DAPHNE DU MAURIER LA CASA SULL'ESTUARIO (The House On The Strand, 1969) AVVERTENZA Desidero ringraziare - per le informa...
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DAPHNE DU MAURIER LA CASA SULL'ESTUARIO (The House On The Strand, 1969) AVVERTENZA Desidero ringraziare - per le informazioni che mi hanno dato e per i documenti originali che mi hanno concesso di consultare - Miss Hawkridge del County Record Office; il professor H. L. Douch, conservatore del County Museum, Truro; il professor R. Blewett, di St. Way; Mrs St. George Saunders e il Public Record Office. Vorrei inoltre porgere un ringraziamento particolare a Mr J. R. Thomas della Tywardreath Old Cornwall Society, alla squisita gentilezza del quale devo il prestito dei suoi appunti sulla storia del Maniero e del Priorato di Tywardreath. Tali note, dopo aver risvegliato il mio interesse, mi hanno guidato nel fondere realtà e fantasia in questo racconto della casa sull'estuario. DAPHNE DU MAURIER Ai miei predecessori a Kilmarth 1 Le prime cose che notai furono l'aria cristallina e il verde netto della campagna, senza mezze tinte o sfumature morbide. Invece di fondersi col cielo, le colline lontane si stagliavano come rocce, così vicine da poterle quasi toccare, dandomi quel senso di sorpresa e meraviglia che prova un bambino guardando per la prima volta in un telescopio. Anche più da vicino tutto aveva la stessa durezza quasi metallica; l'erba si divideva in singoli steli scaturendo da un suolo più giovane e aspro di quello che conoscevo. Mi sarei aspettato - se mi fossi aspettato qualcosa - una trasformazione d'altro genere: un senso pacato di benessere; l'ebbrezza confusa di un sogno; con tutto, intorno a me, torbido e mal definito; non questo trauma terribile, una realtà più aggressiva di quanto avessi mai sperimentato finora dormendo o da sveglio. Ora ogni impressione era intensificata, ogni parte di me singolarmente consapevole: vista, udito, olfatto in qualche modo acuiti. Tutto tranne il tatto: non riuscivo a sentire il terreno sotto i piedi. Magnus mi aveva avvertito. «Quando il tuo corpo toccherà degli oggetti ina-
nimati» mi aveva detto «non te ne accorgerai. Potrai camminare, stare in piedi, sederti, sfiorarli, ma non avvertirai nulla. Non preoccuparti. Il solo fatto di poterti muovere rimanendo insensibile è già metà del prodigio.» L'avevo naturalmente preso come uno scherzo, una delle tante lusinghe che dovevano convincermi a quell'esperimento. E invece era vero. Quando cominciai a camminare fu una sensazione elettrizzante: mi sembrava di muovermi senza sforzo, senza sfiorare neppure il terreno. Scendevo verso il mare attraverso campi di un'erba argentata e tagliente che brillava al sole, poiché il cielo - che un momento prima il mio sguardo normale vedeva ancora coperto - era adesso di un azzurro luminoso, estatico, senza una nuvola. Mi ricordai la bassa marea, le strisce piatte di sabbia, le cabine che allineate come denti di una bocca aperta, facevano da solido sfondo alla distesa dorata. Ora erano sparite, e con loro la fila delle case prospicienti la strada, le attrezzature del porto, l'intera Par - comignoli, tetti, edifici - e i tentacoli dilatati di St. Austell che avvinghiavano la campagna oltre la baia. Di tutto questo era rimasto solo erba e boscaglia, e le alte lontane colline, che sembravano vicinissime, mentre davanti a me il mare si srotolava nell'insenatura coprendo l'intera striscia di sabbia, come se la furia della marea avesse invaso il retroterra inghiottendolo in un solo avido morso. A nordovest la scogliera scendeva a congiungersi col mare che, restringendosi gradualmente, formava un vasto estuario in cui, affluendo verso l'interno, le acque seguivano il disegno frastagliato della costa fino a scomparire alla vista. Quando giunsi sull'orlo della scogliera, guardai in basso, dove avrebbero dovuto esserci la strada, la locanda, gli ospizi alle falde della collina di Polmear, e mi accorsi che anche qui il mare entrava nel retroterra formando un'insenatura che s'incuneava a est nella valle. Strada e case erano sparite lasciando soltanto un affossamento al centro dell'insenatura stessa. Quel canale correva così stretto tra argini di fango e sabbia, che con la bassa marea l'acqua sarebbe stata certamente risucchiata lasciando una pista paludosa da potersi affrontare a cavallo, se non a piedi. Scesi dalla collina e mi fermai in riva all'estuario cercando di ricostruire mentalmente il tracciato della strada che conoscevo così bene. Ma già il vecchio senso di orientamento mi aveva abbandonato; non avevo più niente che potesse guidarmi, se non il terreno stesso, la valle e le colline. Le acque del piccolo canale s'increspavano rapide e azzurre sulla rena, lasciandosi ai due lati una schiuma vaporosa. Le bolle che si formavano alla loro superficie si gonfiavano e svanivano e la corrente trasportava i soliti
detriti senza età: grovigli di scure alghe marine, piume, ramoscelli, resti di qualche burrasca autunnale. Pur sapendo che nel mio tempo, malgrado la giornata grigia e coperta, eravamo al colmo dell'estate, mi vedevo intorno una luce più chiara che annunciava l'inverno. Doveva essere senza dubbio uno di quei pomeriggi precoci quando, prima che arrivino le nuvole della notte, il sole ancora sfolgorante, ma che già cala a ovest, arrossa cupamente il cielo. Misi a fuoco i primi esseri viventi: gabbiani che seguivano la marea, trampolieri minuscoli che sfioravano il pelo dell'acqua, mentre in alto, sulla collina di fronte, stagliata netta sull'orizzonte, una coppia di buoi seguiva arando la sua rotta obbligata. Chiusi gli occhi per riaprirli dopo un istante. I buoi erano spariti dietro una gobba del campo che aravano, ma il nugolo di gabbiani che li seguiva con alti gridi mi dimostrava che li avevo visti realmente e non sognati. Aspirando con forza mi riempii i polmoni di quell'aria fredda. Anche soltanto respirare era una gioia che non avevo ancora provata per se stessa, dotata di una speciale magia finora ignota. Impossibile analizzare i miei pensieri, lasciare la mia ragione trastullarsi con ciò che vedevo: in questo mondo nuovo di percezioni e gioie poteva servirmi di guida soltanto l'intensità dei sentimenti. Avrei potuto rimanere lì per sempre, affascinato, contento di galleggiare fra cielo e terra, distaccato da ogni forma di vita che conoscessi o avessi mai desiderato conoscere. Ma quando voltai a un tratto la testa mi accorsi che non ero solo. Gli zoccoli non avevano fatto rumore mentre il cavallo attraversava come me i campi, ma adesso l'urto dei ferri sui ciottoli mi colpiva violentemente gli orecchi e sentivo l'odore caldo e forte dell'animale sudato. Vedendo il cavaliere arrivarmi addosso, ignaro della mia presenza, indietreggiai istintivamente trasalendo. Fermato il cavallo in riva all'acqua lui guardò verso l'estuario senza dubbio per misurare il livello della marea. Io provavo per la prima volta non soltanto esaltazione, ma paura, perché quel cavaliere non era un fantasma, ma un uomo in carne e ossa, coi piedi saldamente infilati nelle staffe, la mano sulle redini, troppo pericolosamente vicino perché non mi allarmassi. Non temevo di essere travolto: ciò che mi atterriva era l'incontro stesso, il lungo arco di secoli che dividevano la sua epoca dalla mia. Distogliendo gli occhi dal mare l'uomo me li posò a un tratto addosso. Si era dunque accorto di me e io forse in quei suoi occhi profondamente incassati non vedevo un lampo di riconoscimento? Dopo
aver carezzato sorridendo il collo del cavallo, lo spinse, affondandogli i tacchi nei fianchi, nello stretto canale e fino all'altra riva. Non mi aveva visto, non poteva vedermi: viveva in un altro tempo. E allora perché quel guizzo improvviso sulla sella, quel voltarsi a guardare proprio verso di me? "Seguimi, se osi!" sembrava stranamente sfidarmi. Misurai la profondità del guado, e benché l'acqua arrivasse ai garretti del cavallo, m'immersi per seguirlo senza curarmi di bagnarmi, rendendomi conto, quando fui sull'altra riva, di essere completamente asciutto e di non aver provato alcuna sensazione. Il cavaliere aveva cominciato a salire sulla collina - seguito sempre da me - per un sentiero fangoso e ripido che nel suo tratto più alto svoltava bruscamente a sinistra. Va anche oggi nella stessa direzione, mi dissi, soddisfatto di averlo riconosciuto - lo avevo risalito in macchina appena quella mattina. Ma la rassomiglianza finiva qui perché la stradicciola non era più bordata da siepi come ai miei tempi. A destra e a sinistra campi arati, esposti ai venti, e chiazze di brughiera ispida punteggiate di ciuffi di ginestre. Quando raggiungemmo la coppia di buoi vidi per la prima volta l'uomo che li guidava: una misera, piccola figura incappucciata, curva su un pesante aratro di legno. Alzò una mano gridando un saluto al cavaliere e riprese ad arrancare, con i gabbiani che gli schiamazzavano e giostravano al disopra della testa. Quel saluto così naturale fra i due uomini mi aiutò a superare lo choc dell'incontro col cavaliere al guado. Il timore diventò meraviglia, e, infine, accettazione. Mi ricordai il primo viaggio fatto in Francia da bambino, in vagone letto, quando appena sveglio avevo sollevato il finestrino e avevo visto passare campi, villaggi, città sconosciute e uomini curvi a coltivare la terra come colui che spingeva ora l'aratro. Mi ero chiesto con stupore infantile: "Sono vivi come me, o fingono soltanto?". La mia meraviglia questa volta era più giustificata. Guardavo il mio cavaliere e il suo cavallo, ed ero così vicino a loro che avrei potuto toccarli. Esalavano entrambi un odore così pungente e forte da far pensare all'essenza stessa della vita. I fianchi rigati di sudore del cavallo, la sua criniera incolta, il morso macchiato di schiuma, e quel largo ginocchio della gamba del cavaliere, chiusa nella calza, quel giustacuore di pelle allacciato sulla tunica, la faccia stessa, rubizza e scarna, incorniciata da capelli neri spioventi fin sotto le orecchie. Ecco la realtà: ero io la presenza estranea. Morivo dalla voglia di allungare una mano per posarla sul fianco del cavallo. Ma non avevo dimenticato l'avvertimento di Magnus: «Se incontre-
rai qualcuno del passato, per amor del cielo, non toccarlo. Gli oggetti inanimati non contano, ma se ti azzardassi a metterti in contatto con un essere vivente, il tuo legame col loro mondo si spezzerà e tornerai in te con una scossa sgradevolissima. Lo so perché l'ho provato». Dopo aver attraversato i campi il sentiero prese a scendere e l'intero paesaggio alterato mi si offrì allo sguardo. La cittadina di Tywardreath era completamente cambiata da come l'avevo vista poche ore prima. Le villette e le case, che estendendosi a nord e a ovest della chiesa formavano come il disegno di un rompicapo, non c'erano più e al loro posto vedevo un villaggio minuscolo che sembrava costruito da un bambino, simile alla fattoria in miniatura con cui giocavo sul pavimento della mia camera da letto. Basse casupole dal tetto di paglia accatastate intorno a un gran prato, dove si aggiravano maiali, oche, due o tre cavallucci zoppicanti, e gl'inevitabili cani randagi. Da quelle umili dimore salivano spirali di fumo, non dai camini, ma da qualche buco dei tetti. Poi grazia e simmetria si riaffermarono, perché al disotto di quell'agglomerato c'era la chiesa, ma non quella che avevo vista poche ore prima. Questa era più piccola, senza campanile, comprendente, o così sembrava, un caseggiato basso e lungo, di pietra, cinto da muri anch'essi di pietra. Nel recinto c'erano frutteti, giardini, rustici e un boschetto da cui il terreno declinava fino a una valle risalita dal lungo braccio del mare. Mi sarei fermato ad ammirare quella vista così semplice e bella, ma il mio cavaliere proseguì e fui costretto a seguirlo. Il sentiero ci portò sullo spiazzo erboso. Mi trovavo ora al centro della vita del villaggio. Nell'angolo più vicino del prato alcune donne erano ferme accanto al pozzo, con le lunghe gonne rimboccate intorno alla vita e il capo fasciato da un panno che le copriva fino al mento lasciando fuori soltanto gli occhi e il naso. L'arrivo del mio cavaliere creò un certo trambusto. I cani cominciarono ad abbaiare, altre donne sbucarono dalle casupole - miseri tuguri, mi accorsi esaminandole più da vicino - mentre da un capo all'altro del prato la gente si chiamava rivelando malgrado l'urto sgraziato delle consonanti, l'inconfondibile accento gutturale della Cornovaglia. Dopo aver girato a sinistra il cavaliere smontò davanti al muro di cinta, buttando le redini su una forcella piantata in terra, e varcò un ampio portone bullonato di ottone. In una mensola al disopra dell'arco, c'era una statua di legno di un santo in abito talare che stringeva nella destra la croce di Sant'Andrea. La mia educazione cattolica, da tempo dimenticata, a volte perfino derisa, m'indusse a farmi il segno della croce davanti alla porta. E
proprio allora un rintocco proveniente dall'interno mi fece vibrare nella memoria una corda così profonda che esitai a entrare, quasi temessi che quell'antico potere potesse farmi tornare fanciullo. Non avrei dovuto preoccuparmi. Al mio sguardo non apparvero sale e corridoi ben ordinati, chiostri tranquilli, odore di santità, silenzio nato dalla preghiera. Il portone dava in un cortile fangoso nel quale due uomini rincorrevano un ragazzo atterrito, flagellandogli con dei correggiati le cosce nude. A giudicare dalla tonaca e dalla tonsura, erano entrambi monaci, e il ragazzo un novizio, con le vesti legate al disopra della vita per rendere quello sport più piccante. Il cavaliere assisté senza battere ciglio alla pantomima. Intervenne solo quando vide infine il ragazzo stramazzare a terra con la tonaca rovesciata fino alle orecchie, che gli denudava le gambe magre e la schiena. «Non dissanguatelo, per ora» gridò. «Al Priore il porcellino da latte piace servito senza salsa. Ai contorni ci penserà quando il maialino si sarà irrobustito.» La campana seguitava intanto a suonare, chiamando alla preghiera, senza che quei due bravi sportivi del cortile mostrassero di udirla. Applaudito per la sua tirata, il mio cavaliere traversò il cortile ed entrò nell'edificio che avevamo di fronte, infilando un corridoio che, a giudicare dall'odore di pollo rancido, appena addolcito dal fumo di torba del camino, doveva dividere la cucina dal refettorio. Disprezzando sia il tepore e gli aromi stuzzicanti della cucina alla sua destra che il conforto più freddo del refettorio con le nude panche alla sua sinistra, andò diritto a una porta al centro e salì una rampa di scale fino al piano superiore, dove un altro corridoio era sbarrato in fondo da una nuova porta. Dopo aver bussato entrò senza attendere risposta. La stanza, col soffitto di travi e le pareti intonacate, sarebbe stata forse accogliente se austeramente pulita e lustrata a fondo come quella di cui conservavo dall'infanzia un ricordo così vivo. Il suo pavimento era coperto di paglia e di ossi mezzo rosicchiati dai cani. Contro la parete opposta, il letto, con le sue tende ammuffite, doveva servire per buttarci sopra alla rinfusa quello che capitava: un tappetino di pelle di pecora, un paio di sandali, una forma di formaggio su un piatto di stagno, una canna da pesca, e lì in mezzo un levriero sdraiato che si grattava. «Salve, Padre Priore» disse il mio cavaliere. Qualcosa si rizzò a sedere nel letto facendo saltare a terra il levriero: un monaco anziano dalle guance rosse, destato di soprassalto. «Avevo ordinato di non disturbarmi!»
Il mio cavaliere si strinse nelle spalle. «Neppure per l'Ufficio?» chiese, e posò la mano sul cane che gli si strofinò contro agitando la coda smozzicata. Insensibile al sarcasmo, il Priore si avvolse meglio nelle coperte, piegando le ginocchia. «Ho bisogno» replicò «di tutto il riposo possibile per poter ricevere degnamente il Vescovo. Avete sentito la notizia?» «Corrono sempre tante voci» disse il cavaliere. «Questa volta è vero. Sir John ci ha avvertiti ieri. Il Vescovo è già partito da Exeter. Sarà qui lunedì, al ritorno da Launceston, aspettandosi da noi ospitalità e alloggio per una notte.» Il cavaliere sorrise. «Il Vescovo sa scegliere il momento delle sue visite. Messa di San Martino e carne fresca macellata per la sua cena. Dormirà con la pancia piena, non preoccupatevi.» «Non dovrei preoccuparmi?» La voce petulante del Priore era salita di tono. «V'illudete che possa tenere a bada il mio gregge ribelle? Che impressione faranno su quella scopa nuova del Vescovo, deciso com'è a ripulire l'intera diocesi?» «Si comporteranno bene se prometterete di ricompensarli. Conservatevi il favore di Sir John Carminowe; l'essenziale è questo.» Il Priore si agitava sotto le coperte. «Non è facile abbindolare Sir John. E poi, deve barcamenarsi anche lui, tenendo un piede in ogni staffa. È il nostro patrono, ma non mi sosterrà se non giovasse ai suoi scopi.» Il cavaliere si piegò a prendere un osso e lo buttò al cane. «Quale lord del maniero, Sir Henry, avrà in questa occasione la precedenza su Sir John» disse. «Non vi farà vergognare presentandosi vestito da penitente. Scommetto che anche adesso è inginocchiato nella cappella.» Il Priore non sembrò divertito. «Come intendente di Sua Grazia dovreste rispettarlo di più» osservò. Aggiunse soprapensiero: «Henry di Champernoune è un uomo di Dio migliore di me». Il cavaliere rise. «Lo spirito sarebbe forte, Padre, ma la carne?» Giocherellava con l'orecchio del cane. «Meglio non parlarne prima della visita del Vescovo.» Si raddrizzò avvicinandosi al letto. «Il bastimento francese è all'ancora davanti a Kylmerth. Vi rimarrà per altre due maree, nel caso voleste affidarmi qualche messaggio.» Il Priore respinse le coperte e saltò dal letto. «Perché, nel nome di Antonio benedetto, non mi avete avvertito subito?» urlò mettendosi a frugare nelle carte ammonticchiate su una panca. Offriva uno spettacolo pietoso con quelle gambe stecchite che gli uscivano dal camice, tutte macchiate
dalle vene varicose e i piedi incredibilmente sporchi dagli alluci a martello. «Non riesco a trovare niente, in questo bailamme» si lamentava. «Perché le mie carte non sono mai in ordine? Perché fratello Jean non è mai qui quando ne ho bisogno?» Afferrò un campanello che era sulla panca e prese a scuoterlo protestando contro il cavaliere che aveva ricominciato a ridere. Argomentai, dalla fretta con cui arrivò un frate, che costui doveva origliare dietro la porta. Era giovane e bruno, con due occhi notevolmente brillanti. «Ai vostri ordini, Padre» disse in francese. E prima di traversare la stanza per raggiungere il Priore, ammiccò al cavaliere. «Avanti dunque, cosa aspettate?» si spazientì il Priore, voltandosi di nuovo verso la panca. Nel passare davanti al cavaliere il monaco gli aveva bisbigliato all'orecchio: «Vi porterò le lettere stasera e continuerò a istruirvi sulle arti che desiderate imparare». Dopo essersi inchinato con aria ironica, il cavaliere si avviò alla porta. «Buona notte, Padre Priore. Non rimanete sveglio a pensare alla visita del Vescovo.» «Buona notte, Roger, buona notte. Dio sia con voi.» Mentre uscivamo insieme il cavaliere annusò con una smorfia l'aria. Al tanfo della stanza del Priore si mescolava un soffio di profumo esalato dalla tonaca del frate francese. Scendemmo le scale, ma prima di riattraversare il corridoio il cavaliere aprì, dopo una breve pausa, un'altra porta e guardò dentro. La porta dava nella cappella dove stavano pregando i monaci che poco prima si divertivano col novizio. Ossia, per essere più esatti, facevano i gesti della preghiera: muovevano le labbra tenendo gli occhi abbassati. C'erano anche altri quattro frati che non avevo visti nel cortile, due dei quali dormivano saporitamente nei loro stalli. Quanto al novizio, piegato sulle ginocchia, piangeva amaramente in silenzio. L'unica figura dignitosa era quella di un uomo di mezza età, avvolto in un lungo mantello, con un viso amabile inquadrato da riccioli grigi. Giungendo con riverenza le mani, teneva gli occhi fissi sull'altare. Immaginai che fosse Sir Henry Champernoune, lord del maniero e padrone del mio cavaliere, di cui il Priore aveva vantato la pietà. Chiusa la porta il cavaliere tornò attraverso il corridoio nel cortile ormai vuoto e uscì dal Priorato. Il prato era deserto, le donne avevano abbandonato il pozzo, il cielo nuvoloso annunziava la fine del giorno. Il cavaliere montò in sella e prese per un sentiero che attraversava le terre arate.
Non avevo nessuna idea dell'ora, né della sua né della mia. Ero sempre insensibile e potevo camminargli accanto senza sforzo. Arrivammo al canale e questa volta, dato che c'era bassa marea, lui poté guadarlo senza che il cavallo si bagnasse i garretti, poi riprendemmo a salire per altri campi. Quando arrivammo in cima alla collina, e la campagna riprese l'aspetto che mi era familiare, mi resi conto, sempre più eccitato e sorpreso, che il mio cavaliere mi stava riportando a casa, perché Kilmarth, la villa che Magnus mi aveva prestato per le vacanze estive, era dietro il boschetto che ci stava davanti. Accanto a noi pascolavano sei o sette cavalli. Nell'avvistare quello del cavaliere uno di essi alzò la testa nitrendo. Poi fecero tutti insieme uno scarto e galopparono via dopo aver scalciato verso di noi. Il cavaliere proseguì attraverso una radura del bosco; poco dopo il sentiero prese a scendere e nella valle ci trovammo improvvisamente davanti a una casa di pietra dal tetto di paglia, circondata da un cortile fangoso. Una parte di quell'abitazione era adibita a porcile e a stalla; dall'unica apertura del tetto usciva una spirale di fumo azzurro. Riconobbi soltanto il terreno su cui sorgeva il fabbricato. Attraversato il cortile, il cavaliere smontò chiamando qualcuno, e un ragazzo accorse dalla stalla a prendersi il cavallo. Era più giovane di lui, con gli stessi occhi profondamente incassati, probabilmente era il fratello che condusse via l'animale mentre il cavaliere entrò - con me alle calcagna dalla porta aperta nella casa che, a prima vista, sembrava consistere di una sola stanza. Il fumo mi permise di notare soltanto che i muri erano di quel miscuglio di gesso e paglia, che nella regione chiamano cob, e il pavimento di nuda terra, neppure coperto dalle solite stuoie. Nel fondo una scala a pioli portava a una soffitta più alta di forse due metri della stanza stessa; guardando in su scorsi due pagliericci stesi sul tavolato. Il camino, in cui ardevano torba e ginestra, era sistemato in un'alcova del muro, e da una pentola appesa fra due sbarre di ferro conficcate nel pavimento, usciva un vapore più leggero del fumo. Davanti al fuoco era inginocchiata una ragazza con i capelli lisci che le arrivavano a metà schiena. Udendo il cavaliere gridarle un saluto, alzò gli occhi e gli sorrise. Improvvisamente - io gli ero dietro - lui si voltò fissandomi, eravamo quasi spalla a spalla. Sentendomi sulla guancia il suo fiato allungai istintivamente una mano per respingerlo. Sentii un dolore acuto alle nocche delle dita che cominciarono a sanguinare, e intanto udivo come un rumore di vetro infranto. Cavaliere, ragazza, camino acceso, tutto era sparito: mi trovavo nel vecchio cortile affossato di Kilmarth e avevo infilato il pugno in
una delle finestre della vecchia cucina del seminterrato. Incespicando varcai la porta della stanza della caldaia assalito da violenti conati di vomito, non per la vista del sangue, ma perché ero scosso dalla testa ai piedi da un'intollerabile nausea. Tremando in tutto il corpo, mi addossai al muro di pietra della stanza della caldaia, lasciandomi scorrere sul polso il sangue che stillava dalla mano ferita. Nella biblioteca al piano di sopra il telefono si scatenò insistente con il richiamo di un mondo scomparso, indesiderato. Lo lasciai suonare. 2 Dovettero passare più di dieci minuti prima che la nausea si calmasse. Ero rimasto seduto su una catasta di legna nella stanza della caldaia. Il peggio era la vertigine. Non mi azzardavo a rimettermi in piedi. Il taglio alla mano non era profondo, ed ero riuscito a tamponare il sangue col fazzoletto. Da dov'ero vedevo la finestra rotta e le schegge di vetro nel patio sottostante. Più tardi sarei forse riuscito a ricostruire la scena, a stabilire dove si trovava esattamente il mio cavaliere, a calcolare lo spazio che occupava una volta quella casa sparita da tanto tempo e dove, allora, non c'erano né patio né cantine: ma adesso non me la sentivo proprio. Ero esausto. Mi chiesi che figura avrei fatto se qualcuno mi avesse visto camminare nei campi, traversare la strada ai piedi della collina, e risalire il sentiero di Tywardreath. Che c'ero stato era sicuro. Le mie scarpe infangate, la mia camicia inzuppata di un sudore rappreso, non facevano certo pensare a una pigra passeggiata sulla scogliera. Poco dopo, passate nausea e vertigine, risalii lentamente per la scala di servizio nell'atrio del piano superiore. Andai nel ripostiglio dove Magnus teneva i suoi impermeabili, gli stivali, e il resto del suo ciarpame, e mi guardai nello specchio del lavandino. Sembravo abbastanza normale. Un po' pallido intorno alla bocca, ma nulla di più. Avevo soprattutto bisogno di qualcosa di forte. Ma mi ricordai un'altra raccomandazione di Magnus. «Non bere alcool per almeno tre ore dopo aver preso la droga,» mi aveva detto «e anche poi vacci piano.» Un tè era un povero surrogato, ma mi avrebbe forse fatto bene. Andai in cucina a prepararmelo. Quando Magnus era ragazzo la cucina era la sala da pranzo della famiglia. L'aveva trasformata lui negli ultimi anni. Mentre aspettavo che l'ac-
qua bollisse, guardai dalla finestra nel cortile: un recinto asfaltato chiuso da muri incrostati di muschio. In un accesso d'entusiasmo, non so quando, Magnus aveva cercato di farne un patio, come lo chiamava lui, dove avrebbe potuto ciondolare nudo se ci fosse mai stata un'ondata di caldo. Sua madre, mi spiegò, non si era mai curata di quel cortile, perché ci si arrivava da quelli che erano allora i servizi. Lo guardai ora con occhi diversi. Impossibile far risorgere quello che avevo visto poco prima: il cortile fangoso con la stalla, il sentiero che portava al boschetto, e io stesso che seguivo fra gli alberi il cavaliere. La mia avventura era forse soltanto un'allucinazione provocata da quella droga infernale? Mentre riflettevo e bevevo il mio tè, il telefono ricominciò a squillare nella biblioteca. Sospettai che fosse Magnus, e non mi sbagliavo. La sua voce, secca e decisa come sempre, mi rimise in sesto più del drink proibito e della tazza di tè. Mi lasciai cadere su una sedia e mi preparai ad affrontarlo. «Ti sto chiamando da ore» cominciò. «Hai dimenticato che mi avevi promesso di telefonarmi alle tre e mezzo?» «No» risposi. «Ma ero occupato diversamente.» «Me lo sono immaginato. Ebbene?» Il momento era di quelli che vanno gustati. Il pensiero di poter tenere sospeso Magnus... mi dava una piacevole sensazione d'importanza. Ma era inutile; non potevo continuare a tacere. «La pozione ha funzionato» dissi. «Pienamente.» Il silenzio all'altra estremità del filo mi rivelò che Magnus non si aspettava quella notizia. Aveva previsto un fiasco. La sua voce, quando mi giunse, era molto più bassa, come se parlasse fra sé. «Non riesco a crederlo. È meraviglioso... Hai fatto esattamente come ti ho detto? Hai seguito le istruzioni?» Continuò, prendendo come sempre il comando: «Raccontami tutto dal principio... Un momento... stai bene?». «Sì» risposi «mi pare di sì, tranne che sono terribilmente stanco e mi sono tagliato una mano, e per poco non ho vomitato nella stanza della caldaia.» «Sciocchezze, ragazzo! Sciocchezze... Poi si prova spesso quel senso di nausea. Ma passa presto. Continua.» «Prima di tutto» ripresi (mi divertivo un mondo) «non ho mai visto qualcosa di più macabro del tuo cosiddetto laboratorio. La stanza di Barbablù sarebbe una definizione più esatta. Tutti quegli embrioni sotto vetro, e quella disgustosa testa di scimmia...»
«Ottimi esemplari... di grande valore» m'interruppe lui. «Ma non scantonare. Io so a che cosa servono; tu no. Dimmi quello che è accaduto.» Bevetti un sorso del mio tè, che si stava rapidamente raffreddando, e posai la tazza. «Ho trovato tutte le bottiglie in fila e scrupolosamente etichettate - A, B, C, - nell'armadio chiuso a chiave. Ho versato in un bicchiere esattamente tre misurini dalla A, ho richiuso l'armadio e il laboratorio e mi sono messo ad aspettare. Beh, non mi è successo nulla.» Tacqui per permettergli di digerire quelle notizie. «E così,» ripresi, poiché lui non faceva commenti, «me ne sono andato in giardino. Ancora nessuna reazione. Mi avevi avvertito che il fattore tempo variava; che potevano passare tre, cinque, anche dieci minuti prima che accadesse qualcosa. Mi aspettavo, anche se non me l'avevi esattamente detto, di provare una certa sonnolenza. Ma vedendo che continuava a non succedere niente ho pensato di uscire a fare due passi. Ho scavalcato il muro dalla parte della serra, sono sceso nel campo e mi sono avviato verso la scogliera.» «Pezzo di cretino!» sbottò Magnus. «Ti avevo ordinato di non muoverti di casa, perlomeno la prima volta.» «Lo so,» replicai «ma, francamente, non mi aspettavo un successo simile. Se la droga funzionasse, avevo comunque deciso, mi siederò e mi lascerò trascinare in qualche sogno delizioso...» «Cretino» ripeté lui. «Non è così che accade.» «Grazie» risposi. «Ora lo so anch'io.» Gli descrissi minutamente la mia esperienza dal momento in cui la droga aveva cominciato a farmi effetto, fino al vetro rotto nella cucina del sottosuolo. Magnus non m'interruppe, tranne per bisbigliare, quando tacqui per riprendere fiato e bere un sorso di tè: «Continua... continua...». Quando ebbi finito il mio resoconto, compreso l'epilogo nella stanza della caldaia, pensai, talmente il silenzio era profondo, che fossimo stati interrotti. «Magnus,» chiesi «ci sei?» La sua voce chiara e forte ripeté le parole dette all'inizio della nostra telefonata: «È meraviglioso! Assolutamente meraviglioso!». Forse... Ma per essere sincero, dopo aver rivissuto per due volte tutto, ero sfinito, morto.
Magnus cominciava a parlare in fretta, e mi sembrò di vederlo, seduto al suo scrittorio di Londra, reggendo con una mano il ricevitore, e tendendo l'altra verso l'immancabile taccuino e la matita. «Ti rendi conto» chiese «che questa è la cosa più importante che sia accaduta da quando i chimici scoprirono il teonanacatl e l'ololiuqui? Quelle sostanze... si limitano a spingere il cervello in diverse direzioni, in modo assolutamente caotico. La mia è invece controllata, specifica. Sapevo di essere sull'orlo d'una scoperta potenzialmente tremenda, ma non potevo giurare, avendola sperimentata soltanto su di me, che la droga non fosse un allucinogeno. Se lo fosse, tu e io avremmo avuto le stesse reazioni fisiche perdita del tatto, una maggiore intensità di visione, eccetera - ma non ci saremmo ritrovati tutti e due in un altro tempo. Il risultato tremendamente elettrizzante, è questo...» «Vuoi dire» lo interruppi «che quando hai preso la droga sei tornato anche tu indietro nel tempo e hai visto quello che ho visto io?» «Precisamente. E non me l'aspettavo, come non te l'aspettavi tu. No... non è esatto, perché un certo esperimento di cui mi occupavo allora presentava già una vaga possibilità di riuscita. C'entravano il D.N.A., gli enzimi catalitici, gli equilibri molecolari, eccetera. Non mi dilungo perché è roba troppo astrusa per te, ragazzo. Ma ciò che m'interessa in questo momento è il fatto che tu e io, si direbbe, siamo andati a finire nello stesso periodo di tempo. Il tredicesimo o il quattordicesimo secolo, se non sbaglio, a giudicare dagli abiti. Ho visto anch'io l'individuo che descrivi come il tuo cavaliere - Roger, non è così che lo chiamava il Priore? - e la ragazza accoccolata davanti al fuoco, e qualcun altro, un monaco, che fa pensare a un rapporto col monastero medievale che faceva parte una volta di Tywardreath. Il problema è questo: la droga inverte forse un qualche processo chimico dei sistemi mnemonici del cervello, respingendolo in una particolare situazione termodinamica esistente nel passato e facendo così rivivere quelle sensazioni in tutto il resto del cervello stesso? E se è così, perché quel processo molecolare sembra scegliere proprio quel dato periodo di tempo? Perché non invece ieri, cinque, centoventi anni fa? Potrebbe darsi ed è questo che mi affascina - che si stabilisca un legame molto forte fra il drogato e la prima immagine umana che gli s'imprime nel cervello sotto l'influenza della droga stessa. Tanto tu che io abbiamo visto il cavaliere e sentito l'impulso prepotente di seguirlo. Ciò che ancora non capisco è perché lui ci faccia da Virgilio in questo particolare Inferno, ma è proprio così e non possiamo sfuggirgli. Ho ripetuto già due volte il "viaggio" - per usa-
re il linguaggio dei miei studenti - e me lo ritrovo sempre accanto. Vedrai che la prossima volta ti capiterà ancora la stessa cosa. È come se fossimo affidati a lui.» La sua convinzione che avrei continuato a fargli da cavia non mi stupì. Era tipica della nostra lunga amicizia, sia a Cambridge che in seguito. Lui batteva il tempo io ballavo: Dio solo sa in quante mai scappatelle riprovevoli della nostra vita di studenti, e dopo, quando ognuno aveva seguito la sua strada, lui per arrivare alla cattedra di biofisica dell'Università di Londra, io a un impiego più modesto e banale, in una casa editrice. Il mio matrimonio con Vita aveva creato fra noi, tre anni prima, un primo allontanamento, forse salutare per entrambi. L'offerta, ora, della sua casa per le vacanze estive, che avevo accettato con gratitudine ansioso com'ero di guadagnar tempo prima di decidermi ad assumere, come avrebbe voluto Vita, la direzione di una fiorente casa editrice di New York appartenente al fratello, non mi sembrava più completamente disinteressata. Il miraggio di lunghe, pigre giornate passate a poltrire nel giardino o a veleggiare nella baia, con cui Magnus mi aveva adescato, cominciava a svanire... «Senti, Magnus,» gli dissi «oggi ho fatto per te quello che sai perché la faccenda m'incuriosiva e anche perché non aveva in fondo importanza, finché ero solo qui, se la droga funzionava o no. Ma è escluso che possa continuare. Quando arriveranno Vita e i ragazzi dovrò dedicarmi a loro.» «Quando arriveranno?» «Le vacanze dei ragazzi cominceranno all'inarca fra una settimana. Vita tornerà in volo da New York per andarli a prendere in collegio e portarli qui.» «Allora va tutto bene. In una settimana puoi concludere. Comunque, ora debbo lasciarti. Ti chiamo domani alla stessa ora. Ciao.» Se n'era già andato, piantandomi col ricevitore in mano, e con cento domande da rivolgergli ancora: e non c'era niente di deciso. Era un modo di fare maledettamente tipico di Magnus. Non mi aveva neppure detto se dovevo aspettarmi qualche reazione secondaria dal suo diabolico filtro di funghi sintetici e cellule cerebrali di scimmia, e quale fosse la droga che aveva estratto da quelle sue disgustose bottiglie. Potevano riprendermi capogiro e nausea. Potevo diventare improvvisamente cieco, o pazzo, o tutt'e due le cose. All'inferno Magnus e il suo mostruoso esperimento! Decisi di salire di sopra a farmi un bagno. Sarebbe stato un bel sollievo togliermi di dosso la camicia inzuppata di sudore, i calzoni laceri, e im-
mergermi in una vasca di acqua bollente, profumata con i sali. Magnus era sempre stato un raffinato. A Vita sarebbe piaciuto l'appartamento che aveva messo a nostra disposizione, il suo, per essere esatti: stanza da letto con una spettacolare vista della baia; bagno e spogliatoio. Mi stesi nella vasca, lasciando che l'acqua mi arrivasse al mento, ripensando alla nostra ultima sera a Londra, quando Magnus mi aveva proposto quel suo dubbioso esperimento. Aveva cominciato col dirmi che se cercavo un posto dove portare i ragazzi in vacanza, Kilmarth era a mia disposizione, e io avevo telefonato a Vita, a New York, incitandola ad accettare. Piuttosto fredda - essendo come la maggioranza delle americane uno di quei fiori di serra che preferiscono godersi le vacanze sotto un cielo mediterraneo, con un casinò nei paraggi - mia moglie aveva obiettato che in Cornovaglia pioveva sempre, no?, e che la casa sarebbe stata forse fredda. Come ci saremmo organizzati, aveva chiesto, per i rifornimenti? L'avevo rassicurata su tutti questi punti, perfino sulla donna a ore che sarebbe venuta tutte le mattine dal paese, e lei si era infine arresa; soprattutto, credo, perché le avevo spiegato che nella cucina trasportata di recente al primo piano, c'erano una lavapiatti e un frigorifero enormi. Magnus si era molto divertito quando glielo avevo raccontato. «Tre anni di matrimonio» aveva commentato «e nella vostra vita coniugale la lavapiatti conta già più del letto a due piazze con cui speravo di rendervi felici. Ti avevo avvertito che non sarebbe durato. Il matrimonio, intendo, non il letto.» Sorvolai sull'argomento un po' spinoso del mio matrimonio, che dopo i primi dodici mesi di passione impulsiva si era alquanto afflosciato. In verità non andavamo più d'accordo perché io volevo rimanere in Inghilterra e Vita voleva trascinarmi negli Stati Uniti. Comunque, poiché né il mio matrimonio né il mio futuro impiego lo riguardavano, Magnus spostò il discorso sulla casa, i cambiamenti che vi aveva fatto dopo la morte dei suoi genitori (mentre eravamo a Cambridge vi avevo passato a più riprese con lui dei lunghi periodi); e infine parlò della vecchia lavanderia seminterrata che aveva trasformata in laboratorio per potercisi "divertire" con degli esperimenti che non avevano niente a che vedere col suo lavoro di Londra. Quell'ultima sera aveva preparato abilmente il terreno con un pranzo squisito, e io mi ero lasciato soggiogare come al solito dalla sua personalità. «Credo di aver avuto successo» dichiarò a un tratto «in certe mie particolari ricerche. Sono riuscito ad ottenere, mescolando una certa pianta con
delle sostanze chimiche, una droga che ha sul cervello un effetto straordinario.» Lo disse quasi con indifferenza. Ma Magnus prendeva sempre quel tono casuale quando alludeva a qualcosa di molto importante per lui. «Pensavo» replicai «che tutte le droghe cosiddette dure, avessero quest'effetto. Chi le prende, alludo alla dimescalina, all'L.S.D., eccetera, viene trasportato in un mondo fantastico popolato di meravigliosi fiori esotici e si crede in paradiso.» Magnus mi versò dell'altro brandy. «Il mondo dove sono penetrato non aveva niente di fantastico. Tutto era perfettamente reale.» La mia curiosità fu stimolata. "Per attirarlo," mi dissi "questo mondo diverso da quello egoistico di cui è il centro, deve avere delle attrattive speciali." «Che genere di mondo?» «Il passato.» Ricordo che quando presi il bicchiere ridevo. «Tutt'i tuoi trascorsi, intendi? I misfatti di una gioventù spesa male?» «No, no,» e scosse spazientito la testa «assolutamente nulla di personale. Ero soltanto un osservatore. Ossia...» Si strinse nelle spalle. «Non ti dirò quello che ho visto; non voglio sciuparti l'esperimento.» «Sciuparmi l'esperimento?» «Esatto. Voglio che provi anche tu la droga, per vedere se produce in te lo stesso effetto.» Scossi la testa. «Oh, no. Non siamo più a Cambridge. Vent'anni fa avrei forse ingurgitato uno dei tuoi intrugli a costo di rimetterci la pelle. Oggi non più.» «Non ti chiedo di rischiare la pelle,» protestò lui seccato «ma soltanto di sacrificare una ventina di minuti, al massimo un'ora, di un pomeriggio ozioso, prima che arrivino Vita e i ragazzi, per tentare anche tu un esperimento che potrebbe modificare completamente il concetto del tempo che abbiamo oggi.» Era perfettamente convinto di quello che diceva, non c'erano dubbi. Non era più il Magnus beffardo e irriverente dei giorni di Cambridge, ma un professore di biofisica già famoso nel suo campo. E sebbene capissi poco o niente del suo lavoro, mi rendevo conto che se aveva realmente scoperto questa droga eccezionale, poteva esagerarne l'importanza, ma non mentire sul valore che lui stesso le attribuiva. «Perché io?» chiesi. «Perché non la provi, quando ne avrai l'opportunità,
sui tuoi discepoli di Londra?» «Perché sarebbe prematuro,» replicò «e perché non posso correre di nuovo il rischio di parlarne con chicchessia, neppure con i miei discepoli, come ti piace chiamarli. Tu sei perfino il solo a sapere che ho intrapreso queste ricerche, completamente estranee al mio lavoro abituale. Ho scoperto per un puro aso questa sostanza, e devo saperne di più prima di cominciare anche soltanto ad ammettere che possa avere delle possibilità. Ho intenzione di lavorarci sopra quando verrò a Kilmarth in settembre. Intanto tu sarai solo nella casa. Prendi almeno una volta la droga e riferiscimi quello che ti accade. Potrei sbagliarmi completamente; forse a te la droga farà il solo effetto d'intorpidirti per un po' mani e piedi, e renderti il cervello - quel poco che possiedi, caro ragazzo - infinitamente più agile e sveglio.» Com'era prevedibile, dopo un terzo bicchierino di brandy Magnus mi aveva persuaso. Mi diede istruzioni particolareggiate sul laboratorio, me ne consegnò le chiavi insieme a quelle dell'armadio dove teneva la droga; mi avvertì che avrebbe potuto farmi bruscamente il suo effetto, senza alcuna transizione da uno stato all'altro. E aggiunse qualcosa sugli effetti ritardati e la possibilità di essere assalito da nausee. Diventò evasivo soltanto quando gli chiesi bruscamente di dirmi che cosa avrei visto. «Meglio di no» rispose. «Potrei predisporti involontariamente a vedere quello che ho visto io. Devi fare quest'esperimento liberamente, senza prevenzioni.» Pochi giorni dopo partii in macchina da Londra per la Cornovaglia. La casa era stata arieggiata ed era pronta. Magnus si era messo d'accordo con una certa signora Collins di Polkerris un piccolo villaggio al disotto di Kilmarth - e trovai fiori nei vasi, provviste nel frigo e, benché fossimo a metà luglio, il fuoco acceso nella sala di musica e in biblioteca. La stessa Vita non avrebbe potuto far meglio. Passai i primi giorni godendomi la pace del luogo e le comodità che, se ben ricordavo, mancavano quando Kilmarth apparteneva agli adorabili e un tantino eccentrici genitori di Magnus. Suo padre, il comandante Lane, un ufficiale di marina in pensione, aveva la mania di stiparci su un panfilo di dieci tonnellate dov'eravamo invariabilmente assaliti dal mal di mare; sua madre, una affascinante svampita perpetuamente in giro dentro e fuori, qualsiasi tempo facesse, con un'enorme paglia dalla falda spiovente, passava il suo tempo tagliando con le forbici le rose appassite che coltivava con ardore ma con scarso successo. Io ridevo di quei due, ma li amavo, e
quando morirono a un anno di distanza l'uno dall'altro, mi disperai quasi più dello stesso Magnus. Tutto sembrava ormai così lontano... Sebbene la casa fosse molto cambiata e rimodernata, l'attraente presenza di quelle due persone continuava ad aleggiarvi, o così mi era sembrato in quei primi giorni. Adesso, dopo l'esperimento, non ne ero più tanto sicuro. Amenoché, essendo sceso poco nel seminterrato in quelle lontane vacanze, non mi fosse sfuggito che conteneva altre memorie. Uscii dal bagno, mi asciugai, mi vestii e accesa una sigaretta scesi nella stanza detta della musica invece che convenzionalmente soggiorno, perché i genitori di Magnus non solo suonavano ambedue molto bene il piano, ma si dilettavano a cantare duetti. Mi chiesi se non era ancora troppo presto per bere il drink di cui sentivo tanto bisogno. Ma poi mi dissi: meglio sano che pentito, e decisi di aspettare un'altra ora. Misi in moto il radiogrammofono e presi un disco a caso in cima al mucchio. Il Concerto Brandeburghese N. 3 di Bach mi avrebbe ridato equilibrio e serenità. Ma evidentemente l'ultima volta che era stato qui, a Pasqua, Magnus doveva aver mescolato i dischi, perché mentre me ne stavo steso sul sofà davanti al fuoco di legna, non mi arrivarono alle orecchie le cadenze misurate di Bach, ma l'insidioso, inquietante mormorio di La Mer di Debussy. Una strana scelta, da parte sua. Avevo sempre avuto l'impressione che disprezzasse i compositori romantici. Dovevo essermi sbagliato, a meno che i suoi gusti non fossero mutati con gli anni. O forse da quando si avventurava nell'ignoto era attratto da suoni più mistici, dal magico esorcismo del mare sulla spiaggia? Magnus aveva visto, com'era accaduto a me in questo pomeriggio, l'estuario incunearsi profondamente nel retroterra? Aveva visto quei campi verdi, chiari e netti, l'acqua azzurra che mordeva la valle, i muri di pietra del Priorato che si stagliavano sullo sfondo della collina? Lo ignoravo, e lui non me l'aveva detto. Quante domande non ero riuscito a rivolgergli durante quella telefonata bruscamente interrotta. Lasciai che il disco arrivasse alla fine. Ma invece di calmarmi, quella musica ebbe su di me l'effetto contrario. Ora la casa era stranamente silenziosa. Avendo ancora nelle orecchie il ritmo di La Mer, andai attraverso l'atrio nella biblioteca e mi affacciai all'ampia finestra. Il mare era di un grigio ardesia, scurito a tratti dalle sferzate del vento che soffiava da ovest, e tuttavia calmo, quasi piano. Quanto diverso dal mare azzurro scatenato che
avevo intravisto nel pomeriggio in quell'altro mondo. Per scendere nel seminterrato, a Kilmarth ci sono due scale. La prima porta direttamente dall'atrio alle cantine, alla stanza della caldaia, e di lì al patio. La seconda, a cui si arriva attraverso l'attuale cucina, conduce all'ingresso di servizio, all'antica cucina, all'acquaio, alla dispensa e alla lavanderia. La lavanderia che si raggiungeva appunto da questa seconda scala, era il locale che Magnus aveva trasformato in laboratorio. Scesi questa scala e girai la chiave della porta. Il laboratorio non aveva affatto un aspetto clinico. Accanto al vecchio lavandino, sempre al suo posto sul lastricato di pietra, sotto una finestrella a grata, c'era un camino, con uno di quei forni d'argilla che si usavano anticamente per cuocere il pane, contenuto nello spessore del muro. Dal soffitto coperto di ragnatele pendevano ancora gli uncini arrugginiti ai quali venivano probabilmente attaccati una volta carni salate e prosciutti. Magnus aveva disposto i suoi strani esemplari sulle assicelle fissate al muro. Alcuni erano scheletri, altri erano ancora intatti, conservati in una soluzione chimica che li aveva sbiancati. Non riuscii a decidere che cosa fossero esattamente, se embrioni di gatti o topi. I due soli esemplari che riconobbi erano la testa di scimmia, dal teschio lucido, perfettamente conservato, simile al cranio calvo di un minuscolo feto umano, cogli occhi chiusi, e accanto un'altra testa di scimmia che si trovava in un barattolo di vetro scurito dalla soluzione salina in cui era immersa. In altri barattoli e bottiglie c'erano funghi, piante e erbe con tentacoli mostruosi e foglie sottili e ricurve come lingue. Poco prima, al telefono, mi ero burlato di Magnus chiamando il suo laboratorio la stanza di Barbablù. Ma mentre ora mi guardavo di nuovo intorno, col ricordo del mio pomeriggio ancora vivo nella mente, l'atmosfera di quella stanzetta mi sembrò a un tratto diversa. Più del barbuto sovrano di una fiaba orientale, mi ricordava ora un'incisione intitolata L'Alchimista che mi terrorizzava da bambino. Rappresentava un uomo completamente nudo, tranne per una fascia intorno ai lombi, che accovacciato davanti a un forno murato, come quello della lavanderia, attizzava il fuoco con un mantice, e aveva alla sua sinistra un monaco incappucciato e un abate che reggeva una croce. Un quarto personaggio, con manto e cappello medievale, conversava con loro appoggiandosi a un bastone. Anche nell'incisione c'erano bottiglie su un tavolo, barattoli aperti contenenti gusci d'uovo, capelli e vermi filiformi, e al centro della stanza un bottiglione su un treppiedi con dentro una minuscola lucertolina dalla testa di drago.
Perché il ricordo di quella paurosa incisione ritornava soltanto ora a ossessionarmi? Uscii risolutamente dal laboratorio di Magnus, chiudendo a chiave la porta e corsi di sopra. Avevo talmente bisogno di quel drink che non potevo aspettare un minuto di più. 3 Il giorno dopo una di quelle pioggerelle implacabili e la nebbia fitta che saliva dal mare proibivano qualsiasi svago all'aperto. Mi ero svegliato in perfetta forma, dopo un sonno sorprendentemente lungo e calmo. Ma quando tirai le tende e vidi il tempo che faceva, mi rificcai scoraggiato a letto, chiedendomi come avrei fatto ad arrivare alla sera. Era purtroppo il clima della Cornovaglia, di cui Vita si era giustamente preoccupata. M'immaginavo già i suoi rimproveri, se questo tempaccio avesse continuato ad affliggerci al colmo delle vacanze e lei si fosse vista costretta a far infilare ai figli, che guardavano avviliti dalla finestra, impermeabili e stivali e a spedirli, malgrado le loro proteste, a passeggiare sulla spiaggia di Par. Dopo essersi aggirata a lungo fra stanza di musica e biblioteca spostando i mobili, dicendomi come sarebbe riuscita a rendere più accoglienti quegli ambienti se fossero stati suoi, non potendone più, Vita avrebbe telefonato a qualcuno dei suoi numerosi amici della banda dell'Ambasciata americana di Londra, tutti sul piede di partenza per la Sardegna o per la Grecia. Recriminazioni e critiche mi sarebbero ancora risparmiate per un po' di tempo. Quei giorni di tregua, piovosi o sereni che fossero, erano se non altro liberi, e il tempo tutto mio per farne quello che volevo. La premurosa signora Collins mi portò su la prima colazione e il giornale del mattino. Compatendomi per il tempo e dopo avermi detto che il professore trovava sempre da fare in quella sua buffa e vecchia stanzetta del sottosuolo, m'informò che avrebbe arrostito uno dei suoi polli per il mio lunch. Non avevo nessuna intenzione di scendere nel sottosuolo. Aprii il giornale e mi misi a leggere sorseggiando il caffè. Ma presto la pagina sportiva non m'interessò più e ricominciai fatalmente a cercare di spiegarmi esattamente che cosa mi era accaduto nel pomeriggio precedente. Magnus e io eravamo riusciti a comunicare telepaticamente? A Cambridge avevamo fatto l'esperimento con carte e numeri, ma non ci era mai riuscito, tranne un paio di volte per pura coincidenza. E allora eravamo molto
più intimi di adesso. Non vedevo come, grazie alla telefonata o ad altro, Magnus e io avremmo potuto avere la stessa esperienza a tre mesi di distanza: Magnus aveva preso la droga a Pasqua; a meno che quell'esperienza non fosse direttamente connessa con dei fatti avvenuti anticamente a Kilmarth. Secondo Magnus una parte del cervello poteva essere reversibile, capace cioè di far rivivere, sotto l'influsso della droga, un qualche periodo precedente della sua storia chimica. Ma perché quella particolare epoca? Quel cavaliere aveva lasciato nei luoghi dov'era vissuto un'impronta così indelebile da cancellare ogni periodo anteriore o posteriore? Mi rimisi a pensare ai soggiorni che facevo qui da studente, quando a Kilmarth la vita era gaia e spensierata. Ricordai che una volta avevo chiesto alla signora Lane se avesse mai visto fantasmi. Non perché la casa avesse un'atmosfera lugubre, tutt'altro; semplicemente perché era vecchia. «Grazie a Dio no» aveva esclamato. «Qui siamo sempre troppo assorti in noi stessi per incoraggiarli. Morrebbero di noia, poveretti, dopo aver tentato inutilmente di farsi notare. Perché me lo chiede?» «Così... senza motivo» la rassicurai, temendo di averla offesa. «Soltanto perché per quasi tutte le vecchie case è un punto d'onore essere abitate da fantasmi.» «Beh, se a Kilmarth ce ne sono, non ce ne siamo mai accorti» disse la madre di Magnus. «Questa ci è sempre sembrata una casa felice. Intorno al Cinquecento apparteneva a una famiglia di nome Baker e rimase di loro proprietà finché, nell'Ottocento, non venne ricostruita dai Rashleigh. Non so dirle nulla sulle sue origini, ma qualcuno ci disse una volta che le fondamenta sono del quattordicesimo secolo.» Il discorso era finito lì. Ma ecco che adesso mi era tornato in mente quell'accenno alle fondamenta del quattordicesimo secolo. Ripensai alle stanze del seminterrato affacciate sul cortile, e alla strana scelta di Magnus della lavanderia per il suo laboratorio. Avrà avuto certamente i suoi motivi, mi dissi. Poiché la vecchia lavanderia era molto lontana dall'ala abitata della casa, Magnus non correva perlomeno il rischio di essere disturbato da visitatori o dalla signora Collins. Mi alzai piuttosto tardi; mi chiusi a scrivere lettere nella biblioteca; feci onore al pollo arrosto della signora Collins e cercai di concentrarmi sul futuro, e sulla decisione che dovevo prendere circa l'offerta di mio cognato di entrare come socio nella sua azienda di New York. Ma fu inutile. È un problema ancora lontano, mi dissi, farò ampiamente in tempo a discuterlo
con Vita quando lei sarà qui. Guardando dalla finestra della stanza di musica vidi la signora Collins che se ne andava risalendo il viale. Pioveva sempre e avevo davanti un lungo scoraggiante pomeriggio. Non so quando mi venne l'idea. La covavo forse nel mio inconscio da quando mi ero svegliato. Volevo assodare se, quando il giorno precedente avevo preso la droga, non c'era stata telepatia tra Magnus e me. Può darsi, ragionai, che nell'istante in cui inghiottivo la droga lui sia riuscito, per un qualche fenomeno telepatico, a mettersi in comunicazione con me influendo su quanto avrei poi visto o immaginato in quel pomeriggio. Se la droga non fosse più presa in quel funesto laboratorio con la sua suggestiva somiglianza con la cella di un alchimista, l'effetto non potrebbe essere diverso? L'unico modo per saperlo era di ripetere l'esperimento. Nell'armadio della dispensa c'era una piccola fiaschetta che avevo notato la sera prima. La presi e andai a sciacquarla sotto il rubinetto dell'acqua fredda. Non significa, mi dicevo, che mi sia deciso. Poi scesi nel seminterrato e sentendomi come quando, da ragazzo, rubavo durante la quaresima qualche tavoletta di cioccolato, girai la chiave della porta del laboratorio. Fu facile ignorare gli esemplari nei loro barattoli di vetro, e allungare la mano verso la piccola fila ordinata delle bottiglie con le loro etichette. Contai, come il giorno innanzi, le gocce della boccetta A, ma facendole cadere nella fiaschetta tascabile. Mi chiusi poi alle spalle la porta e andai attraversando il cortile a togliere dalla rimessa la mia macchina. Risalito lentamente il viale svoltai a sinistra nella strada maestra e scesi dalla collina di Polmear fermandomi in fondo per esaminare la scena. Qui, dove oggi c'erano gli ospizi e la locanda, c'era ieri il guado. A onta della strada moderna la topografia del luogo non era cambiata, ma la valle dove s'ingolfava la marea era adesso soltanto palude. Presi la strada di Tywardreath, pensando, con una certa apprensione, che se sotto l'influenza della droga avessi preso quella stessa strada il giorno prima avrei potuto essere investito, senza udirla, da qualche macchina. Scesi per la stradicciola stretta e ripida fino al villaggio e lasciai la macchina poco lontano dalla chiesa. Piovigginava ancora e non si vedeva un'anima. Un camion risalì la strada principale di Par, scomparve. Una donna sbucò da una drogheria incamminandosi nella stessa direzione. Non arrivò nessun altro. Smontai, aprii il cancello di ferro del cimitero e mi fermai sotto il portico della chiesa per ripararmi dalla pioggia. Il cimitero declina-
va verso sud, fino al muro di cinta e più in basso c'erano le costruzioni delle fattorie. Ieri, in quell'altro mondo, non esistevano fabbricati, ma solo le acque azzurre di un fiume che a marea alta riempiva la valle. E l'intero spazio dell'attuale cimitero era occupato dal monastero. Ora conoscevo meglio la topografia dei luoghi. Se la droga mi avesse fatto effetto avrei potuto lasciare la macchina dove era, e tornarmene a casa a piedi. Dopo essermi assicurato che intorno non c'era anima viva presi la fiaschetta e, come un nuotatore che si tuffi in un lago artico, ne inghiottii il contenuto. Fui assalito immediatamente dal panico. Questa seconda dose poteva avere un effetto molto diverso. Farmi dormire per ore, ad esempio. Dovevo rimanere dov'ero o risalire in macchina? poiché il portico della chiesa mi dava la claustrofobia andai a sedere su una tomba non lontana dal viottolo, ma invisibile dalla strada. Forse, se non mi muovevo, non mi sarebbe accaduto niente. "Fa' che non succeda nulla!" pregai. "Impedisci alla droga di agire!" Rimasi seduto lì per circa cinque minuti, troppo preoccupato degli effetti eventuali della droga per curarmi della pioggia. Quando l'orologio della chiesa suonò le tre, controllai il mio. Vedendo che era indietro di pochi minuti lo regolai e, quasi immediatamente, mi arrivò dal villaggio un gran vocio o forse uno scroscio di applausi - uno strano miscuglio di ambedue e un cigolio di ruote. Oh Dio mio, pensai, che accade? La carovana di un circo starà venendo giù dal paese? Dovrò spostare la macchina? Mi alzai e andai verso il cancello del cimitero. Ma non ci arrivai perché era sparito, e io ero davanti alla finestra rotonda di un muro di pietra che dava su uno spiazzo quadrato bordato da sentieri sassosi. Attraverso il cancello d'ingresso spalancato all'estremità più lontana dello spiazzo vedevo una folla di gente, uomini, donne e bambini, ammassati sullo spiazzo erboso. Erano loro che gridavano e il cigolio era prodotto dalle ruote di un carro enorme, tirato da cinque cavalli, due dei quali - il secondo davanti e quello fra le stanghe - avevano in groppa un cavaliere. Il baldacchino di legno del carro era dipinto di un violetto acceso e oro. In quel momento le pesanti cortine che nascondevano la parte anteriore del veicolo, furono aperte e le urla e gli applausi della folla aumentarono, mentre colui che era apparso alzava le mani nel gesto della benedizione. Notando i suoi magnifici paramenti ecclesiastici mi ricordai che Roger e il Priore avevano alluso a una visita imminente del Vescovo di Exeter, e anche dell'apprensione, probabilmente giustificata, del Priore. Il personaggio doveva essere Sua Grazia in persona.
Si fece all'improvviso silenzio e tutti caddero in ginocchio. La luce era abbagliante, ma io non sentivo più niente e per me niente aveva più importanza. Ero indifferente a tutto, la droga poteva agire su di me come voleva, il mio solo desiderio era di far parte di quel mondo che mi circondava. Vidi il Vescovo scendere dal suo carro coperto, mentre la folla si spingeva in avanti, entrare dal cancello nello spiazzo quadrangolare seguito dalla sua corte. Da una qualche porticina al disotto di me, vidi il Priore andargli incontro accompagnato dai suoi monaci, poi il cancello richiudersi sulla folla. Girai la testa e mi accorsi di trovarmi in una sala a volte dove c'erano una ventina di persone che, a giudicare dall'ansia che non riuscivano a contenere, aspettavano di venire presentate a Sua Grazia. Da come erano vestiti era chiaro che appartenevano alla piccola nobiltà terriera, presumibilmente ammessa al monastero. «Vedrai» disse al mio orecchio una voce «che date le circostanze lei non si sarà dipinta la faccia.» Il mio cavaliere, Roger, mi era accanto, ma si rivolgeva a un compagno, un uomo della sua età, o di poco più vecchio, che per soffocare il riso si mise una mano davanti alla bocca. «Dipinta o al naturale, Sir John l'avrà,» replicò «e quale occasione migliore della vigilia di San Martino, con la sua lady opportunamente inferma a letto a Bockenod, a otto miglia di qui?» «Potrebbe riuscirci,» convenne l'altro «ma non senza rischi, dato che non si può contare sull'assenza di Sir Henry. Stanotte, col Vescovo nella stanza degli ospiti, è difficile che lui dorma al monastero. No, a quei due conviene aspettare un altro po', se non altro per aguzzarsi l'appetito.» Poiché il fenomeno dello scandalo è rimasto immutato nei secoli, mi domandavo perché quei pettegolezzi dovessero interessarmi ora mentre mi avrebbero fatto sbadigliare se li avessi uditi scambiare fra i miei contemporanei a qualche ricevimento. Forse, mi dissi, li trovo più piccanti perché li sto spiando tra mura monastiche. Roger e il suo amico guardavano il piccolo gruppo vicino alla porta, senza dubbio i pochi prescelti per essere presentati al Vescovo: fra i quali riconobbi il galante Sir John, quello a cui piaceva, se ben ricordavo, l'osservazione del Priore, tenere un piede in ogni staffa. Ma chi era la dama del suo cuore che aveva tralasciato d'imbellettarsi? Nel gruppo c'erano quattro uomini, due donne e due giovanotti. Ma i copricapi imposti dalla moda alle dame m'impedivano di distinguere da lon-
tano i visi, fasciati com'erano da cuffie e da soggoli. Avevo riconosciuto il lord del castello, Henry di Champernoune, l'uomo anziano, dignitoso, che il giorno innanzi pregava nella cappella. Era vestito più sobriamente dei suoi amici, che indossavano tuniche di svariati colori lunghe fino a metà dei polpacci, con cinturoni portati sotto i fianchi, da cui pendevano al centro borsellini e pugnali. Avevano tutti la barba e i capelli arricciati, quasi crespi, come probabilmente imponeva la moda. Roger e il suo compagno erano stati raggiunti da un nuovo venuto in abito talare, con rosario appeso alla cintola. Il suo naso rosso e la sua pronunzia inceppata tradivano una visita recente alla dispensa del Priore. «Qual è l'ordine di precedenza?» biascicò. «Come parroco nonché cappellano di Sir Henry, dovrei far parte del suo seguito, no?» Battendogli una mano sulla spalla Roger lo spinse davanti alla finestra. «Sir Henry e Sua Grazia il Vescovo possono fare a meno del vostro fiato. O ci tenete a perdere la vostra posizione?» Dopo aver protestato, appoggiandosi però prudentemente al muro, il nuovo venuto si accasciò sulla panca. Scrollando le spalle Roger si voltò verso il suo compagno che vi era addossato. «Mi sorprende che Otto Bodrugan osi mostrarsi qui» gli disse l'amico. «Non sono due anni che combatteva per Lancaster contro il Re. Dicono che era a Londra quando la folla trascinò per le strade il Vescovo Stapledon.» «No» protestò Roger. «Era a Wallinford con molte centinaia di partigiani della Regina.» «Anche così la sua situazione è delicata» disse l'altro. «Se fossi il Vescovo non vedrei di buon occhio l'uomo di cui si dice abbia condonato l'assassinio del mio predecessore.» «Sua Grazia non ha il tempo di occuparsi di politica» replicò Roger. «Avrà anche troppo da fare con la Diocesi. I processi passati non lo interessano. Bodrugan è qui oggi per le proprietà che divide con i Champernoune, perché sua sorella Joanna è la lady di Sir Henry e per il debito che ha con Sir John. Non gli ha ancora restituito i duecento marchi che si fece prestare.» Un gran baccano davanti alla porta spinse quei due personaggi minori a farsi avanti per vedere meglio. Entrò il Vescovo affiancato dal Priore, più elegante e pulito di quando era seduto in quel suo vecchio letto col levriero che si spulciava. I gentiluomini s'inchinarono, le gentildonne fecero la riverenza, e il Vescovo tese
a ognuno la mano da baciare, mentre stordito dal cerimoniale il Priore li presentava a turno. Non recitando una parte del loro mondo, io potevo andare e venire invece come volevo, purché non avessi toccato nessuno dei presenti. Mi avvicinai infatti, curioso di vedere da chi era composto il gruppo. «Sir Henry di Champernoune, lord feudatario di Tywardreath,» sussurrava il Priore «appena tornato da un pellegrinaggio a Campostella.» L'anziano nobiluomo si avanzò, piegando a terra un ginocchio, e fui colpito di nuovo dalla sua aria elegante e dignitosa unita a una fiera umiltà. Baciata la mano che gli veniva tesa, si rialzò voltandosi verso la donna che aveva accanto. Mentre la presentava: «Mia moglie Joanna, Vostra Grazia», lei si prostrò a sua volta riuscendo abbastanza bene a imitare l'umiltà del marito. Questa era dunque la lady che non si era imbellettata soltanto perché doveva comparire davanti al Vescovo. Decisi che aveva fatto bene ad astenersene. L'unico suo ornamento, il soggolo che le incorniciava il viso, avrebbe fatto risaltare i pregi di qualunque donna. Joanna non era né bella né brutta, e tuttavia non mi sorprese che si dubitasse della sua fedeltà ai voti coniugali. Avevo visto a donne del mio mondo occhi come i suoi, grandi e sensuali; basterà il cenno di un maschio a farla capitolare, mi dissi. «Mio figlio e erede, William» continuò suo marito, mentre uno dei due giovani si faceva avanti per inchinarsi. «Sir Otto Bodrugan» presentò ancora Sir Henry «e sua moglie, mia sorella Margaret.» Poiché poco prima il mio cavaliere Roger aveva detto che, come fratello di Joanna, moglie di Champernoune, Otto Bodrugan era doppiamente imparentato col feudatario, doveva trattarsi di un gruppo molto strettamente legato. Margaret era piccola, smunta ed evidentemente nervosa, perché nel fare la riverenza a Sua Grazia, inciampò e sarebbe caduta se il marito non l'avesse sorretta. Bodrugan mi piacque. Era un bell'uomo dall'aria spavalda che sarebbe stato senza dubbio un ottimo alleato in un duello o in un'avventura. Doveva avere anche spirito perché invece di arrossire e irritarsi per la topica della moglie, le sorrise per rassicurarla. I suoi occhi scuri, come quelli della sorella Joanna, erano meno sporgenti dei suoi, ma doveva avere senza dubbio tutte le sue altre qualità. Dopo aver presentato a sua volta al Vescovo il figlio primogenito, Henry, Bodrugan indietreggiò per lasciare il posto a chi lo seguiva e che smaniava da un pezzo, si capiva, per farsi avanti.
Vestito con più lusso di Bodrugan e di Champernoune, costui aveva sulle labbra un sorriso fiducioso. Questa volta fu il Priore a fare la presentazione. «Il nostro beneamato e riverito patrono, Sir John Carminowe di Bockenod,» annunziò «senza di cui in questi tempi agitati il nostro monastero si sarebbe trovato in gravi difficoltà.» Eccolo dunque, il cavaliere col piede in due staffe, una lady coricata a otto miglia di qui e un'altra presente ma non ancora portata a letto. Mi deluse: mi ero aspettato un tipo di conquistatore irresistibile e Sir John era invece piccolo, tarchiato, grasso e gonfio di presunzione come un tacchino. Lady Joanna doveva contentarsi facilmente. «Vostra Grazia,» disse con tono enfatico «siamo profondamente onorati di avervi fra noi» e si chinò sulla mano che gli offriva il Vescovo, con tanta affettazione che se fossi stato Otto Bodrugan, che gli doveva duecento marchi, gli avrei pagato il mio debito assestandogli un bel calcio nel sedere. Sveglio e attento, il Vescovo non si lasciava sfuggire nulla. Mi faceva pensare a un generale che passa in rassegna una nuova guarnigione prendendo mentalmente appunti sugli ufficiali. Champernoune superato, doveva dirsi, e da sostituire; Bodrugan valoroso ma insubordinato, a giudicare dalla parte avuta recentemente nella rivolta contro il Re; Carminowe ambizioso e troppo zelante, un tipo che potrebbe crearci dei fastidi. Quanto al Priore, quella macchia sulla tonaca non era uno schizzo di salsa? Avrei giurato che il Vescovo se ne sarebbe accorto come me. Poco dopo il suo sguardo cominciò a vagare sul pesce minuto andando a fermarsi sulla figura quasi prostrata del parroco. Mi augurai, per il bene del Priore, che l'ispezione non sarebbe continuata più tardi nelle cucine del monastero o, peggio, nella stanza stessa del Priore. Sir John si era rialzato. «Mio fratello Sir Oliver Carminowe, Vostra Grazia,» presentò a sua volta «uno dei Delegati di Sua Maestà, e Isolda, la sua lady.» Assestò una gomitata al fratello che a giudicare dalla sua faccia congestionata e dallo sguardo torbido doveva aver passato le ore di attesa nella dispensa del Priore. «Vostra Grazia» disse Sir Oliver stando attento a non piegare troppo il ginocchio per il timore di perdere l'equilibrio quando si sarebbe rialzato. Malgrado la sbornia era più avvenente di Sir John: più alto e robusto, con qualcosa di crudele nella mascella, non certo il tipo a cui pestare i piedi in una zuffa.
«Lei è quella che sceglierei se la fortuna mi assistesse.» Il bisbiglio mi arrivò da molto vicino all'orecchio. Roger mi era di nuovo accanto, ma parlava al suo compagno, non a me. C'era qualcosa di soprannaturale nel modo in cui influenzava i miei pensieri, come era sempre al mio fianco quando meno me l'aspettavo. Aveva scelto bene, comunque. Vedendo la donna che lo interessava fissarci quando si rialzò dalla riverenza e dal baciamano al Vescovo, mi domandai se si era accorta anche lei della sua ammirazione. Isolda, moglie di Sir Oliver Carminowe, non aveva il viso incorniciato da un soggolo. Portava i capelli biondi raccolti in due trecce e una reticella d'oro tempestata di pietre sul piccolo velo che le copriva la testa. Non aveva neppure un manto sul vestito come le altre dame e il vestito stesso era meno largo sui fianchi, più aderente, con lunghe maniche attillate che le arrivavano oltre i polsi. Forse, mi dissi, essendo più giovane delle altre, non dimostrava più di venticinque o ventisei anni, dà più importanza di loro agli abiti. Non si sarebbe detto, comunque, tanta era la grazia disinvolta con cui li portava. Non avevo mai visto un viso più bello e più annoiato, e mentre ci posava addosso senza un'ombra d'interesse lo sguardo - guardava, beninteso, Roger e il suo amico - un fremito impercettibile delle sue labbra mi fece capire che soffocava uno sbadiglio. È destino di ogni uomo, suppongo, d'intravedere prima o poi una faccia in una folla e di non dimenticarla o, forse, per un colpo di fortuna, incontrarne di nuovo più tardi la proprietaria in un ristorante o a un party. Conoscersi rompe spesso l'incanto e delude. Ma a me non poteva accadere. Guardavo attraverso i secoli colei che Shakespeare definì "una fanciulla impareggiabite" che ahimè non mi avrebbe mai guardato. «Per quanto tempo ancora» mormorava Roger «sopporterà di rimanere fra le mura di Carminowe montando la guardia ai suoi pensieri per impedirgli di smarrirsi?» Magari lo avessi saputo. Se fossi vissuto nel suo tempo, mi sarei licenziato da intendente di Sir Champernoune, per correre a offrire i miei servgii a Sir Oliver e alla sua lady. «L'unica sua fortuna» replicò l'altro «è che con quei tre robusti figliastri già sulla breccia non è costretta a fornire un erede al marito. E avendo ormai partorito due figlie che Sir Oliver potrà accasare con profitto quando saranno in età da marito, può disporre come le pare del suo tempo.» Ecco che cos'erano in quei tempi le donne, mi dissi. Articoli di commer-
cio allevate per ricavarne il maggiore utile, comprate poi, o vendute, in una piazza di mercato, o, diciamo, maniero. Non c'era da stupirsi se, compiuto il dovere, si cercavano intorno una consolazione prendendosi un amante o sostenendo una parte attiva nella contrattazione dei propri figli. «Ti dirò una cosa» riprese Roger. «Bodrugan ha messo l'occhio su di lei. Ma finché non avrà pagato il suo debito a Sir John, deve badare a dove mette i piedi.» «Scommetto cinque denari contro niente che lei non lo guarderà neppure.» «Accettato. Ma se ti sbagli farò loro da ruffiano. Tengo già spesso mano alla mia lady e a Sir John.» La mia parte di spia nel tempo era passiva, senza compromessi e responsabilità. Potevo muovermi nel loro mondo inosservato, sapendo che qualunque cosa accadesse - commedia, dramma o farsa - non avrei potuto far nulla per impedirla, mentre nella mia esistenza del ventesimo secolo dovevo contribuire a costruire un futuro per me e i miei. Il ricevimento sembrava terminato, ma non la visita, perché una campana chiamò tutti ai vespri e la compagnia si divise: i privilegiati per dirigersi verso la Cappella del monastero, la minutaglia verso la chiesa che soltanto un arco con una griglia divideva dalla Cappella stessa. Credevo di potermi dispensare dai vespri anche se, mettendomi proprio dietro la grata, avrei potuto guardare Isolda. Ma la mia guida inseparabile, allungando il collo con lo stesso pensiero, decise di essere rimasto ozioso troppo a lungo e, fatto un cenno brusco al suo compagno, si avviò verso il monastero e di lì, attraverso lo spiazzo quadrangolare, al portone d'ingresso. Qualcuno lo aveva spalancato di nuovo e un gruppo di gente, fratelli laici e servi, si era fermato lì a guardare, ridendo, i dipendenti del Vescovo che si scalmanavano per far entrare nel cortile del monastero il rozzo veicolo, le cui ruote si erano impantanate fra il sentiero melmoso e il cortile del Priorato. Ma questo non doveva essere l'unico spettacolo divertente perché lo stesso spiazzo erboso era gremito di uomini donne e bambini. Si sarebbe detto un mercato: c'erano piccoli stalli e bancarelle e un uomo batteva in un tamburo mentre un altro raschiava un violino e un terzo mi rompeva le orecchie con due corni lunghi come lui in cui riusciva, con un'abilità fantastica, a soffiare contemporaneamente. Seguii Roger e il suo amico attraverso il campo. Vedendoli fermarsi a ogni istante a salutare i conoscenti, capii che non si trattava di una festa in onore del Vescovo ma, poiché dai pioli delle baracche pendevano pecore e
maiali sgozzati di fresco, ancora sanguinanti, di un qualche paradiso dei macellai. Le case che circondavano il campo esibivano gli stessi ornamenti. Ogni padrone di casa si affaticava brandendo un coltello, a spellare qualche vecchia pecora o a tagliare la gola a un porco, mentre un paio di tipi, forse un po' più in su nella scala sociale, sollevavano teste di buoi dalle corna lunate strappando alla folla urla, risa e applausi. Quando cominciò a imbrunire, macellatori e scuoiatori, prendendo alla luce delle torce un aspetto demoniaco, affrettavano furiosamente il loro lavoro per assolvere il loro compito prima che annottasse e il suonatore dei due corni, che si passava gli strumenti da una mano all'altra, prese ad aggirarsi fra la folla sollevandoli per ottenere squilli ancora più forti. «Se Dio vuole quest'inverno avranno il ventre ben foderato» osservò Roger. Me n'ero dimenticato in quella confusione, ma lui era sempre lì. «Avrete contato gli animali, immagino» disse l'amico. «Non solo contati, ma ispezionati prima del macello. Anche se gli mancassero un centinaio di capi, Sir Henry non se ne accorgerebbe neppure. Ma my lady sì. Lui è troppo immerso nelle preghiere per tener d'occhio la sua borsa e i suoi beni.» 4 Ero passato da un mondo all'altro istantaneamente, senza transizioni sensibili, senza le reazioni fisiche secondarie del giorno innanzi. L'unica difficoltà era il riassestamento mentale che esigeva una concentrazione quasi intollerabile. Per fortuna il vicario mi precedé nella navata, continuando a discorrere. E ammesso che la mia espressione avesse qualcosa di strano, era troppo educato per fare commenti. «L'estate» mi diceva «abbiamo parecchi visitatori che abitano qui a Par, o che vengono da Fowey. Ma per trattenersi così a lungo sotto la pioggia nel cimitero della chiesa lei dev'essere innamorato di questi luoghi.» Feci uno sforzo enorme per riprendermi. «Per essere preciso,» replicai, stupito di scoprire che riuscivo perfino a parlare, «non erano in realtà la chiesa stessa o le tombe, ad attirarmi. Qualcuno ha detto che molti anni fa qui c'era un Priorato.» «Ah, sì, il Priorato» ripeté lui. «È sparito purtroppo da secoli senza lasciar tracce. Tutte le sue costruzioni crollarono a poco a poco dopo la chiusura dei monasteri avvenuta nel 1539. Dicono che si trovasse dov'è ora la
Newhouse Farm, proprio al disotto di noi nella valle. Secondo altri occupava l'attuale cimitero, a sud del chiostro. Ma nessuno ne sa davvero qualcosa.» Mi guidò alla navata nord per mostrarmi la tomba dell'ultimo Priore, che era stato sepolto nel 1538 davanti all'altare; m'indicò il pulpito e alcuni stalli e quanto rimaneva dell'originale parete divisoria fra navata e coro. Niente di tutto ciò somigliava neppure lontanamente alla chiesetta che avevo vista poco prima, con la griglia nel muro che la separava dalla cappella del Priorato. E tanto meno, mentre ero lì col vicario, riuscii a ricostruire col pensiero una transenna e una navata più antiche. «È cambiato tutto» dissi. «Cambiato?» ripeté perplesso lui. «Ma sì, certo. La chiesa fu ampiamente restaurata nel 1880, non tutta con successo, forse. È deluso?» «No» mi affrettai ad assicurargli. «Niente affatto. È solo che... Insomma, come le dicevo, m'interessa soprattutto il periodo più antico, anteriore all'abolizione dei monasteri.» «Capisco.» Il vicario mi sorrise cordialmente. «Mi sono chiesto spesso anch'io che aspetto poteva avere una volta la chiesa col Priorato così vicino. Si trattava di una comunità francese, sa, dipendente dall'Abbazia Benedettina dei Santi Sergio e Bacco di Angers, e quasi tutti i monaci dovevano essere francesi. Vorrei potergliene dire di più ma mi trovo qui da pochi anni e purtroppo non sono uno storico.» «Neppure io.» Mentre tornavamo verso il portico gli chiesi: «Sa niente degli antichi feudatari, i lords del maniero?». Lui si fermò per spegnere i lumi. «Soltanto quello che ne ho letto nella Storia della Parrocchia. Nel Grande Libro del Catasto il maniero è chiamato Tiwardrai - la casa sull'estuario - e appartenne alla grande famiglia dei Cardinham finché l'ultima erede, Isolda, non la vendé nel tredicesimo secolo agli Champernoune. Alla loro morte passò in altre mani.» «Isolda?» «Sì. Isolda di Cardinham. Sposò un certo William Ferrers di Bere nel Devon... purtroppo non ricordo i particolari. Potrà documentarsi meglio nella biblioteca pubblica di St. Austell.» Mi sorrise di nuovo, prima di tornare con me nel cimitero. «Lei risiede nei dintorni, o si trova qui di passaggio?» mi chiese. «Trascorrerò qui l'estate. Il professor Lane mi ha gentilmente prestato la sua casa.»
