JESS WALTER IO SONO L'ASSASSINO (Land Of The Blind, 2003) "Nella terra dei ciechi, l'orbo è re." Erasmo, Adagia I DI SOLITO, IN QUESTO GENERE DI STORIE, SI COMINCIA CON UN CADAVERE 1 - È seduto da solo È seduto da solo nella stanza degli interrogatori, il viso tra le mani non è rasato. Ha più o meno la stessa età di Caroline, e non ha un brutto aspetto, per essere un matto. Le sembra familiare, come una canzone che continua a tornarti in mente. Prova a dargli un nome: Dave, Steve, George. No, nessuno di questi. Indossa un paio di jeans scoloriti e una camicia nera a maniche lunghe con il colletto aperto. È alto, con le spalle larghe. I suoi abiti sono sporchi, ma almeno sono della sua taglia. Non è vestito come un vagabondo. Il Matto sembra... se non un uomo di successo, almeno uno in grado di lavorare. Ha i capelli neri, lunghi e arruffati. Ha mancato un paio di appuntamenti dal barbiere, e questo è l'unico dettaglio che gli dà un'aria poco rassicurante. Oltre alla benda sull'occhio sinistro, naturalmente. Una benda nera, i cui legacci si perdono tra i capelli. Come un pirata, pensa Caroline. Caroline Mabry è detective di polizia, e negli ultimi mesi ha avuto dei problemi. All'inizio i suoi colleghi si mostravano comprensivi, ma appena è stata trasferita al turno di notte, detto anche "turno della bottiglia", rifugio dei poliziotti stanchi e alcolizzati in attesa di pensionamento, nessuno si è più fatto illusioni sul suo conto. Caroline è troppo giovane per il turno della bottiglia, ha solo trentasette anni. Eppure eccola qui, un venerdì sera, costretta ad ascoltare un altro pazzo che suda, si sposta sulla sedia e cerca di raccontare la sua storia nonostante il caos che gli annebbia la mente. Il Matto fissa i muri della stanza degli interrogatori. Caroline pensa che, se avesse visto quel pirata seduto in un bar invece che in una stanza del commissariato, avrebbe attaccato volentieri discorso con lui. Cristo. Da quando ha cominciato a considerare
indiziati e derelitti come partner potenziali? Il sergente di turno si avvicina con una cartelletta in mano. «Allora, è lui?» chiede Caroline. «Proprio lui. Un pazzo fottuto. Vuoi che lo sbatta fuori?» «No. Probabilmente le sue sono solo farneticazioni senza fondamento, ma se non lo interroghiamo e poi si scopre che era una cosa seria...» «Ti accompagno dentro? Oppure posso far venire qualcun altro.» «No» dice lei. «Non ho nulla da fare. Ascolterò la sua storia sugli UFO, poi chiamerò il manicomio.» Il sergente è felice di accettare un ordine che non implica nessun lavoro per lui. «Come vuoi.» Caroline si volta verso la stanza degli interrogatori. «Non ha voluto dire il suo nome?» «No. E non ha neppure un documento di identità.» «Le impronte?» «Gliele abbiamo prese. Incensurato. Neppure una segnalazione. È solo un tizio che ha voglia di chiacchierare.» «Non trovi che abbia un aspetto familiare?» «Certo. Hai presente Capitan Uncino?» Il sergente torna alla scrivania. Il Matto ora si sta mangiando le unghie. È davvero incredibile quel che ti tocca sentire durante il turno di notte: rapimenti da parte di alieni, attacchi di guerrieri ninja, fantasmi, yeti, esperimenti genetici, pirati. Gente sola. Persone disturbate, stanche, confuse, che sostengono di avere informazioni su un omicidio (di solito quello di Kennedy, di Lady D, di Elvis o di Gesù), ma che in realtà vogliono solo parlare un po', di quando inizia l'ora legale, di come mai i figli non telefonano più, dei campioni della Ruota della Fortuna. Caroline osserva il Matto, camicia nera e benda sull'occhio, capelli scarmigliati: c'è qualcosa di diverso in lui, qualcosa che non riesce a identificare. Naturalmente, potrebbe trattarsi solo del luogo in cui è stato arrestato. Il verbale riporta che è stato fermato mentre tentava di scalare i ponteggi del vecchio Davenport Hotel, l'edificio più famoso di Spokane, in stile Rinascimento spagnolo, alto dodici piani e vuoto da quindici anni. Come tutti i nativi del luogo, Caroline conosce da sempre l'albergo, ma solo all'università è diventata realmente consapevole della sua importanza. Una volta stava facendo una ricerca sullo scrittore Thomas Wolfe, e nei suoi diari aveva letto che era «arrivato di buon'ora a Spokane, al Davenport Hotel e a una bottiglia di whisky», ed era ripartito il mattino dopo, di-
retto «a ovest di Spokane, attraverso un paesaggio sempre più desolato». Caroline aveva avuto la stessa sensazione di quando scopri che i tuoi sono stati giovani e hanno avuto una vita interessante. Era rimasta stupita nell'apprendere che negli anni Venti la sua cittadina era considerata "la sorella jazz" di Seattle, che Teddy Roosevelt, Charles Lindbergh ed Ethel Barrymore la frequentavano assiduamente, che Calvin Coolidge, Douglas Fairbanks, Amelia Earhart e sì, anche Thomas Wolfe, non perdevano occasione di passare una notte al Davenport, considerato l'ultimo avamposto della civiltà prima delle foreste e delle terre desolate dell'Ovest. Quando Caroline era diventata adulta, il Davenport Hotel, proprio come Spokane, era passato di moda. Niente più servizi d'argento e mobili dorati, giardini e voliere piene di uccelli tropicali. Tutto era stato rimodernato nello stile plastificato da motel degli anni Cinquanta, con una serie di piscine dove una volta c'erano i campi da tennis e da golf. L'hotel aveva chiuso nel 1985, lo stesso anno in cui Caroline aveva letto quel breve passaggio di Wolfe. Cinque anni dopo Caroline era entrata nel Davenport, ormai abbandonato, per cacciare alcuni vagabondi, e non era riuscita a convincersi che quell'edificio buio, con le scalinate di marmo coperte di escrementi di piccione, fosse lo stesso posto che era piaciuto tanto a Wolfe. Caroline si era iscritta all'associazione Amici del Davenport, e nell'arco di quindici anni aveva visto fallire innumerevoli tentativi di ristrutturarlo. Poi finalmente, all'inizio del nuovo secolo, la ristrutturazione era partita sul serio. Cornicioni, stucchi e davanzali erano stati fatti scivolare fino in strada lungo tubi telescopici di plastica, subito rimpiazzati da nuove balaustre e candelieri. Anche una cinica come Caroline, che non era certo una fan dei simboli, immaginava che se la ristrutturazione fosse andata a buon fine, avrebbe potuto segnare la rinascita di Spokane. Per questi motivi era tentata di attribuire un significato speciale al fatto che il Matto fosse stato sorpreso proprio al Davenport. L'autista di un autobus lo aveva visto entrare da una finestra aperta e aveva chiamato la polizia. L'uomo era stato trovato affacciato a una finestra del dodicesimo piano, con la testa tra le mani. Secondo il verbale, stava piangendo. Uno dei due agenti di pattuglia gli aveva ordinato di sdraiarsi a faccia in giù sul pavimento. Lui non aveva obbedito subito, e per convincerlo l'agente gli aveva piantato un ginocchio nella schiena. Dopo averlo ammanettato, aveva appurato due cose: non era armato, ed era in preda a una forte agitazione. Gli aveva puntato una torcia elettrica sull'occhio buono, e
la pupilla si era contratta. Quindi non si trattava di un drogato, ma più probabilmente di un matto che non aveva preso le sue medicine. Non aveva documenti e non sembrava in grado di dire il suo nome. In risposta a ogni domanda si limitava a scuotere la testa. Gli agenti di pattuglia erano diventati più amichevoli, offrendosi di riaccompagnarlo a casa dei suoi genitori, alla sua comunità di recupero o alla sua nave pirata, ma lui non aveva reagito, come se non si trovassero neppure nella stessa stanza. Gli agenti non sapevano cosa fare. Avrebbero potuto arrestarlo per essersi introdotto illegalmente nell'hotel, ma non aveva rubato nulla, e non aveva neppure forzato la finestra per entrare. Una volta verificato che non era un ricercato, erano disposti a lasciarlo andare. Uno di loro aveva provato a spaventarlo. «Ascolta, pirata» gli aveva detto. «Se non ci spieghi che cosa stavi facendo qui, dovremo arrestarti per violazione di proprietà privata o per vandalismo.» «O per omicidio» aveva scherzato l'altro poliziotto. Quella parola aveva catturato l'attenzione del Matto, che aveva alzato gli occhi a guardarli. «Quello che stiamo cercando di dirti» aveva continuato il primo agente «è che devi collaborare, altrimenti finisci dentro.» «Okay» aveva detto il Matto. Era la prima parola che pronunciava. Il poliziotto gli aveva chiesto chi era, che medicine prendeva, cosa ci faceva lì e dove dovevano riaccompagnarlo. Il Matto aveva fatto un respiro profondo e aveva detto: «Voglio confessare». L'agente aveva riso. «Ti abbiamo colto in flagrante, quindi non è necessario che confessi.» Ma il Matto si era fissato su quell'idea. «Devo parlare con voi o con un ispettore? A chi devo confessare?» Il poliziotto aveva scambiato un'occhiata con il suo partner. Quel fottuto pirata del cazzo voleva obbligarli a riempire scartoffie. Bastava solo che dicesse loro dove abitava, e sarebbe stato libero. «Ascolta» gli aveva detto. «Alla centrale non c'è nessuno disposto ad ascoltarti mentre confessi di esserti introdotto illegalmente in un edificio vuoto...» «Si tratta di un omicidio» lo aveva interrotto il Matto. 2 - Le piace la neve
Le piace la neve. È ciò che Caroline risponde a chi le chiede come mai resti a Spokane, invece di andarsene a Seattle, o in California. Il fatto stesso che la gente continui a domandarglielo deve significare qualcosa, anche se non sa esattamente cosa. Scioccamente, per vanità, dapprima credeva che fosse una specie di complimento. Come se Spokane fosse una città troppo piccola e tranquilla per una donna attraente e ambiziosa come lei. Per anni aveva accarezzato l'idea di iscriversi alla facoltà di Legge, o di partecipare al concorso per entrare nell'FBI, ma non le era mai sembrato il momento giusto. Era rimasta legata all'idea romantica di essere un poliziotto, e anche, per un breve periodo, al sogno di diventare la donna del suo vecchio sergente di pattuglia sposato. Ma ora, a trentasette anni, i termini della questione sono cambiati. Caroline non si è mai sposata, sente la mezza età avvicinarsi a passo di corsa, si preoccupa di aver assunto un'espressione severa. Ha notato che le donne attempate hanno due tipi di collo: grosso e carnoso come quello dei rospi, o simile a un fascio di tendini sotto la pelle tirata. Gli uomini a volte si girano ancora a guardarla, ma lei non sa decidere se sia un vantaggio o una seccatura. Ha appena terminato il suo quindicesimo anno in polizia, il più duro di tutti, un anno in cui sua madre è morta di cancro, la sua relazione con un barista è naufragata miseramente. In più si è trovata immersa in un caso terribile, un serial killer a caccia di prostitute. Ormai, la vecchia domanda «Perché resti a Spokane?» ha assunto un peso insopportabile. Un giorno, in un caffè, ha ascoltato due sciatori difendere Spokane, e da allora ha adottato la risposta di uno di loro: «Mi piace la neve». Il fatto che nessuno abbia mai replicato «Caroline, non prendermi in giro: tu odi la neve» la dice lunga sulla sua vita, sulla sua mancanza di amicizie e di rapporti significativi. Sta nevicando, fiocchi leggeri toccano il suolo e si sciolgono immediatamente. Mentre fa la fila al bar, Caroline li osserva scendere spinti dal vento, e pensa alla loro fragilità, al fatto che fanno tutto quel viaggio fino a terra solo per scomparire all'istante. Paga un tè per sé e un caffè nero per il Matto, poi attraversa il piccolo cortile della centrale. Controlla l'orologio: le ventuno. Il Matto aspetta ormai da venti minuti. Il suo vecchio mentore sposato, Alan Dupree, sostiene che i cattivi soggetti sono come la carne: più sono duri, più bisogna lasciarli bollire. Questo tizio è morbido. Venti minuti per lui sono più che sufficienti per convincerlo a vuotare il sacco.
Caroline apre la porta ed entra, si toglie la giacca e l'appoggia sulla sedia alle sue spalle. Il Matto alza il viso, e si liscia distrattamente la benda sull'occhio, come un altro avrebbe lisciato una ciocca ribelle. Bene, pensa Caroline. Eccoci qua. «Mi chiamo Caroline Mabry» esordisce. «Il sergente Burroughs mi ha detto che lei voleva parlare con un ispettore.» Da vicino sembra agitato, con le guance scavate coperte dalla barba di una settimana. Ma non puzza come un derelitto. I suoi lineamenti sono meno squadrati, gli danno un'aria ancor più familiare. «Lei è...» inizia. «Una detective» dice Caroline. «Perfetto» risponde lui. «Prima di cominciare, sarebbe possibile... voglio dire... possiamo stabilire delle regole di base, senza metterle a verbale?» «Certo.» Caroline mente sorridendo, con una nonchalance che la preoccupa. Il Matto chiude l'occhio e dice: «Io voglio confessare». «È la ragione per cui sono qui. Ha a che fare con un omicidio, vero?» Prova a indovinare. Robert Kennedy. No, John Lennon. Anzi no, il Figlio di Sam. Il Matto annuisce. «Sì. Un omicidio.» «Un caso recente?» «Non voglio entrare nei particolari.» «Capisco. Parliamo dell'omicidio in generale, allora. Io per esempio sono contraria a uccidere le persone. E lei, signor...» Lui ignora quel tentativo di carpire il suo nome. «Per favore. È già abbastanza difficile. Non so come cominciare.» «Be', di solito, in questo genere di storie, si comincia con un cadavere.» «No» spiega lui. «Non posso. Non è... Non è così.» «Niente cadavere?» Caroline aggrotta la fronte. «No, voglio dire... Ecco, non si tratta di un caso di cui hanno parlato i giornali. È una cosa che non sa nessuno.» E aggiunge: «Per il momento». «Okay, allora da dove cominciamo?» «Probabilmente lei si sta chiedendo cosa ci faccio qui.» «Sto cercando di capirlo, signor...» Il Matto incrocia il suo sguardo. Il suo unico occhio fissa prima l'uno poi l'altro occhio di Caroline, come per scegliere quello più amichevole. «È religiosa, Caroline?» Lei è sorpresa che ricordi il suo nome, ma lascia perdere e pensa a come rispondere. Se dice sì, il Matto, colto da ispirazione divina, rivelerà final-
mente ogni cosa? O si rinchiuderà in se stesso, per non essere giudicato? Se dice no, è possibile che lui decida di non parlare con un'atea? O invece si sentirà libero di confessare? Caroline decide di schierarsi dalla parte di Dio. «Ho la mia fede». Distoglie lo sguardo, perché questa è una bugia bella e buona. «Vorrei poter dire altrettanto» replica il Matto, sfregandosi il viso. «Lei vuole togliersi un peso dall'anima.» «Sì» ammette lui. «Ha detto al sergente che voleva confessare.» «Sì.» «Allora deve dirmi cosa ha fatto. E a chi l'ha fatto.» «Perché?» «Perché confessare vuol dire questo.» «Non sono d'accordo» dice lui, piegando la testa di lato. «Una cosa è il delitto, l'azione cruda e violenta, e un'altra la confessione, con il suo valore catartico e ricostruzione del movente.» Guarda il soffitto. «Voglio dire, ci sono milioni di crimini, ogni giorno. Ma una confessione? Una vera confessione? Secondo me è una cosa rara.» Caroline è intrigata da quelle stravaganti argomentazioni e dal crescente senso di familiarità che il Matto le ispira. Chi è quell'uomo? Prova a immaginarlo senza barba, con i capelli corti. Ha mai conosciuto qualcuno con una benda sull'occhio? «Ascolti. Una confessione che prescinda dal delitto e dalla vittima non ha alcun senso. È un'assurdità.» «Invece no» replica il Matto. «Un sacerdote non vuol sapere cosa hai rubato, o quale donna hai desiderato. Gli interessa soltanto se sei pentito oppure no. Dio non ti chiede di fare nomi.» «Forse dovrebbe rivolgersi a un sacerdote. Confessarsi davanti a Dio.» «Io non credo in Dio» dice lui. «Credo nella giustizia.» La faccenda le sta sfuggendo di mano. Si guardano negli occhi, e Caroline pensa all'università, alle notti passate in discussioni come questa, davanti a una bottiglia di vino, con qualche poeta o filosofo che tentava di sedurla. Anche allora quelle razionalizzazioni da ubriachi sulla brevità della vita e sulla natura soggettiva della morale non mancavano mai di affascinarla. Caroline ha sempre avuto tre punti deboli, riguardo agli uomini: occhi scuri, pettorali ben sviluppati e una logica bizzarra. Fissa il Matto e si perde nel suo unico occhio scuro.
«Non so cosa farmene di una confessione che non contempla il delitto» dice con calma. «Io non le chiedo di fare nulla, Caroline. Le chiedo solo di ascoltare.» Lei guarda l'orologio. Le 9.40. Forse il sergente di turno ha ragione. Se manda via il Matto, tra un'ora e venti sarà a casa davanti al televisore. D'altro canto, proseguire quella conversazione significa evitare di riempire scartoffie fino alla fine del turno. Lui sembra notare la sua indecisione. «Senta, probabilmente lei vede continuamente persone che confessano crimini. Ma cosa le dicono, in realtà? Sa già cosa hanno fatto gli individui in questione, altrimenti non li avrebbe portati qui. E loro sanno che lei sa. Non confessano. Valutano le opzioni a loro disposizione e dicono solo quello che lei già sa, il minimo indispensabile. Si tratta di una formalità. Quello che io voglio dirle, invece...» continua, grattando il tavolo con le unghie «quello che io voglio dirle... non lo sa nessuno. Nessuno sa ciò che ho fatto.» Il silenzio nella stanza è diverso dal normale silenzio tra poliziotto e indiziato, o tra poliziotto e matto. Caroline si muove sulla sedia, a disagio. «Mi dica una cosa» insiste lui. «Quando è stata l'ultima volta che ha ascoltato un'autentica confessione? Non parlo di scuse, tentativi di negoziare, giustificazioni, testimonianze estorte, o delle mezze verità degli informatori.» Ha il mento appoggiato sul tavolo. «Quando è stata l'ultima volta che un uomo è venuto qui e ha confessato senza che nessuno lo avesse costretto a farlo? Quando è stata l'ultima volta che qualcuno le ha detto la verità?» «Io non...» Caroline si sente arrossire. «Lei pretende di rilasciare una confessione senza... conseguenze legali?» «Se si riferisce alla prigione, so che è una possibilità.» Si tira un po' indietro, fa un sorriso triste, e Caroline comincia a pensare che forse questo Matto ha fatto davvero qualcosa, forse non si tratta solo di allucinazioni. «Ma ciò che è accaduto» continua lui, parlando lentamente «è stato il risultato di circostanze molto complesse. Non accadrà... non può accadere di nuovo.» Chiude l'occhio. «Conseguenze? Sono tutto ciò che mi resta.» Cade un breve silenzio. «La prego» dice Caroline. «Risponda alla mia domanda. Lei intende... confessare e poi andarsene a casa, come se niente fosse, è così?» Lui tace, lo sguardo ancorato al pavimento. «Certo» continua lei «il sistema giudiziario sarebbe molto più rapido, in questo modo.»
È venerdì sera. Non ci sono altri detective in ufficio. È una delle idiozie del lavoro di polizia. I criminali lavorano di sera e durante i fine settimana, mentre i detective sono a casa a guardare la televisione. Cosa può esserci di male nel dare corda a quel Matto per un'ora? «Okay. Lo farò. Ascolterò la sua confessione.» «Grazie.» Si guardano negli occhi per alcuni secondi, e lui fa una sèrie di respiri profondi. Poi si china in avanti. «Comincio subito, oppure...» «Ci sono alcune...» «È solo che non ho mai... Come si fa, normalmente?» «Ecco, di solito parliamo, semplicemente. Possiamo registrare le confessioni su audiocassetta, o su video.» Quelle opzioni sembrano metterlo a disagio. «A volte il sospetto scrive la sua versione dei fatti e la firma.» Il Matto si rischiara in viso. «Sì, io vorrei scriverla. È l'unico modo.» «Le porto un blocco e una penna.» «E magari dell'altro caffè?» Caroline prende la tazza ed esce dalla stanza degli interrogatori. Non chiude la porta a chiave. L'uomo non è in stato di arresto. Intorno a lei, l'ufficio della Omicidi è indifferente alle tortuose chiacchiere del Matto. Dopotutto, pensa, una confessione è una confessione... Monitor bui spiano il suo cammino, i familiari dei colleghi la fissano dalle foto incorniciate. Caroline arriva alla sua scrivania, prende dal primo cassetto un bloc-notes e una penna. Torna indietro e fa un cenno del capo al sergente, mentre riempie la tazza del Matto di caffè vecchio. «Allora, avevo ragione?» dice il sergente, sollevando gli occhi da una rivista di sci. «È fuori di testa?» «Completamente» dice lei. «Lo immaginavo. Lo lasci andare?» «Tra un attimo.» Quando torna nella stanza degli interrogatori, nota che il Matto ha un'espressione incerta, come se ci stesse ripensando. Lei appoggia la tazza sul tavolo e subito lui la afferra. «Posso chiederle una cosa?» Caroline non risponde. «È mai stata responsabile della morte di qualcuno?» Lei apprezza la cautela con cui è stata formulata la domanda. Non "Ha mai ucciso qualcuno", ma "È mai stata responsabile della morte di qualcuno". «Sì» risponde a tutte e due le domande.
«Come si è sentita?» «Meglio del morto.» Lui non reagisce alla battuta, e lei ricorda l'odore, la pistola nella mano tremante, l'uomo immobile sul prato. «È stato brutto» aggiunge. «E dopo, è stato difficile... per lei?» Caroline non risponde. «Mi chiedo se sia possibile riprendere una vita normale, dopo una cosa del genere.» Niente sonno, respiro accelerato, tremito alle mani, e quel flash quando chiudeva gli occhi. Caroline abbassa lo sguardo. «Io faccio dei sogni» riprende lui. «Sogno di aver fatto qualcosa di male. Qualcosa di terribile. Ma è come se fosse successo in un altro mondo. Come se nessun altro sapesse. E quando mi sveglio...» Deglutisce. «Lei ha mai fatto sogni del genere?» Vaffanculo, pensa Caroline, ma dice semplicemente «No» e spinge il bloc-notes verso di lui. Il Matto prende la penna e scrive in cima alla pagina: Confessione. Poi contempla quella parola, la cancella e più in basso scrive: Deposizione. È soddisfatto. Poi scuote le braccia, fa crocchiare il collo e si guarda intorno. «Posso restare solo, mentre scrivo?» chiede. «Non ci vorrà molto.» «Va bene.» Caroline si alza in piedi. Deposizione. Questo tizio è un avvocato, pensa. «Un'ultima domanda, Caroline» dice lui, bloccandola sulla porta. Lei si volta. I capelli dell'uomo sono ricaduti sulla benda, e tutt'a un tratto sembra un ragazzo. Succede sempre così con gli uomini, anche con i pazzi. Dopo un po', si trasformano tutti in ragazzi. «Perché ha scelto di fare la poliziotta?» chiede il Matto. Caroline non esita, mentre abbassa la maniglia. «Mi piace la neve.» "Non sempre la follia è una calamità." Erasmo, Elogio della follia II Deposizione 1 - La forfora di Eli Boyle La forfora di Eli Boyle era qualcosa di ripugnante, un fenomeno mai vi-
sto in un bambino. Di fatto, la parola forfora era inadeguata. Eli sembrava una di quelle palle di vetro che, capovolte, lasciano cadere fiocchi di neve finta sull'Empire State Building o sul Golden Gate. I nostri compagni di classe si divertivano a produrre rumori improvvisi, battendo le mani o gettando a terra un libro, per vedere la testa di Eli voltarsi di scatto, mentre una cascata di candidi fiocchi si spargeva sul banco e sul pavimento dell'aula. Quando starnutiva, gli insegnanti interrompevano la spiegazione finché la forfora non si era depositata. Era incredibile come una testa umana potesse produrre tanto "materiale" senza per questo diventare più piccola. Ma la forfora era soltanto uno dei suoi mille problemi. Tra poco elencherò anche gli altri. Ma ti prego, Caroline, non accusarmi di crudeltà. Non sono stato io a creare Eli Boyle. Qualcun Altro molto più crudele di me gli ha gettato addosso quei fardelli. Sarei felice di poter dire che Eli iniziò la vita con il cuoio capelluto in perfetto ordine. Ma non sarebbe la verità. L'alito gli puzzava come se avesse mangiato panna andata a male dalla ciotola del gatto. Portava apparecchi di metallo ai denti e alle gambe. Aveva l'acne e il suo corpo odorava di pancetta. Si metteva le dita nel naso e si mangiava quello che ne estraeva. Possedeva un talento innato per lanciare scoregge epiche nei momenti meno indicati (l'Incidente agli Studi Sociali del 1976, la Grande Esplosione all'Assemblea Generale del 1980...). Portava occhiali a fondo di bottiglia, con la montatura nera. Aveva i capelli rossi e sottili, si macchiava le mutande, ed era allergico al polline, al cotone, alle arachidi e al sapone. Zoppicava, aveva la esse blesa, diversi tic, le orecchie piene di cerume, lo sguardo un po' strabico ed era soggetto a erezioni improvvise, ben visibili sotto i pantaloncini grigi. Sua madre, una donna iperprotettiva, lo vestiva come un bidello, con grembiuloni e camicie di flanella, in un'epoca - gli anni Settanta - in cui tutti gli altri indossavano jeans firmati e T-shirt. Pur essendo già relativamente grande, Eli si bagnava ancora i pantaloni, piangeva, si sedeva in prima fila sull'autobus scolastico, e nei momenti particolarmente difficili invocava la mamma. Non andava in bicicletta, ma in triciclo, a causa dei suoi problemi di equilibrio. La sua merenda non comprendeva mai latte, formaggio o cibi contenenti grano. Soffriva di attacchi epilettici, svenimenti e spasmi muscolari. Indossava scarpe correttive, a causa di un piede deforme. Inoltre aveva la scoliosi, la scabbia e lesioni cutanee. L'infermiera lo trascinava via spesso per impetigine, indigestione, cacca addosso o un qualsiasi altro degli innumerevoli problemi che si portava in giro come se
fossero i suoi unici amici. Il fatto che vivesse in una roulotte non era terribile in sé, perché anche il grande quarterback dalla barba prematura Kenny Dale viveva in una roulotte. Ma Eli Boyle abitava solo con sua madre, nella peggiore roulotte del peggiore campeggio, una specie di lattina grigia con lenzuola sporche alle finestre al posto delle tende. Pur frequentando le classi speciali, Eli era più intelligente della media dei ragazzi cosiddetti "svantaggiati". Forse si sarebbe potuto parlare di autismo, ma allora non conoscevamo quella parola, perciò lo definivamo un ritardato, uno scemo, un babbeo, un coglione, un mostro. Questo era Eli, il suo ritratto tragico, triste e meraviglioso così come io lo ricordo. Puro, imperfetto e indimenticabile. L'uomo che mi ha salvato la vita. L'uomo a cui io ho tolto la vita. 2 - Quando dico che ho tolto la vita Quando dico che ho tolto la vita a Eli Boyle, chi legge forse si chiederà se non si tratti semplicemente di una metafora. Sì e no. Ma lasciatemi dire che non c'è nulla di metaforico in questa confessione, nel mio odio, nella mia rabbia e nella mia sete di vendetta. Non c'è nulla di metaforico nella mia volontà di uccidere, nella pistola che avevo in mano, e nel sangue che scorreva sul pavimento ai miei piedi. Ma partiamo dall'inizio. Cominciamo dal mio quartiere, negli anni Settanta. Una zona povera, di gente ignorante che non sapeva neppure di esserlo. Una fila di case tristi lunga un chilometro e larga tre isolati, composta di baracche di legno, roulotte e casette degli anni Quaranta, che a scuola chiamavano il "ghetto bianco". Erbacce, tegole cadenti, furgoni arrugginiti parcheggiati in cortili grigi accanto a terreni incolti, dove i ragazzi fumavano marijuana e sigarette. Una drogheria a un capo, e una cava di ghiaia all'altro, una lunga strada di case come una fila di formiche tra l'acqua sporca del fiume Spokane e la strada sterrata che dava il nome al quartiere: Empire. La vita su Empire Road iniziava alla fermata dell'autobus. Fu proprio lì che vidi Eli Boyle per la prima volta. Frequentavo la quinta elementare, ero un undicenne basso e insicuro. Eli aveva deciso di venire a piedi fino alla mia fermata. Ti chiedo, Caroline, di immaginare un quartiere allungato come un elastico troppo tirato, punteggiato da sei fermate d'autobus. La mia era la seconda. La mia famiglia era del genere tipico di quel quartiere:
bianca e povera, mio padre guardiano notturno, mia madre casalinga. Quattro figli. Mia sorella Meg aveva cinque anni e andava all'asilo, e mamma la accompagnava a scuola in macchina. Shawna aveva quattro anni, troppo piccola per l'asilo. Quindi solo io e mio fratello Ben (due anni meno di me) percorrevamo a piedi il lungo isolato fino alla fermata. Lì, venticinque bambini dai sei ai sedici anni si radunavano sotto un salice più puzzolente che piangente. I posti sotto l'albero venivano assegnati secondo l'età: più eri grande, più stavi vicino al tronco. Il salice cresceva nel giardino di Hippy Will, che non era un hippy e non si chiamava neppure Will, ma quella era l'idea che ci eravamo fatti di lui, perché usava una bandiera americana come tenda del soggiorno, e perché aveva dipinto la parola "Will" sulla porta del garage. Il mito che gli avevamo costruito attorno crollò il giorno in cui salì sul tetto di casa sua con un fucile mitragliatore e sparò ai vetri di macchine e case, abbattendo due cani e sei cassette della posta, prima di avvicinarsi all'auto della polizia e arrendersi ai due vicesceriffi rannicchiati al riparo delle portiere. Eli, come me, faceva la quinta il giorno in cui si presentò per la prima volta alla mia fermata. Io mi stavo allontanando da mio fratello, per avventurarmi verso il tronco del salice, non proprio dove i ragazzi e le ragazze più grandi effettuavano ricerche scientifiche sulla resistenza dei reggiseni, ma a metà strada, dove undicenni e dodicenni fumavano sigarette e a volte spinelli. Io avevo sottratto quattro Pall Mall a mio padre. "Pall Mall" erano due parole che ripetevo spesso. Erano così eleganti. Avrei voluto che quello fosse il mio nome. «Ciao, io sono Paul. Paul Mall.» «Per l'amor di Dio, dove vai, Clark?» sussurrò mio fratello, ma io lo ignorai, e superai i bambini più piccoli, inoltrandomi tra le fronde basse. I ragazzi più grandi non alzarono neppure gli occhi quando giunsi tra loro con i miei jeans a zampa d'elefante. Non diedero alcun segno di aver notato la mia presenza quando infilai le dita nel taschino della camicia di poliestere gialla, né cambiarono espressione quando ne estrassi una sigaretta, me la infilai tra le labbra socchiudendo gli occhi, e mi tastai le tasche dei jeans come uno che ha perso il portafogli. «Qualcuno ha da accendere?» chiesi. E allora finalmente le teste si voltarono, e dal gruppo emerse Pete Decker, che ricordo come una specie di Clint Eastwood tredicenne. Si diceva che fosse stato cacciato dalla scuola di boxe Golden Gloves per aver morso o ridotto in sedia a rotelle un altro ragazzo, a seconda di quale versione ti convinceva di più. Dal suo accen-
dino scattò la fiamma, e lui mi osservò, con la sigaretta che mi pendeva dalle labbra e il pomo d'Adamo che andava su e giù. «Buona, eh?» mi chiese. Annuii, aspirai e tossii due volte, con gli occhi rossi. Tutti contemplavano la scena, perché non avevano mai visto Pete fare una cosa del genere. Di solito i bambini più piccoli li buttava a terra e li derubava. Invece ora se ne stava lì, e mi guardava fumare la mia prima sigaretta, con il naso e gli occhi che mi bruciavano. «Ottimo aroma» disse. Io annuii ancora, perché non riuscivo a parlare, e avevo la sensazione che gli altri si stessero avvicinando. Persino Tanya Bentitz ed Eric Mullay alzarono gli occhi. Di solito se ne stavano avvinghiati, intenti a esplorarsi le tonsille a vicenda, oppure sparivano nei recessi più nascosti dell'albero, per fare cose al di là della nostra immaginazione. In quel momento desiderai di sparire anch'io, per rimaterializzarmi alcuni metri più in là, lontano dal salice. «Come ti chiami?» chiese Pete. «Clark.» «È da molto che fumi, Clark?» «Un paio d'anni» mentii. Per anni ho fantasticato di rintracciare Pete Decker, e di aprire una clinica per fumatori dove lui convinceva la gente a smettere di fumare con lo stesso trattamento che riservò a me quel giorno. Pete si avvicinò di un passo, formò un anello con il pollice e l'indice, e fece scattare l'indice per eseguire il numero che allora chiamavamo "gettare la ciliegina", cioè far saltare via la brace accesa della sigaretta. Un attimo dopo mi buttò a terra e mi torse un braccio dietro la schiena. Con la mano libera mi afferrò i capelli, sbattendomi la faccia nella ghiaia, nel punto in cui finiva il vialetto e incominciava il giardino. Ricordo il rumore del mio naso che colpiva il suolo. Aprii gli occhi pieni di lacrime, e vidi davanti a me i sassolini bagnati di sangue. Pete mi trascinò dove era caduta la brace della sigaretta, che ardeva ancora. «Mangiala» disse. Io tirai fuori la lingua, e la inghiottii. «Bravo» disse Pete, e mi lasciò andare. Naturalmente, viene spontaneo criticare ciò che fece Pete Decker quel giorno alla fermata dell'autobus. È facile pensare che fosse un bullo o un criminale, ma vorrei far notare che da quel momento in poi non ho mai più fumato una sigaretta. Il che è un'altra prova della mia tesi: ci sono molti modi di salvare la vita a qualcuno. E
suppongo che ce ne siano altrettanti per togliergliela. Ma la cura antifumo di Pete Decker è soltanto il prologo della storia che voglio raccontare. Mentre mi trascinavo gemendo sotto i rami più esterni del salice, gli altri bambini si voltarono dall'altra parte, perché se avessero mostrato il minimo accenno di solidarietà nei miei confronti avrebbero rischiato di essere picchiati a loro volta. Da terra, vidi voltarsi anche mio fratello Ben, che contorceva la faccia in una serie di smorfie improbabili nello sforzo di dissimulare la sua somiglianza con me. Tutte le scarpe si allontanarono, eccetto un paio: erano nere, con sostegni di metallo agganciati alle suole, collegati a cinghie sui polpacci. E quando alzai gli occhi a guardare le gambe storte, la schiena scoliotica, le spalle ricoperte di forfora, vidi l'unica persona nella folla che non mi fissava con sdegno o indifferenza. Davanti a me, con una striscia di moccio sul labbro superiore, i capelli unti e un'espressione di pura empatia e di... fottuta beatitudine sul viso, c'era Eli Boyle. 3 - La sua pietosa presenza La sua pietosa presenza quel giorno fu senza dubbio l'unica cosa che impedì a Pete Decker di cambiarmi i connotati. Da quel momento in poi, Eli divenne la sua vittima. Il giorno dopo, per cominciare, Pete gli gettò a terra gli occhiali, gli strappò i bottoni della camicia di flanella, e gli tirò giù i pantaloni. Eli prese quel castigo con filosofia. Raccolse gli occhiali, si infilò in tasca i bottoni strappati, che sua madre avrebbe ricucito più tardi, e restò lì con le mutande ficcate tra le chiappe finché Pete Decker non passò a terrorizzare qualcun altro. Dopo averle buscate da Pete, io avevo ripreso il mio posto vicino alla strada, con i bambini piccoli, che battevano i denti per la paura, tenevano stretti gli spiccioli per la merenda, e si sforzavano di non incrociare lo sguardo di Pete. In quel periodo non mi arrischiai mai ad aiutare Eli Boyle. E comunque, cosa avrei potuto fare? Ogni giorno, dopo quell'episodio, Eli cercò di arrivare alla fermata contemporaneamente all'autobus, sperando di evitare gli attacchi di Pete. Il nostro autista, il signor Kellhorn, era noto per la sua scarsa puntualità: poteva giungere in qualunque momento compreso tra le 7.22 e le 7.29. Uno scarto significativo per un bambino che non voleva rischiare di ritrovarsi coperto di lividi, con le mutande infilate tra le chiappe. Gli altri bulli la-
sciavano sempre a Pete il primo "giro" con Boyle. Ogni volta che Pete marinava la scuola (noi speravamo che fosse finito in riformatorio, o che magari avesse finalmente ucciso i suoi genitori), c'era sempre qualche altro tiranno che saltava addosso a Eli, gli tirava giù i pantaloni e lo costringeva a leccargli le scarpe. Da parte sua, Eli adottava la difesa tipica dell'animale braccato, come la razza che si confonde con la sabbia del fondo marino, o il cane che si copre il muso con le zampe anteriori. Provava inutilmente a rendersi invisibile, infilandosi nel gruppo dei più piccoli, sovrastandoli di trenta centimetri buoni con il suo testone e tirando rumorosamente su con il naso. Io ero a poca distanza da lui, ma non parlavamo mai. In realtà stavamo tutti zitti, alla fermata. Non facevamo altro che fissarci le scarpe, pregando il Dio dei bambini tormentati di far apparire presto in fondo alla strada il nostro autobus, che aveva il colore delle patate dolci. Mio fratello Ben a volte sussurrava: «Dio in carriola... vuoi sbrigarti?». Da poco era diventato un incallito "nominatore-di-Dio-invano", e cercava continuamente di stupire e divertire noi più grandi con la varietà e la poesia di quell'unico peccato. «Cristo in motocicletta, perché ci mette tanto?» Quando l'autobus arrivava tiravamo due profondi sospiri: il primo quando frenava e si aprivano le porte, e il secondo quando i più piccoli si accalcavano per salire. I piccoli salivano per primi, scivolando a gruppi di tre nei sedili davanti. Poi veniva Eli, che si installava nel posto dietro il conducente (il più sicuro, naturalmente, ma anche il peggiore dal punto di vista della scala sociale, perché lo marchiava come un codardo e un bambino senza amici). Dopo il mio tentativo fallito di fumare, io ero diventato il leader dei ragazzi dalla terza alla quinta, e quindi avevo diritto a un posto in quinta o sesta fila, che condividevo con un altro ragazzo. Dopo che noi eravamo saliti, da sotto i rami frondosi del salice emergevano Pete Decker e i suoi scagnozzi, che schiacciavano le sigarette nella ghiaia del giardino di Hippy Will, soffiavano il fumo sulle teste dei più piccoli, e si facevano strada fino in fondo all'autobus. Pete sollevava il pugno, spaventando qualche bambino, poi lui e gli altri si sedevano nelle ultime tre file, stravaccandosi sui sedili e assumendo un'aria annoiata. Passarono un paio di settimane, prima che riuscissi a guardare in faccia Eli. Il mio era lo sguardo che un ergastolano posa su un condannato a morte, in parte "meglio a te che a me", in parte "speriamo nella grazia di Dio": un misto di empatia e preoccupazione che l'espressione terrorizzata di Eli riflettesse la mia. Ovviamente avevo osservato Eli Boyle anche prima. Era
impossibile non notarlo, perché Eli era una specie di cartellone pubblicitario ambulante sugli orrori dell'adolescenza. Un giorno ero in piedi sull'autobus e lo fissavo, e a un tratto mi venne in mente che avrei potuto sedermi vicino a lui. Forse, se l'avessi fatto, avrei provocato un piccolo terremoto sociale: il ragazzo che aveva tentato di fumare, ricavandone un avanzamento di grado, accanto al più strano, brutto e matto di noi. Avremmo affrontato i pestaggi insieme, noi due contro tutti, e a poco a poco avremmo cambiato il mondo. O forse no. Mio fratello Ben mi spingeva da dietro, ansioso di sedersi prima che Pete Decker salisse a bordo. Malgrado gli spintoni di Ben, non riuscivo a interrompere il contatto visivo con Eli. L'angoscia profonda che vidi nei suoi occhi mi fece tremare. Mi sembrava che non solo soffrisse, ma che comprendesse la propria posizione, che conoscesse perfettamente il dramma del suo aspetto fisico, del suo odore, della sua miopia, della sua mancanza di coordinazione e della schiera di microbi, storpiature e lussazioni che tutte insieme formavano il suo essere. Era come se sapesse che il futuro non gli avrebbe offerto alcun sollievo, eppure continuava a venire a scuola un giorno dopo l'altro. «Gesù formaggiaio, muoviti, Clark!» grugnì Ben dietro di me. «Stanno arrivando.» Mi sedetti al solito posto, e mio fratello conquistò quello dietro, mentre Pete Decker camminava tra i sedili con i gomiti in fuori, colpendo la testa di tutti i ragazzi seduti sul lato interno. Un paio di loro abbassarono il capo, schivando la gomitata, e Pete li colpì con un pugno. Eli guardava fuori dal finestrino, e non smetteva, finché non arrivavamo a scuola. È difficile crederlo, ma la fermata successiva, la vecchia fermata di Eli, era ancora più pericolosa della nostra. Noi almeno avevamo il salice, quei poveretti aspettavano assiepati a un angolo di strada completamente privo di ripari. Era come la differenza tra la giungla e la savana. Il maschio dominante, lì, era un pluriripetente di nome Matt Woodbridge, che aveva cacciato tutti i più piccoli finché erano rimasti soltanto lui e la sua banda. Il giorno in cui incrociai per la prima volta lo sguardo di Eli, capii che Pete Decker rappresentava un miglioramento per lui. Per quanto incredibile possa sembrare, Eli aveva scelto liberamente di venire alla nostra fermata. Ancora oggi non riesco a immaginare le torture che Matt Woodbridge dovette inventare per convincere Eli a farsi tre isolati a piedi in modo da aspettare l'autobus in compagnia di un animale come Pete Decker. Una volta, all'università ho fatto una ricerca sulle torture e non riuscirò mai a di-
menticare le più terribili. Una cannula di vetro inserita nel pene e poi spezzata, mentre la vittima è costretta a bere un bicchiere d'acqua dopo l'altro. Le gambe strette in una morsa, infilate in un sacco, e poi prese a martellate finché il sacco di tela è l'unica cosa che le tiene insieme. Perciò quel giorno alzai gli occhi al passaggio di Woodbridge nel corridoio dell'autobus, e lo odiai. Qualcosa dovette trasparire dalla mia faccia, perché lui si fermò di scatto e si voltò a fissarmi, con un'espressione incredula sul volto butterato. «Cosa c'è?» chiese. «Hai qualcosa da dire, coglione?» Dall'autobus si alzò un coro di «Oooh!», e qualcuno gridò: «Spaccagli il culo! Prendilo a calci, Woodbridge!». «Nulla» dissi, abbassando in fretta lo sguardo. «Puoi scommetterci, che non hai nulla da dirmi» disse Woodbridge. «E se mi guardi un'altra volta vedrai cosa ti faccio.» Poi riprese a camminare lungo il corridoio, sedendosi all'ultimo posto, al polo opposto rispetto a Eli. «Piccola merda.» Io sapevo ciò che sapevano tutti, sul conto di Woodbridge. Suo fratello Jesse era stato uno studente modello e un bravo adeta ed era rimasto ucciso a quattordici anni in un misterioso incidente. Si diceva che Matt gli avesse sparato per sbaglio con la pistola del padre, o che Jesse si fosse ubriacato e fosse caduto da un furgone, o addirittura che si fosse suicidato tagliandosi i polsi. Matt aveva reagito alla morte del fratello e al dolore dei genitori picchiando tutti i ragazzini che incontrava, marinando la scuola, passando in motorino sulle aiuole dei vicini, rubando biciclette, vendendo marijuana ai bambini più piccoli, fumando, compiendo atri di vandalismo, e facendosi riconoscere come la più bassa forma di vita sull'autobus scolastico. Credo che, inconsciamente, desiderasse essere all'altezza del fratello, e puntasse a restare per sempre in terza media, come Jesse. Io fissai il sedile davanti a me, sperando che Woodbridge mi ignorasse, ma ovviamente non poteva. «Chi è quella testa di cazzo?» chiese ai ragazzi in fondo. «Quello?» rise Pete Decker. «È l'uomo delle Marlboro.» Dalla sua banda esplose una risata. Tra Pete e Woodbridge vigeva una fragile tregua, un clima da guerra fredda. Come superpotenze nervose, non erano disposti a correre il rischio di perdere in uno scontro aperto. E poiché ciascuno era l'unico che avesse una possibilità di battere l'altro, vivevano in una situazione di teso equilibrio. Finché c'erano pivelli come me da terrorizzare, loro potevano evitare di avere rapporti, a parte una sigaretta occasionale, o
uno scambio di merci rubate. Io avevo sfidato una delle due superpotenze, e mi aspettavo la bomba nucleare. «Si chiama Clark» disse inaspettatamente Pete. «È uno a posto.» In quel momento sembrò che tutta l'aria uscisse dall'autobus, e dentro di me salì un grande calore, una luce. I miei compagni di classe mi guardarono di soppiatto, con ammirazione e invidia. Essere dichiarato "a posto" da Pete Decker era molto più che scampare la morte. Sembrava quasi un'incoronazione. Ero stato tirato fuori dai ranghi dei piccoli e patetici, per essere innalzato tra i Pete Decker e i Matt Woodbridge del mondo. Clark Mason? Quel figlio di puttana? Oh, è uno a posto. L'autobus percorse tutta Empire, poi imboccò la Trent, la trafficata strada industriale che ci separava dal resto del mondo. E il mondo, a un tratto, mi sembrava diverso. Ricordo che fissai Boyle, chiedendomi se si fosse reso conto di ciò che era accaduto, della mia improvvisa ascensione. Ma lui se ne stava seduto con gli occhiali spessi schiacciati contro il finestrino, mentre l'indice ficcato nel naso lavorava come un minatore diligente. Eli era solo, insieme alla sua mostruosità, alla sua diversità. Capisco solo ora che il suo unico obiettivo era la sopravvivenza. Il desiderio puro e semplice di essere lasciato in pace. Cosa vedeva fuori da quel finestrino, catatonico e impenetrabile alle botte, alle occhiate sprezzanti, e agli insulti? Credo che dovesse avere meno paura di quanto immaginavo allora. Forse era riuscito a chiudere la porta, a prendere le distanze dal suo povero corpo. O forse questo è soltanto ciò che voglio credere. Perché mi fa comodo pensare che Eli avesse trovato il modo di dimenticare la sua fisicità, di chiudere fuori i tiranni e gli stronzi, di ignorare il disprezzo, di essere sul nostro autobus e allo stesso tempo volare in alto, a cavallo di un sogno a occhi aperti. 4 - Avevo tirato un elastico Avevo tirato un elastico e avevo colpito qualcuno in faccia. Non ricordo la vittima né il movente, ma i dettagli di quel crimine commesso in quinta elementare non sono importanti, servono solo a spiegare come mai mi trovassi nell'ufficio del direttore, un giorno d'autunno del 1975, con la testa tra le mani. Ero seduto su una sedia davanti alla scrivania e provavo diverse espressioni pentite, in attesa che tornasse il direttore, il signor Joseph Bender. Il
suo ufficio era una specie di tomba fredda e senza finestre, e lì aspettavo la mia punizione, un paio di percosse sul sedere con una bacchetta di legno. Il signor Bender non picchiava forte, sapeva controllarsi. Lo avevo visto perdere le staffe soltanto una volta, quando Dennis Gilstrap aveva chiesto alla cuoca della mensa se poteva «baciarle le tette». Il direttore lo aveva afferrato per il collo, piegato a novanta gradi e lo aveva sculacciato così forte che la gomma da masticare era schizzata via dalla bocca di Dennis ed era finita sulla parete, dove era rimasta appiccicata per due settimane, come una specie di avvertimento riguardo ai limiti da non oltrepassare. Seduto nell'ufficio del signor Bender, quel giorno, ero comprensibilmente nervoso, anche se non temevo di ricevere una sculacciata della violenza di quella toccata a Dennis Gilstrap. Probabilmente avrei beccato uno o due colpi di bacchetta e sarei stato rimandato in classe a studiare la divisione in sillabe di parole come "distanza", "influenza", "affluenza", "confluenza", che in quel momento ripetevo mentalmente per non pensare all'imminente punizione. A un tratto sentii il direttore che parlava con una donna, fuori dalla porta, cercando di calmarla. «Mi dispiace moltissimo. È una circostanza davvero spiacevole.» Tesi le orecchie, per sentire meglio. «No, signora Boyle» disse il direttore. «Le assicuro che non accadrà più.» Quando aprì la porta, vidi la madre di Eli Boyle, con un vestito da contadina e un fazzoletto in testa. Era quasi bella, sulla quarantina, e dava l'impressione di aver perso qualcosa di molto importante. «Eli è un ragazzo speciale, signor Bender» disse. «È molto sensibile.» «Sì» rispose il direttore. «Lo so, e mi dispiace per quello che ha dovuto subire. Non si ripeterà, signora Boyle.» In quel momento mi vide seduto davanti alla sua scrivania. «Oh, Mason. Perché non te ne torni in classe? E non giocare più con gli elastici, capito?» Mi scompigliò i capelli, e io restai seduto immobile un attimo più del necessario, incredulo di fronte a tanta buona sorte. Ancora una volta, Eli mi aveva salvato, anche se in modo indiretto. Rivolsi un cenno di saluto alla signora Boyle, saltai giù dalla sedia e uscii in fretta. Mi voltai solo un momento, e vidi la madre di Eli prendere posto sulla sedia mentre il signor Bender chiudeva la porta. Suppongo che quell'incontro fu la ragione per cui, il mattino dopo, il signor Bender accompagnò Eli nella mia classe. Eli aveva iniziato l'anno scolastico nell'altra quinta, con il signor Gibbons, un alcolizzato strabico che fino a due anni prima insegnava al liceo, ma aveva dovuto andarsene a
seguito delle lamentele di una ragazza che affermava di aver ricevuto da lui "attenzioni speciali". Ora Eli era in classe con la mia maestra, la bella signora Chalmers Wright McKinley, che lavorava nella nostra scuola da quindici anni e, dopo tre divorzi, sembrava incapace di abbandonare i cognomi dei suoi mariti. Capimmo che Eli doveva aver avuto dei problemi nella classe di Gibbons. Kevin Klapp, un ex compagno di classe di Eli, diceva che tutto era cominciato quando un giorno, all'ora della ricreazione, Eli era rimasto seduto mentre tutti gli altri erano usciti. Il signor Gibbons era tornato indietro a controllare, e aveva scoperto che Eli si era fatto la cacca addosso. Secondo Klapp, Gibbons aveva insultato Eli e gli aveva dato uno schiaffo. Heather Lindeke sosteneva che la situazione era precipitata quando, dopo l'incidente, la madre di Eli era venuta a scuola, e Gibbons aveva definito Eli un "ritardato". La signora Boyle, allora, aveva chiesto che il figlio fosse trasferito in un'altra classe. La versione di Marshall Dickens era ancora diversa: Eli in realtà aveva soltanto scoreggiato, e quando tutti erano usciti per la ricreazione, Gibbons gli aveva urlato: «Preferirei che non ti cacassi addosso nella mia classe». A quale di queste storie credere? A tutte, immagino. Mi sembrava abbastanza realistico che Eli se la fosse fatta nei pantaloni, e che di conseguenza il signor Gibbons lo avesse umiliato e persino schiaffeggiato. Ed era ancor più credibile che la signora Boyle fosse accorsa in difesa del figlio. Qualunque fosse il motivo, comunque, quel giorno Eli entrò nella nostra classe, con lo sguardo fisso sulle sue scarpe correttive, pronto a subire nuove umiliazioni. Era in piedi davanti a noi, e alle sue spalle il direttore sussurrava qualcosa alla maestra, gesticolando. La signora Chalmers Wright McKinley, con lo chignon che sembrava un gelato alla vaniglia, aggrottò le sopracciglia, scosse la testa e si coprì la bocca con una mano, mentre il signor Bender le raccontava la vera storia di ciò che era accaduto nella classe di Gibbons. La maestra ascoltava con evidente partecipazione, ma non fece neppure un gesto per invitare Eli a sedersi. Così lui rimase lì in piedi, come un'attrazione da circo. Infine, la udimmo mormorare la parola «terribile». Proprio in quel momento Eli fu colto da una delle sue crisi convulsive. I sostegni delle gambe cozzarono uno contro l'altro con un rumore metallico, e dalla sua testa partì una nevicata da tardo autunno. Ventotto paia di occhi seguirono i fiocchi di forfora fino al pavimento. La signora Chalmers Wright McKinley ringraziò il direttore, accompagnandolo alla porta. Poi passò un braccio intorno alle spalle di Eli, che era
trenta centimetri più basso di lei. «Benvenuto nella nostra classe, Eli» disse. «Ragazzi, salutate il vostro nuovo compagno.» Noi lo salutammo. Eli non alzò neppure gli occhi. Quella per lui era una tortura, malgrado le buone intenzioni della maestra. «Eli, puoi sederti dove preferisci» continuò la signora Chalmers Wright McKinley. «Hai qualche amico in questa classe?» Era la tipica stupidità degli adulti. Hai qualche amico? Eli alzò lo sguardo, e attraverso le lenti bisunte uno dei suoi occhi strabici puntò dritto su di me. E io, per mia eterna vergogna, pregai che non pronunciasse il mio nome. Allora Eli fisso la maestra e scosse la testa, poi tornò a guardare il pavimento. La signora Chalmers Wright McKinley cambiò di posto alcuni bambini e fece sedere Eli al centro dell'aula. Jeff Fletcher, che era dietro di lui, si tappò il naso e tirò fuori la lingua, per indicare che Eli puzzava. Appena la maestra voltò la schiena, Jeff allontanò il suo banco. Gli scolari alla destra e alla sinistra di Eli fecero lo stesso. Eli continuò a fissare il bloc-notes aperto sul banco, dove disegnava carri armati. Non ho ancora parlato di Dana Brett. Probabilmente perché nel mondo brutto e crudele che ho descritto fin qui è difficile inserire una persona così meravigliosa. Dana sembrava fatta di porcellana: lineamenti sottili, viso rotondo, capelli castani che si arricciavano sotto il collo, incorniciandole completamente il viso. Portava nastri nei capelli, minigonne e gilè. E stivaletti scamosciati allacciati davanti. Non c'è nulla di più ipnotico dei sogni a occhi aperti di un ragazzo in età prepubere, e a quell'epoca tutti i miei sogni riguardavano Dana Brett, e la possibilità di slacciare quegli stivaletti. Dana era seduta davanti a Eli, e fu l'unica a non spostare il suo banco quando la signora Chalmers Wright McKinley tornò alla lavagna e ricominciò a parlare degli indiani Hopi. Dana restò al suo posto, mentre gli altri si allontanavano, finché Eli fu un'isola, anzi una penisola, collegata alla terraferma tramite il banco di Dana Brett. E quando la maestra finalmente tornò a voltarsi verso di noi, e vide il fenomeno di repulsione magnetica che aveva appena avuto luogo, si impegnò a peggiorare le cose. «Su, smettetela ragazzi, rimettete a posto i banchi. Jeff Fletcher, perché hai allontanato il tuo banco da quello di Eli?» Di tutte le crudeltà di quel giorno, credo che quella fosse la peggiore. In una semplice, banale domanda la signora Chalmers Wright McKinley condensò ciò che tutti sapevamo, lo rese ufficiale e commise un terribile erro-
re, dando a un bastardo come Jeff Fletcher l'opportunità di dire una spiritosaggine. «Ecco» rispose Fletcher, guardandosi intorno. «Il fatto è che puzza come un sacco pieno di merda.» Durante la risata generale che seguì, Eli non alzò mai gli occhi dai carri armati che stava disegnando. 5 - Io fumavo erba Io fumavo erba tutti i giorni, da ragazzo. Iniziai alla fine della quinta elementare e continuai per tutte le superiori. In effetti, la quinta elementare fu la notte prima della battaglia, il mio ultimo periodo di sobrietà. Erano tempi diversi, gli anni Settanta. Tempi in cui un preadolescente poteva fumare marijuana tutti i giorni. E confessarlo è forse l'abitudine più tenera e duratura di un'intera generazione di politici. Se un tizio dell'Arkansas è stato eletto due volte per aver ammesso di essersi fatto qualche canna, io avrei ottime chances di diventare il prossimo Presidente degli Stati Uniti, confessando pubblicamente che già all'età di dodici anni fumavo regolarmente e aspiravo senza problemi, tanto da meritarmi l'onorevole soprannome di Polmone di Ferro. Ucciderei (e l'ironia dell'espressione non mi sfugge) pur di poter dire che studiavo diligentemente e avevo buoni voti. Che sedevo accanto a Eli Boyle sull'autobus e pretendevo che tutti lo trattassero con rispetto. Che lui non puzzava affatto come un sacco di merda. Che non desideravo più di ogni altra cosa il rispetto dei miei compagni, la loro approvazione, la popolarità, non solo da parte di Dana Brett e dei suoi stivaletti scamosciati, ma soprattutto dai duri della scuola, i dittatori, gli spacciatori di erba, i signori della guerra delle fermate di Empire Road. Questo è l'unico modo in cui posso spiegare ciò che accadde alla fine dell'anno scolastico. Negli ultimi mesi la mia situazione non aveva fatto che migliorare: la dichiarazione di Pete Decker che io ero "a posto" mi aveva aperto le porte del gruppo a metà dell'albero, non troppo lontano dagli impegnati nelle profondità accanto al tronco, dove aveva luogo l'atto mistico del pomiciare, che in qualche fuggevole occhiata mi si era rivelato come un intreccio di braccia e gambe, maglioni e giubbotti, tra i quali a volte appariva un lembo di carne nuda. Non avevo mai più cercato di fumare, ma avevo continuato a rubare le sigarette di mio padre per darle a Pete Decker, che onorava il mio nuovo
status non chiedendomi di versare quella tangente, ma piuttosto accettandola con sussiego. Si trattava di una fine distinzione che gli sarebbe tornata molto utile nella sua futura carriera di capomafia, o di generalissimo di qualche dittatura latino-americana. «Cos'hai per me, Marlboro man?» mi chiedeva. Io mi tastavo le tasche. «Oh, eccole qui.» Poi annuivo con ammirazione ascoltando le sue storie di biciclette rubate e di gatti randagi arsi vivi nei bidoni della spazzatura. Il posto a metà dell'albero non era l'unico bonus che avevo acquisito. Ora mi sedevo in fondo all'autobus, accanto a un tredicenne simpatico di nome Everson, il quale passava tutto il viaggio a rollare canne, che poi conservava in una scatola di pastiglie per la tosse. Mentre rollava, canticchiava sottovoce delle melodie del Sud, che io non riconoscevo ma che mi suonavano familiari. Immagino che riuscisse a vendere ogni giorno tutti gli spinelli della scatola, perché il mattino dopo era di nuovo al lavoro. Everson era inagrissimo, con capelli lunghi e biondi da ragazza. Era più gentile della media dei suoi coetanei, e probabilmente Decker e Woodbridge lo lasciavano in pace perché li riforniva di erba. «Dove prendi le cartine?» gli chiesi un giorno. «Dalla scorta del mio patrigno» rispose lui senza scomporsi. «Quanto costa quella roba?» «Dieci dollari l'oncia.» «E quant'è un'oncia?» Lui si voltò a fissarmi, senza smettere di rollare. «Nessuno lo sa per certo» disse. «È questo il bello.» Sembrava che Pete non avesse nulla da obiettare sul fatto che io sedessi accanto a Everson. Un giorno tirai fuori una delle Pall Mall di mio padre e gliela offrii. Lui la guardò e fece una smorfia. «Non fumerai mica quella roba, vero?» disse. «Perché?» «Le sigarette sono disgustose. Una pessima abitudine.» Poi, con uno scatto dei capelli biondi, tornò ai suoi spinelli. Al pomeriggio facevo sport: in autunno giocavo a football, e in inverno a basket. A parte il grande quarterback Kenny Dale, io ero l'unico sportivo del mio quartiere. Quanto a Everson, raccontava agli insegnanti che al pomeriggio restava a scuola per le lezioni di recitazione e per studiare, ma in realtà approfittava di quelle ore per vendere gli ultimi spinelli alla squadra di football. Prima di venirci a prendere, l'autobus passava dalle superiori e
dalle medie. Di solito io mi sedevo davanti a Eversori, che di pomeriggio non aveva nulla da dire e non canticchiava neppure, visto che ormai aveva rollato e venduto tutte le sue canne. Si limitava a fissare fuori dal finestrino, come Eli. Eli tornava a casa prima di me, risparmiandomi la vista della sua forfora e delle torture che gli attirava. Anche se può sembrare improbabile e falso, da qualche tempo la mattina cercavo di proteggerlo da Pete Decker. A volte aspettavo il momento in cui Eli arrivava alla fermata per estrarre le mie sigarette, sperando così di distrarre Pete. Altre volte raccoglievo un sasso e lo lanciavo a una macchina di passaggio, cercando di interessare Pete a qualcosa che non fosse Eli. Ma Pete era spietato. Continuava a tormentarlo, gettandogli mozziconi accesi nello zainetto, tirandogli le orecchie e, almeno una volta alla settimana, calandogli pubblicamente i pantaloni. Un giorno d'inverno era sul punto di farlo quando ritrasse bruscamente la mano. «Che schifo!» urlò, gettando a terra Eli e facendogli cadere gli occhiali. «È senza mutande!» Quel giorno sull'autobus osservai il riflesso di Eli nel finestrino, e giurerei di averlo visto sorridere. Probabilmente fu la storia delle mutande a spingere Pete ad alzare la posta. Iniziò addirittura ad andare incontro a Eli lungo la strada, per portargli via lo zainetto. Poi tornava alla fermata, seminando libri e quaderni per tutto il tragitto, mentre Eli, piegato in due, con la camicia di flanella e le scarpe correttive, lo seguiva raccogliendo le sue cose, fermandosi di tanto in tanto per spingere in su gli occhiali che gli erano scivolati sul naso. In primavera iniziai a giocare a baseball, ma il primo giorno dimenticai di indossare la conchiglia protettiva, e mi beccai un colpo nelle palle. Dovetti andare al pronto soccorso, dove il dottore mi disse che avevo un testicolo un po' ammaccato, e mi vietò di giocare a baseball finché il testicolo non avesse riacquistato un colore normale. Così iniziai a indossare degli slip speciali e a tornare a casa con l'autobus delle tre. Anche al pomeriggio, Pete non perdeva occasione di torturare Eli: lo picchiava, lo insultava, rideva di come era vestito, lo buttava a terra. Fino a quando, a metà della primavera Pete Decker non decise che era stufo di picchiare Eli, e che qualcun altro doveva farlo al suo posto: io. Mi tampinò per un paio di giorni, dicendomi che Eli mi insultava, mi dava del finocchio e diceva in giro che mi scopavo mia nonna. Ricordo che pensai che se fossi stato frocio certamente non mi sarei scopato mia nonna. Per qualche giorno riuscii a svicolare, sostenendo che Eli non valeva la fatica, che non volevo sporcarmi i pugni di moccio, e altre cose del genere.
