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STUART WOODS INTRIGO PROFONDO (Deep Lie, 1986) NOTA DELL'AUTORE Per le necessità di questo libro ho deposto dalle loro cariche il presidente degli Stati Uniti, il direttore della CIA e tutti i suoi dipendenti, i rappresentanti della Georgia al Senato degli Stati Uniti, il primo ministro della Svezia e il suo ministro della difesa, insieme con altri impiegati di quel ministero. Li ho sostituiti con persone di mia scelta, servendomi del privilegio costituzionale del romanziere. I nomi dei personaggi sono stati tratti dalle file degli amici e mescolati a caso, oppure semplicemente inventati; non si propongono di raffigurare persone reali. Chiunque creda di essere rappresentato in questo libro ha torto, si fa delle illusioni, o è matto. Questo libro è per Ebbe Carlsson 1 A occhi socchiusi, Oskar Oskarsson cercò di individuare un uccello nella foschia luminosa. Chissà dove, in alto sulla sua barca, splendeva il sole, ma in basso, sull'acqua, c'era solo nebbia. Era come trovarsi all'interno di una lampada a fluorescenza, tra gas che irradiavano luce tutt'intorno. Lontano, a dritta, avvistò una procellaria, che gli servì per dedurre una visibilità di forse cinquecento metri, non di più. Per lui, per quel che stava facendo in quel momento, le condizioni erano perfette. Oskarsson portò il motore a mille giri, si voltò e fece un cenno a Ebbe. Il ragazzo sorrise appena, sbloccò l'argano principale e cominciò a calare in acqua la rete a strascico, una lunga calza di maglie d'acciaio, che avrebbe rastrellato il fondo alla profondità di venti metri. Oskarsson osservò soddisfatto il nipote che eseguiva il suo lavoro con competenza, anche se non ancora con perizia. Il ragazzo portava soltanto calzoni di tela e una camicia di cotone. I giovani non sentono mai il freddo. Oskarsson ammirò la bellezza di quel corpo; il fisico muscoloso, le proporzioni perfette. Ai tempi della sua gioventù, pensò Oskarsson, tutti i ragazzi svedesi avevano quel-
l'aspetto, risultato di duro lavoro e di duri sport. Adesso erano hippy macilenti, o grassi ragionieri. Ebbe era un'eccezione, non la regola. Sciava d'inverno, andava in giro a piedi o remava per la scuola d'estate. Non era uno studioso, eseguiva con gioia i lavori fisici, e si sarebbe detto, con poco sforzo. Il padre del ragazzo, figlio di Oskarsson, gestiva una discoteca a Stoccolma. Una discoteca... figuriamoci! Una volta Oskarsson, andato a trovare il figlio, era stato portato in quel locale. Santo cielo, che posto! Quel rumore... oggigiorno lo chiamano musica; quelle luci lampeggianti; e il caldo; e gli odori! Non era la maniera di guadagnarsi da vivere per un uomo fatto. Ebbe aveva detto al nonno che non avrebbe mai lavorato lì. Sapeva di non essere abbastanza intelligente per andare all'università, ma non se ne crucciava. Appena finiti gli studi (mancava ancora un anno), sarebbe andato dal nonno e, insieme, avrebbero pescato. E avrebbero anche fatto soldi. Due uomini validi potevano portare con facilità il leggero peschereccio, e non avrebbero dovuto dividere con altri i frutti della pesca. Il ragazzo sarebbe stato bene con il nonno e quando, fra qualche anno, avesse imparato a conoscere tutti i posti, si sarebbe preso un socio; Oskarsson si sarebbe ritirato e avrebbe ricevuto una parte dei profitti per la cessione della barca. Il peschereccio era in buono stato e l'uomo si congratulava d'avere speso gran parte dei suoi guadagni in manutenzione. Se il ragazzo ne avesse avuto cura, gli sarebbe durato ancora per molti anni. Quando avrebbe saputo della decisione di Ebbe di andare a lavorare con il nonno, il padre sarebbe andato su tutte le furie. Si era fatto tanti soldi con la discoteca e suo figlio sarebbe stato un volgare pescatore! A quel pensiero Oskarsson sorrise soddisfatto. Quando la rete fu tutta in acqua, Oskarsson con un gesto chiamò il ragazzo accanto al timone e aprì la carta. «Qui», disse puntando un dito tozzo e nodoso. Le sue erano mani di pescatore, gonfie in permanenza per avere lavorato anni e anni nell'acqua gelida, con dita piene di cicatrici, contorte, perché le ossa rotte non erano guarite bene: il rischio quotidiano di chi maneggia a mani nude attrezzi implacabili e macchinari potenti. «In questo punto riempiremo la rete sino a farla scoppiare.» Ebbe aggrottò la fronte e puntò l'indice facendolo scorrere lungo una linea color cremisi, disuguale. «Ma, nonno» domandò, «questa, cos'è? Qui dice che siamo in zona vietata. Perché vietata? Non ci cacceremo nei guai?» «È la base navale di Karlskrona», rispose il vecchio, indicando un punto
lontano nella nebbia. «Non vogliono che i pescherecci russi arrivino fin qui e la fotografino.» Si picchiò il petto con un pollice. «Ma io non sono russo e neppure tu, no?» Ammiccò al ragazzo. «E la marina militare può fare a meno di questi pesci.» Il ragazzo rise. «Se lo dici tu, per me va benissimo.» «Vedi, anche i pesci sanno che è zona vietata e pensano che qui nessuno li acchiapperà. Ma, nelle mattine nebbiose come questa, tu e io vi possiamo fare una capatina sul presto, pescare per un paio d'ore e andarcene prima che la foschia si diradi.» «Ma non hanno il radar? Perché se ce l'hanno la nebbia non gli impedirà di scoprirci, non credi?» «Certo, certo, il radar ce l'hanno, ma ho tolto il nostro riflettore e penso che un'imbarcazione di legno come la nostra non compaia bene sugli schermi. Almeno, fin'ora non mi hanno mai beccato. Secondo me, se ci vedono con il radar quando c'è nebbia, non ci badano molto, dato che le navi russe vengono solo quando fa bel tempo, in modo da poter scattare le loro foto. E anche se mi trovassero, direbbero solo: 'Va' a pescare da un'altra parte, vecchio'. Tutto qui. Non è una cosa grave.» Oskarsson non aveva paura di essere preso. Conosceva quelle acque meglio di qualsiasi ufficiale di rotta della marina svedese. Nato sull'isola di Utlangen non lontano di lì, un tempo vi aveva pescato con imbarcazioni a vela. Sapeva guizzare tra le isole ed evitare le vedette militari. Avrebbe continuato a sentirsi padrone di quelle acque, a dispetto di tutte le veloci lance della marina svedese. Procedettero per un quarto d'ora molto lentamente, trascinando la rete e chiacchierando come vecchi amici. Poi udirono un forte cigolio, il peschereccio si fermò di colpo, gettandoli tutti e due contro la paratia. Con prontezza, Oskarsson mise in folle il motore. «Cosa succede, nonno?» domandò il ragazzo. Il vecchio non rispose subito, ma innestò la marcia avanti e accelerò. Si spostarono per qualche secondo, poi il cavo della sciabica si tese al massimo e la barca si fermò di nuovo. «Ci siamo agganciati a qualche ostacolo», rispose finalmente Oskarsson. Consultò la carta. «Non segnala nessun relitto in questi paraggi. Mi auguro che i marinai non abbiano affondato qualcosa durante le esercitazioni di tiro, abbandonandolo qui. Metti il cavo leggero sull'argano ausiliario. Vediamo se in questo modo riusciamo a liberare la rete.» Ebbe andò a poppa e avvolse il cavo leggero sull'argano elettrico ausilia-
rio. Oskarsson innestò di nuovo la marcia e accelerò di poco. «Adesso», gridò, «adesso, ricupera.» Il ragazzo girò l'interruttore e accompagnò il cavo che cominciava ad avvolgersi intorno all'argano. Viene, pensò Oskarsson, viene e saremo liberi. Poi si tese anche il secondo cavo, l'imbarcazione si fermò di nuovo. «Spegni! Togli la corrente», urlò il vecchio. Il ragazzo girò l'interruttore, l'argano si arrestò. «Da' volta al cavo, tenterò in qualche altro modo.» Oskarsson rimise la marcia e accostò con forza a sinistra. «Compiremo un giro e rivolteremo la rete», spiegò a Ebbe, ad alta voce. «Così dovrebbe staccarsi dall'ostacolo, qualunque cosa sia.» Lo sperava. Sostituire la rete a strascico sarebbe costato migliaia di corone; l'assicurazione avrebbe rimborsato buona parte della cifra, ma non lo avrebbe risarcito del tempo perduto mentre gli fabbricavano una nuova sciabica di acciaio. Non si trova sul mercato una rete di questo genere già pronta. Oskarsson compì un ampio giro per evitare di passare sopra il cavo, quindi accostò a sinistra, verso l'ostacolo, per allentare la tensione del cavo. Tenne un momento questa direzione, poi la barca cominciò a girare a dritta. Oskarsson rimase sconcertato per un attimo, perché aveva la barra tutta a sinistra, poi si accorse che, pur avendo la prua a dritta, il peschereccio non viaggiava in quella direzione: cosa stupefacente, andava di traverso. Ciò che aveva agganciato, di qualunque cosa si trattasse, si stava muovendo. Mollò la barra e si diresse a poppa, ma il timone girò di netto a dritta; ne risultò uno scarto improvviso, che lo sbatté pesantemente sul ponte. Il vecchio si rialzò a fatica e, reggendosi alla spalla ammaccata, urlò a Ebbe: «Svelto, dobbiamo lasciar andare la rete!» Il peschereccio si girò di nuovo nella direzione opposta e la mantenne: erano rimorchiati all'indietro. «Cosa c'è, nonno?» urlò il ragazzo, tenendosi stretto all'argano ausiliario. «Cosa succede?» «Molla il cavo!» gridò Oskarsson, avanzando a fatica verso i comandi della barca. Prontamente, il ragazzo eseguì l'ordine, liberò il cavo e lasciò che si svolgesse dall'argano. Il peschereccio continuò ad andare all'indietro, sempre più veloce. Inorridito, Oskarsson innestò la retromarcia e accelerò al massimo. Bisognava in qualche modo allentare il cavo della rete. Il ragazzo capì subito che cosa cercava di fare il nonno. Si avvicinò all'argano principale, intorno al quale erano ancora arrotolati alcuni metri del cavo grande della rete. Mentre cercava di governare la barca a marcia indietro, Oskarsson seguiva la lotta di Ebbe con il freno. Se fosse riuscito a toglier-
lo, avrebbe avuto gioco per sganciare il cavo: e si sarebbero liberati. Però l'argano era troppo in tensione, il freno era bloccato. Oskarsson fu fiero del ragazzo quando lo vide afferrare un'ascia dalla paratia e, senza esitare in attesa di ordini, vibrarla contro la leva del freno. Un colpo bastò a liberarlo, il tamburo dell'argano rotò con violenza. La larga poppa s'impennò, la barca rimase quasi ferma, gettandoli entrambi lunghi distesi sul ponte. Oskarsson si buttò verso la galloccia, sapendo di avere solo qualche secondo per liberare il cavo prima che si tendesse di nuovo. Riuscì ad afferrarlo e stava cercando un punto d'appoggio con un piede, quando il cavo con uno strattone si tese di nuovo e gli schiacciò la mano contro il tamburo dell'argano. Oskarsson urlò. In pochi secondi di insostenibile dolore, il cavo gli segò le dita. Il vecchio cadde all'indietro sul ponte e si guardò incredulo la mano, delle cui dita rimaneva solo il pollice e dalla quale sgorgavano fiotti di sangue. Dimentico di quanto stava succedendo alla sua barca, Oskarsson si lanciò su un sacco di tela attaccato alla paratia, che conteneva rimasugli di lenze. Vi trovò subito un pezzo di cordino di nailon che avvolse intorno al polso; con un capo tra i denti, lo strinse e lo annodò, domandandosi intanto con stupore come mai il dolore non fosse tanto atroce, come mai uno strano calore pervadesse la sua mano maciullata. Finalmente il vecchio rivolse di nuovo l'attenzione alla barca. Anche se in retromarcia al massimo, continuava a essere rimorchiata all'indietro, secondo i suoi calcoli a otto o nove nodi, che aumentavano di momento in momento. Le onde spazzavano la poppa e nel loro risucchio Ebbe lottava per rialzarsi, tramortito dalla caduta. Oskarsson si guardò intorno disperato. Niente, in una lunga vita sul mare, l'aveva preparato a circostanze simili, a questo fatto ridicolmente improbabile. Aveva l'acqua fino alle ginocchia, la sua barca andava all'indietro facendo ora, fatto incredibile, quindici nodi. «Che cos'è? Che cos'è?» gridava il ragazzo, in mezzo al mugghiare dell'acqua che spazzava la barca. Oskarsson non poteva rispondere. Sapeva solo che la cosa non sarebbe più durata molto a lungo. In quel momento, come in risposta al suo pensiero, udì un lacerante rumore di legno e di metallo: i due bulloni anteriori che fissavano al ponte la base del grande argano si staccarono dalla loro sede. «Ebbe», urlò il vecchio Oskarsson. «Mettiti al riparo! L'argano sta per partire!»
«Cosa?» gridò il ragazzo. Era ancora stordito. «Cosa?» Ci fu un ultimo, esplosivo schianto. Tutto il pezzo di ponte cui era bullonato l'argano si staccò. L'argano, intorno al quale era ancora avvolto il cavo della rete che li tirava, fu scagliato in aria, attraversò la poppa e colpì in piena faccia il ragazzo. Poi, di colpo, tutto fu tranquillo, irreale. Il peschereccio si fermò bruscamente, ballonzolò nel mare poco mosso. Una scia di bollicine svanì a poppa con la sciabica e l'argano. Il motore, investito dall'acqua, si era spento. Oskarsson aveva l'acqua fino alle cosce. Si affrettò verso poppa sguazzando, dove giaceva il corpo di Ebbe, nell'acqua intorno vi era sangue e materia grigia. Il vecchio prese tra le braccia il ragazzo e sedette sulla falchetta, che ormai sporgeva dall'acqua di poche dita. La spinta di galleggiamento della barca non la lasciava affondare, anche se il ponte era sommerso. Parte della testa del ragazzo non c'era più. Singhiozzando, Oskarsson strinse a sé il corpo senza vita. Da un punto lontano nella nebbia gli arrivò il rumore di un motore che si avvicinava rapido, ma Oskarsson non se ne curò. Ormai non avrebbe più vissuto quelle giornate in compagnia del nipote, non gli avrebbe più parlato, non gli avrebbe più spiegato dov'è il pesce e come si prende. Ormai non ci sarebbe più stato altro che vecchiaia e solitudine, che si sarebbero prolungate fino alla morte. Oskarsson la desiderò subito. Diede strattoni al nodo che gli legava il polso, finché lo sciolse, lasciando che il sangue scorresse di nuovo dai mozziconi delle dita. In quel momento la vedetta uscì dalla nebbia e rallentò. Una voce forte, metallica, gli giunse attraverso l'acqua. «Lei è in zona vietata; deve andarsene subito. La prego di seguirmi. Lei è in zona vietata...» La piccola unità militare accostò sottobordo il peschereccio semisommerso, la voce s'interruppe. La faccia abbronzata di un ufficialetto comparve dietro il megafono e guardò da pochi metri di distanza. La faccia si sbiancò. Oskarsson alzò gli occhi sul viso impallidito del ragazzo in divisa di guardiamarina. «Vaffanculo, marinaio», disse. 2 Il tenente di vascello Jan Helder, in piedi nella torretta di comando del sommergibile 184, classe Whiskey, inspirò profondamente l'aria gelida. Murmansk, quartiere generale della Flotta Sovietica del Nord, è sopra il Circolo Polare Artico; qui maggio non assomiglia al maggio di altri più a-
bitabili luoghi. Helder seguì attentamente le manovre, mentre il sommergibile veniva ormeggiato; quando alzò gli occhi, vide due uomini che marciavano al passo lungo la banchina, verso il punto dove i suoi marinai stavano preparando la passerella: un capitano di vascello in un'uniforme di buon taglio e un borghese mal vestito. Non conosceva né l'uno né l'altro e la cosa non gli piacque. Nella marina sovietica le ricompense non arrivano in compagnia di un capitano di vascello e di un funzionario politico. Helder per prima cosa corse con il pensiero a quanto poteva aver fatto. La sera prima della partenza per la crociera nell'Atlantico settentrionale appena conclusa, aveva bevuto troppo alla mensa ufficiali: ma tutti bevevano troppo. Dato che normalmente era il più cauto e il più corretto degli ufficiali, non riuscì a immaginarsi altre infrazioni, eccetto quella di essere estone. E questo fatto, naturalmente, poteva bastare. Helder scese sul ponte in tempo per riceverli a bordo. Nessuno dei due gliene chiese il permesso. «Il capitano Helder?» domandò il capitano di vascello. E chi altri mai? pensò Helder. La voce dell'ufficiale aveva quel tono formale che di solito preannuncia l'arresto. «Sì, compagno capitano», rispose Helder scattando sull'attenti e facendo il saluto. Si sentì un po' ridicolo, mentre eseguiva le formalità militari in quelle condizioni: da cinque settimane non si rasava e non si lavava decentemente. Avrebbe potuto farlo, certamente, dato che i servizi igienici di cui disponeva erano migliori di quelli dell'equipaggio, ma ai suoi uomini faceva piacere che il comandante rimanesse sporco come loro. «Deve presentarsi subito a rapporto al quartier generale di Leningrado, all'ufficiale responsabile dell'amministrazione militare», disse con freddezza il capitano mettendogli in mano una busta. «Ecco gli ordini scritti e un lasciapassare per il quartier generale.» Helder prese la busta. Quel 'subito' lo divertì. Leningrado è a circa mille chilometri a sud di Murmansk. «Grazie, compagno capitano. Se mi è permesso fare un bagno e cambiarmi...» Indossava una lurida tuta di cotone sopra un pesante maglione della marina, un tempo bianco. Con la coda dell'occhio Helder scorse un autocarro che si fermava vicino alla passerella. Un autocarro, non una macchina. Brutto segno. «Non c'è tempo. Deve partire subito.» «Certo, compagno capitano. Se permette, vado nella mia cabina a prendere la mia roba.» «La sua roba le sarà spedita», interloquì l'uomo in abiti civili. «Lei è esonerato dal comando, tenente», disse il capitano.
Helder si sentì mancare il cuore. L'ufficiale non si prendeva neanche più la briga di rivolgersi a lui con il titolo onorario di 'capitano' che spetta al comandante di un'unità della marina. Era stato esonerato. Non aveva più diritto a essere chiamato con quel titolo. «Si sbrighi», intimò il civile. Lasciare il suo sommergibile in quel modo, senza neppure la possibilità di parlare agli ufficiali, offendeva la sua sensibilità di marinaio. Ma Helder fece di nuovo il saluto e si avviò veloce verso la passerella. «Avverti il mio secondo che sono esonerato dal comando e che deve sostituirmi in attesa di ordini», disse calmo a uno dei suoi uomini che lo salutava sull'attenti. Si avvicinò all'autocarro, non vide guardie, perciò con gesto ottimistico salì accanto al conducente, invece di arrampicarsi nel cassone. Il guidatore non gli disse nulla, invertì velocemente la marcia e si allontanò rombando dalla banchina. Venti minuti dopo Helder era su un aereo da trasporto non pressurizzato, unico passeggero in mezzo a un carico di casse senza diciture. Il baccano era orrendo, mancavano i sedili, la temperatura era sotto zero. Helder si raggomitolò su una zattera da salvataggio di gomma, si cacciò gli angoli del lurido fazzoletto nelle orecchie e cercò di prendere sonno. Mentre entrava in uno stato di dormiveglia, si domandò perché mai non l'avessero semplicemente fucilato sulla banchina. Perché tutte queste complicazioni? Ormai era tutto finito. I tredici anni di accademia navale, l'addestramento, il servizio in mare, quasi tutto su sommergibili, un lavoro maledettamente duro: ed era finito, svanito. Gli sarebbe dovuto spettare un sommergibile più moderno, forse della classe Tango, forse una promozione. Già da troppo tempo era tenente di vascello. Invece, adesso, si trovava a essere una nullità probabilmente destinata alla morte... anche se, dal momento che facevano la fatica di trasportarlo fino a Leningrado e allo stato maggiore, forse non si trattava di quello. Una rapida condanna della corte marziale con chissà quale accusa, la degradazione e uno sgradevole trasferimento gli sembrarono quanto di meglio potesse sperare. A suo parere, l'avrebbero spedito a Vladivostok: diecimila chilometri su treni della massima lentezza, il resto del servizio sulle banchine, a occuparsi del carico delle navi da trasporto. Con il tempo sarebbe stato il più vecchio tenente di vascello nella storia della marina sovietica. Sonnecchiò, troppo esausto per continuare a crucciarsi. Si svegliò quando l'aereo rimbalzò sulla pista. Un pilota maledettamente inesperto, pensò. Si riaddormentò subito e non si risvegliò finché non fu
investito da una raffica d'aria ancora più gelida e sentì il suo nome urlato da una voce nient'affatto rispettosa. Un sergente del KGB gli faceva cenni dallo sportello dell'aereo. La sua voce fu d'improvviso troppo forte quando i motori si spensero. Helder scese rigido la scaletta d'acciaio e seguì il soldato verso un enorme edificio. Pioveva leggermente, era buio. Helder guardò l'ora: era appena passata la mezzanotte. Varcata una porta, salito qualche scalino, si trovò nell'aeroporto civile di Leningrado. Attraversarono a passo veloce il moderno edificio, quasi deserto. Vi si trovavano soltanto, oltre a Helder e al sergente, un gruppo di turisti dall'aspetto occidentale, che sfoggiavano deboli sorrisi sotto gli sguardi arcigni di giovani ufficiali del KGB vestiti di eleganti uniformi dalle spalline verdi, addetti al controllo passaporti. Gli occhi di Helder incontrarono per un attimo quelli di una graziosa ragazza. Inglese? Americana? Gli sarebbe piaciuto avere tempo di scoprirlo. Dove stava per andare lui, sarebbe già stata una bella fortuna trovare qualche donna, non parliamo poi di graziose occidentali. Un altro autocarro. Helder sonnecchiò senza che il silenzioso sergente lo disturbasse, mentre si dirigevano verso la città. Si svegliò di nuovo quando oltrepassarono il vecchio Ammiragliato, ora Accademia navale. Durante il suo addestramento, Helder vi aveva frequentato un corso di elettronica. Entrarono nella grande piazza davanti al Palazzo d'Inverno, ora parte del museo dell'Hermitage, e sferragliando sull'acciottolato umido e lucido si avviarono verso l'arco trionfale che fa da ingresso al quartier generale di Leningrado. L'autocarro passò sotto l'arco, girò a destra, varcò l'entrata principale, svoltò di nuovo e si fermò davanti a una porta guardata da una sola sentinella. Helder aprì la busta che gli avevano data a Murmansk e ne estrasse il lasciapassare. La sentinella lo esaminò accuratamente, poi fece un cenno affermativo del capo, salutò e gli indicò la porta, arricciando lievemente il naso davanti ai luridi abiti di Helder. Helder ebbe la sensazione che, se non avesse avuto in testa il berretto da ufficiale, non sarebbe riuscito a passare oltre quell'uomo. All'interno gli venne incontro una giovane donna nell'uniforme dei guardiamarina. «Capitano Helder, la prego di seguirmi», gli disse in tono reciso, avviandosi per il lungo corridoio, illuminato solo da un lampadario su tre a quell'ora della notte. Almeno, era di nuovo 'capitano'. Un errore della donna, con tutta probabilità. Helder la seguì come un cagnolino; i tacchi di cuoio della giovane ticchettavano sul marmo zarista, le suole di gomma delle sue scarpe da barca scricchiolavano sulla superficie dura. Camminarono almeno per un chilometro, parve a Helder, oltrepassando porte chiuse di uffici, con indi-
cazioni dei dipartimenti. Non incontrarono nessuno. La donna svoltò in un corridoio più ampio e varcò una porta con l'indicazione 'Ufficiale amministrativo in capo'. Una seconda donna seduta a una scrivania le fece un segno affermativo. Attraversarono l'anticamera senza fermarsi. La sua accompagnatrice bussò a una porta interna e, quando una voce le disse di entrare, l'aprì, fece passare Helder, lo seguì nella stanza e richiuse piano. Seduto a una grande scrivania c'era un piccolo, grasso contrammiraglio, intento a leggere un documento. Le accuse, probabilmente. Helder si mise sull'attenti e fece il saluto. «Compagno ammiraglio, tenente di vascello Helder a rapporto secondo gli ordini.» L'ammiraglio lo guardò e trasalì. «Sembri una merda», commentò. «Spiacentissimo, compagno ammiraglio, non c'è stato tempo...» «Certo, certo.» L'ammiraglio ficcò una mano in un cassetto della scrivania e ne prese una busta che porse a Helder. «Devi presentarti a rapporto all'ufficiale che comanda...» esitò un attimo... «un corpo speciale a Liepaja, subito», sottolineò, poi ci ripensò. «Ecco, forse non subito. Un'ora o poco più non farà differenza.» Prese dalla scrivania un blocchetto di fogli stampati, firmò una pagina e la porse alla donna, che fece un passo avanti per riceverla. «Portalo al deposito del quartier generale, sveglia il sergente, fagli dare un'uniforme decente. Trova anche il modo di fargli fare un bagno e la barba.» L'ammiraglio allungò di nuovo la mano nel cassetto, ne tirò fuori una bottiglia di vodka e un bicchiere. Lo riempì generosamente e lo offrì a Helder. «Ecco, a vederti si direbbe che ne hai bisogno.» Helder ingollò il liquore e posò il bicchiere sulla scrivania. «Molte grazie, compagno ammiraglio. Chissà se potrei chiedere...» «Non puoi», replicò l'ammiraglio. «Fuori di qui.» Evidentemente non ci sarebbe stata la corte marziale. Non si era parlato di degradazione. Eppure, lo mandavano a Liepaja. Che diavolo volevano da lui in Lettonia? Là non c'erano sommergibili. La Flotta Baltica era di stanza a Leningrado e a Baltiisk, in Lituania, giù, nelle vicinanze del confine con la Polonia. Comandante del porto di Liepaja. Sempre meglio di Vladivostock, in tutti i casi. Almeno sarebbe stato quasi in patria: cosa molto insolita. Gli ufficiali delle repubbliche d'Estonia, Lettonia e Lituania erano invariabilmente mandati a servire in altre parti dell'Unione Sovietica. Il Politburo non si fidava delle tendenze indipendentistiche di questi popoli. Non erano sufficientemente russi, quindi i loro giovani che prestavano servizio militare erano spediti in posti dove sarebbero diventati sempre più russi, senza l'impedimento di sentimenti nazionalistici.
Helder fece il saluto all'ammiraglio e seguì di nuovo la donna. Un'ora e mezzo dopo era su un altro aereo, rasato, pulito, con un'uniforme nuova. Questa volta c'era il riscaldamento e c'erano i sedili. Riuscì a dormire un'oretta prima che atterrassero a Liepaja, dove l'aspettava una macchina: altro miglioramento. Adesso erano le dieci del mattino. Helder ebbe solo tempo di assicurarsi che l'automobile si dirigesse verso il mare, prima di addormentarsi di nuovo. Si svegliò nel momento in cui la macchina frenò con un sobbalzo davanti a un portone fortificato. Il suo lasciapassare, la sua faccia e quella dell'autista furono attentamente esaminate prima che li lasciassero entrare. Procedettero per una bella strada lastricata che scendeva lungo un pendio in vista del Mar Baltico. Di fronte a loro, sulla sinistra, c'era una specie di bacino di marea, che comunicava con il mare solo attraverso uno stretto passaggio. Oltrepassarono edifici che sembravano appena finiti e altri che erano ancora in costruzione. Mentre proseguivano nella discesa, Helder improvvisamente si accorse che un enorme fabbricato dal tetto piatto sostituiva in parte le sponde della laguna. Non se ne era reso conto subito, perché tutto il tetto di quel rifugio era interamente circondato da un muretto che conteneva un palmo o due di acqua. Una trovata molto intelligente, pensò Helder. Nelle fotografie prese dai satelliti l'edificio sarebbe sembrato un tratto della riva. E d'inverno si sarebbe trasformato in una meravigliosa pista di pattinaggio. Ora Helder si accorse che tutte le costruzioni davanti alle quali passavano avevano l'aspetto di edifici civili e stranamente occidentali. C'era un gruppetto di negozi, non il solito magazzino della marina con tabacco e vodka, c'era un benzinaio. Anche se il traffico era più intenso di quello che si vede normalmente nelle strade di una città sovietica di dimensioni analoghe, Helder non incontrò veicoli militari, soltanto automobili e autocarri civili. Eppure non vide scuole, bambini, massaie con le carrozzelle intente alle compere quotidiane. Gli sembrò che il posto non fosse né una base militare né una città normale. Prima di arrivare a destinazione, Helder fu sconcertato da un'ultima osservazione. La sua macchina passò davanti a un centro sportivo che sarebbe stato adatto a una città molto più grande: un enorme edificio che senza dubbio conteneva palestre e piscine, più trentasei campi da tennis, o almeno così sembrò a Helder, situati vicino alla riva. E doveva anche esserci un porticcioio di buone dimensioni a giudicare dalla piccola selva di alberi che si ergevano al di là dai campi. Mentre la macchina si fermava davanti a una piccola costruzione che probabilmente ospi-
tava uffici, Helder capì di trovarsi in uno degli insediamenti più privilegiati dell'Unione Sovietica. Altrettanto privilegiato era il suo comandante; Helder se ne accorse quando scese dalla macchina. Nel posteggio riservato vicino alla porta dell'edificio c'era una Mercedes 500 SE argentata, nuova di zecca. Ne aveva vista una a Mosca, tempo fa. Sulla porta lo aspettava un sergente dell'esercito, una ragazza bionda molto carina, che lo fece entrare. Quando fu dentro, Helder credette di essere arrivato in un paese straniero. Nulla di quanto vide gli sembrò di origine sovietica. Persino i tappeti sotto i suoi piedi, le maniglie sulle porte di vetro affumicato, la qualità della costruzione, erano assai diversi dagli infruttuosi sforzi edilizi sovietici degli ultimi anni. Quel posto corrispondeva al suo modo d'immaginare la Scandinavia. Varcarono un'altra serie di porte vetrate ed entrarono in una grande sala con dodici o quindici scrivanie. Le macchine per scrivere avevano la marca IBM; Helder vide anche una mezza dozzina di terminali di calcolatori di un modello avveniristico. Ma fu colpito più che altro dall'aspetto delle giovani donne nell'uniforme di vari corpi delle forze armate sovietiche, che sedevano alle scrivanie o giravano per la stanza. Erano quasi tutte bionde, tutte di corporatura atletica, snelle; non c'era una sola brutta nel mazzo. Di regola le donne che prestavano servizio nell'esercito sovietico avevano un aspetto piuttosto grossolano. A Helder non era mai capitato di trovarsi in una stanza piena di tante ragazze affascinanti. Un impeto di desiderio gli trapassò il corpo. Una visione simile, dopo cinque settimane in un sommergibile, era quasi troppo. Passarono in una piccola zona destinata a sala d'attesa. Helder sperò che la sua accompagnatrice lo pregasse di aspettare un momento per poter ancora guardare le ragazze, ma non fu così. Rallentarono appena il passo ed entrarono in una grande stanza quadrata, piena di sole. Helder si trovò di fronte a una scrivania dal piano di cristallo; il muro in fondo era quasi tutto coperto da due grandissime carte geografiche, illuminate da dietro. Gli bastò un'occhiata per vedere che erano una carta nautica del Baltico e una carta geografica della Svezia. Nessuno era seduto alla scrivania. Helder volse lo sguardo a destra, verso un gruppo di poltrone di cuoio. In una di queste sedeva un ufficiale di marina insignito del grado di ammiraglio della flotta. Helder batté i tacchi e fece il saluto. «Tenente di vascello Helder a rapporto secondo gli ordini, compagno ammiraglio.» L'ammiraglio si protese in avanti e schiacciò una sigaretta in un grande portacenere. «Fa' rapporto al colonnello», disse. Helder volse lo sguardo
più a destra dove, in un'altra poltrona, sedeva un uomo con i gradi di colonnello della fanteria di marina. Nelle forze armate sovietiche ogni incarico, come ricevere i rapporti, è affidato a chi ha il grado più importante e non all'inferiore di grado come avviene in occidente. L'importanza degli ufficiali è giudicata dall'incarico loro assegnato. Helder sapeva che durante la seconda guerra mondiale a volte era successo che un tenente comandasse una divisione dell'esercito, mentre i comandanti dei reggimenti sotto di lui potevano essere maggiori o colonnelli, quindi non si stupì del rispetto dimostrato dall'ammiraglio al colonnello. Ripeté il saluto. «Tenente di vascello Helder a rapporto, compagno colonnello.» L'ammiraglio si alzò. «Be', lascio tutto nelle tue mani, Viktor», disse andandosene. Questi gli fece un cenno con la mano, ma non si alzò quando l'altro uscì dalla stanza. Via l'ammiraglio, il colonnello si alzò e si avvicinò a Helder, che ne approfittò per osservarlo furtivamente. Sembrava poco più che quarantenne, era assai alto, elegante, in forma. Aveva la fronte alta e una folta chioma brizzolata, con un taglio di capelli molto migliore di quello che hanno di solito i militari sovietici. Secondo Helder, assomigliava a un ricco uomo d'affari occidentale in uniforme sovietica. Il colonnello gli porse la mano. «Mi chiamo Majorov. Sono felice di fare la tua conoscenza, Helder», disse in un inglese dall'accento perfetto. Helder rimase un po' scosso. Non gli era mai capitato di essere ricevuto da un nuovo comandante a questo modo e tanto meno in inglese. Strinse con circospezione la mano del colonnello. «Accomodati, prego», gli disse questi indicandogli una sedia. Tutto quanto gli era stato instillato in tredici anni di addestramento militare e di servizio nella marina si opponeva a questo invito. La faccia di Helder dovette rivelarlo, perché il colonnello sogghignò. «Devi abituarti ai nostri modi informali.» E feoe di nuovo segno a Helder di mettersi comodo. Helder si sedette, rimanendo però rigidamente impettito. «Bevi qualcosa?» gli domandò il colonnello. «Un gin con acqua tonica, magari? Non fare complimenti.» «Grazie, compagno colonnello.» Il colonnello si avvicinò a uno stipo di palissandro, preparò la bevanda e gliela porse. Helder ne sorbì un sorso con qualche esitazione. La sua opinione sul colonnello divenne eccellente,
quando si accorse che il bicchiere conteneva anche lo spicchio di una lucida, verde limetta. Chi era il colonnello per poter avere una limetta in Lettonia? Il colonnello si versò da bere e si sedette di fronte a Helder. «Adesso», disse con un leggero sorriso, «parlami un po' di te... del tuo ambiente, della tua educazione. Per favore, continua a parlare inglese.» Questa era un'altra delle cose che nessun comandante gli aveva mai chiesto di fare. Helder ne fu tanto più stupito, in quanto sul tavolino in mezzo a loro c'era uno spesso incartamento che certamente conteneva ogni particolare della sua vita dalla nascita in poi. Pensò che il colonnello probabilmente desiderava sentirlo parlare inglese. «Compagno colonnello, il mio nome completo è Jan Helder, non ho secondo nome; nacqui a Tallinn, sulla costa estone; ho trentun anni. Frequentai, ehm, le elementari e, ehm, le medie a Tallinn, poi l'università a Mosca, dove studiai sia inglese sia fisica. So anche lo svedese, che è parlato da tutti, sulla costa dove sono cresciuto. Dopo la laurea feci domanda d'ammissione all'accademia navale di Leningrado. Quando ne uscii, fui assegnato alla Flotta del Nord a Murmansk. Dopo due anni di servizi generici fui accettato a un corso di addestramento per sommergibilisti, alla fine del quale prestai servizio su una serie di sommergibili della classe Whiskey e Juliet. Passai un anno all'Accademia di perfezionamento di Mosca, poi ritornai alla flotta. Servii come ufficiale di rotta e come comandante in seconda sui Juliet; negli ultimi venti mesi ho comandato Whiskey 184, facendo esercitazioni e mandando rapporti sui movimenti delle unità navali NATO nell'Atlantico settentrionale.» Il colonnello fece un cenno di assenso. «Molto bene, Helder, il tuo accento americano è eccellente, anche se un po' ampolloso. Ma con l'andar del tempo migliorerà.» Il colonnello cambiò posizione e sorseggiò il liquore. «Naturalmente sapevo già tutto quanto mi hai appena raccontato. E molte altre cose ancora. So che i tuoi genitori erano entrambi medici e che tuo padre fu decorato per la sua resistenza ai nazisti, che tua madre era anche una pittrice molto dotata. So che facevi parte della squadra di vela alle Olimpiadi del 1976 nella classe dei Finn, ma che non riuscisti a regatare perché, investito da un tassì a Leningrado, riportasti una frattura composta al femore sinistro. Dunque, come avrai dedotto, so praticamente tutto su di te, altrimenti non saresti qui.» «Grazie per la fiducia dimostratami, compagno colonnello», rispose Helder.
Il colonnello aggrottò la fronte. «Oh, non ti sei ancora meritato la mia fiducia, Helder, soltanto il mio interesse.» Sorrise. «Tuttavia è un interesse serio. E, dopo aver letto il tuo stato di servizio, non dubito che qui ti comporterai bene.» «Grazie, compagno colonnello.» «Adesso, Helder, immagino ti piacerebbe avere qualche informazione su questo posto e su che cosa vi farai.» Il colonnello si alzò e prese a passeggiare pigramente su e giù per la stanza. Intanto parlava. «Qui e... altrove comando io. Questa è una base SPETSNAZ, ma forse, di questo, ti eri già accorto.» Helder non vi aveva pensato, anche se gli indizi erano stati copiosi; fu scosso da una dolorosa sensazione di paura e, insieme, si sentì eccitato. Le SPETSNAZ, cioè le forze speciali della marina, erano un segreto gelosamente custodito anche all'interno della marina sovietica. Helder sapeva solamente che si trattava di un corpo sceltissimo, formato dei più begli esemplari di giovani sovietici, uomini e donne, sia dal lato intellettivo, sia dal lato atletico. Correva voce che fossero addestrati a compiere ogni genere di imprese ingrate e che il corpo, sebbene fosse in teoria un ramo dell'esercito, fosse dominato, almeno in parte, dal KGB. Majorov continuò a parlare. «Naturalmente, ciascuna delle quattro flotte, quella del Nord, quella del Baltico, quella del Pacifico e quella del Mar Nero, possiede le proprie sottounità SPETSNAZ, ma qui a Liepaja siamo una brigata speciale, composta di militari presi dalle sottounità di tutte le flotte.» Majorov si protese in avanti. «Qui, si potrebbe dire, siamo la crème de la crème de la crème di tutte le sottounità SPETSNAZ.» Helder era colpito e lo lasciò trasparire. «Che tu sia stato trasferito qui non significa che ora sei SPETSNAZ», continuò Majorov. «Ufficialmente appartieni ancora alla flotta sottomarina del nord, benché da qualche ora tu goda del grado di capitano di terzo grado. Congratulazioni.» «Grazie, compagno colonnello.» Helder si sentiva confuso. Il posto di comandante di sommergibili implica il grado di primo capitano; lui aveva da troppo tempo il grado di tenente di vascello. Adesso saltava un grado: capitano di terzo grado è l'equivalente di capitano di fregata nelle marine occidentali. Con una sola promozione aveva raggiunto e oltrepassato quasi tutti i suoi compagni di corso. Non solo, aveva ottenuto la promozione all'inizio dell'incarico: un caso mai sentito. «Sei anche in ruolo come comandante di divisione», disse Majorov.
Il cuore di Helder impazzì. Divisione significava sommergibili nucleari. I diesel sono raggruppati in brigate. «Ma qui non useremo il grado e non ci daremo l'un l'altro del 'compagno'», continuò Majorov. «Puoi continuare a rivolgerti a me con il titolo di 'colonnello' o di 'signore', ma chiamerai tutti gli altri per cognome. Quando farai amicizia con gli ufficiali tuoi colleghi e comincerai a chiamarli per nome, non ti servirai mai del patronimico. Mi auguro che tu abbia capito bene; è molto importante.» «Sì, colonnello.» «Qui circa due terzi dei tuoi colleghi parlano, come te, lo svedese e l'inglese; gli altri parlano solo l'inglese e magari un'altra lingua europea. Tutto il tuo addestramento e tutte le tue conversazioni personali dovranno svolgersi in inglese, eccetto nei pochi casi in cui i tuoi istruttori parleranno solo il russo. È molto importante che tu continui ad accentuare il carattere americano del tuo inglese. A questo scopo, troverai nelle tue stanze un televisore che trasmette programmi americani.» Majorov sorrise ironicamente. «So che tutto il tuo passato e la tua risolutezza di cittadino sovietico ti impediranno di lasciarti corrompere da questo insolito e del tutto decadente influsso.» Helder gli rese il sorriso. «Certo, signore.» «Ti saranno assegnate uniformi della marina, dell'esercito e della fanteria da sbarco. Sei pregato di indossarle tutte a turno. Questo è soprattutto per gli occhi degli abitanti di Liepaja, ai quali abbiamo detto che questo è un impianto per l'allenamento sportivo delle varie armi. Ti daremo anche abiti civili di taglio occidentale. Sei pregato di indossarli quando non sei in servizio. Occorre che tu ti abitui a portarli e che gli abiti non abbiano l'aspetto nuovo.» Majorov alzò un dito in avvertimento. «Durante il tuo addestramento non lascerai questa installazione per nessun motivo. Se desideri uscire in barca a vela, non devi allontanarti dal lago salato vicino alla base e non devi toccare terra in nessun luogo se non nel porto della base. Non devi avere contatti con l'esterno. Se morissi, saresti sepolto qui. Questa è la tua casa finché non sarà terminato il tuo addestramento.» Majorov si alzò. «È tutto per il momento. Desidero che ti prenda qualche giorno per acclimatarti; considerala una licenza. Mi auguro che non ti senta troppo confinato qui da noi. Gli ufficiali che si addestrano qui hanno dato un soprannome al posto: lo chiamano 'Malibu', da un luogo in California che a quanto pare è molto piacevole.» Sorrise. «Il nomigliolo mi piace.
Qui ci sono molte distrazioni, tra cui non è trascurabile il gruppo di ragazze che lavorano come ausiliarie. Una di loro adesso ti condurrà alle tue stanze e ti spiegherà dove sono i vari impianti della base.» «Grazie, signore», disse Helder. «Prometto che farò del mio meglio.» Gli venne in mente che non gli era stata fornita la più vaga indicazione di quali sarebbero stati i suoi doveri, ma pensò che fare domande non fosse consigliabile. Majorov sorrise e mise una mano sulla spalla di Helder. «Sono sicuro che ti comporterai bene. E quando verranno i momenti duri del tuo addestramento, ricorda che il grado massimo di comandante di divisione è, naturalmente, contrammiraglio. Se riuscirai nel tuo lavoro qui e se il lavoro stesso avrà buon esito, ti prometto che otterrai il grado massimo più in fretta di quanto ti sia mai immaginato. Non escluderei nemmeno la possibilità della nomina a comandante di flottiglia.» Lo fissò attentamente. «Helder, qui si parla delle classiche circostanze che, a un ufficiale in gamba, offrono il modo, una sola volta nella vita, di giungere all'apice della carriera.» Helder trasalì. Le classiche circostanze che offrono occasioni del genere sono le guerre. Uscì dall'ufficio e seguì lo stesso sergente biondo fuori dell'edificio. Attraversarono uno spiazzo erboso fino a un lungo e basso fabbricato con molte porte. La giovane lo condusse davanti a una di queste, l'aprì e si fece da parte per lasciarlo entrare. Helder non aveva mai visto niente di simile. La stanza era press'a poco di cinque metri per lato. Lungo una parete c'erano un armadio a muro, scaffali di libri, una scrivania. C'erano una comodissima poltrona di cuoio, una lampada da tavolo, un televisore Bang & Olafson, sul quale era posata una scatoletta nera. Da una porta si passava nella stanza da bagno privata, tutta piastrellata. Le tende e il copriletto erano di un vivace tessuto scandinavo. Sulla scrivania c'erano numeri del Time, Newsweek, The International Herald Tribune, di appena due giorni prima. Ma tra tutti gli oggetti della stanza, quello che più lo colpì fu il letto. Helder non aveva mai dormito in un letto matrimoniale, se non in albergo e in case di malaffare. «Ti faccio vedere come funziona il televisore», disse la ragazza, prendendo la scatoletta del telecomando dal comodino. L'accese e cominciò a cambiare in fretta canale. «Qui hai gli stessi programmi di New York», gli spiegò, «sebbene ci siano sette ore di differenza. Sono carpiti a un satellite americano. Ci sono tre reti principali, quattro canali con film, sport, cartoni animati, trasmissioni dalla camera dei deputati, in tutto cinquantaquattro
canali. Puoi scegliere il programma che preferisci sulla rivista TV Guide.» «Cinquantaquattro canali!» Helder era stupefatto. «Dammi il tuo orologio», disse la ragazza. Helder glielo consegnò e ricevette in cambio un grosso Rolex Explorer. «Hai qualche altro gioiello o qualche altro oggetto personale?» Helder le porse il portafoglio e un accendino tedesco ottenuto con uno scambio anni prima. Non fumava, ma gli piaceva l'accendino e detestava doverlo consegnare. «Non preoccuparti», lo rassicurò la ragazza, leggendogli nel pensiero. «Ti daranno un'enorme quantità di robetta come questa da tenere in tasca.» Gli porse un foglio piegato. «Ecco una cartina del luogo. Per recarti in un posto non raggiungibile a piedi, prendi la prima bici che vedi. I pasti sono in uno qualsiasi della mezza dozzina di ristoranti della base, dove potrai andare tutte le volte che ne avrai voglia. Oppure potrai ordinare per telefono e ti porteranno da mangiare in camera. Nel cassetto del comodino c'è una lista delle vivande.» In piedi, silenzioso, Helder fissò tutte le cose che lo circondavano. Era sbalordito. Non aveva mai visto un Holidey Inn. La ragazza si avviò verso la porta. «Il mio nome è Ragulin; puoi chiamarmi Trina, se ne hai voglia.» «Sei una splendida ragazza, Trina» Helder era incapace di nascondere il desiderio nella sua voce. Trina rise. «Oh, qui tutte le ragazze sono belle. Quelle che come me sono in ufficio sono tutte ginnaste.» Gli sorrise con ironia. «Majorov ha uno speciale interesse per la ginnastica femminile.» Si appoggiò allo stipite della porta. «Fra un paio d'ore finisco il servizio. Potrei tornare qui, se vuoi.» Helder fece sì con il capo. «Mi farebbe molto piacere», disse con voce tremula. Malibu sarebbe stata molto gradevole. Trina sorrise di nuovo e chiuse la porta. Helder tirò un sospiro e andò subito davanti al televisore. Un tale di nome Rather stava leggendo le notizie con competenza. Il presidente degli Stati Uniti, con l'aria di sentirsi un po' a disagio, rispondeva alle domande provocatorie dei giornalisti con ghignatine e scrollate di spalle. Helder sedette e cambiò canale. Rimase immobile a guardare per un'ora un telefilm su un violento poliziotto chiamato Dirty Harry, che trasformava San Francisco in un campo di battaglia. Quando Trina tornò, Helder dormiva. La ragazza lo svegliò. 3
Katharine Rule sedette in silenzio per la maggior parte della rituale riunione del mercoledì mattino di EXCOM DUE, al quartier generale dell'Agenzia Centrale dei Servizi Segreti (la CIA) a Langley, in Virginia. Non prese appunti. Più tardi avrebbe aggiornato a memoria lo schedario. EXCOM UNO era ufficiale; ne facevano parte il direttore della CIA, il suo vice, il direttore amministrativo e quattro vicedirettori: Operazioni, Informazioni, Scienza e Tecnologia, Amministrazione. EXCOM DUE, invece, non era affatto ufficiale. Constava di un gruppo variabile di capi dei dipartimenti (gli 'uffici') delle due sezioni più ambite: Operazioni, il braccio segreto e Informazioni, cioè l'analisi dei dati, il braccio che agiva allo scoperto, chiamati rispettivamente dagli iniziati 'Compagnia' e 'Agenzia'. Qualsiasi giovane funzionario dell'una o dell'altra sezione avrebbe preferito, potendo scegliere, partecipare a EXCOM DUE, perché la gente che ne faceva parte, com'era risaputo, non si occupava di politica interna, non si preoccupava di ciò che sarebbe stato riferito al presidente e non doveva badare a quello che diceva, dato che non si tenevano verbali. DUE si occupava di affari sporchi e a tutti piacciono gli affari sporchi. Chi partecipava a EXCOM DUE poteva cenare fuori a sbafo vita natural durante, raccontando i pettegolezzi internazionali che scaturivano dal letame rastrellato in quelle riunioni, senza mai compromettere la sicurezza nazionale. Inoltre DUE offriva il vantaggio di essere quasi l'unico posto dove quelli della Compagnia e quelli dell'Agenzia avevano modo d'incontrarsi; era anzi l'unica occasione in cui i due gruppi si accorgevano di lavorare per la stessa organizzazione. In queste riunioni ogni partecipante lasciava cadere le notiziole (chiamarli rapporti sarebbe stato un termine troppo forte) della sua sezione che potevano riscuotere più interesse, sia fatti nuovi racimolati dalla rete mondiale di ascoltatori e di osservatori della CIA, sia nuovi quesiti sollevati da questi fatti. Con la mancanza di formalità che ora vigeva, nulla era di così poco conto o così oscuro da essere trascurato, sebbene in pratica e per risparmiare tempo ogni membro condensasse le sue informazioni e dicesse solo quanto era secondo lui significativo o, cosa quasi altrettanto importante, divertente. La notizia eccezionale, quel mattino, era che un personaggio altolocato dell'MI-5, cioè del servizio di controspionaggio inglese, era stato arrestato per 'tentata violenza carnale' ai danni di un poliziotto travestito in un bar per omosessuali di Soho.
«Non cesserò mai di stupirmi», commentò chi aveva portato la notizia «di come sia possibile che un membro dei servizi segreti britannici, anche se un po' finocchio, tra seicento checche frenetiche, metta la mano proprio tra le gambe dell'unico poliziotto della buoncostume che è sul posto.» «Mi viene un'idea», propose qualcun altro. «Perché non offriamo a quel tipo un viaggio premio e non lo facciamo andare avanti e indietro per i corridoi come annusatore? Ci scommetto che un finocchio medio dell'MI-5 potrebbe ripulire gli interi servizi segreti con pochi giorni di lavoro.» La CIA, a differenza della corrispondente organizzazione inglese, non vedeva di buon occhio gli omosessuali celati tra le sue file e tentava continuamente di scartarli. Katharine ridacchiò insieme con tutti gli altri, ma si annoiava. Dirigeva da poco il dipartimento che si occupava dell'Unione Sovietica, era il più giovane capo dipartimento dell'Agenzia e credeva di avere qualcosa di più interessante da offrire. Intorno al tavolo si cominciò a raccogliere fogli e a dare occhiate all'orologio. «Qualcun altro?» domandò il moderatore di turno. Incontrò lo sguardo di Katharine. «Rule?» Tutti si riadagiarono sulle sedie. Katharine Rule era l'unica donna presente; per anni aveva partecipato alle riunioni di DUE come vicecapo di dipartimento; i suoi colleghi la giudicavano noiosa, quando si ostinava nelle sue teorie. Era però un'analista brillante e di solito arrivava alle riunioni con ottimo materiale. Era alta, aveva capelli biondo rame; la maggior parte degli uomini la giudicava affascinante, pur con quelle sue maniere di donna efficiente. Era divorziata da Simon Rule, da poco nominato vicedirettore della sezione Operazioni. Questo fatto teneva lontani i più timidi dei colleghi di Katharine, mentre i più arditi venivano immancabilmente respinti. La sua scusa era sempre quella della mancanza di qualcuno che le guardasse il bambino. Aveva un bambino ancora piccolo e tutti i problemi di una madre sola, oltre alle esigenze di un lavoro che, a quanto pareva, era la sua ossessione. Katharine si avvicinò al proiettore in fondo al tavolo e vi introdusse un caricatore di diapositive. «Qui ho qualcosa, non so con certezza di che si tratti, ma mi piacerebbe che voi tutti lo teneste presente. Desidero esaminare quanto sappiamo di due nomi sovietici.» Accese il proiettore e premette il bottone di avanzamento. La fotografia a colori di un giovanotto bruno vestito d'un abito di tweed di buon taglio riempì lo schermo. Era seduto sulla panchina di un parco e sembrava interessato a due giovani passanti che indossavano gonne cortissime.
«Londra», disse qualcuno. «Anni Sessanta. Riconoscerei quelle minigonne ovunque le vedessi.» «La vastità delle tue cognizioni non finisce mai di stupirmi, Harry» commentò lei. «Lo riconosci?» «Uhm...», s'interpose un'altra voce. «Sì, come si chiama... Roy Vattelappesca.» «Firsov», precisò qualcun altro. «Benissimo, signori. Harry, questo ci dimostra quanto avevamo sempre sospettato: quando eri a Londra t'interessavi più di minigonne che del KGB.» «Sì, è Firsov», ammise Harry in tono di scusa. «Non era gran che. Ogni tanto lo pedinavamo. Sembrava più interessato a immergersi nella Londra degli stravaganti anni Sessanta che a spiare qualcuno.» «Allora devi averlo incontrato soventissimo, Harry», replicò Kate. «Lasciate che vi rinfreschi la memoria. Roy Firsov, non abbiamo mai saputo il suo patronimico, era piuttosto in basso nella gerarchia dell'ambasciata sovietica a Londra nel sessantotto e nel sessantanove. Si faceva passare per un addetto alla cultura e agli sport, specialmente gli sport, perché non dimostrò mai molto interesse per l'opera o il balletto. Harry ha ragione, non l'abbiamo mai collegato a una qualsiasi operazione. Sembrava che passasse quasi tutto il tempo a imparare a diventare un perfetto inglese. Andava continuamente al cinema; si faceva fare gli abiti da... Huntsman, nientemeno; le scarpe da Lobb; le camicie da Turnbull e Asser. Sfondò ad Ascot, andò in Scozia a caccia di pernici rosse, partecipò alle regate nella settimana di Cowes. Riusciva a farsi passare per un aristocratico polacco, più inglese degli inglesi. Era accolto con favore. L'unico atto di spionaggio che conosciamo di lui è che negli ultimi tre mesi della sua permanenza a Londra riuscì quasi ogni giorno a intrufolarsi all'ora di pranzo al Carlton Club. «Il Carlton non è il club dei conservatori?» «Certo, ma non lo scoprirono mai. Tutti pensavano che fosse un membro. Uno di noi, però, un giorno fu invitato a pranzare al Carlton e, quando scoprì il caro Roy, gli andò la minestra per traverso. Firsov gli strizzò l'occhio. Il nostro uomo non lo disse mai al suo ospite.» «Magnifico», disse una voce, con vera ammirazione. «Dopo il sessantanove non lo degnammo di molta attenzione. Si presentò alle Olimpiadi di Monaco del settantadue come vice manager (in realtà commissario politico) della squadra femminile di ginnastica. Vi arrivò direttamente dalle regate olimpioniche di Kiel, dove aveva vinto una meda-
glia di bronzo nella classe Star.» «Perbacco! Perché noi della CIA non vinciamo mai medaglie alle Olimpiadi? Perché se le prende tutte il KGB?» «Firsov ricomparve alle Nazioni Unite per circa un anno, nel settantatrésettantaquattro, dove, contrariamente a quel che faceva a Londra, cercò di non mettersi in mostra. L'anno dopo passò a Stoccolma, di nuovo come addetto culturale, diciotto mesi. Né a New York né a Stoccolma riuscimmo mai a provare qualcosa contro di lui.» Kate fece scorrere rapidamente altre diapositive prese in quelle città. «Poi rientrò in Russia, pensammo per un altro periodo di addestramento, sparì e non fu più visto, finché fu notato ai funerali di Andropov, vestito dell'uniforme di contrammiraglio. Nessuno si sarebbe accorto di lui, se non fosse stato l'unico partecipante alla cerimonia, oltre alla signora Andropov, che versò una lacrima, non sappiamo se di coccodrillo o no.» «Questo sì che è interessante», disse qualcuno. «Da allora, si è saputo altro di lui?» Katharine finse di non avere udito la domanda e spense il proiettore. «Non ho fotografie recenti. Non ne esistono.» Tornò al suo posto. «Ma il suo nuovo nome è Viktor Sergevič Majorov.» La stanza fu percorsa da una scossa elettrica. «Un vicedirettore del KGB», osservò qualcuno. «Presidente della Prima sezione, Operazioni estere», specificò Katharine. «Altri hanno qualcosa da dire?» «Quando Andropov succedette a Breznev, sembrò che Majorov ci rimettesse nel rimpasto», disse qualcuno, «ed ebbi l'impressione che la sua popolarità fosse calata. A parte ciò, sappiamo di lui ancora meno di quanto sapessimo di Andropov.» Katharine arrossì leggermente. Quando Andropov era stato eletto, quelli della sua sezione avevano fatto una figura da idioti sui giornali. Sebbene lei avesse avuto per anni un nutrito schedario su Andropov, il governo, in un modo o nell'altro, aveva assecondato l'impressione che non si sapesse nulla di quel personaggio. Anche tutte quelle storie, che gli piacevano i romanzi americani e i dischi di Glen Miller, non avevano aiutato affatto. Ma Katharine pensava che oggi avrebbe riguadagnato terreno. «Adesso ne sappiamo qualcosa di più», disse. «Un paio d'anni fa un italiano esperto di computer, un certo Emilio Appicella, ricevette la visita di un russo nel suo laboratorio a Roma. Appicella aveva una nonna nella Russia bianca ed è cresciuto parlando il russo in casa. Non è solo un esperto di computer, è
anche un pirata. Si è specializzato in furti di software che fa funzionare con hardware precedentemente incompatibili, senza pagare, naturalmente, i diritti alla gente che l'ha sviluppato. Viene negli Stati Uniti, compra nei negozi di elettronica i modelli più nuovi, se li porta in Italia, riesce a decifrare le chiavi d'ingresso e li adatta ai propri usi. Progetta e fabbrica una quantità di circuiti stampati per far funzionare il tutto.» Si guardò intorno. Aveva l'attenzione totale di tutti i presenti. «Dunque, Appicella ricevette una visitina da questo russo, naturalmente del KGB, che però si spacciava per addetto commerciale. Disse che il suo ufficio a Mosca aveva uno scadente sistema di elaborazione dati che faceva diventare tutti matti. Desiderava che Appicella andasse nell'Unione Sovietica e adattasse il sistema in modo da far girare un programma perfezionato e completo di elaborazione testi, WordStar, poi addestrasse gli impiegati a usarlo.» «Ahah!» sghignazzò qualcuno. «Vedrete quando proveranno WordStar, diventeranno ancora più matti.» «Si può comperare WordStar bell'e pronto in centinaia di negozi di elettronica», interloquì qualcun altro. «Sì, ma i sovietici non riuscirebbero a farlo funzionare sulle loro macchine. Sapete bene che fame hanno di apparecchiature moderne. Non avevano neppure il sistema operativo MS-DOS in funzione, pur avendone bisogno per compatibilità con l'IBM. Il nostro embargo sulle esportazioni ai paesi dell'est ha fatto effetto, si direbbe.» «Sono felice di sentire che qualcosa fa effetto», fu la risposta. Katharine continuò. «Naturalmente, fu come invitare a nozze Emilio, che vi vide l'occasione di farsi un mucchio di soldi. Nei quattro mesi successivi andò a Mosca tre volte, fermandosi talora una settimana, talora un mese. Fu condotto in un edificio di piazza Dzeržinsky, sul lato diagonalmente opposto al grande magazzino Mondo Infantile.» «Santo cielo, vuoi dire che è stato dentro il Centro di Mosca?» «Eh sì, anche se non ebbe la più pallida idea di che cosa fosse. Entrava sempre da via Kirov e credeva di trovarsi in un qualsiasi ufficio commerciale del governo. Anzi, lo crede ancora. Fu presentato al capo di quell'ufficio, un certo compagno Majorov; gli fu assegnata una grande sala riunioni, senza finestre, per lavorare. Majorov, che è risultato una specie di patito della tecnologia, spesso faceva una capatina nella stanza per fargli visita. Emilio fece la spola tra Roma e Mosca, passando per Vienna, prendendo ogni volta con sé quelle parti di hardware che gli servivano per portare a
termine una parte del lavoro e niente di più. Non è uno stupido, il nostro Emilio, sa giocare abilmente le sue carte. Si rifiutò d'insegnare ai sovietici quanto faceva con le macchine e, dopo avere adattato i programmi WordStar per loro uso e consumo, mise a punto i propri codici di protezione, che secondo lui i russi non riuscirebbero a decifrare nemmeno in un milione d'anni; quindi non potranno copiarli. Inventò per i computer una tastiera speciale per rendere più facile all'operatore passare dai caratteri romani ai cirillici, tradusse i manuali e istruì le impiegate nell'uso del software. Ma se qualcosa non funziona, devono rivolgersi di nuovo a Emilio. A mio avviso, Emilio li fa impazzire. «E Majorov? Che cosa ce ne ha detto l'italiano?» «È stato molto contento di parlare del compagno Majorov, che a suo parere ha una posizione importante nella missione commerciale sovietica: lo deduce dalla capacità di ottenere in tutta fretta quanto gli occorre e dal suo stile di vita. Emilio ha addirittura passato un fine settimana ospite di Majorov nella sua dacia in Crimea. Questo avvenne mentre Majorov, evidentemente, sperava ancora di persuadere Appicella a comunicargli i suoi segreti tecnici. Quando Emilio, dopo essersi servito di grandi quantità di caviale di beluga e di non poche ragazze dell'ufficio, disse chiaro e tondo che non aveva intenzione di rivelare la sua tecnologia, i rapporti divennero di nuovo strettamente commerciali.» «E allora, che cosa sappiamo di Majorov?» «Un gran bell'uomo, gli piacciono le donne, più di una per volta, di solito. Sempre bionde. Veste bene, sembra raffinato e colto, ha un debole per tutto ciò che è costoso e occidentale. In Crimea andava in giro su una Porsche 928. Piacevole in compagnia, regge bene la vodka, ha un'immensa sicurezza di sé.» «È tutto? È tutto qui quello che sa Appicella?» «È tutto quanto Majorov ha lasciato che Appicella sapesse.» Harry alzò la voce. «C'è qualche altra cosa, vero Kate?» «Sì, effettivamente. La stazione di Roma mostrò a Emilio Appicella qualche fotografia. Emilio lo riconobbe immediatamente.» «Hai detto che non ci sono foto di Majorov.» «Neanche una. Ma ce n'è un sacco di Roy Firsov.» «Ahhhh...» «È già. Si direbbe che abbiamo sottovalutato il compagno Firsov. Avremmo dovuto capire che chiunque viva come un duca a spese del KGB deve rendergli fior di servigi. Adesso giurerei che, quand'era a Londra, era
il capo della stazione, benché sia molto strano, per uno che non aveva ancora trent'anni.» «A quanto pare, sarebbe bene che tutti noi dessimo un altro sguardo a Firsov/Majorov.» Katharine si appoggiò allo schienale della poltrona. «Per prima cosa dovremo trovarlo. È scomparso.» «Quando?» «Non lo so con precisione. Ho ficcato il naso in tutto quanto ho potuto trovare su Majorov, ma non è molto. Sembra che ci fosse un Majorov nella Ceka di Lenin, sotto Dzeržinsky, subito dopo la rivoluzione; ma sembrerebbe troppo vecchio per essere suo padre. Era una figura di secondo piano, che però fece carriera sotto Stalin e Beria.» «Come se la cavò con le purghe?» «Corse voce che Stalin gli avesse sparato personalmente.» «Oh.» «Sappiamo qualcosa di Firsov prima di Londra?» «Soltanto che secondo qualche voce era intimo di Andropov.» «E di Majorov, nient'altro?» «Tutto quello che sappiamo di Majorov ve l'ho già detto: è vicedirettore del Centro di Mosca. E vi ho detto anche quanto sappiamo di Firsov. Naturalmente, avendo adesso scoperto che i due sono una sola persona, abbiamo maggiori possibilità di conoscere qualcosa di più. Vorrei che ogni sezione scovasse tutto il possibile su entrambi i nomi, specialmente tirando fuori ricordi personali.» Intorno al tavolo ci fu un mormorio di consenso. «In questo momento c'è un fatto che mi sconcerta: sappiamo che era un vice di Andropov, anzi, a quanto possiamo sapere, l'erede designato. Dunque, mi chiedo, perché non ha ereditato la carica? Perché ora non dirige il KGB?» Sulla stanza calò un silenzio meditabondo, poi Harry disse: «Kate, secondo me tu hai una teoria.» Lei fece un cenno d'assenso. «A mio parere ha ottenuto qualcosa di meglio.» «Quando uno è stato nel KGB, con tutta probabilità per la sua intera vita di adulto, che cosa c'è di meglio che dirigere il KGB?» La donna scosse il capo. «Non lo so, ma penso che sia possibile scoprirlo; e potremmo trovare qualcosa di molto interessante. Quest'uomo è uno che cade sempre in piedi. Ci ha giocati per più di vent'anni; a dire il vero,
ne conoscevamo a mala pena l'esistenza. Voglio sapere che cosa sta macchinando in questo momento. Non può essere niente di buono, non vi pare?» «Hai detto che ai funerali di Andropov indossava un'uniforme della marina?» «Sì. E, a quanto ne sappiamo, non ha mai avuto niente a che fare con la marina. Non aveva neppure un posto in prima fila, anche se era stato amico intimo di Andropov. Sparì, per chissà quali motivi, quando Andropov divenne il capo del Cremlino e riemerse solo ai funerali per una questione di ossequio verso di lui. Poi, oplà, è di nuovo scomparso.» «Bene», disse Harry, «sarà meglio passare la parola a tutte le sezioni.» «Sì», rispose Katharine. «Ma fatelo con il nome di Firsov, non di Majorov. Parlandone con altri servizi segreti, specialmente con i britannici, non vorrei correre il rischio di lasciar trapelare la nostra scoperta del nesso tra i due. Dal momento che Firsov si trovava a Monaco nel millenovecentosettantadue, potremmo casualmente accennare agli israeliani che ha avuto a che fare con i terroristi. Questa insinuazione li stuzzicherebbe ad agire e, con la loro rete di dissidenti nell'Unione Sovietica, potrebbero venire a sapere qualcosa di lui più in fretta di noi. Forse, agli israeliani potremmo addirittura dire che Firsov è Majorov.» «Non ci sono talpe sovietiche nei servizi segreti israeliani», disse qualcuno. «Ancora una cosa», continuò la donna. «È un'impresa quasi impossibile e so di non potervi chiedere di farlo ufficialmente, ma ritengo potrebbe essere una buona idea fare una ricerca generale sulle macchine straniere in tutta l'Unione Sovietica. Qualunque agente scovi una Porsche o una Ferrari o un'altra macchina fuori del comune ci dovrebbe spedire immediatamente il numero di targa e il nome del luogo.» Un altro mormorio di consenso. «Qualcun altro chiede la parola?» domandò il moderatore. Nessuno rispose. «Benissimo, troviamo Majorov.» 4 Katharine, dal suo posto, vide che Alan Nixon sudava. L'enorme sala delle audizioni del senato era troppo vasta per quella mezza dozzina di persone che partecipavano alle riunioni segrete; ma non c'erano altri locali disponibili. In quell'ambiente Alan Nixon sembrava ancora più piccolo del
solito. Rule godeva vedendo il suo superiore sulle spine. Nixon, in quanto vicedirettore delle Informazioni, era a capo di un importante settore della CIA: ricerca e analisi, studi scientifici e sulle armi, analisi dell'immagine e molto altro ancora. Per di più gli toccavano anche quasi tutte le discussioni, specialmente con il Congresso, sui settori dell'amministrazione e della scienza e tecnologia. Nixon era un valido amministratore, un notevole politico, abile nelle riunioni, ma aveva una comprensione superficialissima delle tecniche usate dai suoi dipendenti e delle analisi trasmesse ad altri settori e ai suoi superiori. Katharine lo paragonava a un bibliotecario che sa fornire al lettore un libro su ogni argomento, ma non ha la più vaga idea del significato di uno solo di quei volumi: la sua conoscenza della biblioteca consiste nel saperla classificare. Nixon era bravissimo a rispondere perché la CIA fosse abbonata a ogni rivista del mondo, ma quasi incapace di spiegare perché ricevesse il New Yorker. Katharine vide Will Lee, il consulente del senatore democratico della Georgia, Carr, passare furtivamente un biglietto dall'altra parte del tavolo al suo superiore, che era il presidente della Commissione ristretta del senato per i servizi segreti. Il senatore diede una scorsa al biglietto e fece un cenno di assenso. «Signor Nixon», disse togliendosi gli occhiali e fregandosi la sella del naso: sicuro indizio di turbamento. «Nel mio ufficio ho un piccolo calcolatore, che sa fare più o meno di tutto. I miei lo usano per scrivere a macchina, per fare i conti, per spedire lettere a migliaia di persone, insomma, se ne servono per fare più o meno qualunque cosa si possa immaginare.» Prima che il senatore avesse finito la sua prima frase, Katharine aveva già aperto un incartamento e cominciato a sfogliarlo rapidamente. «E quell'oggetto costa meno di tremila dollari», continuò il senatore Carr. «Insomma, tutti i giorni, prendiamo un giornale e vi leggiamo che i calcolatori costano sempre meno, che macchine che una volta occupavano un'intera stanza adesso stanno in tasca e si pagano poco o niente.» Katharine fece scivolare un foglio scritto a macchina a grossi caratteri verso Nixon, che si passò sulla faccia un fazzoletto, poi cominciò a scorrerlo velocemente. «Quindi, mentre succede tutto ciò», disse il senatore, «come mai la CIA ha bisogno di spendere...» abbassò gli occhi sul foglio, «diciannove milioni di dollari per l'ammodernamento dei calcolatori, badate bene, non per un intero, nuovo calcolatore, ma soltanto per un ammodernamento?» Tra le doti di Alan Nixon, una delle più importanti era la capacità di leg-
gere un foglio al volo e di saperne ripetere il contenuto quasi parola per parola. Non lo ricordava per molto tempo, ma abbastanza a lungo da poterlo recitare. «Prima di tutto, senatore», cominciò, «quella cifra non comprende solo lo hardware, ma un completo rinnovamento del sistema operativo del calcolatore, che è già il più potente e il più protetto che esista. Questo ci aprirà un intero campo di nuove possibilità, assolutamente indispensabili nel bel mezzo di una rivoluzione dei calcolatori. Per esempio, sarà in grado di emulare ogni sistema operativo conosciuto di qualsiasi altro calcolatore, compresi i sovietici, di leggere ogni disco e ogni nastro di qualsiasi altro calcolatore, di darci nuovi mezzi di comunicazione che finora erano pura fantascienza, trasportandoci di colpo nel prossimo secolo. Senatore, questo ammodernamento è un investimento nel futuro della raccolta di dati e della loro analisi negli Stati Uniti...» Nixon proseguì baldanzoso, elencando le altre valide ragioni raccolte nella risposta preparata da Katharine per lui. Katharine diede un'occhiata all'aiutante, Lee, che finse di grattarsi un sopracciglio e, così facendo, le lanciò un piccolo saluto. La donna cercò di assumere un'aria il più possibile compita. Più tardi, mentre lei usciva dalla stanza della riunione, Lee le si affiancò. «Un lavoro perfetto, signora Rule», disse. Katharine gli sorrise allegramente. «Non ci voleva molto, signor Lee.» Lee sussultò. «Toccato!» Si guardò intorno per assicurarsi che nessuno potesse sentire. «Che ne direbbe di cenare insieme questa sera?» Katharine si fermò e si voltò verso di lui. «Signor Lee, lei mi scandalizza. Sa tanto quanto me che ci sarebbe un netto conflitto di interessi se la frequentassi... e, in tutti i casi, non m'interessa.» «Ho comprato delle animelle e qualche spugnola e ho scovato due bottiglie di Krug del sessantasei.» «Insomma signor Lee, crede davvero che basti qualche ghiottoneria per convincermi a una relazione illecita con lei?» «Sicuro.» «A che ora?» «Le sette e mezzo?» «Facciamo le otto; ho ancora un po' di lavoro da sbrigare.» Erano quasi le otto quando Katharine arrivò a casa. Il telefono stava suonando. Si precipitò a rispondere prima che entrasse in funzione la segreteria telefonica. «Pronto.» «Katharine?» Una sola persona poteva pronunciare il suo nome con tan-
ta affettazione. «Ciao, Simon», rispose lei impaziente, togliendosi le scarpe con un calcio e cominciando a sbottonarsi l'abito. «Sto uscendo. È una cosa importante? Peter sta bene?» «Oh, sì, sta benissimo. È fuori, stiamo arrostendo carne all'aperto.» Simon tirò un profondo respiro. «Effettivamente, ti chiamo a proposito di Peter. Missy e io siamo invitati per due settimane a casa dei suoi, nel Maine, e mi domando se...» «Non un'altra parola, Simon», disse la donna in tono secco. «Se andate via, Peter viene con voi: questi sono i patti.» «Be'», biascicò Simon. «Non credevo che avresti assunto questo atteggiamento. Pensavo addirittura, per quanto stupida sembri la cosa, che ti avrebbe fatto piacere vedere tuo figlio per un paio di settimane nell'estate. Ma mi accorgo di avere sopravvalutato i tuoi istinti materni.» «Simon, non tentare con me stronzate come quella di darmi del cuore di pietra.» A Katharine piaceva usare parolacce parlandogli: a lui davano così tanta noia! «Sei suo padre, cerca una volta tanto di essere paterno. Santo cielo, è con te da dieci giorni e cerchi già di scaricarlo.» «Non cerco di fare niente di simile, Katharine; solo che a volte Peter e Missy...» «E non cercare neppure di darne la colpa a tua moglie. So che Missy e Peter se la intendono benone. Siete tu e Peter che non andate d'accordo, o meglio sei tu. Non ho mai visto un ragazzo più desideroso di piacere: camminerebbe sui carboni ardenti pur di avere la tua approvazione, ma tu sei maledettamente scostante, con le tue arie da snob.» «Non ricominciare con queste storie, Katharine; stavo solo pensando al ragazzo.» «Ma certo, Simon; lo volevi incastrato nell'inferno di Washington durante l'estate, in qualche posto dove tengono di giorno i ragazzi, perché sai benissimo che dovrei lasciarlo in un luogo del genere, mentre lavoro...» «E allora, perché non smetti di lavorare, vivendo di quanto ti passerei e allevando tuo figlio come si deve?» «Perché, come ti ho detto un centinaio di volte, non voglio i tuoi alimenti del cazzo; ho avuto la casa e il diritto a tenere il bambino: è tutto quanto mi occorre finché lo farai entrare a Yale e comincerai a portarlo dal tuo sarto e a comprargli automobili e che altro. Fino a quel momento ho i mezzi per mantenerlo. Nel frattempo, Simon, perché non tenti di conoscere tuo figlio? È davvero un ragazzo incantevole, molto sveglio; basterà che tu
passi un po' di tempo con lui, potresti magari scoprire che ti piace.» «Ne deduco, dunque, che rifiuti di prendere Peter per due settimane.» «Rifiuto di privare suo padre di un'esperienza che gli è molto necessaria nel campo delle relazioni umane.» «Addio, Katharine.» «Di' a Peter che gli voglio bene», disse lei, ma Simon aveva già agganciato. «MERDA!» gridò la donna salendo le scale senza scarpe e intanto svestendosi. Lanciò l'abito nell'armadio, si spogliò completamente, afferrò una cuffia di plastica e balzò nella doccia. Dieci minuti più tardi, rinfrescata, vestita di calzoni di cotone sbiaditi, di mocassini di pelle e camicetta da tennis, aprì la porta di casa, ma si fermò. Corse di nuovo su per le scale, prese le fotografie di Majorov dalla cartella, le ficcò nella borsetta. Valeva la pena di tentare. Percorse a passo svelto la viuzza alberata di Georgetown, facendo dondolare la borsetta e tirando respiri profondi, impaziente di cominciare la serata. Dal marciapiede saliva ancora il caldo, ma per quel giorno il peggio era passato, grazie a Dio: odiava il caldo. Un uomo si staccò da un albero dall'altra parte della strada e cominciò a camminare nella stessa direzione, ma più lentamente, rimanendo indietro. Katharine gli diede un'occhiata: tra i quaranta e i cinquanta, bassa statura, tarchiato, lineamenti grossolani, folta capigliatura nera, occhiali cerchiati di scuro, vestito di cotone, color marrone chiaro. Era passato molto tempo da quando era stata addestrata nelle tecniche di sorveglianza dell'agenzia, ma ormai era condannata per tutta la vita a guardare dietro di sé e a ricordare i particolari di gente che non avrebbe mai più vista. Kate cercò di considerarlo un esercizio, un gioco. Percorse un isolato e mezzo, corse su per gli scalini di una casa di stile federale molto simile alla sua, diede un colpetto al campanello ed entrò usando la propria chiave. «Ohè!» gridò, congratulandosi con se stessa per non aver sbirciato, nascosta dietro le tendine, dove fosse andato l'uomo che la seguiva. «Cucina!» gridò di rimando Will Lee. Mentre attraversava il soggiorno e la sala da pranzo per arrivare alla cucina nel retro della casa, Katharine udì musica jazz mescolata al rumore di un coltello contro il tagliere di legno. «Uhm, cipolle», disse avvicinandoglisi. Sullo stereo c'era un vecchio album di Miles Davis. «Macché cipolle», ribatté Will, passando il coltello nella sinistra e facendo scivolare la destra intorno alla vita di Katharine. «Scalogno!» La
baciò. «Le cipolle vanno con le polpette di carne, non con le animelle.» La baciò di nuovo, lasciando andare il coltello e cingendola con tutte e due le braccia. «Mi piaci quando non ti metti il reggipetto», disse. Katharine sorrise. «Lo so. E ho pensato che ti meritavi qualcosa, per aver rifilato al vecchio Nixon una domanda così facile.» Le piaceva stare tra le sue braccia ma, se non fosse stata attenta, la situazione le sarebbe sfuggita di mano, mentre sapeva che l'aspettava una buona cenetta. «Che cosa deve fare una ragazza per avere qualcosa da bere in questa casa?» «Niente», rispose Will, avvicinandosi al frigorifero. «Adesso ti viene dato da bere, più tardi ti dimostrerai grata.» Tirò fuori una bottiglia di champagne e cominciò ad aprirla. «Com'è andata la tua giornata?» «Oh, sarebbe andato tutto bene, se non fosse per Simon, che mi ha telefonato nel momento in cui entravo in casa. Secondo me mi ha vista uscire dall'ufficio e ha calcolato il tempo che avrei messo per rientrare.» «I guai di chi ha sposato uno dell'ufficio. Niente di grave, mi auguro. Peter sta bene?» «Oh, certo. Il suo paparino ha solo cercato di scaricarlo per poter andare a farsi una bella vacanza di due settimane al fresco di Bar Harbor e tentare di fare buona impressione sui suoi nuovi suoceri. Sono ricchi sfondati, come sai. E stanno invecchiando. Simon è sempre stato un tipo che pensa al futuro.» «Secondo me Peter manderebbe in sollucchero quei due vecchi.» «Oh, ne sono sicura. Ma Simon non è abbastanza intelligente da immaginarlo.» «Senti, se Simon è così stupido, perché lo hai sposato?» «Oh, non lo so. Ero giovane e sciocca, suppongo. Simon era molto più vecchio di me, aveva la parlantina sciolta.» Alzò le spalle. «Era il capo della stazione di Roma, io ero al primo incarico all'estero. Sai, tutto molto romantico, due agenti segreti americani che si tengono per mano e sguazzano nella Fontana di Trevi alle due del mattino. Spie da Dolce vita. Solo quando rimasi incinta volle sposarmi. Da quel momento divenne un paladino della tradizione; cominciò a scorrergli nelle vene il sangue blu dell'alta società del New England. Pretendeva che smettessi di lavorare, mi dedicassi alle opere benefiche e dessi un'infinità di cene. Se ti dicessi quanti libri di cucina mi ha comprato, non ci crederesti. Per il mio primo compleanno dopo la nascita di Peter, mi regalò un corso d'alta cucina a Parigi. Era davvero convinto che avrei lasciato il lavoro per andarci.» «Io, per quello, sì che avrei lasciato il mio lavoro», ridacchiò Will.
