per un destriero con in sella qualcuno armato di lancia e corazza. Romeo non esitò a lungo. Gli altri quattordici cavalieri erano diretti a sudovest, lungo un curvone di due miglia che li avrebbe alla fine portati a Porta Camollia. Era il momento. Nel vedere un varco in mezzo alla folla schiamazzante, Romeo fece deviare il cavallo dalla strada e si infilò in un campo di grano appena tagliato che l'avrebbe condotto dritto all'ingresso della città. Il cavallo apprezzò la novità e si lanciò attraverso il campo con maggiore energia di quanta ne avesse mostrata sulla strada. All'avvicinarsi della prima staccionata, Romeo si strappò l'elmo con l'aquila e lo scagliò su un covone di passaggio. Non esistevano regole riguardo l'abbigliamento dei partecipanti, salvo la lancia con i vessilli del casato. I cavalieri portavano elmetto e armatura solo per proteggersi. Buttando via l'elmo, Romeo sapeva di essere diventato vulnerabile ai colpi degli altri contendenti, così come agli oggetti scagliati deliberatamente dai torrioni, ma sapeva anche che se non avesse alleggerito il peso, il cavallo - per quanto robusto - non ce l'avrebbe mai fatta ad arrivare in città. Dopo aver volato sopra il primo ostacolo, Cesare atterrò pesantemente dall'altra parte, mentre Romeo si affrettava a strapparsi l'armatura dalle spalle per gettarla in mezzo alla porcilaia che stava traversando al galoppo. Gli altri due recinti erano più bassi del primo e Cesare li superò facilmente, con il suo padrone che teneva alta la lancia per non impigliarla nelle assi. Perdere la lancia con il vessillo dei Marescotti avrebbe voluto dire perdere la gara, anche se fosse arrivato primo. Chi quel giorno avesse visto Romeo avrebbe giurato che stava tentando l'impossibile. Il terreno guadagnato nella scorciatoia con tutta probabilità sarebbe andato perso a causa dei numerosi salti e, una volta nuovamente sulla strada, nella migliore delle ipotesi, lui si sarebbe ritrovato alla medesima distanza dal gruppo. Per non parlare dei danni provocati al cavallo, con tutti quegli ostacoli e quei balzi degni di un cane rabbioso sotto il sole d'agosto.
Per fortuna Romeo era ignaro della situazione. Non si accorse neppure di essere riemerso sullo stradone in testa al gruppo a causa di circostanze assai particolari. A un certo punto del percorso, uno spettatore anonimo aveva liberato un canestro di oche di fronte ai concorrenti del Palio e, nel caos che ne era conseguito, un lancio assai preciso di uova marce aveva colpito un cavaliere in particolare, come rappresaglia per un incidente simile accaduto l'anno prima. Scherzi del genere facevano parte dell'evento ma solo raramente potevano influenzare gli esiti della corsa. Ci fu chi vide in tutto questo l'intervento della Vergine Maria: le oche, il rallentamento e i prodigiosi salti di Romeo sopra sette ostacoli. Ma per i quattordici fantini che avevano disciplinatamente seguito lo stradone, l'apparizione improvvisa di Romeo in testa al gruppo non poteva che essere opera del demonio. E così si misero tutti alla sua furibonda rincorsa man mano che la strada si restringeva per incanalarli attraverso l'arco di Porta Camollia. Solo i giovani che erano saliti sulle arcate di mattoni della porta avevano avuto modo di vedere con i propri occhi l'ultimo tratto della strepitosa corsa di Romeo. Qualsiasi fossero state le loro preferenze fino a quel momento, qualsiasi i loro beniamini o i loro avversari, adesso quegli stessi giovani non poterono che fare il tifo per l'ardimentoso cavaliere che stava passando come un razzo sotto di loro, del tutto vulnerabile, privo com'era di pettorale ed elmetto, e con alle calcagna un'orda inferocita di individui al galoppo. Più di un Palio era stato deciso a Porta Camollia. Il cavaliere che avesse avuto la buona sorte di varcare per primo il cancello della città, avrebbe probabilmente mantenuto il vantaggio attraverso gli stretti vicoli fino ad arrivare vincitore in piazza del Duomo. I pericoli maggiori erano ora rappresentati dalle torri che fiancheggiavano la strada da entrambi i lati. Malgrado una legge avesse sancito che gli oggetti volutamente scagliati da una certa torre avrebbero decretato la demolizione dell'edificio stesso, sui rivali che passavano continuavano a cadere vasi di fiori e mattoni, vuoi incidentalmente vuoi no, a seconda delle alleanze. Ma, nonostante la legge, questi atti venivano puniti raramente per la poca voglia che avevano le
guardie di raccogliere una testimonianza lucida e condivisa dell'incidente avvenuto sul percorso del Palio. Mentre cavalcava sotto il fatidico cancello ed entrava in Siena davanti a tutti gli altri, Romeo era fin troppo consapevole di star disubbidendo a suo padre. Il comandante lo aveva avvertito di evitare di essere il primo, proprio a causa del pericolo di proiettili gettati dalle torri. Anche con l'elmetto in testa un uomo poteva facilmente essere disarcionato da un vaso di coccio ben scagliato. Senza copricapo, sarebbe morto prima ancora di toccare terra. Ma Romeo non poteva permettere che gli avversari lo superassero. Si era talmente dannato a recuperare il distacco e a sorpassare il gruppo, che l'idea di retrocedere in quarta posizione anche per motivi di strategia e di sopravvivenza - gli repelleva tanto quanto rinunciare del tutto e lasciare che gli altri terminassero la corsa senza di lui. E così speronò la sua cavalcatura e si fiondò in città confidando che la Vergine e gli angeli del Cielo si preoccupassero di aprirgli un varco in quella marea di gente e lo proteggessero da tiri malintenzionati dai piani alti. Non vedeva né visi, né arti, né corpi. Il tragitto di Romeo era punteggiato di bocche urlanti e occhi spalancati, bocche che non emettevano suono alcuno e occhi che vedevano il bianco o il nero, l'avversario o l'alleato. Occhi e bocche che mai avrebbero potuto riferire i fatti di quella corsa perché, in una folla in delirio, i fatti non esistono. Tutto era ridotto a pura emozione, a spasmodica attesa, e le smanie della folla avrebbero sempre avuto la meglio sulla verità di un singolo. Il primo proiettile lo colpì proprio mentre entrava nel quartiere di Magione. Non riuscì neppure a vedere cosa fosse ma sentì solo un improvviso e lancinante dolore alla spalla mentre l'oggetto lo prendeva di striscio e rimbalzava a terra dietro la sua scia. Il secondo - un vaso di terracotta - lo colpì su una coscia con un tonfo violento, tanto che per un istante pensò che l'impatto gli avesse fratturato il femore. Ma quando si tastò la gamba con la mano, non sentì nulla, neppure male. Non che gli importasse se l'osso fosse rotto o meno, purché restasse ancora in sella con il piede
saldamente in arcione. Il terzo oggetto a colpirlo era più piccolo, e questa fu una fortuna, perché lo centrò dritto in fronte e quasi gli fece perdere i sensi. Romeo dovette respirare a fondo diverse volte prima di riuscire a rivedere la luce e a riprendere il controllo della cavalcatura, mentre il muro di bocche urlanti che lo accerchiava esultava della sua confusione. Solo in quel momento capì in pieno quello che suo padre aveva saputo fin da subito: non avrebbe mai portato a termine la corsa se fosse rimasto in prima posizione nelle zone controllate dai Salimbeni. Una volta presa la decisione, retrocedere dal primo posto non fu difficile. Il problema era evitare che più di tre cavalieri lo superassero. Tutti e tre gli lanciarono occhiate di fuoco nel sorpassarlo - il figlio di Tolomei, il figlio di Salimbeni, e qualcun altro di nessun conto - e Romeo contraccambiò lo sguardo, odiandoli profondente perché pensavano che stesse dandosi per vinto e odiando se stesso per dover ricorrere a degli stratagemmi. Romeo si rimise all'inseguimento cercando di rimanere il più possibile incollato ai tre e tenendo la testa bassa, sperando che nessun simpatizzante dei Salimbeni con casa turrita nei dintorni volesse rischiare di ferire il figlio del padrone. Il suo ragionamento si confermò esatto. Nel vedere lo stendardo dei Salimbeni con le tre losanghe, tutti si trattennero dal lanciare vasi e mattoni. Mentre i quattro cavalieri passavano al galoppo attraverso il quartiere di San Donato, Romeo non fu colpito da alcun oggetto. Costeggiando infine Palazzo Salimbeni, il giovane si rese conto che era arrivato per lui il momento di compiere l'impossibile: sorpassare l'uno dopo l'altro i tre rivali prima che il percorso facesse una brusca curva lungo la via del Capitano fino a piazza del Duomo. E anche il momento in cui l'intervento divino avrebbe dovuto palesarsi. Perché vincere la corsa dalla sua posizione attuale non poteva che essere il risultato di un intervento celeste. Conficcati gli speroni nei fianchi del cavallo, Romeo riuscì prima a raggiungere il figlio di Tolomei e poi il figlio di Salimbeni che galoppavano a fianco a fianco come fossero stati da sempre alleati. Ma mentre era sul punto di superarli, Nino Salimbeni allungò con un
guizzo un braccio, come fa uno scorpione con il pungiglione, e affondò un pugnale luccicante nelle carni di Tebaldo Tolomei, proprio dove la corazza e l'elmo lasciavano esposto il vulnerabile collo. Successe tutto così velocemente che nessuno dei presenti fu poi in grado di dire chi fosse l'aggressore e perché. Ci fu un bagliore dorato e una breve lotta. Poi il diciassettenne Tebaldo Tolomei cadde da cavallo privo di vita in mezzo a piazza Tolomei. I clienti del padre lo trascinarono da parte urlando mentre il suo assassino continuava la folle corsa senza neppure voltarsi indietro. L'unico a reagire all'atrocità commessa fu il terzo cavaliere che temendo per la sua stessa vita, ora che era percepito come l'unico contendente rimasto - cominciò a colpire l'assassino con lo stendardo nell'intento di tirarlo giù di sella. Nel frattempo Romeo cercava di sorpassare a briglia sciolta i due duellanti e fu quasi disarcionato quando Nino Salimbeni, nel tentativo di evitare lo stendardo del terzo fantino, andò a cozzare violentemente contro di lui con il suo cavallo. Aggrappato alla meno peggio a una sola staffa, e strenuamente impegnato a tornare in sella, Romeo vide filargli dinanzi Palazzo Marescotti e capì che la curva più letale del Palio si stava avvicinando. Se non fosse riuscito a rimontare di nuovo in sella prima del giro, il suo Palio - e forse la sua stessa vita - era destinato a una fine ignobile. Intanto in piazza del Duomo Frate Lorenzo stava rimpiangendo, per la ventesima volta da quella mattina, di non essere rimasto nella sua cella solitaria a pregare. Si era invece lasciato risucchiare fuori dal delirio del Palio. Ed eccolo lì, intrappolato in mezzo alla folla, neppure in grado di vedere il traguardo e tanto meno quel dannato pezzo di stoffa che sventagliava da un pennone, come un nodo scorsoio stretto attorno al collo di un innocente: il cencio. Accanto a lui c'era il podio con i rappresentanti delle nobili casate, da non confondersi con il podio del governo, dotato di meno comodità e anche di meno antenati, ma di una dose identica di ambizione, malgrado la pretesa di non dare nell'occhio. Sia i Tolomei sia i Salimbeni occupavano il primo podio, avendo
preferito assistere al trionfo dei loro rampolli comodamente seduti su cuscini, anziché mangiare la polvere della linea di partenza dopo aver elargito consigli paterni che comunque l'ingrata progenie si sarebbe ben guardata dal seguire. Mentre se ne stavano lì assembrati a rispondere agli applausi dei simpatizzanti con misurati cenni di condiscendenza, i signori del posto non erano tuttavia ignari che quell'anno l'umore delle masse era mutato. Il Palio era sempre stato una cacofonia di voci in cui ognuno cantava gli inni della propria contrada e dei propri eroi comprese le casate dei Tolomei e dei Salimbeni quando avevano un cavaliere in gara - ma questa volta sembrava che molte più voci si stessero unendo ai canti dell'Aquila dei Marescotti. E Tolomei, nell'ascoltare tutto ciò, sembrava parecchio preoccupato. Solo adesso l'anziano signore si domandò se fosse stata questa grande idea portare con sé il vero premio del Palio: sua nipote Giulietta. Seduta tra lo zio e il futuro marito, la giovane donna era a malapena riconoscibile nell'abbigliamento regale tanto in contrasto con il pallore delle guance. Giulietta aveva voltato il capo una sola volta, in direzione di Frate Lorenzo, come se avesse sempre saputo che lui era lì che l'osservava. L'espressione del suo viso aveva provocato nel frate un sussulto di compassione, immediatamente seguito da un moto di rabbia per non essere in grado di salvarla. Era questo il motivo per cui Dio l'aveva risparmiata dalla strage della sua famiglia? Solo per spingerla fra le braccia dello stesso scellerato che aveva sparso il sangue dei suoi cari? Era un destino crudele, troppo crudele, e Frate Lorenzo si sorprese a desiderare di colpo che nessuno di loro due fosse sopravvissuto a quell'evento crudele. Se Giulietta avesse saputo cosa stava pensando il suo amico mentre lei se ne stava lì sul podio esposta alla commiserazione di tutti, avrebbe di sicuro concordato che sposare Salimbeni era un destino peggiore della morte. Ma era troppo presto per lasciarsi andare alla disperazione. Il Palio non era ancora finito e Romeo per quanto ne sapeva lei - era ancora in vita. Il Cielo forse li stava
ancora assistendo. Se la Vergine Maria si fosse davvero sentita oltraggiata dal comportamento di Romeo in chiesa, la notte precedente, di certo l'avrebbe folgorato sul posto. Il fatto che lui fosse sopravvissuto, e che fosse tornato a casa indenne, non poteva che significare che il Cielo voleva che lui prendesse parte al Palio. Ma una cosa era l'inclinazione del Cielo... e un'altra il volere dell'uomo che le sedeva accanto, Salimbeni. Un rombo lontano di zoccoli fece contrarre dalla tensione la folla attorno al podio. Ci fu un'esplosione forsennata di applausi mentre ognuno urlava il nome dei favoriti e degli avversari, come se le grida potessero in qualche modo influenzare l'esito della gara. Attorno a Giulietta tutti balzarono in piedi per vedere chi sarebbe entrato per primo nella piazza. Ma Giulietta non guardava. Con gli occhi chiusi come a tenere lontano il clamore, si premette le mani sulle labbra e osò pronunciare quel nome che avrebbe significato la salvezza: «Aquila!» Un attonito secondo più tardi, quello stesso nome veniva ripetuto ovunque attorno a lei da migliaia di voci: «Aquila! Aquila! Aquila!» Lo urlavano con trionfo, con ironia, con dileggio... e Giulietta tutta eccitata aprì gli occhi per vedere Romeo che sfrecciava nella piazza il cavallo schiumante dallo sfinimento che slittava sui ciottoli puntando dritto al carroccio con il cencio. Giulietta si accorse con orrore che aveva il viso deformato da una smorfia di rabbia e da rivoli di sangue, ma anche che impugnava ancora saldamente lo stendardo e che era primo. Primo! Senza fermarsi a prendere gli applausi, Romeo cavalcò spedito verso il carroccio, spinse da parte i paffuti chierichetti dotati di ali e sospesi da corde, agguantò il pennone con il cencio e infisse al suo posto il proprio stendardo. Tenendo trionfalmente ben alto il premio, si volse verso il suo rivale più vicino, Nino Salimbeni, per crogiolarsi nella di lui rabbia. Nessuno prestò attenzione alcuna ai cavalieri che si aggiudicarono il terzo, il quarto e il quinto posto, in quanto tutte le teste erano girate per vedere cosa avrebbe fatto Salimbeni a Romeo per questo inaspettato capovolgersi degli eventi. Ormai in tutta Siena non c'era
più uomo o donna che fosse all'oscuro della sfida di Romeo alla famiglia. E della promessa fatta alla Vergine Maria di non usare il cencio per addobbarsene, ma di drappeggiarlo sul proprio letto nuziale, se avesse vinto il Palio. In quel momento erano davvero pochi a non provare un guizzo di simpatia per il giovane innamorato. Vedendo che Romeo si era accaparrato il cencio, Tolomei si alzò di scatto maledicendo i voltafaccia della fortuna. Tutti quanti, nella piazza, stavano rumoreggiando per implorarlo di cambiare la sua decisione. Senza tener conto che accanto a lui sedeva un uomo pronto a trafiggerlo da una parte all'altra se l'avesse fatto. «Messer Tolomei», tuonò Romeo tenendo alto il trofeo mentre la sua cavalcatura si impennava, «il Cielo si è espresso in mio favore! Osereste ignorare il volere della Vergine Maria? Sacrifichereste questa città all'ira divina? O forse soddisfare le voglie di quest'uomo...» e indicò audacemente Salimbeni, «è per voi più importante della sicurezza di tutti noi?» Alla sola idea, la folla emise un boato di sconcerto mentre le guardie che attorniavano il palco si preparavano a passare al contrattacco con la mano sull'elsa. Vi furono dei senesi che sfidarono le guardie e coraggiosamente si protesero verso Giulietta sollecitandola a scavalcare il palco in modo che la potessero consegnare a Romeo. Ma Salimbeni bloccò i loro sforzi alzandosi in piedi e mettendo una mano sulla spalla di Giulietta per fermarla. «Molto bene, ragazzo!» gridò Salimbeni a Romeo facendo affidamento sui molti amici e sostenitori che potevano assecondarlo nel condizionare l'umore degli astanti. «Hai vinto la corsa! Adesso va' a casa a farti un bel vestito con quel cencio e magari ti prenderò come damigella quando...» Ma la folla aveva sentito abbastanza e non lo lasciò finire. «Salimbeni, vergognatevi!» strillò qualcuno, «state violando il volere del Cielo!» E tutti quanti risposero all'unisono sputando la loro indignazione nei confronti dei nobili signori, pronti a trasformare la rabbia in una sommossa. Le vecchie rivalità del Palio vennero presto dimenticate e i pochi imbecilli che ancora intonavano degli inni vennero presto zittiti dai compagni.
Le genti di Siena sapevano che se avessero fatto fronte unico contro quei pochi, avrebbero potuto invadere il palco e portare via la fanciulla che così palesemente apparteneva a un altro. Non sarebbe stata la prima volta che si ribellavano contro i Salimbeni e sapevano che, se avessero continuato a spingere, quei signorotti arroganti avrebbero finito per nascondersi nei loro alti torrioni dopo aver fatto sparire scale e scalette. Per Giulietta, immobile sul palco come un marinaio che affronti la sua prima tempesta, era al tempo stesso spaventevole e inebriante sentire il potere degli elementi che le si scatenavano attorno. Aveva davanti a sé migliaia di estranei di cui ignorava persino il nome ma che erano pronti a sfidare le alabarde delle guardie per renderle giustizia. Se solo avessero continuato a spingere, il palco presto sarebbe crollato e tutti i nobili gentiluomini avrebbero dovuto preoccuparsi di proteggere se stessi e i loro bei vestiti dalla marmaglia. In un pandemonio del genere, ragionava, lei e Romeo avrebbero potuto sparire, mentre la Vergine Maria di certo si sarebbe data da fare per prolungare il tafferuglio di quel tanto che permettesse loro di abbandonare insieme la città. Ma non doveva andare così. Prima che la folla prendesse il sopravvento, un nuovo gruppo di persone si fiondò nella piazza per portare a gran voce una notizia tremenda a Tolomei. «Tebaldo!» urlavano, strappandosi i capelli dalla disperazione. «E Tebaldo! Oh, il povero ragazzo!» Quando finalmente il gruppo raggiunse il palco agitando in aria un pugnale insanguinato, Tolomei era già sulle ginocchia che li implorava di dirgli cosa fosse successo a suo figlio. «Se n'è andato! Assassinato! Pugnalato a morte durante il Palio!» Appena afferrato il messaggio, Tolomei cadde a terra in preda alle convulsioni, mentre l'intero palco ebbe un sussulto di orrore. Sconvolta nel vedere suo zio in quello stato, come fosse posseduto da un demone, Giulietta dapprima arretrò poi si fece forza e si inginocchiò accanto a lui per proteggerlo come meglio poteva affinché non venisse calpestato, fintanto che monna Antonia e i servi non furono in grado di avvicinarsi. «Zio Tolomei! Calmatevi!» continuava a ripetere non sapendo cos'altro dire.
L'unica persona a rimanere impassibile nel mezzo del caos fu Salimbeni, che chiese di dare un'occhiata all'arma del delitto e subito la sollevò in alto in modo che tutti la potessero vedere. «Guardate!» ruggì, «eccolo il vostro eroe! Questo è il pugnale cha ha ucciso Tebaldo Tolomei durante la nostra santa corsa. Vedete?» indicò il manico, «c'è incisa l'Aquila dei Marescotti! Che cosa ne dite?» Giulietta volse lo sguardo e vide con orrore che una moltitudine di gente attonita e silenziosa stava fissando Salimbeni e il pugnale. Era lo stesso uomo che avevano voluto punire solo fino a pochi minuti prima, ma ora la tremenda notizia del misfatto e la figura dolente di messer Tolomei li aveva distratti. Non sapevano più cosa pensare, e se ne stavano lì, a bocca spalancata, come in attesa di un segnale. Nel vedere il cambio di espressione sui loro visi, Giulietta capì immediatamente che Salimbeni aveva pianificato tutto in anticipo, allo scopo di rivoltare la folla contro Romeo nel caso avesse vinto. Ora, questa stessa folla si stava addirittura dimenticando perché avesse attaccato il palco ma era pur sempre alla disperata ricerca di qualcosa d'altro su cui accanirsi. Non si dovette aspettare a lungo. Salimbeni aveva abbastanza clienti devoti nella folla perché qualcuno urlasse: «L'assassino è Romeo!» nel momento stesso in cui agitò ancora il pugnale nell'aria. In pochi attimi le genti di Siena erano di nuovo unite, questa volta dall'odio per un giovane uomo che avevano poco prima salutato come un eroe. Rinvigorito da tanta commozione generale, Salimbeni adesso si permise di ordinare l'immediato arresto di Romeo, accusando nel contempo di tradimento chiunque osasse opporsi. Ma quando le guardie fecero ritorno al palco, un quarto d'ora più tardi, con enorme sollievo di Giulietta furono solo in grado di produrre un destriero coperto di schiuma, lo stendardo dell'Aquila, e il cencio. Di Romeo Marescotti nessuna traccia. Per quante persone fossero state interrogate, la risposta era sempre stata la medesima: non un'anima viva aveva visto Romeo lasciare la piazza. Soltanto quando quella notte le guardie cominciarono a passare di casa in casa, un uomo, allo scopo di proteggere la moglie e le
figlie dagli stessi soldati, aveva confessato di aver sentito che Romeo Marescotti era scappato attraverso l'acquedotto sotterraneo dei Bottini in compagnia di un giovane frate francescano. Più tardi, anche Giulietta sentì le serve che mormoravano la stessa cosa e non poté che rivolgere una preghiera di ringraziamento alla Vergine Maria. La fanciulla non aveva dubbi che il francescano fosse Frate Lorenzo e non aveva neppure dubbi che avrebbe fatto di tutto per mettere in salvo l'uomo che gli aveva detto di amare.
Capitolo 5 Oh, egli è un adorabile gentiluomo! Romeo al suo confronto è uno straccio! Un 'aquila, signora, non ha l'occhio così acuto, così vivace, così luminoso, come quello di Paride. FUORI orario d'apertura il Monte dei Paschi era estremamente quieto. I locali ci accolsero in silenzio mentre salivamo assieme la scalinata principale. Alessandro mi aveva chiesto se mi sarebbe spiaciuto fare una breve sosta in banca prima di andare a cena e io naturalmente avevo risposto di no. Mentre lo seguivo in cima agli scalini, cominciai a domandarmi dove mi stesse portando e perché. «Dopo di te...» Alessandro spalancò una pesante porta di mogano e aspettò che entrassi in quello che sembrava un ampio ufficio d'angolo. «Dammi solo un minuto.» Accese una lampada da tavolo e sparì in una stanza sul retro lasciando la porta socchiusa. «Non toccare niente!» Notai dei comodi divani e un'imponente scrivania con relativa poltrona. L'ufficio conteneva poche tracce di un'attività vera e propria. Sulla scrivania, un solitario dossier pareva essere stato messo lì solo per far scena. Le uniche decorazioni alle pareti consistevano nelle finestre su piazza Salimbeni. Non facevano bella mostra da nessuna parte effetti personali come diplomi o fotografie, o qualcos'altro che identificasse il proprietario. Stavo passando un dito sulla scrivania per vedere se c'era polvere quando riapparve Alessandro che si abbottonava la camicia. «Attenta!» disse, «scrivanie come queste sono più letali delle armi.» «È il tuo ufficio?» chiesi stupidamente. «Spiacente...» afferrò una giacca dalla spalliera di una sedia, «so che preferisci il sotterraneo. Questa per me...» indicò il sontuoso arredamento, «è la vera stanza delle torture.»
Una volta che fummo di nuovo fuori, Alessandro si fermò nel bel mezzo di piazza Salimbeni per chiedermi con un sorriso divertito dove intendessi portarlo per cena. Non lo sapevo. «Mi piacerebbe vedere dove i Salimbeni vanno a mangiare.» Smise di sorridere. «Non è una buona idea. A meno che tu abbia voglia di passare il resto della serata con Eva Maria.» Vedendo il mio scarso entusiasmo, continuò: «Perché non andiamo in qualche altro posto? Magari nel tuo quartiere?» «Ma non conosco niente nella contrada della Civetta», protestai, «a parte il museo. Non ho idea dove potremmo mangiare.» «Ottimo.» E cominciò a camminare. «Così nessuno ci importuna.» Finimmo nella Taverna di Cecco, proprio all'angolo del Museo della Civetta. Era un piccolo locale, lontano dalle strade più battute, e stipato di gente del posto. Tutte le portate - alcune servite in ciotole di coccio - sembravano cucinate come le farebbe mamma. Guardandomi intorno non vidi nessun esperimento pseudoartistico con spezie spruzzate sui bordi di piatti semivuoti. Qui tutti i piatti erano stracolmi e gli aromi stavano dove dovevano stare: nel cibo. La maggior parte dei tavoli aveva cinque o sei persone sedute attorno, e tutte ridevano o discutevano con foga. In quel momento capii perché Alessandro avesse voluto andare dove nessuno lo conosceva. A giudicare da come la gente si comportava in compagnia - tutti a invitare tutti, cane compreso, al loro tavolo e a fare scenate in caso di diniego - sarebbe stata dura cenare per conto proprio a Siena. Mentre raggiungevamo il nostro tavolo in un angolo appartato, mi resi conto che Alessandro era visibilmente compiaciuto di non riconoscere nessuno. Ci eravamo appena seduti quando tirò fuori dalla giacca il pugnale di Romeo e lo mise sul tavolo tra noi due. «Parrebbe che ti debba delle scuse», proferì queste parole inconsuete molto lentamente, se non addirittura a malincuore. «Oh, insomma...» infilai il naso nel menu per nascondere il mio compiacimento, «non sforzarti. Hai letto il mio dossier. Costituisco ancora una minaccia per la società.»
Ma Alessandro non era pronto a prendere la cosa alla leggera e per un po' rimanemmo in silenzio con il pretesto di studiare il menu. Nel frattempo sfioravamo a turno il pugnale con la punta delle dita. Solo quando ci furono messi davanti una bottiglia di Prosecco e un piatto di antipasti Alessandro si degnò di sorridere - sebbene sempre con aria di scusa - e alzare il bicchiere in un brindisi. «Spero che questa volta andrà meglio. Stesso vino, nuova bottiglia.» «Arrivare ai primi sarebbe già un bel passo avanti», gli dissi, sfiorando il suo bicchiere con il mio. «E se dopo posso evitare di venir inseguita per le strade con le scarpe in mano, posso dire che questa serata sarà un successone paragonata a quella di ieri.» Alessandro fece una smorfia. «Perché non sei tornata al ristorante?» «Scusa», gli fece notare ridendo, «ma il caro amico Bruno era una compagnia molto migliore della tua. Almeno lui ha creduto fin da subito che fossi Giulietta.» Alessandro distolse lo sguardo e mi fece capire che ero l'unica ad apprezzare l'ironia della situazione. Sapevo che aveva il senso dell'umorismo - e anche una certa dose di spirito sarcastico - ma in questo caso era evidente che non apprezzava gli venisse ricordato di essersi comportato in maniera assai poco cavalleresca. «Quando avevo tredici anni», iniziò a dirmi appoggiandosi allo schienale della sedia, «trascorsi un'estate con i miei nonni qua a Siena. Avevano una bellissima fattoria. Vigne. Cavalli. Fontane. Un giorno arrivò in visita una signora americana. Diane Tolomei. Con due bambine, Giulietta e Giannozza...» «Un momento!» lo interruppi. «Vuoi dire me?» Mi lanciò un'occhiata in tralice. «Sì. Eri molto piccola e portavi ancora... il pannolino.» Lasciai correre e lui continuò. «Mia nonna mi disse di andare a giocare con te e tua sorella mentre loro parlavano e così vi portai nel fienile per farvi vedere i cavalli. Purtroppo tu ti spaventasti per qualcosa e cadesti su un forcone...» Scosse la testa nel ricordare l'accaduto. «Fu terribile. Urlavi disperata e c'era sangue dappertutto. Ti portai di corsa in cucina, mentre continuavi a strillare e a scalciare, e tua madre mi lanciò un'occhiataccia come fosse stata
colpa mia. Per fortuna la nonna, che sapeva cosa fare, ti diede un bel gelato e ti sistemò il taglio come aveva già fatto un sacco di altre volte con figli e nipoti.» Prima di andare avanti Alessandro prese un sorso di Prosecco. «Due settimane dopo i miei genitori lessero sui giornali che Diane Tolomei era morta in un incidente d'auto con le due bambine. Ne furono sconvolti.» Alzò finalmente gli occhi verso i miei «Ecco perché non ho creduto che tu fossi Giulietta Tolomei.» Per un po' rimanemmo lì immobili a guardarci. Per entrambi si trattava di una storia triste, anche se c'era qualcosa di teneramente agrodolce nel fatto che ci fossimo incontrati da piccoli. «È vero che mia madre perse la vita in un incidente d'auto, ma noi non eravamo con lei quel giorno. I giornali pubblicarono delle notizie inesatte. E, quanto al forcone», continuai in tono più leggero, «finalmente so cosa mi è successo. Hai idea di come sia spiacevole avere una cicatrice e ignorare come ce la siamo procurata?» Alessandro parve incredulo. «Hai ancora la cicatrice?» «Certo che sì!» sollevai la gonna e gli mostrai la striatura biancastra sulla coscia. «Bruttina, eh? Ma almeno adesso so di chi è la colpa.» Lo scrutai per vedere se provasse rimorso e mi accorsi invece che fissava la mia coscia con un'espressione di sconcerto talmente non da lui che scoppiai in una risata. «Scusa!» rimisi a posto la gonna. «La tua storia mi ha sconvolta.» Alessandro si schiarì la voce e allungò la mano verso il vino. «Dimmelo, quando ne vuoi sentire un'altra.» A metà cena, ricevette una telefonata dal posto di polizia. Quando tornò al tavolo, mi resi conto che aveva delle buone nuove. «Bene», mi comunicò sedendosi, «sembra che tu stanotte non debba cambiare d'albergo. Hanno trovato Bruno a casa di sua sorella, con il baule dell'auto pieno della refurtiva del museo di tuo cugino. Quando sua sorella ha scoperto che si era rimesso in affari loschi, gli ha dato tante di quelle legnate che lui ha implorato la polizia di arrestarlo sui due piedi.» Sogghignò, ma quando vide la mia espressione perplessa, tornò subito serio. «Purtroppo non hanno
trovato il cencio. Deve averlo nascosto da qualche altra parte. Non preoccuparti, salterà fuori. Non c'è modo che possa vendere quel vecchio straccio...» Vedendo il mio disappunto per la scelta dei vocaboli, si limitò a scrollare le spalle. «Non sono cresciuto qui.» «Un collezionista privato», dissi piccata, «pagherebbe un sacco di soldi per quel 'vecchio straccio'. Sono oggetti con un enorme valore emotivo per la gente di qua... come di certo saprai. Magari c'è la famiglia di Romeo, i Marescotti, dietro tutta la faccenda. Mio cugino Peppo ha detto che i discendenti di Romeo pensano che il cencio e il pugnale siano di loro proprietà.» «Se le cose stanno così», ribatté Alessandro spostandosi affinché il cameriere potesse togliere i piatti, «lo sapremo domani, dopo che i ragazzi avranno fatto a Bruno un discorsetto. Non è tipo da star zitto.» «E tu? Tu ci credi...? che i Marescotti possano averlo incaricato di rubare il cencio?» Si vedeva lontano un miglio che Alessandro aveva difficoltà ad affrontare l'argomento. «Se davvero ci sono loro dietro», sostenne infine, «non avrebbero usato Bruno. Hanno le loro persone di fiducia. E non avrebbero lasciato il pugnale sul tavolo.» «Sembra quasi tu li conosca.» «Siena è piccola.» «Pensavo avessi detto che non sei cresciuto qua.» «Vero.» Tamburellò con le dita sul tavolo per un po', contrariato dalla mia insistenza. «Ma ho passato le estati qui, con i nonni. Te l'ho detto. Giocavo tutti i giorni con le mie cugine nella vigna dei Marescotti. Temevamo sempre che ci scoprissero. Faceva parte del divertimento. Avevano tutti paura del vecchio Marescotti. Salvo Romeo, naturalmente.» Quasi rovesciai il bicchiere. «Vuoi dire, quel Romeo? Lo stesso di cui ha parlato mio cugino Peppo e che potrebbe essere il ladro del cencio?» Visto che Alessandro non rispondeva, continuai a voce più bassa: «Adesso capisco. È così che stanno le cose. Eravate amici d'infanzia».
Fece una smorfia. «Non proprio amici.» Vedendo che stavo morendo dalla voglia di fargli altre domande, mi porse il menu. «Prendi. È ora di pensare a cose dolci.» Durante il dessert - cantucci con Vin santo - cercai di tornare sull'argomento Romeo ma Alessandro non ne volle sapere. Mi chiese invece della mia infanzia e cosa avesse provocato il mio coinvolgimento nel movimento pacifista. «Dai», mi disse, chiaramente divertito dal mio cipiglio, «non può essere tutta colpa di tua sorella.» «Non ho mai detto che lo fosse. Semplicemente abbiamo delle priorità assai diverse.» «Lascia che indovini...» spinse i cantucci verso di me, «tua sorella è nell'esercito? È andata in Iraq?» «Figurati!» Mi servii degli altri cantucci. «Janice non potrebbe trovare l'Iraq neppure se ci stesse in mezzo. Lei pensa che la vita debba solo essere... divertimento.» «Che scema!» Alessandro scosse la testa. «A volersi godere la vita.» Sbuffai seccata. «Lo sapevo che non avresti capito! Quando eravamo...» «Ti capisco invece», mi interruppe. «Lei si diverte e così tu non puoi divertirti. Lei si gode la vita e così tu non puoi goderti la vita. Peccato che qualcuno l'abbia addirittura scolpito nella pietra.» «Ascolta...» mi misi a cincischiare con il bicchiere vuoto, decisa a non abbassare la guardia, «la cosa più importante al mondo per Janice Jacobs è Janice Jacobs. Passerebbe sopra a chiunque pur di averla vinta. È quel genere di persona...» Mi arrestai quando mi resi conto che neanch'io avevo voglia di rivangare il passato in una serata così piacevole. «E che mi dici di Julie Jacobs?» Alessandro mi riempì il bicchiere. «Chi è la persona più importante per lei?» Studiai il suo sorriso per vedere se stava ancora prendendosi gioco di me. «Fammi indovinare», mi squadrò con aria scherzosa, «Julie Jacobs vuol salvare il mondo e fare tutti felici...»
«Ma intanto rende tutti infelici compresa se stessa», continuai io, impadronendomi della sua battuta. «So a cosa stai pensando. Stai pensando che il fine non giustifica i mezzi, e che segar via la testa delle sirenette non eliminerà le guerre. Lo so. Lo so perfettamente.» «Allora perché l'hai fatto?» «Ma non l'ho fatto! Non doveva andare così.» Lo guardai per capire se c'era la possibilità di dimenticare che avevo menzionato la Sirenetta, e parlare di qualcosa di più allegro. Niente da fare. Anche se aveva un mezzo sorriso sulle labbra, i suoi occhi mi dicevano che questa era una questione che non poteva più essere rimandata. «D'accordo», sospirai, «ecco quello che è successo. Pensavo che il piano fosse di metterle addosso una tuta militare e che la stampa danese sarebbe venuta a fare delle foto...» «Cosa che fece.» «Lo so! Ma non era mai stata mia intenzione tagliarle la testa...» «Avevi in mano la sega.» «È stato un incidente!» Mi coprii il viso con le mani. «Non avevamo idea che fosse così piccola. È poco più di una statuetta. La tuta non andava bene. E poi è arrivato uno, un idiota, e ha tirato fuori la sega...» Non riuscii ad andare avanti. Rimanemmo per un po' in silenzio e poi spostai leggermente le mani per vedere se era ancora contrariato. Non lo era. Anzi sembrava vagamente divertito. Gli occhi gli brillavano, benché non stesse del tutto sorridendo. «Cosa c'è di tanto buffo?» borbottai. «Tu», disse Alessandro. «Sei una vera Tolomei. Ricordi? ...Voglio
farla da tiranno; dopo essermi battuto con gli uomini, sarò spietato con le vergini, taglierò loro la testa e l'età.» Quando vide che riconoscevo la citazione, finalmente sorrise. «Sì, l'età delle vergini o la loro vergin... età. Prendilo nel senso che vuoi. » Appoggiai le braccia in grembo, in parte sollevata e in parte a disagio per il cambio di conversazione. «Mi sorprendi. Non sapevo che tu conoscessi Romeo e Giulietta a memoria.» Fece segno di no. «Solo le parti violente. Spero di non deluderti.»
Incerta se stesse flirtando con me o solo prendendomi in giro, ripresi a giocherellare con il pugnale. «È strano», confessai, «ma conosco il dramma per intero. Da sempre. Prima ancora di capire di cosa si trattasse. Era come una voce che avevo in testa...» Cominciai a ridacchiare. «Non so neanche perché te lo sto dicendo.» «Perché hai appena scoperto chi sei», replicò Alessandro chiaro e tondo. «E ora tutto ha un senso. Tutto quello che hai fatto, o che hai deciso di non fare... adesso sai perché. Questo è quello che la gente chiama destino.» Mi accorsi allora che non stava guardando me ma il pugnale. «E tu? Sai qual è il tuo destino?» gli chiesi. Fece un sospiro profondo. «L'ho sempre saputo. E se me lo dimentico, Eva Maria me lo ricorda all'istante. Ma non mi è mai piaciuta l'idea di avere il futuro già segnato. Ho cercato di allontanarmi dal mio destino per tutta la vita.» «E ci sei riuscito?» Ci dovette pensare su. «Per un po'. Ma, sai, il destino prima o poi ti raggiunge. A prescindere da quanto tu possa andare lontano.» «Ed eri andato lontano?» Fece di sì con la testa, ma solo una volta. «Molto lontano. Fino al limite.» «Mi stai incuriosendo», gli dissi con levità, nella speranza che avrebbe approfondito. Ma non lo fece. A giudicare dal suo aspetto corrucciato, doveva essere un argomento poco allegro. Morendo dalla voglia di saperne di più, ma temendo di rovinare la serata, mi limitai a domandare: «Stai pensando di tornarci?» Quasi sorrise. «Perché? Ci vuoi venire?» Mi strinsi nelle spalle, mentre senza riflettere facevo fare una giravolta al pugnale tra di noi sulla tovaglia. «Io non sto cercando di fuggire dal mio destino.» Senza guardarmi mise una mano sul pugnale per fermarlo. «Forse dovresti.» «Preferisco rimanere a combattere», ribattei, mentre piano piano gli sfilavo scherzosamente il mio tesoro da sotto il palmo.
Dopo cena, Alessandro insistette per riaccompagnarmi in albergo. Visto che avevo già perso la battaglia del conto del ristorante, non opposi resistenza. Senza considerare che anche se Bruno Carrera ora era in gattabuia, in città girava ancora un balordo in moto pronto a terrorizzare una fifona come me. «Sai», mi disse il mio accompagnatore mentre camminavamo assieme nella notte, «una volta ero come te. Pensavo anch'io che fosse necessario combattere per la pace e che senza sacrifici non si potesse arrivare a un mondo perfetto. Adesso ho capito. Lascia stare il mondo.» «Neanche provare a migliorarlo un po'?» «Non forzare la gente a essere perfetta. C'è da morire, se ci provi.» Non potei fare a meno di sorridere a una conclusione così banale. «Io però mi sto divertendo da matti, malgrado mio cugino sia in ospedale a farsi brancicare dalle dottoresse. È un peccato che noi due non possiamo essere amici.» Alessandro si meravigliò. «Non possiamo?» «Evidentemente no», risposi. «Cosa direbbero i tuoi? Tu sei un Salimbeni, io una Tolomei. Siamo condannati a essere nemici.» Sorrise di nuovo. «O amanti.» Risi anch'io, sorpresa. «Oh, no! Tu sei un Salimbeni e, come sai, in Shakespeare Salimbeni corrisponde a Paride, il riccone che voleva sposare Giulietta dopo che lei si era sposata in segreto con Romeo!» Alessandro prese la notizia cammin facendo. «Ah, sì, adesso ricordo: il ricco e affascinante Paride. Quello sarei io?» «Sembrerebbe.» Sospirai drammaticamente. «Nel caso ce ne siamo dimenticati, la mia antenata Giulietta Tolomei amava Romeo Marescotti ma fu costretta a fidanzarsi con il malvagio Salimbeni, tuo antenato! Rimase intrappolata in un triangolo amoroso, proprio come la Giulietta di Shakespeare.» «E anch'io sarei malvagio?» Ad Alessandro la storia piaceva sempre di più. «Ricco, affascinante e malvagio: niente male.» Ci pensò su un po' e poi aggiunse, in tono pacato: «Sai, tra te e me, ho sempre
pensato che Paride fosse molto migliore di Romeo. A mio avviso, Giulietta era un'idiota». Mi bloccai in mezzo alla strada. «Prego??» Anche Alessandro si fermò. «Pensaci un attimo. Se l'avesse incontrato per primo, Giulietta si sarebbe innamorata di Paride. E sarebbero vissuti felici e contenti. Non vedeva l'ora di innamorarsi.» «Ma neanche per sogno!» contrattaccai. «Romeo era carino...» «Carino?» Alessandro era esterrefatto. «Che razza di uomo è uno
carino?»
«...e ottimo ballerino...» «Romeo aveva piedoni di piombo! L'ha detto lui stesso!» «...e soprattutto», conclusi, «aveva delle belle mani!» Finalmente Alessandro parve sconfitto. «Capisco. Aveva delle belle mani. Lì mi freghi. Perciò è così che sono fatti i grandi amanti?» «Secondo Shakespeare è così.» Cercai di dare una sbirciatina alle sue mani ma lui fu più svelto e le infilò in tasca. «E davvero vuoi vivere la tua vita in linea con Shakespeare?» mi chiese riprendendo a camminare. Diedi un'occhiata al pugnale. Era bizzarro andare in giro così ma era troppo grande per stare nella mia borsa e non volevo chiedere ad Alessandro di tenermelo di nuovo. «Non necessariamente.» Anche lui osservò il pugnale, ed era chiaro che stava pensando la stessa cosa. Se Shakespeare era nel giusto, questa era l'arma con cui Giulietta si era uccisa. «Allora perché non riscrivi la storia e cambi la tua sorte?» mi propose. Ero costernata. «Vuoi dire, riscrivere Romeo e Giulietta?» Non mi guardò neppure. «Ed essere mia amica.» Studiai il suo profilo nel buio. Avevamo trascorso tutta la serata a parlare e ancora non sapevo quasi nulla di lui. «A una condizione», dissi, «che mi racconti qualcosa di Romeo.» Accorgendomi della sua aria frustrata, rimpiansi subito quello che avevo detto.
«Romeo, Romeo, sempre Romeo», mi punzecchiò. «È per questo che sei venuta a Siena? Per trovare il tipo carino con i piedi ballerini e le belle mani? Bene, temo che ci rimarrai male. Non è così il Romeo che pensi tu. Non farà l'amore a rime badate. Credimi, è un vero bastardo. Se fossi in te...» e finalmente mi guardò, «questa volta dividerei il balcone con Paride.» «Non ho nessuna intenzione di dividere il mio balcone con qualcuno», risposi acida. «Voglio solo riprendermi il cencio e, per come la vedo io, Romeo è l'unico che abbia un motivo per avermelo portato via. Se non pensi l'abbia preso lui, allora dimmelo una volta per tutte e non ne parlerò mai più.» «D'accordo», disse Alessandro. «Non penso sia stato lui. Ma questo non significa che sia innocente. Hai sentito tuo cugino: Romeo ha delle mani malvagie. Tutti lo vorrebbero morto.» «Cosa ti fa pensare che non lo sia?» Socchiuse gli occhi. «Me lo sento.» «Fiuto per le canaglie?» Non rispose subito. Quando finalmente parlò, la frase era più rivolta a se stesso che a me. «Fiuto per i rivali.» Il direttore baciò i piedi di un crocefisso immaginario quando quella notte mi vide varcare la soglia dell'albergo. «Signorina Tolomei! Grazie a Dio è sana e salva! Suo cugino ha già chiamato dall'ospedale diverse volte...» Solo allora notò Alessandro dietro di me che salutò subito con un breve cenno del capo. «Ha detto che era in cattiva compagnia. Ma dov'è stata?» Mi imbarazzai. «Come vede, non potrei essere in mani migliori.» «In mancanza d'altro», mi corresse Alessandro stupidamente divertito dalla situazione. «Per ora.» «E suo cugino mi ha anche detto di dirle di mettere il pugnale in un posto sicuro», continuò Rossini. Abbassai lo sguardo sul pugnale che avevo sempre in mano. «Dallo a me», mi consigliò Alessandro. «Te lo tengo io.»
«Sì», mi incalzò Rossini, «lo dia al capitano. Non voglio altri tentativi di furto.» Così consegnai il pugnale di Romeo ad Alessandro e lo vidi sparire di nuovo nella sua tasca interna. «Sarò di ritorno domani mattina alle nove», mi disse. «Non aprire la porta a nessuno.» «Neanche la porta del balconcino?»
«Soprattutto la porta del balconcino.» Quella notte mi infilai a letto assieme al documento che avevo trovato nel cofanetto di mia madre intitolato Albero Genealogico di Giulietta e Giannozza. L'avevo già esaminato senza trovarci niente di particolarmente illuminante. Adesso però che Eva Maria aveva più o meno confermato che discendevo da Giulietta Tolomei, acquistava di colpo significato l'interesse di mia madre circa i nostri antenati. La stanza era ancora nel caos, ma non me la sentii di affrontare il problema bagagli. Almeno il vetro rotto era sparito e un nuovo pannello era stato installato mentre ero fuori. Se qualcun altro avesse voluto fare irruzione nella mia camera, mi sarei di certo svegliata. Dopo aver srotolato il lungo documento sopra il letto, mi ci volle un sacco per orientarmi in quella giungla di nomi. Non era un albero genealogico normale, in quanto riportava le nostre radici solo lungo la discendenza femminile e soltanto quelle che riguardavano il diretto legame tra me e la Giulietta del 1340. Finii per trovare Janice e me in fondo al documento, proprio sotto il nome dei nostri genitori. James Jacobs ∞ Rose Tornasi ∞ Maria Tornasi ∞ Gregory Lloyd Diane Lloyd ∞ Patrizio Tolomei Giulietta Tolomei - Giannozza Tolomei Dopo il mio nome di Janice chiamare Janice, suo vero nome
iniziale sbalordimento nello scoprire che il vero era Giannozza - lei aveva sempre detestato farsi al punto di sostenere tra le lacrime che non fosse il - ripercorsi tutto il documento fin dall'inizio per
trovarci gli stessi nomi. Giulietta Tolomei Gambacorta
-
Giannozza
Tolomei
∞
Mariotto
da
Francesco Saracini ∞ Bella da Gambacorta Federico da Silva ∞ Giulietta Saracini - Giannozza Saracini E via discorrendo. L'intero elenco era talmente lungo che avrei potuto usarlo come una scaletta di corda per calarmi dal balcone. Faceva impressione che qualcuno - o meglio decine di persone nel corso dei secoli - avessero così diligentemente tenuto il registro dei discendenti, a cominciare dal 1340 con Giulietta e sua sorella Giannozza. Di tanto in tanto questi due nomi saltavano fuori l'uno accanto all'altro nell'albero genealogico, ma sempre con un cognome che non era Tolomei. La cosa interessante, almeno da quel che ci capivo io, era che Eva Maria non aveva avuto del tutto ragione quando aveva definito Giulietta Tolomei la mia antenata. Infatti, secondo il documento, noi tutte - mia madre, Janice e io - discendevamo da Giannozza, la sorella di Giulietta, e dal di lei marito Mariotto da Gambacorta. Quanto a Giulietta, non esisteva nessuna traccia che si fosse sposata e ancora meno che avesse avuto dei figli. Piena di cattivi presagi, alla fine misi da parte il documento per immergermi nelle altre carte. L'aver appreso che nella realtà era Giannozza Tolomei la mia vera antenata aumentava di colpo il mio interesse nei frammenti di lettere che Giulietta le aveva scritto, alcuni contenenti commenti nostalgici sulla quiete della vita in campagna lontana da Siena. «Come sei fortunata, mia carissima», Giulietta le aveva scritto a un certo punto, «ad abitare in una casa così grande con un marito che fa fatica a camminare...» per poi continuare: «Oh, come vorrei essere te e poter sgattaiolare fuori a godermi un'ora di pace a odorare il timo...» Alla fine crollai e dormii profondamente per un paio d'ore fino a
quando un forte rumore mi svegliò che era ancora buio. Ancora refrattaria ai suoni del mondo esterno, mi ci volle un po' per riconoscere il rombo di una moto che dava gas nella strada sotto il mio balcone. Rimasi dov'ero senza muovermi, seccata dalla maleducazione della gioventù senese, finché mi resi conto che non si trattava di un raduno di centauri ma di un singolo motociclista che cercava di attirare l'attenzione di qualcuno. E che quel qualcuno sventuratamente dovevo essere io. Guardando attraverso le fessure delle persiane, non riuscii a vedere granché della strada sottostante, ma mentre ero lì ad allungare il collo a destra e a manca, sentii dei rumori provenire dall'albergo. Anche gli altri ospiti si erano svegliati e stavano spalancando gli scuri per vedere cosa diamine stesse succedendo. Incoraggiata dall'adunata generale, aprii la portafinestra e, alla fine, lo vidi. Era proprio il mio inseguitore in moto e stava disegnando una serie di otto da manuale sotto il lampione. Non nutrivo il minimo dubbio che si trattasse dello stesso tipo che mi aveva già seguito due volte - una per salvarmi da Bruno Carrera e una per osservarmi attraverso la vetrata del bar di Malèna. Stessa tuta di cuoio nero, stesso casco con la visiera abbassata, stessa Ducati Monster. A un certo punto lui girò la testa e mi individuò sulla soglia della portafinestra. Di colpo ridusse il rumore del motore a un borbottio che venne quasi del tutto coperto dalle grida inferocite provenienti dai balconi e dalle finestre del Chiusarelli. Del tutto indifferente, si mise una mano in tasca e ne estrasse un oggetto rotondo. Tirò indietro il braccio e lo scagliò sul mio balcone, con mira perfetta. L'oggetto atterrò ai miei piedi con uno strano suono molliccio e rimbalzò un paio di volte prima di arrivare a fine corsa. Senza tentare di comunicare altro, il mio amico vestito di cuoio fece impennare la Ducati in un'accelerata devastante che quasi lo scaraventò giù dal sellino. Alcuni secondi più tardi era sparito dietro l'angolo. Non fosse stato per gli altri ospiti dell'albergo - alcuni che
mugugnavano e altri che ridevano - la notte sarebbe tornata di nuovo silenziosa. Rimasi un attimo immobile a guardare il «missile» prima di avere il coraggio di raccattarlo e di portarlo in camera, una volta chiuse ermeticamente le persiane dietro di me. Dopo aver acceso le luci, vidi che si trattava di una pallina da tennis avvolta in un foglio di carta pesante tenuto fermo da elastici. Il foglio conteneva un messaggio, dalla calligrafia chiara e forte, scritto a mano con lo stesso inchiostro rosso scuro che si usa per le lettere d'amore o i messaggi di suicidio. Giulietta, perdonami se sono così cauto ma ho le mie buone ragioni. Presto capirai. Devo parlare con te e spiegarti tutto. Incontriamoci domani mattina alle dieci in cima alla Torre del Mangia, e non dirlo a nessuno. Romeo
PARTE QUINTA
Capitolo 1 Io scendo in questo letto di morte per ammirare ancora il volto della mia donna, e per togliere dal suo dito un anello prezioso. Siena, 1340 LA notte del Palio fatale, il corpo del giovane Tebaldo Tolomei fu esposto nella chiesa di San Cristoforo, nella piazza antistante Palazzo Tolomei. Come gesto di amicizia, messer Salimbeni si era fermato a deporre il cencio sopra l'eroe morto e a promettere al padre disperato che l'assassino aveva le ore contate. Dopo di ciò, si era scusato e aveva lasciato la famiglia Tolomei nel suo lutto, facendo solo una breve sosta all'uscita per inchinarsi al Signore e ammirare l'affascinante figura di Giulietta inginocchiata in preghiera accanto alla bara del cugino. Tutte le donne di casa Tolomei erano riunite in chiesa a piangere e a pregare con la madre di Tebaldo, mentre gli uomini correvano avanti e indietro dalla chiesa al palazzo ebbri di vino e bramosi di vedere Romeo Marescotti affidato alla giustizia. Ogni volta che udiva frammenti delle loro concitate conversazioni, a Giulietta si stringeva la gola dalla paura e si annebbiavano gli occhi al pensiero che l'uomo da lei amato potesse essere catturato dai suoi nemici e punito per un crimine che era sicura non avesse commesso. Di certo faceva una buona impressione che lei soffrisse così profondamente per la morte di un cugino con cui non aveva scambiato neppure una parola. Le lacrime che Giulietta versava quella notte si mescolavano con quelle delle sue cugine e delle zie come torrenti che confluiscano in un unico lago: erano così copiose che nessuno si curava di risalire alla fonte. «Immagino tu sia davvero dispiaciuta», le aveva detto sua zia
interrompendo brevemente il proprio cordoglio per guardare Giulietta che piangeva nel cencio drappeggiato sopra a Tebaldo. «E faresti bene a esserlo! Se non fosse stato a causa tua, quel bastardo di Romeo non avrebbe mai osato...» Prima di poter finire la frase, monna Antonia era nuovamente crollata in lacrime mentre Giulietta si allontanava con discrezione dal centro dell'attenzione per sedersi a un banco in uno degli angoli più bui della chiesa. Mentre se ne stava lì sola e disperata le venne una voglia tremenda di sfidare la sorte e darsi alla fuga da San Cristoforo a piedi. Non aveva denaro e nessuno che la proteggesse ma, a Dio piacendo, avrebbe potuto rintracciare la bottega di mastro Ambrogio. Le strade cittadine però pullulavano di soldati alla ricerca di Romeo e l'entrata della chiesa era pattugliata da guardie. Solo un angelo - o un fantasma - le avrebbe permesso di passare indisturbata. A un certo punto, dopo mezzanotte, Giulietta alzò il viso dalle mani giunte e vide che Frate Lorenzo stava facendo il giro del gruppo dei parenti del defunto. La cosa la sorprese dato che aveva sentito le guardie dei Tolomei menzionare il frate francescano che aveva presumibilmente aiutato Romeo a scappare attraverso i Bottini subito dopo il Palio, e lei ne aveva dedotto che il francescano in questione fosse Frate Lorenzo. A vederlo adesso aggirarsi in chiesa con tanta calma, mentre confortava le donne in gramaglie, il cuore le si riempì di sgomento. Chiunque avesse aiutato Romeo a scappare, non era qualcuno che lei conosceva o che avrebbe mai conosciuto. Quando alla fine il frate la scorse seduta appartata, la raggiunse al banco e si prese la libertà di dividere con lei il medesimo inginocchiatoio. «Perdonami se mi intrometto nel tuo cordoglio», mormorò. La risposta di Giulietta fu sommessa, per tema che qualcuno li potesse sentire. «Tu sei il più vecchio amico del mio cordoglio.» «Ti consolerebbe sapere che l'uomo per il quale stai davvero piangendo è in viaggio per terre straniere dove i suoi nemici non potranno mai trovarlo?» Giulietta si premette una mano sulla bocca per soffocare l'emozione. «Se davvero lui è in salvo, allora io sono la più felice
delle creature su questa terra. Ma sono anche...» la sua voce ebbe un tremito, «la più sventurata. Oh, Lorenzo, come possiamo vivere così... lui là, e io qui? Come vorrei essere fuggita con lui! Come vorrei essere un falcone al suo braccio anziché un canarino in una putrida gabbia!» Sapendo di aver parlato troppo forte, e di aver detto troppo, Giulietta si guardò intorno con nervosismo per vedere se qualcuno l'avesse sentita. Ma per fortuna monna Antonia era troppo presa dal suo dolore per notare alcunché attorno a lei e le altre donne si stavano dando da fare con le decorazioni floreali della bara. Frate Lorenzo la fissò intensamente da dietro le mani giunte. «Andresti con lui se tu potessi seguirlo?» «Certo che sì!» guizzò Giulietta senza neanche rendersene conto. «Lo seguirei in capo al mondo!» Rendendosi di nuovo conto di essersi lasciata andare, si abbassò vieppiù sull'inginocchiatoio e aggiunse in un sospiro: «Lo seguirei fino a che morte non ci separi». «Allora ricomponiti», le sussurrò Frate Lorenzo mentre per cautela le metteva una mano sulla spalla, «perché lui è qui... Calma, ho detto! Non vuole lasciare Siena senza di te. Non muovere la testa perché è proprio...» Giulietta non poté fare a meno di girarsi e di vedere con la coda dell'occhio un monaco incappucciato in ginocchio dietro di lei con addosso, se non andava errata, lo stesso identico saio che Frate Lorenzo aveva fatto indossare a lei quando erano andati assieme a Palazzo Marescotti. Ebbra per l'eccitazione, controllò ansiosamente le zie e le cugine. Se qualcuno avesse scoperto che Romeo era lì, proprio quella notte e proprio in quella chiesa, di certo né lui, né lei, e neppure Frate Lorenzo, avrebbero vissuto abbastanza per vedere l'alba di un nuovo giorno. Era troppo oltraggioso e troppo diabolico da parte di un presunto assassino violare la veglia funebre del povero Tebaldo per corteggiare la cugina dell'eroe morto, e nessun Tolomei avrebbe mai tollerato l'offesa. «Ti ha dato di volta il cervello?» sibilò Giulietta da sopra la spalla, «se ti scoprono, ti ammazzano!»
«La tua voce è più tagliente delle loro spade!» si lamentò Romeo. «Ti scongiuro di essere tenera, queste potrebbero essere le ultime parole che mi dici.» Giulietta, più che vederla, sentì la sincerità degli occhi di lui risplendenti sotto il cappuccio. «Se parlavi sul serio poc'anzi, prendi questo...» Romeo si sfilò dal dito un anello e glielo porse. «Ecco, con questo anello io ti sposo...» Giulietta ebbe un sussulto ma prese comunque l'anello. Era d'oro con il sigillo dell'Aquila dei Marescotti ma le parole di Romeo, «con questo anello io ti sposo», l'avevano fatto diventare la sua vera nuziale. «Che il Signore vi benedica per l'eternità!» mormorò Frate Lorenzo ben sapendo che l'eternità avrebbe potuto andare non oltre la notte in corso. «E che tutti i santi del paradiso possano vegliare sulla vostra unione. Adesso ascoltatemi. Domani il funerale si svolgerà nella cappella dei Tolomei fuori le mura...» «Un momento!» esclamò Giulietta. «Io vado con lui adesso no?» «Sst! È impossibile!» Frate Lorenzo le appoggiò l'altra mano sulle spalle per calmarla. «Le guardie alla porta vi bloccherebbero. E stanotte la città è troppo pericolosa...» La voce di qualcuno che intimava loro il silenzio fece sobbalzare tutti e tre dalla paura. Giulietta vide con apprensione che le zie le stavano facendo cenno di non far agitare oltre monna Antonia. E così Giulietta abbassò la testa obbediente e tenne la lingua a freno fino a quando più nessuno le prestò attenzione. Poi si girò ancora una volta per guardare Romeo con aria supplichevole. «Non sposarmi per abbandonarmi!» lo implorò. «Questa è la nostra notte di nozze!» «Domani ripenseremo a tutto questo e ci faremo una risata», le sussurrò lui sforzandosi di non sfiorarle la guancia con una carezza. «Domani potrebbe non arrivare mai!» singhiozzò Giulietta nel palmo della mano. «Qualsiasi cosa accada saremo insieme», la rassicurò Romeo. «Come marito e moglie. Te lo giuro. In questo mondo... o nell'altro.»
La cappella funebre dei Tolomei era parte dell'ampio cimitero oltre Porta Tufi. Fin dall'antichità i senesi avevano seppellito i loro morti fuori dalle mura e ogni famiglia nobile aveva mantenuto - o usurpato - un qualche sepolcro contenente un numero adeguato di antenati defunti. Il santuario dei Tolomei si distingueva fra tutti come un castello di granito nella città della morte. Il grosso della struttura era sotterranea ma vantava un grandioso ingresso a livello del suolo che la faceva somigliare ai sepolcri delle personalità dell'antica Roma, personaggi illustri con cui messer Tolomei amava paragonarsi. Quel triste giorno aveva visto una moltitudine di parenti e amici radunarsi nel cimitero per offrire sostegno a Tolomei e a sua moglie mentre il loro primogenito veniva adagiato nel sarcofago di granito che il padrone di casa aveva originariamente commissionato per se stesso. Accompagnare nell'oltretomba un giovane nel fiore dell'età era un peccato mortale e nessuna parola riusciva a consolare la madre disperata della fanciulla dodicenne che, il giorno della sua nascita, era stata promessa in sposa a Tebaldo. Dove l'avrebbe trovato un altro pretendente adatto, adesso che era così vicina alla pubertà e così abituata a considerarsi la futura padrona di Palazzo Tolomei? Ma Giulietta era troppo preoccupata del proprio immediato futuro per unirsi alle lamentazioni dei parenti in lutto. Era anche esausta per la mancanza di sonno. La veglia era durata tutta la notte e ora, a pomeriggio inoltrato del giorno dopo, abbandonate tutte le speranze di resurrezione, monna Antonia pareva essere sul punto di raggiungere il figlio nel riposo finale. Pallida e tirata, stava a malapena in piedi sostenuta dai fratelli. Solo una volta si girò indietro e fu per aggredire Giulietta con il viso distorto dall'odio. «Eccola qui, la serpe che ho in seno!» ringhiò con l'intento di farsi sentire da tutti. «Non fosse stato per i suoi vergognosi incoraggiamenti, Romeo Marescotti non avrebbe mai osato alzare la mano sulla nostra famiglia! Guardate che viso infido! Guardate che lacrime ipocrite! Potrei giurarci che non sono per mio figlio Tebaldo ma per il suo uccisore, Romeo!» Sputò due volte in terra per liberarsi
del sapore di quel nome. «Fratelli, è ora di far qualcosa! Non statevene lì come agnelli impauriti! Un crimine tremendo è stato commesso contro la famiglia dei Tolomei e l'assassino se ne va ancora in giro per la città infischiandosene della legge...» Estrasse da sotto la mantiglia uno stiletto luccicante e lo agitò in aria. «Se siete degli uomini, mettete a ferro e fuoco la città e trovatelo, ovunque si nasconda, e poi lasciate che una madre disperata gli affondi questa lama nel suo cuore di tenebra.» Dopo questa scenata, monna Antonia si afflosciò miserevolmente tra le braccia dei fratelli mentre la processione iniziava a scendere le scale di pietra che conducevano al sepolcro sotterraneo. Quando tutti furono radunati sotto, il corpo di Tebaldo, avvolto in un sudario, fu calato nel sarcofago mentre venivano eseguiti gli ultimi riti. Durante tutto il funerale, Giulietta non aveva smesso di cercare con gli occhi un nascondiglio idoneo in ogni angolo o rientranza di quel luogo tenebroso. Secondo i piani di Frate Lorenzo, avrebbe dovuto trattenersi nella camera mortuaria a cerimonia conclusa, cercando di non farsi vedere dalle persone che uscivano, e lì aspettare da sola fino al calar della notte quando per Romeo non sarebbe stato rischioso venire a recuperarla. Era l'unico posto - aveva spiegato il monaco - dove le guardie dei Tolomei non avrebbero controllato i membri della famiglia e, poiché il cimitero era fuori le mura, i movimenti di Romeo non sarebbero stati condizionati dal timore costante di essere scoperto e arrestato. Una volta fuori dal sepolcro, Giulietta avrebbe accompagnato Romeo in esilio e, nell'attimo in cui si fossero stabiliti sani e salvi in una landa straniera, avrebbero mandato in segreto una missiva a Frate Lorenzo per raccontargli della loro conquistata felicità e per pregarlo di raggiungerli appena gli fosse stato possibile. Quello era il piano sul quale, in gran fretta, si erano dichiarati tutti e tre d'accordo la notte prima nella chiesa di San Cristoforo, senza che a Giulietta venisse neppure in mente di discutere i dettagli fino al momento di dover agire. Sopraffatta dalla nausea, ora osservava i sarcofagi che la attorniavano da ogni parte - nient'altro che giganteschi contenitori di morte - domandandosi come avrebbe
potuto sgattaiolare via e nascondersi tra di loro senza essere vista né sentita. Fu solo alla fine della cerimonia, quando il prete aveva radunato tutti in una preghiera a testa china, che Giulietta aveva approfittato del momento per allontanarsi dai parenti distratti e rannicchiarsi dietro al sepolcro più vicino. E quando il sacerdote aveva coinvolto i presenti in un amen melodioso e prolungato, lei aveva strisciato ancor di più nell'ombra sulle mani e le ginocchia, con la braccia che già le tremavano per il contatto con la terra fredda e umida. Mentre Giulietta se ne stava lì accovacciata contro la ruvida pietra di un sepolcro, sforzandosi di non respirare, i partecipanti al funerale lasciarono uno dopo l'altro la camera mortuaria, dopo aver deposto le loro candele su un piccolo altare ai piedi di Cristo Crocefisso, e si apprestarono al lungo e dolente cammino di ritorno. Pochi avevano dormito dopo il Palio del giorno prima e - come Frate Lorenzo aveva previsto - nessuno ebbe modo di verificare se il numero di persone a lasciare il sepolcro fosse uguale al numero di quelle entrate. Dopotutto quale essere vivente avrebbe scelto di rimanere in quello spaventoso antro pieno di odori ributtanti, intrappolato dietro una porta massiccia che non si poteva aprire dall'interno? Quando tutti furono usciti, l'accesso al sepolcro venne chiuso con un tonfo sordo. Anche se delle deboli fiammelle tremolavano sull'altare accanto all'ingresso, le tenebre che adesso avvolgevano Giulietta ansimante in mezzo alle tombe dei suoi antenati potevano definirsi totali. Accucciata tra le tombe, senza alcuna cognizione delle ore che passavano, Giulietta cominciò lentamente a prendere atto del fatto che la morte - più di ogni altra cosa - era una questione di tempo. I suoi illustri antenati giacevano tutti in paziente attesa del momento in cui una mano divina avrebbe scoperchiato le loro bare per riportare gli spiriti a un'esistenza che da vivi non si erano mai neppure immaginati. Alcuni sarebbero venuti fuori con un'armatura da crociato, magari privi di un occhio o di un arto, altri con addosso solo la camicia da notte, consunti e coperti da bubboni, altri non sarebbero stati che
neonati urlanti con le loro giovani madri lorde di sangue... Anche se Giulietta non dubitava che un giorno tutti i meritevoli avrebbero rivisto la luce, quella fila di antichi sarcofagi e il pensiero dei secoli trascorsi la riempivano di orrore. Avrebbe dovuto vergognarsi, pensò tra sé e sé, di essere così impaurita e nervosa mentre aspettava Romeo tra le immobili urne di pietra. Che cos'erano mai poche ore d'ansia di fronte all'eternità? Quando la porta del sepolcro finalmente si aprì, la maggior parte delle candele sull'altare si erano consumate e le poche rimaste accese proiettavano ombre deformi e spaventose che erano quasi peggio dell'oscurità totale. Senza neppure aspettare di vedere se quello che era arrivato fosse proprio Romeo, Giulietta si lanciò verso il suo salvatore bramosa di sentire il caldo tocco della sua mano, come pure di respirare una boccata di aria fresca. «Romeo!» singhiozzò lasciandosi sfinimento. «Grazie al Cielo...!»
finalmente
andare
allo
Tuttavia non era Romeo quello fermo in alto sulla soglia, con una torcia in mano, che la guardava con un sorriso sibillino. Era messer Salimbeni. «Si dovrebbe pensare che non vi siete allontanata dalla tomba di vostro cugino per piangere ancor di più la sua morte», disse con una voce forzata che mal si accordava con l'aria ilare. «Ma com'è che non vedo traccia di lacrime su queste guance rosee? Forse che...» scese di alcuni scalini per poi arrestarsi disgustato dall'odore di putrefazione, «la mia adorata sposa è uscita di senno? Temo sia proprio così. Ho paura, mia cara, che dovrò andare a cercarvi nei cimiteri mentre vi trastullate nella vostra demenza con ossa e teschi calcinati. Ma...» fece un ghigno ripugnante, «anche a me questi giochi non dispiacciono. A onor del vero, credo che voi e io siamo fatti l'una per l'altro.» Paralizzata al suo apparire, Giulietta non seppe cosa rispondere. Aveva a malapena capito quello che lui le aveva detto. L'unica cosa che aveva in mente era Romeo, e perché non fosse stato lui a liberarla dal sepolcro, ma l'odiato Salimbeni. Ma quella era una domanda che di certo non poteva fare.
«Venite qui!» Salimbeni le fece segno di lasciare il sepolcro e Giulietta non poté fare altro che obbedire e uscire con lui. E così riemerse nella notte più buia circondata da un cerchio di torce sorrette dalle guardie in uniforme del nobile. Nello scrutare i volti degli uomini attorno a lei, Giulietta vi poté individuare compassione e indifferenza in ugual misura ma la cosa che più la turbò fu la sensazione che loro fossero al corrente di qualcosa che lei ignorava. «Non siete desiderosa di sapere come ho fatto a liberarvi dal putrido abbraccio della morte?» Giulietta non aveva neppure l'estro di dire di sì ma la cosa non si dimostrò necessaria perché Salimbeni fu più che contento di continuare il monologo senza il consenso di lei. «Per vostra fortuna», proseguì, «ho avuto una guida eccellente. I miei uomini l'hanno visto che si aggirava qua intorno e, invece di passarlo da parte a parte - come era stato loro ordinato - si sono saggiamente domandati che razza di tesoro potesse spingere un uomo in fuga a tornare in città per rischiare l'arresto e una morte violenta. Come avrete già indovinato, i suoi passi Io portavano diritto verso questo monumento e, visto che tutti sanno che non si può uccidere la stessa persona due volte, mi fu facile concludere che il motivo per scendere nel sepolcro di vostro cugino doveva essere qualcosa di diverso dalla sete di sangue.» Vedendo che Giulietta era impallidita a sufficienza a sentire questo discorso, Salimbeni fece un cenno ai suoi uomini perché esibissero la persona in questione. E loro scaraventarono un corpo nel mezzo del cerchio di torce, come farebbero dei norcini con una povera carcassa pronta per la macellazione. Giulietta lanciò un grido quando vide Romeo a terra, massacrato dai colpi e coperto di sangue e, se Salimbeni non gliel'avesse impedito con la forza, si sarebbe buttata su di lui per carezzargli i capelli e baciargli via il sangue dalle labbra fintanto che avessero avuto un anelito di vita. «Demonio maledetto!» urlò a Salimbeni mentre lottava come una fiera per liberarsi dalla sua presa. «Dio vi punirà per questo!
Lasciatemi con lui, infame Salimbeni, che almeno possa morire con mio marito! Poiché la mia mano porta il suo anello, e giuro su tutti gli angeli del paradiso che mai e poi mai sarò vostra!» Finalmente Salimbeni cambiò espressione. Nell'agguantare la mano di Giulietta per ispezionarle l'anello, per poco non le spezzò il polso. Accontentata la curiosità, spintonò la fanciulla tra le braccia di una guardia e fece un passo avanti per sferrare un brutale calcio nello stomaco di Romeo. «Ladro schifoso!» sbottò, sputando dal disgusto, «non ne hai potuto fare a meno, giusto? Bene, senti quello che ti dico: sono stati i tuoi abbracci a uccidere la tua dama! Avevo intenzione di ammazzare te solo ma adesso vedo che anche lei non vale più nulla!» «Vi scongiuro!» rantolò Romeo sforzandosi di sollevare la testa da terra per vedere Giulietta un'ultima volta. «Lasciate che lei viva! Era soltanto una promessa! Non ho mai giaciuto con lei! Per favore! Lo giuro sulla mia anima!» «Che scena commovente», osservò Salimbeni spostando lo sguardo dall'uno all'altra, non convinto. «E tu cosa dici, ragazza?» Afferrò Giulietta per il mento. «Sta affermando il vero?» «Che siate dannato!» sibilò lei mentre si divincolava. «Siamo marito e moglie, e fareste meglio a uccidere anche me perché, come ho diviso con lui il nostro letto nuziale, così voglio condividere la nostra tomba!» La stretta di Salimbeni si intensificò. «Sul serio? E anche voi siete disposta a giurare sulla sua anima? Attenzione, perché se mentite lui andrà dritto all'inferno questa stessa notte.» Giulietta spostò gli occhi verso Romeo, miseramente disteso davanti a lei, e lasciò che la disperazione la sopraffacesse soffocandole le parole in gola e impedendole di mentire ancora. «Ah!» Salimbeni ebbe un moto di trionfo. «Ecco dunque un fiore che non hai colto, cane rabbioso.» Sferrò un altro calcio a Romeo deliziandosi dei lamenti della vittima e dei singulti della fanciulla che lo supplicava di smettere. «E adesso facciamo in modo che tu non ne colga mai più!» Si chinò su di lui e gli estrasse il pugnale dalla custodia.