Ma Pete non mollava. Disse che se non avessi picchiato Eli gli altri avrebbero pensato che non lo facevo perché ero il suo fidanzato. Io continuavo a resistere, ma Pete insisteva: «Quando darai una lezione a quel puzzone? Ti sta facendo fare la figura dello scemo». Una mattina, in autobus, chiesi a Everson cosa avrebbe fatto al mio posto. «Io non faccio a botte» rispose, senza sollevare lo sguardo dalla canna che stava rollando. «Come mai?» «Nessuno se lo aspetta da me.» «Perché?» Lui fece spallucce. «È contro la mia natura.» «Se non picchio Eli, Pete mi ucciderà.» «Già» disse lui. «Funziona così.» Durante la ricreazione, cercai il consiglio di Dana Brett. Le spiegai il mio dilemma, senza osare guardarla negli occhi. Dana mi ascoltò pazientemente, mentre a pochi metri di distanza le altre ragazze della classe facevano domande d'amore a una sfera magica. Dana sarebbe sempre stata diversa da loro: più misurata, più razionale. «Hai paura di lui?» mi chiese, quando le ebbi spiegato la situazione. «Di Eli? Certo che no.» «Be'», disse Dana, sbattendo le ciglia su quei grandi occhi rotondi. «Allora farai meglio a picchiarlo. Altrimenti tutti diranno che sei una femminuccia.» Generalmente si crede che per diventare adulti sia necessario attraversare una soglia, fisica, emozionale o mentale. Ma io credo che diventare adulti significhi acquisire la capacità di ingannare se stessi. Nient'altro. I bambini sanno quello che sono. Provate a dire a una bambina grassa che è bellissima, o a un bambino negato per la pallacanestro che ha solo bisogno di allenarsi di più. Non vi crederanno. Da adulti, invece, cominciamo a scambiare le nostre menzogne per verità. Ci raccontiamo che frodare il fisco non è rubare, e che assumere la segretaria con le gambe belle è davvero la scelta migliore per l'azienda. Fingiamo di non essere affamati di soldi e di considerazione, di aver mantenuto i principi morali degli anni dell'università. Ci diciamo che siamo soltanto robusti, e non grassi; distinti, e non vecchi, che i capelli grigi ci danno un'aria sofisticata. Che è meglio non dire nulla a nostra moglie, che non avevamo scelta, che non sapevamo cosa sarebbe accaduto, che siamo ancora di mentalità liberale e che non abbia-
mo paura. Inventiamo valanghe di razionalizzazioni e giustificazioni, e poi ci convinciamo che sono vere. Quel giorno io feci un grande passo verso la vita adulta. Mi dissi che se non avessi picchiato Eli, Pete Decker ci avrebbe massacrati di botte entrambi. Mi ripromisi di andarci piano. Avrei cercato lo sguardo di Eli, e lui avrebbe compreso che in realtà non avevo cattive intenzioni, perché non ero come Pete Decker e Matt Woodbridge. Ed è questa la bugia peggiore: affermare di essere diversi da quello che siamo. L'autobus si fermò con uno stridio di freni, e in un lampo Pete fu dietro di me, incitandomi ad agire. «Prendilo a calci in culo, quel puzzone di un frocio!» Mentre andavamo verso l'uscita, le mie scarpe da ginnastica scricchiolavano sulla striscia di gomma che ricopriva il pavimento dell'autobus. Pete sussurrava, a pochi centimetri dal mio orecchio: «Rompigli quella faccia da porco quattrocchi!». Gli sguardi di tutti i passeggeri dell'autobus erano puntati su di me. Stavo per picchiare il ragazzo più sfortunato della scuola. Stavo per diventare come Pete Decker. Eli fu il primo a scendere, e iniziò a muoversi in fretta con il suo passo storto. «Boyle!» urlò Pete dietro di me. «Ehi, Boyle!» Sentii che mi prendeva la borsa dei libri e l'appoggiava a terra. Eli continuava a camminare, e Pete ordinò ai suoi due scagnozzi di riportarlo indietro. Io restai sotto il salice, con la bocca secca. L'autobus ripartì, pieno di facce appiccicate ai finestrini. Tutti erano corsi in fondo, sperando che la rissa iniziasse prima che l'autobus fosse troppo lontano. I due scagnozzi arrivarono trascinandosi dietro Eli, e lo spinsero verso di me. Lui non alzò lo sguardo. «Hai intenzione di combattere, o di fare il frocio?» lo provocò Pete. Eli non rispose. Era immobile, lo sguardo fisso sulle scarpe. Pete lo spintonò. «Muoviti, femminuccia.» Io sollevai lentamente i pugni e feci un passo avanti. Eli allora mi guardò, e io mi resi conto che non ci eravamo mai trovati così, faccia a faccia. Aveva il viso a forma d'uovo, ricoperto di brufoli, troppa fronte e troppo mento, gli occhiali neri un po' storti, l'apparecchio sui denti. Pete Decker si fece di lato e restammo solo Eli e io, sulla ghiaia del vialetto di Hippy Will. I nostri sguardi si incrociarono ancora, e io cercai di fargli capire che mi dispiaceva. Lui sospirò.
E poi mi colpì. Due volte. Il primo pugno mi prese sul naso, il secondo sull'orecchio. Io gli assestai un calcio a una gamba, e lui mi colpì di nuovo in faccia, una legnata che mi fece piegare le ginocchia, mandandomi a terra. Attraverso le lacrime vidi Eli che scappava via, piangendo, con i sostegni metallici delle gambe sferraglianti. Pete Decker gli corse dietro, lo gettò a terra e cominciò a dargliele di santa ragione. Quando mi rialzai, con il naso sanguinante, mi accorsi che anche il naso di Eli era pieno di sangue. Pete continuava a mollargli un pugno dietro l'altro. Eli gridava aiuto, starnazzando come un'anatra, e i due scagnozzi incitavano il loro capo a non avere pietà. Finalmente, Pete smise di picchiare, aprì lo zainetto di Eli e sparpagliò i libri a terra, quindi prese la gavetta del pranzo e la pestò fino a renderla inservibile. Sferrò a Eli un ultimo calcio nel fianco e tornò verso di me. «Sei stato bravo» si complimentò, dandomi una pacca sulla schiena. «Quel bastardo ti ha assalito di sorpresa. Non è leale.» Pete aveva il fiato grosso, e il sudore gli brillava tra i peli del labbro superiore. Fissai i due scagnozzi, sempre pronti ad accettare la versione del loro capo senza discutere, e mi chiesi se ogni tanto si prendevano la briga di pensare con la loro testa. «Lo avresti ucciso, se avesse combattuto secondo le regole» disse ancora Pete. Poi si avviò verso casa sua. Poco più in là Eli aveva finito di raccogliere le sue cose. Non piangeva più, e sembrava immemore di ciò che aveva fatto alla mia faccia. Anche lui si incamminò verso casa, piegato in avanti, come se nulla fosse accaduto. A casa, le mie sorelle stavano giocando con le bambole sotto il portico, e mi fissarono a occhi spalancati. Essendo la più grande, Meg pensò che fosse compito suo spiegare a Shawna la ragione del mio naso sanguinante. «Clark è stato picchiato» le sussurrò. «Da ragazzi cattivi?» chiese Shawna, e Meg annuì. Ben quel giorno non era andato a scuola, perché non stava bene, e lo trovai sul divano intento a leggere un fumetto di Flash. Nel vedermi esclamò: «Cristo in deltaplano, cosa ti è successo?». Quelle parole fecero accorrere mia madre dalla cucina, dove passava i pomeriggi a inventariare confezioni su confezioni di cosmetici Avon. In realtà si trattava di prodotti che avrebbe dovuto vendere porta a porta, ma non le piaceva infastidire la gente, così si limitava ad accumularli. La cantina era piena di scatole di fondotinta, matite per gli occhi e rossetti. «Chi ti ha fatto questo? È stato quel Pete Decker? Vado subito a parlare con sua
madre.» «No» mentii. «Sono caduto.» Ma mia madre non ci stava a passare per fessa, e alla fine dovetti ammettere che era stato Eli Boyle a rompermi la faccia. Ben si diede una pacca sulla fronte: «Sante basette di Cristo!». Anche mia madre restò scossa da quella notizia. «Chi?» disse. «Quel ragazzo con...» fece un gesto con le mani, come se stesse parlando di Elephant Man. «Sì» risposi, con gli occhi a terra. «Ah» mormorò lei. Suo figlio non era stato picchiato da un bullo, ma da un Eli Boyle. «Tu... Ecco, tuo padre ti spiegherà come difenderti. E comunque non dovresti fare a botte con nessuno.» Fissando la mia faccia insanguinata, Ben aggiunse: «Direi proprio». 6 - Mohammed Eli Mohammed Eli non era alla fermata dell'autobus, il mattino dopo. Probabilmente sua madre lo aveva accompagnato a scuola in macchina, perché lo trovai già in classe quando arrivai, seduto al suo banco e intento a una approfondita esplorazione nasale. Grazie al cielo il soprannome Mohammed Eli (un'idea di Ben), non ebbe fortuna. Infatti, quel giorno scoprii con immenso stupore che ero stato io a picchiare Eli. Persino i testimoni oculari del match furono pronti a sottoscrivere la versione di Pete Decker. Improvvisamente capii il potere della propaganda. Alla fermata dell'autobus diversi ragazzi si congratularono con me. «Quel figlio di puttana ha avuto fortuna» mi disse uno. «Se non fossi scivolato lo avresti massacrato di botte.» «Lo avrebbe?» rise Pete. «Il mio ragazzo lo ha massacrato di botte.» Durante la ricreazione, Dana Brett mi si avvicinò, in minigonna e stivaletti, e mi accusò di essere un bullo. Non sapevo cosa rispondere. Era peggio ammettere di essere un bullo, o confessare di averle prese da uno sfigato come Eli? All'ora di pranzo lo vidi camminare ai bordi del campo da gioco, rasente al recinto metallico. Avrei voluto chiedergli scusa. Ma come si fa a scusarsi con qualcuno che ti ha dato un sacco di botte? Quel pomeriggio, Eli non era sull'autobus. Mentre guardavo il cielo azzurro fuori dal finestrino, Pete Decker mi sussurrò, passandomi accanto: «Clark il picchiatore. Clark Mason, il duro». Eli non si fece vedere alla fermata neppure il mattino dopo, e Pete e la
sua gang presero la sua assenza come una prova del fatto che gli avevo dato una bella lezione. Quando Woodbridge salì sull'autobus, si fermò accanto a me, spinse in fuori il labbro inferiore, e annuì in senso di approvazione. «Ho sentito dire che hai picchiato quel frocetto dai capelli unti» disse. «Probabilmente si è fatto trasferire in un'altra scuola.» «Fottuto frocio ritardato» mormorò Pete. «Già» gli fece eco Woodbridge. «Frocio fottuto.» A scuola cercai ogni opportunità per comunicare con Eli. Sarebbe bastato un gesto, anche solo un'alzata di spalle, per fargli capire che eravamo entrambi vittime di Pete Decker. Ma Eli continuava a tenere la testa bassa, gli occhi fissi sulle sue scarpe nere. Sembrava che sua madre lo accompagnasse a scuola presto e che venisse a prenderlo tardi, quando il nostro autobus era già partito. La primavera passò in un batter d'occhio. Fu la prima stagione della mia vita a trascorrere più in fretta del previsto, la prima volta in cui mi resi conto che il tempo si muoveva in una certa direzione, verso qualcosa che non era semplicemente un mucchio di giorni, settimane e anni scolastici. Vidi me stesso alle medie, alle superiori e oltre, e i ragazzi prima e dopo di me, come tanti compagni di viaggio. Sentii sul collo il soffio della mia mortalità. Fu una sensazione potente e terrificante. Mi piacerebbe poter dire che trovai il modo di scusarmi con Eli, ma non è così. Ero troppo preso dallo sport e dalle strusciate accidentali contro le tette di Marcia Donnely per occuparmi di lui. Un giorno, all'improvviso, arrivò l'ultima settimana di scuola. Strappammo la carta da pacco con cui avevamo ricoperto i nostri libri, staccammo le gomme appiccicate sotto i banchi, e ci preparammo a iniziare la vita vera. Ogni estate consegnavamo giornali, per raggranellare qualche dollaro, mio fratello Ben e io. Quell'anno cominciammo l'ultimo giorno di scuola. Ci alzammo alle quattro e mezza e pedalammo per le strade, infilando i giornali nei cilindri di metallo arrugginiti o nelle nuove cassette della posta in plastica. Erano quasi le sei quando tornammo su Empire Road, diretti verso casa. Attraversammo il Campeggio Vista sul Fiume. (L'unica parola esatta di quella dicitura era "campeggio", perché il fiume non esisteva e la vista ancora meno.) Superammo la roulotte del grande e prematuramente barbuto quarterback Kenny Dale, e io mi alzai in piedi sui pedali per sbirciare attraverso la finestra, cercando di immaginare le cose che faceva alle ragazze. A un tratto, con la coda dell'occhio, vidi Eli emergere dall'ultimo camper
della fila. Restai a osservarlo da lontano mentre camminava lungo la strada. Il rumore metallico dei suoi sostegni per le gambe era l'unico suono oltre al cinguettio degli uccelli. Quando arrivai a casa, mia madre aveva preparato le frittelle. Riesco ancora a vederla, piccola e snella, con indosso una delle grandi felpe grigie di mio padre che le arrivavano fin sotto le ginocchia come un vestito, e un paio di pantofole di peluche profumate, mentre il fumo della sigaretta le circondava la nuca come un'aureola. «Clark? Vuoi le frittelle?» «Non ho tempo.» La superai di corsa, presi la borsa dei libri e la palla ovale, tornai in cucina e afferrai il sacchetto del pranzo dal tavolo. «Cosa significa "Non ho tempo"? C'è sempre tempo per fare colazione.» «Non oggi. Vado a scuola in bicicletta.» Lei si voltò a guardarmi. È strano. Le piccole cose che allora davo per scontate, ora mi torturano con la loro semplice perfezione: un piatto di frittelle, una mano sulla spalla, uno sguardo preoccupato. Non abbiamo idea, quando da ragazzini smaniamo per allontanarci da casa, dall'infanzia, di ciò che significhi davvero: nessuno si occuperà più di noi in quel modo. «Non puoi andarci in bicicletta, Clark. Sono cinque chilometri.» «Ce la faccio benissimo.» Mio padre entrò in cucina in pantaloni del pigiama e senza camicia, massaggiandosi la pancia. Diede un bacio a mamma e lei gli allungò un piatto di frittelle. «Non andrai a scuola in bicicletta a stomaco vuoto.» «Mangerò appena arrivo.» Aprii la porta, ma lei continuò, con le mani sui fianchi: «Ma le lezioni iniziano tra un'ora e mezza!». «Devo andare» risposi e corsi fuori. Gettai la borsa di canapa dei giornali sul portico e montai sul sellino a banana della mia Schwinn Scrambler. Volevo raggiungere Eli e chiedergli scusa lungo la strada. Su Empire non c'era, allora presi la Trent, e pedalai finché lo avvistai, un centinaio di metri davanti a me, che camminava lungo i binari della ferrovia con lo stesso passo strascicato di sempre. Quella camminata mi era sempre parsa familiare, e mentre lo seguivo lungo Trent Road capii il perché: un vecchio film in bianco e nero in cui un gangster ammanettato veniva trascinato a forza al patibolo, mentre gli altri prigionieri fischiavano e facevano versi. Ecco, Eli Boyle sembrava un condannato a morte. Il mio orologio segnava le 6.30. Avevo creduto che sua madre lo ac-
compagnasse a scuola in macchina tutti i giorni, per evitare che lo picchiassero. Invece lui ci andava a piedi, partendo con due ore di anticipo. Aveva iniziato dopo che avevamo fatto a botte. Lo scontro con me per lui era stato l'ultima goccia. Pedalavo lentamente, zigzagando con la ruota davanti per mantenere l'equilibrio. Ogni tanto un camion proveniente dalla fabbrica Kaiser mi sfrecciava accanto, e rischiavo di cadere. Ma non riuscivo a smettere di osservare Eli che camminava a fianco dei binari, senza mai alzare gli occhi. Arrivò a scuola alle 7.15, un'ora prima della campanella. Io chiusi la bici con il lucchetto e lo seguii, sorpreso che la scuola fosse già aperta a quell'ora. All'interno, i bidelli fumavano e portavano rotoli di carta igienica nei bagni. Eli superò l'ufficio del direttore: il signor Bender era chino sulla scrivania della segretaria, e le parlava a bassa voce. Passò oltre la vetrina dei trofei, con le foto di ex allievi della scuola morti in Vietnam e il premio alla memoria conferito al fratello di Woodbridge. Infine entrò in palestra. Io ero sbalordito. Tra tutti i posti possibili in cui trascorrere l'ora che lo separava dall'inizio delle lezioni, non avrei mai pensato che Eli avrebbe scelto proprio la palestra, che per un ragazzo come lui doveva essere una vera camera di tortura. Sbirciai dalla porta. Era scomparso. Per un attimo mi chiesi se non mi fossi immaginato tutto. Poi, tra le gradinate di legno della tribuna, ebbi una breve visione di capelli unti e flanella. Mi avvicinai di soppiatto, e vidi che Eli si era accucciato sotto un sedile, tra le gomme masticate, le carte di cioccolata e i popcorn spiaccicati. Aveva il bloc-notes aperto in grembo, e stava scrivendo qualcosa, o forse disegnando i soliti carri armati e aeroplani. Mi voltava le spalle, e se si era accorto che qualcuno lo stava osservando non lo diede a vedere. Aprii la bocca per dire "Mi dispiace", ma la voce mi morì in gola. Uscii senza far rumore dalla palestra, e tornai lungo il corridoio. Guardai nell'ufficio, ma il direttore non c'era, e la segretaria fissava il vuoto soprappensiero. Appena io entrai nel suo campo visivo si riscosse, sfregandosi gli occhi. «Cosa ci fai qui?» «È la mia scuola.» Lei sistemò alcune cose sulla scrivania e deglutì. «Lo so. Volevo solo dire che... è presto.» Stavo per rispondere, ma in quel momento si aprì la porta interna dell'ufficio e il signor Bender disse alla segretaria: «Ascolta, Peg, mi dispiace
davvero se hai creduto che questa storia fosse qualcosa di più di...». Lei si schiarì la gola e mi indicò con un cenno del capo. Il signor Bender seguì il suo sguardo e si accorse della mia presenza. «Oh, buongiorno, Mason. Cosa ci fai qui?» «È la mia scuola» dissi di nuovo. «Giusto» disse lui. Avanzò verso la segretaria, con le sopracciglia sollevate, come se stesse cercando di risolvere un problema. «Bene. Come le stavo dicendo, signora Frederick, riguardo a...» esitò, guardando prima me, poi di nuovo lei, «...a quell'autista dell'autobus, io non credo che approverebbe se sapesse che sono salito in autobus con lei... Capisce, io ho un sacco di cose in comune con quel conducente d'autobus, proprio come lei ne ha con il conducente del suo autobus... E se una volta uno dei due è salito sull'autobus dell'altro, questo non significa che...» Si interruppe, confuso dalle sue stesse parole, e rientrò con un brusco dietro front nel suo ufficio, chiudendosi la porta alle spalle. La signora Frederick tornò a fissare il vuoto. Io scivolai via. Quel giorno invece di fare lezione andammo fuori, per una gara di tiro alla fune con l'altra quinta. In un raro momento di umanità, la signora Chalmers Wright McKinley permise a Eli di astenersi dal gioco. In compenso, lo costrinse a piazzarsi in mezzo al campo per fare da arbitro. Al centro della corda fu legato un nastro, e sull'erba furono disegnate due strisce, a una distanza di circa cinque metri l'una dall'altra. Noi dovevamo cercare di tirare il nastro oltre la linea più vicina a noi, e la classe del signor Gibbons doveva fare altrettanto dalla parte opposta. Al centro c'era Eli, con lo sguardo al suolo. «Via!» gridò Gibbons, e noi cominciammo a tirare con tutta la forza, ragazzi e ragazze. La corda si tese e il nastro iniziò a muoversi verso il lato degli avversari. Qualcosa, forse le grida, produsse in Eli un'inedita trasformazione. Saltò di lato, sollevando il braccio destro per indicare che la squadra di Gibbons era in vantaggio. Fletcher e io eravamo i primi della nostra fila, e guidammo una carica all'indietro. Eli saltellò dalla nostra parte, alzando il braccio sinistro. Il nastro cambiò direzione un'altra volta, ed Eli, colto di sorpresa, rischiò di perdere l'equilibrio, prima di allontanarsi di nuovo da noi. Per la prima volta da quando lo conoscevo i suoi occhi sembravano attenti, quasi vivaci. Sorrideva ed emetteva uno strano rumore, una specie di risata arrugginita. Dovetti concentrarmi sul compito di guidare la resistenza della mia squadra, e quando tornai a guardarlo vidi
che aveva entrambe le braccia alzate, per indicare che eravamo tornati in parità. A un tratto avvertii un cedimento alle mie spalle, e Fletcher finì per terra, trascinando nella sua caduta anche me. Il nastro balzò nella metà campo avversaria, e mentre scivolavo sull'erba vidi Eli saltare di lato, con il braccio destro in aria, gli occhiali sulla punta del naso e lo sguardo acceso. La gara era finita. A quel punto Eli piegò le ginocchia e puntò entrambe le braccia verso la classe del signor Gibbons, con il fiato grosso e un mezzo sorriso sul volto. Quindi si raddrizzò, spinse indietro gli occhiali e girò la testa prima verso una squadra poi verso l'altra, come a dire: "Avete visto cosa so fare?". Tutti lasciarono andare la corda, gli insegnanti soffiarono nei fischietti, e ci riaccompagnarono ad aspettare l'autobus che ci avrebbe portati a casa per le vacanze estive. Nessuno rivolse la parola a Eli. Lui si ripiegò di nuovo in se stesso, prima che qualcuno potesse sottrargli il suo momento di gloria. 7 - Io sono finito Io sono finito, e neanche la detective di polizia più carina del mondo potrà cambiare la mia condizione. C'è un solo epilogo possibile per una storia come questa. E prima di continuare la narrazione di quell'indimenticabile estate del 1975, prima di spiegare come Eli mi salvò la vita e come io, venticinque anni dopo, organizzai un omicidio, rivelerò il finale. Non solo il finale della mia storia, ma quello di tutte le storie. Eccolo qui: morirò solo. Forse, nello scrivere questa confessione, avrei dovuto affidarmi a un tono più formale, pieno di espressioni tipo: "nella misura in cui", "a seguito di", eccetera. Ma un documento del genere non avrebbe mai potuto rendere la profondità dei miei misfatti, né quella del mio pentimento. Ci sono fatti che semplicemente non si adattano alla rigida struttura del codice penale e civile dello stato di Washington. Quell'estate, per esempio. Quale formula giuridica può rendere il sole di quei giorni, il calore sulle mie braccia abbronzate, sul collo e sulle spalle? Come spiegare in termini legali la corsa dell'asfalto sotto le ruote della bicicletta, la sfida alla legge di gravità da parte delle mie scarpe da ginnastica? Forse anche tu, Caroline, ricordi le dolcezze delle sere di giugno, le infinite possibilità che si scorgono dal sellino di una Schwinn, le risate dei ragazzi in una strada di periferia mentre i lampioni si accendono uno dopo l'altro. La temerarietà. La nostalgia.
Quell'estate, le giornate non avevano fine. Sicuramente qualche scienziato, da qualche parte, sta costruendo un teorema per provare che il tempo viene piegato e distorto dalle forze dell'infanzia. La giuria lo aspetta a Stoccolma a braccia aperte, i giudici piangono di commozione, perché quel genio ha finalmente dimostrato che la nostra infanzia è più lunga della vita adulta, che il tempo è un pendio, e più andiamo avanti, più acquistiamo velocità. Durante quel lunghissimo giugno del 1975, io mi alzavo presto e mi appiattivo i capelli lunghi e folti con le mani, invece di pettinarli. Bisticciavo con mio fratello e con le mie sorelle per l'ultima scodella di cereali al cioccolato. Poi mi piantavo davanti alla tivù con zelante puntualità, e non sorridevo guardando i programmi che scorrevano davanti ai miei occhi: Underdog, Dick Tracy, i Go Go Gophers, Mr. Peabody e Klondike Cat. I cartoni animati non c'entrano con il divertimento. I bambini non amano i cartoni animati più di quanto noi amiamo il nostro lavoro. Guardare i cartoni è il loro lavoro. Ogni mattina alle dieci saltavo sulla bici e andavo a casa di Everson, con il quale inscenavo finti combattimenti di karate, giocavo a football o facevo giri in bicicletta, comportandomi come un ragazzino, e non come il fallito che stavo per diventare. A volte raccoglievo un po' di spiccioli, e correvo a comprare le figurine dei giocatori di baseball. Ricordo ancora perfettamente le figurine Topps del 1975. Quell'anno le fecero leggermente più piccole. Il nome della squadra era in alto, il giocatore sotto, in stampatello, e la posizione riportata su una palla da baseball nell'angolo in basso a destra. Se si trattava di un All-Star (i Dodgers ne avevano quattro, quell'anno: Messersmith, Garvey, Cey e Wynn) la posizione era scritta dentro una stella. Io tiravo fuori quegli uomini in miniatura dalla busta, e fissavo con meraviglia le pettinature afro, i baffi e le basette che spuntavano da sotto i berretti. Pensavo al mondo che si apriva davanti a loro, e alla quantità di tette che dovevano vedere. Voltavo le figurine e leggevo i dati dei giocatori, come se contenessero la mappa del genoma umano, o la chiave dell'universo. Ancora oggi la mia mente è piena di quelle stupidaggini. Non ricordo il numero del mio conto corrente, o il compleanno delle mie sorelle, ma non posso dimenticare che Richie Zisk aveva segnato esattamente cento punti per i Pirates, che Pat Dobson aveva vinto diciannove partite per gli Yankee. Facevo di tutto pur di procurarmi il quarto di dollaro necessario a comprare una bustina. Everson, che pure doveva aver guadagnato migliaia di dollari con la marijuana che aveva venduto a scuola,
comprava esattamente lo stesso numero di bustine che acquistavo io. Per tutta la prima metà dell'estate, Everson non menzionò mai il fumo, né rollò una canna, almeno in mia presenza. Aveva due anni più di me, ma anche lui era solo un ragazzino, con i capelli più lunghi e un vocabolario più corto. La differenza di età tra noi quell'estate spari in una nebbia di guardie e ladri, corse in bici, figurine, torte di fango, gelati e pannocchie di granturco. Una vita. Una vita reale, ordinata, e semplice. Poi Pete Decker uscì dal riformatorio. Non mi ero reso conto di quanto fosse pacifico il quartiere, finché non smise di esserlo. Per il primo mese e mezzo dell'estate, era stato sufficiente non avventurarsi nel territorio di Matt Woodbridge per sentirsi al sicuro. Ma il giorno in cui Pete tornò, le cose cambiarono. Era stato via sei intere settimane, per aver rubato delle autoradio. La condanna era stata rimandata fino all'estate, per consentirgli di terminare l'anno scolastico. Sei settimane al fresco nel carcere minorile non lo avevano raddolcito, e me ne resi conto appena lo vidi, un venerdì di fine luglio. Camminava con una sigaretta tra le dita, rilassato, come se non avesse una meta. Quel week-end l'estate finì. Il tempo restò bello e la scuola restò chiusa, ma il mondo non ebbe più lo stesso sapore. Ci furono biciclette rubate, sassi tirati attraverso le finestre, bidoni della spazzatura rovesciati, cassette della posta distrutte. Quel fine settimana, Everson e io smettemmo di giocare, e iniziammo a cazzeggiare. Eravamo in attesa. Sapevamo che Pete poteva uscire di casa in qualunque momento e prendere in mano la situazione. I bambini piccoli, come i miei fratelli, continuavano a giocare, ma avevano sempre un occhio sulla strada, non si allontanavano da casa, e limitavano i loro giri in bicicletta al vialetto o al cortile. Il traffico ciclistico del quartiere registrò un calo vistoso. Pete, tuttavia, rimase sulle sue, quei primi giorni. Percorreva il chilometro e mezzo di Empire Road come se fosse l'unico abitante della strada, con la sigaretta all'angolo della bocca, e l'occhio sinistro chiuso per proteggerlo dal fumo. Sembrava che stesse prendendo le misure del quartiere, per vedere cosa ci fosse di nuovo, chi avesse bisogno di essere rimesso al suo posto, e chi di un bel pestaggio. Ma un pomeriggio, mentre stavo riordinando le mie figurine sul prato davanti casa, Pete apparve all'improvviso dietro lo steccato. Con lui c'era Everson: sul volto aveva un'espressione terrorizzata. «Ehi» disse Pete, con la sua voce roca. «Che cavolo sono quelle?»
«Figurine.» Pete tese il braccio in un gesto inequivocabile. Guardai Everson, che si strinse nelle spalle. Allora mi alzai e gli portai la figurina che avevo in mano in quel momento: un giocatore di nome George Hendrick, dei Cleveland Indians. Pete la afferrò, la voltò e fece una smorfia. «E cosa te ne fai?» «Le colleziono.» «Perché?» Feci spallucce. «Perché mi piace.» Lui osservò di nuovo la figurina. «Vuoi dire che le guardi e ti fai le seghe? Sei frocio, Clark? Voglio dire, Clark è un nome un po' frocesco, no?» «No.» Non so cosa mi prese in quel momento, ma pensai davvero di potergli spiegare il mio punto di vista. «Vedi, cerchi di raccogliere le figurine dei giocatori di ogni squadra, così scopri quali sono i migliori leggendo le statistiche sul retro. Poi li confronti l'uno con l'altro, finché tutto comincia ad acquistare un senso. Probabilmente è l'unico modo per cominciare a capirci qualcosa...» Everson chiuse gli occhi. Pete voltò la figurina. «Vedi» dissi «George Hendrick ha segnato diciannove punti, Reggie Jackson ventinove. Perciò è migliore di Hendrick. Anzi, è il migliore di tutti.» La mia voce perse ogni energia mentre aggiungevo: «Capisci?». Pete fissò a lungo la figurina di George Hendrick, poi me la restituì con disgusto. «Noi stiamo andando a una festa. Vieni?» Everson aveva gli occhi fissi per terra. Pete fece un passo avanti. «Non sei un frocetto, vero, Clark?» «No, vengo con voi.» Lasciai le figurine sul portico. Superammo le colline dei conigli, portammo le bici a mano attraverso i campi della ferrovia, e raggiungemmo la riva del fiume, dove Pete aveva nascosto delle lattine di birra che aveva rubato a qualcuno. Ci passammo le birre, Everson tirò fuori una canna. Poi Pete ci chiese tutti i soldi che avevamo in tasca, per pagare le birre e lo spinello (che si fece pagare anche se era stato Everson a portarlo). Quella fu la prima volta che assaggiai la birra e la marijuana, e non ricordo di aver provato altro che nausea e un forte bruciore in gola. In seguito ho visto molte persone diventare euforiche a causa degli effetti dell'alcol e della marijuana, ma noi non ridemmo molto, forse perché era stato Pete a bere la maggior parte della birra e a fumare quasi tutta la canna. Il giorno dopo Pete organizzò una specie di torneo di boxe, con i guantoni che gli erano rimasti dai tempi in cui andava in palestra. Convinse an-
che un paio di ragazzini più piccoli a partecipare come pesi piuma: entrambi se ne andarono a casa insanguinati e piangenti. Per ultimi toccò a me e a Everson. Pete ci aveva classificato "pesi medi". Roteavamo le braccia come mulini, e ci colpivamo a vicenda sulle orecchie, che dopo un po' divennero rosse e doloranti. Fu allora che Pete si rese conto che lo facevamo apposta, per non picchiarci in faccia. Interruppe il match per informarci che eravamo due finocchi, e che se non avessimo iniziato a combattere sul serio saremmo stati promossi d'ufficio nella categoria "pesi massimi", dove lui ci avrebbe "fatto il culo". Dopo il suo intervento cambiammo tattica: ci studiavamo lentamente, con i guantoni davanti al viso, tirando brevi diretti al naso o al mento. A un certo punto, senza volere, colpii Everson con un uppercut alla mascella, e lui reagì piantandomi un pugno sul naso. Poi fu solo una confusione di occhi gonfi e sangue in bocca, finché a un tratto vidi Everson a terra. Pete mi abbracciò, applaudendo e gridando che avevo vinto. Quella sera andammo a rubare tre biciclette dalla parte opposta del quartiere e le portammo nel garage di Pete. Lui restò alzato tutta la notte, smontandole e rimontandole con parti di altre biciclette, nel tentativo di renderle irriconoscibili. Il mattino dopo, Pete diede a me e a Everson una bicicletta e una stampella ciascuno, e ci fece sistemare l'uno di fronte all'altro, a un isolato di distanza. «Ora scontratevi» ordinò. «Cosa?» «Sì, come facevano gli antichi. Dovete...» Pete cercò di ricordare la parola giusta. «Come si dice? Avete presente, quegli uomini a cavallo, armati di lancia?» «Giostrare?» disse Everson, e se ne pentì immediatamente. Ci sfiorammo due volte senza colpirci, con le stampelle puntate in avanti, ma Pete iniziava a spazientirsi, e la terza volta Everson mi colpì sulla spalla con il puntale di gomma della stampella. L'impatto mi fece scartare di lato, la mia ruota davanti sbatté contro la sua ruota di dietro, e cademmo entrambi sbucciandoci gomiti e ginocchia. Le biciclette erano incastrate in una scultura di raggi e catene. «Cazzo!» esclamò Pete, impressionato. Il giorno dopo rubammo sigarette e semi di girasole, e sfogliammo riviste sconce. L'estate sembrava destinata a durare per sempre, in un'eterna spirale discendente. Bevevamo bottiglie di vino dolce che Pete sottraeva a
un vicino di casa, e ingoiavamo pillole nauseabonde che secondo lui erano anfetamine. Ci introducevamo nel garage, rubavamo della benzina e ne inalavamo i vapori, fino a procurarci nausea e vertigini. Poi la usavamo per bruciare borsette, vestiti e giocattoli che Pete sgraffignava ai grandi magazzini. Non ci divertivamo, né avevamo alcuno scopo, a parte combattere la noia di Pete Decker. Ma quello era un motivo sufficiente. Avevamo più paura della noia di Pete che di farci sorprendere a rubare o a bere. «Mi annoio» disse Pete un giorno, circa due settimane dopo essere uscito dal carcere minorile. «Facciamo qualcosa di serio.» Eravamo seduti tra l'erba alta, e fumavamo uno spinello. Everson e io ci scambiammo un'occhiata preoccupata. Ma Pete si alzò e si allontanò, e noi due esalammo un sospiro di sollievo. Il mattino dopo in casa mia c'era una strana atmosfera. Io mi grattavo la testa, cercando di decifrarla. I miei genitori non l'avevano notata, e neppure le mie sorelle o mio fratello. Papà si preparava per andare al lavoro, alla fabbrica di cemento. Mamma piegava vestiti, mio fratello e le mie sorelle mangiavano cereali guardando la tivù. Papà bestemmiò per un quarto d'ora perché non riusciva a trovare il portafogli, ma alla fine si rassegnò ad andare al lavoro senza. Baciò mia madre, e mi scompigliò i capelli come se fossi ancora un bambino. Allora finalmente capii. Corsi nella mia stanza. Era lì che qualcosa era cambiato. Il piano del cassettone era vuoto: le mie figurine del baseball erano scomparse. Guardai dietro il cassettone, pur sapendo che era difficile che fossero cadute lì dietro. Controllai nei cassetti e sotto il letto, e chiesi a Ben se le avesse prese lui. Mio fratello alzò gli occhi dalla scodella, con un baffo di latte sul labbro superiore, scosse la testa e tornò a fissare il televisore. Pete. Pete Decker si era introdotto in casa mia, e aveva rubato il portafogli di mio padre e le mie figurine. Avrebbe anche potuto ucciderci, o rapire una delle mie sorelle, o... Non c'era limite ai danni che avrebbe potuto causarci, e io non potevo farci nulla. Uscii di casa e tirai una palla da baseball contro il portico, digrignando i denti. «Ehi, frocetto.» Mi voltai e lo vidi, oltre il recinto. Accanto a lui c'era Everson, con un'espressione sottomessa. Indossavano entrambi diversi strati di vestiti, cappotti e cappelli, che li facevano sembrare due pupazzi gonfiabili. La temperatura doveva essere superiore ai venticinque gradi, eppure loro erano vestili come se si preparassero a scalare l'Everest. Per un attimo dimenticai le mie figurine, e mi avvicinai. «Cosa...?»
Pete tirò fuori una pistola. «Vieni con noi?» Dovetti fare una faccia terrorizzata, perché lui rise. «Vai a cambiarti, scemo. È una pistola ad aria compressa.» Per darmene la prova sparò al pastore tedesco del mio vicino, che corse via ululando. Anche Everson ne aveva una uguale. «Dove avete preso quelle pistole?» chiesi. «Le abbiamo trovate» disse Pete, e mi rivolse un sorriso crudele. Mia madre entrò in camera mia mentre mi coprivo di felpe e pantaloni. «Cosa stai facendo, Clark?» «Niente.» «Ma perché ti vesti a quel modo?» Le rivolsi un'occhiataccia. «Lasciami stare, mamma.» Lei mi guardò senza sapere che dire. Uscii di casa, raggiunsi Pete ed Everson, e insieme ci avviammo lungo la strada, infagottati come i montanari. Pete mi diede la pistola ad aria compressa che mi aveva mostrato e tirò fuori un'arma più pericolosa: un fucile a pompa, che sparava gommini ad alta velocità. Camminava davanti a noi, eccitato al pensiero dei pericoli che ci attendevano, mentre attraversavamo le collinette andando verso il fiume. «Quei bastardi non sapranno mai cosa li ha colpiti.» Io stringevo in pugno la pistola, pensando alle mie figurine, e a Pete che entrava in casa mentre la mia famiglia dormiva. Immaginavo il proiettile entrargli nel collo, e il colpo di grazia che gli avrei sparato in faccia. Finalmente arrivammo nel posto dove Pete nascondeva le birre rubate. Pete si infilò tra i cespugli, e ne uscì con tre maschere da saldatore. Ne indossammo una ciascuno, abbassammo sul viso le visiere di vetro verde e ci avviammo verso il fiume. Everson si chinò verso di me e sussurrò, spaventato: «Dobbiamo combattere contro Woodbridge e alcuni suoi amici». Io riuscivo solo a pensare a come avrei ucciso Pete. «Ecco cosa faremo» disse Pete. «Li inchioderemo con un fuoco di sbarramento, e mentre voi li terrete impegnati, io li prenderò alle spalle. Avete capito?» Caricò il fucile. «Avete capito, idioti?» Annuimmo e continuammo a camminare. Li sentimmo ancor prima di vederli: erano nascosti nella boscaglia attorno a una cava di ghiaia abbandonata, vicino a una curva del fiume. Ci gettammo al suolo e strisciando ci avvicinammo alla boscaglia, Pete davanti, Everson e io appena dietro. Avevo le mani sudate. «Merda» disse Pete a un tratto. Subito dopo sentii un rumore e un dolore come una puntura di vespa al fianco. L'aria si riempì
degli schiocchi di armi ad aria compressa. I nemici avevano anticipato il nostro piano. «Giù!» gridò Pete, e ci tuffammo tra gli arbusti che fino a poco prima avevano ospitato Woodbridge e i suoi. Vidi Pete rotolare su un fianco e sparare da sopra la spalla. Sparai anch'io, mirando a casaccio tra i cespugli da dove veniva il fuoco nemico. Quando Pete urlò, Everson e io ci voltammo a guardarlo, spaventati. Ma non era ferito, solo eccitato, continuava a caricare il fucile e a sparare. «Fatevi sotto, bastardi! Avanti, fottuti vietcong!» Anche sotto un cappotto e due camicie, il punto dove ero stato colpito mi faceva male, e sentivo che si stava gonfiando. Dopo pochi minuti Pete mi toccò sulla spalla e schizzò via. Lo osservai correre a zigzag, piegato in avanti, finché sparì tra i cespugli. Everson e io continuammo a sparare, ma a un tratto ci rendemmo conto che nessuno rispondeva al fuoco e sollevammo la visiera. Everson aveva il fiato grosso. «Continuiamo a fare fuoco?» gli chiesi. Lui si strinse nelle spalle. «Fa male» disse, e sollevò la manica per mostrarmi un livido nell'incavo dell'avambraccio. «Già» risposi. Restammo stesi bocconi, ad ascoltare il fiume. Everson si frugò in tasca, e pensai che stesse per tirare fuori una canna. Invece mi mostrò la figurina di George Hendrick, piegata a metà. Io lo fissai senza dire nulla. «Me le ha vendute Pete.» «Tutte?» chiesi, togliendogli di mano la figurina spiegazzata. Annui. «Stamattina è venuto a casa mia, e ha detto che dovevo dargli venti dollari per le figurine.» «Erano tutte rovinate come questa?» «Bruciacchiate, accartocciate o piegate. Mi dispiace, Clark. È un figlio di puttana.» Dai cespugli lungo il fiume udimmo alcuni colpi attutiti, poi una voce lontana: «Dove siete?». «Dovevamo seguirlo?» chiesi, preoccupato. «E che ne so?» rispose Everson. Si udirono altri schiocchi, poi: «Forza, venite giù, stronzi!». Il fianco colpito mi doleva. Mi chiesi se non fosse il caso di fuggire. Ma Everson abbassò la visiera, e io lo imitai. Ci alzammo in piedi e iniziammo a correre verso il fiume. I nostri piedi sul terreno producevano un rumore simile a quello delle pistole ad aria compressa. Voltavo la testa di
qua e di là, cercando invano di individuare Woodbridge e gli scagnozzi che di solito lo attorniavano alla fermata dell'autobus. «Avanti, froci!» urlò di nuovo Pete. Immaginai Woodbridge e i suoi che tenevano Pete inchiodato a terra. Immaginai Everson e io che irrompevamo fra loro. Ma invece di mirare a Woodbridge, io avrei sparato a Pete, ripetutamente, mentre dalle sue tasche cadevano le mie figurine. Quando arrivammo sulla riva, vedemmo Pete accoccolato in una buca, a pochi metri dai nostri avversari. Ci furono tre schiocchi veloci, come popcorn saltati in padella. Everson urlò e cadde. Un proiettile mi sfiorò la testa, ma continuai a correre verso Pete, con la pistola puntata contro la sua schiena e i denti stretti. Woodbridge e i suoi spararono un'altra raffica, e un gommino colpì la mia maschera. Finalmente mi tuffai nella buca dove era nascosto Pete, al riparo dai proiettili. Sollevai la visiera della maschera, e lo fissai. Per la prima volta mi resi conto che Pete era un ragazzino proprio come me, tutto ossa e tendini. Ero a tre passi da lui, quando si voltò all'improvviso, con il fucile puntato verso di me e un'espressione di terrore negli occhi. Fu come se qualcuno mi avesse scagliato in faccia una bottiglia. La mia testa scattò all'indietro e piombai a terra. Qualcosa di caldo e appiccicoso mi colava tra le dita. Cercai di aprire gli occhi, ma provai un dolore acuto. Urlai fino a restare senza voce. Anche Pete gridò: «Oh, merda!». Rotolavo sul terreno, coprendomi il viso con le mani. Il mondo sembrava espandersi e contrarsi, mentre tutto il rosso, il sangue e il dolore si concentravano nell'orbita del mio occhio sinistro. Quando riuscii ad aprire l'occhio sano, vidi Pete che fuggiva tirandosi dietro Everson. «Aspettate!» mormorai. Ma erano già lontani. Non c'era nessun rumore, a parte lo scorrere del fiume. Cominciai a piangere. Il dolore aumentò e mi venne da vomitare. Avevo le mani coperte di sangue. Le allontanai dal viso, e il sangue colò sulla sabbia. Quando, diversi minuti dopo, provai ad alzarmi, vomitai ancora e crollai in ginocchio, sconfitto. Il mio primo pensiero diverso dal dolore fu che forse mi avrebbero dedicato una targa, istituendo un premio scolastico a mio nome, come era successo per il fratello di Woodbridge. Sperai che Ben reagisse alla mia morte meglio di come Woodbridge aveva reagito a quella di suo fratello. Steso supino sulla riva del fiume, piansi, pensando a mia madre sulla so-
glia, che scrutava la strada e si chiedeva dove fossi finito. «Sono qui!» urlai, con le lacrime salate che bollivano nell'occhio martoriato. Continuai a piangere e a urlare, in preda al panico, per un tempo indefinito, finché sentii una mano sul petto, rassicurante. All'inizio credetti che fosse mia madre, ma poi decisi che doveva trattarsi di Everson. Già, era logico che fosse tornato ad aiutarmi. «È tutto a posto» disse. Aprii l'occhio destro, e mi trovai a fissare gli occhiali di Eli Boyle. «È tutto a posto» ripeté Eli. «Ho già chiamato aiuto.» E restò lì a tenermi la mano. "La signora sorrise, perche le galanterie di un guercio. sono comunque galanterie." Voltaire, Il facchino orbo III I CRIMINALI NON SI ALZANO PRESTO 1 - Caroline, va' a casa «Caroline, va' a casa.» Il sergente la interrompe a metà di una frase, mentre lei sta cercando di spiegargli come mai abbia deciso di sprecare cinque ore nell'attesa che il Matto scriva la sua confessione. Alle tre del mattino di sabato, lui è ancora lì, al secondo bloc-notes e al quarto caffè, e la fine sembra ancora lontana. «Va' a casa» le ripete il sergente Chris Spivey all'altro capo del filo. «Trovagli un letto da qualche parte. Lunedì mattina lo sveglieremo e potrà raccontarci con calma tutta la storia di come gli alieni glielo hanno messo nel culo.» Spivey è più giovane di lei. All'inizio Caroline trovava quel fatto un po' imbarazzante, ma ora lui le sembra un capo come tutti gli altri, rigido e formale, e non molto contento di ricevere una telefonata alle tre del mattino. «Caroline, non posso autorizzarti a segnare delle ore di straordinario per questa storia.» «Non ho chiamato per questo» ribatte lei. «Ma se ci fosse qualcosa di importante in quella confessione?» «Allora rinchiudilo. Incriminalo. Sparagli. Fai quello che ti pare ma fallo lunedì. Ora va' a casa.» Caroline sospira e fissa il Matto da dietro il vetro. Lui gira una pagina
del blocco e comincia a scrivere sul rovescio, in un corsivo piccolo e controllato. «Okay.» «Qual è il tuo problema, Caroline? Dove hai la testa, in questi giorni?» Una bella domanda. Lei sa di stare funzionando al minimo. Viene al lavoro e si siede alla scrivania, ci mette ore per scrivere i più semplici rapporti, dimentica i numeri di telefono, i nomi. E a casa non va affatto meglio. Sprofonda nel divano dimenticandosi di togliere il soprabito, o naviga in Internet fino all'alba, partecipando ad aste on-line dove si vendono cose di cui non ha bisogno: parasole, aghi da ricamo, stampanti laser ed esche da pesca. Due notti prima ha giocato a scacchi in una chat room. E lei odia gli scacchi. Dove hai la testa? Negli ultimi mesi le è sembrato di vivere la vita di qualcun altro: ora si chiede quando abbia iniziato a bere, come mai non si faccia più la doccia durante i fine settimana, perché si ritrovi a giocare a scacchi. Prova a capire che cosa abbia scatenato la sua inesorabile discesa: la morte di sua madre, la fine della storia con il suo ragazzo, le dimissioni dell'uomo che amava, il sergente Alan Dupree. Ma sono tutte cose superate. No, la crisi è venuta dopo, quando ha impedito a quel tizio di assassinare una giovane prostituta, una ragazza minuscola di nome Rae-Lynn Pierce. A un tratto si è resa conto che durante i quindici anni trascorsi in polizia, Rae-Lynn era l'unica persona che avesse realmente salvato. Forse, arrestando dei criminali ha risparmiato la vita di altre vittime potenziali, ma si tratta di astrazioni, di ombre, non di persone reali con un nome e un cognome. Rae-Lynn Pierce, invece, era reale, ed era sopravvissuta grazie a Caroline. Per questo crede che le cose abbiano iniziato ad andar male tre mesi prima, quando ha appreso che Rae-Lynn è morta, a causa di un'epatite trascurata. Sei settimane di vita. È tutto ciò che Caroline è riuscita a regalarle. Da quel momento, Caroline ha cominciato a perdere interesse nel suo lavoro. Ma è qualcosa di più di una semplice crisi professionale. Si trova alle soglie della mezza età, ed è sola. Quindici anni della sua vita sono serviti ad allungare di sei settimane quella di una puttana tossicodipendente. Ultimamente Caroline si addormenta alle riunioni, fissa il vuoto seduta alla scrivania, non segue più i suoi casi. E poi, da quando Spivey l'ha trasferita al turno di notte, la sua depressione è peggiorata. E ora quel Matto, e lei che gioca a fare... la psichiatra? Il padre confesso-
re? Certamente non la poliziotta. Cosa le ha chiesto, il Matto? Se è mai stata responsabile della morte di qualcuno. Forse quello è il motivo per cui lo ha lasciato seduto lì per cinque ore, perché sa esattamente come si sente: con una voglia disperata di confessare, senza sapere bene il perché. Controlla l'orologio. Le tre e dieci. Attraversa l'ufficio, apre la porta della stanza degli interrogatori, ed entra. «Basta così» dice. Il Matto alza lo sguardo e sorride. «Caroline...» Il suo unico occhio è rosso, come se avesse pianto molto. «Fatto?» Non può evitare di notare la sfumatura di delusione nella propria voce. Lui apre e chiude le dita della mano destra. «Ecco, non completamente, devo ammettere. Ma la parte preliminare, lo scenario, i personaggi chiave... sono a posto. Il contesto era il pezzo più difficile.» Batte un colpetto sul bloc-notes. «È tutto qui. Mancano solo i dettagli, la storia più recente.» Caroline non sa cosa dire. Gli siede di fronte. «Mi dispiace, ma non posso starmene ad aspettare qui tutto il fine settimana, mentre lei scrive...» Sfoglia le pagine del blocco. «...So che per lei è importante, ma io non dovrei neppure essere qui.» Lui rimane in silenzio, e Caroline continua a parlare. «Il mio superiore vuole che la mandi a casa. Non sarò neppure pagata per le ore che ho trascorso qui. In questo momento dovrei essere a casa anch'io. A dormire.» Lui si limita a fissarla. «Capisce, non è così che funziona.» «Mi dispiace, Caroline. Andrò dritto al punto, lo prometto. Mi servono solo trenta minuti.» «No. Ora deve dirmi di cosa si tratta.» «Lo sto facendo» insiste lui, indicando il blocco. Sposta la benda e si massaggia l'occhio sinistro, ma il movimento è così veloce che Caroline non riesce a vedere cosa si nasconde sotto il lembo di stoffa nera. «Credo che lei abbia bisogno di un dottore.» «No» dice lui. «Non sono pazzo. Per favore. Mi dia soltanto un altro po' di tempo. Ormai siamo andati lontano. Ascolti, se lei se ne va ora, io lascerò perdere tutto. E nessuno saprà mai cosa è successo.» Si gratta la testa, e i capelli folti gli ricadono sulla fronte, coprendo la benda. «Per favore» sussurra. «Mi aiuti a finire questa cosa come si deve. Ho fatto un casino con tutto il resto, ma quest'unica cosa... Per favore.» «Non posso.»
«La prego.» «No.» «Per favore.» Caroline fa scorrere lo sguardo lungo la stanza. «Deve darmi qualcosa in cambio.» «Cosa?» «Non so. Un nome, per esempio.» «Il mio nome?» «Sarebbe un inizio.» Lui ci pensa su. «Non posso. Non ancora. Lo userebbe per contattare i miei amici, la mia famiglia, e quando questa storia diventerà di dominio pubblico...» «Allora il nome della vittima» insiste Caroline. Lui si copre la bocca, e intorno all'occhio buono si formano delle rughe. «Ascolti» dice Caroline. «Deve capire che questa è una totale violazione del modo in cui io sono tenuta a svolgere il mio lavoro.» Non le piace l'idea di metterlo a conoscenza dei suoi problemi, ma continua a parlare. «L'ho fatto perché mi sono fidata di lei. E ora devo assicurarmi che non si tratti di un mucchio di balle.» «Mi dispiace... non sono pronto. Non ancora.» Il Matto fissa il blocnotes sul tavolo. «Dirò tutto quando avrò finito.» «Non userò il suo nome per indagare sul suo conto. Aspetterò che abbia finito.» «Davvero?» «Davvero.» «Posso fidarmi?» «Sì» risponde lei, senza pensarci. Lui le prende la mano. Caroline lo lascia fare. Restano in silenzio. «Sul serio posso fidarmi?» chiede di nuovo lui. «Sì.» Il Matto le lascia la mano, e la guarda finché Caroline ha l'impressione che stia osservando un punto oltre il suo corpo. «Pete» dice alla fine. «Pete» gli fa eco lei. «Pete Decker. L'uomo che io... l'uomo che...» «Decker.» Caroline aspetta, ma lui non dice altro. «Okay. Pete Decker. Non è stato tanto difficile, no?» «No. Non è stato difficile.»
2 - La verità fa male La verità fa male solo a chi ama consolarsi con le menzogne. È una cosa in cui Caroline ha sempre creduto. Non perde tempo a illudersi, cercando di convincersi che le cose accadono per un motivo, che un giorno troverà l'uomo giusto, che le persone cambiano. E si chiede se è cinica di natura, o se è colpa del lavoro che fa. Devi essere realista per fare il poliziotto. Altrimenti tutto quello a cui assisti ti offusca. Dopo la morte di Rae-Lynn Pierce, Caroline ha dimenticato quell'assioma, e ha cercato di ricostruire le ultime sei settimane di vita della ragazza, sperando di dare un senso all'accaduto. Forse in quel mese e mezzo RaeLynn aveva salvato la vita di un bambino. O si era riconciliata con la sua famiglia. Sei settimane. Quarantadue giorni, sei dei quali trascorsi in una comunità di recupero. Il resto sulla strada, a drogarsi e a farsi scopare per soldi. Durante quelle sei settimane la figlia di due anni le era stata sottratta, poi Rae-Lynn era stata arrestata per adescamento. Aveva passato una notte in cella, e quattro giorni dopo l'avevano trovata morta, in un vicolo dietro un ristorante tailandese. No, è meglio non sapere. Altrimenti finisce che cominci a fissare la gente per strada, chiedendoti quando devi aspettarti la loro morte. Caroline cerca di scherzarci sopra, di ripararsi dietro lo scudo del suo vecchio cinismo, ma le manca la forza di farlo, come se il peso di sopportare se stessa sia diventato troppo grande. Magari è per questo che si sta lasciando trascinare in questa storia. Perché il caso del Matto è teorico e pulito, un crimine solo ipotetico. Di solito si comincia e si finisce con un cadavere. Con il rigor mortis, le macchie ipostatiche, il fetore. Ma senza cadavere... D-E-C-K-E-R, P-E-T-E. Caroline preme i tasti del computer per controllare se quel nome appaia nel database dei crimini nazionali e internazionali. Forse il Matto ha mentito, o forse no. Il nome Pete Decker non è casuale, di questo è certa, ha un significato, lo ha visto nei suoi occhi. E questo è tutto ciò che le serve, per il momento: una scusa per ascoltarlo, per permettergli di continuare a scrivere. E per evitare di tornare a casa. Si chiede perché si sia fatta sedurre dalla tristezza del suo occhio destro e dal mistero del sinistro. Forse Pete Decker è il nome del Matto. Ma non l'ha pronunciato come se fosse il suo. L'ha detto come se fosse un nome che ha in testa da tempo, e che tuttavia non pronuncia spesso ad alta voce. Come il nome di qualcuno che ha ucciso.
