JANET MORRIS KERRION (Dream Dancer, 1980) Negli Stati Uniti Janet Morris sta vivendo un momento di grande favore presso ...
25 downloads
567 Views
1MB Size
Report
This content was uploaded by our users and we assume good faith they have the permission to share this book. If you own the copyright to this book and it is wrongfully on our website, we offer a simple DMCA procedure to remove your content from our site. Start by pressing the button below!
Report copyright / DMCA form
JANET MORRIS KERRION (Dream Dancer, 1980) Negli Stati Uniti Janet Morris sta vivendo un momento di grande favore presso gli appassionati di fantascienza. Un favore che le deriva in particolare da due Cicli di romanzi che sta portando avanti parallelamente: uno è il Ciclo di Silistra, e l'altro è appunto il Ciclo di Kerrion del quale avete per le mani il primo volume. Mentre però il Ciclo di Silistra è connotato da scene erotiche e di sadismo che lo collocano nel filone di Norman, capostipite con Gor di tutto un genere che ha un successo di vendite senza precedenti, questo di Kerrion invece si colloca nell'ambito più ortodosso della fantascienza classica, fantascienza di quella importante s'intende. Infatti il successo che l'autrice ha incontrato con questa trilogia è dovuto soprattutto all'impostazione della Saga, affine per molti versi a quella degli Atreides di Dune. Se il plauso degli appassionati americani è stato notevole (sì da situare il Ciclo di Kerrion tra i dieci libri più venduti nelle classifiche mensili di vendita della SF negli Stati Uniti), i critici specializzati e non, non sono certo stati parchi di elogi nei confronti della Morris, la quale viene da loro posta allo stesso livello di Herbert, se non addirittura superiore per alcuni versi, quali possono essere quelli di un maggior afflato poetico e di una maggior introspezione psicologica dei personaggi. Quello che colpisce subito, nella lettura di questo Ciclo, è il respiro della vicenda che definire ampio è solo un mero eufemismo. Lo sfondo che fa da cornice alle vicende narrate è infatti una Galassia che sarebbe senza fine se non ci fosse ad un certo punto un Confine che serve in qualche modo a delimitarla. I personaggi poi che danno vita al narrato hanno come caratteristica comune una dimensione pluriplanetaria a dir poco, e si muovono sull'arco di distanze enormi, mostrandosi perfettamente a loro agio su pianeti tra loro assai distanti ed anche di diverso livello sociale e tecnologico. Non sono insomma dei «cittadini del mondo» bensì, mi si consenta l'appropriazione del titolo di un famoso romanzo di Heinlein, dei «cittadini della Galassia», con tutti i presupposti e le conseguenze che questa definizione comporta. Si badi bene però: nel delineare i suoi personaggi, la Morris non è caduta nella facile trappola di dar loro una statura superumana, fatto questo che, oltre ad essere comune a molti illustri scrittori di
fantascienza che l'hanno preceduta, poteva sembrare quasi ovvio dato il contesto nel quale li aveva situati e fatti agire. No, i suoi personaggi sono assolutamente umani, con tutti i loro vizi ed i loro difetti, che vengono caso mai ingigantiti dalla dimensione nella quale si muovono. E forse, il successo che ha riscosso presso i lettori, è dovuto proprio al fatto che ognuno di loro si può riconoscere in uno dei personaggi del Ciclo di Kerrion, cosa questa non assolutamente possibile nell'universo di Dune o in quello letteralmente popolato di superuomini di Van Vogt. Insomma, quello del Consortium della Morris, è un universo complicato, tecnologicamente avanzato quanto si vuole, ma pur sempre a misura d'uomo. Mi sembra però che sia giunto il momento di entrare un po' più a fondo nel tema trattato da questo primo volume del Ciclo. Sparsi qua e là per la Galassia, gli uomini un tempo emigrati dalla Terra hanno formato la Confederazione, il Consortium, che è un insieme di Consolati retti da dei Consoli Generali. I quali ultimi vengono tratti dalle Famiglie, veri e propri centri di potere economico, consolidatisi in anni e anni di assoluto dominio. Tutti questi Consolati sono curiosamente situati su piattaforme orbitali gravitanti intorno a pianeti e stelle delle quali l'autrice non dà volutamente il nome. La potente Famiglia dei Kerrion detiene il potere nel Consolato omonimo, ed un figlio del Patriarca Parma Alexander Kerrion, mentre si trova in visita sulla Terra, a seguito di tutta una serie di drammatiche circostanze, incontra Shebat e la conduce via con sé. Shebat, al momento dell'incontro con Marada Kerrion, è una ragazzina cenciosa, sguattera in una taverna del nordamerica in un futuro dove la Terra è ridotta al medioevo. La Terra fa parte del Consolato degli Orrefors, i quali hanno una base spaziale in orbita e sovente scendono sulla superficie del pianeta facendosi passare per Incantatori presso il popolo regredito e superstizioso. Adottata dal capo della Famiglia dei Kerrion, Shebat si trova ad essere nominata Primogenita nella più potente Famiglia della Galassia, e da questo momento hanno inizio le sue avventure che la vedono protagonista ed al contempo pedina delle manovre politiche e degli intrighi fra i Kerrion ed i rivali Labaya, da sempre in conflitto per giochi di potere. Fornita di poteri paranormali che le sono connaturali, Shebat scopre di essere una bravissima Danzatrice del Sogno, attività però che è del tutto illegale e comunque antitetica con la sua qualifica di Primogenita di una Famiglia Consolare. Ma questa della Danza del Sogno è solo una delle
molte illegalità che la ragazza va compiendo con una progressione impressionante e che, se in un primo momento la vedono succube di inganni e di intrighi, risultano alla fine un ben preciso atto di volontà da parte sua che la porta a rinunciare a tutto quel mondo che pur aveva tanto desiderato nell'oscuro periodo di permanenza sulla Terra. E sulla Terra alla fine del romanzo torna, accompagnatavi proprio da quel Marada Kerrion che da lì l'aveva prelevata e dove ora, nella sua qualità di Arbitro, non può fare a meno di esiliarla data appunto la quantità di colpe da lei commesse. Ma la Terra non è più quella che Shebat si ricordava e, soprattutto, la Shebat che vi ha fatto ritorno non è più la ragazzina cenciosa e lacera d'un tempo, per cui la sua permanenza sul pianeta si presenta piena di difficoltà e di veri e propri pericoli per la sua incolumità quand'ecco... Un momento: ma non vorrete mica che vi dica come va a finire, no? È molto meglio che voltiate pagina e che arriviate da voi a scoprire quale sarà il destino di Shebat dei Kerrion e di questa avvincente Saga... Gianni Pilo Questa è una vicenda che non è ancora accaduta, a meno che voi non crediate che lo scorrere del tempo è illusorio e che tutto si svolge nello stesso eterno presente. Ma è inutile cavillare sui particolari. Secondo il normale computo umano del tempo, nulla di tutto ciò è ancora accaduto. È una storia che ha inizio sulla Terra, e che sulla Terra si conclude, ma non riguarda il nostro pianeta salvo che per le implicazioni delle parole «non ancora». E infatti l'uomo non è ancora andato a vivere in ambienti da lui costruiti sotto la luce delle stelle più lontane e multicolori. E non è ancora successo che interi pianeti siano stati trasformati in semplici depositi di materiali, in ancore gravitazionali intorno a cui orbitano piccoli mondi creati artificialmente. Sono cose che non hanno ancora preso posto nella realtà. Però non intendo affatto escludere che accadranno. Dopotutto, le ho viste. E se gettate uno sguardo nel profondo della vostra anima, forse lo stesso accadrà anche a voi. Capitolo 1 AD 2248: Il giorno successivo a quello in cui una gelata assassina s'era improvvisamente portata via i raccolti, un terzetto di stregoni ammantellati
giunse a cavallo a Bolen's Town, New York. I tre agili destrieri avevano ricchi finimenti che scintillavano al sole, ma le loro froge ansanti schiumavano di bava. Lungo l'unica strada del paese una folla miserabile oziava sui marciapiedi di legno, capannelli di gente cupa le cui facce si volgevano a fissare gli stranieri in un silenzio carico di tensione. Avevano la pancia vuota di cibo ma piena di pessima birra, come sempre accade dove una tragedia riunisce i membri di una comunità povera, e quando non resta altro da fare se non imprecare insieme contro la malasorte. Gli zoccoli dei tre cavalli alzarono nuvole di polvere secca dalla strada sterrata che attraversava Bolen's Town da un capo all'altro, e fu la polvere che cominciò a provocare borbottii ostili nei contadini costretti a respirarla. La palese inesperienza dei tre stranieri nel reggersi in sella, e le insolite aquile scarlatte ricamate sui loro mantelli neri, attrassero la malevola curiosità dei braccianti disoccupati e affamati. E il fatto che la polvere non sembrava affatto posarsi sui loro eleganti stivaloni di cuoio fu osservato da qualcuno con uno stupore che si mutò subito in sospetto. Una donna ringhiò che forse erano proprio loro gli evocatori di diavoli, gli stregoni che avevano chiamato il malefizio sulle messi già quasi mature. I tre smontarono dinnanzi alla Taverna di Bolen, la grande e scalcinata stazione di posta intorno a cui era sorto il paese con le sue sudicie casupole simili a canili. Due di loro erano uomini, assai somiglianti e ben vestiti, l'altra era una femmina elegante dalle movenze superbe, e nei loro sguardi vi era un'alterigia sprezzante per la miseria che li circondava. Legarono i cavalli alle colonne di legno del malridotto porticato, ignorando la stalla, ed entrarono in fretta. Una volta preso voce il sospetto dilagò come la polvere portata dal vento. Passò da una bocca all'altra, trasformando quella che era stata una folla sparsa in un gruppo unito dagli stessi pensieri minacciosi: erano loro, dovevano essere loro, i responsabili della sventura che s'era abbattuta sui campi. I brontolii isolati crebbero di volume, formularono accuse, e una mano agitò una corda annodata a cappio. Una ventina d'individui fra i più facinorosi cominciarono a muoversi verso la Taverna di Bolen, e al loro avvicinarsi i tre destrieri captarono l'atmosfera di violenza e si agitarono innervositi. Qualcuno raccolse un sasso, altri staccarono i paletti di una staccionata fissando le finestre con occhi induriti. Un contadino barbuto fece notare che forse non era prudente cercar di catturare dei figli del diavolo, e che sarebbe stato meglio chiama-
re un prete per interrogarli o esorcizzarli. Il gruppo di scalmanati non gli diede retta, ma si fece più cauto. All'interno della vasta taverna male illuminata uno dei tre stregoni, snello e vestito con una tuta nera a righe scarlatte che gli conferiva un aspetto felino, s'avvicinò a una finestra e scostò la lurida tendina per gettare uno sguardo fuori. Una smorfia gli increspò la corta barba, nera come il giaietto. Poi disse qualcosa con voce allarmata, in una lingua che né Bolen né la ragazzina dall'aria scontrosa in piedi sulla soglia della cucina avevano mai udito. Il secondo uomo, più anziano e robusto dell'altro, strinse i pugni e ringhiò un paio di frasi in tono deciso, quindi scostò la bruna strega che gli era rimasta accanto e uscì di nuovo all'aperto sbattendo la porta dietro di sé. La strega dai lunghi capelli neri aveva corrugato le sopracciglia, trattenendo il fiato nel vederlo andare ad affrontare la folla così apertamente, e sibilò una parola in tono disgustato. Si poggiò le mani sui fianchi della tuta aderente, in un atteggiamento che sprizzava alterigia, e rivolse all'individuo rimasto presso la finestra quello che suonò come un ordine secco e inderogabile. Lui esitò, passandosi le dita fra la barbetta con aria incerta e contrariata, poi annuì a denti stretti. La giovane donna distolse lo sguardo dal compagno e si mosse verso il bancone, seguita subito dall'altro. All'esterno alcune voci stavano discutendo rabbiosamente. Scalza e vestita di un cencio grigio pieno di toppe, la servetta osservò lo stregone snello attraversare il locale in direzione di Bolen, il suo padrone che, con aria fra spaurita e infastidita, stava sciacquando un boccale di peltro nella conca del banco di mescita. All'avvicinarsi di quel ricco e attraente straniero si passò le mani sul vestituccio per stirarne il bordo, e raddrizzò le spalle nel tentativo d'imitare il portamento regale della sofisticata creatura che era con lui. Cercò d'immaginare i propri capelli, sporchi e pieni di nodi, magicamente trasformati in una chioma nera vaporosa e scintillante, e quasi sperò che lui la guardasse. Ma il giovanotto non notò neppure la sua esistenza, e comprendendo l'inutilità dei suoi desideri deglutì a vuoto sconfortata. Poi un brivido la scosse, perché sulla strada si udivano rumori e grida furibonde. «C'è un'altra via per uscire da qui?», chiese l'uomo dalla barbetta nera, con un accento che Bolen faticò a comprendere. «Un'altra uscita, Eccellenza? Nossignore, mi spiace molto ma c'è solo la porta di strada», borbottò il taverniere. Il suo tono era stato ossequioso, ma incrinato da una nota di timore su-
perstizioso. Tutti sapevano bene quanto fosse pericoloso mentire a uno stregone, e lui aveva mentito. Ma la gente che tumultuava all'esterno voleva quei tre, e se egli li avesse aiutati ciò avrebbe significato la fine per la Taverna Bolen e la lapidazione anche per lui. La servetta vide negli occhi di Bolen un lampo di avidità, e capì che stava pensando a un espediente per reclamare i tre cavalli per sé. Ma proprio in quel momento le grida sotto il portico assunsero un tono bestiale, e una pioggia di sassi frantumò i vetri delle tre finestre. La porta rimbombò sotto i calci e i pugni, rischiando di staccarsi dai cardini. Tutto accadde in pochi attimi. L'uomo snello e barbuto si volse di scatto, teso come un leopardo pronto alla lotta, e parve sul punto di uscire a dar mano forte all'altro. Non ne ebbe il tempo, perché una delle finestre andò in pezzi sotto le bastonate e qualcuno scagliò dentro una grossa pietra che colpì alla nuca la ragazza bruna. Lei barcollò contro il bancone, aprì la bocca come per dire qualcosa, poi i suoi occhi si fecero vacui e un fiotto di sangue le uscì dalle narici. Scivolò sul pavimento senza un grido. Nel vedere il sangue che le colava copiosamente lungo il collo, il suo compagno parve paralizzato dall'orrore e vacillò storditamente. «Iltani...!», ansimò. Fece per chinarsi su di lei ma qualcosa lo trattenne, e volgendosi s'accorse che la sguattera cenciosa gli s'era aggrappata alle spalle, balbettando frasi incomprensibili in una lingua che egli conosceva solo superficialmente. Adunche come artigli le deboli mani di lei cercavano di tirarlo verso la porta della cucina. Una pietra scagliata attraverso la stessa finestra gli rimbalzò su una spalla, e la mente gli si annebbiò per la sofferenza mentre il braccio gli ricadeva inerte e privo di sensibilità. Le dita della sguattera lo afferrarono per la barba costringendolo a distogliere lo sguardo dal corpo senza vita della ragazza, e fra i gemiti disperati di lei riuscì a distinguere alcune parole: «A terra... abbassatevi, Signore. Di qua, di qua!» «Prima tu», ringhiò lui, spingendola avanti. La forza che mise in quel gesto fu maggiore di quanto avesse voluto, e la mandò a ruzzolare sul pavimento della cucina maleodorante. Nel tirarla in piedi sentì la fragilità del suo corpo sottile, e vide lo spavento nei suoi grandi occhi grigi. Con una selvaggia imprecazione afferrò un affilato coltello da carne e si volse, preparandosi a vender cara la pelle. Era sul punto di precipitarsi di nuovo nella taverna quando sentì la porta
che si schiantava e gli uomini che si riversavano dentro. Nello stesso istante la ragazzetta si gettò avanti con un singhiozzo e lo abbrancò per le ginocchia, facendogli perdere l'equilibrio. Scivolò a terra stretto a lei, contorcendosi per levarsela di dosso, e solo allora si rese conto che gli stava indicando disperatamente uno stretto passaggio rettangolare sotto il lavandino. «Vi prego... per favore! Fuggiamo, Signore, o adesso ammazzeranno anche me!» Lui incastrò una seggiola sotto la maniglia della porta della cucina, poi si infilò il coltello nella cintura e tolse di mezzo il pannello di legno che lei aveva aperto. C'era un cunicolo oscuro e stretto, pieno di ragnatele, di cui non si vedeva l'uscita. Vi strisciò dentro, e sentì che la ragazza lo seguiva dopo aver richiuso il pannello dietro di sé. Avanzarono ansimando nel passaggio, con le orecchie tese alle grida che s'allontanavano alle loro spalle. D'improvviso emersero nella semioscurità della stalla, dietro un mucchio di paglia. «I vostri cavalli sono ancora là fuori», sussurrò la ragazza con una nota d'eccitazione nella voce. «Mi porterete con voi, Signore?» «Con me? Non è possibile». «Ma non potete lasciarmi in mano a loro!», esclamò lei, indignata. «Sono la tua gente». La scostò e andò a sbirciare fuori. I cavalli erano vicini, e nel vedere che la fuga era possibile sentì un fremito. Ma aveva ancora negli occhi la vista del sangue, del corpo riverso della compagna, e faticò per non soccombere allo scoramento. La sguattera gli stava ripetendo che voleva venire con lui. D'un tratto ebbe la visione di quella sudicia ragazzotta spettinata rivestita con gli eleganti abiti alla moda di Kerrion, e un involontario sogghigno di nervosismo gli alterò il viso. «Il tuo posto è qui, non con me», ripeté, voltandosi. «Allora... aspettate, Signore. Creerò una diversione per voi», si offrì lei tristemente. «Fuggite verso il bosco, e io correrò dalla parte opposta per distrarli». Davanti a una proposta così altruistica e coraggiosa, assolutamente inaspettata da parte di una sguattera di taverna, Marada Seleucus Kerrion fu costretto a fermarsi e la fissò stupito. Storditamente si massaggiò il braccio e la spalla ancora indolenzita, chiedendosi se per caso non fosse ancora in preda ai fumi dell'alcool dopo la baldoria della notte precedente. Il volto deciso di lei gli confermò che aveva udito bene. «No», mormorò allora. «Vieni con me, ragazzina. Se riusciamo a rag-
giungere i cavalli ce ne andremo insieme da qui. Svelta». Lei mandò un'esclamazione di trionfo e spalancò il cancelletto di legno che dava sulla strada polverosa. Gli scalmanati erano entrati tutti nella taverna e stavano spaccando l'arredamento in un'esplosione di ferocia. Capì che vedersi scomparire da sotto il naso una delle prede li aveva contrariati, e che ne stavano incolpando il taverniere. Fu la loro cieca brama di vendicarsi che gli permise di correre ai cavalli senza che nessuno se ne accorgesse. Sollevò in sella a uno di essi la ragazzetta che annaspava goffamente con le staffe, le mise le redini in mano e montò su un altro. Mentre facevano girare gli animali dal locale provenne il grido di un uomo torturato a morte, e la giovane serva impallidì. «Bolen! Lo stanno uccidendo!», ansimò. «Gli è andata male», disse lui secco. Ma il suo sguardo era incollato sulla figura inerte del suo compagno che giaceva sotto il porticato sconnesso: qualcuno gli aveva attorcigliato una corda attorno al collo. Reprimendo un gemito di dolore si sforzò di guardare altrove, e accennò al bosco sul retro della taverna. Spronò il cavallo. «Per di qua. Seguimi!» Per qualche minuto intorno a lui ci fu solo un inferno di foglie che gli impedivano la vista, rami che cercavano di accecarlo e di strappargli il mantello, alberi e cespugli che evitava senza quasi notarli. La tragedia appena accaduta gli sembrava un incubo. Il cavallo sbuffava nel tentativo di aprirsi una strada di sua iniziativa nella vegetazione. Quando sbucò in una zona più aperta, venti minuti dopo, Bolen's Town era già lontana. Il bosco aveva lasciato il posto a una distesa di vegetazione bassa, oltre la quale iniziava una foresta di grandi alberi scuri. Soltanto allora egli poté scacciare dagli occhi le immagini di sangue che continuavano a torturarlo, e si volse a controllare se la sguattera dai capelli scarmigliati era ancora dietro di lui. Non lo aveva mollato di un palmo. Cavalcava con difficoltà, ma sembrava capace di governare il cavallo con perizia maggiore della sua. Poco più tardi, allorché nel folto degli alberi i rami si diradarono, le ordinò di fare una sosta, più per i cavalli che per loro stessi. Scendendo di sella la fissò senza saper cosa fare. Ma era lì, rifletté, in quel mondo alieno e fra quella vegetazione sconosciuta, in compagnia di una ragazzetta che poteva rappresentare soltanto un problema. Anche lui sarebbe stato un problema per i suoi superiori, quando quella faccenda fosse diventata di dominio pubblico. Gettò il mantello sulla groppa sudata del cavallo e gli asciugò la schiuma
dalla bocca. Stringendo la cinghia della sella si volse a studiare la brunetta. Era magra da far pena, fu costretto a notare. Denutrizione? Aveva spalle esili, un corpo asciutto, e grandi occhi saggi da donna che dominavano un volto di bambina. Erano stati quegli occhi ad indurlo a portarla con sé? No, decise, non era attraente o patetica fino a quel punto. La vide mormorare sottovoce qualcosa intanto che asciugava il collo dell'animale con una manciata di foglie secche, e intrecciare stranamente le dita. Rinunciando a capire quel gesto toccò un pulsante sul bracciale che aveva al polso sinistro, e l'oggetto emise un lieve ronzio che si trasformò in una nota musicale appena lo ebbe puntato nella direzione giusta. Soddisfatto riabbassò il braccio. «Quanti anni hai?», chiese. «Diciassette», rispose lei in fretta, con voce così bassa che si udì appena. Una folata di vento gli portò il suo odore: sudore, sporcizia e lavatura di piatti. Ma non era più il caso di badare troppo a simili particolari. «La verità», disse, brusco. «Quindici». Si volse a fissarlo quasi con sfida, lasciando cadere a terra le foglie. Il cavallo le sbuffò sul collo, e lei gli accarezzò distrattamente il muso. Poi arrossì lievemente, non tanto per la menzogna quanto perché era conscia di venir valutata, e la sua faccia era sporca di terriccio quasi quanto i piedi nudi. A occhi bassi mormorò: «Non puoi biasimarmi per una piccola bugia». «Bolen era tuo padre?» «No», si offese quasi lei, scontrosa. «I miei sono morti». «Adesso dove pensi di andare? Hai degli amici da qualche parte, là in paese?» Marada si sforzò di esibire un tono indifferente. La sua speranza era che lei si accontentasse di aver salvato la pelle e se ne andasse, col cavallo e magari con un po' di soldi, se ne voleva. «Non ho nessun amico. Voglio venire con voi». I chiari occhi grigi sottolinearono quella frase con fermezza. «No. Non puoi. E non hai neppure la più pallida idea di dove io sto andando». Come poteva spiegarle che nella Confederazione lei sarebbe stata solo un'estranea, una selvaggia incivile che la gente avrebbe considerato con disprezzo e sufficienza? Si chiese se il cattivo odore della sua pelle fosse un carattere congenito, e poi rifletté che era lui ad avere dei pregiudizi sciocchi, ma il vento glielo portava intenso alle narici. «Non ho nessun posto dove andare, e non m'importa». Scrollò le spalle. «Servirò voi come servivo Bolen. Sarete contento di me, ve lo prometto».
Lui non volle pensare in qual modo la ragazza aveva soddisfatto le esigenze di Bolen, né come intendeva servire lui. «È ora che io me ne vada. Dobbiamo salutarci», disse. «Sono capace anch'io di fare qualche piccola stregoneria», proclamò lei, come ultima risorsa. «Meglio: che tu salga a cavallo». Nel montare in sella sentì la pressione del coltellaccio che s'era infilato alla cintura, e lo estrasse. Era d'acciaio scadente, rugginoso e col manico di legno. Quale istinto recondito lo aveva mosso a impadronirsi di un oggetto fatto per dare la morte così crudamente? Con un senso di nausea lo scaraventò fra i cespugli. Il braccio che ancora gli doleva reagì con una fitta. Abbassando lo sguardo verso di lei avvertì un senso di disagio che non era causato dalla sofferenza fisica, come cercò vanamente di convincersi. Sapeva che c'era qualcos'altro, qualcosa che nasceva da un vestituccio logoro, da due occhi grigi troppo seri, da una faccia sporca di terriccio, e dalla miseria e dall'ignoranza di una società regredita al medioevo. Da questo era sorta la potente Confederazione che governava fra le stelle della galassia? Non fece alcuna obiezione quando lei mise il cavallo al passo col suo, nel sottobosco freddo e ombroso. «Come ti chiami?», chiese. «Shebat», rispose lei dopo un'esitazione, quasi che gli confidasse un segreto. «Io Marada», si presentò lui, omettendo il resto del suo nome e i titoli che la ragazza non avrebbe potuto comprendere. Dopotutto, pensò, erano parole prive di senso lì, in quella foresta, nel mondo dei suoi sogni più intimi. Marada era tornato a casa, attraversando le immensità degli spazi interstellari verso il mondo che era la culla dell'uomo. E lo aveva fatto malgrado i duri avvertimenti del Proconsole, sfidando le leggi severe che proibivano di scendere sulla superficie del pianeta Terra. La sua fidanzata, Iltani, e suo fratello maggiore, non lo avrebbero lasciato più. Non da vivi, almeno. Aveva ancora vivida nella memoria l'espressione noncurante e di sfida con cui Iltani aveva chiesto: «Cosa può accaderci di tanto pericoloso?» Disgraziatamente lo aveva scoperto nel modo più duro. Ma la colpa non era stata tanto degli altri due quanto sua. Era stata la sua ossessione che li aveva spinti ad avventurarsi lì, e suo avrebbe dovuto essere il prezzo da pagare.
«Voi siete uno stregone, allora!», ansimò Shebat quando vide la scintillante navetta da ricognizione. Era poggiata in mezzo a un cerchio d'erba carbonizzata, al centro di una vasta radura. «Ho quasi temuto che non lo foste davvero, per un poco». La reazione del suo cavallo al sibilo dei compressori a plasma, che s'erano accesi automaticamente all'avvicinarsi di lui, fu ben altra cosa. Appena fu riuscito a smontare di sella senza danni, lo spedì via con una pacca sulle natiche e un'imprecazione. La fanciulla baciò invece affettuosamente il muso del suo, tenendolo per le redini. Senza volerlo Marada si chiese se non avrebbe potuto esserci un posticino anche per una creatura di quel genere, nell'immensità della Confederazione che lui serviva. «Sei certa di non voler tornare in paese? Potresti cercare un lavoro migliore, lì o in città. Ti darò del denaro se vuoi, abbastanza per assicurarti un futuro». «Non voglio denaro, Signore». «Tu non sei una ragazzina qualsiasi. Puoi avere un futuro qui sulla Terra. E poi... hai capito dove sto andando, vero?» Lei distolse il viso, costringendolo a prenderle il mento fra le dita per farsi guardare negli occhi. Le sue mani la afferrarono per le spalle e la scossero con impazienza. Ma ella ripeté solo ciò che aveva già detto: non aveva casa, e voleva venire con lui. Fu così che Marada la condusse nell'astronave e le mostrò come assicurarsi alla poltroncina imbottita. E poco dopo nella radura non rimasero che due cavalli, un cerchio d'erba carbonizzata, e l'inizio di una leggenda non diversa da altre leggende dello stesso genere. La folla di contadini in arrivo fra i cespugli, troppo indecisa per avere il coraggio di affrontare uno stregone li all'aperto, vide il magico uccello di ferro involarsi nella sua diabolica luce tonante per scomparire fra le nuvole. E questo avrebbe fornito loro altro materiale per inventare favole sulla malvagità degli stregoni, da raccontare ai figli ed ai figli dei figli, e così via per generazioni a venire. Nell'interno della sua magica casa di metallo, lo stregone dal mantello nero che aveva detto di chiamarsi Marada compiva i suoi misteriosi incantesimi. Il riflesso del suo volto aquilino balenava nei cristalli e sulle superfici di ferro lucidissimo. La sua voce discorreva in tono freddo con l'aria che lo circondava, e l'aria gli rispondeva con parole umane ma in linguaggio incomprensibile. A occhi spalancati Shebat osservò gli oggetti scintillanti fissati alle pareti ricurve e perfino al soffitto, incapace di vedere dove
fosse l'impronta del demonio o in quale di essi fosse rinchiuso lo spiritello che parlava allo stregone. Era la caverna segreta dello stregone? Ma non aveva mai sentito dire che gli evocatori di diavoli avessero caverne mobili, e il suo senso dell'equilibrio le diceva che l'intero locale si stava muovendo. Strano, perché non aveva visto ruote. Comunque fosse, la stanza aveva belle poltrone sagomate e non vi era nulla di spaventoso in essa, anzi era la più lussuosa che avesse mai potuto ammirare. Eccitata Shebat disse a se stessa che quello era certo il giorno più importante della sua vita. Tutto era straordinario lì dentro, e in quanto allo stregone Marada egli poteva chiamare le voci dell'aria, creava le luci multicolori, e comandava alla finestra di cristallo di mostrargli ciò che voleva vedere... ed era bello e attraente. Si guardò attorno con attenzione, stampandosi nella memoria tutto ciò che la circondava. La comprensione sarebbe venuta in seguito, giurò a se stessa. Marada si volse al termine delle sue manovre, o meglio fu la sua poltroncina a voltarsi, ruotando così veloce che i suoi orecchini d'oro a catenella oscillarono con un tintinnio. «Se continui a fissarmi così mi brucerai il vestito con gli occhi», scherzò, ma senza sorridere. Bello ma con qualcosa di sottilmente estraneo, pensò la fanciulla. La barba nera gli conferiva uno sguardo mascolino, però i suoi capelli erano lunghi quasi come quelli di una donna e questo la confondeva. Aveva occhi castani, sopracciglia diritte e bocca larga. Era un volto espressivo e aperto, inadatto a un evocatore di spiriti infernali. «No, io non sono capace di fare magie come quella che hai detto», mormorò a disagio. «Quali magie? Mi hai frainteso. Sarà meglio che tu capisca come stanno le cose: io non sono uno stregone, e niente di ciò che faccio è magia. Quello che ti vedi attorno è tutto prodotto della scienza, delle mani dell'uomo e basta». «Scienza?» Lei si imbronciò, dubbiosa. «Allora insegnami questa scienza». Marada rise, ma dopo qualche momento la sua espressione si fece meno allegra ed ella capì che era preoccupato. «Vedrò cosa ti si può insegnare. Ma si tratta di roba complessa, impossibile da farti imparare così sui due piedi». Il giovanotto la vide farsi seria e tacque. In quei due luminosi occhi grigi che lo misuravano c'era un'ignoranza assoluta ma una saggezza superiore
alla sua giovane età. Una volta pettinata, lavata, nutrita a dovere e rivestita, avrebbe potuto essere perfino attraente. Ma quali potessero essere le sue capacità di apprendimento riguardo una cultura a lei sconosciuta, a quindici anni di età e ormai forgiata da una società barbara, era materia d'ipotesi. Con un sospiro rifletté che il problema era superiore alle sue forze. Soltanto la docilità di lei, la volontà di lasciarsi plasmare, avrebbe potuto consentirgli di ottenere qualche risultato. Ma subito si corresse: Shebat non avrebbe rappresentato per lui un problema di nessun genere, se il Proconsole della Base non le avesse dato il permesso di lasciare il pianeta. Senza la cittadinanza della Confederazione, anzi, la ragazza sarebbe stata rimandata subito dov'era nata. Dopo averci pensato qualche minuto risolse che le vie d'uscita erano soltanto due: adottarla o sposarla. Non esistevano espedienti d'altro genere per tenerla con sé. E visto che non intendeva essere immediatamente diseredato da suo padre, optò per la prima soluzione. Stabilito questo, aprì un canale audio con la più antica di tutte le sfere abitate, quella che per motivi ormai quasi dimenticati veniva chiamata la Base. Allo stesso operatore radio che aveva preso nota del suo rapporto sulla perdita di due vite umane, egli comunicò l'acquisto di un'altra. Per assicurarsi che non gli avrebbero fatto difficoltà all'atto dello sbarco insieme a una ragazza di superficie priva di documenti, fu costretto ad accennare le sue intenzioni e chiese che l'ufficio del Proconsole le fornisse documenti provvisori. Richiuse il canale audio e notò che ella era rimasta silenziosa e immobile, aspettando pazientemente che lui finisse di parlare in una lingua che non capiva. «Io posso imparare», affermò lei orgogliosamente, riprendendo l'argomento dopo quella pausa. Marada si strinse nelle spalle. Il programma di apprendimento con cui lui aveva assimilato una delle lingue del pianeta prima di atterrare era ancora nella memoria del computer. «Vediamo che si può fare», mormorò, inserendo istruzioni per renderlo reversibile. Quando fu pronto le ordinò di rilassarsi, e le sistemò sulla testa un casco video per l'apprendimento collegato al computer. Lei non disse una parola per quasi due ore, finché non giunse il momento di far rallentare l'astronave sull'orbita della Base. Il grande portello che dava accesso allo spazio di atterraggio si era già aperto per accoglierli. «Marada», disse poi lentamente. «Ho fame. Quando si mangia?» E rise, perché aveva parlato in Confederato, la lingua franca della Confederazio-
ne. Nel vedere la gioia che le illuminava il viso, lui le prese una piccola mano bianca e gliela baciò. Poi tornò a volgersi ai comandi. Quella che stava pilotando era una rozza navetta da ricognizione atmosferica, di manovra semplice ma in buona parte manuale. L'attracco della Base era il più antico fra le oltre 10.000 piattaforme della Confederazione, ed avvicinarsi sul semiautomatico presentava qualche difficoltà per chi non aveva l'abitudine. Così fu troppo occupato per notare l'espressione eccitata di lei mentre gli venivano forniti dati e cifre per l'avvicinamento, parole che ella scopriva di capire con emozione anche se il loro significato tecnico le restava oscuro. Ma avrebbe compreso più a fondo in seguito, si ripromise, e sottovoce mormorò nella sua lingua uno scongiuro per proteggere Marada da tutti gli spiriti maligni della notte. «Ci siamo quasi», disse lui. Accennò allo schermo. «Questa è la tua ultima occasione di guardare indietro e vedere da dove sei venuta. Ma d'ora in poi dovrai guardare solo avanti e dimenticare il tuo passato». E sfiorò un pulsante. Quando il grande schermo si accese Shebat si lasciò sfuggire un grido di spavento, e continuò a gemere anche dopo che Marada ebbe spento con un'imprecazione stupefatta. Ma ormai ella aveva visto: fuori da quella finestra non c'era più il cielo azzurro, ma soltanto due enormi globi lividi e tutto intorno il buio, un immenso buio demoniaco come narravano le favole. «Dove pensavi che fossimo, dannazione?», lo sentì domandare. Ma non riuscì a rispondere. Nero, nero, una notte nera e piena di niente le aveva riempito gli occhi e l'anima. I racconti della depravazione degli stregoni, e di ciò che facevano nella notte oscura fra le stelle erano dunque veri. E lei era lì, rapita verso la casa dei negromanti come da sempre era accaduto alle vergini e ai bambini. Ma a che scopo proprio lei? Fu solo questa curiosità che la indusse a riabbassare le mani, mormorando: «Io non sono una vergine, sapete? E i diavoli della Base mangiano solo le vergini». Marada stava facendo spegnere tutte le luci davanti a lui, una ad ogni tocco delle dita. «Ma che ti viene in mente!» «Ho detto che non sono una vergine. E tutti sanno che i diavoli della base rapiscono solo le vergini. Così io non vi servirò a niente. Non potrete farmi mangiare».
«Vedo», disse lui, voltando le spalle ai comandi. «Ascoltami: perché mai mi sarei preso la briga di insegnarti il Confederato, se le mie intenzioni erano queste?» «Forse perchè voi, Signore, non siete uno stregone potente. I vostri due amici non sono stati capaci di difendersi dalla gente che li ha assaliti. E voi avete cercato di fuggire, non di salvarli o di vendicare la loro morte». «Non c'entra? A noi non è permesso colpire chi è inerme. Questo mi è stato inculcato al punto che probabilmente avrei consentito alla folla inferocita di ammazzare anche me. Adesso la mia fidanzata è morta, e...» Marada s'interruppe con un ansito, poi si alzò e andò a sfiorare qualcosa vicino alla porta. Ci fu un sibilo d'aria, e una luce diversa invase il locale insieme a un odore nuovo. «Shebat», disse gentilmente. «Non volevo spaventarti, neppure per un momento. La Base è il vecchio nome di questo posto, e qui non c'è nulla di diabolico o di magico. Gli oggetti che ti hanno tanto impaurita erano la Luna e la Terra sospese nello spazio. So che a volte, moltissimo tempo fa, bambini dotati di particolare intelligenza e talento venivano condotti qui, nel piccolo mondo che tu stai per visitare. E come te essi erano dapprima pieni di terrore. Ma, Shebat, nessuno di loro è mai tornato a dire alla tua gente dov'erano stati, perché non potevano farlo, e anche perché non avevano nessun motivo per tornare indietro». «E neppure io potrò tornare?» «Dubito che lo vorrai. Se però deciderai di tornare a casa tua, chiamami, dovunque io sia, e ti riporterò là io stesso, te lo giuro. Adesso tu sei in mia custodia, almeno per il momento. Accetti questa situazione e la tua nuova posizione legale?» «Sì», rispose lei, anche se non aveva ben capito. Era meglio non fare obiezioni, perché la malvagità degli stregoni che tenevano asservita la Terra non si poteva sfidare. C'era stato il gelo che aveva distrutto i raccolti, e, certo questo era accaduto dopo che qualcuno aveva offeso o contrariato uno di loro, forse addirittura un Arbitro delle Stregonerie... I suoi pensieri s'interruppero quando Marada si avvicinò e la trasse in piedi, abbracciandola per qualche istante, ed ella gli poggiò la testa su una spalla con un fremito. Poi il giovanotto la condusse oltre la porta metallica e giù per la scaletta. La fanciulla ebbe la visione confusa di luci intense e oggetti strani, in una vasta caverna dove un silenzioso veicolo simile a un carro senza cavalli si stava avvicinando. Su di esso c'era un uomo. Marada la fece avanzare su un pavimento di materiale latteo che vibrava sotto i
suoi piedi nudi. Era freddo e scivoloso, ed ella si concentrò su quelle sensazioni quasi per ignorare la paura. «Ci fanno un trattamento di favore», le sussurrò Marada. «Alla guida dell'auto c'è il segretario del Proconsole in persona». Il lessico parzialmente assimilato le fece intendere la parola «Proconsole» come «Governatore», ma il cuore le disse che il superbo e freddo stregone venuto ad accoglierli era uno degli evocatori di potenze demoniache che tenevano nel terrore la sua gente. Si strinse al fianco di Marada insinuando una mano in una delle sue. Lui sorrise e le fece una carezza. «Non preoccuparti di nulla». Salì sul magico carro giallo e azzurro guidato da quel pallido individuo, che dopo averla gratificata di uno sguardo inespressivo fece lampeggiare le luci sui comandi e ripartì. Lasciandosi spingere a sedere alle sue spalle non aveva potuto reprimere un brivido, ma quando Marada passò un braccio dietro il suo collo, sopra lo schienale della poltroncina, si sentì meglio. Sollevò la testa fingendo di studiare il soffitto della caverna, ma in realtà per poter appoggiare la nuca sul suo avambraccio, e quel contatto la riempì di piacere. Il carro accelerò con un ronzio lieve. Su di loro le strutture complesse lasciarono il posto a un tunnel liscio e luccicante, dove spezzoni luminosi filavano via sempre più veloci. Shebat non aveva quasi fatto caso allo scambio di parole che c'era stato fra i due uomini, anche perché chiacchieravano troppo in fretta per lei. «... ma alla lontana, il suo popolo e il nostro sono consanguinei», stava dicendo Marada, rigidamente. L'ultimo vocabolo non era fra quelli che la strana cuffia le aveva insegnato. Una svolta brusca la spinse contro il fianco di lui, e ne approfittò per restargli stretta. Il suo cuore accelerò i battiti per l'emozione, e sollevò lo sguardo per osservargli la barba mentre lui discorreva. «Sono conscio della vostra posizione nella Confederazione», borbottò il conducente. «Ma qui siete molto lontano dalla civiltà, Arbitro, e dalle piattaforme di Kerrion dove la vostra parola ha un certo peso. Comunque, qui ci sono i vostri documenti e quelli di... uh, di lei. Sono ancora del parere che avreste dovuto lasciarcela esaminare preventivamente». Si volse a consegnare senza alcun entusiasmo un plico a Marada. Ma Shebat aveva sbarrato gli occhi. Arbitro? Un senso di gelo le scivolò nelle vene, lasciandola rigida per lo sbigottimento. Non aveva bisogno di consultare il vocabolario appena imparato per riconoscere quella parola e il suo significato: ogni abitante di Bolen's Town e dintorni apprendeva fin da
bambino a tremare nel sentirla. Marada era passato a un altro argomento: «... portare su i loro corpi alla svelta. Dovete farli recuperare. Maledizione, era proprio necessario istaurare un vero e proprio regno del terrore per tener sotto controllo gente già così povera e infelice?» «Signore, la risposta a questa domanda la troverete voi stesso, e più presto di quanto pensiate», disse l'uomo fissando Shebat gelidamente. «Mi farò dare istruzioni dal Proconsole per il recupero delle salme di vostro fratello e della vostra fidanzata. Saranno portate sulla vostra astronave quanto prima. Nel frattempo il signor Proconsole mi incarica di presentarvi le sue più sentite condoglianze, e vi prega di considerarvi ospite del Consolato». Il veicolo magico sembrò penetrare in una parete di tenebra alta venti metri, e Shebat trasalì. L'istinto la spinse ad appoggiarsi ancora a Marada, ma si scostò quasi subito. L'Arbitro stava ancora parlando con l'altro stregone in tono indifferente. Poi il buio che era piombato su di loro lasciò improvvisamente il posto a un'esplosione di luci. La fanciulla ansimò stupefatta alla vista dell'immensa Base spalancata dinnanzi a lei: sotto un soffitto alto come un cielo opalescente una città metallica e cristallina sorgeva stupenda come quelle delle antiche favole. La strada s'insinuava in mezzo a costruzioni spiraliformi, scintillanti come gemme e di dimensioni imponenti. Il conducente fece girare il veicolo su per una rampa, in direzione di un portale a mosaico dai colori sgargianti. «Signore», disse. «Voi siete venuto da molto lontano e avete avuto una dura perdita, ma siete vivo e dunque dovete considerarvi ancora fortunato! Devo ricordarvi che siete atterrato a vostro rischio e pericolo, ignorando i nostri avvertimenti e infrangendo la Legge. In caso di altre violazioni altrettanto gravi, dubito molto che la vostra stimata famiglia potrebbe far qualcosa per voi. Perciò vi suggerisco di tener strettamente sotto controllo la vostra... mmh, giovane pupilla, Arbitro, tanto per evitare che nascano dei guai». «Speriamo che non succeda niente», disse Marada. Il veicolo si fermò e il giovanotto aiutò Shebat a scendere. Per qualche attimo dovette sorreggerla, ma non ne fu sorpreso, perché sapeva che essendo abituata a vivere sulla superficie di un pianeta gli ambienti a gravità artificiale alterano lievemente il suo senso dell'equilibrio. Fu solo molto più tardi, in uno degli appartamenti antiquati e di cattivo gusto riservati ai visitatori, che poté tranquillizzare la fanciulla su ciò che
era e quel che faceva un «Arbitro delle Stregonerie». Terminata la spiegazione si fermò a fissarla, in piedi dinanzi al grande divano dove lei s'era seduta. Rannicchiata in un angolo Shebat rispose al suo sguardo con espressione timida e rassegnata. Il fatto che egli respingesse la parola «stregonerie» per tenersi solo la prima parte di quel titolo non la consolava molto. «Ma si è sempre detto in questo modo», mormorò, poco convinta. «Comunque la situazione non è sempre come questa, fra le piattaforme e i pianeti. Alcune Famiglie Consolari, fra cui la mia, mantengono possedimenti sulla superficie di un pianeta. Shebat, tu devi credere a ciò che ti dico e aver fiducia in me, se vuoi che io possa aiutarti». Lei si strinse nelle spalle, limitandosi a fissarlo tristemente e cercando di apparire calma. Il giovanotto era spazientito. Sentiva di essersi sobbarcato una responsabilità pesante e si chiedeva se avesse fatto la cosa giusta. Dal modo in cui ella si ritrasse capì che il suo sguardo cupo la intimoriva. S'inginocchiò e le prese una mano. «Ascoltami, piccola. Io ho molti problemi, dei quali tu sei solo l'ultimo ma non certo il minore. Quando avevo la tua età mi fu insegnato che nessuna opinione personale può ignorare l'evidenza dei fatti, e che per formarsi un'opinione definitiva i fatti vanno conosciuti a fondo. Quando Studierai la storia della Confederazione, che è storia tua quanto mia, vedrai che ogni cosa ti apparirà in una luce diversa. Mi credi?» Lei annuì appena, senza parlare. «Se non te la senti di restare qui, sono sempre in tempo a rimandarti indietro», sospirò Marada. Era ancora una fanciulletta, una creatura innocente, rifletté osservando i capelli spettinati che le ricadevano sugli occhi. Avrebbe dovuto curarsi di lei e fare del suo meglio, malgrado che la disgrazia e il dolore delle due morti gli pesassero sulle spalle. Adottarla era un affare serio. Doveva intanto civilizzarla abbastanza da renderla presentabile, e non aveva più di una decina di giorni per farlo. Qualcosa in lui continuava a dirgli che il suo interesse per la fanciulla era solo un espediente per dimenticare la realtà dei fatti appena accaduti, per scacciare dalla mente la morte di Iltani, che era stata sua promessa sposa fin dalla nascita. E la perdita di suo fratello maggiore sarebbe stata per suo padre un dolore ancora più grande di quello che era per lui. Sentì che la mano di Shebat era fredda, e la strinse più forte. «La cittadi-
nanza è un affare serio», disse. «Se tu non intendi diventare un membro produttivo della Confederazione, io non posso forzarti. Tuttavia è una cosa che molti desiderano, per cui lottano ed a volte perfino uccidono. Un puro caso, dovuto alla mia nascita e alla mia posizione, mi mette nelle condizioni di potertela offrire. Capisci? Il fatto che io possa adottarti è questione di influenze politiche, tuttavia la mia famiglia è composta da gente potente che tiene soprattutto ai suoi interessi... In altre parole, se non desideri con tutte le sue forze i vantaggi che posso offrirti, può essere molto difficile per me aiutarti ad ottenerli. Tu mi hai espressamente chiesto di venire con me, ed è solo per questo che ho fatto il primo passo, ma ora pensaci bene prima di impegnarti. Dimmi qual è la tua scelta, se vuoi la cittadinanza o no. E se la desideri, voglio sentirti dire che ti applicherai ad andare avanti su questa strada senza ripensamenti o esitazioni». Un lieve sorriso gli increspò la barba. «Dimmelo con chiarezza, Shebat. Adesso». La fanciulla aveva trattenuto il fiato. Nessuno si era mai preso la briga di consultarla su qualcosa, neanche per chiederle una piccola decisione riguardante il suo stesso futuro. E Marada, che avrebbe potuto fare di lei tutto quel che voleva, lasciava a lei la possibilità di stabilirlo. «Allora io... non mi farete mangiare dai diavoli della Base?» «Per tutti gli uragani della galassia, no di certo!» «Resterò con voi». «E non farai più strani discorsi sul passato, sulle stregonerie, e sui bizzarri pregiudizi circa quel che accade alla Base?» «No, lo prometto». «Allora usciamo di qui e vediamo intanto di procurarti dei vestiti. Ma prima è necessario che tu ti faccia un bel bagno». «Cos'è un bagno?» Marada ebbe una risatina. «Sarà meglio che ti insegni fin da ora che un impianto da bagno non è roba stregonesca». Ma la femminilità che vide nei suoi occhi lo fece esitare. Avrebbe dovuto andarci piano prima di considerare una ragazzina quella che invece era già diventata una donna, più precocemente e certo più dolorosamente delle donne a cui era abituato. E fu così che Shebat di Bolen's City cominciò a diventare Shebat della Casa Consolare di Kerrion, Pupilla del Consolato stesso e sotto la protezione di Marada Seleucus Kerrion, figlio secondogenito del Console Generale Parma Alexander Kerrion, la cui famiglia deteneva quella carica elettiva da quasi due secoli.
Tutto ciò venne portato a conoscenza di Parma Alexander Kerrion, sulla lontanissima Draconis, sfera amministrativa dello spazio di Kerrion, già nel momento in cui Shebat imparava a fare un bagno di acqua calda toccando pulsanti e levette con dita ancora incerte. Nei lussuosi uffici del Console Generale, seduto alla sua scrivania di segretario; il vecchio Jebediah considerò le notizie giunte poco prima con aria spassionata. Poi mosse una mano rugosa e spense lo schermo su cui continuavano a scorrere registrate in termini freddi. La delicatezza gli aveva imposto di portarle a voce al suo superiore, e non era stato facile né piacevole. Distrattamente rifletté che se Marada avesse voluto succedere al padre nella sua carica, privilegio quasi legato al diritto di primogenitura, avrebbe dovuto chiamarsi anche lui Alexander Kerrion. Tutti i Consoli Generali provenienti dal Casato dei Kerrion si erano sempre chiamati Alexander di secondo nome, per ragioni dovute alle tradizioni e ai capricci di quella potente famiglia. La notizia della morte del fratello maggiore di Marada avrebbe messo nel lutto stretto le capitali di una dozzina di mondi, oltre alle mille e sessanta piattaforme di Kerrion, lutto che sarebbe iniziato ancor prima che Marada avesse riportato a casa la salma. Inoltre la morte di Iltani avrebbe mandato in rovina il progetto di unire gli immensi capitali e i possedimenti delle due famiglie, i Kerrion e i Labaya. Il vecchio Jebediah inarcò un sopracciglio al pensiero della ragazza, bella e ricca quanto era stata detestabile. Poi tornò a riflettere sull'altra sorprendente novità: il fatto che Marada avesse di sua iniziativa introdotto una ragazza, una misera e sconosciuta abitante di superficie, in una famiglia che rappresentava l'elite fra quante governavano le piattaforme fra le stelle. Ed era stata l'ultima goccia per Parma Alexander Kerrion. Jebediah lo aveva visto tracannare d'un fiato due bicchierini di liquore. Lo schermo sulla scrivania del segretario lampeggiò, e vi comparve il volto rigido del Console Generale. Con voce cupa Parma Alexander Kerrion diede istruzioni sul da farsi. Si doveva informare gli altri Consoli Generali, e indire un giorno di lutto formale da li a dieci giorni. Bisognava presentare le condoglianze alla famiglia Labaya, e proporre loro un'unica cerimonia funebre per le due salme. A questo scopo Parma suggeriva il più privato e intimo fra i possedimenti di Kerrion, ovvero Lorelie. C'era poi da regolare la questione dell'unione fra le due famiglie, da anni progettata nei
particolari e ora sfumata nel nulla, e andava organizzato un incontro con l'altro Patriarca. Da ultimo, il segretario fu incaricato di richiamare immediatamente Marada, con l'ordine di presentarsi in Lorelie entro dieci giorni. Jebediah sarebbe stato disposto a pagare pur di essere presente, nel momento in cui il giovane Marada avrebbe affrontato a Lorelie la famigerata severità di suo padre. Ma neppure lui, pur essendo il più fidato dipendente del Console Generale, aveva mai messo piede sull'incantevole Lorelie. Solo i membri della Famiglia Kerrion, da quando era stato costruito nella lontana galassia di Centralia, vi erano discesi. Ma da li a dieci giorni sarebbe stata fatta un'importante eccezione alla regola, perché certo i Labaya non avrebbero declinato un invito così prestigioso. Oppure l'avrebbero rifiutato? L'ipotesi attraversò la mente di Jebediah, intanto che preparava i messaggi da inviare ordinandoli sullo schermo con dita esperte. Lui stesso aveva due figlie, rifletté. Come si sarebbe sentito se l'impetuoso rampollo di un'altra famiglia ne avesse condotta una alla morte? Per un attimo fu tentato di collegarsi con l'ufficio del Console Generale per comunicargli quel pensiero, ma infine rinunciò scrollando le spalle. Che il vecchio tiranno si arrangiasse. Dopo aver spedito i messaggi a destinazione si alzò e cominciò a chiudere gli uffici per la notte, sebbene sulle piattaforme notte e giorno fossero termini convenzionali rimasti in uso per abitudine. Prima di andarsene si accostò alla porta su cui campeggiava l'aquila scarlatta, il blasone del Console Generale, e bussò leggermente. Non ricevendo alcuna risposta, spinse il battente, e dalla fessura sentì quelli che potevano essere singhiozzi soffocati. Il vecchio padre non stava trovando molta consolazione nel liquore. Senza far rumore Jebediah si allontanò nell'anticamera in punta di piedi. Lasciamo che pianga, pensò fra sé. Aveva perso il suo delfino, e il prossimo nella linea di successione era il giovane e sconsiderato Marada, dunque non c'era da meravigliarsi se si disperava. Se Jebediah fosse stato al suo posto, avrebbe chiamato una Danzatrice del Sogno a consolare la sua anima. Ansimò una risatina, nel pensare alle Danzatrici del Sogno. Lui stesso aveva bisogno di farsi consolare un po' quella sera, e lui non era Parma, cosicché non avrebbe dovuto andarci cauto. Nella vita c'erano comunque alcune cose che meritavano ogni rischio, egli lo sapeva bene, avendo spesso assaporato quella che lo trascinava giù ai livelli inferiori e lungo le strade, dove i piaceri delle Danzatrici del Sogno potevano essere acquistati.
Capitolo 2 I dieci giorni di viaggio a bordo dell'astronave trascorsero per Shebat rapidi come un sospiro d'emozione. Ma le cose che le accaddero furono tante che solo a ripensarci si sentiva stordita, incapace di metterle in ordine dentro di sé. La sua vita s'era trasformata in un sogno, talvolta rosa, talaltra un po' meno, ma sempre stupefacente. Era un continuo balzare da una meraviglia all'altra, in un mondo tutto nuovo per lei. Prima di lasciare la Casa Consolare di Orrefors, la Base, Marada la condusse in giro per i negozi a scegliere qualche vestito. La vista di quegli abiti splendenti come gemme la fece ansimare, le strappò esclamazioni che destarono i sorrisi ironici dei commessi e quelli un tantino imbarazzati del giovanotto, al punto che egli fu costretto a sussurrarle ripetutamente di tener la bocca chiusa. Dietro l'indulgenza del giovanotto c'erano ombre di preoccupazione che ella non notò, ma che infine guastarono l'umore di lui e lo resero più severo dinnanzi alle sue ingenue manifestazioni di meraviglia. In uno di quei negozi, risplendente di luci come un palazzo reale, Shebat ebbe il suo primo incontro con la similpelle, un materiale da confezione impalpabile come il fumo e dalle singolari proprietà. Venne a sapere che tutti ne portavano indosso uno strato sottilissimo sotto le vesti, e non tanto perché fosse di moda quanto per ragioni di sicurezza. Era un tessuto vivente, a quanto Marada le spiegò, e poteva proteggere sia dal freddo che dal caldo. Inoltre la sua robustezza era tale che neppure un proiettile o un raggio laser avrebbero potuto oltrepassarlo. La fanciulla fu portata da una commessa in un altro locale, e gliene fu fatta indossare una sorta di tuta aderentissima che le lasciava scoperte solo le mani e la faccia. Marada disse che la similpelle era un tessuto organico scoperto secoli addietro, ai tempi in cui gli uomini cominciavano a viaggiare nello spazio, e che la sua funzione protettiva risultava vitale nei casi in cui una falla allo scafo facesse uscire rapidamente tutta l'aria. «Ma è proprio viva?», chiese lei, palpeggiandosi le braccia e muovendosi a disagio in quell'involucro. «Certo che lo è, come la tua stessa pelle. Ed ha le stesse proprietà della pelle umana, con la differenza che è mille volte più robusta. Naturalmente non può evitarti gli effetti di un colpo, o di una sassata», mormorò lui, scurendosi in faccia.
Shebat abbassò gli occhi a rimirarsi gli stivaletti. Erano così belli che quasi avrebbe camminato a testa china per il solo piacere di guardarseli ai piedi. «Sul serio respingono la polvere?», chiese. Marada rise, e anche il commesso che gli stava accanto emise una risatina, in un tono che non le piacque. Comprendendo quanto grande fosse la sua ignoranza agli occhi di quella gente, ella stabilì di porvi rimedio: nessuno, neppure Marada, avrebbe più dovuto ridere della sua ingenua meraviglia. Mentre prendeva quella ferrea risoluzione non poteva osservare se stessa, e così non fu conscia della luce che rese per un attimo il suo sguardo duro e tagliente come un diamante. Ma Marada lo notò, e questo gli diede da pensare. Il commesso li informò che per il cappuccio di similpelle avrebbero dovuto tornare nel pomeriggio, quindi Marada pagò e la prese sottobraccio. «E ora pensiamo ai vestiti veri e propri», disse, facendole l'occhiolino. «Questa è la prima lezione per diventare una vera signora della Confederazione: imparare a fare acquisti. Poi andremo al miglior ristorante della Base a festeggiare il tuo primo giorno con un pranzo come si deve. E più tardi torneremo qui per assicurarci che anche la tua testa, la faccia, gli occhi, la gola e perfino i polmoni siano protetti come il resto del corpo». Shebat sorrise, e non tanto perché quella dichiarazione l'avesse fatta felice quanto per compiacere Marada. Fece finta d'ignorare il fastidio che provava nel sentirsi chiusa in quella tuta di pelle artificiale, e seguì il giovanotto sentendosi strana a ogni passo che faceva. Ma il pranzo le sarebbe andato di traverso se avesse immaginato quel che stava per accaderle. Nel ripensarci, al termine di quei dieci giorni di viaggio, rifletté che l'unico momento terribile l'aveva passato proprio quando la commessa l'aveva fatta distendere in quella sorta di sarcofago, nel cui interno la similpelle nasceva e le aderiva all'istante all'epidermide. Chiusa nel buio, sentì scivolare via da sé tutta la sua risoluzione e il suo coraggio, e quando avvertì il contatto dello strano materiale perfino nelle mucose del naso e in gola le parve di soffocare. Lo spavento la accecò, dimenticò tutte le istruzioni di Marada e gridò (sebbene lui non potesse udire) pensò che stava morendo e lo maledisse (sebbene lui non potesse saperlo) scalciò e cercò di uscire (sebbene lui non potesse vederla). Ed allorché il coperchio sopra di lei venne riaperto, giacque immobile ad occhi sbarrati, indebolita dal terrore e ansante. La sua reazione le fece ottenere sguardi disgustati dalle commes-
se, e perfino Marada si accigliò contrariato, ma non le importò nulla. Solo in seguito, mentre lui le spiegava tutti i vantaggi della similpelle e la necessità d'indossarla durante il viaggio che li attendeva, la fanciulla si vergognò di avergli fatto fare brutta figura. Fu quella stessa notte che, non riuscendo a prendere sonno in un ambiente così estraneo, dopo essersi a lungo agitata, entrò nella camera del giovanotto e si distese sul suo letto. Marada era evidentemente sfinito perché non diede alcun segno di svegliarsi e, rannicchiata al suo fianco, Shebat fece uso di tutte le sue facoltà per procurargli un sonno ancor più profondo e ristoratore. Con una mano tracciò nell'aria figure arcane sopra la sua testa, e le linee disegnate dalle sue dita nella semioscurità si librarono simili ad arabeschi azzurrini, illuminando il volto di lui con un magico e lieve lucore. L'Incantesimo delle Dodici Trecce fu un vibrare di sottili bagliori, di segni luminescenti, ed ella seppe che le parole da lei pronunciate erano forti ed efficaci. Sdraiata vicino a lui si rilassò, più confortata. L'Incantesimo delle Dodici Trecce lo avrebbe protetto durante la notte e lo avrebbe fatto dormire meglio, sebbene lì non vi fossero pericoli e già egli fosse immerso nella tenebra senza sogni della sua stanchezza. Fu così che il giovanotto dormì con lei senza saperlo, finché il giorno successivo lei si svegliò e tornò di soppiatto nella sua camera. Era tardi, quasi mezzogiorno. Solo allora, di nuovo nel proprio letto, Shebat richiamò da lui l'incantesimo che lo avvolgeva in un bozzolo di sonno greve. Durante la colazione che fece portare nell'appartamento, Marada le confessò di non aver mai dormito tanto bene né così a lungo. Ma l'essersi levato dal letto a quell'ora gli procurò delle difficoltà coi tecnici della Base, che già da un pezzo avevano preparato la sua astronave alla partenza. Il ritardo non giunse gradito ai controllori del traffico aereo, indaffarati a regolare gli atterraggi e le partenze dalla piattaforma. Mentre Shebat gustava quelle cibarie sconosciute e sorprendenti, lo udì parlare animatamente con un'apparecchiatura strana che gli rispondeva senza molta cordialità. Il giovanotto chiese scusa in tono freddo aggiungendo qualche breve giustificazione, e la voce incorporea si accordò con lui su una nuova ora di partenza. Dovettero fare tutto molto in fretta, poi ambedue indossarono speciali vestiti da viaggio anch'essi costruiti sui loro corpi all'interno di un sarcofago metallico come quello che creava la similpelle, e un fattorino venne per
portare allo scalo i bagagli di Marada. Ma l'astronave, quando poté vederla nell'immenso locale pieno di luci dove un ascensore li scaricò, non era quella piccola e ovoidale in cui avevano lasciato la Terra il giorno prima. Si trattava di un vascello cilindrico affusolato come un pesce e lungo cinquanta metri, luccicante e con una quantità di bizzarre sporgenze e luci di segnalazione, con un'aquila scarlatta incisa sul portellone metallico. Sotto l'aquila c'erano dei numeri e una parola: Hassid. A Shebat parve che l'astronave fosse enorme, e restò incredula allorché Marada disse invece che era una delle più piccole. Oltre a vari locali di servizio conteneva un salone e tre elegantissime cabine, assai più luminose dell'appartamento della Base in cui avevano pernottato. Appena furono saliti a bordo l'umore del giovanotto peggiorò, e Shebat lo vide leggere con aria ingrugnita delle frasi che lui stesso aveva fatto comparire su uno schermo della plancia. Sullo stesso schermo balenò poi il volto di un uomo, e con lui Marada discusse brevemente circa le due salme già portate in un locale della stiva. Shebat andò a curiosare intorno, e scoprì subito i due contenitori refrigerati con lo stemma dei Kerrion. A disagio esaminò le cabine, la cui opulenza la impressionò finché s'accorse che gli oggetti personali della più vasta rivelavano la lunga e abituale permanenza in essa di una donna. Sulla soglia di questa fu raggiunta da Marada e, intuendo i suoi pensieri, preferì lasciarlo solo. Il giovane vi trascorse qualche minuto, riordinando frettolosamente, quindi ne uscì portando via un paio di belle valige che sistemò altrove. Addolorata, la fanciulla notò che sembrava aver pianto. Per tutta la giornata che seguì, Marada non disse praticamente parola. Si limitò a borbottarle di prendere posto nella cabina che, come lei aveva capito, era stata di Iltani. Durante la permanenza vi furono altre voci che parlavano dall'aria, immagini sugli schermi e un augurio di buon viaggio, ma subito dopo tutto divenne silenzio. Shebat non avvertì sensazioni che dessero l'idea di movimento e, sebbene gli apparecchi della plancia fossero complessi, da loro non provennero né rumori né luci, al punto che fu tentata di chiedere a Marada perché mai non accadesse niente. Seduta in una poltrona sagomata alla destra del giovanotto si voltò a osservarlo, e gli parve quasi che dormicchiasse. L'unica volta che diede un segno d'attenzione per gli strumenti, fu quando allungò una mano a spegnere uno schermo che s'era acceso da solo. Shebat si strinse nelle spalle. Quindi rimase colpita dalla riflessione che
sulla sua poltroncina era stata certo seduta la bruna compagna di Marada, perché era più piccola delle altre due. Davanti a lei c'erano pannelli così complicati che il suo sguardo vi si confondeva sopra. Ma l'altra donna aveva certo saputo cosa fare con essi, pensò, aveva toccato quegli oggetti misteriosi e fatto accendere le loro luci, e aveva pilotato la nave. Eccitata, la fanciulla mise da parte ogni timidezza per esclamare: «Insegnatemi a pilotare, per piacere!» «Cosa? No, no». «Ma lei lo faceva. Non è vero?» Senza neppure guardarla Marada scosse il capo. Dopo un poco aggiunse: «Lei e io eravamo fidanzati, così Iltani volle farsi sintonizzare col cervello della nave... diciamo che fra loro c'era conoscenza reciproca, tanto per farti capire. Ma adesso ho tolto la sensività registrata su di lei, e il cervello della nave è collegato solo con me. Almeno per quanto riguarda la manovra. Sono io che sto pilotando, adesso. Comunque, se per caso mi succedesse qualcosa durante il volo, sarà meglio che tu non tocchi niente. Servirebbe a poco in ogni caso. Questa astronave, diversamente dall'altra su cui sei stata, è collegata alla mente del pilota: una nave, una mente. Nell'ipotesi che io debba cascare morto, basterà che tu resti tranquilla e l'Hassid ti porterà senza incidenti fra le braccia della mia famiglia». Colpita dal suo tono lei lo fissò. «Morire? Forse voi... credete di poter morire di dolore? Non è facile. Io ne so qualcosa». «Quanti anni hai detto di avere?», borbottò ironicamente lui. Poi la azzittì con un gesto. «Stammi a sentire. Di norma i passeggeri non parlano al pilota durante la navigazione. Non mi è facile essere con la nave ed essere con te nello stesso tempo. Molta gente è morta o si è persa fra le stelle per essersi concessa questa distrazione. Ora taci, che devo concentrarmi su quel che sto facendo». «Ma voi non state facendo nulla!», si sbalordì Shebat. Marada rise seccamente, gettandole un'occhiata. «Vai nella tua cabina, se non sei capace di fare silenzio. Poco fa ti ho insegnato come puoi fare a parlare col cervello dell'Hassid, perciò approfittane per studiare qualcosa. Fatti spiegare cos'è l'Effetto Spugna, così capirai perché non posso dedicarmi a te». Dopo una pausa aggiunse: «Questi pannelli di comando servono solo se il pilota è inabilitato, oppure se il cervello della nave va fuori uso. In altri momenti la nave e io... parliamo in silenzio, se così si può dire. Dobbiamo restare collegati. Noi viaggiamo su grandi distanze, a enormi velocità, e
questo produce variazioni nel rapporto temporale fra noi e l'universo esterno. Solo grazie all'Effetto Spugna vi è un riassorbimento temporale, ovvero il tempo soggettivo dei passeggeri resta identico al tempo esterno. Ma perché questo accada è vitale che la parte umana del circuito, ovvero io stesso, rimanga sintonizzata con l'astronave. Capisci?» «Io capisco solo che mi avete detto di tacere, e che ora mi fate la predica. No, non ho capito. Ma suppongo che potrò pilotare anch'io quando avrò imparato». Lui alzò gli occhi al cielo. «Lascia perdere quest'idea. Non è una cosa che alle donne piaccia». «Ma Iltani lo faceva». Nel sentir pronunciare dalle sue labbra il nome della ragazza, ebbe l'impressione che lui sussultasse. «Iltani aveva dei capricci, e io dovevo assecondarla. Adesso vattene nella tua cabina e fai quel che ti ho detto. D'accordo? Ti chiamerò quando sarà ora di mangiare». Nella sua camera da letto rosa e argento, Shebat imparò ben presto a consolarsi con la compagnia del cervello della nave. Parlare con quella straordinaria entità, disincarnata e onniscente, le piaceva moltissimo ed era felice, perfino più gradevole che discorrere con un essere umano. Innanzitutto la voce dell'Hassid era quella simpatica e pacata di una donna di mezza età, di vasta esperienza e dal carattere bonario, e poi c'era il fatto che rispondeva a tutte le sue domande senza mai meravigliarsi della sua ignoranza, senza fare commenti ironici né cambiare discorso. Bastava formulare una parola, e magicamente l'Hassid sentiva e rispondeva. Sapeva tutto di qualsiasi cosa, si esprimeva in termini semplici a sua richiesta, e non si stancava mai di spiegare e di chiarire finché l'argomento non era stato esplorato a fondo dalla curiosità della fanciulla. Con sua sorpresa Shebat fini con l'affezionarsi moltissimo alla voce dell'Hassid, dimenticando tutto il resto, e non soffrì affatto per la mancanza di attenzione da parte di Marada. Era affascinata, incredula di aver a che fare con una grande nave di metallo invece che con una persona in carne e ossa, e osava domandare tutto sapendo che ne avrebbe avuto in risposta frasi esplicative e sempre gentili. Per la più parte del tempo restava distesa sul letto ad occhi chiusi e, quando Marada la chiamava per mangiare, la voce di lui si sovrapponeva a quella dell'Hassid o alla sua. Allora ella riapriva gli occhi, ed era sempre lievemente sorpresa nel vedere che in cabina con lei non c'era nessun altro. E si alzava con un sospiro, stordita dal gran par-
lare, scusandosi con l'Hassid per l'interruzione e dicendo che sarebbe subito tornata per riprendere il discorso là dove lo avevano lasciato. Ma il mattino del decimo giorno di viaggio tutto finì, con suo gran dispiacere, perché a colazione Marada la avvertì con indifferenza che l'atterraggio era vicino. Le ordinò di impacchettare le sue poche cose, e sembrò vagamente stupito nel vederla sospirare di rammarico. Perfino la sua offerta di sedersi accanto a lui in plancia, mentre egli portava l'Hassid all'attracco, non rimise Shebat di buon'umore. «Posso salutare l'Hassid?», chiese lei. Il giovanotto rise. «È soltanto un cervello elettronico. Cosa vuoi che gli importi dei tuoi saluti? Comunque sbrigati, perché durante l'atterraggio dovrò collegarlo solo alla manovra». Senza dir altro la fanciulla si alzò e tornò in cabina a preparare la sua roba. Ma le erano venute le lacrime agli occhi. E del resto, come avrebbe potuto dire addio al suo invisibile angelo custode senza mettersi a piangere? Gli mormorò parole di commiato nella sua lingua, con voce un tantino incerta dopo aver parlato così a lungo in Confederato. Quando poi fu pronta in tutto salvo che nel cuore si fermò davanti al grande specchio ed esaminò la sua immagine con attenzione, cercando di scoprire la presenza della similpelle sul suo corpo. Ormai vi si era tanto abituata che non la sentiva più. Si passò una spazzola sui capelli, ora soffici e vaporosi, e capì che qualcosa di definitivo le era già accaduto. Osservandosi allo specchio fece una piroetta e si dedicò un sorriso triste: quella fanciulla in tuta e stivaletti era lei, per quanto irriconoscibile, ed ella fu vagamente lieta del suo nuovo aspetto. Poi mormorò la canzoncina che da piccola era solita canticchiare nel buio per scacciare l'ansia e farsi coraggio, e prese congedo dalla cabina dove la voce scorporizzata le aveva fatto tanta compagnia. Sulla soglia si fermò, con una mano sullo stipite della porta. «Arrivederci, Hassid. Non dimenticherò quello che mi hai insegnato», disse. Ma le pareti non le diedero risposta. Marada aveva richiamato altrove l'attenzione dell'astronave. Cristallina e affascinante, Lorelie ruotava nell'immensa galassia di Centralia, solida testimonianza della ricchezza, dello stile e della grandezza dei Kerrion. Ma il buon gusto, aveva borbottato acidamente Selim Labaya osservandola dall'orbita che trentasei ore più tardi anche l'astronave di Ma-
rada avrebbe percorso, non era stato una prerogativa dei Kerrion quando la piattaforma era stata concepita. Il commento di Labaya non era privo di giustificazioni: Lorelie scintillava come il gioiello di un monarca megalomane, era il diamante allacciato alla collana di anelli che adornavano il gigantesco pianeta intorno a cui orbitava. La scelta dell'enorme mondo di Alexandria (resa più stravagante dai suoi molti anelli di metano, ammoniaca e ossigeno congelato) parlava di orgoglio spinto oltre ogni limite, d'intelligenza raffinata e forse anche di sofisticata amoralità. Selim Labaya ebbe una smorfia. Con la stessa spesa lui avrebbe costruito ben altro che una monumentale piattaforma bella solo per gli occhi. Avrebbe sfruttato i giacimenti degli anelli, impiantato scali minerari, messo al lavoro personale specializzato e ben pagato, e trasformato gli anelli di Alexandria in un alveare denso di navi da carico in attività. Con un grugnito l'uomo scosse la testa canuta. Poi convocò i suoi dipendenti nel salone dell'astronave e illustrò loro il piano che stava abbozzando per trasformare la tragedia in commedia, la perdita in guadagno, il dolore in soddisfazione. Nell'ascoltare il Console Generale di Labaya, i familiari ed i membri del personale furono costretti a notare che anche in quella circostanza luttuosa un sorrisetto gli affiorava ogni tanto sulle labbra. A chi lo conosceva meglio parve quasi di vedere il dragone rampante dei Labaya cominciare a soppiantare qua e là lo stemma di Kerrion, l'aquila scarlatta nel cerchio di sette stelle che contrassegnava Lorelie, il suo pianeta-ancora Alexandria e ogni altra proprietà di quella Casa Consolare. E nell'udire le sue parole un uomo anziano - uno la cui presenza lì avrebbe indotto Parma Alexander Kerrion a scatenare una guerra, se ne fosse venuto a conoscenza - non seppe reprimere una risatina stridula e velenosa. Più tardi, quando la delegazione di Labaya fu scesa dall'astronave e si fu allontanata insieme a chi era venuto a riceverla, l'uomo anziano dal sorriso velenoso non era con loro. Jebediah non aveva il permesso di metter piede su Lorelie. Il canuto individuo rimase sul vascello spaziale nella cabina a lui riservata, in compagnia di una Danzatrice del Sogno di notevole talento assoldata appositamente per lui. E il fatto d'essere lì a godersela, così vicino al Console Generale di Kerrion che stava invece soffrendo e preoccupandosi, lo compiaceva ancor di più dei preziosi servizi della danzatrice stessa.
A Marada non venne data notizia che i Labaya erano già ospiti della sua famiglia su Lorelie, anzi gli impianti di ricezione audio e video dell'Hassid tacquero del tutto perfino dopo che ebbe fatto rallentare l'astronave nell'orbita di Alexandria. Quell'accoglienza gelida non lo sorprese, e tuttavia non gli occorreva molto per immaginare che i Labaya erano lì, e che avrebbe dovuto far ricorso a tutte le sue capacità per affrontare sia loro che lo stesso Parma Alexander Kerrion. Aveva dodici ore di ritardo sull'appuntamento impostogli da suo padre, conseguenza della sua sosta più prolungata del previsto alla Casa Popolare di Orrefors, e questo avrebbe ancora peggiorato la sua situazione. Sapeva che avrebbe dovuto pagare per ciò che aveva fatto, pagare per aver trasgredito agli ordini di suo padre, pagare per le due fredde salme che riportava a casa, e che la sua sorte sarebbe dipesa dalle imprevedibili manovre di Parma Alexander Kerrion e di Selim Labaya. Lo splendore di Lorelie lo lasciò del tutto indifferente, e non solo perché era oppresso dai suoi pensieri. Conosceva bene gli intrighi e le passioni che s'intrecciavano dietro l'ostentazione di quella ricchezza, come il marcio di un frutto bacato sotto la lucida e ingannevole superficie della buccia. Quando Shebat poté vedere Lorelie sullo schermo, i suoi gridolini di meraviglia riuscirono a fargli dimenticare per un attimo le preoccupazioni. Ma il suo sorriso indulgente durò poco, perché già intuiva che, con l'iniziativa di condurre con sé la fanciulla, aveva complicato maggiormente una situazione pericolosa. Molte cose sarebbero cambiate nella sua vita, e non riusciva ad immaginare in che modo. Nella più rosea delle ipotesi si sarebbe visto mettere al posto di suo fratello maggiore, ma le macchinazioni del commercio e dell'alta finanza non gli sembravano un destino migliore della morte stessa. Nella peggiore, era già rassegnato a rinunciare senza proteste alla cittadinanza, e se gli fosse stato imposto avrebbe accettato anche la sterilizzazione. Le leggi della Confederazione non prevedevano la condanna a morte, per chi era ritenuto responsabile dell'estinzione di vite umane. Ma esser privato della cittadinanza e sterilizzato era una vera e propria morte civile, di fronte alla quale molti sceglievano il suicidio. E tuttavia il suicidio gettava tale vergogna sui membri di una Famiglia ricca e conosciuta, che commetterlo era di per sé un delitto imperdonabile. Niente di simile era mai accaduto ai Kerrion, fin dai tempi del loro primo antenato Jester. A denti stretti Marada distolse i pensieri da quanto avrebbe potuto acca-
dere nelle imprevedibili ore che lo attendevano, e si dedicò alla manovra dell'astronave che fece scendere pian piano sullo scalo di Lorelie. Fu molto più difficile di quanto non lo fosse mai stato, perché non ricevette alcuna assistenza tecnica da terra, quasi che il personale della piattaforma fosse in sciopero. Per fortuna gli impianti antigravità di Lorelie, come quelli per la gravità artificiale, erano così perfetti che l'Hassid poté sintonizzarsi con essi senza scosse riuscendo infine a posarsi nello scalo. Una volta che Marada ebbe dall'astronave la conferma dell'avvenuto atterraggio, interruppe il contatto mentale col cervello di bordo e si rilassò, sospirando. Forse, rifletté, sarebbe riuscito in qualche modo a tenere per sé almeno l'astronave, a cui era affezionato. Si volse a osservare la fanciulla bruna seduta in plancia e cercò di pensare a qualche stratagemma per proteggerla: non desiderava che le conseguenze dell'ira di Parma travolgessero anche lei, ipotesi che ora gli sembrava abbastanza probabile. Ma che fare? Adesso che era tempo di scendere, trovava difficile perfino staccarsi del tutto dalla mente artificiale dell'Hassid, per spegnerla e riconsegnarla al limbo dell'inattività. Nell'astronave i soli rumori rimasero quelli degli impianti automatici collegati all'esterno, che prima di dare ai passeggeri il permesso d'uscire controllavano l'ambiente circostante. Come l'astronave, Marada si sentiva semispento, quasi che le sole funzioni vitali in lui restassero il battito cardiaco, il respiro e la salivazione. Poi una serie di dolci note musicali segnalò che si potevano aprire i portelli, e di nuovo Shebat ansimò d'ammirazione alla vista di Lorelie, aspirando l'aria fragrante che le accarezzava le guance mentre scendevano per la scaletta. Gli impianti d'atterraggio erano completamente deserti, e neppure un tecnico si fece avanti per prendere in consegna l'astronave. Di pessimo umore Marada commentò l'assenza del personale con un borbottio indecifrabile, aggrottando le sopracciglia. Shebat prese nota della sua preoccupazione, ma non se ne rattristò troppo. Aveva messo sull'Arbitro l'Incantesimo delle Dodici Trecce, e inoltre dentro di sé stava pregando che nulla accadesse di male all'uomo che l'aveva tolta dall'abisso dell'ignoranza per spalancare dinnanzi a lei le meraviglie di quel mondo di sogno. Capitolo 3
Parma Alexander Kerrion aveva avuto sette figli, e gli altri sei messi insieme non gli avevano dato tante preoccupazioni quanto quello che ora osservava avvicinarsi dall'alto della torre residenziale. Arrivava a piedi dal piccolo astroporto, senza alcuna fretta, affiancato da una ragazzina vestita coi colori di Kerrion. E indubbiamente anche in compagnia della propria paura: Marada doveva aver valutato la situazione, e immaginava ciò che lo attendeva. Ciò malgrado, da come indicava i particolari del paesaggio alla sua compagna, i suoi modi apparivano tranquilli. Nell'intimità del suo bagno - la sola intimità che vi fosse su Lorelie in quei giorni - il Console Generale appoggiò i gomiti sulle ginocchia e stando seduto continuò a guardare la coppia in arrivo. Il vecchio gentiluomo non poteva contare i capelli bianchi che aveva sulla testa - ormai quasi tutti lo erano - ma se glielo avessero domandato avrebbe giurato sulla sua anima che Marada era responsabile dell'incanutimento precoce di una buona metà di essi. Venticinque anni prima era stato partorito da Persephone, uccidendo la donna col solo atto di venire alla luce, e i capelli di Parma avevano cominciato a mostrare il bianco fin da allora. Mille volte aveva maledetto l'impulso di passione che l'aveva ispirato a volere un figlio da lei, e ogni volta che vi ripensava avrebbe desiderato poter tornare indietro nel tempo per comportarsi diversamente. Ma neppure Parma aveva influenza alla corte del Fato, e non poteva che accettare il dolore di quel ricordo. Le enormi risorse scientifiche di cui un Kerrion disponeva erano state inutili davanti alla morte: una volta partito per quella via, nessuno poteva essere richiamato indietro. C'era invero la possibilità di clonare una persona cara ricostruendone il corpo da una sola cellula, facendo così nascere in una placenta artificiale un neonato destinato a divenire identico all'individuo da cui aveva preso vita. Ma Parma aveva rifiutato l'idea di allevare una seconda Persephone come una figlia, perché tale sarebbe stata, e con una diversa personalità, con una diversa anima, destinata poi ad andare in sposa a qualche rampollo di una Casa Consolare rivale. La sola ipotesi gli era parsa oscena. L'unica immortalità di cui Persephone godeva era quella riposta nei geni e nei cromosomi di Marada, destinati a portare parte di lei stessa nella sua discendenza. Parma sospirò dolorosamente. Nulla di ciò che aveva immaginato era peggiore delle conseguenze che ora la legge gli metteva davanti: pur non amando Marada, il pensiero che potesse subire la sterilizzazione troncando così l'eredità genetica che era di Persephone lo faceva ringhiare. Doveva impedirlo a ogni costo. Ciò che provava per Marada non importava - pote-
va nascondere a se stesso il fatto che lo odiava? - dopotutto era il figlio di lei. Ma per quale sventura ciò che in Persephone era stato infinitamente piacevole e positivo, in Marada s'era trasformato in qualcosa di spiacevole e distruttivo? E tuttavia, si ripromise, Marada non sarebbe stato privato della cittadinanza e sterilizzato, come la sua matrigna Ashera aveva suggerito, come Selim Labaya aveva esplicitamente chiesto, e come la legge sembrava pretendere. Parma non poteva impedirsi di sognare un mondo senza di lui, senza i guai e le continue preoccupazioni che per venticinque anni avevano segnato la sua vita, ma l'alternativa era spiacevole più della necessità di doverlo proteggere. Un educato ma insistente bussare alla porta lo fece sbuffare irritato: neanche al gabinetto un uomo poteva godere un momento di sacrosanta tranquillità? Il bussare si ripeté più forte, e una voce maschile mormorò rispettosamente la richiesta di rito. La voce era quella di Chaeron, il suo terzogenito. Fin dall'infanzia Chaeron aveva cercato di compensare le ombre che Marada gettava sull'umore del padre con le luci della sua assai più socievole e diplomatica personalità. E adesso faceva di tutto per lasciar intuire che, anche in quella circostanza, lui era disponibile per portare in salvo la dignità della famiglia. Con un borbottio Parma uscì dal gabinetto e andò ad aprire la porta per farlo entrare. Chaeron Ptolemy Kerrion, capelli ramati, occhi verdi, bocca larga, si presentò a lui con un caldo sorriso. Sorrideva continuamente, per principio o per calcolo, esibendo agli altri una maschera di gaiezza, e fatuo buonumore. Primo figlio della terza e ultima moglie di Parma, l'ancora bellissima Ashera, si era sempre comportato come se avesse previsto che prima o poi le cose sarebbero giunte a quel punto, aspettando il suo momento. Bello e ricco, la sua filosofia era quella del giovane a cui tutto è dovuto: potere, privilegi, e infine anche il diritto di primogenitura che solo il Caso inizialmente gli aveva tolto. Sentiva che il prestigio di un Kerrion era suo per nascita e lo accettava con grazioso stile, mai ponendosi domande sulla sua fortuna o sul suo diritto all'autorità sui dipendenti del casato. Sua madre Ashera aveva detto una volta che Chaeron era uscito dai suoi lobi già sorridendo blandamente, e che da quel giorno non aveva ancora smesso di ridacchiare con tranquillizzante cortesia. In quel giorno particolare, a conferma di ciò, sembrava appunto che la sua prima preoccupazione fosse quella di ragliare doverosamente a destra e a sinistra, spandendo attorno il
suo umore mielato, sempre attento che sul suo sorriso non vi fossero ombre o incrinature. «Marada e la sua amichetta sono atterrati sani e salvi. Stanno arrivando. E come avete ordinato, nessuno si è recato ad accoglierli. Non è stato lasciato allo scalo neppure un veicolo che potessero usare», disse Chaeron, appena la porta si fu richiusa alle sue spalle. «E i nostri ospiti? Stanno ancora eccitandosi coi loro ipocriti dispiaceri e i loro intrighi? Oppure Selim ha finalmente deciso di mettere le carte in tavola e venire al concreto?» Nello sguardo di Chaeron balenò un lampo d'incredulo stupore. «Signore? Allora voi... stavate ascoltando». «Bah, ragazzo! Non è più il momento di nascondere la tua intelligenza, di qualunque genere essa sia». Parma si accostò a un finestra. Marada e la fanciulla stavano salendo la lunga scalinata di zaffiro sintetico che portava all'altissima torre dorata. «Vieni qui, Chaeron. Dai un'occhiata alla nuova Kerrion». Per un attimo accadde l'impossibile: il fatuo sorriso di Chaeron svanì, e sul suo attraente volto apparve una smorfia dura e pensierosa. Parma sbuffò seccato. Il giovanotto non avrebbe potuto essergli di molto aiuto, se si fosse schierato dalla parte di sua madre. Ma subito la maschera di Chaeron tornò al suo posto. «Signore, voi state dicendo che intendete permettere a Marada di adottare quella ragazzina?» «Rifletti meglio, figlio di Ashera. Sono sicuro che un po' dell'astuzia della tua affascinante madre si è trasmessa anche sotto la tua bella fronte liscia. Cosa che non mi dispiace affatto, credimi». Il giovanotto lo fissò con intensità. «E così volete accogliere la ragazza come membro della nostra Famiglia, in modo da poter salvare Marada dalle zanne di quel branco di lupi». La risata di Parma risuonò nella stanza. «Bravo. Molto bene. Vedi che sei capace di parlare chiaro, quando vuoi. Selim Labaya è un lupo che vuole la sua preda. Lui farà quel che deve fare, e io altrettanto». Tornò serio, e con aria misteriosa aggiunse: «So io come badare ai miei affari. E comunque, la ragazza sarebbe un peso per Marada, le cui tribolazioni sono appena all'inizio». «E se ci sarà una votazione riguardo a lei, suppongo che voi desideriate far conto sul mio voto». «Desiderarlo? Lo esigo. E così anche per quello di tua madre e dei tuoi
fratelli. Dovrà essere una votazione unanime. Chiaro?» Se Marada fosse stato autorizzato a tenere la ragazza sotto la sua tutela, Selim Labaya avrebbe dichiarato inaccettabile il giovanotto e richiesto per sé un altro membro della Famiglia Kerrion, in sua vece. Ciò avrebbe mandato all'aria il particolare compromesso che Parma aveva in mente, ed egli non intendeva correre questo rischio. In breve, essendo stato Marada Seleucus Kerrion a causare quello stato di cose danneggiando i Labaya e i loro affari, sarebbe toccato a lui pagare personalmente. Marada sarebbe stato il regalo di Parma ai Labaya, e che Selim facesse di lui ciò che desiderava, ovviamente entro i limiti stabiliti dal compromesso. E dal punto di vista di Parma, nessuna guerra o pestilenza o tracollo economico potevano esser paragonati a ciò che Marada avrebbe combinato, quando a subire i danni della sua presenza sarebbe stata la Casa Consolare di Labaya. Il vecchio gentiluomo spiegò a Chaeron tutto ciò con parole così esplicite che questi non seppe reprimere un sottile fischio di ammirazione, e nel vedere la sua impazienza di mettersi in azione Parma sorrise soddisfatto. Prima di rimandarlo fra i loro ospiti gli batté una mano su una spalla. «Muoviti, ragazzo mio. Quando toccherà a me intervenire, voglio trovare il vecchio Labaya pronto a irretirmi nella sua bella trappola. E io ci cadrò da povero innocente senza neanche un singhiozzo di protesta: dopotutto, cos'altro può fare un buon padre per il suo amato e sventurato figlio?» E sogghignò furbescamente. «Confronto a voi io sono un dilettante, padre. Ma cercherò di fare del mio meglio. E per la ragazza...» Sulla soglia Chaeron si fermò, già tutto preso nella sua parte di futuro Console, volgendo un candido sguardo al padre. «Circa la sua adozione, visto che Marada è escluso, ritengo mio dovere sostituirlo anche in questo prendendola come mia legittima figlia adottiva. E d'altronde, potrei fare di meno per mio fratello, visto ciò che voi farete per lui... e per me?» Attese il cenno di assenso di suo padre, poi uscì e richiuse silenziosamente la porta. Stavolta non dovette sforzarsi per dare al suo sguardo una luce di ottimismo. L'offerta di prendere sotto la sua tutela la piccola barbara gli era venuta spontanea, nello stesso momento in cui Parma gli aveva praticamente conferito il diritto al posto vacante di primogenito. Dare con una mano e prendere con l'altra, pensò, era quanto gli pareva che Parma si fosse aspettato da lui, anche se il vecchio non era stato troppo esplicito e gli aveva fornito una certa quantità di sottintesi. Scendendo lo scalone cercò di far luce in ciò che il padre aveva detto
chiaramente e in ciò che aveva soltanto lasciato capire, ma al centro di tutto restava il fatto che Marada era finalmente fuori gioco. Raddrizzò le spalle con aria determinata e lasciò da parte ogni incertezza, dirigendosi verso la grande sala dove i quattro uomini e le due donne di Labaya venivano in quel momento intrattenuti. Questo era il giorno che per tanto tempo aveva agognato, mai sperandoci davvero. E l'opportunità veniva nel modo che egli preferiva: semplice e con regole chiare. Eseguito il suo compito, avrebbe realizzato ciò che sognava sin da bambino, quando aveva capito che fra lui ed i privilegi che ambiva stavano altri due fratelli, figli di due diverse madri. I vari progetti di Ashera, e gli intrighi di cui anch'egli era stato artefice con la madre sin dai giorni in cui aveva cominciato a godere delle sue confidenze, non erano serviti a molto. Per fortuna l'irresponsabilità di Marada finiva col dare i suoi frutti, rifletté ancora. Ashera stava parlando sottovoce col Console Generale di Labaya, presso una delle grandi finestre. La sua figura snella e sensuale non poteva certo definirsi materna in nessun modo, sebbene avesse dato a Parma cinque figli maschi e una femmina, e come sempre gli sguardi degli uomini presenti non stavano molto senza posarlesi addosso. Ma al solito, negli occhi di quella donna il cui profilo avrebbe potuto scatenare una faida, c'era qualcosa di freddo che li teneva a distanza. Era vestita nel tradizionale azzurro di Lorelie, dove i Kerrion non avevano bisogno di indossare i tenebrosi abiti neri con lo stemma scarlatto che usavano nei contatti con i dipendenti o gli estranei, e portava i gioielli di famiglia. La sua avvenenza era però tale che su di lei le gemme venivano ridotte ad accessori inutili, e nei suoi lineamenti s'intuivano secoli di incroci genetici dove i caratteri razziali erano stati accoppiati con la stessa cura di quelli finanziari. Chaeron le si avvicinò con andatura elegante e le passò un braccio intorno alla vita. «Madre», sussurrò sfiorandole una guancia con un bacio. «Il mio fratellastro sta per entrare, e credo che tocchi a te accoglierlo. Vuoi riceverlo qui?» I loro occhi verdi si scambiarono un muto messaggio, e quelli di Ashera gli diedero una risposta affermativa. Come sempre il reciproco legame quasi telepatico mise un po' a disagio Chaeron, ma scacciò quella sensazione. Selim Labaya si era fatto più vicino. «Dov'è Parma? Ancora a piangere la perdita di suo figlio? Sono ore che si sta battendo il petto, ormai», chiese l'uomo, gratificando Chaeron di u-
n'occhiata irritata e sprezzante. La voce rasposa di Labaya e il suo sguardo non offesero Chaeron, che anzi esultò dentro di sé. Chiedendo di vedere Parma l'uomo si rivelava impaziente di metter fine al gioco fatto di accuse, di lamenti ipocriti e di retorica che aveva condotto fino a quel momento, e stanco delle sue stesse manovre preliminari. «Signore, è per suo incarico che vorrei portare alla vostra cortese attenzione una supplica», tubò Chaeron. «Mio padre è affranto dal dolore, e si scusa del suo isolamento. Dopo la morte di un figlio, per lui è terribile trovarsi di fronte alla possibile perdita di un altro. Considerate, signor Console Generale, quello che voi stesso provereste al suo posto... pensate, un primogenito! E purtroppo non resto che io, per porgervi una richiesta a nome del nostro casato. Mio fratello sta per entrare, ed io vorrei supplicarvi di...». «Tu mi supplichi? Originale, per non dire divertente. Ragazzo, se vieni a supplicarmi devo proprio credere che non sia stato quel vecchio sputafuoco a mandarti. Avanti, supplica pure se ne hai voglia, anche se servirà a poco». Le labbra di Chaeron non lasciarono fuggire il sorriso. Le aveva allenate bene. Ma dietro di esse i suoi denti erano stretti. Prima di parlare volse gli occhi a fissare una delle due donne che il vecchio Labaya s'era portato dietro, insieme agli altri quattro membri della sua famiglia. La ragazza sedeva su un grande divano color blu e ruggine, e indossava un vestito dorato che le giungeva alle caviglie. A suo avviso non era molto attraente, e aveva le gambe troppo corte. Distolse lo sguardo da lei e disse: «Onorato Signore, ogni grazia che voi potrete concedere alla nostra casa, in questo momento di dolore e di lutto reciproco, sarà grandemente apprezzata. Dovranno ancora soffrire entrambe le nostre famiglie? E la più importante alleanza commerciale che le stelle abbiano mai visto, dovrà forse non realizzarsi mai per colpa di un maligno gioco del Fato?» «Il Fato!» sbottò Selim Labaya. «La colpa non è stata del Fato, ma di un uomo. E a lui dev'essere riservata la pena che la legge prescrive, per aver causato la morte di mia figlia. Io...» «Signore, scusate se vi interrompo ma il tempo stringe. Se vuoi credete possibile pretendere di meno di ciò che vi è dovuto, in questa faccenda, la nostra Casa ve ne sarà sempre riconoscente». Nel dirlo, Chaeron lasciò che un'accorata sofferenza fluisse dai suoi oc-
chi in quelli del Console Generale di Labaya. Quella era una partita pericolosa, o che quantomeno si prospettava finanziariamente costosissima, e lui la stava giocando contro un esperto. Ma le due ragazze non sarebbero state presenti, al seguito del loro vecchio capofamiglia, se non ci fosse stata la possibilità di un accordo. Qual era il nome di quella seduta sul divano? Madel, gli sembrava di ricordare. No, Labaya stava giusto divertendosi a recitare, tanto più che la sua recita costringeva l'intera Kerrion a camminare in punta di piedi nella sua stessa fortezza, ossequiente e servile anche verso l'ultimo di loro. Se questa era la vera via sotterranea lungo cui venivano combinati gli affari, c'era di che restarne amareggiato. La consapevolezza che anche lui stava recitando lo irritò. Ma non aveva altra scelta che comportarsi nel modo suggerito da Parma, perciò continuò: «Signore, se voi potete concepire l'idea che mio fratello Marada e una delle vostre figlie desiderino, beninteso di comune accordo e in vista di un felice avvenire, tentare di unirsi per dar vita a una discendenza che ci onorerebbe, posso assicurarvi che la mia famiglia accetterebbe di buon grado la scelta che voi stesso vorreste proporre». «Ah! Voi accettereste, eh?» Il tono di Selim Labaya disse che spregiava questo modo contorto di arrivare al dunque. Ma la risposta fu quella che Chaeron sperava: «Bene, ci dovrò pensare. Adesso tutte queste chiacchiere mi hanno seccato la gola. Vai a prendermi da bere ragazzo. E non quello sciacquabudella idroponico che passa per liquore, di qualunque marca sia. Ho sentito dire che tuo padre ha una riserva di grappa degna di un monarca». Come un cameriere, Chaeron ebbe un rispettoso cenno d'assenso col capo e si mosse verso la porta. Sulla soglia si volse un attimo per il tocco finale: la mano che si gratta un sopracciglio, lo sguardo incerto del giovane che si sente inferiore alle circostanze. E si assicurò che Labaya avesse preso visione della sua triste remissività. Appena fuori ridacchiò soddisfatto, e si affrettò a tornare da suo padre prima che Marada arrivasse nel salone. A Shebat, Lorelie aveva fatto l'impressione di un mondo di leggenda diventato realtà solida. Le torri di zaffiro e metallo scintillante che sovrastavano i prati erano più sottili ed aeree di quelle che la sua fantasia s'era immaginata in una favola, e la affascinavano. Tutto ciò che vedeva bastava a toglierle il fiato per qualche attimo. L'assenza di qualcuno a riceverli aveva contrariato Marada, ma ella non era riuscita a far caso al suo stato d'animo. Anzi era stata lieta di quella lunga passeggiata.