Poi, con un movimento lento e deliberato, Salimbeni affondò la lama nell'addome del suo proprietario e quindi lo ritrasse, lasciando il giovane ad agonizzare con tutto il corpo che si contorceva negli spasmi dell'orrenda ferita. «No!» urlò Giulietta e fece un balzo avanti così repentino che nessuno degli uomini riuscì a trattenerla. Poi si lasciò cadere di fianco a Romeo e gli cinse il corpo con le braccia, determinata ad andare dove andava lui, a non essere lasciata indietro. Ma Salimbeni ne aveva avuto abbastanza della sceneggiata e la tirò su per i capelli. «Chiudi la bocca!» sbraitò e cominciò a colpirla in volto fino a farla ubbidire. «Questi ululati non servono a niente. Ricomponiti e ricordati che sei una Tolomei.» Poi, prima che lei capisse cosa stava facendo, Salimbeni le strappò dal dito fanello con il sigillo e lo gettò in terra accanto a Romeo. «Ecco dove va a finire la tua promessa. Rallegrati che sia stato così facile infrangerla!» Attraverso una cortina di capelli insanguinati, Giulietta vide che le guardie sollevavano il corpo di Romeo e lo lanciavano giù dagli scalini del sepolcro, come un sacco di grano da mettere in deposito. Ma non vide gli uomini chiudere la porta o assicurarsi che il catenaccio fosse sprangato. In mezzo a tutto quell'orrore aveva dimenticato di respirare e ora un angelo misericordioso le chiuse gli occhi e lasciò che scivolasse in un provvido oblio.
Capitolo 2 La virtù stessa, male adoperata, può diventare un vizio, e qualche volta il vizio si nobilita per la sua azione. VISTA dalla cima della Torre del Mangia, la mezza luna formata dal Campo pareva una mano di carte da gioco con il dorso in su. Che simbolo allusivo per una città con tanti segreti! Chi avrebbe mai pensato che uomini come il malvagio messer Salimbeni potessero prosperare in un luogo così bello, o piuttosto che i suoi concittadini l'avessero lasciato prosperare? Non c'era nulla nel diario di mastro Ambrogio che facesse intendere che questo lontano Salimbeni avesse posseduto delle qualità nascoste, come la generosità di Eva Maria o il fascino di Alessandro. E, anche se le avesse possedute, rimaneva pur sempre il fatto che aveva assassinato tutti coloro cui Giulietta aveva voluto bene, con l'eccezione di Frate Lorenzo e di Giannozza. Avevo passato quasi tutta la notte a soffrire per i brutali eventi descritti nel diario e le poche pagine ancora da leggere mi facevano presagire un finale drammatico. Sentivo che per Romeo e Giulietta non ci sarebbe stato alcun «vissero felici e contenti». Non era stato l'estro letterario a trasformare la loro vita in una tragedia, ma fatti realmente accaduti. Da quel che avevo capito, Romeo era già morto, trafitto allo stomaco da quel dannato pugnale - il mio pugnale - e Giulietta si trovava tra le grinfie di uno scellerato. Restava solo da vedere se anche lei sarebbe morta prima che finisse il diario. Forse era quello il motivo del mio malumore mentre, in cima alla Torre del Mangia, me ne stavo ad aspettare il mio Romeo in motocicletta. O forse ero sulle spine perché sapevo dannatamente bene che non avrei dovuto venire. Che razza di donna accetta un appuntamento al buio in cima a una torre? E che razza di uomo trascorre le proprie serate con un casco in testa, e comunica con la gente tirando palle da tennis?
Eppure eccomi qua. Perché, se quest'uomo misterioso era veramente il discendente del Romeo medioevale, io volevo vedere com'era fatto. Erano passati ormai più di sei secoli da che i nostri antenati erano stati strappati l'uno all'altra in circostanze assai violente, e da che il loro disastroso incontro era diventato la più grande storia d'amore mai raccontata. Come non provare eccitazione? Certo, non stavo più nella pelle all'idea che uno dei miei personaggi letterari preferiti - senza dubbio il più importante di tutti, almeno per me - fosse finalmente tornato in vita. Dal momento in cui mastro Lippi aveva menzionato che a Siena si aggirava un Romeo Marescotti contemporaneo, amante dell'arte e del vino, avevo cominciato a sognare in segreto di incontrarlo. Eppure adesso che ero in possesso di una prova vergata con inchiostro rosso e firmata con uno svolazzo - l'unica cosa che provavo veramente era un senso di nausea... quel tipo di nausea che senti quando stai tradendo qualcuno di cui non puoi permetterti di perdere i buoni consigli. Quel qualcuno, mi resi conto mentre dai merli della torre guardavo quella città così struggentemente bella e irresistibilmente altera, era Alessandro. Sì, lui era un Salimbeni e, no, il mio Romeo non gli piaceva per niente, ma il suo sorriso - le poche volte che faceva capolino - era così genuino e contagioso che io ne ero già stata ammaliata. Certo, la cosa era ridicola. Ci conoscevamo da non più di una settimana e la maggior parte del tempo l'avevamo trascorsa ad azzannarci, io pure sobillata dalla mia famiglia. Neppure Romeo e Giulietta, quelli originali, potevano vantare tanta ostilità iniziale. Era ironico che la storia dei nostri antenati tornasse a riproporsi facendo di noi delle specie di cloni shakespeariani e allo stesso tempo ricreasse il nostro piccolo ma reale triangolo d'amore. Tuttavia, appena ammessa la mia infatuazione per Alessandro, avevo cominciato a dispiacermi per il Romeo che avrei incontrato. Secondo mio cugino Peppo, Romeo aveva trovato scampo all'estero per fuggire alla cattiveria di persone che avevano costretto lui e sua madre a lasciare la città. Quindi, qualunque fosse la sua motivazione ultima per tornare a Siena, probabilmente aveva messo tutto a
repentaglio quando mi aveva suggerito di incontraci alla Torre del Mangia. Se non altro per questo, era meritevole della mia gratitudine. E anche se non era pari ad Alessandro, come minimo gli dovevo dare la possibilità di corteggiarmi, se era quello che voleva fare, e non negargli ostinatamente il mio cuore come Giulietta aveva negato il suo a Paride dopo avere incontrato Romeo. O... forse stavo correndo troppo. Magari voleva solo parlarmi. Se le cose stavano così, in tutta onestà per me sarebbe stato un sollievo. Quando alla fine sentii dei passi sugli scalini, mi alzai dal mio posto di vedetta e mi riassettai l'abito con dita rigide, preparandomi all'incontro semileggendario che stava per aver luogo. Ci volle un po' prima che il mio eroe arrivasse in cima alla scala a chiocciola. Mentre me ne stavo lì in attesa, pronta a farmelo piacere, non potei fare a meno di notare che - a giudicare dal respiro affannoso e da come si trascinava i piedi - dei due io ero di certo quella in forma migliore. Poi finalmente il mio inseguitore dal fiato corto apparve, con tanto di tuta di cuoio ripiegata su un braccio e casco a penzoloni dall'altro, e di colpo nulla sembrò avere più alcun senso. Era Janice. Sarebbe arduo individuare l'esatto momento in cui le cose avevano cominciato ad andare male nel mio rapporto con Janice. La nostra infanzia era stata piena di conflitti, come d'altro canto lo sono spesso le infanzie, anche se poi la stragrande maggioranza della gente sembra in grado di raggiungere la maturità senza avere del tutto perduto l'affetto per i propri fratelli e sorelle. Ma non per noi. Ora, a venticinque anni, non riuscivo a ricordare l'ultima volta che avevo dato un bacio a mia sorella, o avuto una conversazione che non fosse degenerata in una zuffa infantile. Ogni volta che ci incontravamo era come se avessimo di nuovo otto anni. «Perché lo dico io!» e «Ce l'avevo prima io!» sono espressioni che la più parte delle persone è felice di lasciarsi alle spalle come vestigia di un'età barbarica, così come si fa con il ciuccio e le copertine. Per me
e Janice erano invece la base dialettica del nostro rapporto. Zia Rose era più o meno dell'idea che tutto si sarebbe aggiustato a tempo debito, purché l'elargizione di amore e caramelle avvenisse in pari misura. Tutte le volte che ci rivolgevamo a lei per sapere chi avesse ragione, la zia non voleva neppure ascoltare i dettagli del contendere - in fondo era un litigio dopo l'altro - ma ci dava sempre la risposta standard che aveva a che fare con la generosità o il volersi bene. «Su venite!» mettendo mano nella boccia di cristallo piena di gallette al cioccolato che teneva accanto alla poltrona. «Ragazze, fate le brave! Julie sii carina con Janice e prestale...» qualsiasi cosa fosse... la bambola, il libro, la cintura, la borsa, il berretto, gli stivali «...in modo che si possa stare un po' in pace in questa casa, per amor del cielo!» E così, inevitabilmente, ce ne andavamo ognuna per conto nostro ancora più inferocite di prima, con Janice tronfia della mia sconfitta e della sua immeritata vittoria. La ragione per cui mia sorella voleva sempre le mie cose era soprattutto perché le sue si erano rotte o erano «fuori moda». Per lei era più semplice appropriarsi dei miei oggetti che mettere da parte un po' di denaro per comprarsene di nuovi. E così mi allontanavo dalla poltrona di zia Rose dopo un'altra ridistribuzione di beni che mi aveva tolto quello che era mio per essere rimpiazzato da una galletta secca. Malgrado tutte le sue prediche sulla giustizia, la zia era l'artefice involontaria di conseguenze nefande. La mia sventurata infanzia era stata costellata dalle sue buone intenzioni. Una volta arrivata al liceo, smisi di chiedere aiuto alla zia e iniziai ad andare direttamente in cucina a lamentarmi con Umberto che nel mio ricordo - era sempre intento ad affilare i coltelli con un sottofondo di musica d'opera a pieno volume. E tutte le volte che cadevo nel trito «Ma non è giusto!» lui controbatteva: «Chi ti ha detto che la vita è giusta?» E, quando mi ero calmata: «Allora, che cosa vuoi che faccia?» Diventando più grande e più saggia, sapevo che la risposta corretta a quell'ultima domanda era: «Niente, devo farlo io». Ed era vero. Non è che corressi da Umberto perché volevo che desse una lezione a Janice - benché la cosa sarebbe stata gradita - ma perché lui
non aveva timore di dirmi, anche se alla sua maniera, che io ero meglio di mia sorella e che meritavo di più dalla vita. Ma, detto questo, come ottenere quel di più sarebbe dipeso da me. L'unico problema fu che Umberto non mi disse mai come. Mi sembrava di aver corso tutti i miei anni con la coda tra le gambe, alla ricerca di momenti che Janice non potesse in qualche modo portarmi via o rovinarmi. Per quanto accuratamente nascondessi i miei tesori, lei era sempre capace di fiutarli e distruggerli. Se tenevo da parte le mie scarpette da ballo di satin per il saggio di fine anno, al momento di aprire la scatola avrei scoperto che lei le aveva usate e aveva lasciato tutti i lacci aggrovigliati. Una volta, dopo che avevo passato settimane a comporre un collage di pattinatrici per il corso di disegno, lei ci infilò in mezzo un ridicolo personaggio dei cartoni animati. Non aveva importanza quanto lontano andassi, o in che schifezze mi rotolassi per camuffare il mio odore, lei mi raggiungeva sempre di corsa, con la lingua a penzoloni, e si metteva a saltellare attorno a me in maniera fastidiosa per poi mollarmi accanto una bella cacca fumante. Ecco perché mentre me ne stavo lì sulla Torre del Mangia mi tornò tutto in mente di botto. Le mie molteplici ragioni per odiare Janice. Fu se come qualcuno avesse scatenato nella mia testa una valanga di brutti ricordi, e provai una furia come non ne avevo mai provata nella vita. «Sorpresa!» disse Janice, lasciando cadere la tuta di pelle e il casco e allargando le braccia come in attesa dell'applauso. «Cosa diavolo sei venuta a fare qua?» riuscii alla fine a bofonchiare con la voce tremante di rabbia. «Sei stata tu a venirmi dietro con quella ridicola moto? E la lettera...» Tirai fuori il pezzo di carta dalla borsa, ne feci una palla e gliela lanciai in faccia. «Quanto stupida credi che sia?» Janice sghignazzò, godendo della mia collera. «Abbastanza stupida per salire in cima a questa maledetta torre...!» Fece una smorfia di finta comprensione che aveva perfezionato dall'età di cinque anni. «È così? Davvero credevi che fossi Romeo?»
«Va bene, ti sei divertita», dissi cercando di soverchiare la sua risata. «Spero che valesse il viaggio fin qua. Adesso scusami, vorrei restare ma preferisco infilarmi la testa in un bidet!» Cercai di aggirarla per raggiungere le scale ma lei indietreggiò bloccandomi l'accesso. «E no, cara mia!» sibilò mentre il barometro sulla sua faccia passava da bel tempo a tempesta. «Non fino a che mi hai consegnato la mia parte!» Ebbi un sussulto. «Stai scherzando, spero.» «No, non questa volta», rispose con le labbra che le tremavano come, una volta tanto, stesse recitando il ruolo della vittima. «Sono rovinata. Bancarotta.» «E allora ? Chiama il telefono amico», replicai, ricominciando con le nostre tipiche scaramucce. «Ma non hai appena ricevuto un patrimonio da qualcuno? Qualcuno che conosciamo entrambe?» «Oh, certo!» Janice abbozzò una smorfia. «Già, quello sì che è stato un colpo. La brava zia Rose e tutti i suoi milioni di miliardi.» «Non ho la minima idea di che cosa ti stia lamentando», le dissi. «L'ultima volta che ti ho vista avevi appena vinto la lotteria. Se è dell'altro denaro quello che vuoi, io sono l'ultima persona a cui devi rivolgerti.» Feci un altro tentativo verso le scale e questa volta ero decisa a passare. «To-gli-ti dai pie-di», le ordinai. Incredibile ma obbedì. «Guardati!» mi schernì mentre le passavo vicino. Se non l'avessi conosciuta come la conoscevo, avrei detto che c'era invidia nei suoi occhi. «La piccola principessa in fuga. Quanto della mia eredità hai speso in vestiti? Eh?» Continuai sui miei passi senza nemmeno rallentare per darle risposta. La sentii che raccattava il suo armamentario e si metteva a seguirmi. Mi stette alle calcagna durante tutta la discesa lungo la scala a chiocciola e non smise di urlarmi dietro, prima con tono esasperato e poi inaspettatamente querulo. «Aspetta!» strillò, usando il casco come paraurti contro il muro di mattoni. «Dobbiamo parlare! Fermati! Jules! Davvero!» Ma non avevo nessuna intenzione di fermarmi. Se proprio Janice aveva qualcosa di importante da dirmi, perché non l'aveva fatto
immediatamente? A che pro le acrobazie con la moto e l'inchiostro rosso? E perché aveva sprecato i nostri cinque minuti sulla torre con le sue solite buffonate? Certo, potevo capire la sua frustrazione se, come aveva lasciato intendere nel suo discorso delirante, era già riuscita a dilapidare il patrimonio di zia Rose. Ma questo era francamente l'ultimo dei miei problemi. Appena arrivata in fondo alla torre, uscii da Palazzo Pubblico e attraversai il Campo a grandi falcate, lasciando Janice nel suo brodo. La Ducati Monster era parcheggiata proprio davanti al palazzo, come una limousine alla notte degli Oscar. Da quel che potevo vedere, almeno tre agenti della polizia, braccia muscolose lungo i fianchi e occhiali a specchio sul naso, erano in impaziente attesa che tornasse il proprietario. Il bar di Malèna era l'unico posto dove pensai di poter andare senza che Janice mi rintracciasse immediatamente. Immaginai che se fossi tornata in albergo, lei sarebbe apparsa in pochi minuti per rimettersi a eseguire i suoi otto sotto il balcone. E così mi feci praticamente di corsa tutta la strada fino a piazza Postierla, girando la testa ogni dieci passi per assicurarmi che non mi stesse seguendo. Avevo ancora lo stomaco contratto dalla rabbia, quando mi fiondai attraverso la porta del bar per richiuderla con un botto. Malèna mi salutò con una risata. «Dio mio! Cosa ci fai qua? Hai già l'aria di una che sta bevendo troppi caffè.» Vedendo che non avevo neppure il fiato per rispondere, Malèna fece una giravolta per riempirmi un bicchiere d'acqua. Mentre bevevo, si sporse sul bancone senza far nulla per nascondere la sua curiosità. «Qualcuno... ti sta dando fastidio?» buttò lì, con l'espressione di sottintendere che, se le cose stavano così, c'erano diversi cugini - oltre a Luigi il parrucchiere - che sarebbero stati più che felici di darmi una mano. «Ecco...» iniziai. Ma da dove cominciare? Guardandomi intorno provai sollievo nel vedere che eravamo quasi sole nel bar, e che gli altri pochi clienti erano tutti presi nei loro discorsi. Mi resi conto che questa era l'opportunità che cercavo da quando Malèna aveva menzionato la famiglia Marescotti il giorno prima.
«Ho capito bene...» Mi buttai a capofitto prima di cambiare idea. «Hai detto che ti chiami Marescotti?» La domanda provocò in Malèna un sorriso smagliante. «Proprio così! Sono nata Marescotti. Adesso sono sposata ma...» si appoggiò una mano sul cuore, «qui sarò sempre una Marescotti. Hai visto il palazzo?» Feci un entusiastico cenno di assenso, pensando al concerto assai patetico cui avevo assistito due giorni prima con Eva Maria e Alessandro. «È magnifico. Mi chiedevo... qualcuno mi ha detto...» Mi impappinai e sentii un certo calore salirmi alle guance mentre realizzavo che, per quanto ci girassi attorno, avrei comunque fatto la figura dell'idiota a domandare quello che volevo domandare. Vedendo il mio imbarazzo, Malèna pescò da sotto il bancone una bottiglia di qualcosa fatto in casa. Senza neppure controllare cosa fosse, ne versò una dose potente nel mio bicchiere. «Bevi», mi ordinò. «Una specialità di casa Marescotti. Ti renderà allegra. Cin cin.» «Sono da poco passate le dieci del mattino», protestai, sentendomi per niente disposta a provare quel liquido torbido, per non parlare della sua ascendenza. «Ma dai!» esclamò con noncuranza, «forse sono le dieci a Firenze...» Ingurgitai diligentemente un sorso di quella che era di certo la peggiore miscela che avessi mai assaggiato da quando Janice aveva cercato di fare la birra nell'armadio di camera sua. Dopo aver persino pigolato una specie di complimento, alla fine decisi che mi ero guadagnata il diritto di chiedere: «Sei imparentata con un tizio che si chiama Romeo Marescotti?» Nel sentire la domanda, il voltafaccia di Malèna ebbe del prodigioso. Quella che prima era la mia migliore amica, disposta ad ascoltare i miei guai con i gomiti appoggiati sul bancone, rimise bruscamente il tappo alla bottiglia. «Romeo Marescotti è morto», disse, mentre toglieva di torno il mio bicchiere e asciugava il bancone con violenti colpi di strofinaccio. Poi si decise a guardarmi negli occhi. Dove prima c'era gentilezza, adesso c'era unicamente
allarme e diffidenza: «Era mio cugino. Perché?» «Oh!» esclamai sconcertata e anche stranamente stordita. O forse era stato il liquore. «Scusami, non avrei dovuto...» Non era davvero il momento giusto per dirle che mio cugino Peppo sospettava che dietro il furto al museo ci fosse proprio Romeo Marescotti. «È che mastro Lippi, il pittore... dice che lo conosce.» Malèna sbuffò, ma almeno parve sollevata. «Mastro Lippi», sussurrò passandosi un dito attorno all'orecchio, «parla con i fantasmi. Non starlo a sentire. È un po'...» cercò invano l'espressione giusta. «C'è anche un'altra persona...» Pensai che tanto valeva darci dentro. «Il capo della sicurezza del Monte dei Paschi. Alessandro Santini. Lo conosci?» Malèna sbarrò gli occhi per la sorpresa. «Siena è piccola.» Dal modo in cui lo disse capii che c'era dell'altro. «Perché credi che qualcuno debba andare in giro a dire che Romeo è ancora in vita?» continuai, più sommessamente, sperando che le mie domande non riaprissero delle vecchie ferite. «Dicono questo?» Malèna mi guardò attentamente, più incredula che rattristata. «È una storia un po' lunga», spiegai, «il punto è che sarei io quella interessata a Romeo. Perché... io sono Giulietta Tolomei.» Non mi aspettavo che Malèna capisse le implicazioni del mio nome unito a quello di Romeo, ma lo shock che vidi sul suo viso mi convinse che lei invece credeva eccome a quello che le avevo detto, antenati e tutto il resto. Una volta digerito il colpo di scena, la sua reazione fu molto tenera: allungò una mano e mi pizzicò il naso. «Il gran disegno», borbottò. «Lo sapevo che c'era un motivo per venire da me.» Poi si fermò come se volesse dirmi qualcosa che però sapeva di non potermi svelare. «Povera Giulietta», concluse invece con un sorriso di compassione, «vorrei poterti dire che lui è vivo... ma non posso.» Quando alla fine lasciai il bar, avevo completamente dimenticato
Janice. Fu quindi oltremodo spiacevole trovarla che mi aspettava fuori in strada, comodamente appoggiata al muro come una fanciulla del West che ammazza il tempo nell'attesa dell'apertura del saloon. Appena la vidi lì tutta gongolante per avermi rintracciato, mi tornò in mente ogni cosa: motocicletta, lettera, torre, litigio. Feci un sospiro profondo e mi incamminai nella direzione opposta, incurante di dove sarei andata a finire purché lei non mi seguisse. «Cosa c'è tra te e la tettona del bar?» Janice quasi inciampò nei suoi stessi tacchi per raggiungermi. «Stai cercando di farmi ingelosire?» A quel punto ne ebbi talmente sopra ai capelli di lei che mi bloccai nel mezzo di piazza Postierla e l'affrontai con tutto il fiato che avevo in gola: «Devo proprio dirtelo chiaro e tondo? Sto cercando di liberarmi di te!» Nel corso di tutti gli anni trascorsi insieme, avevo detto a mia sorella un sacco di cose cattive e questa era lungi da essere la peggiore. Eppure, forse perché eravamo in terra straniera, la cosa la colpì in pieno e per un attimo rimase basita, quasi fo..se sul punto di mettersi a piangere. Disgustata, le girai la schiena e ripresi a camminare accumulando un po' di distanza fra noi finché, ancora una volta, lei mi si rimise dietro barcollando sui tacchi a spillo tra le lastre del selciato. «Okay!» esclamò agitando le braccia per stare in equilibrio, «mi spiace per la moto. E mi spiace per la lettera. Non pensavo che te la saresti presa tanto.» Vedendo che non rispondevo né rallentavo, continuò a camminare, senza tuttavia riuscire a raggiungermi. «Ascolta, Jules, lo so che sei incazzata. Ma davvero dobbiamo parlare. Ricordi il testamento di zia Rose? Era un fai... ahia!» Doveva essersi presa una storta perché, quando mi girai a guardare, era seduta in mezzo alla strada che si massaggiava una caviglia. «Che cosa hai detto?» le chiesi con cautela mentre tornavo indietro di alcuni passi per avvicinarmi. «A proposito del testamento?»
«Mi hai sentita», disse avvilita mentre si ispezionava il tacco rotto dello stivale. «Era tutta una messinscena. Pensavo tu ne fossi parte, ed è per questo che ti ho seguita. Stavo cercando di capire cosa stessi combinando ma... sono disposta a concederti il beneficio del dubbio.»
Non era stata una buona settimana per la mia gemella cattiva. Tanto per cominciare, mi raccontò mentre zoppicava con un braccio attorno al mio collo, aveva scoperto che il nostro avvocato di famiglia, il signor Gallagher, non era affatto il signor Gallagher. Come? Perché si era fatto vivo il vero signor Gallagher. In secondo luogo, il testamento che avevamo visto dopo i funerali era un falso. Nella realtà la zia Rose non aveva niente da lasciare a nessuno, ed essere sua erede avrebbe voluto dire ereditare solo debiti. Terzo, due agenti di polizia si erano presentati a casa il giorno dopo che ero partita e avevano fatto patire a Janice le pene dell'inferno per aver rimosso il nastro giallo. Quale nastro giallo? Be', quello disposto attorno alla casa per circoscrivere la scena del crimine. «La scena del crimine?» Anche se il sole era alto nel cielo, sentii un brivido gelato passarmi da parte a parte. «Vuoi dire che zia Rose è stata assassinata?» Mia sorella mi guardò con aria annoiata. «E chi lo sa? Pare che la zia fosse coperta di lividi, anche se ci avevano spiegato che era morta nel sonno. Va' a capirci qualcosa.» «Janice!» Non sapevo neppure cosa dire, se non rimproverarla di essere così irrispettosa. Queste tremende notizie mi strinsero la gola come un nodo scorsoio, quasi a soffocarmi. «Cosa c'è?» saltò su lei con la voce strozzata dall'emozione. «Pensi che sia stato divertente passare tutta una notte nella stanza degli interrogatori... a rispondere alle domande...» quasi non riuscì a proferire le parole, «se volessi bene alla zia o no?» Osservai il suo profilo domandandomi quale fosse stata l'ultima volta che avevo visto mia sorella piangere. Con il mascara che le impiastricciava le guance e tutti i vestiti stazzonati per la caduta,
Janice sembrava umana, quasi gradevole, ma forse era per la caviglia dolente, la disperazione e lo sconforto. Mi resi conto all'improvviso che, una volta per tutte, ero io a dover essere la più forte. Ragion per cui la sostenni più saldamente e cercai di non pensare per il momento alla povera zia Rose. «Non capisco! Dove diavolo era Umberto?» «Ah!» La domanda fornì a Janice l'occasione per recuperare un po' della sua verve. «Vorrai dire Luciano!» Mi scrutò per accertarsi che fossi rimasta debitamente scioccata. «Proprio così. Il buon vecchio Birdie era un fuggitivo, un desperado, un gangster. .. scegli tu. Tutti questi anni è rimasto nascosto nel nostro giardino di rose mentre sia la polizia sia la mafia gli davano la caccia. E si direbbe che i suoi vecchi compari l'abbiano trovato visto che è semplicemente...» fece schioccare le dita, «puf, sparito!» Mi fermai a riprendere fiato e a deglutire per tenere giù la specialità di Malèna Marescotti che avrebbe dovuto darmi la spensieratezza ma che invece mi dava il crepacuore. «Non è che il nome completo sia... Luciano Salimbeni, giusto?» Janice rimase così folgorata dalla mia perspicacia che dimenticò completamente che non poteva mettere il peso sul piede sinistro. «Fantastico!» esclamò togliendo il braccio dalla mia spalla, «allora fai davvero parte di questo casino!» Zia Rose diceva spesso di aver assunto Umberto per la sua crostata di ciliegie. E se questo era esatto fino a un certo punto Umberto si produceva sempre in torte fantastiche - la verità stava nel fatto che lei senza di lui era perduta. Umberto si occupava di tutto, della cucina, del giardino e dei lavori di manutenzione della casa. Cosa ancora più ammirevole, riusciva a far credere che il suo contributo fosse una sciocchezza se paragonato alle enormi incombenze che gravavano sulle spalle di zia Rose. Come disporre i fiori nei vasi. O rintracciare sul dizionario le parole difficili. Il vero genio di Umberto era di darci l'illusione che ce la facessimo per conto nostro. E quando riconoscevamo il reale artefice del nostro benessere, lui sentiva quasi di essere venuto meno al suo compito. Umberto era un Babbo Natale attivo tutto l'anno che
adorava fare regali solo a chi non si accorgeva della sua presenza. Come quasi tutto ciò che atteneva alla nostra infanzia, l'arrivo di Umberto nella nostra casa americana era avvolto dal mistero. Né io né Janice ricordavamo che lui non fosse stato nelle nostre vite. Quando, assistite dalla luna piena, Janice e io rivangavamo nel letto la nostra esotica infanzia toscana, l'una cercando di produrre più particolari dell'altra, nei ricordi di entrambe c'era sempre anche Umberto. In un certo senso volevo più bene a lui che a zia Rose, anche perché ogni volta prendeva le mie parti e mi chiamava la sua piccola principessa. Non se ne fece mai parola, ma era chiaro che disapprovava i modi sgradevoli di Janice mentre a me concedeva un tacito sostegno quando sceglievo di non emulare il comportamento di mia sorella. Quando Janice gli chiedeva una favola prima di dormire, lui le leggeva un raccontino edificante che si concludeva con qualcuno cui veniva tagliata la testa. Quando io mi accovacciavo sulla panchetta della cucina, lui mi offriva i biscotti speciali del barattolo blu e mi raccontava storie che non finivano mai, storie di cavalieri e di donzelle, e di tesori sepolti. Quando fui abbastanza grande per capire, mi assicurò che Janice avrebbe avuto la giusta punizione. Ovunque la vita l'avesse portata, si sarebbe trascinata appresso un inevitabile pezzetto d'inferno, perché lei stessa era l'inferno e, a tempo debito, sarebbe giunta alla conclusione di essere la peggiore nemica di se stessa. Io, invece, ero una principessa e un giorno - se solo fossi stata alla larga dalle cattive compagnie e dai facili errori avrei incontrato un bellissimo principe e avrei trovato il mio regno fatato. Come potevo non volergli bene? Era passato mezzogiorno da un pezzo quando terminammo di aggiornarci l'un l'altra su quello che era capitato. Janice mi ri1 ferì il poco che la polizia le aveva detto a proposito di Umberto - o piuttosto, Luciano Salimbeni - e io, in cambio, le raccontai tutto quello che mi era capitato dal giorno del mio arrivo a Siena, che era moltissimo.
Finimmo per pranzare in piazza del Mercato, che dava su via dei Malcontenti e su un largo avvallamento erboso. Il cameriere ci informò che oltre quell'avvallamento cominciava via di Porta Giustizia al termine della quale, nei tempi antichi, i criminali venivano giustiziati in pubblico. «Carino», commentò Janice mentre ingurgitava una fondina di ribollita con i gomiti sul tavolo, già dimentica del breve momento di mestizia, «non c'è da meravigliarsi che il vecchio Birdie non avesse voglia di tornare.» «Non ci posso credere», borbottai mentre cincischiavo con il mio cibo. A guardare mangiare mia sorella mi era passato l'appetito, senza parlare delle sorprese che si era portata dietro. «Se davvero ha ucciso papà e mamma, perché non ha fatto fuori anche noi?» «Sai una cosa?» intervenne Janice. «Talvolta ho pensato che stesse per farlo. Davvero. Aveva quello sguardo da serial killer...» «Forse si sentiva colpevole per quello che aveva fatto», suggerii. «O forse sapeva che aveva bisogno di noi - o meglio di te - per farsi consegnare il cofanetto della mamma dal signor Macaroni», mi interruppe Janice. «Immagino che possa essere stato lui a dare l'incarico di inseguirmi a Bruno Carrera», dissi, cercando di applicare la logica dove la logica non era sufficiente. «Chiaro che sì!» esclamò Janice, «e ci puoi scommettere che sta manovrando anche il tuo giovane ganzo.» Le lanciai un'occhiataccia di cui nemmeno si accorse. «Spero tu non ti riferisca ad Alessandro!» «Mmmm, Alessandro...» assaporò quel nome manco fosse un cioccolatino, «devo ammetterlo, Jules, valeva la pena di stare ad aspettarlo. Peccato che in questo momento sia già a letto con Birdie.» «Sei disgustosa, e poi ti sbagli», sbottai, senza permetterle di farmi imbestialire. «Davvero?» A Janice non piaceva essere contraddetta. «Allora mi spieghi perché è entrato di sotterfugio nella tua camera d'albergo?»
«Che cosa?» «Oh, sì...» Se la prese con calma mentre inzuppava l'ultima fetta di pane nell'olio d'oliva. «La notte che ti ho salvata da Bruno scarpe-digomma, mentre tu brindavi con il sommo artista... Alessandro si stava dando alla pazza gioia in camera tua. Non mi credi?» Mise una mano in tasca, fin troppo felice di soddisfare il mio desiderio di sapere. «Allora dai un'occhiata qua.» Estrasse il cellulare e mi fece vedere una serie di foto sfuocate di qualcuno che si stava arrampicando sul mio balcone. Era difficile dire se si trattasse veramente di Alessandro, ma Janice insistette che lo era, e conoscevo mia sorella da abbastanza tempo per sapere che stava dicendo la verità le rare volte che le veniva una specie di tic attorno alla bocca. «Spiacente», disse, con aria seria, «so che questo sta distruggendo il tuo piccolo sogno a occhi aperti, ma ritengo sia meglio tu sappia che Winnie the Pooh non è solo interessato al miele...» Le lanciai il cellulare senza sapere cosa dire. Nelle ultime ore c'erano state troppe cose da digerire e io avevo definitivamente raggiunto il punto di saturazione. Prima Romeo, morto e sepolto. Poi Umberto, resuscitato come Luciano Salimbeni. E ora Alessandro... «Non guardarmi così!» sibilò Janice usurpando la superiorità morale con la solita destrezza. «Ti sto facendo un favore! Pensa se ti fossi buttata nelle braccia di questo tipo per poi scoprire che stava solo dietro ai gioielli di famiglia.» «Perché non mi fai un altro favore e mi spieghi come hai fatto a rintracciarmi?» chiesi, appoggiandomi allo schienale della sedia per stare quanto più possibile lontana da lei. «E perché tutta quella messinscena con Romeo?» «Tanto per cambiare neanche una parola di ringraziamento!» Janice mise di nuovo la mano in tasca. «Se non avessi scacciato Bruno adesso potresti essere morta. Ma guarda un po' se t'importa un fico secco. Solo lamentele!» Lanciò una lettera sul tavolo mancando di poco la ciotolina dell'olio. «Prendi. Leggi tu stessa. Questa è la vera lettera della vera zia Rose, consegnatami dal vero
signor Gallagher. Fai un respiro profondo perché è tutto quello che zia Rose ci ha lasciato.» Mentre Janice, con mani tremanti, si accendeva la sua sigaretta settimanale, spazzai via alcune briciole dalla busta ed estrassi la lettera. Consisteva in otto fogli, tutti ricoperti della calligrafia di zia Rose e, se la data era giusta, la zia l'aveva consegnata al signor Gallagher alcuni anni prima. Carissime ragazze, mi avete spesso chiesto di vostra madre e io non vi ho mai detto la verità. L'ho fatto per il vostro bene. Temevo che se aveste saputo com'era, avreste voluto essere identiche a lei. Ma non desidero portarmi questo segreto nella tomba e così eccoli qua, tutti i fatti che avevo paura di raccontarvi. Sapete che Diane era venuta a vivere con me dopo che erano morti i suoi genitori e il fratellino. Ma non vi ho mai spiegato come fossero morti. Fu una cosa molto triste, e per lei uno shock tremendo, e penso che non l'avesse mai superato. La disgrazia avvenne a causa di un incidente d'auto nel traffico festivo. Diane mi confidò che stava litigando con suo fratello, e che era stata tutta colpa sua. Era la vigilia di Natale. Non se l'è mai perdonato. Non aprì mai più i regali. Era una ragazza molto religiosa, molto più della sua vecchia zia, specie a Natale. Avrei dovuto aiutarla, ma allora la gente non ricorreva spesso allo psichiatra... Il suo grande interesse era la genealogia. Era convinta che la nostra famiglia discendesse da una nobile casata italiana per il ramo femminile, e mi disse che mia madre, prima di morire, le aveva rivelato un grosso segreto. Trovai strano che avesse confidato alla nipote qualcosa che non aveva mai rivelato né a me, né a Maria, né alle sue figlie. Non credetti a una sola parola. Ma Diane era molto ostinata e continuò a ripetere che discendevamo dalla Giulietta di Shakespeare, e che la nostra famiglia era perseguitata da una maledizione. Disse anche che quella era la ragione per cui il povero zio Jim e io non avevamo avuto figli, e per cui i suoi genitori e suo fratello erano morti. Non le davo mai corda quando parlava di queste cose, semplicemente la lasciavo sfogare. Dopo la sua morte
non ho smesso di pensare che avrei dovuto fare di più per aiutarla, ma era troppo tardi. Il povero Jim e io ci demmo da fare perché Diane si laureasse. Fatica sprecata, lei era troppo irrequieta. Da un momento all'altro, zaino in spalla, partì per l'Europa. E dopo pochissimo ci scrisse che stava per sposarsi con un non meglio identificato professore italiano. Non andai al matrimonio. Il povero Jim era sempre malato e dopo la sua morte persi ogni voglia di viaggiare. Adesso me ne pento. Diane era tutta sola quando mise al mondo voi gemelle. Poi ci fu un terribile incendio in casa durante il quale suo marito perì, così lui non l'ho mai incontrato, che Dio lo benedica. Le scrissi numerose lettere pregandola di tornare, ma Diane si rifiutò, da creatura ostinata qual era, pace all'anima sua. Si era comperata una casa e voleva continuare la ricerca intrapresa dal marito. Mi raccontò al telefono che lui aveva cercato per tutta la vita un tesoro di famiglia che avrebbe dovuto porre fine alla maledizione. Di nuovo, non credetti a una sola parola. Le dissi che era stata una follia sposare un consanguineo, anche se il legame era molto remoto, e Diane mi rispose che aveva dovuto farlo, visto che lei aveva ereditato i geni dei Tolomei da sua madre e lui portava il nome dei Tolomei. Dovevano stare insieme. Era tutto molto bizzarro, a dire il vero. Voi due foste battezzate a Siena con il nome di Giulietta e Giannozza Tolomei. Vostra madre mi spiegò che erano nomi di famiglia. Cercai con tutte le mie forze di farla tornare in America, anche solo per una visita. Avevamo già comperato i biglietti. Ma lei era presa con la sua ricerca, continuava a dire che era sul punto di scoprire un tesoro, e che doveva incontrare un uomo riguardo un vecchio anello. Una mattina ricevetti una telefonata da un ufficiale della polizia di Siena. Mi fu comunicato che c'era stato un terribile incidente e che la vostra povera mamma era deceduta. E che voi eravate con il padrino e la madrina e, molto probabilmente, eravate in pericolo: dovevo venirvi a prendere al più presto. Quando arrivai, la polizia mi chiese se Diane avesse mai menzionato un uomo chiamato Luciano Salimbeni e la cosa mi spaventò molto. Volevano che mi fermassi per un'udienza, ma io ero così terrorizzata che vi portai immediatamente all'aeroporto, senza neanche aspettare
che fossero preparati i documenti per l'affido. Giulietta diventò Julie, e Giannozza Janice. E, invece di Tolomei, vi diedi il mio cognome, Jacobs. Non volevo che qualche eccentrico parente italiano venisse a cercarvi pretendendo di adottarvi. Assunsi persino Umberto perché vi proteggesse e stesse all'erta con quel Luciano Salimbeni. Ma per fortuna non si fece mai vivo. So assai poco di quello che Diane stava facendo a Siena dopo che era morto il marito. Ma penso che avesse scoperto qualcosa di grande valore e che l'abbia lasciato laggiù affinché voi ne entraste in possesso. Se lo trovate, spero vivamente che lo dividerete in parti uguali. Diane possedeva anche una casa e credo che suo marito fosse benestante. Se a Siena ci fosse qualcos'altro di valore vi prego di pensare anche al buon Umberto. Mi causa molta pena dirvelo, ma sappiate, che non sono ricca come pensate. Abbiamo vissuto con la pensione del povero Jim e, quando me ne sarò andata, per voi due non ci saranno nient'altro che debiti. Forse avrei dovuto avvisarvi prima ma non sono mai stata brava con queste cose. Vorrei saperne di più del tesoro di Diane. Qualche volta me ne parlava ma io non la sono mai stata a sentire. Pensavo fosse una delle sue solite storie folli. Nella banca dentro Palazzo Tolomei c'è un uomo che forse può aiutarvi. Per quanto mi sforzi, non riesco a farmi venire in mente il suo nome. Era il consulente finanziario di vostra madre, e all'epoca era una persona abbastanza giovane, quindi forse è ancora in vita. Se decidete di andare a Siena, ricordate solo che in quella città ci sono persone che credono nelle stesse storie in cui credeva vostra madre. Non rivelate a nessuno il vostro vero nome, eccetto all'uomo della banca. Forse vi può anche dire dov'è la casa. Vorrei che faceste questa cosa assieme. Era quello che avrebbe desiderato Diane. Avremmo dovuto andarci anni fa, ma avevo paura vi succedesse qualcosa. Adesso sapete che non vi ho lasciato niente di che vivere, ma spero che con questa lettera abbiate una possibilità grazie all'eredità di vostra madre. Questa mattina ho incontrato il signor Gallagher. Davvero non avrei dovuto vivere così a lungo. Non mi è rimasto più
nulla, nemmeno i ricordi, perché non ho mai voluto trasmetterveli. Ho sempre temuto che ve ne sareste fuggite come Diane e vi sareste cacciate nei guai. Ora so che vi troverete nei guai ovunque andiate. So che cosa vuol dire quella luce che avete negli occhi. Ce l'aveva anche Diane. E voglio che sappiate che prego per voi ogni giorno. Umberto sa dove tengo le disposizioni per i miei funerali. Che Iddio benedica i vostri cuori innocenti! Con tutto il mio amore, zia Rose
Capitolo 3 Non c'è pietà lassù fra le nuvole, che veda nel profondo il mio dolore? Siena, 1340 SEGREGATA nella sua stanza alla sommità della Torre Tolomei, Giulietta era ignara di quello che stava accadendo nella città sotto di lei. Era stata rinchiusa lassù subito dopo il funerale di Tebaldo e nessuno aveva il permesso di andarla a trovare. Le persiane della finestra erano state inchiavardate da una delle guardie, e il cibo le veniva passato da un pertugio nella porta, ma la cosa aveva scarsa importanza poiché da un pezzo la giovane aveva smesso di mangiare. Durante le prime ore di prigionia la fanciulla aveva implorato chiunque potesse udirla al di là della porta di lasciarla uscire. «Amabilissima zia!» aveva supplicato, con le guance rigate di lacrime premute sui battenti, «vi supplico di non trattarmi così! Ricordatevi di chi sono figlia...! Cari cugini, potete sentirmi?» E poiché nessuno si era degnato di rispondere, aveva iniziato a imprecare contro le guardie, maledicendole per obbedire agli ordini di un demonio vestito da umano. Aveva perso ogni energia nel momento in cui neppure un'anima viva aveva proferito una sola parola di risposta. Distrutta dal dolore, si era stesa sul letto con un lenzuolo sul capo, incapace di pensare a nient'altro che al corpo martoriato di Romeo e a come era stata inetta a evitargli una morte così orrenda. Dei servi timorosi cominciarono ad avvicinarsi alla porta per offrirle cibo e bevande, ma Giulietta rifiutò ogni cosa, anche l'acqua, nella speranza di accelerare la fine e poter seguire il suo amato in paradiso prima che lui fosse troppo distante.
L'ultimo dovere che le rimaneva nella vita, meditò Giulietta, era quello di vergare in segreto una lettera a sua sorella Giannozza. Doveva essere una nota d'addio, ma alla fine non fu che una lettera fra tante, scritta alla fiamma di un moccolo di candela e poi nascosta con tutte le altre sotto un'asse sconnessa del piancito. E pensare scrisse Giulietta - che lei una volta era così curiosa del mondo e di tutti quelli che ci abitavano! Ora capiva che Frate Lorenzo era nel giusto quando diceva: «Il mondo non è che polvere. Poco importa dove metti il piede, tutto si sgretolerà al tuo passaggio, e se non procedi con cautela cadrai dritto filato nell'abisso». L'abisso era di certo quello dove si trovava lei ora: una voragine attraverso la quale nessuna preghiera riusciva a farsi strada. Giannozza stessa non era stata esente da questo tipo di patimenti. Malgrado la convinzione che le figlie dovessero essere in grado di leggere e scrivere, il padre era un uomo all'antica quando si trattava di matrimonio. Per lui le figlie femmine erano emissari da mandare in giro per forgiare alleanze con gente importante in terre lontane. Così, quando il cugino di sua moglie - un aristocratico con una vasta tenuta a nord di Roma - aveva manifestato il desiderio di un legame più stretto con i Tolomei, il padre aveva informato Giulietta che sarebbe toccato a lei. Dopotutto era nata quattro minuti prima di Giannozza ed era suo dovere, come primogenita, sposarsi per prima. Alla notizia, le sorelle avevano trascorso molti giorni in lacrime, disperate all'idea di venire separate e di stare lontane l'una dall'altra. Ma il padre era stato irremovibile e la madre ancora di più - in fondo lo sposo non era un forestiero, ma suo cugino - e così alla fine le ragazze avevano affrontato i genitori con un'umile proposta. «Padre», aveva detto Giannozza, che delle due era anche l'unica abbastanza ardita da esprimere un'opinione, «Giulietta è onorata dei piani che avete fatto per lei, ma vi prega di valutare se non sia invece meglio mandare me al suo posto. La verità è che il suo cuore ha sempre avuto un'inclinazione per il convento e teme che non sarà mai una buona moglie per nessuno, se non per Gesù Cristo. Io, al contrario, non ho obiezioni contro un matrimonio terreno e credo anzi che non mi dispiacerebbe mandar avanti una casa tutta mia.
Quindi ci domandavamo...» ora Giannozza si rivolse alla madre sperando anche nel suo consenso, «se vorreste considerare di mandare via tutte e due assieme: io come moglie e Giulietta come novizia in un convento vicino. In questo modo, potremo continuare a vederci tutte le volte che vogliamo, e voi non dovrete preoccuparvi del nostro benessere.» Vedendo che Giulietta era così contraria all'idea di un matrimonio, alla fine il padre acconsentì che Giannozza prendesse il suo posto. Per quel che riguardava però l'altra metà del piano, non ci fu nulla da fare. «Se Giulietta non vuole maritarsi ora», aveva detto alle due giovani in piedi davanti a lui con aria supplice, «si mariterà più tardi quando le passerà questa... stramberia.» Poi aveva scosso la testa, adirato per l'interferenza nei suoi affari. «A voi ragazze non avrei mai dovuto insegnare a leggere! Scommetto che vi siete messe a leggere la Bibbia a mia insaputa: lì ce n'è abbastanza per riempire di follia la testa di qualunque fanciulla!» «Ma padre...» Solo in quel momento si fece avanti la madre, con lo sguardo che lanciava scintille. «Vergognatevi!» aveva sibilato alle figlie, «per aver messo vostro padre in una situazione del genere! Non siamo poveri eppure gli state chiedendo di comportarci come se lo fossimo! Avete entrambe dei corredi che farebbero gola a un principe! Ma abbiamo scelto bene. Per te, Giulietta, si sono fatti avanti in molti, ma tuo padre li ha respinti tutti, perché sapeva che potevamo fare di meglio. E adesso vuoi che lui si rallegri a vederti monaca...? Come se non avessimo abbastanza mezzi o contatti per farti maritare? Vergognati di aver egoisticamente anteposto il tuo capriccio alla dignità della nostra famiglia!» E così Giannozza era stata maritata a un uomo che non aveva mai visto prima e con tre volte i suoi anni. La prima notte di nozze scoperse che, malgrado somigliasse a sua madre, aveva le mani dure di uno sconosciuto. Quando il mattino seguente disse addio alla sua famiglia - lasciando la sua casa per sempre con il neomarito Giannozza abbracciò tutti i suoi cari, uno dopo l'altro, senza proferire verbo, con le labbra strettamente serrate per non maledire i genitori.
Le parole vennero successivamente, in un fiume di lettere proveniente dalla sua nuova casa, non indirizzate direttamente alla sorella, ma al loro caro amico Frate Lorenzo affinché fossero consegnate di nascosto a Giulietta quando fosse sola in confessionale. Erano missive impossibili da dimenticare, destinate a turbare per sempre chi le leggeva. Giulietta finì per alludervi spesso nei propri scritti, come quando si dichiarò d'accordo con Giannozza che: «in questo mondo ci sono invero degli uomini che godono a fare il male, uomini che vivono solo per vedere gli altri soffrire». Ma allo stesso tempo Giulietta invitava la sorella a guardare al lato positivo delle cose: suo marito era vecchio e malandato e di certo sarebbe deceduto quando lei era ancora giovane e anche se da vedova non le sarebbe stato permesso di uscire di casa, almeno la vista dal suo castello era magnifica. E si spingeva perfino a farle notare che: «contrariamente a quello che dici, mia carissima, nella compagnia degli uomini si può trovare un qualche piacere. Non sono tutti dei putridi bastardi». Tuttavia, nella lettera di addio a Giannozza, vergata in reclusione il giorno dopo il funerale di Tebaldo, Giulietta non riuscì più a parlare del futuro con speranza. «Tu avevi ragione e io torto», scrisse semplicemente. «Quando la vita fa più male della morte, non vale la pena di vivere.» E così Giulietta decise di morire, rifiutando qualsiasi nutrimento fino a che il corpo non avesse ceduto e l'anima potesse ricongiungersi a Romeo. Ma al terzo giorno - con le labbra riarse e la testa che le pulsava - un nuovo pensiero cominciò a tormentarla. Esattamente, dove sarebbe andata in paradiso a cercare il suo amato? Il paradiso doveva per forza essere un luogo assai vasto e non esisteva nessuna assicurazione che tutti e due sarebbero finiti nello stesso posto. Anzi, temeva proprio il contrario. Anche se agli occhi di Dio non era del tutto priva di colpe, lei restava pur sempre una fanciulla innocente, mentre Romeo doveva avere senz'altro lasciato dietro di sé una lunga scia di malefatte. Inoltre per lui non era stata svolta nessuna funzione funebre né si erano recitate preghiere. Ragion per cui era addirittura probabile che
in paradiso Romeo non ci sarebbe andato per niente. Forse sarebbe stato condannato a vagolare come uno spettro, ferito e sanguinante, fino a quando un buon samaritano non avesse concesso alle sue spoglie un misericordioso riposo. Giulietta si drizzò sul letto con un sussulto. Se lei fosse morta adesso, chi si sarebbe preoccupato della sepoltura di Romeo? Guai se i Tolomei avessero scoperto il cadavere del giovane al primo funerale di famiglia... con tutta probabilità il suo! Di sicuro non si sarebbero preoccupati della sua pace eterna. No, pensò Giulietta, allungando infine le dita tremanti verso la coppa dell'acqua, lei avrebbe dovuto rimanere in vita finché non avesse parlato con Frate Lorenzo per spiegargli la situazione. Misericordia, dov'era il monaco? Nella sua disperazione Giulietta non aveva voluto parlare con nessuno, nemmeno con il vecchio amico, ed era stato un sollievo che lui non fosse mai venuto a trovarla. Ma ora che aveva deciso un piano, che di certo non poteva portare a termine da sola, era furiosa con lui per non essersi fatto vedere. Soltanto in un secondo momento, dopo aver trangugialo ogni briciola di cibo a portata di mano, le venne in mente che probabilmente era stato proprio suo zio Tolomei a proibire le visite del religioso, per tema che lui potesse dire in giro della sua disgrazia. Mentre andava avanti e indietro nella stanza, cercando di capire che ora fosse attraverso le fessure delle persiane sbarrate, Giulietta giunse alla conclusione che la morte avrebbe dovuto attendere. Non perché desiderasse vivere, ma perché c'erano ancora due missioni che solo lei poteva compiere. Una era di entrare in contatto con Frate Lorenzo - o con qualche altro sant'uomo più incline a ubbidire alle leggi divine che a quelle di suo zio - per farsi assicurare che Romeo fosse seppellito degnamente. L'altra era di far soffrire Salimbeni come nessun altro uomo aveva mai sofferto. Monna Agnese morì il giorno di Tutti i Santi dopo esser stata confinata a letto per più di sei mesi. Alcuni mormorarono che la povera signora aveva resistito tanto a lungo solo per far infuriare il marito, messer Salimbeni, i cui vestiti per il nuovo matrimonio erano pronti fin da agosto, il giorno del suo fidanzamento con Giulietta
Tolomei. I funerali ebbero luogo alla Rocca di Tentennano, l'inespugnabile fortezza dei Salimbeni in Val d'Orcia. Non aveva ancora lanciato un pugno di terra sulla bara, che già il vedovo era al galoppo verso Siena, eccitato come un cupido irrequieto. Solo un figlio lo accompagnava nel suo rientro in città: Nino, di diciannove anni secondo alcuni, il feroce assassino del Palio - la cui madre aveva preceduto monna Agnese nel sepolcro numerosi anni prima, a seguito di un simile malanno, cioè la consunzione. Dopo una tale perdita, la tradizione avrebbe richiesto un periodo di lutto, ma non furono in molti a sorprendersi che il grand'uomo fosse già di ritorno in città. Salimbeni era famoso per la celerità delle sue azioni. Mentre altri avrebbero passato svariati giorni a piangere la morte di una moglie o di un figlio, lui dopo poche ore si era già buttato tutto dietro le spalle, anche per tema di lasciarsi sfuggire qualche importante transazione di lavoro. Malgrado i suoi occasionali affari sporchi e la costante rivalità con la famiglia Tolomei, Salimbeni era un uomo che la maggior parte delle persone non poteva fare a meno di ammirare fino alla piaggeria. A qualunque riunione partecipasse, era sempre lui il centro dell'attenzione. Qualunque scempiaggine dicesse per divertire, tutti rispondevano con una risata, anche se non avevano del tutto afferrato le parole. I suoi modi munifici lo rendevano subito simpatico ai forestieri, e i suoi clienti sapevano che, una volta che si erano guadagnati la sua fiducia, sarebbero stati compensati con generosità. Poiché conosceva le dinamiche della città meglio di chiunque altro, sapeva quando regalare cibo ai poveri e quando fare opposizione dura al governo. Non era una coincidenza che gli piacesse abbigliarsi come un imperatore romano, con una splendida toga di lana bordata di carminio, visto che governava Siena come un piccolo impero tutto suo e chiunque osasse discuterne l'autorità veniva trattato come pubblico traditore. Alla luce di tanta abilità politica e finanziaria, i senesi erano stupefatti che Salimbeni fosse ancora talmente infatuato della melanconica nipote di Tolomei. L'avevano visto durante la messa a inchinarsi dinanzi alla pallida figura di Giulietta che a malapena si era
accorta di lui. Non solo lei lo disprezzava per quello che era successo alla sua famiglia - tutti ormai erano al corrente della tragedia - ma lui era anche l'uomo che aveva costretto Romeo a lasciare la città incriminandolo per l'assassinio di Tebaldo Tolomei. Come mai, si chiedeva la gente, un uomo della statura di Salimbeni metteva a rischio la sua dignità incaponendosi a sposare una fanciulla che, neanche avessero vissuto mille anni, avrebbe mai potuto provare la minima affezione per lui? Certo, lei era bellissima e la maggior parte dei giovanotti amava decantare le sue labbra perfette e i suoi occhioni sognanti. Ma era ben bizzarro che un tale uomo di successo mettesse da parte ogni contegno per pretendere come sua una giovane che aveva appena perso l'amato, mentre lui aveva appena perso la moglie. «È solo una questione di onore!» dissero alcuni, d'accordo con il fidanzamento. «Romeo ha sfidato Salimbeni a ingaggiar battaglia per Giulietta, e una battaglia può portare a un unico risultato: chi vince può vivere, chi perde deve morire, e la fanciulla tocca al trionfatore, che lo voglia o no.» Altri, più candidamente, confessarono che nelle azioni di Salimbeni vedevano lo zampino del Maligno. «Questo è un uomo il cui potere non è mai stato messo in discussione da nessuno», mormoravano a notte fonda in taverna con mastro Ambrogio, tra un bicchiere e l'altro. «Adesso questo potere si sta incrinando e lui si sente minacciato. Avete detto bene una volta, Maestro: le virtù di messer Salimbeni sono maturate al punto di diventare dei vizi e adesso che la sua immensa fame di gloria e ricchezza è giunta a saturazione, l'uomo deve trovare una nuova fonte di nutrimento.» Non era arduo capire quale potesse essere tale fonte di nutrimento. C'erano femmine in città che avrebbero potuto prontamente testimoniare degli atti sempre più malvagi di Salimbeni. Una donna confidò al Maestro che il nobile, un uomo che voleva amare ed essere amato, aveva cominciato a disprezzare quelli che si piegavano ai suoi desiderata troppo in fretta. Si era dunque messo alla ricerca dei riluttanti, quando non addirittura degli ostili, per aver modo di esercitare le sue facoltà di dominio, e niente gli dava più piacere dell'incontro con qualcuno - il più delle volte un forestiero
temerario - che ancora ignorava il suo pugno duro. Ma anche i forestieri temerari davano retta ai consigli degli altri e non passava molto tempo prima che Salimbeni, con sua somma irritazione, si ritrovasse circondato dai soliti sorrisi adulatori e dagli elogi ogni volta che si avventurava fuori città pensando di non essere riconosciuto. La maggior parte dei commercianti avrebbe di gran lunga preferito sbarrare la porta a un cliente così rapace, ma in assenza di uomini disposti a far valere la legge contro il tiranno, com'era possibile salvaguardarsi da tali scorrerie? «Così capite, Maestro», concluse la donna, sempre felice di scambiare due parole con i vicini che non sputavano quando la vedevano per strada, «l'ossessione di questo certo uomo per quella certa ragazza non è affatto un mistero.» Si chinò sulla scopa e gli fece cenno di avvicinarsi per tema di essere sentita da altri. «Qui abbiamo una innocente e leggiadra fanciulla che non solo è la nipote del suo nemico, ma che, lei stessa, ha tutte le ragioni del mondo per disprezzarlo. Non c'è nessun rischio che la sua strenua resistenza possa degenerare in dolce sottomissione... nessun rischio che lei, di sua spontanea volontà, lo ammetta in camera sua. Vedete, Maestro? Sposando lei, lui si garantirà proprio la sorgente del suo afrodisiaco preferito, l'odio. E questa è una sorgente che di certo non si esaurirà mai.» Il matrimonio di Salimbeni ebbe luogo a una settimana e un giorno esatti dal funerale. Con ancora la terra dell'umido camposanto sotto le unghie, Salimbeni non perse tempo a trascinare la sua giovane sposa all'altare di modo che l'ubertoso sangue dei Tolomei potesse senza indugio produrre la linfa necessaria per i nuovi discendenti. Malgrado tutto il carisma e la munificenza, i senesi furono disgustati da questo ignobile sfoggio di presunzione. Mentre la processione nuziale attraversava la città, più di un astante notò la sua somiglianza con una trionfale parata militare dei tempi dell'antica Roma. Ecco infatti avanzare il bottino conquistato in lande straniere - uomini e animali mai visti prima, e una regina in catene incoronata per scherno -, il tutto esibito alla plebaglia beota da un generale
esultante sul carro del vincitore. La vista del tiranno nel momento del trionfo rimise in circolo tutte le voci incredule che avevano perseguitato messer Salimbeni da dopo il Palio. Ecco un uomo - alcune dicevano - che aveva commesso dei delitti, e non solo uno, ogniqualvolta gliene pungesse vaghezza, e mai nessuno che osasse accusarlo. Chiaramente, un individuo in grado di uscire indenne da tutto ciò, e di imporsi come sposo a una fanciulla non consenziente, era un uomo che poteva fare qualsiasi cosa a chiunque. Intanto, un po' in disparte, sotto la pioggia di novembre, mastro Ambrogio guardava la donna che aveva avuto contro di sé tutte le stelle del cielo e pregava che qualcuno si facesse avanti per salvarla dal suo destino. Agli occhi della folla, lei era splendida come sempre ma per il pittore - che non l'aveva più vista dalla notte fatale prima del Palio - la sua bellezza si era tramutata in quella marmorea di Atena, invece che restare quella smagliante di Afrodite. Come avrebbe desiderato che Romeo tornasse a Siena in quello stesso istante accompagnato da un nugolo di soldati stranieri per mettere in salvo la sua amata prima che fosse troppo tardi! Ma Romeo, diceva la gente scuotendo la testa, si era rintanato in terre remote, dove Salimbeni non l'avrebbe mai trovato, a farsi consolare dalle donne e dal vino. All'improvviso, mentre se ne stava lì in piedi con il cappuccio alzato per ripararsi dalla pioggia, mastro Ambrogio seppe come doveva concludersi il grande affresco del Palazzo Pubblico. Ci doveva essere una sposa, una fanciulla dall'aria triste persa nei suoi ricordi, e un uomo a cavallo che lasciava la città e che si chinava all'indietro come ad ascoltare il richiamo di un pittore. Solo esprimendosi su quella nuda parete, pensò il Maestro, sarebbe riuscito ad alleviare la pena che aveva in petto a causa di quell'odiosa giornata. Giulietta capì subito dopo aver terminato la colazione, il suo ultimo pasto a Palazzo Tolomei, che monna Antonia doveva averle messo qualcosa nel cibo per sedarla. Ignorava infatti, la zia, che Giulietta non aveva alcuna intenzione di far resistenza alle nozze
rifiutandosi di andare in chiesa. In quale altro modo avrebbe potuto avvicinarsi tanto a Salimbeni per farlo soffrire come intendeva? Vide tutto come attraverso una nebbiolina: la processione nuziale, il popolino in ammirazione ai due lati della strada, il lugubre assembramento che l'attendeva nel buio della cattedrale. Fu solo quando Salimbeni le alzò il velo, per mostrare al vescovo e agli ospiti attoniti il suo diadema nuziale, che Giulietta uscì dal trance sussultando alla vista dello sposo. Il diadema era un'abbagliante composizione di ori e pietre preziose: non si era mai visto nulla di simile né a Siena né altrove. Si trattava di un tesoro più adatto a una regina che a una scontrosa ragazza di campagna ma, d'altro canto, era più per Salimbeni che per la sposa. «Vi piace il mio dono?» le chiese il neomarito, studiandole il viso. «Ha due zaffiri etiopi che mi ricordavano i vostri occhi. Poi, mi sembravano così soli che ho voluto accompagnarli con due smeraldi egizi che mi ricordavano invece come quel tipo, Romeo, era solito guardarvi.» Sorrise quando vide lo scompiglio dipinto sul viso di lei. «Ditemi, mia cara, non mi trovate forse generoso?» Giulietta dovette farsi violenza per rispondergli: «Voi, messere, siete molto più che generoso». La risposta di lei lo fece ridere deliziato. «Sono felice di sentirvelo dire. Voi e io andremo molto d'accordo, credo.» Ma il vescovo aveva sentito quella frase malvagia e non ne fu per niente divertito. E neppure lo furono i sacerdoti che parteciparono al banchetto nuziale e che, entrati con incenso e acqua santa nella camera degli sposi per benedirla, trovarono il cencio di Romeo steso su letto. «Messer Salimbeni!» esclamarono, «non potete mettere questo cencio sul vostro letto!» «Perché no?» rispose lui, coppa di vino in mano e corteo dei musici appresso. «Perché appartiene a un altro uomo», risposero. «È stato consegnato a Romeo Marescotti da Maria Vergine stessa ed era esclusivamente destinato al letto di lui. Perché volete sfidare la volontà del Cielo?»
Giulietta sapeva benissimo perché Salimbeni avesse posto il cencio sul letto, così come sapeva perché avesse fatto inserire il verde degli smeraldi nel suo diadema nuziale: per ricordarle che Romeo era morto e che lei non poteva fare nulla per riportarlo in vita. Alla fine Salimbeni cacciò fuori i sacerdoti senza ottenere la loro benedizione per la notte e, quando ne ebbe abbastanza delle idiozie farfugliate dagli invitati ubriachi, mandò via anche loro, assieme ai musici. Se alcuni rimasero sorpresi dall'improvvisa mancanza di prodigalità del padrone di casa, capirono poi tutti perché il ricevimento fosse giunto al termine. Giulietta sedeva in un angolo, più addormentata che sveglia e tuttavia, pur nel suo stato confusionale, troppo incantevole per esser lasciata sola ancora a lungo. Mentre Salimbeni si congedava dagli ospiti e accettava i loro auguri, Giulietta ne aveva approfittato per impossessarsi di un coltello dal tavolo del banchetto e nasconderlo sotto gli abiti. Era tutta la notte che adocchiava quella particolare arma che aveva visto scintillare nella luce delle candele mentre, i servi tagliavano la carne destinata agli invitati. Ancora prima di avere il coltello in mano, la giovane aveva cominciato a fare piani su come l'avrebbe utilizzato sul suo odiato sposo. Sapeva dalle lettere di Giannozza che a un certo punto, quella notte, Salimbeni si sarebbe avvicinato a lei nudo e con tutt'altro per la testa che l'eventualità di uno scontro. E sapeva che quello era il momento di colpire. Non vedeva l'ora di infliggergli una ferita tanto mortale da inzuppare il letto del suo sangue, altro che quello della sposa. Ma, soprattutto, ardeva dalla voglia di assistere alla reazione di lui davanti alla propria mutilazione, prima di affondare la lama dritto nel suo cuore demoniaco. Dopo di ciò, il piano di Giulietta era meno definito. Non avendo avuto nessun contatto con Frate Lorenzo dalla notte del Palio, e non avendo trovata nessun'altra anima buona disposta ad ascoltarla in assenza di lui, Giulietta era arrivata alla conclusione che il corpo di Romeo, con tutta probabilità, giaceva ancora insepolto nel sepolcro dei Tolomei, anche se non era da escludere che monna Antonia, il giorno dopo il funerale, fosse tornata sulla tomba di Tebaldo per
pregare e accendere un cero. Tuttavia, se sua zia si fosse davvero imbattuta in Romeo morto, Giulietta, e con lei l'intera città, ne sarebbe di certo venuta a conoscenza: tutti avrebbero visto la madre in gramaglie trascinare per le strade di Siena, attaccato per i piedi al biroccio, il cadavere del presunto assassino di suo figlio. Quando Salimbeni raggiunse Giulietta nella camera nuziale rischiarata a lume di candela, lei aveva appena finito di recitare le preghiere e ancora non aveva trovato un nascondiglio adatto per il coltello. Nel girarsi per fronteggiare l'intruso, la fanciulla rimase sconvolta nel vederlo coperto a malapena da una tunica. Avrebbe preferito scoprirlo con un'arma in mano, piuttosto che intravedere le sue braccia e gambe nude. «Credo che sia consuetudine», disse lei con voce tremante, «permettere alla propria moglie di prepararsi...» «Oh, penso che siate sufficientemente preparata!» Salimbeni chiuse la porta e andò dritto verso di lei per afferrarle il mento. Sorrise. «Per quanto mi possiate far aspettare, non sarò mai l'uomo che volete.» Giulietta deglutì a fatica, nauseata dal contatto e dal suo odore. «Ma voi siete mio marito...» iniziò con fatica. «Davvero lo sono?» sembrava divertito. «Allora perché non mi date un benvenuto più caloroso, amore mio? Perché questo sguardo gelido?» «Non sono...» fece fatica a tirar fuori le parole, «non sono abituata alla vostra presenza.» «Mi deludete», replicò lui con un sorriso sinistro. «Mi avevano riferito che avevate più spirito di quanto ne dimostriate adesso.» Scosse la testa, fingendo di essere contrariato. «Comincio a credere che finirete per apprezzarmi.» Visto che lei non rispondeva, Salimbeni fece scendere la mano fino alla scollatura del suo corpetto, alla ricerca di un accesso al seno di lei. Nel sentire le sue mani bramose, Giulietta per un attimo dimenticò completamente il suo astuto piano di lasciargli credere di averla conquistata.
«Come osate toccarmi, caprone puzzolente!» gli sibilò mentre cercava di staccarsi le sue mani di dosso. «Dio non ve lo permetterà!» A questa improvvisa resistenza, Salimbeni rise compiaciuto e le ficcò un artiglio fra i capelli per tenerla ferma mentre la baciava. Solo quando lei ebbe un conato di repulsione, l'uomo le liberò la bocca per dirle, con il putrido fiato che le arroventava il viso: «Vi rivelerò un segreto. Il buon vecchio Dio adora stare a guardare». Detto ciò, la sollevò di peso e la scaraventò sul letto. «Altrimenti, perché dovrebbe creare un corpo come il vostro e lasciare che sia io a goderne?» Appena la lasciò per rimuoversi la cintura della tunica, Giulietta provò a trascinarsi via. Purtroppo, mentre lui la riportava indietro per le caviglie, il coltello, che aveva assicurato ad una coscia, divenne perfettamente visibile al di sotto delle sue sottane. Alla sola vista dell'arma, l'ipotetica vittima scoppiò in una risata. «Una lama nascosta!» esclamò, mentre rimuoveva il coltello per ammirarne l'affilatura, «già avete capito come piacermi!» «Porco schifoso!» Giulietta cercò di strappargli l'arma dalle mani e quasi si ferì nel tentativo. «È mio!» «Davvero?» Sempre più divertito, l'uomo osservò il viso contorto dalla furia di lei. «Allora andate a prenderlo!» Con una mossa veloce del polso, Salimbeni scagliò il coltello in alto, dove rimase conficcato, vibrante e fuori portata, in una trave del soffitto. Mentre Giulietta cercava disperatamente di sferrargli dei calci, lui la spinse di nuovo giù e la inchiodò sul cencio, eludendo senza difficoltà i suoi tentativi di graffiarlo e di sputargli in faccia. «Orsù, quali altre sorprese avete in serbo per me stanotte?» «Una maledizione!» urlò lei lottando per liberarsi le braccia. «Una maledizione su tutto quello che avete di più caro! Avete ucciso i miei genitori e avete ucciso Romeo. Presto brucerete all'inferno e io defecherò sulla vostra tomba!» Per Giulietta, lì distesa impotente e disarmata, sarebbe stato logico disperarsi nel vedere lo sguardo trionfante dell'uomo che avrebbe dovuto invece giacere in un lago di sangue, se non morto, almeno straziato. E per alcuni terribili momenti disperò.
Ma poi successe qualcosa. Dapprima fu poco più di un improvviso tepore che le lambiva il corpo da sotto il letto. Era un calore bizzarro e solleticante, come se Giulietta si trovasse in una padella posta sopra un timido fuoco. Quando la sensazione aumentò, lei scoppiò in una risata. Perché capì di botto che quello che stava provando era un momento di estasi religiosa e che la Vergine Maria era sul punto di operare un miracolo attraverso il cencio su cui giaceva. Per Salimbeni, la risata maniacale di Giulietta fu assai peggio di un insulto o di un'arma usati contro di lui, e così la colpì in viso una, due, addirittura tre volte, senza ottenere niente se non un'intensificazione della sua folle ilarità. Nell'ansia di farla tacere, iniziò a strappare la seta che le copriva il seno ma era tanto agitato che non riuscì a venire a capo degli imbrogli del corpetto. Maledicendo i sarti dei Tolomei per la robustezza delle loro gugliate, Salimbeni volse la sua attenzione ai numerosi strati della sottana della fanciulla, alla ricerca di un varco meno protetto. Giulietta neppure lottava. Se ne stava lì distesa, sempre in preda alle risate, mentre l'uomo si copriva di ridicolo. Perché la fanciulla, con una certezza che le poteva venire solo dall'alto dei Cieli, sapeva che quella notte nessuno avrebbe potuto farle del male. Per quanto lui si desse da fare per averla vinta, la Vergine Maria era dalla sua parte, per impedire a spada tratta qualunque invasione e salvaguardare il sacro cencio da un atto di barbarico sacrilegio. Giulietta fissò il suo sguardo giubilante in quello dell'assalitore. «Mi avete sentita?» si limitò a chiedere. «Siete stato maledetto. Non ve ne siete accorto?» I senesi ben sapevano che le dicerie possono essere sia una dannazione sia una benedizione, a seconda che ne siate voi stessi la vittima o meno. Le dicerie sono astute, tenaci e fatali e, una volta messe in moto, nulla può fermarle. Mastro Ambrogio dapprima sentì il pettegolezzo dal macellaio. Più tardi, nello stesso giorno, lo sentì sussurrato dal fornaio. E, una volta tornato a casa con le sue compere, ne sapeva abbastanza da voler mettersi in azione.