«Kilmarth? La conosco, certo, ma non ci sono mai entrato. Se non sbaglio il professore ci viene di rado. E non si fa mai vedere in chiesa.» «No,» confermai «me lo immagino.» «Beh,» riprese il vicario, prima che mi congedassi da lui al cancello «ogni volta che avrà voglia di tornare, per assistere a una funzione o anche soltanto per fare due passi, sarò lieto di rivederla.» Ci stringemmo la mano. Mi chiesi, nel risalire la strada per andarmi a riprendere la macchina, se non ero stato imperdonabilmente scortese. Non solo non avevo ringraziato il vicario della sua cortesia, ma non mi ero neppure presentato. È chiaro, mi dissi, che deve considerarmi un qualunque villeggiante, più maleducato degli altri e per giunta picchiato. Salii in macchina, accesi una sigaretta e mi sforzai di riordinare i miei pensieri. Il fatto di non aver reagito fisicamente alla droga era, per cominciare, un sollievo enorme. Non provavo neppure lontanamente vertigine o nausea, non sudavo e gambe e braccia non mi dolevano come la prima volta. Abbassai il finestrino della macchina e dopo aver dato un'occhiata alla strada guardai indietro, verso la chiesa. Non c'era nulla che coincidesse. Il campo del villaggio, dove la gente si era affollata fino a tardi, una volta doveva coprire tutta l'area attuale e stendersi forse fin dove la strada moderna comincia a salire verso la collina. Il cortile del Priorato, dove l'equipaggio del Vescovo per poco non era stato rovesciato, doveva trovarsi in quell'affossamento al disotto della bottega del barbiere, e confinare col muro est del cimitero. E il Priorato stesso, secondo una delle teorie citate dal vicario, riempiva allora tutto lo spazio occupato oggi dalla parte sud del cimitero. Chiusi gli occhi e rividi l'ingresso, il grande cortile quadrangolare, il dormitorio dei monaci, la sala del capitolo dove si era svolto il ricevimento, e, al piano di sopra, la stanza del Priore; ma quando li riaprii i pezzi del rompicapo non s'incastravano più e il campanile della chiesa me lo scombinava tutto. Era inutile: niente corrispondeva, tranne l'ubicazione del terreno. Buttai la sigaretta e partii prendendo la strada che passava davanti alla chiesa. Mentre scendevo dalla collina lasciandomi dietro la valle, il suo ruscello e la bassa, disordinata accozzaglia delle botteghe di Par, mi sentii invadere da una strana esaltazione. Neppure dieci minuti prima tutto questo era sott'acqua e il mare lambiva le terre basse e declinanti del Priorato. Lì, dove sorgevano ora quei villini, candidi banchi di sabbia bordavano l'ampia distesa dell'estuario, e queste case e queste botteghe erano un canale azzurro dove s'ingolfava ribollendo la marea. Arrivato davanti alla far-
macia entrai a comprare un dentifricio. Mentre la ragazza al banco me lo incartava sentii crescere la mia strana euforia. Notando che la ragazza stessa, il negozio e le altre due persone che erano lì sembravano privi di sostanza, evanescenti, mi venne da sorridere furtivamente. "Non esistete" ebbi l'impulso di dirgli. "Voialtri e tutto il resto siete coperti dall'acqua." Dopo che fui uscito mi fermai un momento sul marciapiedi. Non pioveva più. La pesante cappa che ci opprimeva dalla mattina si era infine frantumata e i cielo sembrava una coperta a patchwork in cui rettangoli azzurri si alternavano agli ultimi brandelli grigi di nuvole. Era ancora troppo presto per rincasare, troppo presto per chiamare Magnus. Se non altro ero riuscito a stabilire una cosa: che fra noi questa volta non c'era stata telepatia. Ieri Magnus aveva forse potuto intuire vagamente quello che avrei fatto. Non oggi. Il laboratorio di Kilmarth non era l'antro di un orco dove si evocassero gli spiriti, e tantomeno di fantasmi ce n'erano nel chiostro della chiesa di Sant'Andrea. Magnus non si era sbagliato considerando reversibile, sotto l'azione della droga, qualche processo chimico primario. Ottenute queste condizioni i sensi entravano successivamente in azione riafferrando il passato... Quando il vicario mi aveva battuto sulla spalla non mi ero svegliato da un sogno nostalgico: ero passato da una realtà vivente a un'altra. Era mai possibile che in un tempo pluridimensionale l'ieri, l'oggi e il domani scorressero simultaneamente in una ripetizione incessante? Sarebbe bastato cambiare uno degl'ingredienti, usare un enzima diverso per rivelarmi il futuro: vedermi vecchio calvo rammollito a New York, i ragazzi cresciuti e sposati e Vita morta... Era un pensiero sconcertante. Preferivo dedicarmi agli Champernoune, ai Carminowe, e a Isolda. Qui la telepatia non c'entrava. Magnus non me li aveva mai nominati. Ma il vicario sì, e soltanto dopo che li avevo visti in carne e ossa. Decisi a questo punto che sarei andato subito fino a St. Austell per cercare di snidare nella biblioteca pubblica qualche documento che li riguardasse. La biblioteca era appollaiata al disopra della piccola città. Parcheggiai la macchina ed entrai. Premurosa, la ragazza al banco mi diede l'utile consiglio di salire al reparto consultazioni e di sfogliare Le Visitazioni di Cornovaglia. Vi avrei forse trovato gli alberi genealogici che cercavo. Tolsi dallo scaffale il grosso volume e mi sedetti a uno dei tavoli. Una prima occhiata all'elenco alfabetico mi deluse. Non c'erano Bodrugan,
Champernoune o Carminowe. E neppure Cardinham. Ricominciai da capo e mi accorsi, elettrizzato, che dovevo aver saltato una pagina. La scorsi con gli occhi e trovai infatti un Sir John, sposato per giunta a una Joanna (non sarà stato comodo, per lui, ragionai, avere la moglie e l'amante con lo stesso nome). Questo Sir John aveva una sequela di figli, e uno dei suoi nipoti, Miles, figurava come l'erede di Boconnoc, Boconnoc... Bockenod... L'ortografia si era un po' modificata con gli anni, ma si trattava senza dubbio del mio Sir John. Trovai nella pagina seguente il suo fratello maggiore, Sir Oliver Carminowe, e appresi che aveva avuto diversi figli dalla sua prima moglie. Più in là trovai anche la sua seconda moglie, Isould, figlia di un certo Reynold Ferrers di Bere nel Devon, e in fondo alla pagina le loro figlie, Joanna e Margaret. Era la mia Isolda - non Isolda Cardinham, l'ereditiera del Devon citata dal vicario - ma una sua discendente. Mentre chiudevo il pesante volume mi sorpresi a sorridere fatuamente a un tipo occhialuto immerso nel Daily Telegraph, che dopo avermi squadrato con diffidenza si nascose di nuovo la faccia col giornale. Quella fanciulla incomparabile non era dunque un prodotto della mia immaginazione; o il frutto di un rapporto telepatico fra me e Magnus. Era vissuta, anche se non sapevo esattamente quando fosse nata e morta. Sempre più esaltato dalla mia scoperta andai a rimettere a posto il volume e lasciai la biblioteca pensando a tutti quei Carminowe, Champernoune, Bodrugan, morti da seicento anni ma ancora vivi nel mio nuovo mondo di quel tempo. Mi allontanai da St. Austell dicendomi stupefatto che in un solo pomeriggio avevo assistito a una cerimonia in un monastero crollato da secoli e mi ero mescolato, sul campo del villaggio, alla folla che festeggiava il San Martino. Tutto grazie a una specie di filtro magico distillato da Magnus che non solo non mi aveva procurato reazioni sgradevoli ma mi dava adesso addirittura una sensazione di benessere e gioia. Era facile come cadere in un precipizio... Risalii a più di ottanta all'ora la collina di Polmear e soltanto quando ebbi percorso il viale di Kilmarth e messa la macchina nel garage, mi tornò in mente quel paragone: come cadere in un precipizio... L'effetto ritardato era questo? Ieri nausea e vertigine perché non avevo rispettato le regole. Oggi quest'esaltazione felice perché ero passato senza incidenti né sforzo da un mondo all'altro. Salii nella biblioteca e formai il numero telefonico dell'appartamento di Magnus. Lui rispose subito.
«Che notizie?» «Che cosa intendi esattamente?» replicai. «Ha piovuto tutto il giorno, se alludi al tempo.» «Qui a Londra è stata una splendida giornata. Ma lascia stare il tempo. Com'è andato il secondo viaggio?» La sua certezza che avessi ripetuto l'esperimento mi irritò. «Che cosa ti fa credere che l'abbia fatto?» «Era inevitabile.» «Beh... hai ragione. Non avrei voluto... ma ci tenevo ad assodare qualcosa.» «Che cosa?» «Che l'esperimento non fosse influenzato da un qualche fenomeno telepatico fra noi due.» «Avrei potuto dirtelo io.» «Forse... Ma il particolare che avessimo fatto ambedue il nostro primo esperimento nella stanza di Barbablù avrebbe potuto influire a mia insaputa sul secondo.» «Perciò...» «Perciò ho versato le gocce nella tua fiaschetta... - perdonami se mi sono preso questa libertà - sono tornato in macchina alla chiesa e le ho inghiottite nel chiostro.» Il suo grugnito di soddisfazione m'irritò ancora di più. «Che c'è?» sbottai. «Non dirmi che facesti anche tu così!» «Sì, invece. Ma non nel chiostro, caro: nel cimitero, e dopo il tramonto. Ma il punto è: che cosa hai visto?» Glielo dissi, concludendo col mio incontro col vicario, la visita alla biblioteca pubblica e l'assoluta mancanza, o così mi era parso, degli effetti ritardati della prima volta. Lui mi ascoltò senza interrompermi. Quando ebbi finito mi disse di aspettarlo un momento. «Vado a versarmi un drink» aggiunse «ma ti ricordo che non devi imitarmi.» Il pensiero del suo gin-and-tonic mi esasperò. «Non solo ne sei uscito molto bene,» riprese dopo un intervallo Magnus «ma hai incontrato il fiore della Contea, cosa di cui io, allora come adesso, non posso vantarmi.» «Vuoi dire che non hai visto le stesse cose?» «No davvero. Per me niente sala capitolare o campo del villaggio. Mi sono trovato nel dormitorio dei monaci - una faccenda molto diversa, cre-
dimi.» «Perché?» chiesi. «Insomma, che cosa hai visto?» «Esattamente quello che puoi aspettarti quando un branco di francesi del Medioevo si ritrovavano insieme. Usa l'immaginazione.» Toccò a me sogghignare. Il pensiero del mio Magnus schifiltoso costretto a spiare chissà quali turpitudini mi rimise di buon umore. «Sai quello che penso?» dissi. «Secondo me abbiamo trovato ognuno quello che meritavamo. Io Sua Grazia il Vescovo e i lords della Contea, con tutto il fascino snob, dimenticato, del nostro collegio di Stonyhurst; tu le deviazioni sessuali che ti proibisci da trent'anni.» «Come lo sai che me le proibisco?» «Non lo so. Voglio credere che ti comporti bene.» «Grazie del complimento. Resta comunque dimostrato che niente di tutto questo può essere attribuito alla telepatia. D'accordo?» «D'accordo.» «Perciò abbiamo visto quello che abbiamo visto attraverso un altro canale: il cavaliere Roger. Era con te nella sala capitolare e sul prato; con me nel dormitorio. È lui il cervello che ci trasmette le informazioni.» «Sì, ma perché?» «Perché? Non t'illuderai di scoprirlo in un paio di viaggi? Ne hai, di lavoro da fare.» «E va bene» dissi. «Ma è una gran seccatura dover seguire quel tipo, o sopportare che lui mi segua, ogni volta che decidessi di rifare l'esperimento. Non lo trovo molto simpatico. E neppure la lady del maniero.» «La lady del maniero?» Magnus s'interruppe, senza dubbio per riflettere. «Dev'essere quella che vidi nel mio terzo viaggio. Capelli di un biondo fulvo; occhi scuri; senz'altro una sgualdrina?» «Sembra proprio lei, Joanna Champernoune» confermai. Scoppiammo a ridere insieme. Era una follia, e anche qualcosa di straordinariamente fascinoso, ce ne rendevamo conto tutte e due: poter discorrere di una donna morta da secoli come se l'avessimo incontrata a un party nel nostro tempo. «Discuteva di terre appartenenti al maniero» riprese Magnus. «Non le prestai troppa attenzione. Ti sei accorto, a proposito, che afferriamo il senso dei loro discorsi senza tradurli coscientemente dal francese medievale che debbono usare? Dipenderà anche questo dal nesso fra il cervello di quel Roger e il nostro. Se li vedessimo stampati, quei discorsi, in inglese antico, in franco-normanno o in gaelico, non ne capiremmo un'acca.»
«Hai ragione» dissi. «Non ci avevo riflettuto...» «Sì?» «Sono ancora un po' preoccupato degli effetti secondari. Voglio dire che, grazie a Dio, oggi non ho provato nausee o vertigini ma, al contrario, un'esaltazione straordinaria. Nel rientrare debbo aver superato più volte il limite di velocità.» Quando Magnus mi rispose, non subito, il suo tono era guardingo. «Questa è una delle ragioni» disse «per continuare a collaudare la droga. Il suo effetto potrebbe essere additivo.» «Che cosa intendi esattamente?» «Quello che ho detto. Non alludo soltanto al fascino dell'esperimento in sé, che finora, come sappiamo, non è stato fatto da altri, ma allo stimolo alla zona interessata del cervello. Ti ho già messo in guardia contro possibili rischi materiali: essere investito e altre cose del genere. Renditi conto che quando sei sotto l'influsso della droga quella parte del cervello è come paralizzata. Il resto continua a controllare i tuoi movimenti più o meno come si può guidare senza avere incidenti anche con un'alta percentuale di alcool nel sangue. Ma non significa che il pericolo sia escluso e non sembra che fra una zona e l'altra del cervello funzioni un sistema di allarme. Bada che non lo escludo nemmeno. È un'altra cosa che mi propongo di scoprire.» «Sì,» dissi «capisco.» Mi sentivo come sgonfiato. Quel senso inebriante di leggerezza provato durante la corsa di ritorno era svanito. «Sarà meglio che mi fermi» dissi «finché ogni rischio non sia eliminato.» Magnus fece un'altra pausa prima di rispondere. «Dipende da te» replicò infine. «Devi giudicare tu. Hai altro da chiedermi? Stasera ceno fuori ed è già tardi.» Altre domande? Ma dieci, venti... che mi sarebbero venute purtroppo in mente dopo che lui avrebbe riattaccato. «Sì» dissi. «Lo sapevi, prima del tuo primo "viaggio", che allora Roger abitava proprio qui?» «Nient'affatto» fu la risposta di Magnus. «Mia madre mi parlava a volte dei Baker del Seicento e dei Rashleigh che li avevano seguiti. Non sapevamo niente dei loro predecessori, sebbene, secondo mio padre, le fondamenta della nostra casa dovessero risalire al quattordicesimo secolo. Non so chi glielo avesse detto.» «È perciò che trasformasti la vecchia lavanderia nell'antro di Barbablù?» «No. Mi sembrava soltanto un posto adatto, e il forno di argilla mi è
molto utile. Trattiene il calore quando accendo il fuoco e posso tenerci dei liquidi a un'alta temperatura mentre mi occupo d'altro. L'atmosfera è perfetta, nient'affatto sinistra. Non metterti in testa, caro ragazzo, che quest'esperimento sia una specie di caccia alle streghe. Non stiamo evocando spiriti dall'ai di là.» «No. L'ho capito.» «Per ridurre il problema ai suoi minimi termini: quando te ne stai seduto su una poltrona a guardare un vecchio film trasmesso dalla TV, i personaggi non escono dallo schermo per ossessionarti, anche se molti degli attori sono morti? È più o meno quello che hai vissuto oggi. Una volta il nostro cicerone Roger e i suoi amici erano vivi. Ma oggi sono definitivamente, irrevocabilmente sepolti.» Sapevo quello che Magnus intendeva. Ma non era così semplice. Le implicazioni erano più profonde e il trauma non era tanto quello di vedere il loro mondo, ma di prendervi parte. «Vorrei saperne di più sulla nostra guida» dissi. «Gli altri credo di poterli pescare nella biblioteca pubblica di St. Austell. Ho già trovato i Carminowe: John e suo fratello Oliver, e la moglie di Oliver, Isolda. Ma un intendente, di cui sappiamo soltanto che si chiama Roger, è un altro paio di maniche. Mi sembra difficile che possa figurare in qualche albero genealogico.» «Anche a me, ma non si può mai sapere. Uno dei miei studenti ha un amico che lavora all'Archivio Pubblico e al British Museum, e io sono ormai un esperto in materia. Non gli ho detto perché quel periodo e quei personaggi m'interessano, ma solo che avrei bisogno di una lista dei tassati della parrocchia di Tywardreath nel quattordicesimo secolo. Credo che potrà trovarmela nell'Elenco dei contribuenti Laici per il 1327, che dev'essere più o meno il periodo che ci preme. Se saltasse fuori qualcosa, t'informerò. Hai notizie di Vita?» «No.» «Sarebbe stato meglio che tu le avessi spedito i ragazzi in volo a New York.» «Mi sarebbe costato troppo. E poi avrei dovuto andarci anch'io.» «Beh tienili alla larga più che potrai. Inventati che gli impianti igienici non funzionano. Vita si spaventerà.» «Mia moglie non ha paura di niente» lo informai. «Sarebbe capace di portarsi dietro l'idraulico specializzato dell'Ambasciata americana.» «E va bene, datti da fare prima che arrivi. A proposito, sai il campione
etichettato B che è nel laboratorio accanto alla soluzione A che stai usando?» «Sì.» «Impacchettamelo con cura e spediscimelo. Voglio collaudarlo.» «Vuoi ripetere l'esperimento a Londra?» «Non su di me. Ma su una bella e vispa scimmietta. Non vedrà i suoi antenati medievali, ma potrebbe venirle il capogiro. Beh, ciao!» Come al solito Magnus mi aveva bruscamente piantato in asso lasciandomi quell'inevitabile senso di frustrazione. Succedeva ogni volta che c'incontravamo e ci fermavamo a discorrere, o passavamo insieme una serata. Sul più bello della sua stimolante conversazione - i minuti volavano e l'aria sembrava rigata di scintille - Magnus si alzava per chiamare un tassi e spariva, a volte per diverse settimane, mentre io me ne tornavo a casa facendo lunghi, inutili giri. «E come va il tuo professore?» mi chiedeva Vita, col tono un tantino beffardo che prende dopo le mie serate con Magnus, calcando sul "tuo" con un'enfasi che non mancava mai di ferirmi. «Come al solito» rispondevo. «Pieno di idee pazze che trovo divertenti.» «Sono contenta che ti sia divertito» replicava lei con un'asprezza che implicava il contrario. Mi disse una volta - ero rientrato un po' alticcio verso le due del mattino, dopo una seduta più lunga del solito - che Magnus mi svuotava; che quando tornavo da lei sembravo un pallone forato. Era una delle nostre prime liti, e non sapevo come cavarmela. Vita passeggiava nel soggiorno gonfiando cuscini e vuotando i suoi posacenere personali; seduto sul sofà io la guardavo offeso. Ci coricammo senza parlarci, senonché la mattina dopo, con mia sorpresa e sollievo, lei non solo si comportò come se non fosse accaduto niente, ma brillava addirittura di grazia e calore femminili. Non nominammo più Magnus, ma io decisi tacitamente di non pranzare più con lui, a meno che non capitasse un'occasione in cui Vita avesse anche lei un impegno. Quel giorno quando Magnus riattaccò, non mi sentivo come un pallone forato - un'immagine, ripensandoci, offensiva, che evocava un respiro maleodorante, quasi un rutto fetido - ma soltanto un po' depresso e preoccupato, e mi chiedevo come mai Magnus avesse tutt'a un tratto bisogno di quella boccetta B. Voleva collaudarne il contenuto su una disgraziata scimmia prima di sottoporre me, la sua cavia umana, a un esperimento forse ancora più pericoloso? Intanto nella boccetta A c'era ancora abbastanza droga perché andassi avanti...
A questo punto fui strappato dai miei ragionamenti. Perché andassi avanti? Pensando mio malgrado a un alcolizzato che si preparava ad altre sbornie, mi ricordai il timore di Magnus sulle possibilità che quella droga poteva diventare un vizio. Forse anche per questa ragione voleva prima sperimentarla sulla scimmia. Mi sembrò di vederla, nella sua gabbia, con gli occhi iniettati di sangue, reclamare urlando un'altra iniezione. Mi cercai nella tasca la fiaschetta e la lavai con cura. Ma non la rimisi sullo scaffale della dispensa perché alla signora Collins poteva saltare in testa di trasferirla altrove e sarebbe stato noioso, se ne avessi avuto bisogno, dover ricorrere a lei. Era ancora troppo presto per cenare, ma poiché il vassoio che la donna a ore mi aveva lasciato, con prosciutto e insalata, frutta e formaggio, mi tentava, decisi di portarmelo nella sala della musica e starmene tutta la sera davanti a quel bel fuoco di legna. Presi a caso sei o setti dischi e li ammucchiai sul pick-up. Ma quali che fossero i suoni che riempirono la stanza non m'impedirono di tornare col pensiero alle scene di quel pomeriggio: il ricevimento nella sala capitolare del Priorato; le carcasse sbranate dai cani nello spiazzo erboso del villaggio; il suonatore incappucciato che si aggirava col suo doppio corno fra i bambini e i cani latranti, e soprattutto la giovane donna dalle trecce bionde raccolte nella reticella ingioiellata che in un pomeriggio di seicento anni fa aveva continuato ad annoiarsi a morte finché una frase incomprensibile per me di un uomo di un altro tempo, non le aveva fatto rialzare la testa e sorridere. 5 La mattina dopo trovai sul mio vassoio del breakfast una lettera di Vita, spedita dalla casa di suo fratello a Long Island. Il caldo era tremendo, m'informava mia moglie; loro se ne stavano tutto il giorno a mollo nella piscina e Joe avrebbe portato presto la famiglia a Newport col panfilo che aveva noleggiato. Se Joe ci avesse informati prima dei suoi piani, avrei potuto raggiungerli in volo con i ragazzi e avremmo passato tutti insieme le vacanze estive. Ormai era troppo tardi per cambiare programma. Lei sperava soltanto che la casa del professore non la deludesse, com'era anzi? Volevo che portasse delle provviste da Londra? Sarebbe partita in volo da New York il mercoledì e sperava di trovare a Londra una mia lettera. Mercoledì era oggi. Vita sarebbe atterrata all'aeroporto di Londra alle
dieci di questa sera. E non avrebbe trovato a casa nessuna lettera perché non potevo prevedere che sarebbe arrivata prima del weekend. Il pensiero di vedermela piombare fra poche "ore" qui fu un vero choc. I giorni che consideravo completamente miei, con piena libertà d'impiegarli come volevo, sarebbero stati sconvolti da telefonate, corse, impegni, lagnanze, tutte le gioie della vita en famille. Dovevo assolutamente escogitare, prima della sua inevitabile telefonata, un trucco qualsiasi per trattenere almeno per qualche altro giorno a Londra mia moglie e i ragazzi. Magnus mi aveva suggerito l'impianto igienico. Sì, forse. Il guaio era che, appena arrivata. Vita avrebbe subissato di domande la signora Collins e quella brava donna sarebbe rimasta di stucco. Dirle che le stanze non erano pronte? Vita ne avrebbe naturalmente incolpata la signora Collins e i rapporti fra le due donne ne avrebbero sofferto. L'impianto elettrico funzionava perfettamente, come quello idraulico. E se avessi finto di star male? Vita, che in fatto di medici ammetteva solo le celebrità, si sarebbe precipitata subito qui per trasportarmi, avvolto in coperte, in un ospedale di Londra. Dovevo comunque escogitare qualcosa, fosse pure soltanto per amore di Magnus. Non potevo tradirlo interrompendo bruscamente il nostro esperimento dopo due tentativi coronati dal successo. Oggi era dunque mercoledì. Vuol dire, decisi, che tenterò di nuovo venerdì e ancora domenica, saltando il sabato. E se Vita se lo è ficcato davvero in testa, ebbene, venga pure lunedì. Il mio piano mi concedeva altri tre "viaggi" (il gergo degli adepti all'L.S.D. era senz'altro adatto). E a patto che tutto andasse liscio, che scegliessi bene il momento e non facessi sciocchezze, l'unica conseguenza sarebbe stata, come l'ultima volta, quel senso di euforia che avrei subito riconosciuto e accettato come un avvertimento. Per ora ero tutt'altro che euforico. Ma la causa del mio lieve avvilimento, mi dissi, era senza dubbio la lettera di Vita ricevuta quel giorno. Quando, dopo il breakfast, dissi alla signora Collins che mia moglie sarebbe arrivata quella sera a Londra e ci avrebbe probabilmente raggiunti con i ragazzi il lunedì o il martedì della settimana seguente, lei si affrettò a compilare una lunga lista di acquisti da fare dal droghiere. Ebbi così un pretesto per scendere a Par, e durante la corsa composi mentalmente la mia risposta a Vita, che le sarebbe giunta la mattina dopo. La prima persona che vidi dal droghiere fu il vicario di St. Andrew, che attraversò la bottega per venirmi a salutare. Mi presentai, un po' in ritardo, come Richard Young.
«Ho seguito il suo consiglio,» lo informai «subito dopo aver lasciato la chiesa mi sono recato alla biblioteca pubblica di St. Austell.» «Ammiro il suo entusiasmo» commentò lui. «Ha trovato quello che cercava?» «In parte» replicai. «L'ereditiera Isolda di Cardinham continua sfuggirmi. Ma esaminando gli altri alberi genealogici ho trovato una sua discendente, Isolda Carminowe, figlia di un Reynold Ferrers di Bere nel Devon.» «È un nome che mi ricorda qualche cosa...» disse lui. «Deve trattarsi, se non sbaglio, del figlio di quel Sir William Ferrers che sposò l'ereditiera. La sua Isolda sarebbe dunque la loro nipote. L'ereditiera, questo lo so, vendé nel 1269, per cento sterline, il maniero di Tywardreath a uno degli Champernoune, poco prima di sposare William Ferrers. Era una grossa somma, in quei tempi.» Feci un rapido calcolo. La mia Isolda non poteva essere nata prima del 1300. Quando mi era apparsa al ricevimento del Vescovo, non ne dimostrava più di ventotto, e quell'evento doveva risalire intorno al 1328. Seguii il vicario che si aggirava nella bottega facendo i suoi acquisti. «A Tywardreath celebrate sempre la festa di San Martino?» «La festa di San Martino?» ripeté lui voltandosi a guardarmi stupito dal banco dei biscotti. «Mi perdoni, non capisco bene. Era una festa molto importante nei secoli prima della Riforma. Ora celebriamo sempre quella di Sant'Andrea, si capisce, e teniamo quasi sempre la vendita di beneficenza della parrocchia verso la metà di giugno.» «Mi scusi» mormorai. «Devo aver confuso le date. La verità è che sono stato allevato da cattolico e alla mia scuola di Stonyhurst attribuivano, se ben ricordo, una certa importanza alla Vigilia di San Martino...» «Ha perfettamente ragione» m'interruppe sorridendo il vicario. «Ormai è stata sostituita dall'11 novembre, l'anniversario o meglio la domenica dell'armistizio. Ma se lei è cattolico ora capisco perché la storia del Priorato la interessa tanto.» «Cattolico sì, ma non praticante» lo corressi. «Però è difficile, certo, sbarazzarsi di certe abitudini. Organizzate ancora fiere sul campo comunale?» «Temo di no» replicò lui sempre più perplesso. «E che io sappia a Tywardreath non c'è mai stato un campo comunale... Mi scusi...» Dopo avergli messo nel paniere i suoi acquisti, il commesso del droghiere si girò verso di me. Consultai la lista che mi aveva consegnata la Collins mentre il vicario usciva dopo avermi salutato cordialmente. Mi crederà
matto, mi chiesi, oppure soltanto uno degli amici più eccentrici del professor Lane? Mi ero dimenticato che la Vigilia di San Martino cade proprio l'11 di novembre. Una strana coincidenza di date. Una volta carneficine di buoi, maiali e pecore, oggi la commemorazione di migliaia e migliaia di caduti in battaglia. Debbo ricordarmi, mi dissi, di dirlo a Magnus. Andai a mettere i miei voluminosi acquisti nel portabagagli e per uscire da Par presi la strada che univa la chiesa a Tywardreath. Ma invece di parcheggiare, come il giorno innanzi, davanti al barbiere, salii lentamente sulla collina attraverso il centro del villaggio sforzandomi, senza riuscirci, di ricostruire quel campo comunale inesistente. Giunta sulla collina la strada, bordata sui due lati di case, si biforcava per proseguire a destra verso Fowey, mentre il cartello a sinistra informava: A TREESMILL. Dalla cima di questa collina, erano scesi ieri il Vescovo e il suo corteo e i carri coperti, ornati dei loro stemmi, dei Carminowe, degli Champernoune e dei Bodrugan. Sir John Carminowe avrebbe preso la biforcazione a destra - se allora esisteva - per tornare a Lostwithiel e al suo castello di Bockenod, dove la sua lady aspettava di partorire. Oggi Bockenod era Boconnoc, una grande proprietà a poche miglia da Lostwithiel; arrivando da Londra ero passato davanti a uno dei suoi cancelli. Ma dove aveva allora il suo dominio il feudatario, il lord del maniero, Sir Henry di Champernoune? «Stasera i Bodrugan alloggeranno da noi» aveva detto sua moglie Joanna al mio cavaliere Roger. Dove poteva trovarsi una volta il loro maniero? Frenai in cima alla collina e mi guardai intorno. Nel villaggio stesso di Tywardreath non c'erano case importanti; qualcuno dei cottages risaliva forse al tardo diciottesimo secolo; nessuno più addietro. Gli antichi manieri, me lo diceva la logica, non venivano quasi mai distrutti se non dal fuoco, e perfino quando erano completamente inceneriti e le loro mura crollate, sul loro sito sorgeva quasi sempre entro pochi anni una casa colonica. Gli Champernoune, ragionai, per poter sfruttare le terre già appartenute al feudatario, avevano costruito quasi certamente la loro nuova dimora nel raggio di una o due miglia dal Priorato e dalla chiesa, oppure erano tornati nella vecchia quando la prima Isolda - l'ereditiera dei Cardinham - aveva venduto loro nel 1269 le terre del maniero. Dopo il ricevimento al Priorato, impaziente di tornarsene a casa accompagnata dal suo malinconico consorte Sir Henry e dal loro figlio William e seguita da suo fratello Otto Bodrugan e dalla moglie di lui Margaret, Joanna aveva dovuto infilare col suo carro dipinto quella stradicciola a sinistra, dove oggi il cartello diceva A TREESMILL.
Guardai il mio orologio. Erano già le dodici passate e la signora Collins mi stava aspettando per riporre i miei acquisti e prepararmi il lunch. Dovevo anche rispondere a Vita. Mi misi alla scrivania subito dopo aver mangiato. Quella lettera mi prese più di un'ora. Il risultato non mi soddisfece, ma dovetti accontentarmene. «Cara,» dicevo a mia moglie «poiché la tua lettera mi ha informato soltanto stamattina che torni in volo oggi, non riceverai questa mia prima di domani. Perdonami se ti ho capita male. Ma ho dovuto buttarmi nel lavoro per farvi trovare la casa in ordine, e non ho ancora finito. La signora Collins, la donna a ore di Magnus, mi ha molto aiutato, ma tu sai come vivono gli scapoli e dato che Magnus stesso non veniva più qui da Pasqua, la casa era sottosopra. Come se non bastasse, e questo è il peggio, Magnus mi ha pregato di riordinargli le sue carte - ha qui, nel suo laboratorio, un mucchio di dati scientifici di cui è naturalmente gelosissimo - e di classificargliele. Me l'ha chiesto come un favore personale che non posso negargli perché dopotutto ci sta ospitando gratis ed è una maniera come un'altra di disobbligarmi. Dovrei essermi sbarazzato per lunedì di questa corvée, a patto di avere tutti per me anche i prossimi giorni, weekend compreso. Incidentalmente, finora il tempo è stato orribile. Ieri non ha mai smesso di piovere. Perciò non hai perduto niente, e secondo gl'indigeni la settimana prossima il sole tornerà a splendere. «Quanto alle provviste puoi stare tranquilla. Pensa a tutto la signora Collins, che è anche una bravissima cuoca. Sono sicuro che saprai tenere occupati i ragazzi fino a lunedì: a Londra debbono esserci musei, e altre cose, che non hanno ancora visitato e tu vorrai certamente rivedere i tuoi amici. Insomma cara, ti chiedo di rimandare il tuo arrivo alla settimana prossima, quando tutto sarà certamente a posto. «Sono contento che ti sia trovata tanto bene con Joe e i suoi. Sì, ripensandoci sarebbe stata una buona idea spedirti i ragazzi a New York. Ma del senno di poi... Spero che il tuo volo non ti abbia stancata, cara. Telefonami appena avrai ricevuto questa mia. «Il tuo affezionato Dick.» Rilessi due volte la lettera. La seconda mi convinse di più: sembrava proprio sincera. E dovevo veramente riordinare le carte di Magnus. Tengo sempre a dare almeno una base di verità alla mie menzogne. Affrancai la busta e me la ficcai in tasca. E mi ricordai soltanto allora che Magnus voleva che gli spedissi a Londra la boccetta B. Frugando, riuscii a scovare una scatoletta, della carta e dello spago, e scesi nel sottosuolo.
Confrontai la boccetta A con la B, senza riuscire a notare differenze. E poiché avevo ancora addosso la fiaschetta del giorno innanzi, non fu un problema versarvi una seconda dose dalla boccetta A. Avrei deciso lì per lì se e quando mi conveniva ingerirla. Risalii di sopra dopo aver chiuso il laboratorio e andai ad affacciarmi alla finestra della biblioteca. Non pioveva e il cielo si stava schiarendo verso il mare. Impacchettai con cura la boccetta B e andai con la macchina a Par per fare la raccomandata e imbucare la lettera per Vita, chiedendomi non tanto che cosa mia moglie ne avrebbe pensato leggendola, quanto come avrebbe reagito la scimmia al suo primo viaggio nell'ignoto. Assolta la mia missione risalii attraverso Tywardreath svoltando a sinistra per Treesmill. La strada stretta correva tra i campi e saliva fino a una valle, inclinandosi bruscamente prima dell'ultimo tratto per scavalcare un ponte a gobba d'asino sotto cui passava la ferrovia Par-Plymouth. Mentre frenavo prima del ponte, udii il fischio dell'espresso che sbucava da un tunnel alla mia destra ma che io ancora non potevo vedere. Pochi minuti dopo il treno passava sferragliando sotto il ponte e, descrivendo un'ampia curva nella valle, scendeva verso Par. Fui assalito dai ricordi dei miei anni di liceo. Magnus e io tornavamo sempre a casa in treno. Sbucati appena dal tunnel ci apprestavamo, fra Lostwithiel e Par, a tirare giù le valigie. Vedevo a quel punto, a sinistra, dai finestrini, dei campi in salita e a destra una valle piena di salici nodosi e di canneti. Poi il treno entrava bruscamente nella stazione e appariva il grande cartello nero con la scritta in bianco: PAR - CAMBIARE PER NEWQUAY. Ed eravamo arrivati. Guardando ora l'espresso sparire alla svolta della valle osservavo il terreno da un altro angolo, rendendomi conto di come più di un secolo prima l'avvento della ferrovia avesse alterato i campi in pendio ricavando la linea dal fianco stesso della collina. Ma la pace non era stata disturbata soltanto dai treni. Il lato opposto della valle, l'altopiano dove un secolo fa erano stati scoperti i giacimenti di rame e zinco, recava le cicatrici delle miniere. Il comandante Lane, mi ricordai, ci aveva detto una volta a pranzo che nell'epoca vittoriana lavoravano lì centinaia di uomini, e che dopo la crisi alti forni e fabbriche erano stati lasciati crollare e marcire mentre i minatori emigravano o cercavano d'impiegarsi nelle nuove fabbriche per la lavorazione del caolino. Ora, scomparso il treno e spento il suo sferragliare, il silenzio si era ristabilito e nulla si muoveva più nella valle, tranne le poche mucche che pa-
scolavano nel prato acquitrinoso ai piedi della collina. Lasciai che la macchina scendesse senza fretta la china fin dove la strada si impenneva di nuovo bruscamente per arrampicarsi sulla collina opposta. Un ruscello neghittoso, scavalcato da un basso ponte, tagliava il prato dove pascolavano le mucche, e al disopra del ruscello sorgevano a destra della strada le costruzioni di alcune vecchie fattorie. Abbassai il finestrino e mi guardai intorno. Un cane sbucò in quel momento da una fattoria abbaiando, seguito da un uomo che portava un secchio. Mi sporsi per chiedergli se ero a Treesmill. «Sì» rispose. «Continuando diritto arriverà sulla strada principale fra Lostwithiel e St. Blazey.» «Stavo cercando il mulino.» «Non c'è più» disse l'uomo. «Al suo posto fu costruita questa casa e tutto quello che rimane del fiume è ciò che vede. La corrente principale fu deviata molti anni fa, quando non ero ancora nato. Prima che costruissero il ponte c'era qui, dicono, un guado. Il fiume seguiva più o meno questa strada e la valle era quasi tutta sotto acqua.» «Sì» replicai. «Doveva essere proprio così.» L'uomo accennò a un cottage dall'altra parte del ponte. «Anticamente,» riprese «quando sfruttavano ancora le miniere, su a Lanescot e a Carrogett, quello era un pub. Il sabato sera, dicono, era pieno di minatori. Ne sono rimasti ormai pochi che si ricordano quei tempi.» «Lei sa» chiesi «se in questa valle c'è qualche casa colonica che possa essere stata una volta un castello medievale?» L'uomo rifletté, prima di rispondermi. «Beh,» disse infine «ci sarebbe Trevenna, su alle nostre spalle, sulla strada di Stonybridge. Ma non ho mai sentito che sia molto vecchio. E, più lontano, Trenadlyn; e naturalmente Treverran nell'alta valle, presso il tunnel della strada ferrata. Quella sì che è una bella e vecchia casa, costruita centinaia di anni fa.» «Più o meno quando?» insistei ansioso. L'uomo rifletté di nuovo. «Nel giornale misero tempo fa un pezzo su Treverran. Erano andati a visitarla certi signori di Oxford. Dissero, mi pare, che era stata costruita nel 1705.» Il mio interesse si afflosciò. Case stile Queen Anne, miniere di zinco e di rame, il pub sull'altro lato della strada, risalivano appena a un paio di secoli prima del mio tempo. Mi sentivo come un archeologo che scopre una villa della tarda romanità quando si aspettava un accampamento dell'età
del bronzo. «Grazie molto,» dissi «e buongiorno.» Voltai la macchina e risalii sulla collina. Se gli Champernoune, mi dicevo, scesero nel 1328 per questa strada, i loro carri coperti dovettero essere fermati in fondo dal fiume del mulino, se non lo scavalcava un ponte più antico di quello che ho visto. A metà salita svoltai in un sentiero a sinistra e vidi poco dopo le tre case coloniche a cui aveva alluso l'uomo. Il viottolo dove mi trovavo avrebbe raggiunto la strada in cima alla collina. Il lungo tunnel, un trionfo dell'ingegneria moderna, doveva correre a una grande profondità sotto la strada. La fattoria alla mia destra era Trevenna, quella di fronte Trenadlyn e la terza, la più vicina alla strada ferrata, senza dubbio Treverran. E ora che cosa faccio? mi chiesi. Vado a bussare a turno a quelle tre porte: vi dispiace, gli chiedo, se rimango seduto qui una mezz'ora, mi bevo un sorso di questa droga e sto a vedere che cosa accade? I più fortunati sono gli archeologi, decisi. Senza correre il rischio di vedersi chiudere alla fine della loro impresa in un manicomio, trovano sempre qualcuno che finanzi i loro scavi e dei collaboratori entusiasti. Mi voltai, rifeci la traversa e risalii la collina ripida verso Tywardreath. A un tratto una macchina che tirandosi dietro una roulotte si sforzava di entrare nel cortile di un bungalow a metà della collina, mi sbarrò letteralmente la strada. Frenai e rischiai di finire nel fosso a lato della strada. Gridandomi delle scuse l'uomo al volante riuscì poco dopo a parcheggiare dove voleva macchina e rimorchio. Saltò a terra e mi si avvicinò ricominciando a scusarsi. «Ora può passare» disse. «Mi dispiace di averla bloccata in quel modo.» «Non importa,» risposi «non ho fretta. Ho ammirato la sua manovra per spostare dalla strada la sua roulotte.» «Ci sono abituato» disse. «Abito qui d'estate e la roulotte ci fornisce una stanza in più quando abbiamo visite.» Guardai la targa sul cancello. «Chapel Down» lessi. «Un nome insolito.» Lui sorrise. «Era quello che aveva da secoli il terreno su cui costruimmo il villino. Decidemmo, dopo aver riflettuto, di conservarglielo. Le due proprietà sull'altro lato della strada si chiamano Chapel Park.» «Secondo lei,» chiesi «potrebbe esserci qualche nesso con l'antico Priorato?» L'uomo non reagì come speravo. «Una volta» riprese «c'erano qui un paio di cottages, una specie di quar-
tier generale dei metodisti. Ma se non sbaglio i nomi dei campi risalgono a molto più addietro.» Vedendo uscire dalla casa sua moglie con un paio di bambini, ingranai la marcia. Mentre lui mi rassicurava: «Vada pure», partii con prudenza e affrontai la salita. Poco dopo la curva della strada mi nascose il villino. Andai a fermarmi in uno slargo a destra, davanti a un mucchio di pietre e legname. Ero arrivato in cima alla collina. Dopo lo slargo la strada ridiscendeva verso Tywardreath, di cui s'intravedevano le prime case. Chapel Down... Chapel Park... In altri tempi c'era forse una cappella, demolita ormai da secoli, sul terreno del villino del proprietario della roulotte; o qui, presso lo slargo, dove sorgeva ora, sul ciglio della strada, un'abitazione moderna. Dietro la casa un cancello dava in un campo. Lo scavalcai e girai intorno al campo tenendomi vicino alla siepe finché, digradando, il terreno non mi nascose la vista della strada. Questo era il campo che secondo il proprietario della roulotte chiamavano Chapel Park. Non riuscii a vedervi niente di particolare. Alla sua estremità più lontana pascolavano delle mucche. Attraversata la siepe in fondo mi trovai su un prato fortemente in pendio, affacciato, a un cento metri dalla strada ferrata, quasi a picco sulla valle. Mi accesi una sigaretta e esaminai il paesaggio. Niente cappelle nascoste fra gli alberi. Ma che vista! Treesmill Farm, alla mia destra, le altre fattorie più lontano, tutte ben riparate da venti e intemperie; sotto di me la strada ferrata, e più in là, nella strana conca della valle, non più rettangoli di campi ma una tappezzeria fitta di salici, betulle e ontani. In primavera senza dubbio un paradiso per gli uccelli, e per i ragazzi un bel posto per nascondercisi dai genitori. Ma oggi, mi dissi, i ragazzi, perlomeno i miei figli adottivi, non vanno più a caccia di nidi. Mentre mi sedevo contro la siepe per finire la mia sigaretta mi accorsi di avere nel taschino la fiaschetta con la dose della droga. La presi e la guardai. Forse apparteneva al padre di Magnus. Sarebbe stato proprio adatta per fornirgli una sorsata di rum quando andava a vela e l'aria cominciava a rinfrescarsi. Se Vita fosse ritornata per mare, mi dissi, ora avrei qualche altro giorno... Un brusio ai miei piedi mi fece abbassare gli occhi nella valle. Una motrice diesel solitaria se ne veniva su all'impazzata, senza il suo seguito di vagoni, snodandosi come un grosso, rapido verme al disopra dei salici e delle betulle, passando sotto il ponte di Treesmill per sparire infine dopo forse un miglio nelle fauci spalancate del tunnel. Svitai il tappo della fia-
schetta e bevvi. E va bene, mi dissi, e ora? Mi sento di nuovo pronto a tutto. E Vita è ancora a metà dell'Atlantico. Chiusi gli occhi. 6 Questa volta non mi sarei lasciato sfuggire il momento della transizione. Me ne stavo immobile, gli occhi chiusi, seduto per terra e con la schiena appoggiata a una siepe. Le altre due volte camminavo - la prima attraverso i campi, la seconda percorrevo il sentiero del cimitero - quando la scena si era trasformata. Questa volta le cose sarebbero andate certo diversamente perché mi stavo concentrando sull'istante del trauma. Avrei avvertito quel benessere, come di un peso che mi venisse tolto e insieme quel senso meraviglioso di leggerezza. Niente panico, oggi, o pioggia sconfortante, mentre il mio corpo diventava insensibile. Faceva perfino caldo e il sole, di cui sentivo attraverso le palpebre chiuse lo splendore, doveva cominciare a spuntare fra le nuvole. Tirai un'ultima boccata dalla sigaretta e la buttai. Se questa contentezza, mi dicevo trasognato, dovesse durare ancora molto mi addormenterei. Il ritorno trionfante del sole rallegrava perfino gli uccelli; sentivo un merlo cantare nella siepe alle mie spalle, e, più incantevole ancora, prima lontano poi vicinissimo, un cucù chiamare dalla valle. Quel richiamo, un mio suono favorito, si ricollegava nel ricordo ai miei vagabondaggi spensierati di trent'anni addietro. Il cucù chiamò ancora, proprio al di sopra della mia testa. Aprii gli occhi, e mentre seguivo nel cielo il suo volo strano, incerto, mi ricordai che fra poco sarebbe stato agosto. La breve estate inglese del cucù finiva a giugno, insieme col canto dei merli, e le primule che fiorivano sul terrapieno accanto a me avrebbero dovuto seccarsi nella seconda metà di maggio. Quel calore, quel sole sfavillante appartenevano a un altro mondo, a una primavera più precoce. Malgrado la mia concentrazione il salto era avvenuto in un lasso di tempo così breve che il mio cervello non era riuscito a registrarlo. Tutto l'aspro verde di quel primo giorno mi si allargava intorno sulla collina digradante ai miei piedi e la valle con la sua tappezzeria di betulle e salici giaceva sommersa sotto un lenzuolo liquido, parte dell'ampio, movimentato estuario che s'incuneava nella costa, bordato da banchi di sabbia dove l'acqua era più bassa. Vidi, mentre mi alzavo, come il fiume si restringesse per mescolarsi sotto Treesmill col ruscello tumultuoso del mulino; la casa colonica stretta e col tetto di paglia; le colline
di fronte fittamente coperte di querce dal fogliame giovane e tenero. Proprio sotto di me, dove poco prima il campo scendeva ripidamente verso la strada, il terreno - dal pendio ora più dolce - era tagliato a metà da una larga pista che correva verso l'estuario terminando su un molo dove, nel porto naturale formato dal canale, più profondo in questo punto, erano ancorate delle navi. Una, più grande, era in mezzo alla corrente, con le vele quasi tutte ammainate. Sentivo cantare gli uomini del suo equipaggio e a un tratto un'imbarcazione più piccola si staccò dal suo fianco per portare qualcuno a terra. Quando il passeggero alzò la mano per imporre il silenzio tutte le voci tacquero di colpo. Mi guardai infine intorno. La siepe era sparita, la collina alle mie spalle era fittamente boscosa come quelle di fronte, e alla mia sinistra, dove c'erano prima campi di erica e boscaglia, un lungo muro di pietra circondava una casa di cui vedevo spuntare il tetto al disopra degli alberi che la circondavano. Una pista portava direttamente dal molo alla collina e alla casa. Mi avvicinai, guardando, là sotto, l'uomo smontare dalla barca sul molo e risalire la strada venendomi incontro. Proprio allora, volando sulle nostre teste il cucù fece sentire di nuovo il suo richiamo; fermandosi a riprendere fiato lo sconosciuto alzò la testa per guardarlo con un gesto così semplice e naturale che me lo rese caro, per la sola ragione che lui viveva e io ero soltanto un fantasma nel suo tempo. Un tempo per giunta neppure costante perché ieri era San Martino - novembre - e oggi, a giudicare dal cucù e dalle primule in fiore, doveva essere primavera. Quando l'uomo mi ebbe raggiunto sulla collina lo riconobbi. E sebbene la sua espressione fosse più grave e solenne del giorno innanzi, mi venne istintivo di paragonare queste facce ai quadri, i cuori e le picche di un vecchio mazzo di carte mescolato da qualcuno che facesse un solitario. Comunque venissero scelte, le carte continuavano a formare delle combinazioni che il giocatore non riusciva a prevedere. Tanto io che loro ignoravamo come si sarebbe svolto il gioco. L'uomo che saliva sulla collina era Otto Bodrugan, seguito da suo figlio Henry. Quando alzò la mano per salutare, il suo gesto fu così istintivo che feci anch'io il gesto di rispondergli, sorridendo perfino. Ma, avrei dovuto prevederlo, padre e figlio continuarono, sfiorandomi quasi, a camminare verso il cancello d'ingresso della casa, mentre il loro intendente, Roger, andava loro incontro per accoglierli. Aveva dovuto spiare di lì il loro arrivo, anche se non l'avevo visto. L'aria festiva, il sorriso beffardo del giorno innanzi erano spariti; indossava, come Bodrugan e suo figlio, una tunica
scura, e avevano tutti e tre un'aria grave. «Che notizie?» chiese Bodrugan. Roger scosse la testa. «Si sta spegnendo in fretta» rispose. «Non c'è più speranza per lui. My lady Joanna è dentro con tutta la famiglia. Sir William Ferrers è già arrivato da Bere, accompagnato da lady Matilda. Sir Henry non soffre; abbiamo provveduto, o, per dirla più chiaramente, ci ha pensato fratello Jean, che non si allontana un momento dal suo capezzale.» «Qual è la causa del suo male?» «Soltanto la debolezza generale che sapevamo e il freddo che prese con quell'ultima gelata tardiva. Non fa che vaneggiare, parlando dei suoi gravi peccati e invocando il perdono. Non contento di essersi confessato al parroco, ha implorato l'assoluzione anche da fratello Jean e ha ricevuto gli ultimi sacramenti.» Roger si scostò per permettere a Bodrugan e a suo figlio di varcare il cancello. Adesso l'intero edificio era visibile, con i suoi muri di pietra, il tetto di tegole e un grande cortile davanti. Una rozza scala esterna simile a quella dei granai delle moderne fattorie, portava a delle stanze superiori. Dietro c'erano le scuderie e oltre il recinto delle mura la pista continuava a salire serpeggiando verso Tywardreath e le casupole dai tetti di paglia dei servi che coltivano le terre ai due lati del maniero. Udendoci arrivare dei cani traversarono latrando il cortile. La voce severa di Roger li fece accucciare abbassando le orecchie, mentre un servo dall'aria spaventata sbucava da un angolo dell'edificio per venire a portarseli via. Bodrugan e suo figlio varcarono la soglia seguiti da Roger con me alle calcagna. Entrammo in una sala lunga e stretta che correva per l'intera larghezza della casa affacciandosi con le sue finestrelle a due battenti a est sul cortile e a ovest sull'estuario. All'estremità più lontana c'era un camino in cui ardeva ancora, fumando, della torba, e al centro della sala un grande tavolo su trespoli con intorno delle panche. L'atrio era quasi buio, sia per le finestre troppo piccole che per il fumo che velava l'aria, ma anche perché l'intonaco rosso intenso dei suoi muri dava all'insieme un'aria lussuosa e cupa. Più che un vero dolore l'espressione avvilita dei tre ragazzi a cavallo sulle panche - due maschi e una femmina - rivelava un muto stupore davanti all'avvicinarsi della morte. Il maggiore, William Champernoune - che avevo visto il giorno prima mentre lo presentavano al Vescovo - fu il primo ad alzarsi e a farsi avanti per salutare lo zio e il cugino. Dopo una breve esita-
zione gli altri due lo imitarono. Come fanno i ragazzi vedendo arrivare improvvisamente, in un'emergenza, qualche adulto, dopo che Otto Dobrugan si fu chinato per abbracciarli colsero l'opportunità per sgattaiolarsela portandosi dietro il cugino Henry. Adesso potevo studiare con comodo le persone rimaste nella stanza. Due di esse le vedevo per la prima volta: un uomo e una donna, lui biondo e barbuto, lei corpulenta e con un'espressione dura che non doveva presagire niente di buono a chi le avesse intralciato la strada. Era già vestita di nero, in previsione della vicina sciagura. Le sue vesti scure facevano risaltare la sua cuffia bianca. Dovevano essere Sir William Ferrers e sua moglie Matilda, accorsi, come aveva detto Roger, in fretta dal Devon. La terza persona seduta su un basso sgabello non era un'estranea, ma la mia Isolda. Si era preparata anche lei al lutto imminente abbigliandosi in lilla, ma il vestito aveva dei riflessi d'argento e il nastro, anche lilla, che le rialzava dal viso le trecce era annodato con civetteria. Si avvertiva nell'aria una tensione acuta e l'espressione sdegnosa di Matilda Ferrers faceva prevedere guai. Infatti aggredì Otto Bodrugan che avanzava verso di lei: «Vi aspettavamo da un pezzo. Ci vuole davvero tanto tempo per attraversare la baia, o ve la siete presa comoda per permettere ai vostri uomini di divertirsi a pescare?». Lui le baciò la mano fingendo di non udire. «Come state, William?» domandò all'uomo in piedi dietro il seggiolone di Matilda, scambiando con lui uno sguardo. «Un'ora dal mio ancoraggio a qui, controvento, non mi sembra molto. Con i cavalli ci avremmo messo di più.» Abituato alle impennate della moglie, William annuì limitandosi ad alzare quasi impercettibilmente le spalle. «Me lo sono detto anch'io» mormorò. «Non avreste potuto arrivare prima, e comunque, purtroppo, non potete fare niente.» «Niente?» sbottò Matilda. «Tranne darci il suo appoggio quando sarà arrivato il momento e aggiungere alle nostre la sua voce. Scacciare dal capezzale di Henry quel monaco francese e quell'ubriacone di parroco dalla cucina. Soltanto lui, con la sua autorità di fratello, potrà far ragionare Joanna.» Bodrugan si era voltato verso Isolda. Notai che la salutava sfiorandole appena la mano e che lei evitava di guardarlo e di sorridergli. Quel riserbo era senza dubbio prudenza: una parola, uno sguardo un po' troppo intimi fra quei due sarebbero bastati a scatenare i commenti. Dal ricevimento al Priorato e dal mio primo "viaggio" - novembre...
maggio - calcolai che dovevano essere passati sei mesi. «Dov'è Joanna?» chiese Bodrugan. «Nella stanza di sopra» replicò William Ferrers. Notavo ora come somigliava a sua sorella Isolda, anche se doveva avere dieci, forse quindici anni di più. Aveva il viso fortemente segnato e i capelli striati di grigio. «Capite in che guaio ci troviamo?» continuò. «Henry vuole avere vicino soltanto quel monaco francese, Jean; accetta medicamenti solo dalle sue mani, non vuole neppure vedere il cerusico che è venuto con noi dal Devon e che gode di una così grande fama. E ora, essendo fallita la cura, è caduto in coma e potrebbe spirare da un momento all'altro.» «Se Henry ha voluto così, e se non soffre, perché dovremmo lamentarcene?» chiese Bodrugan. «Perché le cose non si fanno in questo modo!» esplose di nuovo Matilda. «Come possiamo esaudire, per esempio, il suo desiderio di essere sepolto nella cappella del Priorato? Conosciamo tutti la reputazione del Priore, la sua condotta vergognosa, l'indisciplina dei monaci. Che figura faremmo agli occhi del mondo se tollerassimo che un uomo del rango di Henry avesse lì la sua tomba?» «Che mondo?» chiese Bodrugan. «Il vostro comprende l'intera Inghilterra, o soltanto il Devon?» Matilda avvampò. «Sappiamo benissimo che negli ultimi sette anni avete sostenuto una regina adultera contro il Re legittimo suo figlio. Tutto ciò che è francese ha il vostro appoggio, dagli eserciti invasori, se dovessero mai attraversare il Canale, ai monaci dissoluti dipendenti da un ordine straniero!» Suo marito William le mise una mano conciliante sulla spalla. «A che cosa può giovarci riaprire queste vecchie ferite? La parte avuta da Otto in quella rivolta non ci riguarda più. Comunque...» e lanciò un'occhiata a Bodrugan «Matilda non ha torto. Per uno Champernoune farsi sotterrare fra monaci francesi non sarebbe buona politica. Vi converrebbe di più lasciarlo riposare a Bodrugan considerando che per il suo matrimonio Joanna ne possiede già una gran parte. Oppure io sarei felice di vederlo seppellire a Bere, dove stiamo ricostruendo proprio ora la chiesa. Henry dopotutto è mio cugino; la nostra parentela è stretta quasi come la vostra.» «Oh, per amor del cielo,» intervenne spazientita Isolda «lasciate che Henry riposi dove vuole. Vi sembra bello comportarci come macellai che prima di sgozzare una pecora litigano per la sua carcassa?» Era la prima volta che udivo la sua voce. Si era espressa come gli altri in
francese, con lo stesso accento nasale. Ma forse perché era la più giovane e parteggiavo già per lei mi sembrò che la sua voce avesse una musicalità, una limpidezza che mancava agli altri. Il marito la guardò costernato e Matilda scoppiò a piangere mentre Bodrugan si avvicinava alla finestra e fissava accigliato il paesaggio. Quanto a Isolda si limitò, increspando sdegnosamente il bel viso, a battere con ira il piede a terra. Guardai Roger che mi era come al solito accanto, in un atteggiamento rispettoso verso i presenti. Contenendo a fatica un sorriso, si fece avanti. «Se vi garba,» disse, senza rivolgersi in particolare a nessuno, ma, sospettai, per attirare l'attenzione d'Isolda, «vado ad annunziare a my lady l'arrivo di Sir Otto.» Prendendo senza dubbio il silenzio generale per un assenso si ritirò dopo essersi inchinato. Mentre saliva al piano di sopra gli rimasi vicino come se ci legasse un filo invisibile. Entrò senza bussare, respingendo le tende pesanti che nascondevano l'ingresso della stanza, grande quasi quanto la sala sottostante e quasi interamente occupata, in fondo, da un enorme letto a baldacchino. Dalle finestrelle, sigillate con fogli di pergamena oleata, entrava poca luce e le candele accese sul tavolo a trespoli ai piedi del letto gettavano ombre mostruose sulle pareti intonacate di un giallo ocra. Nella stanza c'erano tre persone: Joanna, un monaco e il moribondo, Henry di Champernoune, sostenuto da un enorme, duro cuscino che lo costringeva a tener abbassato il mento sul petto. Il panno bianco legato a mo' di turbante intorno alla sua testa lo faceva assurdamente somigliare a uno sceicco arabo. Aveva gli occhi chiusi, e a giudicare dal suo pallore stava esalando l'ultimo respiro. Udendoci entrare, il monaco, piegato a rimescolare qualcosa in un vaso sul tavolo, alzò in silenzio la testa. Riconobbi il giovanotto dagli occhi brillanti che durante la mia prima visita al Priorato fungeva da segretario o da scrivano del Priore. Roger si era voltato verso Joanna. Seduta all'altra estremità della stanza, perfettamente composta e senza traccia di dolore sul viso, la giovane donna continuò a scegliere e a intrecciare i fili di seta colorata formandone un disegno. «Sono tutti qui?» chiese senza alzare gli occhi dal telaio. «Quelli che sono stati invitati» precisò Roger. «E hanno già cominciato ad azzuffarsi. Lady Ferrers, che poco fa aveva sgridato i ragazzi perché alzavano troppo la voce, sta litigando con Sir Otto, e a giudicare dalla sua espressione Lady Carminowe vorrebbe essere a cento miglia di qui. Sir
John non è ancora arrivato.» «E non arriverà, almeno per ora» disse Joanna. «Ho lasciato decidere a lui. Se accorresse troppo in fretta a farci le sue condoglianze potrebbero accusarlo di zelo eccessivo e sua sorella Lady Ferrers sarebbe la prima a mettere zizzania.» «Ha già cominciato» ribatté l'intendente. «Me ne rendo conto. Prima questa faccenda finirà, meglio sarà per tutti noi.» Roger si avvicinò ai piedi del letto e abbassò lo sguardo sul moribondo. «Quanto può durare ancora?» chiese al monaco. «Non si sveglierà più» fu la risposta. «Toccatelo pure, se volete, ormai non sente più niente. Stiamo solo aspettando che gli si fermi il cuore. Poi my lady potrà annunziare la sua morte.» Roger spostò lo sguardo dal letto ai barattoli sul tavolo. «Che cosa gli avete dato?» «Sempre lo stesso: meconio, il succo di un'intera pianta mescolato in parti eguali con giusquiamo. In tutto una dramma.» «Per evitare discussioni sulla cura sarà meglio portare via questa roba» dice Roger guardando Joanna. «Lady Ferrers parlava poco fa del suo cerusico. I Ferrers non oseranno opporsi ai vostri desideri. Ma potrebbero crearvi dei fastidi.» Sempre occupatissima con le sue matasse di seta, Joanna alzò le spalle. «Se lo credete opportuno» replicò «portatevi pure via tutto. Dei liquidi ci siamo già sbarazzati. Ma non credo che fratello Jean abbia alcunché da temere. È stato di una discrezione perfetta.» Vedendo il monaco rispondere con un lampo dei suoi occhi espressivi al sorriso della giovane donna, mi domandai se durante le settimane della malattia del marito Joanna non avesse concesso anche a lui, come all'assente Sir John, i suoi favori. Aiutato dal monaco, Roger avvolse i barattoli in un brandello di tela di sacco. Il mormorio di voci che continuava ad arrivarmi dalla sala sottostante mi faceva intanto capire che, superata la sua crisi di pianto, Lady Ferrers doveva essersi buttata di nuovo vigorosamente nella mischia. «Come la sta prendendo mio fratello Otto?» chiese Joanna. «Non ha fatto commenti, quando Sir William si è dichiarato contrario al seppellimento nel Priorato suggerendo di ospitare invece i resti di Sir Henry nella cappella di Bodrugan. Non credo che s'intrometterà nella discussione. Come alternativa Sir William ha proposto anche la sua chiesa di
Bere.» «Con che scopo?» «Per vanità e sete di grandezza, chissà. Io non gliela darei vinta. Potrebbero farsi venire delle... curiosità, una volta che avessero nelle mani il corpo di Sir Henry. Mentre, nella cappella del Priorato...» «... andrebbe tutto bene. Il desiderio di Sir Henry rispettato e noialtri in pace. Mi affido a voi, Roger, per tenere tranquilli i nostri affittuari. Qui la gente non è molto devota al Priorato.» «Per non aver noie basterà trattarli bene alla festa del funerale» replicò lui. «Promettergli una riduzione delle ammende alla prossima riunione della corte, e il perdono di tutti i loro misfatti. Credo che basterà.» «Speriamolo.» Joanna si alzò respingendo il telaio e si avvicinò al letto. «È ancora vivo?» Dopo aver preso il polso inerte del suo paziente il monaco piegò la testa per auscultargli il cuore. «Appena appena» rispose. «Accendete pure le candele, se volete; non faremo neppure a tempo ad avvertire i familiari.» Era come se parlassero di un vecchio mobile da buttar via, invece che del marito moribondo di quella giovane donna. Joanna se ne tornò al suo seggiolone, prese un velo nero e cominciò a drappeggiarselo intorno alla testa e alle spalle. Prese poi sul vicino tavolo uno specchio di argento. «Va bene così,» chiese a Roger «o debbo coprirmi anche la faccia?» «Meglio coprirsi,» le consigliò lui «a meno che non siate capace di piangere a volontà.» «Non piango dal giorno delle mie nozze.» Il monaco Jean incrociò al moribondo le mani sul petto e gli legò una benda di lino intorno al mento. Dopo essere indietreggiato per esaminare la sua opera, diede l'ultimo tocco mettendo fra le mani intrecciate un crocifisso. Roger stava riordinando il tavolo. «Quante candele vi servono?» disse. «Il giorno della morte se ne mettono cinque,» spiegò il monaco «in onore delle cinque piaghe di Nostro Signore Gesù Cristo. Avete una coltre nera per il letto?» «Laggiù, in quel cofano» indicò Joanna. E mentre il monaco e Roger la prendevano e ne drappeggiavano il letto, prima di coprirsi la faccia col velo, lei si guardò un'ultima volta nello specchio. «Se mi permette di consigliarglielo,» riprese il monaco «my lady farebbe, secondo me, un'impressione migliore inginocchiandosi accanto al letto.
Io mi metterò ai piedi. Così quando entreranno i familiari potrò recitare le preghiere dei morti. A meno che my lady non preferisca che ci pensi il parroco.» «È troppo ubriaco per salire le scale» intervenne Roger. «Sarebbe la sua fine, se lo vedesse Lady Ferrers.» «Lasciamolo perdere, allora, e andiamo avanti» disse Joanna. «Roger, volete scendere? Fate salire prima William, che è l'erede.» Si era inginocchiata accanto al letto piegando in atto di dolore la testa. La sollevò di nuovo prima che uscissimo, per dire a Roger, voltandosi verso di lui: «Quando mio padre morì a Bodrugan mio fratello Otto spese quasi cinquanta marchi, senza contare le bestie sgozzate per il banchetto. Non possiamo essere da meno. Non badate a spese.» Roger sollevò i tendaggi della porta e io scesi con lui. Il contrasto fra il giorno luminoso e l'atmosfera fosca della casa dové colpirlo quanto me perché si fermò in cima alle scale abbassando gli occhi, al disopra del muro di cinta, sulle acque scintillanti dell'estuario. La nave all'ancora di Otto Bodrugan aveva le vele mollemente ammainate sui pennoni e a prua un uomo in una barchetta andava su e giù cercando il punto buono per pescare. I ragazzi della casa erano scesi dalla collina per andare a guardare la nave dello zio. Henry, il figlio di Bodrugan, stava indicando qualcosa a suo cugino William e i cani saltavano abbaiando intorno al gruppetto. Avvertii in quel momento sempre più forte quanto fosse assurda, macabra perfino, la presenza fra loro di un essere come me, invisibile, non ancora nato, testimonio mostruoso di avvenimenti accaduti secoli prima, dimenticati, trascorsi senza lasciar traccia, e mi chiesi come mai, fermo qui, su questi scalini, nascosto ma vedendo tutto, potessi sentirmi così profondamente turbato da quegli amori e quelle morti. L'uomo che stava spirando avrebbe potuto essere un parente del mio lontano mondo giovanile: anche mio padre, morto quando avevo più o meno l'età del giovane William che stava laggiù, in quel campo. Il cablogramma dell'Estremo Oriente - mio padre era caduto battendosi contro i giapponesi - era arrivato nell'albergo del Galles dove passavamo le vacanze di Pasqua proprio mentre mia madre e io stavamo finendo il nostro lunch. Lei era salita a chiudersi nella sua stanza e io mi ero aggirato a lungo nel viale dell'albergo, rendendomi conto della mia sventura ma incapace di piangere, atterrito all'idea di affrontare, se fossi rientrato, la pietà dell'impiegata della portineria. Con in mano l'involto dei barattoli macchiati dai succhi delle erbe, Ro-
ger scese nel cortile e passò sotto un arco, in fondo, che portava in quello delle scuderie. Al suo arrivo i servi della casa che vi erano raccolti smisero di parlare e si allontanarono, eccettuato un ragazzo che avevo visto il primo giorno e che riconobbi, perché gli somigliava, per il fratello di Roger. Costui gli ordinò con un cenno del capo di avvicinarsi. «È finita» gli disse. «Corri subito al monastero a informare il Priore, perché ordini di suonare le campane. Il lavoro cesserà appena si udranno i rintocchi, e gli uomini cominceranno ad arrivare dai campi. Dopo aver dato il tuo messaggio al Priore galoppa a casa a mettere questo pacco in cantina e aspetta lì il mio ritorno. Ho molto da fare e potrei anche non rientrare.» Dopo aver annuito il ragazzo sparì nelle scuderie mentre Roger ripassava sotto l'arco. Vedendo fermo all'ingresso della casa Otto Bodrugan, esitò prima di raggiungerlo. «My lady» gli disse «vi prega di andare da lei con Sir William, Lady Ferrers e Lady Isolda. Vado ad avvertire anche William e i bambini.» «Sir Henry è peggiorato?» chiese Bodrugan. «È morto, Sir Otto. Nemmeno da cinque minuti, senza riprendere coscienza, pacificamente, nel sonno.» «Mi dispiace,» disse Bodrugan «ma è meglio così. Prego Iddio di farci finire tutti e due, quando sarà arrivato il momento, serenamente come lui, anche se non lo meritiamo.» Vedendo che si segnavano li imitai automaticamente. «Lo dirò agli altri» continuò Bodrugan. «Non importa se Lady Ferrers si farà venire una delle sue crisi isteriche. Come sta mia sorella?» «È calma, Sir Otto.» «Me lo aspettavo.» Bodrugan non si decideva ad andarsene. «Avete riflettuto,» chiese leggermente impacciato «che essendo ancora minorenne William dovrà lasciarsi confiscare fino alla maggiore età le sue terre dal Re?» «Sì, Sir Otto.» «In circostanze ordinarie,» continuò Bodrugan «la confisca dei suoi beni sarebbe poco più di una formalità. Come zio per matrimonio, di William, e perciò suo tutore legale, verrei incaricato io dal Re di amministrarglieli. Ma dopo la parte che ebbi nella cosiddetta rivolta la situazione è cambiata.» L'altro lo ascoltava in silenzio, senza battere ciglio. «Perciò il confiscatore, che agirà per William e per il Re, sarà probabil-
mente qualcuno che gode più stima di me; molto probabilmente suo cugino Sir John Carminowe. Se le cose andassero così Sir John si preoccuperà senza dubbio anche degl'interessi di mia sorella» concluse con palese ironia Bodrugan. Rientrò in casa mentre Roger si limitava a piegare la testa. Il suo lento sorriso di soddisfazione si spense bruscamente appena i giovani Champernoune entrarono col cugino Henry nel cortile, ridendo e chiacchierando. Intuendo per primo ciò che doveva essere accaduto, Henry, il maggiore di loro, impose agli altri il silenzio e fece cenno a William di avvicinarsi. Vedendo l'espressione del ragazzo alterarsi capii che una brusca apprensione gli torceva lo stomaco. «Si tratta di mio padre?» chiese. Roger annuì. «Prendete i vostri fratelli e andate da vostra madre. Ricordatevi che siete il maggiore e che da ora in poi lei cercherà in voi il suo sostegno.» Henry si era aggrappato al braccio dell'intendente. «Voi rimarrete con noi, è vero? E anche lo zio Otto?» «Vedremo» fu la risposta. «Ma adesso siete voi il capo della famiglia.» Controllandosi con uno sforzo enorme, William si girò verso il fratello e la sorella. «Nostro padre è morto. Venite con me, vi prego» disse entrando in casa, pallidissimo ma a testa alta. Impressionati, i due bambini lo seguirono dopo aver preso per mano il loro cugino Henry. Guardando Roger vidi per la prima volta sul suo viso qualcosa che poteva sembrare compassione e anche orgoglio, perché il ragazzo che conosceva fin dalla culla si stava dimostrando degno del suo nome. Attese prima di rientrare a sua volta. La grande sala appariva deserta. L'arazzo appeso all'estremità più lontana, presso il caminetto, era stato rialzato e rivelava una stretta scala, che poco prima avevano dovuto usare Otto Bodrugan, i Ferrers e dopo di loro i ragazzi. Mi giunse dall'alto un fruscio di piedi e dopo una pausa il mormorio lento del monaco: «Requiem aeternam dona eis, Domine, et lux perpetua luceat eis...». Ho detto che la sala appariva deserta, e lo era infatti, tranne che per un'esile figura in lilla. Isolda era l'unica del gruppo che non fosse salita di sopra. Vedendola, Roger indugiò sulla soglia prima di avanzare rispettivamente verso di lei. «Lady Carminowe non desidera rendere omaggio al morto come il resto della famiglia?»
Isolda, che non si era ancora accorta di lui, girò la testa per fissarlo. Vicino com'ero all'intendente fui avvolto nello stesso sguardo sprezzante dei suoi occhi gelidi. «Non ho l'abitudine di burlarmi della morte.» Se fu sorpreso, Roger non solo non lo fece capire ma ripeté il suo gesto rispettoso. «Sir Henry vi sarebbe grato delle vostre preghiere.» «Le ha avute regolarmente per molti anni» replicò Isolda. «E nelle ultime settimane sempre più fervide.» L'acredine con cui furono pronunziate queste parole dové colpire molto più di me il mio compagno. «Sir Henry si ammalò dopo il suo pellegrinaggio a Campostella» replicò Roger. «Dicono che Sir Ralph di Beaupré soffra dello stesso male: una febbre logorante per cui non esistono rimedi. Sir Henry ha sempre avuto così pochi riguardi per la sua persona che non è stato facile curarlo. Vi assicuro che abbiamo fatto tutto quello che era possibile.» «Pare che malgrado questo male sir Ralph di Beaupré conservi tutte le sue facoltà» obiettò sempre più aspra Isolda. «Mio cugino aveva la fronte fresca, la sua febbre non era alta, eppure da più di un mese non ci riconosceva più.» «Nella malattia ognuno si comporta diversamente» le fece notare Roger. «Ciò che salva l'uno può nuocere all'altro. È stata la sua malasorte a far vaneggiare Sir Henry.» «Aiutata dalle pozioni che gli davano. Mia nonna, Isolda di Cardinham, aveva un trattato delle erbe scritto da un dotto medico che era andato alle Crociate. Me lo lasciò alla sua morte perché portavo il suo nome. Conosco perciò le virtù del papavero nero e di quello bianco, della cicuta acquatica e della mandragora... e il sonno che possono procurare.» Troppo stupito per conservare il suo atteggiamento deferente, Roger la fissò in silenzio. «Queste erbe» replicò infine «sono usate da tutti gli apotecari per alleviare le sofferenze. Il monaco Jean di Meral ha studiato nella casa madre di Angers ed è considerato un esperto. Sir Henry se ne fidava nella maniera più assoluta.» «Non discuto la fiducia di Sir Henry, la scienza del monaco o il suo zelo nello sfruttarla. Ma una pianta benefica può diventare dannosa se la dose viene aumentata.» Lo stava sfidando e lui lo sapeva. Mi ricordai il tavolo ai piedi del letto e i barattoli avvolti con tanta cura nella tela di sacco, prima di portarli via.
«Questa è una casa in lutto,» disse Roger «e lo sarà per diversi altri giorni. Vi consiglio di parlare di queste faccende a my lady, non a me. Non è affar mio.» «Neppure mio» disse Isolda. «Ho parlato soltanto per l'affetto che portavo a mio cugino, e perché non mi lascio facilmente abbindolare. Sarà bene che ve ne ricordiate.» Al primo piano uno dei bambini scoppiò a piangere. Il mormorio delle preghiere e gli altri rumori s'interruppero e udimmo nelle scale dei passi rapidi. L'unica figlia femmina di Sir Henry - poteva avere al massimo dieci anni - arrivò correndo a buttarsi nelle braccia di Isolda. «Dicono che è morto,» gemé «eppure una volta, una sola, ha aperto gli occhi e mi ha guardata prima di richiuderli. Non se n'è accorto nessuno; erano troppo occupati a pregare. Significa che debbo accompagnarlo nella sua tomba?» Stringendosi protettivamente al seno la bambina, Isolda voltò la testa e continuò a fissare Roger. «Se oggi o ieri» disse improvvisamente «in questa casa è stato commesso un delitto, a suo tempo ne sarete ritenuto responsabile anche voi, insieme agli altri. Non in questo mondo, dove non abbiamo prove, ma nell'altro, davanti a Dio.» Mentre cercavo di sbarrare la strada a Roger, che impulsivamente si era mosso verso di lei per farla tacere, credo, o per toglierle la bambina, infilai il piede sotto una lastra di pietra tentennante. E a un tratto non ebbi più intorno che cumuli di terra e ciuffi d'erba, cespugli di saggina e la radice di un albero morto, e alle mie spalle un grande affossamento, rotondo come una cava, pieno di barattoli arrugginiti e di schegge di lavagna. Mi aggrappai a un cespuglio di finestre secco e contorto, vomitando violentemente e udendo arrivare da lontano il fischio di una motrice diesel che attraverò la valle sotto di me, sferragliando. 7 Profondamente affondata nella collina, la cava era coperta di agrifoglio e viluppi di edera: relitti di anni sparsi fra il terriccio e i sassi. Il sentiero che ne usciva portava a dei piccoli pozzi nascosti e quasi otturati da cumuli di terra e da ciuffi enormi d'erba. La saggina che cresceva dappertutto, alta, fitta, mi copriva la vista e inoltre ero quasi accecato dalla vertigine e dalla nausea; continuavo a inciampare in quegli ostacoli con l'idea fissa di uscire da quel deserto e ritrovare la mia macchina. Guai se non ci fossi riuscito.
Nell'aggrapparmi per non cadere a un rovo mi vidi ai piedi altre vecchie scatole arrugginite di conserve, pezzi di spalliere di un letto, un copertone e grovigli di edera e agrifoglio. Le mie gambe non erano più addormentate, cercai di risalire il pendio, ma mentre mi arrampicavo inciampando, vertigine e nausea aumentarono e scivolai, con lo stomaco in gola, in un altro di quegli avvallamenti. Momentaneamente sollevato da un accesso di vomito, mi rimisi faticosamente in piedi, scavalcai un altro cumulo e mi accorsi di essere soltanto a poche centinaia di metri dalla siepe dove avevo fumato una sigaretta prima d'ingoiare la droga. Di qui le ondulazioni del terreno e l'ingresso della cava abbandonata erano nascosti da un terrapieno e da un cancello rotto. Guardando meglio verso la valle, vidi gli ultimi vagoni di un treno sparire nella curva prima della stazione di Par. Mi arrampicai fino alla siepe, l'attraversai e continuai a salire nei campi verso la mia macchina. Raggiunsi lo slargo della strada proprio mentre venivo assalito da nuovi violenti conati. Mi buttai a terra di lato, fra mucchi di cemento, ed ebbi, mentre cielo e terra mi roteavano intorno, un altro accesso pauroso di vomito a confronto del quale la vertigine della prima volta scompariva addirittura. E mentre mi torcevo aspettando che mi passasse continuavo a ripetermi che mai più... mai più l'avrei fatto, col fervore e la collera fiacca di chi si sveglia in preda a crampi atroci da anestesia. Prima di accasciarmi mi ero reso conto vagamente che nello slargo c'era, oltre alla mia, un'altra macchina. Avevo sentito sbattere uno sportello e ora, mentre tossivo e mi soffiavo il naso, mi accorsi che il proprietario dell'altra auto mi si era avvicinato e mi guardava. «Si sente meglio, adesso?» mi chiese. «Sì,» risposi «mi pare di sì.» Vedendo che mi rialzavo a fatica lui mi tese una mano per aiutarmi. Era un uomo all'incirca della mia età, un po' più di quarant'anni, sorprendentemente vigoroso e con una faccia simpatica. «Ha le chiavi?» «Le chiavi...» Soffocando una bestemmia mi frugai in tasca per cercarle. Se mi fossero cadute per disgrazia nella cava o fra quei cumuli, mi dicevo, non le ritroverò più. Per fortuna le avevo ancora nel taschino insieme alla fiaschetta. Il mio sollievo fu così enorme che sentendomi immediatamente di nuovo sicuro sulle mie gambe mi diressi senza aiuto verso la macchina. Ma il braccio mi tremava talmente che non riuscii a infilare la chiave nella serratura.
«Dia qui, faccio io» disse il mio samaritano. «È molto gentile... le chiedo scusa.» «Si tratta dopotutto del mio lavoro» replicò. «Sono un medico.» Mi sentii la faccia irrigidirsi prima di distendersi in un sorriso che voleva essere disarmante. Essere soccorsi da un passante è una cosa, mi dicevo, ricevere da un medico cure professionali un'altra. Il mio soccorritore intanto mi esaminava - era naturale, del resto - con evidente interesse. Mi chiesi che cosa potesse pensare. «Credo» mi obbligai a spiegare «di essere salito un po' troppo in fretta sulla collina. La testa mi girava quando sono arrivato su e sono stato assalito da un vomito irrefrenabile.» «Sono cose che possono accadere» dichiarò lui. «E in certi casi questa piazzuola può far comodo. Si stupirebbe se sapesse che razza di roba si può trovare quassù nella stagione turistica.» Non c'era cascato, comunque. Me lo rivelarono i suoi occhi un po' troppo accorti. Avrà capito, mi chiesi, che cosa mi gonfia in quel modo il taschino? «Deve andare lontano?» riprese a chiedere. «No,» dissi «non più di tre o quattro chilometri.» «Non le converrebbe, allora, lasciare qui la macchina e permettermi di riportarla a casa? Vuol dire che la manderà a prendere più tardi.» «Le sono molto grato,» replicai «ma è stato solo uno di quei malesseri passeggeri... Mi sarà rimasto sullo stomaco qualcosa che ho mangiato al lunch; per non parlare dell'imprudenza di salire a piedi sulla collina...» «Hmmm...» commentò lui. «Un malessere passeggero. Ma molto violento, finché è durato.» «Onestamente,» insistei «ora sto bene. Mi sarà rimasto sullo stomaco qualcosa che ho mangiato al lunch; poi la salita...» «Senta,» fui interrotto «lei non è un mio paziente e non sto cercando di prescriverle niente. L'avverto soltanto che rimettersi subito al volante potrebb'essere pericoloso.» «Le sono infinitamente grato della sua cortesia e del consiglio...» Il guaio è, mi dissi, che costui può anche avere ragione. Ieri sono andato senza inconvenienti avanti e indietro da St. Austell. Oggi tutto potrebbe cambiare. Potrebbero riassalirmi le vertigini... Lui dové accorgersi che esitavo perché tornò alla carica. «Se preferisce, la seguirò, per assicurarmi che non corra pericoli.» Rifiutando, mi dissi, lo insospettirei ancora di più.
«È troppo gentile» lo ringraziai. «Debbo arrivare soltanto a Polmear.» «È sulla mia strada» m'informò sorridendo lui. «Abito a Fowey.» Salii piuttosto impacciato al volante e feci manovra per uscire dallo slargo. Lui mi seguiva da vicino. Se ora andassi a sbattere contro la siepe, mi dicevo, sarebbe la fine. Ma percorsi senza difficoltà lo stretto sentiero e potei infine avventarmi, tirando un sospiro di sollievo, sulla strada della collina. Quando svoltai a destra per proseguire per Kilmarth pensavo che il medico mi avrebbe seguito fino a casa. Lui continuò invece verso Fowey, agitando la mano per salutarmi. È stato discreto, mi dissi. Deve pensare che io stia a Polkerris, o in una delle fattorie vicine. Attraversai il cancello e, dopo aver lasciato la macchina nel garage in fondo al viale, entrai in casa. E mi sentii di nuovo male. La prima cosa che feci appena mi riebbi (la testa mi girava ancora), fu di sciacquare scrupolosamente la fiaschetta. Poi scesi nel laboratorio e la misi a mollo nel lavandino. Qui correvo meno rischi che in cucina. Soltanto quando fui risalito di nuovo e mi fui buttato esausto su una poltrona della sala di musica mi ricordai dei barattoli avvolti nella tela di sacco. Li avevo lasciati nella macchina? Stavo per rialzarmi e correre nel garage a prenderli, perché bisognava pulirli perfino meglio della fiaschetta e chiuderli a chiave in qualche posto, quando mi resi conto, con un brusco crampo di paura, come se non soltanto il mio stomaco ma anche il mio cervello si fossero messi a vomitare, che ero stato sul punto di confondere presente e passato. I barattoli erano stati consegnati non a me ma al fratello di Roger. M'immobilizzai col cuore in tumulto. Finora non avevo mai fatto confusioni. I due mondi erano rimasti sempre distinti. Il passato e il presente mi si erano mescolati nella mente, forse perché nausea e vertigine erano state più violente dell'altra volta. O avevo sbagliato a contare le gocce e la pozione era risultata troppo forte? Non avevo modo di deciderlo. Mi aggrappai ai braccioli della poltrona, solidi e reali come tutto quello che adesso mi circondava. Erano reali anche la corsa fino a casa, il dottore, la cava piena di scatole arrugginite e di sassi. Ma la casa al di sopra dell' estuario e la gente che l'abitava, il monaco, i barattoli avvolti nella tela di sacco, erano soltanto effetti di quella droga che faceva ammalare i cervelli sani... Cominciai ad infuriarmi, non contro di me - che ero dopotutto soltanto una cavia consenziente - ma contro Magnus.
