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SIMON KERNICK LA CARNE DI LONDRA (The Murder Exchange, 2003) Per Amy, anche se non ancora Sebbene virtualmente tutti i luoghi in cui si svolgono gli eventi narrati in questo libro esistano davvero, alcune delle vie citate sono intenzionalmente fittizie. ORA Non esiste sensazione più spaventosa, più sconfortante, più disperata di quella che si prova di fronte a una pistola impugnata saldamente e con freddezza da qualcuno che sai ti ucciderà. Ti senti inerme, pervaso da un senso di assoluta impotenza, perché ti rendi conto che niente che tu possa dire o fare, nessuna implorazione, nessuna preghiera, nulla, sposterà di un solo millimetro l'arma puntata su di te o impedirà al proiettile di partire e di penetrarti nel corpo, lacerando gli organi interni e ponendo fine a ogni esperienza, a ogni pensiero, a ogni tuo sogno. Ti vengono in mente le persone care, i luoghi amati, e capisci che non rivedrai più niente e nessuno. Ti si rimescolano le viscere, le terminazioni nervose nella zona rettale sono così in fibrillazione da convincerti che stai per fartela addosso, e ti senti cedere le gambe come uno di quei vitellini appena nati che si vedono a volte in TV. E gli occhi. Sai che i tuoi occhi tradiscono un senso di totale e assoluta sconfitta. Sei un uomo morto, e ne sei perfettamente consapevole. Poi accaddero due cose. MARTEDÌ, DICIANNOVE GIORNI FA Iversson A dire la verità, capii che Roy Fowler era una sicura fonte di guai nell'attimo stesso in cui posai gli occhi su quel bastardo. Tanto per cominciare aveva gli occhi troppo ravvicinati e le sopracciglia a cespuglio unite in mezzo come un lupo mannaro, il che, stando a un libro che ho letto una
volta, è sempre di cattivo auspicio. Non mi piacque neppure il suo naso, né l'abbronzatura artificiale, ma non avrei permesso che questi dettagli intralciassero gli affari. Altrimenti sarei stato sul lastrico. Ma nel portamento di Fowler captai qualcosa che mi mise in guardia. Camminava dardeggiando lo sguardo all'intorno e registrando chiunque, come se si aspettasse che da un momento all'altro qualcuno balzasse in piedi e gli sparasse un meritatissimo colpo di pistola alla schiena. Poteva anche tentare di nasconderlo con il completo di ottimo taglio e con quel sorriso da bonaccione che gli si stampò in faccia appena mi scorse, ma avrei potuto dirvelo fin dal primo istante: Roy Fowler era un tipo losco, dall'aria colpevole. Mi alzai mentre si avvicinava e ci salutammo. La sua stretta fu abbastanza vigorosa ma umidiccia, e ci mancò poco che mi asciugassi il palmo sulla camicia quando ritrassi la mano. «Mr Iversson...» «Mr Fowler. Si accomodi.» Si lasciò cadere pesantemente sullo sgabello di fronte a me e saettò di nuovo lo sguardo all'intorno. Non sembrava del tutto a suo agio. «È sicuro che questo sia il posto più adatto per discutere?» «Una volta qualcuno mi ha detto che questo Pizza Hut è il posto migliore per un pranzo di lavoro, se si vogliono evitare orecchi indiscreti. È perché qui si mangia a menu fisso e a volontà.» Fowler inarcò un sopracciglio. «E allora?» «E allora attira madri con prole numerosa e inguaribili mangioni. Le prime devono stare dietro ai pargoletti, mentre gli altri sono troppo concentrati su quello che hanno nel piatto per prestare orecchio alle conversazioni ai tavoli vicini. Questo ti mette nella condizione di riconoscere a un chilometro di distanza qualsiasi avventore anomalo.» Fowler ripassò di nuovo il locale con un'occhiata e trovò conferma alle mie parole. Nel ristorante non c'era più di una decina di persone, sparpagliate qui e là fra i tavoli di formica e i séparé, tutti ingordi solitari e con almeno cinque chili di troppo, tranne una giovane mamma con dei capelli orrendi e i suoi tre striduli delinquentelli preadolescenziali. «Non capisco come faccia un posto così a fare affari» commentò Fowler con aria disgustata, tergendosi la fronte. Era una giornata afosa, e lui era decisamente troppo vestito. «Ha mai sentito parlare di una catena di fast food in perdita? Certo che guadagnano. È solo sugo di pomodoro e farina impastata. Al massimo qualche dadino di formaggio e un po' di carne a buon mercato tanto per
decorare la pizza. Scommetto che il titolare va in giro in Porsche e fuma sigari cubani.» «Crede?» Annuii. «Assolutamente. Si chiama Marco.» La cameriera, una teenager paffutella che dava l'impressione di assaggiare un po' troppo di frequente, e fuori pasto, il piatto forte della casa, si accostò furtiva al nostro tavolo e domandò a Fowler che cosa desiderava. Io avevo già pranzato prima di recarmi all'appuntamento (per me niente menu fisso con ingozzo a volontà) e mi stavo coccolando la seconda Becks. «Solo una Coca-Cola» rispose Fowler, senza neppure disturbarsi a guardarla. La cameriera si allontanò e lui si tolse la giacca dell'elegante completo. Una goccia di sudore gli colò da una tempia rigandogli la guancia. «Allora, in che cosa posso esserle utile?» domandai, andando dritto al punto. Fowler sospirò e mi scoccò un'occhiata da falco. Pensai che tutto sommato non avrebbe fatto troppo schifo fisicamente, non fosse stato per gli occhi. «Mi occorre un servizio di protezione personale. E mi è stato consigliato di rivolgermi a lei.» «È quello che ha detto al telefono. Si può sapere chi mi ha fatto pubblicità?» Restò in silenzio mentre la cameriera gli serviva la Coca. Prima di parlare aspettò che si allontanasse. «Johnny Hexham. Eravate a scuola insieme, giusto?» «Sì, è così.» In passato Johnny era stato un buon amico. Un tipo abbastanza a posto e un gran donnaiolo, ma non certo il tipo che brillava per onestà. Probabilmente avrebbe preteso qualcosa per avermi raccomandato. Che intascasse qualche svanzica dipendeva dall'esito della trattativa in corso. «Che genere di protezione cerca?» Fowler continuò a fissarmi con intensità: forse era persuaso che il suo sguardo potesse in qualche modo ipnotizzarmi, inducendomi a fidarmi ciecamente di lui. Non mi convinse per niente. Se mi avesse detto che avevo due gambe, avrei comunque dato una controllatina. «Fra un paio di sere avrò un appuntamento a cui non posso mancare. Le persone con cui mi incontrerò non sono stinchi di santo. Temo che se mi presentassi da solo potrebbero considerarlo un segno di debolezza da cui trarre vantaggio. Preferirei avere le spalle ben coperte.» «Che cosa le ha detto Johnny Hexham di me?» «Ha detto che quando era nell'esercito teneva testa a un'intera compagnia
e che sapeva il fatto suo. Sono le due cose che mi interessano di più.» «Bene. Spero le abbia detto anche che mi piace agire alla luce del sole. E non desidero essere coinvolto in rogne che mi facciano finire dentro per anni. Vede, Mr Fowler, sono soddisfatto della vita che conduco. Non sarà fantastica, a volte può anche essere una barba, e un mucchio di gente a cui faccio la guardia del corpo guadagna più soldi in un giorno di quanti io ne veda in un mese, talvolta perfino in un anno, ma comunque me la passo bene. E non voglio barattare la mia vita con un bugigattolo con le sbarre alla finestra. Ci siamo capiti?» «Perfettamente. E non le chiederò di fare niente che vada contro i suoi principi. È per una sola sera, un unico appuntamento, un lavoretto veloce. Desidero soltanto avere alle spalle gente su cui possa contare se le cose dovessero mettersi male.» «C'è questa possibilità?» Fowler scosse il capo. «No. È interesse mio quanto delle persone con cui devo incontrarmi che tutto fili liscio come l'olio.» «E questo incontro... Di che cosa si tratta, esattamente?» «Lei fa un mucchio di domande, Mr Iversson.» «È per questo che sono ancora vivo. Mi premuro sempre di sapere il più possibile riguardo a ciò in cui potrei restare invischiato.» «Mi sembra giusto. Diciamo che io ho qualcosa che loro vogliono, e loro hanno qualcosa che io voglio. È uno scambio.» «Ne so quanto prima. Ho bisogno di sapere che cosa vi scambierete.» «Perché?» «Perché per quel che ne so potrebbe portarsi dietro venti chili di cocaina e loro potrebbero essere dei poliziotti in borghese. Tempo fa a un mio collega fu chiesto di consegnare un pacco, di cui ignorava il contenuto, a un certo indirizzo di Regent's Park. Duecento sterline per mezz'ora di lavoro, senza fare domande. Difficile dire di no, le pare? Quando suonò alla porta, il tizio che gli aprì era della Buoncostume e il mio collega fu arrestato. Venne fuori che il pacco era pieno di riviste porno in cui erano ritratti bambini non più grandi di quelli seduti a quel tavolo. Perciò, sono sicuro che mi capisce se insisto nell'affermare che la prudenza non è mai troppa.» «Se glielo dico, voglio che resti fra noi. Non dovrà farne parola neppure con chi si porterà dietro, se decide di accettare il lavoro.» Gli assicurai che la sua confidenza sarebbe rimasta fra quelle quattro mura e Fowler si voltò per l'ennesima occhiata di perlustrazione, tanto per essere certo che nessuno stesse origliando. Poi si girò di nuovo verso di
me. «Al telefono le ho detto che sono il titolare di un locale notturno, giusto? Be', un paio di mesi fa fui contattato per una proposta di acquisto da certi... uomini d'affari. Non ero granché interessato a vendere, almeno non per la cifra che mi avevano proposto, perciò rifiutai. Quelli alzarono l'offerta, ma ero ancora titubante. Sa, possiedo quel locale da una decina d'anni e mi ha sempre reso discretamente. Sono proprio come lei: non nuoto nell'oro ma me la passo bene. Comunque, ritenni che potessero alzare ancora la somma, perciò tenni duro sperando in un rilancio e pensando che in ogni caso non avevo nulla da perdere.» Si interruppe un momento per bere un sorso di Coca. «Poi cominciarono ad accadere cose strane. Nel mio locale iniziarono ad affluire elementi poco raccomandabili, gente volgare e attaccabrighe. Risse che scoppiavano, arredamento danneggiato, personale minacciato: quel genere di guai, insomma. Poi alcuni dei miei addetti alla sicurezza si licenziarono, accampando la scusa di aver trovato occasioni migliori altrove. Non mi ci volle molto per scoprire che dietro tutto questo c'erano i miei acquirenti, e che si trattava di persone da cui era meglio stare alla larga. Qualche giorno fa sono tornati alla carica chiedendomi di riconsiderare l'offerta iniziale.» Fowler alzò le spalle. «Secondo lei cosa avrei dovuto fare? Il posto mi piaceva, mi piace ancora, ma restare attaccati al passato non serve a niente. Specie quando il futuro si prepara a prenderti a calci nelle palle. Semplicemente, non valeva la pena di insistere, peggiorando la situazione. Perciò ho detto che avrei accettato. Però la seconda offerta, non quella iniziale.» Abbozzai un sorriso. Nei suoi panni avrei fatto lo stesso. Con i vincitori non si è mai disposti ad ammettere la resa. «E loro che cosa hanno detto?» «Saranno anche dei malviventi, ma sono pur sempre uomini d'affari. Immagino che abbiano pensato di aver vinto comunque convincendomi a cambiare idea, e questo gli bastava.» «E l'offerta che le hanno fatto era buona?» «Niente male. Poteva andare peggio.» «Allora che problema c'è? Cosa c'entro io?» «Di comune accordo, abbiamo deciso per uno scambio corretto su terreno neutrale. In pratica, l'atto di proprietà in cambio della somma pattuita. Non vogliono notai fra i piedi e tanto meno quelli della tributaria. Nessuno, a parte noi, deve sapere niente. Un puro e semplice baratto senza tante scocciature. E mi pagheranno in contanti, senza fare domande. Dopodiché, sparirò dalla scena. Il suo aiuto è indispensabile e il motivo mi sembra ov-
vio. Quei tipi saranno anche uomini d'affari, ma non sono affatto, diciamo così, contrari all'uso della forza per ottenere ciò che vogliono. Visto che opereremo in barba ai notai e all'ufficio delle imposte, non ho alcuna garanzia che non mi costringano a firmare una scrittura privata di cessione in cambio di un pugno di mosche. Con il suo sostegno e la sua presenza, ho più probabilità che si comportino in modo corretto.» «Di solito non accettiamo lavori di poche ore, neppure occasionalmente. I nostri servizi riguardano contratti a lungo termine.» «Per me si tratta di un affare della massima importanza. Non vi farò pentire di esservi scomodati.» Fowler bevve un altro sorso della sua bibita; io aspettai invece di sentire quanto valutava il nostro "incomodo". «Come le ho già anticipato, voglio tre uomini. Uno di loro dovrà essere lei. Johnny mi ha consigliato di insistere su questo punto.» «Ah, sì?» «Sì. Mi ha detto che ha sangue freddo da vendere e sa mantenere la testa a posto.» Non feci commenti, perciò Fowler proseguì. «Cinquemila. In contanti. È quello che sono disposto a pagare per lei e due dei suoi elementi migliori per farmi da scorta.» «È una bella cifra.» «È molto meno di quello che ricaverò dall'affare. Lo considero un investimento indispensabile. Un'altra cosa...» «Dica pure.» «Voglio che almeno uno dei miei guardaspalle, preferibilmente lei, sia armato.» Rafforzai la stretta sul bicchiere. «Non voglio farmi coinvolgere in niente del genere, Mr Fowler.» Fowler si sporse in avanti e io colsi una zaffata del suo alito. Era un'intensa combinazione di agro e dolce, come un deodorante nella toilette degli uomini. «Senta, capisco la sua riluttanza, ma tenga presente che ho a che fare con gente pericolosa. Se a uno di loro venisse in mente di fare una fesseria, come tirare fuori una pistola, non voglio che questo metta una croce sul mio fondo pensionistico. Conosco il suo curriculum, perciò so di non chiederle nulla che non sia in grado di affrontare, ed è proprio per questo che le offro una somma degna di considerazione.» «Le ho già detto che non mi va di essere coinvolto in cose che rischiano di farmi finire dritto in galera. E andare in giro a giocare con le armi da fuoco non favorisce di certo un'esistenza felice alla larga dai penitenziari.» «Offre servizi di protezione personale, giusto? Lei e i suoi collaboratori
fate le guardie del corpo a persone che si sentono minacciate, giusto?» Annuii, dato che fin lì aveva perfettamente ragione. «Bene, io mi sento minacciato e voglio che mi proteggiate per un periodo di tempo di... quanto?... non più di due ore al massimo, e per questo servizio sono disposto a sborsare un discreto malloppo. So benissimo che si tratta di un incarico che comporta dei rischi, ma il compenso è proporzionato alla posta in gioco. Se mi occorresse un servizio di sicurezza per una riunione di consiglio municipale in vista di eventuali sorprese da parte di qualche elettore incavolato allora varrebbe molto di meno, ma non è così.» Fowler si interruppe per finire la bibita. «Ma sa meglio di me che in pratica non c'è alcuna probabilità che qualcuno estragga qualcosa da una fondina. Non ne vale semplicemente la pena.» «Di questi tempi circolano un sacco di matti.» Fowler si abbandonò a un'espressione frustrata. «Mi serve una risposta. Vuole il lavoro sì o no?» Il guaio nella vita è che c'è sempre qualche pressione che ti costringe a prendere decisioni alla svelta. Il più delle volte la gente tende a seguire quello che suggerisce l'istinto e a cavarsi d'impiccio nel miglior modo possibile. Quando non si segue l'istinto è più probabile che si commettano errori. Spesso grandi come una casa. E, di solito, c'entrano i soldi. «Facciamo seimila» gli dissi «e accetto il lavoro.» E quello, naturalmente, fu il mio errore. La natura del mio lavoro è molto semplice. Dirigo un'agenzia che fornisce servizi di sicurezza e di protezione personale sotto forma di guardie del corpo a varie celebrità di secondo rango, e all'occasionale uomo d'affari poco affidabile che ha qualcosa da nascondere. E questo da cinque anni. Strano a dirsi, di solito è un mestiere piuttosto tranquillo e nessuno dei miei collaboratori è mai stato ferito nel compimento del suo dovere, il che immagino la dica lunga sia sulla nostra clientela sia su di noi, ed è proprio così che mi piace che vada. In passato ho avuto i miei giorni di gloria in fatto di eccitazione e di adrenalina. È stato abbastanza piacevole finché è durato, ma ormai mi sono lasciato tutto alle spalle. Riguardo a questo particolare incarico, avevo parecchie riserve, ma alla fine mi convinsi che gli acquirenti di Fowler non avrebbero fatto niente che potesse mandare a monte l'affare. Si sarebbero pappati il locale a un prezzo decente, a quanto pareva, e questo avrebbe dovuto bastargli. So che non si dovrebbe mai sottovalutare la stupidità e l'avidità della gente, ma
considerai che se avessero visto Fowler presentarsi con una scorta non sarebbero stati così idioti da cercare uno scontro. L'accenno alle armi da fuoco mi preoccupava un po', ma, francamente, ero convinto che non vi avrebbero fatto ricorso. Di nuovo, c'era da chiedersi che vantaggio avrebbero avuto. A Londra di questi tempi avvengono un mucchio di sparatorie, ma di solito la stragrande maggioranza dei veri psicotici sono degli sbarbatelli, e loro non se ne vanno in giro a comprare locali notturni. Dopo che Fowler ebbe levato le tende, provai a chiamare Johnny Hexham. Volevo raccogliere altre informazioni sul proprietario del locale e sulla sua situazione, ma Johnny non rispondeva. Perciò telefonai in ufficio al mio socio, Joe Riggs. «Tiger Solutions.» Mi venne un crampo allo stomaco, come mi capita sempre quando sento quel nome. Tiger Solutions! Non avrei mai dovuto lasciare che Joe mi convincesse riguardo al nome dell'agenzia. Joe era persuaso che avrebbe indotto la clientela a ritenerci un gruppo di gente tosta; io invece pensavo che ci facesse sembrare un fottuto ente per la difesa della fauna selvatica. «Joe, sono Max.» «Ehi, Max! Com'è andata con Fowler?» Gli dissi di che cosa si trattava e la cifra offerta. Joe emise un fischio. «È un mucchio di soldi. Praticamente la metà di quello che abbiamo racimolato in trenta giorni di duro lavoro il mese scorso. Ed è pure in contanti. Che rischi comporta?» «Gli acquirenti appartengono alla categoria dei piantagrane. E Fowler ha un'aria decisamente poco affidabile.» Joe ridacchiò. «È il titolare di un locale notturno, che cosa ti aspettavi? Sono tutti poco affidabili, ma non più di tanta altra gente che ci tocca proteggere. A ogni modo, non rinunciamo a un incarico così vantaggioso.» Come dicevo, i soldi fanno sempre scattare la molla. Non si è mai capaci di dire di no. Tralasciai di comunicare a Joe la richiesta di Fowler che andassi armato all'appuntamento. Era inutile. Avrebbe solo complicato le cose. Per dirla tutta, non ero nemmeno sicuro che mi sarei preso la briga di portarmi dietro una pistola, soprattutto perché non avevo alcuna intenzione di usarla in difesa del fondo pensionistico di Fowler. Se quei tizi avessero tirato fuori le sputafuoco, avrei alzato le mani più in fretta di una pornostar che si arrende alle voglie dello stallone di turno. Semplice. Rassicurai Joe che non avrei rinunciato al lavoro, non per seimila sterline. «Volevo soltanto sapere qualcosa di più su di lui e sul suo locale, tutto
qui. Non mi dispiacerebbe scoprire perché quella gente sbava a tal punto.» «Con un locale del genere si può fare un mucchio di grana, lo sai. Ai giovani piace spassarsela.» «Già, può darsi. Be', allora verrai con me per questo incarico?» «Quand'è?» «Giovedì sera.» «Questo giovedì?» «Sì.» «Ah, merda, non posso. Devo occuparmi di Terri.» Terri Dennett era una cantante pop non particolarmente dotata, con problemi di droga e un ego molto più sviluppato del suo talento. Ogni volta che partecipava a eventi importanti nell'ambiente discografico, o a cerimonie di premiazione, doveva essere accompagnata da una guardia del corpo con il duplice compito di garantire che i paparazzi non le si avvicinassero troppo - non che ci provassero più di tanto, comunque - e di impedirle di sgattaiolare via per assumere qualche sostanza stupefacente, facendo di conseguenza una figuraccia. La Tiger Solutions aveva insomma l'incarico di farle da balia e Terri aveva insistito che fosse Joe a scortarla nelle sue sortite in pubblico. Joe aveva il grado d'anzianità e la pazienza giusti per trattare con lei. Io no. Le avevo fatto da scorta una volta ed era finita malissimo. Ritiratasi un momento nella toilette delle signore, Terri era riuscita a mettere le grinfie su una dose di cocaina e l'aveva aspirata avidamente con un'unica tirata del suo bel nasino, dopodiché aveva finito per litigare di brutto con un sedicenne senza talento, membro di una di quelle obbrobriose boyband moderne al cui confronto i Westlife sembrano i Pink Floyd. Il pischello l'aveva accusata di cantare da schifo, il che era vero, solo che detto da lui era un insulto dei più atroci. L'avevo trascinata via quasi di peso prima che lo facesse a brandelli e quella puttana si era rivoltata contro di me, mi aveva sferrato a tradimento una ginocchiata nelle palle e aveva aggiunto al danno la beffa rovesciandomi in testa un bicchiere di costosissimo vino bianco mentre ero piegato in due dal dolore. Non credo che Terri si renderà mai conto di aver sfiorato la morte, quella sera. Mi occorse un tremendo sforzo di volontà per impedirmi di metterle le mani intorno al collo e stringerlo con tutta la forza che avevo fino a farle esalare l'ultimo respiro; ma in un modo o nell'altro riuscii a resistere, finendo per sollevarla di peso, caricarmela in spalla e uscire di là, fra due ali di paparazzi in tripudio che una volta tanto le dimostrarono un vero interesse, scattandole foto e riprendendola mentre veniva portata via urlante e scalciante. Arrivato
in strada, la scaricai sul marciapiede e la piantai in asso. Inutile dire che non mi volle più intorno. «Sai, Joe, hai sempre una scusa per tutto. Dove cavolo deve andare, stavolta?» «In qualche fottuto posto chic per artisti dove tutti si credono geni e non fanno altro che incensarsi reciprocamente, scambiandosi un mucchio di falsi complimenti. Che bel divertimento! Mi spiace, se si potesse fare altrimenti verrei volentieri con te.» «Sì, come no? A ogni modo, chi pensi che dovrei portare con me? È una faccenda delicata e voglio un paio di persone in gamba.» La Tiger, come la maggior parte delle agenzie che forniscono servizi di sicurezza, non disponeva di personale operativo in pianta stabile. I collaboratori su cui contavamo erano per lo più dei free lance, anche se sceglievamo con attenzione le persone adatte e di solito preferivamo, quando era possibile, gente con cui avevamo già lavorato. Passammo in rassegna alcuni nomi e alla fine decidemmo di limitare la scelta a tre collaboratori: due che avremmo particolarmente gradito e uno di riserva. Tutti avevano lavorato saltuariamente per la Tiger per almeno tre anni, ed erano tipi tosti, gente su cui si poteva contare al cento per cento se la situazione avesse preso all'improvviso una brutta piega. «Quando ha intenzione di sganciare la grana?» domandò Joe. «Per questo genere di lavoretti bisogna farsi pagare in anticipo. Non voglio correre il rischio che ci faccia fessi sparendo dalla circolazione.» «Tutto sistemato. Andrò a ritirarli con lui. Conterò il malloppo sul posto, poi farò un salto in ufficio e lo chiuderò in cassaforte prima di andare all'appuntamento.» «Ottima mossa. E dove avverrà questo incontro?» «Bella domanda. Non ne ho la più pallida idea.» «Be', se è parecchio lontano ricordati di mettergli in conto la benzina.» Questo era tipico di Joe. Si considerava un uomo parsimonioso, ma chiunque l'avrebbe definito piuttosto uno spilorcio. Feci una risata e riagganciai. GIOVEDÌ, DICIASSETTE GIORNI FA Iversson Sull'auto eravamo in tre. Io davanti, al posto del passeggero, Eric al vo-
lante e Tony dietro. Ci si sente sempre un tantino nervosi quando non si conosce la gente con cui si avrà a che fare e c'è la possibilità che qualcuno si comporti in modo imprevedibile. Ma se non altro avevo con me due tipi affidabili. Come tutti i nostri collaboratori, si trattava di due ex militari. Eric era un mio vecchio commilitone, un tipo massiccio appena oltre la cinquantina, un gallese che aveva passato quindici anni nei Welsh Borderers ed era stato un nostro collaboratore occasionale fin dal primo giorno. Con Eric c'era poco da scherzare. Non solo aveva una faccia come quella del mostro di Frankenstein, ma anche un fisico adeguato al personaggio, con pugni che sembravano mazze. Era un tipo calmo, per nulla irascibile, e un vero gentiluomo con le signore. Ma se lo si fregava, si pagava cara la propria impudenza. Una volta, alcuni anni prima, era stato ingaggiato da due strozzini albanesi per riscuotere un debito. Presentatosi all'appartamento in cui avrebbe dovuto incassare la somma, era stato accolto dal debitore e da due suoi compari, armati di manici di piccone. Secondo voci attendibili, i tre si erano avventati contro di lui in un attacco frontale, agitando i bastoni. Un errore madornale. Eric aveva colpito il debitore con tale forza che la sua testa aveva urtato violentemente con la nuca uno dei suoi compari, mettendolo al tappeto. Il terzo sgherro aveva fatto roteare minaccioso il suo manico di piccone, solo per farsi bloccare il polso da Eric con una mano e farsi rompere la mandibola con l'altra. Una scena che sembrava tratta da un film di Bruce Lee. L'entrata del dragone gallese, qualcosa del genere. Tutto era durato circa quattro secondi e l'avvenimento era subito diventato una leggenda locale. Tony era altrettanto tosto, ma completamente diverso. Vicino alla trentina, di bell'aspetto secondo i canoni della scuola pubblica, era un ex marine che aveva lavorato spesso per noi fin dai primi tempi. Era piuttosto basso, sul metro e settantacinque, e magro come un chiodo, ma anche uno degli uomini più svelti e in forma che avessi mai conosciuto. Mi piaceva. Era dotato di quello che si potrebbe definire uno spirito caustico ed elargiva le sue argute sentenze con la frequenza di un Roger Moore nei panni di James Bond, come se rischiasse di addormentarsi di botto prima di finire la frase. Ma c'era qualcosa in lui, nel suo portamento, che suggeriva a chiunque fosse stato in grado di coglierlo che nonostante il suo atteggiamento rilassato non era un tipo con cui scherzare. Si diceva che a Belfast, all'inizio degli anni Novanta, nel periodo precedente al primo cessate il fuoco, avesse colpito un cecchino dell'IRA, sparandogli poi il colpo di grazia invece
di catturarlo vivo. Tony non lo aveva mai ammesso, e neppure negato, ma c'era da credere che fosse la verità. Era fatto così. Ragguagliai brevemente i miei due compagni in merito all'incontro con Fowler e su quanto avevo scoperto da allora: non un granché, in effetti. Joe e io avevamo sondato l'ambiente per avere notizie riguardo a Roy Fowler e al suo locale, l'Arcadia. L'unica persona con qualche informazione era stato Charlie White, un altro ex soldato che a tempo perso faceva il buttafuori in vari locali a nord del Tamigi, e tutto quello che aveva saputo dirmi era che c'erano sotto problemi di droga. «Che bella sorpresa del cazzo» commentò Eric. «Ci sono sempre problemi di droga. Be', prevedi guai?» Non sembrava che la prospettiva lo preoccupasse molto. Gli indirizzai una delle occhiate più rassicuranti che riuscii a scoccare. «Non certo dopo che ci avranno visto.» «Le ultime parole famose» disse Tony con la sua tipica aria enigmatica. Ma in fin dei conti non si era mai dimostrato un tipo particolarmente ottimista. Stavamo andando a prelevare Fowler in un pub di Farringdon Street, poco distante dalla stazione della metropolitana. Era una caotica sera di tarda estate e il buio cominciava a calare nelle vie animate di Clerkenwell, gremite di gente uscita a gozzovigliare. La circolazione stradale era ancora sostenuta nonostante l'ora e scesi dall'auto una cinquantina di metri prima del punto stabilito per l'appuntamento, lasciando languire i miei due compagni in un tipico ingorgo di traffico urbano. Il pub traboccava di studenti, di impiegati alle prime armi e di giovani segretarie d'azienda, così che Fowler, con la sua tintarella fasulla e la sua pettinatura da uomo di mezz'età, spiccava nettamente nella massa. Era seduto in un angolo a un tavolino minuscolo, proprio davanti alla toilette delle donne, con una pinta di Red Bull e l'aria di uno che fosse appena stato scoperto a fare porcate con una minorenne. Era nervoso, e anche a una certa distanza notai la patina di sudore che gli imperlava la fronte. Mentre mi dirigevo verso di lui rendendo un branco di giovani oche dall'abbigliamento succinto e dalle vocette stridule, vidi che aveva sulle ginocchia due valigette, una delle quali c'era da sperare contenesse seimila sterline in contanti. Dalla sua faccia si sarebbe detto che l'altra contenesse una bomba. «Mr Fowler, è pronto?» Fowler mi vide e abbozzò un sorriso di sollievo. «Prontissimo. Forza, al-
lora, andiamo.» Si alzò in piedi un po' barcollante, cercando di reggere le due valigette con una sola mano. Non ce la fece e ne mollò una, che cadde rumorosamente sul pavimento. Rapido come un fulmine, si chinò a raccoglierla. «Questa è sua» disse, consegnandomela in un modo che mi parve studiato apposta per attirare l'attenzione. La presi con la massima noncuranza possibile e, con Fowler alle calcagna, mi voltai puntando verso l'uscita. L'auto giunse davanti al pub nel momento stesso in cui uscimmo sul marciapiede. Invitai Fowler a salire dietro con Tony prima di prendere posto a mia volta davanti. «Mi faccia un piacere, Mr Fowler» dissi. «Eviti di attirare l'attenzione, come quando mi ha consegnato la valigetta nel pub. Avrebbe potuto darmela una volta arrivati in ufficio.» «Mi scusi, non ci ho pensato» rispose, stringendosi al petto l'altra ventiquattrore. «Tutto bene?» «Sì, certo. Sono solo un po' nervoso, tutto qui.» Fowler si asciugò il sudore dalla fronte con un fazzoletto alquanto sporco mentre Eric invertiva la marcia in quel poco spazio disponibile e ripartiva nella direzione da cui eravamo venuti. «Non c'è niente di cui preoccuparsi» gli dissi. «Con noi è al sicuro.» Lo presentai agli altri due. Eric si limitò a emettere un grugnito. Non era mai molto affabile con i clienti, specie se si trattava di titolari di locali dall'aria melliflua. Tony concesse a Fowler uno dei suoi sorrisi a metà e tese la mano, che Fowler strinse con eccessivo vigore. La Tiger Solutions aveva sede in alcuni locali sopra un malridotto negozio di telefonia mobile, in prossimità di Highbury Corner. Eric imboccò la corsia riservata agli autobus e accostò l'auto direttamente davanti all'entrata; poi restò ad aspettare in macchina con Tony mentre Fowler e io andavamo in ufficio a contare le seimila sterline. «Ha con sé la pistola?» mi domandò Fowler mentre riponevo il denaro nella cassaforte. C'era tutto, in biglietti da cinquanta e da venti. Lo fissai con attenzione. Mi osservava con aria rapace, spostando nervosamente il peso da una gamba all'altra: un uomo con la mente fin troppo in subbuglio. «Sì, ce l'ho» dissi, senza accennare a mostrargliela. «Me la faccia vedere. Voglio assicurarmi che ce l'abbia davvero.» La sua voce era un piagnucolio indisponente, come quella di un bambino viziato.
Quel bastardo cominciava a trasmettermi una brutta sensazione. Comunque, qualunque cosa pur di chiudergli il becco. Allungai la mano sotto la falda della giacca, sopra le reni, ed estrassi la Glock 17 dalla cintura dei jeans. La tenni sul palmo della mano perché la vedesse, riflettendo intanto sulla straordinaria abilità d'esecuzione con cui era stato prodotto un oggetto del genere, oltre tutto leggero come una piuma. Dite quel che volete dei tedeschi, ma fanno davvero a regola d'arte ogni cosa importante. Automobili, squadre di calcio, materiale pornografico (se si sorvola sui tagli dei capelli) e armi da fuoco. Fowler fece un passo in avanti e le diede un'occhiata prudente, come se temesse di esserne morso. «Funziona, vero?» «Sa qualcosa di cui non sono al corrente?» «Cosa intende dire?» «Perché tutta questa diffidenza? Pensa che sarò costretto a usarla? Perché, se è così, non sono sicuro di voler venire con lei. La mia vita e quella dei due uomini che ci aspettano in strada valgono molto più di seimila sterline. Capisce cosa intendo?» «Se pensassi che accadrà per forza qualcosa non andrei neanch'io all'appuntamento. Però, in caso di pericolo, voglio essere sicuro di disporre di un valido appoggio.» «Funziona» ribattei «ma se fossi costretto a usarla sarei un uomo infelice. E stia certo che lo sarebbe anche lei. Glielo garantisco.» Aprii la porta, poi aspettai che Fowler uscisse prima di spegnere le luci e seguirlo. «Svolti qui a sinistra» disse Fowler. Eric seguì le istruzioni e l'auto imboccò il vialetto d'ingresso di un parcheggio aziendale deserto, circondato da un reticolato. Una sbarra incustodita ci bloccava la strada. «Accosti alla colonnina con la tastiera e componga il numero di codice. È C234.» Eric restò in silenzio, ma fece come gli era stato ordinato e la sbarra si sollevò automaticamente. L'auto superò la barriera e proseguì fino a un incrocio a T. L'edificio a un solo piano di fronte a noi aveva un'insegna rossa al neon che lo identificava come la sede della Canley Electronics. «Restate qui un momento» disse Fowler, e scese dall'auto prima che avessimo il tempo di chiedergli dove aveva intenzione di andare. Restammo a guardarlo mentre attraversava la strada e si accostava a una siepe bassa e
stentata davanti alla Canley Electronics. Si fermò, guardò a destra e a sinistra con aria furtiva, poi si abbassò e spinse la ventiquattrore sotto la siepe fino a nasconderla completamente. «Cosa sta facendo?» domandò Eric. «Mi pareva avessi detto che si trattava dell'atto di proprietà del suo locale.» Scrollai le spalle. «È quel che pensavo.» Eric scosse la testa. Per la prima volta sembrava preoccupato. «La cosa non mi convince, Max. Sento puzza di bruciato. Che senso ha un appuntamento d'affari in un posto del genere...» «Forse sta solo prendendo delle precauzioni» commentò Tony, serafico come sempre. «Magari vuole prima accertarsi che abbiano portato il denaro.» «Può darsi» riflettei ad alta voce, senza sentirmi troppo persuaso. «Dobbiamo soltanto tenere gli occhi bene aperti, tutto qui. Evidentemente quei tizi sono più infidi di quello che pensavamo.» «Cristo, sono troppo vecchio per queste merdate. Sono già nonno, cazzo.» «Il trucco per tenere alla larga la vecchiaia è quello di fare esercizio fisico e mentale» sentenziò Tony. «Mio nonno da quando è andato in pensione non ha fatto altro che guardare la TV e nel giro di cinque anni è rincitrullito completamente. Ha finito per convincersi di avere una storia d'amore con Carol Vorderman, poveretto.» «Non so» dissi. «A me Carol piace parecchio.» «Le mandava fiori e tutto il resto. Alla fine mio padre e mia madre sono stati costretti a rinchiuderlo in un ricovero per anziani. Mancanza di stimoli, hanno detto gli esperti. Pensaci, Eric. In tutto questo c'è una morale.» «Vaffanculo» commentò Eric, fulminandolo con un'occhiata. Non che ci fosse del vero malanimo. Lui e Tony si conoscevano bene e, per quel che ne so, andavano anche d'accordo. Una delle ragioni per cui erano stati le prime due scelte, mie e di Joe, per quel lavoro. La conversazione si interruppe quando Fowler tornò all'auto e vi salì. «Okay, giri a sinistra e prosegua fino in fondo alla strada.» «Senta una cosa, Mr Fowler» dissi, mentre la Range Rover svoltava a sinistra e proseguiva lentamente attraverso il parcheggio aziendale, sobbalzando adagio sui dissuasori di velocità. «Com'è che ha scelto un buco così dimenticato da Dio per l'appuntamento? In questa città ci saranno due milioni di edifici. Qualsiasi altro posto sarebbe stato migliore di questo.» «Vogliamo un po' di privacy. Tutto qui.»
«Cristo santo» brontolò Eric. «Se volevate la privacy potevate venire dalle mie parti. Cazzo! È ridicolo.» «Siamo quasi arrivati» disse Fowler in tono irritato. Si abbandonò contro lo schienale ed emise un sospiro, asciugandosi la fronte per la centesima volta da quando lo avevamo prelevato al pub. Sembrava a suo agio come una bertuccia affetta da emorroidi. Tony gli domandò se si sentiva bene. Fowler annuì. «Sì, sì, sto benissimo.» Non ci convinse per niente. «Se avremo l'impressione che le cose si stiano mettendo male, ce la batteremo al più presto» disse Tony, estraendo un pacchetto di sigarette dal taschino della camicia e offrendone una a Fowler. Lui accettò e lo ringraziò, mentre Tony gliel'accendeva. «Fa tutto parte del servizio» continuò Tony, sporgendosi in avanti e agitando il pacchetto fra me ed Eric. Eric ne prese una. Io dichiarai che avevo smesso di fumare. «Ah, sì? E da quanto?» «Fin troppo tempo, accidenti.» Arrivammo a un altro incrocio a T e Fowler disse a Eric di svoltare a destra. Stavamo per arrivare all'estremità opposta della proprietà e, oltre gli edifici che sorgevano davanti a noi, riuscivo a distinguere il reticolato e, al di là, quello che sembrava terreno incolto. In quel punto c'era uno strano silenzio che incuteva timore, un'oasi solitaria nel bel mezzo della città. Il tipo di posto in cui si acquattano gli assassini negli incubi della nostra infanzia. «Penso che il posto sia quello là davanti» disse Fowler. Alla nostra destra, una cinquantina di metri più avanti e parzialmente oscurato dagli alberi, era apparso d'un tratto nel buio un imponente capannone di mattoni bianchi, più grande delle costruzioni che aveva a fianco. Sorgeva in posizione rientrante, a qualche metro dalla strada, dietro un piazzale in cui c'era posto per almeno una dozzina di auto. Il portone a due battenti era spalancato. Il piazzale era deserto, ma una luce era accesa all'interno del capannone, l'unica luce che avessi visto in tutta la zona. Mi sentii drizzare i capelli sulla nuca. La faccenda puzzava. E di brutto. Mi spinsi contro lo schienale del sedile, avvertendo la confortevole presenza della Glock che mi sfregava sulle reni, rassicurato dal pensiero che se proprio avessi dovuto usarla avrebbe fatto il suo sporco dovere. «È questo. Il capannone con la luce accesa. È lì che avverrà l'incontro.» «Per che ora le hanno detto?» domandai. «Ventidue e trenta.»
Guardai l'orologio. Le ventidue appena passate. «Meglio in anticipo che in ritardo, mi sa.» Eric rallentò e svoltò nel piazzale, attento a eventuali segni di attività. Ma non ce n'erano. Nessun movimento, nessuna voce, niente di niente. Il posto era deserto come un cimitero. Eric fermò la Range Rover davanti al portone aperto. «Be', qualcuno è stato qui, stasera» osservai. «Ma a quanto pare non è più nei dintorni» disse Eric, spiando all'interno del capannone. Nell'auto si avvertiva una crescente tensione. Se ne sentiva quasi l'odore. «Sicuro di aver capito bene l'orario?» domandai. «Certo» ribatté Fowler, che sembrava di gran lunga il più agitato della compagnia. «È ancora presto, no?» Si sporse in avanti e si terse la fronte con il fazzoletto. La sua gamba sinistra aveva un tremolio incontrollabile e, per una ragione o per l'altra, scoprii che il suo disagio mi dava un certo piacere. «Forse dovremmo andare dentro e dare un'occhiata» disse Tony, sporgendosi a sua volta in avanti. «Che ne pensi, Max? Potremmo prendere posizione in modo da essere pronti al loro arrivo.» Tutto sommato l'idea era buona. «Sì, facciamo così. Non c'è niente di male.» E questa fu una dichiarazione che avrei ricordato per tutta la vita. Eric premette adagio l'acceleratore ed entrammo in auto nel capannone. Lungo una ventina di metri e largo una decina, era vuoto, a parte una fila di vecchi fusti di petrolio sistemati a pochi passi davanti a una porta nell'angolo destro più lontano. Sopra la porta una lunga balconata si allungava da parete a parete per tutta la larghezza del capannone e sovrastava il muso dell'auto. Vari scatoloni senza contrassegni erano depositati lungo la balconata, alcuni dei quali impilati l'uno sull'altro. Alzai lo sguardo e osservai gli scatoloni in cerca di un segno qualsiasi di attività, ma era tutto immobile e tranquillo. Immobile come una tomba, come diceva sempre mia nonna prima di essere calata nella sua. La Range Rover si fermò in mezzo al capannone. Eric mise in folle e tirò il freno a mano. Anche lui fissò gli scatoloni sulla balconata. «Posto perfetto per un agguato» disse in tono pacato, quasi parlando fra sé. «Ho visto qualcosa del genere anni fa, nell'Ulster.» «Senta, è solo un cazzo di appuntamento» disse Fowler spazientito. «Nient'altro. Chiaro?» «Successe mentre eravamo acquartierati fuori Londonderry. La RUC, la
polizia nordirlandese, ricevette una telefonata da una donna che diceva di essere stata violentata in una vecchia fabbrica in disuso. Parlo di tanti anni fa, ancora all'inizio degli anni Settanta, prima che la RUC e l'esercito imparassero i metodi usati dai provos. All'epoca vigeva ancora il governo locale e tendeva ad affrontare la situazione attenendosi alle regole. A ogni modo, mandarono sul posto un'auto con tre agenti della RUC a prelevare la donna. E anche un'ambulanza. Giusto come precauzione. La donna aveva chiamato da una cabina telefonica fuori dai cancelli della fabbrica, ma quando l'auto giunse sul posto la videro che vagava sul piazzale interno della fabbrica, come in stato di choc.» Eric spense il motore. L'unico rumore che si sentiva era il respiro affannoso di Fowler sul sedile posteriore. «E così oltrepassarono in auto i cancelli e andarono a prenderla. La donna li vide, cominciò a urlare come un'isterica e corse a rifugiarsi nell'edificio, come se non riuscisse ad accettare di trovarsi di nuovo vicina a degli uomini dopo quello che le era appena successo. L'auto della RUC si fermò davanti alla fabbrica e gli agenti, tutti pivelli, si apprestarono a scendere. Nessuno di loro impugnò la pistola, non volendo spaventare ulteriormente la donna. Non penso che quei poveretti abbiano avuto il benché minimo sospetto. «Non misero mai piede sull'asfalto. Un paio di provos appostati al secondo piano, proprio sopra l'auto, fecero spuntare le canne degli Armalite dalle finestre e aprirono il fuoco. L'uomo al volante fu il primo a morire.» «E quello che sedeva davanti con lui?» domandai. «Se non ricordo male, morì poche ore dopo in ospedale.» «Fantastico. Questo sì che è confortante.» «Maledizione, Eric» sbuffò Tony. «Ce la metti tutta per farci stare meglio, eh?» «Io al posto tuo non mi preoccuperei troppo» ribatté Eric. «E nemmeno al suo posto» aggiunse, rivolgendosi a Fowler. «Quello seduto di dietro fu l'unico a scamparla. Fu colpito al collo, ma la pallottola passò da parte a parte senza ledere alcun nervo. A quanto ne so è ancora vivo.» «La smetta di fare il buffone e tenga le sue sparate per sé» sibilò Fowler. «La pago per questo.» Eric si rabbuiò in volto. Non gradiva i rimbrotti da nessuno, nemmeno dai clienti che lo pagavano. «Sai una cosa, Max? Comincio a pensare che questo lavoro valga molto di più di quello che mi frutterà.» «La vita è un mestiere sottopagato, Eric» commentai. «Lo sanno tutti.»
Consultai di nuovo l'orologio. Le ventidue e quattordici. «Mi sa che andrò a dare un'occhiata qui in giro.» Fowler si sporse bruscamente in avanti. «Non credo che sia una buona idea, Mr Iversson. Meglio restare tutti insieme e aspettare che si facciano vivi.» «Non andrò lontano. Voglio solo controllare la zona.» «Senta, scusi se insisto...» Scesi dall'auto, ignorando le sue rimostranze. Di solito sono piuttosto bravo a trattare con la clientela, per la verità, ma in questo caso non avevo intenzione di accettare altri lavori da quel deficiente, inoltre avevo già incassato la parcella in contanti, perciò la cortesia con quel verme non era più necessaria. In particolare perché era evidente che su quell'incontro la sapeva molto più lunga di quello che dava a intendere. Fregare la gente era un giochetto che si poteva fare anche in due. Mi sgranchii le gambe, poi mi incamminai verso la porta in fondo al capannone, tenendo d'occhio gli scatoloni sulla balconata. La storia di Eric mi aveva fatto venire i brividi più di quanto sarei stato disposto ad ammettere. A quanto pareva la cosa aveva fatto lo stesso effetto anche a lui, perché scese dalla Range Rover e si appoggiò al cofano, accendendosi un'altra sigaretta e scrutando gli scatoloni con sguardo vigile. Arrivai alla porta e tentai di aprirla. Era chiusa a chiave. Allora chi diavolo era venuto lì ad accendere le luci? E adesso dov'era? Mi voltai e tornai verso l'auto. Eric mi rivolse un'occhiata. «Niente?» Scossi il capo. «È chiusa.» Oltrepassai l'auto, diretto verso il portone spalancato e uscii all'aperto nel vento caldo. All'orizzonte, le luci lontane del West End baluginavano rosate. La strada era silenziosa e deserta. Tesi l'orecchio per sentire il rumore di un'auto in arrivo, ma non c'era niente, a parte il brusio lontano del traffico. Forse a quei tizi piaceva arrivare in ritardo tanto per fare più scena. Erano le ventidue e sedici, ed ero assai teso. Decisi di tornare all'auto e di interrogare Fowler per cercare di cavargli qualche altro particolare su cosa ci fosse esattamente in quella sua valigetta, quella che era stato così riluttante a portarsi dietro nel capannone. Mi girai. In macchina, Roy Fowler si stava ancora agitando in attesa che tutto finisse e la faccenda si concludesse senza problemi. Ancora dieci minuti,
continuava a ripetersi. Solo altri dieci minuti e sarebbe stato ricco. Tony gli batté in modo rassicurante una mano sulla spalla. «Senta, Mr Fowler, si calmi. Andrà tutto bene.» Fowler esalò un sospiro affannato e si girò verso Tony. La tensione era evidente sulla sua faccia. «Sto bene. Vorrei solo che arrivassero, nient'altro.» «Di quello non mi preoccuperei» disse Tony in tono incoraggiante. «Sono già qui.» Fece un cenno con la mano in direzione del portone, dove Iversson era ritto in piedi con le spalle rivolte verso di loro. Fowler si girò sul sedile e guardò fuori dal lunotto. «Dove?» «Qui» disse Tony, e appoggiò con forza il silenziatore contro la tempia di Fowler, appena accanto all'orecchio. Prima ancora che lui potesse reagire, Tony premette il grilletto. Fowler emise un fugace sospiro mentre il finestrino del passeggero dietro di lui si incrinò a raggiera, perforato dal proiettile. Fowler si accasciò sul sedile, rotolando a faccia in su, sotto gli occhi del suo assassino, permettendo così a Tony di premergli la pistola in mezzo alla fronte e di sparargli il colpo di grazia, per sicurezza. La portiera anteriore dal lato dell'autista si spalancò ed Eric, avendo udito il rumore del vetro infranto, infilò la testa nell'auto, del tutto ignaro di quanto era appena accaduto. Si avvide immediatamente di Fowler, morto sul sedile posteriore, con il sangue che gli scorreva sul volto e sulla camicia sudata in rivoletti sottili. «Cosa cazzo succede?» domandò. «Gli ho sparato» disse Tony, alzando la pistola e mirando alla faccia del suo collega. Eric sbarrò gli occhi e tese ogni muscolo del corpo, cercando di affrontare la visione terrificante che aveva davanti. «Tony, non farlo...» Tony sparò due volte. Entrambi i proiettili colpirono Eric in faccia. L'omone barcollò all'indietro, e Tony si sporse in avanti per sparargli altri due colpi al torace. A Eric cedettero di colpo le gambe e stramazzò di peso sul pavimento, gemendo e premendosi convulsamente una mano sul volto e l'altra sul petto. Nel frattempo Tony aprì la portiera dalla sua parte e scese per farla finita con l'uomo che fino a due minuti prima era stato il suo datore di lavoro. Mi stavo ancora girando quando Roy Fowler morì. Mi ci vollero un paio
di secondi per avvertire i rumori attutiti e cogliere con la coda dell'occhio il movimento sul sedile posteriore della Range Rover; a quel punto Eric si stava voltando, ancora con la sigaretta in mano, e si affrettava ad aprire la portiera. Feci un passo in avanti mentre Eric diceva qualcosa a Tony, poi una serie di deboli colpi come schiocchi attutiti provenne dall'interno dell'auto, la testa di Eric si mosse di scatto all'indietro e lui perse l'equilibrio, barcollando come un ubriaco. Capii all'istante che qualcuno gli aveva sparato, ma non sapevo ancora chi fosse stato. Era assurdo. Per un attimo restai come paralizzato, inchiodato dov'ero, confuso dal brusco mutare degli eventi, e annaspai con la mano dietro la schiena cercando di estrarre rapidamente la pistola dalla cintola. Nello stesso momento, Tony scese dall'auto quasi con noncuranza, con la pistola in pugno, e si girò verso di me. Alzò l'arma, con incollato in faccia quel misterioso sorriso appena abbozzato, e si preparò a fare fuoco. Per chissà quale motivo, il primo pensiero che mi balenò in mente fu quanto fosse irritante quell'espressione, una cosa che non avevo mai notato in precedenza. Il secondo pensiero che ebbi fu che Tony mi era sempre piaciuto. Poi il mio addestramento militare prese il sopravvento e mi tuffai a terra, rotolando su me stesso e impugnando la Glock. La sua pistola munita di silenziatore sparò due colpi mentre Tony veniva avanti, intenzionato a uccidermi, e i proiettili fischiarono nell'aria rimbalzando sul pavimento, a poche spanne dal punto in cui stavo rotolando. Tony aggirò la parta posteriore della Range Rover e prese di nuovo la mira, ma stavolta toccò a lui restare basito. Senza preavviso, smisi di ruzzolare e balzai in piedi di scatto, togliendo la sicura con il pollice in un gesto assai prossimo a un riflesso condizionato. L'espressione di Tony restò raggelata nell'incredulità, come se stentasse a credere che sarei stato così impertinente da puntargli contro un'arma. E poi sparai, con i colpi che esplodevano rimbombando nello spazio chiuso del capannone in un rabbioso frastuono. Anche Tony premette il grilletto e sentii sibilare un proiettile vicino all'orecchio sinistro, ma tutto si svolse con una rapidità tale che non ci pensai neppure e continuai a sparare, reggendo la pistola con ambo le mani, concentrandomi sull'assorbimento del rinculo e il mantenimento della mira, fino a svuotare il caricatore. Tony vacillò, arretrando di qualche passo, colpito alla spalla del braccio armato. Un secondo proiettile lo raggiunse alla gola, poi un terzo lo colpì al volto, facendolo roteare di fianco. Lo vidi che stava crollando a terra,
con la pistola che gli sfuggiva di mano e cadeva fuori della sua portata. Istintivamente, cercò subito di rialzarsi, e sul suo viso passò un'altra espressione d'incredulità quando si rese conto di essere in fin di vita. Un sangue talmente scuro da sembrare nero gli sgorgava dalle ferite al volto e alla gola, trasformando la sua polo bianca in un cupo, accentuato colore da film dell'orrore. Tony rimase in quella posizione, con il busto un po' sollevato da terra e la testa a una trentina di centimetri dal pavimento, per tre secondi circa; poi ricadde all'indietro con un tonfo sordo, tossendo convulsamente. Mi avvicinai a lui, tenendo ancora stretta in mano la Glock. Tony si girò su un fianco e si raggomitolò in posizione fetale, scosso da colpi di tosse e conati mentre la bocca gli si riempiva di sangue. Una cosa era certa: non avrei più potuto cavargli alcuna risposta. Una volta, in Africa, parecchi anni prima, mi era capitato di vedere un uomo colpito alla gola da una pallottola. Gli ci erano voluti quasi dieci minuti per morire, ansimando e tossendo abbondanti fiotti di sangue. Non ci si poteva fare niente. Non appena la pallottola lo aveva colpito l'esito era stato inevitabile. Era inevitabile anche adesso, ma ritenni di non poter semplicemente lasciare che accadesse. Come ho già detto, Tony mi era sempre stato simpatico. Espulsi il caricatore dal calcio della pistola e controllai i proiettili. Ne restavano tre. Inserii di nuovo il caricatore, abbassai l'arma e premetti il grilletto, spappolando il cervello di Tony e imbrattando il pavimento già sporco. Il corpo di Tony si contrasse un paio di volte, dopodiché giacque immobile. Mi fermai un momento, perlustrando con gli occhi il capannone e tendendo l'orecchio in cerca di rumori sospetti. Niente, a parte il lieve respiro proveniente da Eric. Andai da lui, rimisi la pistola nella fondina sopra le reni e mi inginocchiai. Era steso supino, con le mani incrociate sul petto come se fosse già nella bara. Il suo volto era una maschera di sangue, con i fori d'entrata dei proiettili di Tony chiaramente visibili. Uno era appena sotto l'occhio destro, l'altro sulla parte inferiore della guancia sinistra, due dita sopra il profilo della mascella. Una pozza rosso scuro si stava formando sul pavimento sotto la testa. Eric aveva gli occhi chiusi. Gli tastai il collo in cerca delle pulsazioni. C'era qualcosa, ma era debolissimo. Proprio mentre gli premevo le dita sul collo, le pulsazioni si affievolirono fino a sparire del tutto. Eric. Era stato una brava persona. Affidabile, professionale, tutte le qualità che si desideravano nel nostro mestiere. Non certo un uomo con cui ci si poteva prendere delle libertà, né uno che avesse paura di usare la forza
in caso di necessità, ma ciononostante un uomo il cui cuore era al posto giusto. Il povero Eric mi aveva perfino regalato una bottiglia di whisky a Natale, il che può essere considerato un piccolo gesto, ma è il genere di cose che apprezzo. Il fatto che intendessi pagargli solo trecento sterline per quel lavoro mi fece sentire in colpa. Non era davvero molto per cui lasciarci la pelle. Mi alzai da terra, chiedendomi cosa diavolo fosse andato storto e come avessimo potuto farci tradire in modo così clamoroso. Eric aveva tre figli, tutti grandi, e pure quattro nipoti piccoli. Ma era divorziato da un sacco di tempo. Perciò era assai improbabile che qualcuno dei suoi parenti più stretti sapesse dove si trovava quella sera. Ero in una posizione difficile. Se mi fossi rivolto alla polizia e avessi detto che cos'era accaduto, mi sarei esposto a ogni genere di domande, in particolare riguardo all'uccisione di Tony, e all'arma da fuoco non dichiarata che portavo con me. Se la mia versione dei fatti non li avesse convinti sarei potuto finire in galera per anni e, a dirla tutta, chi avrebbe creduto a una storia del genere? Le alternative, bisognava ammetterlo, erano anche peggiori. Andarmene da lì in auto a bordo di un veicolo danneggiato e registrato a mio nome, lasciandosi dietro tre cadaveri nella speranza che nessuno li mettesse mai in collegamento con me. Oppure occultare i cadaveri da qualche parte, privando così Eric di una degna sepoltura. Questo, naturalmente, ammesso che nessuno li scoprisse. Era in momenti come questo che sentivo il bisogno di una sigaretta. Non avrebbe migliorato le cose, ma in un modo o nell'altro fumare mi aveva sempre aiutato a riflettere meglio. Cercai di immaginare quale potesse essere stato il piano di Tony. Ucciderci tutti e sbarazzarsi dei corpi, suppongo. E poi? Joe sapeva che era venuto con noi, perciò era impossibile farla franca come se nulla fosse. Forse aveva in programma di sparire dalla circolazione. Ma questa ipotesi non suggeriva comunque alcun tipo di movente. Una cosa, però, era sicura. Era assolutamente impossibile che avesse organizzato da solo l'agguato omicida, e chiunque altro vi fosse implicato poteva benissimo essere nei paraggi. Decisi che attardarmi ancora sul posto era un rischio inutile. Aggirai la Range Rover, mi accostai al lato del passeggero posteriore e aprii la portiera. Il corpo rannicchiato di Fowler cadde fuori, rovinando sul pavimento in una posizione sgraziata. Era decisamente morto, e se non lo fosse stato, avrei ucciso io stesso quel figlio di buona donna. Il resto pote-
va costituire ancora un mistero, ma ero maledettamente sicuro che Fowler fosse stato l'artefice della propria fine. Un viscido bastardo come quello finiva sempre per farsi dei nemici. Pensai di spostare il cadavere in un posto meno visibile, ma senza guanti era impossibile. L'unica soluzione era lasciarli tutti e tre dove si trovavano e affrontare le conseguenze. Non potevo fare altro, almeno per il momento. Forse Joe avrebbe escogitato qualcosa. I danni all'auto erano superficiali: due fori nel finestrino, circondati da una ragnatela di crepe che si diramavano in senso concentrico. Avrei potuto togliere il cristallo perforato dal telaio e sostituirlo abbastanza facilmente. Fowler aveva perso un po' di sangue all'interno, ma non tanto quanto ci si poteva aspettare. Chiusi la portiera, feci il giro del capannone per spegnere le luci e tornai verso la Range Rover dal lato del conducente. Le chiavi erano ancora inserite nel quadro, perciò salii e uscii dal capannone in retromarcia, prima di scendere e di chiudere i due battenti del portone, sperando contro ogni logica che nessuno li riaprisse per molto, molto tempo. Mi restava da fare soltanto una cosa. Salii di nuovo in auto e percorsi lentamente la strada, rifacendo il tragitto che avevamo fatto all'andata, fino alla siepe davanti alla Canley Electronics in cui Fowler aveva nascosto la ventiquattrore. Fermai l'auto e, lasciando acceso il motore, scesi. Almeno quello era un mistero che potevo risolvere. Indugiai un momento e restai in ascolto. Il solito silenzio di tomba, a parte l'incessante brusio del traffico cittadino e lo strano richiamo di un uccello notturno. Alta nel cielo, una luna a tre quarti fissava impassibile la scena, indifferente agli eventi terreni. Feci una breve corsa verso la siepe e mi inginocchiai nel punto in cui Fowler si era accovacciato pochi minuti prima, poi tastai sotto il fogliame, certo di trovarmi nel punto esatto perché poco prima avevo osservato Fowler con la massima attenzione. La mia mano toccò qualcosa di duro. Una maniglia. Tombola. Estrassi la valigetta, provando un'esaltazione irrazionale. Morivo dalla voglia di sapere che cosa c'era di così importante per cui due uomini che conoscevo, due uomini che mi piacevano, avevano dovuto morire. Mi alzai in piedi e mi accinsi a far scattare le due serrature a ciascun lato della maniglia premendo lateralmente i pulsanti con i pollici. E in quel medesimo istante avvertii il rumore: una scarpa che sfregava sulla ghiaia dietro una delle due auto posteggiate davanti alla sede della
Canley Electronics, ad appena una decina di metri di distanza. Ebbi l'impressione di vedere qualcosa che si muoveva. Guardai più attentamente, mentre mi irrigidivo. Poi lo vidi, un uomo vestito di scuro e con un berretto da baseball, con il volto coperto da una sciarpa, che si muoveva nel buio. Sono gli unici dettagli che ricordo. Ero troppo occupato a fissare il fucile che imbracciava, con il calcio appoggiato alla spalla, il fucile che ora puntava dritto verso di me. Ci fu un sibilo minaccioso quando il proiettile mi fischiò sopra la testa, facendomi quasi la riga nei capelli, e colpì qualcosa con un clangore metallico. Mi abbassai subito dietro la siepe e mi misi a correre, tenendomi basso, verso la Range Rover, mentre altri proiettili mi fischiavano intorno. Aprii la portiera, gettai la ventiquattrore sul sedile del passeggero, mordendomi accidentalmente la lingua mentre un proiettile passava dritto attraverso l'auto e usciva dal finestrino abbassato dal lato del conducente, rimbalzando sullo specchietto laterale. Estrassi la Glock dalla fondina sopra le reni ed esplosi i miei ultimi due colpi prendendo di mira lo sconosciuto quando girò intorno alla siepe ed entrò nel mio campo visivo. Ero sicuro che entrambi i colpi avevano mancato il bersaglio, costringendo però l'uomo a tuffarsi dietro la siepe e a togliersi temporaneamente dai piedi. Senza aspettare che ricomparisse, saltai in auto, innestai con furia la prima e mi allontanai il più in fretta possibile, senza disturbarmi a guardare indietro o a fermarmi quando arrivai alla sbarra di legno all'uscita del parcheggio. La urtai in pieno spezzandola in due, e proseguii con l'acceleratore a tavoletta. Probabilmente percorsi solo poche centinaia di metri prima che l'intensa curiosità che mi divorava avesse il sopravvento su di me. Nonostante sentissi in lontananza un frastuono di sirene che si avvicinavano, e sebbene sapessi che stavo rischiando moltissimo e inutilmente, non riuscii a resistere alla tentazione di fermarmi un momento e di prendere la valigetta sulle ginocchia. Di nuovo, trovai i pulsanti delle due serrature e questa volta ebbi davvero l'opportunità di premerli lateralmente. Con mia somma soddisfazione entrambe le serrature scattarono e la valigetta si aprì. Restai a fissare l'interno per almeno tre o quattro secondi, provando una confusione indicibile, incapace di comprendere a fondo quello che stavo osservando. Perché, vedete, dopo tutto quel dannato casino, la ventiquattrore del cazzo era vuota.
VENERDÌ, SEDICI GIORNI FA Gallan L'assassinio di Shaun Matthews, trentun anni, residente al Priory Green Estate di Islington, era stato un caso strano fin dall'inizio. Matthews aveva nemici a frotte, su questo non c'erano dubbi. Tre mesi prima che lo freddassero era stato minacciato da due uomini che aveva sbattuto fuori dall'Arcadia, un locale notturno di Holloway in cui lavorava come responsabile della sicurezza. Uno dei due, in seguito identificato come il ventottenne Carl Voen, aveva dichiarato di voler tornare sul posto per far saltare le cervella a Matthews. La sparata poteva anche non essere presa sul serio, non fosse stato per il fatto che Voen era un pregiudicato già incriminato per possesso illegale di arma da fuoco e sul cui capo pendevano due altre denunce per gravi lesioni personali. A parere di molti, era un uomo permaloso e molto irascibile. Disgraziatamente, aveva anche un alibi a prova di bomba riguardo all'ora della morte di Matthews. Nel momento in cui Matthews aveva bruscamente abbandonato le sue spoglie mortali, Voen si trovava in stato di arresto, sottoposto a un interrogatorio riguardo a una certa rapina a mano armata. Guarda caso, l'interrogatorio era stato condotto dai due ispettori che ora stavano indagando sull'omicidio. Shaun Matthews era anche uno spacciatore di droga. In base alle prove testimoniali raccolte dagli inquirenti, aveva fornito ecstasy, cocaina e, almeno in un'occasione, eroina ai clienti dell'Arcadia (apparentemente in collusione con la direzione del locale), come anche ad alcune persone che erano andate a trovarlo a casa sua. Secondo più di una fonte, si era anche guadagnato la cattiva fama di spacciare roba di pessima qualità, in particolare quando operava in proprio nel tempo libero, ricevendo i clienti nello stabile in cui abitava. Circolava una storia secondo cui un tossico che aveva accusato Matthews di avergli rifilato della cannabis particolarmente schifosa si era ritrovato a penzolare dal balcone del terzo piano del suo appartamento, trattenuto solo per una caviglia dallo spacciatore che, contemporaneamente, gli affettava le chiappe con un taglierino. Il disgraziato cliente aveva necessitato di oltre quaranta punti di sutura sul didietro e, anche lui, aveva lasciato l'ospedale mormorando parole di oscura minaccia nei confronti dell'uomo che gli avrebbe reso così difficoltoso sedersi per diversi mesi. Naturalmente in tutto ciò non c'era niente di strano. Le strade sono infe-
state da malviventi che si rifiutano di riconoscere o di tollerare persino gli aspetti più rudimentali del capitalismo e insistono nel calpestare i sentimenti e i diritti della loro clientela, facendosi nemici con la stessa noncuranza con cui le signore di una certa età si fanno tazze su tazze di tè. A volte, inevitabilmente, finiscono ammazzati, e di solito per mano delle stesse persone che hanno angariato. Però nel caso di Matthews sembrava esserci sotto più di quanto poteva apparire a prima vista. Tanto per cominciare c'erano voluti due giorni per stabilire che si era trattato di omicidio. Matthews era quello che un cronista di tabloid avrebbe descritto come un giovanotto "aitante": un metro e ottantotto di altezza per cento chili in gran parte di muscoli, all'apparenza in ottima forma, risultato delle sue visite quotidiane in palestra, e nessuna cartella clinica relativa a problemi di salute. Perciò, quando una mattina era stato rinvenuto morto nel suo letto da un paio di agenti di polizia chiamati da un collega dell'Arcadia, preoccupato dal fatto che Matthews non si era presentato al lavoro per due sere di seguito, la scoperta era stata uno choc per chiunque lo conoscesse. Forse non tanto perché era morto quanto per la mancanza di una causa evidente di decesso. Non si notavano lesioni o ferite esterne, né alcun segno di colluttazione. Matthews giaceva supino, nascosto a metà dalle coperte e con il capo reclinato da un lato. L'espressione del viso era quella che il primo agente investigativo giunto sul luogo del delitto aveva definito "riposata". Le braccia allungate lungo i fianchi, con i pugni socchiusi, completamente nudo. Sembrava morto per cause naturali, o forse per overdose. Il corpo di Matthews era stato sottoposto ad autopsia, e a quel punto le cose si erano fatte interessanti. Nonostante la costituzione erculea e la forza di cui era dotato, probabilmente Matthews sarebbe comunque vissuto poco. Aveva gravi problemi di cuore, probabilmente causati da un abuso di steroidi anabolizzanti. Nel sangue c'erano tracce di nandrolone, oltre che di cocaina e di alcol, e il braccio sinistro presentava segni evidenti di iniezioni. Sulle prime l'anatomopatologo aveva ritenuto che fosse morto per un attacco cardiaco, ma sfortunatamente tale diagnosi non spiegava le strane lesioni interne subite da Matthews. Si era verificata un'estesa emorragia, come anche un gonfiore sospetto delle cellule di diversi organi, in particolare i reni. In certo qual modo sconcertato, l'anatomopatologo aveva effettuato ulteriori esami. Questi avevano rivelato consistenti tracce di una potente neurotossina che aveva provocato le lesioni interne identificandosi, quasi certamente, con la causa del decesso. E questo era quanto. Consulta-
to il reparto di tossicologia del Guy's Hospital, gli esperti avevano stabilito che la neurotossina era veleno di serpente, di una specie appartenente alla famiglia degli Elapidi, per la precisione di cobra. Veleno di cobra. Difficile che fosse opera di un malvivente comune, sul tipo di quelli che Shaun Matthews di solito faceva uscire dai gangheri. Il che lasciava aperta la porta a qualsiasi ipotesi. I vicini di casa erano concordi sul fatto che Matthews riceveva una quantità di persone, e questo, dati i suoi loschi traffici, non sorprendeva affatto. Di conseguenza si era giunti all'inevitabile conclusione che l'assassino fosse uno dei suoi clienti. Dove un normale, insignificante acquirente di sostanze stupefacenti potesse essersi procurato veleno di cobra restava comunque un mistero. Il caso era strano e, per quanto mi riguardava, strano equivaleva a interessante, e interessante equivaleva a stimolante, che di questi tempi è una vera rarità. Mai sottovalutare la stupidità di una mente criminale. La maggior parte dei delinquenti fa sempre ogni sforzo possibile per farsi beccare. Nell'ultima indagine per omicidio in cui ero stato coinvolto, dieci settimane prima, l'omicida, un ladro d'auto diciassettenne di nome Rudi, aveva pugnalato a morte lo sfortunato proprietario di una BMW quando questi aveva osato opporre resistenza. Rudi era stato arrestato tre giorni dopo quando un'autopattuglia della polizia in perlustrazione aveva localizzato la vettura posteggiata davanti alla casa di sua madre. Ulteriori indagini avevano scoperto un'infinità di impronte digitali di Rudi all'interno della BMW, insieme a quelle di due suoi amici. Il coltello usato per l'omicidio, ancora sporco di sangue, era stato rinvenuto sotto il suo letto, nascosto in una scatola della PlayStation. Suppongo che verbali e scartoffie abbiano preso più tempo del lavoro investigativo. Sherlock Holmes non si sarebbe neppure scomodato ad alzarsi dal letto, e chi potrebbe mai dargli torto? Ma questo caso era diverso. Un avvelenamento apriva un ampio ventaglio di possibilità. Suggeriva moventi interessanti. Presupponeva intelligenza, o almeno creatività, da parte dell'avvelenatore, ma anche un'ingenuità incredibile. L'uso dei veleni è, in generale, un metodo alquanto stupido di commettere un omicidio. Ai nostri giorni è troppo facile da scoprire, e questo significa che il suo unico grande vantaggio - la capacità di fare apparire la morte della vittima un incidente - non è più valido. Ciò detto, però, il caso Matthews restava ancora irrisolto dopo sei giorni (o almeno l'omicidio Matthews) e non era ancora emerso alcun indizio degno di nota, né nulla che indirizzasse verso qualcuno in particolare. Era una bella mattina di sole, il quinto giorno di una tipica ondata di cal-
do inglese. L'agente investigativo Dave Berrin guidava l'auto a bordo della quale eravamo appena entrati nel parcheggio interno dell'Arcadia - un'imponente costruzione dell'immediato dopoguerra in Upper Holloway Road, dominante l'angolo dell'incrocio su cui sorgeva - per posteggiare in uno spazio contrassegnato con la scritta RISERVATO AL PERSONALE. Logicamente, a quell'ora il locale era chiuso, ma eravamo attesi e ci incamminammo verso l'ingresso. L'interno era buio e spazioso, con una selva di tavolini rivolti verso la pista da ballo su tre lati. Al lato opposto della sala c'era un lungo bancone da bar con davanti una fila di sgabelli alti. Una donna era in piedi dietro il bancone, con in mano una penna, intenta a fissare alcuni fogli che aveva davanti. Era l'unica persona presente. Udendo i nostri passi sul parquet, alzò gli occhi. «Scusate... siamo chiusi» gridò dal fondo della sala, tornando alle sue carte. «Apriamo a mezzogiorno per il pranzo.» «Siamo agenti di polizia» dissi ad alta voce, attraversando la pista da ballo seguito da Berrin. «Abbiamo appuntamento con Mr Fowler.» «Non è qui» rispose la donna. «Dovrebbe esserci. Ha detto che ci avrebbe aspettato. Ci eravamo messi d'accordo per incontrarci alle undici.» «Be', non c'è.» Salii i gradini che dalla pista da ballo portavano all'altezza del bar e mi fermai di fronte alla donna. Lei continuò a scrivere sui fogli posati sul bancone. «Allora forse può dirci dov'è.» La donna alzò lo sguardo con un'espressione un po' scocciata. «Non lo so. Avrebbe dovuto essere qui più di un'ora fa.» Quella donna aveva carattere, poco ma sicuro. La esaminai rapidamente. Sulla trentina, snella, dai lineamenti marcati, un naso forse un po' troppo affilato, e un'aria vagamente mediterranea, in particolare gli occhi color nocciola. Era attraente, molto attraente, ma in un modo scontroso e scafato, del tipo "non rompetemi l'anima", con la cinica sicurezza di una donna che non temeva di tirare fuori le unghie. Fossimo anche stati due soldati nazisti non l'avremmo intimidita per niente. Il film preferito della mia ex moglie è Via col vento, e penso che questo la dica lunga sul suo conto (per quanto non sia sicuro a proposito di che). Il film preferito di quella generalessa sembrava invece Scarface. «È possibile che sia a casa?» le domandai. «Gliel'ho già detto, non so dove sia.» Emisi un lungo sospiro con studiata ostentazione. «Però immagino che
abbia il numero di telefono di casa sua. Giusto?» La donna annuì. «Allora gradirei che gli telefonasse e gli dicesse che siamo qui.» «Senta, sono molto occupata.» La donna fece un gesto per indicare le carte che aveva davanti. «Anche noi, Miss?...» «Toms. Elaine Toms. Ieri l'altro ho parlato con un paio dei vostri agenti.» «Be', anche noi siamo molto impegnati e le sarei molto grato se avesse la cortesia di telefonare a Mr Fowler per vedere se è in casa. Ci vorranno pochi secondi.» Il mio tono era pacato ma fermo, tanto per chiarire che avevo intenzione di insistere fino a ottenere un briciolo di collaborazione. Alla fine funziona sempre, ma vi stupireste di quanta gente impiega un sacco di tempo a recepire il messaggio. Senza dire una sola parola, la donna si voltò, si diresse verso il telefono a parete nell'angolo e compose un numero. Ero un tantino irritato perché mi ero preparato per quell'interrogatorio per un'intera giornata. Avevamo già conferito una volta con Fowler, ma solo il tempo necessario per accertare la sua posizione all'interno del locale, che rapporto aveva con il deceduto, e se poteva far luce in qualche modo su quanto era accaduto. Fowler aveva avuto l'acume di dimostrarsi il più servizievole e amichevole possibile, ma in pratica non ci aveva rivelato granché. Com'era previsto, aveva negato di sapere qualcosa riguardo al coinvolgimento di Matthews nello spaccio di sostanze stupefacenti. Aveva dichiarato che, in veste di titolare dell'Arcadia, non tollerava l'uso di droghe nel suo locale, ma era consapevole del fatto che la cosa accadeva. "Sto cercando il modo di combattere questa situazione" aveva detto, avanzando l'ipotesi di installare delle telecamere nelle toilette. "È lì che di solito avvengono gli scambi, ne sono certo" aveva aggiunto: una deduzione più che logica. Né io né Berrin avevamo trovato molto utile l'interrogatorio, soprattutto perché nelle risposte di Fowler c'era qualcosa di poco attendibile. Da allora era emerso che Fowler, sul finire degli anni Ottanta, si era beccato una condanna per spaccio di sostanze stupefacenti di classe A, e che uno dei suoi complici all'epoca era stato Terry Holtz, il defunto fratello di un noto malavitoso locale. Un paio d'anni prima aveva anche subito una condanna per guida in stato di ebbrezza da cannabis e il suo locale era stato oggetto di retate in due diverse occasioni da parte della Narcotici nel tentativo di arrestare dei sospetti spacciatori. L'ultima diciotto mesi prima, sebbene ci fosse da dire
che in entrambe le retate non era saltato fuori nulla. Cosa ancora più promettente, nell'ambiente circolava voce che, benché il nome di Fowler comparisse sugli atti notarili del locale notturno, non fosse lui il proprietario. Si diceva che quest'ultimo fosse un certo Stefan Holtz, lo stesso malavitoso locale con il fratello del quale Fowler era rimasto invischiato una volta. La sensazione nella squadra investigativa del commissariato di zona era che il movente dell'omicidio fosse quasi di sicuro connesso alla droga e avesse qualcosa a che fare con un disaccordo tra Fowler e Matthews. Dato che Fowler era apparentemente il titolare dell'Arcadia, e che quasi certamente mentiva quando affermava di non tollerare la droga nel suo locale, e dato che Matthews a quanto pareva era stato lo spacciatore principale dell'Arcadia, risultava assai probabile che il dissidio fosse sorto in merito a una cosa banale come la spartizione dei profitti. Erano tutte congetture, naturalmente, ma il comandante Knox, che dirigeva l'indagine, era un vero esperto di congetture. Io, però, non ne ero tanto sicuro, non solo perché ritenevo del tutto improbabile che Fowler avesse usato un oscuro veleno per sbarazzarsi di un socio d'affari piantagrane. Ero anche convinto che Fowler fosse in grado di fornire risposte adeguate a un gran numero di domande, in particolare riguardo la possibile implicazione della famiglia Holtz, ed ero impaziente di sentirle. Ma, a quanto pareva, avrei dovuto aspettare ancora un po'. «Non è in casa» disse Elaine Toms, tornando alle sue carte sul bancone del bar. «O non c'è o non risponde al telefono.» «Ha il suo indirizzo?» La donna annuì e lo scrisse su un foglietto. Lo presi, la ringraziai e me lo misi in tasca. Era in zona. «E qual è la sua posizione qui dentro, Miss Toms?» «Le ripeto che sono già stata interrogata in merito all'omicidio.» «Be', vogliamo farle altre domande. Vorrei solo rinfrescarmi la memoria riguardo alla sua deposizione.» «Ho parlato con un ispettore.» «L'ispettore Capper. Sì, lo so. Ora, se avesse la compiacenza di rispondere alle domande...» «Avete la tessera di riconoscimento?» Stava facendo la difficile, ma non avevo intenzione di litigare, perciò tirai fuori la mia tessera della polizia e gliela mostrai. Berrin fece altrettanto. Elaine Toms esaminò a fondo le due tessere, prestando particolare attenzione alla mia. «La sua foto non è delle migliori» mi disse.
«Le macchine fotografiche non mi rendono giustizia» commentai. «Qual è la sua posizione qui dentro?» «Dirigo il locale.» «E da quanto tempo ci lavora?» «Sono stata assunta nel luglio dell'anno scorso.» «Allora conosceva bene Shaun Matthews?» Elaine Toms sospirò in modo teatrale. «Sì, conoscevo bene Shaun Matthews. Ho già risposto a queste domande, lo sa?» «Sia buona. Immagino sapesse che spacciava droga.» «È una domanda o un'affermazione?» «Una domanda.» Elaine scrollò le spalle. «Ho sentito dire che smerciava qua e là, e che forse aveva venduto anche qualcosa qui dentro, ma io non l'ho mai visto, e non ho neppure mai visto nessuno prendere della roba. Di tanto in tanto capita qualcuno con la faccia losca, ma se non si comportano correttamente non li serviamo e li sbattiamo fuori. Non vendono di certo la roba qui dentro. Ho sentito che Shaun era questo gran spacciatore solo dopo che è morto.» «Dunque si unisce al coro? All'Arcadia non circola alcun tipo di droga e qui non si va dentro per questo genere di cose?» Elaine mi fulminò con lo sguardo. «Infatti. Ora, se avete finito...» «Il proprietario del locale è Stefan Holtz?» «Chi?» «Stefan Holtz. Sicuramente ne avrà sentito parlare.» Elaine scosse il capo. «È un notissimo... uomo d'affari locale, per usare un termine improprio.» «Senta, per quel che ne so, il titolare del locale è Roy Fowler. È lui che mi ha assunto ed è lui che mi paga.» «È sicura che il nome di Stefan Holtz non le suggerisca nulla?» domandò Berrin. «Ah, non è muto» osservò Elaine con un sogghigno. Berrin mostrò un leggero imbarazzo. «Si limiti a rispondere alla domanda» insistette, cercando di non farsi intimidire da Elaine. Però non ci riuscì. Elaine girò lentamente la testa nella sua direzione, lo fissò negli occhi, trasse un respiro profondo e rispose. «Sì, sono sicura.» Poi tornò a rivolgersi a me. «Non conosco nessun Stefan Holtz.» «Mr Fowler avrebbe dovuto fornirci un elenco dei buttafuori impiegati
saltuariamente negli ultimi sei mesi» proseguii «ma finora non l'abbiamo avuto.» «Poverini» esclamò Elaine con un sorrisetto mellifluo. «Lei è la direttrice» disse Berrin. «Può fornirci l'elenco?» Il sorriso sparì. «Non ho tempo. Per averlo dovrete parlare con Mr Fowler.» «Lo faremmo se fosse qui» dissi, pensando che questo era uno dei problemi più grossi nel lavoro di polizia. Per la maggior parte del tempo si tenta di cavare sangue da una pietra. «Ci indichi almeno il nome dell'agenzia che fornisce i buttafuori» aggiunsi, non volendo sprecare altro tempo con Elaine Toms «e ci metteremo in contatto con loro.» Elaine Toms restò zitta un momento, e il motivo del suo silenzio era semplice. Se la questione della proprietà nascondeva faccende losche, queste avrebbero riguardato anche l'agenzia che forniva i buttafuori, perché con i locali notturni funziona sempre così. Elaine Toms non voleva fornirmi l'informazione, ma sapeva anche di non poter mentire al riguardo, nel caso che Fowler mi avesse già indicato il nome dell'agenzia e io la stessi semplicemente mettendo alla prova. «L'agenzia si chiama Elite A» disse alla fine. Berrin prese nota del nome sul suo taccuino. «Ma non so quanto potranno esserle utili. Non penso che siano molto aggiornati in quanto a registri e contabilità.» «Che cosa glielo fa credere?» «Sapete come sono queste ditte che si occupano di sicurezza. Si avvalgono per lo più di free lance.» «Shaun Matthews era stato fornito dall'Elite A?» «In origine credo di sì, ma è stato prima che fossi assunta, perciò non posso affermarlo con certezza. I giornali sembrano suggerire che sia stato avvelenato.» «È quel che crediamo.» Elaine scosse la testa, come se rifiutasse di farsi una ragione che Matthews fosse finito in quel modo. «Com'è diventato il mondo, eh?» «È lo stesso posto di sempre, Miss Toms. Pieno di gente poco raccomandabile che fa cose poco piacevoli al prossimo.» Resistetti alla tentazione di aggiungere che con la dipartita di Shaun Matthews ce n'era almeno uno di meno. «Se sente Mr Fowler, la prego di dirgli di chiamarci immediatamente.» Elaine prese il mio biglietto da visita con il numero di telefono. «Allora, avete già qualche sospetto?»