«Già, è vero!» Katharine pensò che, se avesse preparato lei la cena, ci sarebbero state costolette di maiale e abbondante borgogna, non animelle e champagne. Will riempì di champagne due calici. «Alla salute!» disse toccando il bicchiere di Katharine. «Accipicchia», disse Katharine mentre arricciava il naso per le bollicine. «Come hai fatto a metterci su le mani?» «Me l'ha dato il senatore. Non gliene ho chiesto la provenienza, per paura che l'abbia avuto da qualcuno in cerca di contratti con il ministero della difesa.» «È meraviglioso. Adoro lo champagne di questa annata.» Katharine alzò il bicchiere. «Alla difesa della nazione.» «Be', tutto sommato dà lavoro a tutti e due. Oggi hai sicuramente svolto la tua funzione spillando un po' di dollari a questo scopo.» «Senti, abbiamo bisogno di quel calcolatore... già, questo mi fa ricordare una cosa.» Prese dalla borsetta le fotografie di Majorov. «Ti sei mai imbattuto in questa faccia nei tuoi circoli di vela? Alla settimana di Cowes o in altri posti simili?» Will prese in mano le foto e le esaminò una per volta con attenzione. «Chi è? Uno dei vostri spioni?» «Uno dei loro spioni, Firsov di nome. Adesso dovrebbe avere dodici o quindici anni di più, sarà magari più grigio e più robusto. Ha un perfetto accento britannico; qualche volta si diverte a fare il conte polacco.» «E che c'entra la vela?» «Alle Olimpiadi del settantadue ha regatato per i sovietici nella classe Star. Per un certo periodo di tempo ha lavorato a Londra; un rapporto dice che ha fatto vela a Cowes.» Will scosse il capo. «Non lo conosco. Sono stato a Cowes solo una volta prima del settantadue, poi nel settantanove e nell'ottantuno: gli anni della Admirals Cup. I sovietici non partecipano a questo tipo di regate; e neppure altri paesi del blocco orientale, quindi è improbabile che mi potessi imbattere in lui nelle regate che faccio io. È un poco di buono?» «È del KGB; sono tutti della stessa risma.» «Che cosa sta macchinando?» «È quel che mi piacerebbe sapere. Uno dei lavori della gente come noi è di seguire le loro tracce e di aggiornare le loro biografie. Abbiamo perso di vista da troppo tempo questo Firsov, per quanto sia, forse, un personaggio importante. Sarà solo una sensazione, ma, secondo me, qualunque cosa stia
combinando, saremmo certamente disposti a vendere l'anima per sapere di che si tratta.» «Un lavoro interessante», disse Lee. «Ti piace, vero?» Katharine fece sì con il capo. «In principio, quando dovetti rinunciare al lavoro attivo e tornare a Langley, ero furibonda; ma, a dire la verità, benché sia stata una delle poche donne addestrate come agente segreto, scoprii quasi subito che non mi avrebbero mai lasciato fare gran che. Quando fui mandata a Roma, non ero molto più di un'impiegata. Poi, quando sposai Simon e lui ottenne una promozione, Langley fu l'unica soluzione possibile. E per di più è andata a finire benissimo: ho una veduta d'insieme delle operazioni molto migliore di quella che avrei se fossi chissà dove in un'ambasciata. E non devo guardare sotto la mia macchina prima di avviarla. Inoltre mi piace la varietà... un giorno la spunto su di te a un'audizione, il giorno dopo dò la caccia a tipi come Majorov.» «A chi?» «Oh... be', è il vero nome di Firsov. Effettivamente, non avrei dovuto parlarne: chiacchiero troppo.» «Mi rincresce, sono un ficcanaso.» «No, non è vero; suppongo d'avere voglia di parlarne, sapendo che posso fidarmi di te. È una sensazione piuttosto insolita, nel mio lavoro, quella di fidarsi di qualcuno. Ne ho sentito la mancanza.» «A ogni modo, come mai ti sei messa a fare questo lavoro?» «Ecco, dopo avere finito il college e avere studiato legge alla Columbia, mi accorsi di colpo che non avevo voglia di seguire la carriera legale e neppure di darmi agli affari. La mia compagna di camera a Barnard, Brooke Kirkland, che frequentava alla Columbia un corso di studi sulla Russia, svegliò il mio interesse. Verso la metà dell'ultimo anno uno dei miei professori (non ho mai saputo quale) mi segnalò a un reclutatore dell'Agenzia e un mese dopo la laurea mi trovavo nella base dei marine a Quantico, sparavo con i mitra e imparavo a uccidere con un solo colpo.» «Dovrò fare attenzione.» «Hai dannatamente ragione», ribatté Katharine con aria truce. «Secondo te, a Mosca c'è qualcuno che ti tiene d'occhio esattamente come fai tu con Majorov?» Katharine rise. «Probabilmente sì, dato che ho lavorato all'estero. Le due parti sanno quasi sempre chi sono gli agenti segreti in un'ambasciata. Forse hanno una mia foto compromettente, scattata a Roma mentre mi gratto.» «Oppure mentre tu e Simon sguazzate nella Fontana di Trevi.»
«Quella sì che sarebbe compromettente. Probabilmente Ivan starebbe ancora cercando di interpretarla.» Will rise e a sua volta riprese a cucinare. «Senti, va' a sederti fuori sulla terrazza e lasciami lavorare. Sarà pronto tra mezz'ora.» Katharine si riempì di nuovo il bicchiere e, attraverso la porta a vetri, uscì sulla terrazza che dava sul giardino lastricato. Si sedette in modo da vedere Will andare avanti e indietro per la cucina. Le piaceva osservarlo mentre cucinava; sembrava così improbabile che fosse un bravo cuoco. Era bravo nel suo lavoro, bravo a letto e bravo, generalmente, a renderla felice. Will era proprio l'uomo che le occorreva in quel momento della vita: era intelligente e divertente, ma sapeva essere serio; le voleva sinceramente bene senza essere opprimente; grazie a Dio, non era divorziato; ne aveva avuto abbastanza di divorziati che piagnucolavano sugli accordi finanziari e desideravano, disperatamente, di sposarsi un'altra volta. Will non si era mai sposato e, pur non sembrando temerne l'idea, non cercava il matrimonio. Con Peter andava d'accordo quando erano insieme, ma lui non continuava a bussare alla sua porta con un pallone, cercando di accattivarsela per mezzo del ragazzo. Era grande e grosso. Katharine era un metro e settantotto ma Will era molto più alto; anche quando lei portava i tacchi, Will la superava. Questo le piaceva. Will aveva trentotto anni, quattro più di lei: ed era proprio l'ideale, secondo Kate. E poi era politicamente sicuro; per Katharine questo non era cosa da poco. Si erano incontrati un paio di mesi prima nel locale supermercato; Katharine, pensando che fosse uno dei tanti consiglieri legali, gli aveva detto quel che diceva di solito alla gente, di essere un avvocato del ministero dell'agricoltura (cosa che normalmente eliminava altre conversazioni sul suo lavoro). Nessuno dei due aveva saputo con precisione che cosa facesse l'altro, finché si erano trovati entrambi alla stessa riunione di commissione. Fra loro c'era un potenziale conflitto di interessi, Katharine lo sapeva, dato che ottenere più fondi dal governo faceva parte del suo lavoro, mentre era in parte quello di Will accertarsi che non ne ottenesse troppi: ma il frutto proibito è più gustoso. Da quando aveva divorziato da Simon, si era imposta la regola di non frequentare uomini della CIA; ed era stanca di mentire sul suo lavoro con estranei. Will era stato la soluzione ideale, poiché era passato al vaglio dei servizi di controspionaggio. Katharine aveva preso la precauzione di controllare la sua scheda presso l'FBI, un gesto che la faceva sentire segretamente colpevole. Avevano raramente parlato di lavoro, ma una volta ogni tanto, quando era eccitata a proposito di qualcosa, come
Majorov, le faceva bene sfogarsi un po', sapendo che quanto diceva non sarebbe stato divulgato. Erano andati in vela un paio di volte nella Baia di Chesapeake, dove Will teneva la sua barca, però non uscivano molto: non perché fosse pericoloso, dato che si potevano contare sulle dita le persone che sapevano chi fosse ognuno dei due, ma perché a Will piaceva cucinare e a lei piaceva la casa di Will. Will aveva apparecchiato in sala da pranzo e chiuso le imposte per mettere in risalto la luce delle candele. Fu una cena meravigliosa: le animelle erano croccanti all'esterno e cremose all'interno, il sapore dei funghi si armonizzava perfettamente con queste, lo champagne era buono e spumeggiante. «Dio, è tutto meraviglioso», sospirò Katharine. «Senti, ti conosco abbastanza da poterti domandare come fai a vivere così bene con uno stipendio governativo. Voglio dire, questa casa è tua, non è vero?» Will sorrise. «Sì, è mia, sì, mi conosci abbastanza.» Sorseggiò il vino. «Ho una piccola rendita e sono ancora socio con mio padre in uno studio legale. Si chiama Lee e Lee.» «Giù in Georgia. In che città... Delano?» «Hai buona memoria.» «Tuo padre è stato, che cosa? Vicegovernatore... governatore...» «Tutt'e due. Da un po' ha lasciato la politica per occuparsi completamente della clientela dello studio e dell'allevamento di bestiame della famiglia. È una brava persona; sarebbe dovuto diventare presidente.» «E perché non lo è diventato?» «Penso che non lo desiderasse così ardentemente da fare ciò che era necessario fare. Vuole che io mi presenti candidato al senato l'anno prossimo, contro il repubblicano Abney.» «E perché non lo fai? Saresti uno stupendo senatore.» «Oh, credo che il lavoro mi piacerebbe, ma non credo che mi piacerebbe la campagna elettorale. Non so se potrei mangiare enormi quantità di carne arrostita all'aperto e sopravvivere. Inoltre Abney è un senatore così debole che metà dei democratici dello stato vogliono presentarsi contro di lui. Le elezioni primarie democratiche saranno feroci.» «Non avresti dalla tua parte gli amici politici di tuo padre?» «Qualcuno sì, suppongo. Ma di sicuro avrei contro tutti quanti i suoi nemici.» «E il senatore Carr? Ti appoggerebbe?»
«Forse sì. Non gliel'ho chiesto, ma ha intavolato l'argomento un paio di volte. Ci devo pensare.» Improvvisamente cambiò discorso. «Eh, Kate, pensi che ci conosciamo tanto bene da fare insieme un viaggio?» Katharine sorrise. «Certo. Che cos'hai in mente?» «Be', un mio amico di Londra si è comprato una barca nuova. Aveva progettato di andarla a ritirare il mese prossimo in cantiere, sulla costa occidentale della Finlandia e di portarla in Inghilterra, ma ha dovuto abbreviare le vacanze per ragioni di lavoro. Ho promesso di portargliela fino a Copenhagen. Non ho mai navigato nel Baltico, in giugno dovrebbe essere piacevole. È una bella barca, uno Swan: lunga quarantadue piedi, ben attrezzata, munita di pilota automatico. In due potremmo maneggiarla benissimo. Ci vorrebbe all'incirca una settimana, diciamo dieci giorni al massimo. Ti piacerebbe venire?» Lei meditò un momento. Si era divertita a veleggiare nella Baia di Chesapeake, ma non andava pazza per la vela come Will. Sapeva che avrebbe finito con il fare la cuoca, cosa che, per di più, lui sapeva fare meglio. Non aveva affatto l'aria di una vacanza promettente. «Sai che ti dico? Rinuncio a navigare a vela finché non avrò più esperienza, ma ti verrò incontro a Copenhagen. Che ne dici?» Will sorrise. «Va bene, ottima idea. Suppongo che riuscirò in un modo o nell'altro a trovare l'equipaggio.» Katharine sentì un'improvvisa fitta di gelosia. Si augurò che non intendesse parlare di un equipaggio femminile. Poco dopo le due del mattino Katharine scese piano dal letto senza svegliarlo e si vestì. Le piaceva addormentarsi con lui, ma detestava svegliarsi nella sua casa anche se non sapeva perché. Probabilmente qualche scrupolo dovuto alla sua educazione puritana che ritornava a ossessionarla. Chiuse piano la porta di strada e si avviò verso casa sua. Da lontano arrivava il rumore del traffico, ma in quella stradina elegante c'era soltanto lei. O invece c'era qualcun altro? A Katharine parve di sentire il rumore di una scarpa strascicata contro il marciapiede dall'altro lato della strada. Si fermò. Forse era stato solo l'eco dei suoi passi. Affrettò un poco l'andatura; battendo contro il cemento i tacchi di cuoio dei suoi mocassini producevano un suono sordo nella via deserta. Quando fu all'angolo e, attraversata la strada, arrivò al suo isolato, udì di nuovo il rumore dall'altra parte della strada e contemporaneamente, dietro di lei in un punto dello stesso isolato, una macchina si mise in moto. Katharine lanciò un'occhiata veloce dietro
si sé; se c'era qualcuno sull'altro lato della via, doveva essere dietro a un albero, perché la strada sembrava vuota. Però, molto indietro lungo la fila di case mal illuminate da radi lampioni, intravide una macchina che avanzava lentamente verso di lei. A fari spenti. Affrettò ancora di più il passo e rifletté. Certo, a Washington non mancano i rapinatori, ma a Georgetown? E a quell'ora del mattino? Il bottino sarebbe stato molto magro per uno scippatore. Kate fece quasi di corsa gli ultimi cinquanta metri che la separavano da casa. Salì in fretta e furia gli scalini e armeggiò con la chiave. La macchina si era fermata a cinquanta metri da lei, il guidatore era soltanto un'ombra. Dall'altra parte della strada arrivò un altro rumore. Finalmente Katharine riuscì ad aprire la porta e scivolò dentro alla svelta. Si diresse subito a un mobiletto dell'ingresso, prese dall'ultimo cassetto una pistola automatica calibro nove. La caricò, tolse la sicura e si avvicinò alla finestra che dava sulla strada. Mentre scostava un angolo della tendina, i fari della macchina si accesero illuminando la sagoma di un uomo che passava proprio davanti al fascio di luce. Fu meno d'un attimo, ma le bastò per scoprire che era lo stesso da lei visto prima. La macchina ripartì senza premura; Katharine la sentì fermarsi, poi girare a sinistra al primo angolo. Si appoggiò alla parete fino a che il battito del cuore non fu tornato normale. Non erano rapinatori. Per un momento le venne l'idea, un'idea irrazionale, che Majorov sapesse d'essere braccato da lei e che adesso si fosse messo alle sue calcagna. Era un pensiero molto sciocco; però, quando finalmente si addormentò, Katharine stringeva ancora la pistola. 5 Helder infilò più solidamente i piedi sotto la cinghia e si sporse ancora più in fuori fino ad usare tutta la prolunga della barra. Il Finn vibrò planando; faceva più di dieci nodi e schizzava acqua da tutte le parti. Era una barca nuova; Helder era convinto che sarebbe andata anche più veloce se avesse avuto tempo di metterla a punto. A ogni modo, non toccava il timone di un Finn da quattro anni e in quel momento provava una gioia pura. Cercò di ricordare l'ultima volta che si era sentito così. Non ne fu capace. Non riusciva neppure a ricordare l'ultima volta che si era sentito così rilassato; probabilmente non lo era mai stato. Aveva passato l'ultima settimana correndo, leggendo, guardando la sbalorditiva televisione americana,
mangiando meravigliosi intingoli scandinavi o francesi e scopando Trina Ragulin, il tutto con un entusiasmo e una sensazione di stupore di cui era ancora colmo. C'era una sola nube nel suo cielo altrimenti sereno: presto avrebbe dovuto fare qualcosa per pagare quella sua meravigliosa esistenza. E, con il senso di pessimismo instillato da una vita vissuta entro il sistema sovietico, non poteva non pensare che il prezzo sarebbe stato elevato. Come rispondendo a questo pensiero, entrò nel suo campo di visione una lucente macchinina elettrica bianca, guidata dal colonnello Majorov. La vetturetta scese serpeggiando la collina verso il porticciolo; Helder, chissà perché, fu convinto che fosse venuto a cercare lui. Avrebbe sfoggiato la sua prodezza davanti al suo nuovo ufficiale superiore, pensò. Virò in poppa e si diresse verso la riva, dove si mettevano in acqua e si tiravano in secco le barche piccole. Poi si mise in piedi sul notoriamente instabile Finn e strambò, evitando con facilità il basso boma. Un momento dopo ripeté la manovra. Notò con qualche soddisfazione che a riva un gruppetto dei suoi colleghi aveva smesso di fare quel che stava facendo per osservarlo, paralizzato dallo stupore. Continuò a virare in poppa e ad abbassarsi, bordeggiando, sempre in piedi; quindi, quando pareva che sarebbe finito con la barca in pieno contro la spiaggia, mise la prua al vento, lasciò che il Finn si fermasse e con leggerezza balzò nell'acqua che gli arrivava al ginocchio. Il gruppetto degli ufficiali lo fissò in silenzio per un attimo, poi ognuno ritornò alla propria barca. Mentre Helder tirava a riva il Finn sul carrello, Majorov si avvicinò sul suo veicolo elettrico. «Buon giorno, Helder», disse. «È stata una bella prodezza.» Helder finse di non capire. «Buongiorno, signor colonnello. Ah, parla della strambata? Be', il vento veniva dalla parte giusta.» Majorov rise e lo invitò con un cenno nella vettura. Il piccolo veicolo cominciò a risalire il pendio gemendo. «Sono state proprio le tue doti di equilibrio e di precisione che hanno attirato la mia attenzione su di te all'inizio», disse il colonnello. «Potrebbe interessarti sapere, Helder, che qualche anno fa, negli esami d'ammissione al collegio navale, hai ottenuto il più alto punteggio mai registrato nelle prove di orientamento spaziale, persino migliore di quello di Yuri Gagarin, che fino a quel momento aveva detenuto il primato.» Helder, naturalmente, non aveva conosciuto i punteggi degli esami, ma ricordava che i suoi esaminatori gli erano sembrati impressionati. In qualunque macchina lo mettessero, in qualunque modo lo facessero girare o
rotare, Helder sapeva sempre dov'era l'alto e dov'era il basso. Majorov continuò. «Ci fu anzi una piccola battaglia tra la flotta sottomarina e l'ente spaziale circa il tuo futuro. In quel momento c'era una certa saturazione di candidati cosmonauti, quindi vinse la flotta. Sono felicissimo che sia andata così, altrimenti oggi potresti essere in orbita intorno alla terra invece che qui con noi.» «Grazie, colonnello», rispose Helder, rinfrancato dalle lodi. Ce n'erano state davvero poche negli ultimi anni, per quanto brillanti fossero state le sue imprese. Majorov rallentò per lasciare che un gruppo di uomini in tuta che facevano jogging, attraversasse la stradina di ciottoli. «Ti sei rimesso in forma? Fai esercizio?» domandò Majorov. «Ho bisogno che tu sia in ottime condizioni fisiche.» «Sì, colonnello. Corro tutti i giorni. Mi piacerebbe anche giocare un po' a squash, ma mi manca un compagno.» Majorov assentì. «Lo so, ti devi sentire un po' isolato. Gli altri si allenano in classi e da domani potrai unirti ogni tanto a loro. Ma purtroppo gran parte del tuo allenamento dovrà essere solitario. Oggi voglio presentarti al signor Jones.» Infilò una nuova stradina e si diresse verso un basso edificio. «Chiamiamo signor Jones il tuo biografo, il creatore della tua leggenda. Sai che cos'è una leggenda, Helder?» «Un mito storico, vuol dire?» «Esattamente, ma nel tuo caso il significato diventa più personale.» Majorov si fermò davanti all'edificio volgendosi verso di lui. «Non è da escludere che i tuoi compiti richiedano un tuo soggiorno all'estero. Se così sarà, dovrai essere in grado di raccontare una storia plausibile della tua vita. Tenendo presente questa possibilità, il signor Jones ha creato una leggenda, ossia una nuova identità per te. Devi imparare in fretta e bene tutto quanto ti dirà, poi devi cominciare a viverlo. Non vogliamo che tu cada impreparato nelle mani di una polizia straniera; questa identità ti metterà al sicuro per quei pochi giorni in cui potrai averne bisogno.» Helder seguì il colonnello che sceso dal veicolo entrava nell'edificio, dirigendosi immediatamente verso un ufficio. Un uomo vestito di blu, seduto a una scrivania, si alzò in piedi. «Questo è il signor Jones. Signor Jones, questo è...?» E Majorov indicò Helder. «Carl Bengt Swenson», rispose Jones. «La prego di sedersi, signor Swenson», disse rivolgendosi a Helder. «Mi permette di chiamarla Carl?» Helder sedette. «Certo», rispose. «Adesso ti lascerò nelle esperte mani del signor Jones», disse Majorov.
«Domani, oltre a continuare le tue sedute con lui, parteciperai a nuovi corsi. Arrivederci.» Majorov lasciò la stanza e Helder si voltò verso il signor Jones. «La prego di venire qui, Carl», lo invitò l'uomo, avviandosi verso un angolo della stanza, dove c'era una macchina fotografica su cavalletto. «Infili questi abiti», disse porgendogli una camicia, una cravatta e una giacca di tweed che Helder riconobbe, perché venivano dal guardaroba della sua camera. Seguendo le istruzioni di Jones, si mise contro un fondale bianco e si lasciò fotografare. Jones estrasse la pellicola Polaroid dalla macchina, strappò la carta che la copriva e aspettò che si sviluppasse. «Ottima», disse, «veramente ottima!» Girò il foglio di quattro foto e dietro a ciascuna impresse un timbro, con la dicitura 'Sam, fotocelere, Grand Central Station, New York City'. Jones staccò le foto l'una dall'altra, ne pinzò due a un modulo in bianco che spinse, insieme con una penna, verso Helder, seduto dall'altra parte della scrivania. «Questa è la domanda per ottenere un passaporto americano. Occorre che lo compili e lo firmi di sua mano.» Gli passò un foglio dattiloscritto. «Qui ci sono i dati esatti.» Helder prese la penna e compilò velocemente il modulo. Così facendo apprese di essere nato a Duluth, nel Minnesota, da Helga Erikson e da Bengt Swenson, entrambi deceduti ed entrambi immigrati svedesi. Viveva a New York City, al 73 di West Tenth Street. Jones prese il modulo compilato, lasciò un momento la stanza poi ritornò. «Bene», disse. «La richiesta verrà inoltrata dopodomani all'ufficio passaporti di Fifth Avenue a New York. Il passaporto sarà emesso il giorno stesso e lo avrà alla fine della settimana. I timbri di entrata e di uscita saranno applicati più tardi.» Da un cassetto della scrivania Jones prese un portafoglio e lo consegnò a Helder. Era di lucertola nera, leggermente logoro con la classica curvatura che assumono i portafogli quando sono tenuti a lungo nel taschino posteriore dei pantaloni. «Lo apra e firmi sul retro le carte di credito che contiene.» Helder aprì il portafoglio e prese una carta di credito dell'American Express, una della Visa, oltre ad attestazioni di conti aperti in negozi che si chiamavano Bloomingdale, Sak's Fifth Avenue e Barney. Firmò anche una patente rilasciata dallo Stato di New York (che Jones affermò sarebbe stata plastificata e poi riconsegnata a lui) e una tessera stropicciata della Sicurezza sociale. «Ecco qualche altro oggetto che dovrà portare sempre con sé», disse Jones, spingendo verso di lui svariate cose. «Questo è un anello dell'Univer-
sità del Minnesota con inciso l'anno del suo corso. Veda se le va bene.» Andava bene. «Qui c'è un portachiavi di Tiffany con le chiavi del suo alloggio e della cassetta delle lettere.» Helder si mise in tasca le chiavi. «E qui c'è una penna da disegno che si chiama Rapidograph. Credo che lei sappia disegnare.» Helder fece un cenno affermativo. Jones spinse verso di lui un album di fogli da disegno su cui era stampato il nome di un negozio di New York specializzato in articoli per disegnatori e pittori. «Stare seduti a disegnare è un ottimo modo di passare il tempo in un luogo sconosciuto senza attirare su di sé eccessiva attenzione. Può darsi che le torni utile.» Helder prese in mano la penna e la esaminò. «È anche un'arma?» Jones rise. «No, niente di tanto originale. È solo che la gente che la usa comunemente per lavoro se ne serve spesso anche come penna stilografica, e dato che lei è un disegnatore...» Jones batté una mano su un'alta pila di fogli che aveva sulla scrivania. «Questa è la sua minuziosissima biografia», proseguì. «Dovrà naturalmente studiarla a memoria, ma, cosa più importante, dovrà viverla. Dovrà inventarsi i particolari tra le righe. Come vedrà, sua madre da bambina si era rotta il naso in un incidente. Per esempio, potrebbe ricamarci su, dicendo che, sebbene il naso rotto le conferisse un aspetto duro, in realtà era una persona dolcissima e gentile. Bisognerà che s'immagini costantemente particolari di questo tipo per dare consistenza alla biografia. La sua 'leggenda', se farà così, sarà molto più convincente.» «Capisco.» «Bene. Adesso, per darle un quadro della situazione, gliela descriverò a grandi linee. Come ho già detto, il suo nome è Carl Bengt Swenson. I suoi genitori emigrarono dalla Svezia negli Stati Uniti nel 1948. Avevano garantito per loro dei cugini che vivevano nel Minnesota da una generazione. Lei frequentò all'Università del Minnesota i corsi d'arte figurativa. Nella primavera prima della laurea entrambi i suoi genitori furono uccisi da un tornado che colpì la fattoria. Lei vendette la terra per andare a lavorare a New York. Vi passò alcuni anni tentando di sfondare come artista, ma senza riuscirvi; quando ebbe speso quasi tutti i soldi dell'eredità, si mise a fare il disegnatore per gli editori e per la pubblicità. In principio ebbe vita dura, ma a poco a poco si è affermato e ora se la cava piuttosto bene. L'anno scorso ha guadagnato ottantaquattromila dollari. Vive in un seminterrato e piano terreno di Greenwich Village, lavora a casa, nel suo studio. Ha una ragazza, la sua foto è nel portafoglio, con l'opportuna dedica. Però conduce una vita tranquilla, non ha molte conoscenze, dato che lavora in casa. Ha
un agente che le procura il lavoro e che lo consegna quando l'ha finito. La maggior parte dei suoi clienti non l'ha mai visto.» «Vorrei sapere», domandò Helder, «che cosa succederebbe se qualcuno cercasse di controllare un avvenimento qualsiasi della mia vita?» «Sono tutti perfettamente controllabili», lo rassicurò Jones, «per il semplice fatto che Carl Swenson esiste davvero. Per breve tempo, durante la sua missione, andrà in vacanza lontano da New York e per quel periodo lei sarà Carl Swenson. Il nostro uomo collaborerà alla perfezione, perché viene rifornito di droga, di cui fa uso, essendo cocainomane ed eroinomane, da gente a noi favorevole. Ah, prima di dimenticarmene...» Jones prese da un cassetto della scrivania un piccolo registratore e porse a Helder un foglio. «Pronunci queste parole nel registratore, per piacere, nel suo miglior accento del Midwest.» Helder prese il foglio e lesse: «Pronto, qui parla Carl Swenson. Se sei un mio amico, sono in vacanza per due settimane; al segnale di' il tuo nome e il tuo numero di telefono, ti richiamerò appena sarò tornato. Se invece sei un ladro, ho scherzato quando ho detto che sono via; in questo momento sono fuori casa per dar da mangiare ai miei Doberman.» Jones si mise in tasca la cassetta. «Al momento giusto questa sarà nella segreteria telefonica di Swenson.» Helder passò il resto del pomeriggio con Jones e prese appuntamento per tornare da lui il giorno dopo. All'ora di cena sentiva già una strana sensazione di sdoppiamento di personalità. «Buonasera, Carl», disse Trina, sorridendogli ironicamente mentre si sedeva sullo sgabello del bar. Stavano cenando al Caprice, la versione di un buon ristorante francese a Malibu. Helder rimase stupito. «Lo sai?» La donna ordinò un Campali soda. «Certo, vogliono che ti aiuti a ripassare la tua parte. Dimmi, a quale associazione studentesca appartenevi all'università?» Helder scosse la testa e cercò di assumere un'espressione amareggiata. «Non mi ero iscritto a nessuna associazione, mi sembrava un'idea stupida.» «Ma davvero? Eppure mi sembra di ricordare d'averti visto a una riunione di associazione nel nostro primo anno.» Helder provò l'acuta fitta di una sensazione che, se le circostanze fossero state vere, si sarebbe potuta chiamare panico. Ecco come sarebbero andate le cose. «Oh, eri all'università del Minnesota?»
«Come dimentichi in fretta, Carl. Non ricordi il nostro breve amore quando eravamo matricole? Sono un po' offesa.» Helder sorrise. «Me ne sarei certamente ricordato, penso. Il mio primo anno non fu così eccitante. E hai ragione, presi parte a qualcuna delle riunioni in cui valutavano le domande, ma non fui accolto. Cercavano atleti, non studenti di belle arti.» «Insomma», disse lei aprendo la lista delle vivande, «hai sofferto di insufficienza romantica. Prevedo che dovrò risarcirti.» Mangiarono paté maison, coq au vin e bevvero una bottiglia di BeauneGrèves, poi andarono a piedi fino alla camera di Helder, mano nella mano. Con suo stupore, Helder non era ancora stanco di fare all'amore con lei; e con stupore ancora più grande vedeva che Trina non si stancava di fare all'amore con lui. D'altronde, il primo slancio di passione era finito; in un modo o nell'altro, i loro rapporti stavano cambiando. Helder le prese il viso tra le mani e le diede un bacio leggero, poi un altro, più forte. Trina gli rispose con denti e lingua, ma Helder la tenne lontano da sé, la fissò per un momento, poi la baciò di nuovo con tenerezza. Trina gli rese lo sguardo, con gli occhi spalancati, le labbra tremanti. «Questo non deve succedere, lo sai. Non fa parte del tuo addestramento. Quando questa faccenda sarà finita, non ci rivedremo mai più.» «Sì, ci rivedremo», disse Helder con decisione. «Te lo prometto. Credimi.» «Non so perché», disse Trina, «ma ti credo. È possibile? Puoi fare in modo che sia così?» «Majorov mi ha promesso che quando avrò portato a termine il mio incarico tutto sarà possibile. Gli credo.» Trina voltò la testa e l'appoggiò sulla sua spalla. «Majorov può fare in modo che sia così, non ci sono dubbi a questo proposito.» «Darò a Majorov quanto desidera», assicurò Helder. «Mi propongo di sbalordirlo provandogli di che cosa sono capace. E quando tutto sarà finito, mi darà ciò che voglio.» «Sì», disse Trina tristemente. «Tutti e due dobbiamo dare a Majorov quanto desidera.» Rimasero abbracciati a lungo, in piedi nel buio della camera. 6 Katharine si sedette e inserì la sua chiave nel terminale del calcolatore,
accanto alla macchina per scrivere, sulla scrivania. Quando il monitor si riscaldò, sullo schermo in alto a destra comparvero la data e l'ora. E una sola frase: PER PIACERE DI' AL VECCHIO COSMO CHI SEI. Lei batté un numero di dieci cifre sulla tastiera. Ci fu una breve pausa mentre il calcolatore (che si chiamava Cosmo soltanto perché quel nome era venuto in mente a chi l'aveva programmato la prima volta) controllava il numero nei suoi archivi e cominciava a memorizzare. Katharine si rendeva conto che in qualsiasi momento qualcuno del centro calcolatori avrebbe potuto controllare il suo impiego di Cosmo e venire subito a sapere quali programmi avesse usato e quando. BUONGIORNO, SIGNORA RULE. SI È ALZATA PRESTO. CHE COSA POSSO FARE PER LEI? Katharine, da molto tempo ormai, avesa smesso di irritarsi di fronte all'umorismo dei programmatori; d'altronde, aveva cominciato a pensare a Cosmo come a una persona. Batté IDFAC. NOME ARCHIVIO? LISTA, scrisse lei. Non possedeva il numero dell'archivio, ma a nessuno sarebbe parso strano che passasse in rassegna qualche fotografia. Lo faceva un paio di volte la settimana. NAZIONALITÀ? domandò Cosmo. SOVIETICA, rispose Katharine. LUOGO? WASHINGTON. SESSO? M. DESCRIZIONE? NON DISPONIBILE. CLANDESTINO? NO. INTERVALLO? La donna batté un uno. BATTI P PER PAUSA, C PER CONTINUA, ESC PER USCIRE DAL PROGRAMMA. Sullo schermo cominciarono ad apparire le facce di tutto il personale maschile dell'ambasciata sovietica, a intervalli di un secondo. Katharine era così abituata a questo esercizio che non le occorreva guardare più a lungo. A mano a mano che le passavano davanti, osservava le facce con at-
tenzione, fermando le immagini di quando in quando per un esame più approfondito, quando il soggetto aveva l'età e le fattezze giuste. Nulla. Prese in esame con metodo tutte le persone che vivevano legalmente in tutte le ambasciate dei paesi del blocco orientale a Washington. Ancora niente. QUALCHE ALTRA COSA, SIGNORA RULE? NO, batté Katharine. SENTA, CI FACCIAMO UN BICCHIERINO ALLA FINE DELLA GIORNATA? Cosmo lo diceva a tutte le donne. Si domandò se il direttore del centro lo sapesse. Probabilmente sì. VA' AL DIAVOLO, scrisse prima di spegnere il terminale. Questo si poteva dire di Cosmo: non si offendeva mai. Qualche volta a Katharine sarebbe piaciuto poterlo offendere. L'ammodernamento del calcolatore appena approvato avrebbe introdotto il funzionamento a voce e lei non era sicura di desiderare la novità. Kate si abbandonò contro lo schienale della sedia: era depressa. Nulla quadrava. Prima di tutto, la faccia non era in memoria mentre sarebbe dovuta essere nel calcolatore. Ogni fotografia del visto d'ingresso di chiunque fosse arrivato legalmente dal blocco avversario era nel calcolatore, che veniva continuamente aggiornato. Non si affidavano mai ai clandestini i lavori di sorveglianza; i clandestini costavano troppo, il loro valore era tale, che non venivano esposti a rischi. Quindi quegli individui non potevano essere dei clandestini. Eppure tra le foto il tizio di cui aveva visto la faccia non c'era. E non avevano pedinato Will, certamente; la avevano seguita sia all'andata sia al ritorno. Ed erano soltanto in due: un lavoro imperdonabilmente scadente. Magari si erano aspettati che passasse la notte da Will, magari ve ne erano altri rintanati da qualche parte in attesa che si facesse giorno. Magari. Katharine sapeva che cosa doveva fare: recarsi nell'ufficio di Alan Nixon e riferire. Questa era la prassi: riferire al proprio superiore. Si alzò. Immaginava già l'espressione sulla faccia di Alan: fantasticherie, il suo solito intuito. Strinse i denti. Nonostante tutto, Nixon avrebbe dovuto fingere di crederle. Avrebbe incaricato una squadra di sorvegliarla giorno e notte, finché si fossero scoperti i suoi pedinatori e tutto si fosse risolto. Katharine esitò. Non sarebbe potuta andare da Will, non avrebbe neppure potuto telefonargli. Le avrebbero controllato i telefoni, intercettato ogni conversazione e lei non voleva che sui rapporti comparisse il nome di Will. Si sedette di nuovo. Non voleva smettere di vederlo, neppure per qualche settimana.
Da quanto Peter era con suo padre, Will era l'unica compagnia che le restava. Insomma, non l'unica compagnia, ma l'unica che le interessasse. La squadra della CIA l'avrebbe anche costretta a uscire continuamente, l'avrebbe voluta in costante movimento, per sorvegliare meglio i pedinatori. Katharine avrebbe rimescolato l'intero calderone sociale che, concluso l'incidente, avrebbe continuato a gorgogliare. Sarebbe rimasta con una quantità di telefonate cui non aveva voglia di rispondere, di inviti che non aveva voglia di accettare. Merda. Prese una pila di cablogrammi e cominciò a esaminarli. Ecco che cosa avrebbe fatto, ci avrebbe pensato domani. Rossella O'Hara non era poi tanto fessa. Lesse a gran velocità i cablogrammi, tutto ciò che le arrivava tutti i giorni da ogni ambasciata, da ogni stazione; era mangime, letame, miscela organica dei servizi d'informazione, in gran parte poco interessante. Quanti fatti come questi giacevano in qualche angolino del suo cervello, in attesa? Quando Katharine giunse in fondo alla pila, li aveva già dimenticati quasi tutti con la parte cosciente della sua mente. Soltanto alcune notizie a caso indugiavano nel cervello, in primo piano: 2.000 fucili mitragliatori Ingram fabbricati in America e destinati ai commando delle Forze aeree speciali britanniche erano stati rubati, si sospettava dall'IRA, da un deposito nelle vicinanze di Aldeshot, nel Surrey; una deputata del Bundestag tedesco aveva un'amante nascosta in un appartamento di Bonn, oltre a un marito a casa nel suo collegio elettorale; i sovietici avevano aumentato i corsi di svedese nelle università e nei centri di insegnamento delle lingue, a quanto pareva, già da due anni; il vestibolo del laboratorio di chimica dell'università di Mosca puzzava di urina; nelle lavanderie di due campi di addestramento della fanteria di marina sovietica era improvvisamente calato il numero delle camicie portate ogni settimana a lavare, in una del 16 per cento, nell'altra del 20 per cento. C'era stato un altro attacco di quella che la stazione di Stoccolma chiamava la 'febbre del periscopio' (pretesi avvistamenti, da parte degli svedesi, di piccoli e grandi sommergibili e di sommozzatori sovietici), da quando i giornali avevano riportato in prima pagina la storia del pescatore svedese le cui reti si erano impigliate in un ostacolo che si sosteneva fosse un sommergibile russo. Tutto le sembrò monotono, come il resto della sua giornata, ma quando alle sei smise di lavorare e si avviò verso casa, il suo lavoro era stato più fruttuoso di quanto sapesse. Per tutto il tragitto, continuò a guardare nello specchio retrovisivo. Nulla. Forse non si occupavano più di lei. Oppure, stavano svolgendo meglio
il loro lavoro. 7 In silenzio Oskarsson fissò inorridito ciò che una volta era la sua mano sinistra. Non era rimasto nient'altro che il pollice. Nelle settimane successive alla perdita del suo peschereccio aveva subito due operazioni, perché i mozziconi si erano infettati. Non gli avevano lasciato nemmeno le nocche. Quando si era ripreso dalla perdita di sangue e dagli interventi, aveva rifiutato altri antidolorifici. Non gli era rimasto altro che dolore e rabbia. Il dottore gli avvolse delicatamente i mozziconi nell'ovatta e gli legò una benda intorno al collo. «Non c'è più bisogno di fasciatura», disse. «Questo servirà solo per proteggere la mano dagli urti, finché l'infiammazione sarà passata e la guarigione completa. Le consiglierei di portare il braccio al collo finché la mano cesserà di farle male. Quando si sentirà meglio, vedremo di metterle una protesi.» «Cosa?» sbottò Oskarsson. «Una mano artificiale, anzi una mano parziale. Sarà soltanto qualcosa da opporre al pollice, ma migliorerà l'estetica.» Oskarsson fissò il giovane dottore con uno sguardo inespressivo. Il dottore alzò la propria mano sinistra e agitò il pollice. «Con la protesi lei riuscirà a usare meglio il pollice e i mozziconi non saranno così... insomma, avranno un aspetto migliore.» Oskarsson si alzò e si aggiustò i calzoni con la mano sana. Tutti i vestiti gli ballavano addosso, perché aveva perso moltissimi chili. «La ringrazio, dottore», disse. «Qui dentro siete molto buoni con me. Sono riconoscente.» Gunnar lo aspettava nell'atrio. Nel posteggio un tale lo fotografò con il flash, un altro cercò di fargli domande, ma Oskarsson li spinse da parte ed entrò nella Volvo di Gunnar. All'inizio i giornali avevano parlato moltissimo dell'incidente, però si era illuso che ormai l'avessero dimenticato. Di sommergibili in questi tempi erano piene le cronache; e, eccettuato il povero Ebbe, Oskarsson era l'unica persona cui avessero apportato danni. «Voglio andare da lui», disse il vecchio a Gunnar. Gunnar sospirò e fece di sì con il capo. Infilò le strade dirette verso l'est di Stoccolma e si fermò davanti a un grande cimitero municipale. Oskarsson scese dalla macchina e seguì il figlio fino a una tomba stretta fra due altre. In piedi, fissò la semplice pietra con il nome e le due date. «Non potevi fare qualcosa di meglio?» domandò.
Gunnar si morsicò le labbra e deviò lo sguardo. «Papà, non apparteniamo a nessuna chiesa di Stoccolma. Tutti sono sepolti in questo modo; ti prego, non parlare come se l'avessimo trascurato in qualche modo.» «Scusami, ragazzo mio», disse Oskarsson. «Ricordati che anche noi lo piangiamo», disse Gunnar. «Per favore, ricordatene quando vedrai Ilsa. È stata coraggiosa, ma con lei mi occorrerà il tuo aiuto.» «Non le starò tra i piedi», disse Oskarsson. «Desidero andare presto a casa mia, in ogni caso.» Risalì in macchina. «Ascolta, papà... desideriamo che tu venga a vivere con noi. Mentre eri in ospedale abbiamo venduto l'alloggio e comprato una casa nell'arcipelago. Ti piacerà.» Oskarsson scosse il capo. «No, so che preferirete stare soli; non voglio esservi di peso.» «Papà, ho portato qui la tua roba e disdetto la tua camera. Là non hai più nulla da fare.» Oskarsson si sentì sradicato e disperato. Quando sua moglie era morta, aveva venduto la casa e traslocato in una camera d'affitto nel villaggio. All'inizio si era sentito spaesato, ma un po' per volta si era abituato. Adesso, a quanto pareva, non aveva più neanche quel simulacro di casa. «Vieni per un po' di tempo, papà, ti piacerà vivere nell'arcipelago. Siamo proprio sull'acqua, è bellissimo. Avrai una camera per te. Prova, almeno per un po'. Se poi vorrai una casa tutta tua, ebbene, ci sono i soldi dell'assicurazione della barca. Ti ho aperto un conto nella mia banca.» Oskarsson non rispose. Con il capo sul poggiatesta, chiuse gli occhi. Nelle ultime settimane qualcosa era avvenuto dentro di lui. Gli mancava la volontà di resistere a Gunnar. Si lasciò trascinare, si abbandonò a ciò che gli succedeva, qualunque cosa fosse. La casa era fuori di Gustavsberg, sull'acqua; Gunnar aveva ragione, il posto era bellissimo. C'erano i decoratori che lavoravano nella stanza di soggiorno, Ilsa sorvegliava un uomo che montava armadi in cucina. Quando lo vide, gli sorrise con aria tesa. In gioventù aveva fatto l'indossatrice; ancora adesso, ormai vicina ai quaranta, conservava la sua fragile bellezza. Oskarsson notò qui e là delle rughe, era troppo truccata, i suoi calzoni erano troppo aderenti, ma era ancora graziosa. Il vecchio si lasciò dare un bacino sulla guancia. «Salve papà», disse lei. Non gli piaceva gran che essere chiamato papà da quella donna che co-
nosceva a malapena. Negli anni passati si erano visti assai poco. «La tua camera è pronta; vieni, ti accompagno.» Lo precedette su per le scale e lungo un corridoio, fino a una vasta camera d'angolo. I mobili erano belli e comodi, più che nel resto dell'abitazione, notò Oskarsson. Quelli che avevano portato dal loro appartamento di città erano pochi per la casa. I suoi vestiti erano appesi nel guardaroba o ripiegati ordinatamente nei cassetti di un comò. Su un tavolino era posata una piccola coppa dorata. Ilsa la prese in mano e gliela porse. «Ebbe l'aveva vinta l'anno scorso in una gara di canottaggio. Era il suo oggetto preferito.» Oskarsson accarezzò il liscio metallo e lesse l'iscrizione. «Ti lasciamo solo per un momento, perché tu possa sistemarti, papà», disse Gunnar. «Forse vuoi fare un sonnellino.» «Prepareremo il tè appena gli uomini avranno finito in cucina», aggiunse Ilsa. «Scendi quando ne hai voglia.» Oskarsson annuì. Davanti alla finestra c'era una sedia a dondolo. Andò a sedervisi rivolto all'acqua, sempre tenendo in mano la piccola coppa di Ebbe. Gli sembrava di essere sbarcato su un altro pianeta. Aveva passato tutta la sua vita su un tratto della costa meridionale della Svezia, tra facce e barche conosciute, in posti noti. Qui, in questa casa estranea, in questo luogo, era un alieno. Anche suo figlio e sua nuora gli erano estranei. Rivolse lo sguardo all'acqua di là della finestra, oltre gli scogli delle isole, fino al Baltico. Qui solo l'acqua gli era familiare. L'acqua e la rabbia. Tenendo in mano la piccola coppa, Oskarsson si dondolò piano piano. La rabbia non lo avrebbe mai lasciato, finché non avesse trovato il modo di sfogarla. Dagli occhi gli sgorgarono lacrime che scesero lungo la pallida faccia logorata dalle intemperie. Piangeva per la prima volta. Non lo avrebbe fatto mai più. 8 Seduta nel suo ufficio, Katharine guardava sconsolata le piante appassite sul davanzale della finestra. Fuori, nella campagna della Virginia, una profusione di verdeggiante vegetazione si faceva beffe dei suoi sforzi. Non riusciva a ricordare il nome di quelle piante, ma Molly, una segretaria di dipartimento il cui ufficio assomigliava ai giardini botanici nazionali, aveva affermato che erano molto resistenti e neppure lei sarebbe riuscita a farle morire. Aveva torto. Katharine era convinta di emanare dai propri pori chi sa
quale invisibile nebbiolina tossica che soffocava tutte le sfortunate creature vegetali che le arrivavano a tiro. L'originale Pollice Nero, ecco cos'era lei. Questa capacità di fare appassire qualsiasi pianta, secondo Katharine, aveva cominciato a estendersi al suo lavoro, dato che le ricerche su Majorov erano arrivate, così le pareva, a un punto morto. Aveva saccheggiato le banche dati dell'Agenzia, ascoltato nastri che risalivano addirittura alla creazione della CIA nel 1947. Prima c'erano soltanto gli archivi dell'ufficio dei servizi strategici della seconda guerra mondiale. Tra il 1930 e il 1940, quando Stalin decimava le file dell'Armata Rossa e del partito comunista, solo il dipartimento di stato e l'esercito avevano svolto una specie di analisi delle informazioni; ciascuno aveva limitato la propria attività a quanto lo interessava direttamente: ma chi sa dove si trovavano ora quelle documentazioni. Non aveva potuto scoprire un solo fatto su Majorov oltre a quelli che aveva comunicato a EXCOM DUE: se aveva creduto di stuzzicare l'appetito di qualcuno, non le era riuscito. Aveva inviato promemoria ai suoi colleghi dell'Agenzia per la sicurezza nazionale e all'Agenzia di controspionaggio militare domandando dati di qualsiasi genere, ma non c'erano state risposte. Katharine sfogliò svogliatamente i cablogrammi e i rapporti che aveva sulla scrivania. Aveva già assegnato il lavoro di quella mattina ai suoi ricercatori; ora doveva affrontare la sua pila, vagliare tutto il materiale in cerca di un fatto che avesse qualche importanza tra centinaia di argomenti, di schedari, di incartamenti. Gli scrittori di libri di spionaggio non immaginano certo che cos'è il novanta per cento del lavoro dei servizi segreti: leggere, ricordare, associare, analizzare e, di tanto in tanto, scoprire. Proprio mattinate come questa le facevano a volte desiderare il lavoro all'estero, dove almeno si è stimolati dal contatto con il mondo. Qualcuno bussò alla sua porta aperta. Lei alzò gli occhi e vide sulla soglia Martin, una di quelle persone che, nelle viscere dell'Agenzia, fanno Dio sa che cosa e che lei conosceva appena. «Buongiorno, signora Rule», disse l'uomo. «Qui ho qualcosa che lei ha chiesto.» E le porse una grande busta marrone. «Entri e si sieda», disse Katharine, riconoscente verso chiunque la interrompesse. «Che cos'è?» Martin tirò fuori dalla busta una fotografia. «Costa lettone, presa tre giorni fa da un satellite.»
Santo cielo, che cosa aveva chiesto sulla Lettonia? «Mi lasci vedere», disse raccogliendo a due mani cablogrammi e rapporti e cacciandoli alla rinfusa in un cassetto per lasciare sgombra la scrivania. Martin le mise davanti la foto. «Questo è il lato sud della città di Liepaja.» «Vedo», disse Katharine. Martin indicò con un dito. «Questo sembrerebbe un bacino di marea, ma lo strano è che non ci sono grandi maree nel Baltico. In questo punto c'è un collegamento con il mare.» Katharine mise il dito su un gruppo di costruzioni che si estendevano in riva al bacino. «Sembrano un collegio universitario», disse esaminando la foto. «E quello è un porto per piccole barche?» Indicò le sponde del bacino. «Sì, è un porticciolo, una specia di marina. Soltanto barche da diporto. Supponiamo che la zona adiacente sia una specie di complesso sportivo d'ogni genere.» Martin indicò vari punti sulla fotografia. «Campi da tennis, piste, campo per il gioco del calcio, un bel numero di impianti. Si possono riconoscere anche due dozzine di persone che corrono: mentre gli altri portano divise sia dell'esercito sia della marina. Su alcuni di loro possiamo addirittura vedere le insegne del grado.» «Sembra l'esercitazione di un reparto», commentò lei, indicando un gruppo di uomini allineati. «Macché, stanno correndo», rispose Martin. «Sono tutti in tuta da ginnastica.» Katharine assentì. «E qual è la cosa che mi può interessare?» domandò. Martin additò un posteggio di automobili vicino a uno degli edifici. «Una macchina straniera. Una berlina Mercedes 380 o 500 SE, color grigio metallizzato. I sovietici non usano i colori metallizzati sulle loro macchine e, lasciando da parte l'ambasciata tedesca a Mosca e i suoi vari consolati, scommetterei che in tutta l'URSS non ci sono tre grosse Mercedes. Chiunque la guidi, è così importante da rifiutare una Chaika o una Zil in favore di una macchina straniera. Senza tener conto dei quattrini necessari a procurarsela, chi ha tanta impudenza da andare in giro su una Mercedes simile?» Katharine fissò l'automobile. «Peccato che non si possano leggere dall'alto i numeri della targa: potrebbero fornirci qualche indicazione. Senta, chiediamo all'Agenzia della sicurezza nazionale di darci altre foto di questo luogo, prese con angolazioni diverse. Mi piacerebbe vedere qualche in-
gresso degli edifici. Potremmo addirittura riconoscere qualche faccia. E sarebbe magnifico riuscire a riprendere i numeri di targa di quella macchina. I sovietici etichettano ogni cosa con una specie di codice: diplomatico straniero, addetto commerciale, giornalista, Comitato Centrale... e su ogni targa c'è anche la città in cui è registrata l'automobile.» Martin si strinse nelle spalle. «Non ho idea di quando il prossimo satellite passerà sulla zona; inoltre non sono autorizzato a richiedere foto. L'unico che può farlo è il signor Nixon.» «Bene. Mi occuperò della richiesta, allora. La ringrazio moltissimo, Martin, questo è il primo spiraglio che mi si apre sulla faccenda. Può darsi che non conduca a nulla, ma chi lo può sapere? Me la può lasciare?» «Sicuro, ma mi occorre una regolare ricevuta per sostituirla nell'archivio.» Katharine scrisse la ricevuta, precisando il numero d'archivio e la data della foto. Appena Martin se ne fu andato, dettò un appunto diretto alla NSA perché Alan Nixon lo firmasse, poi inoltrò al reparto operazioni una normale richiesta di ogni HUMINT, cioè informazione umana, su Liepaja, consegnando il nastro al suo segretario. «Battila subito, Jeff, per favore.» Qualche burlone della direzione personale le aveva affibbiato un segretario, al quale lo scherzo piaceva ancora meno che a lei. «Non vuoi prima i compendi settimanali?» disse Jeff in tono lamentoso, indicando il foglio che aveva già nella macchina per scrivere. «Vedi, Jeff, se la prendi con calma, potrei perdere un passaggio del satellite, quindi, togli quel foglio, coraggio.» Jeff sospirò e cambiò foglio. Katharine tornò alla sua scrivania ed esaminò la foto. Non riusciva a liberarsi della sensazione che fosse un'università. E aveva imparato a tenere conto delle proprie intuizioni. C'erano troppi edifici per ospitare soltanto degli atleti, date le dimensioni dei campi d'addestramento visibili. Lì insegnavano qualcosa. Guardò fissamente gli uomini che correvano. Gli atleti non si allenano stando in riga, neppure nell'Unione Sovietica; l'allenamento è programmato in modo troppo individuale perché ciò sia possibile. Questo era un reparto militare di chissà che tipo; quegli uomini si stavano allenando insieme per qualcosa che non aveva niente a che fare con le prossime olimpiadi. Katharine trovò una lente nel cassetto e la posò piatta sulla fotografia, che scrutò millimetro per millimetro. Non c'era un solo segno di impianti militari, neppure un campo da tiro. Questo era interessante, perché un complesso sportivo per l'allenamento di atleti avrebbe cer-
tamente avuto un poligono di tiro: il tiro a segno è una specialità olimpionica. Fece scorrere la lente intorno al perimetro delle attrezzature. C'era una doppia palizzata: avrebbe giurato che il terreno in mezzo era minato. Che bisogno c'era di una doppia palizzata intorno a un centro sportivo? Katharine esaminò le imbarcazioni e desiderò che Will fosse lì a darle spiegazioni. A lei sembrarono tutte da diporto e nient'altro. C'era qualche piccola barca a vela tirata a riva; da una scala riportata sulla foto, calcolò che l'imbarcazione più grande del porticciolo era lunga circa trentacinque piedi. Rimase sconcertata vedendo che un lungo tratto di riva sopra la marina era orlato da una specie di marciapiede di cemento, che le ricordava la sponda di un laghetto in un parco; ma non c'era erba, c'erano soltanto ciottoli come quelli di cui era fatta la spiaggia. Katharine cercò invano di capire perché qualcuno volesse le sponde di un bacino circondate da un marciapiede. Jeff entrò con la richiesta scritta. «Vuoi che la porti al signor Nixon?» «No, lo faccio io», disse lei, prendendogli il foglio. «Ritorna pure ai compendi.» Si avviò lungo il corridoio verso l'ufficio di Nixon, più grande ed elegante del suo. La porta era chiusa, la sua segretaria si limava le unghie. «C'è qualcuno di là con lui?» domandò Katharine. «No, ma ha detto che non vuole essere disturbato», spiegò la giovane. Si piegò verso di lei con aria da cospiratrice. «Resti fra noi, secondo me sta leggendo l'ultimo libro di Len Deighton. Sa che cosa le dico? Io vado al gabinetto e lei fa un'irruzione.» Katharine rise, aspettò che la ragazza scomparisse, bussò alla porta una sola volta e l'aprì prima che Nixon potesse rispondere. Nixon aveva i piedi sulla scrivania e per poco non cadde dalla poltrona, facendo in modo di lasciar cadere a terra il libro. «Gesù, mi hai spaventato a morte.» «Mi rincresce, Alan, io ho bussato.» Nixon scompigliò qualche foglio sulla scrivania. «Di che si tratta?» domandò seccato. «Ho solo bisogno della tua firma su una richiesta all'NSA di qualche foto di satellite.» «Foto di che?» «Avevo chiesto a tutti quanti informazioni su macchine straniere nell'Unione Sovietica; una è stata fotografata da un satellite sulla costa lettone. Un posto interessante. Sembra una specie di campo sportivo, ma secondo me c'è sotto qualcosa. Nel posteggio c'è anche una grossa Mercedes, ma
non è un luogo dove andrebbe in visita l'ambasciatore tedesco. Desidererei delle foto da altre angolazioni, per vedere se riusciamo a leggere i numeri di targa.» Katharine gli mise davanti l'appunto. Nixon lo guardò con disgusto. «Kate, lo sai quanto costa un giro di satellite?» Lei lo sapeva e sapeva che Nixon lo sapeva. «Insomma, Alan, non ci manderanno il conto, pagheranno con i loro soldi. Avanti», insisté blandendolo, «darà qualcosa da fare a quegli sfaccendati.» «Questo riguarda... come si chiama? Finsov?» «Firsov, noto anche come Majorov. Ti ho mandato le annotazioni su di lui. Ho pure chiesto al reparto Operazioni qualche HUMINT, ma non mi aspetto gran che. Negli ultimi due anni ho fatto sempre più fatica a ottenere informazioni spicciole. Qualche volta penso che il senatore Carr e la sua commissione non abbiano tutti i torti: l'agenzia sta investendo troppi soldi nei calcolatori e troppo pochi per addestrare le buone vecchie spie d'un tempo.» «Questo Majorov è una delle tue tante intuizioni, vero, Kate? Di quando in quando ti ficchi in testa un'idea balzana e nessuno più ti può fermare.» «Questa non è un'idea balzana, Alan.» La donna si accorse di arrossire. «Per niente. Questo tale era vicedirettore della Prima Sezione del KGB. Quindi rientra nelle mie funzioni.» «'Era' è la parola chiave, Kate. Non occupa più quel posto. Probabilmente è chissà dove nei Gulag e sconta i suoi peccati.» Lei alzò le spalle. «Forse sì, forse no. In tutti i casi, cercarlo non ci porterà danno. Da quel poco che so di Majorov, preferirei davvero che fosse in un Gulag. È un po' troppo svelto per i miei gusti. Mi piacciono quelli che arrancano a fatica e lui non è certamente uno di loro. Ti posso assicurare che, ovunque sia, non sta combinando nulla di buono.» «Oh, bene», sospirò Nixon prendendo una penna. «Ma con tutta probabilità riceverò in risposta uno sdegnoso appunto sullo stanziamento dei fondi. Sai com'è quella gente.» Nixon firmò il foglio. Katharine glielo strappò di mano e si avviò alla porta. «Grazie, Alan, lo inoltrerò subito.» «Kate!» Nixon la obbligò a fermarsi di colpo. «Non tornare di nuovo da me per farmi altre richieste su questo argomento, se non puoi presentarmi qualcosa di solido, capito? Indaga pure, se ciò non interferisce con il resto del tuo lavoro, ma non ho intenzione di sganciare soldi con nient'altro che il tuo... intuito come appoggio. L'ultima
volta che ti ho dato retta sono rimasto appeso per le pa... i pollici, come ricorderai.» «Certo, Alan, te lo prometto», assicurò lei e fuggì dall'ufficio con le guance infuocate. Un anno prima aveva dato la caccia per sei settimane a un tipo del GRU sovietico che risultò poi morto d'infarto alla sua scrivania da due anni. Nixon tirava fuori l'episodio tutte le volte che voleva tenerla a bada. Ma questa volta non era così, pensò Katharine. Majorov era vivo, lo sapeva. Nixon si era fermato a tempo e non aveva detto intuito 'femminile', ma lo aveva pensato. Era una delle cose che bisognava sopportare. 9 Helder entrò in un teatrino con altri cinquanta uomini e sedette in prima fila. Era arrivato da due settimane ed era la prima volta che partecipava a un addestramento in compagnia d'altri. Diede uno sguardo in giro e notò un'uniformità che prima non aveva mai vista. In ogni reparto militare sovietico è prevedibile trovare prove della composizione multirazziale dell'Unione delle Repubbliche Sovietiche, con i suoi quindici stati, dozzine di tipi etnici e dozzine di lingue. Helder sapeva che la maggioranza degli uomini di molte unità dell'esercito non parlava nemmeno il russo ed era in grado di ubbidire a un numero limitato di comandi base. Qui invece tutti parlavano non solo il russo, ma l'inglese e alcuni anche lo svedese; l'aspetto del gruppo era assai uniforme, scandinavo o tutt'al più nordeuropeo. Davanti a loro, di fronte a una parete vuota, erano in mostra su una tavola molte armi leggere, alcune delle quali Helder non aveva mai viste. Dal bracciolo di ogni sedia pendeva un paio di paraorecchie del tipo usato dal personale di terra, sia civile sia militare, intorno ai jet. Appena ebbero preso posto, Majorov entrò in sala con passo marziale, vestito di una tuta militare e seguito da un uomo che portava due scatole metalliche di munizioni. Majorov avanzò fino al centro del teatro e si mise in piedi di fronte alla tavola su cui erano posate le armi. «Buongiorno, signori», disse con un lieve sorriso. «Abbiamo ormai portato a termine l'acquisto delle vostre nuove armi leggere e desidero presentarvele. In linea generale la nostra operazione si svolgerà in tre ondate: gli infiltrati, le truppe d'assalto, le truppe convenzionali.» Majorov prese in mano due piccole pistole automatiche e le sollevò per farle vedere. «Chi di voi guiderà le squadre d'infiltrazione riceverà, per ovvie ragioni, solo armi da fianco. È altrettanto ovvio che tali armi non dovranno destare eccessivo
interesse qualora voi o uno della vostra squadra cadeste in mani nemiche; quindi sarete muniti della ben nota Walther PPK, che è naturalmente molto simile alla nostra normale Makarov, o dovrei dire viceversa?» Ci fu qualche leggera risatina tra quelli che sapevano che la Makarov sovietica è una copia diretta della Walther PP. Majorov continuò: «... oppure della pistola Beretta modello 84 a doppia azione: entrambe usano la cartuccia corta calibro nove. Tutte le armi che vi saranno consegnate avranno un aspetto usato, ma vi assicuro che ciascuna pistola è stata smontata ed esaminata e, se necessario, riparata. La maggior parte di voi ha già sparato con queste armi in qualche occasione, quindi non sprecherò il vostro tempo con informazioni inutili sul loro funzionamento. Majorov posò di nuovo le pistole sulla tavola e ne prese un'altra che Helder non conosceva. «Adesso passiamo alle armi di cui saranno dotate le squadre d'assalto; nel loro caso non ci preoccupiamo che siano identificate. Questa, signori, è la pistola a caricamento automatico SIG-Sauer modello P226, fabbricata da un'industria svizzera di armi, la Schweizerische Industrie-Gesellschaft, insieme con la ditta tedesco-occidentale di J. P. Sauer & Figlio. Questa pistola fu studiata dalla SIG quando partecipò a un bando di concorso per una nuova arma da fianco destinata alle forze armate e alla guardia costiera degli Stati Uniti. Gli americani hanno fatto la stupidaggine di non adottarla. Secondo la mia esperta opinione questa è la migliore pistola automatica sul mercato. La P226 spara cartucce calibro nove del parabellum, con un caricatore che contiene quindici colpi.» Dal pubblico gli giunse un mormorio d'approvazione. Majorov rimise sulla tavola la pistola e prese in una mano un'arma corta e tozza e nell'altra un grosso cilindro nero. «E ora, signori, la più interessante delle vostre nuove armi.» Cominciò ad avvitare il cilindro alla corta canna dell'arma. «Questo è l'Ingram modello 10, un mitra conosciuto anche con il nome di Mac 10, di cui avrete sicuramente sentito parlare. Ci siamo procurati duemila di queste magnifiche armi con un sistema particolarmente tortuoso. Questo modello ha una quantità di vantaggi. Benché insolitamente compatto, diciamo come l'Uzi degli israeliani, spara cartucce calibro quarantacinque, con tutti i miglioramenti che ne risultano in forza d'urto, da un caricatore di trenta colpi al ritmo di millecentoquarantacinque colpi al minuto. Questo cilindro non è un silenziatore tradizionale, ma un soppressore, ideato perché la pallottola possa giungere alla velocità massima, eliminando il solito suono sordo prodotto dal silenziatore. L'avversario sente soltanto il fischio della pallottola, che diventa supersonico al pas-
saggio, gli riesce impossibile capire da quale direzione arrivi lo sparo. Penso che ammetterete che questo è un grande vantaggio nel tipo di operazione cui ci stiamo addestrando. Quest'arma è fatta per essere usata da squadre che operano su terreno scoperto, dove il rumore e la vampata della bocca rivelerebbe le nostre posizioni. Il sergente Petrov, che è qui con noi», Majorov fece un cenno del capo in direzione dell'uomo che era entrato con lui in sala, «vi darà una dimostrazione pratica e vi insegnerà a usarla. Credo che vi piacerà.» Majorov rimise a posto il mitra e prese un'altra arma, che non somigliava a nulla che Helder avesse mai visto. Tra il pubblico corse un brusio di commenti. Evidentemente nessun altro di loro ne aveva mai vista una. Si sarebbe detta una scatola metallica piatta lunga circa novanta centimetri, larga cinque a un capo e quindici all'altro. Non avrebbe avuto nessuna somiglianza con un'arma, se al centro non ci fossero stati un guardamano e un'impugnatura da pistola e, a un'estremità, un mirino che serviva anche da maniglia. Majorov prese l'oggetto tra le braccia e cominciò a parlare. «Ecco la nuova arma di cui saranno munite le squadre in azione nelle zone urbane. Nel millenovecentottantadue le forze armate americane diedero inizio a un programma, detto sistema d'arma per attacchi ravvicinati, che si proponeva di ideare un nuovo tipo di fucile mitragliatore a canne lisce. Un buon numero di fabbricanti d'armi si dichiarò interessato al progetto; la ditta Heckler & Koch, della Germania occidentale, i cui prodotti tutti voi conoscete bene, creò un prototipo. Un esemplare, con una serie completa di disegni, ci è capitata, ehm, tra le mani. Per due anni un gruppo speciale al Commissariato di stato sovietico ha lavorato a migliorare l'idea, tanto che ora abbiamo una limitata produzione di nientemeno che un perfezionatissimo fucile mitragliatore a canne lisce.» Il pubblico trattenne il fiato, quando Majorov sollevò l'arma. Majorov continuò: «Abbiamo anche fabbricato una gamma di munizioni efficacissime, tra cui speciali pallettoni antiuomo, una cartuccia di gas CS, un solido proiettile che può sfondare a centocinquanta metri una corazza dello spessore di trenta millimetri». Nuovo sussulto del pubblico. Majorov afferrò un grosso caricatore e lo infilò nel calcio dell'arma, dietro l'impugnatura. «Può sparare, da un caricatore circolare da ventiquattro cartucce, colpi singoli oppure, automaticamente, a un ritmo di cinquecento colpi al minuto. A una distanza di quaranta metri la raffica formerà una rosa di una novantina di centimetri, quindi in un secondo il tiratore potrà sparare ottanta pallettoni in un'area di non più di un metro quadro: a quella distanza un
pallettone avrà un'energia residua maggiore del cinquanta per cento, approssimativamente, di quella della pallottola di una pistola calibro 7,65. Secondo i nostri calcoli, in una zona ristretta, come potrebbe essere una via cittadina, sei uomini con due caricatori a testa falcidierebbero in meno di dieci secondi una compagnia di fanteria dotata di armi convenzionali.» Ci fu un momento di silenzio, poi gli uomini si alzarono in piedi e gli applausi scrosciarono. Mentre il pubblico batteva ancora le mani, Majorov fece un cenno al sergente addetto alle armi, che si avvicinò a un quadro comandi e toccò un interruttore. La parete nuda dietro alle spalle di Majorov scivolò verso l'alto; dietro c'era una sala di tiro ben illuminata, lunga cinquanta metri. Gli applausi cessarono di colpo. Helder, che si era alzato anche lui, trascinato dal movimento spontaneo degli altri, si lasciò ricadere sulla sedia, con lo stomaco che si torceva spasmodicamente. Gli altri seguirono immediatamente il suo esempio. A quaranta metri da loro, in fondo alla sala da tiro, una dozzina di corpi umani pendevano dal soffitto, legati a corde che passavano sotto le ascelle. Per un momento Helder aveva pensato che fossero solo svenuti, ma dal modo in cui pendevano capì che erano morti e se ne rallegrò. «Signori, mettano i paraorecchie, per favore», disse Majorov, poi, mentre gli uomini ubbidivano, fece un giro su se stesso, infilò sotto il braccio il calcio del fucile mitragliatore, armò il cane e, movendo da sinistra a destra, svuotò un caricatore da ventiquattro colpi sui cadaveri. I corpi sobbalzarono con violenza, cospargendo di sangue il pavimentò, le pareti e il soffitto della stretta sala. Quando il caricatore fu vuoto Majorov lo estrasse, lo sostituì e ricominciò a sparare, questa volta da destra a sinistra. Helder cercò di chiudere gli occhi, ma non ne fu capace. Il rumore era incredibile, nonostante i paraorecchie, i corpi eseguivano una danza selvaggia, come cercando di sfuggire alla fitta pioggia di colpi. Quando finì il secondo caricatore, tre dei cadaveri erano senza testa; ad altri mancava un arto; due erano tagliati a metà. Per un lunghissimo momento nessuno si mosse. Poi, mentre Majorov si voltava di nuovo verso di loro, il gruppo cominciò a togliersi lentamente i paraorecchie. «Signori», disse Majorov calmo, «quando l'avversario vedrà queste nuove armi in funzione, ci temerà come non ha mai temuto null'altro nella sua vita.» 10
Helder ora lavorava a tutto spiano e si addestrava per chissà che cosa. Ogni giorno si esercitava nella sua 'leggenda' con il signor Jones, che escogitava mille modi per tendergli trabocchetti e costringerlo a tradirsi; si allenava a sparare sia con il mitra Ingram sia con il fucile mitragliatore a canne lisce oltre che con la Walther PPK, che adesso portava sempre, scarica, in una morbida fondina agganciata all'interno della cintura all'altezza delle reni, per abituarsi; passava due ore al giorno nel laboratorio linguistico, raffinando il suo accento di americano del Midwest; alternava corse regolari e scatti due volte al giorno; e quotidianamente si sottoponeva a una massacrante lezione di due ore con un muscoloso e tarchiato ucraino, il quale gli insegnava un genere di lotta senza armi, che lo lasciava dolorante e ammaccato in permanenza. Passava le serate con Trina, cenavano in uno della mezza dozzina di ristoranti occidentali di Malibu, ascoltavano le notizie e assistevano ai film della televisione via cavo. Trina viveva con lui a tutti gli effetti, benché non tenesse nessun oggetto personale nella camera di Helder. Helder era giunto a credere che la sua carriera navale attiva fosse finita e che lo addestrassero puramente per missioni di spionaggio, quando Un giorno Majorov si presentò al laboratorio linguistico e lo portò con sé nell'automobilina elettrica che gli occidentali usavano abitualmente sui campi da golf. «Come vanno le cose?» gli domandò Majorov, mentre viaggiavano verso le sponde del bacino. «Benissimo signore», rispose Helder. «Mi tengo occupato.» «Ottimamente.» Majorov si calò sulla fronte la visiera del berretto da baseball per ripararsi dal sole. «Effettivamente, ormai hai ricevuto più o meno tutto l'addestramento che possiamo darti a terra. Il signor Jones mi dice che conosci a menadito la tua nuova storia, le esercitazioni con le armi e gli altri allenamenti sono andati egregiamente. Fra poco uscirai di nuovo in mare, per modo di dire.» Varcarono senza rallentare un cancello guardato da due uomini in tuta, armati di Mac 10 Ingram e si diressero verso la zona occupata dal tetto coperto d'acqua, che Helder aveva notato il giorno dell'arrivo a Malibu. Una punta di terra nascondeva la zona a chi si trovava nel porticciolo e Helder non era mai riuscito a scorgerla, neppure andando in barca a vela. Scesero sotto il livello del tetto. Majorov fermò l'automobilina e Helder lo seguì oltre una porta arretrata, sotto una sporgenza dell'edificio. Appena superata
la porta, Helder trattenne il fiato. Di fronte a lui si stendevano all'incirca duecento metri di banchine e di cantieri per sommergibili. I sommergibili erano tre, un Whiskey e due della classe Romeo, ma Helder vide, mentre camminavano a passi svelti lungo gli impianti, due posti che potevano servire ad attraccare i più grossi sommergibili della flotta sovietica, i giganteschi Typhoon. C'era anche una dozzina circa di piccoli sommergibili, soprattutto del Tipo Uno e del Tipo Due, i cavalli di battaglia, prodotti in serie, della flotta sovietica tascabile, usati per ogni genere d'azione, dalle ricerche sui fondi marini al trasporto truppe. Ce n'erano anche due del Tipo Quattro, attrezzati con cingoli per spostarsi sul fondo; e uno strano oggetto, che sembrava un Tipo Quattro tronco. Helder rimase sbalordito. Pur essendo da molto tempo a Malibu, non aveva mai avuto la più pallida idea che il luogo fosse, oltre che un centro d'addestramento delle SPETSNAZ, una base di sommergibili. Guardò verso il punto dove il bacino di marea incontrava il Mar Baltico. Era evidente che tutte le unità uscivano e rientravano senza emergere. «Suppongo che tu veda molte cose che ti sono familiari», disse Majorov. «Sì, signore», rispose Helder, «mi sono esercitato a bordo di ciascuno di questi sommergibili, eccetto...», additò il sommergibile tascabile più corto e munito di cingoli, «quello lì, qualunque cosa sia.» «È proprio ciò di cui ha l'aspetto», disse Majorov. «È un Tipo Quattro accorciato.» Si avvicinarono al piccolo sommergibile e si fermarono. «Ed è tuo», aggiunse Majorov. Helder rimase a guardarlo. Consisteva essenzialmente in un cilindro del diametro di circa due metri, con muso sagomato e due grandi oblò, che gli conferivano l'aspetto di un enorme bruco. Bombole d'acciaio di varia grandezza pendevano dai due fianchi; a prua erano posti due bracci telecomandati. «Abbiamo preso un Tipo Quattro, l'abbiamo accorciato e spogliato di tutto quanto non era indispensabile per questa particolare impresa. Non c'è più il motore diesel e neppure la presa d'aria e il normale purificatore di CO2. Hai a bordo un purificatore di dimensioni ridotte e una piccola bombola che contiene la quantità di ossigeno sufficiente a tenere in vita due persone, al massimo, per la durata dell'operazione a velocità di crociera. Sono rimasti centodieci elementi di batteria al nichel cadmio, che pesano ciascuno venti chili e ti daranno tre nodi per ventiquattro ore oppure sei nodi per due ore. Come ben sai, il consumo delle batterie cresce esponenzialmente con la velocità. I cingoli consumano tanto quanto la piena velo-
cità, il che significa che usarli per cinque minuti corrisponde a rinunciare a un'ora di viaggio. Devi sempre tenere presente questo fatto; sarà per te d'importanza capitale.» «Sissignore», rispose Helder. Il Tipo Quattro gli piaceva. Bastava un uomo solo per pilotarlo, era come volare sott'acqua con un aereo, invece di starsene seduti a dare ordini all'equipaggio. Però su un Tipo Quattro c'era da fare almeno per quattro marinai. «Ha detto che ci saranno due soli uomini?» Majorov annuì. «Questo è uno dei motivi per cui l'abbiamo semplificato tanto, per renderlo il più possibile facile da manovrare.» «Chi è il mio subordinato?» domandò certo che avessero scelto il suo compagno. Majorov si avvicinò alla prua del sommergibile tascabile e guardò attraverso uno dei due oblò. «Ecco qui il tuo uomo», disse con un ghigno, picchiando con il palmo della mano sullo scafo del sommergibile. Il portello sulla parete superiore si aprì e una faccia nota guardò fuori. Dapprima Helder non riuscì a darle un nome, ma quando la persona uscì dal sommergibile e si calò lungo la scaletta, gli venne in mente. Aveva un corpo flessuoso, vestito di calzoncini da ginnastica e di una maglietta; balzò agilmente a terra e, mentre saltava, rivelò la costituzione e il coordinamento di un atleta di classe internazionale. «Il capitano di terzo grado Helder, il tenente di vascello Sokolov», disse Majorov, sorridendo. «Sokolov», disse Helder porgendo la mano. «Helder», rispose Sokolov afferrandogliela. La mano di Sokolov era dura, callosa e fortissima. Helder non riusciva a staccare gli occhi dai famosi capelli corti e chiari, dalla mascella quadrata, dagli occhi distanziati, dalla peluria sopra la bocca sottile e dura. L'equipaggio di Helder era Valerie Sokolov, vincitrice del decathlon femminile alle Olimpiadi del 1980 a Mosca, dove aveva sbalordito il mondo riuscendo a passare un controllo cromosomico richiesto per una presunta ambiguità sul suo sesso. «Sokolov sarà comandante in seconda, macchinista, radiotelegrafista e commissario politico, tutto in una sola persona», ghignò Majorov. «La troverai brava in ciascuno di questi campi tanto quanto allo stadio!» «Sono sicuro di sì», disse Helder, cercando di sorridere alla donna. «Lo spero», disse Sokolov senza sorridere. «Sokolov ha lavorato alle modifiche del Tipo Quattro.», continuò Majo-
rov posando una mano sullo scafo con aria da padrone. «Ora te ne voglio mostrare l'uso», aggiunse, guidando Helder e Sokolov dall'altra parte del piccolo sommergibile. «Come ben sai, questi due bracci uncinati non sono compresi nella normale attrezzatura del Tipo Quattro, ma sono indispensabili alla vostra missione.» Si avvicinarono a un cilindro d'acciaio inossidabile, alto un po' più d'un metro e del diametro di circa mezzo metro, posato vicino al sommergibile. «Questo sarà il vostro carico pagante», disse Majorov. «O meglio qualcosa di molto simile. È un modello riempito di cemento, per dargli un peso corrispondente a quello della vera attrezzatura, che è quasi terminata, ma che stiamo sottoponendo agli ultimi controlli: una radiotrasmittente di nuova invenzione. Quando sarà posata sul fondo marino nella debita posizione e alla giusta profondità, ricevendo un segnale con il sonar da un vicino sommergibile, sgancerà dal suo cilindro un'antenna di venti centimetri, che affiorerà e trasmetterà segnali radio particolari a una speciale attrezzatura posta sui sommergibili, sulle navi di superficie e sugli aerei che incroceranno nella zona.» Helder aggrottò le ciglia. «Avevo l'impressione che i progressi tecnici nella guida inerziale e nella navigazione radioguidata fossero ormai sufficienti a fare rotta verso qualsiasi punto, con errori di pochi metri», disse con un'espressione perplessa. «Certo, è vero», sorrise Majorov, «ma questa speciale boa, l'unica del suo genere, detto per inciso, sarà posata in una zona con anomalie magnetiche che ingannano i sistemi tradizionali. È stata anche fabbricata appositamente per essere usata in un punto determinato che offre un'infinità di rischi a chi vi naviga con altri sistemi: densità e salinità dell'acqua, fondali bassi, eccetera. Devi credermi sulla parola, per il momento non posso dirti di più.» «Certo, colonnello», rispose Helder. «Tanto più che, a quanto posso capire, sono incaricato di andare a porre la boa al suo posto, non di metterne in dubbio gli scopi.» «Hai ragione», disse Majorov. «Sarai trasportato da un sommergibile d'appoggio, dal quale ti staccherai quando sarai nei pressi del tuo obiettivo; dopo avere accertato la tua posizione mediante tre strumenti, poserai la boa in un raggio di cinquanta metri dalle coordinate specificate, poi tornerai al sommergibile. Sono convinto che tu e Sokolov siete la squadra più adatta all'incarico, tu con il tuo magnifico orientamento spaziale e le tue eccezionali capacità nautiche; Sokolov con le sue conoscenze tecniche.» «Grazie, colonnello.»