Magnus non era ancora sicuro delle sue scoperte; non sapeva esattamente quello che era riuscito a ottenere. Non mi stupivo più, adesso, che mi avesse chiesto di spedirgli la boccetta B per poterne collaudare il contenuto sulla scimmia del suo laboratorio. Magnus aveva sospettato che qualcosa fosse andato storto e ora io potevo dirgli che cosa. Non l'esaltazione o l'eccessivo abbattimento, ma quella terribile confusione mentale. Beh, decisi, ora basta. Magnus è libero di continuare i suoi esperimenti su una dozzina di scimmie; io me ne lavo le mani. Strappato ai miei pensieri dagli squilli del telefono andai a rispondere nella biblioteca, imprecando contro il potere telepatico del mio amico. Magnus mi avrebbe detto che sapeva dov'ero stato e che conosceva benissimo la casa sull'estuario. "Non è il caso di preoccuparsi," mi avrebbe tranquillizzato "non corri pericoli purché ti ricordi di non toccare mai nessuno. Se avrai ancora delle nausee, o ti si confonderanno le idee, ricordati che sono soltanto effetti secondari, trascurabili. " Ma questa volta giurai di non lasciarmi incantare! Andai all'apparecchio. «Un momento, per favore» disse qualcuno. «C'è per lei una interurbana.» Il ricevitore fu sollevato all'altra estremità della linea. «Accidenti a te!» proruppi. «Mettitelo bene in testa, questa è l'ultima volta che mi avrai fatto ballare come una foca ammaestrata!» Sentii un gridolino soffocato; poi una risata. «Grazie del benvenuto a casa, amore!» Era Vita. Continuai a stringere stupefatto la cornetta. Quella voce faceva parte della confusione generale? «Tesoro,» insisté lei «sei lì? C'è qualcosa che non va?» «No,» dissi «va tutto bene. Ma... che cosa è accaduto? Da dove mi stai parlando?» «Dall'aeroporto di Londra» mi sentii rispondere. «Ho anticipato il ritorno, ecco tutto. Bill e Diana sono venuti a prendermi e mi portano a pranzo. Temevo che tu chiamassi più tardi a casa, e ti chiedessi perché non rispondevo. Scusami se ti ho spaventato.» «Beh,» dissi «è stato proprio così. Ma lascia perdere... Come stai?» «Benissimo. E tu? Chi credevi che fossi, quando mi hai risposto? Non sembravi molto contento.» «Per essere preciso,» spiegai «ti ho presa per Magnus. Dovevo sbrigargli una commissione... Ti ho spiegato tutto nella mia lettera, che riceverai sol-
tanto domani mattina.» Vita rise, come per dire: "Me l'aspettavo". «Così il tuo professore ti ha messo al lavoro» osservò. «Non mi sorprende. Ma che cosa ti ha fatto fare per trasformarti in una foca ammaestrata?» «Oh, un sacco di cose... Riordinargli le sue vecchie carte, per esempio. Ti spiegherò quando ci vedremo. Quando tornano i ragazzi?» «Domani» disse Vita. «Il loro treno arriva all'alba, figurati! Li caricherò sulla macchina e verremo giù. Quanto credi che ci metteremo?» «Un momento,» la interruppi «era quello che stavo per dirti. Purtroppo, come ti ho spiegato nella mia lettera, la casa non è pronta per ricevervi. Aspettate a dopo il weekend.» Silenzio all'altra estremità della linea. «Non è pronta?» ripeté infine Vita. «Ma ci sei da cinque giorni, no? Credevo che ti fossi trovato una donna per venire a cucinare, pulire, eccetera. Ti ha già piantato?» «No, no... La donna a ore è bravissima; non potrebbe essere migliore. Senti, cara, non posso spiegarti al telefono; troverai tutto nella mia lettera. Ma, francamente, ti aspettavamo al più presto lunedì.» «Che significa questo plurale?» chiese Vita. «Non intenderai che c'è con te il professore?» «No, no...» Cominciavo a irritarmi anch'io. «Alludevo alla donna a ore. La signora Collins viene soltanto la mattina, in bicicletta, da Polkerris, un piccolo villaggio ai piedi della collina, e non ha ancora neppure dato aria ai letti... Si sentirebbe terribilmente umiliata se per il tuo arrivo tutto non fosse perfettamente in ordine. E tu lo sai come sei... Se la casa non brillasse di pulizia... non ti ci potresti vedere.» «Stai dicendo un mucchio di sciocchezze!» sbottò Vita. «Io e i ragazzi saremo felici di accamparci. Possiamo portare delle provviste, se è quello che ti preoccupa. E anche coperte, o altro. Ce ne sono abbastanza?» «Anche troppe,» le confermai «le montagne di provviste. Tesoro, non fare dell'ostruzionismo. Se ti ostini a non rimandare il tuo arrivo... te ne pentirai, te lo assicuro. Scusami.» «Okay...» Capii dal tono di Vita che pur ammettendosi temporaneamente sconfitta era decisa a vincere la battaglia finale. «Ti consiglio di trovarti un grembiule e una scopa» aggiunse a mo' di freccia del Parto. «Dirò a Bill e a Diana che ti sei dedicato alle faccende domestiche e passerai d'ora in poi le serate a strofinare in ginocchio i pavimenti. Chissà come se ne rallegreranno!»
«Non è che non sia impaziente di rivedervi, cara» avevo ricominciato. Ma il suo ciao, sempre con quella inflessione minacciosa, mi chiuse la bocca. Un istante dopo Vita aveva riattaccato e si stava senza dubbio dirigendo verso il ristorante dell'aeroporto per ordinare uno scotch on the rocks e fumarsi tre o quattro sigarette mentre aspettava i suoi amici. Beh, era fatta... E adesso? Avevo sfogato su Vita il mio rancore verso Magnus. Ma come potevo sapere che mia moglie avrebbe anticipato il suo ritorno e mi avrebbe chiamato senza preavviso? In una situazione simile chiunque avrebbe reagito male. Il guaio era che la mia situazione non era soltanto insolita, ma unica. Fino a meno di un'ora fa, vivevo in un altro mondo, in un altro tempo, oppure me lo immaginavo sotto l'effetto della droga. Cominciai ad andare avanti e indietro dalla biblioteca alla sala di musica, attraverso la piccola stanza da pranzo e l'atrio, come se facessi esercizio sul ponte di una nave. Mi sembrava di non essere più sicuro di niente: di me, di Magnus, di Vita, e tanto meno del mio mondo immediato. Chi poteva stabilire dov'era il mio posto: in questa villa avuta in prestito o nell'appartamento di Londra; nell'ufficio che avevo piantato con l'impiego o in quella casa a lutto, singolarmente viva, sepolta sotto secoli di rovine? Perché, se avevo deciso di non rivederla più, quella casa, avevo impedito a Vita di arrivare l'indomani? Quelle scuse mi erano salite automaticamente alle labbra. Ormai nausea e vertigine erano sparite. O le avevo accettate. Ero perfino rassegnato all'eventualità di subire altre crisi. Sapevo che la droga era pericolosa e i suoi effetti ancora quasi sconosciuti. Ma non mi ribellavo più. Amavo Vita, ma non volevo che mi raggiungesse. Perché? Sollevai di nuovo il ricevitore e chiamai Magnus. Inutilmente. Non riuscii neppure a rispondere alle domande che m'imposi di rivolgermi. Quel dottore dagli occhi intelligenti avrebbe potuto forse aiutarmi. Che cosa mi avrebbe detto? Che gli allucinogeni possono avere strani effetti sull'inconscio, facendo riaffiorare le repressioni di un'intera vita, ed era perciò consigliabile tenersene lontani? Una risposta sensata, ma che non mi bastava. Non mi ero aggirato fra i fantasmi della mia infanzia. Le persone che avevo visto non erano ombre del mio passato. Il cavaliere Roger non era il mio alter ego, né Isolda un mio sogno, una mia aspirazione segreta. Oppure sì? Richiamai più tardi Magnus due o tre volte, senza mai trovarlo, e passai una serata inquieta, incapace di distrarmi con giornali, libri, dischi o la TV. Stufo infine di me stesso e dell'intero problema, che sembrava insolubile, mi coricai prima del solito. La mattina dopo mi accorsi stupito di aver fatto
un lungo sonno ristoratore. Chiamai subito l'appartamento di Londra. Colsi Vita proprio mentre si stava precipitando fuori per andare incontro ai ragazzi. «Tesoro, mi dispiace di ieri...» avevo cominciato. Ma lei protestò che non aveva il tempo di discuterne. Era già in ritardo. «Va bene. Quando vuoi che ti richiami?» «Non posso fissarti un'ora» disse Vita. «Dipende dai progetti dei ragazzi, dalle spese che dovrò forse correre a fare. Avranno probabilmente bisogno di blue-jeans, di costumi da bagno, non so... Grazie della tua lettera, a proposito. Il tuo professore ti tiene certamente occupato.» «Lascia perdere Magnus... Com'è andato il pranzo con Bill e Diana?» «Ci siamo divertiti un mondo a tagliare i panni addosso agli amici. Ma ora debbo scappare; non vorrei lasciare i ragazzi in asso alla stazione di Waterloo...» «Abbracciali per me!» gridai. Ma Vita era già scappata. Tutto sommato mi era sembrata abbastanza contenta. La serata con gli amici e un buon sonno avevano dovuto calmarla, per non parlare della mia lettera, che, perlomeno, non aveva contestata. Che sollievo... Ora potevo rilassarmi di nuovo. A questo punto, dopo aver bussato, la signora Collins entrò col vassoio della prima colazione. «Mi sta viziando» dissi. «Dovrei essere già in piedi da un'ora.» «Ma è in vacanza» protestò lei. «Perché dovrebbe alzarsi così presto?» Ci pensai mentre bevevo il mio caffè. L'osservazione della donna a ore mi aveva colpito. Niente mi obbligava più, infatti, a buttarmi giù dal letto all'alba. Non avevo più bisogno di correre a prendere la sotterranea per andare da West Kensington a Covent Garden; non mi aspettavano più la familiare finestra dell'ufficio, l'inevitabile trafila; le discussioni sulla pubblicità; le copertine; gli autori nuovi e vecchi. Le mie dimissioni avevano chiuso quel capitolo della mia vita. Potevo poltrire a letto anche l'intera mattina. Ma Vita desiderava che ricominciassi tutto sulla sua sponda dell'Atlantico. Avrei dovuto correre di nuovo a prendere la sotterranea; aprirmi un varco a gomitate tra la folla dei marciapiedi; chiudermi in un ufficio al trentesimo piano di un grattacielo; sottopormi di nuovo alla inesorabile routine: discussioni sul lancio dei libri, sulle copertine, sugli autori vecchi e nuovi. E buttarmi giù dal letto forse anche più presto. Sul vassoio del breakfast c'erano due lettere. Una era di mia madre, che
mi scriveva dallo Shropshire e mi diceva quanto mi invidiava perché la Cornovaglia doveva essere splendida e io certamente avevo la possibilità di godermi tanto e tanto sole. La sua artrite la faceva soffrire di nuovo, e il povero vecchio Dobsie diventava sempre più sordo. (Dobsie era il mio patrigno. La sua sordità doveva rappresentare secondo me una difesa istintiva dall'assordante cicaleccio di mia madre.) Eccetera, eccetera, continuava mammà, coprendo all'incirca otto facciate con i suoi grandi, riccioluti caratteri. Lessi la sua lettera sentendomi rimordere la coscienza perché non la vedevo da un anno, e lei, poverina, non se ne lamentava neppure mai. Si era mostrata contenta che sposassi Vita e non si dimenticava mai di mandare ai ragazzi per il Natale degli assegni un po' troppo generosi. L'altra busta, lunga e sottile, conteneva un paio di fogli battuti a macchina e un bigliettino scribacchiato da Magnus. «Caro Dick,» diceva «quando mi sono seduto stamattina alla mia scrivania l'amico capelluto del mio discepolo, che passa il suo tempo al British Museum e negli archivi, mi aveva fatto arrivare quanto ti accludo. La copia dell'elenco ufficiale dei contribuenti laici è molto informativa. E quella dell'altro documento, in cui sono citati il tuo Lord of the Manor, Champernoune, e le liti per la rimozione della sua salma, forse ti divertirà. «Penserò a te nel pomeriggio, chiedendomi se Virgilio non stia fuorviando Dante. Ricordati di non toccarlo; potresti avere una reazione progressivamente spiacevole. Tieniti a una distanza prudente e tutto andrà bene. Per il tuo prossimo viaggio ti consiglio di non allontanarti dalla casa. Il tuo Magnus.» Esaminai i fogli. In cima al primo il topo di biblioteca aveva scribacchiato: «Lettera del Vescovo Grandisson di Exeter. L'originale è in latino. Chiedo venia se non ho saputo tradurla meglio». Eccone il testo: «Grandisson, A.D. 1329 - Priorato di Tywardreath. «John, etc, saluta i suoi diletti figli membri di un ordine religioso, i Lords, il Priore del Convento di Tywardreath, etc. Come sappiamo le leggi dei Sacri Canoni impongono che una volta consegnati per la sepoltura alla Chiesa, i corpi dei fedeli non possono più essere esumati se non quando le stesse leggi lo consentano. Abbiamo appreso recentemente che il corpo di Lord Henry di Champernoune è sepolto nella vostra chiesa consacrata e che certuni, profanamente preoccupati più delle pompe transitorie di questa vita che del bene di quell'anima e del rispetto dei riti imposti, vorrebbero esumarlo in circostanze non autorizzate dalle nostre leggi e trasportarlo
senza il nostro permesso altrove. Appellandoci perciò al dovere dell'obbedienza che avete contratto verso di noi vi ordiniamo, se volete sfuggire al castigo divino o al nostro, di resistere a questo sopruso temerario impedendo l'esumazione o il trasporto dove che sia di detta salma, non essendo noi stati consultati in proposito e non avendo potuto esaminare, ove ne esistessero, le ragioni di questa esumazione e traslazione. Diffidiamo intanto tutti i nostri sudditi e chiunque altro di cui si possa sperare di servirsi per perpetrare un tale crimine, dal favorire, sotto pena della scomunica, con l'opera, i consigli e qualunque altro mezzo, detta esumazione o traslazione della salma in questione. Emesso a Paington il 27 agosto». Magnus aveva aggiunto un poscritto: «Approvo lo stile franco e incisivo del Vescovo Grandisson. Ma di che cosa si tratta esattamente? Di una lite tra familiari o di qualcosa di più sinistro, che il Vescovo stesso ignorava?». Il secondo foglio riportava una lista di nomi sotto la intestazione «Elenco dei contribuenti laici, per il 1327, della Parrocchia di Tywardreath. È imposto un contributo di un ventesimo di tutti i beni mobili... a tutti i proprietari di beni del valore da dieci scellini in su...». C'erano in tutto venti nomi e la lista era capeggiata da Henry di Champernoune. La scorsi. Il numero ventitré era Roger Kylmerth. Dunque non avevo avuto una allucinazione; il mio cavaliere era realmente esistito. 8 Appena vestito andai a togliere la macchina dal garage e presi la strada di Treesmill. Evitando di proposito la piazzuola, avevo cominciato a scendere dalla collina nella valle, quando il proprietario del villino di Chapel Down, che stava lavando la sua roulotte, agitò la mano per salutarmi. La cosa si ripeté quando mi fermai sotto il ponte presso Treesmill Farm. L'agricoltore dell'altra mattina, che faceva attraversare la strada alle sue mucche, si fermò per rivolgermi la parola. Ringraziai il cielo che nessuno dei due fosse passato di lì più tardi. «Ha poi trovato il suo maniero?» «Non ne sono sicuro» risposi. «È perciò che sono venuto a dare un'altra occhiata intorno. Quello strano posto coperto di saggina, lassù in quel campo, ha un nome?» Poiché non potevo vederlo dal ponte accennai più o meno in direzione della cava da dove il giorno innanzi, in un altro secolo, avevo seguito Ro-
ger fino alla casa dove agonizzava Sir Henry di Champernoune. «Vuol dire il Gratten?» replicò l'uomo. «Non credo che lassù possa trovare altro che rifiuti e vecchie schegge di lavagna. Una volta era un'ottima cava di ardesia. Ora è andata in rovina. Dicono che quando, un secolo fa, costruirono le case di Tywardreath presero lì quasi tutte le pietre e l'ardesia. Potrebbe essere vero.» «Perché il Gratten?» chiesi. «Non lo so esattamente. È il nome del campo arato che fa parte della fattoria di Mount Bennet. Significa, pare, "qualcosa di bruciato". Se vuole andarci, prenda il sentiero di fronte alla svolta per Stonybridge. Ma non troverà niente d'interessante.» «Lo credo anch'io» replicai. «Tranne la vista.» «Quasi sempre treni.» L'uomo s'interruppe per ridere. «E non più molti, ormai.» Come mi era stato suggerito, lasciai la macchina a metà della collina, di fronte alla svolta, e mi addentrai nei campi verso il Gratten. Avevo ai miei piedi, a destra, la strada ferrata e la valle. Dopo un brusco pendio, che portava a un alto terrapieno davanti alle rotaie, il terreno digradava più lentamente fino alla palude e alla boscaglia. Il giorno prima, in quell'altro mondo, c'era lì un molo, e lottando contro l'alta marea Otto Bodrugan aveva ancorato la sua nave nel canale, proprio dove, adesso, al centro di questa valle boscosa, alberi e cespugli erano più folti. Passando sotto la siepe dove mi ero seduto a fumare attraversai il cancello sgangherato e mi fermai di nuovo fra le ondulazioni del terreno e gli orifizi dei vecchi pozzi. Libero da vertigini e nausee mi rendevo conto che quei cumuli non erano formazioni naturali di un terreno accidentato, ma antichi muri coperti per secoli dalla vegetazione. E gli orifizi che stordito com'ero avevo preso per pozzi, erano semplicemente ciò che rimaneva delle stanze di una casa scomparsa. Le persone che erano venute qui per rifornirsi di pietre e lastre di ardesia per costruire i loro villini non avevano agito a caso. Sapevano che scavando sotto il terreno che doveva coprire le fondamenta di un edificio sparito da tempo avrebbero trovato gran parte del materiale occorrente per le loro case. Avevano sfruttato naturalmente anche la cava sul dietro. Concluse ora quelle esplorazioni la cava serviva soltanto a buttarci rifiuti e scatole vuote di conserve, che gli anni e le piogge invernali coprivano di ruggine. Le loro ricerche sono finite e le mie cominciano appena, mi dissi. Ma come mi aveva avvertito quell'agricoltore di Treesmill non avrei trovato
niente. Sapevo soltanto che ieri, in un altro tempo, ero entrato nell'ampia sala a volta al centro di un grande maniero crollato da secoli, ne avevo salito le scale fino alla sala superiore e visto morire il proprietario. Ora non c'erano più cortili, muri, sale o scuderie sul dietro, ma soltanto cumuli coperti di erba fra cui correva un sentiero fangoso. Mi sedetti su un rettangolo di terreno liscio e verde davanti alle rovine che una volta facevano forse parte del cortile, e come Bodrugan, da una finestrella della sala guardai nella valle sottostante. Tiwardrai, la casa sull'estuario... A marea bassa, in quei secoli lontani, mi dissi, quel canale tortuoso doveva conservarsi azzurro rivelando ai due lati delle secche di un oro bruno sotto il sole. Se quel giorno il canale fosse stato abbastanza profondo, Bodrugan avrebbe levato forse l'ancora e ripreso il largo la sera stessa; altrimenti sarebbe tornato a dormire a bordo fra i suoi uomini e all'alba sarebbe uscito a stirarsi sul ponte alzando gli occhi sulla casa del lutto. Mi tolsi dalla tasca, dove li avevo messi quella mattina, i fogli ricevuti da Magnus e li rilessi. L'intimazione del Vescovo Grandisson al Priore risaliva all'agosto del 1329. Sir Henry Champernoune era morto verso la fine dell'aprile, o all'inizio del maggio. Il complotto per toglierlo dalla sua tomba del Priorato faceva senza dubbio capo ai Ferrers, soprattutto a Matilda. Chi avrà fatto giungere, mi chiesi, quella voce alle orecchie del Vescovo, contando sul suo orgoglio di ecclesiastico per assicurarsi che la salma sfuggisse a ogni indagine? Sir John Carminowe, probabilmente, con la complicità di Joanna, che doveva essere riuscito senza dubbio da un pezzo a portarsi a letto. Ripresi la lista dei contribuenti laici e feci scorrere di nuovo lo sguardo su quei nomi, segnandomi quelli che corrispondevano a nomi di località sulla carta stradale che mi ero portata dalla macchina. Ric Trevynor, Ric Trewiryan, Ric Trenathelon, Julian Polpey, John Polorman, Geoffrey Lampetho... erano, tutte, con lievi varianti ortografiche, fattorie segnate sulla carta che avevo sotto gli occhi. Gli uomini che le occupavano allora, morti da più di seicento anni, avevano tramandato in quel modo il loro ricordo alla posterità. Soltanto Henry Champernoune, il Lord of the Manor, si era lasciato dietro questo mucchio di cumuli perché lì vi si aggirasse inciampando uno che osava violare i confini del tempo. Fra quei morti da sette secoli c'erano anche Roger Kylmerth e Isolda Carminowe. Quello che avevano sognato, compiuto, per cui avevano tramato, non aveva più importanza; era dimenticato da un pezzo. Mi alzai e cercai di trovare prima di tutto, continuando a inciampare fra
quelle rovine sepolte, la sala dove il giorno prima Isolda aveva accusato Roger di complicità in un delitto. Ma nulla coincideva più. La natura aveva fatto troppo bene la sua opera qui sulla collina al di sotto di me, nella valle dove si allargava una volta l'estuario. Il mare si era ritirato dalla terra, l'erba aveva coperto i muri, gli uomini e le donne che passeggiavano qui una volta abbassando gli occhi sull'acqua azzurra, si erano dissolti da tempo in polvere. Tornai indietro ricalcando le mie orme nei campi, avvilito, dicendomi, ragionevolmente, che ormai la mia avventura era finita. Ma lottando contro il buon senso l'emozione distrusse la mia pace. E capii che ormai, anche se quella storia era destinata a finire male, non mi sarei più tirato indietro. Non potevo dimenticare che mi bastava girare la chiave di una certa porta perché tutto ricominciasse. Il mio era forse il dilemma, imposto all'Uomo fin dal principio, se mangiare o no il pomo dell'Albero della Conoscenza. Risalii in macchina e tornai a Kilmarth. Passai il pomeriggio scrivendo a Magnus un resoconto minuzioso del giorno precedente. Gli dissi anche che Vita era a Londra. Andai poi a Fowey a imbucare la lettera e ad affittare una barca a vela per quando, dopo il weekend, ci sarebbero stati anche Vita e i ragazzi. Non potevo offrire a mia moglie la calma piatta di Long Island o il lusso dello yacht di suo fratello. Ma Vita avrebbe capito che mi preoccupavo di farle piacere e i ragazzi sarebbero stati senz'altro contenti. Quella sera non feci telefonate e non ne ricevetti, col risultato che dormii male, svegliandomi a ogni istante per tendere l'orecchio nel silenzio. Continuavo a pensare a Roger Kylmerth nella sua stanzetta al disopra della cucina dell'antica fattoria, e mi chiedevo se seicentoquarant'anni prima suo fratello aveva lavato e grattato scrupolosamente i barattoli. Doveva averlo fatto, e Sir Henry Champernoune aveva potuto riposare indisturbato nella cappella del Priorato finché questa non era caduta in rovina. La mattina dopo ero troppo nervoso per aspettare che mi servissero a letto la colazione. Stavo bevendo il mio caffè sugli scalini della porta-balcone della biblioteca quando sentii suonare il telefono. Era Magnus. «Come ti senti?» attaccò senza preamboli. «Sfinito» risposi. «Ho dormito male.» «Ti rifarai più tardi. Puoi dormire tutto il pomeriggio nel patio. Nella stanza della caldaia ci sono diverse di quelle poltrone gonfiabili. T'invidio. Londra si sta sciogliendo sotto un'altra ondata di caldo.» «La Cornovaglia no» replicai «e il patio mi fa venire la claustrofobia.
Hai ricevuto la mia lettera?» «Sì. È per questo che ti ho chiamato. Congratulazioni per il tuo terzo viaggio. Non preoccuparti delle conseguenze. Dopotutto la colpa è stata tua.» «Forse» ammisi. «Ma non la confusione.» «Lo so. La confusione mi affascina. Come il salto nel tempo: sei mesi o più fra il secondo e il terzo viaggio. Sai una cosa? Quasi quasi ti raggiungo fra una settimana per poter ripartire insieme.» La mia prima reazione fu di entusiasmo. Ma ricaddi subito sulla terra. «Impossibile! Ci saranno Vita e i ragazzi.» «Ce ne sbarazzeremo. Spedendoli alle Scillies, o dalla mattina alla sera a Land's End, a mangiar banane. Avremo tutto il tempo.» «Non illuderti.» Magnus non conosceva abbastanza Vita. M'immaginavo già le complicazioni. «Beh,» si arrese lui «non è urgente. Ma potrebbe essere molto divertente. E poi, mi piacerebbe dare un'occhiata a Isolda Carminowe.» La sua voce beffarda agì sui miei nervi logori come un tonico. Sorrisi anch'io. «Isolda è l'amante di Bodrugan. Non la nostra.» «Sì, ma per quanto?» chiese Magnus. «In quel tempo cambiavano continuamente partner. E non mi spiego ancora che cosa ci faccia lei in mezzo agli altri.» «Se ho ben capito Isolda e William Ferrers sono cugini degli Champernoune.» «E il marito d'Isolda, Oliver Carminowe, assente ieri al letto di morte di Sir Henry, è il fratello di Matilda e di Sir John?» «A quanto pare.» «Devo scrivermi tutto e chiedere al mio schiavo altri particolari. Non mi sbagliavo, vero?, giudicando Joanna una cagna. Così,» continuò Magnus, cambiando bruscamente tono «ora sei convinto che la droga funziona e che quello che hai visto non erano allucinazioni?» «Quasi» replicai cautamente. «Come, quasi? I documenti non lo dimostrano, forse?» «Contribuiscono a dimostrarlo» lo corressi. «Ma non dimenticare che siccome li hai letti per primo non si può escludere che te ne sia servito per influenzarmi a distanza. A proposito, come sta la scimmia?» «La scimmia...» Magnus fece una breve pausa. «È morta.» «Mille grazie.» «Oh, non preoccuparti, sono stato io a farla morire, non la droga. L'ho
uccisa perché mi serviva il suo cervello. E non spazientirti, perché sarà un esperimento lungo.» «Non sono affatto impaziente,» protestai «ma soltanto atterrito, pensando al rischio che stai affrontando col mio cervello.» «Il tuo è diverso. Può resistere ancora parecchio. E poi pensa a Isolda. Un così splendido antidoto di Vita. Potresti perfino scoprire che...» Sapevo perfettamente quello che Magnus stava per dirmi. «La mia vita amorosa non c'entra» lo interruppi. «Non ti riguarda.» «Stavo solo per suggerire, vecchio mio, che quest'oscillare fra due mondi potrebb'essere stimolante. Accade tutt'i giorni senza bisogno di droghe, quando un uomo si divide fra l'amante e la moglie. Ma lo sai che quella cava al disopra della valle di Treesmill è stata una grande scoperta? Quando tu e io avremo finito di esplorarla ci spedirò a farci degli scavi i miei amici archeologi.» Capii per la prima volta, mentre Magnus parlava, che lui vedeva l'esperimento con gli occhi freddi e obiettivi dello scienziato. Pur di arrivare a dimostrare quello che gli premeva non gl'importava di sacrificare qualcuno, mentre io ero già invischiato nella rete della storia, per lui i personaggi che vedevo vivi e veri erano soltanto le marionette di un'età scomparsa. Ebbi la brusca visione di quella dimora sepolta da secoli, ricostruita su blocchi di cemento. Biglietto d'ingresso due scellini; parcheggio per le macchine a Chapel Down... «Dunque,» chiesi «Roger non ti ci ha mai portato?» «Nella valle di Treesmill? No» rispose Magnus. «Mi sono allontanato soltanto una volta da Kilmarth, per spingermi, come ho detto, non più in là del Priorato. Ho preferito rimanere sulle mie terre. Ti spiegherò tutto quando verrò. Vado per il weekend a Cambridge, ma ricordati che hai tutto il sabato e la domenica per abbandonarti ai tuoi impulsi. Aumenta un po' la dose... non ti farà male.» Riattaccò prima che potessi chiedergli il suo numero di telefono, caso mai ne avessi avuto bisogno durante il weekend. Avevo appena riattaccato che la suoneria si scatenò di nuovo. Era Vita. «Non la finivi più di parlare» osservò. «Era il tuo professore, vero?» «Per essere sincero, sì.» «Per darti altri incarichi per il weekend? Così ti esaurirai, caro!» Si è svegliata di pessimo umore, mi dissi. Dovrà sfogarlo sui ragazzi, per fortuna io sono lontano. «Che cosa hai in programma per oggi?» chiesi fingendo di non aver udi-
to. «Beh, i ragazzi naturalmente vanno a nuotare al club di Bill. A Londra si muore di caldo. E laggiù?» «Il cielo è coperto» dissi senza voltarmi verso la finestra. «Una forte depressione che sta attraversando l'Atlantico raggiungerà prima di mezzanotte la Cornovaglia.» «Magnifico. Spero che la tua signora Collins si sia decisa a dar aria ai letti.» «Stiamo pensando a tutto,» le assicurai «e ho perfino affittato per la settimana prossima un grande cutter con un marinaio. Sono sicuro che i ragazzi saranno contenti.» «E la loro mamma?» «Anche lei, se non dimenticherà le pillole per il mal di mare. Abbiamo anche a disposizione una bella spiaggia sotto la scogliera, basta attraversare un paio di campi. Niente tori.» «Tesoro,» il tono si era raddolcito «comincio a credere che anche se non si direbbe tu aspetti con impazienza il nostro arrivo.» «Si capisce. Perché dovresti dubitarne?» «Non so mai che cosa pensare, quando sei sotto l'influenza del tuo professore. Tra voi due c'è una specie di... stregoneria. Ecco qua i ragazzi» continuò cambiando voce Vita. «Vogliono salutarti.» Sebbene Teddy avesse dodici anni e Mike dieci, perfino le loro voci erano identiche. Somigliavano, a giudicare dalle fote che si portavano dietro, al padre morto in un incidente aereo un paio di anni prima che incontrassi Vita. Avevano tutti e tre la tipica testa teutonica, con i capelli tagliati quasi a zero, di tanti giovani americani. Occhi azzurri innocenti incastonati in facce larghe e rosee. Erano dei cari ragazzi. Ma ne avrei fatto volentieri a meno. «Hi, Dick» mi salutarono a turno. «Hi» ripetei con più fatica che se fosse stato cinese. «Come state tutti e due?» «Benissimo» risposero in coro. Seguì una lunga pausa. Quei due non trovavano altro da dirmi. Neppure io a loro. «Sarò molto contento di rivedervi la settimana prossima» mi decisi a concludere. Dopo molti bisbigli Vita tornò all'apparecchio. «Muoiono dalla voglia di correre a nuotare. Devo lasciarti. Abbiti cura, tesoro, e non esagerare con le faccende domestiche.»
Andai a sedermi nel piccolo chiosco che la madre di Magnus aveva fatto costruire anni addietro, e guardai giù, verso la baia. Era un posto che dava un senso di felicità e di pace, al riparo da tutti i venti, tranne una brezza che soffiava da sudovest. Immaginavo che avrei trascorso qui una gran parte del tempo delle mie vacanze, se non altro per rilanciare la palla ai ragazzi; certamente avrebbero portato la mazza e i paletti per il cricket, e una palla che sarebbe finita continuamente oltre il muro di cinta nel campo vicino. «Valla a prendere, tocca a te!» «Ah no, è il tuo turno questa voltai» Poi si sarebbe sentita la voce di Vita cantilenata da dietro un cespuglio di ortensie: «Allora, allora, vi avverto che se litigate aboliremo il cricket; e ho intenzione di mantenere quello che dico», con un appello finale a me: «Fai qualcosa, caro, sei l'unico maschio adulto, no?». Ma oggi almeno, e dal chiosco guardavo un raggio di sole che intersecava l'orizzonte, c'era calma a Kylmerth. Kylmerth... Tra me avevo pronunciato quella parola secondo la grafia originale, e del tutto inconsciamente. La confusione del pensiero stava forse diventando un'abitudine? Ma ero troppo stanco per intraprendere introspezioni di questo genere, e così mi alzai e mi misi a passeggiare senza meta intorno alla casa. In giardino c'erano tre poltrone gonfiabili, e una pompa; decisi di occuparmene nel pomeriggio se avessi avuto abbastanza energia. «Ha perso il suo appetito?» mi chiese più tardi la signora Collins, dopo che a fatica avevo finito il pranzo. «Chiedo scusa» dissi. «Non dipende dalla sua cucina, ma dal fatto che sono un poco fuori forma.» «Lei è stanco. È il tempo, sa? È molto pesante.» Non era il tempo. Era la mia incapacità di adattarmi all'ambiente, una specie di irrequietezza che mi spingeva a compiere azioni fisiche quasi sempre futili. Scesi per i campi fino al mare, che era esattamente come lo avevo visto dal chiosco: piatto e grigio, poi tornai faticosamente su, verso casa. La giornata continuò monotona. Scrissi una lettera a mia madre, descrivendo la casa nei più noiosi particolari, solo per riempire le pagine, e questo mi riportava alle lettere obbligatorie che ero solito scrivere da scuola: "Questo trimestre sono in un altro dormitorio. Siamo in quindici". Infine, alle sette e mezzo, esausto nel fisico e nella mente, andai di sopra e mi stesi sul letto completamente vestito; mi addormentai in pochi minuti. Mi svegliò la pioggia. Un suono picchiettante sulla finestra aperta la cui
tenda svolazzava. Era già buio. Accesi la luce: le quattro e mezzo. Avevo dormito per nove lunghe ore. La stanchezza era svanita e avevo una fame da lupo, avendo saltato il pasto della sera. Ecco il vantaggio di vivere da solo: potevo mangiare e dormire assolutamente come e quando ne avevo voglia. Scesi in cucina e mi preparai salsicce e uova col bacon; e naturalmente misi al fuoco una teiera. Mi sentivo forte per cominciare un nuovo giorno, ma cosa avrei potuto fare alle cinque del mattino in questa grigia e triste landa? Una cosa, e solo quella. E poi recuperare durante il weekend, se ci sarebbe stato bisogno di recuperare... Andai giù, accendendo tutte le luci e fischiettando. Sembrava tutto più bello, più allegro, come se fossi sbronzo. Persino il laboratorio aveva perso la sua aria tetra di alchimia, e misurare la dose questa volta mi sembrò semplice come lavarmi i denti. «Avanti, Roger,» dissi «vieni fuori. Concedimi un tête-à-tête.» Sedetti in un angolo dell'acquaio e aspettai. Aspettai molto. Il fatto è che non successe niente. Continuavo a fissare gli embrioni nelle bottiglie a mano a mano che il chiarore che proveniva dalla finestra a sbarre aumentava. Rimasi a sedere lì per circa mezzora. Che brutto imbroglio! Poi mi ricordai che Magnus aveva suggerito di aumentare la dose. Presi la boccetta e cautamente mi versai sulla lingua due o tre gocce che inghiottii. Era la mia immaginazione o davvero ci sentivo un sapore, questa volta - un sapore amaro, acerbo? Mi chiusi dietro la porta del laboratorio e passai nella vecchia cucina. Spensi la luce, cominciava ad essere abbastanza chiaro. Sentii un rumore provenire dalla porta posteriore. Sentii poi dei passi e infine, distintamente, una voce d'uomo. "Dio mio," pensai "la signora Collins si è data da fare alla svelta. Mi aveva detto qualcosa circa il marito che sarebbe venuto a tagliare l'erba." L'uomo spinse la porta, tirandosi dietro un ragazzo, e non era il marito della signora Collins, era Roger Kylmerth, e c'erano altri cinque uomini con lui, con delle torce, e non c'era più il chiarore della finestra che dava sul patio, ma solo l'oscurità della notte. 9 Ero rimasto appoggiato alla credenza della vecchia cucina. Ma adesso alle mie spalle c'era soltanto il muro di pietra, mentre la cucina era diventa-
ta il soggiorno della casa antica, col camino a un'estremità e accanto la scala a pioli che portava alla stanza da letto. La ragazza che avevo vista il primo giorno inginocchiata davanti al camino scese correndo la scala quando sentì arrivare gli uomini. Ma appena la vide Roger urlò: «Torna su. Ciò che abbiamo da dire e da fare non ti riguarda». Lei esitava. Mi accorsi che c'era anche il ragazzo, il fratello, che le si piegava sulla spalla per sbirciare. «Fuori di qui, anche tu» ordinò di nuovo Roger. Quei due dovettero risalire la scala indietreggiando, ma da dov'ero li vidi soltanto accucciarsi in cima, dove le persone che erano entrate al seguito dell'intendente non potevano vederli. Quando Roger posò su una panca la sua torcia per illuminare la stanza, riconobbi il ragazzo che teneva stretto: il giovane novizio che avevo visto durante la mia prima visita al monastero, quello che i frati si divertivano a far correre intorno al cortile delle scuderie e che più tardi pregava piangendo nella cappella. «Ci penso io, a farlo parlare, se voialtri non ci riuscite» disse Roger. «Un assaggio del purgatorio che lo aspetta gli scioglierà la lingua.» Si rimboccò lentamente le maniche tenendo gli occhi fissi sul novizio. Il ragazzo indietreggiava dalla panca per cercare rifugio fra gli altri, che lo respingevano ridendo. Era cresciuto, dall'ultima volta, ma lo riconoscevo benissimo. Capii dall'espressione atterrita nei suoi occhi che il trattamento che si aspettava questa volta non era un semplice scherzo un po' brutale. Acciuffandolo per la tonaca Roger lo costrinse a inginocchiarsi contro la panca. «Dicci tutto quello che sai» gli ordinò «o ti brucio tutti i capelli che hai in testa.» «Non so niente» gridò il novizio. «Lo giuro sulla Madre di Dio...» «Non bestemmiare,» lo interruppe Roger «o appicco il fuoco anche alla tua tonaca. Il tuo mestiere di spia è durato abbastanza, ora vogliamo la verità.» Afferrata la torcia l'avvicinò a pochi centimetri dalla testa del ragazzo che si piegò ancora di più urlando. Roger lo colpì alla bocca. «Avanti, parla!» Mentre la ragazza e suo fratello guardavano affascinati dalla scala, i cinque uomini si avvicinarono alla panca e uno di essi sfiorò col suo coltello l'orecchio del ragazzo. «Devo pungerlo per fare uscire sangue» chiese «e poi bruciargli il cranio dove la carne è più tenera?» Il novizio alzò le mani implorando pietà. «Dirò tutto quello che so, ma non è niente, niente... solo ciò che ho sentito dire da Master Bloyou, l'in-
viato del Vescovo, al Priore.» Roger rimise la torcia sulla panca. «E che cosa gli diceva?» Il novizio guardò atterrito prima Roger e poi i suoi compagni. «Che il Vescovo era indignato della condotta di alcuni frati, soprattutto di frate Jean. Che ribellandosi al Priore lui e altri sperperano in bagordi le sostanze del monastero. Che costoro sono causa di scandalo per l'intero ordine e un esempio pernicioso per gli altri. Che infine non potendo continuare a ignorare quello che succede il Vescovo ha dato a Master Bloyou i pieni poteri per applicare con l'aiuto di Sir John Carminowe la legge canonica.» Nella breve pausa che seguì, il ragazzo, mentre riprendeva fiato, fece scorrere lo sguardo, per attingervi coraggio, sui visi dei presenti. Uno degli uomini, non quello del coltello, si staccò dal gruppo. «In fede mia è vero,» disse «e chi siamo noi per negare l'evidenza? Lo sappiamo tutti che il monastero e tutto ciò che contiene è fonte di scandalo. Se i monaci francesi tornassero nel loro paese sarebbe una bella liberazione!» Mentre un mormorio di consenso si alzava dal gruppo, l'uomo del coltello, un tipo alto e massiccio, si rivolse, disinteressandosi del novizio, a Roger. «Trefrengy ha ragione» disse astiosamente. «È chiaro che noi gente della valle da questa parte di Tywardreath avremmo tutto da guadagnare se il monastero chiudesse i battenti. Potremmo far valere i nostri diritti sulle terre all'intorno, che ingrassano i frati, invece di vederci costretti a far pascolare il nostro bestiame fra le canne.» Incrociando le braccia Roger assestò un calcio al novizio, sempre inginocchiato. «Chi parla di chiudere il monastero?» chiese. «Non il Vescovo di Exeter, che può dettar legge nella sua sola diocesi, e raccomandare al Priore soltanto di disciplinare meglio i suoi monaci. Il Re, come sapete benissimo, è al disopra di tutti, e tutti noi vassalli di Champernoune siamo sempre stati trattati bene dal Priorato e ne abbiamo anche ricevuto benefici. Non basta: nessuno di voi si è mai astenuto dal commerciare con le navi francesi quando erano ancorate qui nella baia. C'è per caso qualcuno che non ne abbia approfittato per rifornire le proprie cantine?» Nessuno gli rispose. Credendosi salvo, il novizio cercò di svignarsela. Ma Roger fece presto a riacciuffarlo. «Hai troppa fretta» gli disse. «Non ho ancora finito con te. Che cos'altro disse Master Bloyou al Priore?» «Niente più di quanto ho ripetuto» gemette il ragazzo. «Niente che riguardasse la sicurezza del regno?»
Vedendo Roger fingere di riprendere la torcia dalla panca, il novizio alzò tremando le mani per proteggersi. «Parlò di voci che venivano dal nord» balbettò. «Disse che tra il Re e sua madre, la Regina Isabella, covava ancora un'animosità che sarebbe esplosa forse presto in un'aperta lotta. E si domandò chi, in questo caso, qui a ovest, sarebbe rimasto fedele al giovane Re, e chi si sarebbe schierato invece a favore della Regina e del suo amante Mortimer.» «Me lo immaginavo» disse Roger. «E ora accucciati in un angolo e sta' zitto. Se ti farai sfuggire fuori di queste mura una sola di queste parole ti taglierò la lingua.» Si trovò davanti, voltandosi, i cinque uomini che spaventati da quest'ultima dichiarazione, gli restituirono in silenzio lo sguardo. «Ebbene,» chiese Roger «che cosa ne dite? Siete ammutoliti tutti?» Trefrengy scosse la testa. «Non è affar nostro» dichiarò. «Il Re è libero, se vuole, di litigare con sua madre. Sono cose che non ci riguardano.» «Ne sei convinto?» replicò Roger. «Neppure se la Regina e Mortimer dovessero continuare a detenere il potere? Conosco, da queste parti, alcuni che lo preferirebbero, e sarebbero ricompensati dopo la battaglia di aver optato per la Regina.» «Non il giovane Champernoune» protestò l'uomo del coltello. «È minorenne e ancora attaccato alle gonne di sua madre. Quanto a te, Roger, nella tua posizione non ti arrischierai mai a ribellarti a un sovrano legittimo.» Scoppiò in una risata ironica a cui fecero eco gli altri. L'intendente li guardava senza batter ciglio. «La vittoria è assicurata» disse infine «a patto di agire fulmineamente e impadronirsi dalla sera alla mattina del potere. Se questo è quello che hanno in mente la Regina e Mortimer, ci troveremo tutti dalla parte dei vincitori, a patto di tenerci buoni i loro amici. Potrebbe anche esserci qualche spartizione delle terre del maniero. E invece di continuare a far pascolare il tuo bestiame fra le canne, Geoffrey Lampetho, riuscirai forse a portarlo sulle colline.» L'uomo del coltello si strinse nelle spalle. «Si fa presto a dirlo» osservò. «Ma chi sono questi amici così larghi di promesse? Io non li conosco.» «Sir Otto Bodrugan, per cominciare» gli rispose quietamente Roger. Fra gli uomini passò un mormorio; il nome di Bodrugan fu ripetuto, e Henry Trefrengy, che poco prima aveva inveito contro i monaci francesi,
scosse di nuovo la testa. «È un uomo in gamba, non ce n'è di migliori» disse. «Ma l'ultima volta che si ribellò alla Corona, nel 1322, fu sconfitto e condannato a pagare mille marchi.» «Ebbe la sua ricompensa quattro anni dopo, quando la Regina lo nominò Governatore dell'Isola di Lundy» ribatté Roger. «L'Isola di Lundy è un buon porto per le navi cariche d'armi, ed anche per gli uomini, che possono rimanerci al sicuro finché non ci sia bisogno di loro sulla terraferma. Bodrugan non è uno stupido. Proprietario com'è di terre in Cornovaglia e nel Devon e per giunta Governatore di Lundy, sarebbe uno scherzo, per lui, radunare gli uomini e le navi che occorrono alla Regina.» Quel discorso così chiaro e persuasivo fece il suo effetto, specie su Lampetho. «Se noialtri possiamo aspettarcene un vantaggio» disse «gli auguro buona fortuna, e non mancherò di schierarmi al suo fianco a impresa compiuta. Ma mi rifiuto di attraversare il Tamar, neppure per Bodrugan, ti autorizzo a dirglielo.» «Diglielo tu stesso» replicò Roger. «Il suo bastimento è nell'estuario, e lui sa che lo aspetto qui. Vi ripeto, amici: la Regina Isabella saprà dimostrare la sua gratitudine a lui e a tutti quelli che avranno saputo scegliere da che parte schierarsi.» Si avvicinò alla scala: «Scendi, Robbie!» gridò verso l'alto. «Attraversa con un lume il campo e vedi se Sir Otto sta venendo. Io sono pronto» aggiunse girandosi verso gli altri «a spezzare in suo favore una lancia, anche se voi non siete del mio parere.» Suo fratello afferrò una delle torce e uscì correndo nel cortile dalla cucina. Più cauto degli altri Henry Trefrengy si grattò il mento. «Che cosa ne ricaverai, Roger, a schierarti con Bodrugan? Secondo te Lady Joanna sosterrà il fratello contro il Re?» «La mia padrona non c'entra» tagliò corto Roger. «È lontana da casa, nella sua proprietà di Trelawn, con i suoi figli e la moglie e la famiglia di Bodrugan. Nessuno di loro sospetta neppure lontanamente quello che bolle in pentola.» «Non te ne sarà grata, quando lo scoprirà» insistette Trefrengy. «E neppure Sir John Carminowe. Lo sappiamo tutti, che quei due non aspettano che la morte della moglie di Sir John per potersi sposare.» «La moglie di Sir John gode e continuerà probabilmente a godere di u-
n'ottima salute» replicò Roger. «E quando la Regina nominerà Bodrugan lord del castello di Restmorel e amministratore di tutte le terre del Ducato, la mia padrona potrebbe staccarsi da Sir John e affezionarsi di più al fratello. Sono sicuro che sarà remunerato da Bodrugan e perdonato dalla mia padrona.» Sorrise e si grattò un orecchio. «Lo sappiamo tutti, in fede mia,» tornò alla carica Lampetho «che tu fai sempre i tuoi piani pensando al tuo interesse. Chiunque vincerà ti avrà immancabilmente al suo fianco: il futuro lord di Restmorel - Bodrugan o Sir John, non ha importanza - ti troverà sul ponte levatoio con in mano un borsellino ben colmo.» Roger non smise di sorridere. «Non lo nego» disse. «Agireste anche voi come me se aveste il mio cervello.» Udendo dei passi nel cortile corse ad aprire la porta. Sulla soglia apparve Otto Bodrugan col giovane Robbie alle spalle. «Entrate, Sir, e siate il benvenuto. Siamo tra amici» disse Roger, e Bodrugan avanzò nella cucina guardandosi intorno accigliato, sorpreso, credo, di trovarsi davanti quel gruppetto di uomini che confusi dal suo brusco arrivo erano indietreggiati contro il muro. Bodrugan aveva sopra la tunica, allacciata fino alla gola, un giustacuore di pelle imbottito, stretto da un cinturone con borsa e pugnale, e dalle spalle gli pendeva un mantello da viaggio orlato di pelliccia. Formava un forte contrasto con quegli uomini vestiti di poveri abiti e cappucci tessuti in casa. Si capiva dalla sua aria spavalda che era abituato a comandare. «Sono molto contento di vedervi» cominciò subito, avvicinandosi a turno ad ognuno. «Tu sei Henry Trefrengy, vero? E tu Martin Penhelek. Conosco anche te, John Beddyng. Tuo zio mi accompagnò al nord nel '22. Gli altri non li avevo ancora incontrati.» «Questi due sono Geoffrey Lampetho, Sir, e suo fratello Philip» li presentò Roger. «Coltivano i terreni della valle confinanti con quelli di Julian Polpey, al disotto del Priorato.» «Allora Julian non è qui?» «No. Ci aspetta a Polpey.» Lo sguardo di Bodrugan cadde sul novizio, sempre accovacciato contro la panca. «Cosa fa tra voi questo frate?» «Ci ha portato delle informazioni, Sir» disse Roger. «Al monastero ci sono stati dei disordini. Faccende private dei monaci che non ci riguarderebbero se il Vescovo non avesse mandato in questi giorni da Exeter Master Bloyou a investigare.»
«Henry Bloyou, l'amico stretto di Sir John Carminowe e di Sir William Ferrers? È ancora al monastero?» Ansioso d'ingraziarsi Bodrugan, il novizio gli toccò il ginocchio. «No, Sir, se n'è andato. È ripartito ieri per Exeter, ma ha promesso di tornare presto.» «Va bene. Tirati su, ragazzo, non hai niente da temere.» Bodrugan si girò verso l'intendente: «Lo avevate minacciato?». «Non gli è stato torto un capello» protestò Roger. «Ha soltanto paura che il Priore possa sapere che è stato qui, sebbene io gli abbia garantito il contrario.» Roger fece cenno a Robbie di portare il novizio di sopra e i due sparirono su per le scale, il novizio affrettandosi come un cane che abbia ricevuto una pedata. Piantato davanti al camino, con le mani infilate nel cinturone, Bodrugan esaminò attentamente gli uomini, uno per uno. «Ignoro» disse «quello che può avervi detto Roger delle nostre probabilità di vincere. Ma posso promettervi una vita migliore il giorno in cui il Re sarà prigioniero.» Nessuno parlò. «Roger vi ha informati» chiese Bodrugan «che fra pochi giorni quasi tutto il paese patteggerà per la Regina Isabella?» Henry Trefrengy, che sembrava il portavoce degli altri, trovò il coraggio di rispondere: «Sì, ce lo ha detto. Ma senza darci molte spiegazioni». «Si tratta di agire tempestivamente» riprese Bodrugan. «Il Parlamento, che è riunito attualmente a Nottingham, ha deciso d'impadronirsi del Re con ogni riguardo, s'intende, per la sua incolumità - e tenerlo prigioniero fino alla sua maggiore età. La Regina Isabella gli succederà come reggente, avendo al suo fianco Mortimer per aiutarla. Anche se non gode le simpatie di tutti, Mortimer è un uomo forte e capace, che ha molti buoni amici, qui in Cornovaglia. Sono fiero di annoverarmi fra loro.» Geoffrey Lampetho si fece avanti dopo la pausa che seguì. «Che cosa ci chiedete di fare?» «Seguitemi a nord, se volete» rispose Bodrugan. «Altrimenti - e Dio sa che non posso obbligarvi - promettete di giurare fedeltà alla Regina Isabella appena v'informeranno da Nottingham che teniamo il Re.» «Questo si chiama parlar franco» disse Roger. «Per conto mio dico di sì, e con gioia, e cavalcherò senz'altro con voi.» «Anch'io» disse colui che veniva chiamato Penhelek.
«E anch'io!» gridò un terzo, John Beddyng. Soltanto i fratelli Lampetho e Trefrengy sembravano esitare. «Faremo il nostro giuramento quando sarà l'ora» dichiarò Geoffrey Lampetho. «Ma qui, a casa nostra, non al di là del Tamar.» «Anche questo è parlar chiaro» disse Bodrugan. «Se il Re dovesse conservare il potere, da qui a dieci anni combatteremmo contro la Francia, sull'altra riva della Manica. Sostenendo invece la Regina, lottiamo per la pace. Io posso contare su almeno cento miei vassalli, di Bodrugan, di Tregrehan, e delle terre più a ovest, e anche del Devon. Vogliamo andare a vedere che ne dice Julian Polpey?» Gli uomini si avviarono, chiaramente eccitati, verso la porta. «A quest'ora la marea avrà coperto il guado» disse Roger. «Bisognerà attraversare la valle verso Trefrengy e Lampetho. Ho un cavallo per voi, Sir. Robbie...» chiamò alzando la testa. «Hai sellato il cavallo per Sir Otto e il mio? Spicciati!» Quando il ragazzo fu sceso si piegò verso il suo orecchio: «Ascolta, fratello Jean manderà più tardi a prendere il novizio. Intanto tienilo qui. Quanto a me, non so dirti quando tornerò». Ci ritrovammo nel cortile delle scuderie, in una confusione di uomini e di cavalli. Vedendo Roger montare in sella accanto a Bodrugan, capii che dovevo accompagnarlo perché ero costretto a seguire dovunque il mio cavaliere. Le nuvole si rincorrevano nel cielo, il vento soffiava; sentivo scalpitare i cavalli, tintinnare i loro finimenti. Finora - nel mio mondo e nei miei viaggi precedenti in quest'altro, - non mi ero mai sentito talmente parte di qualcosa. Ero uno di quegli uomini, sebbene loro lo ignorassero. Il mio posto era fra loro, anche se non lo sapevano. Per me, credo, il vero significato dell'esperimento era questo: sentirmi, insieme, prigioniero e libero; solo e in loro compagnia; nato nel mio tempo, eppure vivo, a loro insaputa, nel loro. Risalirono a cavallo il sentiero che attraversava il boschetto confinante con Kylmerth, e arrivati in cima alla collina, anziché seguire la strada moderna, che conoscevo, scesero quasi a picco verso la valle. Il sentiero era rozzo e i cavalli ogni tanto inciampavano e si torcevano una zampa. La discesa mi sembrava ripida quasi come la costa di una scogliera ma, puro spirito come mi sentivo, non potevo calcolare esattamente altezze e profondità, la mia sola guida erano gli uomini sui loro cavalli. Vidi infine nell'oscurità un barbaglìo d'acqua, e poco dopo fummo in fondo alla valle e sul ponte di legno di un fiume che i cavalli attraversarono in fila all'asciut-
to. Il sentiero girò poi a sinistra, seguendo il corso dell'acqua finché il fiume non finì in un ampio estuario che si allargava lontano nel mare. Sapevo che dovevamo trovarci sul lato opposto della valle rispetto alla collina di Polmear, ma forestiero come ero nel loro mondo, ed essendo notte, mi era impossibile misurare le distanze. Potevo soltanto seguire i cavalli tenendo lo sguardo fisso su Roger e Bodrugan. Quando fummo arrivati davanti alle costruzioni di una fattoria, i due fratelli Lampetho smontarono, e il maggiore, Geoffrey, gridò che ci avrebbero raggiunti più tardi. Proseguimmo per lo stesso sentiero che saliva continuando a contornare la baia. Più in là, al disopra delle dune di sabbia della foce del fiume, c'erano altre case coloniche. Vedevo luccicare perfino in quell'oscurità la spuma bianca delle onde che s'infrangevano sul greto. Qualcuno ci venne incontro, fra latrati di cani e lampi di torce, e ci trovammo in un altro cortile di scuderia simile a quello di Kylmerth, circondato da fabbricati rustici. Mentre gli uomini smontavano, il portone della casa si aprì e riconobbi l'uomo che si faceva avanti per ossequiarci: colui che era accanto a Roger il giorno del ricevimento per il Vescovo al Priorato, e che lo aveva poi accompagnato sul campo del villaggio. Roger, che era stato il primo a smontare, fu anche il primo ad affiancarsi all'amico. E perfino alla scarsa luce della lanterna attaccata al portone, potei notare come cambiava espressione mentre, accennando all'estremità più lontana del fabbricato, l'altro gli sussurrava in fretta qualcosa all'orecchio. Se ne accorse anche Bodrugan, perché gridò, saltando a terra: «Che c'è che non va, Julian? Hai cambiato parere dall'ultima volta che ci vedemmo?». Roger si voltò di scatto: «Brutte notizie, Sir. Soltanto per il vostro orecchio». Dopo aver esitato, Bodrugan disse in fretta: «Come volete» e tese la mano al padrone di casa. «Avevo sperato, Julian, che qui a Polpey avremmo passato in rivista uomini e armi. Il mio bastimento è all'ancora sotto Kylmerth; dovete averlo visto. A bordo ci sono molti uomini pronti a sbarcare.» Julian Polpey scosse il capo. «Mi dispiace, Sir Otto, ma non ce ne sarà bisogno; e neppure di voi. Dieci minuti fa abbiamo saputo che l'intero piano è saltato prima ancora di poter prendere forma. Un messaggero speciale ci ha portato di persona la notizia, mettendo a repentaglio, se mi è concesso di dirlo, la propria vita.»
Sentii alle mie spalle Roger dire agli uomini di risalire in sella e tornarsene a Lampetho, dove lui li avrebbe raggiunti al più presto. Affidate le redini del suo cavallo al servo che gli era accanto, raggiunse Polpey e Bodrugan, che lasciandosi alle spalle i rustici si dirigevano verso il cortile centrale della casa. «È Lady Carminowe che ci ha portato queste cattive notizie» disse Bodrugan a Roger. La sua allegra fiducia era svanita e aveva il viso contratto dall'ansia. «Lady Carminowe?» esclamò incredulo Roger. Aggiunse, comprendendo: «Volete dire Lady Isolda?». «Sì. Era diretta a Carminowe» spiegò Bodrugan. «E avendo intuito dove mi recavo ha interrotto qui a Polpey il suo viaggio.» Eravamo arrivati alla casa davanti a cui passava il sentiero di Tywardreath. Vidi davanti al cancello un veicolo simile ai carri coperti che avevo notati al Priorato il giorno di San Martino, ma più piccolo e tirato da due soli cavalli. Mentre ci avvicinavamo la tendina della finestrella fu aperta e vidi sporgersi Isolda, col cappuccio del mantello scuro rovesciato sulle spalle. «Grazie a Dio arrivo in tempo» disse. «Vengo direttamente da Bockenod. John e Oliver sono lì e mi credono a mezza strada da Carminowe per raggiungervi le bambine. Come temevo, per la vostra causa è accaduto il peggio. Prima che partissi ci è arrivata la notizia che la Regina e Mortimer sono stati arrestati al castello di Nottingham e vi sono tenuti prigionieri. Il Re ha ripreso i pieni poteri e Mortimer sarà tradotto a Londra per essere processato. È la fine di tutti i vostri sogni, Otto.» Roger scambiò un'occhiata con Julian Polpey, e mentre quest'ultimo si ritirava discretamente nell'ombra il tumulto delle emozioni sul viso di Roger mi fece capire ciò che lui pensava. Accecato dall'ambizione l'intendente si era messo dalla parte sbagliata. Ora non gli rimaneva che incitare Bodrugan a risalire sulla sua nave, congedare i suoi uomini e far proseguire il viaggio a Isolda. E dopo aver spiegato come meglio poteva il suo voltafaccia a Lampetho, Trefrengy e gli altri, riprendere le sue mansioni d'intendente e uomo di fiducia di Joanna di Champernoune. «Venendo qui avete arrischiato di essere scoperta» disse Bodrugan a Isolda. Nessuno avrebbe sospettato, guardandolo, quanto aveva perduto. «Voi sapete perché l'ho fatto» replicò lei. Quei due si guardarono. I soli testimoni eravamo Roger e io. Mentre Bodrugan si piegava a baciarle la mano, sentii arrivare dal viottolo un ru-
more di ruote. Ad onta di tutto, pensai, non è arrivata in tempo per metterlo in guardia; suo marito Oliver e Sir John l'hanno seguita. Mi stavo chiedendo come mai nessuno di loro udisse le ruote quando mi accorsi che non erano più con me. Il carro era sparito, e lì dov'ero io era arrivato il furgoncino dell'ufficio postale di Par e si era fermato davanti al cancello. Era mattina e io mi trovavo nel vialetto che conduceva a una villetta sul versante della valle di fronte alla collina di Polmear. Tentai di nascondermi nei cespugli che bordavano il vialetto, ma il postino era già sceso dal furgone e stava aprendo il cancello. Mi accorsi che mi aveva riconosciuto e seguii il suo sguardo che mi percorreva stupito. Ero bagnato fradicio dalla vita ai piedi. Avevo dovuto attraversare paludi e acquitrini perché le mie scarpe erano piene d'acqua e i calzoni strappati. Abbozzai un sorriso penoso. L'uomo sembrava imbarazzato. «Come si è ridotto...» disse. «Non è per caso il signore che abita a Kilmarth?» «Sì» risposi. «Beh... qui siamo a Polpey, e questa è la casa del signor Graham. Debbono dormire ancora, sono appena le sette. Era venuto a trovare il signor Graham?» «Per amor del cielo... no! Mi sono svegliato presto, sono uscito e debbo essermi smarrito.» Il postino sembrò bersi quella bugia spudorata. «Ho ancora da distribuire queste lettere,» spiegò «prima di salire sulla collina per arrivare da lei. Vuole salire? Si risparmierà oltre un'ora di camminata.» «Mille grazie,» replicai «gliene sono molto grato.» Mentre lui spariva in fondo al viale salii nel furgone e guardai l'orologio. Il postino aveva ragione; erano le sette e cinque. E poiché la signora Collins sarebbe arrivata al più presto fra un'ora e mezzo avevo tutto il tempo di farmi un bagno e di cambiarmi. Cercai di capire dov'ero stato. Avevo dovuto tagliare la strada maestra in cima alla collina e scendere fino ai campi e agli acquitrini del fondo valle. Ignoravo perfino che questa casa si chiamasse Polpey. Niente nausee, o vertigini, però, grazie a Dio. Mentre, seduto nel furgone, aspettavo il ritorno del postino, mi accorsi che mi ero bagnato anche la giacca e la testa. Pioveva, infatti, e doveva probabilmente piovere anche quando, quasi un'ora e mezzo prima, ero uscito da Kilmarth. Mi domandai
se era il caso di raccontare al postino altre balle o di lasciar perdere. Meglio sorvolare, decisi. L'uomo tornò poco dopo. «Non è una bella mattina per passeggiare» osservò salendo sul furgone. «Piove a dirotto.» Mi ricordai che era stata la pioggia a svegliarmi facendo schioccare le tende della mia finestra. «Non m'importa del tempo,» gli dissi. «A Londra non riesco mai a fare abbastanza moto.» «Neppure io,» replicò allegramente lui «inchiodato come sono tutto il giorno al volante di questo furgone. Certo con un tempo simile preferirei starmene al caldo nel mio letto piuttosto che passeggiare fra gli stagni. Ma guai se fossimo tutti uguali!» Il postino si fermò davanti allo Ship Inn, ai piedi della collina davanti a una delle villette. Poco dopo, mentre il furgone correva su per la strada, mi voltai a sinistra. Volevo guardare nella valle, ma un'alta siepe me la nascondeva. Dio solo sapeva per quali prati e campi fradici mi fossi avventurato. Le mie scarpe colavano acqua sul fondo del furgone. Abbandonando poco dopo la strada maestra infilammo, a destra, il viale di Kilmatth. «Lei non è l'unico uccello mattiniero» osservò il postino quando fummo in vista dello slargo davanti alla casa. «O la signora Collins si è fatta dare un passaggio da Polkerris, o lei ha visite.» Vidi l'ampio portabagagli aperto della Buick stipato di valigie. Il clacson suonava all'impazzata, e con gl'impermeabili sulle teste per proteggersi dalla pioggia due ragazzi salivano correndo gli scalini dell'ingresso. Stupore e incredulità si erano già trasformati nella cupa certezza di un disastro imminente. «Non è la signora Collins,» replicai «ma mia moglie con la famiglia. Per arrivare a quest'ora da Londra debbono aver viaggiato tutta la notte.» 10 Inutile sperare di poter tornare indietro per entrare senza dare nell'occhio dall'ingresso di servizio. Il postino sorridendo aveva fermato il furgone e comunque i ragazzi mi avevano già visto e mi facevano segni enfatici di saluto. «Grazie del passaggio» dissi all'uomo. «Ma avrei fatto volentieri a meno di quest'accoglienza.» E prima di andare incontro al mio destino presi la
lettera che lui mi tendeva. «Ciao, Dick!» urlarono i ragazzi ridiscendendo a precipizio le scale. «Abbiamo continuato a suonare il clacson senza riuscire a farci sentire. Mamma è furiosa con te!» «Anch'io con lei» replicai. «Non vi aspettavo.» «È una sorpresa» intervenne Teddy. «La mamma ha detto che sarebbe stato più divertente. Micky ha dormito in fondo alla macchina; io no. Guardavo la carta.» Il clacson aveva smesso di suonare. Impeccabile come sempre, vestita come per andare a un cocktail a Long Island, Vita smontò dalla Buick. Aveva una nuova pettinatura con più ondulazioni, non male, ma le faceva la faccia più piena. La migliore forma di difesa è l'attacco, pensai. Facciamola finita. «Ma insomma, perbacco, potevate avvertirmi!» «I ragazzi non mi davano pace» si scusò mia moglie. «Prenditela con loro.» Dopo esserci baciati ci tirammo tutti e due indietro studiandoci con diffidenza, come due schermitori prima d'incrociare i fioretti. «Da quanto tempo siete qui?» chiesi. «Da circa mezz'ora. Abbiamo fatto il giro della casa senza poter entrare. Dopo aver suonato invano il campanello i ragazzi hanno provato perfino a buttare manciate di terra contro le finestre. Ma, dimmi, che cosa ti è successo? Sei bagnato fino all'osso!» «Mi sono alzato molto presto» spiegai «e sono uscito a fare una passeggiata.» «Come? Con questa pioggia torrenziale? Sarai impazzito! Guardati: hai i calzoni a pezzi e un bel sette nella giacca.» Mi afferrò per un braccio, mentre i ragazzi mi fissavano a bocca aperta. «Ma dove diavolo sei andato per conciarti così?» chiese Vita cominciando a ridere. Mi svincolai. «Sentimi,» dissi «tanto vale vuotare il sacco. Ma non qui. Questa porta è chiusa a chiave. Risali in macchina e andiamo dietro.» La precedetti, accompagnato dai ragazzi. Quando fummo davanti all'ingresso di servizio mi ricordai che era chiuso anche questo dal dentro, perché ero uscito attraversando il patio. «Aspettami,» dissi a Vita «vado ad aprirti.» E sempre con i ragazzi dietro rifeci il giro della casa fino al patio. La porta della stanza della caldaia era socchiusa... dovevo essere uscito di qui mentre seguivo Roger e gli al-
tri cospiratori. Continuavo a raccomandarmi di conservare la calma e di non confondermi. Se mi si confondessero proprio ora le idee, mi dicevo, sarei spacciato. «Che strano posto» disse Micky. «A che serve?» «A sedercisi per fare i bagni di sole, quando c'è il sole.» «Se fossi il professor Lane, l'avrei già trasformato in una piscina» disse Teddy. Mi seguirono nella casa e attraverso la vecchia cucina fino alla porta di servizio. L'aprii e mi trovai davanti Vita che aspettava impaziente fuori. «Mettiti al riparo dalla pioggia mentre i ragazzi e io portiamo dentro le valigie.» «Facci vedere la casa prima» disse lamentosamente Vita. «Il bagaglio può aspettare. Non dirmi che quella laggiù è la nostra cucina?» «Oh, no, che idea! È solo quella antica seminterrata. Nessuno di questi locali serve più.» Non avevo mai pensato, in realtà, di mostrare loro la casa cominciando di qui. Era un grosso sbaglio. Se fossero arrivati di lunedì avrebbero trovato me ad attenderli sugli scalini dell'ingresso principale, sotto il portico, le tende tirate e le finestre aperte; tutto a posto, insomma. Eccitati, Teddy e Micky correvano già su per le scale. «Dov'è la nostra stanza?» gridavano. «Dove dormiremo?» Dio mio, pensai, non farmi perdere la pazienza. Mi voltai verso Vita che mi guardava sorridendo. «Mi dispiace, tesoro,» cominciai «ma sinceramente...» «Sinceramente che cosa?» m'interruppe lei. «Sono elettrizzata anch'io come i ragazzi. Perché fai tante storie?» Già, perché? Come tutto sarebbe stato organizzato meglio, mi dissi con la più assoluta illogicità, se nella sua qualità di intendente Roger Kylmerth avesse fatto visitare a Isolda Carminowe l'interno di qualche castello. «Ma non ne sto facendo» dissi. «Dai, vieni...» La prima cosa che Vita notò, quando fummo nella cucina moderna al primo piano, furono i resti della mia cena sul tavolo. Avanzi di uova al piatto con salsicce, la padella ancora sporca in un angolo, la luce accesa. «Misericordia!» esclamò. «Ti sei cucinato un breakfast simile prima di uscire? Non ti riconosco!» «Avevo fame» spiegai. «Rimetterà tutto a posto la signora Collins. Non pensarci... andiamo sul davanti della casa.» Me la trascinai in fretta fino alla sala di musica, aprendo nel passare le
tende e gli scuri; poi attraverso l'atrio nella saletta da pranzo e di qui nella biblioteca. La pièce de resistance, la vista dalla finestra in fondo, era appannata dalla pioggia. «Col bel tempo è molto diverso.» «È splendido» disse Vita. «Non credevo che il tuo professore avesse tanto gusto. Il divano starebbe meglio contro la parete, e ci vorrebbero dei cuscini su quella panchetta nel vano della finestra. Ci penserò io.» «Beh,» dissi «questo è il pianterreno. Vieni di sopra.» Mentre io e Vita seguivamo i ragazzi che correvano, chiamandosi, da una stanza all'altra, mi sentivo come l'impiegato di un'agenzia immobiliare che cerca di appioppare a qualcuno un appartamento "difficile". Già tutto era cambiato: silenzio e pace spariti. D'ora in poi, mi dissi, potrò soltanto rivivere quello che ho diviso in segreto, non soltanto nel passato immediato, con Magnus e i suoi genitori, ma seicento anni fa con Roger Kylmerth. Terminata la visita del primo piano cominciò la dura fatica per disfare le valigie. Erano quasi le otto e mezzo quando la signora Collins arrivò sulla sua bicicletta per prendere in mano la situazione e dare con sincera gioia il benvenuto a Vita e ai ragazzi. Quando si furono chiusi tutti in cucina, me ne andai di sopra a far scorrere l'acqua del bagno, augurandomi di potermici stendere e annegare. Doveva essere passata una buona mezz'ora quando Vita entrò nella nostra stanza da letto. «Che Dio la benedica» disse alludendo alla Collins «è incredibilmente brava. Non dovrò alzare un dito. Potrò rilassarmi. E dire che avrà almeno una sessantina di anni.» «Che significa, rilassarti?» chiesi dalla stanza da bagno. «Quando cercavi d'impedirmi di venire,» spiegò Vita «ho pensato a una di quelle ragazzette tutto pepe...» Entrò nel bagno mentre mi strofinavo con l'asciugamano. «Non mi fido affatto del tuo professore, ma perlomeno sotto questo aspetto gli sono grata. Ora che sei pulito puoi darmi un altro bacio e prepararmi il bagno. Ho guidato per sette ore di fila, e sono morta!» Lo ero anch'io, ma in un altro senso. Morto per il mondo di Vita. Potevo aggirarmici meccanicamente, ascoltandola appena mentre si spogliava, buttava la sua roba sul letto, s'infilava una vestaglia, disponeva sulla toilette creme e lozioni continuando a parlare senza fermarsi della loro corsa fin qui, della giornata passata a Londra, di storie di New York, degli affari del fratello, cose che erano la trama della sua vita, anzi della nostra, ma di cui
nessuna mi riguardava realmente. Era come ascoltare una musica di sottofondo alla radio. Avrei voluto ritrovare la notte perduta, l'oscurità, il vento che s'ingolfava nella valle, il rombo del mare che s'infrangeva sulla spiaggia sotto la fattoria di Polpey, e l'espressione degli occhi di Isolda quando si era affacciata alla finestrella di quel carro dipinto per guardare Bodrugan. «... e se si fondessero sarebbe comunque non prima dell'autunno, e il tuo job non ne soffrirebbe...» «No» risposi automaticamente, non udendo più la sua voce. La vidi voltarsi di scatto, col viso imbrattato di crema sotto il turbante che portava sempre nel bagno. «Non hai sentito una sola parola di quello che ho detto!» gridò acida. Quel cambiamento di tono mi colpì, obbligandomi ad ascoltarla. «Certo che ho sentito.» «Davvero? F allora, sentiamo, di che cosa parlavo?» mi sfidò lei. Stavo togliendo dall'armadio della stanza da letto la mia roba per farle posto. «Parlavi della ditta di Joe» risposi «e di una certa fusione. Scusami, tesoro, mi levo subito dai piedi.» Vita mi strappò di mano l'appendiabiti col mio migliore completo di flanella grigia e lo scaraventò a terra. «Non voglio che ti levi dai piedi!» urlò con quella voce isterica che mi fa paura. «Ti voglio in questa stanza, adesso, veramente attento a quello che ti dico, invece di startene lì come il manichino di un sarto. Che diavolo ti sta succedendo? Mi sembra di parlare a qualcuno di un altro mondo.» Quello che Vita diceva era così esatto che giudicai inutile contrattaccare. Dovevo solo accucciarmi e lasciarmi passare sul capo l'ondata della sua giusta collera. «Tesoro,» dissi sedendomi sul letto e attirandomela accanto «non cominciamo male questa giornata. Siamo tutti e due stanchi, e se ci mettiamo a discutere ci sfiniremo e impediremo ai ragazzi di divertirsi. Sono svampito e distratto perché non mi reggo più in piedi. Sono uscito a camminare sotto la pioggia perché non riuscivo a dormire. Ma avrò esagerato, e invece di rianimarmi il troppo esercizio ha finito di rimbecillirmi.» «Come hai potuto fare un'idiozia simile... Avresti dovuto capire che... Si può sapere perché non riuscivi a dormire?» «Lascia perdere, ti ho detto!» Mi alzai dal letto, afferrai una bracciata di vestiti e me ne andai nello spogliatoio aprendo la porta col piede. Vita non mi seguì. La sentii chiude-
re i rubinetti ed entrare nella vasca da bagno, agitando con una mano l'acqua che traboccò sul pavimento. La mattina passò lentamente. Vita non si faceva viva. Poco prima dell'una aprii con precauzione la porta della stanza da letto e vedendo che dormiva profondamente scesi a far colazione con i ragazzi. Quei due chiacchieravano accontentandosi da parte mia di un sì o di un forse, poco esigenti come sempre quando non c'era Vita. Poiché con quella pioggia ostinata non si poteva pensare a una partita di cricket sulla spiaggia, me li portai in macchina a Fowey lasciando che si scatenassero a comprare gelati, fumetti e parole incrociate. La pioggia cominciò a diminuire verso le quattro, sostituita da un cielo opaco e un sole scialbo, quanto bastava ai ragazzi per precipitarsi sul molo e pretendere di andare in barca. Disposto a tutto pur di accontentarli e rimandare l'ora del ritorno, affittai un fuoribordo, e andammo rullando su e giù per il porto, i ragazzi chinandosi ogni tanto ad afferrare qualche detrito, bagnati tutti e tre fino all'osso. Appena fummo a casa, verso le sei, Micky e Teddy corsero a sedersi davanti all'enorme merenda preparata per loro dalla signora Collins. Quando mi rifugiai barcollando nella biblioteca per versarmi un doppio whisky, vi trovai Vita di nuovo padrona di sé e sorridente. Con la sua solita efficienza aveva già cambiato posto a quasi tutti i mobili e grazie a Dio il suo umore infernale della mattina era ormai soltanto un brutto ricordo. «Sai, tesoro,» m'informò «credo che qui mi troverò bene. Mi sento già a casa mia.» Mi lasciai cadere su una poltrona col bicchiere in mano e la guardai aggirarsi per la stanza correggendo gli sforzi coraggiosi della signora Collins per sistemare i fiori. La mia strategia sarebbe stata d'ora in poi di applaudire ogni suo gesto; tacere quando mi fosse sembrato necessario e adattarmi secondo l'ispirazione a ogni nuova circostanza. Ero al mio secondo whisky, quando i ragazzi piombarono nella biblioteca. «Dick!» urlava Teddy «che cos'è questo schifo?» Brandiva il barattolo con l'embrione di scimmia. Balzai in piedi. «Santo cielo!» esplosi «che cos'altro avete combinato?» Gli strappai di mano il barattolo e corsi verso la porta. Mi ricordai soltanto allora che quando ero uscito dal laboratorio all'alba, dopo aver ingoiato la mia seconda dose della droga, non mi ero messo in tasca la chiave, ma l'avevo lasciata nella serratura. «Non abbiamo fatto niente» protestò offeso Teddy. «Stavamo solo dan-
do un'occhiata in quelle stanze vuote di sotto. C'è uno sgabuzzino buio pieno di bottiglie, puzzolente come il laboratorio della nostra scuola. Vieni a vedere, presto, mamma. In un barattolo c'è anche... si direbbe un gatto morto...» Fui in un lampo fuori della biblioteca e giù per la scaletta che portava dall'atrio nel sottosuolo. La porta del laboratorio era spalancata e la luce accesa. Mi guardai rapidamente intorno. Non era stato toccato nulla, tranne il barattolo della scimmia. Spensi la luce e uscii nel corridoio chiudendo la porta e ficcandomi in tasca la chiave. I ragazzi proprio allora attraversavano correndo la vecchia cucina, seguiti da Vita che sembrava preoccupata. «Che cosa hanno fatto?» chiese. «Qualcosa di rotto?» «No, per fortuna» risposi. «È stata colpa mia; non dovevo lasciare aperta la porta.» Lei sbirciava al disopra della mia spalla nel corridoio. «Che cosa c'è, comunque, lì in fondo? Quella roba che Teddy ha portato di sopra... fa paura!» «Lo so» ammisi. «Ma si dà il caso che questa casa appartenga a un professore di biofisica che ha adibito a laboratorio quella stanzetta lì in fondo. E ti avverto che se dovessi ripescare uno di quei due da queste parti... lo uccido!» I ragazzi corsero via borbottando. «Sembra incredibile» osservò voltandosi verso di me Vita «che un professore universitario abbia una stanza come quella, piena di chissà che robaccia per i suoi esperimenti, e non si assicuri neppure che sia sempre ben chiusa.» «Non ricominciamo» pregai. «Ora la responsabilità è mia, e ti giuro che ci starò attento. Se tu fossi arrivata la settimana prossima, invece di piombarmi addosso senza preavviso stamattina all'alba, non sarebbe mai accaduto.» Vita mi fissava sorpresa. «Ma tu tremi!» esclamò. «Lì dentro non ci saranno mica degli esplosivi?» «Può anche darsi» replicai. «Comunque, speriamo che i ragazzi non ricomincino.» Spensi le luci del seminterrato e risalii di sopra. Tremavo, sì, e non c'era da stupirsene. Un cumulo d'ipotesi paurose mi affollavano la mente. Teddy e Micky avrebbero potuto stappare una delle bottiglie contenenti la droga, versarne il contenuto nel misurino e perfino vuotare le bottiglie stesse nel lavandino. Non dovevo perdere mai più di vista quella dannata chiave.
Continuavo a tastarmela in fondo alla tasca. Dovevo far fare un duplicato e tenermele tutte e due. Sarebbe stato più prudente. Mi chiusi nella sala di musica e ci rimasi a fissare il vuoto, col dito infilato nel buchetto della chiave. Vita era salita di sopra. Poco dopo il tintinnio della suoneria dell'atrio mi rivelò che stava parlando dalla diramazione del primo piano. Andai a lavarmi le mani nel gabinetto a terreno e tornai nella biblioteca. Vita continuava a parlare nella stanza da letto. Non ho l'abitudine di ascoltare le telefonate degli altri. Ma questa volta un istinto oscuro mi spinse ad avvicinarmi all'apparecchio della biblioteca e a sollevarne il ricevitore. «... e così, non so proprio cosa dedurne» diceva Vita. «Non lo avevo mai sentito usare quel tono con i ragazzi. Non ti dico come sono rimasta... Dick non deve star bene... ha gli occhi terribilmente cerchiati. Si lamenta di dormire male.» «Era ora che tu lo raggiungessi». Riconobbi l'accento strascicato di Diana. «Un marito in libertà è un marito in cerca di preda, te l'ho già detto. Ho fatto la mia esperienza con Bill.» «Oh, Bill!» disse Vita. «Lo sappiamo tutti che non puoi azzardarti a perderlo di vista. Beh... non so... Speriamo che il tempo si rimetta e che si possa trascorrere molto tempo fuori casa. Credo che Dick abbia affittato una barca.» «Mi sembra una buona idea.» «Sì... E speriamo che quel suo professore non gli abbia appioppato qualche strano incarico... Non mi fido e non mi fiderò mai di quell'uomo. E so di non essergli simpatica.» «Non è difficile capire perché» disse dopo aver riso Diana. «Non fare l'idiota! Può darsi che lui lo sia, ma Dick certamente no. Direi anzi l'opposto.» «Può darsi che sia proprio questo ad attirare il professore» osservò Diana. Riattaccai con precauzione. Il guaio delle donne è che hanno un cervello a binario unico. Secondo la loro maniera ristretta di vedere tutto ciò che è maschio, uomo, cane, pesce, o verme, insegue un solo monotono scopo: l'accoppiamento. Mi chiedevo a volte se pensavano mai a qualcos'altro. Vita e la sua amica Diana continuarono a confabulare ancora per un buon quarto d'ora, e quando infine scese, rianimata dai consigli di una sua simile, mia moglie non solo non alluse più alla mia scenata di poco prima, ma canticchiando allegramente, e indossando un grembiule con bizzarri di-
segni - sembravano mele e serpenti - si accinse a cucinare per il lunch delle magnifiche bistecche generosamente spalmate di burro e prezzemolo. «Stasera tutti a letto presto» intimò mentre, con gli occhi gonfi di sonno e silenziosi - naturale, dopo un viaggio di sette ore in macchina e la passeggiata nella baia - i ragazzi mangiavano e sbadigliavano. Dopo il pranzo, installata sul divano della biblioteca, Vita si mise a rammendare i miei calzoni e io mi sedetti allo scrittoio di Magnus, alludendo a conti da rivedere, eccetera; in realtà per riguardarmi il Ruolo dei Contribuenti Laici della Parrocchia di Tywardreath per il 1327. C'erano Julian Polpey, Henry Trefrengy e Geoffrey Lampetho. Quando avevo letto la prima volta l'elenco per me quei nomi non significavano niente. Ma dovevano essermi impressi a mia insaputa nella memoria. E gli uomini che avevo seguito fino alla valle passando davanti alle fattorie che portavano ancora oggi il loro nome erano forse soltanto fantasmi. Vidi solo allora sulla scrivania la lettera che il postino mi aveva consegnata quella mattina e che, agitato come ero per l'arrivo imprevisto dei miei, avevo buttata lì senza aprirla. Conteneva un foglio di appunti frettolosi dattiloscritti, dello studente di Londra. «Il Professore Lane» diceva «pensa che questi dati su Sir John Carminowe possano esserle utili. Era il figlio secondogenito di Sir Roger Carminowe di Carminowe. Arruolato nell'esercito del Re nel 1322. Investito Lord nel 1324. Chiamato a far parte del Gran Consiglio di Westminster. Nominato Amministratore dei castelli di Tremortan e Restormel il 27 aprile del 1331, e il 12 ottobre del medesimo anno Amministratore delle foreste, dei parchi, dei boschi, delle riserve di caccia reali nella Contea di Cornovaglia, era tenuto a rendere conto ogni anno al Re, a mezzo del suo intendente locale, e i dipendenti di costui, dei proventi dei permessi di pascolo delle suddette foreste e dei suddetti parchi e boschi.» Lo studente aveva aggiunto fra parentesi: (Copiato dal Registro delle Ammende del 5° Anno di regno di Edoardo III). Sotto, un'altra nota: (24 ottobre. Nel Registro delle Licenze per lo stesso anno 1331 si accenna a una licenza speciale rilasciata a Joanna, vedova di Henry di Champernoune, principale affittuario, di sposare chiunque le aggradi fra i sostenitori del Re. Tassa di 10 marchi). Dunque Sir John aveva trionfato e Otto Bodrugan era stato sconfitto, mentre Joanna, in attesa che morisse la moglie di Sir John, aveva già pronta nel cassetto una licenza di matrimonio.