«Stiamo lavorando su vari indizi» risposi, usando l'espressione di prammatica fra gli investigatori; in pratica un eufemismo per dire "no". Ovviamente, Elaine Toms capì l'antifona, perché si allontanò con un altro di quei suoi sorrisi appena abbozzati. La discussione era finita. Saliti di nuovo in macchina, Berrin si girò verso di me con espressione angustiata. «Non credo di aver fatto una bella figura, là dentro» disse. «Lei ha padroneggiato la situazione molto meglio di me, sergente.» Berrin è giovane, è laureato, e, come la maggior parte di noi, ha ancora molto da imparare. A differenza della maggior parte di noi, lo riconosce, e questo significa che non è sicuro di sé tanto quanto potrebbe essere. Dopo essere stato promosso, solo tre mesi prima, si era tolto l'uniforme da poliziotto, e a parte Rudi, il giovane ladro d'auto, questo era il suo primo caso d'omicidio. Ed era anche la prima volta che lavoravamo insieme. Alzai le spalle. «Faccio questo lavoro da molto più tempo, e ciò mi rende più facile trattare con gente come quella donna. Ricordati sempre che sei tu il capo. Con i tipi arroganti è facile dimenticarselo.» Berrin annuì, incupito da un'espressione pensierosa. In quel momento mi ricordò un concorrente di Faking It, il noto programma televisivo. Un mese di tempo per trasformare uno studente universitario londinese di bell'aspetto in uno scafato investigatore della polizia metropolitana. Si stava dando parecchio da fare per conoscere i trucchi del mestiere e per fare buona impressione, ma non mi sembrava un talento naturale. Si girò verso di me. L'espressione angustiata era stata sostituita da un'aria zelante e determinata, simile a quella che a volte si può vedere sul volto di certi missionari che vanno suonando di porta in porta. «Ho lasciato che mi prendesse in contropiede. È questo il problema. Non ho fatto abbastanza per convincerla a dimostrarmi rispetto. Non succederà più.» «Lo so» dissi, battendogli paternamente una mano sulla spalla. «Stammi vicino e diventerai un ispettore Callaghan in men che non si dica.» Berrin ingranò la prima e uscì dallo spazio riservato del parcheggio. «Sì. Certo.» Roy Fowler abitava in uno spettacolare complesso residenziale vicino a Finsbury Park. È quella che al giorno d'oggi si ama definire una "comunità cintata", sebbene al suo interno vi sia la tendenza a essere molto poco comunitari. Fummo fermati all'entrata da un portiere in divisa, un tipo ben oltre l'età della pensione che aveva l'aria di avere problemi a fermare uno spericolato ragazzino sullo skateboard, figuriamoci un intruso un po' so-
spetto. Gli mostrammo le nostre credenziali e ci lasciò accedere al parcheggio davanti ai palazzi di cinque piani disposti a semicerchio intorno a un ben tenuto, per quanto spoglio, giardino condominiale. Fowler occupava l'interno 12, nel secondo palazzo a sinistra. Ma se non era al lavoro, non era neppure a casa. Suonammo il suo campanello per diversi minuti, senza ottenere risposta. Telefonai all'Arcadia e verificai l'esattezza dell'indirizzo con Elaine Toms. Era giusto. Fowler non si era ancora degnato di farsi vedere al locale, un fatto che cominciava a irritare sia Elaine sia me. Restammo seduti in auto ad aspettare per dieci minuti senza alcun risultato, poi decidemmo di fare ritorno al commissariato. Era stata una mattina improduttiva e Berrin cominciava ad avere un'aria depressa, come se avesse finalmente capito che la vita nella squadra investigativa era molto più noiosa di come la facevano apparire in TV. Fu proprio mentre stavamo uscendo dal complesso residenziale che la vidi. Una Range Rover blu scuro che ci passò proprio davanti. Entrò nel nostro campo visivo per un paio di secondi al massimo, ma vidi subito che aveva dei fori nella carrozzeria e due finestrini chiusi con cellophane da imballaggio e nastro adesivo. Proseguì senza fermarsi e io memorizzai il numero della targa mentre Berrin si immetteva nel traffico, puntando nella direzione opposta. «Hai visto quell'auto?» gli domandai. Berrin non è l'osservatore più acuto del mondo. «Quale auto?» fu la sua risposta. Mi fermai a pensare un momento. Chi poteva essere così fesso da andarsene in giro a bordo di una Range Rover crivellata di colpi in pieno giorno? Ma quei fori non avevano l'aria di essere stati fatti in altro modo, e, come ho detto prima, non si dovrebbe mai sottovalutare la stupidità dei delinquenti. Probabilmente avrei fatto sprecare del tempo a qualcuno, ma levai di tasca il cellulare e chiamai il commissariato per riferire del veicolo sospetto, fornendone l'ubicazione e il tragitto possibile. «Vuole che faccia inversione e gli vada dietro?» domandò Berrin, uscendo dalla depressione. «Forse non è niente di strano. Lasciamo che se ne occupino gli agenti in divisa. Ho bisogno di mangiare qualcosa.» «Che ne pensate? Ritenete che l'uccellino sia volato via dalla gabbia?» La voce squillante e sicura apparteneva al comandante Knox, il grande
capo. Mai una volta che sorvolasse su un interrogatorio in programma. Berrin e io eravamo seduti nel suo ufficio, di fronte alla sua enorme scrivania, e gli stavamo spiegando perché scarseggiassero informazioni riguardo a Roy Fowler. «È come se avesse saputo che stamattina saremmo andati a interrogarlo» disse Berrin. «Però è strano» dissi. «Che sia scomparso così presto, intendo. È come ammettere la propria colpevolezza. Anche se, per essere onesti, non abbiamo raccolto alcuna prova a suo carico.» Knox annuì con la sua tipica aria da vecchio saggio. «È vero. Ma allora dov'è andato a cacciarsi?» Bella domanda. «Forse aveva un appuntamento più urgente e ha ritenuto che potevamo aspettare» dissi alla fine. Knox sbuffò spazientito. «Be', si sbaglia di grosso. Dirameremo la sua foto segnaletica. Qualsiasi pattuglia lo incontri, dovrà prelevarlo di peso e portarlo al commissariato per essere interrogato. Non mi piace il modo in cui al giorno d'oggi questi delinquentelli si danno un'aria da principi.» Berrin e io annuimmo per manifestare che eravamo d'accordo. Era sempre cosa buona e giusta convenire con Knox, e sempre fatale eccepire sui suoi pronunciamenti. A differenza di Berrin, non stava mai ad ascoltare, nonostante la sua dichiarata disponibilità. "La mia porta è sempre aperta" era uno dei suoi ritornelli preferiti, il che poteva anche essere vero, in linea di principio, ma la cosa finiva lì. «E l'elenco dei buttafuori? Mi sa che siamo ancora in alto mare, eh?» «Già. Però abbiamo parlato con la direttrice del locale, una certa Miss Toms, e ci ha detto che tutti i buttafuori occasionali sono stati forniti da un'agenzia che si chiama Elite A.» «Chissà se questa Toms è implicata nello spaccio di stupefacenti all'Arcadia» rifletté Knox ad alta voce. «Ha precedenti?» Knox scosse la testa. «Credo di no, ma questo non significa nulla. È fuor di dubbio che in quel locale si spaccia ed è quasi certo che l'offerta avviene alla porta. Perciò è assai probabile che la direttrice sia implicata. Dovrete andare a indagare all'Elite A. Non credo affatto che il titolare di quell'agenzia sia puro come un giglio.» Con la coda dell'occhio vidi Berrin che assentiva con zelo. Brutto sfacciato d'un paraculo. Era già un politico. «Per ora» continuò Knox «abbiamo interrogato tre buttafuori che lavorano all'Arcadia in pianta stabile, perciò occorre soltanto trovare e interrogare i
collaboratori saltuari che vi hanno lavorato negli ultimi sei mesi, anche se forse saranno un bel po'. Il locale lavora a pieno ritmo. Affido a voi due questo compito. Cercate di parlare con tutti quanti al massimo entro lunedì sera. Dobbiamo assolutamente colmare i vuoti relativi al caso.» «E questi tre buttafuori hanno detto qualcosa di utile?» «No. In qualche modo conoscevano tutti Matthews, ma hanno dichiarato di non averlo mai visto spacciare droghe di qualsiasi genere e, naturalmente, hanno negato di vendere roba per conto proprio. Quando li abbiamo contestati con le deposizioni testimoniali che confermano le attività dopolavoristiche di Matthews, tutti e tre hanno espresso sorpresa a vari livelli.» «Forse dovremmo offrire qualche tipo di ricompensa» suggerii. «Questo potrebbe convincerli a fornirci informazioni utili.» «È una possibilità come un'altra, nel caso non cavassimo un ragno dal buco, ma il bilancio piange e non sono sicuro che mi sentirei a posto sprecando denaro prezioso per risolvere l'omicidio di uno spacciatore manesco.» Di nuovo, notai con la coda dell'occhio che Berrin annuiva. «Potrebbe garantirci un esito favorevole.» «È da vedere. Abbiamo impegnato quasi tutte le nostre risorse finanziarie nel caso Robert Jones. Se dovremo dare fondo allo stanziamento, non saremo in condizioni di offrire ricompense per nessun altro caso prima del 2010.» Al semplice accenno di Robert Jones ebbi un sussulto. Mi succedeva sempre. Era uno dei pochi casi che mi avesse davvero inquietato in tanti anni di servizio nella polizia metropolitana. Robert era uno scolaro tredicenne scomparso sei mesi prima mentre compiva il solito giro mattutino per la consegna dei giornali. Il suo corpo era stato rinvenuto pochi giorni dopo sepolto in una fossa poco profonda nei boschi dell'Essex. Era stato pugnalato tre volte al torace e i suoi indumenti risultavano scomposti, lasciando intendere un'aggressione a scopo sessuale. Io avevo avuto lo spiacevole compito di andare a informare i suoi genitori, insieme all'agente psicologo che teneva i contatti con i familiari. Erano una coppia di brave persone della media borghesia che avevano permesso a Robert di impegnarsi in quel lavoretto di consegne solo perché si era detto pronto a risparmiare quanto bastava per comprarsi una bicicletta nuova. Io ero rimasto inerte, incapace di fare qualcosa di utile, davanti alla disperazione dei genitori sconvolti, mentre l'agente psicologo aveva confortato la sorellina di Robert quando lei era apparsa sulla soglia, troppo piccola per capire cosa stava succedendo. Robert era l'unico figlio maschio, l'orgoglio e la gioia
di casa. Ciò che mi aveva più colpito era stata l'enorme ingiustizia di quell'evento sciagurato. Un ragazzo di buona famiglia, mai invischiato in guai o problemi - contrariamente alla maggior parte dei piccoli bastardi con cui avevamo a che fare - che si rimboccava le maniche per progredire, solo per essere stroncato nello spazio di pochi secondi da un assassino che probabilmente non si rendeva neppure conto della terribile tragedia che stava provocando. Era uno spreco immane, e, sei mesi dopo, brancolavamo ancora nel buio, incapaci di affidare l'assassino alla giustizia, nonostante avessimo offerto una ricompensa di venticinquemila sterline in cambio di informazioni che portassero alla sua cattura: quindicimila sterline da parte della polizia e diecimila da parte di un facoltoso uomo d'affari locale. A differenza di Robert Jones, l'assassino aveva avuto ogni fortuna. «E la questione del veleno?» domandai. «Ci sono novità su quel fronte?» Knox aggrottò le sopracciglia, facendosi cupo. «Be', ci stiamo lavorando» disse senza troppa convinzione. «Come sapete, l'agente Boyd, che è specializzata in medicina legale, si tiene in contatto con il reparto di tossicologia del Guy's Hospital e gli specialisti consulenti del ministero degli Interni per quanto riguarda la sostanza scoperta nel sangue della vittima e la sua possibile fonte, ma non credo che verrà fuori qualcosa. Voglio dire, non è che si possa semplicemente fare un salto in farmacia, acquistare il veleno e firmare il registro delle sostanze tossiche. È veleno di cobra, Cristo santo.» «Non c'è nessun posto in questo paese in cui si possa trovare?» Knox scosse il capo. «Ufficialmente no. Come sanno anche i cani, l'unico posto in cui si può trovare è nella bocca, o in quello che è, di un cobra. E, per quel che ne so, non c'è alcun cobra nel raggio di ottomila chilometri da Londra. Però, se volete saperne di più a questo riguardo, dovrete parlarne con l'agente Boyd. Ora è ufficialmente la nostra esperta di sostanze tossiche. Il fatto è che ho qualche dubbio che lei o qualcun altro possano essere di qualche aiuto in questa indagine. Non abbiamo la più pallida idea di dove ci si possa procurare un veleno del genere, oltre tutto in una forma pronta per l'uso. Sappiamo soltanto che qualcuno è venuto in possesso di questo veleno in quantità sufficiente per ammazzare tre persone, e che in un modo o nell'altro ha avuto l'opportunità di iniettare l'intera dose nel braccio sinistro di un buttafuori di cento chili senza che questi facesse una piega, né che avesse la possibilità di rivolgersi a un medico per avere aiuto.» L'agente investigativo Berrin esalò un sospiro con aria meditabonda. «È
un mistero» disse. Una dichiarazione più banale di così sarebbe stata impossibile, ma concludeva perfettamente il discorso. Iversson Il traffico all'ora di pranzo era sostenuto e mi stavo facendo prendere dalla paranoia. Nulla di sorprendente quando si guida a una velocità da cane azzoppato a bordo di un'auto che sembra uscita da un film di Arnold Schwarzenegger, con tanto di macchie di sangue sul sedile posteriore, e si sa che gran parte delle pallottole che hanno rovinato la carrozzeria erano destinate a te. Ma cos'altro potevo fare? La Range Rover era registrata a mio nome e dovevo assolutamente nasconderla da qualche parte, in un posto dove non avrebbe destato eccessiva attenzione. Di conseguenza ero in viaggio verso la casa di un certo Gary Tyler, un nostro collaboratore occasionale che disponeva dell'incalcolabile risorsa di un'autorimessa dalle parti di Silvertown che avrei potuto usare come deposito finché non avessi stabilito cosa fare. Guardai l'orologio. Era l'una meno cinque. Che giornata! Non c'erano state notizie sul conflitto a fuoco della notte appena trascorsa. Nessun accenno. Chiunque avesse organizzato il nostro piccolo ricevimento al capannone - e qualche bastardo doveva averlo pur fatto - era tanto efficiente quanto spietato. Tre cadaveri abbandonati in una zona industriale nel cuore della parte settentrionale di Londra, in un inferno di colpi d'arma da fuoco, e neppure una riga al riguardo sui giornali né una sola frase in TV. E sì che avevo controllato un mucchio di volte, quel giorno. Quando in mattinata avevo parlato al telefono con il mio socio Joe Riggs era rimasto scioccato (sebbene non tanto quanto me nel momento in cui uno dei nostri collaboratori più fidati mi aveva usato per il tiro al bersaglio). E fu solo quando mi domandò se fossi riuscito a farmi pagare in anticipo che capii che quel taccagno bastardo aveva ragione. Alla fine, decidemmo di non parlare con nessuno della morte di Eric. Era scorretto nei confronti della famiglia, nessuno lo negava, ed era una decisione che poteva facilmente ritorcersi contro di noi, ma che alternativa avevamo? Se non altro, tenendo la bocca cucita c'era da sperare che avremmo evitato di attirare l'attenzione di qualcuno. Era l'ultima cosa che ci serviva. Ma quello che trovavamo davvero incomprensibile era il ruolo di Tony nella vicenda. Suppongo che entrambi ritenessimo di conoscerlo a fondo. Di recente non lavorava per noi così tanto, sempre più di rado negli ultimi
due anni, ma questo non significava nulla. Restava comunque uno su cui sapevamo di poter contare, e fino alla sera prima non ci aveva mai deluso una volta. Allora che cosa gli aveva fatto puntare improvvisamente una pistola contro Eric e me, e contro un uomo mai conosciuto prima di allora, come se niente fosse? Era una domanda da un milione di sterline. Concludemmo il discorso decidendo che io avrei tentato di scoprire qualcosa sul conto di Fowler, mentre Joe avrebbe fatto lo stesso con Tony, e ci saremmo incontrati il giorno seguente. Nel frattempo, dovevo sbarazzarmi dell'auto, e della ventiquattrore di Fowler, che si trovava ancora sul sedile al mio fianco. Il semaforo diventò rosso e mi fermai nella corsia più vicina al marciapiede, dietro a due auto. Davanti a me c'era una BMW nera con i vetri oscurati da cui proveniva una musica molto ritmata, sottolineata da un basso assordante, così potente da farmi tremare sul sedile. Da ragazzo il punk per me era il massimo e mia madre si lamentava continuamente di come quella musica fosse terribile e di come non si capisse una sola parola di quello che i cantanti sbraitavano. Io pensavo: cosa cazzo vuoi che ne sappia la vecchia? Ora capivo che si trattava di una questione generazionale. Quella roba moderna, il cosiddetto garage che aveva convogliato di colpo tutta la rabbia giovanile, era una schifezza totale, tanto per parlare chiaro. Non c'era neppure una traccia di melodia, solo un tizio che si vantava di quanto fosse tosto e di quanto le ragazze lo considerassero fico. I giovani di oggi non hanno il minimo gusto. Vidi le luci lampeggianti nello specchietto retrovisore e imprecai a denti stretti, perché capii subito di essere in trappola. La corsia accanto a me era intasata di macchine e il semaforo era ancora rosso. L'autopattuglia della polizia accese le luci di stazionamento e due agenti in divisa scesero dall'auto, sistemandosi in testa i berretti. Avrei dovuto affrontare la situazione. Vennero avanti passando ognuno a un lato della Range Rover e quello dalla mia parte batté sul finestrino. «'Giorno, agente» dissi, fingendomi il più disinvolto possibile. «Potrebbe spegnere il motore, signore, per cortesia?» domandò, scoccandomi l'occhiata di prammatica del bravo poliziotto sicuro di sé, un'espressione che voleva dire: "Se sei colpevole non cercare di nasconderlo perché tanto me ne accorgo lo stesso". Non aveva più di venticinque anni e non era particolarmente prestante. Aveva perfino le guance rosee. Era minaccioso quanto Tony Blair.
Sebbene fossimo su una strada a scorrimento veloce, il semaforo era ancora fermo sul rosso. Stentavo a crederci. Non c'era da meravigliarsi che Londra avesse problemi di traffico. Rendendomi conto di non avere scelta, spensi il motore. L'altro agente, perfino più giovane del primo, stava apparentemente ispezionando i fori delle pallottole sull'altra fiancata. «Posso esserle utile, agente?» «Le spiace se prendo queste per un momento?» fece lui, sporgendosi all'interno dell'auto e togliendo le chiavi dall'accensione. «Ci sono problemi? Avrei un po' fretta, per la verità.» Lo sbirro scrutò l'interno con l'attenzione di un segugio e notò le due macchie scure sul sedile posteriore, nel punto in cui Fowler aveva perso sangue. Le avevo lavate alla meglio qualche ora prima, ma conservavano ancora un'aria sospetta. Non ero mai stato un esperto nelle faccende domestiche. «Sembra che nel suo veicolo ci siano dei fori di proiettile, signore» disse, completamente impassibile, come se mi stesse informando che avevo uno sbaffo di dentifricio sul mento. «Abito in un quartiere pericoloso, agente.» Il suo collega aprì la portiera di dietro ed esaminò le macchie da vicino. «Cos'è successo, qui?» domandò. «Queste assomigliano parecchio a macchie di sangue.» «È vino rosso» gli dissi. «L'ho rovesciato accidentalmente ieri sera. Anche a lavarlo non viene via tanto bene.» «Le dispiacerebbe scendere, signore?» mi intimò il primo agente, aprendomi la portiera. «Non c'è problema» risposi, e scesi dalla Range Rover. Tenendosi alla maniglia, il pivello chiuse la portiera proprio nell'attimo in cui gli sferrai un uppercut micidiale che lo mandò a gambe all'aria. Cadde supino, mancando di un soffio le auto che passavano nella corsia accanto, e perse il berretto, che rotolò via e fu schiacciato al passaggio di un minibus carico di pensionati. «Ehi!» gridò il suo collega, cercando di estrarre lo sfollagente dal cinturone. C'erano troppe auto in movimento per attraversare la strada prima che riuscisse a raggiungermi, perciò aggirai di corsa il muso della Range Rover, salii sul marciapiede e mi avventai contro di lui prima che avesse il tempo di brandire lo sfollagente. Lo colpii con un diretto al naso facendogli perdere l'equilibrio, poi gli agganciai una gamba con la mia e lo mandai
a ruzzolare a terra con uno sgambetto. Stramazzò sull'asfalto, perdendo sangue dal naso, mentre io tornavo indietro di corsa per recuperare le chiavi. Ma gli automezzi si stavano fermando tutt'intorno a noi per assistere alla scena e il semaforo era di nuovo scattato sul rosso. Un operaio ben piantato era sceso dal suo furgone e mi stava fissando con aria truce, dandomi la preoccupante impressione che si stesse accingendo a eseguire personalmente l'arresto di un cittadino. Poi, in fondo al viale, udii il suono di una sirena. Ciò mi costrinse a una decisione avventata. Scappare! È quello che feci. E mentre me la battevo a gambe levate nella direzione opposta al suono della sirena, fra le espressioni esterrefatte dei passanti, fui colpito dal pensiero che, per quanto ritenessi brutta la mia situazione dieci minuti prima, adesso era cento volte peggiore. Se qualcuno avesse voluto far fuori Johnny Hexham, non avrebbe incontrato alcuna difficoltà a scovarlo. Ogni giorno all'ora di pranzo, fra l'una e le due, regolare come un orologio, lo si trovava al Forked Tail, una squallida bettola in una laterale di Upper Street, impegnato in pettegolezzi con i suoi compari malavitosi e a tramare l'ennesimo espediente tutt'altro che geniale per raccattare quattrini. A volte capitava in anticipo al pub, altre volte si fermava fino alle ore piccole del mattino successivo, ma, immancabilmente, era reperibile in quel tugurio fra l'una e le due. Arrivai al Forked Tail alle due meno dieci e rimasi in attesa di fronte al pub nell'androne di un negozio chiuso, oltre la strada, cercando di non dare troppo nell'occhio. Siccome era venerdì, immaginavo che quello stronzetto avesse in programma di trattenersi nel pub per tutto il giorno. Ma dato che si trattava di un abitudinario pensai che probabilmente sarebbe uscito un momento per andare a piazzare qualche scommessa all'agenzia ippica, dopo aver estorto una dritta al barista irlandese. Non intendevo avvicinare Johnny nel pub, che pullulava di troppe persone con le orecchie ad antenna, ma l'avrei fatto comunque se vi fossi stato costretto. Ero nei guai e volevo alcune risposte alla svelta. E bang, d'un tratto sbucò dalla porta, già intento a compilare una di quelle schedine ippiche che portava sempre con sé. Guardai l'orologio - le due e un minuto - e attraversai la strada, andandogli dietro. «Johnny Hexham... Quant'è che non ci si vede...» E oltre tutto era vero. Non lo vedevo da quasi sei mesi.
Johnny si voltò e mi riconobbe subito. Non sembrava troppo contento, ma fece uno sforzo notevole per nasconderlo. «Ehilà, Max» disse, fermandosi. «Come va, amico?» Lo raggiunsi e lo presi a braccetto. La stretta non era eccessiva, ma forte quanto bastava per fargli capire che non avevo intenzione di scherzare. «Male, Johnny. Male. Ci sono alcune domande a cui devo dare una risposta alla svelta, e penso che tu mi possa aiutare.» «Di che Bobby si tratta?» «Eh?» «Il Bobby Moore, il rospo che ti sta sullo stomaco.» «Si tratta di un certo Mr Fowler.» «Cazzo!» esclamò Johnny. «Lo sapevo che quel tipo avrebbe portato guai.» «Puoi dirlo forte, e non sai ancora tutto.» Gli lasciai andare il braccio e ci incamminammo in direzione di Chapel Market. Johnny mi lanciò un'occhiata nervosa. Potevamo anche essere vecchi compagni di scuola, ma era abbastanza sveglio da capire che il particolare biografico non avrebbe contato granché in quella conversazione. Sono un uomo capace di dimostrare compassione, ma, per essere onesto, è meglio non prendermi per il verso sbagliato. «Allora, di che cosa si tratta?» domandò Johnny. «Hai fatto a Fowler il mio nome. Perché?» «Non c'era niente di male, giuro. Ho solo pensato che voi due potevate combinare qualche affare insieme. Aveva bisogno di un servizio di protezione personale e...» «Com'è che lo conosci?» Dovevo ricordarmi di non usare i verbi al passato. «Veramente non lo conosco per niente. È stata Elaine a presentarmelo. Elaine Toms.» «Gesù benedetto. È ancora in giro?» Elaine era una nostra coetanea dei tempi della scuola, all'epoca in cui i Duran Duran erano i re del rock e il massimo della trasgressione stava nell'andare in giro con stivaletti bordati di pelo. Era sempre stata il genere di ragazza che piace ai maschietti perché, senza eccezione, scopava fin dal primo appuntamento - e per avere il primo appuntamento con lei bastava pagarle da bere - ed era anche molto carina. E bisogna ammettere che questa è una combinazione favorevole e piuttosto rara. Non che fossi riuscito a farmela. C'era sempre stata una coda troppo lunga davanti a me. E poi ai
tempi della scuola ero magro e bruttino. Come il vino buono, sono migliorato invecchiando. Erano come minimo quindici anni, probabilmente di più, che non posavo gli occhi su Elaine, e per un attimo mi domandai che aspetto potesse avere ora. «Già, Elaine è ancora in giro. È lei a dirigere il locale di Fowler.» «L'Arcadia.» «Esatto. La vedo ancora perché di tanto in tanto vado là a bere qualcosa. Non troppo spesso, però, perché è un locale un po' troppo giovanile per me, con tutti quegli sbarbati che saltano qua e là, tutti fuori di testa per qualche droga, ma è al livello del Captain Cook. A ogni modo, Elaine mi aveva detto che Fowler era nei guai con certa gente e gli serviva protezione. Mi ha domandato se conoscevo qualcuno in grado di dargli una mano e di conseguenza... Sai, ci ho pensato su per qualche minuto e poi mi è venuto in mente il tuo nome. So che lavori in questo settore. Ho pensato che ci potessi guadagnare qualcosa.» Si girò e mi rivolse il suo caratteristico e irresistibile sorriso da adolescente, quello che ai vecchi tempi aveva convinto Elaine Toms ad andare a letto con lui in diverse occasioni. Johnny Hexham, l'adorabile mascalzone. Ma non funzionò. Non quel giorno. «È stato uno sbaglio, Johnny.» Lui assunse un'espressione agitata. «Perché? Cos'è successo?» Sbucammo in Chapel Market e ci dirigemmo al centro della piazza tra le due file di bancarelle. Come al solito, il mercatino all'aperto era chiassoso e affollato. Decisi di non raccontargli tutta la storia. Johnny non era un pivello e probabilmente non si sarebbe rivolto alla polizia se gli fosse venuta paura, ma era meglio essere prudenti. «Per poco non mi hanno ammazzato. Ecco cos'è successo. La gente con cui Fowler aveva dei guai non scherzava davvero.» «Accidenti, Max, mi dispiace. Non volevo metterti nei pasticci. Pensavo che fosse un lavoro di ordinaria amministrazione.» «Chi è quella gente? E in che guaio si è cacciato Fowler, esattamente?» «Non lo so. Giuro. Aveva qualcosa a che vedere con il suo locale. È tutto quello che so.» Johnny sbuffò drammaticamente. «Cazzo, sono brutte notizie. Cos'è successo a Fowler?» Lo fulminai con un'occhiata. «Dimenticati di Fowler. E scordati anche di averlo messo in contatto con me. Ci siamo capiti?» Johnny alzò e abbassò la testa come uno di quei cagnolini dietro il lunotto di certe auto. «Sì, sì. Certo. Nessun problema. Consideralo fatto.» Lo afferrai di nuovo per un braccio, stavolta stringendo più forte. Girò la
testa per protestare, ma il mio sguardo lo convinse a tacere. «Sei sicuro di avermi detto tutta la verità, Johnny? Sai qualcos'altro sul locale che potrebbe aiutarmi a spiegare perché quella gente ce l'ha a morte con Fowler?» «No...» «Perché se dovessi scoprire che sai qualcosa, qualunque cosa, ti verrò a cercare e ti farò la pelle. Capito?» Parole pesanti, ma decisamente necessarie, date le circostanze. «Che cazzo, Max, è la verità. So che c'è in ballo un affare riguardo all'Arcadia, un mucchio di soldi e tutto il resto, ma non so altro.» Si dice che gli occhi siano lo specchio dell'anima. Rallentai il passo e lo fissai dritto negli occhi. Ma lo specchio era sporco e non fui in grado di stabilire se mi stesse prendendo per i fondelli o no. «È tutto quello che so, te lo giuro. Senti, Max, mi dispiace. Sinceramente. Volevo solo aiutarti.» Gli mollai il braccio e mi sforzai di abbozzare un sorriso, sebbene Dio solo sapesse cosa c'era da sorridere. «Be', è un tipo d'aiuto di cui posso fare a meno in futuro. E ricordati di non dire a nessuno di avermi visto. Chiaro? Compresa Elaine Toms.» «Nessun problema. Le mie labbra sono sigillate.» Johnny mi riservò un'espressione apprensiva. Da amico ad amico. «Va tutto bene, però, vero Max?» «Sì, certo» gli dissi, allontanandomi. «Va d'incanto. Ci vediamo, Johnny.» Gallan Quella sera ero fuori servizio, ma dato che la mia vita domestica era pressoché inesistente, decisi di trattenermi al commissariato per smaltire il lavoro di scrivania. Berrin non era stato altrettanto scaltro e se l'era filata alle cinque e mezzo spaccate, una cosa che avevo notato. Tutte le autopattuglie erano fuori per la faccenda della macchina che avevo notato, quella con i fori di proiettile. Due dei nostri l'avevano fermata e c'era stato un alterco con il conducente, che era fuggito a piedi dopo aver aggredito e ferito entrambi gli agenti. Alcune macchie di sangue sospette erano state scoperte nell'auto, una Range Rover registrata a nome di un certo Max Iversson, un ex militare con la fedina penale pulita, che corrispondeva alla descrizione del conducente fornita dai testimoni oculari. Grazie al cielo la cosa
non aveva più niente a che fare con me, ma ero contento che il mio spirito di osservazione avesse fruttato dei risultati, anche se i poliziotti che avevano effettuato il controllo, e che ora si trovavano fuori servizio per infortunio, probabilmente non avevano nulla di cui essere contenti. Lasciai il commissariato che mancavano dieci minuti alle nove. Andai in un ristorante italiano in una traversa di Upper Street, una trattoria a buon mercato che frequento di tanto in tanto, e ordinai un piatto di pastasciutta e bruschette all'aglio, annaffiando il tutto con un paio di bottiglie di birra Peroni visto che ero fuori servizio. Immagino si possa dire che era un modo tristemente solitario di trascorrere un venerdì sera, e avreste ragione, ma ormai ci stavo facendo l'abitudine. Neppure un anno prima, in quello stesso periodo, la mia condizione era molto diversa. Allora ero ispettore in un altro commissariato a sud del fiume, in progressiva ascesa verso un posto da comandante, e con ben tre encomi in tasca. In quella zona il tasso di criminalità era elevato e le ore di lavoro erano dure. Non si poteva definire un paradiso. Ma non mi dispiaceva e, a differenza di un mucchio di miei colleghi, avevo ancora una situazione familiare stabile. Sposato da quindici anni, una figlia di undici, una casa decente in un quartiere in cui la percentuale settimanale delle aggressioni e delle rapine era ancora a una sola cifra... Poi, la sera che arrestarono Troy Farrow, cambiò tutto. Troy Farrow era uno scippatore diciassettenne che invariabilmente sceglieva le sue vittime fra gli scolari dell'età di mia figlia, ai quali rubava i cellulari e le mance settimanali, e fra le signore di età avanzata, che gli piaceva ripulire il giorno in cui andavano a riscuotere la pensione, a volte fratturando qualche fragile osso nel corso dello scippo. Aveva già avuto nove denunce e altrettante condanne, ma aveva trascorso in riformatorio solo tre mesi e di conseguenza la legge non lo faceva più tanto tremare nelle sue Nike da jogging. Urlava e imprecava, minacciandone di tutti i colori mentre gli agenti che lo avevano arrestato lo portavano al commissariato per quella che, con ogni probabilità, sarebbe stata la sua decima condanna: la sottrazione violenta di un cellulare dall'orecchio di una giovane segretaria d'azienda, abbastanza stupida da passeggiare in una via affollata in prima serata senza fare attenzione agli eventuali scippatori. Sfortunatamente per lui, in quel momento la via era sorvegliata da agenti in borghese ed era stato catturato nel giro di pochi minuti. Io fui incaricato di interrogarlo, insieme a un agente investigativo, perché cercavamo informazioni su un recente caso di stupro collettivo di un'undicenne da parte di una banda di a-
dolescenti che l'avevano anche derubata del telefonino e del sacchetto di dolciumi che aveva con sé. Non ritenevamo che Farrow vi fosse implicato - non rientrava nel suo stile molestare le vittime, e i sospetti erano stati descritti come ragazzini d'età compresa fra i dodici e i quattordici anni - ma eravamo abbastanza sicuri che sapesse chi era stato. Nella zona in cui operava non c'era reato di cui non fosse al corrente, e i ragazzini dovevano quasi certamente essersi vantati di ciò che avevano fatto. Farrow si calmò mentre la coppia di agenti che lo avevano tratto in arresto lo portava al piano di sotto nella saletta per gli interrogatori. L'agente investigativo e io seguivamo il terzetto a pochi metri di distanza. Quello che avvenne subito dopo è ancora una specie di mistero. Mentre Farrow e i due poliziotti in divisa entravano nella saletta, Farrow disse qualcosa a uno di loro. Al momento non capii nulla, ma in seguito mi fu riferito che le parole, più o meno, erano state queste: "Voialtre fighette non mi potete fare niente". A quel punto l'agente a cui si era rivolto aveva commesso un errore fatale. Aveva lasciato che le sue frustrazioni riguardo alle falle del sistema legale e ai delinquenti arroganti che ne approfittano avessero il sopravvento e, a quanto pare, aveva inveito contro Farrow chiamandolo "bastardo di un negro", scatenando un ulteriore e più violento parapiglia. Il mio collega e io ci precipitammo nella saletta degli interrogatori proprio nell'attimo in cui uno dei due poliziotti sbatteva la testa di Farrow contro il muro. Non tanto forte da farlo svenire, ma quanto bastava per procurargli una brutta ferita lacero-contusa alla fronte. "Aggressione! Aggressione!" si era messo a urlare Farrow. "Mi ammazzano! Chiamate un fottuto avvocato! Subito!" I due poliziotti l'avevano lasciato andare mentre io e il mio collega l'avevamo aiutato. Farrow fu ammanettato a una delle sedie con le mani dietro la schiena. "Fate venire il mio avvocato!" aveva detto, dopo essersi calmato, con il sangue che gli sgorgava dal taglio sulla fronte. "Voglio sporgere formalmente querela. Non dirò più una sola parola finché non avrò visto il mio legale." E così fece. Non disse più una sola parola. A denuncia avvenuta, noi quattro che eravamo stati presenti nella saletta fummo interrogati dai rappresentanti del PCA, Police Complaints Authority, ossia l'organo competente per le querele contro la polizia, e ci attenemmo tutti alla stessa versione dei fatti: che Troy Farrow era inciampato durante la colluttazione e aveva accidentalmente sbattuto la testa contro il muro. L'agente accusato da Farrow di insulti di stampo razzista negò l'accusa, ma ammise di avergli dato del bastardo, particolare su cui io personalmente non potei fare commenti in quanto non avevo sentito lo scambio
di invettive. So che molti penseranno che ho fatto male a tacere sull'episodio, ma allora ritenni che la vicenda non fosse poi così grave. Farrow era stato subito medicato dal medico del commissariato e la ferita cucita con due punti di sutura. Si sarebbe comunque meritato di peggio. Inoltre non volevo essere l'intransigente della situazione, con il rischio di mettere nei guai un agente. La polizia è già abbastanza criticata, e a volte quando si è poliziotti si ha la netta impressione di avere contro il mondo intero; di conseguenza è da masochisti darsi la zappa sui piedi. In effetti, non avevo alcuna intenzione di essere quello che rovinava la carriera a un collega (che è precisamente quello che avrei provocato) per un attimo di stupida impulsività. Era una cosa che non mi sarei mai perdonato. E, sulle prime, ci illudemmo di cavarcela senza strascichi. Non penso che i responsabili del PCA avessero creduto alla nostra versione, ma in fin dei conti tutto si riduceva alla nostra parola contro quella di un noto malvivente, e noi non cedevamo, perciò alla fine non ebbero altra scelta se non concludere che l'incidente era stato accidentale e che Farrow aveva frainteso le parole dell'agente in divisa. Ma la cosa non finì lì. Un paio di mesi dopo, il secondo agente in divisa presente, quello che non aveva sbattuto la testa di Farrow contro il muro, ammise quanto era accaduto con un tizio conosciuto al suo solito pub dopo una birra di troppo. Successivamente scoprì che il tizio era un giornalista investigativo che stava svolgendo un'inchiesta sul razzismo all'interno delle forze di polizia. Con la conversazione registrata, la storia comparve due giorni dopo sul giornale locale, e il caso fu riaperto. Io mi trovai i media locali e perfino quelli di London Tonight fuori dalla porta di casa a chiedermi se ero un bugiardo e un razzista. Ogni tanto posso dire qualche piccola bugia, ma decisamente non razzista. Fu un vero incubo, e sebbene il mio superiore, il comandante Renham, un uomo a fianco del quale avevo lavorato per quasi cinque anni, diede battaglia per difendermi, essere al centro dell'attenzione pubblica mi sopraffece. Alla fine, visto che quella storia non si placava, i pezzi grossi furono costretti ad agire. I due agenti in divisa furono espulsi dalla polizia; io e l'agente investigativo tornammo a indossare l'uniforme, e io fui degradato da ispettore a semplice agente investigativo. Fu un episodio vergognoso, e per un bel pezzo trovai difficile accettarlo. Vedete, secondo me non avevo fatto nulla di così criminoso. Avevo commesso uno sbaglio, ma ritenevo che la punizione fosse assolutamente sproporzionata. Finii per prendermela con mia moglie, rendendole la vita
difficile, e forse la situazione fra noi si era già deteriorata senza che ce ne accorgessimo, perché tre mesi più tardi, dopo l'ennesimo litigio, ci separammo. In seguito venne fuori che mia moglie aveva una storia con un altro. Immagino che questo fosse già più comprensibile, se non altro per il fatto che, guarda caso, "l'altro" era l'intrepido giornalista che aveva strombazzato ai quattro venti la storia. Il bastardo faccia di bronzo si era spinto a intervistarla sull'effetto che quella vicenda aveva su di lei e sulla famiglia, ed evidentemente l'effetto era notevole perché in un modo o nell'altro, pochi giorni dopo, o forse perfino quel giorno stesso, i due colombi erano finiti a letto insieme. Che cosa si fa in una situazione del genere? Che cosa si può fare? Niente, tranne rialzarsi da terra, spolverarsi i calzoni e ricordarsi che chi la fa l'aspetti. La giustizia esiste, solo che a volte può metterci un sacco di tempo prima di farsi vedere. Non ebbi altra scelta se non attaccarmi a quel pensiero mentre raccoglievo i miei effetti personali, chiedevo il trasferimento e puntavo a nord del fiume per la prima volta nella mia carriera, finendo in quello che probabilmente era il commissariato più controverso di tutta la polizia metropolitana, un posto ancora ossessionato dall'infame tradimento di uno dei suoi investigatori. Il sergente Dennis Milne era senza alcun dubbio il poliziotto più corrotto della Gran Bretagna: di giorno un valido membro di vecchia data della squadra investigativa, di notte un killer prezzolato con Dio solo sa quante vittime alle spalle. La sua ombra aleggiava ancora sul commissariato come una nube tossica, anche se ormai erano passati quasi due anni dalla scoperta del suo lugubre segreto e Milne era svanito nel nulla. Ma non aveva importanza, ci sarebbe voluto parecchio tempo per sanare la piaga. Nel CID, il Criminal Investigation Department, c'erano molte persone, compreso il comandante Knox, che sarebbero rimaste per sempre infettate dal lungo rapporto avuto con il figlio più infame del commissariato. Difficile, se non impossibile, riscattarsi da una cattiva reputazione, e forse era questo il motivo per cui mi inserii così facilmente nella nuova sede, sentendomi subito a mio agio. Quando ero arrivato avevo preso in affitto un appartamentino decoroso dalle parti di Tufnell Park ed ero riuscito a risalire la china fino a essere promosso sergente. Era molto diverso dai vecchi tempi, e aspettavo ancora giustizia (la mia ex moglie e il giornalista convivevano, e mia figlia affermava perfino di andare matta per lui), ma le cose sarebbero potute andare peggio. Avevo ancora un lavoro e, malgrado tutto, vi trovavo ancora sod-
disfazione. Uscii dal ristorante alle dieci e cinque e girai l'angolo dell'isolato, diretto al Roving Wolf, un pub frequentato da agenti e ispettori del CID, tanto per vedere se c'era qualcuno. Il locale era affollato, ma vicino al bancone scorsi una coppia di agenti che conoscevo vagamente e mi unii a loro per un paio di pinte. Entrambi dimostrarono vivo interesse per come stava procedendo il caso Matthews, ma non fui in grado di dire granché. "Da lumache" era l'espressione più adatta. Passammo ad altri argomenti e li lasciai alle undici, incamminandomi lungo Upper Street in cerca della sfuggente creatura notturna: un taxi nero londinese. Upper Street brulicava di vita come al solito, con i suoi caffè all'aperto e i bistrot alla moda gremiti di avventori, mentre gente di ogni età e razza si godeva il fresco della sera. Frammenti di jazz, mambo, flamenco e cinque o sei altri stili di musica fluttuavano in strada dalle porte e dalle finestre aperte di una dozzina di locali, conferendo al luogo una piacevole atmosfera cosmopolita. Ci si sentiva quasi in vacanza e, per uno che aveva fatto qualche puntata sporadica in Upper Street negli anni Ottanta, la trasformazione era incredibile. Un tempo zona cupa e depressa, costellata di squallide bettole per alcolizzati e di poco altro, in cui solo gli avventurosi e gli idioti mettevano piede dopo il tramonto, adesso era diventata la versione di Islington della Rive Gauche parigina. Se non si prestava attenzione, c'era addirittura il rischio di scordarsi di guardarsi le spalle. Incredibilmente, riuscii a fermare un taxi vicino a Islington Green dopo cinque minuti soltanto; doveva essere una specie di record, a quell'ora di notte. Per un attimo pensai di andare a casa, ma per un motivo o per l'altro non ero poi così stanco. Dissi al tassista di portami all'Arcadia. Lui mi scoccò un'occhiata divertita nello specchietto retrovisore, ma seguì l'indicazione e facemmo la strada in silenzio fino al crocevia di Highbury Corner, dopodiché svoltammo a sinistra imboccando la meno cosmopolita e più minacciosa Holloway Road. Speravo di beccare Roy Fowler al suo locale e di metterlo alle strette per qualche minuto, perché ero sicuro che, se non aveva nulla da nascondere, sarebbe tornato all'Arcadia quanto prima. Se gestisci un locale notturno non puoi lasciare che altre persone si occupino dei tuoi affari troppo a lungo, se vuoi che alla fine resti qualcosa. Percorso meno di mezzo chilometro verso nord lungo Holloway Road, appena oltrepassato l'incrocio di Liverpool Road, il traffico rallentò bruscamente quando un folto gruppo di persone assiepate fuori da un pub, forse venticinque o trenta, a un tratto si riversò in strada. Pochi secondi dopo
ci furono delle urla e un rumore di vetri infranti, e cinque persone si separarono dal resto della massa in quella che parve un una danza selvaggia. Altri accorsero avventandosi contro i cinque e l'accozzaglia ondeggiò frenetica verso il centro della strada, separandosi e riformandosi mentre alcuni si scatenavano in combattimenti a coppie, incuranti delle auto che passavano. Una bottiglia volò in aria compiendo una precisa parabola, rimbalzando sul tetto dell'auto che ci precedeva e finendo senza rompersi nella corsia riservata agli autobus dall'altra parte della strada. «Dannati giovinastri» brontolò il tassista con voce a metà tra il grugnito e il sospiro mentre il gruppo di ragazzi, per lo più sotto i vent'anni, arretrava a vortice verso il marciapiede. Uno di loro cadde a terra e si riparò con le braccia, nel vano tentativo di proteggersi, mentre soccombeva a una rapida scarica di calci da parte di almeno tre avversari. Una ragazza strillò qualcosa di incomprensibile e si staccò di corsa dalla folla dei curiosi, facendosi largo fra i tre che stavano prendendo a pedate il tipo caduto, con la borsetta levata in alto. Il tipo a terra, approfittando dell'occasione, balzò in piedi e si tolse dalla mischia. Si teneva la testa e perdeva sangue dal naso. Il tassista accelerò e ci lasciammo alle spalle la rissa non ancora sedata. «Dannati giovinastri» ripeté il tassista. «È sempre peggio.» Annuii e borbottai qualcosa in risposta, pensando che era una tipica scena londinese. Un attimo prima stai bevendo in un'atmosfera di tranquilla serata estiva, e un attimo dopo ti imbatti senza volerlo in un'infida zona di guerra. Mi sa che è proprio per questo che Londra piace tanto a certe persone. Per la sua varietà. Una lunga fila di ricchi gaudenti, per la maggior parte sotto i venticinque anni, si snodava a serpente lungo la via all'entrata dell'Arcadia. Feci fermare il taxi direttamente lì davanti, pagai il tassista e gli lasciai una sterlina di mancia. «Buon divertimento» mi augurò lui, agitando la mano in cenno di saluto, mentre si allontanava. "Probabilmente ho dieci anni di troppo per questo" pensai "ma non si sa mai." Andai dritto all'inizio della fila, dove cinque addetti alla sicurezza a guardia dell'entrata - quattro maschi e una femmina - stavano perquisendo i clienti in attesa. Uno di loro si girò verso di me mentre mi avvicinavo e mi fece omaggio della stessa espressione divertita che aveva avuto il tassista, da cui traspariva chiaramente la domanda: "Cosa diavolo ci viene a fare in un locale di tendenza come questo un tizio sui trentacinque anni in cravatta e completo sgualcito?". «Sì?» disse, a mo' di saluto. Tirai fuori la tessera e gliela sbattei sotto il naso. «Polizia. Devo vedere
Mr Fowler.» Inevitabilmente, mi assalì una sensazione di déjà vu. Il gorilla esaminò la tessera, poi riportò lo sguardo su di me. «Non mi risulta che sia qui stasera» disse. «Be', andrà bene anche Miss Toms» ribattei, e gli passai davanti. Nell'atrio appena oltre l'entrata c'era una fila di altri quattro buttafuori e passai davanti a tutti, mostrando la tessera a una ragazza magrissima con una pettinatura cotonata, seduta al banco d'ingresso, e le chiesi di chiamare al telefono Mr Fowler. La ragazza ripeté quello che aveva già detto il buttafuori all'entrata, cioè che Fowler probabilmente era assente, ma insistetti. La ragazza lasciò squillare il telefono nell'ufficio di Fowler per circa trenta secondi e poi mi disse che non c'era. Quindi telefonò a Elaine Toms, che a quanto pareva era presente, ma neppure lei rispose al telefono. Non morivo certo dalla voglia di entrare nel locale vero e proprio, ma a quanto pareva non avevo altra scelta. Ringraziai la ragazza e varcai la soglia della porta che avevo davanti. L'Arcadia era gremito fino a scoppiare, come si conveniva per un venerdì sera, con la maggioranza della giovane clientela accalcata sulla pista da ballo. La musica era assordante, ripetitiva e noiosa: grazie al cielo mia figlia è troppo giovane per gradire quel genere. Al bar all'estremità opposta della sala notai qualche cliente più in età, in gran parte uomini oltre i trent'anni, e perfino un paio oltre la quarantina, raggruppati insieme per sopportare il baccano. Alcuni di loro indossavano completi eleganti, sebbene nessuno avesse l'aria dell'impiegato, e mi domandai chi fossero. Lasciai vagare lo sguardo, poi restai come pietrificato. Uno di loro aveva un'aria familiare. Mi avvicinai, fendendo a zigzag la massa di gente fino ad arrivare a una decina di metri dal bar. Ora ero assolutamente sicuro. Non c'era alcun dubbio. Avevo esaminato la sua fotografia quattro ore prima, dopo che era stata mandata per fax al commissariato dal suo vecchio reggimento. L'uomo di fronte a me, con una bottiglietta di Becks in pugno e l'aria da padrone, era Max Iversson, il latitante che metà commissariato stava cercando. Iversson Non avevo alcuna intenzione di fare la coda per entrare nel locale di Fowler. Dovevano esserci almeno duecento persone in fila come citrulli davanti all'entrata, in attesa che i buttafuori rivolgessero loro il genere di attenzioni che la mia ex moglie usava concedermi quando aveva bevuto
troppi calici di vino bianco. Ma chi le voleva da un energumeno con il cranio rasato e il collo taurino? lo no di certo. Per un istante pensai di andare dritto all'entrata e dire che ero un amico di Elaine, ma, per la verità, volevo evitare di attirare l'attenzione, specie ora che mi ero di colpo trasformato nel protagonista de Il fuggitivo. Perciò andai sul retro, scavalcai agilmente il cancello che dava accesso al parcheggio interno, riservato al personale, e scrutai con attenzione la parte posteriore dell'edificio per vedere se ci fosse la maniera di entrare. Mi ci vollero meno di tre secondi per notare una finestra a ghigliottina leggermente sollevata al pianterreno, una trentina di centimetri più alta della mia testa. Era piuttosto stretta, ma io sono abbastanza snello e di conseguenza avevo fiducia di riuscire a intrufolarmi all'interno. Mi afferrai al davanzale, issandomi, e mentre mi tenevo aggrappato con una mano con l'altra aprivo il fermo di sicurezza interno e sollevavo il pannello inferiore della finestra. Nello stesso momento, udii un inconfondibile rumore di piscia schizzata negli orinatoi e, mentre infilavo la testa all'interno, vidi tre tizi in fila che mi fissavano senza smettere di vuotare la vescica. «'sera» dissi, sfoderando un sorriso smagliante e dimenandomi come un ossesso attraverso l'apertura. «Non è che potreste darmi una mano?» Il più vicino a me, un giovincello con la faccia da studente, aveva un'espressione esterrefatta ma annuì ugualmente, rinfoderò l'arnese nei pantaloni e mi afferrò una mano, dandole un timido strattone. «Forza, ragazzo, mettici un po' di energia. Con una presa così non riusciresti nemmeno a farti una sega.» Ci riprovò, e dopo alcuni sbuffi e grugniti riuscì a tirarmi dentro. Gli atterrai addosso un po' più pesantemente di quello che penso avesse previsto. Lo ringraziai mentre si rimetteva in piedi e, ignorando gli sguardi straniti degli altri due, puntai verso la porta ed entrai nella sala del locale, il frastuono di musica mi investì come un muro. Scrutai l'interno in cerca di Elaine, dubitando perfino che l'avrei riconosciuta, dopo tanto tempo, ma non c'era traccia di lei. Badate bene, non potevo vedere granché in mezzo a quel brulichio di gente. Mi concessi un momento per ammirare diverse giovani femmine poco abbigliate, dopodiché fendetti a fatica il formicaio fino al bar e aspettai che si aprisse un varco per ordinare una birra a un barista dall'aria trafelata. Quando arrivò, un paio di minuti dopo, mi costò tre sterline. Tre sterline per una schifosa bottiglietta di Becks. Se corrispondeva al vero che si stavano disputando la proprietà di quel locale, non c'era di che meravigliarsi. L'afflusso di denaro
doveva essere incredibile. Bevvi un sorso dalla bottiglietta e voltai le spalle al bar, trovandomi un briciolo di spazio vicino alla pista da ballo. Fu in quell'istante che la vidi. Veniva decisamente dalla mia parte e intanto parlava con un buttafuori, un tipo tarchiato che faticava a starle dietro. La riconobbi subito. Come immaginerete, era molto cambiata dai tempi della scuola - voglio dire, erano passati così tanti anni - ma non mi riferisco tanto all'aspetto. Era più il portamento, il modo in cui si atteggiava. Ai tempi della scuola era assai attraente, con due stupendi occhi nocciola e un bel corpo, ma non aveva mai messo veramente in risalto le sue attrattive fisiche, forse perché non ce n'era bisogno. Era estremamente seducente, il tipo di donna da cui gli uomini sono attratti in modo irresistibile perché sanno senza un attimo di esitazione che fra le lenzuola sarà un'indiavolata. Indossava un corto abito da sera nero, che si intonava perfettamente ai suoi capelli lunghi e ricci, ed eleganti scarpe con il tacco a spillo. Mi domandai se quel marpione di Johnny ci fosse andato a letto in tempi più recenti rispetto agli anni scolastici. Se l'aveva fatto, era un uomo fortunato. Elaine lasciò perdere il buttafuori non appena giunse in prossimità del bar e i nostri sguardi si incrociarono per un istante. Sebbene si trovasse ancora a qualche passo di distanza e fra noi ci fosse una quantità di persone, notai che un lampo di riconoscimento le passò sul viso. Si fermò un momento, poi mi fissò con espressione interrogativa e divertita prima di avvicinarsi. «Max? Max Iversson?» gridò per superare il baccano infernale, venendomi incontro. Mentre si avvicinava, colsi un potente effluvio di profumo muschiato e di femmineo calore. Vi dirò una cosa: desiderai ardentemente quella donna prima ancora di aprire bocca. Poteva anche aver innescato la serie di eventi a catena che mi aveva quasi ucciso, ma tutt'a un tratto ero diventato un uomo disposto a perdonare e a dimenticare. «Ciao, Elaine» dissi nel tono più distaccato possibile. «È tanto che non ci si vede. Come stai? A meraviglia, a quanto vedo.» Le sorrisi. Lei mi restituì il sorriso. «Bene. E tu?» «Sì, niente male, niente male» dissi, sfiorandole l'orecchio con la bocca. Stavo solo cercando disperatamente di sostenere la conversazione nonostante il baccano in sottofondo. «Cristo, è un po' strano incontrarti così per caso. Ero rimasta che eri nell'esercito.» «Ci sono stato dieci anni, ma mi sono congedato da un pezzo. Sai come
vola il tempo.» «Fin troppo vero. Allora sei di nuovo in zona? Non ti ho mai visto qui.» «No, direi che è un locale un po' troppo giovanile, per me. È la prima volta che ci vengo.» "E l'ultima, visti i prezzi" pensai. «Allora, che cosa ti ha condotto qui? Ti sei fatto trascinare da qualcuno, eh?» Elaine sogghignò. «Be', veramente sono venuto qui per vedere te.» Lei parve sorpresa. «Si tratta di Johnny Hexham.» La sorpresa si trasformò in costernazione. «Johnny? Cosa c'entra Johnny? Sta bene, vero?» «Oh, sì, benissimo.» Quel bastardo stava sempre benissimo. «O almeno stava bene quando l'ho lasciato qualche ora fa. Senti, Elaine, so che ti sembrerà strano, ma ti devo parlare al più presto e sarebbe molto più facile se non fosse qui.» Il cruccio adesso aveva lasciato il posto al sospetto. Era una donna che cambiava espressione a una velocità impressionante. «Senti, Max, dirigo la baracca praticamente da sola, stasera, perciò se hai da dirmi qualcosa...» «Ho un'agenzia che fornisce servizi di sicurezza. Pochi giorni fa hai chiesto a Johnny di mettere in contatto una persona che conosci con un'agenzia di questo tipo.» Elaine afferrò al volo. «Oh, merda. E l'agenzia era la tua?» «Esatto.» «Allora che fine ha fatto Roy? È tutto il giorno che lo aspetto. Sai che cosa gli è successo?» «È proprio di questo che ti devo parlare. Ma non voglio farlo qui dentro. Non c'è modo che tu possa uscire e che si possa andare da qualche parte in un posto un po' più privato? E più tranquillo?» Elaine ci pensò su un momento, poi annuì. «Vedo cosa posso fare. Aspettami qui. Torno subito.» Feci di sì con la testa mentre Elaine si voltava e spariva tra la folla. Mentre era via, un ragazzo poco più che diciottenne, fuori di testa per ragioni di alcol o droghe, andò a sbattere la zucca su uno dei pilastri che costeggiavano la pista da ballo e rimase tramortito. Restai a guardare la gente che gli girava intorno e lo scavalcava come se non esistesse finché alla fine comparvero due suoi amici e, ridendo a crepapelle, lo trascinarono via. Poi, pochi metri oltre loro, vidi un tizio che sembrava davvero un pesce fuor d'acqua. Fra i trentacinque e i quarant'anni, giacca e pantaloni grinzosi, folti capelli neri. Assomigliava parecchio al tenente Colombo alle prime armi,
e come Colombo, capii subito che era un piedipiatti. Stava parlando al cellulare e contemporaneamente mi teneva d'occhio. Incrociammo lo sguardo e capii al volo che mi aveva riconosciuto, Dio sa come. Era di nuovo il momento di riflettere alla svelta. Se quel poliziotto si trovava lì, potevano esserci altri sbirri all'esterno, e ciò rendeva troppo rischioso uscire dall'ingresso principale. Mi voltai e, con il massimo dell'indifferenza, mi diressi di nuovo verso i servizi, accelerando il passo nel momento stesso in cui mi incuneai in un folto gruppo di ragazze in libera uscita notturna dal pollaio. Gallan Non appena lo avvistai, mi resi conto che dovevo agire in fretta. Non avevo la più pallida idea di che cosa ci facesse lì, ma non sembrava trovarsi a suo agio, ed era da solo. Ma questo non contava. La cosa più importante era che si trattenesse fino all'arrivo dei rinforzi. Pescai il cellulare dalla tasca della giacca e chiamai il commissariato, spostandomi nel contempo verso una colonna vicino alla pista da ballo, da dove avrei potuto sorvegliarlo senza dare nell'occhio. Fui urtato da un giovane che si fece largo oltrepassandomi e mi girai per dargli un'occhiataccia, ma il tipo dava l'impressione di non avermi neppure notato. Era già lontano una decina di metri. Piccolo bastardo arrogante. Il centralino del commissariato rispose alla chiamata e li informai quasi gridando di dove mi trovavo, del fatto che ero a pochi metri da un ricercato e che mi servivano rinforzi. Fui costretto a ripetermi due volte per colpa del baccano, e quando guardai di nuovo in direzione di Iversson vidi che mi aveva notato. Si voltò, incamminandosi, e io lo seguii avvertendo nel frattempo il centralino che si stava allontanando. «Mandate qualcuno al più presto, non ci penso neanche ad affrontarlo da solo. Specie dopo quanto è avvenuto nel pomeriggio.» Iversson sparì nella toilette degli uomini e io mi misi quasi a correre, per quello che permetteva la calca, ignaro di come avrei affrontato la situazione. Non volevo mettere con le spalle al muro un ex parà in uno spazio ristretto e lasciargli come unica alternativa quella di aggredirmi. Non sono più giovane e scattante come un tempo, né così in forma, e il motivo per cui sono un detective è che preferisco svolgere indagini anziché farmi coinvolgere in scontri fisici. Per giunta, sapevo che ne sarei uscito perdente. Ma non avevo nemmeno intenzione di lasciarlo scappare. Specie dopo che aveva fatto marcare visita a due dei nostri agenti.
Aprii la porta della toilette quattro secondi dopo che Iversson mi aveva preceduto, girai a sinistra e mi diressi nella zona degli orinatoi a parete. C'erano cinque o sei persone, mentre all'estremità opposta, sotto una finestra aperta, c'era Iversson. Sembrava che avesse intenzione di aggrapparsi al davanzale per tentare di uscire da quella parte. Ci separavano otto metri. Iversson si voltò e mi vide. Alzai le mani per dimostrargli che avevo intenzioni pacifiche, il che era la pura verità. «Polizia. Dài, arrenditi, Max.» E poi, naturalmente, aggiunsi il solito cliché del bravo poliziotto: «Sei già nei guai fino al collo senza aggiungere la resistenza all'arresto», Avanzai, stando bene attento a non metterlo in agitazione. Iversson annuì e aggiunse la sua frase di circostanza: «È uno sbirro educato, gente» disse, facendosi avanti di un passo. Poi, senza preavviso, afferrò uno sfortunato cliente per la camicia, artigliandolo alla schiena, e lo catapultò di peso nella mia direzione. Il poveretto era ancora impegnato nelle sue funzioni e dovetti fare un balzo di lato per evitare il getto di orina, scivolando nel contempo su una piccola pozzanghera assai sospetta. Sbattei con forza il ginocchio destro sul pavimento, restando quasi tramortito per il dolore, e il cellulare mi sfuggì di mano. Iversson si girò immediatamente, si issò sulla finestra con un'agilità che mi fece sembrare ancora di più un soldatino di piombo, e infilò il busto nell'apertura. Il tizio che mi era finito addosso fu il primo a reagire. In una selva di imprecazioni, si slanciò verso la finestra e afferrò con entrambe le mani una gamba di Iversson. Fu una mossa avventata. L'altra gamba si piegò a metà, contrasse i muscoli e sparò un calcio all'indietro, tutto in una frazione di secondo, colpendo il giovane alla tempia e scagliandolo rovinosamente contro la fila di orinatoi. Il poveretto andò a sbattere la testa contro il muro con una botta spaventosa. Le gambe di Iversson cominciarono a sparire oltre il davanzale come spaghetti ingurgitati da una bocca gigantesca. Lasciando perdere il cellulare, mi rialzai di scatto e mi avventai verso le gambe, riuscendo ad agguantargli una scarpa proprio mentre il piede stava passando dalla finestra. La scarpa mi restò in mano e di colpo mi ritrovai a fissare un elegante mocassino color cachi mentre Iversson riusciva a fuggire. Lo sentii cadere a terra dall'altra parte, poi rialzarsi e mettersi a correre, svantaggiato ma non certo impedito dal fatto che ora calzava una scarpa sola. Guardai il tizio tramortito che gemeva sul pavimento, poi i pochi altri clienti che mi stavano fissando in un silenzio vagamente divertito, e infine l'orologio.
Mancavano venti minuti a mezzanotte. Ben oltre l'orario in cui di solito andavo a dormire. Iversson La stavo aspettando quando finalmente tornò a casa sua a Clerkenwell. La osservai dall'altro lato della strada scendere dal taxi e pagare l'autista. Poi, non appena il taxi ripartì e lei si avviò verso l'entrata dello stabile, attraversai la strada e le andai dietro affrettando il passo come un podista claudicante. «Elaine...» Si girò di scatto, mi riconobbe, e strinse gli occhi riducendoli a fessure. «Bene, bene, bene. Il ritorno del vagabondo. Che cosa hai combinato al locale? Non mi avevi detto che eri ricercato dalla polizia.» Mi fermai di fronte a lei. «Là dentro non potevo proprio dirti niente. C'era troppo rumore.» «Sarà meglio che tu salga» disse, pescando una chiave nella borsetta. «Mi sa che dobbiamo fare un bel discorsetto, vero?» «Puoi dirlo forte.» «Come hai scoperto dove abito?» mi domandò non appena fummo nel suo appartamento al primo piano. «Sei sull'elenco del telefono» risposi. «Ci sono un'infinità di Toms sull'elenco» disse Elaine, guidandomi in un soggiorno elegantemente arredato con poltrone di pelle nera dall'aria comoda. Sistemò la giacca sulla spalliera di una sedia e mi fissò, aspettandosi delle spiegazioni. «Non tanti quanto credi. Andando per esclusione, ho ristretto la lista a soli cinque nominativi, poi ho telefonato a Johnny Hexham. Mi ha detto che gli sembrava di ricordare che abitassi a Clerkenwell, e a Clerkenwell c'era solo un "E. Toms". Forse dovresti prendere in considerazione l'ipotesi di non comparire in elenco.» «Lo terrò a mente.» Elaine abbassò lo sguardo sul mio calzino sporco. «Eviterò di farti domande» disse. «La polizia. Il bavero non gli basta più. Ora vogliono tutto.» Elaine sorrise divertita. «Ti va un caffè?» «Sì, te ne sarei molto grato.» Cinque minuti più tardi, seduti sulle poltrone di pelle uno di fronte all'altra, mi domandò che ne era di Fowler e perché la polizia mi stava cercan-
do. Non c'era ragione di nasconderle com'erano andati i fatti, specie se volevo che si aprisse con me, perciò le raccontai tutto omettendo solo un particolare, cioè che avevo ucciso Tony. Non c'era bisogno che lo sapesse. Nel racconto dissi che Tony era fuggito e che non capivo che accidenti gli fosse preso. Elaine si abbandonò contro lo schienale e si massaggiò la tempia con una mano. Era un gesto vagamente simile a uno dei tipici gesti di Fowler. «Merda» fu il suo commento, e ritengo che fosse azzeccato per riassumere i fatti. «Non posso crederci. È morto. Povero Roy.» Pensai che fosse un po' troppo indulgente. Fowler era andato a cercarsela. Io no. «Cos'è accaduto stanotte dopo che me ne sono andato?» «Sono arrivati due furgoni di sbirri e il poliziotto che era già là, quello che voleva arrestarti, ha cominciato a spararmi domande a mitraglia su cosa ci stessi facendo all'Arcadia.» «Che cosa gli hai detto?» «Che non avevo la minima idea di chi stesse parlando. Non ha insistito.» «Allora, chi è la gente con cui Fowler si è messo nei guai? Credo di avere il diritto di vendicarmi dopo quello che hanno fatto a me e a uno dei miei migliori collaboratori.» Elaine si sporse in avanti e mi fissò con freddezza. «Max, te lo dico chiaro e tondo. Non impicciarti. Considerati fortunato di essere ancora intero e lascia perdere.» «Dimmelo, Elaine.» «È meglio che tu non lo sappia. Sinceramente.» «Lascia che sia io a giudicare.» Si interruppe. Poi, vedendo che non avevo intenzione di cedere, sciolse la lingua. «Negli ultimi tempi Roy aveva subito parecchie pressioni e si era invischiato con le persone sbagliate. Aveva un mucchio di debiti per via del locale.» «Com'è possibile, con i prezzi che fate? Avrei pensato che fosse milionario.» «Ha le mani bucate, e la brutta abitudine di sniffare coca, un vizietto che gli divora le finanze. A ogni modo, aveva iniziato a chiedere soldi in prestito a gente da cui avrebbe dovuto stare a dir poco alla larga, e quelli non hanno aspettato molto per cominciare a chiedere di saldare i debiti. Ed è a questo punto che Roy si è incasinato. Ha permesso a quella gentaglia di imporgli come condurre gli affari e gestire il locale. Volevano vendere stupefacenti all'Arcadia e pretendevano che Roy chiudesse un occhio.»
«Da quel che ho sentito il locale ha sempre avuto problemi di droga.» «Sì, ci sono sempre stati piccoli episodi di spaccio, ma non tanto quanto si potrebbe pensare. Il locale è stato perquisito da cima a fondo dalla Narcotici un paio di volte prima che fossi assunta, ma è successo anni fa e non hanno mai trovato niente. Ma questa volta era diverso. Si trattava di spaccio organizzato.» «Quando è cominciato?» «Non lo so di preciso. All'inizio Roy non mi disse niente al riguardo. In passato, ancora negli anni Ottanta, si era beccato una condanna per importazione di roba illegale e si era fatto quattro anni di prigione. Di conseguenza non voleva ripetere l'esperienza. All'Arcadia lo spaccio avveniva in modo molto discreto e se tu ci fossi capitato una volta, come hai fatto stanotte, non ti saresti accorto di nulla.» Annuii. Era abbastanza vero, anche se un sacco di gente mi era sembrata un po' stravolta. «Ma là dentro circolava roba, e se ti fossi rivolto alle persone giuste avresti potuto avere coca, ecstasy, qualsiasi cosa desideravi. Sono pochi quelli che spacciano, principalmente gli addetti alla sicurezza, e in qualsiasi momento non ne hanno mai addosso troppa, perciò anche se fossi uno sbirro in incognito potresti solo accertare la detenzione di stupefacenti per uso personale. Roy teneva nascosto all'Arcadia il grosso della roba, ma non ho mai saputo dove. «Comunque, un paio di settimane fa Roy ha cominciato a comportarsi in maniera strana. Arrivava tardi, si rintanava in ufficio, evitava di farsi coinvolgere nella gestione del locale. Gli chiesi che cosa ci fosse che non andava, ma lui si limitò a sbuffare e a congedarmi senza rispondere. Poi, pochi giorni fa, il nostro capo della sorveglianza è stato trovato morto stecchito, ed è venuto fuori che è stato avvelenato.» «Avvelenato? L'avevo dimenticato come metodo per uccidere.» «È quello che ha detto la polizia. E quando Roy l'ha saputo è rimasto sconvolto. Era già abbastanza nervoso anche prima, ma dopo quel fatto è andato in tilt, come se dovesse essere lui la prossima vittima o qualcosa del genere. Ma insisteva ancora a non volerne parlare. Poi, una notte, dopo che avevamo chiuso il locale, lo trovai nel suo ufficio, sbronzo o fatto di coca o di chissà che altro. Gli dissi di confidarsi, che non poteva continuare a comportarsi in quel modo, e a quel punto si rese conto di doversi sfogare con qualcuno. Così mi raccontò tutto. Mi disse che nel locale si spacciava droga, com'era organizzata la cosa e che cosa c'era sotto. Sembrava proprio distrutto, come se non volesse essere implicato nella faccenda.» "Bastardo e pure bugiardo" pensai, ma rimasi in silenzio. «Ma c'era di peggio. Li sta-
va fregando. Intendo i suoi soci. Si stava prendendo una fetta maggiore dei profitti. Di gran lunga maggiore.» «Come diavolo pensava di farla franca?» Elaine scosse il capo. «Mi disse che stava usando il denaro per un certo investimento - e non mi avrebbe rivelato di che cosa si trattava - che gli avrebbe fruttato il doppio o il triplo delle somme impegnate. Poi con il ricavato avrebbe pagato ciò che doveva a queste persone e se le sarebbe levate dai piedi per sempre.» «Solo che non ha funzionato.» «No. L'investimento non arrivò mai a scadenza e quelli scoprirono che li scremava alla grande prima che Roy riuscisse a incassare il contante. La notte che gli parlai nel suo ufficio gli avevano detto che sapevano tutto e che volevano essere risarciti con il cento per cento di interessi, altrimenti si sarebbero presi il locale. Roy era terrorizzato. Se la stava facendo sotto. Non disponeva della somma in contanti e non voleva cedere il locale. Questo lo avrebbe lasciato in braghe di tela. Aveva chiesto ai suoi "soci" una proroga della scadenza del debito, così da poter risolvere in altro modo la questione, ma non erano interessati. Non sono tipi specializzati nel darti una mano.» «Scommetto proprio di no.» «Quando Roy si sfogò con me, mi disse che gli avevano dato tre giorni di tempo per decidere in un senso o nell'altro. O il locale o i soldi. Mi disse che se anche avesse ceduto la proprietà dell'Arcadia non era sicuro che non gli avrebbero spezzato le gambe per averli fregati. O magari anche ucciso. Disse che se doveva andare all'appuntamento con loro voleva essere protetto, ma non sapeva a chi rivolgersi. Non si fidava dei buttafuori che lavorano da noi e non aveva intenzione di contare su nessuno di loro. Perciò mi chiese se conoscevo qualcuno, qualche agenzia di servizi di sicurezza a cui potersi affidare per avere una scorta all'altezza della situazione.» «Perché lo ha domandato proprio a te?» Elaine alzò le spalle. «Perché non sapeva a chi altri rivolgersi, penso. Lavoravamo insieme da un pezzo e credo che si fidasse di me.» Finii il mio caffè e posai la tazza sul tavolino di cristallo accanto alla poltrona. «E gli dicesti che avresti provveduto in tal senso?» Elaine estrasse un pacchetto di sigarette dalla borsetta e me ne offrì una. Avevo smesso di fumare ormai da un mese, ma da qualche ora mi ero convinto che non sarebbe durata. Da come stavano andando le cose, arrivare a un'età veneranda con i polmoni sani era l'ultima delle mie preoccupazioni.
«Alla nostra» dissi, e ne presi una. Mi accese la sigaretta con un sottile accendino nero, poi accese la sua e tornò ad appoggiarsi allo schienale della poltrona, accavallando le gambe e soffiando il fumo verso il soffitto. Il miniabito da sera le salì sulle cosce in modo provocante e io mi sforzai, senza troppo successo, di ignorare la cosa. «Che scelta avevo?» mi domandò. «Non volevo farmi coinvolgere, certo, ma Roy era stato buono con me fin dal primo giorno che mi aveva assunto, e il meno che potessi fare era cercare di dargli una mano. Perciò ne parlai con Johnny e lui ne discusse con Roy, e a quanto pare Johnny lo ha messo in contatto con te. Mi dispiace che sia successo quel che è successo, ma non avrei mai immaginato che sarebbe finita così.» «Lascia perdere. Non è stata colpa tua. Ma devo essere franco, con te: sento odore di stronzate galattiche in quello che ti ha raccontato Roy.» «Senti, io...» «Sì, lo so, lo so. Mi stai dicendo la verità.» «È così.» «Sono sicuro che sei in buona fede, ma ci deve essere sotto molto di più. Se Fowler aveva con sé i documenti di proprietà del locale, perché ucciderlo prima che firmasse l'atto di cessione? Anzi, c'era proprio bisogno di ucciderlo? Soprattutto visto che aveva con sé dei testimoni. In questa storia ci sono troppe domande senza risposta.» Rimasi in silenzio un momento. «Però ce n'è una a cui puoi rispondere tu.» «Te l'ho già detto, Max. Non immischiarti in questa faccenda. Non ne vale la pena.» Mentre parlava, mi fissava sgranando gli occhi nel modo in cui soleva fare mia madre. L'espressione diceva: "Non discutere". Pensai che probabilmente avrebbe impersonato molto bene Miss Sadomaso con la frusta in mano, e un mucchio di giudici e di politici avrebbero sborsato una cifra per essere sottomessi e dominati da una donna così affascinante. Ma non ero davvero nell'umore di farmi dire cosa fare. «Voglio sapere chi ha ucciso il mio amico, Elaine. E chi ha tentato di ammazzarmi.» «Perché? Non ti servirà a niente. Te l'assicuro, non puoi farci niente.» «Tu dimmelo e basta.» Elaine mi guardò dritto negli occhi. «Gli Holtz.» Restai fulminato. «Sai chi sono, vero?» «Sì, gli Holtz li conosco eccome.» Chiunque in quella parte della città conosceva gli Holtz, o sapeva co-
munque chi erano. Guidati dal loro appartato fondatore, Stefan, ora sulla china "sbagliata" della mezza età, erano uno dei preminenti clan criminali della zona nord di Londra, e dirigevano un impero che valeva decine di milioni di sterline. Ed erano pure dei malefici bastardi. Circolava voce che fossero implicati in decine di omicidi nella lotta di potere per restare al vertice, ma anche dopo anni di attenzione da parte della polizia, restavano intoccabili. Nessuna meraviglia che fossero stati gli Holtz a organizzare l'agguato della sera precedente. Elaine sospirò. «Adesso capisci perché ti ho detto di non immischiarti.» «Cristo!» esclamai. Cominciavo ad avere un quadro più chiaro. «Non c'è da stupirsi che me la sia cavata per il rotto della cuffia.» «Non intendevo coinvolgerti in questa storia» disse Elaine, sulla difensiva. «Non sapevo che ci saresti stato tu, e sinceramente non credevo che loro sarebbero arrivati ad ammazzare Roy, o il tuo amico.» «Cristo santo, gli Holtz! Sono capaci di qualsiasi cosa.» Elaine scosse la testa. «Che casino. E adesso cosa diavolo faccio?» «Tieni la bocca chiusa. È la cosa migliore. Se scoprono che la sai troppo lunga, be'...» Non finii la frase di proposito, sapendo che avrei ottenuto l'effetto desiderato. «Comunque sono io quello che si deve preoccupare. Non soltanto sono ricercato dalla polizia anche se non ho fatto niente: sono pure un testimone oculare. Ho assistito all'omicidio di due uomini. Le forze dell'ordine saranno interessatissime a convincermi a vuotare il sacco. Gli Holtz, invece, saranno interessatissimi ad assicurarsi che non lo faccia.» «Però non puoi accusarli di niente, direttamente, giusto? A sparare è stato il tuo amico Tony, perciò in effetti è lui l'unico che può avere dei guai.» «Forse sì, forse no. Il fatto è che gli Holtz possono pensarla in modo diverso. Specie se gli sbirri riescono a far risalire a Fowler le tracce di sangue sul sedile posteriore della mia Range Rover. Se la notizia arriva ai giornali finirò dritto al primo posto sulla lista degli Holtz. E di conseguenza sulla lista funebre di chiunque altro.» Restammo in silenzio per qualche secondo. Elaine, seduta immobile, mi osservava con attenzione mentre fumava la sua sigaretta. Difficile indovinare che cosa stesse pensando dietro quegli occhioni nocciola. «Mi sento un po' responsabile per quello che è successo» disse alla fine. Non mi scomodai a informarla che in effetti lo era eccome, almeno in parte. In quel momento avevo bisogno di tutte le amicizie su cui potevo contare. «Se vuoi puoi restare qui per un paio di giorni, finché la situazione non
sbolle un po'.» «Grazie» dissi. «Lo apprezzo molto.» «Ti va un drink? Qualcosa di più adatto?» «Sì, credo di averne bisogno. Che cos'hai?» «Un po' di tutto. Che cosa vuoi?» «Un brandy, per favore. E anche una birra, se non ti scoccia.» Pensai che tanto valeva approfittare dell'ospitalità, senza sapere quanto a lungo sarebbe durata. Elaine non diede l'impressione di offendersi e mi omaggiò di un sorriso seducente mentre si alzava e si toglieva le scarpe senza chinarsi, con due colpetti di tallone. Le unghie dei piedi erano laccate di un rosso brillante. Si dice che sia un segno di passionalità. Cominciai a smettere di pensare alle mie sventure e mi concentrai invece sulle più immediate possibilità. Elaine andò in cucina a preparare i drink. Io mi levai la scarpa superstite e la seguii con noncuranza. «Sai che sei davvero incantevole?» dissi, pensando che avrei dovuto proprio comprarmi un manuale di conversazione, o almeno riflettere un po' meglio sulle frasi da usare in simili frangenti. Il fatto è che sono sempre stato uno che preferisce l'approccio diretto. Se pensavo di avere una chance, anche minima - e, per essere sincero, ritenevo che Elaine fosse in debito con me - avevo la tendenza ad andare dritto al sodo. «Grazie» disse lei, versando il brandy nei bicchieri. «Anche tu non sei poi tanto male. Sei decisamente migliorato con l'età.» Mi squadrò da capo a piedi, come se stesse esaminando un vestito. «Ti sei fatto anche più muscoloso. Stai bene. A scuola eri un po' troppo magro.» Sfacciata puledrina. Afferrai il brandy con una mano e spostai l'altra verso il suo bel culetto formoso, pensando che a quel punto stavo rischiando un po' troppo, dato che Elaine non sembrava affatto il tipo di donna che avrebbe sopportato in silenzio delle attenzioni indesiderate, e se mi avesse sbattuto fuori a calci ero davvero nei pasticci perché non avevo proprio altro posto dove andare. Ma non appena la mia mano entrò in contatto con il suo posteriore, e diedi una strizzatina gentile al gluteo sinistro, Elaine mi scoccò uno sguardo che lasciava intendere, dopo tutti i dannati contrattempi della giornata - e Dio sa quanti ce n'erano stati -, che avevo finalmente vinto alla lotteria. Le nostre labbra si incontrarono in un bacio ardente e la sua mano libera mi risalì come un ragno l'interno della coscia. Allora non tutto era cambiato dai tempi della scuola.
SABATO, QUINDICI GIORNI FA Gallan «Non smette mai di lavorare, sergente?» domandò Berrin, cullando nella mano il suo caffè nero. «Alle undici e mezzo di notte se ne va da solo all'Arcadia, si fa coinvolgere in una colluttazione e il mattino dopo si presenta al lavoro. Queste cose non si fanno a diciotto anni?» «Cercavo di recuperare l'affievolito spirito della gioventù. Non ci proverò più per un bel pezzo.» «Ha cavato qualche altra informazione da Elaine Toms?» «Niente di utile. Ha detto che Fowler non si è ancora fatto sentire e ha dichiarato di non avere idea di chi possa essere Max Iversson.» «Le ha creduto?» Mi strinsi nelle spalle. «Non so. Non l'ho visto insieme a lei, perciò può darsi che dica la verità. Probabilmente si è trattato solo di una coincidenza.» Erano le nove di sabato mattina e Berrin e io eravamo le uniche persone nella sala operativa destinata al caso Matthews. Avevo lasciato l'Arcadia a un quarto all'una ed ero stanco. Ciononostante, Berrin aveva un'aria più sbattuta della mia. Era ancora in preda ai postumi di una brutta sbronza e l'alito gli puzzava di pesce avariato. L'unica cosa che lo avesse vagamente entusiasmato nei dieci minuti trascorsi dal nostro arrivo al commissariato era il mio scontro con Iversson. Aveva trovato particolarmente divertente che l'ex parà mi avesse scaraventato contro un tizio mentre questi stava ancora pisciando. "Semplice ma molto efficace, non c'è che dire" era stata la sua conclusione. Abbastanza azzeccata, mi sa. Aveva ragione. La canicola durava da sei giorni, ne erano trascorsi sette dall'apertura dell'inchiesta sull'omicidio Matthews e le cose da fare non mancavano di certo. Knox, che sarebbe arrivato più tardi, mi aveva lasciato sulla scrivania un appunto con la foto segnaletica di una bionda avvenente, con una pettinatura alla Myra Hindley, la serial killer, e la stessa affabile espressione da seducente piromane. L'appunto diceva che si trattava di una certa Jean Tanner, un'ex squillo, e che due sue impronte digitali parziali erano state rinvenute nell'appartamento di Matthews, una delle quali su una tazza di caffè. Il particolare suggeriva che era stata qualcosa di più di una semplice cliente di passaggio in cerca di "roba". Knox ci aveva fornito l'indirizzo
della donna, che abitava a Finchley, insieme all'ordine di andare a trovarla, di raccogliere la sua deposizione e scoprire il motivo della sua visita a casa della vittima. Ogni inchiesta per omicidio comporta un sacco di barboso lavoro di routine che comunque va fatto. Il messaggio di Knox diceva anche di insistere nel tentativo di rintracciare Fowler, le cui impronte digitali erano state trovate, come quelle della Tanner, su una quantità di oggetti nell'appartamento di Matthews, nonostante quel tanghero avesse dichiarato di non aver mai socializzato troppo con la vittima. Prima di andare a pizzicare Miss Tanner ci recammo in auto al Priory Green Estate per mostrare la sua foto ai vicini di casa di Matthews e vedere se si trattava della stessa donna bionda precedentemente identificata da due di loro per essersi recata più di una volta nelle ultime settimane nell'appartamento della vittima. Se non altro questo ci avrebbe fornito qualcosa da contestarle nel caso in cui, per un motivo o per l'altro, si fosse dimostrata restia a collaborare. Il Priory Green Estate, un vasto complesso residenziale composto di palazzine di mattoni rossi e grigi più a nord del NatWest Building in Pentonville Road, era alberato, tranquillo e relativamente ben tenuto. Qualche anno prima il progetto edile aveva ricevuto un grosso stanziamento dal National Lottery's Heritage Fund per dare impulso all'opera, e nella zona erano ancora aperti diversi cantieri. Finora sembrava proprio che i fondi fossero stati spesi bene, cosa che non sempre avviene nei progetti di edilizia popolare. Il Priory Green non aveva affatto l'aria lugubre e minacciosa di tanti casermoni costruiti negli anni Sessanta e Settanta, quelle specie di fortezze imbrattate ovunque di graffiti, con i loro dedali di passaggi e di corridoi bui tanto amati dai rapinatori, che un poliziotto percepiva sempre come territorio ostile. Anche lì potevano accadere brutte cose, ma almeno in un ambiente assai gradevole. Ci andò bene. Entrambi i testimoni - una giovane donna di colore con un poppante cicciottello e diversi altri bambini che miagolavano sullo sfondo, e un uomo anziano che insistette ad arringarci in merito al problema dei rifiuti abbandonati per le strade della zona - erano in casa e poterono confermarci di aver visto la donna della foto segnaletica entrare e uscire dall'appartamento di Matthews in diverse occasioni, anche se non nelle ultime due settimane. L'anziano ricordava di averla vista tre volte, ma non ne era sicuro al cento per cento. Visto che c'eravamo, bussammo a qualche altra porta per cercare di raccogliere ulteriori testimonianze, ma se qualcuno si prese la briga di rispondere, ci venne accordato il tipo di accoglienza di
solito riservata ai Testimoni di Geova, e nessuno ci fu di aiuto. Non sapevo se potesse tornare utile appurare che Jean Tanner, ex o attualmente prostituta, in più di un'occasione si era recata in visita nell'appartamento di un noto spacciatore, anche se lui le aveva consegnato semplicemente del caffè. Era comunque qualcosa su cui lavorare. Tuttavia, la nostra buona stella, se di fortuna si poteva parlare, non brillò a lungo. Strada facendo verso la casa di Jean, un incidente avvenuto in Caledonian Road ci bloccò per quasi mezz'ora in un'afa sempre più soffocante. Poi Berrin, che visto il suo stato avevo relegato al ruolo di navigatore mettendomi al volante, mi fece smarrire nel dedalo delle stradine di East Finchley. Quando finalmente rintracciammo l'indirizzo - un appartamento in un prestigioso e ultramoderno condominio di quattro piani, infestato di allarmi antifurto, che si ergeva come un pugno nell'occhio fra due ali di linde casette a schiera in stile georgiano - erano quasi le undici e mezzo. E, come se non bastasse, Jean Tanner era fuori casa. Quel giorno dovevamo controllare altri sei indirizzi: le abitazioni dei buttafuori che avevano lavorato saltuariamente all'Arcadia negli ultimi sei mesi. L'elenco ci era stato fornito dal titolare dell'Elite A, un certo Warren Case, lui stesso un ex buttafuori. Avevamo interrogato Case, che poteva essere descritto come un uomo esageratamente inanellato, il pomeriggio prima a casa sua, un disordinato appartamento al terzo piano di uno stabile di Barnsbury che fungeva anche da sede della sua società. Case ci aveva mostrato il certificato di costituzione di ditta individuale e il documento di iscrizione all'ufficio IVA dell'Elite A, entrambi a suo nome, e ci aveva fornito una lista di nove nominativi. Due persone dell'elenco erano già state interrogate nel corso dell'indagine mentre un'altra era partita per l'Australia più di un mese prima che avvenisse l'omicidio ed era ancora laggiù. Case ci aveva fornito gli indirizzi dei restanti sei buttafuori, dopodiché avevamo tolto il disturbo. Prima di andarcene avevo domandato a Case se conoscesse bene Roy Fowler. "Quanto basta per sapere che era un verme schifoso" aveva risposto senza battere ciglio. Il che, probabilmente, era una descrizione abbastanza corretta, ma mi fece pensare che se un uomo come Case avesse detto una cosa del genere sul mio conto, allora avrei avuto davvero dei problemi. Sebbene in quel momento sapessi solo una minima parte di quello che c'era effettivamente da sapere. Non avevamo telefonato a nessuno dei buttafuori per avvertirli che stavamo arrivando, pratica tutt'altro che insolita in un'inchiesta per omicidio. Era molto improbabile che qualcuno di loro sapesse qualcosa di veramente
utile, ma, che fossero disposti a collaborare o meno, una visita a sorpresa sarebbe servita a evitare che si preparassero a fornire una deposizione troppo conveniente. Tuttavia comportava anche lo svantaggio che, come nel caso di Jean Tanner, potessero essere assenti da casa quando avremmo suonato alla porta, in particolare in un'afosa giornata estiva come quella. E infatti, senza troppa sorpresa, i primi due della lista non erano in casa, mentre il terzo stava giusto per uscire quando arrivammo da lui. Aveva lavorato con Matthews solo poche volte e dichiarò di non ricordare granché su di lui. "Era un po' una mezza sega, ricordo solo questo" ci disse, e non era certo una novità. Matthews e Fowler dovevano proprio essere stati due tangheri di prima categoria. Quando Berrin e io lo lasciammo era ormai l'una passata e lo stomaco brontolava. Facemmo tappa in una paninoteca gestita da un greco in una traversa di Finchley Road e consumammo il nostro pasto frugale in relativo silenzio, entrambi logorati dalla faticosa monotonia del lavoro di investigatori della polizia. «Non mi fraintenda se glielo dico, sergente» disse Berrin tra un boccone e l'altro della baguette con tacchino e insalata «ma pensavo che le indagini sugli omicidi fossero più stimolanti. Non voglio dire che dovrebbe essere divertente o che so io, ma mi pare la stessa barba di tutto il resto.» Masticai pensieroso il mio sandwich al prosciutto e sottaceti. Era abbastanza gustoso, a parte il prosciutto troppo grasso. «Dave, se fosse come nei telefilm nessuno se ne andrebbe mai, giusto?» «Lo so. È solo che vorrei almeno avere la sensazione che stiamo facendo progressi, tutto qui.» Non aveva tutti i torti, e in quel momento mi sentivo come lui. Sarebbe stata una giornata perfetta per sedersi in giardino con un bel romanzo, prendere un po' di sole e lasciare pigramente andare alla deriva il mondo intero. O magari portare mia figlia da qualche parte, approfittando del fatto che era ancora abbastanza giovane per non guardarmi con il tipico imbarazzo critico degli adolescenti. Ma avevo imparato anni prima che non si lavora nella polizia per farsi quattro ghignate e avere grandi soddisfazioni. Lo si fa per il desiderio di arrestare i malviventi, il che fondamentalmente è un fine in sé. Tuttavia capivo che Berrin, entrato in servizio troppo di recente per rendersi conto che la noia talvolta poteva toccare livelli ben peggiori, stava perdendo entusiasmo e gli occorreva un'iniezione di interesse. «Questa Jean Tanner si è fatta un nido di lusso» dissi, e bevvi un sorso di acqua minerale, desiderando che fosse birra. «Quanto credi che valga?»
«Anche solo per la posizione deve valere una cifra. Però non sappiamo com'è all'interno.» «Be', facciamo che sia un bilocale più servizi. È in una zona ridente di Finchley, perciò deve valere più o meno... Merda, non sono mica un agente immobiliare, prova a sparare un cifra per darmi un aiuto.» «Duecentomila sterline. Forse di più.» «E probabilmente ha più di due stanze. Mi sa che non siamo lontani dal vero se diciamo duecentocinquantamila. È un bel mucchio di soldi per una puttana, una che se la fa con un lestofante di mezza tacca come Shaun Matthews. Specie se si tratta di una tossicodipendente.» «Che cosa sta cercando di dire?» E a quel punto solleticai il suo interesse. «Non so» dissi. «Solo che mi sembra strano.» Il quarto indirizzo era in una via residenziale di fatiscenti villette a schiera di mattoni bianchi, a mezzo chilometro dallo stadio di Highbury. La circolazione stradale si fece via via più spaventosa, soprattutto per il fatto che l'Arsenal giocava in casa. Quando finalmente parcheggiammo quasi di fronte all'appartamento a pianterreno di Craig McBride erano le due e mezzo e c'erano trentadue gradi. Secondo quanto ci aveva riferito Case, McBride aveva lavorato gran parte dell'anno per l'Elite A come free lance e veniva ancora impiegato dall'agenzia a intervalli abbastanza regolari. Ventisettenne, aveva precedenti penali per aggressione, intimidazione, furto e detenzione di sostanze stupefacenti di classe A e B, un fatto che era venuto fuori quando avevamo inserito il suo nominativo nel computer per un controllo. Per uno con la sua fedina non era legale essere impiegato come buttafuori, a meno che non avesse convinto in un modo o nell'altro il consiglio municipale di essersi pentito e riabilitato, cosa di cui dubitavo. Ma sapevo che sono cose che succedono, e per il momento non valeva la pena di sollevare la questione con Warren Case. Una serie di gradini sporchi e scivolosi conduceva alla stamberga di McBride. La porta era malandata, con la vernice un tempo bianca tutta scrostata fino a mostrare il legno sottostante. Su un muro esterno era appeso a delle corde uno sbilenco vaso di fiori che conteneva soltanto un blocco di terra rinsecchita e un ciuffo di erbacce stentate. A destra della porta c'era una piccola finestra dal vetro lercio. Per un attimo mi domandai se fosse mai stato pulito. Stringendo il nodo alla cravatta, spiai all'interno dalla finestrella e mi sentii immediatamente rincuorato. Eureka. Proprio quel-
lo che ci serviva. In una democratica nazione occidentale dai limitati mezzi di coercizione non c'era modo più sicuro per costringere qualcuno a vuotare il sacco che metterlo di fronte a un'accusa precisa. E, a quanto pareva, Craig McBride stava indulgendo in un'attività che lo lasciava assai esposto a questa tattica. Nonostante le macchie di lerciume che imbrattavano il vetro della finestra, riuscii a distinguerlo chiaramente seduto su un divano, dietro un tavolino sul quale era posato un piatto su cui si ergeva un candido cono di polvere bianca. Vicino al piatto campeggiava una vaschetta di bicarbonato di sodio, accanto alla quale erano ammucchiate diverse bustine di plastica trasparente, contenente ognuna altra polverina bianca. Da Sherlock Holmes qual ero, azzardai l'ipotesi che il contenuto di ogni bustina di cellophane pesasse più o meno un grammo. Con indosso solo un paio di calzoncini corti, McBride era curvo in avanti, a testa bassa, intento ad armeggiare con quello che aveva tutta l'aria di essere un bilancino elettronico di precisione. Come se fosse necessaria una conferma di quello che stava facendo. Come malvivente il giovane Craig non era certamente un genio. La sua sconsiderata avventatezza era tale che tanto valeva mettere sulla strada un cartello segnaletico con la scritta "Droga: da questa parte". Mai sottovalutare la stupidità dei delinquenti. A volte è l'unica cosa che permette a noi poliziotti di andare avanti. Mi voltai verso Berrin, portai l'indice alle labbra e gli feci cenno di dare un'occhiata. Berrin spiò all'interno, poi si ritrasse sogghignando. «Che peccato disturbarlo» bisbigliò. «È talmente impegnato. Pensa che valga la pena di bussare alla finestra?» Scossi il capo. «No, potrebbe fuggire, o opporre resistenza. Lo metteremo con le spalle al muro quando saremo entrati.» Feci un passo avanti e bussai con forza alla porta. Non ci fu una risposta immediata, il che era prevedibile. Adesso avrebbe tentato disperatamente di nascondere la roba prima che qualcuno lo scorgesse dalla finestra. Gli concessi qualche secondo di tempo, poi bussai di nuovo. Questa volta feci cenno a Berrin di dare un'altra occhiata attraverso la finestra, consapevole che dovevamo giocare la partita alla perfezione. Volevo che McBride vedesse Berrin ma non me (ho un'inconfondibile aria da poliziotto), ma volevo anche che Berrin vedesse McBride dopo che si era sbarazzato della roba. In questo modo probabilmente avrebbe aperto la porta. Agimmo in perfetta sincronia. Mi ritrassi e osservai Berrin agitare la
mano e sorridergli, come un venditore a domicilio particolarmente entusiasta, prima di udire un attutito «Chi cazzo sei?» in risposta. Berrin seguitò a sorridere beato e si scostò dalla finestra. Quando, pochi secondi dopo, la porta si aprì di una spanna e la testa di McBride fece capolino nello spiraglio, già pronto a inveire oscenamente, avevamo tolto di tasca le nostre tessere della polizia e gliele stavamo agitando sotto il naso. McBride sbarrò gli occhi e io presi subito la parola prima che gli venisse in mente di fuggire. «Mr McBride? Siamo venuti a farle alcune domande in merito all'omicidio di Shaun Matthews.» McBride era nervoso, il che era più che prevedibile. «Chi?» «Shaun Matthews. Credo che lei abbia lavorato insieme a lui in diverse occasioni all'Arcadia.» «Ah, sì, Shaun. Giusto.» «Possiamo entrare?» dissi, spalancando la porta con una spinta decisa e varcando la soglia con sicurezza, come se fossi il padrone di casa. McBride tentò di opporsi e di restare saldo al suo posto, ma senza grossi risultati. «Sentite, non è il momento più opportuno.» «È questione di pochi minuti» disse Berrin, entrando con decisione dopo di me. «Ehi, non potete entrarmi in casa in questo modo. Non dovreste avere un mandato di perquisizione?» Sorrisi serafico e lo fissai dritto negli occhi. Compito facile, visto che eravamo a pochi centimetri di distanza. «Perché, ha qualcosa da nascondere, Mr McBride?» «No, no, naturalmente.» «Allora che problema c'è?» «Stavo per uscire. Non potete tornare più tardi?» Pronunciò l'ultima frase con un'ansimante nota di sconfitta nella voce, e capii che l'avevamo preso in trappola. «Sarebbe un motivo di enorme dispiacere se fossimo costretti a tornare più tardi, Mr McBride» dissi «e ci chiederemmo perché non ha voluto farci entrare, e questo significherebbe che dovremmo indagare ulteriormente sul suo conto.» «Va bene, va bene, avete vinto.» McBride si scostò dalla porta e ci accompagnò in cucina lungo il corridoio, lontano dalla stanza in cui stava confezionando le dosi di droga. La cucina era un caos immane, con il lavello che traboccava di piatti e tazze sporchi. I piani di lavoro erano lerci e nell'aria viziata aleggiava un
vago odore di fritto. McBride si appoggiò di spalle a un ripiano mentre noi ci fermammo in piedi al centro della stanza, di fronte a lui. «Forza con le domande» disse, all'apparenza più sicuro di sé, ora. Probabilmente stava pensando che avrebbe raccontato ai suoi amici questa disavventura, in cui se l'era cavata per il rotto della cuffia, e quanto fossero fessi gli sbirri per non aver subodorato quello che stava combinando. Decisi di bucare con uno spillo quel pallone gonfiato e di stabilire fin dall'inizio chi comandava. «Saremo franchi, con lei, Mr McBride. Stiamo indagando su un omicidio, perciò ci interessano solo le sue informazioni al riguardo. Il fatto che abbia una partita di polvere bianca nascosta da qualche parte in salotto, che questa sia con ogni probabilità una sostanza stupefacente e che la detenzione a scopo di spaccio è un reato che comporta sempre una condanna con conseguente reclusione, specie per un individuo che ha già una fedina penale lunga un chilometro...» McBride era sbiancato in volto e si era irrigidito «non è il nostro interesse principale. Però, se non risponde sinceramente alle domande che abbiamo da farle, potremmo trovare un improvviso e smodato interesse per quella polvere bianca. Sono stato chiaro?» McBride parve soppesare le opzioni. La tensione dei muscoli non prometteva niente di buono. Perfino i tatuaggi sulle braccia erano in movimento. «Potrebbe tentare di scappare. È grande e grosso, e potrebbe perfino farcela. Ma a quel punto troveremmo la droga e spiccheremmo un mandato di cattura, la beccheremmo e si troverebbe in una situazione maledettamente peggiore rispetto all'alternativa di restare qui a rispondere alle nostre domande. Capisce cosa intendo?» «Chi mi assicura che non mi accuserete comunque, qualsiasi cosa dica?» «Le ho già spiegato il perché. Ora andiamo a fare quattro chiacchiere in un posto più comodo. Il suo covo da spacciatore andrà benissimo.» McBride fece per protestare, ma non gli diedi retta. Mi girai e tornai verso il salotto, tallonato da Berrin. Ci sedemmo entrambi sul divano e feci cenno a McBride di sedersi sulla poltrona di fronte. Obbedì, con l'espressione di un uomo tremendamente imbarazzato per essere stato colto in fallo in modo così stupido. «Dunque» esordii. «Conosce bene Shaun Matthews?» McBride non rispose per qualche secondo e continuò a soppesare le alternative. Lasciai cadere lo sguardo con noncuranza sul pavimento oltre il bracciolo del divano, dove erano stati frettolosamente deposti il piatto con la droga, le bustine delle dosi, il bicarbonato e il bilancino elettronico di
precisione. La mia occhiata parve servire allo scopo. «Sì, direi di sì.» Berrin consultò il suo fido taccuino. «Nei tre mesi precedenti la morte di Mr Matthews lei ha fatto il buttafuori all'Arcadia in sedici diverse occasioni. Suppongo che sia esatto dire che Matthews era presente grosso modo in quasi tutte le occasioni, dato che era il capo della sorveglianza.» «Sì. L'ho conosciuto bene. Era un tipo a posto. Si dava un po' di arie, ma era a posto.» «All'Arcadia era lo spacciatore più importante, dico bene?» domandai. «Sentite, non voglio che questa storia si ritorca contro di me...» Di nuovo, guardai oltre il bracciolo le prove incriminanti. «Non credo che abbia altra scelta, Mr McBride. A meno che non se ne freghi di passare i prossimi due anni dietro le sbarre, a chiedersi perché è l'unica persona al mondo a credere ancora al patto d'onore fra delinquenti.» «Okay, okay, ho capito. Al locale era lo spacciatore più importante. Era lui a dirigere la borsa.» «Come funzionava la cosa?» domandò Berrin. «Fondamentalmente tutti i buttafuori spacciavano. Non in grosse quantità, badate bene. Ma avevamo il permesso.» «Chi vi autorizzava?» «La direzione.» «Roy Fowler?» «Sì, lui.» «Vada avanti» lo sollecitai. «Nel locale avevamo il monopolio. Chiunque altro venisse scoperto a smerciare veniva conciato per le feste. Di conseguenza fra la clientela era risaputo che i buttafuori erano le uniche persone a cui rivolgersi se si voleva qualcosa. Non è che ci si poteva presentare all'ingresso e chiedere la roba, bisognava rivolgersi ai buttafuori all'interno del locale. Di solito, però, loro non l'avevano con sé, nel caso gli acquirenti fossero sbirri in incognito. Eventualmente passavano l'ordine a Fowler, a Matthews o a uno degli altri dipendenti del locale, e quelli si occupavano di andare a prendere la roba e di consegnarla al cliente. Il buttafuori che effettuava lo smercio intascava i contanti e poi, dopo l'orario di chiusura, si divideva. Fowler si beccava l'ottanta per cento, era questo il tasso, noi ci spartivamo il resto.» «E gli affari andavano bene?» domandò Berrin. McBride annuì. «Niente male.» «Quanto tirava su in media in una notte?» «Quando andava a gonfie vele, circa duecento sterline.»