«Abbiamo la fortuna di poter disporre davanti a casa di un'eccellente campo d'esercitazione: il Baltico», disse Majorov. «Non posso ancora darvi la data della vostra missione, anzi, potreste addirittura ricevere un preavviso di sole poche ore, addirittura di pochi minuti... ma posso dirvi che dovete essere pronti a eseguire questo incarico, pronti sotto ogni possibile aspetto, fra tre settimane da oggi.» Helder assentì. «Non prevedo difficoltà nell'eseguire il programma», disse dando un'occhiata a Sokolov, «purché l'equipaggio si comporti come si deve.» Sokolov girò gli occhietti piccoli verso Helder. «Non ci saranno difficoltà tecniche», disse con una fredda voce lievemente baritonale. «Puoi esserne sicuro.» «Bene», disse Helder. «In questo caso, colonnello, può fidarsi ciecamente di noi.» «È quel che desideravo sentirti dire», sorrise Majorov, dandogli una pacca sulla spalla. «Ora, voglio che cominciate subito e che Sokolov si abitui al sommergibile», disse. Helder lo guardò stupito. «Mi scusi, colonnello, ma mi pareva di aver capito che Sokolov avesse aiutato a modificare il Tipo Quattro.» «Certo», rispose Majorov, ridendo. «E ti spiegherà le modifiche e la nuova attrezzatura. Ma sei tu l'esperto sommergibilista; in realtà Sokolov non ha mai navigato su uno di questi mezzi.» Helder rimase senza parole. Si pretendeva da lui che pilotasse il sommergibile fino a cinquanta metri da un punto prestabilito del fondo marino, che posasse una boa trasmittente mai usata prima d'allora e che tornasse al sommergibile d'appoggio con una persona che non aveva mai navigato, addestrata in tre sole settimane? Il suo sbalordimento dovette essere evidente, perché Sokolov passò all'attacco. «Ti assicuro, Helder, che eseguirò il mio incarico come meglio non potrai pretendere. Nella mia carriera sono stata addestrata a compiere molti lavori difficili e non ho mai fatto fiasco, sinora.» Helder si voltò verso di lei. «Ho addestrato uomini... sì, sommergibilisti per molti lavori difficili e non ho mai accettato, da nessuno di loro, uno sbaglio», disse. «Hai perfettamente ragione, Sokolov, non farai fiasco.» Majorov sorrise a entrambi, ma non con gli occhi. «Bene», disse. «Vedo che ci capiamo tutti al volo.» 11
Il mattino in cui compiva trentacinque anni Katharine, arrivando all'Agenzia, vide una figura sgraziata e familiare che la precedeva nell'atrio di Langley. «Ed Rawls!» gridò, mettendosi a ridere dell'espressione interrogativa dell'interpellato al momento in cui si voltava. «Ciao, ciao, ciao!» tuonò Rawls abbracciandola e baciandola. «Come stai, Kate?» Quando Katharine non era ancora altro che un'impiegata piena di entusiasmo della stazione di Roma, anche Rawls lavorava lì. «Mai stata meglio di così, direi. E tu? E Bette?» Rawls sogghignò. «Mai meglio di così; va bene anche per noi. Specialmente insieme.» Le ammiccò. «Ti sono riconoscente per un sacco di cose.» Lei rise al ricordo. Ed Rawls andava a letto con la moglie dell'ambasciatore americano a Roma; cose di questo genere non vanno a genio alla Compagnia. Ma i guai maggiori non erano venuti dal datore di lavoro, bensì dalla signora Rawls, una donna formidabile che conosceva bene il marito. Durante una scena che sembrava tratta da una farsa francese, Kate furtivamente aveva fatto uscire Rawls da un buio corridoio dell'ambasciata nelle ore piccole, lo aveva nascosto nel proprio armadio e aveva offerto da bere alla moglie che lo inseguiva, mentre Ed passava un'ora sudando tra i vestiti nel suo guardaroba. A quanto pareva, questa esperienza aveva inculcato a Ed il timor di Dio, o almeno un sacro terrore di Bette, cosa ampiamente sufficiente. «Una cosa è certa, mio caro», rispose Katharine continuando a ridere. «Se quella notte Bette ti avesse avuto tra le mani, a quest'ora dormiresti con i pesci del Tevere.» E non aggiunse che avrebbe dovuto interrompere la sua carriera, una rapida carriera che stava diventando leggendaria nella Compagnia. Ed Rawls, con i suoi modi tranquilli, con il suo aspetto arruffato, negli ultimi anni aveva portato a buon termine tante operazioni antisovietiche quante tutti insieme gli agenti della CIA dal giorno della sua fondazione. Nella Compagnia molti erano del parere che il posto di vicedirettore Operazioni, tenuto ora da Simon Rule, sarebbe dovuto passare a Rawls. «Come mai a Langley?» «Affari», rispose l'uomo e lei capì di non dover fare altre domande. «Senti, le notizie su di te e Simon mi hanno veramente rattristato», continuò poi l'amico. «Se è così, sei stato l'unico, Simon e me compresi», replicò Katharine con ironia. «Il nostro matrimonio è stato un errore madornale, una di quel-
le sciocchezze che sono il retaggio della nostra condizione umana. Però mi è rimasto un bel bambino, che compensa per l'orrore della cosa.» «Be', devo ammettere che vivere sola ti si confà. Hai un aspetto splendido.» «Grazie, gentile signore, è proprio ciò che una ragazza desidera sentirsi dire nel giorno del suo trentacinquesimo compleanno.» «Davvero? Congratulazioni per essere arrivata fin qui senza mollare la partita. Devo ammetterlo, avevo avuto paura che Simon ti costringesse a diventare una massaia. Quando ho saputo che ti avevano dato l'ufficio sovietico, mi sono rallegrato.» «Ti ringrazio, Ed, il lavoro mi piace. Quasi sempre, almeno. A volte preferirei essere fuori di qui, all'estero a fare qualcosa con voi, invece di destreggiarmi con una scrivania.» Attraversarono l'atrio e Katharine, prima di proseguire verso il suo ufficio al pianterreno, aspettò con Rawls che arrivasse l'ascensore. «Ormai i tuoi figli saranno all'università.» Rawls accennò un sì. «Millie va all'università. Eddie ha finito quest'anno. A settembre si sposerà.» «Santo cielo! Sei un po' giovane come nonno, Ed!» «Non crederlo, dolcezza; ho compiuto cinquant'anni in gennaio. Ecco, assumi un'aria sconvolta, è una cosa che mi fa piacere.» «Allora, com'è la mezz'età? Ancora pochi anni e ci arriverò anch'io.» Le porte dell'ascensore si aprirono, Ed Rawls entrò e le tenne bloccate un momento. «Senti, bambina, quando avevo trentacinque anni credevo che i cinquanta fossero la mezz'età. Ma adesso che ne ho cinquanta», lasciò andare la porta, «adesso so che la mezz'età sono i trentacinque.» L'ascensore si chiuse sulla sua faccia ghignante. Lei rimase ferma un momento a riflettere, poi si diresse verso il suo ufficio, scuotendo la testa. Martin, del dipartimento analisi delle immagini, l'aspettava sonnecchiando sulla sua comodissima poltrona. Prima di svegliarlo, Katharine si procurò al distributore automatico dell'ufficio una tazza di caffè per entrambi. «Mi scusi», disse Martin, stentando a tenere aperti gli occhi. «Sono stato alzato tutta la notte a lavorare. Questa è arrivata mezz'ora fa. Ho dato un'occhiata e ho pensato di fargliela vedere prima di andare a casa a ricuperare un po' di sonno.» E porse a Katharine una busta color marrone. La donna sgombrò la scrivania e tirò fuori una lente. Martin le mise da-
vanti la foto scattata dal satellite. «Ora la foto è presa da una posizione più angolata», disse puntando il dito. «Ma purtroppo la Mercedes è di profilo, quindi non si vede la targa. Però ci sono altri particolari carini. Guardi qui.» Lei spostò la lente sul punto indicato. Esaminò in silenzio la zona per un momento. «Un'automobilina da golf?» «Anch'io l'interpreto così, ma il campo da golf più vicino è in Finlandia. E, in tutti i casi, ha mai sentito parlare di un'automobilina da golf in territorio sovietico?» «Certo che no», disse Katharine pensierosa. «Non vede nient'altro d'interessante lì?» la stuzzicò Martin. Lei guardò di nuovo. «Due uomini, uno dei quali porta una specie di berretto da golf o da baseball.» «Sì, ma non intendevo questo. Guardi il tipo in piedi presso il cancello.» Katharine guardò. L'automobilina da golf si dirigeva verso un piccolo cancello che sembrava segregare una zona dal resto del complesso. C'era una guardia in uniforme con un'arma a tracolla. Oltre al cancello non c'era altro che la sponda del bacino. «Dove sta andando il veicolo?» domandò. «È una cosa senza senso: un cancello sorvegliato, ma con nient'altro che una spiaggia di sassi dall'altra parte.» «Non parlavo di quello», disse Martin spazientito. «Guardi l'arma della guardia. La riconosce?» Lei spostò la lente sulla sentinella, che stava facendo il saluto alle persone che erano nella vetturetta. Si vedeva la sua arma pendergli di traverso sulla schiena. «È un po' sfocato, ma... Santo cielo, Martin, sembra un fucile mitragliatore Ingram.» «Potrebbe anche essere un Uzi», disse Martin, «ma non ho mai visto quel tipo di soppressore su un Uzi. Secondo me è un Mac 10. Ancora una cosa, poi me ne vado.» Indicò l'acqua, a circa duecento metri dal cancello, a un dito o due dal margine della foto. «Dia un'occhiata lì.» Katharine portò la lente sul punto indicato e lo fissò attentamente, cercando di spiegarsi ciò che vedeva. Nell'acqua c'era qualcosa, qualcosa di molto piccolo. Sembrava che sfiorasse la superficie, creando una scia. «Mio padre è un pescatore», disse pensierosa. «Questo assomiglia un po' a uno di quei cosi, come si chiamano... a un galleggiante. Ne aveva uno che si spostava sul pelo dell'acqua. Sembra un galleggiante, solo che è più grosso. Ricordo che non ha mai preso niente con quel metodo.» «Sì, gli assomiglia vagamente», assentì Martin, «ma è più grosso. A me
sembra il periscopio di un sommergibile.» Katharine gli lanciò un'occhiata penetrante. «Ne è sicuro?» Martin rise. «Nemmeno per sogno, ma guardi qui.» Aprì sulla scrivania una specie di mappa. «Non esistono carte nautiche americane, britanniche, svedesi o finlandesi della zona, ma sono riuscito a scovare una carta aeronautica. Vede il quadratino che ho disegnato qui? Questa è l'area fotografata dal satellite. Il nostro uccellino sta passando da nord-ovest a sud-est, quindi il quadrato della zona è un po' inclinato. Qui abbiamo il Baltico, poi la costa lettone, poi, appena all'interno della costa, un altro specchio d'acqua che si chiama Liepaja Ezers, una specie di laguna di marea, divisa dal Baltico da questa sottile striscia di terra. Qui c'è uno stretto passaggio, probabilmente naturale, ma altrettanto probabilmente reso più profondo, perché vi possano passare imbarcazioni. Può darsi che lo usino per far entrare e uscire sottomarini.» Lei fissò l'oggetto nella fotografia. «Non è un periscopio, è troppo piccolo», disse. «È un periscopio d'attacco», disse Martin. «I sommergibili ne hanno uno regolare per gli usi normali, ma quando ci sono navi nemiche nei paraggi, ne usano uno molto più piccolo, che produce una scia meno cospicua. Secondo me questo oggetto è proprio dell'esatta misura di un periscopio d'attacco.» Katharine guardò tutt'intorno alla foto. «Ha mai visto, in questa o in altre foto di satelliti, qualcosa che rivelasse l'esistenza di una base di sommergibili?» Martin scosse la testa. «Nient'affatto. E la circostanza rende la mia teoria che questo oggetto sia un periscopio molto dubbia, a meno che non abbiano fatto entrare il sottomarino nella laguna e lo abbiano tenuto lì sommerso per chi sa quale esercitazione. Ma chi diavolo può sapere che cosa stanno macchinando in quel posto?» Si alzò e si infilò faticosamente la giacca. «Be', non sta a me tirare a indovinare. Io sono quello che guarda le immagini, lei è quella che le analizza, quindi se l'analizzi pure. Io vado a casa a dormire.» «Grazie, Martin», disse con calore lei. «Le sono riconoscente d'avermi mostrato la foto prima di uscire e anche per essersi preso la briga di scovare la carta aeronautica.» «Fa tutto parte del lavoro», disse Martin, già voltato per uscire, salutandola con un gesto della mano. «Fa parte del nostro cordiale servizio a domicilio tra amici della CIA.»
Katharine rimase seduta a fissare la foto del satellite, la vetturetta da golf, il probabile Ingram, il probabile periscopio, la Mercedes. Forse fu grazie al fatto che era mattino presto e si sentiva in forma; forse fu un messaggio extraterrestre; forse fu il suo intuito femminile, cioè la sua dote meno gradita dai superiori, forse perché era pazza: ma una mezza dozzina, otto, addirittura dieci frammenti isolati di notiziole all'apparenza inutili si riunirono d'improvviso nella sua mente. E Katharine ebbe in mano qualcosa. Fu come se, vedendo sparsi davanti a sé i pezzi di un rompicapo, avesse di colpo immaginato l'intera scena con l'aiuto di un loro casuale avvicinamento, senza neppure guardare il disegno sulla scatola. Katharine accese COSMO, richiese gli indici analitici di rapporti arrivati dalle stazioni e cominciò a spigolare augurandosi con tutto il cuore che il personale che inseriva i dati nel calcolatore non fosse in arretrato con il lavoro, perché lei non era certa di poter ritrovare tutti gli appunti passati dalla sua scrivania. Ebbe fortuna. Selezionò certi fatti man mano che li leggeva e li passò alla sua stampante. Entrò nel programma NEXIS, un notiziario su calcolatore, ne estrasse una dozzina di fatti di cronaca che risalivano all'ottobre del 1981. Prima di pranzo aveva completato il suo lavoro, un ridicolo fascio striminzito di rapporti, di fatti e di supposizioni. Per tutta la mattinata non smise di pensarci su. L'idea non l'abbandonava, non voleva frammentarsi, rimaneva nella sua mente e vi cresceva. Kate aveva la soluzione in pugno, ne era sicura, vi credeva. Raccolse gli stralci, la foto del satellite, la carta aeronautica, tutte le speranze che riuscì a infondersi e si avviò verso l'ufficio di Alan Nixon. 12 Seduto sullo scomodo sedile di plastica, Helder controllò ancora una volta la lista. Aveva esaminato con Sokolov il Tipo Quattro in ogni minimo particolare e doveva ammettere che, quando si trattava di elettronica e delle altre attrezzature di bordo, la donna sapeva il fatto suo. Lo turbava ancora la sua mancanza di esperienza con unità subacquee, ma, data la posizione dei comandi del piccolo sommergibile, non ci sarebbero state difficoltà. Helder avrebbe tenuto la rotta e messa al suo posto la boa, Sokolov avrebbe sorvegliato i sistemi elettrici, meccanici ed elettronici e usato la radio. Helder approvava la sistemazione dei sedili a prua e a poppa, che almeno gli evitava di vedere direttamente di continuo quella faccia implacabile e quegli occhi privi di espressione. A sinistra sopra la sua testa era
fissato uno specchio, ma in un punto piuttosto scomodo, che non invitava a usarlo. Se avesse avuto un altro equipaggio, Helder avrebbe magari ordinato di spostarlo, ma, con Valerie Sokolov, era felice di quella posizione. Per di più, quella donna puzzava. Erano rinchiusi nel piccolo sommergibile da non più di cinque minuti e l'interno era già invaso dal fetore di uno spogliatoio di palestra. Helder diede uno sguardo di là dagli oblò di prua, che gli offrirono una scena divisa a metà. La parte inferiore dei vetri rotondi era sott'acqua, la parte superiore in superficie. La squadra dei meccanici gli rese lo sguardo. Uno di loro gli fece segno sollevando il pollice. Helder rispose allo stesso modo. «Pronti all'immersione», disse tanto a se stesso quanto a Sokolov. «Pronti», rispose questa. A Helder dava fastidio che non si rivolgesse mai a lui chiamandolo capitano o comandante, ma non lasciava trapelare il suo disappunto. Sokolov non pronunciava mai una sola sillaba in più dello stretto necessario. «Timoni a scendere», proseguì Helder allungando la mano sugli interruttori del quadro alla sua destra. Allagare le casse, elencò dentro di sé, quindi azionò gli interruttori. Ci fu un ronzio e il Tipo Quattro si immerse rapidamente. In assetto orizzontale a due metri, ordinò, sempre a se stesso: le sue dita e il sommergibile gli ubbidirono. Helder era abituato a dare ordini all'equipaggio. Bisognava che ne perdesse l'abitudine: ci voleva troppo tempo. In caso di pericolo non avrebbe potuto sprecare la frazione di secondo necessaria a dare l'ordine: avrebbe solo dovuto reagire. Mise il motore sui due nodi. Era una velocità inferiore di un nodo a quella di crociera, ma gli permetteva un buon controllo del Tipo Quattro. Ci fu un lungo gemito, poi immediatamente il piccolo sommergibile si spostò in avanti uscendo dall'attracco. Quando lasciarono il riparo del tetto della base, nella camera di manovra entrò una luce pallida e l'illuminazione interna parve a Helder inutile. «Spegnere le luci interne», comandò. Non successe nulla. Girò la testa e guardò, in alto nello specchio, Sokolov che teneva gli occhi sbarrati davanti a sé. «Sokolov! Spegni le luci interne!» La donna sussultò, per un momento sembrò confusa, spaventata, poi toccò l'interruttore. «Grazie», disse Helder con freddezza. «E, quando ti do un ordine, desidero che sia eseguito immediatamente, intesi?» Gli parve quasi di sentirla arrossire alle sue spalle. «Signorsì, chiedo scusa.» Helder tenne la stessa rotta per due o tre minuti, oltrepassò l'estremità del porticciolo, poi, dato uno sguardo alla carta nautica per un'ultima con-
ferma della posizione, diresse il piccolo sommergibile a sud lungo la laguna e spinse lievemente sulla barra. L'interno del Tipo Quattro si oscurò, gli strumenti di bordo baluginarono verdi nel buio. Helder premette con un piede sul timone destro, il sommergibile rispose subito. Provò il timone sinistro, il sommergibile girò, poi si raddrizzò a un suo tocco. I comandi erano ancora più sensibili che nella versione non modificata del Tipo Quattro. Questo gli piacque, perché aumentava la sensazione di volare sott'acqua. Helder premette di nuovo sulla barra di profondità e scese di altri due metri. Dai suoi strumenti risultava che sopra di lui c'erano otto metri d'acqua e quattro sotto. Secondo la carta il bacino diventava più profondo man mano che si andava verso sud. Helder continuò a spingere più in basso il sommergibile, sempre tenendo quattro metri d'acqua sotto la chiglia. La debole luce all'interno diminuì ancora. «Non... non vedo il mio quadro di controllo», disse Sokolov. La sua voce era inquieta. «Allora accendi le luci del tuo maledetto quadro, avresti dovuto farlo prima di salpare.» Bene. Aveva bisogno d'imparare a rigare dritto. «Non riesco a trovare l'interruttore delle luci del pannello», disse in fretta Sokolov. «Non hai una lampadina tascabile lì dietro?» le domandò Helder severo. Si udì un rumore di oggetti urtati e pochi secondi dopo una luce brillante si riverberò sull'interno bianco del sommergibile. «Ecco, ho trovato l'interruttore», disse Sokolov. La lampadina tascabile si spense lasciandoli in un'oscurità totale. Helder fermò il motore e lasciò che il Tipo Quattro scendesse fino a cozzare contro il fondo. «Magnifico», disse. «Adesso hai disabituato i miei occhi al buio. Staremo fermi qui finché ci vedrò di nuovo.» «Mi spiace, capitano», disse Sokolov in tono mansueto. «Mi spiace moltissimo, non ci avevo pensato.» Bene. Ora, almeno, lo chiamava capitano, senza che glielo avesse chiesto. Helder diede uno strattone alla barra e lanciò il motore al massimo dei giri. Sentì Sokolov sussultare, quando il piccolo sommergibile si impennò e partì in volata verso la superficie. Sogghignando, lo rimise in assetto orizzontale a due metri. Aveva domato Sokolov, ne era convinto. Adesso bisognava scoprire se, in questa missione, sarebbe mai stata qualcosa di più di una passeggera. 13
Mentre si sedeva di fronte alla scrivania di Alan Nixon, Katharine sentì che il cuore le sbatacchiava furiosamente nella cassa toracica. Come sapeva istintivamente di avere in mano qualcosa di estrema importanza, altrettanto istintivamente sapeva che da questo incontro dipendeva tutta la sua indagine. Lei e Nixon erano molto diversi. Nel suo lavoro Katharine aveva preparazione ed esperienza, era brillante, persino impulsiva, ardimentosa. Ma aveva difficoltà nel valutare le conseguenze politiche delle sue azioni. Nixon aveva una preparazione da dirigente, non da analista; aveva una mentalità politica; anche se non aveva una grande padronanza dell'analisi delle informazioni, all'opposto di lei, raramente compiva passi falsi quando avanzava richieste di finanziamenti o quando consigliava una determinata azione. Se quel giorno Kate fosse riuscita a svegliare il suo interesse, Nixon avrebbe saputo da chi ottenere udienza e come meglio comportarsi. Kate respirò profondo e cominciò. «Alan, ho bisogno del tuo aiuto.» Le sembrò che il modo migliore per avvicinarlo dovesse essere un'implorazione, non una dichiarazione. «Ma certo, Kate. Tutto quello che posso fare.» Nixon appoggiò i piedi sulla scrivania e intrecciò le mani sulla cintura (come lei sapeva per esperienza, quello era il suo atteggiamento più ricettivo), poi chiese: «L'argomento è sempre il tuo Majorov?» Bisognava andarci piano perché Nixon era già maldisposto riguardo la sua idea. «Parzialmente», rispose, «e molto ampliato. Ma lascia che cominci con qualche avvenimento del passato. So che sei informato di tutto quanto», sorrise sentendosi molto falsa, «ma ho bisogno di mettere insieme ogni dato, più per me che per te, quindi abbi un po' di pazienza.» Nixon fece un bel sì con la testa. «Nell'ottobre millenovecentottantuno un sommergibile sovietico della classe Whiskey si arenò sulla costa svedese, nelle vicinanze di un'installazione militare segreta. La notizia riempì le prime pagine dei giornali, come ben ricorderai; dopo quell'episodio ci fu un profluvio di avvistamenti di periscopi in svariate parti della Svezia. Un ufficiale della marina svedese, che stava pranzando nel centro di Stoccolma, ne avvistò uno nel bel mezzo della città, in un momento in cui erano lì in visita tre navi da guerra americane. Cose di questo genere.» Nixon inarcò le sopracciglia. «Questi fatti, però, non erano interamente nuovi; da anni arrivavano rap-
porti che parlavano di sommergibili sovietici nelle acque territoriali svedesi. Ne deducemmo che fossero lì per offrire ai loro equipaggi l'occasione di difficili esperienze nelle acque di un paese che, anche se non proprio amico, non è neppure ostile. Se ne avvistavano circa una ventina l'anno. Ma, dopo l'incidente del Whiskey, il loro numero è aumentato a duecento l'anno, tra cui alcuni casi molto strani.» «Perché strani?» domandò Nixon, dimenticando che avrebbe dovuto conoscere tutti questi fatti. «Per prima cosa, anche se diffidati, i sommergibili non prendono più la fuga com'erano soliti fare. Molto spesso si inoltrano nelle acque territoriali svedesi, anche quando sono inseguiti. In secondo luogo, sono giunti rapporti degni di fede non soltanto su sommergibili, ma anche su sommozzatori che sbarcherebbero da questi, dirigendosi a terra. A volte i soldati sparano su di loro, senza mai colpire nessuno. La cosa più strana di questa faccenda è che né il governo, né i militari, né i servizi segreti della Svezia e neppure i nostri militari e i nostri servizi d'informazione, nessuno, insomma, sia mai riuscito ad avanzare un'ipotesi accettabile sulle ragioni che spingono i sovietici a fare così. Certo, esiste una quantità di spiegazioni che spaziano dalle esercitazioni al puro divertimento; ma nessuna teoria quadra realmente, nessuna stabilisce quali possano essere i vantaggi che i sovietici ricavano da tutto ciò in confronto ai gravissimi svantaggi. Per esempio, sono stati svergognati pubblicamente dalla stampa di tutto il mondo, quando il loro sommergibile finì in secco e fu catturato sulle coste svedesi, ma non per questo le loro incursioni sono cessate. Come ti ho già detto, da quell'incidente in poi si sono, anzi, decuplicate.» «Certo, hai ragione, Kate; tutta la faccenda è sicuramente sconcertante. Hai una teoria nuova sui motivi dei sovietici?» Lei alzò una mano. «Non ho una teoria nuova, forse ho qualcosa in sostegno di una vecchia teoria. Ma abbi pazienza, bisogna introdurre altri dati. Sono oltremodo dispersi, però ne emergerà forse un ampio quadro che mi porterà a Majorov, il quale potrebbe appunto essere la chiave di tutta la faccenda.» Nixon tolse i piedi dalla scrivania e si raddrizzò. La sua faccia era diventata inespressiva. Katharine dispose le due foto prese dal satellite sulla scrivania. «Qui abbiamo, si direbbe, un tipo specialissimo di campo d'addestramento militare. E a Liepaja, sulla costa lettone; è speciale perché i russi si sono fatti in quattro per dargli l'apparenza di qualche altra cosa.» Kate indicò gli uomi-
ni che correvano e la doppia palizzata. «Sappiamo che a Majorov piacciono le macchine e gli aggeggi stranieri costosi. Ed ecco qui, sempre in quella base, fa' attenzione, una Mercedes 500 SE, che non esiste affatto fuori di Mosca e, ci crederesti? una vetturetta da golf.» Nixon prese da un cassetto della scrivania una grossa lente d'ingrandimento ed esaminò la macchinina. Katharine picchiettò sulla fotografia. «Scommetterei un anno di stipendio che uno dei due uomini nella vetturetta, quello con il berretto da baseball, è Majorov. E la presenza di Majorov proprio qui aumenta l'importanza della base all'ennesima potenza.» «Che cos'altro hai scoperto, Kate?» domandò Nixon. «Robetta, cose strampalate, ma tutto quadra. Uno: le lavanderie di due basi della fanteria di marina lavano di colpo un numero notevolmente inferiore di camicie. Questo significa che molti uomini sono stati trasferiti altrove. Due: il mese scorso duemila fucili mitragliatori Ingram modello 10 sono stati rubati da un deposito d'armi britannico. E questa sentinella», mise la mano sulla foto, «ha un Ingram Mac 10 ad armacollo. Tre: non conosciamo nessuna base di sommergibili sovietici tra Leningrado e Kaliningrado, vicino alla frontiera polacca, ma uno dei nostri migliori analizzatori di immagini dice che quel piccolo oggetto lì è il periscopio di un sommergibile. Quattro: adesso ascolta questa, ti prego. Negli ultimi due anni i sovietici hanno di colpo incrementato moltissimo l'insegnamento della lingua svedese nelle loro attività e nei loro centri linguistici. Lascia che ti dica una cosa, Alan. Lo svedese è la lingua più inutile del mondo, se non vivi in Svezia.» Nixon le diede un'occhiata tagliente. «A che cosa vuoi arrivare, Kate?» Lei tirò fuori dalla sua cartellina un articolo di giornale. «Questa è una citazione delle esatte parole del viceammiraglio Bengt Schuback, che a quel tempo era capo di stato maggiore della Regia Marina svedese e che ora è l'equivalente del nostro capo di stato maggiore generale: 'Una potenza straniera sta preparandosi alla guerra contro la Svezia'.» Posò il foglio e guardò Nixon. «Questa, naturalmente, non è che una delle tante teorie circa quel che fanno in acque svedesi i sommergibili sovietici ma, secondo me, quanto sta avvenendo qui le dà molta importanza, non ti pare?» Nixon la fissò per un momento, ammutolito, poi riuscì a parlare. «Ma perché? Perché mai i sovietici abbandonerebbero d'improvviso la loro politica di espansione senza conflitti armati, per fare qualcosa che potrebbe provocare la terza guerra mondiale?»
«Provocare la terza guerra mondiale? E con chi? Con noi? La Svezia è risolutamente neutrale tanto quanto la Svizzera; non ha nessun alleato, ripeto, nessuno. Supponiamo per un momento che la NATO decidesse d'intervenire; come faremmo? Non abbiamo sul posto forze di terra che potrebbero fermare l'invasione sovietica della Svezia, dovremmo fare uso di armi nucleari. E riesci a immaginare, anche soltanto per un attimo, che la NATO farebbe scoppiare una guerra nucleare e rischierebbe la distruzione dell'Europa, magari del mondo, per impedire a otto milioni di svedesi di cadere nelle mani dei sovietici?» Nixon, con gli occhi come annebbiati, sedeva paralizzato, incapace, evidentemente, di parlare. Poi ritornò in sé. «Kate, dovrò discuterne con altre persone. È tutto quel che hai scoperto?» «È tutto quanto sono riuscita a scoprire senza chiedere autorizzazioni. Se tu me ne darai la facoltà, so di poter scovare molto, molto di più.» Katharine fece uno sforzo di volontà per parlare con voce fredda e calma. «Vedi, Alan, non voglio fare la figura di una fanatica circa questa faccenda; so, tanto quanto ogni altra persona alla quale stai per parlare, che tutto quel che ho in mano è solo, nel migliore dei casi, una congettura ben costruita. L'analisi delle informazioni a volte è solo un gradino più su delle previsioni dei maghi, come ben sai; ma devo dichiararti che ho la ferma convinzione, fondata sulla mia esperienza, che laggiù si sta macchinando qualcosa. Però non posso provarlo; e non sarò mai in grado di provarlo, se non ti riuscirà di persuadere qualcuno a varare una qualche operazione segreta che mi procuri altre informazioni vitali.» «Che specie di operazione vorresti?» Katharine non si lasciò tirare a dar consigli. Simon Rule era direttore delle Operazioni e non l'avrebbe entusiasmato ascoltare il suo parere in proposito. «Nella Compagnia c'è gente più qualificata di me per deciderlo», disse. «Quando vedranno questa roba, sapranno di quali dati avranno bisogno e potranno dare l'incarico alle organizzazioni apposite. Desideri che venga con te a esporre il mio caso?» Sapeva che Nixon l'avrebbe fatto meglio di lei, se l'avesse creduta. E le credeva. «No, penso sia meglio che mi destreggi solo, almeno per il momento. Andrò a vedere qualcuno subito, quindi rimani nel tuo ufficio finché ti chiamerò. Qualcun altro è informato della faccenda?» «Solo di qualche frammento. Sei l'unico al quale ho detto tutto quanto.» «Non farne parola con nessun altro.» Nixon uscì dal suo ufficio con l'incartamento e la lasciò lì, in piedi. Katharine tirò una mezza dozzina di sospiri. Ce l'aveva fatta, era riuscita ad agganciare Alan Nixon, la prossima
mossa toccava a lui. Ritornò nel suo ufficio con passo leggero. Quando Alan Nixon fosse andato in pensione, a Kate sarebbe piaciuto sostituirlo: questo era il tipo di operazione che l'avrebbe aiutata a ottenere il suo posto. Sapeva che il suo era stato un lavoro brillante, l'occasione che si presenta una sola volta nella carriera, se hai fortuna. Lei aveva avuto fortuna. 14 Helder fece un altro giro intorno al piccolo sommergibile, con il taccuino in mano. Alzando gli occhi, vide Majorov che si avvicinava a lunghi passi attraverso il gigantesco capannone. Non gli sarebbe piaciuto sentirsi dire che nel suo piano c'erano errori: Majorov era un pianificatore nato. «Buongiorno, Helder», disse Majorov. «Sokolov.» «Buongiorno, colonnello», risposero all'unisono Helder e Sokolov. «Che difficoltà ci sono?» domandò il colonnello. «Spero che non ce ne siano, signore», rispose Helder. «Mi auguro che la vera boa pesi meno del facsimile.» «Invece peserà una cinquantina di chili in più. Mi rincresce, avrei dovuto dirtelo prima. Ci saranno difficoltà?» «No di certo, colonnello», interruppe Sokolov. Helder si voltò rapido verso la donna. «Sokolov, sull'attenti!» Valerie Sokolov si mise sull'attenti con la maggior lentezza possibile. «Chiederò il tuo parere quando desidererò conoscerlo», disse Helder. Si girò di nuovo verso Majorov. «Colonnello, chiedo scusa per il mio equipaggio. È sicuro del peso della nuova boa? Che cosa mai può pesare più del cemento massiccio?» «L'uranio 235», rispose Majorov. «Che cosa?» Helder non riuscì a celare il suo sbalordimento. «Non preoccuparti, Helder», lo rassicurò Majorov. «Non attivo. È più pesante del piombo e gli ideatori della boa vogliono una base pesantissima per ragioni di equilibrio. Per servirci, la boa deve rimanere in posizione eretta. Che effetto avrà l'aumento di peso sul sommergibile?» «Colonnello, con il peso che ha ora la finta boa, il sommergibile ha uno scarso margine di manovrabilità. Se aggiungiamo altri cinquanta chili, credo che dovremo aumentare la superficie dei timoni di profondità e di direzione, per renderlo più maneggevole. Sokolov non è d'accordo con me», aggiunse Helder. «Sokolov, esponi le tue idee.» «Effettivamente non sono d'accordo, colonnello», disse Sokolov, sempre
sull'attenti. «Ho partecipato a tre giorni di prove con la falsa boa a bordo; secondo me il sommergibile ubbidisce in modo adeguato ai comandi.» «Helder?» domandò Majorov rivolgendosi a lui. «Sissignore, il sommergibile ubbidisce in modo adeguato ai comandi navigando nella laguna, ma credo d'avere capito che questa sarà una missione in territorio nemico!» «È così», confermò il colonnello. «Quindi devo dedurre che potrebbe capitarmi di posare la boa mentre mi danno la caccia, addirittura mentre mi sparano addosso cariche di profondità. Ora come ora la manovrabilità non è adeguata a una missione di guerra, anche con la falsa boa. Aggiungendogli altri cinquanta chili, il sommergibile diventerà davvero molto lento. Per inciso, suppongo che le cifre sull'autonomia che mi ha date siano calcolate con il vero peso della boa.» Majorov annuì. «Sono calcolate tenendo conto del peso della boa per il sessanta per cento della missione. Naturalmente, durante il viaggio di ritorno, il peso della boa non ci sarà più.» «Signore, devo ancora sottolineare il mio disaccordo», intervenne Sokolov. «Adesso il sommergibile risponde adeguatamente e non capisco perché cinquanta chili in più dovrebbero avere tanta importanza.» «Non lo capisci», interruppe Helder, «perché non sei ai comandi e non hai la minima esperienza pratica a sostegno della tua opinine.» «Helder», disse Majorov, «da' tutte le istruzioni che ti sembrano necessarie per modificare il sommergibile e fammi sapere quanto ci vorrà per eseguirle con la massima prontezza possibile.» «Ci vorranno tre giorni di lavoro, signore», lo interruppe Sokolov. «Sbagli, Sokolov», disse Helder seccamente. «Ci vorrà un giorno e mezzo, perché non dormirai finché il lavoro non sarà finito. Incomincia ora.» «Sissignore» sibilò la donna a denti stretti, poi girò su se stessa e si allontanò chiamando nel frattempo la squadra della manutenzione. «Colonnello Majorov», chiese Helder in tono stanco. «Devo pregarla di sostituire Sokolov. Non solo non ha esperienza di sommergibili, ma dà prova di continua insubordinazione. Devo dirle che se l'avessi in un sommergibile della marina tra un equipaggio da addestrare, l'avrei già sparata fuori con un lanciasiluri.» Majorov rise e diede a Helder un colpetto sulla schiena. «Lo so, Helder, mi ero aspettato qualcosa di simile, anzi devo dirti che la stai maneggiando benissimo. Ma abbiamo molti altri motivi per darle questo incarico. Valerie Sokolov è un'eroina nazionale per la sua impresa olimpionica. Suppon-
go tu ti renda conto della parte svolta dagli eroi dello sport nella nostra vita nazionale. Quando quest'operazione sarà portata a termine, avrà importanza che certi personaggi noti alla nazione vi abbiano preso parte. Però ti prometto che, subito dopo il buon esito dell'operazione, non la incontrerai mai più in azione. Sarà occupatissima a visitare fabbriche e scuole, stimolando operai e studenti. Credimi, nonostante la sua reputazione, non te l'avrei assegnata se non fosse stata preparatissima nel suo lavoro. So che non ha esperienza di sommergibili, ma la sua è una funzione tecnica; so benissimo che un comandante della tua esperienza con marinai novellini può avere la meglio su una sola donna, per quanto arrogante e difficile.» Diede un'altra pacca sulla schiena di Helder. «Prosegui in fretta con le modifiche e con l'addestramento. Siete ancora in orario, sarete pronti al momento giusto.» E Majorov si avviò in fretta alla porta, come per evitare altre discussioni. Helder ritornò presso il sommergibile con un peso che gli opprimeva il petto. Non aveva avuto tempo di rivelare la sua più importante obiezione contro Sokolov. Nel sommergibile, sott'acqua, Sokolov aveva paura e non riusciva a superarla, neanche con il progredire dell'addestramento. Helder era spaventato dalla sua paura. 15 Katharine tamburellò con le dita sul davanzale della finestra e lanciò un'occhiata involontaria al telefono. Era passata più di un'ora. Nixon era ancora impegnato al piano di sopra, lo sapeva perché aveva telefonato due volte alla segretaria e non lo aveva trovato nel suo ufficio. La durata del colloquio era incoraggiante, pensò lei. Aveva esposto il caso a Nixon in pochi minuti. Quanto più a lungo parlavano, tanto più fede prestavano alla sua teoria. Aspettava ormai da due lunghe ore quando si decise a telefonare a Will Lee. «Salve.» «Salve!» Non c'era mai bisogno di nomi; conoscevano bene l'uno la voce dell'altra. «Senti», disse Katharine cercando di parlare con tono indifferente. «Ti invito a cena questa sera, dove vuoi tu.» «Ti prendo in parola. Va bene il Lasserre, a Parigi, alle otto e mezzo circa?»
Lei rise. «Se tu riesci a portarmi là per le otto e mezzo, io offro.» «Oh. Allora andiamo alla Maison Blanche di F. Street, ti vengo a prendere alle otto.» «Spero che accettino la carta di credito; lo stipendio arriva soltanto il quindici.» «Ti sembro il tipo che approfitta indebitamente della tua gentile offerta in un posto che non accetti la tua carta di credito? In tutti i casi, se così fosse, li convincerò a tenere un tuo assegno fino al giorno in cui ti pagheranno lo stipendio.» «Sei un vero signore.» «Lo sapevi già. Che cosa festeggiamo?» «Te lo dirò a cena. A proposito, abito da sera.» «Conosci a menadito l'arte di prenderti una rivincita, vero?» «Alle otto. Fissa tu il tavolo.» La donna riappoggiò la cornetta, si guardò intorno e trasalì. Alan Nixon era sulla soglia dell'ufficio. «Alan, mi hai fatto una paura del diavolo!» Nixon non parlò. Chiuse la porta e si sedette. Buttò la cartellina dei documenti sulla scrivania. La sua faccia era inespressiva, cosparsa di puntolini rossi. Vedendo che stava zitto, parlò Katharine. «Hai fatto rete», disse. «Non ho fatto rete», rispose Nixon, fregandosi la sella del naso. «Sono stato espulso dalla partita. Preso a calci e spedito fuori del campo da gioco. Mi è già andata bene che gli spettatori non mi abbiano massacrato a colpi di sedia in testa.» Lei si accasciò. «Simon non ci ha creduto, vero?» «Simon non ha quasi aperto bocca. Chi ha parlato in continuazione è stato il direttore.» «Il direttore! Alan, non sei mica già andato dal direttore?» «No, sono andato da Simon. Avevo iniziato da due minuti la mia storia, quando è entrato il direttore. Solo una visita amichevole. Simon mi ha consigliato di ricominciare da capo, per il direttore, soltanto per dargli un'idea del modo di lavorare dell'ufficio sovietico.» «Quel bastardo», disse lei nascondendosi la faccia tra le mani. «Il direttore è un dilettante.» «Strano», disse Nixon, «è così che il direttore ha chiamato me» La sua voce si alzò lievemente, Katharine cominciò a capire quanto fosse infuriato. «Mi ha strappato un bel pezzo di pelle, sotto gli occhi di Simon Rule», continuò Nixon. «E la cosa non mi è piaciuta.»
«Mi rincresce, Alan, mi rincresce che tu abbia dovuto sopportare una cosa del genere per colpa mia.» «Rincresce ancora di più a me», disse Nixon alzandosi in piedi. «E credimi, non capiterà più.» Batté con la mano sulla cartellina posata sopra la scrivania. «Sbarazzatene, Kate. Smetti di lavorarci su, ritorna al tuo lavoro normale. Se ti arrivasse qualche altra cosa su Majorov aggiungila alla sua biografia, ma non voglio più sentirne parlare.» «Senti, Alan», disse Kate disperata. «C'è ancora altro. Majorov non è stato citato in nessuno dei sommari degli interrogatori di Malakhov. Credo che nessuno l'abbia interrogato in proposito; a quel tempo non c'era nessun motivo, suppongo. E naturalmente Malakhov non ne ha parlato volontariamente. Non potremmo chiederlo al capo della squadra che lo ha interrogato? Non potremmo fare almeno questo?» «Ascolta, Kate», disse Nixon furente. «Ed Rawls è il miglior specialista in interrogatori che abbia la CIA; e ciò che non è nei suoi rapporti, non è neppure nella testa di Malakhov.» Dunque, Ed Rawls dirigeva gli uomini che interrogavano Malakhov, pensò lei. Proprio per questo motivo era a Washington, per consegnare il rapporto definitivo. Nixon si avviò alla porta. «So che non la smetterai», sbottò furibondo. «So che sei una maledetta anarchica e che non accetti gli ordini. Bene, lascia che ti dica questo, Kate. Se sento che hai passato anche un solo minuto a occuparti di questa faccenda prima, durante o dopo le ore d'ufficio; se qualcuno viene da me a dirmi che ha sentito qualcun altro dire che hai avanzato anche una sola richiesta di fondi per inseguire questa tua fantasia, non soltanto ti toglierò questo ufficio, ma ti spedirò via a calci da questo consiglio direttivo, mi senti? Ti metterò nel reparto personale e andrai a reclutare studenti nelle università! Mi sono spiegato bene?» Katharine assentì silenziosamente. Nixon aprì la porta, uscì e se la chiuse alle spalle. Katharine si chinò in avanti e posò la testa sulle braccia. Aveva intravisto qualcosa e vi si era gettata sopra con troppa fretta; aveva lasciato che il suo intuito avesse il sopravvento sul suo senso critico; aveva rovinato i suoi rapporti con il suo immediato superiore, stabiliti con un lavoro di anni; il suo nome era giunto alle orecchie di quel mediocre politicante del direttore, cioè di Dio Onnipotente; ed era stato messo nella peggior luce possibile. Questa faccenda sarebbe finita nella sua scheda l'avrebbe perseguitata per anni. Peggio ancora, avrebbe dato a Simon qualcosa di concreto da
usare come leva per scacciarla dall'Agenzia, una leva che finora non aveva ancora avuta in mano. Era nei guai e lo sapeva. Ma Nixon aveva ragione: Kate non si sarebbe fermata. Era convinta che fosse molto importante. Avrebbe dovuto procedere con cautela, ma non si sarebbe fermata. Prese il telefono. «Smith.» «Martin? Qui parla Kate Rule.» Un attimo di silenzio. «Sì, Kate?» «Senta, potrebbe passarmi copie di tutte le foto della zona di Liepaja che arriveranno ancora dai satelliti?» Una pausa più lunga. «Senta, Kate, ne sono spiacente, ho ricevuto proprio adesso un ordine di esclusione contro di lei.» «Che cosa?» «Meno di trenta secondi fa.» «Riguardo a che cosa?» «Scandinavia e bacino baltico.» «A che livello?» «Uno.» Merda. Probabilmente il direttore stesso. «Che autorità è stata citata?» «Fiordineve.» «Fiordineve?» «Così è scritto qui.» «Chi o che cosa è Fiordineve?» Un lungo silenzio. «Non lo so, Kate.» Katharine sussultò. Nell'Agenzia, un lungo silenzio seguito da 'non lo so' significa 'sai benissimo che non devi domandarmelo'. «Mi scusi, Martin. Grazie.» «Le auguro di venirne a capo, Kate. Mi piacerebbe poterla aiutare.» «Lo so.» E tutti e due agganciarono. Un ordine di esclusione contro il capo di un ufficio? Un caso senza precedenti. Questi erano guai seri. Sperò che l'ordine fosse stato mandato solo all'ufficio analisi dell'immagine; se il direttore era tanto pazzo da mandarlo a tutti gli uffici, a fine mattina del giorno dopo Katharine sarebbe stata una paria. Ficcò l'incartamento nella cartella. Desiderava uscire di lì. Guidò verso casa lentamente, intontita e smarrita. Appena entrata, salì faticosamente le scale e si buttò sul letto. Un po' di tempo dopo si svegliò. C'era stato un rumore. Il campanello? Scese barcollando le scale nella semioscurità, cercando di schiarirsi le idee. Il campanello suonò di nuovo,
proprio mentre Katharine metteva la mano sulla maniglia della porta. Aprì. C'era Will Lee, in abito da sera. 16 Helder osservò l'ago della radiobussola e con il piede spinse il timone a destra per una correzione di due gradi. Il sommergibile cambiò rotta rapidamente; il timone in direzione ingrandito faceva il suo dovere. Lo convincevano meno quelli di profondità. Bisognava ancora lavorarvi sopra. Era la prima esercitazione notturna di combattimento simulato, con il sommergibile appoggio, senza luci. Helder aveva soltanto le coordinate del Juliet; i segnali radio che emettevano dei bip bip in modo irregolare per non attirare l'attenzione di un ascoltatore nemico all'erta e per l'avvicinamento nella fase finale, una minuscola lucina rossa all'interno della camera di lancio del sommergibile appoggio. Helder tenne d'occhio la bussola e ascoltò. Ricevette un altro bip, fece una correzione minima. Poi, nell'oscurità fitta, vide ammiccare la lucina rossa intermittente, che era posta in fondo alla camera ed era visibile soltanto di fronte, attraverso i portelli aperti. Se Helder si fosse avvicinato di notte, spostato anche solo di cinque gradi, avrebbe potuto cozzare contro lo scafo del sommergibile, producendo un rumore fortissimo, oppure non vederlo affatto. Spense il motore e lasciò che il Tipo Quattro scendesse sul fondo della laguna, poi innestò la trazione dei cingoli e salì con questi la rampa. Sentì un sordo gemito, mentre la rampa si chiudeva dietro di lui, poi si accorse che il sommergibile saliva e si spostava. Alle sue spalle udì Sokolov respirare in un modo troppo affannoso, che non gli piacque. Rimasero nell'oscurità per altri quattro o cinque minuti, ancora circondati dall'acqua, in attesa che il sommergibile appoggio si allontanasse dal punto di recupero. Poi ci fu un sibilo d'aria compressa e, di colpo, si accesero i riflettori della camera. Helder diede un rapido sguardo nel suo specchio retrovisore e fece in tempo a vedere la faccia di Sokolov grondante di sudore. Una volta ancora desiderò sostituirla, desiderò che la politica non avesse importanza. Ma la politica aveva sempre importanza, nelle forze armate non meno che nel partito. Mentre il livello dell'acqua si abbassava nella camera, Helder vide, attraverso il vetro dell'oblò d'osservazione, Majorov che gli faceva segni di congratulazione. Alzò il braccio per sollevare il portello sopra la sua testa. «No!» disse con voce tagliente Sokolov. «La camera non è totalmente
sgombra.» Helder si voltò e la fissò. «Non citarmi il regolamento, Sokolov.» «Ma far osservare il regolamento fa parte del mio compito, capitano», disse Sokolov. «Non citarmi in nessun caso il regolamento», ripeté Helder con fermezza, fissandola negli occhi, finché la donna fece un cenno di assenso. Girò il volantino, spalancò il portello e si alzò in piedi. Nella camera c'erano ancora novanta centimetri d'acqua, ma Helder aveva una gran voglia di stiracchiarsi. Anche con il nuovo sedile che aveva insistentemente chiesto, il Tipo Quattro continuava a essere troppo stretto. Helder si issò fuori del portello e sedette sul tetto del sommergibile tascabile, in attesa che la camera fosse asciutta. Vide che il volantino del portello girava e che Majorov si stava calando nella camera. «Ottimo, Helder», disse con il suo sorriso languido. «Vieni con Sokolov nel quadrato ufficiali appena vi sarete sgranchiti. Ho qualcosa da dirvi.» Risalì sul sommergibile appoggio, lasciando il portello aperto. Helder, seguito da Sokolov, si lasciò scivolare lungo lo scafo del Tipo Quattro fino al pavimento d'acciaio, ancora bagnato, della camera di lancio. Uscirono dal portello e furono immediatamente sostituiti dalla squadra di terra, che cominciò a ricaricare le batterie. A prua del Juliet la camera dei siluri era stata trasformata per il lancio dei sommergibili tascabili. Helder, attraversando il sommergibile appoggio, fu colpito, come sempre, dal suo aspetto vuoto, poiché mancavano le cuccette di prua e l'equipaggio addetto ai siluri. A bordo c'erano solo gli uomini necessari al lancio del Tipo Quattro, i quali perciò avevano a loro disposizione uno spazio insolito. Il capitano aveva addirittura una cabina, mentre Helder, quando comandava un Whiskey, era vissuto in un bugigattolo; anche il quadrato ufficiali era più spazioso. Majorov e il comandante del Juliet li aspettavano al tavolo, su cui era aperta una carta nautica molto particolareggiata. Ricevute dal cuoco tazze di brodo, il gruppetto rimase solo. «Fino a questo punto», cominciò Majorov, «vi siete esercitati alla cieca. È arrivato il momento di venire a conoscenza dei particolari della vostra missione. Sono felice di dirvi che è piuttosto semplice.» Mise il dito su un punto vicino a Malibu e prese a muoverlo sulla carta seguendo la costa. Helder non si stupì vedendo che la carta rappresentava la costa della Svezia e l'Arcipelago di Stoccolma. «Vi avvicinerete a Stoccolma seguendo da vicino la rotta del traghetto Viking proveniente da Helsinki, per coprire il rumore dei vostri motori con
quello dei suoi.» Il dito di Majorov tracciò sulla carta la rotta del traghetto in mezzo all'arcipelago per circa due terzi del tratto fino a Stoccolma, poi si fermò. «Il sommergibile appoggio abbandonerà la rotta del traghetto qui, nella baia detta di Tràlhavet.» Indicò un braccio di mare tra dozzine di isole. «Dovreste arrivarvi intorno alle tre del mattino, ma l'ora non conta gran che, dal momento che in questa stagione c'è sempre poca oscurità. Lì, nella baia, il sommergibile appoggio si poserà sul fondo e farà subito uscire il Tipo Quattro.» Un istante prima che Majorov cominciasse la frase successiva, Helder si rese conto d'improvviso che quanto faceva era definitivamente, positivamente vero. Dopo anni di addestramento, di esercitazioni e manovre, stava per agire. Pendette dalle labbra di Majorov. «Di qui, Helder, procederai in direzione sud-ovest, seguendo la rotta segnata tra le isole dell'arcipelago, oltre la città di Vaxòn, affiorando a sud di questo canale più ampio, in acque più aperte. Questo dovrebbe essere piuttosto facile, dato che il canale è segnato con boe e che le boe sono illuminate. In quell'ora ci dovrebbe essere poco traffico, quindi potrai avvicinarti alla superficie, usando il periscopio con frequenza per trovare la successiva boa luminosa. Insisto però sulla necessità di non farne un uso costante, per ovvie ragioni.» Majorov sorrise. «Negli ultimi due anni abbiamo dato agli svedesi buone ragioni di avere la fobia dei periscopi.» Helder ammise che la navigazione in immersione nel canale non avrebbe incontrato difficoltà. Majorov continuò. «Emergendo in questo punto, girerai di nuovo in direzione sud-ovest, sempre seguendo il canale principale, oltre la città di Brevik alla tua dritta, fino a un punto qui, nel braccio d'acqua che chiamano Lilla Värtan. Qui deporrai il tuo carico.» Helder sentì un piccolo brivido. Il dito di Majorov era posato su un punto a non più di cinque chilometri dal centro di Stoccolma. «Quindi», continuò Majorov, «farai ritorno al sommergibile appoggio, seguendo la medesima rotta. Ti aspetterà esattamente ventiquattro ore, dato che questa è la durata massima della carica delle batterie e della provvista di ossigeno. Se dopo ventiquattro ore non sarete tornati, si penserà che abbiate abbandonato il mezzo oppure che siate morti o feriti. Come vedi, in totale dovrete percorrere solo dodici chilometri e alla normale velocità di crociera di tre nodi vi occorreranno meno di tre ore di tempo effettivo. Quindi avrete un margine di sicurezza che vi lascia molta tranquillità. Tuttavia quel margine presuppone un viaggio totalmente privo di ostacoli, co-
sa molto improbabile.» Il colonnello si alzò e cominciò ad andare avanti e indietro, parlando. «Dal giorno dell'incaglio del Whiskey, nel millenovecentottantuno, gli svedesi si sono rapidamente perfezionati nel dare la caccia ai sommergibili. Nel millenovecentottantuno ne circondarono quattro nell'arcipelago e tutti e quattro scapparono; ma dovete ricordare che da allora sono migliorati. Dovete essere pronti al peggio e dovete, ripeto, dovete, portare a termine la posa della boa, qualunque cosa succeda. Questa boa è più che essenziale al buon esito della nostra missione e ne esiste una sola; non abbiamo un'attrezzatura di riserva, non abbiamo la possibilità di una seconda spedizione, se la vostra fallisce. Se questa boa non sarà posta nella giusta posizione, la vita di centinaia, forse di migliaia rappresentanti del fior fiore delle forze armate sovietiche sarà messa a repentaglio.» Majorov fece una pausa, si voltò e guardò negli occhi Helder e Sokolov. «Detto questo, dovreste sapere che esiste una possibilità ancora peggiore di quella di non posare la boa; cioè, che l'uno o l'altro di voi cada nelle mani degli svedesi. Se per qualsiasi ragione doveste abbandonare il sommergibile, ciascuno di voi ha una 'leggenda' diligentemente preparata; riceverete altre istruzioni, che vi renderanno possibile recarvi in Finlandia, di dove sarete riportati a Malibu. Se vi trovaste su una spiaggia, separatevi immediatamente. Le vostre false storie sono costruite per persone che viaggiano sole. Ad ambedue è stato assegnata una pistola, prima della partenza vi saranno dati due caricatori e altri accessori che vi aiuteranno a sopravvivere. Si suppone che, se vi troverete nella necessità di usare due caricatori pieni, sarà improbabile che ve ne occorrano altri. Sarete anche dotati, come chiamarli, di accessori che vi aiuteranno a non sopravvivere.» Scosse la testa. «No, in questa occasione gli eufemismi non sono sufficienti. Lasciate che ve lo spieghi chiaro e tondo. Se cadrete nelle mani degli svedesi, dovrete togliervi la vita. Se l'uno o l'altra di voi ha qualche dubbio sulla propria capacità di eseguire questo compito, devo saperlo ora.» E sollevò le sopracciglia. «Nessun dubbio, colonnello», disse immediatamente Sokolov. «Nessuno, di nessun genere», fece eco Helder. Ma che diavolo, non si sarebbe mai ucciso. Sarebbe uscito sano e salvo dalla sua missione, in un modo o nell'altro. «Bene», disse Majorov. «Adesso rimane ancora una sola cosa. Ho il piacere di annunciarvi che i lavori alla boa sono ultimati. Arriverà a Malibu domani. Sokolov, ti dovrai accertare immediatamente che non insorgano
problemi di incastro tra gli uncini del sommergibile e le maniglie della boa. «Sì, colonnello», rispose Sokolov. Helder stava per domandare se si sarebbero esercitati con la vera boa, quando Majorov lo interruppe. «L'ufficio meteorologico mi ha avvertito che nei prossimi tre giorni avremo bel tempo», disse. «Nei giorni scorsi avete lavorato sodo, vi siete dimostrati pronti. Partirete domani sera.» Il cuore di Helder si fermò. Non erano pronti. Non era ancora nemmeno riuscito a discutere sulla faccenda dei timoni di profondità la cui superficie bisognava ancora aumentare; inoltre era sempre poco sicuro di Sokolov, non sapeva se sott'acqua avrebbe controllato i suoi nervi. Ma si astenne dal protestare. Aveva capito che anche se lui, Sokolov e il sommergibile tascabile non erano pronti, Majorov lo era. Helder diede un'occhiata a Sokolov. Una volta tanto la donna aveva perso la parola. Helder si costrinse a parlare. «Bene, signore. Siamo pronti.» «Ottimamente», disse Majorov, fregandosi le mani. «Potete andarvene. Dormite bene questa notte e prendetevi una mattinata di libertà. La boa sarà alla base dei sommergibili alle quattordici.» Helder e Sokolov si alzarono e si avviarono verso il portello principale del sommergibile. «Ah, Helder», disse Majorov, come per un'idea improvvisa. «Fermati un momento, devo discutere con te una questione privata.» «Certo, signore», disse Helder. Prima di parlare, Majorov aspettò che Sokolov e il comandante fossero usciti dal quadrato. «Helder, può darsi che tu debba eseguire anche un altro compito.» Il suo viso era privo di espressione. «Diversamente dagli Stati Uniti, la Svezia partecipò alle Olimpiadi del millenovecentottanta; i giochi furono trasmessi dalla televisione svedese e la stampa svedese ne parlò ampiamente. Perciò, dato che la sua faccia è conosciutissima in Svezia, non possiamo lasciare che Sokolov abbandoni il sommergibile. Se doveste scendere a terra, dovrai fare in modo che Sokolov non esca dal Tipo Quattro. Capisci? In questo caso dovrai ucciderla.» Helder rispose dopo un solo attimo di esitazione. Durante ogni esercitazione aveva bramato più e più volte di uccidere Sokolov. Ma avrebbe saputo farlo, giunto il momento? Sarebbe potuto diventare un assassino a sangue freddo? Avrebbe dovuto pensarci su. Nel frattempo, però, non poteva lasciare dubbi in proposito nella mente di Majorov. «Sì, colonnello,
capisco benissimo», rispose. 17 Katharine guardò a bocca aperta il bell'uomo in giacca da sera, cercando di rimettere in funzione la sua mente intontita. «Ciao, ti ricordi di me?» le domandò Will Lee. Santo cielo, aveva un appuntamento per cenare fuori, nientemeno che un festeggiamento. Immersa nel suo sconforto, se ne era dimenticata. Stava per parlare quando fu fermata da due fatti: gli squilli del telefono e la vista dell'uomo che l'aveva pedinata, il quale in quel momento passava davanti a casa sua, con l'aria di bighellonare, sul marciapiede opposto. Prese Will per il polso e lo trascinò dentro. Il telefono suonò di nuovo. «Un momento solo, Will», disse Katharine afferrando la cornetta. «Pronto?» «Ti interesserebbe una cena improvvisata con una vecchia spia logora?» strascicò Ed Rawls. «Ti ho cercata in ufficio, ma eri già uscita.» Katharine non si aspettava questo invito, ma non esitò; la sua mente si era d'improvviso svegliata. «Oh, sì, Ed, mi piacerebbe cenare con te questa sera.» Intravide di sfuggita la faccia di Will, contorta in una smorfia di stupore; gli fece un cenno impaziente con la mano per impedirgli di parlare. «Dimmi solo dove e quando.» La sua mente lavorava a tutta velocità. «Be', ho preso un alloggio in Georgetown. Non è un palazzo, ma dietro, in giardino, c'è una griglia. Che ne diresti di una bella bistecca?» «Un'idea magnifica», rispose lei, scribacchiando l'indirizzo. «A che ora?» «Appena vuoi. Abito trasandato.» «Sarò da te fra venti minuti», gli assicurò. Agganciò e si voltò verso Will alzando le braccia in un gesto di difesa. «Adesso aspetta un attimo. So che questa sembra una pazzia, so che dovevamo cenare insieme...» «Un festeggiamento, se ricordo bene», disse Will asciutto. «Dimmi, che cosa avremmo festeggiato quando avevamo ancora un appuntamento? E chi diavolo mai è Ed?» Katharine si prese la faccia tra le mani. «Vedi, so che ti ho rovinato la serata e tutto il resto, ma l'occasione da festeggiare si è trasformata più che altro in un'occasione da veglia funebre. E il tizio che ha appena telefonato è un vecchio amico, un agente segreto, che potrebbe essere l'unica persona al mondo in grado di aiutarmi ad aggiustare le mie faccende. Ti prego caro, ti prego, cerca di capirmi. La mia carriera in questo momento è tutta in for-
se. Devo togliermi dai guai.» La smorfia di Will si distese in un sorriso rassegnato. «Certo, capisco. Promettimi che usciremo un'altra volta. C'entra in qualche modo Majorov?» «Majorov è la causa di tutto; e vorrei spiegarti ogni cosa, ma in questo momento non è possibile. Devo recarmi là e convincere questo tale ad aiutarmi. E non sono affatto sicura che vorrà farlo quando scoprirà che cosa gli chiedo.» «C'è qualcosa che posso fare per te?» Lei pensò un momento. «Sì. Passa la sera in casa mia, guarda la televisione, leggi, fa' qualsiasi cosa. Può darsi che io torni presto, ma non contarci su. Se non sarò rientrata, diciamo, per le undici, torna a casa. Ti telefonerò senz'altro domani. Va bene?» Will si strinse nelle spalle. «Certo, non ho niente di meglio da fare. C'è qualcosa da mangiare in casa?» «Un congelatore pieno zeppo e un pollo alquanto vecchio nel frigo. Non sono sicura che sia mangiabile.» «Mi arrangerò. Tu va' pure.» «Grazie.» Kate si ritoccò il trucco nello specchio dell'ingresso, afferrò la borsetta e fece un passo verso la porta, ma si fermò. Il gorilla, come l'aveva battezzato nella sua testa, era là fuori in strada. Non voleva che la seguisse fino a casa di Ed, allora uscì dalla porta posteriore, attraversò il suo desolato giardinetto, tirò via un asse dalla palizzata che lo separava da quello del vicino e s'infilò nella breccia. Percorse un giardino ben curato fino a un porta finestra dietro la casa e bussò ai vetri. Un anziano signore che stava guardando la televisione trasalì, poi venne ad aprire. «Sono Katharine Rule», disse al vicino. «Vivo proprio dietro di lei e non ho voluto uscire dalla porta principale, perché, capisce, c'è un uomo che mi dà fastidio da qualche tempo e vorrei evitarlo. La disturberei molto se raggiungessi la strada attraverso la sua casa?» «No, certo», disse l'uomo, perplesso ma cortese. «La prego, entri.» La condusse attraverso la casa e le aprì la porta d'ingresso. «La ringrazio tanto», disse Katharine, salutando. «Prego, venga quando vuole», rispose lui. «Ne è passato del tempo, dall'ultima volta che una bella ragazza ha bussato alla mia finestra», gridò mentre Katharine si allontanava. Ci vollero meno di dieci minuti per arrivare da Ed Rawls, che abitava in un seminterrato di P Street. Katharine suonò il campanello e Rawls aprì,
vestito di vecchi calzoni cachi e di una camicia sportiva. La baciò sulla guancia. «Entra. Non è gran che. L'ho affittato appena da una settimana.» Le fece visitare rapidamente le tre camere dell'alloggio ammobiliate piuttosto squallidamente con mobili di recupero. «Ho affittato per breve tempo, finché non arriverà Bette e si metterà a cercar casa. Scommetto che vuoi bere qualcosa.» «Ucciderei qualcuno per avere un bourbon con ghiaccio. Ritorni a Langley, Ed?» Ed fece sì con la testa. «Però non lo si può ancora dire in giro. Comincerò solo fra qualche giorno. Andiamo fuori sul retro.» La precedette fino a un terrazzino dietro la casa e la fece sedere su una sedia a sdraio, con il suo bicchiere. Fuori si stava bene; in quella stagione c'era ancora molta luce, anche di sera, ma il caldo della giornata era sparito. Le api ronzavano nel giardino mal tenuto come il suo. «Non dovrei chiedertelo, Ed, ma che lavoro ti hanno dato?» «Oh, non importa, non è un lavoro segreto: aiutante del vicedirettore Operazioni.» «Splendido Ed! Maledizione! Dovresti essere tu il vicedirettore, tutti lo sanno.» Rawls rise. «Bene, bene, ritira gli artigli. Non mi spiace lavorare con Simon. Lui e io ci siamo sempre capiti. L'ho conosciuto prima di te, sai, anche se forse meno bene.» «Spiacente, Ed, non avevo l'intenzione di attaccare Simon facendoti un complimento. So che non ti darebbero questo lavoro se Simon non volesse, quindi devi dimostrarti leale verso di lui.» Rawls si strinse nelle spalle. «In tutti i casi, smetterò di andare in giro, finalmente. Sono ormai troppo vecchio per quel genere di mestiere, e Bette è maledettamente felice di ritornare a Washington e di poter disfare le valigie. Ci proponiamo di rimanere qui fino alla pensione.» «Suppongo sia ormai stanca di seguirti in giro per il mondo, dopo tanti anni; anch'io, se fossi nei suoi panni, sarei felice di rientrare negli Stati Uniti.» «Oh, siamo tornati già da un paio d'anni. Mi hanno dato un incarico che mi ha tenuto nell'est per un po' di tempo. Siamo andati a New York, abbiamo affittato a Greenwich Village; io tornavo a casa per i fine settimana. Mi sembrava d'essere ridiventato giovane; avevamo vissuto nel Village per qualche mese subito dopo il nostro matrimonio.»