Riposi il foglio insieme alla copia dell'elenco dei Contribuenti Laici e mi avvicinai agli scaffali, dove mi ricordavo di aver visto i numerosi volumi dell'Enciclopedia Britannica del comandante Lane. Tirai fuori l'ottavo e cercai Edoardo III. Vita si stirava sbadigliando e sospirando sul divano. «Tu fa come vuoi,» disse infine «io me ne vado a letto.» «Ti raggiungo fra un momento.» «Continui a sgobbare per il tuo professore? Porta quel libro sotto la luce, se non vuoi rovinarti gli occhi.» Non replicai. «Edoardo III (1312-1377) Re d'Inghilterra, primogenito di Edoardo II e di Isabella di Francia, nacque a Windsor il 13 novembre del 1312... L'11 gennaio del 1327 il Parlamento lo riconobbe come sovrano, e fu incoronato il 29 dello stesso mese. Nei quattro anni che seguirono, Isabella e il suo amante, Mortimer, governarono in suo nome, sebbene il suo tutore fosse normalmente Henry, Conte di Lancaster. Nell'estate del 1327 partecipò ad una campagna, destinata a fallire, contro gli Scozzesi, e il 24 gennaio del 1328, a York sposò Philippa. Il 15 giugno del 1330 nacque il suo primogenito, Edoardo il Principe Nero.» Nessun accenno a una rivolta. Ma ecco la spiegazione: «Poco dopo Edoardo riusciva con uno sforzo coraggioso a liberarsi della tutela degradante di sua madre e di Mortimer. Nell'ottobre del 1330 penetrò nottetempo da un passaggio sotterraneo nel castello di Nottingham e fece prigioniero Mortimer. L'esecuzione del "favorito", a Tyburn, il 29 novembre, completò l'emancipazione del giovane Re. Tirando con molta discrezione un velo sui rapporti fra Isabella e Mortimer, Edoardo continuò a trattare sua madre col più grande rispetto. Mentre sono assolutamente false le dicerie secondo le quali lui la mantenesse in un'onorevole prigionia, è certo che da quel momento l'influenza politica di Isabella cessò completamente». Fu anche la fine di Bodrugan e dei suoi possedimenti in Cornovaglia. Il comando era ormai passato a Sir John, nominato appena un anno dopo Amministratore dei castelli di Tremerton e di Restormel, uomo ligio al Re. E prudente come sempre, dimenticata ormai la notte di ottobre, Roger imponeva il silenzio ai suoi amici della valle. Mi domandai che cosa fosse accaduto dopo la sera del raduno alla fattoria di Polpey, quando Isolda aveva arrischiato tanto per avvertire il suo amante. Pensando avvilito alla piega diversa che avrebbero potuto prende-
re gli avvenimenti, Bodrugan era forse tornato nelle sue terre per dedicarsi ormai soltanto al suo amore, e lei, quando il marito era assente, lo vedeva forse ogni tanto di nascosto? Neppure ventiquattr'ore fa ero fra loro; sei secoli fa... Rimisi il volume nello scaffale, spensi la luce e salii di sopra. Vita era già a letto, seduta, con le tende aperte per vedere il mare attraverso le ampie finestre. «Questa stanza è un paradiso» mi disse. «Immagina quello che sarà con la luna piena... Tesoro, sento che mi troverò molto bene qui... Ed è meraviglioso essere di nuovo insieme.» Mi fermai un minuto davanti alla finestra a guardare nella baia. Dalla sua stanza da letto al disopra della vecchia cucina Roger aveva davanti, per tenergli compagnia, questa stessa distesa scura di cielo e mare. Nel voltarmi verso il letto mi ricordai la battuta ironica di Magnus al telefono, il giorno prima: "Volevo soltanto informarti, ragazzo, che quest'andirivieni fra due mondi e due donne può anche essere... stimolante". Era vero, se mai, il contrario. 11 Il giorno seguente, domenica, Vita m'informò, mentre consumavo la prima colazione, che avrebbe portato i ragazzi in chiesa. Ogni tanto le veniva in mente, durante le vacanze. Dopo aver lasciato passare due o tre settimane senza neppure accennare ai doveri religiosi, a un tratto, senza giustificazioni e quasi sempre quando i ragazzi erano piacevolmente occupati in qualche altra maniera, piombava nella loro stanza, gridando: «Spicciatevi! Vi do cinque minuti per essere pronti!». «Pronti? Per che cosa?» chiedevano Micky e Teddy alzando gli occhi dal modellino di aeroplano o da qualche altro aggeggio che li affascinava in quel momento. «Per andare in chiesa, si capisce» rispondeva lei, e usciva di nuovo dalla stanza, sorda ai loro gemiti di protesta. Per me era sempre un'eccellente scappatoia. Invocando la mia educazione cattolica me ne rimanevo a poltrire a letto, leggendo i giornali della domenica. Ma quel giorno, malgrado il sole sfolgorante che inondava la stanza al nostro risveglio e il sorriso della signora Collins quando ci aveva portato il vassoio col caffè e il pane tostato, Vita sembrava preoccupata.
Poiché avevo dormito come un ghiro, udendola lamentarsi di aver passato una notte inquieta mi sentii subito colpevole. Questa faccenda di aver dormito bene o male era in fondo il vero banco di prova dei rapporti coniugali. Se uno dei due non è riuscito a riposare bene durante la notte, la colpa viene immancabilmente attribuita all'altro, e la giornata che segue va di conseguenza a rotoli. Questa particolare domenica non doveva fare eccezione alla regola. E infatti, quando, in jeans e magliette, i ragazzi entrarono ad augurarci il buon giorno, Vita si affrettò ad aggredirli. «Toglietevi subito quella roba di dosso, e mettetevi gli abiti di flanella! Avete dimenticato che è domenica? Oggi si va in chiesa!» «Oh no, mamma!» Mi facevano un po' pena, lo ammetto. Quel sole scintillante, il cielo azzurro, il mare in fondo ai campi, dovevano ispirargli un desiderio solo: di correre giù a nuotare. «Niente discussioni, eh?» disse alzandosi Vita. «Andate a cambiarvi. Ci sarà pure una chiesa nei dintorni, e tu potrai almeno accompagnarci in macchina, no?» chiese rivolgendosi a me. «Puoi scegliere» replicai «tra Fowey e Tywardreath. Forse è più facile portarvi a Tywardreath.» Nel dirlo sorrisi, perché quel nome aveva un significato molto speciale, ma per me solo. «È un posto interessante anche dal punto di vista storico» ripresi. «Dove c'è adesso il cimitero sorgeva una volta un monastero.» «Hai sentito, Teddy?» disse Vita. «Al posto della chiesa dove andremo stamattina, una volta c'era un monastero. Non ripeti sempre che la storia è la tua passione? Spicciati, su!» Ho visto di rado due ragazzi più avviliti. Teddy e Micky si avviarono immusoniti verso la porta curvando le spalle. «Più tardi vi porto a nuotare!» gli gridai dietro mentre uscivano. Mi stava bene, accompagnare a Tywardreath la baracca. Poiché la funzione sarebbe durata almeno un'ora, avrei potuto scaricarli davanti alla chiesa, parcheggiare la macchina al disopra di Treesmill, e raggiungere a piedi attraverso i campi il Gratten. Non sapevo quando avrei potuto spingermi di nuovo fin lì e alla cava, circondata dai suoi cumuli erbosi, che mi attirava irresistibilmente. Mentre portavo Vita e i due ragazzi vestiti a festa giù per la collina di Polmear, gettai un'occhiata a destra verso Polpey, chiedendomi cosa sarebbe accaduto se, mentre aspettavano il postino, gli attuali proprietari mi
avessero sorpreso a spiarli attraverso i cespugli, o se, peggio - e sarebbe potuto capitarmi benissimo - Julian Polpey avesse invitato Roger e i suoi amici a entrare in casa. Sarei stato sorpreso mentre cercavo di salire furtivamente al primo piano? L'idea mi sembrò così divertente che scoppiai a ridere. «Che c'è di tanto buffo?» chiese mia moglie. «Niente» risposi. «Soltanto la vita che sto facendo. Oggi vi accompagno in chiesa; ieri all'alba facevo quella camminata... Vedi quella palude lì sotto? È là che mi sono infradiciato.» «Non mi stupisce» disse Vita. «Come ti è saltato in mente di scegliere un posto simile? Che cosa speravi di trovarci?» «Trovarci?» ripetei. «Non lo so. Forse una donzella in pericolo. Non sai mai che cosa può riservarti la sorte.» Continuai a salire di volata, elettrizzato, verso Tywardreath. Il solo fatto che Vita non sospettasse niente mi riempiva di una gioia ridicola, molto simile a quella che provavo da ragazzo quando riuscivo a ingannare mia madre. È in fondo l'istinto fondamentale di tutti i maschi. Lo possedevano anche i ragazzi, e perciò diventavo spesso complice di quelle loro marachelle che infuriavano Vita: per esempio mangiucchiare fra i pasti, o discorrere a letto a luci spente. Li lasciai davanti al portale della chiesa, i ragazzi sempre immusoniti. «Cosa farai, intanto?» mi chiese Vita. «Me ne andrò a spasso.» Lei alzò le spalle ed entrò. Quel suo gesto significava, lo sapevo, che non divideva la mia leggerezza di spirito. Mi augurai che il Mattutino la placasse. Proseguii per Treesmill, lasciai la macchina e tagliai attraverso i campi in direzione del Gratten. Era una mattina splendida. Un sole caldo riempiva la valle. Un mignolo mi si librò a un tratto sulla testa cantando da farsi scoppiare il cuore. Rimpiansi di non aver portato con me dei panini e di non avere a mia disposizione tutto il giorno invece di una sola ora rubata. Non entrai nella cava con i suoi strascichi di edera e i vecchi barattoli arrugginiti, ma mi sdraiai sull'erba in uno dei piccoli affossamenti, chiedendomi come doveva essere quel luogo di notte, quando il cielo era pieno di stelle, e soprattutto una volta, quando l'acqua copriva la vallata. Mi tornò a un tratto alla memoria la scena fra Lorenzo e Jessica:
In una notte come questa, Troilo dové salire sulle mura di Troia Per guardare sospirando le tende greche Dove giaceva Cressida... In una notte come questa, Didone andò sul greto selvaggio, Agitando un ramo di salice Per richiamare a Cartagine il suo amore... In una notte come questa Medea colse le erbe incantate Che rianimarono il vecchio Giasone... Erbe incantate era il termine esatto. Infatti, mentre Vita e i ragazzi si vestivano per andare in chiesa, ero sceso nel laboratorio e avevo versato nella fiaschetta quattro misurini della droga. La fiaschetta era nella mia tasca. Chissà quando avrei avuto un'altra occasione... Tutto cambiò in un lampo. Ma non era sera, bensì giorno, ed estate per giunta, sebbene a giudicare dal cielo a ovest, che intravedevo dalla finestra a due battenti della sala, fosse vicino l'imbrunire. Appoggiato a una panca in fondo, avevo davanti la corte d'ingresso con la sua cinta di muri. La riconobbi subito. Ero nel maniero. Nel cortile giocavano due bambine sugli otto e dieci anni, forse, stabilirlo era difficile, con quei corpetti così attillati e le gonne fino alle caviglie. Ma i lunghi capelli di un biondo dorato spioventi sulle loro spalle e i tratti minuti, perfetti, le rivelavano edizioni in miniatura della loro madre. Soltanto lei può aver messo al mondo due creature simili, mi dissi. E mi ricordai ciò che Roger aveva detto al suo compagno Julian Polpey al ricevimento del Vescovo: che Isolda aveva tirato su dei maschi, figli della prima moglie di Oliver Carminowe, ma soltanto due femmine sue. Le bambine giocavano con delle pedine che somigliavano a dei birilli su una scacchiera disegnata per loro sul lastricato, e ogni volta che lo spostavano scoppiavano discussioni violente per decidere a chi toccasse. La più piccola afferrò a un certo punto una pedina e se la nascose sotto la gonna provocando altri gridi, scappellotti e tirate di capelli. Improvvisamente dalla sala centrale da dove le osservava, Roger uscì nel cortile e sedendosi sui
calcagni fra quelle due prese a ognuna una mano. «Sapete cosa succede» disse «quando le donne litigano? La lingua gli diventa nera e gli si accartoccia nella gola strozzandole. È accaduto una volta a mia sorella, e se non fossi arrivato in tempo a tirargliela fuori, sarebbe morta. Aprite la bocca.» Le bambine la spalancarono, spaventate, tirando fuori la lingua, e Roger gliele toccò con l'indice. «Pregate Iddio che vi abbia guarite» disse, agitando il dito. «Ma se non vi calmate il male potrebbe ricominciare. Coraggio, chiudete la bocca e non riapritela fino al prossimo pasto, o per lasciarne uscire solo parole gentili. Joanna, tu che sei la maggiore dovresti insegnare a Margaret che non sta bene nascondersi sotto la gonna un uomo!» Tirò di sotto la veste della bambina il birillo e lo posò a terra. «Su, continuate. Io rimango a vedere che non facciate imbrogli.» Piantato a gambe larghe lasciò che le bambine gli spostassero tutt'intorno le pedine, prima esitanti, poi più disinvolte, e ridendo infine di cuore mentre lui si buttava di qua e di là fingendo d'inciampare e rovesciando le pedine per costringerle a rimetterle in piedi col suo aiuto. Poco dopo una donna - la loro nutrice, supposi - le chiamò da una seconda porta dietro la sala. Raccolti i birilli le bambine li consegnarono solennemente a Roger che dopo aver promesso di giocare di nuovo con loro il giorno dopo, ammiccò alla nutrice consigliandola di esaminare più tardi le loro lingue e avvertirlo, se avessero ricominciato ad annerirsi. Posati i birilli accanto all'ingresso, entrò nella sala. Le bambine erano già sparite con la loro nutrice. È la prima volta, mi dicevo io, che questo Roger rivela una certa umanità. Si era tolto per un momento la maschera dell'amministratore freddo e interessato, forse corrotto, e non vedevo più sul suo viso l'ironia e il distacco crudele che avevo associato fino allora a tutte le sue azioni. Roger si fermò tendendo l'orecchio. Nella sala c'eravamo soltanto noi due. Mi accorsi, guardandomi intorno, che da quel giorno di maggio, quando era morto Henry di Champernoune, quel luogo era in un certo modo cambiato. Non dava più l'impressione di essere permanentemente abitato, ma piuttosto sembrava una casa da cui i proprietari andassero e venissero lasciandola vuota nella loro assenza. Non si sentivano abbiare cani, non si vedevano servi all'infuori della nutrice delle bambine. La padrona di casa stessa, pensai a un tratto, Joanna Champernoune, doveva forse trovarsi con i figli e le figlie in quell'altro ca-
stello di Trelawn a cui il suo intendente aveva alluso in presenza di Lampetho e Trefrengy nella cucina di Kylmerth, la notte della rivolta abortita. Probabilmente la casa era affidata a Roger, e le bambine d'Isolda si trovavano qui con la loro nutrice, per interrompere il loro viaggio da un maniero all'altro. Roger si avvicinò alla finestra dalla quale entrava l'ultimo sole e guardò fuori. Lo vidi quasi subito appiattirsi contro il muro come per il timore che qualcuno potesse notarlo dal di fuori e preferisse non essere visto. Incuriosito mi avvicinai anch'io alla finestra e capii subito il motivo di quella manovra. Su una panca sotto la finestra c'erano Isolda e Bodrugan, e poiché in quel punto l'angolo del muro nascondeva il sedile, chiunque si fosse seduto lì poteva considerarsi al sicuro, a meno di non essere spiato da quest'unica finestra. Il prato davanti a me scendeva fino a un basso muro e al di là i campi declinavano fino al fiume dov'era ancorato il bastimento di Bodrugan. Ne scorgevo l'albero maestro ma non il ponte. La marea era bassa, il canale stretto, e ai due lati del nastro azzurro dell'acqua si stendevano strisce di sabbia affollate da ogni sorta di uccelli acquatici che s'immergevano o saltellavano intorno alle pozzanghere lasciate dalla marea che si era ritirata. Bodrugan teneva tra le sue le mani di Isolda, esaminandone le dita, mordendole a una a una, o meglio, fingendo di morderle in una specie di sciocco gioco amoroso e facendo smorfie come per dire che erano agre. Fermo davanti alla finestra li osservavo stranamente turbato, non perché volessi spiarli come Roger, ma perché intuivo che la passione di quei due era in un certo sento innocente, direi quasi benedetta, un genere di rapporto che non mi sarebbe mai dato di conoscere. Un istante dopo Bodrugan lasciò ricadere bruscamente le mani di Isolda. «Permettetemi di rimanere un'altra notte e di non risalire a bordo» disse. «La marea potrebbe non essermi propizia e se salpassi correrei forse il rischio di arenarmi.» «Non se saprete scegliere il momento giusto» replicò Isolda. «Più rimarrete qui e più pericoloso sarà per entrambi. Sapete benissimo come viaggiano in fretta le dicerie. È già stata una pazzia venir qui con la vostra nave che tutti conoscono.» «Non significa niente» disse lui. «Vengo spesso in questa baia e in questo fiume per affari, o a pescare per mio piacere fra qui e Chapel Point. È stato un puro caso che vi ci siate trovata anche voi.» «No,» protestò Isolda «e lo sapete quanto me. L'intendente vi ha portato
la mia lettera che vi avvertiva del mio arrivo.» «Roger è un messaggero fidato» disse Bodrugan. «Mia moglie e i miei figli sono a Trelawn, e anche mia sorella Joanna. Valeva la pena di correre questo rischio.» «Per questa volta sì, ma non per due notti di fila. Io non mi fido quanto voi dell'intendente, e conoscete i miei motivi.» «Alludete alla morte di Henry?» Bodrugan si aggrottò. «Sono sempre convinto che quella volta siate stata ingiusta con lui. Henry era un uomo condannato, lo sapevano tutti. Se quelle pozioni hanno contribuito a farlo addormentare prima, senza dolore e col consenso di Joanna, perché dovremmo avere dei dubbi?» «È avvenuto troppo facilmente e con un fine preciso» obiettò lei. «Mi dispiace, Otto, ma non riesco a perdonare a Joanna, anche se è vostra sorella. Quanto all'intendente, Joanna li avrà pagati senza dubbio bene, lui e il suo complice, il frate.» Guardai Roger. Non si era mosso dal suo angolo in ombra presso la finestra, ma sentiva senza dubbio come me quei due e, a giudicare dall'espressione dei suoi occhi, ciò che Isolda stava dicendo non doveva piacergli. «Passando al frate,» riprese Isolda «è sempre al monastero, e la sua influenza aumenta ogni giorno. Il Priore è cera nelle sue mani, e il suo gregge fa quello che vuole frate Jean, che va e viene come gli aggrada.» «Anche se è così» disse Bodrugan «non è affar mio.» «Potrebbe diventarlo» lo avvertì lei «se Margaret cominciasse a credere quanto Joanna nella sua scienza delle erbe. Lo sapete, che negli ultimi tempi ha curato i vostri?» «No» rispose lui. «Ero a Lundy, come sapete, e Margaret preferisce Trelawn perché, secondo lei, sia l'isola che Bodrugan sono troppo esposti.» Si alzò e cominciò a passeggiare davanti a lei sull'erba. Il loro breve intervallo d'amore era finito e i problemi della vita domestica li riafferravano di nuovo. Mi fecero pena. «Margaret,» riprese Bodrugan «è, come il povero Henry, anche troppo una Champernoune. Un prete, o un monaco, se se lo mettessero in mente, potrebbero facilmente convincerla all'astinenza e alla preghiera perpetua. Debbo provvedere.» Isolda si era alzata a sua volta e con le mani sulle spalle di Bodrugan gli si stringeva guardandolo. Sporgendomi dalla finestra avrei potuto toccarli. Come sono piccoli, mi dissi, più bassi di qualche centimetro della media dei miei contemporanei.
Ma lui era robusto e largo di spalle, con una bella testa e un sorriso accattivante, e lei delicata come una pastorella di porcellana, appena più alta delle sue figlie. Vedendo che si abbracciavano fui assalito di nuovo da quella strana inquietudine, come un presentimento di sciagura, così diverso da ciò che avrei provato nel mio tempo vedendo da una finestra due amanti... un senso di partecipazione completa e un'acuta pietà. Sì, la parola era questa. Ma non riuscivo a capire questo partecipare così intenso a tutto quello che quei due facevano e dicevano, forse perché - non trovavo altra spiegazione - retrocesso com'ero dal mio tempo nel loro e sapendoli entrambi polvere di sei secoli, li sentivo vulnerabili, condannati con più certezza di me a morire. «Preoccupatevi anche di Joanna» disse Isolda. «Non è più vicina di due anni fa al suo matrimonio con John, e naturalmente si è molto inasprita. Potrebbe perfino sbarazzarsi della moglie di lui come si sbarazzò del proprio marito.» «Non oserebbe. E neppure John» disse Bodrugan. «Joanna oserebbe qualunque cosa, se le convenisse. Farebbe perfino del male a voi, se le sbarraste la strada. Ha nel cervello un'idea sola: vedere John lord di Restmorel e sceriffo di Cornovaglia. E accanto a lui, lei, sua moglie, regnante come Lady Carminowe su tutti i possedimenti della Corona.» «Se dovesse succedere, non potrò impedirlo» protestò Bodrugan. «Come fratello potreste tentare» disse Isolda. «E, perlomeno, proibire a quel frate di seguirla dovunque con i suoi beveraggi velenosi.» «Joanna è sempre stata caparbia» replicò il suo amante. «Ha sempre fatto quello che voleva. Non posso farle continuamente la guardia. Proverò a parlarne a Roger.» «L'intendente? Ma se è legato quanto lei al monaco!» protestò sprezzante Isolda. «Vi consiglio di nuovo di non fidarvene, Otto, per ciò che riguarda Joanna o noi due. Roger tiene segreti per il momento i nostri pochi incontri perché gli fa comodo.» Guardai di nuovo il mio compagno e vidi che si era rabbuiato. Mi augurai che qualcuno lo chiamasse dall'interno, impedendogli di continuare ad origliare, o, spiattellando così apertamente e con tanta acredine i suoi torti, Isolda se lo sarebbe messo contro. «Si schierò dalla mia parte nell'ottobre scorso, e lo rifarebbe» obiettò Bodrugan.
«Si schierò dalla vostra parte perché contava di ricavarne molto» replicò lei. «Adesso che potete fare poco per lui perché dovrebbe rischiare di perdere la sua posizione? Una sola parola a Joanna, da lei a John, e da John a Oliver, e saremmo perduti.» «Oliver è a Londra.» «Oggi, forse. Ma i pettegolezzi viaggiano più veloci del vento. Domani sarà a Bere, o a Bockenod. Il giorno dopo a Tregest, o a Carminowe. A Oliver non importa che io viva o muoia, ha donne ovunque vada. Ma il suo orgoglio non tollererebbe mai una moglie infedele! Questo lo so.» Ormai una nube li divideva e nel cielo altre se ne raccoglievano al disopra delle colline in fondo alla vallata. Tutto lo splendore di quel giorno d'estate era svanito. Dal mondo di quei due erano scomparse serenità e innocenza. E anche dal mio. Separato da loro da tanti secoli, dividevo in un certo qual modo la loro colpa. «Che ore sono?» chiese Isolda. «Quasi le sei, a giudicare dal sole» rispose lui. «Che importanza ha?» «Le bambine debbono ripartire» spiegò Isolda. «Guai se corressero all'improvviso a cercarmi e ti vedessero qui.» «Roger è con loro. Gl'impedirà di disturbarci» la tranquillizzò Bodrugan. «Anche così debbo dare loro la buona notte, o non saliranno mai sui loro ponies.» Mentre Isolda si allontanava sull'erba anche l'intendente sgusciò dal suo angolo buio e attraversò la sala. Lo seguii perplesso. Le bambine non dovevano dunque abitare in questa casa, ma altrove, a Bockenod, forse. Ma il Boconnoc che conoscevo era troppo lontano perché delle bambine potessero raggiungerlo di qui prima di notte. Dalla sala passammo nel cortile sul davanti, poi, attraverso l'arco, in quello delle scuderie. C'era lì Robbie, il fratello di Roger, occupato a sellare i ponies, a farvi salire le bambine, ridendo e scherzando con la nutrice, che torreggiarne sul suo cavallo faticava a tenerlo a freno. «Sarà più tranquillo se ne avrà addosso due» gridò loro Roger. «Robbie salirà in sella con voi e vi terrà caldo. Dietro o davanti, come preferite. Per lui è lo stesso: non è vero, Robbie?» La nutrice, una campagnola dalle guance accese, gorgogliava lusingata protestando, per la forma, che poteva benissimo cavarsela da sola. Scoppiarono poi altre risa, subito troncate da un cenno dell'intendente all'apparire di Isolda nel cortile. Roger le si mise al fianco piegando in un gesto deferente la testa.
«Le bambine saranno in buone mani con Robbie» disse. «Ma se preferite posso accompagnarle io.» «Lo preferisco» replicò brevemente lei. «Grazie.» Dopo essersi inchinato di nuovo, Roger si avvicinò alle bambine che erano già in sella e tenevano a freno, con disinvoltura perfetta, i loro cavalli. «Io mi trattengo ancora un poco qui» disse Isolda baciandole a turno. «Tornerò più tardi. Non frustate i cavalli per la strada per farli galoppare. E obbedite ad Alice.» «Dobbiamo fare quello che vuole lui» replicò la più piccola, accennando col frustino a Roger «o ci torcerà la lingua per vedere se si è annerita.» «Non ne dubito» rispose Isolda «o userà qualche altro sistema per farvi star zitte.» Dopo averle sorriso, senza che lei si degnasse di badargli, l'intendente andò a togliere le redini dalle mani delle bambine e tirò i ponies verso l'arco facendo cenno col capo a Robbie di fare lo stesso col cavallo della nutrice. Isolda ci seguì fino al cancello. E a questo punto mi sentii lacerare fra costrizione e desiderio. Dovevo seguire il piccolo gruppo capitanato da Roger, ma ardevo di rimanere accanto a Isolda che, completamente ignara della mia presenza, continuava a salutare con la mano le sue bambine. Sapevo di non doverla toccare, e che se l'avessi fatto lei non avrebbe avvertito più di un soffio d'aria, forse neppure questo. Per lei io non ero mai esistito e non avrei potuto mai esistere perché lei era viva ed io un fantasma senza peso né forma. Se mi fosse stato concesso il breve, inutile piacere di carezzarle la guancia, non ci sarebbe stato alcun contatto: lei sarebbe immediatamente sparita lasciandomi in preda alle vertigini, alla nausea e all'inevitabile rimorso. Per fortuna mi venne risparmiata la scelta. Isolda agitò un'ultima volta la mano guardandomi fisso negli occhi e attraversato il cortile rientrò in casa. Seguii la piccola comitiva che cavalcava giù per i campi. Isolda e Bodrugan sarebbero rimasti soli ancora per qualche ora. Forse avrebbero fatto l'amore. Lo speravo con una specie di disperata simpatia. Avevo l'impressione che i loro momenti, e anche i miei, fossero contati. Il sentiero scendeva al guado dove, dopo aver serpeggiato nella valle, il torrente del mulino si mescolava all'acqua salata della baia. A marea bassa, ora, il guado era praticabile. Quando le bambine vi giunsero, Roger lasciò le redini e assestando una manata alle groppe dei ponies, li fece galoppare nell'acqua mentre le bambine strillavano di gioia. Si comportò così anche
col terzo cavallo, che aveva in sella Robbie e la nutrice, l'urlo di costei si dovette sentire da un capo all'altro della valle. Il maniscalco della fucina sull'altra riva del torrente, - vedevo il riflesso dal fuoco sull'incudine, e un paio di cavalli in attesa di essere ferrati - uscì sghignazzando dal suo capanno e strappato dalle mani di un garzone un mantice lo puntò sulla nutrice in modo da mandargliene le scintille sulla gonna già bagnata dall'acqua del mulino. Incitato da Roger che gridava: «Togli l'attizzatoio dal fuoco per riscaldarla!» il maniscalco finse di minacciare Alice con una sbarra arroventata da cui piovevano scintille, mentre, quasi strangolato dalla ragazza atterrita, piegato in due dal gran ridere, Robbie affondava i tacchi nei fianchi del cavallo per farlo impennare. Lo spettacolo attirò dal mulino, da questa parte del torrente, il mugnaio e sua moglie. Vidi che nel cortile della casa c'erano dei monaci e un carro che altri due stavano riempiendo di grano. Interruppero il loro lavoro sorridendo come il maniscalco, e uno di loro si portò le mani alla bocca per imitare il verso del gufo, mentre l'altro agitava rapidamente le braccia al disopra del capo come se fossero ali. «Fate la vostra scelta, Alice!» le gridò Roger. «Fuoco e vento nella fucina di Rob Rosgof, o preferite che i frati vi leghino con la vostra cintura alla ruota del mulino?» «La ruota, la ruota!» gridarono elettrizzate le bambine dall'altra riva del guado, credendo che Alice dovesse tirare a sorte. Poi, all'improvviso, com'era incominciato, il gioco finì. Attraversato il guado con l'acqua che gli arrivava a mezza gamba, Roger riprese le redini dei cavalli e prese a risalire per il sentiero a destra della vallata, con Robbie e la nutrice alle calcagna. Stavo per seguirlo attraverso il guado quando uno dei frati che erano nel cortile del mulino mandò un urlo, o almeno, sul momento pensai comunque che fosse lui. Mi voltai a guardare che cosa volesse e vidi invece una piccola utilitaria che il suo conducente aveva fermata di colpo a pochi metri da me. «Perché non porta il cornetto acustico?» mi aggredì, passandomi davanti così furiosamente che per poco non finii nel fosso. Seguii con gli occhi, sbattendo le palpebre, la macchina che sfrecciava via, con le tre persone sedute dietro, vestite per la passeggiata domenicale, che mi guardavano strabiliate dal finestrino. Il tempo aveva invertito la marcia troppo in fretta, troppo presto. Non
c'erano più il torrente del mulino, le pozzanghere e la fucina. Ero al centro della strada di Treesmill, in fondo alla valle. Mi appoggiai al parapetto del ponticello che scavalcava l'acquitrino. Mi era andata bene per un pelo. Per poco non avevo fatto finire nel fosso la comitiva della macchina e non c'ero finito anch'io con loro. E non potevo neppure scusarmi con quella gente, poiché la macchina era già scomparsa in cima alla collina. Rimasi immobile per un po' aspettando la reazione, che non venne. Il cuore mi batteva più in fretta del solito, ma era naturale, mi dissi, dopo aver corso il rischio di essere investito. Ero stato fortunato a cavarmela. Il conducente non c'entrava; la colpa era tutta mia. Risalii la collina fino alla svolta dove avevo lasciata la macchina, e rimasi per un altro po' seduto al volante in attesa di calmarmi. Dovevo essere sicuro che la voce mi fosse ridiventata normale, prima di andare ad aspettare i miei davanti alla chiesa. L'immagine di Roger che accompagnava le bambine a cavallo attraverso la valle era ancora straordinariamente viva, ma sapevo che faceva parte di quell'altro mondo già scomparso. La casa sull'estuario era ridiventata la casa del Gratten, coperta d'erbe e deserta, ad eccezione dei cespugli di ginestre e dei barattoli arrugginiti. Bodrugan e Isolda non facevano più l'amore. Ero ripiombato nella realtà del presente. Guardai il mio orologio e rimasi di stucco. Le lancette segnavano le tredici e trenta. La funzione nella chiesa di St. Andrew era finita da un'ora e mezzo, se non di più. Ingranai la marcia, assalito dai rimorsi. La droga mi aveva tradito allungando incredibilmente il tempo. Non potevo essere stato più di mezz'ora, al massimo, in quella casa, e avevo seguito poi per un'altra decina di minuti Roger e le bambine fino al guado. L'intero episodio era stato rapidissimo: non avevo fatto altro, in fondo, che origliare dalla finestra, guardare le bambine che montavano in sella e accompagnarle per un breve tratto. Mentre risalivo ora sulla collina mi preoccupavo molto più dell'effetto della droga che della prospettiva di dover raccontare di nuovo a Vita che mi ero messo a camminare a caso e mi ero smarrito. Perché questo ritardo del tempo? Mi ricordai che di solito quando m'imbarcavo per il passato non avevo mai l'impulso di guardare l'orologio. Non avevo perciò modo di sapere come passasse laggiù il tempo: il loro sole e il loro cielo non erano i miei. Non potevo calcolare quanto durava esattamente l'effetto della droga. Come sempre quando qualcosa andava storto, incolpai Magnus. Avrebbe dovuto avvertirmi. Mi fermai davanti alla chiesa, ma naturalmente non c'era nessuno. Vita
doveva avermi aspettato con i ragazzi schiumanti di rabbia. Si era poi fatta dare un passaggio da qualcuno, o aveva trovato un tassi. Proseguii verso Kilmarth cercando di escogitare una scusa migliore che aver perduto la strada; o che mi si fosse fermato l'orologio. La benzina... Non potevo essere rimasto senza benzina? Oppure aver avuto una gomma a terra? Oh!... all'inferno! esplosi. Infilai rombando il viale e mi fermai stridendo davanti alla casa. Attraversai il giardino, salii gli scalini dell'ingresso ed entrai nell'atrio. La porta della stanza da pranzo era chiusa. La signora Collins sbucò stravolta dal corridoio della cucina: «Gli altri debbono aver finito,» disse a mo' di scusa «ma le ho tenuto in caldo il suo pranzo. Non avrà avuto per caso qualche guasto alla macchina?». «Sì» risposi con gratitudine. Aprii la porta della sala da pranzo. I ragazzi stavano sparecchiando, ma seduta ancora a tavola, Vita finiva di bere il suo caffè. «Che Dio stramaledica quella dannata macchina...» avevo cominciato. I ragazzi si voltarono a fissarmi, incerti se scoppiare a ridere o svignarsela. Decidendosi improvvisamente, Teddy gettò una sbirciata a Micky e uscirono tutti e due in fretta dalla stanza. Teddy portando un vassoio carico di stoviglie. «Tesoro,» continuai «sono terribilmente avvilito. Darei qualunque cosa perché non fosse accaduto. Non puoi immaginare...» «M'immagino benissimo tutto, invece!» m'interruppe lei. «Temo che ti abbia rovinato la tua domenica.» Il suo sarcasmo era sprecato. Mi stavo chiedendo se dovevo insistere o no nella mia storia geniale di un guasto alla macchina quando la sentii riprendere: «Il vicario è stato gentilissimo. Suo figlio ci ha riaccompagnati con la sua macchina. E al nostro arrivo la signora Collins mi ha dato questo.» Accennava a un telegramma accanto al suo piatto. «L'hanno portato quando eravamo appena usciti per andare in chiesa. Pensando che potesse essere importante l'ho aperto. È naturalmente del tuo professore.» Me lo tese. Veniva da Cambridge e diceva: «Buon viaggio di fine settimana. Spero che lei si faccia viva. Ti penserò. Auguri. Magnus». Dopo averlo riletto cercai con gli occhi Vita. Ma si era già avviata verso la biblioteca lasciandosi dietro volute di fumo mentre la signora Collins
entrava portandomi un piatto enorme di roast beef caldo. 12 Se Magnus avesse voluto giocarmi deliberatamente un brutto tiro non avrebbe potuto scegliere meglio il momento. Ciononostante lo assolsi. Era convinto che Vita fosse a Londra e io ancora solo. La sua battuta era stata comunque infelice, per non dire catastrofica. Vita, mi dissi, mi avrà certamente visto filarmela con gli arnesi per la barba e lo spazzolino da denti a ritrovare qualche donnetta nelle isole Scillies. Provarle la mia innocenza non sarà facile. La seguii nella biblioteca. «Ascolta,» cominciai, dopo aver chiuso fermamente le porte fra le due stanze per assicurarmi che la signora Collins non ci udisse, «quel telegramma è soltanto uno scherzo. Una delle solite buffonate di Magnus. Spero che non sarai tanto idiota da prenderlo sul serio.» Lei si girò per affrontarmi nella posa classica della moglie oltraggiata, con una mano sul fianco, una sigaretta nell'altra, stringendo gli occhi nel viso gelido. «Il professore e i suoi scherzi non m'interessano. È tanto che li subisci senza degnarti di spiegarmeli che ormai non me ne curo davvero più. Se quel telegramma era una buffonata del tuo Magnus, buona fortuna a tutti e due. Mi dispiace, te lo ripeto, di averti rovinato il weekend. E adesso faresti bene ad andare a mangiare il tuo lunch prima che si raffreddi.» Le tolsi di mano uno dei giornali della domenica che fingeva di leggere. «Oh, no!» sbottai. «Ti ho detto di ascoltarmi!» Le strappai la sigaretta che spensi in un posacenere, poi l'afferrai per i polsi e la costrinsi a voltarsi. «Come sai benissimo, Magnus è il mio più vecchio amico» ripresi. «Ha anche messo a nostra disposizione, gratis, questa casa, aggiungendoci per buona misura la signora Collins. Sto cercando di disobbligarmi facendogli delle ricerche per aiutarlo nel suo lavoro. Quel telegramma è soltanto la sua maniera di augurarmi buona fortuna.» Vita non batté ciglio. «Tu non sei uno scienziato» ribatté senza scongelarsi. «Che specie di ricerche potresti fare per lui? E si può sapere dove te ne stavi andando?» Spazientito le lasciai i polsi sospirando. Vita si comportava come uno di quei bambini che si ostinano malvagiamente a non volerti capire. «In nessun posto» risposi calcando sul nessuno. «Mi proponevo vaga-
mente di seguire la costa fermandomi a visitare un paio di località che sembrano interessare in maniera particolare Magnus.» «Mi hai perfettamente convinto!» mi beffò lei. «Non capisco perché il professore non apra qui un seminario prendendoti come assistente. Perché non glielo proponi? Mi toglierei naturalmente dai piedi per non darvi fastidio. Ma Magnus sarebbe forse contento di tenersi i ragazzi.» «Oh, per amor del cielo!» sbuffai andando ad aprire la porta della stanza da pranzo. «Ti stai comportando come nelle peggiori storielle sulle mogli che abbia mai udite. La cosa più semplice sarebbe di chiamare domani mattina Magnus per informarlo che chiederai il divorzio perché mi sospetti di andare a ritrovare qualche sguattera a Land's End. Si rotolerà dal ridere.» Andai nella stanza da pranzo e mi sedetti a tavola. Il sugo del roast beef aveva cominciato a rapprendersi, ma non aveva importanza. Mi riempii un boccale di birra per mandar giù la carne e i due contorni prima di attaccare la crostata di mele. Prudentemente silenziosa la signora Collins sparì dopo essere venuta a mettere il caffè sullo scaldavivande. Abbandonati a se stessi, i ragazzi prendevano a calci la ghiaia del vialetto davanti alla casa. «Più tardi vi porto a nuotare» gridai loro. Visibilmente rasserenati quei due avevano già salito di corsa gli scalini del portico. «Più tardi» ripetei. «Lasciatemi bere prima il caffè e vedere che cosa vuol fare Vita.» Teddy e Micky misero subito il muso. Mammà non solo non si sarebbe entusiasmata, ma avrebbe fatto naufragare quasi certamente il nostro piano. «Non preoccupatevi,» mi affrettai a confortarli «vi prometto di portarvici in ogni caso.» Vita era sdraiata sul sofà della biblioteca con gli occhi chiusi. M'inginocchiai accanto a lei e la baciai. «Piantala di meditare stragi» le dissi. «Per me c'è una sola donna in tutto il mondo... e lo sai. Non ti porto di sopra per dimostrartelo perché ho detto ai ragazzi che saremmo andati a nuotare. E non vorrai rovinargli la giornata, è vero?» Lei aprì un occhio. «Sei riuscito a rovinare la mia.» «Se è per questo,» protestai «mi hai fatto perdere anche tu il mio weekend con quella fraschetta. Vuoi sapere che programma avevamo? Uno spettacolo di strip-tease a Newquay. E ora smettila!» Ricominciai a baciarla con energia. Lei rimase passiva. Ma non mi respinse. «Vorrei poterti capire.»
«Ringrazia Iddio di non riuscirci» replicai. «I mariti odiano le mogli che gli leggono dentro. Ci pensi, che noia? Vieni a fare una nuotata. Sotto la scogliera c'è una meravigliosa spiaggia deserta. E il sole brucia e non sta per piovere.» Vita aprì anche l'altro occhio. «Che cosa facevi esattamente stamattina, mentre noi tre eravamo in chiesa?» «Esploravo una cava abbandonata,» risposi «a meno di un miglio dal villaggio, nel sito più o meno dove sorgeva il vecchio Priorato. Magnus ed io ce ne interessiamo appunto perché l'antico monastero doveva trovarsi in quei paraggi. Poi non sono riuscito a rimettere in moto la macchina che avevo stupidamente lasciata in un fosso.» «Il tuo professore s'interessa anche di storia? È la prima volta che lo sento.» «E non te ne rallegri? Servirà perlomeno a distrarlo da quegli orrendi embrioni in bottiglia. Io non posso che incoraggiarlo.» «Tu lo incoraggi sempre» replicò acida Vita. «È perciò che lui ti sfrutta.» «Sono sempre stato adattabile per natura. Su, deciditi, i ragazzi staranno scalpitando. Va' a metterti uno dei tuoi bikini, ma infilati sopra qualcosa o farai venire un colpo alle mucche.» «Le mucche?» urlò quasi Vita. «Non ci vengo, allora, sulla tua spiaggia, grazie tante!» «Sono addomesticate» le assicurai. «Le nutrono con una certa erba che le fa muovere col rallentatore. Sono uno dei vanti della Cornovaglia.» Vita ebbe l'aria di credermi. Non giurerei che si fosse bevuta anche la storia della cava. Ma per il momento almeno era più calma. Passammo sulla spiaggia un lungo, pigro pomeriggio. Ci facemmo tutti e quattro delle belle nuotate, e mentre più tardi i ragazzi sguazzavano nelle pozzanghere cercando gamberi inesistenti Vita e io ci stendemmo sulla sabbia gialla lasciandocela filtrare attraverso le dita. Regnava infine la pace. «Hai pensato, almeno qualche volta, al domani?» mi sentii chiedere a bruciapelo. Trasalii. «Al domani?» Guardavo la baia chiedendomi se quella notte Bodrugan era riuscito a riattraversarla con l'alta marea dopo essersi congedato da Isolda. L'avevo sentito alludere a Chapel Point. Da ragazzi, nel farci attraversare la baia da Fowey a Levagissey, il comandante Lane ce l'aveva indicato, una volta,
sporgente a babordo, prima di rientrare nel porticciuolo. Il maniero di Bodrugan doveva trovarsi da quelle parti. Se il nome si fosse conservato, mi dissi, potrei trovarlo sulla carta stradale. «Sì» risposi. «Se il tempo sarà bello andremo a vela. Col mare calmo come oggi non correrai il pericolo di sentirti male. Traverseremo la baia e andremo a gettare l'ancora davanti a quella punta laggiù. Ci porteremo a terra il lunch.» «Magnifico!» approvò Vita. «Ma io alludevo a un futuro un po' più remoto.» «Capisco» dissi. «No, cara, francamente no. Ho avuto troppo da fare per sistemarmi qui. Ci penseremo a suo tempo.» «D'accordo» insisté lei. «Ma Joe non può aspettare eternamente. Secondo me sperava di conoscere presto la tua decisione.» «Lo so. Il guaio è che ho ancora dei dubbi... Per te va tutto bene, si tratta dopotutto del tuo paese. Ma per me non sarà facile sradicarmi dall'Inghilterra.» «L'hai già fatto lasciando quel lavoro di Londra. Quella delle radici non è un'obiezione. Per essere precisi, tu non ne hai.» Sotto un aspetto pratico aveva ragione. «Qui o negli Stati Uniti dovrai pur fare qualcosa» ricominciò. «E rifiutare l'offerta di Joe, quando qui non ne hai avuto nessuna perlomeno equivalente, mi sembra una follia. Sono prevenuta, lo ammetto,» continuò prendendomi la mano «e adorerei di tornare a casa mia. Ma soltanto se anche tu lo desideri.» Il guaio era che l'idea non mi attirava. E non volevo neppure un altro job a Londra, come quello che avevo appena piantato, in un'altra agenzia letteraria o in una casa editrice. Ero arrivato in fondo a quella strada; e per ora, in questo momento particolare del mio tempo, non me la sentivo di fare piani. «Per ora lascia perdere, cara» dissi. «Viviamo ogni istante come viene. Oggi, domani... Ti prometto che prenderò presto una decisione. Va bene?» Lei svincolò sospirando la mano per cercarsi le sigarette nella tasca dell'accappatoio. «Come vuoi» replicò mettendo, all'americana, l'accento sul verbo. «Ma non dare poi a me la colpa, se un giorno mio fratello Joe ti piantasse in asso.» I ragazzi ci raggiunsero correndo per mostrarci i loro trofei: stelle di mare, mitili e un enorme, puzzolente granchio morto da un secolo. Il momen-
to della verità era passato. Era l'ora di raccogliere la nostra roba e affrontare la salita ripida fino a Kilmarth. Mentre facevo girare l'auto mi voltai a guardare ancora attraverso la baia. La costa spiccava chiaramente e le case bianche di Chapel Point, lontane un otto miglia, erano illuminate dal sole al tramonto. In una notte come questa Otto dové salire sulle mura di Bodrugan Per guardare, sospirando da spaccarsi il cuore, Verso la cala di Treesmill Dove quella notte riposava Isolda... Ma Isolda era realmente a Treesmill? Partito Otto, aveva dovuto seguire certamente le figlie. Ma dove? A Bockenod, dove viveva il fratello di suo marito, quel Sir John così pieno di sé? No, decisi, era troppo lontano. Isolda aveva detto un altro nome... che cominciava per Treg... Dovevo controllare sulla carta. Il guaio era che in Cornovaglia i nomi di quasi tutte le case coloniche cominciavano così. Escludendo Trevenna, Treverran e Trenadlyn, dove avevano potuto riposare quella notte Isolda e le sue due figliolette? «Non ci tornerò certo spesso» si lamentò Vita. «Misericordia che salita! Mi ricorda le piste di sci del Vermont. Dammi il braccio.» Molto probabilmente quelle tre avevano attraversato lo stagno sotto il mulino e preso un sentiero a destra. Poi quell'utilitaria che mi era giunta alle spalle me le aveva nascoste. Potevano aver preso qualunque direzione. E Roger era a piedi. Con l'alta marea il guado sarebbe stato completamente sommerso. Cercai di ricordarmi se dietro la bottega del maniscalco c'era una barca che avrebbe potuto riportarlo indietro. «Dopo tutto quest'esercizio e quest'aria, stanotte dovrei dormire» disse Vita. «Certo.» Sì, la barca c'era. In alto e a secco, sul ciglio della cala. Dovevano usarla per trasportare a marea alta i passeggeri dalla bottega del maniscalco a Treesmill e viceversa. «Non te ne importa un accidente, eh? di che specie di notte ho passato e se in questo momento i piedi non mi reggono più.» Mi fermai per fissarla. «Perdonami, cara. Certo che m'importa.» Perché ritirare fuori a un tratto quella faccenda della notte insonne?
«Eri a mille miglia di qui... Me ne accorgo sempre!» «Quattro al massimo» precisai. «Se proprio vuoi saperlo pensavo a due bambine che ho visto passare stamattina su dei ponies. Chissà dove andavano...» «Ponies?» Continuammo a camminare. Vita mi si abbandonava come un peso morto sul braccio. «Ma è l'idea più brillante che tu abbia avuto finora! I ragazzi adorano cavalcare. Quei ponies erano affittati?» «Ne dubito» replicai. «Dovevano venire da qualche fattoria.» «Potresti sempre informarti. Com'erano, le bambine?» «Incantevoli. Erano con una ragazza che doveva essere la loro bambinaia e un paio d'uomini.» «Tutti a cavallo?» «Uno degli uomini le accompagnava a piedi tenendo le redini dei ponies delle bambine.» «Allora si tratterà di una scuola di equitazione. Informati. I ragazzi non possono nuotare o andare a vela tutto il giorno. Così avrebbero qualcos'altro da fare.» «Va bene.» Come sarebbe comodo, mi dicevo, se potessi evocare dal passato Roger e ordinargli di sellare due dei ponies di Kilmarth per Teddy e Micky, e poi spedirli a galoppare con Robbie sulle sabbie di Par! Roger sì che saprebbe prenderla, Vita. Esaudirebbe ogni suo capriccio. Succo di giusquiamo sgraffignato a fratello Jean al Priorato per assicurarle una notte tranquilla. E se non bastasse... Sorrisi. «A che cosa stai pensando di così divertente?» «Non lo è affatto.» Accennai all'intrico violetto già scolorito della digitale che infilava i suoi lunghi steli nella siepe intorno al piccolo recinto al disotto di Kilmarth. «Non mi perderei d'animo se tu avessi un attacco di cuore. Non ci vuole niente a macinare quei semi.» «Grazie mille. Sono sicura che il laboratorio del tuo professore dev'essere pieno di chissà quali semi velenosi e di terribili intrugli.» Senza saperlo Vita aveva indovinato. Non mi conveniva lasciare che si dilungasse su Magnus. «Siamo arrivati» annunziai. «Ecco lì il cancello che dà nel giardino. Prima di provvedere alla cena vi preparerò a tutti e tre dei bei long drinks freschi. C'è tanta carne fredda e una bella insalata.» Cercai di mostrarmi amabile ed euforico, di soffocare i ricordi della mia
mattina male impiegata: desideravo ingraziarmi quei tre. M'imposi di essere un marito premuroso e un padre adottivo sorridente fino all'ora di andare a letto e oltre. Per fortuna non dovetti preoccuparmi dell'"oltre". La nuotata, la lunga arrampicata e l'aria soporifera della Cornovaglia avevano fatto il loro effetto. Dopo aver sbadigliato davanti al televisore, alle dieci Vita era già a letto. Dormiva profondamente quando, un'ora dopo, m'infilai con cautela accanto a lei. A giudicare dal cielo il giorno dopo sarebbe stato bello e saremmo andati a vela fino a Chapel Point. Bodrugan esisteva ancora. L'avevo trovato dopo la cena sulla carta stradale. C'era giusto la brezza necessaria per farci uscire dal porticciolo di Fowey. Aiutato, o meglio impacciato, da Micky e Teddy, il nostro marinaio, Tom, un ragazzone dal sorriso facile, si occupava delle vele, mentre io me ne stavo al timone. Me ne intendevo appena quanto bastava per non perdere il vento e lasciare che le vele si afflosciassero. Ma poiché non lo sospettavano, Vita e i ragazzi furono dovutamente impressionati della mia aria efficiente. I ragazzi si sistemarono a poppa con le loro lenze da merlani. Avemmo presto intorno frotte di quei pesci che Teddy e Micky tiravano a bordo gridando eccitati appena li sentivano abboccare agli ami. Allungata al mio fianco, Vita li guardava contenta. Stava bene, in jeans e maglione rosso, perché, come tutte le americane, ha una splendida figura. «Che paradiso» mormorò stringendosi a me e mettendomi la testa sulla spalla. «Hai organizzato tutto perfettamente. Meriti per una volta un dieci con lode. L'acqua non potrebbe essere più liscia.» Il guaio fu che il paradiso durò poco. Superata la boa di Cannis e Gribbin Head un vento di ponente c'investì con forza paurosa aumentando la nostra velocità e facendoci inclinare finché il passeggero seduto sottovento - nel nostro caso Vita - non si trovò a pochi centimetri dall'acqua. «Non faresti meglio a lasciare il timone a Tom?» mi chiese nervosamente mia moglie, dopo che, essendosi inclinata tre volte come un cavallo a dondolo (la colpa era mia), la barca decise di non rialzarsi. «Nient'affatto» replicai allegramente. «Striscia sotto la vela e vatti a sedere dall'altra parte.» Vita cercò goffamente di alzarsi e sbatté con violenza la testa contro la boma. Mentre mi chinavo per aiutarla a districare un piede da una gomena, trascurando per un attimo il timone, imbarcammo di prua un'onda che infradiciò tutti, me compreso.
«Qualche goccia di acqua salata non fa male a nessuno!» gridai. Ma evidentemente poco convinti i ragazzi si slanciarono con la loro madre verso la minuscola cabina al centro della barca dove, rannicchiati sull'unico divanetto continuarono ad essere scossi a ogni inchino della nostra imbarcazione troppo vivace. «Che bella brezza fresca!» dichiarò sorridendo da un orecchio all'altro il nostro Tom. «Saremo in un baleno a Mevagissey.» Mi sforzai di copiare il suo sorriso fiducioso. Ma le tre facce bianche che mi fissavano dalla cabina erano così avvilite che non dovevano certo dividere l'opinione del nostro marinaio sulla brezza. Tom mi offrì una sigaretta. Accorgendomi dopo tre boccate che avrei fatto meglio a rifiutarla, la buttai in acqua mentre lui era occupato ad accendersi una puzzolentissima pipa. Un po' di fumo arrivò fino alla piccola cabina e vi stagnò descrivendovi larghi circoli. «La signora e i ragazzi sentirebbero meno il rullio se venissero a sedersi a poppa» disse Tom. Il rullio si era ormai quasi calmato, ma inchiodati nella cabina buia i ragazzi avvertivano ogni movimento della barca e Micky cominciava già a boccheggiare. Gli occhi vitrei di Vita sembravano ipnotizzati dall'impermeabile di Tom che appeso a un gancio sulla porta della cabina ondeggiava come un impiccato. Tom ed io ci scambiammo un'occhiata di complicità e mentre lui, dopo aver vuotato la pipa, mi sostituiva al timone, io corsi a trascinare la famiglia a poppa, dove Vita e il suo rampollo più piccolo cominciarono immediatamente a dar di stomaco. Teddy sopravvisse forse perché si guardò bene dal voltarsi. «Saremo presto al riparo di Black Head» disse Tom. Sotto la sua mano il timone si comportò come se lui lo stregasse. O fu forse un puro caso. Il rullio si trasformò nel più lieve palpito, le facce sbiancate dalla nausea ripresero i colori, i denti smisero di battere e i pasticcini rustici della signora Collins vennero strappati dalle loro salviette nel cestino e divorati da tutti, compresa Vita, con la ferocia degli avvoltoi quando si accaniscono su una carogna. Passato Mevagissey buttammo l'ancora sul lato ovest di Chapel Point. Mare e cielo erano immobili e il sole bruciava. «Non ti sembra straordinario» osservò Vita sfilandosi il maglione e mettendoselo a mo' di cuscino sotto la testa «che appena Tom si è messo al timone la barca non si è quasi più mossa e il vento è caduto?»
«Non tanto» replicai. «Ci stavamo avvicinando alla riva, ecco tutto.» «Io so una cosa» insisté Vita. «Che riporterà lui la barca a casa.» Tom stava aiutando i ragazzi - in calzoncini da bagno e con i loro asciugamani sotto il braccio - a scendere nel battellino, per portarli a riva, ed era lui che portava le lenze innescate con vermi. «Se lei vuole rimanere a bordo con la signora» mi disse «baderò io ai ragazzi. Su questa spiaggia ci si può comunque bagnare senza pericolo.» Io non desideravo rimanere a bordo con la signora. Volevo arrampicarmi su per i campi e trovare Bodrugan. Vita si tirò su, si tolse gli occhiali da sole e si guardò intorno. La marea cominciava appena ad avanzare e la spiaggia mi tentava. Ma mi accorsi con soddisfazione che era occupata da una mezza dozzina di mucche che vi si aggiravano muggendo desolatamente e facendo volare la sabbia con gli zoccoli. «Io rimango a bordo» dichiarò fermamente Vita. «Vuol dire che se avrà voglia di nuotare mi tufferò.» Reagii come quando mi sento colpevole, sbadigliando. «Scendo a sgranchirmi un po' le gambe» dissi. «Dopo tutti quei pasticcini è comunque troppo presto per nuotare.» «Come vuoi. Qui si sta benissimo. Quelle casette bianche sulla punta sono incantevoli. Sembra di essere in Italia.» Felice che Vita lo pensasse, scesi con gli altri nel battellino. «Sbarcami lì, a sinistra» dissi a Tom. «Che cosa vuoi fare?» mi chiese Micky. «Camminare.» «Noi due possiamo rimanere nel battellino a pescare?» «Certo. È un'ottima idea.» Saltai a terra fra le mucche; felice di essermi liberato di loro. I ragazzi erano del resto altrettanto contenti di rimanere soli. Mi fermai un momento a guardarli allontanarsi. Dalla barca all'ancora Vita mi salutava mollemente con la mano. Infine mi girai e presi a salire. Dopo un primo tratto parallelo a un fiumicello, il sentiero si incurvava, passando, a destra, davanti a un villino prima di arrivare in vista del mare. Continuava poi su per la collina fino a un cancello fra dei vecchi muri e, a sinistra, le rovine, probabilmente di un mulino. Mi azzardai a spingere il cancello e fui a un tratto nella fattoria di Bodrugan, con a sinistra un grande stagno che doveva alimentare una volta il ruscello del mulino, e a destra un'elegante casa colonica dal tetto di ardesia, dell'inizio del Settecento, forse, stranamente somigliante al Kilmarth di Magnus, e accanto e dietro i grandi granai di pietra, molto
più antichi, che dovevano costituire senza dubbio la dimora quattrocentesca di Otto. Poiché la mia presenza non sembrava disturbare due bambini che giocavano sotto le finestre della fattoria, osai traversare l'ampio cortile dove pascolavano delle mucche e a entrare nell'ultimo granaio. Come per tanti secoli, quel vasto ambiente era ancora usato per custodirvi il grano. Ma forse, seicento anni prima, qui c'erano state una sala da pranzo e delle altre stanze, mentre l'altro granaio di fronte, lungo e basso, doveva essere stata la cappella. L'intera proprietà occupava molto più dello spazio coperto oggi da quei cumuli di terra sotto il Gratten che erano una volta il maniero degli Champernoune. Capii adesso perché, nata e cresciuta qui come una Bodrugan, Joanna, quando aveva sposato Henry di Champernoune, avesse potuto considerare la casa dell'estuario un cattivo baratto. Quando, dopo aver seguito i bassi muri di pietra che circondavano l'intera proprietà, m'incamminai verso le colline del versante opposto, fui presto di nuovo in vista del mare. Qui, in cima a quest'alto campo, vidi un cumulo che era stato probabilmente un tempo un torrione o un avamposto incombente sulla baia. Chissà quante volte Otto era venuto qui a cavallo dalla sua casa. Dal torrione spingeva forse lo sguardo oltre il Black Head fino alle scogliere lontane che scendevano per gradi verso la baia di Tywardreath e l'estuario sinuoso con i suoi stretti bracci di cui uno finiva nella valle di Lampetho, il secondo sotto le mura del Priorato, e il terzo arrivava a Treesmill e al maniero degli Champernoune. In una giornata chiara avrà visto tutto questo e perfino, forse, la bassa dimora di Kylmerth col suo boschetto selvaggio dietro. Se avessi ora con me la fiaschetta, continuai a dirmi, potrei vedere Otto sporgersi dalla torre rotonda del suo osservatorio e alle sue spalle, nella cala riparata dove oggi pescano i ragazzi, il suo bastimento all'ancora, pronto a far vela. Oppure, risalendo ancora più indietro nel tempo, vederlo galoppare più giovane e focoso verso la sua prima rivolta del 1322 contro il Re, per essere punito dopo la sconfitta, con una multa di mille marchi. Campione di cause perdute, ghiotto di frutti proibiti, quante volte, mi chiesi, avrà attraversato questa baia lasciando quella sua moglie noiosa, Margaret, la sorella di Henry Champernoune, solidamente sicura a Bodrugan o nell'altro loro castello - chissà dove - di Trelawn, su cui sembra vantassero diritti anche gli Champernoune? Ridiscesi trascinando i piedi verso la spiaggia, accaldato e stanco.
Era strano, ma mi sembrava uno sforzo maggiore affrontare i miei senza aver bevuto la droga ed essere tornato in quell'altro mondo, che se avessi fatto realmente un altro viaggio nel tempo. Mi sentivo derubato, sfibrato e in preda a una curiosa apprensione. L'immaginazione non mi bastava; anelavo a quell'esperienza viva che mi era stata negata, che avrei potuto godere se avessi inghiottito poche gocce dalla fiaschetta sicuramente chiusa a chiave nell'antica lavanderia di Kilmarth. Avrei potuto assistere su quello spiazzo sulla scogliera, o nei paraggi della fattoria, ad altre scene perdute per sempre. E non sopportavo quel pensiero. Ora le mucche avevano lasciato la spiaggia. I ragazzi erano risaliti sulla barca e bevevano il tè seduti a poppa, dopo aver appeso ad asciugare sulle sartie i loro calzoncini da bagno. Vita era a prua occupata a scattare foto. Una piccola comitiva felice, in cui mi sentivo un intruso. Poiché avevo sotto i calzoni uno slip da bagno, mi spogliai. Sull'acqua, che mi sembrò gelida dopo la mia lunga camminata, galleggiavano, come le trecce della sventurata Ofelia, lunghe alghe. Quando mi girai sulla schiena il cielo mi fece di nuovo quella strana impressione scoraggiante, quasi tragica. Per rispondere all'accoglienza dei miei avrei dovuto fare uno sforzo enorme: partecipare ai loro discorsi allegri, sorridere e scherzare. Tom, che mi aveva visto, stava dirigendosi verso la riva col dinghy per prendere la mia roba. Raggiunsi a nuoto la barca e riuscii a fatica ad arrampicarmici con l'aiuto di una gomena e delle mani premurose di Vita e dei ragazzi. «Guarda,» mi gridò Micky «tre merlani! La mamma dice che li cuocerà per la cena. E abbiamo trovato una quantità di conchiglie.» Vita mi si avvicinò, col termos che conteneva ancora un po' di tè. «Sembri esausto. Sei andato lontano?» mi chiese. «Hai camminato molto?» «No,» risposi «ho solo attraversato i campi. Una volta c'era lì non so quale castello. Ma non ne è rimasto niente.» «Dovevi rimanere a bordo. Abbiamo fatto un bellissimo bagno. Su, strofinati con quest'asciugamano. Spero che non ti sia preso un malanno. Non bisognerebbe mai tuffarsi nell'acqua fredda quando si è sudati.» Micky mi ficcò in mano una ciambella umida che sapeva di bambagia, e bevvi il resto di tè tiepido. Poi Tom risalì a bordo con i miei vestiti e poco dopo levammo l'ancora e ripartimmo con Tom al timone. Dopo aver infilato un altro maglione, andai a sedermi a prua, dove poco dopo mi raggiunse Vita. Un po' di maretta a metà della baia la fece tornare a poppa per infilarsi
l'impermeabile di Tom. Continuai a fissarmi davanti la prospettiva lontana di Kilmarth, velata dalla sua cintura di alberi. Sei secoli addietro, seguendo più da vicino la costa, Bodrugan l'avrebbe vista meglio mentre si dirigeva verso l'estuario che copriva in quel tempo la spiaggia sabbiosa di Par. E se lo avesse spiato dai campi, Roger avrebbe potuto fargli segno che tutto era in ordine. Chi doveva bruciare di più, mi chiesi, Bodrugan mentre girava intorno al promontorio per infilare il canale, sapendo che lei lo aspettava in quella casa vuota dietro le basse mura di pietra, o Isolda, quando riconosceva l'albero maestro e vedeva gonfiarsi e palpitare la vela scura? Ora, avendo il sole a poppa, dirigendoci verso Fowey, passammo davanti alla boa di Cannis ed entrammo nel porto proprio mentre, con gioia enorme dei ragazzi, un grande mercantile con i ponti bianchi di caolino, scortato da due rimorchiatori, ne usciva dirigendosi al largo. «Possiamo rifarla domani?» mi aggredirono Micky e Teddy mentre pagavo Tom e lo ringraziavo della gita. Risposi con l'inevitabile formula degli adulti che deve esasperare talmente i giovani: «Vedremo...». "Vedere che cosa?" avrebbero potuto chiedere i ragazzi. "Se voi due sarete di buon umore, e se la calma regnerà nel mondo degli adulti?" Era vero: il successo o il fallimento della loro giornata dipendevano dai rapporti buoni o cattivi fra la loro madre e me. Il mio problema immediato, quando fummo tornati a Kilmarth, fu di telefonare a Magnus prima che mi chiamasse lui, cosa che avrebbe certamente fatto, ora che il weekend era finito. Mi ero trattenuto furtivamente nella biblioteca aspettando il momento buono. Ma quando i ragazzi vennero ad accendere la TV dovetti rifugiarmi di sopra. Vita era in cucina a preparare la cena. Ora o mai più, mi dissi. Formai il numero e Magnus mi rispose immediatamente. «Senti,» dissi in fretta «ho solo pochi minuti. È successo il peggio: Vita e i ragazzi mi sono piombati addosso sabato mattina, cogliendomi quasi in flagrante. Capisci? E il tuo telegramma per poco non ha provocato un altro disastro. Figurati che l'ha aperto Vita. Per usare un eufemismo, da allora la situazione è... delicata.» «Oh, poveri noi» disse Magnus, col tono di una vecchia zia zitella alle prese con un banale problema domestico. «Altro che poveri noi,» esplosi «io direi inferno e dannazione! Temo che dovrò rinunziare ai miei viaggi. Te ne rendi conto, véro?» «Calma, caro ragazzo. Hai detto che lei è arrivata e ti ha praticamente colto en route?»
«No. Tornavo appena da un altro viaggio. Erano le sette del mattino. Preferisco non parlarne.» «Ne valeva la pena?» «Non so che cosa ne penserai. Alla casa sull'estuario complottavano per rivoltarsi contro la Corona. C'erano Otto Bodrugan, e naturalmente Roger. Domani ti riferirò tutto per iscritto del viaggio di domenica.» «Così, malgrado la famiglia, hai corso di nuovo il rischio? Magnifico!» «C'è poi il problema del tempo, Magnus. Non riesco a calcolarlo. Mentre mi sembrava che il viaggio fosse durato al massimo un'ora e quaranta minuti, in realtà sono stato fuori per due ore e mezzo circa.» «E quanta ne avevi presa, di droga?» «La stessa dose di venerdì sera: poche gocce più che le due volte precedenti.» «Sì. Capisco.» Magnus rifletté per un minuto in silenzio. «Ebbene?» mi spazientii. «Come dobbiamo spiegarcelo?» «Non lo so ancora bene... Dovrò lavorarci sopra. Non preoccuparti,» continuò «non può essere niente di serio, a questo stadio. Come ti senti?» «Fisicamente abbastanza bene. Siamo andati a vela tutto il giorno. Ma è una tensione infernale, Magnus.» «Se la settimana mi va come spero, cercherò di fare un salto da te. Avrò fra qualche giorno dal nostro laboratorio dei dati che discuteremo insieme. Intanto, non esagerare con i viaggi.» «Magnus...» Fu una fortuna che lui avesse riattaccato. Mi sembrava di sentire nelle scale i passi di Vita. Questa volta, in un certo senso, il pensiero di rivedere Magnus mi sollevò, anche se significava altre difficoltà con Vita. Per appianarle, mi dissi, lui sfrutterà il suo speciale charme, e perlomeno la responsabilità sarà sua e non mia. E poi, non ero tranquillo per la droga. Quest'abbattimento, questo senso come di un presagio funesto potevano essere un effetto ritardato della droga. Mi guardai nello specchio del bagno. Il mio occhio destro era stranamente congestionato, con la sclerotica tagliata da una sottile riga rossa. Niente di preoccupante, si trattava forse soltanto di un vaso sanguigno scoppiato. Ma non mi ricordavo che mi fosse mai accaduto. Mi augurai che mia moglie non se ne accorgesse. Il pranzo andò abbastanza bene. I ragazzi ci descrissero minutamente la loro giornata mentre divoravano golosamente i merlani che avevano preso
(secondo me il pesce più scipito che esista, ma non volli raffreddare il loro entusiasmo). Stavano sparecchiando quando suonò il telefono. «Vado io,» disse Vita «forse è per me.» Perlomeno non poteva essere Magnus. I ragazzi e io caricammo la lavapiatti, e l'avevamo innestata quando Vita ci raggiunse in cucina. Aveva un'espressione che conoscevo: decisa, quasi di sfida. «Erano Bill e Diana.» «Ah sì?» I ragazzi erano già scappati in biblioteca a guardare la TV. Riempii due tazze di caffè. «Vanno in volo a Dublino da Exeter» continuò Vita. «Sono ancora a Exeter.» Poi, prima che potessi replicare: «Se ne morivano talmente dalla voglia di vedere questa casa» continuò a precipizio «che gli ho proposto di rimandare di quarantott'ore la partenza e venire qui domani per il lunch e passare la notte da noi.» «Oh, Dio mio!» Posai il caffè che non avevo neppure assaggiato e mi afflosciai sulla sedia della cucina. 13 Non c'è niente che m'imbestialisca di più quanto attendere l'arrivo di ospiti sgraditi. Non avevo continuato a protestare dopo il primo grugnito di sgomento, ma Vita e io avevamo passato le ore prima di coricarci lei nella biblioteca a guardare la TV con i ragazzi, io nella stanza della musica ad ascoltare Sibelius. La mattina dopo, seduta sul balcone della stanza della musica che le piaceva chiamare terrazza, Vita aspettava di sentir arrivare l'auto, mentre sostenuto dal mio primo gin-and-tonic, gli occhi sull'orologio, io andavo su e giù chiedendomi che cosa fosse peggio: questo anticipo dell'atroce momento in cui l'auto avrebbe infilato il viale della casa o l'invasione vera e propria, con gli ospiti e i pullover buttati sulle poltrone; cineprese e apparecchi fotografici che scattavano; voci stridule e irritanti; e l'odore dell'inevitabile sigaro di Bill. Tutto sommato preferivo il furore della mischia allo squillo di tromba. «Eccoli!» gridarono i ragazzi, avventandosi giù per gli scalini dell'ingresso mentre io uscivo dalla porta-balcone come un soldato che affronta un bombardamento.
Come padrona di casa Vita fu magnifica: riuscì a trasformare in un baleno Kilmarth in una specie di ambasciata americana d'oltremare. Mancava soltanto un'asta da cui sventolassero le stelle e le strisce. Una premurosa, trionfante signora Collins coprì il tavolo da pranzo di cibi prelibati. I liquori scorrevano a fiotti, il fumo delle sigarette offuscava l'aria. Cominciammo il lunch alle due e lo finimmo alle tre e mezzo. Truffati dalla promessa di portarli a nuotare più tardi, i ragazzi si dileguarono per andare a giocare a cricket nel frutteto. Irriconoscibili dietro i loro enormi, identici occhiali da sole, le signore, per poter spettegolare tranquille, trascinarono lontano da noi due delle poltrone gonfiabili. Bill e io ci eravamo installati nel patio con l'intenzione, perlomeno da parte mia, di schiacciare un sonnellino. Purtroppo, come tutti i diplomatici, Bill adorava ascoltarsi. Continuò, quasi senza fermarsi, a dissertare di politica estera e interna, finché, con studiata indifferenza e senza dubbio imboccato da Diana, non passò ai miei piani per il futuro. «Sento» cominciò «che ti metterai in società con Joe. Congratulazioni. È un'ottima idea. Non posso che approvarti.» «Non ho ancora deciso» risposi. «Dobbiamo definire molti punti.» «Si capisce» si affrettò ad approvare lui. «Non puoi limitarti a gettare in aria un soldo. Ma che opportunità meravigliosa! In questo momento la ditta di Joe è sulla cresta dell'onda. Non te ne pentirai. Tanto più che, come mi è sembrato di capire, non hai niente di serio da perdere qui in Inghilterra. E nemmeno impegni che ti leghino.» Deciso a non lasciarmi invischiare in una lunga discussione, non replicai. «Hai anche la fortuna» riprese Bill «di avere una moglie come Vita, capace, e non è da tutte, di crearti dovunque un focolare. E con un appartamento a New York e un posticino in campagna per il weekend fareste una vita davvero soddisfacente e piena, senza contare la possibilità di viaggiare quando ne avrete voglia.» Grugnendo mi calai sull'occhio ancora iniettato di sangue (per fortuna Vita non se n'era accorta) la tesa di un vecchio panama del comandante Lane. «Scusami se ti sembro indiscreto,» tornò alla carica, abbassando la voce, Bill «ma sai quanto chiacchierano le donne. Vita è preoccupata per te. Ha detto a Diana che non si spiega perché l'idea di trasferirvi negli Stati Uniti ti lasci così freddo. Le donne sospettano sempre il peggio.» Si lanciò poi in una lunga storia (a parer mio inventata di sana pianta) su una ragazza che aveva conosciuta a Madrid, mentre Diana era con i suoi genitori alle Bahamas. «Aveva appena diciannove anni. Ero pazzo di lei. Ma sapevamo
naturalmente tutti e due che non poteva durare. Lei laggiù lavorava all'ambasciata e Diana stava per rientrare dopo le sue vacanze a Londra. Ero così cotto di quella ragazza che per poco non mi tagliai la gola quando dovetti lasciarla. Comunque, sono sopravvissuto e non l'ho più rivista.» Mi accesi una sigaretta per tentare di neutralizzare le nuvole di fumo del suo dannato sigaro. «Hai preso una grossa cantonata» replicai infine «se credi che io abbia un'amante nascosta qui intorno.» «Me ne rallegro sul serio» disse Bill. «Ma non ti condannerei, bada, purché non facessi capire niente a Vita.» Seguì una lunga pausa durante la quale Bill si sforzò di adottare un'altra tattica. Dovette decidere che il partito migliore era, tutto sommato, la discrezione, perché cambiò bruscamente argomento. «Poco fa i ragazzi non parlavano di andare a nuotare?» Dopo aver errato per il giardino in cerca delle nostre mogli, le trovammo ancora immerse nelle loro confidenze. Diana era una di quelle bionde opulente di cui dicono "a casa è una tigre e fuori l'anima dei ricevimenti". Non mi aveva mai ispirato il desiderio di collaudarla, come tigre o altro. Vita diceva che era la più leale delle amiche. Perché non crederle? Quelle due smisero di parlottare appena apparimmo. Come fa sempre all'avvicinarsi di un uomo, Diana diventò tutta miele. «Hai una bella abbronzatura, Dick» m'informò. «Ti dona. Appena prende un po' di sole Bill diventa invece rosso come un'aragosta.» «Qui respiro aria di mare» replicai. «Non sintetica come la vostra.» Diana aveva accanto a sé una boccetta di olio solare che si era spalmato poco prima sulle gambe bianche come gigli. «Noi ce ne andiamo alla spiaggia a fare una nuotata» annunziò Bill. «Tirati su, cicciona, se vuoi sbarazzarti di un po' di quel grasso.» Seguì la solita commediola delle coppie sposate davanti ai loro simili. Gli amanti, mi dissi, la recitano per sé soli, in silenzio, provandoci molto più gusto. Carichi di asciugamani e salvagenti facemmo la lunga discesa fino alla spiaggia. Poiché c'era bassa marea, per poter nuotare bisognava aprirsi per un bel pezzo un varco fra grovigli di alghe e frammenti aguzzi di roccia. I nostri ospiti affrontarono con buona grazia quell'esperienza nuova per loro sguazzando come delfini nelle pozzanghere e confermando una delle mie massime preferite: che è sempre più facile ricevere all'aperto specie quando non se ne ha voglia. Come prevedevo, la sera dovemmo affrontare il vero test della nostra
ospitalità. Bill si era portato la sua bottiglia personale di bourbon (un piccolo omaggio agli amici) e io avevo tolto quasi tutti i cubetti di ghiaccio dal frigo perché lui potesse berselo on the rocks. Dopo il bourbon il vino con cui innaffiammo la cena finì di stordirci e dopo che ci fummo alzati da tavola, e dopo aver messo in moto la lavapiatti, ci rifugiammo abbastanza malconci nella sala della musica. Non avevo più bisogno di preoccuparmi per il mio occhio; anche Bill li aveva congestionati come se lo avessero assalito le api. Intanto, con le guance infuocate e gli occhi lustri, le nostre mogli facevano pensare alle camerierine di certe taverne malfamate di marinai. Andai a mettere sul piatto del giradischi un mucchio di musica senza preoccuparmi di sceglierla, tanto serviva solo per tenere tranquillo il party. Vita, che di solito non beveva molto, diventava imbarazzante non appena superava di poco la sua media. La voce le diventava alternativamente stridula o di una dolcezza insinuante. Quella sera la dolcezza fu per Bill, che, lusingato, le si era messo accanto su uno dei sofà. Battendo la mano sul posto vuoto accanto a sé sull'altro divano, Diana mi invitò con un sorriso significativo a tenerle compagnia. Mi resi conto disgustato che quelle manovre erano state decise poco prima dalle due donne, e che si annunziava un'altra di quelle serate spaventose di scambio di partners - non per andare fino in fondo, ma come un primo assaggio, un lever de rideau di una commedia in due atti. L'unico mio desiderio era di potermene andare a letto, e, per amor del cielo, solo. «Parlami, Dick» m'incitò Diana, appiccicandosi talmente a me che fui obbligato a tenere la testa voltata come il fantoccio di un ventriloquo. «Voglio sapere tutto del tuo brillante amico il professor Lane!» «Debbo farti un resoconto dettagliato dei suoi lavori? Pochi anni fa la Rivista di Biochimica pubblicò un articolo molto informativo sugli scopi che Magnus si propone. Debbo averne una copia a Londra. Te la presterò.» «Non fare l'idiota. Sai benissimo che non ne capirei un'acca. Voglio sapere che uomo è questo Magnus. Che hobby ha. Chi sono i suoi amici.» Hobby... La parala evocava per me uno di quegli svampiti che inseguono con una reticella le farfalle. «L'unico suo hobby è, secondo me, il suo lavoro» spiegai a Diana. «Ha un debole per la musica, specie quella di chiesa, canti gregoriani e così via.» «È l'amore comune per la musica che vi ha avvicinati?» «Sì, cominciò così. Una sera, al King's College, ci trovammo seduti per caso sullo stesso banco durante un concerto d'inni natalizi.»
Non c'eravamo andati in realtà per gli inni, ma per ammirare un certo ragazzo del coro con un'aureola di capelli biondi come Samuele bambino. Ma sebbene accidentale quell'incontro doveva essere il primo di molti. Non perché avessi anch'io un debole per i giovani coristi, ma quell'insieme di santa innocenza e alone di riccioli rappresentava per i nostri vent'anni una tale attrattiva estetica che ce ne lasciammo incantare per diversi giorni. «Teddy mi ha detto» continuò implacabile Diana «che nel seminterrato c'è una stanza chiusa a chiave piena di teste di scimmie. Che orrore delizioso!» «Per essere esatti» replicai «ce n'è una sola, oltre ad alcuni altri esemplari in vetro. Tutta roba velenosissima, da non toccare.» «Hai sentito, Bill?» disse dal sofà opposto Vita. Notai disgustato che gli aveva messo la testa sul petto e lui le circondava col braccio le spalle. «Questa casa è costruita sulla dinamite. Basterebbe un movimento incauto per farci saltare tutti in aria.» «Un movimento qualsiasi?» chiese Bill strizzandomi in maniera offensiva l'occhio. «Che succederà, Vita, se ci stringiamo un po' di più? Per me va bene, se la dinamite ci scaraventasse abbracciati al piano di sopra. Ma sarà meglio chiedere prima il permesso a Dick.» «Dick non si muove di qui!» saltò su Diana. «E se la testa della scimmia dovesse esplodere, voi due potete pure salire di sopra. Dick ed io scenderemo, così saremo tutti felici ma in due mondi diversi. Dico bene, Dick?» «Benissimo» approvai. «E comunque io ne ho abbastanza di questo particolare mondo. Perciò, se vi va di continuare a divertirvi in tre su un sofà fate pure e che Dio vi benedica: vi cedo il quarto di bourbon che è rimasto nella bottiglia e me ne vado a letto.» Mi alzai e uscii dalla stanza. Ora che avevo distrutto il quartetto, il petting party sarebbe automaticamente finito e quei tre avrebbero continuato a starsene seduti lì per più di un'ora discutendo solennemente il mio carattere; se e in che modo ero cambiato negli ultimi mesi, chiedendosi come potevano aiutarmi e che cosa mi riservava il futuro. Mi spogliai, ficcai la testa nell'acqua fredda, spalancai le tende, mi arrampicai nel letto e fui subito sopraffatto dal sonno. Mi svegliò la luna, sbucando da una fessura delle tende che Vita aveva chiuse, per mandarmi un raggio della sua luce bianca sul cuscino. Stesa sul suo lato del letto con la bocca spalancata, Vita russava. La colpa, mi dissi, deve essere di quell'ultimo quarto di bourbon. Un'occhiata al mio orologio mi rivelò che erano le tre e mezzo. Mi alzai e andai nello spogliatoio a
prendermi un paio di jeans e un pullover. Mi fermai in cima alle scale tendendo l'orecchio verso la camera degli ospiti. Non un suono. Silenzio anche nel corridoio sul quale dava quella dei ragazzi. Scesi al pianterreno e, passando per la scala di servizio, arrivai in cantina e nel laboratorio. Ero perfettamente sobrio, freddo e padrone di me, nient'affatto depresso o eccitato. In tutta la mia vita non mi ero mai sentito più normale. Avevo deciso di fare un altro viaggio e basta. Versai nella fiaschetta quattro misurini della droga, feci uscire la macchina dal garage, scesi dalla collina nella valle di Treesmill, smontai e mi diressi a piedi verso il Gratten. Quando quella luna brillante impallidirà a occidente, mi dissi, sarà l'alba. Se il tempo mi avesse ingannato di nuovo e il viaggio fosse durato fino al breakfast... che importava? Sarei ritornato quando sarebbe stata l'ora; al diavolo Vita e i suoi amici! In una notte come questa... chi sarei andato a ritrovare? Il mondo d'oggi dormiva, l'altro aspettava per svegliarsi che la droga s'impossessasse di me. Tywardreath era ancora un villaggio fantasma, quando lo evitai, ma nel mio tempo segreto sapevo di attraversarne lo spiazzo erboso e che dietro le sue mura di pietra s'innalzava imponente e solitario il Priorato. Mentre scivolavo giù per la strada di Treesmill la luna inondava l'altro versante della valle facendo scintillare i tetti dei casotti grigi dell'allevamento di visoni. Lasciai la macchina accanto al fosso e, scavalcato il cancello che dava nei campi, mi diressi verso il pozzo della cava dove sapevo che una volta c'era la grande sala del maniero, e lì, presso un tronco abbattuto, nella chiazza quadrata di luce argentea che brillava nell'oscurità, inghiottii il contenuto della fiaschetta. Lì per lì sentii soltanto, per la prima volta, un ronzio nelle orecchie. Mi appoggiai al cancello e attesi. Nella siepe si agitò qualcosa, forse un coniglio, mentre il ronzio nelle mie orecchie cresceva. Alle mie spalle, nella cava, un pezzo di lamiera contorto cadde rumorosamente. Il ronzio diventò universale, parte del mondo intorno a me, trasformandosi dal suono nelle mie orecchie nel tremito delle finestre della grande sala scosse dal vento che ruggiva fuori. Una pioggia dirotta cadeva obliquamente dal cielo grigio sui pannelli di pergamena delle finestre. Mi avvicinai per guardar fuori e vidi l'alta marea irrompere nell'estuario con piccole onde spumose. Il vento piegava gli alberi dei pendii opposti strappando loro le ultime foglie d'autunno. Un branco di storni che volavano a nord sparirono dopo essersi addensati in una massa urlante. Non ero solo. Piantato al mio fianco, preoccupato, anche Roger abbassava gli occhi nella cala. E quando uno
sbuffo più forte di vento squassò l'intelaiatura della finestra si affrettò a chiuderla scuotendo la testa e mormorando: «Che Dio lo trattenga dall'avventurarsi qui con questo tempo». Mi guardai intorno e vidi che una tenda era stata tirata in mezzo alla sala per dividerla in due. Da dietro arrivavano delle voci. Seguii Roger, quando l'intendente attraversò la sala per andare ad aprire la tenda. Pensai per un momento che il tempo mi avesse giocato un altro tiro riportandomi in un passato che già conoscevo, perché c'era anche qui un pagliericcio addossato a un muro con steso sopra un uomo, e ai piedi sedeva di nuovo Joanna Champernoune e il monaco Jean si piegava sul cuscino. Ma mi resi conto avvicinandomi che l'ammalato non era il marito di Joanna, ma il suo omonimo, Henry Bodrugan, il figlio maggiore di Otto e il nipote di Joanna stessa. E molto in disparte, coprendosi la bocca col fazzoletto, c'era anche Sir John Carminowe. Evidentemente in preda a un febbrone, il giovanotto si sforzava di sollevarsi chiamando il padre, mentre il monaco gli asciugava la fronte sudata e cercava di riadagiarlo sul cuscino. «Impossibile lasciarlo con i domestici qui a Trelawn senza nessuno che si occupi di lui» disse Joanna. «E per portarlo via con questa tempesta dovremmo aspettare perlomeno che annotti. Mentre potrebb'essere in un'ora sotto il nostro tetto, a Bockenod.» «Non oso correre questo rischio» replicò Sir John. «Se, come teme il frate, dovesse essere vaiolo, nessuno dei miei l'ha ancora avuto. No, l'unica soluzione è di lasciarlo qui affidato a Roger.» Che brutta figura deve fare mostrando davanti a Joanna il suo terrore di prendersi il male, pensai vedendolo voltarsi verso Roger. Sir John non aveva più quell'aria sicura che avevo osservato al ricevimento del Vescovo. Era ingrassato e i capelli gli si stavano facendo grigi. Rispettoso come sempre davanti ai suoi padroni, Roger piegò la testa. Ma colsi nei suoi occhi abbassati un lampo di disprezzo. «Farò tutto quello che mi comanderà my lady» disse. «Ho avuto il vaiolo da piccolo, e mio padre ne morì. Il nipote di my lady è giovane e forte e sono sicuro che guarirà. Non siamo ancora neppure sicuri del male. Molte altre febbri cominciano così. Non è detto che fra ventiquattr'ore l'ammalato non sia di nuovo in piedi.» Joanna si alzò e si avvicinò al letto. Notando che aveva ancora la sua acconciatura di vedova mi ricordai gli appunti presi dallo studente per Magnus all'Archivio Pubblico dai Ruoli delle Patenti dell'ottobre 1331: "Licenza per Joanna, già moglie di Henry Champernoune, di sposare chiun-
que le aggradi di scegliere fra i fedeli del Re". Se il suo pretendente preferito era sempre Sir John, il matrimonio non era stato ancora celebrato. «Possiamo solo sperarlo» replicò lentamente. «Ma non è la prima volta che vedo il vaiolo e sono del parere del monaco. Da bambini l'abbiamo avuto anch'io e Otto. Se fosse possibile far giungere un messaggio a Bodrugan, verrebbe Otto stesso a riportarselo a casa.» Si girò verso Roger. «Dov'è arrivata la marea?» chiese. «Ha coperto il guado?» «Il guado è coperto da un'ora e mezzo, my lady,» replicò lui «e la marea continua ad avanzare. Se fosse possibile passare sull'altra riva prima che il mare si ritiri, correrei io stesso a Bodrugan ad avvertire Sir Otto.» «Allora non possiamo far altro che affidarvi Henry,» disse Joanna «anche se in questa casa non ci sono servi. Verrò con voi a Bockenod» continuò rivolgendosi a Sir John «per proseguire all'alba per Trelawn e avvertire Margaret. È lei che dovrebbe essere al capezzale del figlio.» Pur concentrandosi sul giovane Henry, il monaco non aveva perduto una parola. «Abbiamo un'altra possibilità, my lady» intervenne. «La forestiera del Priorato è vuota e né io né i miei confratelli del convento temiamo il vaiolo. Henry Bodrugan starebbe molto meglio sotto il nostro tetto che qui, e io m'impegnerei a vegliare su di lui giorno e notte.» Vidi le facce di Joanna e di Sir John distendersi per il sollievo. Ormai, qualunque cosa accadesse, la responsabilità non era più loro. «Se l'avessimo deciso subito» disse Joanna «avremmo potuto ripartire prima di quest'uragano. Che ne dite, John? Non è l'unico rimedio?» «Direi anch'io di sì,» approvò in fretta lui «purché, si capisce, l'intendente s'incarichi di trasportare lui il ragazzo al Priorato. Non possiamo portarcelo con la vostra carrozza, per il pericolo dell'infezione.» «E chi dovrebbe infettarsi?» chiese ridendo Joanna. «Voi ci scorterete a cavallo, no?, coprendovi la faccia col fazzoletto come adesso. Andiamo, abbiamo già perduto troppo tempo.» Presa la sua decisione Joanna si avviò, senza più dedicare un pensiero al nipote, verso la porta della grande sala, scortata da Sir John che dopo avergliela spalancata indietreggiò investito con violenza dalla tempesta. «Fareste meglio» lo schernì lei «a viaggiare comodamente al mio fianco senza preoccuparvi dell'ammalato, invece di esporre la schiena al vento quando cominceremo a salire.» «Non ho paura per me...» aveva cominciato lui. Vedendosi alle spalle Roger, si affrettò ad aggiungere: «Mia moglie e i miei figli sono delicati,
lo sapete. Sarebbe un rischio troppo grande». «Sì, troppo grande, Sir John. Fate bene ad essere prudente.» Prudente un corno, mi dissi. A giudicare dall'espressione di Roger e di Joanna quei due dovevano pensarla come me. Il carro traballante fu portato davanti al cancello seguente. Attraversando il cortile nel vento furioso vi scortammo la vedova, mentre Sir John montava sul suo cavallo. Quando rientrammo il monaco stava ammucchiando coperte sull'ammalato che aveva quasi perduto la conoscenza. «Sono pronti e ci aspettano» disse Roger. «Vi aiuterò a trasportare il materasso. Ora che siamo soli, che speranza avete di vederlo guarire?» Il monaco alzò le spalle. «Come avete detto voi stesso, Henry è giovane e forte. Ma ho visto cavarsela chi sembrava già uno scheletro e morire dei colossi. Affidatelo a me, al Priorato, e sperimenterò su di lui certi rimedi.» «State bene attento questa volta» gli raccomandò Roger. «Se falliste dovreste risponderne a suo padre. E neppure il Priore potrebbe proteggervi.» Il monaco sorrise. «Da quello che ho capito, Sir Otto Bodrugan faticherà già abbastanza a proteggere se stesso. Lo sapete che Sir Oliver Carminowe ha passato la notte scorsa a Bockenod e ne è ripartito all'alba senza dire a nessuno dei suoi servi dove andava? Se ha fatto segretamente questo viaggio non poteva avere che uno scopo: sorprendere l'amante di sua moglie e distruggerlo.» «Che ci si provi» lo derise Roger. «Bodrugan maneggia meglio di lui la spada.» Il monaco scrollò di nuovo le spalle. «Forse. Ma quando si batté in Scozia contro i suoi nemici, Oliver Carminowe usò altri sistemi. Non darei molto per la vita di Bodrugan, se dovesse cadere in un'imboscata.» Vedendo che il giovane Henry apriva gli occhi, Roger fece cenno al monaco di tacere. «Dov'è mio padre?» chiese in un soffio l'ammalato. «Dove mi state portando?» «Vostro padre è a casa, Sir» gli rispose Roger. «Lo abbiamo mandato a chiamare e domani mattina sarà con voi. Stanotte riposerete al Priorato sotto la vigilanza di fratello Jean. Poi, se vi saranno tornate le forze e vostro padre lo deciderà, potrete essere trasportato a Bodrugan o a Trelawn.» Il ragazzo guardò stupefatto quei due. «Ma io non voglio andare al Priorato» protestò. «Preferirei tornare a casa.» «Non è possibile, Sir» replicò garbatamente Roger. «C'è una terribile burrasca e i cavalli non arriverebbero lontano. My lady vi aspetta per portarvi al Priorato. Fra mezz'ora sarete al sicuro nella loro foresteria.»