Sul monitor appaiono i reati commessi da Peter Ralph Decker: qualche furto d'auto, una rapina, una quantità di aggressioni a mani nude o con oggetti contundenti. Possesso di droga, una volta ai fini di spaccio. Due condanne con la condizionale. Un paio di ordini di custodia cautelare. E tutto questo da adulto. La sua fedina penale di minorenne è lunga nove pagine, e Caroline non fa neppure la fatica di aprire il file. Effettua un controllo per accertarsi che adesso non sia in prigione. Non c'è. Ha appena finito di scontare la sua pena più lunga, quattro anni, per spaccio. Caroline legge i particolari. Quell'idiota era fuori di galera da meno di due mesi, quando si è fatto scoprire con quasi mezzo chilo di coca sul sedile posteriore della macchina. Ha dichiarato di averla trovata fuori dal suo appartamento. Molto furbo. Strano che i poliziotti non l'abbiano bevuta. Caroline annota l'indirizzo dove Pete deve passare un periodo di libertà vigilata. Si sorprende a sperare che Pete Decker sia davvero la vittima di un omicidio. Qualunque avvocato riuscirebbe a ottenere l'assoluzione per l'assassino soltanto presentando alla giuria la fedina penale di Pete. Forse il Matto ha davvero ucciso per proteggere se stesso o altri dalla violenza dello spacciatore Pete Decker. Stampa l'ultimo indirizzo conosciuto di Decker. Poi afferra un blocnotes, e torna verso la stanza degli interrogatori. Apre la porta e infila dentro la testa. Il Matto è sempre chino sul blocco, e forma le parole con le labbra mentre scrive. Alza la testa, nello sguardo un'espressione di scusa. «Mi dispiace, Caroline. So che ci sto mettendo troppo, ma...» Lei gli getta davanti il blocco nuovo prima che finisca la frase. Lui lo prende e sorride. «Grazie. Sono quasi alla fine. Sul serio.» «Manca poco alle sei» dice Caroline. «Vado fuori a fare colazione. Vuoi qualcosa?» «Dell'altro caffè, grazie. Magari anche una brioche alla cannella.» Si sfrega la bocca. «Ah, volevo dirti...» Caroline nota che entrambi sono passati a darsi del tu. Entra nella stanza e aspetta. Lui prende un'aria imbarazzata. «Quel nome che ti ho dato...» «Pete Decker?» «Esatto. Be', non è lui. Non è la persona che...» «E allora chi è?» «Nessuno» risponde il Matto. «Ho mentito. Volevo solo guadagnare tempo. Devo finire di scrivere, poi ti dirò tutto. Te lo prometto. Devi cre-
dermi, Caroline.» «Il caffè lo vuoi sempre nero?» «Sì, grazie.» «Manderò un agente a tenerti d'occhio. E... devo chiederti di consegnarmi la cintura e le scarpe.» «La cintura e le scarpe?» «Non posso lasciarti solo con oggetti che potresti usare...» «Per suicidarmi?» Lo dice come se non fosse affatto una cattiva idea. Caroline tende la mano. Lui si toglie cintura e scarpe e le spinge sul tavolo verso di lei. Sulle scarpe non c'è sangue. Quando Caroline alza di nuovo gli occhi lui sta sorridendo, e lei prova di nuovo quello strano senso di familiarità. «Sei certo che non ci siamo già conosciuti?» chiede. «Certissimo.» «È che... hai un'aria familiare.» «Credimi, se ti avessi incontrata me ne ricorderei.» Caroline è imbarazzata e confusa dal piacere che prova a quel commento. «Mi chiamo Clark» dice lui a un tratto. Forse vuol farsi perdonare per non averle confessato il vero nome della vittima. Caroline ormai lo considera il Matto, da tante ore, e deve ripetersi il nome, per abituarcisi. Si stringono la mano. Clark non è il nome che Caroline sentiva di avere sulla punta della lingua, ma capisce subito che lui sta dicendo la verità. Decide che deve averlo scambiato per qualcun altro. «Piacere di conoscerti, Clark.» «Mi sarebbe piaciuto incontrarti in circostanze diverse» dice lui. Sottoscrivo, pensa lei. 3 - L'appartamento di Pete Decker L'appartamento di Pete Decker è al quarto piano di un edificio squallido, che Caroline conosce soltanto perché si trova di fronte al bar dove lei e altri poliziotti una volta andavano a prendere il caffè, la mattina. Si tratta di un vecchio albergo da cui sono stati ricavati alloggi per delinquenti, drogati, alcolizzati in cura, adolescenti incinte e malati di Aids. Caroline apre il portone, sale le scale e si trova in un corridoio illuminato da una sola lampadina. Al quarto piano ci sono sei porte, tutte coperte da scritte oscene. Leggendole, Caroline scopre che Tina fa bene i pompini, e che Joe B. è un
figlio di troia. Pete Decker abita al 4B, ma sulle porte non ci sono numeri o lettere. Non sono ancora le sette del mattino, per cui è facile che Pete, se vive ancora lì, sia in casa. Di solito i criminali non si alzano presto. Esce dall'edificio, felice di respirare di nuovo aria fresca, attraversa tre corsie di traffico ed entra nel bar che frequentava un tempo. Ha smesso di venirci da quando il barista, un giovane con le treccine e gli addominali scolpiti che tutti chiamano Goose, un giorno le ha chiesto di uscire con lui. Sorride a due clienti regolari, padre giovanile e figlio grassottello. «Ciao» dice il padre, che non si è mai dato la pena di imparare il suo nome. Il bello del bar sta in quel genere di cordialità superficiale, proprio come in ufficio, senza la seccatura del lavoro. «Ciao» risponde lei. «È un po' che non ti si vede.» «Vero.» Per fortuna Goose non è di turno. La ragazza con il piercing al naso le rivolge un caldo sorriso. «Posso avere un chai?» chiede Caroline. «Certo.» Prende una pasta vecchia di un giorno, si siede davanti alla vetrina, e inizia a sorvegliare l'edificio in cui abita Pete Decker. Nessuno entra, nessuno esce. Caroline pensa che forse ha letto male l'indirizzo. Ah, ma è ancora presto per il traffico di droga. È un po' stordita, dopo la notte insonne trascorsa ad aspettare che Clark il Matto finisse la sua opera. Il tè le scalda la pancia. Osserva le finestre buie del quarto piano. In quel momento una vecchia Honda Civic si ferma davanti al palazzo. Caroline si alza in piedi e si infila i guanti. «Ci vediamo» dice il padre, pulendo lo zucchero a velo dalla bocca del figlio. «Alla prossima» risponde Caroline uscendo. Attraversa la strada di corsa, mentre una giovane donna scende dalla Honda. Alla prima occhiata Caroline si accorge che è una tossica, una di quelle ventenni che la droga ha trasformato in quarantenni: occhi rossi, orbite infossate, pelle olivastra. La ragazza la vede arrivare, e le cedono i nervi. «Cosa? Cosa?» ripete, a occhi sbarrati. Caroline le mostra il distintivo. «Vivi qui? In questo edificio?» «Non ho fatto niente.» «Non ti sto accusando. Ho solo bisogno di parlare con un tuo vicino di
casa.» «Chi?» «Pete.» La ragazza ci pensa su un attimo. «Non lo conosco.» «Certo che lo conosci. Ascolta, devo solo controllare che stia bene. Lo hai visto, negli ultimi giorni?» «No. Gli è successo qualcosa?» «Non lo so ancora.» La ragazza riflette un momento, poi si rilassa. «Non mi dispiacerebbe se qualcuno lo avesse ucciso, finalmente. È un bastardo, ruba qualunque cosa.» «Perché non mi mostri la sua porta? Non dirò a nessuno che mi hai aiutata.» La ragazza fa spallucce. «Se non è morto, ti consiglio di non svegliarlo. Ha un carattere del cazzo.» «Oh, sarò gentile con lui» dice Caroline. Segue la donna fino al quarto piano. Lei indica una porta e annuisce con solennità. Caroline annuisce di rimando, attende che si allontani giù per le scale, poi annusa l'aria. Dall'appartamento esce un fetore, ma non è sicura che sia quel fetore. Bussa, e prova a origliare. Nulla. Appoggia una mano sulla nove millimetri nella fondina, e allunga l'altra verso la maniglia. A un tratto la porta si apre e Caroline si trova davanti una ragazza di circa sedici anni, con addosso soltanto una camicia di flanella. «Ciao» dice la ragazza, in tono cordiale. «Non aprire quella cazzo di porta» urla qualcuno, presumibilmente Pete, dunque presumibilmente vivo, da sotto un mucchio disordinato di lenzuola e coperte. Il materasso è sul pavimento. Caroline entra, decisa. L'appartamento consiste di quell'unica stanza, dove non c'è altro che il materasso sul pavimento e un televisore nuovo da trentadue pollici. I muri sono scrostati, e il pavimento coperto di sacchetti di biscotti e patatine. Lungo le pareti sono appoggiate sei persone, ragazzi e ragazze, tutti molto giovani e tutti con gli occhi vuoti e l'odore di piscia di gatto di chi si fa pesantemente di amfetamine. Caroline riconosce Pete dalla foto segnaletica. Lui si alza in piedi, scocciato. «Che cazzo di ora è?» È nudo e magro come un ragazzino. È un galletto, piccolo e duro. Ha il corpo coperto di lividi grandi come monete. «Non devi aprire quella cazzo di porta, se non te lo dico io, chiaro?» gri-
da, e dà una spinta alla ragazza, che vola attraverso la stanza. Caroline fa un passo avanti e lo afferra alla gola. Lui le allunga un pugno in faccia, ma lei riesce a schivarlo. Quello è un uomo abituato a picchiare le donne, ma Caroline è alta e allenata. Gli stringe le mani intorno al collo, e gli dà una ginocchiata nei testicoli. Lui grugnisce e si affloscia, e lei lo spinge di nuovo sul materasso. Pete rotola su un fianco, gemendo. «Tu devi essere Pete» dice Caroline, mostrandogli il distintivo. Raccoglie da terra i suoi jeans, li perquisisce in cerca di un'arma, e ne tira fuori un lungo coltello a serramanico, che si fa scivolare in tasca. «C'è qualcuno qui che abbia diciotto anni?» chiede alla ragazza che le ha aperto la porta. «Proprio come pensavo. Avete venti secondi per raccogliere i vostri vestiti e sparire. E se vi trovo qui un'altra volta vi sbatto tutti dentro.» I ragazzi si danno da fare per infilarsi scarpe e camicie, afferrano le buste di patatine e tagliano la corda. Resta solo la sedicenne in camicia di flanella. Si mette un paio di pantaloni e si pulisce il labbro insanguinato. «E io dove vado?» «Sei la sua ragazza?» «Sì.» «Quanti anni hai?» Lei esita un attimo prima di rispondere. «Sedici.» Caroline le dà due dollari. «Vai al bar di fronte, e prendi una cioccolata calda. Io arrivo tra due minuti.» La ragazza se ne va e Caroline si volta verso Pete, che non fa nessun tentativo di coprirsi i testicoli indolenziti. «Troia.» Potrei sparargli, pensa Caroline. Ma è una cattiva idea. Troppi testimoni: la barista, gli adolescenti, il padre con il figlio biondo, la ragazza che le ha indicato la porta. E le impronte di Caroline sul collo di Pete, il proiettile d'ordinanza nel suo petto. Forse a cose fatte potrebbe decidere di confessare, chiedere tre bloc-notes e un caffè e sedersi a scrivere accanto a Clark il Matto. «Pete» dice. «Dovresti trovarti degli amici della tua età.» «Vaffanculo.» «Sei un uomo fortunato, Pete. Oggi non ho intenzione di arrestarti.» Finalmente lui si tira addosso la coperta sudicia. Caroline si avvicina alla finestra e guarda in strada. Vede la sedicenne entrare nel bar. Poi torna a guardare Pete. «Ho bisogno di qualche informazione su un tizio di nome Clark. Lo co-
nosci?» «No.» Deve essere la sua risposta abituale. I poliziotti gli chiedono continuamente se conosce Tizio e Caio. «Avanti, pensaci. Clark. Più o meno della mia età, sui trentacinque, trentasette. Capelli neri. Di bell'aspetto. Con una benda su un occhio.» Alla menzione della benda, Pete Decker si alza a sedere sul letto e sorride. «Clark? Non ci posso credere. Come sta?» «Sta bene. Allora lo conosci?» «Certo. Eravamo molto amici, da piccoli. Ci divertivamo insieme, prima che...» Non termina la frase. «Conosci il suo cognome?» chiede Caroline. «Il cognome di Clark? Cazzo. Certo. Clark... inizia con la emme. Lo sapevo, una volta, tanto tempo fa. Insomma, come sta? È sempre lo stesso?» Non sapendo com'era prima, Caroline preferisce non rispondere. «Sai, non lo vedo da... da anni, cazzo.» «Vi siete persi di vista?» «Già.» Pete si guarda in giro. «Non sono in contatto con quasi nessuno del vecchio quartiere.» «Clark ha qualche conto in sospeso, che tu sappia? C'è qualcuno a cui potrebbe voler fare del male?» «Lui? No. Piaceva a tutti. Divertente, intelligente. Sempre ottimi voti a scuola. Io gli dicevo: "Clark, non preoccuparti per me. Segui la tua strada, il vecchio Pete se la caverà". Sai, lo proteggevo dai bulli, dai prepotenti. Eravamo molto amici.» Pete si entusiasma: «Sì, Clark era un ragazzo di successo. Un vero asso dello sport, si scopava le ragazze più belle, malgrado...», solleva una mano a toccarsi l'occhio sinistro. «Lo sai, no? L'incidente e tutto il resto.» «Cosa gli è successo all'occhio?» «Oh» Pete distoglie lo sguardo. «Un incidente. Da ragazzi.» «Quando l'hai visto l'ultima volta?» «Mmh...» Pete tace un istante. Pensare non è il suo forte. «Nel 1979, credo.» Caroline annuisce. Non sa se essere scocciata oppure contenta che Clark abbia detto la verità, quando ha affermato che Pete Decker non era nessuno. «Bene, Pete» dice, inginocchiandosi davanti a lui. «Negli ultimi dieci minuti hai commesso sei reati. Io non ti arresterò, ma tu devi fare delle co-
se per me. Quattro cose, per la precisione. Sei disposto a collaborare, Pete?» «Certo. Qualunque cosa.» La fissa con gli occhi vuoti sopra le guance infossate, e lei sa che appena uscirà da quella casa gli adolescenti torneranno a fumare crack e a guardare la tivù rubata di Pete. Tira fuori il suo bloc-notes e scrive: 1. Ragazza. «Quella ragazza che hai gettato a terra» dice. «Non devi vederla più, capito? Mandala a casa dai suoi genitori.» «Va bene» risponde lui. 2. Tivù. «Stamattina riporterai questo televisore nel posto da dove lo hai rubato.» «Sì.» «Lunedì mattina andrai dal tuo assistente sociale, e gli dirai che hai di nuovo bisogno di disintossicarti.» Caroline scrive: 3. Disintossicazione. «Certo» dice lui. «È da un po' che pensavo di farlo. Ho bisogno di aiuto, e...» Lei non lo ascolta neppure. «Numero quattro: evita di incontrarmi di nuovo. Perché se non fai queste quattro cose, e sappiamo entrambi che non le farai, io ti sparo in testa. Hai capito?» Scrive: 4. Io. «Ho capito» dice Pete. Caroline strappa la pagina dal blocco, la getta sul letto, si alza in piedi e si avvia verso la porta. «Ehi.» Pete si è tirato la coperta fino al collo, improvvisamente vergognoso. «Puoi salutare Clark da parte mia?» «Certo» dice Caroline, dopo un attimo di incertezza. «Digli anche che avrei votato per lui, l'ultima volta, se avessi potuto.» Quello è il momento in cui Caroline finalmente ricorda. Si blocca sulla porta dell'appartamento di Pete Decker e chiude gli occhi. Anche lei ha votato per lui. 4 - Clark Anthony Mason Clark Anthony Mason è chino sul terzo bloc-notes, e scrive come un invasato. Caroline lo osserva con occhi nuovi. Tony Mason. Cristo. Che mordicchia la penna e beve un sorso di caffè. Caroline non gli ha detto nulla di ciò che ha scoperto. Gli ha portato il caffè ed è andata a scrivere un rapporto, in cui consiglia a quelli della Narcotici di fare una visita a Pete Decker. Getta un'altra occhiata dentro la stanza degli interrogatori. E co-
sì quello è Tony Mason. Adesso è tutto ovvio: l'aspetto gradevole, la parlata familiare, il modo di fare disinvolto. Prima non era riuscita a vedere oltre i vestiti sporchi, i capelli lunghi e la benda sull'occhio. Aveva continuato a chiedersi chi conoscesse con una benda sull'occhio, senza neppure provare a immaginare quel viso senza la benda. Controlla l'orologio. Le nove di sabato mattina. Clark scrive da quasi dodici ore. Caroline torna alla sua scrivania, e sfoglia l'agenda finché trova il numero di un reporter con cui stava per andare a letto, prima di ricordarsi di odiare i giornalisti. Compone il numero, e Evan O'Neal risponde al secondo squillo. «Evan, sono Caroline Mabry. Scusa se ti disturbo a casa.» «Caroline! Come stai?» Evan ora scrive di politica. «Sto bene. Ascolta, ho bisogno di notizie su Tony Mason.» «Quel ragazzo che si è presentato come avversario di Nethercutt? Be', a dire il vero aveva più di trent'anni. Ma sembrava davvero un ragazzo là sul podio, accanto a quei repubblicani dai capelli grigi.» «Esatto, quel Tony Mason.» «Sul serio? È lui che vedi adesso, Caroline?» È buffo: un poliziotto chiama un reporter, e il reporter presume che si tratti di una questione di natura romantica. Caroline si chiede se questo riveli qualcosa su di lei, su Evan o su Tony Mason. Alza gli occhi a guardare attraverso la piccola finestra che dà sulla stanza degli interrogatori. «Già, è lui che vedo, adesso.» «Siete insieme da molto?» «Abbastanza.» Evan tace per qualche secondo. «Cosa c'è?» chiede Caroline. «Niente. È solo che... meriti di meglio.» «Sì. Sto cominciando a pensarlo anch'io. Cosa puoi dirmi su di lui?» «Su Mason? Solo che ha preso il trentasei per cento, cioè il doppio di quanto tutti si aspettavano da un agnellino come lui.» «Agnellino?» «Già. Quella poltrona è di Nethercutt, e prima era di Foley. I democratici devono scegliere bene i posti su cui investire, e fanno un tentativo serio ogni sei anni circa. Il resto del tempo gettano agnelli in pasto ai lupi. Qualche vecchio sindacalista, o un bell'avvocatino come Tony Mason. Persone che non conoscono il gioco, perdono in modo schiacciante e tornano a casa disillusi e senza soldi.»
Caroline scrive la parola "avvocato". Finalmente comincia a ricordare qualcosa a proposito delle ultime elezioni, e si chiede se i suoi problemi di memoria dipendano dal lavoro, dal brutto periodo che sta attraversando... o se chi perde le elezioni sparisca sempre così rapidamente dalla mente delle persone. «Ma lui non era ricco?» «Mason? Sì. Ha venduto le azioni che possedeva, e ha speso tutto cercando di farsi eleggere. Quello è l'unico motivo per cui è riuscito a prendere il trentasei per cento.» «Hai una lista delle donazioni che ha ricevuto?» «Ho tutte le informazioni su di lui in ufficio.» «Puoi mandarmele via fax?» «Lunedì?» «Oggi?» «È sabato, Caroline.» «Lo so, ma mi devi un favore.» Caroline una volta gli ha passato un'informazione su un ex capo della polizia che girava in macchina ubriaco di notte, fermava ragazze adolescenti e le "perquisiva" molto approfonditamente. «Va bene» dice Evan. «Ma ricordami di non uscire mai con una poliziotta.» «Perché?» «Non credo che supererei un esame come quello che è toccato a Mason.» Caroline ignora quel commento. «A volte si fa chiamare Clark?» «Certo, è il suo nome. Clark Anthony Mason. Forse ha pensato che i democratici della Maxwell House non avrebbero votato per uno con due nomi, e Anthony gli deve essere sembrato troppo professorale, o aristocratico.» Evan ride. «Un classico comportamento da agnello sacrificale, preoccuparsi del menu mentre il ristorante brucia.» «Cosa vuoi dire?» chiede Caroline. «Ecco... c'è questo ragazzo, non dimostra più di venticinque anni, cresciuto nella Valle e poi partito per Seattle. Torna a casa convinto che aspettino solo lui per dargli una poltrona al Congresso. E... Cristo, quell'occhio.» «Sì, ha una benda sull'occhio. Alle elezioni non ce l'aveva.» «No, portava un occhio di vetro. Ho l'impressione che abbia passato giorni davanti allo specchio, per scoprire quale fosse la postura giusta da
assumere affinché l'occhio non sembrasse finto. E così ha imparato a presentarsi alla gente sempre di fronte, senza muovere l'occhio sano. Ti fissava sempre, dai poster, durante i dibattiti. Si muoveva un po' come un robot.» Caroline aveva semplicemente pensato che fosse rigido perché non era un politicante di professione. Ma aveva votato per lui principalmente perché era a favore della legge sul controllo delle armi, mentre Nethercutt era contrario. Quello ormai era l'unico punto che le interessava. Era diventata un'elettrice a tema. «Stavo cercando di ricordare qual era il suo programma politico...» «Oh, la solita merda sullo sviluppo economico. Diceva che avrebbe creato posti di lavoro nel campo tecnologico. Devo dire che però riusciva a essere convincente.» «Ma allora come è riuscito a sconfiggerlo Nethercutt?» «L'ha semplicemente ignorato. E ha lasciato che i suoi diffondessero voci diffamatorie: che Mason era un estremista, che era un frequentatore di siti porno su Internet. Inoltre naturalmente c'era la storia di Seattle.» Caroline ricorda vagamente una serie di spot pubblicitari che dipingevano Mason come un ricco avvocato liberale di Seattle, che una volta al Congresso avrebbe tradito gli interessi di Spokane. «Sai come vanno le cose qui, no?» riprende Evan. «Ci fidiamo solo di chi vive qui, e allo stesso tempo pensiamo che chi vive qui sia stupido.» «Cosa ha fatto, dopo aver perso le elezioni?» «Non ne ho la minima idea.» «Ma non è più impegnato in politica?» «Mason? No» dice Evan. «Gli agnelli non si presentano mai due volte. Tornano alle loro agenzie di assicurazione, o a fare i professori universitari.» Evan si schiarisce la gola. «Allora, continuerai a uscire con lui?» «Non lo so» dice Caroline. Guarda di nuovo attraverso il vetro e vede Clark ancora intento a scrivere: ha un'espressione che tradisce ricordi difficili, errori e rimpianti. Lo osserva attentamente, e si convince che c'è davvero un cadavere, da qualche parte. Dimmi, Clark: chi hai ucciso? «Probabilmente hai ragione» dice a Evan. «Merito di meglio.» "Ricorda questa semplice distinzione... la tua coscienza non è la legge." Laurence Sterne, Vita e opinioni di Tristram Shandy
IV Deposizione 1 - Nessuno affiora integro Nessuno affiora integro dall'infanzia. Lo so. E non faccio finta che il mio occhio spappolato sia un evento unico, o ingiusto. Tuttavia, la mia sofferenza non era niente in confronto a quella di Eli Boyle. La verità è che con un occhio solo me la sono cavata benissimo. Non posso dire che sia stato un aiuto, quando mi sono presentato alle elezioni per il Quinto Distretto, o che mi piaccia portare la benda nera o gli occhiali scuri. E devo ammettere che, piuttosto che fissare qualcuno negli occhi, abbasso lo sguardo. Ma a parte le cicatrici, non mi sono mai considerato diverso da tutti gli altri adulti. Sono pieno di insicurezze, paure e difetti. Mi sento impreparato in un mondo che sembra sicuro e invitante, ma che in realtà è rischioso e nauseante. E mi basterà continuare la narrazione della storia di Ely Boyle per provarlo. Temo di non poter raccontare tutti i problemi di Eli durante le superiori: le scoregge letali, le dita nel naso, le inaudite umiliazioni escogitate dai suoi compagni di classe... ci vorrebbe troppo tempo. Perciò, cara detective, nell'eventualità che io non riesca a terminare questa deposizione, voglio mantenere da subito la mia promessa. Caroline, io ho ucciso Eli Boyle. Se questa dichiarazione è tutto ciò che la corte vuole da me, sono felice di non essere più un sacerdote di quel tempio dei disastri. E se questa confessione è tutto ciò che serve per essere perdonati... anche il paradiso non deve essere poi un gran bel posto. Quando eravamo ragazzi, io ho tolto la vita al mio amico, metaforicamente e senza volerlo. E due giorni fa gliel'ho tolta letteralmente e con intenzione. Per sempre. Eppure questo non è l'unico crimine che devo confessare, e non è neppure il peggiore. Eli Boyle non è stato l'unica vittima della mia rabbia e della mia avidità. Tu, Caroline, mi hai detto che di solito, in questo genere di storie, si comincia con un cadavere. Bene, puoi trovare quello di Eli in una casa in fondo a Cliff Drive, sul lato ovest. Non nell'edificio principale, vuoto e freddo, con scalinate da grande Gatsby e lampadari art déco, ma nel piccolo appartamento sopra il garage. È steso su un fianco, in una pozza di sangue, con il braccio sinistro
dietro la schiena e il destro contro la fronte, come se gli fosse appena venuta in mente una cosa importante. Nella sua testa c'è un grande buco nero. Gliel'ho fatto io. Il ricordo della sua espressione in quegli ultimi momenti mi perseguiterà sempre. Uno sguardo di resa, di incredulità. L'avevo già visto una volta, quello sguardo, venti anni prima. Eravamo alle superiori, e ci eravamo arrivati come tutti gli altri: più alti ma non più furbi di quando andavamo alle elementari. Eravamo insicuri, e desideravamo essere amati da tutti e allo stesso tempo essere lasciati in pace. Io avevo il mio primo occhio di vetro, e odiavo la sua fissità. Vi risparmierò i soprannomi più ovvi, come Ciclope, Pirata e Capitan Uncino. Il mio preferito era Occhio Morto. Anche Mister Magoo non era male, e apprezzavo Faro, per l'immagine che evocava. Come ho già detto, fumavo marijuana ogni giorno fin dalle medie, ma al secondo anno delle superiori smisi di colpo. Quell'estate accaddero due cose: il mio amico Everson si trasferì a Sacramento, e io diventai improvvisamente alto un metro e ottantatré. Quel cambiamento fisico mi portò a decidere che ormai ero un atleta, malgrado il danno ai polmoni causato da tre anni di canne e il fatto che non vedessi nulla alla mia sinistra. Gli allenatori in genere davano spazio ai ragazzi che si sviluppavano prima degli altri, così riuscii a entrare in varie squadre di football e di basket, e anche a segnare qualche punto. Ma non credo di essermi mai fatto notare, eccetto una volta. Stavamo giocando a basket contro i nostri peggiori rivali, nella loro palestra. Io ero in panchina, ma il giocatore titolare fu espulso per un fallo e l'allenatore mandò dentro me, più che altro per prendere tempo. Nei sei minuti successivi giocai la migliore partita della mia vita. Rubai la palla diverse volte, e segnai tre canestri, facendo tornare il punteggio in parità a un minuto dalla fine. Poi la nostra squadra s'impadronì della palla, e cominciammo tutti a correre verso il canestro avversario. Io volevo piazzarmi a tiro a centrocampo, e mentre correvo nella mia mente si formava una quantità di fantasie. Non mi resi conto che stavo finendo addosso a una majorette dell'altra squadra, che si trovava dal mio lato cieco. A un tratto ci fu un urto e un rumore sordo. La ripescarono tre file più in là, svenuta e sanguinante. Gli arbitri soffiarono nei fischietti, la partita fu sospesa e il pubblico iniziò a tirare in campo lattine di coca e pallottole di carta. Perdemmo con un distacco di sei punti. La povera majorette, come seppi dai giornali, si era fratturata una clavicola. Io non giocai mai più a basket.
Quell'episodio, con la sua lunga salita e la caduta improvvisa, descrive bene l'arco delle mie esperienze alle superiori. Per Eli la scuola non era affatto perfetta, ma era sopportabile, il che rappresentava un miglioramento rispetto ai primi anni. Frequentava per quattro ore al giorno le classi normali, e per due ore le speciali. Crescendo, poté abbandonare i sostegni per le gambe e le scarpe correttive. Con il procedere degli anni, i bulli lasciavano la scuola, o finivano al riformatorio, oppure erano sempre drogati, e anche uno sfortunato cronico come Eli poteva passarsela più tranquillamente. Un anno raggiungemmo e superammo la classe di Matt Woodbridge. Per quanto ne so, lui forse è ancora lì, a quarant'anni, a lanciare sputi in classe e a cercare sul vocabolario parole come "fornicare". Quando arrivammo tutti alla pubertà, Pete Decker risultò troppo piccolo e magro per essere un vero bullo. Lui e io non parlammo mai di cosa mi aveva fatto all'occhio. Di fatto non ci vedevamo che in qualche rara occasione, e io non smettevo mai di meravigliarmi di quanto fosse minuto. Lui mi chiedeva qualcosa sullo sport, o sulla ragazza con cui uscivo in quel periodo, poi ce ne andavamo ognuno per la sua strada. Pete divenne sempre meno reale, per me. Non potevo neppure dire che lo odiavo. Un giorno semplicemente smise di venire a scuola, e svanì a poco a poco dentro i rami del salice, come un brutto sogno. Ma le torture di Eli non erano finite con la lenta estinzione dei bulli. Venivano semplicemente da un'altra direzione, più insidiosa: le feste, le ragazze, i balli e le partite di football. Un mondo in cui la maggior parte di noi non faceva sesso, ma sognava continuamente di farlo. Speravamo di dire o fare la cosa giusta, che ci portasse sul divano con le ragazze. Immaginavamo di frugare sotto i loro vestiti, fantasticando su ciò che avremmo trovato sotto. Eli, ovviamente, aveva poche speranze con le ragazze. Nei suoi giorni migliori era invisibile, ignorato o tollerato in fondo alla scala gerarchica. Nei giorni peggiori scivolava sul ghiaccio e faceva volare tutti i libri in aria, o starnutiva e copriva il banco di muco, o si metteva un cappotto nero che faceva risaltare perfettamente la sua forfora. Era stato per talmente tanto tempo il bersaglio di tutti, che le risate dei suoi compagni di scuola avevano un tono quasi nostalgico. Io però non ridevo mai di lui. Eli mi aveva salvato la vita. Perciò, senza farmi notare, cercavo di aiutarlo. Gli raccoglievo i libri da terra, gli porgevo un kleenex, o gli spazzolavo via la forfora. Ero un po' il suo sponsor. Entrambi sapevamo che uno
come lui aveva bisogno di aiuto per sopravvivere in quel mondo di adeti in sviluppo, ma, nello stesso tempo, osservavamo le regole del rigido sistema di caste della scuola, quindi non parlavamo molto tra noi. In quel periodo lottavo strenuamente per ottenere ciò che si chiama popolarità, andavo alle feste migliori, frequentavo le ragazze più belle, mi vestivo e pomiciavo come se la mia vita dipendesse da quello. Divenni membro di tutti i club, e in ciascuno di essi mi presentai per una carica. Ho sentito dire, dallo psichiatra della mia ex moglie, che il mio desiderio di appartenenza deriva dalla sensazione di essere diverso, di non far parte realmente di nessun gruppo. A un certo punto mi trovai persino a essere presidente del club spagnolo e di quello francese, pur senza parlare una parola di entrambe le lingue. Allo stesso modo uscivo con dozzine di ragazze, per accrescere la mia fama di seduttore. Salivo i gradini di una specie di scala sociale, in cui se Anita Wallace usciva con me, allora potevo sperare di uscire anche con Sheila Kerns e con Wendy Bellig. Se stavo attento a non bruciare le tappe, prima o poi persino Amanda Rankins sarebbe stata alla mia portata. In quegli anni la mia instancabile attività di promotore di me stesso non lasciava molto spazio per Eli né per altri. Durante il liceo non fummo mai nella stessa classe, fino all'inizio dell'ultimo anno, quando finimmo a fare ginnastica insieme. Sembrava assurdo che Eli frequentasse le lezioni di ginnastica, ma si trattava di uno di quegli esperimenti volti a inserire gli svantaggiati tra i "normali", con l'assurda speranza che le differenze non si notassero troppo. E così, ogni giorno, gli zoppi, gli storpi e i malati arrivavano barcollando in palestra, perché il preside aveva deciso che le loro umiliazioni quotidiane non erano abbastanza, e che meritavano anche qualche pallonata in faccia, mentre i ragazzi "normali" ridevano. Vedo ancora il terrore sul volto di Eli, e su quello di tutti gli altri, il primo giorno dell'esperimento. Noi eravamo cinquanta, loro dieci. Dieci ragazzi emarginati e derisi. Ciascuno con qualche forma di danno cerebrale, nanismo, idropisia, o chissà che altro. Tutti con le mascelle cadenti e lo sguardo vuoto. Eli era come un ponte tra due mondi. Seguiva la maggior parte delle lezioni insieme a noi, ma poiché passava due ore al giorno alle speciali, era innegabilmente uno di loro. Si cambiarono in silenzio, in un angolo separato dello spogliatoio. Alcuni miei compagni lanciarono loro qualche insulto, senza molta convinzione. Entrammo in palestra in maglietta e pantaloncini grigi, noi ridendo forte, loro con gli occhi a terra. «Matita! Matita! No, no, no!» urlava il ragaz-
zo detto Ripetitore che aveva quella che oggi chiameremmo sindrome di Tourette. «Andate a casa, andate a casa, per favore, per favore» continuava a gridare, mentre ci mettevamo in fila davanti al signor Legget, l'allenatore, un ventenne con una di quelle vene pulsanti sulla fronte. «Ragazzi» disse Leggett. «Oggi giocheremo a palla prigioniera.» Si trattava di un gioco semplice, dalle regole barbare: le due squadre stavano ai lati della palestra, e si tiravano addosso palloni di gomma. Se qualcuno veniva colpito, era eliminato. Se riuscivi a bloccare un pallone, un membro della tua squadra che era stato precedentemente eliminato tornava a giocare. Il gioco finiva quando tutti i membri di una delle due squadre erano eliminati. Formammo sei squadre da dieci. Il signor Leggett nominò capitani cinque ragazzi "normali" e un grosso balbuziente delle speciali, di nome Hank. Hank scelse me per primo, e poi Louis il nano, Curty il cieco, Ripetitore, e alla fine mi resi conto che la nostra squadra sarebbe stata composta da me e da nove disabili e svantaggiati. L'ultima scelta di Hank fu Eli, il quale si avvicinò borbottando, e si strinse nelle spalle passandomi davanti, come a dire che non era colpa sua se io ero stato trascinato a condividere il suo incubo. I miei compagni di classe si piegarono in due dalle risate, vedendomi insieme ai ragazzi delle speciali. Forse era stata la mia amicizia con Eli a mettermi in quella situazione, ma più probabilmente il motivo per cui Hank mi aveva convocato era il mio occhio di vetro, una menomazione che mi rendeva simile a loro. Dividemmo la palestra in due, e le squadre iniziarono a lanciarsi addosso le palle di gomma. La mia squadra perse la prima partita in quattro minuti. Il signor Leggett ci chiamò femminucce. Durante la seconda partita notai una cosa strana: anche se ci eliminavano uno dietro l'altro, Eli si divertiva un mondo. Il suo viso era rosso di concentrazione, mentre si sforzava di evitare le palle, senza riuscirci quasi mai. Quel gioco sembrava eccitare la sua immaginazione, come il tiro alla fune delle elementari, o i carri armati che disegnava. Gli ci volle poco a qualificarsi come il migliore dei disabili. Giocammo a palla prigioniera per tutta la settimana, ma anche con il miglioramento di Eli dubito che ci sia mai stata nella storia dell'educazione fisica una squadra peggiore della nostra. Pop, pop, pop. Le palle rimbalzavano contro la pelle pallida di quei poveri ragazzi, e loro uscivano strascicando i piedi. La vera abilità in quel gioco non consisteva tanto nell'evi-
tare i tiri avversari, ma nel catturare i palloni, per far tornare in campo i giocatori. Nessuno dei miei compagni di squadra ci riuscì neppure una volta, e alla fine io rimanevo sempre solo contro dieci avversari assetati di sangue. Saltavo e schivavo, ma alla fine mi colpivano e la partita finiva. Eli continuò a fare progressi, fin dove glielo permettevano le sue gambe storte e la scoliosi. Alla fine della settimana lui e io ci trovammo insieme contro la parete, mentre i nostri compagni di squadra erano seduti in panchina a confrontarsi i lividi. La cosa peggiore, a palla prigioniera, era che appena iniziavi a perdere diventava quasi impossibile recuperare. Se non riuscivi ad afferrarli, i palloni rimbalzavano sulla parete alle tue spalle, e tornavano agli avversari. Cosi non solo la tua squadra diventava sempre meno numerosa, ma restava anche senza munizioni, finché inevitabilmente tutti venivano eliminati. Quella era la situazione che io ed Eli stavamo affrontando in quel momento. Tutte e dieci le palle erano nelle mani dei nostri avversari, che non avevano subito nessuna eliminazione. Il loro capitano era Erskine Davies, il Rommel della palla prigioniera. Camminava su e giù dietro i suoi, cercando il modo più doloroso e umiliante di eliminare me ed Eli. «Patatine! Patatine! Pane e carote! Marmellata!» urlava Ripetitore, che aveva letto quelle parole sul menu del giorno. A un tratto mi vidi lì, intrappolato contro un muro insieme con Eli, davanti a quella squadra di ragazzi con due occhi ciascuno, e mi salì dentro una rabbia, una voglia di vincere, o almeno di non perdere senza combattere. «Dobbiamo catturare una palla» dissi. Eli mi guardò, con un'espressione risoluta sul viso. Prendere una palla non ci avrebbe certo fatto vincere la partita, ma almeno ci avrebbe permesso di far rientrare in gioco uno dei nostri patetici compagni di squadra. Sarebbe stato un progresso. L'altra squadra era schierata davanti a noi, come in una scena del Signore delle mosche. Sorridevano e si scambiavano occhiate. A un tratto Erskine disse: «Ora!» e loro ci bombardarono con dieci palle contemporaneamente. Mi chinai, e la palla di Erskine rimbalzò contro la parete dietro la mia testa. Rotolammo, schivammo, saltammo, e quando tutte le palle furono tornate dall'altra parte, Eli e io eravamo ancora in piedi. Questo li fece arrabbiare, e per due minuti fecero fuoco indiscriminatamente, ma noi riuscimmo a evitare tutti i tiri. Erskine disse qualcosa sottovoce a uno dei suoi, ed entrambi sorrisero come il gatto e la volpe. Prese la palla del compagno, e la gettò a campani-
le verso di noi, molto in alto. Prima che potessi avvisare Eli della trappola, lui aveva già iniziato a correre verso la palla in salita, con tutta la velocità che gli permetteva la sua mancanza di coordinazione. Rivedo quel momento al rallentatore: io urlavo «Noooo!» mentre Eli correva, ginocchia storte, braccia tese e occhiali dalla montatura nera puntati in alto. Gli avversari, ovviamente, lo aspettavano al varco, tutti con la loro palla in mano. «Eli, aspetta!» gridai. Ma non lasciai il mio posto contro il muro, mentre il mio compagno avanzava verso la morte. Non potevo fare nulla. Eli era finito, non aveva speranze. Anche i nostri compagni in panchina avevano capito cosa stava per accadere. «Hot dog! Hot dog! Hot dog!» urlò Ripetitore. Eli continuò a correre fino a trovarsi a meno di tre metri dagli avversari, con gli occhi fissi sulla palla in aria. Erskine Davies fece un passo avanti, seguito dagli altri. Ci fu un rumore come uno scoppiettare di pop-corn, ed Eli fu colpito da nove palloni contemporaneamente. Le gambe gli cedettero, gli occhiali volarono via, e lui cadde di schiena. Eli, steso a terra, era ancora concentrato su quella palla in discesa dal cielo. Con le ultime forze riuscì ad afferrarla. Le regole non dicevano chiaramente se fosse valido catturare una palla dopo essere stati colpiti, ma nella palestra cadde il silenzio. Non sto esagerando. Decine di adolescenti si trasformarono, per un breve attimo, in esseri umani. Il mondo cambiò. E dal pavimento, in quel mondo nuovo che aveva appena creato, Eli Boyle indicò la panchina, da cui Louis si stava già alzando. «Louis» disse Eli. «Torna in campo.» 2 - I meno infelici I meno infelici, ho letto una volta, sono coloro che raggiungono obiettivi alla loro portata. Forse è vero, ma se fosse così tutti gli esseri umani vivrebbero entro gli stessi confini. Non è vero. Perciò non importa che quel giorno, appena Eli si alzò in piedi, un altro pallone lo raggiungesse alle gambe facendolo cadere ed eliminandolo dalla partita. Non importa che appena Louis entrò in gioco Erskine Davies lo colpisse su una spalla mandandolo a terra. Non importa che qualcuno approfittasse di quel momento di stupefazione generale per gettarmi un pallone in faccia, eliminando anche me e facendoci perdere brutalmente quel-
la partita. Non importa, perché tutti noi avevamo visto con i nostri occhi un prodigio, un atto di concentrazione e coordinazione che sarebbe stato straordinario anche se a compierlo fosse stato il grande e prematuramente barbuto quarterback Kenny Dale. Da parte di un ragazzo come Eli Boyle era semplicemente un miracolo. La storia fa raccontata per giorni in tutta la scuola, come una favola, dai ragazzi delle speciali e dai "normali". Era un portento, come il fungo più grande del mondo, il cane capace di pilotare un aereo, la rapa con una mappa del globo sulla buccia. Il ragazzo ritardato che mentre vola a terra colpito da nove palle riesce ad allungare una mano e ad afferrare la decima. Per gli svantaggiati il momento magico di Eli divenne una fonte di ispirazione, mentre per noi fu incredibilmente divertente. Chi pensava che con i ritardati ci si potesse divertire tanto? Molti proposero di trasferirli alle classi normali, sperando di assistere a episodi simili. Curty il cieco che acchiappava un pallone da football, o Louis il nano che scivolava tra le gambe degli avversari. A volte tendiamo a dimenticare la noia della scuola: ogni ora uguale alla precedente, il pranzo allo stesso tavolo, le stesse battute, gli stessi ragazzi, le stesse canzoni. Se la scuola è davvero una preparazione alla vita, quello a cui ci allena sono gli orari rigidi, i modelli ripetitivi, la mancanza di variazioni che gli adulti cercano in tutti modi di ottenere, per potersene poi lamentare tutta la vita. Quanti soldi spendiamo per ricevere un'istruzione che ci permetta di annodarci la cravatta allo stesso modo ogni mattina, di ottenere un posto fisso dove parcheggiare la nostra BMW, o di comprare una seconda casa, in modo che anche le nostre vacanze diventino una routine? Veniamo allenati a questa infinita monotonia durante le superiori, e solo i pazzi e gli ispirati ne escono indenni. Ma per un breve periodo, durante l'ultimo anno di liceo, la noia scomparve grazie a Eli. Se credete che stia esagerando l'impatto di una semplice partita di palla prigioniera, chiedetevi quali sono le cose che oggi consideriamo miracoli: statue piangenti, brevi remissioni dal cancro, confuse immagini di Gesù sul ceppo di un albero abbattuto. Quanto poco ci mettono tante persone a lasciare il lavoro e ad andarsene in Montana o in New Messico, a mangiare cibo macrobiotico vestiti di tuniche bianche. Quanto vorremmo assistere a un vero miracolo! Aprire la porta di casa, e almeno una volta nella vita trovare sulla soglia Dio. O Angie Dickinson.
Nei giorni successivi l'impresa di Eli divenne sempre più grande ogni volta che qualcuno la raccontava. Eli aveva perso conoscenza. Aveva un trauma cerebrale. Era volato in aria per dieci metri prima di cadere, con una scheggia di vetro dei suoi occhiali piantata in mezzo alla fronte. Non ci volle molto perché quella rottura della monotonia causata da Eli aprisse la porta all'unico desiderio adolescente che può competere con il sesso: quello di combattere l'autorità. La ribellione. Il Movimento Eli partì piano, ma si estese con rapidità esponenziale. Era basato su un'idea semplice: cosa sarebbe accaduto se i ritardati avessero vinto? L'amministrazione aveva deciso di reinserire i ragazzi delle speciali "per il loro bene", con la speranza che si sarebbero integrati. Ma se invece fossimo stati noi a imparare? Se fossero stati loro ad aver capito tutto, e noi, con le nostre vane speranze e ambizioni, quelli che sbagliavano? L'idea si fece strada nel modo in cui si diffondono le idee a scuola, prima come uno scherzo - un ragazzo si fece colpire apposta da uno delle speciali durante una partita a palla prigioniera - poi come una specie di moda. Ricordo una partita in cui tutti i nostri avversari facevano a gara per essere centrati da una palla tirata da Curry il cieco. Più avanti iniziammo a giocare a football. Hank formò la stessa squadra, e vincemmo una partita dietro l'altra, mentre il signor Leggett urlava, saltava e fumava di rabbia. I membri delle squadre "normali" correvano dalla parte sbagliata, cadevano, fingevano di inciampare o di avere un crampo, si urtavano a vicenda. Nel frattempo Ripetitore, Curty, Louis o Hank superavano i loro sbarramenti e segnavano un punto dopo l'altro. La mia squadra vinse il campionato di football, quello di hockey e quello di basket. Il signor Leggett era furibondo. Cambiò i capitani, ma le squadre si costituirono uguali a prima. Allora prese da parte gli atleti migliori, come il mio amico Tommy Kane, e cercò di stimolare il loro orgoglio, ma aveva sottovalutato il Movimento Eli. Tommy, per esempio, reagì alla sfida del signor Leggett giocando un'intera partita in mutande, con i pantaloncini arrotolati intorno alle caviglie. Era meraviglioso. I ritardati ora erano quelli meglio vestiti, si scambiavano pacche, facevano il tifo e urlavano versacci agli avversari: «Ha, ha, ha! Goulash, goulash, goulash!». Tutti sembravano divertirsi in quel nuovo stato di cose, eccetto Eli, che sapeva che si trattava soltanto di un altro gioco alle loro spalle. Rifiutava
di partecipare a quelle nuove partite, convinto del fatto che fosse sbagliato cambiare lo status quo. Le regole per lui erano sacre, proprio come per il signor Leggett. Eli avrebbe preferito farsi pestare piuttosto che ottenere una di quelle finte vittorie. Per un breve periodo, durante il trimestre autunnale del 1981, i ragazzi delle speciali furono le mascotte della scuola. I bulli, i maniaci dei motori e gli sconvolti cronici si complimentavano con loro, iscrivevano Curty alle lezioni di guida, e si affidavano a Ripetitore per sapere cosa si mangiava a pranzo. Le ragazze facevano finta di svenire quando Hank, il nostro capitano, passava nei corridoi, e alcuni ragazzi iniziarono addirittura a portare occhiali dalla montatura nera e pantaloni con l'orlo dieci centimetri sopra le scarpe. Per tre mesi i ritardati furono di moda. E se la bevvero. Tutti tranne uno. Un sabato pomeriggio di febbraio, ero nella mia stanza e ascoltavo il nuovo album degli Styx, quando sentii bussare. Mi tolsi le cuffie e andai ad aprire. Davanti alla porta c'era mia madre: «C'è uno che ti cerca, di sotto». Mio fratello Ben fece una finta di boxe e disse: «Buona fortuna. E ricorda di usare il tuo gancio sinistro». Aprii la porta sul retro, e mi trovai di fronte Eli Boyle, che si fissava le scarpe nere. Pur avendomi salvato la vita, non era mai stato a casa mia, e io non avevo mai parlato di lui ai miei. «Clark?» disse, e mi resi conto che prima di quel momento non mi aveva neppure mai chiamato per nome. «Cosa c'è, Eli?» Lui alzò gli occhi. Guardò dentro casa, una casa che io avevo sempre considerato piccola e modesta, ma che a lui doveva sembrare una reggia, a paragone della roulotte di sua madre. «Credi che potresti aiutarmi?» mi chiese, fissandomi le scarpe. 3 - Le tette di Dana Brett Le tette di Dana Brett apparvero all'improvviso quell'autunno, con tre anni di ritardo, come se le avessero tenute in magazzino. Ricordo ancora il giorno in cui scese dalla macchina del fratello, la mattina in cui dovevamo fare le foto di gruppo della scuola. Indossava un top elasticizzato sotto una camicia aperta. Ecco, non vorrei sembrare irrispettoso, ma... Cristo santo! Ero con degli amici della squadra di football davanti alla scuola, con le
mani nelle tasche dei Levi's, cercando senza successo di mostrare un'aria di annoiata indifferenza. Scherzavamo tra noi, ammiravamo la GTO di Eric Oliver, fantasticavamo sulla Corvette di Robert Muckin, ma principalmente osservavamo le ragazze più piccole che scendevano dall'autobus e quelle più grandi che scendevano dall'auto. Perciò immaginate l'agitazione quando si aprì la portiera dell'auto di David Brett e ne scesero un paio di tette che nessuno aveva mai visto prima, attaccate al petto di sua sorella Dana. «Merda» esclamò Tommy Kane. Ovviamente si trattava della stessa Dana Brett di cui mi ero innamorato alle elementari, quella a cui immaginavo di togliere gli stivaletti. Dana era carina, da piccola, e tale era rimasta, ma non era mai stata una di quelle ragazze "calienti" e "sexy" a cui sbavavamo dietro. Alle superiori si nascondeva dentro vestiti ampi e maglioni, ed entrò a far parte di coloro che noi definivamo "secchioni". A differenza della maggior parte delle ragazze che si mettevano in mostra con magliette stretch e jeans attillati, Dana continuava a divorare libri di chimica e psicologia, e divenne una candidata per il discorso di fine anno, senza mai uscire dai suoi maglioni e dalle gonne lunghe. Perciò non l'avevo notata molto, sotto tutta quella stoffa. E poiché c'erano state le Stacy Bogan e le Rondha Parson del mondo a cui chiedere di uscire, continuai a pensare a Dana solo come a un'amica delle elementari. In classe parlavamo, ma nei corridoi, durante le partite o ai balli vivevamo in due mondi diversi. Non voglio sminuirla scrivendo solo delle sue tette, ma desidero raccontare la storia così come accadde, con tutte le sue idiozie e le sue meraviglie. Noi non lo sapevamo ancora, ma Dana Brett era il top della classe, bella e geniale. Eppure, poiché non avevamo un'unità di misura per l'intelligenza femminile, non l'avevamo notata, con la vista oscurata dai reggiseni a balconcino. Non avevamo notato il potere letale dei suoi occhi, capaci di fissare un ragazzo, valutarlo freddamente e ignorarlo. Non avevamo notato i suoi voti alti, il suo viso senza trucco, i suoi capelli sciolti, le sue domande incisive. Mi fa davvero male dover ammettere di aver lasciato passare tanto tempo, prima di accorgermi di ciò che avevo davanti agli occhi. Dana Brett non era stata niente per noi fino a quella mattina, quando qualcosa l'aveva spinta a saltare fuori dai suoi maglioni per infilarsi un top e un paio di jeans aderenti. «Porca puttana» disse Tommy Kane. «Chi ha ordinato un sandwich di
tette?» Mentre si avvicinava, diversi ragazzi mormorarono un saluto, ma parecchi di loro non sapevano neppure il suo nome. Dana li ignorò e guardò direttamente me, e io confesso di essere stato così stupido da non capire che quella trasformazione doveva essere avvenuta proprio a causa mia. «Dana» dissi semplicemente. Lei sorrise: «Ciao, Clark». Tutti la seguimmo con lo sguardo mentre entrava a scuola. Non c'è modo di cambiare molto alle superiori. I tuoi compagni ti conoscono troppo bene: i tuoi tic, le tue abitudini e le tue debolezze. Qualunque mutamento è considerato un falso. Ci sono soltanto due giorni in cui è permesso essere diversi. Il primo giorno di scuola, e il giorno delle foto. Quel lunedì mattina era il giorno delle foto, perciò tutti sfoggiavamo nuove pettinature e nuovi vestiti, per apparire al meglio di noi stessi. Mio fratello Ben si presentò con un doppiopetto blu e con la pipa del nonno tra i denti. «Queste foto potrebbero riemergere quando saremo adulti» mi disse. «Non c'è nulla di male nel sembrare un po' sofisticati.» Scendendo dall'autobus, Eli mi rivolse uno sguardo. Io annuii in modo quasi impercettibile. Tutto ciò che indossava quel giorno glielo avevo prestato io: un vecchio paio di jeans, una T-shirt colorata e un paio di scarpe da ginnastica. Era pettinato con la riga in mezzo, e i suoi occhiali con la montatura nera erano stati sostituiti da lenti a goccia come quelle usate dai piloti e dalla polizia della California. Portava una giacca bianco panna destinata a far risaltare meno la forfora, e si era versato addosso mezza bottiglia della colonia di mio padre. Il tocco finale era un pettine che gli spuntava dalla tasca posteriore dei pantaloni. Non sembrava esattamente un bel ragazzo, e certamente non aveva un aspetto naturale. Su di lui i miei pantaloni facevano le borse, e le mie costose scarpe Puma puntavano l'una verso l'altra. E anche se i suoi capelli avevano un aspetto migliore, erano sempre rossi e sottili, e circondavano una faccia simile a una superficie lunare. Ma nonostante tutto, il cambiamento era avvenuto: in un solo fine settimana, con vestiti nuovi, e con un po' di addestramento, Eli era riuscito a non essere più uno di loro, ma uno di noi. Mentre lo guardavo venire verso di noi, ero più nervoso di lui. «Ciao» disse Eli, senza rivolgersi a nessuno in particolare, come gli avevo insegnato. Un paio di miei amici annuirono involontariamente. Io non dissi nulla.
Camminava come gli avevo spiegato, con una mano in tasca, la testa un po' all'indietro, e masticava pigramente una gomma. Teneva anche gli occhi semichiusi, il massimo della nonchalance. Per fortuna, quando andò a sbattere contro l'asta della bandiera, nessuno dei miei amici lo guardava più. I ragazzi davanti alla scuola, forse ancora scioccati dalle tette di Dana Brett, non si accorsero del cambiamento di Eli. Solo Tommy Kane fece una smorfia. «Ehi, Mason» disse. «Boyle ha addosso i tuoi pantaloni?» In una frazione di secondo capii cosa sarebbe accaduto se avessi confessato di aver passato il fine settimana ad aiutare Eli a vestirsi e a pettinarsi. «Di cosa cazzo parli, Kane?» risposi, mentre Eli spariva nel portone. «Quei jeans con le stellette sul culo. Ne ho un paio anch'io, ma i miei hanno una stella sola, e i tuoi due. E mi sembra che Boyle porti i tuoi. Cos'è, vi scambiate i vestiti dopo esservi inculati?» Gli altri si voltarono a fissarmi, ma ero pronto. Un ragazzo con un occhio solo non riesce a finire la scuola se non impara a rispondere a tono. «Sai, Tommy» dissi. «Credo che tu passi un po' troppo tempo a osservare i culi dei maschi.» A quel punto il problema non era più mio. Gli altri ragazzi risero di Tommy. Tuttavia, da politico in erba qual ero, sapevo di doverlo salvare, altrimenti me ne sarei fatto un nemico. Perciò cambiai di nuovo discorso. «Ragazzi, avete visto che tette ha sfoderato Dana Brett?» Nove teste annuirono, sorrisero e fecero versi, e la mattina continuò come sempre, a parte due sottili mutamenti: Dana Brett aveva annunciato la sua intenzione di essere notata, ed Eli Boyle aveva annunciato la sua intenzione di integrarsi, malgrado tutti gli ostacoli. Io avrei avuto un ruolo in entrambi gli eventi, soprattutto nel momento spiacevole in cui quelle due intenzioni si sarebbero scontrate tra loro. 4 - Feci sesso Feci sesso per la prima volta quell'autunno, se è possibile chiamare sesso quei dieci o quindici secondi di vertigine dentro una Jeep Wagoneer in compagnia di una collezione di morbide parti anatomiche e irritanti modi di dire di nome Susan (il cognome lo tengo per me, visto che questa è la mia confessione, e non la sua). Malgrado la brevissima durata, fu un grande sollievo averlo fatto. I ragazzi della squadra di football consideravano la
verginità come un problema del carattere, o come un segno di omosessualità incipiente. Naturalmente nessuno sapeva che io ero vergine, perché avevo inventato un sacco di storie di sesso con ragazze immaginarie e vicine di casa libidinose. Ma Susan era vera, e questo mi cambiò. Scoprii che il sesso mi piaceva, e iniziai a volerne di più. Volevo imparare a farlo meglio, e restai con Susan per il resto di quell'anno scolastico, anche se non avevamo quasi nulla in comune. Facevamo l'amore quasi ogni giorno, nella Jeep Wagoneer che i suoi tenevano in garage. Mi faceva impressione vedere la sua famiglia andarsene in giro in quella macchina, con i fratelli e le sorelle di Susan sul sedile posteriore che noi usavamo per la nostra ginnastica. Durante la mia relazione con Susan, divenni piuttosto bravo a far l'amore in macchina. Tutti a scuola sapevano che stavamo insieme. Ci palpavamo nei corridoi, lei mi aspettava fuori dalla scuola alla fine delle lezioni, o fuori dallo spogliatoio dopo le partite. Andavamo ai balli, ci scrivevamo bigliettini e parlavamo a lungo al telefono. Così finimmo per diventare un nome solo: ClarkeSue. Pensandoci ora, mi rendo conto che le tette di Dana Brett entrarono in scena la stessa settimana in cui feci sesso con Susan la prima volta. Ma all'epoca non collegai le due cose. Non capii che Dana aveva sentito i pettegolezzi, e aveva deciso di farsi notare da me. Io mi accorsi di lei, ma all'epoca ero così fissato, così dedito al mio lavoro con la statuaria Susan, che non mi venne mai neppure in mente di uscire con un'altra ragazza, e meno che mai con la mia amichetta delle elementari Dana Brett. Da parte sua, Dana probabilmente si rese conto presto che non ero interessato, perché tornò ai suoi maglioni larghi e alle pettinature semplici. Ma ormai le sue tette erano state notate, e diversi ragazzi della squadra di football le stettero dietro per qualche settimana, chiedendole di uscire oppure offrendole passaggi a casa. Tommy Kane era completamente cotto di lei, e io provai a incoraggiare una storia tra loro due, ma senza successo. Alla fine tutti lasciarono perdere, e si sparse la voce che Dana Brett fosse frigida o lesbica. «Odio le lesbiche» dichiarò Tommy, e tutti noi stupidamente fummo d'accordo. Non potevano esserci qualità degne di nota in una donna che non voleva far l'amore con noi. Mi piacerebbe poter dire che io non partecipavo a quelle conversazioni da uomini dell'età della pietra, ma questa è una confessione, dopotutto. L'unica scusa che posso offrire è che ero gio-
vane, ed ero certo di essere stato io a inventare il sesso, la guida veloce e gli sfottò. Con tutto quello che avevo da fare nello sport, a scuola e nella macchina dei genitori di Susan, non avevo più molti contatti con Eli, se non qualche domenica pomeriggio, quando lui mi chiamava per assicurarsi che fossi libero, e poi veniva a casa mia per farsi aiutare a migliorare il suo aspetto. Era molto deluso dalla propria mancanza di progressi. Si vestiva nel modo giusto da due mesi, ma non era cambiato nulla. Anzi, aveva perso la popolarità che si era guadagnato dopo la famosa partita di palla prigioniera. Prima almeno era il migliore dei peggiori. Ora era il peggiore dei migliori. Una domenica di fine inverno eravamo seduti sotto il portico di casa mia, mentre le mie sorelle saltavano la corda sul marciapiede. Era uno di quei giorni di inizio marzo in cui si passa dal caldo al freddo, con il sole che entra ed esce dalle nuvole. «Cosa sto sbagliando?» «Nulla» mentii. «Non so neppure di cosa parli.» «Lo sai benissimo, invece. Perché non funziona?» Mi voltai a fissarlo. Era dieci centimetri più basso di me, né grasso né magro, e anche se non aveva ancora imparato a usare bene il phon, i suoi capelli non erano più spaventosi. Aveva sempre il volto troppo largo, e la pelle pallida e foruncolosa, ma non era messo tanto male. Il problema era più profondo e andava al di là del suo aspetto fisico. «Sii sincero con me» disse. «Trattami da pari a pari.» «È difficile. Tutti ti hanno inquadrato in un certo modo per tanto tempo...» «Restano solo pochi mesi di scuola. Per favore...» Lo guardai negli occhi, quegli stessi occhi che avevo visto sull'autobus scolastico delle elementari, che mi fissavano in cerca di qualcosa che gli era sfuggito, di qualche regola che nessuno gli aveva comunicato. «Parlo sul serio, Clark» insistette. «Farò tutto quello che mi dirai di fare. Ma per favore aiutami.» «Va bene. Vedi, ci sono altre cose, oltre ai vestiti e ai capelli.» Lui tirò fuori di tasca un blocchetto e una penna. «Quali cose?» «Cose che probabilmente sono inevitabili.» «Dimmi quali.» «Ecco, per esempio, sei all'ultimo anno, e vai ancora a scuola in autobus.» «Non ho la macchina.»
«Lo so. Sto solo rispondendo alla tua domanda.» Lui annotò quel punto sul blocchetto, poi disse: «Anche altri ragazzi vanno in autobus». «Già» ammisi. «Ma ci sono altre cose.» «Dimmele.» «Per esempio» sospirai, abbassando lo sguardo «la tua esse blesa.» «Sul serio?» rispose lui. «E che altro?» «Ti tremano le mani.» Eli scrisse anche questo. «Poi?» «Zoppichi un po' quando cammini. E fai dei rumori strani. Ti infili ancora le dita nel naso. E...» «Rallenta un attimo» disse lui, scrivendo. «Ecco. Che altro?» «Questo è tutto.» «Che altro?» chiese ancora. «Puzzi!» gridò mia sorella, che aveva smesso di saltare la corda. «Shawna!» la sgridai, e lei scappò via. Eli chinò il capo, sconfitto, e annuì come se mia sorella avesse confermato ciò che lui già sospettava. Nel camper non avevano una doccia ma solo una tinozza, e sua madre gli permetteva di fare il bagno soltanto due volte alla settimana («Altrimenti ti si secca la pelle»). Così quel giorno cominciò la seconda fase della riscossa di Eli. Io iniziai ad accompagnarlo a scuola in macchina un'ora prima delle lezioni. Trascorrevo quell'ora tirando a canestro, mentre lui sollevava pesi per una ventina di minuti, poi si faceva una doccia e si asciugava i capelli. Ma le abitudini sono dure a morire, e furono in pochi a notare che Eli aveva un odore migliore e che i suoi muscoli avevano iniziato a svilupparsi. Eli era sempre Eli. «Non serve a niente» disse un giorno di primavera, mentre chiacchieravamo seduti dietro casa. «Non cambierà mai nulla.» «No. Ora va molto meglio.» «Non è vero. Deve esserci ancora qualcosa che possiamo fare.» Mi dispiaceva così tanto per lui che iniziai immediatamente a lavorare alla fase finale del Progetto Eli. «Devo pensarci su» dissi. Eli andò a casa, io chiamai Susan e cancellai la nostra scopata quotidiana nella Wagoneer. Poi cercai il numero di Dana Brett sull'elenco e la chiamai a casa. «Clark» disse lei, senza fiato. Era la prima volta che le telefonavo. «Dana, sei già impegnata per il ballo di fine anno?»
Ci fu un breve silenzio. «No.» Andai a casa sua per parlarle. Abitava in un quartiere carino, di case vecchie e nuove, costruito dove una volta c'erano dei frutteti. Restai sorpreso nel vedere i suoi genitori sorridenti sulla porta, quando arrivai. Di loro sapevo soltanto che erano entrambi professori universitari, e che, secondo Dana, erano un po' troppo protettivi. Sua madre aveva una polaroid, e volle per forza scattare delle foto a me e a Dana sotto il portico. Mi dissero di sorridere e sorrisi. Suo padre mi strinse la mano con forza, mi diede una pacca sulla schiena e mi chiese dove pensavo di andare all'università. «Sono stato accettato all'Università dello Stato di Washington» dissi. «Penso di iscrivermi a Giurisprudenza.» «Eccellente.» «Grazie.» «Dana andrà a Stanford» disse sua madre. «L'ho sentito dire. Non è da tutti.» «Mamma» intervenne Dana, alzando gli occhi al cielo. Suo padre scoppiò a ridere senza motivo. Non avevo mai conosciuto genitori così simpatici. Dana portava i capelli castani legati in una coda, e indossava jeans e una maglietta attillata che metteva in risalto i seni rotondi. Chissà perché a scuola non si vestiva quasi mai così. Sua madre ci portò una limonata, poi ce ne andammo insieme in giardino, mentre i suoi ci guardavano dalla finestra della cucina, abbracciati. «Prima di cominciare, voglio dirti che naturalmente puoi dire di no» dissi. Dana rise. «Non preoccuparti.» Così le raccontai tutta la storia di Eli e me, delle nostre umiliazioni per mano di Pete Decker, di come Eli mi avesse salvato il giorno in cui avevo perso l'occhio, della partita a palla prigioniera in cui lui e io ci eravamo battuti fianco a fianco, e infine del mio progetto per aiutarlo a integrarsi a scuola. Non avevo mai rivelato a nessuno quelle cose, e mi fece piacere condividerle con Dana. Lei ebbe una reazione strana. Per un po' mi ascoltò sorridendo, poi si voltò verso casa sua, quindi continuò a seguire il mio discorso a occhi bassi, annuendo di tanto in tanto. Le dissi che avevo prestato a Eli i miei vestiti, che gli avevo insegnato come pettinarsi e camminare e che a volte ci vedevamo la domenica pomeriggio. «È bello da parte tua» disse lei, così piano che non fui neppure sicuro di averlo udito. Teneva gli occhi bassi, mentre io continuavo a parlare e par-
lare, ignorando i suoi sentimenti. Spiegai a Dana che Eli era diventato impaziente di dimostrare che lui valeva più di quanto tutti pensassero. Ci voleva un'azione drastica. Aveva bisogno di una ragazza che notasse ciò che gli altri non avevano ancora notato, una che rompesse il ghiaccio, così anche altre avrebbero pensato che uscire con Eli era "okay". Doveva essere una bella ragazza, una con cui tutti avrebbero voluto uscire. Ma si trattava di una questione delicata. Se Eli avesse chiesto a Dana di uscire e lei avesse risposto di no, lui non avrebbe sopportato il peso del rifiuto. «Perché io?» chiese Dana. Mi voltai e i suoi genitori salutarono con la mano, da dietro la finestra della cucina. Restituii loro il saluto. «Ecco» dissi. «Tu sei molto più intelligente delle altre, sei bella e... non so, pensavo che avresti capito.» «Già» disse lei. «Forse non te ne ricordi, ma quando eravamo piccoli ed Eli fu trasferito nella nostra classe, tu non sei mai stata cattiva con lui.» «Me ne ricordo.» «Per questo pensavo che avresti simpatizzato con la sua causa. E poiché io e te siamo amici...» Finalmente lei mi guardò negli occhi. «Lo siamo.» «Possiamo uscire in quattro, tu ed Eli, io e Susan.» Speravo che Dana capisse che anch'io correvo un grosso rischio sociale andando al ballo con Eli. Ma naturalmente lei non pensava affatto a questo. «Va bene» disse infine abbassando lo sguardo. Per un attimo sembrò di nuovo la ragazzina timida e intelligente delle elementari. «Se mi chiederà di accompagnarlo al ballo accetterò. Ma non dirgli che mi hai parlato. È molto meglio se non saprà che è già stato tutto deciso.» «Grazie, Dana.» Tornammo verso la casa, e i suoi genitori uscirono a salutarci, mano nella mano. Sua madre mi offrì dei biscotti. Io ne presi quattro. Dana entrò in casa senza dire una parola. Sua madre si voltò e la seguì con gli occhi. Io presi un altro biscotto. Suo padre era stupito quanto me. Restò lì a sorridere. «Che tipo di legge?» chiese. «Prego?» «Hai detto che vuoi iscriverti a Giurisprudenza. Mi chiedevo se hai già un'idea della carriera in cui vuoi specializzarti.»