«Malakhov dev'essere stato un incarico interessante», esclamò lei guardando attentamente Ed per scorgere la sua reazione. Georgi Malakhov era l'ufficiale del KGB di grado più elevato che fosse mai passato agli Stati Uniti, un generale di divisione che aveva diretto la stazione russa di New York e dell'ONU per quattro anni, sotto le mentite spoglie di vicedirettore generale delle Nazioni Unite. La sua defezione aveva aperto una grave crisi nelle relazioni tra gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica, era stata uno dei massimi colpi spionistici della CIA dai giorni della sua fondazione. Rawls dopo un attimo di stupore, scrollò le spalle. «Un lavoro avvincente», disse. «E per di più mi ha tenuto negli Stati Uniti: è stato l'incarico ideale per cui rinunciare alla carriera attiva.» «Ho letto i compendi. Affascinanti. Quel materiale ci permette di aggiornare continuamente i nostri archivi. Dovresti andarne fierissimo. Lavori come il tuo sono quelli che danno qualcosa da mettere sotto i denti a chi analizza.» «In realtà, mi è caduto in grembo. Malakhov ha voluto me.» «Scherzi? E perché?» «Quando lavoravo alla stazione di Stoccolma, feci la sua conoscenza. Lui era il più alto funzionario del KGB all'ambasciata sovietica, ma noi non lo scoprimmo mai. Credevamo che fosse primo segretario, titolo con cui compariva sull'elenco dei membri dell'ambasciata. Bette e io, una volta, ci trovammo con lui e sua moglie allo stesso tavolo durante un pranzo a palazzo reale. Ci piacquero tutti e due. Ma, se si escludono incontri casuali a un ricevimento diplomatico o due, non ci frequentammo affatto. Come ben sai, i diplomatici sovietici non sono gran che socievoli.» «Sì, certo; ma dopo, cosa accadde?» «Niente. Niente per circa otto anni. Poi, quando dirigo la stazione di Belgrado, mi arriva un cablogramma urgente con l'ordine di filare a New York immediatamente. Diavolo, credevo d'avere combinato qualche casino e che volessero la mia testa. Invece mi vennero incontro al Kennedy, mi portarono a un indirizzo segreto di Manhattan e mi raccontarono che Malakhov aveva avvicinato il nostro ambasciatore alle Nazioni Unite durante un ricevimento e gli aveva detto di voler defezionare. Langley e il presidente esclamarono 'ma certo, magnifico' poi lo avvertirono che prima avrebbe dovuto fare il doppio gioco per qualche tempo. Naturalmente lo tenevano in pugno, Malakhov non aveva altra scelta. Rispose che l'avrebbe fatto ma che come contatto voleva me e nessun altro. E non cedette, non fece una sola mossa, finché non arrivai io in carne e ossa. Lo avrei baciato.
Lo diressi per quasi un anno, finché il Centro di Mosca cominciò ad avere sospetti e Malakhov dovette tagliare la corda. Fu quindi naturale che lo interrogassi io.» «Gesù, che occasione per la tua carriera.» «Tu capisci, bambina. Pensavo che non avrei mai fatto un passo avanti, dopo essere stato al servizio, scusami l'espressione, di quell'uomo, quando, bum! Il fulmine colpisce il vecchio Rawls! Ed eccomi qui pronto a entrare arrancando in uno dei più importanti uffici di Langley. Sai che ti dico? La busta della mia pensione sarà molto più gonfia. Bette sta già parlando di case alle Bahamas.» «Splendido, Ed», disse ridendo Katharine. «E non poteva capitare a una persona più simpatica.» «Grazie, tesoro.» Rawls girò le bistecche. «Mi sono sentito fiero di te quando ti hanno messa a dirigere la sezione Affari Sovietici:» «Ho ricevuto il tuo biglietto, Ed. Grazie.» «Quando si cominciano a dare vere responsabilità alla gente giovane, c'è speranza per tutti noi. Il lavoro ti piace?» Lei sorrise. «Ci sono momenti in cui mi piacerebbe un po' più di movimento e vorrei non avere lasciato il lavoro all'estero, ma in realtà mi piace.» Rawls studiò attentamente le bistecche. «Riuscirai a tenerti il posto?» Katharine si raddrizzò sulla sedia a sdraio. «Ne hai sentito parlare questo pomeriggio?» «Sentito parlare?» sbuffò Rawls. «Ero presente!» «All'incontro tra Nixon, Simon e il direttore?» Rawls accennò di sì. «Sono arrivato al culmine della discussione. Ho cercato di fare marcia indietro, ma mi hanno invitato a entrare. Non ho sentito che cosa diceva il tuo rapporto, ma ho assistito alla reazione del direttore. Era furibondo.» Con una forchetta Ed mise nei piatti le bistecche, poi preparò un'insalata e pose il cibo in tavola. «Vieni a mangiare.» Lei avvicinò una sedia mentre Rawls versava il vino. «Alan non mi ha riferito parola per parola, ma conosco la sostanza, credo. Mi hanno appioppato un ordine di esclusione dalle foto di satelliti della Scandinavia... almeno mi auguro che arrivi soltanto fin lì.» Rawls accennò di sì. «Ero presente quando il direttore lo ha fatto. Esclude solo la Scandinavia. Non può colpire il capo d'una sezione con un ordine generale di esclusione, se mai, ti scaraventerebbe in qualche posto deprimente.»
Katharine bevve un sorso del vino versato da Rawls. «Sì, Nixon mi ha abbozzato un bel quadretto; ha parlato di reclutamento nelle università.» Rawls si appoggiò allo schienale e rise di cuore. «Certo, sarebbe proprio quel che ci vuole, vero?» «Ed, il direttore è proprio stupido come pare?» «Probabilmente. Ma i direttori vanno e vengono e, quando se ne andrà il presidente, sparirà pure lui. Non resisterà a un cambio di governo, non parliamo poi di partito. Suppongo che sarà una croce da sopportare per qualche tempo, ma a Simon toccherà il peso maggiore.» Rawls tracannò un grande sorso di vino. «Penso che a Simon quel lavoro piacerebbe», continuò. «E se il futuro presidente sceglierà uno del mestiere invece di un amico come questo direttore, secondo me Simon farà un tentativo.» «Oh sì», ammise lei. «Gli piacerebbe moltissimo.» Non aveva mai pensato finora che Simon avrebbe potuto ottenere davvero il posto; l'idea la sconcertò. «In quel caso tu avresti il reparto Operazioni, vero?» «Chi può dirlo? Se a Simon piacerò come suo vice, magari.» Rawls mandò giù un po' di bistecca con altro vino. «Ma il problema è: che cosa capiterà a te, Kate? Avrai vita facile, nell'Agenzia, con tuo marito direttore della CIA?» Katharine si strinse nelle spalle. «A dir la verità, Ed, le prossime settimane mi turbano molto più dei prossimi anni. Qualcosa sta succedendo in Scandinavia e...» Rawls l'interruppe con la mano alzata. «Taci, Kate. In questo momento non voglio ascoltare notizie contro corrente degli eventi mondiali. Ti ho ragguagliata sull'andamento delle cose e sugli uomini che occuperanno le poltrone. Se ne sentirò parlare, voglio che sia attraverso i canali normali.» Lei arrossì. «Hai ragione, non intendevo andare contro le regole. In questo momento sono nei guai fino al collo e all'oscuro di tutto. Mi negano l'accesso a informazioni su fatti di cui so o intuisco l'importanza e mi impediscono di dedicare il mio tempo a indagarli.» Rawls annuì. «In passato ho avuto anch'io qualche intuizione.» «E che cosa facevi in quei casi?» Ed rise. «Tenevo duro. A volte sono riuscito a ottenere un successo, altre volte mi sono cacciato nei pasticci.» «Anch'io ci sono dentro fino al collo, ma non posso mollare questa faccenda. Secondo me è molto, ma molto importante, Ed.» «Ti credo», disse l'uomo con un sorriso sincero. «So quanto in gamba tu sia e, benché non ti abbia vista molto negli ultimi tempi, ho sentito parlare
bene di te. Se fossi al posto del direttore, ti ascolterei, come minimo.» «Grazie.» Katharine aspettò che Rawls versasse il caffè, poi si chinò in avanti. «Senti, Ed, capisco perché tu non voglia ascoltare la mia teoria in questo momento, ma avrei bisogno di un po' di aiuto e di qualche consiglio, se vorrai darmeli.» Sapeva che Ed le doveva qualcosa, ma non voleva essere troppo sfacciata nel ricordarglielo. «Consigli? Certo. Aiuto? Dipende da che genere di aiuto.» Katharine respirò profondo. «Prima di tutto mi occorre un codice per entrare in COSMO. Date le circostanze, se usassi il mio e se controllassero le date dei miei collegamenti, si accorgerebbero che sto ancora lavorando a questa faccenda e mi spedirebbero chissà dove. Ho bisogno della chiave di qualcuno che appartiene a un altro dipartimento, preferibilmente di una persona che abitualmente non controllano.» Rawls sogghignò. «Bene, non scrivertelo e imparalo a memoria.» Recitò una chiave di dieci cifre. «Imparato?» Katharine lo ripassò mentalmente. «Imparato. Non è mica la tua? Non voglio mettere di mezzo te.» Ed scosse il capo. «È di Simon. E non domandarmi come me la sono procurata.» Lei rise. «Sei un bell'intrigante!» «Mi hanno addestrato a intrigare. Ormai sono troppo vecchio e non posso perderne l'abitudine. Di che altro hai bisogno?» La donna pensò al gorilla che si aggirava intorno a casa sua. «Mi occorre un buon meccanico, una persona versatile.» Rawls corrugò la fronte. «Non starai architettando qualcosa qui, vero? La CIA è autorizzata a condurre operazioni soltanto all'estero, l'FBI si occupa delle operazioni nazionali. L'Agenzia qualche volta organizza imprese illegali in casa, ma sovente ne esce con le ali bruciate.» Katharine scosse la testa. «È solo a scopo di difesa, te lo giuro.» Rawls meditò un attimo. «C'è un tizio, un certo Danny Burgis, che un po' di tempo fa era nella Compagnia. Dirige un servizio di sorveglianza a Washington: allarmi, cani da guardia, tutto quanto può occorrere. Abbiamo volato insieme su piccoli aerei. È sulla guida del telefono, chiamalo da un apparecchio non controllato. Digli che ti manda Biggles. Mi chiamava così.» «Ancora una cosa», disse Katharine: e questa era la grande richiesta. «Nei compendi dell'interrogatorio di Malakhov non compare mai il nome di Majorov. Sicuramente il suo nome è stato citato. Diamine, dirigeva la
Prima Sezione!» Rawls scosse la testa. «Se non c'è nei compendi, vuol dire che non ne abbiamo parlato.» La donna capì che le cose non stavano così. Era un modo come un altro per dirle che non se ne poteva discutere, che l'argomento era scottante. Rawls era fedele alle regole, ma lei aveva la sensazione che le avrebbe magari interpretate in suo favore, se fosse riuscita a capire che cosa domandargli. «Malakhov è stato strizzato a dovere, immagino», disse. «Credimi, completamente dissanguato.» «L'avete già lasciato andare?» Se veramente gli avevano dato un nuovo nome e l'avevano mandato chissà dove, non le rimaneva alcuna possibilità. «Lo faremo presto», rispose Rawls. Katharine sapeva che certamente Malakhov era stato interrogato in un luogo non tanto distante da New York, altrimenti Rawls non avrebbe portato la moglie in quella città per recarvisi nei fine settimana. Se stavano per trasferirlo, ci sarebbe magari stata un'opportunità per lei. Fece un tentativo disperato. «Ed, ho bisogno di parlare con Malakhov. Concedimi un'ora con lui.» Con suo grande stupore, Rawls non batté ciglio. «Nel Vermont, a un chilometro e mezzo da Stowe, in direzione sud sull'autostrada principale, c'è un distributore della Texaco. Trovati lì alle tre del pomeriggio, domenica prossima; fa' in modo di non essere seguita. Fermati davanti al distributore automatico e fa' il pieno. Vedrai una jeep Blazer gialla, con il solo guidatore, seguila fuori della stazione di servizio, ma non tanto da vicino. Ti porterà alla casa dove teniamo Malakhov. Sarai di nuovo al distributore della Texaco per le quattro. In questo modo avrai una quarantina di minuti con lui.» «Grazie Ed.» «Vorrai tornare a casa tua», disse Ed alzandosi. Alla porta lei si fermò. «Ed», domandò, «che cos'è Fiordineve?» Rawls fece una pausa prima di rispondere. «Non lo so, Kate.» Katharine lo abbracciò e sgattaiolò fuori. Camminò veloce fino alla casa del vicino. Questi, vedendola, si mostrò stupito, ma la fece entrare in giardino. Mentre apriva la porta di casa sua sul retro, Katharine udì musica di Mozart venire dal soggiorno. Will sonnecchiava con un libro in grembo. Lo svegliò con dolcezza. «Com'è andata la cena?» domandò Will. «Una bistecca non disprezzabile e molto aiuto», rispose lei, dandogli un bacio leggero. «Hai mangiato qualcosa?»
«Una pizza dietetica congelata. Ne hai circa due dozzine là dentro.» «Mangio cose del genere quando non sono a casa tua, in questo modo mantengo la linea. Senti, ti chiederei di fermarti, ma ho il cervello in fermento e non sarei una compagnia piacevole. Ti rincresce?» «Per tua fortuna sono una persona molto comprensiva», disse Will alzandosi e stiracchiandosi. «Molti giovanotti troverebbero da ridire se fossero invitati a cena in un ristorante di lusso e obbligati a mettersi in abito da sera, finendo poi con il cenare soli a base di pizza dietetica, mentre la ragazza si mangia bistecche con qualcun altro. Senza parlare poi dell'essere mandato a casa sessualmente insoddisfatto.» «So benissimo quanto sono fortunata», sorrise Katharine mettendogli le braccia intorno alla vita. «E non posso neppure parlarti di tutto questo, almeno non ancora. Però è di vitale importanza per me, forse anche per molta altra gente.» Si avviarono lentamente verso la porta. Kate si fermò. «Senti, il resto di questa settimana sarà molto duro per me, inoltre dovrò andare fuori città domenica. Posso telefonarti lunedì prossimo?» «Ti dimentichi che domenica parto per la Finlandia, passando per Stoccolma.» «Oddio, certo, ci dobbiamo incontrare a Copenhagen.» «A proposito», disse Will mettendo la mano in un taschino interno della giacca e tirandone fuori la busta di una compagnia aerea. «Ecco il tuo biglietto per Copenhagen e la prenotazione dell'albergo, nel caso che non arrivassimo alla medesima ora.» Will aggrottò la fronte. «Hai ancora intenzione di venire, vero?» «Ma certo, Will. Anzi, allontanarmi per un po' dall'ufficio, potrebbe essere la cosa migliore per me. Però devi capire che, al punto in cui è la faccenda di Majorov, potrei dover rinunciare all'ultimo momento.» «Va bene, d'accordo», concesse Will con un sospiro. «So che farai quanto ti sarà possibile.» «Sei venuto qui a piedi?» domandò Katharine. «Sì.» «So che ti sembrerà misterioso, ma devo uscire di casa prima di te. Tu aspetta due minuti, poi vattene, intesi?» «Tutto quel che vuoi», disse Will alzando le spalle. «Ho così sonno che non mi domando nemmeno il perché.» E la baciò. Lei accese la luce del portico, uscì di casa e si allontanò in fretta, nella direzione opposta a quella di Will. Due minuti dopo trovò un giornalaio, comprò un giornale e tornò a casa. Non si diede la briga di cercare il goril-
la, ben sapendo che era nascosto da qualche parte. Almeno non avrebbe seguito Will fino alla sua casa; se non sapeva ancora chi fosse, non l'avrebbe scoperto quella sera. Katharine quella notte non dormì molto. La sua mente continuava a galoppare. 18 Helder, coricato sul letto, ancora umido dopo la doccia e avvolto in un accappatoio comprato da Bloomingdale, cercò di esaminare i propri pensieri. Provava un misto di orgoglio, d'inquietudine, di eccitazione, di curiosità e, appena percepibile, la tremenda sensazione di un terrore puro stranamente familiare. Cercò di confrontarlo con sensazioni provate in altri momenti: la sua prima risalita nella capsula di salvataggio, alla scuola per sommergibilisti; la sua prima perlustrazione; il suo primo pattugliamento come comandante. Ma non c'era molta somiglianza. Questa volta non si trattava di esercitazioni, non si trattava di manovre: questa era un'azione di guerra. Anche se nemmeno un colpo fosse stato sparato, questo era un combattimento, il primo per lui. Improvvisamente riconobbe la sensazione, la stessa di tempi ormai lontani: la sua prima donna. Aveva sedici anni, era andato a trovare degli zii nella loro fattoria a sud di Tallinn. La ragazza era una sua cugina, loro figlia, di un anno più vecchia. Fin dal loro primo incontro, Helder aveva capito che quella sarebbe stata la sua prima donna; per giorni e giorni la pregustò, mentre la ragazza lo stuzzicava e si strofinava contro di lui. Finalmente si erano posseduti nel cassone di un autocarro, su una tela cerata: l'odore di quella tela lo eccitava ancora dopo tanti anni. Ora lo eccitavano la stessa bizzarra miscela di sentimenti e i ricordi. Udì un leggero bussare; Trina entrò e chiuse dietro di sé la porta. Poi si mise a ridere. «A che cosa pensavi?» chiese accennando alla prominenza sotto l'accappatoio. «A te», rispose Helder con un sorrisetto. «Vieni qui subito.» Trina attraversò la stanza spogliandosi per via. Diede uno strattone allo spesso accappatoio. «Toglilo», intimò, «non lo voglio.» Lo scavalcò con una gamba e lo prese immediatamente dentro di sé. «Te ne vai», disse. «Te ne vai domani.» Muoveva con ritmo lento. «Hai voglia di andare, vero?» «Sì», rispose Helder, movendosi con lei, di quando in quando rompendo
il ritmo con una stoccata. «Lo desidero moltissimo. Ma non ho voglia di lasciarti.» «Ritornerai» disse Trina. La sua voce finì in un gridolino. «Sì, sì, ritornerò. Ritornerò per te.» «Promettimelo.» «Ritornerò.» Raggiunsero l'orgasmo contemporaneamente. Più tardi, invece di cenare, fecero di nuovo l'amore, poi ancora e ancora. Il mattino dopo, quando Helder si svegliò, Trina se n'era andata. Quasi subito sentì bussare con forza e si lanciò a prendere una vestaglia. Il signor Jones entrò veloce nella stanza. «Ah, buongiorno, signor Swenson», disse tutto allegro. «Sono venuto ad aiutarla a fare i bagagli.» Sollevò un grande involucro di plastica chiara. «Starà tutto qui dentro. Deve prendere due cambi completi di vestiario, un paio di scarpe, gli oggetti personali e l'arma avuta in dotazione.» Alzò due caricatori e li lasciò cadere nel sacco. «Adesso lei è armato. Cerchi di non ficcarsi in guai che richiedano più di trenta colpi», consigliò ridendo. Prese una piccola busta di plastica. «Qui c'è quel che dovrà usare se, invece, si caccerà in un pasticcio del genere. Strappi la busta, vi troverà dentro un pezzettino di sostanza pieghevole, color rosa. Lo metta in bocca, schiacciandolo tra gengiva superiore e guancia; vi rimarrà appiccicato a tempo indeterminato, senza deteriorarsi. In caso di estremo pericolo lo stacchi, lo morsichi con forza e inghiottisca. Perderà coscienza quasi subito e poco dopo sarà morto. Garantito indolore; anzi, mi dicono, addirittura piacevole. Io non l'ho mai provato», sghignazzò. «Adesso si spogli. Devo sorvegliare il suo bagaglio e il suo vestiario.» Helder si svestì completamente, si infilò una tuta leggera da ginnastica e scarpe da corsa. Mise nella sacca una giacca di tweed, una giacca blu, due paia di calzoni, maglieria intima, calze. Jones lo sorvegliò attentamente mentre sceglieva il necessario per la toeletta e metteva tutto dentro una sacca di nailon da paracadute. Jones si avvicinò alla scrivania, vi prese un blocco di fogli da disegno, Rapidograph, il portafoglio di Helder. Controllò con ogni cura la patente di guida e le carte di credito, poi prese un pezzo di carta. «Questa è la ricevuta di una lavanderia cinese nella Seventh Avenue di Greenwich Village.» Dal taschino interno estrasse un passaporto americano e lo aprì. «Bella foto, no? Lo firmi.» Helder fece la firma, poi sfogliò le pagine del passaporto, esaminando i
timbri. «Sono arrivato in Svezia oggi?» «Esatto. Il suo primo viaggio all'estero.» Helder ripose il passaporto, il portafoglio, il materiale da disegno nella sacca; Jones introdusse la sacca nel grosso involucro di plastica e lo chiuse con una cerniera lampo. «Tutto fatto, Carl Swenson», disse. «Andiamo?» Helder e Jones salirono sulla vetturetta da golf di Majorov e si diressero giù per il pendio verso la base nascosta dei sommergibili. Le sentinelle fecero loro segno di passare il cancello. Jones guidò fino al capannone sotterraneo e si fermò. Majorov venne a salutarli. «Buongiorno, Swenson», disse con un largo sorriso. «Vedo che Jones ti ha preparato.» «Sissignore», rispose Helder. «Mi sento un uomo nuovo.» «Bene, bene, adesso vieni a vedere il tuo carico.» Majorov li precedette lungo il capannone, giù per una rampa di cemento, fino al sommergibile classe Juliet. I portelli prodieri erano aperti, il Tipo Quattro era stato spinto nella stiva. Davanti al Juliet c'era il tozzo cilindro della boa trasmittente, con un diametro leggermente superiore a quello del modello con cui Helder si era esercitato. La sua superficie, invece d'essere d'acciaio come nel facsimile, era di un materiale opaco che sembrava plastica e che Helder non aveva mai visto prima d'allora. Ai due lati c'erano le maniglie in cui si sarebbero inseriti gli uncini dei bracci del Tipo Quattro. Helder fu turbato dalla differenza di dimensioni tra l'originale e il facsimile. «Quanto pesa?» domandò. Majorov assunse per un momento un'espressione irritata. «Circa sessanta chili più della prima. Sono sicuro che riuscirai a manovrarla.» Helder non ne era affatto sicuro. Secondo lui, nelle ultime prove il Tipo Quattro aveva lavorato al limite della manovrabilità. Naturalmente non poteva accertarlo, finché non si fosse addestrato con la vera boa. Majorov però non sembrava disposto a rimandare. Helder stava per rispondergli, quando udì alle sue spalle la voce di Valerie Sokolov. «Non ci saranno difficoltà, colonnello», disse con convinzione la donna. «Benissimo», rispose Majorov. «Adesso procediamo. Sokolov, le maniglie e gli uncini combaciano bene?» «Sì, colonnello, tutto in ordine.» «Allora issate a bordo la boa.» Sokolov fece un cenno a tre uomini in tuta che attendevano lì vicino e che vennero a spostare a mano il pesante oggetto verso i bracci uncinati del piccolo sommergibile. Per la prima volta Helder notò che portavano lo
speciale distintivo giallo che diventa azzurro quando è colpito da una determinata dose di radiazioni. Pensò che l'uranio 235 non attivo con cui, a detta di Majorov, era zavorrata la boa, non richiedeva tante cautele; ma, in fondo, non c'era da protestare contro misure di prudenza. Sokolov entrò nel Tipo Quattro e manovrò i bracci finché agganciarono le maniglie della boa. Quindi, con l'energia del sommergibile e la forza muscolare dei tre uomini, la boa fu sollevata al suo posto, appena sotto gli oblò attraverso i quali Helder avrebbe guardato fuori. Sott'acqua la spinta di galleggiamento avrebbe permesso ai soli bracci di manovrare senza aiuti la boa. O almeno così si augurò Helder. Sokolov uscì dal piccolo sommergibile, i portelli del Juliet si chiusero gemendo. Il comandante del sommergibile d'appoggio si avvicinò a Majorov e fece il saluto. «Pronti a muovere, colonnello», disse. «Ottimamente, capitano», sorrise Majorov. Si rivolse a Helder prendendogli la mano. «Bene, Helder», disse calorosamente. «Ora stai per compiere l'impresa per la quale ti abbiamo addestrato. So che ti comporterai bene.» Majorov diede un'occhiata verso Sokolov e strinse leggermente la mano di Helder. «Ricordati di tutte le tue istruzioni.» «Me ne ricordo, colonnello», rispose Helder. «La ringrazio dell'occasione che mi ha offerta.» «Buona fortuna, Sokolov», disse Majorov stringendole la mano. Helder e la donna seguirono il comandante del sommergibile sul ponte, mentre due marinai toglievano la stretta passerella. Salirono sulla torretta e si fermarono lì, in piedi. Nel momento in cui il sommergibile lasciava l'attracco e si girava per volgere la prua verso il bacino e, quindi, verso il Baltico, Helder scorse la figura stranamente familiare di un uomo nell'uniforme di capitano di primo grado, intento a chiacchierare con Majorov sulla banchina di cemento. Helder guardò fissamente l'uomo senza credere ai suoi occhi, pensando di sbagliarsi. Ma quando l'uomo si voltò di profilo per dire qualcosa a Majorov, si convinse di avere ragione. Avevano frequentato insieme la scuola per sommergibilisti, di quando in quando si erano incontrati a Murmansk e nelle altre basi di sommergibili nel corso degli anni. Si chiamava Gushin ed era ormai uno dei più famosi, o meglio infami, ufficiali della marina sovietica. Nell'ottobre del 1981 era andato a incagliarsi con il suo sommergibile della classe Whiskey nelle vicinanze di una base navale svedese segreta. Il sommergibile era rimasto lì una settimana, prigioniero, mentre tra gli svedesi e i sovietici si svolgevano trattative diplomatiche circa il destino dell'unità e del suo equipaggio. Final-
mente i sovietici avevano concesso agli svedesi una limitata ispezione del sommergibile, che era stato disincagliato ed era tornato in patria scortato da navi sovietiche. Ogni ufficiale di marina sovietico conosceva la storia. Gushin era stato privato del grado, congedato indegnamente dalla marina sovietica, condannato a un lungo periodo di prigionia nel Gulag. Eppure eccolo lì, nell'uniforme di capitano. Helder discese la scala della torretta e si affiancò al comandante del Juliet che stava ordinando l'immersione. Era sconcertato. Che cosa diavolo stava succedendo? 19 Katharine partì da casa domenica mattina, andò in macchina all'aeroporto nazionale, prese la navetta delle Eastern Airlines per New York. Eccitata dal prossimo incontro con Malakhov, non si prese la briga di sorvegliare la strada nel retrovisore. Poco prima che l'aereo atterrasse a New York si alzò per andare al gabinetto e, a metà strada lungo il corridoio, si fermò di colpo. Seduto vicino a un finestrino, dormiva e russava lievemente l'uomo che la pedinava, il gorilla. Rimase lì qualche secondo e lo esaminò attentamente, fissandone i lineamenti a memoria. Circa uno e settantotto, calcolò, corpulento, forse pesava ottantasei chili, carnagione pallida e butterata, capelli mal tagliati, quasi calvo sul cocuzzolo, vestito di un abito estivo che non occorreva stirare, sui quarantacinque, il tipico mascalzone che fa lavoretti sporchi per le ambasciate dell'est europeo. Probabilmente aveva denti cariati e otturazioni mal fatte. Per un breve momento Kate giocò con l'idea di prendere il posto vuoto accanto a lui e di spaventarlo a morte quando si fosse svegliato; invece proseguì verso la toeletta. Al La Guardia camminò veloce fino all'uscita. Aveva poco più di un'ora per seminare il suo pedinatore e prendere un volo della New England Air per Burlington, quindi desiderava arrivare alla coda dei tassì con il maggior anticipo possibile su di lui. Ma non le riuscì. Mentre il suo tassì partiva, lo vide offrire una mancia alla guardia che regolava la coda, mentre chi lo precedeva esprimeva gesticolando la propria rabbia. Katharine prese in considerazione l'idea di procurare un brivido d'emozione al guidatore, dicendogli di seminare il tassì che li seguiva, ma preferì che il pedinatore non sapesse che si era accorta di lui. «Al Metropolitan Museum», ordinò all'autista. C'era poco traffico, arrivarono in meno di mezz'ora. Katharine salì di
corsa l'ampia scalinata del museo e vi entrò senza prendersi la briga di guardare dietro di sé. Sapeva che il gorilla sarebbe stato lì. Mostrò la sua tessera al banco riservato ai soci, ottenendo il distintivo per l'ingresso. Era sicura che il suo inseguitore, non essendo membro del museo, sarebbe stato costretto a fare la coda con il resto del pubblico. Oltrepassò svelta il custode dell'atrio centrale, girò veloce a destra nel negozio del museo e vi rimase in attesa. La coda dei visitatori doveva essere molto lunga, pensò; dovette aspettare quasi cinque minuti, prima di vedere riflesso nel vetro di una bacheca il gorilla che balzava nell'atrio tra la folla domenicale. Katharine gli diede quindici secondi perché la sua confusione crescesse senza speranza, poi attraversò il negozio e uscì dal museo. Seguirla dentro era stata una stupidaggine: avrebbe dovuto aspettarla alla porta d'ingresso, dato che c'era un'unica via d'uscita. Katharine prese un tassì che aveva appena scaricato una donna con tre bambini e mezz'ora più tardi era di nuovo al La Guardia, dopo essersi assicurata che un compagno del primo pedinatore non l'avesse seguita. Sull'aereo cercò di rilassarsi con una respirazione controllata. Se non fosse riuscita a seminare il gorilla, avrebbe perso il volo per Burlington e non sarebbe arrivata all'appuntamento con Malakhov. A Burlington affittò una macchina e si diresse verso Stowe, regolando con cura la velocità della sua andatura. Oltrepassò i tormentati pendii montuosi che d'inverno sono piste di sci, oltrepassò i motel pseudoalpini che sembravano chiusi per l'estate. Trovò la strada diretta a sud; quando scorse la stazione di servizio della Texaco, si fermò sul lato della strada e aspettò fino alle tre meno un minuto, poi percorse le poche centinaia di metri che le rimanevano per arrivare al distributore di benzina. Frenò, uscì dalla macchina, riempì il serbatoio, intanto guardava l'autostrada, in su e in giù, in cerca della sua guida. La strada èra stranamente vuota. Kate entrò nel casotto del benzinaio e pagò; quando ritornò alla macchina, c'era una jeep gialla sul lato della strada, con il motore al minimo. Al volante c'era Ed Rawls. Senza dar segno di averla riconosciuta, Ed ripartì e si diresse a sud. Katharine salì in fretta nella sua macchina e si avviò dietro di lui, tenendosi il più lontano possibile senza perderlo di vista. Dopo sette od otto chilometri, sempre in direzione sud, Ed svoltò a sinistra in una strada di ghiaia; Kate lo seguì stupita di non avere incontrato altri veicoli nei cinque o sei minuti del percorso. Le domeniche di mezz'estate nelle zone sciistiche sono tranquille, pensò. Rawls girò di nuovo a sinistra, poi a destra; poco dopo andò a fermarsi nel cortile lastricato davanti a una scuola, una piccola scuola rossa tipica
del New England, con un campanello munito della classica banderuola e decorazioni bianche. Dalla distanza di quattrocento metri, Katharine lo vide uscire dalla jeep ed entrare nella scuola. Si diresse anche lei verso il cortile, posteggiò vicino alla jeep e scese dalla macchina. Faceva caldo, c'era molto sole e un gran silenzio. La banderuola in cima all'edificio puntava verso est, immobile. La porta d'ingresso era spalancata e lei la varcò. Seguì un breve corridoio, oltrepassò una porta chiusa, e si trovò in un'aula. Si accorse che l'edificio non serviva più da scuola. Alla sua destra, sulla piattaforma rialzata in cui ci sarebbe dovuta essere la cattedra, c'era invece una cucina moderna. Lo spazio libero dell'aula conteneva ora una dozzina di poltroncine imbottite dall'aria comoda anche se logore. Le lavagne intorno all'aula erano ancora al loro posto, in un angolo c'era una panciuta stufa a legna. Katharine girò di nuovo gli occhi verso la cucina sul palco, udendo il rumore dello sportello del frigorifero che si apriva. Ed Rawls si chinò a sbirciare nei ripiani bassi. «Vuoi una birra?» le chiese ad alta voce. «Hai qualcosa di dietetico?» Rawls attraversò il palco verso di lei, portando una bottiglietta verde di birra e una coca dietetica. «Seguita?» domandò scendendo gli scalini e porgendole la bibita. «No.» «Bene. Non puoi prendere appunti. Lascia qui la borsetta e ascoltami, Kate. Queste sono informazioni segretissime, non potrai usare nessun dato ottenuto qui in rapporti o conversazioni all'Agenzia. È chiaro?» Lei annuì. Avrebbe desiderato che l'incontro non avvenisse a queste condizioni. Ma capì la necessità di Rawls di proteggersi. Posò la borsetta in un angolo del palco e ritornò con lui verso l'ingresso. Ed si fermò davanti alla porta chiusa del corridoio. «Non sa chi sei e che cosa vuoi, ma ha l'impressione che la sua destinazione, quando partirà di qui, dipenda dal tipo di risposte che ti darà.» «Ti ringrazio, Ed», disse Katharine. «Il suo aspetto è cambiato. Avevo pensato di incappucciarlo, ma se l'avessi fatto non avrebbe creduto alla tua importanza. Avevo pensato di bendarlo per convincerlo che sei un pezzo grosso, ma in qualcuno dei primi interrogatori il metodo non ha funzionato. È più a suo agio, più disposto a parlare, quando può vedere a chi si rivolge. Suppongo sia una cosa naturale. Per lungo tempo ha esercitato autorità, vi è abituato e gradisce il rispetto. Sin dall'inizio l'ho trattato come un collega di grado più elevato e non come traditore, ottenendo buoni risultati. Ha avuto conversazioni con una
mezza dozzina d'altre persone, per lo più tecnici che indagavano su telecomunicazioni e hardware, ma il novanta per cento dei suoi colloqui sono stati con me e un registratore. Sei la prima donna che vede, eccetto quella che viene a cucinare e a fare pulizia. È alquanto eccitabile, cosa che potrebbe esserti d'aiuto, se non giudichi l'idea troppo maschilista.» Katharine finse di non sentire. «Quando mente, in che modo si tradisce?» Rawls scosse il capo. «Non mi ha mentito una sola volta, o almeno non l'ho mai colto in fallo. Se sta mentendo, è così bravo da non tradirsi. Qualche altra cosa?» «No.» «Bene.» Rawls guardò l'orologio. «Dovrai andartene tra quaranta minuti, per prendere l'ultimo aereo per New York.» «Penso che anche lui stia per andarsene di qui.» Katharine era convinta che Ed Rawls non l'avrebbe lasciata venire se Malakhov non fosse stato sul punto di traslocare. Rawls ghignò. «Sarà fuori di questo stato prima che tu arrivi all'aeroporto.» Aprì la porta e si tirò indietro. «Auguri.» Katharine entrò nella stanza e sentì la porta chiudersi alle sue spalle. 20 Helder aprì gli occhi e ascoltò. Il gemito sommesso dei motori del sommergibile era coperto dal frastuono del traghetto Helsinki-Stoccolma, di soli pochi metri davanti e sopra di loro: come una balena e il suo balenotto, le due imbarcazioni seguivano insieme una rotta attraverso l'arcipelago di Stoccolma. Gli parve di udire uno scricchiolio di scarpe antisdrucciolo nel corridoio, ma nessuno venne a cercarlo. Guardò l'orologio. Mancava poco, ormai. Per tutta la notte aveva solo dormicchiato a tratti, ma, tenendo gli occhi chiusi, si era sforzato di pensare a qualcosa che non fosse la missione. Non vi era riuscito, eccetto nei rari intervalli in cui Trina Ragulin era affiorata nella sua coscienza. Aveva studiato ogni manovra che poteva rendersi necessaria nelle prossime otto ore; gli pareva che ormai sarebbe potuto arrivare al punto di destinazione senza una mappa. La mappa era incisa indelebilmente nella sua memoria, con ogni caratteristica di ogni boa, di ogni promontorio, di ogni secca. Era sicuro che nessun ufficiale sovietico era mai stato preparato meglio per una missione. Eppure la spina della paura non
lo abbandonava, lo pungeva continuamente, come le fibre della ruvida biancheria sovietica di dotazione. Pensò che tutti i soldati che alzano la testa fuori di una buca e vedono il nemico avanzare devono sentirsi come si sentiva lui. L'unico modo di affrontare la sensazione, di tenerla a bada, era di decidere di fare quanto gli era stato ordinato, mandando al diavolo la propria salvezza; certamente nel corso dei secoli gli uomini si erano indotti a combattere proprio facendo così. Ma ogni volta che prendeva quella risoluzione, il pensiero di Trina gliela spezzava e Helder doveva ricominciare daccapo. Trina era a Malibu e l'aspettava. Helder doveva lottare per impedire a questo fatto di diventare più importante della missione. Di nuovo lo scricchiolio delle scarpe, questa volta reale. Helder scavalcò la sponda della cuccetta e pose i piedi sul pavimento nel momento in cui il marinaio scostava la tenda dicendogli: «È ora, signore. Ci siamo appena sganciati dal traghetto e stiamo ora andando verso il fondo.» «Di' al capitano che sarò subito da lui.» Helder infilò la tuta e le scarpe da ginnastica, si gettò sulle spalle un ruvido maglione, in caso ci fosse stato bisogno di coprirsi, prese sotto un braccio il pesante involucro di plastica contenente il vestiario d'emergenza e sotto l'altro l'astuccio con le carte e uscì nel passaggio. Un momento dopo Valerie Sokolov, equipaggiata in modo identico, lo raggiunse dalla cabina adiacente. Lui le fece segno di seguirlo senza riuscire a reprimere una smorfia di insoddisfazione nel vedere la sua faccia tirata e smarrita. Si augurò che la donna arrivasse alla fine della missione senza crollare e senza metterlo nei guai. Si domandò se sarebbe stato capace di ucciderla ubbidendo agli ordini di Majorov, se le circostanze l'avessero richiesto. No, qualunque cosa fosse successa, non avrebbe giustiziato nessuno a sangue freddo. Si avviarono verso prua, fino al quadrato, dove li aspettava la colazione. C'era pappa d'avena calda, aringhe affumicate, pane nero e tè. Helder, con stupore, si accorse di avere molto appetito. Sokolov invece non mangiò. Si scambiarono poche parole. Helder finì in fretta e si alzò. «Se il tuo intestino deve funzionare, meglio che tu ci pensi adesso», disse alla donna, poi si diresse al gabinetto. Dieci minuti dopo era di ritorno e Sokolov pure. Il comandante entrò nel quadrato. «Se lei è pronto, lo siamo anche noi», disse Helder. Il comandante annuì. «Quando avrete chiuso il portello, avremo già finito l'esplorazione radar. Se non c'è niente in giro, partirete.» Helder si diresse verso prua, fino alla camera appositamente costruita
per il lancio e per il ricupero, dove li aspettava il Tipo Quattro. Fece segno a Sokolov di entrare per prima, poi la seguì su per la scaletta fino al portello che si apriva nella parte superiore del sommergibile tascabile. Lasciò cadere la sacca e la custodia delle carte sul sedile sotto di sé e infilò le gambe nella camera di manovra. Proprio nel momento in cui si calava, qualcosa sul pavimento del sommergibile attirò i suoi occhi, qualcosa che gli parve, chissà perché, del colore sbagliato. Era uno dei distintivi gialli indicatori di radioattività, da lui visti addosso agli scaricatori della base: ma non era più giallo, era diventato azzurro. «Signore», gridò un membro dell'equipaggio attraverso il portello aperto, «il comandante dice che il campo è libero. Riempiremo d'acqua la camera appena avrete chiuso il portello. Buona fortuna.» Helder gli fece un segno con il pollice alzato, si lasciò cadere dentro il sommergibile tascabile e chiuse il portello alle sue spalle, girando con forza il volantino. Ripose la sacca sotto il sedile e aprì la piccola custodia delle carte. Mentre fissava al tavolino sulla sua destra una carta, udì il rumore di una valvola che si apriva e il precipitarsi dell'acqua dentro la camera. Ripassò con Sokolov, punto per punto, la lista di controllo, non solo per accertarsi che tutto fosse in ordine, ma anche per calmarle i nervi con un lavoro normale. Helder sentiva gli scatti degli interruttori man mano che Sokolov chiudeva i circuiti. Il bagliore delle lucine rosse diventò verde con il chiudersi di ciascuno. «Ho una luce rossa che non si spegne sul pannello centrale», disse Sokolov all'improvviso. «Indica che i bracci funzionano male.» Helder imprecò sottovoce; la missione sarebbe fallita, se i bracci uncinati non avessero funzionato. «Controlla la scatola», ordinò con voce calma. «Forse si tratta dell'interruttore e non del sistema idraulico.» Alla sua destra comparve una mano: Sokolov stava cercando un cacciavite tra la serie di attrezzi appesi alla parete. «Un momento.» Helder la sentì aprire la scatola degli interruttori e aspettò impaziente la sua risposta. «Sì, sì», confermò la donna. «È l'interruttore, un filo si è staccato dal morsetto.» «E tu aggiustalo», intimò Helder irritato. L'acqua ormai copriva gli oblò di prua. Si vedevano le luci rosse della camera gettare ombre ondeggianti sul nero rivestimento opaco della boa, posata sul ripiano appena sotto gli oblò. «Fatto», disse Sokolov con voce trionfante. «Luci tutte verdi, muoviamo.» La sua mano si allungò di nuovo per mettere a posto il cacciavite.
Un gemito sordo si sprigionò da un punto dietro di loro, i portelli della camera di lancio e ricupero si aprirono con lentezza, la rampa d'acciaio scese a posarsi sul fondo. Helder accese i fari prodieri del sommergibile tascabile e inserì il meccanismo dei cingoli. Spinse avanti la leva di comando e il Tipo Quattro uscì dalla camera, percorse la rampa e camminò sul fondo della baia chiamata Trälhavet. Appena fu a debita distanza dal sommergibile d'appoggio, Helder si fermò e disinserì i cingoli, che usavano tre volte più energia delle eliche. Spense anche i fari prodieri. «Galleggiabilità dieci per cento», disse a Sokolov. «Galleggiabilità dieci per cento», ripeté la donna. Helder la sentì lavorare ai comandi. Il Tipo Quattro non si mosse. Maledizione, pensò Helder, è colpa dei sessanta chili in più della boa. «Galleggiabilità venti per cento», disse. Sokolov eseguì l'ordine; il sommergibile tascabile cominciò a staccarsi dal fondo marino. Helder avviò con il piede le due eliche, ottenendo un lentissimo movimento in avanti. Tirò verso di sé la barra, ma il piccolo sommergibile quasi non reagì. Quel maledetto peso in più. Helder aumentò i giri del motore e il Tipo Quattro si mise lentamente in assetto d'emersione. Mentre si dirigevano verso la superficie, Helder controllò se reagiva ai comandi. Tutto in ordine, eccetto la spinta verso l'alto impressa dai timoni di profondità: il peso addizionale non previsto della boa trasmittente lo impediva. Questo fatto non avrebbe reso impossibile proseguire, ma avrebbe fatto sprecare energia. Con tutto ciò Helder aveva ancora molte carte in mano. Fece qualche rapido calcolo: la sua spedizione, invece di sei ore, sarebbe durata otto ore. A suo parere anche con il sovraccarico avrebbe avuto diciannove ore di autonomia. Il sommergibile d'appoggio si era posato a trentacinque metri di profondità. Helder, sorvegliando il proprio indicatore di quota, fece salire il Tipo Quattro di trenta metri. Poi mise in azione il periscopio e s'innalzò finché questo affiorò. Compì un giro di 360° con il periscopio, i cui specchi erano congegnati in modo che poteva tenere lo sguardo verso prua mentre il sistema ottico ruotava. Nella mezza luce della notte subartica, nessuna imbarcazione era in vista. Helder rivolse il periscopio diritto davanti a sé, poi scrutò l'orizzonte su un arco di trenta gradi. Trovò il suo primo faro, cortesemente posato in quel punto dalla marina militare svedese. Soddisfatto di essere solo e sulla rotta giusta, si concesse una prima occhiata alla Svezia. Non vide altro che basse gobbe di terra. Avrebbe dato un altro sguardo quando sarebbero stati più vicini. Ammainò il periscopio. «Siamo sulla rotta giusta, Sokolov», disse Helder, girando per metà la
testa. «Riferisci.» «Tutto in perfetto ordine, capitano», disse la donna. Helder fu stupito del suo tono rispettoso. Sokolov sembrava più calma di quanto fosse stata prima della partenza. Questo lo rassicurò. Passarono tre ore senza incidenti. Helder seguì la sua rotta facilmente, alzando il periscopio pochi secondi per volta. Vide sulle rive case dall'aria confortevole, alcune delle quali addirittura imponenti. Di quando in quando un lampione ammiccava nella luce fioca, ma in giro non c'era nessuno. Le case dormivano dietro le spesse tende da oscuramento che separano ogni svedese dal sole di mezzanotte. Allo spuntare del giorno avevano percorso il primo stretto canale ed erano entrati in acque più aperte. Qualche momento dopo aver lasciato il canale, Helder avvistò la prima vedetta. Spense immediatamente i motori e lasciò che il piccolo sommergibile sprofondasse di qualche metro, per poi rimanere sospeso in galleggiabilità neutra. «Distanza duecento metri», disse Sokolov, con le cuffie del sonar contro le orecchie. «Duecentocinquanta. Trecento. Cinquecento.» Helder riaccese i motori e risalì a quota periscopica. Qualche minuto dopo s'imbatté in una seconda vedetta, un'ora più tardi in un'altra. Non ne avvistò più quando abbandonò le acque aperte ed entrò nel canale successivo. Lasciandosi a poppa l'isola di Saint Hoggarn, continuò in direzione sudovest e, esattamente otto ore dopo il lancio, guidò il Tipo Quattro nelle acque aperte di Lilla Vartan, a est di Stoccolma. Fece un'altra ispezione periscopica. Davanti, in lontananza, c'erano tre mercantili, dietro, un solo puntolino. Le guglie di Stoccolma si ergevano di fronte a lui. Helder provò il brivido eccitante dello sconfinamento. Ammainò con riluttanza il periscopio e rallentò l'andatura, immergendosi rapidamente. «Unità dritta di poppa», disse la sua compagna, «settecento metri, in avvicinamento rapido.» Perché diavolo Sokolov non l'aveva sentita prima che la vedesse lui? Ma non ne fu molto turbato, ormai era giunto a destinazione. Non gli rimaneva altro da fare che scoprire un posto conveniente per la boa e deporla. Helder accese i fari prodieri del piccolo sommergibile e attese. A quota trentun metri vide il fondo avvicinarsi. Rallentò la discesa del Tipo Quattro e toccò delicatamente il fondo: era quasi piano, roccioso, ideale per le sue necessità. Helder innestò il meccanismo dei cingoli, mise la marcia avanti, si fermò dopo non più di dieci metri. Cielo, era arrivato! Il fondo era perfet-
to! Niente di più facile! «Sto per deporre la boa», annunciò. «Unità a quattrocento metri e in avvicinamento meno rapido», disse Sokolov, con un briciolo di tensione nella voce. «Secondo i calcoli, velocità quindici nodi, in diminuzione.» Quindici nodi? Una vedetta. Che cos'altro si muove con tanta rapidità? Helder spense tutto e si appoggiò allo schienale. «Silenzio», disse. «Solo i rapporti.» «Unità a cento metri, velocità costante dieci nodi», disse Sokolov. Helder non ebbe più bisogno del sonar: udiva nettamente il rombo dei motori della vedetta che passava sulle loro teste. «Unità in allontanamento a dieci nodi.» Ora la voce della donna era più calma. «Trecento metri, distanza in aumento.» Helder si raddrizzò. «Prepararsi a deporre la boa», comandò. «Inserire il sistema idraulico.» «Inserire il sistema idraulico», ripeté Sokolov, girando gli interruttori. «Pronto.» Helder afferrò le leve di comando dei bracci e sollevò la boa che, grazie alla maggior galleggiabilità in acqua, si mosse abbastanza rapidamente. Spinse avanti la leva e la boa si allontanò dal piccolo sommergibile, lasciando il suo ripiano. Abbassò i bracci e la boa si posò sul fondo, formando una nuvoletta di fango. Tirò di nuovo indietro i bracci uncinati e li riportò nella posizione di riposo. «Chiudere il sistema idraulico», ordinò. «Sistema idraulico chiuso, piena potenza delle batterie disponibile per la propulsione», disse Sokolov. Helder controllò il video sul sistema di navigazione inerziale. «Cinquantotto gradi, ventun primi, dieci secondi nord; diciotto gradi, dodici primi, due secondi est», disse ad alta voce, scrivendo le coordinate sul libro di bordo e contemporaneamente mandandole a memoria. Le cifre si impressero a fuoco nel suo cervello. Helder pensò che mai più avrebbe ricordato qualcosa con altrettanta precisione. Dio, ce l'aveva fatta! Aveva pilotato quel ridicolo, minuscolo sommergibile in acque svedesi e posato quella maledetta boa trasmittente nel punto esatto! «Unità in avvicinamento dritta di prora», disse Sokolov all'improvviso. «Velocità approssimativa dieci nodi.» La sua voce tremò. «Oddio, penso che abbiano fatto dietro front!» Il primo pensiero di Helder fu di allontanarsi dalla boa. Afferrò i comandi, chiese tutta la potenza del motore per risollevarsi. Quando il sommergibile si fu alzato di tre o quattro metri, spinse avanti le leve. Libero del
suo carico, il Tipo Quattro si spostò rapido sopra la boa, nelle acque aperte di Lilla Värtan. «Che cosa stai facendo?» Sokolov stava quasi urlando. «Ti dirigi verso Stoccolma!» «Lo so, Sokolov», rispose Helder a denti stretti. «Non mi ricaccerò in quel canale finché saremo inseguiti. Non possiamo lasciarci chiudere in uno spazio ristretto. Adesso taci e calmati. Il tuo lavoro è finito, sta a me riportarci indietro tutti e due sani e salvi.» «Sei pazzo!» disse la donna, questa volta ancora più forte. «Abbiamo deposto la boa, adesso andiamocene di qui e torniamo al sommergibile appoggio!» Helder cercò di mantenere la calma concentrandosi nella guida del sommergibile. «Maledizione, Sokolov! Chiudi il becco! È un ordine! Occupati di nuovo del sonar e dammi qualche dato!» Dopo un attimo di silenzio, Sokolov riprese a parlare. «Adesso arrivano da dietro! Devono essere passati sopra di noi e ora stanno tornando!» Santo cielo, pensò Helder, ci hanno scoperti! «Dobbiamo tornare indietro verso il sommergibile appoggio!» urlò Sokolov. Dobbiamo allontanarci il più possibile da quella boa ed entrare in acque aperte, pensò Helder. «Silenzio eccetto per i rapporti», ordinò e virò tutto a dritta. «Che cosa stai...» Il grido di Sokolov fu interrotto da un forte boato e da un improvviso scarto laterale del sommergibile. «Questa era una bomba di profondità», disse Helder. «Legati e tieniti ferma!» «Sei pazzo!» urlò la donna, che evidentemente aveva perso la testa. «Ci farai ammazzare!» «Smettila!» gridò Helder. Voleva ripeterlo, ma un braccio si protese verso di lui e si strinse intorno alla sua gola. Le urla di Sokolov divennero incomprensibili; Helder soffocava, non poteva più parlare. Abbandonò i comandi e con le due mani afferrò quel braccio. Il sommergibile precipitò verso il basso, sbatté quasi di piatto contro il fondo. Nel tentativo di riprendere i comandi, Helder mollò il braccio con una mano, cercando intanto con l'altra di non lasciarsi strozzare da Sokolov. Questa emetteva furiosi gridolini, che però non coprivano il rumore dei motori della vedetta. Helder li udì, ma ormai ansimava. Girò la testa da una parte, procurandosi così un po' di spazio per respirare. Ora però il braccio gli premeva l'arteria del
collo. Cristo! Quella donna aveva più forza di molti uomini! Helder mollò un'altra volta i comandi, ma dovette riafferrare subito la barra di profondità, perché il piccolo sommergibile perse quota e rimbalzò di nuovo sul fondo. Di colpo, Helder si sentì fiacco e capì di dovere fare in fretta qualcosa, prima di svenire. Allungò il braccio destro, cercò a tentoni lungo la parete del Tipo Quattro il punto in cui gli attrezzi pendevano dai loro sostegni, a portata di mano. Ne afferrò uno, senza sapere che cosa fosse, menò un colpo all'indietro, verso il punto dove pensava si trovasse la faccia di Sokolov. Gli sembrò che tutto poi succedesse contemporaneamente. Nel suo ultimo attimo di coscienza, si rese conto di avere colpito la donna perché la stretta del braccio si allentò. In quel momento sopra di lui vi fu una spaventosa esplosione di suoni. Il piccolo sommergibile impazzì. L'ultima sensazione di Helder fu che qualcosa gli colpisse le spalle dolorosamente. Poi, perse i sensi. 21 Katharine si trovò in un piccolo pianerottolo, che si affacciava su una camera lunga e stretta, forse sette metri e mezzo per meno di quattro, da cui la separavano quattro o cinque scalini. La luce entrava da una fila di finestre in alto sulla parete, che all'esterno dovevano essere al livello del suolo. Alla destra di Kate un ripostiglio conteneva una dozzina di sci e di bastoncini. In passato, quando l'edificio era ancora una scuola, quella stanza era probabilmente servita da magazzino. Adesso, a quanto pareva, era un rifugio per sciatori. Una mezza dozzina di brandine militari erano allineate lungo ogni lato della stanza; su una di queste sedeva in silenzio un uomo. Katharine si avviò lentamente verso di lui studiandone l'aspetto. Era cambiato moltissimo. Si ricordava le fotografie di un uomo piuttosto alto, magro, di circa sessant'anni, con capelli scuri che formavano una punta sulla fronte, sopracciglia folte, un naso aquilino che gli conferiva l'aria di un rapace. Adesso era invecchiato di dieci anni. Era ingrassato di una quindicina di chili, aveva capelli completamente grigi, e la punta sulla fronte era scomparsa per l'incipiente calvizie. Le sopracciglia erano state depilate a regola d'arte. Gli avevano rotto il naso, senza farlo soffrire, sperò Katharine, ma non glielo avevano aggiustato con un'operazione di plastica. Adesso era un muso piatto, largo e storto. La madre del generale di
divisione Georgi Abramovič Malakhov l'avrebbe incontrato per strada senza riconoscerlo. Katharine si sedette sulla cuccetta di fronte alla sua. «Buongiorno, generale Malakhov», disse. «La prego di non chiamarmi così», disse il russo. «Adesso sono... qualcun altro e certo non sono più generale.» La sua voce era priva di rimpianti. «Certo», annui. «Mi chiamo Kirkland. Sono venuta a farle qualche domanda su un tale che lei conosceva nell'Unione Sovietica.» «Ha un nome di battesimo, signorina Kirkland?» domandò Malakhov con calma. «E posso chiamarla per nome?» Era quello che un uomo avrebbe potuto dire a una donna incontrata a un ricevimento; date le circostanze, Katharine rimase perplessa, finché le venne in mente che Malakhov non vedeva donne da parecchio tempo. Accavallò le gambe, si chinò in avanti appoggiandosi sulle mani, sorrise. «Sarei felice se lei mi chiamasse Brooke», disse, sicura che la sua vecchia compagna di stanza dell'università le avrebbe concesso, date le circostanze, di fare uso di quel nome. «Bene. Un bel nome. Ha un suono freddo, chiaro, come la donna che lo porta.» Lei rise. «Devo cercare di esserne degna.» La sbalordiva la perfezione dell'accento americano del russo. Malakhov pronunciava con molta forza la erre, come fanno molti russi quando parlano inglese, dando l'impressione di essere del Midwest, forse dell'Illinois o dell'Ohio. Però la costruzione delle sue frasi non era del tutto americana, sembrava, se mai, europea. «Dunque, Brooke. Su chi è venuta a pormi domande?» «Victor Majorov.» Malakhov inarcò le sopracciglia. «Ah! Victor Sergevič l'interessa, allora!» Katharine alzò le spalle. «Di sfuggita. Riesce a ricordare la prima volta che l'ha incontrato?» Malakhov sorrise. «Certo. Come se fosse ieri. Fu nel millenovecentocinquantanove, nell'ufficio di Yuri Andropov. A quel tempo era segretario del Comitato Centrale. Andropov, con Majorov. Victor Sergevič era...» Si fermò e prese un'aria meditabonda. «Conoscevo i suoi genitori. Le piacerebbe sentirmi parlare del suo ambiente? È molto interessante.» Lo desiderava? Certo che sì. «La prego, me ne parli», chiese lei.
«Dunque, dobbiamo risalire alla rivoluzione. Sergei Ivanovič Majorov era di una famiglia di mercanti di Leningrado, molto nota ma non aristocratica. Il giorno dell'assalto al Palazzo d'Inverno era capitano della cavalleria imperiale. Consegnò il suo squadrone ai rivoluzionari, attirando l'attenzione personale di Lenin, del quale, poco tempo dopo, divenne guardia del corpo. Sergei Ivanovič era un uomo piacente e affascinante, con un buon grado d'istruzione; Lenin si divertiva al contrasto tra lui e alcuni dei contadini che a quei tempi lo circondavano; lo chiamava il suo zarista preferito.» Malakhov estrasse un pacchetto di piccoli sigari dalla tasca della camicia; se ne accese uno, mentre Kate cercava di nascondere la sua impazienza. Erano fatti interessantissimi, le piaceva ascoltarli. «Rimase con Lenin finché il grande uomo ebbe il suo primo colpo, nella primavera del 1922. Dopo, Lenin ebbe minor bisogno di lui. Sergei Ivanovič fu avvicinato da Dzeržinsky, allora capo della Ceka, la nostra prima polizia segreta. Ma lei è informata di tutto questo, vero, dato che è una cremlinologa?» «La prego, continui», disse Katharine fingendo di non aver notato la sua curiosità.» «Sergei Ivanovič fece carriera sotto Dzeržinsky e poi sotto Beria. Verso il 1930 incontrò una giovane donna, anzi una ragazza, Natalia Firsova, nata in Inghilterra da profughi bolscevichi fuggiti dalla Russia zarista. Stalin aveva invitato i russi con capacità tecniche a rimpatriare per aiutarlo a costruire la nuova patria. Il padre di Natalia era ingegnere. La ragazza aveva studiato danza a Londra. Si presentò quasi subito per una prova al Bolscioi e fu accettata. A quei tempi Majorov aveva più di quarant'anni mentre la ragazza, credo, ne aveva diciotto o diciannove, ma era un buon partito. Si sposarono; Natalia continuò la sua carriera diventando prima ballerina del Bolscioi, circa fino al trentasette, quando rimase incinta. Poi arrivarono tempi duri per Sergei Ivanovič.» «Le purghe di Stalin?» Malakhov annuì con un cenno del capo. «Ho dimenticato di che cosa fosse accusato, ma non ha molta importanza. Ogni giorno c'erano fucilazioni per qualsiasi pretesto. Però corse una notizia interessante, che Stalin avesse sparato di persona a Sergei. Mi sono domandato spesso se fosse vero.» «Così, che cosa successe a Natalia e al bambino?» «Il bambino non c'era ancora», continuò Malakhov. «Sergei Ivanovič
aveva molti amici di lunga data; evidentemente, tra loro ci fu qualcuno che ebbe il coraggio di aiutare la moglie. Non so bene come successe, ma Natalia riuscì ad arrivare a Leningrado, dove chi sa chi le procurò un posto d'insegnante alle giovani danzatrici del balletto Kirov. Quando le nacque il figlio, gli diede il proprio cognome, Firsov; lo chiamò Roy come il proprio padre. Data la necessità che nessuno sapesse chi era, il ragazzo dovette adattarsi a passare per bastardo, difficile impresa per chi cresce in una società comunista puritana. Però credo che abbia sempre saputo chi fosse suo padre.» «Questo gli ostacolò in qualche modo la carriera nel sistema comunista?» domando Katharine. «Sembra di no», rispose Malakhov. «Credo che i vecchi amici di suo padre l'abbiano protetto. Entrò all'università di Mosca, dove primeggiò nelle lingue straniere e nelle attività di partito. Fu infatti presidente del Komsomol, la Lega della gioventù comunista, all'università; in questo modo incontrò Andropov. Yuri si recò all'università per fare un discorso al Komsomol e fu Victor Sergevič a presentarlo agli studenti. Andropov fu colpito dal giovane e fece qualche indagine. Yuri indagava sempre su tutti e su tutto alla perfezione. Mentre il giovane Majorov era ancora all'università, gli offerse un impiego a metà tempo.» «Che impiego?» «Insegnargli l'inglese», rispose Malakhov. «Yuri Andropov si interessava di tutto, più di chiunque io abbia mai conosciuto. Non aveva l'istruzione di molti suoi coetanei; penso che a questo proposito soffrisse di un certo complesso d'inferiorità. Voleva leggere tutto, sapere tutto; molto di quanto voleva conoscere era però scritto in inglese e non tradotto. Naturalmente Majorov, cresciuto parlando inglese con sua madre, sapeva alla perfezione questa lingua ed era l'insegnante ideale per Yuri. In quel periodo, quando lo conobbi, Andropov sgombrava la sua scrivania tre volte la settimana e teneva libera tutta la mattinata per le lezioni d'inglese. Non acquistò mai un accento perfetto, ma arrivò a leggere correntemente l'inglese senza l'aiuto di riassunti o di traduzioni. Secondo me, fu uno dei suoi punti di forza. E provò sempre riconoscenza per Majorov.» «E lei incontrò Majorov nell'ufficio di Andropov nel millenovecentocinquantanove», lo interruppe Katharine per cercare di arrivare al punto che la interessava maggiormente. Malakhov annuì. «Al quartier generale del Comitato Centrale. Credo che Viktor Sergevič stesse per laurearsi e che avesse dichiarato un certo inte-
resse per il KGB. Andropov m'invitò a pranzo per farmelo conoscere. Quel giovanotto mi colpì davvero. La sua capacità a imparare lingue straniere sarebbe già stata una ragione sufficiente per arruolarlo. Oltre all'inglese, Majorov parlava correntemente francese, tedesco e svedese e se la cavava anche con le altre lingue scandinave. Ma aveva pure una mente sveglia, sembrava molto più vecchio della sua età, era un giovane serio. Lo destinai alla Prima Sezione, che dirigevo. Era perfetto per lo spionaggio all'estero, veramente perfetto.» «Quindi, lo reclutò il giorno stesso?» Malakhov sorrise. «Credo che lui abbia reclutato me, lui e Yuri. Si laureò tra i migliori ed entro una settimana era alla scuola del KGB per il servizio all'estero.» «Durante l'addestramento, lo tenne d'occhio?» «No, subito dopo fui mandato fuori della Russia, ma quando tornavo in vacanza sentivo sempre parlare dei suoi progressi al Centro di Mosca. Era stupendo, da quanto me ne dicevano. Le sue capacità linguistiche abbreviarono di molto il periodo di addestramento, dato che di solito ai candidati occorre molto tempo per perfezionarsi nella conoscenza delle lingue straniere. Fu mandato a Stoccolma dopo due soli anni. Non ebbi più contatti diretti con lui fino al millenovecentosettantotto, quando divenne capo della Prima Sezione. Ebbi con lui un buon numero di lunghi incontri, a volte a tu per tu; mi scelse lui per l'incarico alle Nazioni Unite.» «Quindi, Andropov lo mise a capo della Prima Sezione?» «Certo. Nei giorni in cui Yuri studiava l'inglese con Viktor Sergevič, sorse tra loro una specie di rapporto padre-figlio, anche se allora Andropov era solo sui quaranta. Da quel momento fu sempre il principale sostenitore di Viktor Sergevič, sebbene questi si desse da fare per ingraziarsi anche altri che, secondo lui, erano in ascesa.» «Chi, in particolare?» «Gorbaciov, specialmente, che ha pochi anni più di Majorov ed è pure lui un protetto di Andropov; sentii anche dire che, durante il periodo alle Nazioni Unite, andava particolarmente d'accordo con Gromyko, cosa tutt'altro che facile.» «Quindi, aveva successo con entrambe le generazioni?» «Proprio così. Ambiva a cambiare le cose come le generazioni giovani e aveva la fredda durezza delle vecchie. Poteva identificarsi con entrambe.» «Visto chi è adesso al potere, dovrebbe essere candidato a guidare il KGB.»
Malakhov sollevò le spalle con aria dubbiosa. «Chi lo sa? Avevo pensato che fosse il successore designato di Andropov alla direzione del KGB, quando questi divenne segretario del partito; godeva sicuramente del favore di Yuri, eppure ciò non avvenne. Sarebbe stata la cosa più naturale di questo mondo, dati i loro rapporti, ma non fu così.» «E perché, secondo lei?» «Ho una teoria, ma potrei sbagliarmi.» Katharine era impaziente di sentirla. «Qual è la sua teoria?» «Credo che abbia avuto qualcosa di meglio.» Ecco, coincideva con la teoria di Katharine. La prossima domanda l'avrebbe fatta progredire a un altro stadio. «Che cosa potrebbe essere meglio della direzione del KGB?» «Penso che Majorov abbia escogitato qualcosa per sé; null'altro sarebbe potuto convenirgli di più. Gli è sempre piaciuto avere libertà di movimento.» «Che cosa avrebbe potuto escogitare di meglio della direzione del KGB?» «Non lo so, ma dovrebbe essere qualcosa di grande, addirittura di grandioso. Sì, grandioso, ecco che cosa andrebbe bene per Viktor Sergevič. Dovrebbe essere qualcosa di tanto grande che, se riuscisse, lo catapulterebbe nel Politburo, magari addirittura nella poltrona di capo.» «Aspira così in alto, dunque? Sono ambizioni alquanto pericolose.» «Majorov gode a rischiare, mia cara Brooke. È il tipo di persona che otterrà tutto, oppure si distruggerà nel tentativo di ottenerlo. Non è privo di difetti, se le voci che corrono sono giuste.» Lei s'irrigidì. «Mi parli di queste voci.» «Ecco, quando tornai a Mosca sentii dire che Viktor Sergevič ha... certe tendenze, strane tendenze sessuali.» «Intende dire che è un omosessuale?» «No di certo. Anzi, è un consumatore di donne, spesso a due o tre. per volta; questo lo sanno tutti.» «Che tendenze, allora?» Malakhov si domostrò imbarazzato. «Forse sono un vecchio puritano, queste cose mi mettono a disagio, anche solo a parlarne.» Katharine si chinò verso di lui. «La prego», disse. «Be', le voci dicono che qualche volta le cose gli sfuggono di mano, che qualche volta uccide.» «Uccide le sue amanti?»
Malakhov annuì con un cenno del capo. «Queste sono le voci, si dice che è capitato... più d'una volta. E devo confessarle che, quando sentii queste voci, non ebbi nessuna difficoltà a credervi.» «E perché? Che cosa, in quanto sa di Majorov, le fa pensare che sarebbe capace di delitti sessuali?» «Il delitto non è difficile», disse Malakhov, con qualche tristezza. «Io ho ucciso. Se uno rimane nel KGB per molto tempo, in un modo o nell'altro ucciderà. Ma non ogni assassino è capace di brandire lui stesso il coltello. A qualcuno, però, piace. Vidi una volta Majorov divertirsi a farlo.» «Mi parli di quella volta.» Malakhov abbassò gli occhi sul pavimento. «Sa come si svolge un'esecuzione capitale nell'URSS?» «Con il plotone d'esecuzione, immagino.» Malakhov scosse il capo. «No, un plotone d'esecuzione è troppo bello, troppo dignitoso per i criminali. Tuttavia, si fa credere loro che saranno fucilati. Si scelgono gli uomini del plotone d'esecuzione, si fa avanzare la vittima verso di loro. Poi, mentre sembra che il plotone si prepari a sparare, un ufficiale si avvicina in silenzio alle spalle del condannato e gli spara alla testa.» Katharine non parlò. «Vidi Majorov eseguire una condanna a morte, una volta», disse Malakhov, sempre fissando il pavimento. «La vittima era un ufficiale del KGB colpevole di avere tentato di fuggire nei paesi dell'ovest. Era stato radunato un plotone d'esecuzione, l'ufficiale scelto per giustiziare il condannato stava per avvicinarsi alla vittima da dietro, quando all'improvviso Majorov comparve e gli tolse la pistola. Camminò lentamente, come un granchio, verso la vittima. L'espressione sul suo volto... era molto eccitato. Aspettò un momento, poi un altro, finché la vittima cominciò a domandarsi che cosa stesse succedendo, perché il plotone d'esecuzione non sparasse. Majorov gli tenne la pistola vicino alla testa e aspettò... aspettò finché il condannato intuì qualcosa e cominciò a girarsi verso di lui. Majorov aspettò fino al momento in cui la vittima lo vide con la coda dell'occhio, poi sparò, prendendolo alla tempia. Quindi si allontanò lasciandolo a terra, ancora vivo. Toccò a un altro ufficiale dargli il colpo di grazia. Fu uno spettacolo orribile... è orribile vedere un uomo che si diverte nell'ucciderne un altro.» Lei continuava a tacere. «Le dirò questo, Brooke Kirkland», Malakhov si chinò verso di lei e sputò fuori le parole con rabbia. «In più di trent'anni, cioè per tutto il tem-
po che passai al KGB, non ho mai incontrato un uomo più crudele e più spietato di Majorov. Mi spaventava essergli vicino.» La porta alle sue spalle si aprì, Katharine si voltò e vide Ed Rawls in piedi sulla soglia. «Devi andartene», disse. Lei cercò disperatamente una domanda che potesse chiarire completamente la sua teoria. Era adirata con se stessa. Aveva consumato il tempo concessole restando zitta in estasi, mentre il vecchio generale dominava la conversazione, raccontandole le sue storie. Un bell'interrogatorio il suo! Si alzò. «Vengo, Ed.» Si rivolse a Malakhov. «Viktor Majorov sarebbe capace di impegnare le forze armate sovietiche in una guerra di occupazione in Europa, se potesse ottenere l'appoggio del Politburo?» Anche Malakhov si alzò. «Lei non è stata ad ascoltarmi, Brooke Kirkland», disse scotendo il capo. «Viktor Sergevič Majorov è capace di qualsiasi cosa... di qualunque atto possa favorire i suoi fini privati. Nessun uomo, nessun gruppo, nessuna nazione che s'interponga tra lui e quanto desidera, è al sicuro. E non escludo neppure l'Unione Sovietica da questa valutazione.» «Grazie», disse Katharine voltandosi per andarsene. «Brooke Kirkland», urlò Malakhov, nel momento in cui arrivava in cima agli scalini. Katharine si voltò e lo guardò. Malakhov ghignò. «Qualunque cosa Viktor Sergevič stia tramando, le posso assicurare che non le piacerà!» Lo sentì sghignazzare attraverso la porta chiusa, mentre usciva dalla scuola in compagnia di Ed Rawls. «Cielo», sospirò, «è stato educativo.» Si fermò alla macchina e si voltò verso Rawls. «Ed, non ti è mai venuta un'idea strampalata e poi, quando hai cominciato a inseguirla, renderti conto che tutto quello che venivi a sapere la confermava?» «Sì», rispose Rawls. «Una volta o due.» Le sorrise. «Piuttosto spaventoso, non è vero?» «Hai proprio ragione.» Gli pose un braccio intorno alle spalle e lo baciò sulla guancia. «Grazie, ti sono riconoscente più di quanto sappia dirti.» «Ricordati però», sottolineò Rawls, «che non puoi archiviare i fatti di oggi in nessuno schedario, non puoi citarli a sostegno di una teoria.» «Me ne ricordo», disse Katharine, salendo in macchina e avviando il motore. «Ci vedremo a Langley, Ed.» «Lo spero, Kate», rispose Rawls senza sorridere. «Lo spero veramente.» Katharine andò fino a Stowe, poi girò verso Burlington dove prese l'ae-
reo. Era venuta qui a cercare dati, una conferma, e li aveva ottenuti. Si chiese però come mai, invece di sentirsi giubilante, fosse così depressa. 22 Helder fu svegliato da una sensazione di freddo e di bagnato sulla testa, immediatamente seguita da un dolore alle spalle. Gli pareva che la faccia stesse per esplodergli. Ci vollero parecchi secondi perché riacquistasse la coscienza necessaria a capire le sue condizioni. Penzolava a testa in giù dall'imbracatura, simile a quella dei piloti d'aereo, le cui cinghie gli tagliavano malamente le spalle. Da poco lontano gli giunse il rumore dell'acqua che irrompeva sotto pressione. Capì che il mare stava allagando il Tipo Quattro e che aveva già raggiunto il cocuzzolo della sua testa capovolta. Si aggrappò atterrito al dispositivo di emergenza per sganciare l'imbracatura, pensando che, se non avesse funzionato, sarebbe annegato. Invece si sganciò fin troppo in fretta, lasciandolo cadere in un palmo d'acqua. Helder si tirò, su, sputando, tossendo, cercando di orientarsi nel sommergibile rovesciato. Le lucine degli strumenti erano ancora accese, lo era anche la luce della cupola superiore, che però ora si trovava sotto di lui e gettava raggi distorti nel caotico interno del Tipo Quattro. Helder si guardò intorno. Vide Valerie Sokolov galleggiare a faccia in giù mezzo metro più in là. L'afferrò e la mise dritta, pensando che potesse essere ancora viva, poi diede un urlo e indietreggiò. Dall'occhio destro spuntava il manico di un cacciavite; il ferro le era penetrato direttamente nel cervello, sino in fondo. L'altro occhio di Sokolov aveva uno sguardo vuoto, la mascella pendeva inerte. Helder si ricordò di avere afferrato un oggetto qualsiasi e di avere sferrato un colpo alla cieca dietro di sé per liberarsi della sua stretta. Ci era riuscito. Gli fu necessario qualche tempo per riprendersi da quella vista e per cominciare a studiare la situazione. Il piccolo sommergibile era posato capovolto sul fondo, inclinato di circa dieci gradi rispetto alla perpendicolare; l'acqua stava rapidamente entrando dalla zona del portello, che giaceva sul fondo e quindi gli rendeva impossibile uscire. Nel modello originale del Tipo Quattro esisteva un altro portello, che però nella versione troncata era stato eliminato. Adesso il portello principale era l'unica via d'uscita. Helder tentò di mantenere la calma e di studiare la propria posizione. Le luci interne erano ancora accese: questo significava che le batterie non si erano scaricate. Cercò a tentoni l'interruttore dei fari, lo trovò e lo girò.