Malgrado le sue fioche proteste lo portarono col materasso attraverso la grande sala e la corte, fino al veicolo in attesa. Quando lo ebbero deposto ai piedi di sua zia, il monaco gli si arrampicò accanto. Joanna si voltò a guardare il suo intendente attraverso il finestrino aperto. Il vento le aveva sollevato il velo dal viso e notai come le si erano induriti dall'ultima volta i tratti. Gli angoli della bocca le pendevano e sotto i suoi grandi occhi c'erano delle borse. Per non farsi sentire dal nipote, si piegò quanto poteva verso il finestrino: «Si mormora» sussurrò «di dissensi che sarebbero sorti fra Sir Oliver e mio fratello. Non saprei se Sir Oliver si trovi o no da queste parti. Ma desidero anche per questo allontanarmi al più presto di qui.» «Come desiderate, my lady» fu la risposta di Roger. «Né Sir John né io» continuò Joanna «vogliamo essere immischiati in questa lite che non ci riguarda. Se quei due dovessero venire alle mani, mio fratello sa badare benissimo a sé. Quanto a voi, vi proibisco severamente di parteggiare per l'uno o per l'altro. Preoccupatevi soltanto dei miei interessi. Mi sono spiegata?» «Perfettamente, my lady.» Dopo un breve cenno di saluto Joanna rivolse la sua attenzione sul giovane Henry steso ai suoi piedi. Roger fece un segno al cocchiere e il pesante carro si avviò sulla strada fangosa verso il Priorato, seguito da Sir John e da un servo a cavallo, ambedue fortemente piegati sulle loro selle, sferzati dalla pioggia e dal vento. Varcato il ponte, appena furono spariti, Roger andò sveltamente, passando sotto l'arco, nel cortile delle scuderie e chiamò Robbie. Suo fratello, col solito ciuffo disordinato di capelli che gli pioveva sugli occhi, accorse tenendo per le redini un cavallo. «Corri come il diavolo a Tregest» gli ordinò Roger «ad avvertire Lady Isolda che non esca di casa. Stasera Bodrugan avrebbe dovuto gettare l'ancora nella cala, ma non oserà affrontare un mare così scatenato. Anche se Sir Oliver fosse lei, ma ne dubito, Lady Isolda deve ricevere ad ogni costo il mio messaggio.» Vedendo il ragazzo balzare in sella e slanciarsi a est attraverso i campi, verso il nostro attuale versante della valle, mi ricordai che, come aveva detto Roger, il guado era stato sommerso dall'alta marea. Se la località chiamata allora Tregest è dall'altra parte, ragionai, Robbie dovrà attraversare il fiume più a monte. Quel nome non mi diceva niente. Sapevo che sulla mia mappa della regione Tregest non c'era. Percorsa la corte, Roger attraversò il cancello del muro sulla collina pro-
spiciente la cala, e sebbene qui dovesse lottare contro il vento per non farsi travolgere, continuò a scendere verso il fiume sotto la pioggia dirotta, seguendo la rozza pista che finiva al molo. Aveva una espressione ansiosa, smarrita, molto diversa dalla sua solita sicurezza, e mentre camminava, anzi correva, continuò a guardare là dove il fiume si gettava nell'ampio estuario di Par. Sentendomi riassalito da quel nero presentimento provato per la prima volta al ritorno dalla gita nella baia, mi resi conto di dividerlo con Roger, e che ci legavano la stessa ansia, la stessa paura. Sul molo fummo in qualche modo riparati dalla collina alle nostre spalle. Ma il fiume era sconvolto da piccole, brevi onde coperte sulle alte creste di ogni sorta di detriti autunnali: rami, alghe e tronchi d'albero, dove, mentre erano spinti verso il molo o attraversavano il canale, branchi di gabbiani urlanti scendevano a frugare con le ali bianche spiegate per difendersi dal vento. Accorgendoci di un bastimento Roger e io voltammo insieme gli occhi verso il mare. Ma la nave di Otto Bodrugan non era più quella che avevo ammirato all'ancora in un pomeriggio d'estate. Con l'albero maestro spezzato, i pennoni caduti sul ponte e le vele afflosciate intorno come sudati, barcollava come se fosse ubriaca. Doveva aver perduto anche il timone perché sembrava incontrollabilmente in balia del vento e del mare che la spingevano avanti di traverso, con la prua verso le secche dove s'infrangevano più corte le onde. I tre uomini che riuscii a distinguere a bordo si sforzavano di calare in mare una barchetta imprigionata in un groviglio di vele e sartie. Il vento gl'impediva di udire gli avvertimenti che lanciava loro Roger riparandosi la bocca con le mani. Quando saltò infine sul molo agitando le braccia, qualcuno - quasi certamente Otto Bodrugan - lo vide e gli rispose accennando alla riva opposta. «Il canale è da questa parte!» urlò a varie riprese Roger. Ma il vento disperse le sue grida e comunque in quel momento l'unica preoccupazione degli uomini era di liberare la barchetta e calarla in mare. Conoscendo senza dubbio bene il canale, Bodrugan doveva sapere che se fossero riusciti a calare in acqua il loro canotto lui e i suoi uomini sarebbero certamente arrivati a terra malgrado quelle onde che andavano a rovesciarsi furiosamente sulle due sponde sabbiose. Non erano più nel mare aperto, pericolosamente irto di scogli, e sebbene si trovassero proprio nel tratto più largo del fiume, nel peggiore dei casi la nave poteva soltanto essere spinta a secco e gli uomini vedersi costretti ad attendere l'alta mare-
a. Mi spiegai, a questo punto, la paura di Roger, e perché cercasse di attirare sul molo Bodrugan e i suoi marinai. Sulla collina opposta stavano sfilando al galoppo forse una dozzina di cavalieri. La formazione del terreno impediva a quelli della nave di vederli, anche perché erano coperti da un ciuffo di alberi. Credendo che con le sue grida e i suoi gesti Roger volesse incoraggiarli o congratularsi con loro per l'abile messa in acqua del canotto, quelli di bordo, che non avevano finito di affannarsi, replicarono alla stessa maniera. Poco dopo - la nave continuava ad andare alla deriva nel tratto superiore del canale - riuscirono, senza perdere un minuto, a calarsi dentro il canotto. Avevano teso una gomena dalla prua dell'imbarcazione alla poppa del bastimento e mentre due degli uomini remavano di forza dirigendosi verso la riva opposta, Bodrugan, accovacciato a prora, le si aggrappava con tutte le forze sperando di far voltare nella loro direzione anche la nave. Erano troppo occupati per preoccuparsi di Roger o d'altro. Ma mentre si avvicinavano lentamente alla riva vidi i cavalieri smontare e approfittando del riparo degli alberi cominciare a scendere lentamente verso il punto dove il terreno piombando quasi a picco sulla spiaggia vi formava una lingua di sabbia. Roger urlò per l'ultima volta agitando disperatamente le braccia, e dimenticando di essere un'ombra io lo imitai inutilmente come uno spettatore che a una partita di calcio fa il tifo per la squadra destinata a perdere. Improvvisamente la gomena si spezzò mentre la nave si arenava. Perdendo l'equilibrio Bodrugan andò a rotolare fra i suoi uomini e il canotto si capovolse buttandoli in acqua tutti e tre. Il primo a rialzarsi fu Bodrugan stesso, con l'acqua fino al petto (erano ormai così vicini alla riva che il fiume non era più molto profondo) mentre gli altri gli annaspavano intorno. Rispose all'ultimo avvertimento di Roger con un grido festoso; l'ultimo che doveva lanciare. Infatti, senza lasciar loro il tempo di voltarsi o di difendersi, la banda erano in dodici contro tre - gli era già addosso. E prima che una pioggia dirotta ancora più violenta me li cancellasse dalla vista, mi accorsi inorridito che invece di trascinare le loro vittime sulla lingua di sabbia per finirle con la spada o la daga, quegli assassini li stavano gettando a faccia all'ingiù nell'acqua. Uno dei tre non reagiva già più, l'altro si dibatteva, ma ce ne vollero otto per immobilizzare Bodrugan. Roger si era messo a correre sulla riva del fiume verso il mulino, bestemmiando e ansimando. Ma io sape-
vo che era inutile, che correvamo invano, perché molto prima che lui riuscisse a far accorrere qualcuno tutto sarebbe già finito. Arrivammo al guado sotto il mulino, dove, come Roger aveva detto prima a Joanna, l'acqua scorreva rapida e profonda quasi fino alla porta della fucina stessa del fabbro. «Rob Rosgof,» urlò Roger riparandosi di nuovo con le mani la bocca «Rob Rosgof!» La figura spaventata del fabbro apparve quasi subito sulla soglia, con sua moglie accanto. Roger accennava all'estuario. Ma dopo aver negato, con le mani e la testa, e indicata col pollice la collina alle sue spalle, come per fargli capire con quella pantomima che sapeva dell'imboscata ma non poteva farci niente, l'uomo si trascinò dentro la moglie e sbarrò la porta. Roger si voltò allora disperato verso il mulino e i tre monaci che vi avevo visto la domenica mattina, quando le figlie d'Isolda avevano traversato il guado, uscirono dal cortile per venirgli incontro. «Bodrugan e i suoi uomini sono stati spinti a riva» gridò Roger. «Sono ormai perduti, in tre contro dodici.» Sul suo viso espressivo si affrontavano collera dolore e rabbia per la sua impotenza a soccorrere quei disgraziati. «Dov'è Lady Campernoune?» chiese uno dei monaci. «E Sir John Carminowe? Abbiamo visto per tutto il pomeriggio la loro carrozza davanti alla casa.» «Il nipote di lei, il figlio di Bodrugan, è malato» replicò Roger. «Lo hanno portato al Priorato e loro sono adesso sulla strada di Bockenod. Ho mandato Robbie a Tregest ad avvertire i familiari di Bodrugan e prego Dio che non si azzardino a venire qui perché potrebbero rimetterci anche loro la vita.» Ci eravamo fermati sotto il cortile del mulino, incerti se rimanere o andarcene, continuando a guardare strizzando gli occhi verso il fiume di cui, incurvandosi al disopra della cala, le rive nascondevano la nave arenata e la scena spaventosa sulla lingua di sabbia. «Chi guidava l'imboscata?» chiese ancora il monaco. «Prima che il Re si ristabilisse saldamente sul trono Bodrugan aveva qui dei nemici. Ora non più.» «Chi, se non Oliver Carminowe?» gli rispose Roger. «Combatté contro di lui nella rivolta del '22 e oggi lo assassina per un altro motivo.» Gli unici suoni erano il vento e il rombo del fiume, mentre s'ingolfava tra sponde sempre più vicine, sfiorato dai gabbiani urlanti. A un tratto uno
dei monaci accennò al gomito del fiume: «Hanno messo in acqua il canotto.» gridava «arrivano con la marea!». Non era un'imbarcazione, non intera perlomeno, ma mi sembrò soltanto qualche tavola strappata ai fianchi della nave e che la corrente trasportava come un relitto che faceva girare lentamente. Vi era legato qualcosa che balzava ogni tanto alla superficie per inabissarsi subito di nuovo. Roger guardò i monaci e io lui e ci slanciammo insieme verso la sponda della cala dove la corrente portava schiuma e rottami. E mentre aspettavamo, le tavole, con la cosa che vi era legata, continuarono a riaffiorare e sparire. Dalla riva opposta ci arrivarono delle grida e i cavalieri col loro capo in testa sbucarono galoppando dagli alberi. Arrivati alla fucina del fabbro smisero di gridare e si fermarono a guardare in silenzio. Mentre noi due con i monaci entravamo nel fiume per tirare a riva la zattera, colui che guidava i cavalieri gridò all'intendente: «È un regalo di compleanno per mia moglie, Roger Kylmerth! Provvedi a farglielo avere con i miei complimenti e dille che l'attendo a Carminowe.» Voltò il cavallo scoppiando a ridere seguito dai suoi uomini e risalì al galoppo la collina. Roger e il primo monaco tirarono a riva la zattera. Dopo essersi segnati, gli altri cominciarono a pregare e uno di loro cadde in ginocchio quasi nell'acqua. Sul corpo di Bodrugan non c'erano ferite di coltelli o altri segni di violenza. L'acqua gli colava dalla bocca e aveva gli occhi aperti. Lo avevano affogato prima di legarlo alle tavole. Roger lo liberò dalla fune e lo trasportò, con i capelli grondanti, verso il mulino. «Dio di misericordia,» gemeva «come farò a dirlo a lei?» Non fu necessario. Mentre ci voltavamo vedemmo i cavalli, Robbie sul suo e sull'altro Isolda, con i capelli stirati dalla pioggia sciolti sulle spalle e il mantello che le si gonfiava dietro come una nuvola. Robbie, a cui era bastato uno sguardo per rendersi conto dell'accaduto, aveva allungato la mano per afferrare le sue briglie e farla voltare. Ma lei era già saltata a terra e scendeva correndo verso di noi. «Oh, amor mio,» gemeva «oh, no... oh, no... oh, no...» abbassando la voce, in principio chiara e forte, in un unico grido rauco. Roger depose a terra il suo fardello e le corse incontro; e io pure. Mentre le afferravamo le mani tese lei ci sfuggì e cadde. E invece di aggrapparmi al suo mantello io inciampavo fra le balle di paglia ammucchiate contro un casotto di lamiera contorta sulla strada della fattoria di Treesmill. 14
Aspettavo, buttato lì, che nausea e vertigine passassero. Sapevo di dover sopportare e che se non mi agitavo quel malessere sarebbe passato prima. Ragionavo abbastanza per accorgermi che albeggiava. Vidi, guardando il mio orologio, che erano le cinque e venti. Se mi concedo ancora un quarto d'ora qui, senza muovermi, mi dissi, tutto andrà bene. Anche se alla fattoria di Treesmill erano già svegli, nessuno avrebbe attraversato la strada per spingersi fino a questo casotto addossato al muro di un vecchio orto della valle. A pochi metri da me scorreva il ruscello, tutto ciò che era rimasto del grande estuario formato una volta dalla marea. I battiti sordi del cuore mi si calmarono lentamente. La vertigine era meno forte della volta che mi ero svegliato al Gratten ed ero stato sorpreso dal dottore sulla piazzuola in cima alla collina. Lasciai passare cinque, dieci, quindici minuti... prima di rimettermi barcollando in piedi e uscire dall'orto avviandomi lentamente su per la collina. Finora mi era andato tutto bene. Risalii in macchina e dopo aver atteso altri cinque minuti accesi il motore e tornai a Kilmarth guidando con cautela enorme. Avevo tutto il tempo di rimettere la macchina nel garage e chiudere la fiaschetta a chiave nel laboratorio. Poi il partito più saggio sarebbe stato di andarmene diritto a letto e tentare di dormire. Non c'era nient'altro da fare, comunque. Roger avrebbe riportato Isolda alla sua dimora di Tregest, dovunque fosse, dopo aver affidato ai monaci il corpo del povero Bodrugan. E qualcuno sarebbe dovuto andare a portare la notizia a Joanna, a Bockenod. Mi sentivo ormai legato, perfino affezionato, a quell'uomo che avevo visto così sinceramente colpito dalla morte di Bodrugan, con cui ne avevo diviso l'orrore. Ora mi spiegavo il nero presentimento avuto alla spiaggia sotto Chapel Point prima di tornare a vela a Fowey con Vita e i ragazzi. Vita e i ragazzi... Pensai a loro proprio mentre entravo nel garage e non so come la mente mi s'illuminò di colpo. Ero tornato a casa, nel mio mondo, col cervello ancora in quell'altro. Ero tornato a casa, completamente sensibile, con una parte del cervello, al fatto di avere nelle mani il volante e appartenere al presente, mentre, rimasta nel passato, l'altra parte credeva Rogér in viaggio per Tregest con Isolda. Seduto immobile nella macchina, con le mani tremanti, mi sentii a un tratto inondare di sudore. Non deve accadermi più, mi dissi. Devo assolutamente dominarmi. Erano ormai le sei del mattino. Vita e i ragazzi, e quei nostri dannati ospiti, dormivano tutti di sopra, e Roger, Isolda e Bodrugan
erano morti da più di sei secoli. Ero nel mio tempo... Entrai dalla porta di servizio e corsi prima di tutto a riporre la fiaschetta. Era ormai giorno ma non si sentiva alcun rumore. Salii cautamente di sopra e scivolai in cucina per innestare la cuccuma elettrica e farmi del tè. Stranamente confortato dal ronzio della cuccuma mi sedetti al tavolo ricordandomi a un tratto quanto avevamo bevuto tutti la sera prima. Nella cucina vagava ancora l'odore dell'aragosta che avevamo mangiato. Andai ad aprire la finestra per liberarmene. Ero alla mia seconda tazza di tè quando sentii scricchiolare le scale. Stavo per correre a nascondermi in cantina quando la porta si aprì e vidi entrare Bill. «Ciao» mi salutò sorridendomi insulsamente. «Due anime e un pensiero solo. Mi sono svegliato poco fa credendo di sentire una macchina e mi è venuto a un tratto una sete orrenda. È tè, quello che stai bevendo?» «Sì» risposi «ne vuoi una tazza? Diana è sveglia?» «No» disse Bill. «So come si comporta mia moglie dopo una sbornia e posso assicurarti che non si sveglierà ancora per un bel pezzo. Ieri sera eravamo tutti un po' partiti, vero? Non mi serbi rancore?» «Ma che dici!» lo rassicurai. Bill si sedette anche lui al tavolo e gli versai una tazza di tè. Sembrava un cadavere e il suo pigiama, di un rosa livido, non gli donava. «Sei già vestito» osservò. «È un pezzo che ti sei alzato?» «Sì» dissi. «Sono perfino uscito... Non riuscivo a dormire.» «Allora la macchina che ho sentito scendere il viale era la tua?» «Probabilmente.» Il tè mi aveva riconfortato. Ma mi faceva traspirare. Sentivo il sudore rigarmi la faccia. «Hai una brutta cera» mi disse Bill. «Ti senti bene?» Mi tolsi il fazzoletto dal taschino e mi asciugai la fronte. Avevo di nuovo le palpitazioni, forse per colpa del tè. «Ti dirò,» ripresi lentamente, e mi sentivo biascicare come se il tè fosse stato un doppio whisky che mi avesse stordito «ho assistito senza essere visto a un delitto orrendo. E non riesco a dimenticarmene.» Bill posò la tazza e mi fissò sbalordito. «Ma che diavolo dici?...» «Avevo bisogno d'aria... Sono andato con la macchina fino a un posto che conosco, a un tre miglia di qui, presso l'estuario. Una nave stava naufragando proprio quando sono arrivato. Il capitano e l'equipaggio sono riusciti a calare in mare una scialuppa. Erano arrivati alla riva opposta quando
è accaduto quest'orrore...» Sebbene le mani mi tremassero mi versai un'altra tazza di tè. «Quel disgraziato non ha potuto salvarsi... Figurati che i delinquenti che lo aspettavano sulla riva non l'hanno accoltellato, o altro... ma l'hanno tenuto con la testa sott'acqua fino a farlo affogare...» «Dio mio, che spavento!» esclamò allibito Bill. «Ma ne sei proprio sicuro?» «Sì. Non avevo le traveggole. Ho visto con i miei occhi affogare quel disgraziato.» Mi alzai e cominciai a andare su e giù nella cucina. «E ora che cosa farai?» volle sapere Bill. «Devi avvertire la polizia.» «La polizia?» ripetei. «Non è un affare per loro. Sto pensando al figlio di quel poveretto, che è ammalato. Qualcuno dovrà dare la notizia a lui e agli altri parenti...» «Ma, Dio mio, Dick, hai il dovere d'informare la polizia! Capisco che tu non ci tenga ad essere immischiato in una storia simile. Ma si tratta di un delitto, no? E dici di conoscere l'uomo che hanno ucciso e suo figlio?» Sbarrandogli in faccia gli occhi respinsi a un tratto la mia tazza. Era successo, oh, Cristo, era successo... non riuscivo più a distinguere fra i mondi. Mi sentii di nuovo coprire tutto di sudore. «No,» dissi «non lo conosco personalmente. L'ho visto qualche volta... tiene il suo yacht dall'altra parte della baia... e ho sentito parlare della sua famiglia. Hai ragione, Bill, non voglio essere immischiato in questa storia. E poi, non ero il solo testimone io, c'era con me qualcun altro che farà certamente... che avrà fórse già fatto... il necessario...» «Vi siete messi d'accordo?» «No, lui non mi ha visto.» «Beh, non so...» disse dubbioso Bill. «Secondo me hai comunque il dovere di telefonare alla polizia. Vuoi che ci pensi io?» «Per carità! E, Bill, non una parola di tutto questo a Diana o a Vita. Giuramelo!» Bill mi guardava sempre più turbato. «Capisco... si preoccuperebbero troppo... Dio mio,» continuò «che cosa dev'essere stato per te... avrai avuto un brutto colpo...» «Sto benissimo» mi affrettai a tranquillizzarlo. Mi sedetti di nuovo. «Bevi almeno un'altro po' di tè.» «No,» rifiutai «non mi occorre niente.» «È un'altra prova» insisté Bill «di quello che non faccio che ripetere. In tutti i paesi civili del mondo la percentuale dei delitti non fa che crescere. Le autorità debbono decidersi ad agire. Chi lo crederebbe, voglio dire, che
in quest'angolo sperduto della Cornovaglia possano accadere simili mostruosità? Una banda di assassini, hai detto? Ma da dove saranno venuti? Secondo te erano gente del luogo?» Scossi la testa. «No, non credo. Non so proprio chi possano essere.» «E sei davvero sicuro che quell'altro ha visto tutto e che avrebbe avvertito la polizia?» «Sì. L'ho visto correre verso la fattoria più vicina, dove so che hanno il telefono.» «Dio voglia che non ti sia ingannato.» Nel silenzio che seguì Bill continuò a sospirare e a scuotere la testa. «Che cosa doveva mai capitarti. Dio mio! Non so immaginare niente di più orribile.» Mi ficcai le mani in tasca perché lui non si accorgesse che tremavano. «Senti,» gli dissi «sarà meglio che ora io salga di sopra a stendermi. Vita e Diana non debbono sapere che sono uscito. Questa faccenda deve rimanere un segreto fra noi. Ormai né tu né io possiamo più farci niente. Promettimi che te ne dimenticherai.» «Non mi lascerò sfuggire una parola con nessuno, intesi» promise Bill. «Ma non potrò dimenticare quello che mi hai detto. Tanto più che certamente sarà nel telegiornale. A proposito, se vogliamo acchiappare quell'aereo a Exeter dovremo filare subito dopo il breakfast. Sei d'accordo?» «Certo. Mi dispiace soltanto di averti rovinato la mattinata.» «Sono io, caro Dick, che debbo rammaricarmi per te. Sì, nei panni tuoi salirei di sopra, ora, e cercherei di dormire. E senti, non scomodarti ad alzarti per salutarci. Puoi sempre fingere di dover smaltire la sbornia di ieri sera.» Mi tese sorridendo la mano. «Grazie per la bellissima giornata e di tutto. Mi auguro che non salti su niente altro a rovinarti le vacanze. Ti scriverò dall'Irlanda.» «Grazie anche a te, Bill» dissi. Salii di sopra, mi svestii nello spogliatoio e vomitai violentemente nel gabinetto per almeno cinque minuti. Il rumore dovette svegliare Vita perché la sentii chiamare dalla stanza da letto. «Sei tu?» chiedeva. «Cosa ti succede?» «Non dovevo bere tutto quel moscato dopo il bourbon» dissi. «Scusami, ma non mi reggo in piedi. Mi stendo qui sul divano. È ancora molto presto, le sei e mezzo appena.» Chiusi la porta dello spogliatoio e mi gettai sul divano-letto. Ero tornato nel mondo d'oggi, ma Dio solo sapeva quanto sarebbe durata la mia calma.
Una cosa era sicura: subito dopo la partenza di Bill e Diana avrei dovuto telefonare a Magnus. L'inconscio è una strana cosa. Mentre ero profondamente turbato dall'estremo disordine della mia mente, che avrebbe potuto indurmi a spiattellare a Bill la verità sul mio esperimento, cinque minuti dopo che mi ero steso sul divano dormivo già. Sognai, strano, non di Bodrugan e del suo orrendo destino, ma di una certa partita di cricket a Stonyhurst in cui un mio compagno era stato colpito alla testa da una palla ed era morto ventiquattro ore dopo di un'emorragia cerebrale. Erano perlomeno venticinque anni che non ci pensavo più. Quando mi svegliai, poco dopo le nove, ero perfettamente lucido e padrone di me, anche se afflitto dalle conseguenze di quella dannata sbornia e con l'occhio ancora più congestionato. Mentre facevo un bagno e mi radevo, sentii i nostri ospiti muoversi nella camera attigua. Chiamai Magnus dopo che Bill e Diana furono scesi di sotto e non avendolo trovato in casa lasciai un messaggio per lui alla sua segretaria dell'università, per avvertirlo che avevo urgentemente bisogno di parlargli ma preferivo richiamarlo io. Mi sporsi quindi dalla finestra dello spogliatoio, che dava nel patio, per gridare a Teddy di portarmi su una tazza di caffè. Sarei sceso a salutare i nostri ospiti esattamente cinque minuti prima della loro partenza. «Che cosa ti sei fatto a quell'occhio?» mi chiese il mio figliastro maggiore quando arrivò col caffè. «Sei caduto o che cosa?» «No» negai. «Dev'essere un effetto ritardato dell'uragano di lunedì.» «Però ti sei alzato presto» osservò Teddy. «Ti ho sentito parlare con Bill in cucina.» «Stavo facendo il tè. Ieri sera avevamo bevuto tutti e due un po' troppo.» «Dev'essere stato questo, e non il vento, a conciarti in quel modo l'occhio.» Teddy somigliava talmente a sua madre in uno dei suoi accessi irritanti di chiaroveggenza, che gli voltai istintivamente le spalle. Mi ricordai soltanto allora che la sua stanza si trovava proprio sopra la cucina, ed era probabile che avesse udito la nostra conversazione. «Sai dirmi di che cosa stavamo parlando Bill ed io?» provai a chiedergli prima che uscisse. «Come vuoi che lo sappia?» replicò. «Credi che schiodi le tavole del pavimento per origliare?» No, mi dissi. Ma sua madre ne sarebbe capace, se udisse alle sei del mattino suo marito e il loro ospite discutere concitatamente in cucina.
Finii di vestirmi, inghiottii il mio caffè e apparvi in cima alle scale giusto in tempo per aiutare Bill a portare giù le valigie. Dopo avermi lanciato uno sguardo di complicità mentre le nostre mogli erano nell'atrio, mi mormorò: «Hai potuto dormire?». «Sì, e ora sto bene» risposi. «Non capisco come possa essermi successo» continuai accorgendomi che fissava il mio occhio. «Sarà stato il bourbon. A proposito, stamattina Teddy ci ha uditi parlare.» «Lo so. L'ha detto davanti a me a Vita. Non preoccuparti, tutto è in ordine.» Mi batté sulla spalla e scendemmo pesantemente. «Cielo!» esclamò Vita appena mi vide. «Che cosa hai fatto a quell'occhio?» «Allergia da bourbon,» spiegai «aggravata da crostacei. Non è accaduto soltanto a me.» Ambedue le donne insistettero per esaminarmi, suggerendomi una serie di rimedi, dalla pomata alla penicillina al T.C.P. «Escludo il bourbon» decise Diana. «Non vorrei essere indiscreta ma me ne accorsi già ieri, appena arrivammo. Che diavolo, mi chiesi, avrà fatto a quell'occhio Dick?» «Come mai,» saltò su Vita «non lo chiedesti a me?» Ora basta, mi dissi. Misi le mani sulle loro spalle e le obbligai a uscire sotto il portico. «Stamattina nessuna di voi due vincerebbe un premio di bellezza» le informai. «E non è stato il bourbon a svegliarmi all'alba, ma Vita che russava. Perciò piantatela.» Dovemmo metterci in posa sugli scalini per l'inevitabile gruppo ricordo di Bill, ed erano quasi le dieci e mezzo quando infine quei due se ne andarono. La stretta di mano di Bill fu di nuovo quella di un cospiratore. «Mi auguro di trovare anche in Irlanda questo tempo magnifico» mi disse. «Terrò d'occhio i giornali e ascolterò le previsioni della radio per sapere quello che accade qui in Cornovaglia.» E mi strizzò impercettibilmente un occhio. Voleva dirmi che sarebbe stato all'erta per non farsi sfuggire il resoconto di quell'orrendo crimine. «Mandateci delle cartoline» disse Vita. «Magari potessimo venire con voi.» «Sei sempre libera di raggiungerli,» le feci osservare «quando ti sarai stufata della Cornovaglia.» Forse non erano esattamente le parole di un marito affettuoso, contento di avere con sé la moglie, ma me ne accorsi troppo tardi. L'espressione di
Vita quando avemmo finito di agitare le mani e ci fummo voltati verso la casa, me lo confermò. «Credo davvero» disse «che ci avresti visti volentieri partire tutte e tre con loro, lasciandoti di nuovo completamente padrone di questa casa!» «Non dire sciocchezze» protestai. «Me lo facesti già capire chiaramente ieri sera, quando corresti a coricarti subito dopo il pranzo.» «Corsi a coricarmi, come dici, perché non sopportavo più di vederti sdilinquirti nelle braccia di Bill mentre Diana era impaziente d'imitarti nelle mie. Dovresti saperlo, che non sono portato per questi giochetti di società.» «Giochetti di società!» Vita scoppiò a ridere. «Che idiozie! Bill e Diana sono i miei più vecchi amici. Dov'è andato a finire il tuo decantato senso britannico dell'humour?» «Non va d'accordo col tuo, ecco tutto. Il mio è molto più rozzo. Se ti tirassi di sotto i piedi una stuoia e ti vedessi rotolare a terra, creperei dal ridere.» Quando rientrammo, il telefono suonava. Andai nella biblioteca a rispondere e Vita mi seguì. Era, come temevo, Magnus. «Sì» dissi cautamente. «Mi hanno dato il tuo messaggio, ma ho avuto una giornata infernale... Ho scelto male il momento?» «Sì.» «Vuol dire che Vita è nella stanza?» «Sì.» «Capisco. Rispondi sì o no. C'è qualcosa di nuovo?» «Beh... abbiamo avuto degli ospiti. Arrivati ieri e appena ripartiti.» Vita si stava accendendo una sigaretta. «Se è il tuo professore,» intervenne «e non saprei chi altro possa essere, salutalo per me.» «Subito. Vita ti manda i suoi saluti» dissi a Magnus. «Ricambiaglieli. E chiedile se potrei venire venerdì sera a passare con voi il weekend.» Il cuore mi fece un balzo, non seppi decidere se di contentezza o del contrario. Ero comunque sollevato. Perlomeno avrebbe preso lui il comando. «Magnus» dissi a Vita «vuol sapere se può venire per il weekend.» «Naturalmente» replicò. «Questa dopotutto è casa sua. E tu ti troverai
senza dubbio meglio con lui che con i miei amici.» «Vita ti aspetta» dissi a Magnus. «Magnifico. Ti farò sapere più tardi che treno prenderò. Quanto alla tua chiamata urgente... riguarda l'altro mondo?» «Sì.» «Hai fatto un altro viaggio?» «Sì.» «Con cattive conseguenze?» Nella pausa che seguì gettai un'occhiata a Vita, che non sembrava volersene andare. «Per essere sincero» risposi infine «ho bevuto. Sono stato assalito da nausee tremende e ho un occhio stranamente iniettato di sangue. Forse è colpa del bourbon con cui ieri sera ho innaffiato l'aragosta.» «Aggiungendoci il viaggio... potrebbe essere» confermò Magnus. «E ti è accaduto di nuovo di confondere i due mondi?» «Sì. Quando mi sono svegliato non riuscivo a riordinare le idee.» «Capisco. Se n'è accorto qualcuno?» Lanciai un'altra occhiata a Vita. «Dato che ieri sera» risposi «eravamo tutti un po' partiti, i maschi della comitiva si sono svegliati presto. Io avevo avuto un incubo così preciso da sembrar vero, e mentre bevevamo il tè l'ho raccontato a Bill, un amico di Vita.» «Gli hai detto altro?» «No, soltanto dell'incubo. Sai come possono essere paurosi. Mi sembrava di vedere una banda di assassini piombare addosso a qualcuno e farlo affogare.» «Ti sta bene» intervenne Vita. «E, secondo me, più che del whisky la colpa dev'essere stata di quelle due porzioni di aragosta.» «La vittima era un tuo amico?» riprese Magnus. «Sì. Sai, quel tipo che anni fa teneva una barca a Chapel Point e andava sempre a vela fino a Par? Beh, l'incubo lo riguardava. Ho sognato che la sua barca veniva disalberata durante una tempesta e che quando riusciva a toccare terra era assassinato da un marito geloso, che lo credeva l'amante della moglie.» Vita rise. «Secondo me» disse «un sogno di questo genere significa una coscienza sporca. Hai avuto quell'incubo terrificante perché mi sospettavi d'intendermela con Bill. Qua, lasciami parlare col professore.» Attraversò la stanza per venirmi a togliere il ricevitore. «Come sta, Magnus?» chiese con amabilità calcolata. «Sarò felice di averla qui nella sua casa per il weekend prossimo. Dick è di un umore bestiale. Forse lei riuscirà a rasse-
renarlo.» Sorrise guardandomi. «Che cos'ha all'occhio?» ripeté. «Non ne ho la più lontana idea. Ha l'aria di aver perduto un incontro di boxe. Sì, certo, farò tutto quello che posso per tenerlo tranquillo fino al suo arrivo. Ma è molto ostinato. Oh, a proposito, potrà forse dirmelo lei. I miei ragazzi adorano cavalcare. E Dick dice di aver visto, domenica mattina, mentre noi altri eravamo in chiesa, delle bambine che si divertivano un mondo in groppa a dei ponies. E mi sto chiedendo se in fondo a quel villaggio... come lo chiamate, Tywardreath? non ci sia per caso qualche scuderia dove affittino cavalli. Non lo sa? Beh, non importa, potrà forse dirmelo la signora Collins. Che cosa? Un momento, glielo chiedo...» Si girò verso di me. «Il professore ti domanda se non erano per caso le bambine di certi suoi vecchi amici, Oliver e Isolda Carminowe.» «Sì» dissi. «L'ho pensato anch'io. Ma non so dove abitano.» Vita tornò al telefono. «Dick dice di sì, anche se non so come possa saperlo, dato che non li frequenta. Oh, beh, se la madre è una bella donna l'avrà forse notata da queste parti ed è così che sa chi sono.» Mi fece una smorfia. «Sì, bene» continuò. «E se il weekend prossimo lei li ripescasse vuol dire che li inviteremo per un drink e Dick potrà esserle infine presentato. A venerdì, dunque.» Vita mi restituì il ricevitore. Magnus rideva dall'altra estremità della linea. «Che è questa storia, di metterci in contatto con i Carminowe?» chiesi. «Me la sono cavata elegantemente, no?» ribatté lui. «Comunque, è proprio quello che intendo fare, se riusciremo a sbarazzarci di Vita e dei ragazzi. Dirò intanto al mio collaboratore di Londra di documentarsi su Otto Bodrugan. La sua brutta fine ti ha sconvolto, eh?» «Sì.» «C'era anche Roger, vero? Ha dato una mano agli altri?» «No.» «Lieto di apprenderlo. E ora ascoltami bene, Dick. È molto importante. Niente più viaggi se non con me. Anche se la tentazione fosse forte. Devi prima rimetterti. D'accordo?» «Sì» approvai di nuovo. «Come ti ho detto, quando ci vedremo avrò già avuto i primi risultati dal laboratorio. Fino allora: astenersi. E ora devo lasciarti. Stammi bene.» «Farò del mio meglio» promisi. «Ciao.» Fu come spezzare l'unico legame fra i due mondi.
«Su con la vita, caro» mi disse mia moglie. «Lui sarà qui fra meno di tre giorni. Che festa, eh? E adesso che ne diresti di salire nel bagno e occuparti un poco di quell'occhio?» Più tardi, quando, dopo gli impacchi all'occhio, Vita fu andata in cucina per informare la signora Collins dell'arrivo di Magnus e discutere senza dubbio con lei i suoi gusti in fatto di cucina, tirai fuori la mia carta stradale e cercai di nuovo, inutilmente, Tregest. Trovai invece, come mi aspettavo, Treesmill, Treverran, Trenadlyn, Trevenna - gli ultimi tre citati anche nell'Elenco dei Contribuenti Laici - ma nient'altro. Forse, mi dissi, Magnus avrà la spiegazione dal suo studente di Londra. Poco dopo Vita mi raggiunse nella biblioteca. «Ho chiesto alla signora Collins dei Carminowe, ma dice che non ne ha mai sentito parlare. Sono amici molto intimi di Magnus?» Sussultai quasi, udendola pronunziare quel nome. Dovevo stare molto attento, o quella terribile confusione avrebbe potuto ripetersi. «Deve averli perduti di vista» cercai di cavarmela. «Magari non li vede da un pezzo. Lo sai che viene di rado, qui.» «Non sono nell'elenco telefonico,» insisté Vita «ho già guardato. Che cosa fa quest'Oliver Carminowe?» «Fa?» ripetei. «Non lo so esattamente. Se non sbaglio, una volta doveva essere nell'esercito. Avrà qualche specie d'impiego governativo. Chiedilo a Magnus.» «E sua moglie, è molto bella?» «Lo era» dissi. «Non le ho mai rivolto la parola.» «Ma l'hai vista da quando sei qui?» «Solo da lontano. Non mi riconoscerebbe.» «Era qui anche quando ci venivi da studente?» «Forse» dissi. «Ma non incontrai mai né lei né il marito. Non so quasi niente di loro.» «Abbastanza, comunque, per riconoscere le loro bambine, quando le vedesti l'altro giorno.» Avevo i nervi a fior di pelle. «Tesoro,» protestai «che cos'è quest'interrogatorio? Magnus avrà alluso qualche volta a questi Carminowe come a tanti altri amici o conoscenti suoi. Tutto qui. Isolda è la seconda moglie di questo Oliver Carminowe, e hanno due figlie. Contenta?» «Isolda?» ripeté Vita. «Che nome romantico.» «Non più di Vita» ribattei. «Non potremmo lasciarla in pace?» «È buffo» tornò alla carica mia moglie «che la signora Collins non ne
abbia mai sentito parlare. È una tale miniera d'informazioni sugli affari locali. Ora mi ha detto che sulla strada fra qui e Benabilly Barton c'è un buon allevamento di cavalli, e uno di questi giorni ci andrò per parlare col proprietario.» «Fai bene» approvai. «Vacci subito, anzi.» Dopo avermi fissato perplessa Vita uscì dalla stanza. Tirai fuori furtivamente il fazzoletto e mi asciugai la fronte, di nuovo coperta di sudore... È una fortuna, mi dicevo, che i Carminowe siano estinti, o Vita avrebbe finito in qualche modo per snidarli e invitare domenica prossima al lunch un loro discendente sbalordito. Magnus sarebbe arrivato a salvarmi soltanto fra due o tre giorni. Era difficile, lo sapevo, sviare Vita dopo aver destato il suo interesse. Ed era tipico di quel maligno di Magnus averle detto quel nome. Il resto del mercoledì passò senza incidenti, e grazie al cielo non feci più confusioni. Era un tale sollievo non avere più ospiti che il resto contava poco. I ragazzi furono felici di montare a cavallo, e Vita, anche se non gradiva l'apatia in cui eravamo caduti dopo il trambusto creato dai nostri ospiti e la normale reazione a una sbornia, aveva il buon senso di non farmelo capire. Si astenne anche dall'alludere al nostro party della sera precedente. Ci coricammo presto e dormimmo come ghiri. Il giovedì piovve tutto il giorno a catinelle. Io me ne curai poco, ma Vita e i ragazzi, che avevano progettato un'altra gita in barca, rimasero male. «Spero che sabato il tempo si rimetta» disse Vita. «Che cosa faremo fare, altrimenti, ai ragazzi? Non vorrai certo che ci stiano tutto il giorno fra i piedi mentre ci sarà il professore?» «Non preoccuparti per Magnus» le dissi. «Vedrai che penserà lui, anzi, a organizzare qualcosa per i ragazzi e per noi. Comunque, io e lui avremo forse del lavoro da sbrigare.» «Che specie di lavoro? Spero almeno che non vi tapperete in quella strana stanza del seminterrato.» Ancora una volta Vita non poteva sapere quanto era vicino alla verità. «Non saprei» replicai vagamente. «Magnus ha qui una quantità di appunti e dati, e vorrà forse esaminarli con me. Te l'ho detto, che il suo nuovo hobby sono le ricerche storiche.» «Potrebbero interessare molto Teddy... e anche me...» disse Vita. «Sarebbe divertente fare tutti insieme un picnic in qualche località storica qui intorno. Che ne diresti di Tintagel? La signora Collins dice che dovrebbero visitarla tutti.»
«Non è esattamente nella zona che interessa Magnus, e comunque rigurgita troppo di turisti» obiettai. «Vedremo quando lui sarà qui...» Come faremo a sbarazzarci di loro, mi chiesi, se Magnus volesse visitare il Gratten? Provvederà comunque lui, conclusi. Il giovedì si trascinò e una deprimente passeggiata sulle sabbie di Par contribuì poco a distrarci. Prima di sera avevo capito quello che Magnus intendeva esortandomi a disintossicarmi sudando. Ero sempre stato indenne da questa diffusa afflizione dell'umanità. A scuola sudavo, sì, dopo le nostre violente esercitazioni ginniche; ma mai quanto alcuni dei miei compagni. E adesso, dopo qualunque piccolo sforzo, perfino, a volte mentre ero tranquillamente seduto, mi sentivo coprire di un sudore così abbondante e dall'odore così stranamente acido, che pregavo Iddio che non se ne accorgesse nessuno. La prima volta che mi accadde, dopo la passeggiata a Par, mi limitai a spiegarmelo con lo sforzo fatto, e a fare un bagno prima del pranzo. Ma quella sera, mentre Vita e i ragazzi guardavano la TV e io ascoltavo dei dischi nella stanza di musica, l'inconveniente si ripeté. Dopo una brusca sensazione di un freddo appiccicoso, il sudore continuò a sgorgarmi per forse più di cinque minuti dalla faccia, il collo, le ascelle, l'intero busto, finché la mia camicia non ne fu inzuppata da doverla strizzare. È una cosa che fa ridere, come il mal di mare, quando ne è vittima un altro. Ma riflettendo che per me si trattava evidentemente di una nuova reazione alla droga, fui preso dal panico. Fermai il pick-up e salii di sopra a lavarmi e cambiarmi per la seconda volta, chiedendomi che cosa sarebbe successo più tardi se avessi avuto un altro attacco mentre ero a letto con Vita. La mia apprensione nervosa non mi preparava a una notte serena. Per giunta, in preda a uno dei suoi frequenti accessi di loquacità, Vita non smise di chiacchierare mentre si spogliava, continuando perfino quando mi si fu stesa accanto. Più agitato di uno sposo la prima notte di nozze, mi sorpresi a spingermi più che potevo verso la mia sponda del letto, emettendo sbadigli cavernosi come chi muore di stanchezza. Spenti i lumi riuscii forse ancora a ingannare Vita respirando profondamente come se fossi sull'orlo del sonno. E infine, dopo due o tre tentativi - che finsi d'ignorare - di rannicchiarmisi più vicino, mia moglie mi girò le spalle e poco dopo dormiva. Io rimasi sveglio pensando alla scenata che avrei fatta a Magnus al suo arrivo. Nausea, vertigine, allucinazioni, un occhio congestionato, e adesso anche questo sudore acido... E per che cosa? Per un momento di un tempo
ormai lontanissimo, senza alcun rapporto col presente, che non poteva essere di alcuna utilità a Magnus e a me e giovare al nostro mondo al massimo quanto un taccuino di remoti ricordi dimenticato in un cassetto polveroso. Continuai a ripetermelo fino alla mezzanotte e oltre. Ma il buon senso ha il brutto vizio di sparire, quando, nelle ore piccole, ci assale il demone dell'insonnia. Mentre giacevo lì, contando prima le due, poi le tre sul quadrante illuminato della sveglia da viaggio del comodino, ricordai come mi ero aggirato in quell'altro mondo conservando tutta la capacità di percezione di un uomo sveglio, libero come chi sogna. Roger non era stato un'istantanea sbiadita nell'album del tempo, e perfino adesso, in quella quarta dimensione in cui ero andato inavvertitamente a cadere (ma Magnus vi era entrato di proposito), viveva, si muoveva, mangiava e dormiva al disotto di me, nella sua casa di Kylmerth. E scorrendo affiancati, il suo presente e il mio si fondevano. Sono forse il guardiano di mio fratello? L'urlo di protesta di Caino a Dio prese a un tratto per me, mentre guardavo le lancette della sveglia muoversi verso le tre e dieci, un significato nuovo. Roger era il mio custode e io il suo. Non esistevano passato, presente o futuro. Tutto ciò che vive, mi dissi, è parte del tutto. Siamo legati tutti l'uno all'altro attraverso il tempo e l'eternità, e una volta aperti i nostri sensi - come lo sono stati i miei dalla droga - a una comprensione nuova del mondo di Roger e del mio, avverrà la fusione e non ci saranno più né separazione né morte... Il significato ultimo dell'esperimento doveva essere senza dubbio questo: che chi riusciva a spostarsi nel tempo distruggeva la morte. Finora Magnus non l'aveva capito. Per lui la droga faceva soltanto affiorare le immagini del passato sepolte in certi centri complessi del cervello. Per me era la prova che il passato non era scomparso, che ne eravamo tutti parte e testimoni. Io ero Roger, Bodrugan, Caino e, incarnandoli più intensamente, me stesso. Quando mi addormentai mi sentivo sull'orlo di una tremenda scoperta... 15 Non mi svegliai che alle dieci. Vita era accanto al letto, col vassoio del breakfast con caffè e crostini. «Ciao,» le dissi «ho fatto il dormiglione.» «Sì,» confermò lei. Poi guardandomi sospettosa, mi chiese: «Ti senti bene?».
Mi sedetti sul letto e le tolsi dalle mani il vassoio. «Sto magnificamente. Perché me lo chiedi?» «Hai passato una notte agitata, sudando esageratamente. Hai la giaccia del pigiama fradicia, guarda!» Era vero. Me la tolsi e la buttai via. «È una cosa strana» commentai. «Non mi era mai accaduto. Sii un angelo e vammi a prendere un asciugamano.» Vita me lo portò dal bagno, e prima di allungare la mano verso il caffè mi strofinai energicamente fino alla cintola. «Mi sarò stancato un po' troppo a Par, sulla spiaggia con i ragazzi.» «Non direi,» replicò lei fissandomi «e comunque dopo facesti un bagno. È la prima volta che ti vedo sudare così dopo uno sforzo fisico.» «Può accadere,» cercai di cavarmela «soprattutto alla mia età. La menopausa l'hanno anche i maschi. Mi avrà colpito nel fiore dell'età.» «Spero di no» protestò Vita. «Sarebbe un bel guaio!» Andò alla toeletta e si guardò nello specchio come se potesse trovarci la soluzione del problema. «È strano,» riprese «ma se n'è accorta anche Diana, che non eri in forma, malgrado l'abbronzatura che ti sei presa in mare.» Girò bruscamente sui tacchi. «Ammettilo,» continuò fissandomi «che non stai bene come al solito. Non so che cosa possa essere, tesoro, ma comincio a preoccuparmi. Sei irascibile, distratto, come se avessi chissà quali pensieri. Per non parlare di quello strano occhio congestionato...» «Per amor del cielo» la interruppi «piantala, vuoi? Avevo un diavolo per capello, lo riconosco, mentre c'erano Bill e Diana, e te ne chiedo scusa. La spiegazione è semplice: avevamo bevuto tutti un po' troppo. Non c'è altro. Ti sembra giusto mettermi continuamente sotto accusa?» «Ecco che ricominci» protestò lei. «Sei sempre sulla difensiva. Spero che quando sarà qui il tuo professore riesca a distenderti lui i nervi.» «Ci riuscirà,» replicai «purché non ti salti in mente di sottoporci per tutto il weekend al terzo grado.» Lei rise, o meglio vidi le sue labbra che fremevano, come alle mogli ansiose di prendersi la rivincita sul marito. «Non oserei mai occuparmi delle faccende del professore. La sua salute e quello che fa non mi riguardano. Ma nel tuo caso è diverso. Sono tua moglie e ti amo.» Vita uscì e la sentii scendere al pianterreno. La giornata comincia bene, mi dissi, mentre m'imburravo un crostino: Vita offesa, io condannato a sudare e l'arrivo di Magnus previsto per le prime ore della sera. Trovai sul vassoio, sotto la rastrelliera dei crostini, una sua cartolina. Vi-
ta l'aveva nascosta deliberatamente? Appresi con sollievo che Magnus avrebbe preso il treno delle 4,30 da Londra e sarebbe arrivato verso le dieci a St. Austell. Significava che Vita e i ragazzi avrebbero potuto coricarsi o rimanere comunque in piedi soltanto per salutare il nuovo ospite, lasciando poi Magnus e me liberi di tuffarci nelle nostre discussioni. Alquanto riconfortato mi alzai, feci un bagno e mi vestii. Mi mostrerò di umore migliore, decisi, farò di tutto per tenermi buoni Vita e i ragazzi. «Magnus non sarà qui prima delle dieci,» gridai dalla tromba delle scale «e poiché avrà certamente mangiato sul treno non hai il problema della cena. Che cosa volete fare?» «Andare a vela!» gridarono Micky e Teddy, che ciondolavano nell'atrio come hanno il vizio di fare i ragazzi quando non riescono a organizzarsi la giornata. «Non c'è vento» replicai dopo un rapido sguardo dalla finestra delle scale. «Allora affitta un motoscafo» intervenne Vita sbucando dalla cucina. Più deciso che mai a ingraziarmeli, poco dopo filavo con quei tre verso Fowey, con un cestino di provviste e il nostro comandante Tom. Non eravamo nella barca a vela ma in una ex scialuppa trasformata da Tom stesso mediante l'applicazione di uno di quegli onesti motorini da cui non puoi esigere nemmeno un centimetro più dei soliti cinque nodi. Uscimmo dalla baia dirigendoci a est per gettare poco dopo perfettamente felici l'ancora davanti a Lanlivet Bay, dove mangiammo, nuotammo e prendemmo a lungo il sole. Una mezza dozzina di merlani pescati durante il viaggio di ritorno fecero impazzire di gioia Teddy e Micky e arricchirono il menù di Vita per la cena. La spedizione si era rivelata un grande successo. «Promettici che ci porterai fuori anche domani» mi implorarono i ragazzi. Ma dopo avermi lanciato un'occhiata, Vita li avvertì che dipendeva dal professore. Vedendoli rabbuiarsi mi spiegai la loro reazione. L'idea di dover dipendere da quest'amico, quasi certamente asfissiante, del loro padrigno, che del resto - Micky e Teddy l'avevano intuito - era già antipatico alla loro madre, non poteva rallegrare due ragazzi della loro età. «Potrete andarci con Tom,» dissi «anche se Magnus e io avremo altri piani.» Per noi due sarebbe stata una liberazione, tanto più che Vita non avrebbe certamente permesso ai figli di uscire in mare senza di lei, neppure affidati a Tom. Appena arrivati a Kilmarth, verso le sette, Vita corse in cucina a occu-
parsi dei merlani mentre io mi facevo una doccia e mi cambiavo. Soltanto alle otto meno dieci circa, vidi, entrando nella sala da pranzo, il bigliettino della signora Collins appoggiato ai miei bicchieri. C'era scritto: «Ci hanno telefonato dall'ufficio postale un telegramma del professore. Dice che prenderà il treno delle 2,30 da Londra, invece di quello delle 4,30, e arriverà a St. Austell alle 7,30». Dio mio, pensai, Magnus starà sbuffando ormai da più di venti minuti alla stazione di St. Austell... Mi precipitai in cucina. «Cambiamento di programma!» urlai. «Guarda qui: l'ho appena trovato. Magnus ha preso il treno precedente. Perché diavolo non mi ha telefonato? Che guaio!» Vita aveva abbassato sgomenta gli occhi sul merlano che stava friggendo. «Pranzerà qui, allora? Dio mio, non posso dargli questo! Scusami, ma poteva aver un po' più di considerazione... Esagera...» «Magnus gradirà certamente i merlani» la interruppi. «Non gli avranno dato altro da ragazzo. E abbiamo formaggi e frutta. Perché te la prendi tanto?» Dopo aver ammesso a malincuore che Magnus non era stato gentile ad anticipare l'ora del suo arrivo sapendo che potevamo essere fuori per l'intera giornata, tirai fuori a precipizio la macchina. Quel ripensamento era comunque tipico del mio amico. Avendo scoperto che il treno precedente gli faceva più comodo, Magnus si era affrettato a saltarci dentro. Non vedendomi alla stazione avrebbe preso senza dubbio un tassi e mi avrebbe incrociato per la strada, salutandomi cinicamente con la mano. Un caso sfortunato mi fece perdere altro tempo. Un idiota era uscito malamente di strada e dovetti accodarmi a una lunga fila di macchine che aspettavano di poter passare. Quando arrivai infine alle nove meno un quarto, alla stazione di St. Austell, non potei dar torto a Magnus se non mi aveva aspettato. Il marciapiede era deserto; il bar e gli uffici chiusi. Il facchino che riuscii infine a scovare rispose vagamente alle mie domande, che il treno delle sette e mezzo era arrivato in orario. «Lo credo bene» replicai spazientito. «Ma il punto è che sono venuto a prendere qualcuno e non lo vedo.» «Beh, signore,» l'uomo ridacchiava «il suo amico si sarà probabilmente stancato di aspettare e avrà preso un tassi.» «In questo caso» protestai «mi avrebbe telefonato, o lasciato un messaggio per me all'impiegato della biglietteria. Lei era qui quando è arrivato il treno?» «No» disse l'uomo. «La biglietteria sarà riaperta soltanto alle nove meno
un quarto, poco prima dell'arrivo del prossimo treno.» «Ma io ho bisogno di sapere qualcosa subito!» sbottai esasperato. Povero diavolo, dopotutto non era colpa sua. «E va bene, signore» disse conciliante. «Vuol dire che riapro io e guardo se quel suo amico le ha lasciato un messaggio.» Tornammo verso la stazione e dopo aver inserito faticosamente - o così mi sembrò - una chiave nella serratura, il facchino aprì la porta della biglietteria. Mi affrettai a seguirlo dentro. La prima cosa che notai fu una valigia in un angolo, con sopra le iniziali M.A.L. «Eccola, è la sua» dissi. «Ma perché l'avrà lasciata qui?» Il facchino andò al banco e prese un pezzo di carta. «Valigia con iniziali M.A.L. avuta dal controllore del treno delle sette e trenta» lesse «per essere consegnata a un signore a nome Richard Young. È lei il signor Young?» Risposi di sì. «Ma dov'è il professor Lane?» Il facchino riabbassò gli occhi sul pezzo di carta. «Il proprietario della valigia, il professor Lane, ha incaricato il controllore di dire al suo amico che ha cambiato idea e deciso di proseguire fino a Par. Arriverà di lì a piedi fino a casa. Il suo amico capirà.» Mi tese il foglio perché controllassi. «Non capisco» ricominciai a protestare esasperato. «Non credevo che i treni di Londra si fermassero ancora a Par!» «Non ci si fermano, infatti» confermò il facchino. «Si fermano a Bodmin Road e chi vuole andare a Par scende e prende la coincidenza. Il suo amico avrà fatto così.» «Che dannata idiozia!» Il facchino rise. «Che vuole, è una bella sera per camminare. E tutti i gusti sono gusti.» Lo ringraziai della sua cortesia e andai a buttare la valigia sul sedile posteriore della macchina. Non riuscivo a spiegarmi perché diavolo Magnus si fosse divertito a fare esattamente il contrario di quello che avevamo deciso. A quest'ora sarà a Kilmarth, mi dissi, occupato a mangiarsi quei merlani divertendosi alle mie spalle con Vita e i ragazzi. Feci a rotta di collo la corsa di ritorno e arrivai a casa poco dopo le nove e mezzo, con la bava ai denti. Truccata di fresco e con un vestitino senza maniche, Vita uscì dalla sala di musica mentre salivo correndo gli scalini dell'ingresso. «Che diavolo vi è successo?» aveva cominciato a chiedere. Il sorriso della padrona di casa perfetta le svanì dalle labbra quando si accorse che ero solo. «Lui dov'è?» «Vuoi dire che non si è fatto ancora vivo?» urlai.
«Fatto vivo?» ripeté stupefatta mia moglie. «No di certo. Eri andato ad aspettare il suo treno, no?» «Signore Iddio che cosa sta succedendo? Sta' a sentire,» le spiegai stancamente «a St. Austell non ho trovato Magnus, ma soltanto la sua valigia. Quel matto ha incaricato il controllore del treno delle sette e mezzo di avvertirmi che era sceso a Par e a piedi sarebbe arrivato fino a Kilmarth. Non chiedermi perché. Un'altra delle sue dannate pazzie. Senonché ormai dovrebbe essere già qui.» Andai nella sala di musica e mi versai un drink. Vita mi seguì mentre i ragazzi correvano a togliere la valigia dalla macchina. «Sinceramente» riprese «mi aspettavo un po' più di cortesia dal tuo professore. Prima cambia treno, poi scende per prendere una coincidenza e infine sparisce addirittura. Secondo me a Par avrà preso un tassi e sarà andato a pranzare in qualche posto.» «Forse,» ammisi «ma perché non avrebbe telefonato per dircelo?» «Magnus è un amico tuo, caro, non mio. Dovresti conoscerlo. Beh, io non lo aspetto più. Sto morendo di fame.» Il merlano ancora crudo fu messo nel frigo per il breakfast di Magnus, sebbene, secondo me, lui avrebbe preferito caffè nero e succo d'arance. Vita e io facemmo uno spuntino frettoloso con un pâté di cacciagione che lei si ricordò di aver portato da Londra e ficcato in fondo al frigo. Intanto Teddy provava inutilmente a chiamare la stazione di Par. «Sai che cosa,» mi disse «il professore sarà stato rapito da qualche banda in cerca di documenti segreti.» «Probabile» replicai. «Gli concedo un'altra mezz'ora e poi telefono a Scotland Yard.» «Oppure» suggerì Micky «avrà avuto un infarto mentre si trascinava su per la collina di Polmear. La signora Collins mi ha detto che suo nonno morì proprio così trent'anni fa, dopo aver perduto l'autobus.» Respinsi il piatto e inghiottii l'ultima goccia di whisky. «Hai ricominciato a sudare, tesoro» mi avvertì Vita. «E non posso darti torto. Ma non credi che sarebbe una buona idea salire a cambiarti la camicia?» Non me lo feci dire due volte. Arrivato in cima alle scale mi fermai per gettare un'occhiata nella stanza di sbarazzo... Perché diavolo Magnus non aveva telefonato per dirci quello che stava facendo, o non mi aveva perlomeno scritto un biglietto, invece di dare al controllore un messaggio verbale che era stato, probabilmente, capito male? Quando ebbi chiuso le tende
e accesi i lumi sui comodini la stanza prese un aspetto più accogliente. Provai ad aprire le cerniere della valigia di Magnus posata su una sedia. Con mia sorpresa scattarono. Diversamente da me, Magnus non faceva mai le valigie in fretta o distrattamente. Trovai sotto un primo strato di carta velina un pigiama celeste, una vestaglia con un disegno cachemire e delle pantofole di pelle blu nella loro busta di cellophane. Sotto c'erano, accuratamente piegati, due abiti e un cambio di biancheria. Beh, mi dissi, questo non è un albergo o una dimora principesca; Magnus può tirarsela fuori da sé, la sua roba. L'unico gesto, decisi, che un ospite potesse forse aspettarsi dal padrone di casa era di mettergli il pigiama sul cuscino e buttargli su una sedia la vestaglia. Mentre li toglievo dalla valigia vidi una lunga busta gialla. Sopra c'era scritto, a macchina: «Otto Bodrugan. Mandato esecutivo - Inchiesta. 10 ott. 5 Edoardo III (1331)». Lo studente deve essersi rimesso al lavoro, mi dissi sedendomi sul letto e aprendo la busta. Ne uscì la copia di un documento in cui erano elencati i castelli e i terreni di proprietà di Otto Bodrugan quando era morto. C'era anche quello di Bodrugan, ma sembrava che per questo Otto pagasse un affitto a Joanna. «Ereditato da Henry di Campo Arnulphi» (che doveva corrispondere a Champernoune). Seguiva un altro paragrafo: «Il suo erede diretto, suo figlio Henry di anni ventuno, essendo morto tre settimane dopo il predetto padre, non ebbe parte nella suddetta eredità né seppe della morte del padre. Gli succedé William, figlio del predetto Otto e fratello del predetto Henry, che compì i venti anni l'indomani dell'ultima festa di St. Giles». Fu una strana sensazione, leggere, seduto qui sul mio letto, quelle cose che già sapevo. I monaci del Priorato avevano fatto dunque del loro meglio (o del loro peggio) per Henry, ma il ragazzo non se l'era cavata. Fui contento che gli avessero nascosta la morte orrenda del padre. Seguiva un'altra lista delle proprietà che Henry, se fosse vissuto, avrebbe ereditato da Otto, e un altro appunto preso dall'Elenco dei Tributi. «10 ott. Westminster. 1331. Si ordina all'incameratore di qua da Trent di prendere possesso in nome del Re delle terre già del defunto Otto di Bodrugan loro principale affittuario.» In fondo alla pagina lo studente aveva scribacchiato: «Si prega di voltare». Obbedii e trovai attaccata un'altra mezza pagina, copiata dallo stesso manoscritto e recante la data del 14 nov. 1331, da Windsor. «Si ordina all'incameratore di qua da Trent di prendere possesso in nome
del Re delle terre già del defunto John di Carminowe, loro principale affittuario. Lo stesso dicasi per le terre di Henry figlio di Otto di Bodrugan.» Sir John doveva dunque essere morto di lì a poco del male che temeva tanto di prendersi e Joanna aveva perduto l'uomo scelto per farne il suo secondo marito... Dimenticando il presente e il pasticcio della stazione mi sedetti sul letto della stanza degli ospiti pensando a quell'altro mondo, chiedendomi che cosa avesse eventualmente consigliato Roger alla delusa Joanna Champernoune. Vedendo succedere ai Bodrugan morti il proprio nipote minorenne, Joanna aveva certo sperato di poter fare praticamente sue le terre di quei due. Senonché, quando era a un dito dal successo aveva visto la situazione rovesciarsi e morire anche il lord dei castelli di Restrmel e Tremerton. Sentii quasi pietà per lei e per Sir John che si premeva invano il fazzoletto sulla bocca. Chi avrebbe amministrato al suo posto, in nome del Re, tutti quei castelli, quei boschi e quei parchi della contea di Cornovaglia? Perlomeno, mi augurai, non quell'assassino maledetto di suo fratello Oliver. «Che cosa farai, ora?» mi gridò dal basso Vita. Che cosa potevo fare? Oliver era fuggito con la sua banda di sicari lasciando Isolda sotto la protezione del solo Roger. Non sapevo ancora quale fosse stata la sua sorte... Sentendo Vita salire rimisi istintivamente i fogli nella busta e dopo essermela ficcata in tasca chiusi la valigia. Dovevo costringermi a tornare al presente. Non era il momento di fare nuove confusioni. «Stavo tirando fuori il pigiama e la vestaglia di Magnus» dissi a mia moglie. «Non si reggerà in piedi, immagino, quando arriverà.» «Visto che ci sei, perché non gli prepari anche il bagno?» ribatté acida lei. «Potresti anche fargli trovare il vassoio del tè del mattino. Non eri certo un padrone di casa così premuroso anche per Bill e Diana.» Fingendo di non notare il suo tono sarcastico me ne andai nello spogliatoio. Dalla biblioteca saliva il mormorio della TV. «Sarebbe ora che i ragazzi andassero a letto» dissi senza convinzione. «Gli avevo permesso di aspettare il professore» replicò Vita. «Ma hai ragione: è inutile lasciarli ancora in piedi. Non credi che potresti fare una corsa fino a Par? Magnus si sarà forse dimenticato di noi in un pub.» «Non è il tipo che ci vada a perdere il suo tempo.» «Allora avrà incontrato dei vecchi amici e gli avrà scroccato il pranzo invece che a noi.» «Non posso crederlo... Comunque» ammisi «avrebbe potuto almeno te-
lefonarci. Del resto,» aggiunsi mentre scendevamo insieme nell'atrio «che io sappia, Magnus non ha amici da queste parti. Vecchi amici, intendo.» Vita lanciò un gridolino. «Ci sono: è andato dai Carminowe! Che non debbono avere il telefono. Ecco quello che gli è successo. Li avrà incontrati a Par e si sarà fatto trascinare a pranzo da loro.» La fissavo interdetto. Di che diavolo stava parlando? E tutt'a un tratto capii e riuscii infine a spiegarmi il messaggio affidato al controllore. «Il proprietario della valigia, il professor Lane, ha detto al controllore che aveva cambiato idea e deciso di smontare a Par e proseguire di lì a piedi. Il signor Young capirà.» Magnus aveva preso il trenino locale da Bodmin Road a Par per poter attraversare più lentamente che col rapido la valle di Treesmill. Sapeva dai miei resoconti che dopo la fattoria di Treesmill gli sarebbe bastato guardare in alto e a sinistra per vedere il Gratten. E poiché quando il treno era arrivato a Par ci si doveva ancora vedere, aveva probabilmente risalito la strada di Tywardreath, tagliando poi attraverso i campi per fare un sopralluogo più attento. «Dio mio, che idiota sono stato!» gridai. «Non mi era neppure passato per la testa. Ma sì, hai ragione.» «Pensi anche tu che Magnus sia dai Carminowe?» insisté Vita. Stanco e nervoso com'ero dovetti sentirmi sollevato; felice, comunque, di non dover fornire a Vita altre spiegazioni o inventarmi nuove bugie. Mi trovai, non so come, sulla lingua la risposta più sbrigativa. «Sì» dissi. E scesi gli scalini dell'ingresso e corsi verso la mia macchina. «Ma se non sai neppure dove abitano!» mi gridò dietro Vita. Mi limitai, mentre mi sedevo al volante, ad agitare la mano. Un istante dopo risalivo all'impazzata il viale e sbucavo sulla strada. Fuori regnava un'oscurità fitta che la luna, ormai quasi tramontata, non riusciva più a diradare. Per evitare il villaggio e i possibili incontri, presi la scorciatoia in cima al viale e andai a fermarmi nello slargo davanti alla casa che chiamavano Hill Crest. Se Magnus dovesse trovare la macchina prima che io trovi lui, mi dicevo, la riconoscerà e si fermerà ad aspettarmi. Ma non fu facile raggiungere il Gratten: inciampavo dappertutto. Quando provai, una volta, a chiamare il mio amico ero ormai molto lontano dalla casa. Non ebbi risposta. Dopo aver esplorato scrupolosamente il sito senza trovare nessuno, scesi per il sentiero più basso della valle verso la fattoria di Treesmill. Poiché Magnus non era nemmeno lì mi decisi a risalire sulla collina. Trovai la
mia macchina vuota come l'avevo lasciata. Le lancette dell'orologio segnavano le undici e mezzo. Le mie ricerche erano durate più di un'ora. Entrai nella cabina telefonica davanti al parrucchiere e chiamai Kilmarth. Mi rispose subito la voce di Vita: «Hai avuto fortuna? L'hai trovato?» Sentendomi stringere il cuore capii che avevo sperato che Magnus fosse a casa. «No» risposi. «È come se si fosse dileguato senza lasciar tracce.» «E i Carminowe? Li hai ritrovati?» «No» ripetei. «Era una pista falsa. Sono stato uno stupido a pensarci. Del resto non so assolutamente dove stiano.» «Ma qualcuno dovrà pure saperlol» protestò Vita. «Perché non lo chiedi alla polizia?» «Non servirebbe» tagliai corto. «Senti, ora ritorno alla stazione attraversando il villaggio e poi vengo lentamente a casa. Non posso far altro.» Ma la stazione di Par era chiusa per la notte, e sebbene facessi due volte il giro del villaggio non trovai neppure qui tracce di Magnus. Cominciai a pregare. «Dio mio, fammelo vedere che sale verso Polmear!» Quando i miei fari, mi dicevo, avrebbero fatto scaturire dall'oscurità, sul ciglio della strada quell'alta, angolosa figura dal passo scattante avrei lanciato un grido e Magnus si sarebbe fermato. «Ma che diavolo...» l'avrei aggredito. Ma Magnus non era neppure sulla strada, deserta a quell'ora, della collina. Infilai il viale di Kilmarth e salii lentamente gli scalini dell'ingresso. Vita mi aspettava sotto il portico. Sembrava sconvolta. «Dev'essergli accaduto qualcosa» disse. «Penso che dovresti avvertire la polizia.» Corsi, urtandola, di sopra. «Vado a vuotare la sua valigia» le gridai. «Potrebbe avermi scritto un biglietto... non so.» Tolsi dalla valigia di Magnus i suoi vestiti, glieli appesi nel guardaroba e andai a mettere nel bagno il suo occorrente per la barba. Fra un momento, continuavo a dirmi, sentirò un tassi risalire il viale e lui ne salterà fuori ridendo e Vita mi griderà su per le scale: «È qui! È arrivato!». Nella valigia non c'erano biglietti. Frugai in tutte le tasche dei vestiti. Niente. Ma la mano che avevo ficcata in quella sinistra della vestaglia mi si chiuse a un tratto intorno a qualcosa di rotondo... una bottiglietta che riconobbi subito dall'etichetta su cui era seguita una B. Quella che avevo spedita la settimana prima a Magnus. Vuota.
16 Andai nello spogliatoio a tirar fuori la mia valigia, misi la bottiglietta e i documenti riguardanti Bodrugan in una delle tasche, la chiusi a chiave e raggiunsi di sotto Vita. «Hai trovato niente?» mi chiese subito lei. Scossi la testa. Mia moglie mi raggiunse nella sala di musica mentre mi versavo un whisky. «Bevine uno anche tu. Ti farà bene.» «Non ne ho voglia.» Vita si sedette sul sofà e si accese una sigaretta. «Guarda» riprese «che non possiamo fare a meno di telefonare alla polizia.» «Solo perché a Magnus è saltato in testa di mettersi a vagabondare per i campi? Non è davvero il caso di preoccuparsi per lui. Deve conoscere come il palmo della sua mano ogni centimetro quadrato della regione per miglia e miglia all'intorno.» L'orologio della stanza da pranzo suonò la mezzanotte. Se Magnus era realmente smontato dal treno a Par doveva camminare ormai da quattro ore e mezzo... «Vattene a letto» dissi a Vita. «Fai paura. Io rimango qui, caso mai lui arrivasse ancora. Mi stenderò sul sofà, se mi venisse sonno. Poi, appena albeggerà, se sarò sveglio e se intanto Magnus non si fosse fatto vivo, uscirò con la macchina per continuare le ricerche.» Era vero che Vita era esausta; non cercavo di sbarazzarmi di lei. Si alzò a fatica, e prima di arrivare alla porta si girò a guardarmi. «In questa storia c'è qualcosa che non mi convince» disse lentamente. «Ho la sensazione che tu debba saperne più di quanto mi dici.» Non trovai niente da replicare. «Beh,» continuò Vita «cerca di prenderti anche tu un po' di sonno. Ho come il presentimento che ne avrai bisogno.» Sentii la porta chiudersi mentre mi stendevo sul sofà con le mani dietro la testa, cercando di riflettere. C'erano soltanto due soluzioni. La prima, a cui avevo pensato subito, che mentre cercava di ricostruire l'antica ubicazione del Gratten, Magnus, o avesse smarrito la strada, o si fosse slogata una caviglia e avesse deciso di attendere dov'era che si facesse giorno. Alla seconda non volevo pensarci perché mi faceva paura. Magnus ha fatto un altro viaggio, mi ripetei. Dopo aver versato il contenuto della bottiglietta B in qualche recipiente più piccolo da potersi ficcare in tasca, è smontato dal treno a Par e si è avviato a piedi verso il Gratten, o la chiesa, o un altro punto qualsiasi della zona. Poi ha inghiottito la droga ed ha aspettato... che
gli facesse effetto. Poi... non era stato più responsabile delle sue azioni. Se la droga lo aveva portato in quell'altro mondo che conoscevamo ambedue la sua esperienza sarebbe forse stata diversa dalla mia, il momento posteriore o anteriore. Ma, come lui sapeva benissimo, le conseguenze, per aver toccato qualcuno di loro: nausea, vertigine, confusione, non sarebbero cambiate. Per quanto ne sapevo io Magnus non prendeva almeno da tre o quattro mesi la droga. E pur essendone l'inventore non era preparato a sopportarla e non ne avrebbe forse avuto la forza quanto me, la sua cavia. Chiusi gli occhi e cercai d'immaginarmelo mentre si allontanava dalla stazione e si dirigeva, ridendo fra sé, su per la collina e attraverso i campi, al Gratten; mentre inghiottiva la droga. «Gliel'ho fatta, a quel presuntuoso di Dick.» Poi il salto all'indietro nel tempo e intorno l'estuario e i muri della casa, e vicino a lui Roger che lo conduceva... dove? Verso quale strano incontro sulle colline o in riva al fiume? Magnus avrebbe visto come me entrare nella cala la nave disalberata, vacillante, e galoppare i cavalieri sulla collina di fronte? Avrebbe assistito alla fine tremenda di Bodrugan? Se sì, mi dissi, data la sua inclinazione per il dramma si sarà comportato forse diversamente da me. Si sarà forse buttato a testa in giù nel fiume per raggiungere a nuoto la riva opposta, e a un tratto, al posto del fiume, ci saranno stati soltanto la valle piena di sabbia, i cespugli di saggina, la palude, gli alberi. Adesso Magnus giaceva forse in quel vasto, impossibile deserto, invocando aiuto senza che nessuno lo udisse. E io non potevo far niente per lui prima dell'alba. Finii per cadere in un sopore agitato da cui mi svegliavano di soprassalto sogni contorti, che subito svanivano. Dovetti addormentarmi più profondamente con la prima luce, perché poi ricordai di aver guardato l'orologio alle cinque e mezzo dicendomi che potevo prendermi un'altra ventina di minuti. E quando li avevo riaperti erano le sette e dieci. Dopo essermi fatta una tazza di tè salii con precauzione di sopra, mi lavai e mi feci la barba. Vita era sveglia. Non mi rivolse domande. Sapeva che Magnus non era arrivato. «Vado alla stazione di Par» le dissi. «Avrà dovuto consegnare il biglietto, se è sceso lì. Cercherò di ricostruire i suoi movimenti. Qualcuno lo avrà pur visto, poi!» «Sarebbe molto più semplice» insistette Vita «andare subito al posto di polizia.» «Ci andrò» le promisi «se alla stazione nessuno saprà dirmi niente.»