Berrin fece un fischio. «Un mucchio di quattrini, specie per il tizio che si beccava l'ottanta per cento.» «Tutti i buttafuori avevano l'opportunità di guadagnare così tanto?» «Sì. Facevamo a turno a battere il locale.» Mi soffermai a riflettere. Stando alle affermazioni di McBride, con lo spaccio di stupefacenti l'Arcadia raccoglieva ogni notte un sacco di contanti. Feci un rapido calcolo. Era più che sufficiente per spingere a uccidere. «L'Arcadia è di proprietà degli Holtz, giusto?» Sul volto di McBride passò una fugace ombra di paura. Rapida, ma rilevante. «Il titolare è Roy Fowler, per quel che ne so.» «Chi è il titolare dell'Elite A?» «Warren Case.» Sospirai. «Non ci è molto di aiuto, Mr McBride. So che sul certificato di costituzione di ditta individuale c'è il nome di Warren Case, ma voglio sapere chi è il vero proprietario. Chi intasca i profitti.» «Francamente non lo so. Io mi limito a lavorare per loro.» Lasciai di nuovo vagare lo sguardo sulla droga. «Che cos'è quella roba, speed o coca?» «Speed.» «È una quantità notevole.» «La Narcotici lo troverà interessante» rifletté Berrin ad alta voce. «Eccome.» McBride stava sudando freddo. Poteva anche essere una giornata di caldo torrido, ma che avesse i nervi a fior di pelle era evidente. Sapeva di dover cantare come un canarino, ma la prospettiva lo terrorizzava. «Sentite, vi sto dicendo la verità. Non so chi sia il proprietario. All'Elite A ho incontrato un paio di volte un tizio che veniva a parlare con Case, e una volta l'ho visto andarsene con una grossa borsa. Ho sentito che scambiava una battuta con Case, sapete, tanto per scherzare: gli ha detto che quella settimana doveva essergli andata parecchio bene.» «Perciò è lecito supporre che la borsa contenesse del denaro?» McBride annuì. «Però a questo punto sono un po' confuso. Ha detto che Fowler si prendeva l'ottanta per cento degli introiti e che il restante venti per cento era diviso tra i vari buttafuori. Allora da dove venivano tutti quei quattrini consegnati all'Elite A?» «A quanto ne so, Fowler raccoglieva i soldi e li contabilizzava, ma non se li teneva affatto. Per la maggior parte finivano all'Elite A.» «Ciò significa che l'Arcadia e l'Elite A erano strettamente collegate, dico
bene?» Con estrema riluttanza, McBride fece un cenno di assenso. «Chi era il tizio che ha visto nella sede dell'Elite A?» «Jack Merriweather.» «Bene, bene, bene.» Jack Merriweather, meglio noto - a sua insaputa, almeno - come Jackie "Palla da Biliardo", per via della sua lucida calvizie in stile Mekon, conseguenza di un improvviso attacco adolescenziale di alopecia. Era andata così. All'età di sedici anni il giovane Jackie era stato costretto a dividere una cella di riformatorio con un energumeno omosessuale che si chiamava Lennie, e lo stress di dover respingere le sgradite avance di Lennie era stato tale che Jack aveva perso tutti i capelli. All'epoca la notizia era finita sui giornali, perché c'erano parecchie polemiche circa i "bruschi metodi traumatizzanti" applicati nei riformatori. Un giornalista aveva suggerito di ridefinirli "bruschi metodi pelatizzanti", e almeno nel caso di Jackie la definizione era azzeccata. Però, da allora nessuno aveva più angariato Jack Merriweather. Specie da quando era entrato nell'organizzazione criminale di Stefan Holtz. Questo chiariva in parte anche la questione di chi comandava veramente all'Arcadia. Merriweather era un luogotenente di Neil Vamen, a sua volta uno dei più fidati notabili di Holtz, in molti modi gli occhi e gli orecchi di Stefan Holtz nell'onorata società ora che il super-boss era diventato una specie di recluso. Avevo conosciuto Vamen pochi mesi prima, in occasione di un interrogatorio dopo che il suo nome era saltato fuori in relazione a una cassa contenente dodici Kalashnikov scoperta all'aeroporto di Gatwick. Basso e tarchiato, con un torace grosso come un barile, i capelli radi e penetranti occhi color turchese, lo si poteva definire di bell'aspetto, in un certo qual modo. Ed era anche di buone maniere, me lo ricordo bene. Una volta un mio superiore del CID aveva detto che Neil Vamen aveva riportato il bon ton nel campo degli omicidi e, dovevo ammetterlo, per quanto bieco, quell'uomo aveva qualcosa di decisamente carismatico. Ma, come con tutti i malavitosi, avevi la netta sensazione che se ti azzardavi a intralciargli il passo l'avresti pagata cara. Era stato messo in relazione con più di un omicidio, compreso quello di una giovane ragioniera che la sapeva un po' troppo lunga (naturalmente nulla che fosse mai stato confermato, Vamen era troppo scaltro per farsi beccare in castagna). Questo aveva fatto sì che ai miei occhi perfino l'immagine di Raffles, il gangster gentiluomo, perdesse un po' della sua lucente patina romantica. Impiegare Merriweather per incassare le quote dei profitti concordava con lo stile operativo di
Neil Vamen. I veri criminali di successo non si sporcano mai le mani. «Immagino sappia che Jack Merriweather lavora per gli Holtz.» «Sì, l'ho sentito dire.» «Perciò si potrebbe dedurre che l'Elite A sia di proprietà degli Holtz e che di conseguenza lo sia quasi certamente anche l'Arcadia.» «È una domanda o un'affermazione?» disse McBride, usando la stessa frase utilizzata da Elaine Toms il giorno prima. «Non ci prenda per il culo, McBride» gli dissi in tono gelido. «Questo interrogatorio si svolge nel suo salotto solo perché al momento le stiamo concedendo il beneficio del dubbio. Ma finora non ci ha detto assolutamente niente di cui non fossimo già al corrente, e rischia ancora un bel terzo grado in una delle nostre salette per interrogatori. Quindi veda di rispondere alle domande se vuole evitare di continuare questo colloquio al commissariato.» «Sì, va bene, immagino che sia lecito dedurlo. Non ero sicuro al cento per cento che Stefan Holtz fosse il proprietario dell'Elite A... e dell'Arcadia... ma circolano voci in tal senso. Non mi va di fare troppe domande su queste cose. Sapete, non vorrei prendere Stefan Holtz per il verso sbagliato.» Cambiai tattica. «Conosceva bene Shaun Matthews? Sinceramente.» «Con lui ho sempre avuto un buon rapporto. Lo conoscevo un po', tutto qui.» «Lo ha mai frequentato al di fuori del lavoro?» McBride prese tempo prima di rispondere, distogliendo nello stesso tempo lo sguardo dal mio. «Sì, un paio di volte» disse infine. «Eravamo ex militari, probabilmente pensava che avessimo qualcosa in comune. Alla maggior parte degli altri colleghi Shaun non era molto simpatico.» «Perché?» domandò Berrin. «Be', come ho già detto, faceva un po' troppo il superiore. Si dava delle arie, e poteva diventare una iena se pensava che qualcuno si intascasse denaro del locale.» «Ha mai avuto attriti con qualcuno in particolare? Quanto basta per far venire la voglia di ucciderlo?» «Ha avuto uno scontro violento con un tizio... John Harris, uno dei buttafuori in pianta stabile. John era nei cessi che si stava facendo fare un lavoretto da una cliente quando invece avrebbe dovuto essere in servizio nel locale. Non credo che la cosa avesse poi tanta importanza. Questo genere di incontri succede spesso. Le passerine sono attratte dai buttafuori, no?»
«Non saprei» dissi, sperando che mia figlia non sbattesse mai le ciglia a un mascalzone come McBride. «Ma il fatto è che a Harris accadeva troppo spesso. Faceva sempre il cascamorto con le clienti, anche due alla volta, e non aveva certo problemi di eiaculazione precoce, perciò poteva stare assente per quindici, venti minuti, e anche di più. Immagino fosse per questo che aveva tanto successo con le squinzie. A ogni modo, una sera Shaun perse la pazienza e andò dritto ai cessi come un toro infuriato, aprì la porta con un calcio e trascinò fuori John per le palle. John non si rese neppure conto di che cosa l'avesse colpito, e le prese di santa ragione. Naso rotto e occhi neri. Shaun gli fece attraversare tutto il locale con i calzoni ancora a mezz'asta e lo buttò fuori a calci nel sedere. Gli disse di tornare al lavoro solo quando avesse saputo tenere a freno i suoi istinti.» «E tornò?» «Dopo quella figuraccia no. Insomma... voi l'avreste fatto?» «Quand'è successo?» domandò Berrin. McBride scrollò le spalle con un'espressione vaga. «Un paio di mesi fa, se non ricordo male.» Berrin e io ci scambiammo un'occhiata. Era la prima volta che sentivamo di quello scontro con John Harris, ma del resto fino a quel momento nessun dipendente dell'Arcadia si era dimostrato particolarmente disposto a collaborare. Berrin prese nota sul suo taccuino. In seguito saremmo andati a fare quattro chiacchiere con quel satiro di Mr Harris. «Shaun Matthews le ha mai confidato di avere problemi con qualcuno, problemi che possono aver portato al suo assassinio?» McBride negò con decisione. «So che intrallazzava un po' sottobanco, e non credo avesse molto rispetto per i clienti che compravano la roba da lui. Un paio di volte mi disse che ci andava pesante nel tagliare la droga, ma non mi è mai parso preoccupato di eventuali lamentele. Mi disse che se qualcuno si fosse lagnato l'avrebbe semplicemente mandato affanculo. Shaun era fatto così: non aveva paura di nessuno. Si è sempre considerato abbastanza duro da tirarsi fuori da qualsiasi rogna. Capite cosa intendo?» Sapevo esattamente che cosa intendeva. Sono parecchi i delinquenti con quel tipo di atteggiamento: troppo arroganti per rendersi conto di essere inesorabilmente invischiati nelle sabbie mobili. Matthews era solo l'ultimo di una lunga fila di presuntuosi che avevano scoperto troppo tardi, se mai l'avevano scoperto, di non essere affatto invincibili come credevano. «Siamo a conoscenza di un particolare incidente in cui ha fatto penzolare
un uomo fuori dal balcone del suo appartamento trattenendolo per una caviglia. Ne sa qualcosa?» McBride tentò invano di sghignazzare con noncuranza. «Sì, ricordo che me ne ha parlato. Penso che il tizio fosse uno studente. Shaun gli aveva venduto della roba che doveva essere una vera schifezza, comprata a basso prezzo da un marocchino. A quanto sembra l'unico effetto che aveva era quello di farti venire il mal di gola. Lo studente aveva tentato di farsi restituire i soldi e Shaun gli aveva mostrato la sua garanzia di rimborso. Credo che quel poveraccio non si sia più fatto vedere.» «Sa come si chiamava questo studente?» chiese Berrin. McBride scosse il capo. «No. Shaun mi ha solo raccontato il fatto una sera che eravamo fuori insieme. Credo mi abbia detto che il gonzo forse si era rivolto alle autorità di Islington, ma non ne sono sicuro.» «Matthews le ha mai confidato di aver pestato i piedi agli Holtz in qualche occasione?» McBride mi lanciò un'occhiata sprezzante. «Shaun poteva anche essere un gradasso, e un po' stupido, a essere sinceri, ma non era un coglione totale. Non avrebbe mai pestato i piedi a gente come gli Holtz, e se anche l'avesse fatto non avrebbe mai detto una parola. A nessuno.» Mi sporsi sul divano e lo fissai negli occhi con sguardo truce. Non sopporto le occhiatacce da parte di mascalzoni di mezza tacca con il cervello vuoto. «Continui a non esserci d'aiuto, Craig. E non ci stai dando alcun pretesto per andarcene di qui dimenticandoci che sei seduto accanto a un mucchio di droga, che non è di certo per uso personale. Mi spiego?» «Sentite, non so chi l'ha ucciso. Ve lo giuro. Cosa cazzo devo fare? Non posso certo inventarmelo, no?» «Vari testimoni hanno dichiarato di aver visto Matthews con una donna dai capelli biondi e corti in diverse occasioni. Riteniamo che fra loro ci potesse essere del tenero. La donna lo andava a trovare spesso a casa sua. Abbiamo saputo che si chiama Jean Tanner. Questa è una sua foto. Non le rende certo onore, ma le foto segnaletiche sono sempre squallide.» Gliela passai. McBride la esaminò di sfuggita e me la restituì, scuotendo il capo. «Mi piacerebbe ritenere, per il tuo bene» proseguii «che tu possa illuminarmi sui suoi rapporti con Matthews.» McBride emise una serie di mugugni, come a lasciar intendere che stava cercando di concentrarsi. Ma non fu particolarmente convincente. «Può darsi che una volta abbia accennato a qualcosa a proposito di una ragazza che stava frequentando, ma in effetti non ha mai detto niente riguardo a...»
«Craig McBride, sto per arrestarti per detenzione di sostanze stupefacenti...» «D'accordo, d'accordo, calma. Non sia così precipitoso.» «Precipitoso? Se aspetto che tu dica qualcosa mi verrà una barba da Matusalemme.» «Sentite, non voglio che questa cosa mi si ritorca contro. Seriamente.» «Quale cosa?» McBride si prese il capo fra le mani, poi le abbassò ed emise un sonoro sospiro. «La cosa che sto per dirvi.» Non mi entusiasmai troppo. «Se sarà utile, la considereremo un'informazione proveniente da fonte anonima» dissi. «Ora ti consiglio caldamente di vuotare il sacco.» «Shaun aveva una ragazza, una donna che frequentava da qualche mese. Sì, si chiamava Jean, ma non conosco il cognome. Il fatto è che si vedevano di nascosto. Mi stupisce che qualcuno li abbia visti insieme. Shaun me ne ha parlato una volta sola, una sera, dopo che aveva bevuto parecchio e si era anche un po' fatto. Penso che volesse un consiglio.» «Spiegati meglio.» «Be', questa ragazza... stava già con un altro. Se la faceva con Shaun in gran segreto.» «Capita» commentai. «Alla gente comune forse, non certo a Neil Vamen.» Di nuovo, con Berrin ci scambiammo un'occhiata d'intesa. Certamente questo particolare cambiava l'intera prospettiva. Il gangster gentiluomo. «Ci stai dicendo che Jean era la ragazza di Neil Vamen?» McBride annuì. «È quel che ha detto Shaun.» «Cristo» esclamò Berrin. «Non c'è da meravigliarsi che Matthews volesse tenere segreta la cosa. Pensi che Vamen l'abbia scoperto?» «Francamente non lo so.» «Come l'aveva conosciuta Shaun?» «Ho sentito dire che Jean un tempo lavorava come escort in un'agenzia diretta da Roy Fowler: la Heavenly Girls. Forse è così che l'ha conosciuta.» Inarcai le sopracciglia. Era un dettaglio interessante. Non sapevamo che una delle attività secondarie di Fowler fosse gestire un bordello. Berrin finì di prendere appunti e alzò lo sguardo dal taccuino. «Neil Vamen è sposato, giusto?» McBride si strinse nelle spalle. «Sì, è sposato, e anche la sua signora è un gran pezzo di femmina, ma sapete come sono fatti gli uomini. Specie
quelli con il portafoglio gonfio. Lo sanno tutti che a Neil piace giocare fuori casa.» Berrin mi guardò, aspettando altri commenti da parte mia. Era difficile stabilire che cos'altro si poteva chiedere a McBride, o se quanto ci aveva raccontato fosse sufficiente per lasciarlo andare. «Un'ultima domanda» dissi. «Da chi hai comprato questa droga?» McBride sospirò. Per un attimo assunse un'espressione angustiata, come se fosse sul punto di tradire qualcuno, poi fece il nome di uno spacciatore locale abbastanza conosciuto. Capii subito che mentiva. La droga proveniva quasi certamente da un anello dell'organizzazione che faceva capo a Stefan Holtz. Nell'ambiente si diceva che Holtz disprezzasse il consumo di droga e, a differenza di molti loschi figuri della malavita, non ne avesse mai fatto uso. Ciononostante, i suoi sgherri erano responsabili dell'importazione di una quantità inimmaginabile della cocaina che ogni anno transitava da Londra, perciò era chiaro che le sue convinzioni personali non gli impedivano affatto di spingere un sacco di gente alla rovina. Mi chinai in avanti, raccolsi dal pavimento il piatto di anfetamina e le bustine già confezionate e mi alzai. «Se senti qualcosa, qualsiasi particolare riguardo all'omicidio di Shaun Matthews, mettimi subito al corrente.» Offrii il mio biglietto da visita a McBride, che l'accettò con espressione sollevata. «Lo farò di sicuro» disse. «Grazie.» «Dov'è il bagno?» domandai, uscendo dal salotto, sempre tallonato da Berrin. «La prima porta a sinistra. Che cosa vuol farne di quella roba? La restituirò a chi me l'ha data, ma il fatto è che non l'ho ancora pagata.» Entrai nel lurido cesso e vuotai il piatto nel wc Poi vi buttai anche le bustine. Feci scorrere l'acqua e osservai sparire il tutto. «Non prendertela, McBride» dissi allo sconvolto buttafuori mentre uscivamo. «Ti abbiamo fatto un gran favore.» Quando fummo di nuovo in auto, Berrin mi lanciò un'occhiata preoccupata. «Crede che sia stata una buona idea, sergente? Mollarlo così, intendo. L'abbiamo colto in flagrante e potevamo benissimo arrestarlo.» «Ci avrebbe fatto di nuovo impantanare nelle scartoffie, senza ostacolare la catena di distribuzione degli Holtz. A volte si deve mollare un pesce piccolo per acchiappare quelli grossi. Comunque, fammi il piacere di non dire niente a nessuno di questa storia.» «No, certo. Ma pensa che sia stato utile togliere il disturbo così in fretta?
L'avevamo spremuto abbastanza, secondo lei?» «Abbiamo scoperto altre persone con un movente valido. Perciò le sue rivelazioni ci hanno fatto fare dei progressi.» «Non dobbiamo fare altro che trovare queste persone.» «Sta tutto lì, amico.» Iversson Erano le tre del pomeriggio quando premetti il pulsante del citofono per far salire Joe e lo invitai ad accomodarsi in salotto. Era una giornata di caldo torrido e avevo aperto tutte le finestre. In strada, il traffico rombava incessante davanti al condominio. «Bel posto come nascondiglio» disse Joe, deponendo sul pavimento una sacca contenente alcuni effetti personali che era passato a prendere a casa mia. Si sedette su una delle poltrone di pelle e posò sul tavolino di cristallo una confezione da quattro lattine di birra. Andai in cucina a prendere i bicchieri e versai due lattine. «Allora, dov'è la ragazza?» «È uscita» dissi, sedendomi di fronte a lui. «Tornerà più tardi.» «E per quanto tempo è disposta a ospitarti? Non ti conosce neppure tanto, giusto?» «Te l'ho detto, la conosco dai tempi della scuola.» «Ma non hai più diciotto anni, Max. Ne è passato del tempo da allora. Non la vedevi da... quanto? Vent'anni?» Bevvi un sorso di birra. «Non da così tanto.» «Comunque da un bel pezzo. Devi stare attento. Con il tempo le persone cambiano. Potrebbe anche denunciarti alla polizia.» «Non lo farà.» «Be', comunque non vedrà l'ora che sloggi. Sbaglio?» Annuii, anche se non mi piaceva pensarlo. Dopo la ginnastica erotica della notte precedente non avevo alcuna fretta di andare da qualche altra parte. «Mi sa di sì.» «Allora dobbiamo discutere delle tue prospettive future. Stamattina la polizia è venuta a chiedere informazioni sul tuo conto. Mi hanno domandato che cosa ci facevi al volante di un'auto crivellata di proiettili. E perché te la sei data a gambe quando ti hanno fermato, malmenando due piedipiatti. Domande del genere.» «E che cosa hai risposto?» «Tu che dici? Non gli ho detto niente. Ho solo dichiarato che ti avevo
sempre ritenuto irreprensibile e che non credevo fossi implicato in nulla di illecito.» «Pensi che ti abbiano creduto?» Joe alzò le spalle. «Difficile dirlo. Credo di sì, ma non si può mai sapere. Il fatto che tu non abbia precedenti penali è di grande aiuto. Ma ti stanno cercando, Max, e questo non va affatto bene.» «Pensi che ti abbiano seguito?» Joe scrollò la testa. «No, sono stato prudente. Comunque, per il momento probabilmente non sei un pesce abbastanza grosso da sprecare troppe risorse per scovarti. In fondo non c'è ancora alcuna prova che tu abbia combinato qualcosa, a parte pestare un paio di poliziotti.» «Fowler ha perso sangue sul sedile posteriore quando è morto. Non tanto, e ho lavato tutto con spazzola e sapone, ma uno dei due agenti ha scoperto le macchie quando mi hanno fermato. Non so se siano in grado di far risalire il sangue a Fowler o meno. Che cosa ne pensi?» Joe ponderò la cosa per qualche secondo. «Ne dubito. Se non conoscono Fowler, e non hanno un campione del suo sangue, ritengo che non possano imputarti niente.» Bevvi un altro sorso di birra. Andava giù che era un piacere. «Che razza di casino» commentai, scuotendo il capo. «Hai saputo niente su quel bastardo di Tony? Qualcosa che possa spiegare cosa cazzo gli era venuto in mente di fare?» «Ho parlato con alcune persone, gente per cui aveva lavorato, ma nessuno sembra avere niente da recriminare sul suo comportamento. Ha collaborato per un po' come guardia del corpo per Barry Unwin, occupandosi di sorvegliare certi ricconi arabi, e tramite Barry ha ottenuto perfino un incarico come guardia del corpo di Geri Halliwell. Tutti ritengono che abbia svolto un ottimo lavoro. Ed è stato con Barry a lungo. Più di due anni.» «Eppure deve essere successo qualcosa. A un certo punto della sua carriera ha conosciuto qualcuno disposto a pagarlo profumatamente per farsi coinvolgere in una sporca faccenda.» Joe parve notare la sua birra per la prima volta. Afferrò il bicchiere e ne scolò almeno la metà in un solo sorso. «E tu, hai scoperto niente?» Gli raccontai quello che mi aveva confidato Elaine. Joe sgranò gli occhi quando nominai il clan degli Holtz. «Cristo santo, Max, ci mancava anche questa. Facciamo di tutto per tenerci alla larga se ci sono di mezzo loro. Non voglio essere costretto ad affrontare gente del genere.»
Sapevo che aveva ragione, e se un uomo come lui faceva un'affermazione del genere, era meglio dargli retta. Ma il pensiero di non effettuare alcuna rappresaglia mi faceva andare in bestia. «Senza offesa, Joe, ma la notte scorsa a momenti mi facevano saltare le cervella. Se non fossi stato armato, ora probabilmente mi troverei in fondo al Tamigi. E questo ha parecchio influenzato il mio punto di vista sulla vicenda. Abbiamo anche perso Eric, e non si meritava certo di finire in quel modo.» «Lo so, e a parte tutto il resto, sarà difficile rimpiazzarlo. Inoltre, stamattina mi ha telefonato la sua ex moglie.» «Merda.» «Già, è quello che ho pensato anch'io. Oggi Eric avrebbe dovuto prendere in consegna due dei loro nipotini, solo che non si è fatto vedere. Perciò la sua ex moglie ha telefonato per chiedermi se l'avessimo visto. Fortunatamente non sapeva che Eric lavorava per noi giovedì. Le ho detto che non lo vedevamo dalla settimana scorsa.» «Come ti è sembrata?» «Preoccupata. Ha detto che non era da lui fare bidoni, specie se si trattava di occuparsi dei nipoti.» «Ha perfettamente ragione. È sempre stato il nostro più fedele collaboratore. Puntuale come un orologio. Non ricordo che abbia mai saltato un solo giorno. Ti è sembrato che avesse intenzione di rivolgersi alla polizia?» «Per ora no, ma alla fine lo farà di sicuro, non c'è dubbio. E sarà un bel problema, perché darà alla polizia la possibilità di metterlo in relazione con te. C'è solo da sperare che non prendano troppo sul serio la sua scomparsa. Non si tratta di un bambino sparito da casa. È un ex soldato di cento chili che ha superato la cinquantina. Potrebbero anche concludere che si sia imbarcato in qualche avventura militare, ma il problema è che non sembrerebbe comunque una semplice coincidenza.» Su questo dovevo convenire con Joe. «A ogni modo, la cosa migliore che possiamo fare è dimenticare l'accaduto e farne tesoro per il futuro.» «Non mi sembra giusto fargliela passare liscia.» «È stata un'operazione da professionisti, Max. Tre persone uccise, ma nessuna prova per la stampa, nessuna traccia dei cadaveri. Niente di niente. È come se non fosse mai accaduto. E questo è esattamente lo stile degli Holtz. Ricordi Jon Kalinski, il gioielliere di Hatton Garden, quello che se l'è filata con un quarto di milione in diamanti circa tre anni fa?»
«Sì, ricordo di aver letto qualcosa.» «Be', ho sentito dire che non se l'è filata affatto. Pare che nella sua strana scomparsa ci sia lo zampino degli Holtz. A quanto sembra, Kalinski doveva un sacco di soldi a Krys Holtz, il figlio di Stefan, denaro che faceva parte di una truffa in cui erano coinvolti entrambi. Krys temeva di perdere quanto gli spettava. Sicché ha pagato una delle ragazze di Kalinski perché gli telefonasse e lo invitasse da lei a Hampstead. Quando si è presentato a casa della ragazza, Krys e alcuni suoi tirapiedi lo stavano aspettando. Gli hanno preso le chiavi della cassaforte, si sono fatti dire dove teneva i suoi risparmi, fino all'ultimo penny, e poi l'hanno ucciso. E hanno ucciso anche la ragazza. Li hanno fatti a pezzi nella vasca da bagno, hanno ripulito tutto per bene per eliminare ogni traccia della loro presenza nell'appartamento e li hanno portati via in piena notte chiusi dentro alcune valigie. Poi sono andati nella gioielleria di Kalinski e l'hanno ripulita. Sai come si sono sbarazzati dei cadaveri smembrati?» «Mi stupisce che tu lo sappia.» «Be', può anche essere una voce priva di fondamento, non so, ma ha una parvenza di verità.» «Continua.» «Ti sei mai domandato da dove vengano quei vermetti che vendono a migliaia nei negozi di pesca?» «No. Posso anzi affermare che questo interrogativo non mi è mai passato per la testa.» «Be', provengono da stabilimenti in cui allevano milioni di quei bastardi in appositi stanzoni puzzolenti. Gli Holtz ne possiedono uno nell'Essex. Vi hanno portato i brandelli di cadavere e hanno lasciato che i vermi li spolpassero fino alle ossa. Poi hanno ridotto queste in polvere e l'hanno sparpagliata ai quattro venti. È andata così. Niente tracce.» «Se fanno tutto così in gran segreto, com'è che te ne hanno parlato?» «L'ho sentito da un tizio che conosceva delle persone con cui gli Holtz erano in rapporti d'affari. Un po' di tempo fa. All'epoca non ci ho badato più di tanto, ma ora mi è tornato in mente.» «Non è possibile chiedere a questo tizio qualcosa in merito alla faccenda Fowler?» Joe esibì un sorriso privo di umorismo. «Impossibile Quel tizio era Tony.» «Fantastico.» «La morale non cambia: meglio lasciar perdere tutto.»
«Non preoccuparti. Mi sa che mi hai convinto.» «È assolutamente necessario che te ne vada da Londra per un po', Max. Un paio di mesi come minimo. Finché non si calmano le acque.» Joe infilò una mano nella tasca dei jeans e tirò fuori due grossi rotoli di banconote, che posò sul tavolino. «Sono seimila sterline. I soldi del lavoro dell'altra sera. Usali per prendere in affitto una casetta sulla costa o da qualche altra parte.» «Non posso prendere tutto, Joe. Tremila sono tuoi.» «E metà della Tiger Solutions è tua. Lascia perdere. È il minimo che possa fare. Vediamo come evolve la situazione e poi, se ti occorrerà altro denaro, cercherò di ricavarne dell'altro dalla nostra attività.» «Accidenti, Joe. Non so cosa dire.» Mi chinai in avanti e presi i soldi. «Grazie, socio. Grazie mille.» «A questo servono gli amici, Max. Ricordatelo.» E me lo ricordai sì. L'avrei sempre ricordato. Joe e io ci conoscevamo da parecchi anni. Eravamo stati insieme nei paracadutisti e, benché Joe fosse ufficiale e io non avessi mai superato il grado di sergente maggiore, eravamo sempre stati amici come avviene di rado fra i ranghi dell'esercito britannico. Ora ero in debito con lui, anche se, per essere franco, lo ero sempre stato. Vedete, tanti anni prima gli avevo fatto un torto di cui Joe è ancora all'oscuro, ma questo faceva sì che, in un modo o nell'altro, fossi sempre in debito con lui. Joe aveva due anni più di me, e verso la fine della sua carriera militare si sposò con una ragazza tedesca che aveva conosciuto mentre eravamo di stanza in Germania. Si chiamava Elsa. Ventun anni, fin troppo bella e affascinante, e con un atteggiamento alquanto liberale, se non addirittura famelico, riguardo al sesso. Perché si fosse sposata non lo compresi mai. Non era proprio tagliata per starsene tranquilla con un solo uomo. Ma il problema di Joe era lo stesso di un'infinità di uomini: era troppo innamorato per accorgersene. Sul conto di Elsa avevo sentito varie voci secondo le quali si era fatta sbattere da altri militari durante il periodo di fidanzamento, ma decisi che fosse meglio tenere la bocca chiusa. In fin dei conti, non erano affari miei. Joe aveva fatto la sua scelta, ed era quello che contava. So che può sembrare un po' cinico, ma in base alla mia esperienza nessuno ringrazia mai chi reca brutte notizie, soprattutto quando queste riguardano tua moglie e i suoi insaziabili bollori. Poi, qualche settimana dopo il matrimonio, mi imbattei per caso in Elsa in un bar. Anche lei era da sola, il che costituiva una novità. Elsa era mol-
to, molto bella. Cominciammo a chiacchierare e lei mi disse di aver litigato con Joe. Non avrei mai voluto che accadesse niente, ma mi offrii di accompagnarla a casa a piedi, e da cosa nasce cosa. Facemmo l'amore in un campo pieno di pecore dall'aria annoiata (e lo facemmo pure due volte). Sapevo che avrei dovuto interrompere la cosa a quel punto, sperando che nessuno di noi dicesse mai niente, ma il fatto è che Elsa aveva un vero talento per far perdere la tramontana agli uomini. Dava assuefazione: non so trovare un modo migliore per descriverla. Cominciammo a vederci all'insaputa di Joe, facendolo ogni volta e ovunque capitasse, incluso il loro talamo nuziale, il che, mi rendo conto, è un affronto terribile. Mi sentivo molto in colpa, lo dico sinceramente, ed ero anche geloso, perché sapevo di non essere l'unico amante della bella Elsa. Ma non riuscivo a smettere. È l'unica giustificazione a mia difesa, se possiamo chiamarla così. Non ce la facevo proprio. Un giorno, nemmeno un paio di mesi dopo quella fatale sera nel campo delle pecore, il corpo seminudo di Elsa fu scoperto nel prato di un liceo. La sua testa era stata ridotta in poltiglia con un corpo contundente dalla superficie smussata. La polizia aprì un'inchiesta che all'inizio si concentrò sulla base militare e i suoi occupanti, in particolare su suo marito, ma che ben presto venne ampliata al resto della comunità locale a mano a mano che dall'indagine emergeva una trafila di amanti. Dopo appena tre giorni si giunse a un arresto. Un diciannovenne del posto, un certo Dietrich Fenzer, era stato visto litigare aspramente con lei la notte in cui era morta, non lontano da dove era stato ritrovato il cadavere, e si sapeva che il giovane era uno dei suoi amanti. L'omicida aveva anche due precedenti penali per comportamento aggressivo e atti di violenza. Durante la perquisizione della sua abitazione fu rinvenuta l'arma del delitto, un piccolo manganello imbottito di pallini di piombo, e il giovane fu incriminato. Sei mesi dopo venne processato e condannato a vent'anni di reclusione, una sentenza che ho sempre ritenuto troppo mite, specie se si considera che l'omicida, con ogni probabilità, sarebbe tornato in libertà nel giro di una decina di anni. Come si può immaginare, la vicenda segnò a fondo Joe, che ne uscì molto provato. Tuttavia resse bene il colpo, vista e considerata l'umiliazione di vedere messe in piazza le innumerevoli relazioni clandestine della giovane e focosa sposina. Per mia fortuna, la polizia non andò mai abbastanza a fondo da scoprire anche la nostra scappatella, e di conseguenza la mia amicizia con Joe rimase intatta. Ma in realtà quella storia pose fine alla sua carriera militare. Dopo quanto era accaduto, sentiva di non poter più avere
il rispetto dei soldati al suo comando, e non aveva tutti i torti, visto che almeno la metà di loro se l'erano scopata. Pochi mesi dopo lasciò definitivamente l'esercito per avviare una nuova attività come consulente per la sicurezza personale, o, come si diceva all'inizio per quella nuova professione, come "pistola in vendita". Per quanto riguarda me, però, i sensi di colpa non erano mai spariti del tutto, e da allora mi ero sempre sentito in dovere di fare molto per riparare il torto che avevo fatto a Joe tradendolo in maniera così meschina. E ora ecco che faceva tutto quello per me. Era piuttosto sconvolgente, a dire la verità. «Tutto bene, Max?» Annuii. «Sì, sì. Ero soltanto soprappensiero. Tutta questa umidità nell'aria mi manda in trance.» Levai di tasca un pacchetto di sigarette che Elaine mi aveva comprato in mattinata. Joe mi guardò di traverso. Era fatto così. Voleva sempre assicurarsi che restassi integerrimo ed esente da ogni vizio. «Quand'è che hai ricominciato a fumare?» domandò, prendendone una dal mio pacchetto con noncuranza da fariseo. «Be', essere preso di mira da uno dei miei migliori elementi ha cominciato a incrinare la mia fermezza, ma poi, dopo aver passato quasi tutta la giornata di ieri a scappare da vari membri delle forze dell'ordine, mi sono detto: "Al diavolo, il tumore ai polmoni è l'ultima delle mie preoccupazioni".» Ridemmo insieme e scolammo le nostre birre. «Hai fretta» gli domandai «oppure hai tempo per berne un'altra?» Di recente capitava assai di rado che restassimo seduti a chiacchierare, e ora avevo la sensazione che non ne avremmo più avuto la possibilità per un bel po'. Sembrava importante starsene a rilassarsi e a oziare insieme. Joe annuì. «Sì, certo che ho tempo.» E così ci versammo le due birre rimanenti, ci spaparanzammo sulle poltrone a fumare e a parlare dei vecchi tempi: persone che avevamo conosciuto, esperienze che avevamo condiviso, località in cui avevamo prestato servizio insieme. Una sola volta calò il silenzio all'improvviso nella conversazione: quando Joe fece il nome di Elsa e gli occhi gli si appannarono. Io provai ancora un terribile senso di colpa e mi affrettai a cambiare argomento, forse un po' troppo bruscamente. Era ormai sera ed Elaine non era ancora ricomparsa quando Joe disse che se ne doveva andare, e percepii una sensazione un po' tetra nella formale stretta di mano che ci scambiammo. Come se entrambi sapessimo che
nulla fra noi sarebbe mai più stato lo stesso. DOMENICA, QUATTORDICI GIORNI FA Gallan Quella mattina il commissariato era tranquillo. La notte più indaffarata della settimana era passata e le celle si stavano lentamente svuotando degli ubriaconi, dei rissaioli, dei piccoli spacciatori e di chiunque altro fosse stato abbastanza sfortunato da farsi acciuffare. Era un'altra gloriosa giornata di sole. Alla radio, l'annunciatrice delle previsioni meteorologiche aveva proclamato con voce cinguettante che era il settimo giorno consecutivo con più di dieci ore di sole brillante. Si prevedeva che nel corso della giornata la temperatura avrebbe toccato ventinove gradi centigradi, corrispondenti a ottantaquattro dei vecchi gradi Fahrenheit. Nessuno, che non ci fosse costretto, avrebbe lavorato, anche se i reati spesso aumentano durante i periodi di canicola. I nervi si logorano più facilmente, in particolare in una metropoli sovrappopolata, e i furti nelle case aumentano, dato che la gente di notte lascia aperte le finestre. E così anche gli stupri, per lo stesso motivo. Ma chi aveva voglia di correre dietro ai delinquenti in un'afosa domenica di agosto? Ed era proprio questo il punto. Io. Volevo scoprire chi pensava di essere così furbo da uccidere Shaun Matthews e farla franca. Volevo dimostrargli che aveva torto marcio. Era evidente che il mio desiderio non era condiviso da molti miei colleghi, poco propensi a rompersi la schiena per risolvere il caso. La sala operativa destinata all'omicidio Matthews era deserta per la seconda mattina consecutiva quando vi arrivai poco dopo le otto e mezzo. Mi aspettavo che Berrin fosse presente, come anche l'ispettore Capper, il mio diretto superiore. Non restai sorpreso che né l'uno né l'altro fossero ancora arrivati. Berrin si era dimostrato particolarmente riluttante a lavorare quel giorno perché sarebbe stato costretto a disdire un appuntamento galante, e nelle due settimane appena trascorse aveva avuto un solo giorno di riposo, perciò era improbabile che ce l'avrebbe fatta ad arrivare prima delle nove. Per quanto riguardava Capper, non era mai puntuale in assenza dei suoi superiori. Il che era tipico da parte sua. Era una testimonianza della sua abilità di leccapiedi e del suo talento nel crearsi un'immagine del tutto fuorviante di zelante impegno e di duro lavoro; la prova evidente che aveva raggiunto
quel grado nonostante fosse assolutamente sprovvisto delle capacità necessarie. Era un ispettore investigativo che non sapeva affatto indagare, un servitore della comunità che detestava il servizio e un dirigente per nulla in grado di dirigere. Qualsiasi parola pronunciasse emanava un fetore di falso, e la sua abitudine di pugnalare i colleghi alle spalle era leggendaria. Però aveva una fortuna del diavolo. Il suo predecessore era stato un certo Karl Welland, a parere unanime una persona seria e un ottimo poliziotto che era stato costretto al prepensionamento dopo che gli avevano diagnosticato un cancro in fase terminale. Questo aveva aperto la strada a Capper per fargli le scarpe in assenza di altri candidati adatti. Ormai Welland era morto da quasi un anno e Capper continuava a prosperare in un ruolo che non meritava affatto. Chi ha detto che la vita è un giudice imparziale? Sulla scrivania trovai un messaggio di Knox. C'era il numero di telefono di uno degli ex agenti investigativi del commissariato, Asif Malik, che ora faceva parte dell'SO7, lo speciale nucleo anticrimine di Scotland Yard. Malik se n'era andato alcuni mesi prima del mio trasferimento, ma sapevo chi era. Nella polizia lo sapevano tutti. Era l'agente che aveva lavorato in coppia con Dennis Mime, il killer part-time. Da quel che avevo sentito, Malik non aveva avuto niente a che fare con le numerose imprese criminali del suo ex collega, e presumibilmente era un uomo onesto, ma dopo quegli eventi aveva trovato difficile restare al commissariato, e pochi mesi dopo era stato trasferito all'SO7. All'inizio Knox non si era dimostrato bendisposto a coinvolgere l'SO7 nell'indagine sull'omicidio Matthews perché non voleva rischiare che gli togliessero la direzione dell'inchiesta soffiando il caso alla nostra squadra. Ma quando il pomeriggio prima avevo parlato con lui degli ultimi sviluppi dell'indagine, si era dimostrato interessato alla pista Jean Tanner-Neil Vamen e aveva concordato sul fatto che qualcuno dell'SO7, il cui compito era quello di sorvegliare i boss e le figure di spicco della malavita londinese, potesse almeno essere in condizione di offrire un parere approfondito e magari qualche intuizione. Knox aveva aggiunto al suo messaggio (gli piaceva un sacco scrivere messaggi) che dovevamo continuare a cercare Fowler e se necessario ampliare il raggio delle ricerche, in particolare alla luce della sua prolungata assenza. Mi presi un caffè e tentai di rintracciare Malik sul suo cellulare. C'era la segreteria telefonica, cosicché gli lasciai un messaggio spiegandogli chi ero e il motivo della chiamata, e chiedendogli se potevamo vederci. Dopo che ebbi riagganciato, telefonai con una certa riluttanza alla mia ex moglie. Rispose il suo convivente, il Signor Crociato, e mi diede l'im-
pressione che si fosse appena svegliato. «Parla l'uomo a cui hai rovinato la carriera» dissi con la massima serenità. «Gradirei parlare con Cathy, grazie.» Mi rispose in tono iroso di telefonare un po' più tardi, la prossima volta, dato che la domenica era l'unico giorno in cui poltrivano un po' a letto. «Passamela e basta» replicai. «È a proposito di Rachel.» Cathy venne all'apparecchio assonnata e sbadigliante come il suo cicisbeo, e sentii Carrier bisbigliarle in sottofondo che lo avevo trattato male. Bisogna ammetterlo: quel tanghero era una vera pettegola. Non c'era storia che non avrebbe spifferato ai quattro venti. Cathy mi disse di avere ormai esaurito qualsiasi definizione per il mio infantilismo acuto, io mi scusai, ritenendola la tattica più semplice, e le chiesi conferma se potevo passare a prendere Rachel per il successivo fine settimana. «Ce la fai a trovare un buco nel tuo orario di lavoro?» domandò Cathy, con una nota di sarcasmo nella voce. «L'ultima volta che avresti dovuto tenerla...» «Lo so, lo so. Stavolta vedrò di essere libero. È quasi un mese che non la vedo. Non la deluderò.» «Me lo prometti? Non sopporterei di vederla trepidare tutta la settimana e poi sentire che le distruggi ogni speranza.» «Non può permettersi di farlo un'altra volta» brontolò Carrier in sottofondo. «Solo perché è un tipo inaffidabile.» Per l'ennesima volta cercai di capire cosa Cathy ci vedesse in quel bastardo. L'avevo sempre ritenuta in grado di giudicare una persona, una donna che sapeva riconoscere un verme al primo sguardo, perciò era ancora più scoraggiante vedere smentita miseramente l'opinione che avevo di lei. «Te lo prometto» ripetei stancamente. «Dico davvero. Verrò a prenderla venerdì sera e te la riporterò domenica.» «Grazie, sarebbe perfetto. Ce la fai a venire per le sei?» «Certo, le sei va benissimo.» Passai a un altro argomento, ma Cathy mi interruppe subito perché voleva rimettersi a dormire. «Ci vediamo venerdì» disse, cercando di essere compiacente, e riattaccò, lasciandomi a fissare il telefono e a pensare che non aveva mai avuto l'abitudine di rimanere a letto così a lungo la domenica mattina. «Buongiorno, John. Felice di vederti all'opera così pimpante e di buon'ora.» Alzai lo sguardo e vidi entrare Capper, con la giacca appesa con disinvoltura a un braccio e un sorriso convenzionale in faccia. Sulle ascelle del-
la sua sbiadita camicia gialla erano già comparse due chiazze di sudore. Strano come le persone sgradevoli abbiano spesso degli effetti collaterali altrettanto sgradevoli nelle loro funzioni corporee. Forse era qualche tipo di giustizia divina, una punizione dell'Onnipotente. Mi faceva piacere pensare che fosse così. «Buongiorno, signore.» «Tutto bene?» Capper accennò con il mento al telefono e io mi domandai se quel bastardo avesse ascoltato la conversazione. Era probabile. «Fantastico. E lei?» «Benissimo. Una volta tanto mi sono goduto una tranquilla serata a casa. Mi ha fatto molto bene.» Capper mollò la giacca sulla sua scrivania e si diresse verso il bricco del caffè. «Ne vuoi?» «No, grazie. Ho appena finito di berlo.» Capper si perse in chiacchiere e convenevoli mentre preparava del caffè fresco. Io stetti al gioco, fingendomi interessato e aggiungendo di tanto in tanto un commento. Era tipico di Capper essere gentile e simpatico se si convinceva che potevi essergli utile, ed evidentemente riteneva che avessi delle potenzialità, ma forse pensava che non sarei rimasto sotto le sue grinfie in eterno, il che suppongo fosse una buona cosa. Credo pensasse anche che andavamo d'accordo e, benché invece io non lo sopportassi, mi conveniva continuare a essere cordiale con lui. Una cosa che avevo imparato nella polizia era che non ci si doveva mai fare dei nemici, a meno di non esserci costretti. Pragmatismo. Il trucco era tutto lì. Capper afferrò una sedia e si accomodò di fronte alla mia scrivania con la sua tazza di caffè. «Com'è andata ieri con i buttafuori?» domandò, dopo avermi spiegato che la sua assenza dal servizio il giorno prima era dovuta a "questioni familiari", qualsiasi cosa volesse intendere con quell'espressione. Capper era scapolo ed era il tipo di persona che qualsiasi fratello, sorella o parente stretto con due dita di cervello avrebbe evitato come una scivolosa merda di cane sul marciapiede. Ora stava seduto lì con un sorriso da compagnone, rivelatore di una chiostra di denti ingialliti, stampato sulla faccia come un'incisione rupestre. Gli feci un breve resoconto, spiegandogli che non avevamo saputo granché di cui non fossimo già al corrente, ma accennai alla possibile pista della ragazza di Matthews, come anche a John Harris, il buttafuori che aveva fatto andare Matthews fuori dai gangheri. «Chi si sta occupando di Harris?» domandò. «Il comandante lo ha assegnato all'agente Boyd. A quanto mi risulta do-
vrebbe andare a interrogarlo lei in giornata.» Capper annuì, soddisfatto. Non gli dissi niente né di Vamen né del coinvolgimento dell'SO7. Knox, probabilmente, avrebbe informato tutta la squadra nella riunione preliminare del lunedì mattina, ma per il momento potevo soprassedere. Non volevo che Capper ficcasse troppo il naso nell'indagine e approfittasse di indizi la cui scoperta mi era costata tanta fatica. «Ancora nessuna traccia di Fowler, dunque?» domandò. «Niente di niente. Però potrebbe avere un collegamento con questa Jean Tanner.» «In che modo?» «È una prostituta, no? Da quanto ho saputo, fino a poco tempo fa lavorava in un'agenzia di accompagnatrici che, apparentemente, è gestita da Fowler. Il solito paravento per un bordello di lusso.» «Davvero?» «L'agenzia si chiama Heavenly Girls.» Capper tentò di dissimulare la sorpresa, ma capii subito che conosceva quel nome e che, per chissà quale ragione, non voleva darlo a vedere. «Mmh, interessante.» Gli mancarono le parole, e restammo seduti in silenzio un momento. «Chi ti ha parlato di questo bordello?» domandò alla fine. «McBride, il tizio che ci ha fornito la maggior parte delle informazioni.» «Mai sentito nominare, questo posto» asserì, un po' troppo energicamente. «Ritieni che stesse dicendo la verità?» Alzai le spalle, senza accennare al fatto che in pratica avevamo estorto l'informazione a McBride con il ricatto. «Penso di sì. Che vantaggio ci sarebbe a mentire su una cosa come questa?» Capper annuì, riconoscendo la fondatezza della mia affermazione. «Già, non c'è alcun vantaggio, immagino.» In quell'istante Berrin entrò nella sala operativa. Aveva un'aria alquanto scarmigliata, ma decisamente migliore del mattino precedente. «È in ritardo, Berrin» disse Capper, alzandosi dalla sedia. Berrin si affrettò a scusarsi sia con Capper sia con me, in sequenza, e prese una sedia. Capper gli intimò senza giri di parole di mettere in ordine le sue cose e tornò alla sua scrivania. Poteva anche essere convinto che io fossi potenzialmente utile, ma era evidente che non pensava la stessa cosa del mio giovane collega. Per giunta Berrin era laureato, e, sebbene non l'avesse mai detto a chiare lettere, Capper detestava i laureati. Berrin si mostrò costernato per un paio di secondi, poi fece una smorfia di scherno alle spalle di Capper e si sedette sulla sedia appena sgomberata dall'ispettore.
Mentre preparavo con Berrin il programma della giornata, lanciai uno sguardo di sottecchi all'ispettore che ora stava fissando attentamente lo schermo del suo PC. Non potei fare a meno di domandarmi che cosa sapesse della Heavenly Girls e che relazione potesse avere questa sua conoscenza con l'indagine. Roy Fowler non rispondeva a nessuno dei suoi recapiti telefonici; l'Arcadia era chiuso; si stava dimostrando impossibile localizzare un'agenzia qualsiasi che si chiamasse Heavenly Girls; e la giornata stava progressivamente facendosi più afosa quando Berrin fermò l'auto a una ventina di metri dal condominio in cui risiedeva Jean Tanner. Secondo le informazioni raccolte dal Pubblico registro, Jean aveva comprato il suo appartamento nel '98, mentre il condominio era ancora in costruzione, e ora possedeva il trenta per cento della proprietà, mentre il restante settanta per cento apparteneva all'istituto bancario che le aveva concesso il mutuo. Da quanto avevamo saputo, non aveva mai saltato una sola rata. Ovviamente Jean riusciva in qualche modo a guadagnare un mucchio di quattrini, e questo puntava forse l'indice su una relazione con un ricco gangster come Neil Vamen, che probabilmente possedeva molti più soldi della maggior parte dei clienti con cui Jean era stata. L'interrogativo era se Vamen tenesse così tanto a lei da uccidere un possibile rivale in amore come Shaun Matthews. Tuttavia, ancora una volta, lei non era in casa. Suonai al modernissimo citofono per la terza volta ma non ottenni risposta. «E ora che facciamo?» domandò Berrin. «Quello che tutti i poliziotti devono abituarsi a fare» ribattei. «Aspettare.» «Magari è partita per un viaggio. Potremmo aspettare per giorni.» «Senti, Dave, non ho intenzione di tornare qui per la terza volta, e non le telefonerò di certo per avvertirla in anticipo della nostra visita, giusto nel caso abbia qualcosa da nascondere. Perciò, almeno per il momento, ce ne staremo inchiodati qui.» «Ma anche se fosse la donna di Vamen, questo a che cosa ci porterebbe?» domandò Berrin, appoggiandosi al muro del porticato. «Non sappiamo neppure se si vedeva regolarmente con Matthews. E Fowler cosa c'entra?» «Se devo dirla tutta, non lo so» risposi, pensando che non aveva tutti i torti. «Ma se non altro possiamo sentire che cosa ha da dirci. Se Vamen
c'entra in questa storia, e se lei teneva a Matthews più di quanto quel filibustiere si meritasse allora è assai probabile che sia sconvolta dalla sua morte, e può darsi che si riesca a convincerla a parlare.» Berrin annuì stancamente. «Giusto. Andiamo a prenderci una tazza di tè da qualche parte mentre aspettiamo? Rischio di disidratarmi.» «Sei rimasto fuori casa anche stanotte?» gli domandai in un tono vagamente disgustato. Forse ero geloso. Me l'aveva detto lui, era stato fuori a bere nel West End con una delle poliziotte più attraenti del commissariato. Berrin cominciò a parlarmi del suo incontro, ma non ce la feci a sopportarlo, non dopo una notte solitaria trascorsa in compagnia di una puntata speciale di Celebrity Stars in their Eyes, perciò, d'impulso, premetti il pulsante del citofono sotto quello di Jean. Tre secondi dopo mi rispose una voce maschile non troppo giovane. Gli dissi chi eravamo, mostrando la mia tessera di riconoscimento alla telecamera sospesa sopra le nostre teste, e gli chiesi se potevamo salire un momento. «Naturalmente» disse, in tono che mi parve interessato Fummo accolti in cima alle scale da un signore molto basso di statura, oltre la settantina, con un testone nettamente sproporzionato rispetto al corpo magrolino, che gli conferiva una vaga somiglianza con E.T. Aveva una folta chioma di sottili capelli bianchi, con mèches arancioni, e un paio di occhiali dalla grossa montatura nera. Una signora più alta, di una decina d'anni più giovane, con addosso un vestito floreale che sembrava una tenda da campeggio, era in piedi alle sue spalle. Sorrisero entrambi mentre ci avvicinavamo. «Buongiorno» disse l'uomo mentre mostravamo tessera e distintivo. «Siamo i Lacker. Peter e Margaret.» Ci strinse la mano con una vigoria sorprendente. «Gradite una tazza di tè?» disse Margaret Lacker con un sorriso invitante. «Sì, grazie, ci farebbe molto piacere» risposi. Ah, se ci fossero state più persone gentili e accoglienti come i coniugi Lacker! Educati, servizievoli e ben poco infastiditi di vederci. Ci accolsero nel loro sontuoso appartamento e ci invitarono ad accomodarci in salotto, una stanza che sembrava più un'antica sala da disegno. «Dunque, in che cosa possiamo esservi utili?» domandò Peter Lacker, sedendosi su una poltrona di fronte a noi. «Spero che non ci sia qualche problema.» «Non è niente» dissi, sorridendo. «Ci interessa solo una vostra vicina di
casa, una certa Miss Jean Tanner. So che abita sul vostro stesso piano.» «Esatto. La porta qui accanto. Non le è successo niente, vero?» «Spero proprio di no. Avremmo bisogno di parlarle in merito a un argomento su cui potrebbe avere alcune informazioni.» "Vago quanto basta" pensai. «Siamo passati ieri, ma non era in casa e a quanto sembra anche oggi è assente. Sapete per caso se sia andata da qualche parte?» «Non credo. Ieri sera era decisamente in casa. L'abbiamo sentita.» «Sentita?» Lacker parve un tantino imbarazzato. «Jean è un'ottima vicina, la prego di non fraintendermi. Ma riceve visite maschili e talvolta può sorgere qualche disaccordo. Ieri sera hanno alzato un po' la voce.» «Come se stessero litigando?» Lacker annuì. «In quanti erano?» domandò Berrin. «Solo in due. Jean e qualcun altro. Non ho riconosciuto la voce.» «Jean non si è messa in qualche guaio, vero?» chiese Mrs Lacker, arrivando con un vassoio su cui erano disposti una teiera di fine porcellana, quattro tazze da tè, anch'esse di porcellana, e una varietà di dolcetti alla crema. Sorrisi in modo rassicurante mentre la signora si sedeva sulla poltrona accanto a suo marito. «Assolutamente no, ma è importante che le parliamo. Quindi stamattina non l'avete vista?» Entrambi scossero il capo. «Quant'era violento l'alterco che avete sentito ieri sera?» «Non è stato violento» disse Mr Lacker. «Gridavano soltanto.» «Non è neppure durato tanto» aggiunse sua moglie, passandomi una tazza. «Jean sa mantenere un contegno. Non è affatto una vicina fastidiosa. Dico bene, Peter?» «No, per niente. Abita qui da tanto tempo. Tre o quattro anni, credo.» Chiesi loro con quale frequenza Jean ricevesse visite maschili, ma su questo furono vaghi. Ogni tanto, disse Mr Lacker, aggiungendo che lui e sua moglie erano sessualmente liberali e perciò non disapprovavano una promiscuità di quel genere. E questa precisazione non mi era di grande aiuto. Furono anche vaghi circa la frequenza con cui Jean aveva avuto violente discussioni con i suoi ospiti. Mr Lacker fece in qualche modo marcia indietro rispetto alla sua dichiarazione precedente e disse che non avveniva molto spesso. Mrs Lacker dichiarò di non ricordare l'ultima volta, a parte la sera prima. Non potevo fare a meno di sentirmi vagamente preoccupato per ciò che
avevo appena sentito. Bevvi un sorso di tè e posai la tazza sul piattino. «Vorrei provare a suonare di nuovo alla sua porta, se posso» dissi, alzandomi. Berrin, che stava ruminando un dolcetto alla crema, mi seguì con poco entusiasmo. In quel momento sembrava che gli piacesse molto starsene in panciolle. «Può indicarmi la sua porta, Mr Lacker?» «Certamente» rispose lui, e ci riaccompagnò fin sul pianerottolo. «È quella.» Gli passai davanti con Berrin al seguito e bussai con forza. Niente. Aspettai qualche secondo, poi riprovai. Se fosse stata in casa, mi avrebbe sicuramente sentito. Accostai un orecchio e ascoltai in silenzio. Girai il pomolo della maniglia, ma la porta era chiusa a chiave. Poi ebbi un'idea. Un'idea davvero fuori dell'ordinario, ma in una giornata come quella non avevo intenzione di fare il pignolo. «Ha per caso una chiave dell'appartamento di Miss Tanner, Mr Lacker?» «Sì» rispose Mr Lacker «ma forse non dovrei...» «Ho motivo di credere che possa esserle successo qualcosa» spiegai «e occorre controllare se è davvero così oppure no. Per farlo, devo entrare nell'appartamento. Può venire con noi, se vuole accertarsi che non commettiamo niente di illecito.» «Oddio» esclamò. «Sarà meglio che vada a prenderla.» Si girò e tornò in casa. Berrin colse l'occasione per guardarmi con espressione interrogativa. «Non preoccuparti» bisbigliai. «So quello che faccio.» Naturalmente, erano le classiche, ultime parole famose. Pochi secondi dopo, Mr Lacker ritornò con la chiave in mano e una Mrs Lacker dall'aria costernata alle calcagna. «Spero che sia tutto a posto» mi disse la donna. «Ci è sempre sembrata una ragazza così ammodo.» «Sono certo che non è niente» dissi, prendendo in consegna la chiave «ma ritengo che sia meglio controllare, per sicurezza.» Con Berrin e i coniugi Lacker a ridosso delle mie spalle, inserii la chiave nella serratura, la girai e aprii la porta. La disposizione interna era del tutto diversa dall'appartamento dei Lacker. La porta si apriva su una vasta sala con cucina a vista, nuova di zecca, sulla destra. Un grande televisore al plasma era appeso al muro di fronte a due poltrone di pelle dall'aria assai costosa. L'effetto d'insieme era molto minimalista ma di grande raffinatezza. Non c'erano né tazze né piatti sporchi in giro e il grande portacenere di cristallo sul tavolino al centro della sala era vuoto e pulito. E non si notavano segni di un violento litigio. «Be', non è certo a corto di soldi» commentò Berrin, guardandosi intor-
no con ammirazione e osservando l'arredamento, specie il televisore. «Non ci ha mai detto come si guadagna da vivere» disse Mrs Lacker, che era entrata dopo di noi. Suo marito, nel frattempo, era rimasto a indugiare sulla soglia. «Bello, eh, Peter?» Peter annuì. «Mi sa che quella cucina costa un occhio della testa. Quei piani di lavoro sono di granito. Costano una fortuna.» Berrin mi lanciò un'occhiata, presumibilmente per capire la nostra prossima mossa, ora che eravamo entrati. Il problema era che non lo sapevo. Avevo sperato di trovare qualche indizio - non che avessi idea di che cosa - ma non c'era niente. Sembrava che l'appartamento fosse stato pulito a specchio da cima a fondo: di per sé un segno leggermente preoccupante. A sinistra, un breve corridoio immetteva nel resto dell'appartamento. «Andiamo a dare un'occhiata di là» dissi. Berrin mi guardò come se volesse ribattere qualcosa, ma si trattenne perché erano presenti i Lacker. Comunque sapevo che cosa aveva in mente. Qualcosa come: "Cosa diavolo stiamo facendo qui e che cosa avrebbe da obiettare un avvocato della difesa?". Un'ottima domanda, ma mi sarei preoccupato di rispondere più tardi. «Non sono mai stata qui» ci informò Mrs Lacker, avventurandosi nella zona della cucina e osservando le pentole e le padelle d'acciaio inossidabile appese. «È un appartamento molto bello.» «Non tocchi niente, prego» le dissi. «Vale anche per lei, Mr Lacker.» Imboccammo il corridoio. Nel frattempo, Mr Lacker era ancora fermo sulla soglia a continuava a guardarsi intorno con un'espressione di vago sospetto, come se anche lui stesse cercando di capire che diavolo di lavoro facesse Jean Tanner e come fosse riuscita ad accumulare oggetti tanto costosi. Sembrava che stesse arrivando in fretta alle conclusioni giuste, e forse si rendeva conto di non essere così sessualmente di larghe vedute come aveva ritenuto fino a quel momento. A sinistra c'era un bagno con la porta socchiusa. L'aprii spingendola con la chiave, mentre Berrin proseguiva lungo il corridoio. Notai che sul lavandino c'erano due spazzolini e che mancava il tappo al tubetto di dentifricio. Non che questo particolare avesse poi una grande utilità. La doccia, però, era stata usata abbastanza di recente, di sicuro quella mattina stessa. La tenda era bagnata e nella vasca c'erano ancora diverse gocce d'acqua. Mi ritrassi dalla soglia del bagno e vidi Berrin, che si era messo i guanti, aprire la porta di una delle camere da letto. Nello stesso tempo levò dalla tasca della giacca un altro dei biscotti farciti alla crema offerti dai Lacker e lo addentò furtivamente.
Lo seguii nella camera da letto, consapevole di essere tallonato da Mrs Lacker, senza dubbio spinta da un'irrefrenabile curiosità. Mi stavo giusto voltando per dirle di stare indietro quando, con la coda dell'occhio, vidi Berrin fermarsi davanti a un imponente armadio a muro ai piedi del letto matrimoniale, e fare una smorfia. Fece per dire qualcosa ma, avendo la bocca piena di crema, emise solo dei suoni inarticolati. E poi, un istante dopo, aprì la porta dell'armadio. Ci fu un tonfo quando il cadavere irrigidito e nudo cadde fuori rovinosamente, con le braccia lungo i fianchi, come in una scena de La mummia Il ritorno. Crollò direttamente addosso a Berrin, che lanciò un acuto da soprano, sputazzando ovunque briciole di biscotto, e cadde all'indietro sopra il letto sotto il peso della salma. Lanciai anch'io un urlo di paura e feci un salto indietro mentre Berrin spingeva il corpo lontano da sé, sfortunatamente nella mia direzione. Il cadavere urtò con forza contro lo spigolo dell'armadio a muro e, di rimbalzo, stramazzò di schianto ai miei piedi, a faccia in su, e proprio sulla soglia. Mrs Lacker, che lo vide subito, cacciò lo strillo più potente di tutti, dopodiché si portò una mano al viso e svenne drammaticamente, battendo la testa contro la porta del bagno mentre cadeva a corpo morto all'indietro. «Che succede?» gridò Mr Lacker, accorrendo a soccorrere la moglie. «Stia indietro!» urlai. «Non tocchi niente! È la scena di un delitto!» Poi guardai Berrin nella camera da letto. Aveva i capelli dritti in testa. Bianco in faccia come un fantasma, stava fissando il vuoto davanti a sé. «Oh, mio Dio» seguitava a ripetere, senza sosta. Guardai in basso gli occhi sbarrati del cadavere che mi fissavano privi di luce, e poi quei tatuaggi familiari. Un drago cinese sulla spalla sinistra, un emblema militare sull'avambraccio destro. «Merda» esclamai, mentre davanti al cadavere di Craig McBride mi domandavo perché diavolo si trovasse morto stecchito nell'appartamento di una donna che nemmeno avrebbe dovuto conoscere. Telefonai a Capper dall'appartamento dei Lacker, dove Mr Lacker stava tamponando la testa della sua signora con una pezzuola bagnata, mentre Berrin era seduto rigido come un fuso sul divano e sorseggiava il tè che Mrs Lacker gli aveva servito cinque minuti prima dell'affettuoso abbraccio da parte della salma. Non aveva una bella cera, il che non era affatto sorprendente. Capper rispose più o meno al decimo squillo e lo informai della scoper-
ta. «Che cavolo ci faceva McBride nell'appartamento della donna?» domandò, come se in qualche modo fosse colpa mia. «Non lo so.» «E non c'è traccia della donna?» «Che io sappia no.» «Avete toccato qualcosa, là dentro?» «No, abbiamo sigillato la scena del delitto, ma lei è la prima persona che ho pensato di chiamare.» «Nessuna indicazione di come sia morto?» «Non c'erano tracce di sangue, ma non ho guardato troppo da vicino. Mettiamola così: ieri a quest'ora scoppiava di salute, perciò, di qualunque cosa si tratti, non credo che sia morto per cause naturali.» «Va bene. Aspettate dove siete e assicuratevi che nessuno tocchi niente. Qual è l'indirizzo?» Glielo diedi, lo salutai e misi giù il telefono. Poi diedi un'occhiata ai Lacker. Mrs Lacker sembrava sul punto di riprendersi. «È stato orribile» disse, mentre suo marito continuava a tamponarle la testa. «Una cosa del genere in un quartiere rispettabile come questo.» «So che troverà difficile rispondere, ma per caso ha riconosciuto il morto? L'avevate mai visto qui prima d'ora?» Mrs Lacker trasalì con aria melodrammatica come se le avessi appena chiesto la sua misura di reggiseno. «Non lo so, non l'ho visto in faccia. Ricordo soltanto che è caduto a terra sulla soglia e poi... e poi basta.» Terminò la frase con un altro gemito e appoggiò di nuovo il capo sul divano. «Mr Lacker...» dissi. Lacker scosse la testa. «Neppure io l'ho visto. Ero troppo impegnato a soccorrere Margaret.» «Non è questo che volevo chiederle. So che non sarà facile per lei, ma apprezzerei molto se potesse tornare con me nell'appartamento di Miss Tanner, dare un'occhiata a quell'uomo e farmi sapere se l'ha mai visto qui prima d'ora. Potrebbe essere estremamente utile.» «Cosa pensa che sia successo a Jean?» domandò Mrs Lacker con ansietà. «Non lo so» risposi, pensando che mi avrebbe fatto comodo poter rispondere anche a quella domanda. «Mr Lacker?» Lacker annuì e si alzò. «Dave, tu resta qui a badare a Mrs Lacker. Okay?» Berrin assentì. Sembrava essersi ripreso un po', ora. «Certo.» Tornai con Mr Lacker nell'appartamento di Jean, ricordandogli di nuovo
di non toccare nulla, e ripercorsi il corridoio buio in cui giaceva il cadavere. Mr Lacker restò indietro di qualche passo e si appoggiò con una mano al muro per sorreggersi. «C'è un caldo soffocante qui dentro, vero?» commentò, quasi senza fiato. «Non so come faccia a occuparsi di queste cose orrende ogni santo giorno. Proprio non mi capacito. È davvero ammirevole.» «Grazie al cielo una cosa così non capita tutti i giorni» gli dissi, pensando che capitava ancora più di rado che qualcuno si mostrasse così pieno di ammirazione nei miei confronti. «Se così non fosse, non credo che riuscirei a sopportarlo.» E ne ero assolutamente convinto. Più a lungo si lavora nella polizia, più si fa lo stomaco agli orrori in cui ci si imbatte, ma la vista del corpo rigido di Craig McBride, privato di qualsiasi linfa vitale, di tutto quanto, mi deprimeva in un modo che trovo difficile esprimere. Specie dato che il giorno prima avevo avuto una conversazione con lui. Poteva anche essere stato un colloquio non troppo piacevole, ma non era questo il punto. Era vivo e vegeto, e adesso non c'era più. Per sempre. Mi feci da parte in modo che Mr Lacker potesse vedere in faccia Craig. Gli diede un'occhiata di sfuggita, e distolse subito lo sguardo, sempre tenendosi a due passi di distanza. «Ci pensi bene» gli ripetei. «Non c'è fretta.» Restò dov'era per qualche secondo, poi si fece forza, avanzò di un passo, e guardò di nuovo. «Sì, l'ho già visto» ammise, voltandosi. «In due o tre occasioni.» «La ringrazio molto» dissi, riaccompagnandolo verso la porta d'ingresso. In quell'istante si udì un brusio sul pianerottolo, la porta si spalancò ed entrò un gigante di una decina d'anni più vecchio di me, abbigliato con un vestito nero che gli andava un po' stretto. «Cosa diavolo succede?» sbraitò. «Questa è la scena di un delitto. Chi siete?» «Sergente John Gallan» risposi, bloccandomi davanti a lui. «E questo è Peter Lacker, il vicino.» «Ah, be', sono l'ispettore Burley. Assumo io il comando della situazione. E voi due state contaminando la scena del delitto. Avete toccato qualcosa?» «No.» «Bene, allora uscite. La Scientifica sarà qui a momenti e dobbiamo sigillare tutto.» Indicò la porta con un cenno della testa e con espressione arcigna, e gli passammo davanti sbucando nel corridoio del piano, dove c'erano diversi
agenti in uniforme. Burley ci seguì. Dopo che ebbi riaccompagnato Mr Lacker fino alla soglia del suo appartamento, mi posò una manona pelosa sulla spalla e mi sospinse verso la rampa delle scale. Stavo per dirgli che per quel che ne sapevo appartenevamo entrambi alla stessa squadra, e che perciò poteva smetterla di fare la parte del duro con me, ma non ne ebbi la possibilità. Cominciò a inveirmi contro prima ancora che riuscissi ad aprire bocca. «Che cosa combinava là dentro con il vicino? Si stava assicurando di mettere il più possibile sottosopra la scena del delitto? Si è dimenticato quali sono le procedure o non si è mai preso il disturbo di impararle?» «Si è svegliato con la luna storta oppure è sempre così gradevole?» Per un attimo pensai che mi avrebbe sollevato di peso e sbattuto giù dalle scale. Non sono un nanerottolo - sono alto più di un metro e ottanta - ma innegabilmente avrebbe potuto farcela con comodo. I suoi occhietti penetranti, di gran lunga i tratti più aggraziati del suo muso cavallino appesantito da una mascella assai pronunciata, lampeggiarono furiosi. «Questa è un'altra cosa che evidentemente non ha imparato, e cioè che un ispettore investigativo è più alto in grado di un sergente, e perciò un sergente dovrebbe rivolgersi a un superiore con un tantino di fottuto rispetto e chiamarlo "signore". E scusarsi quando se lo dimentica.» Sibilò ogni parola a denti stretti, e si capiva che i suoi denti erano abituati a essere digrignati in continuazione. Che mi piacesse o no (e posso assicurarvi che non mi piaceva), quel che diceva era giusto. Trovai conforto nel pensiero che un uomo così sgarbato, irascibile e chiaramente stressato come l'ispettore Burley non sarebbe vissuto fino a godersi una serena vecchiaia, circondato da parenti amorevoli che pendevano dalle sue labbra per ogni perla di saggezza. «Svolgevo soltanto il mio lavoro, signore» ribattei, accentuando l'ultima parola. Sostenni il suo sguardo, consapevole del fatto che l'unico modo in cui ci si può fare intimidire da qualcuno è permetterglielo. Avevo troppa esperienza per lasciare che accadesse. «Be', non lo stava facendo granché bene. Dunque, mi pare di capire che ha identificato il cadavere. Esatto?» «Esatto. Si chiama Craig McBride. Il mio collega e io avevamo parlato con lui proprio ieri in merito a un omicidio.» «Ma non abita qui?» «No, l'appartamento è di una certa Jean Tanner. Eravamo venuti qui per parlare con lei, ma non era in casa. Invece abbiamo trovato McBride.» «Perché dovevate vederla?»
Spiegai per sommi capi il motivo della nostra visita, informandolo sul caso Matthews più di quanto quel bastardo meritasse. Avevo appena finito quando Berrin uscì sul pianerottolo per unirsi a noi. Burley si voltò e lo vide. «Cosa cazzo ti è successo?» disse. «Sembra che tu abbia visto un fantasma. Non sei abituato a vedere dei cadaveri stecchiti, eh?» «Sto benissimo» ribatté Berrin in tono combattivo. «Bene, voglio che sappiate tutt'e due che assumiamo noi il comando della situazione. Questo caso è nostro, è la nostra giurisdizione e apriremo l'indagine. Grazie mille per averci avvertiti di un altro fottuto caso di sospetto omicidio, ma non abbiamo più bisogno di voi. Perciò, se volete scusarci...» «Un momento» dissi, ignorando l'occhiata da assassino con cui Burley mi fulminò. «Dobbiamo assolutamente parlare con Miss Tanner riguardo all'omicidio di Shaun Matthews. È importante, signore.» «Quando l'avremo localizzata, sergente, le darò l'autorizzazione per interrogarla in merito al vostro caso, se si atterrà alle procedure. Ora abbiamo parecchio da fare, perciò gradirei che se ne andasse prima di scombussolare qualcos'altro. Quando e se fermeremo la donna informerò i suoi superiori.» «Vorrei anche avere accesso alle risultanze dell'autopsia di McBride.» «Avrà ogni informazione ad autopsia avvenuta» disse. «E ora addio.» Il pachiderma si voltò e tornò con passo da troglodita verso la porta aperta dell'appartamento di Jean Tanner, piantandoci là come due idioti. A volte ci si chiede francamente perché darsi tanta pena. Quando perfino i tuoi colleghi non vogliono aiutarti, significa che stai prendendo a calci una porta blindata. Ho conosciuto una quantità di poliziotti come Burley, fin troppi, per la verità, e sono di solito quelli più attempati come lui, con troppi anni di servizio sul groppone, che non hanno mai avuto le soddisfazioni che pensavano di meritare per il loro talento, e per questo nutrono rancore. Sono anche quelli più inclini alla corruzione. Per un attimo mi domandai se Burley fosse così ansioso di allontanarci per qualche tornaconto personale. «E ora dove andiamo?» domandò Berrin con un'evidente mancanza di entusiasmo. Sospirai, trattenendo a stento la frustrazione. Quando una strada è chiusa, tenta da un'altra parte. «Andiamo a trovare Neil Vamen» dissi. «È sicuro che sia una buona idea, sergente?» domandò Berrin. Lo choc
non gli era ancora passato. Stava male ed era nervoso. Era mezzogiorno e mezzo e stavamo camminando in direzione del Seven Bells, un pub di Barnsbury che, in base alle nostre informazioni, era il locale in cui Neil Vamen andava a pranzo la domenica. Senza dubbio il posto in cui si sentiva maggiormente a casa, fra "la sua gente". Barnsbury, il tradizionale quartiere operaio, ora in parte imborghesito, della zona sud di Islington che occupa l'area compresa fra Caledonian e Liverpool Road, a nord di Pentonville Road, era in molti modi la patria spirituale della "famiglia" Holtz. Era lì che tutti i membri anziani dell'organizzazione erano cresciuti e avevano tramato insieme le prime truffe. La maggior parte di loro si era da tempo trasferita nei sobborghi in proprietà più vistose e di maggior pregio, compreso Vamen. Ma quest'ultimo sembrava conservare un affetto particolare per la zona, se non altro perché sua madre abitava ancora lì, e lui andava a trovarla con regolarità. Probabilmente non era una buona idea andare a trovarlo. Dopo tutto, non mi aspettavo che gli si sciogliesse la lingua all'improvviso e confessasse tutto quello che sapeva sulle morti di Shaun Matthews e di Craig McBride, o su dove fosse finita la sua presunta ragazza, Jean Tanner. Come Berrin aveva fatto notare più volte durante la mattina, Vamen poteva anche essere all'oscuro di tutto quanto, ma non ne ero così certo. Jean era stata messa in relazione con lui da un uomo che adesso era morto. Frequentava di nascosto un altro uomo che a sua volta era morto. Almeno una di quelle morti, quasi certamente entrambe, non era per cause naturali, e ora Jean era scomparsa. Non avevo alcuna teoria particolare su come Vamen potesse esservi implicato, era ancora troppo presto in quanto a questo, ma se non altro comparendo all'improvviso potevamo innervosirlo. Soprattutto se si fosse convinto che sapevamo molto più di quanto sembrava. «Se devo essere sincero non so se l'idea è buona oppure no, ma non vedo alternative. Cioè, chi ci è rimasto con cui parlare? Stiamo svolgendo un'indagine per omicidio in cui tutte le persone che vogliamo interrogare sono scomparse o morte. Hai pensato a questo piccolo particolare? Fowler è introvabile, McBride vuota il sacco e ventiquattr'ore dopo lo troviamo morto, e ora anche Jean Tanner è sparita nel nulla. Se non altro, Vamen è ancora in grado di aprire bocca.» «Non sto criticando, sergente, ma non pensi che dovremmo prima consultare Capper?» «Senti, non sono che due chiacchiere amichevoli, tanto per seguire un indizio. Un po' di iniziativa personale non guasta.»