Fuori, il fondo marino scendeva dolcemente dal lato verso cui era inclinato il piccolo sommergibile. Questo incoraggiò Helder a credere di poterlo raddrizzare, almeno parzialmente. Spense i fari, scelse un punto dello scafo dalla parte in cui il pendio scendeva, vi si buttò con tutto il suo peso. Il Tipo Quattro ondeggiò lievemente, poi tornò nella posizione di prima, sempre capovolto. Helder si scagliò più e più volte contro lo scafo, ma le cose non cambiarono. Chiuse gli occhi e cercò di pensare ai mezzi che aveva a disposizione. Forza motrice, aveva forza motrice. Rifletté un momento, poi allungò la mano verso le leve di comando delle eliche, innestò quella di dritta a piena velocità in marcia avanti e quella di sinistra a tutta velocità in marcia indietro. Dai motori si sprigionò un forte gemito, il piccolo sommergibile cominciò a scuotersi. Poi, con grande lentezza, la poppa slittò lateralmente di qualche palmo, il Tipo Quattro prese a girarsi. Helder si aggrappò con forza alla prima presa che riuscì a trovare, mentre il piccolo sommergibile si girava sul fianco sinistro. Così il portello era libero, pensò Helder, purché non si fosse incastrato, dopo avere subito il peso di tutto lo scafo. Era squarciato, l'acqua vi entrava con violenza sprizzando getti dolorosi e pungenti. Helder si alzò in piedi e prese a scuotere la porta di un armadietto sulla parete di dritta, che ora si trovava sulla sua testa. Riuscì ad aprirlo. Gli caddero addosso due respiratori d'emergenza. Ne afferrò uno e lo esaminò in fretta: sembrava in ordine. Il respiratore consisteva in un regolatore di pressione, un boccaglio, una pinza per il naso e una piccola bombola d'aria compressa; nelle esercitazioni gli avevano detto che conteneva ossigeno per dieci minuti. Helder ne aveva fatto uso una sola volta, in una capsula di salvataggio alla scuola sommergibilisti. Si passò la cinghia del respiratore intorno al collo e si guardò di nuovo intorno. Il suo bagaglio d'emergenza, ancora sigillato nel pesante involucro di plastica, galleggiava ai suoi piedi. Helder lo raccolse, ne ruppe la chiusura stagna e, schiacciandolo, ne fece uscire quanta più aria gli fu possibile, prima di sigillarlo di nuovo. Doveva salire con la massima lentezza, non voleva che l'aria contenuta nell'involucro lo scaraventasse in superficie a gran velocità. Si guardò di nuovo intorno: aveva tutto l'occorrente. Gli spruzzi che entravano dal portello lo facevano impazzire. Sguazzando nell'acqua, riparandosi dai getti pungenti come aghi, andò a poppa e aprì le valvole di allagamento del sommergibile. L'acqua entrò in due colonne grosse come i suoi polsi. Ormai il Tipo Quattro si sarebbe riempito
in fretta; nella camera di manovra piena d'acqua la pressione sarebbe stata uguale alla pressione esterna, Helder avrebbe potuto aprire il portello e, se non era incastrato, fuggire. Ritorno a prendere il suo bagaglio d'emergenza e si appoggiò allo scafo. Infilò in bocca il boccaglio con il regolatore e ne apri la valvola. I suoi polmoni si riempirono d'aria sotto pressione: il respiratore di salvataggio funzionava. Helder lo richiuse e aspettò, sperando nonostante tutto che il portello si aprisse. Se era bloccato, aprendo le valvole di allagamento, aveva affrettato la propria morte. Ora l'acqua gli arrivava al petto. Helder calcolò che gli restava poco più d'un minuto. Gli balzò in mente l'immagine di Trina Ragulin. La respinse. Adesso doveva concentrarsi sul ritorno in superficie. Ricordandosene di colpo, aprì la cerniera della tuta da ginnastica, cercò la capsula di cianuro, la lanciò nell'acqua che saliva. No, quello no. Se fosse riuscito a emergere e lo avessero catturato, (la zona ormai doveva pullulare di vedette della marina militare anche se l'acqua che irrompeva nel sommergibile soffocava qualunque rumore di motori si potesse udire) Helder avrebbe fatto ciò che poteva, ma non si sarebbe ucciso, a nessun costo. Con l'acqua al mento, strinse di nuovo tra i denti il boccaglio, aprì la valvola e si adattò la pinza sul naso. Cominciò un'espirazione forzata, emettendo l'aria spinta nei polmoni dalla pressione, cercando di assumere un ritmo di respirazione profonda e regolare, a mano a mano che la poca aria rimasta all'interno del sommergibile gli veniva a mancare. Quindi procedette a tentoni lungo lo scafo, finché arrivò al portello. Girò il volantino, che si mosse liberamente, grazie al cielo. Spinse, il portello si apri a metà, poi si fermò contro un ostacolo e non si mosse più. Helder agguantò il bagaglio d'emergenza, lo fece passare attraverso lo spiraglio, si infilò dietro la sacca. Per un momento temette di non riuscire a sgusciare fuori e fu preso dal panico. Poi, bruscamente, si trovò libero e sospeso nell'acqua. A quanto ricordava, il Tipo Quattro era a una trentina di metri di profondità. Helder si lasciò risalire piano piano, tirando respiri profondi, cercando di contare i metri. L'acqua era spaventosamente gelida. Tentò di contare senza pensarci. Quando arrivò al trenta l'acqua gli sembrò meno fredda. Non era ancora in superficie, ma intorno a lui c'era un po' di luce. Capì che fra poco sarebbe affiorato. Di colpo, senza preavviso, l'aria della bombola finì, in un momento in cui i suoi polmoni erano pieni solo a metà. Non potevano essere passati dieci minuti, tutt'al più quattro o cinque, pensò Helder. Trattenne disperatamente il fiato, poi cominciò a espellerlo. Dov'era la superficie? Proprio
quando pensava di dover respirare acqua, Helder emerse, sputando il boccaglio e ingoiando aria con avidità. Si guardò intorno, muovendo le gambe per tenersi verticale. C'era nebbia, nebbia fitta, piovigginava. Forse non lo avrebbero catturato. Helder sentì il rumore di due motori, uno vicino, uno lontano. Aprì un angolo del sacco di plastica contenente il suo bagaglio, vi soffiò dentro e lo sigillò di nuovo. Adesso aveva qualcosa con cui reggere il suo peso in acqua. Sganciò il respiratore di salvataggio e lasciò che sprofondasse lontano. Si tolse scalciando le scarpette da corsa e si sfilò faticosamente la tuta sportiva. Nudo, coperto soltanto di un sospensorio, avrebbe nuotato meglio. Ma in quale direzione? Aspettò che il rumore del motore dell'imbarcazione più vicina a lui si allontanasse, poi portò alla bocca due dita e fischiò più forte che poté. Il fischio si smorzò subito, come assorbito dalla nebbia. Girò di novanta gradi su se stesso e fischiò di nuovo. Il rumore si spense. Si voltò di altri novanta gradi e fischiò un'altra volta. Il suono cessò subito. Compì un altro giro di novanta gradi e tentò ancora. Questa volta, un accenno di eco. Helder gettò le braccia sull'involucro di plastica e prese a nuotare, servendosi della sacca come in piscina aveva usato la tavoletta per imparare a nuotare. Puntò tutta la sua attenzione sul movimento dei piedi, che dovevano fare uno sforzo uguale per non spingerlo in tondo. Nuotò per mezz'ora secondo il suo orologio, di quando in quando aiutandosi con un fischio. L'eco si fece più chiaro e rimandò più in fretta il suono. Helder si riposò cinque minuti, poi ricominciò. Quando si fermò una seconda volta, i suoi piedi toccarono un fondo roccioso. Camminò per un momento, non toccò più il fondo, poi lo ritrovò. Un minuto dopo gli comparve davanti una macchia verde, un pezzo di prato ben curato. Helder uscì strisciando sull'erba e sbirciò tra la nebbia. In cima a un leggero pendio vide il profilo di una casetta bianca. Ebbe paura, non si fermò a riposare, si alzò in piedi e barcollò stancamente lungo l'acqua, cercando un riparo di qualsiasi genere. Poco dopo, una minuscola rimessa per barche gli baluginò davanti agli occhi attraverso la fittissima nebbia. La porta non era chiusa a chiave. Helder entrò e trovò un motoscafo sportivo lungo circa cinque metri, ormeggiato lungo una stretta banchina. Salì sull'imbarcazione e si accasciò su un sedile imbottito. In un armadietto sotto il cruscotto c'erano due teli di spugna, che Helder usò per asciugarsi alla meno peggio e che poi si avvolse intorno al corpo. Era vivo e, per il momento, al sicuro. Nessuno, con quel nebbione, avrebbe usato il moto-
scafo. Fu improvvisamente sommerso da un senso di calore, seguito poco dopo dal desiderio di dormire. La sua guancia toccò l'imbottitura e il sonno s'impadronì di lui. 23 Katharine, appena arrivata all'aeroporto nazionale, andò in un telefono pubblico, sfogliò le pagine gialle e fece un numero. Erano le nove passate di domenica sera, ma contava su un centralino aperto notte e giorno. Ebbe ragione; una donna le chiese di rimanere in linea mentre la metteva in comunicazione. «Qui parla Danny», disse una voce d'uomo. «Danny Burgis?» «In persona. Chi mi vuole?» «Si ricorda di Biggles?» «Certo.» «La cerco per un lavoretto su consiglio di Biggles.» «Che specie di lavoro?» «Ho bisogno di ripulire una casa da microfoni spia. Due case.» «Una delle due è la sua?» «Sì.» «Telefona da lì?» «No. Biggles mi ha detto di usare un telefono sicuro.» «Bene. Qual è il suo indirizzo?» Kate glielo diede. «Fra quanto arriverà a casa?» «Fra mezz'ora circa.» «Le va bene fra trentacinque minuti?» «Intende cercare stanotte i microfoni?» «Se per lei non è un disturbo. Parte dei miei lavori migliori li faccio di notte. In questo momento parlo dalla mia automobile. Ho con me tutto il necessario.» «Benissimo. Allora, fra trentacinque minuti.» «D'accordo. Il suo nome?» «Katharine Rule.» «Benissimo, Katie, quando arriverò non suonerò il campanello, busserò con il pugno. Aprendomi non dica nulla. Sono uno e ottantacinque, peso settantasette chili, porto un berretto da baseball e giacca a vento, sono irre-
sistibile. È una casa di città, vero? Com'è la pianta?» «Ingresso, salone, sala da pranzo al primo piano, cucina e studio al piano di sotto e due camere da letto all'ultimo piano.» «Comincerò dall'ultimo piano e lavorerò scendendo. Quando la casa sarà ripulita, parleremo. Quante linee telefoniche?» «Una sola.» «Quanti apparecchi?» «Uhm, cinque... no, sei.» «Quanti televisori?» «Due: in camera da letto e nel salone.» «Li accenda tutti e due prima del mio arrivo. Se ci sono apparecchi radio in altre stanze, accenda anche quelli.» «Uno in cucina.» «Benissimo. Trentacinque minuti.» Katharine andò al posteggio a ritirare la macchina e partì. Arrivata a casa, accese i televisori e la radio, poi rimase in attesa nell'ingresso. Puntualissimo, Danny bussò alla porta. Katharine aprì, l'uomo entrò e le strinse la mano muovendo le labbra in un saluto silenzioso. Sul berretto spiccavano le iniziali BS. Si avviò su per le scale, mentre lei guardava in sala una vecchia pellicola alla televisione. Quaranta minuti dopo l'uomo entrò nella stanza con un dito sulle labbra. Prese il telefono, vi passò sopra un misuratore, svitò sia il trasmettitore sia il ricevitore, li rimise a posto. Si avvicinò alla poltrona di Kate e bisbigliò: «Dov'è la scatola di derivazione?» Katharine diede una vistosa spallucciata e scosse il capo. L'uomo annuì e uscì dalla stanza. Dieci minuti dopo era di nuovo lì e spegneva il televisore. «Tutto ripulito», disse mettendosi la mano in tasca e tirandone fuori due piccoli congegni elettrici e una scatola nera un po' più grossa, munita di una breve antenna, che pose sul tavolino. «Lei aveva due microfoni spia, nel telefono della camera da letto padronale e in quello dell'ingresso. Entrambi potevano ricevere quando il telefono era attaccato. Non c'era altro, né sulle pareti, né nelle spine della corrente elettrica o nelle lampade.» Katharine prese in mano i due congegni e li rigirò da ogni parte. «È sicuro che non ci sia altro?» «Mi paga proprio per questo, signora Rule.» «Scusi.» «Non era un gran bel lavoro, con questi due cosi e basta. O il tizio è un tecnico del cavolo, o è stato interrotto prima di finire.»
«Che razza di congegni sono?» «Sono messi insieme con qualche comunissimo elemento giapponese, di quelli che si possono trovare in qualsiasi negozio di radio. Nulla indica che vengano da qualche altro paese straniero. Sono abbastanza buoni, ma niente di speciale. I due piccoli trasduttori ricevevano le sue parole quando parlava al telefono, oppure nella stanza dove si trova l'apparecchio, entro un raggio di tre metri e mezzo o forse poco più. Trasmettevano i suoni attraverso i fili del suo telefono alla scatola di derivazione del piano di sotto, poi a questa scatoletta nera, che lanciava nell'aria un segnale VHF di un Watt, segnale che, in termini pratici, poteva essere ricevuto a non più di quattrocento metri da qui. È un impianto piuttosto modesto: il suo uomo stava seduto in macchina o in un appartamento dall'altra parte della strada e ascoltava o registrava. Però dubito che si sia dato la briga di affittare un alloggio; sarebbe un investimento troppo gravoso, in confronto a quanto ha messo nella sua casa. Probabilmente la pedinava. Lei ha orari di spostamento sempre uguali? Ufficio, spesa, sera fuori, cose del genere?» «Cose del genere.» «Quindi non aveva senso incorrere in grandi spese. È molto meglio seguirla fino a casa e poi mettersi in ascolto. Dov'è la sua automobile?» «In strada, ferma due portoni più in là. È una BMW 320i.» Kate gli diede le chiavi e l'uomo uscì. Cinque minuti dopo era di ritorno. «Niente», annunciò. «È tutto ridotto ai minimi termini. Probabilmente il nostro uomo è convinto che lei non sappia di essere pedinata. Lavora con Biggles?» «In un certo senso.» «Parla del suo lavoro al telefono o in casa?» «Mai.» «E nell'altra casa?» Katharine arrossì pensando alle conversazioni con Will su Majorov. «Mai», mentì. «Desidera che controlli anche l'altra casa?» Kate gli diede l'indirizzo di Will e prese la chiave dalla borsetta. «Un amico?» «Sì.» «Dov'è in questo momento?» «A Stoccolma. È partito questa mattina.» «Bene. Vado a farlo adesso, se le va bene.» «Certo, faccia pure.»
«Sarò di ritorno in meno di un'ora», disse Danny Burgis. Katharine si svestì e fece un bagno caldo. Si tolse lo smalto dalle unghie, si rasò le gambe, si lavò i capelli, domandandosi intanto quali suoi discorsi fossero stati registrati. Quando Burgis tornò, lei era in accappatoio, con una spugna intorno alla testa. «Aveva dimenticato di parlarmi del sistema d'allarme», le disse lui. «Oddio! Certo! Sono arrivati i poliziotti?» L'uomo scosse la testa e sogghignò. «Per fortuna era uno dei miei impianti. Ho un codice per disinserirli. La mia ditta ne ha installati parecchi a Georgetown. Ne avrebbe bisogno anche lei, sa. Questa città è piena di ladri.» «Ha ragione, dovremo parlarne. Che cos'ha trovato nell'altra casa?» «Esattamente lo stesso lavoro: camera da letto e salone. Questo significa che il tizio non ha mai avuto intenzione di metterne più di due. Non è possibile che sia stato interrotto due volte. Però questa volta le è andata bene: l'impianto era scarico. Una delle due batterie nella scatola nera era per metà fuori posto. Non perché sia caduta, soltanto per la trascuratezza del tizio. A mio parere non era lì da molto tempo e non ha mai funzionato. Il suo uomo non ha più avuto l'opportunità di ritornare a ripararlo.» «Danny, ha una qualche idea di chi potrebbe averlo fatto? Voglio dire, che tipo di gente?» «Be', non si tratta di colleghi suoi e di Biggles. A loro piace roba d'avanguardia, della massima raffinatezza. Questi congegni sono troppo semplici per i loro gusti. Lei è in procinto di divorziare?» «No, ho divorziato due anni fa. Perché?» «Be', pensavo che potesse trattarsi di faccende coniugali, di un investigatore privato. Ma se lei è già divorziata da tempo, non quadra con la mia ipotesi. Non sta per caso bisticciando sul denaro o sull'affidamento di un figlio?» «No, abbiamo deciso tutto amichevolmente al momento del divorzio. Lui non voleva il mio bambino, io non volevo i suoi soldi.» «Allora non rimane che la concorrenza, non le pare?» «Davvero? Qualcosa le fa pensare che si tratti di uno straniero?» «Niente di particolare. Ho visto qualcuno dei loro lavoretti. Anche un russo potrebbe costruirsi questi congegni prendendo gli elementi disponibili sul posto, specialmente se avesse paura di essere scoperto. Se si tratta di comunisti, lei per loro non è molto importante, dato che non hanno compiuto grandi sforzi. Magari stanno cercando di coglierla nel letto del
suo amico per poi ricattarla. Questo quadrerebbe. Forse speravano di costringerla a mollare qualche scartoffia del suo ufficio. Qualcuno ha cercato di fare pressioni su di lei?» «No.» «Be', secondo me, le cose stanno così: se lui è venuto nel suo letto, potrebbero avere registrato un po' di sospiri affannosi e un po' di conversazione. Se è andata lei nel letto del suo amico, tutto è a posto, perché là i microfoni non funzionavano. Conosce la gente che abita di fronte a lei?» «Sì. È una coppia anziana, che sta in quella casa da venti o trent'anni.» «Be', dalla finestra del loro ultimo piano ci sarebbe la possibilità di un'inquadratura, usando una macchina fotografica a raggi infrarossi e il teleobiettivo, ma soltanto se non tiraste le tendine. Nella casa del suo amico è impossibile, l'angolazione è sbagliata.» Katharine provò un enorme sollievo. Will non era mai stato nel suo letto, e quel che lei gli aveva detto in casa sua non era stato ascoltato. «Benissimo, Danny, quanto le devo?» «Oh, duecento, credo. Sa che cosa le dico? Mi lasci installare qui un buon sistema d'allarme, diciamo per milleottocento... e mi creda, è a buon mercato; e non le farò pagare la ripulitura di oggi. In questo modo, per di più, renderemo loro più difficile mettere altri microfoni.» «Ah si? E allora come hanno fatto a installarli nell'altra casa?» «In uno di questi due modi», rispose Burgis senza scomporsi. «O avevano il codice, cosa quasi impossibile, o il suo amico un certo giorno non si è preso la briga di innestare l'allarme: e quelli là hanno avuto fortuna.» «Secondo me è vera la seconda ipotesi. Il mio amico è così. Certo, Danny, mi metta un sistema d'allarme.» Kate andò nell'atrio e prese una chiave dal cassetto di un mobile. «Venga pure quando le farà comodo», continuò. «Io sono in ufficio tutto il giorno e ogni giorno.» «Benissimo, Katie», disse Danny intascando la chiave. «Cercherò di trovare il tempo un giorno o l'altro di questa settimana. Eseguirò il lavoro io stesso. Oh, senta, a proposito di questa faccenda, potrebbe prendere un altro provvedimento.» «Che provvedimento?» «Lasci che la segua per qualche giorno. Scoprirò chi la pedina, chiunque sia. E farò una chiacchieratina con lui.» Katharine rifletté un momento. «No, o almeno non ancora. Non voglio forzare la mano a quel tale. Nel caso lo ritenga necessario la avvertirò.» «Lo faccia. Mi piacerebbe molto parlargli.»
«Grazie, Danny.» Gli aprì la porta e si appoggiò allo stipite. Con lui intorno, si sentiva meglio. Ma chi diavolo la pedinava e metteva microfoni nella sua casa? Risalì le scale, asciugandosi i capelli con la spugna senza riuscire a scacciare quel pensiero. 24 Helder si destò di colpo rimanendo immobile. L'aveva svegliato un rumore di motore marino. Si accorse che la guancia appoggiata al sedile di plastica grondava di sudore; tenne la testa bassa, mentre il suo giaciglio dondolava e cozzava contro gli ormeggi. Quando il motoscafo smise di oscillare e il rumore si smorzò allontanandosi, Helder si raddrizzò. L'interno della piccola rimessa era fiocamente illuminato dalla luce esterna. Guardò l'orologio: erano appena passate le sei, ora locale. Ma le sei del mattino o della sera? Della sera, a suo parere, la sera del giorno in cui era iniziata la missione. Sentì un urgente impulso ad andare altrove. Non doveva rimanere in quella rimessa. Aprì la cerniera dell'involucro di plastica e ne tirò fuori la sua sacca di nailon. Dato che era sera, scelse il completo scuro: giacca blu con bottoni d'oro, calzoni grigi di lana pettinata, mocassini neri, camicia bianca classica, cravatta a righe. Si sentiva abbastanza pulito dopo la nuotata, ma aveva bisogno di radersi. Però non in quel luogo. Attraverso uno spiraglio della porta scrutò i dintorni. Le luci nella casetta vicina erano accese, ma non c'era nessuno in giro. Helder si allontanò veloce dalla rimessa camminando lungo la spiaggia. Passò attraverso un'apertura in una folta siepe e dopo forse venti metri s'imbatte in un'altra casa. Pensò che doveva esserci una strada che correva dietro le abitazioni. Costeggiò la siepe, tenendo gli occhi ben aperti in caso d'incontri. Sentì il rumore di una pallina da tennis colpita dalle racchette, sentì ridere, poi vide il campo emergere dietro la casa e una giovane coppia che giocava. Se lo scorsero, non gli prestarono attenzione. Helder arrivò su una strada in macadam e guardò nei due sensi. Ma era ancora necessario? Controllò la posizione del sole e camminò in quella direzione. Stoccolma doveva trovarsi a ovest. E Helder voleva andare nella capitale, dove si sarebbe confuso tra migliaia di persone. Camminò con passo svelto ma non affrettato, come una persona che sa dove vuole andare e che non ha paura. Dopo forse un chilometro, arrivò a un incrocio. Sul lato di una delle strade vide una fermata d'autobus con un piccolo riparo.
Controllò il quadro dell'orario e scoprì che un autobus per Stoccolma sarebbe passato fra venti minuti. Bene. Scrutò la strada da tutte e due le parti. Passarono in rapida successione due macchine, ma non c'erano pedoni in vista. Helder sedette sotto la pensilina, aprì la sacca e cominciò a ordinarne il contenuto, esaminando i propri averi. Possedeva milleottocento corone svedesi, centosettanta dollari e altri mille in assegni turistici, già firmati con il nome di Carl Swenson. Aveva un portafoglio, una carta di credito Visa e un'altra dell'American Express, tutte convenientemente logore, ma valide; aveva un passaporto americano con il timbro d'ingresso in Svezia in quello stesso giorno e un biglietto di ritorno non usato da Stoccolma a New York con la SAS. Aveva un cambio di vestiario, un astuccio da toeletta, il suo album da disegno; aveva una carta della città di Stoccolma e una guida della Svezia. Aveva una pistola automatica calibro 9 e due caricatori. Decise di tenere tutte queste cose eccetto la pistola e le munizioni. Non le voleva, gli sembravano estranee ai suoi altri averi. In ogni caso, non intendeva uscire dalla Svezia impugnando un'arma. Le rimise nella sacca, se ne sarebbe liberato alla prima occasione. Prese dall'astuccio un piccolo rasoio elettrico a batteria e se lo passò in fretta sul viso, poi si pettinò con cura i capelli. L'immagine riflessa nello specchio sul coperchio dell'astuccio risultò quella di una persona sorprendentemente normale che lo guardava. L'autobus arrivò e lui vi salì. «Stoccolma?» domandò all'autista. L'uomo assentì. «Quattordici corone», disse in inglese. Helder gli diede un biglietto da cinquanta corone, prese il resto, soddisfatto che il guidatore gli avesse automaticamente risposto in inglese e andò a sedere in fondo all'autobus. C'era solo una mezza dozzina di viaggiatori. Helder aveva una fame da lupi, ma cercò di scacciare questo pensiero. Apri la carta di Stoccolma e la studiò attentamente, poi lesse la guida. Gli interessava trovare da mangiare, da dormire e il porto. Quando si convinse di essere in grado di orientarsi nella città, cedette alla stanchezza e si appisolò tranquillo, stranamente imperturbato dalle circostanze. Si svegliò nei sobborghi di Stoccolma e guardò sfilare gli edifici, affascinato. Tutto era così diverso dalle città sovietiche. Le case erano pulite, belle, ben conservate, mentre a Mosca o a Leningrado solo le costruzioni pubbliche e neppure tutte erano in buono stato. C'erano molti più alberi di quanto si aspettasse. In Russia gli alberi delle città, tagliati durante la Grande Guerra patriottica per fare legna da ardere, erano stati ripiantati solo qua e là. Helder fu colpito anche dalla grande quantità di negozi, davanti
ai quali, per di più, non si formavano code, nonostante le strade fossero piene di gente. C'era molto traffico di automobili private, non si vedevano veicoli militari. Alla stazione centrale degli autobus Helder trovò un tassì e si fece portare nelle vicinanze del palazzo reale. Entrò nelle straduzze della città vecchia, che risale, come Helder sapeva, al quattordicesimo secolo. Trovò quasi subito un alberghetto, il Lord Nelson, che però non aveva camere disponibili. La giovane donna al banco si offrì di telefonare a un albergo consociato, che era poco lontano. «È stato fortunato», gli disse. «È arrivata la disdetta di una camera singola. Di solito in questa stagione siamo pienissimi.» Gli diede un biglietto con il nome dell'albergo, il Lady Hamilton, più le istruzioni per arrivarci. Pochi minuti dopo Helder era alloggiato in una minuscola ma bellissima camera, poco più grande della cabina di una nave. Appese gli abiti e si domandò che cosa fare della pistola. Aprendo armadi e cassetti, trovò un piccolo frigorifero ben fornito di birra e liquori. Li tolse e, dopo aver nascosto in fondo la pistola e le munizioni, li rimise dentro. Era convinto che normalmente gli svedesi non frugassero nelle camere d'albergo dei turisti americani. Al banco non gli avevano neppure chiesto il passaporto. Lasciò l'albergo e trovò un ristorante, dove divorò quattro portate e una bottiglia di vino. Poi, sazio e spossato, si trascinò di nuovo in albergo e fino al letto, troppo stanco per pensare a qualcosa che non fosse un buon sonno. La prima notte di Helder nel mondo libero passò senza sogni. 25 Katharine si svegliò in ritardo e dovette affrettarsi per arrivare in tempo a una riunione di EXCOM DUE all'Agenzia. Quando entrò in punta di piedi e prese posto, la sala dei convegni era già buia. Pegram, dell'analisi immagini, stava proiettando fotografie scattate da un satellite e recitando una monotona lezione sull'argomento. «Qui vedete la fabbrica di aerei Lenin a Pskov, nella Russia occidentale, vicino ai confini con l'Estonia e la Lettonia. Hanno cominciato a costruirla quattro anni fa, è in funzione da più di due anni, ma, stando ai nostri calcoli, è sottoutilizzata. L'edificio è lungo un chilometro e mezzo e largo quattrocento metri, quindi di dimensioni adatte alla costruzione di più grossi aerei per il trasporto di truppe. Lo stabilimento era destinato proprio a tale scopo ma, a causa di un taglio alla produzione di questi grandi velivoli, è
stato usato solo per studiare modelli nuovi. E così arriviamo a questo.» Pegram mise un'altra diapositiva; invece di una veduta d'insieme, adesso comparve l'ingrandimento di un'estremità della costruzione, dalla quale sporgevano il muso e l'ala destra di un grande aereo. «Qualcuno ha voglia di indovinare che cosa potrebbe essere?» domandò laconico Pegram. «Sembra un enorme trasporto truppe, oppure un aereo da carico», disse una voce nell'oscurità. «Nessuno ha un'idea migliore? Non notate qualcosa d'insolito in questo aereo?» Intervenne Katharine. «Be', da quanto possiamo vederne», disse ad alta voce, «le ali sembrano troppo corte per dare la portanza necessaria a volare.» Provava un senso di disagio. «Ottimo, Rule. Adesso date uno sguardo qui.» Pegram cambiò di nuovo diapositiva. Questa volta si vide l'intero aereo volare a bassa quota sull'acqua, o almeno così sembrava. «Oddio, Pegram», domandò Kate. «Non sarà un WIG?» «È proprio un WIG, Rule. Raccontaci tutto quanto sai dei WIG.» «Be', dicevano che era una cosa impossibile, o meglio, noi e gli inglesi dicevamo che non era possibile. I sovietici lavorano a questa idea sin dal millenovecentocinquanta; ogni tanto ci giunge qualche voce, ma non sapevo che ne avessero costruito uno e che potesse volare.» «Avanti, amici», si lamentò un'altra voce nell'oscurità. «Che cos'è un WIG?» Pegram spiegò. «Un WIG opera sul principio che un aereo di una certa dimensione, volando a bassa quota, diciamo sotto i trenta metri, forma un cuscinetto d'aria che gli potrebbe permettere di trasportare un carico utile anche cinquecento volte superiore alla norma. Nessuno tra noi ha mai creduto che potesse funzionare: ecco perché non abbiamo in studio nessun WIG, neppure allo stadio di progetto.» «Allora, che cosa sappiamo dell'aereo proiettato qui?» domandò Kate. «Che cosa è capace di fare?» «Ecco», disse Pegram. «Quelli della sezione Ricerche scientifiche e sulle armi hanno appena dato il loro parere. Qui c'è quel che ne dicono.» Pegram lesse un foglio di carta appoggiandolo al leggio illuminato. «L'aereo WIG qui raffigurato è lungo approssimativamente sessanta metri, con un'apertura d'ali di soli trenta metri. Sembra azionato da due turbine a benzina, il cui scarico può essere diretto sotto le ali per dare loro una spinta
ascensionale in più, combinate con un'elica controrotante montata sul margine anteriore del timone di coda. Si direbbe che il muso dell'aereo abbia dei cardini circa quattro metri e mezzo dietro l'abitacolo: questo ci fa pensare che l'intera sezione anteriore dell'aereo possa essere sollevata per rapide operazioni di carico e scarico. Calcoliamo che il velivolo possa trasportare fino a quattrocento uomini, oppure parecchi carri armati, per milleseicento chilometri, alla velocità di più di trecento nodi a quote inferiori ai trenta metri, sull'acqua o su terreni piani. Potrebbe decollare e atterrare su piste di lunghezza sotto la media e potrebbe essere adattato a farlo anche sull'acqua. Sembra che l'aereo della fotografia trasporti due missili SS N 22, simili all'Exocet francese, uno sotto ciascuna ala.» Nella sala regnava un silenzio assoluto. «Signori», intonò Pegram, «l'aereo che vedete, se funzionerà (e ha tutta l'aria di farlo) è sicuramente un enorme balzo in avanti nella guerra anfibia. I sovietici ne hanno due in azione, i satelliti li hanno fotografati entrambi. Li hanno collaudati su un immenso lago a nordovest di Pskov. E per di più sembra che siano in azione da almeno due anni, mentre noi non ne abbiamo nemmeno uno.» Per un lungo momento tutti tacquero nella sala. Infine si alzò una voce. «Stavo cercando di pensare dove potrebbero usarli contro di noi.» Nella sala si sollevò una mezza dozzina di separate conversazioni. Finalmente la voce di Katharine si fece sentire nella confusione. «Pegram, come sappiamo che sono in azione due di quei cosi?» «Come ho già detto, Rule, i satelliti ne hanno fotografati due. Hanno numeri diversi.» «Certo, l'ha detto, ma ci ha fatto vedere una fabbrica, lunga un chilometro e mezzo, costruita in tutta fretta; e pensa che ne usino soltanto duecento metri per costruire due WIG? Si è fatto qualche studio sui materiali che vengono trasportati a Pskov?» «A che cosa vuole arrivare, Rule?» «Ecco a che cosa voglio arrivare: e se usassero quell'intero chilometro e mezzo di stabilimento per fabbricare i WIG e si servissero di due soli numeri sulla fusoliera quando li collaudano?» Sulla stanza calò un grande silenzio. Anche se la luce del leggio era debole, si poté vedere che Pegram arrossiva. Smosse i fogli davanti a sé. «Pensa forse che non ci siamo rivolti a HUMINT?» domandò retoricamente. Gesù, lo spero, pensò Katharine. Un po' di informazioni fornite da uo-
mini sul posto sarebbero state molto confortanti, date le circostanze. La riunione si sciolse e, mentre Katharine lasciava la sala dei convegni, una voce alle sue spalle chiese: «Kate, sei sicura che Pegram abbia avuto l'appoggio di HUMINT in queste valutazioni?» Katharine si voltò, stupita di vedere Ed Rawls di ritorno all'Agenzia così presto. Doveva avere ormai consegnato Malakhov a una squadra che lo aiutasse ad adattarsi alla nuova vita, pensò. «No», rispose. «Neppure io», disse lui. «Ed, da quanto Pegram ha detto circa le prestazioni di quell'aereo, il Baltico non sarebbe un ottimo teatro di operazioni?» «Ideale, direi. Arrivederci, Kate.» Ed si girò e si allontanò lungo l'atrio. Katharine, immersa nei suoi pensieri, era quasi arrivata nel suo ufficio, quando andò a sbattere distrattamente contro un uomo che girava l'angolo. «Kate, come stai?» Lei si scosse cercando di riordinare le idee. «Jim Gill! Ti credevo ancora a Roma. Che cosa fai qui?» Gill, un tipo allampanato con un forte accento del sud, la guardò stupito. «Certo che sono ancora a Roma; sono qui solo per due giorni, per una riunione. Senti, ti stavo proprio cercando in ufficio. Non ho avuto risposta al mio cablogramma della settimana scorsa. Appicella non t'interessa più?» Ci volle un momento, prima che Katharine riconoscesse il nome. «Appicella? Certo che mi interessa ancora. Non ho ricevuto nessun tuo cablogramma; non ho più sentito parlare di Appicella, dopo il tuo primo rapporto.» Emilio Appicella era l'italiano che faceva il pirata dei computer e che, con le sue vanterie sulle sue visite a Majorov, aveva messo in moto tutta la faccenda. Gill fece una spallucciata. «Cribbio, evidentemente le telecomunicazioni hanno combinato un pasticcio. Mi domandavo perché mai tu non mi rispondessi.» Katharine lottò con l'impulso di scuoterlo per farlo andare avanti. «Che cosa sta succedendo ad Appicella?» «Ecco, il buon Emilio ha ricevuto un altro invito ad andare all'est.» «Invito? Vuoi dire da Majorov?» «Così afferma lui. Ti ho mandato tutte le informazioni, sai; per cablogramma, la settimana scorsa. Forse non hanno ancora avuto tempo di interpretarlo, o qualcosa del genere.» L'avevano decifrato, eccome, pensò lei. Qualcuno censurava la sua posta. Qualcuno aveva intercettato il cablogramma. «Dimmi tutto ora, Jim.»
«Emilio prenderà l'aereo per Vienna, Dio, che giorno è oggi? Lunedì? Partirà mercoledì, cambierà a Vienna e salirà su un volo per Leningrado. Avevo chiesto istruzioni, Kate. Non mi avete risposto, né tu né l'ufficio Operazioni. Nelle due ultime settimane la stazione è stata un manicomio; e quando non mi hai risposto, ho pensato che te ne avrei parlato venendo qui.» «Qualcun altro della stazione di Roma ha trattato con Appicella oltre a te?» «No, è mio, tutto mio.» «Quando rientri a Roma?» «Fra una settimana, più o meno.» «Vieni con me in ufficio per un minuto, ti prego, Jim.» Katharine lo precedette lungo il corridoio e chiuse la porta alle loro spalle. «Ascoltami bene, Jim, hai parlato di questo con qualcuno dell'ufficio Operazioni?» «No, sono appena arrivato questa mattina. Non ci sono ancora andato.» «Jim, devo parlare con Appicella prima che parta per Vienna. Puoi metterti in diretto contatto con lui, senza passare dalla stazione di Roma?» Gill tirò fuori un taccuino. «Ho qui il suo numero di telefono. Lavora in casa.» «È di importanza capitale che gli parli e per farlo devo prendere una scorciatoia eliminando la burocrazia. Vuoi aspettare d'essere di nuovo in albergo, poi telefonargli e chiedergli d'incontrarmi?» Gill prese un'aria pensierosa. «Suppongo che tu non voglia che ne parli all'ufficio Operazioni, vero?» «Preferirei di no. Rovinerebbero solo tutta la faccenda. Sai come sono.» «Allora desideri proprio solo parlargli?» «Certo. Devi solo telefonargli per me e darmi il suo numero.» «Bene, al diavolo, lo farò. Se aspetterò fino a questa sera per telefonargli, lo sveglierò. Non vuoi che lo chiami di qui, vero?» E ridacchiò. «Preferirei di no. Digli solo di attendere una mia telefonata e digli che è importante.» «Va bene, Kate, te lo consegno. Gli dirò che sei una magnifica ragazza e lui morirà dalla voglia di conoscerti. È un vero donnaiolo latino.» «Digli quel che vuoi, ecco, quasi tutto quel che vuoi. Purché tu lo convinca ad accettare di parlarmi.» «Benissimo, gli telefonerò.» «Sono in debito con te, Jim.»
«E uno di questi giorni lo riscuoterò, stanne certa.» Gill scrisse il numero di telefono e aprì la porta. «Mi aspettano all'ufficio Operazioni. Arrivederci.» Katharine afferrò la borsetta e andò nell'ufficio del suo segretario. «Jeff, sto malissimo. Vado a casa per ficcarmi a letto. Da come mi sento, non sarò qui neppure domani, credo. Se qualcuno chiama, digli che non rispondo al telefono. Se proprio non possono fare a meno di me, mandino un corriere.» «Va bene», rispose Jeff riprendendo a leggere la sua rivista. Katharine uscì dall'edificio, entrò in macchina e si fermò al primo distributore di benzina. Fece il numero della Pan American. «Avete un volo notturno per Roma, vero? Bene. Mi occorre un posto. Vi do il numero di una carta di credito.» 26 Spossato e un po' brillo, Helder dormì profondamente fino a metà mattina. Si svegliò in un bagno di sudore; in sogno era tornato nel suo piccolo sommergibile, dove un cacciavite sporgeva da un occhio di Sokolov e dove il portello era incastrato. Si alzò e guardò, di là della finestrina, le guglie di Stoccolma. Era vivo, sano e salvo. Con una doccia quasi fredda si tolse di dosso il sudore e le ultime tracce del sogno o, meglio, dei ricordi. Indossò l'altro abito, una giacca leggera di tweed e calzoni di lino, fece la sacca, prese la pistola dal frigorifero e scese a mangiare. Divorò avidamente una buona colazione svedese, servendosi abbondantemente di uova, salami, aringhe, poi pagò il conto in corone. «Dove potrei rivolgermi per prenotare un passaggio sul traghetto per Helsinki?» domandò alla ragazza del banco. «Glielo posso prenotare per telefono», rispose la ragazza. Fece un numero e gli fissò immediatamente una cabina singola sul viaggio serale. «Il traghetto parte alle sei e arriverà a Helsinki domattina alle nove», spiegò. «Basterà che ritiri il biglietto al porto, un'ora prima che la nave salpi.» Helder la ringraziò e uscì. Mentre camminava nelle strette vie della città vecchia osservando i biondi svedesi e la loro capitale, gli venne un'idea che non aveva ancora avuto tempo di prendere in considerazione. Era solo in una città dell'occidente, con un passaporto americano, carte di credito, un sacco di soldi. Gli sarebbe stato possibile andare in tassì all'aeroporto di Stoccolma comprarsi un biglietto per un posto qualsiasi del mondo. Majo-
rov non l'avrebbe mai trovato. Oppure sì? Si potevano rintracciare le spese fatte con la carta di credito? Il passaporto avrebbe retto a un esame approfondito? E come si sarebbe guadagnato da vivere quando fosse rimasto senza soldi? Era stato addestrato a resistere per qualche giorno in una città straniera, ma conosceva la vita occidentale in modo sufficiente per viverci a lungo senza compiere errori? Magari, con un po' di fortuna, ma probabilmente no. C'era però un'altra soluzione: poteva prendere un tassì fino all'ambasciata americana e presentarsi alle loro autorità. Meglio ancora, poteva salire su un aereo per New York o per Washington. Con tutto quel che conosceva o sospettava di Malibu e dei piani di Majorov, l'avrebbero certo accolto a braccia aperte. Però, sapendo qualcosa dei metodi usati dal KGB, pensò che la CIA non sarebbe stata molto diversa. L'avrebbero creduto? Avrebbero fiutato un tranello? L'avrebbero torturato per estorcergli informazioni che non aveva? Helder si sentì di colpo molto solo e smarrito. Poi pensò a Trina Ragulin e non provò più smarrimento. Trina era a Malibu e lo aspettava: dov'era Trina, voleva essere anche lui. Se fosse ritornato, avrebbero passato insieme il resto della vita. Majorov gli aveva promesso la promozione e un comando, se avesse eseguito bene la missione. E lui l'aveva fatto. La boa era nel punto esatto voluto da Majorov; Sokolov era morta, ma questo andava bene anche per il colonnello. I suoi ordini erano stati di ucciderla se avessero dovuto abbandonare il sommergibile; Helder aveva fatto proprio così, anche se non volontariamente. A rigor di logica doveva ritornare da eroe, essendosi guadagnato la gratitudine di Majorov. E aveva visto quel che un protettore poteva fare per la carriera di un ufficiale della marina sovietica. Poteva tornare, sposare Ragulin, crescere di grado, mandare i figli alle scuole migliori, conseguire quel tenore di vita cui così pochi sovietici arrivano. Potevano offrirgli qualcosa di più nei paesi occidentali? Helder uscì da una viuzza e si trovò in uno spiazzo aperto. Sentì una marcia militare. Dalla cartina seppe di trovarsi davanti al palazzo reale. Entrò in un cortile di acciottolato e si unì a una folla di turisti che assistevano al cambio della guardia. Seguì i giovani soldati che, nelle loro uniformi ben stirate, con le armi tenute rigidamente ferme nella posizione di presentat arm, eseguivano i gesti rituali. Si domandò che cosa sarebbe successo se avessero saputo che c'era una spia sovietica con una pistola automatica infilata nella cintura. Probabilmente avrebbero piegato un ginocchio e gli avrebbero sparato. Helder sorrise al pensiero di turisti che si di-
sperdevano, alle pallottole che rimbalzavano sulla piazza. Quando la cerimonia finì, scese una lunga rampa fino al mare e si guardò intorno. Stoccolma gli ricordò vagamente Leningrado, con quelle distese d'acqua nel centro della città. Helder si appoggiò a una balaustra di pietra e prese dalla sacca l'album da disegno. Fece uno schizzo del palazzo, dell'acqua di fronte al palazzo, delle guardie reali nella loro uniforme da operetta, di un vecchio nella strada, di tutto ciò che gli colpì gli occhi. Sentì i morsi della fame e, guardando l'orologio, si stupì che fossero passate più di due ore. Risalì la scalinata e tornò nella città vecchia. Poco prima era passato davanti a un ristorante su una piazzetta e pensò di recarvisi. Una ragazza lo fece accomodare a un tavolo per quattro su un terrazzo chiuso da una vetrata che guardava verso l'Accademia svedese dall'altra parte della piazza. Era evidentemente un posto molto conosciuto, perché si riempì in fretta. Helder ordinò una birra e studiò la lista. «Mi scusi», disse una voce. Helder alzò la testa e vide in piedi vicino a sé la cameriera che gli aveva dato il tavolo, con un uomo al suo fianco. «Le dispiacerebbe lasciar sedere questo signore al suo tavolo? Purtroppo non ce ne sono altri liberi.» Helder diede una rapida occhiata all'uomo. Era alto, capelli scuri, poco meno di quarant'anni; vestito sportivo, ma elegante. Inglese, pensò Helder. Non aveva l'aria di essere un poliziotto svedese. «Se la disturbo, posso aspettare», disse l'uomo, interpretando male l'esitazione di Helder. «No, prego, si sieda. Stavo sognando a occhi aperti, temo, c'è voluto un momento perché ricominciassi a connettere.» «Grazie», disse l'uomo, sedendosi. Ordinò da bere e prese la lista. «Conosce questo posto? Ha qualcosa da raccomandare?» Americano, non inglese. Un accento regionale, pensò Helder. Forse del sud. «No, sono un turista, è la prima volta che vengo qui.» «Inglese?» domandò l'uomo. «No, americano.» «Davvero? Anch'io. Da dove viene?» «In origine dal Minnesota. Adesso vivo a New York.» «C'è nel suo accento qualcosa che non riesco a spiegarmi. E usa espressioni inglesi, per quello ho pensato che fosse britannico.» «Ha ragione, le ho prese da una ragazza inglese che conosco. Quanto al
mio accento, i miei genitori erano svedesi, quindi il fatto può avere un po' influito.» «Parla svedese?» «Non bene. I miei, appena arrivati in America, fecero di tutto per trasformarsi in perfetti americani. Insistevano a parlare inglese mentre mi allevavano. Quanto al cibo, potrebbe provare il gravlax; è salmone marinato con salsa di senape e di aneto. Mia madre lo faceva spesso.» «Dovrebbe essere buono.» La cameriera tornò a prendere i loro ordini. «Allora lei abita a New York», riprese l'uomo. «Mi piace quella città, specialmente i suoi ristoranti. Conosce il Cafè des Artistes, nell'Upper West Side?» «No, vivo nel Greenwich Village e vi passo quasi tutto il mio tempo.» «Si mangia bene anche nel Village. Conosce La Tulipe, sulla tredicesima ovest?» «Temo di no. La mia amica è un'ottima cuoca. Mangiamo quasi sempre a casa. Per di più lavoro in casa, quindi non vado molto in giro come fa certa gente.» L'uomo cominciava a sembrare il signor Jones durante una delle esercitazioni sulla falsa biografia di Helder. «Non posso darle torto», rise l'uomo. «Quanto a me, faccio io da mangiare per la mia amica, il più delle volte. Che cosa fa?» «Pubblicità e illustrazioni di libri.» L'uomo allungò il collo per vedere l'album di Helder. «E lo fa anche bene, immagino. Molto interessante. Posso vedere quel che ha fatto?» Helder gli porse l'album. «Ottimo, davvero. Non fa mai mostre?» «Oh, no. Quando ho finito i disegni per la pubblicità e le sopraccoperte di libri, non mi rimane molta energia per il mio vero lavoro. Le vacanze sono l'unico momento in cui posso disegnare per me.» «Un peccato. È da molto a Stoccolma?» «Sono arrivato ieri, questa notte riparto per Helsinki. Là ho una zia che non vedo da quando ero bambino.» «Comodo avere qualcuno che le fa visitare una città sconosciuta», commentò l'altro. «Di quale stato è lei?» chiese Helder, ansioso di evitare altre domande. «Della Georgia, di una cittadina che si chiama Delano, dove ho un ufficio legale con mio padre.» «Anche lei è in vacanza, allora?» «Sì, anzi, sarò anch'io a Helsinki fra due giorni, ma solo per cambiare
aereo.» «Dov'è diretto?» «A un posto della costa occidentale che si chiama Pietarsaari o, per dargli il suo nome svedese, Jakobstad. Vado a ritirare in un cantiere una barca nuova per un amico. Gliela porterò fino a Copenhagen.» L'interesse di Helder si risvegliò. «Che tipo di barca?» «Uno sloop di quarantadue piedi, uno Swan. Lei fa vela?» «Oh, solo su piccole barche nei laghi del Minnesota. Soprattutto sui Finn.» «Solo, dunque? Ho fatto vela anch'io senza equipaggio, ma su barche più grosse.» «Non credo di conoscere gli Swan», disse Helder. L'uomo ebbe l'aria stupita. «No? Hanno fama di essere le migliori barche a vela di serie in tutto il mondo.» «Be', suppongo non ci siano tanti Swan nei laghi del Minnesota», commentò Helder ridendo. Arrivarono i loro piarti. I due chiacchierarono senza intoppi per tutto il pranzo. Helder cominciava a trovare simpatico quell'uomo e si divertì all'esercizio mentale di destreggiarsi nella conversazione, contando sull'addestramento fatto con Jones e nella propria capacità d'improvvisazione. Finirono il caffè, pagarono il conto metà per uno e si alzarono per andarsene. «Bene, le auguro un buon viaggio e un buon soggiorno sia a Stoccolma, sia a Helsinki», disse l'uomo. «E continui a disegnare. Lei è molto bravo.» Helder, felice d'avere avuto qualcuno con cui conversare, fu spiacente che il pranzo fosse finito. «Gliene piacerebbe uno?» gli domandò, indicando il suo album. «Oh, grazie, ma certamente vorrà tenerli per ricordo!» «Sarei felice di sapere che uno dei miei disegni è appeso nell'ufficio di un'avvocato della Georgia», affermò Helder. Ed era vero. Era divertente pensare che quell'uomo non avrebbe mai saputo chi aveva fatto quel disegno. Ci sarebbe stato qualcosa di suo in America, anche se la CIA non l'avesse beccato. «Bene, la ringrazio molto. Ho un debole per quello delle guardie reali. Posso averlo?» «Certo», annuì Helder strappando il disegno dall'album. Lo firmò rapidamente e glielo porse. «Non ci siamo neppure presentati come si deve», disse l'uomo. «Mi piacerebbe sapere di chi è l'opera che appenderò in ufficio.» E mise avanti la
mano. «Sono Carl Swenson», disse Helder, stringendola. «Felice di fare la sua conoscenza, Carl. Se mai verrà a Delano, in Georgia, mi cerchi. Mi chiamo Will Lee.» Si separarono da grandi amici. 27 Katharine batté le palpebre nell'accecante sole di Roma e, facendosi ombra con una mano, cercò inutilmente tra la folla Emilio Appicella. Era seduta a un caffè all'aperto di Piazza Navona, anche se avrebbe voluto essere a letto perché risentiva moltissimo del cambio di fusi orari. Aveva preso un volo notturno da Washington, arrivando a Roma allo spuntare del giorno, era andata di filato in una camera allo Hassler-Villa Medici, dove aveva prenotato e aveva dormito di un sonno inquieto per due ore. La passeggiatina dallo Hassler al ristorante era stata come bighellonare in un altro pianeta, diverso ma stranamente familiare, mentre le ondate di calore riflesse dal lastricato delle vie si intrecciavano con le fitte del suo malessere di viaggiatrice. Prima di partire da Washington, aveva fissato l'appuntamento con Appicella per pranzo. L'uomo aveva accettato sollecitamente, addirittura con ardore. Che cosa mai gli aveva detto di lei Jim Gill? Appicella aveva proposto il pranzo, aveva proposto il ristorante, una vecchia passione di Katharine dai tempi del suo lavoro alla stazione di Roma, ma era in ritardo di venti minuti. Poiché il ghiaccio nel suo aperitivo era ormai fuso, Katharine fece cenno a un cameriere per avere un bis ed esaminò di nuovo la folla della piazza, domandandosi che aspetto avesse Appicella. («La troverò io», era stata la sua risposta, quando Katharine gliel'aveva chiesto.) Aveva il presentimento che sarebbe stato una versione italiana della ben nota razza americana dell'imbranato con la mania dei calcolatori. Katharine seguì con gli occhi un uomo che percorreva lentamente il ristorante e che le sorrideva. Non poteva essere la persona che aspettava. Sembrava il sosia di Mastroianni. Era vergognosamente bello, indossava un abito bianco con la giacca negligentemente buttata su una spalla e un panama in testa. La camicia di seta color giallo pallido era aperta sul petto, l'unico punto vivace era il fazzoletto di seta dai disegni stravaganti che spuntava dal taschino. Lo sconosciuto si muoveva in mezzo alla folla con disinvoltura, qui stringeva una mano, là ne baciava un'altra, salutava a
cenni qualcuno dall'altra parte del ristorante. Aveva l'abitudine di passarsi un dito sui folti baffi neri, cosa che gli conferiva l'aria di un avventuriero. I camerieri si giravano per salutarlo. Quell'uomo era la caricatura di tutto ciò che a Hollywood si pensa del maschio italiano. Katharine desiderò disperatamente di poter pranzare con lui, invece che con uno sciocco pirata dei computer, che, ne era convinta, si sarebbe presentato con un vestito stropicciato e con una quantità di penne infilate nel taschino della giacca. Avrebbe preferito passare in quel modo la sua unica giornata romana! L'uomo l'adocchiò mentre si fermava a due tavoli da lei e Katharine lo fissò con franchezza. Se chi aspettava non si fosse presentato, ebbene, tanto peggio! Lo sconosciuto scambiò qualche parola con la coppia seduta a quel tavolo, poi venne presso di lei e si fermò al suo fianco, togliendosi il cappello di paglia e mettendo in mostra una chioma nera dal taglio splendido. Katharine alzò lo sguardo sui suoi occhi scuri, cercando di non ridere scioccamente. «Signorina Rule, credo», disse tranquillamente l'uomo, con un comico accento inglese. Katharine rimase senza parole. «Sono Emilio Appicella. Credo di avere un appuntamento con lei. Posso sedermi?» «Certo», annuì lei, riprendendosi un po'. Appicella sollevò un sopracciglio e un cameriere comparve subito al loro tavolo. I due si parlarono per mezzo minuto in un italiano troppo rapido perché Katharine potesse seguirlo, poi il cameriere svanì. «Mi sono preso la libertà di ordinare per lei», disse Appicella. «Spero che non le dispiaccia.» «No», rispose Katharine, già ridotta a creta tra le sue mani. «Bene», mormorò Appicella, appoggiandosi allo schienale e guardandola. «Lei è certamente la più graziosa spia della CIA che abbia mai vista.» «Santo cielo!» gli sibilò Katharine, irritata. «Vuole parlare a bassa voce?» Appicella rise forte. «Ahah, signorina Rule, nessuno qui sta ascoltandoci. Non in un giorno come questo.» Agitò una mano. «Sono tutti occupatissimi a combinare di andare a letto l'uno con l'altra subito dopo pranzo.» Il cameriere riapparve, portando un vassoio con una caraffa di spremuta d'arancia e una bottiglia di Champagne freddo. «È una bibita meravigliosa che, me ne vergogno, ho scoperta in Inghilterra», disse Appicella, sovrintendendo alla mescita delle due bibite in u-
gual misura. «Lo chiamano Buck's Fizz ed è una miscela davvero troppo allegra e gioconda per quel paese tanto tetro. Non se lo meritano.» Le mise di fronte un bicchiere e alzò il suo. «A missioni trionfali», disse con aria da cospiratore. «Signor Appicella», disse Katharine in fretta. «Temo che lei si sia fatto un'idea sbagliata su chi sono io. Io...» Appicella alzò la mano. «La prego. Prima ci faremo un buon pranzetto, poi parleremo di spionaggio e di cose simili.» Katharine cercò di calmarsi e di divertirsi, anche se doveva prendere un aereo nel tardo pomeriggio. Arrivò un enorme piatto di antipasti, seguito da pastasciutta con panna acida, formaggio e pezzetti di salmone, seguita da minuscole cotolette d'agnello con insalata. Chiacchierarono come nuovi amici, del caldo a Roma e a Washington, dei migliori ristoranti sulla costa amalfitana, dei migliori alberghi di Venezia. Appicella li conosceva tutti. Finalmente, dopo il caffè, l'uomo si appoggiò allo schienale, fece un rutto discreto e disse: «Ora passiamo agli affari. Secondo me, lei desidera che spii le mosse di Firsov per lei, giusto?» «Sì», rispose Katharine. Era così stupefatta che non riuscì a dire altro. Si era preparata a un lungo e sottile lavoro di convinzione e magari anche a fargli gli occhi dolci. «Benissimo», disse l'uomo. «Lo farò.» «Davvero?» domandò lei con voce fievole. «Naturalmente. Lei pensava che fossi un comunista o qualcosa del genere?» «Ecco, no...» «Vuole che le fotografi documenti?» «Emilio. Non le ho portato né una macchina fotografica né altro equipaggiamento. Sarebbe pericolosissimo tentare cose simili per un dilett... per uno non del mestiere.» Appicella si strinse nelle spalle. «Come vuole. Se le fa piacere, sarei lieto di prender foto. Possiedo una Minox!» Katharine scosse il capo. «No, non posso chiederle tanto. Desidero solo sapere dove si trova Firsov e che cosa sta tramando. Senta, non sono autorizzata a promettere un compenso, ma potrei...» Appicella la fermò con un'occhiataccia. «Crede che lo faccia per denaro? Buon Dio, ragazza, Gill non le ha parlato di mia nonna?» «Ha detto che era russa e che per questo lei parla il russo.» «Mia nonna era una contessa», disse Appicella. «Si era sposata a dician-
nove anni, ne aveva venti quando ci fu la rivoluzione. Quei bastardi di bolscevichi assassinarono suo marito e le rubarono tutto. Arrivò in Italia su un vagone di terza classe, senza un soldo, poi ebbe la fortuna di incontrare mio nonno. Poco dopo era una contessa italiana. I miei genitori morirono durante la guerra, io vissi con lei fin dalla più tenera infanzia. Mi parlava soltanto in russo e mi raccontava tutto ciò che bisogna sapere sui comunisti. Farò molto volentieri tutto quel che potrò per affrettare la loro rovina. Prendo il loro denaro», Appicella sorrise accarezzandosi i baffi, «per impoverirli. Faccio per loro solo delle piccolezze, niente che serva alla guerra.» «Capisco», disse Katharine. «Le sono grata del suo aiuto.» «Che cosa esattamente desidera che scopra per lei?» «Il luogo preciso in cui si trova Firsov e tutto quanto è possibile sapere delle sue attività. Voglio sapere in che tipo di posto lavora, che tipo di attrezzature militari sono in evidenza intorno a lui, in caso ce ne siano. Desidero particolari e ancora particolari su di lui, tutto quel che vedrà e tutto quel che ricorderà. Potrebbe essere importantissimo per un'infinità di persone. Si potrebbero salvare vite umane, capisce?» «Certo. Farò quel che mi chiede. Come farò a mettermi in contatto con lei?» Katharine scrisse il numero del suo telefono di casa. «La prego, se lo fissi nella memoria, non lo porti scritto nell'Unione Sovietica.» Appicella guardò un momento il biglietto concentrandosi sulle cifre. «Va bene, l'ho imparato.» «Di solito sono in casa solo nelle ore serali, ma c'è una segreteria telefonica; potrà lasciare un numero o un indirizzo, in modo che io possa cercarla. Potrà parlare per un massimo di trenta minuti, il telefono è sicuro. Non cerchi di telefonarmi dall'Unione Sovietica, per favore. Aspetti d'essere a Roma oppure in qualche altra città dell'occidente. Se è possibile, tornerò a parlarle, ma potrebbe mancarmi il tempo.» «Se n'intende di computer, Kate?» domandò l'italiano. «Me ne servo continuamente.» «Sa che cos'è La Fonte?» «E un servizio d'informazioni del Maryland. L'ho già usato.» «Bene. A volte tengo archivi nel La Fonte. Il mio codice è ZZP100, la mia parola chiave è WHOP. Se li ricorda?» «Sì» Se per qualche motivo non potessi telefonare, lascerò un messaggio per
lei in un archivio chiamato Kate. Controlli tutti i giorni.» «D'accordo.» «E ora, mia leggiadra spia», disse Appicella firmando il conto, «vuole venire a far l'amore con me nella mia villa?» Katharine non fu sicura che parlasse sul serio. Ma forse sì. «Non è un'idea sgradevole, Emilio, ma devo prendere l'aereo.» «Ne sono desolato» disse l'uomo. E credergli le fece piacere. 28 In piedi sul ponte del traghetto tra Stoccolma ed Helsinki mentre la nave veniva ormeggiata alla banchina, Helder si sentiva riposato e ben nutrito. La sera prima si era goduto una cena sontuosa, aveva ballato con due ragazze svedesi e dormito bene, per sua scelta senza compagnia. Si era alzato presto, aveva fatto un'eccellente colazione e assistito all'ingresso della nave nel porto di Helsinki. La città, vista dal mare, era bellissima, ma Helder aveva occhi solo per il porto. Aveva fatto da Stoccolma una telefonata secondo gli ordini, ma non gli era stato detto nulla. Con la speranza che fosse venuto qualcuno ad aspettarlo, Helder scese dalla nave lungo un'alta passerella che sboccava in un edificio della stazione marittima. Di qui si avviò lentamente verso l'uscita, domandandosi che cosa fare. «Carl!» gridò una voce dietro di lui. Helder ebbe bisogno di un attimo per riconoscere quel nome; quando si girò, si trovò a stringere la mano del signor Jones di Malibu. «Carl, sono lo zio Jan! Come stai?» «Benissimo, zio Jan», rispose Helder, molto stupito di vedere l'inventore delle false biografie. «La zia muore dalla voglia di conoscerti», continuò Jones. «Vieni, ho la macchina fuori.» Helder seguì Jones che lo precedette rapido fuori della stazione marittima fino al posteggio, poi gli fece segno di entrare in una Volvo azzurra familiare, continuando a sorridere e a raccontare bonarie facezie sulla famiglia, sull'America e sulla zia di Helder. Non appena mise in moto Jones esclamò: «Helder, sono veramente felice di rivederla. Quando non siete tornati al sommergibile appoggio, abbiamo temuto il peggio. Dov'è Sokolov?» «Ancora dentro il sommergibile», rispose Helder. «Non è stata in grado di uscirne.» «Capisco», commentò l'altro dando un'occhiata allo specchietto retrovi-
sivo. «Mi scusi, non posso chiacchierare perché devo pensare alla guida per qualche minuto.» Jones guidava alternativamente in fretta, poi piano, svoltando a destra e a sinistra a caso, o almeno così pareva. Una volta, dopo avere frenato a un semaforo rosso, attraversò dritto la strada senza aspettare il verde e sorvegliando continuamente lo specchietto. Infine si fermò in una via alberata. Un uomo in borghese aprì loro un cancello di ferro battuto. Jones girò attorno a una casa grande e bella e posteggiò sul retro. «Mi segua», disse balzando fuori dalla Volvo e correndo su per le scale di servizio. Dentro c'erano pavimenti di marmo e una grande quantità di mobili massicci. Salirono due piani con un piccolo ascensore e uscirono su un corridoio tetro e mal illuminato. Jones si fermò davanti a una porta d'acciaio e suonò un campanello. Qualcuno fece scorrere un pannello, un paio d'occhi li scrutò. «Dove siamo?» domandò Helder. «All'ambasciata sovietica», rispose Jones. «Credevo che lo sapesse.» Un uomo in maniche di camicia aprì loro la porta silenziosamente e li fece entrare in uno stanzone ingombro di radioriceventi e di telescriventi, che puzzava di tabacco stantio ed era pieno di fumo. «Fagli vedere come funziona», disse Jones all'uomo.» «Vieni qui», disse l'uomo indicando un terminale di calcolatore. «Sai scrivere a macchina?» domandò a Helder. «Sì», rispose questi. L'uomo prese un telefono, fece un numero, ascoltò un momento, poi pose la cornetta su un sostegno. Sullo schermo del terminale comparve una fila di X, poi le parole: «Sono qui». «All'altro capo c'è il colonnello», spiegò Jones. L'uomo in maniche di camicia invitò con un cenno Helder a sedersi davanti al terminale. «Non devi far altro che dattilografare», disse. «Andiamocene», ordinò Jones allo sconosciuto. Lasciarono Helder solo davanti al terminale acceso del calcolatore. Helder scrisse: «Eccomi, signor colonnello.» «La spedizione ha avuto buon esito?» domandò lo schermo. «Abbiamo eseguito il nostro incarico con pieno successo ma il Tipo Quattro è stato distrutto dalle bombe di profondità», scrisse Helder. «Dammi le coordinate», disse lo schermo. Helder batté le coordinate della posizione della boa sommersa. Lo schermo le ripeté cifra per cifra.
«Sono esatte?» «Sì», scrisse Helder. «Sei ferito?» domandò lo schermo. «No, colonnello, sono in perfette condizioni fisiche», rispose Helder. «La tua compagna è viva?» gli chiese lo schermo. «No», rispose Helder. «Jones ti condurrà in macchina all'aeroporto», dichiarò lo schermo. «Là ti aspetta un aereo che ti porterà a Mosca. Ci vedremo a Mosca. Ci sarà per te a bordo dell'aereo un'uniforme della marina con i gradi di capitano di secondo grado. Oltre alla promozione, riceverai metà della tua paga nella valuta straniera che preferirai. Congratulazioni e complimenti.» «La ringrazio, colonnello», scrisse Helder in risposta. «Chiudo. Ci vedremo a Mosca.» Helder fissò per un momento lo schermo, poi si alzò e andò ad aprire la porta. Fuori, in corridoio, Jones e lo sconosciuto aspettavano. «Ho finito», disse. «Allora ce ne possiamo andare», disse Jones. All'aeroporto trovarono in attesa un piccolo aviogetto sovietico senza scritte militari. Helder e Jones si strinsero la mano. «Arrivederci a Malibu», disse Jones sorridendo. «Grazie per avermi accompagnato e... per la 'leggenda'», rispose Helder. «Senza il tuo addestramento non me la sarei mai cavata.» Jones alzò le spalle. «È il mio lavoro. E mi piace.» Helder salì sull'aereo. Mentre rollavano verso la pista, il secondo autista gli indicò un frigorifero pieno di cibo e bevande e gli consegnò una valigetta e una sacca porta abiti; dopo il decollo, tornò da lui in cabina. «Adesso può muoversi liberamente, capitano. Se vuole, può vestirsi. Le occorre qualcosa?» Helder scosse il capo; quando l'altro tornò nella cabina di pilotaggio chiudendosi la porta alle spalle, aprì il porta abiti e guardò i nuovi gradi sull'uniforme. Nella valigetta trovò scarpe, camicia, biancheria intima e l'astuccio della toeletta. Indossò l'uniforme e ripose nella valigia gli abiti da viaggio. Udì un fruscio nella tasca della giacca, vi trovò un foglietto di carta ripiegato. «Ho sentito che sei sano e salvo e sono felice. Ti ho cucito i nuovi gradi. Spero di vederti al più presto. T.» Helder si appoggiò allo schienale della sua comodissima poltrona e tirò un sospirone. Era vivo, in salvo, promosso, amato. Non gli venne in mente che cosa altro avrebbe potuto desiderare per migliorare le circostanze.
Invece a Mosca le circostanze migliorarono ancora. Quando l'aviogetto si fermò, c'era in attesa una berlina Zil. Una Zil! Helder, ai piedi della scaletta dell'aereo, rimase immobile a fissarla. Si diceva che ce ne fossero meno di cento in tutta l'Unione Sovietica. Solo i personaggi della massima importanza ne avevano diritto. Mentre Helder la guardava con occhi sbarrati, il guidatore scese e gli aprì la portiera. Seduto dietro, lo aspettava Majorov, che gli strinse la mano affabilmente. «Sono felicissimo di vederti sano e salvo, Helder», esclamò il colonnello raggiante. «Cominciavo a temere per te e per la tua spedizione, ma eccoti di ritorno proprio al momento giusto per vederne il compimento.» La macchina si allontanò veloce dall'aereo, varcò i cancelli ed entrò in una grande strada. «Sei arrivato in tempo perché mi sia possibile presentarti a una riunione dei miei superiori. Mi piacerebbe anche farmi aiutare da te in una esposizione dei fatti... nel bagagliaio dell'automobile ci sono carte nautiche e scatole di diapositive.» «Sono contento d'essere di nuovo qui, colonnello, e sarò felice di poterle dare il mio appoggio», rispose Helder. La macchina stava attraversando a gran velocità i sobborghi di Mosca e si dirigeva verso il centro. Quando attraversarono la Moscova, le guglie della basilica di San Basilio nella Piazza Rossa comparvero accanto al muro del Cremlino. «C'è la faccenda di Sokolov», disse Majorov. «Sì, colonnello.» «È necessario che ne conosca i particolari.» «Il tenente Sokolov perse la testa quando cominciarono a lanciarci contro bombe di profondità, signore. Stava cercando... effettivamente, non so che cosa cercasse di fare: mi strozzava standomi alle spalle. Io... rimase uccisa nella lotta. Svenni per un po' di tempo e quando mi ripresi, Sokolov era morta. Quando mi misi in salvo, la lasciai dentro il sommergibile inondato.» Majorov fece un cenno d'assenso. «Probabilmente c'era da aspettarsi qualcosa del genere. Ero stato costretto da forti pressioni a darle un incarico così importante.» «Capisco, signore.» «Secondo me è meglio dichiarare che è stata uccisa dalle bombe di profondità. Diremo che ha battuto la testa. Il Tipo Quattro non sarà mai ricuperato.» L'automobile svoltò a destra in via Manežnaya, girò di nuovo a destra poco dopo, percorse una rampa in salita. Di colpo, Helder si accorse che
stavano entrando nel Cremlino. Sentì i capelli che gli si rizzavano. Era già stato dentro le mura, ma soltanto nella zona aperta ai turisti. Adesso l'automobile aveva varcato i cancelli e stava superando il cortile del Soviet Supremo. Turisti, sia russi sia stranieri, affollavano i marciapiedi. La Zil passò senza ostacoli attraverso un'altra serie di cancelli di ferro battuto. Bruscamente la strada fu vuota, eccettuati pochi soldati in uniforme che montavano la guardia. La macchina si avvicinò al muro del Cremlino che corre lungo la Piazza Rossa e si fermò. Majorov scese, seguito da Helder. L'autista aprì il bagagliaio e ne prese due grandi casse e alcune scatole. «Le rincrescerebbe aiutarlo?» chiese Majorov facendo un cenno verso il bagaglio. L'autista aveva già in mano le due casse. Helder prese la pila di scatole e seguì Majorov oltre un ingresso monumentale. Dentro vennero accolti da un generale dell'Armata Rossa in uniforme, che fece loro segno di seguirlo. Majorov e Helder salirono con lui su un piccolo ascensore, mentre l'autista infilava le scale con le sue casse. Arrivarono al terzo piano e uscirono in un largo corridoio, che prendeva luce da una finestra all'estremità. Il generale li precedette in una sala d'attesa, poi, attraverso una porta a due battenti, in un grande salone illuminato dal sole, che conteneva una scrivania e una lunga tavola per riunioni. Helder pensò che, eccettuato il Palazzo d'Inverno di Leningrado, quella era la sala più elegante che avesse mai vista. Le pareti erano ricoperte di seta color giallo pallido; le quattro alte finestre, ornate di tende di seta bianca, guardavano su un cortile cintato, tenuto a giardino e ben curato. Dalle pareti pendeva un solo quadro: un ritratto di Lenin. Majorov ordinò all'autista di posare le casse a un capo della lunga tavola. Risultò che erano proiettori per diapositive; la grande cartella di Majorov era piena di fascicoli di documenti che sembravano identici. Le scatole portate da Helder erano contenitori di diapositive. Quando tutto fu a posto, Majorov congedò l'autista e Helder rimase solo nella sala con lui e il generale. «Dunque, Viktor Sergevič», disse il generale, «questa è la tua grande giornata, vero?» Majorov diede una modesta scrollatina di spalle. «È ancora da vedere, generale. Lei è con me?» Il sorriso del generale scomparve. «È ancora da vedere.» All'altra estremità della sala si aprì una porta; il generale si affrettò a schiacciare la sigaretta e si mise sull'attenti. Così fece anche Majorov,
Helder ne seguì l'esempio. Dodici o quindici uomini entrarono in fila indiana nel salone; la maggior parte era in abiti civili, alcuni in alta uniforme. Presero posto intorno alla lunga tavola, lasciando libera soltanto la sedia a un'estremità. Helder riconobbe la faccia di un certo numero di loro perché ne aveva visto le fotografie sulla Pravda e sull'Izvestia, specialmente quella dell'ammiraglio Gorškov, per più di vent'anni a capo della marina sovietica. Un attimo dopo un uomo dalla corporatura massiccia, molto più giovane della maggior parte dei presenti, entrò nel salone e prese posto a capo tavola. Helder si rese conto d'essere alla presenza del segretario generale del Politburo del partito comunista. 29 Katharine fu svegliata dallo squillare insistente del telefono. Nella stanza buia fece fatica a vedere l'ora, ma le sembrò che fossero le undici. Il sole cercava di aprirsi un passaggio tra le tende e di penetrare nella camera. Probabilmente la chiamavano dall'ufficio. Grazie a Dio, mentre era a Roma non l'avevano cercata. Kate afferrò il telefono. «Pronto.» La voce si sentiva bene, ma la linea era disturbata. «Ciao, bellezza. Che cosa fai a casa a quest'ora del mattino?» «Will? Dove sei?» «A Jakobstad, chiamata anche Pietarsaari, sulla costa occidentale della Finlandia, cioè proprio dove dovrei essere. Non posso dire altrettanto di te!» «Oh, ho beccato un potente raffreddore e sono dovuta rimanere a letto per un paio di giorni. La tua telefonata è la prima cui rispondo.» «Spero che tu stia meglio, non vedo l'ora di essere a Copenhagen.» «Anch'io, ma non sono ancora del tutto sicura di poter venire.» «Non hai risolto i tuoi guai?» «No, ma si è aperto qualche spiraglio, anche se non so ancora dove mi condurrà.» Will parlava con circospezione, per fortuna. Entrambi sapevano fin troppo bene come gli ascoltatori potessero facilmente strappare all'etere le conversazioni telefoniche con l'estero. «Come va con la barca?» «Gran barca. Varata ed equipaggiata. Oggi ho fatto le provviste, domattina salpo.» «L'equipaggio va bene?»