«Bada che altrimenti» mi gridò lei mentre uscivo «li chiamo io!» Alla stazione un tipo che gironzolava lì intorno mi disse che mancava mezz'ora all'apertura della biglietteria. Ingannai il tempo spingendomi fino al ponte al disopra della strada ferrata, da cui si godeva la vista della valle. Tutto quel terreno era una volta un ampio estuario. Disalberata dalla tempesta la nave di Bodrugan, spinta dal vento e dal mare, doveva essere andata alla deriva proprio laggiù, cercando riparo nella cala e trovandovi invece la morte. Era ancora abbastanza facile ricostruire attraverso pantani e boschi il corso originario del fiume, a partire dai meandri della valle. Sofferente o in qualche modo ferito, un uomo avrebbe potuto giacere per giorni, per settimane perfino, senza che nessuno sospettasse niente, nel folto di quegli alberi fronzuti. Anche il terreno paludoso su cui era costruito la stazione, la vasta piatta distesa fra Par e la vicina St. Blazey erano ancora in gran parte deserti; perfino qui c'erano larghi tratti dove nessuno si avventurava mai, tranne, forse, un viaggiatore nel tempo, che calpestava col pensiero il ponte di una nave su un'acqua azzurra mentre il suo corpo inciampava fra cespugli e fossi. Tornato alla stazione trovai la biglietteria aperta ed ebbi infine la conferma dell'arrivo di Magnus. L'impiegato aveva non solo preso il suo biglietto, ma si ricordava benissimo di lui. Un uomo alto, mi disse, brizzolato, dal sorriso gradevole, a testa nuda, con una giacca sportiva e dei calzoni scuri, che aveva in mano un bastone. No, l'impiegato non aveva visto dove quel signore si fosse diretto uscendo dalla stazione. Ripresi la mia macchina e salii fin dove, a metà circa della collina, un sentiero svoltava a sinistra. Lo presi pensando di seguire le tracce di Magnus, dirigendomi per i campi verso il Gratten. L'aria nebbiosa e calda faceva prevedere una giornata afosa. Il proprietario del terreno doveva aver aperto dalla notte innanzi uno dei suoi cancelli perché adesso sul fianco della collina erravano delle mucche che fra cespugli di ginestre e cumuli di terra mi seguirono incuriosite fino all'ingresso della cava semisepolta. Ne frugai meticolosamente ogni angolo, ogni anfrattuosità senza trovarvi niente. Abbassai lo sguardo nella valle sottostante, oltre la linea ferroviaria che la tagliava, fino alla grande massa rigogliosa di alberi e cespugli - simile a un enorme arazzo di sete di ogni sfumatura del verde dorato che copriva ciò che era una volta il letto del fiume. Se Magnus si trovava lì, soltanto dei segugi avrebbero potuto scovarlo. Mi resi conto, a questo punto, che non potevo più rimandare ciò che a-
vrei dovuto fare la sera innanzi. Dovevo andare alla polizia come avrebbe fatto chiunque dopo aver atteso tanto, invano, un ospite già in ritardo da più di undici ore, anche se il suo biglietto era stato puntualmente consegnato alla stazione. Ricordandomi che a Tywardreath c'era un commissariato, feci girare di nuovo stancamente la macchina e mi ci diressi. Mi sentivo imbarazzato, colpevole, come tutte le persone che, beate loro, non hanno mai avuto niente da dire con la polizia, all'infuori di qualche lieve infrazione ai regolamenti del traffico. Il sergente che ascoltò la mia storia dovette giudicarmi un timido, forse un irresponsabile. «Sono venuto a denunziare la scomparsa di un mio amico» cominciai, e mi sembrò subito di vedere un manifesto con la faccia ossessiva di un criminale e sotto, in lettere cubitali, la parola RICERCATO. Mi feci forza e raccontai con esattezza al sergente tutto quello che era accaduto il giorno prima. Lui si mostrò gentile e ansioso di aiutarmi. «Non ho il piacere di conoscere di persona il professor Lane,» disse «ma sappiamo naturalmente tutto di lui. Lei deve aver passato una notte molto agitata.» «Sì» confermai. «Non ci sono stati segnalati incidenti» continuò il poliziotto. «Ma controllerò subito con i miei colleghi di Liskread e St. Austell. Gradirebbe intanto una tazza di tè, signor Young?» Accettai con riconoscenza, mentre lui si dava da fare al telefono. Avevo lo stomaco chiuso come chi aspetta dietro la porta di una sala operatoria dove una persona cara sta subendo un intervento grave. Ormai mi ero scaricato di ogni responsabilità. Non potevo più fare niente. Il sergente tornò di lì a poco. «Non ci sono notizie di incidenti» mi disse. «Stiamo avvertendo tutte le auto che pattugliano il distretto, e gli altri posti di polizia. Io le consiglierei di tornarsene a Kilmarth e aspettare lì nostre notizie. Può darsi che il professor Lane si sia slogata una caviglia e abbia passato la notte in una delle fattorie. Ma ormai hanno quasi tutte il telefono e sarebbe strano che non lo avessero chiamato per informarlo. Che lei sappia, il professore ha mai sofferto di amnesia?» «No» risposi. «Mai. E stava benissimo quando pranzammo insieme a Londra qualche settimana fa.» «Beh, non si preoccupi troppo» concluse il sergente. «Vedrà che salterà fuori qualche spiegazione semplicissima a cui non abbiamo pensato.»
Risalii in macchina, sempre con lo stomaco dolorosamente stretto, e andai verso la chiesa. Dovevano esserci le prove del coro perché sentivo l'organo. Entrai e mi sedetti su una delle tombe presso il muro dell'orto - che era una volta quello del Priorato. Qui doveva esserci una volta il dormitorio dei monaci, affacciato a sud sulla cala del Priorato, a pochi passi dalla stanza dove il giovane Henry Bodrugan era morto di vaiolo. In quell'altro tempo, mi dissi, starà forse ancora morendo. In quell'altro tempo, il monaco Jean, dopo aver sistemata la faccenda con qualche altro dei suoi intrugli infernali, forse aveva mandato a dire a Roger di correre a portare la notizia alla madre e alla zia, Joanna di Champernoune. Sia nel mio mondo che in quell'altro mi sentivo circondato da cattivi presentimenti. Roger, il monaco, il giovane Bodrugan, Magnus e io stesso, eravamo legati tutti l'uno all'altro attraverso i secoli, come anelli di una sola catena. In una notte come questa Medea colse le erbe incantate Che rianimarono il vecchio Giasone... Magnus si era forse seduto proprio qui per bere la droga. Poteva essere andato in uno qualunque dei posti dove ero stato io. Mi spinsi fino alla fattoria dove sei secoli fa viveva Julian Polpey e dove mi aveva trovato una settimana prima il postino, e scesi di lì il viottolo della fattoria fino a Lampetho. Se io avevo attraversato la palude di notte, col corpo nel presente e il cervello nel passato, poteva esserci riuscito anche Magnus. Perfino adesso, con la piccola insenatura asciutta coperta di erbe e canne, quella strada mi era familiare come l'immagine di un sogno dimenticato. A un certo punto il sentiero si perdette nella palude senza che vedessi più un modo di attraversare fino all'altra sponda la valle. Dio solo sapeva come ci fossi riuscito mentre in una sera lontana seguivo in quell'altro mondo Otto e gli altri cospiratori. Mentre tornavo indietro lasciandomi alle spalle la fattoria di Lampetho, uscì a un tratto da una delle case un uomo, chiamando il suo cane che mi si era avventato abbaiando. Alla sua domanda, se mi fossi smarrito, risposi di no, scusandomi per essermi introdotto nella sua proprietà. «Non ha visto per caso passare di qui ieri sera un uomo alto, brizzolato, con in mano un bastone?» gli chiesi. Scosse la testa. «Qui non abbiamo spesso visite» rispose. «La strada porta soltanto a questa fattoria. I turisti se ne rimangono di solito sulla spiag-
gia di Par.» Dopo averlo ringraziato me ne tornai verso la mia macchina. Ma non ero convinto. Quest'uomo, mi dicevo, può essere rimasto in casa fra le otto e mezzo e le nove. In questo momento Magnus giace forse svenuto nella palude, sotto la sua fattoria. Ma com'era possibile che nessuno lo avesse visto? Gli effetti della droga, se l'aveva presa, dovevano essersi esauriti ormai da ore. Se Magnus l'avesse presa alle otte e mezzo o alle nove avrebbe dovuto riaversi alle dieci, alle undici, a mezzanotte... Quando arrivai a Kilmarth, davanti alla casa c'era una macchina della polizia. Mentre entravo sentii Vita dire: «Ecco mio marito». Lei era nella sala di musica con un ispettore di polizia e un agente. «Purtroppo, signor Young,» mi disse l'ispettore «non abbiamo per lei notizie precise, ma solo un indizio vago che potrebbe forse rivelarsi utile. Un uomo corrispondente alla descrizione che lei ci ha fatto del professor Lane è stato visto passare ieri sera fra le nove e le nove e mezzo sul sentiero di Stonybridge sopra Treesmill, dopo la fattoria di Trenadlyn.» «La fattoria di Trenadlyn?» ripetei. Il mio viso doveva riflettere la mia sorpresa perché l'ispettore si affrettò a chiedermi: «La conosce?». «Sì» confermai. «Si trova molto più su di Treesmill; è la piccola proprietà proprio sul viottolo.» «Esatto. E mi dica, signor Young, lei si spiega perché il professore Lane avrebbe preso quella direzione?» «No» risposi dopo aver esitato. «Da quelle parti non c'era niente che potesse attirarlo. Mi sarei aspettato piuttosto che scendesse nella valle avvicinandosi a Treesmill.» «A noi hanno comunque riferito» insisté l'ispettore «che fra le nove e le nove e mezzo di ieri sera è stato visto dalle parti di Trenadlyn un uomo i cui connotati corrisponderebbero a quelli del professore. La signora Richards, moglie del proprietario della fattoria, l'ha notato dalla sua finestra, mentre suo fratello, che sta a Great Treverran, un po' più su sul viottolo, pare che non abbia visto nessuno. Se il professor Lane era diretto a Kilmarth direi che aveva scelto una strada un po' lunga, anche se aveva voglia di sgranchirsi le gambe dopo essere stato seduto in treno.» «Sono d'accordo, ispettore. Questa lunga passeggiata si può forse spiegare con la passione del professore per le antichità. Il mio amico sperava forse di trovare i resti del vecchio maniero, che secondo lui sorgeva lì una volta. Ma non può trattarsi delle fattorie che lei ha nominato perché altrimenti mi avrebbe telefonato dall'una o dall'altra.»
Io lo sapevo perché Magnus - dalla descrizione di quella donna doveva essere lui - si trovava sul viottolo di Stonybridge, davanti a Trenadlyn. Era la strada che avevano preso Isolda e Robbie quando erano scesi a cavallo da Treesmill alla cala per vedersi davanti Bodrugan assassinato, affogato; l'unica che portasse all'ignota Tregest quando l'alta marea o un'inondazione rendevano impraticabile il guado di Treesmill. Quando era passato davanti alla fattoria di Trenadlyn Magnus era in quell'altro tempo. Seguiva forse Roger e Isolda. Incapace di contenersi, Vita si voltò impulsivamente verso di me: «Tesoro... basta con queste digressioni storiche. Torniamo al punto. Perdonami, ti prego, se m'intrometto, ma mi sembra essenziale.» Si voltò verso l'ispettore: «Sono sicurissima, e ieri sera lo era anche mio marito, che il professore stava andando da certi suoi vecchi amici, i Carminowe. Oliver Carminowe non è nell'elenco telefonico, ma la sua casa deve trovarsi nei paraggi dov'è stato visto ieri sera il professore. Stava andando da loro, non c'è dubbio, e prima qualcuno si metterà in contatto con questi Carminowe, meglio sarà.» Nel breve silenzio che seguì l'ispettore mi gettò uno sguardo. La sua espressione non era più amichevolmente premurosa, ma stupita, quasi disapprovante. «Le cose stanno così, signor Young? Perché non ha neppure formulato l'ipotesi che il professore potesse andare da questi amici?» Mi sforzai debolmente di sorridere. «No, ispettore,» protestai «è escluso che il mio amico sia andato da qualcuno. Temo proprio che quando ci telefonò qualche giorno fa si sia divertito a prendere in giro mia moglie. E io, stupidamente, non solo non le aprii gli occhi, ma continuai lo scherzo. Da queste parti non ci sono dei Carminowe. Anzi, non esistono.» «Non esistono?» ripeté sconcertata Vita. «Ma domenica mattina non vedesti passare a cavallo - me lo dicesti tu stesso - le due bambine con la loro governante?» «Sì, è vero» replicai. «Ma posso solo dirti che mi divertivo a tue spese.» Capii dall'espressione di Vita che secondo lei mentivo per togliere me e Magnus da una situazione imbarazzante. Alzò le spalle e lanciando all'ispettore una rapida occhiata, si accese una sigaretta. «Che scherzo idiota» commentò. «Mi scusi, ispettore.» «Ma le pare, signora Young» replicò lui, leggermente più sostenuto. «Capita a tutti, specie a noi della polizia, di essere presi ogni tanto in giro.» Si girò di nuovo verso di me. «È proprio sicuro di ciò che afferma, si-
gnor Young? Non conosce nessuno da cui il professor Lane abbia potuto recarsi dopo essere smontato alla stazione di Par?» «Assolutamente no» risposi. «Per quanto ne so, qui i suoi soli amici siamo noi. E Magnus stava venendo a passare il weekend in questa casa. Che è poi la sua, come lei sa, e che lui ci ha prestato per le vacanze estive. Francamente, ispettore, fino a stamattina non mi preoccupavo affatto per il mio amico. Magnus conosce benissimo la regione perché suo padre, il comandante Lane, abitava a Kilmarth già prima di lui. Ero sicuro che non potesse smarrirsi e che appena arrivato qui ci avrebbe dato una spiegazione logica della sua lunga sparizione.» «Capisco» si limitò a replicare l'ispettore. Nel silenzio che seguì mi sembrò che dubitasse anche lui, come Vita, delle mie affermazioni. Secondo loro, mi dissi, Magnus sta svolgendo chissà quale strana missione che io mi sforzo di tenere segreta. Ed era in fondo la verità. «Mi rendo conto ora, ispettore,» ripresi «che avrei dovuto mettermi in contatto con lei fin da ieri sera. Il professor Lane si sarà storta una caviglia e avrà invocato inutilmente aiuto. Dopo il crepuscolo non dev'esserci molto traffico su quella strada.» «No» confermò l'ispettore. «Ma stamattina a Trenadlyn e a Treverran si saranno svegliati come sempre all'alba. E se il professore avesse avuto qualche incidente sulla strada, a quest'ora lo avrebbero già soccorso, o ne saprebbero perlomeno qualcosa. È più probabile, secondo me, che dopo essersi incamminato sulla strada maestra il suo amico abbia svoltato per Lostwithiel o sia tornato a Fowey.» «Il nome Tregest non le dice niente?» provai a chiedere cautamente. «Tregest?» Dopo aver riflettuto, l'ispettore scosse la testa. «Non mi pare. Corrisponde a una località?» «Una volta, da queste parti, doveva esserci una fattoria che si chiamava così. Appassionato com'è di ricerche storiche il professor Lane avrà forse tentato di localizzarla.» Fui colpito a un tratto da un'altra idea. «Dove si trova esattamente Trelawn?» chiesi. «Trelawn?» ripeté di nuovo sorpreso l'ispettore. «Ma è una proprietà a poche miglia da Looe. A un diciotto miglia o poco più di qui. Non è possibile che al professor Lane sia saltato in testa di andarci alle nove di sera.» «No,» convenni «no di certo. Mi stavo solo dicendo che è una delle più vecchie dimore signorili della regione.» «Sì, ma tesoro,» m'interruppe Vita «Magnus, come dice l'ispettore, non
si sarebbe messo a cercare delle antichità così lontane senza prima telefonarci. Quello che non mi spiego è proprio perché non ci ha avvertiti.» «Se il vostro amico non vi ha telefonato, signora Young,» spiegò a Vita l'ispettore «è perché doveva essere convinto che suo marito sapesse dove andava.» «Sì,» dissi «ma io non lo sapevo e non lo so. Magari ne avessi la più lontana idea!» Come un'eco dei nostri pensieri il telefono si scatenò proprio allora facendoci trasalire. «Vado io» disse Vita che era più vicina di me alla porta. Traversò l'atrio fino alla biblioteca. «Sì,» la sentimmo rispondere brevemente a qualcuno «è qui. Vado a chiamarlo.» Tornò nella sala di musica e disse all'ispettore che lo volevano. Continuammo ad attendere per tre o quattro minuti interminabili, mentre l'ispettore rispondeva a voce bassa e a monosillabi. Vidi, guardando il mio orologio, che erano esattamente le dodici e mezzo. Non mi ero reso conto che fosse così tardi. Quando l'ispettore tornò mi cercò subito con gli occhi, e capii dalla sua espressione che doveva essere accaduto qualche cosa. «Mi dispiace molto, signor Young,» disse «ma temo di doverle dare una brutta notizia.» «Sì» replicai. «Mi dica.» Non si è mai preparati. Anche nei momenti di maggiore tensione si continua a sperare che tutto possa risolversi bene. E anche adesso, dopo tanto tempo che Magnus era sparito, io ero sicuro che qualcuno l'avesse trovato, fuori di sé, in un campo e portato all'ospedale. Vita venne a mettersi accanto a me e mi prese una mano. «Poco fa parlavo col posto di polizia di Liskeard» riprese l'ispettore. «Sono stati informati che una delle nostre pattuglie ha trovato, presso la strada ferrata, subito dopo il tunnel di Treverran, il corpo di un uomo che sembrerebbe il professor Lane. Dev'essere stato colpito alla testa da un treno che passava senza che il macchinista e il controllore se ne accorgessero. È riuscito, si direbbe, a trascinarsi fino a un piccolo capanno abbandonato, al disopra della strada ferrata, dove ha perduto i sensi. Deve essere morto da alcune ore.» Continuavo a fissare immobile l'ispettore. Lo choc è un'emozione strana, paralizzante. Mi sembrava che la vita si fosse ritirata da me lasciandomi, come Magnus, un povero guscio vuoto. Mi accorgevo soltanto che mia moglie mi stringeva la mano.
«Capisco» dissi con una voce che non era la mia. «Che cosa vuole che faccia?» «Lo stanno portando all'obitorio di Fowey. Mi dispiace di doverla disturbare in un momento simile, ma farebbe bene ad accompagnarci subito lì per identificare il cadavere. Vorrei augurarmi, per il suo bene e quello del suo amico, che non si tratti del professor Lane. Ma stando così le cose, non posso darle molte speranze.» «No,» dissi «no certo.» Mi svincolai da Vita e uscii dalla casa nel sole caldo. Un gruppo di boyscouts stava piantando le tende nel campo dietro il prato di Kilmarth. Li sentivo gridare e ridere mentre conficcavano a colpi di martello, i picchetti nel terreno. 17 L'obitorio era una piccola costruzione di mattoni rossi non lontano dalla stazione di Fowey. Quando ci arrivammo lo trovammo vuoto. La seconda auto della polizia era ancora per la strada. Mentre smontavo, l'ispettore mi gettò un'occhiata. «Signor Young,» si decise infine a dirmi «dovremo forse attendere. Mi permetta di offrirle un caffè e un sandwich al bar a due passi di qui.» «Grazie,» risposi «mi sento bene.» «Non voglio insistere,» tornò alla carica lui «ma le farebbe bene prendere qualche cosa.» Gli permisi infine di accompagnarmi in quel bar. Ci sedemmo e prendemmo due caffè e io anche un sandwich al prosciutto. Mentre lo mangiavo pensai a tutte le volte che Magnus ed io eravamo arrivati studenti a Par per passare qualche giorno con i suoi a Kilmarth. Com'era piacevole, dopo lo sferraglio del treno nell'oscurità e il rimbombo del tunnel, sbucare a un tratto in piena luce, con i campi verdi ai due lati. Da ragazzo Magnus faceva quel viaggio a ogni vacanza scolastica. E aveva incontrato ora la sua morte proprio all'ingresso di quel tunnel... All'infuori di me, nessuno - la polizia o i suoi molti amici - sarebbe riuscito a spiegarselo. Mi avrebbero chiesto perché un uomo intelligente come lui si fosse avvicinato talmente a una strada ferrata, al crepuscolo di una sera estiva, e avrei dovuto rispondere che lo ignoravo. Magnus camminava in realtà in un tempo in cui non esistevano ferrovie, in un'età quando la collina era coperta soltanto di pascoli e boscaglia. In quell'altro mon-
do, nel fianco della collina non si aprivano bocche sbadiglianti di tunnel, non c'erano rotaie, terrapieni, ma soltanto nuda terra erbosa e forse un uomo a cavallo che se lo portava dietro... «Sì?» dissi. L'ispettore mi stava chiedendo se il professor Lane aveva dei parenti. «Mi scusi,» dissi «ero distratto. No, il comandante e la signora Lane sono morti da molti anni e Magnus era figlio unico. Non l'ho mai sentito nominare cugini o altri parenti.» Dovevano esserci in qualche posto un legale che si occupava dei suoi affari e una banca che gli amministrava i soldi. Ma, ripensandoci, io non conoscevo neppure il nome della sua segretaria. I nostri rapporti così stretti e intimi prescindevano dalle faccende di tutti i giorni. Ma esisterà senza dubbio, mi dissi, qualcuno che sa tutto questo. Poco dopo l'agente venne a dire all'ispettore che erano arrivate la seconda auto di ronda e l'autoambulanza, e tornammo all'obitorio. Dopo che l'agente gli ebbe mormorato qualcos'altro, l'ispettore si voltò verso di me. «Il dottor Powell di Fowey si trovava per caso al posto di polizia di Tywardreath quando sono stati chiamati dalla nostra auto di ronda,» mi disse «e ha accettato di fare un primo esame del corpo. Spetterà poi al medico legale del coroner eseguire l'autopsia.» «Sì» dissi. Autopsia, inchiesta... tutta la tiritera della legge. La prima persona che vidi entrando nell'obitorio fu il dottore che una decina di giorni prima, in quella piazzuola, mi aveva visto mentre mi rimettevo dal mio attacco di vertigine. I suoi occhi mi dissero che mi aveva riconosciuto. Ma non mi tradì quando l'ispettore fece le presentazioni. «Sono molto spiacente» disse. «Se non ha mai visto,» continuò in fretta «non dico un amico, ma uno sconosciuto rimasto vittima di un incidente simile, l'avverto che non è uno spettacolo piacevole. Quest'uomo ha uno squarcio enorme nella testa.» Mi accompagnò fino alla lettiga che avevano posata sul lungo tavolo. Il morto era Magnus, ma sembrava diverso, come rimpiccolito. Aveva al disopra dell'occhio destro una specie di cavità piena di sangue rappreso. C'era del sangue anche sulla sua giacca, ridotta a brandelli, e una gamba dei suoi calzoni era tutta strappata. «Sì,» dissi «questo è il professor Lane.» Mi voltai perché Magnus non era lì. Per me continuava ad aggirarsi nei campi al disopra della valle di Treesmill, o si guardava intorno, enorme-
mente stupito, in qualche altro mondo ancora da scoprire. «Se per lei può essere un conforto,» disse il dottore «dopo aver ricevuto un colpo simile il suo amico non può essere sopravvissuto molto. Dio sa come sarà riuscito a superare i pochi metri fino al capanno. Non doveva ragionare già più e sarà morto pochi minuti dopo.» Niente poteva consolarmi, ma lo ringraziai ugualmente. «Significa» chiesi «che Magnus non ha continuato a soffrire, chiedendosi perché nessuno veniva a soccorrerlo?» «Esatto» confermò. «Ma appena avremo esaminato esaurientemente le ferite l'ispettore le farà senza dubbio avere tutti i particolari.» A un'estremità del tavolo era posato un bastone da passeggio. Il sergente lo indicò all'ispettore. «L'ho trovato a metà del terrapieno,» spiegò «a poca distanza dal capanno.» Risposi con un segno di assenso allo sguardo interrogante dell'ispettore. «Sì,» dissi «è uno dei tanti che Magnus possedeva. Suo padre era un collezionista di bastoni da passeggio; nel suo appartamento di Londra ce ne saranno una dozzina.» «Credo che ora sia meglio riportarlo direttamente a Kilmarth, signor Young» disse l'ispettore. «Lo terremo informato di tutto, stia tranquillo. È inutile che le dica» aggiunse «che sarà convocato per testimoniare all'inchiesta.» «Certo» dissi. Che cosa ne faranno, mi chiedevo, del corpo di Magnus dopo l'autopsia? Se lo terranno qui per tutto il weekend? Non che importasse. Ormai non importava più niente... Mentre mi stringeva la mano, l'ispettore disse che sarebbero venuti probabilmente il lunedì a farmi qualche altra domanda, nel caso avessi qualcosa da aggiungere alla mia prima deposizione. «Vede, signor Young,» mi spiegò «potrebbe trattarsi di un caso di amnesia. O perfino di un suicidio.» «Amnesia...» ripetei. «Significa perdere la memoria, vero? Mi sembra improbabile. Quanto al suicidio... lo escludo. Il professor Lane era l'ultima persona al mondo capace di un gesto simile. E poi, che motivo avrebbe avuto? Quando ci parlammo al telefono aspettava con impazienza di passare con noi questo weekend. Era di ottimo umore.» «Capisco» disse l'ispettore. «Beh... è esattamente il genere di deposizione che il coroner vorrà sentire da lei.» Il sergente mi lasciò davanti alla casa. Attraversai molto lentamente il giardino e salii gli scalini dell'ingresso. Una volta dentro mi versai l'equivalente di un triplice whisky e mi buttai sul divano-letto del mio spoglia-
toio. Dovetti addormentarmi subito perché quando mi svegliai era il tardo pomeriggio o la sera. Vita era seduta vicino a me con un libro in mano. Dalla finestra a ovest affacciata nel patio arrivava l'ultimo sole. «Che ore sono?» chiesi. «Le sei e mezzo all'incirca» rispose lei venendo a sedersi sul letto. «Ho pensato che era meglio lasciarti dormire» continuò. «Il dottore che hai visto all'obitorio ha telefonato durante il pomeriggio per chiedere tue notizie. Gli ho detto che dormivi. Soprattutto non lo svegli, mi ha raccomandato, è la cosa migliore che potesse accadergli.» Sentirmi prendere la mano fu un vero conforto: come ridiventare bambino. «Che ne hai fatto dei ragazzi?» chiesi. «La casa è un po' troppo tranquilla.» «La signora Collins è stata un tesoro» disse Vita. «Se li è portati a passare con lei la giornata a Polkerris. Dopo il lunch andranno a pesca con suo marito, che ce li ricondurrà verso le sette. Li aspetto da un momento all'altro.» «Quello che è accaduto» dissi dopo una pausa «non deve rovinare le vacanze ai ragazzi. Magnus non l'avrebbe voluto.» «Non angustiarti per loro o per me» disse Vita. «Siamo capacissimi di badare a noi. Quello che mi preoccupa è lo choc che hai subito.» Le fui grato di non ricominciare a chiedermi com'era potuto accadere; dove andava Magnus; come mai non si era accorto del treno e perché il macchinista non l'aveva veduto. Che cosa avrei potuto risponderle? «Dovrei andare al telefono» dissi. «Bisogna avvertire l'università.» «Ci sta pensando quel gentile ispettore» m'informò Vita. «È tornato quando dovevi appena essere salito di sopra. Voleva vedere la valigia di Magnus. Gli ho detto che l'avevi già vuotata ieri sera, senza trovare niente. I vestiti li ha lasciati appesi nell'armadio a muro.» Mi ricordai che nella mia c'erano la bottiglietta e gli appunti su Bodrugan. «Che cos'altro voleva?» «Niente. Ha detto soltanto che avrebbe pensato lui a tutto e ti avrebbe telefonato lunedì.» Allungai le braccia per attirarmela al petto. «Grazie di tutto, tesoro. Sei stata un conforto enorme. Ho ancora una gran confusione nel cervello, sai...» «Cerca soltanto di riposarti» mi sussurrò Vita. «Vorrei poter fare molto di più.» Sentimmo i ragazzi discorrere nella loro stanza. Dovevano essere entrati
dalla porta di servizio. «Vado da loro» disse Vita. «Saranno affamati. Vuoi che ti porti su la cena?» «No, preferisco scendere. Dovrò comunque affrontarli prima o poi.» Rimasi ancora per un po' steso, guardando gli ultimi raggi di sole filtrare attraverso gli alberi. Poi feci un bagno e mi cambiai. Malgrado lo choc della morte di Magnus e tutto il trambusto di quel giorno, il mio occhio sembrava tornato normale. La droga non c'entrava, ragionai, sarà stata una pura coincidenza. Era comunque un altro mistero che non avrei mai risolto. Vita stava facendo cenare i ragazzi in cucina. Sorpresi la loro conversazione mentre percorrevo faticosamente il corridoio, cercando di farmi forza prima di entrare. «Scommetto qualunque cosa che l'hanno fatto fuori!» mi arrivò chiaramente attraverso la porta aperta della cucina; era la voce stridula di Teddy. «Il professore doveva avere senza dubbio addosso qualche formula segreta riguardante con ogni probabilità la guerra battereologica, e andava a incontrare qualcuno all'imboccatura di quel tunnel, e costui era una spia e l'ha accoppato con una mazzata. Ma è un'idea che non verrà certo in mente alla polizia. Dovrà occuparsene il Servizio Segreto.» «Non dire idiozie, Teddy» lo interruppe seccamente Vita. «È così che si mettono in giro le peggiori fandonie. Per Dick sarebbe un gran dolore sentirti fare delle supposizioni simili. Spero almeno che non te le sarai lasciate sfuggire davanti all'ispettore.» «È stato proprio l'ispettore a pensarci per primo» saltò su Micky. «Ha detto che oggigiorno non si sa più che diavolo complottino gli scienziati. Il professore cercava forse nella valle di Treesmill un posto per costruirci un laboratorio segreto di ricerche.» Questa conversazione ebbe l'effetto istantaneo di rischiararmi le idee. Magnus non solo si sarebbe divertito, ma avrebbe dato certamente spago ai ragazzi aiutandoli ad abbellire il loro fumetto. Mentre entravo, dopo aver tossito forte, nella cucina, sentii Vita sussurrare: «Sss...». Le facce sollevate verso di me avevano quell'espressione di timido impaccio dei bambini, quando si vedono costretti ad affrontare un adulto sconvolto dal dolore. «Ciao» li salutai. «Avete passato una bella giornata?» «Mica male» bofonchiò arrossendo Teddy. «Siamo andati a pesca.» «Avete preso qualcosa?» «Un po' di merlani. Mamma ce li sta cuocendo.»
«Se ve ne avanzassero, mi metto in lista. In tutta la giornata ho potuto soltanto prendere al bar di Fowey una tazza di caffè e un sandwich.» Dovevano aspettarsi di vedermi tremante, con la testa bassa perché s'illuminarono quando mi avventai su una vespa che si era posata sul davanzale, brandendo un cucchiaio e esclamando ferocemente, mentre la schiacciavo: «T'ho presa!». Più tardi, mentre eravamo a tavola, giudicai utile avvertirli che la settimana prossima forse sarei stato un po' preso a causa dell'inchiesta su Magnus e avrei avuto diverse faccende da sbrigare. Ma mi sarei messo d'accordo con Tom perché li portasse in mare con una delle sue barche a vela o a motore, come avrebbero preferito. «Oh, grazie, grazie!» gridò Teddy. Avendo capito che l'argomento Magnus non era più tabù, Micky smise di masticare pesce fritto per chiedermi con vivo interesse: «Stasera la televisione trasmetterà la vita del professore?». «Non credo» risposi. «Non si tratta di un cantante pop o di un uomo politico.» «Peccato. Staremo comunque attenti, non si sa mai.» Con mio enorme sollievo la TV non trasmise niente (i ragazzi, e segretamente, sospettai, anche Vita, ci rimasero male). Ma fin dall'indomani, appena la notizia fosse arrivata ai giornali, ci sarebbe stata anche troppa pubblicità. Pur essendo domenica il telefono cominciò a suonare all'alba e Vita e io passammo quasi tutta la giornata all'apparecchio, finché, lasciando pendere il ricevitore, non c'installammo esausti nel patio. E di qui, se avessero suonato all'ingresso principale, i reporter non avrebbero potuto snidarci. Il giorno dopo Vita andò a far spese a Par portandosi i ragazzi e potei dedicarmi alla mia posta che non avevo neppure aperto. Le poche lettere arrivate non avevano niente a che fare con la sciagura. Ma l'ultima, me ne accorsi con una fitta al cuore, recava il timbro postale di Exeter e l'indirizzo era stato scritto a matita da Magnus. Mi affrettai ad aprirla. «Caro Dick,» diceva «questa mia sarà probabilmente illeggibile perché te la sto scrivendo sul treno. Se a Exeter riuscirò a trovare una cassetta la imbucherò. Potrei risparmiarmi questa fatica perché probabilmente, quando la riceverai sabato mattina, avremo già passato insieme una bella serata rumorosa, con molte altre da venire. Ma, non si sa mai, potrei avere un infarto sul treno per pura esaltazione. I risultati a cui sono arrivato finora mi convincono che siamo sulla soglia di scoperte importantissime riguardanti il cervello. In breve, e in parole povere, la chimica delle cellule del cervel-
lo in cui ha sede la memoria, tutto quello che abbiamo fatto dall'infanzia in poi, è riproducibile, reversibile (non trovo termini più esatti) in quelle stesse cellule, il contenuto esatto delle quali dipende dal nostro patrimonio ereditario, da tutto ciò che ci hanno trasmesso, cioè, genitori, nonni, e gli antenati più remoti dall'inizio dei tempi. Il fatto che io sia un genio e tu uno qualunque dipende unicamente dai messaggi trasmessi a ognuno di noi da queste cellule e distribuiti poi attraverso tutte le altre in tutto il nostro corpo. Ma, prescindendo dalle nostre diverse caratteristiche, le cellule particolari su cui ho lavorato finora - che chiamerò lo scrigno della memoria custodiscono non soltanto i nostri ricordi, ma quelli dei cervelli precedenti che abbiamo ereditati. Questi ricordi, a patto di farli riaffiorare alla coscienza, ci permetterebbero di vedere, udire ed essere consapevoli di scene del passato - non perché un nostro particolare antenato vi abbia assistito, ma perché attraverso un medium - nel nostro caso una droga - quell'antico cervello riaffiora e prende il sopravvento. Le deduzioni che potrebbe ricavarne uno storico non m'interessano, ma biologicamente lo sfruttamento eventuale del cervello ancestrale, finora intatto, è di un interesse enorme e apre possibilità per ora incalcolabili. Quanto alla droga stessa, sì, è pericolosa, e potrebbe diventare letale se si superassero certe dosi. E se cadesse nelle mani d'individui senza scrupoli potrebbe sconvolgere ancora di più il nostro mondo già tanto agitato. Perciò, caro ragazzo, se dovesse succedermi qualcosa distruggi ciò che è rimasto nella stanza di Barbablù. I miei collaboratori - che ignorano, del resto, l'importanza della mia scoperta, perché finora l'ho rivelata solo a te - hanno qui a Londra istruzioni analoghe e puoi fidarti completamente di loro. Quanto a te, Dick, se non dovessi rivederti dimentica l'intera faccenda. Se ci ritroveremo stasera com'era stabilito, e faremo insieme come spero una passeggiata e forse un "viaggio", ho intenzione, se la fortuna mi favorirà, di approfondire la conoscenza della bella Isolda che, come apprenderai dai documenti nella mia valigia, sembra abbia perduto l'amante esattamente come dici e deve avere un gran bisogno di conforto. Scopriremo forse anche, nella stessa occasione, se possa fornirglielo Roger Kylmerth. Non ho il tempo di aggiungere altro perché siamo quasi arrivati a Exeter. A bientót, in questo mondo o nell'altro, o nell'aldilà. Tuo affezionato Magnus.» Se non fossimo andati a vela il venerdì sarei stato avvertito in tempo dell'arrivo anticipato di Magnus... Se invece di tornare a casa dalla stazione di St. Austell fossi corso al Gratten... Troppi "se", e tutti inconcludenti... An-
che se questa lettera, mi dissi, che mi arriva ora come un messaggio dell'aldilà, mi fosse stata consegnata sabato mattina invece di oggi, lunedì, non avrei potuto far niente... tanto più che non accenna neppure alle vere intenzioni di Magnus. Forse, mentre la imbucava, lui non si era ancora deciso. La lettera era una semplice misura di sicurezza, nel caso qualcosa fosse andato storto. Dopo averla riletta più volte avvicinai al foglio l'accendino e la guardai bruciare. Scesi poi nel seminterrato e mi recai attraverso la vecchia cucina nel laboratorio. Non vi entravo dalla mattina del mercoledì, quando, al mio ritorno dal Gratten, Bill mi aveva sorpreso a farmi proprio lì il tè. Le file di barattoli e bottiglie, la testa di scimmia, gli embrioni di gattini e i funghi non rappresentavano più per me una minaccia, non lo erano del resto più dal mio primo esperimento. Adesso che il loro stregone era sparito per sempre, avevano un aspetto inutile, quasi derelitto, come le marionette e gli attrezzi di un prestigiatore. Nessuna bacchetta di ebano li avrebbe più fatti rivivere; nessuna mano magica ne avrebbe estratto i succhi e gli ossi per metterli a fermentare nella broda ribollente di un calderone. Dopo aver vuotato nel lavandino i barattoli che contenevano liquidi diversi, li lavai e li rimisi a posto. Poiché non avevano segni distintivi, tranne le etichette che staccai e mi ficcai in tasca, nessuno avrebbe sospettato che non avevano contenuto innocenti marmellate o conserve. Andai poi a prendere un vecchio sacco che mi ricordavo di aver visto nella stanza della caldaia e aprii anche gli altri barattoli e le bottiglie che contenevano gli embrioni e la testa di scimmia. Misi nel sacco ogni cosa, compreso l'assortimento di funghi, dopo aver versato nel lavandino il liquido stando attento a non farmene cadere sulle mani neppure una goccia. Rimanevano soltanto due bottigliette: la A, contenente il resto della droga che avevo bevuta quel giorno, e la C, intatta. La B, che avevo mandato a Magnus, era chiusa, vuota, nella mia valigia, di sopra. Dopo essermi messe in tasca, senza vuotarle, le due boccette, andai alla porta a origliare. La signora Collins si aggirava fra cucina e dispensa e sentivo funzionare la sua radio. Mi buttai in spalla il sacco e chiusi a chiave la porta del laboratorio. Uscii da quella sul dietro, attraversai l'orto della cucina dietro l'isolato delle scuderie e salii fino al bosco. Arrivato dove il sottobosco era più folto lauri, rampicanti, rododendri che non fiorivano da anni, rami spezzati di alberi morti, rovi, ortiche, foglie cadute durante una serie di uragani d'autunno - scavai con un ramo una fossa nella terra umida e grassa, e dopo
aver avuto la precauzione di fracassare con un sasso la testa della scimmia che così non ebbe più nessuna somiglianza con qualcosa di vivente, vi vuotai dentro il sacco. Gli embrioni scivolarono tra quei frammenti viscidi, irriconoscibili, simili agl'intestini che si buttano ai gabbiani quando si vuota un pesce. Ricoprii il tutto con uno strato di foglie marce, terra bruna e ortiche. "La cenere torna alla cenere, la polvere alla polvere" pensai, e fu, in un certo senso, come se seppellissi Magnus con tutto il suo lavoro. Per evitare la signora Collins rientrai dal seminterrato e su per la scaletta che portava alle stanze sul davanti. Ma lei dové sentirmi entrare perché gridò: «È lei, signor Young?». «Sì.» «L'ho cercata inutilmente dappertutto. L'ispettore di Liskeard la voleva al telefono.» «Ero in giardino» dissi. «Lo richiamerò.» Salii nello spogliatoio e misi le bottigliette A e C nella mia valigia insieme con la B, vuota. Chiusi di nuovo la valigia, attaccai la chiave con le altre al mio portachiavi, mi lavai e scesi nella biblioteca a telefonare al posto di polizia di St. Austell. «Mi scusi, ispettore,» dissi quando lui venne all'apparecchio «ma mentre lei mi chiamava, poco fa, ero in giardino.» «Ma le pare, signor Young. Volevo darle le ultime notizie. Abbiamo fatto qualche progresso. Il treno che ha investito il suo amico sembra ormai certo sia il merci che attraversa il tunnel di Treverran all'incirca alle dieci meno dieci. Mentre si avvicinava all'imboccatura della galleria il macchinista non ha visto nessuno in prossimità delle rotaie. Ma i merci sono spesso molto lunghi, e poiché questo non portava personale negli ultimi vagoni, nessuno poté accorgersi se qualcuno si era avvicinato troppo alle rotaie ed era stato urtato.» «Capisco» dissi. «Me ne rendo conto. E lei, ispettore, pensa che le cose siano andate proprio così?» «Beh, signor Young, tutto sembra indicarlo. Il professor Lane deve aver proseguito su per il sentiero dopo la fattoria di Trenadlyn. Ma prima di arrivare alla strada maestra ha svoltato, molto più su di Treverran, in un campo che chiamano l'Higher Gum, e l'ha attraversato dirigendosi diagonalmente verso la strada ferrata. Senonché, mentre ci si può arrivare attraversando il reticolato e arrampicandosi poi sul terrapieno, una volta lì chiunque, secondo me, non avrebbe potuto evitare di vedere il merci. Era
buio, certo, ma c'è un segnale proprio all'imbocco del tunnel e non solo un merci è tutt'altro che silenzioso, ma, come prescrive il regolamento, prima di entrare nel tunnel il macchinista fa abitualmente fischiare la motrice.» Sì, ma sei secoli fa non c'erano segnalazioni, reticolati, rotaie, e tanto meno l'aria era lacerata da fischi di avvertimento... «Lei intende,» replicai «che soltanto un cieco, o qualcuno proprio sordo come una campana, non si sarebbe accorto, anche con un certo anticipo, che un treno stava risalendo la valle?» «Sì, signor Young. È possibile, certo - c'è largamente spazio dalle due parti - fermarsi lungo la linea durante il passaggio del treno, e pare che il professor Lane fece proprio così. Abbiamo trovato le sue tracce nel punto dove scivolò e sul terrapieno su cui si trascinò per raggiungere il capanno.» «Ispettore,» chiesi dopo aver brevemente riflettuto «non potrei andare a fare anch'io un sopralluogo?» «Non gliel'ho proposto perché temevo che sarebbe stata per lei un'esperienza troppo dolorosa. Ma potrebb'essere utile anche a noi.» «Allora sono a sua disposizione.» «Vogliamo vederci alle undici e trenta davanti al posto di polizia di Tywardreath?» Erano già le undici. Stavo facendo uscire la macchina dal garage quando Vita discese il viale al volante della Buick. Micky e Teddy, che erano con lei, saltarono a terra stringendosi nelle braccia panieri pieni di provviste. «Dove stai andando?» mi chiese Vita. «L'ispettore vuole mostrarmi il punto esatto, accanto al tunnel, dove hanno trovato Magnus» le spiegai. «Quelli della polizia sono convinti che è stato investito dal merci che passa di lì alle dieci meno dieci. Il macchinista doveva essere già nel tunnel quando Magnus andò a urtare, continuando imprudentemente ad avanzare e scivolando, uno degli ultimi vagoni.» «Correte a portare quella roba alla signora Collins» disse Vita ai ragazzi che si erano fermati ad ascoltare. «Ma perché Magnus era sulla strada ferrata?» continuò quando quei due furono abbastanza lontani. «È insensato. Sai quello che dirà la gente? L'ho già sentito in una bottega e non so dirti l'effetto che mi ha fatto... Che ha voluto suicidarsi.» «Assurdo» protestai. «Sì, lo so... Ma quando un personaggio noto fa una fine così tragica... lo dicono sempre. E tutti considerano gli scienziati dei tipi strambi... per non
dire casi limite.» «Lo siamo tutti,» replicai «ex giornalisti, poliziotti... non se ne salva nessuno. Non aspettarmi per il lunch. Non so quando rientrerò.» L'ispettore mi portò nel punto che mi aveva descritto al telefono, sul sentiero al disopra della fattoria di Treverran. Per la strada mi disse che il principale collaboratore di Magnus, con cui si erano messi in contatto, non riusciva a spiegarsi la disgrazia. «Naturalmente è rimasto malissimo» continuò l'ispettore. «Sapeva che il professor Lane doveva passare con voi, qui, il weekend e se ne rallegrava. Mi ha confermato anche lui che il professore era in perfetta forma e di ottimo umore. Incidentalmente non sembrava al corrente del suo interesse per le località storiche della Cornovaglia. Ha detto che forse era un suo hobby privato.» A Tywardreath prendemmo la strada di Treesmill e infilammo a destra il sentiero di Stonybridge, dopo Trenadlyn e Treverran. Arrivati in cima ci fermammo davanti al cancello di un campo. «Quello che non riesco a capire» osservò l'ispettore «è perché, se il luogo che lo interessava era la fattoria di Treverran, il professor Lane non ci andò subito invece di attraversare questi campi al disopra della fattoria stessa.» Gettai intorno un rapido sguardo. Treverran era a sinistra, al disopra della valle e della strada ferrata, ma in un affossamento. E dopo la strada ferrata il terreno ricominciava a scendere. Sei secoli fa la configurazione del terreno doveva essere più o meno uguale, senonché al disotto di Treverran scorreva allora un torrentello, anzi quasi un fiume, che quando era in piena, al colmo dell'autunno, inondava l'intera pianura prima di buttarsi nell'estuario di Treesmill. «Laggiù c'è ancora un fiumicello?» chiesi accennando alla valle. «Fiumicello?» ripeté perplesso l'ispettore. «Ai piedi della collina e sotto la strada ferrata c'è un canale, chiamiamolo un corso d'acqua piuttosto torbido, e il terreno è paludoso.» Scendemmo il campo. Si vedeva già la strada ferrata e proprio alla nostra destra si apriva l'imboccatura minacciosa del tunnel. «Una volta,» dissi «qui, molto probabilmente, ci sarà stata una strada che scendeva nella valle, e un guado per attraversare il fiume.» «Forse» disse l'ispettore. «Ma non credo che ne siano rimaste tracce.» Magnus voleva guadare il fiume. Correva quasi perché seguiva un cavaliere che voleva attraversarlo. E non era un sereno crepuscolo d'estate ma
l'autunno, e soffiava il vento, e raffiche violente di pioggia sferzavano le colline... Scendemmo fino al terrapieno della ferrovia e al tunnel. Poco lontano, in basso a sinistra, un sottopassaggio divideva due campi. Ci s'erano fermate delle mucche per ripararsi dalle mosche. «Come vede» mi disse l'ispettore «per andare nell'altro campo i coltivatori, o chicchessia, non hanno bisogno di attraversare le rotaie. Possono passare sotto quell'arco dove sono le mucche.» «Sì» confermai. «Ma se camminava più in alto il professore non l'avrà forse visto. Gli sarà sembrato più semplice attraversare la strada ferrata.» «Arrampicarsi sul terrapieno, attraversare il reticolato e ridiscendere? E per giunta al buio? Io me ne guarderei bene.» Fu proprio quello che lui e io facemmo, in pieno giorno. Attraversato il reticolato l'ispettore, che mi precedeva, m'indicò, poco più su del terrapieno e proprio al disopra della linea, il capanno abbandonato, coperto di edera. «L'erba è calpestata perché siamo venuti qui ieri» mi spiegò. «Ma le tracce lasciate dal professor Lane quando si trascinò dalle rotaie fino al capanno erano abbastanza chiare. Per arrivarci, quasi svenuto come doveva essere, ha dato prova di un'energia quasi sovrumana, di un coraggio tremendo.» In che mondo era Magnus? In quello presente o in quello passato? Vide o no il merci che si affondava sferragliando nel tunnel mentre lui scendeva faticosamente dal terrapieno verso le rotaie? La motrice era già nel tunnel quando lui si accinse ad attraversare la strada ferrata vedendola come un gran prato verde declinante verso il fiume, e fu colpito dal vagone in corsa? In ambedue i mondi fu comunque per lui il colpo di grazia. Non dové capire che cosa lo urtava. L'istinto di conservazione lo fece strisciare verso il capanno dove non ebbe, grazie a Dio, il tempo di sentirsi ferito a morte, abbandonato, ma piombò in un oblio misericordioso. Ci fermammo a fissare il capanno vuoto e l'ispettore mi mostrò il punto sul nudo pavimento dov'era morto Magnus. Quel luogo era impersonale, senza atmosfera, come un ripostiglio di attrezzi abbandonato da un pezzo dal giardiniere. «Non lo usano da anni» mi spiegò l'ispettore. «Una volta gli operai che lavoravano sulla strada ferrata venivano a mangiarci e a farci il tè. Ora vanno invece nell'altro capanno un po' più in basso.»
Tornammo indietro ricalcando le nostre orme sul terrapieno invaso dalle erbacce fino ai fili rotti del reticolato attraverso cui eravamo passati. Mi fermai a guardare le colline opposte, quasi tutte fittamente boscose. A sinistra c'erano una fattoria con un annesso più piccolo; un po' più su e più lontano, a nord, un altro gruppo di costruzioni. Chiesi all'ispettore i loro nomi. La fattoria si chiamava Colwith, e il fabbricato più piccolo serviva una volta da scuola. La terza costruzione, appena visibile, era un'altra fattoria, Strickstenton. «Qui siamo sul confine di tre parrocchie,» mi disse l'ispettore «Tywardreath, St. Sampsons o Golant, e Lanlivery. Il signor Rendali di Pelyn è uno dei grandi proprietari terrieri della regione. Pelyn, sulla strada maestra, un po' prima di Lostwithiel, ecco un bel maniero antico. È da secoli della stessa famiglia.» «Da quanti, esattamente?» «Non sono un esperto, signor Young. Diciamo... quattro.» Come gli altri nomi, neppure Pelyn avrebbe potuto trasformarsi in Tregest. Eppure, a pochi passi di qui, Magnus aveva seguito Roger fino alla dimora, maniero o semplice fattoria, di Oliver Carminowe. «Ispettore,» dissi «ad onta di tutto quello che lei mi ha mostrato continuo ancora a credere che il professor Lane volesse trovare giù nella valle la sorgente del fiume, e attraversarlo.» «Con che scopo, signor Young?» L'ispettore mi guardava, non ostilmente, ma con aperta curiosità, sforzandosi di capire dove volevo arrivare. «Se uno - storico, archeologo, o semplice geometra - se ne lascia affascinare,» cercai di spiegargli «il passato è una febbre del sangue che continua a bruciarlo finché il problema che lo assilla non è risolto. Secondo me il professor Lane aveva uno scopo preciso quando smontò dal treno a Par anziché a St. Austell. Ad onta della strada ferrata voleva risalire questa valle per una qualche sua ragione che non scopriremo probabilmente mai.» «E si fermò davanti al treno che passava e si buttò contro uno degli ultimi vagoni?» «Ispettore... non lo so. Magnus aveva un udito e una vista normali e amava la vita. Non si buttò deliberatamente contro quel vagone.» «Spero che lei riesca a convincerne il coroner, signor Young. Ha quasi convinto me.» Tornammo attraverso il lungo campo fino al cancello in cima alla collina. Durante il ritorno chiesi all'ispettore quando, secondo lui, avrebbero
aperto l'inchiesta. «Non so dirglielo esattamente. Dipende da diversi fattori. Il coroner cercherà di sbrigarsi, ma potrebbero passare anche quindici giorni, tanto più che, date le circostanze insolite della morte, bisognerà convocare una giuria. A proposito, poiché il medico legale della zona è in vacanza, il coroner ha chiesto al dottor Powell, che aveva già esaminato il cadavere, di eseguire lui l'autopsia. Il dottore ha accettato e dovrebbe consegnarci oggi il suo rapporto.» Quante volte avevo visto Magnus sezionare, con un freddo distacco che ammiravo, uccelli, animali, piante. Una volta volle che rimanessi con lui mentre estraeva gli organi di un maiale appena sgozzato. Resistetti cinque minuti prima che mi si rivoltasse lo stomaco. Se qualcuno ora doveva sezionare Magnus, ero contento che fosse il dottor Powell. Arrivammo al posto di polizia mentre il sergente ne scendeva gli scalini. Disse qualcosa all'ispettore, che si girò verso di me. «Abbiamo terminato l'esame degli abiti e degli altri effetti del professor Lane» mi disse «e vorremmo consegnarglieli, se accetta questa responsabilità.» «Certo» replicai. «Non credo che sarebbero reclamati da altri. Spero che il legale del professor Lane, dovunque possa trovarsi, si faccia vivo.» Il sergente tornò di lì a poco con un pacco avvolto in carta bruna. Sopra c'erano il portafoglio e un libro tascabile che Magnus doveva aver comprato per leggerlo in treno: Esperienze di un marinaio irlandese, di Somerville e Ross. Era difficile immaginare una lettura che potesse ispirare meno una brusca follia, o un tentativo di suicidio. «Spero non avrà dimenticato di segnarsi il titolo del libro per riferirlo al coroner» dissi all'ispettore. Lui mi assicurò gravemente di averci pensato. Pur sapendo che non avrei mai aperto il pacco fui contento di avere il portafogli e il bastone. Tornai a Kilmarth sentendomi stanco e scoraggiato, e sempre più lontano da una conclusione. Prima di lasciare la strada maestra mi fermai sulla collina di Polmear per lasciar passare una macchina. Colui che era al volante - avevo riconosciuto il dottor Powell - smontò, dopo aver frenato, sul ciglio erboso della strada e si avvicinò al mio finestrino. «Salve» mi salutò. «Come si sente?» «Bene. Sono andato poco fa con l'ispettore fino al tunnel di Treverran.» «Oh, già. Sa che ho eseguito l'autopsia?»
«Sì.» «Manderò il mio rapporto al coroner» continuò il dottore «e lei ne sarà informato a suo tempo. Ma sarà forse contento di sapere, intanto, che il professor Lane morì per una grave emorragia cerebrale provocata dall'urto. Cadendo riportò anche altre ferite. Non c'è dubbio che sia andato a buttarsi contro un vagone del merci.» «Grazie» dissi. «È stato molto gentile a dirmelo personalmente.» «Lei dopotutto era amico di Lane, e la persona più direttamente interessata. Un'altra cosa. Come si fa del resto abitualmente ho mandato ad analizzare il contenuto dello stomaco. Per dimostrare al coroner e ai giurati che al momento della disgrazia il professor Lane non era pieno di whisky o di birra.» «Sì,» approvai «certo.» «Beh, non c'è altro» concluse lui. «Ci vedremo in tribunale.» Il dottore tornò verso la sua macchina mentre io infilavo lentamente la discesa che portava a Kilmarth. Durante la giornata Magnus beveva moderatamente. Aveva dovuto forse bere sul treno un gin-and-tonic e una tazza di tè nel pomeriggio. Che cos'altro avrebbero rivelato le analisi? Trovai Vita e i ragazzi già a tavola. Durante la mattinata avevano telefonato l'avvocato di Magnus, un certo Dench, e Bill e Diana dall'Irlanda, dopo aver udito la notizia alla radio. «Non ci lasceranno in pace» si lamentò Vita. «L'ispettore ti ha detto qualcosa dell'inchiesta?» «Ci vorranno almeno dieci o quindici giorni.» «Povere vacanze nostre!» commentò Vita. Quando i ragazzi andarono in cucina a prendere l'altra portata si voltò ansiosamente verso di me. «Non ho voluto dirtelo davanti a loro, ma la notizia ha sconvolto Bill non soltanto perché è una tale tragedia, ma perché sospetta che ci sia dietro "qualcosa di orrendo". Non ha voluto spiegarsi, ma ha detto che avresti capito.» Posai coltello e forchetta. «Bill ha detto che cosa?» «È stato piuttosto misterioso... Ma è vero che gli avevi raccontato di una banda di teppisti che se ne andavano in giro da queste parti assalendo la gente? Si augurava che avessi informato la polizia.» Per finire d'inguaiarci non ci mancavano che gli scrupoli idioti di Bill. «Bill è matto» cercai di cavarmela. «Non gli ho mai detto niente di simile.»
«Ah, sì?... Spero» aggiunse Vita visibilmente turbata «che tu abbia almeno detto all'ispettore tutto quello che sai.» I ragazzi tornarono dalla cucina e finimmo in silenzio di mangiare. Portai poi su nella camera degli ospiti pacco, bastone e portafoglio. Mi sembrava, non so perché, che il loro posto fosse lì col resto della roba di Magnus appesa nel guardaroba. Il bastone lo avrei usato io, decisi. Era l'ultima cosa che Magnus avesse tenuta nelle mani. Pensai alla collezione dell'appartamento di Londra: il bastone che racchiudeva un fucile, lo stocco, l'altro con un telescopio a un'estremità e quello con una testa di uccello per manico. Questo era relativamente banale, col solito pomo d'argento che recava incise le iniziali del comandante, colui che aveva inaugurato la mania dei Lane per i bastoni. Mi ricordai vagamente che un giorno, mentre ero loro ospite a Kilmarth, mi avesse mostrata una certa particolarità proprio dell'esemplare che avevo nelle mani. Sapevo soltanto che premendo sul pomo si faceva scattare una molla. La prima volta non accadde nulla. Provai a girarlo, sentii un lieve clic e il pomo mi rimase in mano. C'era dentro un misurino d'argento che avrebbe potuto contenere un sorso di whisky o di qualche altro liquore. Il piccolo recipiente era stato pulito scrupolosamente, forse con un fazzoletto di carta che Magnus aveva buttato via o sepolto prima di accingersi alla sua ultima spedizione. Ma io non avevo dubbi su ciò che aveva contenuto. 18 Allibito dalla morte inattesa del suo cliente, Herbert Dench, l'avvocato di Magnus, telefonò di nuovo durante il pomeriggio. Dopo avergli detto che l'inchiesta non sarebbe stata aperta prima di una decina di giorni, o addirittura una quindicina, e che avrei pensato io al funerale, aggiunsi che se non aveva niente in contrario sarebbe bastato che venisse la mattina della cremazione. Lui gradì con mio enorme sollievo la proposta. Sembrava uno di quei tipi che Vita definiva "colletti inamidati", e poiché avrebbe avuto senza dubbio il tatto di tornarsene a Londra con un treno del pomeriggio, calcolai che non l'avremmo avuto tra i piedi più di un paio d'ore. «Non mi sarei permesso d'importunarlo, signor Young,» dichiarò «senza il grande rispetto che nutrivo per il professor Lane e le circostanze infelici della sua morte. E il fatto che lei è nominato nel testamento...» «Ah... Non me l'aspettavo...» Speriamo, mi dissi sconcertato, che si tratti della collezione di bastoni.
«È una faccenda,» riprese l'avvocato Dench «che preferirei non discutere al telefono.» Riflettei, dopo aver riattaccato, sulla situazione piuttosto imbarazzante in cui mi trovavo, installato com'ero gratuitamente nella casa di Magnus in virtù di nostri accordi verbali. L'avvocato Dench mi avrebbe sbattuto fuori al più presto, forse subito dopo l'inchiesta. No, protestai colpito da quel pensiero, non lo farebbe. Potevo offrirgli di pagare un affitto, certo. Ma lui avrebbe forse obiettato che doveva chiudere la casa, o consegnarla a un'agenzia per farla mettere in vendita. Turbato e avvilito com'ero, la prospettiva di un vicino trasloco non poteva certo confortarmi. Passai il resto del pomeriggio al telefono prendendo accordi per il funerale, dopo aver ottenuto il nulla osta dalla polizia; e richiamando infine il legale per metterlo al corrente. Non riuscivo a vedere nessun rapporto fra tutta quell'agitazione e Magnus. Quello che faceva l'uomo delle pompe funebri, ciò che stava accadendo al suo corpo, l'intero processo della morte prima dell'incenerimento nelle fiamme, non riguardava l'uomo che era stato il mio amico. Era come se Magnus appartenesse ormai a quell'altro mondo che io conoscevo: quello di Roger e Isolda. Quando Vita entrò nella biblioteca avevo finito le mie telefonate ed ero seduto alla scrivania di Magnus davanti alla finestra, con gli occhi fissi sul mare. «Tesoro,» cominciò lei «ho riflettuto.» Venne a mettermi le mani sulle spalle. «Non credi che dopo l'inchiesta faremmo bene ad andarcene? Rimanere qui sarebbe imbarazzante per tutti e doloroso per te. E comunque non è più valido...» «Che cosa non è più valido?» «Beh... il prestito della casa, ora che Magnus è morto. Non posso impedirmi di sentirmi un'intrusa, di pensare che non abbiamo il diritto di rimanere qui. Secondo me sarebbe molto più ragionevole andare altrove a finire le nostre vacanze. Siamo appena all'inizio di agosto. Bill mi diceva al telefono che l'Irlanda è un incanto; ha scovato, pare, a Connemara, un albergo di sogno, un vecchio castello, se ho ben capito, col suo torrentello privato per pescarci.» «Lascia che se lo goda lui» dissi. «Costerà almeno venti ghinee al giorno e sarà zeppo di tuoi compatrioti.» «Come sei ingiusto! Bill voleva soltanto aiutarci. È convinto che tu non veda il momento di scappare di qui.» «Beh, si sbaglia» dissi. «Me ne andrò soltanto se quell'avvocato ci sbat-
terà fuori. Ed è una faccenda molto diversa.» Spiegai a Vita che la cremazione era fissata per il giovedì e che sarebbe venuto Dench e forse qualcuno dei collaboratori di Magnus. Il pensiero di avere ospiti per il lunch o la cena, e forse anche la notte, la distrasse da quello sull'Irlanda. Ma per fortuna il peggio ci fu risparmiato, perché Dench e l'assistente principale di Magnus, John Willis, arrivarono per la cremazione il giovedì mattina, dopo aver viaggiato tutta la notte, e ripartirono con un treno della sera per Londra dopo aver fatto con noi soltanto il lunch. I ragazzi dedicarono l'intera giornata a una spedizione di pesca organizzata dal servizievole Tom. Della cerimonia della cremazione ricordo soltanto di essermi detto che Magnus avrebbe escogitato forse, per sbarazzarsi dei morti, un sistema più semplice, usando delle sostanze chimiche invece del fuoco. Quanto a quei due, non corrispondevano nemmeno un poco all'idea che me n'ero fatta. Grande e grosso, cordiale e alla mano, l'avvocato, dopo aver divorato un lunch enorme, c'intrattenne mentre finivamo il nostro pasto funereo descrivendoci il sacrificio che facevano le vedove indiane gettandosi sui roghi dove bruciavano le salme dei loro mariti. Dench, che era nato in India, giurava di aver assistito da bambino a simili terrificanti cerimonie. John Willis era un sorcetto d'uomo, con due occhi vivi dietro gli occhiali cerchiati di tartaruga, che sarebbe stato perfettamente al suo posto allo sportello di una banca. Non riuscivo a vederlo occupato, accanto a Magnus, a curare scimmie vive o a sezionare i cervelli. Non mi stupii che non aprisse bocca, tanto più che l'avvocato parlava abbastanza per tutti. Dopo il lunch andammo nella biblioteca, dove Herbert Dench prese dalla borsa, per darcene formale lettura, il testamento dove sembrava che fossimo citati io e John Willis. Vedendo che Vita stava per ritirarsi ebbe il tatto di trattenerla. «Rimanga pure, signora Young» le disse sorridendole cordialmente. «L'atto è molto breve e esplicito.» Dovetti dargli ragione. Prescindendo dai termini legali, Magnus aveva lasciato tutto ciò che possedeva al momento della morte alla sua facoltà universitaria per l'incremento della biofisica. Il suo appartamento a Londra e i suoi effetti personali dovevano essere venduti e il ricavato destinato alla stessa causa, eccezion fatta per la biblioteca che lasciava a John Willis «in ringraziamento di dieci anni di collaborazione professionale e di amicizia personale». A me lasciava Kilmarth, con tutto ciò che conteneva, - per il
mio uso o perché ne disponessi come credevo - in ricordo della nostra amicizia che risaliva agli anni del liceo e perché «gli antichi abitanti della casa l'avrebbero desiderato». Tutto qui. «Il professore» osservò l'avvocato «doveva certamente alludere ai suoi genitori, il comandante e la signora Lane, che lei deve aver conosciuti.» «Sì» confermai sbalordito. «Ero molto affezionato a tutti e due.» «Beh, eccoci qua. Questa è davvero una bella casa. Spero che lei ci vivrà felice.» Guardai Vita. Si stava accendendo una sigaretta, come fa di solito dopo un colpo inatteso. «Il professore... è stato straordinariamente generoso» disse infine. «Non so proprio cosa dire. Deciderà naturalmente Dick se accettare o no. Per il momento non abbiamo ancora piani precisi.» Seguì un silenzio imbarazzante, mentre Herbert Dench faceva scorrere lo sguardo da Vita a me. «Avrete naturalmente molte cose da discutere, me ne rendo conto» disse. «La casa e tutto ciò che contiene dovranno essere stimati, inutile che ve lo dica. Se non avete nulla in contrario, e se non è troppo disturbo, vorrei essere presente.» «Si capisce.» «Il professore» riprese Vita mentre ci alzavamo «aveva nel sottosuolo un laboratorio, un posto... un po' allarmante, almeno così la pensavano i miei due maschietti. Tutta quella roba non ha niente a che vedere con la casa e dovrà essere restituita al laboratorio di Londra di Magnus... o sbaglio? Forse il signor Willis avrà in proposito le idee più chiare.» Vita era l'immagine del perfetto candore. Ma ebbi l'impressione che avesse alluso di proposito al laboratorio, e volesse scoprire che cosa conteneva esattamente. «Un laboratorio?» ripeté l'avvocato. «Il professore se ne serviva per le sue ricerche?» chiese a Willis. Il sorcetto d'uomo strizzò gli occhi dietro le sue lenti cerchiate di scuro. «Ne dubito molto» replicò con aria diffidente. «Dovevano essere, se mai, ricerche di scarsa importanza scientifica, senza alcun rapporto col suo lavoro di Londra. Il professore si sarà limitato a fare qualche piccolo esperimento per distrarsi quando pioveva. Altrimenti me ne avrebbe certamente parlato.» Che brav'uomo! Se sapeva qualcosa non voleva certo compromettersi. E siccome intuii che Vita stava per obiettare che secondo me il contenuto del
laboratorio aveva un valore inestimabile, proposi che vi scendessimo prima di visitare il resto della casa. «Venga,» dissi a Willis «l'esperto è lei. Al tempo del comandante Lane quella stanza era la lavanderia della casa. Magnus ci teneva una quantità di bottiglie e barattoli.» Lui si limitò a guardarmi in silenzio. Scendemmo le scale e aprii la porta. «Eccoci qua» dissi. «Come vi avevo detto ci sono soltanto un mucchio di vecchi barattoli. Niente di elettrizzante.» Sulla faccia di Vita, mentre lei si guardava intorno, si dipinsero in rapida successione sbalordimento, incredulità e la brusca domanda che mi facevano i suoi occhi. Niente più testa di scimmia ed embrioni di gatti, ma solo una nuda fila di bottiglie. Mia moglie ebbe per fortuna l'intelligenza di star zitta. «Bene, bene...» approvò l'avvocato. «Lo stimatore valuterà forse sei pence l'uno i barattoli. Che ne dice, Willis?» Il biofisico azzardò un sorriso. «Io direi che anticamente la madre del professor Lane doveva tenere qui le sue conserve.» «La chiamavano una still-room, vero? Una specie di dispensa.» L'avvocato s'interruppe per ridere. «La domestica che vi era adibita ci si chiudeva per fare le conserve per tutto l'inverno. Guardate quei ganci nel soffitto! Probabilmente i Lane conservavano qui anche la carne. Prosciutti e pezzi di lardo enormi. Signora Young, questo sarà il suo regno, non quello di suo marito. Le consiglio una lavatrice elettrica in quell'angolo, per risparmiare sul bucato. L'installazione è costosa ma una famiglia, specie giovane come la sua, si rifà in un paio d'anni della spesa.» Uscì, riprendendo a ridere, nel corridoio seguito dagli altri. Io mi chiusi di nuovo la porta alle spalle. Willis, che era rimasto per ultimo, si piegò a raccogliere qualcosa sul pavimento di pietra. L'etichetta di uno dei barattoli. Me la tese senza una parola e io me la misi in tasca prima di risalire a far visitare a quei due il resto della casa. «Se volete far fruttare la proprietà» stava dicendo Herbert Dench «dovreste dividere la villa in appartamentini da affittare ai villeggianti, tenendovi per voi la stanza da letto affacciata sul mare col suo salottino e gli spogliatoi.» Continuò a illustrare la sua idea a Vita mentre facevamo il giro del giardino. Vidi Willis gettare un'occhiata al suo orologio. «Dovete averne abbastanza di noi» disse. «Nel venire qui ho detto a
Dench che ci saremmo fermati alla centrale di Liskeard, caso mai la polizia avesse voluto farci delle domande. Se avesse la bontà di chiamarci un tassi, signor Young, ci andremmo subito e potremmo mangiare un boccone a Liskeard prima di ripartire.» «Vi ci porto io» proposi. «Un momento, c'è un'altra cosa che vorrei mostrarvi.» Andai di sopra a prendere il bastone. «L'hanno trovato accanto al corpo di Magnus. Faceva parte della collezione del suo appartamento di Londra. Crede che mi permetteranno di tenerlo?» «Senza dubbio,» rispose «e anche gli altri. Sono davvero contento, le dirò, che questa casa sia ora sua, e mi auguro che non voglia disfarsene.» «Non ci penso proprio.» Vita e Dench erano quasi arrivati alla terrazza. «Sarà meglio» mi disse abbassando la voce Willis «metterci d'accordo per dire più o meno lo stesso all'inchiesta. Che Magnus era un gran camminatore e che è naturale che dopo il viaggio in treno abbia sentito il bisogno di sgranchirsi le gambe.» «Sì» approvai. «Incidentalmente, un mio giovane amico, uno studente, faceva per conto di Magnus delle ricerche storiche al British Museum e all'Archivio Pubblico. Desidera che continui?» Esitai. «Potrebbe servirmi... Se trovasse degli altri dati interessanti gli dica di mandarmeli qui.» «Stia tranquillo.» Notai per la prima volta dietro gli occhiali cerchiati di scuro un'espressione come di smarrimento, di vuoto. «Quali sono i suoi piani?» chiesi. «Continuerò esattamente come prima, penso... Sforzandomi di mandare avanti almeno un poco del lavoro di Magnus. Ma sarà duro. Come superiore e collega non potrò mai sostituirlo. Lei se ne rende forse conto.» «Sì» dissi. Poiché Vita e Dench ci avevano raggiunti, Willis ed io non ci dicemmo altro. Dopo una tazza di tè, che nessuno di noi desiderava ma che Vita ci obbligò a bere, Willis propose di partire per Liskeard. Ora sapevo perché Magnus l'aveva messo alla testa del suo personale. Prescindendo dalla sua preparazione professionale quel sorcetto possedeva le qualità più preziose di un collaboratore: lealtà e discrezione. Quando fummo saliti in macchina Dench chiese se potevamo rifare una
parte della strada seguita quel venerdì sera da Magnus. Prendendo il sentiero di Stonybridge li feci passare davanti alla fattoria di Treverran. Arrivati al cancello quasi in cima alla collina accennai attraverso i campi al tunnel. «Assolutamente incredibile» mormorò Dench. «E a quell'ora doveva anche far buio. Non mi convince, sa.» «Che cosa intende?» chiesi. «Beh, se a me non sembra possibile, avranno dei dubbio anche il coroner e i giurati. Sospetteranno qualcosa...» «Che cosa?» «Come una necessità imprescindibile, da parte di Magnus, di arrivare a quel tunnel. E sappiamo, una volta che ci fu, quello che accadde.» «Non sono d'accordo» disse Willis. «Come ha detto lei stesso, a quell'ora era già notte o quasi. Di quassù non si poteva vedere il tunnel, e neppure la strada ferrata. Secondo me Magnus ebbe l'idea di scendere nella valle, forse per guardare da un altro punto di vista quella fattoria. Scoprendo, quando fu in fondo al campo, che il viadotto della ferrovia gli ostruiva la visuale si arrampicò sul terrapieno per esaminare la configurazione del terreno, e il treno lo investì.» «È possibile... Ma che idea assurda!» «Forse per una mente legale» intervenne Willis. «Ma non per il professor Lane. Magnus era un esploratore in tutti i sensi della parola.» Quando li ebbi deposti sani e salvi davanti alla centrale di polizia voltai per tornarmene a casa. A casa... Quelle parole avevano un significato nuovo. Ora Kilmarth era la mia casa. La proprietà mi apparteneva com'era appartenuta una volta a Magnus. Il nervosismo e la depressione che mi avevano tormentato tutto il giorno cominciarono a dileguarsi. Magnus era morto, non l'avrei più visto e non avrei udito mai più la sua voce; non mi sarei più rallegrato della sua compagnia né avvertita la sua presenza nello sfondo della mia vita. Ma il vincolo che ci univa non si sarebbe spezzato perché la casa che era stata sua era adesso mia. Perciò non lo avrei perso. E non avrei dovuto sentirmi solo. Nel passare, prima di scendere verso Lostwithiel, davanti all'ingresso di Boconnoc - in quell'altro tempo Bockenod - pensai al povero Sir John Carminowe, che in quella sera ventosa dell'ottobre 1331 cavalcava, già infettato dal vaiolo, dietro il rozzo carro di Joanna Champernoune, e doveva morire poco dopo, essendosi goduta appena per sette mesi la sua carica e-
levata di amministratore in nome del Re dei castelli di Restormel e Tremerton. Superato Lostwithiel presi la strada di Treesmill per poter vedere meglio le fattorie sul lato opposto della valle, oltre la strada ferrata. Da quel poco che potei distinguere dalla macchina, Strickstenton, sulla sinistra della stretta strada, mi sembrò molto antica. I volantini ad uso dei turisti l'avrebbero definita "pittoresca". I pascoli che una volta le appartenevano scendevano fino a un bosco. Appena fui sicuro che non potessero più vedermi dalla casa smontai e abbassai gli occhi sulla strada ferrata, sull'altro versante della valle. Il tunnel si vedeva benissimo e proprio in quel momento ne sbucò, come un maligno serpente dalla testa gialla, un merci, che dopo essere arrivato, snodandosi sinuosamente, al disotto della fattoria di Treverran, sparì continuando a scendere nella valle. Apparso dalla direzione opposta, il merci che aveva ucciso Magnus si era arrampicato invece verso il tunnel per tuffarcisi come un rettile che cerca rifugio sottoterra, mentre Magnus, che non l'aveva visto né udito, si trascinava morente verso il capanno. Ripresi a scendere sul sentiero tortuoso notando alla mia sinistra la svolta che mi sembrò dovesse portare oltre la fattoria di Colwith, al fondovalle e a ciò che rimaneva del fiume di allora. Una volta, prima che la ferrovia tagliasse i campi, doveva esserci lì una pista che attraversando la valle portava a Great Treverran, e alla sua vicina più piccola, Little Treverran. L'una o l'altra di queste due proprietà potevano essere il Tregest dei Carminowe. Scesi a Treesmill e risalii la collina fino al telefono pubblico di Tywardreath. Chiamai Kilmarth e mi sentii rispondere da Vita. «Tesoro,» le dissi «riflettendoci mi sembra molto scortese piantare soli a Liskeard Dench e Willis. Aspetterò che abbiano finito con la polizia e andrò a pranzo con loro. È il meno che possa fare.» «Se è proprio necessario...» si rassegnò lei. «Ma non ritardare troppo. Non vorrai anche metterli sul treno?» «Non ne avrei l'intenzione. Dipende da quello che avremo da discutere.» Risalii in macchina e tornai a Treesmill e su per il sentiero tortuoso, svoltando questa volta per Colwith. Come prevedevo il sentiero proseguiva, sempre più ripido, per finire infine davanti a una pillacchera in cima alla collina. A sinistra, al di là di un pascolo, c'era uno degli ingressi minori di Little Treverran. Le costruzioni non si vedevano, ma lessi su un pezzo di tavola: W. P. KELLY, FALEGNAME.
Mi arrischiai ad attraversare quella specie di stagno e perché non potessero vederla dal sentiero lasciai l'auto nel campo che era dietro, accanto a un filare di alberi, a poche centinaia di metri dalla strada ferrata. Vidi al mio orologio che erano passate di poco le cinque. Aprii il portabagagli della macchina e presi il bastone di cui, prima di mostrarlo nella biblioteca a Willis, avevo riempito il pomo col resto della droga della boccetta A. 19 Nevicava. I fiocchi morbidi mi piovevano sulla testa e le mani, e tutt'intorno a me il mondo era diventato a un tratto bianco, senza più erbe estive rigogliose e verdi e filari di alberi. Cadendo regolarmente la neve cominciava a cancellare dalla vista perfino le colline. Non vedevo più costruzioni di fattorie ma soltanto il fiume nero, largo un sei o sette metri, dove mi ero fermato, e la neve stessa che si accumulava sulle sue rive solo per scivolare nell'acqua quando franava per il troppo peso, mettendo a nudo il terreno fangoso. Faceva un freddo aspro, non la tormenta rapida, tagliente, che spazza le cime, ma il freddo stagnante e umido di una valle dove nell'inverno non penetravano sole o venti purificatori. Il silenzio era più cupo perché il fiume scorreva senza un suono e i salici e gli ontani striminziti delle sue rive sembravano dei muti con le braccia aperte, grottescamente deformati dalla neve che gli appesantiva i rami. E intanto quei fiocchi soffici continuavano a piovere da un sudario di cielo che si confondeva col terreno bianco sottostante. Il mio cervello, abitualmente lucido quando avevo preso la droga, era come istupidito, deluso. Mi ero aspettato un giorno come quello di autunno che ricordavo, quando Oliver Carminowe e i suoi aguzzini avevano affogato Otto Bodrugan e Roger ne aveva portato il corpo gocciolante sulle sue braccia, verso l'accorrente Isolda. Adesso ero solo, senza una guida. Soltanto il fiume ai miei piedi mi diceva che mi trovavo nella valle. Ne risalii il corso avanzando a tastoni, come un cieco, sapendo per istinto che lasciandomi a sinistra il fiume mi dirigevo verso il nord, e che prima o poi la striscia d'acqua si sarebbe ristretta, le sponde riavvicinate e avrei trovato un ponte o un guado per portarmi dall'altra parte. Non mi ero mai sentito più sprovveduto e sgomento. Finora avevo calcolato in quest'altro mondo il tempo regolandomi con la posizione del sole nel cielo oppure,
come quando avevo traversato di notte la valle di Lampetho, guardando le stelle. Ma in questo silenzio e sotto questa neve fitta non riuscivo a decidere se fosse mattina o pomeriggio. Ero perduto, non nel presente, avendo intorno dei punti di riferimento e la presenza rassicurante della mia macchina, ma nel passato. Quando il silenzio infine fu rotto da un primo suono, uno sciacquio nel fiume davanti a me, vidi, accelerando il passo, una lontra tuffarsi un po' più in là dalla riva e risalire nuotando la corrente. Fu subito seguita da un cane e da un altro, e un istante dopo ce n'erano una mezza dozzina che saltavano in acqua latrando e ululando per inseguire fra grandi spruzzi l'animale. Mi arrivò un grido a cui fece eco un altro, e un gruppo di uomini arrivò al fiume correndo sotto la neve, gridando, ridendo, incoraggiando i cani. Venivano, mi accorsi, da un filare di alberi nel punto dove, poco lontano da me, il fiume descriveva una curva. Due di loro si lasciarono scivolare nell'acqua, battendola con i loro bastoni, mentre un terzo faceva schioccare la sua frusta sfiorando l'orecchio del cane ancora accovacciato sulla riva, che si affrettò a tuffarsi per raggiungere gli altri. Quando mi avvicinai per osservarli meglio, vidi che a circa cento metri di lì il fiume si restringeva. A sinistra, all'ingresso di un boschetto, il terreno si abbassava, e la corrente formava come un laghetto in miniatura coperto da un velo di ghiaccio. Uomini e cani spinsero in qualche modo, riunendo i loro sforzi, la lontra braccata nel canale che alimentava il laghetto, e un istante dopo le erano tutti addosso, i cani latrando, gli uomini colpendola con i loro bastoni. I cani si dispersero quando il ghiaccio si spezzò, e vidi arrossarsi la superficie dell'acqua e il sangue sporcare il velo dell'acqua nera mentre, afferrata da fauci crudeli, la lontra veniva strappata dalla buca in cui avrebbe voluto rifugiarsi e fatta a pezzi dove il ghiaccio era più solido. Il lago doveva essere poco profondo perché continuando ad aizzare i cani gli uomini vi si inoltrarono senza curarsi dell'incrinatura che lo tagliò a un tratto da un capo all'altro. Li precedeva l'uomo dalla lunga frusta che spiccava fra gli altri per la sua alta statura e il suo abbigliamento: una giacca trapunta, abbottonata fino al collo, e, sulla testa, un alto berretto conico di castoro. «Fateli risalire sull'altra riva!» urlava. «Preferirei perdere tutti voi, piuttosto che uno di loro!» E piegandosi improvvisamente fra la muta dei cani urlanti, strappò loro i resti della lontra e li gettò attraverso il lago sulla sponda. Derubati della loro preda i cani si avventarono scivolando e urtan-
dosi sul ghiaccio per recuperarla. Meno agili e impacciati dagli abiti, gli uomini affondavano intanto fra i frammenti di ghiaccio gridando, imprecando, con i giubbotti e i cappucci ormai bianchi di neve. La scena era insieme brutale e macabra, perché, quando non ebbe più timore per i suoi cani, l'uomo dal berretto a pan di zucchero dedicò ridendo la sua attenzione ai suoi compagni di sventura. Era bagnato ormai anche lui fino ai fianchi, ma aveva perlomeno le gambe protette dagli stivali; alcuni dei suoi servi, invece, che avevano perduto le scarpe quando il ghiaccio si era rotto, agitavano ancora le mani gelate nell'acqua per cercare di ripescarle. Continuando a sghignazzare, il loro padrone risalì sulla riva e togliendosi per un momento il berretto lo agitò per scuoterne la neve. Anche da quella distanza, di un sei o sette metri, riconobbi la sua faccia colorita e il suo mento a bietta. Era Oliver Carminowe. Guardava nella mia direzione, e sebbene la ragione mi dicesse che non poteva vedermi e che non appartenevo al suo mondo, il fatto che se ne stesse lì immobile a fissarmi, senza più preoccuparsi dei suoi servi, mi dava un senso strano d'imbarazzo, quasi di paura. «Se avete qualcosa da dirmi avvicinatevi e parlate!» lo sentii gridare a un tratto. Nell'emozione di credermi scoperto stavo correndo verso il lago quando mi accorsi con sollievo di avere accanto Roger, pronto come sempre a farmi da guida e da interprete. Chissà da quanto tempo era lì. Doveva avermi seguito sulla riva del fiume. «Salute a voi, Sir Oliver!» gridò. «Ho saputo, al guado, dalla vedova di Rob Rosgof, che quelli di Treesmill e anche voi dalla vostra parte della valle, avete ormai l'acqua quasi fino alle spalle. Ero in pensiero per voi, e anche per Lady Isolda.» «Stiamo abbastanza bene,» replicò l'altro «forniti di tutto quanto basterebbe - a Dio non piaccia - per sopportare un assedio anche di parecchie settimane. Se fra uno o due giorni il tempo cambiasse portandoci la pioggia, e la strada non rimanesse sommersa, partiremmo per Carminowe. Quanto a my lady, se ne sta imbronciata metà del giorno nella sua stanza e mi fa poca compagnia. Deciderà lei» continuò sprezzantemente, continuando a tenere d'occhio Roger, che si avvicinò ancora di più alla sponda «se seguirmi o no a Carminowe. Le mie figlie sì che mi obbediscono sempre. Joanna è promessa a John Petyt di Ardeva, e sebbene sia ancora una bambina si agghinda e si pavoneggia davanti allo specchio come se fosse
già una sposa di quattordici anni, matura per il suo gagliardo marito. Potete dirlo, con i miei omaggi, alla sua madrina Lady Champernoune. Potrebbe augurarsi, prima che passino troppi anni, un'eguale fortuna.» Aggiunse, dopo aver riso, accennando ai cani che frugavano dietro gli alberi: «Se non avete paura di passare il fiume su quelle tavole marce, vi darò una zampa della lontra da portare con i miei complimenti a Lady Champernoune. Le ricorderà forse suo fratello Otto, grondante e insanguinato, e potrà inchiodarla in ricordo di lui ai muri di Trelawn. L'altra, se i cani non l'hanno inghiottita, la consegnerò, perché ne faccia lo stesso uso, alla mia lady». Voltandogli la schiena e chiamando i suoi cani si diresse verso gli alberi, mentre Roger, e io con lui, raggiungevamo un rozzo ponte di tronchi d'albero legati insieme, reso sdrucciolevole dalla neve e quasi affondato nell'acqua. Vedendo Roger scivolare e cadere infradiciandosi fino a metà cosce quando il ponte marcio affondò sotto il suo peso, Oliver Carminowe e i suoi servi scoppiarono fragorosamente a ridere. Si aspettavano evidentemente che l'intendente tornasse indietro per aggrapparsi alle sponde. Roger raggiunse invece l'altra riva lasciandosi arrivare l'acqua fino alla vita. Lo seguii, senza bagnarmi, fino al limitare del boschetto dove Carminowe si era fermato brandendo la frusta. «Consegnerò la zampa di lontra,» gli disse Roger «se me la darete.» Mi aspettavo - come lui, forse - di vedergli piombare sulla faccia la frusta. Ma invece, dopo averla abbattuta sorridendo fra i cani, per scacciarli dal corpo massacrato della lontra, Carminowe si sfilò dalla cintola il coltello e tagliò due delle rimanenti zampe. «Avete più stomaco del mio intendente di Carminowe» disse. «Vi rispetto, se non altro, per questo. Qua, prendetela. L'appenderete nella vostra cucina di Kylmerth, fra i vasi e i piatti d'argento che avrete senza dubbio sgraffignati al Priorato. Ma prima salite con noi sulla collina per presentare di persona i vostri omaggi a Lady Carminowe. Può darsi che preferisca per una volta un uomo allo scoiattolo addomesticato con cui passa i suoi giorni.» Roger prese in silenzio la zampa e se la mise nella sacca. Entrammo nel boschetto e c'incamminammo attraverso gli alberi carichi di neve, continuando sempre a salire non saprei se a mano destra o a sinistra. Avendo perduto ogni senso di orientamento sapevo soltanto che avevamo alle spalle il fiume e che non aveva smesso di nevicare.