Ci fermammo fuori dal pub, un localino vecchio stile con le finestre sudice e una porta malconcia che si intonava alla perfezione con la via tranquilla dalle malandate case a schiera in cui sorgeva, una laterale all'estremità sud di Caledonian Road. Le finestre erano aperte e si sentiva un incessante brusio di conversazioni e qualche occasionale tintinnio di bicchieri. È un rumore che di solito mi piace perché è accogliente, ma in quel momento avevo la sensazione che là dentro il benvenuto sarebbe stato a dir poco gelido. Avevamo tolto entrambi la giacca, per difenderci dal caldo torrido di mezzogiorno, ma ce le rimettemmo prima di entrare. Era meglio essere formali. «Lascia che sia io a parlare» dissi, pensando che in quel momento Berrin assomigliava a uno studente con il vestito della festa al suo primo colloquio di lavoro. «Tu limitati a stare impettito e a non dare troppo l'impressione di essere sulle spine.» «Non tenteranno mica di metterci le mani addosso, vero?» domandò, dimostrando un'ingenuità preoccupante. A volte non potevo fare a meno di pensare che Berrin avesse smesso l'uniforme e indossato gli abiti civili solo per la penuria di agenti investigativi nella polizia metropolitana, e che fosse stato promosso nonostante l'inesperienza. Nella lotta alla criminalità, non era piacevole pensare che la prima linea fosse composta da parecchi pivelli come lui. «Sarà anche un bastardo fetente, Dave, ma resta pur sempre un uomo d'affari. Non farà niente che gli possa attirare un'attenzione indesiderata. E adesso seguimi.» Entrai nel pub con Berrin alle calcagna. L'interno dava l'illusione di essere ampio e sembrava risalire ai tempi dei tempi, com'è spesso il caso nei pub di Londra. Era suddiviso in due bar comunicanti, quello a destra abbastanza vuoto se non per pochi avventori anziani con il berretto, intenti a fumare la pipa e in generale a ignorarsi. Due di loro stavano giocando a carte e furono gli unici che alzarono lo sguardo quando entrammo. L'altro bar, in contrasto, era molto più moderno e un tantino più vivace, sebbene fosse ancora presto e di conseguenza per nulla affollato. Un jukebox suonava una delle numerose versioni della Unchained Melody dei Righteous Brothers, e tre o quattro gruppi di persone - per lo più uomini, ma anche qualche donna - erano sparsi qui e là in un modo che suggeriva una conoscenza comune. Per la maggior parte erano fra i trenta e i quarant'anni, e in fondo al bar, sorvegliato da vicino da Jack Merriweather e da due erculei guardaspalle, c'era Neil Vamen. Stava parlando con alcune persone
- due uomini di mezz'età con le loro giovani compagne bionde e formose che pendevano letteralmente dalle sue labbra. Vamen aveva un sorriso a trentadue denti ed ebbi l'impressione che stesse raccontando una barzelletta. Tutto si bloccò non appena entrammo. In effetti, si fermò tutto a parte la musica, con la voce del cantante che continuò a mugolare noiosamente mentre tutti i presenti ci omaggiarono di quella che posso solo descrivere come un'occhiataccia malevola. Mi sa che avevamo la scritta "piedipiatti" stampata in fronte. Il barista finse di ignorarci e per un paio di secondi restai piantato lì in piedi, pensando che probabilmente era stato un errore madornale andare là. Sicurezza. Tutto sta nel mostrare sicurezza. Si può ottenere rispetto da chiunque, perfino in un bar pieno di gangster, se si cammina con passo sicuro. Di conseguenza, cercai di ignorare il fatto che stessi sudando, mi avvicinai con aria noncurante ai presenti, con Berrin alle mie spalle, e andai a piantarmi davanti a Neil Vamen. I suoi guardaspalle tesero i muscoli, ma non si mossero. Il labbro inferiore di Jackie Palla da Biliardo si incurvò in un'espressione di disgusto, come se la sola presenza di due agenti di polizia gli provocasse una reazione allergica, il che probabilmente era vero. Vamen, nel frattempo, mi squadrò da capo a piedi con un misto di vago disprezzo e indolente curiosità, con i suoi occhi color turchese che sfavillavano di sarcasmo. Potevo quasi sentire sulla schiena gli sguardi fissi di ogni altro presente, e sperai che Berrin non facesse niente di stupido, come svenire. «Salve, Mr Vamen. Sono il sergente Gallan e questo è l'agente investigativo Berrin.» Levai di tasca la mia tessera e con la coda dell'occhio vidi Berrin che faceva altrettanto. «Credo di averla già incontrata.» Vamen fece un gesto noncurante. «Non ricordo.» «Vorremmo parlarle in privato, se possibile.» «No.» Tutto lì. La negazione non fu pronunciata in modo sgarbato, ma aveva un tono definitivo che in effetti avrei dovuto prevedere. Alle mie spalle, sentii ridacchiare una delle biondone. «Ha qualche motivo particolare per rifiutare?» Vamen sorrise. «Perché non ho proprio niente da dirvi.» È difficile quando si confida nell'autorità legata alla propria posizione per costringere qualcuno a fare qualcosa e ci si imbatte in una persona che non ha paura né di te né dell'autorità che rappresenti. Specialmente quando
la persona suddetta è nel suo territorio e tu sei lontanissimo dal tuo. «Se si rifiuta di parlarmi, potrei concludere che forse ha qualcosa da nascondere» gli dissi, guardandolo dritto negli occhi. Questo lo fece ridere. «Sono vent'anni che voialtri della polizia siete giunti a questa conclusione.» Altre risa echeggiarono in tutto il bar, e qualcuno gridò: «Cantagliele chiare, Neil». «Non avete niente di meglio da fare?» ringhiò Jackie Palla da Biliardo. Aveva sulla zucca un berretto nero da baseball degli Yankees di New York per coprire quello che non aveva. Lo ignorai. A quel punto non c'era bisogno che mi dicessero che non avrei cavato un ragno dal buco. «Benissimo. Allora parleremo qui. Riguarda la sua ragazza, Jean Tanner. Abbiamo trovato un uomo morto nel suo appartamento e vogliamo sapere dov'è Jean. Sa qualcosa?» La faccia di Vamen si irrigidì e i suoi occhi persero la loro gaiezza. Per due, tre secondi al massimo, il silenzio fu assordante. Quando Vamen riaprì bocca, la sua voce era lenta e pacata, ma inequivocabilmente minacciosa. «Non so di cosa cazzo sta parlando, né dove abbia avuto questa informazione, ma le dirò una cosa: è una puttanata. E ora, se vuole discutere con me, si rivolga al mio avvocato. Si chiama Melvyn Carroll. Può darsi che l'abbia sentito nominare.» Infatti. L'azzeccagarbugli della famiglia Holtz. Contorto come una costola rotta. «Altrimenti, a meno che non siate venuti ad arrestarmi... Cosa che non farete, dico bene?» Si interruppe un attimo per permettermi di rispondere. «Per il momento no.» «Bene, allora, se non volete arrestarmi potete andare a farvi fottere fuori di qui e lasciarmi in pace. In caso contrario, sergente Gallan... È così che si chiama, vero? Gallan?» «Esatto, John Gallan» dissi, deciso a non farmi intimidire. «E tu come hai detto che ti chiami, pupetto?» Vamen rivolse tutta la forza del suo carisma contro Berrin, che in quel momento probabilmente stava pentendosi di non avere seguito il consiglio del suo tutore universitario e fatto domanda per essere assunto in una compagnia di assicurazioni. «Ci siamo già presentati» dissi. «Berrin, giusto?» ribatté Vamen, ignorandomi e fissando il mio collega con occhio rapace, come se stesse cercando segni di debolezza, e senza dubbio scoprendone parecchi. «Bene, sergente Gallan e agente investigativo Berrin, se vi azzarderete a molestarmi in questo modo un'altra volta senza un buon motivo, e posso garantirvi che in questo caso non avete uno
straccio di motivo, il mio legale farà visita al vostro superiore, che provvederà a prendere a calci i vostri culi flaccidi per avere infastidito un noto e affermato uomo d'affari invece di fare quello per cui siete pagati, ossia acciuffare dei fottuti criminali, di cui questa città del cazzo pullula. Sono stato chiaro?» «Che non vuole collaborare con noi? Sì, certo, chiaro Cristallino.» Vamen mi scoccò un'occhiata come se fossi qualcosa di fastidioso che gli si era ficcato fra i denti, dopodiché mi voltò le spalle. Nello stesso istante una delle sue guardie del corpo, che era almeno dieci centimetri più alto di me e probabilmente trenta centimetri più largo, si frappose fra me e Vamen e mi fissò con sguardo inespressivo la calotta cranica. Subito dopo fu affiancato dall'altro gorilla, e i due formarono un muro che impedì ogni contatto visivo. Jackie Palla da Biliardo restò dov'era, con un ghigno cattivo stampato sulla faccia. Avrei potuto tentare di spingerli da parte, scocciare Vamen ancora un po' e fargli sapere che non ero spaventato, ma in fin dei conti non c'era alcun vantaggio. Mi aveva battuto e lo sapeva. E lo sapevo anch'io. La cosa importante adesso era ritrovare Jean. Poi, forse, avremmo potuto spingerci più in là. Per adesso il colloquio era finito e dovetti faticare parecchio per vincere il senso di impotenza. Avevo la certezza assoluta che Neil Vamen fosse un delinquente e un assassino che si era arricchito ignorando le leggi che io ero tenuto a far rispettare, un uomo in grado di pagare un mutuo cento volte superiore al mio e che, in un confronto a muso duro con me, aveva lui tutte le carte buone in mano. Alcuni affermano che al mondo non c'è giustizia. Se lo dicessero davanti a me, ribatterei che si sbagliano, che alla fine i cattivi finiscono quasi sempre per avere quello che si meritano, anche se l'attesa è lunga. Ma in quel preciso momento, in piedi in un locale in cui tutti stavano godendo malignamente della nostra assoluta impotenza, non ne ero del tutto convinto. «Gangster gentiluomo un cazzo» dissi in direzione di Vamen. Poi alzai lo sguardo al muro umano che avevo davanti. «E tu dovresti cambiare dopobarba, amico.» Puerile, ma se non altro mi fece sentire un tantino meglio. Come se avessi salvato qualcosa dal disastro di quell'incontro. Jackie Palla da Biliardo continuava a sogghignare, ma resistetti alla tentazione di chiamarlo con il nomignolo che odiava. Avrebbe puzzato troppo di disperazione. Invece girai i tacchi e feci cenno a Berrin di seguirmi fuori di lì. Berrin si scontrò di petto con una delle bionde che si era frapposta deliberatamente in modo da intralciarlo e borbottò una specie di scusa. La donna, da parte sua, fece un commento sprezzante riguardo alla scarsa qua-
lità della sua vista, che Berrin ignorò. La bionda cominciò a dire qualcosa rivolta a me, ma la invitai a non disturbarsi ad aprire il becco e continuai a camminare, sforzandomi di ignorare i fischi e gli urrà di vittoria che accompagnarono la nostra uscita. Per tutto il tratto di strada a piedi per ritornare all'auto nel dedalo di vie secondarie di Barnsbury, nessuno di noi due aprì bocca. Quando finalmente arrivammo all'auto, prima di salire lanciai un'occhiata a Berrin, che aveva ancora l'aria alquanto sbattuta. Non potevo biasimarlo. Era stata una pessima giornata. «Tutto bene?» gli domandai. «Non so» rispose, appoggiandosi al cofano dell'auto. «Mi sa che sto covando qualcosa.» Berrin non era il lavoratore più indefesso di questo mondo, e nei pochi mesi da quando era in servizio nel CID si era già assentato per dei brevi periodi di malattia. Ma stavolta non avevo intenzione di rimproverarlo. «Dài» dissi. «Ti porto a casa.» Si lasciò convincere subito. Due ore dopo stavo ancora cercando con tutte le mie forze di reprimere la frustrazione che provavo, ma con scarso successo. L'umiliazione del colloquio con Vamen, unita al caldo torrido e alla consapevolezza che nel caso Shaun Matthews non c'era niente che andasse per il verso giusto, compreso il modo in cui stavo affrontando l'indagine, stava mettendo a dura prova gli ultimi resti della mia pazienza. Non riuscivo a smettere di pensare che in quello stesso momento la mia ex moglie era seduta in giardino alla sistemazione del quale avevo generosamente contribuito - a rosolarsi al sole insieme all'uomo che si era preso la briga di rovinarmi la vita, mentre mia figlia giocava allegra sotto i loro occhi, magari andando perfino a prendere per quel bastardo una birretta fresca da godersi mentre elaborava qualche altra montatura giornalistica. E pensare che avrei potuto benissimo gestire la situazione. Sarei stato in grado di affrontare praticamente ogni cosa se avessi ritenuto che facendo tutti quegli straordinari, ore in più che facevo da quando avevo diciott'anni, avrei ottenuto sul serio qualche risultato. Solo che non succedeva. Per ogni passo avanti che si faceva, per quanto incerto e barcollante, si finiva sempre per farne due indietro. E ora dovevo pure vedermela con un idiota come Capper, che sembrava incapace di fornire il benché minimo aiuto. «Dobbiamo occuparcene direttamente, signore. Ieri abbiamo interrogato l'uomo trovato morto ed è stata la sua testimonianza a condurci all'appar-
tamento oggi.» Capper si abbandonò contro lo schienale della sua poltrona, sforzandosi di esprimere comprensione per la pena che mi angustiava. Il gesto non sortì alcun effetto. «Dovrò parlarne con il comandante, John, e per questo ormai dovrai aspettare domattina. Non voglio disturbarlo a casa. Non per questo caso.» «Con il dovuto rispetto, penso che sia importante. Sono sicuro che la morte di quest'uomo è collegata a quella di Shaun Matthews, perciò...» Capper alzò le braccia e le agitò da una parte all'altra come tergicristalli che si avvicinavano e si allontanavano da due punti opposti, una sua abitudine irritante di zittire la persona a cui era indirizzato il gesto, in questo caso io. Mi costrinsi a tacere. «John, il nuovo caso è di competenza dell'ispettore Burley, perciò al momento è lui a condurre l'indagine. Non posso farci niente. Saremo di certo in grado di collaborare con loro se si riterrà che i due casi sono collegati.» «Lo sono di sicuro.» Capper annuì. «È possibile.» «È più che possibile. Due buttafuori dello stesso locale notturno, il cui titolare è scomparso da alcuni giorni, entrambi assassinati a distanza di una settimana l'uno dall'altro.» «Sei sicuro che anche per McBride si tratti di omicidio?» «Assolutamente. Ieri stava benone. Per quel che ne sappiamo, potrebbe perfino essere stato lo stesso veleno con cui è stato ucciso Matthews.» «Può darsi, John, può darsi. Ma è anche possibile che sia morto per cause naturali.» «E come? Era in un armadio.» «Non ci resta che aspettare e vedere che cosa rivela l'autopsia. Per il momento quello che possiamo fare è discutere dell'accaduto alla riunione di domattina e poi forse il comandante Knox si metterà in contatto telefonico con l'altro commissariato e verificherà se ci sono le condizioni per una collaborazione. Nel frattempo, devi aggiornare i rapporti. A proposito, dov'è Berrin?» «L'ho accompagnato a casa. Si sentiva poco bene.» «Ancora. È la terza volta da quando è nel CID. Che cos'ha, stavolta?» «Non lo so. Un'influenza o qualcosa del genere. Negli ultimi giorni ha patito molto il caldo» mentii. Capper annuì con un certo scetticismo, abbozzando un sorrisetto indisponente. «Be', speriamo che si rimetta in fretta» disse, dando l'impressio-
ne che non se l'augurasse affatto. «È tutto, signore?» domandai, accennando ad alzarmi. Ne avevo già fin sopra i capelli di Capper. «Non ancora, John» ribatté, sempre con quel sorriso appiccicato alla faccia. Lo faceva assomigliare a un buddista dal cervello bacato. Mi bloccai piegato per metà in avanti e aspettai che continuasse senza risedermi. «Nel pomeriggio ho ricevuto una telefonata da un certo Mr Melvyn Carroll. Dice che tu e l'agente Berrin avete molestato il suo cliente, Neil Vamen. Perché diavolo siete andati a parlare con Vamen?» «È un possibile sospetto nel caso Matthews» dissi, sedendomi di nuovo. «Fammi capire bene. Un uomo con una fedina penale lunga un chilometro, ora deceduto, ha insinuato che Vamen era l'amico intimo di una donna che andava a trovare Shaun Matthews, e probabilmente era, solo probabilmente, anche la donna di Matthews. Questo fa di lui un sospetto?» «Sì. È certo una possibilità, perciò valeva la pena di andare a parlarci.» «Neil Vamen. Sai di chi si tratta?» «Sì, e questo è un altro motivo per considerarlo un sospetto. Ha le risorse e la spietata ferocia per uccidere Shaun Matthews e Craig McBride.» «È anche un uomo che ha anni di esperienza su come coprire le sue tracce, perciò non avrebbe mai e poi mai parlato con te. Anche se fosse implicato nella vicenda, cosa di cui dubito, perché non credo sia il tipo che fa troppo il sentimentale con una donna, sarà estremamente difficile provare qualcosa.» «Questo non vuol dire che non dobbiamo tentare.» «Il punto è che Vamen è un pesce molto grosso e spetta all'SO7 e alla squadra anticrimine nazionale raccogliere le prove per un'accusa contro di lui e i suoi compari. Non credo che saranno teneri con te per esserti immischiato in cose che non ti competono. Pensavo che avessi in programma di parlare con quelli dell'SO7 a proposito del caso.» «Infatti. Sto aspettando una telefonata da parte di Asif Malik.» «Bene, allora segui questa strada.» «Senta, ho fatto la cosa giusta...» Le braccia ricominciarono ad agitarsi da una parte all'altra e mi costrinsi un'altra volta a stare zitto. «Sei un ottimo elemento, John» disse, parlandomi come se fossi un agente di primo pelo e non un grado e solo una manciata di anni sotto di lui «e siamo tutti soddisfatti del tuo lavoro qui, ma non cominciare a fare il passo più lungo della gamba. Finirai per creare dei problemi sia a te stesso sia al CID. Capito?»
Sospirai, ben sapendo che aveva ragione e che era stato un errore andare da Vamen. Ma non vedevo l'ora di essere di nuovo ispettore e di non dover più fare rapporto a lui. «Sì, signore» ammisi con riluttanza. «Voglio che in futuro tu non vada più a trovare Neil Vamen né nessun altro dei suoi compari senza averne prima parlato con me. D'accordo? Non voglio darti l'impressione di non sostenerti, ma ritengo che sia il modo migliore.» Annuii, ma non mi disturbai a rispondere. Terminata la conversazione, tornai alla mia scrivania e diedi inizio alla tortura di aggiornare i rapporti. Capper mi interruppe una volta sola, per chiedermi se stessimo ancora cercando di rintracciare Fowler. Risposi che ce ne stavamo occupando, ma non eravamo ancora stati baciati dalla fortuna. «È l'uomo su cui dobbiamo concentrarci» disse, annuendo come se ne convenisse con se stesso: un'altra delle sue irritanti abitudini, molto probabilmente accentuata dal fatto che nessun altro lo faceva. Non mi scomodai a fare commenti. Alle cinque in punto Capper se ne andò, non prima di essersi raccomandato di non lavorare troppo. «Ogni tanto è necessario staccare la spina» sentenziò con un altro sorriso irritante. «Così non ci si fa sommergere e travolgere da tutto.» Non mi presi la briga di dirgli che per me era un po' tardi, in quanto a quello. Invece abbassai il testone e mi sentii grato dell'opportunità di un po' di spazio e di tranquillità. Il lavoro d'ufficio può essere terapeutico. È ripetitivo e banale, ma quando ce n'è molto la persona che se ne occupa a volte può innalzarsi spiritualmente dalla pila di scartoffie che ha davanti e raggiungere quasi una condizione Zen, in cui la mano scrive praticamente da sé mentre la mente fa vela verso acque più tranquille e felici, dove non ci sono interruzioni, né indebolimenti della volontà né scontri inutili. Avevo raggiunto quel livello di estasi e probabilmente avevo sulle labbra un sorriso sereno ed ebete quanto quello di Capper quando la porta della sala operativa si aprì ed entrò l'agente investigativo Boyd. Ora lasciate che vi dica una cosa: Boyd mi piaceva. Era il mio genere di donna: attraente, spiritosa, ma per niente facile alla conquista. Andavamo anche molto d'accordo. Penso che se non fosse stato per il fatto che eravamo colleghi di lavoro l'avrei corteggiata, e avrei anche potuto tentare la fortuna... sebbene non possa affermare di averne troppa in campo sentimentale. Sembrava un
po' stanca e accaldata, ma i suoi capelli neri, tagliati in un bel caschetto, sembravano usciti direttamente dalla pubblicità di uno shampoo, e il suo completo grigio era impeccabile, con una riga perfetta nei pantaloni. Per una donna di ritorno da una ronda nelle strade sporche e sudaticce di Londra, faceva davvero un figurone. Erano le sei e dieci. Boyd mi sorrise, sinceramente contenta di vedermi. «Ciao, John. Ancora qui?» «Potrei farti la stessa domanda» dissi, alzando gli occhi dalla scrivania. «Sei riuscita a scovare John Harris?» «Ah, lo sfuggente Mr Harris, l'ex stallone dell'Arcadia» disse, sospirando in modo teatrale. «Certo che l'ho trovato. Alla fine ce l'ho fatta.» «E allora?» Attraversò la sala e si sedette sulla sua scrivania, a pochi metri di distanza dalla mia. «E allora non credo che sia il nostro uomo.» «Perché no?» «Perché negli ultimi dieci giorni era ricoverato in ospedale. Era di sorveglianza all'entrata di un locale di Clapham durante la serata garage della settimana ed è rimasto coinvolto in una rissa.» «È il fascino della zona sud di Londra, cara mia.» «Fin troppo vero. Territorio di banditi.» Boyd mi strizzò l'occhio. «Comunque, gli hanno sparato allo stomaco. A quanto pare la pallottola lo ha attraversato da parte a parte senza troppi danni e ha colpito una fila di bicchieri. È successo tre giorni prima che Matthews fosse assassinato. Che giornata! Uno spreco totale. Mi ci sono volute più di quattro ore per appurare i fatti quando invece avrei potuto starmene sdraiata al parco a prendere il sole.» Per poco non le dissi che quello sarebbe stato uno spettacolo che avrei gradito vedere, ma optai invece per una frase fatta. «A volte è così che vanno le cose, Tina.» Si levò la giacca e accese il suo PC. «A te invece com'è andata la giornata?» Emisi un grugnito. «Penso di poter dire senza tema di smentita che probabilmente è stata anche peggiore della tua.» Le feci un dettagliato resoconto di tutti i disastri capitati a Berrin e a me da quando eravamo arrivati al lavoro quella mattina. Boyd rise a crepapelle quando le raccontai il balletto di Berrin con il cadavere di McBride, ma quando ebbi finito la sua espressione era passata dal divertimento alla compassione. «Cavolo, John, non è che hai fatto un gran casino, eh? Intendo presen-
tarsi in quel pub e interrogare Neil Vamen.» Sospirai e scossi il capo sconsolato. «È stata una mossa stupida. Sai, stamattina pensavo a quanto fosse ingenuo Berrin nel suo modo di trattare con la gente, ma in questo caso sono stato molto più ingenuo di lui. Ho creduto davvero di poter spaventare Vamen, ma alla fine non ho ottenuto assolutamente niente, tranne forse avvertirlo del fatto che potevo sapere qualcosa su com'era andata. E ha già fatto un attacco preventivo per scrollarmi di dosso.» «Hai fatto del tuo meglio» disse Boyd, elargendomi un sorriso di incoraggiamento. «Che è molto più di quel che fa certa gente qui al commissariato.» «Però non ha funzionato» ribattei, dispiaciuto per me stesso. «Cosa credi che sia successo? Qual è la tua teoria su Matthews e McBride?» Quel giorno ci avevo riflettuto a lungo, ma non ero ancora giunto a nulla di concreto. «Non saprei, Tina. Se restiamo nel campo delle congetture direi che Jean Tanner era l'amante di Neil Vamen e che di nascosto aveva una tresca anche con Matthews. Vamen lo ha scoperto e ha fatto eliminare Matthews.» «E McBride?» «È qui che tutta questa storia si fa insensata. Da quanto ci hanno detto i vicini di casa, McBride era andato a casa di Jean in diverse occasioni, perciò mi fa pensare che forse anche lui se la faceva con Jean.» «Cosicché questa Jean aveva tre uomini contemporaneamente? Si dà da fare, non c'è che dire.» Alzai le spalle. «Be', così pare.» «E pensi che Vamen abbia saputo anche di McBride?» Allargai le braccia in un gesto di resa. «Non lo so.» «Sembrerebbe troppo una coincidenza, non ti pare? Vamen che elimina due suoi rivali in amore nell'arco di una settimana. E tutto per una donna che non è poi uno schianto. Sbaglio?» «Sai come si dice» commentai. «L'amore è cieco.» «Mica tanto.» «Non credo di essermi mai imbattuto in un caso di omicidio così complicato. Sembra senza via d'uscita. Capisci cosa intendo? Non c'è alcuna logica. Che ne è di Fowler, per esempio? Se non c'entra niente in questa storia, allora dov'è finito?» A questo punto seguì un lungo silenzio. Eravamo ben lontani dal dare delle risposte. «Sai» dissi alla fine «è stata una
giornata talmente lunga che non ci voglio più pensare.» «Ti va di andare a bere qualcosa? Finiamo qui e andiamo a farci una birra da qualche parte?» Riflettei sulla proposta un secondo netto. I rapporti potevano aspettare. «Perché no? Una birra me la berrei volentieri.» Andammo al Roving Wolf all'angolo dell'isolato e ordinai il primo giro: una pinta di Pride per me, una pinta di Fosters per lei. Questa era un'altra delle cose che mi piacevano di Tina Boyd: non si dava per niente arie da gran dama. Poteva anche essere stata all'università come Berrin, ma si considerava una come tutti gli altri. L'interno del pub a quell'ora era tranquillo; la maggior parte dei clienti era seduta fuori, così ci trovammo un tavolo lontano dai brillanti raggi di sole al tramonto che filtravano dalle finestre come lame di luce e chiacchierammo per un po', godendoci il fatto che il giorno di lavoro era finito e non c'era niente e nessuno a metterci fretta. Boyd ordinò il secondo giro di birra e mi accorsi che mi faceva un po' troppo piacere stare con lei. Era di ottima compagnia, per di più nubile. Non potei evitare di pensare che forse avrei dovuto fare un'eccezione alla regola che mi ero dato di non avere mai relazioni con una collega. Me l'ero imposta dopo una storia sentimentale che avevo avuto dieci anni prima un altro agente investigativo -, quando Rachel era nata da pochi mesi e stavo attraversando il classico momento dell'uomo sposato in crisi e in cerca di qualcosa di nuovo. Era finito tutto in un gran casino. La mia collega mi aveva chiesto di scegliere fra lei e Cathy, e io, inevitabilmente, avevo scelto Cathy. L'atmosfera fra di noi - dico la poliziotta e io - e nel CID in generale, dove tutti sapevano della nostra relazione, era rimasta molto tesa per oltre un anno, finché lei non aveva fatto domanda di trasferimento e l'aveva ottenuto, con mio grande sollievo. Potevo anche non essere più sposato, ma restavo convinto che fosse meglio attenersi alla regola, ricordando fin troppo bene l'imbarazzo di dover lavorare con qualcuno che in tutti i modi avresti cercato di evitare. Perciò, quando Boyd lanciò l'idea di andare a mangiare insieme un piatto di pollo al curry da qualche parte, per un attimo fui molto combattuto. Ma con i lugubri ricordi della sera precedente e le immagini di Celebrity Stars in their Eyes ancora fresche nella memoria, giunsi alla conclusione che la vita era decisamente troppo breve per dire di no. Boyd suggerì una curryhouse che le piaceva dalle parti della stazione di King's Cross e, seppure alla zona equivoca di Euston Road avrei preferito l'ambiente cosmopolita di Upper Street, non stetti a discutere. Onestamente, finii per essere con-
tento della scelta. Il cibo era buono, il che suppongo sia un gran complimento data l'ubicazione del ristorante, e scoprii di rilassarmi con lei in un modo che da un mucchio di tempo non mi succedeva in compagnia di una donna. Mentre sparecchiavano, le raccontai la reazione di Capper all'accenno dell'agenzia Heavenly Girls. «Pensi che Capper ci faccia qualche visitina a scopo ricreativo? Mi ha dato l'impressione di conoscere il posto.» Boyd fece una smorfia. «Non mi sorprenderebbe. Ce lo vedo benissimo. Ha proprio l'aria del pervertito, non credi? Il tipo d'uomo che troveresti in una cabina per guardoni. Scommetto che gli piace farsi sculacciare.» Scoppiai a ridere. «Ehi, stai parlando del tuo capo. Non oso pensare che cosa vai in giro a dire di me.» «Ah, è peggio. Decisamente peggio.» «Ne sono convinto. Ma posso assicurarti che nessuno mi ha mai sculacciato. Perfino mia madre era contraria alle punizioni corporali.» «C'è sempre una prima volta» disse lei, con un timido sorriso. La ragazza stava decisamente flirtando. Non sapevo se preoccuparmi o essere compiaciuto. Poi pescò un pacchetto di Silk Cut dalla borsetta. «Ti spiace se fumo?» «Fai pure.» La osservai mentre accendeva una sigaretta e aspirava una lunga boccata rilassata che mi trasmise il fugace ricordo, anche ad anni di distanza, di quanto sia gustosa una sigaretta dopo un buon pasto. «Tieni presente» disse, soffiando il fumo verso il soffitto «che se Capper è stato o è un cliente di questa agenzia di accompagnatrici, è possibile che conosca Fowler.» «Ci ho pensato anch'io, ma non mi farei troppe illusioni al riguardo. È troppo scaltro per farsi beccare. Andrà avanti facendo finta di niente.» «Ah» fece Boyd, aspirando di nuovo dalla sigaretta (incredibile come possa apparire elegante una donna che fuma) «ma c'è sempre la possibilità che sia rimasto coinvolto in una situazione compromettente. Se qualcuno dell'agenzia ha scoperto che è un poliziotto, potrebbe usare la cosa contro di lui, e forse è la stessa persona che vuole trovare Fowler.» «E chi pensi che possa essere?» Boyd scrollò le spalle. «Lo sa solo Dio.» Scossi la testa. Era un'ipotesi troppo inverosimile. «No, ritengo più probabile che Capper sia solo un pervertito.» Boyd soffiò altro fumo verso il soffitto. «Anch'io, ma nella vita niente è sicuro. Forse varrebbe la pena di controllare quello che dici riguardo a
lui.» Annuii. È strano, pensai. Quando si conversa con un altro agente di polizia, anche se è una donna attraente, si finisce sempre a parlare di lavoro. Una volta tanto, volevo dimenticarmene. Desideravo parlare più di lei. Che cosa la interessava. Com'era in privato. Che cosa cercava in un uomo. E se stesse davvero flirtando. Ma l'occasione era sfumata, e un paio di minuti dopo Boyd spense la sigaretta nel portacenere e disse che doveva tornare a casa. Pagammo il conto metà per uno e uscimmo in strada. Stava calando la notte e la gente di malaffare che invade le strade di King's Cross quando fa buio cominciava a uscire dalle crepe dei muri e dei marciapiedi e a guardarsi intorno in cerca di clienti e di vittime. Suggerii di dividere un taxi per tornare alle rispettive case, ma Boyd mi disse di essere perfettamente in grado di rientrare in metropolitana. «Sono un'agente di polizia, lo hai dimenticato, John?» disse sminuendo le mie ansie. «Da queste parti non c'è da dirlo troppo forte.» «E tu non continuare a fasciarti la testa con il lavoro.» Il suo volto fu illuminato da un sorriso. «Senti, sono stata bene, stasera. Dovremmo ancora uscire insieme.» Annuii. «Certamente.» Ci fu un momento di imbarazzo quando pensammo di stringerci la mano, ma lo evitammo, poi lei mi salutò e scese nella metropolitana. Io mi guardai intorno in cerca di un taxi che mi riportasse a Tufnell Park. Per un momento pensai che forse avrei dovuto provare a baciarla, o almeno mostrare il mio interesse. Ma una parte di me continuava a ripetermi che un leggero dolore in quel momento me ne avrebbe evitato molto di più in futuro. Iversson «Come hai conosciuto la tua ex moglie?» domandò Elaine. Era domenica mattina ed eravamo seduti a letto, nudi, a bere il caffè. La sveglia sul comodino segnava le undici e mezzo e la mano destra di Elaine era sulla mia coscia, il che mi faceva pensare che probabilmente non aveva ancora intenzione di buttarmi fuori. «Vendevo doppi vetri.» Elaine scoppiò a ridere. «Tu? Mi sarebbe piaciuto vederti.» «Mi ero appena congedato dall'esercito. In effetti, come venditore face-
vo un po' pena. Mi insegnarono tutti quei metodi subdoli per far firmare il contratto al cliente, entusiasmarlo circa i vantaggi del prodotto, mantenerlo interessato e tutto il resto, ma alla fin fine, da quanto potevo capire, non stavo facendo altro che proporre una sostituzione di finestre a doppi vetri. Capisci, la gente o le vuole o non le vuole. La mia ex era la segretaria della ditta e per un motivo o per l'altro si prese una cotta per me.» «Be', sei un tipo niente male, Max.» «Grazie. Troppo gentile.» «Lo so.» «Così cominciammo a uscire insieme, da cosa nasce cosa e non so come finimmo davanti a un altare. Dio solo sa come accadde. Sono ancora convinto che né io né lei fossimo poi così innamorati, era solo una di quelle storielle sentimentali. Comunque, non durò. Andammo a Maiorca in luna di miele, ma pioveva quasi tutti i giorni, e lei fece lo sciopero del sesso dopo essersi offesa per qualcosa che dissi riguardo a sua madre. Da lì in poi andò tutto a rotoli. Credo che resistemmo circa quattro mesi, non di più. Fui licenziato dalla ditta di serramenti e lei la prese peggio di me. Io ero alquanto contento, ma per lei era una questione di orgoglio. Che suo marito non fosse abbastanza bravo da piazzare finestre a doppi vetri le faceva fare una brutta figura con i colleghi d'ufficio, e me lo disse pure. Alla fine pensai, vaffanculo, se non riuscivamo a riaggiustare le cose fra noi tanto valeva darci un taglio. Perciò un giorno, mentre lei era ancora al lavoro, raccolsi le mie cose, che non erano molte, e me ne andai di casa. Dopo di allora la rividi solo una volta, vale a dire dal giudice per il divorzio. Ottenne la metà di tutto quello che avevo, cioè niente. Ero di nuovo libero. Fu un cambio vantaggioso.» «Come sei diventato un mercenario?» «Joe, il mio socio, lo faceva da un paio di anni. Lavorava per un'agenzia che era sempre in cerca di gente con buona esperienza militare da mandare in ogni parte del mondo. Gli telefonai, lui mi mise in contatto con il suo capo e tre giorni dopo ero su un aereo diretto in Sierra Leone.» «Dove diavolo è?» «Dove non vorresti mai andare. Un cesso di posto in Africa. Dovresti vederlo per crederci. Ci sono rimasto in tutto quattro mesi, ma ritengo di aver perso il conto dei corpi mutilati che vidi dopo i primi quattro giorni. Lavoravamo per il governo, o per quello che diceva di essere il governo. In effetti era solo un'accozzaglia di giovani sottufficiali che avevano rovesciato l'ultimo colonnello di turno, e la maggior parte di loro non era capa-
ce di dirigere neanche un cesso pubblico, figuriamoci una nazione. Avevamo il compito di aiutare l'esercito della Sierra Leone a rendere sicura la zona intorno alla capitale e a sottrarre ai ribelli del RUF le miniere di diamanti nell'interno del paese.» «E quelli del RUF contro chi si ribellavano?» La domanda mi fece ridere. «Contro chiunque volesse sottrargli i diamanti. Il loro radicalismo finiva lì. Facevano grandi discorsi di libertà e di democrazia, ma, come quasi tutti i politicanti, l'unica cosa di cui si curavano era riempirsi le tasche. Quasi tutte le guerre nel Terzo Mondo si riducono a questo. Certe persone hanno i diamanti e i soldi, e altri li vogliono. Invece di sedersi intorno a un tavolo per risolvere pacificamente la situazione, come fanno da noi, tirano fuori mitra e pistole e cominciano a sparare.» «Hai mai ucciso nessuno?» mi domandò Elaine in tono suadente, tirando fuori un pacchetto di sigarette e offrendomene una. L'accettai e lasciai che me l'accendesse. «E se anche fosse, avrebbe importanza?» dissi, sperando che non fosse il tipo di donna che si sente offesa dai racconti di stragi e assassinii del suo nuovo amante. Elaine scrollò le spalle e mi guardò dritto negli occhi. «Era il tuo lavoro, no? È per questo che eri stato addestrato. No, non avrebbe importanza.» A quanto pareva non era affatto quel tipo di donna. Mi adagiai di nuovo sul cuscino e aspirai una boccata dalla sigaretta mentre Elaine risaliva con la mano all'inguine e giocherellava con i miei peli pubici. Ebbi l'impressione che avesse ancora voglia di fare l'amore. Quella ragazza era insaziabile. «Ho sparato contro un sacco di gente» le dissi «e alcuni li ho visti cadere, ma non saprei dirti con certezza assoluta se fui proprio io a colpirli. Al mio fianco c'erano sempre altre persone a sparare. Ma suppongo, per pura probabilità, di averne fatti fuori alcuni. Non è una cosa di cui vado particolarmente fiero.» «Ma non dovresti neppure vergognartene. A volte è solo questione di vita o di morte. O tu o loro, giusto?» Con la coda dell'occhio, mi resi conto che mi stava osservando mentre parlava. «Giusto. Non mi pento di niente di ciò che ho fatto. Ho sparato a gente che mi stava sparando addosso. Non ho mai ucciso nessuno a sangue freddo. E poi immagino si possa affermare che in un modo o nell'altro se lo meritavano tutti. Non erano angioletti. Né i guerriglieri del RUF né nessuno degli altri in cui mi sono imbattuto durante i miei viaggi.»
«Dove sei stato oltre che nella Sierra Leone?» «Mi feci sei mesi nel Congo, tre mesi in Colombia e qualche settimana in Liberia.» «Com'era, divertente?» Scossi la testa. «Per niente. Per la maggior parte del tempo bollivamo vivi nella giungla, attaccati da ogni genere di insetti orribili e senza sapere quali malattie tropicali potevamo beccarci. La parte più esaltante era quando entravamo in azione, ma non accadeva molto spesso.» «Mi sembra sempre meglio di come un sacco di gente si guadagna da vivere.» «Era meglio che vendere doppi vetri, questo te lo concedo, e in fondo c'era un pizzico di avventura a sfruttare nella vita reale tutto l'addestramento che avevo ricevuto sotto le armi. Ma la realtà era molto più noiosa del previsto.» «È sempre così, Max. Non te ne sei ancora accorto?» «Credo di sì, ma nemmeno i soldi erano poi molti. Tutti pensano che i mercenari guadagnino un occhio della testa, ma non è così. Specie se si considera quanto devi rischiare. Anche Joe la pensava così, perciò decidemmo di lasciar perdere e di aprire la nostra agenzia in società.» «Come si chiama?» «Veramente il nome non l'ho scelto io. È stato Joe.» Elaine sorrise. «Dài, come si chiama?» «Tiger Solutions.» La sua risata echeggiò sulle pareti della stanza da letto. «Che cazzo di nome è?» «Un pessimo nome, ma Joe insisteva e io non sapevo pensare a niente di meglio, perciò non mi sono scomodato a discutere.» «Max, qualsiasi altra cosa è meglio di "Tiger Solutions". Che razza di soluzioni offre una tigre?» «Non lo so. Quelle di cui si ha paura?» Elaine continuò a ridere e le tirai addosso un cuscino. Le rimbalzò sulla testa e cadde ai piedi del letto. «Se mai dovessi conoscere Joe puoi chiederlo a lui. Ti giuro che non c'entro niente con il nome dell'agenzia.» Restammo zitti per un momento, e anche se non desideravo affatto accennare all'argomento, sapevo che era inutile rimandare. «Senti, Joe mi ha dato del denaro per farmi stare alla larga da Londra un po' di tempo, quanto basta per non avere problemi nell'immediato futuro. Perciò, posso togliere il disturbo entro domani.»
Elaine mi sorrise. «Non sei obbligato ad andartene, Max. Mi piace stare con te.» «Lo apprezzo molto, ma hai già fatto abbastanza, e non possiamo andare avanti così in eterno. Devo uscire a prendere una boccata di aria fresca al più presto, altrimenti finirò per dare i numeri.» Elaine mi posò una mano sul braccio. «Vai quando vuoi, non prima. E non per causa mia. Che tu stia qui per me non è affatto un problema. Parlo sinceramente.» Be', non avevo in alcun modo intenzione di mettermi a discutere. Non certo con il tipo di accoglienza che stavo ricevendo. Perciò le feci omaggio di un sorriso radioso e dissi che, d'accordo, forse mi sarei trattenuto un paio di giorni in più. In quel momento squillò il telefono in anticamera ed Elaine saltò giù dal letto. La osservai mentre usciva dalla camera, agitando il culetto in modo seducente. Sulla chiappa destra era tatuato un diavoletto rosso completo di tridente. Stava sogghignando. Anch'io. Quando tornò, pochi minuti dopo, mi informò che l'avevano chiamata dall'Arcadia. «Stanotte dovrò lavorare» disse, tornando a sdraiarsi sul letto. Accese altre due sigarette e me ne passò una. Capite bene cosa intendo per accoglienza. Donne nude che ti accendono persino le sigarette. «Ancora? Non hanno mai sentito parlare di diritti dei lavoratori? Di tanto in tanto hai bisogno di una notte libera. Non puoi darti malata?» Ricordavo quanto mi fossi annoiato la sera prima. Per chissà quale motivo, Elaine non aveva Sky Channel, e questo aveva drasticamente limitato le mie alternative televisive. Il meglio che avessi saputo trovare era stato Celebrity Stars in their Eyes, se si può chiamare "il meglio" sentire un'oca giuliva che ha fatto una particina nel musical EastEnders massacrare la canzone di Patsy Kline preferita da mia madre. Era un'esperienza che non volevo ripetere. «Sai meglio di me che è un momento difficile, Max. Forse tra un paio di giorni.» «Che ne sarà dell'Arcadia ora che Fowler non c'è più?» «Per il momento è tutto ancora confuso, specie dato che tutti si aspettano di vederlo tornare da un momento all'altro. Tutti tranne me, te e chi lo ha fatto ammazzare.» «Gli Holtz non si sono ancora fatti vedere?» «No. Non penso che li vedremo presto. Non certo con la polizia che viene ancora a ficcare il naso nel locale e a fare domande sul buttafuori morto avvelenato.»
«Be', presto dovranno cominciare a farsi vedere. Non sono tipi da rimanere fuori da un investimento importante come l'Arcadia. Perciò, quando compariranno, vedi di stare attenta.» Elaine si mise seduta e mi fissò con aria gelida, come se fossi io a dover stare attento. «È bello sapere che ti preoccupi per me, Max. Dico davvero. Ma non è necessario. So quello che faccio.» Elaine era una donna di carattere, una che non si lasciava pestare i piedi, ma ugualmente le sue parole non mi rassicurarono affatto. Ricordo il comandante americano di un'altra unità di mercenari in Sierra Leone che pronunciò esattamente la stessa frase prima di scomparire nella giungla per una perlustrazione solitaria vicino alle miniere di diamanti di Bo. Il giorno dopo, una pattuglia di guerriglieri del RUF lo fece a pezzi. Il tempo era troppo bello per restare tappati in casa, specie visto che da quarantott'ore non mettevo piede fuori dall'appartamento di Elaine. Joe aveva ragione: probabilmente non ero al primo posto nell'elenco delle priorità della polizia. Sì, certo, avevo malmenato un paio di loro e ne avevo inavvertitamente bagnato di piscio un terzo, ma la gente fa in continuazione cose del genere ai piedipiatti. Prenderle per ragioni di servizio fa parte del mestiere di poliziotto. È come per i soldati, è per questo che si arruolano, per menare le mani, per il gusto dell'azione e tutte quelle stronzate. Era assai probabile che mi stessero cercando; ma non ritenevo che il mio reato fosse talmente grave da scomodare gli elicotteri e appiccicare ovunque manifesti tipo "Ricercato vivo o morto". Perciò nel pomeriggio uscimmo a fare una passeggiata per le vie di Clerkenwell, a braccetto come due veri romanticoni, godendoci il sole e il caldo come turisti. Di ritorno a casa, ci fermammo in un negozio di alimentari italiano e comprai qualche ingrediente per la cena: acciughe, olive nere, origano, pelati italiani in scatola e, cosa più importante di tutte, una confezione da sei di birra Peroni. In un armadietto di Elaine in cucina scovai un pacco di spaghetti e, dopo un po' di ginnastica da letto, preparai un piatto che mia moglie mi aveva insegnato anni addietro in una delle poche occasioni in cui parlavamo: spaghetti alla puttanesca. Quello che le infedeli mogli latine preparano per i mariti perché ha un gusto come se ci volessero ore a prepararlo quando in realtà bastano venti minuti, lasciando tempo in abbondanza per una scopata pomeridiana. Forse la mia ex aveva cercato di dirmi qualcosa. Elaine doveva essere all'Arcadia alle nove e mezzo. Prima che uscisse le
dissi che sarei stato più contento se si fosse licenziata. So che la cosa era un po' impertinente, dato che non la conoscevo poi molto, ma cominciavo a pensare che forse le poteva succedere qualcosa. «Sei una donna di talento» le dissi, con estrema sincerità. «Sai come dirigere un locale. Perché non ti cerchi un lavoro da un'altra parte?» Elaine si fermò davanti a me e mi scoccò un'occhiata che diceva: "Non approfittare troppo della fortuna, bambino". Con i tacchi a spillo delle sue scarpe da sera nere, era più bassa di me solo di un paio di centimetri. «Capisco il discorso, Max, e me ne andrò dall'Arcadia. Ma solo quando lo deciderò io. Capito? Non sono più una ragazzina, e so badare a me stessa. Mi fa piacere che ti preoccupi, ma risparmia le ansie per chi ne ha davvero bisogno.» Come dire: pensa per te. Rimasto solo, mi sedetti in soggiorno a scolare la Peroni e a tentare disperatamente di trovare qualcosa di decente in TV. Il che risultò un'impresa impossibile. Non era la prima volta. Finii per guardare un documentario su una famiglia di scimpanzé che vivevano nella giungla africana. All'inizio tutto filava bene. Gli scimpanzé se ne andavano a zonzo senza fare niente, occupandosi l'uno dell'altro e in generale comportandosi tutti benissimo come fanno allo zoo, e stavo perfino riflettendo su che bella vita rilassata e tranquilla si conducesse a essere un membro della confraternita scimmiesca quando all'improvviso tutto precipitò, contraddicendo le mie impressioni. Un gibbone dall'aria amichevole comparve fra gli alberi vicino al territorio degli scimpanzé, e uno di loro lo scoprì. Be', un secondo dopo tutto il branco di scimmie urlava e strepitava come un'accozzaglia di fanatici di polvere d'angelo a Millwall, e prima che avessi la possibilità anche solo di rendermi conto di quello che stava accadendo, partirono tutte alla carica contro il gibbone solitario attraverso il sottobosco, con grande eccitazione del narratore senza fiato. Al termine di una drammatica caccia di cinque minuti gli scimpanzé circondarono il gibbone su un ramo, dopodiché, lasciandomi inorridito, fecero a pezzi il poveretto sventrandolo a mani nude mentre li fissava con aria triste. Poi cominciarono a divorarlo vivo, sbranandolo, il che mi sembrò alquanto disgustoso. Specie visto che trasmettevano quella roba in un orario in cui i bambini potevano trovarsi davanti al televisore. E pensare che quelle bestie dovrebbero essere i nostri parenti più prossimi. Uno scimpanzé si mise a fissare sfacciatamente la telecamera mentre addentava un lungo brandello di frattaglie del gibbone, e io ebbi una sgra-
devole sensazione di déjà vu, perché mi ricordò quel traditore figlio di buona donna di Tony, seduto là come se fosse il padrone del mondo con quello che ebbi il sospetto assomigliasse a un sorriso sarcastico. Forse quel bastardo si era reincarnato. A quel punto spensi il televisore, non avendo la minima voglia di ingaggiare un duello di sguardi con una scimmia dall'aria così familiare, e stappai un'altra Peroni. Questo mi fece pensare che cosa avrei fatto quella stessa sera se non avessi mai accettato il contratto di sorveglianza di Fowler. Probabilmente me ne sarei stato seduto a casa da solo a guardare qualcosa di meglio in TV. La vita sarebbe stata molto più semplice, poco ma sicuro, ma tutto sommato sarebbe stata anche molto più noiosa. E talvolta è peggio. Ciò che in quel momento non sapevo ancora, però, e che adesso so, è che i miei guai erano solo all'inizio. LUNEDÌ, TREDICI GIORNI FA Iversson Fui svegliato da un flebile pianto, quasi come quello di un bimbo. Aprii gli occhi allarmato e scrutai la stanza. Era buio, ma la luce dell'illuminazione stradale filtrava dalla finestra, creando un fioco e lattiginoso bagliore aranciato, cosicché riuscii a distinguere una figura ai piedi del letto. Era Elaine. La sveglia sul comodino segnava l'una e venticinque. Mi misi a sedere sul letto, armeggiando in cerca dell'interruttore della lampada sul comodino. «Elaine? Cos'è successo?» La lampada si accese e trassi un breve respiro, stringendo gli occhi a causa della luce abbagliante. Il trucco le era colato per via del pianto e sullo zigomo destro, proprio sotto l'occhio, si stava formando un livido. La camicetta nera scollata che indossava aveva uno squarcio che scopriva la parte superiore del reggiseno; sembrava che qualcuno avesse tentato di strappargliela, fallendo di poco nell'intento. Elaine mi guardava, cercando di mantenere un briciolo di dignità, ma lo sforzo era troppo e ricominciò a piangere. «Oh, Max...» Confuso e agitato, saltai giù dal letto e la presi fra le braccia. «Che cosa è successo, Elaine?» Per un po' non disse nulla, limitandosi a singhiozzare piano contro il mio petto. La lasciai sfogare, senza farle fretta. Finalmente alzò il capo e si
staccò da me. «Lascia stare, Max. Ti prego. Ora mi sento meglio.» Si levò la camicetta rivolgendomi la schiena - era la prima volta che lo faceva - e la scagliò nell'angolo prima di sganciare il reggiseno. «Elaine... raccontami tutto, ti prego. Non puoi tornare a casa in questo stato e non dirmi che cosa è successo. Qualcuno ti ha picchiato?» Mi accostai e le posai le mani sulle spalle, massaggiandola dolcemente nel tentativo di farla rilassare. «Dài, raccontami tutto.» «Non posso» disse, continuando a darmi le spalle. «Non vorrei che tu facessi una stupidaggine.» Era un po' tardi, in quanto a quello. Negli ultimi giorni avevo fatto una stupidaggine dietro l'altra. Ma non glielo dissi; sapevo che soltanto con la pazienza sarei riuscito a farla parlare. «Vuoi che ti prepari un drink? Un brandy o qualcos'altro?» Elaine fece di sì con la testa. «Mi piacerebbe.» Andai in cucina, trovai una bottiglia di brandy e ne versai in un bicchiere una dose generosa. Per me presi invece un bicchiere d'acqua del rubinetto. Quando tornai in camera, Elaine era seduta in vestaglia sul bordo del letto. Aveva smesso di piangere e dava l'impressione di essersi calmata un po'. «Scusami» disse, e mi ringraziò quando le porsi il bicchiere. Mi sedetti sullo sgabello della toeletta in modo da starle di fronte. «Non c'è bisogno che ti scusi» dissi dolcemente «però voglio sapere che cos'è successo. Ti prego.» «Perché? Può farti solo male.» «Lascia che sia io a giudicare.» Mi fissò per un lungo momento e io pensai che perfino sconvolta e umiliata era bella. E vulnerabile. Con tutti i suoi modi da generalessa, soffriva come tutti gli altri. «Raccontami tutto, Elaine» ripetei. Esalò un lungo sospiro per quella che parve un'eternità; poi alzò gli occhi al soffitto. «Krys Holtz stasera è venuto all'Arcadia.» Provai una sensazione strana, come un pugno allo stomaco. Non sapevo se fosse paura o rabbia; pensai che probabilmente fosse entrambe le cose. «Mi ha chiesto di parlarmi in privato nell'ufficio che fino a pochi giorni fa usava Roy. Quando ci sono andata ha cominciato a farmi un mucchio di domande sui conti correnti, su quanto incassavamo ogni sera, sulla nostra percentuale, su dove finivano i soldi e via dicendo. Sembrava convinto che sapessi tutto sulla gestione amministrativa del locale. Gli ho detto che non mi occupavo del lato finanziario e gli ho mostrato tutti i registri. Non mi piaceva il suo atteggiamento. Mi trattava come una specie di essere inferiore. Avevo senti-
to parlare di lui, ma non avrei mai pensato che fosse così dannatamente stronzo. Continuava a chiamarmi "aiutante a contratto", e poi, visto che non sapevo dirgli quello che voleva sapere, mi ha dato della puttana bugiarda. Ha detto che falsificavamo i registri. Roy, io e Warren Case, il tizio che fornisce i buttafuori.» Mentre parlava, Elaine seguitava a rigirarsi nervosamente un anello sul dito e a scuotere il capo. Finalmente si decise a guardarmi negli occhi. «Mi conosci, Max. Non sopporto gli insulti, da chiunque provengano. Gli ho ripetuto che stavo dicendo la verità e che se non mi credeva erano solo cazzi suoi. Poi gli ho detto che mi licenziavo.» «A quel punto che cosa è successo?» «Mi ha dato un pugno. Quel bastardo si è alzato dalla sedia e mi ha mollato un diretto in faccia.» Elaine si toccò lo zigomo nel punto in cui aveva preso il pugno, e io sentii montarmi dentro una rabbia furiosa. «Stentavo a crederci. Nessun uomo mi aveva mai fatto una cosa del genere in tutta la vita, mai e poi mai. Poi ha girato intorno alla scrivania e mi ha alzato da terra afferrandomi per i capelli, dicendomi che avrei dovuto imparare un po' di buone maniere. È successo tutto così in fretta che non ho avuto neppure il tempo di spaventarmi, perciò l'ho insultato, dandogli del brutto vigliacco schifoso, e ho cercato di dargli una ginocchiata nei coglioni, ma è riuscito a evitarla. Poi ha cominciato a prendermi a sberle con una mano e a stringermi la gola con l'altra, senza smettere di ripetermi che avrei dovuto imparare le buone maniere.» Elaine si interruppe, e per un istante pensai che stesse per perdere di nuovo il controllo di sé, ma resistette, e proseguì con voce tranquilla. «A un certo punto ho pensato che quel bastardo schifoso doveva essersi eccitato, perché mi ha spinta contro la scrivania, venendomi addosso, e ho sentito che aveva un'erezione. Diceva che ero una puttana e mi palpeggiava ovunque, eccitandosi sempre di più... Cristo, è stato orribile. Ho cercato di ribellarmi lottando, Max, ce l'ho messa tutta davvero, ma era troppo forte. Con la sua mano che mi stringeva il collo riuscivo a malapena a respirare. Pensavo che mi volesse ammazzare.» Le andai vicino e le cinsi le spalle con un braccio. Stavo male. Mi si rivoltava lo stomaco. Stentavo a credere alle mie orecchie. Mi domandai fino a che punto le cose potessero peggiorare. «Ti ha violentato?» domandai a bassa voce, sperando disperatamente in un no. Elaine scosse il capo e abbassò le mani dal viso; però continuò a non guardarmi in faccia. Provai sollievo per un paio di secondi circa. «Mi ha fatto altre cose» sussurrò. Il suo tono disgustato lasciava pochi dubbi in merito a quale tipo di cose si trattasse. «E quando ha finito mi ha guardata
come se fossi una nullità e mi ha detto di andare affanculo. Come se contassi meno di niente, Max. Nessuno... nessuno mi aveva mai trattato così.» Elaine scosse adagio la testa, come per cercare di cancellare dalla mente certe immagini. Aveva un'aria assente, e in quel momento capii che non volevo perderla per nessun motivo al mondo. Per essere franco, malgrado tutta la rabbia e la frustrazione che avevo in testa, in qualche modo mi resi conto di amarla. Forse può sembrare un tantino precipitoso, ma a volte queste cose accadono veramente. Restammo a lungo abbracciati. Cinque minuti, forse dieci, difficile dirlo. Sarebbe potuto durare anche di più. Alla fine Elaine sospirò, portò il bicchiere alle labbra e bevve un sorso di brandy. «Ho bisogno di una sigaretta» disse. «Te ne trovo subito una.» Aprii il cassetto del comodino e vi trovai un pacchetto e un accendino. Accesi due sigarette e gliene passai una. «Non fare niente, Max. Per l'amor del cielo. Voglio solo dimenticare. Se non altro adesso non lavoro più all'Arcadia. Dopo quanto è accaduto credo che nessuno si aspetti più che mi presenti al lavoro.» «Cosa? Hai intenzione di ignorare quello che ti ha fatto uno stronzo come Krys Holtz?» Cercai di restare calmo e di non urlare, sapendo che Elaine non poteva essere biasimata solo perché voleva metterci sopra una pietra il più presto possibile, ma era difficile. «È il figlio di Stefan Holtz, cazzo! Cosa possiamo fare?» Scossi la testa. «Al diavolo. Non faccio che sentire parlare di questi Holtz e di quanto siano potenti, ma lascia che ti dica una cosa: nessuno è invincibile. Posso anche essere ricercato dalla polizia, ma non fuggirò da Londra con la coda fra le gambe. E non ho intenzione di fare un altro passo finché non avrò risolto la questione.» «Non servirà a niente.» «Servirà a me» dissi, poi mi alzai e andai in cucina a prendere la bottiglia di brandy. Il sangue mi ribolliva; avevo bisogno di qualcosa per calmarmi. Me ne versai un bicchiere, poi portai la bottiglia in camera e ne versai dell'altro a Elaine. «Sai una cosa? Non ho mai conosciuto Stefan Holtz né qualcun altro della sua onorata famiglia, né ho mai fatto niente a nessuno di loro. Ma questa gente si sta impegnando per rovinarmi la vita.» «Rovinano un sacco di persone.» «C'è solo un modo per fargliela pagare. E vendicarsi per quello che ti è accaduto. Posso stendere quel bastardo di Krys.» «Non essere stupido.»
«Sono un ex soldato addestrato alla guerra, Elaine. Sono perfettamente in grado di farlo. E mi farà sentire molto, molto meglio.» «E poi? Dovrai scappare per tutta la vita.» «Lo sto già facendo, perciò che cosa cambia? E gliel'avrò fatta pagare, per me e per te. Krys sarà morto e suo padre dovrà vivere con la consapevolezza di aver perso un figlio. E se sarò bravo, non sapranno mai che sono stato io.» Il viso di Elaine si indurì. «Non sarà così facile ucciderlo, Max. Uno come Krys ha una caterva di nemici. Gira sempre scortato.» Scrollai le spalle. Nemmeno l'idea di uccidere qualche guardia del corpo mi turbava più di tanto. Sapevo che si poteva fare. Capivo anche che Elaine ora ci stava pensando. Restammo seduti a fissarci per qualche secondo in silenzio, domandandoci fino a che punto avevamo intenzione di spingerci. «Odio quel bastardo per quello che mi ha appena fatto» disse Elaine alla fine «ma non voglio fare niente che possa peggiorare la situazione sia per me sia per te. Capisci cosa intendo?» Ma io avevo già preso una decisione. «Deve morire, Elaine» dichiarai semplicemente. Elaine soffiò fuori il fumo della sigaretta e mi fissò intensamente attraverso il velo azzurrognolo. Per la prima volta da quando era rientrata a casa, sembrò un po' meno depressa. «C'è un modo migliore» disse. Gallan Lunedì, Berrin restò a casa in malattia. L'influenza, o qualsiasi cosa fosse, evidentemente era peggiorata. Devo dire che aveva scelto un buon giorno per essere assente. Era un'altra giornata di caldo torrido e nel CID ci sentivamo tutti a terra, oltre che con i nervi a fior di pelle. Knox tenne la riunione della squadra assegnata al caso Matthews, durante la quale furono discussi gli sviluppi della settimana, compresa la morte di McBride, l'eventuale testimone. Ma rimase la sensazione che l'inchiesta si fosse arenata, e inoltre Knox era preoccupato da altri casi. Una ragazzina tredicenne, solo due anni più vecchia di mia figlia, mentre tornava a casa dal parco era stata trascinata in un terreno incolto in pieno giorno da un trentenne e brutalmente violentata. Le violenze si erano protratte per una mezz'ora e lo stupratore le aveva anche squarciato un braccio con un coltello o un rasoio, benché la ragazza non avesse opposto resistenza. Questo è un tipo di reato
particolarmente odioso, che suscita l'indignazione della gente, e di conseguenza la collera dei grandi capi. Che a sua volta si traduce in un'immediata pressione perché il caso sia risolto al più presto. Entro le nove e mezzo di quella mattina erano anche arrivate due denunce di persone scomparse, una delle quali una studentessa adolescente, e Knox stava ricevendo pressioni dall'alto per riorganizzare le sue risorse. Questo significava ridurre la squadra assegnata al caso Matthews. Dato che l'inchiesta sull'omicidio durava ormai da nove giorni, e altri casi si stavano accumulando, Knox ridusse il personale assegnato al caso Matthews a se stesso, Capper, Hunsdon, Berrin (quando sarebbe tornato di nuovo al lavoro) e io. Però, a causa della cronica scarsità di agenti investigativi all'interno del CID, fui informato che avrei dovuto lavorare anche su un altro caso di persona scomparsa, quello che riguardava un cinquantatreenne ex militare di nome Eric Home, irreperibile dal giovedì precedente. A questo punto la riunione si era scaldata, e io avevo insistito, con molta meno diplomazia di quella che esibivo di solito davanti al mio capo, perché si facessero ulteriori sforzi per rintracciare Jean Tanner, la quale, ammesso che fosse stata ancora viva, poteva esserci d'aiuto. Sollevai anche la questione di Neil Vamen, per nulla scoraggiato da com'era andata il giorno prima, e suggerii che anche lui poteva essere implicato in qualche modo nella vicenda. «E sicuramente, visto che ne abbiamo l'occasione, vogliamo sbattere dentro uno come lui, vero?» Knox aveva tentato di rispondere alle mie ansie nel modo più esauriente possibile, spiegandomi che avrebbe parlato subito con la sua controparte assegnata al caso McBride e che si sarebbe fatto informare nei dettagli, per quanto possibile. Però aveva aggiunto che la ricerca di Jean Tanner non era nostra responsabilità, dato che McBride non era morto nella zona di nostra competenza. Knox aveva poi detto che si sarebbe continuato a valutare gli eventuali moventi personali di Neil Vamen, ma aveva suggerito che con la morte della persona che aveva fatto il suo nome in relazione al caso Matthews sarebbe stato molto difficile provare qualsiasi coinvolgimento da parte sua, ammesso che ci fosse stato. Probabilmente a quel punto mi era sfuggita una smorfia di disapprovazione, perché Knox mi aveva fulminato con una delle sue tipiche occhiate riservate unicamente alle persone che lo facevano davvero incazzare. Ma non gli avevo badato. Secondo me l'intera vicenda stava per essere insabbiata con discrezione. Se il caso Matthews fosse stato più chiaro, come la maggior parte degli omicidi, e soprattutto non avesse avuto alcun collegamento con la palude del crimine organizza-
to, Knox sarebbe stato molto più interessato. Invece, aveva chiaramente deciso che si trattava di una gran scocciatura che non valeva tanta pena, e che le probabilità di arrivare a una condanna erano troppo irrilevanti per sprecarvi del tempo. Oggi l'unica cosa che conta sono le tabelle sui successi ottenuti. Un caso del genere, in particolare quando il cadavere appartiene a un piccolo malvivente come Shaun Matthews, è sempre destinato a essere messo in disparte se incalzavano altri casi più facili da risolvere. Questo in poche parole. La riunione era terminata alle dieci e dieci, e Knox, dopo avere impartito una serie di ordini e affrontato qualche lagnanza di poco conto - di cui una riguardo a Boyd e Capper e un presunto commento maschilista - mi aveva convocato nel suo ufficio. Né lui né io eravamo dell'umore migliore e il caldo soffocante dell'ufficio non aiutava di certo. Knox disponeva di due ventilatori elettrici sulla scrivania, entrambi in funzione, ma non facevano altro che sospingere l'aria calda ai lati della stanza. «Senti, John, so che sei inviperito perché credi che le cose non stiano procedendo così rapidamente come vorresti riguardo a questo caso, ma conosci la situazione.» Non dissi nulla. «Più tardi in mattinata parlerò con il comandante Peppard, il boss dell'ispettore Burley, per vedere quali informazioni possiamo carpirgli. Se troveranno Jean Tanner, mi assicurerò che ci permetteranno di interrogarla in merito a Matthews. Insisteremo anche perché scoprano com'è morto McBride e chiederemo se hanno indizi su chi possa averlo ucciso.» «L'ispettore Burley è stato tutt'altro che collaborativo, signore.» «Sa essere un vero rospo, lo ammetto.» «Mi ha trattato come se fossi un criminale. Dovremmo essere dalla stessa parte.» Knox diventò rosso in faccia. Aveva l'aria di uno a cui fosse stato dato l'incarico di consigliere senza che lo volesse. «Non si tratta di questo. Burley è estremamente geloso del suo territorio. Non gli piace che qualcuno, perfino dei colleghi della polizia, interferisca nelle questioni di sua esclusiva competenza.» «Non stavo interferendo. Stavo anzi cercando di dargli una mano.» «Ne sono sicuro, lui però non lo interpreta così. A volte è una vera carogna con i colleghi più giovani. Penso che li consideri dei presuntuosi arroganti.» Accompagnò la dichiarazione con un sorriso rassicurante e quasi paterno. Ma io non pensavo che ci fosse qualcosa di particolarmente divertente al proposito, e continuai a fissarlo con espressione imperturbabile.
Vedendo che non otteneva granché, Knox cambiò tattica. «Da qualunque lato si guardi alla cosa, Roy Fowler per me resta sempre il principale sospetto. È lui, più di chiunque altro, ad avere un movente. Dunque, non ho alcuna intenzione di lasciar perdere questa inchiesta. Assolutamente. Quello che dobbiamo fare è esaminare più a fondo il passato di Fowler, perché è lui la chiave di questa storia.» Scaldandosi su questo argomento, contrariamente a come aveva fatto nella riunione appena conclusa, proseguì, battendo di tanto in tanto il pugno sulla scrivania per enfatizzare il punto. «Lui e Matthews erano direttamente implicati nello spaccio di stupefacenti all'Arcadia. È un affare lucroso. Sono sicuro che hanno avuto divergenze a questo riguardo, ed è assai probabile che il dissapore abbia portato in qualche modo alla morte di Matthews. Per quale altro motivo Fowler sarebbe sparito? A meno che non abbia qualcosa da nascondere. Da quant'è che è scomparso? Tre giorni, quattro contando oggi. Mi sembra di poter dire che è alquanto inusuale. E tu e Berrin non gli avevate forse detto di tenersi a disposizione durante il corso dell'indagine?» Glielo confermai. «Allora concentriamo gli sforzi su di lui. Voglio che tu vada a rileggerti tutti gli appunti e i rapporti sul caso, torna all'Arcadia e parla con i suoi dipendenti. Capper e Hunsdon invece concentreranno le ricerche sui trascorsi di Fowler. Le sue attività passate, gli affari di cui si è occupato, in particolare quell'agenzia-bordello, la Heavenly Girls. Questo potrebbe darci qualche spunto. È ora di pensare a qualche pista collaterale.» «La pista collaterale su cui sto lavorando sarebbe di grande aiuto, signore, se non dovessi anche occuparmi di un altro caso di persona scomparsa.» Knox sospirò. «Mi rendo conto che non è la situazione ideale, ma sai bene quanto siamo a corto di effettivi. Devo assegnare agenti a quell'orrendo caso di stupro di ieri. La stampa si è già scatenata. È una ragazza molto carina, e, come se non bastasse, i suoi genitori sono persone in vista, con un mucchio di conoscenze in alto loco, perciò occorre risolvere il caso alla svelta. Nessuno vuole che un animale come quello resti a piede libero, visto anche che ha fatto di tutto per finire in prima pagina. Perciò dovremo fare buon viso a cattivo gioco e mostrarci zelanti. Ho anche la squadra Antidroga che mi soffia sul collo perché vogliono il nostro appoggio in una vasta operazione di sorveglianza che stanno conducendo. Si chiama "Operazione attacco rapido", anche se rapida non lo è di sicuro, ed è probabile che ci sottragga altri elementi per i prossimi tre o quattro giorni. Capisci cosa voglio dire?»
«Certamente, signore. Capisco i problemi di scarsità di effettivi. Li abbiamo sempre avuti. Ma sta riducendo la squadra assegnata al caso Matthews a un minimo assoluto, e con Berrin in malattia credo che dovrei veramente concentrare i miei sforzi sul caso.» Resistetti all'impulso di aggiungere: "Capisce cosa voglio dire?". Dopo tutto, volevo ancora diventare di nuovo ispettore, e per quel giorno mi ero già impuntato anche troppo. «Il caso dell'uomo scomparso è davvero roba di ordinaria amministrazione, John, e non dovrebbe sottrarti troppo tempo. La ex moglie di questo tizio ci ha telefonato stamattina dicendo che non lo sentiva da alcuni giorni e che aveva mancato di presentarsi a due impegni familiari, cosa che non è proprio da lui.» Knox fece seguire alle parole la tipica espressione di stanco scetticismo che accoglieva qualsiasi dichiarazione di un parente stretto il quale dichiarava "non è proprio da lui". «Ma il punto è che si tratta di un colosso d'uomo, un ex militare che lavora come guardia del corpo free lance. Perciò è probabile che non gli sia successo niente. Sarà solo andato da qualche parte per un po', ma voglio lo stesso che verifichi la cosa senza perderci troppo tempo. A quanto risulta, lavora soprattutto per un'agenzia che fornisce servizi di sicurezza. Si chiama Tiger Solutions.» Sbuffai divertito. «Che razza di nome è?» «Un nome davvero idiota. La sua ex moglie dice di averli già contattati e che anche loro non lo vedono da una settimana o due, ma vorrei che andassi a parlare con loro non appena hai un momento libero, e poi che telefoni alla sua ex per dirle che cosa hai scoperto. Se potessi farlo entro i prossimi due giorni sarebbe di grande aiuto.» Sapevo che non c'era alcun vantaggio a discutere. «Certo. Lo farò.» «Apprezziamo molto la tua dedizione al lavoro, sai, John?» disse, fissandomi con una delle sue espressioni manageriali. «Va tutto a tuo favore, voglio che tu lo sappia. Sono ansioso di vederti fare progressi qui al commissariato. Però fammi un favore: l'ispettore Capper mi ha riferito della tua visita di ieri a Neil Vamen. Non andare più a parlare con lui a meno che tu non disponga di prove sicure contro di lui, e non prima di aver chiesto il mio parere.» Annuii, e Knox proseguì. «Dunque, tieni presente che questo caso di persona scomparsa è di secondaria importanza, perciò concentrati sul caso Matthews. Ti terrò informato dei miei contatti con il comandante Peppard. E proviamo a considerare il caso sotto nuovi punti di vista. Ipotesi collaterali: è di questo che abbiamo bisogno.» Mi alzai dalla sedia e dichiarai che mi sarei messo subito al lavoro. Pensando intanto che, con ogni probabilità, Knox non aveva mai formulato
un'ipotesi collaterale in tutta la sua vita. Quando tornai alla mia scrivania, il mio cellulare stava suonando. Non riconobbi il numero, ma risposi ugualmente. «Gallan.» «Salve, Mr Gallan» disse una voce giovane e gentile che non conoscevo. «Sono Asif Malik dell'SO7.» «Salve, Asif. Grazie per avermi richiamato.» «Si figuri. Che cosa posso fare per lei?» «Sto indagando su un caso di omicidio che potrebbe avere qualche contatto con la sua area di competenza, e mi chiedevo se potevo approfittare della sua esperienza per pochi minuti. Naturalmente capirà che non è una cosa di cui possa parlare al telefono. Le dispiacerebbe vederci di persona per una mezz'ora? Verrò io da lei.» «Può dirmi quale personaggio riguarda, tanto per sapere se sono proprio la persona giusta?» Per chissà quale motivo, mi sentii obbligato a rispondere sottovoce. «Gli Holtz. In special modo Neil Vamen.» All'altro capo del telefono ci fu un breve silenzio. Poi: «Sono la persona giusta. Le va bene mercoledì?». «Perfetto.» «Vediamoci al Soul of Naples. È un ristorante italiano.» Come se potesse essere qualcos'altro. «Le va bene? È vicino a dove lavoro.» Ridacchiai. «Di solito mi limito a mangiare un sandwich in fretta e furia, perciò qualsiasi cosa vada oltre un panino è più che gradita.» «Bene, è un ottimo ristorante. Sarò là a mezzogiorno.» «Grazie. Le sono grato.» Mi dettò l'indirizzo e mi diede qualche indicazione su come arrivarci, dopodiché riagganciò. Per qualche secondo rimasi seduto a fissare il cellulare, sperando che nel marasma di informazioni senza dubbio raccolte da Malik e dai suoi colleghi sul clan Holtz ci fosse qualcosa che potesse risolvere finalmente il caso. In quel momento, però, non mi sentivo molto ottimista. Iversson «Un rapimento, Max? Non funzionerà mai, ed è troppo pericoloso.» Eravamo nel salotto dell'appartamento di Elaine, solo noi due, con le birre in mano. Elaine era andata fuori per consentirci la privacy necessaria a
discutere della cosa. «Funzionerà, Joe, se lo facciamo come si deve. Elaine dice che...» «L'idea è stata sua?» «Certo che no. È il prodotto delle mie riflessioni. Ora voglio solo che tu mi stia a sentire. Se dopo che ti avrò prospettato la cosa non sarai ancora convinto, amici come prima. Non dovrai fare altro che uscire e dimenticare questa conversazione.» Joe bevve un lungo sorso di birra. «Forza, allora» disse sospettoso. «A Krys Holtz piace frequentare un club per uomini che si chiama Heavenly Girls e che si trova da queste parti, non lontano da Farringdon Road. È una bella palazzina in una via elegante, composta in gran parte da uffici, e fondamentalmente è piena di puttane d'alto bordo. Krys probabilmente mantiene i suoi movimenti imprevedibili per impedire ai molti nemici che ha di tendergli un agguato, ma si dice che abbia l'abitudine di frequentare il club diverse sere a settimana, di solito ogni venerdì, se non deve andare da qualche altra parte. E a volte anche se ci deve andare.» «Chi ti ha detto queste cose?» «Elaine. Conosce alcune delle ragazze che lavorano alla Heavenly Girls. A quanto pare Roy Fowler dirigeva anche l'agenzia di accompagnatrici.» Joe fece una smorfia, ma non disse nulla. «Forse incapperemo in un paio di insuccessi, ma dovremmo essere in grado di sorvegliare il club senza sollevare sospetti.» «E tu? Sei ricercato dalla polizia.» «Da qualche giorno non mi rado, indosserò un paio di occhiali e comunque le strade non sono illuminate granché bene. E quando fa buio non circola molta gente, perciò non credo che avremo problemi. Quando Krys arriva non dobbiamo far altro che lasciarlo entrare. Di solito è sempre scortato da un paio di guardaspalle. Poi uno di noi si presenta alla porta e chiede di entrare.» «Come si fa a entrare nel club, tanto per cominciare? Presumibilmente non lasciano passare chiunque.» «Qualcuno dovrà farci prima un giro di prova per avere un'idea. Chiunque sia dovrà usare il nome di uno dei clienti regolari e dire che questo gli ha raccomandato il club. Poi, una volta che ci sarà stato una volta, non dovrebbe avere problemi a tornarci una seconda volta. Perciò quando ci entra la seconda volta...» «Ammesso che ci entri.» «Sale di sopra alla reception, che non dovrebbe rappresentare problemi,
e quando si è assicurato che tutto è sotto controllo tira fuori la pistola, assume il comando e costringe la segretaria a lasciar entrare gli altri. Poi, quando saremo di sopra, troveremo la stanza in cui Krys si sta sollazzando e lo sequestriamo.» «E i suoi guardaspalle? Che cosa faranno nel frattempo?» «Di solito si separano e ognuno sta con la propria donna. Di sicuro non perdono tempo ad aspettare mentre Krys è occupato. Il bello è che sarà facilissimo neutralizzarli. Li coglieremo a braghe calate, per così dire. Li legheremo, li disarmeremo e poi ce ne andremo tranquillamente. A quel punto avremo preso in affitto un posticino tranquillo e isolato in campagna e vi terremo Krys finché non avremo risolto la questione del riscatto.» «E come diavolo faremo a ritirare il riscatto senza farci ammazzare?» Mi interruppi un momento, domandandomi se avessi ancora bisogno di convincere me stesso della cosa. «Costringeremo suo padre a consegnare personalmente il malloppo.» «Chi, Stefan?» Annuii. «Max, stiamo parlando di un uomo che è praticamente un recluso. Come farai a costringerlo a mettere il naso fuori?» «Perché Krys è suo figlio. Ne ha già uno in prigione e ora rischia di perderne un altro. Da quanto ho sentito sono una famiglia assai unita, e anche se è un bastardo schifoso si dà il caso che Krys sia anche il cocco di mamma.» «Dov'è che hai raccolto tutte queste informazioni?» «In gran parte sono di dominio pubblico, Joe. Lo sai bene. Gli Holtz cercano di essere riservati, ma la gente li conosce. Penso che se faremo tutto con cura riusciremo a costringere il vecchio a venire allo scoperto. E, ovviamente, in questo modo le probabilità che ci facciano la pelle sono minime. Non oseranno fare niente che possa mettere a repentaglio la vita del grande boss. Poi ci prenderemo il denaro, daremo a Krys una bella pestata in modo che sappia come ci si sente a essere preso a calci nel culo, una volta tanto, e ce la fileremo.» «E sarà finita lì?» «Esatto. Se come riscatto chiediamo mezzo milione di sterline in contanti sarà sufficiente a far fronte ai rischi che ci assumeremo e a sparire dalla circolazione finché le acque non si saranno calmate, o fino a quando resteranno agitate. In ogni caso ci sarà da cavarci parecchio, e non è una somma che gente come gli Holtz avrà problemi a raccogliere. Non con i soldi che hanno. L'intera faccenda durerà pochi giorni soltanto, dopodiché... tombola, sarai molto più ricco di oggi.»
«Ammesso che la scampiamo.» «È un'impresa rischiosa, lo so. Ti sto chiedendo di entrare nella partita perché siamo amici oltre che soci, e sai che devo fare qualcosa per risolvere questa situazione. Inoltre penso che una somma del genere valga i rischi che corriamo. Pensaci. In passato abbiamo trascorso mesi e mesi di qua e di là a combattere contro gente che fa sembrare gli Holtz dei gattini, e tutto per cinquecento sterline lorde a settimana. Può essere anche pericoloso, ma non lo sarà certo più di quello che abbiamo fatto da militari. E poi stavolta alla fine di tutto potremo prenderci una lunga e bella vacanza.» Joe bevve un altro sorso di birra. «Hai parlato con qualcun altro di questa storia?» «A parte Elaine, no.» «E che cosa ne pensa, questa donna con cui hai passato il weekend?» «All'inizio avrebbe preferito semplicemente che ce ne andassimo da Londra e dimenticassimo tutto. Ma ora che sa che mi impegnerò con tutto me stesso per farlo, mi appoggia in pieno.» «Come fai a sapere che non andrà a spifferare tutto a uno dei suoi amici?» «Perché non è matta, Joe. Inoltre, vuole vendicarsi di Krys Holtz dopo quello che le ha fatto domenica notte. Non ci deluderà.» Joe si abbandonò contro lo schienale e accese una sigaretta, non ancora riabituato a offrirmene una. Ne tirai fuori una delle mie. «Stamattina la polizia è venuta di nuovo da me» disse alla fine. «Ah, sì? Come mai?» «Per Eric. La sua ex moglie ne ha denunciato la scomparsa. Un sergente è venuto a fare domande. Se l'avevamo visto, da quanto tempo lavorava per noi, questo tipo di cose.» «Ha detto niente riguardo a me?» «No, era uno sbirro diverso da quelli venuti sabato. Ho avuto l'impressione che questo non sapesse niente di te. Dio sa perché. Pensavo che coordinassero meglio le indagini.» «Anche loro non sono esenti da difetti. Pensi che sospetti qualcosa?» Joe scosse il capo. «Credo di no. Mi ha dato l'idea che per lui fosse un controllo di routine, ma non abbiamo certo bisogno di ulteriori attenzioni, con la carne al fuoco che abbiamo già. E c'è da pensare che prima o poi mettano in relazione i due fatti. Sbaglio?» «È un motivo in più per attuare il mio piano. Con le tasche piene di soldi, tanti soldi, non dovremo più preoccuparci.»
Joe sospirò. «Non credo che la polizia possa provare granché, in ogni caso, specie in assenza di un corpo. Ma c'è comunque di che preoccuparsi. Sai, è incredibile come una situazione possa precipitare da un momento all'altro. La settimana scorsa tutto filava per il meglio. Ora guarda a che punto siamo.» Joe restò seduto in silenzio un momento. Lo osservai attentamente, ben sapendo che se non accettava di partecipare all'azione tanto valeva che mi scordassi l'intera faccenda. «Per questo genere di operazioni servono almeno quattro persone, magari anche cinque» disse dopo un po'. «Sì, lo so. Come autista pensavo di utilizzare Johnny Hexham. È sempre disponibile per un lavoretto e non saremo costretti a dargli troppe spiegazioni. Almeno non finché sarà troppo tardi per tirarsi indietro. Posso perfino fargli rubare gli automezzi che useremo per il rapimento. Ti viene in mente nessun altro? Qualcuno con cui abbiamo lavorato in passato? Pensavo di reclutare ex mercenari in cerca di un po' di contanti extra.» «Non ce ne saranno molti che vorranno farsi coinvolgere in un'azione del genere. Ci sono troppe cose che potrebbero andare storte» «Con mezzo milione di sterline in ballo possiamo convincerli che il gioco vale la candela.» «Hai pensato come dividere?» «Parti uguali per chi deve essere armato, cinquantamila per l'autista e trentamila a Elaine per la sua parte nell'organizzare la cosa. Ti sembra equo?» Joe annuì. «Sì, ma dobbiamo fare attenzione alla scelta degli uomini. Non dobbiamo parlare con gente che poi cambia idea, perché questo comprometterebbe tutto e con ogni probabilità mi farebbe finire sulla stessa lista dei ricercati su cui sei tu.» «Sono d'accordo, ma non mi viene in mente nessuno così su due piedi. Un settimana fa avrei detto Tony. Era proprio il tipo giusto per un'impresa così.» «Quando speri di fare il colpo?» «Non appena avremo organizzato tutto. Il posto in cui lo terremo prigioniero, le auto e, ovviamente, i soci. Sarà questione di qualche giorno ancora, ma non di più.» «E chi organizzerà tutto?» «Se tu ti occupi di trovare gli uomini, di tutto il resto me ne occupo io. Penso che tu abbia ragione, forse dovremmo disporre di almeno quattro persone armate. Allora, hai intenzione di far parte del gruppo?» Joe finì la sua birra e sospirò. «L'istinto mi dice che sarei un idiota pa-
tentato ad accettare. Chiunque altro me l'avesse proposto sarei scappato a razzo. Ma una cifra del genere mi farebbe comodo. Sì, conta su di me, e dammi un paio di giorni per trovare gente affidabile. Nel frattempo, metti in moto le cose. Per coprire i costi hai intenzione di usare i contanti che ti ho dato?» Annuii. «Sì, bastano e avanzano.» Gli offrii un'altra birra, pensando che probabilmente potevo fargli compagnia, ma disse che doveva andare. Dopo che fu uscito, me ne versai comunque un'altra e mi rilassai sul divano. Prevedevo che Joe avrebbe accettato, perché, come qualunque altro ex mercenario, non poteva stare lontano dalle situazioni eccitanti. E poi si era ritrovato coinvolto in abbastanza scontri a fuoco per non preoccuparsi troppo dei pericoli di un piano che, dovevo ammetterlo, era ben lontano dall'infallibilità. I vantaggi, però, non erano da sottovalutare. Adesso tutto quello che dovevo fare era predisporre le basi fondamentali del piano, dopodiché saremmo stati pronti ad agire. MERCOLEDÌ, UNDICI GIORNI FA Gallan Quando arrivai al Soul of Naples, Malik - immaginai che fosse lui - era già seduto a un tavolo in fondo alla sala. Capii perché avesse scelto quel posto per l'appuntamento: era l'unico avventore presente, il che non era di buon auspicio. Quando sono in servizio non mi capita spesso di frequentare ristoranti, perciò sperai che Malik sapesse qualcosa che il resto della clientela del West End all'ora di pranzo ignorava. Si alzò quando gli andai incontro, ci presentammo e ci scambiammo una stretta di mano. Era giovane, al massimo sulla trentina, con un sorriso cordiale e l'aria di uno molto sicuro di sé. Indossava un completo grigio antracite che sembrava decisamente troppo caro per uno stipendio da poliziotto, e un'elegante cravatta rossa. Un tantino formale per una giornata con ventotto gradi e un tasso di umidità alle stelle, ma lo portava con disinvoltura. Pensai che era più simile a un dirigente in carriera che a un agente di polizia, ma trasmetteva una certa franchezza. La sensazione che ci si poteva fidare di quel che aveva da dire. Se avesse lavorato nel ramo commerciale, io sarei stato un'acquirente sicuro, e non mi sbilancio spesso a dire una cosa del genere. Un cameriere si materializzò non appena mi sedetti al tavolo e mi chiese
che cosa desideravo bere. Vidi che Malik aveva davanti un succo d'arancia, ma dato che ero in conto spese della polizia metropolitana e che avevo in tasca una scatola di mentine, optai per una birra. Non sono uno che ha problemi a bere da solo. «Allora, questo caso su cui sta lavorando» disse Malik quando il cameriere mi servì la birra. «Di che cosa si tratta?» Gli feci un breve resoconto dell'inchiesta Matthews. «Non stiamo facendo progressi significativi. Jean Tanner è ancora introvabile, come se fosse sparita nel nulla, e l'autopsia preliminare di Craig McBride ha appurato che è morto per overdose di eroina, tanto per cambiare. E non ci sono segni di colluttazione. Oltre a ciò, abbiamo in mano un pugno di mosche. Nessun indizio nuovo e nessun progresso con quelli vecchi. Io sono convinto che un membro del clan Holtz sia sicuramente implicato, visto il modo in cui tutti o finiscono morti o scompaiono, ma non sono in condizione di poter fare niente.» Malik annuì pensieroso. «Non lo so se posso esserle d'aiuto, John.» Bevvi un altro sorso di birra. «Non so neanch'io, ma comincio a esaurire le frecce al mio arco, e non si può mai sapere. Magari avete qualcosa che può aprirci uno spiraglio. In poche parole, mi servirebbero quante più informazioni possibile sugli Holtz e Neil Vamen. Qualcosina so già, ma in modo molto raffazzonato.» «Ordiniamo, prima» disse Malik. Prese un menu dal tavolo e me lo passò. «Le consiglio caldamente i saltimbocca alla romana.» «Cosa diavolo sono?» «Fettine di vitello con prosciutto e salvia cotte nel burro, servite con contorno di verdure e patatine rosolate. Buonissime!» «Da come le descrive sembra un socio del proprietario.» Diedi una scorsa veloce alla lista, ma non fui colpito da nulla in particolare. «D'accordo, vada per i saltimbocca. In onore della mia ex consorte.» «Le piacevano?» Mi concessi un sorrisetto malizioso. «No. Era rigorosamente vegetariana.» «È chiaro che non è stata una separazione amichevole» commentò Malik ridendo. «Lo sono mai?» «Forse un pochino più amichevoli di così. Ma non sta a me giudicare.» Malik fece un cenno di richiamo al cameriere e ordinò. «Comunque» riprese quando il cameriere se ne fu andato «parlavamo degli Holtz. Faccio
parte di una squadra che sta indagando su di loro da un anno e mezzo, ormai, e lasci che le dica una cosa: non sono un bersaglio facile. Infiltrarsi nei loro ranghi è come cercare di bucare il cemento armato.» «Per quale motivo?» «Gliene dico un paio. Il primo è che come organizzazione criminale esistono da quasi trent'anni e perciò hanno fondamenta molto solide. Il vecchio Stefan è il padrino. Ha cominciato da giovane come teppistello e pugile dilettante, dedicandosi alla riscossione dei debiti per conto di vari strozzini della mala prima di decidere che sarebbe stato meglio mettersi in proprio. Quello che differenziava il giovane Stefan dagli altri malavitosi era che aveva un cervello, e molto fino, per giunta. Era, ed è, un uomo d'affari davvero in gamba. Direi che è sprecato nel campo del crimine, ma probabilmente guadagna dieci volte di più attraverso i suoi loschi affari di quello che potrebbe fare comportandosi legalmente, e con il passare degli anni i suoi traffici si sono espansi moltissimo. Per un po' si è occupato di gioco d'azzardo, di contraffazioni e di rapine a mano armata, sebbene non si sia mai sporcato le mani direttamente. Organizzava tutto, ma si assicurava di circondarsi soltanto di persone fidate. Ecco perché in qualche modo la sua è sempre rimasta un'impresa a carattere familiare. Nei primi tempi i due fratelli erano i suoi complici principali; poi, diventati questi troppo vecchi, sono subentrati i suoi figli maschi. Probabilmente, però, non avrebbero mai prosperato tanto, se non fosse stato per la droga.» Mi concessi un sogghigno sarcastico. «La stessa vecchia storia.» «Già, è sempre così. Tutti guadagnano cifre esorbitanti con il traffico di stupefacenti, non c'è dubbio, ma per una "famiglia" come gli Holtz, con un'infrastruttura e ottimi contatti nel mondo della malavita, le occasioni sono state enormi. E le hanno colte. Sa, si dice che Stefan Holtz non sopporti le droghe. Non permette che nessuno dei suoi ne faccia uso, benché naturalmente l'abbiano fatto tutti. Ma come organizzazione ci si sono buttati a pesce fin dal principio. Hascisc, anfetamine, cocaina in particolare, perfino eroina. Con gli anni hanno stretto alleanze con numerose altre organizzazioni criminali sia qui sia all'estero, e ora sono uno dei maggiori importatori in Gran Bretagna. Smerciano anche una quantità di altra "roba", soprattutto ecstasy e coca, a Ibiza per la stagione estiva. Perciò, se un bravo ragazzo della media borghesia ci va in vacanza e si impasticca o fiuta una linea, è assai probabile che parte dei profitti sulla vendita di quella roba finisca direttamente nelle tasche degli Holtz. E qui non stiamo parlando di piccole quantità. Migliaia di persone consumano milioni di sterli-
ne di droga ogni notte fra maggio e ottobre. E questo è solo un ramo delle loro attività illegali. «Ma ciò che li distingue davvero dagli altri è il loro livello di sofisticazione e l'anzianità dei loro contatti nel mondo della criminalità organizzata. Attualmente importano grosse partite di cocaina direttamente da Cali, in Colombia, senza alcun intermediario. E riteniamo che abbiano organizzato una grossa via di contrabbando attraverso la Bosnia per rifornire i mercati dell'Europa occidentale, non solo per l'importazione di eroina dal Pakistan e dall'Afghanistan, ma anche per gli immigrati illegali, specie ora che l'organizzazione di Mehmet Illan e Raymond Keen è stata sgominata. Contrabbandano persino reperti archeologici. Non c'è niente che non li interessi. Se una cosa produce denaro, ci sono di mezzo loro. E la quantità di soldi che finisce sui loro conti correnti è incredibile. Non sappiamo con esattezza a quanto ammonti, si avvalgono di un'infinità di società paravento e di operazioni di riciclaggio di denaro sporco, e impiegano un esercito di ragionieri e commercialisti, ma abbiamo calcolato che come gruppo producano profitti per oltre quaranta milioni di sterline all'anno.» Emisi un fischio sommesso. «Non c'è da stupirsi che sia difficile prenderli in castagna.» «Esattamente. Una simile quantità di denaro ti procura un sacco di fedeli proseliti. E, come le ho detto, hanno basi così solide nella malavita che i pezzi grossi si conoscono tutti molto bene fra loro, perciò è improbabile che comincino a fregarsi l'un l'altro, specie se non ci sono benefici evidenti. Tempo fa un collega dell'SO10 era riuscito a infiltrarsi nelle frange più esterne dell'organizzazione, ma si sono subito insospettiti, hanno scoperto dove abitava e hanno mandato un paio dei loro scagnozzi a far visita a sua moglie e suo figlio.» «Cristo» esclamai, chiedendomi come avrei reagito dieci anni prima se la stessa cosa fosse capitata a me. «Non gli hanno torto un capello. Si sono semplicemente assicurati che lui sapesse che potevano far loro del male quando avessero voluto. L'agente si è preso una strizza tale da dare le dimissioni e lasciare la polizia. E questo è il massimo che siamo riusciti a fare per avvicinare l'organizzazione. Detto questo, abbiamo anche riportato qualche successo, come hanno fatto altri settori della polizia londinese. Tomas, il primogenito di Stefan, al momento sta scontando una condanna a nove anni per possesso di due chili di cocaina e di ventiquattro fucili d'assalto M-16.» Inarcai le sopracciglia in un'espressione interrogativa. «Sì, si dedicano anche al traffico di
armi, sebbene quello di Tomas sia stato il primo riscontro in cui ci siamo imbattuti. Naturalmente il piccolo Tommy ha negato tutto e ha dichiarato che, come la droga, le armi gli erano state messe apposta in casa dalla polizia per incastrarlo.» Malik sorrise stancamente: la tipica reazione di un agente di polizia di fronte a insinuazioni così noiose e poco originali. «Hanno contatti all'interno delle forze di polizia?» domandai, pensando a quel bastardo di Burley. «Hanno corrotto qualcuno?» «Veramente non abbiamo mai scoperto niente, ma sa meglio di me che ci sono poliziotti avvicinabili.» Malik si interruppe un momento, come se si aspettasse qualche accenno da parte mia al suo vecchio superiore diretto, ma rimasi in silenzio. «Alcuni episodi suggeriscono che sul libro paga degli Holtz ci siano alcuni agenti» proseguì «e sarebbe anche verosimile. Ma finora sono stati bravi a non farsi beccare.» «Ha detto che ci sono due motivi principali per cui è così difficile infiltrarsi nelle loro file. Uno è il modo in cui sono organizzati. Qual è l'altro?» Malik mi fissò con espressione seria. «La loro efferatezza. Se gli intralci il passo, hai i giorni contati. Qualsiasi organizzazione criminale ricorre facilmente alla violenza, è evidente. Immagino che faccia parte del mestiere, specie di questi tempi, con la concorrenza che c'è. Ma gli Holtz vanno oltre. Per loro l'omicidio è solo un altro modo di proteggere gli investimenti. Se gli si mettono i bastoni fra le ruote, o se si fa un qualsiasi tentativo che potrebbe mettere a repentaglio la buona riuscita delle loro imprese per fare soldi, ci si rimette la pelle. Punto e basta. Abbiamo calcolato che siano responsabili di qualcosa come trentacinque omicidi solo dal 1985 a oggi. Incredibile se si pensa che la maggior parte della gente non ha mai neppure sentito parlare di loro. Ma abbiamo rinvenuto soltanto quattordici cadaveri che possono essere collegati a membri e soci della famiglia. In relazione a questi quattordici casi di omicidio, nessuno ha mai sporto una sola denuncia. La gente non trascina in tribunale gli Holtz perché le conseguenze sarebbero spaventose, e le probabilità di non scamparla semplicemente troppe.» «Ne parla come se affidarli alla giustizia fosse un'impresa impossibile.» «Alla fine ci riusciremo» ribatté Malik, e sembrava convinto. Era un peccato che non ce ne fossero di più di poliziotti come lui. «Gli staremo alle costole in eterno, se necessario, ma non sarà facile. Nei diciotto mesi da quando faccio parte della squadra non siamo riusciti a provare niente se non qualche accusa di minore importanza, naturalmente solo a carico dei pesci piccoli. Ma le cose stanno cambiando. Il governo è molto preoccupa-
to per le gang criminali che taglieggiano il paese e di conseguenza sta aumentando parecchio le risorse destinate alla lotta contro la criminalità. Non siamo i soli a essere coinvolti nella battaglia. Anche l'MI5 sta indagando su di loro. Come pure la squadra nazionale anticrimine e persino la polizia doganale, e questa è probabilmente la prospettiva peggiore dal punto di vista della malavita. Perciò, stanno cominciando a sentire la morsa. Ma non credo ancora che se la stiano facendo sotto.» Ci servirono i saltimbocca alla romana. Malik aveva proprio ragione: non restai deluso. Mentre mangiavo, gli lanciai di tanto in tanto qualche occhiata furtiva, e dovetti ammettere che rimasi positivamente impressionato dal suo comportamento. Avevo di fronte un uomo il cui mentore e diretto superiore, si era scoperto, era un assassino a sangue freddo; una vicenda che aveva posto Malik nel mirino della stampa, con contorno di voci infondate sul suo coinvolgimento diretto. Sapevo per esperienza personale che cosa volesse dire essere al centro dell'attenzione dei mass media, ma il caso Dennis Milne era stato molto più clamoroso della nostra piccola e squallida faccenda di coperture fra colleghi. Eppure Malik sembrava non essere rimasto toccato. Anzi, esattamente l'opposto. Le voci raccolte chiacchierando con i colleghi che lo avevano conosciuto quando era ancora in forze al nostro commissariato di zona, lo dipingevano come un tipo piuttosto tranquillo, senza pretese, niente a che vedere con l'uomo estremamente sicuro di sé di fronte al quale ero seduto in quel momento. «Per quanto riguarda Neil Vamen» dissi fra un boccone e l'altro «so poche cose su di lui, niente di particolarmente significativo, ma mi piacerebbe sentire tutto quello che sa sul suo conto.» Decisi di non dire niente della mia visita a Vamen al Seven Bells, perché decisamente non mi avrebbe posto sotto una buona luce. Malik si infilò in bocca un grosso boccone, chiaramente assaporandone il gusto. «Mi dispiace che non sappia granché» disse quando ebbe finito di masticare. «Vamen è un tipo interessante. È entrato a far parte della famiglia a metà degli anni Settanta, a un livello piuttosto basso, apparentemente come un rinforzo. Si ritiene che abbia commesso almeno un omicidio per conto di Stefan Holtz, nel 1978, quando aveva solo ventun anni. Ma è un bastardo dal cervello fino, molto scaltro, una vera volpe, e ha fatto presto carriera nel clan. Di tutte le persone che non hanno legami di parentela con la famiglia, è quello più vicino a Stefan, ed è il suo consigliere principale, specie ora che Stefan è praticamente un recluso. Suppongo che sotto molti aspetti Vamen sia il più pericoloso di tutti, perché è intelligente
quanto il vecchio Holtz, se non di più, ed è ancora relativamente giovane. Gli altri membri della famiglia non sono certo dei concorrenti per la successione. I due fratelli di Stefan sono morti entrambi: uno, Terry, per un attacco cardiaco dieci anni fa, mentre era in prigione; l'altro, Kas, è rimasto vittima di un incidente stradale l'anno scorso. E dei tre figli di Stefan, Tommy è in galera, Robbie non si interessa agli affari di famiglia, e Krys è troppo matto.» «Ho sentito parlare di Krys.» «Un vero serpente, molto peggio degli altri. Chiunque faccia parte della gang degli Holtz è violento, alcuni al massimo grado, ma in genere solo nel campo degli affari. Non sto dicendo che questo giustifichi la loro violenza, naturalmente, ma se non altro c'è una ragione a monte. Nel caso di Krys si tratta invece di gioia nell'infliggere dolore. È il tipo d'uomo che gode a strappare le zampe ai ragni, non so se mi spiego. In effetti, sotto molti aspetti è il loro anello più debole, sebbene la paura che ispira alla gente sia tale che non è mai stato accusato di niente. Nessuno testimonierebbe mai contro Krys Holtz.» «Pensa possibile che Neil Vamen sia il mandante dell'omicidio di Shaun Matthews?» «Sia realistico, John. Che prove ha sul suo conto? La parola di un morto.» «Il nome di Jean Tanner le suggerisce niente?» Malik scosse il capo. «Così su due piedi, no.» Rifiutai di cedere. «Non capisco perché McBride avrebbe raccontato una balla. Mi ha detto che era una cosa risaputa che Neil Vamen cornificava la moglie. Le risulta?» «Be', certamente è risaputo che Vamen ha delle amanti, ma, come qualsiasi altra cosa nella sua vita, gli piace tenerle il più segrete possibile. L'abbiamo messo sotto sorveglianza ogni volta che le nostre risorse ce lo permettevano, e l'abbiamo fotografato in compagnia di una schiera di donne diverse, ma per quel che ne so ne abbiamo identificate solo due, nessuna delle quali risponde al nome di Jean Tanner. Però riesaminerò tutte le informazioni che abbiamo in archivio al quartier generale e gliele manderò per e-mail, comprese le foto delle donne.» «Sono certo che chiunque abbia ucciso Matthews è anche responsabile dell'assassinio di Craig McBride, anche se Dio solo sa per quale motivo. Il livello dell'organizzazione suggerirebbe uno come Neil Vamen.» «Ma non ha granché in quanto al movente.»