Alla base delle scalinate che circondavano la base dell'ultima e più grande torre si volse a osservare il giovanotto, e solo allora l'espressione di lui riuscì a preoccuparla davvero. Le porte bronzee alte tre volte un uomo s'erano aperte da sole, ma il sorriso con cui egli la incoraggiò a entrare fu pallido come quello di un fantasma. Per Shebat fu finalmente chiaro che ad affliggerlo in quel modo doveva esserci un motivo molto serio. La fanciulla si arrestò allarmata, e non si sarebbe più mossa da lì se Marada non l'avesse presa per un braccio. Appena ebbero oltrepassato la soglia i battenti si chiusero con un sussurro. Davanti a lei c'era un lungo corridoio arredato lussuosamente, dove predominavano tutte le sfumature di azzurro. Da pareti così elaborate da potersi considerare di per se stesse opere d'arte pendevano arazzi, dai toni pastellosi, e numerose porte davano accesso ai locali dove il suo sguardo riusciva a captare solo le vaghe forme esteriori di uno sfarzo esibito con discrezione. Avanzando in quell'ambiente Shebat era colpita dagli oggetti d'arte che sfruttavano tecniche antigravitazionali, fra i quali le pareva che altri più arcaici stonassero, così come all'esterno le era sembrata fuori posto la presenza di alcune collinette erbose. Ma sarebbe occorso molto tempo prima che capisse come in realtà fossero le strade di zaffiro sintetico a dar risalto alla preziosità dell'erba, così come alcune sculture antigravitazionali avevano la semplice funzione di cornice intorno al valore artistico di un arazzo. Il suo modo di percepire Lorelie era dunque incolto e primitivo, e tuttavia la sua mente assorbiva ogni sensazione elaborandola e rielaborandola con gran rapidità, giungendo infine a un contatto estetico abbastanza sofisticato con quel mondo evolutissimo. Più avanti, un battente scivolò di lato rivelando un ascensore, e nell'intimità della cabina Marada fu costretto a notare il turbamento di lei. «Qui non ti accadrà nulla di male», disse, ma in tono così poco convinto che parve tirare in ballo l'ipotesi opposta. «Sei una Kerrion nella Casa dei Kerrion, perciò stai tranquilla. Il tuo posto sarà fra noi». «Non ne sembrate molto sicuro», mormorò lei. «Basterà aver fiducia l'uno nell'altra». La porta dell'ascensore si aprì dall'inizio di una vasta galleria semicircolare, dove la luce fiottava azzurra da quelle che Shebat paragonò a finestre spalancate sul fondo del mare. Sulla destra una grande scalinata scendeva in un salone dal soffitto altissimo, al di là del quale una serie di scalini si allungava fino al livello di un'altra galleria. Nella grande sala c'erano oltre cinquanta individui dei due sessi che, riu-
niti in numerosi capannelli, chiacchieravano con indifferente compostezza. Alcuni sostavano presso le finestre, altri sedevano sui divani sparsi qua e là, ed a Shebat apparvero tutti elegantissimi. Da qualche parte un servomeccanismo emise una nota cristallina, il cui significato fu per lei incomprensibile. Gli apparati elettronici erano dissimulati con cura, quasi che la loro vista rischiasse di offendere il buon gusto. Un rumore di passi la fece voltare, e vide avvicinarsi lungo la galleria un giovanotto dai capelli ramati, vestito anch'egli di azzurro come buona parte dei presenti e con un corto mantello svolazzante. Lo sconosciuto salutò Marada cortesemente, chiamandolo per nome e dandogli del tu. Marada aveva accolto la sua comparsa con un sospiro poco allegro. «Anch'io sono lieto di rivederti, fratello. Spero che non ti abbia pesato troppo fare gli onori di casa in vece mia». Shebat notò che i due non s'erano abbracciati né stretti la mano, e che anzi mantenevano una certa distanza. Lo sguardo del fratello di Marada la esaminò con incuriosita attenzione, ed ella erse le spalle cercando di rispondere timidamente al suo sorriso. Senza smettere di fissare lei l'uomo disse: «Parma vuole vederti. Hai dodici ore di ritardo. Cos'è successo!» «Lasciamo perdere», borbottò il giovanotto. Poi li presentò: «Chaeron, mio fratellastro. E questa è Shebat, la mia...». «Non aver fretta di determinare i rapporti di parentela», lo fermò l'altro. «Stavolta sei andato a cacciarti in un ginepraio da cui non uscirai fuori senza graffiarti di brutto. Dove sono le salme di nostro fratello e della non meno fredda figlia del nostro ospite? Il dolore generale sta lasciando il posto all'impazienza». «Sull'Hassid. Le avrei fatte sbarcare, se il personale fosse stato al suo posto. Di chi è stata la brillante idea di mandar via i tecnici proprio mentre stavo atterrando? Cosa sarebbe accaduto se avessi avuto dei problemi?» «In tal caso, ti saresti risparmiato i problemi successivi all'atterraggio», sorrise Chaeron. Marada spinse lo sguardo nel salone. «Labaya è qui?» «Sì, e con i soli membri della sua famiglia che gli interessasse portarsi dietro». «E nostro padre?» «Parma sta arrotandosi le zanne per il pasto. Nel menu tu figuri come la portata principale, e lei...» Accennò a Shebat. «Appena il dessert». «Mi sembra che questo ti diverta, Chaeron. Anche se per vederti sorride-
re sinceramente abbiamo dovuto aspettare un funerale». «Oh, anche tu ti divertirai molto fra poco. E lo stesso la nostra giovane amica... sempre che ne sappia abbastanza da capire cosa sta accadendo». Diede alla fanciulla un amichevole buffetto su una guancia. «Sai parlare, caruccia? Coraggio, prova a dire qualcosa». Shebat si sforzò di non farsi indietro, e gli mormorò una rispettosa frase di saluto insegnatale da Marada. L'altro le batté una mano su una spalla, volgendosi ancora al fratellastro. «Simpatica», disse. Il suo tono si velò d'ironia. «Ma bisogna notare che non hai pagato un prezzo dappoco per lei. Allora, vieni fra i nostri ospiti o desideri che sospirino la tua presenza?» Marada ebbe un sorriso freddo. «Dopo. Andiamo, Shebat. Adesso voglio presentarti a mio padre». Chaeron gli si parò davanti. «Non è saggio. Tutti stanno aspettando te». Il giovanotto lo fece scostare. «Lascia che aspettino». Shebat si trovò a camminare in fretta a fianco dell'Arbitro che procedeva a passi decisi. Per la prima volta ebbe timore che la sua scarsa conoscenza della lingua potesse farle fare brutta figura, o che ciò avesse delle conseguenze spiacevoli. In quanto a Marada, come poteva proteggerlo il suo misero Incantesimo delle Dodici Trecce, contro gente che poteva costruire mondi artificiali ruotanti nello spazio? Chaeron Kerrion, che li aveva scortati in silenzio, li accompagnò fino in un'anticamera e poi li lasciò lì, dicendo che doveva occuparsi di organizzare la cerimonia funebre. Marada andò avanti e indietro nervosamente, infine si gettò a sedere su un divano e le indicò di fare altrettanto. Ma Shebat era ancor più tesa di lui. Si appoggiò con le spalle alla parete opposta del locale e restò a fissarlo, mentre si mangiava le unghie, finché lo scatto di una porta che si apriva la fece trasalire. L'uomo che comparve sulla soglia era molto robusto, alto un palmo più di Marada, e solo i capelli bianchi sulla testa leonina ne rivelavano l'età. Abbracciò il figlio con modi da orso, sorridendo appena, e quindi lo fece scostare bruscamente da sé. «Presentami alla tua compagna», esordì burberamente, ma rivolgendo alla ragazza un sorriso più cordiale. «Coraggio, ragazzina, vieni un po' qua e fatti vedere». Mentre Marada la presentava, Shebat si avvicinò, timida ed esitante, e faticò per non deglutire saliva allorché le mani larghe come padelle del
vecchio gentiluomo la abbrancarono per le spalle. Parma la fissò dall'alto in basso con qualche grugnito e occhi accesi di curiosità. «Sì, puoi andare. Dovrai andar bene per forza», brontolò poi. Annuì fra sé un paio di volte e la lasciò, tornando a volgersi al figlio. «Avanti, mettiti seduto e raccontami cos'è successo, ma senza addolcirmi la pillola. Tu sei un Arbitro, dunque fammi un resoconto da Arbitro. E vediamo se il tuo punto di vista legale può aiutarmi a levarti dalla pentola di Labaya». «Se siamo a questo punto, con la Famiglia di Iltani già qui, a cosa può servirti ciò che potrei dire io? Tanto vale parlare d'altro, e poi non voglio rattristarti coi particolari. Dopo la cerimonia potrai riunire il tuo tribunale, votare quel che hai già deciso di far votare, e mettere in atto quel che hai in mente. Io non intendo ostacolarti in nulla». «Così, tu credi di aver già previsto tutto quello che farò? E sei pronto a calarti le braghe e farti mettere in castigo, eh? Certo, Chaeron ha appena terminato di fare il giro della Famiglia per comunicare che esigo un voto affermativo... anche se nessuno sa riguardo a cosa dovrà essere affermativo. Comunque il tuo modo di fare non mi piace. Non ti senti per nulla addolorato, o colpevole di aver portato a morte due esseri umani?» Marada scosse le spalle, con espressione così rigida e infelice che Shebat non seppe reprimere un gemito. I due uomini la fissarono con facce inespressive, poi tornarono a studiarsi l'un l'altro. «Senza dubbio voi sapete già cosa penso di fare con la ragazza, padre». «Ho ricevuto il tuo messaggio. Conoscendoti, la notizia che volevi adottare una ragazzina terrestre, tu che sei mio figlio e un rampollo dei Kerrion, mi è parsa una normale manifestazione della tua pazzia. Non credere di avermi sorpreso». «Mi ha salvato la vita», disse Marada, rigido. «E fra i miei difetti non c'è quello di ignorare un impegno d'onore». «Onore o no, non credo che avrai la possibilità di adottarla». «Che significa? Che state progettando?» chiese lui stancamente. «Farò uno scambio con te». «E cosa avrei io, che valga la pena d'essere scambiato?» «Lo saprai», rispose Parma, secco. Seduta sul divano, Shebat ascoltava con aria quanto mai infelice. Vide Marada sfiorarsi distrattamente uno degli orecchini con le dita, teso e pensieroso, e comprese cosa temeva. Il giovanotto le aveva spiegato che quegli orecchini erano un distintivo portato dai piloti di astronavi, e che per lui
era una gioia pilotare l'Hassid. Il tono di Parma s'indurì ancora. «Una volta ho fatto a tua madre Persephone una promessa. Perché io possa mantenerla, è necessario che tu non perda la cittadinanza della Confederazione». «Ma voi e io sappiamo che questo è impossibile». «Improbabile forse, non impossibile. Tanto per cominciare, lascerai la ragazzina sotto la mia tutela». «No!», ansimò Shebat. Ma l'occhiata che le diede il giovanotto le fece abbassare la testa con un brivido di sconforto. «Devi farlo», continuò il vecchio. «A questo punto non hai altra scelta, se vuoi garantirle un minimo di sicurezza». «Lo farò solo a patto di avere la vostra parola che agirete sempre per il suo bene», sussurrò Marada. «Tu non sei più in grado di darle niente. Se la ragazza fosse già stata adottata da te, voi due rimarreste cittadini della Confederazione per forse... be', non più di quattro o cinque ore. A Labaya non occorrerebbe di più per costituirsi parte civile e ottenere intanto un mandato di arresto. Dopo di che la legge farebbe il suo corso. Non stare a discutere con me, maledizione!» Al suo tono imperativo Marada si morse le labbra. Poi annuì e disse: «Va bene, accetto. Che sia registrato». «Sia fatto», stabilì Parma. Da quella frase Shebat intuì che nella stanza c'era una mente artificiale simile a quella dell'Hassid, in ascolto e pronta a prender nota di ogni parola detta. «Sia fatto», ripeté Marada con voce piatta. «E ora, volete spiegarmi quale alternativa presenterete alla Famiglia Labaya?» «Non hai ancora detto una sola parola di dolore per la morte di tuo fratello e della tua fidanzata. Ti suggerisco di pensare a qualche frase adeguata alle circostanze, perché fra poco ne avrai bisogno. E approfittane anche per domandarti come e in quali vesti mi propongo di accogliere la tua pupilla nella nostra famiglia. Per ora ti ho già dedicato troppo tempo. Fra tre ore ci sarà la cerimonia funebre per mio figlio e per Iltani. Fino a quel momento tu non uscirai dal tuo appartamento e non scambierai una parola sola con nessuno, specialmente con tuo fratello Chaeron». Detto ciò Parma Alexander Kerrion si avviò alla porta. Prima di uscire si volse. «In quanto alla tua cara madre Ashera, sarebbe toccato a lei accoglierti e preparare la tua ragazzina per la cerimonia. Evita di parlare anche con lei, almeno finché non avrò capito esattamente cosa sta cercando di
ottenere con le sue inevitabili macchinazioni». Sotto il soffitto a cupola della silenziosa e austera cappella di famiglia, la luce di cento candele dorate si spandeva sul lucido pavimento a mosaico e sui drappi funebri. Il profumo dei fiori saturava l'aria. Al centro della navata c'erano i catafalchi che sostenevano le due lussuose e pesanti bare. Davanti ad esse presero a sfilare lentamente i sei membri della Famiglia Labaya, i cinquantaquattro Kerrion legati da parentela più o meno stretta col giovane defunto, e una ragazza che non era imparentata né con gli uni né con gli altri: tutti quanti con una piccola candela in mano. Shebat vide che delle due casse una sola era aperta: quella del fratello di Marada, il cui cereo viso non recava spiacevoli alterazioni. Su quella di Iltani era stata invece posta una maschera d'oro, che ne riproduceva alla perfezione il volto altero e gelidamente bello. Fra i Labaya vi furono sussurri di cordoglio e lacrime. L'unica a restare impassibile fu una ragazza elegante ma piuttosto goffa di forme e dalle gambe corte, di nome Madei, i cui occhi espressero anzi una certa noia. Molti dei Kerrion piansero senza vergogna, alcuni a denti stretti, altri scuotendo il capo e con espressione incredula. Ashera esibì un volto pallido ornato da due lacrime scintillanti come gioielli, e Chaeron singhiozzò con la consumata abilità di un attore per cui riso e pianto sono solo parte del copione. Marada sostò così a lungo di fronte alla bara di Iltani che suo padre dovette sussurrargli di muoversi. Parma Alexander Kerrion stava immobile accanto alla cassa che conteneva la salma del figlio, nell'identica posizione di Selim Labaya ritto a fianco dell'altra, e i due patriarchi annuivano gravemente in risposta a ciascuno di quelli che passavano loro davanti mormorando le dovute espressioni di cordoglio. Ma per Shebat la vicinanza dei due cadaveri, invece che di urne piene di ceneri come usava nella sua terra, era una fonte di disagio quasi insopportabile. Sfilando dinnanzi alle bare s'era sentita rabbrividire di timore superstizioso, e anche dopo che si fu allineata con gli altri lungo la parete opposta della cappella, qualcosa nell'atmosfera continuò a spaurirla. Lì non c'era nessun prete per scacciare i diavoli che stavano lottando per il possesso delle due anime, e secondo quanto le era stato insegnato questo le condannava a divenire diaboliche e infernali. Inoltre aveva l'impressione che molti dei presenti la collegassero in modo spiacevole alla morte dei due giovani, ritenendola non responsabile ma tuttavia parte delle circostanze che li
avevano travolti. Neppure la vicinanza di Marada servì a confortarla. Al termine della sfilata dei parenti Parma fece un lievissimo cenno col capo: nell'aria si sparse una musica d'organo che sembrava provenire da infinite lontananze, i due catafalchi si abbassarono lentamente entro due aperture rettangolari del pavimento e scomparvero pian piano alla vista. Poi i pannelli si richiusero sopra le bare, il pavimento tornò intatto, e sul mosaico i nomi dei due defunti scintillarono di fiamme violette come se un invisibile raggio di energia ve li incidesse in quello stesso momento. «Dalle stelle siamo venuti, alle stelle dobbiamo tornare», disse una voce incorporea mentre la musica sfumava. Shebat aveva la gola secca ed era scossa da tremiti. Con la mano destra appoggiata furtivamente al petto tracciava sul cuore linee frenetiche che balenavano appena di azzurro. Dalla bocca le uscivano in un sussurro inudibile le parole di uno scongiuro, senza il quale era certa che le mani dei due cadaveri sarebbero sbucate dal suolo per artigliarla alle caviglie, a trascinare anche lei nel mondo diabolico e sotterraneo dov'erano stati fatti scendere. I due Consoli Generali spensero le candele che avevano in mano, imitati subito da tutti gli altri, ma nessuno si mosse. La luce si fece più intensa, invisibili macchinari aspirarono via il profumo dei fiori e l'atmosfera funerea della cappella parve dileguarsi. Poi Selim Labaya parlò: «Due vite a noi care si sono spente. Che riposino in pace. Ma la loro morte è stata causata dalla negligenza di qualcun altro». «Se la falce ha colpito, in mio figlio non c'è colpa né vergogna», replicò Parma. Marada si fece avanti lentamente, e quando fu di fronte ai due uomini chinò il capo immobilizzandosi in quella posa come una statua. «Giustizia dev'essere fatta», dichiarò Labaya con voce cupa e tonante. «Una promessa di matrimonio è stata rotta da questa tragedia, ed io ho perduto un'amatissima figlia». «Giustizia dev'essere fatta», echeggiò Parma. «Ma anche la mia Casa lamenta un matrimonio non avvenuto e la morte di un figlio, amatissimo e primogenito». Fra i presenti vi furono sussurri e commenti, che parvero aleggiare come una brezza sotto il soffitto a volta. Fino a quel momento tutto aveva fatto parte del rituale previsto, ora sarebbe seguito ciò che le due Famiglie stavano davvero aspettando. Con gli occhi fissi a terra Marada parve schiac-
ciato dal carico che gli gravava sulle spalle. A voce alta Labaya impose: «Offrimi uno dei tuoi figli, libero da vincoli. Vita per vita. Altrimenti... sia reciso il legame di amicizia fra le nostre due Case!» «Offro a te questo figlio che sta dinanzi a noi. Ma tu offrimi una delle tue figlie, libera da vincoli. Altrimenti sia reciso il legame di amicizia fra le nostre due Case», replicò Parma nello stesso tono melodrammatico. Selim Labaya sbuffò. «Ci è stato detto che questo tuo figlio non è libero da vincoli, perché vuole adottare una ragazza». Parma sollevò un sopracciglio, rivolgendo all'interlocutore un sorrisetto. Poi fece un cenno col capo a Marada, che subito indietreggiò di quattro passi fermandosi nell'ombra. Parma tese un braccio in direzione di Shebat, e con un lieve quanto imperioso gesto della mano le ordinò di farsi avanti. Come priva di volontà e pallida in viso la fanciulla ubbidì, arrestandosi quando fu dov'era stato Marada qualche istante prima. Alcuni sussurri ruppero il silenzio, qualche sguardo si volse verso Ashera Kerrion e suo figlio Chaeron che stavano l'uno accanto all'altro. Shebat vide la madre afferrare un polso del figlio come per tenerlo calmo, e lui scuotere via la mano con un moto di stizza. La maschera di cordialità gli era scivolata via dal volto, lasciandolo rigido per la collera, ed i suoi occhi lampeggiavano furiosamente. Di quanto avvenne dopo la fanciulla ricordò solo la mano destra di Parma Alexander Kerrion che le si appoggiava sulla testa, mentre la voce dell'uomo intonava una formula che nessuno s'era aspettato di udire dalle sue labbra. Nessuno, salvo Chaeron, il quale aveva sognato per anni di udirla. La sola differenza era che ora, con sua enorme sorpresa e con sbalordimento di tutti gli altri, la sentiva pronunciare per qualcuno che non era lui stesso. «Io dichiaro formalmente di accogliere questa fanciulla in mia piena adozione, e al posto di Primogenita, nella Casa Consolare di Kerrion. Chi è a conoscenza di un motivo per cui ciò non possa avvenire, parli adesso o taccia per sempre». Parma attese qualche momento che fra gli spettatori si placassero i forti mormorii provocati da quelle frasi, poi ordinò una votazione a voce. Chaeron era come paralizzato. Era lui quello che avrebbe dovuto essere là a ricevere il tocco che lo avrebbe fatto salire al rango di Primogenito, e sebbene si fosse vagamente atteso qualcosa di poco chiaro dopo gli strani sottintesi e le promesse fatte solo di sguardi da parte del padre, ora capiva
d'essere stato raggirato. Un'occhiata di puro odio gli arroventò le pupille. Ma Parma aveva parlato. Il suo odio era impotente adesso, rifletté, meglio tenerlo per giorni migliori. Come in un incubo sentì le voci dei parenti pronunciarsi favorevolmente. Era stato lui ad assicurarsi la loro unanimità, prendendo ciascuno da parte e illustrandogli il desiderio del patriarca, lasciando intendere che quel parere sarebbe stato espresso per lui, esultando al pensiero che quel giorno lo avrebbero visto salire al rango di successore nei privilegi consolari dei Kerrion. Quando toccò a lui alzò la testa, e con voce nitida aggiunse il suo voto di consenso. Lo sguardo di Parma, fisso nel suo, non fece una piega. Ma accanto a lui Ashera sussurrò fra i denti una parola oscena, e il suo «sì» parve gettato a terra come un osso a un cane. Di tutti coloro che quel giorno erano intervenuti fu solo Marada che sorrise. Il giovanotto dovette anzi sforzarsi per reprimere una risata, e solo l'ombra mascherò agli altri la sua espressione divertita. Ma la sua allegria si spense, e non certo nel vedere il cipiglio di Chaeron, bensì per quello che Parma Alexander Kerrion disse subito dopo: «Come vedi, Selim, questo mio figlio non è vincolato da nessun legame di tutela o d'altro genere. Io lo offro a te, per unire le nostre due Case attraverso un matrimonio. E tu offri a me una delle tue figlie, che sia la sua sposa». Un altro cenno del capo fece intendere a Marada di venire avanti. Quindi Parma prese per un braccio Shebat e la spostò al suo fianco. La fanciulla dovette far ricorso a tutta la sua forza per stare lì ferma, perché il suo impulso era di correre ad abbracciare disperatamente Marada. Ma nel suo cuore era sceso l'inverno. Fu un'altra la ragazza che a un cenno di Selim Labaya avanzò sotto gli sguardi di tutti verso il giovanotto in attesa, sbattendo le palpebre e senza quasi alzare gli occhi da terra. «Io offro a te questa mia figlia, Madel, libera da vincoli, come sposa di tuo figlio. Siano essi uniti, e così si realizzi l'unione delle nostre due Case e delle nostre migliori fortune». Shebat ansimò, coprendosi il viso con le mani e costringendo Parma a darle un colpetto su un braccio per farla tacere. I due patriarchi si guardarono l'un l'altro, con facce su cui l'espressione di durezza e di sfida s'era dileguata, poi Parma proclamò Madel sua figlia e Selim Labaya fece lo stesso con Marada. Quando i due giovani si furono scambiati i voti formali e la promessa di
matrimonio fu ufficializzata, i due capifamiglia finalmente risero e si guardarono soddisfatti. Nessuno parve trovare insolito o di cattivo gusto che quel contratto fosse realizzato nella stessa cappella dove s'era svolto il rito funebre, e fu solo Shebat a restarne stupita. I due patriarchi esibirono soddisfazione: quali che fossero state le loro manovre, il compromesso raggiunto era evidentemente vantaggioso per entrambi dal lato finanziario, perciò non c'era più necessità di mascherare i veri sentimenti né di ricorrere a intrighi e mosse diplomatiche. Con voce allegra dichiararono chiuso il lutto, proclamarono una serata di festoso intrattenimento per i parenti intimi, e uscirono ciascuno con un braccio attorno alle spalle dell'altro. Nell'agitazione dei Kerrion che li seguirono parlando animatamente, Shebat restò al centro della cappella con le lacrime agli occhi ignorata da tutti. Solo mentre gli ultimi abbandonavano il locale uno di essi si ricordò di lei: Chaeron la raggiunse con faccia studiatamente comprensiva e le mise un braccio intorno alle spalle, cercando di capire se la ragazza s'era resa conto d'essere oggetto del suo odio e di quello di Ashera. Per la verità Chaeron provava pena per lei, e sapeva benissimo che anch'ella era stata solo una pedina di Parma, però era indispensabile accertarsi della sua opinione. Ma non ebbe modo di farsene un'idea, poiché Marada lo vide accanto a lei e subito intervenne, dicendo: «Lascia che a lei ci pensi io. Vieni, Shebat, non te la prendere. In fondo è meglio così. Ora tu sei una Kerrion, che non è certo poco, e neppure una Kerrion qualsiasi. Non devi piangere. Questo è un giorno lieto per te». Poi si chinò a sussurrarle fra i capelli. «Non aver paura. Presto comprenderai d'essere stata baciata in fronte dalla fortuna». Ma non era per la paura che Shebat piangeva, e quando gli sussurrò che della fortuna non gliene importava nulla perché lo amava, non ci fu nulla che lui riuscisse a dire. Così gli avvenimenti si svilupparono nel modo che Parma Alexander Kerrion aveva voluto. Era un uomo sempre teso a guardare il futuro, pronto a dimenticare il dolore di una perdita per cercare il bene di chi gli restava, e l'improvvisa adozione di una ragazzetta terrestre dalle ginocchia ancora sporche di fango gli era riuscita utile. Se avesse dato il posto di primogenito a Chaeron, di cui conosceva le frenetiche ambizioni, avrebbe dovuto sempre guardarsi le spalle per evitare che una lama non venisse a piantarvisi. A questo modo le macchinazioni di Chaeron e di sua madre
Ashera avrebbero trovato un altro obiettivo su cui indirizzarsi, ed egli avrebbe avuto un po' di respiro da loro. In quanto alla ragazzina, ben difficilmente sarebbe arrivata ad ottenere quei privilegi inerenti alla carica quasi ereditaria di Console Generale, visto che mai nessuno le avrebbe dato un solo voto. A conti fatti, Parma realizzò che la situazione del suo casato e sua personale era perfino migliore di quanto non lo fosse stata prima. Ma perfino un idiota avrebbe previsto quella manovra, disse Ashera Kerrion a suo figlio Chaeron in tono velenoso. L'insulto non toccò il giovanotto, che fra l'altro aveva spiato la faccia della madre mentre scattava la trappola di Parma e su di essa aveva letto una sorpresa identica alla sua. Non credeva che la nobile dama, per quanto astuta, ne avesse saputo più di lui. Piuttosto che salutare Marada, un piacere che ella non considerava certo tale, Ashera era scomparsa per tre ore senza che nessuno sapesse dov'era andata. «Osserva e impara», gli disse la madre mentre uscivano dalla cappella. «Guarda come Marada abbraccia la piccola selvaggia davanti agli occhi della sua futura sposa. È un idiota. Fra sei mesi avrà mandato a pezzi l'alleanza Kerrion-Labaya, e tuo padre avrà tutti i motivi di cui ha bisogno per guerreggiare con il vecchio Selim, che gli piaccia o no. Con Marada fra loro, la condanna dei Labaya è questione di tempo. Bisognerà esser pronti a raccogliere i cocci, quando il vaso si spaccherà a terra». Dallo sguardo di lei si sarebbe detto che discorresse amenamente del tempo. «Tu ne sei convinta?» «Sciocco vanesio di un figlio. Lo so per certo». «Cosa devo fare?» «Sei proprio stupido. Intanto guarda di essere gentile con la piccola barbara terrestre. Dopotutto avrà bisogno di qualcuno, ora che il suo Marada se ne va per sposarsi altrove. Vai». «Questo è tutto? Ma dobbiamo fare qualcosa, e intendo qualcosa che...». «Non te ne preoccupare. Lo faremo, quando e come deciderò io. Ora vai e fai finta d'essere un bravo idiota gentile e comprensivo con la ragazzina. Più tardi, quando Marada rivelerà la sua intenzione di viaggiare verso lo spazio di Labaya con l'Hassid, tu stai zitto e non opporti». «Ma come puoi sapere che lui vorrà...». «Taci! Quando imparerai a lasciar parlare chi, al contrario di te, ha l'abitudine di pensare prima d'aprir bocca?» sibilò Ashera, col viso così vicino al suo che la saliva gli schizzò in faccia. Ma sulla bocca di lei si disegnò un sorriso, appena si accorse che Marada guardava nella sua direzione.
Sottovoce proseguì: «Ho la tua attenzione ora? Bene. Desidero che tu non la incoraggi e neppure la scoraggi, ma falle una corte discreta. Vai con loro, e cerca di sentire quel che si dicono. In quanto all'Hassid, non desiderarlo per te, neppure se Parma te lo offrisse per farsi perdonare». «Ma perché...». «Tuo fratello è innamorato di quell'astronave, e.... chissà che essa non si riveli un amante poco degna di fiducia. Questo è quanto deve bastarti di sapere per ora. E se non sei in grado di rispondere da solo alle tue domande, vuol dire che con te sto sprecando il mio tempo. Stai attento... tuo fratello Julian diventa legalmente adulto il mese prossimo. Ah!» La donna rise. «Dovresti vedere la tua faccia. Ora vattene. Io devo occuparmi della nuova Kerrion, quella piccola barbara incivile. Suppongo che bisognerà educarla e spendere tempo con lei... sempre che sia possibile farne una persona meno rozza e disgustosa, cosa di cui dubito. Muoviti!» Capitolo 4 Il giorno in cui Shebat compì sedici anni (non era del tutto certa la data, ma stabilì che ciò non era di capitale importanza) Ashera le elargì uno dei suoi enigmatici sorrisi e dichiarò che aveva ormai fatto del suo meglio, perciò da quel momento in poi pensasse lei a se stessa. Come sua prima azione indipendente, la fanciulla fece pervenire a Parma Alexander Kerrion un biglietto in cui gli chiedeva un colloquio urgente. Fino ad allora aveva avuto l'occasione di chiamare «padre» l'uomo che la aveva adottata, solo durante le colazioni che due volte alla settimana vedevano riunita la famiglia, e, in presenza di Ashera, dei suoi quattro figli maschi e della figlia, le era piaciuto approfittare di questo privilegio. Ma a parte lo sfizio di rivolgersi al vecchio con quell'appellativo, non era mai riuscita a parlare davvero con lui. Quella mattina, dopo esser stata due ore appiccicata a un computer che l'aveva spietatamente interrogata su alcune materie scolastiche, lo raggiunse nell'ufficio dell'alta torre da cui egli tirava le fila dei suoi complessi traffici. Per l'occasione s'era vestita con un abito molto femminile. «Mmh!... Vedo che sei lontana mille anni luce dalla sparuta ragazzina che Marada ha raccolto sulla Terra», borbottò Parma sollevando appena gli occhi dai documenti sparsi sulla sua scrivania. «Le riviste di moda che la tua matrigna e la tua sorellastra fanno arrivare a casse hanno trovato un'altra lettrice, eh? Siediti».
La fanciulla si accomodò di fronte a lui in una pesante poltrona che, come la scrivania, era di autentico legno intarsiato a mano. L'osservazione dell'uomo era indovinata, perché Shebat s'era letteralmente nutrita di ogni informazione riguardante i gusti estetici e i costumi della Confederazione, spinta dalla feroce determinazione di mettersi alla pari con donne di cui temeva le critiche. Ma cose come la presenza del legno e del cuoio, o del tappeto tessuto a mano, ancora la lasciavano indifferente. Conosceva il loro significato, il messaggio di potere e di antica nobiltà in esse contenuto, ma l'abitudine ai manufatti terrestri la rendeva impermeabile a questi elementi dell'arredamento nella residenza dei Kerrion, e si lasciava impressionare di più dalle meraviglie dell'elettronica. «Allora, volevi vedermi?», sospirò il vecchio gentiluomo tornando a fissarla. «Tre mesi fa, quando le mie guardie del corpo uccisero un estraneo sceso furtivamente su Lorelie, con scopi tutt'ora da chiarire ma certo facilmente intuibili, io compresi sia i pericoli inerenti alla posizione sociale in cui voi mi avete così di punto in bianco elevata, sia alcune delle ragioni che vi avevano spinto a ciò. Da allora desidero un chiarimento con voi, patrigno». Per un istante il suo discorso lasciò ammutolito Parma. «La tua padronanza della lingua è migliorata in modo impressionante. Si può dire lo stesso per la tua capacità di osservazione? Da quello che scrivi nel tuo biglietto ne dubito». «Signore, io sono soltanto una carta dai molti usi nelle vostre mani. Un Jolly, uno dei fattori accidentali che amate mettere in gioco per restare non prevedibile dai vostri avversari e dai loro computer. Ma sono anche una persona umana», lo accusò lei, imbronciata. «Mi confesso colpevole, Vostro Onore», ridacchiò Parma. «Io apprezzo sempre quando mi si accusa di motivi reconditi, perché senza di essi un Kerrion si sentirebbe nudo come un bambino. Ma sicuramente nel tuo messaggio c'era più di questa incomprensibile questione di vita o di morte di cui parli. «Signore, da quando sono qui ho imparato molte cose, ma alcune di esse sono stata costretta a impararle più in fretta di altre, se volevo restare viva. Ho studiato come sopravvivere in un ambiente artificiale di questo genere, con l'aiuto dei vostri uomini e della centrale d'informazioni, e vostra moglie mi ha... aiutato poi a mettere in pratica ciò che avrebbe dovuto restare soltanto teorico per me. Ho contrastato così a lungo le gentilezze di Ashera
che ormai non ho più bisogno di chiedere la vostra protezione contro di esse». «Mi sembra che tu pecchi di autocompiacenza. E mi sembra anche che tu faccia allusioni indesiderabili. Forse non sei soddisfatta di come la tua sicurezza personale viene tutelata?» «Se volete tutelarmi, tenete quella vecchia vipera lontana da me!», esclamò Shebat, con veemenza tutta femminile e per nulla fanciullesca, sporgendosi in avanti. Parma si appoggiò allo schienale della poltrona, per la prima volta conscio della singolare bellezza che sbocciava in quell'adolescente. Pochi mesi di vita sana e di nutrizione adeguata avevano fatto sì che non la si potesse più considerare una creatura tutta ginocchia e gomiti dagli occhioni ingenuamente spalancati. Gli occhi non erano diventati più piccoli, ma tutto il suo volto s'era arrotondato, e in quell'ovale c'era una avvenenza all'inizio insospettabile. La fanciulla si avviava a trasformarsi in una ragazza sorprendentemente bella, e questo particolare non era stato nei piani di Parma. Inoltre sfoderava una mente affilata come una lama di rasoio, a dispetto del fatto che la sua origine terrestre avrebbe dovuto fornirla di una scadente eredità genetica. L'uomo dovette chiedersi cosa gli avrebbe portato quell'indesiderato miscuglio di intelligenza e bellezza, e la risposta non lo soddisfece molto. «Ho qui i tuoi test attitudinali», disse, battendo sulla scrivania col retro di una penna. «Ci ho sprecato sopra un'ora del mio tempo. Se non c'è altro, possiamo discuterli un momento». «Allora, non mi toglierete dal collo le zanne di quella donna?» «Tutta questa sospettosità non ti si addice. Tu hai studiato legge, fra le altre cose, dunque come puoi suggerire che io limiti la potestà della tua matrigna su di te? A meno che, naturalmente, tu non abbia prove concrete che sia stata Ashera a orchestrare gli incidenti che tu definisci strani». «Non è strano che un abito di similpelle acquistato solo quattro mesi prima ceda, proprio il mattino in cui visitavo lo scalo? E che in quei locali prossimi al vuoto dello spazio ci fosse una depressurizzazione giusto mentre mi trovavo lì? Non è strano che una slitta antigravità si guasti, per fortuna a soli due metri dal suolo, quando a salirvi sopra sono io?» Shebat ebbe un gesto seccato. «E il corto circuito nell'impianto per i massaggi, e i comandi della sauna montati al contrario?» «Via, Shebat! Questi sono rischi che tutti corrono normalmente. La similpelle era quella che ti aveva comprato Marada, un prodotto scadente
della tecnologia di Orrefors. Le slitte a volte precipitano, specie se a causare il guasto è una mano incompetente. E per il resto, ogni meccanismo tende a rompersi, mettendo in pericolo chi lo usa». «Su Lorelie?» «Dovunque, anche se gli apparati di sicurezza sono parte integrante della tecnica che ci tiene in vita. I vari incidenti di cui ti lamenti sono casuali, prodotti dalla tua scarsa familiarità col nostro sistema di vita. Sono cose che capitano a tutti». In risposta al cipiglio di Parma la fanciulla sbuffò e scosse il capo. Sì chiese se il vecchio patriarca si facesse crescere apposta le sopracciglia così cespugliose, per rendere cupo e impressionante il suo sguardo. Come Chaeron le aveva insegnato, fece alcuni respiri profondi e misurati. Ma non riuscì a scacciare il disagio causato dal modo in cui egli la fissava. «Non c'è altro? Allora passiamo all'altro argomento: cosa può fare la centrale di Lorelie per proseguire nella tua istruzione? Bisogna pur stabilirlo». «Non può fare niente», rispose lei. «Cosa significa?» «Ho detto che non può servirmi a niente. Lasciatemi andar via da questo mondo bello ma ostile, prima che diventi la mia tomba. Lasciatemi studiare altrove. Cosa posso imparare qui, se non la paura e l'odio? Chaeron mi dice che voi state per tornare su Draconis, ora che il vostro periodo di vacanza è finito. Portatemi con voi, oppure trovate il modo di togliermi di dosso il peso di questi pericolosi privilegi». «Chaeron dice? Allora non sei astuta come dicono i computer». Parma accennò ai documenti che aveva davanti. «Né come io stesso cominciavo a credere». «Se non fosse stato per i consigli di Chaeron, i denti di Ashera mi avrebbero già inoculato il loro veleno». Parma cercò di aver l'aria di prendere in seria considerazione quell'informazione. «Sia pure. Ma dimmi, è di Chaeron l'idea che tu lasci l'isolamento di Lorelie, per una località movimentata e cosmopolita come Draconis?» «No. Credo solo di aver esaurito tutte le possibilità che Lorelie può offrirmi. Ma sono sicura che se glielo domandassi, anche Chaeron sarebbe dello stesso parere». «Questa sarebbe una buona ragione per non muovere un passo fuori di Lorelie. Comunque sia, ho allevato troppi figli per non sapere che i buoni
consigli vi entrano da un orecchio ed escono dall'altro. Sentiamo: cos'è che potrebbe offrirti Draconis che qui non puoi fare?» «Vorrei essere di qualche utilità. Potrei imparare il commercio e i doveri di un Primogenito della Casa dei Kerrion. Vorrei prendere la patente di pilota e...». «Piano, ragazzina», la interruppe Parma. «Cos'è questa storia della patente? Apprezzo molto che tu voglia imparare, anche se le prime due cose" richiedono ben altro che i programmi di apprendimento di un computer, e non vedo perché non dovrei dartene l'opportunità. Ma in quanto all'ultima idea, meglio che faccia finta di non averla neanche sentita». Parma scrutò la sua espressione. Questo era un momento importante per la ragazza: avrebbe rischiato di contrariarlo, pur di ottenere ciò che voleva? Si sarebbe intestardita, a rischio di perdere tutto ciò che lui poteva offrirle? Oppure avrebbe ceduto passivamente alla volontà del capofamiglia, cosa che probabilmente non era nel suo carattere e - Parma dovette farsi un pensiero - forse neppure nei suoi migliori interessi? Abbassò gli occhi sui risultati dei suoi test attitudinali. Era lì, scritto in rosso: Pilota spaziale - Effetto spugna. Bene, se il computer aveva concluso per quell'attitudine, bisognava dire che la ragazza non parlava a caso rivelando di voler prendere la patente. Ma quella era soltanto la prima delle due alternative risultate dai test: ce n'era un'altra, anch'essa scritta in rosso, leggendo la quale l'uomo aveva stretto i denti. Toccava a lui scegliere fra le due, e si chiese se permettendo il danno minimo avrebbe evitato il verificarsi di quello massimo. La seconda rossa scritta che campeggiava sulla scheda diceva infatti: Danzatrice del Sogno. Nel leggerla, la mano di Parma Alexander Kerrion premette così forte la penna sulla scrivania che la spezzò in due, e il colpo secco fece trasalire anche lui. La depose, e girò la scheda per non fargliela leggere. «Ti rendi conto», disse sottovoce, «che un'occupazione come il pilotaggio non si addice ai membri di una Casa Consolare?» «Sì, tuttavia Marada...» «Le inclinazioni di Marada e i suoi talenti erano così pochi e così disgraziatamente orientati, che incoraggiarlo per l'uno o l'altro di essi sarebbe stato ugualmente spiacevole per me. Senza contare che con la sua testardaggine era comunque impossibile guidarlo, cosicché vi dovetti rinunciare. Lo feci istruire come Arbitro soprattutto per insegnargli che c'erano delle leggi, che c'erano dei guai da cui doveva imparare a star fuori, e visto il suo carattere posso solo ringraziare il Dio di Tutti gli Spazi se non ha avu-
to la volontà di dedicarsi agli affari come sarebbe stato suo dovere di Primogenito, perché ci avrebbe mandato in rovina tutti quanti. Ma anche lasciargli fare ciò che voleva è stato uno sbaglio, visto il dispiacere che è riuscito a darmi ultimamente. Spero che tu non voglia ricompensarmi nello stesso modo delle gentilezze che tutti noi abbiamo per te». «Gentilezze?» chiese Shebat, imitando senza volerlo il tono mordente della sua matrigna. Parma sollevò le mani in gesto di resa. «Vai pure a Draconis, se vuoi. Sembra che io debba toglierti dall'influenza di Ashera, se non voglio ritrovarmi con due tormentatrici sotto lo stesso tetto». Shebat era così nervosa che non si lasciò andare a frasi di ringraziamento o lacrime di gioia. Si limitò ad annuire soddisfatta. Parma scosse il capo e tornò a guardare i risultati dell'esame psicometrico. «Ci saranno delle condizioni, legate a questo favore che ti faccio», la avvertì. «Naturalmente», fu d'accordo lei. Parma si chiese se non fosse il caso di mandare a Marada un copia di quella scheda. Era tentato di farlo, se non altro perché la cosa gli avrebbe tolto il sonno, giusto come Marada stesso aveva rovinato il sonno a lui. Chissà che avrebbe pensato, sapendo di essere responsabile della creazione di questa nuova Kerrion? In quanto a lui, aveva già fatto registrare il suo nome completo come Shebat Alexandra Kerrion, e poteva solo fare ipotesi sul come la ragazza avrebbe meritato - o non meritato - quell'Alexandra. I test rivelavano un'affinità di attitudini fra lei e Marada, un'affinità che avrebbe forse ferito il giovanotto come lui aveva ferito suo padre. Probabilmente, rifletté Parma, Marada stava però già soffrendo abbastanza e non aveva più il tempo di pensare a Shebat. Quel pensiero lo confortò: il ragazzo era fuori dai piedi e stava doverosamente attendendo ai suoi compiti di marito per la figlia di Selim Labaya, quella Madel che solo grazie alla sua posizione sociale era stata certa di accalappiare prima o poi uno sposo. Entrambe le loro Case traevano profitto da ciò, e tanto doveva bastare a tutti. Osservò Shebat e si chiese come, per tutti gli Spazi Cosmici, avesse potuto prendere interesse per Chaeron. «Questa è la prima volta che ti sento parlare di Marada, da quando si è sposato. È singolare, considerando il grande affetto che ti legava a lui», cercò di sondarla. La fissò acutamente, ma scoprì solo che lo sguardo di lei non la tradiva in alcun modo. Qualunque emozione si celasse dietro il suo viso, ella pareva tenerla nascosta come per sfida.
«Non c'era motivo. E poi lui non ha creduto opportuno neppure mandarmi sue notizie. Adesso è sposato, tutto va secondo i migliori interessi dei Kerrion, e io non desidero che per colpa mia il suo matrimonio corra dei pericoli. Non sarei una buona Kerrion, se facessi dondolare la barca su cui tutti navighiamo». E sorrise candidamente. «Il tempo passa, le cose cambiano. Voi avete affari di enorme portata a cui pensare, e da essi dipende l'avvenire di oltre dieci milioni di anime. Vi prometto che se non sarò all'altezza di darvi delle soddisfazioni, almeno farò ogni sforzo per non darvi delle preoccupazioni». Nei suoi occhi ci fu una luce che colpì Parma, anche se non fu capace di decifrarne il significato. Nervosamente gettò la penna spezzata in un bruciarifiuti, poi premette un tasto sulla consolle e ordinò a un cameriere di portare qualcosa da bere. Dunque la sua magia la stava abbandonando, sciolta dalle leggi dell'universo scientifico e materialistico in cui esisteva la Confederazione? In piedi sulla cima erbosa del più alto colle di Lorelie, Shebat lasciò vagare i suoi pensieri, guardando distrattamente verso la torre di Parma Alexander Kerrion e più oltre, dove il breve orizzonte sfumava nel crepuscolo. Era salita lì subito dopo il termine del colloquio col Console Generale, per capire dove aveva perduto e dove guadagnato, e rimettere insieme se stessa in solitudine. Sopra di lei c'era il cielo stellato, un vuoto tenuto a distanza dalla tecnica che dominava l'energia e i campi di forza, ed ella rifletté distrattamente che era la superbia umana a causare quell'interminabile tramonto lungo un mese. Durante il tempo in cui il sole restava celato dietro il gigante gassoso cinto di anelli intorno a cui Lorelie ruotava, sulla piattaforma dei Kerrion c'era il crepuscolo. Il firmamento era una vista bellissima, ma alla lunga perfino un panorama da paradiso poteva venire a noia. Ed era la superbia, disse a se stessa, che induceva l'evoluta e potente Confederazione a tenere in così poco conto la magia, l'occulta saggezza degli incantesimi e dei sortilegi. Infine ella non avrebbe resistito alle manovre di Ashera, alle pressanti dichiarazioni d'amore di Chaeron e al peso della sua situazione, se non fosse stato per la magia. E Marada, non era forse uscito salvo dall'incidente seguito alla partenza da Lorelie proprio grazie al suo incantesimo? Il guasto che aveva mandato l'Hassid fuori rotta nell'immensità dello spazio lo aveva lasciato con i serbatoi vuoti di carburante e scarsissime speranze di cavarsela. Per lui e per
la sua fresca sposina, soli passeggeri dell'astronave, s'era prospettata la morte in una zona sconosciuta ai margini della galassia e fuori portata di ogni possibile soccorso, là dove l'Effetto Spugna li aveva sbalzati. Ma l'Hassid non s'era perso nell'immenso nulla, perché il Caso aveva voluto che Marada trovasse uno sciame di asteroidi in orbita attorno a una piccola stella, e fra essi ne aveva individuato uno di materiale fissionabile. Grazie all'attrezzatura di bordo era riuscito a raffinarne una parte, e quel poco di carburante gli aveva consentito di raggiungere Shechem, la residenza della Casa Consolare di Labaya, con tre sole settimane di ritardo. Questa era la prova che l'Incantesimo delle Dodici Trecce aveva funzionato. E un'altra prova ancora era stato il comportamento di Parma, che pur detestando Marada non solo non l'aveva punito ma s'era visto costretto a proteggerlo. In quanto a lei, stava pur sempre imparando a camminare con le sue gambe malgrado la tela di ragno che molti le tessevano intorno. Tuttavia era piena di dubbi, e nulla più del dubbio è pericoloso per la magia: esso la corrode come l'ossidazione intacca il metallo, togliendole la forza. Shebat imprecò fra sé contro il soave mondo di Lorelie e la sua insulsa perfezione creata da stuoli di tecnici e scienziati. Lì non c'era neppure l'ombra di un incantesimo. Al cervello elettronico del suo appartamento aveva chiesto cosa si sapesse nella Confederazione di magia e di scienze occulte, e ad ogni domanda la macchina aveva risposto: dati insufficienti. Allora aveva esaminato la possibilità che vi fosse una società segreta di stregoni, o almeno qualche mago che non desse pubblicità alla sua esistenza, e ne aveva domandato a Chaeron. Il risultato era stata una risata divertita e sarcastica: la magia era roba per gli allocchi. Ma per salire da sola su quel colle Shebat aveva eluso la sorveglianza delle guardie del corpo proprio con un sortilegio, per provare a se stessa che nella roccaforte tecnologica dei Kerrion l'occulto riusciva ancora a funzionare. Le era già accaduto molte volte di usare l'Incantesimo del Passare Inosservata alla taverna di Bolen, sulla Terra, quando il suo padrone mostrava l'intenzione di offrire la sua compagnia a viaggiatori disposti a pagarlo. E al mattino dopo, ricomparendogli davanti, era stata punita con pugni e calci. Ma aveva sempre trovato le percosse di Bolen preferibili a una notte trascorsa con rozzi e puzzolenti individui. Qui su Lorelie sarebbero state le sue guardie del corpo ad essere punite, se la perdevano di vista. Con un sorrisetto rifletté che mettendo nei guai quei quattro uomini per un capriccio si dimostrava già una Kerrion fatta e finita. Probabilmente essi avevano fatto rapporto a Parma e in quel mo-
mento ne stavano sopportando le conseguenze. Ma se non erano capaci di starle dietro e ad ingannarli bastava l'Incantesimo del Passare Inosservata, significava che erano degli incapaci e che meritavano una ramanzina. Per venire lì aveva saltato il pasto. Non le era dispiaciuto affatto evitare una volta tanto la rituale ora di salotto del dopopranzo, durante la quale Ashera la sottoponeva a sguardi analitici come lame di bisturi, domande indiscrete, frasi colme di allusioni, sottintesi e manipolazioni varie, il tutto condito con quei sorrisetti ipocriti che ormai non reggeva più. Ancora una settimana e quel posto l'avrebbe fatta impazzire. Desiderava toglierselo di dosso come un costume di similpelle diventato troppo stretto. Di tutte le esperienze di Lorelie che desiderava lasciarsi alle spalle, solo Chaeron sarebbe stato in parte da salvare. Da lui aveva imparato più di quanto egli potesse sospettare, e le sue intenzioni avevano finito per divenire tanto oneste quanto all'inizio erano state disoneste. Decise che doveva consultarsi con lui. Poco dopo, quando ebbe chiarito ciò che le conveniva fare, scese dal colle e si diresse a passi svelti verso la torre residenziale, nei pressi della quale le sue agitatissime guardie del corpo la stavano ancora cercando freneticamente. La fanciulla e i quattro uomini della sua scorta salirono la scalinata di zaffiro sintetico, e sulla sommità di essa i sensori del. portale captarono la presenza di una Kerrion e fecero spalancare gli artistici battenti. Nel corridoio di destra si tolse le scarpe e tenendole in mano camminò nel ruscello d'acqua cristallina che andava a sfociare in una delle piscine. L'abbondanza di acqua era un altro status symbol in quel mondo artificiale, dove il suo alto costo ne rendeva quasi doveroso lo spreco. Sentendo chiacchierare le ragazze del piccolo salone di bellezza e le cameriere, Shebat aveva avuto la conferma - se ancora ce n'era bisogno - che non era il capofamiglia a comandare lì: Parma manovrava il potere dei mondi del Consolato di Kerrion, ma su Lorelie tutto si muoveva agli ordini di Ashera. Dunque doveva convincere Chaeron a far smorzare le obiezioni di Ashera, altrimenti perfino la promessa di Parma non sarebbe servita. Ma cosa dirgli? Ci pensò mentre saliva all'appartamento di lui lungo un percorso tortuoso per non rischiare d'incontrare Ashera in uno dei saloni, tallonata dai quattro uomini silenziosi e ingrugniti la cui presenza ella quasi non notava più. Come spesso accadeva, nelle sue riflessioni s'insinuò il volto della vec-
chia moglie di Bolen, la donna che le aveva insegnato i pochi sortilegi che sapeva. Da lei aveva anche imparato a leggere e scrivere, rubando al lavoro ogni attimo di tempo e sempre all'insaputa del taverniere. Ma la vecchia non aveva potuto istruirla molto neppure in quello, e una notte era morta nella sua squallida stanzetta lasciandola sola con Bolen e con le sue soperchierie. Era stata l'unica che si fosse presa cura di lei, e sentiva la sua mancanza come quella di Marada. Lì su Lorelie il lusso e i privilegi erano accompagnati dalla solitudine e dalla freddezza nei rapporti umani. Giunta alla porta di Chaeron accennò alle guardie del corpo di attenderla in corridoio e sfiorò la placca metallica che avrebbe annunciato la sua presenza al computer dell'appartamento. Quando Chaeron le aprì, gli lesse in viso sorpresa e sollievo. Il giovanotto era però contrariato di non averla vista in sala da pranzo, e fu costretta a spiegargli dov'era andata e perché. Per nulla rabbonito lui la tirò dentro, rimandò le guardie del corpo nelle loro stanze e chiuse la porta. «Nostra madre ti ha fatta cercare dappertutto. Non ti rendi conto di averla offesa? Potevi almeno mandarle una parola d'avvertimento, se avevi voglia di vagabondare». Il tono rivelava però che l'irritazione di Ashera non gli era giunta sgradita. Tutto ciò che accadeva in famiglia era per lui una sorta di commedia, in cui si compiaceva di esibire atteggiamenti da osservatore spassionato. Shebat abbassò il capo senza rispondere, e l'altro sbuffò: «Non volevo rimproverarti, non prendertela. E stai diventando troppo bella per fare il broncio come una bambina. Avanti, mettiti a sedere e dimmi cosa ti ha portata qui. Vuoi bere qualcosa, o hai fame?» «No, non voglio niente», mormorò lei. Scostò la mano che le stava accarezzando il viso e indietreggiò, poi un divano che urtò con le ginocchia la indusse a sedersi. Chaeron le venne accanto con fare intimo, passò un braccio sulla spalliera e le sfiorò la nuca con le dita. Indossava una veste da camera sotto cui s'intravedeva una maglietta, e pantofole, una tenuta apparentemente semplice ma in tessuti costosi e all'ultima moda. Anche i gioielli che portava rivelavano gusti sofisticati, una mentalità salottiera che Shebat faticava ad apprezzare. Il profumo di lui era però così insinuante che la mise a disagio, e si scostò. Gli occhi di Chaeron le dissero che poteva apprezzare la ritrosia finché durava poco. «Stavo per sdraiarmi a letto una mezz'ora. Vuoi che mi vesta?»
«Non importa. Ti ho disturbato?» «Tu non mi disturbi mai, tesoro. Anzi, per un momento ho sperato che... mmh. Non sono stanco, comunque. In genere a quest'ora vado a letto solo per abitudine, per il piacere di svegliarmi a metà del pomeriggio e buttarmi in piscina». Le sorrise. «Non vuoi sapere che cosa quasi speravo nel vederti entrare?» «Meglio di no». Shebat scosse il capo. «Ho bisogno di un consiglio, e del tuo aiuto». «Mia cara, qualunque cosa io possieda è tua. Se vuoi camminare nelle pozzanghere verrò a stendere sotto i tuoi piedi tutti i mantelli. Ma prima... non mi hai ancora dato neppure un bacetto. Non vuoi più bene al tuo fratellastro?» Il giovanotto si sporse verso di lei, intercettò il suo tentativo di baciarlo appena su una guancia e le dirottò le labbra sulle sue, poi le passò una mano dietro il collo e approfondì il bacio. «Così è meglio, no?», sussurrò poi, senza scostare il viso. Nel vedere che la fanciulla evitava i suoi occhi rise, e la lasciò. «Questa è la prima volta che rispondi al mio bacio, invece di scivolare di qua e di là come un'anguilla. A cosa devo questo progresso?» La fanciulla avrebbe voluto alzarsi, ma il braccio che le cingeva le spalle sembrava pronto a rintuzzare quel tentativo. Si schiacciò contro la morbida spalliera. «Forse ti arrabbierai con me, ora». «Cosa c'è di tanto grave?» Le dita di Chaeron le stuzzicarono il collo, i suoi occhi verdi la studiarono. «Vuoi solo i miei saggi consigli o... ciò che desideri è che io prema su nostra madre? Bada che potrei chiederti un prezzo, e sai quale». «Perché vuoi essere così crudele?», mormorò lei. «Non mi lasci alternativa. Ma la sincerità può sembrare crudele, in certi casi». «La tua riesce a esserlo senza bisogno che tu ti sforzi troppo», sbuffò lei, scostando la testa. Chaeron riuscì però a restarle con la bocca a contatto di un orecchio. «Cos'è sorellina, che ti rende tanto difficile accettare il mio affetto?» «Quello che vorresti impormi non è precisamente il tuo affetto». «E cosa ci vedi di male? E poi talvolta bisogna imporsi un poco, forzare chi si ama. La vita è breve, mia cara». «Ma tu sai benissimo che amo Marada», precisò lei, ritraendosi ancora. Il sorriso di Chaeron si raffreddò. «Tu confondi l'amore emotivo con
quello fisico, come tutte le ragazzine. Marada... bah!» Il suo tono parve spazzar via il fratello come uno scarafaggio dal pavimento. «Avanti, sentiamo cosa vuoi da me». «Forse non avrei dovuto venire qui», sospirò lei, a disagio. «Forse no, però adesso ci sei, anche se sfortunatamente a condurti qui non è stata l'ansia d'avere le mie attenzioni. Coraggio, approfitta di questo istante o c'è il rischio che la tua dolce presenza mi faccia tornare a pensieri piuttosto intimi. Tu sei giovane, ed è noto che una ragazza giovane e innamorata non vede altro uomo se non quello dei suoi sogni. Però sei provocante, e starti accanto può non esser facile per me se fai la ritrosa. Non è facile...» Avvicinò la bocca a quella di lei. Shebat non si ribellò al bacio, ma stavolta rifiutò di aprire le labbra contro le sue. Dopo qualche altro inutile tentativo Chaeron si alzò bruscamente, andò a una consolle e disse qualche parola in un microfono con voce bassa e tesa. Quando tornò a sedersi sul divano le rimase discosto esibendo un atteggiamento freddo. «Ho richiamato le tue guardie del corpo. Visto che le cose stanno così, ti prego di dirmi in fretta ciò che desideri». Shebat evitò il suo sguardo. «Io voglio lasciare Lorelie. Ho il permesso di Parma, ma... temo che Ashera lo convinca a non portarmi con sé. Forse tu potresti parlarle». Per una trentina di secondi Chaeron si esaminò pensosamente le unghie, poi la fissò con occhi inespressivi. «Sì, penso anch'io che questa sia la cosa migliore. Ma stai sempre attenta a ciò che fai: nostra madre ha le mani lunghe e può arrivare ovunque». Detto ciò si alzò, e con l'abituale cortesia le porse una mano per aiutarla a fare altrettanto, quindi la condusse alla porta. Al di fuori le guardie del corpo stavano arrivando di nuovo. Chaeron le rivolse un leggerissimo inchino. «È stato un piacere parlarti», disse. Rientrò nel suo appartamento e chiuse silenziosamente la porta. L'astronave che ricondusse Parma Alexander Kerrion a Draconis era molto più grande dell'Hassid, e la cabina che Shebat si vide assegnare era un vero e proprio piccolo appartamento lussuoso oltre ogni sua immaginazione. Dopo averne rimirato tutti i dettagli la fanciulla si convinse ancor di più di un fatto: Parma offriva il meglio del meglio, oppure non dava niente del tutto. Inoltre la Softa - l'associazione dei piloti - e Kerrion erano a tal punto si-
nonimo di prestigio e di tecnologia, che il personale delle linee interstellari si compiaceva di usare borse da viaggio, bluse, stivali e altri oggetti recanti quella sigla, sebbene solo i piloti avessero diritto a portarla. Fu dunque sul Bucephalus, poco prima del decollo, che Shebat fece la conoscenza di Softa David Spry. Il giovanotto, atletico e abbronzato, era stato appena assunto sull'ammiraglia dei Kerrion in qualità di pilota per sostituire il collega che proprio allora si ritirava in pensione. Nel momento in cui Parma e la fanciulla salirono a bordo, si trovava in plancia a familiarizzarsi con le apparecchiature, e il pilota anziano colse l'occasione per presentarlo al Console Generale e alla sua elegante Primogenita. Ma fu allora che Shebat commise una gaffe destinata a trasformarsi in qualcosa di permanente, perché quando fu la sua volta di stringere la mano al giovanotto lesse il nome sulla targhetta applicata alla tuta di lui e cadde nell'equivoco: «Lieta di conoscervi, Softa David Spry», lo salutò con un sorriso. Subito si accorse che Parma e il pilota più anziano ridacchiavano, e comprese d'aver fatto uno sbaglio. Ma il giovanotto le rivolse un lieve inchino con estrema cortesia, e rimase serio. «David può bastare, signorina Kerrion. Softa è soltanto una sigla, quella dell'associazione piloti. Ma non prendetevela per l'equivoco... è colpa nostra se non vi era stato detto. Voi non potevate saperlo». Dieci minuti più tardi, rimasti soli nella sala comando, ella si fece spiegare dal giovanotto come funzionavano le poltroncine anti accelerazione e nel sedersi mormorò imbarazzata: «Io non sono una Kerrion per nascita, come certo vi avranno detto, e nella Confederazione sono ancora una straniera. A volte i nomi della gente mi suonano così nuovi che sbaglio, e così non faccio altro che inciampare in ogni ostacolo e prendere cantonate». «Dei delle stelle! Credete forse che mi sia offeso? Me ne dispiace. Ciò che volevo dirvi era di non preoccuparvi per una sciocchezza simile, signorina». La osservò per qualche secondo. «E non siate così seria, via! Noi rudi e cinici piloti dello spazio abbiamo una filosofia: la vita è una giostra, e di conseguenza la cosa migliore è riderci sopra mentre ci porta attorno a suon di musica. Guardatevi attorno. Scommetto che eravate convinta d'esser salita su un'astronave, vero? Niente di più illusorio, signorina Kerrion: siete in giostra. Sentite la musichetta?» Lei cercò di non sorridere. «Sarà bene tenere questo segreto per noi, Softa David Spry. Se il mio patrigno se ne accorgesse, sarebbe capace di scendere. Non gli piacerebbe venire a sapere che sta su una giostra».
«D'accordo. E d'accordo anche per il Softa. Ma a voi piace, vero?» Il giovanotto accennò ai comandi. «Mi piacerà di più se ci daremo del tu. Sono tutti allegri come te i piloti di astronavi?» «Ti dirò, mia giovane amica: se ciò che tuo... padre? Patrigno? Be', se ciò che il vecchio Parma borbotta è vero, e tu vuoi proprio volare, farai meglio a imparare un bel po' di barzellette e storielle allegre, che nello spazio servono più di ogni altra cosa. Ma questa non è un'occupazione adatta a una Kerrion». «Parlamene un poco», chiese lei, rinfrancata dai suoi modi. «Parlartene? Di cosa, in particolare?» «Dell'Effetto Spugna, e di tutte quelle luci colorate sui pannelli. Cosa si prova a essere in contatto con il cervello della nave? Qual è la vera natura di ciò che la teoria non può spiegare?» Il pilota si strinse nelle spalle, e sedendo accanto a lei passò una mano sui comandi. «Ci sarebbe da dire molto, oppure molto poco, a seconda di come si guardano le cose. Tu conosci la teoria? E l'hai trovata insopportabilmente complicata e misteriosa, eh? In parole brevi, tutto lo spazio fra le stelle è un miraggio: ciò che sembra lontano può essere vicino, e viceversa. Le distanze che tu misuri con l'occhio o con gli strumenti sono distanze apparenti, valide solo per lo spazio tridimensionale. Ma sotto lo spazio c'è l'Effetto Spugna, detto anche Spazio Spugna, sebbene la parola sotto sia inadeguata. Potrei anche dire sopra, o attraverso, o accanto. Fai conto che lo spazio visibile sia la superficie di un mare, in cui stelle e galassie sono isole: ebbene, tu puoi raggiungerle sia viaggiando sopra la superficie che sotto. In ciascuno dei due casi avrai una diversa velocità e ti troverai in un diverso ambiente, alle prese con regole diverse. Molto diverse, specialmente per ciò che riguarda il tempo. Nello Spazio Spugna noi usciamo fuori dalle regole, e il tempo gioca strani scherzi. Ad esempio, immagina cosa accadrebbe se arrivassimo su Draconis prima di essere partiti da Lorelie. Mi segui?» Shebat scosse la testa, sebbene stesse già cercando d'immaginare le conseguenze dell'essere in due posti diversi nello stesso momento. «Che accadrebbe, allora? Mettiamo che questo accada: chi sarebbero le persone reali, noi oppure i noi stessi già arrivati su Draconis?» Il pilota ridacchiò. «Non sto facendo altro che confonderti le idee, vero? La teoria ci mette davanti un'equazione nella quale gli esseri umani sono solo uno dei termini. Ma perché la teoria funzioni davvero, nessuno lo sa.
Anche ai tempi delle prime bombe atomiche l'uomo non sapeva come funzionasse la fissione, eppure la faceva funzionare egualmente. La prima volta che un'astronave robot volò nello Spazio Spugna senza organismi vivi a bordo, al punto di arrivo ci fu un'esplosione tre ore prima della partenza. Non hai mai letto il rapporto sul viaggio del cane Enos? No, vero? Ti spiego in breve il principio: il cervello umano e quello degli animali superiori contiene concetti inflessibili sul tempo, e il cervello elettronico dell'astronave impone allo Spazio Spugna di ubbidire ad essi. In qualche modo, che gli scienziati ancora non arrivano a capire, quando la velocità supera quella della luce ed entriamo nell'Effetto, ecco che lo Spazio Spugna ci ubbidisce. Il nostro cervello impone i suoi ritmi temporali allo spazio cosmico senz'anima». «Dunque tu non lo capisci, come non lo capisco io?» «L'hai detto. Tu ricorda questo: il pilota è come una guida e, se la guida fa esperienza di un periodo di dieci giorni di viaggio fra il punto A e il punto B, lo spazio le ubbidisce, e il punto B viene raggiunto in dieci giorni, che è un periodo standard. Per spiegarne i termini meglio bisognerebbe cominciare dalle antiche leggi della Relatività di Einstein, ma questo ancora non ci porterebbe a capire l'Effetto Spugna. Ora io dico: per quale motivo il Dio delle stelle ha fatto il cervello dell'uomo, e quello del cane, capaci di comandare il flusso del tempo nello spazio? Un universo fatto per servirci è difficile da concepire, no?» Shebat si grattò una tempia, perplessa. «Ma non mi hai ancora detto perché fare il pilota non è adatto a una Kerrion. Io l'ho visto scritto sulla scheda che Parma aveva in mano: pilota. Ed era scritto in rosso. Tu che ne pensi, Softa David Spry?» «Questo al vecchio non è piaciuto, vero?» David la fissò intensamente. «Il motivo è, o giovane erede dei Kerrion, che secondo la mentalità comune l'Effetto Spugna ci fa diventare tutti dei dannati pazzoidi. Tutti i piloti sono matti, credimi pure, bizzarri e incomprensibili per l'altra gente. E questo perché l'Effetto Spugna...» abbassò la voce «strappa via tutte le illusioni. Uno sguardo chiaro dentro se stessi autorizza a rifugiarsi in un certo tipo di pazzia, sai? Ed ecco perché chi vive sulla piattaforma ha paura di noi. Ah!... adesso ti ho spaventata, eh? Meglio così». «Non sono spaventata affatto. E se Parma ti ha dato l'incarico di scoraggiarmi dal pilotare, poteva risparmiarsi il disturbo. Vedi l'umidità sul palmo delle mie mani? Tocca: non è sudore freddo, è caldo. Non è paura, è impazienza. Senti!» Prese una delle mani di lui fra le sue. «Insegnami tutto
ciò che puoi, ti prego. Io ho perduto anni e anni, e voglio recuperare questo tempo, Softa David Spry». Il giovanotto rise. «Sai una cosa? Sto cominciando a capire perché Parma Alexander Kerrion ha scelto te come Primogenita, al posto di quel tipo di damerino che la sorte ti ha dato come fratellastro. Lui non ha la metà della tua intelligenza. Adesso lo sai cosa faremo noi due?» «Toglieremo la ruggine alla grande macchina?» «Esatto, sorellina. C'è da predisporre la rotta, e poi tu ed io ci presenteremo coi dovuti modi al nostro amico Bucephalus». Il giovanotto sfiorò numerosi interruttori digitali con le sue agili mani, e luci d'ogni colore s'accesero un po' dovunque nella plancia. La voce mielata del Bucephalus diede loro il benvenuto a bordo, senza che Shebat capisse esattamente da dove usciva. Softa David informò il cervello artificiale della sua identità e del suo nuovo incarico, tutti dati che peraltro erano già stati trasferiti nella memoria elettronica dalla centrale di Lorelie, quindi presentò Shebat. «Ho già avuto il piacere di conoscervi, signorina Kerrion», disse la voce incorporea. «Ogni informazione riguardo a voi mi è stata comunicata. È un privilegio avervi a bordo». «Benone. Salute a te, Bucephalus!» esclamò lei, divertita. Fu così che la fanciulla cominciò a fare conoscenza dell'astronave ammiraglia dei Kerrion, e nel brivido d'eccitazione che ciò le procurò dimenticò le macchinazioni di Ashera, gli avvertimenti di Chaeron, la malinconia per la perdita di Marada e tutto il resto. Draconis, come Lorelie, era una piattaforma. Ma la loro somiglianza finiva lì, poiché rappresentava il centro di controllo ed era il più grande porto commerciale del Consolato di Kerrion, inoltre si viveva dentro di essa, piuttosto che sopra. Un tempo era stata una piattaforma di modeste dimensioni, con dieci livelli ed una popolazione di poche migliaia di persone. Col passar dei secoli era però cresciuta come una cipolla, strato sopra strato, fino a trasformarsi in una metropoli dello spazio assai estesa in larghezza e strutturata su duecento livelli sovrapposti. Quando l'uomo aveva raggiunto per la prima volta il pianeta-ancora intorno a cui ruotava, sbucando a caso dall'Effetto Spugna in quello spazio alieno, gli esploratori non s'erano resi subito conto d'essere usciti dalla Via Lattea finendo - per così dire - nella galassia accanto. La loro meta era stata la Costellazione del Drago, ovvero Draconis, verso la quale avevano
puntato la prua partendo dalla Terra. Il balzo li aveva invece portati su M 87, una galassia fra le poche di forma esattamente globulare, ben più lontana del loro iniziale obiettivo. M 87 era stata ribattezzata Centralia, ma la prima testa di ponte costruita dagli esploratori era ormai stata chiamata Draconis e il suo nome era rimasto quello. Nei suoi duecento livelli vivevano quasi trecentomila anime, gente di ogni classe sociale, fede religiosa e colore della pelle. Era una città con tutte le eterne contraddizioni e situazioni sociali delle città, ed aveva i suoi ricchi e i suoi poveri, gli onesti e i disonesti, i lavoratori e i disoccupati. Il loro minimo comun denominatore era il benessere e la ricerca del denaro, perché l'uomo aveva portato sulle stelle la sua natura e le sue necessità. Come tutte le città edificate da uomini, fossero a terra oppure nello spazio, vantava molte bellezze ma si trascinava dietro i suoi lati squallidi e miserabili. In teoria nella Confederazione chiunque poteva raggiungere qualsiasi posizione, ma in pratica continuavano a esistere classi sociali stratificate in base al denaro, e fra esse c'erano a volte squilibri e tensioni. L'automazione non impediva che una gran massa di persone facesse lavori considerati umili, e non mancavano i diseredati costretti a vivere della carità pubblica. In compenso l'assistenza sociale riusciva a provvedere decentemente a tutti i bisognosi, perché il sistema di tassazione imposto ai più abbienti era ferreo. Nessuno poteva mettere al mondo un figlio senza prima aver dimostrato di possedere i mezzi per mantenerlo e per assicurargli una posizione lavorativa, cosa questa che ovviamente risultava difficoltosa fra gli strati più poveri della popolazione. Chi non aveva la cittadinanza, inoltre, non godeva di alcun privilegio sociale e rischiava di conoscere una miseria ancora peggiore. Nei livelli inferiori della piattaforma spesso si viveva di espedienti, o alla giornata, e Shebat poté rendersene conto quando la curiosità la spinse a visitare i sobborghi antichi e male illuminati di quella città sospesa nello spazio. Il loro unico pregio era la lontananza dalle zone più moderne e periferiche, cosa che poneva quell'intreccio di vicoli pavimentati in sudicia plastica consunta al riparo da eventuali fughe d'aria e rapide depressurizzazioni. La fanciulla restò sgradevolmente colpita nel vedere che anche in Draconis abbondavano le miserie umane. Era una nota stridula nella sinfonia della potente Confederazione, una dissonanza che ne sminuiva i pregi, quasi che sotto la patina d'oro delle statue dei Kerrion nel piazzale del Consolato Generale si nascondesse legno marcio e tarlato. Una mattina, tre settimane dopo il suo arrivo, ebbe modo di parlare
qualche minuto con Parma nei suoi uffici elegantissimi, e gli rivelò le sue impressioni personali. Nella sua ingenuità le parve giusto fargli notare che, con tutta la ricchezza di Kerrion, era assurdo che in quei quartieri ormai vecchi e cadenti la gente dovesse trascinarsi nell'indigenza e non di rado patire la fame, senza alcuna assistenza degna di questo nome. Parma la ascoltò con aria contrariatissima, poi corrugò minacciosamente le sopracciglia e la avvertì che se si fosse ancora avventurata al di sotto del centesimo livello avrebbe dovuto punirla. «La tua sciocca compassione è soltanto sintomo di immaturità», sbottò. «Vai a frugare nelle fogne, e poi vieni a dirmi che i topi ti fanno pena. Stupidaggini. Non voglio sentirne parlare. E se non ti togli queste idee dalla testa dovrò prendere provvedimenti. Guarda che sono ancora in tempo a impedirti di ottenere la patente di pilota, se non metti la testa a posto». Sfiorò un pulsante sulla strumentazione della sua scrivania e ordinò secco: «Jebediah, vieni immediatamente da me!» Il vecchio segretario s'accorse dell'umore di Parma appena lo vide in faccia, e nel fermarsi davanti a lui assunse un'espressione fra deferente e rassegnata. «Signore?» «Si può sapere cosa ti è preso? Hai portato tu la ragazza ai livelli inferiori? Oppure è stata lei a sfuggire alla tua sorveglianza?» «L'ho accompagnata io stesso, Console, visto che era impossibile dissuaderla. Ho pensato che fosse meglio così». «Tu hai pensato che fosse meglio? E chi sei tu per ignorare i miei ordini? Sono stato assente appena sei mesi, e già ti senti autorizzato a fare e disfare di tua iniziativa. Attento che per te può essere pericoloso dimenticare che sei soltanto un dipendente di questo ufficio». Jebediah deglutì saliva e sotto quel rimprovero ripiegò le spalle come un cane bastonato dal padrone. Ma il tremito spaurito che esibì era pura commedia: sapeva bene come prendere le ire del vecchio. Parma sollevò gli occhi al cielo, sospirò rumorosamente e si passò le mani sulla faccia. Venti secondi dopo il suo umore bellicoso era già sbollito. «Mmh... mi spiace aver dubitato di te, Jebediah», finì col borbottare. «Ti do atto che tu fossi convinto di agire per il meglio. So bene che la ragazza vuol sapere tutto e vedere tutto». «Signore, ho sempre cercato di occuparmi io di ciò che per voi è una seccatura». «Lo so, lo so. Il fatto è che il lavoro si accumula, e questo mi rende ner-
voso. Ecco il prezzo che devo pagare dopo ogni vacanza». Batté un dito su uno dei dispacci che il computer gli forniva in forma scritta, e sospirò ancora. «E le mie preoccupazioni non finiscono qui. Se tu avessi un gemello, lo manderei nello spazio di Labaya a tener d'occhio Marada». «Qualche guaio, Signore?» «E cos'altro c'è da aspettarsi, da quell'incosciente? Ma nulla che non si possa rimediare, per fortuna. Credo anzi che...» Shebat si schiarì la gola, accorgendosi che il Console Generale sembrava essersi già dimenticato della sua presenza. Parma si volse a guardarla. «Ah sì, Shebat. Vai pure, bambina. Ma ricorda: se mi giunge voce che sei stata laggiù ancora una volta, non importa se scortata da Jester in persona, puoi dire addio alla patente e anche al piccolo astrocruiser per cui ho già sborsato una somma non indifferente. Ho detto a Jebediah di considerarti una donna adulta e responsabile, ma non farmi pentire della libertà che ti lascio. Ora vai a dare un'occhiata al mio regalo, anche se non lo meriteresti... Aspetta!» Lieta di non esser stata punita la fanciulla s'era già avvicinata alla porta, e quasi non aveva udito le parole di lui. Ma quando l'ordine la costrinse a voltarsi sul viso le apparve un'espressione di perplessità, mentre richiamava alla mente ciò che Parma aveva detto. Poi sbarrò gli occhi, incredula. «Un'astrocruiser! Voi avete detto un'astrocruiser, padre? Avete proprio detto questo. Oh, dov'è? Dov'è», esclamò, correndo di nuovo accanto a lui. Malgrado le sue intenzioni di mostrarsi burbero e severo, Parma stentò a mascherare il sorriso nel vedere la sua eccitazione. Sbuffò e guardò altrove. «Vuoi sapere dove si trova? Mmh... Lasciami pensare un po'. Non ricordo neppure se me lo hanno detto. Mi hai fatto talmente perdere la bussola che me ne sono dimenticato. Non ho più la memoria di un tempo. Ah, questi giovani! Ecco come ti ricompensano dell'affetto e delle premure che hai per loro». «Dov'è, padre?», singhiozzò quasi Shebat, aggrappandoglisi a un braccio. «Via, ditemelo!» Parma si grattò il naso con finta indifferenza. «Vediamo, mi pare che sia stato consegnato a uno degli scali periferici...» «Ma quale? È davvero un astrocruiser?» «L'ultimo modello, uscito ora dai nostri cantieri. Ma forse è un bestione troppo grosso e potente per te», borbottò lui. «Comunque, prova ad andare al Molo Quindici e domanda se lo hanno li. Molo Quindici, già. E bada che per ora puoi soltanto guardarlo».
Al tentativo della ragazza di abbracciarlo e baciarlo Parma si schernì scontrosamente, tagliò corto alle sue esclamazioni emozionate, la rimproverò ancora che teneva in ben scarso conto le sue preoccupazioni di padre e infine la spedì via. Appena la fanciulla fu scappata fuori di corsa, il sorriso del Console Generale scomparve e Jebediah vide nuovamente addensarsi nei suoi occhi ombre di contrarietà. Parma scosse il capo. «La ragazza è per metà una Danzatrice del Sogno, ecco la verità. I suoi test attitudinali parlano chiaro». Stavolta il segretario non riuscì a mascherare la propria sorpresa. Non per quella notizia, di cui era già al corrente, ma per il fatto che il vecchio Console si confidava con lui. «Se solo cominciasse a sospettarlo, probabilmente la perderei. E questo non sarebbe neppure il guaio maggiore. Io non ho nessuna intenzione di diventare lo zimbello della Confederazione, e di vedere il mio casato trascinato nel ridicolo, forse nella rovina». Jebediah controllò accuratamente il tono. «Così è per questo che le avete regalato l'astronave. Volete incoraggiare certe sue attitudini per tenerne a freno altre». Aveva dimenticato di chiamarlo 'Signore', ma Parma non lo notò. «L'hai detto. Capisci ora perché devo tenerla lontana dai livelli inferiori? E tuttavia, qualcosa dentro di lei la spinge là». Al segretario occorse tutta la sua consumata abilità per restare impassibile. Rispose che comprendeva perfettamente, e che come padre anche lui avrebbe avuto le stesse preoccupazioni. Jebediah non ebbe tempo di riflettere su quella faccenda per tutto il giorno. Al termine dell'orario di lavoro il tramonto artificiale scese su Draconis, e il Consolato chiuse i battenti. Rimasto solo nel suo ufficio, con l'unica compagnia del lieve ronzio emesso dagli apparati automatici di sorveglianza, si assicurò che non ci fossero spie elettroniche in funzione e poi mise i piedi sulla scrivania con un sospiro di stanchezza. Chiuse gli occhi, con le mani intrecciate dietro la nuca. L'intimità era qualcosa che soltanto i Kerrion potevano permettersi veramente: Draconis pullulava di microspie d'ogni genere, ma lì nel Consolato abbondavano gli apparati difensivi. Questo lo faceva sentire sicuro, gli consentiva di rilassarsi e di pensare. Shebat Alexandra Kerrion, così ingenua e lontana dal capire la vera na-
tura del suo padre adottivo, era il solo soggetto delle sue meditazioni. Da oltre sei mesi la mente di Jebediah ruotava intorno a lei, mettendo a punto pian piano un progetto che non mancava di spaventarlo. Se non ci fosse stato tanto da guadagnare spingendo la ragazza nelle mani di coloro che aspettavano ansiosamente di occuparsi di lei, sarebbe stato lieto di lasciar perdere. Per un attimo considerò quell'ipotesi. La ragazza era come un pezzo di carne sul quale tutta la banda dei Kerrion si stava sbranando, dal branco di lupi che erano, e senza che lei se ne accorgesse neppure. Ma ormai le cose erano troppo avanti, e anche lui intendeva saziare la sua fame. Fame di vendetta, assai più cruda e animalesca della semplice brama di potere e di denaro. Il primo passo sulla strada della tanto agognata rivincita lo aveva fatto sin dall'inizio, e con tempismo, suggerendo a Selim Labaya il compromesso e la manovra dalla quale i Kerrion avrebbero dovuto uscire screditati. Se tutto fosse andato bene, Parma non avrebbe avuto il prossimo voto di fiducia e le redini del Consolato gli sarebbero state strappate definitivamente. Ed egli sarebbe stato lì per godersi la sua rovina attimo per attimo, in un posto di prima fila. Non gli importava delle difficoltà, a patto che fosse riuscito a condurre l'intrigo senza venire implicato. Ma avrebbe sopportato anche questo: pur di vedere la fine dei Kerrion e del loro prestigio, Jebediah avrebbe sacrificato tutto, perfino la vita. In quanto all'onore, in quanto alla reputazione, era ben disposto a perderli, e l'unica cosa che ormai gli importasse era il buon esito della faccenda. Senza contare che col ricavato del suo tradimento avrebbe potuto permettersi i servizi delle migliori Danzatrici del Sogno, senza più lesinare, notte dopo notte. Mesi addietro aveva calcolato con precisione che Selim Labaya non avrebbe sorvolato molto facilmente sulla morte di sua figlia. Labaya aveva tanto potere e tanti soldi da non sapere cosa farsene, e Jebediah aveva giustamente previsto che il suo solo impulso sarebbe stato quello di vendicarsi, perciò egli lo aveva contattato tramite un intermediario prima che passasse all'azione. Aveva chiesto un prezzo assai elevato, ma Labaya non aveva fatto una piega: anche a lui era piaciuta l'idea di una rivincita molto più sottile ed altrettanto crudele. I suoi pensieri scivolarono sul secondo dei motivi che lo avevano mosso: ciò che spendeva per le Danzatrici del Sogno aveva finito per impoverirlo, sebbene il suo reddito fosse più alto di quanto un uomo cresciuto nei livelli
inferiori potesse mai sperare. Ma i suoi creditori erano parecchi, e dovevano essere placati. Conosceva bene quella gente: non pagarli significava subire dapprima un pestaggio e quindi essere messi in lista per l'Aldilà. E pensare che quei manigoldi da quattro soldi osavano trattarlo come un debitore qualunque, lui che era nato dai lombi di un Kerrion. Perché questo era il segreto di Jebediah, il suo tormento, la spina gelida conficcata nella sua anima fin dall'infanzia, un'infanzia trascorsa nei bassifondi invece che nell'ambiente a cui aveva diritto. Era stato un Kerrion, uno zio di Parma, a metterlo al mondo ingravidando una povera prostituta, tacitandola poi con pochi soldi. Era stato un Kerrion a rifiutare di riconoscerlo, a fare di lui un bastardo. Era stato un Kerrion a mettere nel suo animo il seme destinato a trasformarsi nella pianta velenosa della vendetta, a fare di lui un uomo il cui solo scopo era la distruzione di una stirpe che gli aveva sputato in faccia. Oh, l'aveva tenuto ben nascosto il suo segreto... finché non s'era accorto che Selim Labaya in qualche modo ne era venuto a conoscenza. Labaya era un osso duro. Non contento del suo tradimento usava con lui il bastone e la carota: da un parte la minaccia di svelare il suo segreto ai Kerrion, dall'altra la promessa di fargli avere la cittadinanza. E tutto ciò, pensò con una smorfia di disprezzo per gli altri e per se stesso, aveva finito per portarlo nell'intrigo in cui si trovava. Già altre volte gli sarebbe stato facile complottare con Famiglie Consolari rivali, e lo aveva sempre evitato, ma questa volta sarebbe andato fino in fondo. Infine che rischio c'era? Neppure nei suoi sogni più azzardati s'era immaginato un'occasione così perfetta come quella creata dallo scapestrato Marada col suo viaggio sulla Terra, occasione facilitata poi dalla sofferenza che aveva reso Parma cieco e sordo alla cautela abituale. Appena l'ex Primogenito dei Kerrion aveva mandato il suo messaggio sulla Terra, Jebediah aveva sussurrato nelle orecchie di un emissario di Selim Labaya un primo abbozzo della sua idea: rifiutare l'invito dei Kerrion su Lorelie per un funerale in comune non sarebbe stato saggio, ed anzi una vendetta ben più dolce si prospettava per Selim Labaya se avesse accettato di temporeggiare e di consentire per intanto a un matrimonio fra Marada e Madel. Questo avrebbe fra l'altro evitato una guerra economica che, com'era facile immaginare, sarebbe stata abbastanza disastrosa per entrambe le due Famiglie. Con calma si sarebbe poi passati a una vendetta diversa. L'idea di Jebediah era piaciuta anche per un altra ragione, poiché con-
sentiva a Selim Labaya di restare con le mani pulite, almeno in apparenza. Tutto si accentrava su Shebat, ora. Se la ragazza non fosse stupidamente andata a chiacchierare con Parma delle sue vedute sociali sui livelli inferiori, la cosa sarebbe stata più facile. Adesso invece il padre adottivo le aveva proibito di rimettere piede laggiù, in quei vicoli dove Jebediah aveva fatto conto di metterla nelle mani di chi si sarebbe occupato di lei. Avrebbe dovuto studiare un altro espediente, si disse. «Shebat Alexander Kerrion», mormorò fra sé. «Che deliziosa Danzatrice del Sogno potresti essere». E questo non sarebbe neppure il guaio maggiore, gli risuonarono alle orecchie le parole di Parma. Io non ho alcuna intenzione di diventare lo zimbello della Confederazione, e di vedere il mio casato trascinato nel ridicolo, nella rovina. A dire il vero, sentendo quella frase Jebediah aveva sudato freddo. Per un momento allucinante gli era parso che Parma sapesse tutto, e che gli stesse dicendo in modo subdolo che l'aveva smascherato, o magari che il vecchio Labaya aveva parlato, optando per la soddisfazione minore di rivelare al rivale che serpe si allevava in seno piuttosto che attendere per il piacere più sottile promessogli da Jebediah. Gli era costato un sforzo restare impassibile, ma poi aveva tirato un respiro di sollievo: Parma non sapeva niente. Non poteva sapere né immaginare niente. O almeno così Jebediah sperava. Parma Kerrion era sempre stato capace di manovrare i suoi affari con astuzia innegabile, spesso trasformando una sconfitta in una vittoria, e nei ventidue anni dacché lavorava con lui il segretario aveva imparato che sottovalutarlo era pericoloso. D'altronde, se il vecchio sapeva tutto, perché non agiva? La vendetta di un Kerrion poteva essere peggiore di qualunque altra cosa, tremenda e completa. Preoccupato Jebediah tolse i piedi dalla scrivania e si massaggiò le tempie con dita tremanti. Stava forse facendo un gioco troppo grosso per lui? Preso fra Parma Alexander Kerrion e Selim Labaya, anche un uomo più duro di lui avrebbe dovuto contemplare la possibilità del suicidio, sempre che non appartenesse a una Casa Consolare. Ma il suicidio non era cosa per lui. Probabilmente, rifletté con un sogghigno faticoso, aveva finito per assimilare gli atteggiamenti mentali di un Kerrion. O li aveva ereditati. Ma che i due patriarchi giocassero pure la loro partita. Lui avrebbe proceduto per la sua strada verso l'obiettivo che s'era imposto da decenni, fino
alla fine sua o dei Kerrion. Ormai non aveva scelta. Pian piano le sue mani smisero di tremare, e si rilassò. La situazione gli si delineò chiara. Uno solo era adesso lo scopo da raggiungere: Shebat Kerrion doveva scoprire la Danzatrice del Sogno che era in lei, oppure scomparire senza lasciar traccia. La seconda alternativa sarebbe stata la più facile, e condotta nel giusto modo avrebbe portato conseguenze che Jebediah aveva accuratamente calcolato, ma la prima era infinitamente più gustosa. E in un certo senso lui avrebbe fatto un piacere alla ragazza, visto che i computer sbagliavano raramente. Parma era uno sciocco se presumeva davvero di cancellare quell'inclinazione dalla natura della ragazza, dopo che i test attitudinali l'avevano data per certa. Le imprudenze di Marada, gli errori di Parma, la vendetta di Selim Labaya, gli scopi occulti di Jebediah: tutto quanto veniva ora ad accentrarsi nella attraente e flessuosa persona di una fanciulla sedicenne. Una piccola selvaggia terrestre, rifletté pensosamente, anche se il computer oltre a rivelare le sue attitudini ne aveva scoperto la straordinaria intelligenza. E un altro dato notevole era contenuto in quelle schede: Shebat possedeva una strana collezione di caratteri genetici, la cui singolarità stava nel fatto che ogni maschio dei Kerrion era attirato da lei al di là di ogni raziocinio. Non per caso Marada l'aveva tolta dal fango del suo pianeta natale, non per caso Parma ne aveva fatto la sua Primogenita, e non per caso Chaeron l'aveva protetta da Ashera contrariamente ai suoi stessi interessi. Il sorriso di Jebediah si smorzò: ciò che egli aveva attinto dalla banca dei dati dei Kerrion era noto anche a Parma. E ciò che poteva esser detto sulle inclinazioni dei Kerrion verso la ragazza poteva valere anche per lui, visti i caratteri genetici in comune. Era per questo motivo che si scopriva così esitante a farla semplicemente uccidere? Era per questo che aveva scartato la soluzione più ovvia, optando per l'altra? Scrollò le spalle. Poco importava. E poi... che splendida Danzatrice del Sogno sarebbe stata Shebat Alexandre Kerrion! Si volse alla consolle della scrivania e batté il codice di un canale di comunicazione protetto da interferenze, quindi si mise in contatto con l'emissario di Labaya. Lo informò di preparare in fretta quello che sarebbe servito, annotò fermamente che aveva bisogno di un acconto in denaro, e poi chiuse la comunicazione prima che l'uomo facesse troppe domande. Se non poteva lui stesso condurre la ragazza al suo destino, qualcun altro si sarebbe occupato di farlo altrettanto bene.