Lasciando da parte il paniere con le vettovaglie - gli era passata la voglia di cenare - il Maestro si recò subito nel retrobottega a recuperare il ritratto di Giulietta Tolomei per rimetterlo sul cavalletto. Perché non l'aveva mai davvero portato a termine. Adesso finalmente sapeva che cosa Giulietta avrebbe dovuto reggere tra le mani devotamente giunte: non un rosario, non un crocefisso, ma un fiore con cinque petali, la rosa mistica. Come antico simbolo della Vergine Maria, questo fiore racchiudeva in sé il mistero della verginità e quello dell'Immacolata Concezione. Il compito più difficile per il pittore era, come sempre, rappresentare la pianta in maniera da indirizzare l'uomo verso pensieri religiosi piuttosto che verso la materiale e seducente simmetria dei petali. Era una sfida in cui il Maestro si buttò a corpo morto e, mentre iniziava a mischiare i colori onde ottenere la perfetta gradazione di rosso, fece del suo meglio per sgomberare la mente da qualunque cosa non fosse di origine botanica. Ma non andò molto avanti. Le dicerie che aveva sentito in giro per la città erano troppo succose - troppo gradite - per non indugiarci sopra ancora un poco. Perché quel che si diceva era che la notte delle nozze tra Salimbeni e Giulietta Tolomei, la dea Nemesi avesse fatto una capatina nella camera nuziale per impedire, misericordiosamente, un atto di inaudibile crudeltà. Alcuni parlarono di magia, altri menzionarono la natura umana o il fenomeno di causa-effetto ma, a prescindere dalla causa, tutti concordarono sul risultato: lo sposo non era stato in grado di consumare il matrimonio. Le prove di questo incredibile evento, come a mastro Ambrogio fu dato di capire, erano abbondanti e dettagliate. Bastava seguire i movimenti di Salimbeni, che potevano essere così riassunti: un uomo maturo sposa una giovane e bella fanciulla e trascorre la notte di nozze nel letto di lei; dopo tre giorni esce di casa e va alla ricerca di una signora della notte con la quale non ottiene nessun risultato; quando la signora gli offre un assortimento di pozioni e polverine, lui si mette a gridare come un pazzo che le ha già provate e che sono tutte un imbroglio. Cosa si poteva concludere se non che Salimbeni aveva trascorso la sua prima notte di nozze da impotente
e che neppure il consulto con una specialista in materia aveva sortito rimedio alcuno? Un'altra prova di questa presunta impotentia coeundi arrivò da un'altra e molto più affidabile fonte. Una fonte formatasi nella stessa dimora Salimbeni. Da tempo immemore, la famiglia, per tradizione, dopo la prima nozze di notte era usa a verificare le lenzuola per accertarsi che la sposa fosse vergine. Se sui teli non c'era sangue, la fanciulla veniva rispedita a casa in disgrazia, e i Salimbeni aggiungevano un altro nome alla loro lunga lista di nemici. La mattina successiva al matrimonio di Salimbeni, tuttavia, nessun lenzuolo venne esibito, né il drappo di Romeo fu fatto sventolare trionfalmente dal balcone. L'unico a sapere che fine avesse fatto il cencio fu un servo cui venne ordinato di restituirlo quello stesso pomeriggio in un astuccio a messer Tolomei, con tante scuse per averlo rimosso per errore dalla salma di Tebaldo. E quando finalmente, molti giorni dopo il matrimonio, un pezzo di tela macchiata di sangue venne consegnato alla fantesca, che lo passò alla governante, che subito lo passò all'ava più anziana... il giro si concluse con l'ava più anziana che immediatamente parlò d'imbroglio. La purezza della sposa era una seria questione di onore che poteva portare a gravi inganni e così in tutta la città le donne più anziane facevano a gara per preparare, e denunciare, le miscele più convincenti da distribuire sulle lenzuola nuziali quando mancasse la materia prima. Il sangue solo non era sufficiente. Esso doveva essere mischiato con altre sostanze, e ogni vegliarda di ogni famiglia aveva la sua ricetta segreta, così come la perizia per riconoscere una frode. Donne così abili, pratiche di tutto salvo che di stregoneria, non potevano certo essere ingannate dal telo nuziale di Salimbeni, che era chiaramente l'opera di un uomo che, dopo l'iniziale schermaglia, non aveva degnato né la moglie né il letto di un secondo sguardo. Anche così, nessuno osò parlare della cosa direttamente con il padrone, dato che ormai tutti sapevano che il problema ce l'aveva lui e non la sua sposa. Portare a termine il ritratto di Giulietta Tolomei non fu
sufficiente. Rinvigorito da nuova energia, mastro Ambrogio si recò a Palazzo Salimbeni una settimana dopo il matrimonio per informare i residenti che gli affreschi dovevano essere ispezionati e forse anche ritoccati. Nessuno osò contraddire il famoso Maestro, né si sentì in dovere di consultare messer Salimbeni sulla questione. Mastro Ambrogio fu quindi libero di andare e venire nel palazzo come più gli aggradava, e per molti giorni. Il suo, naturalmente, era solo un pretesto per riuscire a vedere Giulietta di straforo e, se possibile, proporle di aiutarla. In che modo esattamente il Maestro lo ignorava, anche se aveva ben chiaro in mente che non si sarebbe tranquillizzato fino a quando non avesse potuto dirle che lei aveva ancora degli amici su questa terra. Ma, per quanto a lungo lui avesse aspettato - andando su e giù dalle scale come un matto con la scusa di rimediare ad alcuni difetti nel proprio lavoro - la fanciulla non scese mai dai piani superiori. Né nessuno fece una volta il suo nome. Era quasi come se Giulietta avesse cessato di esistere. Una sera, mentre si allungava in cima a un'alta scala per ispezionare lo stesso identico stemma per la terza volta, domandandosi se non fosse il momento di pensare a un'altra strategia, mastro Ambrogio ascoltò del tutto accidentalmente una conversazione tra Salimbeni e suo figlio Nino nella stanza adiacente. Chiaramente convinti di essere soli, i due uomini si erano appartati nella zona più remota della casa per parlare di qualcosa che richiedeva una certa discrezione. Erano del tutto inconsapevoli che, da una fessura nell'intelaiatura della porta, il Maestro, immobile sulla sua scala, poteva sentire ogni singola parola. «Voglio che tu accompagni monna Giulietta alla Rocca di Tentennano e che ti accerti che... si sistemi a dovere», disse Salimbeni a suo figlio. «Così presto?» esclamò il giovane. «Non pensi che la gente comincerà a chiacchierare?» «La gente già chiacchiera», osservò Salimbeni evidentemente uso a discorsi franchi con il figlio, «e preferisco che il bubbone non scoppi. Tebaldo... Romeo... e tutto il resto. Ti farebbe bene stare lontano per un po', fino a che ogni cosa sia dimenticata. Negli ultimi tempi
sono successe troppe cose. La plebaglia è in fermento. Sono preoccupato.» Nino emise un suono molto vicino a una sghignazzata. «Forse dovreste andare via voi, invece di me. Un cambiamento d'aria...» «Zitto!» C'era un limite alla tolleranza di Salimbeni. «Tu vai e ti porti lei dietro. E una volta che sei là, voglio che tu ci rimanga...» «Rimanere là?» Per Nino nulla era più odioso di un soggiorno in campagna. «E per quanto?» «Fino a quando è gravida.» Ci fu comprensibilmente un momento di silenzio durante il quale mastro Ambrogio dovette aggrapparsi alla scala con entrambe le mani per non perdere l'equilibrio, sconvolto com'era dall'incredibile richiesta. «Oh no...» Nino arretrò di un passo trovando assurda l'intera faccenda. «Non io. Qualcun altro. Chiunque.» Con il viso paonazzo dalla rabbia, Salimbeni si lanciò verso figlio e lo afferrò per la collottola. «Non devo dire a te come stanno le cose. È in ballo il nostro onore. Mi libererei volentieri della ragazza se non fosse una Tolomei. È per questo che trovo un'altra strada e la piazzo in campagna dove nessuno sta a guardare. Che si occupi dei bambini e mi stia fuori dai piedi.» Finalmente lasciò andare suo figlio. «La gente dirà che ho avuto misericordia.» «Bambini?» A Nino il piano piaceva sempre meno. «Per quanto tempo dovrei andare a letto con mia madre?» «Giulietta ha sedici anni!» sbraitò Salimbeni. «E tu farai come dico io. Prima che finisca l'inverno voglio che tutti a Siena sappiano che è incinta di mio figlio. Meglio se maschio.» «Farò del mio meglio per accontentarvi», rispose Nino con sarcasmo. Vedendo che il ragazzo stava diventando insolente, Salimbeni alzò un dito per ammonirlo: «Ma guai a te se la perdi di vista. Nessun altro la può toccare all'infuori di te. Non voglio che venga fuori un bastardo». Nino sospirò. «Molto bene. Farò la parte di Paride e prenderò
vostra moglie, padre. Oh, un momento: lei non è veramente vostra moglie, giusto?» Il ceffone che gli arrivò in faccia non fu una sorpresa. Se lo era andato a cercare. «Giustissimo», disse allontanandosi, «colpitemi ogni volta che dico la verità e premiatemi ogni volta che sbaglio. Non avete che da chiedere, uccidere un rivale, uccidere un amico, uccidere una pulzella, e io eseguirò. Ma non pretendiate che dopo vi rispetti.» Mentre quella notte faceva ritorno alla sua bottega, mastro Ambrogio non poteva smettere di pensare alla conversazione che aveva appena sentito. Come poteva esistere tanta perversità sulla terra, per non parlare nella sua stessa città? E perché nessuno cercava di fermarla? Di botto si sentì vecchio e inutile e cominciò a desiderare di non essere mai stato a Palazzo Salimbeni, per non venire a conoscenza di intendimenti talmente malvagi. Quando arrivò in bottega, scoprì che il catenaccio della porta era stato aperto. Fermo sulla soglia, si domandò se avesse dimenticato di chiudere quando era uscito ma, non sentendo neppure i latrati di Dante, iniziò a temere un'irruzione. «C'è qualcuno?» Spinse il battente ed entrò con cautela, confuso dal baluginio delle candele all'interno. «Chi è?» Quasi all'istante, qualcuno gli diede uno strattone per tirarlo dentro e poi sprangò saldamente la porta dietro di lui. Tuttavia, quando si girò per affrontare l'avversario, si accorse che quel qualcuno non era un forestiero malintenzionato ma Romeo Marescotti. E accanto c'era Frate Lorenzo che impediva a Dante di abbaiare tenendogli il muso tra le mani. «Che il cielo sia ringraziato!» esclamò mastro Ambrogio guardando i due giovani e meravigliandosi della barba sui loro volti. «Finalmente di ritorno dalle terre straniere?» «Non tanto straniere», rispose Romeo mentre andava a sedersi al tavolo zoppicando percettibilmente. «Siamo stati in un monastero non lontano da qua.» «Tutti e due?» chiese il pittore.
«Lorenzo mi ha salvato la vita», disse Romeo allungando la gamba con una smorfia di dolore. «Nel cimitero, i Salimbeni mi hanno dato per morto. Lorenzo mi ha trovato, e mi ha riportato in vita. Sarei andato all'altro mondo, in questi mesi, non fosse stato per lui.» «Dio voleva che tu vivessi», aggiunse Frate Lorenzo mollando finalmente il muso del cane. «E voleva che fossi io ad aiutarti.» «Dio vuole molto da noi, vero?» domandò Romeo con un po' del sarcasmo dei vecchi tempi. «Non avreste potuto far ritorno in un momento più opportuno», esultò mastro Ambrogio mentre si guardava intorno alla ricerca di vino e di coppe, «perché sono appena venuto a sapere...» «Lo sappiamo anche noi», lo interruppe Romeo, «ma non m'importa. Non lascio Giulietta a quell'uomo. Lorenzo voleva che aspettassi a riprendermi del tutto ma ormai non credo che succederà più. Abbiamo uomini e destrieri. Anche monna Giannozza, la sorella di Giulietta, vuole liberarla dalle grinfie di Salimbeni tanto quanto lo vogliamo noi.» Il giovane Marescotti si appoggiò allo schienale per riprendere fiato. «Ora, Maestro, tu che sei l'artista degli affreschi, dovresti conoscere un bel po' di dimore. Ho bisogno tu mi faccia una mappa di Palazzo Salimbeni...» «Scusatemi», disse mastro Ambrogio un poco disorientato, «ma cosa esattamente avete sentito dire?» Romeo e Frate Lorenzo si scambiarono uno sguardo. «Ho sentito che Giulietta si è sposata con Salimbeni alcune settimane fa. Non è esatto?» Il monaco sembrava sulla difensiva. «E questo è tutto quello che avete udito?» chiese il pittore. Di nuovo, i due giovani si guardarono l'un l'altro. «Cosa c'è, Maestro?» Romeo si angustiò. «Non dirmi che già porta suo figlio in seno!» «Cielo, no!» rise il pittore, all'improvviso di ottimo umore. «Proprio il contrario.» Romeo lo fissò con aria torva. «Mi rendo conto che gli sposi sono assieme da tre settimane...» deglutì a fatica come se le parole gli dessero le nausea, «ma spero che lei non abbia cominciato ad
affezionarsi.» «Miei carissimi amici», annunciò mastro Ambrogio brandendo finalmente una bottiglia, «preparatevi ad ascoltare una storia piuttosto insolita.»
Capitolo 4 Il peccato dalle mie labbra? O colpa dolcemente rimproverata! Rendimi il mio peccato! ERA già l'alba quando Janice e io ci addormentammo nella mia camera d'albergo. Crollammo entrambe su un letto coperto di documenti, con la testa che ci girava per il troppo folklore di famiglia. Avevamo passato tutta la notte ad andare avanti e indietro tra il 1340 e il presente e, quando ci si chiusero finalmente gli occhi, Janice ne sapeva ormai tanto quanto me sui Tolomei, i Salimbeni, i Marescotti e i loro alter ego shakespeariani. Le feci vedere ogni frammento di carta del cofanetto di nostra madre, inclusa l'edizione consunta di Romeo e Giulietta e il taccuino con gli schizzi. Incredibilmente, Janice non aveva trovato niente da ridire sul fatto che fossi io a portare il crocefisso d'argento. Era più interessata all'albero genealogico e a rintracciare la sua parentela con Giannozza. «Guarda», aveva detto mentre faceva scorrere il lungo documento, «ci sono delle Giuliette e delle Giannozze dappertutto!» «Quelle originali erano gemelle», le avevo spiegato indicandole un passaggio di una delle ultime lettere di Giulietta a sua sorella, «vedi? Lei scrive: 'hai detto spesso che sei quattro minuti più giovane di me,
e quattro secoli più vecchia. Adesso capisco cosa intendevi'.»
«Acciderba!» Janice si era di nuovo immersa nell'albero di famiglia. «Forse queste sono tutte gemelle! Forse è un gene che viene trasmesso da una generazione all'altra.» Tuttavia, anche se le nostre omonime medioevali erano state gemelle, era arduo trovare ulteriori analogie tra la loro vita e la nostra. Loro avevano vissuto in un'epoca in cui le donne erano le vittime silenziose degli errori degli uomini mentre noi, a quanto
pareva, eravamo libere di fare i nostri, di errori, e di lamentarcene a piacimento. L'unica cosa a unire due mondi così diversi era il linguaggio del denaro. La cosa era chiarissima nel diario di mastro Ambrogio che Janice e io avevamo letto assieme. Salimbeni aveva dato a Giulietta un diadema nuziale con quattro gigantesche gemme - due zaffiri e due smeraldi - e queste dovevano essere le pietre preziose che sarebbero andate ad adornare la sua statua accanto alla tomba. Ma mia sorella e io eravamo crollate prima di arrivare a quel punto del racconto. Mi ero appena addormentata, o così sembrava, che fui svegliata dal trillo del telefono. «Signorina Tolomei», cinguettò Rossini, felice di fare il gallo del mattino, «è sveglia?» «Adesso sì.» Feci una smorfia nel vedere che il mio orologio da polso indicava le nove. «Cosa succede?» «Il capitano Santini è qua per vederla. Che debbo dirgli?» «Uhm...» Mi guardai in giro. Caos dappertutto e Janice che mi russava sonoramente accanto. «Scendo fra cinque minuti.» Con i capelli ancora gocciolanti per la doccia più veloce della storia, mi buttai a capofitto dalle scale e trovai Alessandro, seduto su una panchina del giardino di fronte, che giocherellava con aria assente con i petali di una magnolia. Nel vederlo fui investita da una rovente ondata di aspettativa, ma non appena lui sollevò lo sguardo verso di me, mi vennero in mente le foto che lo ritraevano mentre entrava di soppiatto in camera mia, e il gradevole solletico di prima si tramutò in fitte di incertezza. «Arrivi allo spuntar del giorno», scherzai. «Notizie di Bruno?» «Sono passato ieri mattina ma non c'eri», rispose Alessandro con aria pensosa. «Davvero?» feci del mio meglio per sembrare sorpresa. Nella fretta di incontrare il mio Romeo motorizzato mi ero completamente dimenticata dell'appuntamento con lui. «Strano. Vabbè... allora cosa ha detto Bruno?»
«Non molto.» Gettò via il fiore e si alzò. «È morto.» Sussultai. «E quando? Che cosa è successo?» Mentre lasciavamo l'albergo, Alessandro mi raccontò che Bruno Carrera - l'uomo responsabile del furto nel museo di mio cugino Peppo - era stato trovato morto in cella la mattina dopo il suo arresto. Era difficile dire se si trattasse di suicidio o se qualcuno dall'interno era stato pagato per farlo tacere. Tuttavia, come Alessandro mi fece notare, è necessaria una bella dose di abilità, se non addirittura di magia, per impiccarsi con i lacci consunti delle proprie scarpe senza spezzarli quando si crolla giù. «Stai dicendo che è stato ammazzato?» Quasi quasi mi dispiaceva per il tizio, malgrado il suo carattere, il suo comportamento e la sua rivoltella. «Si direbbe che qualcuno non voleva che parlasse.» Alessandro mi fissò come se sospettasse che io sapessi più cose di quanto lasciassi intendere. «Cosi parrebbe.» Fontebranda era il nome di un'antica fonte pubblica - non più in uso dopo la costruzione degli impianti idraulici privati - situata in fondo a un labirinto di stradine in discesa convergenti in un ampio spazio aperto. L'edificio di mattoni rossastri, costruito come una loggia a sé stante, era preceduto da un'ampia gradinata quasi del tutto ricoperta da erbacce. Seduta sul bordo dell'ampia vasca di pietra, accanto ad Alessandro, ammirai l'acqua di un verde cristallino e il caleidoscopio di luci riflesse sui muri e sul soffitto a volta. «Sai una cosa», dissi, quasi sopraffatta dalla bellezza del posto, «il tuo antenato era un vero pezzo di merda!» Lui scoppiò in una risata amara. «Spero non mi giudicherai dai miei antenati. E spero anche non giudicherai te stessa dai tuoi.» E se io giudicassi te dalla foto sul cellulare di mia sorella? pensai tra me e me mentre facevo scorrere le dita nell'acqua. Invece dissi: «Quel pugnale... lo puoi tenere. Non credo che Romeo lo vorrà mai indietro». Sollevai lo sguardo verso di lui sentendo un intenso bisogno di trovare qualcuno su cui scaricare la responsabilità dei
crimini di messer Salimbeni. «Peppo aveva ragione, quel pugnale ha in sé lo spirito del male. Come d'altra parte talune persone.» Rimanemmo lì seduti in silenzio per un po', mentre Alessandro sorrideva della mia espressione severa. «Dai, sei viva!» esclamò alla fine. «Guarda, il sole risplende! Questa è l'ora giusta per venire qui, quando la luce passa attraverso 1e arcate e rimbalza sull'acqua. Più tardi Fontebranda si fa scura e fredda come una grotta. Non la riconosceresti.» «Che stranezza che si possa cambiare tanto in poche ore», borbottai. Non diede a vedere se sospettasse che mi stavo riferendo a lui. «Tutte le cose hanno un lato oscuro. Secondo me è questo che rende la vita interessante.» Malgrado fossi sopraffatta dall'inquietudine, non potei fare a meno di sorridere a tanta logica. «Dovrei preoccuparmi?» «Be'...» si sfilò la giacca e si appoggiò contro il muro dell'arcata, con uno sguardo di sfida, «i vecchi ti direbbero che Fontebranda ha dei poteri speciali.» «Continua. Te lo dirò io quando sono abbastanza preoccupata.» • «Togliti le scarpe.» Contro la mia stessa volontà, scoppiai in una risata. «D'accordo, sono preoccupata.» «Forza, ti piacerà.» Lo osservai mentre si toglieva scarpe e calzini, si arrotolava il bordo dei pantaloni e immergeva i piedi nell'acqua. «Oggi non devi andare a lavorare?» chiesi, guardandogli le gambe a penzoloni. «La banca esiste da più di cinquecento anni. Presumo che per un'ora ce la faranno anche senza di me.» «Allora, mi racconti di questi poteri speciali?» domandai incrociando la braccia sul petto. Ci pensò su per un po'. «Credo che a questo mondo ci siano due tipi di pazzia. La pazzia creativa e la pazzia distruttiva. Si dice che l'acqua di Fontebranda ti faccia diventare pazzo in senso buono. È
difficile da spiegare. Sono quasi mille anni che uomini e donne bevono quest'acqua e vengono colpiti dalla follia. Alcuni sono diventati poeti, altri santi. La più famosa di tutti è naturalmente Santa Caterina, che è cresciuta proprio qua, dietro l'angolo, nella contrada dell'Oca.» Non ero dell'umore di assecondarlo qualsiasi cosa dicesse o di farmi distrarre dalle favole, e cosi lo interruppi scuotendo la testa. «Tutta questa faccenda sulla santità, donne che si lasciano morire di fame o si fanno arrostire sul rogo... come puoi definirla una cosa creativa? Si tratta solo di follia. Punto e basta.» «Penso che per la maggior parte delle persone», replicò, sempre sorridendo, «anche lanciare sassi sulla polizia di Roma potrebbe essere definita follia.» Rise della mia espressione. «Soprattutto perché non hai neanche voluto mettere piede in questa bella vasca.» «Quello che voglio dire», continuai, togliendomi le scarpe, «è che tutto dipende dalla prospettiva. Ciò che a te può sembrare perfettamente creativo, a me può apparire distruttivo.» Immersi con cautela i piedi in acqua. «Penso che dipenda tutto da cosa credi. O... da che parte stai.» Non riuscii a decifrare il suo sorriso. «Mi stai dicendo che dovrei riprendere in esame la mia teoria?» mi chiese, osservandomi gli alluci che mi stavo divertendo ad agitare nella fontana. «Credo che uno debba sempre riesaminare le proprie teorie. Se non lo si fa, esse smettono di essere teorie. Diventano qualcosa d'altro...» agitai le mani con aria minacciosa, «draghi di guardia alla torre. Draghi che non lasciano entrare o uscire nessuno.» Mi osservò con attenzione forse domandandosi perché quella mattina fossi così di cattivo umore. «Lo sai che qui il drago è simbolo di verginità e protezione?» Distolsi lo sguardo. «Che buffo. In Cina il drago simboleggia lo sposo, esattamente il nemico della verginità.» Per un po' nessuno dei due parlò. L'acqua di Fontebranda si increspava dolcemente in superficie e proiettava i suoi raggi luminescenti sulla volta del soffitto con la tranquilla pazienza di uno spirito immortale. Per un attimo arrivai a pensare che avrei potuto
essere un poeta. «Allora tu ci credi», dissi, prima che l'idea prendesse troppo piede, «che Fontebranda rende pazzi?» Alessandro guardò l'acqua sotto di noi. I nostri piedi sembravano immersi in giada liquida. Poi sorrise impercettibilmente, come se sapesse che in realtà non avevo bisogno di alcuna risposta. Visto che era proprio lì, riflessa nei suoi occhi verdi, la promessa di una passione sul punto di esplodere. Mi schiarii la voce. «Non credo nei miracoli.» Il suo sguardo si spostò sul mio collo. «Allora perché lo porti?» Sfiorai con le dita il crocefisso. «Di norma non porto niente. Al contrario di te.» Feci un cenno alla sua camicia aperta. «Vuoi dire questo...» Estrasse un oggetto che teneva appeso a un laccetto di cuoio attorno al collo. «Questo non è un crocefisso. Non ho bisogno di una croce per credere nei miracoli.» Osservai meravigliata il ciondolo. «Porti al collo un proiettile?» Fece un sorriso sardonico. «Lo chiamerei piuttosto una lettera d'amore. Le cronache hanno parlato di 'fuoco amico'. Molto amico. Mi si è fermato a due centimetri dal cuore.» «Torace robusto.» «Compagno robusto. Questi proiettili sono progettati per passare attraverso molte persone alla volta. Questo qui ha attraversato prima qualcun altro.» Rimise il ciondolo sotto la camicia. «E se non mi avessero portato immediatamente in ospedale non me la sarei cavata. Quindi si direbbe che Dio sa dove sono anche se non porto un crocefisso.» Rimasi quasi senza parole. «Quando è successo? E dove?» Alessandro si sporse in avanti per toccare l'acqua. «Te l'ho detto. Ero arrivato al limite.» Cercai di guardarlo negli occhi ma si scansò. «Tutto qui?» «Tutto qui, per ora.» «Okay», dissi, «ti dirò io in cosa credo. Credo nella scienza.» La sua espressione non mutò mentre mi squadrava. «Penso che tu creda più di quanto vuoi ammettere. Contro la tua stessa volontà.
Ed è per questo che hai paura. Hai paura della pazzia.» «Paura?» cercai di ridere, «ma non ho assolutamente...» Mi interruppe tirando su un po' d'acqua con la mano a coppa. «Se non credi, allora bevi. Non hai niente da perdere.» «Oh, accidenti!» mi feci indietro disgustata. «Quella roba è piena di batteri!» Lasciò che l'acqua gli fuggisse dalle mani. «La gente l'ha bevuta per centinaia di anni.» «Ed è impazzita!» «Vedi? Ci credi», mi disse con un sorrisetto. «Eccome! Credo nei microbi!» «Ne hai mai visto uno?» Mi irritai della sua presa in giro, anche perché mi aveva messa alle corde così facilmente. «Insomma! Gli scienziati li vedono di continuo.» «Santa Caterina vide Gesù proprio lassù in cielo, sopra la basilica di San Domenico», affermò Alessandro con gli occhi che gli brillavano. «A chi credi? Al tuo scienziato, a Santa Caterina, o a tutti e due?» Visto che non rispondevo, mise le mani a coppa e tirò su l'acqua dalla fonte. Poi ne bevve alcune sorsate. Quando mi offrì quel che restava, mi scansai nuovamente. Lui scosse il capo fingendo di essere deluso. «Questa non è la Giulietta che ricordo. Cosa ti hanno fatto in America?» Mi inalberai. «D'accordo, dammela!» Non era più rimasta molta acqua nelle sue mani, ma la sorbii comunque, giusto per fargli vedere. Non mi resi conto di quanto fosse intimo quel gesto, fino a quando non vidi come mi guardava. «Ora non c'è più verso di evitare la pazzia», disse con voce rauca. «Adesso sei una vera senese.» «Una settimana fa mi hai detto di andarmene a casa», gli feci notare, guardandolo storto per riprendere il controllo.
Alessandro sorrise della mia occhiataccia e allungò una mano per sfiorarmi la guancia. «E invece eccoti qui.» Mi ci volle tutto il mio self-control per non incoraggiare la sua carezza. Malgrado i numerosi ottimi motivi per non fidarmi di lui, figuriamoci flirtare con lui, tutto quello che mi venne in mente fu: «Shakespeare non apprezzerebbe». Per nulla scoraggiato dalla mia affannata conclusione, Alessandro mi fece scorrere lentamente un dito sulla guancia per poi lasciarlo all'angolo della mia bocca. «Non è necessario che Shakespeare ne sia informato.» Quello che vidi nei suoi occhi era ignoto come una costa straniera che si raggiunge dopo notti e notti trascorse sull'oceano. Nascosta tra il fogliame della giungla potevo sentire la presenza di una bestia sconosciuta, una creatura primordiale in attesa del mio arrivo. Quello che scorse lui nei miei lo ignoro ma, qualunque cosa fosse, gli fece abbassare la mano. «Perché hai paura di me?» mi sussurrò. «Fammi capire.» Esitai. Era la mia occasione. «Non so nulla di te.» «Sono qui.» «Dov'è successo?» Indicai il suo petto e il proiettile lì celato. Chiuse un attimo gli occhi e poi li riaprì consentendomi di vedere fino in fondo alla sua anima affaticata. «Iraq.» Con quell'unica parola tutta la mia rabbia e miei sospetti vennero sepolti da una valanga di simpatia. «Ne vuoi parlare?» «No. Altra domanda?» Mi ci volle un po' per assimilare il fatto che - con uno sforzo minimo - ero venuta a conoscenza del grande segreto di Alessandro, o almeno di uno dei segreti. Temevo tuttavia sarebbe stato assai improbabile che mi permettesse di carpire anche tutti gli altri con tanta facilità, specialmente quello che aveva a che fare con l'irruzione in camera mia. «Sei stato tu...» cominciai, ma subito persi l'ardire. Poi mi venne in mente un approccio diverso e ricominciai da capo. «Sei in qualche maniera imparentato con Luciano Salimbeni?»
Alessandro ebbe un sussulto. Di certo si aspettava una domanda del tutto diversa. «Perché? Pensi sia stato lui ad ammazzare Bruno Carrera?» «Credevo che Luciano Salimbeni fosse morto», dissi, parlando con più calma possibile, «ma forse sono stata male informata. In considerazione di tutto quello che è successo e della possibilità che abbia ucciso i miei genitori, penso di avere il diritto di sapere.» Tirai fuori i piedi dalla fonte uno dopo l'altro. «Sei un Salimbeni. Eva Maria è la tua madrina. Per favore, dimmi come stanno le cose.» Vedendo che parlavo sul serio, Alessandro si passò le mani fra i capelli. «Non penso...» «Ti prego.» «D'accordo!» Inspirò profondamente, forse più adirato con se stesso che con me. «Ti spiegherò.» Mi guardò pensoso, un po' come se si domandasse da dove cominciare, e infine mi chiese: «Sai chi è Carlo Magno?» «Carlo Magno?» ripetei, nel caso non avessi sentito bene. «Sì», confermò Alessandro. «Era... molto alto.» Proprio in quel momento il mio stomaco iniziò a borbottare e mi resi conto che non avevo fatto un pasto decente dal giorno prima, se si escludeva una cena a base di Chianti, carciofini sott'olio e panforte al cioccolato. «Che ne dici di raccontarmi il resto davanti a un caffè?» suggerii, e nel frattempo mi rimisi le scarpe. Nel Campo, le preparazioni per il Palio erano in pieno fermento. Mentre passavamo accanto a un mucchio di sabbia destinato al circuito, Alessandro si chinò per raccoglierne un pugno con la stessa deferenza che si userebbe con il più raffinato degli zafferani. «Vedi?» Mi mostrò la sabbia. «La terra in piazza.» «Fammi indovinare. Vuoi dire che questa piazza è il centro dell'universo?» «Pressappoco.» Mise un po' di sabbia nella mia mano. «Ecco, senti. Annusala. Significa Palio.» Mentre ci dirigevamo verso il caffè più
vicino e ci mettevamo a sedere, mi indicò gli operai che stavano montando le barriere imbottite attorno al Campo. «Oltre le barriere del Palio, il mondo finisce.» «Come sei poetico», dissi strofinandomi via la sabbia dalle mani senza dare nell'occhio. «Peccato che Shakespeare fosse fissato con Verona.» Scosse il capo. «Non ti stanchi mai di Shakespeare?» Per poco saltai su: «Ehi, sei stato tu a cominciare!» ma riuscii a fermarmi. Non avevo voglia di ricordargli che la prima volta che ci eravamo incontrati, nella fattoria dei suoi nonni, io portavo ancora il pannolino. Rimanemmo in silenzio in un duello di sguardi fino a quando il cameriere venne a prendere la nostra ordinazione. Appena fummo di nuovo soli, mi sporsi verso di lui appoggiando i gomiti sul tavolino. «Sto ancora aspettando che tu mi parli di Luciano Salimbeni», ricordai ad Alessandro, per non dargli scampo. «Perché non lasciamo perdere la parte che riguarda Carlo Magno e passiamo a...» Proprio in quel momento ad Alessandro squillò il cellulare. Dopo aver controllato il display, si scusò e si alzò per allontanarsi, sicuramente sollevato all'idea di poter posticipare ancora una volta il suo racconto. Mentre me ne stavo lì seduta a guardarlo da lontano, all'improvviso mi resi conto che lui non poteva essere la persona che era entrata in camera mia. Benché lo conoscessi da una sola settimana, ero pronta a giurare che lui non fosse un tipo che perdeva le staffe con facilità. Anche se in Iraq aveva rischiato la vita, il suo spirito non era stato affatto compromesso, semmai il contrario. Quindi, se fosse stato davvero lui a infilarsi nella mia stanza per un qualsiasi motivo, di certo non avrebbe rivoltato il mio bagaglio, stile diavolo della Tasmania, né avrebbe lasciato la mia biancheria appesa al lampadario. Semplicemente, la cosa non aveva senso. Quando, cinque minuti più tardi, Alessandro tornò a sedersi, spinsi l'espresso verso di lui con un sorriso che nelle mie intenzioni doveva essere di comprensione. Ma lui neppure mi guardò mentre afferrava la tazzina e ci mescolava un pizzico di zucchero. Il suo atteggiamento era cambiato. Chiunque l'avesse chiamato al telefono,
gli aveva detto qualcosa di sgradevole. Qualcosa che aveva a che fare con me. «Allora, dove eravamo?» gli chiesi con nonchalance mentre sorbivo il mio cappuccino attraverso la schiuma. «Ah, sì. Carlo Magno era molto alto...» «Perché non mi dici qualcosa del tuo amico in moto?» ribatté Alessandro con una voce troppo disinvolta per essere sincera. Quando vide che ero troppo sbigottita per rispondergli, aggiunse, asciutto: «Non mi hai detto che sei stata seguita da un tizio su una Ducati?» «Oh, quel tizio!» Feci una risatina forzata. «Non ne ho idea. Non l'ho più visto. Forse le mie gambe non erano abbastanza lunghe.» Alessandro non sorrise. «Abbastanza lunghe per Romeo.» Mi feci quasi andare il cappuccino di traverso. «Fermo! Mi stai dicendo che è il tuo vecchio rivale che mi sta appresso?» Lui distolse lo sguardo. «Non sto dicendo niente. Sono solo curioso.» Per un po' non parlammo, eravamo a disagio. Alessandro stava ovviamente rimuginando su qualcosa mentre io mi lambiccavo a capire cosa. Sapeva della Ducati ma non che il motociclista fosse mia sorella. Forse era al corrente che gli agenti di polizia avevano bloccato la moto il giorno prima mentre aspettavano invano, ai piedi della Torre del Mangia, che il proprietario tornasse. Janice mi aveva riferito che, dopo un'occhiata ai poliziotti inferociti, aveva deciso di cospargersi il capo di cenere. Un agente solo avrebbe potuto lavorarselo a puntino, due avrebbero anche potuto essere intriganti, ma tre fusti in uniforme erano un boccone troppo indigesto, perfino per mia sorella. «Senti», cominciai, nel tentativo di preservare almeno un po' della nostra recente intimità, «spero tu non creda che io stia ancora... sognando Romeo.» Alessandro non rispose subito. Quando infine lo fece, parlò a fatica, come se stesse esponendosi troppo. «Dimmi solo se ti è piaciuta la vista dalla Torre del Mangia», ribatté, mentre con il cucchiaino tracciava ghirigori sulla tovaglia.
Ero sbigottita. «Un momento! Mi hai... seguita?» «No», disse, non troppo fiero di sé, «ma la polizia ti sta tenendo d'occhio. Per il tuo stesso bene. Anche nell'eventualità che il tipo che ha ucciso Bruno ti venga a cercare.» «Sei stato tu a chiederglielo?» lo guardai dritto negli occhi e ci vidi la conferma prima ancora che parlasse. «Ma che gentili», aggiunsi con sarcasmo, «peccato che non fossero nei dintorni quando quel criminale è entrato in camera mia l'altra notte!» Alessandro non fece una piega. «Ma c'erano la notte scorsa. Hanno detto di aver visto un uomo in camera tua.» A quel punto scoppiai a ridere perché la cosa stava diventando assurda. «È ridicolo! Un uomo in camera mia? Nella mia stanza?» Vedendo che non era convinto, continuai seria: «Ascolta, la scorsa notte in camera mia non c'era nessun uomo, e neppure nella torre». Stavo per aggiungere: «Non che la cosa ti riguardi, comunque», ma mi fermai in tempo rendendomi conto che non era il caso. Invece, mi misi a ridacchiare. «Senti senti! Sembriamo una vecchia coppia sposata.» «Se fossimo una vecchia coppia», ribatté lui, sempre senza sorridere, «non ti dovrei chiedere niente perché quell'uomo in camera tua sarei io.» «Quel dannato gene dei Salimbeni è ancora una volta sul piede di guerra», commentai, strabuzzando gli occhi. «Lascia che indovini, se fossimo sposati, mi incateneresti nella torre ogni volta che esci?» Ci pensò su, brevemente. «Non sarebbe necessario. Una volta che tu mi conoscessi, non vorresti nessun altro. E...» finalmente depose il cucchiaino, «finiresti per dimenticare tutti quelli che hai conosciuto prima.» Le sue parole, dette un po' per scherzo e un po' no, mi si avvinghiarono come un branco di piranha attorno a un annegato e sentii migliaia di dentini che mettevano a dura prova il mio autocontrollo. «Mi sembra che tu dovessi parlarmi di Luciano Salimbeni», dissi, tutta seria, incrociando le gambe.
Il sorriso di Alessandro sparì. «Giusto, hai ragione.» Rimase un momento a rimuginare mentre aveva ripreso a giocherellare con il cucchiaino. «Te l'avrei dovuto dire da un pezzo. Insomma, avrei dovuto dirtelo l'altra notte ma... non volevo spaventarti.» Mentre aprivo la bocca per sollecitarlo a parlare e dirgli che non ero una che si spaventa facilmente, un altro cliente si infilò di fianco alla mia sedia per sedersi con un sospiro proprio al tavolo accanto al nostro. Era di nuovo Janice. Indossava il completo rosso e nero di Eva Maria e un paio di giganteschi occhiali da sole. Malgrado il look fatale, non aveva il solito atteggiamento aggressivo. Si limitò ad afferrare il menu facendo finta di considerare le opzioni. Mi accorsi che Alessandro l'aveva notata e per un attimo temetti che potesse vedere qualche somiglianza tra di noi, o addirittura riconoscere i vestiti della sua madrina. Ma non successe. Tuttavia la presenza così vicina di un estraneo gli tolse la voglia di cominciare a raccontare, e di nuovo ricademmo in un imbarazzante silenzio.
«Ein cappuccino, bitte!» cinguettò Janice al cameriere con il tremendo accento di un'americana che finge di essere tedesca, «und zwei biscotti.» Avrei voluto ammazzarla. Non avevo alcun dubbio che Alessandro fosse sul punto di rivelarmi qualcosa di enorme importanza, ma ora riprese invece a parlare del Palio, mentre il cameriere ciondolava attorno a Janice come un cucciolo entusiasta per farsi dire da che parte della Germania venisse. «Praga!» si lasciò scappare lei, per correggersi subito dopo: «Prag.. .heim.. .stadt». Il cameriere parve abbastanza convinto, e del tutto ammaliato, prima di correre come un razzo a passare l'ordinazione con il piglio di un cavaliere della Tavola Rotonda. «Osserva la Balzana...» Pensando che fossi attenta, Alessandro mi stava mostrando l'emblema di Siena sull'esterno della mia tazza. «Qui è tutto semplice. Bianco e nero, maledizioni e benedizioni.» Guardai la tazza. «È questo il significato? Maledizioni e
benedizioni?» Si strinse nelle spalle. «Può significare qualsiasi cosa tu voglia. Per me è un indicatore di indole.» «Indole? Come... bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto?» «È uno strumento. Come in una cabina di pilotaggio. Ti fa vedere se sei dritto o capovolto. Quando guardo la Balzana, so di avere la testa in su.» Mise una mano sopra la mia, ignorando Janice. «E quando guardo te, so...» Ritrassi rapidamente la mano per paura che Janice si accorgesse della nostra intimità e mi facesse patire in seguito le pene dell'inferno. «Che razza di pilota», saltai su, «non sarebbe in grado di sapere se è dritto o capovolto?» Alessandro mi fissò sorpreso senza capire la mia improvvisa reazione. «Perché vuoi sempre discutere?» mi chiese a bassa voce. «Perché hai così paura...» rimise la mano sulla mia, «di essere felice?» E fu a quel punto che Janice non riuscì più a trattenersi e scoppiò in una fragorosa risata dietro la sua guida turistica in tedesco. Anche se si sforzò di farlo sembrare un accesso di tosse, persino Alessandro capì che lei aveva ascoltato ogni singola parola della nostra conversazione, e le lanciò un'occhiataccia che me lo rese ancora più caro. «Mi spiace, devo tornare in ufficio», sospirò, mentre cercava il portafoglio. «Faccio io», lo rassicurai, senza alzarmi. «Può darsi che prenda un caffè. Sei libero più tardi? Mi devi sempre una storia.» «Non preoccuparti», rispose, sfiorandomi la guancia con le dita, «avrai la tua storia.» Appena fu fuori portata, mi girai verso Janice verde di rabbia. «Possibile che tu debba venire sempre a rovinare tutto?» le sibilai, senza perdere di vista Alessandro che si allontanava. «Stava per dirmi qualcosa. Qualcosa a proposito di Luciano Salimbeni!» «Oh, come mi dispiace di aver interrotto il tuo piccolo tête-à-tête con il tipo che ha fatto casino in camera tua», miagolò Janice sarcastica. «Ma dannazione, Jules, sei uscita di testa?» «Non sono poi così sicura...»
«Oh, sì che lo sei! L'ho visto io, ricordi?» Accorgendosi che ero ancora restia a crederle, sbuffò e sbatté la guida sul tavolino. «D'accordo, ha lo sguardo malandrino e, d'accordo, gli leccherei volentieri la collezione di francobolli, ma insomma! Come fai a lasciarti prendere in giro così? Se ti stesse solo dietro le chiappe sarebbe una cosa, ma sai perfettamente quello che vuole.» «In verità», la corressi, «non sono affatto sicura di saperlo. Ma tu chiaramente hai una vasta esperienza di imbroglioni, perciò illuminami.» «Ma per favore!» Janice non poteva capacitarsi di tanta ingenuità. «È ovvio che non ti molla finché non andrai a caccia di tombe. Fammi indovinare, non ti ha mai chiesto niente del sepolcro e della statua?» «Sbagliato!» esclamai. «Quando eravamo alla stazione di polizia mi ha chiesto se sapessi nulla di una statua con gli occhi d'oro. Occhi d'oro! Chiaramente non aveva nessuna idea...» «Eccome se aveva un'idea!» saltò su Janice. «Il trucco più vecchio del mondo: far finta di non sapere. Ma non vedi che ti sta suonando come un piffero?» «Quindi che cosa vorresti dire? Che lui aspetterà fino a quando abbiamo trovato le gemme... per portarcele via?» Già mentre pronunciavo queste parole, mi rendevo conto che avevano perfettamente senso. Mia sorella alzò le braccia esasperata. «Benvenuta sulla terra, testa di rapa. Ti dico di mollare il tipo subitissimo e di venire nel mio albergo. Faremo finta di andare all'aeroporto...» «E poi cosa? Mi nascondo in camera tua? Questo è un posto molto piccolo, nel caso tu non l'abbia notato.» «Lascia che me ne occupi io.» Janice aveva già tutto chiaro in testa. «Organizzo la messa in scena in un battibaleno.» «Sei davvero divertente», dissi. «Siamo entrambe coinvolte...» «Lo siamo adesso.» «...e tanto perché tu lo sappia, preferisco farmi fottere da lui che da te.»
«Ottimo», concluse Janice, piccata, «allora perché non gli corri dietro all'istante? Sono sicura che sarebbe felicissimo di accontentarti. Nel frattempo, io vado a vedere come sta il cugino Peppo e, no, tu non sei invitata.» Mi incamminai verso l'albergo, immersa nei miei pensieri. Per quanto ci girassi intorno, Janice aveva ragione: non avrei dovuto fidarmi di Alessandro. Il punto era che non solo mi stavo fidando di lui, ma che me ne stavo pure innamorando. E nella mia infatuazione quasi riuscivo ad autoconvincermi che nelle foto sfuocate di mia sorella ci fosse qualcun altro e che, più tardi, lui avesse dato disposizioni che non mi perdessero di vista per qualche sua contorta idea di cavalleria. Inoltre, lui aveva promesso di raccontarmi tutto e non era colpa sua se eravamo stati interrotti diverse volte. O invece no? Se davvero voleva che sapessi, perché aveva aspettato che fossi io a iniziare il discorso? E giusto pochi secondi prima, quando Janice ci aveva disturbati, perché non mi aveva semplicemente chiesto di tornare con lui al Monte dei Paschi per raccontarmi i punti salienti strada facendo? Mentre mi avvicinavo al Chiusarelli, mi si affiancò una limousine nera con i vetri oscurati. Il viso sorridente di Eva Maria apparve dietro uno dei cristalli posteriori che si abbassava. «Giulietta!» esclamò. «Che coincidenza! Salta dentro che ti faccio assaggiare i ricciarelli di Siena!» Mentre mi sistemavo sul sedile di cuoio biondo di fronte a Eva Maria, mi sorpresi a pensare se non si trattasse di una specie di trappola. Ma allora perché non farmi rapire direttamente da Alessandro? Di certo lui doveva averle già detto che ero diventata un agnellino che gli mangiava - o almeno gli beveva - direttamente dalla mano. «Sono felice che tu sia ancora qui!» si infervorò Eva Maria mentre mi offriva un dolcetto da una scatola foderata di satin. «Ti ho chiamata, sai? Non hai avuto i miei messaggi? Avevo paura che il mio figlioccio ti avesse intimorita. Devo scusarmi per lui. Di solito non è così.»
«Non si preoccupi», dissi mentre mi leccavo lo zucchero a velo dalle dita e mi domandavo cosa sapesse esattamente lei del mio rapporto con Alessandro. «È stato molto simpatico negli ultimi tempi.» «Sul serio?» Mi osservò sorpresa, lieta della notizia e allo stesso tempo seccata per essere stata tenuta lontana dall'azione. «Meglio così.» «Mi scusi per essere sparita in quel modo durante la sua cena di compleanno...» continuai, sentendomi non poco a disagio per non averla mai chiamata da quell'orribile sera. «E per quanto riguarda i vestiti che mi ha prestato...» «Li puoi tenere!» Fece un cenno di rifiuto con la mano. «Ne ho già fin troppi. Dimmi, sei qui questo weekend? Darò una festa e ci saranno delle persone che dovresti incontrare... persone che sanno molte più cose di me sui tuoi antenati Tolomei. Il party è domani sera ma vorrei che ti fermassi tutto il fine settimana.» Sorrise come una fatina buona che ha appena trasformato la zucca in carrozza. «Ti piacerà la Val d'Orcia, lo so già! Ti accompagna Alessandro in macchina. Ci sarà anche lui.» «Ehm...» mormorai. Come facevo a rifiutare? Ma poi, come la mettevo con Janice che, se non avessi declinato l'invito, mi avrebbe strangolato? «Mi piacerebbe venire, ma...» «Fantastico!» Eva Maria si protese in avanti per aprire lo sportello e farmi scendere. «A domani, allora. E non portare niente, se non te stessa!»
Capitolo 5 Spesso è felice l’uomo in agonia e chi veglia chiama lampo della morte quell'istante. Io non avrò quel lampo! Siena, 1340 LA Rocca di Tentennano era una struttura impressionante. Appollaiata come un avvoltoio su uno sperone roccioso della Val d'Orda, godeva di un'ampia vista in lungo e in largo. I muri massicci erano stati costruiti per far fronte ai frequenti attacchi e assedi dei nemici. Considerando il modo di fare e la moralità dei proprietari, quei muri non erano affatto troppo spessi. Per tutta la durata del viaggio, Giulietta si era domandata come mai Salimbeni fosse stato così gentile da mandarla in campagna, lontana da lui. Quando il giorno prima, dal cortile fuori Palazzo Salimbeni, si era congedato da lei con un atteggiamento quasi benevolo, la giovane si era domandata se - grazie alla maledizione che l'aveva colpito nella mascolinità - lui si fosse pentito e la mandasse via per compensarla del dolore che le aveva fatto patire. Tutta speranzosa, Giulietta l'aveva osservato salutare suo figlio Nino, che doveva accompagnarla in Val d'Orda, e aveva pensato di aver visto del vero affetto nello sguardo di Salimbeni mentre impartiva le ultime istruzioni per il viaggio. «Che Dio ti assista», aveva detto mentre Nino saliva in arcione dello stesso cavallo che aveva montato al Palio, «per questo viaggio e oltre.» Il giovane non aveva risposto, anzi, aveva fatto sembiante che suo padre non fosse neppure lì e Giulietta, nell'assistere a tanta perfidia - seppur per un brevissimo momento - si era sentita a disagio per Salimbeni.
Più tardi, mentre guardava fuori dalla sua finestra nella Rocca di Tentennano, aveva cominciato ad afferrare la vera ragione per cui era stata mandata lì, e a capire che non si trattava di un gesto di generosità ma solo di una nuova e astuta forma di punizione. Il posto era una vera e propria fortezza. Così come nessun estraneo poteva entrarci, a nessuno sarebbe mai stato permesso di uscirne senza autorizzazione. In quel momento Giulietta comprese cosa voleva dire la gente quando alludeva alle precedenti mogli di Salimbeni definendole «mandate in isolamento»: la Rocca di Tentennano era un posto dove l'unica via di fuga era la morte. Giulietta si sorprese quando una servetta venne subito ad accendere il camino in camera sua e ad aiutarla a cambiarsi d'abito. Era una fredda giornata di inizio dicembre e non sentiva più la punta delle dita. Ora, con addosso un indumento di lana e delle pianelle asciutte, se ne stava a girarsi davanti al fuoco domandandosi quale fosse stata l'ultima volta che si era sentita così a suo agio. Aprendo gli occhi, vide Nino che la guardava dalla soglia con un'aria inaspettatamente gentile. Che peccato, pensò, che fosse un farabutto come suo padre, visto che era un ragazzo attraente, agile e forte, forse troppo pronto a sorridere senza averne donde, data l'indubbia pesantezza della sua coscienza. «Posso chiedervi di raggiungermi al piano di sotto per cenare con me stasera?» le disse, con lo stesso tono cordiale che avrebbe usato durante un ballo. «So che avete sempre desinato da sola queste ultime tre settimane e vi chiedo venia per conto della mia zotica famiglia.» Notando la sorpresa di Giulietta, sorrise con fare ammiccante. «Non abbiate paura, vi assicuro che saremo soli soletti.»
E infatti lo furono. Seduti alle due estremità di un tavolo che avrebbe potuto ospitare almeno una ventina di persone, Giulietta e Nino consumarono il loro pasto in silenzio, guardandosi di tanto in tanto attraverso i candelabri. Ogni volta che lui incrociava lo sguardo di Giulietta, il giovane le rivolgeva un sorriso, tanto che lei trovò l'ardire necessario per proferire la domanda che le girava in
testa da un po': «Siete stato voi ad ammazzare mio cugino Tebaldo durante il Palio?» Il sorriso di Nino svanì. «Certo che no! Come potete pensarlo?» «Allora chi è stato?» Lui la guardò in modo strano, anche se appariva per nulla scosso. «Lo sapete chi è stato. Lo sanno tutti.» «E tutti sanno anche...» Giulietta dovette fare una pausa per tenere ferma la voce, «quello che vostro padre ha fatto a Romeo?» Invece di rispondere, Nino si alzò dalla sedia e percorse tutta la lunghezza del tavolo fino a lei. Quindi le si inginocchiò di fianco e le prese la mano come un cavaliere prenderebbe quella di una damigella in difficoltà. «Come potrò mai riparare al male che vi ha fatto mio padre?» Si premette il palmo di lei contro la guancia. «Come potrò eclissare la mala stella che lo guida? Di grazia, ditemi, nobile signora, cosa posso fare per accontentarvi?» Giulietta studiò a lungo il viso del giovane e poi disse semplicemente: «Potreste lasciarmi andare». Lui la osservò perplesso, non sicuro di aver capito. «Non sono la moglie di vostro padre», continuò lei. «Non c'è motivo di tenermi qui. Lasciate che me ne vada, e non dovrete più preoccuparmi di me.» «Mi dispiace», rispose Nino, questa volta posando le labbra sulla mano di lei, «ma questo non lo posso fare.» «Capisco», mormorò Giulietta ritirando la mano. «In tal caso permettetemi di tornare in camera mia. Lo apprezzerei molto.» «Lo farò», rispose Nino rialzandosi, «dopo un altro calice di vino.» E versò dell'altro vino nel bicchiere che lei aveva a maIapena toccato. «Non avete mangiato molto. Dovete essere affamata.» Visto che lei non rispondeva, le fece un sorriso. «La vita qui attorno può essere molto piacevole, sapete? Aria pura, cibo buono, un pane meraviglioso, non come i sassi che ci servono a casa, e...» aprì le braccia con enfasi, «compagnia eccellente. Potete godere di tutto quello che vi circonda. Dovete solo chiedere.» Soltanto quando lui le porse il bicchiere colmo, sempre con un
sorriso, Giulietta iniziò a capire a che cosa si riferisse. «Non avete paura di quello che direbbe vostro padre?» disse con tono leggero, prendendo il calice. Nino scoppiò a ridere. «Ritengo che a entrambi gioverebbe una serata in cui non si parli di mio padre.» Si protese verso il tavolo, in attesa che lei cominciasse a bere. «Mi auguro vi siate accorta che non gli somiglio per niente.» Giulietta depose il bicchiere e si alzò. «Vi ringrazio di questa cena e della vostra gentile attenzione», si schernì. «Adesso è tempo che mi ritiri. Vi auguro la buonanotte...» Con una mano attorno al polso, lui le impedì di allontanarsi. «Non sono un uomo privo di sentimenti», confidò Nino, finalmente serio. «So che avete sofferto e vorrei che non fosse successo. Ma il fato vuole che adesso siamo qui insieme...» «Il fato?» Giulietta cercò invano di liberarsi. «Vorrete dire vostro padre!» Solo allora Nino gettò la maschera e la guardò torvo. «Non vi rendete conto che vi sto trattando con generosità? Credetemi, potrei farne a meno. Ma voi mi piacete. Ne valete la pena.» Le lasciò il polso. «Adesso andate e fate tutto quello che devono fare le donne prima di coricarsi, poi salirò da voi.» Ebbe anche il coraggio di sorridere. «Vi prometto che prima che scocchi la mezzanotte non mi troverete più così sgradevole.» Giulietta lo fissò negli occhi e non vi vide che determinazione. «Non c'è niente che io possa dire o fare perché cambiate idea?» Lui continuò a sorridere e a scosse la testa. C'erano guardie di sentinella a ogni angolo mentre Giulietta faceva ritorno in camera sua. Eppure, malgrado tutta quella cautela, la sua porta non aveva un catenaccio all'interno che tenesse Nino alla larga. Mentre spalancava le imposte nella gelida notte, sollevò lo sguardo verso le stelle e si meravigliò del loro numero e del loro luccichio. Era uno spettacolo abbagliante che il cielo aveva allestito
solo per lei, per darle un'ultima possibilità di inondarsi lo spirito di bellezza prima che tutto finisse nel nulla. Aveva mancato in tutti i compiti che si era assegnata. I suoi piani di dare sepoltura a Romeo e di uccidere Salimbeni erano falliti miseramente e la triste conclusione era una sola: era rimasta in vita per farsi violare. Unica consolazione: malgrado tutti i tentativi, non erano riusciti a cancellare la promessa fatta a Romeo. Lei non era mai appartenuta a nessun altro. Era Romeo suo marito, anche se non di fatto. Le loro anime erano legate l'una all'altra, anche se i loro corpi erano stati separati dalla morte. Ma non per molto. Non le rimaneva altro che restare fedele fino alla fine e allora, forse, se Frate Lorenzo le aveva detto il vero, si sarebbe ricongiunta al suo innamorato nell'aldilà. Giulietta lasciò gli scuri aperti e si avvicinò ai bagagli. Talmente tanti vestiti, così tanta ricchezza... ma nascosta all'interno di una pianella di broccato c'era l'unica cosa di cui avesse bisogno. Era una boccetta per il profumo proveniente dal suo tavolino da notte a Palazzo Salimbeni, ma che lei aveva ben presto deciso di usare diversamente. Dopo il suo matrimonio, una vecchia nutrice compassionevole era venuta ogni notte a somministrarle un cucchiaio di pozione per dormire. «Fai la brava bambina», diceva garrula, «e apri la bocca. Vuoi fare dei bei sogni, non è vero?» Le prime volte, nell'attimo in cui la donna si allontanava, Giulietta aveva prontamente sputato la pozione nel vaso da notte, determinata a rimanere ben sveglia nel caso Salimbeni si avvicinasse nuovamente al suo letto e lei gli dovesse rammentare la maledizione. Ma dopo un po' di notti Giulietta aveva escogitato di svuotare la boccetta di acqua di rose che monna Antonia le aveva dato come regalo di addio e aveva cominciato a riempirla con le cucchiaiate di pozione che le venivano propinate ogni sera. All'inizio, il sonnifero le era sembrata un'arma adatta per essere usata, eventualmente, contro Salimbeni ma poi, quando le visite di lui in camera sua si erano diradate, la boccetta era rimasta sul comodino senza un utilizzo preciso. Salvo ricordare a Giulietta che,
una volta piena, sarebbe stata letale per chiunque ne avesse bevuto il contenuto per intero. La giovane ricordava di aver udito fin dalla più tenera età racconti fantasiosi di fanciulle che si erano uccise con simili pozioni quando erano state abbandonate dai loro amati. Per quanto la madre avesse cercato di tenere le figlie al riparo da questo tipo di chiacchiere, in casa c'erano sempre troppe serve che si divertivano nel vedere l'interesse manifesto delle due bambine per l'argomento. E così Giulietta e Giannozza avevano passato numerosi pomeriggi nel loro campo segreto di margherite impersonando a turno la morta per veleno e quella che scopre il cadavere con accanto la boccetta vuota. Una volta Giulietta era rimasta inerte e muta per così tanto tempo che Giannozza aveva creduto che la sorella fosse spirata sul serio. «Giu-giu?» aveva chiamato, cercando di tirarla su per le braccia. «Basta, per favore! Non è più divertente. Ti prego!» A un certo punto Giannozza si era messa a piangere e, malgrado Giulietta alla fine fosse saltata su ridendo, la gemella era rimasta inconsolabile. Aveva pianto per tutto il pomeriggio e per tutta la sera, e si era rifiutata di cenare. Da quel giorno non avevano più fatto quel gioco. Durante la prigionia a Palazzo Salimbeni, c'erano stati momenti in cui Giulietta sedeva con la boccetta tra le mani e sperava fosse già piena per poter mettere fine ai suoi giorni. Ma fu solo la notte precedente la sua partenza per la Val d'Orcia che la fialetta era finalmente giunta a saturazione. Durante il tragitto, Giulietta si era consolata al pensiero del tesoro che teneva nascosto fra i bagagli. Ora, seduta sul letto, la giovane stava verificando che nella boccetta ci fosse abbastanza pozione da fermarle il cuore. Quindi questo doveva essere stato il piano della Vergine Maria fin dall'inizio, ragionava la fanciulla: che il suo matrimonio con Romeo dovesse essere consumato in cielo e non in terra. Era un pensiero così tenero che le scappò un sorriso. Poi Giulietta tirò fuori penna e inchiostro che aveva nascosto, pure quelli, nel bagaglio e si preparò a scrivere un'ultima lettera a Giannozza. Il calamaio che Frate Lorenzo le aveva dato quando
abitava ancora a Palazzo Tolomei era ormai quasi vuoto e alla penna era stata fatta la punta tante di quelle volte che non ne era rimasto che un moncherino. Anche così, Giulietta si ingegnò a comporre il suo messaggio estremo alla sorella, prima di arrotolare la pergamena e nasconderla in una crepa del muro dietro al letto. «Ti aspetterò nel nostro prato di margherite, sorella adorata», scrisse mischiando lacrime e inchiostro, «e questa volta prometto che quando mi chiamerai mi sveglierò subito.» Romeo e Frate Lorenzo arrivarono alla Rocca di Tentennano con dieci cavalieri addestrati a ogni tipo di combattimento. Non fosse stato per mastro Ambrogio, non avrebbero mai saputo dove andare a cercare Giulietta e, non fosse stato per Giannozza, e gli armigeri che aveva messo a disposizione, non sarebbero mai stati in grado di far seguire l'azione ai propositi. Il contatto con Giannozza era stata opera di Frate Lorenzo. Mentre erano nascosti nel monastero - con Romeo ancora immobilizzato per la ferita allo stomaco - il monaco aveva mandato una lettera alla sola persona che, secondo lui, avrebbe potuto simpatizzare con la loro situazione. Il religioso conosceva fin troppo bene l'indirizzo di Giannozza, avendo fatto da corriere segreto tra le due sorelle per più di un anno. Non erano passate due settimane che era arrivata la risposta. «La tua assai dolorosa missiva mi ha raggiunta in una giornata propizia», scriveva Giannozza, «visto che ho appena seppellito il padrone di questa dimora e ora sono io a capo del mio destino. Non riesco neppure a esprimerti la pena che ho provato nell'apprendere le tue tribolazioni e il tuo triste destino. Ti prego di dirmi come posso aiutarvi. Ho uomini e ho cavalli. Considerateli vostri.» Ma anche gli armigeri di Giannozza rimasero senza parole nel vedere il massiccio cancello a difesa della Rocca di Tentennano. Mentre al crepuscolo osservavano il posto da lontano, Romeo si rese conto che, per entrare e salvare la sua amata, avrebbe dovuto fare ricorso all'astuzia. «Mi fa venire in mente un gigantesco nido di vespe», disse ai suoi.
«Sferrare l'attacco alla luce del giorno significherebbe morte certa per tutti noi, mentre, forse, avremmo qualche possibilità al calare delle tenebre quando tutti dormono a parte qualche sentinella.» E così Romeo aspettò che si facesse buio per scegliere otto uomini - fra cui Lorenzo, poco disponibile a stare in disparte - che equipaggiò di corde e pugnali prima di avanzare furtivamente assieme a loro fino al piede dello sperone su cui si ergeva la roccaforte dei Salimbeni. Con nessun altro pubblico se non le stelle che brillavano in un cielo senza luna, gli intrusi scalarono la montagnola il più silenziosamente possibile fino ad arrivare alla base dell'imponente baluardo. Una volta lì, strisciarono con cautela lungo il perimetro del muraglione inclinato fino a quando qualcuno individuò un possibile accesso circa sei metri più in alto e lo segnalò a Romeo premendogli una mano sulla spalla. Senza concedere a nessuno l'onore di avventurarsi per primo, il giovane si assicurò una fune attorno alla vita e, con l'aiuto di due pugnali tenuti saldamente in mano, iniziò la sua ascesa incuneando le lame tra le fessure dei macigni e tirandosi su con la sola forza delle braccia. Il muro era inclinato quel giusto da permettere un'impresa del genere ma non abbastanza da renderla facile, tanto che Frate Lorenzo sussultò più di una volta quando i piedi di Romeo scivolavano fuori dalle prese e lo lasciavano appeso per le braccia. Il monaco non sarebbe stato tanto in apprensione se il giovane fosse stato in perfetta salute. Era invece perfettamente consapevole che, a ogni movimento, il dolore della ferita all'addome non ancora rimarginata doveva essere atroce. Ma Romeo quasi non sentiva la ferita tanto il suo cuore era sconvolto all'idea che Giulietta potesse essere costretta a cedere ai voleri dell'ignobile figlio di Salimbeni. Si ricordava infatti fin troppo bene di Nino quando, durante il Palio, il giovane aveva pugnalato come nulla fosse Tebaldo Tolomei, ed era consapevole che nessuna donna sarebbe riuscita a sbarrare la porta a quell'infame. Né Nino poteva essere sensibile alla minaccia di una maledizione dato che, di certo, per quello che riguardava il Regno dei Cieli, doveva già essere stato maledetto per l'eternità.
L'accesso si rivelò essere una feritoia, larga appena da far passare il giovane. Mentre si lasciava cadere pesantemente sui lastroni del piantito, Romeo si accorse di essere finito nell'armeria e quasi sorrise per l'ironia della sorte. Poi si liberò della corda, le diede due scossoni per segnalare agli uomini dall'altra parte che potevano salire tranquilli, e l'assicurò attorno a un anello nel muro. La Rocca di Tentennano era cupa dentro come lo era fuori. Non c'erano affreschi a rallegrare le pareti, né arazzi a tener fuori gli spifferi. Contrariamente a Palazzo Salimbeni, che era una cornucopia di raffinatezze e abbondanza, la Rocca era stata costruita per nessun altro scopo se non quello di dominare, e ogni tentativo di arredo sarebbe stato solo un ostacolo ai veloci movimenti degli uomini in armi. Mentre percorreva gli infiniti e tortuosi corridoi - tallonato da Frate Lorenzo e dagli altri - Romeo cominciò a temere che trovare Giulietta in quel mausoleo vivente, e fuggire con lei senza farsi notare, sarebbe stata più una questione di fortuna che di coraggio. «Attenti!» sibilò a un certo punto nello scorgere una guardia e alzando una mano per fermare i suoi compagni. «Indietro!» Per evitare il soldato dovettero imbarcarsi in una deviazione labirintica; alla fine si ritrovarono esattamente al punto di prima e dovettero accovacciarsi nell'ombra dove la luce delle torce a muro non poteva raggiungerli. «Ci sono sentinelle a ogni angolo», sussurrò uno degli uomini di Giannozza, «ma soprattutto in quella direzione...» e fece un cenno con la mano davanti a sé. Romeo annuì preoccupato. «Forse dovremo eliminarne uno dopo l'altro, ma preferirei aspettare il più possibile.» Non doveva spiegare perché preferisse ritardare il clangore delle armi. Sapevano tutti benissimo che sarebbero stati facilmente sopraffatti dalle guardie che al momento dormivano nei sotterranei del castello. Una volta iniziata la battaglia, la loro unica speranza era la fuga. A quello scopo Romeo aveva lasciato all'esterno tre uomini pronti con i cavalli, anche se iniziava a temere che tutto si sarebbe
concluso con un nulla di fatto da annunciare mestamente a Giannozza. Proprio in quel momento, mentre stava disperandosi per la sosta forzata, Frate Lorenzo gli premette una mano sulla spalla e gli indicò una figura familiare che avanzava all'estremità del corridoio con una torcia in mano. La persona - Nino - avanzava a passi lenti, quasi riluttanti, come si apprestasse a una bisogna di cui avrebbe fatto volentieri a meno. Nonostante il gelo della notte, aveva solo una tunica addosso, ma non era privo di spada, che teneva appesa alla cinta. Romeo comprese subito dov'era diretto. Dopo aver fatto un segnale al frate e agli uomini di Giannozza, Romeo si mise a strisciare in silenzio lungo il muro all'inseguimento del malfattore e si arrestò quando si fermò anche l'altro. «Potete andarvene a riposare fino a domani», disse Nino a due militi di sentinella a una porta chiusa, «mi accerterò io stesso che monna Giulietta sia al sicuro. Anzi...» si girò per rivolgersi a tutte le guardie a un sol tempo, «andatevene tutti quanti! E dite in cucina che stanotte possono servirvi vino a volontà.» Solo quando le guardie, che già si rallegravano della bisboccia, furono sparite, Nino si dispose a far scorrere il catenaccio della porta, dopo aver preso un respiro profondo. Ma fu in quel preciso momento che un rumore dietro di lui lo colse di soprassalto. Era il sibilo inconfondibile di una spada che viene estratta dal fodero. Il giovane Salimbeni si volse senza fretta per affrontare, incredulo, il suo assalitore. Quando riconobbe la persona che era venuta così da lontano per sfidarlo, quasi gli uscirono gli occhi dalle orbite. «Impossibile! Sei morto!» Romeo venne avanti nella luce della torcia con un sorriso sinistro. «Se fossi morto, sarei un fantasma e non ci sarebbe motivo di temere la mia spada.» Nino scrutò il suo rivale ammutolito dalla sorpresa. Ecco lì un uomo che non si sarebbe mai aspettato di rivedere, un uomo che aveva sfidato la morte per salvare la donna che amava. Non era da escludere che - per la prima volta nella sua vita - il figlio di Salimbeni si rendesse conto di avere a che fare con un vero eroe, nel qual caso, lui, Nino, era il malvagio. «Ti credo», disse calmo piazzando la torcia
in un sostegno nel muro, «e rispetto la tua lama, ma non la temo.» «Questo sarà il tuo errore», rispose Romeo mentre aspettava che l'altro fosse pronto. Proprio dietro l'angolo Frate Lorenzo ascoltava i due giovani agitandosi invano. Non si capacitava che Nino non avesse richiamato le guardie per sopraffare Romeo all'istante. In fin dei conti si erano introdotti vergognosamente in casa d'altri. Non si trattava di una tenzone pubblica. Nino poteva fare a meno di rischiare un duello. Come, d'altra parte, poteva farne a meno Romeo. Frate Lorenzo poté vedere che gli uomini di Giannozza, accovacciati dietro di lui nel buio, si scambiavano degli sguardi perplessi, forse domandandosi perché Romeo non ordinasse loro dì tagliare la gola a Nino prima ancora che l'arrogante molestatore chiedesse aiuto. Questo non era un torneo per aggiudicarsi il cuore di una damigella, ma un caso di rapimento bello e buono. Di certo Romeo non era in debito di una sfida onorevole con l'uomo che gli aveva portato via l'amata. Ma i due rivali erano di opinione diversa. «L'errore è tuo», controbatté Nino con malcelata esultanza. «Adesso mi toccherà dire in giro che i Salimbeni ti hanno fatto a fette due volte. La gente penserà che ti eri affezionato al sapore del nostro ferro.» Romeo squadrò l'avversario con un sorriso di derisione. «Posso ricordarti», disse mentre si metteva in guardia, «che la tua famiglia è a corto di ferro di questi ultimi tempi? In verità penso che la gente sia troppo impegnata a chiacchierare del... fallo di tuo padre per preoccuparsi d'altro.» L'oltraggiosa osservazione avrebbe fatto scattare come una furia un duellante con meno esperienza, facendogli dimenticare che la rabbia toglie concentrazione e ti rende un facile bersaglio. Ma Nino non poteva essere raggirato tanto facilmente. Così cercò di controllarsi e si limitò a toccare con la punta della lama quella di Romeo, come a riconoscere un punto a suo vantaggio. «Esatto», rispose, mentre si muoveva in tondo attorno all'avversario alla
ricerca di un'apertura. «Però mio padre è abbastanza saggio da conoscere i suoi limiti. È per questo che ha mandato me a prendermi cura della ragazza. È imperdonabile da parte tua farle rimandare un piacere del genere. È proprio lì dietro quella porta che mi aspetta con le gote accese e le labbra umide.» Questa volta fu Romeo che dovette controllarsi, mentre sfiorava la lama di Nino con la sua e ne percepiva la vibrazione nella mano. «La signora di cui parli», gli fece notare, «è mia moglie. E mi accoglierà con grida di gioia mentre ti faccio a pezzi.» «Dici sul serio?» Nino fece un affondo, confidando nella sorpresa, ma mancò. «Per quello che ne so, non è moglie tua più di quanto lo sia stata di mio padre. E presto non sarà più moglie di nessuno, ma solo la mia piccola sgualdrina. E si struggerà ogni giorno affinché io la intrattenga di notte...» Stavolta fu Romeo a fare un affondo e anche lui fallì, ancorché d'un capello, poiché Nino ebbe l'abilità di parare e deviare la lama. Ciò fu sufficiente per mettere fine alla conversazione tra i due e per un po' non si sentì altro suono che quello delle lame che si incrociavano in una circolare danza di morte. Romeo non era più l'agile schermidore che era stato prima di venire ferito, ma le sue sofferenze gli avevano insegnato la resistenza e, cosa ancora più importante, l'avevano riempito di un odio al calor bianco che, se propriamente incanalato, poteva avere la meglio su qualsiasi antagonista, pur abilissimo. E così, anche se Nino gli volteggiava intorno sciolto, come a beffarsi di lui, Romeo non abboccò ma attese con pazienza l'occasione della vendetta... l'occasione che di certo la Vergine Maria non avrebbe tardato a concedergli. «Ma che incredibile fortuna mi ritrovo!» esclamò Nino prendendo per fatica la momentanea inerzia di Romeo. «Posso dedicarmi alle mie due attività preferite la stessa notte. Dimmi, come ci si sente...» Romeo non aspettava altro che un breve momento di sbilanciamento da parte dell'altro: fece un rapidissimo balzo in avanti e conficcò la spada nel torace del contendente, perforandogli il cuore e inchiodandolo per un attimo al muro.