«No. Non ancora.» «Qualsiasi cosa sia successa, Vamen non avrebbe mai inflitto la dose fatale, benché ci sia sempre la possibilità che possa essere il mandante degli omicidi. Tenga presente questo, però: non fa mai cose che possano attirare l'attenzione su di lui. Tutto sommato, a differenza di Krys, è prima di tutto un uomo d'affari. Una spietata carogna, lo ammetto, ma pur sempre uno che non rischia la sua posizione commettendo delitti avventati. E anche se c'entrasse in qualche modo, lei avrà vita dura a provarlo.» Annuii stancamente. Non era di certo la prima volta che sentivo un discorso del genere. «Lo so, lo so. Nessuno ha mai detto che sarà facile.» Infilzai con la forchetta un paio di patatine arrosto. «Mi farebbe anche comodo riuscire a scovare il capo di Matthews, Roy Fowler. Sapete niente sulla proprietà dell'Arcadia? Ho sentito che è amministrato dagli Holtz, ma non ho nulla di concreto.» Malik scosse il capo. «Non sappiamo niente di specifico. La quantità di società e imprese che usano come paravento è incredibile. È per forza così quando si hanno milioni di sterline da riciclare. Chiederò ai miei colleghi e vedrò se hanno sentito qualcosa, ma non si aspetti granché.» «Allora non avete alcun informatore all'interno della loro organizzazione?» Per la prima volta nel corso della conversazione, Malik parve assai cauto. «Queste sono informazioni riservate, John. Sono sicuro che capisce.» «Be', nel caso lo aveste, lo considererei un favore se potesse fare qualche domanda a questo proposito.» Malik disse che avrebbe fatto quel che poteva. «Mi dispiace se non sono stato molto d'aiuto» aggiunse con un timido sorriso. «Ci rimetto solo un pranzo» dissi. «E comunque sono venuto qui più carico di speranze che di aspettative. Ma se riuscisse a darmi queste informazioni sui soci di Vamen e sulle sue donne lo apprezzerei molto. Può darsi che le paghi perfino il caffè.» Malik sorrise. «È un'offerta che non posso rifiutare.» Ordinai un cappuccino per me e un espresso per lui, e la conversazione prese altre pieghe, principalmente su come andavano le cose al suo vecchio commissariato. Gli dissi che avevo l'impressione che non si stesse perdendo granché: Capper era sempre il solito figlio di puttana senza talento, Knox anelava ancora al ruolo di sovrintendente alle indagini e il gran capo dei capi era l'idiota di sempre. Ridemmo un po' di questo e di quello, e scoprimmo che andavamo parecchio d'accordo. Ben presto, però, Malik
cominciò a guardare l'orologio e mi disse che doveva andare. Ci alzammo contemporaneamente - io lo sopravanzavo in altezza di almeno dieci centimetri - e ci stringemmo la mano. «Buona fortuna con l'inchiesta, John» mi augurò «ma sia prudente. Gli Holtz, in particolare Neil Vamen, è gente da evitare come la peste. Se ci sono costretti, non si fanno il minimo scrupolo di sparare a un poliziotto.» Era proprio il genere di consiglio incoraggiante che serviva in un mercoledì pomeriggio. Mercoledì era il primo giorno di rientro di Berrin al lavoro dopo il suo estemporaneo attacco di influenza estiva. Era proprio per questo motivo che non gli avevo permesso di accompagnarmi a pranzo con Malik, incaricandolo invece di andarsi a rileggere le dichiarazioni dei testimoni. Non meritava un pasto decente a spese della polizia quando aveva trascorso gli ultimi tre giorni oziando a casa. Quel bastardo per giunta era anche abbronzato, la qual cosa mi insospettì. Quando nel pomeriggio tornai al commissariato stava interrogando un uomo che era stato trovato in possesso di valuta falsa per un valore di ottocento sterline. A quanto pareva non era disponibile nessun altro agente del CID, e la qualità delle banconote false aveva fatto ritenere opportuna la presenza all'interrogatorio di un agente in borghese. Mentre aspettavo che Berrin terminasse con le sue domande, feci una relazione scritta di quello che era emerso dal colloquio con Malik. Controllai anche la posta elettronica, ma Malik non aveva ancora mandato le informazioni che mi aveva promesso. Non rimasi affatto sorpreso. Era un tipo molto occupato e la cosa poteva aspettare, dal momento che, con ogni probabilità, non c'era niente di sconvolgente. La sala operativa quel pomeriggio era di nuovo immersa in un silenzio irreale, con me unica persona presente. La cosa mi fece provare dispiacere per Matthews in un modo che dubito si sarebbe mai meritato, ma c'era qualcosa di vagamente poco dignitoso nel modo in cui la sua morte stava progressivamente per essere dimenticata da chi aveva il compito di scoprire il suo assassino. Come se Shaun semplicemente non fosse abbastanza importante. Impugnai il telefono e composi il numero dello sfuggente ispettore Burley, aspettando di sentire scattare la sua segreteria come mi era successo nelle ultime due telefonate. Non aveva risposto all'invito di richiamarmi in entrambe le occasioni. Stavolta, però, fui fortunato. «Burley» ringhiò. Perfino al telefono aveva modi sgradevoli.
«Salve, signore» dissi, sforzandomi di fingermi il più educato possibile. «Sono il sergente Gallan.» «Di nuovo lei. Per cosa cazzo mi rompe i santissimi?» «Mi stavo chiedendo se avevate saputo qualcosa di Jean Tanner.» «Senta, gliel'ho già detto l'altro giorno, e l'ho ripetuto al suo capo: quando la troveremo ve lo faremo sapere.» «Che cosa state facendo, al momento, per trovarla?» domandai. «Che cosa vuole che faccia, che metta un annuncio sulla prima pagina del "Times"? Che faccia distribuire volantini porta a porta? Stiamo effettuando delle ricerche, ma non disponiamo di effettivi e di fondi illimitati, perciò ci vorrà del tempo.» «E che progressi avete fatto, finora?» «Ne avrei fatti molti di più se non avessi la segreteria telefonica intasata di messaggi da tipi come lei.» «Cazzo, se ci avesse permesso di aiutarla, tanto per cominciare...» «Non imprechi con me, Gallan» bofonchiò, ma ormai avevo messo da parte la cortesia. «Qualcuno la paga per arenare il caso? È per questo che se la prende così comoda?» «Pezzo di merda! Avrà mie notizie per quello che ha appena detto.» Riagganciammo entrambi quasi contemporaneamente, e io rimasi a fissare il telefono, domandandomi che cosa spingesse certe persone a entrare nella polizia. Nel caso di Burley probabilmente era il desiderio di rovinare la vita alla gente. Speravo che non protestasse formalmente con Knox, il quale non aveva la minima idea che stessi tampinando Burley. Subito dopo provai a chiamare tutti i recapiti telefonici di Roy Fowler, più per consuetudine che altro. Sapevo che non avrebbe risposto, e infatti non lo fece. Poi telefonai all'Arcadia e domandai all'uomo all'apparecchio se avessero notizie di Fowler, ma non ne avevano. Venne anche fuori che Elaine Toms si era licenziata, il che era vagamente interessante. Nessuno aveva il suo numero di casa, e non c'era alcun agente disponibile, cosicché mi ridussi a scartabellare l'elenco telefonico finché non lo trovai. Non era in casa; rispose un uomo che immaginai fosse il suo boyfriend o convivente. Mi presentai e chiesi se Elaine poteva richiamarmi. L'uomo mi domandò educatamente di che cosa si trattava e gli spiattellai la solita solfa sul fatto che era una faccenda di ordinaria amministrazione in merito a un'indagine. In verità, volevo scoprire perché avesse lasciato il locale e se ci fosse niente che voleva aggiungere alle sue precedenti dichiarazioni. Un
po' come cercare un ago in un pagliaio, ma se non si chiede, non si ottiene niente. Quando Berrin ebbe finito con il suo interrogatorio discutemmo sugli sviluppi del caso, ma non c'era nulla degno di nota da riferire. Verso le cinque, Elaine Toms mi richiamò. Sembrava più allegra ed era certamente molto più cortese dell'ultima volta che avevamo parlato, ma questo non cambiò il fatto incontrovertibile che non aveva proprio niente da aggiungere alle precedenti dichiarazioni. Un quarto d'ora dopo decisi che la giornata lavorativa era finita, e mentre uscivo mi imbattei in corridoio nell'agente investigativo Boyd. Non la vedevo da un paio di giorni poiché era stata trasferita al caso di stupro della ragazzina tredicenne e aveva il compito di fare da tramite con la vittima. Ero convinto che fosse un ruolo adattissimo a lei. Aveva la combinazione giusta di sensibilità e di forza. Ci fermammo a parlare per un minuto o due. Le chiesi come andava con il nuovo caso e mi disse che, come in tutte le aggressioni a sfondo sessuale, era un caso difficile, in particolare a causa della giovane età della vittima. «Sta sopportando abbastanza bene la cosa, considerato quello che ha dovuto subire» mi disse «ma è roba da spezzarti il cuore, John.» Mentre parlava, i suoi occhi si colmarono di sincera sofferenza, e non potei fare altro che confortarla dicendole che la giovane età avrebbe permesso alla ragazza di liberarsi del trauma di ciò che le era successo. Ma non ero convinto di crederci veramente. «Avete fatto qualche progresso con la pista dei veleni?» mi domandò. «No, ho dei dubbi che la cosa ci possa portare da qualche parte.» Avevo rilevato gli appunti di Boyd su ciò che aveva scoperto riguardo al veleno che aveva ucciso Shaun Matthews. Erano molto particolareggiati, ma non contenevano alcuna informazione preziosa. «A quanto pare hai analizzato l'argomento da ogni punto di vista» le dissi. «Ho sondato i più ovvii, ma sono sicura che mi è sfuggito qualcosa, un particolare che ci sfugge.» «Hai provato a cercare riscontri su Internet?» «L'ho fatto un paio di volte, ma quando inserisci le parole chiave nel motore di ricerca si ottengono centinaia di informazioni e di collegamenti del tutto irrilevanti. A volte penso che la rete sia sopravvalutata come mezzo di ricerca. E poi sai com'è qui al commissariato. Se cominci a navigare in rete tutti pensano che stai perdendo tempo e non lavori. Il luddismo è ancora presente nel CID.»
«Magari potrei provarci io a casa» dissi. «Tempo fa ho comprato un PC e non ho ancora trovato il tempo di usarlo.» «A chi lo dici» commentò. Stavo per chiederle se aveva tempo di andare a bere qualcosa quando Knox sbucò dall'angolo del corridoio. Sembrava agitato. «Ciao, Tina. Salve John.» Si fermò e mi prese per un braccio. «Ci devi scusare, Tina, ma ci sono novità nel caso Matthews. John, ho bisogno di parlarti. Urgentemente.» Mi accomiatai in fretta da Boyd e tornai sui miei passi, seguendo Knox. «Cosa c'è, signore?» «Le macchie nell'auto che abbiamo fermato l'altro giorno. Quella che ci avevi segnalato tu.» «Ebbene?» «Era sangue. E indovina di chi?» «Non saprei, signore.» «Nientemeno che di Mr Arcadia in persona: Roy Fowler.» Il sangue corrispondeva al campione che gli avevamo prelevato tempo addietro quando era stato arrestato per guida in stato di ebbrezza. «Bene, bene, bene.» Knox si girò e mi fissò con un'espressione di autocompiacimento. «Credo di sapere che cosa è successo» disse. Capper, Hunsdon e Berrin ci raggiunsero nell'ufficio di Knox nella sala operativa. Capper mi chiese com'era andata con Malik a pranzo. «Ha più saputo niente di Dennis Milne?» domandò con un sorriso sprezzante mentre afferrava una sedia e si sedeva. «Sì, ha ricevuto una cartolina da Milne qualche giorno fa» dissi, restituendo il sorriso. «A quanto pare ha aperto una pensione a Bournemouth. Dice che fa sconti agli agenti del CID e ai pensionati.» Capper non trovò granché divertente la battuta. Sapeva che il suo tentativo di farsi bello agli occhi di Knox, per quanto patetico, gli si era ritorto contro, ma non disse nulla. Hunsdon sbadigliò. «Bene, signori» esordì Knox, dando inizio alla riunione. «Ci sono novità importanti.» Knox spiegò che cos'era successo a beneficio di Capper e Hunsdon, prima di abbandonarsi a busto rigido contro lo schienale della poltroncina. Ci fu un momento di silenzio mentre la novità veniva digerita da tutti. «Questo è come un sasso nello stagno» commentò Capper, sospirando
teatralmente. «Ecco la mia teoria» disse Knox, guardandoci uno per uno a turno per ottenere il massimo effetto mentre parlava. «Fowler ha fatto uccidere Matthews. Ha usato il veleno per farlo sembrare un incidente, ma ovviamente non si è reso conto della facilità con cui avremmo scoperto la causa del decesso. Ecco perché non credo sia stata opera di criminali professionisti. Questi gli avrebbero semplicemente sparato. Il movente di Fowler è stato la droga. Sappiamo che all'Arcadia si spacciava in quantità abbastanza considerevoli; sappiamo anche che era Matthews a dirigere il traffico, e siamo quasi certi che Fowler fosse l'organizzatore. Suppongo che Matthews stesse fregando Fowler, che lui l'abbia scoperto e si sia vendicato. «Ma penso che Matthews avesse un socio d'affari, un suo complice nello spaccio di stupefacenti, e che questa persona sia Max Iversson. Lui e Matthews sono entrambi ex militari, appartenevano allo stesso reggimento, e verrà fuori ben presto che si conoscevano. Iversson ha scoperto il delitto di Fowler e ha deciso di vendicarsi. Può darsi che l'abbia semplicemente aggredito, ma è più probabile che l'abbia ucciso, e di conseguenza si è reso uccel di bosco.» «Sembra plausibile» disse Capper, annuendo. Non ne ero affatto convinto. Dato che non c'era la benché minima prova che Iversson e Matthews si conoscessero, la teoria di Knox si fondava su una quantità di supposizioni. «E McBride?» domandai. «Cosa c'entra in questa storia? E che ruolo hanno avuto gli Holtz?» «Devo ammettere che non lo so» rispose Knox. Se non altro era sincero. «McBride potrebbe essere tutta un'altra storia. E per quanto riguarda gli Holtz, stento a credere che sarebbero ricorsi a un veleno rarissimo e chiaramente rintracciabile per sbarazzarsi di un concorrente.» «Giusto» dissi, perché non aveva tutti i torti. Non me la sentivo ancora di condividere la sua versione, ma era difficile mettere in dubbio la logica del ragionamento. Per un gangster, un avvelenamento era un modus operandi molto strano. «Comunque, ora la cosa più importante è trovare Max Iversson e sentire che cos'ha da dire a sua discolpa. La sua descrizione dovrà essere distribuita alle altre forze di polizia, insieme alla foto segnaletica di cui disponiamo.» Knox si rivolse a Hunsdon. «Paul, di questo te ne occupi tu, d'accordo?» Hunsdon assentì. «La prossima puntata di Crimewatch sarà trasmessa mercoledì, e voglio che nella sezione latitanti ci sia una foto di Iversson.
Questo dovrebbe farci avere qualche esito positivo nelle ricerche. Inoltre farò richiesta di un mandato di perquisizione per l'appartamento di Fowler.» Knox si rivolse a Capper. «Phil, tu e Paul buttatelo all'aria e vedete cosa riuscite a scoprire. Contemporaneamente, cominciate a indagare a fondo sul passato di Fowler, e tirate fuori qualche indizio. So che è lui la chiave di tutto.» Poi Knox squadrò Berrin e me. «John, c'è qualcosa che puzza nella Tiger Solutions, o come diavolo si chiama. Potrebbe trattarsi solo di una coincidenza, ma la persona scomparsa, Eric Home, lavorava per loro e non è ancora rispuntato all'orizzonte. Dico bene?» «Che io sappia, no, signore. Ieri ho parlato con la sua ex moglie e non si è ancora fatto sentire. Era piuttosto preoccupata.» «Non so come abbiamo fatto a non accorgerci subito che lui e Iversson lavoravano per la stessa agenzia. Comunque, tu e Dave tornate là, rosolate titolare e collaboratori, in particolare il socio di Iversson, e fatevi dare delle risposte. C'è sotto qualcosa di losco e voglio scoprire di che cosa si tratta.» La pensavo esattamente allo stesso modo. Speravo che la teoria di Knox fosse esatta, perché in caso contrario ci restavano in mano decine di tessere di un mosaico che con il passare dei giorni sembrava farsi sempre più complicato. PRESENTAZIONE DI KRYS HOLTZ Krys Holtz era ben consapevole che una dimostrazione di debolezza, una qualsiasi, distruggeva inevitabilmente l'autorità di un uomo. Bisognava essere forti. Bisognava spezzare le reni al bastardo che si aveva di fronte e mettere a tacere ogni sua fottuta implorazione di pietà, per quanto a gran voce. Dopo tutto, se qualcuno non faceva dei torti a Krys, non aveva niente da temere. Erano solo gli stronzi a prendersi delle fottute libertà per le quali dovevano poi pagare per forza un prezzo, e il prezzo era sempre giustificato. Potevano strillare, strepitare e implorare come cazzo volevano. Potevano pisciarsi nei pantaloni, perfino farsela sotto (a qualche bastardo succedeva anche quello), ma non avrebbe mai fatto la benché minima, fottuta differenza, perché se avesse lasciato andare quel figlio di puttana, dandogli una pacca sulla testa e dicendogli di non fare più il cattivo, un sacco di stronzi si sarebbero messi in fila per fargli le scarpe, e questo non sarebbe mai dovuto accadere. Per nessuna fottuta ragione.
«Andiamo per gradi. Ammetti di aver preso quel fottuto denaro. Tanto lo so che l'hai fatto, perciò non c'è alcun fottuto vantaggio a fingere il contrario. Ci siamo?» Il suo interlocutore in questo caso era Warren Case, titolare dell'Elite A nonché fornitore dei buttafuori all'Arcadia, che in quel momento era legato a un vecchio e sudicio letto nel cavernoso laboratorio di Krys. Era nudo con le braccia e le gambe divaricate, polsi e caviglie strettamente legati, e molto, molto spaventato, ma questo non era per niente sorprendente dato che faceva parte della gang degli Holtz da quasi dieci anni e perciò sapeva benissimo com'era fatto Krys. «Ti prego, Krys» piagnucolò «non ho fatto niente, lo giuro.» Krys sghignazzò. E così fecero gli altri tre sgherri riuniti intorno al letto: Big Mick, Fitz e Slim Robbie. «Sapete una cosa, ragazzi» disse Krys, scuotendo la testa «questo coglione mi prende per scemo. Cazzo, ho forse scritto in fronte "idiota" o qualcosa del genere?» «No, capo» lo rassicurò Fitz, anche se non era necessario. «Oh, Dio, Dio... Ti prego, per favore...» Case era grande e grosso, e con una reputazione da duro, ma in quel momento sputava le parole talmente in fretta che nessuno in effetti capiva cosa stesse dicendo. Non che qualcuno lo stesse a sentire. Ormai era troppo tardi. «Perché non lo torturi, Krys?» suggerì Slim Robbie volenterosamente, studiando il volto sudato e stravolto dal panico del prigioniero. «Buona idea, Rob. Potrei proprio farlo. Ci risparmierà un sacco di tempo e, in questo caso, sarà pure una vera goduria.» Case si dibatté, tentando di strappare le cinghie, ma era legato troppo bene: le cinghie erano così strette da non permettere il minimo movimento. «Ti scongiuro, Krys. Non ho fatto niente. Davvero. Te lo giuro sulla testa dei miei figli...» Krys parve leggermente contrariato da quest'ultima affermazione. «Sulla testa dei tuoi figli? Cazzo, che brutta cosa da dire, Warren, specialmente dal momento che sei colpevole. Non capisco perché non vuoi essere sincero e ammetterlo. Voglio dire, tanto prima o poi te lo facciamo sputare. Perché non ci risparmi la fatica?» Ma Case continuò a protestarsi innocente con toni disperati. Questo irritò enormemente Krys. Gli rammentò di quella volta con Jon Kalinski. Sino alla fine quel fottuto bastardo aveva giurato e spergiurato di non aver mai sottratto un solo penny dalle tasche di Krys, quando in realtà gli aveva fregato qualcosa come duecentomila sterline fra contanti e diamanti. E Krys
gli aveva pure creduto per un mucchio di tempo - quel fetente dalla parlantina facile - ma alla fine aveva riso per ultimo, costringendo Kalinski ad assistere allo sgozzamento della sua ragazza e a vederla morire dissanguata, dicendogli di essere paziente, perché presto sarebbe stato il suo turno. Ripensandoci, anche Kalinski se l'era fatta addosso. Un fetore terribile. Tutta liquida, per di più. Certe persone non hanno proprio rispetto di sé. Krys decise che con Case era arrivato il momento di lasciar perdere le buone maniere e di adottare misure un po' più drastiche. Prese un grembiule sporco dalla sedia accanto e lo indossò in modo molto teatrale, ignorando gli uggiolii di Case. Indossato e allacciato il grembiule, si diresse verso la rastrelliera degli attrezzi dove un vasto assortimento dei più disparati aggeggi copriva quasi per intero una parete tutta lercia e umida. Si fermò davanti alla rastrelliera, osservò per qualche secondo che cosa c'era in offerta, e scelse il suo trapano elettrico Bosch 3960K a batterie, uno splendido esempio di tecnica e affidabilità tedesca, di gran lunga superiore all'equivalente modello della Black & Decker. Era stato un regalo di compleanno della sua cara e vecchia mammina, una cosa che gli piaceva utilizzare solo in occasioni speciali. Dopo averlo estratto dalla pratica custodia di plastica a valigetta, Krys impiegò un certo tempo nella scelta di una punta adatta, optando alla fine per una lucente punta da otto millimetri. Dopo tutto, voleva evitare qualsiasi fatalità accidentale. Non prima di aver scoperto quello che voleva sapere. Poi, era tutto da vedere. Infilò la punta nel mandrino e strinse quest'ultimo con la chiave a tronco di cono, godendosi lo stridore metallico degli ingranaggi. Accese il trapano e premette ripetutamente, in rapida successione, il pulsante. Il prigioniero nudo sul letto si dibatté di nuovo; lacrime di frustrazione e di terrore sconvolgente gli rigavano le guance. «Non fa una bella impressione, eh, Warren? Tecnica e precisione teutonica al massimo grado. Vorsprung durch technik e via dicendo. Questo affarino fora il cemento come se niente fosse, e con pochi grammi di pressione. Non come i suoi concorrenti più a buon mercato e meno efficienti. Perciò pensa con quale facilità può perforare la carne umana. La tua carne.» Mentre parlava, Krys si accostò al letto fino a torreggiare sul prigioniero, e fissò sotto di sé la faccia di Case scolpita dalla paura. «Ti prego, Krys, te lo giuro. Non ho mai, mai e poi mai cercato di fotterti. Non ti ho mai fregato, non ho mai preso niente che non mi fosse dovuto. È la verità. Ti prego, per amore dei miei figli. Non farmi del male.» «Ammettilo, Warren. Non devi fare altro. Ammetti di avermi fregato i
miei fottuti soldi e forse, dico forse, ti lascerò andare.» Krys mise di nuovo in funzione il trapano. «Ma Krys... non ho fatto niente... non ho fatto niente. Ti prometto che...» Krys abbassò l'attrezzo sulla faccia di Case, perforandogli brutalmente una guancia. Spruzzi di sangue gli impiastricciarono il viso e il materasso incrostato di sporco. Alcuni schizzi imbrattarono il grembiule di Krys. Questi continuò a trapanare la guancia per qualche secondo per fare un bel macello, stando attento a non spingere troppo a fondo per non danneggiare la lingua, dopodiché lo estrasse dalla ferita, portandosi dietro un brandello di carne. Spense il trapano, rimosse il brandello di carne attorcigliato sulla punta elicoidale e lo buttò in faccia a Case. «Questa è tua» disse come se niente fosse. Case tossì e si ingozzò mentre la bocca gli si riempiva di sangue. Riuscì a girare un po' la testa e ne sputò la maggior parte sul cuscino. Poi vomitò uno strano liquido rosa. «Ooh, ma è orribile» esclamò Fitz, tentando di arricciare il naso schiacciato da pugile. Krys sogghignò. «Cazzo, mi sto solo scaldando.» Si rivolse a Big Mick e gli ordinò di alzare un po' il volume della radio. «Mi sa che tra poco qualcuno urlerà mica da ridere.» Qualche secondo dopo, la musica di Take on Me degli A-ha, un gruppo pop-rock norvegese degli anni Ottanta, giunse allegramente in media frequenza. Case smise di vomitare e guardò in direzione di Krys con occhi sbarrati e imploranti. Aprì la bocca per dire qualcosa, forse per fare una confessione, ma Krys non era disposto a rinunciare alla vendetta. Quel figlio di mignotta aveva resistito, aveva avuto la sua occasione ma si era rifiutato di coglierla al volo, e adesso l'avrebbe pagata cara. Non l'avrebbe scampata. Per nessuna fottuta ragione. Krys balzò sul letto, un po' urlando e un po' sghignazzando, e con il trapano perforò il ginocchio sinistro della sua vittima stesa supina. Ci fu un momento di caparbia resistenza, mentre Krys si applicava per produrre un foro decente, ma poi ci prese la mano e la punta perforò l'osso, penetrando come i nazisti in Polonia, nel trionfo della propria efficienza. Krys fu costretto a voltarsi quando i frammenti di carne e di osso volarono ovunque. Le urla strazianti di Case erano talmente acute da coprire i vocalizzi di Morton Harket, l'ex rubacuori norvegese; ma in fin dei conti quel fighettino non aveva mai avuto una voce potente. Alla fine la punta da otto millimetri passò da parte a parte il ginocchio e
forò il materasso sottostante. Krys la estrasse, con un fremito quasi di eccitazione sessuale che lo percorse risalendo dall'inguine al collo. Si interruppe un momento per liberare la sensazione, poi si avventò sull'altra rotula come un lupo famelico sopra una preda appena uccisa, perso nel rumore e nel sangue. Dopo la nuova perforazione, Case aveva perso i sensi e gli A-ha erano stati sostituiti dai Mercury Rev, un gruppo rock americano di tendenza. Krys pensò che preferiva i norvegesi, principalmente perché la canzone trasmessa gli rammentava la sua gioventù. Era sicuro di ricordare una volta in cui si era scopato una ragazza con Take on Me in sottofondo. "Prendimi", diceva la canzone, e lui se l'era fatta, la puttanella. Proprio così, cazzo. «Svegliatelo» disse Krys, osservando sotto di sé il sangue che gocciolava sul letto. Fitz mise sotto il naso di Case un flacone di sali. Sulle prime parvero non fare granché, ma poi Case cominciò a tossire e a gorgogliare, e riaprì gli occhi. «Oh, Dio» riuscì a dire, poi li chiuse di nuovo. Krys pulì la punta del trapano con un fazzoletto e notò che qualche schizzo di sangue gli aveva sporcato i jeans. Questo lo irritò ulteriormente. Quella testa di cazzo di Case non aveva ancora pagato abbastanza. Non era certo colpa sua se quel fottuto cocco di mamma sveniva invece di sopportare da uomo la sua punizione. Girò intorno al letto, premette di nuovo il pulsante d'accensione del trapano a batterie e poi affondò la punta rotante nell'altra guancia di Case, stavolta spingendo a fondo e rigirandola un po' all'interno prima di estrarla. Questa volta Case non urlò affatto, limitandosi a girare la testa da un lato all'altro, alternando gemiti e colpi di tosse. «E allora, mi hai fregato i soldi, Warren?» Nessuna risposta. Case non aprì neppure gli occhi. In compenso ricominciò a vomitare. Krys si rabbuiò in viso. «Ho detto: mi hai fregato la droga?» Poi, più forte: «Mi hai fottuto i soldi sì o no, brutto figlio di puttana? Sì o no? Parlo con te, testa di cazzo, pezzo di merda, rispondimi!». Poi l'ira ruppe gli argini come un mare in tempesta e, con la faccia scolpita da una smorfia implacabile, Krys Holtz affondò la punta del trapano nell'occhio sinistro di Case, proprio nel momento in cui l'annunciatrice del bollettino meteorologico segnalava l'arrivo di un acquazzone. Più tardi, mentre stavano bevendo birra e domandandosi se fosse il caso di chiamare un dottore o di rappezzare da soli quello che era rimasto di Case, a un tratto Slim Robbie fece un'osservazione interessante. «E se a-
vesse detto davvero la verità e non ti avesse fregato?» Krys fece spallucce. «Vaffanculo. Quella testa di cazzo non mi è mai piaciuto comunque.» GIOVEDÌ, DIECI GIORNI FA Gallan «Sta diventando un po' troppo frequente per non impensierirmi» disse Joe Riggs con un vago sorriso mentre ci faceva strada nel caos degli uffici della Tiger Solutions e ci guidava in una saletta sul retro, dove le finestre sulla strada erano completamente spalancate e un ventilatore da tavolo tentava invano di disperdere un calore da forno. Un quarto alle undici e faceva già un caldo boia, l'ultimo urrà dell'ondata di afa prima dei previsti temporali. Riggs uscì un attimo e portò dentro un'altra sedia per Berrin, quindi prese posto dietro la piccola scrivania in disordine, di fronte a noi. A differenza della nostra ultima visita, non ci chiese se desideravamo qualcosa da bere. «Prima della settimana scorsa non avevo mai ricevuto in vita mia una visita della polizia. E come di sicuro saprete ho una fedina penale immacolata. E ora tre volte nell'arco di cinque giorni.» Non sembrava particolarmente preoccupato, solo un po' curioso circa il motivo per cui eravamo tornati. «Il nome della sua agenzia e quello di alcuni suoi collaboratori continuano a emergere dalle nostre indagini» ribattei, restituendo il sorriso con una punta di sarcasmo. Tutto era giocato sul massimo della cortesia e della buona creanza. Riggs era un tipo con una stazza da taglialegna e muscolosissime braccia tatuate. Aveva baffi folti e un vago accento rurale delle Home Counties, e sembrava in tutto e per tutto un soldato. Non necessariamente un ufficiale, come sapevo era stato, perché non ne aveva né i modi né le arie, ma comunque un soldato. Suppongo che le donne lo trovassero piuttosto attraente, per quanto un po' grezzo. Era l'incarnazione dello sportivo, sempre all'aria aperta. Aveva anche un'espressione franca e diretta, sebbene da poliziotto sapessi che non voleva dire un bel niente. «Dunque, in che cosa posso esservi utile stavolta?» «Si tratta del suo socio, Mr Iversson.» «Non l'avete ancora trovato?»
«Devo dedurre che non ha avuto sue notizie?» interloquì Berrin. «Deduce bene. E non ho neppure idea di dove sia, tanto per anticipare la domanda. Non lo sento da giovedì scorso. Avrebbe dovuto venire in ufficio venerdì, ma non si è presentato. Ha telefonato per dire che si sentiva poco bene ed è stata l'ultima volta che l'ho sentito.» «Fornite servizi di sicurezza, vero?» dissi. «Guardie del corpo per persone famose e gente d'affari.» «Esatto, come le ho detto io stesso quando ci siamo visti lunedì.» «Non fornite mai buttafuori?» Riggs scosse la testa. «No.» «Perché no? Avrei pensato che fosse un settore redditizio. Ci sono un'infinità di bar, discoteche e locali notturni, e un mucchio di guai a cui far fronte.» «Per questo genere di servizi esistono agenzie specializzate.» Annuii. «Ho sentito.» «Senza offesa, Mr Gallan, ma devo sbrigare un sacco di lavoro. In particolare adesso che Max è sparito dalla circolazione. Perciò, se aveste la cortesia di informarmi sul motivo di questa visita, ve ne sarei grato.» «Conosce un certo Shaun Matthews?» domandò Berrin. Riggs scosse il capo. «Mai sentito nominare.» «E un certo Roy Fowler?» domandai, ed ebbi la sensazione di cogliere un lampo fugace di riconoscimento nei suoi occhi, per quanto non potessi esserne sicuro al cento per cento. «No, né l'uno né l'altro.» Si abbandonò contro lo schienale della poltrona e incrociò le braccia. «Penso di aver il diritto di sapere cos'è questa storia. Dico bene?» «Abbiamo trovato una macchia di sangue appartenente a Mr Fowler sul sedile posteriore dell'auto di Mr Iversson. Ecco perché.» «Davvero? Siete sicuri?» Gli indirizzai un'occhiata che diceva: "Certo che sono sicuro, altrimenti non sarei qui a parlarne". «È solo che non ho mai sentito parlare di questo tizio, e non mi sembra affatto una cosa da Max. Voglio dire, è un tipo tosto, non lo nego, ma non è un assassino.» «Come sa che Mr Fowler è stato assassinato?» Riggs mi fissò con un'espressione moderatamente scocciata, la prima volta in entrambi i miei incontri con lui in cui non sembrava disposto a collaborare. «Non lo so» replicò con fermezza. «È solo una supposizione. Ma una macchia di sangue sul sedile di un'auto... non promette niente di buono, no?»
«Eppure è ancora convinto che Mr Iversson non sia capace di uccidere?» disse Berrin, alzando gli occhi dal taccuino. «Non rientra certo nel suo carattere» rispose Riggs in tono annoiato. «Ma in fin dei conti non è nemmeno da lui prendere a spintoni un agente di polizia.» «Di recente si è mai comportato in modo strano?» domandai. «In che senso?» «In un senso che suggerisca che qualcosa possa averlo turbato.» «Siamo soci d'affari, ma in questi ultimi tempi non ci frequentiamo molto al di fuori del lavoro, e di certo non parliamo più come facevamo in passato. Direi che per un certo periodo siamo stati ottimi amici, ma paradossalmente da quando siamo in affari ci siamo un po' allontanati. Di recente non ho notato comportamenti fuori della norma da parte sua, ma non sono sicuro di aver notato se ci fosse qualcosa che lo turbava. È sempre stato piuttosto freddo e riservato. Uno bravo a tenere nascoste le proprie emozioni.» Parlammo per altri dieci minuti. Berrin e io cercammo di estorcergli qualche movente che Iversson poteva avere per uccidere Fowler, ma Riggs non seppe, o non volle, fornirci ulteriori informazioni. Secondo lui Iversson era una persona del tutto normale, assolutamente equilibrata, non certo il tipo da farsi coinvolgere in situazioni rischiose. O peggio, anche solo parlarne. «Ha più saputo niente di Eric Horne?» domandai alla fine. «Niente» rispose Riggs. «Un bel cazzo di niente.» «Allora non crede che c'entri in qualche modo in tutto questo?» domandò Berrin. «In tutto questo che cosa?» ribatté Riggs. «Non vedo Eric da due settimane, forse di più. Molto prima che Max scomparisse. Scusate, ma non posso aiutarvi più di quanto non abbia già fatto.» Mi alzai dalla sedia e Berrin mi imitò. «Bene, grazie per il tempo che ci ha accordato, Mr Riggs. Se Max Iversson dovesse mettersi in contatto con lei le suggerisco vivamente di convincerlo a costituirsi. Perché lo stiamo cercando, e prima o poi lo beccheremo. E più a lungo resta latitante, più ci convinceremo che è responsabile della scomparsa di Roy Fowler, e forse peggio.» «Lo farò» disse Riggs, accompagnandoci alla porta. «Non voglio che si metta nei guai più di quanto non abbia già fatto.»
Quando fummo di nuovo per strada, in cammino lungo Holloway Road in direzione di Highbury Corner, Berrin confessò che Riggs non l'aveva del tutto convinto. «Mi ha ricordato il modo di fare di Fowler la prima volta che l'abbiamo interrogato. All'apparenza dispostissimo ad aiutarci, ma in realtà per nulla incline a dirci qualcosa che possa servire.» «No, lo so.» «Inoltre penso che stesse mentendo. È stato bravissimo, ma sono convinto che ci abbia preso in giro alla grande. Specialmente quando si è lasciato sfuggire l'accenno all'omicidio.» «Allora, credi che sappia che cosa è accaduto a Fowler?» Berrin annuì, riflettendoci sopra. «Ne ho avuto decisamente l'impressione. Lei che ne pensa?» «Be', penso che ogni volta che parliamo con qualcuno di questo caso mi sembra di sbattere il grugno contro un muro di mattoni. Nessuno è disposto ad aiutarci, o è nella condizione di poterlo fare, e non c'è uno straccio di prova che possa aprire uno spiraglio nell'indagine. Penso che sia arrivato il momento di tentare un nuovo approccio.» «Che tipo di nuovo approccio?» «Non lo so con certezza» dissi, ma cominciavo ad avere un'idea. Iversson Ero a letto con Elaine quando squillò il telefono. Erano le due e cinque del pomeriggio e stavamo facendo una breve sosta nel bel mezzo di una di quelle maratone sessuali che si fanno quando si incontra una donna di cui si è proprio presi e si ha ancora l'energia per combinare qualcosa. A onor del vero, era tutta la settimana che andava avanti così. Uno spasso pazzesco, certo, ma alcune parti di me cominciavano a sentire la fatica. Ero assolutamente svuotato e prosciugato di ogni energia virile, e ancora un tantino ansimante dopo l'ultimo round quando Elaine rispose al quarto squillo e mi passò il ricevitore. «Joe» disse. «Salve, Joe, da dove stai chiamando?» «Da una cabina di Tufnell Park, impossibile da rintracciare. Ho trovato due soci interessati all'accordo, uomini di cui credo ci si possa fidare.» «Hai fatto in fretta.» «Mi è venuta un'idea luminosa su chi cercare.» «Ah, sì?»
«Sì. Vedi, un sacco di gente ce l'ha a morte con il nostro uomo. Succede sempre così quando non si fa altro che imporre le proprie pretese e far inviperire la gente.» «Allora, chi sono?» «Ricordi che ti ho parlato di quel gioielliere, Kalinski, e dei suoi traffici con il nostro uomo? Quello finito mangiato dai vermi con la sua donna? Suo fratello Mike in passato ha partecipato a diverse rapine a mano armata, ha fegato e soprattutto cova vendetta.» «Sei sicuro che sia una buona idea impiegare gente che non conosciamo?» «Ho saputo da fonti sicure che è un tipo affidabile. Poi è avido. Inoltre hanno fatto a pezzi suo fratello, a cui era molto legato. Mi pare che siano motivi più che sufficienti.» «Giusto. E l'altro chi è?» «Iain Lewis. Te lo ricordi?» «Cristo, sì. Pensavo fosse morto.» «È vivo, in ottima salute e a corto di denaro.» Iain Lewis, "Tugger" per gli amici, per un motivo che era meglio non approfondire. Era un Geordie - originario del Nordest dell'Inghilterra -, ex marine ed ex mercenario, che aveva prestato servizio con me e Joe in alcune delle nostre avventure più esotiche, ed era stato ferito in Bosnia durante un combattimento contro le truppe serbe nei primi anni Novanta. Sarebbe stato utile in quel genere di operazione, perché il potenziale calibro degli avversari non l'avrebbe spaventato. «Dove abita, adesso?» «A Swansea, tanto per cambiare, ma sarà qui domani. Tu a che punto sei con i preparativi? Hai già parlato al tuo amico Johnny?» «L'ho visto ieri sera. È già dei nostri. Gli ho sganciato cinquecento bigliettoni per le spese e si occuperà di trovare gli automezzi. Siamo rimasti d'accordo che mi avrebbe chiamato più tardi.» «Ma è all'oscuro dei bersagli?» «Non sa nulla.» «Bene. Hai dato un'occhiata a qualche luogo di rifugio?» «Ieri sono andato in macchina nell'Essex e ho consultato un paio di agenzie immobiliari.» «Che copertura hai usato?» «Ho detto di essere uno scrittore in cerca di una casa in un bel posticino isolato per poter finire il mio primo romanzo in santa pace e nella tranquil-
lità che mi serve. Ho detto che si tratta di un giallo.» Sentii Joe sospirare all'altro capo del telefono. «Senti, c'è un problema. La polizia è risalita a Fowler dalla macchia di sangue sul sedile dell'auto.» Era una pessima notizia. «E allora?» dissi con noncuranza, ansioso di non allarmare Elaine. «E allora adesso sei ufficialmente ricercato, anche se non hanno ancora alcun indizio su quello che è successo. Se chi ti affitta la casa vedesse da qualche parte la tua foto segnaletica, la nostra impresa sarebbe in pericolo.» «Non preoccuparti, portavo gli occhiali e ora ho una discreta barba, perciò anche per il miglior fisionomista non sarà per niente facile fare dei collegamenti.» «È ancora troppo rischioso, Max. Non sei certo un maestro nei travestimenti.» «Pensavo di essermi trasformato piuttosto bene.» «Sono sicuro che non stavi male, ma d'ora in avanti preferirei soprassedere su questo aspetto. Ti hanno fatto vedere qualcosa di adatto?» «C'erano due alternative che mi sono piaciute. Una si libererà la settimana prossima e l'altra lo è fin da ora. Sono entrambi casolari di campagna. Ho detto che avrei richiamato, ma che prima volevo valutare le offerte insieme a te. Per vedere le tue preferenze.» «D'accordo, verrò da te a prendere i dépliant, poi sarà meglio che prenoti io la casa. Mi servirà un po' del denaro che ti ho dato.» «Nessun problema. Vieni adesso.» Elaine fece una smorfia di disappunto. Forse non aveva ancora finito con me. Ancora un po' e sarei stato costretto a metterle del bromuro di nascosto nel tè. «Sarò lì fra un'ora» disse Joe. «Un'ultima cosa» aggiunsi «prima che tu parta. Gli attrezzi che ci serviranno per il lavoretto...» «Ho quanto serve. Non preoccuparti.» «Ci vediamo fra un'ora, allora.» Riagganciai e mi costrinsi a sorridere a Elaine. Stavo cercando di digerire la notizia che adesso ero sospettato di omicidio. Un motivo in più, pensai, per assicurarsi che tutto filasse liscio come l'olio con il sequestro Holtz. Elaine si alzò a sedere sul letto e accese una sigaretta. «Dunque le cose si sono messe in moto, eh?» domandò. «Procede tutto per il meglio» dissi, ma forse non ero stato molto convin-
cente. «Ma?» Che cos'hanno le donne? Riescono sempre a leggere fra le righe e ad annusare le bugie. Le feci un breve resoconto della conversazione telefonica con Joe, accennando anche al fatto che la polizia mi aveva inserito ufficialmente nella lista dei ricercati. «Che cosa hai intenzione di fare?» Scrollai le spalle. «Veramente non è che possa fare molto. È una rottura averli alle costole, ma raddoppierò le precauzioni. Di più non posso fare. È ancora troppo poco perché possa rovinare i nostri piani.» «Sei ricercato per omicidio, Max, non per delle multe non pagate. Perciò faranno il possibile per trovarti.» Annuii. Aveva ragione. «Starò attento, non ti preoccupare.» Tirò una boccata dalla sigaretta e soffiò il fumo verso il soffitto. «Che intenzioni hai dopo che tutto sarà finito?» «Andrò all'estero per un po'. Conosco un tizio che fornisce passaporti falsi praticamente perfetti, e disporrò pure di ampie risorse finanziarie, perciò me la caverò senza problemi. In ogni caso tutto si sgonfierà nel giro di pochi mesi. I piedipiatti non hanno nessun'altra prova contro di me nel caso Fowler e non troveranno mai il corpo, se gli Holtz se ne sono occupati da par loro, perciò l'inchiesta finirà nella polvere tra i casi non risolti. Quando le acque si saranno calmate tornerò a Londra e dichiarerò la mia completa estraneità ai fatti.» «E per quanto riguarda me?» domandò Elaine. Ci pensai su un momento. «Vuoi venire con me? Saremo entrambi ricchi e qui non c'è più niente che ti trattenga.» Potevo anche conoscere Elaine da pochi giorni, ma a volte si può proprio dire se una certa donna è giusta per te. Mio padre e mia madre si fidanzarono dopo due settimane soltanto, perciò era evidente che le turbinose storie romantiche erano una tradizione di famiglia. I miei genitori erano anche stati insieme quasi cinque anni. Non che fantasticassi di restare di nuovo impigliato in un matrimonio. «Lo desideri anche tu?» domandò, con espressione seria. In quel momento capii che provava i miei stessi sentimenti. A volte con Elaine era difficile capirlo. Di tanto in tanto dava l'impressione di essere un po' distaccata, e in più di un'occasione mi ero ritrovato a domandarmi se forse non stessi approfittando troppo a lungo dell'accoglienza. Annuii. «Sì, certo che lo voglio.» «Hai in mente un posto preciso?»
«A parte la Sierra Leone, va bene tutto.» Elaine sorrise. «Che ne dici delle Bermuda? Ho sempre fantasticato di andarci.» Alzai le spalle, pensando che chiunque dica che il denaro non compra la felicità si sbaglia di grosso. «Okay, vada per le Bermuda.» «Allora dobbiamo festeggiare. Ti va una birra?» Che cosa c'è di meglio nella vita? Una bella donna nuda con un diavoletto tatuato sul suo bel culetto che si offre di andare a prenderti una bella birra fresca mentre te ne stai spaparanzato nel suo letto. «Sì, molto volentieri» dissi, mettendomi comodo e accendendomi una sigaretta. Osservai Elaine uscire dalla camera da letto leggera come una ballerina, pensando che di lì a una settimana esatta o sarei stato l'uomo più felice della terra o sarei morto. E in quest'ultimo caso niente avrebbe più avuto importanza. La posta in gioco era alta, certo, ma non è forse sempre così? Era proprio questo che rendeva tutto più entusiasmante. Ricordai una frase pronunciata da qualcuno una volta quando ero in Africa. Era stata detta da un generale francese ai suoi soldati nell'Ottocento, mentre stavano difendendo una città dagli inglesi. "Il nemico ha forze nettamente superiori e punta su di noi da tre lati. Ben presto l'accerchiamento sarà completato. Il nostro fianco destro sta per cedere, le perdite sono pesanti, le nostre truppe sono in ritirata. Situazione perfetta. Attacchiamo." Ed è proprio così. Metà della gioia sta nell'affrontare difficoltà superiori e vincere. Potevo anche essere convinto di desiderare una vita tranquilla, ma alla fine, come tutti i veri soldati, bramavo la chiamata alle armi. Molto meglio, visto anche che alla fine si prospettava una pentola piena d'oro che mi avrebbe sistemato per tutta la vita. Quando Elaine tornò con le birre, avevo stampato in faccia un sorriso grande come la Cina. VENERDÌ, NOVE GIORNI FA Gallan Venerdì rimasi in tribunale tutto il pomeriggio per fornire alla corte le prove in un caso di pedofilia. L'imputato era stato accusato di molestie sessuali nei confronti di bambini nella piscina coperta che aiutava a gestire per i ragazzi dei quartieri degradati, economicamente impossibilitati ad ac-
cedere ad associazioni e centri sportivi. Era un caso su cui avevo lavorato alcuni mesi prima, ma è risaputo che gli ingranaggi della giustizia girano con lentezza esasperante. Nel corso della mia deposizione, l'avvocato della difesa mi torchiò il più possibile approfittando del fatto che le prove mediche erano assai limitate e che la maggior parte delle accuse contro il suo cliente si basavano unicamente sulle dichiarazioni verbalizzate dei ragazzi coinvolti nella vicenda, diversi dei quali con gravi difficoltà di apprendimento, che potevano facilmente aver mentito. Ma io non sono il tipo che si lascia intimidire e resistetti con fermezza, dissimulando a malapena il disprezzo che provavo nei confronti dell'uomo che avevo di fronte. L'imputato aveva già tre precedenti penali per lo stesso tipo di reato - non che la giuria ne fosse a conoscenza -, perciò, per quanto ne capivo, l'avvocato doveva essere dannatamente sicuro che il suo assistito era colpevole. Nel qual caso, si stava prodigando per rimettere in libertà un uomo pericoloso che avrebbe continuato a molestare il genere di persone meno capaci di difendersi. Potete rigirare la frittata come volete, sproloquiare tutte quelle stronzate sul diritto di tutti a un'adeguata difesa, ma vi sbagliate di grosso. Per quanto mi riguarda, mettere i diritti di un uomo che abusa di minorenni per il proprio piacere al di sopra degli stessi diritti dei bambini di vivere liberi da queste odiose molestie era probabilmente l'aspetto più perverso del sistema giudiziario britannico, e una delle poche cose che mi facevano dubitare del mio ruolo di tutore della legge. Che colti e presumibilmente rispettabili uomini e donne fossero pagati in modo assolutamente sproporzionato al loro talento per continuare a mantenere questa situazione, oltretutto a spese dell'erario, serviva soltanto ad aumentare i miei dubbi. Il sistema migliore per combattere questo stato di cose, però, era di batterli al loro stesso gioco, e in quella particolare battaglia sapevo di averlo fatto, fissando senza posa il mio nemico (l'avvocato della difesa) e ricorrendo ai giusti livelli di sarcasmo mentre rispondevo alle sue domande incalzanti per farlo apparire un cretino agli occhi della giuria. Era una vittoria di portata limitata - dopo tutto se ne sarebbe andato comunque a casa con una bella somma di denaro per i suoi sforzi, se sforzi si potevano definire -, ma nondimeno una vittoria, e mi sentivo fiducioso nel prevedere una condanna, che alla fin fine era la cosa più importante. Perciò ero di buon umore quando poco dopo le cinque scappai dal tribunale (gli ingranaggi della giustizia non soltanto sono incredibilmente lenti, ma girano anche, con rare eccezioni, esclusivamente in orario d'ufficio) e presi la District Line verso sud oltre il fiume per andare a prendere mia fi-
glia per il fine settimana. Non la vedevo da quasi un mese, perciò ero impaziente di stare con lei, e a quanto pareva lo era anche lei, essendo ancora in un'età in cui sa apprezzare la compagnia del padre. Tornammo in centro in metropolitana e la portai al Pizza Express di Upper Street per una cena durante la quale mi aggiornai su tutto ciò che la riguardava: scuola, moda, amicizie, ragazzi e tutti quegli argomenti da far rizzare i capelli che ti fanno inevitabilmente pensare che i ragazzi di oggi crescono troppo alla svelta, ma stando ben attento a evitare l'argomento di sua madre e del suo convivente. Lei lo nominò una volta, dicendo che le aveva comprato dei vestiti, ma io cambiai subito argomento. Non mi andava proprio di sentirne parlare. I primi tempi, dopo che me n'ero andato, Rachel non mancava mai di domandarmi quando sarei tornato a casa e di dirmi quanto le mancassi. Mi raccontava quanto odiava Carrier e come lui non avrebbe mai preso il mio posto, e questo di solito mi spezzava il cuore perché non ci potevo fare niente. Con il passare del tempo, però, aveva cominciato a lamentarsi sempre meno di lui e, sebbene continuasse a ripetermi che le mancavo e mi desse sempre un abbraccio affettuoso ogni volta che ci vedevamo, ad accennare sempre meno al mio eventuale ritorno a casa, come se alla fine avesse accettato la situazione e Carrier fosse finalmente riuscito a convincerla che, dopo tutto, non era un cattivo elemento. Nonostante quel bastardo lo fosse davvero. Quella sera, durante la cena Rachel conversò per tutto il tempo come una ragazzina felice ed equilibrata che conduceva una vita felice ed equilibrata. Ebbi la netta sensazione di essere diventato un sovrappiù rispetto alle sue necessità. Non tornammo a casa mia fino a un quarto alle nove, e quando finalmente chiusi la porta della sua stanza e la lasciai dormire erano ormai le dieci passate. Avevo dimenticato quanto fossero spossanti le ragazze della sua età. Volevo sedermi in poltrona a vegetare davanti alla TV, ma mi tornarono in mente i particolari del caso Matthews, e mi ripromisi di provare a considerare tutto quanto da un nuovo punto di vista, perciò aprii una lattina di birra e accesi il PC, che usavo molto di rado. Era arrivato il momento di vedere che cosa avesse da offrire Internet come strumento di indagine. Prima di tutto mi sottoposi al rituale del controllo della posta elettronica. Non mi ci volle molto tempo, dato che raramente ricevevo e-mail, e vidi subito che c'era un messaggio da parte di Malik intitolato "informazioni come richiesto" e con diversi file allegati. Era stato inviato quella stessa
mattina e contemporaneamente anche al PC che avevo in ufficio. La prima serie di file allegati comprendeva varie fotografie, per la maggior parte scattate da agenti di sorveglianza, e succinte biografie di noti o sospetti luogotenenti di Neil Vamen. Ce n'erano nove in tutto, compreso Jack Merriweather "Jackie Palla da Biliardo" e diversi altri che riconobbi. Le biografie contenevano i precedenti penali dei nove personaggi, una varietà impressionante di reati con particolare risalto per quelli collegati ad atti di violenza, e un sunto dei rapporti personali di ognuno di essi con Vamen. Ingrandii ogni foto e le stampai tutte per poterle mostrare ai vicini di casa di Shaun Matthews e di Jean Tanner, con la speranza che qualcuno di loro potesse essere riconosciuto. La seconda serie di file allegati conteneva i dati biografici e le fotografie di tre donne sospettate di essere amanti di Vamen. Una di esse, come suggerito da McBride e inizialmente ignorato da Malik, era Jean Tanner. In base al rapporto, Vamen era stato visto recarsi a casa di Jean a Finchley innumerevoli volte. A marzo l'aveva anche portata con sé per un lungo weekend nel suo lussuoso appartamento di Tenerife, insieme a un'altra delle sue amanti. Il rapporto confermava che Jean era una prostituta con due precedenti condanne sulla fedina penale, ma non diceva nient'altro degno di nota. Per pura curiosità, esaminai i file sulle altre due amanti e notai come entrambe le donne fossero molto diverse fra loro. Quella che aveva accompagnato Jean e Vamen a Tenerife era un'avvenente diciannovenne, ex assistente di uno studio dentistico, attualmente squillo a tempo pieno, mentre l'altra era un'attraente psicoterapeuta quarantaseienne che si era invaghita di Vamen durante le sedute per il controllo dei progressi nella riabilitazione mentre Vamen stava scontando in prigione l'unica condanna subita (traffico di armi e di droga). A quanto pareva i due piccioncini stavano portando avanti da dodici anni - da quando Vamen era stato rimesso in libertà - una relazione a corrente alternata. Mi domandai con un certo sarcasmo se la dottoressa fosse soddisfatta dei progressi fatti da Vamen. Ma in effetti non c'era niente che balzava all'occhio, perciò inviai a Malik un breve messaggio per ringraziarlo dell'aiuto, dopodiché rivolsi l'attenzione alla mia indagine su Internet. Cominciai individuando un motore di ricerca e inserii nella casella le parole "veleno di serpente", che pensavo avrebbero dovuto procurarmi qualche riferimento significativo. Infatti funzionò, fin troppo, ma la maggior parte delle voci elencate era del tutto irrilevante. Provai diversi motori di ricerca, poi restrinsi le possibilità inserendo in successione nella casella "veleno", "veleno di Ofidi", "veleno di Ela-
pidi" e alla fine "veleno di vipera". Passai in rassegna le decine di riferimenti indicati ogni volta, cambiando di continuo motori di ricerca, e andai a rileggermi gli appunti di Tina Boyd sull'argomento, scervellandomi per tutto il tempo a caccia di idee che potessero effettivamente farmi fare dei passi avanti. Ero al lavoro da più di un'ora, e cominciavo già a concordare con l'asserzione di Boyd secondo cui Internet era uno strumento sopravvalutato, quando qualcosa mi colpì. La riga introduttiva diceva: "Veleno di serpente, parte dell'arsenale dei mujaeddin" e rimandava il lettore a quello che sembrava un sito dell'Europa dell'Est. Sbadigliai e cliccai sopra il sito web indicato. Fuori, sentii scrosciare la pioggia e uno spaventoso rombo di tuono. L'articolo da cui era stata estrapolata la riga introduttiva era stato scritto nell'ottobre del 1995 e riguardava i cosiddetti mujaeddin, i noti fondamentalisti islamici, che stavano combattendo al fianco dei fratelli musulmani in Bosnia-Erzegovina. Bene organizzati e finanziati, a quanto pareva erano diventati parte integrante del conflitto nei Balcani, ampiamente sostenuti da diversi stati del golfo Persico, in particolare dall'Arabia Saudita. Secondo l'articolo, nella guerra utilizzavano anche alcune armi interessanti, una delle quali era il veleno di serpente. Fiale di veleno di vipera egiziana, o aspide, erano state usate dalle loro spie all'interno di accampamenti nemici per avvelenare diversi alti ufficiali. In un esempio citato tre ufficiali croati bosniaci, compreso un colonnello, avevano ingerito il veleno nel rancio preparato da una cuoca musulmana che si fingeva croata (una cosa facile da fare visto che apparteneva fondamentalmente alla stessa etnia) ed erano tutti morti prima che il complotto fosse scoperto. L'articolo non diceva che cos'era accaduto alla cuoca, ma affermava che i veleni esistevano effettivamente e che erano stati introdotti dai mujaeddin, in particolare da un ufficiale arabo il cui nome di battaglia era Tajab. Finalmente avevo trovato qualcosa. Non era granché, ma era un inizio. Malik aveva menzionato la Bosnia quale via di rifornimento usata dagli Holtz per introdurre nell'Europa occidentale, e in Gran Bretagna, stupefacenti e immigrati clandestini, anche se il collegamento era piuttosto vago. Sulla parte sinistra dello schermo c'era un elenco di articoli correlati. Li passai rapidamente in rassegna, leggendo del ruolo avuto dai fondamentalisti islamici in quello che veniva descritto come il più sanguinoso conflitto europeo dal 1945. Spietati in battaglia, erano una formidabile forza combattente, la cui infamia superava di gran lunga il loro numero effettivo. Proprio per questo, secondo uno degli articoli scritti nel gennaio 1996,
l'ONU aveva chiesto il loro rimpatrio come condizione per gli accordi di pace di Dayton nel 1995 fra le parti belligeranti. L'articolo successivo, scritto alla fine dello stesso mese, proseguiva sulla medesima falsariga, stavolta citando una protesta sollevata dal leader serbo-bosniaco Radovan Karadzič, secondo il quale i mujaeddin avevano attaccato alcune postazioni serbe a nordovest di Zenica, e, violando ripetutamente il cessate il fuoco, consiglieri militari iraniani e mercenari britannici continuavano ad addestrare truppe musulmane in speciali basi a est e a sud di Sarajevo. Di nuovo un collegamento con la Gran Bretagna. Ancora vago, ma inconfutabile. Presi alcuni appunti, poi uscii dal sito web e inserii "mercenari in Bosnia" nella casella del motore di ricerca. Come previsto, comparve una quantità impressionante di riferimenti, e di nuovo mi misi a vagliare le varie voci. Mentre ero al lavoro, cominciai a chiedermi se per caso quel Karadzič non stesse gettando benzina sul fuoco per confondere le idee. Dopo tutto, propaganda e dosi massicce di menzogne facevano parte di qualsiasi conflitto. Ma poi trovai un articolo comparso sul "New York Times" nell'ottobre del 1995, riguardante la questione del coinvolgimento di forze straniere nella guerra in Bosnia. Era un articolo che analizzava in retrospettiva la storia delle ingerenze straniere dall'inizio delle ostilità nei primi mesi del 1992. C'erano i soliti sospetti: i mujaeddin; qualche gruppo di volenterosi giovani occidentali della media borghesia disgustati dalle atrocità commesse ai danni dei musulmani locali; i soliti folli e avventurieri che, per chissà quale ragione, venivano sempre attratti dai luoghi "caldi" del mondo; e infine c'era una società inglese, una certa Contracts International, con sede a Londra, che forniva ex soldati britannici per addestrare truppe musulmane in una varietà di tecniche militari, compresa la guerriglia. Il portavoce della Contracts International era Martin Leppel, un ex capitano del Parachute Regiment. Nell'articolo, Leppel ammetteva che alcuni dipendenti della ditta si trovavano in Bosnia, ma rifiutava di esprimere ulteriori commenti. Il giornalista che aveva redatto l'articolo dichiarava che non meno di ventuno istruttori si trovavano in Bosnia, ed era quasi sicuro che fossero finanziati da membri anziani della famiglia reale saudita. Presi nota del nome della società e del suo rappresentante, poi verificai se per caso avesse un sito web. Non rimasi certo stupito nello scoprire che non l'avevano. Di conseguenza feci una rapida ricerca sulla Contracts International e scoprii diversi articoli di giornale sulla società. Fondata nel 1991 da Leppel, e con uno staff a tempo pieno di circa duecento dipenden-
ti, erano stati coinvolti in conflitti in ogni parte del mondo, ma mi concentrai unicamente sulla Bosnia. Dal materiale che riuscii a raccogliere non emerse niente di strano circa le loro attività nella regione. Si sarebbe potuto perfino affermare - immagino dipendesse dal punto di vista adottato che stessero semplicemente fornendo un valido servizio, dato che i musulmani locali erano disperatamente sopraffatti dalle forze serbe. Ma la controparte nel conflitto aveva chiesto che se ne andassero dopo gli accordi di Dayton perché la loro presenza era considerata una provocazione, sebbene esistessero prove evidenti che alcuni di loro, in barba al trattato, fossero rimasti in Bosnia per continuare il lavoro. Quando aprii un articolo di "Der Spiegel", datato settembre 1997, in cui veniva citata la Contracts International, era quasi mezzanotte. Ero troppo stanco per soffermarmi sul fatto che fosse scritto in tedesco, ma qualcosa colpì immediatamente la mia attenzione. Era una foto in bianco e nero di due uomini che camminavano verso l'obiettivo della macchina fotografica lungo quella che sembrava una strada di montagna. Uno dei due, il più giovane, indossava una tuta mimetica, mentre l'altro vestiva un elegante completo scuro. Erano immersi un una conversazione, e nessuno dei due guardava verso l'apparecchio fotografico. Anzi, sembrava che non si fossero accorti di essere ripresi. Quello a sinistra, il soldato, aveva un'aria familiare, ma lì per lì non riuscii a collegare la faccia a un nome. La fotografia non era particolarmente riuscita, ma sapevo di non sbagliarmi. L'avevo già visto da qualche parte. Quello in completo scuro era addirittura più familiare. Non poteva essere altrimenti. Non solo Malik mi aveva fornito una sua foto, ma l'avevo incontrato faccia a faccia soltanto pochi giorni prima. Era il braccio destro di Neil Vamen. Jackie Palla da Biliardo Merriweather. SABATO, OTTO GIORNI FA Iversson La pioggia scrosciava come durante un monsone tropicale. Un mese intero senza che cadesse una sola goccia e poi di colpo la pioggia era arrivata tutta insieme, proprio come gli autobus di Londra. Era difficile vedere oltre il parabrezza, pioveva troppo a dirotto, ma suppongo che in qualche modo la cosa tornasse utile. Se non altro, nessuno mi avrebbe prestato
troppa attenzione mentre ero seduto nell'auto posteggiata nella via di fronte alla modernissima palazzina di quattro piani in cui aveva sede la Heavenly Girls, l'agenzia di accompagnatrici che faceva da paravento a un bordello di lusso. Per la centesima volta quella sera controllai l'orologio: l'una e un quarto. Ero fermo lì da quasi due ore, ormai, a controllare il viavai e a domandarmi se quel pervertito di Krys Holtz avesse intenzione di farsi vedere. Un flusso costante di taxi si era fermato davanti alla palazzina e aveva scaricato i suoi passeggeri maschi, principalmente appartenenti alla categoria degli uomini in completo scuro e stivaletti di pelle. Tutti con l'aria di avere la grana per permettersi le tariffe esorbitanti applicate dall'agenzia. Elaine mi aveva detto di aver sentito che vi lavoravano una trentina di ragazze, ma che solo una decina vi prestava servizio contemporaneamente, tanto per rendere l'atmosfera intima e accogliente. Calcolai che quelle dieci ragazze dovevano essere dannatamente occupate se quella era una serata tipica, e che quando avremmo fatto irruzione sarebbero state presenti almeno venticinque persone. Questo comportava la necessità di un'azione fulminea. Con tanta gente e tante camere sarebbe stato impossibile tenere tutti sotto controllo, perciò c'era da ipotizzare che almeno uno di loro sarebbe riuscito a fare una telefonata alla polizia perché intervenisse. Quelli della polizia metropolitana non erano mai i bastardi più veloci del mondo, ma se una persona all'altro capo del telefono dava l'impressione di essere abbastanza disperata, probabilmente non si sarebbero fatti pregare. Questo voleva dire un margine di tempo fra i cinque e i sei minuti, il che non ci lasciava molto spazio di manovra. Ma gli ingranaggi si erano finalmente messi in movimento, e questa era la cosa importante. Johnny Hexham, un uomo sempre a caccia di soldi, aveva già rubato la prima auto, quella su cui mi trovavo, e al momento stava cercando di procurarsi un furgone da usare come mezzo di trasporto per Holtz. Joe, nel ruolo di un uomo d'affari in cerca del meritato riposo, aveva concluso un accordo verbale per l'affitto mensile di una delle case di campagna che avevo trovato, a partire dal giorno dopo, e avrebbe dovuto recarsi sul posto di lì a poche ore per depositare la caparra e ritirare le chiavi. La settimana successiva Johnny avrebbe fatto il palo al volante dell'auto ogni sera; il resto della squadra era stato assoldato, benché non avessi ancora conosciuto personalmente Kalinski, il fratello del gioielliere. Se tutto filava secondo il programma, avrei dovuto consegnargli l'anticipo la sera dopo, quando noi quattro, meno Johnny, ci saremmo incontrati per discute-
re gli ultimi dettagli del piano. Una Toyota Land Cruiser nera accostò al marciapiede davanti alla Heavenly Girls e si fermò lasciando il motore acceso. Un paio di secondi dopo un colosso che sfiorava i due metri d'altezza, forse di più, scese dall'auto. Si trattava di Fitz, stando alla descrizione di Elaine. Un'altra guardia del corpo, leggermente più bassa ma con la stessa stazza da sollevatore di pesi, scese dalla parte opposta. Big Mick. Infine il nostro uomo, Krys Holtz, emerse dal sedile accanto all'autista e scese dalla Toyota. Krys era molto più basso degli altri due, probabilmente sul metro e sessanta, ma era altrettanto tarchiato. Neppure lui era un soggetto adatto a un fottuto ritratto a olio, e si capiva chiaramente il motivo per cui doveva sborsare fior di quattrini perché le donne si interessassero a lui. Era ben vestito, con un costoso completo con giacca di pelle nera, ma la sua faccia era una palla di ciccia e di guance cascanti, come uno che ci avesse convissuto troppo a lungo, e la sua pettinatura - un taglio alla Elvis, con tanto di ciuffo nero imbrillantinato passato di moda già quando il re del rock'n'roll era ancora sotto gli ottanta chili - era la ciliegina sulla torta. Doveva essere sulla trentina, ma sembrava almeno dieci anni più vecchio. Fui sorpreso di scoprire che la sua vista non mi fece montare il sangue alla testa. Restai invece a osservarlo con calma serafica, ben sapendo che a breve termine avrei pareggiato i conti con lui. Krys si affrettò a salire i gradini della scala d'ingresso della palazzina, fiancheggiato dagli altri due, poi la porta si aprì e spuntò un soddisfattissimo Tugger Lewis. Tugger si fece da parte e il terzetto tirò dritto con passo spedito come se lui non esistesse nemmeno. Tugger attraversò la strada dirigendosi verso la macchina e, dopo essersi voltato a controllare che Krys e i suoi scagnozzi fossero entrati nella palazzina, salì al posto del passeggero. Misi in moto la macchina e mi allontanai dal marciapiede. Era l'una e venticinque. «Allora, com'è andata?» «Splendidamente» disse Tugger con il suo marcato accento Geordie. «Devo ammettere che le donzelle erano merce sopraffina.» «Vorrei ben vedere, dati i prezzi.» «Sì, lo so. Duecento testoni per mezz'ora. Vuol dire due sterline a stantuffata. È una tariffa da capogiro. In un bordello di Puerto Banus, un paio di anni fa, una ragazza mi è costata 38,70 sterline, tenuto conto del cambio. E me la sono spassata per quaranta minuti.» «Ecco quello che considero un prezzo equo. Una sterlina al minuto. Non
molto più caro di una serata al luna park.» «E considerevolmente più eccitante.» «Esatto. Allora, come sono disposti i locali all'interno?» «La zona accoglienza è al secondo piano. Ci si arriva in ascensore. Si esce direttamente in un atrio e ci si trova di fronte alla fanciulla della reception.» «La sicurezza?» «Due buttafuori a prora. Dei bestioni, ma non armati. Per quel che ho potuto vedere, ci sono soltanto loro, e non costituiranno un problema. Adiacente all'atrio c'è un bar ed è lì che le ragazze si intrattengono quando non sono impegnate. Ci si può andare a bere qualcosa in loro compagnia; se te ne piace una puoi salire con lei in una camera. Non so di preciso quante ce ne siano, direi non più di una dozzina. Sono salito al terzo piano e ne ho contate sei, tutte molto spaziose e accoglienti. Anche al quarto ci sono delle camere, e immagino che siano disposte come al terzo. Il secondo piano è interamente destinato all'accoglienza, mentre il primo e il pianterreno penso siano destinati agli alloggi del personale. In pratica, occupano tutto il palazzo.» «Be', conosci il piano, Tugger. Funzionerà in quel tipo di posto?» Tugger parve riflettere a fondo per un momento. «Sì, credo di sì, ma è rischioso, su questo non ci sono dubbi.» Sfoderai un sorriso smagliante. «Ma pensa a quanto guadagnerai. Pensa quante cose potrai fare con centomila testoni. Dalle tue parti, al Nordest, probabilmente potresti comprarti un'intera via.» «Sì, può darsi, ma dovresti stabilirti anche tu dalle mie parti, Max. Qui con la stessa cifra riusciresti a malapena a comprarti un capanno per gli attrezzi. Mi sa che non ne vale la pena rischiare l'osso del collo per una somma del genere.» «È un lavoretto veloce» ribattei, fermandomi a un semaforo rosso. Mi venne in mente che Fowler aveva detto più o meno la stessa cosa il giorno in cui ci eravamo incontrati la prima volta. Ma sapete come si dice: uomo avvisato, mezzo salvato. LUNEDÌ, SEI GIORNI FA Gallan Il mio weekend fu beatamente tranquillo. Rachel e io facemmo i turisti,
una cosa che non avevamo mai fatto quando abitavamo nella stessa casa, perché all'epoca non ne avevo mai sentito la necessità. Andammo a vedere la Torre di Londra, l'Aquarium, il museo delle cere di Madame Tussaud e perfino il palazzo del Parlamento. E quando non scarpinavamo ce la prendevamo comoda godendo della reciproca compagnia. Sabato sera cucinai pollo al curry e ce lo mangiammo davanti a una videocassetta a noleggio de Il professore matto. Il cibo era terribile, il film non era molto migliore, però non aveva importanza. Era proprio un modo simpatico di trascorrere la serata. Lasciai che Rachel restasse alzata fino a un quarto alle undici, ma l'avvisai di non dire niente alla mamma. «Altrimenti non ti permetterà più di stare con me.» Rachel mi strizzò l'occhio e si portò l'indice alle labbra in un gesto da cospiratrice, dicendomi di non preoccuparmi: sarebbe stato il nostro segreto. Le donne sanno manipolarti come vogliono fin da bambine. Manipolato o meno, ero molto più triste di quanto mi sarei aspettato quando dovetti riportarla da sua madre domenica sera. Promisi di andare a riprenderla di lì a due settimane e Rachel mi disse che avrebbe contato i giorni. Allora pensai di aver fatto qualcosa di buono, ma ciononostante il viaggio di ritorno a casa fu di cupa solitudine. Quando lunedì mattina varcai la soglia del commissariato, però, mi sentivo riposato come non mi succedeva da parecchio. Nel frattempo, la criminalità nella zona aveva continuato a essere stabile. Un profugo somalo quindicenne era finito in ospedale con gravi traumi alla testa dopo essere stato picchiato con una mazza da baseball durante uno scontro fra bande rivali (tre minorenni erano stati arrestati sul posto e successivamente liberati su cauzione in attesa di ulteriori indagini); lo stesso condominio era stato teatro addirittura di sette rapine, una delle quali finita con un accoltellamento, ma i due responsabili, entrambi appena usciti da un istituto di rieducazione per giovani delinquenti, erano già stati arrestati e condannati per direttissima; infine, una donna di ventun anni aveva pugnalato e ferito gravemente il suo convivente con un coltello da cucina. Anche lei era stata arrestata e accusata di lesioni e tentato omicidio. Sebbene strazianti per le vittime e i loro familiari, specie i genitori del ragazzo somalo venuti in Gran Bretagna per cercare rifugio e che ora vegliavano al capezzale del figlio ricoverato in terapia intensiva, sotto molti aspetti questi reati erano una manna per gli agenti del CID che se ne occupavano, perché si risolvevano nel giro di poche ore. Ci sarebbe stato un mucchio di scartoffie da compilare, come accade sempre quando si arresta qualcuno, ma oltre a questo lo sforzo sarebbe stato minimo e la nostra per-
centuale di casi risolti avrebbe avuto un'impennata. Tutto questo si traduceva in una diminuzione delle pressioni dall'alto. Infatti quella mattina le alte sfere erano talmente fiduciose che il sovrintendente, in tandem con Knox, annunciò che l'iniziativa "Ritorno in pattuglia", a lungo attesa, sarebbe iniziata quella stessa settimana. I membri del CID, compreso il comandante, avrebbero trascorso una notte in pattuglia con gli agenti in divisa per riportare alla mente, nel caso ce lo fossimo scordato, il genere di pressioni che dovevano sopportare i poliziotti in uniforme, e per aiutare, citando la frase del sovrintendente, "a promuovere un continuo e sempre più approfondito spirito di collaborazione tra queste due essenziali e simbiotiche braccia delle forze dell'ordine". Queste parole furono pronunciate con una faccia mortalmente seria, il che la diceva lunga sul tipo di leadership che avevamo. Io fui infastidito nell'apprendere che anche gli agenti investigativi assegnati al caso Matthews sarebbero stati impiegati in questo addestramento di ripasso, e più tardi, durante la riunione della nostra squadra, Knox mi comunicò che Berrin e io avremmo prestato servizio mercoledì notte. Espressi un accenno di rimostranza senza insistere troppo, ma sapevo che, in un modo o nell'altro, avrei dovuto sottopormi a queste forche caudine. L'aveva stabilito il sovrintendente, perciò Knox l'avrebbe appoggiato con entusiasmo, subito imitato da Capper. Il mio problema, come quello di tanti altri agenti di polizia, era che la gerarchia a cui ero sottoposto era composta quasi interamente di politici. Nella riunione del mattino, i primi dieci minuti furono dedicati al principale sospetto di Knox, l'introvabile Mr Iversson, e alla sua possibile vittima, l'ancor più introvabile Mr Fowler. Di Iversson non c'era ancora traccia, benché la sua foto segnaletica e la sua descrizione fossero state ormai distribuite a tutti i più importanti servizi di pubblica sicurezza. La cosa più preoccupante però, almeno per la teoria formulata da Knox, era il fatto che apparentemente non c'era alcun collegamento fra lui e Matthews. Capper e Hunsdon avevano indagato a fondo sul passato di Fowler, perquisendo anche il suo appartamento, ma dal loro rapporto verbale fu subito chiaro che non avevano scoperto niente di cui non fossimo già a conoscenza. A tutti gli effetti, non c'erano stati progressi di sorta. A quel punto, Knox aveva sganciato con noncuranza una bomba. Jean Tanner, disse, era stata trovata viva e vegeta. La donna aveva dichiarato all'ispettore Burley che lei e Craig McBride ci avevano dato dentro con l'eroina e che McBride era schiattato accidentalmente per overdose. «A quanto pare si è fatta prendere dal panico, l'ha messo nell'armadio ed è fuggita
di casa, riparando al Nord per qualche giorno. Pensava che le acque si sarebbero calmate - so che è un po' stupido da parte sua - ed è stata arrestata ieri quando è tornata a casa. Si trova ancora in stato di fermo. Naturalmente sarà necessario interrogarla di nuovo e Burley ci ha dato il permesso di farlo più tardi in giornata.» Knox si rivolse a Capper. «Credo sia meglio che lo facciate tu e Paul, Phil» disse. Stavo per protestare, ma Knox mi zittì alzando una mano. «So che sei stato tu a scoprire questa pista, John, ma credo che tu abbia preso Burley per il verso sbagliato.» «Anche il papa l'avrebbe preso per il verso sbagliato» commentai, convinto com'ero che Burley fosse sul libro paga degli Holtz. «Non ho fatto altro che porgli qualche domanda con la massima educazione.» «Lo so, lo so, ma è un tipo irascibile e si offende facilmente. Lasciamo le cose come stanno, eh?» Passammo ad altro e fu il mio turno di spiegare l'indizio dei veleni. Raccontai quello che avevo scoperto, cercando di ignorare le occhiate perplesse che Capper e Hunsdon, e persino Knox, mi lanciavano di tanto in tanto, e specificai i retroscena della guerra in Bosnia e i collegamenti con la Gran Bretagna e la criminalità organizzata rappresentata dalla famiglia Holtz. «Ho inviato un'e-mail a Malik con la fotografia di Merriweather e del militare, insieme all'articolo, chiedendogli se gli era possibile scoprire l'identità del soldato e se poteva trovare qualcuno che traducesse l'articolo dal tedesco. Nel testo viene citata la Contracts International, perciò ritengo si possa dire che ci sono dei legami fra la società e gli Holtz. Per il momento non sono riuscito a raccogliere altre notizie sulla Contracts, ma intendo sondare più a fondo la cosa.» Nessuno parlò per qualche secondo; sembrava che tutti stessero riflettendo. C'era da chiedersi su che cosa. «Sentite, so che è un'ipotesi azzardata, ma ho passato tre ore a caccia di informazioni su questo tipo di veleno, e l'unico posto che sono riuscito a scoprire in cui è stato impiegato prima d'ora è la Bosnia. E c'è indubbiamente un collegamento fra la Bosnia e gli Holtz, e anche un possibile legame tra gli Holtz e Shaun Matthews.» «Be', per il momento segui questa pista, John» disse Knox, lasciando trasparire che non nutriva troppa fiducia nei risultati. «E tieni informato me e Phil di quello che viene fuori.» «Non so, capo» osservò Capper. «Mi sembra che sia l'ennesimo ago nel pagliaio. Forse sarebbe meglio che fossero John e Dave a interrogare Jean Tanner, dato che la pista era loro. Noi abbiamo diverse altre cose di cui occuparci.»
Ma Knox non era disposto a cedere su quel fronte. «No, Phil, è meglio che la interroghiate tu e Paul. Molto meglio.» Capper annuì, ma non sembrava affatto contento. Per la seconda volta mi domandai se non fosse davvero un cliente della Heavenly Girls, e non potei fare a meno di trovare divertente l'idea che Jean Tanner fosse stata una delle volenterose ragazze con le quali si era sollazzato. Avrebbe vivacizzato parecchio la riunione successiva, anche se non ci avrebbe aiutato granché. Ero sicuro che Jean la sapesse molto più lunga di quello che dava a intendere. Nella sua versione dei fatti tutto puzzava di bruciato. Nessuno aveva ricordato che lei era un'incallita eroinomane, e nell'atteggiamento o nell'aspetto di McBride quando l'avevamo interrogato non c'era stato assolutamente niente che potesse dare adito al sospetto che lo fosse anche lui. E se lui aveva davvero ecceduto con la dose perché la stessa cosa non era successa a Jean? Se l'avessi interrogata avrei potuto saperne di più; invece avrei dovuto arrangiarmi esaminando le trascrizioni dell'interrogatorio e pungolando Knox a spremere tutto il possibile da Burley. La riunione terminò poco dopo e io illustrai a Berrin il resto delle mie ricerche quando tornammo alle nostre scrivanie. Anche lui parve un po' scettico e disse che la cosa gli sembrava "un po' fumosa", ma, in assenza di altri elementi, ero deciso a insistere con quel poco che avevo. Prima di tutto bisognava rintracciare Martin Leppel, l'uomo che avrebbe potuto dirci di più sulla Contracts International. Chiesi a Berrin di controllare il registro penale e di mettersi in contatto con lo Special Branch e l'archivio criminale nazionale per vedere se avevano qualcosa su Leppel. Nel frattempo feci un giro di telefonate ai nostri contatti nei giornali per vedere se ci fosse qualcuno in grado di scoprire un indirizzo. Non ci volle molto per centrare il bersaglio. Roy Shelley, uno scribacchino locale arcinoto al CID del commissariato, impiegò meno di mezz'ora a trovare notizie preziose. Attualmente reporter per un quotidiano a tiratura nazionale, mi comunicò che la Contracts International era stata smembrata nel 1997 dopo alcune irregolarità finanziarie e una sgradita inchiesta televisiva su presunte forniture illegali di armi in Liberia, ma che Leppel ora dirigeva la Secure Consultants, un'agenzia con sede in un ufficio nel quartiere finanziario di Moorgate. Presi nota dell'indirizzo e del numero di telefono. «A quanto risulta si occupa delle stesse cose di cui si occupava la Contracts» continuò Roy. «Fornire ex soldati all'estero per l'addestramento di truppe, ma anche elementi specializzati a negoziare in casi di sequestro di
ostaggi, rapimenti e roba del genere. L'agenzia è molto più piccola della Contracts, e ritengo che operi molto più alla luce del sole. L'ultima volta Leppel è rimasto parecchio scottato. Non ha avuto condanne, ma ci è andato vicino.» «Ha informazioni su che tipo è?» domandai. «È un truffatore?» Shelley ridacchiò. «Se le rispondessi, potrei beccarmi una denuncia per diffamazione. Provi in un altro modo.» «Potrei avere una storia in esclusiva per lei.» «Roba buona?» «Ancora non lo so. Ma le prometto che se viene fuori qualcosa sarà il primo a saperlo.» «È proprio quello che mi piace sentire. Per rispondere alla sua domanda, non è onesto al cento per cento, ma da quanto ne posso capire non è neppure un mascalzone patentato. È come tanti altri, Mr Gallan. Cerca di stare dalla parte della legge perché così è più facile, ma non si attiene scrupolosamente alle regole se c'è l'occasione di fare un po' di grana.» Lo ringraziai e, dopo avergli di nuovo promesso di informarlo immediatamente se si fosse presentato uno scoop, riattaccai. «Bene, Dave, l'abbiamo trovato» dissi al mio collega, e composi il numero di telefono indicatomi da Shelley. Una limpida voce maschile mi rispose al terzo squillo, menzionando il nome della società. Chiesi di parlare con Martin Leppel. «Sono io» fu la pronta risposta. Mi presentai e spiegai il motivo della chiamata. «Gradirei farle qualche domanda in merito a uno dei suoi ex dipendenti alla Contracts International.» «La Contracts non esiste più da diversi anni» rispose bruscamente. Era chiaro che non intendeva sprecare tempo a parlare con la polizia. «Lo so, signore, ma lei potrebbe sapere qualcosa di utile. Le ruberò non più di dieci minuti.» «Non vedo perché dovrei aiutarla, sergente Gallan, dato che la polizia non ha mai fatto nulla per aiutare me. Il più delle volte sono stato tormentato da membri di Scotland Yard che non sembravano avere molto di meglio da fare che cercare di rovinare la reputazione e i mezzi di sussistenza di rispettabilissimi imprenditori.» Ricordai che Neil Vamen aveva detto più o meno la stessa cosa. Mi domandai se a volte ci credessero veramente. «Qualsiasi tipo di collaborazione vorrà darci sarà considerata favorevolmente, signore, e come le ho detto
le porterò via davvero pochissimo tempo.» «Di che tipo di indagine si tratta?» «Omicidio.» «D'accordo. Nel pomeriggio ho una riunione nel West End, ma poi sono libero. Venga in ufficio alle cinque e la riceverò. Presumo che conosca l'indirizzo.» «In effetti sì, signore. La ringrazio molto.» Leppel borbottò qualcosa di inintelligibile e riagganciò. Gli uffici della Secure Consultants si trovavano al sesto piano di un sontuoso palazzo della City in una traversa di London Wall. Suonai il campanello accanto a una targa di lucido ottone con il nome e il marchio della società e, senza preamboli, senza che nessuno rispondesse al citofono, Berrin e io fummo fatti entrare. Un ascensore di fronte alla porta d'ingresso ci portò al sesto piano, e lì incontrammo Martin Leppel, un tipo basso e tarchiato, con un naso aquilino e penetranti occhi azzurri. Indossava una camicia a mezze maniche con cravatta regimental, e il suo volto affilato, leggermente sciupato dalle intemperie, era abbronzatissimo. Ci fece un cenno di saluto e ci strinse a turno la mano. Ci accompagnò oltre un'ampia porta di cristallo su cui spiccava il nome della società, poi attraverso una piccola area di accoglienza completamente deserta (Leppel spiegò che la sua segretaria si era presa un giorno di ferie) e infine nel suo spazioso ufficio con le finestre sulla via sottostante. Fotografie di vari uomini in uniforme, compreso un ingrandimento di Leppel in divisa da ufficiale, con la sciabola del reggimento di appartenenza, decoravano i muri. La galleria fotografica contribuiva a dare l'immagine di un uomo dal solido background militare. Leppel prese posto dietro la sua imponente e immacolata scrivania e ci invitò ad accomodarci sulle poltroncine di fronte. Non ci offrì niente da bere. «Dunque, in che cosa posso esservi utile, signori?» domandò, andando dritto al punto. «Dovremmo verificare alcune informazioni in merito al coinvolgimento della Contracts International nel conflitto bosniaco.» «Posso chiedervi per quale motivo vi servano?» «Stiamo indagando su un omicidio e può darsi che uno o più dipendenti della sua società operanti in Bosnia all'epoca possano fare luce su un punto ancora un po' in ombra.» «Di quale punto si tratta?»