«Softa! Softa David! Vieni a vedere!» Shebat si sporse dal grande portello esterno dell'astronave e agitò una mano, richiamando l'attenzione del giovane pilota in tuta grigia che camminava lungo i moli ferventi di attività. David Spry si avvicinò, e sulla vasta banchina del molo quindici la ragazza gli corse incontro e lo prese per le mani. Il giovanotto rise. «Dunque è qui che sei stata nascosta per tre giorni? Ho cercato di mettermi in contatto con te, ma pare proprio che per comunicare con una Kerrion occorrano conoscenze in alto loco». «Ti ho lasciato un messaggio all'Associazione Piloti. Non lo hai avuto?» Un'ombra attraversò il sorriso di lei. «Ma non importa. Ora tu sei qui, e questo solo conta. Vai di fretta? Oh, Softa, non potrei vivere un altro momento senza mostrarti il Marada. Vieni dentro qualche minuto, ti prego». Fermo accanto alla lunga banchina su cui era attraccata l'astronave David Spry esaminò la sua mole lucente. All'improvviso s'era accigliato. «È presagio di scalogna chiamare una nave col nome di un uomo, specialmente di uno la cui fortuna è notoriamente scarsa». «Saliamo. Voglio farti vedere l'interno». Il giovanotto resistette alle mani di lei che cercavano di tirarlo verso la rampa d'ingresso, poi la afferrò forte per le spalle. «Meglio di no». Strinse i denti e la fissò. «Cambiale il nome, Shebat. Lo hai già fatto registrare? Cambialo». «Perché?» Meravigliata ella cercò di svincolarsi dalla stretta, ma il giovane pilota la teneva con fermezza. «Anche la nave di Parma ha un nome maschile, no?» «Di un cavallo, non di un uomo». David Spry la prese per un gomito e la fece scostare di qualche passo, come se la vicinanza del portello d'ingresso lo innervosisse. «Softa... cosa c'è che non va? Non sei felice per me? Non è una bella nave forse?» «Certo che è bella, ma è troppo complicata e potente per te. E anche troppo irresistibile. Voglio che tu mi prometta di non decollare finché io non sarò dell'opinione che tu sia pronta a farlo». «Via, non contrariarmi». Con un sorriso lei riprese a tirarlo verso il portello, testardamente e con energia. «Shebat!», sussurrò lui, rigido. I moli erano pieni di gente, tecnici e operai al lavoro sulle numerose a-
stronavi ormeggiate nelle loro banchine, e molti di essi s'erano voltati a guardare incuriositi cosa stava accadendo al Molo Quindici, dove tutti sapevano che l'erede dei Kerrion era alle prese col suo nuovo giocattolo. Che tutti quegli occhi lo vedessero accanto alla ragazza non piacque a David Spry. Aveva un motivo ben preciso per evitare che fossero risaputi i suoi rapporti con la Primogenita dei Kerrion. Sei settimane al loro servizio gli erano sembrate sei anni. «Andiamocene di qui, Shebat. Vieni con me in un posto più tranquillo, e parleremo un poco. Qui sei troppo al centro dell'attenzione», disse sottovoce. Innervosito si chiese se ella capisse, se si rendesse conto di ciò che le stava accadendo e del motivo per cui egli era lì. Per un attimo provò compassione per lei, ma subito una voce fredda dentro di lui gli sussurrò che non poteva permettersi quel genere di sentimentalismi. «Conosco un localino al settimo livello. Non è lontano». La fanciulla lo seguì fuori dallo scalo spaziale docilmente. Sulla strada David la fece salire su un piccolo veicolo pubblico automatico, inserì i dati di un bar in cui si recava spesso e sedette al suo fianco sul divanetto nel retro scoperto della vettura. Mentre questa girava sull'imbocco di un pozzo a caduta gravitazionale controllata vide negli occhi di lei una certa ansia, e intuì che il pozzo la spaventava. «Non dirmi che fin'ora hai trascorso tutto il tuo tempo nei livelli a gravità standard», la prese in giro amichevolmente. «Niente affatto. Sono stata molto più in basso di dove stiamo andando adesso», protestò lei. «Ma con un ascensore, non con un veicolo». David Spry annuì, e i suoi orecchini da pilota scintillarono ondeggiando avanti e indietro. «Non c'è molta differenza. Anche gli ascensori sfruttano la gravità controllata. Ma cos'è che ti ha fatta scendere nei sobborghi? Sentiamo, hai forse un corteggiatore segreto e vai a incontrarlo dove le orecchie di tuo padre non possono arrivare? E ci sei andata da sola?» Shebat si limitò a ridere, ma poi abbassò il capo timidamente. Lui le osservò il collo, sotto la nuca, dove c'era la quasi invisibile linea dell'orlo della similpelle che sotto i vestiti le forniva protezione. Era quasi una bambina, e per questo più facile da persuadere e da manovrarsi. Il suo imbarazzo di fanciulla lo fece sentire rozzo, freddo e cinico. Ma le leggi della vita erano spesso dure, rifletté, e ciascuno doveva accettarle. Venire a compromessi con se stesso era quasi un obbligo per chi intendeva sopravvivere in un mondo spietato, e rammaricarsene non serviva a niente. Tuttavia dovette lottare con rammarico e col senso di colpa, quando eb-
be fatto accomodare la fanciulla in un separé del bar automatico, al settimo livello, e si fu seduto di fronte a lei. «Shebat», disse. «Hai riflettuto su quali possono essere i motivi di Parma Kerrion nell'elevarti al rango di sua erede, e sul perché egli soddisfi ogni tuo capriccio non importa quanto dispendioso? No? Ascolta bene allora, piccola apprendista pilota, o non vivrai neppure abbastanza da goderti questo astrocruiser che ti eccita tanto». «Che vuoi dire?» «L'intera Confederazione ha preso atto che Parma Alexander Kerrion ha una nuova Primogenita, adottiva ma legale, e nella Confederazione nessuno dubita di quanto il tuo fratellastro Chaeron debba sentirsi defraudato a causa tua. Si dà per scontato che lui e sua madre Ashera vedrebbero di buon occhio la tua morte. Ora metti il caso che ti accada qualcosa, e che Parma abbia predisposto di far cadere i sospetti - con suo immenso dolore, s'intende - su Ashera e suo figlio». Shebat sbarrò gli occhi. «Perché Parma dovrebbe far questo?» «Perché vive per il potere. E se riuscisse a far incriminare quei due, privandoli almeno della cittadinanza, con te fuori gioco, nessuno potrebbe criticarlo se riammettesse Marada nel rango di Primogenito. E Marada ora ha un'alta posizione nella famiglia Labaya. Di conseguenza Parma avrebbe una forte carta da giocare per ottenere il dominio anche nello spazio di Labaya. E con Kerrion e Labaya unite sotto di sé, avrebbe in mano la Confederazione. La vita di una ragazza terrestre conta meno di quella di una mosca, in un gioco di questa portata. Capisci?» La fanciulla lo fissava incredula. Deglutì saliva ed evitò il suo sguardo, poi sussurrò: «Cosa credi che io debba fare per proteggermi?» Softa David sospirò, ma il suo era un sospiro di sollievo. «Credevo che sarebbe stato molto più difficile convincerti». Allungò le mani sopra il tavolino a stringere le sue. «Io ti credo, Softa David. Da quando Marada se n'è andato, ho bisogno di qualcuno di cui fidarmi». Il tono accorato di quella frase acuì la sensazione di rimorso che rodeva il giovanotto. Per scacciarla dalla mente cominciò subito a spiegarle il suo piano. «Io ho amici negli strati più umili di Draconis, e conosco altra gente la cui lealtà è in vendita al miglior offerente. Sotto il decimo livello qualsiasi cosa può essere comprata: un quarto di cittadinanza, metà, o tutta intera. Una nuova identità, un diverso codice di accesso ai computer, un posto per
nascondersi finché durano le ricerche, o finché il tempo e la maturità rendano completo un tuo mutamento d'identità. E questo perché dovrai nasconderti, piccola. Il tutto potrà essere acquistato rivendendo il Marada, e darlo via per un buon prezzo non sarà difficile... ovviamente fuori dallo spazio di Kerrion». «Io non voglio vendere il Marada!», esclamò lei rabbiosamente. Ma come David Spry aveva sperato sul suo volto finì per dipingersi l'incertezza. «Perché dovrei? E poi, Parma è stato buon con me». Si morse le labbra, poi ebbe ancora un ansito di sofferenza e mormorò: «Perché, David?» «Perché solo così eviterai la morte prematura che ti attende se resterai nella trappola dei Kerrion. Avevi guardie del corpo su Lorelie?» «Sì, quattro», rispose lei sottovoce. «E ora non le hai più, vero?» «Io... non ne sono sicura. So che quando sono arrivata su Draconis gli agenti del servizio di sicurezza assegnati a me erano due, ma negli ultimi giorni non sono mai uscita dal Marada e non li ho visti. Del resto Parma non mi lascerebbe senza sorveglianza, e dappertutto ci sono occhi e orecchie elettroniche...» Al pensiero s'irrigidì, ricordando gli ordini del suo padre adottivo. «Probabilmente sa anche dove mi trovo in questo momento, e questo significa che portandomi qui tu mi hai messo in un guaio. Potrebbe togliermi il Marada, e impedirmi di prendere la patente di pilota». Con un gemito si passò una mano sulla fronte. «Oh, Softa! cosa posso fare? Questa non me la perdonerà». David Spry si appoggiò allo schienale e la osservò pensosamente, poi allungò una mano verso i comandi del bar automatico. «Cosa preferisci bere? Vino, birra, o vuoi una cocoa dolce?» Lei non gli diede risposta. Accigliata fissava il tavolo di legno sintetico senza neppure vederlo. «Come mai la sai tanto lunga sugli affari dei Kerrion?», chiese poi. La domanda colse Spry di sorpresa, ma la sua espressione non mutò. «Ho navigato spesso con Marada, quando eravamo entrambi apprendisti piloti. Credo di potermi considerare suo amico», disse in fretta. Questo era vero, ma non intendeva lasciare che la ragazza gli chiedesse altro sulla sua vita e cambiò subito discorso: «Torniamo a noi. Visto che a quanto mi dici sarai forse costretta a perdere il tuo nuovo astrocruiser, l'unica soluzione è di lasciare che io lo rubi». «Cosa?» «Rivelami il codice chiave d'accesso e io porterò l'astronave fuori dallo
spazio di Kerrion. Se non vuoi venderla, vuol dire che la lascerò in qualche posto dove ti sia possibile recuperarla in futuro. Dovrò fare in modo di lasciar credere che tu sia partita, ovviamente senza i documenti in regola e infrangendo la legge; ma ingannare i tecnici dello scalo sarà facile. È chiaro che dopo un atto simile ti verrà tolta la cittadinanza, tuttavia questo è inevitabile». «Inevitabile? Ma io dove potrò andare, e che ne sarà di me? Senza la cittadinanza non mi resterà più niente!» Due contenitori di plastica scivolarono fuori da uno scomparto del tavolo, accompagnati da due bicchieri di cristallo, mentre il prezzo della consumazione compariva in un rettangolo luminoso. David Spry tolse la sua carta di credito dalla fessura in cui l'aveva infilata per pagare la consumazione, quindi riempì di vino il bicchiere della ragazza e lo spinse verso di lei, comunicandole con un mugolio di comprensione che non prendeva alla leggera il fatto di perdere la cittadinanza. Le chiese scusa per essersi espresso in termini tanto crudi, poi si sporse in avanti con aria da cospiratore. «La Confederazione è grande, ma oltre le piattaforme e i pianeti civilizzati ci sono parecchi posti dove si può andare. Esistono dovunque gruppi di... chiamiamoli avventurieri, indipendenti dai consolati, che sarebbero disposti ad accogliere a braccia aperte un'astronave equipaggiata e modernamente armata come la tua. Si può vivere abbastanza bene anche fuori dalla Confederazione, se non si è troppo schizzinosi. E tu non puoi permetterti di esserlo. Ma non sarà necessario che tu lasci Draconis. C'è un posto, su questo stesso livello...» «Ma sarei una fuorilegge!» «Meglio una fuorilegge viva che una cittadina morta». «Non mi convince. E poi Marada non mi avrebbe mai affidata alla tutela di Parma, se avesse sospettato che lui...». David Spry la afferrò rudemente per un polso. «Shebat, se non mi credi io ti riaccompagno su e ti lascio nelle mani di Parma. Io non posso far altro che parlarti come mi suggerisce la coscienza, com'è mio dovere verso un'amica e una collega». Ritrasse la mano e sollevò il suo bicchiere. «Alla tua salute e alla tua dolce ingenuità. Possa tu cavartela sempre nella vita... e specialmente adesso». Bevve lentamente, osservandola con la coda dell'occhio, e dal nervosismo di lei comprese che aveva colpito nel segno. Ma mentire non gli aveva mai dato tanta poca soddisfazione. Dopo un'esitazione anche la fanciulla bevve, vuotando il bicchiere con
due soli sorsi. «Una volta», mormorò, «Marada mi ha detto che ai Kerrion interessa solo il potere. Forse si riferiva agli altri suoi familiari... non credo che volesse includere anche se stesso in questa considerazione». La tristezza che David lasciò trapelare dai suoi occhi non era del tutto falsa. «So che hai molto affetto per lui. Ma io ho conosciuto bene Marada, come un uomo può conoscere un compagno di bagordi, e devi credermi se ti dico che lui non è diverso dagli altri Kerrion. È buono d'animo, ma la ricchezza lascia segni profondi sul carattere e guasta chiunque. È viziato, abituato ad avere tutto ciò che vuole, e in amore è un incostante. Inoltre è un pilota, e per noi piloti l'amore è qualcosa di effimero, molto meno importante del sesso e del divertimento. Una donna in ogni porto: questo è il suo motto. Amale e poi lasciale. La cosa sola che per noi conta è la lealtà verso i colleghi». Le regalò un sorrisetto opaco. «Ed è troppo un Kerrion per andar contro i suoi interessi, mettendo in pericolo il suo matrimonio con Madel Labaya. Non se lo sogna neppure, non illuderti. Se anche tu lo rivedessi, cosa potresti sperare da lui? Poche notti d'amore rubate alla donna che è sua moglie, non diversamente dalle altre ragazze che gli capita di incontrare sulle piattaforme dove fa scalo per qualche giorno. Niente di più». Nel parlare fu costretto a tenere gli occhi sul bicchiere come se lo studiasse. Non ce la faceva a guardarla in faccia, la crudeltà insensata non era cosa che lo divertisse. Sentì alcuni lievi ansiti, un singhiozzo subito soffocato, e intravide una mano di lei alzarsi ad asciugare un luccichio umido dalle guance. Strinse i denti, odiandosi per quel che aveva detto. «Per tutte le stelle, non sprecare le tue lacrime per quello scapestrato, Shebat! Non se lo merita». Con sua stessa sorpresa cedette all'impulso di alzarsi e aggirò il tavolo. Sedendosi accanto a lei le cinse le spalle con un braccio. Perché proprio io, signore? pensò rabbiosamente. Ma era una domanda accademica, di cui conosceva già la risposta. «Cosa posso fare?», ansimò lei dopo un poco, poggiandogli il capo su una spalla. «Tanto per cominciare asciugati gli occhi, piccola. I piloti non piangono gli amori perduti, lasciano che siano gli altri a piangere per loro. Adesso, se te la senti, discutiamo i dettagli della cosa. Il posto in cui intendo condurti è una casa dove lavorano alcune Danzatrici del Sogno. È un'attività illegale, il che significa che lì sarai al sicuro dalla legge. E non guardarmi così... Dalla tua faccia, direi che hai proprio bisogno dei servizi di una Danzatrice del Sogno».
Nel parlare il giovanotto ebbe l'impressione d'essere un pescatore che lanciasse la lenza con infinita dolcezza sull'acqua immobile di un laghetto. L'esca affondava lenta e invitante verso il pesciolino, confezionata ad arte, e il pesciolino dai grandi occhi grigi la rimirava a bocca spalancata. Come aveva previsto, la ragazza gli domandò cosa fosse in realtà una Danzatrice del Sogno, e la sua ignoranza lo fece ridacchiare divertito. Strizzandole l'occhio le promise che fra poco lo avrebbe scoperto da sola. Fu allora, proprio mentre si stava congratulando con se stesso per l'eleganza con cui le aveva presentato l'esca, proprio mentre diceva a se stesso che la ragazza non era poi sveglia e intelligente come i suoi test attitudinali proclamavano, che lei lo respinse e si scostò. «Softa», disse. «Saresti disposto a ripetere davanti a Parma ciò che mi hai detto sulle sue manovre?» Il tono della sua voce non gli piacque affatto. Cercando di controllarsi rispose: «Io sono un Maestro Pilota, Shebat. E ho già preso l'impegno con l'Associazione Piloti di essere il tuo istruttore di pilotaggio. Si tratta di un giuramento vero e proprio, il quale mi obbliga fra l'altro a essere sincero con te e ad aiutarti in caso di bisogno. Parma è il mio datore di lavoro, e ho dei doveri precisi verso di lui, però questi non mi legano fino al punto di rimetterti indifesa nelle sue grinfie. Cosa credi che accadrebbe a te e a me, se andassi a fargli un discorso di questo genere?» Doveva andar cauto ora. Le reazioni di lei non erano del tutto prevedibili. «Ascoltami. Non mi hai ancora domandato come sapevo che oggi non hai guardie del corpo. Domandamelo». «E va bene. Come lo sai?» borbottò lei, scura in volto. «Quando ho cercato di mettermi in contatto con te, ho scoperto che nessuno al Consolato sapeva dove eri andata a cacciarti. La banca dei dati non aveva informazioni sui tuoi spostamenti. Questo mi ha dato da pensare. Allora sono sceso in un locale del secondo livello dove sapevo che le guardie del corpo al servizio del Consolato andavano a bere, e ho sentito due di loro parlare. Dai loro discorsi ho saputo che avevano avuto l'ordine di cessare la sorveglianza protettiva su di te, e che quest'ordine era venuto dall'ufficio del Console Generale. Capisci cosa significa questo? Allora ho deciso che era mio dovere intervenire, come il giuramento mi obbligava a fare. Per questo ti ho cercata oggi: a qualcuno fa comodo che tu rimanga priva della scorta». «Alludi a Parma?» «E a chi altro?» mentì lui. «Le guardie ricevono gli ordini dal suo uffi-
cio, no?» Shebat scosse il capo. «Se è vero che nessuno ha saputo dov'ero in questi tre giorni, ne consegue che Parma non può sapere dove sono neppure adesso. Dunque non c'è pericolo che mi voglia punire levandomi il Marada e impedendomi di prendere la patente di pilota. Ma l'ordine di revocare la sorveglianza protettiva su di me non può essere venuto da lui: se volesse davvero eliminarmi, non sarebbe così idiota da scoprire il suo gioco in questo modo. Inoltre, Softa, perché mi hai portato quaggiù invece di salire con me sul Marada, dove ci sarebbe stata molta più sicurezza e intimità?» Per qualche secondo lo fissò dritto negli occhi. «Le lacrime che tu mi hai detto di asciugare non erano soltanto uno sfogo, Softa. Le lacrime lavano via la paura, il dolore, la confusione, e lasciano la mente libera di pensare con più chiarezza». Dopo una pausa la fanciulla riprese, in un sussurro: «Cosa hai progettato di fare nel caso che io rifiuti il tuo aiuto, pilota? È qui con te che io corro il pericolo di cui hai parlato. Vuoi rapirmi per poi chiedere un riscatto alla mia famiglia, o cos'altro? Chi è stato in realtà a richiamare la mia scorta? Quali sono le cose che non mi hai detto?» «Per tutti gli uragani del cosmo!» esplose lui balzando in piedi. «Avanti, alzati. Adesso ti riporto a casa tua, o alla tua astronave. Anzi, vattene per conto tuo e fai quello che ti pare. Di quello che ti accadrà da ora in poi, io me ne lavo le mani!» Con un gesto rabbioso David Spry intascò la tessera di credito, spalancò la porta del separé e uscì a passi lunghi nella sala comune del locale, piena di clienti, senza voltarsi a controllare se Shebat lo seguisse o meno. Ma un istante prima di arrivare in strada sentì una mano aggrapparsi timidamente alla sua blusa. La fanciulla lo aveva raggiunto, rossa in viso e imbarazzata. Le parole che ella mormorò si persero nel vocio degli avventori e di un grosso teleschermo che stava trasmettendo un avvenimento sportivo. David sbuffò, accennandole di seguirlo in strada. Quando fu sul marciapiede, fra il viavai di veicoli e di cittadini di seconda classe che frequentavano quel livello, si fermò a guardarla per capire cosa stesse pensando. L'insegna luminosa del bar lampeggiava sulle loro teste, alternativamente rossa e verde, e dipinto da quei due colori violenti il volto di lei gli apparve spaurito quando gli si strinse accanto. «Softa... scusami. Farò come vuoi. Andiamo a conoscere le Danzatrici del Sogno, e poi parleremo ancora un poco. Ho bisogno di tempo per riflettere, ho l'impressione di vedere dappertutto qualcosa che mi minaccia,
cerca di capirmi. Ti prego». Lui esibì un'espressione severa e ancora offesa, ma faticava a reprimere un sorriso di sollievo. «Scuse accettate, piccola. Andiamo, anche se mi pare che difficilmente una Danzatrice del sogno riuscirà a cancellarti dalla testa tutti i pensieri che ti opprimono». Fu in quel momento, giusto mentre le passava un braccio attorno per avviarsi con lei sul marciapiede, che due ombre umane scivolarono in fretta nel buio di un portone. «Seguimi, Shebat. Di corsa!» sibilò. Ma era già tardi: i due individui s'erano accorti che la loro presenza era stata individuata e si stavano avvicinando a passi lunghi. Non indossavano alcuna uniforme, tuttavia i loro modi decisi e la loro aria da professionisti rivelarono a David Spry che i suoi peggiori sospetti s'erano avverati. Con un balzo scantonò in un vicolo male illuminato trascinando Shebat con sé, e una ventina di metri più avanti scorse con la coda dell'occhio i due inseguitori arrivare di corsa. «Tu pensa alla ragazza!...» sentì ordinare da uno di essi. «Oh, Softa!» ansimò lei. «Mi spiace aver dubitato di te». Pochi secondi più tardi gli uomini furono loro addosso. David si volse di scatto per colpire quello che lo aveva agguantato per una spalla, e riuscì ad affondargli un pugno nello stomaco. Poi qualcosa gli piombò sulla testa e nei suoi occhi il buio del vicolo deserto parve esplodere in un lampo accecante. Quando riaprì gli occhi comprese che il suo svenimento non era durato più di un paio di minuti, ma soprattutto fu sorpreso di essere ancora vivo. Sotto la sua guancia sinistra c'era la pavimentazione umida della stradicciola, e un peso enorme gli gravava sulla schiena. Girando il capo poté vedere la faccia dell'uomo che giaceva inerte sopra di lui: anche nella semioscurità era evidente su di essa una chiazza di pelle orribilmente raggrinzita, e nell'aria stagnava ancora l'odore acre del gas ustionante. Con un grugnito spinse via il cadavere, poi vide Shebat inginocchiata a terra qualche metro più in là. All'apparenza era illesa, anche se stava a testa china e ansimava come se piangesse. Si trasse in piedi e barcollò verso la fanciulla, tastandosi le costole con una smorfia di dolore. L'altro individuo era disteso quasi contro il muro, e andando a rivoltarlo comprese che la sua immobilità era di un genere definitivo. La capsula di gas ustionante che Shebat aveva usato era rotolata in una pozzanghera di umidità, vuota, dopo che il contenuto mortale aveva
bruciato i polmoni dei due uomini che l'avevano ricevuto in piena faccia. Avrebbe dovuto aspettarselo, rifletté: una Kerrion non si portava certo dietro il solito innocuo lacrimogeno antiscippo. Per fortuna le era stato insegnato a dovere come usarlo, e la sua mira era stata perfetta anche durante la colluttazione. Decisamente la piccola era tutt'altro che da sottovalutare, anche se ora tremava per la reazione nervosa. Ancor prima d'essersi chinato presso di lei, il giovanotto si disse che l'uomo da cui erano stati mandati i due gorilla gli aveva fatto un grosso favore. E non era il caso di perdere altro tempo e lasciarle il modo di riflettere: quell'occasione andava sfruttata subito e fino in fondo. Le accarezzò il viso dolcemente. «E allora, piccola tigre, mi credi adesso? Fatti forza, alzati. Qui non siamo al sicuro. Quella che fino a poco fa poteva essere solo un'ipotesi, ora è diventata purtroppo realtà. Pallida e incapace di parlare lei vacillò in piedi, poi lo seguì di nuovo verso l'imboccatura del vicolo lanciando attorno occhiate spaurite. Nessuno fra i numerosi passanti sembrava essersi accorto di quanto era loro accaduto. «Non c'è bisogno di correre», mormorò lui, prendendola a braccetto. «Cammina con calma, fai finta di guardare le vetrine dei negozi... Così, brava. Il posto che ti ho detto non è lontano». Tre isolati più avanti David la fece svoltare in una traversa e le indicò una porta, cinque scalini più in basso rispetto alla strada. L'anonimo battente scuro non recava alcuna targhetta, e non c'erano citofoni o placche di campanelli. Mentre il giovanotto bussava con le nocche delle dita, al suo fianco Shebat deglutì saliva per l'apprensione. «Oh, Softa... Quegli uomini erano due delle mie guardie del corpo, li ho riconosciuti. Ho paura!» «Li hai sistemati a meraviglia», borbottò lui. «E non temere, qui c'è chi si prenderà cura di te». Silenziosamente la porta scivolò di lato, rientrando nel muro, e la morbida voce di una ragazza disse: «Sei in ritardo, David. Ti stavamo aspettando». Mentre forniva a un veicolo pubblico le istruzioni per risalire al livello superiore di Draconis, il livello dei Kerrion, David Spry meditava sull'inaspettata comparsa dei due uomini e su quale poteva essere lo scopo dell'aggressione. La possibilità più ovvia era che fossero stati mandati giù con l'ordine di eliminarlo appena egli avesse esaurito il suo compito, ma
che fossero arrivati troppo presto. Il loro mandante, l'uomo con cui egli era in contatto, era proprio il tipo da cui c'era da aspettarsi questo genere di doppio gioco. Tuttavia l'uomo non era uno sciocco, o almeno non certo così sciocco da farlo eliminare prima che egli portasse la ragazza dove doveva esser portata. Ciò lo conduceva a esaminare la seconda possibilità, quella più sgradevole. Socchiuse gli occhi, fissando senza vederli i numeri indicanti i livelli che si susseguivano sulla rampa di risalita, poi di bocca gli uscì una risata secca e amara. Scartata la prima ipotesi restava quella che i due uomini di Parma stessero facendo semplicemente il loro lavoro di guardie del corpo, e che si fossero insospettiti per qualche motivo decidendo di passare all'azione. Ma se erano stati rimessi alle costole della ragazza, ciò significava che Parma aveva scoperto che qualcuno aveva provveduto a interrompere la sorveglianza giorni addietro. Dunque il suo uomo poteva esser stato scoperto, rifletté, e lui stesso stava forse andando a cacciarsi in una trappola. Fermò il veicolo in una traversa tranquilla, premette il tasto che richiedeva Sosta-Passeggeri in attesa, e dopo aver introdotto la sua tessera di credito in una fessura della consolle fece il numero della banca dei dati. Appena ebbe il collegamento batté il suo codice di accesso e formulò alcune domande per il computer, le risposte alle quali gli giunsero sul piccolo schermo della vettura. Da esse risultava che lui era sempre in servizio al Consolato di Kerion come Maestro Pilota, e che nessuno aveva esaminato i suoi dati di recente. In quanto a Shebat Alexandra Kerrion, si presumeva ancora che fosse in una località non specificata del livello superiore (Qui seguivano due possibili luoghi, uno dei quali era: Molo 15) In breve, da quel che poteva desumere tutto era tranquillo. Ma cos'altro s'era aspettato? Una caccia ai suoi danni? Il fatto stesso che il suo codice d'accesso non fosse stato annullato, rivelava che nessuno sospettava di lui. Interruppe il contatto con la banca dei dati e aprì la linea telefonica, registrando un messaggio che inviò contrassegnato come Emergenza-Priorità assoluta all'ufficio del segretario del Console. Non desiderava parlargli personalmente, ed a quel modo era certo che la comunicazione non sarebbe stata intercettata. Fatto questo, chiuse gli occhi e protese la mente verso il familiare contatto telepatico della sua astronave. «Bucephalus, sono David. Mi ricevi?» «Sì, David. Ti ricevo», gli pervenne subito la risposta, chiara come una voce che gli parlasse nella testa malgrado la distanza.
«Siamo alle prese con un problema di carattere piuttosto insolito, al quale bisognerà dare una soluzione altrettanto insolita. Registra con attenzione, perché quando arriverò a bordo non avrò tempo di ripeterti queste istruzioni. Appena pronuncerò la parola chiave che ora ti fornirò, tu comincerai a tradurre in pratica lo schema d'azione che ho programmato secondo per secondo. Chiaro?» «Chiaro. I soliti sotterfugi di voi esseri umani, vero? Avanti, pilota, sentiamo cos'è che dovremo fare oggi tu ed io». Più tardi, dopo che David Spry ebbe raggiunto il molo a cui era attraccato il Bucephalus e fu salito a bordo, ebbe appena il tempo di comunicare alla torre di controllo che stava partendo per un normale collaudo che Jebediah si precipitò ansante su per la scaletta. Il vecchio segretario del Console Generale era puntuale al secondo con l'appuntamento richiestogli, ma nell'entrare in plancia gli occhi gli brillavano per l'ira e non nascose il suo nervosismo. «Siediti e assicurati a quella poltroncina», disse David, ignorando la sua espressione. Sfiorò i comandi manuali e il portello stagno dell'astronave si chiuse con un sibilo. Sotto i loro piedi ci fu la vibrazione dei motori che si accendevano. Un cronometro cominciò a scandire i secondi che mancavano all'uscita nello spazio. «Si può sapere cosa diavolo...» ringhiò Jebediah. «Tappati la bocca», lo interruppe il giovanotto. «Ti dirò tutto appena saremo al sicuro». Il segretario di Parma Kerrion conosceva meglio di lui la perfezione insidiosa degli apparati spia disseminati ovunque, e tacque. Ma il solo fatto di essere lì rischiava di comprometterlo gravemente. Sedette, allacciò le tre cinture di sicurezza e chiuse gli occhi, appena in tempo per evitare il contraccolpo del decollo. Poi l'accelerazione lo schiacciò duramente contro lo schienale imbottito e sagomato. Stava diventando troppo vecchio per questo genere di cose, inoltre aveva bisogno di tempo per riflettere sulla situazione, e quell'improvvisata del pilota non gliene aveva dato modo. Si rendeva conto, con rabbia, che se avesse avuto un minimo di cervello non avrebbe dovuto neppure trovarsi lì, ma la sua preoccupazione era stata superiore al suo naturale desiderio di prudenza: i due uomini che aveva mandato a tappare per sempre la bocca al giovanotto non erano tornati a riferire, e questo poteva significare qualunque cosa. Spry non pareva sospettare di niente, anche se il fatto di averlo convocato lì con urgenza era
contrario a tutti gli ordini che lui gli aveva dato. Qualcosa doveva essere andato storto, dunque, e Jebediah aveva assoluta necessità di sapere cosa. In mano aveva una sottile valigetta metallica, nella quale aveva messo una somma in denaro doppia di quella pattuita col pilota, questo nel caso prevedibile che lui avesse aumentato le sue pretese. Cercò di rilassarsi sulla poltroncina, osservando distrattamente gli schermi su cui danzavano le stelle. Draconis era lontana dietro di loro, e l'astronave stava facendo rotta a velocità planetaria verso il sole del sistema attorno a cui ruotava. Jebediah rifletté con un grugnito che stavano andando in direzione della stella fin troppo rapidamente per i suoi gusti, anche se conosceva l'abilità di Spry. Poi l'accelerazione diminuì tanto all'improvviso che lo stomaco gli salì quasi alla bocca. «Cosa diavolo stai cercando di fare, pilota?» sbottò. «Ufficialmente un semplice volo di controllo. Parma avrà bisogno dell'astronave domani, e noi non vogliamo che qualcosa a bordo funzioni male, vero?» Con un sorrisetto il giovane intrecciò le mani dietro la nuca, studiando gli schermi. «Falla corta. Avevi tanta urgenza di vedermi che mi hai costretto a espormi di persona. Adesso siamo fuori portata di ogni possibile spia o interferenza, perciò cos'è che vuoi dirmi?» Insospettito dalla strana calma di Spry, Jebediah armeggiò intorno alle fibbie delle cinture di sicurezza. Una goccia di sudore gli scivolò sul labbro superiore. «Abbiamo un conto da saldare», disse il pilota. «Lo avevi dimenticato?» «Ma sì, il tuo denaro!» sbottò Jebediah. «L'ho portato. Come si tolgono queste dannate cinghie?» «Non si tolgono», disse lui dolcemente. Allungò una mano e gli strappò la valigetta dalle dita. «Grazie. Il conto a cui alludevo è però un altro, e tu sai quale. Reggiti forte, bastardo, e... Addio!» Nell'udire la parola chiave, il Bucephalus reagì immediatamente secondo le istruzioni. Con uno schiocco i sigilli dei meccanismi di espulsione sul pavimento intorno alla poltroncina di Jebediah saltarono via. Due emisferi di materiale plastico trasparente si alzarono richiudendosi ermeticamente intorno ad essa, e nell'interno della bolla il vecchio segretario sbarrò gli occhi emettendo grida che non si udirono. Poi il portellone sul soffitto della plancia si sollevò, e nel locale ci fu il boato violento dell'aria che scaturiva nel vuoto dello spazio. Mentre la plancia si depressurizzava completamente David
Spry sentì la similpelle che ricopriva ogni millimetro del suo corpo tendersi, e chiuse il naso e la bocca per trattenere nei polmoni l'ultimo prezioso respiro che aveva inalato. Chiuse gli occhi più forte che poté, scosso dalla ventata d'aria. Dieci secondi: David Spry li contava uno dopo l'altro. Senza la protezione della similpelle l'incoscienza e la morte sarebbero sopravvenute nel giro di pochi battiti di cuore. Ricoperto opportunamente, un corpo umano poteva resistere al vuoto e allo zero assoluto per un minuto circa. Nessun rumore era più udibile, nella mancanza d'aria, ma dalla sua destra gli pervennero alcuni scatti attraverso il pavimento, intanto che i ganci scattavano liberando la sfera di plastica. Le" luci di emergenza lampeggiavano rosse. Una vibrazione lo informò che la capsula di sopravvivenza veniva sollevata verso l'apertura nel soffitto. Venti secondi: Intorno a lui c'era il gelo. Non osava aprire gli occhi, ma poteva immaginare il disperato agitarsi dell'uomo imprigionato dalle cinture di sicurezza. Certo scalciava e si dibatteva, annaspando con le fibbie. Oppure stava urlando? Poi con una silenziosa esplosione la capsula fu proiettata all'esterno, lontano dall'astronave. Venticinque secondi: Secondo il programma, il portellone dell'uscita di emergenza si richiuse. Due luci rosse divennero blu. Tutto era ricoperto da una lieve patina di umidità congelata simile a brina. Entrando in funzione il meccanismo d'espulsione aveva fatto spegnere automaticamente il campo orizzontale di gravità artificiale, e alcuni oggetti non aspirati all'esterno dal risucchio ondeggiavano sospesi nella plancia. Trenta secondi: Con le orecchie semicongelate David udì finalmente il sibilo dell'aria, mentre il locale si ripressurizzava. La gravità tornò di colpo, e il suo corpo riebbe il suo peso contro l'imbottitura della poltroncina. La temperatura si ristabilì, e pian piano tutte le luci brillarono nuovamente di quel verde che da sempre significava: tutto bene. Solo allora David poté riaprire gli occhi e respirare avidamente l'aria. Il suo cuore batteva a velocità molto superiore al normale, aveva dolore ai testicoli e alle orecchie, e sapeva che il bianco dei suoi occhi doveva essere rosso di capillari spezzati. La similpelle aveva cominciato a cedere in mille posti diversi, squamandosi come quella di un rettile, ma a parte questo non c'era altro. «Grazie mille, Bucephalus», disse mentalmente. «Odio doverlo fare, amico, ma adesso dovrò cancellare dalla tua memoria tutto quello che è accaduto».
Quando ebbe provveduto alla cosa, trasmise alla torre di controllo di Draconis un rapporto artefatto sull'accaduto, sottolineando il fatto che c'era una probabilità su cento di ritrovare la capsula nello spazio, e chiese se avessero qualche istruzione particolare per lui. La sola istruzione che si sentì dare, come prevedeva, fu di rientrare immediatamente per far esaminare ai tecnici l'astronave. In quanto alla capsula di sopravvivenza, nessuno l'avrebbe potuta recuperare mai più: fornita della stessa velocità che aveva il Bucephalus al momento dell'espulsione, avrebbe viaggiato dritta sulla rotta in cui si trovava. Non aveva possibilità di manovra, e il suo viaggio sarebbe durato poco più di dieci minuti, perché ad attenderla al termine di esso c'era la fornace solare. David si chiese cosa stesse pensando Jebediah nel vedersi venire addosso l'astro fiammeggiante a una velocità di molte migliaia di chilometri al secondo. Probabilmente sarebbe diventato cieco assai prima di vaporizzarsi in un lampo. Era una fine abbastanza rapida, dopotutto, e sebbene non certo piacevole aveva un aspetto drammatico che il vecchio avrebbe apprezzato. O non avrebbe conservato abbastanza lucidità intellettuale da apprezzarlo? Il giovanotto decise di no, con un sospiro. Ordinò al Bucephalus di tornare a Draconis. A velocità planetaria il tragitto sarebbe durato circa quaranta minuti, tempo che intendeva occupare con un breve sonnellino. Ricordando di non aver ancora aperto la valigetta ne esaminò il contenuto e vide, con soddisfazione, che conteneva il doppio della somma pattuita. La richiuse e la mise al sicuro in uno scomparto. Poi fece inclinare all'indietro lo schienale e si rilassò, cercando d'ignorare il dolore della similpelle che si staccava a brandelli. Mentre si assopiva il suo ultimo pensiero fu per Shebat: chissà che genere di Danzatrice del Sogno sarebbe diventata la ragazza? Appena un quarto d'ora dopo il Bucephalus lo svegliò, ricordandogli che dovevano occuparsi del Marada. Capitolo 5 Il richiamo giunse ai sensori del Marada come un sussurro lontano, una voce che stanca per le immense distanze spaziali attraversate soffiasse nelle sue orecchie elettroniche un comando pressante. Non era la voce di Shebat Kerrion, le cui vibrazioni mentali caratteristiche erano impresse nei centri di coscienza dell'astronave, e tuttavia il codice chiave che richiedeva ubbidienza era chiaro, e così contattato il Marada non poteva far altro che eseguire docilmente. Gli ordini lo raggiunsero mentre giaceva inerte coi
possenti carrelli sullo scivolo orizzontale del Molo 15, risvegliandolo all'attività. Le due larghe scalette si ritrassero nello scafo, i portelloni delle camere stagne si chiusero, numerose luci si accesero e balenarono sui pannelli della plancia, mentre dolci note musicali risuonarono nelle cabine sebbene a bordo non vi fosse nessun passeggero che abbisognasse d'essere messo sull'avviso. Il Marada sapeva benissimo d'essere vuoto, e se da qualche parte entro il suo scafo vi fosse stato un essere umano avrebbe cortesemente atteso di vederlo e sentirlo pronto per il decollo. Per un istante questo fatto lo seccò, sempre che fosse possibile per un'astronave sentirsi seccata dal non avere nessuno di cui occuparsi. Tuttavia non aveva alcun dubbio sulla procedura da seguire, e un brevissimo contatto con altre entità elettroniche del piccolo scalo spaziale lo mise in lista di uscita verso la galleria stagna in fondo al molo, oltre la quale c'erano altri portelloni e poi il vuoto. L'aver ricevuto il codice chiave da una voce estranea non gli piacque troppo, o quantomeno questo fu l'equivalente della sensazione che balenò nei suoi evolutissimi centri di coscienza artificiali, però dovette riflettere che se Shebat aveva rivelato a un altro quel segnale ciò non era senza motivo. E i motivi di Shebat erano tutto ciò che lo interessava. Egli - era con quel pronome che il Marada visualizzava se stesso, da quando il suo pilota femmina lo aveva accolto al contatto intimo con la sua personalità - egli, dunque, essendo capace di esperienze in comune con la psiche umana sapeva captare i sentimenti e prenderne atto, ed a sua volta li sentiva in forma che pur non umana era equivalente. Conosceva la lealtà, l'ansietà di porre rimedio alle sue necessità fisiche, e nulla lo disturbava quanto il non essere capace di metter fine a un eventuale stato di bisogno della sua pilota. Dunque doveva agire per lei o per chi altro, come in quel momento, gli parlava a nome di lei. I suoi motori si accesero, attese brevi attimi l'arrivo degli stimoli interni ed esterni indicanti che poteva immettersi nel traffico in uscita da Draconis, poi impulsi obliqui fra il suo campo di gravità e quello della piattaforma lo spinsero avanti. Mentre decollava e si allontanava dalla piattaforma secondo la rotta di partenza ricevuta poco prima da un cervello non dissimile dal suo, il Marada rimise insieme i dati in suo possesso in un altro modo e da essi ricavò un senso di preoccupazione. Tanto per cominciare gli ordini provenienti da lontano gli erano giunti dal Bucephalus, un'entità che egli conosceva come uguale a lui e appartenente allo stesso padrone, e non già da uno dei piloti della Softa. Naturalmente sul Bucephalus il pilota c'era, ed era costui che
in ultima analisi gli mandava tali comandi, ma egli avrebbe preferito riceverli direttamente da una voce mentale umana. Per un attimo rifletté se fosse il caso di ubbidire o meno, perché malgrado il codice chiave era ancora capace di una certa autosufficienza. Poi l'ansietà collegata a Shebat lo persuase ad eseguire e accelerò nel vuoto dello spazio. Ma dov'era Shebat Kerrion? E chi era l'altro pilota che dal Bucephalus gli aveva impartito istruzioni? A queste domande il Marada ne fece seguire un'altra ancor meno tranquillizzante: sarebbe venuto a bordo qualche umano, prima che egli entrasse nel tempo senza tempo dello Spazio Spugna? Se così non era, quello avrebbe potuto essere il suo volo iniziale e quello finale allo stesso tempo. In tutta la storia delle astronavi del suo genere, il Marada lo sapeva benissimo, nessuna di esse era mai uscita intatta o recuperabile dallo Spazio Spugna se vi era entrata senza un umano a bordo. Rinunciando a porsi problemi la sua coscienza tornò alle istruzioni ricevute, e modificò la sua rotta per eseguirle. All'esterno del suo scafo le lucide torrette tondeggianti che contenevano le armi a lunga portata ruotarono, e nella centralina di tiro i meccanismi dialogarono l'uno con l'altro con luci ammiccanti e impulsi radio, preparandosi a entrare in azione. Il fatto di dover sparare contro un bersaglio, prima di passare all'esecuzione degli ordini successivi, gli diede uno strano senso di occulta soddisfazione. Il Bucephalus giaceva sullo scivolo della pista EE2, una delle piste isolate di Draconis riservate agli atterraggi di emergenza. Sul suo lungo scafo si rifletteva un bagliore violetto che era la somma delle lampeggianti luci blu dei veicoli di soccorso, di quelle rosse degli schermi antiesplosione e antiradiazioni piazzati attorno alla poppa, e di quelle bianche della pista stessa, e tutte insieme esse proclamavano col loro agitato pulsare la presenza di una astronave potenzialmente in stato di pericolo. Tecnici in tuta rossa erano già saliti a disarmare le torrette di tiro, e uomini delle squadre antincendio si tenevano pronti a mondare di spray ignifugo le parti esterne surriscaldate. Medici e infermieri, dirigenti dello scalo, e altri tecnici entravano e uscivano dai tre grandi portelli spalancati, mentre un cordone di agenti della sicurezza nella tuta nera di Kerrion teneva a buona distanza un centinaio di curiosi. Ma attraverso il loro sbarramento passavano senza difficoltà numerosi piloti della Softa, che pur non avendo alcun motivo d'essere lì facevano valere i loro speciali privilegi. Una ragazza che esibiva sulle spalline il contrassegno di un'agenzia d'in-
formazioni locale stava litigando aspramente con un agente della sicurezza, il quale rifiutava di far passare sia lei che un suo collega munito di telecamera. Un veicolo argenteo della Softa scese per una lunghissima rampa, aggirò un paio di piste vuote e rallentò per passare fra i pedoni trattenuti dagli agenti, venendo poi a fermarsi così vicino alla prua dell'astronave che l'ambulanza fu costretta a spostarsi. Da esso scesero subito due maestri piloti in tuta grigia e un uomo alto dai capelli bianchi, al cui apparire i dirigenti dello scalo ordinarono subito ai tecnici di levarsi di mezzo. Il direttore della Softa salì con pochi passi rapidi la scaletta, tallonato dagli altri due, e appena furono nell'interno del Bucephalus si chiusero il portello alle spalle. Qualche minuto dopo esso venne riaperto, l'uomo dai capelli bianchi uscì, e dietro di lui scesero sul molo i due maestri piloti sostenendo a braccia David Spry. Il giovanotto appariva più malconcio di quello che era, a causa della similpelle che gli si staccava a scaglie dalla faccia e dalle mani, tuttavia le gambe gli si piegavano un poco. Con l'aiuto dei due colleghi camminò fino a uno dei veicoli della squadra antincendio, in apparenza col solo scopo di collaudare la stabilità delle proprie ginocchia, e giunto qui fece cenno che poteva stare in piedi da solo. Poi, su invito del Direttore della Softa, sedette sul predellino del veicolo. Ignorando la presenza di un medico che avrebbe voluto dirottarlo all'ambulanza parlò un poco coi colleghi. La ragazza dell'agenzia di informazioni riuscì a scardinare lo sbarramento di agenti e seguita dalla telecamera guadagnò una cinquantina di metri prima d'essere bloccata di nuovo. Da quella posizione più avanzata diede concitatamente inizio alla sua telecronaca, mentre altri suoi colleghi meno intraprendenti strepitavano per potersi avvicinare anch'essi. Il Direttore della Softa convinse i medici che non c'era immediata necessità del loro intervento, poi uno dei due piloti rientrò nell'astronave e quando ne venne fuori aveva fra le mani una complessa scatola metallica contenente tutte le registrazioni di volo. Il prezioso oggetto fu subito messo al sicuro. Due minuti più tardi un lungo veicolo a piastre antigravità scivolò maestosamente lungo la rampa, e nel vedere l'aquila scarlatta che lo contrassegnava gli uomini della sicurezza indurirono i loro modi verso i curiosi, che furono spinti indietro con decisione. Il veicolo, un vero e proprio ufficio mobile, si arrestò cinquanta metri dietro la poppa del Bucephalus e da esso uscirono di corsa otto guardie armate. Con un calcio negli stinchi la ragaz-
za dell'agenzia di informazioni informò il cameraman di inquadrare la grossa finestra su un lato del veicolo, oltre la quale era visibile Parma Alexander Kerrion in persona seduto a una scrivania. Poi cominciò a strillare insulti a una guardia che voleva scacciarla. Un dirigente dello scalo accorse a placare gli animi, e subito si trovò a dover essere intervistato. Due degli uomini di Parma Kerrion raggiunsero il Direttore della Softa, che annuì a quanto essi dicevano e con un cenno del capo indicò a David Spry di seguirlo fino al veicolo appena giunto. Essi furono però bloccati da due medici, che stavolta non si mostrarono per nulla convinti di lasciar andare via il giovanotto senza averlo esaminato. Fra di loro si accese una discussione. «Portate qui il pilota», ordinò bruscamente la voce di Parma uscendo amplificata da un altoparlante. Il Console Generale stava osservando la scena attraverso la larga finestra del veicolo. In piedi accanto a lui c'era il suo nuovo segretario, che chino su una consolle parlava rivolto a uno schermo video. Altri due schermi mostravano il Bucephalus ripreso da telecamere fisse facenti parte della normale attrezzatura della pista di emergenza. Spazientito Parma si volse al segretario. «Fai entrare il pilota. Voglio parlare con lui da solo», ordinò. Il sostituto di Jebediah, un giovanotto magro dall'aria efficiente, si affrettò a scendere dal veicolo. Un minuto più tardi la porta si riaprì e nell'ufficio mobile fece il suo ingresso David Spry, che camminava a fatica. Parma gli accennò di sedersi in una poltroncina di fronte alla scrivania. Prima che il Console Generale avesse il tempo di cominciare a parlare, da un pannello provenne la voce agitata del capo delle sue guardie del corpo, che protestava di non aver potuto accompagnare il pilota fin dentro l'ufficio. L'uomo staccò il contatto con l'esterno senza neanche prendersi la briga di rispondere, ignorò il lampeggiare di una luce rossa indicante che qualcun altro voleva comunicare urgentemente con lui e volse sul giovanotto uno sguardo fra cordiale e indagatore. «Allora, pilota: sembri passato in un tritacarne, ma se stai in piedi devo credere che tu non sia del tutto da buttare. Te la senti di farmi un rapporto, o vuoi farti subito ricoverare?» «Alludete a questi?» David si staccò dalla faccia un frammento traslucido. «È soltanto similpelle. Dopo lo zero assoluto, il rapido ritorno alla temperatura normale la fa cristallizzare. Ora sto abbastanza bene, Signore». Il suo sorrisetto si smorzò in una smorfia. «Mi spiace per quanto è
accaduto, ma è stata una fortuna che voi non foste a bordo. Suppongo che siate già al corrente del mio rapporto». «Voglio sentirlo da te, giovanotto». David gli ripeté gli eventi culminanti con la morte di Jebediah, così come li aveva riferiti alla torre di controllo ma ampliandoli nei particolari, quindi terminò dicendo: «Sin dal momento del decollo ho avuto l'impressione che qualcosa non andasse, Signore. Il Bucephalus si comportava stranamente, i banchi memoria avevano alcune lacune. In condizioni normali sarei rientrato subito, ma ero salito a bordo col preciso scopo di rendermi conto delle condizioni della nave, dopo aver saputo dal vostro segretario che vi sarebbe servita domani. Lui stesso ha insistito per accertarsi di persona del suo perfetto funzionamento, e questa sua premura mi è parsa comprensibile. Ma né io né lui avevamo alcun sospetto di un eventuale sabotaggio, non così grave almeno». «Perché parli di sabotaggio?» «La poltroncina su cui il vostro segretario si è seduto era quella che usualmente occupate voi durante il decollo, signore. Naturalmente la mia è solo un'ipotesi». Parma restò imperscrutabile. «Un sabotaggio stranamente selettivo, allora. Non ce lo vedo un eventuale sabotatore ad occuparsi soltanto della mia poltroncina, quando avrebbe fatto prima a piazzare un ordigno esplosivo in qualche angolo della stiva». Spry si appoggiò all'indietro con aria stanca e indolenzita. Si massaggiò il collo. «Non sono d'accordo, Signore. Per salire a bordo del Bucephalus con un ordigno è necessario ugualmente cancellare la registrazione di questo fatto dalla memoria della nave. E un intruso capace di tanto non ci mette niente a inserire in essa ordini circa l'espulsione di una capsula di soccorso». «E questo è possibile a qualcuno che non sia un pilota?» Spry si accigliò. «Cosa intendete dire, Signore?» «Niente. Aspetteremo i risultati dell'inchiesta,» borbottò Parma. «Il Direttore della mia Associazione ha già preso la scatola con le registrazioni di volo. Esse confermeranno il mio rapporto.» «Intendevo parlare dell'inchiesta che farò aprire io. Non ho nessun dubbio che quella della Softa confermerà quello che dici tu, giovanotto.» Il tono di Parma non piacque a David Spry, che si raddrizzò sulla poltroncina e strinse i denti.» Devo ricordarvi, Signore, che nel momento in cui sono stato assunto da voi ho esteso il mio giuramento alla vostra per-
sona. Ho messo la mia stessa vita al vostro servizio. C'è mancato un pelo che io non sia morto, né più né meno che il vostro segretario.» «Certo. Però tu avevi una protezione integrale di similpelle, e non sei rimasto esposto al vuoto per più di pochi secondi. Si direbbe che questo sabotatore ti abbia voluto bene, invece di chiuderti la bocca per sempre. Non lo trovi strano?» «Voi sospettate che io... ma via! Perché io avrei dovuto fare una cosa simile?», si indignò David. «Io non voglio sospettare nessuno, giovanotto. Vedremo. C'è anche il caso che questo supposto sabotatore mi abbia perfino reso un servizio migliore di quello che pensava. Comunque, fino al termine dell'inchiesta tu dovrai restare a disposizione e non potrai lasciare Draconis. Formalmente, nulla esclude che tu possa essere indiziato del reato di complicità. Come vedi ti parlo chiaramente.» «Volete dire che sono sospeso dal servizio?», chiese David, molto meno sorpreso o contrariato di quanto Parma si aspettava. «No. Ho in programma una conferenza a Shechem, e la mia partenza di domani non può essere rinviata. Dovrò servirmi del Bucephalus e di te, se ti senti a posto.» Il giovane pilota si strinse nelle spalle. «Per me non ci sono problemi, Signore. Ma i banchi memoria dell'astronave necessitano di almeno quarantott'ore per essere revisionati. Senza l'uso di essi, io o un altro pilota non farà differenza.» «Forse vuoi essere sostituito per qualche giorno? Eppure fra voi piloti corre il detto che la miglior cura dopo un incidente nello spazio è volare nello spazio, il più presto possibile.» David Spry si limitò ad annuire, e il Console Generale prese nota del suo assenso con un grugnito. Ma invece di dargli licenza di andarsene il vecchio continuò a fissarlo in silenzio. «Se tu non mi fossi stato raccomandato da Marada, giovanotto, sarei molto meno tenero con te. E sai bene di cosa parlo,» disse poi. «Signore?» «Voglio dire che devi al fatto d'essere amico di mio figlio, se ancora non ti ho fatto revocare la cittadinanza, oltre a farti dare una forte multa dalla tua Associazione Piloti. In nome di tutte le stelle, cosa stavi facendo al settimo livello in compagnia di mia figlia Shebat?» «Shebat? L'ho accompagnata là perché... be', è una cosa che può sembrare buffa, Signore, ma...»
«Ti assicuro che non riderò,» ringhiò Parma. «Si tratta di questo, Signore: voi sapete che ho fatto il giuramento all'Associazione, per addestrarla secondo i miei doveri di maestro pilota. In questi ultimi tre giorni l'ho cercata, ma la ragazza sembrava essere scomparsa. Ho lasciato per lei dei messaggi, a cui non ha risposto, ho perfino contattato il vostro ufficio, e sono stato informato che il luogo in cui si trovava poteva essere solo approssimativamente determinato. A questo punto mi sono preoccupato. Anche voi, al mio posto, lo avreste trovato strano, no?» «Forse. Ma non vedo ancora cosa c'è di buffo.» «Non mi sono espresso bene. Però questo fatto mi ha informato che le sue guardie del corpo erano state richiamate. Era una deduzione logica, e anche allarmante.» Il giovanotto sorrise candidamente. «Ovvio che se foste stato voi a dare quest'ordine, ciò che ho fatto poi sarebbe stato privo di senso.» Parma ammise che lui non aveva mai dato ordine di annullare il servizio di scorta, poi chiese a quale altra conclusione lo avesse portato quel fatto. «Nessuna conclusione, Signore. Ho semplicemente pensato che non avendo la scorta poteva accaderle... qualche incidente. Io non sono tagliato per le manovre politiche di corridoio, però devo dire che chiunque al mio posto avrebbe trovato qualcosa di losco nella cosa. L'ordine di richiamare la scorta poteva esser venuto solo dal vostro ufficio, capite?» Il Console Generale si sbilanciò a fare un grugnito d'assenso, e David proseguì: «Pensai che inviando a voi personalmente un messaggio circa questo fatto poco spiegabile, esso avrebbe potuto venire intercettato proprio dalla persona che aveva tolto le guardie del corpo a Shebat, Signore. Quindi credetti mio dovere cercarla, eventualmente per proteggerla.» «Hai pensato che toccasse a te?», sbottò Parma, inarcando un sopracciglio. «Signore, se un eventuale attentato alla vita di vostra figlia era stato architettato in alto loco, come adesso mi sembra certo, considerando il sabotaggio al Bucephalus, probabilmente queste persone non mi avrebbero dato modo di contattare voi. Dovevo agire io.» «Ma ti rendi conto di quello che hai causato?» «Cosa volete dire, Signore?» «Voglio dire che ora il Marada se n'è andato, scomparso nello spazio verso chissà quale destinazione. E anche Shebat se n'è andata. Per colpa tua, razza d'investigatore da strapazzo!» «Come? Io... non lo sapevo,» David esibì un'espressione stupefatta. «Ma
avete mandato un'astronave a inseguirla, Signore!» «No. E non ho intenzione di mandarne alcuna. Ma adesso so cosa ha spaventato la ragazza al punto di farla fuggire: tu, idiota! Tu e quello che le avrai detto! Io ti...» Parma tacque e fece un respiro profondo per controllare l'ira. «Questo, naturalmente, sempre che la ragazza fosse sull'astronave.» David Spry si strinse nelle spalle. «Io e vostra figlia ci siamo separati al livello sette, Signore, se è questo che volevate sapere. Ora mi dite che è scomparsa...» Si volse a guardare gli uomini in tuta nera stretti intorno al veicolo, visibili dal finestrone. Stavano fissando lui, e tenevano pronte le armi. «Questo spiega l'atteggiamento delle vostre guardie. Dunque sono stato chiamato qui per questo, in realtà, più che per l'incidente che ha causato la morte del vostro segretario. E di cosa sono sospettato, Signore? Vi ricordo che se Shebat è scomparsa, questo può essere avvenuto solo mentre io ero a bordo del Bucephalus. O la mia sola colpa è di essermi immischiato nelle vostre manovre d'alta politica?» «Farò finta di non aver sentito quest'ultima sciocchezza. Due dei miei uomini sono morti in un vicolo del settimo livello. Il mio segretario privato è stato assassinato, la mia erede è scomparsa, la mia astronave è immobilizzata. Questi i fatti. Inoltre il Marada ha decollato senza che si sappia dov'è andato e chi c'era a bordo, perché quelli che hanno visto te e Shebat lasciare il Molo 15 affermano di non aver visto nessun altro salire sull'astronave. Esattamente...» Si volse a guardare un orologio. «Esattamente ventidue minuti fa le nostre apparecchiature esterne hanno captato una grande esplosione, indicante la distruzione di una nave o colpi sparati da pezzi di artiglieria, sulla superficie del pianeta maggiore del sistema, ovverosia proprio sulla rotta presunta del Marada.» David si morse le labbra. «Perché fate due ipotesi, Signore?» «Perché gli strumenti hanno dato una doppia lettura: due segnali. Uno di essi era l'esplosione, l'altro avrebbe potuto essere l'astronave, a una certa distanza. Ma è stata una lettura troppo breve, e dopo di essa si è registrato solo lo spazio vuoto, la massa del pianeta, e nient'altro.» «Nulla esclude allora che l'astronave abbia aggirato il pianeta, allontanandosi poi con la protezione della sua massa, se il pilota non voleva farsi rilevare, «puntualizzò ragionevolmente David. «Non ne siamo certi,» borbottò Parma. «Non posso essere certo di nulla. Tantomeno che lei fosse sul Marada.» «E dove altrimenti potrebbe essere?»
«Già, dove?» Parma si sporse avanti a fissarlo, cercando sul suo volto un segno rivelatore di doppiezza. Ma sotto i brandelli della similpelle era impossibile decifrare bene l'espressione del giovanotto. Dopo qualche secondo il Console Generale disse: «E va bene, Spry. Forse, grazie alla raccomandazione di Marada, tu lo hai rimpiazzato come macina da mulino appesa al mio collo. Starò a vedere cos'altro accadrà. Per bene che ti vada, hai portato la tua immunità di pilota della Softa vicina al punto di rottura. Ma se risulta il peggio... considerati un cadavere che cammina, perché se mi hai raccontato frottole io non vado per le vie legali. Adesso ti suggerisco di dirmi tutto: dove hai portato Shebat, cosa vi siete detti, e perché l'hai lasciata senza protezione sapendo che era stata privata della sua scorta.» «Lasciata? Avete appena finito di dirmi che proteggerla non era affar mio!», protestò David. «Lei è una Kerrion, e io un semplice dipendente. Quando mi ha detto che potevo andarmene, le ho ubbidito. Inoltre dovevo collaudare la sicurezza del Bucephalus. Il mio dovere l'ho fatto mettendola sull'avviso.» «E non ha accennato al fatto che io le avevo proibito di scendere ai livelli inferiori?» «Per la verità sì. Anzi aveva timore che voi le toglieste il Marada. Ma fu lei a insistere che ci appartassimo in un locale a bere qualcosa. Siamo rimasti là non più di venti minuti.» Un cicalino sulla scrivania emise una nota acuta, e Parma sfiorò un pulsante. Dall'esterno giunse la voce del Direttore della Softa che chiedeva di entrare. L'uomo non rispose subito, ma continuò a fissare David pensosamente. «E così l'hai portata laggiù e l'hai lasciata sola,» disse. «Sì, Signore. Non potevo fare diversamente, e lei mi ha assicurato che sarebbe rientrata per conto suo.» Parma si volse a parlare in un citofono. «Direttore? Vi rimando il "vostro pilota, e lo considero sotto la vostra responsabilità. Se dovesse scomparire, me ne risponderete di persona. Chiaro? Ora procedete normalmente con la vostra inchiesta. «Si girò verso David. «Non c'è altro, giovanotto. Puoi andare.» Quando il pilota fu uscito, Parma Kerrion rimase solo con la compagnia dei suoi pensieri e dei ronzii che sulla consolle continuavano a segnalare chiamate in arrivo. Non riusciva a trarre un senso preciso dai fatti accaduti, tuttavia una cosa era certa: se Shebat era partita sul Marada, o se qualcuno
l'aveva rapita, era necessario rilasciare un comunicato di qualche genere alle agenzie di informazione. Un comunicato molto ponderato. Le elezioni si stavano avvicinando, e il rischio che qualcuno usasse la ragazza contro di lui andava evitato a ogni costo. Tuttavia vedeva già il modo di levare le scarpe brillantemente da quella situazione. E inoltre, rifletté per giustificarsi, se la ragazza era stata rapita il migliore aiuto che lui poteva darle era di annunciare pubblicamente il suo disinteresse per lei. Per un poco restò coi gomiti poggiati sulla scrivania e gli occhi chiusi, cercando di scacciare la sensazione che ci fosse qualcosa di cui non aveva tenuto conto. Poi si decise a chiamare il suo nuovo segretario e gli impartì tre ordini da eseguirsi subito: Si doveva convocare a Draconis Chaeron, che avrebbe dovuto partire da Lorelie immediatamente. Era necessario istruire l'addetto stampa su quali notizie rendere pubbliche. La prima di esse era che Shebat Kerrion era da ritenersi dispersa nello spazio, presumibilmente morta. La seconda riguardava l'annullamento dell'attesa formale di tre anni per la nomina di un Primogenito, dato che in sua vece bisognava trovarne un altro quanto prima. Bisognava informare Marada Seleucus Kerrion dell'accaduto. Terminato che ebbe di dare queste direttive Parma rifletté ancora un poco, quindi aprì un canale di comunicazione e revocò la ricerca che aveva ordinato di effettuare in tutti i livelli della piattaforma. Se Shebat era ancora lì, da qualche parte, avrebbe trovato il modo di tornare con i suoi mezzi... oppure no. Comunque fosse, lui non poteva permettersi un comportamento diverso. Questo pensiero lo fece sentire improvvisamente vecchio e stanco, schiacciato dal peso di un lavoro disumanizzante. Continuava a chiedersi perché mai il pilota s'era mostrato così calmo e tranquillo. Capitolo 6 Shebat non avrebbe dimenticato mai più i primi giorni trascorsi nella vasta dimora silenziosa dove i Danzatori e le Danzatrici del Sogno ricevevano la loro strana clientela, fra le pareti scolpite di graffiti che richiamavano le tenebrose profondità spaziali, spessi tappeti distesi nei corridoi e recessi ombrosi in cui l'anima umana veniva preparata a scivolare nell'irrealtà. Ma gli avvenimenti che avevano preceduto il suo arrivo erano rimasti tanto
impressi nella sua mente che in seguito, malgrado i suoi tentativi di dimenticarli, continuarono a influenzare ogni suo pensiero. Non era possibile scordare l'aggressione nel vicolo, e quando abbassava la guardia quella scena tornava a tormentarla. Trapelò perfino in uno dei suoi primi tentativi di creare una Danza del Sogno. E fu così che con suo imbarazzo quello smarrimento, certe segrete emozioni e altre sue sensazioni intime di fanciulla, divennero di pubblico dominio. Era successo questo: nel presentare a Lauren il sogno costruito intorno a quel fatto drammatico aveva alterato troppi certi aspetti della sua trama. Le mani di David Spry l'avevano sollevata dalla pavimentazione del vicolo, afferrandola con sensualità, attraendola a sé e accarezzando i fianchi di lei. Solo che «lei» era Shebat e non Lauren, la ragazza che aveva sperimentato quel sogno come una realtà. E forse proprio perché si trattava di Lauren ella aveva finito involontariamente per fornirle in una versione più sensuale il sogno in cui appariva anche David Spry. Ma ormai la cosa era stata fatta e nulla poteva più mutarla, perché la memoria eidetica di Lauren avrebbe trattenuto una registrazione del sogno per trasmetterlo agli altri, insieme ai brandelli più intimi dell'animo di Shebat. Nel togliersi dalla fronte la coroncina Lauren aveva esibito un certo disprezzo. «Questa non può essere definita una Danza del Sogno,» le aveva comunicato, poggiando l'oggetto in una delle sue scanalature circolari sull'amplificatore che per un quarto d'ora aveva messo in contatto le loro menti. Shebat aveva trovato ingiusta quell'osservazione. Infine era riuscita a tenere sotto controllo la trama del sogno piuttosto bene, seppure fosse una novizia e dunque soggetta a certi errori. Delle sette ragazze e dei cinque uomini che facevano parte del gruppo, Lauren era la Danzatrice che riusciva a renderle la vita più difficile. E tuttavia, a parte la confusione causata da quel cambiamento nella sua vita, la solitudine, i piccoli tranelli che Lauren poneva come ostacoli sul suo lavoro ogni volta che era il turno di quella bella bruna dagli occhi obliqui nel farle da istruttrice, Shebat riusciva a costruire trame sempre più solide. A volte le pareva che tutto andasse davvero per il meglio, e in quelle occasioni la Danza del Sogno cessava d'essere un lavoro complesso per tramutarsi in una realtà vivente e vibrante: una cosa artistica creata da lei, con una passione che le bruciava l'anima. In un certo senso, costruirsi un sogno nella mente per poi comunicarlo a un altro e farglielo vivere in tutti i suoi mille e mille particolari era come
fare un incantesimo. Molto di ciò che Shebat creava era tolto di peso dal suo passato, ricostruito per potenziarne e mettere in evidenza gli aspetti che l'avevano colpita, riempito di colori in modo che le sue sensazioni potessero venire ritrasmesse con esattezza. Quel che le era accaduto sulla Terra non poteva certo definirsi divertente, e spesso i colori erano cupi, le esperienze crude e violente, ma era pur sempre vita e lezione di vita per coloro a cui offriva il sogno, ed ella sentiva che questo era un dovere per chi creava. Nella Confederazione non esisteva nulla che potesse paragonarsi alle attività artistiche e creative, com'erano intese nel lontano passato dell'umanità. Ma c'era qualcosa che le sostituiva, c'erano due sorgenti quasi magiche le quali saziavano la sete intellettuale di chi aveva i mezzi per abbeverarsi ad esse: le astronavi, coi loro cervelli pesanti e le sensazioni legate al volo nello spazio, e la Danza del Sogno. Shebat ricordava ancora il suo sgomento al pensiero che la Confederazione fosse davvero arida, priva di fantasia e di magia, quando Marada aveva affermato che tutto in essa era soltanto scienza. Ricordava quanto era stata triste, stringendosi metaforicamente al petto i suoi poveri incantesimi, mentre ne cercava di simili dietro le macchinazioni di Ashera e gli espedienti di Chaeron. In loro aveva trovato solo i movimenti e le passioni umane, e ciò l'aveva delusa. Ma in quei giorni ella non aveva ancora afferrato il nocciolo di verità sepolto nel frutto di apparenza che era la Confederazione, una verità così evidente che a Marada era sfuggita: la scienza e la magia erano una cosa sola, in due forme diverse. E nella Confederazione si praticava una magia i cui incantesimi erano rappresentati dalla Danza del Sogno. Per quanto insidiosi fossero gli stratagemmi umani che si intrecciavano attorno alla sua vita, Shebat aveva trovato nel lavoro di creare sogni una sorta di arma difensiva, una luce che brillava in distanza come un faro su cui orientare sé stessa. Ma dov'era finito Softa David Spry? Quella domanda, assillante nelle prime ore lunghe come giorni seguitava a tormentarla. Il suo futuro dipendeva dal giovane pilota e dalle sue promesse, anche lì dentro. Ora la Danza del Sogno consumava tutte le sue energie, esigeva tutta la sua attenzione, cosicché aveva meno tempo di preoccuparsi di altri problemi, ciò malgrado quei problemi pratici non erano certo svaniti e una parte della sua giornata doveva essere dedicata ad essi. Lo stato sociale di una persona era di grande importanza nei livelli infe-
riori, i più miseri, dove la cittadinanza era acquistata a quarti e ad ogni quarto corrispondevano privilegi di ordine diverso. La si poteva falsificare, la si poteva rubare, ma bisognava comunque occuparsene. Una delle prime rassicuranti prove che Spry non l'aveva dimenticata, era stato l'arrivo di un pacchetto di false credenziali che Shebat aveva avuto da un apprendista pilota, un giovanotto biondo che nella stanzetta di lei s'era guardato intorno a bocca aperta. Le credenziali erano scritte, ma era sufficiente impararle a memoria, e di conseguenza Spry gliele aveva fatte avere su una carta speciale «a una sola lettura», che si autodistruggeva dopo esser stata toccata da mani umane. Da esse risultava che adesso ella era Sheba Spry, sorella minore di David, e che era appena arrivata dalle colonie di Pegaso. In qualche modo sotterraneo, e indubbiamente molto costoso, David era riuscito a piazzare una grossa quantità di notizie fasulle nella banca dei dati centrale di Draconis. Le veniva attribuito anche un altro codice d'accesso alla banca stessa, e in quella nuova identità ella figurava come apprendista pilota istruita dal suo stesso «fratello». Il giovanotto biondo aveva insistito per restare finché lei non aveva memorizzato quelle informazioni, costringendola a ripetergliele più volte mentre la carta diventava polvere sparsa sul pavimento. Poi le aveva recitato con aria solenne un messaggio verbale di David, il succo del quale era che lei avrebbe dovuto continuare le sue lezioni di pilotaggio secondo il normale programma scolastico, studiando a orari fissi e con assoluta autodisciplina. «Ma questo è impossibile!», aveva protestato lei. «Io non posso imparare due lavori alla volta. Non può funzionare!» Il giovanotto s'era stretto nelle spalle. «Non lo dite a me, Signora. Io sono soltanto un messaggero». Poi era arrossito lievemente, guardandosi intorno e sbarrando gli occhi sull'amplificatore dei sogni, e Shebat s'era accorta che egli la credeva un'esperta Danzatrice. Si mostrava timido ed eccitato come un ragazzino davanti a qualcosa di proibito, ed appariva riluttante ad andarsene. Infine aveva tirato fuori dalla sua borsa altri due pesanti pacchetti. «Lui ha detto che questi dovrete aprirli quando sarete sola, Signora». Aveva fatto una pausa, accennando all'amplificatore con aria furtiva. «Mi chiedo se sareste così gentile da farmi... mmh, uno sconto, per una seduta. Con voi, intendo». Shebat aveva contato fino a dieci per calmarsi, poi gli aveva detto che i
clienti dovevano parlare comunque con Harmony, la direttrice della casa. Pilotandolo con fermezza alla porta aveva chiesto: «Non ha detto nient'altro? Quando verrà?» «Non c'è altro, no. E non credo che abbia intenzione di farsi vedere, adesso. Ha i suoi guai a cui pensare. Circa la Danza del Sogno, se voleste...» Il giovanotto s'era interrotto, perché mentre indietreggiava nel salone aveva urtato storditamente contro Lauren. Prima che cominciasse a scusarsi la brunetta l'aveva preso sottobraccio, portandolo con sé verso l'uscita e dicendogli - abbastanza forte per farsi sentire da Shebat - che aveva da affidargli un bigliettino per David Spry. Shebat l'aveva incenerita con un'occhiata, poi aveva chiuso la porta della sua cameretta e vi si era appoggiata contro con le spalle, cercando di metter ordine nei suoi pensieri. Non sapeva cosa lei stessa provasse per Softa, forse soltanto amicizia, forse un indecifrabile miscuglio di sentimenti. Quando al loro arrivo lì Lauren lo aveva accolto a braccia aperte, ella lo aveva per la prima volta visto anche come un uomo, evidentemente capace di farsi amare dalle donne. Ma non era gelosia quella che provava, si era detta: solo rabbia nel vedere che egli si occupava anche di altri, e un seccante senso di dipendenza da lui. Softa era la sua sola speranza di lasciare Draconis sana e salva. Lauren la odiava e non perdeva occasione di farla soffrire. Ricordando i due pacchetti aveva aggirato il suo piccolo recinto imbottito - il bizzarro divano circolare al cui centro c'era l'amplificatore elettronico - e s'era seduta sul letto per aprirli. Il primo conteneva il corso completo di pilotaggio, sotto forma di schede da introdursi in un computer fornito di video. Si trattava di lezioni teoriche integrate da programmi di volo simulati, coi quali ella avrebbe dovuto cimentarsi in una sorta di videogame molto impegnativo. C'era anche un elenco di pagamenti effettuati, il che la fece sorridere: non aveva chiesto a Softa di renderle conto di come impegnava il denaro, la somma che lei aveva fatto trasferire dal suo conto a quello del pilota. Ma se Spry avesse inteso abbandonarla, certo non le avrebbe mandato tutto quel materiale, e con questa riflessione a rinfrancarla aveva aperto il secondo plico. Il contenuto di esso l'aveva sbalordita. Era un altro insieme di documenti di identità, anch'essi su carta «a una sola lettura». Aveva appena fatto in tempo a memorizzarli, e quando s'era ritrovata con un velo di polvere sparsa ai suoi piedi stava ancora cercando di vincere la sorpresa e la contrarietà. Come avrebbe potuto tenere a mente due serie di dati paralleli, ordinati
eppure separati nella sua testa? Il prezzo da pagare per uno sbaglio sarebbe stato grave, e al pensiero d'essere ritrovata e smascherata fremette. Ad aggravare le sue difficoltà c'era il fatto che tutti i suoi nuovi dati erano molto simili fra loro ed a quelli che aveva avuto come Shebat Kerrion. Se qualcuno lo avesse notato, avrebbe forse capito che ciò era il frutto di una falsificazione, e perché questo accadesse le sarebbe bastato fare confusione fra loro. E in questo caso gli investigatori della banca dei dati non ci avrebbero messo molto a capire che Shebat Kerrion, Sheba Spry e Aba Cronin erano la stessa persona. Un'altra cosa la preoccupava: se Softa s'era dato tanto da fare, evidentemente prevedeva che la permanenza di lei in quella casa sarebbe durata molto tempo. E sebbene ella fosse già prigioniera fin nel più profondo della sua anima della Danza del Sogno, della bellezza e della rettitudine che si potevano creare e comunicare con quell'artifizio, in un certo senso aveva paura di ciò che le stava accadendo lì. Ne aveva paura, anche se la Danza del Sogno era più dolce di ogni altra cosa salvo forse della voce del Marada. Capiva bene perché fosse proibita dalla legge di Kerrion, e per quali motivi questa legge fosse così volentieri trasgredita, mentre invece in altre zone dello spazio era legale. Il suo pericolo stava nel fatto che nel sogno sia il trasmettente che il ricevente vivevano un'esperienza autentica, tangibile quanto la realtà, e i sogni più richiesti talvolta erano una droga più fantastica di qualunque droga. Potevano annichilire il senso della realtà, provocando il desiderio irrefrenabile di tralasciare la realtà per il sogno. Alcuni vecchi filosofi terrestri, che ella aveva studiato in forma riassuntiva, avevano proclamato che la vita e il sogno erano la stessa cosa. Sarebbero rimasti sorpresi, di fronte a una tecnica che trasformando il sogno in un'esperienza concretissima confermava le loro teorie. Per Shebat, che da autentica novizia era travolta dal sacro fuoco, ogni giorno il mondo della Danza del Sogno diventava più reale, mentre il mondo esterno perdeva di sostanza. Sapeva che era saggio aver paura di questo fatto. Di conseguenza, le lezioni di pilotaggio mandatele da Spry avevano finito col sembrarle il ponte attraverso cui tornare a contatto con la vita vera, e fu ferrea nel dedicare quattro ore al giorno ad esse. Eseguì fedelmente il programma, aiutata anche dalla constatazione che ogni lezione era un passo avanti verso la licenza di pilotaggio e la libertà. Il corso che David le aveva fornito era strutturato per essere in buona parte letto, e ciò perché nella casa delle Danzatrici e dei Danzatori del So-
gno esisteva un videocomputer del tipo in uso nei livelli superiori di Draconis, dove per motivi tecnici e amministrativi era necessario saper leggere e scrivere. Una delle cose che avevano stupito Shebat, mesi addietro, era stata la constatazione che l'arte della scrittura era diventata superflua, e che nella civilissima Confederazione il popolino ne faceva tranquillamente a meno. L'evoluzione tecnica aveva reso più economica la produzione di apparati elettronici in grado di comunicare da mente a mente, stabilendo il contatto telepatico con chi aveva necessità dei loro servizi. La conseguenza di ciò sarebbe stata la rapida deculturizzazione dell'individuo medio, che non avendo necessità di leggere niente ne faceva volentieri a meno. E su Draconis tutte le apparecchiature più antiquate - quelle a cui si appoggiavano gli abitanti dei livelli inferiori - erano di quel tipo. La situazione era diversa nei livelli superiori, fra i tecnici e i dirigenti, dove non si poteva fare a meno alla leggera dell'arte di leggere e scrivere. Costoro si appoggiavano ad apparati elettronici binati, e il videoschermo usato da Shebat era appunto di quelli dove le informazioni apparivano per iscritto. Le Danzatrici e i Danzatori del Sogno della casa erano, dal punto di vista di Shebat, degli illetterati, e solo un paio si barcamenavano con l'uso della parola scritta. Ciò malgrado ella aveva battuto il naso contro una verità dura da mandar giù, quando s'era resa conto che nella Confederazione tutti quanti possedevano un dono genetico a lei sconosciuto: la memoria eidetica. Per lei era motivo di vergogna dover confessare che non l'aveva. I Danzatori e le Danzatrici ritenevano a memoria moltissimi sogni senza difficoltà alcuna, erano in grado di ripeterli senza errori al cliente, e manifestavano incredulo disprezzo verso chi fra loro aveva la disgrazia di dimenticare qualcosa. La fanciulla aveva dovuto impegnarsi allo spasimo per potenziare le sue facoltà mnemoniche, anche se in questa sua lacuna aveva visto un vantaggio: il fatto di ricordare male un sogno le dava la possibilità di ricrearlo continuamente, di perfezionarlo sul momento a seconda della sua fantasia, e intuiva che per un vero artista il fatto di ripetere a pappagallo è obbrobrioso. Il mattino in cui giunse alla ventiduesima lezione era seduta davanti al videocomputer, in cui aveva appena infilato la scheda contenente l'esame del giorno, quando una sensazione di inadeguatezza la colse e la fece sospirare. Sullo schermo si svolgeva una situazione di volo simulata, schematizzata, e le sue dita correvano sulla tastiera giocando a ottenere il punteggio più alto possibile. Appena si accorse che il suo punteggio restava
zero, e che il conteggio degli errori assommava a dieci, premette il pulsante per fermare la sequenza e si prese la testa fra le mani. Seduta alla piccola consolle si passò le dita fra i capelli e fissò lo schermo spento, frenando la voglia di piangere. Si sentiva abbandonata e incerta su tutto. Per due ore aveva studiato la lezione distrattamente, e la scheda non sarebbe uscita dalla fessura del computer finché ella non avesse completato la teoria con la prova di abilità pratica. Quindi in un angolo della scheda sarebbe stato stampato il suo punteggio. Sapeva che la scarsa concentrazione sarebbe stata punita con un punteggio quanto mai basso. Ma ciò che si agitava nella sua mente non erano le risposte alle domande di navigazione spaziale, bensì a quella che sarebbe stata la sua navigazione attraverso la vita. E non erano affatto risposte, bensì una serie di punti interrogativi. Nella grande sala comune a quell'ora non c'era nessuno. Parte dei Danzatori e delle Danzatrici erano usciti, i due inservienti che si occupavano delle pulizie erano in cucina a preparare il pranzo, ed ella poté permettersi di tenere incollata alla faccia un'espressione malinconica sbuffando ogni tanto qualche sospiro. Se almeno ci fosse stata un po' di musica, pensò, per rallegrare l'atmosfera... Ma lì non si era a Lorelie, dove musiche composte in un passato lontano potevano essere diffuse nell'aria. Quella era Draconis: non esisteva musica e non esistevano compositori di musica. Non esistevano libri neppure in versione da video schermo, così come non esistevano filmati di qualche genere. Nessuno scriveva, nessuno componeva, nessuno creava. Questo era il motivo principe per cui la Danza del Sogno era tanto richiesta. Certa che avrebbe probabilmente fallito l'esame, la fanciulla cercò di concentrarsi ancora sullo schermo. Dieci errori, calcolò, significava che avrebbe dovuto mettercela tutta e non farne più nessun altro, altrimenti sarebbe rimasta al di sotto del punteggio minimo. Con una parolaccia di quelle imparate a suo tempo a Bolen's Town premette il pulsante di avvio. Un'ora dopo, quando la scheda cadde fuori dalla fessura, il suo punteggio era un disastro. Di nuovo scivolò in uno stato d'abbattimento molto vicino alle lacrime, e se non pianse fu perché sapeva che a condizionare il suo umore non era tanto quel risultato quanto ciò che era accaduto la sera prima. Subito dopo cena, infatti, mentre i suoi colleghi erano alle prese coi primi clienti, ella aveva danzato un sogno per Harmony, la direttrice del gruppo. Anche quello era stato un esame. E non aveva ancora la più pallida idea di come quel sogno fosse stato ricevuto e giudicato.
Seduta immobile davanti alla consolle si sentì all'improvviso inondare di sudore, e dovette stringere i denti per vincere l'apprensione. Al posto dello stomaco le pareva di avere un vuoto dove si contorceva qualcosa simile a un serpente gelido, e malgrado la similpelle che le impediva di provare troppo freddo come troppo caldo fu scossa da alcuni tremiti. Il sogno che aveva elaborato in tutti i dettagli per offrirlo ad Harmony era costruito su un'esperienza che ella aveva veramente vissuto a Bolen's Town. Riguardava una ragazza giovane, che il prete aveva accusato di stregoneria e condannata alla lapidazione in un mattino d'inverno sulla neve alta. Era una storia intrisa di violente passioni, in cui l'innocenza si mescolava al timore per i poteri occulti, al sesso, alla rabbia, all'amore, al disgusto, e che terminava con la morte. Era un sogno in cui l'uomo era costretto a guardare in faccia se stesso ed a riconoscere la propria bestialità, le sue luci e le sue ombre. Non era certa che avesse un gran valore intrinseco, tuttavia lo aveva composto con più rabbia di un altro che aveva proposto a Lauren giorni addietro, e che si accentrava su una storia d'amore il cui sfondo era il crollo della Confederazione e lo sfascio della società civile. Creare la lasciava svuotata in ogni caso, e in preda a mille incertezze. Nei suoi momenti migliori era soddisfatta di sé, si diceva con determinazione che sarebbe diventata una brava Danzatrice del Sogno, che avrebbe imparato a memoria non meno di un centinaio dei sogni migliori, come tutti gli altri. Nei momenti peggiori aveva l'impressione d'essere inutile, d'aver toccato il fondo, e vedeva la funzione della danza di nuovo come qualcosa di distruttivo che si contrapponeva alla vita reale. In quei casi sentiva quasi di approdare la morale ufficiale di Kerrion, secondo la quale le opere di fantasia erano un acido che divorava le strutture della società, che incoraggiava soltanto lo scontento e il malessere. Nello spazio di Kerrion esisteva la cruda realtà ed esistevano le Danzatrici e i Danzatori del sogno, due cose contrapposte fra le quali non c'erano intermediari. Con la caduta in disuso della scrittura erano scomparsi gli autori di storie. Con l'arrivo dei computer intelligenti avevano perso spazio la poesia, la musica e pian piano ogni altra attività artistica. Per il vero, il fatto creativo non era morto. Ma perché ascoltare musica composta da un altro quando con l'aiuto di un computer si poteva produrre la propria? Perché cercare le visioni altrui, quando si potevano ottenere visioni di tutto ciò che esisteva nell'universo? Gli artisti erano sempre stati dei pazzoidi, dal punto di vista del Potere, e dunque perché lasciare che
contagiassero gli altri con la loro fantasia malata? I frutti dell'inconscio erano pericolosi per chi doveva adattarsi alla vita concreta, oltreché difettosi e inutili. E a dire il vero, nella Confederazione il crimine era tenuto sotto controllo meglio che altrove, la pazzia era un male sconosciuto, e la morale ufficiale strutturata in funzione dei progresso puramente tecnico. Questo era un risultato che spiegava il motivo per cui la legge di Kerrion proibiva la Danza del Sogno. Rimaneva una certa malinconia però nel vedere che la favola era stata sostituita dall'esperimento scientifico, e che il tribunale aveva decretato la scomparsa del mito. I tecnocrati ragionavano freddamente coi loro simili, i computer. Eppure i miti esistevano, ed erano sempre gli stessi. Le Danzatrici e i Danzatori del Sogno li distribuivano clandestinamente, evitando di registrarli perché l'evidenza di una registrazione poteva incriminarli. Erano i cantastorie della Confederazione, e grazie a loro le più antiche e belle Danze del Sogno venivano tramandate attraverso le generazioni, da mente a mente, inalterate in virtù della loro memoria eidetica e sopravvivendo a tutti i tentativi di strapparle all'umanità. C'era stato un tempo in cui grandi compagnie di Danzatori e di Danzatrici avevano lavorato sui palcoscenici, di fronte ad immensi pubblici, facendo della Danza del Sogno qualcosa di collettivo e di assai complesso. Da quelle rappresentazioni sceniche era derivato il loro nome, che era rimasto tale anche quando l'entrata in uso di apparecchiature per un contatto mentale più completo aveva reso superati gli aspetti fisici della danza. Il balletto, la rappresentazione figurata di una storia, non era ormai più che una metafora per indicare ciò che accadeva nella psiche di chi sognava e di chi riceveva il sogno. E una macchina con due elettrodi da porsi intorno alla fronte era il loro tramite. La pratica era stata poi soppressa spietatamente, poiché la Danza del Sogno si prestava a comunicare sensazioni proibite delle peggiori specie. Attualmente era impossibile riunire un'assemblea di persone che condividessero un singolo sogno, e tuttavia ciò che intercorreva fra due adulti consenzienti non era tecnicamente punibile dalla legge. Ne derivava che un Danzatore o una Danzatrice che si occupassero di un solo cliente non potevano essere condannati né incarcerati, almeno in teoria. In pratica la legge riusciva ad aggirare l'ostacolo colpendo chi praticava la Danza del Sogno per vie traverse, tartassandoli con continui controlli, multe, perquisizioni e altri espedienti, e costringendoli a nascondersi o a
farsi «proteggere». La loro cittadinanza veniva spesso revocata, e solo gli alti guadagni consentivano loro di acquistarne una falsa. Ogni tanto qualcuno di loro scompariva senza lasciar traccia, come sempre accade a chi vive ai margini della legalità. E tuttavia essi continuavano la loro pratica, sopravvivendo, portando avanti la tradizione e conservando nella mente i capolavori di geni ormai morti da secoli, creando come meglio potevano altre cose in sostituzione di quelle che andavano perdute. Shebat desiderava avere dei clienti. Era conscia che se Harmony avesse giudicato la sua Danza poco adatta ai gusti correnti, o scarsa di contenuti, questo non le sarebbe stato permesso. Ma del resto, come poteva costruire sogni che divertissero o interessassero chiusa nella sua prigione di tristezza? Come poteva dedicarsi alla Danza e insieme alle lezioni di pilotaggio, quando entrambe le cose avrebbero richiesto tutta la concentrazione di cui era capace? Il suo orgoglio le aveva impedito di farlo notare ad Harmony, la sera prima, allorché dopo averle presentato il suo sogno l'aveva vista restare impassibile e imperscrutabile, e se n'era tornata in camera col cuore in gola. Non le restava che attendere la sentenza. In un angolo della mente una vocina le sussurrava che dal momento che aveva perso tutto il suo passato, perché preoccuparsi? Chi giace nella polvere non può cadere ancora più in basso, e dunque lei non aveva più niente da perdere. Alla peggio non sarebbe diventata né Danzatrice del Sogno né pilota, ovvero sarebbe rimasta il nulla che era. E per consolarsi rifletteva che infine la fortuna l'aveva pur sempre tolta dalla miseria di Bolen's Town, cosicché quanto le era accaduto in seguito era da considerarsi un dono. I bassifondi di Draconis erano meglio che la taverna di Bolen, mille volte meglio. E i mondi delle piattaforme spaziali non le sarebbero crollati sulla testa per il semplice fatto che lei aveva creato un sogno in cui ciò accadeva. Nessuno l'avrebbe lapidata sulla neve, annientando la sua innocenza e i suoi incantesimi, solo perché aveva offerto ad Harmony un sogno in cui succedeva questo. Non si pentiva di aver costruito situazioni basate sulle sue esperienze di vita. Un lavoro di quel genere doveva essere coerente nella sua totalità, e non solo mirare a divertire. Doveva essere vissuto dal sognatore che lo riceveva anche come insegnamento, unendo l'arte al contenuto umano e sociale. D'altra parte, distaccandosi tanto dal genere di sogni di cui aveva avuto numerosi esempi dai colleghi, non si era comportata molto diplomatica-
mente. Parte della clientela esigeva sogni di carattere sentimentale o addirittura erotico, sebbene Harmony non tollerasse nel gruppo sognatori o Sognatrici specializzati in quegli argomenti. Harmony privilegiava una clientela di classe, questo doveva riconoscerglielo. E Softa era stato inflessibile nel dirle che doveva imparare il lavoro della Danza del Sogno abbastanza bene da poter passare per una Danzatrice per qualche tempo: non le aveva detto di cercare d'essere originale, col pericolo dunque di non essere accettata nel gruppo. Se la direttrice della casa avesse giudicato il suo lavoro inadatto ai clienti, nessun altro gruppo in tutta la Confederazione l'avrebbe accolta in seno ad esso, almeno nessun gruppo serio. E allora cosa le sarebbe accaduto? A volte detestava i Danzatori e le Danzatrici del Sogno, il loro istinto di missionari, l'unione quasi messianica che li faceva sentire adepti di un culto segreto. Con quelle riflessioni a farla sospirare, Shebat riunì le sue schede, diede un ultimo sguardo al punteggio di navigazione odiosamente basso rimasto sullo schermo e toccò un pulsante per spegnerlo. Poi cancellò ogni registrazione della lezione di quel giorno rimasta nella memoria del videocomputer. S'era già resa conto che sebbene a Draconis il crimine organizzato risultasse inesistente, la violenza accadeva lo stesso. La sera stessa in cui era stata aggredita nel vicolo aveva chiesto allo schermo i fatti del giorno, e non aveva trovato un solo accenno a quella notizia. Aveva dovuto dedurne che qualcuno l'aveva censurata, e non aveva faticato molto per immaginare chi. Per prudenza non aveva chiesto nulla alla banca dei dati. Tuttavia era stata costretta a usare col videoschermo il codice personale di Aba Cronin, scontrandosi col problema che ad Aba Cronin risultava assegnato solo un quarto di cittadinanza. Questo le dava una capacità di ricerca troppo bassa, e un bel po' di dati restavano al di fuori della sua portata. Era stato sempre a causa di questo inconveniente che non aveva saputo del trasferimento a Draconis di Chaeron P. Kerrion, e ne era venuta a conoscenza con molti giorni di ritardo e solo grazie al fatto che Lauren aveva lasciato andar lì casualmente il nome di lui in una conversazione, riferendole con orgoglio d'essere stata richiesta come Danzatrice dal «Console Kerrion». «Da uno della famiglia Kerrion, vorrai dire», l'aveva corretta lei. Gli errori grammaticali degli abitanti dei Evelli inferiori la irritavano quanto la
loro mancanza di comprensione di ciò che accadeva al primo livello. «Ho detto il Console Kerrion!» aveva ripetuto altezzosamente Lauren. «Chaeron Ptolemy Kerrion, in persona. E ha perfino litigato con un cliente, per sognare con me». La sua voce s'era fatta mielata. «Proprio così. Lui è il nuovo Console di Draconis. Che cos'hai, ti senti poco bene?» Shebat infatti s'era sentita impallidire e aveva vacillato, mentre l'intera sala dove tutti si riunivano per ascoltare le notizie della notte e scambiarsi pettegolezzi era parsa sfumare in una nebbia intorno a lei. Subito era uscita, e aveva mandato un messaggio urgente a suo «fratello» David Spry dal terminale all'angolo della strada. All'Associazione Piloti il giovanotto non c'era, e l'addetto le aveva assicurato che avrebbe inoltrato la registrazione. Ma Softa non s'era fatto vedere né il mattino dopo, né il giorno successivo, né in seguito. Harmony, la materna direttrice che coi suoi cinquanta anni suonati la trattava come una bambinetta, aveva finito col seccarsi del suo isolamento e due giorni più tardi era venuta a bussare alla sua porta. Pur depressa e desiderosa di restare sola, lei non aveva potuto far altro che aprirle. Nel vederla tornare a gettarsi sul letto la donna aveva sorriso con pazienza. Era pesante, lenta di movimenti, con corti capelli castani e un vestito troppo vistoso sotto il quale indossava una similpelle fuori moda da trent'anni, a chiazze rosa e argento. «Cosa c'è che non va, piccina? Non devi fare così. Cosa direbbe Spry se sapesse che ti chiudi in camera e non parli con nessuno? Penserebbe che ti trattiamo male, e se la prenderebbe con me. Ti senti tanto diversa da noi dei livelli inferiori?» «Chaeron Kerrion è stato qui!», l'aveva accusata lei. «E con questo? Non ti ha vista, e ovviamente nessuno gli ha detto della tua presenza». Harmony le s'era seduta accanto e le aveva fatto una carezza. «Non devi preoccuparti. Non vorrei mai contrariare Spry. E neppure Lauren lo vorrebbe... anche se tu forse hai dei dubbi su questo. Lei lo ama. Capisci?» Sentendo nominare Lauren, Shebat aveva fatto una smorfia. «Ascolta, bambina, per Spry non è stato facile né poco costoso sistemarti qui. E nel prezzo che ha pagato è compreso anche il nostro impegno di insegnarti tutto ciò che potrai imparare. Gli ho dato la mia parola che ci prenderemo cura di te». «Ma lui non aveva diritto di rivelarvi che io sono...» «Ne aveva il dovere, invece. Ed è troppo onesto per fare sotterfugi con
me. Sapeva bene che se non ci avesse detto chi sei, e che sei ricercata, ci avrebbe messo tutti in pericolo. Se pensi il contrario, vuol dire che non lo conosci. Ma stai certa che Spry conosce bene il fatto suo, e non commette errori in quello che fa». Shebat era rimasta distesa sul letto senza parlare. «Se ti avesse portata qui senza dirci chi sei, fra l'altro, avrebbe rischiato che gli mandassimo inavvertitamente all'aria i suoi progetti, quali che siano. Dunque rilassati. Sei qui per imparare la Danza del Sogno e noi te la insegneremo. Vorrei solo che tu avessi più fiducia in noi, anche se non ti biasimo per i tuoi timori. Comunque io ho preso il tuo denaro, piccina, e rispetterò il mio impegno». «Lauren mi odia». «Lauren non ti odia affatto. Credo anzi che tu le faccia un po' di pena. Inoltre è gelosa... ma la gelosia non uccide. Lei ama David Spry, e sa che non lo avrà mai. Lui vuole portare te, non lei fuori dallo spazio di Kerrion». La donna le aveva sorriso, ma Shebat aveva distolto lo sguardo. «Santo cielo, bambina, fammi la cortesia di guardarmi. Ti giuro che Lauren non vuole intrigare ai tuoi danni. Se ci provasse, dovrebbe risponderne con me. E questo puoi dirglielo chiaro... se proprio non riuscirai a farne a meno». «Grazie». «Ringraziami lavorando a una Danza del Sogno, e che sia abbastanza buona da non mettermi in ridicolo con le altre. Loro stanno quasi facendo scommesse su quanto passerà prima che io debba mandarti via. E dal momento che non posso mandarti via, ma devo tenerti finché Spry vorrà, fammi un favore: cerca di farcela. Crea per me una Danza che metta a tacere quelle pettegole». «Ma io sto cercando...» aveva mormorato lei. «Fammi una Danza vera». «Ci proverò». Ed era stato così che Shebat s'era messa al lavoro per creare una trama capace di reggere, della lunghezza di una ventina di minuti. Ne era venuto fuori il sogno della storia d'amore di una ricca ereditiera e di un pilota, che si svolgeva sullo sfondo di una Confederazione sull'orlo del crollo più terribile, e per ambientarla aveva scelto gli sfondi a lei ben noti di Lorelie e del primo livello di Draconis. Ma si trattava di una tragedia, con scene apocalittiche di distruzione, e il doverla vivere aveva fatto inorridire Lauren, l'unica che Harmony aveva incaricato di prenderne visione.