«Ecco» risposi, tra due morsi di biscotto al cioccolato. «Forse all'inizio diritto contrattuale. Ma poi voglio entrare in politica.» «Eccellente» disse il padre di Dana Brett. 5 - Il Davenport Hotel Il Davenport Hotel era addobbato e illuminato per il nostro ballo. La sala da ballo del secondo piano, una volta elegantissima, era piena di sedie pieghevoli, festoni verdi e blu, pesci di carta stagnola, cozze giganti e un tridente che sembrava più che altro una enorme forchetta. All'ultimo momento il presidente del comitato, che poi ero io, aveva rifiutato il tema "Una notte ad Atlantide". Le decorazioni erano già state acquistate, così era stato cambiato soltanto il titolo che era diventato "Happy Days". I ragazzi erano riuniti in piccoli gruppi, con le camicie spiegazzate e le cravatte a farfalla. Le ragazze sfoggiavano rossetti al sapore di frutta e vestiti di taffettà. Auto rombanti si fermavano davanti all'Hotel, e ne scendevano ragazze con pettinature alte e vestiti attillati, che restavano sul marciapiede a dondolarsi da un piede all'altro mentre i loro accompagnatori andavano a parcheggiare. Due ragazze, che per fare una cosa "divertente" avevano deciso di arrivare al ballo in jeans e senza accompagnatori, se ne stavano sole e tristi su due poltrone troppo imbottite. Tutti gli altri entravano nel salone, con le scarpe lucide e i capelli appena tagliati, imitando comportamenti da adulti ormai antiquati. Cedendo all'ottimismo del testosterone, i ragazzi riservavano stanze e imbottivano i portafogli di preservativi. Anche le ragazze avevano le loro illusioni, le loro parodie di riti nuziali ed esibivano sorrisi praticati a lungo davanti allo specchio del bagno. In ogni modo, nessuno attirò l'attenzione più della coppia formata da Eli Boyle e Dana Brett. Avevo passato la giornata con Eli, aiutandolo nella scelta della giacca, e lo avevo persino pettinato, mentre sua madre ci osservava dal corridoio della roulotte. «Hai i capelli alti sui lati, Eli» aveva detto a un tratto. «È un effetto voluto, mamma. Si chiama cotonatura.» «I pantaloni sono troppo attillati.» «È così che devono essere.» «Dove sono i tuoi occhiali?» «Ho le lenti a contatto.»
«Mio Dio, ora ti metti pure dei pezzi di vetro negli occhi. E hai le braccia troppo gonfie. Stai prendendo droghe?» «No, sollevo pesi. E non si tratta di gonfiori, ma di muscoli.» «Sollevare pesi fa male alla circolazione.» Io gli avevo stretto il cravattino, lo avevo aiutato a infilarsi la giacca e gli avevo inondato le guance di dopobarba. Quando fu vestito di tutto punto, sua madre volle fotografarlo. «Mio Dio, Eli» disse. «Come sei bello. Vorrei tanto che tuo padre...» Voltò la testa e iniziò a piangere. Salimmo in macchina e passammo a prendere Susan, che non disse una parola per tutto il viaggio fino a casa di Dana, forse per paura di rovinare gli strati di trucco che aveva sul viso. I genitori di Dana stavolta non ci aspettavano sulla porta. Eli scese e rientrò in macchina con lei, che indossava un vestito argentato con una profonda scollatura. Aveva i capelli raccolti, ed era perfetta, come un'attrice. Susan non si era mostrata entusiasta di andare al ballo con due persone così lontane dal suo ambiente sociale. Quando vide Dana, bellissima, che veniva verso di noi, mormorò una frase in cui distinsi la parola "stronzo". Cenammo al Mr. Steak, e all'inizio non credevo che Eli ce l'avrebbe fatta fino in fondo. Era seduto accanto a me, e imitava ogni mia mossa. Si tolse la giacca e spiegò il tovagliolo mimando esattamente i miei gesti. Ordinò gli stessi piatti e le stesse bevande che ordinai io. Cercava il mio sguardo per ricevere approvazione ogni volta che diceva qualcosa (il che, durante i primi venti minuti, accadde una volta sola: «Allora, ti piace la bistecca, Dana?»). Ma poi iniziò a sciogliersi, e raccontò perfino alcuni aneddoti divertenti sulle sue esperienze alle elementari. Anche se non guardò mai Dana negli occhi, fu sempre cortese e si alzò in piedi quando lei volle andare in bagno. Dana sembrava a suo agio, almeno rispetto a Susan, che si mangiava le unghie con gli occhi fissi nel vuoto, mentre noi parlavamo dell'università. Io sarei andato in un'università pubblica. Eli non poteva permettersela, e i suoi voti non erano abbastanza alti da qualificarlo per una borsa di studio. Avrebbe iniziato in un community college, e poi, forse, sarebbe riuscito a trasferirsi in un altro istituto. Dana disse che avrebbe studiato a Stanford, ed Eli lasciò cadere la forchetta sul piatto. «Stanford! Ne sei sicura?» Dana sorrise alla sua bistecca. «Ne sono sicura.» Susan si alzò per andare in bagno.
«E non sei nervosa?» chiese Eli. Dana lo fissò, sorpresa. «Sai, nessuno finora mi aveva fatto questa domanda. Tutti continuano a dirmi soltanto che è una grande occasione.» «Lo è, ma al tuo posto io sarei spaventato a morte» disse Eli. «Stanford è così lontana, e poi lì devono essere tutti intelligentissimi.» «Dana ce la farà» intervenni io, agitando una coppetta di plastica in direzione del cameriere, per fargli capire che volevo dell'altra panna acida per le mie patate. Eli si appoggiò allo schienale della sedia. «Io ho l'impressione che il college sia più o meno come la scuola, ma ventiquattr'ore al giorno, senza possibilità di fuga.» «Non so» ribatté Dana. «Secondo me è al college che la vita inizia davvero.» «Lo pensi sul serio?» chiese Eli. «Lo spero, almeno. Se non fosse così...» non finì la frase. Ci fu un momento di silenzio, ed Eli fece un respiro profondo. «Non vi ho detto la verità» disse. «Mia madre ha ereditato un po' di soldi e li ha messi via per i miei studi. Potrei permettermi un'università come le vostre ma ho paura. Per questo ho pensato di iniziare qui in città. Sono un codardo.» «È perfettamente comprensibile» disse Dana. Eli rise. «No, non lo è.» Piantò la forchetta nella bistecca. Stava per iniziare a tagliarla, quando si alzò in piedi e, sollevando al cuore la forchetta con la bistecca infilata sopra, disse: «Mi impegno, in questo momento, a ottenere la media necessaria per andare a Harvard». Si risedette, cercando di pulirsi la macchia che si era fatto sulla giacca bianca. In quel momento Susan tornò dal bagno, si accorse di essersi persa qualcosa di divertente, e mormorò di nuovo una frase con dentro la parola "stronzo". Forse i miei dolci ricordi di quelle ore e della quasi totale trasformazione di Eli sono un trucco della mia mente, che ne ha fatto un momento mitico. Perché non fu affatto una serata perfetta. Per esempio, non avevo avuto il tempo di dare a Eli lezioni di ballo, così le sue danze sembravano i tentativi di un cane che cerca di liberarsi dal guinzaglio. La macchia di bistecca sulla giacca fu presto raggiunta da un po' di punch sulla camicia e da una fetta di torta sulla manica, più altre due macchie non identificate. A un certo punto Eli colpì Dana con una testata, e per poco non le ruppe un dente. I suoi capelli persero la cotonatura, e gli ricaddero sul viso, facendolo somi-
gliare a un Ringo Starr foruncoloso e dai capelli rossi. E tuttavia dal momento in cui lui e Dana entrarono nel salone («Chi è quello? Eli Boyle? Impossibile.») fino al primo lento (sua madre gli aveva insegnato alcuni passi, perciò, mentre tutti noi ci limitavamo a ondeggiare, con le mani sul sedere delle ragazze, Eli e Dana ballavano davvero), quella sembrò una serata magnifica. Era un vero gentiluomo, quasi disinvolto. Riusciva ad anticipare il momento di aiutarla ad alzarsi, di andare a prenderle lo scialle, o un bicchiere di punch. Diverse ragazze lanciarono occhiate a quella strana coppia. Lui e Dana sembravano divertirsi davvero. Dopo le foto di gruppo, Eli ne volle una solo per noi quattro. Susan aveva un'espressione furibonda: per lei era un'umiliazione farsi fotografare con uno come Eli Boyle davanti a tutti i nostri compagni di classe. Nella foto Eli e io siamo in piedi dietro le due ragazze, ognuno con un braccio intorno alle spalle dell'altro, come reduci di guerra prima di tornare in patria. Dana esibisce un sorriso cortese, Susan sembra stia masticando un pezzo di vetro. Foto di quel genere assumono sempre nuovi significati con il passare del tempo: mentre i colori sbiadiscono e gli stili passano di moda, emergono rimpianti e nuove prospettive. Dopo le foto, Susan e io sgusciammo nella stanza che i genitori di Tommy Kane avevano affittato per lui al nono piano, e con la complicità di una bottiglia di vino ci facemmo una scopata rapida e distratta. L'alcol mi rendeva lento, le mie mani sembravano quelle di un altro, e dopo tutte le volte che l'avevamo fatto in macchina, il letto mi pareva un posto inadatto per il sesso. Poco dopo tornammo nella sala da ballo. In ascensore mi scusai, ma Susan non disse nulla, intenta a rifarsi il trucco davanti allo specchio, arrabbiata come non l'avevo mai vista. Nel salone cercai con lo sguardo Eli e Dana, li individuai e li raggiunsi. Stavano parlando con Tommy Kane e Amanda, la sua ragazza. Mi avvicinai a loro: Tommy aveva chiesto a Eli come si era fatto tutte quelle macchie sugli abiti, ed Eli glielo stava raccontando. Tutti ridevano, come veri amici. Eli era l'immagine della felicità. Amanda Rankin, che evidentemente aveva bevuto un bel po', si teneva aggrappata al braccio di Dana. E anche Dana sembrava contenta. «Eccoti, finalmente», disse Tommy appena mi vide. «Dammi la chiave. Eli e io vogliamo portare le nostre damigelle di sopra, per bere un po' di vino in pace.» «Esatto» intervenne Amanda, con la voce impastata. «Datemi del vino. Ho bisogno di altro vino.»
Eli spostava nervosamente lo sguardo da Tommy a me, e da me a Dana, che restava impassibile, come se fosse lontana mille miglia. «Se per te va bene, va bene anche per me» gli disse Dana. «Perfetto» fece Tommy. «Andiamo, allora.» «Okay» replicò Eli, ma i suoi occhi esprimevano solo terrore. Nei nostri preparativi non avevamo affrontato quella possibilità. Bere? In una stanza d'albergo? Con le ragazze? «Veniamo anche noi» dissi. Questa fu definitivamente l'ultima goccia per Susan, che mi disse, a denti stretti: «Io vorrei ballare almeno una volta, stasera». «Andate a ballare, allora» disse Tommy. «Non puoi fregarti la stanza per tutta la notte, Mason.» Così Susan e io entrammo in pista, al suono di una canzone dei Led Zeppelin. Seguì un pezzo di Steve Miller, poi uno strumentale con un ritmo che nessuno di noi riusciva a seguire bene. Io continuavo a fissare la porta del salone, pensando a tutti i guai in cui Eli poteva cacciarsi con una bottiglia di vino e una testa di cazzo come Tommy Kane. «Aspetti qualcuno?» mi chiese Susan. «No, ho solo... sete.» Ballammo un altro pezzo, e un altro ancora. Ogni volta che tentavo di lasciare la pista Susan me lo impediva. Dopo un altro ballo le chiesi: «Ora hai voglia di venire di sopra?». «No» rispose lei. «Dai, andiamo a bere un po'.» «Vaffanculo, Clark» urlò lei. Poi scoppiò in lacrime e corse via dalla sala. Cento paia d'occhi la seguirono, e poi si voltarono verso di me. «Susan!» gridai, e le corsi dietro. La trovai nell'atrio, che piangeva sulla spalla di una delle due ragazze in jeans. «Stronzo» mi disse l'altra, appena mi vide. «Susan, mi dispiace.» «Perché non te ne torni dentro?» continuò quella che stava consolando Susan. «Vai dalla tua fottuta ragazza.» «Dana, per favore, posso parlarti un attimo?» Susan si voltò a fissarmi con una lentezza mortale. «Scusa, volevo dire... Susan.» Le due ragazze fecero un passo indietro, come se Susan fosse un radiatore sul punto di esplodere. «Non posso credere che tu l'abbia chiamata Dana» dissero quasi all'unisono.
«Mi sono sbagliato, non è poi così grave. Allora, possiamo parlare?» «Stronzo. Brutto stronzo bastardo.» «Susan...» «Non hai fatto altro che fissarla per tutta la sera.» «Non è vero.» «Invece sì.» «Non è come pensi» insistetti. «Sto solo cercando di aiutare Eli.» Le teste di tutte e tre le ragazze si spostarono verso destra, come se avessi appena mentito spudoratamente. Sentivo crescere la disperazione in me, e il vino che avevo bevuto mi fece credere che forse avrei potuto farmi capire. «Da piccoli siamo stati entrambi vittime dei ragazzi più grandi, ma io ho superato il problema, ed Eli no. Voglio soltanto aiutarlo.» Susan sbuffò e si allontanò con sdegno verso l'uscita. La mia disperazione emerse in superficie. «Capisci, il nostro era un quartiere duro, e poi c'è stato quell'incidente...» Non so cosa mi spinse a farlo, forse il vino, ma sollevai una mano al viso e spinsi sotto lo zigomo fino a far saltare fuori l'occhio di vetro. Lo tenni sollevato, per dimostrare... Che cosa? Come Eli mi avesse salvato la vita? Vent'anni dopo ancora non so cosa speravo di ottenere, ma non certo quello che accadde. Una delle sorelle in jeans vomitò sulla moquette. Il rumore dei conati fece voltare Susan, che vide la scena seguente: una ragazza intenta a vomitare, l'altra che si copriva la bocca con una mano, e io che agitavo l'occhio di vetro come in segno di saluto. Per una frazione di secondo ebbi la sensazione di poter vedere attraverso quell'occhio finto che tenevo in mano. Vidi me stesso, le ragazze in jeans, Susan che piangeva, alcune persone che passavano per caso e l'impiegato della reception che faceva finta di nulla, come se episodi del genere accadessero tutti i giorni. Mi resi conto che dovevo scegliere: cercare di rimettere a posto le cose con Susan o andare ad aiutare Eli. La porta si chiuse dietro Susan. Io misi in tasca il mio occhio magico, e mi diressi verso l'ascensore. Sto arrivando, Eli, dissi tra me. L'occhio chiuso mi fece tornare alla mente quel giorno sul fiume, quando Eli mi aveva salvato. Non so cosa provavo, mentre mi affrettavo a raggiungerlo. Forse un senso di redenzione, l'emergere del mio lato migliore. L'ascensore si fermava a ogni piano. I miei compagni di classe entravano e uscivano, dandomi pacche sulla schiena e dicendo che avevano sentito della lite tra me e Susan. Io li ignorai e salii fino al nono piano. Corsi lun-
go il corridoio. La porta della stanza numero 916 era chiusa, e non si sentiva nessun rumore. Feci un respiro profondo, mi ricomposi, aggiustai i risvolti della giacca, mi lisciai i capelli, e a un tratto mi resi conto della figura che avrei fatto, con l'occhio sinistro in tasca. Bussai ugualmente alla porta. Sentii che qualcuno guardava dallo spioncino, poi la porta si aprì e mi trovai davanti Eli, senza cravatta, con i capelli in disordine e la faccia sudata. «Dov'eri?» sussurrò, nervosissimo. La stanza sembrava un campo di battaglia. Due bottiglie di vino vuote erano rovesciate sul tavolino. Amanda Rankin dormiva sul letto a due piazze, con il vestito scomposto che rivelava un reggiseno nero imbottito. Non c'era traccia di Tommy e Dana. «Cosa è successo?» chiesi. «Non lo so.» Eli camminava avanti e indietro. «Abbiamo bevuto un sacco... Tommy ha spento le luci, e Amanda e lui...» indicò Amanda sul letto. «Dana e io eravamo seduti qui. Amanda deve essersi addormentata immediatamente, perché Tommy ha riacceso le luci quasi subito e ha insistito per bere ancora.» Dal bagno arrivò un rumore di conati. «Dana ha bevuto troppo. Tommy è lì dentro con lei.» Cercai di aprire la porta, ma era chiusa. Bussai. «Va' via, Boyle!» gridò Tommy. «Smettila» disse la voce di Dana, attutita. Diedi una spallata alla porta, e restai sorpreso dalla facilità con cui si aprì. Dana era in ginocchio davanti alla vasca, e sputacchiava dopo aver vomitato. Tommy era dietro di lei, e cercava di sollevarle il vestito. «Ciao Mason» disse, con un sorriso ubriaco. Lo tirai fuori dal bagno di peso, spingendolo attraverso la stanza. Cadde prima sul letto, poi sul pavimento. Mentre mi gettavo contro di lui, Eli si infilò in bagno. Tommy rideva. «Avanti, Mason. Lei mi faceva l'occhiolino.» Vide il mio occhio chiuso e sorrise di nuovo. «Oh, scusa.» Lo afferrai per la camicia e lo mandai a sbattere contro la parete. Lui mi spinse, e per poco non persi l'equilibrio. «Dai, smettila. A lei non piace quel pagliaccio.» Lo scaraventai contro il televisore, che cadde a terra. «Cristo, Mason, si può sapere cosa ti prende?» In quel momento una chiave girò nella serratura, la porta della stanza si
aprì, ed entrò lo stesso impiegato che avevo visto da basso. Sul viso aveva un'espressione di noia mortale. Si guardò in giro, poi disse, in tono tranquillo: «Fuori. Uscite di qui, altrimenti chiamo la polizia». Tommy si alzò in piedi a fatica. «Mio padre ha affittato...» «Per me tuo padre può essere anche il padrone dell'hotel, giovanotto» disse l'impiegato, con la sua calma di pietra. «Non me ne frega niente. Raccogli le tue cose, prendi la tua ragazza e sparisci.» Tommy si avvicinò ad Amanda, le aggiustò il vestito sul petto e riuscì a farla alzare in piedi. «Ti do una mano» dissi, facendo un passo avanti. «Non avvicinarti, stronzo di un guercio.» Fu Eli ad aiutarlo. Insieme riuscirono a portarla fuori dalla stanza, verso l'ascensore. «Tu prendi l'altra» mi disse l'impiegato. Poi seguì Tommy, Eli e Amanda. In bagno, Dana aveva smesso di vomitare e si stava pulendo la bocca con un asciugamano. Si riaggiustò il vestito e disse: «Quel vino non è buono». Trovò un tubetto di dentifricio nell'armadietto, e si lavò i denti usando un dito al posto dello spazzolino. «L'avrei preso a calci io, appena finito di vomitare. Comunque grazie.» «Di nulla.» «Dov'è Eli?» «Sta aiutando Tommy a far salire Amanda in macchina.» In strada si udivano ruggiti di motori e fischiare di gomme. Era mezzanotte, il ballo era finito. Dana guardò il cielo notturno di Spokane, fuori dalla finestra. Era una città strana, una città di illusioni: di notte grande e scintillante di luci, di giorno piccola e decadente. Dana disse: «Sai quante ragazze come me restano a casa, il venerdì sera, a immaginare ciò che stanno facendo quelli come te, Tommy, Susan e Amanda? Tutto ciò che vogliamo si trova in una stanza come questa». Si voltò e mi sorrise. «È triste.» «Grazie per essere venuta al ballo con Eli. Per lui è stato un grande aiuto.» «Non c'è di che» mi rispose, con uno sguardo lontano. L'abbracciai per un attimo, e lei sollevò una mano a toccarmi il viso. «Mio Dio. Il tuo occhio.» Non ricordo come accadde, come finimmo sul pavimento, come la mia
mano trovò la sua scollatura, o quanto tempo passammo a baciarci e a toccarci. Ricordo solo che a un tratto ebbi la sensazione che qualcuno ci stesse guardando, mi voltai e vidi Eli sulla soglia. Sul viso aveva un'espressione che non avrei mai dimenticato, che ho visto di nuovo pochi giorni fa, quando è morto. Quegli occhi rotondi e impotenti, che vedevano più di quanto riuscissero a sopportare. Non so cosa accadde poi, o cosa ci dicemmo. Nella mia mente rivive solo l'espressione di Eli, il fatto che la moquette puzzava di vino e che la pelle di Dana era una rivelazione. Era appena passata mezzanotte, e stava iniziando un altro giorno freddo e reale. "Un uomo stupido non è più infelice di un cavallo analfabeta." Erasmo, Elogio della follia V SEI MESI SENZA UN CADAVERE 1 - La vittima è la ex moglie La vittima è la ex moglie, pensa Caroline leggendo i documenti del divorzio di Clark Mason. Potrebbe trattarsi della solita vecchia storia: la moglie ha molti amanti. Divorzia, si tiene tutti i soldi, e si risposa quasi immediatamente. E lui la uccide. Perché Clark dovrebbe essere diverso dagli altri uomini che finiscono in quell'ufficio? La maggior parte degli assassini ammazza persone vicine. Fidanzate, mogli o ex mogli, colpevoli di infedeltà, o a volte semplicemente di non aver preparato la cena all'ora giusta. Caroline avrebbe voluto che quella storia fosse diversa. Ma le favole sono per i bambini, e le parabole per i preti. La vita vera è melodrammatica. O rumorosa. E c'è un rumore assordante nelle carte di quel divorzio. Caroline sfoglia le accuse e le controaccuse, che raccontano i tre anni di matrimonio di Clark e Susan Mason. La moglie era infedele. Il marito l'aveva costretta a lasciare un lavoro redditizio a Seattle per trasferirsi a Spokane. La moglie aveva nascosto il loro denaro in conti correnti segreti. Il marito aveva speso irresponsabilmente i risparmi di entrambi, ipotecando anche la casa, per la sua campagna elettorale. Infedeltà... impotenza... violenze psicologi-
che... Caroline scopre che Clark e Susan si sono sposati a dicembre del 1999 a Seattle, e hanno divorziato a gennaio del 2001 a Spokane. Per lui era il primo matrimonio, per lei il terzo. Niente bambini. Subito dopo il matrimonio si sono trasferiti a Spokane, comprando una bella casa, pagata in contanti, al Manito Country Club. Caroline immagina tutta la storia che inizia come tante altre: un tizio vende le sue azioni e la sua casa di Seattle, realizza qualche milione di dollari dai suoi investimenti, e arriva a Spokane, dove può permettersi di comprare una casa da cinquecentomila dollari nel posto migliore della città. Ma ecco che la favola finisce. Clark usa il resto dei suoi soldi per la propria campagna elettorale, e quando si rende conto che sta perdendo, prosciuga il conto in banca. Finito anche quello, ipoteca la casa. La moglie è quel tipo di donna a cui non importa molto da dove vengono i soldi, finché ce ne sono abbastanza per pagare il pedicure e la benzina per la Lexus. Clark perde le elezioni, e quando lei scopre che i soldi sono finiti, entrano in scena gli avvocati. C'è stato un accordo secondo cui Clark si impegna a versare gli alimenti a Susan. Ma, secondo l'ultimo documento del tribunale, Clark non ha pagato una mensilità. L'avvocato di Susan, tenuto conto che è la seconda volta in un anno che capita, chiede che i soldi gli siano trattenuti dallo stipendio. Forse questa è stata la scintilla che ha fatto scattare l'omicidio. A Caroline sembra di vederlo. Clark riceve la comunicazione per posta, la legge più volte, sentendo montare la rabbia. Quella donna lo ha tradito, gli ha tolto tutto, si è burlata del suo sogno di diventare un politico. Lui ne ha abbastanza, e la uccide. Caroline fa fatica ad ammetterlo, ma se la moglie di Clark è morta, tutti i suoi sproloqui sui "crimini senza nome" non sono altro che fumo. E lei allora può dare un nome al suo crimine. E c'è un'altra questione che la preoccupa: sembra che Susan si sia risposata. All'inizio della causa di divorzio il suo nome era Susan Ann Hargraves Jennings Larsen Mason, il suo cognome da ragazza più quello di tre mariti, ma nell'ultimo documento appare come Susan Ann Hargraves Jennings Larsen Mason Diehl, e per un attimo Caroline si chiede se anche questo signor Diehl si trovi a faccia in giù nella polvere insieme alla sua nuova moglie. Inoltre le sembra quasi ingiusto che quella donna della sua età sia riuscita ad agguantare quattro mariti mentre lei non ne ha neppure uno.
Caroline cerca il nome Diehl sull'elenco telefonico e trova un Doug Diehl, proprietario di una casa a Five Mile, un quartiere residenziale appena fuori città, e comproprietario di una concessionaria Ford e Mazda. Caroline compone il numero di casa Diehl. Le risponde un messaggio registrato a due voci: «Ciao», «Non siamo in casa in questo momento» dice l'uomo «Ma se lasci un messaggio per Susan» cinguetta la donna «O per Doug» interviene lui «Ti richiameremo appena possibile» conclude lei. Caroline riattacca con un sospiro. Mio Dio. Fai ascoltare un nastro del genere alla giuria, e forse assolvono Clark per legittima difesa. Si infila la giacca, e mentre esce getta un'occhiata nella stanza degli interrogatori. Clark Mason si sfrega gli occhi, la penna è appoggiata sul blocco. Sono le undici del mattino di sabato, quattordici ore filate di confessione scritta. Forse si tratta di una prova di resistenza, pensa Caroline. O forse è un trucco. Dopotutto lui è un avvocato, e magari sta facenào il matto per stancarmi. Forse vuole essere mandato a casa, così quando poi sarà arrestato per l'omiciàio della ex moglie potrà dire che ha tentato di confessare, ma che la polizia l'ha lasciato andare. Ormai la confessione si è prolungata fino al terzo turno lavorativo. Caroline spiega al sergente entrante che nella stanza degli interrogatori c'è un potenziale testimone oculare intento a scrivere una deposizione. Chiede al sergente di chiamarla nel caso che a un certo punto quell'uomo voglia andarsene. Il sergente promette, senza alzare lo sguardo dal giornale che sta leggendo. Il viaggio in macchina è tranquillo, sotto il sole primaverile che scioglie gli ultimi spruzzi di neve. Spokane si trova in una valle lungo un fiume che va da est a ovest, perciò, dirigendosi a nord o a sud, ci si trova a salire lungo una serie di collinette coperte di case modeste. Five Mile è una di quelle collinette, dove le case, perduta la modestia, si trasformano in un agglomerato enorme, che sembra un'enorme nave da crociera. La casa di Doug e Susan è a tribordo della nave, in cima a un terreno recintato. Legno e mattoni, tre piani, garage grande con quattro porte di varie dimensioni: la più piccola per il golf cart, le altre due per le auto da città e l'ultima per il camper. Fiori, fontane e fienile per i cavalli sul retro. Caroline parcheggia dietro un vecchio pick-up con la scritta: JACK, SERVIZI DI SCUDERIA. Per abitudine, posa una mano sul cofano: è freddo. La ghiaia bianca scricchiola sotto le sue scarpe mentre si dirige verso la porta ad arco. Suona il campanello e aspetta. Nessuno risponde. Guarda in
casa attraverso la finestra. Il soggiorno è immacolato. Moquette bianca, divani di pelle bianca, lampade bianche. Niente cadaveri da nessuna parte, ma questo non prova nulla. Doug e Susan potrebbero essere in cantina, con la testa spaccata. Il fienile si trova a circa cinquanta metri dalla casa, in mezzo a un prato, dove un cavallo sta pascolando. La porta ondeggia pigramente nel vento. Caroline si dirige da quella parte. A metà strada si china a raccogliere un sandalo con il tacco a spillo. Arriva alla porta. Il cavallo alza la testa a guardarla, poi si volta verso l'interno. Caroline segue il suo sguardo e, attraverso la porta socchiusa, vede una donna che sembra essere Susan Ann Hargraves Jennings Larsen Mason Diehl, nuda, a cavalcioni di un ragazzo sui vent'anni, probabilmente il Jack dei servizi di scuderia, steso su una panca con i pantaloni arrotolati intorno alle caviglie. I servizi di scuderia di Jack non devono essere male, perché Susan ha gli occhi chiusi e si morde le labbra. Caroline torna a guardare il cavallo, che le restituisce lo sguardo e poi affonda di nuovo il muso nell'erba. Caroline indietreggia, pensando di andarsene, ma a un tratto il messaggio della segreteria telefonica le riecheggia nella testa, e decide di rovinare la giornata alla ex signora Mason. Bussa alla porta. I rumori all'interno tacciono all'improvviso. Susan bisbiglia: «Cos'è stato?». Caroline bussa di nuovo. «Signora Diehl, posso parlarle?» Si sentono una serie di fruscii mentre i due si vestono. Caroline aspetta, e un minuto dopo Susan Diehl esce, in jeans attillati, camicia western e un sandalo solo. Ha i capelli biondi e laccati, e il trucco abbastanza in ordine malgrado il servizio di Jack. È alta, statuaria, con occhi verdi e un paio di gambe che spiegano cosa abbia potuto vedere in lei un uomo come Clark Mason. Caroline le mostra il distintivo. «Sono la detective Caroline Mabry, del Dipartimento di Polizia di Spokane.» Susan apre la bocca, ma non riesce a dire nulla. «Dovrei farle alcune domande riguardo al suo ex marito.» L'espressione stupita di Susan non cambia, e Caroline si rende conto che deve essere più precisa. «Clark Mason» aggiunge. Susan si copre la bocca con una mano. «Oh, mio Dio. Cosa è successo?» «Nulla, si tratta solo di domande di routine. Stiamo cercando di raccogliere delle informazioni su di lui.» Gli occhi di Susan si riempiono di lacrime. Caroline ne resta sorpresa.
«Ha fatto qualcosa?» chiede Susan. «Sta bene?» «Sta benissimo» risponde Caroline, con un sorriso rassicurante. «Gli ho parlato poco fa.» «Oh, meno male» dice Susan, togliendosi un filo di paglia dai capelli. «Ero preoccupata per lui.» «Come mai?» «Non lo so.» Squadra Caroline dalla testa ai piedi. Sono entrambe alte, ma le somiglianze tra loro finiscono qui. «Per abitudine, credo.» Caroline le tende il sandalo che ha trovato nel prato. Susan lo getta a terra e ci infila dentro il piede, senza offrire spiegazioni. «Come sta Clark?» chiede. «Sembra un po' confuso.» «Non mi dica.» Tornano insieme verso il patio. Entrano in casa. Susan versa della limonata in due calici, e senza bisogno che Caroline glielo chieda inizia a raccontare la storia di lei e Clark. «Ci mettemmo insieme a sedici anni, a scuola.» Accavalla le gambe, mettendo in mostra le unghie dei piedi smaltate. «E avete aspettato fino al 1999 per sposarvi?» Susan annuisce. «Ci lasciammo alla fine della scuola. Lui andò all'università e per un po' di tempo fece il...» cerca la parola giusta, «...beatnik. Io sposai un uomo più vecchio di me, un po' come Doug, ma più... attento. Clark e io ci perdemmo di vista. Nel '99 vivevo a Seattle, e avevo appena divorziato.» Guarda Caroline negli occhi. «Era il secondo divorzio. Il mio ex marito aveva fatto una grande donazione a un partito politico, così fummo invitati a una serata di raccolta fondi per alcuni candidati. Io pensai che anche se avevamo divorziato ciò non significava che dovevo chiudermi in casa, così ci andai. Era al Seattle Art Museum. C'erano molti candidati, e a un tratto tra loro individuai Clark. Non credevo ai miei occhi.» Sorride. «Ricorda il primo uomo che ha amato, detective?» Caroline annuisce, e non pensa al liceo, ma a una storia molto più recente. Con una certa sorpresa, sente l'impulso di telefonare subito ad Alan Dupree. «Mi ha riconquistata subito.» Si volta a guardare nel fienile, dove Jack sta strigliando il cavallo, e aggiunge: «Non che sia una cosa difficile, a pensarci bene». Caroline non sa cosa dire, e si limita a bere un sorso di limonata. «Al primo appuntamento, lui noleggiò una Jeep Wagoneer e andammo
in montagna.» Sorride, come se quella frase avesse un significato nascosto. «Ci sposammo tre settimane dopo. Sembrava l'unica cosa giusta da fare.» «E poi siete tornati a Spokane?» chiede Caroline. «Già. È strano, ma durante quella serata di raccolta fondi io ero convinta che lui si sarebbe presentato a Seattle. Solo dopo averlo sposato mi resi conto che il Quinto Distretto era a Spokane. E allora mi ero già convinta che fossimo innamorati.» Susan scuote la testa. «Ho passato tutta la mia vita cercando di andarmene da qui, e Clark mi ci ha trascinato di nuovo. Non è stato facile, per me. Avevo una piccola boutique in centro, a Seattle. Niente di lussuoso, intendiamoci, ma ero contenta. E non si trattava soltanto di me. Clark aveva clienti grossi, firmava contratti e faceva buoni affari. Era considerato un esperto sulle questioni legali delle società di alta tecnologia, il che a Seattle era un'ottima posizione, sociale ed economica. E a un tratto lui decide di presentarsi alle elezioni. Comincia a dire di chiamarsi Tony Mason, e butta via tutto per tornare qui.» «Perché crede che l'abbia fatto?» «Non lo so...» Susan ruota il bicchiere, e osserva la limonata. «In realtà ci ho pensato parecchio. Clark a scuola era molto ambizioso, desiderava la popolarità, e cercava di ottenere tutte le cariche possibili. Quindi c'era da aspettarselo che, una volta adulto, sarebbe entrato in politica.» «Cosa gli è successo all'occhio?» «Un incidente, quando era piccolo.» Susan si stringe nelle spalle, sembra non dare importanza alla cosa. «Sa, prima pensavo che Clark bramasse il potere. O un mondo migliore. Ma non è così. Vuol sapere cosa vuole?» Caroline annuisce. «Vuole che la gente voti per lui. Vuole essere scelto.» Restano in silenzio. Susan accavalla di nuovo le gambe, in un modo così elegante che Caroline deve fare uno sforzo per ricordarsi che pochi minuti prima erano a cavalcioni di Jack. «E lei non voleva essere la moglie di un politico.» «No, non si tratta di questo. Andare a Washington, fare vita di società... Mi sarebbe piaciuto. Ma devo dire che anche il ritorno a Spokane non fu male. Acquistammo una bella casa, entrammo nello Spokane Club e nel Manito Country Club. Andava tutto benissimo. Poi un giorno, mentre facevo shopping da Nordstrom, vidi una mia ex compagna di scuola. Non ricordavo il suo nome, ma lei ricordava il mio.
Iniziò a raccontarmi dei nostri vecchi compagni. Tizia ora aveva tre bambini. Caia si era dovuta togliere un'ovaia. Un'altra ex compagna di classe ora lavorava alla Safeway. Cristo, fu come... Capii che non potevo vivere qui. Abitavo in una villa da due milioni di dollari, possedevo una boutique a Seattle, ma qui ero soltanto una ex studentessa del liceo. E lo sarei stata sempre, senza via di scampo.» Susan finisce la sua limonata. «Nel frattempo, il partito abbandonò Clark. Gli tagliarono i fondi per la sua campagna. Vinse le primarie, ma nelle generali partì con trenta punti di svantaggio rispetto a Nethercutt. Poi iniziò la pubblicità negativa, le voci secondo cui Clark era un burattino, uno venuto da Seattle per prendere il controllo di Spokane. Clark sembrava impazzito. A quel punto avrebbe dovuto mollare, o continuare la campagna con il motore al minimo, giusto per salvare la forma. Glielo disse anche il suo consigliere elettorale. Ma lui non volle ascoltarlo. Cominciò a spendere tutti i nostri soldi. Senza dirmi nulla. Vendette tutte le azioni: Microsoft, Cisco, tutte, eccetto quelle della Empire Games, una stupida società che appartiene a un tizio che conosce. Vendette la sua BMW, e cercò di vendere anche la mia. Accese un'ipoteca sulla casa. Al momento della separazione avevamo quattromila dollari in due e alcune azioni di quella società senza valore.» Caroline sente il bisogno di difendere Clark. «Nei documenti del divorzio, lui l'accusa di aver avuto un amante.» Susan chiude gli occhi. Poi li riapre di scatto, e Caroline vede un'espressione decisa. «Io amo Clark. Forse lui è l'unica persona che abbia mai amato. Perciò se vuole mi giudichi pure, detective. Ma non creda di conoscermi solo perché ha letto delle scartoffie.» Jack ha finito di occuparsi del cavallo. Esce dal fienile e si dirige verso la casa. È più vecchio di quello che mi era sembrato, pensa Caroline. Sui trent'anni. È magro, e zoppica leggermente mentre cammina. Le due donne lo guardano avvicinarsi. «L'assegno è sul tavolo» dice Susan appena lui entra. «Mi dispiace...» non finisce la frase. Jack annuisce e si allontana zoppicando. Non è difficile immaginare che si sia trattato di una caduta da cavallo. Susan si alza in piedi e resta a guardarlo dalla finestra mentre fa il giro della casa, forse per accertarsi che non rubi nulla. Quando sente il furgone mettersi in moto con un sussulto, torna al divano e riprende la sua storia. «La sera prima delle elezioni litigammo ferocemente. Ciascuno dava all'altro la colpa di tutti i suoi guai. Rancori che risalivano agli anni della
scuola, i miei divorzi, la sua infelicità e le sue ambizioni perdute.» Susan fissa lontano, oltre il granaio. «Io piangevo. Clark mi disse che non mi aveva mai amata. Alla fine gli chiesi: "Clark, se sono una donna così orribile, perché mi hai sposata?". Sa cosa rispose?» Caroline scuote appena la testa. «Che aveva bisogno di una moglie, perché la gente non avrebbe votato per uno scapolo. E aggiunse che al liceo io avevo già l'aspetto della donna del politico.» Susan fa spallucce e fissa Caroline negli occhi. «Allora, vuol sapere se è vero che ho avuto un'amante? Sì, è vero.» «E chi è?» Susan scuote la testa. «Il nome non importa.» «Potrebbe essere importante, invece.» «No.» Susan studia di nuovo Caroline. «Clark sa che l'ho tradito, ma non ha mai saputo con chi. E non voglio che adesso scopra di chi si tratta.» «Ascolti» dice Caroline. «Sarò sincera con lei, signora Diehl, ma la pregherei di non rivelare a nessuno ciò che sto per dirle. Pensiamo che Clark abbia fatto del male a qualcuno. Che possa aver commesso un omicidio.» «Clark?» Susan scuote la testa. «Impossibile.» Poi socchiude gli occhi, come se ci stia pensando su. «Supponiamo che abbia capito chi è la persona con cui lei ha avuto una relazione» inizia Caroline. «Io sto cercando tutte le persone verso le quali lui possa provare rancore.» «Che io sappia, l'unico che ha sempre detestato è Tommy Kane.» Caroline scrive il nome. «Chi è?» «Un compagno di scuola. Non so neppure cosa sia accaduto tra loro. Un giorno erano amici per la pelle, il giorno dopo si odiavano.» «E cosa può dirmi dell'uomo con cui lei... Clark lo conosce?» «Si, lo conosce. Ascolti, non voglio che venga immischiato...» «Mi ascolti lei. Se scopro che questo tizio è vivo, non dirò nulla a Clark.» Susan fissa verso il granaio per un lungo minuto, e Caroline aspetta, paziente. «Signora Diehl?» «Va bene. Si chiama Richard Stanton.» Caroline scrive il nome. «Abita qui?» «A Seattle.» «Ha parlato con lui di recente?» «Non lo sento da più di un anno.» «Numero di telefono?»
«Non ne ho idea.» «C'è qualcun altro che Clark potrebbe voler uccidere?» Caroline si alza per andare via, e Susan l'accompagna alla porta. «Perché è così convinta che abbia ucciso qualcuno?» «Si tratta di una... soffiata» mente Caroline. «Probabilmente non c'è nulla di vero.» In quel momento Susan cambia espressione. «È venuta qui perché pensava che fossi io la vittima» dice. Apre la porta, si appoggia allo stipite e fissa Caroline negli occhi. «Clark non ha fatto nulla.» «Come lo sa?» Susan abbassa gli occhi. «Perché se fosse veramente capace di uccidere, dopo quello che gli ho fatto due anni fa, mi avrebbe senz'altro uccisa.» 2 - Clark dorme Clark dorme, con la testa appoggiata ai bloc-notes. Caroline lo osserva dal vetro della porta, pensando alla possibilità di sottrargli quei fogli senza svegliarlo. Non riesce a immaginare cosa possa aver scritto su tutta quella carta. Il fax di Evan è lì ad aspettarla. La copertina ripete che lui ha di meglio da fare, il sabato, che andare a ripescare vecchie storie, che ciò non solo ripaga il favore che le doveva, ma che ora è lei a essere in debito. Caroline sfoglia le pagine. Si tratta di documenti relativi alle commissioni elettorali statali e federali. Ci sono anche liste di donazioni da parte di aziende e privati. Caroline sottolinea alcuni nomi, ma non trova nulla di interessante, a parte una coppia che ha donato ventimila dollari due volte. Si annota i loro nomi: Michael e Dana Langford. Il fax include anche articoli di giornale, che raccontano come Tony Mason abbia iniziato la sua campagna («Un inesperto trentaquattrenne in prima linea contro il collaudato deputato repubblicano George Nethercutt...»). L'articolo successivo è un profilo del personaggio. Caroline legge che Mason è cresciuto nella Valle, si è laureato in giurisprudenza all'Università dello Stato di Washington, e dopo alcuni anni di "esuberanza giovanile", ha cominciato a lavorare per un'azienda tecnologica. Quindi è approdato in un grosso studio legale di Seattle, dove si occupava di rappresentare le aziende hi-tech. Ha fatto un sacco di soldi, ma non ha mai dimenticato le sue radici, e secondo l'articolo è membro del consiglio di amministrazione di un'azienda informatica di nome Empire Games.
Gli insegnanti di Clark sono sempre stati certi che un giorno si sarebbe presentato alle elezioni. «Mi sorprende che ci abbia messo tanto» dice il suo vecchio professore di chimica. Nella foto che accompagna l'articolo, Clark ha i capelli corti e non porta la benda sull'occhio. Fissa dritto davanti a sé, come una lucertola. Susan, molto più rilassata davanti alla macchina fotografica, lo tiene sottobraccio. Si trovano nel salotto di una grande casa. L'articolo e la foto sembrano privi di vita. Ritratti vuoti, semplicistici, che non danno una vera idea di chi sia Tony Mason. L'unica sua carta da giocare sembra essere quella della tecnologia: «Farà in modo che il treno tecnologico arrivi dritto a Spokane». Caroline nota che tutti i suoi amici e conoscenti si riferiscono a lui come Tony, e immagina tutto il tempo che Clark ha dedicato a prepararli e a istruirli su cosa dire ai reporter. Ci sono alcuni articoletti sulle primarie, che parlano della «sorprendente sfida lanciata da Tony Mason a Nethercutt». Grazie ai discorsi propagandistici sul gap tecnologico tra Spokane e Seattle, a un certo punto Tony aveva guadagnato dodici punti, pur restando sempre dieci punti indietro rispetto all'avversario. Caroline immagina cosa deve aver provato, e capisce l'impulso che lo ha spinto a spendere tutto ciò che aveva, nel disperato tentativo di accorciare le distanze. Due settimane prima delle elezioni, ecco un lungo articolo intitolato Spot televisivi contro Mason. Il giornalista spiega che è stata lanciata una campagna pubblicitaria «volta a dipingere Tony Mason come un burattino nelle mani dei politici di Seattle». E cita gli spot dove un annunciatore dalla voce profonda dice: «Fino all'anno scorso, Clark Mason era un ricco avvocato di Seattle. Vogliamo davvero che un ricco avvocato dell'ovest rappresenti la parte est dello stato al Congresso?». Nethercutt aveva negato di essere coinvolto in quella campagna denigratoria. Gli spot, costati centoventimila dollari, erano stati prodotti da un comitato di azione politica chiamato Fondo per una Elezione Giusta, nato appena due settimane prima dell'inizio di quella campagna pubblicitaria. Caroline prende nota dei nomi dei due promotori del fondo: Louis Carver ed Eli Boyle. L'ultimo articolo è del giorno dopo le elezioni. Mason ha ricevuto molti più voti del previsto, ma ha comunque perso di parecchi punti. Dopo la sconfitta, ha dichiarato che resterà a Spokane, a fare l'avvocato e a lavorare nell'azienda di videogame di cui è comproprietario. Sembra che abbia fatto un discorso davanti a un piccolo gruppo di sostenitori, durante il quale ha affermato: «A volte si può restare accecati dalla luce dei propri sogni».
Caroline scrive i nomi delle persone citate negli articoli, poi infila tutte le pagine del fax in un cassetto della sua scrivania, e guarda la porta della stanza degli interrogatori, dove Clark Mason si è addormentato. Si rende conto di essere stanca anche lei. Prende l'elenco telefonico e cerca sotto la lettera kappa. Ci sono tre Thomas Kane, due Tom Kane e un Tommy Kane. Prova subito con il terzo. «Pronto?» «Parlo con il signor Tommy Kane?» «Sì.» «La chiamo a proposito di Clark Mason.» «Ascolti, l'ho già detto all'ultimo che ha telefonato: non ho intenzione di donare nulla per la sua fottuta campagna elettorale. Non ho votato per lui e non voterò per lui neppure la prossima volta. Capito? Perciò per favore togliete il mio nome dalla vostra lista e lasciatemi in pace.» Caroline non gli spiega la vera ragione della sua telefonata, ha già ottenuto l'informazione che cercava: Tommy Kane non è morto. «Mi scusi» dice. «Non la chiameremo più.» Sugli appunti che ha preso durante il colloquio con Susan Diehl controlla il nome dell'uomo con cui lei ha avuto una relazione: Richard Stanton. Sull'elenco di Seattle ne trova sei. Guarda di nuovo Mason. Forse Susan ha ragione. Clark non è capace di uccidere. Caroline prende il sandwich che ha comprato e va ad aprire la porta. Clark ha il respiro regolare. Lei ricorda l'ultima volta che ha osservato qualcuno mentre dormiva: è stato sei mesi fa, prima che il suo uomo se ne andasse. Clark Mason muove la testa. Caroline resta immobile, e quando sembra di nuovo immerso nel sonno si avvicina, per sbirciare il blocco giallo sul quale è appoggiato. Riesce a leggere solo poche parole e a capire che ci sono due persone in una stanza d'albergo: Clark e una donna di nome Dana. Lui si sveglia, e Caroline fa un passo indietro. Clark si stira, sbadiglia e si passa le mani tra i capelli. «Mi sono addormentato» dice. «Mi dispiace.» «Non c'è problema.» «Che ore sono?» «Quasi le tre.» Lui annuisce. «Sabato pomeriggio.» Sembra un po' disorientato. «Mi dispiace davvero.» Caroline si stringe nelle spalle. «Non puoi mollare ora, stai per entrare
nel Guinness dei primati.» Lui si massaggia le tempie, fissa il blocco giallo. «Non so se sia perché stavo sognando... Ma questi fogli, io qui... Nulla mi sembra reale.» «Saresti sorpreso di sapere quante volte ho sentito dire questa frase da chi preme il grilletto per la prima volta. Il sangue, l'altra persona che si accascia a terra. Non sembra mai vero.» «Il sangue» ripete lui, annuendo. Caroline aspetta che aggiunga qualcosa, ma lui rimane in silenzio. Guarda il sandwich che lei ha in mano. Lei lo appoggia sul tavolo. «Ti piace il tacchino?» «Oh, sì, grazie.» Per un attimo Caroline pensa di dirgli tutto ciò che ha saputo su di lui: la sua ex moglie, Pete Decker, Tommy Kane, le elezioni. Ma preferisce aspettare. Clark apre il sandwich. Un pezzetto di pane gli cade sui pantaloni, sporcandoli di maionese. Il modo in cui cerca di pulirsi le fa una strana tenerezza. «Una volta ho sparato a un uomo» dice lei. «Lo hai ucciso?» «Sì.» «Perché?» «Mi aveva assalito. Credevo che avesse un coltello in mano.» «E ce l'aveva?» «No. Dopo ho scoperto che non ce l'aveva.» «Ah.» Caroline aspetta, sperando che quello che gli ha appena rivelato lo spinga a confessare. Ma lui si limita a mordere il panino. Caroline lo osserva: la mascella marcata, i capelli neri, e la benda nera da pirata. «Cosa ti è successo all'occhio?» «Una battaglia con fucili ad aria compressa» risponde lui, tra due bocconi. «Quando ero piccolo.» Caroline è delusa. Aveva immaginato una storia più interessante. Il corno di un toro a Pamplona, un fucile subacqueo nei mari della Nuova Zelanda, ma la verità è spesso la cosa più ovvia. «Posso vederlo?» chiede. Lui esita un attimo, poi solleva la benda. La palpebra è contratta sull'orbita vuota, e non si scorge nient'altro. Lui riabbassa la benda. Caroline all'improvviso si sente stanca. Ha voglia di appoggiare la testa sul tavolo e arrendersi.
«Quell'uomo a cui hai sparato» chiede lui. «È l'unica persona che hai ucciso?» «Sì.» «Ma non ti lascia in pace, vero?» «Sì. Ma ci sono cose che mi fanno sentire peggio.» Pensa a Rae-Lynn, la ragazza che non è riuscita a salvare. Clark annuisce. «Per alcuni dei delitti che commettiamo non c'è neppure un nome.» Quelle parole colpiscono Caroline come un calcio, e si chiede se lui le abbia letto nel pensiero. La sta fissando, con l'unico occhio implorante. Lei vorrebbe lasciarlo andare, passare il caso al sergente Spivey, lunedì mattina, e andarsene a dormire. Ma poi lui la spiazza con affermazioni come quella e... Cristo. Caroline appoggia la testa sul tavolo e ride. «Cosa c'è?» chiede lui. «Sono stanca, Clark.» A un tratto sente la sua mano che le massaggia il collo, sotto i capelli. Una mano grande e calda. Caroline tira un sospiro. Poi si raddrizza, e si alza in piedi di scatto. «Hai ucciso davvero qualcuno, Clark?» chiede lei. Quella domanda lo confonde. Fissa i bloc-notes, fa scorrere le dita lungo le pagine, come se volesse mettere in ordine le parole. Ma a volte non c'è nulla da fare. Clark abbandona la lotta, le sue mani si fermano. Alza gli occhi a guardarla e ride: «Se non avessi ucciso nessuno, e se ci fossimo incontrati in un'altra situazione, credi che...?». «Sì, è probabile» risponde lei, senza nessuna traccia di civetteria. Lui non dice altro, e Caroline si volta ed esce. 3 - Stare sola è facile Stare sola è facile, durante i fine settimana. Di solito, a quell'ora del sabato pomeriggio, Caroline Mabry ha completamente dimenticato l'esistenza degli altri, seduta davanti al televisore o al computer, finalmente a suo agio con se stessa dopo una settimana d'inferno in ufficio. Ma ora, durante il primo week-end fuori casa dopo tanto tempo, le fa una strana impressione vedere tutta quella gente fuori, persone che salgono e scendono dalle automobili, che entrano in ristoranti e negozi. Tutto sembra compatto e legato: gli sci sui portapacchi delle auto, i bambini sui seggiolini di sicurezza... Tutti stanno andando da qualche parte, in qualche posto vivace e fa-
miliare, dove ogni cosa è sicura. A paragone con loro Caroline si sente alla deriva, mentre cammina per il centro di Spokane, con la neve che si scioglie in pozzanghere fangose sotto il sole. L'appartamento di Clark Mason si trova in Browne's Addition, un quartiere vecchio di oltre un secolo, fatto di ville decadenti e maestose dimore riconvertite in appartamenti. Sotto il portico dell'edificio dove abita Clark ci sono quattro cassette della posta. Caroline legge che Clark Mason abita nell'interno A, al pianterreno. La cassetta di fianco alla sua appartiene a una certa Lisa Miller, che ha messo due mezzelune al posto dei puntini sulle i del suo nome. Un'altra cassetta è coperta di adesivi. Caroline guarda attraverso le finestre dell'appartamento di Clark. Non sembra esserci nessun cadavere né sangue. Lo stile dei mobili è tipicamente universitario: divano sfondato, libreria di compensato. Ci sono libri dappertutto. Il ricordo della mano di Clark sul collo le provoca un brivido. Benissimo, pensa. Finalmente ho trovato un uomo che legge, ed è un pazzo o un assassino. O forse entrambe le cose. Fa il giro della casa, dalle finestre vede un piccolo bagno con un guanto di corda appeso alla doccia, una camera da letto con futon sul pavimento e un piccolo armadio. Il portico sul retro è vuoto, a parte un barbecue e un tavolo da picnic. Niente sangue, niente piedi che spuntano dagli armadi. Se Clark Mason ha ucciso qualcuno, non lo ha fatto in casa sua. Quando Caroline torna sul davanti, c'è un uomo anziano in polo e pantaloni sportivi che sale i gradini del portico. Sembra sulla sessantina, capelli grigi corti, barba di un giorno e aspetto dignitoso. Si dirige alla porta di Clark e bussa forte. «Clark!» urla. «Sei in casa?» L'uomo si volta e la vede. Ha gli occhi di un blu slavato, il viso attraente e la fossetta nel mento più profonda che Caroline abbia mai visto. «Mi scusi» dice lei. «Sta cercando Clark Mason?» «Sì» risponde l'altro, squadrandola con sospetto. Caroline gli mostra il distintivo. Lui ci mette qualche secondo a capire, poi le afferra un avambraccio. «Oh, mio Dio. È successo qualcosa a Clark?» «No, sta bene.» «Meno male.» Le lascia andare il braccio. «Mi ha lasciato un messaggio sulla segreteria telefonica, ieri. Mi sembrava molto agitato ed ero preoccupato.» «Lei è suo padre?» «No.» L'uomo riprende l'aria dignitosa. «Ero il direttore della sua cam-
pagna elettorale. È sicura che stia bene?» «Sì» risponde Caroline. «È giù alla centrale.» «Grazie a Dio. Sono due giorni che cerco di telefonargli, e oggi ho deciso di venire a Spokane di persona.» «Dove abita?» «A Seattle. Clark ha cercato di parlarmi ieri. Sembrava disperato. Temevo che... volesse suicidarsi.» «In realtà, sostiene di aver ucciso una persona.» L'uomo resta a bocca aperta. «Lo abbiamo trovato in un edificio abbandonato, e quando abbiamo provato a rivolgergli qualche domanda, ha risposto che voleva confessare un omicidio.» «Chi è la vittima?» «Non vuole dirlo.» «Non è possibile. Clark non farebbe male a una mosca.» Caroline tende la mano. «Mi chiamo Caroline Mabry. Sono una detective della Omicidi.» «Piacere. Richard Stanton.» Caroline ci mette un attimo prima di ricordare che si tratta dell'amante di Susan Diehl. Susan le ha detto che Clark non sapeva chi fosse il suo amante. Ma Cristo, si che lo conosceva! Era il direttore della sua campagna elettorale. «Posso parlargli?» chiede Richard Stanton. «È impegnato a scrivere una deposizione. Quando avrà finito, gli comunicherò che lei ha chiesto di parlargli.» «Ascolti, deve esserci un errore. Il solo pensiero che Clark abbia ucciso qualcuno è inconcepibile.» «Lo ha detto lui. Ha detto di essere responsabile della morte di una persona.» Stanton fissa il suolo, concentrato nei suoi pensieri, poi si illumina. «Oh, Gesù, so di cosa parla! Che stupido, quel ragazzo.» Caroline aspetta, in silenzio. «Non credo sia ciò che pensa lei» dice Stanton. «Come fa a sapere ciò che penso?» ribatte Caroline. «Clark non è un criminale.» «Può darsi. Ma se invece lo è, e lei sa qualcosa al riguardo e non me lo dice, potrebbe trovarsi nei guai.» Stanton insiste. «Mi lasci parlare con lui. Sono certo di poter sistemare
tutto in venti minuti.» «Mi dica di cosa si tratta e le lascerò fare quello che vuole.» Stanton la fissa, come per misurare la sua determinazione. «Non posso, mi dispiace. Può fargli avere un biglietto?» «Certo.» Caroline gli tende una pagina del suo bloc-notes e una penna. «Ci scriva sopra anche il suo numero di telefono.» Lui scrive qualcosa, strappa la pagina e la piega, poi gliela dà. «Gli dirò di chiamarla non appena finisce la sua deposizione.» «La ringrazio» dice lui. «Allora, cosa è successo?» Caroline indica l'appartamento. «Un tizio si presenta alle elezioni, e poi finisce in un buco come questo? È un po' strano, no? Qualcuno gli ha rubato tutti i soldi?» Richard Stanton non vuole rivelarle niente. «Ascolti, è una questione di lealtà verso Clark. Non voglio dire nulla prima di aver parlato con lui o con il suo avvocato.» «Capisco» dice Caroline. Ma la parola lealtà non le sembra giusta in bocca a quell'uomo. «Ho avuto un piacevole colloquio con Susan» aggiunge. Stanton indietreggia e la fissa negli occhi. Caroline mantiene un'espressione imperscrutabile. Stanton le rivolge un sorriso professionale. «Come sta Susan?» «Benissimo. Vivace come una puledra.» Finalmente Stanton abbassa lo sguardo. Caroline agita il pezzo di carta che ha in mano. «Lo farò avere a Clark. Sono certa che apprezzerà la sua lealtà.» «Grazie» mormora Stanton. Esita un attimo, poi si dirige a passo svelto verso una BMW parcheggiata dalla parte opposta della strada. La moglie del candidato sembra cavarsela bene e anche il direttore della campagna elettorale non è messo male, pensa Caroline. Mentre il candidato vive come uno studente La BMW si allontana. Caroline sale in macchina e apre il biglietto. C'è scritto: Era malato Non c'era nulla che tu potessi fare Chiamami Richard Caroline appallottola il biglietto e lo getta sul pavimento dell'auto. Poi ti-
ra fuori il cellulare e chiama la centrale. Il sergente di turno dice che ha appena controllato il Matto. «Sta ancora scrivendo.» «Grazie, sarò di ritorno tra poco.» «Ma di cosa si tratta?» chiede il sergente. «Cosa sta scrivendo, lì dentro?» «Le mie dimissioni» dice Caroline. Chiude la comunicazione e sta per partire in direzione della centrale, ma vede il sole all'orizzonte. Mancheranno una ventina di minuti al tramonto. È al lavoro da ventotto ore filate. Prende il telefonino e compone un numero che conosce a memoria, ma che non chiamava da mesi. «Ciao» dice subito. «È un brutto momento?» Lui risponde di no, e Caroline si lascia andare. «Ascolta. Ho un gran bisogno di parlarti. Possiamo vederci da qualche parte per un caffè?» 4 - Dupree aspetta Dupree aspetta nella caffetteria, la stessa dove lei è stata quella mattina. A Caroline sembra che sia passata una settimana da quando è andata a casa di Pete Decker per scoprire se fosse morto. Dupree sta bevendo un caffè. Quando vede Caroline, si alza in piedi. Indossa jeans, una T-shirt e una giacca di denim. «Ciao» dice. È un po' più basso di lei, e con molti meno capelli. Si è un po' allargato in vita da quando ha dato le dimissioni dalla polizia, sei mesi fa. Ma gli occhi blu e i movimenti disinvolti sono gli stessi di sempre, gli stessi da quando lei lo ha conosciuto, tredici anni prima. E quando si risiede Caroline sente di nuovo quell'attrazione forte in gola. «Grazie per essere venuto.» «Non c'è problema, mi fa piacere vederti. Mi hai salvato da una partita a pinnacolo con i suoceri.» «Come sta Debbie?» chiede Caroline. Dupree e la moglie si erano separati poco prima che Alan desse le dimissioni. A Caroline piace pensare che, nonostante adesso lui e Debbie si siano rimessi insieme, le cose tra loro vadano ancora male. «Sta bene. Da quando sono in pensione, tutto fila liscio.» «E i bambini?» «Bene anche loro. Stacy oggi mi ha chiesto a cosa serve la salsiccia dei maschi.» «Già, è una cosa che mi sono chiesta spesso anch'io.» «Le ho risposto che nessuno lo sa per certo.»