«Questo non posso dirglielo, signore. Almeno per ora.» «Be', io non ci sono stato in Bosnia. Non ho mai messo piede in vita mia in alcuna repubblica della ex Jugoslavia.» Capii subito che sarebbe stato un osso duro. «Però dirigeva la società, il che spiega perché siamo venuti da lei. Ora, come le ho anticipato al telefono, non le ruberemo troppo tempo.» «Che cosa volete sapere?» «Per quanto tempo la Contracts International è rimasta coinvolta nella guerra in Bosnia?» «Firmammo il primo contratto nell'ottobre del '93, quando divenne chiaro che l'Occidente sarebbe rimasto in disparte ad assistere alle sofferenze della popolazione musulmana. Il contratto riguardava l'addestramento di truppe regolari dell'Armija BiH.» «Sarebbe?» domandò Berrin. «L'esercito musulmano bosniaco. Il nostro servizio fu molto apprezzato e fummo premiati con diversi altri contratti. Restammo sul posto fino agli accordi di pace di Dayton del dicembre del '95.» «Ho sentito dire che alcuni vostri agenti operativi restarono sul posto anche in seguito.» «Allora ha sentito male» ribatté Leppel in tono raggelante. «Oltre ai nostri dipendenti, sul posto erano presenti dei free lance che fornivano un servizio simile se non inferiore al nostro. Furono loro a trattenersi là dopo il cessate il fuoco. Non appena entrarono in vigore gli accordi di Dayton, noi concludemmo i contratti e ce ne andammo.» «Potrebbe dirci chi finanziava il lavoro svolto dalla sua società in Bosnia?» «Un mucchio di gente ha scritto che eravamo finanziati da ogni genere di fanatici, ma si sbagliavano. Tuttavia, temo di aver sempre considerato confidenziale l'elenco dei nostri clienti, sia alla Contracts sia alla Secure Consultants, perciò non intendo fare commenti al riguardo.» Annuii. «Mi sembra giusto. Ricorda quanti dipendenti aveva in Bosnia durante i due o tre anni in cui siete stati presenti?» Leppel rifletté un momento sulla domanda. Sembrava che stesse facendo i conti. «Direi all'incirca una quarantina, ma è possibile che fossero di più. La Bosnia fu uno dei maggiori teatri operativi della Contracts.» «Ora so che lei non è andato personalmente in Bosnia, Mr Leppel, ma sa se qualcuno dei suoi uomini ha avuto contatti con i cosiddetti mujaeddin, i guerriglieri fondamentalisti islamici che si trovavano nella regione in quel-
lo stesso periodo?» «Sì, so chi erano, ma a quanto mi risulta no, nessuno dei miei dipendenti ha avuto contatti con loro. Tenga presente che questi fondamentalisti odiavano tutti gli occidentali, che ritenevano e ritengono infedeli. Alcuni di loro sono stati perfino messi in collegamento con Osama bin Laden, perciò non avrebbero mai e poi mai socializzato con i nostri elementi, anche se sulla carta erano schierati dalla stessa parte. Posso chiederle qual è lo scopo di queste domande?» «Stiamo solo cercando di delineare un quadro generale, signore, tutto qui.» Pescai dalla tasca della giacca la fotografia di Merriweather e del soldato. L'aprii (era ripiegata in quattro), mi alzai e la mostrai a Leppel. «Conosce l'uomo a sinistra?» domandai. Leppel annuì lentamente senza guardarmi. «Sì, lo conosco. Si chiama Tony Franks.» Il nome, come la faccia, mi fece immediatamente suonare in testa un campanello, ma ancora una volta non fui in grado di collegarlo a qualcosa. «Conosce anche l'uomo che gli sta a fianco?» Di nuovo, Leppel annuì. «Si chiama Merriweather. Non ricordo il nome.» «Jack» disse Berrin. «Esatto» gli fece eco Leppel. «Jack.» «È una foto tratta da un articolo pubblicato su "Der Spiegel".» «Lo so.» «L'articolo era in tedesco, ma stiamo aspettando la traduzione. Saprebbe dirci di che cosa parlava?» «Era diffamatorio. Per un pelo non ho fatto causa al giornale.» «Cosa diceva?» «Insinuava che i consulenti della Contracts International, definiti mercenari, fossero implicati nel traffico di droga che attraverso la Bosnia riforniva i mercati dell'Europa occidentale. Non hanno mai prodotto alcuna prova sicura a parte questa fotografia, ciononostante quell'articolo ha rovinato la reputazione di un'organizzazione che dava lavoro a un mucchio di gente e che, a prescindere da quello che si può pensare, forniva un servizio necessario. Da quando l'articolo fu pubblicato, ho avuto un mare di rogne. Scotland Yard mi ha messo sotto torchio, facendomi ogni genere di domande, e il nostro pacchetto clienti è andato diminuendo fino a esaurirsi. Ecco forse perché non sono così ben disposto a collaborare.» «Capisco benissimo, signore, ma le posso garantire che non ho alcun in-
teresse a indagare sulla sua società o su di lei personalmente. Mi interessa soltanto risolvere l'omicidio di cui le ho accennato.» Leppel mi fissò per alcuni secondi come per cercare di valutare quanto fossi sincero. Gli feci omaggio della mia più cordiale e accomodante espressione, pensando di poter convincere quel bastardo diffidente. «Come le ho detto, nell'articolo non si facevano nomi, ma si affermava che i nostri consulenti fossero in società con elementi della criminalità organizzata britannica e che usassero i convogli umanitari dell'ONU per contrabbandare sostanze stupefacenti in Europa occidentale. Ma non avevano alcuna prova, niente di niente.» «In tutta onestà, Mr Leppel, pensa che qualcuno dei suoi dipendenti possa avere avuto qualche contatto con questi elementi della criminalità organizzata?» «Quella fotografia è stata scattata circa due anni dopo che avevamo cessato qualsiasi operazione in Bosnia. Sì, dall'immagine è chiaro che almeno Tony Franks era in combutta con loro, e anche altri possono esservi stati coinvolti, ma si trattava di un'iniziativa personale. Fino alla pubblicazione di quell'articolo, ero all'oscuro di tutto.» Annuii, cercando di stabilire se Leppel stesse dicendo la verità o meno. Stava certamente mostrando il giusto livello di indignazione, ma era difficile affermarlo con sicurezza. «E Tony Franks? Sa dove si trova al momento?» «L'ultima volta che ne ho sentito parlare collaborava saltuariamente con un'agenzia che fornisce servizi di sicurezza, la Tiger Solutions, gestita da due ex dipendenti della Contracts.» La Tiger Solutions. Tutto finiva sempre per fare capo a quell'agenzia. «Sa dirci come si chiamano questi suoi due ex dipendenti?» domandai. Volevo solo una conferma. «Uno è Joe Riggs. L'altro è Max Iversson.» «Sa se hanno a che fare con Jack Merriweather o qualcuno dei suoi amici?» «No, per quanto ne so, non hanno niente a che fare.» «Da qualche parte conserva un elenco dei dipendenti della Contracts che hanno prestato servizio in Bosnia?» Leppel sospirò. «Sapevo che me lo avrebbe chiesto. No, non ce l'ho.» «Ma presumo che sia in grado di fare qualche ricerca e di risalire all'informazione. Giusto?» Leppel sospirò ancora. «Si tratterebbe di andare a spulciare i vecchi re-
gistri contabili della società, ma sì, è possibile risalire all'informazione, come ha detto lei. Anche se probabilmente ci vorrà del tempo.» «Apprezzerei molto se ci potesse fornire un elenco completo. Potrebbe risultare utilissimo ai fini dell'indagine.» «Vedrò cosa posso fare.» Mi alzai, subito imitato da Berrin. «La ringrazio molto per la sua disponibilità, Mr Leppel» dissi, porgendo la mano «e per il suo tempo.» Leppel si fece avanti e mi diede una stretta fugace. «È certamente molto più facile trattare con lei rispetto all'ultima coppia di agenti che mi sono venuti a trovare.» «Lieto di sentirglielo dire.» «Se vi capita di parlare con Tony salutatelo da parte mia» disse mentre ci accompagnava all'ascensore. Annuii e risposi che l'avrei fatto senz'altro. «Cosicché andava d'accordo con lui, eh?» «Era di ottima compagnia, e un professionista con i fiocchi. Mi piace trattare con persone come lui.» Quando fummo in strada, guardai l'orologio. Le cinque e venti. Le vie della City cominciavano a riempirsi della prima ondata di elegantoni che si affrettavano in ogni direzione come formiche, tutti con l'aria di avere i minuti contati. «Pensa che questo Tony Franks possa avere qualcosa a che fare con la morte di Matthews, sergente?» domandò Berrin mentre ci avviavamo verso la stazione della metropolitana di Moorgate. «Ha legami con gli Holtz, anche se abbastanza indirettamente, ed è collegato, sempre indirettamente, con il veleno di serpente. Non c'è molto su cui lavorare, ma se non altro è qualcosa. Il nome ti suggerisce niente?» Berrin scosse la testa. «No. Mai sentito nominare. E a lei suggerisce qualcosa?» «Sì, ma non ricordo dove l'ho già sentito.» «Però la Tiger Solutions nasconde decisamente qualcosa, vero?» «Salta fuori in continuazione, questo è poco ma sicuro, e non è un nome che si scorda facilmente. Mi sa che dovremo fare un'altra visitina a Joe Riggs, ma penso sia meglio rimandare per un giorno o due. Mi piacerebbe avere qualcosa con cui metterlo sotto pressione, e al momento non abbiamo granché.» «Però, se non altro, stiamo cominciando a fare dei passi avanti.» Per la prima volta, da un po' di tempo a quella parte, Berrin appariva entusiasta.
Quando arrivammo alla stazione di Moorgate la trovammo chiusa per un allarme di sicurezza, e la circolazione stradale si era quasi bloccata. Chiamai Malik con il cellulare ma non rispondeva, perciò lasciai un messaggio chiedendogli di richiamarmi urgentemente. Intendevo tornare al commissariato, ma quando arrivammo a imboccare Old Street mancavano venti minuti alle sei e non ne valeva più la pena, perciò Berrin e io ci separammo, andando ognuno per la sua strada. In metropolitana, diretto a casa, tutto sudato fra i pendolari, non riuscivo a togliermi dalla mente il nome Tony Franks. Non smisi un momento di pensarci, tanto che scesi a Highbury e Islington e tornai in ufficio, convinto che non sarei riuscito a rilassarmi finché non avessi soddisfatto la mia curiosità. Come al solito la sala operativa era vuota, il che mi andava benissimo. Accesi il mio PC, mi versai una tazza di caffè e mi collegai con il database della polizia. Poi inserii il nome nella casellina di ricerca automatica: Franks, Anthony. Una corrispondenza. Aprii il file e comparve la fotografia di un bel giovane dai capelli corti e neri, con un'espressione spavalda. Era lo stesso che compariva nella fotografia al fianco di Jackie Palla da Biliardo. Secondo i dati dell'archivio informatico, era stato arrestato nel dicembre 1997 per sospetta importazione di sostanze stupefacenti di classe A, ma rilasciato senza un'accusa formale. Sulla fedina penale non aveva condanne, e a quanto pareva non risultavano altri arresti. Fissai a lungo la foto segnaletica, scervellandomi nel tentativo di ricordare dove diavolo l'avessi già visto. L'avevo interrogato in merito a qualcosa. Una cosa non troppo recente, ma anche non troppo lontana nel tempo. Si era trattato di un delitto importante, ma Franks non era fra i sospetti. Aveva risposto alle domande mostrandosi ansioso di collaborare e con il giusto livello di preoccupazione. Ricordavo di averlo trovato simpatico. Aveva detto di lavorare nel campo della sicurezza personale. Una volta aveva fatto da guardia del corpo a Geri Halliwell. Poi a un tratto me lo ricordai, e restai confuso perché non sapevo che cosa volesse dire. L'avevo interrogato a casa sua, e il motivo era che Tony Franks aveva abitato nella stessa via in cui Robert Jones, il tredicenne che faceva la consegna dei giornali, era stato visto vivo per l'ultima volta una fredda e buia mattina di febbraio di tanti mesi prima.
Iversson «Allora non puoi dirmi proprio niente?» disse Johnny, guardandomi come se davvero pensasse che potevo cambiare idea all'improvviso. «Per il momento no.» Abbassai la visiera del berretto sulla fronte e salii al posto del passeggero sul furgone Mercedes rosso che avremmo usato per trasportare Krys Holtz nei tre chilometri che separavano la Heavenly Girls dal garage di Finchley, che Joe aveva preso in affitto il giorno prima, dove avremmo cambiato vettura. Johnny si mise al volante e partì, imboccando City Road. «Spero che non sia una faccenda che mi mette in qualche guaio, Max. Amo la vita tranquilla, lo sai.» «Anch'io, Johnny, ed è una cosa che avresti dovuto pensare quando la tua raccomandazione per poco non mi ha fatto accoppare.» «Dammi almeno uno Scooby.» «Eh?» «Uno Scooby Doo. Un indizio. Giusto per farmi un'idea. È una cosa illegale?» «Ti ho chiesto di rubare due automezzi, che finiranno ambedue bruciati in un campo. Che cosa pensi?» «Penso di essere un po' nervoso, cazzo.» «Vedi di stare calmo, invece.» «Allora, dove si va?» «A un punto di raccolta a Muswell Hill.» Gli dissi l'indirizzo e la via principale più vicina. «Sai come arrivarci?» Johnny annuì. «Certo.» Erano le dieci e mezzo di sera e il buio era calato da un pezzo. Essendo lunedì, le strade erano abbastanza tranquille e cadeva una pioggia leggera. «E così dopo stanotte potrei non essere più necessario, giusto?» «Sì, se tutto fila secondo il piano. Ma non scommetterci. Può darsi che ci voglia un po'.» Non parlammo per il resto del tragitto. Johnny continuava a sembrare nervoso e a disagio, ma guidava senza perdere la concentrazione e in una quindicina di minuti posteggiammo davanti alla casa di Joe, un appartamento in una casa a schiera di mattoni rossi dall'aspetto leggermente malconcio. Gli feci uno squillo sul cellulare e un paio di minuti più tardi Joe, Tugger Lewis e Mike Kalinski uscirono in strada. Tugger indossava un completo con giacca e cravatta, mentre Joe e Kalinski indossavano tute da
lavoro simili a quelle che avevamo Johnny e io, ed entrambi portavano una cassetta per gli attrezzi. Tugger fece il giro del furgone e aprì la portiera dalla mia parte, mentre gli altri due puntarono dritti al retro. Scesi e feci salire Tugger. «Johnny, ti presento Tugger. Tugger, questo è Johnny. Voi due starete insieme per un po'. Johnny, fa' tutto quello che dice Tugger.» «Un momento, Max, pensavo...» «Salgo di dietro. Così darò meno nell'occhio.» Comunicai a Johnny l'indirizzo della Heavenly Girls, chiusi la portiera del passeggero e salii nel vano posteriore insieme a Joe e a Kalinski. Joe bussò due volte sul pannello interno che ci separava dalla cabina di guida e Johnny partì. Dieci minuti dopo, il furgone parcheggiò e udii Tugger scendere per inserire qualche spicciolo nel parchimetro. Guardai l'orologio. Le undici meno cinque. Passò un'ora, e restammo seduti là dentro in relativo silenzio, udendo di tanto in tanto la voce sommessa di Johnny che borbottava qualcosa e la strana risposta annoiata di Tugger. La circolazione stradale sembrava tranquilla. Joe aveva sorvegliato la zona la notte prima e Krys non si era fatto vedere. Non sapevamo per certo se si sarebbe fatto vivo quella notte, ma, nel caso, eravamo pronti. Osservai Kalinski mentre se ne stava seduto tranquillo a fissare il soffitto del furgone e a fumare una Rothmans dietro l'altra. Non mi piaceva. Si muoveva troppo in fretta; un tipico rapinatore. Quando l'avevo conosciuto la sera prima, indossava un impeccabile completo di sartoria, con gemelli d'oro ai polsini della camicia e un grosso Rolex d'oro, un oggetto per cui qualsiasi rapinatore che si rispettava sarebbe stato disposto a uccidere. Non mi vanno a genio i tipi che si credono dei padreterni, e decisamente Kalinski aveva un'altissima opinione di sé. Joe mi aveva detto che si vantava di aver guadagnato più di un milione di sterline con le rapine a mano armata e l'investimento dei proventi in affari di droga. Poteva darsi benissimo che fosse così, ma mi infastidiva il fatto che si ritenesse in diritto di vantarsene. Era evidente che si considerava migliore, e che in qualche modo disprezzava noialtri poveri cristi, costretti a guadagnarci da vivere con un lavoro regolare, anche se non capivo per quale motivo. Ladro e spacciatore. Non apparteneva di certo alla famiglia reale, no? Però, come mi aveva fatto notare Joe, sapeva perfettamente come si maneggia una pistola, e questo significava che c'erano maggiori probabilità che non avrebbe premuto facilmente il grilletto. L'ultima cosa che voleva-
mo era un conflitto a fuoco nel bordello. Il sequestro doveva filare liscio, senza la minima sbavatura. In questo modo, come sempre, ci saremmo garantiti il successo. E se Kalinski era taciturno di carattere, per me andava benissimo. Il suo persistente silenzio andava a compensare le inutili ciance di Johnny. Mi abbandonai contro il sedile e mi rilassai, per nulla disturbato dalla noia dell'attesa. Avevo imparato a essere paziente da parecchi anni. Era una delle prime cose a cui si faceva l'abitudine sotto le armi. Passò un'altra ora. Poi due. Kalinski strusciò le suole delle scarpe sul pavimento, allungò le gambe, si stirò, borbottò una strana imprecazione, e a un certo punto ci raccontò una storia su come una volta avesse passato una serata galante con Lady Vattelappesca, una gran dama dell'alta società londinese, che a quanto pareva trovava il massimo dell'eccitazione nel fargli indossare un passamontagna, con tanto di fucile a canne mozze, e nel farsi scopare da dietro mentre lui la chiamava "brutta puttana di una riccona". Kalinski sembrava convinto che questo gli conferisse un'aura da stallone, ma io pensai che mi sarei sentito piuttosto offeso se una pollastra con cui andavo a letto mi avesse chiesto di indossare una maschera, anche se nel caso della gran dama capivo il suo punto di vista: Kalinski non si poteva di certo definire un giovanotto piacente. Aveva una faccia da rospo e la pelle tutta butterata. Né io né Joe gli demmo molta soddisfazione e, vedendo che non ci aveva affatto impressionato con le sue scorribande sessuali nelle classi abbienti, tornò a trincerarsi in un silenzio imbronciato. Non avrebbe potuto farci un favore più grande. Nella cabina di guida sentii Johnny dire che aveva urgente bisogno di cambiare l'acqua al merlo, proprio come un lagnoso bambinetto del cazzo. Una volta decifrato cosa significava, Tugger gli consigliò di pisciare in una bottiglia di acqua minerale vuota, ma Johnny gli rispose di andare affanculo. Avrebbe resistito, disse. Non mi sembrava troppo contento. Alle tre meno dieci udii un'auto accostare al marciapiede di fronte e contrassi i muscoli, allungando adagio le gambe e sperando che fosse la volta buona. Ma Tugger non fece alcun segnale. Era solo l'ennesimo puttaniere in cerca di un finale gradevole per la nottata. Alle tre in punto udii l'inequivocabile fiotto idraulico di Johnny che alla fine soccombeva ai bisogni fisiologici e la faceva nella bottiglia, continuando per quello che parve un periodo di tempo dalla lunghezza impressionante.
Alle cinque passate mi rivolsi a Joe e dissi che tanto valeva cedere e andarcene a letto. Kalinski mugugnò una specie di assenso, e Joe, che stava già sonnecchiando da un pezzo, annuì. Bussai quattro volte sulla parete d'acciaio che ci separava dalla cabina. Trenta secondi dopo il motore si avviò e Johnny fece partire il furgone. Accesi una sigaretta e sperai di non dover ripetere l'esperienza per troppe notti. Ma immagino che questa sia la natura stessa della guerra. Ore, a volte giorni di lunga attesa, poi brevi ed esaltanti scariche di adrenalina e di eccitazione che finiscono prima ancora di accorgersene, ma in seguito vivono nella memoria, scolpite dall'orgoglio, per anni e anni. MARTEDÌ, CINQUE GIORNI FA Gallan Non ero più stato in quella via da quando avevamo archiviato l'indagine parecchi mesi prima. Era una bella strada alberata di grandi ville plurifamiliari con giardino, imbiancate a calce, che serpeggiava a nord della Lower Holloway Road oltre la chiazza verde di Highbury Fields. Un'oasi di pace in mezzo alla frenesia cittadina. Dal punto in cui mi trovavo in quel momento, guardando in basso in discesa in direzione di Clerkenwell, vedevo la guglia imponente della Union Chapel in Upper Street svettare sopra la cima degli alberi che punteggiavano il fondo del parco in primo piano. I residenti e le circoscrizioni municipali di Londra amavano esibire fin troppo spesso la dicitura "villaggio" ai confini dei loro ghetti della media borghesia nel futile tentativo di creare una parvenza di comunità e far lievitare i prezzi delle proprietà immobiliari. Lì, però, quel termine sembrava calzare a pennello. Si aveva quasi l'impressione di essere in mezzo alla campagna del Gloucestershire. Perfino il traffico era ridotto al minimo. Era un quartiere che trasudava soldi. Forse proprio per questo sentivo che avrei dovuto indagare più a fondo nel passato di Tony Franks. Come faceva un uomo che lavorava nel campo della sicurezza personale a permettersi di abitare in una via così esclusiva? Da quel che ricordavo, diversi suoi vicini di casa erano banchieri e avvocati, il genere di persone che hanno grosse disponibilità finanziarie. Penso che avesse detto qualcosa riguardo al fatto di essere socio della ditta per cui lavorava, ma non ricordavo con precisione, e nella sua scheda biografica non c'era nulla che lo confermasse. In quel periodo la vita di Tony
Franks non aveva acceso il mio interesse. Non aveva precedenti penali, non si presentava come uno che avesse qualcosa da nascondere e, giusto o sbagliato che fosse, semplicemente non era un sospetto. Avevamo sempre ritenuto che Robert fosse rimasto vittima di un pedofilo omicida che aveva sfruttato l'oscurità del primo mattino e della quiete della zona residenziale per rapire la sua preda in strada. Robert era un ragazzo piccolo e magro, sul metro e venti di altezza, e non era in grado di opporsi a un aggressore abbastanza robusto e deciso. Quella mattina il tempo era splendido e soleggiato, praticamente l'opposto delle gelide mattine di febbraio durante le quali avevamo battuto a tappeto le ville della zona per interrogare più gente possibile. Probabilmente era stata l'inchiesta più dolorosa a cui avessi lavorato. Mi trovavo nel punto esatto in cui Robert era stato visto da vivo per l'ultima volta da un funzionario della Citibank che stava uscendo di casa per recarsi al lavoro. Mancavano cinque minuti alle sette e Robert era passato a piedi davanti al vialetto della sua casa mentre lui stava partendo in auto. L'uomo l'aveva riconosciuto subito perché Robert portava un caratteristico berretto di lana con una banda fluorescente verde. Da oltre sei mesi faceva quel giro per la consegna dei quotidiani, e spesso si erano incontrati a quell'ora. Robert gli aveva fatto un rapido cenno di saluto con la mano e il funzionario di banca aveva restituito il saluto. Riferendo la cosa, era scoppiato in lacrime perché aveva un figlio della stessa età. Sapevo che cosa provava. Non c'era nulla di peggio dell'omicidio di un bambino, specialmente per un genitore. Ricordavo con quale furiosa determinazione mi fossi applicato per risolvere il caso e affidare l'assassino alla giustizia, e anche la disperata impotenza che avevo provato quando alla fine fummo costretti ad archiviare l'inchiesta perché non era emerso il benché minimo indizio. Era difficile credere che un delitto talmente mostruoso fosse avvenuto in una via così ridente e tranquilla. Per me questa era la cosa peggiore nel mio lavoro di poliziotto: sapere che in effetti nessun posto è sicuro. In un paese libero, chi cova il male nel cuore può gironzolare ovunque desideri. Avevo voluto recarmi sul posto da solo, dicendo a Berrin che in questo modo avremmo sprecato meno tempo. Gli avevo ordinato di cercare altre informazioni sulla Contracts International e di andare da Leppel per l'elenco degli agenti operativi in Bosnia. La vera ragione, però, era concedermi l'opportunità di rivisitare la scena di quello che consideravo uno dei miei principali insuccessi professionali, e magari prendermi un po' di tempo per riflettere su quanto era accaduto in quella fredda e buia mattina.
L'agenzia di distribuzione dei giornali per cui Robert faceva le consegne si trovava in Highbury Grove, poco meno di un chilometro a nordest del punto in cui mi trovavo in quel preciso momento. La via, Runmayne Avenue, era circa a metà strada del suo solito tragitto. Robert la percorreva per intero - era lunga circa quattrocento metri -, poi tornava indietro percorrendo la parallela, Fairfield Avenue, prima di ritornare all'agenzia lungo la strada principale. Ero sicuro che Robert fosse stato rapito in quel tratto di strada. Anche a quell'ora del mattino circolavano auto e persone. Non troppe, in effetti, ma quanto bastava per aspettarsi che se Robert avesse proseguito per tutto il tragitto di ritorno sarebbe stato notato da qualcun altro. Dopo tutto, era difficile che passasse inosservato. L'abitazione di Franks era un centinaio di metri più avanti rispetto al punto in cui Robert era stato visto per l'ultima volta e non era nella lista delle consegne. Senza fretta, mi avviai lentamente in quella direzione, cercando di ricordare la strada precisa che il ragazzo avrebbe fatto e in quali case avrebbe consegnato il giornale. Ma non ricordavo granché. Era passato troppo tempo. Troppi mesi e troppi casi si erano succeduti in sequenza e la vita di Robert Jones era già diventata una storia lontana. Naturalmente sarebbe stato sempre ricordato dai suoi genitori e da sua sorella, ma persino loro avrebbero pensato a lui sempre meno con il passare del tempo, e per tutti gli altri sarebbe diventato semplicemente un vago ricordo, un viso sorridente e perennemente giovane in una fotografia che di tanto in tanto avrebbe ispirato una mesta conversazione. Era molto di più di una tragedia: era un'ingiustizia. Qualcuno, un giorno o l'altro, avrebbe dovuto pagare. L'abitazione di Franks era l'ala estrema di un'enorme villa che sorgeva rientrata di pochi metri rispetto alla via. Probabilmente l'edificio era composto da una mezza dozzina di appartamenti spaziosi, e aveva due grandi porticati d'ingresso lungo la facciata. L'ala era stata costruita molto tempo dopo rispetto alla villa, probabilmente negli anni Sessanta, e dava l'idea di diramarsi dal corpo principale con una strana angolazione. La facciata era dipinta in uno sbiadito azzurro cielo anziché nel bianco niveo del resto dell'edificio, mettendola in singolare evidenza. A parte quello, però, aveva un aspetto gradevole. Piccola, ma ragionevolmente ben tenuta. Finestre nuove fiammanti erano state installate sia al pianterreno sia al primo piano, e davanti era dotata di un vialetto d'accesso lastricato di recente, con uno spazio sufficiente per posteggiare due auto ravvicinate. Un muro di pietra lo separava dal parcheggio principale antistante il resto della villa, come se
gli altri condomini non volessero avere niente a che fare con il loro vicino. Quel giorno il vialetto di Franks era deserto quando lo percorsi fino alla porta d'ingresso. Attraverso le tende intravedevo un interno pulito e ben arredato, sebbene un po' spoglio, ma nessun segno evidente di vita. Suonai il campanello alla porta, ma nessuno rispose; poi guardai nella fessura della posta. Sullo zerbino interno c'era una pila di opuscoli di carta patinata, dépliant e varie altre pubblicità: almeno una settimana di posta, forse di più. Era come se Franks avesse traslocato. Feci il giro del muro di cinta fino al portico d'ingresso più vicino e vidi che c'era un citofono con tre campanelli. Sotto il citofono un adesivo avvertiva che l'edificio era protetto da telecamere a circuito chiuso, anche se non ne notai nessuna. Suonai in successione i primi due campanelli, ma non ottenni risposta, perciò tentai con il terzo. Dovetti suonare più volte, ma alla fine una voce femminile moderatamente seccata rispose al citofono. «Sì?» disse con un tono accusatorio. Mi presentai e spiegai che ero lì per un'indagine di polizia. La voce della donna perse immediatamente l'ostilità iniziale e la porta si aprì con uno scatto sonoro. L'appartamento occupava il pianterreno e la donna uscì ad accogliermi sul pianerottolo. Indossava solo una leggera vestaglia e un paio di ciabattine. Era sulla trentina, con i capelli biondi corti, ed era piuttosto carina secondo i canoni della borghesia facoltosa. Anche in vestaglia. Forse avrei dovuto stare attento. «Mi scusi» disse. «Non avevo capito che era la polizia. Pensavo volesse vendermi qualcosa.» «Non so se considerarlo un complimento o meno.» Lei sorrise. «Nemmeno io. Comunque prego, si accomodi. Perdoni l'abbigliamento ma ho un terribile raffreddore. Per questo non sono al lavoro.» Tirò su forte con il naso per confermare l'asserzione e si fece da parte per lasciarmi entrare. «Spero che non si tratti di David» aggiunse, guidandomi in un vasto salotto sontuosamente arredato. «David?» «Mio marito.» Mi accomodai e lei si sedette sul divano di fronte a gambe unite, praticamente incollate. Chissà perché, ebbi la sensazione di essere al sicuro da qualsiasi avance predatoria. «No, suo marito non c'entra per niente. Si tratta del vostro vicino, Mr Tony Franks.» «Ah, sì, Tony. Un bell'uomo. Con i capelli neri.» Aveva modi affettati e intonazioni da donna di classe. Decisamente quella ragazza non era stata educata alla scuola pubblica. Ma da quelle parti chi mai lo era stato?
Annuii. «Sembra corrispondere.» Levai dalla tasca della giacca la foto segnaletica e gliela mostrai per qualche secondo. «Oh, sì, è lui.» Si scusò e si soffiò il naso in un fazzoletto che pescò dalla tasca della vestaglia. «Cosa è successo, ha fatto qualcosa di male?» «Sinceramente non lo so. È possibile.» «Infatti ho pensato che fosse piuttosto strano.» «Che cosa?» «Be', il modo in cui ha traslocato. Così, all'improvviso.» «Quando è stato?» «Non lo so con certezza. In effetti non l'ho visto partire. So solo che circa una settimana fa è venuto qui un uomo con un furgone e ha portato via un po' di roba.» «Aveva mai visto quell'uomo prima di allora?» La donna scosse il capo. «No. Il giorno che è venuto qui ero fuori con il sacco della spazzatura quando ho notato che caricava la roba. Di solito non faccio mai troppo caso a quello che fanno i vicini... voglio dire, a Londra non si fa, giusto?» Feci cenno di sì con la testa, pensando che probabilmente la radicata indifferenza dei londinesi era la causa principale di tante cose sbagliate, e aspettai che proseguisse. «Ma in questa zona si sono verificate alcune rapine in abitazioni private, come probabilmente sa, perciò gli ho domandato che cosa stesse facendo, e lui mi ha risposto che era il fratello di Tony.» «Sono state le sue precise parole: "Il fratello di Tony"?» La donna annuì. «Esatto. Di conseguenza, ho pensato che fosse tutto regolare. Era anche un tipo abbastanza cordiale, per nulla furtivo, come ci si aspetterebbe da un rapinatore.» Si interruppe per soffiarsi il naso, scusandosi di nuovo. «Ha detto che Tony stava traslocando e che gli stava dando una mano a sgomberare la casa. Di fronte a un'affermazione del genere non c'era molto da aggiungere. Gli ho chiesto se Tony sarebbe tornato più tardi e lui mi ha assicurato di sì. Ma non si è più fatto vivo.» «Non ha più rivisto Mr Franks?» «No. Non lo vedo almeno da due o tre settimane.» Feci mentalmente dei calcoli. Erano passati sedici giorni dall'assassinio di Shaun Matthews. Una coincidenza singolare. Era giunto il momento di fare una domanda essenziale. «Ha per caso preso nota del numero di targa del furgone?» Incrociai mentalmente le dita. «Sì, certo. Non mi piace fare la ficcanaso e so che non sono affari miei, ma l'ho memorizzato mentre parlavo con quell'uomo, giusto per precau-
zione, e l'ho trascritto su un foglietto di carta non appena sono rientrata in casa.» La donna si alzò dal divano, tirando su con il naso. «Dov'è che l'ho messo? Mi scusi un secondo...» Uscì dalla sala e io sperai di aver finalmente trovato lo spiraglio che cercavo. Anche se si fosse dimostrato difficile localizzare Franks, chiunque avesse prelevato la sua roba dall'appartamento doveva sapere qualcosa circa il suo nuovo indirizzo. In un modo o nell'altro sentivo di essere sulla pista giusta. Chiamatelo istinto, se volete. Si trattava solo di continuare a seguire le tracce e al tempo stesso convincere i miei superiori che la pista era un valido investimento di tempo. Questa sarebbe stata la parte più difficile, in particolare ora che a quanto pareva i delinquenti della zona cominciavano a svegliarsi dall'inattività della settimana precedente. Una grave rapina avvenuta la notte scorsa, in cui una donna incinta era stata aggredita con un coltello da due intrusi che avevano minacciato di sventrarla se non avesse rivelato dove teneva nascosti i preziosi, aveva già provocato al nostro sovrintendente un mal di testa terribile legato alla carenza di personale. Con il clamore suscitato dalla violenza carnale ai danni della minorenne, la situazione si stava surriscaldando. Knox aveva già lasciato intendere che con ogni probabilità l'organico della squadra Omicidi sarebbe stato ulteriormente ridotto nelle successive ventiquattr'ore, perciò il tempo era diventato essenziale. «Eccolo qui» disse la donna, tornando in sala con un foglietto di carta. «Non ricordavo se l'avevo buttato via oppure no, ma era ancora nel cassetto.» Mi consegnò il foglietto e io lo riposi nel taschino della giacca, ringraziandola. «Saprebbe descrivermi l'uomo che ha visto, Miss?...» «Deerborne. Mrs Judy Deerborne. Non sono una fisionomista, ma proverò a descriverglielo. Molto robusto. Piuttosto rude, direi quasi grezzo, ed è proprio per questo che non mi sono fidata completamente di lui. Sui quaranta, quarantadue anni, intorno al metro e ottanta di altezza, e penso che fosse calvo, anche se era difficile stabilirlo dato che portava un berretto. Aveva anche un gran testone.» «Non sono d'accordo con lei» dissi. «È bravissima.» Ero contento di portare ancora lo stesso completo del giorno prima, perché nella tasca c'era la fotografia che avevo mostrato a Martin Leppel. Gliela mostrai. «Non era per caso l'uomo a destra? Quello in borghese?» Judy Deerborne fissò la fotografia per alcuni secondi. Jackie Palla da Biliardo aveva con sé un berretto, ma anziché indossarlo lo teneva in mano.
Il suo cranio pelato era visibile a un chilometro di distanza. Finalmente, la donna alzò lo sguardo. «Sa, credo si tratti di lui. Non ne sono sicura al cento per cento... la foto non è molto nitida. Però sì, gli assomiglia parecchio.» Interessante. «Da quanto abita qui, Mrs Deerborne?» «Ho comprato questo appartamento con mio marito dieci anni fa. Penso ci sia costato un terzo di quello che vale attualmente.» «Pare sia così nella maggior parte di Londra. E da quanto tempo Franks era vostro vicino?» «Da parecchio.» Ci pensò su un momento. «Almeno tre o quattro anni, forse di più. Perché? Che cosa pensa abbia fatto?» Tirò su rumorosamente con il naso. «Muoio dalla voglia di saperlo.» Le risposi gentilmente che non ero autorizzato a divulgare la cosa. «Spero che non c'entri niente con quello che è capitato a quel povero ragazzo che consegnava i giornali. Quello che è stato ucciso.» Le feci omaggio di un sorriso rassicurante. «No. È tutta un'altra faccenda. Franks abitava da solo?» «Di tanto in tanto si vedeva andare e venire qualcuno, ma per quel che ne so, viveva da solo. Spesso si assentava. A volte stava via per settimane.» «Non le ha mai detto che lavoro faceva? Non per niente, ma è una casa costosa.» «So che l'aveva presa in affitto, ma non so per quanto. Una bella cifra, suppongo. No, non mi ha mai parlato del suo lavoro. Se ne stava sulle sue. Rispondeva se gli si parlava, e salutava sempre, ma non credo di aver conversato con lui più di cinque o sei volte in tutto il tempo che è stato qui, e mai per più di qualche minuto. Di solito parlavamo del tempo o di qualche banalità.» «Sa chi è il proprietario dell'appartamento?» «Sì, si chiama Roddy Lee Potter. È il proprietario da un sacco di anni. Lo so perché un paio di volte è venuto da noi per convincerci a vendergli il nostro appartamento. Penso che a Londra possieda diverse case. Si guadagna da vivere investendo nel mercato immobiliare.» Le domandai se avesse il numero di telefono o l'indirizzo di questo Lee Potter e, dopo qualche altra ricerca, venne fuori che aveva entrambe le informazioni. Le trascrisse su un foglio di carta che poi mi consegnò. «Non so perché ci siamo presi il disturbo di tenere il suo indirizzo e il numero di telefono. Non abbiamo mai preso in considerazione l'idea di vendere. Ado-
riamo questo quartiere.» «Posso capire» dissi, alzandomi in piedi. «È una splendida zona.» Porsi la mano e lei me la strinse con vigore. «Grazie tante per l'aiuto, Mrs Deerborne. Ho molto apprezzato. Se per qualunque motivo Mr Franks dovesse farsi di nuovo vedere, potrebbe chiamarmi subito a questo numero?» Le diedi il mio biglietto da visita. «Sì, certo» rispose, accompagnandomi alla porta. «Spero che il raffreddore le passi presto» le dissi sulla soglia. «Sicuramente. Non hanno mai preso l'uomo che ha ucciso il ragazzo dei giornali, vero?» «No» risposi. «Non l'abbiamo preso. Ma un giorno lo faremo. Alla fine li prendiamo sempre.» Quando fui di nuovo in strada telefonai a Berrin e lo aggiornai. «Ho ancora un paio di visite in programma» gli dissi. «Ci vediamo al commissariato. Fammi un piacere: puoi controllare il pubblico registro automobilistico al posto mio?» Gli dettai il numero di targa del furgone. «Crede di aver scoperto qualcosa, sergente?» domandò Berrin. «Non so. È possibile. Mi faresti un altro piacere? Parla con Capper e Hunsdon. Fatti dire com'è andato l'interrogatorio di Jean Tanner.» Dopo aver riattaccato, provai all'improvviso un forte senso di colpa. Quella mattina avevo caricato Berrin di incombenze. Mi sentivo un profittatore. Sulla carta, avrei dovuto insegnare a quel povero ragazzo i segreti del CID, e invece gli scaricavo sul groppone tutto il noioso lavoro di routine e me ne andavo in giro a indagare da solo. Presi la consapevole decisione di essere più equo in futuro con il mio collega. Ma per il momento avevo bisogno di muovermi in fretta. Per tutta la durata dell'incontro con Judy Deerborne avevo tenuto spento il cellulare, un'abitudine di vecchia data visto che le interruzioni mi scombussolavano sempre il processo di elaborazione mentale dei pensieri, e ora notai che mi era arrivato un messaggio. Era Malik che rispondeva alla mia chiamata, e aveva telefonato solo dieci minuti prima. Premetti il tasto per richiamare automaticamente il suo numero e aspettai che squillasse. Malik era un diavolo d'uomo difficilmente reperibile, perciò dovevo approfittare delle occasioni che avevo di rintracciarlo. Rispose al quarto squillo. «Salve, John. Ti ho appena chiamato.» «Lo so. Hai avuto il mio messaggio e le e-mail che ti ho mandato?» «Sì, certo.»
«Il tipo in tuta mimetica insieme a Jack Merriweather nella fotografia allegata: lo abbiamo identificato come un certo Tony Franks. Fino a poche settimane fa, e per alcuni anni, ha abitato al 41F di Runmayne Avenue, a Highbury Fields. Sai niente sul suo conto?» «Come no» ribatté Malik. «Era sospettato di essere implicato in un traffico di stupefacenti per conto degli Holtz. Importazione clandestina dall'Europa dell'Est, dove aveva stretto una fitta rete di contatti. Nel 1998 venne fermato per essere interrogato e messo sotto sorveglianza per un po', principalmente per quell'articolo di "Der Spiegel", ma non emersero elementi a suo carico. Alla fine, a parte quella fotografia e due o tre altre informazioni di scarsa importanza, non saltò fuori alcuna prova sicura. In questi ultimi mesi Franks è stato anche visto in compagnia di Merriweather almeno due volte, ma lo stesso si può dire di un centinaio di altre persone. Su di lui non abbiamo nulla di concreto.» «Quindi, il suo indirizzo di casa non ti fa suonare nessun campanello?» «No. Proverò a spremermi le meningi, tanto per farti piacere, ma credo di no.» Non restai scoraggiato. «È una bella casa in una splendida zona. L'affitto deve costare sulle duemila sterline al mese, come minimo, probabilmente di più. Che io sappia, Franks faceva la guardia del corpo part-time, perciò qualcun altro doveva pagargli l'affitto. La domanda è: perché?» Malik sospirò. «Hai ragione. È molto strano, anche se lui ha legami con la criminalità organizzata.» «Senti, lascia che ti dica una cosa. È strano, se non addirittura bizzarro, ma è una cosa che mi ha messo una pulce nell'orecchio.» Alzai lo sguardo dal selciato e osservai la via tranquilla. Una BMW serie 7 nuova fiammante mi oltrepassò lentamente in direzione di Holloway Road. «E sai una cosa? Più ci penso e più mi convinco che ci sia sotto qualcosa di grosso.» «Va' avanti.» E così gli raccontai che cosa avevo scoperto, e quando ebbi finito Malik convenne che avevo ragione, era addirittura bizzarro. «Ma se c'è sotto qualcosa, pensa alle implicazioni. Pensa a come potrebbe servirti per incastrare gli Holtz.» «Parla con il padrone di casa» disse Malik. «Scopri come viene pagato ogni mese e da dove proviene il denaro.» MERCOLEDÌ, QUATTRO GIORNI FA
Gallan Roddy Lee Potter abitava in uno sfarzoso appartamento situato al pianterreno di uno splendido palazzo georgiano a quattro passi da Kensington High Street. Quando il giorno prima ero finalmente riuscito a farlo rispondere al cellulare si trovava in un bar di Soho e dava l'idea di essere ubriaco fradicio. Ci eravamo accordati per incontrarci mercoledì a mezzogiorno a casa sua, ma avevo telefonato in anticipo per assicurarmi che non si fosse dimenticato dell'appuntamento, cosa che aveva fatto. Roddy aveva tentato di rimandare (i postumi della sbornia erano ancora avvertibili nella sua voce), ma non avevo intenzione di mollarlo così facilmente e insistetti perché rispettassimo l'orario concordato. Arrivai a casa sua con dieci minuti di anticipo e mi venne subito aperto non appena suonai al citofono. Alla porta dell'appartamento fui ricevuto da un gentiluomo panciuto, dal volto rubizzo e i capelli ricci sale e pepe, che dava l'impressione di essersi appena alzato dal letto. Indossava un paio di pantaloni grinzosi e una camicia a maniche corte. «Sergente Gallan... Prego, si accomodi.» Lo seguii all'interno e attraverso una sala riccamente arredata ma molto in disordine. Sembrava che la donna delle pulizie non vi avesse messo piede da alcuni giorni. Lee Potter mi invitò ad accomodarmi su una poltrona di pelle e io mi sedetti, storcendo il naso alla vista del grande portacenere da locale pubblico, quasi pieno, che troneggiava sul tavolino accanto al padrone di casa. La puzza mi rammentò perché avessi deciso di smettere di fumare tanti anni prima. «Le andrebbe un caffè?» mi domandò. Accettai e restai ad aspettare mentre andava a prepararlo. Era un tipo abbastanza cordiale, ma poi mi venne da pensare che è facile mostrarsi affabili quando si vive di rendita grazie agli affitti, con tutte le comodità e in una relativa ricchezza, e non si ha alcuna responsabilità. Ero invidioso? Voi cosa dite? Assolutamente sì. Quando Lee Potter tornò con il caffè, mi chiese in che cosa potesse essermi utile. «Spero di non essere nei guai per qualche motivo» aggiunse in un tono eccessivamente accattivante, e si sedette di fronte a me. «No, non si tratta di lei. Ma potrebbe esserci utile per dei chiarimenti. Ha affittato una casa a un certo Tony Franks?» «Sì, è così. Ha traslocato un paio di settimane fa.» «Da quanto tempo era suo inquilino?»
«Da quattro anni, più o meno.» «Posso chiederle quanto gli faceva pagare d'affitto?» Lee Potter parve colto di sorpresa. «È proprio necessario? Che cosa c'entra con il resto?» «Sto solo cercando di capire la situazione» dissi «e a questo fine l'informazione è importante.» «Duemiladuecento sterline al mese. Avrei potuto chiedere di più, ma era un inquilino corretto e non sono tutti così, glielo garantisco.» «Quante case ha da affittare, Lee Potter?» «Quattro in tutto.» «Immagino che le rendano bene.» Lee Potter sorrise nervosamente. «Niente male. Non posso lamentarmi.» «No, scommetto di no.» Usai un tono deliberatamente sospettoso. Avevo capito che Lee Potter era debole di carattere, uno su cui si poteva fare pressione. «Come si guadagna da vivere Franks?» «Credo che abbia una ditta di sua proprietà. Però non so di preciso di che cosa si occupi. Finché pagava puntualmente l'affitto...» «... Lei non faceva troppe domande. Quante volte ha incontrato Mr Franks?» «Ehm, non saprei dirle. Non molte. Due o tre volte al massimo.» «In quattro anni?» Inarcai le sopracciglia. «Non c'è mai stato bisogno di vederlo più spesso.» «Abitava da solo, vero?» Lee Potter annuì, chiaramente frastornato dalle mie domande a raffica. «Per quanto ne so, sì. È così.» «Come le arrivava il denaro?» «Che cosa intende dire?» «La pagava direttamente lui o era qualcun altro a farlo?» «Era la sua ditta a pagare. Ogni mese mi spedivano un assegno, sempre puntuali. Ecco perché non mi sono mai disturbato più di tanto. C'è qualcosa di sbagliato?» Ignorai la domanda. «Le ha lasciato un nuovo recapito quando ha traslocato?» «No, non ha lasciato niente. Anzi, non si è nemmeno fatto vedere. Ho ricevuto una telefonata da parte di suo fratello che mi ha avvertito della sua partenza e mi ha chiesto quanto mi doveva. Ero un po' preoccupato perché avveniva tutto così in fretta, perciò mi ha suggerito di andare a dare un'occhiata all'appartamento per vedere se era tutto a posto. L'ho fatto, la casa
sembrava pulita e in ordine, e quando suo fratello mi ha richiamato un paio di giorni dopo gli ho detto quello che mi doveva e la ditta ha spedito un altro assegno per il saldo.» «Il fratello di Franks le ha lasciato un recapito telefonico a cui poteva chiamarlo?» Lee Potter scosse il capo. «No. Non mi ha...» «Di conseguenza non potrebbe affermare con certezza che si trattava davvero di suo fratello?» «Be', no, ma non c'era ragione di dubitare. Perché avrei dovuto sospettare di lui?» «Il motivo per cui glielo chiedo è che vogliamo parlare con Mr Franks di questioni piuttosto gravi, e mi interessa in particolare sapere qualcosa sui suoi amici.» «Come le ho detto, Mr Gallan, l'ho visto soltanto un paio di volte e sempre da solo. Era un inquilino modello sotto ogni aspetto. Non mi ha mai disturbato, non si è mai lamentato di niente. Mai una telefonata per nessun motivo. Pagava l'affitto e basta.» Mi interruppi un momento e per un po' sorseggiai il caffè prima di proseguire con le domande. «Da parte sua non ha mai avuto il sospetto che la casa venisse usata per altri scopi, anziché semplicemente come residenza?» Lee Potter cercò di darmi l'impressione di riflettere a fondo sulla domanda, ma non mi convinse affatto. «No, veramente no» rispose alla fine. «È assolutamente sicuro? È molto importante saperlo.» Lee Potter sospirò. «Una volta passai di là, non so, più o meno un anno fa, principalmente perché era da un secolo che non vedevo la casa, e comunque mi trovavo in zona.» «Vada avanti.» «Niente di particolare, in effetti, però tutte le tende erano tirate. Pensai che fosse un po' strano visto che era mezzogiorno e c'erano due auto parcheggiate fuori. Comunque, suonai il campanello un paio di volte, ma nessuno venne ad aprire.» Lee Potter fece una pausa e proseguì. «Però ero sicuro che ci fosse qualcuno in casa, perché fra le tende del soggiorno c'era un piccolo spiraglio e fui certo di vedere un'ombra che si muoveva all'interno. Probabilmente non era niente, anzi, di sicuro, ma un paio di giorni dopo telefonai a Mr Franks e lui mi disse che era stato assente da casa per un po'. Strano.» Lee Potter alzò le spalle e allargò le braccia. «Soltanto questo. Non mi viene in mente nient'altro. Che cosa crede che stesse suc-
cedendo, là dentro?» «Non lo so» dissi, ma mi ero già fatto qualche idea. Finii il caffè, presi nota della ditta che pagava la pigione di Franks a Lee Potter e me ne andai. Fuori, il cielo si era rannuvolato e stava già piovendo, ma praticamente non ci feci caso avviandomi verso la stazione della metropolitana. Ero troppo impegnato a riflettere. Dodici ore dopo, i miei pensieri erano rivolti a questioni molto diverse. Mi domandavo per esempio perché il sovrintendente non si stesse inzuppando di pioggia nelle strade di Islington a mezzanotte se era così ansioso di "promuovere un continuo e sempre più approfondito spirito di collaborazione" tra chi andava di pattuglia in divisa e chi aveva sperato di essersi lasciato alle spalle quell'esperienza. Mezzanotte era passata da dieci minuti ed eravamo appena stati chiamati al piano terra del villino al momento abitato da Brian e Katrina Driscoll. Una delle case popolari assegnate dalla municipalità alle famiglie a basso reddito. Il fetore mi colpì come uno schiaffo non appena varcai la soglia seguendo Berrin e i due agenti in uniforme. Feci, vomito e rifiuti marci. Avanzi di cibo avariato, aria stagnante, il solito odore penetrante di muffa e di sporcizia. Un bambino di circa otto anni con addosso solo i lerci pantaloni di un pigiammo, e con le costole che gli sporgevano come se stessero per fuoriuscire dalla pelle, ci osservava impassibile, in piedi, in fondo alla scala. Il corridoio d'entrata era buio, ma più avanti si vedevano delle luci. Un uggiolio isterico proveniva da una delle stanze in fondo al corridoio. Era una voce femminile. Sembrava ubriaca. «Non riesco a credere che tu mi abbia fatto una cosa del genere, testa di cazzo!» «Vaffanculo, chiudi la bocca, brutta troia, o te ne darò ancora!» La donna strillò di nuovo. «Va' a farti fottere!» «Vuoi prenderle ancora? Cazzo, ne vuoi ancora?» Seguì un rumore di vetro o di vasellame infranto e il primo poliziotto in uniforme, l'agente Ramsay, annunciò l'arrivo della polizia in risposta a una telefonata che richiedeva il nostro intervento. Percorremmo il corridoio in fila indiana fino alla cucina, passando davanti al bambino che continuava a fissarci con la massima inespressività. «Vi ho chiamato io! Guardate cosa cazzo mi ha fatto!» La donna entrò nel nostro campo visivo, un donnone grasso e deforme, con un paio di jeans e un camicione bianco che le si alzava sulla pancia debordante. Un denso rivolo di sangue le imbrattava la faccia scorrendole su una guancia e
sul collo. La fonte del rivolo era un ampio taglio sulla fronte. La donna si aggrappò a Ramsay e lo abbrancò tirandoselo addosso come un'orsa in calore. «Guarda cosa mi ha fatto quello stronzo! Guarda!» La collega di Ramsay, l'agente Farnes, accompagnò la vittima in salotto, lontano dal suo convivente, che in quel momento comparve, a piedi scalzi, sulla soglia della cucina. «Non le ho fatto un cazzo di niente» dichiarò, scuotendo la testa e biascicando le parole per via dell'alcol. Era alto, con una gran testa di capelli scuri, lerci e arruffati, e un pancione enorme da bevitore di birra. Sui trentacinque anni, vestito con jeans e una camicia a quadri. Ci avevano avvisato che era violento, specie se sbronzo. A quanto pareva, la polizia era intervenuta in quella casa parecchie volte in passato. «Dài, adesso smettila, Brian» disse Ramsay, che sembrava conoscerlo. «Penso sia meglio che tu venga con noi.» Ramsay parlò con calma, in tono quasi rassicurante. Ramsay era comprensibilmente impaziente di evitare una scenata. E anch'io, dato che sarei dovuto intervenire se l'uomo non si fosse calmato. La risposta di Brian, però, fu prevedibile. «Vaffanculo. Sto bene qui. Non l'ho neppure toccata. Come al solito questa bugiarda dice cazzate.» Brian venne avanti, cercando di intrufolarsi nella stanza in cui si trovava la sua convivente. Ramsay gli sbarrò il passo e alzò le mani per fermarlo. «Ha fatto una denuncia, Brian. E ora dobbiamo procedere di conseguenza. Lo capisci questo, vero?» «'fanculo. Togliti di mezzo.» «Senti, non costringerci a usare le maniere forti. Non fare resistenza e stai tranquillo.» Brian si avventò di scatto in avanti e io feci del mio meglio per afferrarlo da dietro abbracciandolo sotto le ascelle, mentre Berrin riuscì a stringerlo al collo con un braccio. Ramsay fece comparire dal nulla un paio di manette e tutti e tre insieme lo sospingemmo verso la porta d'ingresso. Due altri agenti in uniforme appena arrivati entrarono in casa e ci aiutarono in quello che aveva tutta l'aria di essere un arresto difficile. Brian si dibatteva come un ossesso, imprecava e urlava, poi cadde sul pavimento, cercando di colpirci mulinando le braccia. Gli afferrai un braccio, un poliziotto in divisa gli afferrò l'altro e Ramsay gli fece scattare le manette ai polsi. «Cosa cazzo mi state facendo! Lasciatemi andare! Bastardi!» Alzai lo sguardo e vidi il bambino sulle scale che continuava a osservare la scena, come se vedere suo padre lottare con un branco di poliziotti fosse la cosa più naturale del mondo. L'uomo puzzava di sudore. Gli avevo pian-
tato un ginocchio sulla schiena e provai l'impulso improvviso di acciuffarlo alla nuca per quella sua lercia criniera e di sbattergli la testa sul pavimento. «Vi ammazzo, fottuti bastardi! Siete morti! Capito? Morti!» Lo rimettemmo in piedi e lui tirò su forte con il naso e la gola, riempiendosi la bocca di catarro. «Sputa quello che hai in bocca» ordinò uno degli agenti in divisa sulla sua traiettoria di tiro. «Sputa subito.» «Dai Brian, lasciati portare via con le buone» continuò Ramsay, insistendo con l'approccio morbido e gentile. Brian scatarrò qualcosa di denso e di orribile sul suo tappeto, decidendo di non sputarlo in faccia a uno degli agenti e rischiare così una denuncia per aggressione a pubblico ufficiale, e proseguì con le sue invettive. Lo trascinammo fuori sul marciapiede e, mentre uno degli agenti in divisa apriva lo sportello del furgone, Brian ingaggiò un'ultima, rabbiosa lotta, tanto per dimostrare che non si lasciava portare via così facilmente, e tentò di sferrare un calcio a Berrin, che lo evitò per un pelo. Lo afferrai per la camicia e lo tirai indietro. «Vaffanculo, mezza sega» sbraitò, e sparò un altro calcio con il piede nudo, stavolta verso di me. Lo evitai tirandomi indietro, poi avanzai di nuovo e gli pestai forte l'altro piede, rigirandovi sopra il tacco della scarpa con tutto il mio peso. Brian urlò di dolore e io provai un momentaneo senso di soddisfazione. «Avete visto cosa mi ha fatto questo cazzone? Avete visto, porca puttana?» Mi allontanai mentre veniva caricato di peso sul cellulare e imprecai a denti stretti per aver perso le staffe. Avevo dimenticato com'erano quei manigoldi domestici, e quanto possono essere irritanti gli ubriachi. Ciononostante, non era una scusa per reagire con violenza. Conoscevo bene quali potevano essere le conseguenze di due secondi di rabbia non trattenuta. «Ben fatto, sergente» disse Berrin, allungandomi una pacca sulla spalla. Era sopraggiunta un'altra autopattuglia e due altri agenti entrarono in casa. Il cellulare con l'arrestato rimase dov'era mentre Ramsey e gli altri due agenti confabulavano tra di loro, ignorando la pioggia battente che scrosciava dal cielo buio. Non dissi niente. Ero furibondo. Mi sembrava ridicolo che Berrin e io dovessimo uscire inutilmente in pattuglia per una faccenda come quella, che non contribuiva per niente a risollevare il morale o a impratichirci di
cose che sapevamo già, mentre si faceva ogni sforzo per oberare di lavoro i membri della squadra che avrebbe dovuto occuparsi del caso Matthews. Capper e Hunsdon erano stati assegnati all'inchiesta per la donna incinta rapinata, e io avevo avuto perfino difficoltà a restare insieme a Berrin. Knox aveva perso ogni interesse nel caso. Specie dato che non erano emerse prove a sostegno della sua teoria di una diretta complicità fra Matthews e Iversson. Forse se la foto segnaletica trasmessa da Crimewatch avesse contribuito a individuare Iversson la situazione sarebbe cambiata, ma per il momento l'omicidio Matthews stava scivolando in fondo all'elenco delle priorità. Il pianto di un bimbo provenne dall'interno della casa e tornai dentro. Il bambino sulle scale era sparito e i due poliziotti appena arrivati stavano parlando sulla soglia della stanza in cui l'agente Farnes aveva portato la vittima, che stava ancora singhiozzando e imprecando. Visto che nessuno sembrava preoccuparsi di chi stesse piangendo, salii le scale, arricciando il naso per via della puzza, e arrivai al pianerottolo. Trovai un interruttore, accesi la luce e mi diressi verso la porta da cui proveniva il pianto. Quando aprii, la puzza era rivoltante, fetida. Mentre accendevo la luce all'interno fui costretto a farmi forza per impedirmi di vomitare. La stanza era un casino allucinante di giocattoli, scatole, fazzoletti di carta usati, carabattole di ogni tipo, tanto che in certi punti il pavimento era completamente coperto. In un angolo c'era una brandina e nella brandina un bimbo di non più di sei mesi, completamente nudo tranne per il pannolino, che stava piangendo istericamente. La puzza di cacca era terribile, e notai che la maggior parte dei fazzoletti di carta sul pavimento aveva macchie inconfondibili. Mi avvicinai alla brandina. Guardai sotto di me il piccolo in lacrime. Lui, o lei, aveva delle vesciche arrossate sulle cosce nei punti in cui il pannolino, che sembrava pieno fino all'inverosimile, sfregava irritando la carne. Mi venne l'impulso di girare i tacchi e di uscire di là, e avrei potuto farlo benissimo, niente me lo impediva. Non erano affari miei se quella famiglia, e uso il termine a sproposito, non era in grado di badare a se stessa. Ma non era nemmeno colpa di quel povero bimbo, perciò, facendomi forza per sopportare la puzza, mi chinai e lo sollevai. Mi sentii subito le mani umide e scivolose e capii senza bisogno di guardare che erano imbrattate di cacca. Con una smorfia, girai di schiena il piccolo e vidi che il pannolino non aveva tenuto. Non c'era da meravigliarsi che quel poverino stesse piangendo disperatamente, costretto com'era a restare steso impotente nei
propri escrementi. Nessuno gli aveva più cambiato il pannolino da ore, forse da giorni. «Che cosa le stai facendo?» disse una vocina ostile dalla soglia. Mi voltai e vidi sulla soglia il bambino che era rimasto a guardarci in silenzio mentre entravamo in casa. «Cerco di cambiarla» dissi. «Per piacere, mi trovi delle salviettine umide o dei fazzoletti di carta?» Il bambino non si mosse. «Senti, fa' come ti dico. Sto solo cercando di aiutarla.» Mentre il bambino rovistava nella massa di cianfrusaglie disseminate sul pavimento, stesi la bimba a pancia sotto e le levai il pannolino, usandolo per pulire il grosso della cacca che la imbrattava da capo a piedi. Ripiegai il pannolino e lo deposi sul pavimento. Non c'era altro posto disponibile. «Ecco qui» disse il bambino, porgendomi un rotolo di carta igienica consumato a metà. Non era quello che avevo in mente, ma se non altro era pulita. «Grazie» dissi, continuando la pulizia. «Mi faresti un favore? Andresti a inumidire alcuni di questi fazzoletti di carta e a vedere se trovi una salvietta? Se c'è un catino di plastica, mettici un po' d'acqua con del sapone e portalo qui.» «Sta bene?» domandò il bambino. «Sì, non ha niente. Credo che si sentisse solo un pochino abbandonata.» Il bambino tornò poco dopo con un panno e due manciate di fazzoletti di carta inumiditi. «Bene. Vedi quel sacchetto di plastica là?» Il bambino annuì. «Buttaci dentro il pannolino sporco, poi portalo qui, così ci metto anche quest'altra roba.» Il bambino obbedì alla lettera, e pensai che probabilmente sarebbe stato un bravo assistente. Quando ebbi finito di rendere la bimba un po' più presentabile, cercai in giro con il bambino un pannolino pulito. Ne trovammo una scatola in un angolo della stanza. «Hai mai cambiato la tua sorellina prima d'ora?» gli domandai. «Certo che l'ho fatto» rispose il bambino. «Benissimo. Come si chiama?» «Karen.» Facemmo un po' di spazio sul pavimento, poi sollevai la bimba dalla brandina e la deposi delicatamente per terra supina. «Okay, Karen. Ora il tuo fratellino ti cambierà. Io intanto vado a ripulirmi un po'.» Scovai uno squallido bagnetto e mi lavai le mani nel lavandino sporco. Un grosso grumo di peli intasava il foro di scarico - sperai che fossero solo capelli, ma non era tanto facile stabilirlo - e pensai che quella donna e il
suo convivente non meritavano assolutamente alcun tipo di comprensione. Si comportavano peggio degli animali, il che andava benone se era così che volevano vivere, ma rovinare anche la vita dei loro figli... questo per me era imperdonabile. Tornai nella cameretta e aiutai il bambino a fissare correttamente il pannolino. Poi, insieme, rimettemmo la sorellina nel suo lettino. Stava ancora piangendo. «Come ti chiami?» domandai al bambino. «Dean» disse. «Credo che Karen abbia fame, Dean. Ora torna pure a letto. Io vedrò di trovarle qualcosa da mangiare.» Il bambino sparì senza dire una parola e io tornai stancamente di sotto, pensando che non aveva davvero alcuna possibilità con genitori come quelli. Né lui né sua sorella. L'ambulanza era arrivata per soccorrere la madre e la stavano medicando nel salottino sotto la sorveglianza dell'agente Farnes. La donna ferita stava piagnucolando, sbronza da far paura, e trovai difficile non odiarla per il suo egoismo. «La sua bimba sta morendo di fame» le dissi. «Immagino che beva ancora il latte con il biberon.» Per strada, appena fuori della porta d'ingresso, ci fu un certo subbuglio e Berrin entrò quasi di corsa, parlando concitatamente con l'agente Ramsay. Poi mi vide e venne subito da me. «Sergente, abbiamo ricevuto una chiamata a tutte le unità. C'è stato un conflitto a fuoco.» «Sarà meglio che lei aspetti qui finché non arriva qualcuno dell'assistenza sociale» dissi a Farnes. «E risolva il problema del latte per la bambina, mi raccomando.» Farnes tentò di ribattere qualcosa, ma non le prestai attenzione. «Dov'è avvenuta la sparatoria?» «Alla Heavenly Girls.» Iversson È vero che contavo di ricavare una barca di soldi dal sequestro di Krys Holtz, ma vi dirò una cosa: me li stavo sudando fino all'ultimo penny. Nella nostra terza notte consecutiva fuori dalla Heavenly Girls i nervi erano a fior di pelle, specie i miei. Tutta colpa di Johnny Hexham. Mi stava facendo impazzire. Dopo due notti nascosto nel vano di carico del furgone, alla fine avevo deciso di rischiare e spostarmi davanti, dove si stava molto più comodi. Ora avevo una barba completa, e con una coppola e un
paio di occhiali sembravo completamente diverso dall'uomo che ero due settimane prima. Anzi, devo dire che il nuovo look mi donava. Mi dava un'aria da intellettuale. Ma disgraziatamente non c'era modo di evitare Johnny, che aveva trascorso quasi tutta la notte nell'incessante tentativo di estorcermi informazioni riguardo a cosa stavamo facendo in quella via e ad avventurarsi in mille congetture, alcune delle quali sfioravano pericolosamente la verità. Per non parlare delle sue vicissitudini sentimentali, sulle quali Johnny insisteva a disquisire nonostante non me ne importasse un fico secco, per dirla con educazione. A quanto pareva la sua ex ragazza Delia era incinta - risultato di una visitina volante di Johnny a casa di lei per ritirare alcuni CD -, ma Delia si era già riaccoppiata con un energumeno di colore di cento chili convinto che il bimbo fosse suo, e che avrebbe avuto sicuramente uno choc il giorno festoso del parto. Delia voleva scappare con Johnny, per il quale era emerso che provava ancora qualcosa, e minacciava di dire al suo nuovo ragazzo che Johnny l'aveva presa con la forza se lui non avesse acconsentito a fuggire con lei. Ma Johnny, per nulla sorprendentemente, non voleva avere più niente a che fare con lei, e temeva che da un giorno all'altro, e senza preavviso, una mezza dozzina di amici del nuovo boyfriend di Delia sarebbero andati a trovarlo per spaccargli le gambe. Per giunta, ora aveva un'altra ragazza, Amanda, che aveva conosciuto all'Arcadia alcune settimane prima e di cui era veramente cotto. Ma la faccenda era ulteriormente complicata, stenterete a crederci, dal fatto che Amanda era una bisessuale convinta e voleva che Johnny accettasse un triangolo con la sua altra amante, la studentessa tedesca Beatrix. «Il problema è che Beatrix è una Magnus senza speranza.» «Eh?» «Una Magnus Pike, una lesbicona integralista. Non toccherebbe un uccello neppure se da questo dipendesse la sua stessa vita. Perciò non c'è modo di venirne fuori, capisci? Non posso spassarmela con tutte e due insieme, cosa che decisamente avrebbe alleviato la sofferenza di essere costretto a spartire la mia donna con qualcun altro. Ma non voglio perdere Amanda. Non so cosa farei se decidesse di troncare. Cazzo, però è un rapporto un po' strano, non ti pare?» «Sai una cosa, Johnny?» dissi dopo aver bevuto un sorso di acqua minerale dalla mia bottiglia «sei l'unico trentaquattrenne che conosco che si lamenta perché fa troppa ginnastica orizzontale.» «Non è come credi, Max. Sinceramente. Io l'amo davvero, ma so come
andrà a finire. Beatrix la costringerà a scegliere fra lei e me.» «Allora comprale un mazzo di fiori o un altro regalo. Conquistala per primo e vacci a vivere insieme.» «No, Max, tu non capisci.» «Sfido chiunque a capirti, porca puttana.» «Amanda dice che nell'amore fra due ragazze c'è qualcosa di speciale. È più delicato delle cose che si fanno con un uomo. C'è più tenerezza. Capisci cosa intendo?» «Veramente no, Johnny. No. Sinceramente, non ci ho mai pensato. Però ho visto scene di sesso fra donne in qualche film porno e mi è sempre sembrato che se la godessero.» «È quello che ti sto dicendo. Amanda giura che è vero. Dice che per lei è l'unico modo per raggiungere un orgasmo multiplo. Me lo posso scordare che rinunci a una cosa del genere. E questo significa che sarò io a rimetterci. Questa storia mi sta rendendo la vita un inferno.» «Sono sicuro che in giro ci sono milioni di uomini che ti capiscono benissimo.» Mi voltai e puntai lo sguardo fuori del finestrino in direzione della Heavenly Girls, un centinaio di metri più avanti lungo la via. Aveva ripreso a piovere, il che se non altro era utile. Avevamo sempre posteggiato nello stesso punto, perciò dovevamo stare attenti a non farci notare troppo. Ogni notte sprecata aumentava i rischi, per non parlare della noia mortale, del senso di claustrofobia e del formicolio alle gambe che l'appostamento comportava, appannandoci i sensi e rallentando le nostre reazioni, una cosa che poteva dimostrarsi fatale in quel tipo di operazione. Johnny continuava a blaterare di Amanda, Beatrix, Delia e tutte le altre sue squinzie, ma ormai non lo stavo più ad ascoltare. Mi bastavano già i miei problemi personali. L'attesa snervante cominciava a sollecitare i primi mugugni di scontentezza da parte degli altri miei soci. Kalinski aveva insinuato che cercare di sequestrare Krys Holtz in un posto in cui si recava di tanto in tanto, e senza alcun evidente preavviso, era forzare la mano al destino, il che era vero, mi sa. Ma non c'erano posti più adatti di quello. Joe non era stato certo di aiuto asserendo, alla fine di un frustrante turno di sorveglianza di quattro ore e mezzo la notte prima - durante il quale Kalinski aveva impestato il furgone di puzza defecando in un sacchetto della Tesco -, che forse era meglio metterci una pietra sopra. Sapevo che Joe si sentiva un po' spaventato per via delle visite che la legge gli faceva quasi ogni giorno, ma speravo che avesse parlato solo per frustrazione. Se lui - o,
a onor del vero, chiunque di noi - avesse rinunciato, sarebbe andato tutto a ramengo e io mi sarei ritrovato al punto di partenza. In fuga dalla polizia, al verde e senza aver vendicato il tentato stupro della mia donna. Mandai giù un altro sorso di acqua minerale mentre Johnny raccontava come Beatrix avesse un ruolo dominante nel rapporto saffico con Amanda benché non fosse per niente carina, e stesse, a parer suo, facendo pesanti pressioni su di lei perché lo lasciasse. «Ha frustini e catene e tutti gli ammennicoli del genere» spiegò, scuotendo la testa. «A quanto pare, la sua stanza è una specie di sala di tortura. Ha perfino una serie di vibratori e falli di gomma. Come fa Amanda a resistere?» Udii dei movimenti nel vano posteriore del furgone: i nostri compagni allungavano le gambe e cambiavano posizione per tentare di sgranchirsi. Una Land Cruiser si fermò davanti alla Heavenly Girls. Aveva un'aria familiare. Mancavano dieci minuti a mezzanotte. «Mi ascolti o mi stai ignorando, Max?» gemette Johnny. Krys Holtz, Big Mick e Fitz scesero, la Land Cruiser fece un'inversione a U e si allontanò, passandoci davanti. Mi sembrò che al volante ci fosse Slim Robbie, e mi domandai se sarebbe tornato. «Ti sto ignorando, Johnny» risposi, mentre osservavo Krys e i suoi sgherri suonare al citofono e due secondi dopo entrare. Johnny non li aveva notati, e questo mi stava benissimo. Se avesse anche solo subodorato che ci proponevamo di sequestrare Krys Holtz sarebbe schizzato fuori dal furgone più in fretta di Willy Coyote per tornare a razzo da Amanda, Delia, persino da Beatrix e i suoi falli di gomma. «Pensavo che fossi mio amico» disse Johnny deluso e imbronciato, ma non lo stetti ad ascoltare. Il sangue mi ribolliva e, come un Elvis che scoppiava di giovinezza e salute, ero pronto a scatenarmi con il rock'n'roll. Battei il pugno tre volte in rapida successione sulla parete divisoria, aggiungendovi un attimo dopo due colpi più distanziati: era il segnale che i nostri polli erano arrivati. Tre colpi in risposta mi indicarono che il messaggio era stato ricevuto. «Scusami, Johnny, ma c'è del lavoro da fare. Metti in moto.» Johnny avviò il furgone Mercedes, si staccò dal marciapiede e guidò lentamente lungo la via finché non fummo una ventina di metri oltre l'entrata della Heavenly Girls. «Bene, fermati qui» gli ordinai. «Parcheggia in doppia fila.» «Adesso puoi dirmi di che cosa si tratta, Max?» «No.»
Battei il pugno due volte sulla parete divisoria per avvertire i compagni che eravamo in posizione. Gli sportelli posteriori si spalancarono e nello specchietto retrovisore vidi Tugger Lewis dirigersi verso i gradini davanti all'ingresso. Era cominciata. Premetti il pulsante del cronometro e guardai la lancetta dei secondi iniziare il suo movimento a scatti, conscio che era arrivato il momento tanto atteso. Proprio come ai vecchi tempi. I cinque sensi fusi in un unico nucleo di assoluta concentrazione. Questione di vita o di morte. Nulla ha una posta in gioco più alta. Se fallisci, sei morto. La tua vita finisce, così, in un attimo. Kaputt! Fine della storia. Ma c'è anche da dire che nessun'altra sensazione batte una cosa così. Nient'altro al mondo batte la scarica di pura adrenalina, l'intensità, la gioia sottile della battaglia. Scommetto che nessun orgasmo multiplo di Amanda si avvicina a una sensazione del genere. Trenta secondi. Quaranta. Johnny mi disse qualcosa, ma non sentivo. La sua voce era solo un'interferenza, senza alcun significato. Cinquanta secondi. Ora di andare. Battei il pugno sul divisorio cinque volte in rapida successione, misi in tasca il cronometro e scesi dal furgone. Accostai la bocca al finestrino abbassato a metà. «Resta qui» dissi a Johnny. «Non muoverti.» Mi voltai prima che avesse il tempo di rispondere e mi diressi verso l'entrata del postribolo, subito affiancato da Joe e Kalinski. Joe aveva in spalla una cassetta per gli attrezzi con la cinghia. Nessuno aprì bocca. Camminando, levammo dei passamontagna neri dalle tasche delle nostre tute blu da operai e ce li infilammo in testa. Pioveva a catinelle e la strada era deserta. Non avevamo un'aria sospetta: sembravamo semplicemente tre normalissimi rapitori. Kalinski premette il pulsante del citofono e la porta si aprì subito con uno scatto e un ronzio elettrico. Questo significava che Tugger aveva sotto controllo l'area di accoglienza. Bene. Se non altro la prima parte del piano era filata liscia. Entrammo nell'ascensore e Joe depose sul pavimento la cassetta degli attrezzi, da dove estrasse due fucili automatici a canne mozze, passandone uno a Kalinski. Poi tirò fuori una dozzina di cartucce di riserva e se le ficcò in una tasca della tuta prima di rimettersi in spalla la cassetta. Non volevamo lasciarci indietro né prove né tracce. Mentre Joe era impegnato in questi preparativi, io tirai fuori la Glock, le diedi una controllata e inserii un colpo in canna. Eravamo pronti. L'ascensore si aprì direttamente sull'area di accoglienza e noi tre uscimmo, con le armi in pugno. Tugger era là in giacca e cravatta, con il volto
coperto da un passamontagna, di fronte a un'avvenente receptionist dai capelli biondi. La ragazza aveva le mani posate di piatto sul piano della scrivania che aveva davanti. Tugger le stava di fronte, ma puntava la pistola contro due corpulenti gorilla addetti alla sicurezza - uno di colore e uno bianco -, in cravattino e gilè, che avevano entrambi le mani giunte sopra la testa. Dalle loro espressioni era evidente che non avevano alcuna intenzione di fare gli eroi. Non potevo biasimarli. Fare l'eroe può essere un passatempo molto sopravvalutato. E non si viene neppure pagati. La receptionist sbarrò gli occhi quando ci vide sbucare e avanzare a passo di carica, e per un attimo diede l'impressione di voler urlare. Tugger si portò un dito alle labbra. «Da brava, bambina, vedi di non fare scenate. Nessuno vuole fare del male a una bella bambolina come te. Dicci soltanto in che stanza si trova Krys Holtz.» Vidi lo scagnozzo bianco sbarrare gli occhi, come se stentasse a credere che avremmo dato fastidio a uno come Krys Holtz. Credici, amico. Credici. «È nella Lovers Suite al piano di sopra» balbettò la ragazza, ansiosa di collaborare. «È la seconda porta a sinistra appena si esce dall'ascensore.» «E gli altri due che sono con lui?» «Non so in che stanze si trovano, ma saranno sicuramente allo stesso piano. Stanno sempre vicini.» Tugger la fece alzare in piedi mentre Joe e io ammanettavamo i due gorilla sotto lo sguardo attento di Kalinski. Quando furono neutralizzati, e Tugger si fu impadronito della videocassetta della telecamera a circuito chiuso, guidammo i tre verso la stanza alla nostra sinistra. Nello stesso momento un panciuto uomo d'affari sbucò fuori a braccetto di una strabiliante bellezza orientale. «Omioddio!» biascicò la ragazza. L'uomo d'affari si limitò a restare piantato là con espressione sorpresa. Alzai la pistola e li sospinsi all'indietro, facendoli rientrare nella stanza e seguendoli. Due altri uomini in elegante completo erano seduti in un angolo con due ragazze splendide come l'orientale e altrettanto poco vestite, mentre un'altra ragazza era seduta al bar a chiacchierare con il barista, un tipo sui vent'anni con un'espressione infantile. Tutti gli occhi si appuntarono sulla porta all'entrata del nostro singolare drappello, ma nessuno fu così stupido da mettersi a urlare. «Signore e signori» dissi sfoderando le mie migliori doti di oratore mentre li sospingevamo tutti in un angolo del salotto «non avete nulla da teme-
re. Siamo venuti a riscuotere un debito da una certa persona che si trova qui dentro, e ci interessa solo quell'uomo. Se vi comportate come vi diciamo e collaborate, nessuno si farà male e ce ne andremo fuori dai piedi nel giro di pochi minuti.» Feci un cenno al barista agitando la canna della pistola. «Tu, vai nell'angolo insieme agli altri. E anche tu.» La ragazza seduta al bar mi lanciò un'occhiata furente, ma obbedì, come pure il barista. Erano passati esattamente tre minuti e quindici secondi dal momento in cui Tugger aveva messo piede nella palazzina, e finora tutto era filato liscio. Kalinski aveva il compito di sorvegliare le persone nel bar, perciò si fece avanti e si piantò a gambe leggermente divaricate a fare la guardia ai presenti con il fucile spianato, mentre io, Tugger e Joe salimmo di sopra usando le scale. Tugger ci aprì la strada perché era pratico del posto, essendoci stato poche sere prima. Quando arrivò al piano di sopra, aprì lentamente la porta del pianerottolo e scrutò il corridoio, poi si voltò e ci fece segno di via libera. Lo seguimmo e Joe si appostò accanto all'ascensore, dove avrebbe potuto assicurarsi che nessuno si intromettesse nei nostri affari. Tugger e io ci avvicinammo in punta di piedi alla seconda porta a sinistra. Arrivati alla Lovers Suite, Tugger si fermò e accostò l'orecchio alla porta. Le stanze dovevano essere isolate acusticamente, ma evidentemente Tugger riuscì a sentire qualcosa, perché mi fece cenno di imitarlo. Appoggiai l'orecchio al legno e immediatamente udii gli inequivocabili ansimi di un accoppiamento frenetico. La ragazza guaiva come se fosse nel mezzo dell'estasi erotica, cosa che, visto i prezzi denunciati da Tugger, non era di certo una grande sorpresa. Holtz, nel frattempo, emetteva dei grugniti terribili, come in un documentario sulle bestie della savana. Tugger girò il pomo della maniglia con lentezza esasperante e aprì piano la porta. Quando fu aperta di una spanna i rumori dell'accoppiamento si amplificarono, e ancora nessuno dei due sembrava essersi reso conto che presto sarebbero stati interrotti. Tugger usò le canne mozze del fucile per spingere la porta e aprirla ulteriormente, e, cercando di essere il più silenziosi possibile entrammo in punta di piedi. Lo spettacolo che ci accolse fu alquanto orribile, per non dire altro. Dalla sua posizione sul letto a baldacchino il deretano peloso e sorprendentemente grasso di Krys era rivolto verso di noi come un ciclope incarognito. L'orrendo culone saliva e scendeva a stantuffo, come un pistone, mentre due lunghe gambe formose si dipartivano sotto di lui come due antenne a
ciascun lato dei disgustosi glutei. Era impossibile vedere la faccia della ragazza, poiché era quasi completamente avviluppata dall'irsuta massa di Krys. Alcune ciocche di capelli biondi spuntavano all'infuori sopra una spalla del satiro. Non si vedeva nient'altro di femminile. Mi domandai se la poverina riuscisse almeno a respirare là sotto. Scambiai un'occhiata con Tugger e lo intuii sogghignare sotto il passamontagna. Sorrisi a mia volta. Me la stavo godendo un mondo. La camera era arredata sfarzosamente con un gusto degno di un'istituzione di alta classe. Una moquette di pura lana alta tre dita attutì i nostri passi mentre Tugger chiudeva adagio la porta e ci avvicinavamo di soppiatto al letto. Non che ci fosse la benché minima possibilità che ci sentissero dato il baccano che stavano producendo. Krys grugniva come un branco di porcelli affamati mentre si dava freneticamente da fare per mantenersi incollato all'obiettivo, a pochi secondi soltanto dal traguardo. «Aiiieeeee!» strillò mugolando in un fremito finale di attività, reclinando la testa all'indietro mentre arrivava all'orgasmo. «Ooooofff!» A quel punto accaddero due cose. La ragazza, rossa in faccia e grondante sudore, senza dubbio per essere rimasta bloccata sotto l'ascella di Krys Holtz nei cinque minuti precedenti, vide che la sovrastavo di fianco al letto. Sbarrò gli occhi e lanciò un urlo. Contemporaneamente, Tugger assestò a Krys un colpo in testa con il calcio del fucile. Krys restò senza fiato per la sorpresa e rotolò giù dalla ragazza, gemendo flebilmente. Puntai la Glock alla testa della ragazza appoggiandole la canna alla fronte e le dissi di non gridare. «Non vogliamo farti del male, perciò se stai buona e tieni la bocca chiusa per i prossimi dieci minuti andrà tutto bene. Hai capito? Fai di sì con la testa una volta per conferma.» La ragazza si affrettò ad annuire freneticamente. «Bene. Ora girati, affonda la faccia nel cuscino e resta zitta e immobile.» Mentre parlavo, Tugger appioppò un altro colpo in testa a Krys, tanto per essere sicuro; poi lo ammanettò dietro la schiena, incontrando ben poca resistenza da parte del gangster semisvenuto. La ragazza fece come le avevo detto e la ammanettai, concedendomi un lungo momento per ammirare il suo splendido deretano e per meditare sull'interrogativo che aveva assillato tanti osservatori nel corso dei secoli: perché le forme femminili sono più attraenti di quelle maschili? E mi trovai a pensare che forse Amanda, la ragazza di Johnny, aveva avuto l'idea giusta. «Cosa cazzo succede?» bofonchiò Krys mentre cercava disperatamente di mettere a fuoco la vista.
«Chiudi quella cazzo di bocca!» ruggì Tugger, tirandolo su dal letto per le manette e costringendolo a mettersi in ginocchio. Gli percosse una guancia con la canna del fucile tanto per stabilire chi comandava. «E ora alzati in piedi. Subito!» «Vaffanculo» ribatté Krys. «Sapete con chi avete a che fare?» «Certo che lo sappiamo, pezzo di merda. E adesso chiudi il becco.» Krys stava per ribattere, ma io feci il giro del letto, infilando la pistola nel fodero e armeggiando con un rotolo di nastro adesivo da imballaggio. Ne strappai un pezzo e glielo incollai sulla bocca mentre Tugger gli teneva ferma la testa. Krys si fece rosso di rabbia e cominciò a dibattersi selvaggiamente, cosicché lo colpii forte alla bocca dello stomaco con un pugno, facendolo piegare a metà. Era essenziale ridurlo rapidamente alla ragione, in modo da potercene andare di lì senza troppi problemi. Tugger lo prese per i capelli e lo tirò su. Poi lo spingemmo a forza verso la porta. Arrivati sulla soglia, pescai in tasca le chiavi delle manette della ragazza e le gettai sul letto. Era inutile infastidirla più del necessario. Krys stava ancora cercando di opporre resistenza e infuriato com'era riuscì a sferrare un calcio alla porta, facendo un po' troppo baccano, per i miei gusti. Perciò lo afferrai per le palle e strinsi forte. Due volte in rapida successione. Strabuzzò gli occhi e potei quasi sentire l'odore della sua sofferenza. Avvicinai la bocca al suo orecchio. «Agitati ancora e ti strappo i pendagli» bisbigliai minacciosamente. Krys parve recepire il messaggio. Lo spingemmo fuori dalla stanza senza ulteriori incidenti. Joe era ancora in piedi all'inizio del corridoio, vicino alle scale, con il fucile in pugno. Ci fece un cenno di assenso con il capo mentre ci dirigevamo verso di lui. Krys si girò verso di me mentre camminavamo e mi fulminò con un'occhiata minacciosa. Il messaggio trasmesso era chiaro. Lo fissai di rimando, sfidandolo a tentare qualcosa. Poi, d'un tratto, tutto andò a rotoli. Una porta si spalancò proprio alle nostre spalle e comparve un tipo strano con i capelli bianchi. Doveva avere almeno sessant'anni. Vide quello che stava accadendo e si mise a strillare. «Oddio! Cosa diavolo sta succedendo?» gridò in un tono come se si aspettasse che ci girassimo per dirglielo. Però decise di non attendere la risposta e si ritrasse di scatto nella stanza, sbattendo la porta dietro di sé. A quel punto eravamo a tre metri dalle scale e a cinque dall'ascensore. Krys, intuendo la possibilità di trovare soccorso, cercò di rallentare, puntando i talloni sul pavimento, ma io gli strizzai ancora le parti basse mentre
Tugger gli puntava in faccia il fucile. Lo scopo fu raggiunto e stavolta Krys non oppose più resistenza mentre lo sospingevamo verso l'entrata dell'ascensore. Joe premette il pulsante per aprire la porta scorrevole. In quello stesso istante, con la coda dell'occhio, vidi aprirsi un'altra porta in fondo al corridoio. Un secondo dopo spuntò il torso nudo di Big Mick, con in pugno una pistola, puntata verso di noi. Ci fu un boato assordante quando Joe ci spinse da parte e premette il grilletto del fucile a canne mozze. Un grosso pezzo di muro vicino alla porta scomparve e Mick si ritrasse precipitosamente, sparendo dalla vista. Spingemmo Krys nell'ascensore. Io gli assestai una ginocchiata nell'inguine per neutralizzare altri eventuali tentativi di rallentamento. Mentre Krys cadeva pesantemente in ginocchio, mi voltai e puntai la Glock verso il corridoio. Big Mick fece di nuovo capolino, accovacciato dietro lo stipite della porta, ed esplose un paio di colpi. Joe e io non arretrammo di un passo e rispondemmo al fuoco, mandando schegge di legno e di muro in ogni direzione. Tugger si occupava di Krys. Poi, senza preavviso, la porta di fronte alla Lovers Suite si spalancò all'improvviso e spuntò Fitz, armato di pistola, che prese a sparare a casaccio dalla nostra parte. Una pallottola mi fischiò vicino alla testa ed entrò nell'ascensore, mancando di un soffio Krys e mandando in frantumi lo specchio sulla parete di fronte. Sfruttando a proprio vantaggio la copertura, anche Mick si rifece vivo, sparando una serie di colpi. Il fucile di Joe rispose al fuoco, producendo un altro grosso buco nello stipite della porta dietro cui fino a un attimo prima si era riparato Mick, mentre Fitz fu costretto a battere in ritirata quando scaricai una serie di colpi precisi e a intervallo costante nella sua direzione. Subito dopo feci un balzo di lato e mi precipitai giù dalle scale, mentre Joe si infilava nell'ascensore proprio nel momento in cui la porta scorrevole si chiudeva. Scesi di corsa la prima rampa di scale fino al mezzanino e poi la seconda fino al pianerottolo del secondo piano. L'ascensore con Krys e gli altri stava scendendo senza fermate fino al pianterreno, da dove sarebbero andati dritti al furgone. Ora il mio compito era quello di assicurarmi che Big Mick e Fitz non avessero la possibilità di rovinare la festa. Estrassi il caricatore vuoto dalla Glock e lo sostituii con uno pieno, mettendo il colpo in canna. Sopra di me la porta del terzo piano si spalancò di botto e un pesante rumore di passi rimbombò sulle scale. Inspirai a fondo, mi ritrassi di un passo in modo da appoggiarmi alla porta che si apriva sull'area di accoglienza e alzai la pistola. Alle mie spalle udii diverse persone urlare e agi-
tarsi nel bar. Sperai che Kalinski fosse freddo e spietato quanto bastava per tenere sotto controllo la situazione fino al momento di tagliare a sua volta la corda. Big Mick entrò rumorosamente nel mio campo visivo, con indosso solo i pantaloni, quasi scivolando nella fretta di scendere le scale e di intercettare l'ascensore prima che fuggissimo con il suo capo. Fitz gli era alle calcagna. Mick sbarrò per un attimo gli occhi quando mi vide, ma prima che avesse il tempo di reagire premetti il grilletto, sorreggendo la pistola con entrambe le mani. Mick non ebbe possibilità di scampo. Si beccò un proiettile allo stomaco, poi un altro al torace e uno al collo. L'impatto delle pallottole lo sbatté all'indietro contro il muro. Barcollò un momento e poi crollò con tutto il peso. Fitz cercò di levarsi di mezzo, ma io continuai a sparare. I miei proiettili scorticarono la moquette, rimbalzarono sui gradini e staccarono pezzi di intonaco. Dalla sua posizione, steso sulle scale, parzialmente riparato dal suo compare, Fitz rispose al fuoco, e le sue pallottole mi passarono pericolosamente vicino. Ma restai calmo, corressi la mira e lo colpii alla spalla e al torace mentre alzava il busto per tentare di prendere meglio la mira. Ricadde all'indietro, senza un'imprecazione né un lamento, e io mi voltai, aprii la porta e sbucai nell'area di accoglienza. Kalinski stava già battendo in ritirata dal bar, con la pistola rivolta verso il punto in cui ero apparso. Gli mostrai il pollice alzato e insieme tornammo sulle scale, dove i corpi di Fitz e Big Mick giacevano scomposti sul mezzanino sopra di noi. Il loro sangue si mescolava colando e allargandosi sulla moquette. Kalinski si fermò un attimo a osservare gli uomini che quasi certamente avevano aiutato Krys ad assassinare suo fratello. Poi, senza preavviso, Fitz si tirò su a sedere, con un rivolo di sangue all'angolo della bocca e ci puntò addosso la pistola. Seguì un lungo ed estenuante secondo di pausa, come se tutti ci fossimo paralizzati di colpo, dopodiché premetti il grilletto. Il mio primo colpo mancò il bersaglio, ma il secondo gli fece saltare un pezzo di calotta cranica, spiaccicando un orripilante brandello sanguinolento sul muro alle sue spalle. Fitz continuò a restare seduto dov'era per almeno un paio di secondi, poi si inclinò e ricadde all'indietro. Non mi servivano altri incoraggiamenti per levare le tende e mi voltai scendendo precipitosamente le scale fino al pianterreno, tallonato da Kalinski. Quando sbucammo all'aperto il furgone era ancora parcheggiato in doppia fila con il motore acceso. Lo raggiungemmo di corsa, levandoci i pas-
samontagna. Kalinski si diresse verso gli sportelli posteriori, io verso la cabina. In lontananza si sentivano fievoli le prime sirene della polizia. «Cosa cazzo sta succedendo?» gridò Johnny mentre salivo accanto a lui. «Li ho visti trascinare sul furgone un fessacchiotto nudo con un ciuffo alla Elvis!» Gli sportelli posteriori si chiusero dopo che Kalinski fu salito e sulla parete divisoria udimmo rimbombare due colpi di avvertimento. Eravamo pronti a partire. «Chiudi quella cazzo di bocca e parti! Presto!» Johnny mi lanciò un'occhiata, mi lesse in faccia qualcosa che non gli piaceva, e obbedì senza fiatare. Gallan Sul posto c'erano già almeno una dozzina di autopattuglie della polizia e alcune ambulanze, tutte parcheggiate in doppia fila lungo la via. Ramsay si fermò a una cinquantina di metri dal luogo in cui era avvenuta la sparatoria. Feci scorrere lo sportello laterale del furgone e scesi sotto la pioggia battente. Non aspettai gli altri e mi avviai subito in direzione della casa d'appuntamenti, con Berrin alle calcagna. La chiamata dalla centrale aveva specificato che c'era stato un conflitto a fuoco con morti e feriti, ma più che l'evento a intrigarmi era l'indirizzo. La Heavenly Girls. Il bordello di lusso in cui lavorava la ragazza di Neil Vamen, la quale non aveva avuto commenti da fare sulla morte di un uomo in casa sua; l'agenzia in cui il fantomatico Roy Fowler aveva presunti interessi d'affari. Stava accadendo qualcosa e volevo disperatamente scoprire che cosa. La porta d'entrata della casa d'appuntamenti era sorvegliata dalla polizia e sulla soglia scorsi il comandante Knox. Era visibilmente agitato e rivolgeva le spalle alla strada, intento a parlare con qualcuno. La persona in questione entrò nel nostro campo visivo non appena salimmo i gradini davanti all'ingresso, e fui contento di vedere che si trattava di Asif Malik. Knox e Malik si voltarono vedendoci arrivare. «Salve, John» salutò Knox in tono secco. «Dave» aggiunse, rivolto a Berrin, accompagnando il saluto con un cenno della testa. «Conoscete Asif, vero?» «Io sì, Dave no» dissi. Ci mettemmo al riparo dalla pioggia e facemmo le presentazioni. «Allora, che cosa è successo?» domandai. «Un doppio omicidio» rispose Knox.