«Non va affatto. Sua moglie ha avuto la buona idea di partorire prematuramente e lui è riuscito ad avvertirmi solo all'ultimo momento.» «Come farai?» «Andrà tutto bene. Uno dei ragazzi del cantiere mi accompagnerà per qualche centinaio di miglia verso sud. Con lui potrò navigare notte e giorno; mi darà una mano a superare un gruppo di isole chiamate Aland, che si trovano sulla mia rotta. Sbarcherà a Kokar; di lì prenderà un traghetto per tornare sulla terra ferma. Dopo sarò solo, ma navigherò in acque aperte. Mi fermerò a riapprovvigionarmi a Bunge, sulla grande isola svedese di Gotland, poi proseguirò.» «Non correrai rischi?» «Credo di no. Sai bene che l'ho già fatto altre volte. Non mi spiace affatto l'idea di navigare di nuovo da solo: la compagnia è ottima.» Katharine rise. «Quando arriverai a Copenhagen?» «Partirò domenica e calcolo di metterci una settimana, se non ci saranno intoppi. Ti chiamerò da Gotland per informarti dell'andamento del viaggio.» «Fallo, mi raccomando, altrimenti starò in ansia.» «In ansia sono io. I tuoi guai sono peggiori dei miei. Senti, se le cose si mettessero davvero male, se ti trovassi con le spalle al muro, chiama il mio principale. Prendi una matita e scriviti i suoi numeri privati.» Katharine annotò i numeri privati d'ufficio e di casa del senatore Carr. «È il tipo giusto da avere al proprio fianco quando si è alle strette; ed è un tuo ammiratore, da quando ti ha conosciuta alle audizioni.» «Be', spero di non dovere arrivare al punto di chiedere aiuto a estranei, ma fa piacere sapere che c'è qualcuno cui potrei rivolgermi.» «Senti, adesso devo andare. Questa sera ho ancora da stivare tutte le provviste e da lavorare un po' al piano di rotta. Questa notte dormirò a bordo, salperemo allo spuntare dell'alba.» «Va bene, ma fai attenzione; e non dimenticare di telefonarmi da Gotland.» Riattaccarono; per un momento Katharine provò un'intensissima nostalgia di Will. Sperò con tutte le sue forze di riuscire ad andare a Copenhagen. Ma come sarebbe potuta giungere a Copenhagen se non riusciva neppure a scendere dal letto? Non sapeva da che parte cominciare un interrogatorio, questo almeno l'aveva imparato. Malakhov l'aveva affascinata con le sue divagazioni, sicché ne aveva ottenuto solo quello che lui aveva voluto darle e niente di
più. Con Appicella le parti si erano praticamente invertite. Non sapeva quale dovesse essere la sua prossima mossa. Aveva bisogno di informazioni fresche; e, se Emilio Appicella non si fosse fatto vivo, l'unica fonte da cui ottenerle era l'Agenzia. Il fatto di avere, in un certo senso, un agente in proprio la divertiva e infastidiva allo stesso tempo. Quello era compito del settore Operazioni, ma il presente direttore della CIA aveva la passione dell'alta tecnologia; e il buon vecchio Simon, quel leccapiedi, lo incitava. Scese a fatica dal letto, risoluta a tornare in ufficio e a riprendere le sue ricerche. 30 Helder, ipnotizzato al suo posto, osservò Majorov che esponeva il suo piano davanti al Politburo. Ciascuno degli intervenuti, cui era stato fornito un compendio, seguiva attentamente, con l'aiuto del documento, la brillante rappresentazione grafica che Majorov ne proiettava su due grandi schermi. Helder sostituiva i caricatori delle diapositive quando finivano e cercava di assorbire il più possibile le parole di Majorov. «Compagni, sullo schermo di sinistra vedete illustrati quelli che saranno i nostri maggiori obiettivi nelle prime sei ore dell'operazione. Sono, non necessariamente in ordine d'importanza, le installazioni militari strategiche, i principali campi d'aviazione civili e militari e le postazioni d'artiglieria nell'arcipelago svedese, che sbarrano i corridoi previsti per i nostri movimenti. Mentre vi parlo, circa millequattrocento uomini, accuratamente scelti, delle SPETSNAZ, hanno già preso il loro posto in territorio svedese. Stanno compiendo gli ultimi rilevamenti e studiando i piani d'attacco contro questi obiettivi. Entro sette giorni, con la vostra approvazione, ci saranno in Svezia ottomiladuecento uomini delle SPETSNAZ, sufficienti a occupare senza altri aiuti il ventisette per cento degli obiettivi iniziali. «Fra questi bersagli ci saranno l'aeroporto di Stoccolma e il quartier generale del distretto militare della capitale, a Strangnas, nella zona nord della città. Alcune squadre speciali di queste truppe provvederanno anche a sequestrare il primo ministro e il suo gabinetto, oltre a circa duecento personaggi chiave del governo e dell'amministrazione statale. Altre squadre speciali, appena sbarcate, s'impadroniranno dei giornali nazionali e delle reti radiofoniche e televisive dello stato, comprese un gran numero di stazioni radio d'emergenza a bassa potenza, sparse in tutto il paese per un'eventuale mobilitazione.»
I membri del Politburo, assorti tanto quanto Helder, giravano le pagine del loro fascicolo a mano a mano che le diapositive si succedevano. Compagni, come ricorderete, la Svezia sostiene di avere un esercito ben addestrato di ottocentomila riservisti, che possono essere richiamati in trentasei ore. L'esercito permanente consta di meno del dieci per cento di questa cifra. La scelta dei nostri obiettivi tende, per prima cosa, a impedire la mobilitazione di queste forze militari. In secondo luogo, ci prefiggiamo d'impedire l'organizzazione e il rifornimento d'armi e munizioni degli uomini che saranno richiamati. In tutto il paese sono sparsi centinaia di depositi segreti di armi, la cui posizione è indicata sullo schermo di destra. L'ottantuno per cento di questi nascondigli cadrà nelle nostre mani prima della nostra operazione o entro le prime dodici ore; i rimanenti poco dopo.» Una voce si levò nell'oscurità. «In che modo hai ottenuto piani così particolareggiati delle difese svedesi?» «Compagno», rispose Majorov, «ormai posso rivelare quanto, fino a questo momento, era noto solo alle persone strettamente indispensabili: da qualche tempo abbiamo un agente che occupa una posizione di rilievo nel governo svedese. Il suo nome in codice è Foca; è riuscito a fornirci praticamente tutti i piani difensivi del paese. Sono i piani che vedete sugli schermi davanti ai vostri occhi; vi sono segnati ogni postazione dell'artiglieria costiera, ogni nascondiglio di armi per i riservisti, ogni stazione radio d'emergenza, ogni base aerea, missilistica o di carri armati, ogni deposito delle scorte di carburante del paese. Nella storia delle operazioni militari moderne nessun invasore è mai stato così ben informato.» Nella sala il silenzio era totale. «Come ho detto prima», continuò Majorov, «all'ora zero avremo già in Svezia circa ottomiladuecento uomini di prim'ordine delle SPETSNAZ, che si saranno infiltrati con sbarchi anfibi notturni e normali mezzi di trasporto come i voli commerciali di linea e i traghetti Helsinki-Stoccolma. Entro ventiquattr'ore dall'ora zero prevediamo di avere nel paese centodiciottomila soldati. Per trasportarli useremo soprattutto la nuova flotta di WIG, che voi tutti ben conoscete. Sono lieto di annunciarvi che possediamo ora ventidue di questi splendidi aerei per il trasporto delle truppe, ciascuno capace di trasferire in Svezia dalle nostre basi baltiche orientali cinquecento uomini in meno di mezz'ora, volando ad altezza di circa trenta metri, perciò lungo corridoi al sicuro dai missili terra-aria e dalle postazioni della contraerea costiera. I WIG atterreranno su campi d'aviazione e tratti di strada occupati in precedenza dalle nostre avanguardie, appoggiate da
forze anfibie sbarcate dai sommergibili adibiti a trasporto truppe.» «Che misure prevedi per ovviare alle perdite?» domandò qualcuno. «Poiché intendiamo agire solo in condizioni di sorpresa completa, prevediamo una percentuale di perdite molto bassa. Tuttavia, anche ammettendo, nel caso peggiore, perdite del venti per cento in ogni unità, dovremmo impadronirci dell'ottantaquattro per cento dei nostri obiettivi principali entro ventiquattr'ore dall'ora zero. Molto prima di questo termine staremo già sbarcando truppe con trasporti aerei convenzionali negli aeroporti svedesi caduti in nostre mani.» Per un'altra ora Majorov riepilogò i movimenti delle truppe, gli approvvigionamenti, le comunicazioni e altri aspetti logistici. Poi, a un suo segnale, le tende furono spalancate e la luce del sole invase di nuovo la stanza. «Compagni», proseguì Majorov, «siete stati molto pazienti; non mi resta che chiudere il rapporto parlandovi brevemente di un ultimo aspetto del nostro piano. Il programma di corsi accelerati di svedese nelle nostre università e nei centri di addestramento del KBG ha sfornato un saldo nucleo di circa milleduecento tra uomini e donne che conoscono alla perfezione questa lingua e sono stati sottoposti a un intenso addestramento sull'amministrazione pubblica svedese, sia sul piano nazionale, sia sul piano municipale. Ventiquattro ore dopo che avremo consolidato le nostre posizioni militari, ogni indispensabile servizio governativo e ogni importante industria statale saranno sorvegliati da amministratori sovietici. Redattori sovietici passeranno al vaglio il contenuto dei servizi radiofonici e televisi, dei giornali e delle riviste nazionali e locali. L'intenzione è di non calcare la mano con questa sorveglianza, anche perché gli svedesi sono eccellenti amministratori. La parte redazionale dei notiziari sarà lasciata il più possibile immutata; ci occuperemo solo delle notizie riguardanti la partecipazione sovietica alla società svedese. Prevediamo di riallacciare i voli internazionali sia in entrata sia in uscita entro sette giorni dalla presa di potere; a molti svedesi, soprattutto a quelli che lavorano nelle esportazioni, sarà concesso di viaggiare tanto quanto prima. Siamo convinti che la possibilità di viaggiare in maniera ragionevolmente libera contribuirà a mitigare le paure di dominazione; inoltre vogliamo incoraggiare al massimo il flusso di valuta estera nel paese. Ma non intendo scendere ora nei particolari. Domani, il KBG farà un'esposizione completa dei nostri progetti per la vita nella società svedese dopo l'invasione. Sono sicuro che la troverete affascinante. Se non ci sono domande...»
«Viktor Sergevič», disse una voce; e dall'agitarsi di ogni testa e di ogni corpo Helder capì che apparteneva al segretario generale. «Ti abbiamo sentito calcolare le perdite in cui incorreremo nella peggiore delle ipotesi; non intendiamo ascoltare valutazioni su ipotesi di tal genere. Sin dai primi progetti di questa operazione, quando era in carica il nostro beneamato Yuri Andropov, avevamo espresso chiaramente la nostra posizione: se non potrà essere condotta con totale sorpresa e senza che il governo svedese dia l'ordine di mobilitazione generale, questa invasione non verrà affatto attuata. Abbiamo valutato con la massima attenzione le conseguenze politiche di questa faccenda: sono gigantesche, anche nella migliore delle ipotesi. Ma se gli svedesi verranno messi in allarme anche solo pochi minuti prima dell'inizio dell'operazione, se saranno in grado di trasmettere un ordine di mobilitazione, allora ci troveremo immediatamente davanti alla prospettiva di una resistenza dura e sanguinosa e della riprovazione dell'opinione pubblica mondiale. Non ho intenzione di presiedere all'umiliazione dello stato sovietico in simili circostanze; ti ripeto ancora una volta, in presenza di questi compagni, che l'ordine finale d'invasione verrà solo da me e solo quando sarò sicuro che si possa agire in totale sicurezza e con assoluta sorpresa. Sono stato chiaro?» «Chiarissimo, compagno segretario», rispose Majorov, con notevole umiltà. «E ora, prima che la seduta venga aggiornata, desidero presentarvi un ufficiale della marina sovietica che è appena tornato da una importantissima missione in acque svedesi con un sommergibile tascabile; avrete sicuramente letto di lui nell'odierno fascicolo dei servizi informativi. Compagni, permettete che vi presenti il capitano di secondo grado Jan Helder.» Helder scattò rigidamente sull'attenti. Con suo gran stupore, l'intenso gruppo si alzò e lo applaudì vigorosamente. Quando terminarono di battere le mani, tutti rimasero in piedi. Il segretario generale prese la parola. «Capitano», disse gravemente, «da parte dei miei colleghi del Partito desidero esprimerti la profonda gratitudine della nazione sovietica per la tua eroica impresa. Sappiamo che anche tu, come noi sei rattristato dalla perdita dell'ufficiale che ti accompagnava, il tenente Sokolov; ti assicuro che a tempo debito anche lei riceverà la pubblica gratitudine del popolo.» «Grazie, compagno segretario», riuscì a dire Helder. I convenuti cominciarono a uscire in fila indiana dietro al segretario generale; Majorov spinse Helder nella sala d'attesa. «Adesso, Helder, tornerai a Malibu con la macchina e l'apparecchio che ti hanno portato qui. Riposati. Io sarò di ritorno fra un paio di giorni, e discuteremo i tuoi prossimi
compiti nell'operazione. Hai appena cominciato a conquistarti la gloria, te lo posso assicurare. Non occorre che ti dica che non devi parlare della tua missione svedese o della riunione di oggi con anima viva.» Majorov strinse la mano a Helder, poi tornò nella sala delle riunioni. In macchina, durante il tragitto fino all'aeroporto, Helder esaminò nei minimi particolari il rivestimento di cuoio e i lussuosi accessori della Zil. Era un appassionato di automobili, sebbene non ne avesse mai posseduta una. Durante il volo per Liepaja si fece una sana dormita. Arrivò a Malibu dopo la mezzanotte e filò dritto in camera sperando di trovarvi Trina. Entrò nella stanza e a tentoni cercò la luce di fianco al letto. Si udì un fruscio di lenzuola. «No», disse la voce di lei, «niente luci.» Helder si chinò sul letto e si protese verso la donna. Mentre l'avvolgeva con le braccia e la stringeva contro di sé, le sfuggì un gemito involontario di dolore. «Che cosa c'è?» domandò Helder. «Che cos'hai?» «Oh, Jan», singhiozzò Trina. «Non pensavo che saresti tornato così presto, ti aspettavo soltanto fra due o tre giorni. Avevo semplicemente voglia di dormire nel tuo letto.» Helder le sfiorò il volto; Trina si ritrasse con un piccolo grido. «Che diavolo ti prende?» domandò Helder. «Sono tornato, Trina.» Trovò la lampada e la accese, poi sgranò gli occhi. Su un lato, il volto di Trina era segnato da grossi lividi; la ragazza si girò perché Helder non li vedesse. «Non volevo che tu mi trovassi in questo stato», disse Trina. Sulla sua spalla nuda c'era un altro livido. Helder afferrò il lenzuolo e glielo strappò via «Dio mio» ansimò, «che cosa ti è successo?» Il corpo di Trina era pieno di ecchimosi; Trina cercò di coprirsi con le mani. «Mi spiace», disse. «Non posso fare all'amore con te. Ne avrei una gran voglia, ma non posso. Mi fa troppo male.» «Che cosa è successo?» chiese ancora Helder quasi urlando. «Voglio immediatamente saperlo.» «È stato Majorov», disse Trina, «insieme con gli altri.» «Come?» «C'è stata una festa due sere fa; lui ha insistito perché ci andassi anch'io. Ha detto che mi avrebbe tirato su il morale. C'era un generale, anche qualcuna delle altre ragazze. Io mi sono rifiutata di fare l'amore con loro. Mi hanno picchiata, poi Majorov mi ha costretta... da dietro... poi gli altri...
oh, Jan, è stato orribile», singhiozzò Trina, aggrappandosi a Helder. «Temevo che non sarebbe mai finita.» «Oh, Trina», sussurrò Helder, sorreggendola con delicatezza. «Un tempo le feste mi piacevano», disse la ragazza, cercando di trattenere i singhiozzi. «Poi sei venuto tu e le feste non sono più state come prima. Qualche tempo dopo avermi data a te, Majorov aveva smesso di invitarmi. Credo che questa volta abbia pensato che non saresti tornato dalla tua missione, che ormai non avrebbe più fatto differenza.» E ricominciò a piangere. «Ero cosi spaventata. Una volta Majorov uccise una ragazza. Me l'hanno raccontato.» Helder le accarezzò i capelli, cercando di non pensare a quello che le era successo, cercando di contenere la rabbia che sentiva crescersi dentro. La scacciò per dedicare tutti i suoi pensieri alla ragazza, ma non ci riuscì. La missione, la promozione, la riunione al Cremlino svanirono. Helder non riuscì a pensare ad altro che al dolore di Trina e al tradimento del suo benefattore, quel mostro. Tenne stretta Trina fino a quando si addormentò; lui, invece, non dormì per ore. 31 Nell'istante in cui vide per la prima volta Malibu Appicella provò un brivido di eccitazione. Il volo Aeroflot da Vienna a Leningrado era stato noiosissimo e ancora più noioso era stato il volo che l'aveva portato dove si trovava ora. Poiché il secondo aereo aveva i finestrini oscurati, Appicella non aveva la minima idea di dove l'avessero condotto. La macchina scendeva la collina verso una città annidata in riva a una laguna, separata da una stretta striscia di terra dal mare che brillava in lontananza. Superato il cancello principale, sorvegliato da uomini armati, Appicella fu stupito dell'aspetto molto occidentale del luogo e ancora più stupito e incuriosito da tre grandi antenne paraboliche per captare satelliti, poste sul tetto del basso edificio nel quale entrò, scortato da una graziosissima giovane. Attraversò un salone senza pareti divisorie nel quale altre giovani donne altrettanto belle lavoravano ai terminali che lui stesso aveva installato a Mosca per Firsov, poi una zona adibita a sala d'attesa, infine fu introdotto in un bellissimo ufficio. Firsov fece il giro della scrivania e gli venne incontro con le braccia tese. «Emilio! Come stai? Che piacere rivederti.»
«Roy!» Appicella restituì il saluto con uguale calore. «Entra e siediti, ho un mucchio di cose da dirti», cominciò Firsov. Riempì un bicchiere per entrambi poi andò a sedersi sul sofà accanto ad Appicella. «Prima di tutto qui non mi chiamano Roy, ma Viktor, Viktor Majorov. Non starò ad annoiarti con i motivi del cambiamento, ma ti sarei grato se ti adeguassi.» «Certamente, Viktor», ribatté Appicella. «In fondo, se hanno cambiato nome Lenin e Stalin, non vedo perché non potresti farlo anche tu.» Majorov rise di cuore. «Bene, adesso lascia che ti spieghi perché questa volta ho così urgente bisogno del tuo aiuto.» «Prego. Viste la mie tariffe, non voglio certo tardare a mettermi al lavoro.» «Guarda laggiù», disse Majorov, indicando un lungo tavolo dall'altra parte della stanza. Appicella diede un'occhiata. Dunque il russo non aveva scherzato quando gli aveva telefonato. Era riuscito a mettere le mani su un computer PC AT dell'IBM. «Buon per te, Viktor», disse Appicella. «Questi aggeggi sono una rarità; probabilmente non ce n'è più di mezza dozzina in Europa, fuori dell'organizzazione IBM.» «Al telefono hai detto che avevi già lavorato con uno di questi», disse Majorov; un po' preoccupato, pensò Appicella. «Certamente», sorrise l'italiano. «Ne posseggo uno della mezza dozzina esistente in Europa; vi ho lavorato sopra per ampliare le funzioni.» «Cosa ne pensi?» domandò Majorov. «È una macchina niente male... 512K di memoria nella versione base, espandibili fino a due megabyte; un lettore per dischetti da 1,2 megabyte e un disco fisso da venti megabyte. Ho aggiunto una scheda che rende possibile gestire dodici terminali, invece dei tre normali.» «Esattamente quel che mi serve», disse Majorov eccitato. «Voglio passare dall'attrezzatura basata sul CPM che ci hai montata l'anno scorso a questo sistema e voglio trasferirvi tutti gli archivi che abbiamo accumulato. Puoi farlo?» «Be', con quello che mi sono portato posso espandere e avviare il sistema. Gli archivi che vuoi trasferire sono tutti scritti con il programma di elaborazione testi WordStar?» «Sì.» «Bene, allora non dovrebbe essere difficile usarli dopo averli trasferiti.» «Quanto ti ci vorrà?»
«Qualche giorno, se non incontro problemi di macchina. Ho portato con me la scheda, ma devo ancora lavorarci sopra. Immagino che tu abbia una copia del sistema operativo e i manuali.» «Sì. Potremo utilizzare i nostri attuali terminali anche con l'AT?» «Sì, nessun problema. Dove lavorerò?» Majorov lo condusse oltre una porta in una sala per riunioni adiacenti. «Che te ne pare?» «Andrà bene. Oltre alla mia cassetta degli attrezzi avrò bisogno di un tavolo da disegno e di una lente d'ingrandimento illuminata. Per piacere fai portare qui l'AT; inoltre, dovrai spostare i terminali qui dentro, oppure, per consentire alle ragazze di usarli il più a lungo possibile, bisognerà far correre qualche cavo fino all'attuale unità centrale.» «Meglio far correre qualche cavo», disse Majorov. «Le ragazze in questo momento hanno molto lavoro. A proposito di ragazze, immagino che ti piacerebbe un po' di compagnia questa sera.» «Puoi ben dirlo», sorrise Appicella. «Dimmi, quella biondina lavora ancora con te, come si chiama, Trina?» Majorov aggrottò la fronte. «Sì, ma purtroppo non sta molto bene. Che ne diresti della ragazza che ti ha accompagnato fino qui, alta, con i capelli rossi?» «È deliziosa. Andrà benissimo.» «Ti porto nel tuo alloggiamento, allora; ne approfitterò per farti fare un giretto turistico.» Appicella seguì Majorov fuori dell'edificio; salirono su un'automobile elettrica da golf. «Questo posto è un centro sportivo, con attrezzature per l'allenamento di atleti di varie specialità», spiegò Majorov, guidando l'automobilina giù per la discesa. «Disponiamo di qualunque impianto sportivo tu possa desiderare; ma, se ben ricordo, tu preferisci gli sport al chiuso.» «Ricordi bene, amico mio», ribatté Appicella. «Laggiù, accanto al porticciolo, c'è una spiaggetta, se mai ti venisse voglia di fare una nuotata. Il Baltico è piacevole in questo periodo dell'anno.» Majorov indicò un cancello dall'altro lato della strada, dove un soldato montava la guardia. «Purtroppo devo chiederti di non bazzicare da quelle parti. La zona è proibita e le guardie sono nervose.» «Farò come vuoi. La spiaggia non mi pare una cattiva idea, in fondo!» Majorov imboccò con l'automobilina un sentiero lastricato. Giunsero davanti a una casetta isolata, circondata da qualche albero. «Questa è una
delle nostre villette per ospiti; sono sicuro che la troverai comoda.» Majorov tirò fuori un foglio di carta. «Ci sono alcuni ristoranti qui intorno», disse. «Questa è una piccola mappa con un elenco dei servizi. Siamo molto isolati qui, quindi è inutile andare in cerca di divertimenti fuori del cancello principale. In ogni caso, le guardie hanno l'ordine di non lasciare uscire nessuno senza un salvacondotto. È molto meglio se resti qui.» Precedette Appicella in un salotto arredato in maniera gradevole, poi gli mostrò un cucinino con bar e una camera con un grande letto. Appicella udì il ronzio di un motore. «Che cos'è questo rumore?» domandò. «Ah», sorrise Majorov, «viene dal bagno. Le tue valigie sono già qui. Farò portare le casse con i tuoi attrezzi nella sala dove lavorerai. Purtroppo questa sera non posso cenare con te, ma sarai in buona compagnia. Anzi probabilmente ci vedremo molto poco durante la tua permanenza qui. Sono oberato di lavoro in questo momento.» «Non preoccuparti, Viktor, lo capisco.» «Se hai bisogno di qualcosa dillo a Olga, che me lo farà sapere.» «Olga?» «E lei il rumore che viene dal bagno», rise Majorov. «Passa una bella serata. Forse ci vedremo domani.» E se ne andò dal villino. Appicella tornò in camera da letto e si diresse verso la porta del bagno; il rumore crebbe d'intensità. Aprì la porta e diede un'occhiata dentro. La rossa era seduta in una grande vasca con idromassaggio e gli sorrideva. «Ciao, Olga», la salutò Appicella, armeggiando con i suoi bottoni. 32 Katharine arrivò alla sua scrivania poco prima delle due e lesse un appunto che le chiedeva di trovarsi proprio a quell'ora nella sala riunioni del direttore, per un incontro con i capi dei vari uffici. Giunse al piano della direzione senza fiato, appena in tempo per attirare l'attenzione di tutti e interrompere il direttore che stava per cominciare. I convocati erano riuniti intorno al lungo tavolo; il direttore era in piedi a una delle estremità. Alla sua destra sedeva Simon Rule; alla sua sinistra, Alan Nixon. Prima che il presidente, suo vecchio cliente, lo mettesse a capo della CIA, il direttore era stato un tributarista di alto livello a Washington. Tutta la sua esperienza di servizi segreti consisteva in un lancio con il paracadute sulla Francia occupata, in missione per l'Ufficio dei Servizi Strategici di
Wild Bill Donovan, precursore, durante la seconda guerra mondiale, della CIA; e il direttore aveva sempre badato a che nessuno dimenticasse questa impresa. «Ora che siano tutti qui», disse pungente, fissando Katharine, «voglio scambiare quattro chiacchiere con voi. Come sapete, domani deporrò davanti alla Commissione servizi segreti del senato a proposito della richiesta di fondi per espandere il nostro apparato tecnologico. Sapete anche che il senatore Carr, presidente della commissione, sta conducendo in questi giorni una piccola crociata contro il nostro uso di tecniche avanzate al posto di HUMINT. Il senatore è un romantico, probabilmente; pensa che dovremmo impiegare una fetta maggiore delle nostre risorse per sfornare dei James Bond a scapito dell'alta tecnologia e della diffusione di false informazioni che si sono mostrate così efficaci da quando sono direttore della CIA. Il senatore sostiene che voi, i migliori analisti d'informazioni del mondo non siete in grado di fare il vostro lavoro se non ricevete informazioni direttamente da qualche supersegugio che se ne sta laggiù con la pancia nell'erba. Ebbene, sono convinto che siano tutte stronzate; domani ho intenzione di dirglielo. «Inoltre, ho intenzione di dirgli che anche i miei analisti sono d'accordo con me su questo punto ed è per questo che oggi vi ho convocati. Non voglio prendere in mano il Washington Post dopodomani e leggere che secondo le solite fonti bene informate all'interno della direzione della CIA c'è dissenso su questo argomento. In altre parole, non voglio che avvengano fughe di notizie alla stampa a questo proposito. Io...» Il direttore si interruppe. Harmon Pool, capo dell'ufficio per l'America centrale, si era alzato in piedi. Katharine lo conosceva abbastanza da capire che era furibondo. «Signor direttore», disse Pool, con voce piatta e bassa, «scusi l'interruzione, ma è in grado di citare un solo caso di fuga di notizie dalla direzione Informazioni?» Rimase in piedi. Harmon Pool era alle soglie della pensione e a quanto pareva non era disposto ad ascoltare le stronzate di un politicante. Il direttore parve innervosito. «Be', ehm...» si chinò verso Alan Nixon che gli disse qualcosa senza muovere le labbra. «Sì, Pool. So quanto posso fidarmi di voi, non volevo assolutamente insinuare che la segretezza fosse trascurata nella direzione Informazioni.» «Grazie, signor direttore», disse Pool risedendosi. «Quello che voglio, invece, è l'unanimità su questo argomento; e vi avverto che se avete delle critiche da muovermi a questo proposito, desidero
ascoltarle adesso.» Il direttore lanciò uno sguardo di sfida intorno al tavolo. «Qualcuno ha qualcosa da dire?» I convenuti si scambiarono occhiate o distolsero gli occhi dal direttore, ma nessuno aprì bocca. Katharine sapeva che i capi di almeno due altre sezioni si erano lamentati per la diminuzione delle HUMINT in arrivo, ma nessuno di loro era in grado di controbattere a una simile intimidazione da parte del direttore. «Suvvia, parlate», insisté il direttore, intuendo la propria vittoria nel loro silenzio. «C'è qualcuno in grado di citare un solo caso in cui un rapporto fondato su dati di apparecchiature tecniche sia stato compromesso dalla mancanza di HUMINT?» Girò lentamente lo sguardo intorno al tavolo, con la mascella serrata. «Bene», disse. «Immagino che...» Si bloccò, mentre i suoi occhi diventavano due fessure. «Signora Rule?» Katharine maledì la sua impulsività, ma a quel punto stabilì di non tornare indietro. «Sì, signore. Penso di essere in grado di farlo. Anzi, posso citare due casi in meno di trenta giorni. Primo: è giunta da un satellite una fotografia che mostra quella che penso sia una nuova base sovietica d'addestramento delle SPETSNAZ sulla costa della Lettonia, camuffata da centro sportivo. Da alcuni indizi risulta che potrebbe anche essere una base per sommergibili; ho fatto richiesta di informazioni da agenti operativi, ma pare che sul luogo non abbiamo nessuno, né una donna delle pulizie, né un netturbino, che possa confermare o invalidare l'ipotesi.» Il direttore la fissava con occhi torvi e sottili; aveva le narici dilatate. «Nel secondo caso», continuò lei, attenta a mantenere un tono educato e informativo, «le fotografie del satellite hanno confermato l'esistenza di almeno due WIG, aerei già funzionanti, benché ritenessimo che questo tipo di aviogetti non fosse costruibile. I russi devono averci lavorato per anni, ma le nostre attrezzature tecniche sono state in grado di scorgere gli aerei solo quando hanno cominciato a volare; e come se non bastasse non sappiamo neppure se i russi ne abbiano due o duecento.» Katharine si risedette. Il direttore continuò a fissarla. Anche Simon la guardava nello stesso modo. Alan Nixon si era tolto gli occhiali e stava sfregandosi la sella del naso, con gli occhi serrati. «Per oggi è tutto», disse il direttore improvvisamente, poi girò sui tacchi e uscì dalla stanza. Passò un momento prima che i convenuti capissero di essere stati congedati. Finalmente cominciarono ad andarsene in silenzio. Katharine scostò la sedia e si diresse verso la porta.
«Katharine», disse la voce di Simon alle sue spalle. Lei si voltò. «Resta un momento, per piacere.» Katharine si risedette. Simon e Alan Nixon rimasero al loro posto all'altro capo del tavolo. Simon si girò verso Nixon. «Alan, non voglio intromettermi nella tua sezione, ma desidererei restare solo un momento con Katharine.» «Certamente, Simon». annuì Nixon e abbandonò la stanza. Simon rimase a guardarla in silenzio. Stava invecchiando bene, pensò lei. Ora i capelli biondi erano striati di grigio e il collo sporgeva un po' dal colletto con bottoncini: ma Simon restava un bell'uomo, addirittura elegante. «Come sta Peter?» domandò Katharine rompendo il silenzio. «Benissimo, grazie. Lui e Missy sono diventati buoni amici.» Simon rimase in silenzio ancora un momento. «Katharine, penso che dovresti dare le dimissioni dall'Agenzia.» Il tono piatto e inespressivo della voce la rendeva minacciosa. Katharine, sconvolta, rimase un attimo muta. «Non hai nessun diritto di dirmi una cosa simile», riuscì finalmente a rispondere. «Sto esprimendo un'opinione professionale, non personale», affermò Simon. «Non credo che tu sia tagliata per questo lavoro.» «Cosa?» «Cominci a dare segni di squilibrio; e sai bene quanto me che la CIA non può tollerare una cosa simile fra i suoi dipendenti.» «Oh? E come si manifesterebbe il mio squilibrio?» Simon poggiò le mani sul tavolo, con le palme rivolte verso il basso, come per farsi forza, ma il tono della sua voce non cambiò. «Stai spargendo ai quattro venti teorie pazzesche e infondate. Stai diventando insubordinata.» «Sono sicura che potrei dimostrare le mie teorie, se avessi il tempo e i mezzi necessari. Ma sia l'uno sia gli altri mi sono negati», ribatté Katharine scaldandosi. «Ti sembra che poco fa sia stata insubordinata? Il direttore ha posto una domanda e io gli ho risposto, nella maniera più rispettosa di cui sono capace. Pensava davvero di poterci trascinare tutti qui dentro e di costringerci con le minacce ad accettare un'opinione sulla quale, lo so per certo, una mezza dozzina dei capi settore oggi presenti ha fortissime riserve? Pensi forse che il direttore si sia comportato in maniera ragionevole?» «Non sono in discussione le capacità di ragionamento del direttore», ri-
batté Simon, sempre con il tono di uno psichiatra che parla a un paziente indisciplinato, «ma le tue. La tua condotta ne fa dubitare.» «La mia condotta? Che condotta?» «Non fare finta di non capire. L'altro ieri hai lasciato il paese senza autorizzazione. Come ben sai, è una grave infrazione alle regole dell'Agenzia.» Era vero, lei lo sapeva. Non vedeva l'ora di andarsene da quella stanza. «Simon, questi non sono affari tuoi. Non lavoro per te; non hai alcun diritto di dubitare della mia condotta, per non parlare del mio equilibrio. Sono una leale e instancabile impiegata di questa organizzazione e ho all'attivo una strabiliante serie di successi.» Si alzò in piedi. «Se hai delle accuse da portare contro di me, presentale davanti a una commissione di controllo. Non sarò una politicante ma sono un avvocato, so come difendermi.» Si diresse verso la porta, poi si voltò. «Dimmi una cosa, Simon», aggiunse. «Che cos'è Fiordineve?» Le parve che Simon arrossisse leggermente. «Sai benissimo che non è una domanda da fare.» «Ho la massima autorizzazione che conceda l'Agenzia per accedere a informazioni segrete», ribatté lei. «Che cos'è Fiordineve?» Due piccole rughe comparvero tra le sopracciglia di Simon. «Niente che tu abbia bisogno di sapere», ripeté. «Bene, lo scoprirò da sola», disse Katharine varcando la soglia. «Katharine!» le gridò dietro Simon. Lei si fermò. «Ti stai scavando la fossa sotto i piedi. Vattene finché ti resta uno straccio di carriera onorevole. Fallo almeno per tuo figlio.» Katharine se ne andò sbattendo la porta dietro di sé. Tornò in ufficio annebbiata dalla rabbia, con il respiro affannoso; chiuse la porta, si sedette alla scrivania e accese il suo terminale. Quando COSMO si risvegliò, batté un codice di dieci cifre: non il suo, quello di Simon, datole da Ed Rawls. BUONGIORNO, SIGNOR RULE. IN CHE COSA POSSO SERVIRLA? FIORDINEVE, batté Kate. RICERCA... Kate attese impaziente fissando lo schermo. BATTERE (I) PER INDICI, (A) PER TUTTO L'ARCHIVIO, (X) PER TORNARE AL SISTEMA. La donna batté I.
BATTERE (S) PER STAMPANTE, (V) PER VIDEO. Kate batté (V). FIORDINEVE È UN'OPERAZIONE PER FORNIRE FALSE INFORMAZIONI ALL'UNIONE SOVIETICA COSTRINGENDOLA A IMPEGNARE UNA QUANTITÀ SPROPORZIONATA DI TRUPPE E MATERIALI NEL BALTICO ORIENTALE, DOVE IN REALTÀ NON È SOTTOPOSTA AD ALCUNA VERA MINACCIA. SE L'OPERAZIONE ANDRÀ IN PORTO, SI PREVEDE CHE IL GROSSO DELLE TRUPPE SPIEGATE SU QUEL FRONTE SARANNO PRELEVATE DALL'EUROPA ORIENTALE, SOPRATTUTTO DALLE REGIONI DI FRONTIERA DELLA GERMANIA EST, RIDUCENDO COSÌ, IN CASO DI OSTILITÀ, LE POSSIBILITÀ SOVIETICHE DI LANCIARE UN ATTACCO VERSO OCCIDENTE IN QUELLA ZONA. IL NOCCIOLO DELLA FALSA INFORMAZIONE È CHE LA SVEZIA, FIN QUI ASSOLUTAMENTE NEUTRALE, STA SEGRETAMENTE PREPARANDOSI AD ENTRARE NELL'ORGANIZZAZIONE DEL PATTO NORD ATLANTICO (NATO) DESIDERA ACCEDERE A TUTTO L'ARCHIVIO? SÌ/NO Katharine rimase a bocca aperta davanti allo schermo, mentre rileggeva il sommario. «Gesù», disse a voce alta. Tutti i pezzetti del mosaico stavano incastrandosi al loro posto. Batté sì. BATTERE (S) PER STAMPANTE, (V) PER VIDEO. Rule accese la stampante e batté s. Mentre la stampante ronzava avanti e indietro, rimase seduta al terminale e lesse angosciata. Imbecilli, pensò, mentre le linee gialle scorrevano sul video. Maledetti imbecilli. 33 Appicella guardò intento attraverso la lente d'ingrandimento illuminata e saldò con grande cura un microchip alla scheda del calcolatore. Era a Malibu, così chiamavano quel posto, da tre giorni; quanto vi aveva visto lo stupiva e incurosiva. Aveva compiuto più di sessanta viaggi in Unione Sovietica negli ultimi quindici anni, intrattenendo rapporti soprattutto con gli addetti al commercio con l'estero; aveva visitato fabbriche, laboratori, case e dacie di russi altolocati, compresa quella di Majorov, ma non aveva mai visto uno stanziamento di fondi come quelli impegnati a Malibu. Oltre ai ristoranti e ai negozi pieni di merci occidentali, il luogo disponeva di tutte le novità della tecnica alla portata dei sovietici; e anche di al-
cune che Appicella non avrebbe mai pensato fossero in grado di procurarsi. Appicella non si era stupito molto quando Firsov, o meglio Majorov, come si faceva chiamare adesso, gli aveva telefonato dicendogli che aveva uno dei più recenti calcolatori americani, un modello raro persino in America. Sapeva per passata esperienza che Majorov era un uomo intraprendente e risoluto, quando si trattava di ottenere quel che voleva, soprattutto in campo tecnico. L'aveva invece sbalordito che Malibu fosse attrezzata con il più moderno centralino telefonico digitale costruito negli Stati Uniti dalla Western Electric; questo impianto consentiva a Majorov, tramite una stazione orbitale privata, di telefonare in quasi tutti gli angoli del mondo. Qualche anno prima i sovietici, dopo un breve esperimento, avevano eliminato le chiamate dirette in teleselezione con l'estero. Qui invece, in questo piccolo centro, c'era un impianto che in condizioni normali avrebbe potuto servire una grande città. Appicella fu stupito anche dalla ricezione televisiva via satellite, non tanto per le conoscenze tecniche richieste, ma per il contenuto delle trasmissioni: film e notiziari non censurati dalla televisione sovietica. Solo una persona in una particolarissima posizione di potere avrebbe potuto godere di un simile privilegio nell'Unione Sovietica. Ciò che aveva visto a Malibu aveva dato ad Appicella l'assoluta certezza che Majorov era del KGB; e questo lo spaventò. Nello stesso tempo gli risvegliò una grandissima curiosità. Anche se non avesse promesso alla bella signora americana di fornirle informazioni sulla sua visita, la curiosità l'avrebbe spinto a esplorare per conto suo. Appicella non aveva nessuna intenzione di scavalcare staccionate e spiare dal buco della serratura per procurarsi queste informazioni; riservava le spacconerie per i rapporti con le donne. Sapeva però che la vera attività di Majorov e del suo incredibile 'centro sportivo' era molto probabilmente registrata nella memoria dei calcolatori, che non avevano segreti per lui, avendone lui stesso rubato o progettato i principi di funzionamento. Appicella terminò l'ultima saldatura e inserì la scheda al suo posto nel calcolatore. Accese il sistema e batté la parola INSTALL sulla tastiera, poi osservò compiaciuto mentre il suo programma d'installazione verificava ogni componente del calcolatore e ne confermava il buon funzionamento. Quindi inserì un programma appositamente modificato per consentire un'utenza multipla e fece la spola fra due terminali controllandone l'accesso all'unità centrale. Tutto funzionava alla perfezione; d'altronde, questo miracolo non era stato forse operato da Emilio Appicella?
Giunse finalmente il momento tanto atteso. Emilio Appicella attaccò i cavi già pronti provenienti dal vecchio calcolatore alla porta seriale dell'IBM, inserì un dischetto con il software per le comunicazioni nel lettore dell'IBM, batté alcune istruzioni. Ricevuta una soddisfacente risposta dal vecchio calcolatore, batté la parola ALBERO. Immediatamente cominciò a scorrere sullo schermo un elenco di tutti gli indici e sub-indici presenti sul disco fisso da dieci megabyte del vecchio calcolatore. Da due camere di distanza, Appicella era entrato nel sistema di Majorov. Interruppe bruscamente lo scorrimento dei dati sul video. Uno dei titoli era WAR. Guerra? No, doveva essere un'abbreviazione o un acronimo, non c'era dubbio. Tuttavia, Appicella diede un'occhiata ai sottotitoli che facevano capo a quella parola. AMPHB, AIRBRN, LOGIS, SUB, ARMR, AIRCRFT, SUM. Anfibio, aviotrasportato, logistica, sommergibile, corazzato, aerei? SUM doveva essere l'abbreviazione di sommario. Appicella batté l'istruzione per accedere all'archivio. Poi, davanti ai suoi occhi, sullo schermo, sempre in inglese, comparve: SOMMARIO DEI PIANI PER L'INVASIONE DELLA SVEZIA Appicella fece scorrere rapidamente qualche pagina dell'archivio. Rimase di sasso. Possibile che fosse vero? Tolse in fretta il dischetto delle comunicazioni dall'unità e inserì un dischetto vuoto, poi diede istruzione al calcolatore di copiare l'archivio SUM. In pochi secondi l'intero archivio fu trasferito sul suo dischetto. «Come va?» domandò improvvisamente la voce di Majorov vicinissima a lui. Appicella sussultò. Majorov era entrato nella stanza direttamente dall'ufficio e ora guardava il terminale, chino sulle sue spalle. «Ho finito in questo istante di montare tutto il sistema», disse l'italiano, battendo rapidamente altre istruzioni. «Sono pronto a copiare il vostro vecchio disco fisso da dieci megabyte sul nuovo da venti megabyte. Guarda.» Batté l'apposito tasto e sullo schermo comparve il messaggio, COPIA IN ESECUZIONE, ATTENDERE. «Ecco», disse Appicella, «adesso sta copiando.» «Quanto ci vorrà?» domandò Majorov. «Be', non so quanta roba ci sia sul vecchio disco. Se è molto carico occorreranno parecchie ore. Ma sta trasferendo le informazioni a novemilaseicento baud; e non è poco.» Appicella spinse indietro la sua sedia. «Bene, non resta che lasciar fare il suo lavoro all'apparecchiatura. Penso che per oggi considererò la partita chiusa.» «Vieni nel mio ufficio», lo invitò Majorov. «Ti offro qualcosa da bere.»
«Ne ho proprio bisogno», ribatté Appicella, seguendolo. Nella stanza accanto sprofondò sul divano, mentre Majorov si procurava una bottiglia gelata di Stolichnaya e apriva una scatola di caviale. «Penso che ci voglia un brindisi», disse Majorov, «hai completato il tuo lavoro davvero in fretta.» Appicella si strinse nelle spalle. «Non ho incontrato difficoltà», spiegò, «grazie ai lavori di espansione che avevo già fatti per conto mio. Ti sei senza dubbio rivolto alla persona giusta.» Majorov sollevò il bicchiere e sorrise. «Anche questo merita un brindisi», dichiarò. «Come al solito non ti sei smentito e hai lavorato bene.» «Grazie, Viktor. Ho anche installato un nuovo modem interno per trasmettere dati con le linee telefoniche. Quello di prima lavorava solo a trecento baud. Questo funziona a trecento, milleduecento o duemilacinquecento baud; e puoi anche stabilire una parola d'ordine per impedire qualsiasi intrusione nei dati.» «Mi sembra una splendida idea, Emilio. Il sistema sarà davvero perfetto?» «Naturalmente. Potrai cambiare la parola d'ordine tutte le volte che vorrai, battendo qualche tasto. Neppure io potrei accedere ai dati dall'esterno. Mostrerò alla tua segretaria come funziona, poi domattina dedicherò un paio di ore ad addestrare le tue ragazze; e con quello avrò finito. Visto che continueranno a usare il programma WordStar avranno ben poco di nuovo da imparare, solo come accedere alla memoria e cose simili. Mi piacerebbe partire per l'ora di pranzo, se puoi procurarmi un mezzo di trasporto.» Majorov rimase silenzioso per un momento, limitandosi a fissare l'italiano. Poi disse con tono sommesso: «Emilio, preferirei che ti fermassi ancora qualche giorno, in caso ci fosse qualche difetto nell'apparecchiatura.» «Non c'è nessun difetto», protestò Appicella. «Tutto è stato accuratamente verificato, sia nello hardware, sia nel software. Non c'è nessun intoppo, te l'ho già detto. E poi, ho un mucchio di lavoro che mi aspetta a Roma, devo assolutamente tornare.» Sorrise. «Non puoi pretendere di monopolizzare tutto il tempo del fantastico Emilio Appicella.» Sorrise anche Majorov; la sua voce rimase molto bassa. «Purtroppo non potrai partire domani», disse. «Siamo in una località alquanto sperduta qui, non è previsto alcun volo. A causa di altri avvenimenti, c'è una grande richiesta di aerei e quello che ti ha condotto qui da Leningrado non è disponibile.» Appicella si sentì raggelare. «Capisco», disse.
«Non preoccuparti, ti terremo occupato e ti faremo divertire; naturalmente ti pagheremo la solita tariffa giornaliera, visto che il prolungamento della tua permanenza non dipende da te. E il minimo che possiamo fare.» «Grazie. Però questa situazione mi mette in difficoltà. Posso telefonare al mio ufficio? Devo avvertirli che tarderò.» «Certamente. Basta chiedere alla centralinista una linea internazionale, poi comporre lo 0101, il prefisso dell'Italia, il prefisso di Roma e il tuo numero.» «Bene.» Appicella mandò giù la vodka e si alzò in piedi. «Ho ancora un po' di cosette da sistemare e non voglio fare aspettare troppo la deliziosa Olga. Mi farai sapere appena ci sarà un mezzo di trasporto disponibile, vero?» Majorov si alzò con lui. «Lo farò, non preoccuparti. Sarà questione di qualche giorno.» Appicella si congedò e uscì dall'ufficio di Majorov. Tornò nella stanza in cui lavorava, chiuse la porta alle sue spalle e finse di riordinare. Sfilò il dischetto contenente l'archivio del sommario e con un coltellino ne aprì la custodia permanente di carta. Estrasse il sottile disco di mylar da cinque pollici e si guardò intorno in cerca di un posto dove nasconderlo. Gli occhi gli caddero su una lampadina tascabile a forma di penna che gli serviva per esaminare i punti più scomodi dei calcolatori. Ne svitò il cappuccio e la scosse per estrarre le pile. Poi avvolse il disco intorno alle pile, che reinserì nella lampadina tascabile. Entrarono a stento, ma quando Appicella rimise il cappuccio e fece scattare l'interrutore, la lucina si accese. L'italiano infilò la penna nella tasca interna della giacca e si congratulò con se stesso per la sua ingegnosità. Uscì dall'edificio e scese a piedi verso il mare e il suo villino. Gli parve che negli ultimi giorni la gente fosse molto aumentata. Un gruppo di giovani gli passò accanto a passo di corsa, diretto alla palestra. Appicella aveva paura. Neppure per un istante aveva potuto credere che un uomo in grado di organizzare un posto simile incontrasse la benché minima difficoltà a procurarsi in qualsiasi momento un aereo. Giunto in casa, sollevò il telefono e chiese una linea esterna. Udito il segnale di linea libera, compose il numero del suo laboratorio di Roma. Gli rispose la segretaria. «Pronto, Angelica. Sono Appicella», disse cautamente. «Temo che sarò costretto a rimanere con il signor Firsov ancora per qualche giorno. Pare che ci siano difficoltà di trasporto. Ha capito?» «Sì, signor Appicella. Cancellerò il suo appuntamento di dopodomani
con il parrucchiere, allora; e il suo impegno a pranzo con la signorina!» «Sì, certo. Oh, a proposito, ricorda la giovane signora con cui ho pranzato la settimana scorsa?» «L'amer...» «Sì, proprio lei. Per piacere, la chiami e le dica che difficilmente riuscirò a rispettare l'impegno, perché sono bloccato qui. La chiamerò appena possibile, però. Le dica che se non riceve mie notizie prima del fine settimana non speri più nel nostro appuntamento, ma che per piacere non si scordi di me. Le ripeta esattamente queste parole, intesi?» «Sì, signor Appicella. Posso fare qualche altra cosa per lei?» Appicella cercò disperatamente di formulare un messaggio per avvertire qualcuno di quel che stava succedendo, ma non gli venne in mente niente. «No, è tutto, ma chiami subito quella giovane signora, per piacere. Sarà una gran delusione per lei, ne sono sicuro.» Appicella riattaccò e inspirò a fondo. Non aveva ormai il minimo dubbio di essere tenuto prigioniero; cercò invano di immaginarsi che cosa avrebbe potuto fare Katharine Rule ricevendo il suo messaggio, posto che avesse avuto intenzione di agire. Si sentì molto solo e spaventato. 34 Will Lee si sdraiò nel pozzetto con un cuscino sotto la testa e sorseggiò una birra fredda. Il sole gli scaldava il volto e nello stesso tempo la brezza glielo rinfrescava. Non si era mai sentito così pago. Insieme con Lars, il ragazzo del cantiere, si era concesso una comoda crociera lungo la costa finlandese, poi attraverso le isole dell'arcipelago Aland. Il ragazzo si era rivelato una piacevole compagnia, sebbene il suo inglese fosse scarso. Insieme, avevano messo a punto la barca, ottenendone il rendimento migliore, ed eseguito le piccole modifiche e riparazioni necessarie su qualsiasi imbarcazione nuova. In quel momento, pensò Lee, avrebbe dovuto lubrificare un perno che girava male all'estremità dell'avvolgifiocco, ma il sole era così piacevole che non sarebbe mai riuscito ad alzarsi. Superato il gruppo principale delle isole, aveva lasciato Lars sul Kofar, perché prendesse il traghetto; ora navigava verso sud in mare aperto, solo, incontrando meno navi di quanto si aspettasse. Aveva percorso cento miglia in quindici ore, di più non avrebbe potuto sperare con una barca di quelle dimensioni lunga un po' meno di tredici metri. La Svezia si stendeva da qualche parte a dritta; l'Estonia sovietica era invece a sinistra, a non più
di una settantina di miglia, rifletté Will. Non era mai stato in Unione Sovietica; forse questa era la volta in cui si sarebbe avvicinato di più al suo territorio. Lui e la sua barca sarebbero giunti nel porto di Bunge, sull'isola svedese di Gotland, entro mezzanotte, calcolò; lì avrebbe fatto provviste prima di affrontare l'ultimo tratto fino a Copenhagen. Kate si sarebbe trovata a Copenhagen; Lee aveva una gran voglia di vederla. Si addormentò con quel pensiero e, un po' cullato dalla birra, un po' grazie alle condizioni ideali, dormì più a lungo di quanto avrebbe dovuto. Si svegliò per il freddo, quando il sole era ormai scomparso dietro una fila di nubi veloci. Si sedette e si grattò la testa. In cielo non restava che uno straccetto d'azzurro. La barca filava come un treno; a dritta l'orizzonte era minacciosamente cupo. Il vento si era rafforzato; se avesse continuato a crescere, Lee avrebbe dovuto terzarolare. Diede un'occhiata all'orologio. Cristo, aveva dormito per quasi tre ore! Quelle due birre nel pomeriggio non erano state un'idea brillante. Ringraziò il cielo di non esere stato travolto da qualche nave mercantile. Scrutò rapidamente l'orizzonte per assicurarsi che non vi fosse nulla in rotta di collisione. Niente, per fortuna; e Lee si rilassò un poco. Poi si irrigidì di nuovo. Era fuori rotta di venti gradi a sinistra. Il vento aveva girato verso sud-ovest; essendo il pilota automatico regolato da un timone a vento, la barca aveva addirittura cambiato rotta. A bordo c'era un allarme di fuorirotta, ma Will non l'aveva acceso. Da quanto tempo stava navigando nella direzione sbagliata? Scese sottocoperta e guardò il ricevitore Decca, uno strumento che, grazie a una rete di speciali trasmettitori radio, rileva la posizione della barca e dà una lettura continua della longitudine e della latitudine. Lee annotò i numeri, li riportò sulla carta e rimase a fissare il punto in cui la sua matita aveva tracciato la X. Non era possibile, pensò, non era assolutamente possibile. Poi fece qualche calcolo mentale e giunse alla conclusione che era invece possibilissimo. Si trovava a più di venti miglia dalla rotta giusta, cioè venti miglia più vicino ai confini internazionali di quanto avrebbe dovuto. Per la navigazione in acque aperte disponeva di una carta con una scala molto piccola, sulla quale non erano segnati i confini internazionali. Ritenne ad ogni modo di essere ancora in acque svedesi, nonostante le tre ore di navigazione nella direzione sbagliata. La barca sbandò prendendo un'onda molto più grossa di quelle che l'avevano accompagnata durante tutta la giornata. Meglio ridurre la velatura e rimettersi in rotta il più in fretta possibile. Fortunatamente, sarebbe stato piuttosto facile grazie all'avvolgifiocco.
Will non ebbe che da lasciare la vela e da agire su un verricello; il fiocco si arrotolò attorno allo strallo come l'avvolgibile di una finestra. Terminata l'operazione, Lee diede anche una mano di terzaroli alla randa. Ci vollero così altri venti minuti prima che potesse puntare di nuovo verso Gotland. Tuttavia, anche cazzando le vele al massimo non riuscì a risalire il vento a sufficienza. Al diavolo Gotland; ci sarebbe andato l'anno prossimo. Continuò a navigare verso sud, ma puntando leggermente a ovest, ben dentro, secondo i suoi calcoli, le acque svedesi. La barca filava sulle onde; Lee si accorse che queste condizioni meteorologiche, più aspre, non gli spiacevano affatto. Nei giorni precedenti si era lasciato prendere dalla pigrizia. Scese sottocoperta per farsi una tazza di caffè e diede un'occhiata al barometro. Stava precipitando. Esaminò la carta. Lo spazio per manovrare non gli mancava, ma là fuori, da qualche parte, c'era il confine, che si sarebbe potuto rivelare più pericoloso di una costa rocciosa sottovento. Se non stava attento, avrebbe rischiato la confisca della barca del suo amico. La Swan prese un'onda più grande; la sbandata fece traboccare il caffè. Will posò la tazza nel lavandino della cucina di bordo e tornò su in pozzetto. Il vento continuava a rinforzare, la barca era di nuovo troppo invelata. Avrebbe dovuto terzarolare ancora. Prima il fiocco, poi la randa. Will lasciò la vela e cominciò a girare il verricello dell'avvolgifiocco. Il cavo entrò in tensione, ma il tamburo dello strallo rifiutò di muoversi. Maledizione, quei marchingegni smettevano sempre di funzionare nei momenti peggiori. Lee scese sottocoperta e infilò una cintura di sicurezza, poi tornò sul ponte. Si agganciò a un controstraglio e avanzò sul lato sopravvento, stando rannicchiato per non perdere l'equilibrio sul ponte ondeggiante. A prua, si inginocchiò e afferrò lo strallo, già avvolto in parecchi giri di vela. Strinse le mani e tentò di girarlo. Niente, non voleva saperne di muoversi. Se non fosse riuscito a far ruotare lo strallo, non avrebbe più potuto usare il fiocco; la vela sarebbe rimasta a sbattacchiare nel vento fino a distruggersi. Respirò a fondo, raccolse le sue forze e con tutto il suo peso cercò di far girare lo strallo. Il tamburo si mosse di un niente, poi di un altro poco. Poi ci fu uno schianto simile a una fucilata e Will si trovò sul ponte, sdraiato sulla schiena. Che diavolo era successo? Guardò il cielo e vide una gigantesca bandiera che sventolava in testa d'albero. Era il fiocco, ancora attaccato allo strallo, che si era sradicato dal ponte mentre Lee cercava di farlo rotare. Will balzò in piedi con la rapidità di un felino e corse verso il pozzetto.
L'albero non era più sostenuto da prua, bisognava lascare subito la randa per scaricarlo, altrimenti si sarebbe potuto spezzare. Mentre si lanciava nel pozzetto cercando di afferrare la scotta della randa udì un altro schianto, molto più forte; poi, improvvisamente, tutto tornò tranquillo. Il vento era calato e le onde non sembravano più così cattive. Non c'era di che stupirsi, pensò Will. La barca si era fermata, non si scagliava più contro i marosi. Era disalberata. L'albero si era spezzato di netto a poco più di un metro dalla coperta e giaceva in acqua, sottovento, ancora attaccato alla barca dalle manovre d'acciaio. Lo Swan stava scarrocciando rapidamente sottovento, proprio nella direzione in cui lui non voleva andare. Nella successiva ora e mezzo, Will lavorò sodo maledicendo amaramente la sua pigrizia. Quanto era successo era colpa sua. Spettava a lui ingrassare il perno in fondo allo strallo, ma non l'aveva fatto. Non era prevedibile che il perno si corrodesse così in fretta, doveva avere avuto gioco sin dal principio, ma se lui si fosse preso la briga di alzare il culo e di andare a lubrificarlo, avrebbe scoperto il guaio e vi avrebbe rimediato prima che fosse troppo tardi. Grazie al cielo, la barca aveva un buon motore; adesso avrebbe dovuto usarlo per portare lo Swan nel porto più vicino. Prima, però, c'era da liberare l'albero. Da solo. Lee non sarebbe mai riuscito a tirarlo a bordo insieme con il boma. Sarebbero andate perse anche le vele; ci avrebbero pensato i Lloyd di Londra a comprarne di nuove. Will prese da un armadietto un tronchese e cominciò a lavorare sulle manovre. Novanta minuti dopo, con le mani e le braccia doloranti, contemplò il groviglio di albero, vele e sartiame che scompariva sott'acqua, libero ormai dallo scafo. Esausto, andò sottocoperta e si riposò un momento, succhiando uno zuccherino per recuperare rapidamente energia. Sarebbe potuta andare peggio, pensò. Almeno aveva a disposizione un motore diesel Volvo nuovo di zecca. Fece qualche rapido calcolo e giunse alla conclusione che affrontando di prua le onde avrebbe potuto navigare a quattro o cinque nodi. Non sarebbe stato divertente, ma forse ce l'avrebbe fatta a giungere a Gotland in mattinata. Risalì stancamente nel pozzetto, girò la chiavetta d'accensione, si assicurò che la marcia non fosse innestata, diede un po' di acceleratore e schiacciò il bottone d'avviamento. Il motore girò per una decina di secondi, ma non si accese. Will attese un momento per consentire alle batterie di riprendersi. Forza, maledetto motore, parti! Schiacciò di nuovo l'avviamento. Questa volta il motore si accese subito e salì di giri. Lee tolse l'acceleratore e lasciò che il motore girasse al minimo per circa un minuto, poi inserì la marcia.
Mise la prua verso Bunge, poi inserì il pilota automatico. Era una brutta andatura, con le onde dritte sul naso, ma la barca faceva cinque nodi e mezzo, il che non era niente male. Improvvisamente sentì i morsi della fame. Scrutò attentamente l'orizzonte per controllare che non vi fossero navi in vista. Niente. Tirò un sospiro di sollievo; senza le vele lo Swan era poco visibile. Si risolse a scendere sotto coperta per fare uno spuntino. Mentre metteva il piede sulla scaletta del tambucio, il rumore del motore si trasformò di colpo in un urlo acuto, poi tacque del tutto. Che diavolo era successo? Il silenzio era lacerato dal ronzio dell'avvisatore di pressione dell'olio. Will si precipitò a togliere il contatto, poi vide. Dal verricello di dritta, la scotta sopravvento che serviva a regolare il fiocco, spariva oltre la fiancata, rigida come una sbarra. Lee capì subito che si era arrotolata intorno all'elica. Accese di nuovo il motore; voleva averne la certezza. In folle, il motore girò benissimo, ma appena Will inserì la marcia avanti, cominciò subito a sforzare. Non restava che una speranza; Lee provò la marcia indietro. Forse la cima si sarebbe svolta. Il motore girò liscio per qualche secondo, poi ricominciò a soffrire. Will rimise il cambio in folle. La barca si dispose di traverso al vento e offrì la fiancata alle onde, rollando al loro ritmo. Esisteva una parola per descrivere la situazione, pensò Will, una parola corta ma espressiva, che non lasciava nulla alla fantasia. Fottuto. Era completamente fottuto. Non poteva andare a vela, non poteva andare a motore. Stava puntando, scarrocciando sottovento alla velocità di forse tre nodi, verso le acque di una nazione ostile nei riguardi dei visitatori non invitati, verso Dio solo sapeva che razza di costa, della quale non aveva neppure una carta in grande scala. Fottuto. Stancamente, spense il motore e scese sottocoperta. L'armadietto sotto il sedile del navigatore conteneva un pacchetto di tre razzi con paracadute. Era tutto quanto il piccolo negozio di Jakobstad aveva avuto da vendergli. Stavano aspettano una spedizione, gli avevano detto. In quel momento tre razzi gli erano sembrati sufficienti; ora avrebbe desiderato averne venti. Lee salì di nuovo in pozzetto e si guardò intorno. Niente. Non una nave, non un peschereccio, non una vela. Aprì l'involucro dei razzi, ne prese uno, gli tolse il cappuccio e lo sparò. Il razzo tracciò un alto arco in cielo, poi esplose in una luce rossa che scese lentamente trascinata dal vento e sostenuta da un piccolo paracadute; Una nave appena dietro l'orizzonte forse avrebbe visto il razzo. D'altro canto, a quelle latitudini, in quel periodo dell'anno, la notte non era mai molto buia. Con una simile luminosità il razzo
sarebbe stato molto difficile da vedere. Lee diede un'occhiata ai due razzi che ancora gli restavano; doveva conservarli per quando avesse avvistato un'imbarcazione. Scese sottocoperta e sedette al tavolo di carteggio. La radio VHF era fuori uso; l'antenna era sparita con l'albero, Lee non ne aveva una di emergenza. Il Decca, però, funzionava ancora. La sua antenna era fissata al pulpito di poppa e non all'albero. Lee lesse i valori della latitudine e della longitudine, poi riportò la posizione sulla carta. Lo Swan era circa quaranta miglia a ovest e leggermente a nord di una città della costa lettone. Will non aveva mai sentito quel nome. La città si chiamava Liepaja. 35 Katharine scartabellò svogliatamente i cablogrammi e il materiale da analizzare giunto quella mattina. La notte precedente aveva dormito male, adesso aveva l'emicrania. Simon voleva che se ne andasse dall'Agenzia: glielo aveva detto chiaro e tondo. Da tempo immemorabile Simon si era fatto un'idea precisa di come dovrebbe essere una madre: Katharine sapeva di non avere mai posseduto quei requisiti. La notte scorsa non era riuscita a dormire, tanto era l'assillo di sapere quanto determinato fosse Simon, di sapere fino a che punto si sarebbe spinto per conseguire i suoi scopi. Katharine aprì una busta della posta interna, la scosse e ne fece uscire una pubblicazione in russo. Era il giornale della Marina Sovietica, ripiegato in modo da mettere in evidenza qualche riga sottolineata. Non era altro che un elenco di promozioni e incarichi, ma la sottolineatura le saltò agli occhi. La presidenza della terza divisione della Direzione Servizi Segreti del quartier generale della Marina Sovietica era stata assegnata a una persona che si chiamava Viktor Sergevič Majorov, capitano di primo grado. Katharine cercò la data del giornale: 18 agosto 1983. Rimase a bocca aperta. Majorov, il pupillo di Andropov, dopo il favoloso incarico di dirigere la Prima Sezione del KGB, più di sei mesi prima della morte del suo protettore era di colpo diventato un ufficiale di marina ed era stato trasferito a un posto che era di tre o quattro livelli più basso del precedente. Anche se non era raro che un russo altolocato cadesse in disgrazia e finisse in un posto ignominioso (Malenkov, per esempio, un tempo cosegretario del partito, aveva concluso la carriera dirigendo una fabbrica di matite), Kate non ricordava nessuna occasione in cui a un civile fosse stato dato un incarico militare. Fra tutte le notizie raccolte fino a quel
momento su Majorov nulla lasciava supporre un'esperienza in marina. Davvero sconcertante. Andò a un armadio a scomparti, trovò una guida del telefono del Pentagono, vi diede una rapida occhiata, poi compose un numero. Dall'altra parte risposero al primo squillo. «Servizio d'informazione della marina, ufficio del capitano Stone.» «Posso parlare con il capitano Stone, per piacere? Sono Katharine Rule, Ufficio Sovietico della CIA.» «Un attimo solo, signora.» «Kate? Come stai? Quanto tempo!» «Ciao, Doug. Sì, è un bel pezzo che non ci sentiamo. Ho saputo della tua promozione. Congratulazioni.» «Grazie. Telefonata di lavoro o di piacere?» «Lavoro. Solo una rapida domandina. Devo togliermi un po' di ruggine sulla Direzione Servizi Segreti della Marina Sovietica. Di che cosa si occupa la Terza Divisione?» «Questa è facile facile. La Terza Divisione è SPETSNAZ.» Il cuore di Katharine ebbe un tonfo. «Chi la comanda?» «Anche questa è facile, ma c'è un piccolo mistero. Si chiama Majorov. La cosa è misteriosa perché qui nessuno aveva mai sentito parlare di lui prima che gli dessero l'incarico. Ho fatto una ricerca con il calcolatore sui bollettini delle forze armate; Majorov non ci risulta mai né promosso né trasferito. Si direbbe che, appena entrato in marina, gli abbiano subito dato il comando delle SPETSNAZ.» «Grazie, Doug... ah, che tu sappia, c'è qualcosa che bolle in pentola alle SPETSNAZ di questi tempi?» «No. O meglio, sono tutti ammucchiati in Polonia e nelle Repubbliche del Baltico, ma questo è normale.» «Perché?» «Operazione Martello. Così, almeno, la chiamiamo noi. I sovietici, ogni quattro anni, compiono grandi manovre con la partecipazione di tutte le armi. Ogni volta scelgono una regione diversa; adesso tocca al Baltico. Ne sono felice: divento nervoso quando le fanno in Germania orientale, come l'ultima volta.» «Grazie, Doug, questo spiega ogni cosa. Stammi bene.» Riattaccò. Le informazioni militari non erano di sua competenza, ma sapeva delle manovre quadriennali dei sovietici; non sapeva invece che quell'anno toccasse al Baltico. Se le manovre in Germania orientale rendevano Doug Stone ner-
voso, in quel momento le manovre nel Baltico rischiavano di farla impazzire. Kate si alzò e si recò nell'ufficio di Alan Nixon, che la ricevette gelidamente. «Sì, Katharine?» «Alan, capisco che probabilmente non sei nello spirito giusto per ascoltare quello che ho da dirti, ma mi è capitato sulla scrivania questa mattina in maniera casuale.» Nixon gemette. «Di nuovo su Firsov?» «Proprio lui. Ti esporrò quel che sono venuta a sapere, poi trarrai le tue conclusioni. Nell'agosto millenovecentottantatré Majorov (come ti ho già detto, questo è il vero nome di Firsov) fu trasferito dal suo posto a capo delle operazioni all'estero del KGB, reclutato nella Marina Sovietica con il grado di contrammiraglio e messo a capo della fanteria speciale di marina, le SPETSNAZ. La nomina fu pubblicata. In questo momento i sovietici stanno preparando grandi manovre di tutte le forze armate nelle repubbliche del Baltico. Nella zona, con il pretesto delle manovre, sono state raggruppate unità SPETSNAZ. Immagino che vi siano confluiti anche grandi quantità di materiale militare e una bella fetta dell'Armata Rossa, se le esercitazioni dei russi assomigliano anche solo lontanamente alle nostre.» Kate si avviò alla porta. «Ho pensato bene di comunicartelo, in caso ti interessasse.» Nixon non fiatò. Katharine si fermò sulla soglia. «A proposito, Alan, in che periodo esattamente è scattata l'operazione Fiordineve? L'ho dimenticato.» «Maggio o giugno dell'ottantatré, mi sembra.» Katharine fece un cenno con il capo. «Giusto. Non ricordavo le date.» E uscì dalla stanza prima che ad Alan venisse in mente che lei non avrebbe dovuto sapere nulla di Fiordineve. Tornata in ufficio, Kate accese il calcolatore e inserì il programma di elaborazione testi. Batté un promemoria per Alan Nixon, vicedirettore Informazioni, riassumendo quanto gli aveva appena detto, citando le loro precedenti conversazioni sull'argomento e raccomandando che venissero compiute altre indagini dal settore Operazioni. Diede un numero al promemoria, ne stampò una copia e lo salvò nella memoria centrale. Infilò la copia in una busta della posta interna, vi scrisse il nome di Nixon e la mise nella scatola della corrispondenza in uscita. Adesso le sue deduzioni erano registrate. Il caso sarebbe esploso, lo sapeva; quindi era tempo di cominciare a proteggersi le spalle.
36 Will Lee si guardò attorno e non vide nulla. Da un bel pezzo la breve notte baltica era stata sostituita dalla mattina, ma con la luce era venuta la nebbia. Il vento era calato trasformandosi in una brezza leggera, ma il mare era ancora un po' agitato; le onde, con il loro inesorabile e imprevedibile rollio, rendevano la vita a bordo sgradevole. Lee aveva sparato un altro razzo a mezzanotte, nella speranza di essere scorto da qualche nave occidentale prima di essere spinto in acque sovietiche, ma nessuno era venuto in suo aiuto. Aveva preferito conservare l'ultimo razzo per l'eventualità che le cose si mettessero ancora peggio. Il ricevitore Decca funzionava; secondo l'apparecchio, lo Swan era ormai vicino alle coste della Lettonia. La profondità indicata dall'ecoscandaglio era gradualmente diminuita, fino ai venti metri di quel momento. Sul ponte Lee aveva un'ancora con una cima, ma pensava che non fosse ancora giunta l'ora di usarla. Ad ogni modo, sarebbe servita a tenere la barca lontano da una costa rocciosa sottovento, nel caso che si fosse diretta verso qualcosa di simile. Udì un rumore proveniente da est, un sordo brontolio, come quello del motore di un peschereccio. Chissà, pensò, magari erano pescatori svedesi che l'avrebbero trainato di nuovo nelle loro acque territoriali. Il rumore aumentò d'intensità; Lee si guardò attorno e vide una strana linea bianca sull'acqua a circa duecento metri di distanza. Reti di pescatori? Una striscia di detersivo? Diede un'occhiata all'ecoscandaglio: improvvisamente c'erano solo otto metri di fondo. Lee guardò di nuovo la striscia bianca. Erano onde che si frangevano. Era ora di sparare l'ultimo razzo. Will lo lanciò e ne osservò la traiettoria ad arco, non abbastanza alta da sparire nella nebbia. In realtà c'era più visibilità di quanto pensasse. La barca stava inesorabilmente scarrocciando verso la linea dei frangenti; al di là di questa Lee vedeva ora la costa, bassa, grigia e rocciosa. Rimase a osservare per qualche minuto la schiuma sempre più vicina, lanciando di tanto in tanto un'occhiata all'ecoscandaglio. C'erano sei metri di fondo, adesso; e la barca ne pescava un po' più di due. Uscì dal pozzetto, andò a prua e cominciò a liberare l'ancora. Non sapeva che tipo di fondo avrebbe trovato, ma immaginò che fosse roccioso; sperò che l'ancora tenesse. Aveva scelto la vecchia ancora a grappino, che su un fondo roccioso funziona meglio delle altre due che aveva in dotazione. Rimase in piedi accanto all'ancora, preparando la cima di nailon cui questa era attaccata. Nel frattempo teneva
d'occhio la linea dei frangenti. Questo è il momento buono, pensò. Sollevò l'ancora. Poi, con sua gran sorpresa, tra la barca e i frangenti comparve di colpo un piccolo motoscafo giallo brillante con un grande motore fuoribordo. Sull'imbarcazione c'erano quattro giovani imbacuccati nelle cerate che si girarono appena scorsero lo Swan; due di loro urlarono qualcosa e fecero dei gesti al pilota. Il motoscafo si diresse a tutta velocità verso lo Swan, saltando sulle onde ancora piuttosto grosse. Lee sperò che il guidatore sapesse il fatto suo. Avvicinandosi, il motoscafo rallentò e con una virata si fermò sottovento a circa dieci metri di distanza. Uno degli uomini urlò qualcosa in una lingua che gli parve svedese. Lee, molto sorpreso, scosse la testa. «Non capisco», urlò di rimando. «Parlate inglese? Francese?» «Sì, parlo inglese», gridò il giovane. «Vedo che sei nei pasticci. Ti rimorchieremo fino in banchina. Hai una cima?» «Sì», gridò Will. «Un momento.» Andò a prua, slegò la cima dell'ancora e la lanciò a uno degli uomini, che la legò a una galloccia a poppa del motoscafo, facendogli poi segno che tutto era a posto. La cima entrò in tensione; Will tornò nel pozzetto per pilotare la barca nella scia del motoscafo. Per fortuna era incocciato in qualcuno che parlava inglese e, in apparenza, non apparteneva né all'esercito né alla polizia. Will dubitava che da quelle parti le autorità scorrazzassero su motoscafi da diporto gialli. Forse con qualche spiegazione si sarebbe cavato dagli impicci. Se fosse riuscito a liberare l'elica dalla scotta, sarebbe potuto tornare a motore in acque territoriali svedesi, forse anche fino a Gotland, prima di restare senza carburante. La barca rimorchiò lo Swan verso sud, parallelamente alla costa, per circa mezz'ora, poi imboccò quello che pareva lo stretto ingresso di una grande baia. Quando furono dentro, il motoscafo si diresse verso nord tenendosi in mezzo alla baia. La nebbia si stava finalmente sollevando e Will scoprì di trovarsi in uno specchio d'acqua molto stretto e lungo. Vedendo comparire un paio di miglia più a nord un fitto gruppo di barche a vela, capì che i suoi soccorritori si stavano dirigendo verso un porticciolo. Dai gavoni di poppa estrasse i parabordi e le cime d'ormeggio, che preparò a prua e a poppa. Mentre accostavano al molo più vicino, vide ormeggiate almeno due dozzine di piccole imbarcazioni a vela; due altri giovani aspettavano in banchina di ricevere le sue cime. Il motoscafo rallentò; Will accostò lo Swan e lanciò le cime agli uomini in attesa.