«Come ci si sente?» sogghignò Romeo davanti al viso stupefatto di Nino. «Davvero lo volevi sapere?» Detto ciò, estrasse la lama con disgusto e osservò il corpo senza vita del figlio di Salimbeni che si afflosciava al suolo lasciando una traccia scarlatta sulla parete. Da dietro l'angolo, Frate Lorenzo guardò sconvolto la conclusione del breve duello. La morte l'aveva raggiunto così rapidamente che il viso del giovane non mostrava null’altro che meraviglia. Il monaco sarebbe stato felice se Nino avesse potuto rendersi conto della propria sconfitta - anche solo con un battito di ciglia - prima di spirare. Ma il cielo si era dimostrato più misericordioso di lui e aveva posto termine alle sofferenze di quel delinquente prima ancora che iniziassero. Senza neppure fermarsi a ripulire la spada, Romeo scavalcò il cadavere per tirare il catenaccio che Nino aveva custodito con la sua stessa vita. Vedendo che il giovane spariva oltre quella soglia fatale, Frate Lorenzo finalmente emerse dal suo nascondiglio e traversò di corsa l'androne, tallonato dagli uomini di Giannozza, per raggiungere Romeo nell'ignoto. Nell'entrare, il religioso dovette adattare gli occhi al buio. Non c'erano luci nella stanza all'infuori delle poche braci nel camino e del fievole luccichio delle stelle attraverso la finestra spalancata. Anche così, Romeo corse dritto verso il Ietto per svegliare la sua occupante addormentata. «Giulietta, amore mio!» la incalzò lui, mentre l'abbracciava e le inondava il viso di baci. «Svegliati! Siamo venuti a portarti via!» Quando alla fine la fanciulla si mosse, Frate Lorenzo vide subito che c'era qualcosa che non andava. Conosceva Giulietta abbastanza da capire che non era in sé, e che un qualcosa di più potente di Romeo stava costringendola a riaddormentarsi. «Romeo...» mormorò lei, sforzandosi di sorridere e di toccargli il viso, «mi hai trovato!» «Vieni.» Il giovane la incoraggiò a mettersi seduta. «Dobbiamo andarcene prima che le guardie tornino indietro!» «Romeo...» A Giulietta stavano di nuovo chiudendosi gli occhi
mentre la testa le ciondolava fiacca come il bocciolo di un fiore reciso da una falce. «Io volevo...» Avrebbe detto di più, ma le si incespicò la lingua, mentre Romeo si rivolgeva disperato a Frate Lorenzo. «Vieni ad aiutarmi!» implorò. «Sta male. Dobbiamo trasportarla.» Quando vide che l'altro esitava, Romeo seguì lo sguardo del monaco e notò la boccetta e il tappo sul tavolino da notte. «Che cos'è?» chiese, con la voce rauca dall'ansia. «Un veleno?» Frate Lorenzo si precipitò a esaminare la boccetta. «Era acqua di rose», disse, annusando il flacone vuoto, «ma c'è dell'altro...» «Giulietta!» Romeo scosse la giovane con violenza. «Devi svegliarti! Che cosa hai bevuto? Ti hanno avvelenata?» «Sonnifero...» farfugliò lei senza aprire gli occhi, «perché tu venissi a svegliarmi...» «Madre misericordiosa!» Frate Lorenzo aiutò Romeo a sollevare la fanciulla. «Giulietta! Svegliati! Sono il tuo vecchio amico Lorenzo!» Giulietta fece una smorfia e riuscì a spalancare gli occhi. Solo allora, quando vide il frate e tutti quegli sconosciuti attorno al letto, sembrò afferrare che non era ancora morta e andata in paradiso. E quando la verità le arrivò al petto, ebbe un sussulto mentre il viso le si contorceva dal panico. «Oh, no!» sussurrò, avvinghiandosi a Romeo con le poche forze che le rimanevano. «Non è giusto! Mio caro... sei vivo! Sei...» Poi cominciò a tossire con spasmi violenti e Frate Lorenzo si accorse che la vena del collo le pulsava come se volesse esplodere. Non sapendo cos'altro fare, i due uomini cercarono di lenirle il dolore con parole tranquillizzanti e continuarono a sorreggerla mentre, coperta di sudore, ricadeva sul letto in preda alle convulsioni. «Aiutateci!» urlò Romeo agli uomini attorno al letto, «sta soffocando!» Ma gli armigeri di Giannozza erano addestrati per mettere fine alla vita, non per sostenerla, e così rimasero immobili attorno al letto mentre Romeo e l'amico d'infanzia lottavano per salvare la
donna amata. Benché fossero degli estranei, erano così presi dalla tragedia che si stava svolgendo sotto i loro occhi che non si accorsero delle guardie dei Salimbeni fino a quando queste arrivarono alla porta, rendendo così impossibile la fuga. Era stato un grido d'orrore dall'androne che li aveva avvertiti del pericolo. Qualcuno evidentemente era incespicato nel giovane padrone lungo disteso nel proprio sangue. Ora, finalmente, gli uomini di Giannozza avevano l'opportunità di sfoderare le spade mentre le guardie dei Salimbeni facevano irruzione nella stanza. In una situazione disperata come la loro, la sola speranza di sopravvivere stava nel non avere nessuna speranza. Sapendo che sarebbero comunque morti, gli uomini di Giannozza si lanciarono contro le guardie con furia disumana e le fecero a pezzi senza pietà, una dopo l'altra. L'unico uomo armato a non combattere era Romeo, che non riusciva a staccarsi da Giulietta. Per un po' i soldati di Giannozza furono in grado di difendere la loro posizione uccidendo tutti quelli che entravano nella stanza. La porta era così stretta da far passare un solo nemico alla volta, quindi ogni nuova guardia che entrava veniva assalita da sette spade impugnate da altrettanti uomini che non avevano trascorso la notte attaccati alla bottiglia. In uno spazio talmente circoscritto, pochi guerrieri determinati non erano così indifesi contro cento avversari come lo sarebbero stati in campo aperto. Ma non tutte le guardie dei Salimbeni erano degli imbecilli. Proprio quando gli uomini di Giannozza cominciavano a sperare che, forse, sarebbero sopravvissuti a quella nottata, si udì un forte rumore dal fondo della stanza che li distolse dalla difesa e li costrinse a girare su se stessi mentre un nugolo di guardie faceva irruzione attraverso un varco segreto. Con i nemici che li attaccavano dai due lati, gli uomini furono presto sopraffatti. Uno dopo l'altro, caddero a terra sconfitti - alcuni feriti, altri già morti - mentre l'intero ambiente veniva invaso dalle guardie. Anche allora, perse tutte le speranze, Romeo non si voltò per combattere. «Guardami!» supplicava Giulietta, troppo concentrato sul corpo di lei ormai senza vita, per difendere se stesso, «guard...» Un'alabarda
scagliata attraverso la stanza lo colpì proprio in mezzo alle scapole e Romeo crollò sul letto senza una parola, determinato anche nella morte a non lasciare sola la sua sposa. Mentre il suo corpo si afflosciava, l'anello con il sigillo dell'aquila gli rotolò via di mano, e Frate Lorenzo capì che l'ultimo desiderio di Romeo era stato quello di rimettere la fede al dito di sua moglie. Per tema che venisse confiscato da persone che mai avrebbero rispettato la sua destinazione, il monaco afferrò d'un balzo il sacro vincolo dal letto, ma venne tirato indietro con forza prima di averlo potuto mettere al dito di Giulietta. «Che cosa è successo in questa stanza, monaco scimunito?» domandò il capitano delle guardie. «Chi è quest'uomo e perché ha ucciso monna Giulietta?» «Quest'uomo», rispose Frate Lorenzo, troppo annichilito dal dolore per provare paura, «era il suo vero marito.» «Marito?» Il capitano afferrò il frate per il cappuccio del saio e cominciò a scuoterlo. «Sei uno sporco bugiardo! Ma...» scoprì i denti in un sogghigno, «abbiamo il sistema per porre rimedio a questo problema.» Quella stessa notte, mastro Ambrogio vide tutto con i suoi occhi. Proprio mentre passava davanti a Palazzo Salimbeni, un carro arrivò dalla Rocca di Tentennano e le guardie non persero tempo a deporre il misero carico ai piedi del loro padrone, davanti ai gradini di casa. Per primo apparve Frate Lorenzo, ammanettato e bendato, e a malapena in grado di scendere dal carro da solo. A giudicare dal modo brutale con cui veniva spinto nel palazzo, era chiaro che lo stavano portando direttamente nella camera della tortura. Poi fu la volta dei corpi di Romeo, di Giulietta e di Nino... tutti e tre avvolti in uno stesso drappo insanguinato. Più tardi ci fu chi disse che Salimbeni aveva guardato il cadavere del figlio senza tradire la minima emozione, ma mastro Ambrogio non si fece ingannare dall'apparente indifferenza che aveva manifestato. Ecco il risultato delle mie malefatte, non poteva che
pensare Salimbeni. Dio l'aveva punito restituendogli un figlio massacrato come un agnello sacrificale e cosparso del sangue delle due persone che aveva cercato di separare e annientare contro il volere del Cielo. Di sicuro, in quel momento il vecchio Salimbeni capì di essere destinato all'inferno e che i demoni non gli avrebbero dato tregua, ovunque andasse o quanto a lungo ancora vivesse. Quando a notte fonda tornò in bottega, mastro Ambrogio era ben consapevole che i soldati di Salimbeni avrebbero potuto bussare alla sua porta da un momento all'altro. Se quanto si diceva sui loro metodi di tortura era vero, il povero Lorenzo probabilmente avrebbe spifferato tutto quello che sapeva - e anche quello che non sapeva - prima di mezzanotte. Davvero avrebbero avuto il coraggio di venire a prendere anche me? si domandava il Maestro. Dopotutto, era un famoso artista con numerosi protettori fra la nobiltà. Ma non si poteva mai dire. Di una cosa sola era sicuro: fuggire o nascondersi non avrebbero che confermato la sua colpevolezza. E, da fuggitivo, non avrebbe mai più potuto fare ritorno nella città che amava sopra ogni altra. E così il pittore si guardò intorno alla ricerca di elementi che avrebbero potuto incriminarlo, come il ritratto di Giulietta, o il diario, che giaceva aperto sul tavolo. Dopo aver vergato un ultimo paragrafo - poche righe confuse su quello che aveva appena visto prese il taccuino e il ritratto, li avvolse entrambi in una stoffa e li infilò in una scatola a tenuta stagna. Poi mise la scatola in una cavità segreta nel muro in cui, di certo, nessuno avrebbe mai potuto trovarla.
PARTE SESTA
Capitolo 1 Posso andare avanti, se il mio cuore è qui? Toma indietro, o mia instabile terra, e trova il tuo centro. JANICE non aveva mentito quando aveva detto di essere una brava scalatrice. Per qualche ragione, non avevo mai dato molto credito alle cartoline che inviava da luoghi esotici. Salvo quando parlavano di festini e di stravizi. Preferivo pensarla semisvenuta in preda ai fumi dell'alcol in un motel messicano, piuttosto che a fare snorkeling lungo la barriera corallina in acque così trasparenti - come aveva scritto una volta a zia Rose, non a me - che entrandovi da peccatrice ne uscivi come Eva in paradiso, prima di incontrare quel vizioso di Adamo. In piedi sul balcone, la guardavo mentre ce la metteva tutta per issarsi fino a me, e mi meravigliai di come avessi aspettato con ansia il suo ritorno. Sì, perché dopo aver percorso in lungo e in largo la mia stanza per almeno un'ora, ero giunta alla deprimente conclusione che senza di lei non ce l'avrei fatta. Era sempre stato così. Tutte le volte che da bambina parlavo di un mio problema con zia Rose, lei ci ragionava sopra a più non posso senza mai arrivare a una soluzione. E io mi sentivo peggio di prima. Quando un compagno di scuola faceva il bullo con me, la zia chiamava il preside e tutti gli insegnanti pretendendo che i genitori ne fossero informati. Janice, per contro, se avesse sentito la nostra conversazione, si sarebbe limitata a fare spallucce. «Il tipetto deve avere un debole per lei. Gli passerà. Cosa c'è per cena?» E aveva sempre ragione lei, anche se mi bruciava ammetterlo. Con tutta probabilità aveva ragione pure adesso. Non che mi fossero particolarmente piaciuti i suoi commenti salaci su Alessandro ed Eva Maria ma, d'altro canto, qualcuno doveva pur farli. Senza contare che io ormai mi trovavo in mezzo a un conflitto d'interessi.
Con il fiato corto per lo sforzo di rimanere illesa, Janice afferrò veloce la mano che le porgevo e fece passare una gamba sopra la ringhiera. «Che goduria scalare un balcone!» ansimò, mentre si schiantava come un sacco di patate dalla mia parte. «Perché non hai usato le scale?» le chiesi mentre era ancora distesa per terra boccheggiante. «Molto spiritosa!» mi rimbeccò. «Considerando che lì fuori c'è un assassino pronto a farmi la pelle!» «Dai! Se Umberto avesse voluto torcerci il collo l'avrebbe fatto parecchio tempo fa.» «Non si può mai dire quando a questa gente viene il ghiribizzo!» Janice si alzò in piedi spolverandosi gli abiti. «Specie ora che abbiamo il cofanetto della mamma. Dico che dobbiamo filarcela...» Solo in quel momento, sollevando lo sguardo, si accorse che avevo gli occhi rossi e pesti. «Cristo Santo, Jules!» esclamò. «Che c'è?» «Niente», dissi con noncuranza. «Ho appena finito di leggere di Romeo e Giulietta. Mi spiace rovinarti il finale, ma non c'è nessun e vissero felici e contenti. Nino tenta di sedurla - o meglio di violentarla - e lei si uccide con un sonnifero poco prima che Romeo si fiondi a salvarla.» «Cosa diavolo t'aspettavi?» Janice andò a lavarsi le mani. «I tipi come i Salimbeni non cambiano. Neanche in un milione di anni. Ce l'hanno scritto nel DNA: malvagi e sorridenti. Nino... Alessandro... tutti fatti della stessa pasta. O li ammazzi tu o lasci che ti ammazzino loro.» «Eva Maria non è così...» iniziai, ma mia sorella non mi lasciò finire. «Oh, davvero?» la sentii sogghignare dal bagno. «Allora permetti che ti chiarisca le idee. Eva Maria ti ha manipolata fin dal primo giorno. Davvero pensi che fosse sul tuo stesso aereo per caso?» «Non essere ridicola!» sbuffai. «Nessuno sapeva che sarei arrivata con quell'aereo eccetto...» mi interruppi. «Appunto!» Si lanciò da una parte l'asciugamano e si lasciò cadere sul letto. «Lei e Umberto stanno chiaramente lavorando insieme.
Non mi sorprenderei se fossero fratello e sorella È così che opera la mafia, sai. È tutta una questione di famiglia, di scambi di favori e di proteggersi il culo a vicenda... non che mi dispiacerebbe proteggere il culo di Alessandro, solo che farei volentieri a meno di finire sepolta sotto il pavimento.» «Oh, ma perché non ci dai un taglio?» «Non ci penso proprio!» Janice era partita per la tangente, i piedi per aria. «Il cugino Peppo mi ha detto che il marito di Eva Maria, il Salimbeni, era un bastardo di prim'ordine. Faceva di certo parte di qualche gang con tanto di limousine e brutti ceffi in doppiopetto gessato, come nella migliore tradizione. Alcuni pensano che Eva Maria si sia sbarazzata dell'attempato maritino per prendere in mano il business e vivere di rendita. E naturalmente il tuo amato cavalier servente non è altri che il suo scagnozzo di fiducia, se non addirittura il suo gingillino amoroso. E adesso - sorpresa! - te l'ha messo alle calcagna! E il quesito è: lui continuerà a scodinzolare per lei o per te? Potrà la vergitariana strappare il playboy dalla cattiva strada o sarà l'infida madrina a vincere e a riprendersi i gioielli di famiglia prima che tu ci metta sopra le manine?» Mi limitai a guardarla. «Hai finito?» Janice ci mise qualche istante per riprendersi dal suo viaggio in solitario nel regno della fantasia. «Assolutamente. Qui non ci rimango. E tu?» «Oh, accidenti!» Mi sedetti accanto a lei, di colpo esausta. «La mamma ha cercato di lasciarci un tesoro. E abbiamo incasinato tutto. Ho incasinato tutto. Non pensi che sia mio dovere rimettere le cose a posto?» «Da come la vedo io, il nostro unico dovere nei riguardi della mamma è di rimanere vive.» Janice fece dondolare un mazzo di chiavi davanti ai miei occhi. «Andiamo a casa.» «Che cosa sono?» «Le chiavi della vecchia casa della mamma. È stato Peppo a darmele, e a raccontarmi ogni cosa. È a Montepulciano, un posto a sud-est da qua. La casa è rimasta vuota per tutti questi anni.» Mi guardò cauta e speranzosa. «Si va assieme?»
La fissai, esterrefatta che me l'avesse chiesto. «Davvero vuoi che venga con te?» Janice si mise seduta. «Jules», disse insolitamente seria, «voglio davvero che ci andiamo insieme. Non si tratta solo di una statua e di alcune pietre preziose. In questa storia c'è qualcosa di sinistro. Peppo mi ha parlato di una società segreta che crede che la nostra famiglia sia ancora perseguitata da una maledizione. Una maledizione che vogliono spezzare. E indovina chi c'è a capo di questa pagliacciata? Sì, proprio la tua bella malavitosa. Queste sono le medesime diavolerie in cui s'era cacciata la mamma... pratiche con rituali di sangue per evocare gli spiriti dei morti e via discorrendo. E scusami se non ho voglia di farne parte.» Mi alzai e mi diressi verso la finestra, dove ebbi un soprassalto nel vedermi riflessa. «Eva Maria mi ha invitato a una festa. A casa sua in Val d'Orcia.» Dato che Janice non faceva commenti, mi voltai per vedere cosa stesse succedendo. Si era ridistesa sul letto e si teneva la testa tra le mani. «Che Dio ci aiuti!» gemette. «Non posso crederci! Fammi indovinare: ci sarà pure il picciotto?» «Dai, Jan! Non vuoi anche tu venirne a capo? Io sì!» «Eccome se ne verrai a capo!» Janice saltò su dal letto e cominciò a camminare avanti e indietro per la camera, con i pugni serrati. «Ti troverai con capo e piedi seppelliti nel cemento, questo è poco ma sicuro. E con il cuore spezzato. Giuro su Dio che se ci vai e finisci stecchita come tutti i nostri antenati sotterrati sotto l'androne di Eva Maria... io non ti rivolgerò mai più la parola!» Si fermò a guardarmi, furiosa. Non potevo crederci. Questa non era la Janice che conoscevo. Alla Janice che conoscevo non importava un fico secco delle mie azioni, o del mio destino, salvo sperare che fallissi miseramente in tutto. E immaginarmi con i piedi nel cemento l'avrebbe fatta piegare in due dalle risate, non mordersi le labbra come se fosse sul punto di piangere. «Okay», aggiunse più calma, visto che non rispondevo, «vacci, e fatti ammazzare in qualche... rituale satanico. Per quel che me ne importa.»
«Non ho detto che sarei andata.» Si rilassò un pelo. «Oh! Allora in questo caso penso sia giunto il momento che ci facciamo un bel gelato.» Trascorremmo buona parte del pomeriggio ad abbuffarci di gelati dai gusti inediti alla Gelateria Nannini, convenientemente situata in piazza Salimbeni. Non avevamo ancora fatto pace ma almeno su due cose ci eravamo dichiarate d'accordo: sapevamo troppo poco di Alessandro per stare tranquille sulla mia gita in Val d'Orcia, e tutto considerato il gelato era meglio del sesso. «Su quest'ultimo punto, devi credermi sulla parola», aveva detto Janice strizzandomi l'occhio per tirarmi su di morale. Malgrado tutti i suoi difetti, mia sorella era sempre stata molto determinata, e infatti fu lei a fare da sentinella per più di un'ora, mentre io me ne restavo rannicchiata al tavolino più appartato per timore di venire scoperta. All'improvviso Janice mi tirò su. Non disse nulla, non era necessario. Attraverso la porta a vetri scorgemmo Alessandro che attraversava piazza Salimbeni e continuava a piedi in via Banchi di Sopra. «Sta andando in centro!» osservò Janice. «Lo sapevo! Tipi così non vivono in periferia. O forse...» mi guardò in tralice, «sta andando a trovare l'amante.» Allungammo entrambe il collo per vedere meglio, ma Alessandro era già sparito. «Accidenti!» Schizzammo fuori dalla gelateria e ci incamminammo veloci per la stessa strada cercando di non attirare troppo l'attenzione, cosa non facile quando si era in compagnia di Janice. «Ferma!» L'afferrai per il braccio per farla rallentare. «Lo vedo! È proprio... aha!» Alessandro si era appena fermato e noi ci riparammo in un portone. «Cosa sta facendo?» sussurrai, troppo preoccupata di farmi scoprire per verificare da sola. «Sta parlando con un tizio», disse Janice sporgendosi. «Un tizio con uno stendardo giallo. Cos'è questa mania dello stendardo? Tutti sembrano averne uno...»
Alcuni secondi più tardi, eravamo di nuovo all'inseguimento, acquattandoci contro le vetrine e negli androni per evitare di essere viste. Rimanemmo sulle tracce della nostra preda per tutto il percorso, attraverso il Campo e in direzione di piazza Postierla. Alessandro si era già fermato diverse volte a salutare le persone che incrociava e, man mano che la strada si inerpicava, anche il numero di amici saliva. «Insomma!» esclamò Janice quando Alessandro fece un'ennesima sosta per rivolgere qualche smanceria a un bebè in carrozzina. «Intende candidarsi a sindaco o qualcosa del genere?» «Si chiama interrelazionarsi con gli esseri umani», borbottai. «Dovresti provarci anche tu, di tanto in tanto.» Janice sbuffò. «Ma sentila, la gran dama di società!» Stavo per confezionare una rispostaccia quando ci accorgemmo che il nostro bersaglio era sparito. «Oh no!» ansimò Janice. «Dov'è andato a finire?» Ci affrettammo nella direzione che avevamo seguito fino a qualche attimo prima - eravamo praticamente di fronte alla strada del parrucchiere Luigi - e lì scoprimmo l'accesso a quello che doveva essere il vicolo più scuro e minuscolo di tutta Siena. «Riesci a vederlo?» sussurrai nascosta dietro Janice. «No, ma non può essere finito da nessun'altra parte.» Mi prese per mano e mi trascinò con sé. «Vieni!» Mentre avanzavamo in punta di piedi lungo il vicolo coperto, non potei fare a meno di mettermi a ridacchiare. Eccoci a muoverci furtive mano nella mano come facevamo da piccole. Janice mi lanciò un'occhiataccia per zittirmi, ma quando vide l'espressione che avevo sul viso cominciò anche lei a ridere. «Non posso credere a quello che stiamo facendo!» bisbigliai. «Imbarazzante!» Poiché il vicolo terminava con una stretta curva a destra, rimanemmo un attimo sull'angolo ad ascoltare i passi che si allontanavano. Janice sporse addirittura il capo per valutare la situazione, ma subito si ritrasse.
«Ti ha vista?» mormorai. Janice inspirò a fondo. «Vieni!» Mi afferrò per un braccio e mi trascinò oltre l'angolo prima che potessi protestare. Per fortuna Alessandro non si vedeva più. Trotterellavamo silenziose, quando ci accorgemmo della presenza di alcune persone che accudivano a un cavallo all'estremità del vicoletto. «Ferma!» Spinsi Janice contro il muro sperando che nessuno si fosse accorto di noi. «Pessima idea. Queste persone...» «Cosa stai facendo?» Janice si scollò dal muro e continuò in direzione del cavallo e di chi si curava di lui. Non sapendo che altro fare, le corsi dietro e la presi per un braccio per bloccarla. «Sei matta?» sibilai. «Quello deve essere un cavallo del Palio e a questa gente non piace che i turisti ficchino il naso...» «Oh! Non sono una turista», disse mia sorella staccando la sua mano dalla mia e riprendendo ad avanzare. «Sono una giornalista.» «No! Jan! Fermati!» Mentre proseguiva la sua marcia verso i guardiani del cavallo, mi sentii invadere da un senso di ammirazione misto al desiderio di ucciderla. L'ultima volta che mi ero sentita così era stato al liceo quando Janice, di sua iniziativa, aveva telefonato a un nostro compagno di classe semplicemente perché avevo detto che lui mi piaceva. Proprio in quel momento qualcuno spalancò le persiane sopra di noi e, appena mi accorsi che si trattava di Alessandro, tornai d'un balzo contro al muro tirandomi dietro Janice. L'idea che avesse potuto vederci gironzolare nel suo quartiere come delle stupide adolescenti innamorate mi terrorizzava. «Non guardare!» sibilai, ancora fuori di me per il rischio corso. «Penso che abiti lì sopra, al terzo piano. Missione compiuta. Caso chiuso. È ora di girare i tacchi.» «Che cosa vorresti dire con missione compiuta?» Con gli occhi che le sfavillavano, si sporse a guardare la finestra di Alessandro. «Siamo venute fin qui per capire cosa sta combinando. Ragion per cui non ci muoviamo.» Provò a forzare la porta più vicina e, quando questa si
aprì senza problemi, ci si infilò dentro. «Seguimi!» «Ma sei fuori?» Diedi un'occhiata nervosa agli uomini. Ci stavano tutti fissando e di certo si domandavano cosa stessimo combinando. «Non ho nessuna intenzione di entrare! È casa sua!» «Nessun problema», concluse Janice, impassibile. «Resta qua in giro. Sono sicura che a loro non importa.» Scoprimmo che non c'era alcun ingresso, né una scalinata. Mentre seguivo Janice nella semioscurità, avevo temuto che volesse precedermi di corsa fino al terzo piano per prendere a calci la porta di Alessandro e subissarlo di domande. Ma vedendo che non c'erano scale, mi rilassai. In fondo al lungo corridoio si intravedeva una porta semiaperta. Allungammo il collo per controllare cosa ci fosse dall'altra parte. «Stendardi!» osservò Janice, chiaramente delusa. «Altri stendardi. Qui qualcuno ha la fissa per gli stendardi. E gli uccelli.» «È un museo», dissi nello scorgere alcuni cenci appesi alle pareti. «Il museo della contrada, proprio come quello di Peppo. Mi domando...» «Interessante!» Janice spalancò la porta prima che potessi protestare. «Vediamo un po'. Ti sono sempre piaciute le vecchie carabattole impolverate.» «No! Per favore, fermati!» Cercai di trattenerla ma lei si liberò dalla mia presa e avanzò con passo sicuro nel locale. «Dai, Jan, vieni anche tu!» «Che razza di uomo vive in un museo?» mormorò mentre osservava i pezzi in mostra. «Fa venire i brividi.» «Non in un museo», la corressi, «sopra un museo. E poi non è che qua ci tengano delle mummie.» «E come fai a saperlo?» Giusto per controllare, alzò la celata dell'elmo di un'armatura. «Forse ci sono mummie di cavalli. Forse è qui che tengono i segreti rituali di sangue quando evocano lo spirito dei morti.»
«Come no!» La fulminai con lo sguardo da dietro la porta. «Grazie per tutte le informazioni che hai raccolto quando ne avevi l'opportunità.» «Ehi!» protestò. «Peppo non ne sapeva più di tanto, va bene?» Rimasi dov'ero a guardarla mentre si aggirava in punta di piedi fingendo di essere interessata alla mostra. Lo sapevamo tutte e due che lo faceva solo per farmi uscire dai gangheri. «Okay», dissi infine, «hai visto abbastanza stendardi?» Invece di rispondere, varcò una porta che conduceva a un'altra stanza, lasciandomi indietro. Mi ci volle un po' per trovarla. Stava percorrendo una piccola cappella con un altare coperto di ceri accesi e, alle pareti, stupendi dipinti a olio. «Mamma mia», esclamò quando la raggiunsi. «Che ne diresti di una stanza così come soggiorno? Cosa ci fanno qui?» «Lascia perdere! Ti spiace se adesso ce ne andiamo?» Ma prima che potesse rispondermi a tono, sentimmo dei passi. Prese dal panico, quasi inciampammo l'una nei piedi dell'altra, prima di filarcela dalla cappella alla ricerca di un nascondiglio nella stanza adiacente. «Qui!» Trascinai Janice in un angolo nascosto da una vetrinetta piena di berretti da fantino consunti. Cinque secondi più tardi una donna anziana ci oltrepassò portando sulle braccia una pila di panni gialli ripiegati. La seguiva, con le mani in tasca, un ragazzino di circa otto anni dall'aria corrucciata. Mentre la donna attraversava la stanza con passo deciso, il ragazzino, purtroppo, si fermò a pochi metri da noi per guardare delle spade antiche appese al muro. Janice fece una smorfia di disappunto ma nessuna delle due ebbe il coraggio di spostarsi di un millimetro, e tanto meno di proferire verbo, mentre ci rannicchiavamo nell'ombra come i cattivi dei fumetti. Per nostra fortuna il ragazzino era troppo assorto nella sua marachella per prestare attenzione ad alcunché. Dopo essersi assicurato che sua nonna fosse fuori portata, si alzò in punta di piedi per rimuovere uno stocco dal suo gancio nel muro e assumere un paio di posizioni di scherma che non erano neppure male. Era così concentrato nel suo duello proibito che non udì che qualcun altro stava entrando nella stanza fino a quando non fu troppo tardi.
«No-no-no!» lo rimproverò Alessandro togliendogli lo stocco di mano. Ma invece di rimettere l'arma sul muro, come ogni adulto responsabile avrebbe dovuto fare, gli mostrò semplicemente la posizione corretta e gli riconsegnò lo stocco. «Tocca a te!» L'arma andò avanti e indietro diverse volte finché Alessandro prese un secondo stocco dal muro e sfidò per gioco il ragazzino in un combattimento che si concluse solo quando nell'aria riecheggiò il richiamo impaziente della nonna: «Enrico? Dove sei?» Le armi tornarono in un battibaleno al loro posto e, nell'attimo in cui la donna si materializzò sulla soglia, sia Alessandro sia il ragazzino se ne stavano tranquilli e innocenti con le mani dietro la schiena. «Ah», esclamò l'anziana, talmente felice di vedere Alessandro che lo baciò su entrambe le guance. «Romeo!» Disse molte altre cose ancora ma non le sentii. Se in quel momento Janice e io non fossimo state così appiccicate, sarei di certo caduta a terra tanto le mie gambe s'erano fatte di semolino. Alessandro era Romeo. Certo che era Romeo! Come avevo fatto a non capirlo? Non mi trovavo forse nel Museo dell'Aquila? Non avevo visto la verità nello sguardo di Malèna...? E nel suo? «Cristo Santo, Jules!» mi fece Janice a gesti. «Ripigliati!» Ma non c'era rimasto nulla per potermi ripigliare. Tutto quello che pensavo di aver capito di Alessandro mi roteava in testa come i numeri di una roulette. Nonostante le numerose conversazioni avute con lui, io avevo puntato tutto sul colore sbagliato. Non era Paride, non era Salimbeni, non era neppure Nino. Era sempre stato Romeo. Non il Romeo con la maschera che si imbucava alle feste, ma Romeo l'esule, messo al bando tanto tempo prima dai pettegolezzi e dalla superstizione e che per questo aveva speso tutta la vita a cercare di essere qualcun altro. Romeo, aveva raccontato Alessandro, era il suo rivale: possedeva delle mani malvagie, e la gente avrebbe voluto vederlo morto. Romeo non era l'uomo che pensavo di conoscere e che avrebbe fatto l'amore con me a rime baciate. Eppure Romeo era anche l'uomo che a tarda notte andava nella bottega di mastro Lippi a bere un bicchiere di
vino e a contemplare il ritratto di Giulietta Tolomei. Questo, per me, era assai più significativo di qualsiasi sublime composizione poetica. Ma perché non mi aveva mai detto la verità? Gli avevo chiesto di Romeo in continuazione e tutte le volte che aveva risposto era stato come se parlasse di qualcun altro. Qualcuno che avrei fatto meglio a non incontrare. All'improvviso mi venne in mente quando Alessandro mi aveva mostrato il proiettile che portava al collo, e quando Peppo, dal suo letto d'ospedale, mi aveva riferito che tutti pensavano che Romeo fosse morto. Rammentai l'espressione di Alessandro quando mio cugino aveva menzionato che Romeo era nato al di fuori del matrimonio. Fu allora che capii la sua rabbia nei confronti dei miei parenti Tolomei che - ignari della sua identità - si erano tanto divertiti a trattarlo come un Salimbeni, cioè come un nemico. Proprio come avevo fatto io. Quando alla fine tutti uscirono dalla stanza - la nonna ed Enrico in una direzione, Alessandro in un'altra - Janice mi afferrò per le spalle con aria sconvolta. «Ti dispiacerebbe darti una calmata?» Era chiedere troppo. «Romeo!» bofonchiai, prendendomi la testa tra le mani. «Come fa a essere Romeo? Che razza d'idiota sono!» «Certo che lo sei, ma non è una novità.» Janice non era dell'umore di fare la carina. «Non sappiamo se è Romeo. Quel Romeo. Forse è solo il suo secondo nome. Romeo deve essere un nome frequente in Italia. E anche se dovesse essere quel Romeo... le cose non cambiano. È ancora in combutta con i Salimbeni! E ha devastato la tua dannata camera d'albergo!» Deglutii. «Non mi sento molto bene.» «Fantastico, allora filiamocela.» Janice mi tirò con sé verso quella che riteneva essere l'entrata principale del museo. Invece ci ritrovammo in una zona della mostra che non avevamo visto prima. Si trattava di una stanza scarsamente illuminata, con una serie di antichi cenci a brandelli conservati in bacheche di vetro. Il posto aveva l'aria di un reliquario ancestrale e, in un angolo, si intravedevano dei ripidi scalini di pietra brunita che conducevano
nel sottosuolo. «Cosa c'è là sotto?» sussurrò Janice allungandosi per vedere. «Lascia perdere!» ribattei brusca, avendo recuperato un po' di energia. «Non ho intenzione di farmi intrappolare in qualche prigione sotterranea!» Ma la dea Fortuna evidentemente voleva favorire l'audacia di Janice a scapito della mia fifa, perché all'improvviso udimmo delle voci che si avvicinavano e quasi precipitammo giù dagli scalini per la fretta di nasconderci. Ansimando per la paura di essere scoperte, ci acquattammo in fondo alla scala mentre le voci si facevano sempre più vicine e i passi si arrestavano proprio sopra di noi. «Oh no!» sussurrai prima che Janice mi tappasse la bocca con la mano. «È lui!» Ci guardammo con gli occhi sbarrati. A quel punto - in fin dei conti ci eravamo introdotte abusivamente nello scantinato di Alessandro - anche Janice non sembrava entusiasta all'idea di uno scambio di vedute con il padrone di casa. In quel momento si accesero tutte le luci del locale e capimmo che Alessandro si accingeva a scendere le scale, per fermarsi quasi subito a salutare un nuovo arrivato. «Ciao, Alessio, come stai?» Janice e io ci fissammo, fin troppo consapevoli che il confronto era stato posticipato, ma solo di pochi minuti. Dopo aver scandagliato freneticamente la stanza per valutare le nostre opzioni, dovemmo prendere atto che eravamo intrappolate, proprio come avevo previsto. A parte tre cunicoli neri che si aprivano nel muro - non potevano essere che gli ingressi ai Bottini non c'era altro modo di uscire se non risalire le scale e farci vedere da Alessandro. Ed era impossibile entrare nei cunicoli perché grosse grate di ferro ne ostruivano gli accessi. Ma mai dire mai, con una Tolomei. Sconvolte dall'idea di essere in trappola, ci alzammo e iniziammo a esaminare le grate con mani febbrili. Io cercavo soprattutto di capire se sarebbe stato possibile passarci attraverso con la sola forza bruta. Janice invece si stava dando da fare alacremente con cardini e bulloni, incapace di credere che quelle strutture non potessero in qualche modo essere forzate. Per lei ogni muro aveva una porta e ogni porta aveva una chiave. Si
trattava soltanto di trovarla. «Psst!» Tutta eccitata mi indicò che la terza e ultima inferriata poteva effettivamente aprirsi, proprio come una porta, e senza neppure un cigolio. «Vieni!» Avanzammo nel tunnel fintanto che la luce ce lo permetteva. Poi facemmo ancora alcuni passettini cauti nel buio più assoluto, fino a fermarci del tutto. «Se avessimo una torcia...» cominciò Janice. «Oh, merdai» Quasi ci prendemmo una capocciata reciproca quando d'un tratto un raggio di luce scese lungo tutta la galleria per fermarsi a pochi centimetri da noi e poi ritirarsi come un'ondata che torni in mare dopo aver lambito la spiaggia. A tentoni avanzammo ulteriormente nel tunnel finché non trovammo una specie di nicchia abbastanza grande da inghiottirci entrambe. «Sta arrivando? Sta arrivando?» sussurrò Janice che, incastrata dietro di me, non poteva vedere. «È lui?» Velocemente sporsi il capo e altrettanto velocemente lo ritrassi. «Sì, sì e ancora sì!» Era difficile riuscire a vedere qualcos'altro oltre il potente raggio della torcia che andava su e giù. Ma a un certo punto, quando osai guardare di nuovo, il cono di luce si era stabilizzato. Era proprio Alessandro, o meglio una qualche versione di Romeo. Da quel che ne capivo, stringendo la torcia ben salda sotto un braccio, si era fermato a togliere il lucchetto da una porticina nella parete del tunnel. «Che cosa sta facendo?» volle sapere Janice. «Sembra una specie di cassaforte... Sta tirando fuori qualcosa. Una scatola.» Janice mi artigliò il braccio tutta eccitata. «Forse è il cencio!» Controllai ancora. «No, troppo piccola. Forse è una scatola di sigari.» «Me lo aspettavo! Un fumatore!» Fissai Alessandro con attenzione mentre richiudeva la cassaforte e tornava sui suoi passi, con la scatola, in direzione del museo. Alcuni secondi dopo la grata di ferro venne sprangata con un tonfo che si
riverberò lungo i Bottini - e fino alle nostre orecchie - molto, troppo a lungo. «Oh no!» esclamò Janice. «Non dirmelo...» feci io, girandomi verso di lei con la speranza di vedere la scritta no problem nei suoi occhi. Pur nella totale oscurità, quello che ci vidi fu invece il panico. «Ecco, mi stavo appunto domandando perché prima non fosse sprangata...» disse, sulla difensiva. «Ma questo non ti ha fermata, giusto?» strillai. «E adesso siamo in trappola!» «Dov'è il tuo senso dell'avventura?» Janice tentava sempre di fare di necessità virtù ma questa volta non riuscì a essere convincente neppure con se stessa. «Fantastico! Ho sempre voluto fare la speleologa. Da qualche parte dovrà pur andare a finire 'sto tunnel, no?» Decise di tirarsi su di morale punzecchiandomi: «O la tenera Giulietta preferirebbe essere portata in salvo dal suo Romeo?» Umberto ci aveva parlato delle catacombe romane una volta che avevamo tormentato zia Rose per un'intera serata con domande sull'Italia e sul perché non potessimo andarci. Dopo aver consegnato a entrambe uno strofinaccio affinché ci rendessimo utili mentre lui trafficava nel lavandino, Umberto ci aveva spiegato che i primi cristiani si riunivano in caverne sotterranee segrete per fare la comunione senza che nessuno li vedesse e riferisse all'imperatore pagano. Avevano anche sfidato la tradizione romana della cremazione avvolgendo i loro morti in sudari prima di portarli giù nelle catacombe, dove avrebbero deposto i corpi su dei ripiani scavati nella roccia e poi celebrato un rito funerario nella speranza della resurrezione. Se davvero eravamo così desiderose di andare in Italia, aveva concluso Umberto, sarebbe stata sua premura portarci subito a visitare le catacombe per farci vedere tutti quegli interessantissimi scheletri. Mentre Janice e io avanzavamo lungo i Bottini, inciampando nel buio e facendo da apripista a turno, tutte le spaventevoli storie
umbertesche mi tornarono alla mente come appena raccontate. Eccoci qui - come gli antichi cristiani - a strisciare sottoterra per evitare di essere catturate e - proprio come loro - anche noi non sapevamo se e quando saremmo riemerse in superficie. Ci aiutava un poco l'accendino che Janice utilizzava per la sua sigaretta settimanale. Ogni venti passi o giù di lì lo facevamo scattare per un paio di secondi, giusto per accertarci che non stessimo per precipitare in una voragine senza fondo o, come Janice a un certo punto paventò quando il cunicolo si fece di colpo scivoloso, andare a sbattere contro una gigantesca ragnatela. «Gli aracnidi sono l'ultimo dei nostri pensieri», le dissi, togliendole l'accendino di mano. «Risparmia il gas. Potremmo dover passare la notte qua sotto.» Camminammo per un po' in silenzio - io davanti e lei dietro a borbottare che ai ragni piace l'umido - fino a quando urtai contro una pietra sporgente e caddi distesa sulla pavimentazione sconnessa, picchiando ginocchia e polsi così malamente che avrei urlato se non fossi stata ansiosa di recuperare l'accendino. «Stai bene?» chiese Janice con la voce che le tremava dalla paura. «Puoi camminare? Non penso che riuscirei a portarti.» «Tutto okay!» bofonchiai annusandomi le dita coperte di sangue. «Tocca a te andare prima...» Le piazzai con fatica l'accendino tra le mani. «In bocca al lupo.» Con lei alla guida, ebbi il tempo di esaminarmi le ferite - sia fisiche sia morali - mentre ci inoltravamo nell'ignoto. Avevo le ginocchia più o meno a brandelli, ma era niente se paragonato al mio spirito in subbuglio. «Jan?» Senza fermarmi le toccai la schiena con un dito. «Pensi che non mi ha detto di essere Romeo perché voleva che mi innamorassi di lui per le ragioni giuste e non solo per il nome?» Lei mi rispose con uno sbuffo insofferente e non potei biasimarla. «Okay...» continuai, «forse non mi ha detto che era Romeo perché non voleva che una pallosa vergitariana gli scombussolasse la vita?» «Jules!» Janice era talmente intenta a cercare la strada in
quell'oscurità piena di pericoli che non poteva sopportare le mie elucubrazioni. «La pianti di tormentare te e me? Non sappiamo neppure se è davvero Romeo. Comunque, anche se lo è, sappi che ho intenzione di prenderlo a calci per averti trattata così.» Malgrado il tono infuriato, mi sorpresi una volta di più che lei si preoccupasse dei miei sentimenti. Cominciai a domandarmi se fosse una cosa nuova o semplicemente qualcosa che prima non avevo mai notato. «Il punto è che non ha mai detto veramente di essere un Salimbeni», proseguii, «sono sempre stata io... Ops...!» Per poco non cadevo di nuovo e dovetti abbarbicarmi a Janice per non perdere l'equilibrio. «Fammi indovinare, non ti ha nemmeno mai raccontato niente dell'irruzione nel museo», disse lei, mentre faceva scattare l'accendino in modo che potessi vedere il suo sguardo furioso. «Quello è stato Bruno Carrera!» esclamai. «Agli ordini di Umberto!» «Oh no, piccola Giulietta», Janice cercò di fare il verso ad Alessandro senza riuscirci, «non sono stato io a rubare il cencio... Perché avrei dovuto farlo? Per me non è altro che un vecchio straccio. Ma lascia che sia io a prendermi cura del coltello, almeno non ti fai male. Come l'hai chiamato? ...pugnale?» «Non ha mai e poi mai fatto così», mormorai. «Cocca, lui ti ha mentito!» Fece scattare l'accendino e riprese a camminare. «Prima te lo ficchi nella testolina, meglio è. Dammi retta, al tipo non gliene potrebbe fregar meno di te. È tutta una messinscena per impadronirsi... ahia!» A giudicare dal suono, doveva aver sbattuto la testa contro qualcosa. «Cosa diavolo...» Janice riaccese l'accendino per controllare; dovette provarci tre o quattro volte prima di riuscirci. Ma quello che vide fu me in lacrime. Sconvolta da una vista così insolita, mi mise le braccia attorno alle spalle con fare impacciato ma affettuoso. «Mi spiace, Jules... voglio solo che non ti spezzino il cuore.» «Ma non dovevo non averlo, il cuore?»
«Insomma...» mi strinse con cautela, «sembra che te ne sia cresciuto uno, di recente. Peccato perché eri più divertente senza.» Dopo avermi dato un pizzicotto sul mento, alla fine riuscì a farmi sorridere e poté aggiungere, con generosità: «Però è colpa mia. Avrei dovuto aspettarmelo. Quello guida un'Alfa Romeo!» Se non ci fossimo fermate lì, mentre la debole fiammella dell'accendino si spegneva definitivamente, non avremmo potuto accorgerci di un cunicolo nel muro alla nostra destra. Era poco più largo di mezzo metro e, quando mi inginocchiai per infilarci la testa dentro, mi accorsi che proseguiva curvandosi verso l'alto per almeno una decina di metri - come il condotto d'aria in una piramide - per finire in uno spicchio di cielo. Mi parve addirittura di sentire il rumore del traffico. «Santo cielo!» esclamò Janice. «Siamo di nuovo in pista! Vai davanti tu. Prima i più anziani.» L'ansia e la frustrazione di avanzare nel buio del tunnel furono nulla rispetto alla claustrofobia che provai mentre mi inerpicavo a carponi nello stretto budello, raschiandomi gomiti e ginocchia già compromessi. Anche perché ogni volta che riuscivo faticosamente a salire di un passo, usando mani e piedi, poi scivolavo a ritroso perdendo terreno. «Forza, diamoci una mossa!» mi sollecitò da dietro Janice. «Allora perché non sei andata davanti tu? Sei tu la scalatrice provetta!» replicai furiosa. «Ecco...» Mise una mano sotto la suola del mio sandalo a tacco alto. «Prova a far leva.» Lentamente e dolorosamente riuscimmo a spingerci fino in cima al cunicolo. Benché nella parte terminale si allargasse alquanto - tanto che Janice mi sorpassò strisciando - era pur sempre un posto rivoltante. «Che schifo!» sbottò mia sorella nel vedere le porcherie che la gente aveva buttato attraverso la grata. «Questo cos'è... un cheeseburger?» «C'è il formaggio dentro?»
«Ehi, guarda!» Aveva sollevato qualcosa. «Un cellulare! Aspetta... No, scusa. Batteria defunta.» «Se hai finito con la spazzatura, possiamo proseguire?» Ci facemmo strada sui gomiti in mezzo a rifiuti troppo disgustosi da descrivere prima di raggiungere la grata che ci sovrastava separandoci dal resto del mondo. «Dove siamo?» chiese Janice premendo il naso contro la griglia di bronzo. Non si vedevano che gambe e piedi in movimento. «È una specie di piazza. Ma molto grande.» «Santa paletta!» esclamai, rendendomi conto di aver già visto quel posto numerose volte, anche se da angolature diverse. «È il Campo.» Provai a scuotere la grata. «Oh! È piuttosto solida.» «Hey?» Janice cercò di allungarsi per vedere meglio. «Potete sentirmi? C'è qualcuno in giro?» Alcuni secondi più tardi fece capolino un'adolescente attonita con una granita in mano e con le labbra dipinte di verde. «Ciao!» disse chinandosi verso di noi con il sorriso di chi si aspetta una candid camera. «Sono Antonella.» «Ciao Antonella», ribattei io cercando di allacciare il mio sguardo con il suo. «Siamo intrappolate qua sotto. Avresti voglia. .. di andare a cercare qualcuno che ci possa aiutare a uscire?» Venti imbarazzantissimi minuti più tardi, Antonella fece ritorno accompagnata da un paio di piedi nudi calzati da sandali. «Mastro Lippi?» Ero così stupefatta di vedere il mio amico pittore che quasi mi si strozzò la voce in gola. «Salve! Si ricorda di me? Ho dormito sul suo divano.» «Certo che mi ricordo di te!» mi rispose con un sorriso da un orecchio all'altro. «Come stai?» «Ehm... pensa che sarebbe possibile... spostare questo affare?» Agitai le dita attraverso la grata. «Siamo rimaste bloccate qua sotto. E... lei sarebbe mia sorella.» Mastro Lippi si mise in ginocchio per vederci meglio. «Voi due vi siete per caso cacciate in qualcosa in cui non dovevate cacciarvi?» Sorrisi tutta contrita. «Ho paura di sì.»
Il Maestro mi scrutò tutto serio. «Hai trovato la sua tomba? Le hai rubato gli occhi? Non ti avevo detto di lasciarli dov'erano?» «Non abbiamo fatto niente!» Diedi un'occhiata a Janice per assicurarmi che anche lei sembrasse innocente al punto giusto. «Siamo solo rimaste intrappolate. Pensa che in qualche modo...» colpii la grata con la mano e, di nuovo, la grata mi parve piuttosto resistente, «questa cosa si possa svitare?» «Naturalmente!» disse lui senza esitare. «Ne è sicuro?» «Certo che sono sicuro!» esclamò rialzandosi. «L'ho costruita io!» Quella sera cenammo a base di pasta primavera surgelata - ma con un rametto di rosmarino proveniente dal davanzale di mastro Lippi - e cerotti a gogò per le nostre ammaccature. Visto che condividevamo la tavola con opere d'arte e piante in vaso in vari stadi di agonia, c'era a malapena lo spazio per tre ma, anche così, il Maestro e Janice sembravano divertirsi un mondo. «Sei molto silenziosa», mi disse a un certo punto l'artista tra una risata e l'altra mentre ci rabboccava il bicchiere del vino. «Juliet ha avuto un piccolo faccia a faccia con Romeo», gli spiegò Janice al posto mio. «L'ha paragonata alla luna. Grosso sbaglio.» «Ah!» esclamò il Maestro, «la scorsa notte è stato qua. Sembrava triste. Adesso capisco perché.» «È stato qui la scorsa notte?» gli feci eco. «Sì. Ha detto che non somigli al ritratto. Sei molto più bella. E molto più - cos'è che ha detto? - oh, sì... più letale.» Il Maestro ridacchiò e alzò il bicchiere alla mia salute. «Non è che per caso le ha spiegato», chiesi senza poter evitare che la mia voce risuonasse stridula, «perché non mi ha rivelato subito di essere Romeo, invece di fare i suoi stupidi giochetti? Pensavo che fosse qualcun altro.» Mastro Lippi parve sorpreso. «Ma non l'hai riconosciuto?» «No!» Dallo sconforto mi presi la testa tra le mani. «Non l'ho
riconosciuto. E neppure lui mi ha riconosciuta, può starne certo!» «Che cosa ci può dire esattamente di questo tizio?» chiese Janice. «Quante persone sono al corrente che è Romeo?» «So solo che non vuole essere chiamato Romeo», rispose mastro Lippi. «Soltanto la sua famiglia lo chiama così. È un grosso segreto. Non so perché. Vuole che lo si chiami Alessandro Santini...» Ebbi un sussulto. «Lei ha sempre saputo il suo nome! Perché non me l'ha detto?» «Pensavo che tu fossi al corrente!» ribatté lui. «Sei Giulietta! Forse hai bisogno degli occhiali!» «Mi perdoni», disse Janice toccandosi un graffio sul braccio, «ma lei come sapeva che era Romeo?» Mastro Lippi sembrò disorientato. «Io... io...» Janice prese un altro cerotto. «Per favore non dica che l'ha conosciuto in una vita precedente.» «No», rispose l'artista gravemente. «L'ho riconosciuto da un affresco di Palazzo Pubblico. E poi ho visto l'Aquila dei Marescotti sul suo braccio...» Mi afferrò il polso destro e mi indicò la parte inferiore dell'avambraccio. «Proprio lì. Non te ne sei mai accorta?» Per alcuni secondi mi ritrovai nei sotterranei di Palazzo Salimbeni, cercando di ignorare i tatuaggi di Alessandro mentre discutevamo del fatto che qualcuno mi inseguiva. Anche allora mi ero resa conto che quei disegni - contrariamente ai ghirigori alla moda di cui anche Janice si era adornata - non erano semplici souvenir di soggiorni ad Amsterdam in preda ai fumi dell'alcol. Tuttavia, non mi era passato per la testa che fossero indizi sulla sua identità. Anzi, ero stata così indaffarata nella ricerca di attestati e antenati nel suo ufficio da non capire che Alessandro non era tipo da esibire le sue qualità in una cornice d'argento, visto che se le portava impresse sul corpo in un'altra forma. «Non è di occhiali che ha bisogno», intervenne Janice tutta divertita nel vedermi persa nei miei pensieri, «ma di un nuovo cervello.» «Non per cambiare argomento», intervenni prendendo la
borsetta, «ma le dispiacerebbe tradurre qualcosa per noi?» Porsi a mastro Lippi il testo in italiano che avevo trovato nel cofanetto di mia madre. Erano giorni che me lo portavo dietro nella speranza di imbattermi in un interprete disponibile. All'inizio ero stata tentata di chiederlo ad Alessandro ma poi qualcosa mi aveva trattenuto. «Penso che sia importante.» Il Maestro prese il testo ed esaminò il titolo e i primi paragrafi. «È un racconto», disse un po' sorpreso. «Si intitola La maledizione sul muro. È piuttosto lungo. Siete sicure di volerlo sentire?»
Capitolo 2 Peste alle vostre famiglie! Mi hanno ridotto cibo per vermi. Siena, 1370 LA MALEDIZIONE SUL MURO QUESTA è una storia che solo pochi conoscono poiché fu messa a tacere per via delle famiglie illustri coinvolte. La storia inizia con Santa Caterina, celebre fin da bambina per i suoi speciali poteri. Da ogni parte di Siena gente malata o sofferente andava da lei per farsi guarire con l'imposizione delle mani. Diventata adulta, Santa Caterina dedicò quasi tutto il suo tempo a prendersi cura degli infermi nell'ospedale accanto alla cattedrale della città, dove aveva a sua disposizione una celletta con un letto. Un giorno la santa venne convocata a Palazzo Salimbeni. Colà arrivata, vide che tutto il palazzo era in preda a una folle agitazione. Quattro sere prima, le dissero, aveva avuto luogo un grandioso matrimonio. La sposa era una Tolomei, la graziosa Mina, e lo sposo un figlio di Salimbeni. C'era stato un sontuoso ricevimento con le due famiglie riunite a mangiare, a cantare, e soprattutto a celebrare una pace duratura. Ma quando verso mezzanotte arrivò nella camera nuziale, lo sposo si accorse che la sposa non c'era. Allora chiese ai servi, ma nessuno l'aveva vista e iniziò a preoccuparsi. Cos'era mai successo alla sua Mina? Era fuggita? Era stata rapita dai nemici? Ma chi oserebbe fare una cosa del genere ai Tolomei e ai Salimbeni? Impossibile. Così lo sposo si mise a cercarla dappertutto, ai piani superiori, a quelli inferiori, interrogando i servi e le guardie. Tutti gli spiegarono che Mina non avrebbe potuto uscire dal palazzo senza
essere notata. Anche il suo cuore gli diceva che lei non era fuggita. Lo sposo era un ragazzo gentile e attraente. Lei non lo avrebbe mai lasciato. A quel punto il giovane Salimbeni dovette avvertire suo padre e il padre della moglie. Appresa la notizia, tutti si misero alla ricerca di Mina. Cercarono per ore, nelle camere da letto, in cucina, perfino negli alloggiamenti dei servi. Smisero soltanto al cantare delle allodole. Con il nuovo giorno, sentendo che in casa si parlava di fare la guerra a questo e a quello, prese la parola monna Cecilia, l'ava più anziana tra gli invitati. «Infelici signori, venite con me e troverò la vostra Mina. Perché in questa dimora c'è un posto dove non avete ancora cercato e il cuore mi dice che lei è là.» Monna Cecilia li condusse giù giù nei sotterranei, fin nelle antiche segrete di Palazzo Salimbeni, e fece vedere loro che le porte erano state aperte con il mazzo di chiavi consegnato alla sposa durante la cerimonia nuziale. Spiegò quello che già sapevano, che quelle erano le grotte dove nessuno metteva più piede da anni per paura dell'oscurità. Gli anziani di famiglia, sconvolti, fecero fatica a credere che alla nuova sposa fossero state consegnate anche le chiavi delle porte segrete. Man mano che scendevano si facevano tutti più inquieti e terrorizzati. Perché sapevano che il buio là sotto era totale e che molte cose accadute prima della peste nera era meglio dimenticarsele per sempre. Ma invece eccoli lì, in fila dietro a monna Cecilia, tutti quei grandi uomini attoniti con le torce in mano. Giunsero infine nel locale usato nei tempi passati per i supplizi. Lì monna Cecilia si arrestò, e si arrestarono anche gli altri, nel sentire che qualcuno stava piangendo. Senza esitazioni, lo sposo si fece avanti con la torcia. Quando la luce raggiunse l'angolo più remoto della cella, il giovane scorse la sua sposa accovacciata sul nudo suolo nella sua bella camicia da notte celeste. Mina stava tremando dal freddo ed era così terrorizzata che quando vide gli uomini si mise a urlare, non avendo riconosciuto nessuno, nemmeno suo padre. Subito la sollevarono da terra e la riportarono ai piani superiori, nella luce del giorno, dove l'avvolsero in indumenti caldi e le diedero acqua da bere e prelibatezze da mangiare. Ma Mina continuava a essere scossa da tremiti e spinse via tutti. Suo padre
cercò di parlarle ma lei volse la testa dall'altra parte per non vederlo. Infine il pover'uomo prese per le spalle sua figlia. «Non ti ricordi che sei la mia piccola Mina?» Ma lei lo scostò con un sogghigno e disse, con una voce che non era la sua, ma che arrivava dall'oltretomba: «No, non sono la tua Mina. Mi chiamo Lorenzo». Potete immaginare l'orrore che provarono le due famiglie quando si resero conto che Mina era uscita di senno. Le donne cominciarono a pregare la Vergine Maria, gli uomini iniziarono ad accusarsi l'un l'altro di essere stati dei pessimi padri e dei cattivi fratelli, e di averci messo troppo a trovare la fanciulla. L'unica a rimanere calma era l'anziana monna Cecilia. Si sedette accanto a Mina e le accarezzò i capelli cercando di farla parlare di nuovo. Ma Mina non cessò di dondolarsi avanti e indietro e non parlò fino al momento in cui monna Cecilia disse: «Lorenzo, mio caro Lorenzo, sono monna Cecilia. Lo so quello che ti hanno fatto!» Alla fine la fanciulla volse lo sguardo verso l'anziana donna e si rimise a piangere. Monna Cecilia la tenne stretta tra le braccia per ore finché entrambe si addormentarono sul letto nuziale. Mina dormì per tre giorni, e per tre giorni ebbe incubi terribili durante i quali lanciava grida agghiaccianti che svegliavano tutta la casa. Alla fine le famiglie decisero di mandare a chiamare Santa Caterina. Ascoltata la storia, Santa Caterina comprese che monna Mina era stata posseduta da uno spirito. La santa non ebbe paura. Per tutta la notte restò seduta accanto al letto della giovane senza smettere di pregare. La mattina dopo monna Mina si svegliò ricordandosi chi era. Tutti in casa si rallegrarono e tessero le lodi di Santa Caterina, anche se lei li rimproverava dicendo che il merito era solo del Signore. Ma pur in quel momento di letizia monna Mina era ancora turbata e, quando le chiesero il motivo, lei rispose che aveva un messaggio per loro da parte di Lorenzo. E che non poteva mettersi l'animo in pace fino a che non l'avesse trasmesso. Potete immaginare lo spavento dei parenti quando la sentirono di nuovo parlare di questo Lorenzo, lo spirito che l'aveva posseduta. La incoraggiarono tuttavia a parlare. Ma la giovane non riusciva a ricordarsi il messaggio e si rimise a piangere, con grande angoscia di tutti. Anche
se non lo dissero, temettero che fosse nuovamente uscita di senno. Allora la saggia Santa Caterina porse a monna Mina una penna d'oca intinta d'inchiostro. «Mia cara, lascia che sia Lorenzo a scrivere il messaggio con la tua mano.» «Ma io non so scrivere!» obbiettò lei. «No», disse la santa, «ma se Lorenzo ne è capace, sarà lui a muovere la tua mano.» Così monna Mina impugnò la penna e, mentre Santa Caterina pregava per lei, si sedette a un tavolino nell'attesa che la sua mano si muovesse. Alla fine la fanciulla si alzò senza proferire parola e, come una sonnambula, scese le scale giù giù, fino nei sotterranei, con tutti gli altri in coda dietro di lei. Quando arrivarono nel locale dove l'avevano trovata, lei si avvicinò al muro e iniziò a tracciarvi sopra dei segni con le dita come se stesse scrivendo. Gli uomini le chiesero cosa avesse scritto e monna Mina rispose: «Non avete che da leggere!» Quando le dissero che non si vedeva niente lei ribatté: «No, è proprio lì, non vedete?» Allora Santa Caterina ebbe l'idea di mandare un garzone nella bottega del padre a prendere della tintura per tessuti. Quindi chiese a monna Mina d'intingere un dito nella tinta per riscrivere quello che aveva appena tracciato. Così la giovane, che non sapeva né leggere né scrivere, ricoprì l'intero muro di parole. Parole che fecero rabbrividire di paura tutti i grandi uomini presenti:
Peste alle vostre famiglie! Morirete tra le fiamme e il sangue I vostri figli a ululare in eterno sotto una luna malata Fino a quando voi non vi sarete rimessi dai vostri peccati Per inginocchiarvi di fronte alla Vergine E lasciare che Giulietta si risvegli con accanto il suo Romeo Dopo che ebbe finito di scrivere, monna Mina invocò il nome del marito e gli cadde tra le braccia supplicandolo di portarla via da quel
luogo poiché aveva esaurito il suo compito. Piangendo di sollievo il giovane la trasportò su dalle scale, nella luce del giorno, e monna Mina non parlò mai più con la voce di Lorenzo. Ma non dimenticò quello che le era capitato e decise che voleva capire, malgrado padre e suocero facessero di tutto per impedirlo, chi fosse questo Lorenzo, e perché avesse parlato per suo tramite. Monna Mina era una donna cocciuta, una vera Tolomei. Quando suo marito era via per affari, cominciò a trascorrere sempre più tempo con monna Cecilia allo scopo di farsi raccontare gli avvenimenti del passato. E benché all'inizio fosse timorosa, l'anziana donna sapeva che sarebbe stata una liberazione trasmettere a qualcun altro il suo pesante fardello, anche perché la verità non morisse con lei. Monna Cecilia disse a Mina che moltissimi anni prima era stato un giovane monaco di nome Lorenzo a scrivere con il proprio sangue quella stessa terribile maledizione sul muro della cella sotterranea. Era la prigione dove era stato trattenuto e torturato a morte. «Ma chi è stato?» chiese la fanciulla prendendo tra le sue le mani deformate dagli anni dell'anziana. «Chi gli ha fatto questa cosa, e perché?» «Un uomo che da parecchio tempo ho smesso di considerare mio padre», rispose monna Cecilia con la voce carica di sofferenza. Quest'uomo, spiegò, aveva governato la casata dei Salimbeni all'epoca della peste nera, e l'aveva governata come un tiranno. Alcuni cercavano di scusarlo dicendo che, quando era bambino, aveva assistito alla morte della propria madre per opera di sicari dei Tolomei. Questo tuttavia non giustificava le malvagità che lui inflisse agli altri. Perché fu esattamente così che si comportò Salimbeni: spietato con i nemici e severo con la sua famiglia. Ogni volta che si stancava di una moglie la relegava in campagna e istruiva i servi affinché non le dessero abbastanza da mangiare. Appena la poveretta passava a miglior vita, ne sposava un'altra. Man mano che invecchiava, voleva spose sempre più fresche, fino a stancarsi anche della giovinezza di costoro. Alla fine iniziò a nutrire un desiderio morboso per una fanciulla i cui genitori erano stati assassinati
proprio per ordine suo. Si chiamava Giulietta. Nonostante Giulietta fosse già segretamente promessa a un altro, e in giro si dicesse che la Vergine Maria avesse addirittura benedetto la giovane coppia, Salimbeni costrinse la fanciulla a sposarlo e, così facendo, si attirò le ire del nemico più potente che un uomo possa avere. Perché, come tutti sanno, la Vergine Maria non ama che gli esseri umani interferiscano con i suoi piani. E infatti l'intera faccenda si concluse in un bagno di sangue. Non solo i giovani amanti morirono, ma perì anche il primogenito dei Salimbeni che aveva disperatamente cercato di difendere l'onore di suo padre. Messer Salimbeni aveva fatto arrestare e torturare Frate Lorenzo ritenendolo responsabile di aver segretamente cercato di far riunire i due giovani. E aveva invitato messer Tolomei, lo zio di Giulietta, ad assistere al supplizio del monaco insolente che aveva mandato in fumo il piano per riconciliare, grazie al matrimonio, due famiglie altrimenti in lotta. Erano loro i due capofamiglia che Frate Lorenzo aveva maledetto con la sua scritta sul muro: messer Salimbeni e messer Tolomei. Dopo la morte del monaco, Salimbeni aveva fatto seppellire il corpo sotto la camera della tortura, come era sua abitudine. E aveva ordinato ai servi di lavare via la scritta dal muro con la cenere e di applicare della calce fresca. Ma ben presto aveva scoperto che queste misure non erano sufficienti per occultare quanto era successo. Poi, quando alcune notti più tardi Frate Lorenzo gli apparve in sogno per avvertirlo che non c'erano né cenere né calce in grado di rimuovere la maledizione, Salimbeni si prese un enorme spavento e decise di sigillare la camera della tortura, affinché i malefici poteri del muro non ne potessero uscire. Non molto tempo dopo Salimbeni cominciò a sentire che la gente diceva in giro che sul suo capo pendeva una maledizione e che la Vergine Maria stava decidendo come punirlo. Quando una notte nel palazzo scoppiò un enorme incendio, l'uomo ne concluse che doveva essere opera della maledizione di Frate Lorenzo, il quale aveva annunciato la fine della sua famiglia tra le fiamme e il sangue. Più o meno in quell'epoca a Siena avevano cominciato a diffondersi le prime voci sulla peste nera. I pellegrini tornavano
dall'oriente raccontando di un'orribile pestilenza che distruggeva villaggi e città più di un intero esercito. Tuttavia, la maggior parte della gente riteneva che a perire sarebbero stati solo gli infedeli. Erano sicuri che la Vergine Maria - come aveva fatto in numerose altre occasioni - avrebbe avvolto Siena nel suo manto protettivo e che il male, casomai fosse giunto fin lì, sarebbe stato tenuto a bada con ceri e preghiere. Salimbeni aveva sempre vissuto nella certezza che tutto il buono e il bello che gli accadevano fossero l'effetto del suo operato. Ora che qualcosa di tremendo lo stava minacciando, la conclusione non poteva che essere la stessa. Fu così che nella sua mente iniziò a farsi strada l'idea che lui, e solo lui, fosse responsabile delle disgrazie che stavano capitando, inclusa la pestilenza incombente. Nella sua follia fece esumare i corpi di Giulietta e Romeo dal suolo sconsacrato e diede ordine di erigere per loro un sontuoso sepolcro in un luogo benedetto allo scopo di zittire le voci intorno o, più esattamente, le voci che nella sua testa lo accusavano della morte di due giovani il cui amore era stato santificato dal Cielo. Era così ansioso di far pace con il fantasma di Frate Lorenzo che passò molte notti a esaminare la maledizione che aveva ricopiato su un pezzo di pergamena, nel tentativo di trovare un modo per accontentare la richiesta di rimettersi dai peccati e inginocchiarsi di fronte alla Vergine. Convocò persino i luminari più dotti dell'università per farsi suggerire come far svegliare Giulietta accanto al suo Romeo. Furono infine loro, i luminari, a venirne a capo con una proposta. Dissero che se voleva sconfiggere la maledizione, tanto per cominciare, doveva capire che le ricchezze sono una cosa empia e che un uomo con molto denaro è un uomo infelice. Una volta che si fosse dichiarato d'accordo con l'assunto, non avrebbe quindi dovuto dispiacergli troppo cedere grosse porzioni della sua fortuna alle persone ingaggiate a liberarlo dai sensi di colpa, come per esempio i luminari dell'università. Un siffatto uomo, continuarono, avrebbe dovuto essere felice di commissionare una preziosa scultura che, quasi certamente, sarebbe stata in grado di annientare la maledizione favorendo allo stesso tempo il sonno del suo proprietario. Un proprietario che non poteva che gioire al pensiero che, con il solo
sacrificio del vii denaro, si era guadagnato l'indulgenza per tutta la città, e anche dei crediti nei riguardi della pestilenza annunciata. La statua, gli dissero sempre i luminari, avrebbe dovuto essere posta sulla tomba di Giulietta e Romeo e rivestita di oro zecchino. Doveva rappresentare la coppia in maniera tale da diventare un antidoto alla maledizione di Frate Lorenzo. Per gli occhi della scultura Salimbeni avrebbe dovuto usare le pietre preziose del diadema nuziale di Giulietta: i due smeraldi per gli occhi verdi di Romeo, e i due zaffiri per gli occhi azzurri di Giulietta. E sotto la statua avrebbe dovuto essere incisa una scritta:
Qui dorme l'onesta e fedele Giulietta Nell'amore e nella misericordia di Dio Per esser svegliata da Romeo, il suo legittimo sposo, E gioire nei secoli dei secoli Così facendo, Salimbeni avrebbe potuto ricreare ad arte il momento della resurrezione dei due amanti, permettendo loro di guardarsi negli occhi per sempre, ed esibendo ai senesi una scultura grazie alla quale lui sarebbe stato definito uomo buono e pio. Per ingraziarsi il popolo, tuttavia, Salimbeni avrebbe anche dovuto far circolare delle voci sulla propria generosità commissionando una leggenda che lo liberasse per sempre dai sensi di colpa. Doveva essere la leggenda di Romeo e Giulietta, zeppa di poesia e confusione come lo sono spesso le opere sublimi, visto che un racconto ricco di imprecisioni attira molto più l'attenzione di uno fedele ma tedioso. E quelli che ancora non volevano chiudere il becco sulle colpe di Salimbeni dovevano essere zittiti, riempiendogli o le mani di monete o la schiena di pugnali. Queste erano le raccomandazioni dei luminari della cultura e Salimbeni si accinse a eseguire quanto suggerito con estremo vigore. Prima di tutto - aderendo al loro stesso consiglio - si comperò il loro silenzio prima che potessero parlare male di lui. Poi assunse un poeta
locale perché producesse la leggenda dei due amanti sfortunati la cui tragica morte non era da imputare a nessuno se non a loro stessi. Leggenda che doveva arrivare alle orecchie delle classi colte non come un'opera della fantasia ma come cronaca di fatti realmente avvenuti. Infine, Salimbeni affidò al grande artista Ambrogio Lorenzetti il compito di sovrintendere alla realizzazione della statua d'oro. E quando la scultura fu ultimata - con le gemme al loro posto - quattro guardie armate ebbero 1'ordine di proteggere giorno e notte la coppia immortale. Ma anche la statua e le guardie non riuscirono a tenere lontana la peste. Per oltre un anno la terribile epidemia devastò Siena, coprendo corpi prima sani di orrendi bubboni e uccidendo quasi tutti coloro che venivano contagiati. Metà della popolazione perì; per ogni persona che si salvava, ne moriva un'altra. Alla fine non vi furono abbastanza sopravvissuti per seppellire i morti. Le strade erano piene di liquami putridi e di cadaveri, e quelli che potevano ancora mangiare morivano di fame per mancanza di cibo. Passata la peste, il mondo era cambiato. Nel bene e nel male, la memoria collettiva era stata azzerata. Quelli che ce l'avevano fatta erano troppo occupati a tirare avanti per interessarsi d'arte o di vecchie leggende. Così della storia di Giulietta e Romeo non rimase che una debole eco, come di un'altra era. Di tanto in tanto vi si faceva allusione, ma in maniera frammentaria. Quanto alla tomba, era sparita per sempre, sepolta sotto una montagna di cadaveri, e solo pochissimi sopravvissuti ricordavano il valore della statua. Mastro Ambrogio, che aveva incastonato di persona le quattro gemme, fu tra le migliaia di senesi che morirono di peste. Dopo essersi fatta raccontare da monna Cecilia tutto quello che c'era da sapere su Frate Lorenzo, monna Mina capì che restava ancora qualcosa da fare per rabbonire il fantasma del monaco. Così, una mattina che suo marito era partito tutto contento a cavallo per affari, dopo una notte di passione, lei aveva dato ordine a sei valenti servi di seguirla nel sotterraneo e di picconare il pavimento della vecchia camera delle torture. Naturalmente i servi non erano stati troppo felici di quell'incarico
inquietante ma non avevano osato lamentarsi, vedendo che la padrona non si allontanava di un passo mentre loro lavoravano, ma anzi li incoraggiava con promesse di leccornie di vario tipo. Nel corso della mattinata furono riesumate le ossa non di una ma di diverse persone. Alla vista degli scheletri martoriati, tutti diedero di stomaco, tranne monna Mina che, benché terrea in volto, non fece una piega. Così i servi superarono lo sgomento e ripresero in mano le picche per ricominciare a lavorare. Mentre scorrevano le ore, i sei si scopersero ad ammirare senza riserve quella giovane donna determinata a liberare la casa dal male. Una volta recuperate tutte le ossa, la padrona chiese ai servi di avvolgerle in sudari e portarle al cimitero, con l'eccezione dei resti più recenti, che dovevano essere sicuramente quelli di Frate Lorenzo. Insicura sul da farsi, monna Mina rimase per un po' a guardare il crocefisso d'argento che era rimasto attaccato a una mano del monaco. Poi ebbe un'idea. Prima di sposarsi Mina aveva avuto come confessore un meraviglioso sant'uomo che proveniva da Viterbo e le parlava spesso del Duomo della città, San Lorenzo. Non sarebbe stato quello il luogo giusto in cui mandare le spoglie del monaco in modo che i suoi confratelli lo aiutassero a riposare finalmente in pace, lontano dal posto dove erano successi tali indicibili orrori? Quella sera, quando suo marito fece ritorno, monna Mina aveva già preparato tutto. Le spoglie di Frate Lorenzo riposavano in una bara di legno, pronte per essere caricate su un barroccio. E ai religiosi di San Lorenzo era stata scritta una lettera in cui si spiegava quel tanto sufficiente per far capire loro che l'uomo nel feretro era del tutto meritevole di smettere di soffrire. L'unica cosa che ancora mancava era il permesso del suo sposo e denaro sufficiente per portare a termine l'impresa. Ma la giovane - in pochi mesi di matrimonio - aveva già capito quanto una piacevole serata potesse intenerire un marito. All'alba del giorno dopo, prima che da piazza Salimbeni si fosse alzata la nebbiolina, monna Mina si era messa alla finestra ad assistere alla partenza del carro con la bara, mentre il consorte ancora dormiva beato dietro di lei. Dal collo le pendeva il
crocefisso, pulito e lustrato, che aveva trovato nella mano di Frate Lorenzo. Il suo primo istinto era stato quello di metterlo nella cassa assieme alle spoglie del monaco, ma alla fine aveva deciso di tenerlo come pegno del loro mistico legame. Non aveva ancora capito perché il frate avesse scelto di parlare per tramite suo e per quale motivo l'avesse spinta a scrivere sul muro una vecchia maledizione che aveva scatenato una pestilenza sulla sua stessa famiglia. Aveva tuttavia il sospetto che lui l'avesse fatto per generosità, per dirle che doveva in qualche modo trovare un rimedio. E finché non l'avesse trovato, pensò monna Mina, avrebbe portato il crocefisso al collo. Anche per non dimenticarsi delle parole sul muro e dell'uomo il cui ultimo pensiero non era stato per se stesso, ma per Giulietta e Romeo.