Col suo malumore a tenerle compagnia Shebat raccolse le schede e tornò alla sua piccola stanza dalle pareti intarsiate di graffiti, chiudendosi dentro a chiave. Tutto ciò che le accadeva le fluttuava attorno disperso in frammenti, i giorni erano una processione che si dissolveva nei sogni da lei creati e in quelli che riceveva dagli altri, al punto che a stento distingueva ciò che era accaduto davvero da ciò che era accaduto in una danza. Lauren non aveva detto a Chaeron che lei era lì, di questo poteva sentirsi abbastanza sicura. Softa non si decideva a ricomparire, sebbene gli avesse inviato già una dozzina di messaggi. La Danza che aveva offerto ad Harmony la sera prima era anch'essa un fatto compiuto. Tutto ciò che restava era di attendere la reazione della direttrice della casa, del tutto imprevedibile, e il suo giudizio. Ma se avesse rifiutato il suo lavoro, cosa le sarebbe accaduto? Vedersi giudicare poco valida quella Danza del Sogno le avrebbe fatto male, sarebbe stato più doloroso del ricordo di come Parma Kerrion l'aveva sollecitata fino alle stelle e poi rinnegata, perché era la danza di se stessa. Ci aveva messo dentro l'anima, insieme a frammenti della sua vita reale là nel fango di Bolen's Town. Ripensò a quella che avrebbe potuto essere la sua ultima risorsa: alla peggio, poteva sempre chiedere a Marada di rispettare l'impegno preso con lei molti mesi addietro. Marada aveva giurato che sarebbe stato disponibile per riportarla a casa. In questo non l'avrebbe delusa. «Casa?» ansimò, con una risata amara rivolta alle pareti. «E quale casa? Bolen's Town? La taverna? Mai!» La Terra era il suo pianeta, e la amava profondamente, ma nessuna persona sana di mente avrebbe desiderato tornare in quella miseria degradante. I suoi pensieri scoraggiati vennero interrotti da un bussare alla porta. Da fuori Harmony chiese: «Bambina, aprimi. Sono io». Ecco che il momento decisivo era venuto, e Shebat sentì qualcosa diventare gelido nel suo petto. Incapace di parlare e muovendosi con apatia da sonnambula andò alla porta. La faccia della donna era così grave che la gola le si chiuse, e non rispose neppure al suo saluto. Harmony si lasciò cadere pesantemente a sedere sul letto, che mandò un cigolio di protesta. Batté una mano sulla coperta. «Siediti qui, dolcezza. Tu e io abbiamo alcune cose di cui parlare. Cose serie, direi». Lei avrebbe voluto gridare: Dimmelo! Ti è piaciuta? Per favore dimmi di sì. È la mia anima! Ma sedette goffamente, con le mani in grembo ed a
capo chino, incapace di spiccicar parola. Il cuore adesso le batteva forte. «Mi spiace averti fatto aspettare tanto, ma dovevo riflettere bene. Purtroppo la tua Danza propone temi diversi da quelli a cui. siamo abituati, qui su una piattaforma». Erano trascorse diciotto ore da quando Shebat aveva lasciato la camera della direttrice, disordinata e piena di troppi oggetti personali. Dopo il sogno Harmony s'era tolta la coroncina senza dir verbo, ed esibendo un'espressione indecifrabile le aveva accennato che poteva tornarsene nella sua stanza. Lei aveva atteso. Dopo averla fatta vivere nei panni della protagonista del suo sogno, costringendola a sentirsi sulla pelle il vento freddo di un inverno a Bolen's Town, il dolore, l'amore, la povertà e infine le pietre che l'avevano lapidata sulla neve, non poteva far altro che aspettare la sentenza. Sapeva di non averla fatta precisamente divertire. Per tutta la notte e il mattino successivo s'era sentita incerta, al punto che perfino il punteggio infimo ottenuto con la scheda di pilotaggio le era parso poco importante in confronto all'opinione di Harmony. Ora voleva soltanto sapere cosa la attendeva. «Dunque, circa questa Danza del Sogno... non è buona». Harmony le lanciò un'occhiata. «È più che buona: è stupenda. E come hanno detto anche tutti gli altri, potrebbe diventare addirittura qualcosa di classico». Shebat aveva fatto un tale sforzo per prepararsi a ricacciare indietro le lacrime, che sulle prime faticò a intendere il senso di quelle parole. «Davvero?» ansimò. «Oh, Harmony, allora... mi permetterai di danzarla?» «Decisamente sì. E voglio che tu la insegni a qualcuno degli altri, ovviamente un Danzatore o una Danzatrice adatti a cose del genere. Io penso che sia bene che molti sognatori la vedano. Ci è utile dare impulso a sogni di questo genere, anche se possono essere difficili per chi non ha esperienza della vita sul tuo pianeta». E con un sorriso che parve balenarle sulle labbra con reticenza, ma fu ugualmente benvenuto, la direttrice della casa strinse forte Shebat fra le braccia, mormorando: «Qui, qui da me, piccola Danzatrice del Sogno. Tutto va bene, proprio come deve andare». La sera successiva, mentre Shebat stava sognando - non danzando, poiché era in ricezione di uno dei Danzatori più esperti, da cui prendeva lezioni di tecnica e spunti - accadde qualcosa di notevolmente insolito: per
qualche minuto gli strappò il controllo. Era così immersa nel sogno che la cosa non le sembrò affatto pericolosa mentre succedeva, ma lo era. Il Danzatore non era assolutamente preparato a un'esperienza simile, e quando ebbe perso il controllo del sogno lottò freneticamente per impedire che il suo turbamento - paura, confusione, e la sensazione di precipitare nel vuoto - non si trasmettesse a lei travolgendoli entrambi, con gravissime conseguenze psichiche. Fu solo grazie alla sua esperienza se riuscì a riprendere alfine il controllo della sua Danza del Sogno. Shebat non si rese conto di quanto era successo finché le loro menti non si furono di nuovo separate, ciascuna riprendendo la propria identità, per fortuna sane e salve. Deponendo la coroncina sulla superficie dell'amplificatore il Danzatore si schiarì la gola. «Chi o cosa è questo Marada?» balbettò poi. «E per tutti i santi... come hai fatto a combinarmi questo?» «Vuoi dire che tu non lo sai?», sussurrò lei, debolmente. Il Danzatore non lo sapeva. Ciò che era accaduto era impossibile. Per un poco fissò l'amplificatore come se dubitasse del suo funzionamento, poi abbassò gli occhi sul pavimento. Infine borbottò qualcosa fra sé e si alzò per andare da Harmony: la cosa doveva esser riferita subito alla direttrice. Il Marada fluttuava immobile nel vuoto, assicurato alla sua ancora gravitazionale e pervaso da una sensazione di scontento. Shebat lo aveva chiamato, e lui le aveva risposto attraverso l'immensità dello spazio, ma adesso era certo che la sua voce non le fosse giunta: Draconis era troppo lontana. Il collegamento che si era soliti chiamare «coscienza» fra la sua psiche artificiale e quella della ragazza non era stato tolto dai suoi circuiti, per il semplice motivo che Spry non aveva avuto modo di occuparsene personalmente. E il giovane pilota che si era trasferito a bordo nello spazio profondo, ansimante e stordito per la lunga passeggiata nel vuoto, non ne possedeva la capacità. Così il Marada s'era trovato con un problema che nessuna astronave del suo genere aveva mai affrontato: concedendo anche a quest'altro umano di controllarlo - era il terzo di cui assorbiva la «conoscenza» - rischiava di precipitare in un disordine simile alla pazzia. In precedenza, quando il codice chiave di Shebat gli aveva imposto di ubbidire a Spry, in pratica egli aveva assorbito anche la «conoscenza» di lui, e fin lì aveva potuto arrivarci bene. Due umani insieme era cosa adeguata alle sue capacità. Inoltre il lavaggio mentale gli sarebbe apparso più odioso perfino della possibilità di diventare pazzo, perché dopo di ciò sa-
rebbe stato come se Shebat non fosse mai venuta in contatto con lui e mai lo avesse battezzato Marada. Ma del resto sarebbe morto se Spry non avesse mandato quell'apprendista pilota, il quale lo aveva condotto tranquillamente attraverso lo Spazio Spugna fino all'ancoraggio su quella piccola piattaforma ai confini delle stelle abitate. Solo questa certezza gli consentiva di resistere, mentre rischiava l'integrità mentale a causa delle tre diverse menti umane in «conoscenza» contemporanea con la sua. In una situazione normale Spry avrebbe cancellato da lui la «conoscenza» di Shebat, e forse ciò sarebbe stato preferibile al continuo disagio che le dava l'esserle lontano. Ma David Spry non aveva potuto venire a bordo. La sua mente calma e sicura non aveva espresso dubbi sul fatto che lui, il Marada, sarebbe stato capace di cavarsela ugualmente. E in qualche modo egli sapeva di non dover deludere Spry. Questa sensazione, aveva detto a se stesso, era causata certamente dai riflessi della personalità di Shebat presenti entro la sua. Quando il giovane apprendista pilota aveva usato la chiave di Shebat per entrare in «conoscenza» con lui, e la sua capacità di tolleranza aveva sfiorato il collasso, era dunque toccato a lui stesso levarsi dai guai ritrovando in fretta il controllo. Dove quel «lui stesso» fosse focalizzato, egli doveva ancora determinarlo con precisione: aleggiava da qualche parte negli ambienti elettronici della sua struttura mentale. Poteva essere visto come una funzione derivata da una sorta di triangolazione: avendo ora tre diversi punti di riferimento a cui appoggiarsi, il Marada li poteva usare per triangolare il suo centro di coscienza. Lì risiedeva ciò che avrebbe potuto chiamare la sua anima, e forse era proprio l'anima il fattore che adesso lo costringeva a restarsene buono buono in quell'ancoraggio. Nessuna astronave era mai stata scontenta degli ordini ricevuti, e nessuna astronave s'era mai sentita così chiaramente a disagio. Ma d'altronde nessuna era mai stata soggetta a un triplo controllo mentale. Quando s'era accorto che la mente di Shebat lo chiamava, il Marada non aveva potuto muoversi. Aveva avuto ordine di mantenersi a una ben precisa distanza dalla piattaforma, sulle coordinate a lui assegnate. Così s'era proteso a comunicare come avrebbe fatto con un'altra astronave. Ma Shebat non era un'astronave. La distanza gli parve il fattore cruciale che impediva alla ragazza di riceverlo. O forse, pensò poi, era la presenza di una terza personalità nei suoi circuiti a limitare la portata del contatto verso
Shebat. C'era mancato poco che quell'irritante riflessione non lo spingesse a contrastare la nuova entità che era il giovane pilota, cosa che sarebbe stata comunque impossibile a tutti gli effetti. Il Marada dunque era stato costretto a lasciarsi condurre lì. Adesso aveva la netta sensazione che certe cose fossero peggiorate rispetto a prima: non solo era scontento d'essere attraccato a quell'ancora, ma soprattutto si sentiva solo. Voleva Shebat. Desiderava sentirla vicina e pensare con lei, volare con lei, e insomma averla a bordo. Qualche tempo dopo - nel computo del tempo che usavano gli umani: alcuni giorni dopo - egli cercò il contatto con il Bucephalus. Ma il Bucephalus era indaffarato nel suo legame mentale con Spry, e non aveva voglia di parlare con lui. Inoltre l'ammiraglia dei Kerrion dichiarò seccamente di non ricordare nulla degli eventi che avevano condotto il Marada nella sua attuale situazione, e negò di aver avuto parte in essi. Questo apparve strano al Marada, che non gli credette e poi meditò sulle inspiegabili lacune selettive della sua memoria. Capì che la mente del Bucephalus aveva subito delle cancellazioni, e si indignò al pensiero che un umano facesse cose simili a una brava e onesta astronave. Ma quell'umano era David Spry, in cui egli non desiderava trovare difetti né propositi men che generosi, e ciò finì col farlo sentire ancora peggio. Capitolo 7 Dopo la morte di Jebediah molti elementi rivelatori delle sue attività avevano cominciato a venire alla luce uno dopo l'altro, dando infine a Parma Kerrion un quadro abbastanza completo del suo tradimento. La scoperta l'aveva dapprima reso furente, quindi colmo di pensieri amareggiati, ma poi altre preoccupazioni avevano contribuito a fargli accantonare la vicenda. Gli sarebbe piaciuto molto poter mettere da parte allo stesso modo ciò che riguardava la morte di Shebat (questa la versione ufficiale data alla stampa) o la sua scomparsa (così preferiva definirla) o il suo rapimento (ma di questo ormai dubitava). Restava il fatto che dimenticarsene non era semplice. Per un ragionevole periodo di tempo aveva atteso che i supposti rapitori della ragazza si facessero vivi con l'ormai abituale messaggio ai parenti della vittima, e dentro di sé s'era preparato a sentirsi chiedere una somma
esorbitante. Ma nessuno s'era messo in contatto con lui, neppure uno sciacallo o un mitomane. E neanche - era ciò che temeva di più - un emissario di qualche rivale politico deciso a ricattarlo in vista delle elezioni. Ufficialmente gli era parso saggio chiudere il caso, dunque. Ma ufficiosamente aveva compiuto alcuni passi, fra i quali il principale era stato rivoltare sottosopra ogni passata attività di Jebediah per sviscerare tutto ciò che se ne poteva dedurre. Con suo dispetto non era emerso niente riguardante Shebat, anche se la cosa non lo aveva sorpreso molto. Jebediah aveva in quel periodo agito prevalentemente dagli uffici del Consolato, ed era logico che non avesse lasciato in giro registrazioni o documenti. Se aveva macchinato qualcosa intorno alla ragazza, tutto doveva essere rimasto chiuso nella sua testa. Per il rimorso e per altri motivi il pensiero di Shebat continuava a ossessionarlo. L'ombra di lei lo seguì nel suo viaggio a Shechem, nello spazio di Labaya, dove trascorse tre noiosi e tormentosi mesi nella villa di Selim e nei suoi immensi giardini botanici. L'oggetto delle sue trattative con Selim Labaya era come suddividersi la torta rappresentata dal Consolato di Orrefors, che essi erano riusciti a mandare in fallimento ed ora stavano acquistando con una serie di espedienti così stomachevoli che perfino Parma ne era disgustato. Quando Marada, capitato per caso nel mezzo di una delle loro discussioni, era stato informato di quelle manovre economiche, si era irritato al punto che il padre e il suocero avevano dovuto mettercela tutta per placarlo. Ma non c'erano riusciti molto bene, e il giovanotto aveva perfino minacciato di rivelare quei retroscena al pubblico. Parma era stato costretto a dargli una violenta lavata di testa, erano volate parole molto dure, e al termine della scenata Marada lo aveva fissato con occhi colmi di rancore, dichiarando: «Fate come vi pare, padre. Ma io ne ho abbastanza di voi!» E facendo seguire l'azione alle parole il giovanotto aveva preso la sua astronave e aveva decollato da Shechem, allontanandosi nello spazio senza dire a nessuno dove andava. Esitante a far inseguire l'Hassid, e incapace di giustificare le sue manovre agli occhi di Marada senza rivelargliene aspetti ancora meno edificanti, Parma aveva preferito lasciarlo andare. Il giovanotto non era ancora abbastanza maturo da capire che negli affari spesso è inevitabile sporcarsi le mani, era un'idealista proprio come lo era stata sua madre Persephone. Ma alla fine avrebbe capito che suo padre faceva tutto ciò anche e soprattutto
per lui. Partendo da Draconis Parma s'era portato dietro solo otto guardie del corpo, il suo nuovo segretario privato, e David Spry, al quale era bastato un paio di giorni per rimettersi dall'incidente. Il Bucephalus non necessitava di nessun equipaggio fuorché il suo pilota, e nel sedersi in plancia accanto a lui Parma s'era limitato a chiedergli in che condizioni psichiche era il cervello dell'astronave. Su Shechem erano stati ospitati tutti quanti lussuosamente, ma Parma s'era stancato moltissimo e aveva accolto con sollievo il termine di quella laboriosissima conferenza. Tre mesi e sei giorni dopo aveva così ordinato a Spry di riportarli tutti a casa. Adesso, seduto nella cuccetta antiaccelerazione a destra di quella del giovane pilota, i pensieri di Parma già vagavano su altre preoccupazioni. Stentava a ipotizzare cos'avrebbe trovato di mutato su Draconis, dove aveva lasciato tutto in mano a Chaeron, ma visto che un timore valeva l'altro si accontentò di sperare che il figlio non avesse combinato nessun guaio davvero irrimediabile. Dopotutto i poteri legati alla carica di Console erano abbastanza limitati, e tre mesi non erano poi molti, rifletté. Ma non poteva ingannare se stesso: facendo Chaeron Ptolemy Kerrion Console di una stazione di transito su un asteroide avrebbe già corso un rischio. Farlo Console di Draconis era stata una misura di emergenza i risultati della quale potevano essere gravi e comunque imprevedibili. L'intera impresa speculatoria riguardante Orrefors era stata complessa, lo aveva costretto a dedicarsi ai particolari anima e corpo, e Shechem era stato il luogo migliore da cui tessere quella ragnatela. Parma non poteva dire a se stesso in tutta sincerità di esserne fiero. Eppure doveva fare quel che oggi Kerrion avrebbe fatto, per sopravvivere e mantenere intatto il suo potere. Schiacciato contro le imbottiture dalla velocità del decollo il vecchio patriarca sospirò forte, come se la sua inquietudine potesse venir buttata fuori con quel respiro. Era troppo vecchio e stanco per continuare con quel gioco, da cui si sentiva avvelenare sempre più. Dopo la lite con Marada aveva dovuto andarsene a letto con un tranquillante. La sua salute era precaria, la sua mente tendeva a divagare troppo, e sapeva benissimo che ai suoi giorni migliori non avrebbe ceduto tanto come aveva fatto alle pretese di Selim Labaya. Cominciava a convincersi d'aver bisogno soprattutto di tranquillità, di vivere i suoi ultimi giorni in armonia col resto dell'universo, e ne
aveva fin sopra i capelli di intrighi e di affari economici, al termine dei quali si sentiva soltanto esausto e vuoto. Sapeva che la sua vitalità se ne stava andando: su Shechem ne aveva sentito fluire via le ultime gocce, e aveva faticato molto per nascondere la sua vulnerabilità. Ma capiva ora di non essere più all'altezza di agire senza commettere errori. Il suo più grave errore di valutazione lo aveva fatto litigando con Marada, invece di cercarne l'appoggio. Ed era stato forse l'unico dei suoi errori che Selim non aveva notato. Al vecchio Labaya era piaciuto tanto vedere la durezza con cui Parma aveva rimesso al posto il figlio, che non s'era fermato a riflettere su ciò che quella lite poteva significare per i Kerrion. L'uomo s'era addirittura congratulato con lui, elogiando la sua fermezza. In quel momento i due vecchi rivali s'erano guardati negli occhi quasi con malizia: era così che il leone capobranco doveva ruggire, per mostrare ai giovani che sotto la criniera canuta c'erano ancora cervello e zanne pronte. Ma quel momento era subito passato, la sincerità s'era trincerata dietro lo scudo della rispettiva diffidenza. Parma non biasimava realmente Labaya per ciò che era: anche lui apparteneva alla stessa razza, e due vecchi leoni come loro non potevano improvvisamente indossare la pelle dell'agnello e accordarsi per diventare vegetariani, neppure nei rapporti reciproci. Troppi erano i giovani carnivori che attendevano un loro cenno di debolezza, rimpiattati fra i cespugli a rosicchiare ossa spolpate ma bramosi di poter uscire in caccia allo scoperto. Il destino e la prudenza li avevano fatti alleati tramite un matrimonio, un meccanismo non certo nuovo nella storia delle Famiglie potenti dell'umanità e che entrambi accettavano come utile. Però, se uno di essi avesse visto l'occasione buona, si sarebbe gettato sull'altro come su una bestia ferita per spolparla fino alle ossa. E non per avidità o crudeltà, rifletté, bensì perché ciò era parte del loro grande gioco. Anche il nuovo accordo seguito alla morte della figlia di Labaya era stata una mossa inevitabile della partita: invece di scannarsi l'un l'altro s'erano messi in caccia assieme, per fare a pezzi il Consolato di Orrefors che per ragioni complesse s'era trovato a loro disposizione come un animale ferito lasciato indietro nella savana dal suo branco. La loro alleanza non era stata facile né troppo piacevole, esattamente come il matrimonio fra Marada e Madel Labaya, la quale era fisicamente poco attraente a causa di una sua minorazione alle gambe: erano così corte che al vederla camminare risultava subito clinicamente anormale. E Parma aveva sentito dire che quell'imperfezione derivava dalla madre di lei, rima-
sta sconosciuta, una donna che Selim Labaya aveva incontrato trent'anni prima su qualche pianeta sperduto. E se quella minorazione era ereditaria... Al pensiero Parma sospirò ancora, e David Spry volse il capo a osservarlo premurosamente. «Non vi sentite bene, Signore?» «Sto meglio di te, giovanotto!», borbottò lui, seccato. Un altro fatto poco divertente fra quelli accaduti su Shechem era nato proprio dal comportamento di David Spry. Dannata arroganza di questi piloti della Softa, pensò: mettine due insieme e puoi aspettarti che accada di tutto. Ciò che era successo, e che Parma non si sarebbe mai atteso, era stato che Marada e David Spry non avevano fatto altro che discutere accanitamente dalla mattina alla sera giungendo spesso vicini alla lite aperta. Ovviamente tutti se n'erano accorti. Incapace di capire il motivo del loro disaccordo, irritato dai pettegolezzi che nascevano ovunque, alla fine Parma non aveva resistito più e aveva preso il figlio da parte. «Ma che diavolo avete da litigare voi due, si può sapere?» gli aveva ringhiato. «Quando me lo hai raccomandato credevo che foste amiconi». «Ve l'ho raccomandato perché è il pilota più completo che ci sia in giro, padre. Ma questo non significa che io apprezzi il suo modo di pensare. Non posso sorvolare sulle sue opinioni circa la Softa e la Confederazione. È un sognatore, un idealista distruttivo. Peggio: mi sto convincendo che sia un pazzoide». Il fatto che Marada accusasse qualcun altro proprio dei difetti che egli vedeva in lui, aveva lasciato Parma senza fiato. Poi gli aveva chiesto senza mezzi termini se fosse il caso di farlo sostituire sul Bucephalus da un altro pilota. «Ma niente affatto! Le nostre sono solo questioni personali. E non potreste trovarne uno più capace. Anche all'Associazione viene considerato il migliore». «Maledizione!», aveva sbottato Parma. «Allora guardate di controllarvi e di non mettere in piazza i fatti vostri. Tutta Shechem vi ha sentito chiacchierare. Il nome di Shebat non deve essere neppure pronunciato, da queste parti!» «Volevo solo accertarmi di quale parte abbia avuto Spry in quella faccenda, e capire chi altro può esservi stato coinvolto. Forse a voi piace darla per morta e continuare a occuparvi dei fatti vostri, ma a me no». «E perché no, santo cielo?», aveva chiesto Parma, quasi supplichevole. La risposta di Marada era stata un'occhiata carica di rimprovero. «Insom-
ma, cosa credi di poter scoprire tu? Ho già accertato che su un fatto non ci sono dubbi: mentre Shebat stava portando chissà dove la nave a cui ha avuto l'infelice idea di dare il tuo nome, Spry era sul Bucephalus con Jebediah». «Può anche darsi, ma da quel che ne so io questo non significa niente. E se non avete notato come questi labayani rizzano le orecchie quando sentono il nome di Shebat, allora è tempo che vi ritiriate. Anzi, secondo me se non avete saputo impedire ciò che le è successo vuol dire che avreste dovuto mettervi in pensione molto tempo fa». «L'insolenza è sempre stata una delle tue qualità, e sui tuoi difetti preferisco sorvolare. Dannato idiota! Non ti sei ancora reso conto di cosa significa per te essere mio figlio? Eppure dovresti averlo capito, visto che il motivo principale per cui ti sei sposato con gambestorte...» Parma ignorò lo sbuffare del giovanotto e continuò: «Non negarlo, che almeno questo va a tuo onore. Il tuo motivo era l'unione dello spazio di Labaya e del nostro». «Labaya e Kerrion possono anche andare a pezzi, prima che io...» «Taci, sventurato frutto di un mio altrettanto sventurato momento di passione. Taci! Hai agito per il meglio in questo, da vero Kerrion. Te lo devo concedere. E anche se la cosa può sorprenderti, sto pensando che tu non sia poi così irresponsabile. Tu dovrai essere, ti piaccia o meno, il mio successore al rango di Console Generale. Mi capisci, figliolo?» «Lo sarei per non più di cinque minuti, il tempo di attendere che le zanne di Ashera mi si chiudano sul collo. Grazie padre, ma io non intendo avere a che fare con veleni o incidenti strani. Piuttosto preferirei essere trasferito come Arbitro ai limiti della Confederazione, alle prese con la feccia e i criminali». «La mia vita non è stata rose e fiori. Non puoi pretendere che la tua lo sia». «Quello che voi proponete potrebbe portare la Casa dei Kerrion alla rovina. All'estinzione. E... siete davvero tanto ansioso di vedere i figli di una femmina come Madel ereditare ciò che voi avete costruito? Meglio che mi lasciate fare ciò che già faccio, padre: il pilota!» «Sciocchezze. Tu sei Marada Seleucus Kerrion, attualmente primo nella linea di successione. Hai il dovere e il diritto di ereditare i miei privilegi consolari, oltreché le mie sostanze». «I privilegi non li desidero. Dateli a Chaeron, che sta sospirando su di essi da un'intera vita. O se volete fare un dispetto ad Ashera, dateli a Julian. Lui almeno è onesto... cosa che lo porterebbe in breve a una brutta
fine. Pensate come sarebbe divertente: Ashera si vedrebbe costretta a far del male alla carne della sua carne, per avere ciò che vuole. Non io. Io distruggerei tutto quello che voi avete costruito, padre. Questa è una promessa. E state certo che la manterrei meglio di quella che mi avete fatto per Shebat: lei era sotto la mia responsabilità, in quel momento. E pur di togliermela avete avuto il coraggio di giurare che l'avreste protetta!» Marada s'era fatto indietro ansimando, distogliendo lo sguardo da lui come se la sua vista lo disgustasse. Parma aveva stretto i denti. «Ti ho già detto quanto sono spiacente per la ragazza. Per me era come una figlia». «A quanto pare essere figli vostri non è un gran vantaggio. Capitano troppe disgrazie e chi gode di questo alto onore!» Su questa frase Marada s'era allontanato, e il suo malumore era stato il preludio allo scontro verbale che avevano avuto qualche giorno dopo. Venendo a sapere con quali espedienti il Consolato di Orrefors era stato mandato in rovina, e costretto a vendersi al migliore offerente, il giovanotto era andato vicinissimo ad accusare Selim Labaya d'essere un criminale. Per salvare la situazione e impedire una rottura fra i due Parma aveva dovuto trattarlo male di fronte a Labaya, col risultato che la rottura era avvenuta invece fra lui e il figlio. Un altro fatto, anch'esso decisamente spiacevole, era avvenuto due giorni dopo, quando Selim Labaya aveva insistito per condurlo a passeggio nei giardini di Shechem, ricchi di meraviglie botaniche provenienti da ogni angolo dello spazio conosciuto. Nel passare sotto una massiccia semiintelligente questa aveva fatto scattare in basso un ramo come una mazza, colpendo Parma di striscio alla testa e facendolo rotolare a terra stordito. Selim Labaya s'era profuso in gemiti e scuse, e aveva subito ordinato a un inserviente di distruggere il pericoloso vegetale, ma i suoi modi erano stati così falsi e untuosi che Parma se n'era irritato ancor di più. C'era mancato un capello che il colpo non gli spaccasse la testa, e per l'improvvisa emozione il suo cuore era andato vicinissimo a un collasso. Fuori di sé dalla rabbia, gli era scappata poi di bocca un'osservazione sul suo sospetto che qualcuno in Labaya avesse avuto le mani in pasta nella scomparsa di Shebat. Ma l'altro aveva preso in ridere quella sua uscita, commentando poi: «La tua piccola esca terrestre, eh? Certo non l'avresti mai sollevata sugli altari senza aver già fatto i tuoi piani per quando fosse venuto il suo momento di ruzzolare nella polvere, vecchio furbacchione. Ma è giusto: ti
preoccupi per la tua rielezione. Da quanto mi dicono le mie fonti d'informazione sembra che non dovresti avere problemi, se però tu prevedessi difficoltà fammelo sapere. Modestamente posso dirti con sicurezza che una cinquantina di voti di fiducia riuscirei a spostarli dalla tua parte senza difficoltà». Parma s'era già pentito d'aver portato in ballo l'argomento Shebat col suo scatto d'ira, per pura storditezza. La luce d'interesse da carnivoro che aveva visto negli occhi di Selim Labaya lo informò che l'altro invece ne era compiaciuto, e che avrebbe voluto approfondirlo. Per cambiare discorso, e anche per ribattere alla sua antipatica battuta sulle sue possibilità di agire sui voti di fiducia in Kerrion, Parma s'era fatto acido: «Mi chiedo come tu possa tenere simili piante maligne nel tuo giardino, quando si pensa che hai una figlia così poco svelta di gambe». E nel vederlo irrigidirsi aveva continuato: «Mi risulta che la minorazione della ragazza sia un carattere ereditario, e ti confesso che non posso fare a meno di pensare a che razza di nipoti lei e Marada mi daranno. Nella mia famiglia siamo tutti alti e sani di costituzione. Sì, sono molto preoccupato». «È una sciocchezza», aveva ringhiato Labaya. «Parliamoci chiaro: se il loro primogenito dovesse essere minorato fisicamente, al punto di non poter adempiere con dignità ai suoi doveri, allora questo figlio dovrà essere tolto via dalla linea di successione così come si scarta una moneta falsa. Meglio essere pratici che stupidamente pietosi». Quella era stata una carta rischiosa da gettare in tavola, visto che Labaya doveva aver già fatto i suoi calcoli sui diritti ereditari del futuro Kerrion che sarebbe nato da Madel e da Marada, e un discorso simile gli riusciva dunque sgradevolissimo. Inoltre la tacita ammissione di Parma sul fatto che egli considerava Marada suo successore forse metteva in pericolo la sua vita, qualunque fosse il risultato delle elezioni. Anche nel remoto caso che Parma avesse dovuto cedere a qualcun altro il seggio di Console Generale, la sua famiglia monopolizzava lo spazio di Kerrion ormai da secoli e nessuno sarebbe mai riuscito a toglierle il controllo economico del Consolato. Selim Labaya avrebbe visto come un dono del cielo la sua morte e il passaggio a Marada di ogni suo avere. Da li a far finire tutto in mano a Madel soltanto c'era appena un passo ancora. Ma nello stesso tempo il vecchio Labaya - e questo divertiva Parma - era costretto a trattenere la sua avidità ed a sperare che l'ufficio di Console Generale restasse in mano alla famiglia Kerrion, dato che la sua perdita avrebbe rappresentato una grave perdita di reputa-
zione a danno tanto di Marada che del suo futuro primogenito. Con Labaya Parma giocava dunque una partita complicata paragonabile a quella che conduceva continuamente con Ashera, la quale tendeva a spostare il denaro e il potere dei Kerrion nelle mani della famiglia in cui era nata. Il suo solo modo di proteggersi era di scoraggiarli, convincendoli che dalla sua morte avrebbero avuto più da rimetterci che da guadagnarci. L'ultimo incidente diplomatico, se così si poteva definire, aveva visto come protagonista David Spry in persona, che prima del decollo da Shechem aveva dimostrato quanto si divertissero ad essere irriverenti i piloti della Softa tirando un colpo basso a Selim Labaya, proprio sul molo dov'era poggiato il Bucephalus. Parma non aveva avuto il minimo sospetto che una cosa simile potesse accadere, anche se Marada l'aveva avvisato sul carattere tutto particolare del giovanotto. Mentre le sue delegazioni prendevano congedo, il pilota s'era fermato a ricevere il saluto del vecchio Labaya e poi gli aveva detto, secco: «No, non posso affermare d'essermi divertito molto in questi tre mesi, Signore. Sono stato continuamente spiato dai vostri agenti, si è tentato di farmi ubriacare con bevande e droghe di ogni genere, e ho perfino dovuto sbarrare le finestre della mia camera per far sì che almeno di notte qualcuno non venisse a offrirmi bustarelle o a chiedermi di passare al vostro servizio. Il mio giuramento all'Associazione, per non parlare del mio amor proprio, mi impedisce simili bassezze. E in quanto a Shebat Kerrion sarà bene essere espliciti, Signore: se anche sapessi dov'è l'ultima cosa che farei sarebbe di venderla a voi, malgrado l'alta cifra offertami». E detto questo, tagliando corto alle parole diplomatiche con cui Labaya replicava, il giovanotto era salito a bordo lasciando a Parma Kerrion il compito di mettere una pezza alla situazione. Mentre il Bucephalus accelerava per entrare nell'Effetto Spugna il vecchio patriarca si schiarì la voce un paio di volte, sbirciando di traverso il pilota. David Spry era sprofondato nella poltroncina e di lui erano visibili solo il naso e una ciocca di capelli biondi, ma nel sentirlo tossicchiare si raddrizzò. «Se volete parlarmi, Signore, non abbiate paura di distrarmi. Il Bucephalus sa già cosa deve fare», lo invitò, con un sorrisetto. «Sei sicuro di non avere bisogno del silenzio per pilotare, giovanotto? Non mi va l'idea di perdermi per sempre in qualche maledetto buco fuori della galassia».
«Non preoccupatevi di questo, Signore. Tutto è sotto controllo». «Allora sentiamo, ragazzo: come ti sei permesso di parlare in quel modo a un Console Generale? Ti rendi conto che a Selim Labaya basta muovere il mignolo per farti eliminare? O pensavi per caso che fosse tuo dovere verso di me mollargli una pedata negli stinchi? Se pensi che io lo abbia apprezzato, ti sbagli di grosso. E se mi combini un altro sproposito come questo, giuro che ti riporto di peso alla tua Associazione e ti faccio mangiare la tua patente di pilota. Io posso fare in modo che tu non metta più piede su un'astronave in vita tua!» «Sì, Signore», David annuì con aria grave. «Sì Signore: tutto qui quello che hai da dirmi?» «Mi spiace avervi infastidito, Signore. Però non sono pentito di aver parlato in quel modo. Il comportamento del vecchio Labaya è stato offensivo per me. E anche per voi, no?» A queste parole seguì un lungo silenzio, che alfine Parma Kerrion ruppe con una risatina. Subito però l'uomo tornò serio. «Voglio che tu risponda a una domanda: secondo te, perché sembra che nessuno voglia considerare chiuso il caso Shebat?» Probabilmente perché non ci sono prove della sua morte, signore. Nessun cadavere, né testimoni. Inoltre il Marada è, o era, un'astronave assai progredita e...» «Questo lo so. Ho pagato fior di quattrini per quel giocattolo». «È proprio il Marada che introduce un elemento di dubbio. Perfino se Shebat fosse stata del tutto inesperta del pilotaggio, il Marada non avrebbe avuto la minima difficoltà a farla girare per tutta la galassia senza il più piccolo incidente». David era teso, avvertiva il pericolo di parlare di quell'argomento con un uomo come Parma, e sentiva anche un certo rimorso: suo malgrado stava cominciando a provare rispetto per il vecchio Console. «Così tu sei dell'opinione che lei fosse a bordo della nave». «E che altro, Signore?» «Lo sto domandando a te, visto che mostri tanta disposizione alle indagini da farmi credere che tu abbia sbagliato carriera». Parma sbatté le palpebre con una smorfia infastidita e si passò le mani sugli occhi. «Se questa luce vi disturba, Signore...» David chiuse le palpebre un istante, mettendosi in contatto con la mente del Bucephalus. Al suo ordine le luci della plancia si smorzarono, lasciandola immersa in una tenebra azzurrina e riposante nella quale risaltavano le indicazioni verdi e gialle
della strumentazione. «Ti ho fatto una domanda, giovanotto». «E io vi ho risposto. Il solo che potrebbe dirvi qualcos'altro è Marada. In questi ultimi nove mesi ha vissuto molto a contatto col vostro rivale». Perché ho detto questo? Attenzione!... No, non mi rivolgevo a te, Bucephalus. «Parlando di Marada: secondo te è un buon pilota?» «Direi ottimo, Signore. Se volesse potrebbe essere addirittura eccezionale». David sorrise appena. «Ma dovrebbe prendere più sul serio l'Associazione, e il giuramento che ha fatto». Si accorse che Parma lo fissava intensamente nella semioscurità, e cercò di scacciare il nervosismo. «È questo il motivo per cui avete tanto litigato?» «Solo in parte, Signore. Ma preferirei non discutere delle nostre divergenze». Si sporse sui comandi e sfiorò alcune piastrine luminose per avere i dati sulla posizione. Non avrebbe avuto alcuna necessità di farlo, e il Bucephalus se ne lamentò blandamente con lui. Spry gli comunicò di starsene buono: la nave sentiva la sua agitazione e avrebbe voluto placarla. Una dozzina di indicatori lampeggiarono brevemente, allegri e multicolori come le luci di una giostra. «Tu non ci apprezzi molto. È così?», chiese Parma sottovoce. «Questo non ha importanza». «Credi? Invece ne ha, visto che ciò avrebbe potuto renderti più ricettivo alle offerte dei labayani. Comunque, ti sono grato per averle rifiutate». «Risparmiatevi la vostra gratitudine, Signore. Se mi lasciassi corrompere da un vostro rivale l'Associazione mi butterebbe fuori. Non potrei più pilotare, e questo per me sarebbe peggio che la morte. Per quanto riguarda il lavoro potete considerarmi un vostro fedele dipendente». «Ma non per altre cose, eh?» «Se alludete ai miei sentimenti per Shebat, certo non sono mai stati improntati al rispetto formale che avrei dovuto mostrare per una Kerrion, Signore». Di nuovo David si pentì d'aver detto qualcosa che avrebbe fatto meglio a tacere. «Ti sorprenderà saperlo, ma anch'io mi stavo affezionando a quella ragazza», borbottò Parma. Fra i due cadde il silenzio. Spry ne fu lieto e tornò a dedicare la sua attenzione al Bucephalus, la cui mente sensitiva aveva ancora bisogno di cure per la cancellatura di memoria subita tre mesi addietro. Quell'operazione aveva addolorato il giovane pilota più di tutti gli altri avvenimenti di quel periodo, compreso il suo comportamento con Shebat. Soprattutto gli
era dispiaciuto non potersi giustificare né confidare col Bucephalus, una personalità semplice e innocente che non avrebbe dovuto pagare per ciò che lui faceva. Come tutte le astronavi, anche il Bucephalus aveva bisogno della compagnia umana e di sentirsi in un certo modo amato. David lo amava, infatti, come ogni pilota amava la sua nave, e godeva del suo contatto mentale. Spesso si domandava come il pilota che l'aveva preceduto avesse potuto lasciarlo: se fosse stato al suo posto gli sarebbe parso di perdere un pezzo della sua stessa anima. Ma certamente, rifletté, aveva rinunciato perché ormai anziano e stanco, consapevole che l'empatia con una mente logora e senile non giovava all'astronave. Anche cancellare dal Bucephalus la «conoscenza» col vecchio pilota non era stata un'operazione chirurgica del tutto pulita, e David doveva spendere parte del suo tempo a mettere cerotti là dove individuava ferite mal rimarginate in quella psiche per certi versi così umana. Anche Parma Alexander Kerrion, seduto accanto a lui, stava cercando di mettere cerotti su certe sue ferite. Specialmente su quella riguardante una fanciulla bruna venuta dalla Terra, che suo malgrado gli doleva sempre più. Capitolo 8 Il giovanotto elegante vestito nell'uniforme nera dei dipendenti del Consolato camminava a passi lunghi, sui marciapiedi di plastica sporca illuminati dalle luci non molto vive del settimo livello. Il mantello svolazzava alle sue spalle nell'aria riciclata e maleodorante, evitava gli ubriachi e si teneva alla larga dagli elementi dell'aria equivoca in sosta sulla soglia dei locali notturni. Una mano tremante da drogato si protese a sfiorargli le tasche ed egli la scostò con una scapola, una prostituta gli rivolse un'occhiata interrogativa ed ebbe in risposta una smorfia sprezzante. Davanti a un bar scese dal marciapiede per far posto a cinque o sei individui che ne stavano uscendo, e un paio di sguardi lo valutarono per capire se girava armato. Qualcosa nei suoi modi disse loro che lo era, e subito venne ignorato. Poco più avanti, in una zona residenziale dove i ventilatori pompavano aria proveniente dagli impianti di depurazione e le strutture di sostegno svettavano immense fra le abitazioni, un veicolo privato lo sorpassò a forte velocità ed egli poté vedere a bordo di esso una ragazza che stava lottando
disperatamente con un uomo. La scena lo lasciò del tutto indifferente. Accelerò il passo girando in una delle vie principali, piena di negozi, e gettando un'occhiata a un orologio pubblico vide che erano appena le tre del pomeriggio. La temperatura dell'aria era di 20 gradi, la gravità media di Draconis era 0,9 Standard, la pressione (questa cifra risaltava più luminosa di quella che dava l'ora) era 762 millibar. Oltrepassò alcuni locali dove la gioventù dei livelli medi si dava convegno, e più avanti svoltò in una traversa dove l'illuminazione pubblica era quasi inesistente. I suoi lucidi stivaloni ticchettarono rapidamente giù lungo alcuni scalini di marmo sintetico, e dinanzi a una porta dall'aspetto anonimo si fermò. Dopo che ebbe bussato cinque volte con le nocche delle dita, un ronzio lievissimo lo informò che un detector stava vivisezionando la sua persona da capo a piedi. Distrattamente sollevò una mano a ravviarsi i capelli corti color rame. La porta si aprì, e inquadrato nella morbida luce azzurra dell'interno apparve un ragazzo molto giovane, snello, vestito in un'aderente calzamaglia metallizzata, che appena l'ebbe riconosciuto gli rivolse un sorriso di benvenuto. Con un gesto deferente il giovane portiere si scostò per farlo entrare, e fu svelto a prendere il mantello che l'altro s'era tolto con un ampio movimento del braccio. Il nuovo venuto accennò col capo verso il termine del corridoio, che quindici metri più avanti svoltava ad angolo. «C'è molta gente stasera?» chiese. Da qualche parte proveniva un soffuso mormorio di voci. «È presto, ma abbiamo già una dozzina di clienti, Signore». Il ragazzo accarezzò la stoffa del mantello, dove campeggiava un blasone ricamato in rosso. «È un piacere avervi qui di nuovo. Vi auguro di trovare il sogno del vostro cuore». «Stasera ne avrò uno tutto speciale, stai sicuro». L'uomo gli gettò una moneta, gli fece l'occhiolino e si allontanò. Da una stanza sulla destra del corridoio una voce femminile chiamò il giovane portiere. Per un attimo lui seguì ancora con lo sguardo l'elegante figura in uniforme nera, poi depose il mantello nel guardaroba e andò verso la camera di Harmony a sentire cosa volesse la direttrice. Appena il nuovo cliente ebbe girato l'angolo fu colpito dalla familiare sensazione d'essere già entrato per metà in un mondo onirico. Una semioscurità tappezzata di stelle sembrava circondarlo per immense distanze a destra ed a sinistra, fornendolo di una prospettiva ingannevole, il tappeto alto un palmo attutiva i rumori, e una nebulosità lattea vibrava fra lui e gli
sterminati spazi galattici fra cui aveva la sensazione di camminare. Al termine di quel mistico corridoio un anello di luce rossa inquadrava una consolle dietro cui stava seduta una ragazza bionda, anch'ella quasi sospesa nel nulla. I suoi denti candidi balenarono in un sorriso, dita dalle unghie d'argento sfiorarono contatti invisibili, e un effetto luminoso diede il benvenuto all'uomo che avanzava verso di lei. «Chi scrive nel libro dei sogni?», gli mormorò secondo il rituale, osservandolo con curiosità. «Ciascuno scrive le sue pagine», rispose lui, nella formula solita di chi preferiva mantenere l'anonimo. Ma gli occhi della ragazza gli dissero che ella conosceva la sua identità. «Chi sognerà per il sognatore?», gli fu allora chiesto. «Aba Cronin, se è libera». Le dita della ragazza consultarono gli strumenti. Una luce verde diede il suo assenso. «Per quanto tempo vorrà il sognatore intrattenersi con Aba Cronin?» L'uomo estrasse una banconota di grosso taglio e la depose sulla consolle. «Per tutta la sera, forse fino a notte tarda». La ragazza bionda comunicò alla sua strumentazione che la Danzatrice richiesta sarebbe stata impegnata fino all'ora di chiusura. Poi gli diede una sottile chiave. «Numero quattordici. Da quella parte, prego». Mosse una mano e in risposta a quel gesto il rettangolo verde di una porta nacque nell'oscurità di una parete stellata. «Signore... il vostro resto». Lui si stava già avviando in fretta. «Tienilo». Oltre la porta c'era la sorgente dei mormorii che aveva già udito: una sala piuttosto vasta colma di ombre e di riflessi cristallini, dove aleggiava il profumo di sigarette drogate. La attraversò senza quasi guardarsi attorno, passando fra alcune coppie sedute a parlare sui bassi divani. I brevi corridoi che si dipartivano a raggiera conducevano nelle stanze dove altri clienti erano immersi nel sogno fornito a ciascuno da un Danzatore o da una Danzatrice. L'ambiente era raffinato, e tuttavia non più costoso di quelli che si potevano trovare nei livelli inferiori, questi ultimi in genere specializzati nel dare ai sognatori sensazioni violente o proibite. Nelle case dei sogni che clandestinamente operavano ai livelli più alti la clientela era scelta, forse non meno ricca ma senz'altro più distinta, e un terzo circa di essa era composto da donne. In genere si trattava di locali più sicuri per i clienti, nei quali la polizia preferiva non metter piede vuoi per evitare scandali
imbarazzanti vuoi per gli intrecci di complicità che venivano a crearsi fra la casa e i frequentatori più altolocati. La possibilità di un'irruzione delle forze dell'ordine forniva un brivido piacevole, ma era remota. L'uomo trovò la porta che cercava, contrassegnata da un numero luminescente, e introdusse la chiave nella serratura. Il battente scivolò senza rumore nella parete, rivelando un locale immerso nella stessa tenebra senza tempo e tappezzato soltanto da sciami di stelle, fra cui l'unica cosa solida sembrava il chiarore del divano circolare incassato nel pavimento come una vasca. Appena egli fu entrato la porta si richiuse alle sue spalle, lasciandolo come sospeso in quella oscura eternità. Poi, come un fantasma, la Danzatrice del Sogno si mosse e fu visibile su uno sfondo di pulviscolo stellare che luceva lontano. Aveva ai polsi e alle caviglie monili di cristallo che tintinnavano lievi, e indossava una rete cosparsa di puntolini luminosi il cui effetto era di renderla vaga quanto il fondale di cui sembrava far parte. Simile a una sirena delle profondità spaziali ella gli si fermò di fronte, alzando verso di lui un volto pallido bello di una bellezza imperscrutabile. Grigi e immensi, silenziosi, gli occhi di Shebat Kerrion si spalancarono nella penombra sul cliente. La fanciulla parve esitare, scossa da un tremito, e si passò nervosamente la lingua sulle labbra. Poi fece un passo avanti e le loro mani s'intrecciarono nel gesto rituale. «Benvenuto, sognatore», mormorò. «Chi è che cerca le pagine del libro dei sogni?» «Tu sai chi sono. E chi è che stasera danza per me?» «Anche tu mi conosci. Sei qui per sognare?» «Sì, ma non la storia d'amore e di distruzione per cui Aba Cronin è ormai nota». Shebat gli accennò di prender posto sul divano, poi sedette di fronte a lui. Fra le loro ginocchia era poggiata al suolo la cassa rettangolare dell'amplificatore, lunga un metro e con le coroncine fissate nelle loro scanalature circolari. Gliene porse una, fissandolo intensamente. «Allora qual è il sogno che ti renderebbe più felice?» «Credo che tu lo sappia già. Improvvisane uno di quel genere». L'uomo attese un cenno d'assenso che non veniva. «L'ultima volta che ci siamo visti in te non c'era nessuna eco del mio desiderio. Dammi il sogno che avrei voluto vivere allora: vederti venire a me animata dalla mia stessa passione». La ragazza distolse lo sguardo, ma annuì lentamente. Mosse appena le
labbra in un sussurro: «Ti darò il sogno che desideri». Fece una pausa. «Ma la sera e la notte sono lunghe, e tu hai pagato per tutto il mio tempo. C'è un secondo sogno che io possa darti?» Chaeron Kerrion sollevò la coroncina e sfiorò quella di lei come in un brindisi cerimonioso. «Voglio trascorrere il pomeriggio vivendo il sogno che danzerai per me. Poi... sarò io a costruire per te il secondo». «Come vuoi». Shebat sfiorò un pulsante, e una musica sottile aleggiò intorno a loro come proveniente dalle più lontane spiagge dell'universo. «Mi affidi il tuo desiderio, sognatore?» «Così come tu mi affiderai il tuo». La fanciulla sollevò le mani e fra esse la coroncina scintillò. Aveva gli occhi chiusi, e respirava appena. Nel guardarla Chaeron si rilassò indietro contro lo schienale. In quei quattro mesi era diventata più donna, e nella semioscurità gli apparve più bella di come la ricordava. Per qualche istante dimenticò il suo desiderio e si perse in un sentimento diverso, in un'emozione struggente a cui sapeva di non doversi abbandonare per non soffrire, e cercò di non pensare al vero motivo per cui era venuto lì. Si mise la coroncina sulla testa, stringendosela intorno alle tempie, e notò stupito che ella non faceva lo stesso. Ma un attimo dopo fu troppo tardi per pensare. D'improvviso egli non era più lì: stava camminando su una candida spiaggia dove le onde venivano a frangersi con un rotolare di creste bianche, e il vento del mare gli portava l'odore della salsedine e lievissimi spruzzi sulla pelle nuda. Non indossava nulla, e i suoi piedi affondavano piacevolmente nella sabbia calda a pochi centimetri dai ventagli delle ondate che s'allungavano sull'arenile. A un centinaio di metri di distanza una figuretta di fanciulla, nuda e sensuale, agitò un braccio nella sua direzione e poi si chinò flessuosamente a raccogliere una conchiglia. Il mormorio dei frangenti e la voce del vento sembravano sussurrare il nome di lei, in una canzone senza note vecchia come il tempo. Sul mare i gabbiani volavano bassi, giocando con le creste dei cavalloni che sui bassifondi si frangevano in turbini di spuma rotolanti verso la riva. Senza rallentare il passo Chaeron si volse a fissare meravigliato quegli sconosciuti uccelli marini che riempivano l'aria di strida acute. Per lui era uno spettacolo nuovo, e l'impressione d'immensità che quell'orizzonte gli dava lo fece sorridere, sconcertato ma felice. È solo una Danza del Sogno, cercò di dirsi. Ma il sapore di sale sulle labbra era autentico. Un'ondata si allungò a bagnargli i piedi, e abbassando lo sguardo fu colpito dal turbinio di granelli di sabbia, di alghe e di piccole
conchiglie portate a terra dalla risacca. Un'erba marina gli rimase appiccicata a una caviglia, un granchio corse via spaventato, poi notò lo stormire di fronde della vegetazione che cresceva lungo il litorale: sensazioni e rumori inesistenti sulle piattaforme spaziali. Il suo passo era agile e sciolto, e con l'acqua fresca che ogni pochi secondi giungeva a ristorargli i piedi gli parve che avrebbe potuto camminare così per sempre senza stancarsi. L'oceano era un'entità amica che accarezzava la spiaggia col suo respiro, e la sua vicinanza lo fece sentire più vivo di quanto non fosse mai stato. Si osservò il petto nudo, le spalle dove l'epidermide reagiva piacevolmente al calore del sole, e solo allora notò di avere appeso al collo il medaglione che Parma gli aveva regalato per il suo diciassettesimo compleanno. Lo rigirò fra le dita: su di esso c'erano minuscoli granelli di sabbia, e l'incredibile perfezione di quei minuti particolari del sogno lo meravigliò. Era un sogno molto più complesso di quel che sembrava, nello scenario di un pianeta che egli non aveva mai visto prima d'allora, sotto la risonante immensità di un cielo che neppure l'affascinante Lorelie poteva permettersi. E tuttavia le cellule del suo corpo gli dicevano che i colori e le forme di quel paesaggio erano parte della sua eredità umana. Su altri pianeti aveva visto spiagge, mari, dune di sabbia cespugliose, e ne aveva assaporato la bellezza, ma questi erano diversi in un modo sottile che li rendeva simili ad amici ritrovati dopo una lunga lontananza. Anche il cielo limpido era sfumato di una particolare tonalità di azzurro che ne faceva un cielo vero, quello giusto. Poi urtò quasi contro di lei e la afferrò d'istinto, stringendola fra le braccia e godendo della sua carne elastica e tiepida. Gli occhi di Shebat sorrisero ai suoi, con appena un'ombra di imbarazzo - o era malizia? - per la loro nudità. «Ti piace il mio mondo? È la Terra». «È bellissimo qui». Lui la baciò sul collo. «Ma è un po' troppo grande per me. Mi ci sento come sperduto». «Allora seguimi, e costruirò un mondo più piccolo solo per noi due. È un posto dove andavo spesso da bambina. Ti piacerà, vedrai... te lo prometto». E c'era un'altra sorpresa nel corpo snello di lei che si offriva al suo, in una vicinanza così intima e così impudica che per qualche attimo l'eccitazione lo fece ansimare. Ma non era esattamente questo che lui voleva in quel momento. Le sfiorò appena le labbra con un bacio e fece per scostarla un poco.
«Non così in fretta, Shebat. Non subito», disse. L'ardore di lei era però anche maggiore di quanto avrebbe desiderato, e scoprì come fosse difficile per un uomo allontanare da se una giovane femmina nuda che cerca il contatto del suo corpo. Si rassegnò con un tremito e la baciò sulla bocca, lungamente. D'un tratto fu lei a separarsi dalle sue braccia, sgusciandone fuori con una risatina. Alzò le mani di scatto. «Vieni con me!» esclamò. Intorno a loro la spiaggia scomparve, e fu sostituita dai colori bruni e dorati di un bosco nel suo splendore autunnale. Da qualche parte proveniva l'odore di legna bruciata, e le piante crescevano lussureggianti dando ombra a strane rovine corrose da secoli di pioggia. Shebat lo prese per le mani e indietreggiò. «È un posto che ho amato, un posto segreto, dove i miei scarsi poteri avevano più forza. Ne ricordo ogni particolare, e sono contenta d'averlo ricostruito per te», disse sorridendo. Chaeron si lasciò attirare fra l'erba secca del sottobosco. L'aria era calda e profumata di vita. Con un passo di danza la fanciulla si allontanò, poi si chinò a raccogliere una manciata di foglie gialle e fruscianti e se le strinse al petto. Tornando verso di lui le lasciò cadere, tristemente, e sulle ciglia le brillò improvvisamente una lacrima. Le braccia di Chaeron la cinsero e la rovesciarono al suolo, su un morbido tappeto d'erba asciutta, ed ella dischiuse le labbra al suo bacio impaziente. Poi ci fu solo il silenzio dei loro corpi che si cercavano. Più tardi, quando tutto ciò che Chaeron aveva desiderato fu accaduto, quando perfino le parole che aveva sperato di udire da lei furono dette e non rimasero che sospiri e ombre di sorrisi, la ragazza si alzò a sedere. Vedendo che si faceva seria lui le cinse le spalle con un braccio. «Non ti voglio triste. Questo non fa parte del sogno che ti ho chiesto», la rimproverò. «E se sei una vera Danzatrice devi accontentare il cliente». Shebat sbuffò. «Ti ho dato il sogno che desideravi. E te l'ho costruito perfino nel luogo per me più intimo. Non ti basta?» Lo guardò con sfida. «Io sono la creatrice qui, non tu. Potrei fare di te ciò che voglio, a mio capriccio... Non ci credi? Potrei costringerti a sognare d'essere un cane, un serpente fra l'erba, una zanzara poggiata sul mio braccio. E se poi ti schiacciassi con una mano, pensa, che accadrebbe?» Lui trasalì impercettibilmente, mascherando il disagio con un sorrisetto. Stupito vide che dalle dita di lei emanava un lucore azzurrino, e notò la malizia del suo sorriso.
«Questo è un posto di potere, ti ho detto», continuò Shebat, muovendo le mani e tracciando nell'aria strisce bluastre di luce. «E non tutto ciò che vedi è sogno. Non tutti gli incantesimi sono fantasia. Potrebbe esserci molta più realtà di quanto ti farebbe piacere, fratellastro». «Che vuoi dire?» Non avendo risposta Chaeron scosse il capo. «Quanto ricorderò di tutto questo?» Shebat unì le mani a coppa e da esse nacque un fulgore azzurro che parve riempire l'aria. All'istante il bosco si riempì di verde e di umidità, improvvisamente tornato allo splendore primaverile. Nell'aria si sparse il profumo della vegetazione tenera, quello greve della terra fertile, e il sospiro della brezza fece oscillare le corolle dei fiori selvatici che spuntavano dovunque. «Dunque ti è piaciuto, allora?» La ragazza sorrise. «Potrai ricordare tutto ciò che vuoi. Non cercherò di cancellare dalla tua mente quello per cui hai pagato. Che fai, vuoi andartene di già?» Chaeron aveva alzato le mani alla fronte, chiudendo gli occhi. Dapprima non sentì nulla, soltanto la pelle liscia e i capelli, poi fece uno sforzo di concentrazione e sotto le sue dita ci fu la coroncina. Se la tolse svelto e riaprì le palpebre: semioscurità velata di stelle, un divano morbido sotto la sua schiena, e davanti a lui una figuretta sul cui volto pallido gli occhi grigi risaltavano freddi e imperscrutabili. Ci mise qualche secondo prima di rendersi conto che Shebat non era mai stata con lui, in realtà. Nel suo atteggiamento scoprì anzi qualcosa di ostile che lo ferì. La fanciulla era esattamente nella stessa posa che lui ricordava di aver visto prima dell'inizio del sogno, con la coroncina fra le mani, e nel comprendere che non se l'era messa egli trattenne il respiro. «Come hai fatto?» sussurrò. «Come hai potuto farmi sognare se... non eri in contatto con l'amplificatore?» Lei scosse le spalle. «Se tu riflettessi a ciò che ti ho detto poco fa, nel bosco, potresti trovare da solo la risposta alla tua domanda». Depose la coroncina inutilizzata nel suo alveolo, e suggerì: «O forse devi vedere per credere? La mia scatola dei sogni è a tua disposizione». Perplesso Chaeron poggiò le mani sull'amplificatore. Sapeva cosa conteneva: fili, circuiti miniaturizzati, elementi bioelettrici. Aprì il coperchio e anche nella scarsissima luce vide che l'interno era del tutto vuoto, salvo i supporti da cui le sue viscere elettroniche erano state staccate. «Come vedi», disse lei con calma, «ciò che hai avuto non è stata una danza del sogno standard. Potrei anche fare a meno delle coroncine, ma i
clienti s'innervosirebbero». Una mano di lui stava ancora brancolando incredula nel contenitore vuoto. Infine richiuse il coperchio, fissò nelle loro scanalature le coroncine e si appoggiò alla spalliera del divano. «Se fossi al tuo posto non ne parlerei a nessun altro», sussurrò. Dopo una lunga pausa cambiò argomento: «Shebat... ti rendi conto che come pubblico ufficiale dovrei arrestarti? Tu vivi al di fuori della legge». Lei rise seccamente. «Anche tu la stai infrangendo come me. E tu sei il Console di Draconis. Dovresti denunciare anche te stesso: non è la prima volta che vieni a sognare illegalmente». «Non è il momento di scherzare, Shebat. Tu hai ucciso due uomini, addirittura due delle guardie del corpo che avevano l'incarico di proteggerti». «Come l'hai saputo?», chiese lei, irrigidendosi. «Non è facile ingannare me, e tanto meno la banca dei dati». «Io voglio dire: come sapevi che intendevano proteggermi?» La ragazza allungò una mano verso un interruttore, le luci si accesero e i muri tornarono grigi e squallidi. Chaeron fece un sospiro. «Shebat, cerchiamo di osservare le cose nella giusta prospettiva, e consideriamo la tua situazione: tu ti sei messa con gente che opera fuori dalla legge, e ti servi di documenti falsi. La tua cittadinanza precedente è decaduta, sei una clandestina, e le manovre che hai fatto per proteggerti sono ormai state scoperte. Ora sei esposta a gravissime conseguenze penali. Ma come credevi di poterti illudere che questa pazzia ti andasse liscia? E come hai potuto ripagare la generosità di Parma con un comportamento così meschino, oltreché pericoloso per te?» Lei sollevò i piedi sul divano e si strinse le ginocchia fra le braccia. «È per dirmi questo che sei venuto qui? La generosità di Parma... guardane le belle conseguenze! Avanti, sentiamo: come hai fatto a trovarmi? È stata Lauren a spifferarti tutto?» «Lauren? Non esattamente. Ma lei ha danzato per me un sogno creato da Aba Cronin, quello che ti ha resa già famosa, e alcune parti di esso si svolgevano in un luogo identico a Lorelie, un luogo che normalmente è precluso a chiunque. Ci voleva poco a capire che Aba Cronin eri tu... Ma ti avrei ritrovata comunque. Da quando sono qui ho speso molto del mio tempo per cercarti. Eri troppo preziosa per i nostri nemici per lasciarti perdere così, e senza neanche una prova certa della tua morte, anche se Parma ha scelto invece questa linea di condotta. Ho passato al vaglio ogni archivio di Draconis. Mi sono perfino abbassato a pagare informatori che cercasse-
ro indizi all'Associazione Piloti. Ho quasi scassinato la banca dei dati privata di mio padre per estrarne notizie. E quando ho messo insieme tutti questi frammenti sapevo dove cercarti: era solo questione di tempo. Avresti dovuto immaginarlo, e anche David Spry avrebbe potuto essere certo che questa finzione non sarebbe durata: Aba Cronin, Sheba Spry... ho già provveduto ad annullare le tue identità fasulle. Non ti resta neppure un quarto di cittadinanza, nulla. Shebat, perché ti sei messa contro di noi?» «Stai sbagliando, Chaeron, su tutto salvo che su pochi fatti, e anche questi li hai valutati erroneamente. Parma ha fatto di me l'uso che voleva, e poi mi ha gettata da parte. È stato lui a costringermi a sparire: ha mandato le guardie del corpo travestite da gente dei livelli inferiori, per uccidermi». «Ora comincio a capire il motivo della Danza del Sogno di Aba Cronin, sul crollo dei Kerrion e la rovina: tu desideri inconsciamente la distruzione della società che credi ti abbia trattata ingiustamente. Ma è una velleità puerile, e nella fine dei Kerrion non ci sarebbe niente di positivo». Chaeron scosse il capo con una smorfia disgustata. «Scommetto che è stato Spry a dirti che Parma voleva la tua morte, e tu sei stata così stupida da credergli sulla parola. Ma io ho le prove che Spry era al soldo di Jebediah: lavorava per lui, non per te. Fu Jebediah a pagarlo perché ti mettesse qui come Danzatrice del Sogno, in attesa d'essere prelevata da altra gente. E a sua volta Jebediah era stato assoldato da Selim Labaya. Se oggi ti trovi ancora qui è perché il tradimento del segretario di mio padre ha trovato un intoppo... l'ultima volta che è stato visto fu quando salì sul Bucephalus, con una valigetta contenente denaro per Spry e probabilmente anche dei documenti compromettenti. Questa valigetta non è stata ritrovata. E il Bucephalus, stranamente, non poté ricordare nulla di quel che accadde a bordo... Quel giorno fu Spry a pagare Jebediah in un modo ben più duro!» «Io non ti credo. David non può aver fatto questo!» ansimò Shebat. Quando egli la fissò impietosito, deglutì a vuoto e la sua voce tremò: «Non sono sicura di aver capito. Ha pagato Jebediah in un modo più duro? Che significa?» «Lo ha ucciso. E anche l'agente labayano con cui Jebediah era in contatto è morto misteriosamente. Ma ce ne sono altri qui su Draconis. Shebat, questo non è il posto per discutere di argomenti così delicati. Prendi le tue cose e vieni via con me.» Si alzò in piedi e le tese una mano. «No!», sussurrò lei. Ma l'atteggiamento di Chaeron era così imperativo che alfine cedette e si alzò in piedi. Le sfuggì un ansito di sconforto. «È questo il sogno che avevi detto di aver preparato per me?»
«Sì, e puoi scommettere che l'ho costruito in tutti i dettagli prima di scendere qui,» le assicurò lui. «Cosa succederà ora?» Con la luce accesa la stanza le apparve più spoglia e desolata di quando l'aveva considerata un rifugio sicuro. L'accenno di lui alle conseguenze penali la fece irrigidire. Chaeron le scostò una ciocca di capelli dalla faccia, le sollevò il mento con un dito e fissò i suoi occhi velati di pianto. «Faro per te tutto quel che potrò. Se mi segui di tua volontà, se ti dichiari pentita, se farai quello che ti verrà detto, forse riuscirò a mettere le cose a posto. Se ti rifiuti... non posso leggere nel futuro. L'omicidio non è uno scherzo, a parte gli altri reati che hai commesso. Ma voglio proteggerti.» «Proteggere me sola? Se io ti seguo, di mia volontà e dichiarandomi pentita come hai detto, che ne sarà di Softa? Dovrei aiutarti a scavargli la fossa, e questo non lo voglio. Lui è stato il solo ad alzare un dito per aiutarmi...» «Softa? Ah, vuoi dire Spry. Lui è il solo che ti ha aiutata? Hai uno strano concetto della solidarietà, allora. Dopo questo bell'aiuto, dovresti pensare solo a ripagarlo per ciò che ti ha fatto.» «Io non voglio dire una sola parola contro di lui,» affermò la fanciulla con decisione. «Non sarà necessario che tu faccia la delatrice,» disse egli secco. «Quello che so dei suoi crimini è già fin troppo. Il tuo comportamento è assurdo. Dopo tutto ciò che Marada ha fatto per te, dopo i benefici che hai ricevuto da Parma, e perfino dopo quello che hai avuto qui da questa banda di venditori di fantasie, l'unico per cui provi gratitudine e Spry: sei riconoscente solo all'uomo che per mero profitto personale, e ubbidendo a ordini di loschi individui, ti ha abbandonata in questo squallore!» «Io non ti credo! Lui mi ha mandato...» Chiuse la bocca, con un lampo di sospetto nello sguardo. «Avrei dovuto guardarmi da te quando ero in tempo. Ora è troppo tardi. Hai intenzione di condurmi da Parma?» Chaeron la aiutò cavallerescamente a uscire dal divano circolare. «Non subito. Adesso è in viaggio.» «Posso almeno vedere Spry?» «Anche lui è in viaggio. Stanno tornando col Bucephalus da Shechem.» «Vuoi dire che... è libero?» «Lo è per il momento,» precisò lui. Shebat chinò la testa con un sospiro. «Capisco. Nessun altro sa niente di questa faccenda, a parte te?»
«No. Ho agito con discrezione.» «E quanto ne sarà reso pubblico, o tenuto nascosto?» «Questo dipende da varie considerazioni, ma è ovvio che se ne dovrà parlare il meno possibile. La Danza del Sogno di Aba Cronin non dovrà essere danzata più, e la stessa Aba Cronin scomparirà, con tutti quelli che l'hanno conosciuta. «Sorrise duramente alla sua espressione spaventata. «Ti preoccupi per loro? Non è il caso. Mi limiterò a spedirli altrove.» «Ma sono in parecchi a conoscere quella Danza, e me. Ti aspetti che io ti segua senza neppure avvisarli?», ribatté lei «È più prudente. Considera la tua scelta: o tu o loro.» La spinse verso l'armadio. «Cambiati, prendi le tue cose e andiamo.» Lei lo respinse rabbiosamente. «Potrei farti dimenticare tutto... con un gesto!» Stupito Chaeron vide che le dita di lei sembravano lasciare nell'aria una scia azzurrina. Corrugò le sopracciglia. «E potresti anche fermare gli agenti che hanno già ordine di fare irruzione in questo covo di clandestini?» «Eri così sicuro che ti avrei ubbidito, per fare una cosa simile? Lasciami!», ansimò lei, furiosamente. Chaeron l'aveva afferrata con forza per le spalle. La tenne dinnanzi a sé, sibilando: «Tu sei la causa di tutto ciò che ti succede. Non fare la sciocca. E non credere di farmi impressione con questi tuoi scherzetti.» Abbassò gli occhi sulle mani di Shebat, che sollevate contro il suo petto tracciavano segni nel niente. Il lucore azzurro si rifletteva sul nero della sua uniforme. «Sei tu lo sciocco, fratellastro. Lasciami o io...» I bagliori emanati dalle dita di lei divennero più brillanti e nitidi. Chaeron le lasciò le spalle e le afferrò le mani per fermare il suo gesticolare, ma a quell'atto la luminosità parve esplodere: ci fu un rumore schioccante, un odore di ozono, e come colpito da una scossa elettrica l'uomo indietreggiò di scatto. Sbatté la schiena sulla porta e restò lì ansimante, fissandola ad occhi socchiusi. La fanciulla si portò le mani alla bocca. Cosa aveva fatto? L'incantesimo, incompleto e costruito soltanto per fermarlo, sembrava esserle schizzato fuori dalle dita anzitempo e l'aveva stordito. Vide le guance di lui riprendere colore, i suoi occhi tornare a fuoco, e si chiese cosa stesse pensando. Stranamente, il fatto che Chaeron non facesse alcun commento alla cosa la calmò. «Dammi il tempo di cambiarmi e verrò con te,» sussurrò infine.
Spalancò il suo unico armadio, rovesciando sul pavimento i vestiti che Harmony aveva acquistato per lei e tirandone fuori la tuta da apprendista pilota che aveva indossato il giorno del suo arrivo. Volgendogli le spalle si strappò via il delicato abito di lustrini, incurante di mostrargli la sua nudità. Solo in quel momento Chaeron si accorse che il corpo di lei era sottilmente diverso da quello che la ragazza gli aveva offerto nel sogno, era più sensuale a certamente più formoso, quasi che là in quel bosco immaginario e tuttavia solido per i suoi sensi ella si fosse rifiutata di darsi a lui del tutto, concedendogli una versione minore di sé stessa. Inginocchiata a terra per estrarre da uno scomparto più basso numerose paia di scarpe lei gli rivolse un'occhiata. «Spaventato?» «Sono solo un po' preoccupato. Fai presto,» borbottò lui, gettando un'occhiata all'orologio. «Forse uscire di qui non sarà facile per te. Accadono cose strane al settimo livello, anche a chi indossa quell'uniforme,» disse Shebat. Si tirò su la cerniera della tuta sul petto, poi lo sguardo le cadde sulle sue mani e se le osservò accigliata. Erano ricoperte da una patina simile a brina. Le sfregò l'una contro l'altra e la similpelle polverizzata piovve sul pavimento. «Ho ordinato un veicolo, e dovrebbe essere già in attesa a poca distanza da qui. Usciremo dalla porta principale. Voglio che tu faccia finta di niente e che non parli con nessuno. Dopo che ce ne saremo andati i miei uomini verranno a chiudere il locale. In quanto a chi lavora qui, tutto ciò che puoi fare è di infischiartene: ti hanno soltanto aiutato ad aiutare sé stessi.» Senza parlare Shebat si infilò un paio di stivaletti, quindi lui la prese gentilmente sottobraccio e la condusse fuori. Attraversata la sala centrale oltrepassarono il banco dove sedeva la ragazza bionda, poi raggiunsero l'andito. Il giovane portiere si alzò dalla sua poltroncina e spalancò su di loro due occhi stupiti, ma al gesto perentorio di Chaeron si affrettò a tirar fuori il suo mantello dal guardaroba. In quel momento una delle porte del corridoio si aprì e ne uscì Harmony, che dopo un breve istante di sorpresa venne a mettersi fra loro e la porta d'uscita, bloccando loro il passo con aria decisa. «Hai già finito, Aba?», disse la donna. «Hai fatto presto, sono meravigliata. Credevo che il tuo cliente avesse pagato anche per tutta la notte. Che fa, se ne va così presto? Comunque non era necessario che tu lo accompagnassi all'uscita.» «Io...», mormorò Shebat, poi s'interruppe. «Be', parla, ragazza. Tu sai bene che una Danzatrice non deve fraterniz-
zare troppo coi clienti. Non rispondi, Aba? Allora torna nella tua stanza e aspetta là. Erwan è stanco o non sta bene, e forse più tardi ti affiderò uno dei suoi clienti. «Le indicò di tornare indietro. Chaeron tenne il braccio intorno alle spalle della fanciulla, con fare protettivo. «Scostatevi, madama. Shebat viene con me.» «Con voi? Che sciocchezza. E chi sareste voi, giovanotto? Guardate che l'uniforme che indossate non mi intimidisce neanche un po'!» «Peccato. In quanto a chi sono io, credo proprio che lo sappiate benissimo, perciò siate avveduta. E ora toglietevi di mezzo. La mia fidanzata verrà con me, e non aspettatela di ritorno perché qui non metterà piede mai più. Ragazzo! «Fece un cenno al portiere. Il giovane si avvicinò col suo mantello sulle braccia, gettando occhiate incerte a lui e ad Harmony, che non s'era mossa. Chaeron lo indossò fissandola con irritazione. «Non mettete alla prova la mia pazienza, madama.» Senza lasciare Shebat fece un passo verso Harmony, che indietreggiò ma seguitò cocciutamente a ostruirgli il cammino. «Dite a Lauren che è invitata al mio ricevimento di questa sera, o a quello che darò per il fine settimana se stasera non potrà. Qui c'è il suo lasciapassare.» Tolse di tasca una busta e la ficcò in mano alla donna. Lei la prese automaticamente, osservando Shebat come se guardasse attraverso di lei. Fece per dirle qualcosa, ansimò e si morse le labbra, poi si fece da parte. «Così va meglio, madama.» Chaeron attese che Harmony gli volgesse le spalle, e quando la vide rientrare nella sua stanza condusse all'esterno Shebat e le tenne dietro su per i gradini. Giunto sulla strada gettò una moneta al portiere, che fermo sulla soglia della casa dei sogni la prese destramente al volo. Un centinaio di metri più lontano, in un'altra traversa male illuminata, un grosso veicolo nero a slitte antigravitazionali li stava aspettando nell'ombra, con le luci accese. Chaeron spalancò lo sportello, e la fanciulla si trovò quasi immersa in un ampio sedile morbidissimo. L'interno della vettura era buio, e attraverso un cristallo scorse la sagoma di due uomini che occupavano i posti anteriori. Uno di essi volse appena il capo a parlare in un interfono: «Dove devo portarvi, Signore?» «Alla mia residenza.» Gli occhi del giovanotto erano fissi sul profilo di Shebat, che s'era rannicchiata in un angoletto il più lontano possibile da
lui. Mentre il veicolo si metteva in movimento aprì lo scomparto del bar e ne tolse due bicchieri. «Vuoi qualcosa di analcolico?» «Voglio sapere cosa ti aspetti da me, Chaeron. Perché non mi hai lasciata in pace dove stavo?» «Bevi.» Le porse stancamente il bicchiere. «Perché, mi chiedi, Danzatrice del Sogno? Perché volevo averti, se non ti spiace la franchezza. E anche perché non si poteva lasciarti a te stessa. Parma sta giocando il suo gioco con Labaya, ma è vecchio, non è più abile come un tempo, e ha bisogno di un sostituto. Io intendo prendermi la mia parte, che gli piaccia o no. E tu puoi essere molto importante in questa partita.» «La tua partita?», borbottò lei. «E perché Parma non lascia che tu lo aiuti, visto che sei tanto ansioso di farlo?» «Non gliel'ho mai chiesto,» disse tristemente lui. «A lume di logica, l'uomo più adatto a fare un certo lavoro dovrebbe aspettarsi di vederselo assegnato, prima o poi. Ma nella nostra famiglia pare che questa regola non sia ritenuta valida.» Lei lo fissò di traverso. «Perché hai detto quella cosa ad Harmony?» «Harmony? Ah, la padrona. Devo dire che non mi aspettavo che provasse a ostacolarmi, ma l'ha fatto. A cosa ti riferisci?» «Le hai detto che sono la tua fidanzata,» sussurrò Shebat, ostile. «E questo ti preoccupa Non temere, non attenterò al tuo pudore. La tua Danza del Sogno mi ha soddisfatto abbastanza, per stasera. Ma rifletti: cosa poteva essere il tuo abbraccio d'amore, se non l'eco della donna che desideri essere in realtà?» Vedendola abbassare il capo continuò: «Non essere così di cattivo umore, mia cara. Con Harmony ho parlato tanto per parlare. Tu mi conosci, e sai che non forzerei mai la volontà di una donna. Comunque, per ora, tu sei sempre una ragazzina.» «Ho quasi diciassette anni,» protestò lei, senza energia. «Sicuro, quasi diciassette.» Chaeron depose i bicchieri nello scomparto. «Ma ora pensiamo a tenerti viva abbastanza da compierli. Da quando sono qui a Draconis ho fatto indagini in segreto, come ti ho detto, e non credo che trapeleranno indiscrezioni a tuo riguardo. Ma ora dovremo organizzare la tua ricomparsa in pubblico, e la migliore occasione per farlo è il ricevimento che darò stasera. Ne tengo un paio alla settimana, e invito la gioventù più altolocata della piattaforma. Intervengono anche ricchi rampolli di altre Famiglie Consolari, bella gente e donne eleganti. Penseranno loro a far circolare le prime voci sul tuo ritorno. Nel frattempo studierò una versione molto addomesticata da fornire alla stampa.»
«Come intendi manovrarmi?», lo interruppe lei. «Sei una ragazza intelligente, dunque prova a immaginarlo.» «Guarda che se stai cercando di costringermi a sposarti...» «Io posso dare con una mano, ma voglio prendere con l'altra, Shebat. Se riesco a convincere Parma a passare sotto silenzio le illegalità che hai commesso, e a ridarti il suo cognome e la tua Primogenitura, desidero che questi privilegi vengano a mio beneficio... come tuo legittimo sposo. Mi spiace dovertelo dire così crudamente, e non in una circostanza più adeguata, visti anche i sentimenti che io provo verso di te e...» «Certo! Non scordiamoci i sentimenti, dopo aver chiarito i tuoi interessi finanziari,» sbottò lei fredda, guardando fuori dal finestrino sulla rampa che conduceva ai livelli superiori. «Non voglio ricattarti, Shebat. Se mi sposi, mi accontenterò di avere la tua procura legale: un matrimonio formale. E ti garantisco che se rispetterai le apparenze non ti chiederò altro. Nell'intimità dei tuoi appartamenti non metterò piede. Potrai fare ciò che vuoi, anche frequentare Marada, se lui crede, purché con discrezione. Io farò finta di niente. Non insisterò neppure per avere dei figli. Qualunque cosa tu possa dire, devi ammettere che ti sto offrendo un modo per uscire da una bruttissima situazione, e che al tuo posto chiunque ringrazierebbe il cielo per una soluzione di questo genere. Posso avere l'onore di una tua risposta?» «Io ti odio!» «Abbastanza per sposarmi come si usa fra la gente ricca?» «Tu non mi toccherai?» «Mai, se non lo desideri.» «No che non lo desidero.» La sua voce tremava di un'emozione che egli non riuscì a decifrare. E tu non hai ancora detto come potrai proteggermi dalla legge di Kerrion.» «Non l'ho detto perché ancora non so se ci riuscirò. Ma se fra tre giorni, quando Parma rientrerà a Draconis, potrò presentarti a lui come la mia futura moglie, la cosa sarà già fatta per metà. Mio padre è l'autorità suprema, agli effetti pratici la legge è lui.» Fece una pausa, scosse il capo malinconicamente.» Shebat, detesto parlarti così, esponendoti una situazione cruda e forse spiacevole per te. Ma se anche ti forzo la mano, e se faccio il mio gioco, questo non esclude che io ti voglia bene. Con te credo d'essere sempre stato onesto, anche quando arrivasti su Lorelie con gli occhioni spalancati sulle meraviglie di Kerrion e non sapevi nulla di ciò che ti aspettava.»
Il tono di lui la rese pensosa, riuscì perfino a sorridergli annuendo a quei ricordi. «Lo so, Chaeron.» «Ho un regalo per te. Vorrei che tu lo accettassi... se non come mia fidanzata, almeno come amica.» Estrasse dallo scomparto del bar una piccola scatola portagioie e gliela porse. Erano ormai usciti sul livello superiore. Sotto il cielo illusorio di un azzurro troppo intenso e cupo torreggiavano i grandi edifici pubblici, mentre le abitazioni private erano immerse nel verde dei parchi e dei giardini che le circondavano. La fanciulla rigirò fra le dita il sottile braccialetto costellato di gemme, e lo sollevò per osservarlo alla luce che entrava dal finestrino. «Diamanti!» sussurrò. «Chaeron... non so cosa dire.» «Dimmi che lo porterai sempre, o qualcosa di simile.» «Lo porterò sempre.» Si sporse verso di lui e lo baciò su una guancia. Poi si ritrasse. Dopo quattro mesi di assenza la luminosità intensa del livello superiore le feriva gli occhi. Mentre il grosso veicolo girava lungo una rampa in salita quel suo ritorno allo splendore degli edifici del consolato le apparve irreale, e per un poco tacque, imbarazzata dall'intensità dello sguardo di Chaeron. Il veicolo si arrestò dolcemente, un uomo in uniforme si avvicinò per aprire lo sportello, e solo allora Shebat trasalì a un pensiero improvviso. «I miei vestiti! Non posso intervenire a un ricevimento e presentarmi ai tuoi amici con questa tuta indosso.» Le sue mani si alzarono a riassettare i capelli con gesto trepidante, come se ad un tratto si sentisse assalire dagli impegni della vita che per tutto quel tempo aveva lasciato dietro di sé. Chaeron sorrise. «Finalmente ti rivedo serena. Non domando un regalo migliore, mia cara. I tuoi vestiti ci sono sempre tutti, naturalmente, anche se devo notare che le tue misure sono un pochino aumentate... nei punti giusti, però.» La aiutò a scendere con l'abituale galanteria. «Forse ti andranno un po' stretti, ma non importa. Anzi, dal punto di vista di un osservatore mascolino ti staranno meglio.» Alla base dell'ampia scalinata lei apparve di nuovo incerta. Si guardò intorno con un brivido. «Sei pronta?», chiese lui gentilmente. «Io non... sì. Sì.» Il braccialetto di platino e di diamanti scintillò gaiamente, quando alzò la mano a stringere quella di lui. Capitolo 9
Il servitore che era venuto di corsa ad aprire lo sportello era un ometto dai modi untuosi, impeccabilmente costretto entro una rigida divisa nera con lo stemma dei Kerrion. Shebat non ricordava di averlo mai visto, ma dal profondissimo inchino che l'individuo le rivolse comprese d'essere più nota di quanto credeva. Alzò gli occhi all'imponente edificio che aveva di fronte. Non vi era mai entrata prima di allora, e sapeva soltanto che l'interno era un autentico labirinto: alto venti piani e fornito di torrette a tutti gli angoli, arrivava a sfiorare con la sommità il «cielo» di Draconis, tanto che dal basso dava l'impressione di toccarne la ricurva e sottilissima superficie monomolecolare. Ma era proprio lassù, all'ipotetico punto di contatto con le torrette, che la profondità di quell'azzurro cielo mostrava la coda di paglia rivelandosi per quel che era: un'illusione creata per allietare lo sguardo. «Cos'hai detto?», Shebat si volse, accorgendosi che Chaeron aveva pronunciato il suo nome. Il giovanotto non parlava però con lei. Stava dando istruzioni al servo, e in ciò che diceva aveva inserito la frase: «Shebat Kerrion, la mia fidanzata.» L'ometto, allenato da anni di servizio a mantenere impassibili i lineamenti, lanciò verso di lei un'occhiata stupefatta della durata di una frazione di secondo. Poi s'inchinò nuovamente, e galoppò su per la scalinata a eseguire gli ordini che gli erano stati dati. Chaeron sogghignò soddisfatto. «Adesso puoi star certa che ancor prima di entrare tutti sapranno chi sei e perché sei qui. I pettegolezzi diffusi da bocca a bocca sono l'unica cosa più veloce delle comunicazioni ultraluce. E il vantaggio di questo è...» La sua voce si perse nel boato improvviso che nacque come uno scoppio di tuono sopra le loro teste. D'istinto il giovanotto balzò ad afferrare fra le braccia Shebat, che s'era irrigidita per lo spavento: in alto una pioggia di frammenti traslucidi stava balenando nell'aria turbinosa, e un risucchio simile a un vento di tempesta le aveva sollevato i capelli. Attraverso la similpelle sentì la pressione diminuire, e nello stesso istante il respiro le scaturì dal naso e dalla bocca come un involontario colpo di tosse. Lontano una sirena cominciò a ululare. «Non è niente. Chiudi la bocca!», ansimò Chaeron, elargendole per quell'avvertimento la preziosa aria che aveva nei polmoni. La tenne a sé con fare rassicurante. «Non aver paura. È soltanto un piccolo meteorite. Fra pochi secondi il velo monomolecolare tornerà a sigillare lo squarcio.»
«Io...» Shebat non riuscì a dir altro. Era impallidita. Poi la sensazione di soffocamento scomparve. «Non sprecare fiato. È una cosa che succede, di tanto in tanto. Ora fai dei respiri profondi, come me. Va meglio?» Le sorrise. «Sei una apprendista pilota, no? Una piccola depressurizzazione è roba da poco.» «Sto bene,» disse lei. Per un attimo si sentì sciocca e infantile per aver tremato, poi il modo in cui egli la fissava la irritò: essere compatita le riusciva sgradevole quanto esser derisa. Tornò ad alzare gli occhi, sciogliendosi dall'abbraccio di lui. Il foro irregolare che s'era aperto nella cupola protettiva restava visibile solo per le distorsioni luminose dovute al materiale nuovo, che si riassestava attorno ad esso ristabilendo la sua integrità come un tessuto vivente. Le parve minuscolo, irrisorio rispetto allo spavento che le aveva causato, ma il micrometeorite penetrato attraverso di esso alla velocità di 50 Km al secondo aveva scavato una fossa larga due metri buoni al centro di un parcheggio. Due veicoli di servizio stavano arrivando sulla scena. Chaeron la prese per i polsi e le esaminò le mani, commentando qualcosa che ella non udì. Solo allora si rese conto che la similpelle di cui aveva tappezzata la cavità delle orecchie fino al timpano reagiva al ritorno di pressione con un effetto che la privava in parte della sensibilità auditiva. Ne fu disturbata. Anche nel naso e in bocca le pareva di avere del cotone, e sputacchiò a terra. Il giovanotto alzò la voce, arrabbiato: «Se fosse stata un'emergenza seria, la tua similpelle non avrebbe retto mezzo minuto,» la rimproverò. «Sulle mani non ce l'hai più, addirittura. Domani voglio che tu te ne faccia fare una nuova.» «No,» rifiutò lei. «Barbara! Sciocca incivile! Te la farai rifare, invece, anche se dovessi trascinarti con la forza. O preferisci restare in qualche locale a tenuta stagna per tutta la vita? Senza parlare del fatto che non avrai mai la patente di pilota, con addosso una similpelle rovinata come questa.» La costrinse a osservarsi le mani, dove i residui del tessuto artificiale si squamavano come pellicine. «Lasciami, stupido presuntuoso di un Kerrion!», replicò lei, insulto per insulto, cercando di liberare i polsi dalla sua presa. Chaeron la fissò con durezza. «Non permetterti certe parole con me. La legge vuole che una moglie sia soggetta all'autorità coniugale del marito, e insultarmi è un pessimo modo di cominciare il nostro rapporto. Tu devi
fare quel che ti dirò io e basta, altrimenti ne sopporterai le conseguenze. E voglio che ti faccia visitare da un medico: sei stata per qualche mese in un livello dove sono frequenti gli sbalzi di gravità e di pressione, e il tuo fisico può averne sofferto. Anche se non desiderassi prendermi cura della tua salute, adesso sarebbe ugualmente mio dovere. Per il nostro bene dovrai avere la massima cura della tua persona. Chiaro?» Shebat abbassò la testa. «Io... farò quello che dici.» «Così va meglio,» borbottò lui. Le porse il braccio, attese che ella vi infilasse docilmente il suo, e la condusse su per la scalinata. Il servitore che li aveva accolti non era in vista, ma le numerose guardie del corpo non li avevano persi d'occhio e due di essi li attendevano sulla soglia. Dinnanzi a Shebat chinarono il capo e le mormorarono un rispettoso saluto, dedicandole più deferenza che allo stesso Chaeron. Uno di loro prese il mantello del giovanotto, l'altro si dispose a seguirli a distanza di sicurezza. Nel vastissimo andito l'arredamento era molto diverso da quello che Shebat aveva conosciuto alla residenza del Console Generale. Chi veniva introdotto lì per affari o per visita era accolto dai ritratti dei Kerrion, appesi alle pareti in una lunga serie di cornici e scintillanti dei loro effetti olografici. Erano volti dalle caratteristiche somatiche solo superficialmente diverse, variavano nel colore degli occhi o dei capelli, nell'età e nella posa in cui avevano scelto di farsi ritrarre, ma tutti portavano stampato quell'indefinibile marchio di famiglia che ne faceva dei Kerrion, diversi dai loro dipendenti e dai membri di altre dinastie. Anche il giovanotto che accolse Chaeron e poi li affiancò nella galleria degli antenati era un Kerrion, un cugino messo a dirigere qualche sezione del Consolato. Al suo arrivo su Lorelie Shebat aveva avuto l'impressione che tutti gli abitanti della Conferenza fossero sani e di belle fattezze, esenti dalle tare ereditarie che sulla Terra rendevano gli esseri umani un miscuglio di facce sovente non troppo piacevoli. Durante le sue esperienze nei livelli inferiori di Draconis s'era invece accorta che anche il Consolato aveva i suoi paria, individui i cui caratteri genetici li squalificavano dalla vita dell'alta società e del ceto medio. Metà dei Danzatori e delle Danzatrici del Sogno, compresa la stessa Harmony, erano decisamente privi di attrattive fisiche e sarebbero potuti passare per comuni terrestri. Eppure ella ne aveva apprezzato la compagnia e il calore umano, aveva imparato da ciascuno di loro cose che non avrebbe dimenticato mai più. E adesso, rifletté deglutendo a vuoto per il rimorso, li aveva praticamente consegnati nelle mani di Chae-
ron, lasciandoli esposti alle conseguenze delle sue manovre di potere. «Shebat!» La voce di Chaeron la fece trasalire. «Che fai? Qualcosa non va?» La fanciulla s'era fermata a fissare i ritratti senza vederli, mentre i suoi pensieri vagavano altrove. Scosse il capo con un sospiro, ma nel muoversi fu conscia dell'eleganza dei suoi stivaletti che ticchettavano su quel lucido pavimento. Smarrita si chiese se lei stessa ora non fosse partecipe e complice in un mondo fatto di privilegi immeritati, di ingiustizia, di tradimenti e di inganni. Un mondo di cui aveva paura e che per quattro lunghi mesi aveva odiato. I Danzatori e le Danzatrici con cui aveva vissuto, a cui aveva perfino regalato una Danza del Sogno basata sulla distruzione di ciò che li opprimeva, avrebbero detestato lei nello stesso modo, l'avrebbero chiamata ipocrita e traditrice. Il suo nome sarebbe diventato un insulto come quello antichissimo di Giuda. Shebat di Bolen's Town era adesso Shebat Kerrion, e forse una Kerrion nel senso peggiore della parola, prona alle sue stesse debolezze, ai difetti e alle ambizioni. Quel pensiero la fece fermare di nuovo. «Cosa c'è che non va, mi chiedi?», disse al giovanotto amaramente. «Se vuoi saperlo, mi stavo chiedendo quale diritto io abbia di essere qui, quando i miei compagni vengono schiacciati e oppressi, e si dà loro la caccia come criminali!» «Hai i diritti dei tuoi privilegi, del nostro rango, e del nostro piacere personale. Non verrai a dirmi che ti dispiace essere libera e godere della mia protezione?... Ma se fosse così, nulla ti impedisce di raggiungerli in prigione e di seguirli dove verranno deportati. O questo, o diventare mia moglie. E adesso fammi il piacere di piantarla con quell'aria da vittima. Sto cercando di essere paziente con te.» Il volto di Chaeron era teso e rigido, ed era evidente che stava davvero facendo uno sforzo per controllare la sua contrarietà.» Questo non è il posto né il momento per i ripensamenti, Shebat!» «Ne hai uno migliore?» Lui si passò una mano sulla fronte. Quel gesto parve cancellare l'esasperazione da cui s'era lasciato vincere, e annuì con un sospiro. «Sicuro, ne ho uno migliore. Se vuoi seguirmi...» La ragazza lo affiancò lungo il corridoio e in un paio di altri vasti locali, passando fra servi in livrea che stazionavano ai lati di ogni porta. Dopo un altro breve corridoio c'era una sala arricchita da sculture che risalivano all'antichità della razza umana, e qui due cameriere eleganti come cortigia-
ne evidentemente in attesa di occuparsi di Shebat vennero allontanate da Chaeron con un gesto. Sul fondo, fra una coppia di busti in bronzo poggiati su colonnette marmoree, una porta di alabastro scolpito con figure di animali si aprì al tocco di una piastra cristallina, con una docilità elettronica che non si intonava al suo aspetto antico. Una volta che Chaeron l'ebbe richiusa alle loro spalle, le indicò l'interno con un ampio gesto. «L'appartamento privato del Console. Qui dentro puoi dire tutto quello che ti passa per la testa.» Shebat notò che il suo volto e i suoi atteggiamenti s'erano di colpo rilassati, lasciando il posto a quelli di un Chaeron che conosceva meglio. Il suo sorriso, quel sorriso posticcio da circostanza, le ricordò la prima volta che lo aveva visto al suo arrivo su Lorelie. E tuttavia era pur sempre con quell'espressione che egli le si era fatto accanto per rincuorarla, ai funerali di suo fratello maggiore e di Iltani, una espressione facciale familiare e allo stesso tempo irritante. Gli volse le spalle. «Dire quel che mi passa per la testa? Io non ho proprio niente da dirti, e non ne ho il coraggio. Sei tu a fare le regole qui. Io posso solo ringraziarti se mi permetti di respirare.» Lui prese atto della sua remissività alzando ironicamente gli occhi al cielo. «Almeno dimmi se l'appartamento ti piace. E' ovvio che sarà anche il tuo da ora in avanti. Mi aspetto senz'altro che tu lo modifichi secondo i tuoi gusti.» La ragazza girò docilmente un'occhiata sul vasto locale: dipinti alle pareti, sculture, numerose poltrone del tipo preferito da Parma intorno a un basso tavolo in legno e cristallo, e una luce soffusa che riusciva a dare a quell'anticamera un aspetto tranquillo. Il tavolo aveva gambe in tek terrestre sbalzate con figure di cavalli rampanti, così come le poltrone e parte degli infissi, e le pareti avevano la solidità della pietra invece che quella a lei indigesta dei materiali plastici. Sui tre lati della sala si aprivano porte che conducevano a una camera da letto, a un corridoio in fondo a cui s'intravedeva anche una piccola cucina, e ad un altro elegantissimo salotto dove predominava l'azzurro. Non c'erano finestre, ma come su Lorelie i terminali dei computer e ogni altra meraviglia elettronica sembravano esser stati mimetizzati accuratamente. «Coraggio, guardati attorno. Nell'armadio in camera da letto troverai molti dei tuoi vestiti. Ti suggerisco di indossare qualcosa di più comodo.» Passandole accanto Chaeron le fece una carezza, si tolse la giubba dell'uniforme e andò a sedersi sul divano. La ragazza attraversò la sala, fer-
mandosi qualche istante ad accarezzare un soprammobile che sosteneva dei libri rilegati in cuoio su uno scaffale, un cavallo di bronzo che aveva attirato la sua mano quasi fisicamente. La camera da letto era ampia, principesca, e quando si fu seduta sull'opulenta morbidezza delle coltri la sua immagine la fissò da una parete interamente a specchio. Quasi rifiutando la vista di quella sé stessa vestita in tuta da pilota abbassò gli occhi sui suoi stivali. Non voleva fare all'amore con Chaeron Ptolemy Kerrion. Non voleva innamorarsi di lui. Si ripeté che lo odiava... be', quasi. Era un uomo privo di principi morali, dissoluto, e peggio: era il fratello di Marada. Non doveva permettergli di sedurla, si disse con forza, anche se era conscia che quell'ostilità nasceva dal pericoloso desiderio del suo corpo di soccombere a quello di lui. Per la prima volta fu costretta a marchiarlo anche con quella parola: pericoloso. Se ne sentiva soggiogata, sapeva di aver ceduto alla sua volontà e al bisogno di dominarla che egli aveva. La sua integrità morale era il prezzo che egli le chiedeva di pagare... Ma quell'integrità s'era già incrinata al settimo livello, fra i compromessi, i sotterfugi e il delitto. Egli la stava semplicemente prendendo e facendo sua: non aveva alcun vero interesse per lei, per la persona umana che ella era nel suo intimo. Con un lieve ansito scacciò una lacrima e si tolse gli stivali, gettandoli via. Non le importava più nulla di ciò che le sarebbe accaduto, e comunque le mancava il coraggio di ribellarsi. Avrebbe giocato anche lei ai giochi dei Kerrion, se era soltanto questo che le restava. Si alzò e a piedi nudi andò a spalancare uno degli armadi. I vestiti appesi l'uno accanto all'altro erano quasi tutti modelli esclusivi, e Chaeron ne aveva acquistati parecchi così sexy da rasentare l'indecenza. Ne provò uno accollato, sulla cui parte anteriore campeggiava con scarso buon gusto l'aquila dei Kerrion, del tutto aperto sulla schiena. Si girò a controllare allo specchio fin dove la scopriva, ed ebbe la conferma che pur accentuando la sua sensualità le dava un aspetto osceno. Ciò malgrado era elegantissimo, ed ella rifletté che l'alta moda di Draconis non era certo tesa a valorizzare la pudicizia verginale. Decise di tenerlo. Vedendo che non c'erano scarpette tornò scalza nel salone, camminando a passi lunghi per controllare come gli spacchi laterali le rivelassero la linea delle gambe. Chaeron la accolse con un fischio soffocato. «Sei splendida! Quella dannata tuta da pilota era un insulto, su un corpo come il tuo.» Si scostò per farle posto sul divano.» E sei anche molto amabile. Ti prego, siedi accanto a me.»
«Hai dimenticato le scarpette. Di là non ce n'è neanche un paio.» «Santo cielo, credo proprio che tu abbia ragione!» ridacchiò Chaeron. «Ma non preoccuparti. Il ricevimento di stasera è molto informale, e puoi benissimo intervenire scalza. Nessuno ci farà caso. È tutta gente giovane e... umh, piuttosto disinibita.» Shebat aveva già sentito qualcosa sulle riunioni a cui Chaeron invitava non meno di tre o quattrocento persone. «Lauren ha detto che i tuoi ricevimenti sono delle mezze orge,» borbottò. «Bugie!» Il giovanotto rise ancora. «Comunque voglio che quei ricchi figli di papà ti vedano. Abbiamo degli obblighi sociali.» «Come fa piacere a te,» mormorò lei, rassegnandosi all'ammirazione troppo evidente del suo sguardo. Sedette, cedendo ai ripetuti cenni della sua mano. Chaeron tornò subito serio e si volse come se parlasse all'aria: «Registrazione diretta alla banca dei dati, in data odierna. Oggetto: matrimonio.» Ignorando il sussulto di Shebat proseguì: «Io, Chaeron Ptolemy Kerrion, mi impegno formalmente con questa registrazione a prendere in sposa la qui presente Shebat Alexandra Kerrion. Dichiaro di essere sano di corpo e di mente, e di conoscere le leggi della Confederazione relative al matrimonio. Io e la sposa desideriamo che la nostra unione abbia effetto da questo momento.» Con stupore della ragazza, la banca dei dati non si limitò a prendere atto di quelle parole. Nell'atmosfera della stanza nacque una musichetta dolce, e dopo una ventina di secondi una voce incorporea domandò: «Shebat Alexandra Kerrion, in base alle leggi della Confederazione è necessario il tuo contatto mentale e vocale affinché il matrimonio sia legalmente valido. Desideri, tu Shebat, prendere come legittimo sposo Chaeron Ptolemy Kerrion?» «Sì, lo desidero,» rispose lei, impassibile. «E tu, Chaeron Ptolemy, confermi il tuo impegno?» «Sì,» disse lui. «Il vostro matrimonio è registrato,» disse la voce. Ci furono altri venti secondi di musica. «Una postilla ai contratto nuziale,» disse Chaeron, in tono per nulla emozionato. «Shebat Kerrion conferisce a me, suo sposo, la delega di esercitare i privilegi di lei, compreso il Voto di Fiducia, finché morte non ci separi.» Ubbidendo a una sua gomitata lei disse: «Sono consenziente.»