Una pista ai cui lati si era ammassata la neve ci portò a una casa di pietra comodamente addossata alla collina. E mentre i servi di Carminowe si trascinavano ancora al nostro seguito il loro padrone, aperta con un calcio la porta, entrò in un atrio quadrato dove gli corsero subito incontro i cani, di casa e le due bambine, Joanna e Margaret, che avevo visto l'ultima volta attraversare in un pomeriggio d'estate sui loro cavalli il guado di Treesmill. Un'altra ragazza, sui sedici anni, che presi per una delle figlie di primo letto di Carminowe, rimase sorridendo accanto al camino. Non corse anche lei ad abbracciarlo, ma vedendo che non era solo s'imbronciò con una sua grazia petulante. «La mia pupilla, Sybell,» presentò Oliver Carminowe «che si sforza più della loro madre d'insegnare alle mie figlie le belle maniere.» Dopo essersi inchinato Roger si girò verso le bambine che gli andavano incontro per salutarlo. Tradendo, come ci aveva avvertiti suo padre, una sensibilità precoce, la maggiore, Joanna, arrossendo e ridacchiando, si tolse dagli occhi i suoi lunghi capelli. Ma la più piccola, che avrebbe dovuto aspettare ancora alcuni anni prima di maturarsi per il mercato matrimoniale, allungò verso Roger la sua manina e gli batté sul ginocchio. «L'ultima volta che ci vedemmo mi promettesti un cavallino nuovo e una frusta come quella di tuo fratello Robbie» gli ricordò. «Non voglio avere niente a che fare con un uomo che non mantiene la sua parola.» «Troverai ad aspettarti cavallo e frusta,» replicò gravemente lui «se, quando la neve si sarà sciolta, Alice vorrà farti attraversare la valle.» «Alice ci ha lasciati» replicò la bambina. «Adesso per badare a noi c'è lei» e indicò sdegnosamente Sybell. «Ed è troppo grande per salire in sella dietro a te o a Robbie.» Somigliava talmente a sua madre, mentre parlava, che sentii di amarla. Doveva pensarlo anche Roger perché le toccò sorridendo i capelli. Ma suo padre le ordinò irritato di star zitta, o l'avrebbe mandata a letto senza cena. «Qua, asciugatevi davanti al fuoco,» disse rudemente a Roger, scacciando a calci i cani «e tu, Joanna, va' ad avvertire tua madre che l'intendente ha attraversato da Tywardreath la valle e che se le aggrada di riceverlo vorrebbe consegnarle un messaggio della sua padrona.» Si tolse dalla tasca della giacca l'altra zampa di lontra e l'agitò sotto gli occhi di Sybell. «Vogliamo darla a Isolda, o preferisci portarla tu per tenerti caldo?» la stuzzicò. «Ti si asciugherà presto, pelosa e morbida, sotto le gonne, ed è la cosa che nelle notti fredde ricorda di più a una donna la mano di un uomo.»
Quando Carminowe la inseguì ridendo lei era indietreggiata - gettando un gridolino affettato - capii dall'espressione di Roger che lui aveva perfettamente capito quello che c'era fra tutore e pupilla. Anche se la neve fosse rimasta per giorni o settimane sulle colline, per il momento almeno c'era poco che potesse attirare a Carminowe il lord di questa casa. «Mia madre vi aspetta, Roger» disse Joanna rientrando nella sala. Andammo attraverso un corridoio nella stanza che dava sulla parte posteriore. Ferma davanti alla finestra, Isolda guardava cadere la neve; accovacciato ai suoi piedi uno scoiattolino rosso con un campanello al collo le si aggrappava alla gonna. Udendoci entrare si girò e sebbene ai miei occhi apparisse sempre bella mi accorsi che era molto più magra e pallida e che nella chioma d'oro le spiccava una ciocca bianca. «Sono contenta di vedervi, Roger» disse. «Negli ultimi tempi non ci siamo incontrati spesso, e come sapete adesso stiamo di rado qui a Tregest. Come sta mia cugina? Mi portate un suo messaggio?» La sua voce, che ricordavo chiara e dura, quasi arrogante, era diventata opaca e sorda. Intuendo infine che Roger desiderava parlarle senza testimoni disse a sua figlia Joanna di lasciarli soli. «Non vi porto messaggi, my lady» cominciò piano lui. «L'ultima volta che ne ho avuto notizie, tutta la famiglia si trovava a Trelawn. Sono venuto per un riguardo verso di voi, avendo appreso dalla vedova di Rob Rosgof che eravate qui e non stavate bene.» «Meglio di così non starò mai» fu la risposta enigmatica. «E qui o a Carminowe i giorni sono più o meno uguali.» «Mi dispiace di sentirvelo dire, my lady» replicò Roger. «Una volta avevate più animo.» «Una volta sì» replicò Isolda. «Ma ero più giovane e... andavo e venivo come volevo perché Sir Oliver era più spesso a Westminster. Ora, forse per dispetto, per non aver ottenuto come sperava la carica di Sir John, di Custode delle foreste e dei parchi del Re in Cornovaglia, lui spreca il suo tempo mantenendo altre donne. Il suo ultimo capriccio è quasi ancora una bambina. Avete visto Sybell?» «Sì, my lady.» «È vero che è la sua pupilla. Se dovessi morire renderei un servizio a tutt'e due perché Sir Oliver potrebbe sposarla e insediarla legittimamente a Carminowe.» Si chinò a prendere lo scoiattolino addomesticato, sorridendo per la pri-
ma volta da quando eravamo entrati in quella cameretta mobiliata con più severità di una cella monacale. «Il mio confidente è lui, adesso. Accetta dalla mia mano le nocciole senza smettere di studiarmi con i suoi occhietti brillanti. Mi tengono prigioniera, sapete,» continuò rifacendosi seria «sia qui che a Carminowe. M'impediscono perfino di mandare messaggi a Bere a mio fratello Sir William Ferrers, a cui la moglie ha detto che sono afflitta da una pazzia pericolosa. Lo credono tutti. Ed è vero che il mio corpo è stato malato, ma finora le sofferenze non mi hanno fatto perdere il senno.» Roger andò con precauzione alla porta, l'aprì e tese l'orecchio. Dalla grande sala arrivavano risa provocate senza dubbio ancora dalla zampa di lontra. «Non saprei se Sir William lo creda o no,» disse dopo aver richiuso la porta «ma sono mesi che tutti parlano del vostro male. Sono venuto per sincerarmene con i miei occhi. E ora so che mentono.» Quando, con lo scoiattolo sulle braccia, fissò a lungo l'intendente per convincersi della sua lealtà, Isolda avrebbe potuto essere la sua figliola più piccola, Margaret. «Una volta non avevo simpatia per voi» disse. «Vi guardavate intorno troppo astutamente cercando il vostro utile. E perché vi conveniva più servire una donna che un uomo lasciaste morire mio cugino Henry Champernoune.» «Era mortalmente malato, my lady» si difese Roger. «Sarebbe spirato comunque entro poche settimane.» «Forse... Ma la sua fine mi fece sospettare un'indebita fretta. M'insegnò anche a guardarmi dalle pozioni preparate da monaci francesi. Sir Oliver cercherà di sbarazzarsi di me con altri mezzi: trafiggendomi forse con una daga o strangolandomi. Non aspetterà che faccia una fine naturale.» Posò a terra lo scoiattolo e avvicinandosi alla finestra si rimise a guardare fuori. «Ma prima che ci riesca» continuò «preferisco fuggire a cercare fuori la mia morte. Con tutta la neve che è caduta non dovrei aspettare troppo. Che ne direste, Roger, di portarmi fuori in un sacco e buttarmi dalla cima della scogliera? Ve ne sarei molto grata.» Era soltanto uno scherzo un po' macabro. Ma lui andò a guardare a sua volta dalla finestra quel sudario di cielo appuntando le labbra in un fischio silenzioso. «È possibile, my lady,» rispose «purché ne abbiate il coraggio.» «L'avrò, se voi avete i mezzi.»
Si fissarono mentre improvvisamente un'idea prendeva radice nei loro cervelli. «Se me ne andassi di qui da mio fratello a Bere,» riprese improvvisamente Isolda «Sir Oliver non oserebbe seguirmi, perché non potrebbe sostenere la menzogna della mia follia. Ma con questo tempo le strade saranno impraticabili. Non riuscirei ad arrivare nel Devon.» «Non subito» replicò Roger. «Ma fra qualche tempo si potrebbe tentare.» «Dove mi nascondereste?» chiese Isolda. «Sir Oliver non avrebbe che da attraversare la valle per poter frugare le proprietà degli Champernoune al disopra di Treesmill.» «Che lo faccia» replicò Roger. «Le troverebbe deserte e vuote perché my lady sarebbe a Trelawn. Ci sono anche altri nascondigli, se volete fidarvi di me.» «Per esempio?» «La mia stessa casa, Kylmerth. Vi abitano con me Robbie e mia sorella Bess. Non è che una rozza fattoria. Ma vi sareste la benvenuta finché il tempo non cambierà.» Nel silenzio che seguì capii dall'espressione dei suoi occhi che Isolda non si fidava ancora completamente di Roger. «Si tratta di scegliere» disse infine. «Rimanere qui alla mercé di un uomo ansioso di liberarsi di una moglie che rappresenta per lui non solo un vivente rimprovero ma un imbarazzo, o accettare la vostra ospitalità che potreste negarmi quando vorreste.» «Sarò sempre felice di avervi nella mia casa e la nostra ospitalità non vi sarà mai negata, a meno che non la rifiutiate voi stessa.» Isolda guardò di nuovo la neve e il cielo che si oscurava lentamente facendo temere un uragano e annunziando l'avvicinarsi della sera e di tutti i rischi di una notte d'inverno. «Sono pronta» disse. E andò a togliere da una cassapanca contro il muro un mantello col cappuccio, una sottana di lana e un paio di scarpe di cuoio, che non doveva aver mai portate fuori se non nel sacco che le proteggeva i piedi quando cavalcava da amazzone. «Mia figlia Joanna, che è ormai più alta di me, scavalcò la settimana scorsa questa finestra» disse «per dimostrare a Margaret che non era troppo ingrassata. Credo di essere abbastanza magra. Ora non mi accuserete più, spero, di mancanza di coraggio.» «Vi manca solo lo stimolo per risvegliarvelo» replicò lui. «Conoscete il
bosco sotto i vostri pascoli?» «Altro che... Andavo a cavalcarci ogni giorno quando ero libera di me.» «Allora chiudete a chiave la vostra porta quando sarò uscito di qui, scavalcate la finestra e correteci. Provvederò a che il sentiero sia deserto e tutti i familiari in casa. E dirò a Sir Oliver che mi avete congedato perché volevate rimanere sola.» «E le bambine? Joanna continuerà a scimmiottare Sybell, come fa da settimane. Ma Margaret...» S'interruppe perché il coraggio l'abbandonava. «Quando l'avrò perduta non mi rimarrà più niente.» «Soltanto la vostra volontà di vivere» le ricordò Roger. «Se la conserverete, avrete ancora tutto. Anche le vostre figliole.» «Andate, presto!» ordinò Isolda. «Prima che possa cambiare idea.» Mentre uscivamo dalla stanza, la sentii chiudere la porta. E mi chiesi, guardando Roger, se lui sapeva che cosa faceva incitandola ad arrischiare la vita e l'avvenire in una impresa condannata senza dubbio a fallire. La casa era diventata silenziosa. Nella sala, che raggiungemmo attraverso il corridoio, trovammo soltanto le due bambine e i cani. Joanna girava su se stessa davanti allo specchio, i lunghi capelli raccolti in trecce, legate da un nastro che poco prima era sulla testa di Sybell, e Margaret, a cavalcioni su una panca, aveva in testa il berrettone di pelliccia di suo padre e agitava la sua frusta. Vedendo entrare Roger lo guardò severamente. «Vedete,» gli disse «sono obbligata a usare una panca al posto del cavallo e a farmi prestare l'equipaggiamento. Non voglio ricordarvi di nuovo le vostre mancanze, maestro.» «Non sarà necessario» la rassicurò Roger. «Conosco il mio dovere. Dov'è vostro padre?» «Di sopra» rispose la bambina. «Si è tagliato il dito con la zampa della lontra e Sybell glielo sta fasciando.» «Non vi conviene disturbarlo» intervenne Joanna. «Prima di pranzare gli piace che Sybell lo faccia addormentare cantando. Dice che poi si sveglia con più appetito.» «Non ne dubito» disse Roger. «Ringraziatelo dunque per me, e augurategli la buona notte. Vostra madre è stanca e non vuole che nessuno la disturbi. Volete dirglielo?» «Sì» disse Joanna. «Se me ne ricorderò.» «Glielo dirò io,» saltò su Margaret «e lo sveglierò, se non scenderà per le sei. Ieri sera abbiamo pranzato alle sette e non mi piace far tardi.» Dopo aver dato a tutte e due la buona notte Roger uscì chiudendosi con
precauzione alle spalle la porta. Andò in punta di piedi dietro la casa e si mise ad origliare. Dalla cucina arrivavano dei suoni, ma finestre e porte erano ermeticamente chiuse e le imposte sbarrate. I cani abbaiavano dai canili sul dietro. Fra meno di un'ora sarebbe stato buio; il boschetto al disopra del campo era già una massa confusa avvolta nel lenzuolo bianco della neve, e le colline di fronte erano nude e quasi sinistre sotto il cielo grigio. La neve fresca aveva quasi cancellato le orme che ci eravamo lasciate dietro salendo verso la casa, ma ce n'erano accanto delle nuove, più serrate, come quelle di un bambino che per raggiungere un rifugio corre sulle punte come se ballasse. Roger le coprì con i suoi lunghi passi mentre faceva volare davanti la neve, scendendo rapidamente verso il boschetto. Se qualcuno si fosse azzardato ora fuori prima del buio avrebbe visto soltanto le sue impronte, che fra un'ora sarebbero state anch'esse cancellate. Isolda ci aspettava col suo scoiattolino all'ingresso del bosco, avvolta strettamente nel mantello e col cappuccio legato sotto il mento. Ma la lunga gonna che aveva cercato di rialzarsi sotto la cintura del mantello era scivolata di nuovo giù e le pendeva sui piedi come una tenda staccata. Sua figlia Margaret avrebbe sorriso come lei, se si fosse imbarcata in una simile avventura per andare incontro a un cavallino invece che a un ignoto pauroso. «Ho infilato al mio cuscino la mia camicia da notte» ci disse «e l'ho messo sotto la coperta. Lì per lì li ingannerà, se dovessero sfondare la porta.» «Non preoccupatevi più delle vostre gonne e datemi la mano» disse Roger. «A casa Bess vi troverà dei vestiti caldi.» Mentre lei gli metteva ridendo la mano nella mano fu come se la mettesse anche nella mia, come se Roger e io la sollevassimo, la trascinassimo insieme in quella neve alta, e invece che un intendente al servizio di un'altra donna e un fantasma di un mondo di là da venire fossimo soltanto due uomini legati a uno scopo comune, da un amore comune che né lui né io avremmo mai osato rivelare nel suo e nel mio tempo. Arrivati al fiume e al ponte marcio, quasi interamente crollato nell'acqua, Roger si girò verso Isolda: «Dovete fidarvi di nuovo di me e lasciare che vi porti sull'altra sponda come farei con vostra figlia». «Badate,» ribatté lei «che se mi lascerete cadere non vi assesterò come Margaret una manata in testai»
Ridendo e bagnandosi di nuovo fino quasi alla vita lui la trasportò sana e salva sull'altra riva. Riprendemmo a camminare attraverso quei piccoli ciuffi di alberi contorti e spogli. Intorno a noi il silenzio non mi sembrava più minaccioso come quando ero solo, ma animato da una specie di magìa, da uno strano fermento. «La neve sarà più alta nella valle intorno a Treverran» disse Roger. «E se Ric Treverran ci vedesse, forse non saprebbe tenere a freno la lingua. Avete ancora abbastanza fiato per uscire dal bosco e salire in cima alla collina? Robbie ci aspetta lì con i cavalli. Sceglierete con chi preferite cavalcare. Il più prudente sono io.» «Allora scelgo Robbie» decise Isolda. «Stasera ho detto addio per sempre alla prudenza.» Uscimmo, girando a sinistra nella valle e cominciammo a salire sulla collina lasciandoci alle spalle il fiume. I miei compagni avanzavano con fatica e lentamente, affondando a ogni passo nella neve fino al disopra delle ginocchia. «Un momento» disse a un tratto Roger lasciando la mano d'Isolda. «La neve potrebbe nascondere qualche insidia.» E lasciandoci soli si slanciò in avanti aprendosi un varco con le mani permettendomi di contemplare per un breve istante il piccolo viso pallido e risoluto sotto il cappuccio. «Va tutto bene!» ci gridò dall'alto Roger. «Quassù la neve è più solida. Vengo a prendervi.» Mentre lo guardavo tornare verso di lei scivolando ogni tanto sul pendio, mi sembrò a un tratto di vedere non un uomo solo ma due che le tendevano le mani per aiutarla a salire. Doveva essere Robbie, che udita la voce del fratello gli era venuto incontro. Un istinto oscuro mi avvertì di non muovermi, di non seguire Isolda, ma di lasciare che da sola si aggrappasse a quelle mani. Un istante dopo una brusca raffica di neve me li aveva cancellati tutti e tre dalla vista. Rimasi, tremando, dietro il reticolato che mi separava dalla strada ferrata. Le colline di fronte e l'alto terrapieno non mi erano più nascosti dalla neve ma dai grandi teli di tenda grigi che coprivano i carri del merci che sferragliando cominciava ad affondarsi nel tunnel. 20 L'istinto di conservazione è comune a tutte le cose viventi, legato forse a
quell'antico cervello, che fa parte secondo Magnus, della nostra naturale eredità. Nel mio caso l'istinto dové certamente trasmettermi un segnale d'allarme, o sarei morto come Magnus per la stessa causa. Ricordo di essere fuggito inciampando a rifugiarmi nel sottopassaggio dove avevo visto le mucche, e di essermi sentito rimbombare sulla testa il treno che correva verso la valle. Traversai una siepe e mi trovai in un campo dietro Little Treverran, la piccola proprietà del falegname. Passai di lì in quello dove avevo lasciata la macchina. Non provavo nausea né vertigine; l'istinto di conservazione me le aveva risparmiate, come mi aveva salvato la vita. Ma mentre continuavo a tremare, piegato sul volante, mi rivolsi una domanda: se quel venerdì sera avessi diviso l'avventura di Magnus, sarebbe accaduta come amano definirla i giornalisti, una "duplice tragedia" o ci saremmo salvati entrambi? Non l'avrei mai saputo; ormai la possibilità di penetrare insieme in un altro mondo era sparita per sempre. Ma nessuno, all'infuori di me, avrebbe mai saputo che Magnus era morto perché aveva allungato la mano per aiutare Isolda ad attraversare quei cumuli di neve. E se non aveva ascoltato l'istinto che voleva impedirglielo, significava che era stato più coraggioso di me. Quando alle sette e mezzo riattraversai con la macchina lo stagno, ignoravo ancora fin dove mi fossi spinto nel mio ultimo viaggio in quell'altro mondo, e in quale fattoria o sito avessi riconosciuto Tregest. Ma non so perché non mi sembrava più importante scoprirlo. Isolda era riuscita a fuggire e, in quella sera del 1332, o del '33, o fors'anche dopo, si stava dirigendo verso Kilmarth. Avrei potuto scoprire se vi era giunta, non subito né l'indomani, ma un giorno... Per ora dovevo preoccuparmi soltanto di conservarmi in forze e presente a me stesso per l'inchiesta, e soprattutto non lasciarmi sorprendere dagli eventuali effetti ritardati della droga. Non mi conveniva presentarmi in tribunale con gli occhi iniettati di sangue e travagliato da nausee e sudori inesplicabili, tanto più che avrei avuto addosso gli occhi esperti del dottor Powell. Poiché l'idea del cibo mi disgustava, quando arrivai a casa, all'incirca alle otto e mezzo (dopo aver lasciato la macchina sulla collina per guadagnar tempo), gridai a Vita che avevo pranzato con quei due all'albergo di Liskeard, che ero stanco morto e mi sarei coricato subito. Lei e i ragazzi stavano mangiando in cucina. Salii direttamente di sopra senza disturbarli e prima di tutto andai a mettere il bastone nell'armadio dello spogliatoio. Ora sapevo anche troppo che
cosa significhi fare ciò che si usa definire una "doppia vita". Il bastone, le boccette chiuse nella valigia, erano come le chiavi dell'appartamento di una donna da usare quando se ne presenti l'opportunità. Ma ancora più affascinante e insidioso era il pensiero segreto che là donna stessa poteva essere, perfino ora, stasera, sotto il mio tetto, nel suo tempo. Steso sul letto, con le mani dietro la testa, mi chiesi come Robbie e quella sua scarmigliata sorella Bess avrebbero accolto la loro ospite inattesa. Prima di tutto abiti caldi per Isolda e un po' di cena davanti al focolare fumoso, con i ragazzi muti e intimiditi davanti a lei, e Roger che le fa gli onori di casa. Per andare poi a coricarsi su uno dei pagliericci Isolda dovrà salire a tastoni la scala a pioli udendo le bestie muoversi e calciare nella stalla al disotto di lei. Si addormenterà forse presto, stremata com'è, ma più probabilmente tarderà a prendere sonno talmente tutto intorno a lei le sembrerà strano, e perché penserà alle sue figlie chiedendosi se le rivedrà più. Chiusi gli occhi cercando d'immaginarmi quella buia, fredda soffitta. Deve certamente corrispondere, ragionai, alla cameretta sul dietro, al disopra del seminterrato, dove dormiva una volta la sfortunata cuoca della signora Lane, e che ora è piena di vecchi bauli e scatole di cartone. Com'è vicina, lei, a Roger rimasto nella cucina; irragiungibile allora e adesso... «Tesoro...» Era Vita che si piegava su di me, fantasia e confusione contribuendo a renderla diversa. E quando l'attirai, non mi strinsi nelle braccia la donna viva, mia moglie, ma il fantasma che mi ammaliava e che non avrebbe mai potuto ricambiarmi nella realtà e nel presente. Quando aprii gli occhi, dovevo essermi appisolato, seduta davanti alla sua toletta Vita si spalmava la faccia di crema. «Se è così che ti rallegri di aver ereditato questa casa» mi disse sorridendomi nello specchio «non ho niente in contrario...» L'asciugamano che le fasciava a mo' di turbante la testa e la maschera lucida di crema le davano un aspetto da clown. E a un tratto il mondo di marionette in cui vivevo, a cui non volevo appartenere - né allora, né mai mi ispirò un disgusto violento. Avevo voglia di vomitare. «Vado a dormire nello spogliatoio» dissi alzandomi. Gli occhi di Vita sembravano buchi nella sua maschera. «Che diavolo accade?» chiese fissandomi sbalordita. «Che cosa ho fatto?» «Non hai fatto niente. Ma desidero dormire da solo.» Lei mi seguì attraverso il bagno nello spogliatoio, facendosi gonfiare intorno alle ginocchia la strana tunica che portava a letto, ancora più ridicola
con quel turbante. Notai per la prima volta le unghie smaltate di rosso che le facevano sembrare le mani artigli. «Non lo credo, sai,» riprese «che sei stato con quei due. Li hai lasciati a Liskeard per andarti a ubriacare in qualche puh. È così, vero?» «No.» «Dev'essere accaduto comunque qualcosa... Sei stato in qualche altro posto, e non vuoi dirmelo. Tutto quello che dici e fai da quella sera è una lunga bugia. Hai mentito sul laboratorio all'avvocato e a quel Willis; e alla polizia, quando gli hai spiegato come dovrebb'essere morto il professore. Per amor del cielo,» proruppe «che cosa c'è sotto? Hai sempre saputo che Magnus si sarebbe ucciso ma gli avevi giurato di non dirlo a nessuno?» Le misi le mani sulle spalle e la spinsi fuori della stanza. «Non ho bevuto. Non ho giurato niente a nessuno. Magnus è morto andando a sbattere involontariamente contro un merci che stava entrando in un tunnel. Un'ora fa mi sono fermato proprio lì e per poco non è successo anche a me. La verità è questa, e se non vuoi crederla peggio per te. Non posso costringerti.» Vita inciampò nella porta del bagno. Mentre si voltava a guardarmi le vidi sul viso un'espressione nuova, non di collera ma di stupefazione e disgusto. «Sei tornato proprio dove morì Magnus? Sei andato deliberatamente a piantarti lì mentre passava un treno che avrebbe potuto ucciderti?» «Sì.» «Allora ti dirò quello che penso! Secondo me è una cosa malsana, da pazzi, e il peggio è che dopo un'esperienza simile sei stato capace di venire qui e di fare all'amore con me. Questo non te lo perdonerò mai e non lo dimenticherò. Perciò, per amor del cielo, vattene a dormire nello spogliatoio. Lo preferisco anch'io.» Vedendola sbattere la porta del bagno capii che non era un altro dei suoi gesti impulsivi, ma una reazione della sua sensibilità più profonda, insopportabilmente ferita. Non solo capivo Vita, ma la rispettavo per aver reagito in quel modo e mi sentivo lacerare da una pietà strana, inarticolata. Ma non potevo dire né fare niente. Ci ritrovammo la mattina dopo, non più come un marito e una moglie dopo una delle solite liti coniugali, ma come due estranei obbligati per cause indipendenti dalla loro volontà a vivere sotto lo stesso tetto, a mangiare, vestirsi, andare da una stanza all'altra, fare piani per la giornata, scambiare piacevolezze con i ragazzi (che erano sangue di Vita e non mio),
allargando ancora di più l'abisso che li divide. Intuivo l'infelicità profonda di Vita, avvertivo ogni suo sospiro, i suoi passi strascicati, ogni inflessione stanca della sua voce. E, sensibili più di certi animaletti alle perturbazioni atmosferiche ai nostri salti di umore, i ragazzi ci osservavano con i loro occhi come succhielli. «È vero» mi domandò cautamente Teddy, avendomi trovato solo «che il professore ti ha lasciato questa casa?» «Sì» replicai. «Non me lo aspettavo davvero. È stato molto gentile.» «Significa» insisté Teddy «che verremo a passare qui tutte le vacanze?» «Non so. Dipende da Vita» risposi. Lui cominciò a giocherellare con gli oggetti che erano sul tavolo, prendendoli e posandoli di nuovo e ad assestare calci alle sedie. «Non credo che mamma stia volentieri qui.» «E tu?» chiesi. «Oh, per me va bene» e alzò le spalle. Il giorno prima, per merito della pesca e di quel tesoro di Tom, Teddy sembrava entusiasta di Kilmarth. Oggi il malumore degli adulti lo rendeva apatico e insicuro. La colpa era mia, certo. Tutto quello che accadeva in casa lo era e lo sarebbe stato. Ma non potevo dirlo a Teddy né chiedergli perdono. «Non pensarci» gli dissi. «Vedrai che tutto si aggiusterà. Passerete probabilmente il Natale a New York.» «Evviva! Fantastico!» gridò lui, e si precipitò sulla terrazza chiamando Micky. «Dick dice che possiamo passare a casa le prossime vacanze!» L'evviva con cui gli fece eco suo fratello riassumeva il loro atteggiamento comune verso la Cornovaglia, l'Inghilterra, l'Europa e senza dubbio il loro padrigno. Sopportammo non so come il weekend, sebbene il tempo si fosse guastato rendendo tutto più difficile. E mentre i ragazzi giocavano a una specie di tennis da tavolo nel seminterrato - sentivo le spalle rimbalzare dai muri - e Vita scriveva a Bill e Diana, in Irlanda, una lettera di almeno dieci pagine, mi misi ad esaminare tutti i libri di Magnus, cominciando dai racconti del mare del tempo del comandante a quelli di una sua scelta più personale, toccandoli con orgoglio di proprietario. Trovando il terzo volume della Storia Parrocchiale della Contea della Cornovaglia (dalla L alla N - nessuna traccia degli altri volumi) infilato dietro la Storia dei Velieri, lo presi e feci scorrere lo sguardo sull'indice delle parrocchie. Lanlivery c'era, e nel capitolo che lo riguardava il castello
di Restormel occupava il posto d'onore. Purtroppo per Sir John non vi si faceva parola dei suoi sette mesi di amministrazione. Stavo per rimettere a posto il volume, riservandomi di completare un'altra volta la lettura, quando gli occhi mi caddero su una riga all'inizio della pagina. «Il maniero di Steckstenton o Strickstenton, originariamente Tregesteynton, apparteneva ai Carminowe di Boconnoc e passò da loro ai Courtenay, e, col tempo, ai rappresentanti della famiglia Pitt. Strickstenton appartiene oggi a N. Kendall.» Tregesteynton... I Carminowe di Boconnoc... C'ero infine arrivato, ma troppo tardi. Se l'avessimo saputo dieci giorni prima, Magnus avrebbe attraversato la valle più in basso, a Treesmill, e non sarebbe morto. Quanto al maniero originale, doveva certamente trovarsi al disotto dell'attuale fattoria, se, quando nel mio tempo ne avevo violato i confini, non ero stato visto dagli attuali proprietari, il giovedì precedente. Strickstenton... Tregesteynton... Una cosa era certa: avrei potuto dire quel nome in tribunale, se il giudice istruttore mi avesse interrogato. La data dell'inchiesta fu fissata - prima del previsto - al venerdì mattina. Dench e Willis avrebbero potuto arrivare come l'altra volta con un treno della sera e ripartire subito dopo. Radendomi, la mattina dell'udienza, mi stavo congratulando con me stesso per non aver avuto effetti ritardati della droga: sudori, occhi congestionati o altro, e che malgrado la freddezza fra me e Vita gli ultimi giorni fossero stati relativamente sereni, quando, a un tratto, senza un motivo plausibile il rasoio mi cadde nel lavamano. E quando volli riprenderlo non riuscii a coordinare i movimenti delle dita, paralizzate come da una specie di crampo. Non mi dolevano, erano semplicemente insensibili e non funzionavano. Doveva dipendere dai miei nervi tesi al pensiero della inchiesta. Ma mentre più tardi, al breakfast, allungavo senza riflettere la mano verso una tazza di caffè, la tazza mi scivolò dalle dita rovesciando il suo contenuto e andando a fraccassarsi sul vassoio. Stavamo facendo colazione nella sala da pranzo, per essere puntuali in tribunale. Vita mi sedeva davanti. «Scusami» dissi. «Non si potrebbe essere più goffi!» Non riuscivo a controllare il tremito della mia mano, che cominciava a propagarsi al polso e al gomito. Me la ficcai nella tasca della giacca premendola contro il fianco, e a poco a poco quel tremore impressionante si calmò. «Che cosa ti succede?» mi chiese Vita. «Ti trema la mano.»
«Dev'essere un crampo» replicai. «Durante la notte me la sarò schiacciata senza avvedermene.» «Beh, soffiaci sopra» mi esortò lei. «Stendi le dita per far circolare il sangue.» Dopo aver asciugato con una salvietta il vassoio, mi versai un'altra tazza di caffè. La bevvi con la sinistra. L'appetito mi era svanito. Mi domandavo come avrei fatto a guidare con una mano tremante o inutile. Avevo detto a Vita che preferivo andare solo all'udienza; che non c'era motivo perché venisse anche lei. Ma quando fu l'ora di avviarmi la mia mano era sempre inservibile, anche se non tremava più. «Senti,» dissi a mia moglie «temo che dovrai portarmi tu a St. Austell. Quel crampo infernale non mi è passato.» Una settimana prima Vita avrebbe reagito con premura affettuosa. «Ti ci porterò, certo» replicò ora freddamente. «Ma non ti sembra strano che quel crampo ti sia venuto così all'improvviso? Non ti era mai successo. Ti consiglio di tenere la mano in tasca, o il coroner potrebbe credere che hai bevuto.» Un'osservazione simile non era fatta per calmarmi, e come se non bastasse non mi andava di dover sedere da passeggero accanto a Vita lasciandole il volante. Umiliato e frustrato com'ero cominciai a perdere il filo delle risposte al coroner, che avevo preparate con tanta cura. Giunti al Cervo Bianco, dove ci aspettavano Dench e Willis, Vita si credette chissà perché obbligata a giustificare la sua presenza. «Il povero Dick è un invalido e ho dovuto fargli da autista.» E fui costretto a spiegare tutta la stupida faccenda. Poiché non avevamo il tempo di discorrere, mi diressi con gli altri sentendomi quasi un lebbroso verso l'edificio dove si sarebbe tenuta l'inchiesta, mentre il coroner, - senza dubbio nella sua vita privata un tipo piuttosto mite e buono, - assumeva ai miei occhi le sembianze di un giudice della Corte Criminale, sostenuto da giurati ansiosi più di lui di condannare gl'imputati. L'udienza cominciò con la lettura del rapporto della polizia sul rinvenimento del cadavere. I fatti non erano stati travisati, eppure, mentre li ascoltavo, mi dissi che agli altri dovevano non solo apparire strani, ma evocare l'immagine di qualcuno che avesse cercato, durante un accesso improvviso di pazzia, di mettere fine ai propri giorni. Arrivato il suo turno il dottor Powell salì sulla pedana e lesse il suo rapporto con una voce chiara e posata che mi ricordò uno di quei preti giovani che giocavano a rugby a Stonyhurst.
«Il corpo era quello ben conservato di un uomo sui quarantacinque anni. Quando lo esaminai la prima volta, all'una del pomeriggio di sabato 3 agosto, la morte risaliva all'inarca a quattordici ore prima. L'autopsia eseguita il giorno dopo rivelò graffi e abrasioni superficiali al petto e alle ginocchia; lesioni più profonde e gravi all'avambraccio e alla spalla. L'ampia lacerazione sulla tempia destra corrispondeva a una frattura della regione parietale destra del cranio, con lesioni del cervello ed emorragia dell'arteria mediana meningea destra. La quantità di cibo e liquido (all'incirca un litro e mezzo) trovata nello stomaco non rivelò all'analisi alcunché di anormale né tracce di alcool. Erano normali anche i campioni di sangue esaminati, come pure erano normali e sani cuore, polmoni, fegato e reni. La morte fu dovuta secondo me a un'emorragia cerebrale prodotta da un violento colpo alla testa.» Mentre, momentaneamente sollevato, mi appoggiavo all'indietro mi chiesi se John Willis reagisse come me, o se non avesse mai avuto motivo di angustiarsi. Il coroner domandò al dottor Powell se, ammettendo che fosse andato a urtare violentemente contro un veicolo che gli passava davanti, per esempio il vagone di un merci, il deceduto avrebbe potuto riportare lesioni simili. «Sì, certo» fu la risposta. «Un punto di una certa importanza è che la morte non è stata istantanea. Il ferito ha avuto ancora la forza di trascinarsi per alcuni metri fino al capanno. Il colpo alla testa bastò a provocare una commozione cerebrale grave, ma la morte vera e propria per emorragia si verificò probabilmente da cinque a dieci minuti dopo.» «Grazie, dottor Powell» disse il coroner. Sentendo chiamare il mio nome mi alzai. Mi chiedevo se il fatto di avere in tasca la mano destra non mi avrebbe dato un'aria troppo disinvolta. «Signor Young,» cominciò il coroner «leggerò ora alla giuria il suo rapporto. M'interrompa, se desidera correggere o rettificare qualcosa.» Dal tono come lo lesse, il rapporto mi faceva apparire un cinico; qualcuno più preoccupato del suo pranzo che ansioso di ritrovare il suo ospite inesplicabilmente scomparso. I giurati, mi dissi, mi giudicheranno uno di quei fannulloni che passano le ore piccole con un cuscino dietro la testa e una bottiglia di whisky accanto. «Signor Young,» mi chiese il coroner quando ebbe finito di leggere «perché non pensò di avvertire fin dal venerdì sera la polizia?» «Non mi sembrava necessario» replicai. «Ero sicuro che il professor La-
ne si sarebbe fatto vivo.» «Non si stupì che invece di scendere a St. Austell, dove lei lo aspettava com'eravate intesi, il suo amico fosse smontato dal treno a Par per addentrarsi nei campi?» «Mi stupì, sì. Ma conoscevo Magnus e sapevo che quando si prefiggeva uno scopo lo inseguiva fino in fondo senza preoccuparsi dell'ora, o di eventuali appuntamenti.» «E secondo lei, che scopo si prefiggeva la sera in questione il professor Lane?» chiese il coroner. «Magnus si appassionava da qualche tempo alla storia di questa regione, soprattutto all'ubicazione degli antichi manieri medievali. Non vedendolo arrivare pensai che avesse deciso di esplorare qualche sito particolare di cui non mi aveva mai parlato. Da quando ho fatto la deposizione alla polizia credo di aver capito ciò che il mio amico aveva in mente.» I giurati non si mossero. Eppure mi sembrò di cogliere un loro fremito d'interesse. «Avrebbe la cortesia di parlarcene?» «Certo» risposi riprendendo coraggio e benedicendo dentro di me la Storia Parrocchiale. «Lì per lì non lo capii, ma adesso sono sicuro che Magnus cercava i resti dell'antico maniero di Strickstenton, nella parrocchia di Lanlivery, appartenente una volta a certi Courtenay...» La presenza di Vita m'impediva di alludere ai Carminowe. «I Courtenay una volta erano i proprietari anche del castello di Treverran. La strada più breve, in linea d'aria, fra i due manieri, sarebbe di attraversare la valle al disopra dell'attuale fattoria di Treverran e il bosco fino a Strickstenton.» Il coroner si fece portare una carta topografica militare della regione e la esaminò attentamente. «Capisco quello che intende, signor Young» disse. «Ma deve esserci senza dubbio un passaggio al disotto della strada ferrata. Perché il professor Lane non lo prese, invece di attraversare le rotaie?» «Non so» dissi. «Ma Magnus non aveva con sé carte. Poteva ignorarne l'esistenza.» «Attraversò quindi le rotaie, sebbene fosse ormai sera e dalla valle stesse arrivando un merci.» «Non credo che l'oscurità lo abbia preoccupato. Ed è chiaro che, assorto com'era nelle sue ricerche non udì il treno.» «Così assorto, signor Young, che scavalcò deliberatamente il reticolato e scese da quel terrapieno ripido proprio mentre passava il treno?»
«Non credo che Magnus sia sceso dal terrapieno. Secondo me mise il piede in fallo e cadde. Non dimentichi che quella sera nevicava.» Il coroner e i giurati mi fissarono. «Mi scusi, signor Young,» riprese dopo una pausa il coroner «lei ha detto proprio "nevicava"?» Impiegai uno o due minuti per riprendermi, mentre la fronte mi si copriva di sudore. «Mi perdoni,» dissi «mi sarò espresso male. Il fatto è che la climatologia medievale interessava particolarmente il professor Lane. Secondo lui in quel tempo gl'inverni erano molto più rigidi di adesso. Prima che la strada ferrata tagliasse la collina al disopra della valle di Treesmill il terreno doveva digradare ininterrottamente. E la neve che si ammassava sul fondo rendeva virtualmente impossibili le comunicazioni fra Treverran e Strickstenton. Secondo me da un punto di vista scientifico piuttosto che storico Magnus pensava talmente a tutto questo, e a come in quel tempo le nevicate avrebbero alterato il paesaggio attuale che per lui tutto il resto finì per sparire.» Le facce incredule continuavano a fissarmi. Vidi uno dei giurati assestare una gomitata a colui che gli stava vicino, come per dirgli che, o ero pazzo da legare io, o lo era stato il professore. «Grazie, signor Young. È tutto» disse il coroner. Mi sedetti, inondato di sudore, percorso dal gomito al polso come da stilettate. Chiamato dopo di me dal coroner, John Willis dichiarò che quando l'aveva visto prima del weekend il suo defunto collega era in buona salute e allegrissimo, impegnato in ricerche di grande importanza per la scienza, di cui lui non era autorizzato a parlare, ma che non avevano naturalmente alcun rapporto con la gita che il professore stava per fare in Cornovaglia per andare a trovare degli amici e svolgere delle ricerche riguardanti un suo hobby personale di natura prevalentemente storica. «Debbo aggiungere» continuò «che mi trovo perfettamente d'accordo col signor Young sulla sua teoria circa la morte del professor Lane. Non sono un antiquario né uno storico, ma so che il professore aveva una sua teoria sul volume delle nevicate nei secoli scorsi.» Continuò, forse per tre minuti, ad esprimersi in un gergo così astruso e inaccessibile, per me e tutti i presenti, che Magnus stesso, se dopo un pranzo eccezionalmente succulento avesse voluto scimmiottare lo stile di certe presuntuose riviste scientifiche, non sarebbe riuscito a superarlo.
«Grazie, signor Willis» mormorò infine il coroner. «Molto interessante. Le siamo tutti gratissimi delle sue informazioni.» Prima di togliere la seduta il coroner, dopo averla riassunta, dichiarò che ad onta delle circostanze insolite lui non aveva motivo di supporre che il professor Lane si fosse deliberatamente avvicinato alle rotaie mentre passava il treno. Il verdetto fu di morte accidentale, con la raccomandazione alle Ferrovie Britanniche di sottoporre a un controllo più accurato i reticolati e i segnali di pericolo disposti lungo la linea ad uso dei pedoni. Mentre uscivamo dall'edificio, Herbert Dench si voltò sorridendo: «Propongo di festeggiare l'esito soddisfacente per tutti, dell'inchiesta al Cervo Bianco. Temevo un verdetto molto diverso, che secondo me avremmo avuto senza le dichiarazioni sue e di Willis sulla passione straordinaria del professor Lane per le nevicate... Se non erro, un caso simile si verificò tempo fa sull'Imalaia...». Mentre andavamo verso l'albergo Willis ci raccontò di uno scienziato che aveva passato tre settimane in condizioni impossibili a un'altitudine vertiginosa, per studiare gli effetti dell'atmosfera su certi germi. Non vedevo il rapporto, ma mi rallegrai di quella tregua, e raggiunta la nostra destinazione me ne andai difilato al bar a ubriacarmi tranquillamente. Non solo non se ne accorse nessuno ma la mano mi smise subito di tremare. Forse era stata davvero colpa dei nervi. «Signor Young,» disse l'avvocato, dopo un breve ma allegro lunch, «non vogliamo tenerla ancora lontano dalla sua affascinante nuova casa. Willis ed io possiamo andare benissimo a piedi alla stazione.» «Non posso ringraziarla abbastanza della sua testimonianza» mormorai a Willis nell'andare verso la porta, «Magnus lo avrebbe giudicato un grande attore.» «Ha fatto il suo effetto» ammise lui. «Con quella storia, però, che Magnus era scivolato nella neve... lei mi aveva sconcertato. Debbo dare comunque ragione di nuovo al mio principale: si può far ingoiare ai profani qualsiasi balla a patto di esporgliela con un tono sufficientemente categorico.» Aggiunse, a voce più bassa, ammiccandomi dietro i suoi occhiali: «Si sarà sbarazzato, immagino, di tutti quei barattoli di marmellata? Non ha dimenticato niente che potrebbe creare inconvenienti a lei o ad altri?». «Li ho sepolti» replicai «sotto i rifiuti di anni.» «Benissimo» approvò lui. «Non possiamo augurarci certo altri disastri.» Lo vidi esitare, come se avesse voluto aggiungere qualcosa. Ma l'avvo-
cato e Vita ci aspettavano all'ingresso dell'albergo e l'occasione andò perduta. Vennero scambiati saluti, ci stringemmo le mani e ci lasciammo. Mentre io e Vita andavamo a riprenderci la macchina al parcheggio, lei mi si voltò. «Ho notato» mi disse col tono tipico della moglie «che la mano ti è guarita appena sei entrato nel bar. Voglio comunque guidare io.» «Se ci tieni» mi limitai a replicare. E tirandomi il cappello sugli occhi mi preparai, appena fui seduto, a addormentarmi. Ma la coscienza mi rimordeva. Avevo mentito a Willis. Era vero che le bottigliette A e B erano vuote. Ma la C, col suo contenuto ancora intatto, era chiusa nella mia valigia nello spogliatoio. 21 Dopo un paio d'ore gli effetti delle libagioni al Cervo Bianco finirono, lasciandomi di un umore feroce e fermamente deciso a comandare a casa mia. L'inchiesta era finita e malgrado, o forse grazie alla mia topica sulla neve, la reputazione di Magnus salva. La polizia era soddisfatta; la curiosità suscitata dalla fine tragica del professor Lane si sarebbe presto spenta e io non avevo più nulla da temere. Quanto alle intromissioni di mia moglie, bisognava provvedere al più presto. I ragazzi erano usciti per montare a cavallo e non erano ancora rientrati. Andai in cerca di Vita e finii per trovarla, con un centimetro in mano, sul pianerottolo davanti alla stanza dei suoi figli. «Sai,» mi disse «l'avvocato aveva perfettamente ragione. Da questa casa si potrebbero ricavare una mezza dozzina di camere in più, sfruttando anche il seminterrato. Potremmo farci prestare il denaro da Joe.» Fece rientrare sorridendo il centimetro nel suo astuccio. «Hai forse un' idea migliore? Il professore non ti ha lasciato anche i soldi per mantenere una casa simile e sei disoccupato, a meno che non ti decidi ad attraversare l'oceano e ad accettare la proposta di mio fratello. Perciò... che ne diresti di guardare per una volta in faccia i fatti?» Senza rispondere presi a scendere verso la sala di musica. Come mi aspettavo, Vita mi seguì. Andai a piantarmi davanti al camino il posto, per diritto ancestrale, del padrone di casa. «Ficcatelo bene in testa» dissi. «Questa è la mia casa e quello che ne farò mi riguarda esclusivamente. Non voglio suggerimenti o consigli da te, da legali, amici o chiunque altro. Ho l'intenzione di stabilirmi qui e se non
ti va di viverci con me sei libera di prendere le decisioni che credi.» Vita si accese una sigaretta e mandò verso il soffitto un grande sbuffo di fumo bianco. Era pallidissima. «Hai vuotato infine il sacco, eh? Sarebbe il tuo ultimatum?» «Chiamalo come vuoi» replicai. «È una messa a punto. Magnus mi ha lasciato questa casa e ho deciso di crearmi qui una vita che tu e i ragazzi, se vi va, potrete dividere. Penso di essere stato chiaro, no?» «Hai rinunziato definitivamente ad accettare il posto che Joe ti offriva a New York. È questo che vuoi dire?» «Era un'idea tua, non mia.» «E dove troveremo, secondo te, i mezzi per vivere qui?» «Non ne ho la più lontana idea» dissi «e per il momento non m'importa. Dopo essere stato per vent'anni in una casa editrice dovrei aver imparato qualcosa. Potrei mettermi a scrivere anch'io. La storia di questa casa, per cominciare.» «Santo cielo!» Vita spense ridendo nel posacenere più vicino la sigaretta che aveva apena accesa. «Beh, se non altro ti terrebbe occupato. E io come dovrei passare il mio tempo? Dedicandomi alle opere buone o ai lavori femminili?» «Potresti cercare come tante altre mogli di adattarti.» «Tesoro, quando accettai di sposarti e stabilirmi in Inghilterra tu avevi a Londra un impiego importante. L'hai lasciato, non si sa bene perché, e adesso vuoi vivere qui in capo al mondo, dove nessuno di noi conosce un'anima, e a centinaia di miglia da tutti i nostri amici. Devi essere impazzito.» Eravamo in un vicolo cieco. E odiavo sentirmi dare del tesoro mentre litigavamo invece di baciarci. Ero comunque stufo: avevo detto quello che avevo da dire e sarebbe stato inutile prolungare la discussione. E poi, ardevo dalla voglia di salire nello spogliatoio e esaminare la bottiglietta C. Se ben ricordavo doveva essere leggermente diversa dalle A e B. Avrei dovuto forse darla a Willis perché ne sperimentasse il contenuto sulle scimmie del suo laboratorio. Ma se mi fossi confidato con lui forse non me l'avrebbe più rimandata. «Perché non riprendi il tuo centimetro» dissi a Vita «e ti fai venire qualche bella idea per tende e tappeti e le mandi a Bill e Diana in Irlanda chiedendogli il loro parere?» Non avevo l'intenzione di beffarmi di lei. Vita era libera di fare quello che voleva, nei limiti del ragionevole, con i mobili e le tappezzerie scelti da Magnus col suo gusto da scapolo. Cambiare l'arredamento delle case
era una delle sue occupazioni preferite, e che la rendevano felice per ore e ore. Ma le mie offerte di pace furono respinte. Gli occhi le si riempirono di lacrime. «Sai benissimo» gemé «che vivrei dovunque, se fossi almeno sicura che mi ami ancora.» Di solito sopporto serenamente la collera degli altri e mi sento giustificato a restituire colpo per colpo. Ma non l'infelicità e le lacrime. Tesi le braccia e Vita ci si buttò aggrappandosi a me per essere consolata come un bambino infelice. «Sei talmente cambiato in queste ultime settimane... Non ti riconosco più.» «Non è vero» la tranquillizzai. «Ti amo. Come puoi dubitarne?» La verità è la cosa più dura da accettare, o da far accettare agli altri. Io amavo Vita per i momenti belli e brutti divisi con lei per mesi e anni; per tutti gli alti e bassi della vita coniugale che possono essere preziosi, esasperanti, monotoni e cari. Avevo imparato a sopportare i suoi difetti, e lei i miei. Quasi sempre, durante le nostre liti, ci eravamo insultati senza darvi peso. Troppo spesso, abituati ognuno alla compagnia dell'altro, ci eravamo tenute dentro le parole tenere che avremmo potuto dirci. Ed era come se avessimo lasciato intatto, assopito, un nocciolo segreto ancora da scoprire. Non potevo dividere con Vita, o con altri, i segreti del mio nuovo mondo pericoloso. Con Magnus sì... ma Magnus era un uomo, ed era morto. Vita non era una Medea con cui avrei potuto cogliere le erbe incantate. «Tesoro,» ripresi «cerca di sopportarmi. Per me questo è un periodo di transizione, non di distacco. Non riesco a vedermi più niente davanti. È come se fossi su una lingua di spiaggia mentre la marea avanza, aspettando di tuffarmi. Non posso spiegartelo.» «Mi tufferò quando e dove vorrai, caro, purché mi porti con te.» «Lo so» dissi. «Lo so...» Vita si asciugò gli occhi e si soffiò il naso. Il suo viso, arrossato e gonfio per il pianto, stranamente commovente, mi riempì di rimorsi. «Che ore sono? Debbo andare a prendere i ragazzi.» «Ti accompagno» offrii, contento di quel pretesto che mi permetteva di prolungare la nostra intesa, di giustificarmi non solo ai suoi occhi ma ai miei. Ritrovammo il sorriso, l'atmosfera appesantita dal rancore e dall'amarezza si rasserenò e ridiventammo quasi normali. Quella sera interruppi, non senza rimpianto, il mio esilio volontario nello spogliatoio. Ma mi sembrava una buona politica; e poi, il divano-letto era duro.
Il tempo si era rimesso e il weekend passò tra gite a vela, nuotate e picnic con i ragazzi. Ma pur avendo ripreso la mia parte di marito, padrigno e padrone di casa, facevo in segreto progetti per la settimana seguente. Dovevo avere a tutti i costi almeno un giorno intero per me solo. Fu Vita stessa a fornirmi innocentemente l'opportunità che cercavo. «Lo sapevi che la signora Collins ha una figlia a Bude?» mi chiese il lunedì mattina. «Le ho promesso che ce l'avremmo portata una mattina di questa settimana e saremmo tornati con lei nel pomeriggio. Che ne dici? I ragazzi non vedono il momento di fare questa gita, e anch'io.» Finsi di volerla scoraggiare. «Il traffico è spaventoso... Le strade saranno ingorgate... E Bude rigurgiterà sicuramente di turisti.» «Non importa» protestò Vita. «Possiamo partire di buon'ora. E non sono che cinquanta miglia.» Presi l'aria di un padre di famiglia a corto di soldi con una montagna di lavoro arretrato da sbrigare. «Se non ti dispiace preferirei rimanere a casa. Bude, in un pomeriggio verso la metà di agosto, non è la mia idea del paradiso.» «O.K. O.K. Ci divertiremo anche senza di te!» Decidemmo per il mercoledì. Lo scelsi perché quel giorno non venivano di solito piazzisti e venditori ambulanti. Se i miei fossero partiti alle dieci e mezzo e passati a riprendere la signora Collins alle cinque, non sarebbero stati di nuovo a casa, calcolai, prima delle sette. Il mercoledì per fortuna il tempo si annunziò bello. Vidi partire subito dopo le dieci e mezzo i miei con la Buick, sapendo che avevo davanti a me almeno otto ore per l'esperimento e per riavermi dagli effetti eventuali della droga. Salii nello spogliatoio e tolsi dalla valigia la bottiglietta C. La droga era, o sembrava, la stessa, solo che aveva in fondo un sedimento bruno, come uno sciroppo per la tosse messo via dopo l'inverno e dimenticato fino al ritorno del tempo cattivo. La sturai e me l'avvicinai al naso. Il liquido che conteneva aveva più o meno il colore e l'odore dell'acqua stagnante. Dopo averne messi quattro misurini nel pomo del bastone decisi di rinchiuderlo per tenermelo di riserva e versare la solita dose nella provetta che era ancora su uno scaffale della vecchia lavanderia. Fu strano ritrovarmi di nuovo lì, sapendo che tutt'intorno a me nel seminterrato e nella casa al disopra non c'era più nessuno degli inquilini attuali - Vita e i ragazzi - mentre i personaggi del mio mondo segreto aspettavano forse nell'ombra.
Inghiottita la dose andai ad aspettare nella vecchia cucina, ansioso e attento come uno spettatore che è scivolato sulla sua poltrona un istante prima che il sipario si levi sul terz'atto impazientemente atteso. Ma stasera, - gli attori avevano forse scioperato o era colpa della direzione, - il sipario del mio teatro privato non si alzò e l'ambiente non subì trasformazioni. Dopo essere rimasto seduto per un'ora nel seminterrato senza che accadesse niente, uscii nel patio sperando che l'aria fresca facesse agire la droga. Ma il tempo non si mosse da quella mattina di mercoledì verso la metà di agosto, e il contenuto della bottiglietta C produsse sul mio cervello e sul mio stomaco l'effetto su per giù dell'acqua del rubinetto della cucina. Alle dodici andai di nuovo nel laboratorio, versai nella provetta qualche altra goccia e le inghiottii. Avevo raggiunto in questo modo un'altra volta il mio scopo, e senza inconvenienti. Rimasi nel patio fino a dopo l'una, quando, poiché non succedeva ancora niente, salii di sopra a fare un po' di colazione. Significa, mi dicevo, che il contenuto della bottiglietta C deve avere perduto la sua efficacia, oppure che la miscela non funziona perché Magnus ha dimenticato qualche ingrediente importante. Se le cose stavano così non avrei più fatto viaggi. Il sipario si era levato per farmi attraversare sotto la neve il torrentello di Treesmill, solo per ricadere per sempre alla fine del terz'atto presso il tunnel della strada ferrata. Quel pensiero mi colpì come una mazzata che ti lascia stordito. Avevo perduto non soltanto Magnus, ma anche quell'altro mondo. È qui, mi dissi, tutt'intorno a me, ma non potrò arrivarci mai più. Gli abitanti di quel mondo avrebbero continuato a viaggiare senza di me nel loro tempo e io dovevo attenermi al mio itinerario riempiendo Dio solo sapeva quale tediosa trafila quotidiana. Il ponte fra i secoli era crollato. Scesi di nuovo nel seminterrato e uscii nel patio dicendomi che camminando sulle lastre di pietra e toccando i muri avrei potuto attingerne un po' di forza; che la faccia di Roger mi sarebbe apparsa attraverso la porta della stanza della caldaia, oppure che Robbie sarebbe uscito dalla scuderia sotto il soppalco tirando le redini del suo cavallo. Sapevo che dovevano essere lì, ma non potevo vederli. C'era anche Isolda, in attesa che le nevi si sciogliessero. La casa non era abitata da morti, ma da vivi, e ero io il viandante inquieto, il fantasma. Il bisogno di vederli, di ascoltarli, di aggirarmi fra loro era così acuto che diventò intollerabile. Era come se un fuoco tremendo mi avesse incen-
diato il cervello. Non riuscii ad applicarmi, in casa o nel giardino, a uno qualunque dei miei compiti abituali. Stavo sprecando quella giornata di libertà e le ore che avrebbero dovuto essere magiche scivolavano via vuote e inutili. Tirai fuori la macchina e andai fino a Tywardreath. La solida moderna chiesa della parrocchia stonava col mio stato d'animo; non aveva il diritto, mi dissi, di essere lì nella sua forma attuale. Avrei voluto distruggerla lasciandone soltanto la navata a sud e la cappella del Priorato, e rivedere i muri del Priorato cingere il camposanto. Proseguii svogliatamente fino alla piazzuola sulla collina, dopo la svolta di Treesmill, e lasciai lì la macchina, dicendomi che se fossi arrivato in fondo alla strada e avessi attraversati i campi fino al Gratten, il ricordo di ciò che avevo visto le altre volte avrebbe fatto forse agire la droga. Prima di avviarmi mi fermai accanto alla macchina per accendermi una sigaretta. Ma me l'ero appena portata alle labbra che mi sentii squassare dalla testa ai piedi come se avessi toccato un filo ad alta tensione. Non passai serenamente dal presente al passato; provai una sensazione dolorosa, con lampi davanti agli occhi e un rombo pauroso nelle orecchie. Ecco, pensai, sto per morire. Poi i lampi sparirono, il rombo si spense e vidi sulla collina davanti a me, una folla che si accalcava e premeva contro un edificio sull'altro lato della strada. Dalla direzione di Tywardreath arrivò, camminando o correndo, altra gente: uomini, donne e bambini. L'edificio che fungeva da calamita era di forma irregolare, con finestre dai vetri piombati e accanto una piccola cappella. Avevo già visto il villaggio, il giorno di San Martino, ma dal campo comunale dietro i muri del Priorato. Oggi non c'erano baracche, suonatori ambulanti o animali sgozzati. L'aria era frizzante e fredda, i fossi pieni di neve gelata, dura e sporca per essere lì da settimane. Le pozzanghere della strada sembravano crateri foderati di ghiaccio e il gelo aveva annerito più in là i campi arati. Uomini, donne e bambini erano tutti egualmente infagottati e incappucciati per difendersi dal freddo, con i tratti aguzzi come becchi di uccelli, e il loro umore, lo sentivo, non era spensierato e allegro ma quasi feroce: quello di una folla avida di uno spettacolo che potrebbe trasformarsi in tragedia. Nell'avvicinarmi all'edificio vidi fermo all'ingresso della cappella un carro coperto con dei servi alla testa dei cavalli. Riconobbi lo stemma degli Champernoune e anche i servi, e Roger stesso, a braccia incrociate sotto il portico della cappella. La porta dell'edificio principale si aprì di lì a poco e ne uscì un uomo,
vestito meglio di quelli che bordavano la strada, con un compagno. Li avevo visti già tutti e due la sera che Otto Bodrugan li aveva esortati a ribellarsi con lui al Re. Erano Julian Polpey e Henry Trefrengy. Scesero il sentiero e aprendosi un varco nella folla vennero a fermarsi proprio davanti a me. «Dio mi protegga dall'ira delle donne» disse Polpey. «Roger ha occupato per dieci anni quella carica soltanto per vedersi licenziare ora senza conoscere neppure il motivo, e rimpiazzare da Phil Hornwynk.» «Appena avrà raggiunto la maggiore età, il giovane William lo rimetterà senza dubbio al suo posto» replicò Trefrengy. «Ha il senso della giustizia e la lealtà di suo padre. Ma io mi aspettavo da più di dodici mesi questo cambiamento. La verità è che lei ha bisogno non soltanto di un marito ma di un uomo. E Roger l'aveva sopportata anche troppo e non era più disposto a marciare.» «Ha trovato altrove quello che gli occorre.» Per raggiungerli, l'ultimo ad aver parlato, Geoffrey Lampetho della valle, si era aperto un varco a spallate nella folla. «Dicono che abbia una donna sotto il suo tetto. Tu che sei il suo vicino, Trefrengy, dovresti saperlo.» «Io non so niente» tagliò corto l'interpellato. «Roger si fa i fatti suoi e io i miei. E con un tempo da lupi come questo qualunque cristiano accoglierebbe sotto il suo tetto un forestiero.» Lampetho gli assestò ridendo una gomitata. «Ben detto, ma non puoi negarlo» ribatté. «Perché Lady Champernoune verrebbe fin qui da Trelawn con questo tempo, se non per snidare quell'altra dal suo covo? Sono andato a pagare prima di voi il mio tributo e lei era seduta nella stanza interna a guardare Hornwynk che prendeva i soldi. Tutto il belletto del mondo non rischiarirebbe quella sua faccia scura. Secondo me non si contenterà di licenziare Roger. Intanto, la gente avrà un altro spettacolo. Voi rimarrete a vederlo?» Julian scosse disgustato la testa. «No» disse. «Perché noi di Tywardreath dovremmo farci imporre certi costumi barbari? Lady Champernoune dev'essere pazza, se l'ha creduto. Io me ne vado a casa.» Girò sui tacchi e sparì nella folla che si era ormai addensata non soltanto in cima alla collina, dove sorgevano il Priorato e la cappella, ma fino a metà del sentiero di Treesmill. Avevano tutti quella strana aria tra ansiosa e risentita. Facendolo notare al suo compagno Geoffrey Lampetho rise di nuovo. «Pazza, non dico di no. Ma prendendo come capro espiatorio un'altra
vedova si placherà la coscienza e ci rallegrerà la Quadrigesima. Non c'è niente che piaccia di più alla folla che assistere a una pubblica penitenza.» Mentre Lampetho si voltava come gli altri verso la valle, Henry Trefrengy si avviò, seguito da me e passando davanti ai servi degli Champernoune, verso l'ingresso della cappella e Roger. «Quello che è successo» gli disse «mi rincresce. Non avete avuto gratitudine né ricompensa. Dieci anni della vostra vita sprecati inutilmente.» «Non sprecati» tagliò corto Roger. «A giugno William compirà i ventun anni e prenderà moglie. Sua madre e il monaco perderanno la loro influenza. Lo sapete, che il Vescovo di Exeter l'ha infine espulso e che dovrebbe già essere da un anno all'abbazia di Angers?» «Dio sia lodato!» esclamò Trefrengy. «Quell'uomo ha appestato monastero e parrocchia. Guardate quella gente laggiù...» Roger fissava al di sopra della testa di Trefrengy la folla impaziente. «Sarò stato duro come intendente» disse. «Ma non potevo sopportare di veder mettere alla berlina la vedova di Rob Rosgof. Sono stato licenziato anche perché mi sono opposto. La colpa è soprattutto del monaco, che ha voluto appagare la vanità e la sete di dominio di my lady.» L'ingresso della cappella si oscurò mentre appariva sulla soglia la figura piccola e meschina di Jean di Meral. «Una volta non eri così schifiltoso» disse a Roger mettendogli una mano sulla spalla. «Hai dimenticato quelle sere nelle cantine del Priorato e nella tua? T'insegnai allora qualcosa di più della filosofia, amico.» «Toglimi la mano di dosso» replicò seccamente Roger. «Ho chiuso con te e i tuoi confratelli da quando lasciaste morire sotto il tetto del Priorato il giovane Henry Bodrugan che avreste potuto salvare.» Il monaco sorrise. «Ed è per dimostrarti solidale con i morti» chiese «che ora alberghi sotto il tuo tetto una moglie adultera? Siamo tutti degl'ipocriti, amico. Ti avverto che my lady sa chi è la tua ospite ed è anche per lei che si trova ora qui a Tywardreath. Quando avrà sistemata la faccenda della vedova Rosgof ha da fare certe proposte a Lady Isolda.» «Questa faccenda, come la chiami, rimarrà negli annali del maniero e ti ricadrà a tua vergogna eterna sulla testa» disse Trefrengy. «Dimentichi» fu pronto a ribattere il monaco «che io sono un uccello di passaggio e che fra pochi giorni avrò spiegato le ali verso la Francia?» Nella folla passò un fremito e sulla soglia dell'edificio attiguo, che Lampetho aveva chiamato la geld house, l'esattoria, apparve un uomo tarchiato, dalla faccia rubiconda, con in mano una pergamena. Accanto a lui, avvolta
dalla testa ai piedi in un grande mantello, c'era Joanna Champernoune. L'uomo, che doveva essere Hornwynk, il nuovo intendente, si fece avanti srotolando la pergamena, per apostrofare la folla. «Brava gente di Tywardreath!» proclamò. «Uomini liberi, vassalli o servi, quelli di voi che pagano un affitto alla Corte del Maniero l'hanno versato oggi alla geld house. E poiché questo maniero di Tywardreath apparteneva una volta a Lady Isolda Cardinham di Cardinham, che lo vendé al nonno del nostro defunto lord, abbiamo deciso d'introdurre anche qui il costume inaugurato al tempo della conquista nel maniero di Cardinham.» S'interruppe perché le sue parole facessero più effetto sui presenti. «Questo costume» riprese dopo una pausa «impone che la vedova di un affittuario che abbia deviato dal sentiero della castità rinunzi alle terre avute dal marito o faccia, per riaverle, la debita penitenza davanti al lord del maniero e all'intendente della Corte del Maniero. Come dovrà fare oggi, davanti a Lady Joanna Champernoune, rappresentante di Lord William, minorenne, e a me, Philip Hornwynk, intendente, Mary, vedova di Robert Rosgof, se vuole che le siano restituite le sue terre.» Dalla folla salì un mormorio in cui si mescolavano stranamente esaltazione e curiosità, mentre dalla strada che portava a Treesmill arrivavano a un tratto degli urli. «Mary Rosgof non avrà mai il coraggio di affrontarli» disse Trefrengy. Ha a casa un figlio che preferirebbe mille volte rinunziare alle sue terre che vedere svergognata la madre.» «Vi sbagliate» replicò il monaco. «Il figlio di Mary Rosgof sa benissimo che fra sei mesi, quando Mary si sgraverà di un bastardo e lui potrà buttarli fuori tutti e due e tenersi le terre, la vergogna di sua madre si trasformerà per lui in guadagno.» «Se è così» disse Roger «significa che l'hai persuaso tu e che gli hai anche riempito il borsellino.» Il fracasso e gli urli aumentarono e mentre la folla si spingeva in avanti vidi una processione salire da Treesmill la collina, avanzando lentamente verso di noi. La precedevano di corsa, brandendo fruste, due ragazzi seguiti da cinque uomini che scortavano, mi sembrò lì per lì, uno di quei cavallucci della landa, con una donna in groppa. Le risa degli spettatori si mutarono in sberleffi quando la donna si afflosciò sulla sua cavalcatura minacciando di cadere se uno degli uomini che l'accompagnavano non l'avesse sostenuta agitando nell'altra mano un forcone. La cavalcatura della donna, mi accorsi a questo punto, non era un caval-
lo ma un grande montone nero con le corna ornate di nastri neri, a cui i due uomini avevano infilato al collo, per guidarlo, una cavezza e che frastornato e atterrito dagli schiamazzi della folla sgroppava e si scuoteva nell'inutile sforzo di liberarsi del suo cavaliere. La donna, avvolta in un manto nero per intonarsi al montone, con la faccia coperta da un velo nero e le mani legate davanti con delle strisce di cuoio, si aggrappava disperatamente alla lana folta del collo della bestia. Quando, arrivata inciampando e barcollando davanti alla geld house, la processione si fermò davanti al nuovo intendente e a Joanna, l'uomo col forcone, che teneva la cavezza, strappò alla donna il velo nero per scoprirle la faccia. Lei doveva andare sui trentacinque, giudicai; sgranava atterrita gli occhi come il montone che cavalcava e i suoi capelli scuri, rozzamente sforbiciati, le si sollevavano sulla testa in una criniera irsuta. Gridi e sberleffi cessarono, quando, tremando, la donna piegò la testa davanti a Joanna. «Mary Rosgof, riconosci la tua colpa?» le gridò Hornwynk. «Sì, con tutta umiltà» rispose a voce bassa lei. «Alza la voce perché possano udirti tutti, e specificane la natura!» La disgraziata alzò per guardare Joanna la faccia pallida, che le si era avvampata. «Ho giaciuto con un altr'uomo quando mio marito era morto appena da sei mesi perdendo così le terre che coltivavo per mio figlio. Confesso la mia incontinenza e imploro da my lady e dalla Corte del Maniero indulgenza e la restituzione delle mie terre. Se dovessi mettere al mondo una creatura illegittima mio figlio prenderà possesso delle terre e farà di me ciò che vorrà.» A un cenno di Joanna il nuovo intendente le si avvicinò, piegandosi perché lei potesse mormorargli qualcosa all'orecchio. Si voltò poi di nuovo verso la penitente. «La mia graziosa lady non può condonarti una colpa aborrita da tutti. Ma poiché l'hai ammessa in sua presenza, davanti alla Corte del Maniero e ai fedeli di questa parrocchia, ti userà la grande clemenza di restituirti le terre sequestrate che hai in affitto da lei.» Dopo aver mormorato, piegando la testa, parole di gratitudine la donna domandò con gli occhi traboccanti di lacrime se doveva fare altre penitenze. «Sì» replicò l'intendente. «Scendi dal montone che ti ha portata a tuo ludibrio qui, entra strisciando sulle ginocchia nella cappella e confessa il tuo
peccato davanti all'altare. Fratello Jean riceverà la tua confessione.» I due uomini che reggevano il montone ne fecero smontare la donna costringendola a inginocchiarsi, e mentre, impacciata dalle sue gonne, lei si trascinava verso la cappella, dalla folla dei presenti salì un lungo gemito, come se quell'estrema degradazione potesse placare in qualche modo anche la loro vergogna. Quando la penitente gli fu arrivata ai piedi il monaco la precedé nella cappella. Intanto, a un segno di Hornwynk, uno degli uomini che avevano scortato la donna aveva liberato il montone. Atterrito, l'animale si tuffò nella folla, che dopo essersi aperta per lasciarlo passare gli si disperse ai lati inseguendolo fra scoppi isterici di risa fino sulla strada di Treesmill e lanciandogli palle di neve, rami, tutto quello che potevano trovare. Sciolta bruscamente la tensione, un momento dopo tutti correvano, ridevano e scherzavano come se ciò che stava accadendo fosse una festa, una pausa di spensierata allegria fra l'inverno e la Quadrigesima appena cominciata. Presto furono lontani e davanti alla geld house rimasero soltanto Joanna, Hornwynk, e, in disparte, Roger e Trefrengy. «Così sia» disse Joanna. «Dite ai miei servi che sono pronta a ripartire. Non c'è niente che mi trattenga ancora a Tywardreath, tranne una certa faccenda che posso sbrigare sulla strada di casa.» L'intendente si era già avviato sul sentiero per affrettare i preparativi della partenza, i servi avevano già aperto la porta del carro. Ma, fermandosi, Joanna si girò verso Roger. «Anche se voi non approvate» gli disse «la gente sembrava molto soddisfatta e in avvenire sarà ancora più sollecita nel pagare i suoi tributi. Il costume che abbiamo riesumato ha i suoi meriti, se ispira timore, e si estenderà probabilmente anche ad altri manieri.» «Dio non voglia» replicò Roger. Nella geld house doveva mancare forse l'aria perché ora quel fitto strato di belletto criticato poco prima da Geoffrey Lampetho colava sulle guance gonfie e giallastre di Joanna. Dall'ultima volta che l'avevo vista sembrava invecchiata di almeno dieci anni e i suoi splendidi occhi neri erano diventati duri come l'agata. Allungò la mano per toccare il braccio di Roger. «Su,» gli disse «noi due ci conosciamo da troppo tempo per aver bisogno di mentire e dissimulare. Ho per Lady Isolda un messaggio di suo fratello Sir William Ferrers, che ho promesso di consegnarle personalmente. Se mi sbarraste la vostra porta potrei far arrivare dal maniero una quindici-
na di uomini per abbatterla.» «E io raccoglierne altri cinquanta fra qui e Fowey per respingerli» replicò Roger. «Ma potete seguirmi fino a Kylmerth, se lo desiderate, e chiedere di essere ricevuta. Non so dirvi se vi sarà o no concesso.» Joanna sorrise. «Credo di sì» e sollevandosi con le due mani le gonne corse seguita dal monaco verso la sua carrozza. Una volta sarebbe stato Roger ad aiutarla per salire sul predellino; il servizio le fu reso invece quel giorno da Hornwynk, piegato in due e rosso di orgoglio, mentre, arrivato al cancello dietro la cappella dov'era legato il suo cavallo, Roger gli balzava in sella e ficcandogli i tacchi nei fianchi lo spingeva al galoppo sulla strada. Il carro con Joanna e il monaco lo seguì traballando per la strada gelata fino allo spiazzo erboso e alle alte mura del Priorato. Temendo di essere diviso da loro (dalla cappella del Priorato mi arrivavano i rintocchi di una campana e Roger e il carro cominciavano ad allontanarsi) mi misi a correre col cuore che mi batteva sordamente e un ronzio sempre più forte nelle orecchie. Vedendo a un tratto la carrozza fermarsi e Joanna sporgersi chiamandomi con la mano, mi avvicinai inciampando al finestrino. Il ronzio, che era diventato un rombo, cessò di colpo e mentre facevo uno sforzo enorme per non cadere udii l'orologio della chiesa di St. Andrew suonare le sette. Affacciata al finestrino della Buick ferma sulla strada, con accanto i ragazzi e la signora Collins sbalorditi, Vita agitava la mano. 22 Parlavano tutti insieme e i ragazzi ridevano. «Ti abbiamo visto scendere correndo dalla collina... Com'eri buffo!» disse Micky. «La mamma agitava la mano e ti chiamava,» saltò su Teddy «ma tu continuavi a guardare dall'altra parte.» Vita non aveva smesso di fissarmi dal finestrino aperto del posto di guida. «Sali,» mi disse «non ti reggi in piedi.» Rossa e imbarazzata la signora Collins mi aprì l'altro sportello. Obbedendo meccanicamente, dimenticando la mia macchina lasciata sulla piazzuola, mi sistemai accanto alla nostra donna a ore mentre la Buick riprendeva a correre, evitando il villaggio, verso Polmear. «Meno male che abbiamo preso questa strada» disse Vita. «La signora
Collins ha detto che scendere fino a St. Blazey e Par sarebbe stato più lungo.» Io non riuscivo a ricordarmi dov'erano andati i miei, o che cosa stessero facendo. E sebbene non avessi più quel rombo nelle orecchie il cuore continuava a battermi troppo forte e sentivo avvicinarsi la vertigine. «Bude era un posto straordinario» mi confidò Teddy. «Abbiamo fatto dell'acquaplano, ma la mammina non ci ha lasciati andare lontano soli. E l'oceano era molto meglio che qui, con dei cavalloni davvero enormi. Avresti dovuto venire anche tu.» Bude... già... Quei tre erano andati a passare la giornata a Bude lasciandomi solo a casa. Ma perché mai poco prima mi aggiravo sperduto per Tywardreath? Nel passare davanti all'ospizio ai piedi della collina di Polmear mi ricordai, guardando davanti a me Polpey e la valle di Lampetho, che Julian Polpey se n'era tornato a casa rifiutandosi di assistere allo spettacolo disgustoso davanti alla geld house e Geoffrey Lampetho era stato uno di quelli che avevano preso a sassate il montone. Tutto era passato e finito e non stava accadendo più. La signora Collins disse a Vita, o così mi sembrò di capire, di lasciarla sulla collina di Polkerris, e un istante dopo la nostra donna a ore era sparita e Vita stava fermando la Buick davanti a Kilmarth. «Correte dentro» ingiunse seccamente ai ragazzi. «Mettete ad asciugare i vostri costumi e cominciate ad apparecchiare.» Aspettò che fossero spariti su per gli scalini e in casa per voltarsi verso di me. «Credi di potercela fare?» «Fare... che cosa?» Ancora stordito non riuscivo a capire. «Salire gli scalini» precisò lei. «Quando ti abbiamo visto poco fa sembravi lì per lì per stramazzare. Mi sono vergognata come una ladra davanti alla signora Collins e i ragazzi. Si può sapere quanto hai bevuto?» «Bevuto?» ripetei. «Neppure una goccia.» «Per amor del cielo» si spazientì lei. «Non metterti a mentire. Ho avuto una giornata faticosa e sono stanca. Vieni, ti aiuto a entrare.» La soluzione era questa. Lasciarle credere che fossi rimasto a bere fino allora in un pub. Scesi dalla macchina e Vita aveva ragione, barcollavo; fui contento di potermi appoggiare al suo braccio per attraversare il giardino e rientrare. «Fra poco sarà passato tutto» le dissi. «Vado a sedermi nella biblioteca.» «Preferirei che salissi subito su a coricarti» replicò Vita. «I ragazzi non ti hanno mai visto in questo stato. Se ne accorgerebbero.»
«Non ho sonno. Me ne starò tranquillo nella biblioteca, con la porta chiusa. Dirai ai ragazzi che non voglio essere disturbato.» «Beh... se ti diverti a ostinarti...» Vita alzò esasperata le spalle. «Vuol dire che mangeremo in cucina. Per amor del cielo non raggiungerci... ti porterò poi qualcosa.» Aspettai di udirla attraversare l'atrio ed entrare in cucina sbattendosi alle spalle la porta, per accasciarmi su una poltrona della biblioteca chiudendo gli occhi. Mi sentivo invadere da una strana sonnolenza. Vita aveva ragione: avrei dovuto salire a coricarmi. Ma non avevo neppure l'energia di alzarmi dalla poltrona. Se rimarrò qui quietamente, mi dissi, in questo silenzio e questa pace, forse questo senso di stanchezza enorme, come di svuotamento, passerà. Se ci fosse qualche programma che volevano vedere, i ragazzi dovranno rinunciarci per colpa mia... Per farmi perdonare domani li porterò a vela fino a Chapel Point. Dovevo farmi perdonare anche da Vita. Quest'altro incidente aveva rovinato tutto, e per rifare la pace con lei avrei dovuto affannarmi a inventare altre bugie. Mi svegliai di soprassalto nella stanza completamente buia. Vedendo al mio orologio che erano quasi le nove e mezzo, mi accorsi di aver dormito quasi due ore. Stavo bene, avevo perfino fame. Quando uscii attraverso la stanza da pranzo nell'atrio mi giunse, attraverso la porta chiusa della sala di musica, il suono del grammofono. Quei tre dovevano aver finito da un secolo di mangiare perché i lumi della cucina erano spenti. Presi dal frigo uova e bacon. Avevo appena messo la padella su un fornello che udii qualcuno muoversi nel sottosuolo. Credendo che fosse uno dei ragazzi e ansioso d'informarmi dell'umore di Vita, andai a sporgermi dalle scale di servizio. «Teddy?» urlai. «Micky?» Non ebbi risposta. I passi, perfettamente chiari, adesso, attraversarono la vecchia cucina dirigendosi verso la stanza della caldaia. Scesi le scale cercando invano di accendere i lumi. Ma gl'interruttori non erano al loro posto e dovetti orientarmi come potevo palpando i muri. Chiunque mi avesse preceduto nella vecchia cucina aveva dovuto uscire, attraverso la stanza della caldaia, nel patio, perché sentii attingere acqua al pozzo coperto che è nell'angolo più vicino alla casa e che nessuno usa più. Mi arrivarono altri passi, non dal patio ma dalle scale. E vidi, voltandomi, che le scale erano sparite e i passi venivano dalla scala a pioli che portava al soppalco. Non era più notte ma un grigio, nebbioso pomeriggio d'inverno e una donna con una candela accesa in mano stava scendendo la
scala a pioli. Sentendomi ronzare sempre più forte le orecchie capii che la droga ricominciava ad agire senza che l'avessi ripresa. E mi spaventai, perché significava che passato e presente si stavano fondendo e perché Vita e i ragazzi erano con me, nel mio tempo, sul davanti della casa. Riparando con la mano la fiammella, la donna - era Isolda - mi passò vicino sfiorandomi. Mi appiattii contro il muro trattenendo il fiato. Se mi fossi mosso lei si sarebbe certamente dileguata, perché ciò che vedevo era soltanto un frutto della mia immaginazione, la conseguenza di quanto era accaduto in quel pomeriggio. Dopo aver posato la candela su una panca, accendendone un'altra che era lì, Isolda prese a canterellare sottovoce un brano di una vecchia, dolce canzone. E intanto continuava a giungermi dalla sala di musica al pianterreno della casa il suono lontano del radiogrammofono. «Robbie» chiamò piano Isolda. «Robbie, sei lì?» Il ragazzo entrò dal cortile per la bassa porta ad arco e si chinò a posare sul pavimento della cucina un secchio d'acqua. «Gela sempre?» «Sì,» rispose Robbie «e continuerà per tutta la luna piena. Dovrete trattenervi qualche altro giorno, se potete sopportarci.» «Sopportarvi?» protestò sorridendo Isolda. «Ma io qui mi trovo benissimo. Magari le mie figlie fossero bene educate come voi e Bess e mi obbedissero come voi due obbedite a vostro fratello Roger.» «Se gli diamo retta» replicò Robbie «è per riconoscenza a voi. Prima che arrivaste non faceva che insultarci e prenderci a cinghiate.» Si tolse ridendo dagli occhi una ciocca dei suoi capelli folti e sollevando il secchio versò l'acqua nel boccale che era sul tavolo. «Da quando siete qui si mangia anche bene» aggiunse. «Carne ogni giorno, invece di pesce salato. E se non aveste onorato la nostra mensa il maiale che ho sgozzato ieri sarebbe rimasto fino alla Quadrigesima nel suo porcile. Bess e io vorremmo che rimarreste sempre con noi, invece di lasciarci quando il tempo si sarà rimesso.» «Ah, capisco!» lo canzonò Isolda. «Non è per amor mio che mi vuoi qui ma per fare una vita più comoda!» Robbie, che lì per lì si era accigliato, perplesso, s'illuminò di nuovo a un tratto e sorrise. «No, non è vero» protestò. «Quando arrivaste qui avevamo paura che vi deste delle arie e che non saremmo riusciti ad accontentarvi. E invece or-
mai siete quasi una di noi. Bess e io vi vogliamo bene. Quanto a Roger, saranno più di due anni, lo sa Iddio, che non la smette di cantare le vostre lodi.» Vedendolo bruscamente arrossire, come se capisse di aver parlato troppo, Isolda gli sfiorò il braccio. «Caro Robbie,» gli disse dolcemente «voglio bene anch'io a te e a Bess. E non dimenticherò mai l'accoglienza affettuosa che mi avete fatta in queste settimane.» Un suono di passi mi fece alzare la testa verso il soppalco; chi scendeva era Bess, linda come non l'avevo ancora mai vista, con i lunghi capelli ravviati e lisci e la faccia scrupolosamente lavata. «Sento Roger nel bosco» gridò al fratello. «Quando sarà qui occupati del suo cavallo, Robbie, mentre io apparecchio.» Mentre il ragazzo correva nel cortile, sua sorella si affrettò ad ammonticchiare nel focolare altra torba e ginestra secca. La ginestra s'incendiò subito gettando sulle pareti affumicate grandi lingue di fuoco, e quando Bess voltò la testa per sorridere a Isolda fu come se li avessi visti tutti e quattro lì, una sera dopo l'altra di quel crudo inverno, seduti al tavolo rustico con le candele fra i piatti di peltro. «Ecco tuo fratello» annunziò Isolda, andando sulla soglia della porta aperta. Roger balzò a terra dal cavallo e ne tese a Robbie le redini. Non era ancora buio, e poiché il cortile, molto più grande del patio che conoscevo, si stendeva fino al muro al disopra dei campi, potevo vedere attraverso il cancello aperto la campagna declinare fino al mare e l'ampia baia. Il fango del cortile si era gelato indurendosi, l'aria era rigida e tagliente e gli alberelli del boschetto si stagliavano neri e nudi contro il cielo. Robbie portò il cavallo nel suo capanno presso la stalla e Roger attraversò il cortile per raggiungere Isolda. «Voi mi portate brutte notizie» disse lei. «Ve lo leggo sulla faccia.» «My lady sa che siete qui» replicò Roger. «Sta venendo a darvi un messaggio di vostro fratello. Se volete posso far fuggire dalla collina il suo carro. Robbie e io non avremo noie dai suoi servi.» «Ora no, forse. Ma più tardi lei potrebbe fare del male a voi, Robbie e Bess, e all'intero villaggio. E non vorrei per niente al mondo che ciò accadesse.» «Piuttosto che vedervi soffrire» dichiarò Roger «preferirei veder rasa al suolo questa casa.»