«Per la cronaca» spiegò Malik «sono due sgherri di Krys Holtz. Danny Fitzgerald e Mick Noble. Da quanto hanno dichiarato i testimoni presenti, alcuni uomini incappucciati hanno fatto irruzione, hanno sparato ai due gorilla e poi, da quanto abbiamo potuto capire, si sono portati via Krys Holtz.» «Merda» fu l'unico commento che mi venne da esprimere. «Infatti. Dio solo sa quali saranno le conseguenze.» «Di questo caso se ne occuperà la squadra Omicidi, John» mi informò Knox, che non sembrava particolarmente eccitato dalla prospettiva. «Ma ci sarà bisogno di dare una mano per raccogliere le testimonianze. Ci sono almeno trenta persone con cui dobbiamo parlare, alcune delle quali non sono affatto disposte a collaborare.» «Sicuro, non ci sono problemi. Ci metteremo subito al lavoro.» Knox annuì e imboccò le scale che portavano all'area di accoglienza. «Sarà meglio che salga anch'io» disse Malik. «Prima posso chiederti un minuto?» domandai. «Però dobbiamo sbrigarci» rispose Malik. «Questo intoppo ha complicato parecchio le cose.» «Faremo alla svelta.» Mi rivolsi a Berrin. «Aspettami di sopra, Dave.» Berrin parve scocciato, ma non obiettò e fece come gli avevo ordinato. Presi Malik per un braccio e lo condussi nell'angolo più lontano dell'atrio. «Sono andato a parlare con il padrone di casa» esordii, proseguendo con un rapido sunto di quello che avevo saputo. «Lì dentro succedeva qualcosa. Qualcosa di estremamente illegale.» «E non sei riuscito a sapere niente su quel Franks?» «Neppure un particolare. È scomparso, proprio come Roy Fowler, il quale, per tua informazione, era in parte invischiato in questa libera impresa.» «Interessante. Solo che ancora una volta non prova niente. Qualsiasi cosa stesse avvenendo in quella casa ora è finita, e se non ci sono prove sicure di qualcosa di equivoco, non possiamo fare molto.» «La Dagmar Holdings ti dice niente? È il nome della società che pagava l'affitto.» «Senti, John, gli Holtz hanno Dio solo sa quante società paravento per il riciclaggio del loro denaro. Francamente non me le ricordo tutte. Ma ti prometto che verificherò la cosa.» Capivo che Malik stava cominciando a considerarmi una zecca, e non potevo proprio biasimarlo. Anche se avevo scoperto qualche particolare di
scarsa importanza a cui si doveva dare una spiegazione, in fin dei conti non avevo assolutamente nulla di concreto in mano, e a qualsiasi agente o ispettore di polizia servivano prove concrete. «Sai, Asif, si è sempre a caccia di un modo per incastrare gli Holtz. Se quello di cui ti ho parlato ieri... se è successo davvero, pensa cosa potrebbe significare. Qualcuno potrebbe decisamente cantare.» «Siamo nel campo dei "se" e dei "forse", John. Al momento la cosa più importante è cercare di evitare che scoppi una guerra fra bande rivali. Perciò dobbiamo assolutamente scoprire chi sono quei pazzi che hanno deciso di rapire Krys Holtz pensando che fosse una buona idea.» «Fammi un piacere.» «Che cosa?» «Ho intenzione di chiedere al comandante Knox di autorizzare una perquisizione completa della casa di Franks per vedere se si trova una traccia qualsiasi a sostegno della mia teoria. E mi piacerebbe che mi appoggiassi anche tu in questo senso. Ti prego. Se riuscissi a scoprire qualcosa sono sicuro che ti aiuterebbe nelle tue indagini. In caso contrario, non ci rimetteresti nulla.» Malik ci pensò su un momento, poi, decidendo che probabilmente era più facile acconsentire anziché creare altre difficoltà, disse che mi avrebbe appoggiato. «Ma non posso fare niente di più. È chiaro?» «Come la luce del giorno.» Gli battei amichevolmente una mano sulla spalla. «Grazie. Ti sono riconoscente.» Passarono due ore prima che Berrin e io finissimo di raccogliere le testimonianze alla Heavenly Girls. Non fu un compito facile. Diversi clienti e membri del personale erano traumatizzati, compreso uno degli addetti alla sicurezza, un massiccio ex pugile che aveva avuto la disgrazia di dover riconoscere i miseri resti dei due uomini rimasti uccisi, e che ora seguitava a scoppiare in lacrime. Quando finalmente scendemmo i gradini all'esterno della palazzina aveva smesso di piovere. Il furgone su cui avevamo battuto le strade per tutta la sera era ancora parcheggiato a una cinquantina di metri di distanza e al volante scorsi Ramsay che stava addentando un panino imbottito. Bastardo egoista. «Sergente?» disse Berrin mentre risalivamo la via. Sbadigliai. Erano le due e mezzo di notte, ben oltre l'orario in cui di solito mi coricavo. «Sì, Dave.»
«Ha dei problemi con me?» Mi fermai di botto e lo fissai, rendendomi conto delle difficoltà che gli avevo creato. «Assolutamente no. Mi dispiace per gli ultimi giorni. Ho cercato di sondare un paio di teorie e immagino che non volessi parlarne con nessuno finché non avessi raggiunto qualche risultato.» «Ma stiamo lavorando insieme a questo caso. Bisogna che sappia cosa succede, altrimenti non le sarò di alcun aiuto.» «Certo, capisco benissimo.» «Allora, di che cosa ha parlato con il tizio dell'SO7?» Sospirai. «Di un'ipotesi su cui sto lavorando. Ma è piuttosto vaga.» E in effetti era vaga davvero, ma sentivo che ne valeva la pena. Berrin si accese una sigaretta. «Be', sentiamo. Non si può mai sapere: potrei anche essere in grado di darle una mano.» E così gli raccontai tutto. Quando finimmo di parlare, aveva ripreso a piovere. «Cosa ne pensi?» domandai, chiedendomi se fossi davvero bravo a trattare con i subalterni. Berrin finì la sigaretta e buttò la cicca nel canaletto di scolo del marciapiede. «Cosa ne penso? Spero che l'ipotesi sia sbagliata, perché in caso contrario sarebbe una concatenazione di eventi davvero macabra. Ma se fosse vera non mi stupirei più di tanto, sa? L'istinto mi dice che c'è una traccia di verità.» «È quello che sento anch'io» conclusi. «È quello che sento anch'io.» GIOVEDÌ, TRE GIORNI FA Iversson Erano passate da poco le nove di mattina e pioveva a dirotto quando entrai in una cabina telefonica in Seven Sisters Road. Feci il numero di un ristorante di proprietà di Stefan Holtz. Un gentiluomo dall'accento straniero mi rispose più o meno al decimo squillo. «L'Espagnol» brontolò con voce antipatica. Pensai che fosse un po' arrogante. Avrei potuto essere un cliente che voleva prenotare un tavolo e quel tono mi avrebbe convinto subito a cambiare idea. «Dica a Stefan Holtz che l'uomo della Heavenly Girls vuole mettersi in contatto con lui. Ha un messaggio da parte di Krys. Richiamerò a questo numero fra un quarto d'ora e voglio parlargli direttamente.» Il tizio all'altro capo del telefono non disse nulla e io riattaccai. Uscii
dalla cabina e mi incamminai in direzione di Camden Road. Un quarto d'ora dopo entrai in un'altra cabina in York Road e composi di nuovo il numero dell'Espagnol. Questa volta risposero al primo squillo. Era lo stesso tizio di prima. «Deve fare questo numero» si affrettò a dirmi, e me lo dettò. Io presi nota e riattaccai senza ulteriori commenti. Poi composi il numero indicato. Quattro squilli e sentii la voce di Stefan Holtz. «Dove cazzo è mio figlio?» furono le sue prime parole, pronunciate nel rude e rauco accento della zona settentrionale di Londra che mi fece pensare di essere stato davvero un cretino a riprendere a fumare. «Non gli abbiamo torto un capello. Se lo vuole rivedere le costerà mezzo milione di sterline in contanti, in banconote da cinquanta usate. Ha ventiquattr'ore di tempo per sganciare la grana. In caso contrario gli taglieremo la testa e useremo il suo ciuffo alla Elvis come scopino per il cesso.» «Se osate toccarlo, vi farò a brandelli.» «Richiamerò domattina a quest'ora per darle ulteriori istruzioni.» «Cazzo, mi serve più tempo» disse Holtz, lasciando trapelare dalla voce i primi segni di disperazione. Nonostante tutti i suoi soldi e il suo potere, al momento era completamente impotente, e lo sapeva. Riattaccai, sicuro che avrebbe seguito le istruzioni alla lettera. I due cadaveri che ci eravamo lasciati alle spalle la sera prima avrebbero dovuto essere una prova abbastanza convincente della nostra risolutezza. Mi scocciava alquanto che avessimo dovuto ammazzare due uomini per ottenere quello che volevamo, specie dato che l'operazione era filata quasi completamente come da programma, ma ormai era troppo tardi. Fermai un taxi e quindici minuti dopo ero a casa di Elaine. Per entrare usai la chiave che mi aveva dato e andai subito in camera da letto. Le tende scure erano ancora tirate ed Elaine era distesa sul letto, bella più che mai. Aprì gli occhi e sorrise quando mi vide. Le sorrisi a mia volta. «Fatto» annunciai. Poi, avanzando verso la testata del letto, aggiunsi esultante: «L'abbiamo fatto, cazzo!». Elaine si mise seduta e ci avvinghiammo in un abbraccio da piovre. Affondai la faccia fra i suoi capelli cercandole il collo, godendomi il suo profumo. E sapete una cosa? Per un pelo non le dissi "ti amo", ma mi fermai giusto in tempo. Non era ancora il momento di lasciarsi andare a dichiarazioni del genere. «Non è finita, tesoro.» «No, ma la parte peggiore è passata.» «Ho sentito al telegiornale che sono morti due uomini» disse, divinco-
landosi dolcemente dalla mia stretta. «Cos'è successo?» «Erano i guardaspalle di Krys. Hanno cercato di fermarci e non abbiamo avuto scelta.» «Sai che hanno mostrato la tua foto segnaletica a Crimewatch?» Scossi la testa. «Ieri sera. Stavo seguendo la trasmissione e l'ho vista.» «Com'ero venuto?» «Brutto come la fame, però meglio del solito. Spero che la foto sul tuo passaporto sia molto diversa.» «Non preoccuparti. Sarò bellissimo.» «Ci vorrà un miracolo.» «Sai una cosa, Miss Toms? Stai diventando un po' troppo impertinente per i miei gusti.» Mi levai la camicia e la gettai sul pavimento. «Hai estremo bisogno di prendere un po' di sole.» «E tu hai bisogno di una sculacciata.» «Come sta il piccolo Krys?» «Bendato, imbavagliato e incatenato in una cantina, a pane e acqua.» «Bene. Da' un calcio nei coglioni a quel bastardo da parte mia. D'accordo?» Elaine mi attirò a sé. «L'ho già fatto» dissi, armeggiando con la fibbia della cintura. Mentre la penetravo, mi domandò se avessi sparato anch'io alla Heavenly Girls. Le dissi di sì. Il sesso fu assolutamente fantastico. Gallan Knox squadrò Berrin e me con un'espressione a metà fra l'irritazione e la confusione. Eravamo nel suo ufficio nella sala operativa, le ultime tre persone rimaste in squadra a lavorare sul caso Matthews, ed erano le undici di mattina. «Spiegamelo di nuovo» disse, sfregandosi gli occhi. «Abbiamo dormito tutti pochissimo e so di non avere ancora ingranato, ma sono sicuro di averti appena sentito affermare che il tuo presunto sospetto in questa inchiesta ora è collegato nientemeno che all'omicidio Jones.» «Esatto» confermai, intuendo che a quel punto non avevo nulla da perdere. «Non posso affermare di esserne sicuro al cento per cento, ma ho abbastanza sospetti per una perquisizione della casa, e credo di poter ottenere il permesso del proprietario.» «Quanti omicidi stai cercando di risolvere?»
«Il più possibile.» Knox staccò la schiena dalla poltrona e bevve un sorso di caffè. «Se ci mandiamo la Scientifica, cosa pensi che scopriranno?» «Forse niente, ma vale comunque la pena di fare un tentativo. Il caso Jones si è arenato, lo sanno tutti. Perfino la polizia dell'Essex non ha scoperto niente di nuovo quando ha riesaminato il caso. Perciò, se ci diamo da fare non c'è niente di male.» «Non voglio rinfocolare le speranze dei genitori. Sono brave persone.» «Lo so, ma consideriamo una cosa. Robert Jones è scomparso da quella via una mattina, ma nessuno ha visto che lo rapivano. Ora, in quella strada a quell'ora circola un bel po' di gente, come tutti sappiamo, di conseguenza la cosa è molto insolita.» «Molto insolita non direi.» «Mi permetta di finire, signore.» Knox mi fece cenno di andare avanti. «Ieri mi sono riletto gli appunti del patologo. Gli indumenti di Robert erano stati strappati, ma non risultavano altri segni di aggressione a sfondo sessuale. Si faceva anche notare che è stato ucciso altrove prima di essere abbandonato nel luogo del ritrovamento, e che, in assenza di segni di colluttazione o di ferite provocate dal tentativo di difendersi, probabilmente è morto pochissimo tempo dopo essere stato rapito. Ma la cosa più importante è che non c'erano segni che fosse stato legato o imbavagliato.» Knox alzò le spalle. «Abbiamo già esaminato questi particolari durante l'indagine. Potrebbe essere stato trascinato di forza nel vano di carico di un furgone e condotto in un luogo isolato dove l'assassino potrebbe averlo finito senza doversi preoccupare delle sue urla.» Sapevo che non sarebbe stato facile convincere Knox. Tecnicamente era ancora lui a dirigere l'inchiesta e sarebbe stato restio a vedersi sottrarre l'ipotesi più accreditata del caso, ovvero quella secondo cui Robert era rimasto vittima di un pedofilo assassino. «Sì, è possibile» insistetti «ma il fatto è che non siamo mai riusciti a scoprire neppure lontanamente il colpevole, e da allora nell'Inghilterra sudorientale non si sono verificati altri casi di rapimento a sfondo sessuale o omicidi di minori. E neppure nell'anno precedente l'assassinio, a quanto ne so.» «Questo non significa necessariamente qualcosa, John. Robert Black è stato uno dei peggiori pedofili assassini degli ultimi vent'anni e spesso aspettava tre o quattro anni prima di commettere un nuovo crimine.» «È vero, ma sappiamo, o almeno ne siamo quasi sicuri, che la casa presa in affitto da Tony Franks in Runmayne Avenue veniva usata per qualche
scopo illegale collegato a una delle più pericolose famiglie malavitose della zona nord di Londra, e sicuramente doveva trattarsi di un'attività molto lucrosa perché gli Holtz spendessero una cifra così esagerata ogni mese. E se quella mattina Robert avesse per caso visto qualcosa che aveva attirato la sua attenzione e fosse andato a dare un'occhiata più da vicino?» «Per esempio che cosa?» «Non lo so» ammisi «ma diciamo che si è avvicinato alla casa, ha dato un'occhiata di nascosto, come farebbe qualsiasi tredicenne un po' curioso, e ha visto qualcosa che non avrebbe dovuto. Poi è stato scoperto, trascinato dentro casa e ucciso perché il suo assassino, o i suoi assassini, non aveva altra scelta se non quella di sbarazzarsi di lui. Dopodiché hanno abbandonato il suo corpo dove è stato trovato, facendolo sembrare un delitto a sfondo sessuale per non far scoprire le loro tracce. Proprio come fecero quella volta con Miriam Fox. So che può non sembrare lo scenario più probabile, ma c'è una possibilità che lo sia.» Knox sospirò. «Capisco il tuo desiderio di risolvere il caso Jones, John. So quanto l'hai preso a cuore, tu e anche tutti noi. Ma dobbiamo restare concentrati sull'indagine relativa all'omicidio Matthews.» «Lo so, ma ammettiamolo: da quanto abbiamo scoperto finora, gli Holtz, o qualcuno dei loro accoliti, c'entrano in un modo o nell'altro nell'assassinio di Matthews. Forse vi è implicato anche Iversson. E il nostro problema è l'estrema difficoltà di far parlare qualcuno a questo riguardo. Ma se riusciamo a collegare qualche membro della loro organizzazione con ciò che è accaduto a Robert Jones, forse riusciamo a far sciogliere qualche lingua e a trovare uno spiraglio in entrambe le indagini. Nessuno è disposto a proteggere chi uccide bambini.» «Sai quanto costa far perquisire da cima a fondo una casa da una squadra della Scientifica?» «Sì, signore, un sacco di soldi. Ma abbiamo un indizio. Non è granché, ma è qualcosa, e in particolare nel caso Jones non ne sono mai emersi altri, e sono mesi che l'inchiesta non va avanti di un millimetro.» Poi aggiunsi: «So che anche l's07 ha un interesse potenziale nel caso», cercando di aggiungere ulteriore credito alla mia posizione. «Potrebbe fornire loro la strada per arrivare finalmente agli Holtz.» «Allora, forse, potrebbero sborsare loro per la squadra della Scientifica.» «Il caso è ancora nostro, signore.» Knox rimase seduto in silenzio, sorseggiando pensoso il suo caffè. Sapevo di averlo messo con le spalle al muro. Avrebbe potuto dire di no e so-
stenere semplicemente che in quanto stavo affermando non c'erano elementi concreti, ma se avesse preso una decisione del genere e poi, nel tempo, fosse emerso che a Robert Jones era proprio successo come dicevo io, avrebbe fatto una figura meschina. Era uno dei principali problemi che riguardava le forze dell'ordine nel Ventunesimo secolo. La tecnologia aveva raggiunto un livello tale che una prova importante poteva venire alla luce anni dopo il verificarsi di un evento particolare. Sebbene ciò potesse portare a nuove incriminazioni, significava anche che gli errori dei poliziotti che avevano indagato sui relativi delitti erano sempre a rischio di venire smascherati. Da consumato politico qual era, Knox decise di andare sul sicuro. «Tu che cosa ne pensi, Dave?» domandò a Berrin. «Penso che il sergente abbia ragione, signore. Vale sicuramente la pena di approfondire la cosa. E potrebbe aiutare a risolvere anche il caso Matthews.» Alla fine Knox annuì. «Va bene. Procediamo.» VENERDÌ, DUE GIORNI FA Iversson «È pronto il denaro?» «Gliel'avevo detto: mi occorre più tempo.» «Allora non ce l'ha?» «Evidentemente non sapete contro chi cazzo vi siete messi. Se non lo liberate subito, smuoverò mari e monti e vi stanerò. Mi sente?» «Spiacente ma sono sordo. Adesso stia lei a sentire. Cominceremo strappando a suo figlio un'unghia alla volta finché lei non farà come diciamo e quando lo diciamo.» «Se gli torcete anche un solo fottuto capello...» «Be'? Allora cosa farà di preciso?» «Vi ammazzerò tutti. Se lo metta in testa. Vi troverò e vi segherò le fottute gambe.» «Non gli succederà niente se ci consegnerà la somma che abbiamo chiesto. Perché non l'ha preparata?» «Che garanzie ho che è ancora vivo?» «Non avremmo alcun vantaggio ad ammazzarlo. Non ci ha visto in faccia e non sa chi siamo.» «Fategli del male e vi darò la caccia. Non troverete più un buco dove
andare a nascondervi.» «L'ha già detto. E non mi ha spaventato neppure la prima volta. Dunque, ce li ha i soldi sì o no? Risponda.» Ci fu una pausa. «Sì, ce li ho.» «Bene. Ora apra bene le orecchie. Domani pomeriggio alle sei e mezzo in punto si faccia trovare nel parcheggio sul retro del Post House Hotel, in Epping High Road. È nei sobborghi a sud di Epping, poco prima del cavalcavia sopra la M25. Porti con sé il suo cellulare, oltre al denaro. E venga da solo. Capito?» «Come faccio a sapere che non mi farete fuori?» «Tutto quello che voglio è il denaro. Nient'altro. Si trovi al Post House Hotel domani e la chiamerò là.» Mentre uscivo dalla cabina sotto la pioggerella sottile di prima mattina, pensai che stavo diventando bravo in quel genere di cose. Gallan Dopo tutti quegli sforzi, riuscii a convincere il comandante a organizzare l'intervento della Scientifica per uno scrupoloso lavoro di perquisizione quello stesso venerdì mattina. Assistetti al loro arrivo dall'altro lato della strada, sperando con tutto il cuore che scoprissero davvero qualche particolare, per quanto piccolo, che potesse risolvere il caso dell'omicidio del tredicenne che consegnava i giornali. La sera prima ero andato, da solo, a casa dei genitori di Robert per informarli dei nuovi sviluppi, raccomandandogli di non lasciarsi prendere troppo dall'ottimismo. Avevano fatto entrambi un cenno di assenso con la testa, senza parlare, per comunicarmi che avevano capito, e mi avevano ringraziato per l'aiuto e per la premura di tenerli informati. Io avevo risposto che stavo solo facendo il mio lavoro, e Mrs Jones mi aveva posato una mano sul braccio dicendomi che lo stavo facendo nel migliore dei modi. In quel momento avevo pensato che, comunque fosse andata con la Scientifica a casa di Franks, non avrei avuto pace finché non avessi scoperto chi aveva ucciso il figlio dei Jones e non lo avessi consegnato alla giustizia. Non per niente facevo il poliziotto. Era la mia vocazione. Il desiderio immutabile di dare un po' di giustizia a gente a cui il destino l'aveva negata. Restai là a lungo a guardare gli agenti della Scientifica in tuta bianca che entravano e uscivano dal 41F di Runmayne Avenue con le loro attrezzature. Solo quando mi convinsi che stavano prendendo sul serio il loro lavoro,
e che avrebbero setacciato la casa da cima a fondo senza tralasciare un solo centimetro quadrato, mi decisi a girare i tacchi e tornare al commissariato. Quando entrai nella sala operativa, Berrin stava riattaccando il telefono. «Era Martin Leppel» disse, mentre andavo a versarmi una tazza di caffè. «Non ha ancora stilato l'elenco di persone che gli abbiamo chiesto?» Sapevo che Berrin l'aveva tampinato tutta la settimana a quello scopo. «Sì, ce l'ha mandato per fax un'ora fa. L'ho chiamato proprio per quello.» «È emerso qualcosa di interessante?» domandai, dirigendomi verso la scrivania con la tazza in mano. «Ecco qui. Dia un'occhiata.» Berrin mi passò il fax con l'elenco di nomi e di date battuto a macchina. Gli diedi una rapida scorsa, notando immediatamente che cosa aveva attirato l'attenzione del mio collega. «Bene, bene, bene. E così Craig McBride è stato laggiù.» «Due volte. E per un totale di quasi diciotto mesi. Leppel se lo ricorda bene. Dice che era un tipetto da prendere con le molle, ma esclude categoricamente che fosse un tossicodipendente. A quanto pare alcuni suoi commilitoni lo facevano uscire spesso dai gangheri prendendolo in giro perché, malgrado le sue arie da duro, aveva una paura boia degli aghi, la cui sola vista lo paralizzava.» «Sapevo che la sua morte non era affatto dovuta a cause naturali. Ma quello stronzo di Burley afferma che si è trattato di overdose per un'iniezione che si sarebbe fatto da sé.» «Capper stamattina mi ha detto che l'unico reato di cui è accusata Jean Tanner è detenzione di sostanze stupefacenti di classe A.» Sospirai. «Non capisco perché non la incriminino per occultamento di cadavere. Di questo passo, sarà una fortuna che Jean non finisca per beccarsi una semplice multa.» «Forse dovremmo cercare di parlare con lei.» «Forse.» Sorseggiai il caffè, augurandomi di trovare qualcosa con cui poterla incastrare. Ma che cosa avevo che non avesse anche Neil Vamen? Non c'era modo di esercitare pressioni su Jean, e lei ne era perfettamente consapevole. Ma, a dispetto di tutto, sono un ottimista convinto, e questo vuol dire che non mi arrendo. Dovevo solo pensare al modo giusto per fare leva su Jean. «Comunque, ottimo lavoro, Dave. Sei stato in gamba.» Berrin alzò le spalle. «Non sono completamente inutile, sergente. Sono capace di fare di più che dedicarmi alle inchieste di ordinaria amministra-
zione, sa?» Annuii. «Sì, lo so. In futuro sarà meglio che tenga presente le tue capacità.» Berrin assentì, riconoscendo il fatto che stessi indirettamente scusandomi, e sperai che la cosa finisse lì. Impugnai il telefono e chiamai Malik. Abbastanza sbalorditivamente, rispose, anche se mi informò subito che andava di fretta. «La storia di Krys Holtz si sta trasformando in un vero incubo» mi spiegò. «Come mai?» «Be', come al solito nessuno collabora. La famiglia dice che stiamo prendendo lucciole per lanterne, che Krys gode di perfetta salute ma che al momento si trova fuori Londra e non è reperibile. Come se non bastasse, tutto il personale dell'Heavenly Girls ha ritrattato le proprie dichiarazioni. Per giunta, non abbiamo la più pallida idea di chi possa esserci dietro.» «Scusa, Asif, hai per caso scoperto qualcosa sulla Dagmar Holdings, la società di cui ti ho parlato?» «Non ne ho avuto il tempo. Domani saprò dirti qualcosa di più, te lo prometto. Hai provato a chiedere informazioni al Registro delle Società o alla Camera di Commercio?» «Sì, certo. La società esiste davvero. Mi hanno mandato un po' di roba, ma nulla che possa servire.» «Vedrò di fare il possibile per sapere qualcosa di più. Mi daresti di nuovo il tuo numero di cellulare?» Glielo dettai e Malik si congedò, dicendo che doveva proprio scappare. Riattaccai e fissai nella mia vaschetta della posta in arrivo i fogli che costituivano il rapporto informativo sulla Dagmar Holdings Ltd. Avrei dovuto riesaminare meglio tutto quanto. Guardai l'orologio. Mezzogiorno meno dieci. Il materiale sulla società poteva aspettare. «Ti andrebbe di mettere qualcosa sotto i denti e di bere una bibita fresca?» domandai a Berrin. Berrin annuì e sorrise a trentadue denti. «È una proposta allettante.» «Allora leviamo le tende» conclusi, e ci alzammo contemporaneamente, lasciando ancora una volta la sala operativa del caso Matthews silenziosa e deserta. Iversson Quella sera fu Tugger Lewis a preparare la cena. Pesce al curry alla tai-
landese, con tagliolini e verdure fritte in pastella. Una prelibatezza. Si dava il caso che negli ultimi sei mesi avesse lavorato come apprendista cuoco in un ristorante, e qualsiasi cosa gli avessero insegnato era stato un ottimo allievo, perché fu una delle cene migliori che mi era capitato di consumare da anni. Rinnovò la mia fede nel sistema formativo britannico. L'unica cosa che rovinò quell'ottimo pasto fu Johnny, che da quando aveva scoperto chi fosse il proprietario del "ciuffo alla Elvis" era diventato una lamentela continua. Quando arrivai all'ultimo boccone, stava giusto ricominciando daccapo la solfa, come un CD incantato. «La mia parte va aumentata» ci disse mentre eravamo seduti al tavolo della cucina. «Là sotto c'è Krys lupo mannaro Holtz, cazzo, affettuosamente chiamato il Torturatore di Barnsbury, ed è stata sua madre a dargli quel soprannome. L'unico bastardo dell'intera zona a nord di Londra a cui nessuno si sognerebbe mai di far saltare la mosca al naso. E io faccio parte della squadra che l'ha rapito. Per voialtri sta bene. Guadagnerete tutti una bella cifra. Chi ci rimette di più sono io.» «Tu non hai dovuto sobbarcarti la parte peggiore dell'operazione, Johnny» dissi. «Sei stato solo l'autista. Il grosso del lavoro pesante l'abbiamo fatto noi.» «Anch'io ho dovuto rischiare le chiappe, Max, come chiunque altro, anche se nessuno mi ha chiesto se ero disposto a farlo. E dovrò vivere in questa fottuta città domandandomi per tutta la vita se un giorno o l'altro non finirò a fare un viaggio di sola andata nel laboratorio di Krys.» «Nessuno ti scoprirà mai» disse Joe, fra un boccone e l'altro. «Ho rubato l'auto e il furgone, ve lo siete scordato? Gli sbirri potrebbero scovare qualche indizio che li faccia risalire a me e così sarei fottuto. Potrei essere arrestato per una cosa in cui non c'entro niente, e poi la notizia potrebbe arrivare all'orecchio degli Holtz, il che sarebbe molto peggio.» «Ti agiti troppo» gli dissi. «Prenditi i soldi che ti spettano, goditeli e mettici una pietra sopra. Non si può mai sapere: domani potrebbe essere il tuo ultimo giorno. Non sprecarlo facendotela nei pantaloni per una cosa che con ogni probabilità non succederà mai.» «Per te è facile parlare. Ti prenderai quanto basta per andartene dove ti pare.» «Aaah... piantala di fare il vigliacco.» Era stato Kalinski a parlare, in tono di profondo disprezzo. Indossava una polo nera con tre grosse catenine d'oro al collo e i capelli brizzolati lisciati all'indietro con il gel. Sembrava una versione gangsta di Arsenio
Lupin. Aveva già spinto da parte il suo piatto, dopo aver mangiato meno della metà della sua porzione di pesce, e si stava fumando una Rothmans. «Pensi di sapere davvero che cos'è la paura?» domandò, puntando la sigaretta contro Johnny. «Eh?» Johnny rimase muto e basito. Sembrava che Kalinski fosse un esperto in materia. «Non ne sai niente, stronzetto. Ora te lo spiego io. Paura è quando ti trovi in una strada sprovvisto di copertura e quei bastardi dell'SO19 ti stanno prendendo di mira con fucili di precisione, mentre il tuo migliore amico, quello con cui hai fatto il colpo, è steso stecchito sul marciapiede in un lago di sangue a pochi centimetri dai tuoi piedi, e sai che fra due o tre fottuti secondi farai esattamente la stessa fine.» Kalinski fissò Johnny con espressione intimidatoria. «Questa, ragazzo, è la paura.» «Com'è finita?» domandò Johnny, con gli occhi sbarrati. «Vuoi dire com'è che sono ancora qui tutto intero? Mi beccai un proiettile nel fegato e uno nella gamba. Rimasi in ospedale per sei settimane, dopodiché quelle fighette mi incriminarono. Presi quattordici anni per rapina a mano armata e tentato omicidio, perché ero riuscito a colpire uno dei loro. L'unico rimpianto che ho è di non averlo ammazzato, quel bastardo.» Per la verità, non mi sarei fatto troppo incantare dal ruolo di Kalinski nella resa dei conti all'OK Corral. Da quanto avevo sentito dire, in tutta la sua lunga carriera di delinquente aveva sparato una volta soltanto, un colpo solo e per rabbia, ed era stato contro un soffitto in un piccolo ufficio postale di periferia. E non era nemmeno un Papillon. Da quanto mi aveva detto Joe, si era fatto soltanto due brevissimi periodi di detenzione nelle patrie galere, e questo era un altro motivo per cui l'avevamo ingaggiato. Dimostrava che era un tipo accorto. La cosa puzzava decisamente, e non era il pesce al curry di Tugger. Johnny emise un sospiro e si prese la testa fra le mani. «Cosa cazzo ci faccio qui?» disse, rivolto a nessuno in particolare. «Il vigliacco» ribatté Kalinski in tono canzonatorio. «Lascialo in pace, Mike» dissi. «Questo poveraccio ha avuto una settimana d'inferno. La sua donna è bisessuale.» «Cosa diavolo c'è che non va in questo?» si intromise Tugger. «Non c'è niente di meglio di qualche giochetto a tre.» «Non se il terzo incomodo non vuole aver niente a che fare con te.» Tugger gli batté amichevolmente una mano sulla spalla. «Merda, Johnny, è vero? La sua amante saffica non si agita al ritmo del tamburo fallico?»
«Senti, fammi un piacere: vaffanculo» ribatté Johnny, scrollandosi stizzosamente di dosso la mano di Tugger. Poi si girò e mi fulminò con un'occhiata in cagnesco. «Erano questioni private che ti avevo confidato da amico, Max.» «Una volta passai una serata con una coppia di lesbiche» disse Kalinski. «Erano due pornostar americane. Candy e Brandie, si chiamavano. Brandie ha fatto una caterva di film nel settore.» Kalinski scosse il capo con aria incredula. «Quelle due ci sapevano fare, accidenti. Ve lo posso garantire personalmente. Sarebbero state capaci di risucchiare un'anguria da una cannuccia. Successe in un attico dell'Hotel Savoy.» Se Kalinski fosse stato Pinocchio, mi avrebbe reso cieco da un occhio. Quel tipo sarebbe stato capace di sparare stronzate a getto continuo fino a concimare l'intera Inghilterra. Mi alzai da tavola. «Sarà meglio che vada a portare qualcosa da mangiare a quel piscialletto di Krys.» Kalinski mi rivolse un'occhiataccia. «Che si fotta. Lascia che crepi di fame.» «Ci ho già provato stamattina» disse Joe «e mi ha mandato a quel paese. Così l'ho accontentato. Lo rilasceremo domenica mattina. Se nel frattempo vuole calare di peso, fatti suoi. Gli abbiamo dato un po' d'acqua, perciò non morirà.» «È chiuso là sotto da quasi due giorni e non ha toccato una briciola. Vado solo a vedere se ha cambiato idea.» «Vuoi solo una scusa per rifilargli un altro calcio nelle palle» disse Joe, abbozzando una specie di sorriso. In parte era vero. Non vedevo l'ora di prenderlo a sberle. Come Johnny, Krys era stato una spina nel fianco fin dal primo momento. Quando la notte del rapimento l'avevamo tirato giù dal furgone e trascinato nella casa di campagna si era messo a fare il diavolo a quattro, scalciando come un mulo e urlando una sequela infinita di insulti. Kalinski e io eravamo stati costretti a dargli una ripassata con i fiocchi, giusto una semplice ricompensa per le carognate del suo passato. Kalinski aveva tratto particolare piacere nello strapazzargli ripetutamente gli attributi, finché Joe non ci aveva fermato, temendo che lo accoppassimo. Quando il mattino seguente avevo cercato di dargli qualcosa da mangiare, mi aveva sputato in faccia dicendomi che ero un uomo morto, una mossa abbastanza stupida da parte sua, che gli era costata la rottura del setto nasale. Ciononostante, si rifiutava ancora testardamente di collaborare e in quei sempre più rari momenti in
cui gli toglievamo il bavaglio era un diluvio di offese, spacconate e minacce. Alla fine, non potei esimermi dal riconoscergli, seppure a malincuore, un certo rispetto. Era un campione di stronzaggme e antipatia, ma non era affatto un codardo. Tutto questo mi fece anche pensare che era meglio fargli subire un trattamento del genere piuttosto che sparargli direttamente in mezzo agli occhi. In questo modo piegavamo la sua resistenza, lo umiliavamo. A onor del vero, non sono un tipo cattivo, e non credo di essere capace di sparare a qualcuno così su due piedi senza avergli accordato la possibilità di difendersi. Inoltre, in questo modo ci saremmo arricchiti, perciò mi sembrava una vendetta quasi ideale, tutto sommato. Davvero. «Al momento, Joe, Krys è la cosa più preziosa che abbiamo ed è nostro interesse tenerlo in vita. Se non altro, se lo restituiremo vivo, un giorno gli Holtz dimenticheranno l'accaduto. Se lo riconsegnassimo morto, li avremmo alle calcagna per l'eternità.» Presi due fette di pane dal tavolo. «Guarda, non è che gli dia roba da grand hotel.» Uscii dalla cucina, percorsi il corridoio e raggiunsi la porta del sottoscala che conduceva in cantina. Aprii con la chiave, accesi la luce e scesi adagio i gradini di legno. Krys era legato a una sedia che a sua volta era fissata con del filo di ferro al muro di mattoni grezzi. Indossava una camicia e un paio di pantaloni intrisi di urina, ed era a piedi nudi. Aveva gli occhi coperti da una benda nera e la bocca tappata da un grosso pezzo di nastro adesivo da imballaggio. E aveva la faccia piena di lividi. Il sangue rappreso aveva formato una crosta secca sui rivoletti colatigli dalle narici, nel punto in cui l'avevo colpito con lo sganassone che gli aveva rotto il setto nasale, e sul collo. Un'altra ferita lacero-contusa malamente rimarginata gli attraversava a zigzag la fronte. In poche parole, era davvero conciato male. Girò la testa non appena sentì che mi avvicinavo. Mi fermai e presi una caraffa d'acqua, riempii a metà una vecchia tazza di porcellana, poi mi chinai su di lui e gli staccai il nastro adesivo dalla bocca. Di solito quel gesto dava invariabilmente la stura a una scarica di imprecazioni e di ingiurie, questa volta invece Krys si limitò a tossire e a schiarirsi la voce. «Credo di avere alcune costole rotte» disse in tono sommesso «e ho bisogno di cambiare i pantaloni.» «Se cerchi comprensione, sei nel posto sbagliato» ribattei. «Adesso apri la bocca. Ti darò un po' di pane.» Krys obbedì e io feci dei piccoli pezzetti, imboccandolo piano. Masticò avidamente come un morto di fame e in quattro e quattr'otto finì le due fet-
te di pane. «Ne hai ancora?» «Razione finita. Adesso ti farò bere.» Gli avvicinai alle labbra la tazza, inclinandola leggermente. Buttò giù un bel sorso d'acqua, consumando metà della dose che gli avevo versato prima di voltare la testa per segnalarmi che gli bastava. Deposi la tazza accanto alla caraffa e pensai che avrei quasi potuto provare dispiacere per Krys Holtz, legato come un salame e a bagnomaria nella sua stessa urina. Ma poi mi venne in mente quello che aveva fatto a Elaine, e al fratello di Kalinski, e i miei scrupoli sparirono immediatamente. Quello che stava subendo non era nulla in confronto a ciò che si meritava, ed era solo un disagio temporaneo. «Ho dei soldi» disse Krys. «Una barca di soldi. Se mi aiuti a scappare da qui, non te ne pentirai. Quanto vuoi?» «Spiacente, Krys, è inutile.» «Centomila sterline, centocinquantamila. Te le posso dare senza problemi. Dico sul serio.» La sua voce aveva assunto improvvisamente una nota piagnucolosa che non migliorò l'opinione che avevo di lui. «Domani scuciremo al tuo vecchio molto di più.» «Vi ucciderà, lo sapete?» Stavolta la sua voce era calma, ma con un'ineluttabile nota minacciosa. Credeva fermamente in quello che stava dicendo. «Non importa dove vi nasconderete. Vi troverà e vi ucciderà.» Strappai un altro pezzo di nastro adesivo dal rotolo per tappargli la bocca e il tono di Krys cambiò all'istante. «Ti prego, cambiami questi dannati pantaloni. Per piacere.» Ignorai la richiesta e finii quello che stavo facendo. Krys si dibatté violentemente sulla sedia per qualche secondo finché le forze non lo abbandonarono. «Domani mattina» dissi. «Te li cambieremo domani mattina.» Poi, chiedendomi se per caso non fossi un po' troppo sadico, mi voltai, risalii la scala di legno e non appena fui in cima spensi la luce. IERI Iversson Ricevetti la telefonata alle diciotto e ventisei. «È arrivato» borbottò Kalinski al telefono. «È appena entrato nel parcheggio. Una Mercedes nera.» «Ti sembra sia solo?» «Non vedo nessuno.»
«Nessun'altra auto l'ha seguito o qualcosa del genere?» «No. È completamente solo.» «Bene. Ti richiamo fra poco.» Mi abbassai il berretto sulla fronte. Stava di nuovo piovendo forte, e c'era da credere che gli dèi ci fossero favorevoli per quanto riguardava le condizioni del tempo. Di solito c'è un sacco di gente che va a passeggio a Epping Forest, l'unico consistente lembo di bosco nelle immediate vicinanze di Londra, ma quella sera avevo la sensazione che molti sarebbero rimasti a casa. Tugger e io ci eravamo appostati ai margini della foresta in un punto che dominava una radura erbosa leggermente in discesa, un centinaio di metri di lunghezza per cinquanta di larghezza. La radura si apriva su un altro lembo di bosco dal quale sarebbe arrivato Stefan Holtz, dopo aver ricevuto le nostre istruzioni per raggiungere il punto. Nei paraggi non c'era anima viva, e nutrivo fiducia che la transazione potesse svolgersi senza problemi. Tugger era su un albero, a cavalcioni di un grosso ramo, con i piedi puntati sullo spuntone di un ramo potato e un M-16 in mano. Una semplice precauzione, ma sempre valida, tanto per essere sicuri. «È arrivato?» Annuii. «Sì, è al parcheggio.» Composi il numero del cellulare di Holtz e aspettai che suonasse. Rispose con un brontolio irritato. «Mr Holtz, lieto che ce l'abbia fatta.» «Dov'è mio figlio?» «È al sicuro e sta bene.» «Come faccio a saperlo?» «Stia a sentire.» Accesi il registratore a microcassette con il breve messaggio su nastro che avevamo fatto incidere a Krys quella mattina in cambio di un paio di pantaloni puliti e del permesso di usare il gabinetto in privato. Il messaggio era breve ed essenziale; Krys indicava la data e l'ora aggiungendo che era in buona salute e che veniva trattato bene. Quello scimmione non avrebbe voluto aggiungere quest'ultimo particolare, ma gli avevo consigliato di farlo se non voleva che Kalinski gli appiattisse di nuovo i gingilli. Se Krys non era un vigliacco, non era neppure scemo, e aveva eseguito gli ordini. Spensi il registratore. «Soddisfatto?» «Sarà meglio per voi che sia in buona salute.» «Non ci minacci, Mr Holtz» ribattei in tono gelido. «Non è nelle condi-
zioni per poterlo fare. Veniamo al dunque: ha portato il denaro?» Holtz borbottò che l'aveva con sé. «Bene. Dunque, non appena avremo concluso questa conversazione esca dal parcheggio, svolti a destra e superi il cavalcavia sulla M25.» Poi aggiunsi una breve serie di ulteriori istruzioni su dove dovesse deviare dalla strada principale e procedere da quel punto in poi. «Quando arriverà al cartello DIVIETO DI DISCARICA, si fermi e parcheggi l'auto sull'argine. Per l'intero tragitto le occorreranno quindici minuti. La richiamerò quando sarà arrivato laggiù. Lasci che le dica un'altra cosa, un dettaglio della massima importanza. Non si porti dietro nessuno. Quando parcheggerà, sarà sorvegliato a distanza. Se oltre a lei c'è qualcun altro, l'affare va a monte e quelle che ha appena ascoltato sarebbero le ultime parole che ha avuto la grazia di sentire da suo figlio.» Holtz cominciò a sbraitare qualcosa, ma chiusi bruscamente la comunicazione. Non mi andava di stare a sentire minacce. «Cristo, Max» disse Tugger con una risata «per poco non spaventavi anche me. Al cinema saresti stato fantastico, te lo dico io.» «Amico, in confronto a me Alan Rickman è un pivello. Comunque, si deve per forza essere duri, no? Non voglio che pensi di avere di fronte una banda di dilettanti.» Richiamai Kalinski e gli comunicai di trovarsi sul luogo dell'appuntamento alle diciotto e quarantacinque in punto. Poi telefonai a Joe. «Mi sono messo in contatto con il vecchio. È al volante di una Mercedes nera e sarà da te fra quindici minuti.» «Nessun problema» disse Joe. «Se c'è qualcun altro con lui te lo faccio sapere. Altrimenti lo seguo, me la batto non appena concluso l'affare e ci si vede all'appuntamento.» Interrompemmo la telefonata. Tutti sapevano quello che dovevano fare. Ora non ci restava che aspettare. «Ne è passato del tempo dall'ultima volta che ho usato uno di questi» disse Tugger, accarezzando il fucile d'assalto come se fosse il suo giocattolo preferito. Joe se l'era portato a casa dalla guerra del Golfo nel '91. «Credo che l'ultima volta sia stato in Bosnia, e Cristo, ne sono passati di anni. Un'ottima arma, però. Capisco perché piaccia tanto agli yankee.» «Se potessi scegliere, credo che preferirei l'AK-47. Meno soggetto a incepparsi.» «Sai una cosa, Max?» disse Tugger, estraendo e inserendo il caricatore nell'M-16. «Mi piace fare il cuoco, e scommetto che potrei guadagnare un mucchio di soldi, specie se potessi permettermi di aprire un ristorante tutto
mio.» «Fai un pesce al curry alla tailandese davvero favoloso, te lo concedo.» «Già, lo so, però...» Tugger rifletté in silenzio per quasi un minuto, portando nello stesso tempo il calcio dell'M-16 alla spalla e prendendo di mira un bersaglio immaginario fra gli alberi. «Ma non potrebbe mai darmi lo stesso tipo di emozioni che dà un lavoro in cui si rischia la pelle. Capisci cosa intendo? Nella vita normale non si ha lo stesso tipo di eccitazione.» «Già» dissi, ricordando l'incredibile scarica di adrenalina che avevo provato quando mi ero trovato appostato sulle scale della Heavenly Girls, a crivellare di colpi Fitz e Big Mick. «Forse non è proprio possibile.» Alle diciotto e quarantaquattro il mio cellulare trillò. Era Joe, e stava bisbigliando. «È qui. Pare sia solo.» «Grazie.» Chiusi la comunicazione e chiamai Holtz. Rispose immediatamente. «Si metta di fronte al cartello DIVIETO DI DISCARICA, a un metro e mezzo di distanza.» «Come faccio a calcolare quant'è un metro e mezzo?» domandò Holtz in tono rabbioso. «Faccia come le ho detto e basta. Ora si giri verso sinistra di novanta gradi e cominci a camminare, in linea retta. A un certo punto vedrà davanti a sé i margini di un sentiero. Lo segua.» «Dov'è mio figlio?» «Gliel'ho già detto, è al sicuro e sta bene. Ha trovato il sentiero?» «Sì, sto camminando. Quando rivedrò mio figlio?» «Se i soldi ci sono tutti, lo vedrà di sicuro domani mattina. Sarà rilasciato da qualche parte a Londra, ragionevolmente nelle vicinanze di una cabina telefonica.» «Sarà meglio che lo facciate, cazzo.» «Continui a camminare e risparmi il fiato.» Dal suo vantaggioso punto d'osservazione nel sottobosco, Joe osservò Stefan Holtz girare su se stesso e cominciare a camminare lungo il sentiero in salita fra gli alberi in direzione di Max e Tugger. Holtz aveva il cellulare premuto all'orecchio e una voluminosa sacca da viaggio in spalla. Nel giro di un minuto era sparito alla vista e nella foresta era di nuovo calato il silenzio, a parte il costante sgocciolio della pioggia tra le fronde degli alberi e il brusio in lontananza del traffico stradale. Nessuno l'aveva seguito a bordo di un'altra vettura, e l'auto con cui era arrivato, la Mercedes, era vuota.
Joe restò in ascolto ancora un minuto o due, poi, convinto che Holtz fosse venuto da solo all'appuntamento, scivolò adagio e con la massima prudenza fuori dal suo nascondiglio, attraversò la strada sterrata da cui era spuntata la Mercedes e si avviò lungo il sentiero al seguito di Holtz, tenendosi il più indietro possibile. Udì troppo tardi il rumore alle sue spalle. Il fruscio dei cespugli, i passi pesanti sul terreno fangoso e infine la tremenda sensazione di una canna di duro metallo premuta contro la nuca. Vidi Holtz emergere dagli alberi in fondo alla china, dall'altra parte della radura, con il borsone in spalla. Era a circa centocinquanta metri di distanza. «Molto bene, continui a camminare» gli dissi al telefono, e spensi il cellulare. Mi girai verso Tugger. «Ecco che arriva.» Tugger annuì ed entrambi indossammo i passamontagna. Controllai la Glock, concessi a Holtz altri trenta secondi per avvicinarsi ancora, poi mi feci largo tra i cespugli. Ora ci separavano solo una cinquantina metri. Holtz mi scorse, ma non accelerò il passo e andammo incontro l'uno all'altro con la stessa disinvoltura di una coppia di tranquilli escursionisti serali. Quando fummo a tre metri di distanza ci fermammo contemporaneamente. Holtz sembrava furente. La pioggia, che ora scrosciava impietosa, gli aveva bagnato e appiattito i capelli grigio ferro e scorreva liberamente sul suo volto grinzoso e rugoso e sul suo impermeabile cachi. Non l'avevo mai visto neppure in fotografia (il vecchio Holtz, come tutti i suoi tirapiedi più intimi, evitava le macchine fotografiche come la peste), ma pensai che assomigliava parecchio a Karl Malden, lo stagionato attore protagonista negli anni Settanta della serie di telefilm polizieschi Le strade di San Francisco, perfino nel particolare del voluminoso naso a patata. «Avete commesso un grosso, fottutissimo errore a fare questo proprio a me» grugnì, senza accennare minimamente a consegnare la sacca. «E lei ha commesso un grosso, fottutissimo errore cercando di farmi ammazzare» ribattei a denti stretti, incapace di resistere dal fargli sapere chi gli avesse fatto quell'affronto, anche se a tutti gli effetti significava esiliarmi per tutta la vita. A volte non si può proprio fare a meno di dimostrare che non ci si è lasciati intimidire. «Non so neppure chi cazzo sei sotto quella ridicola maschera, perciò che cosa ti fa pensare che abbia tentato di farti ammazzare? Però voglio dirti una cosa, grandissimo stronzo. Se voglio che qualcuno finisca all'altro
mondo, è lì che finisce. Sempre. Nessuno la scampa con me.» Per un attimo pensai di levarmi il passamontagna, ma sarebbe stato davvero un gesto idiota. Ma poi fui colpito dal pensiero che forse non sapeva chi fossi. Forse per lui ero così insignificante. «Quel borsone ha l'aria di essere molto pesante» gli dissi. «Perché non lo lascia portare a me?» Holtz accennò a un sorriso per la prima volta da quando ci eravamo incontrati. Non era una vista piacevole. «No, amico, non è così facile come credi. Prima di consegnarti il malloppo, voglio vedere mio figlio. Perciò, chiama al telefono lo stronzo che lo tiene in custodia e digli di portarlo qui in macchina. Subito. Poi vedremo se varrà la pena di fare uno scambio.» «Non voglio strapparle quella borsa con la forza, Mr Holtz, ma mi creda, se mi costringe, lo farò.» «No, non lo farai, figliolo» disse Holtz, scuotendo la testa. «No, cazzo, non lo farai.» Tugger aveva imbracciato il fucile d'assalto, con la canna puntata verso Stefan Holtz attraverso uno squarcio tra il fogliame del sempreverde su cui si era appollaiato. Vedeva Holtz e Max che discutevano, ma Max non accennava a prendere in consegna la sacca. Si diceva che Tugger Lewis fosse dotato di un sesto senso nel percepire il pericolo, e che sapesse intuire in anticipo quando stava per accadere qualcosa di brutto. Una volta, tanti anni prima in Irlanda del Nord, nel County Down, erano usciti in cinque in pattuglia a bordo di una Land Rover per perlustrare delle remote stradine di campagna quando avevano visto un'auto posteggiata in una piazzola. In seguito, Tugger aveva spiegato che ad attirare la sua attenzione era stata l'angolazione in cui la vettura era parcheggiata, leggermente di sbieco con il cofano puntato verso la strada, come se qualcuno l'avesse abbandonata un po' troppo di fretta. Ma non era tanto quello, quanto la sensazione che aveva provato. Era stato come se avesse saputo in anticipo che stava per accadere qualcosa. Aveva detto all'autista di fermarsi e di fare inversione di marcia anche se lui era soltanto un soldato semplice e l'autista un caporal maggiore, e la strada talmente stretta che un'inversione di marcia avrebbe richiesto un'infinità di manovre. Ma qualcosa nel suo tono di voce - la disperazione, la sicurezza che stessero andando dritto verso la morte - aveva convinto l'autista a fare come Tugger gli aveva detto. Dieci secondi dopo, mentre stavano ancora facendo manovra per tornare indietro, l'uomo dell'IRA, vedendo che i suoi bersagli stavano sfuggendo alla trappola, con un comando a distanza aveva fatto
esplodere la bomba nascosta nel cofano dell'auto. Sulla jeep due uomini erano rimasti leggermente feriti, ma nessuno si era lagnato. Se fossero passati accanto all'auto-bomba, l'impatto della deflagrazione li avrebbe uccisi tutti. Ora Tugger aveva la stessa sensazione. Si era fatta sentire poco alla volta, più o meno un'ora prima, ma era aumentata significativamente quando Stefan Holtz era sbucato fra gli alberi sotto di loro. C'era qualcosa che non andava. Era un dato di fatto incontrovertibile. Decisamente, c'era qualcosa che non andava. Max e Holtz stavano ancora parlando, e Tugger ebbe l'impressione di scorgere un sorriso sulla bocca dell'anziano boss. Ma forse era solo frutto della sua immaginazione. Era una trappola? Tugger strinse i denti, facendo nervosamente scattare un muscolo nella mandibola, e contrasse il dito sul grilletto. Ora era in ascolto, con le orecchie tese per percepire qualsiasi rumore che fosse anche solo lontanamente fuori posto. Quel flebile fruscio di foglie calpestate... lo sentiva? A una certa distanza alla sua sinistra, non troppo lontano, proveniente da qualche parte fra gli alberi. Tugger rimase in ascolto, non poteva affermarlo con assoluta certezza, rifletté, si concentrò... Poi girò su se stesso di novanta gradi, tenendo sempre imbracciato il fucile d'assalto, e scorse la figura umana che avanzava furtivamente nel sottobosco, a meno di una decina di metri di distanza, con la pistola in pugno. Istintivamente, con i riflessi prontissimi, premette il grilletto, sparando cinque colpi in rapida successione. Il tartaglio rabbioso dell'M-16 echeggiò attraverso il fogliame nel sottobosco. Poi si lasciò cadere a terra mentre diversi proiettili fischiavano in aria dalla direzione opposta. Il crepitio delle armi automatiche ci fece trasalire entrambi. Riconobbi i primi colpi provenienti dall'M-16, che doveva essere quello di Tugger, e poi altre detonazioni a catena da almeno due altre armi. Holtz poteva aver pensato di avere qualche asso nella manica, ma era evidente che non si era aspettato che qualcuno si mettesse a sparare. Sbarrò gli occhi per la sorpresa e si girò verso di me con un'espressione di sospetto misto a panico. «Cosa cazzo succede?» Furono le ultime parole che Stefan Holtz pronunciò. Prima ancora che avessi il tempo di aprire bocca per rispondere, il suo occhio sinistro sembrò esplodergli in faccia e lui stramazzò in avanti, lasciando cadere la sac-
ca. Mi tuffai a terra ed estrassi la pistola. D'un tratto, rimbombavano spari ovunque. Intravidi una figura armata di fucile, con un ginocchio a terra, dall'altra parte della radura a una trentina di metri di distanza, parzialmente nascosta dal fogliame. Capii subito che era l'uomo che aveva steso l'anziano padrino. Il cecchino sparò un secondo colpo e il sangue sprizzò a fontanella da una coscia di Holtz quando il proiettile andò a segno. Muovendomi freneticamente carponi mi misi al riparo dietro il suo corpo; poi, usandolo come copertura, mi sporsi di scatto e sparai cinque colpi con la Glock verso il cecchino, consapevole che le probabilità di colpirlo erano scarse ma deciso a tenerlo sotto pressione. L'uomo rispose al fuoco con un paio di colpi, che mi ronzarono pericolosamente vicino, dopodiché batté in ritirata fra gli alberi. Ma ora altri spari venivano esplosi alle mie spalle, e si stavano anche avvicinando. Schizzi di fango si sollevarono dal terreno a pochi metri dal punto in cui ero disteso. Girai su me stesso e sparai tre colpi, senza vedere il mio aggressore; poi, sapendo di costituire un facile bersaglio finché restavo piantato lì, balzai in piedi e strappai la sacca dalla mano rattrappita di Holtz. Me la buttai in spalla, sorpreso dalla sua pesantezza, e cominciai a correre verso gli alberi più vicini, tenendomi il più basso possibile. Alle mie spalle udii il cecchino che aveva freddato Holtz esplodere alcuni colpi contro di me, e davanti intravedevo il secondo cecchino acquattato dietro una macchia di cespugli. Aveva quello che sembrava un fucile appoggiato su un ramo e si stava preparando a sparare. Non gliene concessi l'opportunità. Mentre mi avventavo di corsa contro di lui, alzai la Glock e premetti il grilletto. Bang bang bang. Fu una battaglia di nervi e lui la perse, togliendosi precipitosamente di mezzo e abbassando il fucile. Corsi freneticamente a zigzag, stringendo i denti in previsione di una pallottola che poteva colpirmi da un momento all'altro, e all'ultimo istante, in parte tuffandomi e in parte scivolando, mi precipitai nel bosco e mi sottrassi alla vista del cecchino che avevo alle spalle. Il secondo cecchino, solo parzialmente visibile attraverso il fitto sottobosco, girò il fucile nella mia direzione, premendo contemporaneamente il grilletto. L'arma si sollevò per il violento rinculo e l'uomo arretrò barcollando di un passo, mentre il proiettile mi fischiava alto sopra la testa. Sparai due volte in risposta e almeno una pallottola lo colpì. Lo sentii mugolare e cadere su un ginocchio; poi, senza neppure fermarmi un istante a riprendere fiato, balzai in piedi con la sacca e corsi piegato a metà verso il punto in cui avevo lasciato Tugger, tenendomi al riparo degli alberi. I rami e i cespugli mi sferzava-
no e graffiavano mentre mi avventavo in avanti come un toro scatenato, con tutti i sensi e le terminazioni nervose concentrati sull'ambiente circostante, consapevole che eravamo caduti in un agguato e che era più che probabile che nei paraggi ci fossero altri aggressori. Come conferma, un proiettile mi fischiò a poche spanne dalla testa, producendo uno schianto sonoro e rabbioso quando colpì di striscio un grosso ramo e rimbalzò in lontananza nella penombra del bosco. Non riuscivo a vedere chi aveva sparato e dubitavo che l'uomo armato riuscisse a vedere me. Senza preavviso, una figura sbucò all'improvviso fra gli alberi davanti a me, a meno di tre metri, correndo e inciampando proprio nella mia direzione. Impugnava una pistola e si teneva una gamba ferita con la mano libera. Non lo riconobbi, e questo significava che era un nemico. Non mi scorse fino all'ultimo istante, il che fu un errore fatale. Ancora in corsa, alzai la Glock, allungai il braccio in avanti, tanto che la canna si trovò a meno di un metro dal suo bersaglio, e gli sparai dritto nella bocca spalancata. Morì con un'espressione scioccata e confusa stampata in faccia, e quando stramazzò a terra l'avevo già superato di cinque o sei metri. Una tartagliante raffica di arma automatica crepitò fra gli alberi da qualche parte alla mia destra, ma parve infondermi più speranza che minaccia, e continuai a correre, per nulla scoraggiato, sperando che Tugger stesse bene e avesse seguito le istruzioni in caso di malaparata, ossia dirigersi difilato nel punto in cui Kalinski ci avrebbe prelevato. L'ultima cosa che desideravo in questo momento era che Tugger avesse mantenuto stoicamente la sua posizione e mi prendesse di mira per sbaglio mentre spuntavo oltre la cima del colle. A differenza dei tizi che ci avevano attaccato, era sempre stato un tiratore scelto. Ma quando oltrepassai il punto in cui l'avevo lasciato Tugger non c'era, e non si vedevano tracce di sangue né altri segni che lasciassero supporre che era rimasto ferito. Perciò continuai a correre fra gli alberi sull'altro versante del colle, pervaso dall'apprensione terribile che il pericolo infonde sempre, benché attenuata da un altro pensiero, ben più preoccupante. Che fine aveva fatto Joe? Gli sportelli posteriori del furgone erano aperti e il motore era acceso quando sbucai dagli alberi e raggiunsi la strada. Gettai dentro la sacca e saltai su subito dopo. Tugger era già a bordo, ma non c'era traccia di Joe. «Cosa cazzo è successo, Max?» domandò Tugger, ancora con le mani strette intorno all'M-16. «Cos'è che è andato storto?» «Non lo so» sussurrai fra un respiro affannoso e l'altro, trovando difficile
riflettere. «In qualche modo Holtz ci ha teso un agguato, ma Dio solo sa come. Avevamo pianificato tutto alla perfezione.» «Pensi che abbiano beccato Joe?» «Non lo so.» «Erano in tanti. È facile che l'abbiano liquidato.» Mi protesi dagli sportelli rimasti aperti e guardai in alto verso il bosco. Non si muoveva una foglia. Premetti il pulsante di composizione automatica del numero di Joe sul cellulare. All'altro capo il cellulare di Joe squillò. Cinque volte, sei, sette. Nessuna risposta. Continuai a fissare gli alberi. Nessuna traccia di Joe. Nessuna risposta. Otto squilli, nove. A quel punto, se non gli era successo niente, avrebbe dovuto impugnare il telefonino. Più a lungo ci attardavamo sul posto, più diventava pericolosa la nostra situazione. «Dobbiamo muoverci, Max. Potrebbero piombarci addosso da un momento all'altro. E a quest'ora la polizia sarà già stata avvertita. C'è stato un conflitto a fuoco che pareva di essere in guerra.» Dieci squilli, undici, dodici. Ancora niente. Tugger aveva ragione, ne ero sicuro. Ma andarcene di lì, abbandonare il mio amico, era estremamente difficile. Avevamo convenuto di ritrovarci alla casa in campagna se si fosse dimostrato impossibile per uno di noi raggiungere il punto di raccolta, ma ero ancora riluttante a prendere la decisione di partire. Tredici, quattordici. «Forza, Max, siamo soldati. Non possiamo fermare tutto perché uno dei nostri è disperso, lo sai. Restando qui mettiamo a repentaglio tutta l'operazione. Dài! Pensaci!» «Cosa cazzo sta succedendo, lì dietro?» Era la voce attutita ma carica di nervosismo di Kalinski proveniente dalla cabina anteriore. «Leviamoci di torno!» Quindici, sedici. Imprecai ad alta voce, poi chiusi gli sportelli, consapevole di non avere altra scelta. Mi sporsi in avanti e battei due volte il pugno sul divisorio che ci separava dalla cabina di guida. «Va bene, vai!» Kalinski premette l'acceleratore come se avesse ai piedi degli scarponi di piombo e partimmo in sgommata. Strada facendo, riposi la pistola nella fondina, mi asciugai il sudore dalla fronte e, dopo aver tratto un respiro profondo, aprii la grossa sacca di tela, interrogandomi sul suo contenuto. Era piena, piena zeppa di mazzette di banconote usate da cinquanta sterline, strette con gli elastici. Holtz era stato sincero e corretto. E questo fa-
ceva sorgere spontaneamente un interrogativo cruciale. Perché cazzo si erano messi a sparare? Gallan Quella sera mi ero portato a casa la cena da un takeaway. Pollo tikka masala, riso pilau, due poppadoms e un contorno di sag aloo. Sapevo che non avrei mangiato tutto, era un sacco di cibo, ma almeno ci avrei provato. Se fosse avanzato qualcosa, l'avrei finito freddo l'indomani. Avevo anche comprato una confezione da quattro di birra Fosters e noleggiato una videocassetta. Sarà stato anche sabato sera, e sarò stato anche solo soletto, ma avevo ugualmente intenzione di spassarmela. Il salotto era comodo, il televisore - un Sony a schermo rettangolare da ventotto pollici acquistato a rate - era acceso, e tutte le preoccupazioni del mondo erano state relegate fuori dalla mia porta di casa. Ero stravaccato sul divano in vestaglia, a scaldarmi in vista del video con un programma di Denis Nordern su ITV, e stavo giusto per affondare la forchetta nelle prelibatezze che avevo comprato, quando il mio cellulare trillò. Erano le venti e cinquanta. Per un istante pensai di non rispondere. Avevo fame ed ero sicuro che la telefonata poteva aspettare, ma prevalse la forza dell'abitudine. Sono sempre stato un tipo curioso. Posai vassoio e forchetta, andai al tavolo della cucina e afferrai il cellulare. «John? Sono Asif Malik.» Sembrava senza fiato e la ricezione non era troppo chiara. Uscii dalla cucina premendo il telefonino all'orecchio e tornai in salotto. «Asif, come ti va?» «Male. Immagino che tu non abbia sentito le notizie.» «Riguardo a che cosa?» «Stefan Holtz. Gli hanno sparato, a Epping Forest. È dove mi trovo in questo momento. A quanto pare i rapitori di Krys hanno convinto Stefan a uscire dal suo eremo fortificato, lo hanno attirato qui e lo hanno ucciso.» Ero stupito, ma non dispiaciuto. «Allora si tratta di una specie di lotta di potere?» «Non lo so» rispose Malik. «È quello che ipotizziamo, ma non esiste uno straccio di informazione da parte di una fonte qualsiasi che possa fornirci un'idea seppur vaga di chi possa essere il mandante.» «La sua morte vi faciliterà il lavoro?» Malik si lasciò andare a una risatina priva di ogni umorismo. «Ne dubi-
to. Ora tutti si azzanneranno per assumere il comando di quello che resta della famiglia. Significa che probabilmente finiremo a sorvegliare una decina di superboss diversi invece di uno. Il nostro lavoro non si semplifica mai, ma si ingarbuglia di più, John, lo sai bene. Dunque, prima che mi dimentichi, per quanto riguarda la Dagmar Holdings...» «Mi sento in colpa per averti creato altre rogne con i grattacapi che hai già.» «Lascia stare. Anche perché non so se ti sarà di aiuto. È una società sospettata di collegamenti con la banda Holtz, ma nessuno dei principali luogotenenti dell'onorata famiglia siede in consiglio di amministrazione. Perciò sarà molto difficile mettere in relazione la Dagmar con persone specifiche, a meno che tu non riesca a far parlare i membri del consiglio e vedere che cosa sanno.» «Ma non fanno parte dell'organizzazione?» «Il consiglio di amministrazione della Dagmar Holdings è composto da tre persone. Saranno anche conosciuti dagli Holtz, ma no, per quel che ne sappiamo non fanno parte dell'organizzazione. Però potrebbe valere la pena andare a farci due chiacchiere. Se vuoi ho i loro indirizzi.» Tornai in cucina e presi una biro e un foglietto di carta da un cassetto. «Grazie. Detta pure.» Malik mi dettò nome, cognome e indirizzo del presidente, poi i dati relativi al direttore amministrativo. Quando pronunciò il nome della segretaria, restai come paralizzato. «Sei sicuro che il nominativo sia questo?» «Al cento per cento» disse Malik. Finii di annotare l'indirizzo, lo ringraziai e riattaccai. Mi guardai in giro e trovai il rapporto informativo sulla Dagmar Holdings che mi ero portato a casa dal commissariato la sera prima. Poi controllai i cognomi e le iniziali del nome dei membri del consiglio di amministrazione, elencati in calce nella prima pagina. Malik aveva davvero ragione. Come diavolo avevo fatto a non notarlo? Rilessi l'indirizzo che mi aveva dettato. Forse non avrebbe portato a niente, ma sapevo che avrei dovuto farci una capatina. Guardai ancora l'orologio. Ormai era troppo tardi. Ci sarei andato la mattina successiva. Iversson «Da qualsiasi punto di vista lo si consideri, è stato un agguato premedi-
tato» dissi, fissando gli altri tre l'uno dopo l'altro. Eravamo in piedi intorno al tavolo della cucina, tutti con una faccia da funerale, con la sacca contenente il denaro aperta davanti. Non c'era traccia di Joe. L'orologio a parete sopra i fornelli segnava le venti e cinquantacinque. Fuori, pioveva persino più forte di prima. «Si è trattato sicuramente di un agguato premeditato. Come Cristo ha fatto il vecchio Holtz a far convergere tutti quegli scagnozzi sul luogo dell'appuntamento senza aver avuto prima una soffiata dall'interno su dove sarebbe avvenuto lo scambio? C'erano almeno tre uomini armati, probabilmente di più, visto che in un modo o nell'altro sono riusciti a neutralizzare anche Joe. Perciò qualcuno ha parlato.» «Non è detto» obiettò Tugger. «Potrebbero aver nascosto sulla sua auto un aggeggio elettronico per seguirla a distanza, qualcosa che li aiutasse a localizzarla.» «Impossibile. Ci sono piombati addosso pochi minuti dopo l'arrivo di Holtz. Se avessero seguito l'auto a distanza non avrebbero mai avuto la possibilità di prendere posizione in quel breve lasso di tempo. Non c'è dubbio: quei bastardi erano già là ad aspettarci. E il modo in cui Holtz mi si è rivolto mi ha dato la netta impressione che sapesse che i suoi uomini si trovavano nelle vicinanze. Era troppo arrogante per essere uno venuto a consegnare un riscatto.» «Già, ma hai detto tu stesso che è rimasto scioccato quando sono partiti i primi colpi» osservò Tugger. «Insomma, Cristo, gli hanno sparato, no?» «Ma sei stato tu ad aprire il fuoco per primo.» «C'era un dannato bastardo che stava avanzando verso di me con la pistola in pugno! Cosa cazzo avrei dovuto fare, fargli ciao con la manina?» «Merda!» esclamò Johnny, che non riusciva a distogliere lo sguardo dai soldi. «Non posso crederci. Pensi che l'abbiano fatto secco per sbaglio quando hanno cercato di far fuori te?» «E chi lo sa?» risposi. «Può darsi.» Mi rivolsi a Kalinski. «Non l'ha seguito nessuno nel parcheggio, vero?» Kalinski mi lanciò un'occhiata assassina, poi scosse la testa con veemenza. «E quando è ripartito ti sei allontanato a tua volta, e neanche allora qualcuno lo stava seguendo?» «Porca puttana, non sono un cretino» brontolò in tono iroso. «So quello che faccio. L'ho seguito da lontano e non c'erano altre auto, e con lui non c'era nessuno. Quando ha deviato dalla strada principale, lo ha fatto da solo.» «Benissimo. Allora erano già là ad aspettarci. Non c'è altra spiegazione.
Giusto?» «Nessuno di noi ha parlato» disse Kalinski con fermezza. «Allora spiegaci come hanno fatto quei cani ad arrivare sul posto così in fretta. Finora non hai espresso nessuna ipotesi alternativa.» «Non sono tenuto a spiegare proprio niente.» «Che cazzo, Max!» esclamò Tugger, esasperato. «Poteva succedere. Certamente. Non occorre un piano di battaglia elaborato al dettaglio per arrivare sul posto, avanzare lungo i lati della radura in modo da fiancheggiare il proprio boss, e affrontarci. Quale sarebbe l'alternativa? Che uno di noi li abbia avvertiti in anticipo? Chi? Non è stato Joe. Dio solo sa che fine ha fatto, ma non c'è da essere ottimisti. Non sono stato io. Fino alla settimana scorsa non avevo mai neppure sentito nominare questo Stefan Holtz. Kalinski? Difficile. Suo fratello è stato ammazzato dagli sgherri di Holtz.» Kalinski brontolò il proprio assenso. «E Johnny? Lo hai coinvolto nell'operazione tenendolo all'oscuro di tutto. Se qualcuno ha parlato, l'unica possibilità che resta sei tu.» «O la tua donna» aggiunse Kalinski. «Non conosceva i particolari dell'operazione» ribattei, risentito. Non mi piaceva la piega che stava prendendo la discussione. «Sei sicuro?» Tugger dava l'impressione di nutrire forti sospetti. «Certo che sono sicuro, dannazione. Non le ho mai detto niente riguardo alla consegna del riscatto, dove sarebbe avvenuta o come avremmo organizzato la cosa. Perciò lasciatela fuori da questa storia.» «Potrebbe aver origliato mentre parlavi al telefono» disse Kalinski in tono accusatorio. «Sai come sono fatte le donne. Una volta avevo una squinzia...» «Impossibile. È assolutamente impossibile. Vi sbagliate di grosso. Ho sempre usato la massima cautela per tenerla all'oscuro di qualsiasi dettaglio relativo al piano, ed è la pura e sacrosanta verità.» «Be', questo esclude qualsiasi sospetto nella nostra cerchia, dico bene?» concluse Tugger. Smisi di insistere e sospirai. Tugger aveva ragione, naturalmente. Non c'era davvero nessuno fra noi che avesse motivo di parlare. Però non ero ancora del tutto convinto. Laggiù era successo qualcosa, un inconveniente che non era stato pianificato né da noi né da Stefan Holtz, ma da qualche parte qualcuno sapeva molto di più del lecito. Fissai i miei complici uno alla volta, cercando di non lasciar trapelare dalla mia espressione il forte sospetto che nutrivo. Sostennero tutti il mio sguardo con varie espressioni:
Kalinski verde di rabbia; Johnny nervoso; Tugger calmo ma preoccupato. «Tanto vale far fuori il pupetto che abbiamo in cantina» disse Kalinski. «Ormai non ci serve più.» «Non se ne parla nemmeno» ribattei. «Questa storia si è già complicata abbastanza senza aggiungere un altro motivo perché gli Holtz o gli sbirri ci diano la caccia. Krys non è in grado di riconoscere nessuno di noi, abbiamo avuto il denaro del riscatto, perciò ci atterremo al piano e terremo fede ai nostri impegni. Passeremo la notte qui, aspetteremo di vedere se Joe si fa vivo e domattina libereremo Krys e ce ne andremo ognuno per la sua strada. Proprio come avevamo programmato all'inizio.» «Joe non si farà più vivo» sentenziò Kalinski. Sapevo che era la pura e semplice verità, ma non avevo bisogno di sentirlo dire da lui. «Può darsi di sì, può darsi di no. Non sappiamo. Comunque, restiamo qui. E ora contiamo questo fottuto denaro. Divideremo come convenuto e io terrò in serbo la parte che spetta a Joe.» «Non credo che si debba tenere da parte la sua fetta del malloppo» disse Kalinski. «Se non è ancora arrivato, non verrà più. Divideremo la sua parte fra noi. Non c'è altro da fare.» «Pensavo che avessi accettato solo per motivi di vendetta.» «Be', la mia dannata vendetta non l'ho ancora avuta. Sbaglio? Quella carogna è ancora viva e hai appena detto che domani lo libereremo. Nonostante si sia scopato la tua donna.» «Bada a come parli.» «Se stesse a me, e lui avesse fatto una cosa del genere alla mia donna, avrei già ammazzato quella testa di cazzo.» Feci un passo in avanti, sentendomi il sangue montare alla testa. Sono un uomo paziente, ma quel bastardo di Kalinski ci stava andando pesante. Tugger alzò una mano per fermarmi. «Va bene, ragazzi, diamoci una calmata. Rilassiamoci e scoliamoci una birra. Ne riparleremo domani mattina. Cosa ne pensate? Litigare fra noi non ci porterà da nessuna parte.» «Penso che dovrei avere una fetta più consistente del riscatto» osservò Johnny. «Dici che non ho dovuto fare un granché, ma con tutto questo casino le cose non saranno mai più le stesse per me.» Mi voltai verso Johnny, desideroso di ristabilire l'ordine. «Stronzate. Hai fatto il poco che dovevi fare, e l'hai fatto anche bene, ma la morte del vecchio Holtz non cambia niente. Nessuno sa chi siamo e nessuno lo scoprirà. A patto di mantenere la calma e di liberare Krys. Terrò i soldi fino a domani. Se Joe non si sarà ancora fatto vivo al momento di partire, dividere-
mo quanto gli spetta in parti uguali. Ma se saltasse fuori che è vivo, e verrà a cercare quanto gli spetta, si dovrà tenere presente che sono soldi suoi. E se qualcuno non vorrà restituirgli il dovuto dovrà stare attento. E adesso contiamo questa dannata cartaccia. Poi divideremo.» L'atmosfera era tesa, sgradevole. Nessuno se la sentiva di parlare, e neppure di mangiare. Le birre furono stappate, come proposto da Tugger, ma non ci furono né brindisi né feste, anche se tutti i presenti erano molto più ricchi di prima. La somma del riscatto c'era tutta, fino all'ultima banconota. Mezzo milione di sterline in banconote da cinquanta, proprio come avevo ordinato di fare al vecchio Holtz, e questo mi diede parecchio da pensare. Era impossibile che fosse rimasto ucciso accidentalmente da uno dei suoi uomini che stava cercando di farmi la pelle. Per quanto ci tornassi sopra, una cosa restava sicura, ed era che l'anziano boss aveva avuto tutta l'intenzione di pagare il riscatto. Prima che ci ritirassimo per la notte, portai giù un po' di pane a Krys e lo imboccai senza parlare. Alla fine, lui volle sapere se suo padre aveva pagato il riscatto. Aveva completamente perso i toni di sfida e di rabbia feroce; sembrava solo spossato e notevolmente a disagio. Si era di nuovo pisciato nei pantaloni, ma non chiese di cambiarli. «Sì, tuo padre ha pagato» risposi. «Allora mi lascerete andare?» domandò con una voce stranamente infantile. «Sarai rilasciato domani mattina. Dopodiché sarà tutto finito.» «Grazie» disse Krys. Non parlai mentre gli rimettevo il nastro sulla bocca, pensando ancora una volta che ero lieto che non l'avessimo ucciso. Lo avrebbe meritato, non c'è dubbio, ma non si riesce a provare un odio eccessivo per una persona nelle sue condizioni. Mentre uscivo dalla cantina e chiudevo a chiave la porta dietro di me, guardai l'orologio. Le ventidue e cinquanta. Gli altri erano tutti saliti di sopra. Li sentivo muoversi nelle loro stanze. Sbadigliando, prelevai la sacca dal tavolo della cucina, controllai che nessuno l'avesse manomessa e salii anch'io di sopra per andare a letto, notando per la prima volta che aveva smesso di piovere. OGGI Iversson
Spalancai gli occhi di colpo e restai teso in ascolto per un momento. Niente. La camera era avvolta nel buio e la sveglia sul comodino segnava le due e cinquantasette. Qualcosa mi aveva svegliato di soprassalto. Sono uno che ha il sonno pesante, di solito mi addormento subito come un sasso, e non ricordo l'ultima volta in cui il mio riposo notturno è stato interrotto da cause naturali. Dallo spiraglio sotto la porta vidi che sulle scale era accesa la luce, ma era come l'avevo lasciata quando ero salito in camera da letto. Forse qualcuno si era alzato per andare a fare pipì. Mi alzai a sedere sul letto e aspettai. Ancora nulla. Presi la Glock dal comodino e controllai che fosse carica - c'era un proiettile in canna -, poi mi stesi di nuovo. Mi sa che stavo diventando paranoico. Nessuna meraviglia, suppongo, quando ci si trova in una casa con mezzo milione di sterline in contanti e tre uomini dal passato abbastanza privo di scrupoli. Chiusi gli occhi e pensai a Joe. Joe Riggs, l'uomo che era stato un mio buon amico per tanti anni. L'amico che avevo tradito andando a letto con sua moglie, e che ora era quasi certamente morto come risultato diretto del fatto che l'avevo convinto a partecipare a un piano pericoloso quando l'unica cosa che gli interessava era dirigere in santa pace la nostra agenzia. Ci fu un rumore al piano di sotto. Dei passi sul pavimento dell'ingresso, deboli ma distintamente udibili. Qualcuno si stava aggirando al pianterreno. Stavolta scesi dal letto, infilai pantaloni e camicia, e presi con me la pistola. Mi fermai e tesi di nuovo l'orecchio. Il rumore non c'era più. Decisi di indagare ugualmente, per sicurezza. La sacca con i soldi era sotto il letto, ma presi la decisione di lasciarla dov'era. Sarei tornato nel giro di pochi minuti. Per impedire a chiunque potesse pensare di intrufolarsi furtivamente in camera e sottrarmi la sacca, svitai la lampadina dal lampadario centrale e la nascosi sotto il cuscino. Girai la chiave nella serratura e aprii la porta il più silenziosamente possibile, poi uscii dalla stanza, con tutti i muscoli tesi nel silenzio profondo. Le altre porte sul pianerottolo erano tutte chiuse, e non si muoveva nulla. Feci scattare la sicura della pistola, e scesi piano le scale. Le luci al pianterreno erano spente, proprio come le avevo lasciate, ma questo non significava nulla. Decisamente qualcuno era sceso prima di me e, qualunque fosse il motivo, ero sicuro che non si trattava di una cosa innocente. Poteva essere stato Kalinski, deciso a ignorare le istruzioni e a far fuori Krys? Se così fosse stato, non sarebbe mai più tornato di sopra. Chi l'avrebbe fatto, al suo posto? Forse aveva preso la sua parte e se n'era andato. Ma in questo
caso avrei sentito il rumore di un'auto che partiva, e non l'avevo sentito. Mi si drizzarono i capelli in testa. Era la seconda volta che mi capitava nel giro di quindici giorni. La prima era stata nei pochi minuti precedenti l'agguato di Tony Franks nel capannone, quando si era messo a sparare e ci aveva spediti sull'impervia strada su cui ci trovavamo al momento. Scesi un altro gradino e il legno scricchiolò maledettamente, interrompendo il silenzio della notte. Restai immobile per qualche secondo, resistendo all'impulso di mettermi a urlare come fanno sempre nei film dell'orrore, giusto un attimo prima di essere affettati come salami dall'assassino. "C'è qualcuno?" urlano sempre. Nel mio caso, se c'era davvero qualcuno, non voleva di certo essere scoperto. Non sentendo rumori, scesi un altro gradino, mi fermai, poi continuai a scendere le scale il più prudentemente possibile. Arrivato in fondo mi concentrai cercando di avvertire qualsiasi suono o rumore, anche minimo, che potesse sembrare fuori luogo. Un respiro, la suola di una scarpa strusciata sul pavimento... ma il silenzio di tomba persisteva. Scrutai attentamente l'oscurità circostante. Il buio era quasi impenetrabile; solo alcune sottili lame di pallida luce penetravano appena le tenebre, provenienti dalle finestre della cucina. Feci due rapidi passi in avanti e accesi le luci dell'ingresso, poi mi voltai e restai di sasso. Perché lo notai immediatamente. La porta della cantina era accostata. L'avevo chiusa a chiave io stesso, non c'erano dubbi, ed ero anche stato l'ultima persona che era scesa in cantina. Ciò poteva significare soltanto due cose, nessuna delle quali particolarmente positiva. O era scappato, o... Mi feci avanti e aprii la porta. Di sotto regnava il silenzio, e un fetore rancido impregnava l'aria, come sempre. Krys Holtz era rimasto incarcerato là sotto per tre giorni, e puzzava da far schifo. Scesi il primo gradino, mi guardai intorno per controllare che non ci fosse nessuno alle mie spalle, e accesi la luce. Riuscivo a scorgere i piedi di Krys. E così era ancora là sotto. Scesi i restanti gradini, uno alla volta, cercando di fare meno rumore possibile... E raggelai. Krys era abbandonato contro lo schienale della sua sedia, ancora legato e imbavagliato, ancora vestito con i pantaloni e la camicia che indossava quando l'avevo lasciato, ma era decisamente morto. Morto stecchito. Aveva la gola squarciata da un taglio profondo che andava da un orecchio all'altro. La testa era reclinata all'indietro sulla spalliera della sedia, a un
angolo talmente precario che solo il fatto che fosse appoggiata al muro le impediva di staccarsi del tutto e rotolare per terra. Il sangue aveva completamente impregnato la parte anteriore della camicia di un colore cremisi cupo ed era colato fin sulle cosce. La fascia di stoffa nera con cui era bendato era stata rimossa e i suoi occhi erano sbarrati, bloccati in un'espressione di puro terrore. L'assassino aveva avuto il sadismo di mostrargli in anticipo le sue intenzioni. Mi avvicinai al cadavere e gli toccai la fronte. Era ancora caldo. L'emorragia si era fermata e il sangue si stava rapidamente coagulando intorno alla gola, perciò era improbabile che fosse stato ucciso da pochi minuti soltanto. Ma non era neppure morto da ore. Risalii in fretta la scala, spensi la luce, rimasi in ascolto qualche secondo per accertarmi che nessuno mi stesse aspettando oltre la soglia, quindi uscii dalla cantina. Ripercorsi il corridoio d'ingresso e girai verso la porta d'entrata. Era chiusa a chiave. Tornai sui miei passi e andai a controllare la porta sul retro, che dava accesso al locale di servizio. Anche quella era chiusa a chiave. Tornai indietro e andai in cucina, stringendo in pugno la Glock, per controllare l'ultima entrata che dava accesso alla costruzione. Era aperta. Non ricordavo di averla controllata prima di andare a letto, ma pensavo di averlo fatto. Nelle ultime sere ero stato fautore della massima sicurezza, diventando addirittura maniacale da quando avevamo preso possesso di tutti quei soldi, ma ne erano successe talmente tante che non ero in grado di ricordare tutto con precisione assoluta. Mi fermai un momento a riflettere. Chi sapeva che eravamo lì? Chi voleva morto Krys Holtz? Chi si sarebbe disturbato a levargli la benda dagli occhi prima di ucciderlo? Solo qualcuno che aveva un motivo personale per volerlo morto. Kalinski. Deve essere stato Kalinski. Sarei stato costretto a svegliare gli altri. Mi voltai. Un'ombra apparve d'un tratto sulla soglia della cucina. Trasalii, spaventato, poi alzai istintivamente la pistola, contraendo il dito sul grilletto. «Cosa cazzo sta succedendo?» Era Tugger. Mi rilassai subito, pervaso da un temporaneo senso di sollievo. «Qualcosa di veramente brutto» dissi, andandogli incontro. Tugger arretrò e notai che anche lui impugnava una pistola, seppure abbassata lungo il fianco. Non avevo la più pallida idea di dove l'avesse presa. L'alzò di scatto, puntandola verso di me. «Un momento, sta' fermo lì. Di cosa diavolo stai parlando?» Mi bloccai. «Credo che Kalinski abbia fatto fuori Krys. Mi sono sveglia-
to perché ho sentito qualcuno aggirarsi qui al pianterreno. Quando sono venuto di sotto, ho notato che la porta della cantina era aperta e sono sceso a dare un'occhiata.» Tugger non batté ciglio. «E adesso cosa stavi facendo?» «Controllavo se le porte erano chiuse a chiave.» «E lo sono?» «Questa qui no» dissi, indicando la porta di servizio della cucina. «Guarda che puoi tranquillamente abbassare quella pistola, Tugger. Non sono stato io ad ammazzare Krys.» «Allora metti giù anche la tua.» Abbassai la Glock. Non mi ero accorto che la stavo ancora impugnando in un atteggiamento vagamente minaccioso. «Sta' a sentire, Tug, da quanto tempo ci conosciamo? Da così tanti anni che non ce lo ricordiamo neppure più, giusto? Ti sto dicendo la verità. Se non mi credi, va' a dare un'occhiata. Krys è morto ed è assolutamente da escludere che io lo volessi uccidere.» Tugger si avvicinò alla porta della cantina e guardò giù, accendendo contemporaneamente la luce. Mentre abbassava un piede sul primo gradino, con la coda dell'occhio non smise un istante di sorvegliarmi attentamente. Strano l'effetto che una barca di soldi può fare alla gente. «Salgo su da Kalinski» dissi. «Vado a vedere se è diventato uccel di bosco.» In quello stesso momento il rumore di un'auto che partiva provenne dall'aia davanti alla casa. Tugger si ritrasse di scatto dalla porta della cantina. «Cosa cazzo succede, adesso?» «Vai a vedere chi è» ribattei immediatamente. «Io salgo a vedere se Kalinski è scappato.» Di nuovo, mi scoccò un'occhiata sospettosa, poi si girò e si precipitò fuori dalla porta di servizio. Salii di corsa le scale, chiedendomi perché Johnny non si fosse ancora fatto vedere, e provai a girare il pomo della maniglia della stanza di Kalinski. La porta si aprì subito e capii che se l'era filata, un'ipotesi che durò il tempo necessario ad allungare la mano verso l'interruttore e accendere la luce. Kalinski giaceva supino a letto, con gli occhi aperti e puntati verso il soffitto di travi. Le lenzuola bianche che lo coprivano erano tutte imbrattate di sangue intorno al torace, e il povero Kalinski non dava l'impressione di aver tentato di difendersi. Non c'erano segni di colluttazione. Mi avvicinai e scostai le lenzuola. Tre profonde ferite da arma da taglio due dita a
sinistra del capezzolo sinistro suggerivano che la morte era stata istantanea, per effetto di tre pugnalate al cuore. Chiunque l'avesse ucciso ci sapeva fare. Ma in fondo lo sapevo già, perché aveva già ammazzato due persone nel massimo silenzio. La mia camera era proprio accanto a quella di Kalinski, io ero steso a dormire a meno di tre o quattro metri da lui mentre il pugnale veniva vibrato e non avevo sentito il benché minimo rumore. La mia buona stella brillava ancora, ma fino a quando? Chiunque stesse cercando di uccidermi, di ucciderci tutti, si stava avvicinando sempre di più. Credetti di udire uno sparo all'esterno e fu a quel punto che presi una drastica decisione: stava accadendo qualcosa di terrificante e dovevo assolutamente uscire di lì con i soldi, e alla svelta. Ributtai le lenzuola sul cadavere di Kalinski, girai i tacchi e mi precipitai nella mia stanza, bussando alla porta di Johnny mentre passavo sul pianerottolo, ma senza disturbarmi ad aspettare una risposta. Mi domandai se gli Holtz avessero circondato la casa e chi di noi avesse fatto la spia ai nostri avversari. Infilai le scarpe, afferrai la sacca con i soldi da sotto il letto e tornai sul pianerottolo. Johnny non rispondeva. Bussai di nuovo, poi aprii la porta. Nonostante la penombra, vidi che il letto era vuoto. Cosa caspita voleva dire? Il traditore era Johnny? I pensieri più disparati mi ronzarono in testa come uno sciame di calabroni, complicando un enigma già oscuro e impenetrabile come una torbiera. Ma non c'era tempo per soffermarsi ad analizzare il quadro della situazione, perciò scesi a precipizio le scale e spalancai la porta d'entrata. Il furgone che avevamo usato per andare a ritirare il riscatto si trovava a una decina di metri di distanza, in mezzo al viale di accesso. Era nel punto esatto in cui Kalinski lo aveva posteggiato alcune ore prima, ma i fari erano accesi e il motore ronfava al minimo. Uscii all'aperto e cercai con lo sguardo Tugger, ma non lo scorsi da nessuna parte. La fitta macchia di alberi ai lati del viale d'accesso era silenziosa, ma chi poteva sapere chi o che cosa vi si nascondesse. Stringendo la pistola in una mano e il borsone nell'altra, raggiunsi di corsa il furgone dal lato del conducente, tenendo la testa bassa e girandomi ogni due passi, giusto per assicurarmi di non essere seguito, e aprii la portiera. Il corpo esanime di Johnny Hexham cadde fuori come un sacco di patate e dovetti levarmi di mezzo con un balzo per evitare che mi rovinasse addosso, facendomi perdere l'equilibrio. «Cristo santo...»