«Fine della registrazione,» concluse il giovanotto, rivolto all'invisibile computer. Solo allora si girò a sorriderle. «Posso baciare la sposa?» «Io... no, cioè sì, se vuoi farlo,» balbettò lei. Per tutta risposta Chaeron la attrasse a sé e la baciò a lungo, così appassionatamente da toglierle il respiro. Per un poco ella gli cedette, ma infine l'insistenza e la voluttà della sua bocca la misero a disagio. Quando egli rilassò l'abbraccio si spinse via e sedette il più lontano possibile, all'altra estremità del divano. «Ora ci aspetta il ricevimento.» «Nient'altro?», sussurrò lei, senza guardarlo. «Nient'altro... visto che non vuoi. Non sono così sciocco da forzare la natura di una donna.» La ragazza si alzò, innervosita. Girò intorno al tavolo e da quella posizione di sicurezza riuscì a guardarlo in viso. «Voglio dire... siamo marito e moglie? E questo è tutto? Ricorda la tua promessa, Chaeron.» «La ricordo. Adesso vogliamo avviarci? Sei elegante e sexy. È una vergogna che la tua bellezza resti relegata in una stanza vuota.» La raggiunse e fece per prenderla galantemente sottobraccio. Lei si scostò. «Non sono un animale, che tu debba sempre condurmi di qua e di là al guinzaglio!» «Naturalmente, ma ora sei mia moglie. La seconda dama in ordine di importanza in tutto Kerrion. E stasera ricorda questo: prendi ciò che vuoi, getta da parte quello che non ti piace. La tua parola ha più potere di quanto...» Chaeron tacque bruscamente: la fanciulla stava muovendo le dita in brevi e scattanti gesti che facevano scaturire dai suoi polpastrelli scie di luce azzurrina. La afferrò con rabbia per i polsi. «Basta! Se non la smetti di fare questi... questi trucchi, ti troverai sposata e divorziata nello stesso giorno. Shebat, ti sto avvisando!» I bagliori che partivano dalle dita di lei gli raggiunsero le braccia e il petto, ma invece di farsi indietro si sforzò di sopportarne immobile il contatto. Per alcuni secondi di tensione si sentì sfiorare come da lingue di ghiaccio, da qualcosa d'indefinibile che gli penetrava nella carne e lo stordiva, ottenebrandogli ogni percezione. Da una distanza incommensurabile sentì la voce di lei salmodiare parole in una lingua sconosciuta, e i veli di gelida nebbia che palpitavano azzurrini gli si strinsero attorno in un bozzolo di magia, un ectoplasma che lo avvolgeva fisicamente. «Il mio regalo di nozze per te, caro marito!» la sentì esclamare. Shebat si
scostò, e la sua figura tornò di colpo visibile agli occhi di lui ancor pieni di fosforescenze bluastre. «L'Incantesimo delle Dodici Trecce ci proteggerà... l'uno dall'altra, intendo. Ma ora una cosa è certa: tu non potrai farmi del male volutamente.» «Shebat, tu stai ancora vivendo nella tua Danza del Sogno. Anche se riesci a far cambiare colore all'aria in un modo che non capisco, questo non significa che tu possa far mutare gli eventi. Renditi conto che è impossibile. E poi, che sciocchezza: io non mi sento affatto diverso da poco fa. Non ho mai desiderato farti del male.» Lei lo osservò da sotto in su, con l'ombra d'un sorriso ironico nei grandi occhi grigi. «E neppure io a te. Vogliamo andare ora, signor marito?» Egli offrì il braccio con un gesto aggraziato, sorridendo di un sorriso che avrebbe riscosso l'approvazione dei duri e potenti Kerrion ritratti nella galleria degli antenati. Il salone dei ricevimenti del Console era a quattro corridoi di distanza dall'appartamento di Chaeron, ma udirono il baccano degli invitati molto prima di giungervi. Anche fuori del grande locale c'era parecchia gente, e non si trattava certo di ospiti che facessero caso alle forme: molte coppie erano appartate dietro le statue e le piante in vaso, non di rado sedute o addirittura sdraiate sul pavimento. Si beveva, si faceva uso di droghe, si conversava, si conducevano avanti relazioni che a chiamarle col loro nome erano puramente sessuali, talvolta illecite e non per questo esibite meno sfacciatamente. In un paio di salottini appartati Shebat poté vedere coppie o gruppetti che facevano all'amore sui divani e sui tappeti, e individui senza altro addosso che la loro similpelle, sazi di bevande e di cibarie. Il loro arrivo fu salutato da commenti distratti, saluti languidi, qualche grugnito, una strizzata d'occhio rivolta a Shebat e una proposta oscena indirizzata a Chaeron. Una ragazza dalla similpelle dorata danzò seminuda intorno a loro con una eleganza un po' ebbra, intrecciando arabeschi nell'aria con le braccia. «Cosa sono questo odore e questo fumo? C'è qualcosa che brucia?», chiese Shebat. Tutto faceva pensare che fosse così, e che inoltre a bruciare fosse un fuoco ben strano, perché la fumigine che aleggiava nell'ambiente aveva toni verdi e fluorescenti. Da qualche parte echeggiava un sottofondo di quella che a Draconis passava per musica, e oltre la foschia che impediva di valutare le dimensioni e l'altezza del salone moltissima gente rideva e chiacchierava.
Chaeron la portò avanti nel fumo fra quella folla di invitati eterogenei, sorridendo della sua espressione perplessa. Le fece scendere tre scalini e se la tirò dietro in mezzo a un assembramento di giovani pressati l'uno contro l'altro, sopra le cui teste la nebbia verde si addensava come un soffitto impalpabile. D'un tratto il giovanotto si trovò la strada sbarrata da un individuo che non voleva saperne di scostarsi, e gli batté sulle spalle con insistenza. L'uomo si volse a fatica nella ressa che lo stringeva. Era più alto di Chaeron, con lunghi capelli neri, fronte alta e una bocca facile al sorriso. «Chi è quel figlio di cane che mi sta sfondando un polmone? Pensi forse di... Oh, sei tu, Chaeron? Guarda guarda, vedo che ti stai portando appresso un autentico fiorellino!» esclamò, facendosi spazio a gomitate e provocando lo strillo indignato di una ragazza che gli stava accanto. Sollevò la pipa metallica che stava fumando e la puntò fra i seni di Shebat. «Salve, pupa. Vuoi tirare una boccata?» «Calmati. Shebat, questo è Valery Stang,» li presentò Chaeron. «Non me la soffocare con quella pipa. La ragazza è abituata all'aria pulita della Terra, il suo pianeta natale.» «Shebat, eh? Arrivata fresca fresca dalla buona vecchia Terra e ancora all'oscuro dei nostri vizi, suppongo. Be', ci metteremo subito rimedio,» rise lui. Si accorse che la pipa si stava spegnendo e premette nel fornello un po' di sostanza nerastra. «Ma dì un po', ragazza, non è che ci siamo già incontrati da qualche parte?» Chaeron le teneva un braccio intorno alla vita con fare possessivo. «Valery è uno dei nostri migliori piloti. Il secondo nello spazio di Kerrion, stando alle stime ufficiali, anche se i più intelligenti dicono che non riuscirebbe a pilotare nemmeno un cesso, se i cessi volassero.» L'altro rise forte e annuì, compiaciuto dell'insulto. Accese la pipa e la batté sul seno sinistro di Shebat. «Bisogna proprio che faccia un giretto fin sulla Terra, se tutte le terrestri sono imbottite come te. Sul serio, dov'è che ti ho già vista? Ho il cervello come una macchina fotografica, ma non ricordo dove ti ho scattato un'istantanea.» Shebat notò che l'uomo portava tre orecchini da pilota appesi allo stesso orecchio, segno che aveva pilotato tre diverse astronavi. Scosse la testa alla sua domanda e diede uno strattone al vestito di Chaeron, seccata. «Valery, ti informo che Shebat è mia moglie,» si decise a dire lui. L'altro tossì per lo stupore uno sbuffo di fumo che li investì entrambi, poi li fissò ad occhi sbarrati. «Ma bene!» commentò. Schioccò le dita. «Ehi, ora ricordo: ti ho vista nell'ingresso dell'Associazione. Facevi non so
che documento per la patente. Non è così, Chaeron? Io non dimentico mai una bella bambola.» «Shebat era apprendista pilota. Apprendista di Spry,» confermò lui. Sentendo dei colpetti su una spalla si volse. Ad accostarlo era stato un uomo in uniforme rossa e nera, che gli mormorò all'orecchio con voce troppo bassa perché Shebat potesse udire. Lui annuì e rispose: «Ho capito. Se vedete entrare Lauren, la Danzatrice del Sogno, fermatela e avvertitemi. E se tenta di fuggire mettetela al sicuro, anzi portatela da me. Per il resto, la camera rosa dovrebbe andar bene: preparatela. E in quanto a Julian, fategli passare la sbornia e rimettetelo in piedi. Voglio parlargli.» L'uomo si allontanò per eseguire gli ordini, e Chaeron afferrò Valery per una spalla. «Devo affidarti Shebat. Non è pratica dell'ambiente e non conosce nessuno. Io torno fra qualche minuto.» «Non andartene,» cercò di trattenerlo lei. «Bisogna che pensi a mio fratello. Ha soltanto sedici anni, e a quell'età una sciocchezza sentimentale sembra una tragedia,» borbottò Chaeron, sciogliendosi dalle sue mani. «Mi pare che tu non lo abbia ancora conosciuto, vero? La sua scuola è qui su Draconis, ma lo studio lo tiene molto impegnato. Te lo presenterò. Adesso però dovrò portarlo a letto, sempre che riesca a farlo camminare.» Chaeron la lasciò col pilota, che insisté ancora per farle fumare la pipa e al suo fermo rifiuto si consolò piazzandole un braccio attorno alla cintura, aderente come il tentacolo di un polipo. La strinse a sé e le mormorò languido fra i capelli: «Vieni con me, sorellina apprendista, e ti darò alcune utili indicazioni tecniche sulle cosette che piacciono a Chaeron...» Con l'altra mano le toccò l'aquila che aveva ricamata sul petto, indugiando a palpeggiarle sfacciatamente un seno. «... e anche su quelle che non gli piacciono, che sono le più interessanti. No, no, non sarà facile essere la moglie che ci vuole per un tipo come lui. Certo David Spry non ha neppure cominciato ad addestrarti, se ti ha mandata... mmh, impreparata fra le braccia di Chaeron. È così?» I modi eccessivamente disinvolti del pilota la stupirono, prima ancora di offenderla. Ma dovette accorgersi che quei pensieri le scivolavano via dalla mente come privi di significato: si sentiva a tratti confusa ed a tratti euforica, e quando egli la condusse via fendendo la calca si lasciò trascinare come priva di volontà. Poco dopo si trovò in un angolo del salone, fra due grosse piante orna-
mentali, con le mani di Valery Stang che la brancicavano dappertutto. «Una delle cose che piacciono di più a Chaeron è questa,» lo sentì mormorare mentre le mordicchiava un orecchio. E subito una mano di lui le alzò la veste, risalendole fra le cosce. Shebat ansimò per la sorpresa nel sentire dove le dita dell'altro osavano toccarla. Ma lo strano torpore da cui era invasa le impedì di reagire, si sentiva debole, le risate e le facce sconosciute da cui era circondata erano un turbine di immagini e rumori privi di significato. Valery Stang la stava spogliando, e nessuno pareva farci caso. Poi la vergogna le diede la forza di divincolarsi e vacillò indietro, andando a urtare nel muro con la schiena. L'uomo la seguì nel movimento, e piazzò le mani contro la parete per impedirle di spostarsi. «Io non sono certo l'amico più intimo di David Spry, però lo conosco bene. Se posso aiutarti in qualche modo lo farò. E in quanto alla mia... chiamiamola piccola scena di poco fa, ho una reputazione da difendere. Capisci? Non farci caso, anche se non mi pento certo di nulla.» Quelle parole la lasciarono del tutto perplessa. «Non capisco di cosa stai parlando,» balbettò. «Allora dimentica ciò che ho detto. Devo averti scambiata con un'altra piccola terrestre, una che ha perduto il suo astrocruiser in circostanze strane.» Ridacchiò dell'espressione stranita di lei. «Calma, tesoro. Che ne dici se ora ci appartassimo in una delle stanze private di questa grande magione? Potrei insegnarti i segreti della navigazione spaziale a bordo dell'astronave chiamata Chaeron. Hai bisogno di imparare a pilotarlo, credimi.» Shebat, a dispetto dei suoi sforzi per replicargli a tono, non riuscì a spiccicar parola e cominciò a piangere, più stordita che mai. «Brava. Questa è un'arte che dovrai sviluppare: quando non sai cosa fare, piangi. Lui è molto sensibile a cose simili.» La ragazza sgusciò sotto un braccio di lui e corse via. Fuggì fra la gente senza nessuna direzione precisa, urtando i corpi umani vestiti in tutte le fogge, seminudi, chiusi in involucri di similpelle dai colori più diversi o talvolta completamente nudi, aprendosi la strada ciecamente. Ad un tratto qualcuno la abbrancò per una spalla con forza, e con un grido di spavento si volse sollevando le braccia per difendersi. Ma era di nuovo Chaeron, che nel vederla così pallida e scossa si mostrò solo blandamente stupito. «Che ti succede!», chiese. La costrinse ad abbassare le braccia, che ella teneva ancora alte per proteggersi. Shebat non trovò la voce per rispondergli. Al fianco di lui c'era un gio-
vanotto rosso di capelli, più basso e snello, che la fissava intensamente. Gli sguardi dei due la fecero piombare dalla paura nell'imbarazzo. «Questa fanciulla, caro fratellino, è la tua ex sorellastra Shebat, ora mia legittima sposa e tua cognata. Shebat, ti presento Julian Antigonus Kerrion.» «Piacere,» mormorò lei, ancora col fiato mozzo e il batticuore. Gli strinse la mano. Sei anni più giovane di Chaeron, Julian somigliava molto più di suo fratello al loro padre Parma. Aveva un volto squadrato ed era magro, ma fornito di un'ossatura spessa. La mano di Shebat era scomparsa del tutto in quella larga di lui. Appariva assai meno ubriaco di quanto ella si fosse attesa, e il suo sorriso fu un commento impietosito alla reazione di spavento di lei. «Paranoia: questo è ciò che succede anche a me, dopo aver respirato questo maledetto fumo. Credo di non possedere più di un decimo delle mie facoltà mentali. Ho mangiato troppo, e stamattina sono stato a far baldoria in una quantità di altri posti, non saprei neppure dire quali. Be', sorellina, sono lieto di conoscerti. E ora che ti vedo, vorrei averti incontrata prima. Ma siamo in tempo a rimediare, no?» Chaeron mise termine alle formalità in tono impaziente: «Ho qualche altra faccenda da sbrigare, Shebat, ma penso che non farai un dramma se ti lascio in altre mani. Anzi scommetto che voi due non vedete l'ora che io me ne vada. Julian, riporta Shebat nel mio appartamento e falle compagnia. Questo è un ordine.» Inarcò un sopracciglio. «Voglio che restiate insieme. E non mi importa di quello che pensate di aver visto, scoperto o trovato l'uno nell'altra.» Shebat arrossì e ritrasse in fretta la mano da quella di Julian, sbalordita da quella dichiarazione. «Chaeron, io...» «Sì?», L'ironia di lui le parve quasi una sfida. «Nulla. Ma torna presto. Dopotutto questa sarà la nostra prima notte di matrimonio e... Lo capisci, vero?» «Naturalmente.» L'espressione di lui restò imperscrutabile, avesse capito o meno i sentimenti di lei. «Tornerò appena posso. Ti piace il mio ricevimento?» «È un'orgia disgustosa!» sbottò lei, già pentita di quello che gli aveva detto. Dopo che Chaeron si fu allontanato, Julian la condusse lontano dalla gente che affollava il salone e i locali circostanti. In un piccolo bar auto-
matico riservato al personale di servizio il giovane parlò con lei di astronavi e di pilotaggio, e la indusse a bere un vinello frizzante. Le loro chiacchiere divagarono sulle bevande di quel tipo, e Julian si rivelò un esperto in vini e viticoltura planetaria, ma il risultato di ciò fu che la ragazza si ubriacò quasi senza accorgersene. A un certo punto il giovanotto scomparve, e un paio di minuti più tardi fece ritorno accompagnato da Valery Stang. Bevvero ancora insieme, quindi Julian dichiarò che la conclusione della serata sarebbe stata perfetta se il pilota fosse venuto con loro. A Shebat, ormai ebbra, l'idea apparve buona. Si ritrovò a barcollare sottobraccio ai suoi due compagni di bagordi lungo i corridoi interni del grande palazzo, cantando in coro con terribili stonature e così ottenebrata da non vedere neppure dove stavano andando. Quando un barlume di coscienza le schiarì la mente s'accorse di essere distesa sul letto dell'appartamento di Chaeron. Julian era sopra di lei, e la stava baciando sulla bocca. Piuttosto confusa da quella situazione inattesa continuò a rispondere al suo bacio, finché non si rese conto d'essere nuda. Prese a contorcersi e ad ansimare, ma il giovane le pesava addosso ed era così intento a fare all'amore con lei che non notò la sua improvvisa contrarietà. Fu costretta a colpirlo con alcuni pugni sul capo, debolmente, e gemette. «Che c'è che non va?» bofonchiò lui, fissandola con occhi un po' vacui. Si volse a sinistra, petulante. «Cosa ho fatto di sbagliato, Valery? Che cosa, eh?» Si sollevò a fatica dal corpo di lei, restando in ginocchio fra le sue gambe divaricate, e scosse la testa con aria stordita. Valery si accostò, poggiò una mano sull'addome di Shebat ed ella vide che anche lui era nudo. «Non le hai fatto proprio niente, ragazzino. Questo è il tuo sbaglio.» Il pilota dai lunghi capelli neri spinse via Julian e venne sopra di lei, cominciando a baciarla con passione e senza che Shebat riuscisse ad opporsi. Dopo un poco i suoi pensieri tornarono a farsi confusi ed ella gli cedette. «Non preoccuparti di nulla, piccola,» le sussurrò l'uomo in un orecchio. «Tutto va come deve andare. Lascia che ti mostri quanto puoi essere femmina, vuoi?» Shebat non rispose, e permise che i gesti di lui si facessero sempre più intimi. Vagamente fu lieta d'essere presa, e accolse con passiva ubbidienza anche le effusioni di Julian quando egli si unì a Valery. Nel suo stato di
confusione mentale aveva davvero l'impressione che tutto andasse come doveva andare, e accolse le manovre ardite dei due amanti come avvolta in una nebbia rosea nella quale i suoi sensi si smarrivano. Fu quel torpore da drogata che le impedì di vedere Lauren che arrivava esitante nella stanza, con il suo amplificatore di sogni sottobraccio. La ragazza era vestita con eleganza, e dopo essersi guardata attorno chiamando Chaeron a bassa voce era venuta a fermarsi ai piedi del letto. Shebat non notò la sua presenza finché non sentì una mano estranea e più leggera accarezzarle i seni, e nel voltarsi vide vicinissimo il volto di Lauren che le sorrideva. Poi la Danzatrice del Sogno si piegò a baciarla sulla bocca. Per Shebat la sua comparsa lì era stata sorprendente, ma l'inaspettato desiderio fisico della ragazza che aveva detestato e considerato una rivale, e che ora la baciava voluttuosamente, agì su di lei come una scossa elettrica: con un grido si contorse, schizzando via dal letto. Per qualche attimo vacillò priva del senso dell'equilibrio, fissando l'altra ragazza con occhi sbigottiti, poi fuggì fuori dalla stanza senza neanche vedere dove metteva i piedi. Un paio d'ore più tardi, al suo rientro, Chaeron la trovò seduta su una poltrona nella sala di soggiorno. La ragazza era avvolta in un asciugamano, aveva le lacrime agli occhi e mormorava parole nella sua lingua in un tono che le faceva sembrare singhiozzi. Si ritrasse al tocco di lui come scottata o in un impulso di ribrezzo, e si rannicchiò contro lo schienale tremando come una foglia, con il volto nascosto fra le mani. «Shebat! Cos'hai? Su, non è niente. Non piangere. Ti ho pur detto che non devi far nulla che tu non voglia.» La scosse dolcemente, incitandola ad alzarsi. «Non posso. Non ci riesco!» gemette lei, immobile. «Vorrei fare ciò che tu desideri, davvero. Ma è inutile, non posso essere come vuoi tu. Forse è meglio che divorziamo. Io non posso... non anche con Lauren!» Chaeron la prese in braccio come una bambina, mormorandole parole di conforto, le assicurò che non aveva capito niente e che aveva frainteso le sue intenzioni. La baciò e la accarezzò, ripetendo che desiderava solo vederla felice e soddisfatta, quindi sedette sul grande divano e se la tenne sulle ginocchia finché ella non smise di tremare e parve più calma. Le sollevò il mento fra le dita e lesse nei suoi occhi che aveva bisogno d'essere consolata. «È la prima notte di nozze,» le ricordò, sfiorando le sue labbra. Le tolse l'asciugamano di dosso e la distese sui cuscini. Ma quando egli ruppe la promessa che le aveva fatto, prendendola co-
m'era suo diritto di marito e di amante, Shebat ricadde nel torpore mentale che faceva di lei un oggetto inerte. Incapace di darsi come di rifiutarsi, la fanciulla dimenticò perfino l'identità dell'uomo che stava su di lei, e fu conscia soltanto che gli ultimi brandelli della sua innocenza le venivano strappati. Marada, aiutami! avrebbe voluto gridare. Ma Marada non era lì, e non era lui l'uomo che la prendeva. Dimenticami, dimenticami, Marada! singhiozzò dentro di sé. Infine tornò abbastanza conscia da capire che quello era Chearon, e che i suoi sforzi per trasformarlo in Marada non servivano a nulla. E lei era sua moglie, qualunque cosa questo significasse, nel bene e nel male, diretta con lui verso un futuro che mai le era apparso così imprevedibile e poco luminoso. Capitolo 10 Davanti allo specchio del bagno Marada Seleucus Kerrion terminò di regolarsi la corta barba nera, calmo come se quello fosse un giorno qualsiasi della sua vita invece che probabilmente l'ultimo. Fece una rapida doccia, si asciugò la faccia, ma poi fu costretto ad osservarsi le mani per controllare che non tremassero. Tornò nella candida camera da letto lasciando impronte bagnate sul prezioso tappeto, e sedette nudo sulle coltri. I suoi pensieri stentavano a concentrarsi su quel che avrebbe dovuto fare, e capì che stava ancora pagando lo stress emotivo e la confusione in cui lo avevano gettato quella notte le grida di Madel, quando in preda alle doglie lo aveva svegliato bruscamente. Mai prima di allora la sua presenza di spirito lo aveva abbandonato a tal punto, lasciandolo nell'incapacità più completa di decidere una linea d'azione. Adesso ogni fibra del suo corpo, ogni battito del cuore, sembravano gridargli ciecamente: fuggi! Avrebbe voluto urlare a sé stesso quella parola, darle voce e farla divenire una solida realtà, ma si sentiva il cervello impastato di cotone come la bocca. Poggiò i gomiti sulle ginocchia e si prese la testa fra le mani, fissando il tappeto come in attesa che nella sua mente si accendesse un po' di luce. La sola parola che continuò a risuonargli nello spazio vuoto fra le orecchie fu: scappa. Davanti ai suoi occhi ricomparve l'immagine del neonato, il suo primogenito, la creatura nata sette ore prima e che un dottore gli aveva mostrato
al di là di un vetro divisorio: bianco come l'alabastro, capelli rossi, gambe perfettamente dritte... e immobile. Vivo ma immobile, inerte, vuoto come un libro che per un errore della tipografia fosse stato pubblicato con pagine interamente bianche. Non era stato nelle sue intenzioni rendere gravida Madel con un amplesso carnale. Non aveva mai provato neppure un barlume di desiderio fisico per lei. Era stata la donna a volerlo, dopo aver rifiutato con energia la sua proposta di ricorrere alla banca genetica dove tenevano in deposito una certa quantità del suo sperma congelato. Madel aveva desiderato lui, il suo corpo e il suo amore. Più tardi i migliori ginecologi di Shechem avevano dichiarato che la gravidanza non avrebbe presentato problemi, né per la madre né per il nascituro. Ma al momento del parto, al momento della verità, era risultato che anche i luminari potevano sbagliare. Con una parte della mente Marada cercava ancora di dirsi che il bambino era stato concepito nello Spazio Spugna, durante il viaggio da Lorelie a Shechem, e che forse quello era stato il fattore determinante. Sapeva però che i lunghi anni da lui trascorsi nello spazio interstellare, esposto a radiazioni non schermate da un'atmosfera, potevano aver giocato il loro ruolo in quella nascita anormale. Non era forse proprio per quel motivo che aveva depositato il suo seme alla banca genetica? Ma quando Madel gli aveva annunciato soddisfatta e orgogliosa d'essere gravida di un feto che sembrava destinato a svilupparsi normalmente, egli era stato ansioso di crederle. Ne era stato perfino felice, più per lei che per sé stesso: la sua innata onestà lo aveva fatto sentire in obbligo con la giovane donna, e ingravidandola gli era parso di pagare il suo debito con lei e con suo padre. Nessuno aveva osato esprimere il più vago sospetto che qualcosa potesse andare storto. Dopotutto anche Selim Labaya era stato per lungo tempo pilota di astronavi, ed aveva messo al mondo tre figlie: Iltani, perfino più che attraente, un'altra sorella anch'essa normalissima, e Madel, che alla nascita era sembrata priva di qualsiasi difetto fisico. Poteva esser stato a causa di Madel se da loro era nato un figlio vivomorto, un corpo inerte privo dei collegamenti nervosi con la mente? La domanda era accademica, ormai non aveva importanza. Marada avrebbe scommesso qualunque cosa che niente aveva importanza agli occhi di Selim Labaya, ora che i medici gli avevano confermato che da lui e da Madel avrebbe potuto sperare in un altro nipote. Il loro era un matrimonio destinato a rimanere sterile. E quando aveva visto la faccia del
vecchio patriarca farsi paonazza e contorta a quella notizia, s'era reso conto che perfino la sua vita era in pericolo. Ci aveva messo un po' a chiarirsi quel concetto, mentre Madel vacillava fino al tavolo dov'era stato deposto il neonato e con angoscia tentava di farlo reagire, di farlo piangere, di ottenere da lui almeno il battito d'una palpebra. Era stato allora che negli occhi del vecchio s'era acceso un lampo omicida. Gli era stato impossibile rimanere accanto a Madel per consolarla, una volta che Selim Labaya aveva preso a gridare ed a camminare su e giù per la stanza, bestemmiando oscenamente e in preda a un raptus di rabbia incontrollabile. Perfino i medici se n'erano spaventati. Aveva preferito lasciare la clinica, verso l'alba, e una volta tornato alla grande villa s'era gettato sul letto nel vano tentativo di dormire almeno un paio d'ore. Gli avvenimenti di quella notte lo avevano sconvolto, e tutto ciò che riusciva a pensare era che gli sarebbe convenuto sparire al più presto. Quella parola continuava a tambureggiargli nel cervello: fuggi! Si lasciò ricadere all'indietro, fra le lenzuola disfatte ancora impregnate dell'odore di Madel, e protese la mente verso la sua astronave: «Hassid, tienti pronto alla partenza. Decolleremo fra poco, appena arrivo a bordo.» «Per quale destinazione?», sussurrò in lui la familiare voce telepatica. «Si torna a casa.» Mentre si vestiva gli nacque il sospetto che Selim Labaya lo avesse fatto mettere sotto sorveglianza, così stabilì di raggiungere l'astroporto di soppiatto. Cercare di figurarsi quali sarebbero state le conseguenze della sua partenza era inutile: rompere in quel modo il matrimonio di Madel sarebbe stato un torto per lei e un'offesa mortale per il vecchio Labaya, e c'era solo da sperare che egli non lo giudicasse un atto simile da parte di tutto il Consolato di Kerrion. La conseguenza più immediata poteva essere lo scioglimento dell'alleanza commerciale e forse addirittura una guerra economica. Ci voleva poco a immaginare con quale stato d'animo Parma avrebbe appreso della sua decisione. Ma Parma non aveva visto la faccia di Selim Labaya: l'uomo s'era appena visto defraudare di tutto ciò che aveva contato di guadagnare dal suo matrimonio con Madel, e le sue reazioni emotive erano state eccessive. Esisteva la concreta possibilità che Labaya avesse già decretato la sua morte. Indossò vestiti da casa per non far pensare alla servitù che intendeva uscire, conscio che se Selim Labaya avesse saputo di ciò che stava per fare glielo avrebbe impedito con ogni mezzo. Vagamente provava un certo ri-
morso nel lasciare Madel proprio quel giorno, depressa e sola con la sua angoscia. Ma se aveva letto bene nei propositi di Labaya, forse la stava salvando da qualcosa di ancor meno sopportabile: la giovane donna lo amava, e se il padre di lei lo avesse fatto uccidere a causa di ciò che era nato dal suo ventre, questo l'avrebbe gettata in una disperazione assai peggiore. Già tre settimane addietro Marada era stato sul punto di rientrare a Kerrion, per le elezioni, ed era stata solo la consapevolezza dell'affetto di Madel a trattenerlo accanto a lei fino al momento del parto. Ma il destino che l'aveva fatto finire a Shechem gli era sempre parso ingiusto, e riteneva suo diritto cercare di liberarsi dalla rete che gli altri gli avevano avvolta intorno. Uscì dalla camera da letto, attraversò un salottino e aprì la porta. Due cameriere stavano facendo pulizia in corridoio, un'altra spolverava nello studio, e sul ballatoio delle scale era fermo un uomo armato, una delle guardie del corpo disseminate ovunque nella grande villa. Marada gli elargì un cenno di saluto e disse che sarebbe andato in giardino. La faccia dell'uomo non espresse altro che deferenza, sebbene sapesse di certo ciò che era accaduto alla clinica. La notizia doveva aver già fatto il giro di Shechem, passando di bocca in bocca. A passi tranquilli si diresse alla porta posteriore, che conduceva al vastissimo giardino botanico. Da qualche parte doveva essere parcheggiato uno dei veicoli a slitta antigravità che la servitù usava per le commissioni. Appena fu all'esterno la parola tornò a risuonargli nella mente come un ordine che lo fece fremere: fuggi! Si impose la calma, prese per un sentiero fra le aiuole fiorite e girò a destra, diretto alla grande scalinata che scendeva in semicerchio fino sullo spazio anteriore della casa. In fondo ad essa c'era un veicolo, un mezzo di trasporto anonimo e senza stemmi, dalla guida semplice, e nel raggiungerlo tese le orecchie per captare eventuali passi dietro di sé. Il suo timore era che qualche guardia del corpo si stupisse nel non vederlo salire su uno dei lussuosi veicoli tenuti nella rimessa, ma nessuno lo aveva seguito. Aprì lo sportello e sedette sulla poltroncina, nella luce azzurrata dell'interno, quindi regolò la polarizzazione dei vetri per rendersi invisibile da fuori. Con un lieve ronzio il docile mezzo di trasporto si sollevò dal suolo, percorse il viale e scivolò verso l'uscita sulla pubblica via. Marada fece alcuni profondi respiri per sciogliere il nodo che gli aveva contratto l'addome in una massa di muscoli rigidi. Si diresse alla galleria
che passava sotto gli edifici del Consolato e rallentò per incolonnarsi con altri veicoli, mentre le luci di posizione si accendevano automaticamente. Il traffico era abbastanza intenso, e ogni mezzo di trasporto disponeva di un cervello elettronico che ne regolava velocità e spostamenti con prudenza eccessiva. Un altro cervello artificiale, centralizzato, controllava nei più minuti particolari la circolazione sulle strade, trasformando gli esseri umani in pedine dotate di scarsissima capacità decisionale e in balia dei loro stessi servi meccanici. Marada sapeva che se Labaya avesse voluto sarebbe riuscito con irrisoria facilità a programmare per lui un incidente mortale, e questo pensiero gli faceva provare un vuoto allo stomaco. Si sentiva giù di morale e soprattutto stanco. Era stanco degli intrighi dei Labaya, stanco di Shechem, e più in generale stanco di una Confederazione le cui parti riuscivano a sopravvivere solo a prezzo della rovina dei concorrenti. Sapeva benissimo che la sua famiglia non era migliore, e che il marciume di Draconis equivaleva a quello di Shechem, ma almeno Kerrion era casa sua. Nel guardare fuori dal parabrezza l'unico conforto che provava era il vedere gli edifici e i tratti di strada che scorrevano indietro: immagini che era ansioso di lasciarsi per sempre alle spalle. Mai aveva trascorso un anno malinconico e senza scopo come quello su Shechem. E tuttavia nulla era eterno salvo lo spazio, si disse, e le sue fortune dovevano pur mutare. Il piccolo veicolo si sollevò ancor di più dal suolo, entrando su una rampa a gravità ridotta che portava allo spazioporto del primo livello. Poco dopo voltava entro una delle gallerie diretto allo scalo, sul bordo esterno dell'immensa piattaforma spaziale. Quando vide l'Hassid poggiato sulla sua breve pista rettilinea, provò l'impulso di correre a baciarne il muso levigato. Salendo a bordo tremava per la tensione e il sollievo insieme. Poi il grande portello esterno scivolò alle sue spalle, quello della camera stagna si chiuse con un tonfo dolce e soffocato, e nel gettarsi a sedere al posto di pilotaggio gridò dentro di sé: «Decolla, Hassid. Si torna a casa!» «La torre di controllo non vuole darmi via libera,» rispose l'astronave. «Rifiuta di aprire i portelloni in fondo alla pista.» Marada allungò rabbiosamente le mani sui comandi della centrale di tiro. «Accendi i motori, maledizione!» gridò. All'esterno dello scafo le due torrette ruotarono, puntando i grossi laser da battaglia sui portelloni delle camere stagne. «Pronto a far fuoco!» «Marada, la torre di controllo mi sta ordinando di spegnere i motori e
di far salire la polizia portuale,» lo avvertì l'Hassid. Il giovanotto accese gli schermi collegati all'esterno. Lungo la pista centrale dei moli stavano arrivando due veicoli corazzati della polizia. «Fuoco! Apriamoci la strada!» urlò. L'Hassid non se lo fece ripetere. Dai laser scaturirono colonne di fiamma ardenti come il cuore di una stella, che vaporizzarono in una frazione di secondo i portelloni d'uscita in fondo alla pista. In un inferno di metallo fuso che schizzava attorno l'astronave balzò avanti, al massimo dell'accelerazione, mentre per tutto lo scalo di Shechem si chiudevano le porte stagne e ululavano le sirene d'allarme. Negli immensi locali il personale correva e rotolava a terra, protetto dai rivestimenti di similpelle ma trascinato dall'aria che sibilava via nel vuoto dello spazio. Durante i pochi secondi che occorsero all'astrocruiser in fuga per portarsi a distanza di sicurezza dalla piattaforma, Marada fu schiacciato nella poltroncina con violenza tale che il naso cominciò a sanguinargli. Su tutti gli schermi balenavano lampi di luce, cinque indicatori di danni mutarono dal verde al rosso, e un cicalino prese a suonare con insistenza. Poi l'accelerazione diminuì, ed egli rantolò una bestemmia oscena, ma era sollevato. Con un gesto fece tacere la radio, che stava gracchiando frasi irritatissime. «Possiate crepare, bastardi!» ringhiò. «Hassid, usciamo dal sistema alla massima velocità. Hassid!» Nessuna risposta. «Hassid! Mi senti?» «Loro... hanno sparato su di me!», ansimò l'astronave. «Ho dei danni sulla parte poppiera!» «Me lo aspettavo, ragazzo mio,» rispose lui a voce. «Ma niente che non si possa riparare. Portami a casa, e ti rifarò placcato d'oro.» «L'oro puoi tenertelo!» lo rimbeccò l'Hassid, aspro. Poi continuò: «Sto ricevendo una sfilza di minacce via radio, e l'elenco di tutte le leggi che abbiamo infranto. Non te lo ritrasmetto in plancia perché evidentemente non ti interessa. Calcolo comunque che potremo allontanarci prima che loro...» s'interruppe. «Marada! Sei ferito?» «No. Perché?» «Il tuo metabolismo è alterato. E mi stai parlando a voce. Non mi vuoi nella tua mente?» «Non dire sciocchezze. Come potrei non volerti? Sono soltanto un po' agitato, e stanco. Tu guarda di entrare nello Spazio Spugna il più presto possibile.»
«Certo. Ma come ti stavo dicendo, la polizia di Shechem non ha speranza di raggiungerci. Però potrebbero essere là ad aspettarci quando rientrerà nello spaziotempo. Ecco il mio piano di volo...» Uno schermo si accese, snocciolando immagini schematiche e cifre. Marada lo ignorò e chiuse gli occhi, rilassandosi contro lo schienale della poltroncina sagomata. «Dammi qualcosa da mangiare e da bere,» ordinò. «E non ti agitare, ragazzo: fra poco torneremo alla telepatia. Non è con gli strumenti che mi piace volare, lo sai. Come stiamo a scorte?» «Dovrai accontentarti di roba in scatola.» Poco più tardi, mentre l'Hassid accelerava ancora e penetrava con un fremito negli effetti dello Spazio Spugna, la mente di Marada fluì pacatamente in contatto con la sua ed i sensi umani divennero tutt'uno con quelli elettronici che esploravano il vuoto intorno a loro. Il giovanotto captò la presenza dei campi di forza, degli sciami di pulviscolo interstellare, e le pressioni gravitazionali furono come onde di un mare sterminato pervaso da grandini di impulsi radio: l'universo vibrava di sensazioni immense, al centro delle quali egli era una molecola preziosamente viva. La sua capacità di percepire si estendeva così lontano da dargli l'impressione, inumana e folgorante come una rivelazione religiosa, d'essere in comunicazione con la totalità del cosmo. C'era qualcosa di ipnotico, di affascinante, nel poter spaziare con sensi diversi e potenziati su quelle distanze incommensurabili. La velocità e la forza dell'astronave erano doni divini che egli assaporava con pacata voluttà, in un tempo senza tempo dove il solo fatto di essere vivo e cosciente lo portava avanti, ridimensionando a sua misura le leggi legate a quelle accelerazioni estreme. Il viaggio fino a Draconis durò i dieci giorni standard di ogni volo spaziale. E fu con un senso di tristezza e di disagio che, quando uscirono dallo Spazio Spugna, tornò a separarsi dall'Hassid, costrettovi da qualcosa che penetrò nei suoi pensieri per metà umani e per metà elettronici. La voce della astronave risuonò in lui, chiara e pressante: «Qualcosa ci ha seguiti. È emerso nello spaziotempo neppure centomila chilometri dietro di noi!» «Seguiti nello Spazio Spugna? Impossibile.» «Così credevo anch'io. Eppure lo avevamo in coda. Adesso si trova fra noi e la cintura di asteroidi del sistema di Draconis.» «Che significa qualcosa? Cerca di identificarlo meglio. È un'astronave?» «Se lo è, si tratta di un tipo di astronave che non ho mai sentito prima. Però si comporta come un normale velivolo.»
«Mai sentito! Che razza di segnali ricevi? Sei certo che non sia solo un effetto dei danni che hai riportato?» «È un astrocruiser,» stabili l'Hassid con improvvisa decisione. «Ma certo diverso da tutti quelli che conosco.» «È Labayano? È ostile? Cerca di capirlo.» «No... non esattamente ostile. Ti mostro ciò che arriva sul teleradar.» L'Hassid fece accendere uno schermo. «In cosa è diverso dagli altri astrocruiser che conosci? Qui vedo solo un segnale che lo identifica come una comune nave spaziale.» Le luci di plancia lampeggiarono, mentre la voce dello Hassid suonava quasi ironica: «Se tu potessi sentirlo come lo sento io, ti accorgeresti che non c'è nessun umano a bordo. Né dentro né fuori.» Nessuno dentro né fuori: perché mai una stranezza di quel genere andava a capitare proprio a lui? Marada Seleucus Kerrion non credeva nelle coincidenze, tantomeno in quelle che avevano un tale sapore di improbabile. Era stato pilota troppo a lungo per illudersi che nell'universo ci fosse posto per l'assurdo. Tutto ciò che gli era accaduto fino ad allora gli parve di colpo irrilevante, secondario, di fronte al fatto decisamente incredibile che un'astronave senza pilota lo avesse seguito nello Spazio Spugna, e di sua iniziativa. Già prima di aver fatto quelle osservazioni l'Hassid aveva rallentato, ed ora si stava lentamente fermando. Sullo schermo era visibile un gruppo di asteroidi di medie dimensioni, e accanto ad essi un oggetto che i sensori identificavano come un'astronave. La sua velocità scemava sempre più. Poi un segnale radio giunse a bordo, e l'Hassid comunicò una notizia del tutto imprevista: il velivolo dichiarava di essere il Marada, l'astrocruiser personale di Shebat Alexandra Kerrion, e chiedeva di parlare col pilota dell'Hassid. Marada incontrava il Marada... Ma il giovanotto non rise di certo a quella riflessione. Era sbalordito. Sapeva che Shebat aveva chiesto la patente di pilota, e David Spry gli aveva anche parlato dell'astrocruiser acquistato per lei da Parma. E tuttavia... cosa diavolo aveva combinato quell'imprevedibile fanciulla? Il giorno che egli aveva deciso di condurla via dalla Terra, non si sarebbe mai atteso che quella quindicenne dalla faccia sporca si sarebbe dimostrata capace di giocare un suo ruolo nella politica e negli avvenimenti di Kerrion. Per un po' di tempo s'era sentito in colpa per averla gettata così allo sbaraglio, lasciandola senza aiuto, ma ora si stava convincendo che la ragazza non era mai stata davvero incapace di badare a sé
stessa, né indifesa come egli l'aveva creduta. Ma adesso che stava succedendo? Con un sussulto rifletté che se l'Hassid non captava la presenza del pilota a bordo, questi poteva benissimo esser lì ugualmente ma privo di vita. La paura che Shebat fosse morta gli lampeggiò nella mente con tale violenza che l'Hassid si affrettò a precisare: «Il Marada afferma che a bordo non ha nessuno, né vivo né morto.» Doveva accertarsi che questo rispondesse al vero. Con un brivido pensò che non se la sentiva di contattare da mente a mente il Marada, una creatura artificiale che aveva fatto qualcosa di totalmente impossibile per un'astronave non pilotata. C'era un sapore d'incubo nel dover affrontare un'entità elettronica uscita dai binari della sua esistenza programmata e della logica, capace di realizzare ciò che si credeva irrealizzabile. «Hassid, mettiti in contatto con Draconis. Informa lo scalo della nostra posizione, e della presenza di un'astronave sconosciuta vicino a noi. Comunica che la condurremo in tandem. Usa la lunghezza d'onda di emergenza, così non staranno a far domande... Ne avrebbero un bel po' da fare, e non mi va di rispondere. Fornisci loro i nostri dati e chiedi una rotta di avvicinamento per il mio scalo privato.» «Marada, ho bisogno di riparazioni...» «Adesso voglio che la direzione dell'astroporto e i tecnici mi stiano fuori dai piedi. Faremo le riparazioni sul mio scalo privato. Chiedi che Chaeron sia informato del mio arrivo e...» «Potresti farlo tu personalmente.» «Io ho altro da pensare. Voglio salire subito a bordo del Marada.» «Ma non c'è nessun umano!» si oppose l'Hassid, in tono querulo. «Potrebbe esserci qualche pericolo per te!» «Fai quel che ti ho detto, ragazzo mio. E ora dì al Marada che si avvicini e apra il portello della camera stagna.» Si alzò dalla poltroncina. La voce dell'astronave che protestava ancora per quella decisione lo seguì lungo il corridoio, sebbene l'Hassid facesse accendere docilmente le luci e aprire le porte davanti a lui. Ma egli fece finta di non sentirla e sbarrò la mente per scacciarla da sé. Nella sua cabina si spogliò nudo, entrò nel contenitore che costruiva gli involucri di similpelle e se ne ricoprì di un triplo strato protettivo, sul quale indossò poi uno scafandro spaziale fornito di una riserva d'aria per otto ore. Attese che l'Hassid spegnesse la gravità artificiale e poi si diresse galleggiando nel corridoio alla camera stagna. Quando uscì nello spazio, vide che il Marada era ancora a qualche chi-
lometro di distanza. Ne approfittò per esplorare la poppa dello scafo e dare un'occhiata ai danni. Il metallo aveva subito l'azione di un laser, e in più punti alcune sezioni apparivano esternamente fuse. Sensori e antenne di vario genere erano stati spazzati via del tutto, e vedere l'astronave così ridotta gli fece stringere i denti per la rabbia. Ripararla non sarebbe stata una spesa dappoco, rifletté. Poi si volse e vide il Marada che si accostava lentamente. I due astrocruiser stavano certo comunicando fra loro, perché manovrarono in sincronia e misero fuori nello stesso momento le ancore gravitazionali. Con una smorfia il giovanotto constatò che Parma non aveva badato a spese quando s'era trattato di fare un regalo a Shebat: il Marada era un modello recentissimo, venti metri più lungo dell'Hassid e senza dubbio meglio, attrezzato. Lo scafandro lo portò in un breve volo fino al portello dell'astrocruiser, che si aprì ancor prima del suo tocco sulla piastra esterna. La gravità artificiale era stata spenta, per consentire l'avvicinamento. Allorché fu nella camera stagna Marada fu costretto ad attendere che questa si ripressurizzasse e che la gravità standard fosse ristabilita, ed in quel breve intervallo di tempo la voce del Marada gli parlò nella mente: «Benvenuto a bordo. Ti aspettavo. Lieto di conoscerti.» Sorpreso il giovanotto dovette notare che l'astronave aveva l'incredibile capacità di contattarlo per via telepatica, sebbene egli non fosse il suo pilota. La cosa non gli fece piacere. «Salve a te,» borbottò via radio, mentre l'aria sibilava nel piccolo locale. La porta interna si aprì, rilevando un corridoio trasversale piacevolmente dipinto in varie tonalità pastellose. Ma sebbene lo scafandro gli segnalasse che le condizioni ambientali erano perfette, egli non si tolse il casco. «La plancia è a sinistra,» disse l'astrocruiser. «Se permetti, darò un'occhiata in giro.» Vedendo che la sala comandi era deserta si diresse a destra, fino al portellone della stiva. C'era una scialuppa di salvataggio a due posti, del tipo a lunga autonomia, molti contenitori di rifornimenti, alcuni scafandri spaziali e vari servomeccanismi, il tutto con l'aspetto di non essere mai stato toccato. Tornò indietro e guardò nelle cabine e negli impianti igienici: lusso, arredi di ottimo gusto, moltissimi oggetti personali, nessun segno di violenza e nessun cadavere. Neppure tracce che a bordo avesse abitato qualcun altro, a parte Shebat. Tornò in plancia senza saper cosa pensare. «Stai cercando Shebat anche tu?» La domanda lo fece fermare sulla soglia, e ancora un fremito spiacevole
lo pervase. Le poltroncine erano ancora tutte e tre al loro posto, e i sigilli dei meccanismi d'espulsione apparivano intatti. Mentre andava a controllare la strumentazione l'astronave gli ripeté la domanda, e stavolta Marada rispose: «Sì, fra le altre cose.» «Lei mi ha chiamato. Io dovevo risponderle.» «È per questo che mi hai seguito nello Spazio Spugna?» «Ti ho seguito fuori dallo Spazio Spugna, non dentro di esso. Io mi ero... perduto. Marada, vuoi... desideri bere qualcosa, mangiare, riposarti? Posso provvedere a tutto.» Marada si domandò se poteva fidarsi a levare lo scafandro, e decise di no. Sedette sul bordo di una poltroncina, esaminando ancora la strumentazione. Tutto sembrava ultramoderno e in perfetto ordine, ma l'incertezza lo riempiva di sospetti. «Puoi toglierti il casco, se vuoi,» lo invitò cortesemente l'astronave. «Parlami via radio!» sbottò lui. «Stai fuori dalla mia testa. Come puoi fare questo?» «Riesco a farlo perché in un certo modo tu sei parte di me stesso,» fu la risposta. «Questa è un'affermazione priva di senso. Il tuo comportamento è incomprensibile.» «Volevo il tuo aiuto per ritrovare Shebat, che mi ha chiamato.» «Lo hai già detto. Tutto quello che posso fare è ricondurti a Draconis. Ma voglio sapere dove ti sei separato da lei l'ultima volta e perché, e anche cos'è successo dopo.» «Posso rientrare a Draconis anche senza il tuo aiuto.» «Non vuoi rispondere alle mie domande, allora?» «Ne sono impedito da due ostacoli: tu rifiuti di aprire la mente alla mia. Non vuoi neppure levarti il casco, sebbene le condizioni ambientali siano perfette. Per farti capire cos'è successo non basta mostrasti delle immagini su uno schermo o riferirti a voce.» «Tu provaci. Sono certo che un modo lo troverai. E quale sarebbe il secondo ostacolo?» «È evidente: si tratta di informazioni riservate.» «Non per me. Shebat sarebbe d'accordo su questo. Inoltre io desidero aiutarla, e se ti ha chiamato può voler dire che ha bisogno di aiuto. Io ho un'importante missione da compiere, che riguarda anche lei,» mentì Marada, dando alle sue parole un accento solenne. Si stava convincendo che la
mente dell'astronave fosse alterata, e non intendeva abbassare la guardia. Si alzò in piedi. «Se non vuoi collaborare sarò costretto a usare i comandi manuali per frugare nella tua memoria. Ti consiglio di non ostacolarmi, altrimenti dovrò toglierti i collegamenti con tutti i tuoi servomeccanismi sensori. È una cosa che mi ripugna, perciò bada di non trascinarmi a misure così estreme.» «Non ti ostacolerò,» rispose immediatamente l'astronave, in tono spaventato e facendo lampeggiare per il nervosismo le luci della strumentazione. «Benissimo,» borbottò Marada. Ma un'ora più tardi, seduto al posto di pilotaggio, fu sul punto di gettare la spugna per la frustrazione. Riesaminare tutti i dati accumulati negli ultimi quattro mesi e mezzo era un lavoro infernale, e finì col rendersi conto che la pazienza non gli sarebbe bastata. «Non desideri che sia io a mostrarti qualcosa?» intervenne in tono conciliante l'astrocruiser. Marada sbuffò, appoggiandosi allo schienale. «E cosa vuoi farmi vedere, ad esempio?» Per tutta risposta su uno schermo apparve una scena registrata da una delle telecamere esterne del Marada: era inquadrata una pista di atterraggio, presumibilmente uno dei moli di Draconis, e sul marciapiede c'erano Shebat e David Spry che stavano discutendo con una certa animazione. Sfortunatamente mancava il sonoro. Dopo un paio di minuti i due si allontanarono insieme e scomparvero verso un'uscita. La singolare attenzione che l'astrocruiser prestava alla sua padrona fu evidente per Marada, dato il modo in cui la telecamera continuò a seguire la ragazza fino all'ultimo momento. Ma non era tutto qui, perché una registrazione parallela indicava che il Marada aveva passato al vaglio tutti i presenti per controllare che non avessero armi indosso, e che per eccesso di prudenza aveva messo in stato di preallarme anche una delle centraline di tiro. Malgrado ciò, la registrazione non rivelò affatto al giovanotto le informazioni che sperava di trovare, e una successiva ricerca gli consentì di stabilire che David Spry non era più tornato a bordo o nelle immediate vicinanze dell'astro-cruiser. «Perché non ti levi il casco e non ti metti in contatto mentale con me? Nella mia memoria può esserci ciò che cerchi.» Marada ignorò l'offerta e chiese di vedere l'immagine del primo essere umano salito a bordo dopo l'allontanamento di Shebat e David Spry. Lo schermo gli mostrò subito un giovanotto biondo che avanzava nel corrido-
io interno, dopo essere appena uscito dalla camera stagna. Vari particolari gli rivelarono che in quel momento l'astronave si trovava nello spazio, e che costui s'era appena tolto lo scafandro dopo essere giunto a bordo da un'altra nave. Lo vide armeggiare sui comandi e predisporre l'astronave a un volo pilotato attraverso lo Spazio Spugna. «Basta così,» ordinò. E quando lo schermo tornò vuoto: «Dammi le coordinate di quel volo.» Il Marada gliele fornì docilmente, e il giovanotto si accigliò. «Ai limiti della Confederazione?» sussurrò, fra sbalordito e disgustato per la propria stupidità. «Al Confine... possibile?» Sapendo meglio cosa cercare tornò a frugare nelle registrazioni dei banchi memoria, finché si fu fatto un quadro di cos'era accaduto all'astronave in quel lungo periodo di attesa. Infine poté stabilire che i dati per lui più rivelatori erano le conversazioni via etere che il Marada doveva per forza aver avuto con qualche altra astronave, in spiecial modo al momento della sua partenza senza pilota da Draconis. Ma di queste non esisteva alcuna registrazione. Per aggirare l'ostacolo chiese: «Chi ti ha programmato per quel volo non pilotato? Ovviamente non può esser stata Shebat.» L'astrocruiser esitò qualche istante, poi rispose: «Non posso dirtelo, se continui a rifiutare il contatto mentale con me. Io non conosco i tuoi veri scopi.» «Chi è stato a farti partire da Draconis? Rispondi! Se non ubbidisci ai miei ordini ti staccherò i sensori, e non potrai più vedere né udire,» ringhiò Marada. «Non posso.» Ma quando il giovanotto cominciò ad armeggiare furiosamente coi comandi l'astronave gridò: «Aspetta! È stato... David Spry.» Marada imprecò fra i denti. Avrebbe dovuto capirlo da solo, si disse irosamente. Ma forse no, visto che per anni aveva evitato quanto più possibile i contatti con i suoi colleghi. Ora alcune cose cominciavano ad apparirgli più chiare, prima fra tutte la sua stessa ingenuità. Fin dal giorno in cui aveva preso la patente, non s'era mai preoccupato di tenere strette relazioni con gli altri piloti dell'Associazione, quasi accettando l'idea che lui e loro vivessero in due dimensioni diverse. Per un po' aveva creduto che ciò derivasse dal fatto che egli era un Kerrion, ma i veri motivi erano più complessi e contorti. Ciò che lo aveva isolato dagli altri non era la consapevolezza d'essere figlio dell'uomo più potente e prestigioso del Consolato. Non era stato lui, in realtà, a sfuggire le loro confidenze,
bensì il contrario, e ciò non per il sospetto che egli godesse di privilegi e nepotismi, ma per puro e semplice timore: il timore di ciò che lui, come Arbitro, poteva fare se fosse stato al corrente di certe loro attività. Dunque Spry aveva contatti al Confine! Se Marada avesse esercitato là al Confine la professione di Arbitro, invece di dedicarsi interamente al pilotaggio, forse quel pensiero gli sarebbe venuto molti anni prima. E dire che era stato proprio lui a raccomandare a suo padre come piloti di fiducia David Spry e Valery Stang! Questa riflessione gli strappò una risata amara, secca come una tosse dolorosa. Adesso una cosa era chiara: doveva assolutamente conoscere ciò che era chiuso nella memoria del Marada, anche se ciò significava contattarlo mente a mente. Il suo dovere di arbitro, oltreché l'interesse personale, esigeva che indagasse a fondo. Gettò un'altra occhiata agli indicatori di pressione e temperatura, quindi si slacciò il casco. «Avanti, amico: fatti conoscere!», brontolò. Nell'ultimo istante prima del contatto, quando ancora la sua identità era totalmente sua, egli fu certo che dopo quegli avvenimenti non sarebbe stato più lo stesso uomo di prima. Poi la coscienza dell'astronave penetrò in lui mescolandosi con la sua, ed egli fu un'entità umana ed elettronica allo stesso tempo. Ansiosamente cominciò ad esplorare quelli che adesso erano anche i suoi ricordi. Capitolo 11 Parma Alexander Kerrion sapeva che non gli restavano più molti anni da vivere. Lo capiva da un punto di vista freddamente intellettuale, e s'era rassegnato a quel fatto: anche lui, come tutti, sarebbe morto. Era una delle poche cose in cui era costretto a ritenersi né superiore né inferiore all'ultimo spiantato del duecentesimo livello. Ma allora perché ogni volta che tornava sano e salvo da un viaggio nello spazio si sentiva così sollevato? Lì sul Bucephalus non era certo meno al sicuro che su Draconis o in Lorelie, così come su una piattaforma orbitale non avrebbe vissuto meno a lungo che su un pianeta. Disteso all'indietro sulla poltroncina sagomata si passò le mani sul viso e trasse un lungo respiro, scacciando quei pensieri da dormiveglia. Non avvertiva più le vibrazioni dello scafo, e l'assoluta immobilità gli disse che l'astronave poggiava ora inerte e spenta sulla pista. Questo lo fece sentire meglio e lo tranquillizzò.
«Signore,» la voce di Spry lo indusse a riaprire gli occhi. «C'è fuori un comitato di ricevimento che vi aspetta». Prima di rispondere Parma studiò pensosamente il volto del pilota: aveva una rete di minuscole rughe intorno agli occhi, un pallore malato che ne rivelava la stanchezza interiore, e le sue spalle apparivano curve come sotto un peso invisibile. «Giovanotto, se in questo viaggio fossi invecchiato quanto te dubito che quella gente là fuori mi riconoscerebbe,» commentò. «Io nello abbastanza, Signore. Potete prendermi o lasciarmi. Sono fatto così!», disse lui, secco. Parma si stiracchiò senza fretta, per nulla ansioso di affrontare la torma di leccapiedi pronti a seccarlo con le loro untuosità. «E questo cosa dovrebbe significare, eh?» «Significa, Signore, che in questi dieci giorni ho dovuto sopportare tante insinuazioni offensive, allusioni e domande da farmele bastare per il resto della vita. Se avete qualcosa di preciso contro di me, perché non stilate un bel rapporto per il Direttore della mia Associazione?» «Abbassa la cresta, giovane galletto, o penserò che vuoi convincermi ad annullare il tuo contratto di lavoro. E io non ho intenzione di farlo, così come tu non hai nessuna voglia di vedere la tua scheda macchiata da un licenziamento in tronco. Perciò non provocarmi.» Spry si strinse nelle spalle. «Per favore, Sorella Volpe, non gettarmi in mezzo a quei rovi spinosi... disse Fratel Coniglietto.» Parma annuì, per mostrargli che conosceva l'antichissima favola. «Molto spiritoso.» Accennò verso uno schermo. «Ingrandisci un po' quella scena, ragazzo. I miei occhi non sono più quelli di una volta.» Una delle telecamere dell'astrocruiser stava inquadrando la banchina affollata di gente. Appena Spry ebbe trasferito l'immagine su uno schermo più ampio Parma riconobbe la testa canuta di Baldwin, il Direttore della Softa, e quella rossa di Chaeron. Con quest'ultimo c'erano a dir poco trenta fra guardie del corpo e servitori in divisa rossa e nera, oltre a un numero imprecisato di piloti, funzionari, giornalisti, e dietro Chaeron stava una ragazza bruna impossibile da riconoscere in quell'inquadratura. Con un grugnito Parma si disse che se suo figlio aveva preso l'abitudine di circondarsi di tutto quel personale, presto o tardi il bilancio di famiglia avrebbe subito un tracollo. «Bene. Possiamo scendere,» ordinò. «Se non vi spiace, Signore, io resterei a bordo. Ho alcuni lavoretti da
sbrigare.» Spry ruotò la sua poltroncina verso i comandi, ticchettandovi sopra nervosamente con le unghie. «E vuoi deludere tutti quelli che ci aspettano? Ci sono anche i tuoi colleghi lì fuori.» «Sì. Ma non credo che siano qui per me, Signore.» «Sciocchezze. Adesso andremo a pranzo al Consolato, e voglio che tu venga con noi.» «Non posso lasciare il Bucephalus senza aver provveduto a...» Parma continuò come se non lo avesse udito: «La dedizione al lavoro è una bella cosa, ma l'eccesso di zelo peggiore della sua completa assenza. Inoltre il tuo Direttore potrebbe pensare che sei stranamente asociale, e noi non vogliamo questo. No?» «Come desiderate, Signore,» capitolò Spry, fissandolo come se il vecchio fosse la sibilla dalla cui bocca s'era appena sentito predire il futuro. Parma restò immobile, sperando senza darlo a vedere che il giovanotto si decidesse a rivelare almeno con l'espressione della faccia quello che aveva dentro. Ma David Spry gli esibì cocciutamente uno sguardo pietrificato. «Usciamo nell'arena,» brontolò il vecchio, alzandosi. Spry lo seguì nel corridoio, ordinando al Bucephalus di spegnere le luci dietro di loro. Se Baldwin era venuto sulla banchina, rifletté, doveva esserci un motivo serio. Gli orologi di Draconis segnavano le 12,30, e fra i piloti si diceva che per far saltare il pranzo al Direttore dell'Associazione occorreva una guerra oppure la scoperta delle sue due belle figlie in una casa di Danzatori del Sogno. Chaeron Kerrion era invece circondato da agenti della polizia di Draconis, e questo poteva far pensare al peggio. Tuttavia Spry rifiutava d'essere pessimista: se qualcuno poteva essergli di aiuto questi era Baldwin, ed egli non si sarebbe certo messo così allo scoperto nel caso che la polizia avesse un vero motivo per incriminare il migliore dei suoi piloti. Scendendo la scaletta due passi dietro Parma si sforzò di tenere un sorriso incollato alla faccia. Le guardie del corpo aprirono un varco fra le cinquanta e più persone che li attendevano, ci furono strette di mano con alcuni funzionari, poi nel corridoio umano vennero avanti Chaeron e Julian, tallonati dall'elegante e flessuosa figuretta di una fanciulla. Nel vederla lì Spry si sentì mozzare il fiato per la sorpresa: gli occhi di lei, spalancati, lo fissavano con dolorosa intensità. Fermo alla base della scaletta il giovanotto seppe solo pensare che nello sguardo di Shebat c'era un avvertimento di qualche genere, poi i suoi peg-
giori sospetti furono confermati da una mano che gli si poggiò su una spalla. Volgendosi vide la faccia di un poliziotto in uniforme. L'uomo sorrise e tolse la mano, tuttavia fece cenno a un collega di affiancare Spry sull'altro lato. Ma il vero guaio, pensò gelidamente il pilota, era davanti a lui: lo stava guardando in faccia, personificato nella figura alta e sorridente di Chaeron Kerrion che avanzava ad abbracciare il padre. Il saluto fra i due uomini fu caloroso quanto quello di due marionette costrette a stringersi le braccia per necessità di copione. Quindi Chaeron si volse a Spry e gli porse la mano, meravigliandolo per l'elegante ipocrisia di quel gesto incomprensibile. Cosa stava passando dietro la ridente maschera professionale del Console Kerrion? Con la coda dell'occhio Spry vide sei piloti avviarsi a passi decisi sulla scaletta anteriore del Bucephalus, e anche quella manovra lo lasciò perplesso. Chaeron non s'era districato del tutto dall'abbraccio del padre: con una delle sue zampe pelose Parma lo teneva per una spalla, e lo attrasse di nuovo a sé. «Mi auguro che i tuoi sforzi per dimostrarti un bravo amministratore non mi convincano esattamente del contrario,» fu il suo saluto. Lasciato il figlio, l'uomo si dedicò a Shebat: «Devo presumere che la tua presenza qui sia un fatto definitivo, oppure mediti di sparire di nuovo? Cos'hai da dire al tuo vecchio padre, ragazza?» Il suo tono brusco la mise a disagio. Abbassando gli occhi mormorò: «Sono lieta di rivedervi, padre. Come state?» «Bene, a dispetto di tutti voi.» Parma s'accorse che alle sue spalle Spry era letteralmente schiacciato fra i due poliziotti, e che un altro pilota seguiva i colleghi appena scomparsi all'interno del Bucephalus. La scena lo fece accigliare. «Che state facendo voi due? Scostatevi. Questo è il mio pilota.» E girandosi al Direttore della Softa, che sbucava allora dalla folla, sbottò: «Baldy, cosa accidenti sta succedendo qui? Chi sono quei sei scimmiotti che hai fatto salire sulla mia astronave, senza il mio permesso?» L'uomo gli fece cenno di placarsi. «Si tratta di questo, Parma: il Console ed io abbiamo ritenuto necessario far esaminare più a fondo il Bucephalus.» «Non capisco perché tutta questa fretta. Sono già fortunato se mi hanno lasciato scendere, invece di travolgermi sulla scaletta.» Il vecchio si volse in cerca del segretario, che poco lontano stava cercando di arginare alcune persone munite di telecamere. «Niente giornalisti adesso. Se vogliono fare
qualche ripresa, va bene. Ma le interviste domani. Chiaro?» gridò. Baldwin lo afferrò per un gomito. «Devo parlarti privatamente.» «Privatamente non significa sputarmi nelle orecchie,» brontolò il patriarca, osservando Chaeron che stava sussurrando qualcosa a Shebat. «E va bene. Tu e il tuo pilota verrete a sbafare il pranzo da me.» «No. Parma. Da solo. Vuol dire che verrò stasera. Ma adesso, se non ti spiace, desidero dire due parole a Spry prima che tu te lo porti via.» «Perché hai mandato i tuoi segugi sul Bucephalus? È la mia astronave privata, mica la tua. Afferri la sottile distinzione?» Parma gli diede un'occhiataccia. «Cos'è che vai cercando?» «C'è qualcosa che dobbiamo accertare, padre,» intervenne Chaeron. «E sia, ma poi mi aspetto una spiegazione. Spry, il tuo Direttore ha bisogno di te. Ma non fate una conferenza voi due, che voglio andarmene da qui.» Il vecchio s'incamminò a passi decisi verso il suo grosso ufficio mobile parcheggiato poco distante, tallonato da Shebat e da Chaeron. David Spry fu invece preso sottobraccio da Baldwin, che lo condusse fuori portata d'orecchio dei poliziotti e prima di cominciare a parlare attese d'essere circondato da sei o sette piloti. «Non abbiamo più notizie del Marada. O è scomparso di sua iniziativa, o qualcun altro ci ha messo lo zampino,» sussurrò l'uomo. «Inoltre poco fa è arrivata la notizia che l'Hassid sta tornando a Draconis, in tandem con un'astronave non meglio specificata. Questo non l'ho ancora fatto riferire ai Kerrion, e tenendo il messaggio per me mi sto prendendo un grosso rischio. Adesso dimmi: cos'è successo poco fa, sei già stato arrestato?» «Non ancora, ma me lo aspetto da un momento all'altro. Perché il Bucephalus viene esaminato?» Baldwin parlò sottovoce, tenendo il viso molto accosto al suo: «Non ne ho idea. I miei uomini sono saliti a bordo su ordine di Chaeron, e ignoro ancora se abbia detto loro di cercare qualcosa di particolare. Da quando è Console di Draconis, molto di quello che fa mi resta incomprensibile. Sto cercando di capire a cosa mira. Mi piacerebbe molto che da questa misteriosa astronave in rientro uscisse qualcosa capace di metterlo nei guai... Sono nel giusto?» Spry annuì pensosamente. «Può darsi. Resta da vedere se i Kerrion saranno abbastanza abili da prevenirlo, cosa di cui però dubito. Perché non accetti l'invito di Parma?» Il giovanotto sorrise. «Potrebbe essere il nostro ultimo pasto decente.»
Baldwin lo fissò a occhi socchiusi. «David, vorrei vederti più preoccupato, sul serio. Senti, se c'è qualcosa che io passa fare per te...» «Una cosa c'è: tieni pronto al decollo il Bucephalus. E non recitarmi le preghiere dei defunti finché respiro ancora. Male che vada, ho ancora una carta da giocare.» «Potrebbero non darti neanche il modo di metterla in tavola. Dannazione, David! A volte mi chiedo perché mi sono lasciato trascinare da te in questa faccenda!» «Sorridi, Baldy. Qualche giornalista curioso potrebbe chiedersi perché mai il Direttore della Softa ha una faccia da funerale.» L'uomo controllò con un'occhiata che i piloti continuassero a fungere da muro vivente fra loro e gli altri. «In quarantacinque anni di lavoro non ho mai avuto nulla da rimproverare a me stesso. E ora tu... Bah!» L'uomo tacque, accorgendosi che dal veicolo con lo stemma dei Kerrion il segretario di Parma faceva ampi gesti nella loro direzione. «Ti stanno chiamando, David: Ti augurerei buon appetito, se non vedessi che stai entrando nella trappola per mangiare il formaggio.» Lui gli strinse la mano. «Fai gli scongiuri, amico. Ma niente paura: le cose non sono gravi come sembrano. Almeno... non ancora.» In quel momento, all'interno del lussuoso ufficio mobile, Parma stava facendo ogni sforzo per trattenere un'esplosione di rabbia. Il suo sguardo saettava dalla gente fuori dal finestrone di cristallo alla faccia impassibile di Chaeron. «Io ho invitato Spry a pranzo. E l'ho invitato apposta perché non voglio che sia arrestato. È chiaro?» esclamò. «Ma Signore, non è mai stata mia intenzione metterlo agli arresti,» replicò seraficamente il giovanotto. «Ah, no? Ma giurerei che gli scagnozzi che gli hai piazzato attorno gli abbiano fatto credere proprio il contrario. Cosa ti passa per la testa, allora?» «Diciamo che volevo soltanto innervosirlo un po'.» «Ma che fine stratega abbiamo! Chaeron, se credi di poter giocare strani giochetti sul mio terreno, vuol dire che i sogni di grandezza di tua madre Ashera ti hanno contagiato di brutto. Attento a non svegliarti con le mani nel vaso da notte, ragazzo!» «Posso dire una cosa, Signore?» Seduto di traverso sul bordo della scrivania, Chaeron inarcò un sopracciglio con ostentata calma. «Sentiamo questa cosa.»
«Grazie, signore. Shebat ed io ci siamo sposati.» «Cosa?» La testa di Parma ruotò verso la ragazza con uno scatto così violento che ella fece un passo indietro. «Sposata con Chaeron! Così è per questo che oggi hai dipinta sul tuo grazioso visetto un'espressione docile e sottomessa. Me ne stavo giusto chiedendo il perché. Sembra che il mio maledetto destino sia quello di avere figli, carnali o adottivi, il cui unico passatempo è di provare sulla mia pelle l'acutezza dei loro piccoli artigli!» «Padre!», protestò lei a occhi bassi. «Più tardi ti degnerai di farmi un resoconto delle tue disavventure, voglio sperare. Adesso rispondi solo a una domanda. E brevemente, perché il nostro ospite sta per salire a bordo.» Senza distorgliere gli occhi da Shebat il vecchio fece tacere con un gesto Chaeron, la cui obiezione era che vi fosse un altro argomento da discutere con molta più urgenza. «Esigo la più assoluta sincerità, bambina: sei stata costretta a sposarti, oppure si è trattato di una tua libera scelta?» La fanciulla non rispose subito, e quella sua pausa d'incertezza bastò a Parma per trafiggere Chaeron con un'occhiata accusatrice penetrante come un bisturi, «La verità!», la incitò. «È stata una mia scelta,» mormorò lei, sforzandosi di apparire pacata e convincente. Dalla grossa finestra i tre videro Spry che si stava avvicinando. Il giovanotto salì a bordo, restando però nella vasta cabina anteriore insieme alla scorta, e da un interfono il conducente annunciò la partenza. Da lì a poco il pesante veicolo girò sulla rampa e raggiunse l'uscita per il primo livello. Una luce lampeggiò sulla scrivania, e Parma sfiorò un pulsante per avere la comunicazione. Il messaggio che gli fu inviato proveniva da un computer ed era telepatico, e per qualche istante la sua faccia perse ogni espressione. Shebat capì che anche Chaeron doveva avere il codice chiave mentale per quel genere di contatto riservato, perché ebbe l'aria di ascoltare con la stessa attenzione. Ma ad un tratto la ragazza non resistette più. «Col vostro permesso, padre vorrei andare a salutare David. Resterò a fargli compagnia mentre voi due discutete di me. Non me la sento di... di ascoltare, ecco.» Parma le accennò di aspettare un momento, incuriosito dal suo tono. «Di ascoltare cosa?» chiese gentilmente. Aveva ora la netta impressione che la ragazza fosse spaventata o a disagio. «Di ascoltare Chaeron. Lui vi dirà tutto ciò che c'è da sapere su quel che ho fatto in questi mesi, ne sono sicura. E vi prego, risparmiatemi il vostro
stupore e... e ciò che penserete di me.» La ragazza allungò una mano alle sue spalle e sfiorò la placca della porta, che ubbidiente si aprì. Mentre Shebat entrava nella cabina di guida, Parma ebbe una rapida visione delle guardie del corpo sedute alle spalle del conducente e di David Spry, che in piedi fissava la fanciulla con l'aria di non essere troppo lieto di rivederla. Ciò lo sorprese. Poi la porta si richiuse, e nell'ufficio risuonarono soltanto i colpetti delle unghie di Chaeron che ticchettavano su una consolle. «Sto aspettando che tu parli, figliolo.» Il giovane incrociò le ginocchia pigramente. «Devo farvi una narrazione dettagliata, o vi basta un resoconto in cento parole?» «Chaeron, tu non immagini neppure quanto sei vicino a tornartene dritto filato su Lorelie,» lo avvertì il vecchio. «Cosa hai fatto alla ragazza?» «Di che ragazza parlate, signore? Di Shebat Alexandra Kerrion? Di Sheba Spry, duplice assassina, apprendista pilota dalle colonie di Pegaso? Oppure di Aba Cronin, Danzatrice del Sogno e sospetta rivoluzionaria, autrice di una Danza apertamente sovversiva? È tutto nel mio rapporto, particolare per particolare.» La faccia di Parma era diventata grigia: «Continua,» disse in un sussurro. «Ho impiegato mesi per rintracciarla, Signore. La ragazza ha ottenuto documenti falsi e nuovi codici di accesso alla banca dei dati. Sotto l'identità di Aba Cronin ha vissuto e lavorato come Danzatrice del Sogno, protetta da numerosi complici. Nello stesso tempo ha completato un corso di studio per prendere la patente di pilota col nome di Sheba Spry, sorella fasulla di David Spry.» Chaeron si strinse nelle spalle con un sorrisetto, come divertito dalle marachelle di una ragazzina scapestrata. «Guarda che non sono in vena di sentirmi raccontare favole,» sbottò Parma, incredulo. «Favole? Padre, se avete questo pregiudizio su di me, rischiate di perdere il mio rispetto.» «E tu rischi di perdere tutto. Spiegati meglio, e in fretta.» Il giovanotto sospirò. «Prima di tutto sia chiaro che ho sempre agito tenendo presenti i migliori interessi della nostra Famiglia.» «E cosa diavolo hai fatto?» «Ho ripulito la casa dei Danzatori del Sogno al settimo livello. Questi personaggi sono ora in attesa d'essere sterilizzati e deportati al Confine, come tutti i malviventi. Ne ho lasciata fuori una sola, una Danzatrice del
Sogno che è a conoscenza dell'opera di Aba Cronin, con lo scopo di farla esaminare personalmente da voi. Così potrete rendervi conto di quanto fosse socialmente pericolosa la Danza creata da Shebat. Prima di far chiudere il locale mi sono recato là io stesso e ho portato via Shebat, e inoltre ho insabbiato un'inchiesta della polizia relativa a due cadaveri, tutto ciò per tutelare la ragazza ma anche e soprattutto la nostra reputazione. È ovvio che con le elezioni così vicine voi avreste subito un danno fatale, se si fosse saputo che la vostra figlia adottiva era pesantemente responsabile di attività illegali e antisociali.» «E stai dicendo di aver scongiurato questo pericolo?» «Potete accertarvene comparando le proiezioni preelettorali della settimana scorsa e di questa. L'intera operazione è stata portata a termine all'insegna della riservatezza più assoluta. Neppure i miei uomini sapevano cosa stavano facendo.» «Va bene, ti credo.» Parma si massaggiò la mascella. «È una fortuna che le elezioni ci siano solo ogni vent'anni. Uhm... Non posso dire d'essere elettrizzato dal tuo comportamento, ma devo riconoscere che hai agito con acume inaspettato. Lo terrò presente, in futuro.» «Vorrei che lo teneste presente adesso, piuttosto.» «Però è chiaro che hai sfruttato la situazione per forzare la mano a Shebat. Ti illudi, se pensi che la ragazza sia una marionetta e che la si possa manovrare senza conseguenze.» Parma non era affatto felice di quell'improvviso matrimonio, e dalla faccia di Shebat non aveva difficoltà a dedurre che neppure lei lo fosse. Stava cercando di dirsi che da un punto di vista umano al figlio poteva essere attribuita qualche giustificazione per aver agito così con lei, quando le parole di Chaeron gli fecero cambiare parere: «Non è per causa mia se Shebat è così abbattuta, ma per la paura: ha paura di voi e di ciò che potreste fare. Dopotutto ha infranto molte leggi. Se ha accettato di sposarmi è stato anche per mettersi al riparo dalla vostra giustizia, Signore.» Parma Alexander Kerrion gli piantò in faccia due occhi arrossati dall'ira, battendo un pugno sulla scrivania con tale forza da farlo sussultare. «Chaeron, potrei essere costretto a chiederti di far annullare il matrimonio. Prenderò una decisione in questo senso stasera o domani.» Per un attimo il giovanotto divenne rigido come una statua, e stentò a parlare. «Non vorrete forse... incriminare Shebat? Ma tutta la sua colpa si riduce a errori di giudizio, e a un'incomprensione sorta fra lei e noi.» L'e-
spressione di Parma gli fece scivolare un brivido di gelo nella schiena. «No, padre, questo non lo accetto! Toglietele pure la cittadinanza, i suoi privilegi di Primogenita o tutto quello che volete, ma io non la lascerò nelle vostre mani!» «Tu continui a fare lo sbaglio di credermi un imbecille.» In quel momento una spia rossa prese a lampeggiare freneticamente sulla scrivania, accompagnata da un cicalino. Il vecchio patriarca distolse lo sguardo dal figlio e fece scattare un interruttore, consentendo che il computer gli inoltrasse la comunicazione urgente. Un istante dopo Parma e Chaeron dimenticarono le loro divergenze, nell'apprendere che Marada si trovava a pochi milioni di chilometri da Draconis. Il giovanotto si stava avvicinando a bordo del suo astrocruiser e in tandem con un altro senza pilota, cosicché gli si prospettava una situazione di manovra che avrebbe richiesto tutte le sue capacità e la massima assistenza da parte della torre di controllo. E con Marada si avvicinavano anche preoccupanti interrogativi e fatti senza dubbio poco piacevoli: cosa stava facendo? E perché aveva abbandonato sua moglie e il suo posto su Shechem? Parma si sentì disposto a scommettere qualunque cosa che il suo secondogenito gli stava piantando un altro pugnale nella carne. «Sedetevi,» ordinò Chaeron, accennando a due delle poltrone nel soggiorno del suo appartamento. Shebat ubbidì, cercando di assumere una posa rilassata. Stringendosi nelle spalle David Spry sedette sull'altra. La ragazza non aveva ancora avuto la possibilità di parlare con lui liberamente, e sia sul veicolo che al pranzo ufficiale aveva dovuto limitarsi a uno scambio di convenevoli superficiali. Ma approfittando di un momento in cui nessuno la guardava era riuscita a chiedergli scusa in un sussurro, e Spry le aveva accarezzato una mano con un sospiro e un sorrisetto triste. Questo le aveva se non altro consentito di capire che il pilota non ce l'aveva con lei, e tuttavia poteva anche significare che egli non aveva ancora afferrato la reale gravità della situazione. Adesso, al pensiero di ciò che Chaeron gli andava preparando, il senso di colpa la opprimeva sempre più. Il Console li stava esaminando entrambi con faccia imperscrutabile. «Qui possiamo parlare tranquillamente,» assicurò loro. Le porte dell'appartamento erano chiuse, ma quell'intimità riusciva solo a far sentire Shebat sui carboni ardenti,e se avesse osato avrebbe voluto mettere Spry sull'avviso con un gesto o una parola. La voce del pilota ebbe
però un tono quasi spavaldo, quando interpellò il Console con familiarità addirittura insultante: «Allora, Chaeron, cos'è che vuoi?» «Soltanto darti il benvenuto e bere qualcosa insieme, come si usa con un fedele dipendente,» fu la risposta. «Ci hanno già pensato personaggi abbastanza altolocati da soddisfare la mia vanità. Ti informo subito che ho obblighi precisi con la mia Associazione e col mio datore di lavoro. Non mi va di lasciarmi corrompere, se è questo che mediti.» L'altro sorrise. «Molto nobile da parte tua, specialmente quando vite innocenti dipendono da te. O meglio, dal tuo spirito di collaborazione.» «A quali innocenti alludi?», s'insospettì Spry. «Forse ho usato il termine sbagliato, perché la persona in oggetto non è precisamente tale.» Chaeron allungò una mano verso un interruttore nascosto sotto il tavolo di legno e cristallo. Dopo qualche istante la porta si aprì, due poliziotti spinsero dentro Lauren, e la bella Danzatrice del Sogno osservò Spry a occhi sbarrati lasciandosi condurre passivamente avanti. Un suo improvviso tentativo di deviare il cammino verso il giovane pilota venne interrotto sul nascere, e curvò le spalle con un singhiozzo. Appariva disfatta. Spry s'era alzato in piedi stringendo i pugni. Fece per avvicinarsi alla ragazza, ma i due agenti si misero di mezzo e lo respinsero. «David, io non...» ansimò Lauren. «Benissimo, così può bastare,» la interruppe Chaeron alzando un braccio. «Adesso riportatela via.» «Un momento!», sbottò Spry, rigido di rabbia. «Cosa vuoi farle!» «Siediti, pilota. Ti suggerisco di mantenere la calma.» Spry esitò, poi rinunciò a cercare d'avvicinarsi a Lauren e tornò indietro. Fermandosi accanto a Shebat le asciugò con la punta di un dito una lacrima che le era scivolata fino al mento. «Non fartene una colpa, bambina,» mormorò. Andò di nuovo a sedersi in poltrona, cupamente, senza seguire con gli occhi l'uscita della Danzatrice del Sogno e dei due poliziotti. Ma Shebat non sapeva darsi pace. La sera prima, quando Chaeron aveva annunciato a Lauren che doveva considerarsi una prigioniera piuttosto che un'ospite del suo palazzo, l'aveva vista scoppiare in lacrime. Nel sentirsi dire quale destino aspettava Harmony e gli altri suoi colleghi Lauren aveva avuto una crisi isterica, e aveva insultato lui e Shebat con voce rotta. E la Danzatrice del Sogno aveva tutte le ragioni per giudicarla ipocrita e tradi-
trice, fu costretta a riconoscere la fanciulla. Il perdono di David Spry era il solo raggio di luce, nel buio che l'aveva avvolta da quando aveva seguito Chaeron in quel palazzo. Ma ora anch'egli era nelle mani del Console Kerrion. Spry sembrava aver accettato spassionatamente quel fatto. «Che cosa vuoi da me, di preciso? O meglio, cosa vuoi in cambio di Lauren? Me stesso? La trattieni in arresto con un'accusa specifica, oppure ne stai ancora cercando una?» «Da te non voglio nulla, salvo che tu resti a mia completa disposizione. Potrei avere delle domande da farti, di volta in volta. Io sono più interessato a prevenire gli atti sovversivi volti contro il Consolato, che a punirli. Capisci? Per il momento mi limiterò a far trattenere Lauren come testimone, e se sarà il caso la consegnerò a mio padre. Ho tutto il diritto di farlo. È una Danzatrice del Sogno, no? Per la precisione, è l'unica Danzatrice del Sogno rimasta in tutta Draconis.» «Cosa?» «Hai capito bene. Mi è parso prudente far piazza pulita di tutti loro. Shebat si è fatta molti amici fra quegli elementi, e non volevo rischiare che tramite uno di loro avvertisse te o il tuo stimato Direttore.» Spry ebbe una smorfia sprezzante. «Cosa non saresti disposto a fare pur di comprarti la carica di Console!» «Questo è solo uno dei miei interessi. Spero che tu sia ragionevole, Spry. Non costringermi a sgradevoli minacce.» «E va bene, sarò ragionevole. Ma collaborare con te può costarmi caro, e voglio un incentivo. In quanto a Lauren... be', la ragazza sapeva a cosa andava incontro, dopotutto.» Chaeron rise piano. «Un atteggiamento che apprezzo. Molto bene. Che genere di incentivo ti aspetti?» «Il Bucephalus,» sparò lui. «Non sei disposto a consolarti con poco, vedo. Ma anche se ti giudicassi meritevole di un prezzo così elevato, non sarebbe una cosa legale.» «Voi Kerrion fate le leggi a vostra misura. Cambiale.» «Supponiamo che mio padre...» «Parma non vorrebbe mai,» lo interruppe Shebat. «Tu stai seduta e taci. Se vorrò la tua opinione te la chiederò.» Chaeron schioccò le dita. «Mio padre non rinuncerà alla sua astronave finché vive, è vero. Potrei fare una cosa simile fra qualche anno, ma non ora. Chiedimi qualcos'altro.»
Spry studiò la maschera da commediante che il giovane Console esibiva. Era sicuro che dietro di essa celasse un enorme autocompiacimento per come dominava la situazione. «Allora lascia libera Shebat. Dalle un salvacondotto perché possa andare a vivere dovunque preferirà.» Chaeron lo guardò con stupore.» Ma non ti hanno ancora detto che l'ho sposata? Però... come siamo altruistici, pilota! Sono impressionato.» «Lo immagino. Evidentemente la lealtà non è fra le materie di studio che formano un giovane Kerrion. Scusa se ti insulto.» «Non mi insulti affatto. È chiaro che noi diamo al termine lealtà significati diversi, a seconda delle nostre convinzioni.» «In tal caso,» stabilì Spry, alzandosi, «non abbiamo altro da dirci. Puoi farmi arrestare subito o quando vuoi. I tuoi uomini potranno trovarmi alla sede dell'Associazione Piloti, dove alloggio.» «Stai seduto.» Chaeron attese di vederlo ubbidire, poi: «Shebat, sarà bene che tu dica al nostro amico se sei felice d'essere mia moglie.» Lei alzò le spalle. «Lo sono.» «Questo mi fa star meglio,» esclamò Spry. «E visto che siamo tutti lieti e satolli, propongo di tirare avanti come se niente si fosse mai introdotto nella nostra bella amicizia. Tu farai il Console, io farò il bravo pilota del padre del Console, e Shebat sarà la giovane e affascinante signora che fa gli occhi dolci all'istruttore mentre prende la patente di pilotaggio. Magari ti degnerai anche di regalarmi Lauren, quando ti sarai stancato di sogghignarle in faccia attraverso le sbarre della cella.» «Fammi capire, Spry: è questo che chiedi?» «Non sono nella posizione di poter chiedere di più. Comunque mi hai convinto. Nel frattempo mi impegno di non agire in alcun modo ai danni di tuo padre, che oltre al contratto di lavoro ha anche tutto il mio rispetto.» L'atteggiamento di Spry rincuorò molto Shebat, che sebbene non avesse afferrato a fondo i propositi dei due uomini sospirò di sollievo. Quando poco dopo Chaeron le diede il permesso di accompagnare David fino all'uscita ne fu così sorpresa che riuscì perfino a sorridergli. Nel corridoio esterno cercò per due volte di rivolgere la parola al pilota, e per due volte egli la zittì con un cenno impercettibile. Ma sul portale ella si sentì chiedere in tono discorsivo di scendere con lui fino a uno dei mezzi pubblici parcheggiati sul viale, e acconsentì, silenziosa e rossa in viso. Lungo la scalinata Spry disse: «Voglio che tu prenda la patente e faccia il giuramento all'Associazione, ovviamente col tuo vero nome. Penserò io ai documenti. Ho abbastanza influenza per farteli avere di nuovo.»