«E che mi dici del lato oscuro?» Ora Dupree lavora come investigatore per alcuni avvocati, e nel liberare i delinquenti usa la stessa energia che una volta metteva nel cercare di catturarli. «Il male rende bene.» Caroline conosce altri poliziotti in pensione che hanno imboccato la stessa strada di Alan. Pensa alla propria crisi, chiedendosi se potrebbe anche lei passare dall'altra parte della barricata. Crede di no. «Suppongo che tu non mi abbia fatto venire qui per parlare di cosa fanno i ragazzi con la loro salsiccia.» «Be', in realtà...» Caroline tenta di sorridere, ma gli occhi fissano il tavolo. Dupree le stringe una mano. «Stai bene?» «Non lo so» risponde lei. «Si tratta di un...» sta per dire "caso", ma all'improvviso le sembra tutto così ridicolo, così improbabile. Sente l'impulso di lasciar perdere tutto e andarsene a casa. «Dimmi tutto» dice Dupree. E anche se non vorrebbe, Caroline è troppo stanca per non parlare. Inizia lentamente, e sente la sua bocca pronunciare le parole giuste: Davenport, benda sull'occhio, omicidio, confessione, bloc-notes, ventuno ore. Ma dall'espressione di Dupree intuisce che non riesce a farsi capire. Lui non comprende perché lei abbia passato tutto il fine settimana a rintracciare le persone conosciute da quel tizio, assicurandosi che fossero vive. Gli deve sembrare un'indagine alla rovescia, che parte dall'assassino per cercare il cadavere. «So che pare pazzesco, Alan, ma tu riesci a capirmi, vero?» Lui rimane in silenzio. «Pensi che stia dando di matto.» «Da quanto tempo non dormi, Caroline?» «So cosa stai pensando...» «Quanto tempo?» «Be', stanotte non ho dormito... poi...» «Due giorni di lavoro senza dormire. Stai prendendo qualcosa?» «No.» Caroline ride. «Spivey cosa dice?» «Dice che non autorizzerà ore di straordinario.» «Così l'esaurimento nervoso non te lo pagano neppure.» Caroline ride ancora, suo malgrado. «Ascolta, Alan, questo tizio ha fatto qualcosa. Lo sento.» Dupree crede nelle sue intuizioni, e sembra prenderla sul serio per la
prima volta. O forse vuole solo essere carino. «Hai controllato la sua donna? La moglie?» «Ex moglie» precisa Caroline. «È viva?» «Più viva di una puledra in calore.» «Chi c'è insieme al Matto adesso?» «Nessuno.» «Lo hai lasciato lì da solo?» «Non posso imputarlo di nulla. Ma credo che non andrà da nessuna parte. Gli ho preso la cintura e le scarpe.» Dupree fa una faccia confusa. «Pensi che possa suicidarsi?» «No. Ho solo creduto che senza scarpe non sarebbe andato lontano.» Per la prima volta Dupree sorride. «Ascolta, Caroline. Mandalo a casa, prima che questa storia diventi ancora più assurda. Poi di' a Spivey di andarlo a prendere lunedì mattina, così possono ricominciare da capo.» «Va bene» dice lei, solo per lasciar cadere l'argomento. «Hai ragione.» Lui beve un sorso di caffè. «Sapevi che avrei detto questo. Mi hai fatto venire qui solo per chiedermi qualcosa di cui conoscevi già la risposta?» «No.» Sente il respiro che le si ferma in gola. Dupree si limita a fissarla. «Ascolta» dice Caroline. «Quante confessioni hai sentito? Arrestiamo un uomo dentro una casa che non è la sua, e lui confessa di aver forzato la porta. O di aver ucciso la ragazza il cui sangue gli macchia i vestiti. Parliamo di confessione tutte le volte che uno stronzo qualsiasi ci descrive il mondo che possiamo vedere con i nostri occhi. Ma questo tizio... Voglio dire, hai mai pensato che esiste un altro genere di confessione, forse più importante?» Caroline si sente frustrata dalla propria incapacità di comunicare. «Forse esiste un altro mondo, Alan. Un mondo composto da tutte le intenzioni e dalle cose che non facciamo, che non diciamo. Forse esiste un posto in cui vanno tutte le nostre idee, i nostri desideri, un posto dove hanno potere, anche se non li abbiamo trasformati in azioni.» Finalmente alza gli occhi a guardarlo, e vede che Dupree si sforza di capire, ma non ci riesce. Come può comunicargli qualcosa che non sa neppure lei? «Gesù, hai proprio bisogno di dormire» dice lui, piano. «Forse non ci sono nomi per i crimini che commettiamo.» «Che cavolo significa questo, Caroline?» «Non... non lo so.» Caroline chiude gli occhi e pensa alle parole di
Clark. «Io volevo che tu e Debbie vi separaste» confessa all'improvviso. «Non te l'ho mai detto. Non ho mai fatto nulla perché accadesse. Ma era quello che desideravo.» «Oh, avanti» dice Dupree. «Questo non c'entra niente. Non puoi assumerti la responsabilità di ciò che accade agli altri.» «Quando hai lasciato Debbie, pensavi che tu e io ci saremmo messi insieme?» «Non è questo...» balbetta lui. «Sì o no?» Dupree abbassa gli occhi sul suo caffè. «Allora non dirmi che non c'entra niente.» Caroline è agitata. «Qui, in questo mondo, noi rileviamo impronte digitali, misuriamo schizzi di sangue, interroghiamo persone che mentono, e fingiamo che tutto abbia un senso. Ma quale senso? Tu stai con tua moglie, io sono sola, e i morti restano morti. Li infiliamo in sacchi di plastica, ripuliamo il sangue, e allora? Salviamo la vita di una ragazza, e siamo così occupati a congratularci con noi stessi che non notiamo neppure che stava morendo da quando aveva dodici anni. Spostiamo solo la merda qua e là, Alan. Ma non cambiamo nulla. Non salviamo nessuno.» «Chi ti ha detto che il nostro compito è salvare la gente?» «E qual è il nostro compito, allora?» «Fare in modo che i crimini non restino impuniti.» Caroline sente un disperato bisogno di dormire, o piangere. Fissa oltre Dupree, fuori dalla vetrina della caffetteria. «Sei stanca, Caroline, ecco tutto. Sei stanca del tuo lavoro, e stai lasciando entrare un matto nella tua testa.» Lei ora lo ignora, e continua a guardare fuori dalla vetrata. «Devi mandare a casa quel tizio. Hai bisogno di dormire. Hai bisogno...» Caroline si alza e attraversa il bar. «Dove vai?» chiede Dupree. Lei si avvicina alla vetrata. Dalla parte opposta della strada c'è Pete Decker, in jeans e T-shirt. Sta trascinando per i capelli la ragazza che ha aperto la porta a Caroline: si dirige verso casa sua. Due dei ragazzi che erano nel suo appartamento se ne stanno immobili sul marciapiede, con grossi altoparlanti stereo tra le mani. Caroline esce dal caffè e attraversa la strada. La ragazza non dice nulla mentre Pete la tira per i capelli. Ha l'espressione placida di chi si è fatto da poco. Non oppone nessuna resistenza, ma
quando arrivano al portone allarga le braccia e si afferra con calma allo stipite. Per un attimo Pete non riesce a smuoverla. Le allunga un manrovescio e la ragazza crolla. In quel momento Pete alza gli occhi e vede Caroline. «Oh, ma chi si rivede» dice, e lascia andare la ragazza, che si accascia sulla soglia. Caroline non rallenta il passo. Pete inizia a correre lungo il marciapiede, ma lei lo raggiunge quasi subito, e lo afferra con le braccia intorno alla vita. Pete puzza di cipolle e di qualcosa che sembra piscia di gatto. Si volta e le molla un pugno in testa. Caroline scivola a terra, gli afferra le caviglie, e Pete Decker cade sul marciapiede. Prova a liberarsi, ma Caroline si alza in piedi e gli salta sulla schiena, piantandogli un ginocchio tra le scapole. Pete continua a lottare, agitando braccia e gambe. Caroline si chiede che diavolo stia facendo Dupree. Riesce ad afferrare un polso di Pete e a torcerlo, e finalmente lui crolla sul marciapiede. Solo allora Caroline alza lo sguardo e vede Dupree in piedi, come un civile, un fottuto turista, accanto ai curiosi e ai ragazzi con gli altoparlanti rubati. Tutti fissano Pete Decker, con il viso sanguinante schiacciato sul marciapiede. E tutti hanno lo stesso sguardo negli occhi. «Cristo, Caroline» dice Dupree. «Hai proprio bisogno di andare a dormire.» 5 - Il freddo torna Il freddo torna di notte, a Spokane. Anche in notti come questa, dopo un giorno di sole primaverile. Al tramonto si alza il vento, la neve sciolta inizia a gelare, e l'erba brilla come se fosse di vetro. Davanti al portone di Pete è arrivata la polizia. Gli agenti gli sequestrano il televisore rubato, diverse pipe, batterie varie, bicarbonato, e abbastanza amfetamine da tenere svegli Pete e i suoi amichetti fino all'arrivo dell'estate. Alcuni curiosi osservano la scena. Tra loro c'è anche Dupree, un po' imbarazzato. Pete è seduto sul marciapiede, le mani ammanettate, e cerca di grattarsi il sangue secco sul naso con una spalla. Quando vede i due poliziotti che portano via il televisore, protesta con Caroline. «Volevo restituirlo, come avevo promesso. Non mi hai dato abbastanza tempo.» È arrivato anche il padre della ragazza, un uomo robusto con stivali da lavoro. La giovane, nell'atrio dell'edificio, sembra impaurita. Caroline si
avvicina al padre e indica Pete. «Tra le altre imputazioni verrà accusato anche di aver picchiato sua figlia» dice. «La tenga al sicuro, in modo che possa testimoniare.» Il padre annuisce. Caroline scuote la testa. «Solo un vero bastardo picchierebbe una donna. Non è d'accordo?» L'uomo abbassa lo sguardo. «Già.» La ragazza si avvicina accompagnata da un poliziotto, e il padre apre la portiera dell'auto. Dal marciapiede, Pete allunga il collo, cercando di ridere. «Stavamo solo scherzando tra noi, eh, Amber? Di' loro che sei la mia fidanzata.» Caroline si accovaccia davanti a lui. Pete si tira un po' indietro, ma quando capisce che lei non vuole picchiarlo sorride. «Non mi hai dato molto tempo.» «No» dice lei, continuando a riempire il verbale. «Avevo bisogno di più tempo.» «Mi dispiace.» Caroline non alza gli occhi dal verbale. Amber va via con il padre. Pete segue l'auto con lo sguardo. Gli agenti si avvicinano e lo aiutano ad alzarsi. Lui sembra a suo agio, con le manette ai polsi. «Ehi, ho pensato una cosa» dice a Caroline. «Cosa?» gli chiede lei. Ha segnato con una crocetta le caselle relative a possesso di droga, spaccio, possesso di merce rubata e resistenza all'arresto. «Mi hai chiesto se Clark Mason avesse mai litigato con qualcuno. E mi sono ricordato che c'era un tizio con cui discuteva spesso.» «Tommy Kane?» «No, quello non lo conosco. Il tizio che dico io era una specie di frocetto. Si chiamava Eli Boyle. Lui e Clark facevano a botte alla fermata dell'autobus, e io dovevo intervenire per separarli.» Due agenti prendono Pete sotto le braccia. «Spero che questo possa aiutarti» continua lui, mentre lo portano verso la macchina. «In cambio, tu non puoi darmi una mano?» Caroline lo ignora. Gli agenti lo spingono dentro con una mano sulla testa, e lui accompagna il movimento, scivolando facilmente sul sedile posteriore. È una scena che deve conoscere bene. «Forse potresti dire al magistrato che sto collaborando, eh?» insiste Pete. La portiera si chiude e Caroline lo vede fare un cenno al poliziotto alla guida, come se fosse il suo autista. L'auto si allontana. Dupree si avvicina. «Ora andrai a casa?»
«Sì. Torno in centrale, prendo tutto ciò che quel tipo ha scritto finora e gli dico che riprendiamo lunedì.» «Bene.» Dupree si fissa le scarpe. Dieci anni fa, quando Caroline sognava di fuggire con lui, di andare a vivere in una cittadina su un lago e fare dei figli, la calvizie incipiente di Dupree era grande come una moneta. Ora è come un melone. Caroline si chiede se anche lui la trovi invecchiata. Dupree alza gli occhi. «Stavo pensando a ciò che hai detto prima. Di te e di me, di quell'altro mondo.» «Lascia perdere.» Caroline gli stringe un braccio. «Sono soltanto stanca, Alan. Va' a casa, dalla tua famiglia.» «Okay» dice lui. «E... c'è qualcuno nella tua vita, ora?» «Be', sì.» «Ah, bene. E come si chiama?» «Clark.» «Cosa fa?» «È avvocato.» Dupree sorride, il sorriso di un padre contento di sentire che la figlia ribelle ha finalmente messo la testa a posto. «Ottimo, Caroline.» «Sì, ci siamo visti molto, ultimamente. Parliamo... mi fa bene.» «Perfetto.» Dupree l'abbraccia e si avvia verso il suo furgone. Caroline lo segue con lo sguardo, poi sale in auto e va alla centrale. Parcheggia male, ma non importa, perché pensa di mandare a casa Clark e di tornare alla macchina in meno di dieci minuti. Appena entra, il sergente di turno agita la mano. «Ottimo lavoro, con quel Decker» dice. «Perché adesso non vai a casa a riposare? Il verbale lo puoi scrivere lunedì.» Dupree deve aver telefonato. «Sì, lo farò» risponde Caroline. «Sono passata solo a prendere una cosa.» Il pensiero del letto è sempre più insistente, ma c'è ancora qualcosa che la disturba, un nome che continua a sentire. Compone il codice per accedere al corridoio, poi tira fuori la tessera magnetica ed entra nell'ufficio della Omicidi. Clark è ancora intento a scrivere, naturalmente. Ora è appoggiato allo schienale della sedia, e tiene il blocco contro il bordo del tavolo. Caroline va alla scrivania. Prende gli articoli di giornale e la lista dei donatori di fondi. Sfoglia le pagine del fax finché li trova. I nomi dei due promotori del Fondo per una Elezione Giusta, il comitato senza scopo di lucro che aveva finanziato gli spot pubblicitari contro Mason. Uno dei due si chiama Eli
Boyle. Caroline scorre la lista dei donatori, e trova cinquemila dollari sempre a nome di Eli Boyle. Quest'uomo quindi, da un lato ha donato fondi alla campagna, dall'altro l'ha sabotata con i suoi spot. Eli Boyle è il ragazzo di cui le ha parlato Pete. Caroline consulta l'elenco. Eli Boyle abita in Cliff Drive, un quartiere di grandi ville che domina la città. Risale alla sua occupazione: fondatore della Empire Games. Anche quella società appare sulla lista dei donatori, con una somma di ventimila dollari e con un'altra di quindicimila. Caroline trova un riferimento all'azienda nei suoi appunti del colloquio con Susan («Vendette tutte le azioni, eccetto quelle della Empire Games»), e in uno degli articoli ("È membro del consiglio di amministrazione di una azienda informatica di nome Empire Games"). Caroline cerca la società sull'elenco. L'indirizzo è lo stesso di Eli Boyle. Lo scrive su un pezzo di carta, lo strappa e si alza in piedi. Attraversa l'ufficio e apre la porta della stanza degli interrogatori. «Come va, campione?» «Benissimo» risponde Clark. «Ho quasi finito.» «Perfetto.» «Che ore sono?» «Quasi le otto.» Lui sorride, disinvolto, e lei capisce come deve essersi sentita Susan Diehl, quando lo ha rivisto dopo tanti anni. «Non sai quanto è importante tutto questo per me» dice Clark. «Quanto è importante la tua fiducia.» «Già.» Torna fuori, e resta sorpresa da quanto si è fatto buio. Entra in macchina, accende il motore, attraversa il ponte sul fiume e si immette nella Riverside. Percorre una serie di strade costruite all'inizio del ventesimo secolo per un traffico pesante che, all'inizio del ventunesimo, è soltanto un ricordo. Gli edifici sono solidi ed eleganti: marmo, arenaria e mattoni. Caroline scorge da un lato il Davenport Hotel, illuminato dalle luci dei ponteggi. Dovrebbe riaprire a fine estate. Spokane, più di altre città, nasconde il suo potere e la sua ricchezza, ma soprattutto la sua bellezza. Una bellezza che viene dal passato, dalle vecchie dimore. Tuttavia, nonostante ciò, Caroline non può fare a meno di ignorare le finestre buie, e le porte sbarrate. A lei sembra solo una morte lenta. Prende la Stevens e sale lungo South Hill, che una volta era la zona residenziale migliore di Spokane. Cliff Drive è una corta fila di vecchie case, e quella di Eli si trova all'angolo ovest. Non è una delle grandi ville, ma è
comunque un'abitazione ben fatta a due piani, in stile Tudor. Le luci sono spente. Caroline parcheggia e scende dall'auto. Da lì vede il centro, e lo sguardo spazia oltre il fiume e la valle, fino alle colline che una volta limitavano la città a nord e ora ne fanno parte, rivestite di strade e case da ricchi. Su quelle colline Susan Diehl siede sul suo divano bianco, e beve cocktail con il signor Diehl. È una vista bellissima, e Caroline invidia per un attimo Eli Boyle. I suoi passi risuonano sotto il portico di legno. Suona il campanello ma nessuno apre. Caroline appoggia la torcia elettrica contro il vetro della finestra, per eliminare il riflesso, e guarda dentro. Un bel soggiorno in legno, con nicchie e armadi incassati, un camino e una scalinata curva. Niente mobili. Caroline si volta a osservare il cortile, per vedere se ha mancato di notare un cartello VENDESI, ma non ci sono scritte di nessun tipo. Percorre il portico fino a un'altra finestra, e vede una sala da pranzo, anch'essa vuota. Fa tutto il giro della casa, fino alla finestra della cucina. Niente elettrodomestici. Dietro la casa c'è un piccolo edificio in pietra, a due piani. Garage sotto, e miniappartamento, o ufficio, sopra. Un'insegna scritta a mano dice: EMPIRE INTERACTIVE. Scale di legno portano al primo piano. Le finestre sono buie, ma da una di esse proviene una luce bluastra, forse di un monitor. Caroline sale le scale. Solo una volta Caroline ha passato sei mesi interi senza vedere un cadavere. Appena arriva sull'ultimo gradino riconosce l'odore. Prova a girare la maniglia, e nota che la porta non è chiusa a chiave. Caroline Mabry fa un respiro profondo ed entra. "Gli occhi possono confondersi in due modi: quando passano dalla luce alle tenebre, e quando passano dalle tenebre alla luce." Platone, Repubblica VI Deposizione 1 - Chi sono io Chi sono io per descrivere la vita di Eli Boyle? Per scrivere del suo inizio e della sua fine, quando in realtà non mi sono mai preoccupato di sco-
prire ciò che lo stimolava, che lo spaventava, che lo faceva sognare? Quando questa storia sarà di dominio pubblico, i media riassumeranno la vita di Eli in un cliché: dalle stalle alle stelle e viceversa. E forse avranno anche ragione. Io davvero non so in cosa credesse Eli, o cosa pensasse, né immagino quale significato possa avere la sua storia. Conosco soltanto l'orrore della sua adolescenza. Dopo il ballo di fine anno, il mondo continuò ad andare avanti come al solito. Tommy Kane non mi rivolse mai più la parola, e sospetto sia stato lui a gettare nel gabinetto il mio annuario (fu ripescato da un bidello, e lo conservo ancora, malgrado le macchie e le pagine rovinate) ma non mi importava molto. Dana e io non ci mettemmo insieme. Mi piacerebbe credere che fu per rispetto verso i sentimenti di Eli, ma in realtà penso che dipendesse piuttosto dalla rigidità dei nostri rispettivi personaggi scolastici. A scuola, Dana sparì di nuovo nei maglioni larghi e nelle pettinature da ragazzina. E io restai sorpreso dalla facilità con cui scomparve anche la mia attrazione per lei. Non potevo evitare di considerarla troppo intellettuale e troppo "bambina". Cominciai a pensare alla ragazza del Davenport come se fosse un'altra persona. Ma devo dire che non fu tutta colpa mia. Dana iniziò a evitarmi e ad arrossire quando la salutavo. Forse mi considerava un errore, una macchia sul suo immacolato curriculum scolastico. E quando lessi ciò che aveva scritto nel mio album ripescato dal cesso - "Sarò sempre tua amica. Fa' il bravo. Dana" - capii di essere stato scaricato. Anche tra me e Susan era finita. Lei non firmò il mio annuario, e non ci furono più incontri erotici, cosa che mi rattristò parecchio. Mi piacerebbe poter dire che le ragazze come Susan, tutta facciata e niente integrità strutturale, non mi interessavano più, e che avevo imparato ad apprezzare l'affascinante architettura delle donne come Dana. Ma questa è una storia di debolezza, non di forza. Neppure Eli firmò il mio annuario, e inoltre non mi rivolse più la parola. Era come se per lui avessi cessato di esistere. Pensai di scusarmi, di dirgli che tra Dana e me non c'era niente, che si era trattato di uno sbaglio, ma forse avrei soltanto peggiorato le cose. Sarebbe stato come dire che gli avevo rubato qualcosa che non volevo, solo per umiliarlo. Mentre cercavo di decidere come comportarmi, un giorno le mie scarpe da ginnastica, i jeans e la maglietta, che avevo prestato a Eli, riapparvero davanti alla porta di casa mia, piegati e stirati. La scuola finì senza che fossi riuscito a dire nulla a Eli o a Dana. Certo,
avrei potuto telefonare a ciascuno di loro in qualunque momento, ma dentro di me era accaduto qualcosa. Con la prospettiva dell'università, tutte quelle storie da adolescenti non mi interessavano più. I giorni scivolavano uno sull'altro. La mia vita prese una strana nostalgia, dolce, distante e immutabile. La mia famiglia sembrava un album di ricordi. Facevo in modo di non vedere quasi più i miei: di notte lavoravo come lavapiatti in un ristorante, e dormivo quasi tutto il giorno. Sarei stato il primo della famiglia ad andare all'università, e i miei ne erano intimiditi. Non sapevano come comportarsi con me. Mi davano da mangiare e da dormire, ma si tenevano fuori dai piedi. Ben era l'unico che non accettava questa nuova situazione. Aveva appena compiuto sedici anni, e malgrado fosse rimasto piccolo di statura, doveva comunque vedersela con i peli che iniziavano a spuntargli sul viso e con le continue erezioni dell'adolescenza. Io ero stato sempre una specie di guida per lui, e ora che lui aveva più che mai bisogno di me, io ero sparito dalla sua vita. Ben non capiva perché non potessimo andare al lago insieme, giocare a basket, parlare di ragazze o starcene seduti sotto il portico la sera, a ridere insieme. «Lascia dormire tuo fratello» lo rimproverava mia madre, quando Ben si affacciava in camera mia di pomeriggio. Io me ne stavo steso a letto, con il cuscino intorno alla testa, cercando di imitare il respiro regolare di una persona addormentata. Alla fine lui capì, e verso la fine dell'estate si limitava a rivolgermi un cenno, ogni volta che mi vedeva. Quando partii per l'università, Ben era in campeggio con degli amici. Era il primo giorno di settembre: emersi dalla porta di casa con una valigia in ciascuna mano. Le mie sorelle mi abbracciarono. Mia madre pianse. Mio padre mi consegnò le chiavi della sua vecchia Dodge Colt, come se avessi vinto un gioco a premi. «Non posso pagarti l'università» mi disse «ma posso almeno fare in modo che tu ci arrivi.» «Grazie» dissi, stringendogli la mano. Poi salii in macchina e partii. Avrei dovuto sapere, ovviamente, che mi lasciavo dietro delle faccende in sospeso, con Ben, Eli e Dana. Ma quell'estate la solitudine mi aveva stordito come una droga, e lasciai perdere tutti i vecchi propositi. Credevo a ciò che ci insegna la televisione: che nella prossima puntata cambierà tutto, che il passato è morto, e che l'unico mondo reale è quello in cui siamo adesso. Guidai la macchina di mio padre sotto le nuvole di fine estate, verso ovest sulla I 90, con il braccio appoggiato sul finestrino, e il vento che agi-
tava la manica della camicia. Arrivai sulla cresta di Sunset Hill e vidi Spokane allontanarsi nello specchietto retrovisore, mentre il sole illuminava gli edifici del centro. Quel momento possedeva una strana familiarità: era l'inizio del sogno che avevo sempre coltivato. Eli, Dana e io andammo tutti e tre all'università. E non ci vedemmo più per oltre dieci anni. Dana studiò a Stanford, come aveva detto. Tornava a casa di rado, ma sentii dire da amici comuni che aveva finalmente cambiato modo di vestire. Indossava gonne attillate e jeans strappati, e fumava. Ma, nonostante il nuovo aspetto ribelle, prese due lauree, in sistemi informatici aziendali e in marketing. Entrò a far parte di un gruppo di giovani laureati che vivevano intorno alla Silicon Valley, e che si preparavano a formare l'avanguardia della nascente new economy. Per Eli, invece, in quei primi dieci anni dopo il liceo le cose andarono diversamente. Passò un anno in un community college, ma poi fu costretto a lasciare gli studi per occuparsi della madre, a cui era stato diagnosticato il morbo di Parkinson. Traslocarono in un appartamento in centro, per essere più vicini all'ospedale, ed Eli iniziò a lavorare in un laboratorio fotografico. Lo vidi una volta sola, durante quel periodo. Indossava un grembiule da lavoro, e trascinava i piedi sul marciapiede con le spalle curve e il naso immerso in un libro. Io ero con due membri del mio club universitario, figli privilegiati di stimati professionisti, e mi dispiace dover confessare che feci finta di non vederlo. I primi anni all'università furono straordinari. Seattle era la città che avevo sempre desiderato. Mi lasciai tranquillamente alle spalle Spokane, con la sua imbarazzante povertà, le sue ambizioni represse, i suoi sogni modesti. La disprezzavo proprio come un figlio ingrato disprezza una famiglia ignorante. Consideravo il mio passato come una specie di malattia dell'infanzia che ormai avevo superato. Il campus dell'Università dello Stato di Washington si aprì per me come un pacco regalo. Con zainetto, Ray-Ban e camicie polo, marciavo insieme ad altri ventimila studenti, da una lezione all'altra, da una caffetteria di Wallingford a un cocktail bar di Belltown. Andavo in kayak e in mountain-bike, praticavo il free-climbing, lanciavo il frisbee su spiagge fredde, bevevo birre canadesi e facevo sesso con ragazze magrissime su letti a castello. Studiavo. Prendevo il massimo dei voti. Costruivo una rete di relazioni. Ma soprattutto cercavo di ottenere delle cariche. Iniziai dal basso, facen-
domi eleggere capo del mio dormitorio («Votate Mason!») finché il penultimo anno fui nominato vicepresidente del mio club (l'anno dopo sarei stato presidente) e presidente della sezione universitaria dei Giovani Democratici. Ricoprivo anche posizioni minori in altre sei organizzazioni. Frequentavo un gruppo di studenti con le mie stesse ambizioni, e lavoravamo su rapporti e sondaggi con lo stesso fervore che mettevamo nell'andare a caccia di donne. A un certo punto, credo al secondo anno, smisi di pensare a me stesso come a un ragazzo di Spokane. Facevo parte del torrente di persone che proprio allora stava iniziando a inondare Seattle con arroganza e intraprendenza. Autostoppisti e motociclisti, cercatori e snob, una setta casual di devoti del realismo nordoccidentale. Nei successivi venti anni avremmo rovinato tutto ciò che trovavamo affascinante: i vecchi alberghi, i bar irlandesi e le taverne di Pioneer Square. Scoprimmo bettole fumose piene di vagabondi ubriachi e marinai norvegesi, e fumammo e bevemmo insieme a loro, affascinati dalla loro autenticità, finché a un tratto alzammo lo sguardo, e ci accorgemmo che i vagabondi erano stati sostituiti dagli ingegneri elettronici, i pescatori dai pony-express, e nel menu c'erano humus e tofu. Le caffetterie dai cucchiai unti dove facevamo colazione divennero imitazioni turistiche di caffetterie e solo ponendo attenzione al menu ciambelle integrali al formaggio di capra, sformato di erbette - era possibile capire la differenza. Tutte le stazioni di benzina diventarono bar, e all'epoca in cui lasciai Seattle era possibile scegliere tra cento tipi di caffè diversi, ma trovare della benzina decente era quasi impossibile. «Non senti nostalgia di casa?» mi chiedeva mia madre al telefono, all'inizio della mia storia d'amore con Seattle. Poi iniziò a essere più diretta: «Pensi di tornare a casa, un giorno?». Ma come potevo andarmene, anche solo per un fine settimana? Spokane era a quattro ore di distanza, ma ormai era sparita dalla mia memoria. Vi feci ritorno solo tre volte, il primo e il secondo anno. «Ho tanto da fare» era la mia risposta standard alle costanti richieste di mia madre. Questo era il vantaggio di essere il primo studente universitario della famiglia. Loro non potevano fare altro che credere e accettare i miei racconti di ore e ore passate sui libri, lezioni a frequenza obbligatoria, e conferenze. Le poche volte che andavo a casa mi sentivo completamente lontano da Spokane, e dai miei genitori. Parlavo con tono arrogante, con lo zelo di un convertito. Ogni due frasi dicevo: «Il problema di questo posto...». Ero convinto che la vitalità di Seattle rivelasse le debolezze di Spokane: troppi
pensionati, l'incapacità politica ed economica, la mancanza di immaginazione, la sciatteria. Mia madre e mio padre erano orgogliosi degli ottimi voti che prendevo agli esami, e sopportavano i miei sproloqui. Anche le mie sorelle ascoltavano le mie "lezioni". L'unico che non accettava quelle stupidaggini era mio fratello Ben. «Spokane è una tazza di piscia» mi rimbeccò quello stesso Natale. «Seattle è una tazza di piscia più grande.» In quel periodo i miei iniziavano a preoccuparsi che il cinismo di Ben non fosse soltanto una fase adolescenziale. Ormai anche lui aveva finito le superiori ed era diventato un giovane magro e caustico, con i capelli corti e i lineamenti marcati. Aveva abbandonato la giacca e la pipa, e praticava una sua filosofia che definiva "pigrizia illuminata" che consisteva nello starsene seduto in pigiama in casa dei miei, sfogliando vecchi libri di filosofia, giocando al computer e bevendo vino rosso in bicchieri di cartone. Quando mio padre lo invitò a iscriversi all'università, Ben non ne volle sapere. Si trovò un appartamento e un lavoro come uomo delle pulizie in un ospedale. Lavorava di notte, così le giornate gli restavano libere per starsene seduto in pigiama a leggere Nietzsche e Sartre, e a bere vino rosso in bicchieri di cartone. Quell'autunno - ero al penultimo anno - ogni volta che chiamavo casa, si finiva sempre per parlare dei problemi di Ben. «Ha bisogno di andarsene da Spokane» dicevo io. «Quel posto favorisce l'apatia.» Mia madre invece sosteneva che mio fratello sentiva la mia mancanza, e scimmiottava il mio comportamento durante l'ultima estate che avevo trascorso a casa. Così, una frizzante mattina di ottobre, attraversai lo stato di Washington per calare di nuovo su Spokane, su tutto ciò che mi ero lasciato alle spalle. Andai direttamente all'appartamento di Ben, vicino allo Spokane Falls Community College, su una collina di pini e basalto a nord-est della città. Era un monolocale al pianterreno, con tende scure e finestre a oblò. Erano le undici del mattino, e dovetti suonare tre volte prima che lui mi aprisse, in pigiama di flanella e con gli occhi semichiusi. Lo seguii in cucina, dove lui prese una scodella di cereali e si versò un bicchiere di vino. «Non è un po' presto per il Chianti?» chiesi. Ben si passò una mano tra i capelli. «Non puoi bere del Riesling con i cereali» rispose. L'appartamento era buio e fetido, umido come l'interno di una scarpa. «Mamma e papà vogliono che io ti convinca ad andare al college» dissi. Ci sedemmo sul divano sfondato del soggiorno, dove il televisore da do-
dici pollici trasmetteva una partita di calcio. C'erano libri dappertutto. Ne presi uno a caso: Ribellione e morte, di Albert Camus. «Fai i compiti, ma non vuoi voti. Dico bene?» «Secondo te dovrei pagare qualcuno perché mi dica quali libri devo leggere?» «Per te la scuola sono solo i libri? E la gente? L'esperienza, la vita sociale?» «Già, hai ragione» disse lui con finta serietà. «Forse dovrei iscrivermi al tuo club universitario, così potremmo andare insieme a violentare le ragazze.» «Ascolta, io sono venuto solo perché mamma me l'ha chiesto. Quello che fai non mi importa.» «Oh, ma non mi dire!» rispose lui, ingollando un sorso di vino. Lo convinsi a vestirsi e a fare una passeggiata. Io avevo una giacca a vento. Lui si mise tre felpe. Ci avviammo giù lungo Pettet Drive, attraversammo il fiume, e quando Ben alzò gli occhi si rese conto che lo avevo pilotato verso il campus dello Spokane Falls Community College. «Che furbo» disse. «Scusami» ribattei. «So che il tuo sogno è quello di vivere in quella topaia al pianterreno e passare il resto della vita a...» «In realtà sto aspettando che si liberi un appartamento al secondo piano.» «...a pulire i pavimenti, a bere e a giocare con l'Atari.» «Sto risparmiando per comprarmi un Nintendo.» «Non desideri qualcosa di più di quello che avevamo da piccoli?» «Niente affatto» rispose. «Vorrei avere esattamente ciò che avevamo da piccoli.» Entrammo in un edificio del college. C'erano vari studenti che mangiavano e studiavano nella caffetteria. «Davvero tutto questo non ti sembra meglio che pulire i pavimenti?» chiesi. «E tu davvero pensi che non ci sia bisogno di qualcuno che pulisca questi pavimenti?» «Sì, ma non vedo perché devi essere tu.» «Qualcuno deve pur farlo.» Ben gettò un'occhiata circolare agli studenti, poi distolse lo sguardo. «Sai qual è il tuo problema, Clark? Tu decidi quello che stai per vedere ancora prima di aprire gli occhi.» Quella uscita mi divertì. «Sul serio? Cosa te lo fa pensare?»
«Vuoi davvero sapere quello che penso?» «Certo.» «Penso che sei così occupato a salire la scala sociale da non notare affatto ciò che ti circonda.» «Questo è il successo, Ben» replicai. «È ciò che ti spinge avanti.» «O che ti spinge a fuggire.» «Io non fuggo da niente. Forse la parola fuga è più adatta a te.» Lo trascinai di fronte a una bacheca con sopra la scritta CLUB in stampatello. «C'è tutto un mondo, là fuori...» «C'è tutto un mondo anche qui dentro» disse lui, indicandosi la testa. Feci scorrere la mano sulla bacheca piena di foglietti e avvisi di almeno trenta associazioni universitarie, dal Movimento Studentesco Gay e Lesbico all'Unione Studentesca Araba, al club di free-climbing. «Sai cos'è questo?» dissi, strappando un numero di telefono da un foglietto di un club filosofico. «È...» In quel momento con la coda dell'occhio vidi qualcosa che mi gelò. «Cosa c'è?» disse Ben. Il nome del club era scritto in lettere verdi su un foglio bianco, ma non c'era nulla che spiegasse di cosa si occupava. Solo luogo e data della prossima riunione, che era proprio quel giorno. Sui foglietti da staccare c'era il nome e il telefono di una persona da contattare. Ancora oggi, tanti anni dopo, mi chiedo cosa sarebbe accaduto se non avessi preso quel pezzetto di carta. «Non è...» cominciò Ben. «Penso proprio di sì» dissi. Restammo entrambi a fissare quel rettangolino di carta, su cui era scritto il nome del club, EMPIRE, e il nome della persona da contattare. Eli Boyle. 2 - Le riunioni dell Empire Club Le riunioni dell'Empire Club si tenevano il sabato pomeriggio in un locale scuro e fumoso chiamato Fletts, poco lontano dal centro. Di notte Fletts serviva una clientela di forti bevitori e fumatori. Di giorno il fumo si dissipava e la gente seduta al bar ordinava pasticcio di carne con salsa. Io ero seduto su uno sgabello al bar, da dove potevo vedere la sala. Era l'una e mezza, e la riunione era alle due. Ordinai un caffè e una zuppa di pomodoro, e stetti lì a mangiare con la visiera del berretto abbassata sulla
fronte e il bavero della giacca a vento rialzato, a osservare Eli che sistemava pile di fogli su ciascun tavolo. Non era cambiato molto, a parte la pancia che gli sporgeva dai pantaloni. Ma ciò che mi sorprese fu il suo sguardo intenso. «Non riesco ancora a credere che quello là ti abbia riempito di botte» disse Ben. Mi resi conto che era stato un errore lasciarlo venire. «È finita pari» ribattei. «Pensi di parlargli?» «Non lo so.» I membri del club iniziarono a entrare nella sala. «Ciao caro» diceva la vecchia cameriera. «Benvenuto, tesoro.» Il primo era un giovane allampanato con i capelli scuri e il nasone, seguito da un ragazzo dall'aria fragile su una sedia a rotelle spinta da una signora che probabilmente era sua madre. Due ragazze ciccione arrivarono insieme, con il passo sincronizzato, seguite da un altro ragazzo, molto pallido. Tutti avevano delle cartellette nere con la parola EMPIRE scritta sopra. Cinque minuti prima dell'inizio della riunione, qualcuno mi infilò un dito tra le costole. «Clark Mason, non posso crederci!» Mi voltai, aspettandomi di vedere Eli, malgrado la vocetta acuta, e mi trovai di fronte a un giovane alto più o meno un metro e venti. «Louis!» «Sono cambiato?» mi chiese. Mi sembrava proprio di no. Capelli crespi e lineamenti larghi, da clown. «Sono cresciuto di altri cinque centimetri» annunciò, orgoglioso. Appena lo disse me ne accorsi. Come nano era effettivamente piuttosto alto. «Ti trovo benissimo» dissi. «Fai anche tu parte di...» «Dell'Empire?» disse lui, mostrandomi la cartelletta nera. «Sì, è un bel club. Eli è davvero in gamba. Sei qui per...» «No» lo interruppi. «Passavamo di qui per caso...» «Quante probabilità ci sono?» intervenne Ben. «...e ci siamo fermati a mangiare qualcosa.» «Non sappiamo resistere alla zuppa di pomodoro!» disse Ben. Gli diedi una gomitata. «Ma è proprio un club?» chiesi a Louis. «L'Empire? Non so. È difficile da spiegare. Somiglia più a un gioco interattivo.» Si interruppe subito, e aggiunse: «Eli non vuole che lo definiamo un gioco». «E lui come lo definisce?» «Prima lo chiamava "mondo alternativo". Ora soltanto "Empire". È convinto che se iniziassimo a etichettarlo con un nome lo uccideremmo.»
«Insomma, è una specie di gioco di ruolo come Dungeon and Dragons?» chiese Ben. Louis si morse il labbro di sotto. «Penso sia meglio che lo chiediate direttamente a Eli.» «Secondo me somiglia più a Risiko» dissi, ricordando che Eli disegnava sempre carri armati, da piccolo. «È uno di quei giochi dove bisogna conquistare i territori avversari?» «Sì, c'è anche qualcosa di questo. Ma davvero dovreste chiedere a Eli.» Io guardai verso la sala. «Non so se gli farà piacere vedermi.» «Già» convenne Louis. «Eli non dimentica molto facilmente.» Restai sorpreso di scoprire che Louis sapeva dei dissapori tra Eli e me. «Forse ripasso la prossima volta che torno a Spokane.» Louis sembrò sollevato. «Sì. La prossima volta.» La cameriera vide Louis e gli portò una Coca: «Ciao, ragazzone». «Ciao, dolcezza. Mi chiedevo quanto ci avresti messo a venire.» «Se mi tocchi tu, vengo subito» disse lei. Louis scoppiò a ridere. Mentre flirtava con la cameriera, cercai di esaminare da vicino la sua cartelletta, ma la teneva stretta. Ormai nella sala c'erano una decina di persone. «Mi faresti il favore di non dire nulla a Eli?» chiesi. «Certo. Mi ha fatto piacere vederti, Clark.» Louis avanzò nella sala, seguito dalla cameriera che portava un vassoio di bicchieri e due caraffe di Coca Cola alla spina. Eli sollevò un orologio da tasca, disse qualcosa e subito iniziò una grande attività. Sembrava un piccolo mercato azionario. Tutti spostavano fogli, negoziavano, si scambiavano foglietti che somigliavano ai soldi del Monopoli. Sembravano rilassati e sereni, ma lavoravano duro. Eli non sorrideva. Ritirava fogli di carta e ne distribuiva altri, parlando e gesticolando, e si voltava per spostare degli spilli colorati su una grande mappa appesa alla parete. «Mi spaventa» sussurrò Ben. Eli lavorava con tale energia che era difficile smettere di fissarlo. A un certo punto si pulì il sudore dalla fronte e rimbrottò una ragazza che aveva fatto qualcosa di sbagliato: lei abbassò gli occhi per la vergogna. Ben e io restammo a guardare per altri dieci minuti, poi pagammo le nostre zuppe (Ben non aveva neppure assaggiato la sua) e uscimmo, passando vicino alla sala. Da dentro qualcuno urlò: «Due qui! Chiamo!». Ci incamminammo verso casa di Ben. «È strano starsene lì a guardare qualcuno che non sa di essere osservato» disse Ben.
Capivo cosa volesse dire mio fratello. «Lui è sempre stato così. C'è sempre stato un abisso tra il modo in cui si considera lui e il modo in cui lo considerano gli altri.» «E qual è il vero Eli?» chiese Ben. «Cosa vuoi dire?» Per la prima volta da quando avevo suonato alla sua porta, Ben sembrava incuriosito. «Mi chiedo quale sia la visione più autentica della realtà: il modo in cui ci vediamo noi, o quello in cui ci vedono gli altri? Eli è il re di quella stanza? Il re delle ragazze grasse, dei nani e degli albini? Oppure è il solito ragazzo goffo del nostro quartiere, la cui unica impresa degna di nota è stata quella di averti preso a calci nel culo?» «Eli è quello che è.» «Ma io non parlo soltanto di lui.» Ben si fermò e si appoggiò al recinto di un giardino pubblico. Dietro di lui, alcuni ragazzini facevano tiri a canestro. «Parlo di tutti noi. Di me. Io immagino di fare una vita ascetica, in cui rinuncio a tutto, eccetto alla mia curiosità. Ma tu arrivi all'improvviso e vedi soltanto un tizio che spreca la sua vita bevendo vino davanti alla tivù.» Ben si sfregò una guancia, in cerca di un pensiero. «Parlo anche di te, che immagini di essere superiore a tutti noi, con il tuo club universitario e il tuo taglio di capelli da avvocato.» Non negai. «E tu cosa vedi, invece?» «Non ha importanza.» «No, sul serio» insistetti. «Cosa vedi quando mi guardi, signor Asceta, signor Chianti, signor Curiosità?» «Ecco, vedo un uomo così preoccupato di come lo considerano gli altri, da aver dimenticato chi è e da dove viene.» Lo afferrai per il colletto della felpa e lo spinsi contro il recinto. «Te lo dico una volta sola. Eli Boyle non mi ha preso a calci nel culo.» Sorrisi, poi sorrise anche lui, e lo lasciai andare. Ma per qualche minuto continuai a sentire nella testa l'eco delle parole che aveva detto. Tornammo al suo appartamento. Nel quartiere di Ben, una quantità di finestre erano coperte di plastica, cartone o nastro adesivo. «È finito il vetro, in questa città?» chiesi, mentre oltrepassavamo due bambini che giocavano in un prato asfittico. Uno dei due era seduto dentro una vasca da bagno che emergeva dalle erbacce, mentre l'altro con un bastone tempestava di colpi la vasca. Ben sospirò. «Stai facendo il classico errore di tutti gli snob.»
«E sarebbe?» «Credere che i poveri siano poveri per loro scelta.» Il quartiere dove abitava non era molto diverso da quello in cui eravamo cresciuti. Per la prima volta capii che, anche se frequentavo i caffè all'aperto di Capitol Hill e bevevo birra in Pioneer Square, Seattle non sarebbe mai stata casa mia. Sebbene conoscessi una quantità di persone attraenti e interessanti, ero sempre solo tranne quando ero con mio fratello. «Faresti meglio a tornartene a Seattle» disse Ben, quando arrivammo davanti a casa sua. «Già» risposi. «Domani ho parecchio da fare.» «Lo immagino.» «Non ce l'hai con me?» «Niente affatto.» «E farai almeno un pensiero sull'università?» chiesi. «Ci penserò tutti i giorni» mi assicurò lui. Ci abbracciammo goffamente, e io mi avviai verso la macchina. Volevo dirgli che si sbagliava, che io conoscevo la differenza tra ciò che pensavano gli altri di me e ciò che io sapevo su me stesso. Ma quando mi voltai Ben era sparito dentro la sua grotta. 3 - Mio fratello morì Mio fratello morì all'improvviso, il 19 novembre del 1985, un mese dopo la mia visita, proprio mentre io davo l'esame di dottrine politiche. Quella stessa ora lui la passò perdendo e riacquistando coscienza, imprecando contro un'infermiera, strappandosi i tubi della flebo, chiedendo di vedere nostro padre, respirando a fatica per alcuni minuti. Poi si irrigidì. Mio fratello morì nonostante gli sforzi di un'intera squadra medica, che tentò di riportarlo in vita a colpi di iniezioni ed elettroshock. Morì due ore dopo essere stato sottoposto per la prima volta a un trattamento sperimentale di chemioterapia, spegnendo per sempre nella mia famiglia la fiducia nella classe medica. Mio fratello morì ventiquattro giorni dopo che gli era stato diagnosticato un linfoma di Hodgkin al quarto stadio. Il suo medico disse di non aver mai visto un'evoluzione così rapida di quella malattia. Mio fratello morì una settimana dopo aver compiuto diciannove anni. Tu potresti chiederti, Caroline, perché ho aspettato tanto prima di menzionare un avvenimento così importante come il cancro di mio fratello. E perché ora cerco di inserirlo in questo testo come un fatto tra tanti, come se
avesse lo stesso peso del primo bacio, del giorno in cui presi la patente, delle gioie dell'università. La mia unica difesa è la cronologia, a cui noi ci attacchiamo come a una fede, nella vana speranza che, se obbediamo all'ordine delle cose, l'universo forse non andrà in malora, il tempo non si accumulerà intorno a noi, e noi non saremo seppelliti da eventi casuali, o rovinati dal dolore e dalla confusione. Invece tutto accade ugualmente. Una settimana dopo la mia partenza, il supervisore di mio fratello chiamò mia madre per dirle che Ben non si presentava al lavoro da due giorni. Mamma lo trovò svenuto nel suo appartamento, in pigiama, con un bicchiere di vino rovesciato sul linoleum. Aveva la febbre e sudava, e il collo era orribilmente gonfio. Gli era già successo negli ultimi due anni, ma in modo molto più lieve. Mia madre pensò agli attacchi di freddo improvviso e ai problemi di insonnia di cui soffriva Ben. Lo chiamò per nome, gli accarezzò la fronte, e ritirò la mano calda e bagnata. Non so se in quei giorni furono i miei genitori a nascondermi la gravità della malattia di Ben, o furono i dottori a nasconderla a loro, o se semplicemente io non capii. Ma dall'altra parte dello stato, tutto accadde rapidamente. Ricordo le dichiarazioni telefoniche contraddittorie di mia madre: «I dottori pensano che sia l'esaurimento», «Gli stanno facendo dei test per il cancro»; «Dicono che è la malattia di Hodgkin»; «Sembra grosso»; «Dicono che è al quarto stadio, forse ci sono delle speranze». Non do nessuna colpa a mia madre. Si trovò catapultata all'improvviso su un pianeta con un linguaggio completamente diverso dal suo, che i medici usavano per celarle la morte imminente di mio fratello. Lei era costretta a fare domande di cui non conosceva le parole giuste, e doveva sopportare tutto da sola. Mio padre non riuscì neppure a entrare nell'ospedale, e le mie sorelle erano ancora troppo piccole per essere d'aiuto. Io pensavo di tornare a casa alla fine del trimestre, ma arrivai troppo tardi. Dopo la sua morte, i medici dissero che il corpo di Ben aveva rigettato le medicine sperimentali. Era stato fortunato perché alla fine non era lucido. Io non riesco a pensare a Ben come a un ragazzo fortunato. Lui aveva una visione matematica del mondo, era affascinato dalle probabilità. «Quante probabilità ci sono?» diceva sempre. Scommetteva su tutto: partite di football, azioni di borsa, elezioni, il tempo del giorno dopo. Amava i racconti di colpi di fortuna rari e meravigliosi: i vincitori della lotteria, l'uomo che cade da un aereo e sopravvive, la donna che trova un Van Gogh in soffitta. «Quante probabilità ci sono?» diceva. E non era solo un modo di dire, vo-
leva saperlo davvero. «Una su un milione?» dicevo io. «Una su tre milioni» rispondeva. Più scarse erano le probabilità, più profondo il suo interesse. Chissà cosa avrebbe detto se avesse saputo che la malattia che l'aveva fatto morire colpisce una persona su ducentomila, e che l'ottanta per cento dei linfomi di Hodgkin possono essere curati. Invece il suo presentava una combinazione di fattori per cui le probabilità di una remissione erano, come amavano dire i medici, trascurabili. Naturalmente Ben avrebbe disdegnato una parola così imprecisa. Secondo lui esisteva un numero per ogni cosa nell'universo. Si poteva misurare non solo l'altezza di una persona, ma anche il suo coraggio. Non solo il peso, ma anche il dolore. Ero appena tornato in dormitorio quando uno del mio club mi disse che mi volevano al telefono. La cornetta era appoggiata sul tavolino. La presi, dissi «Pronto?» e all'inizio non riconobbi la voce di mio padre. «Clark? Sono papà.» Sembrava insicuro, traballante, come se fosse in precario equilibrio sul bordo di un grattacielo. «Ben è morto un'ora fa.» Nella memoria, il mio dolore è al di là di ogni descrizione, privo di forma e misura, e riempie tutto, le stanze, le auto, le conversazioni. Ma il mio dolore non è il punto di questa storia, perciò non parlerò dei giorni e delle settimane che seguirono, di cui comunque non ricordo molto, a parte i pianti di mia madre e il modo in cui le braccia di mio padre pendevano inerti lungo i fianchi. Il funerale, come tutti i funerali dei giovani, fu insopportabilmente triste. Alcuni degli amici di Ben, soffiandosi il naso davanti alla bara, dissero che era «un ragazzo in gamba». A Ben sarebbe piaciuta l'idiozia di tutto lo spettacolo: la solennità melodrammatica, l'ipocrisia, il modo in cui persone che lo conoscevano appena inventavano rapporti profondi con lui, torturandoci con stupidi ricordi e luoghi comuni. Dopo il funerale, molti si avvicinarono a me per una veloce ricapitolazione dell'accaduto. «Così all'improvviso» dicevano, scuotendo la testa. «Già.» «Era il tuo unico fratello» continuavano, forse pensando che non lo sapessi. «Mmmh.» «E tu, non sei riuscito ad arrivare a casa in tempo.» «Già.» «Devi sentirti distrutto.» «Si.» E infine riassumevano tutto nella frase: «Un ragazzo così giovane».