PARTE SETTIMA
Capitolo 1 Con un nome non so dirti chi sono; odio il mio nome che ti è nemico. DOPO che mastro Lippi terminò di leggere, rimanemmo tutti e tre per un attimo in silenzio. Avevo tirato fuori quel testo in italiano per distrarci dalla scoperta della doppia identità di Alessandro/Romeo ma, se avessi saputo in quali tenebrosi recessi ci saremmo cacciati, di certo l'avrei lasciato nella borsa. «Povero Frate Lorenzo», disse Janice vuotando il bicchiere, «niente lieto fine per lui.» «Ho sempre pensato che con Shakespeare se la fosse cavata troppo bene», aggiunsi io per alleggerire l'atmosfera. «In Romeo e Giulietta lo troviamo a spasso nel cimitero con le mani praticamente lorde di sangue, in mezzo ai cadaveri, e ammette pure di essere stato lui a combinare quel doppio casino con il sonnifero... poi saluti a tutti. Uno si aspetterebbe che i Capuleti e i Montecchi avrebbero almeno dovuto fare un tentativo di incriminarlo.» «Forse l'hanno fatto in un secondo tempo», commentò Janice. «Alcuni saranno perdonati, altri puniti... sta a significare che la vicenda non si concluse alla calata del sipario.» «Chiaro che no.» Indicai il testo che mastro Lippi ci aveva appena letto. «E secondo nostra madre non si è ancora conclusa.» «La cosa è assai inquietante», dichiarò il Maestro ancora scosso dalle malefatte del vecchio Salimbeni. «Se è vero che Fra-te Lorenzo scrisse la maledizione usando quelle precise parole, allora la maledizione potrebbe continuare per sempre, fino a che...» controllò il testo per essere certo di citare con precisione, «voi non vi sarete
rimessi dai vostri peccati per inginocchiarvi di fronte alla Vergine e lasciare che Giulietta si risvegli con accanto il suo Romeo.» «D'accordo, però avrei due domande», disse mia sorella, che non
era mai stata una grande fan delle superstizioni. «La prima: chi sarebbero questi voi...» «Ma è ovvio, se si considera che sta augurando una peste alle vostre famiglie, che sta alludendo ai Salimbeni e ai Tolomei che erano nella cella a torturarlo», intervenni. « E poiché tu e io siamo delle Tolomei, anche noi siamo maledette.» «Ma sentila questa!» saltò su Janice. «La diretta discendente dei Tolomei! Cosa vuol dire un nome?» «Non si tratta solo di un nome», le feci notare. «Ci sono i geni e il nome. La mamma aveva i geni, e papà aveva il nome. Da qui non si scappa.» Janice non era soddisfatta della mia logica ma non poteva farci niente. «D'accordo, capito tutto», sospirò. «Shakespeare aveva torto. Non ci fu mai un Mercuzio che morì per colpa di Romeo e invocò che la peste colpisse lui e Tebaldo. La maledizione arrivò da Frate Lorenzo. Perfetto! Ma ho un'altra domanda: se davvero credi alla maledizione, cosa pensi di poter fare? Come si può essere così stupidi da considerarsi capaci di spezzare una maledizione? Qui non stiamo parlando di pentimento. Qui stiamo parlando di rimetterci dai peccati! E che peccati! Ma... in che modo? Dovremmo forse disseppellire il vecchio Salimbeni per convincerlo a cambiare idea e magari spedirlo a calci fino in Duomo e farlo inginocchiare di fronte all'altare o roba del genere? Ma per favore!» Ci guardò entrambi con aria bellicosa, come se fossimo stati il Maestro e io a darle questa preoccupazione. «Perché non prendiamo semplicemente il primo volo verso casa e lasciamo perdere questa maledizione? Perché ce ne dovrebbe importare?» «Perché importava alla mamma», dissi semplicemente. «Era quello che voleva fare lei: affrontare la maledizione e porvi fine. Adesso tocca a noi farlo per lei. Glielo dobbiamo.» Janice mi puntò contro un rametto di rosmarino. «Permettimi di fare un'autocitazione. Il nostro unico dovere nei riguardi della mamma è di rimanere vive.» Sfiorai il crocefisso che portavo al collo. «Esattamente quello che intendo dire. Se vogliamo rimanere felicemente in vita dobbiamo -
secondo la mamma - spezzare la maledizione. Tu e io, Giannozza. Non è rimasto nessun altro che lo possa fare.» Da come mi guardò, capii che stava convincendosi che avevo ragione, o che per lo meno il mio discorso aveva un certo senso. Ma non le piaceva per niente. «Tutto ciò è così assurdo», meditò. «D'accordo, ammettiamo per un momento che ci sia sul serio una maledizione e che, se non la fermiamo, ci ucciderà come ha già ucciso i nostri genitori. La domanda è: come? Come la fermiamo?» Diedi un'occhiata al Maestro. Era stato inaspettatamente lucido per tutta la sera, e lo era ancora. Ma neanche lui poteva rispondere alla domanda di mia sorella. «Non lo so», confessò. «Ma ho come il sospetto che ci sia di mezzo la statua d'oro. E forse anche il pugnale e il cencio, benché non veda come.» «Fantastico!» esclamò Janice agitando le mani. «Allora siamo a cavallo! A parte che non sappiamo assolutamente dove si trova la statua. La storia dice solo che Salimbeni fece erigere per loro un sontuoso sepolcro e mise delle guardie attorno alla cappella, ma questo può voler dire ovunque! Insomma, non sappiamo dov'è la statua, e tu hai perso sia pugnale che cencio! Sono meravigliata che tu abbia ancora il crocefisso, ma immagino che sia perché è un oggetto di nessuna importanza!» Guardai mastro Lippi. «Quel suo libro che parlava degli Occhi di Giulietta e della tomba... siamo sicuri che non indicasse dov'erano? Quando ne parlammo, lei mi disse solo di chiederlo a Romeo.» «E l'hai fatto?» «Certo che no!» Provai una punta di irritazione ma sapevo che non potevo incolpare il pittore della mia cecità. «Fino a questo pomeriggio non sapevo neppure che lui fosse Romeo.» «Allora perché non glielo chiedi la prossima volta che lo vedi?» mi suggerì mastro Lippi come se fosse la cosa più naturale del mondo. Era mezzanotte quando Janice e io facemmo ritorno in albergo. Non eravamo ancora entrate nella hall che già il direttore si era proteso sul banco della reception per consegnarmi una pigna di foglietti ripiegati. «Il capitano Santini ha telefonato questo
pomeriggio alle cinque», mi informò Rossini un po' seccato che io non mi trovassi in camera mia sull'attenti per prendere la chiamata. «E poi molte volte anche dopo. L'ultima telefonata risale...» allungò il collo per vedere l'orologio a muro, «a diciassette minuti fa.» Mentre salivamo le scale in silenzio, mi accorsi che Janice osservava con irritazione la mazzetta dei messaggi di Alessandro, prova evidente dell'interesse di lui per quello che stavo facendo. Mi preparai quindi all'inevitabile nuova ramanzina sulle vere motivazioni di Alessandro. Ma appena varcammo la soglia della camera fummo investite da una corrente d'aria proveniente dal balcone, che si era spalancato senza visibili segni di effrazione. Comunque allarmata, controllai velocemente che non fossero spariti dei documenti dal cofanetto della mamma. L'avevamo lasciato sul tavolino perché ci eravamo ormai convinte che non contenesse nessuna mappa del tesoro. «Per favore richiamami...» cantilenava intanto mia sorella mentre faceva scorrere i messaggi di Alessandro a uno a uno, «richiamami per favore... chiama... tra l'altro, te l'ho detto che sono un trans...?» Mi grattai la testa. «Ma non avevamo chiuso la porta del balcone prima di uscire? Ricordo chiaramente di averlo fatto.» «È sparito qualcosa?» domandò Janice mentre gettava i messaggi sul letto sparpagliandoli in giro. «No, le carte sono tutte al loro posto.» «Senza contare che metà delle forze di polizia di Siena è di sentinella qui fuori», osservò lei sgusciando fuori dalla canottiera proprio di fronte ai vetri. «Ti spiacerebbe toglierti da lì?!» gridai mentre la spingevo via. Janice rise di gusto. «Perché? Almeno si accorgono che non è un uomo quello con cui vai a letto!» Proprio in quel momento suonò il telefono. «Il ragazzo è fuori di melone», sospirò mia sorella scuotendo la testa. «Tieni a mente queste parole.» «Perché?» ribattei, mentre facevo un balzo verso il ricevitore. «Perché guarda caso gli piaccio?»
«Gli piaci?» Janice chiaramente non aveva mai sentito niente di più sciocco in tutta la sua vita ed esplose in una specie di grugnitorisata che si interruppe solo quando le scagliai contro un cuscino. «Pronto?» Sollevai il telefono coprendo con cura la cornetta affinché non si sentissero i passi pesanti di mia sorella che si aggirava per la camera fischiettando la colonna sonora di un film dell'orrore. Era appunto Alessandro, preoccupato che mi fosse successo qualcosa dato che non rispondevo alle sue chiamate. Adesso naturalmente era troppo tardi per cenare assieme, disse, ma almeno potevo dirgli se avevo deciso di andare alla festa di Eva Maria il giorno dopo. «Sì, madrina...» mi faceva intanto il verso Janice in sottofondo, «ai tuoi ordini, madrina...» «Veramente non ho ancora...» cominciai, cercando di ricordare tutte le ottime ragioni per non accettare l'invito. Ragioni che in qualche modo sembravano fuori luogo adesso che sapevo che Alessandro era Romeo. Dopotutto lui e io eravamo della stessa partita. O no? Mastro Ambrogio e mastro Lippi avrebbero confermato, così come l'avrebbe fatto Shakespeare. Inoltre non ero ancora convinta che fosse stato lui a introdursi nella mia camera. Non sarebbe certo stata la prima volta che Janice si sbagliava. O che mi diceva delle bugie. «Dai, vieni», mi sollecitava intanto Alessandro con un timbro di voce che avrebbe fatto fare a una donna qualunque cosa, come sicuramente era già successo molte volte. «Eva Maria ci tiene tanto.» Intanto nel bagno Janice aveva ingaggiato una lotta furibonda con la tenda della doccia, dietro la quale stava simulando di morire pugnalata. «Non so», risposi, cercando di bloccare le urla di mia sorella, «adesso tutto mi sembra... così folle.» «Forse ti farebbe bene allontanarti per un weekend»? suggerì lui. «Eva Maria conta su di te. Ha invitato un sacco di persone. Persone che conoscevano i tuoi genitori.» «Davvero?» La curiosità stava avendo la meglio sulle mie deboli resistenze.
«Ti vengo a prendere all'una, d'accordo?» Alessandro decise di prendere per un sì la mia esitazione. «E ti prometto che strada facendo risponderò a tutte le tue domande.» Quando Janice tornò in camera, mi aspettavo una scenata. Ma non successe. «Fai come ti pare», dichiarò alzando le spalle come se non gliene potesse importare di meno, «ma poi non dire che non ti avevo avvertita.» «Per te è facile, non è vero?» Mi sedetti sul bordo del letto, di colpo esausta. «Tu non sei Giulietta.» «E neanche tu lo sei», osservò lei, mettendosi accanto a me. «Sei soltanto una ragazza a cui è toccata una strana madre. Come a me. Ascolta...» mi mise un braccio attorno alle spalle. «Lo so che vuoi andare a questa festa. E quindi vacci. Mi auguro solo che tu non prenda tutto troppo alla lettera. A cominciare dalla faccenda di Giulietta e Romeo. Shakespeare non è Dio. Non ti ha creata il Bardo e tu non gli appartieni. Tu appartieni solo a te stessa.» Più tardi ci mettemmo a letto a esaminare di nuovo assieme il taccuino con gli schizzi. Adesso che conoscevamo la storia della statua, i disegni fatti da nostra madre assumevano finalmente un significato. Tuttavia, non c'era nulla nel quaderno che lasciasse trapelare dove si trovasse la tomba. Quasi tutti i fogli erano zeppi di schizzi e scarabocchi confusi, con l'eccezione di un'unica pagina, contornata da roselline a cinque petali e contenente una citazione in bella calligrafia da Romeo e Giulietta:
e ciò che è oscuro nel tuo bel libro cercalo scritto agli angoli dei miei occhi Era l'unico riferimento esplicito a Shakespeare di tutto il taccuino e la cosa ci fece riflettere. «È la madre di Giulietta che sta parlando di Paride», dissi. «Però ci sono due errori. Non è il tuo bel libro e non è i miei occhi, ma questo bel libro e i suoi occhi.»
«Magari la mamma si è sbagliata», suggerì Janice. «La mamma che si sbaglia su Shakespeare?» La guardai di traverso. «Non credo proprio. Penso che l'abbia fatto apposta. Per mandare un messaggio a qualcuno.» Janice schizzò su. Le erano sempre piaciuti gli indovinelli e gli enigmi e sembrava davvero eccitata. «Allora cosa c'è nel messaggio? Sta parlando di qualcuno, giusto? E noi possiamo scoprire chi, giusto?» «Sta parlando di un libro e di angoli», ragionai. «Magari...
margini?»
«E non di un libro solo», mi fece notare Janice, «ma due: il nostro libro e il suo libro. Lei chiama il suo libro i suoi occhi, il che mi fa pensare al taccuino con gli schizzi...» Colpì con la mano la pagina del quadernetto. «In altre parole questo libro. Non sei d'accordo?» «Ma sui margini non c'è scritto niente...» Feci scorrere le pagine del taccuino e solo in quel momento, per la prima volta, notammo entrambe dei numeri che erano stati scribacchiati a margine, apparentemente a casaccio. «Oh, santa paletta... hai ragione! Perché non ce ne siamo accorte prima?» «Perché non li stavamo cercando», disse Janice prendendomi il taccuino di mano. «Se questi numeri non si riferiscono a pagine e a righe, mi mangio una scarpa.» «Ma pagine e righe di che cosa?» La risposta ci folgorò entrambe nello stesso momento. Se il taccuino era il suo libro, allora il tascabile di Romeo e Giulietta l'unico altro libro nel cofanetto - doveva essere il nostro. E i numeri di pagina e di riga non potevano che riferirsi a citazioni scelte del dramma di Shakespeare. Il ragionamento filava. Schizzammo entrambe verso il cofanetto, ma nessuna delle due trovò quello che stava cercando. Perché quello che era sparito dopo che eravamo uscite dalla camera era proprio la malconcia edizione economica di Romeo e Giulietta. Janice aveva sempre avuto un sonno profondo. Quando
abitavamo assieme, mi dava un fastidio tremendo che lei potesse continuare a dormire mentre la sveglia faceva un baccano d'inferno, e senza neppure allungare un dito per fermarla. Dopotutto, le nostre camere erano l'una di fronte all'altra e andavamo a letto lasciando sempre le porte socchiuse. Zia Rose dalla disperazione aveva setacciato ogni negozio di sveglie della città in cerca di qualcosa di abbastanza mostruoso che riuscisse a buttare giù dal letto mia sorella per andare a scuola. Non ci riuscì mai. Mentre io mi tenni sul comodino la mia sveglietta rosa della Bella Addormentata fino all'università, Janice fu dotata di un marchingegno industriale modificato personalmente da Umberto con delle pinze - che emetteva un suono identico al segnale di evacuazione di uno stabilimento nucleare. Anche così la sola persona a svegliarsi ero io, di solito con un soprassalto di terrore. La mattina seguente alla nostra cena con mastro Lippi, mi meravigliai dunque di vedere Janice già sveglia che osservava dal letto le prime lamelle dorate dell'alba filtrare attraverso le imposte. «Brutti sogni?» le chiesi pensando agli spettri senza volto che mi inseguivano tutte le notti nel castello dei miei incubi, castello che somigliava sempre più al Duomo di Siena. «Non riuscivo a dormire», rispose, girandosi verso di me. «Oggi vado a vedere la casa della mamma.» «Come? Prendi un'auto a noleggio?» «Mi ridanno la moto», spiegò con un'aria furbetta. «Il nipote di Peppo dirige il deposito veicoli rimossi. Vieni con me?» Ma già sapeva che non sarei andata. Quando all'una Alessandro venne a prendermi, ero seduta sugli scalini dell'albergo con una sacca da viaggio ai piedi, e stavo giocando a rimpiattino con i raggi del sole dietro ai rami della magnolia. Non appena vidi la sua auto che si avvicinava, il cuore cominciò a battermi all'impazzata. Forse perché lui era Romeo, forse perché era entrato di soppiatto in camera mia una o due volte, o forse, semplicemente, come avrebbe detto Janice, perché avevo bisogno di farmi dare una controllatina al cervello. Ero assai tentata di dare la colpa all'acqua di Fontebranda ma si sarebbe potuto obiettare che la mia pazzia era iniziata molto ma molto tempo
prima. Almeno seicento anni. «Che ti è successo alle ginocchia?» mi chiese mentre si fermava davanti a me apparendomi tutto fuorché medioevale nei suoi jeans e camicia con le maniche arrotolate. Anche Umberto avrebbe dovuto ammettere che quel ragazzo aveva un aspetto assai rassicurante malgrado l'abbigliamento sportivo. Ma Umberto nella migliore delie ipotesi era un manigoldo, quindi perché preoccuparmi ancora dei suoi giudizi morali? Pensare a lui mi procurò una piccola fitta al cuore. Come mai tutte le persone cui ero affezionata - con l'eccezione di zia Rose dovevano sempre avere un lato oscuro? Scacciando questi pensieri funesti, mi tirai la gonna sopra le ginocchia per nascondere i segni della temeraria missione lungo i Bottini, il giorno precedente. «Sono inciampata nella realtà.» Alessandro mi guardò incuriosito ma non disse nulla. Mentre si chinava a prendermi la sacca, mi accorsi per la prima volta dell'Aquila dei Marescotti sul suo avambraccio. E dire che era sempre stata lì, praticamente a fissarmi negli occhi quando a Fontebranda avevo bevuto dalle sue mani... ma il mondo era pieno di rapaci, e io di certo non ero un'esperta. Mi parve strano rimettermi in macchina con lui, questa volta dalla parte del passeggero. Erano successe tante di quelle cose dal mio arrivo a Siena assieme a Eva Maria - alcune piacevoli, altre no anche grazie ad Alessandro. Mentre uscivamo dalla città un unico argomento mi frullava in testa, ma non riuscivo a decidere come affrontarlo. Né riuscivo a pensare a qualcosa di diverso, qualcosa che non ci avrebbe inevitabilmente riportato alla madre di tutte le domande: perché non mi aveva detto di essere Romeo? In tutta onestà, anch'io non gli avevo detto tutto. Anzi, non gli avevo detto praticamente nulla delle mie ancorché patetiche investigazioni sulla statua d'oro, e assolutamente niente di Umberto e Janice. Ma almeno gli avevo rivelato fin dall'inizio chi ero, ed era stato lui a decidere di non credermi. D'accordo... gli avevo spiegato di essere Giulietta Tolomei solo per impedirgli di scoprire che ero
Julie Jacobs, quindi questo non contava molto nel computo su chi avesse più colpe. «Sei molto silenziosa oggi», commentò Alessandro distogliendo gli occhi dalla guida. «Qualcosa mi dice che è colpa mia.» «Non hai mai finito di raccontarmi di Carlo Magno», ribattei, avendo deciso per un attimo di dimenticare la voce della coscienza. Si mise a ridere. «Ah, è per questo? Prima di arrivare in Val d'Orcia conoscerai più cose su di me e sulla mia famiglia di quante tu ne voglia sapere. Ma prima dimmi quello che sai già così non mi ripeto.» «Vuoi dire...» cercai di interpretare il suo profilo ma non ci riuscii, «quello che so dei Salimbeni?» Come le altre volte che avevo pronunciato quel nome, lui fece un sorrisetto amaro. Adesso, naturalmente, sapevo perché. «No. Dimmi della tua famiglia, i Tolomei. Dimmi tutto quello che sai su cosa successe nel 1340.» Cominciai quindi a raccontare. Gli raccontai la storia che ero riuscita a ricavare mettendo insieme le confessioni di Frate Lorenzo, le lettere di Giulietta a Giannozza e il diario di mastro Ambrogio. Alessandro non mi interruppe neppure una volta. Terminato il resoconto del dramma che si era svolto nella Rocca di Tentennano, mi domandai se avrei dovuto anche accennare alla storia della possessione di monna Mina e della maledizione di Frate Lorenzo. Decisi per il no perché era una vicenda troppo strana e deprimente e, inoltre, non volevo menzionare l'esistenza della statua con le gemme al posto degli occhi, dopo che avevo negato con forza di saperne alcunché quando lui me lo aveva chiesto alla stazione di polizia. «E così i due morirono nella Rocca di Tentennano», conclusi. «Non per un pugnale o una fialetta di veleno, ma a causa di un sonnifero e un'alabarda nella schiena. Frate Lorenzo vide tutto con i propri occhi.» «E quanto ti sei inventata di quello che mi hai detto?» mi chiese con fare scherzoso. Feci spallucce. «Un po' qui e un po' là. Giusto per riempire gli
spazi vuoti. Ho pensato che il racconto sarebbe stato più succoso. Però non ho modificato i fatti salienti...» Notai che stava sogghignando. «Perché?» «I fatti salienti non sono sempre gli stessi per tutti», disse. «Secondo me la tua storia, e anche Romeo e Giulietta, non parla d'amore. Parla di lotte di potere, e il messaggio è semplice: quando i vecchi fanno la guerra, sono i giovani che muoiono.» «Questo è davvero poco romantico da parte tua», borbottai. «Anche Shakespeare non aveva puntato sull'amore. Guarda come ha tratteggiato i protagonisti. Romeo è un piagnucolone. È Giulietta il vero eroe. Pensaci un attimo. Lui prende il veleno. Che razza di uomo si uccide con il veleno? È lei quella che si suicida con il pugnale di Romeo. Come dovrebbe fare un vero uomo.» Non potei trattenere una risata. «Forse questo vale per il Romeo di Shakespeare. Ma il vero Romeo Marescotti non era un piagnucolone. Era un duro.» Aspettai di vedere come la prendeva e mi accorsi che sorrideva. «Non c'è da stupirsi che Giulietta l'amasse.» «E tu come lo sai?» «Ma non è ovvio?» replicai, cominciando a innervosirmi. «Lei lo amava così tanto che quando Nino cercò di seducila decise di suicidarsi per rimanere fedele a Romeo, anche se non l'avevano ancora... insomma hai capito.» Il fatto che Alessandro continuasse a sorridere mi indispose. «Suppongo tu stia pensando che sia una storia ridicola, giusto?» «Proprio così!» disse lui, impegnato in un sorpasso. «Riflettici. Nino non era poi tanto male...» «Nino era un mostro!» «Forse era mostruosamente bravo a letto», ribatté. «Perché non verificare? Giulietta avrebbe sempre potuto uccidersi la mattina dopo.» «Come fai a dire una cosa del genere?» protestai, scioccata. «Non posso credere che parli sul serio! Se tu fossi Romeo non vorresti certo che Giulietta facesse... l'esame di guida a Paride!» Sbottò in una risata. «Insomma! Sei stata tu a dirmi che ero Paride!
Ricco, affascinante e malvagio. Sicuro che vorrei che Giulietta mi facesse l'esame di guida.» Si girò a guardarmi, divertendosi un mondo a vedermi accigliata. «Che razza di Paride sarei se non lo volessi?» Mi tirai di nuovo la gonna sulle ginocchia. «E quando, esattamente, avresti pianificato di far succedere la cosa?» «Che ne diresti di adesso?» disse scalando le marce. Ero stata troppo presa dalla conversazione per prestare attenzione al paesaggio, ma in quel momento mi accorsi che avevamo lasciato da un pezzo la strada principale e ci stavamo inerpicando su una strada sterrata fiancheggiata da alberi di cedro spelacchiati. La strada finiva di colpo ai piedi di un'alta collina. Invece di fare marcia indietro, Alessandro fermò la macchina in una piazzola deserta. «E' qui che abita Eva Maria?» chiesi con voce un po' strozzata dato che non c'era nessuna abitazione in vista. «No, questa è la Rocca di Tentennano», rispose Alessandro scendendo dall'auto ed estraendo una bottiglia e due bicchieri dal portabagagli. «O quello che ne è rimasto.» Salimmo lungo un sentiero fino a raggiungere la base di una roccaforte in rovina. Dalle descrizioni di mastro Ambrogio sapevo che quella fortezza in origine era gigantesca. L'aveva definita «un nido roccioso pieno di spietati predatori sempre a caccia di carne umana». Non era difficile immaginarsi come doveva apparire una volta, visto che una parte del massiccio torrione era ancora in piedi e, pur nel suo stato di semidistruzione, dava ancora l'idea di incombere minaccioso sopra di noi. «Impressionante», dissi sfiorando il muraglione con le dita. I mattoni erano tiepidi al tatto, molto diversi, ne ero certa, da come li avevano sentiti Romeo e Frate Lorenzo in quella notte fatale dell'inverno del 1340. Anzi, qui il contrasto tra presente e passato non poteva essere più palese. Allora, la cima della collina brulicava di uomini al lavoro, ora invece c'era un tale silenzio da poter sentire il beato ronzio dei più piccoli insetti. Eppure, qua e là nell'erba si intravedeva qualche masso isolato caduto di recente, come se
quell'antica costruzione - data per defunta centinaia di anni prima stesse ancora respirando, come il torace di un gigante addormentato. «La chiamavano l'Isola», mi spiegò Alessandro. «Di solito qua sopra è molto ventoso, ma non oggi. Siamo fortunati.» Lo seguii lungo un sentierino sassoso e solo in quel momento notai la vista spettacolare della Val d'Orcia che pareva risplendere di tutti i colori estivi della tavolozza. Ovunque attorno a noi si scorgevano le pennellate giallo carico dei campi e quelle verdi delle vigne, qua e là inframmezzate da chiazze di blu o di rosso dove i fiori avevano avuto la meglio sui prati. Alti cipressi fiancheggiavano strade tortuose che conducevano a fattorie. Era quel tipo di visione che mi faceva desiderare di non aver smesso di prendere lezioni di disegno al liceo solo perché' Janice aveva minacciato di iscriversi anche lei. «Impossibile nascondersi dai Salimbeni», osservai, facendomi scudo contro il sole con la mano. «Certo che sapevano bene come scegliere le loro postazioni.» «Era di enorme importanza strategica», assentì Alessandro. «Da qua puoi dominare il mondo.» «O almeno una parte.» «Sì, la parte che vale la pena di essere dominata.» Mentre mi faceva strada, Alessandro pareva sorprendentemente a suo agio in quel posto semiselvaggio, anche con in mano bicchieri e Prosecco, che non sembrava aver fretta di stappare. Quando finalmente si fermò in un piccolo avvallamento erboso pieno di piante aromatiche e si girò verso di me con aria da monello, non potei fare a meno di ridere. «Fammi indovinare, è qui che porti tutte le tue ragazze?» dissi, proteggendomi il busto con le braccia benché non ci fosse un filo di vento. «Attenzione, perché a Nino non è andata molto bene.» Ci rimase male. «No! Non ho mai... mio zio mi ha portato qui quando ero un ragazzino.» Fece un ampio cenno con la mano in direzione dei cespugli e dei massi intorno a noi. «Ci siamo sfidati a colpi di spada... io e mia cugina Malèna. Lei...» Forse rendendosi conto che non era quello il modo migliore di svelare il suo grande
segreto, si interruppe. «È da allora che volevo tornarci.» «Ci hai messo un bel po' di tempo», gli feci notare, fin troppo consapevole del tono eccessivamente agitato della mia voce e di come fosse fuori luogo che stessi tanto sulle mie. «Ma non mi lamento. È un posto magnifico. Perfetto per festeggiare.» Visto che Alessandro rimaneva in silenzio, mi tolsi le scarpe e a piedi nudi avanzai verso di lui. «Dunque, che cosa si festeggia?» Alessandro si girò a guardare il paesaggio con aria pensosa. Era evidente che stava lottando con le parole che sapeva di dover dire. Quando alla fine si voltò verso di me, mi accorsi che dal viso gli era sparita ogni traccia di voglia di scherzare e che a questa era subentrata un'espressione sofferta. «Pensavo che fosse arrivato il momento di celebrare un nuovo inizio», rispose scandendo le parole. «Un nuovo inizio per chi?» Finalmente si decise ad appoggiare bicchieri e bottiglia tra l'erba alta e ad avvicinarsi a me. «Giulietta, non ti ho portato qui per fare la parte di Nino. O di Paride», mi disse con voce sommessa. «Ti ho portato qui perché tutto finì qui.» Allungò una mano e mi sfiorò il volto con venerazione, come un archeologo che abbia finalmente trovato l'opera d'arte che stava cercando da una vita. «E ho pensato che fosse un buon posto per ricominciare.» Incapace di decifrare la mia espressione, si affrettò ad aggiungere: «Mi spiace di non averti detto subito la verità. Speravo di non doverlo fare. Continuavi a chiedermi come fosse veramente Romeo. Speravo tu mi riconoscessi». Benché già sapessi quello che stava cercando di dirmi, la sua aria solenne e impacciata mi colpì in maniera inaspettata. Se fossi arrivata alla Rocca di Tentennano all'oscuro di tutto - e avessi solo allora ascoltato la sua confessione - non avrei potuto rimanere più turbata. «Giulietta...» cercò di agganciare il mio sguardo, ma non glielo permisi. Stavo disperatamente aspettando quella conversazione dal momento in cui avevo appreso la sua vera identità e, ora che stava per succedere, volevo che ripetesse le parole più e più volte. Ma allo stesso tempo negli ultimi due giorni avevo patito le pene dell'inferno e volevo che anche lui provasse un po' del dolore che avevo provato io.
«Mi hai mentito.» Invece di scostarsi, Alessandro mi venne più vicino. «Non ti ho mai mentito a proposito di Romeo. Ti ho solo detto che non era l'uomo che pensavi.» «E mi hai detto di stargli alla larga», continuai. «E anche che mi sarei trovata meglio con Paride.» Sorrise di fronte al mio tono accusatorio. «Sei stata tu a dire che io ero Paride...» «E tu me lo hai lasciato credere!» «Sì, l'ho fatto.» Mi sfiorò il mento con tenerezza, forse domandandosi come mai mi sforzassi di non sorridergli. «Perché era quello che tu volevi io fossi. In me desideravi vedere il nemico. Era il tuo unico modo di relazionarti con me.» Aprii la bocca per protestare ma mi resi conto che aveva ragione. «Stavo aspettando questo momento non so neppure quando», continuò Alessandro, rendendosi conto che mi ormai alla sua mercé. «Dopo Fontebranda ho pensato che stata felice di saperlo.» Il suo pollice mi sfiorò l'angolo della «Pensavo... di piacerti.»
io da aveva saresti bocca.
Nel silenzio che seguì i suoi occhi confermarono tutto quello che aveva appena detto e mi supplicavano di rispondergli con altrettanto trasporto. Ma invece di parlare subito, alzai una mano e gliela appoggiai sul petto. Al calore del suo cuore che mi pulsava contro il palmo, mi sentii sopraffare da una gioia immensa e irrazionale che arrivava da chissà dove. «Mi piaci.» Quanto durò il nostro bacio, non lo saprò mai. Fu uno di quei momenti che nessuno scienziato può tradurre in numeri, per quanti sforzi faccia. Ma quando il mondo esterno si materializzò di nuovo, tutto quello che mi circondava era più smagliante e luminoso di prima. Era come se il cosmo intero si fosse sottoposto a un restauro integrale dall'ultima volta che avevo guardato... o forse prima non avevo mai guardato nella maniera giusta. «Sono così felice che tu sia Romeo», sussurrai toccando la sua fronte con la mia, «ma anche se tu fossi un altro, sarei comunque...»
«Saresti comunque che cosa?» Abbassai lo sguardo imbarazzata. «Sarei comunque felice.» Fece un sorrisetto, sapendo benissimo che ero stata sul punto di dire qualcosa di molto più impegnativo. «Vieni...» Mi fece sedere sull'erba accanto a sé. «Mi stai facendo dimenticare quello che ti ho promesso. Sei proprio brava in questo!» «Quale promessa?» «Di dirti della mia famiglia», rispose serio. «Voglio che tu sappia ogni cosa...» «Oh, ma non voglio sapere ogni cosa!» Lo interruppi mettendomi a cavalcioni su di lui. «Almeno non ora.» «Aspetta!» disse cercando invano di fermare le mie mani indisciplinate. «Prima di tutto, devo parlarti...» «Ssst!» Gli misi le dita sulla bocca. «Prima di tutto, devi baciarmi di nuovo.» «...di Carlo Magno...» «...può aspettare.» Spostai la mano e appoggiai le labbra sulle sue in un lungo bacio che non lasciava spazio alle discussioni. «Non sei d'accordo?» Mi guardò con la stessa espressione di un soldato semplice che viene lasciato da solo ad affrontare un'invasione barbarica. «Ma voglio che tu sappia in cosa ti stai cacciando.» «Oh, non preoccuparti», gli sussurrai, «credo di sapere in cosa mi sto cacciando...» Dopo aver nobilmente lottato per almeno tre secondi, finalmente si arrese e mi tirò a sé. «Ne sei sicura?» Subito dopo mi ritrovai distesa sopra un letto di timo selvatico a ridacchiare dalla sorpresa. «Bene Giulietta...» Alessandro mi guardò serio, «spero non ti aspetti che io inizi a poetare in rima baciata.» Scoppiai in una risata. «Peccato che Shakespeare non abbia mai scritto delle note di regia.» «Perché?» mormorò baciandomi teneramente sul collo. «Davvero pensi che il vecchio William possa essere un amante migliore di me?»
Alla fine non fu il mio pudore a interrompere il divertimento, ma lo spettro inopportuno della cavalleria senese. «Sapevi», farfugliò Alessandro bloccandomi le braccia contro il terreno nel tentativo di salvare gli ultimi bottoni della sua camicia, «che Colombo ci ha messo sei anni a scoprire l'America?» Il proiettile che portava al collo oscillava tra noi due come un pendolo. «E perché ci ha messo tanto?» chiesi godendomi lo spettacolo della sua strenua resistenza sul fondale blu del cielo… «Era un gentiluomo italiano», rispose Alessandro parlando più a se stesso che a me, «non un conquistador.» «Oh, era anche lui alla ricerca dell'oro», dissi cercando anch'io di baciargli il collo, «come tutti gli altri.» «Forse all'inizio. Ma poi...» allungò una mano per rimettermi la gonna in ordine, «scoprì quanto gli piaceva esplorare le coste e venire a contatto con nuove e diverse culture.» «Sei anni sono un sacco di tempo», protestai, non ancora pronta a rialzarmi per ripiombare nella realtà. «Troppissimo tempo.» «No», sorrise, «sono seicento anni a essere troppi. Così penso che dovrai pazientare mezz'ora. Giusto il tempo di ascoltare la mia storia.» Quando finalmente arrivò il momento di brindare, il Prosecco era diventato tiepido, ma era il miglior bicchiere di vino che avessi mai gustato. Sapeva di miele ed erbe profumate, di amore e di un domani ricco di promesse. Mentre me ne stavo lì appoggiata ad Alessandro cominciai quasi a credere che la mia vita sarebbe stata lunga e piena di gioia, e che finalmente potevo mettere a tacere i fantasmi del passato. «Lo so che sei ancora scossa perché ti ho nascosto chi ero», mi disse accarezzandomi i capelli. «Forse hai pensato che temessi tu ti innamorassi solo di un nome. Ma in realtà è l'esatto contrario. Avevo paura - ho ancora paura - che, una volta sentita la storia, quella di Romeo Marescotti, avresti desiderato di non avermi mai incontrato.»
Cercai di protestare ma lui non me lo permise. «Quelle cose che tuo cugino Peppo ti ha detto di me... sono vere. Sono certo che gli psicologi potrebbero spiegare tutto con qualche parolone, ma nella mia famiglia non ci fidiamo degli psicologi. Non ci fidiamo di nessuno. Noi Marescotti abbiamo le nostre teorie e siamo talmente sicuri che siano esatte che, come hai detto tu una volta, si tramutano in draghi di guardia alla torre. Per non lasciar più entrare o uscire nessuno.» Fece una pausa per riempirmi il bicchiere. «Prendi, il resto è per te. Io devo guidare.» «Devi guidare?» Scoppiai a ridere. «Adesso non somigli di certo al Romeo Marescotti di cui Peppo mi disse di diffidare! Pensavo che fossi uno spericolato. Che delusione!» «Non preoccuparti...» rispose stringendomi forte, «mi rifarò in altri modi.» Mentre sorseggiavo il mio Prosecco, Alessandro mi raccontò di sua madre, che era rimasta incinta a diciassette anni e non volle rivelare chi fosse il padre. Naturalmente il padre di lei - il vecchio Marescotti, cioè il nonno di Alessandro - era furibondo. Tanto che la cacciò di casa e lei dovette andare a vivere a Roma con la famiglia di Eva Maria Salimbeni, la madre di una sua ex compagna di scuola. Nato Alessandro, Eva Maria gli fece da madrina e insistette che gli si desse il nome di famiglia Romeo Alessandro Marescotti, anche se sapeva che il vecchio Marescotti sarebbe uscito di senno quando avesse saputo che un bastardo portava il suo cognome. Nel 1977, la nonna di Alessandro riuscì a convincere il nonno a far rientrare a Siena madre e nipote e il piccolo venne battezzato nella fonte battesimale dell'Aquila, pochi giorni prima del Palio. Quell'anno purtroppo la contrada perse entrambi i Palii in modo pesantissimo e il vecchio Marescotti si mise a cercare qualcuno a cui dare la colpa. Quando sentì che sua figlia aveva portato il bambino nelle scuderie dell'Aquila poco prima della corsa - e aveva lasciato che toccasse il cavallo - si convinse di aver trovato la ragione della sconfitta: il piccolo bastardo aveva portato iella a tutta la contrada. Urlò a sua figlia di prendersi il bambino e tornarsene a Roma, e di non farsi vedere più finché avesse trovato un marito. Cosa che lei fece. Tornò nella capitale e trovò un marito - un ufficiale dei
Carabinieri, una persona molto perbene. L'uomo permise ad Alessandro di utilizzare il suo cognome, Santini, e lo tirò su come se fosse figlio suo, con disciplina e affetto. Fu così che Romeo Marescotti diventò Alessandro Santini. Tuttavia, ogni estate Alessandro doveva trascorrere un mese nella fattoria dei nonni a Siena, vuoi per frequentare le cugine, vuoi per allontanarsi per un po' dal caldo della metropoli. L'idea non era stata di suo nonno, o di sua madre, ma della nonna, che aveva insistito tantissimo. L'unica cosa che la nonna non era riuscita a fare era convincere il marito a lasciare che Alessandro assistesse al Palio. Andavano tutti - cugine, zii e zie - ma lui doveva rimanere a casa, perché il nonno temeva che la sua presenza avrebbe portato sfortuna al destriero dell'Aquila. O almeno così diceva. Alessandro quel giorno rimaneva quindi tutto solo alla fattoria a inventarsi il suo Palio a cavallo di un vecchio ronzino da soma. Qualche anno dopo imparò a modificare scooter e motociclette, così da rendere l'evento pericoloso e adrenalinico come quello vero. Alla fine, Alessandro si rifiutò del tutto di andare a Siena, infastidito dai commenti negativi del nonno su sua madre. Dopo gli studi, seguendo le orme del padre e dei fratelli, si arruolò nei Carabinieri e fece di tutto per dimenticare che era Romeo Marescotti. Da quel momento in poi si fece chiamare solo Alessandro Santini e stette il più alla larga possibile da Siena, proponendosi per ogni missione di pace che potesse condurlo lontano. Fu così che finì in Iraq, dove perfezionò il proprio inglese in accese discussioni con i responsabili statunitensi della difesa, e dove rischiò la vita quando un camion pieno di esplosivo piombò sulla base dei Carabinieri di Nassiriya. Quando fece ritorno a Siena, non disse a nessuno chi era, neppure a sua nonna. La notte prima del Palio si recò nelle scuderie della contrada. Non l'aveva pianificato: semplicemente non poteva farne a meno. Suo zio era lì che accudiva al cavallo e, quando Alessandro gli rivelò chi era, era così eccitato che gli lasciò toccare per scaramanzia il giubbetto giallo e nero dell'Aquila. Era il giubbetto che il fantino avrebbe indossato nel corso della gara. Purtroppo il giorno dopo, durante la corsa, il fantino della
Pantera, la contrada rivale, riuscì a impossessarsi del giubbetto e a far rallentare talmente il cavallo dell'Aquila che la contrada perse di nuovo. A quel punto della storia, non potei evitare di interrompere Alessandro. «Non dirmi che hai pensato che fosse stata colpa tua!» «E cos'altro potevo pensare? Avevo portato sfortuna al giubbetto e avevamo perso. Lo credeva anche mio zio. E da allora non abbiamo più vinto un Palio.» «Ti prego...!» cominciai. «Shh!» Sfiorò la mia bocca con una mano. «Ascolta. Dopo di allora non mi feci più vedere a Siena. Sono tornato solo da pochi anni. Giusto in tempo. Mio nonno era molto affaticato. Ricordo che lo trovai seduto su una panca che guardava in direzione della vigna. Lui non si accorse di me fino a quando non gli misi una mano sulla spalla. Girò il capo e appena mi vide si mise a piangere. Era così felice. Ho un ricordo bellissimo di quel momento. Quella sera ci fu una grande cena e mio zio disse che non mi avrebbero più lasciato partire. Da principio non ero sicuro di voler restare. Non avevo mai vissuto a Siena prima e avevo molti ricordi spiacevoli. Sapevo anche che la gente avrebbe cominciato a chiacchierare nel momento in cui avesse saputo chi ero. Vedi, la gente non dimentica il passato. Mi trasferii, ma solo per una breve licenza. Ma poi successe una cosa. L'Aquila partecipò al Palio di luglio e fu la corsa peggiore di tutti i tempi. Nell'intera storia del Palio, non credo che mai nessuna contrada perse così malamente come noi quella volta. Restammo al comando per l'intera corsa. Poi la Pantera ci sorpassò e vinse.» Al solo ricordo, Alessandro fece un sospiro profondo. «Non c'è modo peggiore di perdere un Palio. Per noi fu uno shock. Poi, quando nel Palio di agosto avrebbe dovuto difendere l'onore, il nostro fantino ricevette una penalità. Fummo puniti tutti. Perdemmo il diritto di gareggiare l'anno dopo e l'anno dopo ancora, a causa della sanzione. Chiamalo regolamento, ma la mia famiglia sentiva che c'era dell'altro. «Mio nonno rimase così traumatizzato nell'apprendere che l'Aquila sarebbe stata fuori concorso per due anni che ebbe un attacco di cuore. Aveva ottantasette anni. Tre giorni dopo spirò.»
Alessandro fece una pausa e guardò lontano. «Per quei tre giorni non mi allontanai mai da lui. Era talmente arrabbiato con se stesso per tutto il tempo perduto che non smetteva di guardarmi. All'inizio pensai che fosse adirato con me per aver di nuovo portato sfortuna, ma mi disse che non era colpa mia. La colpa era sua. Per non aver capito prima.» «Capire cosa esattamente?» «Mia madre. Mio nonno capì che quello che era accaduto a mia madre doveva succedere. Mio zio ha cinque figlie, niente maschi. Sono l'unico nipote che può portare avanti il nome di famiglia.» Mi alzai di botto. «Ma che razza di sporco sciovinista...» «Giulietta, per favore!» Mi rifece appoggiare contro la sua spalla. «Se non ascolti non capirai mai. Quello che mio nonno comprese era che un antico influsso malefico si era rimesso in circolazione e che dopo tante generazioni aveva scelto me per via del mio nome.» Avevo la pelle d'oca. «Scelto te... per cosa?» «È qui...» disse Alessandro mentre mi riempiva di nuovo il bicchiere, «che entra in scena Carlo Magno.»
Capitolo 2 Quella scimmia è morta: bisogna proprio che lo evochi, lo ti scongiuro, per i luminosi occhi di Rosolina, per la sua bella fronte, per le sue labbra scarlatte. Siena, 1340-1370 LA PESTE E L'ANELLO I MARESCOTTI discendono da una delle più antiche famiglie della nobiltà senese. Si dice che il nome derivasse da Marius Scotus, un generale scozzese dell'esercito di Carlo Magno. La maggioranza dei Marescotti si insediò a Bologna ma la famiglia si estese in lungo e in largo, e il ramo senese era particolarmente stimato per il coraggio e la capacità di comando nei tempi di crisi. Ma, come sappiamo, non c'è niente di grandioso che rimanga grandioso per sempre e la fama dei Marescotti non fa eccezione. Oggi a Siena quasi nessuno si ricorda più del loro glorioso passato ma, d'altra parte, la storia è sempre stata più attenta a chi ha come unico scopo nella vita quello di distruggere rispetto a chi si preoccupa di proteggere e preservare. Quando Romeo venne al mondo, la sua famiglia era ancora illustre. Suo padre, il comandante Marescotti, era assai ammirato per la moderazione e il decoro. Il suo patrimonio, poi, era così vasto che neppure l'avidità e la pigrizia del figlio - che pure erano smisurate riuscirono a sperperarlo. Tuttavia, anche la pazienza del comandante venne messa a dura prova quando, all'inizio del 1340, Romeo incontrò una donna di nome Rosalina. Era la moglie di un macellaio ma tutti sapevano che non erano una coppia felice. Nella versione di Shakespeare Rosalina è un'incantevole giovane fanciulla che
tormenta Romeo con il suo voto di castità. La verità è invece l'esatto contrario. Rosalina aveva dieci anni più di Romeo e diventò la sua amante. Per mesi il giovane cercò di convincerla a scappare con lui ma lei era troppo intelligente per fidarsi. Subito dopo il Natale del 1340 - non molto tempo dopo che Romeo e Giulietta erano morti alla Rocca - Rosalina diede alla luce un figlio e tutti si resero conto che il macellaio non era il padre. Fu un grosso scandalo e la donna temette che, se avesse appreso la verità, suo marito avrebbe ucciso il bambino. Così portò il piccolo dal comandante Marescotti e gli chiese se poteva tirarlo su lui, assieme ai suoi figli. Ma il comandante rifiutò. Non credette alla storia e la mandò via. Prima di andarsene però Rosalina gli disse: «Un giorno voi vi pentirete di quello che avete fatto a me e a questo bambino. Un giorno Dio vi punirà per l'ingiustizia che state commettendo!» Il comandante dimenticò l'episodio fino a quando, nel 1348, la peste nera arrivò a Siena. Più di un terzo della popolazione perì, soprattutto entro le mura della città. I cadaveri erano accatastati nelle strade, i figli abbandonavano i padri, le mogli i mariti. Erano tutti così terrorizzati da dimenticare cosa vuol dire comportarsi da esseri umani anziché bestie. In una settimana, il comandante Marescotti perse madre, moglie e i cinque figli. Sopravvisse solo lui. Allora lavò e rivestì tutti i cadaveri, li mise su un carro e li portò fino in Duomo alla ricerca di un prete che potesse officiare il funerale. Ma non c'era nessun prete. Quelli ancora vivi erano troppo presi a occuparsi dei malati nell'ospedale di Santa Maria della Scala, di fronte alla cattedrale. E anche lì c'erano troppi cadaveri per poterli seppellire tutti. I religiosi non fecero altro che abbattere un muro cavo all'interno dell'ospedale dove ammassarono i morti. Poi risigillarono la parete con dei mattoni. Quando il comandante arrivò in Duomo alcuni Frati della Misericordia stavano scavando nella piazza una grande fossa comune. Marescotti offrì loro dell'oro affinché anche la sua famiglia potesse essere sepolta in quel luogo consacrato. Spiegò che quelli erano sua madre e sua moglie, e disse anche il nome e l'età dei
cinque figli, e che tutti erano rivestiti dei loro abiti più belli e adatti alla sacralità del luogo. Ma ai Frati della Misericordia la cosa non importava. Presero l'oro e capovolsero il carro nella fossa. Così il comandante vide i suoi cari - la sua progenie - ammucchiarsi nello scavo senza una preghiera, una benedizione, un segno di speranza. Nel tornare sui suoi passi, neppure sapeva dove stava andando. Non vide niente di quello che aveva attorno. Per lui quella era la fine del mondo. Cominciò a maledire il Signore per averlo lasciato in vita a veder morire i propri figli. Cadde sulle ginocchia e raccolse con le mani dell'acqua putrida che usciva da una cloaca per aspergersi e perfino berne. Sperava di ammalarsi e morire come tutti gli altri. Mentre era lì in mezzo al liquame, all'improvviso sentì la voce di un bambino. «Ci ho provato anch'io. Non funziona.» Il comandante alzò gli occhi e gli parve di vedere un fantasma. «Romeo!» esclamò. «Romeo, sei tu?» Ma non era Romeo, solo un ragazzino di circa otto anni, assai lurido e coperto di stracci. «Mi chiamo Romanino. Se volete posso tirare il carro per voi.» «Perché vorresti tirare il carro?» gli chiese il comandante. «Perché ho fame», rispose Romanino. «Prendi...» Marescotti tirò fuori il resto delle monete che aveva con sé. «Vai a comperarti del cibo.» Ma il ragazzo non accettò il compenso. «Non sono un mendicante.» Così il comandante lasciò che Romanino si desse da fare con il carro fino a raggiungere Palazzo Marescotti, pur aiutandolo con una spinta di tanto in tanto. Arrivati a destinazione, il ragazzo notò sui muri le decorazioni con l'aquila. «Qui è dove è nato mio padre.» Nel sentire ciò, la meraviglia del comandante fu enorme. «Come fai a saperlo?» «Me l'ha raccontato mia madre», replicò il ragazzo. «Mi disse che mio padre era molto coraggioso. Era un grande cavaliere con braccia enormi. Ma dovette andare a combattere con l'Imperatore in Terra Santa, e non fece più ritorno. Ogni tanto mi diceva che forse un
giorno sarebbe tornato a cercarmi. E che se l'avesse fatto dovevo dirgli una cosa per fargli capire chi ero.» «Cosa dovevi dirgli?» Nel momento in cui il ragazzino fece un largo sorriso, Marescotti non dovette neppure aspettare che parlasse per capire la verità. «Che sono un aquilino.» Quella stessa notte, dopo giorni che non mangiava, il comandante Marescotti si trovò in cucina seduto al tavolo vuoto della servitù. Di fronte a lui stava Romanino che rosicchiava un osso di pollo, troppo impegnato per far domande. «Dimmi quando è morta tua madre Rosalina», gli chiese. «Molto tempo fa», rispose il ragazzo. «Prima che tutto questo succedesse. Il macellaio la picchiava, sapete. E un giorno lei non si è più alzata. Non si è mossa neppure quando lui si è messo a urlarle contro e a tirarla per i capelli. Immobile. Allora lui si è messo a piangere. Io mi sono avvicinato al letto e ho cercato di parlarle. Ma lei non apriva gli occhi. Le ho messo una mano sul viso... era fredda e ho capito che lui l'aveva picchiata troppo e gliel'ho detto. Lui ha cominciato a prendermi a calci e ha tentato di afferrarmi ma io sono uscito di corsa dalla stanza. Anche se lui non smetteva di urlarmi dietro, ho continuato a correre e a correre finché non sono arrivato da mia zia. Lei mi ha accolto in casa sua e là sono rimasto. Ma lavoravo, sapete. Facevo la mia parte. Quando è nata la bambina mi sono occupato di lei, e aiutavo la zia a mettere il pane in tavola. Mi volevano bene, penso che fossero contenti che mi occupavo della bambina fino... fino a quando non hanno iniziato a morire tutti. È morto il fornaio, il macellaio, il contadino che ci vendeva la frutta e presto non c'è stato abbastanza cibo per tutti. Ma la zia continuava a darmi da mangiare come agli altri, anche se erano ancora affamati, e così... me ne sono andato.» Con gli occhi verdi e profondi del ragazzo puntati addosso, il comandante pensò quanto fosse inusuale che una persona così giovane, un monello denutrito di otto anni, potesse avere più dignità di quanta lui ne avesse mai riscontrata in un adulto. «Come hai fatto a sopravvivere con quello che è successo?» non poté fare a meno di chiedergli.
«Non so, ma mia madre mi ha sempre detto che io ero diverso. Più forte. E che non mi sarei ammalato o messo nei guai come gli altri. Mi ha detto che sulle spalle avevo un tipo diverso di testa. E che era per questo motivo che non piacevo. Perché sapevano che ero meglio. Ecco come sono sopravvissuto. Pensando a quello che diceva mia madre. Su di me e sugli altri. Aveva detto che ce l'avrei fatta. E io ce l'ho fatta.» «Sai chi sono io?» gli domandò il comandante alla fine. Il ragazzino lo osservò. «Siete un grand'uomo.» «Non ne sono sicuro.» «Ma lo siete!» insistette Romanino. «Siete un grand'uomo. Avete una bella cucina. E un pollo. E mi avete lasciato tirare il carro per tutta la strada. E adesso state dividendo il pollo con me.» «Questo non fa di me un grand'uomo.» «Quando vi ho trovato stavate bevendo l'acqua della cloaca», considerò il ragazzo. «Adesso bevete vino. Quindi per me siete il più grand'uomo che ho mai incontrato.» La mattina seguente il comandante Marescotti riportò Romanino a casa dei suoi zii. Mentre camminavano a fianco a fianco per le ripide stradine in discesa verso Fontebranda, cercando di evitare i rifiuti e il lerciume, il sole fece per la prima volta la sua apparizione dopo diversi giorni. O forse non aveva mai smesso di splendere, ma il comandante aveva passato tutto il suo tempo nel buio a dissetare labbra che erano già oltre l'arsura. «Come si chiama tuo zio?» chiese il comandante al ragazzo, rendendosi conto che aveva dimenticato di porgli questa domanda basilare. «Benincasa», replicò il ragazzo. «Fa il tintore. A me piace il blu, ma è caro.» Alzò lo sguardo verso il comandante. «Mio padre si vestiva sempre di colori bellissimi, sapete. Soprattutto di giallo, con un mantello nero che quando andava al galoppo si apriva come un paio di ali. Quando si è ricchi si può.» «Immagino», disse il comandante.
Romanino si fermò davanti a un alto cancello di ferro e guardò con malinconia verso il cortile. «Eccoci arrivati. Quella è monna Lapa, mia zia. Oh... non è esattamente mia zia ma ha voluto che la chiamassi comunque così.» Il comandante Marescotti rimase sorpreso dalle dimensioni del posto. Si era immaginato qualcosa di molto più modesto. All'interno della corte, tre bambini stavano aiutando la madre a stendere la biancheria, mentre una piccolina gattonava per terra cercando di raccogliere il granturco che qualcuno aveva sparpagliato per le oche. «Romanino!» La donna ebbe un soprassalto quando vide il ragazzo attraverso il cancello e, non appena la barra lo aprì, lo tirò dentro coprendolo di baci e lacrime. «Pensavamo tu fossi morto, sciocco ragazzino!» Nel trambusto che seguì, nessuno prestò più attenzione alla bambinetta per terra. Il comandante, sul punto di arretrare per lasciar spazio alla felice riunione, fu quindi la sola persona a notare che la piccola stava gattonando verso il cancello aperto. Con mani incerte si chinò per sollevarla tra le braccia. Era una bimbetta incredibilmente graziosa, pensò il comandante Marescotti, e assai più adorabile di quanto ci si potesse aspettare da qualcuno di quelle dimensioni. Anzi, malgrado la sua mancanza di esperienza con essermi di quel calibro, l'uomo scoprì che non aveva nessuna voglia di restituire la piccola a monna Lapa. Se ne rimase quindi semplicemente lì con la bambina tra le braccia a scrutare quel suo faccino sorridente, sentendo qualcosa che gli si muoveva in petto, come una gemma primaverile che spinga per farsi strada nel suolo ghiacciato. L'attrazione era tuttavia reciproca. Presto la piccola cominciò a dare buffetti sul viso del capitano e a tirargli i capelli, visibilmente compiaciuta. «Caterina!» gridò la madre liberando quel distinto visitatore dal suo fardello. «Vogliate perdonarci, messere.» «Nessun problema, nessun problema», disse il comandante. «Dio ha tenuto la sua mano protettrice su di voi e sui vostri cari, monna Lapa. La vostra dimora è benedetta, ho l'impressione.»
La donna lo fissò a lungo senza parlare. Poi chinò il capo. «Grazie, messere.» Il comandante si voltò per andarsene ma poi cambiò idea e osservò Romanino. Il ragazzo stava eretto come un giovane albero che si appresti ad affrontare la furia del vento, eppure i suoi occhi avevano perso ogni coraggio. «Monna Lapa», riprese il comandante Marescotti, «voglio... mi piacerebbe... mi chiedo se vorreste considerare l'idea di lasciar venir via il ragazzo. Con me.» L'espressione della donna fu soprattutto d'incredulità. «Vedete», aggiunse in fretta il comandante, «penso che lui sia mio nipote.» Queste parole sorpresero tutti, anche il comandante. Mentre monna Lapa pareva quasi spaventata dalla confessione, Romanino assunse un'aria di tale incontenibile esultanza che per poco Marescotti scoppiò suo malgrado in una risata. «Voi siete il comandante Marescotti?» esclamò la donna con le guance accese dall'eccitazione. «Allora è vero! O povera ragazza! Non avrei mai...» Troppo sconvolta per capire come comportarsi, monna Lapa afferrò Romanino per le spalle e lo spinse in direzione del comandante. «Vai! Vai, sciocco ragazzino! E non dimenticarti di ringraziare Iddio!» Monna Lapa non dovette ripeterlo due volte. Prima ancora che avesse il tempo di accorgersene, il comandante aveva già le braccia di Romanino avvinghiate attorno alla vita, e un naso gocciolante affondato nel velluto ricamato della casacca. «Andiamo», disse dandogli un colpetto sulla testolina sporca, «dobbiamo procurarti un paio di scarpe. E altre cose. Quindi smetti di piangere.» «Giusto», rispose il ragazzino asciugandosi gli occhi e tirando su col naso, «i cavalieri non piangono.» «Piangono anche loro invece», ammise il comandante prendendo Romanino per mano, «ma solo quando sono lavati e vestiti, e con le scarpe ai piedi. Pensi di farcela ad aspettare?»
«Farò del mio meglio.» Mentre ripercorrevano la strada nella direzione inversa, mano nella mano, il comandante Marescotti si sentiva profondamente turbato. Com'era possibile che un uomo annientato dal dolore, che aveva perso tutto tranne il battito del cuore, potesse provare una tale consolazione al semplice contatto di una piccola mano appiccicosa saldamente ancorata alla sua? Un giorno, molti anni dopo, un monaco itinerante arrivò a Palazzo Marescotti e chiese di parlare con il capofamiglia. Spiegò che arrivava da un monastero di Viterbo e che aveva ricevuto istruzioni dal suo priore di restituire un grande tesoro al suo proprietario originale. Romanino, che nel frattempo si era fatto un uomo di trent'anni, fece entrare il monaco e spedì le figlie ai piani superiori per vedere se il loro bisnonno, il vecchio comandante, avesse la forza di incontrare l'ospite. Mentre aspettavano che il comandante scendesse, Romanino si premurò di offrire al religioso cibo e bevande. La sua curiosità era tuttavia tale che chiese subito al forestiero la natura di tale tesoro. «So ben poco della sua origine», replicò il monaco tra un boccone e l'altro, «ma non posso riportarlo indietro con me.» «Perché no?» volle informarsi Romanino. «Perché possiede un potere distruttivo enorme», rispose l'ospite prendendo dell'altro pane. «Tutti quelli che aprono la scatola cadono ammalati.» Romanino si accomodò meglio sul suo scranno. «Ma non avete parlato di un tesoro? Adesso mi dite che è causa di mali!» «Perdonatemi, messere», lo corresse il monaco, «ma non ho mai detto che è causa di mali. Ho solo detto che possiede un enorme potere. Può proteggere e può anche distruggere. E quindi deve essere restituito a mani che possano controllare tale potere. Deve essere restituito al suo legittimo proprietario. Questo è tutto quello che so.»
«E il proprietario sarebbe il comandante Marescotti?» Il monaco fece sì con la testa, ma con scarsa convinzione. «Perché se non lo è», osservò Romanino, «voi avete introdotto un demone nella mia dimora, ve ne rendete conto?» Il religioso parve avvilito. «Messere», disse tutto d'un fiato, «vi prego di credere che non ho nessuna intenzione di fare del male a voi o alla vostra famiglia. Sto solamente eseguendo quello che mi è stato comandato. Questa scatola...» introdusse una mano nella bisaccia e ne tirò fuori una semplicissima scatoletta di legno che depose con cautela sul tavolo, «ci è stata data dai frati della cattedrale di San Lorenzo e credo che contenga - ma non ne sono sicuro - la reliquia di un santo che è stato di recente mandato a Viterbo da una nobile patrona di Siena.» «Non ho mai sentito parlare di questo santo!» esclamò Romanino guardando la scatola con apprensione. «Chi era questa nobile patrona?» Il monaco giunse le mani in segno di rispetto. «La pia e modesta monna Mina della casata dei Salimbeni, messere.» «Ah!» Romanino rimase in silenzio per un po'. Certo che aveva sentito parlare di monna Mina: chi non conosceva la storia della pazzia della giovane sposa e della presunta maledizione sul muro del sotterraneo? Ma che razza di santo avrebbe frequentato i Salimbeni? «Allora posso chiedervi perché non rendete a lei questo cosiddetto tesoro?» «Oh, no!» La proposta terrorizzò il frate. «Il tesoro odia i Salimbeni! Uno dei miei poveri confratelli, un Salimbeni per nascita, è morto nel sonno dopo aver toccato la scatola...» «Che Dio ti maledica, monaco!» ringhiò Romanino alzandosi. «Prenditi la tua maledetta scatola ed esci immediatamente da casa mia!» «Ma aveva centodue anni!» si affrettò ad aggiungere il monaco. «E altre persone che l'hanno toccata si sono ripresi da malattie tremende!» Proprio in quel momento, con grande dignità e sostenendosi con
un bastone, il comandante Marescotti fece il suo ingresso nella sala. Invece di cacciare l'ospite a scopate - come era sul punto di fare Romanino si calmò e si assicurò che suo nonno fosse comodamente seduto all'altro capo del tavolo prima di spiegargli le circostanze di quella visita inaspettata. «Viterbo?» domandò il comandante perplesso. «Chi potrebbe conoscere il mio nome lì?» Il monaco si alzò goffamente non sapendo se doveva stare in piedi o seduto, oppure se la domanda era stata posta a lui o a Romanino. «Ecco...» disse invece piazzando la scatola di fronte al vecchio, «mi hanno detto di restituirla al legittimo proprietario.» «Padre, siate prudente!» esclamò Romanino mentre l'anziano allungava una mano per aprire la scatola. «Non sappiamo quali demoni essa contenga!» «No, figlio mio», rispose il comandante, «ma è nostra intenzione scoprirlo.» Ci fu un attimo di agghiacciante silenzio mentre il comandante sollevava adagio il coperchio e sbirciava nella scatola. Vedendo che suo nonno, non era crollato subito a terra in preda alle convulsioni, Romanino si avvicinò alla scatola per guardarci dentro anche lui. Conteneva un anello. «Non lo...» balbettò il religioso, ma il comandante Marescotti aveva già preso l'anello in mano e lo stava osservando sbalordito. «Chi avete detto che vi ha dato questo?» chiese il vecchio, mentre gli tremava la mano. «Il priore», replicò il monaco. «Mi disse che gli uomini che l'avevano trovato avevano pronunciato il nome Marescotti prima di morire di una febbre violentissima tre giorni dopo aver ricevuto la bara del santo.» Romanino volse lo sguardo verso suo nonno, sperando ardentemente che mettesse giù l'anello. Ma il comandante era in un altro mondo: per nulla impaurito toccava il sigillo dell'aquila e borbottava tra sé e sé un antico motto di famiglia, Fedele nei secoli, che era inciso a piccoli caratteri all'interno della fascetta. «Avvicinati,
figlio mio», disse alla fine facendo un cenno a Romanino. «Questo era l'anello di tuo padre. Ora è tuo.» Il giovane non sapeva cosa fare. Da una parte voleva obbedire al nonno, dall'altra aveva paura dell'anello perché non era sicuro di esserne il legittimo proprietario, anche se era appartenuto a suo padre. Quando vide che il nipote esitava, il vecchio comandante fu sopraffatto dalla rabbia e cominciò a sbraitare che Romanino era un codardo e che era suo dovere accettare il gioiello. Ma proprio quando Romanino si apprestava a ubbidire, il comandante crollò indietro sulla sedia in preda a un ictus, e lasciò cadere l'anello sul pavimento. Quando vide che il vecchio era rimasto vittima della malvagità dell'anello, il monaco si mise a urlare dal terrore e scappò a gambe levate dalla sala, lasciando che Romanino si buttasse sul nonno a implorare che l'anima non se ne andasse prima di aver ricevuto l'ultimo sacramento. «Monaco!» gridò fuori di sé cullando la testa del comandante fra le braccia, «torna subito qui e fai il tuo dovere, verme schifoso, o ti giuro che porto di persona il demonio a Viterbo e vi faccio annientare tutti quanti!» Nel sentire la minaccia, il frate tornò nella stanza con l'ampolla di olio consacrato che il priore gli aveva dato per il viaggio. Così il comandante ricevette l'estrema unzione stretto tra le braccia di Romanino. Le sue ultime parole furono: «Continua a comportarti bene, figlio mio». Comprensibilmente, Romanino non sapeva cosa pensare del dannato anello. Era ovvio che portasse male dato che aveva ucciso suo nonno, ma allo stesso tempo rappresentava qualcosa che era appartenuto a Romeo, suo padre. Alla fine Romanino decise di conservarlo, ma di mettere la scatola in un posto dove nessuno potesse trovarla. E così scese nel sotterraneo e nascose il contenitore in un angolo buio dei Bottini, dove nessuno sarebbe mai passato. Con le proprie figlie non ne parlò mai, per timore che la curiosità le spingesse a scatenare di nuovo i demoni, ma scrisse l'intera storia su una pergamena che poi sigillò e conservò con gli altri documenti di famiglia. È assai improbabile che Romanino possa aver scoperto la vera
storia dell'anello nel corso della sua vita. Generazione dopo generazione la scatola rimase nei Bottini sotto la casa, mai cercata e mai trovata. Ma i Marescotti erano consapevoli che qualcosa di malefico era rimasto impresso nella loro dimora e alla fine decisero di vendere il palazzo nel 1506. Inutile dire che la scatola con l'anello restò dov'era. Secoli dopo, un altro nonno, il vecchio Marescotti, mentre stava passeggiando nella sua vigna, nell'abbassare all'improvviso lo sguardo notò una bambinetta che lo osservava da sotto in su. Le chiese chi fosse e lei gli disse che si chiamava Giulietta e che aveva quasi tre anni. L'anziano si sorprese assai che la piccola non avesse paura di lui, come di regola succedeva con gli altri bambini. Questa bimbetta addirittura continuò a parlargli come fossero vecchi amici e, quando ripresero a camminare, gli diede la manina. Rientrato a casa, Marescotti trovò un'affascinante giovane donna che stava prendendo il caffè con sua moglie. E c'era anche un'altra bambina della stessa età di Giulietta che si strafogava di biscotti. Sua moglie lo informò che la donna era Diane Tolomei, la vedova del professor Tolomei, e che era venuta a trovarli per far loro delle domande sulla famiglia Marescotti. Nonno Marescotti trattò la sua ospite con grande affabilità e rispose a tutti i suoi quesiti. Lei gli chiese se fosse vero che la sua famiglia discendesse direttamente da Romeo Marescotti, attraverso il giovane Romanino, e lui rispose di sì. Volle sapere anche se fosse a conoscenza che Romeo Marescotti avesse ispirato il Romeo di Shakespeare. Un altro sì. Allora lei gli domandò se sapesse che lei discendeva direttamente da Giulietta, e lui rispose ancora sì, che lo presumeva dato che lei era una Tolomei e aveva chiamato una delle sue figlie Giulietta. Ma quando Diane lo invitò a indovinare la ragione della sua visita, lui disse che non ne aveva nessuna idea. A quel punto Diane Tolomei gli chiese se la famiglia Marescotti fosse ancora in possesso dell'anello di Romeo. Il vecchio rispose che non sapeva di cosa stesse parlando. E aveva mai visto una piccola scatola di legno che avrebbe dovuto contenere un tesoro malefico? Aveva mai sentito i suoi genitori o i suoi nonni menzionare tale
scatola? Un altro no convinto. Diane apparve un po' delusa e quando Marescotti le chiese il perché, lei rispose che era meglio così,
forse non avrebbe dovuto riportare alla luce le cose del passato.
A nonno Marescotti questa frase non garbò per nulla. Disse a Diane che lei aveva fatto un sacco di domande a cui lui aveva risposto e che ora era arrivato il momento che fosse lei a dare delle spiegazioni. Di che anello stava parlando e perché pensava che lui ne dovesse sapere qualcosa? Diane Tolomei gli raccontò la storia di Romanino e del monaco di Viterbo. Gli disse che suo marito per tutta la vita aveva fatto ricerche a tal riguardo e che era stato lui a trovare i registri della famiglia Marescotti negli archivi della città e a scoprire gli scritti di Romanino a proposito dell'anello. Era stato un bene, aggiunse, che Romanino non avesse mai voluto indossare l'anello perché, non essendo lui il legittimo proprietario, avrebbe potuto capitargli una disgrazia. Prima che potesse continuare con la sua storia, il nipote di Marescotti, Alessandro, altrimenti detto Romeo, si avvicinò al tavolo per rubare un biscotto. Quando apprese che quel ragazzino era Romeo, la giovane donna parve elettrizzata. «È un grande onore per me incontrarti, giovanotto. E vorrei che tu facessi la conoscenza con qualcuno di molto speciale.» Così dicendo si mise in grembo una delle due bambinette. «Questa è Giulietta», e la presentò ad Alessandro come fosse l'ottava meraviglia del mondo. Romeo si infilò un biscotto in tasca e diede un'occhiata alla bimba. «Non credo proprio», osservò. «Porta ancora il pannolino.» «Ma no!» protestò Diane Tolomei. «Guarda che è una signorina ormai. Giusto, Jules?» Proprio mentre Romeo retrocedeva, nella speranza di svignarsela, suo nonno lo bloccò e gli disse di portar fuori le bambine a giocare mentre gli adulti prendevano il caffè. Così dovette obbedire. Nel frattempo Diane raccontò a nonno Marescotti e a sua moglie tutto quello che sapeva sull'anello di Romeo. Spiegò loro che si trattava di un anello con sigillo e che Romeo l'aveva dato a Giulietta Tolomei nel corso di un matrimonio segreto celebrato dal loro
amico Frate Lorenzo. Quindi, dichiarò Diane, l'anello spettava di diritto a sua figlia Giulietta. Aggiunse che era molto importante recuperarlo in modo da porre fine alla maledizione pendente sui Tolomei. Nonno Marescotti rimase affascinato dalla storia e colpito dal fatto che Diane, pur non essendo italiana, fosse tanto interessata a eventi del lontanissimo passato. Non riusciva a capacitarsi che quella giovane americana credesse alla maledizione - addirittura una maledizione che arrivava dritta dritta dal Medioevo - e fosse perfino convinta che suo marito fosse morto a causa di essa. Tuttavia era abbastanza logico, rifletté il vecchio, che la donna cercasse in qualche modo di spezzare il sortilegio in modo che le figlie potessero crescere senza sentirsi minacciate. Per qualche ragione, Diane riteneva infatti che le sue bambine fossero particolarmente esposte alla maledizione, forse perché nate da due Tolomei. Nonno Marescotti naturalmente si scusò per non essere in grado di aiutare la giovane vedova, ma Diane lo interruppe: «Da quello che mi ha raccontato, signore, deduco che la scatola con Panello è ancora nascosta nei Bottini sotto Palazzo Marescotti, dimenticata da tutti da quando Romanino ce l'ha messa seicento anni fa». Nonno Marescotti non riuscì a fare a meno di sbellicarsi dalle risate. «Questa è troppo bella! Non riesco a credere che possa trovarsi ancora lì! Se invece lo fosse, la ragione è che è nascosta così bene che nessuno può trovarla. Neppure io.» Al fine di persuaderlo a mettersi alla ricerca dell'anello, Diane gli disse che se fosse riuscito a trovarlo e a consegnarglielo, lei gli avrebbe dato in cambio qualcosa di pari valore che era rimasto nelle mani dei Tolomei troppo a lungo. Qualcosa che la famiglia Marescotti sarebbe stata ansiosa di recuperare. Diane gli chiese se avesse un'idea di quello di cui stava parlando ma lui disse di no. Allora lei estrasse una foto dalla borsa e l'appoggiò sul tavolo. Nonno Marescotti si fece il segno della croce quando vide il soggetto che ritraeva. Non si trattava solo di un antico cencio ben dispiegato su un supporto, ma era lo stesso che suo nonno gli aveva descritto numerose volte. Un cencio che mai avrebbe pensato di vedere, o di toccare, dal momento che era stato dato per disperso da secoli.
«Per quanto tempo la sua famiglia ce l'ha tenuto nascosto?» chiese con voce tremante. «Per lo stesso tempo che la sua famiglia ci ha tenuti lontano dall'anello, signore», replicò Diane Tolomei. «Immagino che adesso sarà d'accordo se restituiamo questi due tesori ai loro rispettivi proprietari e mettiamo la parola fine al potere malefico che ha ridotto le nostre famiglie in questo stato.» Naturalmente, nonno Marescotti si sentì insultato e replicò che la sua famiglia non era in «nessuno stato» e che anzi si consideravano fortunati sotto tutti i punti di vista. «Mi sta forse dicendo», replicò Diane allungandosi sul tavolo per sfiorare le mani di nonno Marescotti, «che non ci sono giorni in cui lei non si senta scrutato da un'entità superiore, un antico alleato che sta aspettando che lei faccia quello che deve fare?» Queste parole fecero una grande impressione ai padroni di casa, che rimasero per un po' senza parlare finché non sentirono un tremendo fracasso provenire dal fienile e videro Romeo che arrivava di corsa tenendo tra le braccia una bambina in lacrime. Era la piccola Giulietta, che si era ferita cadendo su un forcone. La nonna di Romeo dovette medicarle il taglio sul tavolo della cucina. I nonni di Romeo però non lo incolparono per quello che era successo. Fu molto peggio. Erano semplicemente sconvolti nel vedere che il nipote era fonte di dolore e distruzione ovunque andasse. E adesso, dopo la storia di Diane Tolomei, avevano cominciato a credere che il ragazzino avesse davvero delle mani malvagie... che qualche antico demone avesse preso possesso del suo corpo e che, proprio come il suo antenato Romeo, avrebbe avuto una vita - breve - piena di violenza e disperazione. Nonno Marescotti ci rimase così male per quello che era accaduto alla bambina che giurò a Diane che avrebbe fatto tutto il possibile per rintracciare l'anello. Lei lo ringraziò e gli promise che, a prescindere dal ritrovamento, avrebbe restituito il cencio in modo che almeno Romeo potesse ricevere quello che gli apparteneva. Per qualche ragione era molto importante che il ragazzo ci fosse ancora quando fosse tornata in visita perché voleva provare a fare qualcosa con lui. Non disse cosa e nessuno osò chiedere.
Si misero d'accordo che Diane Tolomei si sarebbe ripresentata due settimane più tardi, dando così al vecchio Marescotti il tempo necessario per la ricerca dell'anello, e si salutarono tutti da buoni amici. Tuttavia, prima di rimettersi in macchina, Diane aggiunse un'ultima cosa: se l'anziano avesse rinvenuto l'anello avrebbe dovuto cercare di aprire la scatola il meno possibile. E non avrebbe dovuto assolutamente toccare l'anello, visti tutti gli incidenti già avvenuti. Il giorno dopo nonno Marescotti si recò senza indugio in città deciso a trovare l'anello. Per giorni e giorni esplorò i Bottini sotto Palazzo Marescotti alla ricerca del nascondiglio segreto di Romanino. Quando finalmente lo trovò - usando un rilevatore per metalli preso in prestito - poté capire come mai nessuno, prima di quel momento, ci si fosse imbattuto. La scatola era caduta in profondità in una stretta spaccatura nel muro ed era completamente coperta di arenaria. Mentre la estraeva, gli venne in mente quello che gli aveva detto Diane Tolomei circa le cautele nel sollevare il coperchio. Ma dopo essere rimasto sei secoli nella polvere e nei detriti, il legno era diventato così friabile che solo sfiorarlo fu fatale: si sbriciolò come un mucchietto di segatura e lui si trovò con l'anello fra le mani. Decise di non lasciarsi sopraffare da stupidi timori e, invece di mettere il gioiello in un'altra scatola, se lo infilò nella tasca dei pantaloni e fece ritorno alla villa fuori città. Dopo quel viaggio con l'anello in tasca, non nacque più nessun maschio in famiglia che potesse portare avanti il nome di Romeo Marescotti. Con sua grande disperazione continuavano a nascere delle femmine. Ci sarebbe stato solo un Romeo, suo nipote, ma il vecchio Marescotti dubitava che il ragazzo avrebbe mai messo la testa abbastanza a posto da sposarsi e avere figli. Naturalmente, nonno Marescotti non si rese subito conto della cosa. In quel momento fu solo felice di aver trovato l'anello, anche perché non vedeva l'ora di mettere le mani sull'antico cencio del 1340 per esibirlo all'intera contrada. Già aveva in mente di donarlo al Museo dell'Aquila immaginando che sarebbe stato di buon auspicio per il Palio imminente. Ma era destino che le cose andassero diversamente. Il giorno che
Diane Tolomei avrebbe dovuto tornare a far visita, il vecchio Marescotti aveva riunito tutta la famiglia per una grande celebrazione. L'anello era stato posto in una scatola nuova, chiusa da un nastro rosso. Avevano addirittura portato Romeo in città malgrado il Palio fosse prossimo - per fargli tagliare i capelli da un vero barbiere anziché regolarglieli in casa con la scodella. Ora non c'era che da aspettare. E così aspettarono. E aspettarono. Ma Diane Tolomei non arrivava. In un'altra occasione nonno Marescotti si sarebbe spazientito, in questo caso era invece terrorizzato. Non riusciva a capire perché. Sentiva di avere la febbre e la nausea. A tarda sera arrivò la tremenda notizia. Un cugino chiamò per avvertire che c'era stato un incidente d'auto e che la vedova del professor Tolomei era morta assieme alle due bambine. Dopo aver pianto a lungo con la moglie la dipartita di Diane e delle sue figlie, nonno Marescotti si sedette a scrivere una lettera a sua figliala Roma, pregandola di perdonarlo e di tornare a casa. Ma lei non rispose, né mai fece ritorno.