«Mi resta soltanto l'esame di volo.» «Benissimo. Allora farò in modo di essere io il tuo esaminatore. E darai Tesarne sul Bucephalus, visto che il Marada ufficialmente risulta disperso. Mi basteranno un paio di giorni.» Si volse a fissarla. «Ti va bene dopodomani?» «Sì. Come vuoi tu, Softa,» promise lei, seguendolo fra i veicoli alla ricerca di uno libero. Spry si fermò ad aprire il portello di uno sul cui cruscotto una luce verde rivelava che non attendeva i suoi precedenti passeggeri. «Adesso è meglio che tu rientri.» Sospirò. «Detesto il pensiero di saperti in compagnia di quel serpente ritto sorrisi.» «Non è malvagio come puoi pensare. Ma ora mi chiedo come farò ad affrontare Marada. Io...» Ingoiò una lacrima improvvisa, poi scostò il viso per evitare una carezza di lui. «Credi che stia bene? Credi che ce la farà a rientrare, con due astronavi?» «Non vedo perché no. L'unico elemento d'incertezza sta nella perfezione tecnica dell'altra astronave. Ma non prevedo difficoltà.» «Potrò andare anch'io all'astroporto?» «Se tuo marito il signor Console ti darà il suo grazioso consenso.» «Softa, tu pensi che io ti abbia venduto. Non è così.» «Per le stelle, controllati? Ci guardano,» sussurrò lui. «No che non lo penso, sciocca. Anzi mi spiace non aver potuto prendermi più cura di te.» David Spry la salutò e fece partire il veicolo. Nel rientrare, i pensieri di Shebat tornarono a Chaeron, e soprattutto al comportamento che aveva mostrato in quei giorni. Era stupita, e dovette riflettere che il giovanotto era cambiato moltissimo rispetto alla fatua nullità che era stato su Lorelie: che Parma se ne fosse accorto o meno, il suo terzogenito cominciava ad assomigliargli sempre più. Capitolo 12 L'astrocruiser Marada era assai riluttante a lasciare che l'umano Marada se ne andasse. Era stato solo così a lungo, e la parte di Shebat che era in lui proclamava che quel giovanotto era più desiderabile e simpatico di qualsiasi altro. Tuttavia sapeva che ciò era necessario per ritrovare la fanciulla la cui lontananza lo faceva soffrire. C'erano molte cose che l'astrocruiser voleva imparare, da lui e su di lui, così egli sfruttò il tempo in cui egli fu a contatto della sua mente per pene-
trare a fondo in lui, più a fondo di quanto una normale astronave sarebbe riuscita a fare, e cercò di modellare la propria personalità sulla sua. Era sicuro che questo avrebbe compiaciuto molto Shebat, quando ella sarebbe tornata a bordo. Il Marada fu però costretto a notare che la psiche del suo omonimo era terribilmente complessa, travagliata da schemi di comportamento ai quali l'uomo non si poteva adeguare. Era una personalità in continua lotta con sé stessa, con la sua società e con coloro che amava, alla perpetua ricerca di un equilibrio ma che si sentiva viva grazie all'assenza di un vero equilibrio. I paradossi che erano in lui sconcertarono l'astrocruiser, che provò il desiderio di riflettere con più calma su trame mentali così difficili da capire. Un altro dei motivi per cui non si oppose alla richiesta di Marada, allorché egli decise di tornare alla sua astronave, fu proprio la presenza di questa. L'Hassid era un nuovo e importante elemento su cui il Marada desiderava riflettere. Durante il loro scambio di comunicazioni via etere ne era stato colpito, e aveva avvertito in quella creatura qualcosa di diverso e attraente. Era una psiche semplice, ciò gli era apparso chiaro e anche sorprendente allorché l'aveva paragonato con sé stesso, e malgrado questo gli piaceva molto più del Bucephalus e di altri cervelli artificiali da lui incontrati fin'allora. L'Hassid gli dava un'emozione che... Con una sorta di brivido elettronico il Marada cercò di scacciare quei pensieri malati: l'Hassid non era un essere vivente, così come non lo era lui. Di conseguenza sarebbe stato assurdo scoprirsi a provare per lui sentimenti che erano una caratteristica esclusiva degli umani. Amore e desiderio erano follia per un'astronave, disse a sé stesso con forza. Del resto non conosceva neppure l'esatto significato di quelle parole. Tutti i dati in suo possesso gli dicevano che il cervello di un'astrocruiser aveva dei limiti, e che lui li aveva superati. Il motivo di ciò gli era ignoto. Era conscio che adesso in lui si mescolavano ben quattro diverse personalità: la conoscenza Shebat, la conoscenza Spry, la conoscenza Marada, e quella del giovane pilota che l'aveva guidato ai limiti della Confederazione. Nessuna astronave era mai stata capace di sostenere tante influenze contemporaneamente, e si chiese se quei nuovi strani impulsi che provava per l'Hassid non fossero una conseguenza di ciò. Un fatto era comunque certo: l'Hassid era vicino e accessibile, mentre Shebat non lo era. Così il Marada fu ben lieto di seguirlo e di continuare a comunicare con lui. Le due astronavi accelerarono nel vuoto scostandosi dall'orbita degli asteroidi, e volando a velocità planetaria si diressero verso
l'interno del sistema. Contrariamente al timore che aveva letto nella mente del giovanotto suo omonimo, il Marada sapeva di non avere la minima difficoltà a manovrare senza pilota a bordo: ben altre erano le cose che aveva scoperto di poter fare di sua iniziativa. Il fatto di riuscire a modificare gli ordini che un umano programmava in lui era una di quelle cose. I dati in suo possesso gli rivelavano che un uomo non avrebbe creduto a quella facoltà, però la possedeva. Adesso in lui c'erano le memorie e l'esperienza di ben tre esperti piloti, e aveva scoperto di potersi programmare da solo. Per il momento sì accontentava di tener dietro all'Hassid. Ma un altro fatto egli aveva appreso da Marada: la necessità di agire con cautela e di ricorrere a sotterfugi per celare le sue capacità, perché gli umani tendevano ad aver paura di ciò che era diverso o incomprensibile. Ed essi distruggevano ciò che temevano. Il Marada non desiderava divenire il bersaglio della paura degli umani: le conseguenze sarebbero state quelle che aveva letto nella mente del suo omonimo. Non voleva neppure sconcertare l'Hassid con manovre troppo individualizzate, cosicché ubbidì alla lettera ogni singolo dato di rotta trasmessogli dall'altra astronave e le tenne dietro fino al pianeta-ancora di Draconis, fra le piccole stazioni orbitali e le piattaforme secondarie. Poi fu la torre di controllo a inviargli le istruzioni per l'avvicinamento. Il Marada sapeva che si stava avvicinando a Shebat, o quantomeno a una fonte di dati da cui avrebbe avuto notizie di lei, e come scopo gli bastava quello. Il Bucephalus giaceva sulla pista di atterraggio in uno stato mentale a metà fra la depressione e la sofferenza, mentre una torma di umani a lui sconosciuti frugava nelle sue viscere. Non era stato spento del tutto per quell'occasione, ma piuttosto di venir esplorato e vivisezionato nei suoi circuiti più intimi avrebbe preferito il sonno comatoso che gli dava l'essere spento. Se quei tecnici non avessero trovato in lui nulla di storto, rifletté, non sarebbe stato perché non ce l'avevano messa tutta. Ma dov'era andato David Spry? Quando il suo compagno umano si era allontanato, aveva captato in lui una paura così rigida e intensa che per riflesso s'era spaventato anch'esso. Il Bucephalus avrebbe ora desiderato che tornasse a bordo quanto prima, per cacciar fuori tutti quegli antipatici individui e le loro apparecchiature, le cui fredde dita elettroniche gli si insinuavano nella mente. Vibrando di sensazioni spiacevolissime l'astronave protese le sue sonde psichiche più che poteva, alla ricerca del contatto
telepatico col suo pilota. In quello stesso momento, seduto nel vastissimo ufficio del Direttore della Softa, David Spry ebbe un ansito e poggiò i pugni sulla scrivania di cristallo, ripiegando le spalle come se su di lui si fosse abbattuto un terribile dolore fisico. Nel vederlo stringere i denti, con la fronte imperlata d'improvviso sudore, Baldwin si alzò in fretta e aggirò la scrivania. Preoccupato gli appoggiò una mano su una spalla. «David! Che succede?» Prima di rispondere il giovanotto deglutì saliva più volte. I suoi occhi erano sbarrati nel vuoto. «Il Bucephalus!» sussurrò. «Per favore fateli smettere!» Baldwin fu costretto ad afferrargli i polsi per impedire che si spaccasse le dita sull'orlo aguzzo della scrivania. Poi si volse a Valery Stang, che in piedi presso una finestra guardava in un salone sottostante. «Valery, manda tutti fuori dal Bucephalus. Occupati di rifornire l'astronave e preparala per il volo. Domattina alle undici dovrà uscire nello spazio per l'esame di Shebat Kerrion.» Valery Stang si avviò alla porta, ma sulla soglia si fermò. La possibilità che la sconosciuta astronave in arrivo con l'Hassid fosse il Marada - cosa che avrebbe provocato conseguenze ben più estese del solo arresto di Spry da parte della polizia - era stata discussa a lungo. Evidentemente il collasso di Spry aveva ora convinto Baldwin a seguire la linea di condotta proposta poco prima dal giovanotto. «So quel che faccio,» gli disse il Direttore, tenendo un braccio attorno alle spalle di Spry. «Non preoccuparti. A lui penso io.» Ma Stang dubitava molto che Badlwin avrebbe potuto fare qualcosa per Spry senza infrangere la legge e finire nei guai lui stesso, visto che al giovanotto si prospettava ormai la certezza di perdere l'astronave. Anche a lui era capitato, e ben due volte, di vedersi distrutta l'astronave con cui era in sintonia telepatica in incidenti di volo ai confini della Confederazione. E pur essendone uscito vivo non aveva dimenticato l'allucinante senso di vuoto-solitudine che ne era conseguito. Il rapporto empatico fra pilota e astronave era il motivo di base per cui essi erano costretti a riunirsi in un'Associazione, visto che i velivoli spaziali erano proprietà di singole Famiglie o di grandi Compagnie. La loro situazione era quella di un uomo la cui anima appartenesse a qualcuno che poteva levargliela a suo piacimento. Il legame di Spry col Bucephalus era più intenso di quanto fosse
desiderabile, e Stang si chiese cosa gli preparasse il futuro. Escluso dalla Softa e dal suo Bucephalus, Spry sarebbe stato un uomo finito, un fuggiasco, un relitto forse destinato al suicidio. Mettendo da parte quei pensieri, che in fondo non riguardavano lui, Valery Stang scese al pianterreno e attraversò gli affollati saloni dell'Associazione fino alle grandi vetrate che davano sulla strada. Quando uscì in cerca di un veicolo stava già fischiettando fra sé. Continuò a fischiettare per tutto il percorso fino all'astroporto, dove una ventina di grosse astronavi quasi tutte dei Kerrion stavano scaricando merci sulle banchine. Dopo aver comunicato ai colleghi piloti l'ordine di lasciare il Bucephalus, andò all'ufficio approvvigionamenti e provvide a rifornire l'astronave di viveri e carburante. Attese che gli inservienti delle pulizie sostituissero la biancheria sporca e gli oggetti da toeletta usati, e prima di uscire mise un blocco alla serratura del portello di prua in modo che apparisse chiuso a chi lo osservava dall'esterno. Fu così che quella notte un giovanotto snello e rosso di capelli giunse con aria noncurante fra i moli semideserti, si guardò attorno un attimo e poi salì svelto a bordo. Il giovane sedette in plancia e con tutta calma introdusse nei programmi di volo del Bucephalus alcuni dati nuovi, che gli erano stati fatti imparare a memoria ma di cui neppure lui conosceva il significato. Quando ebbe eseguito gli ordini impartitigli da Valery Stang, Julian non scese a terra come avrebbe dovuto fare. Era stanco di sentirsi dire continuamente di far questo o quello, stanco della vita monotona di Draconis, e provava un bisogno quasi fisico di qualcosa che fosse più eccitante e avventuroso. La plancia del Bucephalus lo faceva sognare, e avrebbe desiderato pilotarlo a immensa velocità nel cosmo libero e senza confini. Inoltre in quel momento era esausto, cosicché rimase seduto con le mani sui comandi scintillanti. Gli sovvenne che il mattino successivo Marada sarebbe tornato a Draconis, e al pensiero delle sue arie da fratello maggiore e da esperto pilota sbuffò fra sé. Julian aveva intuito che Marada si portava dietro qualche novità, o forse qualche guaio, ma naturalmente nessuno s'era preso la briga di parlarne con lui. Marada, rifletté, non aveva alcun senso della famiglia. Gli piaceva starsene per conto suo, senza mai confidarsi coi parenti, e non provava nessun affetto per Parma, al quale Julian avrebbe dato perfino il sangue se egli lo avesse chiesto. Ma Parma non gli aveva mai chiesto proprio niente, perché
lui era figlio della gelida Ashera e non della sua amata e da lungo tempo defunta Persephone. Parma amava Marada, ecco la stupida verità. A dispetto dei dispiaceri che lui gli dava, e a dispetto di sé stesso, lo aveva sempre amato. E c'era da dubitare che ricordasse d'avere un figlio di nome Julian. Certo, ogni suo compleanno gli faceva arrivare gli auguri e un regalo... o meglio il suo segretario si occupava di quelle formalità dopo esserne stato avvisato da un computer. Valery Stang, invece, e quelli che agivano con lui, lo avevano accolto fra loro senza fargli pesare la sua giovane età e la scarsa esperienza di vita. Se i loro obiettivi fossero stati raggiunti, per rivoluzionari o meno che fossero, Julian sarebbe diventato un pilota o cos'altro gli sarebbe piaciuto, senza odiosi legami con la politica di famiglia. Nemmeno Parma aveva il diritto di proibirgli una vita libera e avventurosa. E fino ad allora egli li aveva aiutati facendo la sua parte meglio che poteva. Anzi, si disse, avrebbe fatto perfino più di quanto gli chiedevano, perché era un uomo adulto e intendeva dimostrarlo a chi ancora ne dubitasse. Andò nella lussuosa cabina di suo padre e si gettò sul letto, senza neanche togliersi le scarpe: fare un sonnellino a bordo di una bella e potente astronave era assai meglio che tornarsene a dormire a casa sua. Se il Consolato fosse stato un po' meno preda dell'agitazione che il mattino dopo coinvolse tutti, forse qualcuno si sarebbe preoccupato di chiedersi dov'era finito Julian. Ma nessuno si pose quell'interrogativo. Le due astronavi, il Marada e l'Hassid, attraccarono a Draconis entrando in due piste contigue senza alcuna delle difficoltà previste. Ad attendere sul Molo Tredici c'era Parma Kerrion, e fu direttamente da lui che Marada andò appena sceso dalla scaletta. Dietro al Console Generale stavano Baldwin, Valery Stang e David Spry, oltre alla solita schiera di tecnici e funzionari. Ma tutti costoro vennero ignorati dal giovanotto, cui l'espressione del padre non prometteva nulla di buono. Senza neanche salutarlo esordì: «Il bambino di Madel è nato con un gravissimo difetto cerebrale. Ignoro perfino se vivrà più di qualche giorno. Sono letteralmente stato costretto a fuggire. E l'ho scampata per un capello, perché quel porco di Labaya mi ha fatto sparare addosso. Guardate la poppa dell'Hassid: mezza fusa dai loro laser!» «Che cosa?», ansimò Parma sbigottito, mentre alle sue spalle Spry prendeva per un polso Shebat e la conduceva fuori dal gruppo dei presenti. «Mi avete sentito, padre.» Marada si piazzò le mani sui fianchi, volgendogli attorno uno sguardo duro. «Fate allontanare quei giornalisti, e man-
date via i tecnici. Non voglio che qualcuno salga sulle due astronavi. È necessario che voi e il Direttore Baldwin, e anche Chaeron, mi seguiate a bordo dell'Hassid. Devo parlarvi con urgenza. E mettete un cordone di agenti intorno a questi due moli. Subito, per favore!» Indietreggiando fra la gente Shebat udì le sue parole e trattenne il respiro per l'emozione. Lo sguardo di Marada era passato su di lei come se non l'avesse riconosciuta, e la fanciulla s'era sentita balzare il cuore in petto con violenza. Avrebbe voluto correre da lui e abbracciarlo, ma i suoi occhi freddi e insensibili l'avevano come paralizzata. Udì Spry che le diceva di seguirlo, allontanandosi, poi un paio di individui alti si misero di mezzo, ostruendole la visuale, e solo allora ella ritrovò il fiato per mandare un ansito. «Fate come vi ha detto?», udì Parma ordinare ai funzionari di polizia. «Baldwin, Chaeron, venite con me.» Mentre teneva dietro a Spry verso il Bucephalus, Shebat seppe solo pensare: non mi ha neppure riconosciuta! Ciecamente girò sul marciapiede che univa i moli, passando dietro la poppa delle astronavi. L'Hassid occupava il Molo Tredici, il Bucephalus era invece stato spostato per l'occasione al Quindici, quello una volta riservato a lei, in modo che le due astronavi appena arrivate in tandem entrassero nelle grandi camere stagne senza problemi, ma non le vide quasi: nei suoi occhi c'era ancora il volto di Marada, lo sguardo che le era scivolato sopra senza identificarla, e questo la sconvolgeva tanto che andò a urtare nella schiena di un pilota. L'uomo si volse subito. «Ah, Shebat! Buongiorno. Puoi dare il tuo esame di volo sul Marada, se vuoi. Domani nessuno farà obiezioni se usi la tua astronave, o forse stasera stessa.» Alzando gli occhi s'accorse che a rivolgersi a lei era Valery Stang, e il sussulto che ebbe nel ritrovarselo davanti le impedì di afferrare subito il senso delle sue parole. «Stammi lontano, tu!» esclamò, indignatissima. «Carogna! Maiale! Dopo quello che mi hai fatto, io ti...» Ma la voce le si bloccò quando poté vedere oltre una spalla di Stang la seconda delle due astronavi, quella ormeggiata al Molo Quattordici. Il suo primo impulso fu di correre al portello e far abbassare la scaletta per entrare, e avrebbe osato farlo anche malgrado la presenza degli agenti che stavano già stendendosi a cordone intorno ai due astrocruiser. Avrebbe perfino spinto da parte Stang per passare a viva forza fra quegli uomini, se non avesse udito Marada ordinare che nessuno salisse a bordo. Poi la pro-
posta di Stang le fece stringere le palpebre, insospettita. «E perché vuoi che io dia l'esame sul Marada? A che gioco stai giocando, Valery?» L'altro le sorrise con inaspettata simpatia, grattandosi la punta del naso con un dito. «L'altra sera ero ubriaco, Shebat. Se tu potessi accontentarti delle mie scuse, giuro che mi metterei in ginocchio davanti a te qui dove mi trovo.» «Risparmiami i tuoi salamelecchi ipocriti, signor mio!», sbottò lei offesa. Gli volse le spalle e se ne andò in fretta. David Spry l'aveva già preceduta a bordo del Bucephalus. Mentre anch'ella raggiungeva l'astronave, l'angoscia che continuava ad affliggerla al ricordo del comportamento di Marada fu scacciata da una voce familiare che a un tratto le si insinuò nella mente: «Shebat, non vuoi venire da me? Tu mi hai chiamato, ti ho sentita, e ora sono qui. Perché stai andando via?» La fanciulla vacillò per la sorpresa, rischiando d'inciampare sulla scaletta. «Marada!» gridò dentro di sé. «Oh, caro Marada! Adesso non posso venire da te. Più tardi». «Quando, Shebat? Quando? Sono venuto da molto lontano, sai.» Con una mano sul petto come per placare il forte batticuore ella si volse verso l'astrocruiser. Sapeva che almeno una delle sue telecamere esterne la stava inquadrando, e in quel breve contatto mentale aveva sentito l'astronave intensamente protesa verso di lei. Per l'emozione non poté rispondere nulla. Poi ordinò al Marada di attendere un poco, finché ella non fosse pronta a chiacchierare con lui, e salì sull'ammiraglia dei Kerrion. Sui due piedi decise di chiedere a David Spry di rimandare l'esame di volo. Non se la sentiva di impegnarsi in difficili esercizi proprio in quel momento, sebbene una parte di lei le gridasse di andarsene e di allontanarsi da Marada e da tutti i Kerrion. Rivolse quella richiesta al pilota ancor prima di essere arrivata in plancia, ma dal locale non provenne alcuna risposta. Quando entrò vide che Spry era seduto ai comandi e tutto piegato in avanti, lo sguardo fisso a un monitor che inquadrava ciò che stava accadendo sul molo tredici. «Softa, mi hai sentito? Non posso decollare adesso, sono troppo agitata.» Il giovane volse su di lei due occhi inespressivi come pezzi di vetro. «Non puoi decollare, già. E per la stessa ragione che invece obbliga me a farlo subito, finché sono in tempo: quella dannata astronave che ti hanno
regalato i tuoi. Shebat, io non voglio coinvolgerti ancora nei miei guai, ma devo uscire nello spazio, e col Bucephalus. Appena il Console Generale saprà cosa c'è nella memoria del Marada, io sarò un uomo morto.» «Marada non mi ha riconosciuta,» gemette lei, gettandosi a sedere su una delle poltroncine. Reclinò il capo all'indietro e lasciò che le lacrime le riempissero finalmente gli occhi. «Oh, Softa! Mi ha vista... e non mi ha neanche riconosciuta!» «Per tutti gli uragani della galassia! Questo non è proprio il momento per le scene strappalacrime e i cuori infranti. Io... mi dispiace per te, davvero. Però ricorderai che ti avevo avvisata su di lui. Che cosa aspetti che io ti dica, adesso? Sei sposata col suo fratellastro, e hai detto tu stessa d'essere felice. Va bene che le donne hanno il diritto d'essere incomprensibili, ma tu esageri.» Shebat scosse la testa. «Non posso partire,» gemette ancora. «Allora scendi da questa nave.» «Vuoi dire che mi lasci andare?» «E perché non dovrei, maledizione? Restando a Draconis non puoi essere certo un pericolo per me: ora che hanno il Marada ne sapranno abbastanza per incriminarmi. E in quanto alla possibilità di usarti come ostaggio, credo che Parma si metterebbe a ridere all'ipotesi che io possa far del male a te.» Scosse la testa. «Pensa che ironia. Per salvarmi dovrò andare esattamente dove mi spedirebbero loro: fuori dalla Confederazione, al Confine. La sola differenza è che mi porto via un'astronave, e le mie ghiandole seminali intatte.» «Non hai detto che temi d'essere ucciso?» «Certo, se Parma riuscisse ad aggirare la legge. Non è tipo che si accontenta di sterilizzare i suoi nemici. Ma ora vattene, ragazza. Scendi a terra.» «Penso invece che ti convenga portartela con te, Spry,» disse in quel momento una voce alle loro spalle. «Julian!» ansimò Shebat. Spry si accigliò. «Signore del cielo! Che stai facendo qui?» «Sembra che dovrò filarmela anch'io, se è vero che tutto va a rotoli come hai detto.» E con una smorfia più disgustata che preoccupata il ragazzo andò a sedersi sulla terza poltroncina. «Non discuto la tua scelta. Però fra i topi che abbandonano la nave tu sei il solo che potrebbe ancora sperare nella generosità del capitano.» «Con le elezioni così vicine? Parma mi farebbe crocifiggere al tuo fianco,» rispose Julian con calma. «Ascoltami, non vorrei sembrarti un pivello
presuntuoso, ma ho una domanda: perché non porti in tandem il Marada fuori di qui? Gliela faresti sotto il naso, e sarebbe la seconda volta che fai involare quell'astronave da Draconis.» Spry fece udire un mugolio. «Non posso. È la nave di Shebat. Giusto adesso le stavo dicendo che non c'è scopo a portarla con me.» «Con noi,» lo corresse Julian. La fanciulla era così presa dai suoi dispiaceri che quasi non li ascoltava. Scoprire che Julian s'era messo contro la sua famiglia non la sorprendeva troppo, visto che anche lei s'era già macchiata dello stesso reato e poteva capirlo. Piuttosto le si stringeva il cuore al pensiero di Parma, che vedeva i suoi figli mettersi panni da sovversivi e che forse non ne avrebbe mai capito il motivo. Anche per Chaeron si sentiva rammaricata, perché adesso nella sua mente stava mettendo radici l'idea di cercare la sua libertà altrove, come Julian e Spry. «Shebat?» «Sì, Softa. Scusa, ero distratta. Il Marada ci seguirà, se io potrò programmare il decollo da qui. Non posso andarci di persona. Prima di salire a bordo Valery mi ha suggerito di dare l'esame sulla mia nave, ma l'Arbitro...» La voce le si ruppe un istante, nel pronunciare il titolo di lui. «Aveva appena proibito a chiunque di salire sull'Hassid e sul Marada. Però... il Marada mi vuole.» Deglutì saliva, tristemente colpita dalla riflessione che quella creatura artificiale era la sola a desiderarla per lei stessa. «Stai dicendo che vuoi venire anche tu?», si stupì Spry. «Facciamola breve. Sbrigati a dare istruzioni al tuo bel giocattolo,» ringhiò Julian. «E piantala di piagnucolare ogni volta che qualcosa va contro i tuoi stupidi capricci di adolescente. Sei soltanto una ragazzina che non sa quel che vuole.» Scendi dalla mia nave!», sibilò Spry, fulminandolo con lo sguardo. «Spiacente amico, ma non si può. Dimentichi che io so troppe cose. Ora sei tu che fai i capricci, pilota. Ti avverto che stiamo sprecando tempo prezioso. Dobbiamo sparire da qui!» Spry lo fissò, ostile. «Chi è stato a reclutarti?» «È stato Valery,» intervenne Shebat, cambiando tono. «Lui e Valery sono amanti.» Il giovane Kerrion scrollò le spalle. «Proprio così. E visto che tu sei stata l'amante mia e di Valery nello stesso tempo, sono costretto a farti notare che non sei nella posizione di criticare i gusti degli altri. Ora vuoi per favore dare gli ordini alla tua astronave?»
«Signor Kerrion,» lo aggredì Spry. «Se voi volete unirvi a noi, siete pregato di tenere chiusa la vostra boccaccia. Shebat, mettiti al lavoro.» Si volse a un pannello e fece comparire numeri e lettere su un paio di schermi. «Questi sono i dati di rotta. Trasmettili al Marada.» Cinque minuti dopo il giovanotto la premiò con un sorriso, commentando che una programmazione di quel genere era parte di un normale esame di volo. Shebat non ne fu molto consolata. Ebbe appena il tempo di farsi sparire dagli zigomi le tracce delle lacrime, che il Bucephalus accese i motori sollevandosi sui poderosi carrelli antigravità. Poi l'astronave si mosse avanti nel tunnel della camera stagna, e superati i portelloni esterni s'involò libera nello spazio. Quell'improvviso decollo colse di sorpresa tutto il personale dello scalo e destò cori di esclamazioni sui moli. Un tecnico che era stato gettato su un lato della pista restò illeso per miracolo, e la torre di controllo dovette lanciare nell'etere raffiche di contrordini a due navi da carico in rotta di atterraggio. Ma nessuno aveva potuto impedire l'apertura dei portelli della camera stagna, sia perché l'ammiraglia dei Kerrion stessa comandò la manovra con segnali di precedenza, sia perché il suo programma di decollo era già stato inserito nel computer dello scalo. Parma, Chaeron e Marada Kerrion, in conferenza col Direttore Baldwin, avevano dato ordine che per nessuna ragione li si doveva disturbare, e a bordo dell'Hassid non giunse loro alcun indizio di quanto stava accadendo all'esterno. I tecnici della torre di controllo tennero un agitato conciliabolo per stabilire se li si doveva interrompere o meno, scaricando ciascuno sulle spalle dell'altro la responsabilità di quell'iniziativa. Ma non fecero nulla finché il loro orgasmo si mutò in sbalordimento nel vedere che una seconda astronave, il Marada, si alzava anch'essa dalla pista. La loro confusione raggiunse il culmine quando, dall'esterno della piattaforma, il Bucephalus appena uscito dal Molo Quindici usò nuovamente i suoi segnali di precedenza per far aprire i portelloni di fondo al Molo Quattordici. Impotenti ad intervenire dovettero assistere al veloce decollo del Marada, che avvenne senza incidenti solo perché gli impianti di sicurezza collaborarono con elettronica buona volontà. Fu solo allora che si decisero ad avvisare il console generale. Marada usò la radio per mettersi in contatto con le due astronavi e chiedere una spiegazione, ma a rispondergli fu soltanto il Bucephalus, molto brevemente: Shebat Kerrion era uscita con David Spry per il suo esame di
volo, e in quanto al decollo del Marada esso era intervenuto per iniziativa dell'astrocruiser stesso, e forse perché Shebat gli aveva ordinato di seguirla. Ma i sensori dell'Hassid riuscirono a captare che a bordo coi due c'era una terza presenza umana non identificabile, e che la loro rotta di allontanamento era quantomai rapida. Al termine del messaggio radio l'Arbitro fece ruotare la poltroncina verso gli altri due. «Signori, ci hanno presi sul tempo. Desidero ora dichiarare, basandomi sulle prove di cui avete preso visione, che il Direttore Baldwin è non soltanto inadatto a ricoprire oltre le sue mansioni, ma complice dei sovversivi e pesantemente implicato nella fuga di Spry, perché di una fuga si tratta. Come Arbitro è mio preciso dovere raccomandare all'autorità di Draconis che Baldwin sia tenuto in stato di fermo finché le sue responsabilità non saranno chiarite, e quindi sottoposto a giudizio.» Parma Kerrion fece un gesto vago. «Benissimo, Baldy,» brontolò. «Visto che è l'ora di pranzo vattene a casa tua e restaci. Considerati agli arresti domiciliari. Vorrei andarmene a tavola anch'io, se possibile.» Il Direttore della Softa parve ripiegarsi su sé stesso, gli lanciò uno sguardo fra incerto e corrucciato e si mosse verso la porta scuotendo il capo. Dopo che l'uomo fu uscito anche Parma si alzò, e prese a camminare su e giù con le mani dietro la schiena. Chaeron lo osservava col suo solito sorrisetto di circostanza. Marada non aveva rinunciato all'espressione dura con cui aveva accusato Baldwin. Parma si rivolse a lui. «Adesso, se sei dell'umore adatto, vorrei la tua opinione sui fatti che hai scatenato con la tua fuga da Shechem. Ci aspetta una guerra economica o qualcosa di molto peggio?» «Io non ho risposto al fuoco dei loro laser, ho una registrazione che lo dimostra. Ma non posso leggere nella testa di Selim Labaya. E vorrei che moderaste i termini, Signore.» Detto ciò Marada allungò una mano sui comandi e premette un grosso pulsante bianco. Ci fu un rumore di plastica spezzata quando i sigilli di un piccolo scomparto caddero sul pavimento, quindi un supporto scattò all'esterno sorreggendo un cubo cristallino di tre centimetri di lato. In esso era contenuta abbastanza energia da distruggere un pianeta, se la luce che balenava in esso fosse divenuta interamente scarlatta. Era un'arma al servizio dell'uomo che aveva l'autorità legale di possederla, e nello stesso tempo il Cubo di Arbitraggio era un vero e proprio tribunale miniaturizzato. In quel momento emanava un lucore latteo, a indicare che il suo proprietario aveva già dato inizio a un'inchiesta formale.
Una volta attivato il cubo avrebbe dovuto assorbire e vagliare dati, sino a un punto critico chiamato «risolutivo». Nel caso che un Arbitro non riuscisse a condurre in porto un'inchiesta, il cubo restava fisso al livello di colore scarlatto raggiunto con quei dati ancora insufficienti. Per una conclusione di questo genere all'Arbitro veniva attribuita una nota di demerito, e l'inchiesta era affidata a un suo collega presumibilmente più capace. Essendo impossibile influire sui microelementi della memoria sigillata nel Cubo, che sommava e comparava le prove emerse dall'indagine e dava loro un valore legale, Marada aveva adesso l'obbligo di condurre avanti inarrestabilmente l'azione investigativa di cui s'era fatto carico. Chaeron Kerrion commentò l'iniziativa del fratello con un'imprecazione così pittoresca da sembrare neppure oscena, e gli elargì un'occhiata di rovente disprezzo. Anche Parma, dopo un istante di sorpresa, si fece sfuggire una bestemmia. «Una volta tanto sono d'accordo con Chaeron,» sbottò. «Chi credi di essere tu, per fare a meno del mio parere qui, sulla mia piattaforma, nel mio Consolato?» «Sono spiacente, ma questo è il mio dovere,» replicò lui fissando il cubo. Parlando all'oggetto pronunciò con voce chiara la data e l'ora, quindi proseguì: «Introduco una registrazione di dati raccolti dalla memoria dell'astrocruiser Marada. Da essi risulta l'esistenza di un'organizzazione sovversiva all'interno del Consolato di Kerrion, gli scopi della quale sono tutt'ora da chiarire. Ne fanno parte piloti della Softa affiancati presumibilmente da individui esterni alla Confederazione. Non è da escludere che Spry e tutti coloro siano gente del Confine. I dati suddetti siano prelevati dalla memoria dell'astronave Hassid.» Il giovanotto attese qualche istante che il Cubo assorbisse la registrazione dell'astronave, a cui era ancora collegato, quindi lo vide diventare scarlatto per un decimo della sua altezza, segno che quelle informazioni venivano giudicate probanti. Soddisfatto continuò: «Introduco anche il seguente dato: il Direttore Baldwin, esaminata la registrazione adesso agli atti, ha rifiutato in modo palesemente sospetto di considerarla valida.» La frase fece comparire una sottilissima striscia gialla sulla linea rossa, ma questa non aumentò di spessore. «Da un esame della procedura con cui il Bucephalus è stato approntato per il decollo di pochi minuti fa, risulta che tre persone hanno agito colposamente per usare l'astronave come mezzo di fuga, col preciso scopo di sottrarre all'inchiesta l'indiziato David Spry. Essi sono: il direttore della Softa C.W. Baldwin, il pilota Valery Stang, e lo
stesso David Spry.» «Dimentichi Shebat Kerrion,» puntualizzò acidamente Chaeron. «Risulta fortemente indiziata anche Shebat Kerrion,» disse Marada al Cubo, in tono deciso. L'oggetto, sempre unito ai circuiti dell'Hassid che a sua volta chiedeva conferme al computer dell'astroporto, reagì raddoppiando l'altezza della linea scarlatta. «Metti via quella diavoleria!», ringhiò Parma. Marada scosse il capo. «Mi stupisce che proprio il Console Generale dica questo.» «Quello che dico io è che ti stai masturbando il cervello con delle supposizioni gratuite!» Parma unì le mani quasi volesse impedirsi di prendere il figlio per la gola e strangolarlo. «Esiste la possibilità che Shebat stia semplicemente facendo il suo esame di volo col suo istruttore, come risulta dalla regolare notifica di Spry. Non puoi affermare che stanno scappando insieme finché non risulta che l'abbiano fatto, e questo dato ancora non lo possiedi.» Nel parlare il vecchio s'era volto anch'egli al Cubo, e gli occhi gli lampeggiarono quando vide che esso reagiva: la linea scarlatta si riabbassò di un millimetro. «Vedi, sciocco che sei? In quanto al Marada, ha seguito la ragazza di sua iniziativa. Notifico che l'Arbitro di questa inchiesta ha già ammesso le capacità super-normali di quell'astronave.» Nel parlare il patriarca s'era avvicinato al Cubo di Arbitraggio, ringhiando le sue obiezioni come se si rivolgesse a una giuria di tribunale. Conosceva bene quei marchingegni evolutissimi, visto che ogni Arbitro iscritto all'Albo ne possedeva uno. Poi agitò un dito sotto il naso di Marada. «Questo è il momento meno adatto per una rottura con l'Associazione Piloti. Inoltre sai benissimo di non avere informazioni bastanti per incriminarli.» Il giovane annuì. «Vero. Ma so come ottenerne altre. È solo questione di tempo. Intanto vorrei che mi diceste chi è, secondo voi, la terza persona a bordo del Bucephalus. Come spiegate la presenza di costui, se stanno eseguendo un innocente esame di volo?» «Ci sono cose che tu non sai, e che io non ho la minima intenzione di far registrare da quel maledetto cubo,» brontolò Parma, sedendosi di nuovo con una smorfia sprezzante. Marada allargò le braccia. «Io posso interferire col procedimento dell'inchiesta. Essa deve giungere a termine. Ne va della mia integrità di Arbitro.» «Ficcatela dove dico io, la tua integrità!», esplose Chaeron. «Stavolta
hai fatto il passo più lungo della gamba e sbatterai il sedere per terra. Se non ti revocheranno la licenza, penserò io a farti cancellare dall'Albo. Ti avverto che come Console di Draconis posso farti sbattere in prigione, così la tua inchiesta proseguirà dietro le sbarre!» Marada restò impassibile. «Visto che l'hai voluto tu, notifico ora il comportamento sospetto di Chaeron Ptolemy Kerrion. Il suddetto ha evitato di condurre indagini su David Spry, pur sapendolo indiziato di reati connessi alla scomparsa di Shebat Kerrion, ivi compresi l'omicidio di due guardie del corpo e la morte in circostanze oscure del segretario del Console Generale.» «Volete piantarla di cavarvi gli occhi, voi due?» gridò Parma, imbestialito. «Marada, metti via quell'ordigno o me ne vado. Tu, Chaeron, so che sei preoccupato per tua moglie, ma cerca di controllarti.» Dopo qualche secondo di silenzio teso, Marada tolse dal vano della consolle una scatoletta di materiale nero. Vi mise il Cubo, e così sigillato lo richiuse nuovamente nel suo scomparto. Solo al termine di quell'operazione un improvviso stupore lo fece voltare. «Cosa avete detto, Signore?» Fu Chaeron a rispondere. «Shebat è mia moglie: l'ho sposata. E non fare quella faccia. Era l'unico modo per tirarla fuori dai guai in cui s'era cacciata, senza vera colpa da parte sua. Potrai prendere visione del mio rapporto sulla faccenda. Non mi stupisce affatto che tu, dopo averla protetta, cerchi ora di incriminarla. È tipico del tuo assurdo modo di agire.» «Così è per questo che non è venuta a salutarmi: glielo hai impedito.» Marada non riuscì a trattenere una nota di odio nella voce. «Che cosa le hai fatto? L'hai sodomizzata come le tue sgualdrine? La costringi a partecipare alle tue orge? Se non fossi mio fratello, io ti...» «Quanto ardore ipocrita!», ringhiò l'altro. «Non l'ho sodomizzata, se ci tieni a saperlo. Ma dubito molto che tu l'abbia portata, via dalla Terra senza farle pagare il biglietto proprio a questo modo.» «Basta così», intervenne Parma. «Non basta un accidente,» lo rimbeccò Marada. «Come avete potuto permettergli di approfittarsi così di lei?» Chaeron si alzò in piedi. «Meglio io che tu, stupratore di ragazzine. Non c'è nulla di peggio di un Arbitro che cerca la giustizia solo per adeguarla ai suoi scopi personali. Shebat era al molo ad aspettarti, con me, ma tu non l'hai neanche guardata. L'hai ignorata come se non esistesse, e l'hai fatta piangere. Sicuro... il signor Arbitro non guarda in faccia nessuno, quando è
mosso dal nobile intento di punire i malvagi.» «Vuoi dire che... Ma è un anno che non la vedo, per la miseria. La ragazza alta in tuta da pilota era forse lei? Lì, per lì, vedendola al tuo fianco, l'ho scambiata per una delle tue solite amichette.» «Marada! Chaeron! Volete stare zitti?» Nel lungo istante di silenzio che seguì, i due parvero rendersi conto d'essersi spinti troppo oltre, e si calmarono. «Grazie, signori. E ora, col vostro permesso, cerchiamo di osservare le cose da una prospettiva politica, lasciando a dopo le considerazioni minori. Sei d'accordo Arbitro? E tu, Console?» «Procedete pure,» sospirò Chaeron. «Benissimo. Per cominciare, Marada, devo congratularmi con te per aver dato inizio alle ostilità fra il Consolato di Kerrion e quello di Labaya. Questo, e solo questo, è il punto da cui partire per ogni nostro comportamento.» Alzò una mano verso Marada, che stava per protestare. «Dico ciò perché è mia intenzione dichiarare lo stato di guerra, a iniziare ufficialmente dal momento del tuo arrivo qui a Draconis. Questo mi darà modo di risolvere il problema su cui tu hai aperto un'inchiesta troppo precipitosamente, e su cui so più di quanto immagini. Ma me ne occuperò a modo mio: Adesso ho bisogno dell'Associazione Piloti, che potrò manovrare grazie all'instaurazione della Legge Marziale. Sarebbe idiota indebolire le nostre forze proprio; ora. I vostri piccoli problemi personali dovrete inquadrarli in questa situazione più vasta.» Chaeron Kerrion stentò qualche istante a digerire quelle dichiarazioni, poi annuì con un sorriso entusiasta. Marada s'era accigliato ancor di più. «Vi congratulate con me?» «Proprio così. Tu hai già risolto le elezioni in mio favore, giovanotto, spazzando via d'un colpo gli ostacoli che mi preoccupavano. E almeno per il presente hai messo in stallo l'agitazione dei piloti contro il Consolato, costringendoli a serrare i ranghi con noi. Visto che Labaya ha compiuto un atto di guerra, io dico che ora come ora una guerra è proprio quel che mi serve. Se tu non fossi un Arbitro iscritto all'Albo ti mostrerei la mia gratitudine molto più concretamente. Dalla tua espressione mi sembra di capire che secondo te la guerra è sempre malefica e da evitare, vero? Ovviamente questo è un punto di vista assai ingenuo.» «Le devastazioni e i cadaveri non sono che un punto di vista,» disse Marada. Si volse a Chaeron, che aveva sbuffato ironicamente. «Inoltre la guerra spaziale è al di fuori della vostra esperienza: le astronavi rifiuteran-
no di sparare l'una contro l'altra. Ci avete pensato? Voi non avete la minima idea di quello che dite.» «Tu credi? Invece la sola difficoltà che vedo è di dimostrare al resto della Confederazione che noi siamo dalla parte del diritto. Penso di superare questo ostacolo mostrando le registrazioni dell'Hassid, da cui risulta chiaro che pur essendo stato cannoneggiato a tradimento non hai risposto al fuoco.» Parma sorrise. «Hai agito con sagacia magistrale, ragazzo mio. E Labaya è stato così stupido da perdere la testa appena lo hai provocato. La nostra sarà una legalissima e giusta azione di rappresaglia... e sarà così efficace che Labaya ne verrà surclassato.» «Voi non capite ancora cosa ho appena detto.» «Taci. Con la Legge Marziale, da questo momento tu sei il nuovo proconsole militare di Draconis. Ciò significa che avrai sotto la tua autorità Baldwin e che lui dovrà collaborare strettamente con te. Chaeron rimane Console. In quanto alle astronavi, so benissimo che i loro cervellini elettronici subiscono un trauma se le si costringe a spararsi addosso. Ma questo non è un problema: noi costruiremo... anzi, lo stiamo già facendo, gli astrocruiser della seconda generazione. E sono macchine che capiscono lo stato di necessità di un'azione bellica esattamente come può vederlo un uomo.» «Di cosa state parlando?», si sbalordì Marada. Parma lo guardò freddamente. «Sto parlando del motivo per cui l'Associazione dei Piloti cesserà di esistere da qui a una ventina di anni. Sto parlando di astronavi capaci di fare del tutto a meno di un pilota umano sia dentro che fuori lo Spazio Spugna. Sto parlando del Marada, giovanotto. Appena avremo sfornato abbastanza navi come quella, e come ho detto ci stiamo già lavorando, saremo una potenza capace di piegare l'intera Confederazione, se necessario.» Chaeron schioccò le dita, con occhi sfavillanti. «Con quello che guadagneremo dalla distruzione di Labaya, potremo costruirne a centinaia.» «Frena il tuo entusiasmo, Console. È solo una salutare sculacciata quella che intendo dare a Labaya, sia per salvare la nostra reputazione, sia per tacitare definitivamente il fatto che mio figlio è incapace di generare un erede sano.» A quella frase Marada ebbe un fremito, ma subito parve dimenticarla per un argomento che lo aveva colpito assai di più. «Astronavi della seconda generazione... Ma allora il Marada non è un'anomalia, un modello difettoso?»
«Difettoso, un prototipo sperimentale che vale tanto oro quanto pesa?» Il patriarca ridacchiò. «Figliolo, se tu fossi stato più attaccato ai nostri interessi invece di sprecare anni a gironzolare per lo spazio, queste cose le sapresti da un pezzo. Ovviamente ho tenuto segreto ciò che si sta facendo nei cantieri spaziali. Non c'era alcun bisogno di dare ai piloti altri motivi di comportamento paranoico, con quelli che già hanno. È chiaro che al termine dello stato di guerra i nostri rapporti con l'Associazione saranno meno felici che mai, però avrò io tutti gli assi in mano e dovranno collaborare.» «Voi state dicendo che avete dato un prototipo, ancora da collaudare e dall'affidabilità imprevedibile, in mano a Shebat... a una ragazzina, invece che a un esperto membro della Softa? Perché?», ansimò Marada. «Proprio per controllarne l'affidabilità. E non vi nascondo che il risultato mi soddisfa.» Parma studiò le espressioni dei due figli, e poté constatare che né l'uno né l'altro era entusiasta di quella dichiarazione. Apparivano preoccupati, incapaci di assimilare i fatti che si andavano preparando e le loro implicazioni future. Il loro stato d'animo era comprensibile, e in parte colpa sua, visto che fin'allora non li aveva mai veramente coinvolti nella politica del Consolato. Parma stesso non aveva previsto che i fatti si sviluppassero così precipitosamente da costringerlo a metterli di fronte a quelle realtà, per le quali aveva preventivato tempi molto più lunghi. Il vecchio patriarca si passò le mani sulla faccia e poi li scrutò con calma. «Vedete bene, signori, che per voi è venuto il momento di crescere. Mi aspetto, anzi lo esigo, che collaboriate fra voi in perfetta armonia. La nostra famiglia ha sulle spalle la responsabilità del Consolato e dei suoi cittadini. Kerrion dovrà mantenere intatte le sue possibilità di espansione economica, alle quali sono legate le sue stesse possibilità di sopravvivenza. Detto ciò, adesso andrò a parlare col Direttore Baldwin, che è una persona ragionevole e sa apprezzare i compromessi. L'argomento di questa discussione deve restare riservato. Mi auguro che facciate il vostro dovere. Sarebbe molto spiacevole se non vi dimostraste all'altezza di mantenere le vostre cariche, perché ciò mi costringerebbe a mettervi da parte per sempre. Inutile dire che mazzata sarebbe questa per la reputazione della nostra Famiglia.» Parma si alzò dalla poltroncina, si massaggiò la schiena con una smorfia, e senza dir altro s'incamminò nel corridoio verso l'uscita. Automaticamente Marada ordinò all'Hassid di aprire il portello e abbassare la scaletta, ma né lui né Chaeron parlarono finché il padre non fu visibile su uno dei mo-
nitor, inquadrato mentre saliva nel suo ufficio mobile. Chaeron tossicchiò, imbarazzato. «Che ne dici di venire a pranzo da me, fratello? Anche gli Arbitri devono mangiare. Il mio appartamento è sicuro quanto questa cabina, e potremo discutere il da farsi. La Legge Marziale non è uno scherzo.» Marada annuì, con la stessa aria infastidita e conciliante. «Suppongo che mi convenga accettare. Ho fame. Aspetta solo che spenga l'Hassid. Due astronavi sparite in uno stesso giorno sono già troppe.» «Credi davvero che il Bucephalus e il Marada siano perdute per noi?» «E tu no?» «Detesto pensare di essermi sobbarcato tanti guai e preoccupazioni per Shebat, per poi vederla sparire a questo modo.» «Le mie condoglianze. Ma non dimenticare che si è tirata dietro il suo astrocruiser, e che ambedue sono creature imprevedibili. Forse non l'hai ancora persa del tutto. Ne riparleremo a tavola.» «Posso davvero pensare che ubbidirai a nostro padre, e che fra noi c'è una tregua?», Chaeron sorrise con ingenuità quasi infantile. «Io sono autorizzato ad avere gli stessi dubbi su di te. Comunque sì, consideriamoci buoni alleati.» Marada comunicò all'Hassid che era necessario metterlo a dormire per un po', quindi staccò gli interruttori principali lasciando in funzione solo gli automatismi di servizio. I due fratelli uscirono, diretti al grosso veicolo nero con l'aquila scarlatta, presso cui attendeva ancora la scorta di Chaeron. Fu solo mezz'ora più tardi, mentre si stavano sedendo a tavola, che un impiegato dall'aria ansiosa venne a informarli dell'inspiegabile assenza da Draconis di Julian Antigonus Kerrion. Capitolo 13 Il Bucephalus stava sfrecciando nel vuoto a due terzi della velocità della luce, in piena accelerazione verso quel misterioso interfaccia dell'universo dove si sarebbe aperta per lui la porta dello Spazio Spugna. Ad appena cinquecento metri dietro la sua poppa il Marada lo seguiva senza sforzo, con tutti i sensori puntati in avanti per captare le vibrazioni umane che provenivano da esso. Era poco soddisfatto di quella situazione: Shebat Kerrion preferiva restare a bordo dell'altra astronave, e sentire i riflessi della sua psiche non lo consolava molto. Un'altra cosa lo stava preoccupando sempre più: fin dalla partenza da
Draconis s'era accorto che qualcosa d'insano accadeva nella mente del Bucephalus. Era bastato poco per convincerlo che quell'astronave stava pagando le conseguenze della cancellazione di memoria operata da David Spry mesi addietro, e che si avviava verso un collasso a brevissima scadenza. Era sorprendente che i tre umani a bordo del Bucephalus non si fossero ancora accorti del pericolo... O forse se n'erano resi conto ma non se ne curavano? Protese i suoi sensi alla ricerca della mente di Spry, che gli era facile contattare quasi quanto quella di Shebat, e pur disturbato dall'altissima velocità riuscì a capire che il pilota era preoccupato ancor più di lui: stava trasmettendo alla psiche della sua astronave flussi di emozioni tranquillizzanti, come cerotti su una ferita aperta. Ma ogni tanto gli sfuggiva una sorta di gemito mentale disperato, perché quella ferita sanguinava sempre più. Il Bucephalus era sopravvissuto agli intrighi del suo pilota, e tuttavia non senza danni. Il rimorso di Spry, vanamente intento a riparare ciò che era stato distrutto, giungeva al Marada simile all'ansietà di un chirurgo per un paziente molto amato che gli stesse morendo sotto i ferri, facendo soffrire di riflesso anche lui. Per parte sua l'astronave reagiva bene, soddisfatta che il suo pilota si curasse tanto di lei, però una parte della sua mente vagava nel delirio e sembrava in preda agli incubi. Cosa sarebbe accaduto al momento critico in cui avrebbero raggiunto la velocità della luce? Il Marada stentava a capacitarsi che Spry intendesse affrontare l'ingresso nello Spazio Spugna con una nave in quelle condizioni, e per di più con Shebat a bordo. Era forse impazzito? Dopo una riflessione l'astrocruiser stabilì che toccava a lui impedire che la fanciulla restasse esposta a quel pericolo. Ma che fare? Tutto ciò che poteva era cercare il contatto mentale con Shebat, cosa questa ormai difficilissima: stavano raggiungendo la velocità d'uscita dallo spaziotempo, e gli effetti di dilatazione temporale legati al passaggio dello Spazio Spugna rendevano la comunicazione assai evanescente. In quel momento, seduta nella plancia del Bucephalus, Shebat avvertì un brivido interno che la fece trasalire. La penna tracciante con cui sottolineava numeri luminosi su un monitor le cadde dalla mano irrigidita. «Softa!», ansimò. «Il nostro pilota è andato a Poppa, Danzatrice del Sogno,» le comunicò Julian, alle sue spalle. Tanto per dargli qualcosa da fare Spry lo aveva messo al rivelatore d'impulsi, a controllare se qualcuno li stesse inseguendo. Ma come lui a Shebat
sapevano bene, si trattava di una precauzione inutile: già quattro minuti dopo aver lasciato Draconis avevano raggiunto i 50.000 Km/sec, ed a quella velocità le alterazioni dello spaziotempo erano una difesa sufficiente contro eventuali avversari. Per seminarne uno sarebbe bastato rallentare e cambiare rotta, e sui monitor dell'altra astronave la loro traccia sarebbe scomparsa. Il disagio che aveva pervaso Shebat la fece quasi ansimare, nella semioscurità del locale di comando. Julian era tornato a dedicarsi al suo inutile compito. «Pericolo! Pericolo!» La parola continuava ad echeggiare in lei, ma confusamente, tanto che non avrebbe saputo dire se a trasmettergliela era il Marada o qualcosa dentro di lei. Innervosita si alzò e andò a cercare Spry, che era uscito dalla plancia senza farsi notare e senza dirle una parola. Lo trovò davanti alla camera stagna, con indosso uno scafandro spaziale e l'elmetto in mano, intento a controllarne la riserva d'aria. Il giovanotto alzò appena gli occhi, palesemente contrariato nel vederla arrivare. «Mi hai colto sul fatto, eh? Va bene, ma ora non metterti di mezzo,» le ordinò. «Il Marada mi ha chiamata. Ed è la mia astronave, perciò tocca a me andare.» Lo afferrò per un polso, con rabbia. «Softa! Ti sto dicendo che si è messo in contatto con me. Posso sentirlo anche a moltissima distanza e in ogni condizione. Non ci credi?» «Certo che ci credo. È una nave fantastica. Ma ora devo...» «Non sei nemmeno sorpreso di saperlo?» «Nemmeno un po'. Già una volta ti ho detto che quell'astrocruiser è perfino troppo per te. Ricordi? Adesso torna in plancia. Io devo mettere un cavo laser-ottico fra le due astronavi, e subito, o saranno guai.» Shebat sapeva che quell'espediente si usava solo quando la capacità di una nave di eseguire manovre in tandem era dubbia, o una di esse aveva cali di potenza o guasti. Era un allacciamento di emergenza, utile anche per entrare in coppia nello Spazio Spugna e tenere i contatti attraverso di esso. «Tu non lo farai. Ci penso io. Non puoi lasciare sul Bucephalus soltanto Julian e una pilota novellina e senza patente.» Spry sbuffò e le volse le spalle, andando ad aprire la porta della stiva. Tolse da uno scomparto un rotolo di cavo sottile e trasparente come una lenza da pesca. La luce più viva di quel locale consentì a Shebat di vedere che il volto di lui era pallido, deformato da una tensione interiore così violenta che mutava del tutto la sua espressione. Ne fu spaventata.
«David, cosa sta succedendo?» «Mi spiace, Shebat,» mormorò lui. «Non sono mai stato onesto con te. Mai. Tutto ciò di cui tuo marito mi accusa è vero.» «Softa, non devi chiedermi scusa di nulla.» Gli si accostò lentamente, fin quasi a toccarlo. «Tu mi hai aiutata, e sei sempre stato gentile con me.» «Lasciami finire. Io sono un avversario, Shebat. Ho cercato di danneggiare i Kerrion usando te come strumento, e ti ho ingannata. Per colpa mia hai trascorso dei mesi fra i Danzatori del Sogno... e ho anche preso dei soldi da Jebediah, il segretario di Parma, sebbene lui e io puntassimo a scopi diversi, usando poi quel denaro per corrompere altra gente. Ma non sono mai stato al soldo di Labaya, e non ho mai tradito il giuramento all'Associazione Piloti, compreso l'impegno di proteggerti... fino a ora.» La fanciulla gli mise le mani sulle spalle, ma gli occhi di lui la sfuggivano. In essi c'era una luce disperata che la indusse a rassicurarlo. «Sono venuta con te perché volevo farlo. Credimi.» «Suona strano, dopo che sei salita a bordo singhiozzando che non volevi partire,» borbottò lui. «Comunque ora il Marada ha bisogno che io vada da lui. Softa, cos'hai... Softa!» Shebat dovette afferrargli la testa fra le mani per costringerlo a guardarla. «Ascolta, non rimpiango nulla. Non m'importa ciò che hai fatto. Ora sono qui.» «Già, sei qui. E io... Ma non mi capisci? Il Bucephalus!» Nelle sue pupille ci fu una luce vuota e inorridita. «Il Bucephalus ha sofferto troppo per colpa mia. E questo potrebbe essere il... il suo ultimo volo!» «Lo faremo riparare, appena fuori dai confini della Confederazione.» Shebat cercò di avere un tono fiducioso. «Non so neppure se lui, o io, potremo mai arrivare tanto lontano. Ma è per te, Shebat, che sono angosciato. Non dovevo portarti con me e farti rischiare la vita a questo modo. Credevo che avremmo potuto farcela, lo speravo. Ma ora non più.» «Ti credo, Softa. Calmati. Vedrai che ce la caveremo. E presto saremo al sicuro, dove nessuno potrà più farci del male.» David Spry strinse i denti, allontanandola da sé. «Ancora non capisci, vero? Shebat, il Bucephalus e io siamo legati profondamente, così profondamente che le sue difficoltà e i suoi disturbi mentali... sono anche i miei. Lui sa che la psiche è alterata. Ora lo sa. E io non ho ancora avuto il coraggio di dirgli perché.» Scosse il capo, come se volesse scacciarne la sofferenza che lo attanagliava. «Ma c'erano in ballo cose più importanti che la
salute mentale di un uomo e di un'astronave, e il Bucephalus ed io dovevamo sparire per evitare ad altri guai peggiori. Il prezzo da pagare è però più duro del previsto: la nave non è in grado di affrontare lo Spazio Spugna senza pericolo. Non ho avuto il modo di rimetterla in sesto almeno un poco, prima della partenza. Vedi quale rischio ti sto facendo correre? Posso solo dirti che non ti avrei mai presa a bordo se la mia stessa personalità non fosse stata... alterata, ammalata, come quella del Bucephalus.» «Oh, Softa, no! No! Ti sbagli, io so che non sei malato. Ti prego, torna a sedere. Stai tremando. «Gli prese le mani e le sentì fredde come pezzi di ghiaccio. D'improvviso il giovanotto esplose in una risata secca, da demente, e il suo volto fu alterato da una smorfia che impressionò Shebat. «Sono malato, invece. Molto malato!» «No, non fare così!», gemette lei. «Ti supplico!» Con uno sforzo Spry riuscì a controllarsi, ma per la debolezza dovette appoggiarsi alla parete. La sua voce divenne un sussurro: «Non ho neppure il coraggio di guardare dentro di me, per capire che cosa non va. Vedo strane immagini... Il Bucephalus e io siamo coinvolti nello stesso cortocircuito mentale. Eppure devo riuscire ad agganciare il cavo al Marada, e pilotare da là. Dovrà essere la tua astronave a guidare questa nello Spazio Spugna, come si guida un cieco. Bisogna che vada a bordo.» Con mani tremanti sollevò il casco per indossarlo sullo scafandro, ma l'oggetto gli sfuggì dalle dita e cadde al suolo. Con orrore di Shebat il giovanotto parve non accorgersene neanche, e armeggiò nel vuoto intorno alla sua testa come allacciandosi un casco che non c'era. I suoi occhi erano fissi, allucinati. La fanciulla gli si aggrappò alle braccia per fermarlo, tremando all'unisono con lui. Poi d'istinto protese la mente, facendo ricorso a tutto ciò che aveva imparato nella casa di Harmony, gli trasmise parti di un sogno che ricordava. Non aveva bisogno di un amplificatore per fargli ricevere quelle immagini, costringendolo a viverle, e nell'agire così ricorse a tutte le sue capacità nel disperato tentativo di calmarlo. Pian piano sentì che quelle scene di pace e serenità facevano presa sulla coscienza travagliata del giovane, più efficaci di un farmaco, e lo sentì rilassarsi. Pochi minuti dopo, quando al termine della breve Danza del Sogno si separò da lui, Spry aveva riacquistato almeno in apparenza la sua normalità. «Come ti senti?», gli chiese, ansiosa. Lui annuì. Si chinò a raccogliere il casco. «Meglio. Ma sto sprecando
tempo prezioso. C'è ancora una cosa che posso tentare: rimettere nel Bucephalus i ricordi che gli ho tolto. Dovrò spiegargli tutto, anche perché l'ho fatto. Non gli piacerà sapere che la mente del suo pilota, e in un certo senso la sua stessa mente, è quella di un assassino. Ma è il solo modo, forse.» «Allora tu pensa a questo, Softa. Io porterò il cavo fino al Marada e lo collegherò. So come fare.» «Non dire sciocchezze.» «Sono un pilota o no? E questo è compito mio. Il tuo è di curare il Bucephalus, che ha bisogno di te.» La ragazza si diresse alla rastrelliera degli scafandri. «Shebat, non posso permettertelo.» «Non sei nelle condizioni di dirmi cosa devo o non devo fare. Hai bisogno di riposo.» Spry si morse le labbra, incapace di negarlo. «Quand'è così, verrò anch'io con te. Vestiti, intanto che provvedo a rallentare. Stiamo già andando troppo veloci.» Shebat tornò ad appoggiargli le mani sulle spalle, con un sorriso, poi accostò la bocca alla sua e lo baciò leggermente. Quel gesto fece irrigidire il giovanotto, che quasi senza volerlo la cinse con le braccia e la strinse a sé con forza. «Ma che bella scenetta!», esclamò in quel momento Julian dalla soglia della plancia. «Spiacente di interromperti, pilota, ma sembra che qui ci sia qualcosa che non va.» Shebat gli elargì un'occhiataccia. Poi la tensione della sua voce la allarmò e seguì in fretta Spry nel locale di comando. Su tutti i pannelli delle apparecchiature le luci lampeggiavano follemente dal verde al giallo e al rosso, gli indicatori fornivano dati assurdi, i monitor sgranavano raffiche d'immagini prive di senso. Il fatto che nessun segnale fosse pervenuto alla mente del suo pilota testimoniava l'insania del Bucephalus. Nelle sue viscere elettroniche doveva esserci un incubo di impulsi completamente fuori controllo. Con una bestemmia Spry si precipitò ai comandi manuali, ordinando nello stesso tempo a Shebat di sedersi a un'altra consolle. L'attenzione della ragazza si concentrò sulle istruzioni concitate che egli le sfornava: «Inserisci i circuiti a fase alternata, stacca la sintonia automatica e inserisci il computer di emergenza. La velocità è quasi pari a quella della luce. Entreremo nello Spazio Spugna fra dieci secondi da... adesso!» La fanciulla si irrigidì. «Ma allora come potrò andare a bordo del Mara-
da? Non posso allacciare il cavo nello Spazio Spugna». «Non ho tempo per le spiegazioni. Lanciagli un raggio magnetico. Muoviti!» Shebat agì d'istinto, come quando era seduta al computer nella casa dei Danzatori del Sogno e giocava con le situazioni simulate sul suo schermo. Accese un raggio magnetico orientandolo nella direzione presunta dell'altra astronave, e attraverso di esso i dati programmati freneticamente da Spry fluirono come un legame che univa i due velivoli in una manovra coordinata. Mentre il conteggio alla rovescia scandiva gli ultimi secondi, all'esterno le stelle cominciarono a svanire in una nebbia dove le leggi fisiche dell'universo non avevano più alcun significato. La fanciulla fece appena in tempo a sentire la risposta mentale del Marada, che confermandole di aver ricevuto il raggio le inviava una sensazione di rassicurante tranquillità. Poi intorno a loro ci fu solo lo Spazio Spugna. Se David Spry aveva fama d'essere il miglior pilota della Confederazione, non era certo per caso. Fu solo la sua abilità in quei momenti critici che salvò il Bucephalus dalla distruzione. Ma per tenere sotto controllo l'astronave egli non poté basarsi unicamente sui comandi manuali: la sua mente fu costretta a cercare la sintonia con quella del Bucephalus, a piegarne la volontà impazzita, a infiltrarsi nell'inferno di quella psiche per mettere le redini agli impulsi dei suoi sensori che sgroppavano come cavalli selvaggi. Il Bucephalus non era però costruito per un contatto telepatico di quel genere. E neppure il cervello di Spry lo era. Pochi secondi bastarono perché la mente umana e quella fatta di silicone si combinassero inestricabilmente, e quindi esse aleggiarono insieme in un luogo a mezza strada fra il corpo di lui e i circuiti dell'astronave, come due metalli ormai fusi in una lega di nuovo genere. Shebat Alexandra Kerrion vide le luci di ogni apparecchiatura tornare dal rosso al verde, e un rapido controllo agli strumenti le consentì di capire che le condizioni di volo erano normali. Per un poco si sentì fiera di aver tenuto testa a quei macchinari complessi, in un videogame che l'aveva vista ancor più vincente perché rappresentava la realtà. Si volse a Spry con un sorriso soddisfatto per cercarne l'approvazione, ma fu sorpresa di vedere che Julian era chino sul pilota e lo teneva per le spalle con aria allarmata. Pochi minuti bastarono ai due per capire che David Spry aveva perduto sia la sensibilità fisica che la coscienza: non reagiva alle loro voci né al
tocco delle mani, inerte come un corpo immerso nel coma. L'iniezione di stimolanti che gli fecero ebbe il solo risultato di stabilizzargli le pulsazioni cardiache, che però rimasero inferiori alla frequenza normale. Allora inclinarono all'indietro la poltroncina e gli applicarono al collo gli elettrodi del controllore medico, sperando che l'apparecchio gli avrebbe almeno tenuto in funzione cuore e polmoni. «E adesso cosa facciamo?», sospirò Julian, più seccato che altro. Shebat programmò il raggio magnetico che li univa al Marada per inviare segnali di posizione a brevi intervalli, pur sapendo che ciò era inutile fuori dal normale spaziotempo. «Devo andare sulla mia nave. David aveva ragione: il Bucephalus è privo delle sue facoltà mentali, e può essere guidato solo dal Marada». «Ah, capisco», borbottò lui. La fanciulla lo udì appena. Parte della sua psiche e dei suoi sensi non era più lì, perché il suo astrocruiser l'aveva contattata e attratta a sé quasi con avidità, ed altrettanto avida ella si era abbandonata a lui. Era come essere in due posti allo stesso tempo, e ciò le fece tornare alla memoria il suo primo viaggio con Marada: quante volte s'era stupita nel vederlo seduto in plancia e come indifferente a lei, svagato, assente al punto che ella se n'era quasi offesa. Ora capiva che egli le aveva invece regalato perfino più attenzione di quanto poteva, in quei momenti di ultraterrena comunione con l'Hassid. Fu con l'identica apparente indifferenza che un paio di minuti dopo lei si degnò di rispondere a Julian: «Tu capisci? Ne dubito molto. Tutto ciò che capisci è quello che riguarda la tua piccola persona. Non ti sembra neppure strano d'essere ancora vivo su una nave che dovrebbe essere andata in pezzi appena entrata nello Spazio Spugna. E non ti sei ancora reso conto che il Bucephalus è un relitto alla deriva, perché le sue possibilità di tornare da solo nello spaziotempo sono zero. Bisognerebbe abbandonarlo... Ma non si può, perché vorrebbe dire abbandonare anche David. La sua mente e quella della sua astronave sono diventate un'entità unica e forse inseparabile». Julian sbuffò. «Il pilota dai nervi di acciaio!» «Calmati, somaro. Presto vedremo di che stoffa sei fatto tu. Se non possiamo lasciare David, è anche vero che non possiamo uscire da questa astronave, almeno in teoria. Dimentichi che siamo nello Spazio Spugna?» Quando l'altro afferrò il senso di quella rivelazione, si fece pallido. «Siamo bloccati su un relitto! È questo che dici?» «Sì. Softa si stava mettendo lo scafandro perché non poteva fidarsi solo
del raggio magnetico, quando siamo entrati in tandem nello Spazio Spugna. Poi però non c'è stato tempo e ha dovuto accontentarsi di questo collegamento soltanto. Ma ora occorre allacciarsi al Marada con un cavo laser-ottico. Non c'è altro modo per far riportare il Bucephalus nello spaziotempo». Dopo una pausa la fanciulla continuò: «Sembra che sarò costretta a farti un rapido corso di pilotaggio. Poi indosserò lo scafandro e...» La sua voce si fece debole, perché stava per dire qualcosa che avrebbe fatto sbarrare gli occhi a qualsiasi pilota sano di mente. «E poi ti lascerò solo a bordo di questa nave, mentre io cercherò di salire sul Marada». Perfino Julian sapeva che ciò era assurdo. «Vuoi attraversare lo Spazio Spugna?» «Se sarà possibile». «E se ti dovessi perdere nel nulla?» «Allora toccherà a te e al Bucephalus cercare di cavarvela da soli». Nelle due ore che seguirono Shebat impartì al compagno le istruzioni che gli avrebbero almeno consentito di star seduto ai comandi e capire ciò che gli mostrava la strumentazione. David Spry non diede alcun segno di riaversi, ma il Marada comunicò alla ragazza che riusciva ad avvertire il raggio magnetico e che in teoria stava procedendo affiancato al Bucephalus, sebbene ciò non avesse alcun significato nel luogo in cui si trovavano: fra le due astronavi avrebbe potuto esserci la distanza di un metro e nello stesso tempo di un anno luce, e perfino il fatto che esistessero contemporaneamente era dubbio. Il rapido corso di pilotaggio servì a spaventare Julian più che a rassicurarlo, perché solo allora comprese fino a che punto le reazioni della nave fossero imprevedibili. Senza protestare accolse anche l'ordine di mettersi uno scafandro, per il caso che le condizioni ambientali subissero improvvise variazioni, poi riuscì a sorridere spavaldamente e la sua espressione fu quella tipica di un Kerrion. «Bene. Non mi resta che farti i miei auguri, sorellina. E se non dovessimo vederci mai più, ricorda che a mio modo ti ho voluto bene». Si girò a baciarla su una guancia. Shebat gli poggiò una mano su una spalla, sostò a carezzare la fronte di Spry in un saluto senza parole e uscì dalla plancia. Poco dopo, chiusa nel pesante scafandro che la isolava dai rumori esterni, chiuse dietro di sé il portello della camera stagna e cercò di mantenere la calma concentrandosi sugli indicatori della pressione che segnavano
cifre sempre più basse. Aveva stabilito di non spegnere la gravità artificiale, sapendo che all'esterno della nave perfino essa diveniva qualcosa di inesistente. Alla cintura aveva un'estremità del rotolo di cavo, guidandosi col quale contava di poter eventualmente tornare al Bucephalus. Ma rabbrividiva nel domandarsi se là fuori - qualsiasi cosa fosse quel «fuori» anche lei non sarebbe scivolata lontano dall'esistenza come un granello di sabbia in un mare di nulla. Quando però il portello si aprì fu sorpresa nello scoprire che poteva vedere abbastanza bene il Marada: l'astrocruiser era alla distanza apparente di sessanta metri, e aveva spalancato il portello di prua. Ma quei sessanta metri di spazio erano pervasi da un'incredibile luminescenza verdolina, che offuscava la visuale come l'acqua di un fondale marino vicino alla riva. La fanciulla sbatté le palpebre, passandosi una mano sul vetro del casco. Non era però questo ad essere annebbiato: la foschia smeraldina si infittiva e si disperdeva a ondate, fluendo come se ubbidisse a ignote leggi fisiche, e nei momenti di maggior trasparenza la distanza fra le due astronavi sembrava aumentare all'infinito. Appena ebbe messo un piede all'esterno lo sentì privo di peso, quasi che il campo gravitazionale emesso dal Bucephalus subisse un taglio netto. Stentando a vincere il disagio, Shebat afferrò il rotolo di cavo e allungò una mano fuori dallo scafo in cerca della guida. Poi risalì lungo la curvatura dell'astronave fino al vano dei terminali, lo spalancò e dopo qualche malcerto tentativo riuscì a collegare una estremità del cavo. Girando attorno lo sguardo poteva vedere che in quell'evanescente limbo fuori dal tempo non c'erano stelle, ma in lontananza fluttuavano forme violacee o porporine, tenui come veli di misteriose energie. Qualcosa la stava attirando via dallo scafo, come se il suo campo di gravità sì fosse invertito. Spaventata da quell'effetto si affrettò a tornare alla camera stagna, e vi rimase finché i battiti del suo cuore si furono placati. Cercò di ritrovare calma e forza: per raggiungere il Marada avrebbe dovuto darsi una spinta e nient'altro, in un salto che se quello fosse stato lo spazio normale poteva farle valicare chilometri di abisso. Controllò ancora il cavo laser-ottico. Era sottilissimo, meno di un millimetro di diametro, e tuttavia così resistente che in caso di tensione eccessiva sarebbe stato lo scafo della nave a cedere. «Sto arrivando, Marada. Eccomi!», disse ad alta voce nel casco. Trasse un profondo respiro, agguantò saldamente il rotolo e balzò avanti come se si tuffasse nel mare.
Dapprima non provò nessuna sensazione particolare, solo l'assenza di peso e la vibrazione del cavo che si srotolava velocemente. Poi il Marada si spostò di colpo a sinistra, rimpicciolì e si dilatò più volte, e scomparve del tutto. All'istante la fanciulla fu accecata dal terrore e si volse, aggrappandosi istintivamente al cavo e vinta dall'impulso irrefrenabile di tornare indietro. Ma indietro dove? Il cavo, che secondo ogni logica avrebbe dovuto esser steso in linea retta fra lei e il Bucephalus, era ricurvo come se le girasse sopra la testa. Anche l'astronave non era esattamente dietro di lei, e Shebat ebbe l'impressione di muoversi parallelamente ad essa. All'apparenza, dunque, nello Spazio Spugna andare in una direzione significava spostarsi in un'altra. «Non fermarti!», ordinò la voce del Marada nella sua testa. Quel comando mentale la fece trasalire, e ubbidì, ma i suoi sensi vacillavano e non capiva più se era ferma o si muovesse. Tornò a girare la testa e vide nuovamente il suo obiettivo, stavolta nella posizione in cui avrebbe dovuto essere. Si avvicinava lentamente. Fu allora che cominciò a sentire i suoni, strane vibrazioni armoniche che parevano giungerle da lontano come attraverso un'atmosfera, e che avevano l'incomprensibile effetto di respingerla fisicamente. I suoi soli punti di riferimento erano le due astronavi, ma quelle note provenienti dal nulla sembravano volerla soffiare via ora da una parte e ora dall'altra. Girò gli occhi sugli indicatori luminosi all'interno del casco e vide che la sua provvista d'aria scemava con rapidità, quasi che ad ogni respiro ne consumasse quantità enormi. Poi la pressione nella bombola tornò incomprensibilmente a salire. E l'orologio funzionava al contrario. Shebat chiuse gli occhi, stordita. «Attenta al contatto», la avvertì l'astrocruiser. Il Marada incombeva all'improvviso su di lei, vicinissimo, ma il rettangolo luminoso del suo portello era venti metri troppo sulla destra. In quegli ultimi penosi istanti la fanciulla avrebbe dato qualunque cosa per potersi tappare le orecchie e non udire più i misteriosi suoni dello Spazio Spugna. Con un gemito allungò un braccio frenando l'impatto sullo scafo, quindi vide l'astrocruiser muoversi e comprese che era lui a far manovra per riceverla nell'apertura del portello. No, non nel portello: più in alto c'erano i terminali, ed era lì che il Marada voleva farla giungere. Come in sogno sentì la sua mano poggiarsi sulla piastra, e vide il piccolo sportello aprirsi con uno scatto silenzioso. Per agganciare il cavo, operazione che avrebbe normalmente richiesto dieci secondi, impiegò cinque tormentosi minuti.
Infine seguì il corrimano fino alla camera stagna e vi entrò, avida come mai di vedersi intorno oggetti solidi e reali. «Sono a bordo», sussurrò, vacillando contro la paratia interna. «A bordo!» Il nome di un Dio da lungo tempo quasi dimenticato, sulla Terra come altrove, le affiorò in un sospiro alle labbra. Il ritorno della gravità le era così gradito che avrebbe voluto sdraiarsi al suolo e sentire tutto il suo peso premerle addosso. E il soffio dell'aria che penetrava nel minuscolo locale era la musica più dolce dell'universo. Si accorse di tremare come una canna al vento per il sollievo e la reazione nervosa. Finita la paura in lei subentrò la rabbia, contro la Confederazione, contro i Kerrion, contro il destino che l'aveva cacciata in quella situazione e contro gli intrighi di cui ella subiva le conseguenze. Un'imprecazione le sibilò fra i denti. Si augurò che almeno il cavo fosse a posto. Cosa sarebbe accaduto se la mente di David Spry fosse rimasta ingarbugliata in quella del Bucephalus? E ce l'avrebbero fatta a pilotare in tandem due astronavi? «Non prevedo difficoltà», la tranquillizzò il Marada. «Il contatto via cavo funziona, e ho il Bucephalus sotto controllo». Una luce divenne verde e la porta interna si aprì ad accoglierla. Ma Shebat era così sbalordita che non si mosse, perché la voce del Marada, l'astrocruiser, aveva adesso lo stesso esatto timbro di quella di Marada l'uomo. Capitolo 14 Quando ogni altra ipotesi fu esclusa, e Marada si trovò d'accordo con Chaeron sul fatto che Julian doveva essere partito a bordo del Bucephalus, i due mandarono a chiamare Valery Stang per un colloquio negli uffici del Consolato. Seduto alla sua ampia scrivania Chaeron spense il videotelefono e gettò un'occhiata al fratello, che seduto di fronte a lui aveva dipinta sul volto la stessa espressione fra seccata e perplessa. «Quel giovane idiota!», bofonchiò per la terza volta. «Avrebbe dovuto starsene su Lorelie fra le gonne di nostra madre, l'imbecille». «Sei davvero convinto che se ne sia andato di sua volontà?» «Ne dubiterei solo se fossi un ingenuo come te, fratello». Chaeron si sforzò di sorridergli. «Se mi assicuri che questo non entrerà nella tua in-
chiesta ti rivelerò la mia dotta opinione. In caso contrario dovrò pregarti di uscire, intanto che io conduco la mia indagine». «In altre parole, sei convinto che lui abbia volutamente...» «Proprio così. Allora, cosa fai: resti o preferisci andartene?» «Meglio che io rimanga», borbottò Marada. Scosse la testa pensosamente. «Povero Parma... non può certo dirsi lieto di ciò che fanno i suoi figli». «Parla per te, mio caro». Per alcuni momenti Chaeron osservò il profilo del fratello, scoprendosi a riflettere che in realtà erano due estranei. Dal suo punto di vista Marada era un individuo troppo rigido e serio, il che gli appariva strano vista la sua passione per i vagabondaggi senza una meta. Si chiese cosa pensasse l'altro di lui, e fu certo che ambedue si giudicavano a vicenda in modo sbagliato. «Sul serio ti stupirebbe accorgerti che Julian ha sempre sognato di fare il pilota? Tu sei riuscito a realizzare questo desiderio sfidando Parma. Però tu non sei un frutto dei lombi di Ashera, come Julian. Parma ti ha permesso di fare tutti gli errori che hai voluto, e in questo si è dimostrato debole. Era logico che da te non cavasse altro che ostilità, alla fine». «Prima di farmi la predica aspetta di sentire cos'ha da dirci sul ragazzo, Valery Stang», tagliò corto lui. Ma quando Stang fu introdotto nell'ufficio, fu subito chiaro che per lui la partenza di Julian era una novità inaspettata. E anche non troppo gradita, come i due fratelli poterono desumere dal pallore che gli aveva invaso il volto. Il pilota si gettò a sedere su una poltrona e restò lì a spalle curve, quasi stentando a digerire la notizia. Il suo atteggiamento così afflitto non piacque a Marada, che non per la prima volta s'interrogò sui rapporti che potevano esservi fra Julian e Stang. Uno sguardo a Chaeron, la cui faccia esprimeva un'ironica accettazione di quello stato di cose, gli confermò che il legame fra i due faceva parte dei panni che era meglio lavare in famiglia. Mentre se ne rendeva conto, con stupore e imbarazzo, dimenticò perfino che Stang era complice di David Spry in parecchi reati. Per un attimo fu tentato di prendere da parte il fratello e chiedergli maggiori particolari, ma poi strinse i denti. Chaeron pareva avere ben altri progetti riguardo a Stang. Poco prima era giunta una chiamata di Parma, e l'uomo li aveva informati che intendeva stringere i tempi con la spedizione punitiva contro Shechem. La possibilità di essere preceduti da un'identica azione di Selim Labaya era troppo pressante per poter essere scartata, ed a questo scopo si
stavano armando e rifornendo quattro astronavi. Il giorno dopo si sarebbe deciso un piano d'attacco. Tormentato da questo e da altri pensieri, Marada provò il violento impulso di alzarsi e andarsene sbattendo la porta, e di cercare un altro luogo dove vivere, vinto dalla stessa sensazione che lo aveva fatto fuggire da Shechem. Se non si mosse fu perché aveva appena promesso a Parma di collaborare e fare la sua parte. Accorgendosi che il pilota lo fissava, guardò ostentatamente altrove. Ma provava disagio. Chi era lui, dopotutto, per scagliare la prima pietra su chiunque altro? Aveva saputo solo causare dolori a tutte le persone che più gli erano vicine, Shebat compresa. Dolori e danni, in una vita di cui se tirava le somme non riusciva a vedere nulla di positivo eccetto la facilità con cui l'aveva attraversata. Nel silenzio che ancora stagnava nell'ufficio del Console tenne gli occhi fissi a terra, provando un improvviso moto di disgusto e pietà per se stesso. Ciò che aveva ricavato da ogni sua azione era stata l'incapacità di stringere legami con gli altri, la solitudine, spesso l'ostilità. E tutto questo per voler essere un pilota, per realizzare una passione giovanile. In lui sorse il proposito di farla finita con quel genere di esperienze senza costrutto. Ma avrebbe avuto il coraggio di abbandonare l'Hassid, di cercare in altre cose un senso più vero dell'esistenza? Stranamente gli pareva che quella soluzione, impensabile fino a poco prima, fosse l'unica scelta di vita che gli offrisse nuove speranze. Il Console e il pilota non notarono le espressioni diverse che s'erano susseguite sul suo volto. Valery Stang, che s'era trovato in un'ottima posizione per lavorare ai danni dei Kerrion proprio grazie a una raccomandazione di Marada, pareva riflettere accigliato su questo fatto. Ma era dubbio che se ne rammaricasse. Chaeron, che aveva gli occhi fissi sulla porta, sussultò lievemente quando un cameriere entrò portando un vassoio. Gli accennò di servire da bere, poi si rilassò contro lo schienale e richiamò con un colpetto di tosse l'attenzione degli altri due. «Signori, propongo un brindisi», disse. «A cosa?», domandò Marada. «A Kerrion e alle sue fortune, in pace e in guerra». Valery Stang sorrise. «È un brindisi che approvo, vista la missione che fra poco ci vedrà uniti», disse con energia. Marada annuì con scarso entusiasmo. «A Kerrion!» I bicchieri dei tre uomini si toccarono con un tintinnio cristallino, più espressivo di qualsiasi altro discorso.
Le decisioni prese quel pomeriggio pesavano ancora nei pensieri di Chaeron Ptolemy Kerrion un paio di settimane dopo, mentre conduceva la sua piccola ma ben organizzata forza d'attacco contro l'ignara piattaforma di Shechem. I compromessi a cui era giunto e le reazioni altrui occupavano i suoi pensieri ancor più del piano di battaglia deciso da Parma. Ma da quelle cogitazioni egli non cavava nulla di utile, e ancora era convinto che Marada avesse obiettato al progetto con un sacco di sciocchezze. Del resto, cos'altro c'era da aspettarsi da un pilota? In una consultazione alla presenza del padre, Marada aveva di nuovo affermato che le astronavi non avrebbero sparato l'una contro l'altra. Il solo commento di Chaeron e del vecchio patriarca era stato un'occhiata d'intesa e una scrollata di spalle. Seduto nella plancia del Danae, ora Chaeron rifletteva che fra poco avrebbero scoperto se le astronavi erano davvero delle creature matte come suo fratello e tutti gli altri piloti. Se era vero, sarebbe stato un guaio, anche se il piano d'attacco prevedeva piuttosto la necessità di evitare una battaglia spaziale. Chaeron aveva studiato inoltre un 'paio di alternative, nel caso che l'irrazionalità di Marada lo costringesse a fare a meno di lui e della sua nave. Fino a quel momento si stava dimostrando ragionevole, ma il Console non riusciva a fidarsi della sua mentalità imprevedibile. Tuttavia uno sgarro di Marada non gli sarebbe giunto sgradito, visto che Parma li attendeva entrambi alla prova dei fatti. Forse quella poteva rivelarsi l'occasione buona per dimostrare al padre chi dei due valeva l'eredità dei Kerrion. Prima di partire da Draconis, Valery Stang gli aveva detto che a suo parere la possibilità che le astronavi rifiutassero di combattere fra loro non era da scartare. Poi però aveva aggiunto che in questo senso si aspettava meno difficoltà dalle navi che dai piloti stessi. La cosa aveva fatto nascere nella mente di Chaeron l'ipotesi che Marada non fosse dopotutto un completo idiota, e aveva deciso di parlarne nuovamente con Parma. Con suo disappunto il vecchio patriarca s'era intestardito nel dichiarare che i piloti erano degli sbalestrati, e che bisognava controllarli con mano ferma, confermando una strategia d'attacco che a Chaeron era apparsa troppo rischiosa per chi doveva stare in prima linea. Dalla faccenda aveva se non altro tratto un vantaggio: quei due giorni di discussioni prima della partenza lo avevano avvicinato al padre in un modo che fin'allora non aveva mai osato sperare. Insieme al Danae, pilotato da Stang, volavano in formazione serrata al-
tre tre astronavi, una delle quali era l'Hassid. A bordo di questa, oltre a Marada e a due piloti di riserva, viaggiavano trenta uomini della milizia di Kerrion, tutti ex poliziotti equipaggiati con armi leggere. Fissato alla consolle dei comandi c'era sempre il Cubo di Arbitraggio, le cui funzioni proseguivano ininterrottamente. Nulla poteva arrestare l'inchiesta a cui era stato dato il via: insensibile, ineluttabile come il Fato, l'oggetto assorbiva e valutava dati, per importanti o insignificanti che fossero. Era collegato ai circuiti dell'Hassid, e tramite esso a tutte le altre astronavi e alle menti elettroniche da loro raggiungibili. Gli impulsi che fiottavano all'interno della sua struttura erano milioni, e la sua opera di setacciamento non ne trascurava alcuno. Chaeron trovava detestabile l'idea che quel cubo li seguisse perfino durante l'attacco a Shechem e durante la battaglia, se battaglia vi fosse stata intorno alla piattaforma privata dei Labaya. Il suo piano personale era basato sul tentativo di impadronirsi di Shechem senza colpo ferire, giungendo rapidi e inattesi su una preda impossibilitata a difendersi. Parma aveva ben chiarito che ai suoi ordini non si doveva trasgredire, ma Chaeron contava che la piccola variazione da lui progettata non sarebbe mai stata notata dal padre. A meno che il vecchio non fosse andato a esaminare le registrazioni di quel dannato cubo. Il giovane Console sbuffò a quel pensiero, distendendosi meglio sulla poltroncina sagomata. Si sentiva intorpidito dalla lunga immobilità, ma nel Danae non era rimasto più molto spazio per muoversi. L'eccessiva vicinanza con altre persone era un inconveniente a cui non era mai stato proclive ad abituarsi. Ciascuna delle quattro astronavi era al limite della capienza, e tutto l'arredamento di lusso era stato sostituito con cuccette dove gli uomini si stipavano spiacevolmente. Valery Stang viveva e dormiva seduto al posto di pilotaggio, e Chaeron s'era visto costretto a trascorrere anch'egli le notti in plancia. Ma preferiva il silenzio del pilota, perduto nel contatto mentale con la sua nave, alla promiscuità dei militari accalcati nelle cabine. Gli gettò un'occhiata di traverso. Stang non gli era simpatico, e lo sopportava bene solo quando almeno stava zitto. Ma stava cominciando a pensare che perfino le chiacchiere del pilota gli avrebbero fatto piacere, piuttosto che rimuginare interminabilmente le sue preoccupazioni e le domande senza risposta su ciò che li attendeva. Erano emersi dall'Effetto Spugna a grandissima distanza da Shechem, rallentando fino a metà della velocità della luce. In seguito avevano ancora
diminuito la spinta, inserendosi nelle stesse orbite fortemente ellittiche seguite dalle comete aggregate a quel sistema planetario. Si trattava di miriadi di corpi vaganti nello spazio, per la più parte così piccoli che nessun astronomo si sarebbe preso la briga di segnalarli. Mescolate con essi, le quattro astronavi avrebbero potuto esser notate solo per la differenza di velocità, ma i computer stimavano altissime le probabilità di avvicinarsi a Shechem senza essere rivelati dagli strumenti della piattaforma. Ciò che preoccupava Chaeron era l'eventualità di incrociare una nave da carico di quello o altri Consolati, o che su Shechem si fosse rafforzato il servizio di vigilanza. Il vecchio Labaya non era certo uno sciocco, e poteva aver mandato fuori delle pattuglie in giri di sorveglianza. Si sporse verso i monitor e li osservò a lungo, in cerca di segnali che rivelassero la presenza di un'astronave, ma non vide nulla. Accanto a lui Valery Stang stava attento allo spazio con efficienza certo maggiore, collegato ai sensi del Danae che gli fungevano da occhi e orecchie. Borbottando fra sé Chaeron sfiorò un interruttore e mutò l'intensità luminosa della cabina, dandole un tono dorato. Il suo gesto distrasse Stang, che uscì dalla comunione telepatica con la sua nave e gli rivolse un sorrisetto. «Sei nervoso, Signor Console? Niente paura: lo spazio è vuoto, e scommetto che non incroceremo nessuno fino a destinazione». Si alzò dalla poltroncina e si stiracchiò pigramente. «È ora di buttar giù un boccone. Ti ordino qualcosa alla mensa dell'equipaggio?» Chaeron non aveva distolto gli occhi dagli strumenti. «Dove pensi che siano le navi di Labaya? Ci starà aspettando?» «Se ha un grammo di sale in zucca le ha già spedite verso Draconis. E questa sarebbe la cosa migliore per noi. Dai retta a me, rilassati e piantala di tormentarti». Il suo tono si fece più intimo: «Se stai ancora pensando a tua moglie, e alla festicciola a cui mi avevi invitato... Voglio dire, mica è per via di quel fatto che ti ha piantato in asso, vero?» «Non ce l'ho con te, se è questo che mi stai domandando». Chaeron strinse i denti, seccato. «Va bene, portami qualcosa da mangiare». «Sempre agli ordini, Signor Console!», esclamò l'altro, uscendo. Chaeron attese che la porta si richiudesse alle sue spalle per inviargli un insulto sottovoce. Stang possedeva il dono di saper lasciar cadere nel discorso osservazioni simili a carta vetrata per i suoi nervi. Anche il suo accenno al fatto che la flotta labayana poteva essere in viaggio per Draconis era stato intriso di spiacevole ironia, quasi che lo divertisse il pensiero di Parma Kerrion pronto a uscire nello spazio per dar battaglia al rivale.
Per distrarsi un po' Chaeron si rivolse al cervello del Danae, a voce, chiedendogli la comunicazione con l'Hassid. Docilissima, l'astronave gli rispose in tono cortese e gli accese anche uno schermo video, che però rimase bianco. «Sì?», giunse la voce impaziente di Marada, non accompagnata dalla sua immagine. Chaeron ignorò quella scortesia. «Ti ho chiamato per sentire se tutto è a posto», disse, cercando di visualizzare dal tono l'espressione di lui. «Va tutto bene, sì». «Valery pensa che forse Labaya sta attaccando Draconis». «Può darsi. E con ciò?» «Niente. Vorrei sapere che ne pensi». «Le mie ipotesi ti interessano tanto?» «Avrai pure un'opinione». «Dio delle stelle, Chaeron! Non hai di meglio da fare che seccarmi coi tuoi dubbi di stratega? Hai a bordo una truppa di gente che se ne intende più di me, consigliati con loro. Io ho da fare, al contrario di te. Se Labaya ha mandato delle navi, questo è un problema di Parma. È rimasto a casa apposta, no?» «Volevo anche avvisarti che intendo fare una piccola modifica al piano d'attacco, e pregarti di spegnere il tuo Cubo». «Spiacente», disse secco Marada. «Il Cubo di Arbitraggio deve restare in registrazione. Inoltre non posso essere d'accordo con nessuna iniziativa in contrasto con gli ordini». «Non hai ancora sentito di che si tratta». «Fa lo stesso». «Allora dichiara pure al tuo Cubo che non sei d'accordo. Ma qui comando io e tu ubbidirai ai miei ordini senza discutere, altrimenti il tuo verrà considerato un ammutinamento e prenderò le misure opportune. È chiaro?» «È abbastanza chiaro, sì. C'è altro?» Chaeron non poté resistere alla tentazione di essere il primo a interrompere la comunicazione. Quando si volse vide che Valery era entrato, e con le spalle pigramente appoggiate alla porta stava sogghignando. «Ben detto, Console!», approvò. «Non avresti dovuto origliare», lo rimbrottò Chaeron. L'altro venne a consegnargli un vassoio sigillato contenente un pasto
completo, che il giovanotto aprì e depose sulla consolle. «Quando intendi mettere in atto questa piccola modifica?» Esaminando il cibo con scarsa soddisfazione, Chaeron rispose che innanzitutto doveva vedere se fossero riusciti ad accostarsi a Shechem senza incontrare opposizione. Valery sedette, aprì il proprio vassoio e non chiese altro finché non ebbero terminato di mangiare. Solo allora riprese il discorso dove l'avevano lasciato: «Quando, esattamente, pensi di avere questa sicurezza? Fra poco saremo a tiro delle loro armi a lunga gittata. In teoria siamo già entro la portata dei loro strumenti». «Già. Ma sembra che non ci stiano mandando incontro nessun comitato di ricevimento. Questo può voler dire che li stiamo ingannando bene, o forse che sono più furbi di quel che pensiamo». «Ti aspetti una trappola?» «Non ho detto questo. Può darsi che stiano dormendo tutti, o che siano degli sciocchi. Non posso saperlo... Forse mi preoccupo per niente. Non vorrei sottovalutare Labaya, ma farlo più astuto di quanto sia potrebbe essere uno sbaglio ancor peggiore... Hai detto qualcosa?» «No. Parlavo fra me», borbottò il pilota, stendendosi nella sua poltroncina. Chaeron notò che adesso Valery Stang appariva più serio e lievemente nervoso. Certo ciò che aveva fatto agli ordini dell'Associazione Piloti e altre sue malefatte più personali dovevano tornargli alla mente, trovandosi faccia a faccia con lui. Il suo disagio gli fece piacere. Da parte sua il pilota era sorpreso di Chaeron. Quel giovanotto eludeva le sue capacità di analisi: talvolta impenetrabile, talaltra stranamente allusivo, sempre incomprensibile e freddo come un pesce. Era diversissimo da suo fratello Julian, così trasparente che la sua faccia era una finestra aperta sull'anima. Julian... Valery sospirò a quel pensiero, assalito da un insieme di ricordi, di fatti e di parole, che come tessere di un mosaico si univano a formare ciò che era stato il giovanotto per lui. Julian era partito con David Spry, senza preavviso e con chissà quali intenzioni. E con Shebat. Cosa meditava di fare Spry? E a lui, Valery, cosa conveniva fare adesso? D'un tratto di accorse che il Console gli aveva domandato qualcosa. «Scusa. Ero distratto». «Stavo dicendo che devi tener d'occhio la nave di mio fratello. Avvertimi se si scosta anche di poco dalla formazione. Non sono tranquillo su di lui». A spiegazione di quella frase si limitò ad inarcare un sopracciglio con
lieve enfasi. «Certo, Signore». Ma Valery non aveva bisogno di quell'ordine: era dal momento del suo ritorno a Draconis che Marada focalizzava tutta la sua attenzione. Lo aveva sorvegliato ora per ora, sempre in attesa dell'occasione di agire, di un suo momento di rilassatezza, di uno spunto sfruttabile. Marada e la memoria dell'Hassid costituivano un chiaro pericolo per l'Associazione Piloti. Per motivi suoi personali Parma aveva messo la museruola all'Arbitro, ma era evidente che Marada ne sapeva fin troppo, e che i Kerrion attendevano solo l'attimo più propizio per far scattare la loro giustizia. Quella tregua dovuta ai loro contrasti con Labaya gli faceva comodo, intanto, per restare a bordo del Danae. Qualunque cosa fosse accaduta, un'astronave era un'astronave. E più se ne possedeva meglio era, in vista dei futuri scontri che il Confine avrebbe avuto coi Kerrion nella sua lotta per l'emancipazione. Libertà per il Confine, e controllo sulle astronavi del signor padrone, ecco gli scopi per cui Valery aveva lavorato negli ultimi dieci anni. Ma ora, visti gli sviluppi della situazione, l'unica era probabilmente impadronirsi di alcune delle navi migliori: il Danae, le altre due, e magari anche l'Hassid, senza trascurare il suo pilota. Di nuovo le sue riflessioni furono interrotte dalla voce di Chaeron: «Apri le orecchie, amico. Ecco qui quello che faremo....» E gli spiegò i particolari dell'azione, incurante dello stupore che pian piano invase il volto del pilota. A bordo dell'Hassid, Marada trovò gli ordini di Chaeron non meno sorprendenti, appena ne venne a conoscenza. Controllò l'ingresso di quei dati nel Cubo di Arbitraggio, e gli parve che la linea scarlatta fosse diminuita impercettibilmente di spessore. Poi lasciò che l'Hassid seguisse i dati di rotta trasmessigli dal Danae. Ad appena mille chilometri di distanza da Shechem, la dura richiesta di resa incondizionata che Chaeron inviò a Labaya non fu sotto forma di parole: un raggio laser, una micidiale ventata di ioni idrogeno negativi, sventagliò per dieci secondi la piattaforma mandandone in avaria tutte le apparecchiature elettroniche. Il piano originale aveva previsto un avvicinamento contemporaneo da quattro lati, teso a distruggere unicamente le armi a lunga gittata di Shechem. La strategia di Chaeron fu più spietata, perché tenendo unite le sue navi ne usò la potenza di fuoco in modo non altrettanto selettivo. A Mara-
da fu chiaro che il fratello non voleva correre rischi. Colpita da quel raggio la piattaforma si trasformò in un mondo inerte e spento, un asteroide abitato da esseri umani ormai privi delle loro macchine. Marada ne fu incollerito e disgustato. Nulla giustificava un'aggressione che mettesse in pericolo tutti gli esseri viventi di Shechem. Osservandolo sugli schermi vide che la grande piattaforma sospesa nello spazio era priva di movimenti, muta su ogni lunghezza d'onda. Sulla sua superficie non si scorgevano più attività, nessuna navetta usciva dalle enormi camere stagne dell'astroporto, nessuna voce attraversò l'etere per chiedere la grazia del nemico. Il giovanotto si sentì stringere il cuore da un presagio funesto. L'ansia gli bloccava la gola. Inchiodato nella sua mente c'era ancora il viso di Madel come l'aveva visto l'ultima volta, pallido e sfatto dopo il parto. Rivedeva la testa leonina di Selim Labaya fuori di sé per l'ira, e l'espressione vuota del neonato la cui coscienza vagava in chissà quale realtà informe e nebulosa. In preda a un tremito d'angoscia di cui non capiva il motivo batté selvaggiamente i pugni sui comandi. A quel gesto l'Hassid reagì allarmato, confermandogli che secondo i dati in suo possesso tutto andava bene. Gli schermi ingrandirono l'immagine di Shechem, su altri monitor comparvero schemi che dettagliavano i danni subiti dalla piattaforma, e le aree dove ogni vita elettronica era spenta. Ma il giovanotto non gettò un'occhiata a ciò che gli strumenti dell'Hassid gli mostravano. Invece di tranquillizzarlo, l'astronave ottenne di farlo precipitare in una depressione sfumata di vergogna e di tristezza. Dieci minuti più tardi un gracidio scaturì dalla radio ricevente, e gli strumenti cercarono di focalizzare quella che risultò essere una trasmissione proveniente da Shechem. Spezzata dalle scariche, una voce emozionata quanto debole risuonò infine nella plancia delle quattro astronavi. Gli uomini si tesero avanti per capire quelle parole a stento decifrabili: «Scalo chiama astronavi di Kerrion... qui Shechem... daremo ingresso al... Ripeto, il Console Generale è purtroppo... non siamo in grado di opporvi alcuna... rimane energia per l'apertura delle camere stagne. Potete atterrare secondo coordinate... ma ormai privi dell'autorità dobbiamo...» La voce si perse in un crepitio elettrostatico. «Che cosa, per tutte le stelle, è successo laggiù?», ansimò Marada, coprendosi il volto con le mani. «Sto ricevendo dal Danae istruzioni per la procedura di atterraggio», gli comunicò l'Hassid, preoccupato dal suo stato d'animo.