«Già» dicevo io. «Quante probabilità ci sono?» Dopo il funerale passai la notte a casa dei miei, ma capii subito che dovevo andarmene. Il giorno dopo tornai a Seattle, con la radio spenta e i finestrini abbassati, assaporando il vento gelato. Mi fermai a Vantage, un villaggio sul fiume Columbia, presi un caffè e restai a osservare la massa nera dell'acqua che si dirigeva verso l'oceano. Dalle mie parti, tutto scorre da est a ovest. Anch'io feci la stessa cosa. Continuai a guidare finché uscii dalle Cascades ed entrai tra le nuvole dei Puget Sound. A Seattle c'era un tempo da cani, con pioggia e nebbia. La prima notte dormii in macchina: non volevo vedere nessuno del club. Poi presi una stanza in un motel e ci restai per tutta la settimana, nutrendomi solo di acqua e patatine fritte. Lunedì mattina il cielo si aprì all'improvviso, le montagne emersero dalla nebbia e i colori risaltarono nitidi. Sapevo di dover riprendere la mia vita normale, perciò quella mattina tornai a lezione. Entrai in classe, e mi lasciai cadere su una sedia. Qualche minuto dopo iniziarono ad arrivare gli altri studenti, infine fece il suo ingresso il professore di dottrine politiche, con le braccia incrociate sul petto come due bandoliere. «Mason?» disse. «Lei ha perso diverse lezioni.» «È vero» risposi, semplicemente. Lui annuì. «Bene, siamo ancora ai Greci.» Quell'uomo si chiamava Richard Stanton, ex avvocato, conduttore televisivo e politico. Con il tempo sarebbe diventato anche il mio consigliere, il direttore della mia campagna elettorale, e il mio migliore amico. Era poco al di sotto della cinquantina, con i capelli grigi e un aspetto che le ragazze trovavano affascinante, anche se la profonda fossetta sul mento gli aveva guadagnato il soprannome di "faccia da culo". Era uno di quegli uomini che non accettano di invecchiare. In quel periodo si era messo un piccolo orecchino, e portava i capelli un po' troppo lunghi per un avvocato, legati in un codino cortissimo, che per lui doveva essere molto importante. Stanton era tenuto in scarsa considerazione dalla comunità universitaria. «Quel fottuto nido di vipere», diceva dei colleghi. Secondo lui si trattava soltanto di invidia. Il suo unico libro, un volumetto di ottantaquattro pagine intitolato Storia del progressismo politico nel Nord-ovest del Pacifico, era stato pubblicato da un editore a pagamento e consisteva principalmente in un collage di citazioni. Tuttavia il suo modo di insegnare lo rendeva molto popolare tra gli studenti. Aveva due stili: quello lento, pensoso, accademico, con l'indice piantato al centro del mento e uno sguardo di pro-
fonda contemplazione. E quello da "scimmia ragno", in cui saltava in giro per l'aula, balzava sulle sedie, si sedeva su banchi e scrivanie, accavallando rapidamente le gambe o facendo altri movimenti intesi a svegliare la nostra curiosità intellettuale. Quello di Stanton era uno dei miei primi corsi di livello superiore: una trentina di allievi, tra cui molti, come me, erano ex presidenti di club liceali, rappresentanti di organizzazioni studentesche, degli Eagle Scouts o delle Figlie della Rivoluzione Americana: insomma, i futuri attivisti e candidati alla guida politica del paese. Ma devo dire che non eravamo dei grandi pensatori. La maggior parte di noi prendeva il massimo dei voti per abitudine, senza sforzarsi troppo. Così in futuro ci aspettavamo di continuare a vincere, di salire senza fatica ai massimi livelli del mondo che avremmo scelto. Il corso di dottrine politiche di Stanton sembrava più un corso di filosofia che di politica. Iniziò con Mosè e con l'idea del legislatore, e in teoria avrebbe dovuto continuare con i Greci e i Romani, per poi passare attraverso sant'Agostino e Thomas Moore, e arrivare infine a Rousseau, Thomas Paine, De Tocqueville e Hobbes, Locke e Marx. Ma a Stanton interessavano soprattutto gli antichi, perciò raramente si spingeva oltre i Romani. A volte riassumeva secoli di pensiero politico in una sola lezione: «E la Disobbedienza Civile di Thoreau ci porta a Gandhi, e naturalmente anche a Martin Luther King. Qualche domanda?». Perciò quando tornai non mi stupii di sapere che eravamo ancora ai Greci, e precisamente ai tre grandi preferiti del professor Stanton: Socrate, Platone e Aristotele. Ma quel giorno lui non era in gran forma, e la mia mente vagabondava qua e là, senza meta. Fu allora che accadde. Non voglio definirla un'esperienza religiosa, o una realizzazione. Fu semplicemente un flash, un risveglio. Accadde alle 11.48 del 21 novembre 1985, due minuti prima della fine della lezione. Era una di quelle giornate serene d'autunno che ti fanno sentire come un ragazzino che si annoia in attesa della ricreazione. Stanton parlava della Repubblica di Platone, e precisamente di quella parte in cui Platone fa dire a Socrate: «Finché i filosofi non saranno re (...) le città e tutta la razza umana non avranno sollievo dai loro mali». Il professore era steso di lato sulla scrivania, con le gambe intrecciate come amanti addormentati. Cercava di farci capire la nozione del re filosofo, ma noi filtravamo ogni cosa attraverso menti rovinate dalla televisione: immaginavamo un fumatore di marijuana con la barbetta da capra e lo sguardo sognante, e
ci chiedevamo in che modo un tipo del genere avrebbe potuto ridurre il deficit. Stanton era frustrato dalla piattezza del nostro pensiero, e dai nostri continui "cioè". A un tratto uno studente disse: «Non capisco cosa intenda dire Platone». Stanton allora saltò giù dalla scrivania e cominciò a mulinare le braccia. «Leggete il settimo libro!» urlò. «Adesso!» Io voltai le pagine fino al settimo libro della Repubblica e iniziai a leggere. All'inizio c'era un'allegoria così elaborata che facevo fatica a seguirla: Platone descriveva una profonda caverna in cui gli esseri umani erano prigionieri fin dalla nascita. Nella caverna i prigionieri non potevano vedere né il sole né il mondo esterno. L'unica luce proveniva da un fuoco acceso in alto e dietro di loro, quindi riuscivano a scorgere soltanto le ombre delle cose sulle pareti, e non le cose in se stesse. Perciò si convincevano che quelle ombre fossero la realtà. Naturalmente non ero certo il primo studente a restare colpito dalla semplice ontologia di Platone, e a immaginare la vita come una grotta, la società come qualcosa di vuoto e illusorio, e tutti i miei desideri come un mucchio di menzogne. Successo, fama, ricchezza, donne? Ombre, soltanto ombre. Ma anche se ero soltanto uno dei milioni di filosofi ventunenni sparsi nel mondo, ero anche un giovane che aveva appena seppellito suo fratello. Quel giorno mi sentivo confuso. Il pulviscolo danzava nel raggio di sole che penetrava da una finestra della classe, come una specie di Via Lattea di acari e di particelle. Come possiamo fingere che il paradiso sia lassù quando in un solo raggio di sole possono esistere interi universi? «Mason?» Stanton mi si avvicinò, e in quel momento sentii che passavo, come diceva Platone, da un regno all'altro, dalla credenza alla conoscenza. Ero sopraffatto dall'emozione, come un uomo assetato che si trovi improvvisamente immerso fino alle ginocchia in una sorgente d'acqua fresca. «Mason?» disse di nuovo Stanton. Per la prima volta nella mia vita potevo vedere. O ero accecato. O non c'era nessuna differenza tra le due cose. Mi diedi una pacca sulla fronte. Gli altri studenti si voltarono a guardarmi. «Io non...» dissi. Fissai il libro della Repubblica, un'edizione economica piuttosto rovinata, e guardai i miei compagni, intrappolati nei miei stessi stupidi sogni di competizione e successo. Sollevai una mano nel pulviscolo. Non c'era nulla. «Cosa ti succede, Mason?» «Io non...» dissi ancora, e mi rividi in Empire Road, quella strada di fal-
liti, con la crudeltà di Pete Decker da un lato, e la fragilità di Eli Boyle dall'altro. Quello sarebbe sempre stato il mio universo, la mia galassia di pulviscolo nel mio raggio di sole. Gli occhi mi si riempirono di lacrime. Il bene e il male. Il dolore è una liberazione e... «Mason?» ripeté il professore. «Io non...» Ogni sogno è una fuga, e la merdosa realtà è questa: quando un essere umano muore, tu non lo vedrai mai più. Come è possibile accettare un'ingiustizia del genere? Come è possibile accettare la morte della migliore persona che tu abbia mai conosciuto, la morte di tutto ciò che è buono e vero? Finalmente alzai gli occhi a fissare Stanton. «Io non...» dissi, asciugandomi le lacrime. «Io non credo in Dio.» 4 - Ciò che volevo Ciò che volevo ottenere con questa confessione non era un racconto delle mie illuminazioni giovanili indotte dal dolore, ma qualcosa di più, qualcosa di trascendentale. Perciò ti chiedo di nuovo scusa, Caroline. Volevo solo farti capire che non sono stato sempre così, o come il giovane politico presuntuoso che si è presentato alle ultime elezioni, o come l'uomo disperato che due giorni fa ha salito in silenzio i gradini fino allo studio di Eli Boyle con l'omicidio nel cuore. Almeno per un breve periodo, iniziato nell'autunno del 1985 e finito nella primavera del 1994, io sono stato libero. Quel giorno la combinazione della morte di Ben e della lezione di Stanton mi trasformò, liberandomi da tutto ciò in cui avevo creduto fino a quel momento. Lasciai il dormitorio del mio club per trasferirmi in un appartamento a Wallingford. Abbandonai tutti i miei incarichi nelle organizzazioni inutili a cui appartenevo. Restituii la Dodge ai miei genitori, e comprai una vecchia bicicletta. Mi feci crescere i capelli, smisi di radermi e cominciai a indossare vestiti di seconda mano, soprattutto pantaloni mimetici e camicie di flanella. Misi via l'occhio di vetro e usai una benda nera. Sedevo per strada a gambe incrociate, leggendo poesie e sorridendo ai passanti. Diventai un abitante dei marciapiedi, quasi un accattone. Stranamente, tuttavia, ciò non mi creò troppi problemi a livello sociale. Non avevo relazioni serie, ma facevo l'amore costantemente. Scoprii che
un sacco di ragazze erano attratte da uomini tristi e non troppo puliti. Erano donne che odoravano di patchouli o di sigarette ai chiodi di garofano, che non si pettinavano spesso, si laureavano in letteratura comparata o studi internazionali, e parlavano con competenza di foreste pluviali, culture dominanti e film d'essai. Passai quasi sei anni senza vedere un'ascella depilata. Misi le mie capacità politiche al servizio degli altri. Ed erano in molti ad aver bisogno di aiuto. Raccolsi fondi per i malati di Aids, per le zone colpite dalla carestia in Africa, per i rifugiati centroamericani. Facevo volontariato in scuole e comunità del Central District di Seattle. Ero un uomo migliore. Ovviamente, ora che sono un politico in disgrazia e un avvocato di bassa lega, i cinici potrebbero dubitare dell'autenticità della mia trasformazione. Come prova, posso offrire questa: per dieci anni, non mi presentai per nessuna fottuta carica. «Sai, è possibile anche andare un po' fuori di testa, con queste cose» mi disse il professor Stanton, quando gli mostrai l'ideogramma cinese della compassione che mi ero fatto tatuare sulla schiena. Io e Stanton eravamo diventati amici e lui per me, oramai, era una specie di consigliere. «Ascolta, io non so dare buoni consigli» continuò. «Mi dispiace per tuo fratello, e sono felice che tu abbia trovato qualcosa di significativo nelle mie lezioni, ma il merito è di Platone, non mio. A me Platone non piace neppure.» Io ero divertito dalle sue proteste, che dimostravano l'intelligenza di un vero mentore. Fu Stanton a incoraggiarmi a continuare gli studi, sostenendo che mio fratello sarebbe stato contento di vedere che andavo fino in fondo, e che potevo essere più utile al mondo facendo l'avvocato che non «suonando i bongos agli angoli delle strade». Così proseguii gli studi in giurisprudenza e frequentai anche un master in sociologia. Io e Stanton ci vedevamo a pranzo una volta alla settimana in uno dei bar vicino al campus. Durante la prima mezz'ora passavo il tempo a spiegargli come avrei cambiato il mondo con la mia laurea in giurisprudenza. Cercavo continuamente di guadagnarmi il suo rispetto, e ottenevo soltanto il suo divertito disprezzo. Richard Stanton è una delle persone più acute e sincere che io abbia mai conosciuto. Ecco una lista di alcune mie idee superbe e delle risposte di Stanton. Volevo aprire un ufficio di servizi legali per anziani indigenti («Farai un sacco di soldi come patrono dei vagabondi» ribatté Stanton). Fondare un istituto d'assistenza e un ufficio legale per donne maltrattate. Usare la stes-
sa casa per bambini abbandonati e orfani. Organizzare un team di avvocati per ottenere la riduzione del debito del terzo mondo e la bonifica dei campi minati («Mi piace l'idea di mandare gli avvocati a far scoppiare le mine»). Creare un ufficio legale gratuito per querelare il governo per non avere rispettato vecchi trattati con gli indiani. Offrire assistenza legale gratuita alle famiglie dei prigionieri giustiziati («Sì, aiuta la famiglia di Dutch a farsi restituire le sue pistole dalla polizia»). Durante la seconda mezz'ora dei nostri incontri era Stanton a lamentarsi dell'università. Non si sentiva rispettato dai colleghi, che diffidavano di lui, a causa delle sue esperienze precedenti in televisione e nel settore privato. «Nessuno ama i convertiti, Mason» diceva. Allo stesso tempo, nei circoli accademici più progressisti, era visto come un tradizionalista, perché pubblicava poco e usava forme di insegnamento ormai fuori moda. Durante quei pranzi Stanton iniziò a bere sempre di più, e spesso continuava da solo quando io me ne andavo. Non era un ubriaco chiassoso, anzi, diventava più silenzioso e riflessivo con ogni bicchiere di birra. Alla fine del pranzo sembrava sempre sul punto di piangere. In quel periodo venni a sapere di un evento orribile del suo passato. Aveva lasciato una donna (probabilmente la moglie), ma sembrava esserci sotto qualcosa di più. Tuttavia o lui presumeva che io conoscessi già i particolari, o pensava che non avessero importanza, perché si riferiva all'evento solo in modo indiretto, chiamandolo "il mio crollo", o "il disastro", senza dirmi di più. «Vuoi sapere cosa è successo?» rispondeva, quando provavo a chiederglielo direttamente. «Credi che avvenimenti del genere semplicemente succedano, come la pioggia? Svegliati, Mason. Metti giù i bongos e fatti una doccia di realtà.» Quella era la mia vita tra la fine degli anni Ottanta e l'inizio degli anni Novanta: l'università, i discorsi con il mio mentore, e qualche fidanzata vegetariana. Finalmente nel 1993, all'età di ventotto anni, mi laureai. Mentre aspettavo di fare l'esame di stato, iniziai a lavorare per Max Gerroux, il migliore amico di Stanton, un ex giudice di corte d'appello che aveva rinunciato all'incarico dopo essere stato scoperto a fumare spinelli. La rinuncia gli aveva permesso di continuare a praticare la professione legale e a fumare le canne. Ogni volta che bussavo alla sua porta, Max grugniva «Un attimo» con la voce di chi ha appena ricevuto un pugno nello stomaco. Poi spruzzava un deodorante nell'ufficio e veniva ad aprire, con gli occhi rossi. «Clark!» Sembrava sempre sorpreso di vedermi. L'ufficio era al secondo piano di un edificio in mattoni, sopra un risto-
rante greco, nel puzzolente quartiere di Fremont. Sulla porta c'era scritto semplicemente UFFICIO LEGALE. L'interno odorava di feta e tahini, ed era arredato con schedari di metallo e con un orrendo autoritratto nudo di Max, che Stanton chiamava "lo gnomo porno". Max era alto poco più di un metro e mezzo, con i capelli nerissimi. Era mezzo indiano americano e mezzo ebreo, e possedeva un senso dell'humour spaventoso. Rappresentava quasi esclusivamente imputati per droga, ed era stato indagato due volte con l'accusa di aver accettato pagamenti in natura (cioè in marijuana). Una volta il nostro ufficio fu perquisito dalla polizia. Io ero accanto a Max, che sorrideva serafico mentre gli agenti vuotavano gli schedari sul pavimento. Non era un grande avvocato, ma sapeva come nascondere la sua riserva di fumo. A differenza di Stanton, Max era orgoglioso dei miei progetti per cambiare il mondo. L'ufficio legale per anziani indigenti e l'idea di ottenere giustizia per i nativi americani lo entusiasmarono fino alle lacrime. «Sì, mi sembra già di vederlo, Clark. Dobbiamo andare avanti. Io conosco alcune persone influenti che senz'altro faranno donazioni per sostenere le tue idee. Vedrai che per l'anno nuovo saremo operativi.» In realtà non credo che conoscesse nessuna persona influente, e visto che con i casi di droga guadagnavamo appena per pagare l'affitto, non potevamo certo permetterci di fare volontariato. Nel '94 superai l'esame di stato e divenni socio dell'ufficio legale di Max. Fu allora che ricevetti la lettera che segnò l'inizio di tutti i problemi in cui mi trovo ora. Ma prima di parlarne, desidero dire un'altra cosa su Max, un particolare che spiega la mia lealtà verso di lui. Max stava morendo. Un cancro serpentino aveva preso residenza nella sua spina dorsale, e si stava facendo strada dal cervello fino ai testicoli. Max aveva perso da tempo la fiducia nelle cure mediche, e diceva che gli sembrava più naturale lasciarsi uccidere dal tumore che dai dottori. Tutti sapevano che stava morendo, e lui approfittava di quella situazione in tribunale, riuscendo a ottenere sentenze lampo, accordi rapidi ed eliminando un sacco di burocrazia. «Sappiamo tutti che non ci sarò più quando dovremo ricorrere in appello» diceva. «Non fatemi iniziare qualcosa di cui non potrò vedere la fine.» Ciò nonostante, Max non era un cinico. Ora ho capito che quell'atteggiamento altro non era che coraggio. A volte, in ufficio, gemeva e chiudeva gli occhi. Poi diceva: «Clark, devo fare una telefonata urgente» e io capivo che voleva farsi una canna per combattere il dolore. Per proteggere il
mio futuro, Max mi chiedeva di uscire, in quei casi. Io non dovevo mai essere presente quando fumava, nel caso che la polizia tornasse all'improvviso per un'altra perquisizione. Di solito andavo a fare una passeggiata fino a Lake Union. Mi ci vollero quasi sei mesi per capire come mai rappresentavamo quasi soltanto spacciatori: in parte perché Max credeva sinceramente che nei casi di droga la polizia violasse i diritti civili dei cittadini, e in parte perché aveva bisogno di fumare marijuana. La mia lealtà verso Max era in parte un surrogato delle mie mancanze verso Ben. Osservavo da vicino il progresso del suo cancro, le fitte e il dolore che non avevo notato in mio fratello nove anni prima. Un giorno di primavera del 1994 stavamo lavorando a un ricorso in appello. La scrivania era cosparsa di documenti. La mia mente era altrove, pensavo alla famosa lettera, che i miei genitori mi avevano fatto avere due giorni prima. Così non notai subito che Max emetteva dei rumori soffocati, come se qualcuno lo stesse prendendo a pugni nelle costole. Quando finalmente alzai gli occhi, lo vidi madido di sudore, con gli occhi chiusi. «Devi fare una telefonata» dissi. «Non so se ce la faccio» rispose, a denti stretti. «Ti aiuto io» dissi piano. «Non devi...» «Non c'è problema, davvero.» «Non posso permetterlo.» «Ti prego» dissi. Max indicò il suo autoritratto nudo. Restai scioccato dal fatto che avesse scelto un posto così ovvio, ma quando tolsi il quadro dal muro dietro non c'era nulla. «La cornice» mormorò Max. «Abbassa l'angolo destro.» Feci come aveva detto, e in una piccola nicchia trovai una pipetta di ceramica, fiammiferi e una piccola riserva di marijuana avvolta nel cellophane. Caricai la pipa e gliela infilai tra le labbra tremanti. Poi l'accesi, mentre lui inalava con brevi respiri. Max tenne il fumo nei polmoni il più a lungo possibile, poi esalò, e un brivido di sollievo gli percorse tutto il corpo. Riempii di nuovo la pipa e gliela offrii. «Grazie» disse Max, e fumò ancora. Poi lo aiutai a stendersi sul divano, e uscii a fare una passeggiata. Scesi fino al lago, mi sedetti vicino alla riva e restai a guardare alcuni marinai che lavoravano su un vecchio peschereccio arrugginito. Tirai fuori di tasca la lettera e la rilessi per la decima volta. Iniziava con un saluto amichevole, e con le scuse per non aver potuto partecipare al funerale di Ben, nove anni prima. Poi c'erano le congratulazioni
per il fatto che ero finalmente diventato avvocato, e infine veniva una parte che posso citare a memoria, parola per parola, perché non l'ho mai dimenticata: Sarò a Seattle per lavoro il mese prossimo, e pensavo che forse potremmo vederci. C'è qualcosa di cui mi piacerebbe parlarti. Ho pensato molto a te, ultimamente. Ti voglio bene Dana 5 - Era bella Era bella, più di quanto ricordassi. I capelli corti le incorniciavano il viso rotondo, gli occhi grandi e le sopracciglia nere. Ma più che l'aspetto fisico, ciò che mi colpì fu il fatto che Dana Brett sembrava finalmente trovarsi a suo agio con il proprio corpo. Indossava una gonna lunga e attillata, da cui spuntava una caviglia abbronzata circondata da un braccialetto d'argento. Non potevo fare a meno di immaginare Dana coperta solo da quel braccialetto, in una stanza da letto a lume di candela. Da quando non l'avevo più vista, negli ultimi dodici anni, avevo avuto una quantità di ragazze, ma solo in quel momento, osservandola in attesa davanti al ristorante Ciclope (lo so... ma il cibo era buono), capii perché avevo smesso di uscire con le bionde vistose cercando invece ragazze il più possibile simili a lei. Ragazze intelligenti, con braccialetti di canapa e cappelli fatti all'uncinetto, che leggevano poesie e lottavano per salvare le balene. Dopo la morte di Ben, non c'era più nessuno a farmi da specchio, perciò non mi ero mai accorto di aver creato un'immagine di me stesso che probabilmente a lei sarebbe piaciuta. Avevo sempre saputo che l'avrei rivista, un giorno, e mi chiedevo come mi sarei sentito. Ora lo sapevo. Provavo una specie di sofferenza, qualcosa di indefinibile che riconobbi subito: per la prima volta nella mia vita, ero innamorato. La cosa che più mi sorprese, tuttavia, non fu quel sentimento improvviso, ma l'inaspettata consapevolezza che i surrogati di Dana con cui uscivo non le somigliavano affatto. Dana non era semplicemente una fricchettona. Era una donna unica, e nessuna mangiatrice di germe di grano si avvicinava alla sua combinazione di bellezza e fiducia in sé e al suo calore naturale. Su quel marciapiede sembrava troppo sofisticata per il Ciclope. Parcheggiai e mi avvicinai a piedi, e quando mi vide seppi che la mia vita era
arrivata a un punto di svolta. Noi eravamo nati per stare insieme. Sto cercando di trovare un'altra parola per descriverla, ma mi viene in mente solo "bella". Era bella. E non ero soltanto io a pensarlo. Anche suo marito sembrava condividere la mia idea. «Clark» disse Dana, baciandomi sulla guancia. «Come sono felice di vederti! Questo è Michael Langford, mio marito. Michael, lui è il mio amico Clark Mason.» Michael fece un passo avanti e mi strinse la mano. Era molto alto. Io improvvisai un colpo di tosse, per avere il tempo di pensare a cosa avrei potuto dire. Poi finsi di togliermi un granello di polvere dall'occhio buono, mentre aspettavo che il rossore lasciasse il mio viso. All'interno del ristorante Dana e Michael si sedettero vicini lungo un lato del tavolo con il piano di vetro, mano nella mano. Io sedetti dall'altro lato, con le mani in grembo. Dana continuava a fissarmi e a sorridermi. «Sei molto diverso da come ti ricordavo. Mi piace questo tuo aspetto trasandato.» Per riflesso mi toccai il codino, che ormai mi arrivava a metà schiena, e la barba. «Era proprio ciò che volevo: un aspetto un po' rozzo da duro.» «Stai benissimo» disse lei, e dal tono di voce intuii che pensava il contrario. In quel momento crollai. Nove anni di progresso scomparvero all'improvviso, e fui di nuovo il ragazzino sull'autobus scolastico. Arrivarono i menu, e io gettai un'occhiata furtiva a Michael. Fino a quel momento non avevo avuto la possibilità di guardarlo bene, e quando lo feci mi sentii arrossire di nuovo. Michael mi somigliava un po'. Non al rocchettaro che era seduto con loro due al ristorante, ma a ciò che io sarei potuto diventare se Ben non fosse morto, e se non avessi avuto quell'illuminazione durante la lezione di Stanton. Mentre li osservavo entrambi, eleganti e tranquilli, odiai la mia rinascita platonica, e cominciai a considerarla un periodo irrazionale causato dal dolore. Michael Langford era alto e atletico, con i capelli neri corti e la mascella quadrata. Era il tipico maschio americano dei film western o di quelli sulla Seconda guerra mondiale. Il tipo d'uomo che io avrei voluto essere. Ciascuno riconosce i suoi simili, e io vidi che Michael era quello che ero io una volta, una persona che voleva il successo. Un venditore di prima categoria, o un politico. Ne aveva tutto l'aspetto e il portamento. Mentre io cercavo di diventare l'uomo che secondo me Dana avrebbe potuto amare, lei si era innamorata dell'uomo che ero prima. «Di cosa ti occupi, precisamente, Clark?» mi chiese Michael, appena la
cameriera si fu allontanata. «Diritto criminale» risposi. «Casi da primo emendamento. Molta assistenza gratuita.» Volevo smettere di parlare, ma la mia lingua si muoveva da sola. «Perquisizioni illegali, violazioni dei diritti civili. Poco tempo fa ho aperto un servizio di assistenza legale gratuita per bambini abbandonati.» Ma vuoi star zitto?, cercavo di dirmi. «E anche per gli anziani.» Oh, Cristo. «E per le donne maltrattate.» Finalmente riuscii a fermarmi, prima di menzionare le vedove e i nativi americani. «Wow!» esclamò Michael. Dana arrossì. «Tuttavia sto pensando di cambiare. Sto valutando offerte da parte di alcune grosse aziende locali, e forse passerò a occuparmi di diritto societario.» Ero stupefatto dalle menzogne che uscivano dalla mia bocca. In una grande azienda non mi avrebbero assunto neppure come posteggiatore. Quelle bugie erano come i calci disperati di un uomo che sta affogando. Parlavo a ruota libera nella speranza di riuscire a dire qualcosa che mi facesse sentire meglio. «Sto considerando anche il diritto internazionale. Lavorare all'estero.» All'estero? Ma quando mai? «Sul serio?» disse Michael. «E dove?» Ero curioso anch'io di saperlo. «Portogallo.» Restammo tutti in silenzio per qualche secondo, mentre io mi preparavo a parlare del complesso sistema giuridico portoghese. Pregavo che arrivasse il cibo, così avrei avuto qualcosa con cui riempirmi la bocca e mi sarei finalmente zittito. Avrei smesso di fissare gli occhi penetranti di Dana, e di mentire come un marito infedele. «Allora, quando vi siete sposati?» chiesi, disperato. «Tre mesi fa» rispose Dana. «È stata una decisione improvvisa. I miei l'hanno saputo solo a conti fatti.» «Splendido» dissi. «Tre mesi fa.» Non ci eravamo visti per dodici anni, e io avevo perso la mia occasione per tre fottuti mesi. Spezzai una fetta di pane, facendo volare in aria le briciole. «Anch'io sono fidanzato ufficialmente» dissi. «Come si chiama la fortunata?» chiese Dana. «Non la conosci.» Ovvio, non la conoscevo neanch'io. «Cosa fa di lavoro?» «È pilota.» «Per una linea aerea?» «Mmmh» dissi, masticando il pane. «Sì.»
«E come si chiama, dicevi?» «Megan.» Inghiottii il boccone di pane. «In questi giorni è fuori città.» «Megan. Mi piacerebbe conoscerla.» «È fuori città.» Dana sorrise. «È davvero bello rivederti, Clark.» L'aveva già detto. «Voi due lavorate nel campo dei computer?» chiesi. «Lavoriamo per una piccola finanziaria, una specie di banca di investimenti, specializzata in aziende tecnologiche» spiegò Michael, come se dovesse vendermi un aspirapolvere. «Era di questo che volevamo parlarti, Clark. Vedi, noi in pratica siamo semplicemente dei mediatori tra Charlie e...» Dana gli toccò il braccio, e quel semplice gesto mi riempì di desiderio e rimpianto. L'ultima parte della mia nuova personalità si disfece in quel momento. «Lui probabilmente non sa cosa significa "Charlie"» disse Dana al marito. Michael alzò gli occhi al cielo, riconoscendo il proprio errore. Anche se io non avevo idea di cosa fosse Charlie, tuttavia, non potevo sopportare l'idea che lui me lo spiegasse. «Mi dispiace. A volte dimentico che non tutti sono esperti del settore. Noi chiamiamo i finanziatori VC, venture capital. VC fa pensare ai Viet Cong, da cui Charlie, come li chiamavano durante la guerra del Vietnam. Insomma, Charlie per noi sono le persone che forniscono i soldi, gli investitori.» «Ho capito» dissi io, guardando verso la cucina. «Charlie.» «Se una piccola azienda ha bisogno di soldi per espandersi, noi la mettiamo in contatto con gli investitori. Charlie, l'investitore, tende a essere tra i cinquanta e i sessanta, mentre Chad, chiamiamo così quello che ha l'idea, generalmente non arriva ai trent'anni. Noi riempiamo il gap generazionale tra Charlie e Chad. Spieghiamo l'idea ai soldi, e i soldi all'idea.» Mi strizzò l'occhio. «E ci prendiamo un pezzo di entrambi.» «Detto così sembra arido» intervenne Dana. «Ma è affascinante. E creativo.» In quel momento capii che anche lei cercava di impressionarmi. Non voleva che io, coraggioso difensore di indigenti donne indiane maltrattate, la giudicassi arida. Pensai a ciò che diceva Ben delle percezioni. È più vero il modo in cui ci vediamo noi, o quello in cui ci vedono gli altri? «Michael, parlagli della drogheria virtuale» disse Dana. «No. L'ho annoiato abbastanza.» «Per favore» insistette Dana, come se fosse ansiosa di dimostrarmi che
non era cambiata del tutto, che era ancora la stessa ragazza, intelligente e idealista. «Bene» iniziò Michael, sollevando un sopracciglio, come se stesse per propormi qualcosa di osé. «Immagina che alle sei di sera tu decida di preparare per cena tacos di pesce. Ma non hai in casa né pesce, né tortillas. Allora tocchi lo schermo di un computer, e un'azienda ti porta a casa la spesa, recapitandoti il pesce fresco e tutto ciò che ti serve entro venti minuti. Inoltre, immagina che il computer ti conosca, sappia che tipo di latte o di pane preferisci. Immagina che sia collegato al tuo frigorifero, che monitori quando il latte è finito, e sia in grado di controllare istantaneamente tutti i supermercati della città, finché trova il prezzo migliore per il tuo latte. Immagina che tutta la spesa ti sia consegnata a casa per un prezzo inferiore a ciò che ti sarebbe costato andare a comprare ogni cosa di persona. Cosa ne diresti, se fosse vero?» «Direi... Quante probabilità ci sono?» «Esatto!» Dana doveva aver notato il sarcasmo nella mia voce, perché abbassò gli occhi sul tavolo. «Noi diciamo agli investitori che non ci interessa soltanto fare soldi» disse Michael. «Siamo coltivatori di idee. «Le seminiamo, le facciamo crescere, le innaffiamo. Vogliamo piantare una foresta di idee lungo tutta la West Coast. Ed ecco dove entri in scena tu.» «Io?» chiesi. «Noi siamo ben piazzati nella Silicon Valley» spiegò Michael. «Abbiamo lanciato venti imprese, le abbiamo collegate ai capitali e alle banche, e abbiamo già cominciato ad avere un certo successo. Ma da queste parti la concorrenza è spietata, e noi non siamo ancora riusciti a penetrare Seattle.» «Penetrare» ripetei. «Stiamo cercando di espanderci, cerchiamo qualcuno che ci aiuti a identificare e a contattare le imprese interessate, qui in zona.» Si chinò in avanti, come se fosse sul punto di confidarmi un segreto. «Io volevo qualcuno con un background tecnico, ma Dana mi ha fatto notare che non importa, perché quello ce l'abbiamo noi. Invece ci serve un avvocato, qualcuno che sappia scrivere contratti. E lei ha pensato a te. Mi ha detto che a scuola eri capace di ottenere sempre ciò che volevi.» Io rabbrividii sentendo quell'ultima frase. «So che probabilmente non è appagante come lottare per le tribù indiane o andare in Portogallo, ma può essere divertente. E remunerativo. Non par-
lo soltanto di un lavoro» continuò. «Sto parlando della possibilità di trovare la prossima Microsoft, di essere al centro del prossimo grande evento. Sto parlando di cambiare il mondo, Clark, di tracciare una rotta che ci porti nel ventunesimo secolo.» A questo punto devo precisare che eravamo nel 1994, e metafore del genere correvano su e giù per la costa. Gli utopisti idioti erano dappertutto, e alcuni di loro diventavano oscenamente ricchi. Le mie azioni di quel giorno, tuttavia, non furono motivate dal miraggio del denaro, anche se quel pranzo segnò l'inizio di qualcosa che ci avrebbe fatto guadagnare un sacco di soldi. No, quello che risposi a Michael non era diverso dalle menzogne sul Portogallo, o sul mio imminente matrimonio. Stavo solo cercando di impressionare una vecchia fiamma e suo marito, cercavo di far riapparire negli occhi di Dana qualcosa che avevo perso. Perciò entrai a far parte di quel nuovo club, il club degli imprenditori hi-tech. Avrei potuto dire di no. Invece cominciai a parlare a ruota libera. «Io rappresento una società che può interessarvi» dissi. «Qui?» chiese Michael. «No» mi affrettai a replicare, temendo che volessero visitarla. «A Spokane.» Dana sollevò gli occhi all'improvviso, come se mi fossi spinto troppo oltre. «Una società in fase di start up?» chiese Michael, chinandosi di nuovo in avanti. «Esatto» risposi, facendomi l'appunto mentale di scoprire cosa significasse quell'espressione. «Cosa puoi dirmi di loro?» «Michael» intervenne Dana, secca. «Rallenta. Clark non lavora ancora per noi.» La fissai negli occhi, e pensai che non era veramente arrabbiata con Michael. Forse stava solo cercando di impedirmi di rotolare ancora di più nel fango delle mie menzogne. Forse sapeva che stavo mentendo fin dall'inizio del pranzo, e che non ero in grado di svolgere il lavoro di cui loro parlavano, proprio come non conoscevo una parola di portoghese. Vidi nei suoi occhi la vecchia disapprovazione, e decisi di combattere. «Non preoccuparti» dissi, poi mi schiarii la gola per darmi il tempo di inventare un paio di aziende hi-tech. In quel momento la nostra cameriera arrivò come un angelo, dandomi ancora un altro minuto per pensare. E a un tratto, senza nessun reale motivo, la soluzione mi si presentò spontane-
amente. Forse dipendeva dall'aver rivisto Dana o dall'aver perduto Ben, o forse fu semplicemente colpa di Platone. «Si tratta di un gioco» spiegai. «Un gioco interattivo, con molti personaggi.» «VR?» chiese Michael. «Virtual Reality» tradusse Dana. «No» dissi, e notando la delusione negli occhi di Michael aggiunsi: «Non ancora, almeno». E mi lanciai nella descrizione di un gioco in cui la vita reale dei partecipanti intersecava quella dei personaggi del gioco, fino a un punto in cui i confini si facevano indistinti, e nessuno sapeva più quale delle due fosse più reale. Michael era intrigato. «Quanto ci vuole perché siano pronti a fare una prova?» «Oh, la stanno già facendo. Esiste un gruppo di prova che sta giocando proprio adesso.» «Davvero? E come si chiama?» «Empire» dissi. «Il gioco si chiama Empire.» 6 - Quello che accadde dopo Quello che accadde dopo fu tipico dei tempi danarosi, utopici e speculativi della metà degli anni Novanta. Sulla base della mia ridicola descrizione, Michael e Dana decisero di venire a Spokane due settimane dopo, per dare un'occhiata ai progressi del team di ricerca e sviluppo della Empire Games. Se tutto fosse andato liscio, dissero, loro avevano già un investitore che cercava proprio un gioco interattivo, qualcosa di più ambizioso e oscuro di Sim City e di Myst. Si potrebbe pensare che un giovane che abitava a Seattle nel 1994 avesse almeno una minima conoscenza dei computer. Ma non ho intenzione di scusarmi per essere arrivato tardi alla festa. Sì, vivevo a Seattle, ma questo non vuol dire nulla. Cristo, mi ero perso pure i Nirvana. Preferivo il punk, i R.E.M. e i Talking Heads e non detenevo azioni Microsoft, Intel o AOL. Possedevo soltanto una Audi Fox del 1974, una bicicletta e parecchi scaffali pieni di libri. Quattro completi scuri, un po' di vestiti informali, una caffettiera e un divano. E come la maggior parte delle persone nel 1994, anche a Seattle, non sarei stato capace di trovare un sito Internet neppure se qualcuno mi avesse aiutato digitando al mio posto le lettere magiche http://.
Perciò fui felice di scoprire che almeno Eli aveva un computer, anche se si trattava di un vecchio Radio Shack TRS-80. E soprattutto fui sollevato di sapere che qualcuno giocava ancora a Empire, nove anni dopo che Ben e io eravamo andati a spiare quella riunione. In totale i partecipanti erano aumentati di poco, in tutto quel tempo, passando da quattordici a venti ed erano rimasti solo due dei membri iniziali, tra cui Louis. «Apprezzo il tuo interesse, Clark» mi disse Eli. Eravamo seduti davanti al chiosco di hot-dog che lui gestiva in quel periodo. «Sembra una grande opportunità. Ma Empire non è un gioco da fare al computer. Anzi, non è neppure un gioco.» «Ma hai detto che usi un computer.» «Sì» spiegò lui. «Lo uso per immagazzinare le informazioni. Ma non c'è una grafica, o una realtà virtuale. Empire è tutto qui» disse, toccandosi la testa. «È una serie di azioni, reazioni e decisioni. Poi riportiamo tutto su una mappa. Territori conquistati, attacchi e ritirate. I partecipanti comprano e vendono terre e armi, accaparrano riserve di cibo e distruggono i raccolti degli avversari. Si innamorano tra loro e si tradiscono, si fanno la guerra, si arrendono e devono ripartire da zero. È tutto molto etereo.» «A me sembra perfetto» insistetti. «È esattamente quello che cerca la mia società.» «Ma capisci che l'azione non è neppure "gestita" dal computer?» «E chi la gestisce, allora?» «Io. Se lasci fare a un computer, diventa solo un problema di coordinazione occhio-mano, una serie di trucchi da imparare per poter arrivare al livello successivo. Se lo facesse un computer, la gente inizierebbe a barare, e nessuno imparerebbe nulla.» Eli era esasperato. Aveva le guance rosse. «Tu non capisci quanto sia importante questo gioco per me. Stiamo parlando di dieci anni della mia vita, Clark.» La verità di quell'affermazione lo colpì come un pugno. Rise, si grattò la testa e distolse lo sguardo. «Dieci anni» ripeté. Dal liceo era ingrassato di almeno quindici chili, ed era passato agli occhiali dalla montatura in metallo proprio quando le montature in plastica nera erano tornate di moda. Era quasi calvo, a parte i ciuffi rossi ai lati della testa, con le braccia sottili e il torace piatto che si innalzavano sopra una pancia rotonda. Non si era mai sposato. Quando gli avevo telefonato si era mostrato diffidente, ma quando ci incontrammo era parso sinceramente contento di vedermi. Presto mi era sembrato che il tempo non fosse passato, che non ci fosse mai stata una
separazione, e che fossimo di nuovo sotto il portico di casa mia, a studiare il modo di dargli un aspetto interessante. Invece eravamo seduti davanti a un chiosco di hot dog in un centro commerciale, e io cercavo di convincerlo solo per salvarmi la faccia. «Il fatto è, Clark» disse a un tratto Eli, voltandosi a fissarmi «che Empire è tutto quello che ho.» «Lo so. Ascolta, tra dieci giorni Michael e Dana verranno qui, e si aspettano che io gli mostri un nuovo videogame. Ti chiedo soltanto di aiutarmi a superare quell'incontro. Ti prometto che non accadrà nulla di male.» Lui guardò il corridoio illuminato del centro commerciale. Musica, abbigliamento da surfisti e pretzel salati, un'orbita di mondi vuoti a otto dollari l'ora. Poi tornò a fissarmi. «Cosa dobbiamo fare?» Durante i dieci giorni successivi Eli, Louis e io lavorammo senza sosta per trasformare Empire in un videogame. Assumemmo un esperto programmatore di nome Bryan, che iniziò a imparare insieme a me la strategia e lo scopo del gioco. Da quello che riuscii a capire, Empire era ambientato in un'antica terra di foreste, montagne, mari e deserti. I giocatori, uomini e donne, assumevano le parti di nobili proprietari di terre con un certo numero di servitori al loro servizio che, all'occorrenza, potevano formare un esercito («Puoi anche immaginare di scoparti le serve» proclamò Louis, tra l'imbarazzo generale). Vinceva chi riusciva a diventare imperatore di tutte le terre, conquistando i possedimenti altrui. C'era anche un aspetto casuale: una ruota girevole e un tiro di dadi potevano provocare terremoti, carestie e pestilenze. Questa fu la cosa più facile da sistemare: la sostituimmo con scelte casuali del computer. Ma la maggior parte dell'azione era generata dalle decisioni dei partecipanti, dalle aggressioni, dalla cupidigia, dai trattati, dalle battaglie e dai tradimenti. E tutto era supervisionato e arbitrato da Eli Boyle. Il gioco diventava più interessante, ci spiegò Eli, quando i giocatori cominciavano a "crederci veramente". Per esempio, qualche tempo prima due partecipanti si erano sposati per raddoppiare i loro possedimenti, e pochi mesi dopo si erano sposati anche nella vita reale. «Questo è ciò che fa funzionare il gioco» disse Eli. «La natura umana. Non un mucchio di scenari disegnati al computer.» Comprammo quattro PC IBM ultimo modello, e il programmatore iniziò a convertire tutte le funzioni manuali del gioco in funzioni computerizzate, e a trasferire i dati dai vecchi floppy all'hard disk dei nuovi computer. Ci avvisò che non c'era tempo per ricreare al computer la grafica e l'intreccio di un gioco così complesso.
«Quello che voi volete» ci disse «è un gioco interattivo, in cui i giocatori, in tempo reale, entrano in contatto tra loro elettronicamente e sovrappongono le proprie azioni e reazioni.» Bryan era un uomo robusto e barbuto, che in genere aveva più di una sigaretta accesa nel portacenere accanto al suo computer. «Rendetevi conto che ci sono aziende con intere squadre di programmatori e scrittori che lavorano da anni a idee di questo tipo. E voi volete che io ci riesca in due settimane?» «Nove giorni» lo corressi. «Nove giorni» ripeté lui. «Dovremo prendere delle scorciatoie.» Nove giorni dopo ero all'aeroporto internazionale di Spokane, e osservavo i passeggeri che sbarcavano da un volo della Alaska Airlines proveniente da San Francisco. Dana scese per prima, in jeans e maglione, e mi si gettò subito tra le braccia. Qualcosa, nel modo in cui il suo corpo aderiva al mio, la rendeva diversa da tutte le donne con cui ero stato fino a quel momento. Chiusi gli occhi, sentendo le sue cosce contro le mie, la sua mano dietro il mio collo, la sua voce sussurrarmi nell'orecchio: «Clark, sono felice che siamo insieme in questa impresa». Fece un passo indietro e mi guardò. «Ti sei tagliato i capelli» esclamò. «E la barba!» Sorrise, come se sapesse che l'avevo fatto per lei. «Vedo che il tuo occhio va meglio» disse Michael, stringendomi la mano. «È un occhio di vetro» risposi. «A volte lo preferisco alla benda.» «Capisco» disse lui, guardandosi intorno nel piccolo aeroporto. «Molto pittoresco questo scalo. Mi piace.» Il terzo membro del loro gruppo era l'investitore di cui mi avevano parlato. In gergo lo avevano definito "Charlie", ma scoprii che Charlie era anche il suo nome reale. Era un cinquantenne agitato, con un completo grigio, occhi scuri e spesse sopracciglia nere. Da ciò che sapevo, aveva fatto i soldi investendo in parchi di divertimento acquatici, nel Sud della California. «Tutto ciò è molto insolito» mi disse, parlando a raffica. «Non mi piace. Era lei che doveva venire da me, non io da lei.» «Be', sono felice che lei sia qui. Vedrà che non se ne pentirà.» «Tutto dipende dalla grafica, l'ho letto su Forbes. Com'è quella del suo videogame? Se non è il top, risalgo sull'aereo immediatamente.» Dana lo prese sottobraccio. «Charlie, rilassati. Andiamo a mangiare qualcosa.» Li portai nella saletta privata dello Spokane House Hotel, in cima a Sun-
set Hill. Lì ci aspettavano quattro giocatori di Empire, scelti tra quelli che avevano più familiarità con i computer. C'erano anche quattro altre persone più... "attraenti", che avevo fatto venire per equilibrare le forze. L'investitore forse non si sarebbe sentito incoraggiato vedendo un gioco che entusiasmava soprattutto nani e grassoni. Sui tavoli davanti a noi erano sistemati quattro computer. Non c'era traccia delle vecchie cartellette nere. La saletta era piuttosto buia, e dominava la città, che si stendeva sotto di noi come un giardino troppo cresciuto. «Posto grazioso» disse Charlie. «Com'è il mercato immobiliare?» «Ottimi prezzi» risposi, parlando nel suo stesso tono a raffica. «Un buon posto per investire.» «Eccellente» disse lui. Eli era in piedi di fronte a noi. Lui e Dana si salutarono con un cenno del capo. Quando le avevo rivelato che il mio socio era Eli Boyle, Dana era sembrata contenta, come se quello fosse un buon segno, un bene per la mia anima. Eli, invece, quando gli avevo parlato di Dana, aveva reagito con un grugnito. Adesso stava camminando avanti e indietro, nervoso: indossava pantaloni di velluto e un vecchio maglione che copriva a fatica la sua pancia. Si era pettinato, ma ai lati i capelli esplodevano come onde in tempesta. Vidi Charlie che lo fissava con attenzione, cercando di valutare il creatore di ciò che avremmo visto tra poco. «Mi piace quel tipo» sussurrò a un tratto. «Newsweek dice che hanno tutti quell'aspetto.» «Tutti chi?» chiesi. «I geni del computer. Non hanno tempo di farsi una doccia. Sono troppo creativi. Capisce, come lui» concluse, accennando con il capo a Eli. I quattro veri giocatori accesero i loro computer, secondo il copione che avevamo ripassato insieme, e iniziarono a immettere sulle tastiere combinazioni di lettere e numeri, mentre io spiegavo il gioco ai nostri ospiti. Parlai loro dei nobili e dei servi, dei trattati e delle guerre, delle alleanze e dei tradimenti. Sui monitor apparve la vecchia mappa di Empire. Ogni volta che Charlie o Michael facevano domande a cui non sapevo rispondere, inventavo. «Come si vince?» chiese a un tratto Charlie. «Si sconfiggono gli eserciti degli altri giocatori e ci si appropria delle loro terre.»
«Bene, benissimo. C'è anche della violenza? Il Wall Street Journal dice che i ragazzini amano vedere il sangue.» Eli e io ci scambiammo un'occhiata, poi lui guardò verso il corridoio, dove era seduto Bryan. Quindi tornò a guardare me, e annuì. «Venite» dissi. «Scegliamo un giocatore, e vi mostrerò come funziona Empire.» Louis era l'ultimo della fila. Finsi di sceglierlo a caso, appoggiandogli una mano sulla spalla. Da quella posizione si poteva vedere solo il monitor di Louis. «Dopo alcuni minuti di decisioni di routine» spiegai «tipo trattati, matrimoni, scambi di possedimenti, eccetera, che aggiornano la mappa, il giocatore si sposta verso quello che noi chiamiamo il "mondo ombra". È qui che inizia a vivere i risultati delle proprie scelte e agisce a seconda delle reazioni degli altri giocatori.» «Il mondo ombra» ripeté Charlie, colpito. «Louis» chiesi. «Come va la tua partita?» «Dave e io siamo alleati» rispose lui. «Ma io voglio impadronirmi del suo accesso ai porti, perciò appena saremo in mare aperto lo attaccherò di sorpresa e cercherò di sconfiggere la sua flotta, costringendolo a cedere la sua città portuale.» Dave, uno dei giocatori finti, ci rivolse un cenno amichevole della mano. Louis batté alcuni tasti e poi premette Invio. Osservai la meraviglia di Charlie quando lo schermo prese vita, e due navi iniziarono a navigare in un mare disegnato con cura meticolosa. Ci fu una zoomata sul ponte di una delle due imbarcazioni: al timone c'era un bell'uomo dall'aspetto asiatico. Louis continuò a lavorare sui tasti, finché la nave si spostò di lato, si affiancò all'altra e sparò una bordata senza suono. Michael e Charlie osservavano attenti la battaglia: le navi si scambiavano colpi di cannone e di raggi laser, mentre la prospettiva cambiava continuamente. Louis si inclinava da un alto e dall'altro martellando sulla tastiera e oscillando come se stesse imparando ad andare in bicicletta. «Il giocatore controlla la visuale e tutto il resto» bisbigliai. «Ma abbiamo ancora qualche problema con il sonoro.» Michael si avvicinò al monitor, con un'espressione strana in viso, come per cercare di collegare il frenetico martellare sulla tastiera di Louis con la carneficina che si svolgeva sullo schermo. La nave di Dave fu colpita più volte, mentre i marinai venivano sbalzati in mare, finché l'acqua fu cosparsa di cadaveri. In quel momento apparve un'altra nave. «Merda!» esclamò Louis, con tempismo perfetto. «Dave si è alleato con Samantha.»
«Ti ho fregato, Louis!» gridò Samantha, da uno degli altri computer. Sullo schermo apparve una bellissima donna dai tratti orientali, al comando di una nave, che spazzò con laser e cannonate il ponte della nave di Louis. «Cristo santo!» esclamò Charlie. Michael era a bocca aperta. In quel momento tutti i monitor lampeggiarono e si spensero di colpo. «Oh, no» dissi. «Abbiamo fatto di nuovo saltare la rete.» «Dannazione, Clark!» urlò Eli. «Te l'avevo detto che era troppo presto. Ho bisogno di più tempo.» «È per questo che finora ha rifiutato di cercare investitori» sussurrai. «È un tale perfezionista. Sono anni che lavora a questo gioco.» «E si vede» disse Charlie. Eli attraversò la stanza a passi lunghi, e spense tutti i computer. «Non siamo pronti, Clark. Ho bisogno di altri sei mesi.» Poi uscì sbattendo la porta. Mi scusai per lui, e noi quattro restammo per alcuni minuti a parlare con i veri giocatori. «Risolveremo presto i problemi» dissi. «Mi dispiace che non abbiate potuto vedere gli altri regni, le pianure, le montagne e tutto il resto.» Quella sera cenai con Michael, Dana e Charlie, e parlammo del gioco e delle sue potenzialità. Dopo li accompagnai al loro albergo. Nell'atrio Dana mi abbracciò di nuovo, e Charlie mi strinse la mano come se volesse stritolarmela. Michael mi diede una pacca sulla spalla, dicendo: «Bel lavoro». Poi prese Dana sottobraccio e la trascinò verso l'ascensore. Nella mia stanza c'era un messaggio nella segreteria telefonica. Dana, pensai, elettrizzato. Spinsi play. Era il mio mentore e amico Richard Stanton. «Clark? Sono Stanton. Ascolta, non so come dirtelo, forse il modo diretto è il migliore: Max è morto stamattina. Ha preso delle pillole. Il dolore...» Stanton sospirò. «L'hanno trovato nel suo ufficio. Ho pensato che avresti voluto saperlo.» Cercai di chiamare Stanton, ma non riuscii a trovarlo. Quasi certamente era seduto in un qualche bar. Uscii dall'albergo e restai un attimo sul marciapiede, a fissare il cielo notturno. Ero a Spokane da dieci giorni, e non ero ancora andato a trovare i miei. Non li vedevo da quattro mesi. Loro non sapevano neppure che mi trovavo in città. Salii sulla mia auto a noleggio e mi diressi verso la zona industriale, verso il mio vecchio quartiere. I
miei vivevano ancora nella casa di Empire Road. Parcheggiai dall'altra parte della strada, e li vidi attraverso la finestra, seduti davanti al televisore. A un tratto mia madre si alzò e portò una birra a mio padre. Negli ultimi anni non ero andato quasi mai a trovarli; mi ero convinto che mi considerassero in qualche modo colpevole per la morte di Ben. Dopo averli osservati per alcuni minuti, riaccesi il motore e tornai in albergo. Non riuscii a dormire, quella notte. Il mattino dopo accompagnai Michael, Dana e Charlie all'aeroporto. Charlie mi salutò dicendo che era rimasto impressionato e che mi avrebbe richiamato in settimana, dopo aver parlato con i suoi soci. Al bar dell'aeroporto Charlie ci offrì da bere, poi disse che doveva andare in bagno, e scambiò un'occhiata con Michael. Michael chiese a Dana di lasciarci soli un minuto, e appena anche lei si fu allontanata, tirò fuori un foglio di carta dalla tasca interna della giacca. «A Charlie è piaciuto molto il videogame. Ne parleremo meglio quando torneremo a casa, ma lui voleva che ti mostrassi qual è stata la sua reazione iniziale.» Mi passò il foglietto. C'era scritto soltanto: "un milione e mezzo". «Un milione e mezzo...» «Di dollari. Puoi cominciare a preparare i contratti.» «Cristo.» Michael si chinò in avanti, scoprendo i denti in un sorriso freddo. «Ascolta, ti sei tagliato i capelli e ti sei messo l'occhio di vetro, ma io so chi sei. L'ho sempre saputo. Altro che Portogallo e diritti dei nativi americani. Sei un avvocato di ultima categoria, che lavora per il più grosso difensore dei drogati di tutta Seattle. Non penserai che io non controlli le persone con cui lavoro, vero?» Si riprese il foglio di carta. «E so riconoscere un cartone animato giapponese, quando lo vedo.» Io bevvi un sorso del mio drink. Era stata un'idea di Louis, quella di fingere che un cartone animato giapponese fosse la grafica di Empire. Avevamo preso il suo preferito, Samurai Sea Battle 9, e Louis si era esercitato finché era riuscito a simulare l'azione in modo convincente. Il videoregistratore nascosto in corridoio era collegato a una tv racchiusa nel guscio del computer di Louis, e Bryan aveva staccato la corrente prima che qualcuno potesse dare un'occhiata troppo ravvicinata. Anche l'attacco di malumore da genio frustrato di Eli era programmato, e tutto sembrava aver funzionato benissimo. Ma Michael non si era lasciato ingannare.
«Glielo dirai?» chiesi. Michael socchiuse gli occhi. «No. A Charlie è piaciuto il tuo amico, e un milione e mezzo è sempre un milione e mezzo. E anche se forse vi mancano ancora due anni per avere qualcosa da mostrare, il gioco ha un suo valore.» Sollevò il bicchiere e finì il suo whisky. «Ma voglio entrare a far parte della società, voglio delle azioni. E se preparerai un altro trucco del genere senza avermi avvisato, farò in modo di mandarti in galera, e userò la tua licenza di avvocato per pulire il culo al mio cane. Siamo d'accordo?» Dana e Charlie stavano tornando insieme verso di noi. «Siamo d'accordo?» ripeté Michael. «Sì» mormorai. Appena arrivato al tavolo, Charlie sollevò il suo bicchiere. «Un brindisi a Empire.» Dana mi strinse un braccio. «A Empire» ripeté Michael, afferrando Dana per la vita, allontanandola da me. Le accarezzò il collo, e lei arrossì e si voltò a fissarlo. E fu in quel preciso momento che mi venne in mente. Basta un pensiero come quello, a volte, una porta che si socchiude appena un po', e cominci a immaginare come funzionerebbe, in che modo lo faresti, come riusciresti a evitare la galera. In quel preciso momento pensai che il mondo sarebbe stato un posto migliore senza Michael Langford. "Ciascuno sogna ciò che è." Calderón de la Barca, La vita è sogno VII ANCHE GLI STRONZI MERITANO UNA TREGUA 1 - Il morto Il morto giace su un fianco, come se fosse appena caduto dalla sedia. È un tipo tarchiato, con la faccia rotonda e gli occhiali. I radi capelli rossi sono pettinati sopra la testa, mentre ai lati si arricciano come la parrucca di un clown. Ha addosso un paio di jeans, una T-shirt grigia ed è a piedi nudi, con le caviglie incrociate. L'unica luce nella stanza è quella del computer acceso sulla scrivania. Lo screen-saver alterna illustrazioni di soldati napoleonici e paesaggi arcadici, attraversati da due messaggi in movimento:
"Empire, più che un gioco" ed "Empire. Sei tu che fai le regole". Caroline si ferma sulla porta e respira forte dalla bocca. Allunga una mano verso l'interruttore della luce, ma si ferma in tempo, prima di rovinare le impronte. Si toglie la torcia elettrica dalla cintura e la usa per illuminare il cadavere e la moquette. Forse l'assassino ha lasciato le impronte delle sue scarpe nel sangue, uscendo. Di sangue ce n'è dappertutto: sulla tastiera del computer, sul soffitto, su una tazza posata sulla scrivania. La maggior parte naturalmente è sulla moquette e arriva fino al linoleum della cucina, seccandosi poi in una crosta marrone. Caroline prende il cellulare, compone il numero della centrale, ma non spinge il tasto di chiamata. Non ancora. La prima regola sulla scena di un crimine è non fare nulla che potrebbe inquinare le prove. Ma è suo dovere controllare se l'uomo è ancora vivo. La quantità di sangue sul pavimento lo rende improbabile, ma lei potrà sempre dire, in seguito, che voleva assicurarsi che fosse davvero morto. Perciò si infila i guanti, si toglie le scarpe ed entra in punta di piedi nella stanza, lasciando che la porta si chiuda alle sue spalle. Mentre si avvicina al morto, il fascio della torcia in movimento le dà l'illusione che il cadavere si stia voltando per guardarla in faccia. Caroline distoglie lo sguardo e punta la torcia sul resto dell'appartamento. L'ufficio ne occupa la metà. Contro una parete c'è la scrivania, sulle altre pareti ci sono scaffali pieni di libri. Quasi tutti romanzi storici o fantasy, pile di riviste di computer e cartellette nere con su scritta la parola EMPIRE. A sinistra della porta c'è uno schedario, e Caroline sfoglia le carte appoggiate lì sopra: documenti finanziari, rapporti di investimenti, estratti conto. Su uno di essi il saldo iniziale ammonta a $ 45108,44 e il saldo finale a $ 2062,05. C'è anche un biglietto aereo stampato al computer. Si tratta di un volo a nome Eli Boyle Spokane-Seattle, Seattle-Los Angeles, Los Angeles-Belize City. Oltre la scrivania si apre la porta della cucina. Caroline non vuole scavalcare il cadavere, perciò si limita a illuminarla. Scatole di cereali, una torre di scodelle sporche nell'acquaio. Nella stanza da letto adiacente si intravedono un futon e un televisore appoggiato sul pavimento. A sinistra c'è un piccolo bagno. Caroline si distrae un attimo e respira dal naso. Sente l'odore e per poco non vomita. Con una mano si copre naso e bocca, e con l'altra fruga nella borsetta finché trova un lucidalabbra profumato. Se lo passa sul labbro superiore, e l'odore di ciliegia l'aiuta a calmare lo stomaco.
L'attacco di nausea è passato. Apre gli occhi e fissa il cellulare. Il numero della centrale è ancora sul display. Controlla sotto la scrivania e accanto alla sedia, ma la pistola non è da nessuna parte. A volte capita che l'assassino si lasci prendere dal panico e abbandoni l'arma sul luogo del delitto. Ma questa volta non è successo. Nella tazza c'è ancora del caffè, e sopra un libro c'è un torsolo di mela secco. La sedia è lontana dalla scrivania, come se l'uomo si fosse alzato in piedi di scatto. Caroline cerca di immaginare la scena. È seduto al computer. Clark entra, lui si alza e si volta. No. È caduto dando le spalle alla porta. Non si è voltato. Era davanti al computer, quando l'assassino gli ha sparato. Caroline punta la torcia sul soffitto: fa luce su un piccolo foro circondato dal sangue, proprio sopra la scrivania. Allora, Clark gli si avvicina da dietro, e... Ma l'angolo non quadra. A giudicare dalla ferita e dagli schizzi di sangue, il proiettile ha attraversato la testa dal basso. Ciò significa che l'assassino è entrato, si è spostato a destra e ha sparato dal basso in alto. Impossibile, sembra più un suicidio. A meno che... Clark vuole qualcosa da questo tizio seduto al computer. Lo spinge, gli punta la pistola contro una guancia. Naturalmente l'altro cerca di scansarsi, e si volta verso sinistra. O forse allunga una mano per fargli abbassare la pistola, e parte un colpo. Una lotta. Una morte accidentale. Oh, sì, meglio questa versione, così almeno Clark Mason è innocente. Caroline si china accanto al cadavere. Non c'è bisogno di cercare la ferita. È così ovvia da essere quasi pacchiana. Un solco di sangue e osso che va dai denti alla cima della testa. I molari scoperti danno al corpo un ghigno cattivo. Il proiettile è uscito dalla guancia, ha spappolato l'occhio destro, poi si è immerso di nuovo per uscire sopra la fronte, all'attaccatura dei capelli. Il foro d'entrata ha il bordo bruciato. Significa che al momento dello sparo la pistola era appoggiata contro la faccia. Se non si è trattato di un incidente, è stato un delitto feroce, rabbioso. Il numero di telefono della centrale è ancora sul display del cellulare. «Merda» impreca Caroline, a voce alta. Appena farà quella telefonata, la storia non sarà più sua. La casa brulicherà di poliziotti, come formiche su un lecca-lecca. Chiuderanno l'accesso alla scena del delitto, cominceranno a cercare impronte su tutte le superfici possibili: sugli interruttori della luce, sui pomoli delle porte, sul telefono. Misureranno i solchi dei copertoni
sul vialetto d'ingresso... tutto sarà ridotto a una serie di foto e di tracce latenti, troppe persone che si muovono in fretta, prendendo decisioni sbagliate... La confessione non avrà più nessun valore, diventerà una semplice conferma di ciò che già sanno. Significato? Contesto? No. Ci sarà soltanto una domanda: dov'è la pistola? Il movente interessa solo ai reporter che devono scrivere una storia interessante, o agli avvocati che devono mercanteggiare una condanna più lieve, o ai giudici. Per i poliziotti il significato delle cose non è importante. O meglio, non ci credono. Sanno che c'è solo un motivo per uccidere: qualcuno voleva qualcosa. Sesso, denaro, vendetta, droga, non importa. Cosa volevi, Clark? Il tribunale avrà bisogno di quei particolari. Ciò che volevi (il movente), da quanto tempo lo volevi (premeditazione), e cosa hai fatto per ottenerlo (circostanze attenuanti) sono fattori che possono fare la differenza tra una condanna a vent'anni e l'ergastolo. E se desideravi qualcosa troppo intensamente, troppo presto o troppo spesso, questo può significare una condanna a morte. Nello stato di Washington prima potevi scegliere: l'ago, la sedia o la corda. L'ago è tremendo, una parodia ospedaliera, un'iniezione che non serve a curare, ma a uccidere. Ma è sempre meglio della sedia. C'è una foto che a volte i poliziotti mostrano agli indiziati che fanno i duri. È di un condannato degli anni Cinquanta: la sua sedia fece corto circuito e prese fuoco, e l'uomo morì tra le fiamme. Ma per Caroline nulla è peggio della corda. E non per le ragioni propugnate dai movimenti contrari alla pena di morte: il dolore, l'indegnità di farsela addosso negli ultimi istanti. No, quello che la spaventa è la caduta. Odia quei sogni in cui le manca il terreno sotto i piedi, e cade. Quella deve essere una morte insopportabile. Cosa volevi, Clark? Caroline guarda ancora una volta il cellulare. Fa un rapido elenco mentale di tutte le regole che ha infranto in quel fine settimana, da quando Spivey le ha detto di andare a casa. Finalmente preme il tasto di chiamata. La voce del sergente di turno la scuote dal suo stato allucinatorio: «Dipartimento di Polizia di Spokane. Sono il sergente Kaye». «Dennis, sono Caroline Mabry.» «Credevo che fossi a casa.» «Invece sono andata a parlare con un potenziale testimone, e... ho trovato un cadavere. Ferita da arma da fuoco.»
«Cristo. Suicidio?» «No, a meno che non abbia inghiottito la pistola dopo aver sparato.» «Omicidio, quindi?» «Sembra di sì.» «La vittima?» «Maschio bianco. Tra i trentacinque e i quaranta. Gli hanno sparato alla testa.» «Mando subito qualcuno.» Il sergente fa una pausa. «Vuoi che chiami Spivey?» Caroline punta la torcia sul cadavere, sulla sedia e infine sul computer, dove lo screen-saver mostra un soldato che brandisce una spada. Il soldato scompare, sostituito da un pascolo con un muro di pietre, un gregge di pecore e un castello sullo sfondo. E le parole: "Empire, più che un gioco". «Caroline» ripete il sergente Kaye. «Vuoi che chiami il sergente Spivey?» «No» risponde lei. «L'ho già chiamato io.» È una grossa bugia, che si aggiunge a tutte le altre. Chissà quanto tempo le farà guadagnare? Tutto ciò che vuole, ora, è qualche ora in più, prima che tutto le venga strappato dalle mani, un po' più di tempo per Clark, prima che tutto gli piombi addosso. Sul salvaschermo ora è comparsa la scritta: "Empire. Sei tu che fai le regole". «La vittima è collegata a quel tizio che scrive nella stanza degli interrogatori?» chiede il sergente Kaye. «Andiamo a interrogarlo?» «Non so se è collegato» risponde in fretta Caroline. Mentire le sembra sempre più facile. «Mettete qualcuno di guardia davanti alla porta, e parlerò io con lui quando torno.» Dà l'indirizzo al sergente Kaye e riattacca. Poi spegne il telefonino. Si china sulla tastiera del computer, e preme la barra spaziatrice con la torcia elettrica. Il salvaschermo svanisce e sotto appare un messaggio email. Il mittente è
[email protected]. Eli Non fare nulla. Sto arrivando. Non muoverti. Ho bisogno di parlarti. Ti ho mentito. Non ci sono più soldi. Mi dispiace. Per tutto. Andrà tutto bene. Clark
L'ultima speranza abbandona Caroline. Avrebbe davvero voluto che non fosse stato Clark. Naturalmente, esiste un altro mondo. Proprio dietro questo. Un mondo tranquillo, perfetto. È là che vanno i nostri desideri e tutto quello che non possiamo avere. I rimpianti, le promesse, i sogni. Quando sogniamo di precipitare, è lì che atterriamo. Caroline spegne lo schermo con la torcia. L'e-mail scompare, poi il monitor diventa nero. Caroline lo fissa, incredula. Non riesce a credere a ciò che ha appena fatto. Va bene, pensa. Ora ho un po' più di tempo. Torna lentamente verso la porta, getta un'ultima occhiata alla stanza. Qualche isolato più in là, si sentono già le sirene. Caroline si rimette le scarpe, esce e si chiude la porta alle spalle. 2 - Il nano ascolta Il nano ascolta attentamente, ma senza mostrare nessuna reazione, mentre Caroline gli spiega che non hanno ancora identificato il cadavere, ma che con tutta probabilità si tratta di Eli Boyle, morto nel piccolo appartamento sopra il suo garage. «Non posso crederci» dice il nano, che si chiama Louis Carver. Scuote la testa. «Allora l'ha fatto davvero.» Caroline non gli ha rivelato nulla di Clark Mason. Chiede, tesa: «Chi ha fatto cosa?». «Eli. Si è suicidato. Ne parlava continuamente, nel suo modo distaccato, come se fosse la cosa più normale del mondo. Per esempio, discutevamo di investimenti, o di che macchina ci sarebbe piaciuto comprare, e lui a un tratto diceva: "Potrei saltare da un ponte". Oppure: "E se mi impiccassi?". Così, all'improvviso.» «No» lo interrompe Caroline. «Non si è ucciso. Gli hanno sparato.» Si trovano sotto il portico della casa di Louis. Lui sta sulla soglia, con la porta aperta a metà, come se Caroline volesse vendergli qualcosa di cui non ha bisogno. Louis si appoggia allo stipite. È alto circa un metro e venti, è tarchiato e ha le gambe storte. Indossa un paio di pantaloni color kaki e una felpa con su scritto COLLEGE. Ha un viso abbastanza gradevole, con un ciuffo castano sulla fronte. Le tempie sono spruzzate di grigio. «Eli è stato assassinato?» chiede. «Pensiamo di sì.»
«Chi è stato?» «Non lo sappiamo» risponde Caroline. Le sembra che Louis Carver non sia particolarmente sconvolto dalla morte dell'amico. Nell'appartamento di Eli le era venuto un attacco di claustrofobia, mentre osservava quelli della Scientifica che setacciavano la stanza. E improvvisamente aveva ricordato il nome di Louis, che aveva letto nella lista dei membri del Fondo per una Elezione Giusta. Si era fatta dare il suo numero dall'ufficio informazioni, si era scusata per averlo chiamato alle dieci di sera, e gli aveva chiesto se poteva scambiare due parole con lui. Era andata via senza avvisare nessuno, aveva spento di nuovo il cellulare e si era diretta verso quella villetta nel quartiere di Shadle. «Assassinato. Merda» esclama Louis. Una donna piccola e attraente, probabilmente la signora Carver, si affaccia da dietro la porta. È alta almeno trenta centimetri più del marito. «Tutto bene?» chiede. «Eli Boyle è morto.» Il volto della donna assume un'espressione sprezzante. «Ah.» «È stato ucciso» le spiega Louis. «Mi dispiace» dice lei, senza scomporsi. Si sente il pianto di un bambino. La donna tocca Louis su una spalla, poi rientra in casa. «Eli aveva famiglia?» chiede Caroline. «No. C'era solo sua madre, che è morta diversi anni fa.» «Quando è stata l'ultima volta che lo ha visto?» «Due anni fa» dice Louis, sfregandosi gli occhi. «Nel novembre del 2000.» «Prima o dopo le elezioni?» «Dopo» risponde lui, leggermente sorpreso. «Ha già parlato con Clark, vero?» «C'è una cosa che vorrei chiederle. Come definirebbe il rapporto tra Clark Mason ed Eli Boyle?» «Sono amici per la pelle.» Louis fissa Caroline. «Crede che Clark sia implicato nell'omicidio? Clark Mason?» Si copre l'occhio sinistro con la mano. «Un occhio solo, alto, con l'hobby di presentarsi alle elezioni per farsi prendere a calci nel culo?» Louis scuote violentemente la testa. «Niente da fare. Clark non farebbe mai una cosa del genere. Non ne sarebbe capace. Ha passato gli ultimi otto anni a fare da baby-sitter a Eli. Che motivo avrebbe avuto per ucciderlo?» Caroline si avvicina a Louis e lo fissa negli occhi. «Il suo nome, insieme
con quello di Eli Boyle, compariva nella lista dei membri di un comitato di azione politica.» Consulta il suo taccuino, anche se si ricorda il nome. «Il Fondo per una Elezione Giusta. Siete stati voi a finanziare gli spot pubblicitari che definivano Clark Mason un venditore di fumo?» Louis esce di casa e lascia che la porta si richiuda alle sue spalle. «È stato molto tempo fa, eravamo tutti...». È arrossito, abbassa la voce. «Senta, io non sapevo neppure... Ho solo firmato dove Eli mi ha detto di firmare. Avevamo fatto tanto per la campagna di Clark, e credevo che si trattasse di un fondo per aiutarlo ancora. Quando lessi sui giornali di cosa si trattava, andai su tutte le furie. Ero ancora più arrabbiato di Clark, giuro. Io al suo posto non avrei perdonato Eli. Ma Clark, una settimana dopo, mi disse che tanto non avrebbe vinto comunque. Voleva convincermi a perdonare Eli. Mi parlò di tutti i guai che aveva passato da piccolo, della sua infanzia difficile. A un tratto non ce la feci più: "Clark" dissi "guarda che stai parlando con un nano, cazzo. Ne so qualcosa anch'io, dell'infanzia difficile".» «E subito dopo ha lasciato la Empire?» Louis annuisce. «Due settimane dopo. Ho rivenduto le mie azioni a Eli per ottantamila dollari, e chiuso. Se l'avessi fatto l'anno prima, prima del crollo, avrei ricavato dieci volte tanto.» «Quanti erano i soci?» «Quattro soci di minoranza: io, Clark, Bryan, che era il nostro esperto informatico, e Michael Langford, un agente finanziario californiano. Ciascuno di noi deteneva il cinque per cento delle azioni. Bryan e io avevamo anche uno stipendio, visto che lavoravamo nell'azienda. Il ventinove per cento delle azioni era diviso tra gli investitori trovati da Michael, e il cinquantuno per cento era di Eli. Anche questa era opera di Clark. Eli era terrorizzato all'idea di perdere il controllo del gioco, così Clark fece in modo che le azioni di Eli non potessero mai scendere sotto il cinquantuno per cento, a meno che lui non le vendesse, cosa che ovviamente non ha mai fatto.» «Insomma, lei ha lasciato la Empire a causa di quel fondo per le elezioni?» Louis guarda lontano, oltre Caroline. «Non mi piaceva neanche il modo in cui Eli gestiva le cose». «Ascolti» dice Caroline. «Io sto solo cercando di capire chi ha ucciso Eli Boyle. Tutto il resto non mi interessa. Perciò mi dica la verità: perché ha lasciato la Empire?» «Bene, tanto per cominciare, la Empire Games non esisteva. Almeno,
non nel modo in cui noi ne vendevamo l'immagine.» Si interrompe, come cercando le parole giuste. «Quando arrivarono i soldi, tutto cambiò. Affittammo un ufficio, assumemmo illustratori, scrittori e programmatori. Ogni sei mesi facevamo una presentazione per gli investitori, dicendo loro quello che volevano sentire, e mostrando loro tutti i progressi che avevamo fatto. Il resto lo falsificavamo. Gli investitori volevano il gioco su CD-ROM? Noi allora mettevamo l'anteprima su CD-ROM. Volevano il gioco su Internet? Mettevamo la preview su un sito web. Volevano una grafica tridimensionale? Una resa fotografica? Benissimo. Appena finivamo una presentazione, ci davamo da fare per preparare la presentazione successiva. Ma il gioco non arrivò mai a funzionare. Continuavamo a dotare la macchina di nuovi optional, sperando che gli investitori non si accorgessero che mancava il motore. Impiegavamo tutto il nostro tempo per creare le presentazioni, e non producevamo nient'altro. Sa qual era la chiave per arricchirsi, a quell'epoca?» Caroline scuote la testa. «Non fermarsi mai. Trovare sempre nuove idee. Essere sempre a sei mesi dal lancio sul mercato. Ogni anno credevo che gli investitori ci avrebbero tagliato i fondi, e ogni anno veniva fuori un altro idiota con un altro milione di dollari. Nel frattempo, Eli si stava facendo una reputazione da genio. Parlava di altri regni, di livelli dell'essere, del fatto che la gente non avrebbe "giocato" a Empire, ma l'avrebbe "vissuto". Sembrava un vero guru. E il gioco era un fantasma. Se ne parlava sulle più importanti riviste del settore. Tutti gli addetti ai lavori ne sapevano qualcosa ed erano convinti che, quando Empire fosse stato pronto, avrebbe cambiato completamente il concetto stesso di gioco interattivo. Una volta ho letto persino che un'altra azienda stava lavorando a un videogioco stile Empire.» Louis ride. «Eli era così riservato, e così determinato a non cedere il controllo che questo diventava un punto a nostro favore. Faceva sembrare tutto molto più misterioso e potente. Proprio perché il gioco non appariva mai, nella mente delle persone diventava sempre più bello. Un po' come lo striptease. Fai vedere soltanto un po', e il pubblico immagina il resto. Nel '98, tutti volevano comprarci: Microsoft, Sega, Nintendo.» «E voi non avete venduto?» «Eli non ci pensava neanche. E non voleva nemmeno quotare la società in borsa, cioè l'unica cosa che ci avrebbe permesso di raccogliere abbastanza fondi per sviluppare il gioco davvero. E ogni volta che diceva di no,
l'interesse degli investitori aumentava.» «E Clark cosa pensava di tutto questo?» «Tutti noi volevamo vendere. Bryan, io, soprattutto Michael. Michael diventava matto con tutte le paranoie e le insicurezze di Eli. A un certo punto suggerì persino di interdirlo. Ma Clark non cedette mai, fu sempre dalla parte di Eli. Faceva la spola tra Spokane, Seattle e la California. Forniva assistenza legale ad altre società emergenti, e faceva parecchi soldi. Ma anche se era già diventato ricco, tornava sempre qui e si prendeva cura di Eli. Erano come fratelli. Fu Eli a convincere Clark a presentarsi al Congresso. Clark pensava che forse sarebbe stato meglio candidarsi prima per qualche carica meno importante, tipo assessore o sindaco, ma Eli gli consigliò di mirare in alto, e finanziò metà della sua campagna elettorale.» Caroline fissa il taccuino. C'è qualcosa che non quadra. «Se era un'idea di Eli, e se era lui a finanziare Clark, come mai a un certo punto ha investito altri soldi per fargli perdere le elezioni?» «Non lo so» risponde Louis, cauto. «Non ne ho mai parlato con Eli.» «Ma si è fatto un'idea?» chiede Caroline. Louis si sfrega il labbro inferiore. «Verso la fine del '99 tutto andava a gonfie vele. Facevamo anche dei progressi reali nel gioco, e cominciavo a pensare che forse l'anno dopo ce l'avremmo fatta davvero a lanciarlo sul mercato. Avevamo uffici, un magazzino e quindici dipendenti. Mancava un anno alle elezioni, e Clark andò a Seattle a raccogliere fondi per la sua campagna. Quando tornò con lui c'era una donna, e fu allora che tutto iniziò a cambiare.» «Susan.» «Eravamo compagni di scuola, anche se lei probabilmente non lo ammetterebbe mai. Dopo il matrimonio Clark diventò un'altra persona. All'improvviso iniziò a frequentare il Manito Country Club, e a comportarsi come "uno di loro". In parte era per la sua campagna, perché aveva bisogno dell'appoggio di quella gente. Ma per Eli fu un vero e proprio tradimento. E se c'era una cosa che Eli non sopportava era la slealtà. Era sempre stato diffidente, ma ormai sfiorava la paranoia. A un certo punto accusò anche me. Disse che lavoravo dietro le quinte con Michael per vendere Empire.» Prima che Louis finisca di raccontare, la moglie apre la porta. Ha in braccio un neonato di circa tre mesi, rosso e con la faccia paffuta. «Fa freddo, Louis. Perché non vieni dentro?» «Abbiamo quasi finito» dice Caroline.