PARTE OTTAVA
Capitolo 1 Oh, io ho comprato la reggia dell'amore che ancora non possiedo. Io pure fui comprata ma ancora non goduta! QUANDO Alessandro terminò la sua storia, eravamo distesi a fianco a fianco tenendoci per mano nel timo selvatico. «Ricordo ancora il giorno in cui sapemmo dell'incidente», aggiunse Alessandro. «Avevo solo tredici anni ma capii subito la gravità della cosa. E mi venne in mente la bambina - tu - che mi era stata presentata come Giulietta. Naturalmente avevo sempre saputo di essere Romeo ma, prima di allora, non avevo mai pensato molto a Giulietta. Fu allora che cominciai a pensare a lei e a prendere atto di come fosse strano essere Romeo quando non c'era nessuna Giulietta al mondo. Strano e solitario.» «Dai, non esagerare!» Mi alzai su un gomito per distrarlo dalla sua malinconia facendogli il solletico con una violetta. «Sono certa che non hai fatto fatica a trovare delle fanciulle disposte a farti compagnia.» Lui ridacchiò e spinse via la violetta. «Pensavo tu fossi morta! Cos'altro potevo fare?» Scossi la testa. «Alla faccia dell'incisione sull'anello di Romeo. ..
Fedele nei secoli.»
«Ehi!» Alessandro rotolò sopra di me e mi guardò tutto serio. «È stato Romeo a dare l'anello a Giulietta, ricordi...?» «Furbo da parte sua.» «D'accordo...» Mi fissò negli occhi, non del tutto felice del verso che stava prendendo la conversazione. «Allora dimmi, Giulietta d'America... tu sei stata fedele nei secoli?» Lui stava scherzando, ma per me la faccenda era seria. Così,
invece di rispondergli, senza distogliere il mio sguardo dal suo, andai dritto al sodo. «Perché sei entrato come un ladro nella mia camera d'albergo?» La mia domanda non avrebbe potuto sconvolgerlo di più. Si staccò da me e si prese la testa tra le mani senza neppure far finta di non aver capito. «Porca vacca!» «Immagino che tu abbia un'ottima giustificazione», dissi, cercando di non staccare gli occhi dal cielo. «Altrimenti non sarei qui.» «Ce l'ho, la giustificazione. Ma non posso dirtela», mormorò. «Come sarebbe?» saltai su come una molla. «Hai fatto tutto quel casino in camera mia e non mi dici perché?» «Che cosa? No!» sbottò Alessandro. «Non sono stato io! Era già così... ho pensato che fossi stata tu!» Vedendo la mia espressione, decise di spiegarmi meglio. «Ascoltami, è vero. Quella sera, dopo che te ne andasti in seguito al nostro litigio al ristorante, corsi al tuo albergo per... non so perché. Ma quando arrivai al Chiusarelli vidi che ti calavi dal balcone e che correvi via...» «Non è vero!» esclamai. «Per quale motivo avrei dovuto farlo?» «D'accordo, allora non eri tu, ma era certamente una donna», continuò Alessandro ancora imbarazzato. «Che ti somigliava. È stata lei a metterti a soqquadro la stanza. Quando sono arrivato io, la tua portafinestra era già aperta e dentro era tutto sottosopra. Spero tu mi creda.» Ero sconcertata. «Come ti aspetti che ti creda se non vuoi neppure dirmi perché l'hai fatto?» «Mi spiace.» Mi tolse un rametto di timo dai capelli. «Vorrei poterlo fare. Ma non devo essere io a dirtelo. Probabilmente lo saprai presto.» «E da chi? O è un segreto anche questo?» «Temo di sì.» Abbozzò un sorriso. «Ma devi fidarti di me se ti dico che le mie intenzioni erano buone.» Scossi la testa, infuriata con me stessa per essere così remissiva. «Devo essere pazza.»
Il suo sorriso si allargò. «Nella tua lingua vuol dire si!» Ancora un poco adirata, mi alzai spazzolandomi nervosamente la gonna. «Non so come faccio a permettere che te la cavi così...» «Vieni qui...» Mi afferrò la mano e mi ritirò giù. «Mi conosci. Lo sai che non potrei mai farti del male.» «Sbagliato», dissi, girando la testa dall'altra parte. «Tu sei Romeo. Tu sei colui che più di chiunque altro può farmi del male.» Ma quando mi prese tra le braccia non potei resistere. Era come se un muro dentro di me stesse andando in mille pezzi - era tutto il pomeriggio che andava in mille pezzi - lasciandomi impotente e vulnerabile, quasi incapace di pensare oltre l'attimo fuggente. «Davvero credi alle maledizioni?» gli sussurrai, avviluppata nel suo abbraccio. «Credo alle benedizioni», replicò. maledizione ci sia una benedizione.»
«Credo
che
per
ogni
«Sai dove sia il cencio?» Sentii il suo braccio che si irrigidiva. «Vorrei tanto saperlo. Lo rivoglio indietro tanto quanto te.» Lo guardai per capire se stava mentendo. «Perché?» «Perché...» sostenne il mio sguardo accusatore con calma apparente, «dovunque esso sia, senza di te non ha significato.» Quando alla fine facemmo ritorno verso la macchina, le nostre ombre si erano allungate sul sentiero e c'era un alito di brezza serale nell'aria. Proprio mentre mi stavo domandando se non dovessimo già essere alla festa di Eva Maria, squillò il cellulare di Alessandro. Lui allora mi consegnò i bicchieri e la bottiglia vuota da riporre nel portabagagli e si allontanò dall'auto per spiegare alla madrina le ragioni del nostro misterioso ritardo. Mentre ero alla ricerca di un posto sicuro in cui riporre i bicchieri, notai una cassetta di legno con l'etichetta CASTELLO SALIMBENI, nell'angolo più lontano del baule. Quando sollevai il coperchio per guardarci dentro, notai che non c'erano bottiglie di vino ma solo dei
trucioli. Giusto per assicurarmi di poter rimettere i bicchieri nella cassetta senza romperli, infilai la mano nei trucioli per rovistare attorno. A un tratto sentii qualcosa di duro contro la punta delle dita e, quando estrassi l'oggetto, vidi che si trattava di una vecchia scatola, simile a quelle usate per i sigari. In quel momento, lì impalata con la scatola in mano, venni riproiettata nei Bottini, quando il giorno prima, assieme a Janice, avevo spiato Alessandro che estraeva una scatola simile dalla cassaforte nel muro di tufo. Incapace di resistere alla tentazione, sollevai il coperchio con l'affanno nervoso di un trasgressore. Non mi passò neppure per la testa che già ne conoscessi il contenuto. Solo quando feci scorrere le dita sull'oggetto - l'anello d'oro con il sigillo, appoggiato su un cuscinetto di velluto blu - la verità mi si abbatté addosso mandando in frantumi tutti i miei sogni romantici. Scoprire che ce ne stavamo andando in giro con l'oggetto che direttamente o indirettamente - aveva ucciso un sacco di persone, mi fece restare per alcuni secondi come inebetita. Feci appena in tempo a rimettere tutto nella cassetta prima che Alessandro apparisse accanto a me, con in mano il cellulare spento. «Che cosa stai cercando?» mi chiese sospettoso. «La crema solare», risposi con nonchalance mentre aprivo la zip della sacca. «Qui il sole... ti arrostisce.» Una volta in macchina, faticai a calmarmi. Non solo si era intrufolato in camera mia e mi aveva mentito su come si chiamava, ma pure adesso, dopotutto quello che era successo tra di noi - i baci, le confessioni, lo scambio dei segreti di famiglia - continuava a non dirmi tutta la verità. D'accordo, probabilmente aveva scoperto alcune carte sul tavolo in modo che io le vedessi, ma la mano più importante, chiaramente, se la stava tenendo ben stretta. Cosa che d'altro canto stavo facendo anch'io. «Tutto bene?» mi chiese dopo un po'. «Sei di nuovo molto silenziosa.» «Tutto okay», lo rassicurai asciugandomi una goccia di sudore con la mano tremante. «È solo il caldo.» Mi diede una strizzatina al ginocchio. «Quando arriviamo, ti
sentirai meglio. Eva Maria ha una piscina.» «Figurarsi.» Inspirai ed espirai profondamente. La mano che aveva toccato l'anello mi era diventata stranamente insensibile. Senza farmi notare, mi strofinai le dita nel vestito. Non era proprio da me lasciarmi sopraffare da ansie superstiziose, eppure me le sentivo ballonzolare in pancia come popcorn in una pentola. Chiudendo gli occhi, mi dissi che non era il momento di farmi prendere da un attacco di panico e che la morsa che provavo allo stomaco altro non era che il mio cervello che cercava di mettere un bavaglio alla mia felicità, come faceva di solito. Ma questa volta non glielo avrei permesso. «Penso che tu abbia bisogno...» Alessandro rallentò per girare in un viottolo di ghiaia «...cazzo!» Un gigantesco cancello di ferro ci sbarrava l'ingresso. A giudicare dalla sua reazione, questo non era il modo con cui Eva Maria dava di solito il benvenuto al suo figlioccio. Dopo un diplomatico scambio di informazioni al citofono, la «grotta incantata» ci si spalancò davanti e ci accingemmo a percorrere un lungo viale fiancheggiato da cipressi di forma spiraleggiante. Non appena entrati nella proprietà, i cardini del cancello si richiusero dietro di noi senza cigolare. Tra lo scricchiolio smorzato della ghiaia e il canto tardo pomeridiano degli uccelli, il clic della serratura quasi non si sentì. Eva Maria Salimbeni viveva in un luogo di sogno. La sua maestosa dimora di campagna - o meglio, castello - era appollaiata sul cucuzzolo di una collina non lontano dal villaggio di Castiglione d'Orda. I campi e le vigne circondavano la proprietà da ogni lato, come la sottana di una contadinella seduta in mezzo a un prato. Era quel tipo di posto che uno avrebbe trovato in un costoso libro illustrato, ma che si faceva fatica a immaginare nella realtà. Mentre ci avvicinavamo alla casa, mi congratulai con me stessa per aver deciso di ignorare tutti i miei dubbi sull'opportunità di quel viaggio. Dal momento che Janice mi aveva detto che Peppo pensava che Eva Maria fosse un pezzo grosso della malavita, non avevo fatto altro che passare dalla preoccupazione all'incredulità, ma adesso che
finalmente ero lì, alla luce del giorno, l'intera faccenda mi sembrava ridicola. Se Eva Maria fosse stata a capo di qualcosa di losco di certo non avrebbe dato una festa a casa sua invitando un'estranea come me. Anche la minaccia dell'anello con il sigillo sembrò sfumare all'apparizione di Castello Salimbeni. Una volta girato attorno alla vasca di fronte all'ingresso principale, ogni residuo timore che potesse ancora albergarmi alla bocca dello stomaco annegò nell'acqua turchese che zampillava da tre cornucopie tra le mani di altrettante ninfe nude a cavalcioni di grifi di marmo. Dinanzi all'ingresso di servizio era parcheggiato il camioncino di un catering e due uomini con grembiuli di cuoio stavano scaricando delle scatole, mentre Eva Maria sovrintendeva al tutto con aria intenta. Non appena scorta la nostra auto, la padrona di casa ci corse incontro esultante, facendoci cenno di parcheggiare senza perdere altro tempo. «Benvenuti!» cinguettò verso di noi a braccia spalancate. «Sono così felice che siate tutti e due qui!» Come sempre, l'esuberanza di Eva Maria mi lasciò troppo sconcertata per reagire in maniera adeguata. Tutto quello che riuscii a pensare fu: Magari alla sua età anch'io potessi permettermi dei pantaloni come quelli! Mi baciò energicamente su entrambe le guance, poi con un sorriso malizioso si girò verso Alessandro e baciò anche lui, stringendogli i bicipiti. «Penso che tu ne abbia combinata una delle tue! Ti sto aspettando da ore!» «Ho fatto vedere a Giulietta la Rocca di Tentennano», disse lui, per niente contrito. «Oh no!» esclamò Eva Maria, scandalizzata. «Non quel posto orribile! Povera Giulietta!» Mi guardò con un'espressione di profonda comprensione. «Mi spiace che tu abbia dovuto vedere quelle orrende rovine. Che impressione ti hanno fatto?» «A dire il vero», dichiarai guardando Alessandro negli occhi, «mi è sembrato un posto alquanto... idilliaco.» Per qualche incomprensibile ragione, Eva Maria gradì così tanto la mia risposta che mi piazzò un bacio in fronte prima di farci strada
dentro casa. «Da questa parte!» Ci indicò una porta laterale che conduceva in cucina e a un'enorme tavola coperta di cibo. «Cari, spero non vi dispiaccia passare di qui... Marcello! Dio Santo!» Rivolgendosi a uno dei camerieri, lanciò in alto le braccia e disse qualcosa che costrinse l'uomo a sollevare una cassetta che aveva appena appoggiato per metterla, con grande cautela, altrove. «Non posso distrarmi, questa gente non sa far niente... che Dio li benedica! E... oh! Sandro!» «Sono qui.» «Che stai facendo?» lo sollecitò Eva Maria con impazienza. «Vai a prendere i bagagli! Giulietta avrà bisogno della sua roba!» «Ma...» Alessandro non sembrò felice di lasciarmi sola con la sua madrina. La sua espressione confusa quasi mi fece venire da ridere. «Ce la caviamo da sole!» continuò lei. «Vogliamo farci quattro chiacchiere tra ragazze! Va' a prendere le borse!» Malgrado il caos e la falcata veloce di Eva Maria, riuscii a rendermi conto delle enormi dimensioni della cucina attraverso cui stavo transitando. Non avevo mai visto piatti e pentole così grandi, né un camino che aveva lo stesso perimetro della mia stanza all'università. Dalla cucina sbucammo in un atrio grandioso che non poteva che essere l'entrata di rappresentanza di Castello Salimbeni. Era un salone quadrato e imponente con soffitti alti quindici metri e una loggia che circondava l'intero primo piano. «Stasera la festa sarà qui!» disse Eva Maria, facendo una piccola pausa per vedere se ero rimasta impressionata. «Toglie il fiato», fu la sola cosa che mi venne in mente di dire mentre le mie parole si perdevano sotto lo smisurato soffitto. Le camere degli ospiti erano al piano superiore e la padrona di casa mi aveva gentilmente destinato una stanza con balcone prospiciente la piscina e il frutteto. Oltre il muro del frutteto, la Val d'Orcia sembrava inondata di polvere d'oro: era come essere in paradiso. «Niente alberi di mele?» scherzai mentre mi sporgevo dal balcone
ad ammirare i rampicanti sul muro. «O serpenti?» «In tutta la mia vita non mi sono mai imbattuta in un serpente», rispose Eva Maria, prendendomi sul serio. «E dire che ogni notte faccio una passeggiata nel frutteto. Ma se ne vedessi uno, gli schiaccerei la testa con un sasso, così.» Mi fece vedere. «Già, sarebbe fritto», osservai. «Ma se hai paura, Sandro è qui vicino...» fece cenno verso la portafinestra accanto alla mia. «Le vostre stanze hanno il balcone in comune.» Mi diede una gomitatina con aria cospiratoria. «Ho pensato di rendervi le cose facili, a voi due.» Piuttosto confusa, rientrai in camera con lei. Nella stanza incombeva un colossale letto a baldacchino preparato con lenzuola di lino bianco. Quando vide il mio stupore, mi lanciò uno sguardo malizioso, esattamente come avrebbe fatto Janice. «Splendido letto, no? ...omerico!» «Sa», dissi mentre le guance mi cambiavano di colore, «non vorrei lei si facesse un'idea sbagliata di me e... del suo figlioccio.» Lei mi osservò con quella che oserei definire un'espressione delusa. «No?» «No, non sono quel tipo di persona.» Vedendo che la mia castità non l'aveva colpita più di tanto, mi affrettai ad aggiungere: «Lo conosco soltanto da due settimane, o giù di lì». Eva Maria mi fece un sorriso e mi diede un buffetto sulla guancia. «Sei una brava ragazza. Mi piaci. Vieni, ti mostro il bagno...» Quando alla fine mi lasciò sola - dopo avermi detto che nella cassettiera accanto al letto c'era un bikini della mia misura e che nell'armadio era appeso un accappatoio - mi spaparanzai sul letto. Questa incredibile ospitalità aveva qualcosa di meravigliosamente rilassante. Se avessi voluto avrei senz'altro potuto rimanere lì per il resto dei miei anni, a godere della campagna toscana stagione dopo stagione, senza paura di essere fuori posto. Ma allo stesso tempo in tutto quello scenario c'era qualcosa di vagamente inquietante. Anzi, avevo come l'impressione che di Eva Maria mi stesse sfuggendo qualcosa di molto importante; non la faccenda della sua presunta
criminalità ma qualcos'altro. E non aiutava di certo che i segnali di cui ero alla ricerca mi stessero vagolando attorno come palloncini intrappolati sotto un alto soffitto. E neppure mi aiutava a vederci chiaro il fatto che mi fossi scolata mezza bottiglia di Prosecco a stomaco vuoto e che anch'io, come i palloncini, stessi vagolando al settimo cielo dopo il pomeriggio trascorso con Alessandro. Proprio mentre ero in pieno dormiveglia, sentii un forte sciabordio proveniente dall'esterno e, subito dopo, una voce che mi chiamava. Dopo essermi scollata dal letto con molta fatica, barcollai fino al balcone e vidi che Alessandro mi stava facendo cenni frenetici dalla piscina. «Cosa fai lassù?» gridò. «L'acqua è perfetta!» «Perché hai questa fissazione dell'acqua?» gli urlai di rimando. Sembrò perplesso ma la cosa non fece che accrescere il suo fascino. «Cos'ha l'acqua che non va?» Quando arrivai in piscina imbacuccata nell'accappatoio di Eva Maria, Alessandro scoppiò a ridere. «Pensavo che avessi troppo caldo», mi disse issandosi a sedere sul bordo della piscina per godersi gli ultimi raggi del sole. «Lo ero», risposi rimanendo goffamente in piedi a cincischiare con la cintura dell'accappatoio, «ma adesso mi sento meglio. E a dire la verità non sono una grande nuotatrice.» «Non devi nuotare», mi fece presente lui. «La piscina non è molto profonda. E poi...» mi strizzò un occhio, «sono qui per salvarti.» Mi guardai in giro per non guardare lui. Indossava uno slip da bagno striminzito, ma quella era la sola cosa striminzita che avesse addosso... Lì immerso nell'ultima luce del giorno, sembrava fatto di bronzo. Il suo corpo risplendeva e pareva scolpito da qualcuno che conoscesse alla perfezione le proporzioni ideali della figura umana. «Dai», disse lasciandosi scivolare nell'acqua come se stesse entrando nel suo vero elemento. «Ti assicuro che ti piacerà.» «Non dico per scherzo», replicai senza muovermi. «Sono una frana nell'acqua.»
Facendo fatica a credermi, Alessandro venne a nuoto nella mia direzione e appoggiò i gomiti sul bordo. «Che cosa vuoi dire? Che ti sciogli?» «In genere annego e mi faccio prendere dal panico», ribattei un po' più bruscamente del necessario. «In ordine inverso. Quando avevo dieci anni, mia sorella mi spinse giù da un pontile per far bella figura con i suoi amici. Battei la testa e per poco non annegai. Anche adesso non riesco a entrare nell'acqua alta senza farmi prendere dal panico. Hai capito? La tua Giulietta è una mollacciona.» «Bella sorella che ti ritrovi...» sentenziò Alessandro. «A dire il vero è a posto, prima ero stata io a spingerla giù dal pontile.» Rise. «Be', allora hai avuto quel che ti meritavi. Vieni qui. Sei troppo lontana.» Diede un colpetto sul bordo di ardesia. «Siediti qua.» Alla fine mi decisi a sfilarmi l'accappatoio e a esibire il minuscolo bikini di Eva Maria. Avanzai di un paio di passi e mi sedetti. «Accidenti, la pietra scotta!» «Allora tuffati!!» mi sollecitò Alessandro. «Mettimi le braccia attorno al collo. Ti sorreggo io.» «No, grazie.» «Dai, non possiamo andare avanti così.» Si sporse per cingermi la vita con le braccia. «Come farò a insegnare ai nostri bambini a nuotare se si accorgono che hai paura dell'acqua?» «Oh, come corri!» ridacchiai, mettendogli le mani sulle spalle. «Se annego ti faccio causa!» «D'accordo, fammi causa», disse mentre mi faceva scivolare dal bordo e mi trascinava con sé in acqua. «Non assumerti mai le tue responsabilità.» Fu di certo un bene che fossi troppo seccata dalla sua frase per prestare attenzione all'acqua. Prima ancora di rendermene conto ero dentro fino al petto con le gambe avvinghiate ad Alessandro. Ed era piacevole. «Visto?» mi sorrise trionfante. «Non è così male come pensavi.»
Osservai l'acqua sotto di me e vidi il mio riflesso tutto distorto. «Che non ti passi neppure per la testa di lasciarmi andare!» La parte inferiore del bikini era ben salda nelle sue mani. «Non ti lascerò mai andare. Rimarrai appiccicata a me in questa piscina per sempre.» Man mano che la mia paura sfumava, cominciai ad apprezzare il contatto del suo corpo contro il mio e, a giudicare da come mi guardava lui, ebbi l'impressione che il sentimento fosse reciproco. «La
sua faccia è più bella di tutte; però la sua gamba è più diritta di qualunque altra; delle mani, poi, dei piedi, dell'aspetto, è inutile parlarne: sono incomparabili. Egli non è il fiore della cortesia ma, ve lo garantisco, è docile come un agnello», declamai. Nel frattempo Alessandro si stava dando da fare per sconfiggere la prodezza ingegneristica del gancio del mio reggiseno. «Finalmente Shakespeare dice una cosa giusta riguardo Romeo.» «Fammi capire... tu non sei il fiore della cortesia?» Mi tirò ancora di più verso di sé. «Ma docile come un agnello.» Gli misi una mano sul petto. «Meglio dire un lupo travestito da agnello.» «I lupi», replicò mentre faceva scendere il mio corpo affinché i nostri volti quasi si toccassero, «sono animali molto gentili.»
Quando mi baciò, non mi importò chi ci poteva vedere. Era quello che volevo da quando avevamo lasciato la Rocca di Tentennano, e gli restituii il bacio senza riserve. Solo quando lo sentii testare l'elasticità del bikini di Eva Maria ebbi un sussulto. «E che ne è stato di Colombo e del suo desiderio di esplorare le coste?» «Colombo non ti ha mai incontrata», replicò Alessandro mentre mi spingeva contro la parete della piscina e mi chiudeva la bocca con un altro bacio. E avrebbe avuto altre cose da dire, alle quali di certo io avrei risposto favorevolmente, non fosse stato per una voce che lo chiamava da un balcone. «Sandro!» urlava Eva Maria sbracciandosi per attirare l'attenzione. «Dai, vieni dentro, svelto!» Benché fosse subito sparita, l'improvvisa interruzione di Eva Maria
fece sobbalzare entrambi. Senza pensarci mollai la presa e quasi andai sotto. Per fortuna lui non mi lasciò andare. «Grazie!» ansimai, riappiccicandomi a lui. «Dopotutto non hai delle mani malvagie.» «Cosa ti avevo detto?» Mi spostò dal viso alcune ciocche di capelli che mi erano rimaste incollate. «Per ogni maledizione esiste una benedizione.» Il suo sguardo si era fatto di colpo così serio che ne fui sorpresa. «Se vuoi sapere come la penso io...» gli toccai una guancia, «le maledizioni funzionano solo se ci credi.» Quando infine tornai in camera mia, mi lasciai andare sul pavimento e mi misi a ridere. Era una cosa talmente «da Janice» pomiciare in una piscina - che non vedevo l'ora di raccontarglielo. Anche se... non le avrebbe fatto nessun piacere sapere che quando si trattava di Alessandro perdevo ogni freno inibitore e dimenticavo tutte le sue raccomandazioni. In un certo senso mi faceva tenerezza che mia sorella fosse così gelosa di lui, ammesso che si trattasse di questo. Non me l'aveva detto esplicitamente, ma avevo capito che ci era rimasta assai male quando avevo rinunciato ad andare a Montepulciano con lei alla ricerca della casa di nostra madre. Solo in quel momento, assieme a un lieve senso di colpa che mi distolse dai miei sogni a occhi aperti, percepii un sentore come di fumo - incenso? - che forse proveniva dalla mia camera, o forse no. Uscii sul balcone nel mio accappatoio bagnato per riempirmi i polmoni di aria pura e notai che il sole stava calando in un tripudio di oro e rosso sangue, e che il cielo si tingeva di un blu più intenso. Con l'avvicinarsi della sera, si avvertiva nell'aria un accenno di rugiada che portava con sé la promessa di tutti gli aromi, le passioni e i brividi sinistri della notte. Rientrando in camera e accendendo la luce, mi accorsi che un abito era stato disposto sul letto per me, con un biglietto scritto a mano che diceva: Indossa questo per la festa. Lo sollevai incredula. Non solo Eva Maria mi prescriveva di nuovo cosa mettermi ma questa volta aveva deciso di farmi sembrare ridicola. Era una
creazione lunga fino a terra di velluto rosso sangue con una scollatura squadrata e delle maniche rigonfie. Janice l'avrebbe definito all'ultimo grido fra gli zombi e se ne sarebbe sbarazzata con un ghigno di scherno. Fui tentata di fare lo stesso. Ma quando dalla sacca tirai fuori la mia audace mise e la raffrontai con quella di Eva Maria, mi venne il sospetto che forse scendere nel salone con una sottoveste nera in quella particolare serata avrebbe potuto essere il più grande passo falso della mia carriera. Malgrado le scollature vertiginose di Eva Maria e tutti i suoi commenti al fulmicotone, non era da escludere che i suoi invitati fossero un branco di parrucconi che mi avrebbero giudicato, e male, dalle mie spalline inesistenti. Una volta entrata nella palandrana medioevale di Eva Maria, ed essermi impilata i capelli sulla testa in un tentativo di acconciatura da cerimonia, mi soffermai un attimo sulla soglia della camera ad ascoltare il brusio degli ospiti in arrivo. Si sentivano musica e risate, e in mezzo al rumore delle bottiglie stappate potevo udire la padrona di casa che accoglieva con grida di giubilo non soltanto amici e parenti, ma anche membri della chiesa e della nobiltà. Non avendo il coraggio di fiondarmi nella mischia da sola, andai in punta di piedi in corridoio per bussare alla porta di Alessandro. Ma non rispose nessuno. Proprio mentre allungavo una mano verso la maniglia, qualcuno mi artigliò la spalla. «Giulietta!» Eva Maria aveva l'abitudine assai inquietante di materializzarsi all'improvviso. «Sei pronta a scendere?» Sobbalzai, imbarazzata di essere stata sorpresa mentre cercavo di infilarmi nella camera del suo figlioccio. «Stavo cercando Alessandro!» balbettai, ancora sotto shock per essermela sentita piombare dietro. Sembrava più alta del solito con la tiara che aveva in testa e un trucco troppo appariscente persino per lei. «Ha dovuto andare a fare una commissione», tagliò corto, «poi torna. Vieni...» Mentre la seguivo lungo la loggia, era difficile non rimanere a bocca aperta nel guardare il suo abito. Se mi era venuto il dubbio che il mio abbigliamento mi facesse sembrare l'eroina di un
melodramma, adesso potevo rilassarmi perché' ero solo una comprimaria. Avvolta in un delirio di taffetà color oro, Eva Maria risplendeva più del sole. Mentre scendevamo frusciando lungo l'ampio scalone - con la mano di lei saldamente avvinghiata sopra il mio gomito - gli ospiti sottostanti non poterono che assistere ammutoliti. Almeno un centinaio di persone erano riunite nel grande salone e tutte ammiravano in un silenzio stupefatto la padrona di casa che mi scortava fra di loro come una naiade che sparga petali di rosa dinanzi la regina del bosco. Eva Maria aveva chiaramente pianificato in anticipo l'intera messa in scena visto che l'ambiente era illuminato solo da grandi ceri, le cui luci tremolanti facevano sembrare in fiamme anche il suo abito. Per alcuni minuti potei udire solo la musica, non i soliti pezzi classici che uno si aspetterebbe, ma brani dal vivo eseguiti con strumenti medioevali da un piccolo gruppo di musici situato all'estremità del salone. Mentre scrutavo quel silenzioso assembramento, mi rallegrai di aver scelto l'abito di velluto rosso a scapito del mio. Dire che quella sera gli invitati di Eva Maria erano un branco di parrucconi sarebbe stato un eufemismo. Si aveva l'impressione che tutti appartenessero a un altro mondo. Di primo acchito, non mi parve che nessuno dei presenti fosse sotto i settant'anni, forse addirittura sotto gli ottanta. Una persona di buon cuore avrebbe pensato che erano dei cari, adorabili vecchietti che andavano a una festa ogni vent'anni e che nessuno di loro aveva più sfogliato una rivista di moda dalla fine della Seconda Guerra Mondiale... ma avevo frequentato troppo mia sorella per essere così generosa. Se fosse stata lì con me, Janice avrebbe assunto un'aria minacciosa e si sarebbe leccata i canini, come per dirmi: Attenta ai vampiri! L'unico vantaggio - in quel caso - stava nel fatto che sembravano tutti così fragili che probabilmente avrei avuto la meglio su di loro in qualsiasi momento. Arrivate in fondo alla scalinata, un nutrito gruppo di ospiti si avvicinò a me, parlottando e palpandomi con dita esangui per accertarsi che fossi vera. Lo stupore che percepivo nei loro sguardi mi fece concludere che pensassero che fossi io, e non loro, a essere appena uscita dalla tomba per l'occasione.
Accorgendosi del mio imbarazzo, Eva Maria cominciò a far allontanare i presenti finché rimanemmo con le sole due ospiti che avessero qualcosa da dirmi. «Questa è monna Teresa», disse Eva Maria, «e questa monna Chiara. Monna Teresa, proprio come te, discende da Giannozza Tolomei e monna Chiara da monna Mina del casato dei Salimbeni. Sono molto emozionate di vederti qui perché per tanti anni hanno creduto che tu fossi morta. Sono delle esperte di storia e sanno parecchie cose sulla donna di cui hai ereditato il nome, Giulietta Tolomei.» Scrutai le due anziane. Non c'era da stupirsi che sapessero tutto sui miei antenati e su quello che era successo nel 1340: sembrava che entrambe fossero appena uscite dal Medioevo! Davano l'idea di star dritte solo grazie al corsetto e alle rigide gorgiere di merletto attorno al collo. Tuttavia, mentre una continuava a sorridere civettuola dietro un ventaglio nero, l'altra mi osservava con un po' più di riserbo. Quest'ultima aveva i capelli acconciati con una piuma di pavone come avevo visto solo nei quadri antichi. Accanto alle due carampane Eva Maria aveva un'aria decisamente giovanile e io fui felice che mi stesse vicino tutta intenta a tradurmi quello che mi dicevano. «Monna Teresa», mi spiegò riferendosi alla donna con la piuma di pavone, «vuole sapere se hai una sorella gemella di nome Giannozza. Per centinaia di anni è stata una tradizione di famiglia battezzare le sorelle gemelle Giulietta e Giannozza.» «A dire il vero, ce l'ho», risposi. «Peccato non sia qui anche lei stasera. Avrebbe...» feci correre lo sguardo nel salone illuminato dalle candele e su tutto quel bizzarro assembramento, soffocando un sorriso «...le sarebbe piaciuto.» La vecchia dama si esibì in un sorriso rugoso nell'apprendere che eravamo in due e mi fece promettere che la prossima volta avrei portato anche mia sorella. «Ma se questi sono nomi di famiglia», osservai, «ci saranno centinaia, anzi migliaia, di Giulietta Tolomei nelle vicinanze, oltre a me.»
«No-no-no», esclamò Eva Maria. «Ricordati che stiamo parlando di una tradizione che si tramanda per ramo femminile, e che le donne prendono il cognome del marito quando si sposano. Da quello che ricorda monna Teresa, in tutti questi anni nessun altro è mai stato battezzato con il nome di Giulietta o Giannozza Tolomei. Ma tua madre era cocciuta... Voleva assolutamente usare quel nome, e così sposò il professor Tolomei. E poi cosa mi combina? Mette al mondo due gemelle!» Volse lo sguardo verso monna Teresa per averne la conferma. «Per quanto ci risulta, tu sei l'unica Giulietta Tolomei al mondo. Questo ti rende molto speciale.» Mi stavano guardando tutte e tre con aria speranzosa, così feci del mio meglio per apparire riconoscente e interessata. Ovviamente ero felicissima di saperne di più sulla mia famiglia e conoscere parenti lontani, ma il tempismo non era dei migliori. Ci sono sere in cui non si vede l'ora di intrattenersi con vecchie signore in gorgiera di pizzo, e sere in cui si farebbe volentieri dell'altro. E a dirla tutta, in quella particolare occasione avevo una gran voglia di starmene sola con Alessandro. Dove diavolo si era cacciato? Poi fu monna Chiara a prendermi per un braccio per parlarmi tutta infervorata di cose passate con un tono di voce fragile come carta velina. E io, per sentirla, dovetti avvicinarmi alquanto, con il rischio di farmi trafiggere dalla piuma di pavone di monna Teresa. «Monna Chiara ti sta invitando a farle visita», tradusse Eva Maria, «perché tu possa vedere l'archivio dei documenti di famiglia. La sua antenata, monna Mina, fu la prima persona che cercò di ricostruire la storia di Romeo, Giulietta e Frate Lorenzo. È stata lei a trovare la maggior parte delle vecchie carte e i verbali del procedimento contro il monaco, con la sua confessione, in un archivio segreto nell'ex camera delle torture a Palazzo Salimbeni. Ha anche recuperato le lettere indirizzate a Giannozza che Giulietta aveva nascosto in parte a Palazzo Tolomei, in parte a Palazzo Salimbeni e una, l'ultima, nella Rocca di Tentennano.» «Mi piacerebbe davvero vedere queste lettere», dissi, e parlavo sul serio. «Ho letto solo dei frammenti...» «Dopo che le trovò», mi interruppe Eva Maria sollecitata da monna Chiara, i cui occhi lampeggiavano al lume delle candele, pur
rimanendo stranamente distanti, «monna Mina fece un lungo viaggio per consegnare le epistole a Giannozza. Questo accadde attorno al 1372 e Giannozza era intanto diventata felicemente nonna con il suo secondo marito, Mariotto. Puoi immaginare quale fu il suo shock nel leggere quello che la sorella le aveva scritto tanti anni addietro, prima di porre fine alla propria vita. Le due donne - Mina e Giannozza - parlarono di quello che era successo e giurarono che avrebbero fatto il possibile affinché le generazioni future non dimenticassero.» Eva Maria prese fiato e cinse affettuosamente con il braccio le due anziane signore, che si misero a ridacchiare giulive come ragazzine. «Così», mi spiegò fissandomi intensamente, «è per questo che siamo riuniti qua stasera: per ricordare quello che successe e per far sì che non accada di nuovo. Ogni anno, per tutta la vita, all'anniversario della sua notte di nozze monna Mina scendeva in quella spaventosa cella nel sotterraneo per accendere dei ceri a Frate Lorenzo. E quando le sue figlie furono abbastanza grandi portò anche loro affinché imparassero a onorare il passato e a continuare la tradizione. Per molte generazioni questa cerimonia venne mantenuta in vita dalle donne di entrambi i casati. Ma ora, per la maggior pane delle persone, tutti questi eventi sono assai distanti. E ti dirò di più...» Eva Maria mi strizzò l'occhio, tornando così per un poco a essere quella che ricordavo. «Le banche di adesso non apprezzano né le processioni a lume di candela, né le donne in camicia da notte che si aggirano nelle camere blindate. Prova a chiedere a Sandro. È per questo che ora teniamo le nostre riunioni a Castello Salimbeni. Ci siamo civilizzati, capisci, e poi non siamo più giovani. Quindi, carissima, siamo felici di averti qui con noi stanotte, che è la notte del matrimonio di monna Mina, e di accoglierti nella nostra cerchia.» Cominciai a rendermi conto che c'era qualcosa di strano quando mi avvicinai al tavolo del buffet. Proprio mentre cercavo di staccare la coscia di un'anatra arrosto elegantemente adagiata nel centro di un vassoio d'argento, venni invasa da una tiepida ondata di oblio che mi cullò in uno stato di semicoscienza. Niente di drammatico,
ma lasciai cadere la posata di servizio come se di colpo i muscoli avessero ceduto. Dopo aver inspirato profondamente per alcuni istanti, riuscii ad alzare la testa e a mettere a fuoco l'ambiente. Lo spettacolare buffet di Eva Maria era stato approntato nella terrazza prospiciente il salone, alla luce della luna nascente e delle numerose torce disseminate in giro. Dietro di me, la dimora risplendeva attraverso le decine di finestre illuminate e i punti luce disseminati all'esterno. Era come un enorme faro che volesse tenere il buio sotto scacco, o un'ultima, raffinata roccaforte dell'orgoglio dei Salimbeni in cui iniziavo a sospettare che le leggi del mondo avrebbero anche potuto non essere rispettate. Cercai di superare il capogiro, afferrando di nuovo la posata. Avevo preso un solo bicchiere di vino - versatomi personalmente da Eva Maria che voleva sapere cosa pensassi del suo ultimo Sangiovese - ma ne avevo gettato la metà in un vaso di fiori perché non volevo insultare la sua perizia di enologa bevendolo solo in parte. Detto ciò, considerando tutto quello che era successo dal pomeriggio in poi, sarebbe stato alquanto improbabile se a quel punto non mi fossi sentita un poco «fuori». Fu in quel momento che vidi Alessandro. Era emerso dal buio del giardino e, fermo tra due torce, mi stava guardando. Pur sollevata e felice di averlo di nuovo accanto a me, capii immediatamente che c'era qualcosa che non andava. Non che apparisse adirato. Aveva piuttosto un'aria preoccupata, quasi di rincrescimento, come qualcuno che avesse appena bussato alla mia porta per annunciarmi una disgrazia. Pervasa da cattivi presentimenti, posai il piatto e lo raggiunsi.
«Ogni minuto sono molti giorni», gli dissi, con un sorriso incerto. «Oh, con questo modo di misurare il tempo diventerò vecchia prima di rivedere il mio Romeo.» Mi fermai di fronte a lui sforzandomi di
capire quello che aveva in testa. Ma il suo viso - per la prima volta da quando l'avevo conosciuto - non mostrava alcuna emozione. «Shakespeare, Shakespeare», esclamò, non apprezzando il mio poetare, «perché deve mettersi sempre in mezzo?»
Osai alzare una mano per sfiorargli il viso. «Ma lui è nostro amico.» «Davvero?» Alessandro mi prese la mano e poi la voltò per baciarmi il polso, tenendo gli occhi fissi nei miei. «Lo è davvero? Allora dimmi cosa dovremmo fare ora secondo il nostro amico?» Assentì lentamente nel leggere la risposta nel mio sguardo. «E dopo?» Gli misi un po' a capire quello che intendeva. Dopo l'amore ci sarebbe stata la separazione, e dopo la separazione la morte... secondo il signor Shakespeare, il mio amico. Prima che potessi ricordare ad Alessandro che stavamo riscrivendo il finale che ci avrebbe reso felici - giusto? - Eva Maria arrivò fluttuando verso di noi come uno splendido cigno dorato nel suo vestito iridescente. «Sandro! Giulietta! Grazie a Dio!» Fece cenno a entrambi di seguirla. «Presto, venite!» Non c'era nient'altro da fare che obbedire, così ci mettemmo nella scia sfavillante di Eva Maria senza chiederle cosa ci potesse essere di così urgente. O forse Alessandro già sapeva dove eravamo diretti e perché. A giudicare dal suo cipiglio eravamo di nuovo alla mercé del Bardo o dell'avversa fortuna, o di qualunque altro potere che quella notte avesse in mano i nostri destini. Una volta rientrati nel salone, Eva Maria ci fece strada in mezzo alla folla degli invitati, per poi uscire da una porta laterale, percorrere un corridoio e arrivare a una saletta di rappresentanza buia e silenziosa. Prima di varcare la soglia - con gli occhi sbarrati dall'agitazione - fece una breve sosta per accertarsi che rimanessimo dietro di lei mantenendo il silenzio. Di primo acchito la stanza pareva vuota ma l'atteggiamento teatrale di Eva Maria mi spinse a guardare con maggiore attenzione. E così li vidi. Alle due estremità del tavolo erano posti due candelabri carichi di ceri accesi e, su ognuna delle dodici sedie dagli alti schienali, sedeva un individuo coperto dagli indumenti monocromatici del clero. In un angolo appartato della saletta un giovane incappucciato stava facendo oscillare in silenzio un turibolo con l'incenso. Quando vidi quella gente il cuore prese a battermi più forte e mi
venne in mente quello che Janice mi aveva detto il giorno prima. Cioè che Eva Maria era a capo di un'organizzazione criminale, che nel suo castello isolato si dilettava di occulto e che una società segreta evocava lo spirito dei morti con rituali di sangue. Pur nel mio stato confusionale, avrei immediatamente fatto dietrofront se il braccio di Alessandro non mi avesse circondato la vita con aria possessiva. «Questi signori sono membri della Confraternita di Lorenzo», spiegò Eva Maria con voce leggermente tremante. «Arrivano da Viterbo per incontrare te.» «Me?» Guardai quella cupa assemblea. «Perché?» «Sssh!» Mi scortò fino all'estremità del tavolo per presentarmi con grande ossequio al monaco anziano curvo sullo scranno più imponente. Fece un inchino in direzione del religioso, i cui occhi erano fissi su di me o, più precisamente, sul crocefisso che avevo al collo. «Giulietta, questo è un momento molto speciale. Ti presento Frate Lorenzo.»
Capitolo 2 Oh felice, felice notte! Io temo, poi ch'è notte, che sia un sogno il mio, dolce di lusinghe e non realtà! «GIULIETTA Tolomei!» Il vecchio monaco si alzò dal suo scranno per prendermi il viso tra le mani e fissarmi con intensità. Poi sfiorò il crocefisso che portavo al collo, non con atteggiamento sospettoso ma con grande rispetto. Quando ebbe guardato a sufficienza, si chinò in avanti per baciarmi in fronte con labbra dure come legno. «Frate Lorenzo», mi spiegò Eva Maria, «è a capo della Confraternita di Lorenzo. Chi è a capo prende sempre il nome di Lorenzo in memoria dell'amico della tua antenata. È un grande onore che questi uomini abbiano accettato di venire qui questa notte per restituirti qualcosa che ti appartiene. Sono centinaia di anni che i membri della Confraternita aspettano questo momento!» Quando Eva Maria cessò di parlare, Frate Lorenzo fece cenno agli altri monaci di alzarsi, e loro obbedirono tutti nel massimo silenzio. Uno si sporse in avanti per prendere una piccola scatola posta al centro del tavolo e farla passare da una mano all'altra finché raggiunse Frate Lorenzo. Appena capii che era la stessa che avevo trovato nel portabagagli di Alessandro quel pomeriggio, indietreggiai di un passo ma, nel momento in cui mi sentì muovere, Eva Maria mi conficcò le dita nella spalla e mi costrinse a rimanere dov'ero. E quando Frate Lorenzo si imbarcò in una dettagliata spiegazione in italiano, lei affannosamente mi tradusse parola per parola. «Questo è un gioiello che la Vergine Maria ha custodito per molti secoli e che tu sola puoi indossare. Troppo a lungo è rimasto sepolto nei sotterranei assieme al vecchio Frate Lorenzo. Quando il corpo del monaco venne
rimosso da Palazzo Salimbeni per essere portato in un luogo consacrato a Viterbo, i confratelli rinvennero l'oggetto con le sue spoglie. Pensarono che lui l'avesse tenuto nascosto per non farlo finire nelle mani sbagliate. Poi scomparve di nuovo per molti altri anni ma adesso finalmente è qui e può essere benedetto.» Alla fine Frate Lorenzo si decise ad aprire la scatola che conteneva l'anello con il sigillo di Romeo, appoggiato sul suo cuscinetto di velluto blu. Tutti si allungarono a guardarlo, me compresa. «Dio!» sussurrò Eva Maria, rapita. «Questo è l'anello nuziale di Giulietta. È un miracolo che Frate Lorenzo sia riuscito a metterlo in salvo.» Detti una sbirciatina ad Alessandro aspettandomi che sembrasse almeno un po' in colpa per essere andato in giro tutto il giorno con il dannatissimo anello nel portabagagli e non avermi detto l'intera verità. Ma la sua espressione era del tutto tranquilla. O non provava nessun rimorso oppure era incredibilmente bravo a mascherarlo. Nel frattempo, Frate Lorenzo impartì all'anello un'elaborata benedizione prima di estrarlo dalla scatola e porgerlo con dita tremanti non a me, ma ad Alessandro. «Romeo Marescotti... prego.» Alessandro esitò prima di prenderlo e quando alzai gli occhi per guardarlo in viso vidi che stava scambiando uno sguardo con Eva Maria. Uno sguardo intenso e grave che indicava una sorta di punto di non ritorno tra di loro e che mi attanagliò il cuore come la presa di un macellaio prima del colpo fatale. Proprio in quel momento - e del tutto comprensibilmente - una seconda ondata di oblio mi offuscò la vista e vacillai per alcuni istanti mentre la stanza cominciava a rotearmi attorno senza fermarsi. Afferrai il braccio di Alessandro per non cadere mentre tentavo di riprendermi. Inspiegabilmente, né lui né Eva Maria lasciarono che il mio subitaneo malore interrompesse la cerimonia. «Nel Medioevo», disse Alessandro mentre traduceva quello che Frate Lorenzo stava declamando, «era molto semplice. Lo sposo dichiarava: lo ti do questo anello e la cosa era fatta. Matrimonio concluso.» Si impossessò della mia mano e mi infilò al dito l'anello. «Niente diamanti. Solo l'aquila.»
Fu per tutti una fortuna che io fossi troppo rintronata per ribellarmi al fatto che un anello malefico proveniente dalla bara di un morto mi venisse infilato all'anulare senza il mio consenso. In quel momento qualcosa di misterioso - non il vino - mi stava frullando il comprendonio e tutte le mie facoltà intellettive erano come sepolte sotto una slavina di fatalismo ebete. Per cui me ne stetti lì docile mentre Frate Lorenzo intonava una seconda prece verso i poteri superiori e indicava un altro oggetto posto sul tavolo. Era il pugnale di Romeo. «Il pugnale è infetto», spiegò Alessandro a voce bassa, «ma Frate Lorenzo provvederà, in modo che non faccia più danno...» Pur nel mio stato confusionale fui in grado di elaborare: Che gentile da parte tua! Che gentile a chiedermi il permesso prima di dare a questo tizio un ricordo di famiglia lasciatomi espressamente dai miei genitori! Ma non lo dissi. «Sssh!» a Eva Maria evidentemente poco importava che io capissi o meno quello che stava succedendo. «La vostra mano destra!» Sia io sia Alessandro la guardammo perplessi mentre lei poneva la sua mano destra sopra il pugnale che Frate Lorenzo teneva sollevato davanti a noi. «Forza!» mi incitò. «Metti la mano sopra la mia.» E così feci. Poi, come in un gioco di bambini Alessandro appoggiò la sua sopra la mia. Per chiudere il cerchio, Frate Lorenzo mise la sua mano libera su quella di Alessandro, mentre blaterava una nuova invocazione indirizzata ai poteri superiori. «Mai più questo pugnale potrà nuocere a un Salimbeni, a un Tolomei o a un Marescotti», sussurrò Alessandro ignorando lo sguardo di Eva Maria che gli diceva di star zitto. «Il cerchio della violenza è chiuso. Mai più noi ci faremo del male a vicenda con qualsivoglia arma. È giunta finalmente la pace e questo pugnale deve tornare da dove era arrivato per essere riversato nelle pieghe della terra.» Una volta terminata la preghiera, Frate Lorenzo ripose con molta cautela il pugnale in una cassetta di metallo munita di lucchetto. Poi, dopo aver passato la cassetta a uno dei suoi confratelli, l'anziano monaco ci degnò di un sorriso, come si farebbe in una normale
riunione mondana e non fosse stato invece appena celebrato un matrimonio medioevale seguito da un esorcismo. «E adesso un'ultima cosa», proclamò Eva Maria non meno esaltata di Frate Lorenzo. «Una lettera...» Aspettò finché il monaco non estrasse da sotto il saio un piccolo rotolo di pergamena ingiallita. Se davvero si trattava di una lettera, doveva essere davvero molto antica e non era stata mai aperta dato che era ancora chiusa da un sigillo rosso. «Questa è un'epistola che Giannozza spedì a sua sorella Giulietta nel 1340 a Palazzo Tolomei. Frate Lorenzo non riuscì mai a consegnarla a causa di quello che successe al Palio. I confratelli di Lorenzo l'hanno trovata solo di recente negli archivi del monastero dove il monaco fece ricoverare Romeo dopo avergli salvato la vita. Adesso è tua.» «Ah, grazie», mormorai mentre osservavo Frate Lorenzo che faceva di nuovo sparire la lettera sotto il saio. «E adesso...» Eva Maria schioccò le dita in aria e in un battibaleno un cameriere si materializzò fra di noi con un vassoio carico di antichi calici pieni di vino. «Prego...» La padrona di casa offrì la coppa più grande a Frate Lorenzo prima di servire il resto di noi e alzare poi la sua in un brindisi celebrativo. «Oh, Giulietta... Frate Lorenzo dice che quando hai... insomma quando tutto questo sarà finito devi andare a Viterbo per restituire il crocefisso al suo legittimo proprietario. In cambio lui ti darà la lettera di Giannozza.» «Quale crocefisso?» bofonchiai ben consapevole di quanto avessi la voce impastata. «Quello...» Indicò con la mano il crocefisso che avevo al collo. «Apparteneva a Frate Lorenzo. Lo vuole indietro.» Malgrado il retrogusto di polvere e antiruggine, buttai giù il mio drink tutto d'un fiato. Non c'è niente come un bell'assembramento di monaci spettrali infagottati nei loro mantelli per metterti una gran sete. Per non parlare del mio persistente capogiro e dell'anello di Romeo che mi ritrovano incuneato nel dito. Ma almeno avevo trovato qualcosa che mi apparteneva veramente. Quanto al pugnale - che al momento era sottochiave in una cassetta di metallo destinata alla fonderia - diciamo che non era mai stato davvero mio.
«E adesso è arrivato il momento della processione», annunciò Eva Maria posando il calice. Da piccola, acciambellata sulla panca della cucina a guardare Umberto intento nelle sue faccende, talvolta capitava che lui mi parlasse delle processioni religiose che si svolgevano in Italia durante il Medioevo. Mi aveva detto dei preti che trasportavano per le strade le reliquie o le statue dei santi, delle torce che illuminavano il passaggio e dei rami di palma che adornavano i cortei. Di tanto in tanto concludeva il suo racconto con: «E tutto questo succede ancora oggi», che io interpretavo come un «e vissero felici e contenti», cioè un modo di dire e niente più. Mai e poi mai potevo pensare che un giorno avrei preso parte io stessa a una processione, specie a una che sembrava essere stata organizzata anche in mio onore e nel corso della quale dodici monaci dall'aria severa avrebbero benedetto l'intera dimora - inclusa la mia stanza - accompagnati da una piccola teca di vetro con una reliquia e dalla maggior parte degli invitati, tutti con un cero in mano. Mentre procedevamo lentamente lungo la loggia del primo piano, sulla scia dell'incenso e della cantilena in latino di Frate Lorenzo, cercai Alessandro con lo sguardo ma non lo vidi da nessuna parte. Accorgendosi della mia distrazione, Eva Maria mi prese per un braccio. «Lo so che sei stanca. Perché non vai a letto? La processione durerà ancora un bel po'. Domani, quando tutto sarà finito, tu e io parleremo un po'.» Non cercai neppure di protestare. Non vedevo l'ora di rannicchiarmi nel mio letto omerico, anche se avrebbe voluto dire perdermi il resto della strana festa. E così, nel passare accanto alla mia stanza, abbandonai con discrezione il corteo e sgattaiolai dentro. Il letto era ancora umido per l'acqua santa che Frate Lorenzo ci aveva spruzzato sopra ma non me ne poteva importare di meno. Senza neppure togliermi le scarpe, crollai a faccia in giù sul copriletto, certa che mi sarei addormentata di botto. Potevo ancora sentire il gusto amaro del Sangiovese di Eva Maria, ma non ebbi
neppure la forza di andare a lavarmi i denti. Mentre ero lì distesa, in attesa dell'oblio, mi resi conto che stavo recuperando del tutto la mia lucidità. La stanza smise di ballarmi intorno e fui in grado di mettere a fuoco l'anello che avevo al dito, ma che ancora non riuscivo a sfilarmi e che sembrava emanare un'energia tutta sua. All'inizio quella sensazione mi aveva riempita di terrore ma, visto che non ero rimasta vittima del suo potere distruttivo, al terrore era subentrato un senso di trepida aspettativa. Aspettativa di che cosa, non ne ero del tutto sicura. Quello che capii fu che non avrei potuto rilassarmi senza prima aver parlato con Alessandro. Nella migliore delle ipotesi, lui sarebbe riuscito a fornirmi una spiegazione ragionevole degli eventi della serata. In caso contrario, se me l'avesse permesso, mi sarei accontentata di rifugiarmi almeno per un poco fra le sue braccia. Mi tolsi le scarpe e, con la speranza che lui fosse in camera sua, scivolai sul balcone che avevamo in comune. Di certo non poteva ancora essere andato a letto e di certo - malgrado tutto quello che era successo finora - sarebbe stato più che felice di ricominciare da dove avevamo smesso quel pomeriggio. Non fu difficile trovarlo, perché se ne stava proprio lì sul balcone, completamente vestito, con le mani sulla balaustra, a fissare nel buio con aria depressa. Benché avesse sentito la mia portafinestra che si apriva e sapesse che mi stavo avvicinando, non si voltò ma si limitò a fare un profondo sospiro. «Penserai che siamo matti da legare.» «Lo sapevi già» gli chiesi, «che stasera sarebbero stati qui... i monaci e Frate Lorenzo?» Finalmente Alessandro si girò per fissarmi con occhi ancora più scuri del cielo stellato dietro di lui. «Se l'avessi saputo, non ti avrei portata.» Fece una pausa. «Mi dispiace.» «Non dispiacerti...» gli dissi sperando di rasserenarlo. «È stata una serata da sballo. Per chi non lo sarebbe? Questa gente, Frate Lorenzo, monna Chiara, la caccia ai fantasmi... è di queste cose che sono fatti i sogni.» Lui scosse la testa. «Non i miei sogni.»
«Senza menzionare che ho riavuto il mio anello!» sollevai la mano. Ancora non sorrise. «Ma non era quello che stavi cercando. Sei venuta a Siena per trovare un tesoro. Non è così?» «Forse spezzare la maledizione di Frate Lorenzo è la cosa più di valore che potessi veramente trovare», ribattei. «Immagino che oro e gioielli contino molto poco quando si va all'altro mondo.» «Allora è questo che vuoi fare? Porre termine alla maledizione?» Mi fissò per capire che cosa intendessi. «Non è quello che stiamo facendo stanotte?» Mi avvicinai a lui. «Non stiamo mettendo la parola fine al male passato? Non vogliamo vivere felici e contenti? Correggimi se sbaglio, ma ci siamo appena sposati... o qualcosa del genere.» «Oddio!» esclamò passandosi le mani fra i capelli. «Sono mortificato!» Vedendo come era avvilito, non potei trattenermi dal ridere. «Insomma, considerando che questa dovrebbe essere la nostra prima notte di nozze, cosa aspetti a fiondarti in camera mia e a sbattermi sul letto? Vergognati! Anzi, penso proprio che scenderò a lamentarmi con Frate Lorenzo...» Feci il cenno di andarmene ma lui mi trattenne per un braccio. «Tu non vai da nessuna parte», disse, stando finalmente al gioco. «Vieni qua, moglie...» Mi prese tra le braccia e mi chiuse la bocca con un bacio. Ricominciò a parlare solo quando iniziai a sbottonargli la camicia. «Credi nell'espressione per sempre?» mi chiese mentre cercava di immobilizzarmi le mani. Alzai lo sguardo sorpresa della sua sincerità. Sollevai la mano per mostrargli l'anello con l'aquila. «Per sempre è cominciato molto tempo fa.» «Se vuoi ti riporto a Siena... e ti lascio in pace. Subito, adesso.» «E poi?» Affondò il viso nei miei capelli. «Fine della caccia ai fantasmi.» «Se mi lasci andare adesso», gli sussurrai avvinghiandomi a lui,
«potrebbero passare altri seicento anni prima che ci si incontri nuovamente. Vuoi correre questo rischio?» Mi svegliai che non era ancora giorno e mi trovai in un garbuglio di lenzuola spiegazzate. Dal giardino arrivava il grido persistente e inquietante di un uccello notturno. Era stato probabilmente lui a interrompere i miei sogni e a svegliarmi. Il mio orologio segnava le tre e le candele che avevamo acceso si erano consumate da un pezzo. L'unica luce nella stanza era il freddo bagliore della luna piena che entrava dalla portafinestra. Forse ero un'ingenua, ma ci rimasi male nell'accorgermi che Alessandro aveva abbandonato il mio letto dopo la nostra prima notte insieme. Il modo in cui mi aveva tenuta tra le braccia prima che ci addormentassimo mi aveva indotto a pensare che non mi avrebbe più abbandonata. Eppure dovevo far fronte alla realtà. Ero stata lasciata sola, con una gran sete e un'emicrania causate da quel maledetto Sangiovese. Non mi aiutava a capire qualcosa il fatto che i vestiti di Alessandro, assieme ai miei, fossero ancora a terra accanto al letto. Dopo avere acceso la luce mi accorsi che lui aveva dimenticato sul comodino pure il laccetto di cuoio con il proiettile che io stessa gli avevo sfilato dalla testa poche ore prima. Mentre mi avvolgevo nelle lenzuola mi prese un colpo nel vedere come avevamo conciato i lini di pregio di Eva Maria. E non solo quelli. Aggrovigliato assieme alle lenzuola bianche si intravedeva qualcosa di serico e azzurro di cui non mi ero accorta prima. Stranamente ci misi un po' a capire che cosa fosse, forse perché non mi aspettavo più di trovarlo. E di sicuro non nel mio letto. Era il cencio del 1340. A giudicare dal fatto che non me ne ero accorta prima, quel reperto prezioso era stato nascosto fra le mie lenzuola da qualcuno che voleva che io ci giacessi sopra. Ma chi? E perché? Vent'anni fa mia madre aveva perso la vita per difendere il cencio perché potesse passare a me. Io l'avevo trovato e subito perso, ma eccolo di nuovo, questa volta sotto di me, come un'ombra da cui
non ci si può distaccare. Solo il giorno prima, alla Rocca di Tentennano, avevo chiesto di punto in bianco ad Alessandro se sapeva dove fosse il cencio. E la sua risposta sibillina era stata che quel drappo antico senza di me non aveva significato. Ma adesso che l'avevo tra le mani, all'improvviso tutti i tasselli andarono al loro posto. Secondo il diario di mastro Ambrogio, Romeo Marescotti aveva giurato che se avesse vinto il Palio avrebbe usato il cencio come lenzuolo nuziale. Ma il malvagio Salimbeni aveva fatto di tutto per impedire a Romeo e Giulietta di trascorrere una notte insieme, e ci era riuscito. Fino a ora. Forse era stato per quello che avevo sentito un profumo d'incenso nella mia camera. Forse Frate Lorenzo e i monaci avevano voluto verificare di persona che il cencio fosse nel posto che gli spettava... cioè nel letto che pensavano avrei potuto dividere con Alessandro. Ero stupefatta di poter ragionare così lucidamente alle tre del mattino. Da un certo punto di vista la cosa poteva anche apparire romantica. La Confraternita di Lorenzo aveva chiaramente come missione nella vita quella di aiutare i Tolomei e i Salimbeni a «sciogliere» i loro antichi peccati, in modo da interrompere la maledizione di Frate Lorenzo una volta per tutte. Ecco anche il perché della cerimonia nella quale Romeo rimette l'anello al dito di Giulietta e il pugnale con l'aquila viene purgato di tutto il suo male. Potevo addirittura accettare con occhio benevolo che il cencio fosse stato messo nel mio letto. Se la versione di mastro Ambrogio era giusta, e quella di Shakespeare sbagliata, di sicuro Romeo e Giulietta stavano aspettando di consumare il loro matrimonio da un bel po' di tempo. Cosa c'era quindi di sbagliato in un filino di ritualità? Ma il punto non era questo. Il punto era che chiunque avesse piazzato il cencio nel mio letto doveva essere stato in combutta con il fu Bruno Carrera. E di conseguenza, direttamente o no, era anche responsabile del furto al Museo della Civetta che aveva spedito il povero cugino Peppo all'ospedale. In altre parole non era per una trovata romantica che me ne stavo lì seduta con il cencio in mano.
C'era in ballo qualcosa di molto più grosso e inquietante. Di colpo preoccupata che fosse successo qualcosa di brutto ad Alessandro, saltai finalmente fuori dal letto. Invece di mettermi alla ricerca di vestiti puliti, mi infilai di nuovo nell'abito di velluto rosso che avevo lasciato a terra e corsi ad aprire la portafinestra. Una volta sul balcone, prima di allungare l'occhio verso la sua stanza, respirai a pieni polmoni l'aria salubre della notte. Lui non si vedeva. Tutte le luci però erano accese e sembrava fosse uscito di fretta, a giudicare dalla porta lasciata socchiusa sul corridoio. Mi ci vollero un paio di secondi per trovare il coraggio di aprire la portafinestra e intrufolarmi. Benché lo sentissi vicino come nessun uomo lo era mai stato prima d'allora, c'era una vocina che mi diceva che - a parte le parole dolci e i suoi begli occhioni - io Alessandro lo conoscevo appena. Rimasi per un attimo in mezzo alla stanza a guardare l'arredamento. Questa chiaramente non era una delle tante stanze degli ospiti, ma la sua stanza. In un'altra situazione mi avrebbe fatto piacere intrattenermi più a lungo per osservare le foto appese ai muri e le cianfrusaglie sugli scaffali. Stavo per dare un'occhiata anche in bagno quando sentii delle voci in lontananza che filtravano dalla porta semiaperta sulla loggia interna. Allungai la testa oltre la soglia ma non vidi nessuno né lungo la loggia né nel salone sottostante. La festa si era chiaramente conclusa da tempo e tutta la casa era avvolta dal buio più profondo, a parte qualche candela che stava ancora tremolando nel suo sostegno a muro. Mi inoltrai nella loggia per cercare di capire da che parte venisse il vocio. Probabilmente da una delle camere degli ospiti in fondo al corridoio. Le parole mi arrivavano a spezzoni - per non parlare della confusione che avevo in testa - ma a un certo punto mi parve di distinguere la voce di Alessandro. Lui e qualcun altro. Sentirlo parlare mi riempì di ansia e tenerezza allo stesso tempo e capii che non sarei stata capace di rimettermi a dormire se non avessi saputo chi era stato capace di strapparlo dal mio letto.
La porta della stanza era socchiusa, mi avvicinai in punta di piedi evitando con cura il cono di luce proiettato sul pavimento di marmo. Allungandomi per sbirciare, fui in grado di distinguere la silhouette di due uomini e di cogliere frammenti di conversazione, pur non capendo che cosa stessero dicendo. Alessandro se ne stava appoggiato al ripiano di una scrivania con addosso soltanto un paio di jeans e aveva un'aria molto agitata. Appena l'altro si girò verso di lui, capii perché. Si trattava di Umberto.
Capitolo 3 O cuore di serpente, in un corpo simile a un fiore! Quale drago abitò in un antro così bello? JANICE aveva sempre sostenuto che dovevi farti spezzare il cuore almeno una volta prima di crescere e capire chi eri realmente. Per me, questo duro insegnamento era solo un'altra eccellente ragione per non innamorarmi. Fino a ora. Quella notte, mentre me ne stavo nella loggia a guardare Alessandro e Umberto che cospiravano contro di me, capii finalmente chi ero. Ero la buffona di Shakespeare. Eppure, malgrado tutto quello che nel corso della settimana avevo appreso su Umberto, l'unica cosa che provai nel vederlo fu gioia. Una gioia ridicola e senza senso che feci fatica a controllare. Due settimane prima, dopo i funerali di zia Rose, ero giunta alla conclusione che lui fosse l'unica persona cara che mi era rimasta e, quando ero partita alla volta della mia avventura italiana, avevo addirittura provato rimorso per non averlo portato con me. Ora naturalmente tutto era diverso, ma ciò non significava che avessi smesso di volergli bene. Fu uno shock vederlo, ma mi resi conto che non avrebbe dovuto essere così. Nell'attimo in cui Janice mi aveva comunicato che Umberto era in realtà Luciano Salimbeni, avevo anche capito, da come aveva fatto il finto tonto al telefono riguardo il cofanetto della mamma, che era di diverse lunghezze davanti a me nella ricerca del tesoro. E siccome gli volevo bene e avevo continuato a difenderlo con Janice - sostenendo che lei aveva malinterpretato le informazioni della polizia, o che si trattava di un semplice scambio di identità - prendere atto del suo tradimento era ancora più doloroso. Per quanti sforzi facessi per giustificare la sua presenza a casa di Eva Maria, non potevano più esserci dubbi che Umberto e Luciano Salimbeni fossero la stessa persona. Era stato di certo lui a farmi pedinare da Bruno Carrera al fine di rimettere le mani sul cencio. E
considerando il suo dossier - la gente tendeva a morire quando Luciano era nei dintorni - era stato di sicuro lui ad aiutare Bruno ad allacciarsi le scarpe per l'ultima volta. La cosa bizzarra era che Umberto aveva lo stesso aspetto di sempre. Anche l'espressione del suo volto era esattamente quella che ricordavo io: un po' arrogante, un po' divertita, molto controllata nel manifestare qualsivoglia emozione. Quella che era cambiata ero io. Ora finalmente capivo che Janice aveva sempre avuto ragione a proposito di Umberto. Era uno psicopatico pronto a esplodere. E purtroppo mia sorella ci aveva visto giusto anche su Alessandro. Aveva detto che a lui non importava un piffero di me e che era tutta una grande sceneggiata per mettere le mani sul tesoro. Bene, avrei dovuto ascoltarla. Ma adesso era tardi. Mi sentivo come se qualcuno avesse preso a mazzolate il mio futuro. Questo sarebbe il momento giusto per mettersi a piangere, mi dissi mentre continuavo a fissare i due attraverso lo spiraglio della porta. Ma non ce la feci. Quella notte erano successe troppe cose. Non provavo più emozioni salvo un groppo in gola che era in parte incredulità e in parte paura. Nel frattempo, Alessandro si era allontanato dalla scrivania per dire qualcosa a Umberto che includeva concetti famigliari come Frate Lorenzo, Giulietta e cencio. Come risposta, Umberto estrasse di tasca un flaconcino verde e glielo mise tra le mani, dopo averlo agitato vigorosamente, aggiungendo qualcosa che non riuscii ad afferrare. Sulla punta dei piedi e in preda all'agitazione, riuscii solo a vedere il vetro verde del flaconcino e il tappo che lo chiudeva. Che cos'era? Veleno? Un sonnifero? Per che cosa? Per me? Umberto voleva che Alessandro mi uccidesse? Mai come allora rimpiansi di non sapere l'italiano. Qualsiasi cosa ci fosse nel flacone, il destinatario reagì come colto di sorpresa e, mentre lo rigirava fra le mani, i suoi occhi lanciavano lampi di rabbia. Lo ridiede sdegnato a Umberto e per un secondo osai sperare che il mio Romeo non volesse avere nulla a che fare con
le malvagie macchinazioni dell'altro. Umberto si limitò a fare spallucce e a posare il flaconcino con delicatezza sulla scrivania. Poi allungò la mano come ad aspettarsi qualcosa in cambio e Alessandro, sempre adirato, gli consegnò un libro. Lo riconobbi subito. Era il tascabile di Romeo e Giulietta che era sparito dal cofanetto di mia madre il giorno prima mentre Janice e io esploravamo i Bottini... o forse più tardi, mentre ci scambiavamo storie di fantasmi nell'atelier di mastro Lippi. Ecco il motivo per cui Alessandro aveva continuato a telefonare in albergo: voleva accertarsi che io fossi fuori per poter entrare in camera e portarlo via. Senza una parola di ringraziamento, Umberto cominciò a far scorrere le pagine del libro con compiaciuta soddisfazione, mentre Alessandro si ficcava le mani in tasca e si avvicinava alla finestra. Deglutii forte per impedire che il cuore mi uscisse dalla gola, mentre osservavo l'uomo che solo poche ore prima mi aveva detto che con me si era sentito rinato e purificato di tutti i suoi peccati. Questo stesso uomo mi stava già tradendo, e non con una persona qualsiasi, ma con l'unico altro individuo di cui mi fossi mai fidata. Proprio mentre decidevo di aver visto abbastanza, Umberto chiuse il volume con un tonfo e lo scaraventò sulla scrivania accanto al flacone. Come Janice e me, anche lui doveva essere giunto alla frustrante conclusione che il libro non contenesse alcun cenno sul sito esatto della tomba di Romeo e Giulietta, e che ancora mancasse un elemento essenziale in quel senso. Umberto si avviò all'improvviso verso la porta e io ebbi appena il tempo di nascondermi nell'ombra, prima che raggiungesse la loggia dopo aver fatto un brusco cenno ad Alessandro per invitarlo a seguirlo. Incuneata in una rientranza del muro, vidi i due uomini allontanarsi nel corridoio e sparire in silenzio giù dalle scale che conducevano al salone. Adesso, finalmente, sentii le lacrime che mi salivano agli occhi. Ma fui in grado di trattenerle, avendo deciso di essere più arrabbiata che disperata. Perfetto. Dunque quello che interessava ad Alessandro era
solo il denaro. Se così stavano le cose avrebbe fatto meglio a tenere le mani a posto anziché peggiorare la situazione. Quanto a Umberto, non c'erano abbastanza insulti nel vocabolario di zia Rose per descrivere quanto fossi furiosa con lui per avermi fatto quello che mi aveva fatto. Era stato ovviamente lui a manovrare Alessandro dicendogli di tenere gli occhi - e le mani, e la bocca eccetera sempre su di me. Il mio corpo si mise in azione prima ancora che il cervello avesse dato il via. Mi infilai di corsa nella stanza vuota e afferrai il libro e il flacone, quest'ultimo per dispregio. Poi mi precipitai nella camera di Alessandro e avvolsi il bottino in una camicia che trovai sul letto. Mentre mi guardavo intorno per capire cos'altro avrei potuto prelevare a testimonianza dell'inganno subito, mi venne in mente che la cosa più utile da sottrarre sarebbero state le chiavi dell'Alfa Romeo. Nello scardinare il cassetto del comodino, però, trovai soltanto delle monete straniere, un rosario e un coltello a serramanico. Senza neppure curarmi di richiudere il cassetto passai in rassegna gli altri possibili nascondigli, cercando di mettermi nei panni di Alessandro. «Romeo, oh Romeo», borbottai mentre frugavo di qua e di là, «dove riponesti codeste chiavi?» Quando finalmente mi venne in mente di guardare sotto il cuscino, fui premiata non solo dalla presenza delle chiavi, ma anche da quella di una rivoltella. Senza permettermi di pensarci su, afferrai entrambi gli oggetti meravigliandomi del peso dell'arma. Se non fossi stata fuori di me, avrei dovuto mettermi a ridere. Ecco dov'era andato a finire il mio sogno di un mondo giusto e senza conflitti! Adesso, per mettere le cose in pari, avevo bisogno della rivoltella di Alessandro. Tornata in camera mia, ficcai tutto a gran velocità nella sacca. Mentre chiudevo la zip, mi cadde l'occhio sull'anello. Sì, l'anello era mio e sì, era di oro zecchino, ma simboleggiava anche la mia simbiosi spirituale - nonché fisica - con l'uomo che si era introdotto due volte nella mia camera d'albergo per rubarmi metà della mappa del tesoro e consegnarla al bastardo biforcuto che molto probabilmente aveva assassinato i miei genitori. Così tirai e tirai fino a quando l'anello venne via. Poi lo deposi su uno dei cuscini come
ultimo melodrammatico addio ad Alessandro. Più per un ripensamento che per altro, afferrai anche il cencio dal letto e lo ripiegai alla meglio prima di lanciarlo nella sacca con il resto della mia roba. Non che pensassi di farmene qualcosa, o che potessi venderlo a qualcuno, di certo non nelle condizioni in cui si trovava ora. No, semplicemente non volevo che rimanesse a loro. Poi raccolsi il tutto e uscii sul balcone senza voltarmi. Prima di iniziare l'impegnativa discesa dal balcone, mi assicurai che i vecchi rampicanti sul muro fossero abbastanza robusti da reggere il mio peso. Avevo già lanciato la sacca, che era atterrata sana e salva in un fitto cespuglio sottostante. Mentre scendevo lentamente lungo il muro, con mani e braccia tese allo spasimo, rasentai una finestra che era ancora illuminata malgrado l'ora tarda. Allungai il collo per accertarmi che dentro non ci fosse qualcuno che potesse sentirmi e mi meravigliai di vedere Frate Lorenzo e tre dei suoi confratelli seduti a braccia conserte di fronte a un camino pieno di fiori freschi. Due dei monaci erano chiaramente nel mondo dei sogni, mentre Frate Lorenzo dava l'idea che niente avrebbe potuto fargli chiudere occhio prima di mattina. Proprio mentre me ne stavo lì appesa, ansimante e terrorizzata, udii delle voci agitate provenire dalla mia camera e il rumore di qualcuno che si precipitava con furia sul balcone. Trattenendo il fiato, rimasi il più possibile immobile, fino a quando la persona non rientrò. Purtroppo il rampicante non fu in grado di reggere oltre il mio peso e, nel momento in cui mi accingevo a muovermi di nuovo, i tralci cominciarono a staccarsi dal muro facendomi piombare a testa in giù nell'aiuola sottostante. Per fortuna il dislivello era inferiore ai tre metri. Meno fortunato fu il mio atterraggio nel cespuglio di rose. Ma ero troppo di fretta per provare veramente dolore mentre sgusciavo fuori dai rovi e raccoglievo la mia sacca. I graffi che avevo sulle braccia e sulle gambe erano nulla rispetto alle fitte di disperazione che mi invadevano allorché mi allontanavo zoppicando dalla notte più bella e più brutta della mia vita.