Quello che gli aveva parlato dal motoscafo balzò in banchina e corse da lui. «Per piacere, rimani sulla tua barca. Devo chiedere istruzioni al mio... capo.» «D'accordo», assentò Will. «Nel frattempo mi farò un po' di caffè.» Guardò gli uomini che l'avevano aiutato a ormeggiare. «Volete una tazza di caffè?» I due sembravano interessati sia a lui sia alla barca, ma non dissero nulla. Probabilmente non capivano l'inglese, pensò Will. Scese sottocoperta e mise l'acqua a scaldare. Mentre aspettava che bollisse, diede un'occhiata dall'oblò della cucina che era di plexiglass azzurrato. Si poteva vedere fuori, ma gli uomini non potevano guardare dentro. Non gli parve una gran vista. A destra del porticciolo c'era una spiaggetta, sulla quale parecchie persone stavano mettendo in acqua dei dinghy. Dietro le banchine, il terreno saliva; Lee scorse un gruppo di edifici dall'aspetto moderno riuniti intorno a un grande pendio erboso. Sembrava una piccola università. Le persone che aveva viste avevano l'aria un po' troppo vecchia per essere studenti, ma chi poteva sapere? Sperò che non fossero andati a chiamare la polizia o, peggio, il KGB. Sapeva che il KGB nell'Unione Sovietica è responsabile della sicurezza interna e che sorveglia le frontiere. Improvvisamente si accorse che le sue conoscenze sul KGB, e anche sulla CIA, non si fermavano affatto lì. Sapeva un mucchio di cose. Meglio cominciare subito a pensare a che cosa avrebbe detto al 'capo' quando fosse arrivato. La verità, decise immediatamente. Be', quasi tutta la verità. Se voleva cavarsi dagli impicci con la sua parlantina, era meglio tacere sia su Washington sia sul suo lavoro con il senatore Carr nella Commissione Servizi Segreti. Una simile rivelazione avrebbe solo provocato l'intervento di autorità più alte, mentre lui non aveva nessuna intenzione di chiacchierare con persone di grado elevato e, tantomeno, con il KGB. Quella gentaglia sarebbe stata fin troppo interessata a ciò che sapeva. Lee, per esempio, era a conoscenza di molti dati sul bilancio preventivo e sulle operazioni della CIA; sapeva il nome e la qualifica di parecchie delle persone più importanti che vi lavoravano; conosceva molto molto bene il capo dell'ufficio sovietico della direzione informazioni, anzi, aveva un appuntamento con lei a Copenhagen di lì a tre giorni. Il bollitore cominciò a fischiare. Will si fece una tazza di caffè istantaneo, che improvvisamente gli parve tanto caldo da essere imbevibile. Stava già sudando. Si sfilò la giacca della cerata e si deterse la fronte, respirando a fondo per calmarsi. Si chiese se fosse il caso di correggere il caffè con un po' di brandy, poi decise di non
farlo. Magari avrebbe parlato troppo con l'alcool nelle vene. Guai se avesse perso la testa. Doveva semplicemente comportarsi per quello che era, con qualche piccola omissione: un ingenuo velista, tanto inesperto da perdere l'albero e tanto stupido da non accorgersi delle cime fuoribordo prima di accendere il motore. Si prese in giro tristemente: recitare quella parte non sarebbe poi stato tanto difficile. Guardò un'altra volta in direzione del campus che sorgeva dietro il porticciolo e vide due uomini scendere la collina verso il molo su un'automobilina bianca da golf. I due si fermarono all'ingresso del porto e proseguirono a piedi in direzione dello Swan, seguiti dal giovane vestito con la cerata, che era andato a chiamare il suo capo. Lee prese la sua tazzina di caffè e salì in pozzetto. I due uomini si fermarono sulla banchina ed esaminarono attentamente l'imbarcazione. Uno era snello, sulla cinquantina, portava gli occhiali e aveva capelli color sabbia che volgevano al grigio; l'altro aveva qualche anno di meno, era più alto, di bell'aspetto, con fitti capelli neri ormai brizzolati. Lee pensò che aveva un aspetto familiare, ma scacciò subito quell'idea assurda. Chi mai avrebbe potuto conoscere in Lettonia? Quando finì di esaminare la barca, l'uomo più alto si girò e disse qualcosa in una lingua che a Will sembrò russo poi, vedendo che Will non capiva, riprovò, questa volta, probabilmente, in svedese. Will allargò le braccia. «Mi spiace», disse, «parlo solo l'inglese e il francese.» «Qual è la sua lingua madre?» domandò l'uomo. «L'inglese. Sono americano.» «Benissimo. Allora parleremo inglese», disse l'uomo. «Possiamo salire a bordo?» «Certamente. Posso offrirvi una tazza di caffè sottocoperta?» «Sì, grazie», disse l'uomo. Lee fece accomodare i due nel salottino. «Il mio nome è Will Lee», si presentò. I due visitatori erano in piedi tra la cucina di bordo e il tavolo da carteggio e si guardavano attorno con attenzione. «Il mio nome è Kramer», disse il più alto dei due. «Questo è il signor Mintz.» «L'acqua è già calda, non ci vorrà molto. Prego, sedetevi.» I due uomini si accomodarono al tavolo del quadrato, senza smettere di esaminare l'interno della barca. «Questa barca è molto bella, signor Lee»,
disse Kramer. A Will l'accento di Kramer parve molto inglese. «Grazie, non mi spiacerebbe se fosse mia.» «Lei non è il proprietario, dunque?» domandò Mintz, aprendo bocca per la prima volta. «No, sto trasferendo la barca per conto del proprietario, un mio amico di Londra, dal cantiere finlandese in cui è stata costruita, a Copenhagen. Il mio amico la verrà a prendere lì per portarla in Inghilterra.» «Capisco», disse Kramer. «E a che cosa dobbiamo la sua visita?» Will versò loro il caffè, poi aprì la carta e spiegò che dapprima era uscito di rotta, poi aveva disalberato; andando alla deriva era finito sulla loro costa. «Sono molto grato per l'aiuto che mi hanno dato i suoi uomini questa mattina. Rischiavo di incagliarmi.» «Sì, non ne dubito», annuì Kramer, esaminando attentamente la carta nautica, prendendo qualche misura con le dita e riportandola sulla scala delle distanze in margine. «Senta signor Kramer», disse Will, «mi rendo perfettamente conto che nel suo paese sono un ospite non invitato e ne sono spiacentissimo. Spero che mi conceda di rimettere la barca in condizioni di navigare, perché possa partire il più in fretta possibile. Se qualcuno mi impresta una maschera da subacqueo posso liberare l'elica dalla cima. Ho abbastanza carburante per andare a motore fino in Svezia. Spero che non sia necessario scomodare troppa burocrazia per questa vicenda. Mi rendo conto che la barca potrebbe essere confiscata; sicuramente non sarebbe facile spiegarlo al proprietario. Temo che l'assicurazione abbia perso validità nel momento stesso in cui entravo nelle vostre acque territoriali. E questa è una barca molto costosa.» «Sì, non ne dubito», ripeté Kramer. «Bene, farò il possibile per aiutarla, signor Lee, ma non è detto che l'autorizzazione a lasciarla ripartire dipenda interamente da me. Devo porle alcune domande; è della massima importanza che lei mi dia risposte del tutto sincere.» «Certamente», ribatté Will zelante. «Sarò lieto di dirle tutto quel che so.» «Prima di tutto mi mostri il suo passaporto, qualsiasi altro documento d'identità in suo possesso e i documenti della barca.» Will prese il passaporto e il portafogli dal tavolo di carteggio e li porse ai due. Mintz tirò fuori un taccuino e cominciò ad annotare frettolosamente i dati.
«Vedo che viene da uno stato del Sud», osservò Kramer, esaminando il passaporto. «Conosco bene la Georgia sulle carte geografiche, ma dov'è Delano?» «Si trova a centotrenta chilometri circa a sud di Atlanta, nella parte centro-occidentale dello stato, nella Contea di Meriwether.» «E come mai una persona nata in una piccola città di uno stato del sud ha un amico a Londra?» «Mia madre è irlandese; già quando ero bambino andavo spesso in Inghilterra. Il mio amico è figlio di un amico di mio padre.» «Come si chiamano queste due persone?» domandò Mintz. «Il nome del mio amico è Spencer Wilks; è avvocato a Londra. Suo padre è sir Martin Wilks, deputato del partito laburista. Mio padre pilotava bombardieri di stanza in Inghilterra durante la seconda guerra mondiale. La loro amicizia risale a quel periodo.» In risposta a un'altra domanda di Mintz, Lee fornì l'indirizzo di entrambe le persone. «Che lavoro fa, signor Lee?» domandò Kramer. «Sono avvocato; sono socio di mio padre a Delano. Lo studio si chiama Lee e Lee.» Will estrasse un biglietto da visita dal portafogli. «Che tipo di pratiche legali seguite?» domandò Kramer. «Un po' di tutto. Succede sempre così nelle città piccole. Testamenti, divorzi, consulenza legale alle aziende, di tanto in tanto un caso criminale.» Lee non riusciva a scacciare la sensazione di avere già visto Kramer; l'accento inglese del suo interlocutore sembrava confermare l'impressione. Kramer continuò a interrogarlo e Mintz a prendere appunti. Nell'ora successiva, Will fornì praticamente tutta la storia della sua vita. Mentre chiacchieravano, gli venne improvvisamente in mente dove aveva già visto quell'uomo. La coincidenza gli parve assurda; tuttavia, durante l'interminabile interrogatorio, cambiò idea. Katharine gli aveva mostrato una fotografia di quell'individuo. Si chiamava Majorov ed era del KGB. Will fu contento di dover parlare: lo aiutava a mantenere la calma. «Bene, signor Lee», disse Majorov alzandosi in piedi. «Penso che sia tutto per il momento. Prenderò il suo passaporto e gli altri documenti e farò un paio di telefonate ai miei superiori. Nel frattempo darò disposizioni perché un subacqueo liberi la sua elica. Se mi ha detto la verità non escludo di essere in grado di aiutarla. Desidera aggiungere qualcosa a quanto ci ha dichiarato?» «No», disse Will, «ma sarò lieto di rispondere a qualunque altra domanda riteniate opportuna. Posso solo assicurarvi che sono chi vi ho detto di
essere e non una spia. So che tra i nostri due paesi c'è una grande sfiducia reciproca, ma vi ho detto la verità. L'unico mio desiderio è poter ripartire.» «Vedremo», disse Majorov, salendo in pozzetto e saltando sulla banchina. «Devo chiederle di rimanere a bordo della sua barca. Spero che il disagio non sia troppo grande. Ha bisogno di qualcosa?» «Starò benissimo, grazie. Sono sveglio da un'eternità, non mi farà male dormire un po'.» Majorov annuì, poi si allontanò sul molo. Fu allora che Will vide due cose che lo misero a disagio. In fondo al molo c'era un soldato armato di mitragliatore. Non era affatto finito in un'università. L'altro particolare che attrasse la sua attenzione fu un uomo che scendeva da una barchetta a vela sulla spiaggia accanto al porticciolo. Will scese sottocoperta, trovò il binocolo e attraverso l'oblò della cucina lo puntò sulla sagoma di quell'uomo. Lo conosceva benissimo. Ripose il binocolo nella custodia e si lasciò cadere sul sedile del tavolo da carteggio. Quando aveva riconosciuto Majorov grazie alla fotografia che Katharine gli aveva mostrata, era rimasto turbato. Ma la vista di Carl Swenson, l'americano di New York incontrato a Stoccolma, che qui andava in giro in barca a vela, l'aveva lasciato di sasso. Se Majorov era del KGB, allora Swenson doveva essere una spia. In che razza di posto era capitato? Will diede un'occhiata al disegno del Palazzo Reale di Stoccolma, che aveva fissato con quache chiodino sopra il tavolo da carteggio. Sebbene l'avesse sempre avuto sotto gli occhi, solo ora vi scorse qualcosa di nuovo. Lo tolse e lo infilò tra le carte nautiche nel tavolo da carteggio. Poi si sdraiò sul divano del quadrato e si aggiustò il cuscino sotto la testa. Era arrivato in questo posto da pochissimo, ma vi aveva visto fin troppo. Non aveva intenzione di vedere altro. 37 Appicella, dalla sua finestra, vide che Majorov scendeva verso il porticciolo sulla sua automobilina da golf. Ecco il momento, pensò. Uscì dal villino degli ospiti e si avviò rapidamente su per la collina verso il quartier generale. Ormai era un personaggio noto a Malibu; nessuno gli chiedeva dove andasse fintanto che non si avvicinava alle zone proibite. Nell'edificio del quartier generale, Appicella passò davanti alla centralinista, che sedeva nell'anticamera sulla quale si aprivano sia l'ufficio di Majorov sia la sala per riunioni in cui l'italiano aveva lavorato.
«Buongiorno, tesoro», sorrise alla centralinista. «C'è Majorov?» «È uscito, signor Appicella», disse la ragazza, ricambiando il sorriso. «È giù al porto.» «Davvero? Vuole andare in barca a vela in una giornata come questa? Il tempo non è molto invitante, non ti pare?» «Sembra che sia arrivata una barca a vela straniera; Majorov è andato a parlare con il capitano. Non so quando sarà di ritorno.» «Non importa», disse Appicella. «Devo fare delle prove con il modem. Per piacere, dolcezza, puoi collegare la sala riunioni con una linea esterna?» «Mi spiace, signor Appicella», disse la ragazza, «ma senza precise istruzioni di Majorov non posso passare nessuna chiamata esterna.» «È naturale», disse Appicella, mentre il cuore gli batteva furiosamente. «Non voglio fare nessuna chiamata, solo provare la trasmissione sul modem. Se vuoi puoi ascoltare sulla linea.» E concesse alla telefonista il suo sorriso più luminoso. «Non dirò nemmeno una parola, te lo prometto.» «Oh, in questo caso», ribatté la ragazza, «se posso ascoltare.» Appicella entrò nella sala riunioni e lasciò la porta aperta per non destare sospetti. Dalla sua cartella prese il dischetto con il programma di trasmissione archivi e lo caricò nel computer. Sollevò il telefono da ufficio che aveva sul tavolo, e con un dispositivo di accoppiamento lo collegò direttamente al calcolatore. Poi richiamò un menu per il programma di trasmissione archivi e batté 0101, codice per le chiamate oltreoceano in America, 212, prefisso di New York, e il numero locale di una linea della rete di New York con accesso al La Fonte, un servizio di informazioni su computer in time sharing, situato a Silver Spring, nel Maryland. Appicella uscì dal programma di trasmissione e creò un nuovo archivio sullo stesso dischetto. Quando ricevette il segnale batté: MIA CARA, SONO QUI SULLE SPONDE DEL BALTICO, IN UN CENTRO LUSSUOSISSIMO. CIRCONDATO DA UN GRAN NUMERO DI GIOVANI UOMINI E DONNE, BELLI E ATLETICI. CONTINUO A RIPETERE CHE DEVO TORNARE A ROMA, MA, SICCOME IL MIO OSPITE INSISTE PERCHÉ MI TRATTENGA, SONO INCAPACE DI RIFIUTARE IL SUO INVITO. QUI SI PUÒ ANDARE IN BARCA A VELA, NUOTARE, PRENDERE IL SOLE; CHI MI HA INVITATO DIMOSTRA
LA SUA SOLITA OSPITALITÀ, ANCHE SE IN QUESTI GIORNI È MOLTO IMPEGNATO. COME VORREI CHE TU POTESSI CONOSCERLO E VISITARE QUESTO POSTO MERAVIGLIOSO! CI SONO MOLTE ALTRE COSE CHE VORREI DIRTI, MA DOVRÒ ASPETTARE FINO A QUANDO NON CI RIVEDREMO. PURTROPPO NON SO QUANDO QUESTO SARÀ POSSIBILE. PERDONA LA BREVITÀ DI QUESTO MESSAGGIO, MA È TUTTO QUELLO CHE POSSO FARE PER IL MOMENTO. EMILIO Appicella uscì dall'archivio e richiamò il programma di trasmissione. «Bene», urlò alla ragazza attraverso la porta aperta, «dammi la linea.» «L'ha già», gridò la ragazza di rimando, poi lasciò il centralino per andarsi a mettere nel vano della porta. «Che cosa sta provando?» «Solo le possibilità del nuovo computer nella trasmissione con il modem.» Appicella batté: COLLEGAMENTO FONTE. «Ascolta», disse alla ragazza, «puoi sentirlo mentre compie le prove.» Da un altoparlante dentro il calcolatore giunse dapprima il segnale di linea libera, poi il rumore mentre veniva formato il numero, poi un altro segnale, infine il silenzio. Questo voleva dire che il calcolatore si era collegato con La Fonte e stava dando al calcolatore centrale il numero di codice e la parola d'ordine. Sullo schermo davanti ad Appicella comparvero le parole: BENVENUTO AL LA FONTE Appicella batté rapido la lettera P. Comparve la risposta del sistema. Allora batté: NUOVO ARCHIVIO NOME DEL NUOVO ARCHIVIO? domandò il calcolatore. KATE Lo schermo si cancellò. Appicella schiacciò il tasto di uscita, poi batté: INVIA KATE Ci fu un breve fruscio nel lettore dei dischetti mentre l'archivio, tramite un satellite americano per le telecomunicazioni, era trasmesso dal computer di Malibu al computer nel Maryland; poi Appicella batté di nuovo la lettera P e tornò al menu di sistema. Batté ancora: FINE CHIUSURA IN ESECUZIONE, rispose il computer centrale, TEMPO DI COLLEGAMENTO 25 SECONDI, poi lo schermo rimase di nuovo
vuoto. Sul suo computer, Appicella batté: CANCELLA KATE 1 ARCHIVIO CANCELLATO, rispose il calcolatore. Era fatta, non restavano tracce. Ad Appicella sarebbe piaciuto trasmettere il sommario del piano d'invasione che aveva trovato negli archivi, ma non poteva sapere di che tipo d'intercettazione elettronica disponessero i sovietici. Per poco che fossero attrezzati, in quel momento sapevano già che da Malibu era stata fatta una telefonata transoceanica, ma quello probabilmente avveniva spesso. Se fossero stati davvero in gamba, i russi avrebbero anche decifrato il suo messaggio. Appicella sperò che avesse un aspetto abbastanza innocuo da non destare il loro interesse. «Con questo ho finito», disse alla ragazza. «Tutto funziona alla perfezione.» «Bene», replicò lei. «A proposito, signor Appicella, se per caso si stancasse della compagnia di Olga, me lo faccia sapere, d'accordo?» «Tesoro, che pensiero carino», sorrise l'italiano. «Contaci.» Si alzò dalla sedia e riordinò il tavolo. «Bene, si direbbe che il tempo migliori. Penso che andrò a farmi una nuotata. Vieni con me?» «Ci verrei volentieri», disse la ragazza, imbronciata. «Sarà per un'altra volta.» Appicella si avviò verso l'uscita, poi si fermò. «Dimmi, bella, qual è il numero della linea in arrivo di questo computer, compreso il prefisso della nazione? Majorov mi ha chiesto di verificare la trasmissione con il modem anche dall'altro capo.» La ragazza cercò il numero, lo scrisse su un foglio e glielo diede. Appicella le baciò la mano, suscitando un'adeguata risposta, poi uscì dall'edificio. Il sole andava e veniva, adesso, ma il cielo si stava rapidamente rasserenando. Appicella vide l'automobilina da golf di Majorov ancora posteggiata davanti all'ingresso del porticciolo. Tornò nel villino, indossò il costume da bagno, prese un asciugamano di spugna e scese alla spiaggia. Vi trovò una mezza dozzina di giovani di Malibu che prendevano il sole o/mettevano in acqua i dinghy. Appicella distese la sua spugna a qualche metro di distanza dal gruppo e si sedette. «Che succede laggiù?» domandò a uno dei giovani, indicando la barca straniera. «Una barca a vela è stata disalberata e spinta qui dal vento. Uno dei ragazzi che l'ha rimorchiata dice che è di un inglese o di un americano.» «Accipicchia!» rise Appicella. «Quanti sono a bordo?»
«È un navigatore solitario, credo. Deve essere matto.» Appicella si appoggiò sui gomiti e contemplò il mare, dando di tanto in tanto un'occhiata alla barca. Comparve un soldato armato che si mise di guardia all'ingresso del porticciolo. Finalmente Majorov e l'uomo chiamato Jones lasciarono la barca e risalirono la collina con l'automobilina da golf. Appicella si alzò e tornò a piedi al suo villino. Anche di lì vedeva bene il porticciolo. Si sedette sulla terrazza con una tazzina di caffè. 38 Helder giunse all'ufficio di Majorov, dove era stato convocato. Non sapeva quale fosse l'argomento dell'incontro, sapeva solo che non aveva nessuna voglia di incontrare il colonnello. Non si erano rivisti da quando erano tornati entrambi da Mosca e Helder covava ancora una fredda rabbia per ciò che quell'uomo aveva inflitto a Trina Ragulin. Nell'istante in cui arrivò davanti all'ufficio, giunsero anche Majorov e Jones. «Ah, Helder», lo salutò Majorov, «entra, entra.» Aveva l'aria inquieta. Fece strada nel suo ufficio. «Siediti e scusami un momento; abbiamo un piccolo problema da risolvere.» Si rivolse a Jones. «Allora, signor Mintz, che cosa ne pensa?» «Penso che dovremmo spedirlo immediatamente a Mosca perché alla Centrale lo sottopongano a un esauriente interrogatorio. È una coincidenza troppo strana che un americano si presenti alla nostra porta proprio in questo momento, non le sembra?» Majorov raccolse un cartoncino da un fascio di documenti che aveva gettato sulla sua scrivania. «Forse ha ragione. Eppure...» Diede un'occhiata all'orologio da polso, fece un calcolo mentale, poi sollevò il telefono. «Dammi una linea esterna.» Senza togliere gli occhi dal biglietto da visita compose un numero di parecchie cifre, poi accese il telefono amplificato. Helder sentì qualche scarica elettrostatica, poi il segnale di un numero che suonava; infine rispose una voce di donna. «Buongiorno, Lee e Lee.» «Buongiorno», disse Majorov, e il suo accento divenne ancora più inglese. «Desidero parlare con il signor Lee.» «Con quale signor Lee desidera parlare? Billy o Will?» Majorov lanciò un'occhiata a Jones. «Con il signor Will Lee, per piacere.» «Sono spiacente, ma Will è all'estero. In ufficio c'è suo padre; pensa che
possa esserle utile?» «No, è una telefonata personale. Sono un suo vecchio amico, chiamo da Londra. Potrebbe per caso dirmi dove posso trovare Will all'estero?» «Oh, attenda un attimo, prendo il suo itinerario.» Ci fu un attimo di pausa e un rumore dj fogli spostati. «Ecco qua. Be', se è in orario, in questo momento Will dovrebbe essere in navigazione. Ma dovrebbe giungere a Copenhagen fra tre giorni. Posso darle il numero del suo albergo in quella città.» Majorov prese nota del numero. «Grazie, lo cercherò là. Buongiorno.» Interruppe la comunicazione e rimase a fissare il biglietto da visita con aria pensierosa. Helder, sentendo il nome di Will Lee, era rimasto di sasso, troppo stupito per riuscire a parlare. «Questa non è una conferma», disse Jones. «Sarebbe un tipo di copertura semplicissimo se fosse un agente. Senza dubbio, l'albergo di Copenhagen avrà una prenotazione prepagata a suo nome.» «Senza dubbio», disse Majorov, «ma c'è altro. Quando lavoravo alla Prima Sezione tenevamo un archivio sui politici americani, soprattutto su quelli che avevano qualche ambizione presidenziale. Negli anni Sessanta in Georgia ci fu un governatore che venne spesso citato come possibile sostituto del vicepresidente Lyndon Johnson nella lista dei candidati democratici per le elezioni del 1964 a fianco di John Kennedy. Il suo nome era William Henry Lee, soprannominato Billy. Tutto lascia pensare che l'uomo dello yacht sia suo figlio. «Non è che una copertura», insisté Jones con veemenza. «Gli hanno dato il nome di una persona reale, ecco tutto. Esattamente come abbiamo fatto noi con Helder per la sua missione.» «Mi scusi, colonnello», disse Helder, «ma credo di conoscere questo Will Lee.» «Cosa?» disse Majorov confuso. «È successo quando ero a Stoccolma. Per puro caso. Abbiamo pranzato allo stesso tavolo in un ristorante.» Majorov pretese un racconto particolareggiato dell'incontro. Sia lui sia Jones ascoltarono assorti. Quando Helder ebbe terminato, parlò per primo Jones. «È una coincidenza troppo strana perché sia vera», disse. «Non possiamo assolutamente lasciar ripartire questo uomo da Malibu, se non per spedirlo a Mosca.»
«No», replicò Majorov. «Questa è una coincidenza troppo strana perché non sia vera. Non capisce? Perché questo incontro potesse essere preparato, qualcuno avrebbe dovuto sapere in anticipo che Helder si sarebbe trovato a Stoccolma. Neppure noi sapevamo che Helder sarebbe andato a Stoccolma. Neppure lui sapeva che ci sarebbe andato. Era un fatto assolutamente imprevedibile. E anche se fosse stato prevedibile, anche se l'incontro non fosse una coincidenza, non gli avrebbero mai lasciato abbandonare il paese. Avrebbero arrestato Helder sui due piedi.» Jones sembrò non trovare una risposta a questa obiezione. «Forse ha ragione. Anche così, però, non possiamo lasciarlo andare. Siamo troppo vicini al momento in cui scatterà l'operazione.» «Il momento è così vicino che forse non possiamo correre il rischio di non lasciarlo ripartire», ribatté Majorov. «Qui non ha visto nulla, non è mai sceso dalla sua imbarcazione. La base dei sommergibili è invisibile dall'ingresso della laguna e dal porticciolo. Può darsi che abbia visto un paio di persone in uniforme, nient'altro. Il fatto stesso che siamo disposti a lasciarlo andare ci farà sembrare ancora più innocenti. Sarebbe un'inutile complicazione tenere prigioniero il figlio di un uomo politico americano.» Majorov picchiò la palma della mano sul tavolo. «No, quel tizio se ne andrà di qui oggi stesso. Me ne occuperò io; prima però, devo parlare con Helder. Ci scusi, per piacere, Jones.» Jones si alzò e uscì dalla stanza scuotendo la testa. Majorov si voltò verso Helder. «Jan, domani si va.» Helder batté le palpebre. «Domani? Così all'improvviso?» Majorov sorrise. «Non è affatto all'improvviso. Da settimane stiamo ammassando truppe e rifornimenti nella regione del Baltico con il pretesto di manovre regolarmente programmate. I servizi segreti ci dicono che i loro colleghi occidentali non sono allarmati da questi spostamenti; né in Svezia né altrove sono state prese precauzioni fuori del comune. Le condizioni sono ideali per la nostra operazione; e tu, ragazzo mio, avrai l'incarico più importante di tutto il piano.» Helder scordò Trina Ragulin lasciandosi travolgere dalla drammaticità del momento. «Qual è il mio compito, signore?» Majorov si avvicinò alle carte geografiche appese dietro la sua scrivania e girò un interruttore per illuminarle. Indicò la carta sulla quale erano segnate le vie d'accesso a Stoccolma. «Ecco. Seguirai una rotta identica a quella della missione precedente, nella scia del traghetto HelsinkiStoccolma. Questa volta, però, comanderai un sommergibile della classe
Whiskey e seguirai il traghetto per qualche chilometro in più, fino a questo punto.» Fece una pausa teatrale. «E lì ti incaglierai!» L'effetto fu fulminante. «Incagliarmi, colonnello? Intenzionalmente?» Il comandante di un sommergibile non poteva trovare via più rapida per finire in un battaglione di punizione, pensò Helder. Poi gli venne in mente il compagno di corso Gushin, che aveva fatto la stessa cosa e ora si aggirava grasso e felice nella base di sommergibili di Malibu. «Poi», continuò Majorov «ecco che cosa dovrai fare.» Will fu svegliato da un colpo secco sul ponte della barca. Balzò dal divano e salì nel pozzetto. Majorov, l'uomo del KGB, lo aspettava sulla banchina. «Venga con me!» disse Majorov. Will scese e lo seguì, inquieto; poi notò che il soldato con il mitragliatore era scomparso. Majorov si allontanò dalla banchina ed entrò in un lungo capannone adiacente, dove quattro uomini davano la vernice antivegetativa allo scafo di una barca a vela piuttosto grande, tirata in secco, accanto alla quale giaceva un albero. «Secondo i miei calcoli questo albero è qualche palmo più corto del suo», disse Majorov, «ma non vedo perché, con manovre modificate, non potrebbe essere adattato alla sua barca.» «Certo, signor Kramer, ha ragione», annuì Will. «Però ho perso anche il boma e le vele.» «Le impresteremo anche il boma e le vele, che d'altronde sono tagliate per l'attrezzatura di questa barca», rispose Majorov. Poi abbaiò ordini in russo. Gli uomini che stavano verniciando la chiglia della barca lasciarono cadere i pennelli e cominciarono a correre in tutte le direzioni. «Quello lì capisce un po' d'inglese», disse Majorov, indicando uno degli uomini. «Porteremo la sua barca accanto al capannone, così potremo usare la nostra gru per sistemare l'albero nella scassa. Gli uomini taglieranno le sartie in modo che abbiano la lunghezza giusta; con qualche modifica all'attrezzatura del ponte, la barca sarà di nuovo in condizioni di navigare.» «Lei è davvero molto gentile, signor Kramer», disse Will sinceramente. «Non sa quanto le sia grato dell'aiuto che mi sta dando perché possa andarmene di qui. Vorrei rimborsarle il costo dell'attrezzatura.» Majorov sorrise. «La metta in conto alla distensione est-ovest», disse. «Ma deve andarsene il più in fretta possibile.» Diede un'occhiata all'orologio. «Penso che saremo in grado di farla salpare entro mezzanotte.»
«Non chiedo altro. Mi metto subito al lavoro.» Majorov strinse la mano di Will. «Addio, signor Lee. Non avremo più occasione di rivederci.» Will non ne fu affatto dispiaciuto. 39 Katharine attese fino all'ultimo prima di andare in ufficio, poi provò ancora una volta La Fonte. Aveva ricevuto la telefonata dalla segretaria di Appicella e ne era rimasta sconcertata. La donna le aveva detto che il suo principale non poteva mantenere l'appuntamento perché era stato trattenuto. Katharine ne aveva dedotto che Appicella non riusciva a combinare nulla oppure che aveva bisogno di altro tempo. Forse, pensò, aveva cambiato idea a proposito della sua 'missione' non appena era giunto sul luogo e si era trovato alla presenza senza dubbio intimidatoria di Majorov. Ciò nonostante, aveva controllato gli archivi di Appicella nel La Fonte due volte al giorno. Niente. Sedette in studio al suo piccolo computer Apple e si collegò con La Fonte, usando il numero di codice e la parola chiave di Appicella. BENVENUTO AL LA FONTE, disse lo schermo. Poi comparve il quadro delle possibili richieste e Katharine batté ARCHIVI. L'elenco scorse sullo schermo. Era lo stesso elenco che lei vedeva da giorni; poi il video si fermò. In fondo all'elenco c'era KATE. Ce l'aveva fatta! Rapidamente, lesse il messaggio. Era chiaro che Appicella aveva paura di essere intercettato; il testo sembrava una cartolina postale. Tuttavia non c'erano dubbi che l'italiano era con Majorov e che qualcosa stava capitando nel Baltico. Era anche evidente che Appicella non aveva il permesso di andarsene. Katharine stampò una copia del messaggio e chiuse il collegamento con La Fonte. Per tutto il tragitto fino a Langley, sorvegliò lo specchietto retrovisivo, ma non vide traccia del suo pedinatore. Lo aveva individuato un paio di volte negli ultimi giorni, ma a ore strane. Era sicura di essere seguita solo saltuariamente. Pioveva, quindi posteggiò nell'autorimessa sotterranea dell'Agenzia; spense il motore, ma prima che potesse uscire, la porta di destra si aprì e nella macchina si infilò Ed Rawls. «Ciao, piccola», disse. «Stavo entrando quando ti ho vista. Come va?» «È frustrante, Ed. I pezzi continuano a incastrarsi, ma non ne ho ancora
abbastanza da poter convincere qualcuno ad agire.» Gli raccontò dell'assegnazione di Majorov al comando delle SPETSNAZ e della concentrazione di truppe nel Baltico. «Hai ragione», commentò Ed. «Non basta per convincere nessuno. Dimmi, che tipo di azione suggeriresti?» «Be', prima volevo che la sezione Operazioni mandasse la sua gente sul posto in cerca di prove che corroborassero la mia ipotesi. Pensavo che forse gettare un po' di luce su quel che stanno facendo i sovietici sarebbe stato sufficiente a fermarli. Ora penso che sia troppo tardi per questa strategia. Penso che entreranno in azione molto presto. La cosa migliore, adesso, sarebbe avvertire il presidente chiedendogli di dare disposizioni al Dipartimento di Stato perché metta in allarme gli svedesi; oppure chiedendogli di telefonare lui stesso al primo ministro svedese per metterlo a conoscenza di quello che pensiamo stia succedendo.» «Vuoi dire quello che tu pensi stia succedendo.» «Bene, ti ringrazio Ed, una doccia fredda era giusto quello di cui avevo bisogno.» «Perché sei convinta che i sovietici stiano per entrare in azione? Hai qualche nuovo elemento?» Kate annuì. «Ho un uomo nel campo di Majorov.» Gli occhi di Rawls si sbarrarono per la sorpresa. «Hai che cosa?» Kate estrasse il messaggio di Appicella dalla sua valigetta, raccontò a Ed della visita dell'italiano a Majorov e gli spiegò come fosse giunto il messaggio. Rawls rise. «Accidenti, come girerebbero le scatole a Simon se sapesse che hai nientemeno che un agente in Russia!» Poi lesse il messaggio. «Sveglio, il ragazzo. Ha fegato, devo ammetterlo. Però questa sembra una lettera a casa dalla colonia estiva e non c'è verso di dimostrare come ti è arrivata. Qualsiasi persona, in possesso della parola chiave giusta, avrebbe potuto ficcare questo messaggio nel calcolatore; per quel che ne sai, Appicella potrebbe avertelo inviato da Portofino.» Lei annuì. «Lo so. Però credo che sia vero. Non penso che quell'uomo mi stia menando per il naso. Ascolta, Ed, sto pensando di andare al Post o al Times, o magari da entrambi, con questo messaggio.» Aspettò che Rawls si mettesse a strillare, ma non successe. «Ascolta, Kate», disse Ed. «Può darsi che sia la cosa giusta da fare, non so, ma devi anche pensare un momentino a quel che capiterebbe dopo. Se sei decisa a diventare l'Informatore Stampa degli anni Ottanta, devi mette-
re in conto che non ti scolleresti l'etichetta di dosso per il resto della tua vita. Sarà impossibile mantenere l'anonimato, perché l'Agenzia verrà subito a sapere chi è il responsabile e il tuo nome trapelerà. Se hai visto giusto su quanto sta succedendo, allora per un po' saresti un'eroina, ma che razza di vita condurresti? Avresti ragione, ma nessuna delle persone che conosci ti rivolgerebbe più la parola. Sosterrebbero che saresti dovuta riuscire a fare il tuo dovere attraverso i canali istituzionali. Passeresti il resto della tua vita rifiutando inviti a parlare a gruppi studenteschi di sinistra sugli abusi della CIA.» Rawls respirò a fondo. «Se invece hai torto (devi pure prendere in considerazione la possibilità che per quanto le prove ti paiano convincenti tu possa avere torto), allora apriti cielo. L'Agenzia e l'amministrazione ti crocifiggeranno, farai la figura della deficiente davanti a tutto il mondo, non escludo che potresti anche finire in prigione. Hai già lasciato il paese senza previa autorizzazione: è una cosa molto grave, non si fa. Messa alle strette, saresti in grado di dimostrare che non hai mandato informazioni a Majorov usando l'italiano come messaggero? Se divulgherai le tue conclusioni, dovrai cercare di dimostrarlo, credimi. La CIA farà in modo di spacciarti per una talpa dei sovietici. E non le riuscirà molto difficile rendere plausibile l'ipotesi. Anche se non riuscisse a farti condannare, passeresti il resto della tua vita cercando di dimostrare che non sei una spia comunista.» Katharine sentiva una morsa allo stomaco. «Non ho nulla da obiettare a quanto hai detto, Ed.» «Sia che tu abbia ragione, sia che tu abbia torto, la tua intera vita cambierà per sempre. Non ci sarà più nulla come prima. Non hai pensato alle conseguenze per il tuo amico che lavora nella Commissione Servizi Segreti del senato?» «Lui non ne sa niente... be', non molto, in ogni caso.» Katharine scosse il capo. «Dio mio, dovrei incontrarlo a Copenhagen dopodomani. Per questo viaggio l'autorizzazione l'ho chiesta.» «Posso darti un consiglio?» «Ne ho proprio bisogno, Ed.» «Va' dal tuo amico. Spassatela con lui a Copenhagen. Torna riposata. A dispetto di quanto pensi di avere scoperto, dubito che stia per succedere qualcosa subito. Anche se i sovietici stanno macchinando quel che temi, saremo ancora in tempo per fermarli.» Ed le mise una mano sulla spalla. «Senti, ho cominciato il nuovo lavoro. Sono in condizione di tenere gli occhi aperti al posto tuo. Potrò accedere a materiale che ti è proibito. Nella
mia posizione, se saltasse fuori qualcosa di nuovo, potrei intervenire. Lascia che ci pensi io e fila a Copenhagen a cuor leggero. Lasciami il programma del tuo viaggio; se dovesse succedere qualcosa di allarmante ti telefonerò. Se necessario installeremo una linea protetta da intercettazioni con l'ambasciata in Danimarca.» Katharine ci pensò un momento, poi fece spallucce. «Forse hai ragione, Ed. Dio solo sa quanto mi farebbe bene qualche giorno di vacanza; d'altronde Nixon e Simon mi hanno isolata al punto che probabilmente non scoprirei nulla di nuovo.» Scribacchiò su un taccuino. «Questo è il nome del nostro albergo. Se dovessimo cambiarlo ti lascerò un messaggio a questo indirizzo.» «Splendido. Sono contento che ti sia decisa.» Lei sorrise. «Mi sento già meglio, sapendo che in questa storia mi appoggi.» Non sapeva perché Ed lo facesse; non più di una settimana prima la teneva a distanza. Tuttavia era grata per quell'unico aiuto che le era stato offerto. «Sentimi bene», disse Rawls, sollevando un dito, «io non sono affatto convinto e puoi essere certa che non spingerò il direttore ad andare dal presidente. Ma se saltasse fuori qualcos'altro a sostegno della tua teoria, hai la mia promessa che andrò sino in fondo. È tutto quel che posso fare per te.» «Non ho bisogno di altro, Ed.» Uscirono dalla macchina, si diedero un rapido abbraccio, poi entrarono separatamente nell'edificio. Katharine passò il resto della giornata cercando di concentrarsi su lavori di ordinaria amministrazione. 40 Oskar Oskarsson socchiuse gli occhi nel sole nel tardo pomeriggio e parlò al nipote morto. «Laggiù, Ebbe!» esclamò, indicando con la mano, poi scosse il capo. «No, no, è solo un bastone, non un periscopio.» I due grossi motori fuoribordo del moderno cabinato di otto metri, di suo figlio, benché a metà gas, spingevano senza sforzo l'imbarcazione a venticinque nodi. Oskarsson sapeva che la barca, a tutto gas, avrebbe fatto quaranta nodi; l'aveva già provata. «Tutti cercano, Ebbe», disse il vecchio. «Ma saremo noi che lo troveremo. È là, tu e io lo troveremo.» Nelle due ultime settimane c'era stato un insolito traffico nelle acque da-
vanti alla casa di suo figlio, nell'Arcipelago di Stoccolma: prima le vedette della marina militare, che cercavano un sommergibile tascabile, poi, quando queste avevano rinunciato, le barche da diporto. La moda di avvistare periscopi scoppiava tutte le volte che si scopriva un sommergibile; e la mania era stata ancora più diffusa dopo l'ultimo allarme, quando la marina militare aveva giurato di averne preso uno in trappola. Ma, come le volte precedenti, non era saltato fuori niente. In un modo o nell'altro i russi erano di nuovo riusciti a sfuggire agli svedesi. Dopo l'incidente del Whishey incagliato nel 1981, nessun sommergibile era stato catturato o affondato o anche soltanto fotografato. Tutti però sapevano che quei periscopi erano russi. Né sulle barche da diporto, né nella marina militare, nessuno dava la caccia ai periscopi con maggiore accanimento di Oskarsson. Nessuno aveva ragioni migliori delle sue. I russi gli avevano tolto tutto ciò che amava; Oskarsson aveva intenzione di vendicarsi. Era piacevole essere di nuovo su una barca con Ebbe. Il figlio non si curava dei conti di carburante che il vecchio gli lasciava da pagare; incoraggiava addirittura la sua mania di cacciare sommergibili. Oskarsson li aveva sentiti parlare in cucina, una sera in cui i suoi familiari pensavano che fosse addormentato. «Non mi importa se costa caro», aveva detto suo figlio alla moglie. «È l'unica cosa che l'abbia strappato da quella sedia in camera sua dopo la morte di Ebbe, l'unica che gli importi, visto che posso pagare, non gliela toglierò di certo.» Oskarsson aveva sorriso dentro di sé e quella notte aveva dormito meglio. Poi, la volta successiva, quando era uscito con la barca (e usciva tutti i giorni in cui il tempo lo permetteva) Ebbe era venuto a fargli compagnia e il vecchio ne era stato felice. O meglio, sarebbe stato felice quando finalmente avessero trovato un sommergibile, come sicuramente sarebbe capitato. Gli piaceva. Con questa barca avrebbero trovato un sommergibile, e allora... be', non sapeva bene, ma la doppietta da caccia di suo figlio era posata sul sedile di fianco a lui. Alla fine, qualcosa avrebbe fatto. Diresse la barca sulla via del ritorno, su per il canale. Presto sarebbe stato a casa. Si era abituato a chiamare così la dimora di suo figlio. Vi avrebbe trovato cioccolata calda e brandy, e... domani, lui ed Ebbe avrebbero di nuovo dato la caccia ai sommergibili. 41
Dal ponte della barca Will Lee vide oscillare dalla gru che lo trasportava l'albero che avrebbe sostituito il suo. Insieme con Yuri, quello degli operai che sapeva un po' d'inglese, ne afferrò la base e la guidò attraverso l'apertura nel ponte dello Swan, poi scese e lo fece entrare nella scassa sopra la chiglia. Tutto si adattava abbastanza bene, anche se il nuovo albero, di dimensioni leggermente inferiori, non riempiva del tutto né l'apertura sul ponte né la scassa. Bisognava introdurre qualche cuneo in tutti e due i punti, poi sigillarli per impedire all'acqua di entrare. Il nuovo sartiame attaccato in testa d'albero dovette essere tagliato della lunghezza giusta e adattato alle attrezzature dello Swan, poi tirato. Quando tutti i lavori furono compiuti, era quasi mezzanotte. Yuri aiutò Lee a fissare le vele: erano soltanto due, una randa e un fiocco passabile. Con qualche modificazione alle manovre delle vele, non sarebbero andate tanto male. La barca poteva di nuovo navigare. Un sommozzatore aveva liberato l'elica, lo Swan era pronto. Lo riportarono al suo primo ormeggio in cima al molo, Yuri e gli altri riempirono fino all'orlo i serbatoi del carburante e dell'acqua. «Come lontana Copenhagen?» domandò Yuri, con l'aria di avere una gran voglia di partire con Will. «Se non mi fermerò, penso che ci vorranno due giorni e mezzo di navigazione, con un buon vento.» Yuri si guardò intorno con circospezione. «Ehm, Will... hai tu qualche rivista?» «Certo, Yuri. Vediamo un po' che cosa c'è qui.» Cercò per qualche momento e scovò un New Yorker e un Time. La delusione di Yuri fu evidente. «Ma, Will... non hai tu forse Playboy?» Will pensava di averlo. Andò a frugare nella cuccetta di Lars, il ragazzo finlandese. Vi trovò una logora copia di Playboy, un'ancora più consunta rivista svedese di donnine nude e, suscitando un entusiasmo ancora maggiore, una rivista inglese d'automobili. «Tanto tanto ti ringrazio, Will, è bene», disse Yuri, ficcandosi le riviste nella tuta. Will rovistò in tutta la barca in cerca di altre cose da dare agli operai, trovando un po' di gomma da masticare, qualche biro, una bottiglia di bourbon Jack Daniel. Ogni cosa fu ricevuta con gratitudine. «Tu e i tuoi compagni gradireste un po' di caffè, Yuri?» gli domandò Will.
«No, per piacere. Devi andare. Ho ordine di fare partire te quando barca pronta. Ma prima devi scrivere per albero.» «Scrivere?» Yuri abbozzò per aria uno scarabocchio. Voleva che Lee firmasse una ricevuta di quanto aveva preso. «Ma certo, Yuri. Dove scrivo?» «In ufficio.» Will e i quattro uomini lasciarono la barca e s'incamminarono verso il capannone. Entrarono in un piccolo ufficio che si trovava in fondo, dove Yuri scrisse in russo una bella lista di tutta l'attrezzatura che Will portava via. Will firmò il documento, poi diede a Yuri il suo biglietto con l'indirizzo dello studio. «Di' al tuo capo di mandarmi li il conto, capito?» Yuri fece un largo sorriso mettendo in mostra una fila di denti d'oro. «Bene», disse. «Adesso io prendo piccola barca, tu seguirmi.» Si avviò a lunghi passi verso il molo. Will ritornò alla sua barca e avviò il motore, mentre gli altri mollavano gli ormeggi. Allontanandosi dalla banchina, vide Majorov che arrivava con la sua macchinina e si fermava a guardarlo. Lo salutò sollevando le braccia e urlò i suoi ringraziamenti. Majorov rispose al saluto. Una bella fortuna, quella di potersene andare! Will se ne rendeva conto. Seguendo l'imbarcazione di Yuri, diresse lo Swan verso l'ingresso della baia; a questo punto Yuri alzò una mano in segno di saluto e tornò indietro. Will puntò a ovest in modo da attraversare il confine ed entrare in acque svedesi il più presto possibile. Quindi avrebbe seguito una nuova rotta, sudovest, verso la Danimarca. Rimase al timone finché fu lontano da terra. Quando le luci di Liepaja svanirono alle sue spalle nella semioscurità della notte nordica, mise in funzione il pilota automatico e scese sottocoperta per farsi il caffè. Nelle ultime ventiquattro ore aveva dormito molto poco, aveva bisogno di uno stimolante. L'ondata di sollievo che l'aveva invaso quando aveva lasciato la Lettonia agiva su di lui da sonnifero. Dovette lottare per rimanere sveglio mentre aspettava che l'acqua bollisse. Appena spento il bollitore, salì fino al boccaporto per dare una rapida occhiata all'orizzonte, poi si versò una tazza di caffè e sedette al tavolo da carteggio. Finito il caffè, sonnecchiò suo malgrado per un momento. Un rumorino insolito proveniente da prua gli fece aprire gli occhi un attimo. Li richiuse, rifletté, poi guardò a occhi spalancati di fronte a sé. All'altro capo del quadrato c'era un uomo che non aveva mai visto. Per un momento nessuno dei due parlò: uno era sconvolto, l'altro incer-
to. «Buonasera», disse lo sconosciuto in un inglese dall'accento straniero. «Sono Emilio Appicella.» Will non aprì bocca, era ancora troppo sconcertato. «È inglese?» gli chiese l'uomo. «Americano», riuscì finalmente a dire Will. «Bene, benissimo», rispose l'uomo. «Io sono italiano. Faccio la spia per il suo paese.» «Che cosa fa?» «Faccio la spia per i servizi segreti americani», ripeté l'uomo, con il tono con cui avrebbe parlato della sua professione a un ricevimento. «Devo andare alla più vicina ambasciata americana, la prego.» «Un momento», disse Will, riprendendosi. «Com'è arrivato sulla mia barca?» «Ho aspettato il momento buono tutto il giorno», spiegò Appicella. «Ho creduto che i russi non avrebbero mai smesso di sorvegliarla, ma finalmente, quando siete andati tutti insieme nel cantiere, sono riuscito a salire a bordo.» Indicò il gavone di prua. «Mi sono nascosto lì, sotto i sacchi delle vele.» «Ascolti, non posso portarla fuori di questo paese. Io... che cos'ha detto della CIA?» «Per qualche giorno ho fatto spionaggio per la sua CIA in questo posto. Dunque, lei è americano, deve aiutarmi ad andare in un'ambasciata americana.» «Senta, aspetti un attimo, ha idea di quel che 'sta gente ci farebbe se la scoprissero a bordo della mia barca?» «Sì, credo di sì», rispose l'uomo. «Conosco un'infinità di cose che quel Majorov, il padrone del posto, non vorrebbe che io sapessi. Penso sia meglio che non gliele racconti; ma, se ci raggiungessero, non crederebbero mai che io non gliele abbia dette. Finiremmo tutti e due ad ascoltare le urla l'uno dell'altro lungo i corridoi della Lubianka, immagino.» Will fissò esterrefatto l'italiano. «Accidenti», riuscì finalmente a dire. «E adesso che facciamo?» «Andiamo all'ambasciata americana, come le ho già detto», spiegò Appicella, con il tono di chi parla a un bambino. «Purtroppo non so dove ci troviamo esattamente. Lei lo sa?» Will gli fece segno di avvicinarsi al tavolo da carteggio. «Qui», disse. «Abbiamo appena lasciato Liepaja e da un'ora navighiamo verso ovest.» «Ehm», meditò Appicella. «Secondo me dobbiamo andare a Stoccolma.
Mi sembra più vicina di Copenhagen. Lei dove stava dirigendosi?» «Verso Copenhagen. E sto tuttora andandovi, però mi piacerebbe sbarazzarmi di lei appena possibile, credo. Lei vorrebbe andare a Stoccolma?» «Se non le rincresce», rispose Appicella, «potrei salire in coperta per un attimo?» Aveva l'aria di sentirsi male. «Si stava stretti, sotto le vele.» «Vada pure», assentì Lee molto serio, «e se deve vomitare, per amor del cielo lo faccia di là dalla battagliola sottovento, capito?» Appicella lo oltrepassò di corsa, si arrampicò fino al pozzetto, fece come gli era stato detto. «Adesso mi sento molto meglio», affermò tirando qualche profondo respiro. Will si guardò intorno in fretta. «Be', non può fermarsi qui molto», disse preoccupato. «Se un'altra imbarcazione ci avvistasse, bisognerà che io dia l'impressione di essere solo.» Appicella annuì. «Sì, penso che adesso starò bene sottocoperta. Posso avere un bicchiere di latte?» E ridiscese la scaletta. Will lo seguì. «Non mi è rimasto latte; che ne direbbe di un succo d'arancia?» Appicella accettò. «Se non ha altro.» «Senta, uhm... come ha detto di chiamarsi?» «Appicella, Emilio Appicella», rispose l'italiano, porgendogli la mano. «La prego, mi chiami Emilio.» «Io sono Will Lee, Emilio», disse Will, sentendosi assurdo. «Chiamami Will.» «Be', Will, non so come mai tu sia approdato a Malibu, ma sono ben contento che tu ci sia venuto.» «Sì, sarà certo così. Come hai chiamato quel posto?» «Malibu, come in California. I russi lo chiamano così.» «Siediti Emilio.» Si accomodarono entrambi intorno al tavolo del quadrato. «Quanto tempo sei rimasto lì?» «Soltanto qualche giorno. Sono andato a fare un lavoretto per quel Majorov, un lavoretto che i suoi non sapevano fare da soli. E quando ho finito, non mi hanno permesso di andarmene.» «Che cos'è questo posto? Un'università o qualcosa di simile?» «Forse, non sono informato su tutto quanto vi fanno. Penso sia meglio che tu non sappia quel che ne so io, dato che non posso essere sicuro che la CIA ti giudichi degno di fiducia.» Appicella allargò le braccia. «Perdonami, niente di personale, cerca di capirmi.» Will rise di cuore. «Ti perdono, Emilio. E hai ragione, non devo sapere
niente di tutto questo. Senti, vorrei portarti a Stoccolma, ma ho un appuntamento a Copenhagen, sono già in ritardo di un giorno. Dovrai rassegnarti alla mia compagnia per due giorni e mezzo, all'incirca.» «No, no, non è possibile», disse Appicella risoluto. «Hai una radio?» «Sì, ma l'antenna è andata perduta insieme con il primo albero. È inutilizzabile.» Appicella si alzò per avvicinarsi al tavolo da carteggio. Indicò un punto. «Quest'isola, Gotland, è svedese?» «Sì.» «Allora portami lì, per favore. Sono sicuro che di là riuscirò ad andare a Stoccolma. Devo recarmi subito all'ambasciata americana in Svezia. Fra due giorni, potrebbe essere troppo tardi.» Will consultò la carta nautica. C'erano solo settantacinque miglia, all'incirca, fino a Ostergam, sulla costa orientale di Gotland. Ci sarebbero potuti arrivare il giorno dopo per l'ora di pranzo. Doveva anche telefonare a Kate, che sarebbe arrivata per prima a Copenhagen e l'avrebbe aspettato con ansia. Avrebbe anche dovuto parlarle del suo incontro con Majorov. «Sì, benissimo. Ti sbarcherò a Ostergam; sembra piuttosto grande, avrà certamente un aeroporto. Hai il passaporto?» «Sì, certo. Ma non avrò il timbro d'ingresso in Svezia. Tu da dove arrivi?» «Dalla Finlandia.» «Bene, dirò semplicemente che i finlandesi non l'hanno timbrato.» «Sul tuo passaporto non c'è il timbro d'entrata in Russia?» «No, i russi non timbrano i passaporti. Ti danno invece un libriccino con il visto, che si riprendono quando lasci il paese.» «Bene, così non dovrò spiegare dove ti ho trovato.» Will rifletté un momento. «Forse Ostergam non è affatto una brutta idea. Devo ordinare una nuova attrezzatura per la barca. Dalla fabbrica potrebbero spedirmela a Copenhagen. Sei mai andato in barca a vela, Emilio?» «No, purtroppo, ma farò tutto quel che posso per aiutarti.» «Be', in questo momento puoi salire nel pozzetto e stare di guardia in caso ci fossero altre imbarcazioni. Non è il caso di andare a cozzare contro qualcosa.» Appicella andò nel pozzetto e Will studiò la rotta per Ostergam, poi salito in coperta, la impostò sul pilota automatico e mise a segno la velatura. Procedevano bene, spinti da un fresco venticello. «Ecco, tutto è in perfetto ordine. Andrò a dormire, ne ho un gran biso-
gno. Tu stai di guardia, fa' molta attenzione e chiamami se vedi un'altra imbarcazione, intesi?» «Certo», rispose Appicella. «Farò esattamente quel che mi hai detto. E senti, Will...» Will, che era già sulla scaletta, si fermò. «Sì?» «Hai probabilmente salvato la mia vita e, forse, quella di molte altre persone. Ti ringrazio di cuore.» «Non parlarne neppure», rispose Will. «Non faccio che caricare clandestini e portarli fuori della Russia. In tutti i casi, non siamo ancora in Svezia.» «Sono sicuro che ce la faremo», disse Appicella. «Spero che tu abbia ragione», rispose Will, prima di dirigersi verso una cuccetta. E cadde in un sonno profondo. 42 Katharine si svegliò alle quattro del mattino e non riuscì a riaddormentarsi. Aveva provato un senso di sollievo quando Ed Rawls le aveva promesso tutto il suo appoggio durante la sua assenza per il viaggio a Copenhagen, ma adesso si sentiva di nuovo turbata e, peggio ancora, in colpa. Tutto quel che sapeva, ogni suo istinto, le dicevano che i sovietici avrebbero invaso prestissimo la Svezia. E ciò, per quanto sembrasse strampalato, persino nella sua mente, era sempre più importante che correre a Copenhagen. Alla fin fine, era più importante della sua carriera e della sua vita privata, concluse alle sei del mattino. Aveva un amico che conosceva Ben Bradley, del Washington Post. Prese il telefono e fece il numero dell'amico. Poi, prima che questi rispondesse, riattaccò. C'era probabilmente una strada migliore. Katharine scese dal letto, rovistò nella borsetta in cerca del suo taccuino. Trovò il numero scarabocchiato su una pagina in mezzo a un mucchio di appunti banali. Aveva letto che quel personaggio era mattiniero; si augurò che così fosse. Fece il numero. «Pronto.» La voce non le sembrò affatto addormentata. «Il senatore Carr?» «Sì.» «Mi chiamo Katharine Rule, sono a capo del settore sovietico nella direzione informazioni della CIA.» «Sì, mi pare che pochi giorni fa lei fosse presente a un'audizione con il
signor Nixon.» «Sì, senatore, ero io. Will Lee mi ha dato il suo numero privato e mi ha consigliato di telefonarle se le circostanze l'avessero richiesto.» «Ha incontrato anche Will all'audizione?» «Be', no, senatore... Will e io... abbiamo un rapporto privato che non ha nulla a che fare con il nostro lavoro.» «Capisco. In che cosa posso esserle utile, signorina Rule... mi scusi, devo dire signora Rule, vero?» Katharine immaginò quali pensieri rimuginasse il senatore. «Sì, senatore, sono la moglie divorziata di Simon Rule, che è vicedirettore del settore Operazioni.» «Ah, sì, divorziata. Dunque, che cosa posso fare per lei, signora Rule?» «Senatore, vorrei discutere con lei il più presto possibile una questione che secondo me è della massima importanza. Posso venire a casa sua questa mattina, prima che lei vada in ufficio?» «Alle nove ho un appuntamento con il presidente, signora Rule, ma se potesse essere qui, diciamo, alle sette, la riceverò.» «Grazie, senatore, sarò da lei a quell'ora.» Katharine si annotò l'indirizzo. «E, senatore, spero che non ne parlerà a nessuno, almeno finché non avrà ascoltato quel che devo dirle.» «Naturalmente. Ci vedremo alle sette.» Katharine fece la doccia e si vestì provando eccitamento misto a disagio. Poteva darsi che, prima della fine della giornata, fosse senza posto o, peggio, in arresto. Prima di uscire di casa andò nel suo studio, accese la copiatrice e fece due copie di tutto quanto aveva raccolto nel suo schedario. Fu contenta di vedere che le foto del satellite venivano fuori molto bene. Percorse veloce le strade di una Washington ancora vuota, rendendosi conto di essere sul punto di compiere un passo irrevocabile. La casa di Carr era su Capitol Hill e faceva parte di una fila di abitazioni vittoriane nobilitate negli ultimi anni. Carr viveva già lì molto tempo prima che diventassero di moda. Il senatore aprì di persona la porta; aveva già la cravatta, ma indossava una vestaglia di seta sulla camicia. «Venga nel mio studio», disse precedendola in una stanza assolata nel retro della casa. Sedettero l'uno accanto all'altra su un divano Chesterfield di cuoio, mentre Carr le versava una tazza di caffè. Poi entrò subito in argomento. «Dunque», disse, «di che si tratta?» Katharine posò la tazzina e distolse l'attenzione dalla stanza rivestita di legno, con scaffali di libri dal pavimento al soffitto e fotografie del senato-
re con una mezza dozzina di presidenti. Aprì la cartella. «È difficile sapere esattamente da che parte cominciare, senatore; posso iniziare con questi documenti, come da qualsiasi altro punto.» Gli porse un fascio di fogli. «Questa è una copia del documento della CIA che descrive un'operazione di divulgazione di notizie false, chiamata Fiordineve, in corso dal principio dell'estate 1983, o almeno allora iniziata. Come può vedere dal sommario, consiste nel convincere i russi che la Svezia sta preparandosi segretamente a entrare nella NATO, nella speranza di spaventarli e di costringerli a spostare parte delle loro forze armate nel Baltico, dove in realtà non sono minacciati. La CIA sperava che alcuni di questi reggimenti fossero distolti dalla Germania Orientale, dove, come lei sa, c'è grande concentrazione di forze terrestri sovietiche.» Mentre leggeva, il senatore aggrottò la fronte. «Come lei sa, l'Agenzia ha l'obbligo di chiedere l'approvazione della commissione per questi interventi segreti, ma non si è mai rivolta a noi a proposito di questo. Penso sosterrebbero che, non essendovi coinvolte forze militari, non conta come tale; ma non sarei d'accordo. Questa mossa potrebbe avere conseguenze d'ogni genere.» «Secondo me ne ha già. Sono convinta che questa operazione abbia avuto come risultato una serie di eventi del tutto imprevisti.» Katharine gli spiegò con cura tutti i fatti da lei raccolti: l'incagliamento di un sottomarino sovietico della classe Whiskey nei pressi di una base navale svedese nell'ottobre 1981, il successivo, enorme aumento di avvistamenti di sommergibili nell'arcipelago svedese; la scoperta del personaggio Firsov/Majorov, i suoi precedenti e quello strano spostamento da un importante posto nel KGB al comando delle unità SPETSNAZ; molti indizi da cui risultava che quanto sembrava un centro sportivo poteva essere in realtà una base di sommergibili e delle SPETSNAZ; il notevole incremento dello studio della lingua svedese nelle università sovietiche; il buon esito degli studi segreti sovietici sull'aereo trasporto truppe WIG, che un tempo si credeva irrealizzabile; l'ammassarsi di truppe sovietiche in Polonia, Lituania, Lettonia ed Estonia, con il pretesto di manovre da lungo tempo prestabilite; il reclutamento di Emilio Appicella da parte sua e il messaggio da questi speditole tramite computer. Il senatore ascoltò attentamente la sua esposizione, facendole di quando in quando una domanda. «Ne deduco», disse quando Katharine si interruppe per sorseggiare il caffè, «che secondo lei l'Unione Sovietica sta preparando una specie di avventura militare in Svezia, vero?»
«Senatore, sono convinta che l'hanno studiata a lungo e che ormai sia imminente una loro invasione in forze.» Il senatore Carr rimase a bocca aperta. «È un'affermazione molto allarmante, signora Rule, venendo da una nella sua posizione.» «Lo so, senatore, spero mi crederà se le dico che non sono arrivata a queste conclusioni avventatamente.» «Non mi sembra una persona avventata, signora Rule, sebbene nella sua agenzia, secondo me, ci sia gente che certamente reputerebbe avventata questa valutazione, perché fatta da una donna.» «Purtroppo questo è verissimo, senatore.» «Mi pare di capire che lei ha già presentato questi fatti e queste ipotesi ai suoi superiori, i quali non hanno reagito come, secondo lei, avrebbero dovuto.» «Proprio così.» «Hanno fatto qualcosa?» «Per quanto ne so io, niente. Eppure le mie fonti sono buone.» «E perché non l'anno fatto? Be', lasciamo perdere i loro motivi per non agire. Perché secondo lei non hanno agito?» «Prima di tutto a causa di Fiordineve. Era un'operazione segretissima, tanto che non dovrei neppure esserne a conoscenza. Ammettere che i sovietici stanno per agire corrisponderebbe ad ammettere che l'Agenzia potrebbe avere provocato il loro intervento.» Il senatore annuì con il capo. «Sì, capisco che potrebbe risultare alquanto imbarazzante, se si venisse a sapere.» «A parte questo, senatore, non so davvero perché i miei superiori abbiano reagito in questo modo, se si esclude il fatto che il mio ex marito, a quanto pare, giudica imbarazzante la mia presenza nella CIA e può avere avuto tendenza a mettere in ridicolo la teoria, perché viene da me. So che il direttore della CIA ha visto gran parte di questi documenti, o ne ha sentito parlare, ma che ha avuto una reazione di stizza. Il mio immediato superiore mi ha fatto presente che, se continuerò a occuparmi di questa faccenda, anche fuori delle ore d'ufficio, potrò essere allontanata dal mio lavoro. Il mio ex marito mi ha consigliato di dare le dimissioni e mi ha fatto capire che, se non le darò, potrei anche essere licenziata.» «Signora Rule, mi perdoni la domanda, ma devo porgliela e devo pregarla di essere assolutamente sincera con me.» «Dica.» «Signora Rule, un'indagine approfondita del suo lavoro alla CIA potreb-
be rivelare, al di là di questa faccenda della Svezia, che lei, per chi sa quali motivi, si trova nei guai con l'Agenzia e sarebbe forse, in ogni caso, candidata al licenziamento?» Katharine si raddrizzò sulla sedia e sentì il rossore salirle in viso. «Senatore, ho trentacinque anni e dirigo il settore sovietico del dipartimento informazioni. Nessuno giovane come me ha mai occupato questo posto, eppure sono una donna. È una valida risposta alla sua domanda?» Il senatore scoppiò in una risata. «Sì, credo di sì. Ne sono davvero molto spiacente, ma deve capire la necessità di chiederglielo.» «Sì, penso di capirlo», rispose lei, alquanto raddolcita. Il senatore consultò l'orologio. «Mi piacerebbe farle moltissime altre domande, signora Rule, ma ho appuntamento con il presidente fra meno di mezz'ora. Non ci vuole molto a capire che i sovietici trarrebbero numerosi vantaggi dall'occupazione della Svezia, ma, lasci che glielo chieda, perché, con tutto quanto dovrebbero subire dal resto del mondo (sanzioni militari, economiche, diplomatiche), perché, tenendo conto di tutto questo, lo farebbero, secondo lei?» «Si lasci rispondere con un'altra domanda, senatore: lei crede che gli Stati Uniti userebbero armi atomiche per difendere la Svezia da un'invasione sovietica?» Il senatore abbassò gli occhi sul tappeto. «No», finì con l'ammettere. «Non credo.» «Be', senatore, non ci sono altri modi d'impedirglielo.» «E gli svedesi? Hanno un sistema difensivo da tutti elogiato: un'ottima aviazione, una marina militare, centinaia di postazioni d'artiglieria lungo l'arcipelago, un esercito di riserva molto numeroso e ben addestrato. Non le pare improbabile che non si difendano?» «Senatore, gli svedesi sono prontissimi a respingere un'invasione da est del tipo D-Day. Sostengono di poter mobilitare un esercito di ottocentomila uomini (che è il dieci per cento della loro popolazione) in trentasei ore. Ma non ci sarà un'invasione del tipo D-Day e non disporranno di trentasei ore. Gli uomini della SPETSNAZ renderanno inservibili, nei primissimi stadi, le loro postazioni d'artiglieria e le loro basi missilistiche, poi i sovietici entreranno prontamente attraverso varchi relativamente stretti del sistema difensivo costiero. E, da quanto sappiamo circa le loro tecniche operative, le SPETSNAZ avranno già in territorio svedese forze considerevoli, pronte a distruggere le vie di comunicazione e a rendere inservibili i mezzi dell'aeronautica nei campi d'aviazione. Non sono un'esperta militare, ma
sono convinta che tutto finirebbe molto in fretta, se i sovietici avranno l'elemento sorpresa in loro favore.» «Benissimo, mi ha detto come agirebbero, secondo lei, adesso mi dica perché.» «Perché sono sempre stati paranoici e pensano di essere minacciati dalla NATO nel Baltico; perché non entreremmo in guerra per fermarli e non lo farebbe nessun altro paese; perché economicamente sono nei guai fino al collo e potrebbero sfruttare l'economia svedese ottenendone considerevoli vantaggi; perché i sovietici non hanno mai sacrificato un uomo o un metro quadrato di terra all'opinione pubblica; perché avrebbero moltissimo da guadagnare e non molto da perdere; perché possono farla franca.» Il senatore la fissò per un momento, poi si alzò e andò alla scrivania. «Signora Rule, che cosa dovrei fare a suo parere? Probabilmente ho molto meno libertà d'azione di quanto lei creda.» «Porti una copia di questi documenti al presidente. Gli chieda di avvertire gli svedesi, di telefonare di persona al primo ministro, se possibile. Non credo che l'invasione avrebbe buon esito se i sovietici non godessero del vantaggio della sorpresa più completa. Se gli svedesi mobiliteranno, i sovietici dovranno rinunciare. Sarebbe una mossa troppo costosa e sanguinosa, se gli svedesi saranno preavvertiti. Lo dica agli svedesi. Chiedo solo questo.» «Solo? Chiede che un intero paese si metta sul piede di guerra a causa di quel che c'è sui suoi documenti?» «La decisione non spetta a me, senatore, non spetta neppure al presidente. Non possiamo fare altro che dirlo agli svedesi: poi toccherà a loro decidere. Ma può immaginare che cosa succederà se sopprimeremo queste notizie e se i sovietici invaderanno la Svezia? Non pensiamo alla storia, ma a che cosa capiterebbe a questo paese, senza parlare dell'equilibrio politico nell'Europa occidentale. Dovremmo spedire uomini in Norvegia, in Danimarca, in Germania; dovremmo installare tutta una nuova serie di missili Cruise, con tutte le conseguenze politiche annesse; ci costerebbe miliardi di dollari. E non solo: le nostre forze armate sarebbero in allarme per mesi, così pure le forze sovietiche. Le probabilità di un incidente nucleare aumenterebbero in modo esponenziale. E devo parlare dell'opinione pubblica mondiale? Così come stanno le cose, abbiamo già momenti duri. Dobbiamo dirlo agli svedesi, senatore.» «Non vuole che questo, dunque? Che qualcuno lo dica agli svedesi?» «Tutto qui.»