Sorridendo, Louis prende il bimbo dalle braccia della moglie. «Louis, non credo che la signora sia venuta qui per vedere il nostro bambino» dice la moglie. Il neonato si mette il pugno in bocca e inizia a succhiare. Louis lo rimette tra le braccia della moglie. Appena la porta si richiude, Louis torna a voltarsi verso Caroline. «Questo è l'altro motivo per cui ho mollato Empire. Conobbi Ginger più o meno all'epoca del matrimonio di Clark. Questo fece impazzire Eli. Mi accusò di averlo abbandonato. Fece pedinare Ginger da un investigatore privato, perché era convinto che fosse una spia pagata da un'altra compagnia per rubare i nostri segreti. "Ma quali segreti, Eli?" gli dissi. "Il gioco non esiste." Sa cosa mi rispose? Disse: "Insomma, Louis, per quale altro motivo pensi che scopi con te? Non credi che preferirebbe un uomo normale?". Questo accadde più o meno nel periodo in cui spese tutti quei soldi per far perdere le elezioni a Clark. Io ne avevo abbastanza delle sue paranoie, e me ne andai.» Louis si morde il labbro, prima di continuare. «C'è stata un'epoca in cui le avrei detto che Eli Boyle era il mio migliore amico, un'epoca in cui avrei fatto qualunque cosa per lui. Ma qualche minuto fa, quando lei mi ha detto che era morto... per essere sinceri, non ho provato nessun dispiacere.» «Ma riesce a immaginare un motivo per cui Clark avrebbe voluto ucciderlo?» «Assolutamente no.» «Sì, ma qualcuno un motivo deve pur averlo avuto. Eli aveva nemici, persone che avrebbero voluto vederlo morto?» «Può cominciare con una ventina di investitori. Poi ci siamo io, Bryan e Michael.» A un tratto Louis sembra fulminato da un pensiero improvviso. «Nemici, ha detto? È strano, ho sentito Eli usare quella parola una volta sola. Era nel suo ufficio, e leggeva il giornale con un gran sorriso stampato sulla faccia. Gli chiesi cosa succedeva, e mi mostrò un breve articolo su un tizio che era stato arrestato con un bel po' di cocaina nella macchina. Eli mi rivelò che aveva chiesto al suo investigatore di rintracciare e pedinare quel tizio. Io risposi che mi sembrava una strana coincidenza, e lui mi diede un'occhiata da far rabbrividire. Come se non si trattasse affatto di una coincidenza. "Vedi?" mi disse. "Questo è ciò che accade ai miei nemici. Ricordalo".» «Cosa voleva dire?» «Preferii non saperlo.» «Conosceva l'uomo arrestato?»
«Certo. Era un nostro vecchio compagno di scuola. Un bastardo, che terrorizzava Eli alla fermata dell'autobus.» 3 - Pete Decker Pete Decker aggrotta la fronte entrando nel parlatorio della prigione e vedendo la persona che ha interrotto il suo sonno. Sbadiglia, e si volta verso la guardia. «Sembra che mi abbiano assegnato un poliziotto personale» dice. Poi, a Caroline: «Non credi di aver fatto già abbastanza per me?». Caroline, dopo molte insistenze, è riuscita a convincere il direttore della prigione a lasciarla parlare con un detenuto a quell'ora di notte, persuadendolo del fatto che Pete ha informazioni di vitale importanza per un caso di omicidio. Caroline ha riacceso il cellulare: ora sta vibrando. Guarda il display. Spivey. Probabilmente qualcuno lo ha chiamato e lui è andato a casa di Eli Boyle. Ormai non manca più molto. Caroline spegne il telefono. «Devo solo farti un paio di domande» dice a Pete. Lui incrocia le braccia. «Non mi piacciono le tue domande.» «Mi hai parlato di un tizio con cui Clark faceva a botte alla fermata dell'autobus, quando eravate piccoli.» «Sì.» Pete finalmente si siede. «Eli Boyle.» «È lui. Un fottuto ritardato.» «Quando l'hai visto l'ultima volta?» Pete fa spallucce. «Non mi ricordo. Vent'anni fa? Più o meno quando ho visto anche Clark per l'ultima volta.» Indica la guardia dietro la porta. «Ormai non incontro più molta gente del vecchio quartiere.» «Già.» Caroline consulta i suoi appunti del colloquio con Louis Carver. «E cosa mi dici del tuo arresto nel '98?» «Mi sono fatto tre anni alla prigione di Walla Walla, quella volta.» «Sul verbale c'è scritto che hai dichiarato di aver "trovato" cinquecento grammi di cocaina fuori dal tuo appartamento.» Lui sorride. «Non è una buona difesa, in tribunale, eh? Chissà a che cazzo pensavo, quando l'ho detto.» «Ma l'hai trovata davvero?» «Cosa?» «La cocaina fuori dal tuo appartamento.» Lui la fissa, stringendo gli occhi. «Ma che cazzo...»
«Ti ho solo fatto una domanda.» «Col cazzo.» «Non vuoi dirmi cosa è accaduto, in quell'occasione?» «Mi stai prendendo per il culo.» «No.» «Non mi crederai.» «Potrei crederti.» «Okay, allora, se vuoi saperlo, ero fuori di galera da due mesi, ma rigavo dritto. L'unica cosa buona della galera è che hai la possibilità di disintossicarti, se vuoi. Non mi crederai, ma durante quei due mesi ero rimasto pulito come un bambino.» Abbassa gli occhi su un rozzo tatuaggio che ha sull'avambraccio. «Avevo un'auto, un appartamentino in centro, un lavoro da lavapiatti. Normalmente rigare dritto mi annoia. Ma Walla Walla aveva cambiato il mio punto di vista. Odiavo tanto quel posto che avrei fatto qualunque cosa per non doverci tornare. Poi, un pomeriggio, esco di casa per andare al lavoro, e vedo una Mercedes convertibile nuova di zecca parcheggiata accanto alla mia macchina. Voglio dire, in quel quartiere le Mercedes non abbondano. La capote è abbassata, e non c'è nessuno in giro. Così butto un'occhiata dentro. Come potevo non farlo? È come se ci fosse una ragazza nuda sul marciapiede, capisci? Devi guardare.» Pete Decker si passa una mano sulla fronte a quel ricordo. «Era lì, sul sedile del guidatore. Mezzo chilo. Non avevo mai visto tanta coca tutta insieme. Forse qualcuno doveva passare a prenderla, o forse l'avevano dimenticata, non lo so. So soltanto che era lì, su quel sedile, come se qualcuno l'avesse abbandonata per me. Come se Dio quel giorno si fosse svegliato e avesse detto: "Pete, vecchio mio, anche gli stronzi meritano una tregua". La presi, schizzai nella mia macchina e partii a razzo, controllando ogni secondo lo specchietto retrovisore. Quando fui certo che non mi seguiva nessuno, mi feci una pista a un semaforo rosso. Era pura come un abbraccio materno. Una qualità incredibile.» Pete ride, e alza gli occhi al cielo. «I migliori quattro minuti della mia vita.» «Quattro minuti?» «Credo di aver guidato per circa quattro minuti, prima che la polizia mi piombasse addosso. Quattro macchine. Pensai che stessero sorvegliando la Mercedes, ma quando dissi loro che avevo trovato la cocaina sul sedile, mi
risero in faccia.» Scuote la testa. «Non sai quanto si divertirono. "L'ha trovata! Questo povero stronzo l'ha trovata!" Io replicai: "Volete dire che non stavate sorvegliando la Mercedes?". Loro continuarono a ridere. "Quale Mercedes?" chiesero. Io giurai e spergiurai che avevo trovato la roba in una Mercedes, e alla fine mi riaccompagnarono sotto casa per controllare. Ma la Mercedes non c'era più. In tribunale, gli agenti dissero che avevano ricevuto una telefonata anonima, da uno che sosteneva di aver visto un tizio su Division Avenue con un sacchetto di coca in grembo. Bang, tre anni secchi. Sai, io ho avuto molta sfortuna, nella vita, ma uno che chiama la polizia giusto mentre mi sto facendo una pista in macchina? Questo è il colmo.» Pete si stringe nelle spalle, come annoiato dal suo stesso racconto. «Va bene, insomma, sono sfigato. Ma cosa c'entra Eli Boyle?» Caroline gli tende attraverso il tavolo il rapporto della Motorizzazione Civile che ha appena stampato. Pete lo prende e lo legge, muovendo le labbra. Caroline lo osserva mentre scopre che Eli Boyle ha registrato soltanto un'automobile negli ultimi quattro anni, una Mercedes convertibile SL500 del '98. Peter solleva gli occhi dal foglio, con un'espressione vuota, come se non riuscisse a capire, come se non avesse mai immaginato che una cosa del genere potesse accadere proprio a lui. «Figlio di puttana.» «Eli ha assunto un investigatore per rintracciarti. Probabilmente sapeva a che ora andavi al lavoro, e ha lasciato l'auto con la coca parcheggiata accanto alla tua, immaginando che non avresti saputo resistere.» Pete scuote la testa, e torna a leggere il foglio della Motorizzazione. «Ma perché?» «Non lo so. Speravo che me lo dicessi tu.» «Io... non lo so» mormora. Caroline vede l'incredulità sul suo viso trasformarsi in qualcos'altro. Tristezza per quei tre anni perduti, forse. Poi l'espressione cambia di nuovo, e stavolta è inconfondibile. Guance rosse, occhi socchiusi, labbra strette. Caroline si alza in piedi e fa un cenno alla guardia. Prende il rapporto dalle mani di Pete. «Ascolta» dice. «Metterò una buona parola per te con il pubblico ministero. Gli dirò che mi hai aiutato. Forse ti lascerà andare.» La guardia entra, ma Pete fissa lontano. «Ah, e se stai pensando di andare a fare una visita a Eli, quando esci» aggiunge Caroline, «sei in ritardo di circa tre giorni.»
4 - Caroline ha perso Clark Caroline ha perso Clark. Tra tutte le cose terribili che potevano capitare, questa è la peggiore. Non sa più cosa fare. È in piedi sulla porta della stanza degli interrogatori, e fissa incredula la sedia vuota. Niente bloc-notes, niente penna. Niente tazza di caffè. Ora che poteva finalmente sedersi di fronte a lui e dirgli "So quello che è accaduto", Clark non c'è più. Lei era tornata proprio per questo, per gettargli addosso ogni cosa: Eli Boyle, Pete Decker, Louis Carver... Per intimargli che il tempo era scaduto, e la confessione era terminata. Ma adesso la confessione è veramente terminata. Aveva detto a Kaye di mettere qualcuno di guardia davanti alla porta, ma non c'è nessuno. Stronzo di un Kaye. «Caroline!» Si volta. Dalla parte opposta del corridoio c'è Spivey. Jeans e camicia, taglio di capelli da poliziotto e quei baffetti ridicoli sul labbro superiore. «Dove diavolo sei stata? Ho cercato in tutti i modi di mettermi in contatto con te.» «C'era un uomo qui, nella stanza degli interrogatori...» «Mason?» «Sì. Sai dov'è?» «L'ho lasciato andare.» «Cosa?» Caroline si avvicina con passo minaccioso a Spivey. «Quando?» «Più o meno un quarto d'ora fa. Dopo che ho finito di interrogarlo.» «Lo hai interrogato?» Spivey fa una risata acida. «Di solito è quello che facciamo con i testimoni, Caroline. Non li lasciamo da soli in una stanza e scompariamo per due giorni. Ora vuoi dirmi...» «Non l'hai arrestato?» «Chi?» «Mason.» «Sotto quale accusa? Di essere matto da legare?» «E il cadavere di Boyle?» «Vuoi dire il suicida che hai trovato?» «Suicida? Non c'era la pistola.» «C'era, c'era. L'abbiamo trovata in giardino, proprio dove Mason ha detto di averla lanciata. Ha avuto un attacco di panico, ha afferrato la pistola e
l'ha buttata fuori attraverso la porta aperta. Continuava a dire di essere responsabile della morte di quel tizio. Ma non preoccuparti, gli ho instillato il timor di Dio. Gli ho detto che potevamo incriminarlo per inquinamento di prove, se non metteva giù la penna e non iniziava a collaborare.» Caroline si appoggia contro la parete. «Suicidio?» «Già. La vittima presenta residui di polvere da sparo sulle dita. Sulla pistola ci sono le sue impronte. Dall'angolo di entrata il medico legale dice che deve essersi sparato da solo.» Spivey si punta l'indice contro la guancia, con il gomito basso, per illustrare il concetto. «Abbiamo fatto la prova del guanto di paraffina anche a Mason, per sicurezza. Niente residui di polvere. Inoltre ha un alibi. I vicini di Boyle hanno sentito uno sparo intorno alle quattro del pomeriggio di venerdì. E a quell'ora il tuo protetto era su un aereo. È tutto scritto qui.» Spivey agita un foglio di carta. Caroline lo afferra e lo legge. È firmato da Clark. Deposizione di Clark Mason. Dichiaro che la seguente deposizione è veritiera e completa. Sono arrivato all'aeroporto internazionale di Spokane alle 16.10 circa del 10 febbraio 2002, di ritorno da un viaggio per motivi personali a San José, in California. Preoccupato per lo stato emotivo del mio amico Eli Boyle, mi sono immediatamente portato alla sua residenza, in Cliff Drive, dove ho trovato Boyle morto. Si era sparato alla testa con una pistola calibro .38. Mi sono precipitato accanto al cadavere, ho afferrato la pistola, sono uscito e l'ho gettata nei prato. Ero molto agitato, e ho lasciato il luogo senza avvisare le autorità, in seguito sono stato avvicinato da alcuni agenti di polizia, al Davenport Hotel, e ho acconsentito a dire loro cosa era accaduto. Clark A. Mason Caroline lascia cadere a terra il foglio. Non è giusto. «Allora, si può sapere cosa ti è preso?» Spivey evidentemente non ha ancora finito di farle la predica. «Hai lasciato qui quel povero folle per tutto il fine settimana, seduto a scrivere e a convincersi di essere un assassino.» Caroline lo ignora. «Quello che stava scrivendo, la sua deposizione, l'hai letta?»
«Oh, le ho dato un'occhiata. Quattro blocchi grandi, pieni di stronzate. Parla di quando lui e il morto erano piccoli, di come sono cresciuti insieme. Caroline, tu non sei una psichiatra, e anche se hai un gran desiderio di aiutarlo...» «Dov'è?» «Cosa?» «La deposizione. Dov'è?» «Lui ha detto che ci teneva a fartela avere. L'ho lasciata sulla tua scrivania.» Caroline gli volta le spalle, e va alla sua scrivania. Trova i quattro blocnotes e inizia a sfogliare il primo, senza sapere bene cosa cercare. Sente l'adrenalina scorrerle nelle vene, e per un attimo dimentica che non dorme da due giorni. «Ascolta, Caroline» dice Spivey. «Sto parlando sul serio. Hai combinato un bel casino, e dovrò fare un rapporto scritto, lo capisci?» Caroline appoggia sulla scrivania il primo blocco, e inizia a sfogliare il secondo. Forse Spivey ha ragione. Clark è pazzo. «Non capisco perché tu non mi abbia chiamato» dice Spivey. «Perché devi sempre complicare le cose.» Caroline mette giù il secondo blocco e inizia a sfogliare il terzo. Una quantità di frasi deliranti. Sta per mettere giù anche quello, ma l'ultima frase attira la sua attenzione. "Il mondo sarebbe stato un posto migliore senza Michael Langford". «Dov'è la pistola?» chiede, senza alzare lo sguardo. «Cosa?» «La pistola. Hai detto che l'avete trovata in mezzo all'erba. Dov'è?» «Sulla mia scrivania. Porca miseria, Caroline...» Lei gli passa accanto, prende un guanto di lattice da una scatola sul bancone, e cammina in fretta verso l'ufficio di Spivey. Lui la segue. «Non sto scherzando, Caroline! Hai davvero fatto un casino...» Lei non lo sopporta più. «Io ho fatto un casino?» Gira sui tacchi e lo fissa negli occhi. «Una pattuglia ha trovato quel tizio che guardava fuori da una finestra, in un edificio abbandonato.» Spivey si stringe nelle spalle. «E allora?» «Allora, prima di lasciarlo andare, hai pensato per quale motivo un uomo in stato di disordine mentale è salito da solo fino al dodicesimo piano di un edificio abbandonato?»
Spivey fa un passo indietro. «No.» Caroline si volta, e tira fuori la pistola dalla busta di plastica trasparente. C'è un cartellino attaccato al grilletto. «E ti sei chiesto perché, se il suo amico giaceva morto sul pavimento, il primo pensiero di Mason è stato quello di prendere la pistola?» Caroline rilascia la sicura e apre il tamburo della pistola. Poi fissa Spivey attraverso i due buchi liberi. «Due» dice. «Due cosa?» Lei gli tende la pistola. «Ci sono due proiettili mancanti. Uno è passato attraverso la testa di Boyle. Ma dov'è l'altro?» Quegli uffici sono incredibilmente silenziosi, all'una di notte di domenica. Gli occhi di Caroline si spostano da Spivey alla pistola, e finalmente si posano sulla pila di blocchi su cui Clark ha scritto, a stampatello: DEPOSIZIONE. "Meno ero sincero, più diventavo famoso. Il colmo della cecità umana è il gloriarsi di essere ciechi." Sant'Agostino, Confessioni VIII Deposizione 1 - Probabilmente ti stai chiedendo Probabilmente ti stai chiedendo, Caroline, come mai un uomo possa crollare così in fretta, come mai un avvocato idealista da un giorno all'altro inizi a progettare un omicidio, come mai un uomo che non ha mai infranto la legge - d'accordo, a parte quella sull'uso degli stupefacenti - decida di commettere un omicidio premeditato. Naturalmente, bisogna tenere conto delle mie grandi ambizioni, e soprattutto della mia cecità congenita verso le motivazioni e i desideri delle persone che mi circondano. Ma ci sono anche altre due forze da considerare, due forze che sono senza dubbio responsabili della maggior parte dei delitti. L'amore. E la politica. Questa è la mia confessione, una storia oscura di amore e politica. La storia di come un uomo possa cadere davvero molto in basso. E per descrivere la caduta, naturalmente bisogna partire dall'alto. Prima di tutto c'è una cosa da dire: io ero ricco.
Uso la ricchezza come unità di misura del mio successo, perché è questo il sistema della mia generazione, una generazione che scomparirà velocemente dalla storia, perché non ha dato al mondo quasi nulla in termini di arte, politica e coraggio. Eravamo creativi, ma passavamo il tempo a parlare soltanto di mercati azionari, quotazioni di borsa e opzioni di acquisto. A questo punto è logico chiedersi: quanto ero ricco? Nel mio momento migliore, nel 1999, possedevo sette milioni di dollari, tra libretti di risparmio, conti correnti, quote azionarie e fondi pensione. Avevo un lussuoso appartamento in centro a Seattle, una BMW, una Range Rover, una Harley Davidson d'epoca. Volevo comprare una barca. Ora, secondo gli standard dei fondatori di Microsoft o di Amazon, e di altri tecnoladri di fine secolo, i miei soldi erano poco più che spiccioli. Ma per me, erano tutti i soldi del mondo. Ricordo la prima volta che pensai di essere diventato ricco. Era il 1997, ed ero in visita dai miei genitori. Mio padre girava intorno alla Harley parcheggiata nel vialetto d'ingresso. «È una bellezza» disse. «Quanto ti è costata?» «Oh, non troppo.» «Quanto?» Appena confessai che era costata trentaduemila dollari lui fece una risatina isterica, ma poi divenne serio, e piegò la testa da un lato e disse solamente: «Ah». Non c'era bisogno che aggiungesse altro. Era più del suo stipendio annuale. Non voglio annoiarti con i particolari degli acquisti e delle vendite, delle fusioni e delle offerte, della buona sorte che credevo fosse buona capacità di analisi. Basti dire che, dopo aver aiutato Eli a far decollare Empire (almeno da un punto di vista concettuale), tornai a Seattle e mi misi in caccia di aziende tecnologiche, per mostrare a Dana che potevo avere successo nel suo mondo, o meglio, nel mondo di suo marito. Lavoravo senza sosta, setacciavo la città in cerca di geni del computer dagli occhi cerchiati, di automi della Microsoft che volevano liberarsi della casa madre, di programmatori, codificatori e sognatori, insomma di chiunque avesse un'idea anche vaga, ma che implicasse monitor e tastiere. Leggevo giornali e riviste di settore, frequentavo i cyber cafè e i dipartimenti tecnologici delle università. Il risultato fu che nel 1998 avevo già fatto alzare in volo una trentina di buone prede per gli investitori di Michael, e avevo curato i contratti e tutto il lavoro legale in cinque transazioni di successo. La maggior parte della mia ricchezza, tuttavia, non proveniva dal mio
lavoro di avvocato, ma da consigli e intuizioni personali che mi spingevano a giocare in borsa. Ogni volta che acquistavo delle azioni per me, ne prendevo un po' anche per Eli. Lui spendeva la maggior parte dei suoi soldi nel tentativo di trasformare Empire in un videogioco. Il denaro, comunque, non rappresentava l'unica misura del mio successo, e non era neppure la mia motivazione principale. La mia droga è sempre stata l'ossessione per la mia apparenza. Dopo la morte di Ben, mi ero disintossicato da quell'abitudine, ma ormai avevo ricominciato a pieno ritmo. I miei sintomi erano così acuti che quando non c'era nessuno a vedermi a volte dubitavo di esistere. Amavo l'attimo fuggente in cui entravo in un ristorante e i clienti alzavano gli occhi a guardarmi, o in cui, in una riunione, arrivava il mio turno di parlare, e tutti gli sguardi convergevano su di me. Uscivo con tutte le donne che si mostravano disponibili, sempre ansioso di nuovi occhi attraverso i quali vedermi. Quando mi fermavo a un semaforo rosso, controllavo il mio riflesso nelle vetrine dei negozi, e osservavo il mio taglio di capelli da quaranta dollari, il mio completo impeccabile, il mio occhio di vetro, il tutto incastonato in una BMW nera. Non ci volle molto perché tornassi alla mia vecchia abitudine: la politica. All'inizio non fu nulla di troppo eclatante: presidente di un club, poi di un comitato tecnologico dell'associazione degli avvocati. Cominciai a frequentare gli ambienti del partito democratico, e feci qualche donazione per alcuni candidati. Ma quegli assaggi non facevano altro che stimolarmi a desiderare di più. Volevo un podio, il mio nome scritto a lettere cubitali dietro di me, e una folla di sostenitori che urlava: «Mason. Mason. Mason». A volte, in quel periodo, venivano a cercarmi avvocati più anziani e più famosi di me, per chiedermi di aiutarli a capire il mondo degli affari hitech. Così cominciai a farmi una reputazione da esperto nel mio campo. Parlavo in sale piene di avvocati dai capelli grigi, spiegando che ci voleva destrezza e rapidità per adeguarsi alle richieste di un'industria che cambiava di minuto in minuto. Durante queste presentazioni, spesso iniziavo le frasi dicendo: «Nel futuro...» e continuavo a blaterare di quando gli incontri con i clienti sarebbero avvenuti in video-conferenza o di quando i computer sarebbero stati in grado di leggere automaticamente la trascrizione di una sentenza e di inoltrare il ricorso in appello. Stupivo la platea, descivendo udienze che si sarebbero svolte via Internet, e avvocati che non avrebbero mai avuto bisogno di lasciare l'ufficio (eccetto per teletrasportarsi a casa e farsi una sveltina con la fidanzata robot).
Così, nell'aprile del 1998, accettai di intervenire al primo simposio annuale sulla tecnologia di Spokane, insieme con le autorità cittadine, i politici e gli imprenditori locali. L'evento sembrava più che altro un tentativo disperato di far partire il treno della tecnologia, che aveva trasformato Seattle e Portland, ma che aveva oltrepassato Spokane senza neppure rallentare. Il simposio si teneva nella sala conferenze di un hotel dell'aeroporto. Eravamo seduti intorno a tavoli rotondi, e i camerieri ci portavano petti di pollo avanzati da qualche volo cancellato. A ogni tavolo c'era un rappresentante del governo cittadino e diversi membri dell'élite tecnologica di Spokane. Al mio c'erano un ufficiale dell'aeronautica in pensione, che era appena stato eletto assessore e voleva assicurarsi che i computer della biblioteca comunale non venissero usati per accedere a siti porno, e il direttore di un fast-food che era orgoglioso dei nuovi computer veloci che avevano sensibilmente ridotto le code alla cassa. Anche il sindaco era un industriale in pensione: si era presentato alle elezioni, perché era stanco di passare le giornate a potare le rose con la moglie. «Ai miei figli piacciono i computer» dichiarò. «Io, purtroppo, non ci capisco niente.» Mi disse che il suo avversario alle elezioni successive sosteneva che, per attirare l'industria tecnologica, la città avrebbe dovuto offrire incentivi agli imprenditori, convincendoli che a Spokane esisteva l'atmosfera "giusta". «È vero» replicai. «Incentivi fiscali, aree di sviluppo, infrastrutture. Sono queste le cose che richiamano gli imprenditori.» «E quanto ci vuole per realizzarle?» «Be', ci sarà bisogno di qualche anno.» «Troppo» ribatté lui. «Io ho solo tre mesi.» In quel momento pensai che il mio successo poteva portarmi a realizzare il mio vecchio sogno. Forse potevo essere la figura che serviva alla città, il candidato politico del ventunesimo secolo. Ma ci volle ancora più di un anno prima che mi decidessi a fare qualcosa in quel senso, e in realtà il simposio di Spokane non ha molta importanza riguardo all'argomento principale della mia confessione, eccetto che per un particolare. Dopo aver cenato e bevuto, mi trascinai verso l'ascensore alquanto ubriaco, ma soprattutto in buona compagnia. Quella notte, in una stanza al quarto piano di un albergo in collina, con le luci di Spokane sotto di noi come un lago di stelle, feci l'amore per la prima volta con Dana Brett.
2 - Per me era incredibile Per me era incredibile che Dana si fosse innamorata di un bastardo sleale e con il pelo sullo stomaco come Michael Langford. Lei non sembrava rendersi conto di come il marito la manipolasse, truffasse i clienti e facesse il doppio gioco con i concorrenti. Non sembrava capire neppure quanto Michael mi detestasse. Certo, quando c'erano altre persone presenti era sempre gentile, ma quando eravamo noi due da soli non perdeva occasione per insultarmi o per ricordarmi che lui aveva sposato l'unica donna che io avessi mai amato. «Ciao, Mason» mi salutava al telefono. «Chi hai imbrogliato, oggi?» Quando dicevo qualcosa che lui non approvava, la sua battuta standard era: «Non ti fidare di quell'occhio di vetro!». O a volte, quando mi telefonava in ritardo, si scusava dicendo: «Se non ti ho richiamato subito, Mason, è perché stavo scopando con mia moglie». Riuscivo a sopportare le provocazioni di Michael solo perché la mia partecipazione alla sua società mi permetteva di passare un po' di tempo con Dana. Ma il suo ruolo cominciò a essere sempre più marginale, finché nel 1998 decise di lasciare l'azienda, con l'idea di dedicarsi a creare siti web per organizzazioni no-profit. Io cercai di dissuaderla, tempestandola di e-mail e telefonate, ma non ci fu verso. Lei ormai aveva deciso. Il suo ultimo giorno di lavoro andai in aereo a San José, al quartier generale della società, per partecipare alla sua festa d'addio. Dopo il party, quando la torta era finita e gli impiegati erano tornati nei loro uffici, la vidi uscire e la seguii. La trovai seduta su una panchina nel giardino pubblico di fronte alla società. Mi disse che non ce la faceva più a reggere il ritmo. «Andiamo a duecento all'ora, e non arriviamo mai da nessuna parte. Facciamo partire un'azienda, e ci spostiamo subito alla successiva, senza neppure sapere come è andata. E come fare continuamente dei figli e non vederli mai crescere.» «Abbiamo collocato in borsa tre grandi società negli ultimi sei mesi, Dana» dissi. «E ce ne sono altrettante pronte per i prossimi mesi. Non ti sembrano figli abbastanza cresciuti?» Dana ora portava i capelli lunghi. Li spinse indietro e mi fissò con i suoi occhi color cannella. «Non intendo dal punto di vista finanziario, Clark. Tutto quello che doveva accadere, la trasformazione dell'economia e della cultura... dove è finito?» «Be', la mia economia si è trasformata parecchio.»
Lei ignorò il commento. «Inoltre, così anche la mia vita personale sarà più facile.» Io drizzai le orecchie, e le presi entrambe le mani. «Le cose a casa vanno male?» «No» rispose lei, in modo poco convincente. «Solo penso che per una coppia sia meglio non vivere insieme ventiquattr'ore al giorno, a casa e al lavoro. Inoltre mi sto annoiando, Clark. Ho bisogno di nuove sfide. Ho bisogno di qualcosa di più.» Durante tutto il tempo che avevo passato nella società di Michael, Dana si era sempre comportata con me in modo amichevole, ma riservato. Eppure, durante le riunioni sentivo sempre il suo sguardo su di me. La fissai negli occhi e lei non distolse lo sguardo. L'aria tra noi sembrava elettrica. Dana socchiuse le labbra. «Dana...» sussurrai. «Ah, eccovi qui.» Era la voce di Michael. Si avvicinò alla panchina, si chinò e baciò Dana sulla bocca. Poi le appoggiò una mano sul collo, e si voltò a guardarmi. «Siamo felici che tu sia riuscito a venire, Clark» disse. «Dana ti ha parlato dei nostri progetti?» Risposi di sì, aggiungendo che mi piaceva l'idea dei siti web per le aziende no-profit, visto che anch'io, prima di lavorare con loro, mi ero dedicato molto al volontariato. «Ah, già, in Portogallo» fece Michael. «E ti ha detto anche il resto? Tra un anno avremo dei bambini.» «No, non me ne ha parlato.» «Magari tra due anni» intervenne Dana. Michael le strinse la spalla. «Non voglio aspettare tanto.» Poche settimane dopo anch'io lasciai la società di Michael, e accettai un'offerta di lavoro in uno studio legale di Seattle. Mantenni comunque i miei impegni con le aziende fondate attraverso gli investimenti trovati da Michael, tra cui soprattutto la Empire. Per quattro mesi non riuscii a trovare nessun pretesto per chiamare Dana, ma pensavo a lei ogni giorno. Poi, ad aprile del '98, fui invitato a quel simposio a Spokane. Accettai a condizione che includessero nella lista degli argomenti che si sarebbero discussi quello che definii come il segmento in maggiore crescita nel mercato tecnologico: la creazione di pagine web per aziende no-profit. Consigliai loro di invitare un esperto, e subito dopo precisai che conoscevo io la persona giusta. Dana sembrò contenta dell'occasione di rivedere Spokane e me.
Fu così che, alla fine della serata, ci trovammo nel bar del Ramada Airport Hotel di Spokane. Bevemmo una vodka dietro l'altra, come se l'alcol potesse aiutarci a superare le porte chiuse che ci separavano l'uno dall'altra. Le dissi che il suo intervento mi era piaciuto molto, e rimarcai l'arretratezza di Spokane in confronto ai centri della new economy come Seattle e San José. «Oh, qui stanno meglio, senza tutta quella merda» disse Dana, sollevando il bicchiere per ordinare un'altra vodka. «A volte mi sembra l'ultimo posto reale rimasto sulla terra, Clark. A volte mi sembra di non essere mai stata bene, da quando sono andata via.» «Stai parlando di Spokane?» «Se Michael fosse d'accordo, tornerei a vivere qui anche domani. E farei un sacco di bambini.» «Ma cosa farebbe Michael qui? Non c'è una base di aziende tecnologiche. Non c'è niente.» Dana fece spallucce. «Potrebbe fare il cameriere. Era quello il suo lavoro quando ci siamo conosciuti. Era bravo, riusciva a portare nove bicchieri d'acqua in una volta.» Quando Dana era ubriaca, la sua palpebra destra si agitava come una farfalla. «Questa è una cosa reale. Portare l'acqua alla gente. Una persona ha sete, e tu porti dell'acqua. Cosa fa tutta questa tecnologia per le persone, Clark? Spegne la loro sete?» Trangugiò la sua vodka in un colpo solo. «Prima andavamo nei negozi a comprare i nostri CD. Ora li acquistiamo senza alzarci dalla scrivania. Ma cosa è cambiato, in realtà?» «Il mondo» risposi. «È cambiato il mondo intero.» «È questo che sognavi quando eravamo giovani?» chiese lei. «Eravamo degli idealisti, volevamo di più. Ricordi, Clark? Ricordi cosa volevi?» Io la fissai negli occhi. «Sì» mormorai. «Me lo ricordo.» Lei mi restituì lo sguardo, confusa, poi capì a cosa alludevo, e scoppiò a ridere, gettando la testa all'indietro. «Non era quello che intendevo, sciocco.» Fece un gesto vago con la mano, e rovesciò il mio bicchiere, inondandomi i pantaloni di Kahlua. Io saltai in piedi e cercai rapidamente di pulire la macchia con un tovagliolo. «Mi dispiace» si scusò lei. «Sono una frana.» Poi prese il suo bicchiere e se lo versò in grembo. Il succo di mirtillo mescolato alla vodka dipinse subito una macchia sul suo vestito. «Ecco qua. Siamo pari.» Un quarto d'ora dopo eravamo nella sua stanza. Mi piacerebbe dire che i successivi otto minuti furono una di quelle esperienze fondamentali che ti
cambiano la vita per sempre, ma avevamo bevuto troppo, e la nostra, dopo tutti quegli anni di promesse e di attese, non fu altro che una rapida scopata da ubriachi. Eppure, una volta finito, restammo abbracciati. Io fissavo i sottili capelli castani sulla sua tempia, ascoltando il suo respiro sul mio collo. A poco a poco la sbronza passò, ma non dicemmo una parola. Le nostre dita seguivano i contorni dei rispettivi corpi, in silenzio. Poi l'alba iniziò a illuminare le tende, e noi facemmo l'amore di nuovo. Passammo così tutta la mattina, abbracciandoci, inarcandoci e ricadendo sul letto. Spero che l'ultimo mio pensiero, prima di morire, sia il ricordo della mano di Dana sul mio collo, e della sua voce che mi sussurrava all'orecchio: «Oh, Clark. Oh, mio Dio, si». Quando smettemmo, caddi nel sonno più profondo della mia vita. Mi svegliai alle tre del pomeriggio. Dana era seduta sulla sedia, e parlava al telefono. «No» stava dicendo. «È andato tutto bene.» Restò ad ascoltare per un minuto. «Torno stasera.» Ascoltò di nuovo. «Clark?» si voltò a guardarmi. «Sì, ci siamo visti... No, non lo so, comunque se lo rivedo te lo saluto.» Poco dopo riagganciò, e si voltò di nuovo verso di me. «Ciao.» «Ciao.» Fece un sorriso triste, e io ebbi la sensazione inspiegabile che ci fosse qualcun altro lì con noi. «Tu arrivi sempre al momento sbagliato» disse lei, alla fine. Facemmo una doccia, ci vestimmo e andammo in città. Dana indossava un abito stampato che mi ricordava il suo modo di vestire a scuola. Continuava a tirarsi indietro i capelli. Passammo davanti al Davenport Hotel, che era in corso di restauro, e io mi fermai un attimo a guardare. Uscimmo nella Valle, fermandoci davanti alla vecchia casa dei genitori di Dana, tra i frutteti vicino al confine con l'Idaho. I suoi ormai si erano trasferiti in Arizona, e Dana non voleva disturbare i nuovi proprietari. Restò seduta nella macchina a noleggio, tracciando con un dito il profilo del portico sul finestrino. «L'infanzia dura talmente poco» disse poi, fissandomi. «Eppure rimaniamo bambini per sempre.» Dana non era mai stata a casa mia, ai tempi della scuola, così quando passammo davanti al mio cortile non dissi nulla. Mia madre era in giardino, china sui fiori, e ci dava le spalle. Aveva i capelli completamente grigi. Io passai come un fantasma in un'auto a noleggio. «Dov'è?» chiese Dana, pochi isolati dopo. «Credevo che stessimo an-
dando a casa tua.» «L'abbiamo già superata» dissi. All'aeroporto ordinai un drink, mentre lei non prese nulla. Ci sedemmo in fondo al terminal, guardando le madri con i bambini piccoli che salivano a bordo per prime. «Hai pensato a come lo dirai a Michael?» dissi. «A Michael?» ripeté lei, piegando la testa di lato. Io la fissai per un attimo, poi la consapevolezza mi inondò come un bicchiere di vodka sui pantaloni. «Ah. Non hai intenzione di dirgli nulla.» Le madri erano già salite, e le hostess annunciarono che gli altri passeggeri potevano imbarcarsi. Dana si alzò in piedi. «Clark, mi dispiace. Una cosa del genere lo ucciderebbe.» Mi baciò. «È stato piacevole. E ne avevo bisogno. Ma ora devo tornare alla mia vita.» Piacevole, pensai, barcollando sotto l'urto di quelle parole. Restai a guardarla camminare finché, poco prima di entrare in aereo, mi sembrò che si voltasse a guardarmi. 3 - Mi ubriacai Mi ubriacai quella sera, e anche la sera succedeva, e quasi tutte le altre sere per almeno un mese e mezzo. Ho sempre cercato di non esagerare con l'alcol, ma come avrai notato a questo punto della mia confessione, ho un carattere che non ama le mezze misure. Per me bere con moderazione è come far l'amore con moderazione, o come saltare con moderazione da un precipizio. O salti o non salti. E dopo aver visto Dana salire su quell'aereo, io mi lanciai nel vuoto. Mi ubriacai sul volo di ritorno a Seattle, mi ubriacai al bar dell'aeroporto dopo l'atterraggio, mi ubriacai quando Dana non rispose alle mie e-mail, e continuai a umiliare me stesso in un bar diverso ogni sera, per più di un mese. Non indulgerò nel racconto di quelle notti perdute, passando direttamente all'ultima, quando fui buttato fuori dal Triangle Pub perché, in piedi su uno sgabello, insistevo per misurare l'ipotenusa del bar. Appena mi accompagnarono fuori, caddi a faccia in giù sul marciapiede. Quando sollevai lo sguardo attraverso la pioggia, vidi una donna che mi fissava. Era giovane e snella, con i capelli rossi legati in una treccia e uno zainetto sulle spalle. La riconobbi immediatamente come una delle ragazze con cui avevo dormito durante il mio periodo bohémien.
«Tamira» dissi. «Sono Kayla» precisò lei. «Ah. Hai più una faccia da Tamira.» «Non importa. Volevo solo dirti che non ha un'ipotenusa.» «Cosa?» «Il bar. È un triangolo isoscele, privo di angoli retti, perciò non puoi misurare l'ipotenusa.» Mi fissò negli occhi. «Stai male?» Le chiesi di sposarmi, ma invece di andare in chiesa finimmo in un fastfood naturista aperto tutta la notte, dove lei mangiò un toast allo zenzero e una salsiccia di tofu con una mano, fumando Lucky Strike con l'altra, mentre io le raccontavo tutta la triste storia. «Insomma, mi stai dicendo che hai passato gli ultimi tre anni cercando di somigliare all'uomo che questa Dana ha sposato?» mi chiese alla fine. Ci pensai su un attimo. «Sì. Credo di sì.» Kayla aspirò una boccata dalla sua Lucky Strike. «Bene, quello è stato il tuo errore. L'ultima cosa che una donna sposata vuole è un amante che somiglia al marito. Dovresti tornare a essere te stesso.» In un lampo di chiarezza compresi che Kayla aveva ragione. Dovevo tornare a essere me stesso. Il problema era: quale me stesso? Due giorni dopo ero di nuovo a Spokane, nel cimitero a valle del fiume. Mi inginocchiai davanti a una piccola lapide incassata nel terreno. Feci scorrere le dita sul nome inciso nella pietra, BENJAMIN T. MASON, e su quelle date crudeli: 12 novembre 1966 - 19 novembre 1985. So che alcune persone vanno nei cimiteri a parlare con i loro morti, ma io non ci riuscivo. Mia madre aveva lasciato dei fiori di plastica sulla tomba di Ben, e un colibrì di legno le cui ali si agitavano frenetiche nel vento. Raddrizzai i fiori, ripulii la lapide, e desiderai intensamente che Ben potesse consigliarmi cosa dovessi fare. Ricordavo quando mi aveva detto che io vivevo soltanto nella percezione degli altri, e all'improvviso quella frase mi sembrò dolorosamente vera. Non esisteva un'epoca in cui avevo agito per me stesso, un'epoca in cui le mie azioni non fossero dettate dal mio dolore per la perdita di Ben, dal mio amore per Dana, o dal desiderio di mostrare a Michael Langford che ero migliore di lui, o dalla tirannia di Pete Decker. Mi chiesi se avessi mai avuto una personalità mia. «Mi manchi» dissi ad alta voce. Poi mi guardai intorno per vedere se qualcuno mi aveva sentito, ma non c'era nessuno. Lasciai il cimitero e andai a Spokane, fermandomi davanti a un edificio in mattoni che aveva ospitato un negozio di rigattiere fino a sei mesi pri-
ma, quando era diventato la sede della Empire Interactive. Quello era il periodo dell'ossessione di Eli per la sicurezza. Aveva installato sulla porta una elaborata serratura con tessera magnetica e le finestre erano state oscurate, in modo che nessuno potesse guardare dentro. Bussai forte su un vetro, senza sapere se all'interno c'era qualcuno che mi vedesse. Finalmente la porta si aprì, e apparve Louis Carver, sorridente. «Clark! Cosa ci fai qui?» «Sono venuto a controllare il mio investimento.» Louis mi diede una pacca sulla schiena. «Entra.» Lo seguii in una stretta anticamera, dove una telecamera riprendeva i nostri passi. Superammo un'altra porta con tessera magnetica ed entrammo in una sala che assomigliava a una specie di caffetteria: pavimento di ceramica e lunghi tavoli dove una dozzina di persone lavoravano al computer. Dall'altro lato della stanza si aprivano tre piccoli uffici, uno per Bryan, uno per Louis e uno per Eli. Eli uscì dal suo: aveva pantaloni di tela sgualciti e una camicia a strisce con una macchia di salsa sul colletto, e gli occhiali leggermente storti sul naso. «Clark!» esclamò, guardandosi subito intorno, come sorpreso dal proprio tono eccitato. «Ciao Eli.» Gli tesi la mano, e lui la strinse con riluttanza, poi si voltò e tornò nel suo ufficio. Louis mi rivolse un'occhiata significativa e tornò al lavoro. Entrai nell'ufficio di Eli, una stanza semplice dalle pareti bianche, con un computer e le vecchie cartellette nere di Empire allineate sugli scaffali di una libreria. Eli stava osservando le persone che lavoravano nella sala grande. «Non mi fido di loro» disse. «Non mi piace come si comportano con me. Sentono odore di soldi, e fanno finta di pendere dalle mie labbra. Fanno finta che io gli piaccia.» «Forse gli piaci davvero» replicai. Lui si voltò a fissarmi, con un sopracciglio sollevato, come se gli avessi appena suggerito di diventare un ballerino di lap-dance, poi tornò a indicare l'altra stanza. «Non capisco perché abbiamo dovuto assumere tanta gente.» «Dobbiamo far decollare il gioco, Eli. Se non cominciamo a guadagnare presto, gli investitori ci fanno la pelle.» «Non m'importa» rispose lui. «Li pagherò di tasca mia.» Dovetti pregarlo per convincerlo a spiegarmi i nuovi sviluppi del gioco, compreso un sistema e-mail con cui i giocatori avrebbero potuto contattar-
si tra di loro. In questo modo ci sarebbero stati più tradimenti e doppi giochi. «Questa è la chiave» disse Eli. «Il tradimento.» Io non entravo nei suoi uffici da più di tre mesi, così mi mostrò la nuova grafica, che il nostro team di prova aveva giudicato "straordinaria". La cosa che gli piaceva di più era una prigione per miscredenti e debitori, un'isola rocciosa piena di catacombe, tunnel e camere di tortura, che sembrava uscita direttamente dal Conte di Montecristo. Non volle farmi vedere altro, neppure il motore del gioco che lui e Bryan stavano perfezionando, il "cervello" che riceveva le informazioni e le azioni dei personaggi e le traduceva in movimenti sul monitor. «Non è che non mi fidi di te, Clark. Ma tu sei in contatto con una quantità di altre società e non vorrei che qualcosa andasse a finire nelle mani sbagliate.» Era tardo pomeriggio. Eli aveva da poco traslocato nella casa di Cliff Drive, e mi invitò a passare da lui. Sapendo che detestava guidare, dissi che potevamo prendere la mia macchina, ma lui tirò fuori di tasca una chiave nera, e mi chiese di seguirlo sul retro. Lì lo aspettava una Mercedes convertibile grigio scuro, l'unico oggetto di lusso che gli abbia mai visto possedere. Lo seguii fino a casa sua, parcheggiammo, ma invece di entrare nell'edificio principale mi condusse nel piccolo appartamento sopra il garage. Viveva lì. C'erano pochissimi mobili, e i suoi vestiti erano ancora nelle valigie. Apparentemente si nutriva soltanto di pizza consegnata a domicilio: ce n'erano parecchi contenitori accatastati contro una parete. «Vuoi una birra?» mi chiese. Gli rivelai che ultimamente avevo iniziato a bere troppo, e che stavo uscendo a fatica da una crisi. Non credevo che lui avrebbe simpatizzato con i miei problemi con Dana, perciò parlai in generale di una parte di me che avevo perduto e che desideravo ritrovare. «Non posso evitare di pensare» dissi, pensando a Dana «che ci sono alcuni affari in sospeso che dovrei affrontare.» Eli mi fissò per un lungo momento. «Vieni. Voglio mostrarti qualcosa.» Lo seguii in cucina. Lui tirò fuori da un cassetto una spessa cartella con su scritto DANTES. Ne estrasse una busta sottile su cui lessi il nome PETE DECKER e me la passò. «Aprila» disse Eli. Dentro c'erano tre foto in bianco e nero, scattate dal finestrino di una macchina. Ritraevano Pete Decker, magro e tirato, che usciva da un edifi-
cio in jeans, maglietta e grembiule da lavapiatti. Nell'ultima foto saHva a bordo di una Chevy Nova scassata. Erano vent'anni che non lo vedevo, e lo trovai molto invecchiato. Eli si alzò e mi venne alle spaHe. «Ho assunto un investigatore per rintracciarlo. In questi anni non ha fatto altro che entrare e uscire di galera.» Sorrise. «E stato appena arrestato di nuovo per possesso di cocaina. Non è meraviglioso?» «Hai assunto un investigatore per rintracciare Pete Decker?» chiesi. Eli dovette sentire il disagio neHa mia voce, perché fece un passo indietro. «Sì. È la cosa di cui parlavamo, no? Gli affari in sospeso. Voglio dire, non ti sei mai chiesto che cosa ne era stato di Pete Decker?» Certamente ero curioso, ma guardando le foto di quel tizio inagrissimo con l'aria di uno che si è fatto troppe canne non provavo nulla. «Sì» dissi. «Ma io non parlavo di conti da regolare. Parlavo di me, del fatto che mi sono perso per strada, che ho dimenticato cosa volevo diventare, e che ho deluso delle persone.» Pensai di nuovo a Dana. E a Ben. Eli sorrise e rimise le foto nella busta. Quando ripose la cartella nel cassetto, vidi un oggetto metallico e nero: solo in seguito mi sarei ricordato che era una pistola. «Vieni» continuò Eli. «C'è un'altra cosa che voglio mostrarti.» Uscimmo dall'appartamento e scendemmo le scale. Attraversammo il prato ed entrammo nella casa principale. Eli spinse un interruttore e nell'ingresso si accesero le lampadine di un enorme lampadario. Lo seguii nell'ampio soggiorno, e poi lungo la scala curva che portava al secondo piano. Alle finestre c'erano vetri colorati, e i pavimenti di legno erano lucidi e immacolati. «Bella casa» dissi. «È troppo grande. E ci sono troppe finestre. Mi fa sentire... esposto. Non mi sento a mio agio qui, per questo non ho ancora comprato dei mobili. E non ho appeso nulla alle pareti.» Indicò con un gesto il caminetto del soggiorno. «Eccetto quella.» Ci misi qualche secondo a riconoscere la foto incorniciata appesa sopra il camino. C'erano quattro persone, giovanissime, con volti senza rughe e senza paura. Le due ragazze erano graziose, soprattutto la bruna, che sorrideva timida, come se sapesse qualcosa che gli altri ignoravano. L'altra aveva l'aria di non voler essere fotografata. Era bionda, carina, con un vestito blu. Ma furono i due ragazzi in giacca e cravatta a catturare la mia attenzione: uno alto, con i capelli in disordine e un occhio strano, con un
braccio intorno alle spalle dell'altro, basso e goffo, che sorrideva come se quello fosse il giorno più bello della sua vita. Sentii Eli dietro di me. «Tu non avevi mai paura. Facevi tutto ciò che volevi. Eri bravo nello sport, uscivi con le ragazze più belle, ti eleggevano per tutte le cariche.» Mi voltai a guardarlo, e pensai che, a parte i miei genitori, Eli mi conosceva da più tempo di chiunque altro. «Io ricordo cosa volevi diventare» disse Eli. Tornai a fissare la foto del ballo. A un tratto lui tirò fuori una penna e un libretto di assegni dalla tasca posteriore dei pantaloni, si appoggiò alla parete e riempì un assegno. Me lo tese. Erano diecimila dollari. L'assegno era intestato al "Comitato per l'elezione di Clark Mason". «Io posso aiutarti» disse. E anche se la scritta "Comitato per l'elezione" era ridicola, fece scattare dentro di me un impulso potente. Cercai di prenderla sul ridere, ma non riuscivo a distogliere gli occhi da quell'assegno. «Per eleggermi che cosa?» «Quello che vuoi» rispose Eli. «Qualcosa di grosso.» E quello fu l'inizio del mio piano assurdo per diventare il deputato Clark Mason (in seguito Eli e io decidemmo che il mio secondo nome suonava meglio, e mi presentai come Tony Mason). Ritrovai le mie ambizioni al punto in cui le avevo lasciate quindici anni prima. Il rivale da sconfiggere era George Nethercutt, un repubblicano. Ne parlammo quella sera, e molte altre ancora per due settimane. Volevamo presentare un nuovo tipo di candidato, progressista sia in senso sociale che tecnologico. Pochi mesi dopo nasceva Tony Mason. Mio Dio, mi sentivo pieno di energia. Eli era ancora più euforico di me, e si occupava di preparare la mia campagna come se dovesse presentarsi anche lui alle elezioni. «Siamo Butch Cassidy e Sundance Kid» disse un giorno. «Di nuovo insieme!» Io ridevo sempre a quel tipo di battute, ma lui tornava spesso sull'argomento. «È bello poter contare su qualcuno che sarà sempre leale nei tuoi confronti» mi disse un giorno. «Puoi scommetterci» risposi. «Sai Clark» disse un'altra volta. «In tutta la mia vita, non ho mai avuto un amico come te.» Pensai alla nostra zuffa alla fermata dell'autobus, al modo in cui lo evitavo a scuola, al ballo di fine anno quando avevo pomiciato con la sua da-
ma. Al modo in cui avevo usato lui ed Empire per cercare di riportare Dana nella mia vita. E lui mi considerava il suo migliore amico. Ma come sempre ero troppo assorbito da me stesso per comprendere la solitudine di Eli, o per immaginare lo sforzo che faceva per aiutarmi. Ero ossessionato dalla mia candidatura. Mancavano ancora due anni alle elezioni, ma i miei contatti nel partito democratico reagirono positivamente alla mia idea. Spokane era la roccaforte dei conservatori, e chiunque avesse un piano per conquistarla, e soprattutto soldi suoi da spendere, era il benvenuto. Dopo aver ricevuto la benedizione del partito, la prima persona a cui telefonai fu il mio vecchio professore, Richard Stanton. Gli spiegai la mia teoria, e i motivi per cui pensavo che George Nethercutt fosse vulnerabile. Io avrei portato lo sviluppo economico nella mia città, mi sarei presentato come il candidato del ventunesimo secolo. Stanton era contento per me e disse che non mi sentiva così eccitato dai giorni in cui immaginavo di fondare le mie organizzazioni di servizi legali gratuiti. Fu allora che gli chiesi di essere il direttore della mia campagna. Stanton scoppiò a ridere. «Nemmeno per sogno» rispose. Ero sicuro che in seguito sarei riuscito a fargli cambiare idea. Intanto iniziai a raccogliere fondi. Finalmente, dopo una settimana o poco più, chiamai Michael e Dana. Erano passati due mesi da quando avevo fatto l'amore con lei. «Mason» disse Michael. «Come mai non sei ancora in galera?» Sentii che c'era qualcuno accanto a lui. «Sai cara» continuò Michael. «È il nostro vecchio amico Clark Mason.» Gli illustrai il mio progetto, e dissi che se lui e sua moglie avessero sostenuto la mia candidatura, sarei stato eternamente in debito con loro. Lui coprì il microfono con una mano per parlare con Dana. Udii la parola "Congresso" e poi la risata di Michael. Dana venne all'apparecchio. «Davvero vuoi presentarti al Congresso?» chiese. Mi piacque ciò che sentii nella sua voce. Orgoglio e invidia, esitazione e un senso di urgenza. «Sì.» «È meraviglioso. Certo che faremo una donazione.» «Ehi, raccontagli le "nostre" notizie» disse Michael, accanto a lei. «Stavo per farlo... Clark, ricordi quando a Spokane parlavamo del momento sbagliato?» «Ricordo benissimo» dissi, piano.
Dana si schiarì la gola. «Be', allora non ne ero sicura, ma ora lo sono» disse. «Sono incinta. Michael e io avremo un figlio.» 4 - Candidarsi alle elezioni Candidarsi alle elezioni non è quello che forse la gente crede che sia. Non somiglia affatto alle discussioni sulla politica e l'etica di governo che facevamo all'università. Potrei parlare per giorni delle delusioni della politica. Ma ci resta poco tempo, Caroline. Lo sappiamo entrambi. Inutile sprecare pagine per descrivere i mille dettagli di cui è fatta una campagna elettorale moderna: i dibattiti infiniti sui colori da usare per poster e distintivi, le discussioni sul look più appropriato per il candidato, («Niente stivali da cowboy? Tu vuoi candidarti per il distretto orientale dello stato di Washington e non possiedi un paio di stivali da cowboy?»), i brainstorming per decidere il tono da usare negli spot pubblicitari. La cosa che più mi sorprese fu quanto poco dovevo realmente "fare". Avevamo un esperto da ottanta dollari l'ora per ogni settore della campagna, e io dovevo solo preoccuparmi di indossare la cravatta ben abbinata al vestito, e ricordare di fissare la telecamera. La prima volta che mi vide, il direttore dei miei spot mi disse: «Quell'occhio. Cosa devo fare con quel dannato occhio?». Scoprii che c'era pochissimo mercato per i discorsi che avevo sognato di fare, e i pochi che pronunciai erano stati scritti per me da un'équipe di professionisti. Dopo qualche mese di quella vita, cominciai a sentirmi più un prodotto che un candidato, una specie di nuovo detersivo per il bagno o una nuova marmellata. Quando si accendevano le luci, in uno studio televisivo, e il trucco iniziava a scaldarsi sul viso, le istruzioni mi tornavano in mente: «Fissa dritto in avanti, di' "equità per gli agricoltori", non "sussidi agli agricoltori"». All'inizio tutto ciò mi andava anche bene. Dopo l'annuncio di Dana avevo capito che non saremmo mai stati una coppia, perciò ero contento di salutare le folle, di tagliare nastri e accarezzare bambini, per non pensare che la donna che amavo stava per avere un figlio dal mio nemico giurato. All'inizio del 2000 io ed Empire eravamo entrambi ben riforniti di fondi, completamente ideati, ma realizzati solo a metà. Prodotti con prospettive limitate e di poca utilità nel mondo reale.
Durante i diciotto mesi della campagna, conobbi un solo momento di ispirazione. Fu in occasione di un incontro tra quattro speranzosi candidati democratici e un pubblico di una trentina di persone, alla biblioteca pubblica di Spokane. Dopo un po' discutemmo delle cause e delle possibili soluzioni dell'aumento del tasso di povertà a Spokane. In realtà, quello è l'unico punto cruciale, a Spokane. Tutto il resto, la criminalità, la droga, lo stato pietoso delle strade e dei servizi, dipende dall'unico problema che nessun politico negli ultimi cinquant'anni ha potuto risolvere: Spokane è una città povera. Ciascuno degli altri candidati sembrava avere una sua causa preferita: c'era chi dava la colpa al declino delle miniere e di altre industrie basate sulle risorse naturali, chi all'isolamento geografico, chi all'incapacità di effettuare la transizione verso attività di altro tipo, e di quello che venne definito "un ciclo infinito di fallimenti". «Questi aspetti del problema sono tutti validi» dissi. «Ma siamo sinceri, non è questo che vogliono gli elettori.» Feci una pausa a effetto, poi mi chinai di nuovo sul microfono. «Vogliono una città da cui i loro figli non siano costretti ad andarsene. Vogliono smettere di parlare con i vicini di come stanno bene i loro figli a Seattle, a Portland o a San Francisco. Quello che vogliono gli elettori è che il governo riporti a casa i loro figli.» Guardai dietro il palco, e vidi Eli con il pugno stretto davanti alla bocca, che annuiva entusiasta. Quello fu il momento in cui mi elevai leggermente al di sopra della mediocrità, e non fui più soltanto "quello della new economy", l'arrampicatore sociale che cercava di spodestare Nethercutt. In quel momento divenni il figliol prodigo, il pifferaio magico, e lo slogan della mia campagna emerse da solo: "Votate Mason. Per riportare a casa i vostri figli". Nell'inverno prima delle elezioni, Richard Stanton si prese un periodo di aspettativa dall'università e accettò di diventare il direttore della mia campagna («Se hai davvero deciso di sprecare i tuoi soldi, voglio aiutarti»). Cercò di spingermi a lasciarmi andare e a essere me stesso («Tony Mason? Ma chi cazzo è Tony Mason? Sembra il nome di un ristorante gap>). Sentivo che Eli diffidava di Stanton e di tutti gli altri professionisti della politica che mi circondavano. La nostra era una strategia semplice: spendere tutto. Normalmente un candidato alle prime armi non investe più soldi del rivale esperto che sta cercando di spodestare, ma io lo feci. La nostra fu la campagna più costosa della storia del distretto orientale dello stato di Washington. I fondi che
avevo raccolto finirono ancora prima che la campagna iniziasse sul serio, gli spiccioli del partito servirono appena a pagare i manifesti, e non ci volle molto prima che iniziassi a usare i miei risparmi. Alla fine spesi circa due milioni di dollari miei e trecentomila dollari di Eli, più un'altra somma ragguardevole prelevata - lo seppi soltanto poi - direttamente dalle casse della Empire Interactive. Avrei investito ancora di più, se avessi potuto, ma mentre da un lato il mio conto in banca si andava prosciugando, dall'altro il mercato fondato sulla tecnologia si andava esaurendo. Probabilmente devo menzionare anche un altro evento accaduto in quel periodo, connesso in qualche modo alla campagna: mi sposai. Preferisco non aizzare gli avvocati della mia ex moglie divulgando i particolari. Perciò dirò solo questo: conoscevo da tempo la donna che diventò mia moglie, e da ragazzi eravamo anche stati insieme. Non so quanto peso ebbe la politica nella mia decisione di sposarla, ma certamente, quale candidato giovane in un distretto conservatore, una moglie mi dava un prestigio che da single mi sarebbe mancato. La cosa che più mi attraeva in lei era il fatto che non faceva nulla per ricordarmi Dana, il mio amore impossibile. Sfortunatamente, però, quella donna era abituata a un certo stile di vita, il che mi portò ad aumentare ancora di più le spese. Fu in questo periodo che Eli iniziò a tirarsi indietro. Quella che era stata una campagna centrata su noi due adesso era una macchina enorme con me al centro e parecchi strati di professionisti della pubblicità e della stampa tutt'intorno. Senza parlare della mia ex moglie, una snob egocentrica che era andata a scuola con Eli, e che non lo sopportava. Eli cominciò a farsi vedere sempre meno, e devo dire con dispiacere che io non feci nulla per riportarlo in squadra. Così, nell'estate del 2000, quando mancavano solo pochi mesi alle elezioni, mi trovai ad aver fatto esattamente il contrario di quello che volevo fare. Invece di essere me stesso, ero partito all'inseguimento della versione annacquata di un sogno finito. Ero diventato un politico. Avrei fatto meglio a spendere i miei soldi per farmi togliere l'anima con una operazione chirurgica, sostituendola con una bistecca di manzo. Sapevo che stavo tradendo me stesso, ma ormai non potevo più fermarmi. Più la campagna andava avanti, più mi sentivo depresso. Accettai di tenere una serie di comizi nelle piccole cittadine rurali a sud di Spokane, ma non riuscii mai a trovare le parole giuste. Una volta dissi che George Nethercutt era una testa di cazzo dal mento sfuggente, un vero pezzo di merda.