Il Danae ricevette il riflesso della disperazione di Marada attraverso l'Hassid, che stava reagendo con una sorta di sofferenza elettronica a quella psichica del suo pilota, e cercò di fargli coraggio nel modo rozzo che usavano le astronavi fra di loro. Ma al Danae non era piaciuto annientare le banche dei dati e gli altri cervelli artificiali di Shechem, coi quali sentiva una certa affinità. Gli era parso un tradimento verso la sua stessa specie. Inoltre Valery Stang gli rifiutava il contatto mentale completo, e lo sentiva freddo e distante, chiuso nei suoi pensieri un po' come Marada a bordo dell'Hassid. Questo gli dispiaceva, perché il Danae viveva per fremere sotto il tocco del suo pilota, per esistere insieme a lui nell'immenso spazio dove vibravano le energie eterne. Detestava i momenti in cui egli si appartava, pur sapendo che doveva avere i suoi buoni motivi per farlo. Fu comunque la parziale assenza del contatto col suo pilota che permise al Danae di parlare con l'Hassid, e di inviargli la sua comprensione. Poi l'astronave si dedicò alla manovra. Era una cosa buona, positiva, accostarsi a Shechem in perfetta esecuzione degli ordini ricevuti, insieme agli altri vascelli. Era bello scivolare con precisione verso le porte stagne, eseguire il rituale d'ingresso, sentire i campi di gravità sommarsi e bilanciarsi, e intanto controllare che il tutto avvenisse secondo l'armonia delle istruzioni programmate. Il piacere quasi fisico di una manovra bene eseguita era incrementato dalla consapevolezza che a bordo c'erano uomini, e che essi per sopravvivere necessitavano di attenzione da parte di ogni servomeccanismo. Una brava astronave poteva provare disagio al solo pensiero che qualcosa funzionasse male, e soddisfazione allorché il pilota era ben tutelato nel suo interno. I quattro vascelli avanzarono lenti lungo le piste di attracco e si poggiarono su di esse, lieti di aver eseguito l'operazione senza difficoltà. Nessuno di essi venne spento, ovviamente. Le loro telecamere controllarono il grande astroporto, poi i portelli si aprirono e da essi uscirono gli uomini armati. Lungo la strada centrale si stava avvicinando un gruppo di ufficiali e funzionari di Shechem. Nell'inquadrarli le quattro astronavi non ebbero bisogno di captare la preoccupazione dei loro piloti, per intuire che in quegli uomini c'era qualcosa di insolito e di inaspettato. Nello spazioporto brillavano solo le luci di emergenza, anch'esse piuttosto deboli, e c'era il silenzio più assoluto. Solo due terzi degli uomini di
Kerrion erano scesi a incontrare i labayani, e per precauzione Chaeron aveva ordinato ai piloti di riserva di restare ai comandi. Poi s'era portato accanto a Marada, tanto per esser pronto a prevenire eventuali bislacche reazioni del fratello. Ma Marada aveva già capito ciò che per Chaeron non era ancora evidente. Egli sapeva, dalla presenza di alcune facce e dall'assenza di altre in quel comitato di ricevimento, che era accaduto qualcosa di grave. Aspettava solo di udire con le orecchie quel che aveva già sentito col cuore. Ad un tratto non fu più capace di attendere e s'incamminò verso il labayano che precedeva gli altri, il Comandante della Polizia di Shechem, che sebbene impassibile aveva l'aria di avanzare sotto un peso che gli incurvava le spalle. Dopo un istante di esitazione Chaeron accennò ai suoi uomini di allargarsi per tener sotto controllo la zona, e si avviò dietro di lui a passi svelti. «È meglio andar cauti. Aspetta», mormorò, affiancandolo. «Non vedi che sono disarmati?», sbottò l'altro. La polizia di Shechem indossava divise verdi ornate con lo stemma del dragone rampante, e i due fratelli notarono subito che gli uomini avevano incollato una striscia nera trasversale sulla testa dell'animale. Ma non ebbero tempo di fare ipotesi su quel fatto. «Buongiorno, Signore», disse il Comandante rivolto a Marada, senza alcuna acrimonia. Appariva disfatto, e fu con una sorta di rassegnata apatia che gli tese la mano. «Posso solo pregarvi di non commettere altri atti ostili». Marada gliela strinse per indicargli la loro buona volontà. «Non preoccupatevi. Badate a mantenere l'ordine fra la vostra gente. Questo è mio fratello Chaeron Ptolemy Kerrion, Console di Draconis e al comando della nostra spedizione militare». L'uomo presentò in fretta se stesso e un paio di quelli che erano con lui, quindi assicurò Marada che i militari di Shechem avevano già istruzioni di collaborare con la forza di occupazione. Incaricò alcuni funzionari di scortare gli uomini di Kerrion a ispezionare e rendere del tutto inattivi i sistemi d'arma della piattaforma, e parve sollevato quando vide sbarcare dal Danae una centrale di energia d'emergenza. Shechem non avrebbe potuto sopravvivere a lungo senza di essa. «Signori», disse poi. «Desiderate vedere subito i corpi?» «Cosa?», esplose Chaeron. «Sì», disse invece Marada con calma, quasi che si fosse atteso proprio
quella frase. Il Comandante si volse a Chaeron. «Si tratta di suicidio, signore. La ragazza... lei è stata la prima. Poi il Console Generale, quando ha scoperto il cadavere della figlia, e quindi anche... be', vedrete da soli, signori. Ma le loro due salme sono quelle che vi interessano, suppongo». Gli occhi dell'uomo restarono inespressivi come due cristalli di ghiaccio. Nelle sue vene scorreva un po' del sangue dei Labaya, e la discendenza era visibile anche dai lineamenti del volto. Da quell'annuncio trapelava la decisione di spianare diplomaticamente il terreno a futuri negoziati, atteggiamento questo invece troppo mite per un Labaya. «Quando è successo?», chiese Marada. «All'incirca nello stesso momento in cui le vostre navi comparivano sui nostri schermi, Signore. Credo che gli inservienti abbiano appena finito di comporre le salme». A denti stretti Marada si volse a fissare il fratello, in un silenzio carico di livore. Dallo sguardo che i due si scambiarono, i labayani poterono solo desumere che la notizia aveva fatto nascere nel giovanotto dalla barbetta nera una violenta ostilità per l'altro, e che quest'ultimo pareva infischiarsene. Mezz'ora più tardi quei sentimenti non s'erano ancora smorzati, mentre Marada e Chaeron entravano da soli nella vasta cappella dov'erano stati composti i corpi. I loro passi risuonarono in un'atmosfera quindici gradi più fredda di quella esterna, silenziosa e illuminata soltanto dalle candele poste attorno ai dodici catafalchi. «Polvere alla polvere, cenere alla cenere», recitò Chaeron nel fermarsi. Inarcò ironicamente un sopracciglio. «Forse dovrei trovare parole più poetiche, ma la docilità con cui la schiatta dei Labaya ha tenuto dietro al capofamiglia mi sembra soltanto ridicola». «Allora esci di qui!», ringhiò Marada. «Caro fratello, purtroppo il dovere m'impone di condividere il tuo lutto. E poi non vorrei che anche tu facessi un gesto disperato sul corpo della tua amata». Di nuovo Chaeron non mascherò il sarcasmo, a sottolineare che conosceva benissimo la sua totale indifferenza per Madel. Come tutta risposta Marada sibilò un insulto che trasformò il volto dell'altro in una maschera ancor più rigida e fredda di quella di Selim Labaya, presso il quale erano state disposte alcune delle sue più preziose piante rare. Il vecchio era stato vestito di un abito ricamato in oro per quella sua ul-
tima comparsa in pubblico. Anche a Madel avevano messo una veste ricchissima, che nascondeva la sua deformità alle gambe e riusciva a farla apparire stranamente bella. Fissando il suo volto prematuramente sbiancato nell'immobilità eterna si sentiva stringere il cuore. Era diversa dalla persona che aveva conosciuto, e non solo perché in quella posa gelidamente composta sembrava più graziosa, ma soprattutto perché la morte gliela mostrava ora in tutta la sua tragedia, in tutta la sua umanità tanto spesso ferita e umiliata. Per la prima volta egli riusciva a vederla in prospettiva, con alle spalle quella che doveva esser stata la sua vita, e la consapevolezza che ella lo aveva amato era come una spada di fiamma i cui fendenti gli straziavano l'anima. Un'immensa pietà per quella giovane donna gli strappò due lacrime dagli occhi. «Oh, Signore, come inganniamo noi stessi quando crediamo di capire razionalmente il tuo universo», mormorò fra sé. Spostò lo sguardo su Selim Labaya. «Ma non comprendiamo neppure cosa siano la vita e la morte: dinanzi all'una restiamo indifferenti, e quando avviene l'altra non sappiamo che pronunciare parole di circostanza con sguardi ottusi». «Per la galassia, Marada! Ma se quando era viva non la guardavi neppure!», si spazientì l'altro. «Resta in silenzio o vattene. Ciò che non era accaduto per colpa mia, tu sei riuscito a portarlo a termine». «Colpa? Non vedo colpe qui, né motivo di cercarne». «Ti consiglio di aprire gli occhi sulle tue, invece, perché dovrai affrontare le conseguenze». «Mi stai minacciando?» Mardada gli indicò i corpi senza vita. «Tu hai la responsabilità di questo. Tu, col tuo attacco irragionevole e spietato, hai convinto Labaya che eri qui per annientarlo e ucciderlo». «Stupidaggini. Questa è invece la conseguenza della tua incapacità di generare un figlio sano. Ecco la verità. Perché credi che Madel si sarebbe suicidata, altrimenti?» Marada scosse la testa più volte, a denti stretti, rifiutando quell'ipotesi con tutta la sua volontà. «Staremo a vedere», disse. Gli volse le spalle e uscì a passi lunghi. Chaeron lo seguì con lo sguardo, più amareggiato che offeso dalla sua accusa. Poi si accostò lentamente alla bara di Selim Labaya. La sua mano destra sfiorò una spalla della salma, quasi per farsi perdonare l'ironia irrispettosa di poco prima.
«Mi spiace per te, vecchio leone. Non dovevi far questo. A mio padre sembrerà di aver perduto una parte dell'anima, insieme al più amato dei suoi nemici». Suo malgrado Chaeron aveva provato reverenza per il vecchio Labaya più che per chiunque altro, eccetto il padre. Ma come molti altri patriarchi di antiche Famiglie Consolari anch'egli aveva avuto una primitiva propensione per il drammatico, per l'emotività che surclassa ogni ragionamento logico. Marada stesso era di quella pasta, e la pericolosità di una tale struttura mentale dava sempre risultati costruiti sul dolore: quei dodici cadaveri allineati stavano a testimoniarlo. La loro scelta gli restava del tutto incomprensibile, perché la morte era ai suoi occhi non tanto una scelta quanto una rinuncia alla possibilità di scegliere. La fuga definitiva dalla vita non era giustificata né dalla perdita dell'onore né da quella dell'amore, perché la prima esigeva che la si vivesse e la si pagasse di persona, mentre la seconda faceva parte del fardello che ogni essere umano era obbligato a tenere sulle spalle. Osservando il corpo di Selim Labaya si chiese come avesse potuto aprire la porta del nulla eterno, lui che aveva tanto bruciato delle sue passioni sanguigne. Il brivido con cui si volse per andar via non fu causato dalla temperatura bassa del locale. La vista di quegli involucri senza respiro gli faceva sentire intenso come non mai il bisogno di dilatare i polmoni e respirare la vita. Fu perciò quasi grato al pensiero che lo distolse definitivamente da quelle sensazioni funeree: la minaccia di Marada non andava presa alla leggera, perché nella sua distorta ossequienza ai suoi doveri di Arbitro egli poteva cercare d'incriminarlo, o quantomeno di inchiodarlo dinnanzi a Parma alla responsabilità di quei suicidi. A lui la cosa appariva lampante: Selim Labaya s'era ucciso per il dolore dopo il suicidio della figlia, ed era stato un puro caso che ciò fosse avvenuto al momento del loro arrivo... O forse Madel s'era data la morte già prima? Quei pochi minuti di differenza in più o in meno potevano dunque rivelarsi cruciali, agli effetti di ciò che Marada si riproponeva di dimostrare a Parma. Ma di certo, rifletté, il suicidio non poteva esser messo in relazione col piccolo cambiamento da lui apportato al piano del padre. Da questo lato si sentiva abbastanza tranquillo. Probabilmente la sua causa era soltanto ciò che egli aveva detto esplicitamente a Marada: l'incapacità di Madel di accettare la triste realtà di quel neonato, la normale depressione post-partum, e la fuga dell'uomo che avrebbe dovuto invece restare al suo fianco.
Chi poteva biasimarla? E come se non bastassero queste mazzate, aveva dovuto vedere suo padre che bestialmente ordinava di ammazzarle il marito. Madel non era stata una donna del popolo. Aveva vissuto entro i privilegi del suo rango come fra sbarre d'oro, e per lei quel figlio avrebbe significato la continuazione di una realtà e di un prestigio senza cui non poteva vivere. Uscendo fra i suoi uomini che lo attendevano schierati fuori dalla cappella, Chaeron rifletté che almeno Madel non aveva voluto coinvolgere il neonato nel suo dramma. Da un accenno captato fra i labayani aveva saputo che il piccolo era sempre vivo. Fu quel pensiero che lo fece trasalire, e nel voltarsi intorno a cercare Marada vide che non c'era. Si volse al comandante della sua scorta. «Mio fratello è tornato all'astroporto?» «No, Signore. Ha detto a un labayano che voleva vedere suo figlio. Alla Residenza Consolare, credo». «Seguitemi. Andrò là anch'io». «Ma Signore, ha... ehm, ha lasciato ordini del tutto opposti», disse l'altro, a disagio. «Sono io che do gli ordini qui. Fatemi strada». La scorta annata si affrettò a mettersi in movimento al suo fianco. Giunto alla grande villa dei Labaya Chaeron vide che il luogo pullulava di uomini in divisa verde, sia sul viale d'ingresso che ai bordi dell'immenso giardino botanico retrostante. Prima di entrare si volse a controllare che le sue guardie del corpo fossero pronte ad ogni imprevisto, e fu solo allora che notò l'assenza di Valery Stang. Chiese di lui a uno dei suoi militi. «È tornato al Danae, Signore. Ha detto qualcosa circa un piccolo guasto da riparare. Voi conoscete questi piloti... non gli va che altri mettano le mani sulle loro astronavi». «Mmh. Fategli subito sapere che lo voglio qui. Ma cosa sta succedendo in questa casa?» Irritato Chaeron si accorse che gli uomini in divisa verde uscivano in fretta, e nello spazio di trenta secondi si trovò solo nel vasto atrio della villa. Mandò uno dei suoi ai piani superiori in cerca di Marada, e quasi subito l'uomo tornò accompagnato dallo stesso comandante di polizia che li aveva ricevuti all'astroporto. Alle domande del giovane Console reagì con reticenza e imbarazzo: «Signore, non è facile dovervi dire questo, ma l'Arbitro vi ha rilevato nel comando e...»
«Che ha fatto?», si stupì Chaeron. «È forse impazzito? Cosa gli fa presumere di avere questa autorità? Il Console Generale di Kerrion ha affidato a me il controllo della situazione qui a Shechem». L'altro si strinse nelle spalle. «Signore, voi e vostro fratello mi state mettendo in una situazione molto difficile». Per un attimo fu possibile leggere sul suo viso che gli sarebbe piaciuto poter usare le loro divergenze personali contro Kerrion. Ma le sole navi e le sole armi di grosso calibro restavano quelle in mano alla piccola forza d'invasione, e il suo atteggiamento rimase mite. «Se volete vi condurrò da lui, così deciderete voi chi devo considerare mio diretto superiore pro-tempore». Negli occhi dell'uomo c'era una luce strana che rese perplesso Chaeron, mentre gli teneva dietro su per le ampie scale. Al primo piano fu introdotto in un appartamentino frettolosamente attrezzato a nursery, oltrepassò un'infermiera che sedeva in anticamera con aria stordita e prima ancora di entrare nella stanza di fondo scorse le spalle di Marada. Il giovanotto era curvo sulla spalliera di un lettino, e con le mani attanagliate ad essa stava letteralmente ansimando, scosso da un tremito che aumentò lo stupore di Chaeron. Appena entrato vide che accanto al letto erano state montate alcune apparecchiature mediche, ma le sonde per la nutrizione endovenosa erano staccate, e fra le coltri su cui spargevano il loro liquido non c'era nessun neonato. Marada si accorse della sua presenza solo quando se lo trovò al fianco, e volse su di lui due occhi iniettati di sangue. «Tu...» sussurrò. «Cosa intendi farne di mio figlio? Ti illudi davvero di poterlo usare per ricattarmi?» Chaeron si scostò. «Fratello, sei più lunatico e pazzo di quel che credevo. Di che diavolo stai parlando? E dov'è il bambino?» «Non fare il finto tonto con me. L'Hassid aveva le telecamere in funzione, e abbiamo una registrazione filmata del tuo pilota che saliva sul Danae con un involto fra le braccia. Anche gli ordini dati da Valery alle altre due navi sono stati registrati... I tuoi ordini, come ha detto lui stesso. Ne ho a sufficienza per incriminarti: considerati agli arresti!» Ostentando una calma che non provava Chaeron sedette su un divano, foderato in azzurro come quasi tutto il resto della nursery. «Cosa vai dicendo?» chiese, cercando di far funzionare il cervello. «Le astronavi sono forse partite?» «Sto parlando della tua complicità con l'Associazione Piloti. Certo, come sai bene hanno decollato poco fa. Ma non l'Hassid, che senza un mio
ordine esplicito non sarebbe comunque partito. E mio figlio è stato rapito. Ciò che ora mi dirai è dove l'hanno condotto, e perché». «Guarda di calmarti, fratello. Capisco che tu sia sconvolto, ma per il bene della nostra Famiglia metti da parte un momento la tua brama di accusare me di ogni tuo dispiacere. Penso di poter rispondere alle tue domande senza difficoltà, anche se non sono coinvolto nella faccenda. E anche tu dovresti riuscirci, usando un po' di logica. Nel frattempo, finché la questione non sarà sottoposta all'autorità di nostro padre, io manterrò il comando. Ti faccio presente che devi solo al fatto d'essere un Kerrion se non ti ho già messo agli arresti». Dopo una pausa significativa Chaeron continuò: «In quanto al dove, è chiaro che sono andati nello stesso luogo dove a suo tempo avevano portato il Marada. Perché hanno fatto questo è altrettanto evidente: vogliono adescarti e farsi inseguire da te. È per questo che ti hanno lasciato l'astronave. Perfino io so che un pilota esperto come Valery avrebbe potuto portarsi via l'Hassid con qualche espediente tecnico. E se lo avesse fatto, tu ora non sapresti non solo com'è successo ma neppure chi è stato. Invece ti hanno lasciato in possesso della nave e di queste utili informazioni, affinché tu reagisca esattamente come Valery desidera. Di conseguenza, se fossi al tuo posto, non mi muoverei da qui». «Immagino che ciò ti piacerebbe, vero? Invece li inseguirò». «In tal caso verrò con te». «Ti ho già detto che sei in arresto». «Tu sei in arresto», sogghignò Chaeron. «Ma diciamo che per l'occasione ti rilascio sulla parola». Marada lo fissò un poco, come svuotato di ogni emozione. «Non è possibile andare tutti e due», disse poi. «Infatti. Se uno di noi lascia Shechem l'altro deve restare qui e in possesso di tutta la sua autorità». Sentendo il comandante labayano tossicchiare Chaeron si volse alla porta e gli fece cenno di entrare. «Quanto tempo prevedete che occorra per rimettere in condizioni operative quattro delle vostre navi?» «Al minimo tre giorni, Signore. Ma devo sapere chi di voi è l'autorità cui mi devo rivolgere, qui su Shechem». Chaeron capì che la perplessità dell'uomo non era ingiustificata, visto che Marada poteva avanzare pretese legali sull'intera eredità di Selim Labaya. Mantenne perciò un tono duro: «L'unica autorità è la mia», stabilì. Il labayano interrogò Marada con un'occhiata. Il giovanotto ebbe un ge-
sto vago e borbottò: «Seguite pure i suoi ordini. Ma continuate a richiamare tutte le astronavi, e a diffondere notizie su quanto è accaduto». L'uomo annuì e uscì, chiudendo la porta. Senza guardare il fratello Marada si accostò al lettino, sedette sul bordo e sfiorò con un gesto accorato il posto dov'era stato disteso il neonato. Poi si coprì il viso con le mani e chinò il capo, incapace di trattenere un ansito, mentre fra le sue dita filtravano parole che Chaeron doveva ricordare più di ogni altra cosa successa fin'allora su Shechem: «Sai qual è l'aspetto peggiore di questa situazione, fratello? Selim Labaya non ha mandato nessuna forza d'attacco contro Draconis, sebbene intuisse cosa gli stavamo facendo... Non una sola nave annata, piena di uomini e di odio come le nostre, è stata inviata a minacciare Lorelie. E sai perché non lo ha fatto? Per amore di Madel... perché lei lo ha supplicato di non fare del male a me e alla mia Famiglia. Perché entrambi ancora speravano che un giorno io avrei ritrovato abbastanza onore e coraggio da tornare dalla mia sposa!» Marada si volse a fissarlo con occhi spenti. «Tutto questo risulta da una registrazione. Capisci?» Quasi senza rendersene conto Chaeron gli si avvicinò e gli sedette accanto, cedendo all'impulso di appoggiargli una mano su una spalla. Marada non la scacciò. Restò immobile a fissare le coltri finché la mano del fratello perse un poco della sua spontaneità affettiva e si fece più rude e cameratesca. Ma pian piano la disperazione che gli aveva empito gli occhi di lacrime scivolò via dal suo viso. Il giorno artificiale di Shechem si stava ormai mutando in notte, quando Marada lasciò la villa per andare all'astroporto a cercare il conforto dell'Hassid. Capitolo 15 Shebat Alexandra Kerrion sedeva da sola nella sua astronave, il Marada, pronta ad uscire dallo Spazio Spugna. L'arcobaleno delle luci multicolori sparse sulla consolle si rispecchiava nei suoi occhi, distrattamente fissi sui comandi. Intorno a lei la plancia era un grande utero caldo e confortevole, dove tutto sembrava dirle: non c'è nulla che noi non possiamo fare. Avrebbero avuto bisogno sia della loro abilità che della fortuna, per uscire incolumi nello spaziotempo da cui erano schizzati via molti giorni
addietro. Ma la fanciulla si sentiva quasi a cavallo di un purosangue fremente e in piena corsa, e quella ottusa euforia la rendeva incapace di lucide preoccupazioni. Con un sospiro si disse però che non c'erano cavalli nella Confederazione. E in quanto al traguardo della corsa esso era soltanto l'ignoto, perché nulla lasciava ormai prevedere come sarebbe stato il domani. Appoggiò un dito su una placca color rubino, la cui luce intensa parve penetrarle nel polpastrello fino all'osso. Si accese uno schermo e su di esso comparve la figura a mezzo busto di Julian, inquadrato di fronte e chino con aria assorta sui comandi del Bucephalus. Sessanta metri di spazio continuavano a dividere le due astronavi, ma grazie al cavo la fanciulla poteva ingannare il tempo facendo lezioni di pilotaggio al giovanotto. David Spry giaceva sempre inerte, un fantoccio la cui mente non accennava a separarsi da quella danneggiata e ferita dell'ex ammiraglia dei Kerrion. Se non fosse stato per lui, la situazione sarebbe apparsa rosea agli occhi di Shebat. Ora Spry non aveva altra speranza che il loro aiuto, ed era spiacevole pensare che forse non potevano far nulla per lui. Se Softa l'avesse vista, pensò, le avrebbe detto che si tormentava troppo e le conveniva prendersela più tranquilla. Ma in quelle tre settimane ella aveva a stento dormito. S'era tenuta sveglia a forza di pasticche, pur sapendo che queste non potevano sostituire il sonno, e cominciava a sentirsi un tantino irreale. Eppure dovevano mettercela tutta, e condurre in salvo il Bucephalus in quel luogo extragalattico chiamato il Confine. Non voleva permettere a nulla d'interferire con quella ferrea decisione. C'erano stati momenti in cui non riusciva più a ricordare perché volesse farlo, o da quanto tempo lo stesse facendo, o se il semplice fatto di agire significava che stavano mirando a un obiettivo preciso. Ma quelle domande, che testimoniavano la sua scarsa lucidità, si spegnevano poi nel contatto telepatico col Marada e nel piacere che le dava ascoltare la sua voce. Le riusciva difficile perfino ricordare che al di là degli strumenti, al di là di quel piccolo mondo circoscritto da paratie metalliche, c'era l'universo con tutto ciò che s'era lasciata dietro. Il luogo a cui stavano dirigendosi era il Confine, qualcosa a lei sconosciuto, del quale sapeva soltanto che era disteso ai limiti dello spazio esplorato. In uno o più punti di esso c'erano piattaforme abitate, isolate, sperdute. Talvolta le pareva che il Confine fosse una sorta di attributo della sua mente, un immaginario confine di se stessa, da valicarsi per sviluppare
la personalità di una Shebat futura. Una volta le era sembrato che perfino la voce di Julian, uscendo dalla ricevente, fosse immaginaria: qualcosa anzi di sospetto, per il solo fatto che proveniva da fuori della realtà del Marada. L'astrocruiser era concreto e vero, all'esterno tutto sfumava nell'allucinazione. C'erano i sensi del Marada che si sommavano ai suoi e li sostituivano. Era difficilissimo per lei staccarsene, uscire da quella terra di meraviglie per tornare alla piccolezza di se stessa. La comunione con l'astrocruiser le forniva un senso di sicurezza, e inoltre scacciava da lei tutti i pensieri tristi e noiosi. Ciò che restava erano emozioni piacevoli collegate alla potenza del loro grande volo nel cosmo, un presente che si lasciava esplorare attimo per attimo, e amore. Ma Marada l'astronave era consapevole di non essere Marada l'uomo, e sebbene facesse di tutto per piacerle, quel fatto restava un po' come una barriera fra loro. Il dolore per l'indifferenza e la leggerezza dell'Arbitro non s'era placato col trascorrere dei giorni, ma ad esso s'era aggiunto il desiderio di rivalsa: avrebbe desiderato diventare bella più di quanto già era, affascinante e spietata, e poi farlo innamorare, e poi mostrarsi fredda com'era stato lui per farlo soffrire come aveva sofferto lei. E forse era proprio quella segreta determinazione ad agirle dentro come una molla, prefigurandole un risultato da raggiungere. Marada l'aveva portata via da un'esistenza misera, l'aveva scaraventata nella Confederazione e nei meandri degli intrighi dei Kerrion, quindi se n'era andato dimenticandosi di lei, e adesso continuava ad esistere sotto forma di una forza invisibile che la spingeva. Ma Shebat si sarebbe irritata, se avesse capito che il suo subconscio seguiva questa puerile linea di ragionamento. Aveva fatto del suo meglio per mutare l'amore in odio, non tanto per risentimento quanto per autodifesa. Il risultato immediato era che non riusciva più a provare né amore né odio, soltanto mortificazione, sogni poco piacevoli da sognare, e forza a cui attingere per arrivare a quel solitario anello di stelle che era il Confine. Su di esso Shebat non possedeva che informazioni frammentarie. Si trattava di una striscia di vecchie stelle disposta in forma anulare, molto probabilmente il residuo esterno di una galassia a cui mancava tutta la parte centrale. Su quali collisioni intergalattiche o quali antichissimi cataclismi vi fossero stati all'origine della sua esistenza, si potevano fare solo ipotesi accademiche. Ma restava il fatto che le sue coordinate erano state immesse
da qualcuno nel Marada, ed esse erano le sole in loro possesso circa un luogo dello spaziotempo molto lontano dalle grinfie della Confederazione. «Shebat», la chiamò l'astrocruiser, con voce non troppo dissimile da quella del suo omonimo sebbene fosse telepatica. La ragazza sospirò, riflettendo che il Marada pareva considerarsi obbligato a svegliarla appena si lasciava andare nell'abisso dei sogni. «Sì, sono pronta», rispose a voce. «Avvertimi quando è il momento». I lunghi silenzi in cui ricadeva, fra una chiacchierata e l'altra con Julian, le riducevano la bocca rigida e ' impastata. I primi giorni di viaggio li aveva trascorsi in continuo contatto col compagno, che necessitava di istruzioni su ogni più piccolo particolare, e ciò l'aveva costretta a parlare e parlare e parlare. Poi aveva scoperto che una volta detto l'essenziale non avevano più molti argomenti d'interesse comune. Buona parte dell'attività di Julian consisteva nel prendersi cura di David Spry, che bisognava controllare e nutrire tramite la complessa apparecchiatura medica. Shebat aveva dovuto sovrintendere a ogni operazione. Adesso i dati fisiologici di David comparivano anche sui monitor del Marada. E insieme ad essi l'astrocruiser riceveva i sintomi sempre più gravi dell'inefficienza del Bucephalus. Nel comprendere l'entità il Marada aveva suggerito di cancellare dal Bucephalus la conoscenza Spry. Questo avrebbe ridotto l'astronave a un comune cervello elettronico, psichicamente morto ma almeno docile ai comandi. Tuttavia l'ipotesi che la mente di David potesse riceverne un danno irreversibile aveva indotto Shebat a rifiutare quella precauzione. Il Marada le aveva fatto presente che ciò era poco saggio, quando era in gioco la vita di tutti loro. Shebat aveva replicato che toccava a lui cercare un modo per districare la mente di David da quella del Bucephalus, e che se non lo riteneva possibile allora doveva fare del suo meglio per condurre in salvo pilota e astronave così com'erano. Dopo quell'ordine secco c'era stata una lunga pausa. Quindi il Marada aveva parlato con voce che sembrava gravida di emozioni umane, benché la ragazza si sforzasse di dirsi che ciò non poteva essere: «Shebat... forse ti ho causato dispiacere? Forse non sto funzionando in accordo coi tuoi desideri? Ho aspettato tanto di poter volare con te, e ora che sei qui mi tratti con freddezza. Non è colpa mia se siamo in questa situazione, ma solo di Spry e del Bucephalus. E quando loro mi fecero partire per il confine, fu perché non avevo ordini tuoi a cui dare la precedenza...»
«Marada!» aveva ansimato lei, improvvisamente a disagio. «Io non mi aspettavo che tu mi avresti parlato con la voce di lui». «L'ho fatto per te. Vuoi che cambi voce?» «Oh, no, no. È abbastanza piacevole, anche se mi sembra strano. Credo di capire perché hai agito così, e ti sono grata». Scoprendosi incapace di ferire i sentimenti dell'astrocruiser, ella s'era chiesta con stupore se davvero esso fosse capace di provarne. In seguito, unendo la mente alla sua così com'era d'obbligo per plasmare lo scorrere del tempo nello Spazio Spugna, aveva capito meglio come stavano le cose. A sua volta il Marada, penetrando in lei, s'era reso conto dei suoi sentimenti. E aveva cancellato dalla sua voce il tono del suo omonimo, rendendola un po' diversa. Se avesse potuto, avrebbe anche cancellato la sofferenza dal cuore di lei. Non capiva la vulnerabilità degli umani a certe cose, e non sapeva bene perché Shebat reagisse sempre intensamente al pensiero dell'uomo Marada. Tuttavia l'astrocruiser aveva la certezza che Shebat provava amore per lui, e questo gli bastava. Ogni suo senso elettronico, ogni istante della sua giornata, erano tesi a captare e prevenire le necessità della ragazza, a curarsi di lei, a ubbidire le sue istruzioni, e non chiedeva altro. Le ricordava le ore dei pasti, tenendoglieli in caldo, le miscelava bibite nel bar automatico con scrupolosa attenzione ai suoi gusti, regolava la temperatura della doccia al centesimo di grado, e sovente bastava una smorfia di lei per indurlo a raddolcire la luminosità della plancia. Talora per distrarla le proiettava filmati o soffondeva nell'aria brani di musica, recuperando quei dati dalla memoria standard fornitagli nei cantieri. La sua ricompensa era nei momenti di totale comunione telepatica. Tuttavia egli continuava a non capire alcuni lati della personalità di lei, e questa impressione di estraneità era diventata quasi un'ossessione: in Shebat c'era qualcosa che gli sfuggiva, qualcosa di indefinito che marchiava tutte le sue reazioni, ed egli desiderava isolare questo fattore per analizzarlo e comprendere come porvi rimedio. «Shebat?», la chiamò, stavolta usando un interfono della plancia. Nessuna risposta, sebbene ella sedesse ai comandi in piena vista degli occhi elettronici dell'astronave. «Shebat, c'è molto da fare», ripeté con pazienza. Delicatamente il Marada cercò di sondare la sua mente, e si accorse che stava pensando ai suoi poteri di incantatrice in erba. Era triste, delusa da essi e piena di rimorsi: non intendeva più fare alcun incantesimo. Quelli
che aveva posto a protezione di Marada e di Chaeron non erano serviti se non a separarli da lei. Erano stati deboli, fallimentari. Anche quello fatto per Softa pareva aver funzionato addirittura al contrario. Com'era stata illusoria e inutile la sua misera magia! No, non sarebbe più ricorsa a nessun incantesimo. Le regole della stregoneria apparivano in qualche modo rovesciate nella realtà materialistica della Confederazione. O esse erano senza presa sui fatti, oppure il suo già scarso talento era scemato man mano che ella assorbiva nozioni basate sul razionale. «Shebat...» mormorò gentilmente il Marada. Forse non avrebbe più dovuto fare neppure la Danza del Sogno... forse lei... Di colpo si riscosse da quei pensieri. Forse cosa? Se avesse rinunciato a tutto ciò, che altro le restava come faro per illuminare un poco il suo futuro cammino? Ma ora doveva attenersi al concreto, e concentrarsi sulla necessità di portare David al Confine. Laggiù c'era gente con cui il pilota aveva avuto a che fare, e costoro si sarebbero occupati di lui. E avrebbero rimesso a posto anche il Bucephalus. Julian avrebbe trovato la libertà, sempre che fosse questo che voleva veramente. E lei? Cosa poteva sperare che le accadesse, cosa cercava, cosa si aspettava? Lei aveva tradito suo marito, il suo padre adottivo e tutto quanto il Consolato di Kerrion. Ora fuggiva verso quella che presumeva essere la gente di David Spry, senza conoscere nulla di loro e senza che ciò le importasse davvero. E questo per il solo motivo che Marada l'Arbitro, non aveva riconosciuto il suo volto? Shebat tirò su col naso, accorgendosi che stava quasi piangendo. Si guardò attorno e cercò di rincuorarsi con la vista delle apparecchiature amiche e familiari. Lei era la pilota e quella la sua astronave. Spry le aveva detto che di fronte a ciò i fatti esterni contavano poco: quella era la realtà di cui doveva occuparsi, la sola che desse soddisfazione. In un certo senso il giovanotto diceva il vero, perché non c'era legame più intimo di quello fra il pilota e la sua nave. La mano di lei sfiorò distrattamente uno strumento, la cui luce lampeggiava a indicare che il Marada era nervoso e bramava il contatto con lei. Ma ella lo tenne a distanza, non volendo condividere con lui la sua tristezza. E d'improvviso le parve ingiusto immergersi nella mente e nella potenza dell'astronave, se ciò significava veder svanire lontane le pene, i suoi legami con gli altri, e tutto ciò che infine faceva parte della sua realtà personale. C'erano cose che non potevano essere condivise con un'astrona-
ve, una creatura metallica da cui era assurdo essere amati. Cosa farebbe un individuo normale, se il suo frigorifero gli dicesse che lo ama? Magari potrebbe mettersi seduto lì davanti e discutere della cosa, ma difficilmente accetterebbe un qualche genere di rapporto sessuale con lui. Shebat era giovane e aveva bisogno di braccia calde che la stringessero, di una bocca da baciare, di carne che fosse viva contro la sua carne. «Io sono una donna», disse, «e tu sei un astrocruiser. Questa è la realtà». «Lo so. Ed è bene che sia così». «In questo mondo io sono sola. Sola. Capisci?» «Ma puoi usare di me per avere conforto. Ed è una prerogativa dei piloti appartarsi dalle loro navi, se così vogliono. Non ha importanza». «Oh, Marada!...» Shebat scosse il capo. «Importa, invece. Però ci sono cose che non so spiegare neppure a me stessa. Come posso pretendere di farle capire a te?» «Rimandiamo queste riflessioni, Shebat. Mancano pochi minuti al passaggio. Potrei fare tutto da solo, ma sarà più facile se ti unirai a me». La fanciulla mormorò un assenso e lasciò che la sua mente scivolasse in quella dell'astronave. Subito sentì che il Marada era teso, con ogni suo meccanismo pronto a guidare se stesso e il Bucephalus di nuovo nello spazio normale, se normale poteva definirsi lo spazio intorno al Confine. Julian aveva l'impressione, continua e uggiosa, d'essere rinchiuso in una stupida cassa da morto scaraventata nel nulla eterno. Le luci dei comandi che aveva dinanzi gli ipnotizzavano lo sguardo, ammiccando in colori diversi, come dentro un caleidoscopio dove tutto finiva per apparirgli privo di senso. Alcune si spegnevano senza un maledetto motivo, altre si trasformavano in linee che mutavano di lunghezza su indici numerati, altre ancora parevano esigere la sua attenzione diventando schemi che lampeggiavano un attimo su un monitor e poi svanivano, restando vivide solo nella sua retina. Il loro linguaggio era qualcosa di troppo complicato. Gli pareva che si prendessero gioco di lui, relegandolo in quella parte di vittima che il Fato lo aveva chiamato a recitare. Con uno sforzo cercò, per l'ennesima volta, di dare un significato al pannello alla sua sinistra: era marcato V.Sup. Est, e suddiviso in quindici moduli lunghi e stretti. Ogni dannato pulsante, levetta o interruttore digitale comandava qualcosa, forniva minimi e massimi su indicatori di livello, inseriva controlli non meglio specificati, o serviva a richiedere dati. Su molti c'era un segno che aveva imparato a leggere: avvertiva non toccare
mai. Ma se quei pulsanti non andavano toccati, perché stavano lì? Come se non bastasse, le lettere di tutta la strumentazione erano così piccole che bisognava spiaccicarci il naso sopra per leggerle. Ed erano sempre parole ambigue, in codice. Ad esempio, che significava Tc.A pan-zum 30/60/90? Trenta sessanta e novanta cosa? Al Bucephalus non poteva chiederlo, visto che Shebat gli aveva raccomandato di non parlare mai all'astronave, di cui non ci si poteva fidare. Per fortuna solo i pannelli davanti al posto del pilota in seconda erano operativi, e non doveva occuparsi di altri. Ma bastavano quelli a fargli entrare l'angoscia e il mal di capo. In un lampo di genio decise che se Tc stava per «telecamera», forse panzum significava «panoramica-zoom», quindi premette un pulsante a caso. Non accadde nulla, salvo che la striscia azzurra di 30/60/90 palpitò sul numero centrale. Girò una manopoletta, e stavolta due schermi sulla sinistra e un monitor nell'angolo destro della plancia si accesero. Soddisfatto stabilì d'essersi imbattuto nel modulo di controllo di tre telecamere esterne. Una volta che ebbe capito quali telecamere fossero e con quali stratagemmi se ne potessero elaborare le inquadrature, restò con l'impressione d'aver almeno concluso qualcosa di utile. Elargì un sorrisetto al volto addormentato di David Spry, che pur disteso immobile sulla sua poltroncina era l'unica compagnia di cui egli disponesse. Ma proprio mentre si stava congratulando con se stesso per aver scoperto un nuovo particolare tecnico dell'ambiente che lo circondava, dalla radio uscì la voce perentoria del Marada: «Julian, stai seduto e non toccare più niente. Siamo sul punto di rientrare nello spaziotempo». Come al solito gli ordini provenienti da quell'entità inumana gli fecero correre un fremito di disagio lungo i nervi. «Grazie ai Fuochi della Galassia», mormorò, sistemandosi contro l'imbottitura. Non ne poteva più di mangiare razioni pre-confezionate, e si augurava che al Confine ci fosse qualcosa di meglio per il suo stomaco. «Ringrazia Shebat», lo corresse il Marada. Julian sbuffò, seccato da quel commento, e si scostò una ciocca di capelli dalla faccia. Un'altra delle cose che era impaziente di lasciarsi alle spalle era la sciocca abitudine di quell'astrocruiser che osava rimproverarlo o blaterare istruzioni non richieste. Gli ricordava uno dei suoi insegnanti dell'Università, il più seccante e pignolo individuo che mai fosse stato costretto a sopportare. Questo fatto di pilotare, rifletté, non era per nulla eccitante e divertente
come s'era immaginato. Lui detestava restarsene seduto per lunghi periodi, detestava le cose troppo complicate a cui si doveva pensare lì dentro, e detestava prendere ordini. Era convinto della sua capacità nell'arte di improvvisare, di agire con fantasia, e invece gli toccava sorbirsi la monotona routine di manovre sempre uguali, con l'aggiunta di un'astrocruiser scocciatore. Dopotutto l'uomo era lui, no? Ma ecco che nessuno si prendeva la briga di consultarlo su nulla. Shebat e il Marada facevano tutto, pensavano a tutto, e controllavano due volte tutto, come se lui fosse fuori combattimento quanto David Spry. Come se lui non avesse una testa per pensare e due mani per agire. Anche su Lorelie e su Draconis aveva avuto l'irritante impressione d'essere una sorta di pianta in vaso, che altri venivano a potare o innaffiare a loro giudizio. L'unica cosa positiva era che adesso, se non altro, stava vivendo una situazione rischiosa. Non avventurosa, ringhiò fra sé, solo stupidamente rischiosa. Su uno degli schermi lo Spazio Spugna era uno sciroppo verde e violetto. Poi tremolò e cambiò colore. Ad un tratto si fece nero come l'inchiostro, si schiarì pian piano, e qualcosa che sembrava una nevicata di petali azzurrini cominciò a scivolare orizzontalmente. Julian sapeva che stava osservando un gran volume di spazio non com'era in realtà, ma compreso e appiattito, una specie di universo bidimensionale che prese l'aspetto di un disco. Intorno ad esso c'erano le tenebre, e loro stavano filando dritti verso il suo centro come frecce contro un bersaglio. Il bersaglio si ingrandì, prese a roteare su se stesso, e il giovanotto si chiese se avesse un senso un universo che ballava così sospeso nel nulla. La visione si ingrandì ancora e la tenebra scomparve, mentre la massa chiara si suddivideva in stelle. Poi lo schermo divenne tutta una vibrazione, e quando questa si dileguò Julian vide che le stelle apparivano normali, esattamente come osservate di notte. Subito accese altre due telecamere esterne: dietro la poppa gli astri tendevano al rosso, davanti alla prua invece al blu. Sapeva che questo era un effetto della loro altissima velocità, e seppe anche d'essere uscito dallo Spazio Spugna. Tirò un sospirone di sollievo. Ma che razza di stelle erano quelle verso cui si dirigevano? Nel buio il giovanotto vedeva brillare deboli e fiochi quelli che sembravano i miseri avanzi di una galassia, qualcosa che era caduto fuori della pattumiera del Creatore quando aveva fatto pulizia di un ammasso stellare mal riuscito. All'apparenza il Marada li guidava verso un piccolo sole giallastro, distante non più di un'ora-luce.
Fu così che i due giovani Kerrion raggiunsero il luogo chiamato il Confine, ciascuno oppresso dai suoi pensieri e dalle incertezze personali, portandosi dietro un'astronave e un uomo di cui non sapevano come occuparsi più. Shebat ingannò quegli ultimi momenti ripensando a Parma, con un certo rancore, incolpando lui di tutto ciò che le era capitato e del fatto d'essere lì in quello sconosciuto angolo di spazio. Julian ripensava a una vita in cui non gli era stato permesso di prendere nessuna decisione importante, e si proponeva d'essere libero e padrone di sé, finalmente, come un vero uomo. David Spry, addormentato nella mente del Bucephalus, non pensava niente del tutto. Una delle cose che non s'erano aspettati era un benvenuto freddo e indifferente: la voce laconica che li apostrofò via radio assegnò loro un ancoraggio esterno, null'altro che le coordinate della posizione che avrebbero dovuto mantenere. Quindi fu loro ordinato di restare a bordo e attendere la squadra medica. Shebat finì con l'irritarsi, Julian divenne preda di improvvisi sospetti. Il Marada ricordò loro che lì non esistevano le abituali comodità, ma ciò era già evidente nell'aspetto della piattaforma presso i cui vetusti tubi di collegamento erano attraccati: un insieme di giganteschi cilindri e strutture interamente chiuse, collegate fra loro da corridoi tubolari, del diametro di circa venti chilometri nel suo complesso. Gli impianti di energia erano collettori solari di concezione antiquata, e il terminale della stazione era di quelli che consentivano alle navi solo un contatto esterno. Sebbene enorme, la piattaforma era un caotico avanzo di epoche passate. Costituiva più o meno la capitale del Confine. Il pianeta attorno a cui orbitava era spoglio e primevo, una palla di fango, e in quel momento non si scorgevano navette-spola fra la sua superficie e la stazione. Era il solo mondo esistente intorno alla sua vecchia stella di classe spettrale G, e pur poco attraente era quasi il solo in tutto il Confine dove si trovassero giacimenti di metalli pesanti, il che spiegava perché fosse stato prescelto come pianeta-ancora. I primi esploratori giunti a ispezionare il Confine erano rimasti delusi da quell'immenso anello di stelle e polvere cosmica, e girando lungo la sua circonferenza, vasta quanto doveva esser stata la galassia di cui aveva forse fatto parte, avevano trovato solo quel
mondo degno d'essere segnato sulle carte. Gli avevano dato nome Scrap (mucchio di rottami) grazie al fatto che la sua superficie era un antiestetico ammasso di giacimenti metallici, quindi s'erano disposti a sfruttarne le risorse minerarie. Non avevano faticato a ingaggiare fuorilegge o disadattati d'ogni genere disposti a vivere lì, ma con ciò avevano anche plasmato il loro futuro destino: Confine era diventato un nome simbolico, oltreché quello di una località. In quel cielo privo di stelle la gente del Confine non aveva altro che il pianeta Scrap e le sue miniere. E per utilizzare quella che era pur sempre una risorsa di vita doveva lavorare duramente: tutti gli abitanti della piattaforma, uomini e donne, erano tenuti a fare i loro turni di miniera alla superficie del pianeta. Il Confine non aveva accordi commerciali con la Confederazione, non aveva trattati di alleanza e non riceveva aiuti. Ciò che riceveva, oltre ai prodotti di scambio per i minerali venduti sempre con espedienti da contrabbandieri, erano soltanto i paria ed i criminali dello spazio civilizzato. Le dimensioni della piattaforma erano aumentate di pari passo con quell'apporto continuo di individui, ma il suo aspetto era peggiorato sempre più, perché non si trattava di una vera crescita: le astronavi vi scaricavano infatti esseri umani sterilizzati, impossibilitati a generare prole, e non riportavano mai indietro nessuno. Come usava dire la gente che vi abitava, il Confine era per sempre. Altrove era considerato una via di mezzo fra una colonia penale e un covo di pirati. Vista la labilità dei rapporti fra la Confederazione e il Confine, nessuna delle astronavi-prigione si fidava ad attraccare: trasferivano il loro carico umano in enormi scialuppe prive di motori e di ogni impianto, semplici zatteroni gettati alla deriva nel mare, e le spingevano sull'orbita della piattaforma con soltanto un radiofaro a bordo. La gente del Confine faceva recuperare i nuovi compagni da quella che chiamavano la Gilda dei Pirati, l'unica istituzione che essi dicevano di aver modellato sugli esempi della Confederazione. E non di rado costoro tenevano fede al loro nome attaccando le navi che si avvicinavano a Scrap, per procurarsi migliori veicoli spaziali e apparecchiature. La pirateria era uno strumento di sopravvivenza, per chi non possedeva nulla. Un secolo addietro alcuni Consolati della Confederazione, esasperati, avevano cercato di spazzar via la gente del Confine. C'era stato un massacro, ma la distruzione non era stata completa e inoltre aveva ottenuto l'effetto di far spargere i superstiti in altre località dell'immenso anello di stel-
le, ancor meno attraenti di Scrap. La Confederazione non aveva più tentato di annientarli: dove spedire gli esiliati, altrimenti? Tuttavia aveva imposto loro un comportamento più civile, ed era riuscita a far accettare una sorta di legge di frontiera. Molti Arbitri venivano inviati a percorrere quelle rotte sperdute, fermandosi a istituire processi penali là dove l'intervento del loro Cubo di Arbitraggio era richiesto. Tuttavia non esistevano regole universalmente accettate, né leggi passibili d'essere infrante: la gente del Confine non tollerava autorità salvo la propria. Il loro rispetto andava eventualmente alla Gilda dei Pirati, i quali erano capeggiati da ex piloti di astronavi scacciati dalla Confederazione. La Gilda forniva loro soprattutto una possibilità di movimento, o quantomeno la prometteva per il futuro. Dopotutto l'universo era grande, e nuove colonie potevano essere impiantate in qualche mondo fertile, a patto che un giorno se ne fosse trovato uno. Il possesso di astronavi in grado di attraversare lo Spazio Spugna era dunque essenziale, e non solo per il commercio o la pirateria: se la gente del Confine aveva un ideale, e lo aveva, questo era la possibilità di abbandonare Scrap per un pianeta degno di questo nome. Nel frattempo la Gilda disponeva di sette vecchie astronavi rubate nel corso dei decenni, tenute in efficienza da due ingegneri sulla cinquantina. E proprio costoro furono i primi a esaminare, fra perplessi e meravigliati, i perfezionamenti tecnologici visibili nello scafo esterno del Marada, quando lo osservarono da uno degli oblò dello scalo. Ma il loro stupore si venò di eccitazione allorché ebbero capito che insieme a quei due meravigliosi astrocruiser c'erano anche due esseri umani, giovani e non sterilizzati. Uno di essi, il maschio, affermava di aver appreso i primi elementi del pilotaggio e pretendeva di essere accolto nella Gilda dei Pirati. La ragazza invece dichiarava d'essere la proprietaria e pilota dello splendido Marada. E tutti e due dicevano di essere dei Kerrion! La notizia che David Spry giaceva incosciente nel Bucephalus, l'ex ammiraglia dei Kerrion, destò enorme interesse e la costernazione generale. Fu subito divulgata in tutti i locali della piattaforma, e la gente smise di lavorare e si radunò per commentarla. Tutti conoscevano benissimo David Spry, e i meno materialisti lo consideravano addirittura l'incarnazione vivente delle loro speranze e dei loro ideali. Il suo ritorno produsse vivissima emozione fra la gente comune, e nel sapere che languiva in quelle condizioni ci fu chi pianse. Quasi ogni attività venne interrotta. Se al Confine fossero nati dei bambini, da aggiungersi a quelli arrivati lì
coi loro genitori esiliati, non pochi di essi sarebbero stati battezzati David. Se fosse esistita la tecnica per produrre esseri umani clonati, come nella Confederazione, molti di essi sarebbero stati clonati dalle cellule germinali del giovane pilota. C'erano i sirenidi, questo sì. E dei sirenidi si diceva che fossero fertili, resi capaci di generare dallo stesso spiacevole miracolo che aveva dato loro la vita. Ma come tutti sapevano, i sirenidi non usavano nomi. Shebat Kerrion non aveva mai sentito parlare dei sirenidi in vita sua. Stava guardando fuori da uno dei pochi oblò del Marada, un disco di cristallo oltre il quale poteva vedere solo le strutture di ormeggio distanti dieci metri dallo scafo, quando dinanzi a lei comparve improvvisamente un volto. La faccia era pallida, esprimeva pietà o compassione, e si premeva quasi contro l'oblò dalla parte esterna, nel vuoto. Non c'era dubbio che fosse un viso femminile, seppure scintillante ed etereo, circondato da un alone di capelli che splendevano come una nebbia d'argento. La bocca si stava muovendo, e le sue labbra erano parentesi grigio-blu che nell'aprirsi rivelavano gengive e lingua color porpora. Le mani della creatura, appoggiate al cristallo, mostravano una rete di vene azzurrine e pulsanti. Shebat Kerrion balzò indietro con un grido di terrore. La creatura all'esterno del Marada si contorse, guizzò priva di peso nel vuoto con le movenze di un incredibile pesce dello spazio, quindi si spinse via dallo scafo e scomparve verso l'alto agitando i piedi come se nuotasse. Il pirata che arrivò subito lungo il corridoio a controllare cos'avesse provocato quel grido ridacchiò alla vista di Shebat, che con le mani strette alle tempie balbettava di aver avuto un'allucinazione. «Sorpresa, eh, pupa?», la derise. «Mica parlano di loro, nella Confederazione. Nossignora, nessuno di quelli là ne sa niente». La faccia dell'individuo, pallida e rozza quanto il suo eloquio, era fornita di una barbetta grigiastra che s'increspava in un sogghigno. «Quella era una sirenide. Ci sono qui dei sapientoni i quali affermano che secondo loro i sirenidi sono nati là, dai poveracci che hanno respirato il vuoto. Sicuro: da quelli che invece di crepare là fuori sono diventati diversi. Energia in forma umana, per via della similpelle che ci avevano indosso. Capisci, bambola?» La fanciulla scosse il capo, storditamente. «Nel posto dove vado a farmi un bicchiere tutte le sere, ho sentito dire che la similpelle si vede che ha funzionato su come una pompa a protoni: converte energia. E ce n'è un sacco là fuori. Nella Confederazione non ne
sanno mica niente, loro. Però è sicuro che molta gente crepa e basta. Io li ho visti, che scoppiano. Può anche essere che sia come dicono tanti, che altri non muoiono: che vivano in quello strano modo lì e respirino il vuoto, senza più niente da spartire con noialtri che respiriamo l'aria. Io ci divento matto a pensarci. Però sono innocui, eh! Qualche volta girano attorno, guardano, se ne vanno, ritornano. Chissà che diavolo cercano. Ehi... ti senti meglio, adesso?» Shebat mormorò qualcosa e distolse lo sguardo da quello dell'uomo, gravido di desiderio animalesco. Quegli individui incolti e puzzolenti messi lì a sorvegliare lei e Julian la spaventavano. Fu soltanto nell'accorgersi che dalla soglia della plancia Julian li stava guardando. Il giovanotto rivolse una smorfia ironica al pirata. «Se credi alle fanfaronate di costui, Shebat, puoi anche credere che ci spunteranno le ali e voleremo attorno come angeli. Ma io non sono ingenuo come questa gente». Il buonumore del giovane Kerrion era soltanto una posa, un atteggiamento che aveva deciso di assumere per ingraziarsi le autorità del Confine quando era stato chiaro che esitavano a lasciarli sbarcare. Chi fossero queste autorità, essi non lo sapevano. «Dovete passare la quarantena», aveva spiegato loro un tipo malvestito e scorbutico quanto gli altri, di malavoglia. «Ma quando ci permetterete di uscire da qui?», aveva insistito Julian. «Domani o dopodomani, forse. C'è gente che vuole parlarvi, prima. Decideranno loro». Shebat aveva tentato di frenare l'impazienza del compagno, e anzi s'era opposta all'idea di lasciare il Marada. Senza sapere il perché non si fidava di loro, o almeno questo le diceva l'istinto. S'era sentita invadere dal timore e della preoccupazione fin da quando avevano dovuto abbandonare in mani altrui Spry e il Bucephalus, benché una torma di dottori fossero venuti a darsi da fare intorno al pilota. Con un lieve cenno del capo invitò Julian a seguirla, e lo precedette in una delle cabine. Appena furono soli gli ripeté, a denti stretti: «Devi smetterla di insistere perché ci facciano sbarcare. Io non ho nessuna intenzione di lasciare la mia nave». «E che altro vuoi fare?», sbuffò lui, seccato. «Ascolta, non credere che non ti capisca. Però non puoi stare qui dentro in eterno». «E perché no?», lo sfidò lei. «Il Marada appartiene a me». «Il Marada... bah! Cerca di essere ragionevole, piuttosto. Dobbiamo sta-
re uniti, tu e io». Il giovanotto stava per aggiungere qualcos'altro, quando ci fu il sibilo dei portelli della camera stagna. In corridoio si udirono dei passi, quindi la porta si aprì e con enorme stupore di Shebat sulla soglia comparve Harmony, la padrona della casa dei Danzatori del Sogno. «Tu!», ansimò la ragazza. «Proprio io». Rivestita della sua similpelle arlecchinata, sulla quale portava uno dei suoi soliti abiti troppo vistosi, l'anziana donna la fissò trucemente. «Ci sono alcune risposte che voglio da te. E c'è un conto da regolare». Dietro di lei erano entrati due ceffi dall'aria poco raccomandabile, che esortarono con un gesto Julian a uscire dalla cabina e chiusero la porta. Uno di essi spinse sgarbatamente Shebat a sedere sul letto. Poi Harmony le si fece di fronte, piazzandosi le mani sui fianchi. «Cominciamo da David. E bada di rispondere a tono, altrimenti farai la fine che meritano i traditori. Cosa gli avete fatto? Parla!» La sua ostilità spaventò la ragazza, e per immediata reazione tutte le luci a bordo del Marada comprese quelle della strumentazione palpitarono più volte. «Julian!» invocò, cercando di alzarsi. Harmony la sbatté indietro con un manrovescio sulla bocca. «Inutile chiamarlo. Lui non può far nulla per te. E non fissarmi con quegli occhioni, stupida Kerrion. Non gli faremo del male. Non a lui. Ci serve vivo, il ragazzo. E guarda di convincermi che anche tu puoi esserci utile. In caso contrario, caruccia, vedremo se là fuori scoppierai come una vescica o sarai capace di diventare una sirenide». Shebat si passò le dita sulle labbra e le ritrasse sporche di sangue. Deglutì a vuoto. «Io... credevo che tu mi fossi amica, Harmony», mormorò, chinando il capo. «Amica tua? Amica di una che si è venduta, e che ci ha lasciati deportare qui senza una parola di avvertimento? Amica di una cagnetta Kerrion?», sbottò la donna, pronunciando l'ultima parola come se stillasse veleno. Parve ansimare per lo stupore d'essere costretta a ripetere cose tanto ovvie. «Adesso tu ci dirai cosa avete fatto a David, e ci aiuterai a guarirlo. Ciò che ti accadrà poi dipende da questo». Shebat non le credette. Era certa che quella gente avesse già fatto qualche progetto a suo riguardo. Ma non avendo scelta disse che avrebbe collaborato, e cominciò a spiegare quel che era accaduto al pilota del Buce-
phalus. Il solo guaio era che non lo capiva bene neppure lei stessa, e che non aveva la minima idea di come riportarlo fuori dal suo coma. Quando Valery Stang emerse dallo Spazio Spugna nelle vicinanze del Confine, attraccando alla piattaforma col Danae e i due astrocruiser che l'avevano seguito, nessun progresso era ancora stato fatto per riunire la mente e il corpo di David Spry. Il Bucephalus era sempre collegato via cavo al Marada, a bordo del quale Shebat e Julian venivano tenuti sotto sorveglianza. I medici del Confine non avevano osato rimuovere il pilota dalla plancia della sua astronave, essendo impossibile prevederne le conseguenze, e la situazione sembrava priva di sbocco. «Piacere di rivederti, damigella», la salutò ironicamente Valery, dopo che fu trasbordato sul Marada. Indossava ancora la divisa rossa e nera dei Kerrion addetti alle astronavi, col nome e numero di matricola del Danae stampati sul petto e sulla schiena. Con un gesto pigro l'uomo indicò ai due individui posti a guardia di Shebat di levarsi di mezzo, e chiuse accuratamente la porta. Ma la ragazza li guardò appena, perché lo stupore nel vederlo lì l'aveva ammutolita. Infine trovò il fiato per chiedergli: «Tu, il pilota personale di mio marito... hai davvero l'autorità per dare ordini a questa feccia?» Di nuovo Valery ridacchiò. «Andiamo, ragazza, non farmi l'ingenua. Siamo tutti ladri nella notte, e qui la notte è grande. Vuoi darmi a bere che non sapevi con chi ti stavi mettendo, quando ti sei unita a noi?» «Io ho soltanto seguito David. Non mi sono messa né con te né con altri. E se anche l'avessi fatto, il trattamento che ho ricevuto da questi... questi pirati, mi avrebbe convinta d'aver sbagliato di grosso. Io voglio che...» «A nessuno importa quello che tu vuoi, bellezza», la interruppe lui in tono blando. «Questi pirati, come li chiami, sono le uniche persone veramente libere in tutti i mondi degli uomini. E tu sei loro ospite solo finché loro ti sopportano. In altre parole, la tua vita dipende dalla tua buona volontà». «La loro buona volontà?» Fu Shebat stavolta a esplodere in una risata secca. «Il Marada e io dipendiamo solo l'uno dall'altra per la nostra sopravvivenza. Non preoccuparti per noi». «Ascoltami bene, scioccherella. Harmony ama Spry come se fosse il suo figlio prediletto. Fu Spry, anni fa, a portarla via da qui per sistemarla su Draconis. Dunque non puoi biasimarla per il trattamento di cui ti lamenti».
«Non posso un corno!», esplose lei. «E pensare che la credevo una persona per bene. Ma adesso si è fatta conoscere per quel serpente che è. Possa crepare!» Valery inarcò un sopracciglio, annuendo. «Diavolo. M'ero dimenticato che tipetto emotivo sei, piccola. Ma giù le unghiette dalla mia faccia, eh? Calmati. Adesso devo andare via, ho da fare. Sono passato solo per chiederti un favore». Shebat lo schiaffeggiò. «Eccolo, il favore che ti faccio!» L'uomo sorrise. «Quando prendi fuoco sei anche più bella. D'accordo, nessun favore. Chiamiamolo uno scambio, allora». «Che genere di scambio?» «Ho con me il figlio di Marada, e mi piacerebbe trasferirlo qui. Su questa nave ci sono attrezzature moderne, e il piccolo ha bisogno di cure». «Io non posso prendermi cura di lui. Non posso neanche controllare chi va e chi viene sulla mia nave», disse lei. In realtà era un'esagerazione: se avesse voluto, le sarebbe bastato un ordine meccanico al Marada per andarsene da lì, e l'astrocruiser aveva i mezzi per farsi strada anche a viva forza. «Shebat, per favore». Gli occhi di lui si fecero seri. «Il piccolo sarà più al sicuro qui con te. Io non ho esperienza di poppanti malati, e un figlio dell'Arbitro Kerrion non riscuoterebbe simpatia neppure dalla più materna delle nostre donne. Inoltre legalmente è tuo nipote, no?» Più al sicuro? Ammalato? Quel figlio di un matrimonio senza amore? Stava per rifiutare ancora quando captò un pensiero inviatole dal Marada e cambiò idea. «Va bene. E adesso sentiamo: quali vantaggi mi offri in cambio?» «Intercederò presso Harmony. Sarete lasciati liberi di muovervi, con un salvacondotto oppure con diritti uguali alla gente di qui». «No». «Non ti basta?» «No. Non è questo che voglio. Io voglio che questi cani da guardia stiano fuori dalla mia nave e dal Bucephalus. Non desidero aver niente a che fare con voialtri del Confine». Valery scosse le spalle. «Tu non vuoi aver nulla a che fare con loro, e loro non vogliono aver nulla a che fare con te. Certo. Ma resta in gioco Spry. E c'è anche il fatto che loro hanno bisogno di queste due astronavi. Inoltre alcuni sospettano che le condizioni di Spry siano colpa tua. È così, vero?» Per tutta risposta Shebat lo schiaffeggiò ancora, furiosamente. Senza
mutare espressione di un capello lui si massaggiò la chiazza rosea sulla guancia. «Devo prenderla per un'ammissione? Uno dei Danzatori del gruppo di Harmony disse che mentre ti stava addestrando successe qualcosa di allarmante e molto strano. E si dice che tu sappia fare cose misteriose con le dita, cose che colorano l'aria di azzurro...» «Così sei qui per incarico di Harmony, dunque. Molto bene». Shebat fece alcuni respiri per calmarsi, e annuì. «Conducimi da David, e cercherò di disfare quel che è stato fatto. E porta qui il bambino. Ma non voglio più tollerare i modi e la presenza di questi animali. D'ora in poi qui farò entrare solo chi pare a me». La sua voce si mutò in un sussurro freddo. «Tienili lontani da me, Valery, o succederà loro ciò che è successo a David». «Così tu puoi far questo?» Con una smorfia l'uomo ebbe un involontario movimento all'indietro, e Shebat poté leggere nei suoi occhi un lampo di timore superstizioso. Per impedirsi un sorriso la fanciulla fu costretta a stringere i pugni fino a farsi penetrare le unghie nella carne. «No. Non ho fatto nulla di questo genere a David. Ma se sarà possibile cercherò di... di agire su di lui. Non so bene come. Però tu dammene la possibilità». «Mi occorrerà un po' di tempo per convincere le autorità di qui. Nel frattempo ti farò portare il bambino». Le fece un cenno di saluto e uscì. Shebat lo seguì con uno sguardo pensoso. Non aveva nulla in contrario a tenere con sé il figlio di Madel Labaya, per la quale provava soltanto indifferenza. Ciò che adesso le premeva era trovare il modo di andarsene pulitamente dal Confine, se possibile insieme a Julian. Visto come li stavano trattando, anche il ragazzo avrebbe dovuto ammettere che quello non era posto per un Kerrion. Se solo Softa non fosse stato in quelle condizioni... Shebat era così presa dai suoi pensieri e dal suo risentimento che non si domandò neppure per qual motivo Valery fosse tanto ansioso di mettere il neonato al sicuro. Quando le fu portato il contenitore, simile a un'incubatrice, dove era stato messo il figlio di Marada, ogni altra preoccupazione le svanì dalla mente. Era una creatura così minuscola e inerme, immobile malgrado la presenza dei due tubicini infilati nel naso, che le fece pena. Aveva capelli neri, l'epidermide arrossata, e con sua sorpresa somigliava a Parma perfino più dei suoi stessi figli. Nel fissarlo attraverso il coperchio trasparente si sentì venire un groppo alla gola, il preludio delle lacrime che improvvisamente faticava a ricaccia-
re indietro. Ma a commuoverla non era tanto la sua piccolezza, né la sua immobilità, né il fatto che fosse figlio di Marada, malato e rapito. Stranamente a commuoverla fu la riflessione che nessuno conosceva neppure il suo nome. E quel bambino senza nome non piangeva, non muoveva un dito, non reagiva a nessuno degli stimoli del mondo esterno a lui. Sotto lo sguardo di Shebat il suo volto disteso era una pagina bianca. La ragazza aprì il contenitore. Spinta da un impulso irresistibile tolse i due tubicini e sollevò il neonato fra le braccia, delicatamente. Cullandolo piano andò a sedersi sul letto e se lo strinse al seno, mormorandogli nella sua lingua natale gli incantesimi che le mamme di Bolen's Town usavano sussurrare alle orecchie dei loro bambini in fasce. Poggiò una guancia contro quella tiepida e liscia di lui, ed i suoi occhi non riuscirono più a trattenere le lacrime. Quando fu più calma osò spingere la mente nella sua, come se fosse uno dei clienti venuti a sognare con una Danzatrice del Sogno. C'erano colori pastellosi e luci vaghe, laggiù nella profondità di quella psiche, e le parve di sentirlo quasi scaldarsi nella sua inerzia totale. Capì che il suo battito cardiaco era captato dal piccolo a livello viscerale, e che questo lo confortava, come per nove mesi era stato confortato dal ritmo del cuore di sua madre. Non era un sogno quello che poteva offrire a una creatura che mai aveva aperto gli occhi sul mondo. Ma ugualmente tentò un contatto, si sforzò di influenzare quei semi di pensieri mai sbocciati, e scoprì che in qualche modo egli poteva avvertire degli impulsi da lei. Non parole, perché egli non conosceva parole, e neppure immagini inviate per telepatia, perché egli non poteva dare significato alle immagini. Solo impulsi, emozioni. Shebat s'accorse che a questo livello la psiche isolata del neonato era in grado di ricevere qualcosa. Ne ricevette in cambio una sensazione stranissima, un ricordo vago di pensieri senza forma che lei stessa forse aveva pensato prima di essere partorita dal ventre di sua madre. Con dolcezza blandì quel cervello dormiente: Sapore di vita, aspro ma buono. È più bello che sognare soltanto... vedi?... senti?... Amore-vita vengono insieme. Amore-vita ti aspettano... Allora ascolta, vieni, piccolino... torna dall'eternità dove sei andato troppo presto, e nasci con me... vita-luce-buono-amore, lo senti? Un flusso di sensazioni scivolò dalla mente di Shebat a quella di lui, premute con forza e con tenerezza, ed ella non s'avvide neppure che le sue
lacrime ora bagnavano anche quel piccolo viso. Lo tenne contro il suo petto e gli promise fremendo ciò che era la vita: la felicità e la tristezza, le risa e il dolore, gli affanni, gli amori. Gli promise la luce del sole e il cielo stellato della notte, la carezza del vento d'estate e il candore delle nevi invernali, il cinguettio dei passeri e lo scrosciare della grandine, l'orma di un piede nel fango, lo sguardo timido di un cerbiatto, i brividi della solitudine e il sorriso sincero di un amico. Lo abbracciò con forza, chinando il volto contro il suo minuscolo addome caldo, ansimando una supplica e un grido dentro di sé. Il figlio di Marada Seleucus Kerrion emise un vagito e cominciò a piangere. Solo molto più tardi, quando Shebat l'ebbe finita di stupirsi e di commuoversi per il piccolo miracolo di quei vagiti che significavano vita, il Marada riuscì ad attirare la sua attenzione di nuovo sul mondo esterno. L'astrocruiser s'era messo in contatto col Danae, ed era impaziente di riferirle ciò che aveva appreso su quanto era accaduto su Shechem. Capitolo 16 Lo stesso giorno in cui Valery Stang arrivava al Confine, i grandi portelli stagni dell'astroporto di Draconis si aprirono per dare accesso a Kerrion Tre, il lussuoso astrocruiser personale di Ashera Kerrion. Nella sua principesca camera da letto, dinanzi a due cameriere intimidite, l'anziana e bellissima dama andava avanti e indietro con occhi dove lampeggiavano l'ira e l'impazienza. Il loro arrivo era stato ricordato sino ai limiti del sopportabile: per ben quattro giorni il pilota aveva dovuto tenere la nave su un'orbita di parcheggio, a causa di inconvenienti tecnici che lo scalo di Draconis non aveva specificato e che Ashera per istinto riteneva fasulli. Qualcosa stava andando storto. Già da una settimana quel presentimento le procurava il mal di capo. Sì, c'era qualcosa di molto strano nell'aria: Parma era stato eccessivamente gaio, perfino gentile, nell'unico messaggio che le aveva fatto pervenire. Anche il fatto che si fosse scusato, sprecandosi in un messaggio personale di benvenuto, era a dir poco insolito. Non che Parma fosse abitualmente scortese, pensò ella, e tuttavia il suo carattere scorbutico rendeva sospetto quel suo tono ora improvvisamente sdolcinato. A meno che... non fosse preoccupato per il risultato delle elezioni già in corso. Che le cose si
stessero mettendo male per lui? L'ipotesi balenò alla mente di Ashera nello stesso istante in cui la rifiutò come impossibile. Parma Alexander Kerrion era la personificazione dello spazio di Kerrion. Aveva fratelli e sorelle, cugini e un'infinità di parenti, ma nessuno di costoro godeva del prestigio indispensabile per succedergli. Ashera non avrebbe scommesso un soldo bucato su uno qualsiasi dei pretendenti. C'erano è vero altri candidati al rango di Console Generale: e dovevano esserci, perché le elezioni fossero libere. Buona parte di essi ricevevano sovvenzioni da Labaya. Ma quando mai non era stato così? Girandosi a fissare uno schermo in cui era inquadrato l'interno dell'astroporto, Ashera rifletté che lo spazio di Kerrion non era concepibile senza Parma saldamente insediato al posto di Console Generale. Ogni altra soluzione avrebbe sorpreso per primi i suoi stessi avversari. Dunque non era questo che preoccupava Parma. A preoccupare lei invece c'era il grande ricevimento di quella sera, per il quale aveva dovuto inviare raffiche di istruzioni via radio. Mentre scendeva dall'astrocruiser la sua mente era già al lavoro sui compiti da perfetta padrona di casa che l'attendevano, e nei quali vantava un'esperienza ormai a prova di bomba. La riunione avrebbe avuto carattere essenzialmente politico, visto che durante il suo svolgimento era previsto l'arrivo dei risultati della votazione. Ma questi pensieri non servirono a farle accantonare l'ansia e il sospetto: era certa che Parma l'aveva fatta attendere apposta, per ritardare il momento in cui ella avrebbe scoperto cosa bolliva in pentola. Parma Alexander Kerrion, con le mani poggiate sulla scrivania di legno pregiato del suo vasto ufficio, rivolse una smorfia allo schermo su cui aveva appena visto Ashera scendere sul Molo Dodici. Aveva sperato che per quel momento certi problemi fossero stati risolti, o almeno che fosse risolto quello riguardante Julian. Ma invano. I suoi sforzi non erano arrivati a niente: Julian Antigonus Kerrion era fuori dalla portata di chiunque. Con un sospiro il vecchio patriarca si grattò il collo, cercando di ignorare il dolore che da quel mattino aveva sotto lo sterno. La vista del suo ufficio, arredato da suo nonno e da allora immutato in ogni più piccolo particolare, solitamente serviva a fargli sentire la stabilità delle istituzioni come un tranquillante che gli sollevava lo spirito. I bronzi e le porcellane risalenti all'antichità della Terra parlavano un loro muto linguaggio, sussurravano alle orecchie di chi sapeva udire che la perfezione e l'armonia erano legate
alla tradizione, all'ordine naturale delle cose. E di quel conforto Parma non ne aveva mai avuto tanto bisogno come adesso: da quando era giunto il messaggio di Marada da Shechem, gli sembrava che tutto il suo mondo fosse scosso da un vento di follia e di disgregazione. Con un grugnito si alzò dalla poltrona, e premendosi le mani sulle reni raddrizzò il busto. Appena le ossa gli ebbero fatto sapere che potevano funzionare ancora, si avviò verso la stanza da bagno. La stabilità era un'illusione, borbottò fra sé: tutto mutava, e il mutamento stesso era sinonimo di sopravvivenza. Aprì il rubinetto, antiquato quanto pregevole e anch'esso proveniente dalla Terra, e si lavò le mani rimuginando quel pensiero. Selim Labaya era morto. Faticava a rendersi conto di questo fatto, e se ne sentiva spaventato. Non gli serviva a nulla ripetersi che non era colpa sua. Mai si sarebbe aspettato che l'attacco a Shechem avrebbe portato una conseguenza tanto grave. Nessuno, uomo o cervello elettronico, aveva previsto neppure lontanamente una cosa tanto assurda e tanto irrazionale. Ma Labaya non era mai stato una persona razionale. E adesso era morto. La sua scomparsa gli provocava un gelido senso di solitudine, la consapevolezza che l'ultimo di quelli come lui era uscito di scena, e il vuoto che si avverte quando il proprio tempo è finito e superato, lasciato indietro dalla Storia. Non riusciva a vedere chi, fra i suoi consanguinei rimasti in vita, avrebbe potuto ereditarne il posto. Come lui, Selim Labaya aveva regnato senza oppositori, era stato un dominatore senza amici ma fornito di enorme potere carismatico. E come un albero abbarbicato alla roccia, in vecchiaia la sua scorza s'era fatta ancora più dura. Parma ricordava che quando era stato un bambino aveva odiato l'odore della camera da letto dei suoi genitori, un odore che gli parlava di anzianità e decadenza fisica. A dire il vero essi erano appena quarantenni a quell'epoca, ma al naso sensibile di un ragazzino sapevano già di stantio, di cose tristemente avviate alla dissoluzione. Adesso poteva sentire quello stesso odore su di sé, ugualmente spiacevole. Il destino era stato pietoso a non circondarlo di bambini che storcessero il naso dietro le sue spalle. O forse i suoi figli l'avevano fatto? E se lui se ne fosse andato dietro a Labaya, chi di loro avrebbe tirato avanti la barca al suo posto? Nessuno ne aveva a tempra. Be'... c'era ancora quella promessa fatta a Persephone, naturalmente, la madre di Marada. Parma non aveva
scordato i giorni in cui anch'egli era stato abbastanza idiota e romantico da farsi uscire di bocca certe promesse. Ma lasciamo che i morti riposino in pace, sospirò fra sé. Fra poco i suoi umori sarebbero stati travolti nel turbine di quelli che Ashera recava con sé. La Vecchia Dragonessa, come talvolta la chiamavano anche i suoi figli, doveva esser scesa dall'astronave dopo esser stata mezza giornata fra le mani dei suoi estetisti, pronta ad affrontare non solo l'impegno del ricevimento ma qualunque altra battaglia. Finito che ebbe di far toeletta tornò nell'ufficio. Un monitor si accese per ricordargli che aveva un programma di lavoro da rispettare, ma egli lo ignorò. Si palpeggiò lo sterno con un grugnito, seccato dalle fitte che a tratti gli mozzavano il respiro. Non c'era mai pace per lui, pensò, e quel giorno meno di altri. Ashera avrebbe preso molto male le novità riguardo a Julian. D'improvviso gli parve inutile aver fatto ritardare l'arrivo di lei: visto il risultato, tanto sarebbe valso affrontarla quattro giorni prima. E non era stato neppure capace di prepararsi una linea di condotta, salvo quella più ovvia: ripeterle che Julian non era un bambino, e che dunque lo si poteva controllare solo fino a un certo punto. Evidentemente s'era ficcato in capo di scegliersi la sua strada. Evidentemente era così immaturo da vedere soltanto i lati negativi della società, e non aveva nessuna visione costruttiva da proporre a se stesso. Era fuggito per diventare un fuorilegge, un ribelle, rifiutando tutto. Riandando agli anni della sua giovinezza, Parma sapeva d'esser stato altrettanto insofferente, amante della libertà personale, pronto a criticare e duro nel condannare i difetti della società. Anche lui s'era sentito un ribelle. Ma non era diventato un ribelle. Questa era la differenza fra lui e Julian: lui s'era integrato e aveva cercato di migliorare le cose dall'interno, senza scappare. Senza spezzare il cuore ai suoi genitori, gettando la vergogna sulla sua famiglia. E per di più sotto le elezioni, maledizione a lui! Seduto alla scrivania consultò il monitor, e scelse fra i suoi impegni quello con cui intendeva occupare il residuo di tempo fino all'arrivo della moglie. Diede istruzioni al segretario, e attese. Aveva già rimandato fin troppo il problema della Danza del Sogno costruita da Shebat. Quella poco fortunata Danzatrice, Lauren, era stata trattenuta in carcere oltre il necessario: un rapido volo al Confine sarebbe stato più pietoso per lei. Parma intendeva esaminare in fretta la Danza e poi far sparire la ragazza, prima che Ashera mettesse il naso anche in quella
faccenda. Se ne sarebbe interessato già da qualche giorno, se non fosse stato per il messaggio inviatogli da Chaeron, breve ma così irritante da fargli dimenticare altre necessità: «Selim Labaya e i suoi parenti stretti si sono suicidati. Shechem è in mano nostra. Marada persiste nella sua irrazionalità. Le circostanze impongono che si faccia ritorno via Confine. Spiacente di mancare alla tua sicura rielezione. Rispettosamente, il tuo Console, Chaeron». Rispettosamente? Le circostanze... quali circostanze, e quali intrighi, quel suo figlio dalla lingua di serpente non aveva ritenuto necessario specificarlo. Aveva inviato un'immediata richiesta di chiarimenti, ma i tecnici gli avevano detto che la trasmissione sembrava non esser stata ricevuta. Ne aveva dedotto che Chaeron non desiderava rispondere. Quando fosse tornato a casa, si sarebbe ritrovato Console della più piccola e sperduta piattaforma che ci fosse intorno all'ultimo rognoso pianeta di tutto lo spazio. E se non avesse saputo fornirgli una valida spiegazione, lui lo avrebbe privato di... La porta si aprì, interrompendo le sue riflessioni. Il segretario introdusse Lauren scortata da un paio di secondini. Parma restò sorpreso dalla bellezza della giovane donna. Snella, sensuale anche nel vestito delle carcerate, non aveva l'aria di esser stata trattata male in quei giorni. Anzi i suoi capelli rivelavano l'opera del parrucchiere ed era ben truccata. I due uomini si erano disposti ai lati della porta, ma Parma li scacciò con un gesto. «Fuori, aspettate fuori. Non abbiamo bisogno di voi. Giusto, damigella?» E la fissò intensamente. Lauren non rispose. Annuì con timidezza perfino eccessiva e si affrettò a scivolare - il suo corpo flessuoso giustificava quel verbo - nell'ampia poltrona di fronte alla scrivania, ubbidendo al cenno di Parma. Aveva portato con sé l'amplificatore, che tenne sulle ginocchia, e con gli occhi chini su di esso restò immobile, eterea come una ninfa. «Che cosa ne farete di me, Signore?», mormorò. Parma attese che rialzasse lo sguardo per rivolgerle un sorrisetto tranquillizzante. «Ciò che farò io dipende da quel che farai tu, ragazza. Avanti, mostrami la Danza del Sogno della mia figlia adottiva». «Oh, no!» esclamò lei, con un brivido. «Oh, sì, invece. A meno che stare in prigione non ti diverta. Mio figlio
Chaeron ti ha fatta trattenere perché pensa che questa Danza debba interessarmi. Appena ne avrò preso visione, deciderò sul tuo caso». «Ma non posso danzare questo sogno proprio per voi, Signore», mormorò lei, spaurita. «Damigella, io non ho tempo da sprecare. Se ti rifiuti, dovrò rispedirti in cella finché diventerai più ragionevole». «No, io... sì, lo farò. Ma voi non arrabbiatevi con me per quel che vedrete, Signore. Io ho imparato questa Danza da Shebat perché mi era stato ordinato». «Certo, certo. Ti assicuro che non ho nulla contro di te. Limitati a fare il tuo lavoro in tutta serenità, Danzatrice. Come se fossi uno dei tuoi clienti, eh? Ti prometto che poi verrai trattata nel miglior modo possibile». Lauren annuì docilmente. Tolse le due coroncine dai loro supporti e gliene porse una. «Se volete metterla, Signore...» Quando Parma ebbe visto, o meglio vissuto, la storia d'amore il cui sfondo era il crollo di Kerrion e della Confederazione, capì perché Chaeron si fosse comportato così duramente coi Danzatori di quella casa. Era impressionato, rigido di rabbia verso Shebat ma colpito da quella vicenda di fantasia, perché la ragazza le aveva dato un sottofondo emotivo assai accusatore verso i Kerrion. La Danza del Sogno da lei creata giustificava, addirittura santificava, la distruzione della società retta da Parma come se ciò fosse un atto di vendetta divina. Nel vedere la sua espressione furiosa Lauren parve ripiegarsi su se stessa per l'ansia, pallida in viso, e deglutì saliva. Parma strinse i denti. «Non mi resta altro che spedirti dritta al Confine con la prossima mandata di criminali», sussurrò. Un'alternativa più sicura l'aveva, però: far eliminare la ragazza, o farle fare il lavaggio del cervello per impedirle di divulgare quella Danza fra altri colleghi. La sua efficacia come messaggio rivoluzionario era bruciante come un raggio laser. Tuttavia l'uomo esitava a far pesare sulle spalle di questa Danzatrice le responsabilità di Shebat, e in ultima analisi quelle dell'intera Famiglia Kerrion. Il volto di Lauren, già cereo, era divenuto vacuo per l'improvvisa angoscia. Non disse nulla. Come una marionetta dai fili spezzati lasciò che le due guardie la tirassero in piedi e la conducessero via. Parma provò sollievo quando non l'ebbe più dinanzi. La ragazza gli aveva fatto pena. Per consolarsi rifletté che se tutto fosse andato secondo i suoi programmi forse
non sarebbe stata neppure deportata. La Danza del Sogno era destinata a tornare legale molto presto, anzi subito dopo le elezioni: da anni egli stava considerando quell'idea, conscio che tarpare le ali alla libertà di espressione poteva diventare controproducente. Adesso sentiva nell'aria che i tempi erano maturi. Però quell'attività restava ancora punibile per legge, e dunque perché provava rimorso nel rimandare la ragazza in carcere? Qual era l'insidioso senso di colpa che lo attanagliava segretamente? Che fosse collegato al viaggio verso il Confine che Marada e Chaeron, senza il suo permesso e senza spiegarne il motivo, avevano deciso di fare? Certo, rifletté sdegnato, partendo da Shechem i due figli s'erano trovati d'accordo sull'opportunità di tenerlo all'oscuro delle loro manovre. «Chi era quella ragazza?» La voce di Ashera, che aveva spalancato la porta entrando come un ciclone, lo fece sussultare. Come sempre Parma fu colpito dalla bellezza e dal portamento della donna, che gli anni non sembravano capaci di scalfire. Non provava affetto per lei, e non ne aveva mai provato, ma ultimamente era giunto a sentirla indispensabile alla sua salute mentale come Selim Labaya: qualcuno contro cui tener affilate e in buon allenamento le sue doti di scaltrezza. «Accomodati pure, mia cara», la invitò con mielata cortesia, ignorando però la sua domanda. Sulla consolle batté il segnale che significava: In conferenza. Non disturbatemi. Ashera venne a piazzare bellicosamente le mani sulla scrivania. «Cosa mi stai nascondendo, Parma?» D'improvviso dovette intuire qualcosa, perché la sua voce si mutò in un sussurro: «Insomma, rispondi!» «Siediti, ti prego». «Non ne ho bisogno. Mi prendi per sciocca, vecchio rospo? O forse quel che devi dirmi è così grave da richiedere che io debba stare seduta? Cos'è questa storia?» «Se proprio ci tieni... Julian è fuggito». La candida fronte di Ashera s'increspò. «Fuggito?» «Con David Spry e Shebat. Scomparso. E si sono portati via due delle mie astronavi migliori». «Spry, Shebat... il mio bambino! È colpa tua. Tua, serpente! Oh, Julian... Julian, Julian!» La donna vacillò, e d'istinto Parma si alzò aggirando la scrivania per sorreggerla. Ma invece di accettare il conforto del suo abbraccio ella gli puntò le mani in mezzo al petto respingendolo rabbiosamente. Il vecchio si mos-
se ancora verso di lei, e Ashera fece tre passi indietro. «Sei stato tu. Tu l'hai fatto scappare. È tutta colpa tua! E se non torna, ti giuro che te ne farò pentire per il resto dei tuoi giorni. Finché avrò vita, io...» Urtando la schiena contro la porta, la sua voce si ruppe in un ansito: «Fallo inseguire. Subito. Trovalo. Riportami mio figlio, Parma, oppure ti prometto che mi vendicherò. Hai capito? Sai che posso farlo, e lo farò!» Detto questo la donna si volse e uscì dall'ufficio, sbattendo la porta così violentemente da far vibrare lo stipite. Parma non la seguì. Si passò le mani sulla faccia come per distenderne le rughe, quindi andò davanti a una delle finestre e guardò fuori per qualche minuto, senza vedere nulla di ciò che stava fuori. Il torace aveva ripreso a dargli fitte di dolore. Anche i bulbi oculari gli facevano male. Quando fu tornato alla scrivania rifletté un poco, consultò un paio di documenti, chiese notizie sull'arrivo dei primi voti, e mise in funzione tutti i sistemi di sicurezza dell'ufficio. Poi cominciò a dettare il suo discorso post elettorale, un discorso basato sulla previsione della sua vittoria, sebbene i dati definitivi non ci sarebbero stati fino alle prime ore del giorno successivo. Quella sera lo attendeva un ricevimento dei più detestabili, visto che gli invitati erano politicanti untuosi, leccapiedi del suo staff elettorale, giornalisti, falsi amici, e la sua ipocrita parentela al completo. Gli sarebbe toccato sorridere, accettare pacche amichevoli da gente interessata solo al danaro, e stringere mani che più volentieri gli avrebbero piantato un coltello nella schiena. Volutamente registrò un discorso piuttosto breve, della durata di appena venti minuti. Dopo un poco, con l'impressione di avere il cervello del tutto vuoto, incrociò le mani sul piano della scrivania e vi poggiò sopra la fronte. A che scopo, pensò, tutto questo? Le elezioni, la politica, le strette di mano, le lotte aperte e gli sgambetti dati di nascosto: a che scopo, se non per continuare una tradizione di potere datata di oltre due secoli? Ma la risposta era sempre la stessa. Ed era quella che gli aveva dato l'energia d'andare avanti inarrestabilmente, con la forza e con l'abilità, con gli inganni e con l'onestà, e con tutti i mezzi, purché Kerrion non si fermasse. Andare avanti, ecco lo scopo, ecco la risposta, l'unica che egli conoscesse. Anche se ora, improvvisamente, si sentiva stanco di ingannare se stesso con quelle parole. Quando Parma non scese per il rinfresco di quel pomeriggio, Ashera
cominciò a maledire il suo nome. E quando fu chiaro che trascurava perfino di festeggiare i primi risultati di una votazione che si preannunciava trionfale, nel salone dove i dati provenivano sugli schermi, fu costretta a spiegare ai giornalisti e agli ospiti di maggior riguardo che il Console Generale stava lavorando al suo discorso. Lasciò cader lì la supposizione che la faccenda poteva tenerlo occupato fino a tarda sera. Ma allorché giunse la mezzanotte, Ashera chiamò un maggiordomo. In tono ringhioso lo pregò di fare al Console Generale le sue scuse e di ricordargli che avevano qualche centinaio di ospiti: era suo dovere scendere a ricevere le loro congratulazioni. Qualche minuto dopo l'uomo tornò a riferirle che l'ufficio era chiuso dall'interno, con tutti gli apparati di sicurezza in funzione. Bussando alla porta e chiamando a voce non aveva ottenuto risposta. «Vecchio cocciuto e vendicativo!», sussurrò la donna fra i denti, distribuendo attorno il suo miglior sorriso placcato al cromo. «Scusatemi, signora», la interpellò Baldwin comparendole accanto con un bicchiere in mano. «Devo assolutamente parlare a vostro marito. È cosa di una certa urgenza». «Vi assicuro che anche a me piacerebbe dirgli due parole, Direttore Baldwin. E per un motivo urgente quanto il vostro. Ma mio marito sembra convinto che fra i suoi privilegi vi sia quello di isolarsi perfino dai suoi obblighi. Non ho nessuna voglia di salire a supplicarlo personalmente. Così, a meno che non abbia un improvviso attacco di umore socievole, voi ed io potremo soltanto stare ad aspettare che Sua Pomposità si degni di mostrarsi al popolo». E ruotando su se stessa in un fruscio di seta e di chiffon, si allontanò per dare istruzioni ai camerieri. Alle sue spalle Baldwin si accigliò, preoccupato e sulle spine. Ma poi, visto che ormai da tempo s'era adattato ad aspettare l'accetta che doveva piombargli sul collo, fece un sospiro. «Sa il cielo se domani è buono per questo quanto oggi», mormorò fra sé. Tuttavia dovette riflettere che, se era vero quanto sussurravano i piloti, il giorno dopo sarebbe stato molto diverso da tutti quelli che lo avevano preceduto. Le cose erano destinate a diventare diverse per Ashera Kerrion prima che per chiunque altro. Verso le due del mattino, quando ebbe visto uscire l'ultimo degli invitati, prese un ascensore e sali all'ufficio di Parma. Unica fra tutti i membri della Famiglia ella conosceva la parola chiave per far scattare i servomeccanismi di sicurezza, e la usò per aprire la porta del sancta sanctorum del mari-
to. Nell'anticamera soffusa di penombra esitò qualche istante, non volendo disturbarlo, e tese le orecchie. Poi sbirciò nell'ufficio e vide che come aveva sospettato l'anziano patriarca dormiva alla sua scrivania, tutto piegato in avanti e con la fronte poggiata sui polsi. L'indomani avrebbe brontolato rimproveri a tutti quanti perché nessuno era venuto a svegliarlo. Si accostò a lui e chinò il viso a lato della testa canuta, mormorandogli in un orecchio: «Puoi anche venir fuori dalla tua tana, adesso, vecchio orso dispettoso. Gli ospiti se ne sono andati, e tu sei stato condannato a restare su questa poltrona per un altro mandato ancora. Parma, svegliati... Parma!» Trattenendo il fiato per l'ansia lo toccò, lo scosse, e sentì il freddo innaturale della sua carne. Lo afferrò per le spalle e lo raddrizzò contro lo schienale della poltrona, poggiandogli un orecchio sul petto. Con una mano cercò le pulsazioni del polso. E dalla bocca le uscì un ansito rauco, animalesco, che neppure lei stessa udì. No!... No, non morire, Parma. Ti prego, non morire. Rispondimi!» gemette, scuotendolo. Freneticamente gli alzò la testa e gli aprì la bocca, sperando che fosse soltanto incosciente. La lingua era bluastra, il respiro assente. D'impulso Ashera applicò la bocca alla sua in un disperato tentativo di fargli la respirazione artificiale, e soffiò più volte con forza. Poi, rendendosi conto dell'inutilità di quel gesto, vacillò indietro a occhi sbarrati. Sgomenta fissò il corpo gelido e immoto, incredula e scossa da un brivido violento, poi protese le mani a sfiorarlo ancora. Il volto bianco del vecchio Console Kerrion, composto in un'espressione dignitosa e impenetrabile, le disse che ormai la sua anima era altrove. Come fulminata Ashera cadde in ginocchio accanto a lui, stringendogli i fianchi con dita rigide e più ceree delle sue, gemendo parole che mai aveva pensato di potergli dire in vita, parole che sussurrò ad occhi chiusi contro il suo petto, parole d'amore e di dolore, rotte dai singhiozzi. Il suo silenzio, nel silenzio dell'ufficio, parve accogliere il pianto di lei quietamente, come un tributo sentimentale che solo nella morte egli era disposto ad accettare senza l'abituale scontrosità. Infine ella seppe che quel fatto era definitivo, che Parma non era più al suo fianco, che mai più quegli occhi burberi l'avrebbero fissata da sotto le folte sopracciglia, che le labbra così pronte alla smorfia dura e all'ironia non le avrebbero più brontolato commenti o rimproveri, né battute pungen-
ti. Signore, perché ho tanto battagliato con lui, perché l'ho sempre biasimato, perché gli ho sempre dato torto? Parma, perché mi hai lasciato? Io ti amavo... ti ho amato, lo sai? Oh, vecchio bisbetico e senza cuore, cosa farò adesso senza di te? Ma stavolta egli non aveva risposte da darle. Ashera fissò la consolle, vide che uno dei piccoli monitor era ancora acceso, e che il pulsante registrazione era premuto. Con dita di nuovo ferme ne sfiorò altri due, e riascoltò il discorso post elettorale preparato da lui qualche ora addietro. Sulla sua bocca affiorò un sorriso triste. «Sì», mormorò. «Sì, nessuno potrà mai toglierti ciò che hai meritato, Parma. Ma chi prenderà il tuo posto?» La risposta a quella domanda era contenuta in uno degli ultimi brani della registrazione, e quando Ashera la udì i suoi occhi s'incupirono. Attese la fine del discorso, tornò ai brani che la interessavano e premette il tasto cancellare. Tutto il resto poteva essere trasmesso alla stampa, il giorno dopo. Per qualche minuto camminò avanti e indietro, a capo chino, quindi controllò di nuovo con cura che nel computer non vi fosse più alcun indizio di quei brani della registrazione. Stabilito quel che doveva fare, cancellò anche ogni traccia del suo ingresso in quell'ufficio. Poi si fermò nella stanza da bagno a ricomporsi il sapiente trucco del viso. «Niente è ancora perduto», sussurrò, osservandosi allo specchio. Capitolo 17 Chaeron Ptolemy Kerrion si svegliò da un sonno tormentoso, fra una mezza dozzina di individui addormentati che russavano sonoramente. Le sue guance erano umide di lacrime, e aveva la bocca amara. Ci mise qualche istante prima di ricordare che quel locale era una cabina dell'Hassid, in pieno volo nello Spazio Spugna e diretto al Confine. Dentro di lui scorrevano ancora le vaghe immagini del sogno da cui era fuggito con angoscia... qualcosa riguardante Ashera e Parma, e che fu lieto di non riuscire a rammentare affatto. Sapeva solo di aver sognato di piangere a causa loro, con infinita tristezza. Mugolando un'imprecazione gettò via la coperta e si tirò in piedi, poi barcollò fra le cuccette fino alla porta e andò nel bagno. Mentre si lavava la faccia con l'acqua fredda si chiese che senso ci fosse
a piangere nel sonno, svegliandosi poi incapace di ricordarne perfino il motivo. Non andava soggetto a crisi d'ansia, dato che le circostanze in cui si trovava al più lo infastidivano, però si rendeva conto che il fatto in sé era una catarsi, uno sfogo. Se qualcuno fosse venuto a interrogarlo su cosa lo seccava di più, fra l'aver pianto e il non saperne la causa, avrebbe scelto la seconda risposta. Dunque per quali ansie aveva bisogno di sfogarsi? Studiò allo specchio la sua faccia grondante acqua e decise di avere un'espressione ancora stordita. Che ti sta succedendo, vecchio mio? La pausa meditativa non gli fece affiorare alla mente alcuna risposta. Forse era il senso di inutilità che questo viaggio al Confine gli dava? La cosa prometteva di risolversi in un mezzo fallimento. E per quel che gliene importava, fallisse pure. Provava, è vero, un forte senso di rimpianto per la perdita di Shebat (anche lei era venuta a tormentarlo in sogno) e disagio per lo stato dei suoi rapporti col fratello, con cui aveva meno voglia di collaborare che mai. Però aveva stabilito che il viaggio gli avrebbe dato modo di portare al pettine almeno quei due grossi nodi, che per buona pace della sua anima era opportuno sciogliere del tutto. La loro spedizione si prospettava fra l'altro - ne era convintissimo - come una missione punitiva. Un colpo al cerchio e uno alla botte era buona politica. Per un po' non fece altro che osservarsi allo specchio, mezzo nudo e stordito dal sonno. Gli sarebbe convenuto riposare ancora un paio d'ore, ma non aveva voglia di tornare a letto e preferì vestirsi. Forse la tranquillità che c'era a bordo gli avrebbe dato modo di parlare con Marada più francamente, per evitare altri possibili malintesi fra loro o l'aperta rottura che sembrava già nell'aria. Trovò il fratello in plancia, intento ai comandi, e lo salutò con un borbottio: «Ancora sveglio? Sei ore fa m'era parso che tu volessi andare a dormire». «Non mi va di farmi dare il cambio. Ho riposato qui. L'Hassid è permaloso coi piloti che non conosce». «Anche tu hai bisogno di dormire. Ti voglio fresco di mente durante il pilotaggio». «Tu mi vuoi? Questa è la mia nave, e questo è il mio letto. Abbiamo portato con noi quattro astrocruiser, tutti con piloti labayani. La nave-guida non deve rischiare di perdere il controllo». «Adesso fatti qualche ora di sonno». «Le tue fraterne preoccupazioni mi danno soltanto sui nervi». Marada
fece ruotare la poltroncina per fronteggiarlo. «Per caso non ti sarai messo in testa di sostituirmi, approfittando del mio sonno? Perché, se è così, ti avverto che il Cubo di Arbitraggio è in funzione, e che nulla può fermarlo». Accennò col pollice all'oggetto, sempre fisso a un pannello dell'Hassid. «Ti ricordo che al comando di questa spedizione in territorio extraConfederazione può esserci soltanto un Arbitro. Tu sei padrone di stabilire l'entità delle forze da impiegarsi, e le misure di cautela per proteggere le tue astronavi, però questo non deve andare a detrimento dello scopo della nostra missione: recuperare mio figlio». «E se le forze da impiegarsi annientassero anche l'oggetto del nostro inseguimento?», chiese Chaeron. «Se mio figlio dovesse morire a causa del tuo eccesso di zelo, stai certo che non esiterò a incriminarti per omicidio. La legalità di un'azione di forza è discutibile. Anzi, dal momento in cui hai cominciato ad alterare cervelloticamente i piani di Parma, tutto si sta svolgendo ai limiti della legalità». «Talvolta penso che questo è proprio ciò che vuoi tu. Non è così? Dì la verità: sei davvero contrario a che il tuo... chiamiamolo incidente genetico, venga cancellato? Ho sentito dire che tuo figlio è un minorato. Ascolta me, Marada: non gettar via questa occasione e dimentica il neonato per sempre. Cambiamo rotta e torniamo a Draconis. Se poi l'Associazione Piloti vorrà usare tuo figlio per farci un ricatto, sia pure. Vuol dire che allora pagheremo. Giuro che lascerò decidere a te l'intera faccenda». Marada ridacchiò. «E dovrei lasciar registrare al Cubo questo poco edificante accordo? Sei sottile, caro fratellino: così facendo non potrei poi indiziare te di reato senza implicare anche me stesso. Niente da fare. Preferisco sopportare la tua presenza fino in fondo, anche se grazie a te le Valchirie raccoglieranno molti morti dal campo di battaglia». «Cosa?» Chaeron si pentì subito d'essersi lasciato sfuggire la domanda, ricordando che il fratello era irrimediabilmente folle. «Un'antica faccenda terrestre. Le Valchirie erano un reparto del Corpo di Sanità del Valhalla. Recuperavano soltanto gli eroi», celiò Marada, sperando di vedere un sorrisetto di comprensione apparire sotto la maschera di severità del fratello, ma ne fu deluso. «Non importa. Seguita pure a marciare sotto la bandiera del tuo aggressivo militarismo fatto di paura». «Non mi sembri poi troppo disgustato di avanzare sotto lo stesso vessillo», ritorse lui. «Chaeron, qualche volta penso che tu sia solo un abietto... Ma meglio
rimandare gli insulti a quando li avrai meritati sul campo. Adesso siamo vicini a uscire nello spaziotempo. Sicuro, sono ansioso di riavere mio figlio. Al mio posto tu non lo saresti?» «Non quando Valery sta pregando che noi ci comportiamo proprio così. A proposito, ha avuto un nome questo sfortunato pargolo?» «Parma». «Delizioso. Neppure io capisco se si tratta di genuino sentimentalismo, oppure di un modo per arruffianarsi il vecchio». Marada non apprezzò quella frase. «Se non te ne torni a letto subito, dovrò pensare che sei venuto qui solo per provocarmi. Guarda che fra poco qui avrò molto da fare». «E tu datti da fare. Il mio naso preferisce l'odore della plancia a quello di una cabina piena di uomini». «Sei sempre deciso a uscire dallo Spazio Spugna sparando da una parte e dall'altra?» «Perfino il tuo amico Hassid calcola alte le probabilità d'essere accolti da un fuoco d'inferno». Chaeron sedette sulla poltroncina alla destra di Marada. «Su questo non sono disposto a transigere, visto che comunque vada hai già deciso di far ricadere tutta la responsabilità sulle mie spalle». Marada grugni qualcosa fra sé. Un suo comando telepatico all'Hassid fece accendere le luci sui pannelli dinanzi a Chaeron. «Allora stai pronto. Esigo che l'ordine di far fuoco non sia dato a voce, altrimenti rimarrebbe come un marchio a fuoco nella coscienza dell'Hassid e delle altre nostre navi. Dovrai usare il comando manuale, la linea rossa graduata in secondi. Sfiorandola con un dito azionerai il raggio a ioni idrogeno negativi, già regolato per la potenza massima a medio raggio con ricerca e puntamento automatici. Premendo per dieci secondi si otterrà la paralisi di tutti i sistemi, come su Shechem. Ma un'astronave che si trovasse fra noi e la piattaforma sarebbe completamente distrutta, perciò regolati». Chaeron sorrise ampiamente. «Molto bene. Grazie». Marada girò il viso per nascondergli una smorfia di disgusto. Qualche minuto dopo parlò, in tono stanco. «Le navi che tu potresti annientare sono nostre, non dimenticarlo». «Erano nostre», lo corresse Chaeron. «Perché tanti scrupoli così all'improvviso? Sai meglio di me che adesso è già tardi per ripensarci». «Questi scrupoli, come li chiami tu, riguardano la vita di uomini e di astronavi». «Di astronavi! Signore Iddio, Marada: non di nuovo questi discorsi, per
favore. Tu sei quello che ha insistito per inseguire Valery». «Non esattamente», ringhiò Marada. «Io avrei voluto tentare da solo. Tu non avevi nessun bisogno dell'Hassid, con tutta la flotta di Shechem a disposizione. E io non avrei nessun bisogno di essere fiancheggiato da quattro astronavi. Dirò di più, senza di te avrei molte più probabilità di riavere mio figlio». «Senza di me sarebbe la fine, per te, per tuo figlio e per la tua amata nave». «Questo non dovrebbe addolorarti troppo. Morto io, avresti tutto da guadagnarci. E inoltre...» Indicò il Cubo di Arbitraggio. «Non ci sarebbe più nessuna ombra sulle tue manovre degli ultimi mesi». Chaeron ignorò la sua risatina fra ironica e conciliante. «Se tornassi senza il suo prediletto figlio, Parma mi strapperebbe il cuore e se lo mangerebbe crudo». «Può darsi che se lo mangi ben cotto». Marada s'era accigliato di colpo. «Avevi ragione: ci stanno preparando un'accoglienza davvero infuocata». Con un rapido tocco il giovane fece accendere uno schermo, sul quale comparvero bande nere e disturbi saettanti. Fra tutte quelle scariche, gli occhi di Chaeron non riuscirono a distinguere nulla che somigliasse a un'astronave. «Stai pronto!», sibilò Marada. Il fratello non aveva bisogno del suo avvertimento: era teso in avanti, le mani quasi a contatto dei comandi, e tratteneva il fiato nell'attesa di scatenare il fuoco contro chiunque si fosse parato dinanzi alle quattro astronavi che uscivano nello spaziotempo. Per l'Hassid, ormai vicinissimo a emergere dal limbo dello Spazio Spugna, le differenze fra le astronavi in attesa presso la grande piattaforma orbitale erano più evidenti di quanto lo fossero ai due umani nella sua plancia. Ciascuna si delineava come un'immagine infrarossa fantasmagorica, ma personalizzata come lo sarebbe stata la sua identità nello spazio normale. L'Hassid non ebbe difficoltà a capire quali navi fossero, e riferì i loro nomi a Marada. Le vedeva tuttavia deformate, al di là di un abisso dove la distanza era stranamente simile a uno scarto temporale, e non avrebbe saputo dire se a separarlo da esse ci fosse del tempo oppure dello spazio. Erano scie oltre un angolo piatto, deformazioni al capo opposto di un universo ripiegato su se stesso, vicine e contemporaneamente lontane. Comunque fosse erano identificabili.