Intuii, mentre fermo davanti a lei lui la guardava, che ormai, dopo quegli ultimi giorni di vita in comune, Isolda avrebbe dovuto stroncare l'amore fino allora soffocato di Roger, se non voleva vederlo fatalmente divampare. «Lo so, Roger» la sentii replicare. «Ma mi sento capace di sopportare da sola qualunque altro dolore mi attenda. Se, come diranno senza dubbio di me in avvenire, avrò portato il disonore in due case, la mia e quella di Otto Bodrugan, non voglio che accada anche qui.» «Disonore?» Allargando le mani Roger fece girare lo sguardo sui muretti che circondavano il cortile e la stretta, bassa costruzione dov'erano albergati mucche e cavalli. «Questa era la fattoria di mio padre, che andrà a Robbie, alla mia morte. E basterebbe che vi fosse rimasta una sola notte invece di quindici per abbellirla per sempre.» Lei dové sentirgli vibrare la voce di passione, perché le vidi cadere a un tratto sul viso un'ombra, come se una voce interna l'ammonisse: basta così, fermati. Avvicinandosi al cancello aperto vi posò la mano spingendo lo sguardo oltre i campi fino alla baia lontana. «Quindici notti» ripeté. «E le ho trascorse tutte, e anche i giorni, guardando attraverso il mare fino a Chapel Point, ricordandomi che la sua nave gettava lì l'ancora, sotto Bodrugan, e che quando veniva a raggiungermi nella cala di Treesmill lui veleggiava in quella baia. Una parte di me morì con lui il giorno che lo affogarono. Dovreste saperlo, Roger.» Mi domandai quale chimera avesse accarezzato Roger, se, come accade a tutti, si fosse illuso che col tempo lui e Isolda avrebbero mescolato in qualche modo le loro vite, non come sposi e neppure come amanti, ma in una specie di magica intimità profonda e silenziosa che non avrebbero divisa con nessun altro. Comunque, pronunziando il nome di Bodrugan, lei aveva distrutto per sempre quel sogno. «Sì,» disse Roger «l'ho sempre saputo. Perdonatemi se vi ho mai dato motivo di credere il contrario.» Sollevarono improvvisamente tutti e due la testa tendendo l'orecchio. Da dietro il boschetto scuro al disopra della fattoria arrivavano voci e rumore di gente. E a un tratto spuntarono fra gli alberi nudi, le figure di tre servi degli Champernoune. «Roger Kylmerth,» gridò uno di loro «my lady è rimasta ad aspettarvi sulla collina. La strada è troppo scoscesa per far arrivare la carrozza fino alla vostra porta.» «Che rimanga lassù, allora,» fu pronto a replicare Roger «o venga qui a
piedi, assistita da voi. Per noi fa lo stesso.» Dopo aver esitato, gli uomini confabularono brevemente sotto gli alberi, mentre, a un cenno di Roger, Isolda si affrettava a rientrare attraverso il cortile nella casa. Poi un fischio del fratello fece uscire Robbie dalla rozza scuderia. «Lady Champernoune è sulla collina con alcuni suoi servi» gli disse piano Roger. «Potrebbe averne già chiamati altri, fra qui e Tywardreath, e dobbiamo aspettarci delle noie. Non allontanarti, caso mai avessi bisogno di te.» Dopo aver annuito Robbie tornò dentro. L'aria continuava rapidamente a scurirsi e raffreddarsi, gli alberi del boschetto si stagliavano più nettamente contro il cielo. Vidi poco dopo le fiamme delle prime torce brillare sulla cresta della collina. Joanna stava scendendo con tre dei suoi servi e il monaco. Si avvicinarono lentamente e in silenzio, il mantello scuro di Joanna e la tonaca del frate fondendosi come se quei due fossero una sola persona. E mentre, in piedi accanto a Roger, li guardavo, mi sembrò che il loro gruppo avesse un'aria sinistra, come se quelle figure incappucciate attraversassero in processione un cimitero, verso una tomba aperta. Quando furono arrivati al cancello aperto, Joanna, dopo essersi guardata attorno, si voltò verso Roger. «In tutti gli anni in cui servisti la mia casa» gli disse «non ti venne mai in mente d'invitarmi qui.» «No, my lady,» replicò lui «perché non mi avevate mai chiesto asilo o mostrato di averne bisogno. Avete sempre avuto sotto il vostro stesso tetto tutta la consolazione che potevate desiderare.» L'ironia di quelle parole le sfuggì, o preferì forse ignorarle. Roger la precedette verso la casa. «Dove debbono attendermi i miei servi?» chiese Joanna. «Abbiate la cortesia d'indicare loro la vostra cucina.» «È lì che stiamo tutti» le spiegò lui «ed è lì che vi riceverà Lady Carminowe. I vostri uomini potranno starsene al caldo con le mucche, o, se preferiscono, con i cavalli.» La seguì dopo essersi tirato in disparte per lasciarla passare col monaco. Vidi, mentre varcavano la soglia, Isolda seduta sola a un'estremità del tavolo che era stato spinto, con sopra le candele di sego, davanti al camino. Bess doveva essere risalita nella soffitta. Sconcertata, credo, di trovarsi in un ambiente simile, Joanna si guardò intorno. Dio sa cosa si aspettasse: forse un tentativo, almeno, di accoglierla più degnamente fra mobili rubati nel suo stesso maniero incustodito.
«Così...» si decise infine a cominciare «il vostro rifugio è questo, abbastanza comodo senza dubbio nelle notti d'inverno, malgrado il tanfo delle bestie che deve arrivare dal cortile. Come state, Isolda?» «Benissimo, come vedete» rispose l'interpellata. «Mi sono trovata meglio in queste due settimane e ho ricevuto più bontà e cortesie che nei tanti mesi e anni passati a Tregesteynton o a Carminowe.» «Non ne dubito» ribatté Joanna. «È risaputo che i contrasti sferzano l'appetito languente. Una volta era il maniero di Bodrugan ad attirarvi. Ma se Otto Bodrugan fosse vissuto vi sareste stancata di lui e del suo castello come di altre terre e altri uomini, compreso vostro marito. Questa è comunque una ricca ricompensa. Vi dividete fra i due fratelli, ditemi, qui davanti al camino?» Trattenendo il fiato Roger si fece avanti come per intromettersi fra quelle due. Ma, pallida nella luce tremolante delle candele, Isolda si limitò a sorridere. «Non ancora» replicò. «Il maggiore è troppo orgoglioso, il giovane troppo timido. Le mie pretese di affetto cadono in orecchie sorde. Che cosa volete da me, Joanna? Mi avete portato un messaggio di William? Parlate chiaramente, allora, e che sia finita.» Il monaco, che era rimasto accanto alla porta, si era sfilato dalla tunica una lettera per darla a Joanna. Ma lei fece un gesto di diniego. «Leggetela voi a Lady Carminowe. Non voglio sforzarmi gli occhi in questa luce fioca. E voi potete lasciarci» ordinò a Roger. «Gli affari della nostra famiglia non vi riguardano più. Ve ne impicciaste anche troppo quando eravate il mio intendente.» «Questa è la sua casa,» disse Isolda «e lui ha il diritto di starci. E poi è il mio amico e preferisco che rimanga.» Alzando le spalle Joanna andò a sedersi all'estremità del tavolo, di fronte a Isolda. «Col permesso di Lady Carminowe,» cominciò mellifluo il monaco «questa è la lettera che suo fratello, Sir William Ferrers, mandò qualche giorno fa a Trelawn pensando che il suo messo l'avrebbe trovata lì con Lady Champernoune. Ecco quello che dice: «"Carissima sorella, la notizia della vostra fuga da Tregesteynton ci è giunta qui a Bere soltanto la scorsa settimana, per colpa del tempo e dello stato delle strade. Non riesco a spiegarmi il vostro gesto e la vostra grave imprudenza. Sapete certamente che abbandonando vostro marito e le vostre figlie avete perduto ogni diritto al loro affetto, e, sono costretto a dirvi,
anche al mio. Non so se Oliver vi userà la carità cristiana di accogliervi di nuovo a Carminowe. Secondo me se ne asterrà temendo la cattiva influenza che avreste sulle vostre figlie, e da parte mia non potrei darvi asilo a Bere perché Matilda è troppo affezionata a suo fratello per offrire ospitalità alla sua moglie colpevole. Per essere sincero, da quando sa che lo avete abbandonato, Matilda è in uno stato tale che non sopporterebbe di vedervi fra i nostri cinque figli. Direi perciò che vi rimane aperta una sola strada: e cioè di rifugiarvi nel convento di Cornworthy, qui nel Devon, di cui conosco la Madre Priora, e rimanervi finché Oliver o qualche altro membro della famiglia non sia disposto a ricevervi. Sono sicuro che la nostra parente Joanna permetterà ai suoi servi di scortarvi a Cornworthy. Arrivederci, se così vorrà il Cristo. «"Il vostro addolorato fratello William Ferrers".» Il monaco ripiegò la lettera e la tese attraverso il tavolo a Isolda. «Potete vedere voi stessa, my lady,» le mormorò «che la lettera è di pugno di Sir William e reca la sua firma. Non c'è inganno.» Joanna sorrise. «Se William avesse saputo che eravate qui e non a Trelawn, dubito che vi avrebbe scritto con tanta generosità, e che la Madre Badessa di Cornworthy sarebbe disposta ad aprirvi le porte del suo convento. Potete comunque contare su di me per custodire il segreto e farvi scortare nel Devon. Due giorni sotto il mio tetto per fare i preparativi necessari, e rivestirvi - come vedo che ne avete bisogno, - e potrete mettervi in viaggio.» Si appoggiò con aria di trionfo all'indietro. «Mi dicono che a Cornworthy l'aria è mite e che le monache vi raggiungono un'età molto avanzata.» «Se è così,» replicò Lady Isolda «rifugiamoci tutte e due fra le mura di quel convento. Le vedove, quando i loro figli maschi si sposano, proprio come farà l'anno prossimo il vostro William, debbono trovarsi, come le mogli colpevoli, un nuovo asilo. Ci ritroveremo sorelle nella sventura, cara Lady Joanna!» Come per sfidarla orgogliosamente continuò a fissare Joanna. Gettando lunghe ombre sul muro le fiammelle delle candele le deformavano ambedue, trasformando Joanna, col suo mantello, il cappuccio e il velo di vedova, in una specie di granchio mostruoso. «Dimenticate» replicò divertendosi a passarsi da un dito all'altro i suoi numerosi anelli «che io ho la licenza di risposarmi, appena mi sarò scelta fra i miei molti pretendenti, un nuovo marito. Voi non solo siete legata an-
cora a Oliver, ma disonorata. Se lo preferite, e se il convento di Cornworthy non vi attira, potete anche rimanere qui come ganza del mio antico intendente. Ma vi avverto che la Parrocchia potrebbe punirvi, come punì quel giorno a Tywardreath la mia affittuaria, facendovi arrivare, per farvi la vostra penitenza, nella cappella del maniero in groppa a un montone nero.» Scoppiando in una risata di scherno Joanna si voltò verso il monaco che era rimasto in piedi dietro la sua sedia. «Che ne dite, frate Jean, di farli trottare insieme, lei su un montone e lui su una pecora, se non vorranno perdere le terre di Kylmerth?» Accadde quello che mi aspettavo: agguantando il monaco Roger lo scaraventò contro il muro. Poi si piegò su Joanna e la tirò brutalmente in piedi. «Insultatemi pure quanto volete, purché rispettiate Lady Carminowe. E ora, uscite dalla mia casa!» «Me ne andrò» rispose Joanna «appena lei avrà fatta la sua scelta. Nella vostra stalla ho soltanto tre servi, sulla collina, accanto alla mia carrozza, ce ne sono altri dieci, anche troppo ansiosi di farvi pagare i vostri antichi soprusi.» «Chiamateli, allora» replicò, lasciandola, Roger. «Robbie e io sapremo difendere la nostra casa contro tutti i vostri affittuari, contro l'intera Parrocchia, se volete.» Udendo dall'alto la voce del fratello fremente d'ira, Bess scese in fretta, pallida e ansiosa, la scala a pioli per venire a mettersi accanto a Isolda. «Chi è costei?» chiese Joanna. «Un'altra pecora dell'ovile? Quante sgualdrine ospitate nella vostra soffitta?» «Bess è la sorella di Roger e perciò anche la mia» le rispose Isolda, mettendo il braccio intorno alle spalle della ragazza spaventata. «E adesso, Joanna, chiamate i vostri servi perché possiamo sbarazzarci di voi. Dio sa se abbiamo sopportato abbastanza i vostri insulti!» «Abbiamo?» ripeté Joanna. «Allora vi considerate una di loro?» «Sì, finché riceverò la loro ospitalità» disse Isolda. «E vi rifiutate di viaggiare con me fino a Trelawn?» Isolda guardò incerta, prima Roger poi Bess. Ma prima che potesse rispondere, il monaco uscì dalle ombre del muro per venire a piantarsi accanto a loro. «Lady Carminowe avrebbe anche una terza scelta» mormorò. «Fra ventiquattr'ore io partirò a vela da Fowey per la nostra Casa Madre dei Santi
Sergio e Bacco di Angers. Se lei e la ragazza volessero venire con me in Francia sono sicuro che potrei trovar loro un asilo. Nessuno le molesterebbe e sarebbero al sicuro da ogni persecuzione: quando fossero laggiù verrebbe dimenticata perfino la loro esistenza e Lady Carminowe sarebbe libera di rifarsi una vita in un ambiente più piacevole che fra le mura di un convento.» La proposta era così palesemente un trucco del monaco per strappare a Roger la tutela sia d'Isolda che di Bess e poterne disporre a suo piacimento, che mi aspettavo di sentir protestare perfino la sua protettrice. Invece Joanna sorrise e scrollò le spalle. «In fede mia, frate Jean, voi dimostrate sentimenti davvero cristiani. Che ne dite, Isolda? Ora avete tre alternative: la reclusione a Cornworthy, la vita in un porcile a Kylmerth o la protezione di un monaco benedettino al di là del mare. Io so quello che sceglierei.» Si guardò intorno come aveva fatto nell'entrare nella casa e girando per la stanza con una smorfia di disgusto fece scorrere le dita sui muri affumicati, guardandosele, poi, e pulendosele col fazzoletto. Si fermò infine davanti alla scala mettendo il piede sul primo piolo. «Un solo pagliericcio pidocchioso per tutti e quattro?» chiese. «Se deciderete di andare nel Devon o in Francia vi sarò grata, Isolda, se vi spruzzerete prima gli abiti di aceto.» Mentre avvertivo di nuovo quel ronzio nelle orecchie e quel rombo minaccioso nell'aria le loro figure cominciarono a impallidire, tranne quella di Joanna che, ferma ai piedi della scala, mi fissava spalancando gli occhi. Accada quello che vuole, mi dissi, purché riesca a metterle le mani intorno al collo e a strozzarla prima che svanisca anche lei come gli altri. Attraversai la stanza e lei non sparì. Mi avvicinai ancora e quando le circondai con le mani il collo bianco e grasso, scuotendola violentemente, cominciò a gridare. «Maledetta,» urlavo «maledetta...» e sentivo intorno e al disopra di me altre grida. Sciolsi la stretta e alzando gli occhi vidi i ragazzi accovacciati sul ballatoio delle scale e Vita stramazzata accanto a me che mi fissava bianca di terrore, portandosi le mani alla gola. «Oh, Dio mio» gemetti. «Vita... tesoro... Oh, Dio mio...» Le caddi accanto vomitando, in preda a quella dannata, incontrollabile vertigine. Lei si trascinò su per le scale per raggiungere i suoi figli e tutti e tre ricominciarono a gridare.
23 Non c'era niente che potessi fare. Rimasi lì sulle scale, aggrappandomi alla balaustra, allargando grottescamente braccia e gambe, mentre mura e soffitto mi ondeggiavano sulla testa. Se chiudevo gli occhi la vertigine cresceva e vedevo l'oscurità tagliata da lame d'oro. I ragazzi smisero infine di gridare e corsero piangendo su in cucina, sbattendosi alle spalle la porta. Accecato dalla vertigine e dalla nausea cominciai a strisciare scalino per scalino verso l'alto. Raggiunto il ballatoio mi rialzai vacillando e andai nell'atrio, attraversando a tastoni la cucina. I lumi erano accesi e le porte aperte. Vita e i ragazzi dovevano essere fuggiti a chiudersi a chiave nella stanza da letto. Uscii nel corridoio come potei, non distinguendo più il soffitto dal pavimento, e staccai il ricevitore del telefono e rimasi seduto stringendolo, finché il pavimento non si fermò e la ridda di punti neri dell'elenco telefonico non si ricompose in parole. Riuscii infine a trovare il numero del dottor Powell e a formarlo. Quando lui mi rispose i nervi mi si spezzarono e mi sentii rigare la faccia di sudore. «Sono Richard Young di Kilmarth» balbettai. «L'amico del professor Lane. Si ricorda?» «Ah, sì.» Sembrava sorpreso. Non ero un suo cliente dopotutto, ma soltanto una faccia fra centinaia di visitatori estivi. «Non poteva succedermi una cosa più terribile» dissi. «Ho avuto una specie di perdita di conoscenza durante la quale ho tentato di strangolare mia moglie. L'ho forse ferita, non so...» La mia voce era calma, indifferente, ma avevo il cuore in gola e capivo benissimo quello che era successo. Non c'era confusione: i due mondi erano perfettamente distinti. «La signora è svenuta?» s'informò Powell. «No,» risposi «non credo. È di sopra con i ragazzi. Debbono essersi chiusi nella stanza da letto. Le sto parlando dal corridoio del primo piano.» Lui non replicò. Ora mi dirà, pensai per un terribile momento, che non sono affari suoi e che farei meglio a chiamare la polizia. «Va bene,» lo sentii infine replicare «vengo subito.» E riattaccò. Posai il ricevitore e mi asciugai la faccia. La vertigine si era calmata e potei alzarmi senza vacillare. Salii lentamente di sopra e andai attraverso lo spogliatoio fino alla porta del bagno. Era chiusa a chiave. «Tesoro,» chiamai «non preoccuparti, va tutto bene. Ho telefonato al dottore che sta per arrivare. Rimani lì con i ragazzi finché non avrai udito
la macchina.» Non avendo risposta alzai la voce. «Vita,» gridai «Teddy, Micky, non abbiate paura, il dottore sarà qui a momenti. Non è niente.» Ridiscesi e uscii ad aspettare sugli scalini. Era una sera limpida, il cielo scintillava di stelle. Non si sentiva un suono, i campeggiatori, al di là della strada di Polkerris, dovevano essersi coricati. Mentre guardavo il mio orologio - erano le undici meno venti - sentii la macchina del dottore arrivare sulla strada maestra di Fowey e ricominciai a sudare, non di paura ma di sollievo. La macchina infilò il viale e venne a fermarsi davanti alla casa. Scesi in giardino per andare incontro a Powell. Quando fummo dentro accennai alle scale. «La prima stanza sul ballatoio è il mio spogliatoio. Ma mia moglie si è chiusa nel bagno comunicante. Bussi e le dica chi è. Io l'aspetto qui.» Il dottore corse su a due scalini per volta. Quell'ostinato silenzio continuava a suggerirmi l'immagine di Vita stesa morente sul letto con i ragazzi accucciati accanto, troppo atterriti per muoversi. Andai a sedermi nella sala di musica chiedendomi che cosa sarebbe accaduto se il dottore fosse ridisceso a dirmi che Vita era morta. Tutto questo stava accadendo. Ed era vero. Dopo un lungo intervallo mi arrivò dall'alto un rumore di mobili spostati; dovevano trascinare il divano attraverso il bagno, nella stanza da letto, e sentii le voci del dottore e di Teddy. Non riuscendo a capire che cosa potessero fare, andai a tendere l'orecchio ai piedi della scala. Ma quei due se n'erano tornati nella stanza da letto e avevano chiuso la porta. Non mi rimase che rimettermi ad attendere nella sala di musica. Il dottore scese quando l'orologio dell'atrio aveva appena suonato le undici. «Tutto è a posto» mi annunziò. «Il panico è passato. Sua moglie e i due ragazzi stanno bene. Sentiamo ora che mi dice di lei.» Cercai di alzarmi, ma il dottore mi respinse sulla poltrona. «Le ho fatto male?» chiesi. «Ha una leggera contusione sul collo, nient'altro. Domani sarà diventata un livido. Ma sua moglie potrà nasconderlo sotto una sciarpa.» «Vita le ha detto quello che è accaduto?» «Perché non me lo dice lei?» «Preferirei sentire prima la sua versione.» Il dottore sfilò da un pacchetto una sigaretta e se l'accese. «Beh,» disse «se ho ben capito, per ragioni che senza dubbio saprà, ieri sera lei si chiuse nella biblioteca rifiutando di pranzare, mentre sua moglie e i ragazzi passavano qui la serata. Quando decise di salire a coricarsi sua moglie scoprì
che in cucina erano accesi i lumi e sul fornello si stava carbonizzando del bacon. Non vedendo nessuno scese a cercarla nel seminterrato. Lei era, pare, davanti alla porta della vecchia cucina e sembrava aspettarla. Ma appena la vide corse ai piedi delle scale insultandola e poi le mise le mani intorno al collo e cercò di strozzarla.» «Esatto» confermai. Lui mi guardava severamente. Si aspettava forse che negassi. «Sua moglie sostiene che lei era ubriaco fradicio e non sapeva quello che faceva» riprese. «Ma è stata per lei e per i ragazzi un'esperienza spaventosa che li ha fatti morire di paura. Tanto più che, se ho ben capito, lei di solito non è dedito all'alcool.» «No,» dissi «e non ero ubriaco.» Senza replicare, il dottore venne a mettersi davanti a me e togliendo dalla sua borsa una specie di flash mi esaminò gli occhi. Poi mi sentì il polso. «Che cosa prende?» mi chiese a bruciapelo. «Come, che cosa prendo?!» «Sì, che droga. Non posso curarla se non me lo dice.» «Il guaio è questo,» risposi «che non lo so.» «Si tratta di qualche cosa che le aveva dato il professor Lane?» «Sì.» Il dottore si sedette sul bracciolo del sofà, accanto alla mia poltrona. «L'ha presa per bocca o se l'è iniettata?» «Per bocca.» «Il professore la stava curando per qualcosa di specifico?» «Nient'affatto: era un esperimento che avevo accettato di fare per lui. Prima di venire qui non avevo mai preso droghe in vita mia.» Non mi rimane che dirgli la verità, decisi, vedendo che continuava a fissarmi con i suoi occhi astuti. «Quando andò a sbattere contro quel treno merci il professor Lane aveva preso la stessa droga?» mi chiese. «Sì.» Il dottore si alzò dal sofà e cominciò a passeggiare nella stanza trastullandosi con gli oggetti che erano sui mobili, come faceva anche Magnus quando doveva prendere una decisione. «Dovrei portarla in un ospedale e metterla sotto osservazione» disse infine. «No,» protestai «per amor del cielo... Senta, ho di sopra, in una bottiglietta quello che mi è rimasto di quella roba. Una bottiglietta sola. Ma-
gnus mi aveva detto di distruggere tutto quello che avrei trovato nel suo laboratorio, e feci come voleva. Seppellii tutto nel bosco al disopra del giardino, tranne quella boccetta di cui ho bevuto oggi qualche goccia. Deve contenere qualcosa di diverso, di più forte, non so. Può portarsela via e farla analizzare, o quello che vuole. Si renderà certamente conto che dopo quello che è successo stasera non potrei più neppure toccarla. Dire che per poco non ho ucciso mia moglie!» «Lo so» replicò lui. «E perciò che dovrebbe essere in un ospedale.» Quell'uomo non sapeva. Non capiva. Come avrebbe potuto? «Senta,» ripresi «poco fa non ho visto ai piedi delle scale mia moglie Vita. Non ho tentato di strangolare lei, ma un'altra donna.» «Chi?» «Una certa Joanna» precisai «che visse qui seicento anni fa. Era quaggiù nella cucina dell'antica fattoria con gli altri: Isolda Carminowe e il monaco Jean de Meral e il proprietario della fattoria che era stato il suo intendente, Roger Kylmerth.» Lui mi prese il braccio. «Va bene» disse. «Vada avanti. Dunque lei prese la droga e poi scese nel seminterrato e vide questa gente.» «Sì,» confermai «ma non soltanto qui. Li ho visti anche a Tywardreath, e nel vecchio maniero sotto il Gratten e anche al Priorato. L'effetto della droga è proprio questo: di riportarti di colpo nel passato, in un mondo molto più antico...» Il dottore continuava a stringermi saldamente il braccio. «Non mi crede?» insistei alzando la voce eccitato. «È difficile, certo. Ma le giuro che li ho visti muoversi, che li ho sentiti parlare. Ho perfino visto assassinare Otto Bodrugan, l'amante di Isolda, giù nella cala di Treesmill.» «Perché non dovrei crederle?» replicò lui. «E ora, vogliamo andare insieme di sopra a prendere quell'ultima bottiglietta che le è rimasta?» Lo accompagnai nello spogliatoio al primo piano, aprii la valigia e ne tolsi la boccetta. Lui se la mise nella borsa senza neppure esaminarla. «Sa quello che farò ora?» riprese. «Le darò un sedativo piuttosto energico che dovrebbe farle effetto fino a domani mattina. C'è qualche altra stanza, oltre questa, dove lei possa dormire?» «Sì. Quella degli ospiti all'altra estremità del ballatoio.» «Bene. Prenda un pigiama e andiamo.» Nella stanza degli ospiti mi spogliai e m'infilai nel letto. Mi sentivo a un tratto umile e sottomesso come un bambino senza responsabilità. «Farò tutto quello che lei mi dirà» dissi al dottore. «Mi addormenti subi-
to, se vuole, anche per sempre.» «Me ne guarderò bene» replicò lui, sorridendo per la prima volta. «Quando riaprirà gli occhi domani sarò probabilmente la prima cosa che vedrà.» «Allora non mi farà trasportare all'ospedale?» «Probabilmente no. Ne riparleremo domani mattina.» Stava togliendo una siringa dalla borsa. «Non m'importa quello che dirà a mia moglie,» ripresi «purché non le parli della droga. La lasci continuare a credere che ero ubriaco fradicio. Qualunque cosa accada, Vita non deve sapere niente della droga. Magnus - voglio dire il professor Lane - non le era simpatico. E se sapesse la verità odierebbe perfino il suo ricordo.» «Temo di sì» replicò lui, frizionandomi con lo spirito il braccio prima di affondarvi l'ago. «E non credo che lei potrebbe darle torto.» «La verità» dissi «è che Vita era gelosa. Magnus e io ci conoscevamo da tanti anni, eravamo stati insieme a Cambridge. Quando da studente venivo a passare qui le vacanze, lui, non so come, mi faceva fare quello che voleva. Eravamo sempre insieme, Magnus ed io; le stesse cose ci attiravano e ci facevano ridere...» Sarei piombato in un abisso profondo o nel lungo, dolce sonno della morte? Cinque ore, cinque giorni o cinque anni, per me non faceva differenza. Furono in realtà, lo appresi in seguito, cinque giorni. Il dottore era sempre lì, o così mi sembrava quando aprivo gli occhi, per farmi un'altra iniezione o per ascoltarmi parlare, seduto ai piedi del mio letto, agitando le gambe. Qualche volta Vita ficcava per un istante dentro la testa, sorridendo incerta prima di sparire di nuovo. Fra lei e la signora Collins dovevano rifarmi il letto, lavarmi, imboccarmi, anche se non ricordo di aver mai mangiato. Avrò imprecato, dato in smanie, lacerato le lenzuola, o semplicemente dormito: per me è come se quei giorni non siano mai esistiti. Mi hanno detto che dormivo e parlavo anche. Non a Vita o alla signora Collins, ma al dottore. Non saprei quante sedute ci vollero, fra un'iniezione e l'altra; e neppure esattamente quello che dissi. Ma dovetti, come si dice, sputare tutto, col risultato che verso la metà della settimana seguente, ero tornato più o meno normale e mi permettevano di starmene, sempre di sopra, su una poltrona invece che a letto. Cominciai a sentirmi non soltanto rimesso, ma completamente purgato fisicamente e moralmente. Quando lo dissi al dottore - bevendo con lui il caffè che ci aveva portato Vita lasciandoci poi subito di nuovo soli - lui rise e dichiarò che un buon bucato generale non ha mai fatto male a nessuno. «È incredibile» continuò
«quanta roba guadagnerebbe a tornare alla luce che la gente si dimentica di aver lasciato chiusa in cantina o in soffitta. Senza contare» concluse «che a lei riesce più facile che agli altri, peT via della sua educazione cattolica.» «Come lo sa che sono cattolico?» «È venuto tutto a galla nel bucato.» Lo fissavo stranamente colpito. Immaginavo di avergli detto assolutamente tutto sull'esperimento con la droga e di avergli descritto minutamente tutto ciò che avevo visto in quell'altro mondo. Ma secondo me il fatto che fossi nato e mi avessero allevato nella religione cattolica non c'entrava. «Sono un pessimo cattolico» gli dissi. «Non vedevo il momento di uscire da quel collegio di Stonyhurst, e non vado a messa da anni. Quanto alla confessione...» «Lo so» m'interruppe. «Tutto in cantina o in soffitta. Insieme con la sua avversione per i monaci, i padrigni, le vedove che si risposano ed altre cosucce del genere.» Riempii di nuovo di caffè le nostre tazze, mettendoci troppo zucchero e rimescolandole furiosamente. «Senta,» protestai «lei sta dicendo delle sciocchezze. Nella mia vita ordinaria attuale non ho mai dedicato un pensiero ai monaci, alle vedove o ai padrigni. Il fatto che quelle persone esistevano nel quattordicesimo secolo, e che sono riuscito a vederle, è dovuto interamente alla droga.» «Sì,» ripeté lui «interamente.» E si alzò di nuovo e riprese a passeggiare nella stanza. «Quella bottiglietta la mandai, come avrebbe dovuto fare lei subito dopo l'inchiesta, al primo assistente di Lane, John Willis, con due righe per informarlo di ciò che le era successo dopo averne bevuto e pregarlo di farmi avere al più presto la sua diagnosi. E lui ha avuto la cortesia di telefonarmi appena ricevuta la mia lettera.» «Ebbene?» «Ecco, lei può reputarsi fortunato di essere, non soltanto ancora vivo, ma in questa casa e non in un manicomio. Quella bottiglietta conteneva, con ogni probabilità, l'allucinogeno più potente che sia mai stato scoperto ed altre sostanze di cui lui non sa ancora molto. Il professor Lane stava svolgendo da solo questo lavoro e pare che non si sia mai confidato completamente con Willis.» Fortunato di essere vivo, forse. Di non essere chiuso in un manicomio, d'accordo. Ma molte di queste cose me le ero già dette all'inizio dell'esperimento. «Sta cercando di dirmi» gli domandai «che tutto ciò che ho visto erano
allucinazioni affiorate dall'abisso torbido del mio inconscio?» «No» rispose il dottore. «Secondo me il professor Lane era forse sull'orlo di una scoperta d'importanza eccezionale sul funzionamento del cervello. E scelse come cavia lei perché sapeva non solo che avrebbe fatto tutto quello che lui voleva, ma che era un soggetto particolarmente suggestionabile.» Si avvicinò al tavolo e finì la sua tazza di caffè. «Posso assicurarle che tutto quello che mi ha detto rimarrà segreto come se lei si fosse confessato a un sacerdote. Non è stato facile, lì per lì, convincere sua moglie a tenerlo qui invece di mandarlo con un'autoambulanza da qualche luminare di Harley Street che si sarebbe affrettato a farlo rinchiudere almeno per sei mesi in una clinica psichiatrica. Ma credo che adesso la signora Young si fidi di me.» «Che cosa le ha detto?» domandai. «Che lei era sull'orlo di un collasso nervoso e ancora sotto lo choc della morte tragica del suo amico. La pura verità, non le sembra?» Mi alzai con sforzo e andai faticosamente alla finestra. Il campeggio era stato tolto dal prato sull'altro lato della strada e le mucche ne avevano ripreso possesso. Sentivo i nostri ragazzi giocare a cricket nel frutteto. «Tiri pure in ballo ciò che vuole,» dissi lentamente «suggestionabilità, collasso nervoso, coscienza cattolica. Rimane il fatto che sono stato in quell'altro mondo; che l'ho visto e lo conosco. Era crudele, duro, spesso sanguinario come i suoi abitanti, eccettuata Isolda e, da ultimo, Roger. Ma, Dio mio, quel mondo esercitava su di me un fascino di cui è completamente sprovvisto il mio.» Lui mi raggiunse davanti alla finestra. Mi offrì una sigaretta e fumammo per un po' in silenzio. «Quell'altro mondo...» ripeté infine. «Secondo me ce lo portiamo dentro tutti... ognuno a suo modo: lei, il professor Lane, sua moglie, io stesso, e se - Dio non voglia - noi due avessimo fatto insieme l'esperimento l'avremmo visto ognuno in maniera diversa.» Gettò sorridendo il suo mozzicone dalla finestra. «Ho l'impressione che anche mia moglie odierebbe quell'Isolda, se mi mettessi a errare come lei, signor Young, cercandola nella valle di Treesmill. Non voglio dire con questo di non averci provato anch'io qualche volta, in tanti anni. Ma non sono abbastanza romantico per tornare indietro di sei secoli, nella vaga speranza di poterci incontrare il mio ideale.» «La mia Isolda è vissuta» mi ostinai. «Ho visto genealogie e atti pubblici
che lo dimostrano. Sono vissuti tutti. Ho giù, nella biblioteca, documenti che non mentono.» «Non è soltanto vissuta,» mi concesse lui «ma ebbe quelle due bambine, Joanna e Margaret, di cui lei mi ha parlato. Le figlie femmine sono a volte più affascinanti dei maschi, e lei ne ha due adottivi.» «E che diavolo dovrebbe significare?» «Niente. È soltanto un'osservazione. Il mondo che ci portiamo dentro ci fornisce a volte delle risposte. Una maniera di evadere. Di fuggire la realtà. A lei non andava di vivere a Londra o a New York. Il quattordicesimo secolo le offriva un'alternativa eccitante, anche se un tantino macabra. Il guaio è che, come gli allucinogeni, da cui ci difendiamo sempre meno, i sogni ad occhi aperti diventano un vizio, finché, come le ho già detto, non finiamo al manicomio.» Avevo l'impressione che con quei discorsi lui volesse arrivare a qualcosa di diverso, a una soluzione pratica: cerchi di farsi forza, si trovi un lavoro, torni a sedersi in un ufficio, vada a letto con sua moglie, metta al mondo delle figlie, aspetti pacatamente la mezza età, quando potrà coltivare, per esempio, piante grasse in una serra... «Che cosa vuole che faccia?» scattai infine. «Forza, parli.» Girandosi dalla finestra, lui mi fissò. «Onestamente,» rispose «quello che lei può fare non m'importa. Non è il mio problema. Come suo medico e confessore per meno di una settimana sarei contento di vederlo ancora vivo e vegeto per molti anni. E felice di prescriverle i soliti antibiotici, quando si acchiappasse l'influenza. Ma per il futuro immediato le consiglio di affrettarsi a lasciare questa casa prima di cedere di nuovo alla tentazione di scendere nel seminterrato.» Respirai con forza. «Lo sapevo. Lei ha parlato con Vita.» «Ho parlato con sua moglie, si capisce,» convenne lui «e prescindendo da qualche ghiribizzo femminile debbo riconoscere che è una donna piena di buon senso. Quando le dico di andarsene da questa casa non intendo per sempre. Ma perlomeno per i primi prossimi mesi le conviene di starne lontano. Lo capisce anche lei, no?» Lo capivo. Ma come un topo braccato che lotta per salvare la vita cercavo di guadagnar tempo. «Va bene» risposi. «Dove mi consiglia di andare? Non dimentichi che abbiamo sulle spalle quei ragazzi.» «Le danno molto fastidio?» «No. Gli sono affezionato.»
«Vada dove vuole, purché si sottragga al fascino di quel Roger Kylmerth.» «Il mio alter ego?» chiesi. «Ma non ci somigliamo affatto, sa.» «Come tutti gli alter ego» replicò Powell. «Il mio è un poeta dalle lunghe chiome che sviene alla vista del sangue. Mi perseguita da quando lasciai la facoltà di medicina.» Risi mio malgrado. Quell'uomo faceva sembrare tutto talmente semplice... «Peccato che lei non abbia conosciuto Magnus» dissi. «Me lo ricorda in una strana maniera.» «Dispiace anche a me. Ma parlavo sul serio, poco fa. Parta di qui al più presto. Sua moglie proponeva l'Irlanda. Possibilità di lunghe, belle camminate; pesca; pentole di monete d'oro sepolte sotto le colline...» «Sì,» lo interruppi «e due suoi compatrioti che fanno il giro dei migliori alberghi.» «La signora li ha infatti nominati. Ma se ho ben capito il maltempo li ha già fatti fuggire in Spagna. Perciò non si preoccupi. L'Irlanda mi sembra una buona idea perché può raggiungerla in volo da Exeter, che è a solo tre ore di macchina da qui. Ne affitti un'altra non appena sarete atterrati a Dublino, e sarà libero come l'aria.» Lui e Vita avevano deciso tutto. Ero in trappola; senza via d'uscita. Dovevo farmi forza e riconoscermi sconfitto. «E se rifiutassi?» chiesi. «Se mi rificcassi a letto tirandomi il lenzuolo sulla testa?» «Chiamerei un'ambulanza e la farei trasportare all'ospedale.» «L'Irlanda mi sembrava preferibile, ma decida lei.» Cinque minuti dopo il dottore se n'era andato e udii la sua macchina rombare mentre percorreva il viale. Mi sentivo completamente svuotato: una purga non avrebbe potuto essere più efficace. Eppure non sapevo ancora che cosa esattamente avessi raccontato al dottore. Probabilmente un'insalata russa di tutto quello che avevo detto o fatto dai tre anni in su. E come tutti i medici inclini alla psicanalisi lui aveva ricucito a modo suo quei frammenti, definendomi il solito tipo di anormale a tendenze omosessuali, afflitto fin dalla nascita dal complesso materno e del padrigno, avverso ai rapporti sessuali con la moglie vedova, e col desiderio represso di tradirla con una bionda che non era mai esistita se non nella sua immaginazione. Tutto naturalmente coincideva. Il Priorato era il mio collegio di Stonyhurst; frate Jean, quel bastardo mellifluo del mio professore di storia; Jo-
anna un miscuglio di mia madre e della povera Vita; e Otto Bodrugan l'aitante, baldanzoso avventuriero che in fondo avrei voluto essere. Il particolare che erano vissuti tutti, e si poteva dimostrarlo, non sembrava importante al dottor Powell. Era un peccato che, invece di spedire a John Willis la bottiglietta, non avesse sperimentato anche lui la droga. Adesso la penserebbe forse diversamente. Beh, ormai tutto era finito. Dovevo rassegnarmi ad accettare la sua diagnosi e i suoi progetti di vacanze. Era il meno che potessi fare, dopo aver quasi ucciso Vita. Strano che il dottore non avesse neppure alluso agli effetti secondari o all'azione ritardata della droga. Ne aveva forse discusso con John Willis e quest'ultimo l'aveva tranquillizzato. Ma Willis non sapeva niente dei miei occhi iniettati di sangue, di quei sudori disgustosi, dei miei accessi di nausea e di vertigine. Erano cose che tutti ignoravano, anche se il dottor Powell aveva forse avuto dei sospetti, specie dopo il nostro primo incontro. Comunque adesso mi sentivo di nuovo abbastanza normale. Per essere sincero, anche troppo. Come un bambino che dopo averle prese ha promesso di esser buono. Aprii la porta e chiamai Vita. Sentendola salire di corsa capii, con un senso di vergogna e di colpa, quello che doveva soffrire da una settimana. Aveva perduto i suoi bei colori e sembrava dimagrita. I suoi capelli, di solito elegantemente in ordine, erano stati appena spazzolati in fretta all'indietro e non le avevo mai vista quell'espressione tesa e infelice. «Il dottore mi ha detto che sei disposto a partire con noi» cominciò. «L'idea, te lo giuro, è stata sua, non mia. Io voglio fare soltanto quello che può giovarti.» «Lo so. Il dottore ha perfettamente ragione.» Vita venne a sedersi accanto a me sul letto e io le misi il braccio intorno alle spalle. «Devi promettermi una cosa,» le dissi «e cioè di dimenticare tutto quello che è successo qui finora. So che è quasi impossibile, ma te lo chiedo.» «Sei stato ammalato. So perché, me l'ha spiegato il dottore. L'hanno capito anche i ragazzi e nessuno di noi te ne fa una colpa, tesoro. Noi tre desideriamo soltanto di vederti guarito e felice.» «I ragazzi non hanno paura di me?» «Santo cielo, no. Sono stati molto ragionevoli, buoni e premurosi, specie Teddy. Ti sono tanto affezionati, caro, non so se te ne rendi conto.» «Oh sì, certo. Ed è questo che peggiora la situazione. Ma lasciamo per-
dere, per ora. Quando dovremmo partire?» Vita ebbe una breve esitazione. «Secondo il dottor Powell venerdì sarai perfettamente in grado di viaggiare. Mi ha autorizzata a fissare i posti sull'aereo.» Venerdì... Dopodomani... «Va bene,» mi arresi «se te l'ha detto lui. Allora sarà bene che cominci a darmi da fare. A tirare almeno fuori la roba da mettere nelle valigie.» «Purché non ti stanchi, caro. Manderò su Teddy ad aiutarti.» Vita mi aveva portato il grosso della posta dell'ultima settimana. Quando ebbi finito di guardarla e buttarla quasi tutta nel cestino, Teddy era già sulla soglia. «Sono venuto ad aiutarti a fare le valigie» cominciò timidamente. «La mamma ha detto che ti avrebbe fatto piacere.» «Certo, caro. Sento che in quest'ultima settimana mi hai egregiamente sostituito come padrone di casa.» Teddy arrossì di piacere. «Non so. Non ho fatto molto: risposto qualche volta al telefono. Ieri un certo signor Willis ha chiamato per chiedere notizie e mandarti i suoi saluti. Ha lasciato il suo numero, e un altro, nel caso volessi richiamarlo. Me li sono segnati tutti e due.» Teddy tirò fuori un notes e ne strappò una pagina. Riconobbi il primo numero, quello del laboratorio universitario di Magnus. Ma l'altro mi lasciò perplesso. «Quest'altro... il signor Willis non ti ha detto che cos'è?» «Sì che me l'ha detto. È il numero di un certo Davies che lavora al British Museum. Secondo il signor Willis prima di partire in vacanza tu avresti voluto forse metterti in contatto con lui.» Mi ficcai in tasca la paginetta e andai con Teddy nello spogliatoio. Non vedendo più il divano-letto, mi spiegai il fruscio sentito la sera che era venuto il dottore. Il letto era stato portato sotto la finestra della camera mia e di Vita. «Micky ed io abbiamo dormito di là» spiegò Teddy «perché la mamma voleva un po' di compagnia.» Era una maniera delicata di farmi capire che Vita aveva bisogno di protezione. Lasciando Teddy occupato a togliere la roba dall'armadio a muro, andai a sollevare il ricevitore dell'apparecchio accanto al letto matrimoniale. La voce che mi rispose, precisa e riservata, mi confermò che stavo parlando proprio con Davies.
«Sono Richard Young,» lo informai «un amico del professor Lane. Credo che lei sappia già tutto di me.» «Infatti, signor Young. Spero che stia meglio. Ho sentito da John Willis che aveva dovuto mettersi a letto.» «Già... Non era niente di grave. Ma poiché partirò presto e penso che anche lei stia per prendersi le sue vacanze, volevo chiederle se non ha per caso qualcosa per me.» «Sfortunatamente poca roba. Se mi scusa un momento vado a prendete i miei appunti e glieli leggo.» Ebbi, mentre aspettavo, la sensazione sgradevole di barare, e che il dottor Powell non mi avrebbe approvato. È lì, signor Young?» «Sì.» «Spero che non sarà deluso. Sono soltanto due estratti dai Registri del Vescovo Grandisson di Exeter: il primo del 1334 e l'altro del 1335. Riguardano il Priorato di Tywardreath e Oliver Carminowe. Le leggo il primo: una lettera del Vescovo di Exeter all'Abate della loro Casa Madre di Angers. "Per parte di John, ecc. Vescovo in Cristo di Exeter. Poiché è nostro dovere espellere dal nostro gregge la pecora malata che infetterebbe le altre pecore sane, e considerando che fratello Jean, chiamato Meral, un monaco del vostro monastero che vive attualmente nel Priorato di Tywardreath della nostra diocesi governata da un Priore dell'Ordine di San Benedetto, si ostina, ahimè, malgrado i nostri frequenti, affettuosi ammonimenti per la sua condotta vergognosa e indecente (per non parlare delle altre sue note mancanze), abbiamo disposto con tutto l'affetto e la riverenza dovuti al vostro Ordine e a voi stesso di rimandarvelo perché lo sottoponiate, per la sua malvagia condotta, alla disciplina del monastero. Possa Iddio mantenervi ancora a lungo e in buona salute alla testa di questo gregge".» Davies si schiarì la gola. «L'originale è naturalmente in latino. Questa è la mia traduzione. Non ho potuto fare a meno di pensare, mentre copiavo la lettera, quanto ne avrebbe trovato gustoso lo stile il professor Lane.» «Sì,» approvai «ne sono sicuro anch'io.» «Il secondo estratto,» riprese Davies dopo aver tossicchiato di nuovo «è molto breve e forse non la interesserà. Dice soltanto che il 21 di aprile del 1335 il Vescovo Grandisson ricevette Sir Oliver Carminowe e sua moglie Sybell che si erano sposati clandestinamente, senza pubblicazioni o licenza. Avendo i due confermato di aver agito per ignoranza, il Vescovo revocò le condanne che erano state loro inflitte e sancì il matrimonio, che do-
veva essere stato celebrato a una data non precisata nella cappella privata di Sir Oliver a Carminowe, nella Parrocchia di Mawgan-in-Meneage. Furono prese le misure del caso contro il sacerdote che li aveva sposati. Non c'è altro.» «Non dice che cosa ne fu della moglie precedente, Isolda?» «No. Secondo me, doveva essere morta da poco. Il matrimonio di quei due fu tenuto segreto proprio perché era stato celebrato così presto dopo il decesso d'Isolda. Sybell era forse incinta e la cerimonia privata servì a salvare la faccia. Mi dispiace, signor Young, ma non sono riuscito a trovare nient'altro.» «Non si preoccupi» replicai. «Quello che mi ha detto è molto importante. Faccia delle buone vacanze.» «Grazie. Anche lei.» Riattaccai. Teddy mi stava chiamando dallo spogliatoio. «Dick?» «Sì?» Il ragazzo arrivò dal bagno brandendo il bastone di Magnus. «Vuoi portartelo dietro? È troppo lungo, non entra nella valigia.» Non vedevo quel bastone da quando, quasi una settimana prima, avevo versato nella cavità segreta del suo pomo il contenuto della bottiglietta. Mi era uscito completamente di mente. «Se non ti serve» insistette Teddy «lo rimetto nell'armadio dove l'ho trovato.» «No,» dissi «dammelo.» Dopo aver finto, sorridendo, di prendermi di mira sollevando come una lancia il bastone, Teddy lo lanciò in aria. Lo afferrai a volo e lo tenni stretto. 24 Eravamo in una delle sale dell'aeroporto di Exeter ad attendere che chiamassero il nostro volo. Il decollo era fissato per le dodici e trenta. Avevamo lasciato la Buick in uno dei parcheggi dell'aeroporto stesso per ritrovarla al nostro ritorno. Mentre mangiavamo i sandwich che ero andato a prendere al bar per tutti, gettai un'occhiata agli altri viaggiatori. Quel pomeriggio c'erano dei voli per le Isole della Manica, oltre che per Dublino, e la grande veranda sul davanti dell'aeroporto era piena. Vidi dei preti che tornavano da qualche
congresso, un gruppo di scolaretti, delle famiglie come la nostra e il solito assortimento di villeggianti. Per non parlare di un allegro sestetto, che doveva andare o tornare, da un chiassoso matrimonio. «Spero» disse Vita «che non ce li troveremo accanto sull'aereo.» I ragazzi si torcevano già dal ridere perché uno della comitiva si era messo un paio di baffi e un naso finto che continuava a immergere nella sua birra ritirandolo bianco di schiuma. «Appena chiameranno il nostro volo» dissi «precipitiamoci verso il cancello per essere sicuri di lasciarceli dietro.» «Vi avverto che se quell'uomo col naso finto cercasse di sedersi accanto a me... mi metterò a urlare» disse Vita. Mentre i ragazzi continuavano a ridere e Vita a fare un mucchio di smorfie aggiustandosi il trucco, io mi congratulai con me stesso: infatti tutta quella ilarità non era dovuta tanto a quelle buffe persone reduci da un matrimonio quanto alle generose dosi di sidro che avevo fatto bere a Micky e a Teddy e al brandy che Vita aveva preso insieme a me. Una bevuta per festeggiare la partenza per le vacanze. «Acc...!» imprecai. «Lo sapevo che non avrei dovuto ingurgitare tutto quel caffè e quel brandy. Scusami, cara, ma debbo correre alla toeletta. Se chiamassero il nostro volo sali pure a bordo e cerca di prendere dei posti davanti. Se arrivassi in ritardo mi siederò dietro e vi raggiungerò dopo il decollo. Ecco, questi sono i vostri tagliandi d'imbarco. Mi tengo il mio, non si sa mai.» «Oh, Dick, insomma!» protestò Vita. «Potevi andarci prima, no? Sei sempre lo stesso!» «Scusami,» ripetei «ma con certe necessità non si discute...» Attraversai rapidamente la veranda mentre la hostess arrivava alla porta, e mi chiusi nel gabinetto. Sentii l'altoparlante chiamare il nostro volo e quando uscii, pochi minuti dopo, la nostra comitiva andava già con la hostess verso il jet. Vita e i ragazzi erano in testa. Un istante dopo sparirono nell'aereo seguiti dai preti e dagli scolaretti. Ora o mai. Uscii dalla porta principale dell'aeroporto e raggiunsi correndo quasi il parcheggio. Un istante dopo avevo messo in moto la Buick e mi lasciavo alle spalle l'aeroporto. Mi fermai sul ciglio della strada per tendere l'orecchio. Se il rombo dei motori si fosse fermato significava che la hostess si era accorta, prima del decollo, della mia assenza e che il mio piano era fallito. Erano esattamente le dodici e trentacinque. Il rombo aumentò e pochi minuti dopo - incredibile, mi dissi col cuore in gola - vedevo la forma d'argento dell'aereo
balenare sulla pista, sollevarsi allargandosi e sparire un istante dopo fra le nuvole lasciandomi solo e libero al volante della Buick. Quei tre sarebbero arrivati a Dublino all'una e cinquanta. Sapevo esattamente quello che avrebbe fatto Vita. Avrebbe chiamato dall'aeroporto il dottor Powell, ma non lo avrebbe trovato a casa perché quel giorno aveva la sua mezza giornata di libertà. Me l'aveva detto lui quando gli avevo telefonato per salutarlo dopo il breakfast. «Se il tempo sarà bello» mi aveva detto «porterò i miei a fare dell'acquaplano sulla costa nord.» Aggiungendo che avrebbe pensato a noi mi aveva pregato di scrivergli su una cartolina dall'Irlanda: «Vorrei che fosse anche lei qui». Quando infilai, a settanta miglia orarie, la strada maestra, cantavo. Mi sentivo come deve sentirsi un bandito quando, dopo aver svaligiato una banca, se la fila, col bottino in un furgone rubato. Rimpiansi di non avere davanti a me l'intera giornata per poter esplorare con comodo la regione, spingermi fino a Bere e andare forse a fare una visitina a Sir William Ferrers e a sua moglie Matilda. Avevo trovato sulla carta il punto, era nel Devon, passato appena il Tamar. Chissà, mi chiesi, se la loro casa ci sarà ancora? Probabilmente no, oppure l'avranno trasformata in una fattoria. Avevo trovato l'ubicazione di Carminowe sulla stessa carta, mentre Teddy mi faceva la valigia nello spogliatoio, e anche nel vecchio volume della Storia Parrocchiale dove avevo scoperto Tregesteynton. Carminowe corrispondeva a Mawgan-in-Meneage, presso lo stagno di Loe Pool, e, secondo l'autore, l'antico castello e la cappella erano caduti in rovina sotto il regno di Giacomo I, insieme col cimitero. Lasciato Okehampton presi la strada di Launceston perché era più breve di quella che avevamo fatta all'andata, e mentre passavo dal Devon per recarmi nella Cornovaglia dirigendomi, come un piccione che torna alla sua colombaia, verso la landa di Bodmin, continuai a cantare alzando ancora la voce. Ormai Vita non poteva più raggiungermi, stava per atterrare a Dublino. Questo era il mio ultimo viaggio, la mia ultima avventura, e quali ne fossero per me le conseguenze, lei e i ragazzi sarebbero stati al sicuro sul suolo irlandese e non avrebbero avuto più niente da temere. In una notte come questa Medea colse le erbe incantate Che rianimarono il vecchio Giasone... Ma purtroppo l'amante di Isolda era morto nella cala di Treesmill dell'e-
stuario, e secondo me la prospettiva del convento, le minacce di Joanna o la promessa del monaco di portarla in salvo ad Angers, non erano bastate a buttarla infine nelle braccia di Roger. Il futuro non era roseo, seicento anni fa, per le mogli che avevano lasciato i loro mariti, specie quando il marito aveva l'occhio su una terza sposa. Per Oliver Carminowe e la famiglia Ferrers sarebbe stato comodo se Isolda fosse semplicemente scomparsa (come le sarebbe quasi certamente accaduto se si fosse affidata a Joanna). Ma il suo soggiorno in casa di Roger era nel migliore dei casi soltanto un palliativo, e non avrebbe potuto prolungarsi più molto. Mentre attraversavo la palude di Bodmin la gioia di avvicinarmi con ogni miglio sempre più alla mia casa era offuscata dal pensiero che non solo questo mio viaggio in quell'altro mondo sarebbe stato l'ultimo, ma che non mi era concesso di scegliere la data né la stagione. Il disgelo c'è forse già stato, mi dissi, e la Quaresima è trascorsa, e potrebbe anche essere il colmo dell'estate. Avendo fatto la sua scelta, Isolda languiva forse in quel convento del Devon. Se è così, ragionai, è uscita dalla vita di Roger e dalla mia. Se fosse vissuto, continuai a dirmi, Magnus avrebbe forse perfezionato il fattore tempo lasciando scegliere dal soggetto dell'esperimento il momento del risveglio dal presente al passato, e alterando in maniera infinitesimale la dose io potrei far apparire oggi quei personaggi qui nel seminterrato, nell'istante esatto in cui li lasciai l'ultima volta. Nelle poche settimane dall'esperimento le cose non erano mai andate così. C'era stato ogni volta un salto nel tempo. La carrozza di Joanna, pensai, non sarà più ad aspettare sulla collina al disopra di Kylmerth: Roger, Isolda e Bess avranno lasciato la cucina della fattoria. Quell'unico sorso del pomo del bastone poteva garantirmi il ritorno nel loro mondo, non ciò che avrei trovato rientrandovi. Il cartello mi fece trasalire: mi trovavo sulla strada maestra LostwithielSt. Blazey. Avevo percorso le ultime venti miglia come un automa, ma mi ricordai la svolta che mi avrebbe portato, passando per Tregesteynton, nella valle di Treesmill. Cominciai a scendere con un vago senso di nostalgia. Vedendo, nel passare davanti all'attuale fattoria di Strickstenton, un collie bianco e nero irrompere abbaiando sulla strada, pensai alla piccola Margaret, la figlia minore d'Isolda, che voleva una frusta come quelle di Robbie, e alla maggiore, Joanna, che si pavoneggiava davanti allo specchio mentre suo padre inseguiva su per le scale Sybell con la zampa della lontra. Quando fui nella valle mi ero identificato così intensamente col passato
da aver dimenticato che il fiume era scomparso. Cercai con gli occhi la casetta di Rob Rosgof sull'altra sponda del guado, davanti al mulino. E naturalmente non c'erano più fiumi né guadi, ma soltanto la strada che svoltava a sinistra, e qualche mucca nel campo acquitrinoso. La Buick, troppo grande e vistosa, mi fece rimpiangere la mia Triumph. La lasciai accanto al ponte sotto il mulino, e, obbedendo ad un brusco impulso, dopo qualche passo sul sentiero, scavalcai il cancello del campo stesso che portava al Gratten. Prima di rientrare, dovevo assolutamente, lo sapevo, aggirarmi di nuovo fra quei cumuli perché non potevo prevedere ciò che mi aspettava al mio ritorno a Kilmarth. Quest'ultimo esperimento avrebbe potuto crearmi delle difficoltà inaspettate. E volevo poter rivedere col pensiero la valle di Treesmill come mi appariva oggi sotto il sole declinante di agosto, lasciando che immaginazione e memoria mi restituissero il fiume tortuoso, l'estuario e l'ancoraggio al disotto della casa svanita da secoli. I campi di Chapel Park dietro il Gratten erano stati mietuti, ma qui sotto la siepe camminavo in un folto prato verde dove pascolavano mucche. Arrivato all'ultimo cespuglio di saggina mi arrampicai sull'alto terrapieno che circondava il sito e abbassai gli occhi su quel grembiule d'erba rivedendo Isolda e Bodrugan seduti, con le mani intrecciate, sotto la finestra della grande sala. Proprio in auel punto, c'era un uomo steso sull'erba, con la giacca arrotolata a mo' di cuscino sotto la testa che fumava una sigaretta. Lo fissai non volendo credere ai miei occhi, convinto che fosse un fantasma evocato da un complesso di colpa e una coscienza inauieta. Ma non mi sbagliavo: si trattava di un uomo in carne e ossa. Il dottor Powell. Dopo averlo spiato ancora per un momento, svitai - non per malvagità, ma con decisione assoluta - il pomo del bastone di Magnus, ne tolsi il misurino, inghiottii la mia ultima dose di droga e lo rimisi a posto. Scesi dal terrapieno e mi avvicinai al dottore. «Non dovrebbe essere sulla costa nord a fare dell'acquaplano?» Lui si raddrizzò di colpo, mentre, per la prima volta da quando lo conoscevo, io mi gustavo la soddisfazione enorme di averlo colto alla sprovvista e in condizioni d'inferiorità. Si riebbe subito. «Ho cambiato idea,» dichiarò mentre un sorriso accattivante sostituiva l'espressione di stupore «e ho lasciato partire senza di me i miei. Ha fatto anche lei lo stesso, o mi sbaglio?» «Così,» dissi «Vita è stata più svelta di me. Non ha perduto un momento.»
«Che c'entra sua moglie?» domandò lui. «Le ha telefonato da Dublino, no?» «No» disse il dottore. Toccò a me fissarlo stupito. «Allora perché diavolo mi aspettava qui?» «Non l'aspettavo. Ma invece di affrontare i cavalloni dell'Atlantico, stamattina ho deciso di venire a esplorare questo suo territorio privato. Vedo che ho fatto bene a non resistere a quell'impulso. Mi farà da guida, vero?» La mia tracotanza cominciava a svanire, la mia sicurezza mi abbandonava. Per arrivare ai suoi fini il dottore si comportava come se avesse deciso di darmela vinta. E ci stava riuscendo. «Senta,» gli chiesi «non vuole sapere quello che è accaduto all'aeroporto?» «Non in maniera particolare. So che l'aereo è partito perché ho telefonato a Exeter per controllare. Non hanno potuto dirmi se lei era o no a bordo. Ma se non c'è, mi sono detto, sarà certamente tornato a Kilmarth, e se andassi a chiedergli una tazza di tè lo troverei senza dubbio nel seminterrato. Un'ardente curiosità mi ha spinto a venire a passare prima una mezz'ora quaggiù.» La sua sicurezza mi esasperava, ma ero soprattutto furioso con me stesso. Se avessi preso l'altra strada, se lasciandomi vincere dall'emozione, avessi voluto riattraversare la valle di Treesmill, adesso sarei sano e salvo a Kilmarth, mi dissi, con almeno una mezz'ora a disposizione prima che lui arrivi a prendere il comando. «Va bene,» replicai «so di aver giocato un brutto tiro a Vita e ai ragazzi, e mia moglie starà probabilmente telefonando a lei dall'aeroporto di Dublino, senza avere risposta. Ma quello che mi sbalordisce è che, sapendo quello che poteva accadere, lei mi abbia lasciato partire. La colpa è sua quanto mia.» «Ha ragione,» rispose «sono da biasimare quanto lei e cercheremo tutti e due di farci perdonare dalla signora Young, quando potremo metterci in contatto con lei. La verità è che ho voluto darle un'ultima opportunità per vedere se sarebbe riuscito a dominarsi, invece di attenermi alle regole.» «E che cosa impongono le regole?» «Di schiaffare dentro i drogati, quando sono realmente "presi".» Appoggiandomi al bastone di Magnus lo guardai pensoso. «Lei sa benissimo» dissi «che la bottiglietta C che le diedi era l'ultima. E deve aver frugato a fondo la casa, durante la settimana che passai di sopra, immobile in un letto.»
«Infatti» replicò lui. «E ci sono tornato anche oggi. Ho detto alla signora Collins che cercavo un tesoro sepolto e quella brava donna deve averlo creduto. Sono un tipo sospettoso, eh?» «Sì. E non ha trovato niente perché non c'era niente.» «Può ringraziare il cielo. Ho in tasca» continuò il dottore «l'ultimo rapporto di Willis.» «Che cosa dice?» «Soltanto che la droga contiene una sostanza piuttosto tossica che potrebbe agire seriamente sul sistema nervoso centrale portando forse alla paralisi. Inutile entrare nei particolari.» «Me lo mostri.» Mentre il dottore scuoteva la testa, a un tratto non fu più lì. Avevo intorno a me i muri della grande sala del maniero di Champernoune e guardavo la pioggia dalla finestra a due battenti. Ma non doveva accadere, perlomeno non ancora, mi dissi, colto dal panico; contavo di essere a casa, in questo momento, fra le mie quattro mura e sotto la protezione e la guida di Roger. Ma Koger non c'era e la sala era vuota, e quasi non la riconoscevo. Sembrava che ci fossero più mobili e tappezzerie, e la tenda che copriva la porta della scala era tirata. Qualcuno piangeva nella stanza da letto al piano superiore e sentivo dei passi pesanti misurare il pavimento. Guardai di nuovo dalla finestra e mi accorsi, attraverso la pioggia, che doveva essere autunno, perché il ciuffo di alberi sulla collina di fronte, dove si erano nascosti Oliver Carminowe e i suoi uomini per tendere l'imboscata a Bodrugan, era di un bruno dorato come allora. Ma oggi le foglie non volavano sul terreno spazzate dal vento, quella pioggerella ostinata le faceva pendere avvilite e una coltre di nebbia copriva Lanescot e l'imboccatura del fiume. I lamenti si trasformarono in un riso stridulo. Vidi rotolare giù per le scale, e fino al pavimento della sala, una tazza e una palla la quale andò lentamente a fermarsi sotto il tavolo, e una voce ansiosa d'uomo gridò: «Attenta, Elizabeth!» mentre una bambina scendeva rumorosamente le scale per venire a riprendersi il giocattolo. Arrivata in fondo si fermò con le mani intrecciate davanti, lasciandosi pendere dietro il lungo vestito e con la sua assurda cuffietta storta sui capelli d'oro caldo. Somigliava a Joanna Champernoune in maniera stupefacente, anzi tragica, perché si trattava di una bambina deficiente di un dodici anni, con la bocca carnosa socchiusa e gli occhi alti sulla fronte della madre. Dopo aver annuito ridendo, raccolse palla e tazza. Aveva cominciato a gettarle in aria gridando di gioia, quando, stanca a un tratto del giuoco, le buttò violentemente via,
mettendosi a girare sempre più rapida su se stessa e cadendo infine seduta a terra per rimanervi immobile, fissandosi le scarpe. La voce dell'uomo chiamò di nuovo dall'alto: «Elizabeth... Elizabeth...». La ragazzina si tirò goffamente in piedi e sorrise guardando il soffitto, mentre si udivano nelle scale dei passi lenti. L'uomo che apparve un istante dopo indossava una lunga, ampia tunica che gli arrivava alle caviglie e un berretto da notte. Pensai per un momento di aver rifatto il mio secondo viaggio e di avere davanti Henry di Champernoune minato dalla morte. Ma l'uomo era invece suo figlio William che avevo visto l'ultima volta, alzarsi adolescente, per andare ad occupare a tavola il posto del capo famiglia quando Roger era venuto ad annunziargli la morte del padre. Accorgendomi che ora dimostrava un trentacinque anni e forse più, calcolai sgomento che il tempo aveva fatto un balzo di almeno dodici anni e che tutti i mesi e gli anni intermedi erano sepolti in un passato che non avrei mai conosciuto. L'inverno gelido del 1335 non significava niente per questo William, allora non ancora maggiorenne né sposato. Adesso comandava lui nella sua casa, anche se lottava contro qualche male ed era invischiato nella rete implacabile di una tara ereditaria. «Vieni, figlia; vieni, amore» disse dolcemente tendendo le braccia. Dopo essersi messo in bocca un dito, succhiandolo con aria dispettosa, la bambina scrollò le spalle. Cambiando poi improvvisamente idea si precipitò a raccogliere di nuovo tazza e palla e le diede al padre. «Te la getterò di sopra, non qui» le disse lui. «Anche Katie è stata male, e non debbo lasciarla sola.» «Non voglio che si prenda il mio giocattolo. Non glielo darò!» disse Elizabeth, scuotendo la testa e allungando la mano per cercare di riprendersi la palla. «Come, non vuoi dividerla con tua sorella che te l'ha data? Non riconosco più la mia Lizzie. Lizzie se n'è volata su per il camino e una bambina cattiva ha preso il suo posto.» Mentre suo padre faceva schioccare la lingua per redarguirla, la bambina, aprendo la bocca turgida e con i grandi occhi pieni di lacrime, gli si buttò nelle braccia piangendo amaramente, aggrappandosi alla sua lunga tunica. «Su, su,» la confortava lui «il papà scherzava. Il papà vuole tanto bene alla sua Liz, ma lei non deve farlo arrabbiare, perché lui è ancora ammalato e debole e anche la povera Katie non è ancora guarita. Su, vieni di so-
pra, adesso. Quando Katie ti vedrà buttare bene in alto la palla si sentirà meglio e forse sorriderà.» Mentre la prendeva per mano, guidandola verso le scale, qualcuno uscì dalla porta delle cucine. Udendo i passi William girò la testa. «Assicuratevi che tutte le porte siano chiuse, prima d'andarvene,» gridò «e raccomandate ai servi di non aprirle a nessuno. Dio sa quanto odio dare quest'ordine, ma non oso fare diversamente. I vagabondi appestati aspettano che cada la sera per andarsene in giro a bussare alle porte.» «Lo so. Ce ne sono stati molti anche a Tywardreath, e la morte si è diffusa per colpa loro.» Riconobbi subito colui che si era fermato sulla soglia. Era Robbie, più alto e robusto del ragazzo che conoscevo, col mento barbuto come il fratello. «Fate anche attenzione nel risalire la strada» insisté William. «Quei poveri sciagurati impazziti potrebbero tentare di disarcionarvi, credendovi, perché siete fuori e a cavallo, dotato di una salute magica negata a loro.» «Starò attento, Sir William, non abbiate paura. Non vi lascerei, stanotte, se non fosse per Roger. Sono cinque giorni che non torno a casa e lui è solo.» «Lo so, lo so. Che Dio vi protegga tutti e due, e vegli su di noi stanotte.» William salì di sopra con la sua figlioletta e io seguii Robbie nelle cucine. Vi sedevano, sconsolatamente aggrappati al focolare, tre servi, uno con gli occhi chiusi e la testa contro il muro. Robbie gli diede il messaggio di William e l'altro ripeté: «Dio sia con noi» senza aprire gli occhi. Chiudendosi la porta alle spalle Robbie si diresse verso il cortile delle scuderie. Il suo cavallo era legato alla mangiatoia nel capanno. Lui montò in sella e cominciò a salire lentamente sulla collina, sotto la pioggerella fitta, passando davanti alle casupole dei vassalli degli Champernoune che orlavano il sentiero fangoso. Tutte le porte erano serrate e soltanto dai tetti di due delle casupole usciva fumo; le altre si sarebbero dette abbandonate. Giunto in cima alla collina, invece di prendere, a destra, la strada del villaggio, Robbie si fermò a sinistra, davanti alla geld house, smontò legando il cavallo al cancello e risalì il vialetto fino alla vicina cappella. Ne aprì la porta ed entrò, seguito da me. La cappella era piccola, lunga poco più di venti piedi e larga quindici, con una sola finestra affacciata a est dietro l'altare. Dopo essersi segnato, Robbie s'inginocchiò e si mise a pregare piegando la testa. Sotto la finestra c'era un'iscrizione in latino. «Matilda Champernoune» lessi «eresse questa cappella in memoria di
suo marito William Champernoune morto nel 1304.» Su una lastra di pietra davanti al coro, erano incise le sue iniziali e la data della sua morte, che non riuscii a decifrare. Un'altra lastra simile, a sinistra, recava le iniziali H.C. Non c'erano finestre istoriate, statue o tombe contro i muri; si tratta, mi dissi, di un'oratorio o una cappella funebre. Quando Robbie si alzò voltandosi per uscire scoprii un'altra lastra di pietra davanti agli scalini del coro. Le iniziali erano I.C., la data il 1335. Mentre seguivo verso il villaggio, sotto la pioggia, il fratello di Roger, mi venne in mente un solo nome che coincidesse. E non era Champernoune. Qui, intorno alla geld house e in tutto il villaggio, vedevo soltanto una grande desolazione. Sul campo del villaggio nessuno: niente animali o cani latranti. Anche le porte delle piccole abitazioni ammucchiate attorno al campo stesso erano chiuse come quelle dei vassalli del feudatario. Attaccata con una catena accanto al pozzo, un'unica capra, che sembrava morta di fame, con le costole che le foravano la pelle, brucava l'erba dura del campo. Anche guardando in basso, quando fummo saliti per il sentiero della collina al disopra del Priorato, non riuscii a vedere segni di vita dietro le mura. Non saliva fumo né dalle stanze dei monaci né da quelle del Capitolo. Il monastero sembrava deserto, e le mele mature dell'orto erano state lasciate a marcire sugli alberi. E quando, un po' più in alto, attraversammo i campi, mi accorsi che non li avevano arati e che gran parte del grano non era stato neppure raccolto e giaceva a terra come se durante la notte l'avesse abbattuto un ciclone. E nei pascoli dei pendii più bassi le mucche del Priorato, abbandonate a se stesse, ci seguirono mugghiando come se sperassero che Robbie e il suo cavallo potessero tirarsele dietro. Attraversammo senza difficoltà il guado perché il mare si stava ritirando rapidamente scoprendo il fondo sabbioso piatto e scuro sotto la pioggia. Un filo sottile di fumo saliva dal tetto di Julian Polpey - lui almeno doveva essere sopravvissuto all'epidemia - ma l'abitazione di Geoffrey Lampetho nella valle sembrava vuota e deserta come quelle intorno al campo del villaggio. Questo non era il mondo che conoscevo, che avevo imparato ad amare, che mi affascinava per una sua qualità magica di amore e odio, la sua diversità da una piatta monotonia, ma un luogo che presentando nella sua sterile desolazione tutti gli orribili tratti di un paesaggio del ventesimo secolo dopo un disastro, suggeriva la morte di ogni speranza, l'indomani spaventoso di una guerra atomica. Riprendendo a salire, dopo il guado, e attraversato l'arruffato boschetto, Robbie si fermò davanti al muro del cortile di Kylmerth. Anche qui non
usciva fumo dal comignolo. Robbie si buttò dal cavallo lasciandolo andare verso la stalla e corse, attraversando il cortile, ad aprire la porta. «Roger,» lo udii chiamare «Roger!» La cucina era vuota, il focolare spento. Vidi sul tavolo dei resti di cibi, e mentre Robbie si arrampicava sulla scala a pioli, un topo sfrecciò sul pavimento. Nella soffitta non doveva esserci nessuno perché Robbie ridiscese subito la scala a pioli e aprì la porta di accesso alle stalle, rivelando un breve corridoio che terminava nella dispensa e la cantina. Delle fessure, nei muri spessi, permettevano a qualche raggio di luce di tagliare l'oscurità ed erano anche l'unica sorgente d'aria. Nell'atmosfera pesante gravava l'odore di muffa dolciastra delle mele che marcivano allineate contro il muro. In un angolo c'era un calderone di ferro arrugginito, traballante sui tre piedi che gli erano rimasti, e accanto brocche, barattoli, un forcone e un soffietto. Era strano che un ammalato fosse andato a mettersi in un posto simile. Doveva aver trascinato il suo pagliericcio giù dalla soffitta per sistemarlo accanto alla fessura del muro. E poi, sempre più debole e apatico, era rimasto abbandonato lì per notti e giorni, fino a quel momento. «Roger...» sussurrò Robbie «Roger!» Lui aprì infine gli occhi. Non lo riconoscevo, con i capelli incanutiti, gli occhi profondamente infossati, i tratti emaciati e sotto la laniccia bianca della barba la pelle scolorita, piagata, con le stesse bolle pallide dietro le orecchie. Mormorò qualcosa: acqua, credo, e Robbie corse in cucina, mentre, inginocchiato accanto a lui, io continuavo a fissare l'uomo che avevo visto l'ultima volta così fiducioso e forte. Robbie tornò con un boccale d'acqua, e mettendo il braccio intorno alle spalle del fratello l'aiutò a bere. Ma dopo due sorsi Roger si strozzò e ricadde boccheggiando sul pagliericcio. «Non c'è niente da fare» disse. «Mi si è gonfiata anche la gola, chiudendomi la trachea. Se vuoi darmi un po' di sollievo inumidiscimi le labbra.» «Da quanto tempo sei qui?» chiese Robbie. «Non so dirtelo. Forse da quattro giorni e quattro notti. Capii poco dopo la tua partenza di essermi preso il contagio e per lasciarti dormire in pace di sopra, al tuo ritorno, mi portai il letto in cantina. Come sta Sir William?» «Lui e la giovane Katherine sono guariti, grazie a Dio. Elizabeth e i servi si difendono ancora dall'infezione. A Tywardreath in questa settimana sono morte più di sessanta persone. Il Priorato è chiuso, come sai, e il Priore e i frati se ne sono andati a Minster.»
«Non è un gran danno» mormorò Roger. «Possiamo farne a meno. Hai visitato la cappella?» «Sì, e ho detto la solita preghiera.» Robbie inumidì di nuovo le labbra del fratello e cercò, goffamente, ma teneramente, di alleviargli il gonfiore dietro le orecchie. «Ti ho già detto che non c'è rimedio» disse Roger. «Sto per morire. Senza prete per assolvermi, senza una tomba nel cimitero, fra gli altri. Seppelliscimi sull'orlo della scogliera, Robbie, dove le mie ossa potranno odorare il mare.» «Andrò a Polpey a prendere Bess. Lei e io ti assisteremo insieme.» «No» disse Roger. «Bess ha i suoi figli e Julian a cui pensare. Ascolta la mia confessione, Robbie. Liberami dal peso che mi opprime da tredici lunghi anni la coscienza.» Tentò di raddrizzarsi a sedere, ma le forze gli mancarono. Con le guance rigate di lacrime Robbie tolse dagli occhi del fratello una ciocca arruffata di capelli. «Se è una cosa che riguarda te e Lady Carminowe,» disse «non ho bisogno di ascoltarti, Roger. Bess e io sappiamo che l'amavi e l'ami sempre. Le volevamo bene anche noi. Amare non è peccato per nessuno.» «Ma uccidere sì» disse Roger. «Uccidere?» Inginocchiato al fianco del fratello, Robbie, dopo averlo fissato esterrefatto, scosse la testa. «Stai delirando, Roger» protestò dolcemente. «Sappiamo tutti come morì Lady Isolda. Era già malata da settimane, quando venne qui, e quando tentarono di portarla via a forza riuscì a rimanere dando la sua parola che li avrebbe seguiti dopo una settimana.» «E sarebbe partita se non glielo avessi impedito.» «Non fosti tu a impedirglielo. Morì cinque giorni dopo, qui, nella stanza di sopra, nelle braccia di Bess e le tue.» «Morì perché non tolleravo che dovesse soffrire» confessò Roger. «Perché, se avesse mantenuto la sua parola e fosse andata a Trelawn e di lì nel Devon, sarebbero state per lei settimane, forse mesi, di agonia, come dové sopportarla nostra madre quando eravamo giovani. Volli perciò che ci lasciasse nel sonno, ignorando, come tu e Bess, quello che avevo fatto.» Cercò la mano del fratello e la strinse forte. «Ti sei mai chiesto Robbie, che cosa facessi quando, molti anni fa, rimanevo fino a notte tarda al Priorato e mi portavo qualche volta de Meral qui nella nostra cantina?» «Sapevo che le navi francesi sbarcavano mercanzie,» replicò Robbie «e
che tu le portavi al Priorato. Vini e altre derrate, perché al Priore e ai monaci non mancasse mai niente.» «I monaci m'insegnarono anche i loro segreti» disse Roger. «Ho imparato ad aiutare gli uomini a sognare e a fare incantesimi, invece di pregare. A trovare in terra il paradiso, anche se durava solo poche ore. Ho imparato a dare la morte. Mi disgustai di quelle pratiche e non volli più parteciparvi dopo che de Meral fece morire con i suoi filtri il giovane Bodrugan. Ma mi ero impadronito dei suoi segreti e me ne servii quando arrivò il momento. Diedi a Isolda qualcosa perché se ne andasse dolcemente, senza soffrire. Fu un assassinio, Robbie, e un peccato mortale. E all'infuori di te non lo sa nessuno.» Lo sforzo di parlare lo aveva esaurito. Smarrito e spaventato davanti alla morte, Robbie gli lasciò la mano e rimettendosi alla meglio in piedi andò a tastoni in cucina, in cerca, credo, di qualche altra coperta da stendere sul fratello. Io rimasi in ginocchio nella cantina e a un tratto Roger aprì gli occhi per l'ultima volta e mi fissò. Chiedeva, credo, l'assoluzione, e mi domandai se, dal momento che lì, nel suo tempo, non c'era nessuno, non avesse viaggiato attraverso gli anni per riceverla. Ma, come Robbie, io non avevo il potere di assolverlo. Ed ero in ritardo di sei secoli. «Esci da questo mondo, o Anima Cristiana, in nome di Dio Padre Onnipotente che ti ha creata, in nome di Gesù Cristo Figlio del Dio Vivente che soffrì per te, in nome dello Spirito Santo che ti santificò...» Non ricordavo altro, ma non aveva importanza, perché Roger si era già spento. La luce entrava dalle fessure delle imposte chiuse della vecchia lavanderia ed io ero inginocchiato sul pavimento di pietra del laboratorio, fra le bottiglie e i barattoli vuoti. Non provavo nausea o vertigine e le orecchie non mi ronzavano. Dentro e intorno a me c'era soltanto silenzio e pace. Alzai la testa e vidi il dottore che mi guardava addossato al muro. «È finita» dissi. «Roger è morto. Si è liberato.» Il dottore allungò la mano e prendendomi per un braccio mi fece uscire dalla stanza, salire le scale e attraversare il davanti della casa fino alla biblioteca. Ci sedemmo insieme sul divanetto nel vano della finestra, guardando il mare. «Me ne parli» disse il dottore. «Non sa già tutto?» Vedendolo nel laboratorio avevo creduto che avesse diviso con me la mia esperienza. Ma non era possibile. «Sono rimasto con lei nei campi» mi disse. «Poi siamo saliti insieme
sulla collina e l'ho seguito fino alla sua macchina. Si è fermato per un momento in un campo, al disopra di Tywardreath, poco lontano da dove le due strade si congiungono, poi è tornato qui attraverso il villaggio e per la parallela che porta a Polmear. Camminava normalmente, un po' più in fretta, forse, di quanto non avrei fatto io. Quando ho visto che svoltava a destra, nel bosco, ho preso il viale. Sapevo che ci saremmo incontrati in fondo.» Mi alzai e andai a prendere dallo scaffale un volume dell'Enciclopedia Britannica. «Che sta cercando?» mi chiese il dottore. Voltai le pagine finché non ebbi trovato quello che volevo. «L'anno della Morte Nera» dissi. «Il 1348. Tredici anni dopo che era finita Isolda.» Rimisi a posto il libro. «La peste bubbonica» osservò lui «è endemica nell'estremo Oriente. Nel Vietnam ne hanno avuti una quantità di casi.» «Davvero?» dissi. «Beh, ho visto poco fa quello che fece a Tywardreath seicento anni fa.» Tornai al divanetto della finestra e presi il bastone. «Si sarà chiesto come ho potuto compiere quell'ultimo viaggio» ripresi. «Ecco qua.» Svitai il pomo e gli mostrai il misurino. Il dottore lo prese e lo capovolse. Era completamente vuoto. «Mi dispiace,» dissi «ma quando l'ho visto seduto lì sotto il Gratten ho capito che non potevo rinunziarci. Era la mia ultima possibilità. E sono contento di essermi deciso perché adesso la faccenda è chiusa. Finita. Non avrò più tentazioni, o il bisogno irresistibile di perdermi in quell'altro mondo. Mi sono liberato di Roger.» Lui continuava a fissare in silenzio il misurino vuoto. «E adesso,» dissi «prima di chiamare l'aeroporto di Dublino e chiedere di Vita, perché non mi dice quello che c'era nel rapporto che le ha mandato John Willis?» Il dottore prese il bastone, avvitò il pomo dovo aver rimesso a posto il misurino, e me lo restituì. «L'ho bruciato» rispose «con la fiamma del mio accendino, mentre, in ginocchio nel seminterrato, lei recitava quelle preghiere dei morti. Mi è sembrato, non so perché, il momento giusto, e ho preferito distruggere il rapporto, piuttosto che tenermelo negli schedari del mio gabinetto.» «Non è una risposta» obiettai. «È l'unica che avrà.»
Sentii il telefono scatenarsi nell'atrio e mi chiesi quante volte aveva già suonato inutilmente. «Dev'essere Vita» dissi «per fare i conti con me. Forse mi conviene rimettermi in ginocchio. Debbo dirle che sono rimasto chiuso nella toeletta dell'aeroporto e che la raggiungerò domani?» «Sarebbe meglio» disse il dottore «dirle che spera di raggiungerla più tardi, forse fra qualche settimana.» «Ma è assurdo!» protestai. «Non c'è niente che mi trattenga qui. Le ho già detto che è finito tutto e che mi sono liberato.» Invece di replicare lui rimase seduto guardandomi. Poiché il telefono seguitava a suonare attraversai la stanza per andare a rispondere. Ma quando sollevai il ricevitore accadde una cosa ridicola. Non riuscivo a stringerlo. Le dita e il palmo mi s'intorpidirono e il ricevitore mi scivolò dalla mano, cadendo rumorosamente a terra. FINE