Facendomi strada al buio nel giardino umido di rugiada, e lottando fra gli arbusti acuminati, alla fine emersi nel vialetto d'accesso scarsamente illuminato che contornava la fontana. Lì impalata, con la sacca stretta al petto, mi resi conto che non avrei mai potuto raggiungere l'Alfa Romeo intrappolata com'era in mezzo a diverse berline che di certo appartenevano alla Confraternita di Lorenzo. Per quanto poco mi piacesse l'idea, per me si stava configurando la possibilità di tornare a Siena a piedi. Mentre mi stavo demoralizzando per la sorte avversa, di colpo sentii un furioso abbaiare di cani proprio dietro di me. Tanto per stare sul sicuro, estrassi in gran fretta la rivoltella dalla sacca e cominciai a correre sul sentiero di ghiaia, pregando affannosamente chiunque fosse di turno quella notte nell'alto dei cieli di darmi una mano. Con un po' di fortuna sarei riuscita ad arrivare sullo stradone prima che le belve mi raggiungessero, e di lì avrei fatto l'autostop alla prima macchina di passaggio. E se l'autista avesse potuto pensare che il mio romantico abbigliamento fosse un invito, la rivoltella l'avrebbe rimesso in carreggiata. Naturalmente l'alto cancello di accesso a Castello Salimbeni era chiuso ma non persi tempo. Sporgendo un braccio attraverso le sbarre di ferro, posai con cautela l'arma sulla ghiaia e poi lanciai la sacca oltre la cancellata. Soltanto quando la mia borsa atterrò dall'altra parte con un rumore sordo mi venne il sospetto che forse il flacone di vetro fosse andato in frantumi. La cosa non mi preoccupò più di tanto: intrappolata tra cani feroci e con la strada sbarrata, avrei dovuto considerarmi fortunata se quella notte fosse stata solo una fialetta ad andare in pezzi. Afferrai le sbarre di ferro e iniziai a issarmi. Non ero neppure a metà della scalata che udii sulla ghiaia dietro di me dei passi affrettati. Mi sforzai di salire più velocemente possibile ma il metallo era freddo e scivoloso e, prima che potessi mettermi in salvo, una mano mi agguantò saldamente una caviglia. «Giulietta! Aspetta!» Era Alessandro. Girai gli occhi verso di lui, quasi accecata dalla paura e dalla furia. «Mollami!» gli ordinai, cercando di divincolarmi dalla presa. «Brutto bastardo! Crepa all'inferno! Te e quella dannata della tua madrina!»
«Vieni giù!» Alessandro non era disposto a negoziare. «Prima di farti male!» Alla fine riuscii a liberare la caviglia e a issarmi fuori portata. «Come no! Stronzo che non sei altro! Preferisco rompermi il collo piuttosto che stare al tuo perfido gioco!» «Vieni giù, subito!» Cominciò a salire dietro di me, questa volta afferrandomi per l'orlo del vestito. «E lascia che ti spieghi! Per favore!» Ruggii dalla frustrazione. Desideravo solo mettermi in salvo, e poi cos'altro avrebbe potuto raccontarmi? Ma con lui attaccato al vestito, non potevo fare nient'altro che rimanere lì appesa a bollire dalla disperazione mentre lentamente sentivo braccia e gambe cedere. «Giulietta! Per favore, ascolta. Ti posso spiegare tutto...» Concentrati come eravamo l'uno sull'altra, non ci accorgemmo di una terza persona che emerse dall'oscurità dall'altra parte del cancello. «Okay, Romeo, adesso giù le mani da mia sorella!» «Janice!» Fui così sorpresa di vederla che quasi persi la presa. «Continua a salire!» Janice si chinò a raccogliere la rivoltella dalla ghiaia. «E tu, mister bastardo, in alto le zampe!» Attraverso il cancello, puntò l'arma contro Alessandro, che subito si staccò da me. A prescindere dal look, Janice era sempre stata un tipetto determinato. Ma in quel momento, con la pistola tra le mani, pareva l'incarnazione perfetta dell'espressione quando dico no è no. «Attenzione!» Alessandro saltò giù dal cancello e arretrò di alcuni passi. «La pistola è carica...» «Certo che è carica!» sghignazzò Janice. «Ho detto su le zampe, rubacuori!» «...e ha un grilletto molto sensibile.» «Ma davvero? Be', anch'io! Sai una cosa? Il problema è tuo! Sei tu a essere sotto tiro!» Nel frattempo ero riuscita a fatica a raggiungere la sommità del cancello e a iniziare la discesa dall'altra parte. Appena possibile, mi
lasciai cadere a terra accanto a mia sorella con Un ululato di dolore. «Santo cielo, Jules! Stai bene? Ecco, prendi questa...» Janice mi passò la pistola. «Vado a prendere la moto... no, idiota! È contro di lui che devi puntarla!» Rimanemmo lì fermi solo alcuni secondi, ma era come se il tempo si fosse fermato. Alessandro mi fissava scoraggiato attraverso il cancello mentre io, con gli occhi pieni di lacrime, facevo del mio meglio per tenergli l'arma puntata contro. «Dammi il libro», fu l'unica cosa che riuscì a dire. «È quello che vogliono. Non ti lasceranno andare fino a quando non l'avranno. Fidati di me. Per favore non...» «Muoviti!» gridò Janice mentre mi raggiungeva con la moto in un turbinio di ghiaia. «Prendi la sacca e salta su!» Vedendo che esitavo, diede gas. «Datti una svegliata, madama Giulietta, la festa è finita!» Un attimo dopo fendevamo il buio sulla Ducati Monster. Quando mi voltai a guardare un'ultima volta, vidi Alessandro appoggiarsi al cancello come un uomo che ha appena perso il volo più importante della sua vita per uno stupido errore di calcolo.
PARTE NONA
Capitolo 1 La morte è scesa su di lei come brina inaspettata sul fiore più delicato di tutto il campo. VIAGGIAMMO per un'eternità lungo strade di campagna, su e giù per le colline, attraverso valli e borghi addormentati. Janice non si fermò mai per dirmi dove eravamo dirette e, quanto a me, non me ne importava. Era sufficiente che ci allontanassimo e che io per un po' non dovessi prendere nessuna decisione. Quando alla fine ci immettemmo su un vialetto sconnesso al limitare di un paese, ero talmente stanca che mi sarei accovacciata nell'aiuola più vicina per dormire un mese filato. Con nient'altro a guidarci se non il faro anteriore della moto, ci inoltrammo in mezzo a una selva incolta di arbusti ed erbacce prima di fermarci di fronte a una casa completamente buia. Dopo aver spento il motore ed essersi tolta il casco, Janice si girò verso di me. «Questa è la casa della mamma. Cioè, adesso è la nostra.» Estrasse dalla tasca una piccola torcia. «Niente elettricità, così mi sono procurata questa.» Mi precedette fino a una porticina laterale, la spalancò e me la tenne aperta. «Bentornata a casa.» Uno stretto ingresso ci portò direttamente in quella che doveva essere la cucina. Polvere e sporcizia erano tangibili anche senza illuminazione e l'aria odorava di muffa. «Io dico di accamparci qua stanotte», disse Janice mentre accendeva delle candele. «Non c'è acqua, è tutto lurido, e al piano di sopra è anche peggio. E il portone d'ingresso è bloccato.» «Come diavolo hai fatto a trovare questo posto?» chiesi dimenticando per un attimo quanto fossi stanca e infreddolita. «Non è stato facile.» Janice tirò fuori da un'altra tasca una mappa ripiegata. «Dopo che ieri tu e come-si-chiama ve ne siete andati per i fatti vostri, sono uscita a comperare questa. Certo che per trovare
l'indirizzo di una strada in questo paesino...» Visto che non le prendevo la cartina di mano per verificare a mia volta, Janice mi puntò la torcia in piena faccia e scosse il capo. «Ma guardati... sei da buttar via. E sai cosa? Sapevo che sarebbe successo! Te l'avevo detto! Ma non mi stai mai ad ascoltare! È sempre così...» «Ma piantala!» La fulminai con lo sguardo, incapace di sopportare la sua tiritera. «Cos'è che sapevi, di preciso? Tu e la tua sfera di cristallo? Che una specie di setta di esaltati mi avrebbe drogato...?» Invece di rispondermi a tono come avrebbe di certo voluto fare, mia sorella si limitò a darmi un colpetto sul naso con la mappa. «Lo sapevo che con lo stallone italiano sarebbe andata così. Te l'avevo detto, Jules...» Spinsi via la mappa e mi coprii il viso con le mani. «Per favore! Non ne voglio parlare adesso.» Continuava a puntarmi la torcia in faccia, così alzai una mano per allontanare anche quella. «Smettila! Ho un'emicrania atroce.» «Oh santo cielo», disse Janice con quella sua voce sarcastica che conoscevo molto bene. «Oggi in Toscana sfiorato il disastro... vergitariana degli USA salvata da sorella... ma soffre di tremendi mal di testa.» «Fantastico, continua così», bofonchiai, «prendimi in giro. Me lo merito.» Aspettandomi che andasse avanti, mi domandai invece perché avesse smesso. Mi scoprii il viso e vidi che mi stava scrutando con aria perplessa. Poi spalancò la bocca e gli occhi. «No! Sei andata a letto con lui, non è vero?» Dal momento che da parte mia non ci fu nessun diniego, ma solo lacrime, fece un profondo sospiro e mi abbracciò. «Insomma, avevi detto che avresti preferito farti fottere da lui che da me...» Mi scoccò un bacio sulla testa. «Spero ne sia valsa la pena.» Ci accampammo sul pavimento della cucina sopra a cappotti e cuscini mangiati dalle tarme. Ma eravamo troppo tese per dormire e restammo ore e ore al buio a parlare della mia disavventura a Castello Salimbeni. Benché i commenti di Janice fossero infarciti delle
solite battute mordaci, ci trovammo d'accordo su quasi tutto, a parte che sulla questione se avessi dovuto o non dovuto darla - come si espresse Janice - all'aquila reale. «Be', pensala come vuoi», sbottai voltandole la schiena in un tentativo di chiudere il discorso, «ma anche se avessi saputo quello che so ora, l'avrei fatto lo stesso.» L'unica risposta di Janice fu un acido: «Evviva, almeno hai avuto qualcosa in cambio del nostro denaro». A un certo punto, mentre ancora ce ne stavamo lì allungate schiena contro schiena, Janice sospirò: «Zia Rose mi manca». Non capii cosa intendesse - questo tipo di osservazioni non erano da lei - e fui lì lì per ribattere acidamente che la zia le mancava solo perché le avrebbe dato ragione a proposito della fesseria di accettare l'invito di Eva Maria. Invece non lo dissi. «Manca anche a me.» E fu tutto. Alcuni minuti dopo il suo respiro si fece lento e capii che si era addormentata. Quanto a me, finalmente sola con i miei pensieri, non vedevo l'ora di piombare in catalessi anch'io per dimenticare il mio cuore in frantumi. La mattina seguente - o più precisamente ben oltre mezzodì - ci dividemmo una bottiglia d'acqua e una barretta dietetica sedute sul gradino sgretolato di fronte all'entrata. Di tanto in tanto ci davamo dei pizzicotti a vicenda per essere sicure che non stavamo sognando. Janice cominciò a raccontarmi della difficoltà di rintracciare la casa e come, non fosse stato per il gentile aiuto della gente del posto, mai e poi mai avrebbe notato quella graziosa costruzione, nascosta com'era nella selva che aveva inghiottito il vialetto d'accesso e il cortile antistante. «Solo per aprire il cancello ho fatto una fatica d'inferno», mi disse. «La ruggine l'aveva bloccato. Per non parlare della porta. Non riesco a credere che una casa così possa rimanere completamente vuota per vent'anni senza che nessuno ci vada a vivere o se ne impossessi.» «Siamo in Italia», commentai, alzando le spalle. «Vent'anni sono nulla. L'età qui non ha importanza. E come potrebbe, dato che siamo circondati da spiriti immortali? Siamo già fortunati che ci
lascino stare un po' sulla terra a far finta che sia casa nostra.» Janice sbuffò. «Scommetto che l'immortalità è una palla. Ecco perché agli spiriti piace trastullarsi con dei succosi piccoli mortali...» scherzò mentre si passava la lingua sul labbro superiore con aria diabolica, «come te.» Vedendo che non riusciva a farmi ridere, il suo sorriso si fece più comprensivo, quasi sincero. «Insomma, ce l'hai fatta a scappare! Prova solo a immaginare quello che ti sarebbe successo se ti avessero riacciuffata. Ti avrebbero... non so...» Persino mia sorella faceva fatica a immaginare gli orrori a cui sarei stata sottoposta. «Sii felice che la tua sorellona ti ha trovato in tempo.» Mi resi conto che si aspettava riconoscenza, e la strinsi a me in un abbraccio. «Lo sono, credimi. Però non riesco a capire... perché sei venuta? È un bel viaggetto da qui a Castello Salimbeni. Perché non mi hai...» Janice mi guardò sorpresa. «Stai scherzando? Quei bastardi avevano rubato il nostro libro! Era arrivato il momento di riprendercelo! Se tu non fossi arrivata di corsa al cancello con gli occhi fuori dalla testa, mi sarei introdotta di soppiatto e avrei perquisito l'intero maledetto castello.» «Be', è il tuo giorno fortunato!» Mi alzai e andai in cucina a prendere la sacca. «Voilà!» Gettai la borsa ai piedi di Janice. «Non dire che questo non è un lavoro di squadra!» «Dici sul serio?» Aprì la borsa e cominciò a frugarci dentro con furia. Ma dopo alcuni secondi si fece indietro disgustata. «Che schifo! Cosa diavolo è?» Guardammo entrambe le sue mani. Erano imbrattate di sangue o di qualcosa che gli somigliava. «Santo cielo, Jules!» ansimò Janice, «hai assassinato qualcuno? Merda! Cos'è?» Si annusò le mani con grande cautela. «È proprio sangue. Per favore, dimmi che non è tuo sennò torno subito indietro e trasformo il tizio in un quadro cubista!» Per qualche ragione la sua espressione inferocita mi fece ridere, forse perché non mi ero ancora abituata all'idea che si ergesse a mia paladina.
«Alla buon'ora!» disse, dimenticando la sua furia nel momento in cui mi vide sorridere. «Mi hai fatto prendere una bella strizza. Non farlo mai più.» Afferrammo tutte e due la sacca e la capovolgemmo. Ne vennero fuori i miei vestiti più il volume di Romeo e Giulietta che - per fortuna - era stato solo lievemente danneggiato. Il misterioso flacone verde era andato tuttavia in frantumi, forse a seguito del mio lancio oltre il cancello mentre fuggivo. «Questo cos'è?» Janice raccolse un frammento per esaminarlo. «È il flacone di cui ti ho parlato. Quello che Umberto ha passato ad Alessandro facendolo incazzare.» «Ah già!» Janice si strofinò le mani nell'erba. «Almeno adesso sappiamo cosa c'è dentro. Sangue. Chissà come mai. Forse hai ragione a dire che erano tutti dei vampiri. Può darsi che fosse il loro spuntino di metà mattina...» Rimanemmo un po' in silenzio a pensarci su. Poi presi in mano il cencio e lo guardai con rammarico. «Che peccato. Come si fa a togliere una macchia di sangue da una seta vecchia seicento anni?» Janice sollevò un angolo e dispiegammo il cencio per valutare i danni. A dire la verità, il flacone non era il solo colpevole, ma pensai fosse meglio tacere. «Santa Maria Madre di Dio!» esclamò di colpo Janice. «Ma è proprio questo il punto: ci deve essere la macchia! È esattamente così che deve essere il cencio! Macchiato! Non capisci?» Mi guardò tutta esaltata ma dovetti sembrarle assente. «Proprio come ai tempi antichi, quando le donne di casa esaminavano le lenzuola nuziali la mattina seguente il matrimonio! E ci scommetto le chiappe che...» raccolse un paio di frammenti di vetro, «che questo è-o-era- quello che noi del business dei cuori solitari chiamiamo vergi-rapido. Non solo sangue, ma sangue mischiato a qualcosa d'altro. È una scienza, dammi retta.» Nel vedere la mia espressione basita, Janice scoppiò in una risata. «Oh, sì, è ancora in auge. Non mi credi? Credi che la gente esaminasse le lenzuola solo nel Medioevo? Errore! Non dimentichiamo che ci sono ancora delle civiltà che vivono come nel
Medioevo. Pensaci un attimo. Se abiti in culo al mondo e devi sposarti con il cugino pecoraio ma - birichina - ti sei già fatta Tizio, Caio e Sempronio... che fai? Di sicuro il tuo sposo pecoraio più il parentame vario non apprezzerebbero che qualcun altro abbia già inzuppato il biscottino. La soluzione numero uno è andare in una clinica privata a farti dare una sistemata prima di ripetere tutta la corvée per la gioia degli astanti. La soluzione numero due è andare al festino portandoti dietro la bottiglietta. Molto più a buon mercato.» «Mi sembra così assur...» protestai. «Sai cosa penso?» m'interruppe Janice, «penso che ti stessero sistemando per le feste. Penso che ti abbiano drogata - o almeno abbiano tentato di farlo - in modo che tu fossi del tutto partita dopo lo show con effetti speciali di Frate Lorenzo e degli altri clown. E l'hanno fatto per mettere le mani sul cencio e sporcarlo di sangue in modo da dare l'idea che il buon vecchio Romeo avesse infilzato la ciliegina sul suo spiedo.» Trasalii, ma Janice non sembrò farci caso. «Naturalmente la cosa buffa è che avrebbero potuto evitarsi il disturbo», continuò, troppo presa nel suo ragionamento allusivo per accorgersi del mio estremo disagio riguardo l'argomento e la scelta dei vocaboli. «Perché voi due vi eravate già portati avanti e tu avresti comunque permesso a Romeo di pucciare il cantuccio nel Vin santo... Proprio come Romeo e Giulietta. Bimbumbam. Dal ballo al balcone alla branda in cinquanta pagine. Ma dimmi, stavate cercando di stabilire un record?» Mi guardò piena di entusiasmo, aspettandosi chiaramente dei complimenti per essere stata così perspicace. «Ma si può essere più volgari di te?» mi lagnai. Janice sogghignò come se l'avessi elogiata. «Probabilmente no. Se è della poesia che vuoi, torna in ginocchio dal tuo reale pennuto.» Mi appoggiai all'impalcatura della porta e chiusi gli occhi. Ogni volta che mia sorella nominava Alessandro, pur nella sua maniera oltremodo grossolana, mi tornavano alla mente piccoli flash dalla notte precedente - alcuni dolorosi, altri piacevoli - che continuavano
tuttavia a distogliermi dalla realtà del presente. Ma se le avessi detto di darci un taglio, lei quasi di certo avrebbe fatto l'esatto contrario. «Quello che non capisco, tanto per cominciare, è perché i monaci fossero in possesso del flacone», dissi, decisa a cambiare argomento e a tornare alla questione più importante. «Cioè, se davvero volevano porre termine alla maledizione sui Tolomei e sui Salimbeni, allora l'ultima cosa da fare sarebbe stato mettere in scena la notte delle nozze di Romeo e Giulietta. Sul serio pensavano di ingannare la Vergine Maria?» Janice si morse un labbro. «Hai ragione. La cosa è priva di senso.» «Da come la vedo io, l'unico a essere ingannato - a parte me - è stato Frate Lorenzo. O piuttosto, sarebbe stato ingannato, se avessero potuto usare l'intruglio.» «Ma perché avrebbero dovuto farsi beffe di Frate Lorenzo?» si spazientì Janice. «È solo un povero vecchio. A meno che...» mi guardò con aria interrogativa, «il monaco abbia accesso a qualcosa che loro non hanno. Qualcosa di importante. Qualcosa che vogliono a tutti i costi. Come...» Saltai su come un grillo. «Come la tomba di Romeo e Giulietta?» Ci fissammo negli occhi. «Penso che il collegamento sia tutto li», dichiarò Janice. «Quando l'altra sera ne abbiamo parlato con mastro Lippi, pensavo tu fossi matta. Ma forse hai ragione. La faccenda della remissione dei peccati deve per forza coinvolgere la tomba e la statua. Senti qua... e se, dopo essersi accertati che Romeo e Giulietta siano finalmente di nuovo insieme, i Tolomei e i Salimbeni debbano recarsi nella cripta e inginocchiarsi davanti alla statua?» «Ma la maledizione dice inginocchiarsi di fronte alla Vergine.» «E allora?» Janice fece spallucce. «Ovviamente la tomba è nei pressi di una statua della Vergine. Il problema è che loro non sanno esattamente dove. Solo Frate Lorenzo lo sa. Ecco perché hanno bisogno di lui.» Rimanemmo per un po' in silenzio a rimuginare. «Sai», dissi alla fine accarezzando il cencio, «non credo che lui lo sapesse.»
«Chi?» Arrossii. «Insomma... lui.» «Dai, Jules!» gemette Janice. «Piantala di difendere il verme. L'hai visto con Umberto, e poi...» cercò di controllare la sua esasperazione senza riuscirci del tutto, «ti ha inseguita per chiederti di restituirgli il libro. Certo che lo sapeva.» «Ma se hai ragione», dissi provando un assurdo bisogno di replicare in difesa di Alessandro, «perché non si è limitato a eseguire il piano senza... sai...» «Avere un rapporto carnale?» suggerì mia sorella pudicamente. «Esattamente», annuii. «Senza contare che non avrebbe dovuto sorprendersi quando Umberto gli ha dato il flacone, visto che avrebbe dovuto averlo già con sé.» «Tesoro!» Janice mi squadrò come attraverso una lente d'ingrandimento. «Lui è entrato nella tua camera d'albergo, lui ti ha mentito, e lui ha rubato il libro della mamma per consegnarlo a Umberto. Il ragazzo è un bastardo. E non m'importa se a letto fa faville... resta sempre una merdaccia, se mi perdoni il francesismo. E quanto a quella sua malavitosa di madrina, così gentile...» «A proposito di mentire», le dissi fissandola negli occhi, «perché mi hai detto che era stato Alessandro a entrare a far scompiglio in camera mia quando invece eri stata tu?» Janice sussultò. «Cosa?» «Hai intenzione di negarlo?» continuai. «Che ti sei introdotta in camera mia e hai dato la colpa ad Alessandro?» «Ehi!» strillò. «Anche lui ci è entrato, okay? Sono tua sorella! Avevo il diritto di sapere quello che stava succedendo...» Smise di protestare per guardarmi tutta contrita. «Come fai a saperlo?» «Perché Alessandro ti ha vista. Ha pensato che fossi io... che scalavo il mio stesso balcone.» «Ha pensato...» Janice rimase a bocca aperta. «Adesso sì che mi sento insultata! Ma per favore!» «Janice!» strepitai, infuriata nel vederla ricadere nel suo ruolo di
stronza. «Mi hai mentito. Perché? Dopotutto quello che è successo, avrei anche capito se tu ti fossi intrufolata in camera mia. D'altra parte pensavi che ti stessi depredando di una fortuna.» «Sul serio?» I suoi occhi si illuminarono di speranza. «Perché tanto per cambiare non proviamo a essere sincere?» I voltafaccia veloci erano la specialità di mia sorella. «Perfetto», ridacchiò, «viva la sincerità. E ora, se non ti spiace...» fece una pausa drammatica, «avrei un paio di domanducce sulla tua nottata di ieri.» Dopo aver fatto un po' di provviste nel negozio del paese, passammo il resto del pomeriggio a girovagare in casa alla ricerca di memorabilia sulla nostra infanzia. Non aiutava il fatto che polvere e muffa ricoprissero tutto quanto, che ogni stoffa fosse costellata da miriadi di buchi e ogni angolo invaso da cacche di topo. Al piano superiore le ragnatele erano spesse come tende di velluto e, quando aprimmo le imposte per far entrare un po' di luce, più della metà dei battenti si staccarono dai cardini. «Cribbio!» esclamò Janice quando una persiana si schiantò sullo scalino dell'entrata a meno di un metro dalla Ducati. «Penso che sia ora di chiamare un muratore.» «E un idraulico?» suggerii mentre mi toglievo le ragnatele dai capelli. «O un elettricista?» «Tu chiama l'elettricista», mi propose, «così ti fai anche controllare i fusibili.» Il clou della giornata fu quando, nascosto in un angolo dietro a un divano sconquassato, trovammo il tavolino da scacchi tutto traballante. «Te l'avevo detto, visto?» esultò Janice. «È sempre stato qui.» Al tramonto avevamo fatto abbastanza pulizie da decidere di spostare l'accampamento al piano superiore, dove una volta ci doveva essere stato uno studio. Sedute a un antico scrittoio, l'una di fronte all'altra, consumammo a lume di candela una cena a base di pane, formaggio e vino rosso, discutendo di quali avrebbero dovuto essere le nostre mosse successive. Nessuna delle due, per il momento,
aveva voglia di rientrare a Siena ma, allo stesso tempo, eravamo ben consapevoli di non poter andare avanti nella situazione in cui ci trovavamo. Se avessimo voluto rendere la casa di nuovo vivibile, avremmo dovuto investire tempo e denaro per le pratiche burocratiche e per la ristrutturazione ma, anche se ci fossimo riuscite, come avremmo fatto a sopravvivere? Saremmo state come due fuggitive sempre più indebitate, con l'ansia quotidiana di essere ricatturate dai fantasmi del passato. «Da come la vedo io», disse Janice versandosi dell'altro vino, «o restiamo qua, cosa che non possiamo fare, o rientriamo negli Stati Uniti, che sarebbe patetico, oppure ci mettiamo alla caccia del tesoro e vediamo cosa succede.» «Temo tu stia dimenticando che il libro in se stesso è inutile», replicai. «Abbiamo bisogno del taccuino della mamma con gli schizzi per decifrare il codice.» «Ed è appunto per questo che l'ho portato! Ta-daa!» esclamò dopo avere estratto dalla borsa il taccuino. «Altre domande?» Scoppiai in una risata. «Sai, penso di volerti ancora bene.» Janice fece una gran fatica a non sorridere. «Vacci piano con l'affetto. Non vorrei ti venisse un accidente.» Con i due libri vicini, non ci mettemmo molto a decrittare il messaggio che, a dire la verità, non era neppure un codice ma solo un elenco ben celato di riferimenti numerici a pagine, righe e parole. Mentre lei mi leggeva i numeri tracciati ai margini del taccuino, io sfogliavo Romeo e Giulietta e mi annotavo i passaggi che nostra madre voleva che trovassimo. AMORE MIO QUESTO PREZIOSO LIBRO RACCHIUDE LA DORATA STORIA DELLA PIÙ RARA PIETRA QUANTO LA PIÙ DESERTA SPIAGGIA DEL PIÙ REMOTO MARE, IO MI SPINGEREI LONTANO PER UNA MERCE TANTO PREZIOSA
VAI CON LO SPETTRALE CONFESSORE DI ROMEO SACRIFICATO PRIMA DEL SUO TEMPO CERCA, SCAVA CON STRUMENTI CHE POSSONO SERVIRE A FORZARE LE TOMBE LO DOVRAI FARE SEGRETAMENTE QUI GIACE GIULIETTA COME UNA POVERA PRIGIONIERA SOTTO REGINA MARIA DOVE PICCOLE STELLE RENDONO IL VOLTO DEL CIELO COSÌ SPLENDENTE VATTENE ALLA SANTA MARIA SCALA IN UN CONVENTO DI MONACHE UNA CASA CONTAGIATA DALLA PESTE CHIUSERO LE PORTE PADRONA SANTA OCHE VISITANDO GLI AMMALATI CAMERA LETTO QUESTA SACRA RELIQUIA È SULL' ENTRATA DELLA TOMBA ALLA ANTICA CRIPTA SU ANDIAMO PROCURAMI UNA LEVA DI FERRO VIA DALLA CROCE E VOI, RAGAZZE, BALLATE! Giunte alla fine del lunghissimo messaggio, ci guardammo strabiliate cercando di contenere l'entusiasmo iniziale. «Okay, avrei due domande, tanto per cominciare», disse Janice. «La prima: perché diavolo non l'abbiamo fatto prima? E la seconda:
cosa accidenti fumava la mamma?» Allungò la mano per afferrare il bicchiere. «Chiaro che ha celato il suo codice segreto in questo prezioso libro, e che si tratta di una sorta di mappa del tesoro per trovare la tomba di Giulietta e la rara pietra ma... dove dovremmo andare a scavare? E la faccenda della pestilenza e della leva di ferro?» «Ho la sensazione che stia parlando del Duomo di Siena», risposi mentre rileggevo alcuni dei passaggi. «La Regina Maria... non può che significare la Vergine Maria. E la frase sulle piccole stelle e il volto del cielo così splendente deve alludere alla volta della cattedrale. È dipinta di blu e disseminata di stelle.» Mi sentii pervadere dall'eccitazione. «E se la tomba fosse lì? Ricorda, mastro Lippi disse che Salimbeni fece seppellire Romeo e Giulietta in un luogo benedetto. Cosa c'è di più benedetto di una cattedrale?» «Credo tu abbia ragione», acconsentì Janice, «ma la peste e il convento di monache! Questi riferimenti sembrano non avere niente a che fare con la cattedrale.»
«Santa Maria, scala...» borbottai, risfogliando le pagine del libro, «una casa contagiata dalla peste... chiusero le porte... padrona santa... oche... visitando gli ammalati... bla-bla-bla.» Richiusi il libro e
mi appoggiai allo schienale della sedia sforzandomi di ricordare la storia che Alessandro mi aveva raccontato sul comandante Marescotti e la peste bubbonica. «Può sembrare folle ma...» esitai vedendo Janice che mi fissava con gli occhi sbarrati, speranzosa che risolvessi l'enigma, «durante la peste nera che si abbatté su Siena pochi anni dopo la morte di Romeo e Giulietta, c'erano così tanti cadaveri per le strade che era impossibile sotterrarli tutti. Così, a Santa Maria della Scala, l'enorme ospedale di fronte al Duomo dove un convento di monache si occupava degli ammalati di peste... i morti vennero semplicemente ammucchiati e murati da qualche parte.» Janice fece una smorfia. «Disgustoso.» «Direi quindi che dobbiamo metterci alla ricerca di una camera con un letto dentro l'ospedale di Santa Maria della Scala.» «...dove dormiva la padrona della santa delle oche», suggerì Janice. «Chiunque essa sia.»
«O la santa patrona di Siena, nata nella contrada dell'Oca, Santa Caterina...» Janice fece un fischio: «Avanti così, sorella!» «...che, incidentalmente, aveva una camera da letto a Santa Maria della Scala dove dormiva quando rimaneva la notte a visitare i malati. Ricordi? È la storia che mastro Lippi ci ha letto. Scommetto uno zaffiro e uno smeraldo che è lì che troveremo Ventrata della
tomba all'antica cripta.»
«Ferma ferma ferma!» strillò Janice. «Adesso mi confondi. Prima è la cattedrale, poi è la camera di Santa Caterina all'ospedale, è ora è l'antica cripta! Qual è il posto giusto?» Ci dovetti pensare un po' mentre cercavo di richiamare alla mente quello che, alcuni giorni prima, la guida aveva detto al gruppo di turisti inglesi in visita al Duomo di Siena, «Pare che nel Medioevo sotto il Duomo ci fosse una cripta. Dopo la peste nera scomparve e nessuno fu più in grado di trovarla. Naturalmente in questa città gli archeologi possono fare ben poco dato che tutti i siti sono protetti. E poi alcuni ritengono fosse solo una leggenda...» «lo no!» disse Janice tutta eccitata. «Deve essere quello il posto! Romeo e Giulietta sono sepolti nella cripta sotto la cattedrale. Chiaro come il sole. Se tu fossi Salimbeni, non sarebbe lì che vorresti collocare le reliquie? E siccome il luogo è interamente dedicato alla Vergine Maria... voilà!» «Voilà che cosa?» Janice stese le braccia come se volesse impartirmi una benedizione. «Se t'inginocchi nella cripta è come 't'inginocchiassi di fronte alla Vergine'. Non capisci? È quello il posto!» «Se questo è vero avremo un bel po' da scavare. Questa cripta l'hanno cercata dappertutto.» «Non se la mamma avesse trovato un ingresso segreto nel vecchio ospedale di Santa Maria della Scala.» Janice mi spinse il libro contro. «Leggi di nuovo. Sono sicura di aver ragione.» Ripassammo il messaggio ancora una volta e, all'improvviso, tutto divenne lampante. Sì, c'era di mezzo un'antica cripta sotto la
cattedrale e Ventrata della cripta era all'interno della carriera di Santa Caterina dentro all'ospedale prospiciente il Duomo. «Porca vacca!» esclamò Janice, alterata. «Se era così facile, perché la mamma non ci ha provato lei?» Proprio in quel momento si spense con uno sbuffo di fumo uno dei moccoli e, benché avessimo altre candele, le ombre della stanza parvero inghiottirci. «Sapeva di essere in pericolo ed è per questo che ha fatto quello che ha fatto», replicai con voce stranamente in falsetto. «Cioè mettere il codice nel libro, il libro nel cofanetto e il cofanetto nella banca.» «Insomma, adesso che abbiamo risolto l'enigma», esclamò mia sorella con tono da bulla, «che cosa ci impedisce di...» «Far irruzione in un sito protetto e forzare la camera di Santa Caterina con una leva di ferro?» Strabuzzai gli occhi. «Santa paletta, non ne ho proprio idea!» «A parte gli scherzi, è quello che la mamma voleva che facessimo. Giusto?» «Non è così semplice.» Indicai il libro cercando di ricordare le parole esatte del messaggio. «La mamma ci dice di andare con lo spettrale confessore di Romeo... sacrificato prima del suo tempo. Chi sarebbe se non Frate Lorenzo? Ovviamente non quello vero ma probabilmente la sua attuale... reincarnazione. E scommetto che questo significa che avevamo ragione: il vecchio sa qualcosa sull'esatta locazione della cripta e della tomba, qualcosa di cruciale che neppure nostra mamma riuscì ad afferrare.» «Allora, che cosa suggerisci? Che sequestriamo Frate Lorenzo e gli facciamo il terzo grado con una lampada sparata in faccia? Senti, forse hai capito male. Rileggiamoci tutto da capo separatamente e vediamo se arriviamo alla stessa conclusione...» Cominciò ad aprire i cassetti dello scrittoio l'uno dopo l'altro. «Forza! Ci sarà bene una matita pellegrina da qualche parte...! un momento, fermi tutti!» Infilò la testa nel cassetto più basso per liberare qualcosa che era rimasto impigliato nel legno. Poi estrasse la mano con espressione trionfante, malgrado i capelli sugli occhi. «Questa poi! Una lettera!»
Ma non era una lettera. Era una busta bianca piena di fotografie. Finito di guardare le foto della mamma, Janice dichiarò che avevamo bisogno almeno di un'altra bottiglia se volevamo passare la notte senza uscire di senno. Mentre lei scendeva a prendere il vino, io mi misi ad allineare le foto sul piano dello scrittoio. Con le mani ancora tremanti per lo shock, mi auguravo soltanto che quelle immagini potessero raccontare una storia diversa. Ma le avventure italiane della mamma potevano essere interpretate in un solo modo. Per quanto ci girassimo attorno, i personaggi principali e la conclusione erano gli stessi: la mamma era venuta in Italia, aveva cominciato a lavorare per il professor Tolomei, aveva conosciuto un playboy con Ferrari gialla, era rimasta incinta, aveva sposato il professor Tolomei, aveva dato alla luce due gemelle, era sopravvissuta a un incendio in cui era perito l'anziano marito, e si era apprestata a rimettersi con il playboy. E dallo sguardo tenero con cui lui guardava le gemelle, cioè noi, in ognuna delle foto trovate, non si poteva arrivare ad altra conclusione che quello fosse il nostro vero padre. Il playboy era Umberto. «Siamo in pieno delirio!» ansimò Janice risalendo con bottiglia e cavatappi. «Tutti questi anni a far finta di essere il maggiordomo. È pazzesco.» «Tuttavia lui è stato il nostro papà fin dall'inizio», dissi, «anche se non lo chiamavamo così. Era sempre...» non riuscii ad andare avanti. Mi accorsi allora che anche mia sorella stava piangendo e che si asciugava le lacrime con rabbia, quasi a non voler dare a Umberto la soddisfazione. «Che farabutto! Costringerci a vivere nella menzogna tutti questi anni. E adesso di colpo...» si interruppe con un grugnito mentre il tappo si rompeva in due. «Be', almeno questo spiega perché fosse al corrente della statua d'oro», commentai. «Era stata la mamma a raccontargli tutto. E se loro due erano veramente... come si dice, insieme, avrà anche saputo del cofanetto in banca. Il che spiega perché abbia scritto una lettera falsa firmata 'zia Rose' nella quale mi si chiedeva di andare a
Siena per parlare con il dottor Maconi a Palazzo Tolomei. Il nome di Maconi doveva averglielo dato la mamma.» «E tutto questo tempo?» Janice versò un po' di vino sulla tavola e sulle foto mentre riempiva di nuovo i bicchieri. «Perché non l'ha fatto prima? Perché non ha spiegato ogni cosa a zia Rose quando era ancora in vita...?» «Come no!» Mi affrettai a ripulire le foto. «Chiaro che non poteva dirle la verità! Lei avrebbe chiamato subito la polizia.» Imitai la voce di Umberto: «Sai una cosa, pupa, il mio vero nome è Luciano Salimbeni, sì lo stesso che ha assassinato Diane e che è ricercato dalla polizia italiana. Se tu ti fossi degnata di far visita a Diane, che il Cielo l'abbia in gloria, mi avresti incontrato centinaia di volte». «Ma che bella vita che faceva!» mi interruppe Janice. «Guarda qua...» mi indicò le foto di Umberto in Ferrari che sorrideva all'obiettivo con gli occhi felici di un innamorato, «aveva tutto e poi... è diventato un cameriere in casa di zia Rose.» «Ricordati che era un fuggitivo», le dissi. «Aless... qualcuno mi ha detto che era uno dei criminali più braccati dalla polizia italiana. È stato fortunato a non andare in galera. Almeno, mentre era al servizio della zia, poteva vederci crescere da uomo libero.» «Non ci posso ancora credere!» Janice era sconsolata. «D'accordo, nella foto del matrimonio la mamma è incinta ma questo succede a molte donne. E non per forza significa che il padre non sia lo sposo.» «Jan!» Le indicai alcune foto delle nozze. «Il professor Tolomei era abbastanza vecchio da farle da nonno. Mettiti per un attimo nei panni della mamma.» Vedendo che era decisa a contraddirmi, la presi per un braccio e la tirai verso di me. «Andiamo, è la sola spiegazione possibile...» Scelsi una foto con Umberto disteso in un prato e con noi due che gli saltavamo sopra. «Ci vuole bene.» Appena pronunciate queste parole, sentii un groppo in gola e dovetti deglutire per trattenere le lacrime. «Porca vacca!» gemetti. «Non ce la faccio più.» Rimanemmo per un po' mogie e silenziose. Poi Janice depose il bicchiere per prendere una foto di gruppo scattata a Castello Salimbeni. «Quindi questo significa che la regina del crimine è...
nostra nonna?» La fotografia mostrava Eva Maria che si destreggiava tra un cappello a larghe tese in testa e due cagnolini al guinzaglio, la mamma tutta efficiente in jeans bianchi e porta-blocco, il professor Tolomei che diceva qualcosa al fotografo con l'aria corrucciata, e un giovane Umberto appoggiato in disparte alla sua Ferrari con le braccia conserte. «Qualsiasi accidenti voglia dire, spero di non vederlo mai più», aggiunse Janice prima che potessi rispondere. Avremmo dovuto sentire i rumori, ma non ce ne accorgemmo. Intente come eravamo a sciogliere i nodi della nostra vita, avevamo dimenticato di prestare attenzione ai pericoli che la notte porta con sé. Ci rendemmo conto di quanto fossimo state idiote a rifugiarci in casa della mamma, solo dopo aver sentito una voce sulla soglia dello studio. «Che simpatica riunione di famiglia», esclamò Umberto mentre faceva il suo ingresso seguito da due tipi mai visti prima. «Scusatemi se vi ho fatto aspettare.» «Umberto!» esclamai, saltando sulla sedia. «Cosa diamine...» «Julie! No!» Janice mi afferrò per un braccio e mi tirò indietro con il viso contratto dalla paura. Allora me ne accorsi. Umberto aveva le mani legate dietro la schiena e uno degli uomini gli teneva una pistola puntata alla testa. «Il mio amico Cocco qui presente vorrebbe sapere se voi ragazze gli potete essere d'aiuto o no», disse Umberto, con tono distaccato malgrado la canna che gli premeva contro la nuca.
Capitolo 2 Il suo corpo riposa nella tomba dei Capuleti e la sua parte immortale vive con gli angeli. QUANDO il giorno prima avevo lasciato Siena assieme ad Alessandro, mai avrei immaginato di farvi ritorno così presto, così malconcia, e con le mani legate. E di certo non mi sarei mai aspettata di tornarci con mia sorella, mio padre e tre brutti ceffi che sembravano essere schizzati fuori dal braccio della morte non per un'amnistia ma per una carica di dinamite. Era chiaro che, anche se li conosceva per nome, Umberto era un ostaggio dei banditi come lo eravamo noi. E, come noi, anche lui fu sbattuto nel retro del veicolo dei tre: il camioncino di un fiorista, molto probabilmente rubato. Con i polsi immobilizzati, nessuno di noi riuscì ad attutire l'impatto sul pot-pourri di fiori appassiti che copriva il duro cassone di metallo. «Ehi!» protestò Janice, «siamo figlie tue, giusto? Digli che non possono trattarci così. Insomma, Jules, dì qualcosa anche tu.» Ma non mi venne in mente niente. Mi sentivo come se il mio mondo fosse andato a gambe all'aria, o forse si era messo nel verso giusto ed ero io a essere a testa in giù. Stavo ancora digerendo la trasformazione di Umberto da eroe a cattivo, e il fatto che lui era anche mio padre. Cosa che mi riportava al punto di partenza: gli volevo bene, ma non avrei dovuto. Mentre i banditi facevano scorrere lo sportello dietro di noi, con la coda dell'occhio vidi un'altra vittima che dovevano aver caricato strada facendo. L'uomo se ne stava accovacciato in un angolo, bendato e imbavagliato. Non fosse stato per i suoi abiti, non l'avrei mai riconosciuto. «Frate Lorenzo!» Per la prima volta pronunciai il suo nome con naturalezza. «Mio Dio! Hanno rapito Frate Lorenzo!» Proprio in quel momento il camioncino si mise in moto e noi
passammo i minuti successivi a farci sbatacchiare a destra e a manca nel vano vuoto mentre l'autista attraversava la selva che nascondeva il vialetto della casa della mamma. Appena ci fummo un po' stabilizzati, Janice emise un gemito. «Okay, hai vinto. Le gemme sono per te... o per loro. Noi comunque non le vogliamo. E ti aiuteremo. Faremo qualsiasi cosa. Sei nostro padre, giusto? Dobbiamo stare uniti! Non c'è bisogno che... ci uccidano. Giusto?» Nessuna risposta. «Ascolta, spero si rendano conto che senza di noi non troveranno la statua...» continuò Janice con la voce che le tremava dalla paura. Di nuovo Umberto non rispose. Non ce n'era bisogno. Anche se avevamo già detto ai banditi della possibilità di una porta segreta in Santa Maria della Scala, loro chiaramente pensavano di aver ancora bisogno di noi per trovare le gemme, sennò mica ci avrebbero fatto fare il viaggio. «E Frate Lorenzo?» chiesi. Finalmente Umberto parlò. «Frate Lorenzo che cosa?» «Andiamo!» disse Janice che aveva recuperato un po' della sua verve. «Davvero pensate che il poveretto possa essere di aiuto?» «Oh, eccome se canterà.» Sentendoci entrambe trasalire a tanto cinismo, Umberto emise un suono che poteva sembrare una risata ma che probabilmente non lo era. «Cosa diavolo vi aspettavate?» ringhiò. «Che avrebbero semplicemente... rinunciato? Siete state fortunate a essere state prese con le buone...» «Con le buone...?» saltò su mia sorella prima che io riuscissi a farla star zitta premendole contro un ginocchio. «Purtroppo la nostra piccola Julie non ha fatto la sua parte», continuò lui. «Non sarebbe stato male se avessi saputo che avevo una parte!» gli feci notare con voce rauca. «Perché non me l'hai detto? Perché hai lasciato che succedesse tutto questo? Avremmo potuto partire alla caccia del tesoro anni fa, insieme. Sarebbe stato... divertente.»
«Capisco.» Sentii che Umberto si dimenava alla ricerca di una posizione più comoda. «Pensi che l'abbia voluto io? Tornare qua, rischiare tutto, giocare agli indovinelli con dei vecchi monaci e farmi prendere a calci da questi stronzi? Tutto per trovare quattro antiche pietre che probabilmente sono scomparse centinaia di anni fa? Non penso tu ti renda conto...» Fece un sospiro. «Certo che non ti rendi conto. Perché pensi che abbia permesso a zia Rose di venire in Italia per portarvi negli Stati Uniti? Eh? Te lo dico io perché. Perché loro vi avrebbero usate contro di me... per costringermi a collaborare ancora. C'era solo una soluzione: sparire.» «Stai parlando della... mafia?» chiese Janice. Umberto fece una risata di scherno. «La mafia! Questa gente fa sembrare la mafia come l'esercito della salvezza. Mi hanno reclutato quando avevo bisogno di denaro e, una volta che sei accalappiato, non ti liberi più. Se ti dimeni, il cappio si restringe maggiormente.» Sentii che Janice stava prendendo fiato per uno dei suoi commenti salaci, ma riuscii di nuovo a zittirla dandole di gomito. Provocare Umberto e iniziare una discussione non era il modo giusto per prepararci a quello che ci stava aspettando. Di questo ero più che sicura. «Allora, fammi indovinare», dissi il più pacatamente possibile, «appena non gli serviamo più è finita?» Umberto sembrò esitare. «Cocco mi deve un favore. Una volta gli ho risparmiato la vita. Spero che voglia rendermi la cortesia.» «Così a te risparmierà la vita. E a noi?» chiese Janice. Ci fu un lungo silenzio o per lo meno a noi sembrò lungo. Solo allora, mescolato al rumore del motore e al trambusto generale, percepii il mormorio di qualcuno che pregava. «E Frate Lorenzo?» mi premurai di chiedere. «Speriamo che Cocco si senta generoso», rispose alla fine Umberto. «Non ho ancora capito», disse Janice. «Chi sono questi tizi e perché li lasci fare?» «Questa non è esattamente una favola della buonanotte», replicò
Umberto stancamente. «Ma noi non stiamo esattamente andando a letto», gli fece notare Janice. «Quindi perché non fai il favore di dirci, caro papà, cosa diavolo è successo nel paese dei balocchi?» Una volta iniziato, Umberto non poté più smettere di parlare. Era come se avesse sempre voluto raccontarci la sua storia, eppure, adesso che ne aveva l'occasione, non sembrava che la cosa gli desse sollievo, almeno a giudicare dal tono cupo della voce. Suo padre, ci raccontò, cioè il conte Salimbeni, si era sempre lamentato che sua moglie gli avesse dato un solo figlio, e aveva fatto di tutto affinché il ragazzo crescesse senza vizi o grilli per la testa. Iscritto a una scuola militare contro la sua volontà, Umberto alla fine era fuggito a Napoli con l'idea di trovarsi un lavoro o magari di frequentare l'accademia musicale. Ma presto era rimasto a corto di denaro. Così aveva cominciato ad accettare degli incarichi che altre persone non se la sentivano di svolgere, ed era diventato anche piuttosto bravo. Non si sa perché ma infrangere la legge gli riusciva assai bene e non passò molto tempo che si trovò a frequentare le migliori sartorie, a guidare una Ferrari e ad abitare in un superattico. Era il paradiso. Quando trovò il coraggio di andare a trovare i genitori a Castello Salimbeni, Umberto fece finta di essere diventato un agente di Borsa e riuscì a convincere suo padre a perdonarlo per avere abbandonato l'accademia militare. Alcuni giorni più tardi i conti Salimbeni diedero una grande festa e tra gli invitati c'erano il professor Tolomei e Diane, la sua giovane assistente americana. Umberto non perse tempo: strappò Diane dal salone da ballo e la portò a fare una corsa in macchina sotto la luna piena. Quello fu l'inizio di una lunga e bellissima estate. Cominciarono a trascorrere assieme tutti i weekend in giro per la Toscana e, quando lui le chiese di andarlo a trovare a Napoli, lei subito acconsentì. E durante una cena nel miglior ristorante della città, lui ebbe il coraggio di confessarle quello che faceva per vivere. Diane rimase annichilita. Non volle neppure ascoltare le sue spiegazioni o le sue giustificazioni. Rientrata a Siena, gli restituì tutti i regali ricevuti - gioielli, vestiti, lettere - e gli disse che non voleva più
sentire parlare di lui. Non si incontrarono per un anno. Quando lui la rivide, gli prese un colpo. Diane stava passeggiando nel Campo e spingeva una carrozzina con due gemelle. Qualcuno gli raccontò che aveva sposato il professor Tolomei. Umberto capì immediatamente di essere il padre delle piccole e quando affrontò Diane lei impallidì e gli confermò che le bambine erano in effetti sue e che lei non aveva voluto che fossero allevate da un criminale. Accecato dalla gelosia, Umberto fece qualcosa di orribile. Ricordando quello che Diane gli aveva raccontato a proposito delle ricerche del professor Tolomei sulla statua con le gemme, riferì tutto ai suoi amici malavitosi di Napoli. Non passò molto tempo che la faccenda arrivò alle orecchie del boss, il quale gli impose di contattare il professor Tolomei e di farlo parlare. Cosa che fece assieme ad altri due uomini. Aspettarono che Diane fosse fuori con le gemelle prima di presentarsi a casa. Non appena appurato il motivo della visita, il professore diventò poco collaborativo. Vedendo che Tolomei non parlava, i due soci di Umberto passarono alle maniere forti e il poveretto ebbe un attacco di cuore fatale. Umberto si spaventò moltissimo e cercò di rianimarlo, ma fu inutile. Allora ordinò ai suoi scagnozzi di andarsene, li avrebbe poi raggiunti a Napoli. Subito dopo diede fuoco alla casa sperando di bruciare anche le carte del professore e mettere la parola fine alla storia della statua d'oro. Colpito dalla tragedia, Umberto decise di dare un taglio netto al passato e di tornare in Toscana, dove avrebbe vissuto con il denaro che aveva accumulato. Alcuni mesi più tardi si presentò a Diane e le disse che adesso era un uomo onesto. Dapprima lei non gli credette e lo accusò di aver avuto una parte nell'incendio che aveva ucciso il marito. Ma Umberto non si lasciò scoraggiare e alla fine lei cedette, anche se non fu mai del tutto convinta della sua innocenza. Vissero insieme per due anni, quasi come una famiglia. I genitori di Umberto non seppero mai la verità sulle gemelle, e il conte Salimbeni era furioso che il figlio non si sposasse e non avesse figli suoi. Chi avrebbe ereditato il Castello se Umberto fosse rimasto senza progenie?
Sarebbe stato un periodo felice se nel frattempo Diane non fosse diventata sempre più ossessionata da quella che lei chiamava «la maledizione sulle nostre due famiglie». Ne aveva parlato con Umberto fin da subito, ma lui non aveva preso la cosa sul serio. Era arrivato alla conclusione che la sua compagna fosse per natura una persona assai tormentata e che le fatiche della maternità avessero accentuato il problema. Invece di raccontare alle bambine delle favole, Diane leggeva loro di continuo Romeo e Giulietta finché Umberto interveniva per portare via il libro. Ma per quanto bene lo nascondesse, lei lo ritrovava sempre. E quando le gemelle dormivano, Diane passava ore e ore a tentare di rimettere insieme la ricerca che il professor Tolomei aveva svolto nel tentativo di localizzare la tomba di Giulietta e Romeo. Non era interessata alle gemme. Voleva solo mettere in salvo le bambine. Era convinta che visto che le piccole avevano una madre Tolomei e un padre Salimbeni fossero doppiamente vulnerabili alla maledizione di Frate Lorenzo. Umberto non si era neppure reso conto di quanto Diane fosse vicina a risolvere l'enigma della statua quando un giorno alcuni dei suoi vecchi soci di Napoli si presentarono a casa e cominciarono a fare domande. Sapendo quanto queste persone fossero pericolose, Umberto ordinò alla compagna di nascondersi sul retro con le bambine e poi fece del suo meglio per convincere i delinquenti che né lui né lei sapevano nulla. Ma appena sentì che avevano iniziato a prendere Umberto a botte, Diane apparve con una pistola in mano e intimò ai banditi di andarsene. Inascoltata, sparò a uno della banda ma, poco usa alle armi, mancò il bersaglio. Allora fu lei a essere colpita a morte. A Umberto fu detto che quello era solo l'inizio: se le quattro gemme non fossero saltate fuori, le prossime vittime sarebbero state le bambine. A questo punto della storia, Janice e io saltammo su all'unisono: «Quindi non sei stato tu a uccidere la mamma?» «Certo che no!» si difese lui. «Come vi è venuta in mente un'idea simile?» «Forse perché finora ci hai mentito su tutto», disse Janice con voce
strozzata. Umberto fece un profondo sospiro e di nuovo si dimenò alla ricerca di una posizione meno scomoda. Sconfortato ed esausto, riprese a raccontare che dopo l'uccisione di Diane era rimasto impietrito in casa senza sapere cosa fare. Non voleva assolutamente chiamare la polizia, né il prete, per non rischiare che la legge gli portasse via le bambine. Così trasportò il cadavere di Diane nell'auto e spinse la macchina giù da un dirupo, in una località deserta, per inscenare un incidente. Mise nell'auto anche alcune cose delle gemelle per far credere che fossero morte anche loro. Poi accompagnò le bimbe dai padrini, Peppo e Pia Tolomei, e se ne andò prima di dover dare spiegazioni. «Un momento!» esclamò Janice. «E il foro della pallottola? La polizia non si è accorta che la mamma non era morta per un incidente stradale?» Umberto esitò prima di confessare. «Ho dato fuoco all'auto. Non volevo che investigassero troppo. Perché avrebbero dovuto? In ogni caso avrebbero ricevuto lo stipendio a fine mese. Ma poi un giornalista zelante cominciò a fare domande in giro e, ancor prima che me ne rendessi conto, capii che mi stavano incastrando: per il professore, l'incendio, vostra madre... e anche voi due, santo Iddio.» Quella stessa notte, Umberto chiamò zia Rose negli Stati Uniti spacciandosi per un ufficiale di polizia. L'avvisò che sua nipote era morta e che le bambine erano presso dei parenti. Le riferì anche che le piccole erano in pericolo e che avrebbe fatto bene a venire subito a prenderle. Dopo la telefonata, andò a Napoli a far visita a quelli che avevano ucciso Diane e alle persone che erano al corrente del tesoro. Non cercò neppure di nascondere la sua identità. Voleva fosse un avvertimento. L'unico che risparmiò fu Cocco, perché non se la sentì di ammazzare un ragazzo di diciannove anni. In seguito sparì per molti mesi mentre la polizia lo stava cercando dappertutto. Alla fine andò negli Stati Uniti per accertarsi che le bambine stessero bene. Non stava seguendo un piano preciso. Una volta individuato il recapito, rimase nelle vicinanze in attesa di un'occasione. Alcuni giorni più tardi vide una donna in giardino che potava delle rose. Ritenendo che si trattasse di zia Rose, l'avvicinò
per chiederle se avesse bisogno di qualcuno per i lavori di giardinaggio. Cominciò così. Sei mesi dopo Umberto si era installato a tempo pieno a casa della zia in cambio di vitto, alloggio e poco più. «Non posso crederci!» esplosi. «La zia non si è mai domandata... come mai tu fossi passato di lì?» «Si sentiva sola», borbottò Umberto. «Troppo giovane per fare la vedova e troppo vecchia per fare la madre. Era pronta a credere a qualsiasi cosa.» «Ed Eva Maria? Lei lo sapeva dov'eri?» «Rimasi in contatto telefonico con lei senza mai comunicarle da dove chiamavo. E non le dissi nulla di voi due.» Umberto temeva che se avesse saputo di avere due nipoti, Eva Maria avrebbe insistito perché rientrassero in Italia. Quanto a lui, sapeva benissimo di non poter più tornare. Sarebbe stato riconosciuto e la polizia gli sarebbe stata immediatamente addosso, malgrado nome e passaporto falsi. E anche se all'inizio Eva Maria non avesse insistito, Umberto conosceva abbastanza bene sua madre per sapere che lei avrebbe trovato il modo di vedere le nipoti, mettendo così a repentaglio la loro incolumità. E, se non ci fosse riuscita, avrebbe di certo trascorso il resto della vita a tormentarsi per quelle nipotine che non aveva mai incontrato e sarebbe morta di crepacuore dando la colpa al figlio. Fu a causa di questi motivi che l'uomo non parlò mai delle bambine a Eva Maria. Con il passare del tempo, Umberto cominciò a sperare che i suoi nefandi trascorsi fossero morti e sepolti per sempre. L'illusione finì quando un giorno una berlina si arrestò di fronte alla casa di zia Rose. Dall'auto scesero quattro uomini: uno di loro era Cocco. Umberto non riuscì mai a capire come, dopo tutti quegli anni, fossero riusciti a trovare il suo recapito ma sospettò che qualcuno avesse intercettato, dietro compenso, le telefonate di Eva Maria. Gli uomini gli dissero che era ancora in debito verso di loro e che, a meno che non fosse pronto a pagare, avrebbero messo le mani sulle ragazze. Umberto rispose di non avere denaro ma loro sghignazzarono e gli ricordarono la statua con le gemme di cui aveva
parlato tanto tempo prima. Quando cercò di dissuaderli spiegando che gli era impossibile tornare in Italia, i banditi alzarono le spalle e lo informarono che in quel caso sarebbero andati a cercare le gemelle. Così, alla fine, Umberto accettò di rintracciare le pietre preziose in un tempo massimo di tre settimane. Prima di andarsene, tuttavia, giusto per dimostrare che non stavano scherzando, i banditi lo trascinarono nell'ingresso della casa e lo presero a calci. Nel corso del pestaggio urtarono il vaso veneziano posto sul tavolo sotto al lampadario, che si frantumò sul pavimento. Zia Rose, svegliata dal suo sonnellino, uscì dalla camera e - quando vide il parapiglia in fondo alle scale - iniziò a urlare a voce spiegata. Uno degli uomini estrasse una pistola per farla tacere ma Umberto fu abbastanza veloce da deviare lo sparo. A causa dello spavento, zia Rose perse l'equilibrio e cadde giù dalle scale. Quando i malviventi se ne andarono, e Umberto fu in grado di prestarle soccorso, lei era già morta. «Povera zia Rose!» esclamai. «Mi avevi detto che era morta pacificamente nel suo letto.» «Be', ho mentito», rispose lui con voce roca. «Fatto sta che è morta per colpa mia. Avresti preferito saperlo?» «Avrei preferito tu ci avessi detto la verità. Se tu l'avessi fatto anni fa...» con la gola serrata, feci una pausa per prendere fiato, «forse tutto questo l'avremmo evitato.» «Forse. Ma adesso è troppo tardi. Non volevo che sapeste nulla, volevo che foste felici... che aveste una vita normale.» Umberto proseguì raccontandoci che la notte seguente alla morte di zia Rose chiamò Eva Maria in Italia per raccontarle tutto. Le rivelò anche che era nonna di due nipoti e le chiese se avesse modo di aiutarlo a pagare i banditi. Lei rispose che non sarebbe riuscita a mettere insieme tanto denaro in tre settimane e che sarebbe stato meglio parlare con la polizia e con Alessandro, il suo figlioccio. Ma Umberto non intese ragioni. Secondo lui c'era una sola soluzione: fare come avevano detto i malviventi e trovare le dannate pietre. Alla fine Eva Maria accettò di aiutarlo e promise di convincere la Confraternita di Lorenzo a darle una mano. La sua unica condizione,
una volta che fosse tutto finito, era di poter finalmente conoscere le sue nipotine e che loro venissero tenute all'oscuro dei delitti del padre. Umberto non fece obiezioni. Non aveva mai voluto che le ragazze fossero messe a parte del suo passato criminale ed era per quello che non aveva mai rivelato la sua vera identità. «Ma è ridicolo!» protestai. «Se tu ci avessi detto la verità, noi avremmo capito.» «Davvero?» disse Umberto. «Non ne sono affatto sicuro.» «Bene», concluse Janice. «Tanto non lo sapremo mai, giusto?» Umberto ignorò il commento e ci raccontò che il giorno dopo Eva Maria era andata a Viterbo a parlare con Frate Lorenzo. Nel corso della conversazione le fu detto cosa bisognava fare perché i monaci l'aiutassero a trovare la tomba di Romeo e Giulietta. Frate Lorenzo l'aveva informata che si sarebbe dovuto celebrare un rito per «sciogliere i peccati» dei Salimbeni e dei Tolomei e che, a rito avvenuto, lei e gli altri penitenti sarebbero stati accompagnati alla tomba degli amanti per inginocchiarsi di fronte alla Vergine. L'unico problema era che Frate Lorenzo non era sicuro del sito esatto del sepolcro. Sapeva che c'era un ingresso segreto e come procedere da tale ingresso, ma non sapeva di preciso dove si trovasse. Una volta una giovane donna di nome Diane Tolomei riferì il frate a Eva Maria - era andata a trovarlo e gli aveva confidato di aver capito dov'era l'ingresso ma di non poterglielo rivelare perché temeva che qualcuno trovasse la statua e ne facesse scempio. La donna aveva aggiunto di aver trovato il cencio del 1340 e che avrebbe fatto un esperimento. Voleva che sua figlia Giulietta si stendesse sul cencio assieme a un ragazzino di nome Romeo perché questo avrebbe potuto cancellare i peccati del passato. Frate Lorenzo non era certo che la cosa avrebbe funzionato ma accettò di fare un tentativo. Si misero d'accordo per incontrarsi di nuovo un paio di settimane dopo in modo da mettersi alla ricerca della tomba. Ma purtroppo lei non tornò più. Quando Eva Maria riferì a Umberto della promessa di aiuto da parte dei monaci, lui cominciò a pensare che il piano potesse
funzionare. Sapeva infatti che Diane conservava un cofanetto con importanti documenti nella banca di Palazzo Tolomei, ed era sicuro che tra le carte ci fosse la chiave della soluzione. «Credimi», disse Umberto come se avesse percepito il mio disappunto, «l'ultima cosa che volevo fare era coinvolgerti. Ma con due sole settimane di tempo...» «E così mi hai usata lasciandomi pensare che fosse tutta opera di zia Rose», conclusi provando un nuovo tipo di rabbia nei suoi confronti. «E io?» saltò su Janice. «Mi hai fatto credere di aver ereditato una fortuna!» «Sai che problema!» ribatté Umberto. «Rallegrati di essere ancora viva!» «Immagino tu non mi abbia giudicata all'altezza del tuo intrigo», piagnucolò Janice. «È sempre stata Jules la cervellona.» «Oh, piantala!» strillai. «Sono io Giulietta, e sono io quella in pericolo...» «Dateci un taglio!» ringhiò lui. «Credetemi, niente mi avrebbe reso più felice che tenervi fuori da questa storia. Ma non ho potuto fare altrimenti. Così ho incaricato un vecchio amico di non perdere di vista Giulietta...» «Vuoi dire Bruno?» ansimai. «Pensavo che volesse uccidermi!» «Invece doveva proteggerti», mi contraddisse Umberto. «Sfortunatamente a un certo punto ha pensato di poter arrotondare nel frattempo», tirò un sospiro. «Bruno è stato un errore.» «Così, l'hai fatto...?» volli sapere. «Non ce n'è stato bisogno. Bruno sapeva troppe cose di troppa gente. Persone così in galera durano poco.» Piuttosto a disagio, Umberto cambiò argomento per concludere che tutto andò come previsto una volta che anche Eva Maria si convinse che io ero veramente sua nipote e non un'attricetta ingaggiata allo scopo di costringerla ad aiutare il figlio. A questo proposito era stata così malfidente che aveva perfino mandato Alessandro a prelevare di soppiatto un campione del mio DNA nella mia camera d'albergo.
Ma, una volta ottenuta la prova, si era subito messa a organizzare la festa. Ricordando le parole di Frate Lorenzo, Eva Maria chiese al figlioccio, senza dirgli il perché, di portare il pugnale di Romeo e l'anello di Giulietta a Castello Salimbeni. Sapeva perfettamente che, se Alessandro avesse avuto il minimo sentore di quello che sarebbe successo, di certo al castello sarebbero arrivati anche i carabinieri. Anzi, Eva Maria avrebbe di gran lunga preferito tenerlo all'oscuro di tutto ma, visto che Alessandro era anche Romeo Marescotti, lei aveva bisogno che lui recitasse, volente o nolente, la sua parte nella cerimonia. A ripensarci, ammise Umberto, sarebbe stato meglio se Eva Maria mi avesse informato dei suoi piani, almeno in parte, visto che le cose erano andate a catafascio. Se avessi fatto quello che dovevo fare bere il vino, andare a letto e addormentarmi - tutto sarebbe andato liscio. «Un momento! Vuoi dire che lei mi ha drogata?» chiesi io. Umberto esitò. «Solo un pochino. Nel tuo interesse.» «Non posso crederci! È mia nonna!» «Se ti può consolare, non ne era affatto contenta. Ma le dissi che era l'unico modo per evitare di coinvolgerti. Tu e Alessandro. Purtroppo, neanche lui ha bevuto il vino.» «Ma aspetta un secondo!» obiettai. «È stato Alessandro a rubare il libro dalla mia camera e a consegnartelo ieri notte! Vi ho visti!» «Ti sbagli!» Umberto era chiaramente seccato perché lo stavo contraddicendo e forse anche perché avevo assistito al suo incontro segreto con Alessandro. «Ha fatto soltanto da corriere. Ieri a Siena qualcuno gli ha dato il libro dicendogli di passarlo a Eva Maria. Di certo non sapeva che fosse stato rubato, altrimenti...» «Aspetta!» intervenne Janice. «Tutto questo non ha senso! Chiunque fosse il ladro, perché non ha portato via tutto il cofanetto? Perché solo il tascabile?» Umberto esitò prima di rispondere, mormorando: «Perché vostra madre mi aveva detto che il libro conteneva il codice. E che se le
succedeva qualcosa...» Non riuscì ad andare avanti. Rimanemmo per un po' tutti zitti fino a quando Janice riprese: «Be', penso tu debba scusarti con Jules...» «Jan, lasciamo perdere!» la interruppi. «Ma guarda quello che ti è successo...» insistette lei. «È stata colpa mia!» replicai. «Sono stata io a...» ma non sapevo come proseguire. Umberto emise una specie di grugnito. «Non posso credere a voi due! E tu, Julie? Non ti ho insegnato proprio niente? Lo conosci da una settimana... eppure, eccoti a... E com'eravate carini!» «Ci hai spiato?» Mi sentii sopraffare dall'imbarazzo. «Questo è assolutamente...» «Avevo bisogno del cencio!» si difese lui. «Sarebbe andato tutto liscio se voi due non vi foste messi a...» «A proposito», si inserì Janice, «quanto ne sapeva Alessandro di tutto questo?» Umberto sbuffò. «Chiaramente, abbastanza! Sapeva che Julie era la nipote di Eva Maria e che voleva essere lei stessa a dirglielo. Tutto qua. Ripeto che non volevamo che la polizia s'immischiasse. E così Eva Maria non gli disse nulla della cerimonia con l'anello e il pugnale fino a poco prima del rito e, credimi, lui si arrabbiò moltissimo per esserne stato tenuto all'oscuro. Ma accettò di partecipare quando mia madre gli spiegò quanto fosse importante per lei, e per te, che la cerimonia ponesse fine alla maledizione sulle due famiglie.» Poi fece una pausa per aggiungere a bassa voce: «È un peccato che tutto debba finire così». «Chi lo dice che questa è la fine?» scattò Janice. Umberto non proferì verbo ma sapevamo entrambe cosa stesse pensando: Oh, sì che è la fine. Mentre ce ne stavamo ammutoliti nel buio, sentii che l'oscurità mi penetrava dentro come attraverso tante piccole ferite e che la disperazione mi stava sopraffacendo. La paura che avevo provato prima, quando Bruno Carrera mi inseguiva o quando Janice e io eravamo rimaste intrappolate nei Bottini, era nulla in confronto a
quello che provavo adesso, dilaniata dai rimorsi e consapevole che era troppo tardi per rimettere le cose a posto. «Giusto per curiosità», borbottò Janice, i cui pensieri evidentemente si muovevano in direzioni diverse dalle mie, ancorché non meno deprimenti, «l'hai mai amata? La mamma, voglio dire.» Visto che Umberto non rispondeva, mia sorella si premurò di aggiungere con tono esitante: «E lei... ti amava?» Umberto fece un sospiro. «A lei piaceva odiarmi. Era quello che le dava la carica. Diceva che ce l'avevamo nei geni, di litigare, ma che le andava bene così. Era solita chiamarmi...» fece una pausa per schiarirsi la voce, «Nino.» Quando il camioncino si arrestò, avevo quasi dimenticato dove stessimo andando e perché. Ma nell'attimo in cui si aprì lo sportello e scorgemmo la sagoma di Cocco e soci davanti al Duomo di Siena illuminato dalla luna, fu come ricevere un pugno nello stomaco. Gli uomini ci tirarono fuori afferrandoci per le caviglie, manco fossimo dei bagagli, e poi salirono sul cassone a prelevare Frate Lorenzo. Eravamo rimaste per così tanto tempo sdraiate che sia io sia mia sorella faticammo a rimanere dritte. «Ehi guarda!» sussurrò Janice con un barlume di speranza nella voce. «Dei musicisti!» Aveva ragione. Altre tre auto erano parcheggiate a un tiro di schioppo dal furgone e cinque o sei uomini in smoking erano raggruppati attorno a delle custodie di violino a fumare e a scherzare tra loro. Mi illusi per poco perché, nell'attimo in cui Cocco si avvicinò per salutarli, capii che quei tizi non erano lì per suonare ma per dare una mano ai malviventi. Non appena videro Janice e me, gli uomini cominciarono a lanciare segni di apprezzamento. Per nulla preoccupati dal baccano che stavano facendo, iniziarono a fischiare e a fare gestacci per attirare la nostra attenzione. Umberto non provò neppure a zittirli. Non c'era dubbio alcuno che noi tre, più il monaco, eravamo già fortunati a essere ancora in vita. Gli schiamazzi si attenuarono solo
quando i balordi videro Frate Lorenzo emergere dal camioncino. Fu allora che tutti si chinarono a prendere i loro strumenti come tanti scolari che tirano su le cartelle all'arrivo dell'insegnante. Di certo quelli che gremivano la piazza quella notte - soprattutto giovani e turisti - ci presero per un gruppo di locali che tornavano da qualche celebrazione paliesca. Gli uomini di Cocco non smisero per un attimo di schiamazzare mentre scortavano Janice e me, elegantemente drappeggiate con due stendardi a celare i polsi legati e i coltelli a serramanico premuti contro le costole. Mentre ci avvicinavamo all'entrata principale di Santa Maria della Scala, vidi mastro Lippi attraversare la piazza con un cavalletto tra le braccia. Aveva l'aria totalmente trasognata. Non osando chiamarlo a gran voce, lo fissai con tutta l'intensità che riuscii a padroneggiare nella speranza di giungere a lui attraverso lo spirito. Ma quando finalmente il pittore guardò nella nostra direzione, i suoi occhi ci sfiorarono appena senza riconoscerci e le mie speranze andarono in fumo. Proprio in quel momento le campane del Duomo suonarono la mezzanotte. Era una notte afosa e soffocante e in lontananza si sentiva brontolare un temporale. Quando arrivammo all'imponente entrata del vecchio ospedale, le prime raffiche di vento cominciarono ad abbattersi sulla piazza sollevando cartacce e immondizia, come demoni invisibili alla ricerca di qualcosa o di qualcuno. Senza perdere tempo Cocco estrasse un cellulare e fece una telefonata. Una manciata di secondi più tardi le due lucine rosse poste a entrambi i lati della porta si spensero e l'intero fabbricato parve esalare un profondo respiro. Poi Cocco tirò fuori di tasca una grossa chiave di ferro battuto e la introdusse nella serratura sotto al maniglione. La porta si spalancò con un fragore sordo. Fu allora che pensai che Santa Maria della Scala era l'ultimo posto a Siena che mi sarebbe venuto in mente di esplorare in piena notte, a prescindere dal coltello premuto alle costole. Il palazzo era stato tramutato in museo molti anni prima, ma la sensazione di sofferenza e morte era ancora palpabile. Anche per qualcuno che non voleva credere ai fantasmi, erano rimaste innumerevoli altre cose di cui
preoccuparsi, a cominciare dai batteri dormienti della peste. La cosa era tuttavia irrilevante dato che avevo perso il controllo del mio destino. Quando Cocco aprì la porta, quasi mi aspettavo un'esplosione di ombre in fuga o il fetore della putrefazione. Invece, oltre la soglia, non sentii che il fresco dei muri spessi. Ciò nonostante, Janice e io esitammo a entrare e fu solo con gli spintoni dei nostri accompagnatori che avanzammo esitanti verso l'ignoto. Appena fummo tutti dentro, e la porta dietro di noi di nuovo sbarrata, gli uomini si sistemarono in testa degli elmetti dotati di torcia e aprirono le custodie degli strumenti. All'interno, protetti da polistirolo, si celavano torce, armi e attrezzi vari. «Andiamo!» ordinò Cocco agitando una mitragliatrice per farci scavalcare il cancelletto di sicurezza. Con le mani ancora legate dietro la schiena, mia sorella e io non riuscivamo a oltrepassarlo così gli uomini ci afferrarono per le braccia e ci scaraventarono dall'altra parte ignorando le nostre urla di dolore quando la barra di metallo ci colpì i polpacci. Umberto, che finalmente osò lamentarsi della loro brutalità, ricevette una gomitata in pieno stomaco che lo fece piegare in due. Quando mi fermai per vedere se si rialzava, due degli scagnozzi di Cocco mi afferrarono per le spalle e mi spintonarono in avanti senza che le loro facce esprimessero alcunché di umano. L'unico a venire trattato con un minimo di rispetto fu Frate Lorenzo, cui venne accordato tutto il tempo necessario a scavalcare il cancello con quel tanto di dignità che ancora gli rimaneva. «Perché è sempre bendato?» sussurrai a Janice appena gli uomini mi tolsero le mani di dosso. «Perché è l'unico che lasceranno in vita», fu l'inquietante risposta di mia sorella. «Sssh!» ci zittì Umberto. «Meno attirate l'attenzione, meglio è per voi.» Tutto considerato, era un suggerimento del piffero. Né Janice né io ci lavavamo dal giorno prima; io poi indossavo ancora il lungo abito di velluto rosso della festa, anche se ormai era ridotto in uno
stato pietoso. Quella mattina Janice mi aveva suggerito di rinunciare alla mise «strappami-il-corsetto» e di indossare uno dei vestiti che avevamo trovato nell'armadio della mamma. Ma non avevo potuto farlo a causa dell'insopportabile odore di naftalina. Lurida e a piedi nudi, ma pur sempre vestita a festa, adesso mi veniva consigliato di
non attirare l'attenzione.