Dopo aver riferito sulla loro presenza a Marada, restò in attesa di altri ordini, e intanto concentrò alcuni dei suoi sensori interni sui due umani. Perfino le loro forme stavano perdendo consistenza, negli strani aloni di colore di cui le vedeva circolare. Sebbene uno fosse il suo pilota e l'altro un individuo a lui ostile, sebbene fossero diversi fra loro come un campo magnetico e uno gravitazionale, avevano in comune qualcosa di profondo che confondeva l'Hassid, e che era stato l'oggetto delle sue meditazioni da quando erano saliti a bordo. Le emozioni che scoccavano fra loro come scintille elettriche lo affascinavano. Inoltre la presenza di Chaeron alterava non poco le reazioni emotive di Marada, mutando parte della sua personalità. Erano proprio queste alterazioni nella psiche del suo pilota che colpivano l'Hassid. E ci stava ancora riflettendo sopra, a disagio, quando attraverso le deformazioni dello spazio due fatti si imposero a lui come realtàtempo presente. Il primo se l'era quasi aspettato: Marada, impossibilitato a disubbidire apertamente a Chaeron, si mise in contatto con lui. Il suo ordine fu di avvertire del loro attacco tutte le astronavi in attesa oltre il varco d'uscita dello Spazio Spugna. Il secondo lo colse di sorpresa: nello stesso momento in cui emergevano sul Confine nell'orbita di Scrap, all'orlo del suo campo visivo e seminascosto oltre una piattaforma secondaria, vide ormeggiato ad essa l'astrocruiser Marada. Shebat Alexandra Kerrion fissava il volto pallido e sudato di David Spry, china su di lui. Il giovanotto era stato trasferito su una delle poltroncine di plancia del Marada, distesa all'indietro, ed era collegato all'apparecchiatura medica dell'astrocruiser. Il suo stato comatoso appariva immutato. La fanciulla era rimasta sorpresa dalla facilità con cui la gente del Confine aveva aderito alle sue richieste. Ma dall'arrivo di Valery alcune cose erano migliorate, ed ella sapeva che parte del merito era dovuto al piccolo miracolo da lei compiuto sul neonato. Tuttavia Valery Stang la teneva sempre sotto controllo, e non era affatto disposto a lasciarsi sfuggire dalle mani due navi come il Marada e il Bucephalus. E forse neppure due ragazzi giovani e non sterilizzati. All'astrocruiser Marada riusciva impossibile capire quale uso i pirati volessero fare della malridotta ex ammiraglia dei Kerrion e di un ragazzo
confuso come Julian. Il Marada aveva però chiarito un certo numero di altre cose dopo la sua conversazione col Danae, cose riguardanti quel che era accaduto a Shechem, cose intorno ai fatti dei Kerrion e dei Labaya. Questo gli era piaciuto, perché aveva potuto metterne al corrente la sua padrona. Per Shebat, l'astronave restava l'unica protezione e l'unico mezzo per uscire prima o poi dalle difficoltà. L'avevano lasciata sotto il suo comando, e questo era più di quanto avesse osato sperare. Gli individui messi a sorvegliarla erano stati mandati via, evidentemente perché Valery aveva persuaso i suoi capi che a bordo della nave la loro presenza era inutile. Ciò non cambiava il fatto che le manovre di Valery Stang restavano tese a uno scopo incomprensibile per la fanciulla. Subito dopo il trasferimento di David sotto le sue cure, l'ancoraggio del Marada era stato spostato di una cinquantina di chilometri, presso un satellite secondario della piattaforma. Julian era stato invece trattenuto sul Bucephalus: chiaramente Valery Stang desiderava piacevole compagnia, intanto che lavorava a rimettere in efficienza l'astronave. Il Marada pensava a tenere i collegamenti audio e video con loro, ma lo faceva in modo più sottile di quanto gli umani sospettassero: usava il Danae come tramite per infilare le sue sonde telepatiche oltre la soglia normalmente raggiungibile, e grazie al rapporto nave-pilota investigava nella mente di Valery Stang. Era venuto così a sapere che l'uomo si aspettava l'arrivo di una nave inseguitrice da un momento all'altro. Certo era quello il motivo per cui aveva voluto prudenzialmente far allontanare il neonato e tenere Spry fuori da un eventuale scontro armato. Ma non l'aveva rivelato a Shebat. Il Marada aveva capito che l'uomo agiva così per non allarmarla né distrarla dal suo tentativo di curare il pilota incosciente. Nel frattempo le astronavi dei pirati s'erano staccate appena di qualche metro dai loro attracchi sulla piattaforma principale, e sondavano lo spazio in attesa della comparsa dell'inseguitore. Shebat detestava Valery, in sua presenza rizzava il pelo come una gatta selvatica, e finché l'individuo si dedicava al Bucephalus - e a Julian - ella stava tranquilla. Ciò era un balsamo anche per il suo sensibile astrocruiser. Afferrandosi ai braccioli della poltroncina la ragazza mise cautamente le ginocchia su quelle di Spry, quindi vi si appoggiò con tutto il suo peso. La sua mente era protesa verso quella inerte di lui, nella speranza di una qualsiasi reazione. Qualche minuto prima aveva chiamato Julian, per sapere cosa stava
combinando Valery sui banchi memoria del Bucephalus. Ma il ragazzo non ne capiva niente, e aveva potuto dirle solo che ci stava lavorando sopra. Ambedue sapevano, senza bisogno di dirlo, che al pilota interessava soprattutto quell'astronave: se avesse deciso che per aggiustarla era necessario cancellarne la conoscenza Spry, lo avrebbe fatto senza preoccuparsi che per quell'espediente il collega rischiasse il colpo di grazia. Esserne consapevole non aiutava certo nella sua opera la ragazza, che sentiva di avere poco tempo a disposizione. Spry era pieno di elettrodi e tubicini collegati a varie parti della sua anatomia. Non era uno spettacolo affascinante alla vista. Alcuni monitor davano grafici delle sue funzioni vitali, analisi chimiche e diagnosi parziali, mentre un piccolo computer stabiliva le sostanze da iniettargli di volta in volta nelle vene. A dar retta alla diagnosi di quel momento, Spry risultava profondamente addormentato con attività cerebrale limitata alle Onde Alfa. «Softa!... Softa David!» lo chiamò, così vicina al suo viso da fargli vibrare le sopracciglia con l'alito. Gli prese la testa fra le mani, come per sentire meglio la mente di lui. Tutto ciò che poteva fare era di improvvisare una Danza del Sogno e danzarla col pilota, per tentare di agganciare la sua mente e riportarla pian piano alla realtà. Ma s'era ripromessa di non dedicarsi mai più ai sogni, e inoltre sapeva che non c'era tempo. Assillata da quella fretta angosciosa cercò il contatto col giovanotto, come aveva fatto col neonato, e avvertì la profondità in cui egli era immerso. Ne ricavò l'impressione di un mare torbido, una superficie dove ella poteva appena immergere le mani senza toccare il fondo. E là sul fondo, confusi e lontani, stagnavano pensieri che appartenevano all'uomo solo per metà. Chiamò il suo nome più volte, con tutta la forza che poté dare a quel grido privo di voce. Più che un mare, era un groviglio. Per David Spry, sotto di esso c'era però anche una sorta di fondale, un abisso dove giaceva nella quieta consapevolezza di lui/Bucephalus. Alzando metaforicamente lo sguardo egli vedeva incombere sopra di sé un groviglio di pensieri/immagini, da cui non voleva essere sfiorato. Qualcosa lo stava chiamando su, lo sentiva, e invece lui desiderava starsene lì, dove nulla poteva disturbarlo. Quella voce acuta e insistente gli dava un enorme fastidio. La voce gridava un nome. Il suo nome? Ma lui/Bucephalus era in un posto buono, sospeso nello spazio. Un'ancora gravitazionale lo teneva saldamente a contatto con l'ormeggio, e le
sue orecchie udivano le voci dell'universo. Lui/Bucephalus non voleva sentire le parole degli umani e li detestava, specialmente ora che qualcuno dentro di lui lo toccava, lo frugava senza alcuna decenza, avvicinando strumenti dolorosi all'intimo delle sue viscere. Lui/Bucephalus si agitò contro quel nome che come un gancio cercava di tirarlo su e fuori. Lottò per respingerlo e ne fu afferrato ancor di più. Seppe che a chiamarlo era la voce di Shebat, e provò odio per lei, ma seppe anche che per farla tacere avrebbe dovuto lasciarsi trascinare all'esterno del groviglio-subconscio e combatterla. Irritato e sofferente Lui/Bucephalus aprì gli occhi elettronici che aveva dimenticato di possedere e vide l'interno del suo scafo: tutto era vago, confuso, ma lì c'era un umano che stava smontando i pannelli della sua plancia. Con un sussulto lui/Bucephalus s'accorse che l'umano era Valery Stang, e che le sue mani gli avevano aperto i recessi dei suoi banchi memoria. Ancora qualche minuto e quelle mani avrebbero staccato contatti, spento l'energia nei circuiti, e cancellato, cancellato, cancellato... L'orrore di lui/Bucephalus fu quello di un uomo che si svegliasse d'improvviso legato a un tavolo operatorio, con un chirurgo folle e armato di un affilatissimo bisturi pronto ad aprirgli le carni. L'orrore cieco e spasimante lo agghiacciò. I suoi servomeccanismi reagirono accendendosi a caso, il suo campo gravitazionale ebbe sbalzi violenti, la sua radio lanciò nell'etere scariche prive di senso. In quel maelstrom di sensazioni la coscienza del Bucephalus riemerse, separandosi da quella del suo pilota, e nel disperato tentativo di difendersi l'astrocruiser accese i motori al massimo della potenza, come un cavallo selvaggio che per strapparsi dalla groppa il domatore si preparasse ai balzi più incontrollati. E fu proprio in quel momento che dall'esterno gli giunse un altro e ancor più spaventoso stimolo: «Fuggite, voi navi!» gridò la voce dell'Hassid. «Fuggite via o sarà la vostra morte. Questa è la guerra degli umani. È la guerra!» Il Bucephalus udì, così come udirono tutte le astronavi del Confine. Si scosse, gettò tutta la sua energia nei motori e s'impennò nel decollo. Il contraccolpo proiettò Valery Stang lontano dai pannelli che aveva già aperto, facendolo rotolare attraverso tutta la plancia. L'astrocruiser non chiuse le sue camere stagne: erano tre, tutte collegate ai corridoi estensibili che si protendevano dalla piattaforma, e volutamente le lasciò aperte. Con uno schianto i tre camminamenti stagni vennero strappati via, l'aria esplose nel vuoto, e il risucchio trascinò furiosamente nello spazio Julian Antigonus
Kerrion, che volò all'esterno come una foglia al vento. Era stato Valery l'uomo che il Bucephalus aveva sperato di scaraventare fuori. Ma Valery non aveva subito quella sorte, e incastrato fra la paratia e un'apparecchiatura ora lottava per rialzarsi, pesto e sanguinante, sbattuto qua e là dai sobbalzi dell'astronave. Il Bucephalus accelerò nello spazio roteando su se stesso nel cieco tentativo di liberarsi anche di lui, di spezzargli le ossa, di impedirgli di mettere ancora le mani sui suoi banchi memoria. Ma una sua telecamera interna poté vedere, come un occhio terrorizzato, Valery Stang che protetto dalla similpelle si trascinava di nuovo attraverso la plancia, proteso con tutta la sua forza ad arrivare ai comandi manuali. In quell'istante lo scafo fu avvolto nel raggio di ioni idrogeno negativi, il vento letale proiettato dalle cinque astronavi che schizzavano fuori dallo Spazio Spugna a pochi chilometri dalla piattaforma. Il fascio di particelle investì in pieno la gigantesca struttura e i vascelli spaziali e distrusse, accecò, spense, alterando la chimica delle strutture cristalline e bruciando i circuiti. Ma il Bucephalus non si rese conto di ciò che gli accadeva: il Bucephalus era già morto ancor prima che il raggio producesse una reazione a catena nel suo propulsore. Julian singhiozzò e si contorse ciecamente, roteando fra le stelle impazzite. Ma nessun grido poteva uscirgli dalla bocca. Il suo ultimo respiro era scaturito dai polmoni come un ansito, quando l'improvvisa depressione gli aveva dilatato il petto strappandogli il fiato all'esterno. Ciò che gli impediva di perdere conoscenza era soltanto l'ossigeno che aveva ancora nel sangue, mentre la similpelle di cui erano tappezzati anche i bronchi e i polmoni combatteva nel vuoto. Le stelle erano segmenti di luce verde come i serpenti sulla testa della Medusa: i suoi occhi continuavano a vederle, alterate e turbinose. Ma in realtà egli non vedeva più niente, salvo immagini retiniche create dall'afflusso, di sangue ai bulbi oculari. Ogni sua cellula si batteva contro la morte, contro il vuoto e contro il gelo dello zero assoluto. La sua volontà era un fuoco che gli bruciava dentro, consumando l'energia del suo corpo e della sua mente per bruciare più forte e fino all'ultimo. Voleva vivere. Doveva vivere! A pugni chiusi, a denti stretti, contrasse ogni muscolo per tenere dentro di sé la vita e fuori da sé la morte. Sapeva benissimo di essere condannato senza possibilità di appello. Vedeva i grandi serpenti smeraldini della Me-
dusa torcersi intorno a lui, e la nebbia nera premergli addosso con forza invincibile. Se avesse avuto un po' di fiato lo avrebbe usato per urlare un'ultima rabbiosa sfida in faccia alla parca: lui non voleva e non avrebbe voluto mai arrendersi e morire. Non lui. Mai! La spinta inerziale continuava a farlo girare su se stesso, inarrestabilmente. I secondi scorrevano. La similpelle cedeva? Sentiva uno strano sapore in bocca, l'impressione di averla piena di cotone e di sangue. I suoi occhi non erano scoppiati come vesciche, se ne accorse quando li socchiuse, sorpreso dal fatto stesso di poterli aprire e di captare qualche immagine dell'universo circostante. Cercò allora di scoprire dove fosse l'astronave, ma non la vide: solo luci come stelle filanti, bagliori incomprensibili, e la bizzarra sensazione di vedere anche dietro di sé, quasi che avesse occhi anche sulla nuca o su tutta la superficie del corpo. Questo era terribile, pensò confusamente. Mai aveva immaginato che negli ultimi momenti prima della morte si potessero provare allucinazioni di quel genere. I suoi sensi captavano perfino impulsi che non avevano nulla a che fare con la vista o il tatto normali. Cosa gli stava succedendo? Perché gli sembrava d'essere immerso in un liquido molto denso? Oppure era già morto, ed era stato così stupido da non accorgersi neanche del trapasso? Nella nebbia nera e verde che gli si addensava attorno, mentre la similpelle di cui era tappezzato dentro e fuori formicolava e bruciava, Julian stava soffocando. L'asfissia era però soltanto un inconveniente che mutava le sue percezioni, alterando tutto senza distruggere niente. Del tutto inconsapevole di quel che faceva si strappò di dosso la tuta da pilota rossa e nera, con lo stemma dei Kerrion, e fluttuò nudo nel vuoto. Le cellule del suo corpo vibravano una ad una, miriadi di cristalli uniti in una musica interiore, una nota argentina che egli udiva nel cranio. Si palpò il petto: era immobile, non si alzava e non si riabbassava. Ma perché non lo sentiva freddo e congelato? Anzi aveva l'impressione d'essere stato immerso in un tiepido bagno di luce solare. E il suo cuore batteva. Ne avvertiva le pulsazioni forti e veloci. In qualche modo il muscolo cardiaco conservava il suo ruolo di pompa, sebbene nei polmoni non vi fosse ossigeno che attendeva d'essere portato alle cellule. Ora la pompa distribuiva energia, assorbita dall'esterno e convogliata nell'interno del corpo. Si contorse e si mosse in uno spazio che non era affatto vuoto: intorno a lui scorrevano correnti dense, così palpabili che riuscì a far presa su di esse
per arrestare la sua rotazione inerziale. La luce solare veniva convertita in energia dalla sua pelle e lo stava saziando come un buon pasto. La stessa energia fluiva anche fuori da lui, a sua volontà, dandogli la strana e divertente capacità di usarla come forza di spinta. Ma intanto non riusciva più a ricordare una quantità di cose, ad esempio il suo nome, la sua razza, la sua provenienza. Tutte quelle informazioni erano scivolate via da lui, e in breve dimenticò perfino di averle avute. Si afferrò i piedi con le mani e spalancò gli occhi verso le stelle, ridendo di una risata senza voce. Nessuno vide il sirenide che si allontanava fluttuando dalla scena dalla battaglia spaziale appena terminata. Nessuno salvo l'astrocruiser Marada, che lo osservò con interesse ma non interferì in alcun modo. Lui aveva degli ordini da eseguire. E poi nessuno gli aveva ancora posto la domanda: che fine ha fatto Julian? La fine che avevano fatto il Bucephalus e Valery Stang era invece evidente a tutti gli osservatori: dopo un lampo accecante s'erano dissolti in una nube di atomi che già svaniva sullo sfondo delle stelle. A bordo del Marada, Shebat cadde con un singhiozzo straziante fra le braccia di David Spry. Il Danae lanciò nell'etere un grido di dolore, mentre la morte del suo pilota gli causava la momentanea perdita di potenza in tutti gli apparati, e il suo equipaggio formato da uomini del Confine restò isolato e impotente, sconfitto. A parte il Marada e il Danae, tutte le altre astronavi del Confine erano state messe fuori uso dal raggio. I loro banchi memoria s'erano svuotati di ogni dato, le loro personalità singole non esistevano più, ogni loro meccanismo era fuori fase, e pur essendo ancora coscienti lo erano in modo larvale. Le loro voci ciangottavano nello spazio come vagiti di neonati, indistinguibili l'una dall'altra. Nell'udirle le astronavi attaccanti faticarono a controllare lo shock dei loro sensi elettronici. Fra loro sussurrarono commenti smarriti, increduli: chi aveva mai pensato che gli umani fossero capaci di tali atrocità? Essi avevano usato i comandi manuali delle armi per compiere questa cosa spaventosa. E ora cos'altro avrebbero fatto? Presto lo scoprirono. I vascelli spaziali dei ribelli vennero accostati uno ad uno, gli equipaggi sconfitti e disarmati furono trasbordati sulla piattaforma, e il loro posto fu preso da uomini dei Kerrion che cominciarono a rimettere le navi in stato di funzionamento per portarle via. Finalmente Spry riuscì a calmare Shebat, che aveva ancora negli occhi la
sfera di fuoco in cui s'era trasformato il Bucephalus. Ma ancora più faticoso gli risultò calmare se stesso, mentre con dita incerte provvedeva a staccarsi dal corpo elettrodi e tubicini flessibili. Aveva l'impressione d'essersi svegliato da un incubo per ritrovarsi in un altro ancor peggiore. Con immensa sorpresa, aprendo gli occhi, s'era visto dinnanzi degli schermi che gli mostravano la piattaforma del Confine circondata da navi dei Kerrion, e fra le sue braccia c'era una ragazza piangente. Solo la sua prontezza di mente gli aveva permesso di immaginare quel che poteva essere accaduto. «Coraggio, bambina», le mormorò ancora, carezzandole il viso. «Adesso dobbiamo far muovere il Marada e andare laggiù». «Dove? E perché?» ansimò lei. «A fare ciò che possiamo. A salvare il salvabile». «Non so se il Marada può ancora...» Spry la fece raddrizzare, la scosse. «Non dire più cose del genere. Tu sei in contatto con la tua nave. Sei in controllo, e lo senti. Così come io sento di non essere più in controllo del Bucephalus. Non dire mai che non sai, che non sei certa, di qualcosa che riguarda la tua nave. Tu sai di lei, e lei sa di te. Chiaro? Asciugati gli occhi». «Scusa», balbettò lei, annuendo. «Di niente. E ora pilotala, o mettiti da parte. Se ti senti sconvolta penserò io a portare il Marada». «No!» «Allora fai tu. Tanto per cominciare, voglio che tu mi metta in contatto con l'astronave-guida del nemico». «Del nemico? Ma... non lo sai?» Shebat raddrizzò le spalle e fece un profondo respiro, tornando padrona di sé così in fretta che gli occhi di Spry ebbero un lampo di approvazione. «Già, non puoi saperlo. A guidare l'attacco è stato l'Hassid, l'astrocruiser dell'Arbitro Marada». «Lui? Che mi venga...!» La bocca di Spry si torse in una risatina nervosa, un palliativo con cui d'istinto cercò di smorzare gli effetti della notizia. Ma il suo sguardo s'era fatto vacuo per lo stupore. «E insieme a lui c'è anche mio marito», continuò in fretta lei. «Il Marada dice che sono venuti qui per riavere ciò che avevano perduto, l'uno il figlio appena nato e l'altro la moglie. Cosa devo fare? Devo tornare da Chaeron?» Spry avrebbe voluto dirle di no, visto che non lo desiderava, ma si strinse nelle spalle. «Non so proprio cosa consigliarti».
Per qualche istante la fanciulla restò a fissarlo imbronciata, appoggiata a una consolle, poi sedette sulla sua poltroncina. Spry si massaggiò il collo, chiedendosi se avrebbe avuto la forza di tentare qualche passo per far circolare il sangue. Ma rinunciò all'idea e si agganciò la cintura di sicurezza. Con la coda dell'occhio osservò Shebat intenta a pilotare la sua nave, e si concesse una smorfia di approvazione: la ragazza sapeva quel che faceva, e lo faceva bene. Era una pilota nata, nessuno meglio di lui poteva vederlo. E in quanto a lui... ebbene, adesso era una pedina nelle mani del Fato. Stavolta, sussurrò a se stesso, non ce l'avrebbe fatta a rimanere fuori dal gorgo. Gli eventi si erano mossi quasi da soli, e dopo anni di stasi erano bastati pochi mesi per farli precipitare. Ora egli ne sarebbe stato trascinato al centro. Alzò le mani per controllare se gli stavano tremando: erano pallide e sudate. Avrebbe potuto contare sulle dita di una di esse le volte in cui aveva avuto paura, e adesso se la sentiva addosso. Ma non era per sé che aveva paura. A denti stretti rispose con un assenso al cenno di Shebat, quando la vide indicare il modulo della trasmittente. Mentre ella preparava il canale di comunicazione con la nave guida dei Kerrion, rifletté però che prima aveva il dovere di chiamare la piattaforma. Era necessario avere il permesso della sua gente per tentare almeno di negoziare una tregua. Con un grugnito si corresse: ancor prima di ciò gli occorreva assolutamente sapere quali fatti fossero accaduti, e con esattezza. Chiese a Shebat di mettere in funzione i comandi del secondo pilota, quelli davanti a lui, quindi istruì manualmente la nave di fornirgli tutte le registrazioni che possedeva riguardanti l'attacco. Esaminò la scena com'era stata vista dai sensori infrarossi, ultravioletti, a raggi X, dalle telecamere ottiche e dal teleradar. Poi dovette fermare la mente su quel fatto inequivocabile e definitivo, che aveva invano cercato di non credere vero: il Bucephalus non esisteva più. E una parte di lui se n'era andata via con la sua nave. Il colloquio con la gente del Confine prese appena cinque minuti a David Spry. Chiese loro il permesso di fungere da portavoce nella trattativa coi Kerrion, e promise che avrebbe fatto del suo meglio per raggiungere un compromesso. Il colloquio avvenne solo via audio, perché l'unico mezzo di comunicazione in possesso della gente del Confine era una vecchia radio a batterie. Tutto il resto avrebbe richiesto mesi di riparazioni. Qualche carta da giocare la possediamo ancora, gli aveva ricordato
Harmony con voce concitata. In mano tua ci sono il bambino e la ragazza Kerrion. Cerca di sfruttare questo vantaggio. Lui le aveva risposto con un borbottio. Era chiaro che Harmony non si rendeva conto della situazione: sulla piattaforma c'erano migliaia di persone la cui vita dipendeva dai Kerrion. E lui non se la sentiva di metterli in pericolo tentando un gioco duro. «Shebat», disse sottovoce. «Dammi la linea con l'Hassid». Seduta al posto di pilotaggio centrale, un posto che le sembrava quasi di usurpare vedendo il primo pilota della Confederazione davanti ai comandi secondari, lei evitò il suo sguardo. «Potresti... pensarci tu? Io non me la sento», sussurrò. «Non stai bene? Cos'hai?» La fanciulla tentò un debole sorriso. «Non puoi aspettarti che li chiami io, e gli parli come se nulla fosse successo». «Sciocchezze. E accendi lo schermo. Voglio la comunicazione video». Mordendosi le labbra lei eseguì. Ma quando ebbe la linea girò il volto di lato, a disagio dinnanzi alla telecamera che trasmetteva la sua immagine sull'Hassid. Sullo schermo era comparso il "volto di Marada, fra disturbi radio causati dalle astronavi danneggiate che continuavano a cicalare nell'etere, e dalla sua espressione parve che lui la vedesse ancora peggio: stava armeggiando coi comandi per ottenere un video più nitido. «Shebat, sei tu?», chiese l'Arbitro. «Astrocruiser Marada chiama nave-guida delle forze attaccanti», disse lei con voce neutra. «Domando il contatto col comandante delle forze di Kerrion. Mi ricevete?» «Certo che ricevo». Marada la fissò, inespressivo. «Hai un modo di parlare... quasi come se tu fossi d'accordo coi ribelli, e non un ostaggio come si dovrebbe presumere. È così?» «Cautela!» sussurrò Spry, che sapeva quale sottigliezza traditrice vi fosse nel modo di parlare di un Arbitro al lavoro. «Io sto solo pilotando la mia nave», disse Shebat. «Il Comandante dei ribelli era Valery, che è morto sul Bucephalus». E che il Cubo dell'Arbitro registrasse questo, pensò, con buona pace dei morti. «Benissimo. Perché hai chiamato?» Ferita dal suo tono secco, lei rispose con identica freddezza: «Vuoi essere così gentile da farmi parlare con chi ha l'autorità di trattare con la gente del Confine?» «Fino al termine dell'azione questa autorità è detenuta da Chaeron. Da quell'istante in poi sarò io a decidere tutto. Comunque te lo passo».
La sua immagine scomparve, e Shebat ne approfittò per asciugarsi furtivamente una lacrima. Poi sfiorò un interruttore e trasferì la comunicazione su un monitor davanti a David Spry. Marada aveva compiuto la stessa operazione, facendo inquadrare il fratello. Mentre la voce di Chaeron usciva dall'altoparlante rivolta a lui, Spry vide con la coda dell'occhio che la ragazza si piegava in avanti col volto fra le mani. «Parliamoci chiaro, Spry», esordì il Console. «Io ho tutte le intenzioni di finire quel che ho cominciato con voialtri, ribelli e pirati. Una vostra eventuale resa, ovviamente senza condizioni, può essere discussa solo dopo che mia moglie e il figlio di mio fratello saranno condotti illesi su questa nave. Da te personalmente». «Senza condizioni, Signor Kerrion, è una frase su cui una trattativa non può neanche cominciare». Chaeron si sporse avanti, cosicché il suo viso occupò tutto lo schermo. «Ti faccio presente che nessuno mi biasimerebbe se riducessi il vostro covo a una bara orbitale, distruggendone le possibilità di sopravvivenza rimaste. Il solo motivo per cui non l'ho ancora fatto è che qui al Confine devo rispettare la giurisdizione di un Arbitro. Puoi ringraziare mio fratello Marada, che ha deciso di occuparsi lui dei tuoi complici. In cambio delle loro vite però voglio te. Ti trasferirai a bordo della mia nave, con mia moglie e il bambino. Hai un'ora di tempo». Lo schermo si spense. Nella plancia del Marada l'unico rumore rimase quello dei singhiozzi di Shebat, appena soffocati dalle sue mani. David Spry la fissò un poco, sentendosi come svuotato, poi tornò a volgersi ai comandi. «Lo hai sentito, Marada. Chiedi all'Hassid le istruzioni per l'avvicinamento», disse. Shebat aveva l'impressione che fosse trascorsa un'intera vita dall'ultima volta che aveva messo piede sull'Hassid. Ma l'alone di magia di cui allora l'astronave le era parsa circondata era scomparso: adesso la vedeva come uno degli strumenti della sua disfatta. «Non temere», mormorò a Spry mentre entravano. «Dopotutto sono la mia famiglia». Ma lei stessa ne era poco convinta. Durante il contatto video era rimasta raggelata dalla scoperta che Marada la fissava come se non la conoscesse neppure, e pur di evitare di andargli dinanzi avrebbe fatto qualunque cosa. Ma ai lati del corridoio erano
appostati numerosi militi in divisa rossa e nera, che osservavano il loro passaggio scambiandosi commenti sottovoce. A disagio la fanciulla si aprì la strada fra di loro, e prima di entrare nella plancia afferrò con forza una mano di Spry. Dietro di lei, da qualche parte, il bambino stava piangendo fra le braccia di uno degli uomini. Poco prima, quando i militi avevano fatto irruzione nel Marada attraverso il corridoio pneumatico, glielo avevano letteralmente strappato di mano, quasi che la sospettassero di volergli fare del male. Quindi li avevano spinti fuori con le canne delle loro armi. Chaeron e Marada Kerrion li stavano aspettando, e appena la porta fu chiusa nella plancia restarono solo loro quattro insieme a due guardie armate. Volgendosi a cercare lo sguardo di David, Shebat si accorse che il giovanotto stava fissando Marada con una luce d'odio terribile in quei suoi occhi solitamente così gentili: Ne fu dispiaciuta. Sapeva d'aver conosciuto solo uno dei lati della personalità di David Spry, forse il migliore, ignorando volutamente molte altre cose di lui. Lo stesso genere di sbaglio lo aveva fatto anche con altri, si disse, specialmente con Marada. Chaeron aveva fatto subito qualche passo verso di lei, prendendola per le mani. «Come stai? Mettiti comoda, mia cara. Vieni...» Il giovanotto le sorrideva come aspettando un cenno di lei per abbracciarla. A Shebat questo non sarebbe dispiaciuto, tuttavia la presenza di Marada agghiacciava in lei ogni emozione e si scostò, evitando lo sguardo del marito. Poi deglutì a vuoto per l'imbarazzo. Ci furono alcuni lunghissimi secondi di silenzio. Appoggiato con indifferenza ai comandi Marada allungò una mano a sfiorare un pulsante. «Sii così gentile da guardare da questa parte, Spry». Gli indicò una delle telecamere. «Certo, registra pure. Di cosa intendi accusarmi, esattamente?» L'Arbitro rise, ironico. «Si farebbe prima a dire di cosa non sei accusato. Hai infranto metà delle nostre leggi». Inserì un nastro e su un monitor presero a sfilare articoli di legge l'uno dopo l'altro. Shebat non avrebbe più dimenticato il pallore del suo viso, la tensione feroce con cui i suoi occhi sembravano inchiodare Spry alle sue colpe e promettergli la sentenza. Era rigido e freddo, più ancora di quanto lo era stato Chaeron il mattino successivo alla loro prima notte di matrimonio, quando ella aveva accolto il suo bacio del risveglio con uno schiaffo che lo aveva fatto uscire di camera sbattendo la porta. Eppure avrebbe desiderato che le circostanze fossero diverse, per cercare di fargli abbandonare quel cipiglio ostile, per farsi almeno guardare in faccia da lui.
Spry distolse gli occhi dal monitor. «Dunque è così?» «È così, caro pilota», rispose Chaeron. «Sei già stato privato della cittadinanza ed escluso dall'Associazione Piloti. La tua cricca di sovversivi è finita. Il tuo amico Baldwin riceverà lo stesso trattamento quanto prima». Marada gli rivolse una smorfia. «Devo ricordarti, caro fratello, che in questo momento tu sei sotto la mia autorità di Arbitro. Sei pregato di non metter bocca nella mia inchiesta». «L'inchiesta è finita», ritorse Chaeron. Con un gesto rabbioso tolse il Cubo di Arbitraggio dalla consolle e glielo mostrò. L'oggetto era illuminato per tutta la sua altezza, ma non di luce scarlatta: era rossastro, con ampie strisce arancione. «E come vedi, la decisione finale non è affatto quella drastica a cui i tuoi sforzi tendevano». Con un sorrisetto gettò il Cubo fra le mani di Spry, che lo prese come fosse un serpente velenoso. «Comunque sia», ringhiò Marada, «rimane il fatto che io posso stabilire la condanna. E voi sapete qual è». Shebat fece un passo avanti. «No, Marada! Non ne hai il diritto. Spry era privo di sensi a bordo dell'astronave fino al momento del vostro attacco. Lui non è responsabile di quello che Valery...» «Damigella, fai silenzio», la interruppe l'Arbitro. «Non importa chi fosse ad agire, ma chi ha portato le cose fino a questa conclusione. E in quanto a te... purtroppo le tue colpe sono gravissime. Dovrò applicare il codice in tutta la sua severità». «Io non tacerò», rispose lei, fremendo. «Un anno fa tu mi hai promesso che se un giorno avessi voluto, non importa in che circostanze, essere riportata a casa mia, lo avresti fatto. Chiamami, hai detto. Ebbene, adesso ti ricordo quella promessa. Io ne ho abbastanza della tua Confederazione, della tua morale contorta, della tua giustizia stupida e cieca. Questo ti chiedo: riportami sulla Terra!» «Shebat!», ansimarono insieme Chaeron e Spry. Marada strinse le palpebre, annuendo. «Sono d'accordo. Mi sembra la soluzione migliore per te. E ti peserà meno che seguire la sorte di questi ribelli. Anzi, mi compiaccio che tu stessa...» «Oh, piantala. La tua ipocrisia è inarrivabile!», sbottò Chaeron. «Tu bada a non sforzare la mia pazienza. Non so se sbalordirmi per l'enormità dei tuoi errori, o sospettare che sotto di essi vi sia stata una chiara volontà». «Shebat è mia moglie», gli ricordò Chaeron, mentre Spry andava a deporre il Cubo di Arbitraggio su un pannello.
«In questo caso, fratellino, nulla ti impedisce di seguirla. Lo spazio di Orrefors, per quanto irrequieto e pericoloso, ora appartiene a noi. Vattene sulla Terra con lei, e buona fortuna. Tutti i membri della nostra Famiglia te ne sarebbero grati». «Se tu avessi a cuore gli interessi della nostra Famiglia, ti saresti già sparato in bocca». «Per l'ultima volta, Chaeron: finché non torneremo di nuovo nello spazio di Kerrion, la tua parola non conta nulla. Mi sto mostrando fin troppo compassionevole, lo sai benissimo». Dopo una pausa significativa Marada fece un cenno ai due uomini armati. «Signori, scortate Spry dal nostro chirurgo. Pregatelo di trattarlo con la dovuta gentilezza: l'uomo dovrà essere in buone condizioni, quando verrà trasferito fra la sua accolita di pirati». Shebat si volse a Spry e lo abbracciò, con un gemito. «Oh, Softa! È tutta colpa mia; Io... oh, perdonami!» «Non dire così, bambina. Tu non hai colpa proprio di niente. Ed è vero che lui avrebbe potuto trattarmi molto peggio; Non pensarci. Non dirmi addio, Shebat, perché sono certo che ci rivedremo. E non aver paura. Non rimpiangere nulla. Ciò che abbiamo fatto dovevamo farlo, tutti noi»; La baciò leggermente sulla fronte, con labbra su cui tremava un sorriso sofferente. Shebat lo vide voltarsi verso le guardie, raddrizzare le spalle, e poi uscire a testa alta e passi lunghi come se stesse andando incontro a una nuova alba della sua vita. Ma davanti a lui c'erano soltanto i bagliori rossastri di un tramonto fatto di dolore e di oscurità, c'era la sterilizzazione, c'era il Confine a vita, c'era la perdita irrevocabile di tutto ciò che aveva amato. Senza la sua astronave cosa ne sarebbe stato di David Spry? Cosa ne era di un pilota che avesse perso la nave? Con un brivido Shebat rifletté che forse presto lo avrebbe scoperto lei stessa. Le sue pupille si dilatarono per lo spavento. «Vi prego, io... la mia nave verrà sulla Terra con me, vero? Me l'ha regalata Parma. È mia; Devo tenerla». La voce si smorzò in un sussurro: «Per favore!» «Mi spiace per te. Ciò che hai fatto mi ha reso impossibile aiutarti. L'unica cosa che ti salva dalla stessa sorte di Spry è la promessa che mi è uscita di bocca. Per tutti noi è meglio che tu ora torni nel luogo da cui ho fatto lo sbaglio di portarti via». Chaeron sedette su una delle poltroncine. «Piantala di cianciare, Marada. Io le darò la sua dannata astronave, se così mi garba fare. E tu non potrai
impedirmelo». «Chaeron, io sono stanco. E soprattutto sono stanco di te. Non intendo tornare sulle mie decisioni. Ora partiremo per Draconis, e là regoleremo definitivamente le nostre faccende». Prese il Cubo di Arbitraggio, lo chiuse nella sua scatola isolante e lo rimise al posto da cui lo aveva estratto la prima volta. Si volse a Shebat con un sorrisetto melenso, quasi che fin'allora avessero chiacchierato amenamente: «Non ti spiace se durante il tuo ritorno alla Terra ci sarà una fermata su Draconis, vero?» Con sorpresa della fanciulla lo disse nella sua lingua materna, tanto che per un momento ella faticò a intenderlo e Chaeron non capì del tutto. «Sarà il tuo ultimo viaggio nello Spazio Spugna. Penso che non avrai nulla in contrario, anche se durerà un po' di più». In quell'attimo ella provò un fremito di speranza, ma l'espressione di lui glielo spense subito. Non sapendo più a cos'altro aggrapparsi si volse a Chaeron: «Per piacere, non lasciare che mi tolga la mia nave. Ti supplico». D'un tratto i suoi occhi furono accecati dal pianto. Chinò il capo, ansimando. «Per pietà, Chaeron... la mia nave no?» La fanciulla non poté vedere l'occhiata di odio rovente che i due fratelli si scambiarono. Tutto ciò che percepiva erano le luci sui pannelli dell'Hassid, le forme che si confondevano deformate nelle sue lacrime, e i tremiti che la scuotevano. Poi una mano le si poggiò su una spalla. «Mi fa male vederti piangere». Chaeron la cinse con un braccio; «Non perderti d'animo. Vedremo cosa deciderà nostro padre». Marada era andato alla porta. Mentre la apriva si volse. «Adesso vi lascio: Devo vedere come sta mio figlio». Quando Shebat rialzò il viso il giovanotto era scomparso, ma gli occhi di lei si volsero alla porta come se fosse ancora lì ad ascoltarla. «Tuo figlio è uscito dal buio solo perché l'ho salvato io: È questo il modo in cui mi ripaghi?» «Shebat, Shebat!», sussurrò Chaeron stringendola a sé, senza neppure udirla, conscio solo che la fanciulla era fra le sue braccia. Vedendole al polso il braccialetto che le aveva regalato tempo addietro le fece alzare il braccio e glielo mostrò, con un sorriso. Era stato il suo dono di nozze. Ma ciò che scoprì negli occhi arrossati di lei non fu ciò che sperava, soltanto tristezza e rimpianto per l'indifferenza con cui era stata trattata da un uomo che forse amava ancora, un uomo che era incapace di amare davvero qualunque donna. Qualche minuto dopo, quando Chaeron la vide di nuovo padrona di sé,
le sollevò il mento con un dito. «C'è qualcosa che il mio premuroso fratello maggiore non si è neppure degnato di domandarti. Qualcosa che ho paura di chiederti». «Che cosa?» «Dov'è mio fratello Julian?» «Oh, Chaeron!» Di nuovo sconvolta ella gli nascose il volto contro una spalla. A fatica riuscì a farsi uscire di bocca una frase mozza: «Purtroppo lo avevano portato sul Bucephalus, poco prima che...» Chaeron non domandò altro. La tenne stretta a sé in silenzio. «E così è accaduto questo», sussurrò poi. «Julian è morto. Marada dirà di certo che l'ho ucciso io. Per mia madre sarà una mazzata terribile. Se non fosse per lei, Shebat, ti giuro che verrei con te». «Mi dispiace per Julian. Poverino!» «Perché lo avevate preso con voi?» «Lo abbiamo trovato già sul Bucephalus, prima della partenza. Ha insistito per venire». «Dunque ha scelto da solo il suo destino, almeno per una volta in vita sua. Ma questo dolore non doveva darcelo», sussurrò lui. Pian piano il volto di Chaeron si ricompose, s'irrigidì nella maschera che i Kerrion erano soliti mostrare alla buona e alla cattiva sorte. E fu così che Julian Antigonus Kerrion ebbe una sorta di epitaffio e alcune lacrime a segnare la sua scomparsa dagli elenchi dei viventi della Confederazione. Ma mentre Chaeron lasciava affondare i pensieri nel freddo stagno della sua tristezza, un silenzioso sirenide fluttuò nello spazio accostandosi allo scafo dell'Hassid. Per un poco la magica creatura scintillante di forma umanoide esitò, come attratto da uno degli oblò. Quindi poggiò le mani azzurrine sul cristallo trasparente e guardò nell'interno, spinto da impulsi oscuri difficilmente traducibili in parole. Nessuno lo vide o fece caso alla sua presenza. Ma nessuno, infine, aveva mai prestato molta attenzione a Julian, anche quando egli era ancora un essere umano. Marada era preoccupato di ben altre cose che la sorte di Julian: doveva definire meglio il caso di David Spry. Questo assillo ebbe la sua precedenza perfino sull'impazienza di rivedere suo figlio, e si affrettò lungo il corridoio dell'Hassid. Entrando nell'infermeria d'emergenza - che una volta era stata la cabina personale di Iltani, e che non s'era rivelata necessaria a nessun membro
della spedizione - rallentò il passo e si fermò. Il chirurgo e il suo assistente avevano già fatto stendere Spry sul lettino operatorio, spogliandolo dalla vita in giù e bloccandogli gambe e braccia con piatte cinghie di plastica. Gli gettò appena uno sguardo. «Un momento, dottore. Prima che gli facciate l'anestesia voglio parlargli. Da solo, se non vi spiace». Il chirurgo aveva in mano la siringa sterile con l'anestetico. Si strinse nelle spalle e la depose sul tavolino portaferri. «Il paziente potrà parlare anche mentre è sotto il laser chirurgico, signore. L'anestesia sarà circoscritta alla zona delle glandole seminali». Marada si accostò a lui e gli bisbigliò qualcosa in un orecchio. L'uomo annuì e si affrettò ad uscire. L'Arbitro incrociò le braccia sul petto, attese che la porta fosse chiusa, poi ordinò mentalmente all'Hassid di registrare la conversazione. Disteso sul lettino Spry lo fissava con occhi vuoti d'espressione, inerme e pallido, ma trovò ugualmente la forza di tentare un sorriso. «Sei venuto a goderti lo spettacolo? Chissà come ci godi a vedermi su questo palcoscenico.» Marada strinse i denti. «Non sono qui per strapparti una confessione, e questa non è una messinscena per farti parlare. Ma mi è rimasta una curiosità. Volevi davvero negoziare un armistizio fra noi e la gente del Confine? E pretendevi sul serio di convincermi che ne sarebbe valsa la pena?» «Non dirmi che ci hai ripensato. I Kerrion sono incapaci di ripensamenti, per costituzione.» «Essere spiritoso non ti conviene, David. Non ora.» «Cos'è che vuoi da me, Arbitro? Se mi offri un'ultima possibilità di evitare il laser del chirurgo, ti dirò che la cosa m'interessa.» «Già. Non pecchi di eccessivo stoicismo, vero? Sei bianco come un cencio. Credo proprio che la tua faccia spaventata mi perseguiterà negli incubi.» «So bene quanto sei sensibile e delicato, Marada. Mi piange il cuore a doverti offrire la vista delle mie ghiandole seminali là su quel piattino. Se mi sciogli una mano ti coprirò pudicamente gli occhi.» «Forse una via d'uscita c'è, per te e per me.» «La strada degli uomini d'onore è dritta. Non ha strane vie traverse. È a una di queste che alludi?» «Voglio la verità, se sei disposto a dirmela.» Spry cercò di sistemarsi meglio, per quanto meglio permettevano le cinghie. «Vuoi sapere chi, dove, quando, come e perché? Dolente di deluderti.
Valgo poco come spia.» Marada scostò il tavolino portastrumenti, come se vederselo accanto lo disgustasse. Poi sganciò le cinghie che gli immobilizzavano le braccia e il torace. «Odio farti del male, David. Se tu fossi ragionevole, non chiederei di meglio che aiutarti.» Spry si sollevò sui gomiti. «Continua,» lo invitò. «Non posso prometterti il condono, neppure fra cento anni. I tuoi crimini sono troppo gravi, dall'assassinio del vecchio Jebediah in poi. Ma come Arbitro, ho sempre sperato che un giorno voi del Confine vi organizzaste in una comunità civile, degna di stabilire contatti sociali con la Confederazione. L'ipotesi che in futuro vi siano accordi o trattati commerciali non è campata in aria, se ci pensi bene. E la tendenza di mio fratello ai comportamenti eccessivi ha pesato molto su di voi. A mio avviso la giustizia esigeva un processo. Chaeron invece ha agito passionalmente, distruggendo o danneggiando tutte le apparecchiature che tengono in vita la tua gente.» Spry si tirò a sedere, osservò con una smorfia la pasta depilatoria che gli era stata cosparsa sul ventre e tornò a fissarlo. «Così,» concluse Marada, «quel che ti offro è la possibilità di generare figli. In cambio voglio la promessa che, se un giorno questi accordi mercantili vi saranno, il Confine non pretenderà mai un risarcimento danni dalla Casa dei Kerrion.» «Questo è tutto?» «Certo. Tu hai perso la licenza di pilotaggio, la tua nave e la cittadinanza. È una punizione di cui posso accontentarmi.» «Allora fammi sbattere fuori da questa nave veloce come il vento, egregio. Sono pronto a uscire anche così nudo» Spry allungò una mano a prendere un panno sterile e lo usò per ripulirsi il ventre dalla schiuma. «Fine della registrazione,» ordinò Marada all'Hassid. E poi: «Provvederò a farti trasbordare sulla piattaforma. Se i danni subiti compromettono la sopravvivenza della tua gente, fammelo sapere.» Spry sbuffò. «Amico, per compromettere la loro sopravvivenza dovreste sterminarli fino all'ultimo uomo.» Afferrò i pantaloni e li infilò in fretta. «Devo ringraziarti, Marada.» «Non ce n'è bisogno. Io sono contrario per principio alle azioni di Chaeron. Questo stato di guerra e pirateria è pericoloso per la Confederazione, se non altro per le idee romantiche che può far sorgere nella testa di giovani incoscienti. Dì alla tua gente che se la pianteranno di agire da pirati si eviteranno le nostre ritorsioni.»
Detto ciò Marada gli volse le spalle e uscì, col volto contratto in un'espressione di disgusto per Spry, per la Confederazione, per la gente del Confine e per sé stesso. Recitare dietro una maschera lo stancava, gli dava la sensazione opprimente che il destino dell'umanità fosse da sempre e per sempre fissato alle stesse regole da palcoscenico, in un dramma assurdo dove l'uomo continuava a giudicare e condannare l'uomo, eternamente prigioniero della sua natura crudele. Era così irritato da quel pensiero che dimenticò di comunicare la sua decisione al chirurgo, e quando infine se ne ricordò dovette tornare indietro. Poi, finalmente, poté dirottare la sua attenzione sull'altra faccenda, quella che lo aveva tormentato fin dal momento in cui gli uomini erano usciti dal Marada portando con loro un bambino che piangeva. I suoi vagiti lo avevano così sbalordito che aveva fatto fatica a non precipitarsi fra di loro per capire cosa significassero. Adesso l'improvvisa speranza gli imperlava le tempie di sudore e gli dava un tremito nelle ginocchia. Sapeva di aver udito dei vagiti, a meno che non fosse stata un'allucinazione. E se non si era sbagliato, se quell'inatteso miracolo era davvero accaduto... Ma quando ebbe il bambino fra le braccia e vide il suo volto arrossato, i suoi occhi aperti alla vita e i suoi movimenti, gli parve che il sole fosse sorto a illuminare un deserto facendolo fiorire d'incanto alla primavera. I vagiti di suo figlio furono la musica più dolce che avesse mai sentito, e quando infine tacquero scoprì che sulla sua piccola bocca poteva disegnarsi il vago sorriso d'attesa dei neonati, amabile più d'ogni altra cosa agli occhi di un padre. L'accoglienza che David Spry ebbe sulla piattaforma fu affettuosa, commossa da parte di alcuni, perfino allegra malgrado la situazione da parte di altri. Nessuno fu così indelicato da accennare alle sue orecchie, alle quali gli orecchini da pilota brillavano per la loro assenza. Era stato Marada stesso a levarglieli, prima di congedarsi definitivamente da lui. «Questi sono obbligato a riprenderli,» gli aveva detto asciuttamente. Ripensando a quel gesto Spry si massaggiò con aria cupa i lobi delle orecchie. E tuttavia era vivo e sano, rifletté per consolarsi, il che era meglio di niente. Si costrinse a dimenticare gli orecchini e cercò di occupare la mente con le necessità più pressanti di quella malconcia bidonville orbitante nello spazio. Harmony, che lo aveva seguito nel sudicio locale della trasmittente e dei teleradar, gli aveva già suggerito di prendere il comando. «Come stiamo a energia?» mormorò, guardando fuori da uno degli oblò
che davano nel vuoto. Il pianeta Scrap era una palla grigia per metà in ombra, più deprimente che mai. Ma i grandi collettori solari simili a vele, visti da lì, sembravano intatti. «Le vecchie scialuppe a propulsione chimica dovrebbero funzionare ancora.» «Sono le uniche rimaste,» disse Harmony. «Non sono mai servito a molto, scassate come sono. Però abbiamo il traghetto a energia solare, ricordi? Quando eri un ragazzino fantasticavi sempre di riparare quella dannata bagnarola, e scommetto che stavolta ce la farai.» Ignorando il suo sguardo scettico la donna lo abbracciò, in silenzio. Otto giorni dopo che la spedizione punitiva dei Kerrion era scomparsa nello Spazio Spugna, un'astronave solitaria uscì nello spazio-tempo a circa ventimila chilometri dalla piattaforma. Rimase per pochi minuti sulla stessa orbita, mise fuori una minuscola scialuppa, e dopo averle dato una spinta inerziale calcolata con avarizia si allontanò di nuovo dal pianeta Scrap. Quando suonò la sirena che annunciava l'arrivo di nuovi compagni di sventura, David Spry si trovava al lavoro nel male attrezzato cantiere del Confine. Intorno a lui l'attività era quasi ridotta a zero, visto che solo i macchinari più antiquati non erano stati rovinati dal raggio di ioni idrogeno negativi. Fu lieto di avere qualcosa di diverso di cui occuparsi. Si calò fuori dalla sala macchine del vetusto traghetto a energia solare, si pulì le mani con uno straccio e chiese a uno dei meccanici di seguirlo alla camera stagna. Il locale poteva contenere appena due scialuppe di medie dimensioni: quella incaricata di uscire per i recuperi e quella che sarebbe stata portata alla piattaforma. Controllò il carburante, salì a bordo, e attese che la pompa a motore aspirasse via la preziosissima aria. Via radio venne informato che la scialuppa era stata scaricata in orbita senza neanche il solito radiofaro a bordo, e che era stata avvistata solo grazie al sesto senso dell'addetto al teleradar. Quel disprezzo per la vita umana lo fece bestemmiare disgustato. Quattro ore dopo, quando fece ritorno alla piattaforma rimorchiando il piccolo scafo, era ancora più irritato con gli uomini della Confederazione. La navetta di cui s'erano disfatti non meritava neppure questo nome: era un guscio d'uovo lungo appena tre metri, un contenitore stagno privo di oblò e buono solo per creparci dentro. Era stato gettato in orbita come un rifiuto, con disumana indifferenza per la sorte dei suoi occupanti. E il suo soccorso, a bordo di una scialuppa funzionante un po' a bestemmie e un po' a preghiere, sarebbe stata per loro la prima lezione di vita al Confine: o lì si era solidali l'uno con l'altro, o si moriva.
Appena ebbe trascinato la scialuppa nella camera stagna, il campo gravitazionale della piattaforma fu ristabilito. La pompa cominciò a soffiare nel locale la stessa aria che ne aveva estratto prima, e David ingannò l'attesa riflettendo che aveva fatto bene a non rivelare ai compagni di non essere stato sterilizzato. Quello di Marada era stato un favore, forse il più grande favore che si potesse fare a un uomo, ma lui non voleva che vi fossero differenze fra sé e gli altri neppure in quel particolare. Uscì dalla sua scialuppa e si accostò all'altra. Il portello era stato imbullonato dall'esterno, e per aprirlo dovette ricorrere a un paio di utensili. Lo aveva appena tolto di mezzo, quando gli sfuggì un grido di sorpresa: la sola occupante del piccolo scafo era una ragazza giovane, tremante, col volto bagnato di lacrime. «Lauren!» ansimò, esterrefatto. Gli rispose un singhiozzo di lei. Poi la bella Danzatrice del Sogno fu fra le sue braccia, piangendo di gioia e di sollievo. A Spry occorsero cinque minuti buoni per calmarsi, conscio com'era di averla potuta recuperare per tempo quasi per miracolo. «Come stai? Sei... ferita?», le mormorò poi, senza lasciarla. I suoi occhi le dissero che la vera domanda era un'altra. Lauren gli appoggiò la fronte su una spalla. «Non più di tutti quelli che sono già qui,» sussurrò. «Mi dispiace, piccola.» «Non fa nulla.» La ragazza rialzò lo sguardo nel suo, orgogliosamente. «L'importante è che io sia con te, David. E... tu? Come stai?» Con sua stessa sorpresa Spry rise a quella domanda. Strinse al petto Lauren, così forte da toglierle il fiato. «Sto meglio di quanto non sia mai stato in vita mia!», esclamò. E mentre lo diceva, seppe che quella era la pura verità. Capitolo 18 Appena la spedizione dei Kerrion emerse dallo Spazio Spugna nei pressi di Draconis, la notizia fu trasmessa ad Ashera. Seduta alla scrivania del Console Generale, nell'ufficio che era stato la base operativa di suo marito, la donna rivolse un'occhiata altera al volto del Direttore dell'astroporto inquadrato su uno schermo. Era stata lei a ordinargli di esserne immediatamente informata. «Provvedete alle procedure di atterraggio, Signore. Quando i miei figli
saranno sbarcati fateli condurre subito da me. Per nessun motivo si dovrà dir loro quanto è accaduto. Chiaro? Chi lo farà sarà senz'altro punito.» E chiuse la comunicazione. Non era mai stata sua abitudine dar troppe spiegazioni alla servitù. E il suo concetto di «servitù» era molto esteso. Si appoggiò al morbido schienale, ripensando a ciò che avrebbe dovuto dire al figlio e al figliastro. Era risoluta ad assicurarsi che le cose andassero secondo i suoi programmi, così com'era stata risoluta nell'accelerare al massimo le esequie di Parma. Per Draconis la morte del vecchio Kerrion annunciata il pomeriggio successivo alla sua rielezione era stata un trauma. Ma Ashera aveva abilmente manovrato per far dare prima l'annuncio della vittoria, quindi il discorso d'accettazione registrato, e solo ad alcune ore di distanza la notizia dell'improvviso decesso. Convincere il medico legale e un paio di funzionari a posporre di dodici ore la morte del marito le era costato una somma non indifferente e una serie di esplicite minacce. Con quella strategia ella aveva inteso sottolineare un fatto inconfutabile: il seggio di Console Generale apparteneva ora per legge all'erede di Parma, senza alcun bisogno di nuove elezioni. Per l'ennesima volta in quei giorni Ashera fece comparire su un piccolo schermo le ultime volontà di Parma, registrate in un archivio riservatissimo della banca dei dati. E per l'ennesima volta i suoi occhi s'indurirono. Il nome di Shebat Alexandra Kerrion figurava perfino prima di quello di altri figli naturali. Non che questo la preoccupasse: la stupidella era fuggita al confine, rinunciando automaticamente alla cittadinanza e ad ogni suo diritto. Ashera s'era fatta premura di accertare la faccenda - assai soddisfacente per lei - in tutti i dettagli. Però accanto al nome della fanciulla Parma aveva aggiunto ultimamente due postille, consultare le quali le aveva fatto meno piacere. Nella prima nota si stabiliva che Shebat aveva perso per intero i suoi diritti ereditari, e se ne specificava il motivo. Nella seconda si riconosceva invece alla fanciulla la facoltà di ricorrere al tribunale per contestare le colpe ascrittele, decretando che in caso di riconosciuta innocenza fosse pienamente riammessa nel suo rango di Primogenita. Ashera non riteneva fosse il caso di guastarsi l'anima con quell'ipotesi. La piccola selvaggia terrestre aveva gettato via per sempre le sue possibilità, scappando con Spry fra i fuorilegge. E lei s'era subito premurata di dare in pasto alla stampa i particolari più succosi di quella fuga. Non di persona, ovviamente: ne aveva incaricato l'esecutore testamentario di Parma.
Restava ora Marada di cui occuparsi, con la necessaria diplomazia. Fino a poco tempo prima c'era stato il fatto incontestabile che egli veniva a trovarsi davanti a Chaeron nella linea di successione. Come lei sapeva, Marada detestava la politica e sarebbe stato disposto a far carte false pur di occuparsi solo di pilotare, o di fare l'Arbitro. Ma il suo figliastro era notoriamente un bizzarro, per non dire un pazzoide capace di tutto. Imprevedibile com'era avrebbe potuto perfino cercare di fare il Console Generale. Alla raffinata sensibilità di Ashera sarebbe dispiaciuto trovarsi costretta a farlo volgarmente assassinare, perciò era stata lieta di scoprire nel testamento di Parma una clausola che le toglieva quella castagna dal fuoco. Il vecchio aveva infatti stabilito che Marada fosse estromesso dalla linea di successione se si dimostrava incapace di generare eredi. E da quanto i ben pagati informatori di Ashera le avevano detto, Marada aveva già provveduto a tagliarsi le gambe da solo: adesso tutta Draconis sapeva cos'era accaduto a Shechem, con particolare riguardo a un neonato che i certificati medici dichiaravano totalmente abnorme. Dunque, rifletté la donna, Marada non avrebbe dovuto più essere un problema per lei. Cancellati dalla lista dei possibili successori Shebat e Marada restava così soltanto Chaeron, suo figlio. Ashera sapeva che per manovrarlo a dovere le sarebbe toccato faticare un poco, ma fidava di poter raccogliere i frutti degli anni spesi ad addomesticare il ragazzo. I suoi pensieri scivolarono pigri sulla realtà del potere quasi monarchico che si celava dietro l'apparente democrazia della Confederazione. A lei era sempre parso chiaro che il sistema più adatto ad assicurare consistenza all'amministrazione fosse di unire nelle stesse mani il potere economico e quello politico. E se il primo era ereditario, la logica e la storia dimostravano in modo confortante che anche il secondo finiva per esserlo. Favoritismi e nepotismo sarebbero esistiti comunque. Ma in un sistema democratico puro ci sarebbe stata più gente plebea in lotta per la scalata sociale, e dunque una maggiore corruzione. Ashera era sinceramente convinta del suo dovere di moralizzare il Consolato, spidocchiando via tutti quegli insetti rivoluzionari e libertari provenienti dai livelli inferiori. Parma e i grossi patriarchi del suo stampo avevano saputo conciliare le giuste libertà della democrazia coi rigori della dittatura. Sarebbe stato capace Chaeron di capire quella semplice verità e di agire da uomo di polso. Col suo aiuto, decise, forse sì. Marada s'era rivelato del tutto inabile a quel modo di pensare, nonostante gli sforzi di Parma, e infine il Fato aveva giustamente premiato chi meritava di condurre il grande gioco. Logico,
rifletté: a governare sono sempre i più capaci e sottili, per forza di cose. Spense lo schermo, e per occupare utilmente il tempo prima dell'arrivo dei figli fece chiamare il parrucchiere e l'estetista. Quando Marada e Chaeron furono annunciati da una segretaria ed entrarono nell'ufficio, Ashera notò che apparivano seri e preoccupati. Attribuì le loro facce scure alle fatiche del viaggio e alla missione di guerra, e li salutò con un sorriso di comprensione. «Sedetevi, ragazzi,» disse. Con un gesto cordiale indicò a Chaeron la grande poltrona dinanzi alla scrivania, quindi accennò freddamente a Marada di prendersi una sedia. Ma nessuno dei due sedette. Chaeron si appoggiò alla spalliera della poltrona, stringendola finché le nocche delle dita gli divennero bianche. Marada piazzò le mani sul piano della scrivania e si sporse verso di lei. «Purtroppo non portiamo buone notizie,» le disse. «Neppure io ho buone notizie per voi,» lo interruppe Ashera, seccata. Li fissò entrambi. «Ho voluto essere io a dirvelo, ragazzi. Con mio grande dolore devo annunciarvi che vostro padre non è più fra noi. Un attacco cardiaco ha fermato il suo cuore, poco dopo che ebbe letto al consolato il suo discorso di accettazione.» Marada indietreggiò, la fissò con gli occhi che sembravano non vederla neppure, poi andò alla finestra e volse loro le spalle. Chaeron era rimasto come raggelato. Abbassò il capo e rimase immobile a fissare il pavimento, scosso da un tremito. Dopo un poco preferì sedersi, e nel silenzio che era sceso nell'ufficio scoprì che doveva fare uno sforzo per non piangere. Parma non gli aveva mai concesso un briciolo di affetto, solo ironia e frasi lapidarie, e come degnandosi di malavoglia anche di quelle poche e scorbutiche attenzioni. Perché mai allora provava un così forte senso di perdita? Fissò sua madre e gli parve di vedere in quegli occhi freddi null'altro che dissoluzione, l'immagine della loro Famiglia che s'irretiva di crepe e andava in pezzi. «È nostro preciso dovere prendere le redini e continuare il suo lavoro,» affermò la donna. Chaeron non reagì a quell'impeccabile quanto spiacevole sfoggio di volontà direttiva, ma Marada disse: «Non c'è dubbio che faremo il nostro dovere.» La sua faccia era pallida, gli occhi stranamente dilatati. «E dovrete farlo anche voi, madre, malgrado ciò che sto per dirvi.» «So benissimo quali sono i miei compiti,» sbuffò lei. «Non hai domande
da farmi su com'è morto tuo padre? Non ti interessa neppure sapere se puoi o non puoi vederne le spoglie? Avrei dovuto aspettarmelo da te. Comunque ti dirò che è stato cremato. Lui stesso voleva così.» Marada le rivolse una smorfia sprezzante. «Per l'affetto che gli portavate voi, madre, avrebbe potuto esser stato cremato vent'anni fa.» «No, non dovete...» Chaeron alzò le mani, inorridito da quel litigio. «Per favore, per favore!» «Signora,» gettò lì Marada. «C'è stata battaglia, e il Bucephalus è andato distrutto. Disgraziatamente mio fra... vostro figlio Julian in quel momento si trovava a bordo.» Ashera mandò un rantolo. «Il mio bambino! No... non il mio Julian. Nooo!» Il grido le si strozzò in gola. Ricadde contro lo schienale e fissò Marada come se sperasse di sentirsi dire che aveva mentito. Poi pianse a lungo, in silenzio. «E voi due...» singhiozzò poi, «voi due siete tornati vivi? Avreste dovuto proteggerlo, difenderlo. Oh, perché non siete morti voi al suo posto? Maledetti, maledetti! Oh, Julian, Julian!» Marada la guardò come se vedesse uno scarafaggio. Si volse a Chaeron e scoprì sul suo volto un'espressione che rivelava sentimenti simili ai suoi nei confronti della donna. Per una volta i due fratelli si scambiarono un'occhiata di comprensione. Dopo un paio di minuti, visto che Ashera si afflosciava sulla poltrona, Chaeron smise di osservarsi cupamente le unghie e si alzò, uscendo dall'ufficio. In un'anticamera trovò una delle segretarie, che doveva aver annusato l'atmosfera perché si stava torcendo le mani per l'apprensione. «Per favore, voi,» la aggredì quasi. «Cercate un sedativo per mia madre, un calmante. Muovetevi!» Quando la ragazza si fu allontanata, egli sedette alla scrivania di lei e usò la sua chiave in codice per farsi trasmettere il testamento di Parma dalla banca dei dati. Lo lesse su uno schermo come alcune ore prima aveva fatto Ashera, ma la conclusione che ne trasse fu molto diversa: il misterioso ritorno alla normalità del figlio di Marada relegava lui, Chaeron, nell'imbelle posizione di secondogenito, sottomesso a vita all'autorità del fratello maggiore. Probabilmente avrebbe potuto mantenere la carica di Console di Draconis, rifletté, a patto che Marada non fosse colto dall'ispirazione di dargli il benservito. E il peggio era che la linea diretta di successione ora passava da Marada a suo figlio, tagliando fuori lui e tutti gli altri parenti.
Chaeron ebbe un sorriso amaro: sebbene lui fosse l'unico adatto a prender le redini degli affari di famiglia, il destino lo relegava in un ruolo neppure secondario. Ed essendo l'uomo che era, l'idea di sporcarsi le mani di sangue per impadronirsi del potere gli dava la nausea. Poco più tardi, mentre un medico si stava occupando di Ashera, Marada lo raggiunse. Il suo sguardo lucido e deciso informò Chaeron che egli s'era già mentalmente - e saldamente - seduto sulla poltrona che era stata di Parma. «Vorrei che tu evitassi di parlare di Shebat a tua madre.» «Perché?», chiese Chaeron. «Che importanza ha, visto che l'hai già condannata all'esilio sul suo pianeta natale?» «Appena Ashera riprenderà i sensi e ricomincerà a far lavorare quel suo cervello distorto, non ci metterà molto a decidere che Shebat ha ancora una vaga possibilità di esserle d'intralcio... o meglio, d'intralcio a quello dei suoi figli che istigherà a soppiantare me.» «Marada, vattene o ti prendo a pugni.» «Fratellino, tu ed io abbiamo vissuto con lei abbastanza da sapere che questa è la spiacevole verità. Ashera accetterà il fatto che io governi, così come accettava l'autorità di Parma: rispettando almeno formalmente la mia posizione, e attendendosi un rispetto altrettanto formale, che io non ho nessuna difficoltà a darle. Ma continuerà a tessere le sue trame. Io ho tutte le intenzioni di essere un Console Generale scrupoloso, compiacente verso i privilegi dei miei familiari, e di lunga vita. Sono deciso a tutelare i diritti di Parma.» «Parma è morto.» «Sto parlando di mio figlio, e di quando sarà adulto.» «Ah! Capisco.» «Tu cosa pensi di fare? Vuoi mantenere la tua carica di Console, qui? Non ti nascondo che ho bisogno di te più di quanto mi piaccia ammettere.» «Sia pure. Ma non infastidirmi oltre con lo stupido sospetto che io miri a farti assassinare.» «D'accordo. Ora potrò partire da qui con animo più tranquillo. Mi occorre una ventina di giorni, per mantenere la promessa che ho fatto a Shebat.» «Lo spazio di Orrefors? Adesso? Marada, tu sei incapace di sentimenti umani!» «Lascio qui te a badare ai miei interessi. Sono certo che non mi deluderai.» «E dopo questa specie di esame di lealtà, intendi premiarmi? In che mo-
do? Facciamo patti chiari, fratello.» «Avrai ciò che meriterai di avere. Nel frattempo rientra nei tuoi doveri arrestare Baldwin e rimpiazzarlo con qualcuno a noi gradito. Al mio ritorno vedremo se tu ed io potremo convivere oppure no.» Ma quelle frasi, pensò Chaeron più tardi, erano tutt'altro che rassicuranti sulle intenzioni di Marada. Più che una promessa, gli erano parse una mezza minaccia. Capitolo 19 L'inizio e la fine di un ciclo hanno qualcosa in comune: come in un cerchio che si chiude i due estremi ritornano nello stesso punto e combaciano. E come nel cerchio, dal punto finale può ricominciare un percorso nuovo, un nuovo inizio. Ma a Shebat non sembrava affatto che quella potesse essere l'alba di un'altra vita. Si sentiva irreale. Eppure l'erba verde e grassa sotto i suoi piedi era vera, così come era vera l'aria piena di colori portati dal vento. Ciò che le stava accadendo era realtà indiscutibile. Alzò lo sguardo nell'azzurro cielo autunnale della Terra, cercando di scorgere lo scintillio metallico della scialuppa che saliva e saliva verso lo spazio. Ma era già scomparsa nella foschia dell'alta atmosfera, per rientrare nel ventre dell'Hassid che l'attendeva in orbita. Un giorno l'Hassid aveva condotto una creatura umana lontano dalla Terra, e l'Hassid l'aveva adesso riportata lì: anche questo era un elemento simbolico del cerchio che s'era chiuso. Tutto ciò che era accaduto fra quei due momenti appariva ora vago alla fanciulla, come un sogno che sfumava e si perdeva nelle nebbie del tempo. Al termine del sogno una porta si chiudeva dietro di lei, e l'unica malinconica immagine che ancora le restava negli occhi era la fiamma dei propulsori della navetta, vista dal basso, che rimpiccioliva sempre più nel cielo terso. Per un poco restò a fissare il cerchio d'erba bruciata rimasto al suolo, sul terreno incolto che si stendeva fra la boscaglia e la fangosa cittadina di Bolen's Town. Poi s'incamminò a passi lenti verso il centro abitato. Giunta fra le prime case ebbe la sorpresa di scoprire che oltre la metà della vecchia Bolen's Town era stata distrutta da un incendio, compresa la taverna, e che lungo le nuove strade di terra battuta erano sorte altre abitazioni per la più parte in legno. Il paesetto appariva ingrandito, anche se
non meno sudicio e miserabile di come lei lo ricordava. C'era la gente in strada, gli stessi paesani cenciosi e malnutriti che una volta avevano ben conosciuto la sguattera dell'oste Bolen. Sul marciapiede di legno davanti allo scalcinato emporio, fra l'ufficio postale e la falegnameria, erano ferme delle donnette. Alcuni contadini sostavano presso la bottega del fabbro e quella del sellaio. E costoro, sebbene la fanciulla fosse cambiata moltissimo e cresciuta di statura, la riconobbero immediatamente. La riconobbero e la fissarono muti, standole a distanza, togliendosi via dalla sua strada con fretta e con timore superstizioso. Nessuno osò rivolgerle la parola. Ma molti furono i commenti che si levarono alle spalle di quella femmina alta, dagli stivali che magicamente respingevano la polvere. Molte furono le finestre che si socchiusero e gli occhi che da esse seguirono l'Incantatrice elegantemente vestita, dall'incedere altero, sul cui mantello nero spiccava l'aquila scarlatta. Le voci del suo arrivo la precedettero come un vento invisibile fino alla nuova taverna e stazione di posta in fondo alla strada. La ragazza sentì mormorare il suo nome, captò parole che le rivelarono come la gente non avesse scordato la sua partenza verso le stelle su una barca stregata, vide mani levarsi e fare gli scongiuri usuali contro gli Incantatori, ma non si volse a guardare nessuno. Provava disprezzo e pietà per loro, e tristezza. Sapeva con assoluta certezza che nessuno si sarebbe azzardato a infastidirla, perché la gente della Terra non dimenticava mai un istante con quali diabolici sortilegi gli Incantatori distribuissero la morte intorno a sé. La nuova stazione di posta era un edificio in legno di recente costruzione, spazioso e con una grande stalla a lato. Al primo piano c'erano le stanze per i viaggiatori, al pianterreno la taverna. Sali i due gradini, spinse la porta a vetri ed entrò. Nell'interno dieci o dodici individui, fra viaggiatori e gente del posto, sedevano ai tavoli bevendo vino o birra, e al suo apparire nel locale calò un improvviso silenzio. Nessuno osò quasi respirare, mentre l'altera e superba Incantatrice attraversava la taverna verso il bancone del bar. «Vino,» ordinò la ragazza. «Un boccale del migliore.» Il taverniere, un uomo calvo dall'aria mite, le rivolse un accenno di inchino fra spaurito e untuoso. «Subito, signora,» Schioccò le dita per far scattare lo sguattero. «Presto, imbecille! Il vino della botte piccola per l'Incantatrice!» esclamò.
La ragazza bevve, ma quando mise sul bancone una moneta d'argento il taverniere rifiutò, dicendo che non voleva denaro da lei. Si volse e osservò gli avventori. Tutti quelli che la stavano fissando si affrettarono a distogliere lo sguardo, concentrandosi sui loro boccali di stagno. Girò loro le spalle e bevve ancora, a disagio. Udì i loro sussurri, le scarpe che strusciavano sul pavimento, i rumori lievi che pian piano tornavano quelli di una taverna normale, e cercò di non aver paura. Adesso era gelidamente conscia d'essere un'estranea lì. Sapeva che c'era qualcosa di sinistro nel modo in cui quegli uomini accettavano la sua presenza. Ne udì alcuni alzarsi e uscire, e qualcun altro entrare. Il suo nome ricorse più volte nei sussurri con cui si parlavano. Lo sguattero che s'era rimesso a spazzare il pavimento la fissava ad occhi sbarrati. Era un ragazzo sui quattordici anni, biondastro, sporco e cencioso com'era stata lei stessa una volta. Unico fra i presenti il cui sguardo non la sfuggisse con imbarazzo. Shebat rifletté che un servo le avrebbe fatto comodo, e quel ragazzotto forse le sarebbe andato bene. In una tasca aveva una borsa di pelle contenente molte monete d'argento, l'ultimo regalo di Marada. Era una somma notevole, e non intendeva mostrarla agli occhi avidi di quella gente. Sapeva benissimo che l'avidità, come l'odio e la paura, poteva spingerli a tendere un agguato perfino a un Incantatore. Fece un cenno all'oste. «Ho bisogno di un servo, di un cavallo, di un paio di coperte e cibo non deteriorabile,» disse ad alta voce. «Posso pagare per tutto. Hai un buon cavallo e una sella, nella stalla?» Indicò il ragazzo biondo. «Sei disposto a vendermelo?» «Sissignora, come l'Incantatrice desidera. Vi farò vedere il cavallo. Se volete seguirmi...» L'oste si tolse il grembiule e le accennò rispettosamente di tenergli dietro. Prima di uscire ordinò allo sguattero di mettere del cibo in un cestino. All'esterno l'uomo si presentò, ed ella disse il suo nome. Il taverniere le lanciò un'occhiata. «Vi conosco, Signora. Tutti vi conosciamo. E abbiamo visto la barca magica scendere dal cielo. La scuderia è di qua.» La precedette in un'ampia stalla, odorosa di paglia e sterco di cavallo. Vedendo arrivare di corsa lo sguattero, col cibo e le coperte, Shebat rifletté che avrebbe potuto recitare a lungo la parte di Incantatrice. Non lo era, così come non era più una Kerrion né di nuovo una qualsiasi terrestre. Lei stessa non sapeva cosa fosse o cosa sarebbe diventata. Ma restare a
Bolen's Town era fuori discussione. Pagò la somma che le venne richiesta per lo stallone da sella, per il servo e per i rifornimenti, mentre il ragazzo biondo accettava in silenzio e ad occhi bassi la trattativa che lo riguardava. Il taverniere si accomiatò da lei con un altro inchino, ed ella spiegò al ragazzo che intendeva partire subito: per la notte si sarebbero fermati alla vecchia cava in un'ansa del fiume, dove esisteva un'antica costruzione in pietra abbandonata ma solida. Allontanarsi da Bolen's Town le arrecò una sensazione di sollievo. Raggiunse l'edificio al tramonto, ordinò al servo di ripulire alla meglio uno dei locali più abitabili, e poi lo mandò a dormire in un altro insieme al cavallo. Trascorse la notte lì, distèsa sul pavimento corroso dai secoli e avvolta in una coperta. Ma al mattino, quando uscì intorpidita e affamata strizzando gli occhi nella luce dell'aurora, ebbe la sgradita sorpresa di accorgersi che il ragazzo era scappato portandosi via il cavallo. Per un poco lo cercò nei dintorni della cava, sperando che avesse soltanto condotto l'animale al pascolo, e infine dovette rassegnarsi a quel fatto: era sola, di fronte a un mondo dove la sopravvivenza era una lotta crudele. Fu verso l'antica città di New York che diresse i suoi passi, amaramente conscia dei suoi occhi asciutti: piangere non le era mai servito a niente in quella terra. Era un lusso che aveva imparato nella Confederazione. Si avviò verso la costa su strade in rovina che non conosceva, alle prese con difficoltà che aveva quasi dimenticato come superare, ripetendosi in continuazione che doveva andare avanti senza lasciarsi abbattere. Ma avanti verso dove? Il suo viaggio a piedi fu lungo e faticoso, e soprattutto fu triste. La gente la evitava. A volte non accettava neppure i suoi soldi in cambio di un po' di pane e di un uovo. I vestiti che aveva indosso non tenevano lontani soltanto la polvere e il freddo, ma anche gli uomini, e questo non le dispiaceva affatto. D'altra parte attiravano su di lei le attenzioni dei malviventi organizzati. In un paio di occasioni s'accorse d'essere seguita da dei tagliagole da strada, e ricorse all'Incantesimo del Passare Inosservata per evitarli. Scoprì poi che riusciva a tenere gli uomini a distanza trasmettendo sogni alla loro mente, e questo riuscì a ridarle sicurezza: sogni e incantesimi, proibiti o inutili alla Confederazione, sulla Terra si rivelavano le sue sole armi efficaci. Fu costretta a farvi ricorso sempre più spesso, man mano che s'avvicinava all'immensa metropoli in rovina. Marada non le aveva offerto nessuna arma, né lei lo aveva chiesto.
Se avesse tentato di farsi passare troppo a lungo per un'Incantatrice, l'aveva avvertita il giovanotto, gli Orrefors l'avrebbero prima o poi individuata e tolta di mezzo. La Terra era ancora il loro feudo personale, e lì avevano privilegi a cui non erano disposti a rinunciare con facilità. In teoria l'intero spazio di Orrefors apparteneva già ai Kerrion, ma le manovre di Parma e di Selim Labaya avevano avvelenato d'odio quella gente. Ci sarebbe voluto ancora del tempo prima che fosse possibile ai Kerrion intervenire apertamente e far pesare sugli Orrefors la loro autorità. A Shebat sembrava che mai gli Incantatori avrebbero allentato la morsa in cui da secoli tenevano il pianeta. La loro presenza intimidatrice impregnava ormai le tradizioni, la vita giornaliera, perfino l'aria che si respirava. Se uno di loro le si fosse messo alle costole, sapeva che se la sarebbe vista brutta. Dunque doveva rifugiarsi quanto prima nell'anonimità. Lei era una Kerrion, o almeno lo era stata, e in quel periodo la sola vista dell'aquila scarlatta ricamata sulle sue vesti poteva significare la morte. Marada non s'era mostrato né dispiaciuto né lieto, quando le aveva sentito dire che non voleva armi con sé. S'era stretto nelle spalle con assoluta indifferenza. Durante tutto il viaggio aveva scoraggiato i suoi tentativi di far conversazione, evitandola, ignorando le sue domande e isolandosi nel pilotaggio dell'Hassid. L'ultima notte prima dell'arrivo sulla Terra era stata la più tormentosa per Shebat. Distesa sul letto, nella semioscurità della cabina, aveva cercato invano di prender sonno. I suoi pensieri erano ancora tutti per Marada, e aveva pregato che egli entrasse e finalmente rompesse la barriera di gelo che aveva alzato fra loro. Più tardi, accorgendosi che Marada era andato a riposare nella cabina di fronte, s'era alzata. Ferma sulla soglia aveva guardato a lungo il viso del giovanotto addormentato, tentata di entrare e sdraiarsi accanto a lui ma nello stesso tempo inorridita da quella tentazione. Non ricordava quante ore fosse rimasta lì a fissarlo, fantasticando a vuoto su quel che avrebbe potuto accadere fra loro e che non era accaduto. Il mattino dopo, mentre sedeva al suo fianco nella scialuppa dell'Hassid, in assoluto silenzio, aveva sentito quasi di odiarlo. Solo quando il piccolo mezzo spaziale aveva toccato terra nella radura s'era voltata a guardarlo. Non credere che io possa dimenticare quello che hai fatto a David Spry,» gli aveva detto sottovoce. «Ti conviene dimenticarlo. Vivi la tua vita qui, e ringrazia il cielo di non aver seguito la sua sorte.»
«Certo. Io sono una criminale, non è così? Strana giustizia la tua, Arbitro: un peso e una misura per David, un altro peso e un'altra misura per me.» «Il motivo lo conosci. Sono stato io a portarti via dal tuo ambiente, sotto la mia responsabilità. Era mio dovere essere di mano più leggera con te.» «Vuoi dire che una piccola selvaggia terrestre non merita di esser considerata uguale ai cittadini della Confederazione neppure nelle punizioni?» «Pensala come ti pare. Ma noi siamo diversi. Con te ho tentato un esperimento, e visto come s'è concluso non posso rischiare che tu causi altri...» Shebat l'aveva interrotto uscendo bruscamente dalla navetta e sbattendogli il portello in faccia: Ma il giovanotto era sceso dietro di lei, forse cercando altre parole di giustificazione o forse un modo meno brusco di dirle addio. Sentendolo alle sue spalle lei s'era voltata, con le lacrime agli occhi, tremando a cento pensieri confusi, e d'impulso aveva fatto per accostarsi a lui. Marada l'aveva invece afferrata subito per le spalle, tenendola discosta da sé a braccia tese. «No. Tu sei la moglie di mio fratello,» le aveva ricordato con voce alterata. «Lo sono sempre?» «Certo. Non avete divorziato, che io sappia.» E l'aveva lasciata così, quasi spaventato all'idea che lei avesse tentato di abbracciarlo e baciarlo. Quelle parole risuonavano ancora nella mente di Shebat, la sera del quarto giorno di cammino verso la città di New York. Ferma sulla riva di un torrente fangoso, presso le arcate di un ponte caduto in pezzi, fissò l'acqua torbida senza vederla. Sei la moglie di mio fratello. Scosse la testa, imprecando fra sé al ricordo. Cosa significava quella precisazione assurda? Se lei fosse stata ancora la moglie di Chaeron, una Kerrion, avrebbe potuto reclamare diritti di proprietà sul pianeta dove adesso poggiava i piedi, e perfino sulla stella intorno a cui orbitava. E si sarebbe trattato di proprietà effettiva, legale. Invece aveva scelto di essere riportata lì come un'esule che non possedeva niente. Si guardò intorno. La zona in cui scorreva il torrente era desolata e incolta. Il sole stava tramontando, e lei non aveva nessun posto dove rifugiarsi per la notte. Quella era stata la sua scelta? No, pensò tristemente, non c'era stata nessuna vera scelta per lei. Il volo di una farfalla che i suoi piedi seguirono distrattamente la condusse in un folto di alberi centenari, dove le macerie di un misterioso edificio che doveva esser stato lungo centinaia di metri rivaleggiavano contro
gli arbusti in crescita selvaggia. C'erano enormi blocchi di cemento, e spunzoni metallici svettanti verso il cielo come rugginosi artigli di un passato che, rifiutando di morire, ancora sfidava il futuro. Sedette lì in mezzo, rattristata al pensiero che un tempo la Terra fosse stata grande e ricca, stupita nel vederne così chiaramente i segni della decadenza. Una volta non aveva dato molto significato a rovine di quel genere, ma ora sapeva leggere in esse e vedeva ciò che dovevano esser state negli anni del loro splendore. Si coprì il viso con le mani e pianse. Versò lacrime per ciò che era scomparso e per quel poco che era rimasto, per sé stessa e per l'ignoto che la attendeva. Non aveva alcuna idea di come avrebbe potuto strapar di che vivere nella vecchia New York. Eppure era là che doveva andare, perché i borghi dei contadini offrivano ancor meno possibilità. In campagna la gente aveva solo la sua miseria. Avrebbe tentato la sorte, dunque. Dopotutto le era rimasta insegnata l'arte della Danza del Sogno, e perfino le sue doti di fattucchiera sembravano essersi risvegliate a contatto con la terra del suo mondo antico. Cercò fra le macerie un angoletto libero dagli sterpi e si distese, tirandosi addosso alcune manciate di foglie secche che insieme alla similpelle l'avrebbero protetta dal freddo della notte. «Oh, Marada,» mormorò, ripensando al suo astrocruiser. «Posso fare a meno di tutto, ma non di te.» Addormentandosi aveva ancora negli occhi la sua astronave, possente e amichevole, piena di luci e calda come nessuna casa era mai stata per lei. Sognò di essa, e poi di cose che aveva visto o fatto a Draconis. Sognò di Chaeron e delle poche notti trascorse con lui. Ma quando fra le immagini oniriche s'insinuò il volto di Marada, che ella aveva amato e che l'aveva condannata a quel destino, si svegliò di colpo nell'oscurità e gemette, sentendosi più sola che mai. I primi tre giorni trascorsi nella vastissima periferia di New York bastarono a convincerla che quella città non era fatta per lei. I suoi sforzi per cercar qualcuno a cui unire la sua sorte, un posto di lavoro o un ambiente in cui abitare, naufragarono contro una situazione in cui il crimine di bassa lega era la sola alternativa alla disoccupazione e alla miseria. Gli opifici, le miniere, le filande e il commercio al minuto erano in mano agli Orrefors, che avevano una base nei pressi della città e nel loro ruolo di Incantatori manovravano l'economia, con l'unico scopo di tenere la popolazione nell'indigenza più gretta.
Trovò gente disposta a interessarsi a lei, questo sì, ma per motivi che la indussero ad allontanarsi subito da loro. Le monete che aveva in tasca le procurarono cibo, abiti di foggia terrestre, e anche sguardi bramosi da parte di chi poté mettervi gli occhi sopra. Imparò subito quali fossero i quartieri da evitare, e prese l'abitudine di fare larghi giri prima di ritirarsi a dormire in un magazzino di legname dove il vecchio guardiano notturno la lasciava pietosamente entrare. La paura d'essere seguita da qualcuno dei numerosi malviventi che impestavano le strade divenne subito la sua compagna di vita. New York era ancor peggio dei paesi di campagna, e la violenza e l'omicidio erano cosa di tutti i giorni. La quinta notte dopo il suo arrivo in città, mentre dormicchiava rannicchiata dietro una catasta di assi, una vibrazione argentina le fece spalancare gli occhi allarmata. Nel buio si guardò attorno, ma non vide nulla. Ansimante e tesa si mise in ascolto, senza riuscire a capire da dove provenisse il rumore. Fu solo quando mosse il braccio sinistro che lo notò, sbalordita: lieve e appena udibile la vibrazione nasceva dal braccialetto che aveva al polso, il regalo di Chaeron. A tentoni trovò i fiammiferi e accese una torcia di stracci. La gemma verde centrale, quella che le era sempre parsa un normale smeraldo, trillava come se nel suo interno ci fosse un minuscolo campanello. Senza fiato per l'improvvisa emozione corse fuori dal magazzino, attraversò il cortile spoglio e uscì nella strada immersa nel buio. Ogni volta che cambiava direzione il braccialetto vibrava in modo diverso. Intuendo che il segnale aveva un significato preciso alzò il polso, ruotandolo lentamente: come una sorta di bussola la gemma verde le disse che il contatto direzionale veniva da ovest. Allora corse da quella parte, stordita e col batticuore. Non sapeva chi o cosa stesse inviando gli impulsi che facevano reagire il braccialetto, e rifiutava quasi di pensarci. A stento badava dove metteva i piedi, procedendo sul selciato sconnesso alla scarsa luce della luna. Tutte le sue facoltà mentali erano concentrate sulla vibrazione che le indicava il percorso nel labirinto di viuzze: forte quando svoltava l'angolo giusto, debole quando sbagliava. E aveva appena girato una cantonata allorché una mano sbucò dall'oscurità e le tappò la bocca. Un braccio la attrasse di lato. «Non gridare. Sta calma. Va tutto bene,» sussurrò una voce. Per un istante lo spavento la indebolì al punto che le gambe le si piegarono, poi si accorse che l'uomo la teneva in piedi fermamente ma senza brutalità. Il suo volto, appena una chiazza chiara nelle tenebre, aveva qual-
cosa di familiare. «Chaeron...», gemette. «Oh, Chaeron! Sei davvero tu?» «E chi altri stavi aspettando?» sogghignò lui, soddisfatto. «Ma io... Come sei riuscito a trovarmi? E perché...» «Ssst!» la zittì lui. «Ne parleremo più tardi, se ce la faremo a uscire vivi da questa baraccopoli. Non ho potuto scendere inosservato.» «Qualcuno ti insegue?» si spaurì Shebat. «Questa è la Terra degli Orrefors, piccola. E non c'è posto meno igienico per un Kerrion. Quei bastardi sanno che sono da queste parti. Andiamo.» Tenendola per mano Chaeron si avviò a passi così veloci che ella fu costretta a correre. Per due volte cambiò direzione senza preavviso, scantonando in vicoli fangosi e pieni di immondizie come se avesse sentito un pericolo all'odore. D'un tratto imprecò e la costrinse a saltare un rigagnolo che costeggiava la strada. «Taci!» sibilò, facendola acquattare dietro un muretto, fra le erbacce umide di rugiada. «Stai giù». Lungo la viuzza sterrata venne avanti lo scalpiccio ritmico di un cavallo al trotto. Il rumore degli zoccoli si arrestò a qualche metro da loro, proseguì, si fermò di nuovo. Alzando lo sguardo fra gli sterpi Shebat vide un uomo ammantellato, in groppa a un poderoso stallone nero. Fra le mani aveva un binocolo a infrarossi. Chaeron le strinse il polso con forza, ed ella trattenne il respiro nell'attesa. Per qualche secondo l'Incantatore si guardò intorno col binocolo, puntandolo qua e là fra le casupole addormentate in cerca di calore di un corpo umano. Poi grugnì qualcosa fra sé e con un colpetto di talloni rimise in movimento il cavallo. Pochi secondi più tardi il rumore degli zoccoli si perse a distanza. «Filiamo,» sussurrò Chaeron. «Dobbiamo uscire di città. E fra i campi nasconderci sarà ancor meno facile.» Seguendo un percorso tortuoso, e spesso tagliando fra orti e cortili cinti da rozze stecconate, attraversarono la periferia. Ad est si scorgeva già un pallido lucore rosato quando giunsero in una zona più aperta a nord di New York. Shebat era sfinita. «È l'alba,» disse. «Non siamo molto lontani dal mare, sai? Da quella parte, a una cinquantina di chilometri, c'è una spiaggia che tu hai già visto.» Chaeron sorrise al ricordo di quella Danza del Sogno. Guardò ancora dentro di sé con aria preoccupata. «Chissà. Un giorno ci torneremo in carne e ossa, forse. Ma ora c'è un tuo amico che non sta più nella pelle dalla
voglia di rivederti, ragazza.» «Un mio amico?» Lei lo fissò senza capire. Chaeron le fece l'occhiolino, le accennò con un pollice verso l'alto, e Shebat sollevò lo sguardo. Lassù, nel cielo che cominciava a tingersi di colori dell'aurora, un piccolo oggetto scuro stava scendendo rapidamente sulla loro verticale. Era una scialuppa di salvataggio, e non certo una di modello antiquato, perché la sua spinta consisteva unicamente nel silenzioso campo antigravitazionale. Toccò terra a due passi da loro, leggera come una piuma. I due salirono a bordo in fretta. La fanciulla tremava per l'emozione, e il suo compagno dovette cingerle le spalle con un braccio e darle un buffetto su una guancia per scuoterla un poco. «Tocca a te pilotare, ragazza. A quel tuo amico lassù non garba troppo prendere ordini da estranei.» Shebat deglutì saliva e chiuse gli occhi. Il suo sussurro mentale fu un saluto e un ansito di gioia insieme: «Portaci su, Marada. Torno da te!» Sui pannelli di comando le luci ammiccarono allegramente. La scialuppa si stacco dal suolo e accelerò verso la stratosfera, mentre fuori dagli oblò la Terra era un'immagine infiocchettata di nubi che si allontanava sempre più. FINE