Stanton era furioso. Disse che se i media fossero stati presenti all'evento, la mia carriera politica sarebbe finita quel giorno stesso. Mi chiese se i miei scivoloni verbali dipendevano da problemi in famiglia. «Una campagna elettorale è una prova dura per una giovane coppia, soprattutto considerando che siete sposati da poco. Perché non parli con tua moglie? O se preferisci le parlo io.» «No» dissi. «Ti ringrazio, ma lei non c'entra.» Stanton però mi conosceva abbastanza bene da capire che il mio matrimonio era parte del problema, anche se non ne comprendeva tutte le implicazioni. Proprio come Ben aveva previsto, la mia debolezza ormai aveva preso il sopravvento. Mi ero consegnato mani e piedi alla percezione degli altri: elettori, membri dei vari club a cui appartenevo, dirigenti della mia campagna elettorale, i media, il partito... tutti, meno me stesso. E quegli scivoloni verbali, quei lapsus freudiani, erano la mia vera personalità che cercava di uscire allo scoperto. Più il candidato Tony Mason aveva successo, più Clark Mason spariva sullo sfondo. Un giorno di settembre, sette settimane prima delle elezioni, sedevo sul divano di casa mia, e guardavo i mobili che mia moglie aveva acquistato nei migliori negozi di Seattle. Indossavo i vestiti scelti per me da un consulente elettorale, e mi trovavo in un soggiorno arredato da qualcun altro. «Tony?» disse mia moglie, dalla cucina. «Possiamo andare in vacanza ai tropici, dopo le elezioni?» «Certo» rispose Tony. «Possiamo andare dove preferisci.» Così, senza chiasso, Clark Mason era ufficialmente morto. Ora, per non appesantire la storia con le mie reazioni emotive, mi affiderò alle fredde capacità organizzative della mia formazione legale per raccontare cosa accadde. In un periodo di sei settimane, nell'autunno del 2000, i seguenti fatti ebbero luogo nella città di Spokane, contea di Spokane, nello stato di Washington. 1. Durante un incontro con il mio commercialista appresi che: a) Malgrado i suoi ripetuti ammonimenti in tal senso, riguardo al fatto che non era saggio tenere tutte le uova in un paniere, il mio intero portafoglio consisteva di azioni del mercato tecnologico emergente. b) La bolla si era sgonfiata e le azioni tecnologiche erano scese del duecento per cento. Le mie avevano perso ancora di più. Un terzo delle società di cui possedevo una quota non esistevano neppure più. c) Potevo cercare di indirizzare altrove i miei investimenti, ma avevo
speso troppo per la mia campagna elettorale, per la casa, per il matrimonio e per un sacco di altre cose. d) Ero senza un soldo. Durante un incontro con il segretario del partito democratico dello stato di Washington, venni a sapere che: a) Il partito era rimasto favorevolmente impressionato dal mio tentativo, ma le proiezioni mostravano che non avevo nessuna possibilità di vincere. b) Il partito era preoccupato per via di alcune voci, secondo cui la mia campagna era stata finanziata in parte con i soldi degli investitori di un'azienda di nome Empire, senza il consenso degli investitori stessi. c) Il partito non era incline a spendere altri soldi per la mia campagna. d) Ero fottuto. Sconvolto da tali eventi, tornai a casa all'improvviso, dopo aver cancellato un comizio, e trovai: a) Mia moglie nuda sul letto, intenta a leggere un libro. b) I pantaloni di un altro uomo accanto al letto. c) Lei disse che l'uomo stava facendo la doccia. Forse avrei dovuto occuparmi di scoprire di chi erano quei pantaloni, invece uscii di casa e camminai fino a trovarmi davanti al Davenport Hotel, tra tutti i posti possibili. d) Ero solo. Un candidato distrutto emette un suono come quello di un pallone sgonfiato, o di una gomma bucata, e una volta aperto il buco, niente è più difficile che cercare di ripararlo. Continuai la mia campagna nonostante tutto, ma ormai era finita. I membri del mio staff se ne andarono tutti quando smisi di pagarli, eccetto Stanton, che mi commosse con le sue scuse, come se fosse colpa sua. Proprio come un animale ferito, quando arrivò il colpo di grazia provai una specie di sollievo. Era la fine di ottobre. Mi trovavo nell'hotel in cui mi ero trasferito da poco, e guardavo la televisione. A un tratto apparve lo spot: una mia foto di parecchi anni prima, quando portavo i capelli lunghi
e la benda sull'occhio. Non ricordavo di aver scelto quella foto per uno spot pubblicitario, ma la sorpresa più grande fu la voce fuori campo che diceva: «Fino a un anno fa, Clark Mason era un ricco avvocato di Seattle. Vogliamo davvero che un ricco avvocato liberale rappresenti il distretto orientale di Washington al Congresso? Siamo davvero sicuri che Seattle si prenderà cura di Spokane?». Ne vidi tre, tutti sullo stesso tema, con la stessa voce profonda da annunciatore televisivo. Apparivano ogni sei o sette minuti, su diversi canali. Se c'era ancora una speranza di una vittoria all'ultimo minuto, quegli annunci la eliminarono definitivamente. Pochi giorni dopo, lessi sui giornali che gli spot erano stati finanziati da un comitato di azione politica denominato Fondo per una Elezione Giusta, creato dei miei amici Louis Carver ed Eli Boyle. Louis mi chiamò immediatamente, dicendo che non ne sapeva nulla. Mi disse che la paranoia e le fissazioni di Eli ormai erano incontrollabili. Io risposi che andava tutto bene, e gli consigliai di perdonare Eli, e di stargli vicino. Quello stesso giorno parlai con la stampa, per difendermi, senza molta convinzione, dalle accuse degli spot. «Una cosa certa» dichiarai, tra le altre cose, «è che non sono più un ricco avvocato di Seattle.» Quando la conferenza finì, e i cameramen iniziarono a mettere via il loro equipaggiamento, provai una sensazione agrodolce, pensando che non avrei mai più sentito sul viso il calore dei riflettori. La mia prima e ultima campagna elettorale era finita, e l'attenzione dei media si sarebbe spostata su qualcos'altro. Mancavano due giorni alle elezioni. Comprai una bottiglia di whisky da mezzo litro, ne bevvi la metà in macchina, e portai il resto al quartier generale dei miei uffici elettorali, che stava chiudendo perché eravamo in arretrato di tre mesi con l'affitto. C'era soltanto una giovane volontaria di nome Lara, che piangeva mentre una ditta di traslochi impacchettava scrivanie e computer, scatole di manifesti e adesivi. «Signor Mason» mi disse. «Mi dispiace tanto.» «Grazie Kayla» risposi, accarezzandole la testa. «Chi è Kayla?» chiese lei. «Cosa?» «Mi ha chiamato Kayla.» «Davvero?» Pensai a quella ragazza dagli occhi limpidi, Kayla, che era apparsa magicamente sul marciapiede fuori dal Triangle Pub, con la solu-
zione del mio problema di geometria e il consiglio che avrebbe potuto darmi Ben: torna a essere te stesso. Lasciai lì Lara, uscii in strada e alzai gli occhi a guardare il cielo. Salii in macchina e mi diressi a est, oltre il fiume, verso la casa dei miei genitori in Empire Road. Parcheggiai e mi avvicinai alla vetrata. Mio padre era ancora sveglio, e guardava la televisione. Mia madre dormiva accanto a lui sul divano. Papà mi vide, si alzò e venne ad aprire la porta. Restammo a guardarci, sulla soglia. Era invecchiato parecchio. Negli ultimi dieci anni ero stato a trovarlo una dozzina di volte, ma mi resi conto solo in quel momento che non l'avevo mai visto realmente. Non avevo visto realmente nulla. I sui calmi occhi azzurri sembravano galleggiare nelle orbite. «Ho perso» dissi. «Già» disse lui. Poi tenne aperta la porta per farmi passare. E finalmente entrai in casa. 5 - Dopo le elezioni Dopo le elezioni restai a casa dei miei per qualche mese. Mi riposai e cercai di mettere ordine nei miei affari, anzi, nei miei fallimenti: divorzio, bancarotta, vendita della casa e di altre proprietà, eccetera. Ma trovai anche il tempo di parlare di Ben con i miei genitori, di spiegare loro i miei sensi di colpa, di scusarmi per essermi fatto vedere così poco negli anni dopo la sua morte. Mio padre mi ascoltava. Mia madre mi dava da mangiare. E le banche, i creditori e gli avvocati mi dissanguavano, un dollaro dopo l'altro, una proprietà dopo l'altra, finché non restò più nulla. «Si sono presi anche la moto?» chiese mio padre. Quella era l'unica cosa che non mi avevano ancora portato via. Era nel garage di un amico a Seattle, e mi ero dimenticato di inserirla nella lista dei beni che possedevo. Il week-end successivo andai a Seattle in autobus, presi la moto e la regalai a mio padre. Lui non voleva accettare, ma io insistetti, e il giorno dopo lui andò al lavoro con la Harley. Purtroppo tre mesi dopo gli avvocati la rintracciarono e me la requisirono. Mi scusai con mio padre, ma lui fece finta di nulla. «Non mi piaceva, in realtà» disse. Non parlò mai più di quella moto, ma mia madre mi disse che nel periodo in cui l'aveva avuta la usava tutti i giorni. Continuai a cercare di rimettere insieme la mia vita. Aprii uno studio e ricominciai a fare l'avvocato: curavo testamenti per gente che non aveva
nulla da lasciare in eredità, o divorzi per coppie che non avevano nulla da spartirsi. Guadagnavo abbastanza da pagare gli alimenti alla mia ex moglie, e riuscii anche ad affittare un piccolo appartamento e a comprarmi una vecchia Honda Civic. Smisi di portare l'occhio di vetro e tornai alla benda nera. Mi feci crescere i capelli. Respiravo. Mangiavo. Camminavo. Stavo meglio? Credevo di sì. Tuttavia ero povero, e dovevo impegnarmi parecchio per tirare avanti. Poi alcune settimane fa, più di un anno dopo le elezioni, finalmente andai a trovare Eli Boyle. Non ce l'avevo con lui. In un certo senso, pensavo di essermi meritato ciò che Eli mi aveva fatto. Tuttavia fino a quel momento non avevo voluto vederlo. A volte immaginiamo che il tempo abbia un potere di redenzione, che guarisca tutto. Ma a volte il tempo si limita a passare, senza che nulla cambi. Salii lungo Cliff Drive fino a casa di Eli. Il prato e gli alberi erano trascurati. Dopo che tutti gli impiegati dell'Empire Interactive erano stati licenziati o se n'erano andati (Louis era stato l'ultimo l'anno prima), Eli aveva trasferito gli uffici dell'Empire Games nell'appartamento sopra il garage. Aveva dipinto a mano una piccola insegna con le parole EMPIRE INTERACTIVE, e l'aveva appesa fuori dalla porta. A differenza di quanto avevamo fatto io, Michael e Dana, in quegli anni Eli aveva venduto piccole quote delle sue azioni tecnologiche, e stava usando gli ultimi risparmi per mantenere in vita la società, sperando di riuscire a superare il periodo nero. Salii le scale e bussai alla porta. Udii un rumore di spranghe tirate, di chiavi che giravano nelle serrature, e finalmente Eli venne ad aprire. Era imbarazzato. Non lo vedevo da sedici mesi. Era ingrassato ancora, i capelli gli si erano fatti più radi, e c'era qualcosa di strano nei suoi occhi sfuggenti. Ogni volta che abbassava le palpebre, sembrava provare dolore, come se avesse delle schegge di vetro negli occhi. Si fece indietro per farmi entrare, arricciando il naso per rimettere a posto gli occhiali. La stanza odorava di pizza, caffè e spazzatura. «Non volevo farlo, ma davvero non mi hai lasciato altra scelta...» disse. «Lo so» risposi. «La tua candidatura e tutto il resto era stata un'idea mia...» «Lo so.» «E tu hai messo di mezzo quella donna...» «Lo so, Eli.»
«Cominciamo sempre io e te, insieme, e poi tu lo dimentichi sempre, lo dimentichi sempre...» «Lo so, Eli. Non lo dimenticherò più.» Mi guardai intorno. La Empire adesso era ridotta a una pila di raccoglitori e scatole di cartone. Eli si avvicinò al computer, ancora non troppo sicuro delle mie intenzioni. «Sei stato tu... a tradire... io...» Parlava con una voce monotona, priva di modulazioni, con gli occhi che non si fermavano un attimo. Capii che era malato. «Non sono venuto a parlare di questo. Il passato è passato.» Lui annuì, incerto, ed emise una specie di sibilo. «Ho cercato di chiamarti» dissi «ma il tuo telefono era staccato.» «Era controllato. Continuavo a telefonare per dire loro di togliere le microspie, ma non lo hanno mai fatto, così l'ho staccato.» Indicò il computer. «Ho l'e-mail, ma credo che abbiano messo sotto controllo anche quella.» «Sono venuto per vedere il gioco» dissi. «Non è un gioco» disse lui, di nuovo con quel dolore negli occhi. «Voglio vederlo.» «Non è ancora pronto.» «Lo so. Non sarà mai pronto, ma io ho bisogno di vederlo, Eli.» Lui mi fissò per qualche secondo, poi accese il computer, aprì alcuni file e il computer iniziò a caricare il gioco. «È ancora a uno stato grezzo. Ci sono problemi con i cambi di scena, e l'azione è molto ridotta.» Parlava mentre lavorava alla tastiera. «Bryan ha lasciato le cose in uno stato terribile, e...» fissò lo schermo al di sopra degli occhiali. «Stavo per trovare una soluzione, quando è successa un'altra cosa che non avevo previsto. Si tratta di quel Michael Langford. So che ci sono ancora dei soldi disponibili, ma lui non vuole darmeli...» Il monitor divenne nero, poi si aprì su una scena pastorale, con un villaggio sullo sfondo. La grafica era bella, anche se un po' piatta e già superata. In sottofondo c'era un cinguettio di uccelli, mentre greggi di pecore bianche si muovevano in lontananza. Eli usò il mouse per farci avanzare verso il villaggio. A un tratto la scena sparì, e fu sostituita da un primo piano della porta del villaggio. «Odio questi passaggi a singhiozzo» disse Eli. «Mi riferivo a questo quando ho detto che è ancora molto grezzo. E l'azione non dura molto.» «Voglio che mi mostri tutto ciò che c'è da vedere» insistetti. Sulla porta c'erano le parole: USER NAME_____ e PASSWORD_____. Eli si voltò a guardarmi e ci misi qualche secondo a capire che non avreb-
be digitato la sua password se io non avessi distolto lo sguardo. «Dantes» tirai a indovinare, pensando al nome sulla cartella di Pete Decker, alla prigione da Conte di Montecristo che Eli aveva ideato, e soprattutto al modo in cui mi aveva aiutato a costruire la mia carriera politica per poi distruggerla. «Edmond Dantes.» Eli mi fissò, inorridito. «Come lo sai?» Non risposi. Eli digitò la password e il suo alter ego entrò nel villaggio. Donne e bambini gli si avvicinarono per salutarlo. Lui tese le braccia in modo un po' rigido per accarezzare i bambini e per accettare fiori dalle donne. Poi l'immagine sullo schermo cambiò punto di vista, e potei vedere Eli Dantes, alto e muscoloso, con folti baffi, capelli castani e spalle larghe. Eli si accorse che spostavo lo sguardo da lui alla sua versione computerizzata, e arrossì. In quel momento le immagini scomparvero dal monitor, sostituite da stringhe di codici. «Ci sono molte altre scene già pronte, ma non sono ancora riuscito a farle scorrere una dopo l'altra.» «Questo è tutto?» chiesi. «Questo è tutto ciò che hai?» «Come ti avevo detto, è ancora un po' grezzo. Se Michael non mi avesse bloccato i fondi...» «Questo è il motivo della mia visita. Michael ha trovato un investitore interessato ad acquistare Empire. L'idea, per lo meno.» Infilai la mano nella mia borsa e ne estrassi il fax di Michael. «Vogliono tutto quello che hai, gli sviluppi, i materiali di ricerca, i diritti per il nome del gioco.» «Non è un gioco» disse Eli. «Non credo che lo vorranno ancora, quando lo avranno visto. Ma è un'offerta, Eli, e in questo momento secondo me ogni offerta è buona, soprattutto dati i... limiti del gioco.» Eli lesse il fax. Quando arrivò al prezzo, rise. «Duecentomila dollari? Ma è una presa in giro.» «È qualcosa. E non si tratta soltanto di te. Ci siamo anche Michael, Dana e io.» «Michael, quel bastardo» disse Eli. «So cosa sta facendo.» «Finora hai usato i tuoi risparmi per tenere a galla Empire. Fino a quando pensi di poterlo fare?» Avevo visto che sulla Mercedes parcheggiata in strada c'era un cartello VENDESI. «Michael ha sempre voluto questo. Ha sempre voluto Empire per sé.» «Eli. Quando finirai i tuoi soldi, ti porteranno via la casa, tutto.» Eli fece un gesto noncurante con la mano. «Che si prendano pure la ca-
sa.» «Non vuoi neppure pensarci su?» «Di' a Michael che vogHo i miei soldi» disse lui, continuando a fissare il fax. «Ascoltami. Michael non ha i tuoi soldi. Anche lui è rimasto al verde, come me e come te. Eli, devi vendere il gioco.» «Non è un gioco!» urlò lui, agitando il fax. Poi sembrò rilassarsi. «Non chiamarlo più gioco.» Vidi sul suo viso lo stesso sguardo di quando mi aveva mostrato le foto di Pete Decker, e lo immaginai, durante la campagna elettorale, che mi malediceva per averlo tradito. «Di' a Michael di darmi altri soldi, e finirò Empire.» «Stammi a sentire, per favore. Empire non vale neppure duemila dollari, altro che duecentomila. Tre anni fa forse valeva molto di più, ma ora è superato.» Eli non mi stava ascoltando. «Langford crede di potermi togliere Empire, eh? Avrei dovuto immaginarlo. Il vero nemico è sempre l'ultimo a scoprirsi.» «Eli, per favore, pensa a quest'offerta.» «Non preoccuparti. Mi occuperò io di Michael Langford.» Dopo averlo lasciato, tornai a casa e chiamai Michael, per dirgli che Eli rifiutava di vendere. Mi rispose Dana. Non parlavo con lei dal periodo elettorale, quando l'avevo chiamata per dirle che mi sposavo. Mi disse che le dispiaceva per il risultato delle elezioni e per il mio divorzio. Le spiegai che ero tornato a fare l'avvocato, e che avevo intenzione di restare a Spokane. Nella mia voce c'erano sconfitta e stanchezza. «Forse avevi ragione, riguardo a Spokane» dissi. «Di cosa stai parlando?» «Hai detto che Spokane era l'ultimo posto reale rimasto sulla terra.» Lei rise. «Ed è una cosa positiva, secondo te?» «Sì» risposi. «Qui devi essere tenace, devi essere realista. E per me questo è positivo.» Dana mi confidò che per lei e Michael le cose si stavano sistemando. Avevano dovuto vendere la grande casa di Los Altos, ma stavano pagando i debiti e la società aveva di nuovo cominciato a dare qualche profitto. «La gente qui ha la sensazione diffusa» continuò «che se riusciamo a resistere ancora per qualche mese, i soldi torneranno.» «Ce la farete senz'altro. Tu sei troppo intelligente per non farcela, e Michael è... spietato.»
Udii dei rumori in sottofondo. «C'è la festa di compleanno di Amanda» disse Dana, poi sospirò. «Oh, Clark.» Nella sua voce percepii un'ombra della mia stessa nostalgia. «Ti chiamo Michael» disse subito dopo Dana. Mentre aspettavo udii delle risa di bambini, e la voce di Dana che chiedeva chi voleva la torta. In quel momento cominciai a fare dei calcoli. «Caro deputato!» disse Michael al telefono. «Ah, no, hai perso le elezioni, se non sbaglio. Be', almeno hai una moglie che può confortarti. Ah, scusami, dimenticavo che hai perso anche quella.» «Eli non vuol vendere» dissi. «Ma deve vendere. Non ha altra scelta.» «Ho cercato di dirglielo, ma...» «Cerca di ripeterglielo» disse Michael. Poi riappese e tornò alla festa di compleanno della bambina. Io restai con il telefono in una mano, contando i mesi sulle dita dell'altra. Amanda aveva quattro anni. Era nata il 20 gennaio. Quattro anni e nove mesi prima era il 20 aprile del 1998. Ora, non potevo sapere cosa avesse fatto Dana in tutto il mese, ma certamente il 6 aprile di quell'anno lei era con me. Rideva, mi baciava il collo, e si toglieva il vestito macchiato di vodka, in un hotel di Spokane. 6 - Non impariamo mai nulla Non impariamo mai nulla. Solo così si spiega il fatto che un uomo che aveva perso tutto - un'infanzia, un occhio, una donna, una sfida elettorale, una fortuna, un fratello e forse anche una figlia - fosse ancora convinto di vincere, alla fine. Altrimenti, come giustificare la posizione in cui mi trovo oggi, se non con l'idea che si tratta della stessa posizione in cui mi sono trovato per tutta la vita? Quando tornai da Eli, avevo già un piano. Bastava soltanto lasciare libero sfogo alle sue paranoie che lo avrebbero portato a compiere un atto irreparabile. Bastava che me ne restassi zitto, mentre lui camminava per la stanza in preda ai suoi deliri, con la pistola nera che vibrava in quel cassetto. Certo, mi sarei comunque sentito responsabile, ma almeno tecnicamente non sarei stato colpevole. In realtà ciò che feci fu orribile. Mi presentai a casa di Eli spaventato e senza fiato. Gli mentii. Gli dissi che aveva ragione, Michael aveva a disposizione milioni di dollari, ma non voleva darceli. Sostenni che gli investitori non vedevano l'ora di tornare a
finanziare Empire, ma lui lo voleva tutto per sé. «È geloso di te» dissi. E aggiunsi che Michael era disposto a trascinarci in tribunale e a mandarci in galera, se non avessimo venduto Empire. «Può... è... può farlo davvero?» «Certo. Abbiamo inscenato delle presentazioni false. Abbiamo usato il denaro degli investitori per la mia campagna elettorale, a loro insaputa. Finiremo in prigione, e lui si terrà il gioco.» «Non è un gioco!» urlò Eli, pieno di rabbia. Strinse gli occhi, come per chiudere fuori il mondo. Andai da lui ogni sera per una settimana, osservandolo mentre progettava la sua vendetta. «Non avremmo mai dovuto coinvolgerlo. È un ladro.» «Se ne sta in California con tutti quei soldi» gli dissi. «I soldi con cui gli investitori vorrebbero finanziare Empire, e ride di te.» «Finirà per rubare tutto» aggiunsi. «Ruberà Empire, lo rovinerà, e lo userà per guadagnare milioni di dollari alle tue spalle.» Eli tremava e balbettava per la rabbia. «Non può... io... non lo permetterò... è...» Sentivo emergere il mio lato oscuro, una parte di me che avevo sempre cercato di reprimere. «Cambierà i personaggi. Sposterà l'ambientazione nel futuro. Lo trasformerà in una versione più sofisticata di Pac-Man.» Dopo alcuni giorni, Eli smise di tremare e di balbettare. Riuscivo a vedere il piano che si stava formando nella sua mente. Un giorno, mentre mangiavamo una zuppa di cozze da Fletts, mi disse a bassa voce: «Tu non devi avere nulla a che fare con tutto questo». «Sei sicuro di quello che dici?» «Devo farlo io. Mi dispiace.» «Va bene.» «D'ora in avanti, non chiedermi nulla.» «Non lo farò.» «Dovrai andartene fuori città.» «Perché?» «Perché, secondo te?» rispose lui, facendomi il verso, come se fossi un idiota. «Dobbiamo salvaguardare la tua carriera politica.» Io abbassai gli occhi a fissare la mia zuppa. «Chiama Michael» mi disse Eli. «Digli che voglio incontrarmi con lui, tra due settimane. Che l'incontro dovrà essere segreto, e dovrà avere luogo qui a Spokane. Digli che Empire è pronto.» «Va bene.»
«I particolari dell'incontro glieli comunicherò io, per e-mail.» «Come vuoi.» «Se te lo chiede, digli che sto diventando matto, che faccio richieste assurde.» Dovetti distogliere lo sguardo. «Glielo dirò.» «Un'altra cosa. Dopo, non dovremo vederci per un po'. Forse dovrò lasciare la città, ma non preoccuparti, quando Empire sarà pronto ti contatterò.» Sorrise. «Avremo abbastanza soldi da poter finanziare un'altra campagna elettorale per te. E stavolta andrà tutto bene. Saremo solo noi due, senza tutta quella gente di Seattle. Senza donne.» «Certo» dissi. Eli prese una cucchiaiata di zuppa, poi puntò il cucchiaio verso di me. «Soffrirà, in un modo che ora non può neppure immaginare. Soffrirà come stiamo soffrendo tu e io.» Non dissi nulla. Dopo pranzo, Eli mi chiese di portarlo all'emporio. Entrò da solo, e ne uscì con un sacchetto che, dalla forma, sembrava contenere una scatola di proiettili. «Non fare domande» disse. Tornammo nel suo appartamento, e io restai nell'altra stanza, fingendo di leggere una rivista. In realtà lo guardai di sottecchi attraverso la porta socchiusa della cucina, mentre infilava i proiettili nella pistola, uno alla volta. Vorrei poter dire che rimasi paralizzato dall'orrore, che quella vista mi fece uscire di colpo dalla mia follia. Invece lo osservai affascinato. Quando ebbe infilato tutti e sei i proiettili, Eli ripose la scatola e la pistola nel cassetto. Fece un respiro profondo e venne verso di me. «Non preoccuparti.» Volle rassicurarmi. «Funzionerà. Mi occuperò io di tutto.» Poi mi accompagnò alla porta. Scesi le scale, e lui restò a osservarmi dalla soglia. «Grazie» disse. «Di cosa?» «Di essere tornato, anche dopo... Non avrei dovuto spendere quei soldi contro di te, Clark. Non avrei proprio dovuto farlo.» «È acqua passata, ormai.» «Noi siamo...» Arricciò il naso per sollevare gli occhiali, assumendo di nuovo la faccia del ragazzino alla fermata dell'autobus, che mi aveva soccorso accanto al fiume. «Siamo come...» Ebbe una specie di brivido, e sorrise. Non riusciva a esprimere le emozioni. Iniziò a dondolarsi da un piede all'altro. «Siamo grandi amici» concluse.
«Sì. È vero.» Lui sorrise come un bambino a una festa. Poi si fece serio. «E non ci metteremo mai più l'uno contro l'altro.» «No» dissi. Eli sorrise di nuovo e chiuse la porta. Appena arrivai a casa chiamai Michael. Gli dissi che Eli aveva accettato di vendere, ma che voleva trattare direttamente con lui, a Spokane. A Michael l'idea di incontrarlo a Spokane non piaceva per niente, ma finì per accettare. «Sarà meglio che il gioco sia pronto davvero. Altrimenti l'affare non si fa.» «È pronto» risposi io. «Un'ultima cosa, Mason» disse Michael. «Quando tutto questo sarà finito, voglio che non chiami più a casa mia. Ogni volta che telefoni Dana diventa nervosa. E non mi piace vederla così.» Fuori turbinava la neve. Immaginai di stendermi sulla strada e lasciarmi seppellire. Sparire. «Va bene. Quando tutto sarà finito non ti chiamerò più.» Il giorno dopo, Eli mi mandò un'e-mail. Caro senatore, tanti auguri per la tua gita. Sarei venuto anch'io ma il 6 febbraio ho un appuntamento alle 10.00. Tutto andrà benissimo. Il tuo migliore amico Eli Acquistai un biglietto aereo per il 5 febbraio, il giorno prima dell'incontro di Eli. Arrivai a San José verso le dieci di sera, e dormii in un albergo vicino all'aeroporto. Passai la notte a rigirarmi nel letto, finché lenzuola e coperte finirono arrotolate come corde. La mattina dopo presi un taxi (Una ricevuta e un testimone, pensai) e diedi all'autista l'indirizzo di Dana a Sunnyvale. «Con quello che le costerà la corsa» disse il tassista «potrebbe noleggiare una macchina.» «Lo so» risposi. Restai a fissare il traffico della California fuori dal finestrino. Milioni di auto. Le nuvole formavano una cappa leggera sopra di noi. Mi sentivo come staccato da me stesso. Un meccanismo di difesa, suppongo, un tentativo di negare ciò che stavamo... che Eli stava facendo.
Cercavo di convincermi che fosse stato lui a progettare tutto. Protestavo contro il mio senso di colpa. Non ero stato io a comprare la pistola. Non ero stato io a infilare i proiettili nel tamburo. «Una pistola?» chiese il tassista. «Cosa?» Lui indicò la mia benda nera. «L'occhio. È stata una pistola ad aria compressa?» «Ah» dissi. «Un fucile.» «È sempre un bastone o un'arma ad aria compressa» fece lui. Si voltò e sorrise, e io vidi che il suo occhio destro era lattiginoso, con la pupilla dai contorni indefiniti, come un uovo fritto quando si buca il tuorlo. Tornai a guardare dal finestrino. Le auto ci giravano intorno, e gli occhi di tutti sembravano puntati su di me. Un ragazzino mi guardò da dietro un vetro e scosse lentamente la testa. Restammo affiancati a quella macchina per un pezzo, e mi trattenni a stento dall'urlare all'autista di accelerare. Calma. Freddezza. C'è una sinapsi nel cervello che collega l'intelligenza alla brutalità. È la parte più antica della mente. Avevo trovato un modo di uccidere il mio nemico senza alzare neppure un dito. Era una strategia brillante, che compensava qualunque altro difetto del mio carattere. Anche se Eli fosse stato arrestato, avrebbe detto che io non avevo nulla a che fare con l'omicidio. Il movente era il suo disaccordo con Michael riguardo a Empire. Il mio movente, Dana e nostra figlia, invece, sarebbe rimasto un segreto per sempre. E poiché al momento dell'omicidio io sarei stato con Dana, il mio movente era anche il mio alibi. Perfetto. Freddo. Potevo udire distintamente il mio respiro. Il taxi lasciò l'autostrada e si immise nella piatta prosperità di Sunnyvale: piccole case degli anni Quaranta, rimodernate e ingrandite fino a scoppiare. Nuovi complessi di appartamenti, zone industriali in cui molte fortune erano state costruite e perse, e ora venivano costruite di nuovo. Il centro sembrava un villaggio soffocato dai condomini. Era in corso una fiera di qualche tipo, e il tassista dovette fare una deviazione. Decine di venditori ambulanti stavano scaricando dai furgoni cappelli e braccialetti. Avevo trovato un modo di uccidere il mio nemico. Cosa dovevo fare? Nulla! Calmarmi. Andavo solo a trovare un'amica. «Va a trovare un'amica?» chiese il tassista. Stavo pensando ad alta voce? Ci mancava soltanto quello. «Sì» risposi. Controllai l'orologio. Quasi le dieci. L'incontro era ormai vicinissimo.
Il taxi si fermò accanto a una casetta a un piano. Sul davanti c'era un praticello punteggiato di arance cadute da un unico albero. Niente garage, solo un furgoncino blu sotto un riparo in tela. Sotto il portico c'era un triciclo. Il triciclo di mia figlia. E in quella casa c'era mia moglie. Sentii mancarmi il fiato. Pagai l'autista e mi avviai verso la porta. Fu allora che capii l'assurdità di ciò che stavamo facendo. Stavamo per uccidere Michael. Mi ero detto che Eli era impazzito, ma il pazzo ero io. «Mio Dio!» esclamai ad alta voce. «Non possiamo fare una cosa del genere.» Suonai più volte il campanello. Dovevamo sbrigarci. Forse potevamo ancora avvertirlo. Bisognava chiamarlo al cellulare, ma in fretta! Il mio primo pensiero, quando Michael aprì la porta, fu di sollievo: Grazie a Dio. Non ho commesso un omicidio. Poi dietro di lui apparve una bambina in pigiama. Era molto carina, con il viso paffuto e i capelli legati in due codini. Amanda. «Chi è, papà?» chiese. Sbirciai all'interno. Quella non era la casa di un nababbo di Silicon Valley, ma di una coppia di lavoratori: una scatola di cereali sul tavolo, giornali e bollette da pagare, giocattoli sulla moquette. «Che diavolo ci fai qui?» mi chiese Michael. Io non riuscivo a distogliere lo sguardo dalla bambina. «C'è Dana?» chiesi. «Mamma è andata via» disse la bambina. «È a Spokane» disse Michael. «Quel tuo amico fuori di testa ha detto che non si fidava di me. Ha voluto Dana. Ancora non capisco perché mi sono lasciato coinvolgere in questa faccenda.» Io fissavo la bambina, la figlia di Michael e Dana. Mi tese un disegno fatto da lei. Una bambina stilizzata con i codini. «Sono io» disse. «Cos'hai sull'occhio?» «È... una benda» risposi. Mi sentivo le gambe molli. Pensai a ciò che aveva detto Eli: Soffrirà in un modo che ora non può neppure immaginare. Oh, mio Dio. «Sei un pirata?» «Lo è, tesoro» disse Michael. «Cosa vuoi, Mason?» In quel momento alle sue spalle squillò il telefono. 7 - Eli voleva i soldi Eli voleva i soldi che, sosteneva, Michael gli doveva, i capitali che Mi-
chael aveva bloccato. Cinquecentomila dollari, c'era scritto sulla richiesta di riscatto che Dana lesse al telefono. Michael ascoltò con il viso contratto dall'angoscia. Io appoggiai sul tavolo il disegno di Amanda e mi avvicinai al telefono, per sentire ciò che diceva Dana. «Prendi i soldi e vieni subito a Spokane» leggeva Dana. «C'è un volo da San José tra novanta minuti. Hai giusto il tempo di passare in banca e andare all'aeroporto. Il volo atterra a Spokane alle tre e mezza. Esci dall'aeroporto e vai a piedi verso il parcheggio coperto. All'ultimo piano, vicino all'ascensore, troverai una Mercedes grigia con la capote abbassata. Lascia i soldi sul sedile, torna dentro l'aeroporto e siediti accanto al telefono pubblico vicino alla scala mobile. Appena Eli avrà preso i soldi, ti chiamerà e ti dirà dove trovarmi. Se fai tutto quello che ti è stato detto, non mi farà nulla. Ma se chiami la polizia, o non porti i soldi, mi ucciderà. Se verrai con la polizia lui non rivelerà mai il mio nascondiglio, e...» si interruppe. «Non riesco a leggere queste parole» disse. «Morirai di fame» disse una voce dietro di lei. «Avevo letto fama» disse lei. «È assurdo, di fama non si muore.» «Già, anche per me non aveva senso» disse Dana. Era incredibile la sua calma, come se stessero chiacchierando in salotto. «Allora, morirò di fame» continuò Dana. «Hai tempo fino alle quattro. Se Eli non avrà i soldi entro le quattro, mi ucciderà.» Poi chiuse la comunicazione. «Dana!» Michael lasciò cadere il telefono. «Gesù, non può essere vero!» Cercò di richiamarla al cellulare, ma non ci fu risposta. Mentre ascoltava il telefonino squillare a vuoto, con l'altra mano mi diede una spinta. «Tu cosa c'entri, in tutto questo?» «Nulla» risposi. «Io voglio bene a Dana.» Lui mi fissò in silenzio. Poi gettò il telefono per terra e si nascose la faccia tra le mani. Amanda cominciò a piangere. «Papà?» Michael la prese in braccio, accarezzandola sulla testa. Anche lui piangeva. Si strinse la bambina al petto, mentre lei agitava i piedini. Così perfetto, così freddo. «Ascolta» dissi. «Non accadrà nulla, Michael. Ci penso io. Eli non è un violento. È solo confuso. Vedrai che mi ascolterà. Ti riporterò Dana e porterò lui da uno psichiatra. Sapevo che stava perdendo il controllo. Sapevo...» non riuscii a finire la frase. Non potevo dire a Michael che ero stato io a spingere Eli fino a quel punto. «Io non ho tutti quei soldi» disse Michael. «Dobbiamo chiamare la poli-
zia.» «No. Non ancora. Non forzargli la mano. Tornerò subito a Spokane, gli parlerò e lo convincerò a desistere. Non preoccuparti, non lascerò che accada nulla di male. Eli è soltanto confuso.» «E se la uccide?» «Non lo farà. Per favore lasciami provare a fermarlo. Accompagnami all'aeroporto. Dammi una possibilità di rimettere le cose a posto.» Michael mi fissò. Avevo sempre pensato che fossimo simili, ma mentre mi guardava con gli occhi pieni di lacrime mi sentii molto inferiore a lui. «Va bene» disse. Mi lasciò usare il suo computer. Entrai nella mia casella e-mail, e mandai un messaggio a Eli: Eli Non fare nulla. Sto arrivando. Non muoverti. Ho bisogno di parlarti. Ti ho mentito. Non ci sono più soldi. Mi dispiace. Per tutto. Andrà tutto bene. Clark Salimmo di corsa sul furgoncino. Le mani di Michael tremavano mentre metteva in moto. Restammo intrappolati nel traffico. Ci volle una vita per arrivare all'aeroporto. Michael urlava contro le altre auto, e si infilava di prepotenza tra una corsia e l'altra. Amanda era seduta dietro, sul seggiolino di sicurezza, e mi guardava. «Ti fa male?» chiese. «Cosa?» «Quello che hai sull'occhio.» «A volte.» Mi girai verso di lei. «Allora, hai appena compiuto quattro anni, vero?» «Sì» rispose lei. «Quando è il tuo compleanno?» «Il 9 dicembre.» Mi voltai verso Michael, con la bocca secca. «Avete festeggiato il compleanno in ritardo.» Lui mi fissò senza capire. «Cosa?» «La festa di Amanda. Quando ho telefonato, in gennaio, era in corso la sua festa di compleanno.»
«I miei genitori erano fuori città il giorno del suo compleanno, così abbiamo fatto un'altra festa quando sono tornati.» Mi fissava incredulo, chiedendosi come potevo fare domande del genere in un momento come quello. Rifeci da capo tutti i calcoli. Meno di otto mesi. «Mia sorella ha appena avuto un bambino» dissi poi. «È nato con quasi un mese di anticipo. È successo anche a Dana?» «No, anzi, Amanda è nata con tre settimane di ritardo. Ma cosa ti prende, Mason?» Sette mesi. Ci fermammo davanti alla sala partenze dell'aeroporto. Mentre scendevo, Michael mi appoggiò una mano sul braccio. «Per favore» disse. Feci ciao con la mano a sua figlia e mi avviai verso l'ingresso. Comprai il biglietto di corsa e riuscii a salire a bordo all'ultimo minuto. Mi sedetti, sudato e ansimante, tra due uomini d'affari, piuttosto disgustati da quel passeggero guercio arrivato in mezzo a loro. L'aereo faceva scalo a Seattle, e sembrò metterci una vita ad arrivare. Guardavo l'orologio ogni minuto, agitandomi sul sedile. Le nuvole, fuori dal finestrino, non erano abbastanza fitte da coprire il terreno macchiato di neve. A Seattle i passeggeri scesero lenti come lumache. «Muovetevi, Cristo!» borbottai. Salirono a bordo i passeggeri per Spokane. Famiglie, studenti, signore in pantaloni, un paio di giocatori di golf alticci. Controllai l'orologio: 14.55, e l'aereo non accennava a muoversi. Chiesi a una hostess cosa stava succedendo, e mi rispose che c'era un piccolo ritardo. «Decolleremo tra poco» mi assicurò. L'aereo partì qualche minuto prima delle tre. Ci volevano cinquanta minuti per arrivare a Spokane. Non c'era tempo. Eli aveva detto di lasciare i soldi nella Mercedes prima delle quattro, altrimenti Dana sarebbe morta. Mi mancava il respiro. Soffrirà in un modo che ora non può neppure immaginare. Il telefono di Eli era staccato. Cercai di chiamare Michael dal telefono dell'aereo, ma non ci riuscii. Feci scorrere la carta di credito nella fessura almeno cento volte, ma non voleva funzionare. Provai con il telefono del sedile davanti al mio. Niente. Forse Michael aveva chiamato la polizia. Forse tutto sarebbe finito bene. Alle 15.55 arrivammo sopra Spokane, ma c'era nebbia e il pilota disse che saremmo atterrati con un ulteriore ritardo. Cominciammo a girare in cerchio sopra la città. Sempre in cerchio, come su una giostra, sempre più veloce. Intorno a me scorrevano le facce alla fermata dell'autobus della scuola, quelle del ballo di fine anno, Dana, Eli e io, e Ben, che aveva lasciato la presa ed era finito nel nulla.
Anch'io non ce l'avrei fatta ancora a lungo a tenermi aggrappato, e mi dissi che forse ero già morto, quel giorno vicino al fiume. Eli aveva appoggiato la mano sul corpo di un ragazzo morto. E pensai: Siamo solo un mucchietto di carbonio e rimpianti. La nebbia si sollevò, l'aereo e la mia testa smisero di girare. Quando atterrammo, alle 16.10, mi sentivo come se stessi per dissolvermi nell'aria. Ero quasi convinto di trovare la polizia ad aspettarmi, ma non c'era. Attraversai l'aeroporto di corsa, fendendo la folla, e mi precipitai nel parcheggio coperto. Presi l'ascensore fino all'ultimo piano, e mi trovai in uno stanzone di cemento dai soffitti bassi. Non c'era neppure un'auto. Niente Mercedes. Il mio urlo: «No! Eli!» rimbalzò sulle pareti. Corsi giù fino al primo piano, dove avevo lasciato la mia macchina. Partii sgommando e mi lanciai nel traffico. Ci misi un quarto d'ora per arrivare a casa di Eli. La Mercedes era parcheggiata in strada. Salii di corsa le scale che portavano all'appartamento sopra il garage. «Eli!» La porta non era chiusa a chiave. Eli non l'avrebbe mai lasciata così. Il mio vecchio amico Eli Boyle era steso su un fianco. Il sangue usciva dalla ferita, spandendosi sulla moquette. Da morto sembrava così indifeso, come la prima volta che lo vidi arrivare alla fermata dell'autobus, con i sostegni per le gambe, tutto chiuso in se stesso per difendersi dal mondo. «Mi dispiace, Eli» mi chinai accanto a lui. «Mi dispiace tanto.» La pistola era lì vicino. La raccolsi. Le persiane erano chiuse e l'appartamento era quasi buio. Uscii e controllai l'arma. Rilasciai la sicura, come avevo visto fare a Eli, e feci scivolare di lato il tamburo. Mancavano due proiettili. Richiusi la pistola e la gettai nel prato, gridando: «Dana!». Poi guardai verso la casa principale, e... Caroline? È arrivato un altro poliziotto, qui. Si chiama Spivey. Dice che tu sei andata a casa. È vero? Dice che devo smettere di scrivere. Ce l'avevamo quasi fatta, eh? Eravamo abbastanza vicini da sapere cosa avevamo perso... Negli ultimi due giorni ho pensato spesso a come avrei concluso questa dichiarazione. Ho sognato per te le parole più profonde, Caroline, le parole più poetiche, per addolcire il dolore e la nostalgia, per rendere in qualche modo bella la vita. Ma non ci sono parole. Non c'è poesia. E c'è solo una cosa da fare, per me. Riposare.
Clark. "Che genere di persone si sono suicidate perché erano stanche di vivere?" Erasmo, Elogio della follia IX QUALUNQUE COSA TU DICA 1 - Caroline smette di leggere Caroline smette di leggere, appoggiandosi in grembo l'ultimo bloc-notes. Spivey sta ancora guardando il penultimo. Lei gli passa quello che ha appena finito, ricordando le parole di Clark: Per alcuni dei crimini che commettiamo non c'è neppure un nome. Poi si alza in piedi, va alla scrivania e chiama l'ufficio informazioni. «Sunnyvale, California. Michael e Dana Langford.» Mentre aspetta la sua attenzione si sposta verso la foto del matrimonio dei suoi genitori, che tiene sulla scrivania. È l'unica foto in suo possesso dove i suoi sono insieme. Sua madre appoggia una mano guantata sul petto di suo padre in abito scuro. Un momento semplice e dolce. Sembra che si stiano dicendo qualcosa. Caroline ha provato un milione di volte a immaginare che cosa fosse. Una voce di donna risponde al quarto squillo. «Pronto?» Tranquilla e squillante, nonostante siano le tre del mattino. O Dana è viva, o il marito è uno che si riprende in fretta. «Sto cercando Dana Langford.» «Sono io.» «Mi chiamo Caroline Mabry. Sono detective della polizia di Spokane.» C'è una pausa. Caroline sente dei passi e una porta che si chiude piano, come se la donna fosse andata in un'altra stanza. Poi Dana dice, a bassa voce: «Ascolti, non desidero sporgere denuncia. Non potete fare nulla se non sporgo denuncia, giusto?». «In realtà non c'è bisogno che sporga denuncia, signora.» «Per favore» continua Dana. «Si è trattato solo di un malinteso tra amici, e tutto è finito bene. È stato mio marito a rivolgersi alla polizia?» «No, signora.» «Voglio soltanto che non accada nulla a Eli.»
«Ah.» Allora non sa che è morto. «Ascolti, signora Langford. È disposta a rispondere ad alcune domande?» «Se mi promette che Eli non finirà nei guai...» «Ha la mia parola. Non accuseremo Eli di nulla.» Dana inizia lentamente, Caroline deve quasi cavarle le parole di bocca. Ma poi si scioglie, e racconta di sé, di Eli e di un amico di nome Clark Mason. Caroline prende appunti rapidamente, mentre Dana parla di Stanford, di come ha conosciuto Michael, di come Clark trovava per loro le società hi-tech, e di come la Empire Games fosse diventata una di quelle società. È strano ascoltare la storia di Clark da un punto di vista diverso. Mentre Dana spiega cosa è accaduto il giorno in cui Eli ha cercato di rapirla, Caroline immagina che i suoi appunti siano la conclusione in differita della confessione di Clark. Venerdì scorso, ore 06.00: Dana prende un volo San José-Spokane per incontrare Eli. Oggetto: vendere Empire. Ore 09.45: Eli viene a prenderla all'aeroporto. È nervoso. La porta a casa sua. Dana resta sorpresa di vedere che in casa non ci sono mobili. Non c'è nulla, a parte la foto del ballo della scuola appesa sopra il caminetto. L'atteggiamento di Eli le fa paura. Ore 10.10: Eli prende il telefonino di Dana, le dà un foglio da leggere e chiama Michael. Vuole dei soldi, altrimenti la ucciderà. Le ordina di dire che si trova prigioniera in un capanno tra i boschi. All'inizio Dana è confusa, ma non spaventata. Eli non la minaccia con una pistola. Dopo aver letto il biglietto al telefono, chiacchierano «da buoni amici». Dana è convinta che se provasse ad andarsene, Eli non la fermerebbe. Ma non ci prova. Lui è agitato. Lei è «preoccupata per lui». Non l'ha mai visto in quello stato. Dana riesce a convincerlo che non ci sono soldi né investitori. Parlano dei tempi del liceo. Eli comincia a piangere. Dice: «Non ho nulla. Non ho amici». Dana cerca di consolarlo: «Non è vero. C'è Clark, per esempio». Ore 11.15: Eli restituisce il telefonino a Dana, e lei chiama Michael. Gli dice che sta bene. Lo prega di non chiamare la polizia. Eli l'accompagna all'aeroporto. Ore 1235: Dana prende un volo per Oakland. Ore 16.45: riabbraccia il marito all'aeroporto. «E questo è tutto, più o meno» conclude Dana.
Caroline guarda i suoi appunti. Sembra che manchino molte cose, ma non sa quali. «Ha parlato con Clark, dopo essere stata rilasciata?» «Sì» risponde lei. «Mi ha chiamato non appena sono arrivata a casa. Doveva aver saputo tutto da Eli. Sembrava preoccupato. Gli ho chiesto di aiutarlo, di portarlo da un dottore, e lui ha promesso che l'avrebbe fatto.» Allora Clark non le ha detto che Eli è morto, e non le ha parlato del piano che aveva architettato. Caroline pensa che è buffo: Clark è certo di ciò che sa, e Dana è certa di ciò che sa, eppure tutti noi viviamo in un mondo che in parte è immaginario. Assistiamo solo ad alcuni avvenimenti e poi, però, completiamo il quadro con la nostra immaginazione. Moventi e ragioni, è come cercare di immaginare la battuta che si stanno scambiando due sposi in una foto di quarant'anni prima. Caroline posa la penna. «Posso farle una domanda personale?» Dana esita. «Certo» dice poi. «Perché non è mai stata la donna di Clark?» Segue un lungo silenzio. Probabilmente Dana si sta chiedendo che razza di poliziotta farebbe una domanda del genere. «Non lo so» dice alla fine. «Forse ci siamo incontrati al momento sbagliato. O forse era più sicuro sognare che sarebbe stato bello, senza correre davvero il rischio. A volte credo che sia stato per ciò che accadde al ballo della scuola.» «Cosa accadde?» Un'altra esitazione. «Eli e io ci andammo insieme, ma poi fu Clark a baciarmi, in una stanza d'albergo.» «Ed Eli era geloso.» «Clark e io ci sentimmo così in colpa che non ci frequentammo più. Sembra un'ironia, che sia stato Eli a dividerci, e poi a riportarci insieme, tanti anni dopo.» «Crede sia per questo che Eli l'ha lasciata andare, venerdì scorso?» chiede Caroline. «Perché prova ancora qualcosa per lei?» «Per me?» Dana è confusa. «Non credo che Eli provi qualcosa per me.» Ora è Caroline a sentirsi confusa. «Ma io pensavo...» «Eli ama Clark» dice Dana. «Lo ha sempre amato.» E all'improvviso tutti i pezzi si ricompongono: Eli che trasforma Empire in un videogame per compiacere Clark, che spinge Clark a entrare in politica per potergli stare vicino, e poi gli si rivolta contro quando lui sposa Susan.
«Clark sapeva dei sentimenti di Eli?» «Non lo so» dice Dana. E aggiunge, scegliendo con cura le parole: «Clark è capace di non notare cose del genere. È una delle ragioni per cui non mi sarei mai messa con lui. A volte non vede quello che ha davanti agli occhi». Poco dopo Caroline la ringrazia e chiude la comunicazione, senza rivelarle che Eli si è suicidato e che Clark ha cercato di spingerlo a uccidere Michael. Dovrebbe dirglielo, ma qualcosa glielo impedisce. Forse soltanto la stanchezza. Pensa a tutte le volte che, come agente di polizia, ha dovuto annunciare a dei genitori che il loro figlio non sarebbe tornato a casa, o a una moglie che il marito era morto in un incidente. Nei primi tempi dava la notizia ancor prima che la invitassero a entrare, perché non sopportava l'espressione nei loro occhi, mentre cercavano di tenere a bada l'inevitabile paura. Poi aveva imparato a farlo lentamente, a dare loro il tempo di prepararsi. Ma stavolta, cazzo, semplicemente non vuole farlo. Vede Spivey dirigersi verso il bagno. Allora va nel suo ufficio e prende i quattro bloc-notes. Poi torna alla sua scrivania e solleva la foto dei suoi genitori. La fissa per un momento. La mano della madre sul petto del padre, tutto ciò che sognava, da piccola. Poi lascia cadere la foto nella borsa ed esce. Spivey è appena tornato dal bagno, e la chiama. «Caroline?» Ma la porta si chiude e lei è fuori. È ancora buio, manca un'ora all'alba e l'aria è fredda. Caroline sale in macchina, accende il motore, spegne la radio e il cellulare e si dirige verso South Hill, verso casa di Eli. Parcheggia sulla ghiaia tra la casa e il garage. La scena del delitto è stata analizzata, il cadavere rimosso. Lo immagina nel sacco di plastica freddo e buio. Tutti sono andati via. L'accesso alle scale è ancora bloccato da un nastro di plastica. Domani, non ci sarà più neanche quello. Caroline si dirige verso la casa principale, punta la torcia elettrica e scorge un portico di legno scuro. La porta posteriore non è chiusa a chiave, e Caroline entra. C'è ancora un proiettile da spiegare. I suoi passi echeggiano nelle stanze vuote, mentre lei punta la torcia sul legno polveroso, sulla carta da parati a fiori e sulle colonne. Entra nel soggiorno, e si stupisce alla vista della città che si gode dalla grande finestra. Sulla parete alle sue spalle Caroline trova la spiegazione che stava cercando. Inizia a mettere insieme i pezzi: Eli in quella stanza con Dana, nervoso, paranoico, eppure lo stesso ragazzo timido di sempre. Non riesce
neppure a minacciarla con la pistola. Mentre parlano lui capisce che lei dice la verità, che i soldi non ci sono. L'accompagna all'aeroporto, e quando torna controlla l'e-mail. E trova il messaggio inviatogli da Clark: "Ti ho mentito. Non ci sono più soldi". E allora... Caroline punta la torcia sopra il caminetto: c'è il buco di un proiettile nel muro, nello spazio dove era appesa la foto del ballo. La foto è sul pavimento. Il vetro è rotto, ma la cornice è intatta. Caroline la raccoglie e la esamina, aspettandosi di trovare il volto di Clark attraversato dal proiettile. Ma Clark è lì, giovane e sorridente, con un braccio intorno alle spalle della versione diciottenne di Eli Boyle. È la testa di Eli che non c'è più, sostituita da un buco frastagliato nella carta patinata della foto. Anche alla fine, dopo tutto ciò che Clark gli aveva fatto, Eli non lo odiava. O almeno, odiava se stesso più di quanto potesse odiare Clark. Caroline immagina la scena: Eli fissa la foto caduta sul pavimento, poi torna nell'appartamento sopra il garage, si siede al computer e rilegge per la centesima volta il messaggio di Clark: "Ti ho mentito". Si tratta di un impulso momentaneo, di un delirio, di un sogno? Caroline cerca di capirlo. Forse è perché non dorme da due giorni, ma riesce a considerare quell'atto solo come una resa. La pistola che si appoggia quasi da sola sulla guancia, gli occhi chiusi, il dito che scivola sul grilletto. Basta così. Riposare. Adesso è troppo avanti per fermarsi. Ha solo un'ultima cosa da fare. Infila la foto del ballo nella borsetta, accanto ai quattro bloc-notes, e si incammina verso la porta, pensando che forse quello è tutto ciò che possiamo fare, a volte, per salvare noi stessi. 2 - Lo trova Lo trova all'alba, seduto su un davanzale in cima al Davenport Hotel. Caroline vede prima i piedi che pendono nel vuoto, da una finestra del dodicesimo piano. Lui sembra non averla vista, e all'alba della domenica a Spokane non c'è in giro nessuno che possa averlo notato. Non ci sono vigili del fuoco con le reti di salvataggio, preti o poliziotti che cercano di calmarlo o di fermarlo. C'è solo quell'uomo, lambito dal vento, a quaranta metri dal suolo.
Caroline ferma la macchina e scende. L'albergo si erge scuro e vuoto davanti a lei, illuminato soltanto alla base dalle luci dei ponteggi. Sui piani più bassi, le decorazioni in terracotta restaurate brillano come denti nuovi. Lei potrebbe salire fino a una finestra lungo le impalcature. Probabilmente è la stessa cosa che ha fatto Clark. Ma dietro le porte a vetri c'è un guardiano notturno, che pulisce il pavimento con le cuffie del Walkman sulla testa. Probabilmente la sera prima c'è stato un party o un ricevimento di matrimonio, nella sala da ballo restaurata. Mancano ancora quattro o cinque mesi alla riapertura, ma la gente fa già la fila per entrare, per vedere la storia e le promesse, per vedere se davvero il Davenport è tornato. Caroline bussa sul vetro, ma non riesce a farsi sentire. Aspetta che il sorvegliante si volti e gli fa un cenno con la mano. Lui alza gli occhi, e poi scuote la testa: non si può entrare. Caroline appoggia il distintivo contro il vetro, e finalmente l'uomo si avvicina. Cerca la chiave giusta tra quelle che gli pendono dalla cintura, e apre la porta senza dire una parola. Caroline gli spiega che due giorni prima hanno arrestato lì un uomo, e che lei ha bisogno di dare un'occhiata. L'uomo si stringe nelle spalle e torna al suo straccio. Caroline osserva l'atrio. La nostalgia di Spokane per il Davenport è anche sua. Fissa il pavimento di marmo, con la fontana al centro. Chiude gli occhi e cerca di immaginare lo scroscio dell'acqua, il mormorio della folla, gli uccelli tropicali, Lindbergh e Fairbanks seduti sulle poltrone, e Thomas Wolfe che butta giù il suo whisky, preparandosi a lasciare Spokane per viaggiare "attraverso un paesaggio sempre più desolato". Riapre gli occhi, si avvicina all'ascensore e schiaccia il bottone di chiamata. L'entrata è incassata tra due colonne dorate, ma internamente l'ascensore è ancora spoglio, con un cavalletto da falegname al centro. Caroline sale nel ronzio dei cavi, finché la porta si apre al dodicesimo piano, su un corridoio dove la ristrutturazione non è ancora iniziata. La luce del sole illumina un'area in cui le pareti divisorie in cartongesso sono state rimosse, lasciando solo l'ossatura delle stanze. Caroline sente il vento che entra dalla finestra aperta, e si avvia da quella parte. Clark è seduto sul davanzale, e le volta le spalle. Lei posa prima la borsa, poi cerca di salire sul davanzale. Clark le afferra il braccio con la mano gelata e l'aiuta a sedersi accanto a lui. Caroline rabbrividisce dal freddo. «Mi hai trovato» dice lui. «Ti ho trovato.» Sotto di loro c'è il centro di Spokane, il fiume, e più in là le colline co-
perte di case e strade. Caroline guarda verso est, dove il cielo è ormai chiaro e il sole illumina la lunga vallata. «È bellissimo» dice. «Spero di non averti disturbato.» «Stavo cercando di trovare il coraggio» dice lui. «Cosa aspettavi?» «L'alba.» «Se aspetti ancora un po', potresti morire congelato.» «Forse non ho il coraggio neppure per questo.» Caroline tira fuori dalla borsetta i bloc-notes, e li mette sul davanzale, poi tende a Clark la foto del ballo. «L'hai detto a Dana?» le chiede. «No. Non le ho detto di Eli, e non le ho detto quello che hai fatto.» Clark guarda di nuovo lontano, poi chiude gli occhi. «Vuoi sapere la cosa peggiore? Eli non le ha detto che era colpa mia, che ero stato io a ideare tutto. Anche alla fine, ha voluto salvarmi.» Un jet strappa a metà il cielo sereno sopra di loro, poi sparisce in un banco di nuvole. Caroline indica i bloc-notes. «Questo è tutto?» chiede. «Cosa?» «La tua confessione. Non c'è altro?» «No, credo di no.» «E ora cosa si fa?» «Non lo so. Cosa fate normalmente, in circostanze del genere?» Caroline alza le spalle. «Cosa facciamo se qualcuno si costituisce dicendo che aveva intenzione di commettere un omicidio? In genere gli diciamo che ha il diritto di restare in silenzio, e che tutto ciò che dirà potrà essere usato contro di lui. Che ha diritto ad avere un avvocato, e che se non può permettersi di pagarlo gliene offriamo noi uno gratuito.» Clark sorride appena. «Sono in arresto?» «Non ho ancora deciso» dice Caroline. «Secondo il mio superiore tu hai fatto un tale casino che probabilmente non c'è nulla di cui possiamo imputarti. Pensa che dovremmo affidarti alle cure di uno psichiatra.» «E tu cosa pensi?» «Io?» Sopra di lei, la traccia del jet si sta già dissolvendo nel cielo violetto. Caroline appoggia il pollice contro la fronte di Clark. Non ricorda di preciso come si fa, ma traccia una piccola croce su quella fronte gelata. Un segno di assoluzione. Clark chiude gli occhi. «Credo che vivere in questo mondo sia già abbastanza» dice Caroline. Poi fissa la città che sta iniziando a svegliarsi. Le prime macchine scen-
dono dalle colline, mentre la luce del sole illumina tutta la valle, circondata da creste scure di pini e abeti. Clark le passa un braccio intorno alle spalle, e il mattino scende su di loro. Ringraziamenti Grazie ad Anne Walter, Dan Butterworth, Jim Lynch, Cal Morgan, Lina Perl, Wayne Brookes e Judith Regan, per avermi criticato e consigliato con pazienza ed entusiasmo. Un grazie anche a Tony e Suzanne Bamonte, il cui libro Spokane's Legendary Davenport Hotel è stato per me un riferimento importante. FINE