Johnny mi fissava impassibile da terra, con gli occhi vitrei, morto. La sua gola, come quella di Krys, era tagliata da un orecchio all'altro. Ma stavolta l'orrenda ferita era fresca e gorgogliante. Il sangue sgorgava ancora copiosamente sulla camicia, colandogli dagli angoli della bocca come in un film dell'orrore. Per un momento restai come paralizzato, talmente ero scioccato e frastornato dalla concatenazione degli eventi. Ero stato incastrato, e in un modo davvero esemplare, e ancora non avevo la più pallida idea del perché, o da chi. Johnny giaceva morto ai miei piedi, probabilmente sgozzato solo un paio di minuti prima, a dire tanto, e il suo assassino quasi certamente si trovava nei paraggi. E dove cazzo era Tugger? Aveva ucciso Krys ed era venuto a cercarmi per riservarmi lo stesso trattamento quando mi ero voltato e l'avevo scorto nella penombra? Eppure non c'erano tracce di sangue sui suoi vestiti. Ma questo, in fondo, non significava niente. Poteva essersi cambiato. Poteva essersi spostato di lato, togliendosi dalla traiettoria del sangue che sprizzava dalla ferita. E che cosa ci stava facendo là al pianterreno? Gettai il borsone sul sedile del passeggero, poi mi apprestai a salire. E fu in quel momento che notai la ruota anteriore. Uno squarcio profondo seguiva in parte la circonferenza del pneumatico. Guardai la ruota posteriore. Stesso trattamento. Ero stato incastrato in modo perfetto, in modo assolutamente perfetto. Non mi ero mai trovato in una situazione come quella, così solo, così totalmente spiazzato, di fronte a un nemico che non riuscivo a vedere, né tanto meno a identificare, e che sembrava prevedere in anticipo ogni mia mossa. In quel preciso momento ero più spaventato di quanto non lo fossi mai stato in tutta la mia vita, e assolutamente sicuro che non sarei uscito vivo da quell'inghippo. Mi fermai un istante per riprendere il controllo, calmarmi in modo da poter affrontare la situazione. Ma gli occhi vitrei di Johnny continuavano a fissarmi come in una specie di sogno terribile, presago di un attacco di follia, e fui costretto a ricorrere a ogni risorsa che mi restava per impedirmi di precipitare in un panico cieco. Poi udii qualcuno muoversi lungo un lato della casa. Girandomi di scatto, con il dito contratto sul grilletto, vidi Tugger svoltare l'angolo. "Sparagli" mi urlò l'istinto. "Spara subito a quel bastardo!" Solo che Tugger stava barcollando come un ubriaco, con la vista appannata. Strascicando i piedi, inciampò, poi cadde in ginocchio, e i suoi occhi entrarono in contatto visivo con i miei, colmi di stupore. Un rivolo di sangue gli colava sul mento da un angolo della bocca.
Istintivamente, cominciai a correre verso di lui, e fu allora che vidi il pugnale che gli spuntava dalla schiena, piantato quasi fino all'elsa. Nei suoi occhi c'era una luce inspiegabile e la sua bocca si stava aprendo nello sforzo disperato di dire qualcosa. Ebbi l'impressione che stesse cercando di avvertirmi. In quell'istante udii uno scalpiccio di passi in corsa provenienti da dietro il furgone e la sensazione successiva fu qualcosa di duro che mi colpiva con estrema violenza al viso da dietro, facendomi perdere l'equilibrio. Sentii la pistola sfuggirmi di mano e caddi in ginocchio, con la vista accecata da un caleidoscopio di colori acquosi e cangianti. Qualcuno mi sovrastava dall'alto e, chiunque fosse, aveva in mano una specie di vanga. Mi colpì nuovamente, questa volta a una tempia, e sentii la mia faccia urtare contro il cemento della pavimentazione antistante la casa. Ero ancora cosciente, ma incapace di muovermi. Vagamente, udii il mio aggressore avanzare di qualche passo e raccogliere la mia pistola da terra, e capii di essere giunto al capolinea. Sicché, era questa la fine. Stranamente, i colpi appena ricevuti sembravano aver scacciato ogni residuo di paura. Un dolore atroce mi spaccava la testa e avevo ancora difficoltà a mettere a fuoco, ma, lentamente, mi girai supino e alzai adagio il capo. Volevo almeno dare un'occhiata all'uomo che si stava apprestando a spedirmi all'altro mondo. «Come ti senti, Max?» domandò un sorridente Joe Riggs con in mano una vanga. Nonostante fossi tremendamente intontito, mi sentii invadere dallo choc. «Joe» riuscii a dire, con le labbra spaccate e sanguinanti «cosa cazzo stai facendo?» «Riscuoto la mia vendetta, Max. Riscuoto la mia vendetta.» Sputai un grumo di sangue e riuscii a mettermi seduto. Stentavo ancora a credere che fosse stato Joe a uccidere Krys e gli altri. «Perché? Per quale ragione? Pensavo che fossi morto. Ho tenuto in serbo la tua parte. Ti stavo aspettando.» «Lo so» disse. «Vi tenevo d'occhio. Infatti sono tornato qui prima di voi.» Tutto il mio mondo mi sembrava appannato e sfuocato come la mia povera vista. «Perché?» riuscii ancora a ripetere. Joe mi guardò con espressione lugubre. Non c'era umanità nei suoi occhi, solo un'intensa calma apparente. Mi ero già reso conto del fatto che stavo per morire, ma non riuscivo a capire se la botta in testa mi stesse
provocando delle allucinazioni o se fosse davvero il mio caro amico, nonché socio d'affari, l'uomo che ambiva al ruolo di boia. «Perché ammazzarli? Perché gli affari sono affari. È soltanto lavoro. Per me non significano niente. Né il tuo amico Hexham, che è un fottuto vigliacco, né Kalinski, e nemmeno Tugger Lewis. Era un tipo a posto, ma niente di speciale, e ricordo che una volta mi fregò giocando a carte. Barò e si prese i miei soldi. Queste cose non me le dimentico.» «Ma perché io, Joe? Che cosa ti ho fatto?» «Hai ucciso mia moglie, Max. Hai ucciso mia moglie.» «Che cosa cazzo stai?...» Non finii la frase. Vidi Joe alzare la vanga, un balenio di metallo al chiaro di luna, e alzai le braccia per proteggermi il viso mentre la calava di piatto con violenza percuotendomi i gomiti e provocandomi un dolore lancinante. Ricaddi all'indietro e rimasi steso dov'ero, raggomitolato su me stesso. «Non so di che cosa stai parlando, Joe» dissi, con la voce smorzata dal fatto che mi stavo ancora proteggendo la faccia con le braccia. «È la verità.» «Sai qual è il tuo problema, Max? La tecnologia moderna. Ricordi Dietrich Fenzer, il tipo incriminato e condannato per l'assassinio di Elsa? Be', si è suicidato sei mesi fa, protestandosi ancora innocente. Ammetteva di essersi incontrato con Elsa quella notte e di averci litigato, ma giurava di non averla uccisa. Tre settimane fa ho ricevuto una telefonata dalle autorità tedesche le quali mi avvertivano che avrebbero riaperto il caso. A quanto pare anche loro cominciavano ad avere dei dubbi e hanno di nuovo preso in esame i campioni di DNA prelevati a suo tempo dal corpo di Elsa. Dopo ulteriori indagini è risultato che non corrispondevano affatto a Fenzer.» Joe si interruppe e mi percosse duramente alla schiena, strappandomi un urlo di dolore. «Troppo tardi, per lui, ma la cosa mi ha fatto di nuovo pensare. Perché, vedi, all'epoca sapevo che Elsa mi tradiva con altri uomini. Inutile dire che mi rodeva parecchio, ma riuscivo a sopportarlo perché amavo davvero mia moglie con tutto il cuore. Ma ricordo alcune cose che diceva, cose che mi hanno portato a pensare che forse uno degli uomini con cui andava a letto eri tu.» «Joe, te lo giuro...» La vanga calò di nuovo dall'alto, stavolta sulle mie dita. Ne sentii alcune spezzarsi ma non le mossi, sapendo che altrimenti non avrei fatto altro che sollecitare un altro colpo alla testa esposta. Strinsi i denti spasmodicamente per sopportare il dolore. «Ho sempre cercato di scacciare quei pensieri dalla mente perché eri
Max Iversson, il mio buon amico, il mio fottuto compagno di sbronze.» «Era così. È così.» «Col cazzo!» scattò inviperito, colpendomi ancora di piatto sulle dita spezzate. Ululai, mentre le lacrime mi salivano agli occhi. Mi domandai quante altre sofferenze avrei potuto sopportare. «Ma poi il poliziotto che mi aveva telefonato disse che stavano di nuovo indagando sui soldati di stanza alla base all'epoca del delitto, perché ritenevano che diversi di loro avessero avuto una tresca con Elsa. Sicché ripensai a te, a come ti eri comportato dopo il delitto, a come avessi i nervi a fior di pelle, e che forse, dico forse, se non avessero arrestato Fenzer così in fretta probabilmente avrei finito per sospettare di te, nonostante fossi mio amico. E poi ho anche pensato che se l'avevi vista litigare con Fenzer, forse potevi aver occultato in casa sua l'arma che avevi usato...» «Per favore, Joe... ti prego. Non sono stato io, lo giuro.» Sentii il bordo tagliente della vanga incidermi a fondo la coscia quando Joe l'abbassò bruscamente di taglio con tutta la forza che aveva. Malgrado le dita rotte, istintivamente portai una mano alla ferita, sentendo il sangue sgorgare a profusione, mentre Joe alzava di nuovo l'attrezzo, pronto a colpire. «Perché non lo ammetti, Max? Perché cazzo non lo ammetti e basta? So che tu...» Il colpo di pistola echeggiò assordante nel silenzio della notte, e tutt'a un tratto l'espressione di Joe mutò dalla collera alla lieve sorpresa. Vacillò, e la vanga gli sfuggì dalle mani sbatacchiando rumorosamente sul cemento. Risuonò un secondo sparo, e stavolta Joe crollò in avanti, mancandomi per un soffio, e si dibatté girandosi supino. Nel giro di un paio di secondi, aveva smesso di muoversi. Lentamente e penosamente, mi raddrizzai e mi misi seduto in modo da poter vedere chi avesse sparato. Tugger stringeva ancora in pugno la pistola, una calibro .38 mi sembrò di capire, diversa da quella che impugnava quando mi aveva colto di sorpresa sulla soglia della cucina. Era ancora steso bocconi per terra, solo leggermente sollevato su un gomito per poter sparare, e sembrava prossimo a esalare l'ultimo respiro. Aveva gli occhi velati e il sangue continuava a sgorgargli da un angolo della bocca. Anche il pugnale era rimasto saldamente piantato nella sua schiena. In qualche modo riuscii a rimettermi in piedi, vacillando e gemendo quando usai le dita rotte per sollevarmi da terra. Mi trascinai zoppicando vicino a Tugger, tenendomi la gamba sanguinante, ma Tugger se ne stava andando alla svelta.
Si girò su un fianco e fu scosso da una tosse violenta. Un denso fiotto di sangue grumoso e di muco gli spuntò dalla bocca e colò lentamente verso il terreno dopo avergli rigato a zigzag la guancia e il mento. Mi sedetti di fronte a lui, sforzandomi di pensare a che cosa potevo fare per salvargli la vita, rendendomi conto però che era tutto inutile. Cercò di mettermi a fuoco, ma non ce la fece. Alla fine, pronunciò una frase, lentamente ma con enfasi, con uno sforzo che da un momento all'altro rischiava di essergli fatale. «Io non baro a carte» furono le sue ultime parole. Poi ricadde sulla schiena e spirò. Restai a lungo a guardarlo, con la mente così lacerata e sconvolta da quanto era accaduto che trovavo impossibile pensare razionalmente, accettare gli ultimi avvenimenti. Alla fine mi costrinsi a rimettermi in piedi e mi trascinai barcollando verso il furgone, sapendo che dovevo assolutamente salire su quell'aereo per le Bermuda, dovesse essere l'ultima cosa che facevo. Ebbi difficoltà a girare la chiave nella serratura per entrare nell'appartamento, ma al terzo tentativo ce la feci. Erano le sette e cinque di mattina ed ero in uno stato pietoso, probabilmente nelle condizioni peggiori in cui mi fossi mai trovato. Avevo gli occhi pesti, le labbra spaccate e gonfie, e un taglio lungo e profondo sulla fronte. Avevo tre dita della mano rotte e la ferita alla coscia sembrava aver fatto infezione. Il viaggio per arrivare sin lì era stato un calvario, ma ce l'avevo fatta. L'appartamento era buio. Non la chiamai, immaginando che dormisse ancora. Anch'io avevo bisogno di farmi una bella dormita, non ne avevo mai sentito un tale bisogno. Avrei anche dovuto darmi una ripulita prima che mi vedesse, altrimenti quella povera donna avrebbe avuto uno choc sconvolgente, ma questo poteva aspettare. Imboccai il corridoio che portava in camera da letto e aprii piano la porta. Dentro era buio pesto e le tende erano tirate, ma riuscii ugualmente a distinguere la sua sagoma sotto le lenzuola. Pensai che fosse la visione più accogliente che avessi mai visto. Deposi il borsone con i soldi sul pavimento e mi tolsi la giacca e la camicia, buttando anche quelle per terra. Quando fui nudo, ricontrollai le ferite e vidi che dalla coscia stillava ancora del sangue. Avrei dovuto bendarla prima di stendermi accanto a lei. «Max, sei tu?» Elaine si tirò su a sedere sul letto, stropicciandosi gli occhi. «Cosa ci fai qui? Ero convinta che saresti tornato più tardi.»
«Non è niente. Non preoccuparti. Vengo a letto fra un attimo.» Elaine accese la lampada sul comodino e trasalì. «Cosa diavolo ti è capitato? Sei stato aggredito?» Penso che avrei anche potuto abbozzare un sorrisetto sarcastico. «Puoi dirlo forte. Senti, non agitarti. Sto bene, te lo assicuro.» «Cristo, vieni qui.» Elaine scese dal letto. Indossava solo un provocante baby doll, e per un attimo sentii svanire nel nulla tutte le mie tribolazioni. Incredibile l'effetto che un bel corpo di donna sa fare a un uomo. Ci abbracciammo appassionatamente e la baciai sulla bocca, ignorando il dolore alle labbra. «È bello averti di nuovo qui» bisbigliò, fissandomi languidamente negli occhi e facendo scorrere le dita all'interno della coscia sana in una carezza sensuale. A dispetto di tutti gli eventi recenti, cominciai a eccitarmi. «Sei riuscito ad avere il denaro?» Sorrisi, mentre le sue dita mi stuzzicavano i testicoli, e indicai con un cenno il borsone da viaggio. «Sì, ho avuto il denaro. E penso di essermelo guadagnato.» Gallan Sbadigliai. Era presto, fin troppo presto per essere domenica, ma contavo sul fattore sorpresa. Era essenziale. Affrontare la preda quando meno se lo aspetta. Però le sette e un quarto di domenica mattina potevano essere interpretate quasi come un tentativo di vessazione. Ero sicuro che un avvocato un po' scaltro l'avrebbe giudicato così, ma di questo mi sarei preoccupato più tardi. Non volevo sprecare altro tempo. Con tutte le defezioni nel caso Matthews, riuscire a parlare con un teste ancora in circolazione era un colpaccio. Attraversai la strada e salii i gradini davanti all'entrata del condominio. Un'affascinante signora di mezz'età in tenuta da jogging stava uscendo in quello stesso momento. Le rivolsi un sorriso affabile e lei mi tenne automaticamente aperta la porta per farmi entrare. Davvero imprudente, specie in una città come Londra. Potevo essere chiunque. Però non ebbi nulla da recriminare, visto che mi agevolava le cose. Mi limitai a sorridere e a ringraziarla, e lei ricambiò il sorriso. Quando fui all'interno, cominciai a salire le scale. Iversson
Elaine mi attirò a sé, baciandomi con passione, insinuando e facendo guizzare la lingua nella mia bocca come una lucertola. «Siamo ricchi, baby. Più ricchi di quanto avremmo mai potuto sognare.» Elaine scoppiò a ridere forte, accarezzandomi l'uccello mentre mi abbandonavo ai soliti mugolii di piacere, cominciando a scordare tutti i miei dolori. Chinandosi in avanti, mi cercò con le labbra un capezzolo, mordicchiandolo delicatamente, prima di abbassarsi adagio sulle ginocchia in un modo che garantiva un attacco di eiaculazione precoce. Emisi un versetto stridulo simile allo squittio di un criceto quando lentamente mi avvolse le labbra intorno al membro, senza smettere un attimo di spiarmi in tralice con quei grandi occhi nocciola da maliarda. Le sorrisi, poi lasciai vagare lo sguardo nella stanza mentre tentavo di trattenere l'orgasmo che di lì a poco mi avrebbe travolto, ansioso di protrarre quel piacere il più a lungo possibile. La mia faccia malconcia mi fissò di rimando dallo specchio sul muro di fronte, sogghignando stupidamente. Misi a fuoco l'immagine per un momento, mentre la lingua esperta di Elaine mi procurava sensazioni a cui facevo fatica a resistere. E poi, proprio mentre accennavo a scostarmi, lo vidi. Un silenziatore dall'aspetto terrificante che entrava lentamente nel mio campo visivo. Puntando dritto contro la parte posteriore della mia testa. Dietro di me udii cigolare un'asse del parquet e compresi subito che ero a un passo dalla morte. Con un movimento brusco mi gettai contro il muro, ignorando il dolore provocato dal morso involontario di Elaine, colta di sorpresa della mia improvvisa ritirata, e sferzai l'aria con il braccio teso all'infuori, facendo volare via la pistola. Il suo proprietario, un uomo tarchiato con un berretto da baseball, sul momento restò scioccato. Ne approfittai subito e spiccai un balzo in avanti, avventandomi contro di lui, abbrancandolo meglio che potei e percuotendolo con una testata alla radice del naso. Il mio taglio in fronte si riaprì all'istante, ma l'uomo della pistola era stato colpito duramente. Arretrò di un passo, ma si riprese subito, sferrandomi una serie improvvisa di pugni rabbiosi alle reni mentre lottava per liberarsi dalla mia stretta. Eravamo avvinghiati come due pugili. Ogni parte del mio corpo martoriato sembrava irradiare un dolore straziante e il sangue della ferita alla testa mi colava sulla fronte e negli occhi. Ma sapevo che non potevo arrendermi. Dovevo proteggermi e proteggere Elaine. Chiamando a raccolta ogni residuo di energia, sferrai un'altra capocciata
al mio avversario e lottando furiosamente lo sospinsi oltre la porta della stanza da letto e nel corridoio, sbattendolo con violenza contro il muro. Nella colluttazione perse il berretto, mettendo in mostra la testa pelata, e per chissà quale ragione questo sembrò infondergli nuove energie, una rinnovata esplosione di forza, come una specie di Sansone al contrario. Imprecò e riuscì per un momento a respingermi, prima di tentare, inutilmente, di colpirmi con un pugno nelle palle. Restai senza fiato quando aggiustò la mira e mi centrò alle costole, e arretrai di un passo esagerando l'effetto del pugno per ingannarlo, prima di ripartire a testa bassa come un toro e di rifilargli un'altra feroce testata, stavolta al mento. Qualcosa gli scricchiolò nella mandibola e l'uomo della pistola emise un verso a metà fra un colpo di tosse e uno strillo. Rendendomi conto che la testa era la mia arma migliore, lo spinsi contro il muro, poi girai su me stesso rivolgendogli la schiena, arretrai di un passo, in modo che la mia nuca e la sua fronte fossero a meno di una spanna di distanza, e gli assestai una tremenda capocciata all'indietro da fargli rintronare il cervello. Ogni suo tentativo di resistenza venne meno all'improvviso e l'uomo scivolò a terra lungo il muro, svenuto. Mi girava la testa e il sangue colato negli occhi bruciava, tanto che riuscivo a malapena a vedere. Riprendendo l'equilibrio, mi pulii il viso con un avambraccio, liberandomi della maschera di sangue e sudore. Fu quello il momento in cui il silenziatore emise un sibilo acuto, e un dolore lancinante che eclissò tutti gli altri si irradiò dalla mia spalla, con tale forza da mandarmi a sbattere in giravolta contro il muro del corridoio. Gallan Stavo giusto per bussare quando udii un trambusto all'interno dell'appartamento e alcune grida sommesse. Accostai l'orecchio alla porta e rimasi in ascolto. Aveva tutta l'aria di essere una violenta colluttazione fra due uomini, e per un attimo mi domandai se per caso non mi fossi recato nel posto sbagliato. Uno dei due contendenti urlò di dolore e ci fu un tonfo sordo e vibrante, come se entrambi fossero andati a sbattere di peso contro una parete. Erano due tipi ben piantati, lo capii dalla forza dell'impatto, e decisi che la prudenza è la parte migliore del coraggio, e che era meglio limitarsi a chiamare rinforzi. Poi ci furono un paio di secondi di pausa, seguiti da uno strano colpo attutito, come una specie di sbuffo, e infine da un grido di dolore e da un tonfo pesante.
Avevo visto abbastanza film di Hollywood per capire immediatamente che era stato un colpo di pistola sparato con il silenziatore, e il danno provocato era ovvio, anche se non potevo verificarlo. Mi ritrassi dalla porta e chiamai il commissariato con il cellulare. Il centralino rispose al quarto squillo. Indicai il luogo in cui mi trovavo e chiesi rinforzi. «Servono unità di pronto intervento e un'ambulanza» bisbigliai nel telefono. «Nell'appartamento c'è qualcuno decisamente armato e l'indirizzo corrisponde a una persona che dobbiamo interrogare in merito a un omicidio, sebbene debba sottolineare che al momento questa persona non è, ripeto non è, sospettata di niente.» Spensi il cellulare, mi avvicinai di nuovo alla porta e mi rimisi in ascolto. Dall'interno provenivano delle voci, una delle quali alterata dalla sofferenza, mentre l'altra era autoritaria, decisa. Spietata. Sapevo che avrei dovuto aspettare i rinforzi. L'addestramento ricevuto all'accademia di polizia aveva sempre sottolineato l'inutilità, se disarmati, di affrontare dei sospetti in uno spazio chiuso e ristretto, in particolare quando era evidente che il sospetto aveva appena sparato a qualcuno. Il mio istinto si trovava d'accordo al cento per cento. Era una rischiosa situazione di stallo. Ma nello stesso tempo sapevo di non poter rimanere lì a ciondolare senza fare nulla mentre qualcuno stava per essere ucciso, e dal tono della conversazione in atto là dentro avevo la netta impressione che questo era esattamente ciò che sarebbe accaduto. A volte, piaccia o non piaccia, si deve rischiare qualcosa di persona. L'alternativa è l'eterna consapevolezza che avresti potuto fare qualcosa per salvare una vita ma hai scelto di non farlo. Levai di tasca una carta di credito e, usando il metodo insegnatomi a suo tempo da un topo d'appartamento, procedetti ad aprire la porta. Iversson Ero seduto sul pavimento, appoggiato al muro, e tremavo convulsamente per effetto dello choc fisico. Alla mia sinistra giaceva il mio aggressore, svenuto. In piedi davanti a me c'era la donna di cui ero innamorato, mezza nuda, bellissima, che mi puntava addosso una Browning a canna lunga, in cima alla quale era avvitato un silenziatore che si trovava a non più di un metro dalla mia faccia. Nonostante tutto il resto, che non era poco, era un'immagine che la mia mente non riusciva davvero a comprendere. Mi sentivo come se alla fine la ragione mi fosse venuta a mancare e questo costituisse l'inizio del mio breve viaggio, probabilmente di sola andata, per il
manicomio. «Elaine» riuscii a dire con i denti che mi battevano. «Che cosa fai?» Elaine esibì un sorriso di comprensione. «Mi dispiace, Max. Davvero. Se ti può consolare, è solo questione d'affari. Nient'altro. Non sei affatto un cattivo ragazzo, anche se Joe Riggs dice che hai assassinato sua moglie qualche anno fa. È solo che ti sei trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato. E poi non volevo farlo personalmente: questo era compito suo.» Elaine fece un cenno con il capo indicando l'uomo svenuto. «Anzi, toccava a Joe, ma a quanto pare hai nove vite come i gatti. E ora tocca a me fare questa porcata. Sai una cosa, Max? Non ho mai sparato a nessuno prima d'ora, e non ho mai nemmeno desiderato farlo, soprattutto a uno che scopa così bene, e per giunta in casa mia, ma sai come si dice: mai lasciare che le emozioni interferiscano con il lavoro.» Non riuscivo ancora a capire un accidenti di quello che stava accadendo. Udivo le sue parole, pronunciate in un tono un po' annoiato ma estremamente realistico, e la vedevo in piedi di fronte a me con la pistola puntata, ma nessuno di questi particolari sembrava venire registrato dalle mie facoltà. Forse mi ero addormentato, e da un momento all'altro mi sarei svegliato fra le sue braccia, con lei che mi accarezzava la testa, tranquillizzandomi, dicendo che si trattava soltanto di un brutto sogno, come faceva mia madre quand'ero bambino. «Elaine» sussurrai. «Ti amo.» E so che sembra stupido, ma ero assolutamente sincero. «Lo so che mi ami, tesoro» disse, contraendo il dito sul grilletto. «Lo so.» Gallan La serratura scattò, e, con lentezza esasperante, aprii la porta sospingendola. Sporgendo la testa oltre lo stipite, vidi un uomo nudo nel corridoio, a circa tre metri di distanza, coperto di lividi, ferito e sanguinante, e apparentemente sofferente per una ferita da arma da fuoco alla spalla. Era in uno stato pietoso, scosso da brividi irrefrenabili. Accanto a lui giaceva un altro uomo in abiti sportivi, immobile, con la testa girata di lato. L'uomo nudo stava guardando fisso in una stanza proprio di fronte a lui, dalla quale emergevano un avambraccio affusolato e una bella mano che stringeva nel pugno una pistola a canna lunga, munita di silenziatore, puntata alla testa
dell'uomo nudo. Non riuscivo a vedere in faccia la persona che impugnava la pistola, ma ero più che sicuro che si trattava di Elaine Toms, la segretaria della Dagmar Holdings, proprietaria dell'appartamento in cui mi trovavo in quel preciso momento. L'uomo nudo sussurrò qualcosa che non riuscii ad afferrare con precisione ma che assomigliava parecchio a "Elaine, ti amo", e la sua espressione lasciava intendere che era sincero. Povero disgraziato. E pensare che credevo di avere problemi nella mia vita sentimentale. Avanzai di un passo, e poi di un altro. «Lo so che mi ami, tesoro» disse Elaine Toms con il suo accento leggermente raschiante da zona nord di Londra. «Lo so.» Elaine stava contraendo il dito sul grilletto, lo vedevo chiaramente. Feci un altro passo avanti, valutando in fretta e furia cosa avrei potuto fare per impedirle di ucciderlo. L'uomo nudo aveva gli occhi sbarrati e la bocca socchiusa come se volesse dire qualcosa, benché dalle sue labbra non uscisse alcun suono. "Lo sa" pensai. "Sa di essere di fronte alla morte." «Alt, polizia!» gridai all'improvviso. «Sono armato. Giù la pistola. Venga fuori con le mani in alto. Siete circondati, Ripeto, siete circondati!» La mia voce era squillante e autoritaria, probabilmente come non lo era mai stata. Sperai che Elaine Toms non la riconoscesse dal nostro incontro precedente. Elaine parve non riconoscerla. «Indietro!» gridò, continuando a restare in parte nascosta e non accennando a mollare la pistola. «Indietro o gli sparo! Faccio sul serio. Se non esce subito da questa casa lo faccio secco. Capito? E la colpa sarà solo sua.» L'uomo nudo, il cui volto era una maschera di sangue, girò la testa e mi guardò con aria perplessa, chiedendosi presumibilmente dove fosse la mia pistola. «Giù la pistola, Miss Toms» ordinai, cercando disperatamente di sopprimere la paura nella voce. «È già nei guai fino al collo senza aggiungere anche un omicidio. Se mette giù la pistola, tutto finirà bene. In caso contrario rischia di farsi sparare.» «Esca subito o lo uccido. Dico sul serio!» «Non lo faccia, Miss Toms. La casa è circondata. È inutile, e peggiorerebbe soltanto le cose.» A quel punto provai un tuffo al cuore quando, tenendo ancora la pistola puntata alla testa dell'uomo nudo, Elaine Toms uscì dalla stanza.
Per un istante sembrò sconcertata, poi la confusione si trasformò in irritazione. Lentamente, la canna della pistola fu rivolta contro di me. Non esiste sensazione più spaventosa, più sconfortante, più disperata di quella che provi di fronte a una pistola impugnata saldamente e con freddezza da qualcuno che sai ti ucciderà. Ti senti inerme, pervaso da un senso di assoluta impotenza, perché ti rendi conto che niente che tu possa dire o fare, nessuna implorazione, nessuna preghiera, nulla, sposterà di un solo millimetro l'arma puntata su di te o impedirà al proiettile di partire e di penetrarti nel corpo, lacerando gli organi interni e ponendo fine a ogni esperienza, a ogni pensiero, a ogni tuo sogno. Ti vengono in mente le persone care, i luoghi amati, e capisci che non rivedrai più niente e nessuno. Ti si rimescolano le viscere, le terminazioni nervose nella zona rettale sono così in fibrillazione da convincerti che stai per fartela addosso, e ti senti cedere le gambe come uno di quei vitellini appena nati che si vedono a volte in TV. E gli occhi. Sai che i tuoi occhi tradiscono un senso di totale e assoluta sconfitta. Sei un uomo morto, e ne sei perfettamente consapevole. Poi accaddero due cose. Prima di tutto Jack Merriweather si tirò su a sedere, massaggiandosi le tempie e borbottando le immortali parole: «Cosa cazzo sta succedendo?». Poi l'uomo nudo sferrò un calcio con la gamba destra e colpì Elaine Toms al polpaccio sinistro, facendole perdere l'equilibrio. La donna scivolò e dalla pistola partì un colpo. Il proiettile rimbalzò sulla passatoia del corridoio e si conficcò nel soffitto senza colpire nessuno. Elaine cadde bocconi sul pavimento, con il braccio armato teso in avanti e la pistola ancora in pugno. Mentre tentava di raddrizzarsi, approfittai del momento per lanciarmi di corsa e bloccarle il polso con un piede. Elaine lanciò un urlo, ma senza mollare l'arma, perciò pestai ancora più forte, e stavolta lasciò andare la pistola. Gliela tolsi prendendola per la canna, arretrai di un passo, reprimendo l'impulso di mollarle un calcio in faccia per avermi spaventato a morte, e le rivolsi contro la pistola. Elaine Toms si massaggiò il polso, mugolando di dolore e accusandomi di averglielo rotto, mentre Merriweather seguitava a sfregarsi la testa e la faccia, impiastricciandosi di sangue, ancora intontito e all'apparenza frastornato da quanto era accaduto. L'uomo nudo restò semplicemente seduto dov'era, silenzioso e scosso da brividi incontrollabili. «Bene» dissi, reggendo la pistola con mano malferma e pregando con tutto il cuore che nessuno scegliesse quel momento per tentare di svignar-
sela. «Fermi tutti dove siete.» «Mi serve un asciugamano per pulirmi la faccia» disse l'uomo nudo, rimettendosi in piedi a fatica. «La prego.» Restò fermo dov'era, pulendosi il sangue dagli occhi con le nocche. Aveva un non so che di familiare. Di molto familiare, benché la barba rendesse difficile stabilirlo con certezza. Udii in lontananza l'urlo delle sirene. «Resti un momento dov'è, signore.» «Per piacere, mi serve dell'acqua.» L'uomo barcollò in avanti ed entrò nella stanza da cui era appena uscita Elaine Toms. Nel contempo, quest'ultima cominciò ad avanzare adagio nel corridoio verso di me, adocchiandomi con uno sguardo grifagno in cerca di un punto debole. Le puntai la pistola alla testa senza tanti preamboli. «Non si muova» le intimai. «L'uomo senza vestiti» disse, facendo un cenno alle sue spalle «è Max Iversson. È ricercato per omicidio.» Iversson. Merda! Sentii aprire una finestra nell'altra stanza, e il rumore di qualcuno che si arrampicava sul davanzale. Un attimo dopo un sonoro schianto proveniente dall'esterno. Non mi mossi, sperando che, nudo come un verme, non andasse troppo lontano, e consapevole di dovermi assicurare prima di tutto che Elaine Toms non scappasse. Imprecai fra me per non aver riconosciuto subito Iversson. È incredibile cosa possono fare alla faccia di una persona un po' di sangue e una barba incolta. Elaine Toms aveva tutta l'aria di volersela svignare. «Se lo lascerà scappare» disse in tono di scherno. Le sorrisi serafico, reggendo saldamente la pistola. «Allora sarà meglio accertarmi di non commettere lo stesso errore con lei.» Mi riservò un sogghigno beffardo assolutamente inadatto a una signora, ma non accennò a muovere un solo dito. Nello stesso istante le sirene parvero convergere sul posto da ogni direzione e diversi automezzi inchiodarono davanti al condominio con un gran stridore di freni. Un tonfo poderoso risuonò alla porta d'ingresso della palazzina meta dell'irruzione, seguito da uno scalpiccio di passi pesanti che salivano di corsa le scale. Era arrivata la cavalleria. MERCOLEDÌ, TRE GIORNI DOPO
Gallan «Parla, Jack. Perché ti trovavi nell'appartamento di Elaine Toms armato, con una pistola non dichiarata e munita di silenziatore?» Merriweather scambiò un'occhiata con il suo avvocato, che annuì impercettibilmente. Poi puntò di nuovo gli occhi su di me. «Non ho alcun commento da fare» dichiarò, grattandosi con aria assente il cerotto sul naso fratturato. «Come hai conosciuto Elaine Toms?» Ci fu una pausa. «Non ho alcun commento da fare.» «Attraverso la Dagmar Holdings?» Di nuovo, Jack consultò con lo sguardo il suo avvocato, un ometto calvo con la faccia da topo, gli occhiali troppo grandi e un'aria eccessivamente zelante. Era il famigerato Melvyn Carroll. Un altro impercettibile cenno d'assenso. «Nessun commento.» «Che cosa sai a proposito della Dagmar Holdings?» «Nessun commento.» Sospirai. «Non ci stai aiutando per niente, Jack.» «E non stai neppure aiutando te stesso» aggiunse Knox, che era seduto al mio fianco. «Sei accusato di gravi reati. Accuse che ti manderanno dritto in galera. Si parla di anni, Jack, non di mesi. Anni. Ti consiglio di riflettere bene prima che ti rivolgiamo la prossima domanda.» Merriweather sbadigliò ostentatamente. «Avete intenzione di incriminarmi o volete solo stare qui seduti a farmi perdere tempo?» Melvyn Carroll si sporse sul tavolo. Emanava un intenso profumo di acqua di colonia. «Il mio cliente insiste nel dichiarare di non aver commesso nulla di male e, come vi ha detto più volte, non ha altro da aggiungere su questo argomento. Perciò, chiedo fermamente che venga rilasciato.» Knox e io ci scambiammo un'occhiata d'intesa, poi riprendemmo a fissare Merriweather. Jackie Palla da Biliardo appuntò su di me due occhi di ghiaccio. La sua espressione era facilmente interpretabile. Diceva: "Non potete toccarmi". Sostenni il suo sguardo, impassibile. Nella saletta regnò il silenzio per parecchi secondi mentre Jack e io ci fissavamo senza parlare. Carroll fece per dire qualcosa, ma io lo precedetti. «Che cosa sai in merito all'omicidio di Robert Jones?» domandai a bruciapelo, e qualcosa cedette nell'espressione di Merriweather. Si ricompose subito, ma ormai era tardi. Avevo colto il segnale. Sapevo di essere sulla
pista giusta. Scosse lentamente la testa. «Non so niente di niente. Mai sentito nominare 'sto tizio.» «Non hai mai sentito parlare di Robert Jones, il ragazzo assassinato sei mesi fa mentre consegnava i giornali?» «Ah, sì, sì, quello. Ne ho sentito parlare, ma non ne so niente. Perché dovrei?» «Ottima domanda» interloquì Carroll. «Cosa c'entra l'omicidio di un ragazzo che consegnava i giornali con le accuse contestate al mio cliente?» «Riteniamo che Mr Merriweather sia in grado di fare luce sull'omicidio del bambino» disse Knox, sottolineando con enfasi la parola "bambino". «State a sentire, non cercate di incastrarmi con una cosa del genere!» «Non c'è bisogno di alzare la voce, Jack» osservò Knox. «Mi stupisce che tu abbia pensato di non aver mai sentito parlare di lui» proseguii «perché è stato, ed è, un caso di cui si è discusso parecchio. E l'ultimo posto in cui il ragazzo è stato visto da vivo, prima che fosse brutalmente ammazzato, è Runmayne Avenue, dove un tuo socio d'affari, Tony Franks, aveva preso in affitto una casa...» «Mai sentito nominare.» «... e dove dei testimoni oculari ti hanno visto in diverse occasioni, l'ultima solo due settimane fa, quando hai sgomberato la casa dichiarando di essere il fratello di Tony Franks.» «Non so di cosa state parlando.» «E io non capisco dove vogliate arrivare» si intromise Carroll. «Mi vedo costretto a chiedervi di desistere dal porre domande su questo argomento. È del tutto irrilevante.» Mi abbassai accanto alla sedia e pescai dalla cartella una bustina di plastica trasparente per le prove indiziarie. La mostrai a Merriweather. «Indovina cos'è.» Merriweather socchiuse gli occhi, fissando con curiosità la bustina. «Non vedo niente.» «Guarda più da vicino.» Puntai l'indice verso una cosina quasi invisibile nella bustina. «È una fibra tessile, Jack, anzi, due fibre tessili, per essere precisi. Appartengono al cappotto che Robert Jones indossava il giorno in cui è stato ucciso. E sai una cosa? Le abbiamo trovate nella casa che stavi sbaraccando due settimane fa. Che cosa ne dici?» «Ci deve essere un errore.» Ora non ci si poteva sbagliare sulla paura che era comparsa sulla sua faccia. Anche Carroll parve spiazzato da questo
nuovo e sgradito sviluppo. «Non so niente su questo bambino morto.» «Ne sei proprio sicuro, Jack?» domandò Knox. «Certo che sono sicuro, cazzo.» «Allora come lo spieghi?» domandai. «Come ci sono finite le fibre in quella casa?» «Io non c'entro. Non abitavo là.» «Allora perché hai svuotato e pulito da cima a fondo tutto l'appartamento?» osservò Knox. «Che fine ha fatto Tony Franks, Jack?» lo incalzai. «A quanto pare è introvabile.» «Non conosco nessun Tony Franks.» «Allora perché hai sgomberato i suoi effetti personali da quella casa?» «Io non ho sgomberato un bel...» «Abbiamo una testimone che afferma il contrario. Ha perfino parlato con te.» «Al diavolo, non intendo rispondere ad altre domande.» «Il mio cliente gradirebbe un'interruzione» disse Carroll. «Non abbiamo ancora finito» ribatté Knox. «Io invece ho finito, cazzo!» dichiarò Merriweather, incrociando le braccia e rivolgendo lo sguardo altrove in modo teatrale. «Non vuoi dare un'occhiata a questa foto?» domandai, estraendola dalla tasca della giacca e facendola scivolare sul tavolo verso Jack. «È l'ultima foto di Robert. Al pranzo di Natale dell'anno scorso, sei settimane prima che morisse. Bella, vero?» Merriweather continuò testardamente a guardare da un'altra parte, ma notai che gli tremava il mento. «Sono costretto a protestare per questi metodi. Il mio cliente ha già detto che non intende rispondere ad altre domande su questo argomento. Rinnovo perciò a gran voce la richiesta di interruzione dell'interrogatorio.» «Lo sapevi, Jack, che la Dagmar Holdings pagava l'affitto per la casa di Tony Franks?» «Non l'ho mai sentito nominare, questa Dagmar Holdings.» «Davvero?» dissi, e Merriweather capì subito di aver commesso un errore. Glielo lessi negli occhi. «Due assegni della Dagmar Holdings, per un totale di novemilatrecentoventi sterline, sono stati versati su un conto corrente intestato a tua moglie, uno in febbraio, l'altro in giugno. Eri anche a casa della segretaria della Dagmar Holdings quando ti abbiamo arrestato.» «Con un'arma da fuoco non dichiarata» aggiunse Knox, tanto per rinca-
rare la dose. «Come tuo rappresentante legale, Jack, ti consiglio di non fare ulteriori commenti per il momento.» «Non ho commenti da fare» dichiarò Merriweather. «In un modo o nell'altro qualcuno pagherà per l'omicidio di quel bambino, Jack» disse Knox. «Non avremo pace finché non avremo trovato il responsabile.» «E per chissà quale ragione, ci dai l'impressione di aver mentito su un mucchio di cose nel corso dell'interrogatorio.» «E hai collegamenti evidenti con la casa in cui riteniamo che sia stato ucciso.» «Dov'è Tony Franks, Jack?» «Non ho commenti da fare.» «Ha ucciso lui Robert Jones o sei stato tu?» «Per quale motivo l'avete ucciso, Jack? Aveva visto qualcosa che non avrebbe dovuto vedere?» «Ve l'ho detto, non ho commenti da fare!» Merriweather si rivolse al suo legale. «Forza, Melvyn, digli che non risponderò a nessun'altra domanda su questo argomento, di cui non so un cazzo.» «Avete sentito» gli fece eco Carroll. «Per il momento il mio cliente non ha dichiarazioni da fare.» Knox e io ci scambiammo un'occhiata e assentimmo. «D'accordo» dissi. «Ti rimanderemo nella tua cella mentre proseguiamo le indagini. Prima di finire, però, voglio mostrarti un'altra cosa.» Feci comparire un'altra bustina di plastica trasparente. Come la precedente, sembrava vuota. «È un capello di Robert Jones, anche questo trovato nella casa di Runmayne Avenue. È incredibile cosa si riesce a scoprire se si cerca scrupolosamente, vero?» «Le pulizie della casa non sono riuscite benissimo, eh?» disse Knox con un sorriso di compatimento. Merriweather tentò invano di sostenere il nostro sguardo, cercando di apparire tranquillo e distaccato di fronte alle nostre minacce, ma non ci riuscì. Una goccia di sudore gli scese in mezzo alla fronte fin sulla radice del naso fratturato. Se ne accorse subito, e si rese conto che la vedevamo. Sapeva che sapevamo. «Interrogatorio concluso alle dodici e quarantacinque» dissi, e spensi il registratore. Mi alzai e sorrisi a Merriweather. «Presto ne riparleremo.» Quando Knox e io fummo al sicuro da orecchi indiscreti nel suo ufficio, insieme a Berrin, discutemmo di cosa avevamo raccolto nel corso dell'in-
terrogatorio. «Ancora non regge, John. Se Merriweather non cede, siamo nei guai. Ha negato con forza il suo coinvolgimento nel caso, e la dichiarazione della testimone e quei referti legali non sono sufficienti per accusarlo formalmente di omicidio volontario. Al momento, l'unico reato che gli possiamo contestare è detenzione di arma da fuoco non dichiarata, ma anche qui nega recisamente. Dice che apparteneva a Iversson. Se non ci sono altri elementi, tutto finirà con un rilascio su cauzione. Non c'è modo di convincere Iversson a vuotare il sacco e a farci sapere che cosa è successo?» Iversson era stato catturato dopo una breve ma drammatica caccia all'uomo per le vie di Clerkenwell, ma anche lui rifiutava di collaborare. Sospirai. «È peggio di Merriweather. Non fa che ripetere di non avere commenti da fare. Iversson è collegato direttamente al massacro avvenuto alla casa di campagna e al rapimento di Krys Holtz, perciò immagino che si sia convinto di non avere nulla da guadagnare vuotando il sacco, e nulla da perdere restando muto come un pesce.» «Ed Elaine Toms? Non si riesce a farle sputare qualcosa?» Scossi la testa. «La sa molto più lunga di quello che dà a intendere, ma non è stupida. Ha dichiarato che si trovava in compagnia di Merriweather, che conosce vagamente, quando Iversson le si è presentato in casa all'improvviso e ha cercato di violentarla. Iversson avrebbe messo fuori combattimento Merriweather, accorso in sua difesa, ma in un modo o nell'altro lei sarebbe riuscita a sottrargli la pistola e a ferirlo alla spalla. Dichiara che si è trattato di legittima difesa, e finora si è scrupolosamente attenuta a questa versione dei fatti. Di conseguenza, in assenza di Franks, che non riusciamo a trovare da nessuna parte, dobbiamo per forza puntare tutto su Merriweather. Sa come sono andate le cose, ne sono certo, ed è quello che ha più da rimetterci rifiutandosi di collaborare.» «Ma cederà?» «Nessuno vuole vedersi appiccicare l'etichetta di mostro assassino di bambini» dissi «specie un gangster con la fama di macho come lui. Ma non credo che sia duro e spietato quanto gli piace mostrarsi. Sì, secondo me cederà.» Dieci minuti dopo, mentre stavamo ancora discutendo, il telefono sulla scrivania di Knox squillò. Knox rispose subito, rimase in ascolto per una ventina di secondi, sorrise e comunicò all'interlocutore che saremmo scesi subito. Mi guardò con la stessa espressione che avrebbe sfoderato l'amante di mia moglie se si fosse appena imbattuto in uno scoop che avrebbe co-
stretto alle dimissioni il primo ministro. «Sembra che tu abbia proprio ragione, John» disse, ed ebbi l'impressione di avvertire una certa ammirazione nella sua voce. «Ha chiesto di parlare con noi.» «Ottimo.» «Fantastico, direi. Vuole farlo senza che sia presente il suo avvocato.» «Prima di tutto voglio che mi garantiate l'immunità.» «Non ci hai ancora raccontato niente, Jack» disse Knox, accendendogli una sigaretta e passandogliela. «Ho una sfilza di cose da raccontare, chiaro?» replicò Merriweather, fissandoci a turno negli occhi. «Roba che farà finire in galera diverse persone. Ma, se vi aiuto, voglio evitare di fare la stessa fine. Dovrò avere i mezzi. L'immunità, una nuova identità, la solita merda. Capito?» «Se quello che ci spiattellerai è la verità» ribatté Knox «e sottolineo tre volte "se", e sei pronto a testimoniare in tribunale, allora metteremo sul piatto degli accordi speciali per te. Ma non prenderemo alcuna decisione prima di aver sentito quello che hai da dire.» Ci fu una lunga pausa di silenzio durante la quale Merriweather rifletté su quanto avevamo appena stabilito. «Sapete, prima d'ora non avevo mai fatto una cosa del genere» disse alla fine. «Non sono una spia, sia chiaro. Non fosse stato per quel dannato ragazzino... Da lì in poi le cose sono andate a rotoli.» «Che cos'è successo?» domandai. I miei sentimenti oscillavano fra la depressione e l'eccitazione. Eravamo così vicini alla verità... «Quando è avvenuto il fattaccio io non ero neppure presente, ve lo posso giurare sulla Bibbia. Non c'entro niente. Non ucciderei mai un bambino. Che diavolo, io ho tre figli. Non sono un fottuto pedofilo.» «Cominciamo dall'inizio, Jack» disse Knox. «Per quali scopi veniva usata la casa?» Merriweather tirò una boccata dalla sigaretta, poi rispose senza guardarci. «Contrabbando. Una marea di droga proveniente dall'Europa dell'Est è passato da lì. Di solito le partite venivano lasciate da corrieri in certe località prestabilite nel Kent, dopodiché Franks o chi per lui andava a prelevarle e le portava alla casa, che fungeva da magazzino. Abbiamo sempre pensato che fosse una copertura perfetta perché non era affatto il genere di quartiere in cui ci si aspetterebbe di trovare la roba. Era una zona di lusso.» «E la droga veniva pagata da Stefan Holtz, esatto?» dissi. «Era roba sua?»
«Sì, apparteneva all'organizzazione.» «Tutto questo cosa c'entra con Robert Jones?» «Be', la droga non era l'unica cosa che contrabbandavamo. Vedete, Tony Franks e io facevamo entrambi rapporto a Neil Vamen, e c'erano dei traffici secondari organizzati da Neil di cui il boss, Stefan, era all'oscuro, perché non avrebbe approvato.» «Vale a dire?» «Armi. Il traffico principale era quello. E non parlo di roba qualsiasi. Ogni genere di arma da fuoco. Lanciagranate, AK-47, perfino missili anticarro. Vedete, Tony era stato mercenario in Bosnia e grazie a lui disponevamo dei contatti locali per organizzare il traffico di stupefacenti attraverso quella regione. Il traffico d'armi fu un'idea sua, visto che avevamo una rotta aperta e da quelle parti circolavano armi in quantità impressionanti. A Stefan l'idea non piacque affatto: riteneva che non dovevamo armare gente che avrebbe potuto rivolgere le stesse armi contro di noi. Ma Neil aveva vari contatti, non solo qui ma anche in Irlanda, e calcolò che si poteva guadagnare parecchio da un traffico simile. E non c'era bisogno che il boss lo sapesse, perciò è quello che facemmo. «Le cose andavano bene, talmente bene che Neil cominciò ad accarezzare l'idea che sarebbero potute andare anche meglio se lui avesse preso il posto di Stefan a capo dell'organizzazione. Diceva sempre che Stefan era troppo tradizionalista nel modo di condurre gli affari, e che non pensava abbastanza in grande. Un paio d'anni fa ci fece perfino piazzare in segreto un carico di fucili d'assalto in casa di Tommy Holtz per toglierselo dai piedi. Penso che l'idea di Neil fosse di far fuori gli Holtz uno alla volta. A ogni modo, gli affari andavano a gonfie vele, Tony svolgeva la maggior parte del lavoro, il mio compito era di andare a controllarlo di tanto in tanto. Poi, improvvisamente, una mattina del febbraio scorso ricevetti una telefonata da Tony che mi avvertiva che c'era un problema. Un grosso problema. Andai a casa sua e restai a bocca aperta. Stento ancora a credere a quello che vidi. C'era questo ragazzo, Robert Jones, steso per terra sul pavimento con la sua borsa dei giornali. Era morto, e Tony che lo guardava dall'alto con quell'altro tipo, Shaun Matthews, uno a cui ricorreva talvolta per certi lavoretti, e stavano discutendo su come sbarazzarsi del corpo.» Merriweather si attaccò alla sigaretta, aspirando il fumo con forza, e scosse il capo, rivivendo la scena. «Per prima cosa chiedo a quei due che cosa cazzo è successo, e Tony dice che stavano scaricando alcune casse di fucili d'assalto quando sentono un rumore dietro l'angolo della casa. Tony
va a dare un'occhiata e coglie in flagrante questo ragazzino che da una finestra stava osservando quello che facevano. Chissà cosa cazzo cercava. Forse li aveva visti scaricare le casse dal furgone, si era incuriosito e aveva deciso di dare una sbirciatina. Una cosa stupida, in ogni caso. «E così Tony lo acchiappa e lo trascina dentro, ma a quel punto né lui né Shaun sanno cosa farne di lui. Sanno di non poterlo lasciare andare perché avrebbe spifferato tutto a qualcuno, poi quel qualcuno avrebbe avvisato la polizia e la polizia sarebbe venuta a ficcare il naso e a fare domande. Ma anche se si fossero sbarazzati della merce e la cosa si fosse risolta con la loro parola contro quella del ragazzino, probabilmente Stefan l'avrebbe saputo, e per loro sarebbe stata la fine. A quel punto credo che si siano fatti prendere dal panico, e Matthews, che in seguito ammise di essere stato l'esecutore del crimine, ha preso un coltello e ha ucciso il ragazzo. Poi si sono chiesti cosa fare del corpo e hanno deciso di telefonarmi. Posso avere un'altra paglia, per favore?» Knox spinse il pacchetto di sigarette verso di lui e restammo a guardarlo mentre ne prendeva una con mani tremanti, se la metteva in bocca e l'accendeva. Jackie Palla da Biliardo Merriweather, con tutta la sua spavalderia iniziale, portava con sé un senso di colpa tremendo, ed erano trascorsi sei mesi. Espirò il fumo con forza. «Così dico a quei due di mettersi i guanti, di non toccare il cadavere finché non se li sono infilati e di far apparire la cosa come se fosse opera di un pedofilo omicida. E poi di sbarazzarsi del corpo.» «Li hai aiutati?» Jack scosse la testa. «No. Il ragazzo aveva solo un paio d'anni più del mio primogenito. Non avrei alzato un dito. Il problema era loro, non mio. Perciò me ne andai prima che si mettessero in azione, ma non senza avergli detto di tenere la bocca cucita. Non volevo che Neil lo venisse a sapere.» «Dov'è Tony Franks?» domandò Knox. «È morto» rispose Merriweather. «Com'è successo?» «È una lunga storia e, lasciate che ve lo dica, è una storia a cui io stesso faccio fatica a credere.» «Non abbiamo alcuna fretta, Jack. Tanto vale che cominci.» Jack espirò nervosamente un altro sbuffo di fumo, poi attaccò con il seguito. «Be', per alcuni mesi filò tutto liscio. Ovviamente voi della polizia
stavate cercando l'assassino del ragazzo, ma io ero sicuro che noi, o meglio "loro", fossero in una botte di ferro perché a quanto pareva eravate alla ricerca di un maniaco pedofilo, e penso che Shaun e Tony avessero coperto le loro tracce abbastanza bene. Poi, due o tre settimane fa, la situazione è precipitata. Qualcuno ha ammazzato Shaun Matthews.» Knox parve sorpreso. «Cosa? Non sai chi è stato?» Merriweather scosse la testa. «No. Non è stato nessuno della nostra organizzazione.» Knox e io ci scambiammo un'occhiata perplessa. Era uno sviluppo interessante, un particolare che avremmo dovuto appurare in seguito. «Be', oltre a collaborare di tanto in tanto con Tony, Matthews faceva anche il buttafuori a tempo pieno all'Arcadia, come forse già sapete. Dunque, il padrone dell'Arcadia è Neil, anche se il suo nome non compare sull'atto di proprietà, ma quello che dirigeva il locale per suo conto era un certo Roy Fowler. Ma Fowler stava lucrando sui profitti e intascava soldi destinati a Neil, e c'era dentro anche Matthews. Di conseguenza, quando Matthews è finito all'obitorio, Fowler si è fatto prendere dal panico, ha pensato che l'avessimo scoperto, il che era vero, e ha pensato che l'avremmo ammazzato, il che non era vero. Non da quanto ne so io, almeno. Però, c'è un problema: Fowler, convinto di essere un uomo morto, adotta delle misure estreme.» «Che tipo di misure estreme?» domandai. «Ricatto. Vedete, Fowler ha un asso nella manica che ha tenuto in serbo proprio per un'eventualità come questa. Anzi, per essere precisi ne ha due. È in possesso di un nastro magnetico che ha registrato di nascosto durante una conversazione avuta con Matthews. Nella conversazione, Matthews, che in quel momento doveva essere terrorizzato, incazzato e pure ubriaco, parla del traffico d'armi e di come è diretto da Vamen, e anche di cosa è successo al ragazzo. Proprio il tipo di nastro che non si vorrebbe mai che finisse nelle mani di Stefan Holtz. Ma Fowler possiede una cosa persino peggiore. Ha il coltello che ha ucciso il ragazzo.» «Come diavolo ha fatto a entrarne in possesso?» domandò Knox. «Forse Matthews si era fatto prendere dal panico quando si erano sbarazzati del cadavere, l'ha tenuto per un po' e poi l'ha dato a Fowler perché lo facesse sparire.» Jack scrollò le spalle. «Francamente non lo so. In ogni caso Fowler ha deciso di tenerlo da parte, per ogni evenienza, e così, quando Matthews è morto e Fowler d'un tratto ha pensato di essere la prossima vittima, ha mandato un messaggio a Neil dicendo che aveva queste
prove incriminanti e che se gli fosse capitato qualcosa avrebbe fatto in modo che Stefan Holtz e la polizia lo venissero a sapere. Disse anche che voleva centomila sterline per poter espatriare, e che se Neil gli avesse dato la somma lui gli avrebbe consegnato l'arma del delitto e l'audiocassetta. «E così Neil, che già non era rimasto affatto contento alla scoperta dell'omicidio del ragazzo, si mette d'accordo con Fowler per incontrarsi ed effettuare lo scambio. Nello stesso tempo viene a sapere da Elaine Toms, i suoi occhi e orecchi all'Arcadia, che Fowler si procurerà delle guardie del corpo dalla Tiger Solutions. Ebbene, la Tiger Solutions è gestita da un certo Joe Riggs, un complice di Neil, non certo un pezzo grosso, ma parzialmente implicato nel traffico d'armi tramite Tony. Perciò facciamo in modo che Tony sia un componente della squadra che accompagnerà Fowler all'incontro. Si sarebbe sbarazzato di Fowler, e di chiunque altro si fosse messo di mezzo, e si sarebbe impadronito delle prove incriminanti. Fine della storia, fine del problema. «Solo che non è andata come previsto. Da un bel po' di tempo Joe aveva da ridire riguardo al suo socio alla Tiger Solutions, Iversson, l'uomo nudo che avete arrestato. È persino convinto che Iversson potrebbe avergli ucciso la moglie, anni fa. Di conseguenza, stabilito l'accordo con Fowler per il servizio di sicurezza, Joe fa in modo che Iversson sia uno della scorta, perché vuole che Tony elimini anche lui. Solo che sorge un problema: Iversson è un osso più duro del previsto, ed è Tony a finire stecchito.» «Perciò Iversson non c'entra niente con la morte di Fowler?» Merriweather mi fissò. «No. Non aveva la più pallida idea di quello che bolliva in pentola. Solo che adesso, però, era diventato una dannata complicazione. Era a conoscenza dei fatti, e per giunta la polizia lo stava cercando, quindi le cose si sarebbero messe malissimo se fosse stato arrestato. «Stavamo ancora pensando cosa farne di lui quando una sera si presenta all'Arcadia e finisce per innamorarsi di Elaine Toms, che si dà il caso sia una ex di Neil Vamen, una donna a cui Neil tiene molto. Avevano intenzione di uccidere Iversson a casa di Elaine, ossia il nascondiglio in cui lui si era rifugiato dopo che l'avevate inserito nell'elenco dei ricercati. Ma a quel punto Neil ha un'idea, un modo migliore per sbarazzarsi di lui. Come ho già detto, Neil sta cercando da un pezzo di fare le scarpe a Stefan Holtz, ma non è per niente facile perché Stefan non esce mai di casa ed è sempre guardato a vista dai suoi scagnozzi. Inoltre, Neil non vuol essere visto come un traditore Meglio fare in modo che il lavoro sporco sia sbrigato da qualcun altro. Di conseguenza convince Elaine a spingere Iversson a rapire
Krys perché sa che è l'unico modo per attirare Stefan in campo aperto. Joe aiuta Elaine a organizzare la trappola, Krys viene rapito e quando Stefan si presenta al luogo prestabilito per la consegna del riscatto, viene ucciso dai nostri uomini. E il bello è che nessuno sospetta di Neil.» «Che cosa è avvenuto alla casa in campagna?» domandò Knox. «Vi abbiamo trovato il corpo di Riggs, oltre a diversi altri cadaveri, compreso quello di Krys Holtz.» Merriweather emise un sospiro. «Riggs avrebbe dovuto eliminare Krys e Iversson e lasciare i loro corpi alla fattoria, in modo che tutto fosse imputato a Iversson, ma quel figlio di puttana ha una fortuna bestiale, ed è stato Riggs a tirare le cuoia. Quando Riggs non è più tornato per dirci che era tutto risolto, fummo costretti a adottare a nostra volta un'azione estrema. Abbiamo pensato che Iversson sarebbe tornato a casa di Elaine, perciò sono andato da lei, casomai non fosse riuscita a sistemare le cose, ed è là che mi avete trovato. Elaine ha tentato di ucciderlo, lui l'ha aggredita con l'intenzione di violentarla e io mi sono interposto, finendo per farne le spese.» «E Shaun Matthews?» domandai. «Chi l'ha ucciso, se non è stato nessuno della vostra organizzazione?» «Dio solo lo sa» disse Merriweather. «Chi cazzo userebbe mai del veleno per ammazzare qualcuno? Di questi tempi è una ricetta sicura per farsi beccare, con tutta la tecnologia di cui ormai disponete voialtri.» «Dalle informazioni che abbiamo pare che la ragazza di Matthews fosse anche una delle varie amanti di Neil Vamen.» «Chi sarebbe la squinzia?» «Si chiama Jean Tanner.» Per la prima volta dall'inizio dell'interrogatorio, Merriweather scoppiò a ridere, seppure senza eccessivo umorismo. «Ah, sì, è venuto lei stesso a chiedere di Jean al Seven Bells la settimana scorsa, giusto? No, le cose non stanno così. Hanno filato per un po', al vecchio Neil piace avere diverse ragazze, ma era tutto finito da un pezzo.» «Da quando?» Merriweather si strinse nelle spalle. «Non saprei. Da quattro o cinque mesi. Ma Jean era un tipo a dir poco strano, fuori di testa. Tempo fa lavorava alla Heavenly Girls, ma persino i clienti stavano alla larga da lei. Era bella da far girare la testa, e tutta moine quando la conoscevi per la prima volta, ma... non so, è difficile da spiegare, in lei c'era qualcosa che non andava, capite cosa intendo? So soltanto che, quando si è sbarazzato di lei, Neil era felice come una pasqua. Credo che sia stata l'unica ragazza con
cui è andato che l'abbia davvero spaventato... anche se naturalmente non lo ammetterebbe mai.» «E cosa ci dici di Craig McBride?» domandai. «Craigy? Dicono che sia morto per un'overdose di eroina, è così? Io però non l'ho mai visto farsi una pera. Ho sempre pensato piuttosto che tirasse coca. È morto a casa di Jean, giusto?» «Giusto.» «Be', non mi meraviglierei affatto se Jean gli avesse dato una mano.» «Per quale motivo?» «Non so, forse l'aveva fatta arrabbiare. È così, con lei: è il tipo di ragazza che non ti sembra strano possa aver fatto una cosa del genere. Capite cosa voglio dire? Non ci si poteva assolutamente fidare di lei.» «Conosci bene il tipo, eh, Jack?» disse Knox. «Assolutamente.» Restammo seduti in silenzio per un po' mentre Merriweather finiva di fumare avidamente quello che era rimasto della sua ultima sigaretta. «E così pensi che possa avere ucciso anche Matthews?» domandò Knox alla fine. Jack alzò di nuovo le spalle. «Chi cazzo lo sa? Scoprirlo è compito vostro, no?» LUNEDÌ, OTTO GIORNI DOPO Gallan Non scoprimmo mai chi aveva avvelenato Shaun Matthews. Dopo cinque giorni, e dopo un'infinità di discussioni all'interno del team, l'ipotesi più probabile era che, per chissà quale ragione, fosse stata Jean Tanner. La teoria, condivisa all'unanimità da tutti i membri della squadra investigativa originale, ma assolutamente non supportata da una qualsiasi prova, era che ci fosse stato qualche tipo di rapporto sentimentale fra la Tanner e Matthews, ma che la storia fosse finita prima della morte di Shaun, e che, per chissà quale motivo, fra i due era rimasta della ruggine. Essendo una ragazza che non lesinava i propri favori, la Tanner aveva una storia anche con Craig McBride, che aveva convinto a fornirle il veleno per sbarazzarsi del suo ex boyfriend. McBride era l'unica persona sospettabile di aver avuto i mezzi e i contatti giusti per procurarselo, quasi sicuramente quando era stato in Bosnia. Era anche stupido quanto bastava per
pensare di farla franca facendo apparire la morte di Matthews un incidente o un malore. Jean aveva di sicuro pensato la stessa cosa quando aveva somministrato la dose fatale al suo ignaro ex. Pochi giorni dopo l'omicidio avevamo inaspettatamente fatto visita a McBride, e lui si era fatto prendere dal panico. Aveva parlato con Jean, i due complici avevano avuto un'aspra discussione e lei, resasi conto che Craig era diventato un peso, aveva agito drasticamente. In un modo o nell'altro era riuscita a convincere McBride a farsi iniettare una dose di eroina, risultata poi una dose da cavallo, e, incapace di sbarazzarsi del corpo, se n'era andata dall'appartamento per meditare sulla mossa successiva, prima di decidere che era meglio tornare sui suoi passi e far apparire l'improvviso decesso come una disgrazia. Burley, riflettei, probabilmente non era stato così corrotto come avevo creduto all'inizio e, invece di cercare di proteggere Jean per fare un favore a Neil Vamen, era stato semplicemente troppo indolente e approssimativo nell'espletamento del proprio dovere. Il suo atteggiamento burbero e odioso era più naturale che artefatto. C'era soltanto da sperare che un giorno o l'altro qualche suo superiore lo notasse. Avevamo portato Jean Tanner al commissariato per interrogarla, e Berrin e io l'avevamo trattenuta lì per ventiquattr'ore. Poteva anche essere un tipo stravagante (benché debba ammettere di averla trovata fin troppo scaltra e intelligente), ma non era scema, e consapevole che la polizia non aveva a suo carico nient'altro che pure e semplici ipotesi, aveva negato ogni cosa. Non sapeva chi avesse ucciso Shaun, sperava nella cattura del responsabile, chiunque fosse, e, in quanto a Craig McBride, si era trattato di un tragico incidente che le aveva insegnato i rischi connessi alla droga. Quando le avevo fatto notare che McBride nutriva una vera e propria fobia nei confronti degli aghi e delle iniezioni, era rimasta a bocca aperta e aveva sgranato gli occhi dicendo semplicemente: "Davvero? Che strano!". Alla fine, fummo costretti a rilasciarla. Berrin era arrabbiato come non mai, e particolarmente in angoscia per il fatto che una donna probabile autrice di due omicidi nell'arco di un paio di settimane potesse circolare a piede libero. "Ascoltami" gli avevo detto. "I crimini a volte possono essere una buona carriera a breve termine, a volte persino a medio termine, ma ti assicuro che non sono mai una buona mossa a lungo termine. Alla fine i colpevoli si trovano sempre. Se Jean Tanner è una psicopatica, ed è stata proprio lei a uccidere quei due poveri fessi, sta' tranquillo che prima o poi ci riproverà
e non la farà franca. Nel frattempo, evita di uscire con lei." "Sei convinto che sia stata lei?" aveva domandato Berrin. "Esserne convinto e dimostrarlo sono due cose molto diverse. Se non sono in grado di provarlo, allora preferisco non esprimere giudizi. Se proprio dovessi sbilanciarmi, direi solo 'probabilmente'. Probabilmente." Una bella mattina di sole, ai primi di settembre, stavo camminando lungo Cleveland Street verso il Middlesex Hospital quando il mio cellulare trillò. Era Malik. «John, come stai?» Era allegro e cordiale, il che non era affatto una sorpresa. L'oggetto del suo lavoro investigativo da un anno e mezzo a quella parte, la famiglia Holtz e il loro immenso traffico criminale, era finalmente allo sfascio. E si sarebbe perfino potuto affermare che questo risultato aveva qualcosa a che fare con la mia perseveranza. «Bene, Asif. E tu?» «Benissimo. Senti, ti ho chiamato per ringraziarti, davvero di cuore, per tutto il lavoro che hai svolto, e per farti sapere che stamattina abbiamo arrestato Neil Vamen e sei suoi luogotenenti. E Merriweather continua a cantare come un canarino.» «Sono contento che si stia dimostrando utile. Però è un peccato che gli si debba accordare l'immunità.» «Be', non godrà di un'immunità totale. Ci sono un paio di accuse di cui deve rispondere e rischia una pena detentiva, seppure irrisoria.» «Non tanto quanto si merita, però.» «Sai come vanno queste cose, John. Quando si patteggia con gente del genere a volte si è costretti a mettere da parte i principi. Comunque vada, ormai è marchiato per sempre. Non vorrei mai essere nei suoi panni.» «Ancora nessuna traccia dei corpi? Quello di Franks e degli altri?» «Stiamo ancora setacciando quell'allevamento di vermi da pesca, ma non mi faccio troppe illusioni. I vermi li avranno completamente spolpati e le ossa saranno state sepolte da qualche parte. Pare che avessero riservato lo stesso trattamento ad altre persone.» «Sono pronto a scommetterci. E il coltello usato per l'omicidio di Robert Jones?» Merriweather ci aveva detto che Joe Riggs era sul luogo dell'omicidio di Fowler, quella fatidica sera, e aveva recuperato il coltello e l'audiocassetta dalla valigetta di Fowler mentre il titolare dell'Arcadia veniva assassinato. Poi aveva chiuso i due oggetti in una cassaforte zavorrata che aveva gettato nel Tamigi.
«Ancora niente, purtroppo, ma stiamo cercando.» «È l'unico rimpianto che ho in tutta questa vicenda» dissi «non essere riusciti a mettere sul banco degli imputati né Franks né Matthews per l'omicidio del povero Robert.» «Per certi aspetti è meglio così, non credi? Le prove contro di loro non erano molte. Con un buon avvocato avrebbero potuto facilmente scamparla, e a quel punto lo strazio per i genitori di Robert sarebbe stato tremendo. Se non altro, ora sanno che i mostri che hanno ucciso il loro bambino hanno pagato a caro prezzo.» Non ne ero così sicuro. Sulla responsabilità di quei due avevamo solo la parola di Merriweather. Forse era implicato nell'omicidio più direttamente di quello che dava a intendere, e ciò avrebbe spiegato la sua scelta di collaborare non appena resosi conto che la polizia stava saltando alle conclusioni. In questo caso, nonostante la sua colpevolezza, l'avrebbe passata liscia. Malik mi domandò se avessi tenuto informati i genitori di Robert dei recenti sviluppi. «L'ho fatto nei limiti del possibile. Penso che ormai abbiano capito che nessuno finirà mai in galera per l'omicidio, ma forse, come hai detto tu stesso, è meglio che sia andata così.» Non che ci credessi veramente. «Uno di questi giorni dovrò offrirti un pranzo» disse Malik. «Appena le acque si saranno calmate. Ti telefonerò, d'accordo?» «Volentieri» risposi, ma dubitavo che avrei mangiato in un ristorante di lusso a spese dell'so7 e sapevo che avrei dovuto aspettare ancora un bel pezzo. «Sarebbe bello.» Ci salutammo e mi diressi verso l'ingresso del Middlesex Hospital. Iversson Ero seduto a letto nella mia camera d'ospedale a scervellarmi su come avrei fatto a tirarmi fuori da quella situazione. Ero messo malissimo. Due agenti di polizia armati mi sorvegliavano a turno giorno e notte. Evidentemente ero un vero "VIP": Very Important Prisoner. Un prigioniero estremamente importante. Una cosa era certa: non avevo intenzione di aprirmi una via di fuga combattendo. Non solo ero esausto, avevo anche in corso un'infezione sanguigna, per quanto non grave, e la ferita alla spalla mi rendeva praticamente impossibile l'uso del braccio destro. Non potevo fare altro che accettare la situazione e sperare che tutto si risolvesse per il meglio.
Avevo buttato la Glock in un cassonetto della spazzatura a Clerkenwell sulla via del ritorno a casa di Elaine in quell'ultimo giorno fatidico, quando la baldracca aveva finalmente mostrato di che pasta era fatta, per cui se non altro non c'era modo che usassero la pistola come prova a mio carico. Quasi tutti i miei complici nella vicenda erano morti, e se Elaine e l'uomo con la pistola che era con lei non avessero ceduto durante gli interrogatori (e non c'era motivo di credere che l'avrebbero fatto), avrei anche potuto scamparla per il rotto della cuffia. Sotto le armi avevo ricevuto un addestramento sulle tecniche per resistere agli interrogatori più duri, e di conseguenza avevo ragionevolmente fiducia nelle mie capacità di mantenere la mia versione dei fatti, anche prostrato com'ero. Con il passare dei giorni e la lenta guarigione delle mie varie ferite, anche il morale -bastonato di brutto (letteralmente) dall'esperienza con Elaine e dal tradimento di Joe - si stava finalmente risollevando. Vi confiderò una cosa: non sarò un eroe, ma ho capacità di recupero invidiabili. Ce l'avevo anche quasi fatta a scappare, persino dopo tutte le disavventure che quei bastardi mi avevano fatto passare. Mentre Gallan era occupato a sorvegliare Elaine e il tizio con lei, avevo afferrato il borsone con il denaro, avevo aperto la finestra e l'avevo gettato sul tetto di un'Audi parcheggiata di sotto, dopodiché ero saltato giù dalla finestra, atterrando con il culo sulla borsa e sul tetto dell'auto. Disgraziatamente, data la fretta e disorientato com'ero, avevo dimenticato di coprirmi con un indumento qualunque e, benché mi fossi dato valorosamente alla fuga verso la libertà, zoppicando nudo come un verme lungo la via con in spalla quasi mezzo milione di sterline, avrei comunque dato un po' troppo nell'occhio per pretendere di dileguarmi. Ciononostante ce l'avevo fatta a percorrere più di duecento metri, con cinque o sei poliziotti a corrermi dietro sgambettando come in una comica di Benny Hill, prima che un parroco - fra tanta gente che avrei potuto incontrare - diretto in chiesa con la sua bicicletta per la prima messa del giorno, era sceso al volo dal suo ecologico mezzo di locomozione e, con quattro salti, mi aveva placcato da dietro come un rugbista. A quel punto avevo ceduto. Era abbastanza. Inseguito perfino da un ecclesiastico, sapevo di essere arrivato al capolinea. Ma da allora mi ero rimesso in sesto, sia fisicamente sia psicologicamente. Sapete come si dice: non è finita finché non è finita. Credete a me. Mi chinai in avanti e presi il libro che stavo leggendo: Come progredire negli affari. Perché vedete, stavo pensando di aprire una scuola di sopravvivenza, e dopo tutto quello che avevo passato ero convinto che non ci fos-
sero in giro molte persone più qualificate di me per insegnare tecniche di sopravvivenza. Naturalmente avrei dovuto darmi parecchio da fare e cominciare da zero, ora che il denaro del riscatto ottenuto con il rapimento Holtz era stato posto sotto sequestro dalle forze dell'ordine. Ma sapevo di potercela fare. Qualcuno bussò discretamente alla porta e alzai gli occhi dal libro. Era di nuovo Gallan, un po' troppo azzimato rispetto al solito. Sfoderava un sorriso radioso. Lasciatemelo dire: non mi fidavo per niente di quell'emerito bastardo. Gallan «Ciao, Max» dissi, entrando in camera. Mi fermai ai piedi del letto. «I dottori dicono che stai guarendo in fretta. Fra pochi giorni dovresti essere dimesso.» «Esatto, e quando sarò dimesso non voglio avervi fra i piedi. Ho collaborato al massimo delle mie possibilità e non aggiungerò una sola parola a quanto già dichiarato, a parte che non so nulla di questa storia del rapimento e della strage alla casa di campagna. «È chiaro?» Sorrisi, avvezzo ai goffi tentativi di Iversson di neutralizzarmi. «Chiaro come il sole.» «Perché adesso ho cose più importanti di cui occuparmi.» Iversson mi mostrò il libro che stava leggendo. Come progredire negli affari. Pensai che un concorrente del genere non avrebbe di certo fatto tremare Richard Branson, il magnate della Virgin. «Sono sempre stato un cittadino irreprensibile, che agisce nella legalità, e intendo continuare così. Mi sono arreso all'assalto dei poliziotti che mi hanno fermato, ma in quel momento ero sotto minaccia. Perciò spero di essere rilasciato su cauzione, e di ripartire da zero.» «Non credo che succederà, Max.» L'espressione di Iversson si fece dura. Non era una bella visione. «Perché no? Non ho fatto niente. Se si tratta di quel denaro, non ho niente a che fare con...» Alzai la mano per zittirlo. «Non c'entra niente con il denaro che avevi con te.» Spiazzato, ammutolì. «Max Iversson, sono venuto a informarla che è in arresto su richiesta delle autorità federali tedesche che vogliono interrogarla in relazione all'omicidio di Elsa Kirsten Danziger, avvenuto il 26 febbraio 1993.»
Iversson mi guardò con aria incredula, completamente sconcertato, poi sembrò accasciarsi nel letto. «Non posso crederci. Tra un po' mi accuserete anche dell'assassinio di John Fitzgerald Kennedy.» Sembrava davvero contrariato, e forse sarei stato perfino tentato di credergli se non avessi già saputo che il campione di DNA prelevatogli in ospedale una settimana prima corrispondeva a quello dell'assassino. Era uno dei migliori bugiardi che avessi mai conosciuto. Mi voltai e me ne andai, riflettendo sull'ironia della situazione. Probabilmente non avremmo mai risolto il caso Matthews; eppure l'inchiesta aveva fornito quasi da sola gli indizi che avevano portato alla risoluzione di diversi altri casi. Mentre pensavo a Neil Vamen che avrebbe languito in una cella in cui era andato a ficcarsi da solo, pensai che questo esito dimostrava anche la mia teoria secondo la quale i crimini possono anche essere un'opportunità praticabile a breve termine, ma a lungo termine sono sempre una mossa sbagliata. E a mano a mano che la tecnologia applicata alla pratica investigativa apre nuovi orizzonti e si perfeziona sempre più, anche i delitti dei criminali occasionali finiscono per essere risolti. Come direbbe un predicatore: assicuratevi di non avere scheletri negli armadi. Tornato al commissariato, andai dritto nella sala operativa del caso Matthews, ora destinata all'inchiesta sul tentato omicidio del diciottenne Barry Sevringham, pugnalato al collo la notte prima durante una rissa in un pub di King's Cross. Il mondo continuava a girare, e la stessa cosa valeva per i delinquenti, che non riposavano mai. Vi trovai Berrin, e anche l'agente investigativo Boyd. Tutti gli altri, supposi, erano andati a parlare con i testimoni e i possibili sospetti. Sia Berrin sia Boyd mi sorrisero vedendomi entrare, e pensai che Boyd fosse davvero carina. Si era messa un po' di rossetto e le stava benissimo. In quelle ultime settimane l'avevo vista pochissimo e devo ammettere che mi era mancata. Forse l'avrei incontrata un po' più spesso ora che eravamo stati assegnati allo stesso caso. Lo speravo. «Il comandante la vuole vedere» disse Berrin, indicandomi con un cenno l'ufficio usato da Knox per l'inchiesta sul caso Matthews. «Sapete di che cosa si tratta?» Fecero entrambi segno di no, ma ebbi l'impressione di scorgere le tracce di un sorriso sulle labbra rosse di Boyd. Bussai alla porta ed entrai. «John» disse Knox, seduto dietro la scrivania «avanti, accomodati.» Obbedii. «In che cosa posso esserle utile, signore?» domandai. «In queste ultime settimane hai fatto un eccellente lavoro» iniziò Knox, aspettando brevemente il grazie di rito, cosa che ottenne, prima di prose-
guire. «Grazie in gran parte ai tuoi sforzi, e alla tua perseveranza nell'inchiesta Matthews, abbiamo ottenuto una quantità di risultati positivi. In seguito alla disgregazione della famiglia Holtz e del loro impero criminale, l'ambiente malavitoso nella zona nord di Londra ha avuto un tracollo. In particolare, sei stato bravissimo a risolvere il caso Robert Jones dando ai suoi genitori l'opportunità di risollevarsi. Ho raccomandato al sovrintendente di farti avere un encomio per il tuo lavoro sul caso Jones, e ho ricevuto anche una lettera dall'SO7 in cui si dichiara che il tuo contributo è stato essenziale per le loro indagini.» «Grazie, signore. È sempre piacevole essere apprezzati.» «Sì, ma non è per questo che ti ho convocato.» «Ah, no?» «Volevo informarti che ti ho anche proposto per una promozione a ispettore qui al commissariato, e che la mia raccomandazione è stata accettata.» Mi concessi un sorriso. «È fantastico, signore. La ringrazio di cuore. Non sapevo che ci fosse un posto vacante.» «Be', nella squadra se ne è inaspettatamente liberato uno» disse Knox. «L'ispettore Capper ha chiesto il trasferimento e tra breve andrà a prestare servizio in un altro commissariato.» «Davvero? Pensavo che si trovasse benissimo qui.» Knox non fece commenti e rimase in silenzio per un momento, chiaramente indeciso se lasciarsi sfuggire ulteriori particolari. «Ci sono pervenute informazioni da una fonte anonima che non mettono Capper in una luce particolarmente positiva, e sembra che diversi agenti qui al commissariato ne siano al corrente. Capper ha ritenuto che la sua posizione non fosse più sostenibile e la settimana prossima sarà trasferito a un'altra divisione. È stato anche degradato a sergente.» Dunque c'è giustizia in questo mondo, e, cosa ancora più importante, nella polizia metropolitana. «Detto fra noi» aggiunse Knox abbassando la voce «è emerso che Capper era un assiduo frequentatore della Heavenly Girls e questo l'ha messo sotto una luce alquanto compromettente. Non possiamo tollerare comportamenti del genere. Meglio per lui levarsi dai piedi anziché sopportare l'imbarazzo di restare qui dove tutti sono al corrente di come passa il suo tempo libero.» Riuscii a malapena a reprimere un sorriso. «Che peccato perdere un ispettore così esperto» dissi con espressione contrita, ricordando che è sempre meglio stare al gioco e attenersi alle regole.
Mi domandai chi fosse il fautore del siluramento di Capper. Gli unici che potevano aver spifferato la cosa erano Jean Tanner e Berrin. Jean aveva raccontato a me e al mio collega, a registratore spento, che Capper era stato un assiduo e non particolarmente gradito cliente della Heavenly Girls (a quanto pareva soffriva di impotenza cronica, una spiacevole afflizione per la quale tendeva a "incolpare" le ragazze). Avevo il sospetto che a parlare fosse stato Berrin. Una semplice intuizione, ma aveva senso. Jean era troppo professionale e con un sangue freddo da far paura. Personalmente, avrei tenuto la cosa per me. Non si può mai sapere quando un'informazione può tornare utile. «Allora, accetti la promozione?» Neppure un branco di cavalli selvaggi mi avrebbe fermato. «Certamente sì, signore. Da quando sarà effettiva?» Knox sorrise. «A cominciare da adesso» disse. «Ti affido la direzione del caso Sevringham. Ecco quanto abbiamo saputo finora.» Iversson Non ho mai avuto intenzione di ucciderla. È tutto quello che posso dire. Mi proclamo non colpevole per temporanea infermità mentale, o qualcos'altro del genere a disposizione della difesa di questi tempi. È assolutamente impossibile che fossi in me quando quella sera le spaccai la testa. Mi aveva letteralmente fatto impazzire il suo scopare a destra e a manca, con uomini e donne, oltre al fatto che non le fregava un cazzo che ne fossi al corrente. E Johnny Hexham che pensava di avere problemi con le donne! Avrebbe dovuto stare una settimana con Elsa. Passava da un corpo all'altro come un'impresaria di pompe funebri sovraccarica di lavoro. Alla fine, il troppo stroppia, andai fuori di testa e il resto è storia. Ho commesso un'azione orrenda, e provo un terribile senso di colpa, ma in questa vicenda non sono l'unico scellerato. Elsa è in larga parte responsabile della propria fine. E quel Fenzer l'aveva riempita di botte poco prima che la incontrassi quella fatidica sera. Assistetti io stesso alla scena. Ho sentito dire che picchiava spesso le donne, perciò ha avuto anche lui quello che si meritava, no? A ogni buon conto, chi cazzo ha mai detto che la vita è semplice? Non certo Max Iversson, questo è poco ma sicuro. Non lo è mai stata, né mai lo sarà. EPILOGO
Max Iversson è stato incriminato per il rapimento di Krys Holtz, ed è attualmente detenuto in carcere in attesa di giudizio. È stato anche incriminato in absentia dell'omicidio di Elsa Danziger, e il governo tedesco sta procedendo con la richiesta di estradizione. Neil Vamen è stato incriminato per omicidio, estorsione e importazione di sostanze stupefacenti di classe A, ed è attualmente in attesa di giudizio. Nessuna accusa è in relazione agli eventi narrati. Jack Merriweather è rinchiuso in una cella di isolamento nel penitenziario di Belmarsh, a Londra. Anche sul suo capo pende un'imputazione per traffico di stupefacenti di classe A. Sarà il testimone principale dell'accusa nel processo contro Neil Vamen e sei dei suoi luogotenenti. Elaine Toms è stata accusata del tentato omicidio di Max Iversson, ma le è stata accordata la libertà su cauzione e non ha perso un minuto di tempo a fuggire. Attualmente è latitante. Jean Tanner ha un nuovo boyfriend e non le è stata ancora notificata alcuna accusa né per l'omicidio di Shaun Matthews né per quello di Craig McBride. La polizia sta sorvegliando da vicino il suo ragazzo, tanto per conservarlo in buona salute. Asif Malik mantiene il suo posto all'SO7, all'interno del quale sta concentrando le indagini su varie cosche criminali della zona nord di Londra, che dopo il tracollo della famiglia Holtz hanno praticamente scoperto una miniera d'oro. E io... be', sono di nuovo ispettore, e almeno a metà strada dalla posizione in cui mi trovavo un anno fa. Vedete, esiste una giustizia a questo mondo. Solo che a volte può metterci un sacco di tempo prima di farsi vedere. RINGRAZIAMENTI Desidero ringraziare brevemente le seguenti persone per l'aiuto fornitomi nella stesura di questo romanzo: Selina Walker, mio editor alla Transworld; Amanda Preston, Amelia Cummins, Vanessa Forbes, Luigi Bonomi e il resto dello staff della mia agenzia letteraria, la Sheil Land Associates; il personale dell'ufficio stampa di New Scotland Yard, che ha fornito una preziosa assistenza tecnica con l'abituale efficienza e cortesia; e infine, ma assolutamente non meno importante degli altri, mia moglie Sally, per la consueta pazienza e la costanza nel garantirmi sostegno e incorag-
giamento. E anche, di tanto in tanto, qualche meritatissimo calcio nel sedere. Un brindisi a tutti. FINE