Camminammo per un po' in silenzio seguendo la luce ballonzolante dei faretti che si rifletteva lungo i corridoi bui e scendemmo numerose scale nella scia di Cocco e uno dei suoi lacchè, un tizio allampanato e dall'aria itterica che mi faceva pensare a un gigantesco avvoltoio. Di tanto in tanto i due si arrestavano per consultare un grande foglio di carta che altro non poteva essere che una mappa del palazzo. Avevamo cinque uomini davanti e cinque dietro, sempre. Se cercavo di guardare Janice o Umberto, il tizio che mi seguiva mi premeva la canna di una pistola fra le scapole facendomi sussultare dal dolore. Di fianco a me, anche Janice stava ricevendo lo stesso trattamento e, benché non la potessi vedere, sapevo che anche lei era spaventata e furiosa come me, e altrettanto incapace di ribellarsi. Malgrado gli smoking e i capelli impomatati, gli uomini emanavano un odore pungente che denunciava quanto si sentissero anche loro sotto pressione. O forse erano gli effluvi dei sotterranei: più scendevamo e più distintamente si sentiva un fetore nauseabondo. Di primo acchito il posto sembrava pulito, quasi asettico, ma, mentre procedevamo attraverso la fitta rete di cunicoli, non potei fare a meno di pensare che - al di là di quei muri disseccati dal tempo - qualcosa di putrido si stesse scavando un varco attraverso il calcestruzzo. Quando alla fine ci fermammo, avevo perso l'orientamento da un pezzo. Mi sembrò che fossimo scesi a una profondità di almeno quindici metri ma non ero più tanto sicura di essere ancora sotto Santa Maria della Scala. Tremando di freddo mi premetti i piedi gelati contro le caviglie per riattivare la circolazione. «Jules, vieni qua!» disse Janice all'improvviso interrompendo la mia ginnastica. Quasi m'aspettavo che qualcuno desse una botta in testa a tutte e
due per aver parlato, invece fummo spinte di fronte a Cocco e all'avvoltoio. «E ora, ragazze?» chiese Cocco accecando entrambe con il suo faretto. «Questa è la stanza di Santa Caterina. Adesso qual è la direzione?» Ci accorgemmo che l'avvoltoio stava puntando la torcia attraverso un cancello di ferro battuto oltre il quale si intravedeva una celletta monastica dotata di lettino e altare. Sul letto giaceva la statua di una donna sdraiata, presumibilmente Santa Caterina. La parete dietro il letto, dipinta di celeste, era cosparsa di stelline dorate. «Uhm», esclamò Janice chiaramente sbalordita come me di essere arrivata per davvero nella cella menzionata nel rebus della mamma,
«procurami una leva di ferro.»
«E ora cosa si fa?» ci chiese Umberto, ansioso di dimostrare a Cocco quanto fossimo utili. Janice e io ci scambiammo uno sguardo ricordando fin troppo bene che la mamma aveva concluso le sue istruzioni proprio lì con un gioioso: «E voi, ragazze, ballate!» «Aspettate...» All'improvviso ricordai un altro frammento: «Oh, sì... via dalla croce...» «Quale croce?» Umberto parve confuso. Allungammo tutti il collo verso la celletta e, proprio mentre Cocco sgomitava per guardare lui stesso, Janice agitò la testa cercando di indicare la direzione con il naso. «Là! Guardate! Sotto l'altare!» E in effetti, proprio sotto l'altare, si intravedeva una grande lastra di marmo nero con sopra una croce che pareva indicare l'ingresso di una tomba. Senza perdere un attimo, Cocco arretrò di un passo e puntò la mitragliatrice contro il lucchetto che chiudeva il cancello di ferro. Prima ancora che qualcuno potesse mettersi in salvo, Cocco esplose contro la serratura una scarica assordante che fece uscire il cancello dai cardini. «Oh, Gesù!» urlò Janice con una smorfia di dolore. «Mi ha
sfondato i timpani. Il tizio è pazzo come un cavallo!» Senza dire una parola, Cocco fece un giro su se stesso, le mise le mani attorno alla gola e cominciò a stringere fin quasi a soffocarla. Accadde tutto così in fretta che quasi non me ne accorsi. Poi la lasciò andare e Janice cadde in ginocchio boccheggiando. «Oh, Jan!» gridai mentre mi buttavo sopra di lei. «Stai bene?» Dovette inspirare un paio di volte prima di rispondere con voce tremante: «Bisogna che mi scriva un promemoria...» bofonchiò con le lacrime agli occhi, «dovrei contare fino a dieci prima di fare certi commenti». Poi gli uomini si infilarono sotto l'altare con sbarre di ferro e trivelle e, quando la lastra si mosse e venne capovolta sul piantito di pietra in mezzo a una nuvola di polvere, nessuno di noi si sorprese nel vedere che sotto c'era proprio l'ingresso di un tunnel. Dopo essere emerse dalle fogne nel Campo tre giorni prima, Janice e io ci eravamo ripromesse che mai più saremmo scese nei Bottini a fare le speleologhe. E invece eccoci di nuovo a strisciare in un cunicolo non più ampio di un budello, nel buio quasi completo e senza la promessa di un cielo azzurro alla fine del tunnel. Prima di spingerci nel pertugio, Cocco ci aveva liberato le mani, non per gentilezza ma perché era il solo modo per portarci con lui. Per nostra fortuna, il gaglioffo era ancora convinto di aver bisogno di noi per trovare la tomba di Romeo e Giulietta, ignorando che la croce sotto l'altare nella camera di Santa Caterina era l'ultimo indizio lasciatoci da nostra madre. Mentre arrancavo centimetro dopo centimetro dietro Janice, senza vedere nient'altro che i suoi jeans e il bagliore discontinuo dei faretti contro le pareti frastagliate del tunnel, mi ritrovai a rimpiangere di non indossare anch'io dei pantaloni. La lunga gonna dell'abito continuava a impigliarsi ovunque e il sottile tessuto faceva ben poco per proteggermi le ginocchia già malandate. L'unica consolazione era che il freddo mi aveva resa quasi del tutto insensibile al dolore. Quando finalmente raggiungemmo l'estremità del tunnel, provai
lo stesso sollievo che provarono tutti nel vedere che nessun masso o cumulo di detriti ci costringeva a fare marcia indietro. Ci trovavamo in un'ampia grotta, larga almeno sette metri e alta abbastanza da permetterci di stare dritti in piedi. «E ora?» ci chiese Cocco appena Janice e io fummo a portata d'orecchio. E ora? Era proprio quello il punto. «Oh, no!» mi sussurrò Janice senza farsi sentire dagli altri, «siamo in un vicolo cieco!» Dopo di noi, intanto, arrivò anche il resto degli uomini. Frate Lorenzo fu trasportato fuori dal budello dall'avvoltoio e da un altro tizio con la coda di cavallo, come se fosse un principe aiutato a venire al mondo da due levatrici di corte. Prima di infilarlo nel tunnel qualche anima buona gli aveva tolto la benda e ora il monaco poté muovere alcuni passi incerti, con gli occhi sbarrati dallo stupore, quasi avesse dimenticato quali circostanze l'avessero portato fin lì. «Cosa facciamo?» sibilò Janice cercando di attirare l'attenzione di Umberto che invece era occupato a spazzolarsi la polvere dai calzoni e pareva non aver percepito la drammaticità del momento. Per nostra fortuna, Janice si sbagliava. Mentre mi guardavo intorno febbrilmente mi accorsi che in realtà c'erano altre due uscite dalla grotta, oltre al cunicolo attraverso cui eravamo arrivati. Una era nel soffitto, ma si trattava di una specie di sfiatatoio lungo e stretto che pareva essere bloccato in alto da una lastra di cemento. Anche con una scala, non sarebbe stato possibile arrivarci. Assomigliava a un antico scivolo per i rifiuti e la cosa era confermata dal fatto che la seconda uscita era posizionata sul pavimento, proprio sotto la prima. O per lo meno presumevo ci fosse un passaggio sotto il coperchio arrugginito e coperto da polvere e detriti che si intravedeva per terra. Vedendo che Cocco stava ancora aspettando istruzioni da Janice e da me, feci la sola cosa logica, cioè indicare il coperchio di metallo sul pavimento. «Cercate, scavate», dissi tentando di assumere un tono da Sibilla Cumana, «guardate sotto i vostri piedi. E li che giace Giulietta.»
«Proprio così!» annuì Janice tirandomi nervosamente per la manica. «Lì giace Giulietta.» Dopo aver scambiato uno sguardo feroce con Umberto per averne conferma, Cocco ordinò agli uomini di darsi da fare sul coperchio di ferro con le leve, cosa che questi eseguirono con tale violenza che Frate Lorenzo si accucciò in un angolo a sgranare il rosario. «Poveraccio», mormorò Janice mordendosi un labbro, «è andato completamente nel pallone. Spero solo...» Non proseguì oltre, ma sapevo quello che stava pensando, perché era la stessa cosa cui avevo pensato io. Era solo questione di tempo prima che Cocco si rendesse conto che il vecchio monaco costituiva un peso morto. E a quel punto, noi non saremmo state in grado di salvarlo. D'accordo, avevamo le mani libere ma sapevamo entrambe di essere intrappolate come prima. Nell'attimo in cui anche l'ultimo uomo uscì dal tunnel, il tizio con la coda di cavallo si posizionò proprio di fronte all'apertura per impedire a chiunque di rinfilarsi dentro. E così per Janice e per me - con o senza Umberto e Frate Lorenzo - c'era solo una via d'uscita: quella lungo lo scivolo dei rifiuti. Quando finalmente il coperchio cedette, potemmo tutti vedere che sotto si celava l'accesso a una botola abbastanza ampia da farci passare una persona. Cocco allora si sporse in avanti e puntò la torcia nel pertugio, e dopo un piccola esitazione tutti gli altri fecero lo stesso per poi allontanarsi con aria delusa. Il tanfo proveniente dalle tenebre sottostanti era terribile e Janice e io non fummo le sole a doverci tappare il naso. Ma dopo alcuni istanti, le esalazioni divennero sopportabili. Chiaramente stavamo familiarizzando un po' troppo con il fetore di marcio. Quello che Cocco vide là sotto fu abbastanza per fargli dire: «Un bel niente!» «Insomma, che cosa si aspettava?» bisbigliò Janice, «un'insegna al neon con la scritta tombaroli da questa parte?» Trasalii e, quando vidi che Janice lanciava a Cocco pure un'occhiata di scherno, temetti che lui le sarebbe di nuovo saltato
addosso per afferrarla alla gola. Ma non successe nulla. Il bandito si limitò a fissarla di traverso in modo strano e io capii che la mia furba sorellina aveva iniziato a sfidarlo fin dall'inizio allo scopo di capire da che parte prenderlo. Perché? Perché solo lui ci avrebbe potuto salvare la vita. «Dai, dai!» fu tutto quello che disse il capobanda mentre incitava i suoi uomini a lanciarsi l'uno dopo l'altro attraverso l'apertura. Da come tutti si preparavano prima del salto, e dai flebili lamenti provenienti dal basso mentre atterravano sul fondo della grotta sottostante, il dislivello mi parve abbastanza impegnativo da essere pericoloso, se non addirittura impossibile da affrontare senza una corda. Appena arrivò il nostro turno, Janice si fece subito avanti, probabilmente per dimostrare a Cocco che non avevamo paura. E quando lui le porse la mano per aiutarla - forse per la prima volta nella sua carriera - lei gli sputò sul palmo prima di darsi la spinta e gettarsi nel buco. Incredibilmente, Cocco si limitò a scoprire i denti in un sogghigno e dire qualcosa a Umberto che fui felice di non afferrare. Vedendo che Janice stava già facendomi cenno da sotto e che il salto non superava i tre metri, mi lasciai cadere anch'io nella foresta di braccia che si protendevano per afferrarmi. Mentre gli uomini mi aiutavano a rimettermi in piedi, uno di loro pensò di essersi guadagnato il diritto di palpeggiarmi. Lottai invano per togliermelo di dosso ma lui, ridendo, mi prese per i polsi e invitò gli altri a partecipare. Stavo cominciando a farmi sopraffare dal panico quando Janice si fiondò come una furia tra mani e braccia e si interpose in mia difesa tra me e gli uomini. «Volete divertirvi?» urlò con una smorfia di disgusto. «È quello che volete? Eh? Allora perché non cominciate con me...» Iniziò a strapparsi la camicetta con tale impeto che i delinquenti rimasero senza parole. Ipnotizzati alla vista del suo reggiseno, tutti iniziarono a indietreggiare, con l'eccezione del tizio che aveva preso l'iniziativa. Senza smettere di ghignare, allungò una mano per toccarle il seno, ma venne interrotto da una raffica di colpi in aria che fece sobbalzare ognuno di noi dal terrore.
Mezzo secondo dopo, fummo tutti scaraventati al suolo da una cascata di arenaria. Mentre battevo la testa per terra, e bocca e naso mi si riempivano di detriti, ebbi un improvviso flashback di quando a Roma ero stata colpita dai gas lacrimogeni e pensavo di stare per morire. Per alcuni minuti fui scossa da un accesso di tosse così violenta da darmi i conati, e non ero la sola. Tutti attorno a me erano a terra, compresa Janice. L'unica consolazione era che il fondo della grotta non era affatto duro, ma stranamente soffice. Fosse stato di pietra, di certo l'impatto sarebbe stato diverso. Alla fine, alzando lo sguardo attraverso la nuvola di polvere, scorsi Cocco con la mitragliatrice in pugno in attesa di vedere se qualcun altro voleva divertirsi. Ma nessuno aprì bocca. La sua raffica d'avvertimento aveva provocato una vibrazione e parti del soffitto erano venute giù. Nessuno degli uomini intenti a spolverarsi i detriti da capelli e vestiti osò tuttavia contestare la furbata. Chiaramente soddisfatto dal risultato, Cocco puntò due dita contro Janice e disse con tono conclusivo: «La stronza è mia!»
Capitolo 3 Una tomba? Oh, no; in un faro, o mia giovane vittima, perché qui giace Giulietta, e la sua bellezza trasforma questa tomba in una sala di festa, piena di luce. LA mia macabra scoperta fece contorcere tutti dal disgusto e Janice quasi vomitò quando vide quello che avevo trovato. «Oh, Dio mio!» urlò. «È una fossa comune!» Barcollò all'indietro mentre si premeva la manica della camicetta su naso e bocca. «Fra tutti i posti disgustosi... siamo nel pozzo della peste! Migliaia di microbi! Moriremo tutti!» Il suo panico scatenò un'ondata di terrore anche fra i banditi e Cocco dovette gridare come un indemoniato per ristabilire la calma. L'unico a non sembrare troppo impressionato fu Frate Lorenzo, che cominciò a pregare a testa china per le anime dei defunti che, a seconda della profondità della grotta, dovevano essere centinaia, se non migliaia. Ma Cocco non era in vena di preci. Spinse il monaco da parte con il calcio della mitraglietta e si diresse verso di me ringhiando qualcosa di sgradevole. «Vuole sapere dove si va adesso», tradusse Umberto con una calma che faceva da contraltare all'isteria di Cocco. «Dice che gli hai detto che la tomba di Giulietta si trova in questa grotta.» «Ma non l'ho detto...» protestai, ricordando fin troppo bene le mie parole. «La mamma dice... che qui giace Giulietta... dietro la porta.» «Quale porta?» volle sapere Cocco facendo scorrere lo sguardo sulle pareti della grotta. «Non vedo nessuna porta!» «Insomma», mentii, «la porta è qua. Da qualche parte.» Cocco mi bestemmiò contro qualcosa di offensivo prima di
allontanarsi. «Non ci crede», disse Umberto cupamente. «Pensa tu l'abbia ingannato. Adesso va a chiedere a Frate Lorenzo.» Janice e io guardammo allarmate gli uomini che circondavano il monaco e lo bersagliavano di domande. Annichilito dalla paura, Frate Lorenzo cercò di dare ascolto a tutti ma alla fine chiuse gli occhi e si coprì le orecchie. «Stupido!» ringhiò Cocco mentre si preparava a colpire il vecchio. «No!» urlò Janice e si gettò sul balordo afferrandolo per il gomito per bloccarlo. «Fai provare a me! Per favore!» Per alcuni terribili istanti parve che mia sorella avesse sovrastimato la sua capacità di controllo sul delinquente. A giudicare da come Cocco fissò il proprio braccio, ancora trattenuto dalle mani di Janice, sembrò che neppure lui si capacitasse che lei avesse avuto l'audacia di fermarlo. Rendendosi conto lei stessa dell'errore, Janice lasciò andare il braccio dell'uomo e cadde in ginocchio davanti a lui in atto di sottomissione. Dopo un momento di indecisione, Cocco alzò le mani e, con un sogghigno, borbottò qualcosa del tipo Le donne! Cosa ci
tocca sopportare!
Così, grazie a Janice, potemmo parlare a Frate Lorenzo senza interferenze mentre i malviventi, dopo essersi accesi una sigaretta, cominciavano a giocare a calcio con il teschio. Dopo esserci posizionate in modo che il monaco non potesse vedere la sacrilega partita, chiedemmo al monaco - e Umberto ci fece da interprete - se avesse una qualche idea di come raggiungere la tomba di Romeo e Giulietta partendo da dove eravamo. Non aveva ancora sentito la domanda per intero che già si era messo a scuotere la testa tutto agitato. «Dice che non vuole mostrare a questi malvagi dov'è la tomba perché ne farebbero scempio», tradusse per noi Umberto. «E aggiunge che non ha paura di morire.» «Che Dio ci aiuti!» mormorò Janice. Poi appoggiò una mano sul braccio di Frate Lorenzo. «Capisco. Ma, vede, loro uccideranno
anche noi. E poi torneranno fuori a rapire e ad ammazzare altra gente. Preti, donne, innocenti. Non finirà mai, fino a quando qualcuno non dirà loro dov'è la tomba.» Il religioso ponderò la traduzione di Umberto per un po'. Poi mi indicò con il dito e fece una domanda che mi parve stranamente accusatoria. «Mi chiede se tuo marito sa dove sei», spiegò Umberto, quasi divertito malgrado la situazione. «Pensa che sia stupido da parte tua stare qui assieme a questi balordi mentre dovresti essere a casa a sbrigare le faccende.» Più che vederla, percepii Janice che alzava gli occhi al cielo pronta ad avere un attacco di nervi. Ma c'era qualcosa di tanto sincero nella voce di Frate Lorenzo che mi sentii toccata nel profondo, come di certo mia sorella non avrebbe mai potuto capire. «Ha ragione», dissi, scandendo bene le parole, «ma adesso la cosa più importante è porre termine alla maledizione. Lo sa anche lei. E, senza il suo aiuto, non posso farlo.» Frate Lorenzo assunse un'aria severa e allungò la mano per sfiorarmi una guancia. «Vuole sapere dov'è il crocefisso», disse Umberto. «Per proteggerti dai demoni.» «Non... so dove sia», balbettai pensando a quando Alessandro me l'aveva tolto dal collo per metterlo sul tavolino da notte dove io avevo appoggiato il suo proiettile. Non ci avevo più pensato. Frate Lorenzo fu chiaramente contrariato dalla mia risposta, come nel vedere che non portavo più l'anello con l'aquila. «Dice che per te è molto pericoloso avvicinarti alla tomba senza crocefisso e vuole che ci ripensi», tradusse ancora Umberto, asciugandosi il sudore dalla fronte. Deglutii diverse volte cercando di calmare l'affanno e farmi forza. «Digli che non ho bisogno di ripensarci. Non c'è scelta. Dobbiamo trovare la tomba stanotte.» Feci un cenno agli uomini dietro di noi. «Sono quelli i veri demoni. Solo la Vergine Maria ci potrà proteggere da loro. Sono sicura che alla fine saranno puniti.»
Finalmente Frate Lorenzo annuì. Ma, invece di parlare, serrò gli occhi e iniziò a cantilenare qualcosa oscillando la testa avanti e indietro, come se stesse cercando di ricordare i versi di un poema. Vidi che Janice stava guardando in tralice Umberto ma, proprio mentre era sul punto di commentare il mio fiasco come intermediaria, il monaco smise di borbottare e recitò qualcosa che sembrava un componimento poetico.
«La peste nera sorveglia la porta della Vergine», tradusse Umberto,
«questo è quanto è scritto nel libro.»
«Quale libro?» volle sapere Janice.
«Guardateli ora», proseguì Umberto ignorandola, «quei senzadio prostrati davanti alla porta che rimarrà chiusa in eterno. Frate
Lorenzo sostiene che questa grotta deve essere l'antica anticamera della cripta. La questione è...» si interruppe quando vide il monaco alzarsi di botto e dirigersi verso il muro più vicino, continuando la sua cantilena.
Incerti sul da farsi, ci mettemmo diligentemente dietro di lui, che aveva iniziato a percorrere il perimetro della grotta senza staccare la mano dalle pareti. Adesso che sapevo su che cosa stavamo camminando, ogni passo mi procurava dei brividi. Per fortuna che le zaffate di fumo delle sigarette avevano attenuato l'altro odore, quello della morte. Solo dopo aver perlustrato l'intero periplo - cercando di ignorare i commenti pesanti dei banditi che ci osservavano sprezzanti - ed essere tornati al punto di partenza. Frate Lorenzo finalmente si fermò per parlare di nuovo. «Il Duomo di Siena ha un orientamento est-ovest con l'ingresso a occidente», spiegò Umberto. «È la norma per le cattedrali. E così si potrebbe presumere che per la cripta valga la stessa cosa. Tuttavia il libro dice che...» «Quale libro?» chiese di nuovo Janice. «Porco mondo», sbuffai, «qualche libro dei monaci di Viterbo, va bene?» «Il libro dice», continuò Umberto trafiggendoci entrambe con gli occhi, «che il lato nero della Vergine è l'immagine speculare del lato
bianco. Il che potrebbe significare che la cripta, essendo la parte nera
sotterranea, ha invece un orientamento ovest-est, con l'entrata a oriente, nel qual caso la porta d'accesso da qui sarebbe rivolta a occidente. Non siete d'accordo?»
Janice mi lanciò uno sguardo da cui capii che era confusa almeno quanto me. «Non abbiamo la più pallida idea di come si sia arrivati a questa conclusione ma, a questo punto, ci va bene tutto», dissi a Umberto. Appena apprese le nuove, Cocco gettò via il mozzicone e si sollevò la manica per consultare la bussola incorporata nell'orologio da polso. Non aveva ancora capito dove fosse l'occidente che già stava abbaiando ordini ai suoi uomini. Alcuni minuti più tardi erano tutti intenti a scavare nella parte più occidentale della grotta e a estrarre a mani nude pezzi di scheletri che venivano gettati da parte come rami secchi. Era uno spettacolo bizzarro vedere quei delinquenti a carponi, con addosso smoking e scarpe eleganti, che non si preoccupavano di inalare il pulviscolo delle ossa calcinate. Nauseata, mi girai verso Janice che sembrava totalmente ipnotizzata dall'operazione. Quando si accorse che la stavo guardando, ebbe un sussulto. «Esci da quel luogo di morte, di
putrefazione e di sonno non naturale. Una forza superiore a cui non possiamo opporci ha contrastato i nostri progetti.» La cinsi con un braccio nel tentativo di proteggere entrambe da quella vista orrenda. «E dire che pensavo che non avresti mai imparato quelle dannate battute.» «Non erano le battute», disse. «Era la parte. Non sono mai stata Giulietta.» Strinse il mio braccio ancora più forte contro di sé. «Non potrei mai morire per amore.» Cercai di guardarla in viso nella luce tremolante. «Come fai a dirlo?» Non rispose, ma la cosa non aveva importanza. Perché proprio in quel momento si udirono delle grida dal fondo dello scavo ed entrambe ci avvicinammo per vedere. «Hanno trovato qualcosa», annunciò Umberto indicando con la
mano. «Pare che Frate Lorenzo avesse ragione.» Ci allungammo per valutare quale fosse l'entità della scoperta ma al baluginio intermittente delle torce era quasi impossibile distinguere alcunché, a parte le sagome degli scavatori che si stavano dando da fare come scarafaggi impazziti. Solo dopo che tutti riemersero alla ricerca di attrezzi più idonei, osai puntare la torcia nel cratere che era stato scavato. «Guarda!» afferrai Janice per il braccio. «È una porta sigillata!» In realtà non si trattava che della sommità appuntita, alta nemmeno un metro, di una struttura bianca incuneata nella parete della grotta. Ma che, senza ombra di dubbio, doveva essere stata l'architrave di una porta, o per lo meno la parte superiore di esso. E, proprio in cima, era scolpita una rosa a cinque petali. L'apertura della porta, tuttavia, era stata murata da un amalgama di mattoni e pezzi di marmo da qualcuno che - presumibilmente quel terribile 1348 - aveva troppa fretta per preoccuparsi di questioni stilistiche. Quando gli uomini arrivarono con i loro attrezzi e iniziarono a trapanare, Janice e io ci riparammo dietro a Umberto e a Frate Lorenzo. Molto presto la grotta si mise a vibrare sotto i colpi della demolizione e frammenti di tufo presero a cadere dal soffitto come grandine, ricoprendoci da capo di detriti. Almeno quattro strati di mattoni separavano la fossa comune da quello che stava dall'altra parte. Una volta arrivati all'ultima paratia, gli uomini fecero un passo indietro e cominciarono a prenderla a calci. In poco tempo si creò un varco acuminato attraverso il quale Cocco volle essere il primo a puntare la torcia, prima ancora che la polvere si fosse dissipata. Nel silenzio che aveva seguito il baccano d'inferno, sentimmo chiaramente il fischio d'ammirazione di Cocco rifrangersi in un'eco sorda e inquietante. «La cripta!» sussurrò Frate Lorenzo, facendosi il segno della croce. «Eccoci arrivate», borbottò Janice. «Spero tu abbia portato l'aglio.» Gli uomini di Cocco ci misero mezz'ora a preparare la nostra
discesa nella cripta. Scavando via l'ammasso di ossa e mattoni, stavano cercando di arrivare al livello del fondo della grotta. Alla fine però si stancarono del polverone, così scagliarono ossa e detriti attraverso il varco che avevano appena aperto, nel tentativo di creare una rampa di discesa dall'altra parte. All'inizio sentimmo i mattoni cadere con tonfi sordi su qualcosa che sembrava un pavimento di pietra ma, man mano che la pila cresceva, il rumore si attenuò. Quando finalmente Cocco lo permise, Janice e io, con Frate Lorenzo per mano, passammo dal varco e scendemmo nella cripta, attente a non scivolare sulla pila di mattoni e ossa. Ci sentivamo come dei sopravvissuti a un bombardamento abbarbicati a una scala pericolante che si domandino se questa sia la fine del mondo, o il suo inizio. L'aria nella cripta era molto più fresca, e di certo notevolmente più salubre, di quella della grotta dietro di noi. Mentre mi guardavo in giro, alla luce fluttuante delle torce, mi aspettavo di vedere un locale lungo e stretto con file di cupi sarcofagi e oscure scritte in latino sui muri. Invece, con mia grande sorpresa, mi ritrovai in uno spazio maestoso ricoperto da un soffitto a volta sorretto da colonne. Qua e là si intravedevano tavoli di pietra che in origine dovevano essere stati degli altari ma che ora erano privi di qualunque arredo sacro. A parte ciò, non vi era molto altro nella cripta se non ombre e silenzio. «Oh, mio Dio!» sussurrò Janice puntando la mia torcia verso le pareti intorno a noi. «Guarda questi affreschi! Siamo le prime persone a vederli dopo...» «La peste nera», dissi. «E non gli fa bene tutta quest'aria e questa luce.» Janice ridacchiò. «Questa, se permetti, dovrebbe essere l'ultima delle nostre preoccupazioni.» Rasentando i muri per ammirare gli affreschi, arrivammo a un ingresso protetto da un cancello di ferro battuto intrecciato con filigrana dorata. Con la torcia infilata tra le sbarre, potemmo vedere una
cappelletta con urne simili a quelle che Peppo mi aveva mostrato, in una vita precedente, nel sepolcro dei Tolomei. Janice e io non eravamo le sole interessate alle cappellette. Gli uomini di Cocco infatti erano tutti infervorati nella ricerca della tomba di Romeo e Giulietta. «Che succede se non si trova?» mormorò Janice mentre guardava il capobanda che si stava innervosendo per il prolungarsi dell'infruttuosa ricerca. «E se sono sepolti qui ma la statua è altrove? ...Jules?» Ma io la stavo ascoltando solo a metà. Dopo aver inciampato in quelli che sembravano pezzi di intonaco, avevo puntato la torcia verso l'alto e avevo scoperto che il posto era in condizioni molto peggiori di quanto avessi pensato. La volta del soffitto era crollata in diverse parti e un paio delle colonne di sostegno piegavano minacciosamente sotto il peso dei tempi moderni. «Oh, accidenti, qua sta per crollare tutto», dissi, rendendomi conto che il pericolo ormai non era solo rappresentato da Cocco e scagnozzi. Sbirciando nella direzione del varco che portava alla tomba comune, presi atto che, anche se fossimo riuscite a sgattaiolare fin lì senza farci vedere, non ce l'avremmo mai fatta a risalire da sole nella grotta sovrastante. Usando tutta la mia forza, sarei forse riuscita a sollevare Janice, ma poi chi avrebbe aiutato me? E Frate Lorenzo? In teoria Umberto avrebbe potuto tirare su tutti e tre, uno dopo l'altro. E lui? Avremmo dovuto abbandonarlo lì? Le mie elucubrazioni vennero interrotte quando Cocco ci convocò con un fischio e ordinò a Umberto di chiederci se avevamo altre idee su dove si trovasse la dannata statua. «Oh, per essere qua è qua!» esplose Janice. «Il punto è dove l'hanno nascosta.» Quando si accorse che Cocco non aveva afferrato, si mise a ridere. «Davvero pensavi che abbiano potuto mettere una cosa di tale valore in un posto dove tutti l'avrebbero trovata facilmente?» continuò con la voce che si stava incrinando. «Cosa dice Frate Lorenzo?» domandai a Umberto, soprattutto per
distogliere l'attenzione da Janice che sembrava sul punto di scoppiare in lacrime. «Qualche idea l'avrà.» Voltammo tutti lo sguardo verso il monaco, che nel frattempo aveva continuato a vagare osservando le stelle dorate del soffitto.
«E mise un drago a guardia degli occhi», recitò Umberto. «Tutto
qui. Ma non vedo draghi, e neanche l'ombra di una statua.»
«La cosa strana», osservai, esaminando bene le pareti della cripta, «è che sulla sinistra ci sono cinque cappelle a intervalli regolari e sulla destra quattro. Guardate. Quella centrale è mancante. C'è solo un muro.» A quel punto Cocco ci fece avvicinare tutti al posto dove avrebbe dovuto esserci il quinto passaggio, perché guardassimo meglio. «Non solo un muro», disse Janice indicando un affresco dai colori vibranti, «ma un paesaggio con un grande serpente alato scarlatto.» «A me questo sembra un drago», dichiarai, arretrando di un passo. «Sapete cosa penso? Penso che dietro questo muro ci sia la tomba. Vedete...» e feci notare una lunga crepa nel calcestruzzo che delineava la sagoma di una porta. «Questa è ovviamente una cappella come tutte le altre. Scommetto che Salimbeni si era stufato di pagare le guardie giorno e notte e fece murare l'accesso. Mi pare logico.» Cocco non ebbe bisogno di sentire altro e, in men che non si dica, tutti gli uomini rimisero mano agli attrezzi. Tra i boati del metallo che mordeva la pietra e che riecheggiavano nell'intera cripta, l'affresco con il drago venne sventrato per fornire un accesso alla nicchia segreta. Questa volta non furono solo polvere e detriti a piombarci addosso, mentre assistevamo allo scempio turandoci le orecchie, ma anche interi pezzi di soffitto, incluse numerose stelle dorate che si stavano staccando un po' dappertutto come fossero ingranaggi della volta celeste in caduta libera. Quando il varco nel muro fu abbastanza ampio per far passare una persona per volta, fu chiaro a tutti che dietro c'era davvero una nicchia nascosta. Uno dopo l'altro, gli uomini si infilarono nel passaggio e né Janice né io resistemmo alla tentazione di seguirli,
benché nessuno ce lo avesse chiesto. Dopo esserci abbassate, emergemmo in una piccola cappella semibuia e andammo a sbattere contro chi ci aveva preceduto. Allungando il collo per vedere cosa stessero guardando tutti, in un silenzio totale, ebbi solo la percezione di qualcosa di rifulgente. Poi uno degli uomini ebbe finalmente l'idea di puntare la torcia su una forma massiccia che sembrava incombere dall'alto. «Porca vacca!» esclamò qualcuno. Anche Janice, per una volta, era rimasta annichilita. Eccola, la statua di Romeo e Giulietta, molto più grande e spettacolare di quanto avessi mai potuto immaginare. Anzi, le proporzioni erano tali da incutere timore. Era come se lo scultore avesse voluto che la gente cadesse in ginocchio al suo cospetto, quasi a chiedere perdono. Cosa che per poco non feci. Pur appoggiata sull'enorme coperchio di marmo del sarcofago e coperta da seicento anni di polvere, la scultura emanava un riverbero dorato che i secoli non erano riusciti ad appannare. E le quattro gemme al posto degli occhi - due zaffiri e due smeraldi grandi come noci - rilucevano nella penombra di un bagliore quasi innaturale. Per quelli che non conoscevano la sua storia, la statua non parlava di dolore, ma d'amore. Romeo era inginocchiato sul sarcofago e reggeva Giulietta tra le braccia. Gli occhi dei due amanti si fissavano con una tale intensità che ne rimasi turbata. I disegni nel taccuino della mamma non erano che dei vaghi abbozzi. Anche i suoi ritratti più riusciti non rendevano lontanamente giustizia all'originale. Mentre me ne stavo lì sopraffatta dai rimpianti, feci fatica ad accettare che ero venuta a Siena proprio per cercare la statua e le quattro gemme. Eccolo, adesso, il tesoro che tanto mi aveva fatto dannare, eppure non provavo più il minimo desiderio di possederlo. E anche se fosse diventato mio, ci avrei rinunciato mille volte pur di tornare nel mondo reale, al riparo da gente come Cocco, o anche solo per rivedere Alessandro un'ultima volta. «Credi che li abbiano messi nella stessa bara?» sussurrò Janice
interrompendo i miei pensieri. «Vieni...» Tirandomi per mano fece scansare gli uomini e poi, quando fummo dinanzi al sarcofago, puntò la torcia sull'iscrizione scolpita nella pietra. «Guarda! Ricordi quello che abbiamo letto? Pensi che siano le stesse parole?» Ci sporgemmo per vedere meglio ma non capimmo la lingua. «Com'era già?» Janice si concentrò per ricordare la traduzione. «Oh, sì! Qui dorme l'onesta e fedele Giulietta... Nell'amore e nella misericordia di Dio...» Si interruppe perché aveva dimenticato il resto.
«Per esser svegliata da Romeo, il suo legittimo sposo», continuai
sottovoce come ammaliata dal viso dorato di Romeo che mi fissava dall'alto. «E gioire nei secoli dei secoli.» Se la storia che mastro Lippi ci aveva tradotto era vera, come tutto ormai lasciava intendere, allora era stato mastro Ambrogio a supervisionare l'esecuzione della statua nel 1341. E, essendo il pittore un amico di Romeo e Giulietta, di certo la cura nella raffigurazione dei soggetti doveva essere stata estrema. Ma Cocco e la sua banda non erano venuti fin da Napoli per perdersi in fantasticherie e, in effetti, due degli uomini erano già saliti sopra il sarcofago per capire di quali attrezzi avrebbero avuto bisogno per cavare gli occhi dalla statua. Una volta deciso che era necessario un particolare trapano, si apprestarono a intervenire separatamente su Giulietta e su Romeo. Quando si accorse di quello che stava per accadere, Frate Lorenzo - che fino a quel momento era rimasto tranquillo - si lanciò in avanti per implorarli di non rovinare la scultura. Non si trattava solo di distruggere un'opera d'arte: il monaco era assolutamente convinto che il furto degli occhi avrebbe scatenato una potenza malvagia che ci avrebbe annientato. Ma Cocco non aveva più bisogno degli indovinelli di Frate Lorenzo che venne pertanto spinto via di malagrazia. Se il frastuono della demolizione era stato duro da sopportare, il rumore dei trapani fu diabolico. Con le mani premute sulle orecchie, Janice e io ci allontanammo dal caos, ben consapevoli di essere arrivate alla conclusione della nostra tragica avventura.
Ci infilammo nel buco e tornammo nella cripta principale seguite da uno scombussolato Frate Lorenzo. Tutto quanto era in procinto di crollare. Delle larghe fenditure si stavano velocemente propagando dai muri di calce fino alla volta del soffitto, creando una fitta ragnatela di crepe che si moltiplicavano a ogni più piccola vibrazione. «È il momento di darcela a gambe», disse Janice guardandosi intorno con nervosismo. «Almeno nell'altra grotta dobbiamo solo preoccuparci dei morti.» «E poi?» domandai. «Ci mettiamo sedute sotto il buco nel soffitto aspettando che questi... gentiluomini ci vengano ad aiutare?» «No», rispose, strofinandosi un braccio dove una stella l'aveva colpita, «ma una di noi può aiutare l'altra a salire, in modo da strisciare fuori dal tunnel e chiedere aiuto.» La guardai e mi resi conto che aveva ragione e che ero stata un'idiota a non pensarci prima. «Chi va?» chiesi debolmente. Janice si sforzò di sorridere. «Vai tu. Sei tu quella che ha più da perdere...» Dopodiché aggiunse in tono leggero: «E poi io sono quella che sa come trattare Cocco-Loco.» Rimanemmo per alcuni secondi l'una di fronte all'altra senza parlare. Con la coda dell'occhio vidi Frate Lorenzo: era inginocchiato davanti a una delle nude tavole di pietra a pregare un Dio che non era più lì da un pezzo. «Non posso farlo», sussurrai. «Non ti posso lasciare qua.» «Devi farlo», disse mia sorella, decisa. «Se non vai tu, vado io.» «Bene, allora vai tu, ti prego.» «Oh, Jules!» Mi strinse tra le braccia. «Perché devi sempre fare l'eroina?» Avremmo anche potuto risparmiarci tutto quello strazio sulla scelta della martire di turno perché nel frattempo i trapani si erano fermati e gli uomini stavo uscendo dalla cripta ridendo e scherzando, rimpallandosi le quattro enormi gemme fra di loro. L'ultimo a riemergere fu Umberto e vidi subito che anche lui stava pensando quello cui stavamo pensando noi. La faccenda con Cocco e la sua
banda era da considerarsi conclusa, o c'era dell'altro che volevano da noi? Come se ci avessero letto nel pensiero, i malviventi arrestarono gli schiamazzi e si misero a fissare Janice e me che ce ne stavamo abbracciate in mezzo a loro. Soprattutto Cocco sembrò essere felice di rivederci e il suo sogghigno mi fece pensare che aveva in mente qualcosa per rendere ancora più eccitante l'avventura. Ma dopo aver spogliato Janice con gli occhi e aver concluso che mia sorella, malgrado il caratteraccio, non era altro che una ragazzina spaventata, tornò allo sguardo gelido di sempre e ordinò ai suoi uomini qualcosa che fece balzare Umberto davanti a noi per proteggerci a braccia spiegate. «No!» lo implorò. «Ti prego!» «Vaffanculo!» ringhiò Cocco, puntandogli la mitraglietta contro. Dopo un furibondo scambio di suppliche e oscenità, Umberto quasi cadde in ginocchio davanti a lui. «Amico mio, lo so che sei un uomo generoso. E anche un padre. Abbi pietà. Ti prometto che non te ne pentirai.» Cocco non rispose. La sua espressione indicava che non aveva apprezzato gli si stesse ricordando che era anche lui un essere umano. «Ti supplico», continuò Umberto, «le ragazze non parleranno. Te lo giuro.» Cocco ghignò. «Le ragazze chiacchierano sempre. Non sanno far altro.» Dietro di me, Janice mi strinse la mano fino a farmi male. Come me, sapeva pure lei che non esisteva una ragione al mondo perché Cocco ci dovesse risparmiare la vita. Lui adesso aveva le gemme ed era quello che voleva. Quello che non voleva era lasciare dei testimoni. Eppure, facevo ancora fatica a credere che fossimo davvero arrivate alla fine. Sul serio ci avrebbe uccise dopotutto quello che avevamo passato per fargli trovare la statua? Invece che paura provai una rabbia tremenda: rabbia nei confronti di Cocco per essere quel gelido bastardo che era, e rabbia che l'unico uomo ad aver preso le nostre difese fosse stato nostro padre.
Anche Frate Lorenzo pareva assente: stava sgranando il rosario a occhi chiusi come se quello che stava succedendo nulla avesse a che fare con lui. Ma d'altra parte come dargli torto? Non aveva dimestichezza né con il male né con la lingua. «Amico mio», disse nuovamente Umberto, cercando di parlare con la massima serenità possibile nella speranza di infonderne un po' anche a Cocco. «Una volta ti ho risparmiato la vita. Te lo ricordi? Possibile che non conti nulla?» Cocco sembrò pensarci un momento, prima di rispondere con una smorfia di disprezzo. «Okay. Una volta mi hai risparmiato la vita. Quindi anch'io risparmierò una vita.» Fece un cenno verso Janice e me. «Chi preferisci? La stronza o l'angelo?» «Oh, Jules!» singhiozzò Janice abbracciandomi così stretta da togliermi il respiro. «Ti voglio bene! Qualsiasi cosa succeda, ti voglio bene!» «Ti scongiuro di non farmi scegliere», rispose Umberto con una voce che quasi non riconobbi. «Cocco. Conosco tua madre. È una donna buona. Questo non le piacerebbe.» «Mia madre sputerà sulla tua tomba», ringhiò il balordo. «Te lo ripeto: la stronza o l'angelo? Decidi o le ammazzo tutte e due.» Visto che Umberto non rispondeva, Cocco gli andò sotto. «Tu», disse lentamente, puntandogli la canna della mitragliatrice contro il petto, «sei un uomo stupido.» Paralizzate dal terrore, né io né Janice riuscimmo a fare neppure un passo per cercare di fermare Cocco e, un secondo dopo, un unico sparo devastante fece vibrare l'intera grotta. Certe che il colpo fosse partito, entrambe ci mettemmo a urlare e corremmo incontro a Umberto aspettandoci di vederlo crollare a terra morto. Ma, quando lo raggiungemmo, incredibilmente nostro padre era ancora in piedi, seppur irrigidito dallo shock. A giacere al suolo, in una postura grottesca, era invece Cocco. Qualcosa - un fulmine celeste? - gli aveva trapassato il cranio portandosi via parte della testa. «Cristo santo!» balbettò mia sorella, bianca come uno spettro. «Che cosa è stato?»
«Giù a terra!» urlò Umberto, afferrandoci. «E copritevi la testa!» Tutto intorno, gli uomini di Cocco presero a correre all'impazzata per mettersi in salvo dai colpi di arma da fuoco che avevano cominciato a fioccare. Quelli che cercarono di difendersi sparando a loro volta vennero abbattuti all'istante con una precisione impressionante. Stese a pancia in giù, girai la testa per capire da dove arrivassero gli spari e, per la prima volta nella mia vita, mi rallegrai nel vedere degli ufficiali di polizia in pieno assetto da combattimento. La pattuglia si era calata dal foro che avevamo praticato prima e aveva preso posizione dietro le colonne. Il sollievo che provai nello scorgere la polizia e nel rendermi conto che l'incubo era finito» mi fece venir voglia di ridere e di piangere allo stesso tempo. Se fossero arrivati un minuto più tardi, le cose sarebbero andate molto diversamente. Mentre me ne rimanevo lì appiccicata al suolo con la testa ancora in subbuglio per gli orrori appena vissuti, ero pronta a credere che i nostri salvatori fossero stati mandati dalla Vergine Maria per punire coloro che avevano violato la cripta. Alla fine, visto che la battaglia era persa, i pochi banditi superstiti emersero dai loro nascondigli con le mani in alto. Quando uno di loro fu così stupido da chinarsi a raccogliere qualcosa - forse una delle gemme - venne freddato all'istante. Ci impiegai un po' a rendermi conto che era lo stesso farabutto che aveva palpeggiato Janice e me poco prima e, cosa più importante, che l'uomo che gli aveva sparato era Alessandro. Nel vederlo mi sentii travolgere da una gioia senza limiti. Ma prima che potessi dare la notizia a Janice, udimmo sopra di noi un boato minaccioso che aumentava d'intensità per poi raggiungere il picco mentre una delle colonne a supporto della volta si abbatteva proprio sopra i banditi rimasti illesi e li seppelliva sotto tonnellate di pietre. Le riverberazioni del crollo si propagarono attraverso l'intera rete dei Bottini. Era come se la demolizione della cripta avesse dato il via a una scossa sotterranea molto simile a un terremoto. Vidi Umberto che si alzava in piedi d'un balzo e che ci faceva segno di imitarlo. «Muovetevi!» ci incalzò, guardando nervosamente le altre
colonne. «Non penso che abbiamo molto tempo.» Ci mettemmo a correre e per un pelo non venimmo centrate da una cascata di detriti caduti da una spaccatura nella volta. Io fui colpita da una stella del soffitto proprio sulla tempia e quasi persi i sensi. Mentre mi fermavo un istante per rimettermi in sesto, vidi Alessandro che veniva verso di me saltando sopra le macerie e ignorando gli avvertimenti degli altri agenti. Avanzava senza pronunciare una parola, e non ce n'era bisogno. I suoi occhi mi stavano dicendo tutto quello che speravo di sentire. Mi sarei trovata subito tra le sue braccia se non avessi sentito un flebile lamento dietro di me. «Frate Lorenzo!» sussultai. Ci eravamo dimenticati di lui. Feci dietrofront e lo trovai rannicchiato un po' lontano, in mezzo ai detriti. Prima che Alessandro me lo potesse impedire, tornai di corsa da dove ero arrivata con l'intento di soccorrere il monaco prima che fosse uno spezzone di muratura a raggiungerlo. Alessandro di certo mi avrebbe bloccata se una seconda colonna non si fosse abbattuta fra di noi in un'enorme nuvola di polvere seguita da un torrente di calcestruzzi. Questa volta l'impatto del pilastro aveva squarciato il pavimento accanto a me rivelando che, sotto i lastroni di pietra, non vi erano né travi di legno né rinforzi di cemento ma solo un'enorme voragine nera. Paralizzata dal terrore, non osai più muovermi. Dietro di me sentii Alessandro che mi urlava di tornare indietro ma, prima ancora che potessi girarmi su me stessa, la porzione di pavimento su cui poggiavano i miei piedi cominciò a staccarsi dal resto della struttura. Poi capii che sotto di me non c'era più niente e che stavo sprofondando nel nulla, troppo sbigottita per urlare. Per quanto tempo continuai a cadere? Per me fu come precipitare attraverso il tempo e lo spazio, attraverso la vita e la morte, attraverso gli anni e i secoli, sebbene, in termini reali, mi dissero poi che il salto vero e proprio fu poco più di sei metri. Mi raccontarono anche che, nella mia discesa negli inferi, ebbi la fortuna di non incontrare né rocce né demoni. Fu un fiume antico ad accogliermi, un fiume di nome Diana.
Dicono che nell'attimo in cui caddi assieme al pavimento crollato, Alessandro si lanciò nell'abisso dietro di me, senza neppure togliersi l'equipaggiamento e che, per il peso di giubbotto, stivali e pistola, andò sott'acqua per alcuni attimi prima di riemergere. Poi, lottando contro la corrente, riuscì a estrarre una torcia e alla fine a trovare il mio corpo inerte impigliato su una roccia sporgente. Urlando agli agenti di far presto, Alessandro si fece calare una fune e con questa ci fece estrarre entrambi dalla voragine. Sordo a ogni consiglio, mi adagiò sul pavimento della cripta in mezzo ai detriti e mi pompò l'acqua fuori dai polmoni, nel tentativo di rianimarmi. Janice, che assisteva ammutolita alla scena, comprese la gravità della situazione solo quando vide gli sguardi che i poliziotti si stavano scambiando. Avevano già capito tutti quello che soltanto Alessandro non poteva accettare: ero morta. Allora cominciarono a scenderle le lacrime e non riuscì più a fermarsi. Alla fine Alessandro rinunciò ai tentativi di rianimazione e si limitò a stringermi tra le braccia, come se non volesse più lasciarmi andare. Mi accarezzò le guance e mi disse cose che avrebbe dovuto dirmi quando ero ancora in vita, incurante degli altri. In quel momento, mi riferì in seguito Janice, eravamo davvero identici alla statua di Romeo e Giulietta, salvo che i miei occhi erano chiusi e il viso di Alessandro contorto dal dolore. Vedendo che lui aveva perso le speranze, mia sorella si districò dalle braccia degli agenti che la trattenevano e corse da Frate Lorenzo. «Perché non stai pregando?» gli urlò afferrandolo per le spalle. «Prega la Vergine Maria e dille...» Accorgendosi che il monaco non capiva, Janice si allontanò da lui e alzò gli occhi verso il soffitto in rovina per gridare con tutto il fiato che aveva in gola: «Falla vivere! So che puoi farlo! Lasciala vivere!» Non avendo avuto risposta, mia sorella cadde in ginocchio e cominciò a piangere istericamente. Nessun uomo della pattuglia osò dire nulla.
Proprio in quel momento Alessandro sentì qualcosa. Solo un fremito, e forse era stato lui ad averlo, non io, ma questo fu sufficiente per dargli nuova speranza. Cullandomi la testa tra le mani, riprese a parlarmi, prima con tenerezza, poi con insistenza. «Guardami!» supplicava. «Guardami, Giulietta!» Dicono che quando finalmente sentii la sua voce, non tossii, né annaspai, né mi lamentai. Aprii semplicemente gli occhi e lo guardai. E, nel momento in cui capii che cos'era successo, mi limitai a sorridere e a sussurrare: «A Shakespeare non piacerà». Tutto questo mi fu riferito in seguito. Io non ricordo quasi nulla. Non ricordo neppure che Frate Lorenzo si chinò a baciarmi in fronte o che Janice si mise a ballare come un'indemoniata sbaciucchiando tutti i poliziotti uno dopo l'altro. L'unica cosa che ricordo sono gli occhi dell'uomo che non aveva voluto perdermi un'altra volta e che mi aveva salvata dalle grinfie del Bardo per poter dare un lieto fine alla nostra storia.
PARTE DECIMA
Capitolo 1 ...e tutte queste sofferenze serviranno per fare più dolci i colloqui nel tempo che sarà nostro. MASTRO Lippi non si capacitava che non riuscissi a restare ferma. Finalmente mi aveva dietro al suo cavalletto. Ero in piena forma, circondata da fiori di campo e illuminata dal sole di un'estate ormai agli sgoccioli. L'artista aveva ancora bisogno di dieci minuti, e poi il ritratto sarebbe stato ultimato. «Ti prego!» mi disse agitando la tavolozza. «Non muoverti!» «Ma Maestro», protestai, «devo davvero andare.» «Bah!» Scomparve di nuovo dietro la tela. «Queste cose non cominciano mai puntuali.» Dietro di me, le campane del monastero in cima alla collina avevano già smesso di suonare da un pezzo. Quando mi girai a guardare di nuovo, vidi una figura avvolta da un abito fluttuante che scendeva di corsa verso di noi. «Gesù Santo, Jules!» boccheggiò Janice, troppo esausta per una rampogna più violenta. «A qualcuno gli prenderà un coccolone se non porti su subito il culo!» «Lo so, ma...» Diedi una sbirciatina a mastro Lippi, restia a interrompere il suo lavoro. Dopotutto Janice e io gli dovevamo la vita. Non c'erano dubbi che la nostra avventura nella cripta si sarebbe conclusa assai diversamente se il Maestro - in un momento di rara lucidità - quella notte non avesse riconosciuto entrambe mentre attraversavamo la piazza circondate dai musici e infagottate negli stendardi della contrada. Ci aveva viste prima che lo vedessi lui e aveva capito che c'era qualcosa che non quadrava quando si era accorto che avevamo addosso lo stendardo del Leocorno, uno dei
rivali della nostra contrada, la Civetta. Era tornato di corsa all'atelier e da lì aveva chiamato la polizia. Alessandro, intanto, era già in questura a interrogare due banditi di Napoli che avevano cercato di ucciderlo all'uscita di Castello Salimbeni ma che si erano ritrovati con le braccia fratturate. E così, non fosse stato per mastro Lippi, la polizia non ci avrebbe seguiti nella cripta e Alessandro forse non avrebbe mai potuto ripescarmi dal fiume Diana... e io oggi non mi sarei trovata a Viterbo nel monastero di Frate Lorenzo. «Mi perdoni, Maestro», dissi alzandomi, «ma dovremo continuare in un altro momento.» Correndo su per la collina con mia sorella, non potei trattenermi dal ridere. Janice indossava uno degli abiti firmati di Eva Maria e, naturalmente, stava d'incanto. «Cosa c'è di tanto buffo?» saltò su, ancora seccata per il mio ritardo. «Sei buffa», ridacchiai. «Mi accorgo solo ora di quanto somigli a Eva Maria. Parli pure come lei.» «Grazie tante!» esclamò. «Immagino sia meglio che somigliare a Umberto...» Le parole non le erano ancora uscite di bocca che già si pentiva. «Mi spiace.» «Non dispiacerti. Sono sicura che è presente con lo spirito.» Il punto era che nessuna delle due sapeva cosa ne fosse stato di Umberto. Si era dileguato dopo la sparatoria nella cripta. Era possibile che fosse sprofondato anche lui nel sottosuolo quando il pavimento aveva ceduto. Ma nessuno l'aveva visto con i propri occhi perché erano tutti troppo occupati a cercare me. Neppure le quattro gemme furono mai rinvenute. Personalmente sospettavo che le viscere della terra si fossero riprese gli occhi di Romeo e Giulietta come si erano già riprese il pugnale con l'aquila. Janice era invece convinta che Umberto avesse intascato le pietre e si fosse dato alla fuga attraverso i Bottini per poi emigrare in Sudamerica e fare la bella vita in qualche quartiere malfamato di Buenos Aires... o in qualunque altro posto si ritirino i signori del
crimine quando vanno in pensione. Anche Eva Maria, specie dopo alcuni Martini a bordo piscina, cominciò a condividere le teorie di sua nipote. Umberto, ci disse sistemandosi gli occhiali da sole sotto l'enorme cappello di paglia, aveva sempre avuto il vizio di sparire, talvolta per anni, per poi farsi sentire all'improvviso con una telefonata. E in fondo lei era sicura che, anche se fosse precipitato nel fiume Diana, di certo suo figlio sarebbe riuscito a tenere la testa a pelo d'acqua e a seguire la corrente fino a trovare uno sbocco da qualche parte. Come poteva essere altrimenti? Per arrivare al santuario dovemmo attraversare un uliveto e un giardinetto di erbe odorose pieno di arnie. Quella mattina, dopo averci fatto visitare i dintorni, Frate Lorenzo ci aveva portato in un angolo appartato dov'era situata un'ampia rotonda di marmo cinta da arbusti di rose. Nel centro del tempietto si ergeva la statua di bronzo, a grandezza naturale, di un monaco con le braccia spalancate in un ampio gesto di benevolenza. Frate Lorenzo ci aveva spiegato che i suoi confratelli avevano voluto creare un simulacro del monaco originale e che i suoi resti erano stati sotterrati ai piedi della scultura. Quello era un luogo di pace e di contemplazione, ci disse, ma per noi sarebbe stata fatta un'eccezione. Mi fermai un attimo a riprendere fiato, mentre mi avvicinavo al santuario con Janice alle calcagna. Erano tutti lì che ci aspettavano: Eva Maria, Malèna, il cugino Peppo con la gamba ingessata, più un'altra ventina di persone di cui avevo appena imparato a riconoscere i nomi. E, accanto a Frate Lorenzo, c'era Alessandro, un po' teso ma bello da morire, intento a consultare l'orologio. Quando vide che stavamo arrivando, mi rivolse un sorriso, in parte di rimprovero e in parte di sollievo. E, appena fui a portata di mano, mi tirò a sé per baciarmi su una guancia e sussurrarmi: «Forse alla fin fine dovrò rinchiuderti nella torre». «Come sei medioevale», risposi mentre mi divincolavo dal suo abbraccio simulando contegno per via del pubblico. «Sei tu che mi scateni.»
«Scusate!» Frate Lorenzo ci stava osservando serio, chiaramente impaziente di iniziare la cerimonia. Non ci stavamo sposando perché pensavamo di doverlo fare. La cerimonia nel santuario di Lorenzo non era solo per noi ma anche per tutti quelli che ci conoscevano. Volevamo dimostrare che parlavamo sul serio quando dicevamo di appartenere l'una all'altro, qualcosa che Alessandro e io già sapevamo da un pezzo. Senza contare che Eva Maria aveva bisogno di un pretesto per festeggiare le sue nipotine venute da lontano e che Janice si sarebbe troppo depressa se non avesse avuto anche lei un ruolo da interpretare. E così nonna e nipote avevano trascorso una serata intera alla ricerca del perfetto abito da damigella mentre Alessandro e io andavamo avanti con le lezioni di nuoto in piscina. Anche se il nostro matrimonio pareva poco più di una conferma delle promesse che già ci eravamo scambiati, mi commossi comunque nel sentire le parole di Frate Lorenzo e nel vedere Alessandro accanto a me concentrato ad ascoltare il discorso del monaco. La cerimonia si svolse in italiano con grande solennità fino a quando il testimone - Vincenzo, il marito di Malèna - porse gli anelli a Frate Lorenzo. Nel riconoscere l'anello con l'aquila, il religioso fece una smorfia di esasperazione e mormorò qualcosa che fece ridere tutti i presenti. «Che cosa ha detto?» chiesi sottovoce ad Alessandro. Lui ne approfittò per baciarmi sul collo. «Ha detto: 'Santa Maria Madre di Dio, ma quante volte devo rifarlo?'»
Cenammo nel cortile interno del monastero sotto una pergola di viti rampicanti. Quando si fece notte fonda, i confratelli portarono lampade a olio e candele di cera d'api, e presto il freddo tremolio del cielo stellato sopra di noi si stemperò nella luce dorata delle fiammelle. Era meraviglioso essere al fianco di Alessandro, circondata da
persone che prima non si sarebbero mai frequentate. Dopo pochi attimi di disagio, Eva Maria e il cugino Peppo sembrarono intendersi a meraviglia, e tutti i vecchi malintesi furono messi nel dimenticatoio. D'altro canto, non era questa l'occasione perfetta, dato che erano entrambi nostri padrini? La maggior parte degli invitati tuttavia non erano né Salimbeni né Tolomei, ma amici senesi di Alessandro, e membri della famiglia Marescotti. Ero già stata a cena dai suoi zii in diverse occasioni - per non parlare di tutte le cugine che abitavano nel quartiere - ma quella era la prima volta che incontravo i suoi genitori e i suoi fratelli. Alessandro mi aveva avvertito che suo padre, il colonnello Santini, non era un grande fan del soprannaturale e che sua madre, per quanto riguardava il folklore di famiglia, aveva raccontato al marito solo l'indispensabile. Quanto a me, ero strafelice che i miei suoceri sapessero come e dove ci eravamo innamorati. Anzi, quando la madre di Alessandro si era chinata verso di me per sussurrarmi con una strizzatina d'occhi: «Quando vieni a Roma mi racconti tutto, no?» dal sollievo avevo stretto la mano di mio marito sotto il tavolo. «Giulietta, sei mai stata a Roma?» volle sapere il colonnello con un tono di voce così roboante che tutti ammutolirono. «Uhm... no», risposi, mentre affondavo le unghie nella coscia di Alessandro. «Ma mi piacerebbe andarci.» «È molto strano...» continuò l'impressione di averti già vista.»
il
colonnello,
«perché
ho
«È proprio come mi sono sentito io la prima volta che l'ho incontrata», intervenne Alessandro abbracciandomi e baciandomi sulla bocca mentre tutti si mettevano a battere con le mani sul tavolo, per poi ricominciare subito a parlare del Palio. Erano passati due giorni dal dramma nella cripta che l'Aquila aveva finalmente vinto il Palio dopo vent'anni di sconfitte. Malgrado le raccomandazioni del medico di non affaticarmi, Alessandro e io ci eravamo gettati nella mischia del Campo per celebrare la rinascita dei nostri destini. Dopo, assieme a Malèna, a Vincenzo e a tutti gli altri aquilini ci eravamo ammassati in Duomo per una messa di ringraziamento in onore della Vergine Maria e del cencio che la
Signora aveva così generosamente accordato dell'Aquila, malgrado Alessandro fosse in città.
alla
contrada
E mentre me ne stavo lì a cantare un inno di cui non conoscevo le parole, avevo pensato alla cripta sotto di noi e alla statua d'oro di cui solo noi eravamo a conoscenza. Forse un giorno la cripta avrebbe potuto essere visitata da tutti, e forse mastro Lippi avrebbe potuto restaurare la statua e darle degli occhi nuovi ma, fino ad allora, questo sarebbe stato il nostro segreto. E magari avrebbe dovuto rimanere tale. La Vergine ci aveva permesso di trovare il suo santuario ma tutti quelli che erano entrati con cattive intenzioni erano morti. Non era certo l'incentivo giusto per promuovere un giro turistico. Quanto all'antico cencio, era stato restituito alla Vergine Maria proprio come Romeo Marescotti aveva promesso molti secoli prima. L'avevamo portato a Firenze per farlo lavare e trattare professionalmente e ora era esposto in una teca di cristallo nel Museo dell'Aquila. Malgrado le vicissitudini subite, il cencio pareva come nuovo. Naturalmente tutti i contradaioli erano entusiasti che il prezioso reperto fosse stato rinvenuto e nessuno trovava bizzarro che ogni volta che si parlava del suo ritrovamento, e del suo ottimo stato di conservazione, io arrossissi. Subito dopo il dessert - una grandiosa torta nuziale progettata personalmente da Eva Maria - Janice si sporse verso di me sul tavolo e mi consegnò un rotolo di pergamena ingiallita. La riconobbi all'istante: era la lettera di Giannozza a Giulietta che Frate Lorenzo mi aveva mostrato a Castello Salimbeni. L'unica cosa diversa era il sigillo infranto. «Un piccolo regalo da parte mia», disse porgendomi anche un foglio di carta piegato in due. «Questa è la traduzione della lettera che Frate Lorenzo mi ha dato.» Capii che Janice voleva che leggessi subito il testo ad alta voce. Mia adorata sorella, non posso dirti quanto sia stata felice di ricevere la tua lettera
dopo questo lungo silenzio. E neppure posso dirti il mio dolore nell'apprendere le notizie. Papà e mamma morti, e così pure Mino, Jacopo e il piccolo Benni. Non so come dare voce al mio tormento. Ho dovuto far passare giorni e giorni prima di essere in grado di risponderti. Se fosse qui, di certo Frate Lorenzo mi direbbe che così ha deciso il Cielo e che non dovrei piangere per quelle care anime ora tutte in paradiso. Ma lui non è qui, e neppure tu lo sei. Sono sola in questa landa di barbari. Come vorrei che tu potessi venire a trovarmi, mia cara, o fossi io a venire da te, per poterci consolare l'un l'altra in questi tempi bui. Ma, come sempre, non sono che una prigioniera in casa di mio marito e, benché lui, malato com'è, si alzi ben poco dal letto, nutro il timore che possa vivere in eterno. Di tanto in tanto mi avventuro fuori nella notte e mi sdraio nell'erba a guardare le stelle. Domani però degli sgradevoli forestieri provenienti da Roma - soci d'affari dei Gambarotta - riempiranno il palazzo e io per respirare sarò di nuovo relegata al davanzale della finestra. Ma ho deciso di non tediarti con le mie pene. In confronto alle tue, esse sono nulla. Mi rattrista sentire che nostro zio ti tiene prigioniera e che tu ti consumi in propositi di vendetta contro quel malvagio di S. Adorata sorella, so che è quasi impossibile, ma ti supplico di liberarti da questi pensieri distruttivi. Credimi se ti dico che sarà il Cielo a punire quell'uomo al momento debito. Sappi che ho trascorso numerose ore nella cappella a rendere grazie a Dio per averti salvata da quei banditi. La tua descrizione del giovane Romeo mi convince che sia lui il cavaliere che stavi aspettando. Adesso sono nuovamente felice di esser stata io, e non tu, a sottopormi a questo sventurato matrimonio. Scrivimi più spesso, mia cara, e non risparmiarmi i dettagli in modo che io possa vivere, attraverso di te, l'amore che a me è stato negato. Prego che questa lettera ti trovi sorridente e in buona salute, e libera dai demoni che ti fanno soffrire. A Dio piacendo ti rivedrò presto e tutte e due andremo a sederci in un prato di margherite per ridere insieme delle nostre pene. Nel felice futuro che ci aspetta tu sarai sposata al tuo Romeo e io sarò libera dalle mie pastoie. Amata
sorellina, prega con me che tutto si avveri. Tua per sempre, G Quando terminai di leggere, Janice e io eravamo in lacrime. Ben consapevole che nessuno dei presenti potesse capire tanta emotività, abbracciai stretta mia sorella e la ringraziai del regalo perfetto. Era assai improbabile che gli invitati fossero in grado di capire il significato della lettera. Anche coloro che conoscevano l'infelice storia di Giulietta e Giannozza non avrebbero afferrato l'importanza che quelle righe avevano per noi. Era quasi mezzanotte quando riuscii a uscire alla chetichella in giardino tirandomi dietro un poco entusiasta Alessandro. Ormai erano andati tutti a letto e per me era arrivato il momento di portare a termine qualcosa che volevo fare da un pezzo. Aprii il cigolante cancelletto del santuario di Lorenzo e feci segno di star zitto al mio recalcitrante compagno. «Non dovremmo essere qui a quest'ora.» «Sono d'accordo», replicò Alessandro cercando di prendermi tra le braccia. «Fammi dire dove dovremmo essere adesso...» «Ssstt!» Gli coprii la bocca con la mano. «Davvero devo farlo ora.» «Perché non domani?» Spostai la mano e gli diedi un bacio veloce. «Stavo pensando di non uscire dal letto, domani.» A queste parole Alessandro si lasciò trascinare nel santuario fino alla rotonda con la statua di bronzo di Frate Lorenzo. Illuminata dalla luna, sembrava che la statua fosse viva e ci stesse aspettando a braccia spalancate. Inutile dire che le probabilità che la scultura somigliasse all'originale erano assai scarse, ma la cosa non aveva importanza. Ciò che contava era che delle persone di cuore avevano riconosciuto il sacrificio di quest'uomo dandoci così la possibilità di andarlo a ringraziare. Mi levai il crocefisso che non mi ero più tolta da quando Alessandro me l'aveva ridato e lo avvolsi attorno al collo della statua, cui apparteneva di diritto. «Monna Mina lo conservò come
pegno del vostro legame», dissi sottovoce, «io non ne ho bisogno per ricordarmi quello che hai fatto per Romeo e Giulietta. Chissà, forse non c'è mai stata nessuna maledizione. Forse eravamo noi a pensare di meritarne una.» Alessandro non proferì parola. Mi sfiorò invece una guancia con una carezza come aveva fatto quel giorno a Fontebranda e stavolta capii esattamente il significato del gesto. Che fossimo stati maledetti o no, che avessimo ripagato i nostri debiti o no, Alessandro era la mia benedizione e io ero la sua. E questo era sufficiente per deviare qualsiasi tiro mancino del fato, o di Shakespeare.
Nota dell'autrice PUR trattandosi di un'opera di fantasia, questo romanzo si basa su fatti storici. La versione originale di Romeo e Giulietta era infatti ambientata a Siena e, se si comincia a indagare nella storia locale, si capisce anche perché la vicenda ebbe inizio proprio lì. Siena, più di ogni altra città toscana, durante il Medioevo fu lacerata da contese fra casate nemiche. Soprattutto i Tolomei e i Salimbeni erano divisi da un odio reciproco che ricorda moltissimo la feroce rivalità tra i Montecchi e i Capuleti del dramma shakespeariano. Detto questo, mi sono presa alcune libertà nel tratteggiare messer Salimbeni come un marito crudele e manesco. E non sono del tutto sicura che il dottor Antonio Tasso del Monte dei Paschi di Siena - che è stato così gentile da raccontare l'incredibile storia di Palazzo Salimbeni a mia madre, e farglielo visitare - apprezzerà l'idea di una cella della tortura situata proprio nei sotterranei della sua venerabile istituzione. Né i miei amici Gian Paolo Ricchi, Dario Colombo, Patrizio Pugliese, Alex Baldi e Cristian Cipo Riccardi saranno felici di sapere che ho parlato del Palio come di una sfida di estrema violenza. Spero che mi accorderanno il beneficio del dubbio, dato che conosciamo ben poco della versione medioevale della corsa. L'archeologa Antonella Rossi Pugliese, poi, è stata così gentile da farmi visitare le parti più antiche di Siena ed è stato grazie a lei che ho deciso di scrivere dei misteri della città sotterranea, come i tunnel dei Bottini, la cripta scomparsa della cattedrale e le tracce lasciate dalla peste bubbonica del 1348. Seguendo le sue istruzioni, mia madre ha visitato il vecchio ospedale di Santa Maria della Scala e lì ha scoperto la camera di Santa Caterina con l'accesso all'antica fossa comune dei morti di peste.
Le parti meno macabre della ricerca di mia madre sulla storia senese sono state rese possibili soprattutto dalla Biblioteca Comunale degli Intronati, dall'Archivio di Stato di Siena e dalla Libreria Ancilli da cui tra l'altro proviene la scheda che Julie trova nel comparto segreto del cofanetto - ma anche dalle testimonianze del professor Paolo Nardi, di padre Alfred White e di John W. Peck, come pure dall'eredità letteraria del defunto Johannes Jorgensen, un poeta e giornalista danese la cui biografia di Santa Caterina offre un imperdibile affresco della Siena del Trecento. Inoltre, il Museo della Contrada della Civetta e la Polizia Municipale di Siena sono stati di enorme aiuto. Soprattutto la Polizia, per non avere arrestato mia madre nel corso delle sue investigazioni clandestine sui sistemi di sicurezza delle banche e cose simili. Già che parliamo di attività sospette, vorrei subito scusarmi con il signor Rosi, direttore dell'Hotel Chiusarelli, per aver messo in scena un furto con scasso nel suo splendido stabilimento. Per quello che ne so io, non ci sono mai stati problemi con la sicurezza dell'albergo, né il direttore o il suo staff interferirebbero mai nei movimenti degli ospiti o sposterebbero beni personali dalle loro stanze. Vorrei anche dichiarare che l'artista Lippi - che esiste davvero non è così eccentrico come l'ho descritto io. E non ha neppure un atelier incasinato nel centro di Siena, bensì uno splendido laboratorio in un antico Castello Tolomei in piena campagna. Spero che il Maestro mi scusi per le libertà che mi sono presa. E spero che anche Santa Caterina mi perdoni per averla coinvolta nella leggenda di monna Mina e della maledizione sul muro, così come nella storia del comandante Marescotti e del piccolo Romanino, quando lei compare bambina nella dimora dei Benincasa. I due eventi sono frutto della mia fantasia, anche se spero di essere rimasta fedele allo spirito di Santa Caterina fanciulla, alla sua rimarchevole personalità e ai miracoli che le furono attribuiti. A Siena, due amici sono stati particolarmente generosi nel condividere la loro conoscenza della storia locale: l'avvocato Alessio Piscini, una fonte inesauribile per tutto ciò che concerne la contrada dell'Aquila e le tradizioni del Palio, e lo scrittore Simone Berni che ha sopportato con pazienza la mia raffica di domande sull'uso
dell'italiano e sulla topografia di Siena. Sono comunque l'unica responsabile di eventuali imprecisioni che mi fossero sfuggite. Vorrei anche includere nei miei ringraziamenti le seguenti persone fuori Siena: la mia amica e compagna di battaglie dell'Insti tute for Humane Studies, Elisabeth McCaffrey, le consorelle del mio bookclub, Jo Austin, Maureen Fontaine, Dara Jane Loomis, Mia Pascale, Tamie Salter, Monica Stinson e Alma Valevicius, che hanno apportato le loro critiche alla prima versione di questo romanzo. Due persone sono state fondamentali nella trasformazione della mia storia in un libro: il mio agente, Dan Lazar, che con entusiasmo, scrupolosità e professionalità ha reso la cosa possibile, e la mia editor, Susanna Porter, il cui sguardo acuto e tocco esperto hanno rifinito e asciugato la narrazione prima che io mi ci perdessi dentro. È stato un onore e un privilegio lavorare con entrambi. Sono pure estremamente grata per l'enorme aiuto e incoraggiamento ricevuti sia dalla Writers House sia dalla Random House, due casate di uguale nobiltà (mi si consenta di dire). Maja Nikolic, Stephen Barr, Jillian Quint e Libby McGuire hanno avuto un ruolo fondamentale nella realizzazione di questo libro. E un grazie di cuore anche a Iris Tupholme della Harper-Collins Canada per tutti i suggerimenti dati. Per finire, devo assai più di un ringraziamento a mio marito Jonathan Fortier, senza il cui amore, supporto e comprensione, mai avrei potuto scrivere il libro, e senza la cui presenza starei ancora dormendo senza rendermene conto. Ho dedicato questo romanzo a mia madre, Birgit Mailing Eriksen. La sua generosità e il suo impegno sono stati inesauribili. Nelle ricerche per la storia narrata ha impiegato tanto tempo quanto ne ho impiegato io a scriverla e spero che il risultato risponda alle sue aspettative.