«Ecco, non posso andare dal presidente portandogli soltanto quel che lei ha in mano. Prima di tutto, si insospettirebbe, perché viene da me, che appartengo all'opposizione. In secondo luogo, anche se lo convincessi che merita indagare, vorrebbe consultare tutti quelli che lo circondano, specialmente il Pentagono e, non ultima, la sua stessa Agenzia. Questo richiederebbe tempo. E se l'invasione è imminente come lei pensa, allora...» Katharine si alzò. «La ringrazio d'avermi concesso il suo tempo, senatore, non la disturberò più.» «No, aspetti, aspetti», disse Carr, prendendola per il braccio e guidandola verso una sedia. «Non ho detto che non l'avrei aiutata, soltanto che non posso rivolgermi al presidente. Forse c'è una via migliore.» «Quale sarebbe?» «Forse potremmo fare in modo che lo dica lei stessa agli svedesi.» «In che modo?» «È lei la giovane donna che Will incontrerà domani a Copenhagen?» «Sì.» Il senatore fece il giro della scrivania e prese il telefono. Cercò un numero in un'agendina, consultò l'orologio, fece un numero lunghissimo... «Vada invece a Stoccolma», disse. «Pronto? Pronto? È l'ufficio del signor Carlsson? Qui parla il senatore degli Stati Uniti Benjamin Carr. Posso parlare con il signor Carlsson, per favore?» Il senatore coprì con una mano il microfono e si rivolse a Katharine. «Questo Carlsson è il capo della cancelleria del ministero svedese della difesa... Pronto, Sven? Sono Ben Carr, da Washington, come stai? Sono contento, sì, sto bene. Ascolta, ti chiamo circa una faccenda piuttosto importante. Una mia amica sarà a Stoccolma...», diede un'occhiata a Kate, «domani?» Katharine fece sì con il capo. «... domani. Ti sarei immensamente grato se trovassi il tempo di vederla e parlarle; si chiama...» Lei gli stava facendo cenni frenetici. «No, non dica il mio nome al telefono!» «... aspetta un attimo.» Mise di nuovo la mano sul microfono. «Che nome dovrei dargli?» «Brooke Kirkland.» «Sven, si chiama Brooke Kirkland. Hai capito bene? Ottimo. Adesso ascoltami, Sven, desidero tu sappia che questa signora è una persona della massima serietà. Spero che presterai attenzione a quanto ti dirà. Ti do la mia parola che è chi afferma di essere. La cosa è molto importante, le sue
informazioni potrebbero risultare preziose ai tuoi. Secondo me, forse, sentirai il bisogno di farla parlare con il tuo ministro. Mi spiace di non potere essere più chiaro, ma tu mi capirai. Sì, spero di rivederti presto a Washington. Grazie, Sven, addio.» Riagganciò e si girò verso di lei. «Sven Carlsson, come ho già detto, è a capo della cancelleria, è il funzionario più importante nel ministero svedese della difesa. Il suo ufficio è direttamente di fronte a quello del ministro. Ci siamo incontrati diverse volte, è stato ospite in casa mia. Ha sentito quel che gli ho detto. Quando lo vedrà, gli spieghi che non è un incontro ufficiale, che non si tratta di una comunicazione del nostro governo. Ma forse, quando avrà visto quel che lei mi ha mostrato, sarà abbastanza interessato da presentarla al ministro; e forse il ministro, a sua volta, si rivolgerà al primo ministro. Mi spiace non poter fare di più, ma almeno, in questo modo, riceveranno le informazioni domani e non la settimana prossima.» Katharine si alzò e raccolse i suoi documenti. Porse al senatore una grande busta marrone. «Questa è una copia di tutto quanto le ho mostrato. Ne faccia l'uso che vuole.» Carr accettò la busta. «Grazie. Se mi capiterà l'occasione buona... e cercherò di non fare il suo nome.» «La ringrazio, senatore, ma capisco che potrebbe non essere possibile. Faccia ciò che deve, E grazie di cuore per avermi ascoltata e per il suo aiuto.» «Mi chiami quando avrà parlato a Carlsson. Le farò sapere che cosa sta succedendo qui.» Katharine uscì dalla casa di Carr e andò a una cabina telefonica per prenotare un volo notturno della SAS per Stoccolma e per disdire quello per Copenhagen. Telefonò al Grand Hotel di Stoccolma, l'unico albergo che avesse sentito nominare in quella città, per fissare una camera. Poi chiamò l'albergo di Copenhagen e diede il numero di Stoccolma per Will. Ritornò alla macchina e si avviò verso Langley. Doveva fare in modo di lavorare come se fosse stata una giornata normale. Poi sarebbe stata libera, libera di cercar di fermare l'invasione. 43 Helder, seduto in prima fila nella sala, ascoltò Majorov che forniva al suo pubblico una versione abbreviata della proiezione di diapositive tenuta qualche giorno prima davanti al Politburo. Era una presentazione ardita,
bisognava riconoscerlo, addirittura brillante. Il paese si sarebbe piegato prima ancora che il popolo si accorgesse di quanto era successo; il primo ministro, oppure una persona che gli assomigliava e parlava come lui, sarebbe apparso alla televisione e alla radio, chiedendo agli svedesi di mantenere la calma e di non opporre resistenza. Ci sarebbe stato qualche focolaio di combattimenti, ammise Majorov, ma si sarebbe trattato di sacche isolate, di soldati territoriali con niente più che armi leggere e speranze presto distrutte. I grandi centri abitati, Stoccolma, Gothenberd, più qualche città minore, sarebbero anzi caduti molto in fretta; lo stesso valeva per le importanti basi militari, per esempio il quartier generale del distretto di Stoccolma, con sede a Strangnas. Le forze armate svedesi avrebbero perso i contatti con i loro comandi fin dalle prime ore dell'invasione, a opera di unità speciali già sul posto. Tutto ciò sarebbe accaduto se il paese poteva essere colto di sorpresa. Majorov non disse di avere l'ordine di rinunciare immediatamente all'invasione se gli svedesi ne avessero avuto il minimo sentore, facendo passare i movimenti delle truppe per esercitazioni. «E ora», stava dicendo Majorov ai suoi ascoltatori, visibilmente eccitati, «vi presenterete a rapporto ai vostri comandanti di divisione e di reggimento, per le ultime istruzioni. Ricordate che, se voi e i vostri uomini combatterete, come siete stati addestrati a fare, scriverete una pagina di storia militare sovietica che sarà letta e riletta in futuro, per secoli e secoli. E il popolo sovietico vi ricoprirà di onori e di privilegi quali ora non potete nemmeno immaginarvi.» Gli ascoltatori balzarono in piedi ad applaudire, poi cantarono l'inno delle SPETSNAZ con voce gagliarda. Majorov rivolse loro un sorriso raggiante, poi, incontrato lo sguardo di Helder, gli fece segno di avvicinarsi a una porticina laterale. «Vieni», gli disse, «ti accompagno alla base dei sommergibili.» I due uomini scesero insieme il pendio con passo svelto, dirigendosi verso i cancelli sorvegliati dalle sentinelle. Helder si sentiva stordito, aveva il fiato corto. La notte prima aveva detto addio a Trina Ragulin, che si era ripresa tanto da poter fare all'amore con lui ripetute volte. Helder le aveva promesso che sarebbe tornato, ma non c'era modo di sapere se era vero. Andava a combattere e non si sentiva invulnerabile. Nella prima missione la morte l'aveva sfiorato troppo da vicino. Suo malgrado non provava più la stessa rabbia contro Majorov, trascinato com'era dall'eccitazione provocata da quell'eccezionale esercitazione militare. Adesso era convinto che, se ne fosse uscito vivo, avrebbe trascorso il resto della sua carriera in una
posizione che non si era mai sognato di conseguire. «Helder», gli disse Majorov, «questa giornata sarà tua più che di chiunque altro vi partecipi. Ma, perché te ne possa rendere conto, devi sapere qualcosa di più di quanto ti è stato detto finora. Tutto questo trae origine da un colossale errore della CIA americana, un errore così stupido che in un primo momento fu difficile prestarvi fede. La CIA si sforzò di convincerci che la Svezia stava per diventare nostra nemica entrando nella NATO; quando scoprimmo che era una menzogna (una scoperta che dobbiamo a qualcuno tra le loro file, sono fiero di annunciarti), avevo già presentato un piano al Politburo, di cui era allora presidente Andropov, ricevendo il comando delle SPETSNAZ come mezzo per attuarlo. Sin dai tempi della Grande Guerra Patriottica mandiamo sommergibili in perlustrazione nelle acque territoriali svedesi; da quando abbiamo cominciato a costruire sommergibili tascabili, mandiamo anche uomini delle SPETSNAZ per addestramento.» Majorov diede un calcio a una pietra sul sentiero e la fece rotolare giù per il prato. «Dato che gli svedesi non avevano esperienza e mezzi per la caccia ai sommergibili, non incontrammo molte difficoltà nell'entrare nelle loro acque. Sotto questo aspetto le loro capacità erano così limitate che, a mio parere, anche un miglioramento delle loro tecniche non ci avrebbe danneggiati. E avevo ragione. Il mio piano è cominciato e terminerà con una provocazione. Nell'autunno del millenovecentottantuno ordinai a un sommergibile della classe Whiskey d'incagliarsi vicino alla base di Karlskrona. Ne risultarono chiassose proteste, come meglio non avrei potuto desiderare. L'opinione pubblica svedese si mise contro l'Unione Sovietica, il parlamento indisse un'indagine sull'accaduto, il loro primo ministro, che era stato assai conciliante nei nostri riguardi, si trovò in serio imbarazzo. Fu meraviglioso.» «Non capisco, colonnello», disse Helder perplesso. «La provocazione era necessaria per creare un'atmosfera d'antagonismo tra i due paesi», spiegò Majorov. «Nel frattempo ho continuato ad aggiungere motivi di tensione. In questo modo avremo una giustificazione logica per difenderci da loro.» Majorov fece una risatina fra sé e sé. «Ma sto anticipando gli eventi. Dopo l'incidente del Whiskey incagliato, aumentammo i nostri andirivieni nelle loro acque; mandammo gruppi di sommergibili tascabili oltre la linea di confine; sbarcammo in Svezia unità SPETSNAZ, che vissero lì per settimane di seguito, stabilendo basi e case segrete e ritornando con informazioni sempre più precise; muniti di piani particola-
reggiati delle difese svedesi, forniti da Foca, la nostra talpa nel loro governo, minammo postazioni costiere d'artiglieria e porti militari. E, siccome le nostre mine sono fabbricate con materiali nuovi difficilissimi da scoprire, non sono mai state trovate. Proprio come non è stata scoperta la boa che hai lasciata vicino a Stoccolma.» Arrivarono ai cancelli, li oltrepassarono e si avviarono verso la base dei sommergibili. Majorov si fermò dov'era attraccato un sommergibile della classe Whiskey, con equipaggio e ufficiali schierati sul ponte. «Dal giorno della tua missione gli svedesi hanno tenuto un atteggiamento che sfiora l'isterismo; ora, grazie soprattutto a te e a Sokolov, sono maturi per un'ultima, intollerabile provocazione.» Helder spalancò gli occhi. «Proprio così, Helder», sorrise Majorov.» Questa è la tua missione. Quando manderai a incagliarsi nell'Arcipelago di Stoccolma questo sommergibile, susciterai una frenetica attività della marina militare in quella zona, attirerai l'attenzione di tutta la Svezia su un'isoletta posta in uno dei passaggi verso Stoccolma», Majorov tacque un attimo, per fare più impressione. «E poi», disse, «manderemo una spedizione di soccorso che non dimenticheranno mai più.» Majorov salì a bordo, senza degnare d'uno sguardo l'equipaggio, si arrampicò sulla torretta infilandosi nel portello principale; Helder lo seguì dappresso. Andarono al tavolo da carteggio, al posto dell'ufficiale di rotta. «Ecco», disse Majorov indicando una minuscola isoletta, Höggarn, che Helder aveva oltrepassata durante la sua prima missione, «questo è il punto in cui ti incaglierai, come ti ho detto prima. La costa sudoccidentale dell'isola è sabbiosa, potrai addentrarti un bel po'. Non vogliamo che più tardi il sommergibile si disincagli. A tempo debito sarai scoperto. L'ultima volta fu necessario aspettare che un pescatore del luogo telefonasse alla polizia. Da quel momento sarai prontamente accerchiato da tutti i mezzi navali che riusciranno a raccogliere in quella zona.» Majorov si voltò a guardare Helder in faccia. «E ora ascoltami bene. Non devi lasciare che gli svedesi salgano a bordo del sommergibile, per nessun motivo; quando ti metterai in comunicazione con loro, lo dichiarerai con molta fermezza. Dal momento in cui arriveranno le prime forze navali svedesi, dovrai tenere in continuazione uomini al cannone di coperta e alle mitragliatrici della torretta. Se ci saranno tentativi di salire a bordo, dovrai sparare sugli assalitori, intesi?» «Signorsì, inteso», rispose Helder. «Ma lei si renderà conto che non è
possibile difendere a lungo dagli attaccanti un sommergibile incagliato.» «Me ne rendo conto benissimo, ma pretendo che tu ingaggi combattimenti per un po' di tempo, in ogni caso, fino al momento della resa.» «La resa?» Helder s'indignò. «Hai appena detto che non si può difendere a lungo il sommergibile. Non voglio che moriate tutti nel tentativo. Non tormentarti, non starai per molto tempo in mani svedesi: quando riceveremo la notizia che hanno sparato sul tuo sommergibile, ci muoveremo con gran fretta, puoi esserne certo.» «Capisco, colonnello.» «Bene.» Majorov prese da un taschino interno una busta e l'aprì. «Qui stanno scritte tre parole in codice», disse sollevando un foglietto. «BALENA: da inviare appena sarai riuscito a incagliarti; VOLPE, da inviare quando le forze armate svedesi arriveranno sul posto; ORSO: da inviare quando ti avranno sparato addosso. Sono scritte in quest'ordine.» «Ho capito, colonnello.» «Ci sono altri tre ordini in codice, che puoi ricevere o non ricevere, ma che non dovrai inviare.» Majorov tirò fuori dalla tasca un cartonino su cui erano scritti tre numeri di cinque cifre.«Guarda qui», disse Majorov dirigendosi verso la sala telecomunicazioni. «Abbiamo adattato al sommergibile questa speciale attrezzatura. Il suo unico scopo è di far apparire cinque cifre nello schermo. Se riceverai questo gruppo di cinque cifre», indicò uno dei numeri sul cartoncino, 10101, «dovrai sparare immediatamente sugli svedesi con il cannone di coperta, scegliendo di tua iniziativa un bersaglio importante. Mi hai capito?» «Signorsì.» «E se riceverai questo gruppo», disse indicando il cartoncino e il numero 10201, «dovrai consegnare subito il tuo sommergibile agli svedesi. Se invece, riceverai quest'altro, il 10301, dovrai dare ordine di trasmettere con il sonar un segnale continuo su questa frequenza.» Tirò fuori un altro cartoncino. «Mi segui?» «Non del tutto, colonnello. A che cosa dovrebbe servire questo segnale con il sonar?» Majorov lo ricondusse alla tavola di carteggio e puntò un dito. «Questo è il punto in cui hai deposto la boa nella tua prima missione.» «Sì, colonnello, il punto è quello.» Helder seguì con gli occhi il dito di Majorov che percorreva una linea retta fino all'isolotto dove si sarebbe dovuto incagliare.
«Ecco, quando fra te e la boa trasmittente non ci saranno più ostacoli, potrai inviarle un segnale con il sonar. Nella posizione in cui ora si trova, sprofondata nel canale, non si può raggiungerla via radio, ma soltanto mediante il sonar e unicamente su una determinata frequenza. Quando riceverà il segnale del sonar, la parte superiore si staccherà e salirà in superficie, rimanendo attaccata alla base mediante un cavo. La punta galleggiante della boa serve da antenna, che può ricevere trasmissioni via satellite.» «Ricevere trasmissioni, colonnello?» A Helder era stato detto che la boa avrebbe trasmesso, non ricevuto. Majorov sembrò per un attimo turbato. «Scusami, volevo dire inviare, non ricevere. Trasmetterà al nostro satellite, che invierà i dati necessari alle truppe d'invasione. Vieni di nuovo con me, Helder.» Majorov salì sulla torretta e fece scattare i ganci di una cassetta a tenuta d'acqua imbullonata alla paratia d'acciaio. Dentro c'era uno strumento identico a quello che Helder aveva visto nel reparto telecomunicazioni. «Come vedi, qui c'è un altro ricevitore dei gruppi di cinque cifre, perché, appena questi segnali ti saranno inviati, tu possa essere informato, sia sottocoperta, sia in torretta.» Majorov rimise a posto il coperchio e lo richiuse con i ganci. «Adesso desidero che tu mi ripeta tutte le istruzioni che ti ho appena date.» Helder ripeté parola per parola gli ordini. BALENA, incagliato; VOLPE, preso contatto con le forze svedesi; ORSO, bersagliato dalle artiglierie. Il segnale 10101 sul ricevitore speciale, ordine di sparare sulle forze svedesi; il segnale 10201, ordine di consegnare il sommergibile agli svedesi; il segnale 10301, ordine di trasmettere con il sonar il segnale per attivare la boa trasmittente. «Ottimamente», disse Majorov, battendogli una mano sulla spalla. «E ora ti presenterò all'equipaggio.» Cominciò a scendere dalla torretta, ma fu fermato da Jones che stava salendo. «Colonnello», disse ansimando l'uomo «mi spiace interrompere le sue istruzioni, ma Appicella è sparito.» Majorov aggrottò la fronte. «Sparito? Che cosa vuoi dire?» «Voglio dire, colonnello, che è scomparso dalla base.» «È impossibile.» Il tono di Majorov era risoluto. «Nessuno può andarsene di qui.» «Mi auguro che sia vero, colonnello, ma, ciò nonostante, non riusciamo a trovarlo. La ragazza, Olga, ne ha denunciato questa mattina la scomparsa. Ho immediatamente fatto setacciare la base.»
«Aspettiamo, vedrai che ricomparirà da qualche parte», disse Majorov. Jones aveva l'aria turbata. «Colonnello, la ragazza dice che ieri pomeriggio è rimasto seduto sulla terrazza del villino degli ospiti, osservando i lavori per riparare l'imbarcazione dell'americano. Si è addirittura portato la cena sulla terrazza. Olga è andata a letto senza di lui verso le undici; quando si è svegliata, Appicella non c'era più.» Majorov ne fu stravolto. Guardò l'orologio. «La barca è in navigazione da mezzanotte. Ormai è in acque svedesi, forse addirittura in Svezia. A quest'ora potrebbero essere a Gotland.» «Sì, colonnello», ammise Jones. «A ogni modo, però, Appicella non sa nulla. Come potrebbe essersi accorto di qualcosa? Lo abbiamo tenuto lontano dalle zone segrete.» Majorov barcollò. «Non lo abbiamo tenuto lontano dalla zona più delicata di tutte», disse. «Si è avvicinato al computer.» Meditò un momento. «Se Appicella ha scoperto la nostra operazione, lui e l'americano non andranno in Danimarca, che è troppo lontana. Andranno in Svezia, a Stoccolma, per mettersi in contatto con il governo svedese o con l'ambasciata americana.» «Devo avviare ricerche in mare per trovarli?» Majorov si mordicchiò le nocche per un momento. «No, siamo troppo vicini all'inizio dell'operazione, non possiamo mandare navi ed elicotteri in acque svedesi. In ogni caso, ci sono molte probabilità che non sappiano niente. Appicella si è forse innervosito per il fatto che lo tenevamo qui e ha deciso di darsi alla fuga.» «Ci sono altre notizie», continuò Jones. «Abbiamo ricevuto una comunicazione di Foca da Stoccolma. Un senatore americano, Carr, manda in quella città una donna, una certa Brooke Kirkland, che ha appuntamento domani al ministero. Secondo Foca poteva trattarsi di un nome falso, quindi ho chiesto a Furetto, il quale mi ha confermato che questa Kirkland è la nostra donna, Rule. Afferma inoltre che Appicella è un uomo di Rule.» «Questa potrebbe essere una bella disdetta», disse il colonnello. «Foca ha qualche motivo di pensare che Rule intenda incontrare Appicella a Stoccolma?» «No, non mi sembra possibile. La fuga di Appicella è avvenuta per puro caso, è stata aiutata dalla presenza imprevista dell'imbarcazione americana. Rule non può assolutamente sapere che Appicella è diretto là. Chi l'ha spinta a questo viaggio è il senatore. La donna ha evidentemente intenzione di avvertire il ministero.»
«Appicella può avere o non avere le informazioni che confermerebbero le supposizioni di Rule, ma non possiamo correre rischi. Anche senza conferme, Rule potrebbe riuscire a convincere qualcuno al ministero. Abbiamo un'unità in Stoccolma centro, vero?» «Sì, colonnello, il Gruppo Uno, che è incaricato del parlamento e del palazzo reale. Le altre due unità di Stoccolma, il Gruppo Due e il Gruppo Tre, devono occuparsi del quartier generale del distretto militare di Stoccolma, a Strangnas, a nord della capitale.» Majorov annuì. «Comunica al Gruppo Uno di mandare un uomo all'aeroporto di Stoccolma, un altro al ministero della difesa, un terzo all'ambasciata americana. Se da un volo qualsiasi in arrivo dagli Stati Uniti scenderà una donna chiamata Rule o Kirkland, la uccidano alla prima opportunità. Chiunque, corrispondente alla descrizione di Appicella, si presenti all'aeroporto o all'ambasciata o al ministero, sia immediatamente ucciso. Lo stesso vale per l'americano, Lee. Dobbiamo presupporre che Appicella sappia e che abbia parlato con Lee. Di' loro di farlo il più silenziosamente possibile, ma devono farlo, a qualsiasi costo.» «Signorsì.» Majorov si rivolse a Helder. «Mi rincresce, ma devo andarmene subito. Questo è il tuo equipaggio», fece un gesto in direzione degli uomini schierati sul ponte. «Sono stati tutti scelti uno per uno, sono tuoi.» Gli porse la mano. «Buona fortuna, Helder. Ci rivedremo in Svezia.» «Grazie colonnello», disse Helder, stringendogliela. Quando Majorov e Jones se ne furono andati, Helder abbassò gli occhi sull'equipaggio sotto di lui. «Vi prego di ascoltarmi», disse. Tutti si girarono a guardarlo. «Mi chiamo Helder. Prima d'ora non abbiamo navigato insieme, ma siamo tutti bene addestrati. Comanderò questa missione secondo le regole. Ai vostri posti e pronti a muovere.» Gli uomini sparirono attraverso i portelli, sul ponte rimasero solo i marinai necessari a mollare gli ormeggi. Helder cominciò a urlare ordini, secondo le regole. Ma era turbato: questo viaggio era tutt'altro che secondo le regole. C'era qualcosa che non capiva, qualcosa che gli rodeva dentro, ma non aveva tempo di risolvere il problema. L'avrebbe fatto quando fossero stati in navigazione. Era qualcosa che riguardava l'ultima missione ma che non riusciva a ricordare. Avrebbe però avuto tempo di pensarvi. Gli sarebbe venuto in mente. E gli venne in mente un'altra cosa. Lui stesso era presente quando il segretario generale del partito comunista aveva ordinato a Majorov di rinunciare all'invasione se in qualsiasi modo l'elemento sorpresa fosse venuto a
mancare. Eppure, fra tutte le istruzioni che Majorov gli aveva appena date, non c'era nessuna parole in codice per l'ordine di fermare l'operazione. 44 Katharine dedicò gran parte della giornata a organizzare l'ufficio affari sovietici in modo che tutto vi andasse liscio durante la sua assenza. Alle quattro convocò i dipendenti che occupavano posti chiave, per assegnare loro incarichi specifici. Subito dopo le cinque, mentre la riunione si scioglieva, la segretaria di Nixon comparve nel vano della porta. «Signora Rule, il signor Nixon la desidera nel suo ufficio», disse. A Katharine parve strano che la donna fosse venuta a cercarla, invece di telefonarle. «Ci sarò fra due minuti», rispose. «Devo prima chiudere a chiave qualche documento.» «La prego, si sbrighi», la sollecitò la segretaria andandosene. Katharine riordinò le cartelline della sua scrivania nello schedario con chiusura a combinazione, poi si avviò verso lo studio di Nixon. «Entri direttamente», le disse la segretaria. Alan Nixon era seduto alla sua scrivania. Un uomo che Katharine non conosceva si era portato una poltroncina vicino a Nixon. «Entra, ti prego, Katharine», disse Nixon, «e chiudi la porta.» Lei la chiuse e prese posto nell'unica sedia di fronte ai due uomini. «Questo è Charles Mortimer delle Indagini Interne», disse Nixon. «Ha qualche domanda da porti. Sei disposta a rispondergli?» Con calma, Katharine fissò per un momento Charles Mortimer. La sezione Indagini Interne svolge nella CIA più o meno la stessa funzione delle unità affari interni nei dipartimenti di polizia delle grandi città. Mortimer non aveva ancora aperto bocca, ma lei lo odiava già. Tutti odiavano la sezione Indagini Interne. «Mi leggi prima i miei diritti, Alan?» domandò Katharine. Nixon arrossì. Mortimer si mise a parlare in fretta. «Insomma, signora Rule, non credo sia necessario al punto in cui siamo. Qui, possiamo parlarci senza formalità.» «Senza formalità?» domandò lei. «Mi dica, signor Mortimer, questa conversazione è registrata?» Nixon divenne ancora più rosso; le rispose Mortimer. «Signora Rule, le rincrescerebbe se lo fosse?» Katharine sapeva che l'argomento era scabroso. Gli impiegati della CIA
hanno gli stessi diritti degli altri cittadini, ma farli valere è a volte una bruttissima idea. Poteva andare a finire che la sospendessero dal lavoro per settimane o mesi, mentre i funzionari delle Indagini Interne si sarebbero concentrati su di lei. Non ne aveva bisogno, proprio in quel momento. Abbozzò un lieve sorriso. «Se fossi invitata dal mio immediato superiore a una conversazione non ufficiale, mi spiacerebbe venire poi a sapere che tale conversazione è stata registrata», disse sforzandosi di non alzare la voce. «Anche lei, nelle stesse circostanze, non lo giudicherebbe spiacevole, signor Mortimer?» Questa volta toccò a Mortimer arrossire. Non parlò per un momento, poi allungò un braccio, aprì un cassetto della scrivania di Nixon e premette un tasto, producendo un debole scatto. «Questa conversazione non è registrata», disse. «Ora vorrei porle qualche domanda, naturalmente senza formalità.» «Naturalmente», annuì Katharine. «Che cosa vorrebbe sapere?» Mortimer si chinò verso di lei. «Signora Rule, da quando è alle dipendenze della CIA, ha mai compiuto azioni che violassero i termini del suo contratto di lavoro?» Una domanda astuta, pensò lei. Se avesse risposto sì, sarebbe stata immediatamente sospesa dal suo incarico; se avesse risposto no, si sarebbe esposta all'accusa di dichiarazione falsa, anche se non era sotto giuramento. Chi mai non si era portato a casa un incartamento per lavorarvi su, chi non si era lasciato sfuggire, a tavola o a letto, qualche piccolo segreto? Tutti facevano cose del genere. «Questa è una domanda troppo poco specifica, signor Mortimer», ribatté per prender tempo. «Perché non vuole essere più preciso?» Alan Nixon non riuscì più a trattenersi. «Non ci faciliti il compito, Katharine», si lasciò sfuggire. «Quale compito pretendi che vi faciliti, Alan?» gli domandò lei. Mortimer alzò una mano. «Benissimo, saremo specifici. Ha mai portato fuori della sede della CIA, senza autorizzazione, qualche documento riservato?» Perché queste lievi punzecchiature, quando sapevano che aveva lasciato il paese senza chiedere il permesso? O, per lo meno, Simon aveva detto che lo sapevano. Suo marito aveva sparato alla cieca? In quel momento non poteva lasciarsi fermare da nessuna accusa: la sera stessa sarebbe dovuta partire per Stoccolma. «Signor Mortimer», disse, lasciando volontariamente trapelare una certa esasperazione, «sono una leale cittadina degli
Stati Uniti e una leale impiegata dell'Agenzia. Se deve incolparmi, lo faccia e io le risponderò in modo adeguato.» Prova le accuse o taci. Se Mortimer l'avesse accusata, Kathanne sarebbe stata sospesa dal lavoro e nei guai. «Come dicevo, signora Rule, questa è soltanto una chiacchierata non ufficiale. Me la lasci mettere in questo modo: se la accusassi di avere portato via documenti riservati dalla sede della CIA, lo negherebbe?» «È una domanda teorica?» domandò Katharine. «Certo», le rispose Mortimer sorridendo. «Allora, in teoria», ribatté Kate, «se lei mi accusasse di avere portato via documenti riservati, o di qualsiasi altra scorrettezza, esigerei immediatamente un interrogatorio ufficiale in presenza del mio avvocato.» Il sorriso di Mortimer scomparve. «Capisco», disse. Katharine si rivolse a Nixon. «Alan, domani mattina parto per una vacanza, è un viaggio che avevi approvato tempo fa, perciò ho un sacco di cose da fare. Se questo intrigante pensa che io sia una talpa sovietica, digli di arrestarmi adesso. In caso contrario me ne vado a casa a fare le valigie.» E si alzò. Mortimer si chinò verso Nixon e gli bisbigliò qualche parola all'orecchio. «È tutto, Katharine», le disse Nixon, «per il momento. Buone vacanze. Ci rivedremo al tuo ritorno.» Katharine si voltò e si avviò alla porta, respirando a stento. «Ne sarò felice», disse senza girare la testa. Aprì la porta e la richiuse alle proprie spalle, quasi sbattendola. Il cuore le martellava con violenza. Giunta al suo ufficio afferrò la cartella e uscì dall'edificio. Aveva corso un bel pericolo, pensò, mentre si dirigeva verso casa nel traffico dell'ora di punta. Quei tali non erano ancora sicuri di sé, ma erano ostinati. Al suo ritorno probabilmente avrebbero avuto in mano qualcosa di cui accusarla. Si sarebbe potuta difendere soltanto se avesse avuto ragione. Rise fra sé, di un riso nervoso. L'unica cosa che poteva salvare la sua carriera era l'invasione sovietica della Svezia! 45 Helder si allontanò da Liepaja con il Whiskey in immersione e stabilì una rotta nord per intercettare il traghetto Helsinki-Stoccolma. Conosceva alcuni membri dell'equipaggio perché erano sul sommergibile d'appoggio Juliet nella prima missione, mentre gli altri e uno degli ufficiali gli erano
sconosciuti. «Mi chiamo Kolchak», si presentò quest'ultimo, senza porgergli la mano. «Sono qui come commissario politico.» Era più alto di Helder, magro, con uno di quei visi insipidi e grigi che non rivelano nulla. «Kolchak», disse Helder, con un cenno del capo. Lo stupiva trovare a bordo quell'uomo. Una delle caratteristiche di Malibu era stata appunto la completa e sbalorditiva assenza di commissari politici. Ogni unità militare sovietica ne ha uno, che dipende dai suoi superiori di partito e non dal comandante dell'unità. I commissari politici sono un'infernale scocciatura e sono disprezzati da ogni comandante militare. Helder non faceva eccezione. Perché, dopo tutto questo tempo, Majorov gli aveva rifilato un seccatore del partito? «Ho ordine di rimanere al tuo fianco per tutta la durata dell'operazione», disse ancora Kolchak. «Capisco», disse Helder. «Perché sei armato a bordo del mio sommergibile?» gli domandò, accennando con il capo alla pistola nella fondina ad armacollo, che sbucava dalla giubba di Kolchak. «Ho l'ordine di essere armato», rispose Kolchak. Majorov aveva evidentemente intenzione di fare in modo che Helder portasse a termine la sua missione. Non c'erano dubbi che, se non avesse eseguito pedestremente le istruzioni di Majorov, Kolchak aveva l'incarico di ucciderlo e di continuare senza di lui. Helder non era dell'umore di sopportare un commissario politico. Se avesse compiuto il suo dovere, si sarebbe messo ben oltre la portata di gente di quella risma; se la missione fosse fallita, sarebbe morto. «Bene», commentò. «Attieniti alle tue istruzioni, ma non starmi tra i piedi. Fa' in moda che non debba sbattere contro di te, mentre vado da una parte all'altra del mio sommergibile.» Kolchak trasalì. Era evidente che non era abituato a un simile trattamento da parte dei comandanti militari. «Qual è la tua rotta?» gli domandò. «Tu occupati della dottrina del partito», ringhiò Helder. «Io mi occuperò della rotta.» Spinse da parte Kolchak e andò nel reparto telecomunicazioni. Il radiotelegrafista, stretto nel suo buco, non si prese la briga di alzarsi in piedi, dato che era impossibile. «Senti, marconista», gli disse Helder. «Può darsi che, in determinate circostanze, ti sia ordinato di trasmettere un segnale sonar su questa frequenza.» E gli porse il cartoncino datogli da Majorov. «Signorsì», rispose l'uomo dopo uno sguardo al biglietto. «Mi hanno
parlato di questo e del ricevitore speciale, ma non mi sono stati consegnati i codici.» «I codici li ho io», spiegò Helder. «Dovrai trasmettere solamente su mio ordine, finché sarò vivo. Hai capito bene?» Il radiotelegrafista lanciò un'occhiata a Kolchak e sorrise. Poi, facendo un cenno di assenso, rispose: «Sì, capitano, ho capito. Solamente su suo ordine.» Helder gli batté una mano sulla spalla. «Bravo.» Si diresse a prua, dove due giovani, il timoniere e il navigatore, sedevano davanti a due grandi ruote, sorvegliando le lancette di fronte a sé. «Timoniere, ti è stato detto che seguiremo la rotta del traghetto Helsinki-Stoccolma fin dentro l'arcipelago?» «Signorsì. Ero al timone durante la sua ultima missione, capitano. Conosco le istruzioni. Anche il navigatore è informato.» «Bene.» Helder fece segno agli ufficiali di mettersi intorno al tavolo da carteggio, poi spiegò loro la missione in ogni particolare. «Avete qualche domanda?» chiese loro. Nessuno parlò. Kolchak stava per dire qualcosa, ma si fermò. «Bene, allora ognuno faccia del suo meglio per il successo della missione.» Per l'intero pomeriggio il sommergibile navigò verso nord tenendosi nelle acque territoriali sovietiche finché sorpassò l'isola estone di Hiiumaa, quasi nel golfo di Finlandia. Arrivato al punto in cui doveva incontrare il traghetto, Helder rallentò l'andatura e fece un ripetuto uso del periscopio, fino a quando avvistò la grossa nave. Dando ordini con calma, a voce bassa, portò il sommergibile nella sua scia, poi lentamente si avvicinò sinché il rumore del Whiskey non fu più distinguibile da quello del traghetto. «Numero uno», ordinò al comandante in seconda, «rimani in torretta, mentre vado un momento nella mia cabina. Il traghetto diminuirà la sua velocità a sei nodi entrando nell'arcipelago. Fa' in modo di non andargli nel sedere col sommergibile. Chiamami se succede qualcosa di anche vagamente insolito.» «Signorsì», disse il comandante in seconda. Helder si fermò un attimo a studiare di nuovo la carta nautica, fissandosi nella memoria ogni minimo tratto. Tracciò con l'indice la linea retta che andava dal punto dove avrebbe arenato il sommergibile al punto dove la boa ricevente giaceva sul fondo marino. Esaminò la zona intorno alla boa: era circondata dalle basse isole dell'arcipelago, e distava soltanto cinque
chilometri da Stoccolma, che era a est. Era chiusa tutt'intorno da terre, eccettuato il braccio di mare relativamente stretto attraverso il quale era passato il sommergibile tascabile. Helder si recò nella cabina del comandante, tirò la tenda e si sdraiò sulla cuccetta. Tutto era in perfetto ordine, pensò, eccetto una specie di paura indistinta, che ancora lo rodeva e che non aveva alcun rapporto con quell'ansia che è normale prima di una missione. A Helder la sensazione non piaceva, quindi cercò di risalire alle sue origini nel labirinto della propria mente. Il pensiero della boa lo tormentava. L'aveva posata lui in quel punto, a costo di gravi rischi. E di solito, dopo avere portato a termine con successo un incarico, ripensarvi gli dava grande soddisfazione. Questa volta, invece, non provava compiacimento, ma ansietà. Perché? Che cosa tentava di dirgli l'inconscio? Helder di quando in quando si appisolava e, nel frattempo, giocherellava con il pensiero della boa, lasciando che trovasse la propria strada nel labirinto. Tre dubbi lo avevano tormentato a proposito della boa; ed ecco che, insieme, formavano un'unica risposta. Helder volle scacciare l'idea, considerandola una pazzia; ma, quando rifece il ragionamento, fu ricondotto al medesimo punto. Durante tutti questi avvenimenti, aveva osservato e ammirato la determinazione di Majorov, ma ora si convinse di avere sottovalutato tale determinazione. Di colpo si persuase di una cosa. Majorov non aveva mai avuto la benché minima intenzione di rinunciare all'impresa, che la Svezia fosse o non fosse colta di sorpresa. Se gli svedesi se ne fossero accorti troppo presto e il Cremlino avesse cercato di fare marcia indietro, Majorov aveva pronto il modo per coinvolgere irrevocabilmente l'Unione Sovietica nell'invasione: e proprio lui, Helder, era lo strumento di Majorov. Helder si ricordò dei distintivi gialli, segnalatori di radioattività, portati dagli uomini che avevano caricato la boa a Malibu. E ora gli tornò in mente di avere trovato uno di quei distintivi nella camera di lancio del sommergibile Juliet: ed era diventato blu. Majorov gli aveva detto che la boa era zavorrata con uranio 235 inattivo. Ma, se era davvero inattivo, non avrebbe emanato radiazioni sufficienti a cambiare il colore del distintivo. Helder aveva navigato sui sommergibili nucleari e conosceva la quantità di radiazioni necessaria a trasformare un distintivo da giallo in azzurro. Ricordò il lapsus di Majorov, quando gli aveva detto che l'antenna della boa avrebbe captato trasmissioni via satellite. Il colonnello si era subito corretto e aveva di nuovo dichiarato che la boa era una boa trasmittente:
però questi congegni non trasmettono a un satellite, ma a navi che si trovano in zona e che sono attrezzate per ricevere. Helder ricordava le antenne paraboliche sul tetto del quartier generale a Malibu. Quelle, sì, potevano trasmettere a un satellite segnali, che poi sarebbero stati ricevuti dalla boa. Ma solamente dopo che Helder avesse fatto trasmettere con il sonar il segnale che avrebbero sganciato l'antenna della boa, mandandola in superficie. Helder ricordò l'irremovibile determinazione di Majorov; ricordò che nessuna delle parole in codice che gli aveva date corrispondeva all'ordine di rinunciare all'invasione. Erano in silenzio radio, eccettuata la trasmissione fulminea delle parole in codice BALENA, VOLPE e ORSO; il sommergibile poteva captare soltanto i tre numeri di cinque cifre. Non era in nessun modo possibile far rientrare alla base il sommergibile Whiskey. La conclusione di Helder fu alla fine inevitabile: la 'boa trasmittente' era un congegno nucleare. Helder scese dalla cuccetta e ritornò al posto del navigatore. Fece segno all'ufficiale di lasciargli il posto, si sedette e guardò di nuovo il punto in cui giaceva la boa. Il congegno si trovava circa al centro di un bacino. Il bacino aveva uno sbocco a est, attraverso il quale Helder aveva pilotato il sommergibile tascabile; a nord e a sud c'erano delle isole, a ovest sorgeva la città di Stoccolma, solcata per tutta la sua estensione da canali navigabili. La bomba non era grossa, non occorreva che lo fosse. Un mezzo chilotone, al massimo un chilotone. Nel momento in cui Majorov l'avrebbe fatto scoppiare premendo un pulsante a Malibu, dopo avere ricevuto da Helder la comunicazione che l'antenna era affiorata, la bomba avrebbe scaricato un'immensa energia in ogni direzione. Ma, dato che l'acqua tutt'intorno avrebbe opposto meno resistenza della roccia del fondo marino su cui riposava, quasi tutta la potenza della bomba si sarebbe scatenata verso l'esterno e verso l'alto. Il mare a est di Stoccolma si sarebbe sollevato, la forza d'urto avrebbe scagliato in ogni direzione un'enorme parete d'acqua. Le basse isole che si trovavano a nord e a sud avrebbero ricevuto il primo impatto dell'ondata, che però, senza dubbio, le avrebbe scavalcate portando la distruzione ad altre isole dietro a queste. A ovest, Stoccolma sarebbe stata colpita da un'ondata di maremoto che avrebbe spazzato le sue strade trascinando con sé gente, veicoli ed edifici, e che poi, ritirandosi, avrebbe lasciato solo lo scheletro fradicio di una bellissima città. No, la bomba non doveva essere molto grossa. Majorov ne aveva certamente calcolato la potenza, in
modo che l'essenziale della città rimanesse in piedi per gli invasori; pochissimi dei suoi abitanti sarebbero sopravvissuti, ma il colonnello avrebbe rimesso in sesto la capitale in un tempo molto breve. Infine c'era la zona a est della bomba, il braccio di mare lungo il quale avrebbe viaggiato il segnale del sonar. Un'immensa massa d'acqua si sarebbe scagliata per tutta la lunghezza del canale, come un proiettile di cannone, trascinando con sé tutto quanto incontrava. Il sommergibile di Helder si sarebbe trovato direttamente sul suo passaggio. Sarebbe stato sollevato dal fondo sabbioso su cui era incagliato e scaraventato all'inferno. Helder appoggiò la fronte a una mano e cercò di riflettere. Poteva darsi che l'invasione procedesse senza intralci, secondo i piani; poteva darsi che il gruppo delle cifre 10301 non gli arrivasse mai. Poteva darsi. Ma, se gli fosse arrivato? Che cosa avrebbe fatto? Se non avesse spedito il segnale con il sonar, l'avrebbe fatto Kolchak, il commissario politico, dopo averlo ucciso. Helder tentò a lungo di trovare una soluzione, ma non vi riuscì. Era istupidito dalla paura. 46 Katharine gettò la valigia nel bagagliaio della macchina e ritornò d'un balzo in casa per prendere un ombrello pieghevole, perché cominciava a piovere. Chissà che tempo avrebbe fatto a Stoccolma. Percorse i due brevi isolati fino all'appartamentino di Ed Rawls, lasciò la macchina dall'altra parte della strada e prese in fretta dalla cartella una grossa busta. Quando lui le aprì la porta, gliela mise in mano dicendogli: «Ecco una copia di tutto quanto ho raggranellato, se si presentasse l'occasione.» «Allora stai partendo per Copenhagen? Sono contento», le rispose Ed sorridendo. «No, Ed, vado a Stoccolma. Ho trovato il modo per avvicinare di persona un tale che si chiama Carlsson, che è a capo della cancelleria del ministero svedese della difesa. Lo incontrerò domani, e spero di poter fare quanto mi sono proposta senza sollevare un putiferio.» Rawls prese un'aria dubbiosa. «È un bel rischio, Katie. Ti metti in contatto diretto con un governo straniero: è impossibile fare qualcosa che mandi più in bestia l'Agenzia, se non passare ai russi.» «Sì, c'è un'altra cosa: andare al Washington Post, che sarebbe la seconda
soluzione possibile. Non ho voglia di farlo, quindi accetto questo rischio.» «E va bene, bimba, ma laggiù dovrai contare unicamente sulle tue forze, come ben sai. Sarà meglio che tu non vada vicino alla stazione di Stoccolma.» «Non crucciarti, non ho nessuna intenzione di coinvolgerli. Dopo questo colloquio a Stoccolma, andrò a incontrare Will Lee a Copenhagen. Ritornerò dalla mia vacanza la settimana prossima, come se nulla fosse successo. Non vedo che cosa potrei fare di più.» Rawls annuì. «Forse hai ragione. In tutti i casi, starò all'erta per te. Telefonami e fammi sapere come te la cavi a Stoccolma. Se mi chiami in ufficio, di' che sei mia sorella Trudy.» «Va bene. Scusa se scappo, ma devo prendere l'aereo. Arrivederci.» Katharine baciò Ed su una guancia e corse alla macchina. Fece manovra, rientrò nella carreggiata e si avviò all'aeroporto. Pioveva a dirotto, si era fatto buio. Accese i fari. Era ferma a un semaforo quando lo vide. Era nella seconda macchina della fila dietro di lei, ma non completamente nascosto; stava allungando il collo per assicurarsi di non averla persa. Maledizione, che brutto momento aveva scelto il suo pedinatore per ricomparire! Katharine guardò l'orologio: mancava meno di un'ora alla partenza dell'aereo per New York in coincidenza con il suo volo SAS per Stoccolma. Non aveva tempo di seminarlo senza fargli capire che si era accorta di essere seguita. Attraversò il Potomac e infilò la strada dell'aeroporto nazionale, mentre chi la seguiva si teneva alla distanza di un'automobile o due. Lei cominciò a infuriarsi. All'aeroporto entrò a tutta velocità nel piano inferiore del posteggio, aspettò un momento, lasciò che l'individuo la oltrepassasse per fermare la macchina poco più lontano, poi scese prendendo con sé l'ombrello e s'incamminò svelta verso l'uscita. Lo sentì affrettarsi per non perderla di vista. L'autorimessa era deserta, cosa che favoriva il suo piano; Katharine continuava a guardarsi intorno in cerca del posto giusto. Finalmente lo trovò. Oltrepassò i gabinetti e sparì dietro un angolo, in attesa. L'uomo era a pochi secondi da lei. Katharine soppesò l'ombrello che aveva in mano. Piegato, era una specie di mazza di circa mezzo chilo, fatta di tessuto strettamente avvolto intorno a un'asta d'acciaio: morbido all'esterno, solido all'interno. L'uomo passò davanti al punto dove Katharine aspettava e, bontà sua, si fermò. Katharine uscì dal suo nascondiglio con il braccio che teneva l'ombrello già sollevato all'indietro e lo colpì forte alla base del cranio, proprio come
le avevano insegnato a Quantico, quando la CIA l'addestrava al servizio attivo. Lo sconosciuto emise un leggero lamento, si afflosciò e stramazzò ai suoi piedi. Dopo aver dato un rapido sguardo intorno a sé, Katharine lo afferrò per il colletto dell'impermeabile e si mise a trascinarlo. Nei gabinetti degli uomini o in quelli delle donne? Delle donne, decise, pregando che non ci fosse nessuno. Aprì la porta con una spallata e si guardò in giro. Nessuno. Lo tirò per tutta l'anticamera, fino a uno dei cubicoli. Chiamando a raccolta tutte le sue forze, lo sollevò fino a una delle tazze e lo appoggiò alla parete. Frugò in fretta e furia nelle sue tasche. Trovò per prima cosa una rivoltella. E non una rivoltella come tutte le altre. Questa era una Hechler e Koch, automatica, calibro 9, fatta d'acciaio e di leghe, e non di materiale ferroso, ideata per passare attraverso i sistemi di sicurezza degli aeroporti senza far suonare l'allarme. Katharine la infilò nella cintola della gonna. Passandogli una mano dietro in cerca del portafoglio, trovò un paio di manette infilate in cintola. Oddio, non aveva per caso manganellato un poliziotto? Aprì le manette, gli mise le mani dietro la schiena e lo ammanettò a un tubo. Finalmente trovò il portafoglio. Gerald Marvin Bonner, diceva la patente rilasciata dallo stato della Virginia. Viveva ad Alessandria. Poi un biglietto da visita, su cui era scritto: «Ufficio Federale Investigativo, G.M. Bonner, agente speciale». Oh, merda, merda, merda! Poi Kate trovò un altro biglietto: «Gerald M. Bonner, investigatore privato, ex FBI». Tirò un sospiro di sollievo. Ma perché mai un investigatore privato? Gli diede uno scossone. «Su Gerald, svegliati, dobbiamo parlarci», disse. Bonner sbavò da un angolo della bocca. Katharine gli pizzicò le guance. «Sveglia, Gerry, sveglia. Parlami!» Bonner emise una specie di lieve miagolio. Lei fece un passo indietro e gli diede uno schiaffone in faccia. «Svegliati, testa di rapa!» gli gridò. «Sei nei gabinetti delle donne!» «Che cosa?» disse Bonner all'improvviso. Aprì gli occhi e cercò di metterli a fuoco. Katharine gli mollò un'altra sberla. Adesso Bonner riuscì a mettere a fuoco la faccia di Katharine. «Che diavolo...?» Cominciò a dire. «Guardami, Bonner», disse lei. «Sai chi sono?» L'uomo cercò di muoversi e scoprì d'essere ammanettato. «Di cosa si tratta, signora bella? Che cosa sta facendo? Non l'ho mai vista prima d'ora in vita mia.» «Sto perdendo la pazienza, ecco che cosa faccio. E voglio risposte.» «Va' al diavolo, non ho niente da dirti. Ti metterò gli sbirri alle calcagna!»
Katharine tirò fuori della cintola la rivoltella, ne tolse la sicura, gli puntò la canna in una narice e gli spinse indietro la testa finché urtò la parete piastrellata. «Sai chi sono e sai dove lavoro, non è vero? Sai che ti posso sparare addosso in questo preciso momento e far arrivare in meno d'un quarto d'ora una squadra dell'Agenzia, a raccogliere i tuoi pezzettini. Spariresti nel nulla.» Era una bugia, ma probabilmente Bonner non lo sapeva. «D'accordo, d'accordo», disse con una strana voce, a causa dal naso tappato dall'arma. «Che cosa vuole?» «Voglio sapere chi ti ha pagato perché mi seguissi nelle ultime settimane», disse lei aumentando la pressione della rivoltella. «Ahi!» urlò Bonner. «Non faccia così! Mi ha assunto Rule. Il suo ex marito.» «Cosa?» urlò Katharine. «Devi inventartene una migliore, miserabile furfante!» E spinse la rivoltella un po' più su nella narice dell'uomo. L'uomo urlò di nuovo. «No, giuro che è stato lui, è stato Rule, voleva delle prove contro di lei. Vuole vostro figlio!» Katharine smise di spingere l'arma. Quindi era Simon. Ma non voleva Peter, voleva solo un po' di sudiciume. Voleva costringerla a lasciare la CIA. «Che cosa gli hai detto, finora?» domandò a Bonner. «Non molto. Non c'è molto da dire. Sa del suo amico.» «Hai messo tu le microspie al mio telefono?» «Sì. E anche al suo. Ma non ho intercettato niente. Le microspie non hanno funzionato.» «Bene, dunque sai del mio amico. Che cos'altro vai cercando? Perché stai ancora pedinandomi?» «Suo marito vuole fotografie.» «Fotografie di che còsa?» «Sa bene. Sue e del suo amico. A letto.» «Quindi ti preparavi a buttare giù la porta a calci, vero? Sei un grande artista. E perché non ci hai fatto le foto?» «Non ne ho mai avuto la possibilità. Poi quel tale è partito. Non avevo molto lavoro, perciò ho continuato a seguire lei. Pensavo che ne sarebbe magari venuto fuori qualcosa.» «Sei un vero tesoruccio, Bonner. Scommetto che l'FBI ti ha cacciato a calci nel sedere.» Bonner distolse lo sguardo. «Be', ciao, devo andare a cena a Capitol Hill.» Bonner raddrizzò la schiena. «Ehi! Aspetti un minuto! Adesso mi tolga
le manette. Le chiavi sono nel taschino dell'orologio.» «Non preoccuparti», disse Katharine. «Manderò qualcuno ad aprirle.» Chiuse la porta dello stanzino. «Ora, se stai zitto zitto, magari la prossima donna che verrà non si accorgerà neppure che non sei una signora.» «Oh, per amor del cielo, mi liberi, la prego!» urlò Bonner da dietro la porta. «Buon riposo», gli gridò in risposta Katharine. «Presto verrà qualcuno a cercarti.» Uscì dai gabinetti, gettò il portafoglio di Bonner in un bidone della spazzatura, ritornò alla macchina a prendere la valigia e si avviò verso l'aerostazione principale, cercando il cartellone delle partenze. Trovò un volo per San Francisco che partiva dopo dieci minuti, andò a un telefono e fece il numero della polizia stradale della Virginia. «Pronto», disse all'agente che rispose, «sono il sergente di polizia Brooke Kirkland del dipartimento di San Francisco. Sono all'aeroporto nazionale, appena ho provato a entrare nei gabinetti femminili del posteggio, un tipo è balzato fuori da uno stanzino e ha tentato di violentarmi. Sono però riuscita a sopraffarlo e ad ammanettarlo a un tubo del gabinetto. Si tratta delle latrine femminili nel posteggio A, piano inferiore. Purtroppo devo prendere un aereo fra dieci minuti per tornare a casa, quindi non posso aspettarvi. Vi manderò per telex una dichiarazione appena prenderò servizio domani mattina, va bene? Potete rimandarmi le manette per posta.» Kate riagganciò prima che il poliziotto potesse farle qualche domanda. Poi si ricordò della pistola. Si sbottonò la giacca e fece scorrere l'arma fino alla schiena. Oltrepassò con passo leggero i controlli di sicurezza e corse a prendere il suo aereo. Nessun allarme era scattato. Due ore dopo partiva con la SAS dall'aeroporto Kennedy. 47 Helder guardò attraverso il periscopio d'attacco. Ai suoi occhi si offri un mare ribollente. «Ridurre la velocità di un nodo», urlò. Attraverso il periscopio Helder vide il traghetto allontanarsi e le acque farsi più tranquille. Stavano lasciando lo stretto braccio di mare per entrare in acque aperte. Un po' a destra della sua rotta c'era un'isola e dietro quella un'altra: la sua meta. «Aumentare la velocità di due nodi», comandò. Venti minuti dopo seppe di essere arrivato, senza nemmeno usare il periscopio. Procedettero per altri dieci minuti. Helder scrutò l'orizzonte. Non c'erano navi in vista nella semioscurità delle prime ore del mattino. Era
l'indomani del solstizio d'estate, il giorno più lungo dell'anno. «Tutta la barra a dritta», comandò Helder. Il sommergibile virò. «Alla via così», disse quando gli comparvero davanti l'isola e la sua spiaggia. «Timoni a salire», gridò. «Emersione.» Helder consultò l'ecometro: il fondo era sempre più vicino. Lasciò il periscopio e si arrampicò su per una scaletta fino a raggiungere il portello principale. Nel momento in cui il sommergibile affiorava girò il volantino e fece forza sul portello. L'acqua si riversò su di lui e su Kolchak, che lo seguiva dappresso. Helder superò gli ultimi pioli e si trovò in torretta. Controllò rapidamente posizione e rotta. L'isola e la sua spiaggia giacevano proprio di fronte a lui, vicinissime. Helder strappò il coperchio alla scatola del portavoce della torretta. «Timone al centro. Alla via così, a tutto motore!» gridò. Una voce metallica confermò il suo ordine. Helder lanciò uno sguardo a Kolchak; il commissario politico guardava fisso davanti a sé, con gli occhi sbarrati. L'isolotto correva loro incontro, la velocità del sommergibile continuava ad aumentare. In superficie, il Whiskey poteva arrivare a diciotto nodi, ma gli mancava spazio per acquistare velocità prima di arenarsi. Helder gridò dentro il portavoce. «Tutti gli uomini ai posti di collisione!» Afferrò la battagliola di fronte a sé e appoggiò con forza una spalla alla paratia. Aveva passato tanti anni in marina cercando di non andare a incagliarsi con il suo sommergibile; ora che stava per arenarsi, desiderava assistere allo spettacolo. Ci fu un breve colpo e uno strappo; il Whiskey, dopo avere toccato un basso fondo, continuò nella sua corsa, aumentando ancora la velocità. Infine cozzò contro la sabbia e sbandò. Helder strinse i denti e aspettò un urto violento, che non avvenne. Il sommergibile avanzò ancora, anche se ormai toccava il fondo sabbioso, poi con un lungo gemito e uno scossone, si fermò. Ci fu un'improvvisa slittata che lanciò Helder in avanti contro la paratia, poi lo scaraventò all'indietro quando il Whiskey si bloccò. Helder si riprese e afferrò il portavoce. «Fermare le macchine!» urlò. Poi tutto tacque. In torretta regnava una gran pace. Kolchak si alzò faticosamente in piedi e rimase vicino a Helder. Helder si guardò intorno. Sulla spiaggia, a più o meno quattrocento metri da loro, c'era una casa, ma nessun segno di vita. Poi, mentre sorvegliava i paraggi, dalla punta all'estremità occidentale dell'isola sbucò, a circa un miglio di di distanza, un'imbarcazione da diporto, lunga circa trenta piedi. Helder puntò il binocolo. Il timoniere stava gridando qualcosa a chi si trovava sottocoperta. Un giovanotto e una ragazza si precipitarono nel pozzetto e fissarono stupefat-
ti il sommergibile arenato. Il giovanotto si buttò di nuovo sotto. Helder sollevò di poco il binocolo: in testa d'albero era ben visibile un'antenna del VHF. Ormai non ci sarebbe voluto molto tempo. Poi lo puntò di nuovo verso la casa. Da quella direzione un uomo in pigiama e vestaglia si stava avvicinando lungo la spiaggia. A non più di cinquanta metri dal sommergibile, si fermò in riva all'acqua, si fece portavoce delle mani e gridò in svedese: «Buongiorno!» Helder prese il megafono. «Buongiorno», urlò di rimando. Era una cosa ridicola. «Avete bisogno di aiuto?» urlò lo sconosciuto. «Volete che vi chiami qualcuno?» «Non credo che sarà necessario», gridò in risposta Helder. «Sarebbe meglio se lei rientrasse, perché fra un momento questo posto sarà pieno di navi.» L'uomo rimase un momento a guardarli, poi fece sì con la testa e si diresse verso casa. Helder prese in mano il portavoce. «Marconista», disse. «Trasmetti BALENA.» 48 A Stoccolma Katharine scese dall'aereo tormentata dal classico mal di testa di chi ha esagerato nel bere. Era stanchissima e subì con impazienza la noiosa trafila del controllo passaporti dietro a un'americana di forse quarantacinque anni, alta e sottile, che rideva forte e che civettando con il poliziotto addetto al controllo, fece perdere tempo a tutti. Il bagaglio, per fortuna, arrivò veloce. Katharine si diresse all'uscita di chi non ha nulla da dichiarare alla dogana, sempre alle calcagna dell'americana. Ma, arrivata nell'atrio principale, si fermò in preda a un'improvvisa paura. Davanti a lei, a pochi metri di distanza, un uomo vestito di scuro e con un berretto da autista, uno dei tanti lì in attesa, teneva sollevato un cartello scritto a mano, sul quale si leggevano due parrole, KIRKLAND e RULE. Katharine non si sarebbe stupita gran che se Carlsson le avesse mandato un'automobile all'aeroporto, dal momento che gli era stata presentata da un senatore degli Stati Uniti. Ma l'unico nome che Carlsson conosceva era Kirkland. Da quanto gli aveva detto al telefono il senatore Carr, il capo della cancelleria non poteva conoscere il suo vero nome. In Svezia nessu-
no, non un'anima viva, sapeva che una persona chiamata Rule stava per arrivare. Per di più, Rule non era un nome molto comune. Sul passaporto e sul biglietto dell'aereo era scritto Callaway, il suo nome prima di sposarsi. Dopo il matrimonio, Kate non si era mai presa la briga di farsi dare un nuovo passaporto. Con suo grande stupore, l'americana alta e magra si diresse senza esitazioni verso l'autista dicendo ad alta voce: «Salve, mi chiamo Eleanor Kirkland. Sta aspettando me?» L'uomo annuì e prese le sue valigie. Katharine li vide scomparire dietro l'angolo. Sconcertata, andò allo sportello di un cambiavalute e cambiò dei dollari in corone. A New York non aveva avuto tempo di farlo. Aveva appena finito di cambiare, quando udì un grido lacerante, che proveniva dall'altro lato della aerostazione. Alzò lo sguardo dalla sua borsetta e vide nel corridoio, a pochi metri da sé, una donna tarchiata, vestita d'un grembiule, che, in preda a una crisi isterica, urlava qualcosa in svedese e indicava un punto dietro l'angolo. Katharine, insieme con una dozzina di altre persone, spinta dalla curiosità si avvicinò alla donna. Girato l'angolo, c'era un ripostiglio delle scope, con la porta aperta. All'interno, sul pavimento, in un lago di sangue, giaceva l'americana alta, con la gola squarciata da uno strumento molto affilato. Katharine barcollò all'indietro allontanandosi dal gruppetto di curiosi, poi si girò e si avviò verso l'esterno e il posteggio dei tassì, sforzandosi di non urlare. Cercò di mantenersi calma nei due minuti di attesa e, quando arrivò un tassì, vi salì. «Al Grand Hotel, per piacere» disse all'autista. Il tassì si avviò. «È inglese?» le domandò l'uomo in tono affabile. Katharine alzò di scatto la testa e ne incontrò gli occhi nello specchietto retrovisore. Era giovane, dall'aspetto mite: proprio come un americano immagina uno svedese. Anche lui la stava osservando con attenzione nello specchio. «Sì», rispose, «sono inglese.» «Ha prenotato al Grand Hotel?» «No», disse lei. «Ho solo un appuntamento con amici. Andrò a stare da loro in campagna.» «Dove?» domandò l'autista. «Anch'io vengo dalla campagna.» Katharine cercò inutilmente di ricordare il nome di almeno una località di campagna. «Non riesco a ricordare come si chiama», finì con il dire. «I vostri nomi svedesi sono difficili per me. Quanto ci vuole da qui all'albergo?» «A quest'ora ci vorranno trentacinque minuti, forse quaranta.» Lei ap-
poggiò la testa sullo schienale e chiuse gli occhi. Il guidatore capì al volo e non parlò più. Durante il viaggio, Katharine non vide quasi nulla della città. Era confusa, spaventata, non ebbe neanche un pensiero per quanto la circondava, finché il tassì si fermò. «Che c'è?» disse raddrizzandosi sul sedile. «Siamo al Grand Hotel» disse l'autista. Katharine sussultò quando lo sportello si aprì. Un portiere in uniforme era in piedi accanto al tassì, in attesa che lo lasciasse libero. Alle sue spalle un uomo e una donna aspettavano impazienti. Katharine pagò l'autista e scese. Un facchino prese la sua sacca e l'accompagnò al banco accettazione. «Sono Katharine Rule», disse lei all'impiegato. «Ho prenotato una camera.» L'uomo consultò uno schedario. «Sì, signorina Rule, la sua camera è pronta. Posso vedere il suo passaporto, per favore?» Katharine glielo porse, spiegando perché il nome fosse differente. «Ci sono state telefonate per me?» Aveva prenotato la camera usando il nome Rule. Pregò il cielo che nessuno l'avesse chiamata. «Sì», disse l'impiegato, prendendo un foglietto da una casella, insieme con la chiave. «Un certo signor Lee ha telefonato da Copenhagen. Richiamerà più tardi.» «Grazie», disse Kathanne rincuorata. «Le sarei molto grata se lei invece di Rule desse al centralino il nome di Callaway. Qui i miei amici mi conoscono con il mio vecchio cognome.» «Certo», assicurò l'impiegato, scarabocchiando un appunto. «E se qualcuno chiedesse di Katharine Rule, dica per favore che qui non c'è nessuno registrato con quel nome.» L'uomo la fissò un attimo, poi prese un altro appunto. «Se così desidera, faremo come lei dice, naturalmente.» Le porse una chiave. «La sua stanza è all'ultimo piano», la informò. «Sono spiacente di non poter mandare nessuno ad accompagnarla, in questo momento, ma se vuole avere la cortesia di salire con l'ascensore e poi di girare a destra, troverà la camera poche porte più in là, alla sua destra. Manderò fra poco un facchino con il bagaglio.» «Grazie», disse Katharine, avviandosi agli ascensori. Quando la porta si aprì, entrò. Un uomo la seguì dentro la cabina, e schiacciò il pulsante dell'ultimo piano. L'uomo era più alto di lei, con una mandibola forte e corporatura muscolosa. La guardò e disse qualcosa in svedese. Katharine sorrise
a denti stretti e lo ignorò. «Mi scusi», disse lo sconosciuto in inglese. «Lei è americana?» Aveva occhi freddi e duri. «Inglese», rispose Katharine, fissando le luci dell'indicatore dei piani che ammiccavano lentamente. «Benvenuta in Svezia», disse l'uomo con un sorrisetto. Oh, Dio, fa che questo coso salga in fretta, pregò Katharine in cuor suo. Piano piano portò una mano dietro di sé, come pe'r fregarsi la schiena. La mano andò a fermarsi sul calcio della pistola. «Grazie», gli rispose. L'ascensore si fermò, le porte si spalancarono. «Dopo di lei», disse l'uomo, indicando con un gesto il corridoio. Katharine uscì in fretta dalla cabina e s'incamminò verso destra, lanciando uno sguardo dietro di sé. Lo sconosciuto aveva svoltato a sinistra. Con il cuore che le martellava, Katharine percorse il corridoio in cerca della sua stanza. La porta si aprì su un'anticamera; un'altra porta dava sul salottino di quello che era evidentemente un appartamento. Ma lei non aveva prenotato un appartamento! Poi udì la voce di un uomo che parlava piano nella camera accanto. Katharine non riuscì a capire in che lingua. Controllò il numero della chiave con il numero sulla porta. Questa era la sua camera e dentro c'era un uomo. Afferrò saldamente la pistola, tolse la sicura, respirò profondamente e varcò la soglia della stanza, tenendo l'arma con entrambe le mani di fronte a sé, come le avevano insegnato. Due uomini stavano facendo colazione, seduti a un tavolino. «Kate?» disse uno di loro. «Oddio, Kate!» «Will!» gridò Kate. «Appicella!» Ormai si era messa a gridare. «Si calmi», ordinò Appicella. «E metta giù subito quella pistola.» 49 Helder consultò l'orologio, poi sorvegliò le acque tutt'intorno. Il sommergibile era incagliato da tre quarti d'ora, eppure esclusa l'imbarcazione da diporto, nessun'altra nave era stata avvistata. Si voltò verso il comandante in seconda. «Vado sotto a bere un caffè», gli disse. «Chiamami quando vedrai la prima unità militare.» Kolchak, il commissario politico, lo guardò a bocca aperta. «Come puoi andare sottocoperta in un momento simile? È abbandono del posto di combattimento.»
«Oh, chiudi il becco, Kolchak», dise Helder stancamente. «Cerca di fare il tuo miserabile mestiere senza rompermi le tasche.» Kolchak sembrò sul punto di esplodere. Helder se ne infischiava e, a giudicare dai loro sorrisetti compiaciuti, se ne infischiavano anche gli altri ufficiali. Helder scese la scaletta, fece cenno all'ufficiale navigatore di lasciargli il posto e si sedette al tavolo da carteggio. Davanti a lui comparve una tazza di caffè. Helder fissò la carta nautica a grande scala che aveva davanti a sé. Aveva navigato due volte all'interno dell'arcipelago, ma non aveva mai prestato molta attenzione alle terre tutt'intorno. Ora, con il dito, rintracciò i grandi e i piccoli abitati di cui erano cosparse le isole. Stoccolma era una città molto grande, di un milione di abitanti almeno, pensò Helder. Ma c'erano pure altri posti, cittadine, villaggi, paesetti. Sulla carta erano segnate anche le singole case della zona. Erano belle case dall'aspetto accogliente, le aveva viste con il periscopio; una di queste si trovava a soli quattrocento metri dal punto dove si era incagliato il sommergibile. Meno di un'ora prima Helder aveva avuto una breve e comica conversazione con il proprietario. Quella gente non immaginava nemmeno lontanamente che cosa Helder avesse portato lì con sé. Nessuno dell'equipaggio ne aveva idea, neppure il viscido Kolchak. Kolchak sapeva soltanto che avrebbero ricevuto un ordine e ne avrebbero trasmesso un altro. Helder purtroppo ne sapeva molto di più. Aveva evitato di pensare intensamente all'invasione, a quel che avrebbe significato per gli svedesi. Si era lasciato trascinare dall'eccitamento per la parte che vi avrebbe svolta, per le grandi altezze cui era arrivato, per il lusso che aveva intravisto, per il suo futuro grado e la sua prossima carriera. Fra poco gli svedesi sarebbero diventati simili ai polacchi, ai cechi, agli ungheresi. Helder trasalì. Simili alla sua gente, agli estoni. I suoi genitori erano stati socialisti, avevano odiato i tedeschi e accolto con gioia i russi... almeno nei primi tempi. Helder si domandò che cosa avrebbero pensato della sua partecipazione a questa impresa, se fossero stati ancora vivi. Anzi, era inutile che se lo domandasse, perché lo sapeva benissimo. Ed ecco che finalmente si trovava alla resa dei conti. Non poteva più accantonare il pensiero della bomba che aspettava laggiù sul fondo marino, doveva essere sincero con se stesso, era complice in un piano per sopraffare una piccola nazione, affascinato dalle promesse di Majorov, aveva lasciato che l'avidità avesse la meglio sui propri scrupoli. Aveva seguito di sua volontà, con entusiasmo, ogni momento dei preparativi. Ma adesso
non si sentiva di andare oltre. Non riusciva più a fingere di non sapere cosa fosse in realtà la boa che aveva deposto, non poteva più cercare cavilli. Adesso era responsabile. «Comandante!» Il grido arrivò dal portavoce. «Contatto!» Helder si alzò, più lentamente di quanto avrebbero richiesto le circostanze. Si arrampicò su per la scaletta e uscì in torretta. Il comandante in seconda gli porse il binocolo. Dalla direzione di Stoccolma arrivava lungo il canale una vedetta lanciata a tutta velocità. Helder vide le facce dei giovani marinai sporgersi dal parabrezza. Alla sua destra avvistò un'altra vedetta, che giungeva da un altro braccio di mare. Le due imbarcazioni si affiancarono, poi puntarono verso il sommergibile. Le vedette rallentarono appena furono più vicine e si fermarono a un centinaio di metri. A bordo di una delle due, un giovane ufficiale prese un megafono. «Comandante del sommegibile sovietico, sono un ufficiale della Regia Marina Svedese. Chiedo che raduni il suo equipaggio sul ponte e si prepari a ricevere a bordo un'ispezione. Mi capisce?» Helder prese il megafono e parlò in russo. «Esigo d'incontrare subito un rappresentante dell'ambasciata sovietica. Non accetterò altre comunicazioni finché non avrò parlato con questo rappresentante.» Smise di premere sul tasto per la trasmissione e si chinò sulla scatola del portavoce. «Cannonieri, prepararsi a prendere i posti di combattimento in coperta.» L'ufficiale svedese consultò un libro che qualcuno gli porse. Quindi con una pronuncia orribile, lesse in russo. «La sua unità ha invaso le acque territoriali svedesi. Lei è in arresto. Si prepari a riceverci a bordo e a consegnarci le armi.» Helder parlò nel portavoce. «Prendere posto al pezzo.» Il portello di prua si aprì di scatto e gli uomini si riversarono sul ponte. Liberarono il cannone, mentre venivano distribuiti i proiettili. Il capopezzo si mise sull'attenti di fronte a Helder. Helder fece sì con il capo. «Caricare. Mirare al bersaglio alla sinistra.» Osservò ammirato i suoi marinai eseguire prontamente gli ordini. Quando il pezzo fu carico e pronto, Helder parlò nella scatola del portavoce. «Marconista!» «Signorsì!» giunse da sottocoperta. «Trasmetti VOLPE.» 50
Katharine, seduta e in silenzio, ascoltò Will e Appicella che raccontavano la loro storia. «Emilio e io abbiamo provato lo stesso sbalordimento quando abbiamo scoperto che ti conoscevamo tutti e due», concluse Will. «Poi, quando siamo arrivati a Ostergarn e io ho telefonato a Copenhagen per lasciare detto che sarei stato in ritardo, mi hanno dato il tuo messaggio. Allora abbiamo preso un idrovolante diretto a Stoccolma e. affittato questo appartamento al Grand Hotel. La tua stanza è disdetta. Emilio dorme nella camera vicina. Vuoi fare colazione?» «Sì, grazie», annuì lei. «Nonostante tutto ho abbastanza fame.» Will ordinò la colazione per lei. «Be', dato che pensavo che ti avrebbe fatto più piacere vederci, sono contento almeno di non averti fatto perdere l'appetito.» «Oh, scusami, Will, sono felicissima di vedervi tutti e due, ma... be', sarà meglio che vi informi sui fatti più recenti.» «Raccontami, ti prego», disse Will. «Ma soprattutto, che cosa fai a Stoccolma?» «Ieri sono andata a trovare il tuo senatore, gli ho detto tutto e gli ho chiesto di parlare al presidente.» «E poi?» «Carr è rimasto impressionato, secondo me, ma è stato prudente. Non ha voluto andare dal presidente, ma mi ha messo in contatto con un certo Sven Carlsson, che occupa un posto importante al ministero della difesa svedese. Sono qui per parlargli, sperando di convincerlo ad andare dal suo ministro e magari dal primo ministro. Emilio, dov'è il materiale che hai rubato dal calcolatore di Majorov?» «Nella mia tasca», rispose Appicella, «ma per riuscire a leggerlo dovrò trovare un calcolatore IBM. Conosco un tipo che ha un negozio di computer qui a Stoccolma, dove forse potremmo trovare uno!» Guardò l'ora. «Aprirà alle dieci. Faccia colazione, poi andremo da lui. Sono sicuro che quel che ho con me servirà a convincere quel tale del ministero. Magari riuscirò a procurarvi molto più di quanto pensiate. Vedremo.» «Benissimo», annuì Kate. «Kate», la interruppe Will, un po' sconcertato. «Il modo in cui reagisci è strano. Pensavo che ti saresti dimostrata felicissima vedendo che cosa ti ha portato Emilio.» «Oh, Will, ne sono felice, ma non vi ho detto tutto.» E raccontò quanto
era successo quella mattina all'aeroporto. «E pensi che aspettasse a te?» domandò Will. «Non ho il minimo dubbio che aspettasse me. Nessuno a Stoccolma, eccetto te, sapeva che una persona di nome Rule sarebbe venuta qui. Non capisci che cosa significa?» «Significa che qualcuno l'ha scoperto, evidentemente.» «Proprio così. Ed è stato informato da qualcuno che è a Washington.» «Chi sapeva che saresti venuta?» «Non sono più certa di niente; non ho modo di sapere chi ha parlato e con chi. Quel che è sicuro, è che qualcuno voleva impedirmi con ogni mezzo di arrivare da Carlsson.» «Hai idea di chi sia?» Katharine parlò loro di Fiordineve. «Era un'iniziativa di Simon. È atterrito al pensiero che la cosa sia divulgata. Sta cercando di costringermi a lasciare la CIA.» «Ma, santo cielo, Kate, non arriverebbe certo a ucciderti per farti uscire dall'Agenzia, ti pare?» «No, non lo farebbe, almeno non per motivi privati.» «Quali altri motivi potrebbe avere?» «Ecco, c'è Fiordineve. Certamente non vuole che trapeli niente a questo riguardo. Ma non credo proprio che Simon mi ucciderebbe per salvare la sua carriera. Per lo meno non la sua carriera alla CIA.» Appicella espresse drammaticamente quel che pensava. «C'è qualcosa di marcio in Danimarca.» «Stavo proprio pensando al passato», continuò Katharine. «Quando Simon era a capo della stazione di Roma (se ricordi, Will, ci conoscemmo lì), era molto amico di un sovietico dell'ambasciata. Bevevano spesso insieme. Non è un fatto insolito all'estero: se uno dei nostri frequenta uno dei loro, qualche volta riesce ad arruolarlo.» «O viceversa», osservò Will, lentamente. Qualcuno bussò alla porta. Entrò un cameriere con il carrello della colazione e si diede da fare preparando la tavola. Accese il televisore con aria eccitata. «Avete visto cosa sta succedendo?» Katharine, Will e Appicella fissarono lo schermo, sul quale scorrevano le immagini riprese da un elicottero. Nell'angolo in alto a destra si vedeva, incagliato, un sommergibile sovietico della classe Whiskey. Tutto il resto dello schermo era occupato da navi della marina svedese. «Nessuno di noi parla svedese», disse Katharine al cameriere. «Dove sta
succedendo tutto questo?» «In un'isoletta dell'arcipelago, che si chiama Hoggarn. A circa sette od otto chilometri da Stoccolma.» Il cameriere andò a prendere una carta turistica della Svezia nella scrivania. «Si trova più o meno qui», disse puntando l'indice. «Il sommergibile è lì dalle prime ore di questa mattina.» Li lasciò con gli occhi fissi sulla carta. «Ecco», disse finalmente Katharine. «È cominciata.» 51 Trina Ragulin si presentò al lavoro dopo una settimana di assenza. I lividi sulla faccia erano scoloriti, al punto che bastava un po' di trucco per nasconderli. Anche le ammaccature nelle altre parti del corpo erano migliorate e le permettevano di camminare senza soffrire. La mandarono in un edificio nel complesso del quartier generale, che non conosceva ancora. Quando vi entrò, scoprì che constava di un'immensa sala, una specie di anfiteatro, con ampie gradinate piene di scrivanie su cui erano telefoni e terminali di computer, tutte rivolte verso una parete coperta da tre grandi schermi. Sullo schermo centrale appariva un'enorme carta geografica dell'intera zona baltica, cosparsa di dozzine di segni, in Svezia e in Polonia, in Lituania, in Lettonia e in Estonia, che evidentemente indicavano tipi differenti di unità militari: forze aeree, corazzate, navali, sottomarine e terrestri. Trina vide con stupore che il simbolo di un sommergibile sovietico si trovava nell'arcipelago di Stoccolma, a soli pochi chilometri dalla città stessa. Al centro dell'aula, a una scrivania sgombra, su cui c'era solo un quadro di comando telefonico nero con molti bottoni e un solo apparecchio bianco, sedeva Majorov. «Abbiamo la trasmissione della televisione svedese», disse qualcuno a Majorov. «Passatela sullo schermo tre» rispose questi. Sullo schermo di destra comparve una figura che, con grande sbalordimento di Trina, era quella di Jan Helder, fotografato da lontano, sulla torretta di un sommergibile. Con lui c'erano altri uomini, ma Trina non li riconobbe. Poi la scena cambiò e sullo schermo comparve la veduta aerea di una vasta zona. Si vedeva distintamente il sommergibile, circondato da una gran quantità di navi. «Trina!» disse ad alta voce la segretaria di Majorov. «Occupati della cambusa, lì, in centro. Tieni pronto caffè e cibo per chiunque ne abbia bi-
sogno.» Trina si avvicinò a un bar allestito in una zona leggermente arretrata rispetto al centro dell'anfiteatro e si mise all'opera. Era informata dei piani d'invasione, dato che da più d'un anno lavorava al quartier generale; pur non essendo andata in ufficio per una settimana, aveva saputo da Helder che l'impresa stava per cominciare. Eppure, fu sconcertata dall'idea che stesse davvero succedendo e stupefatta alla vista di Helder al centro degli avvenimenti. Portò un vassoio alla scrivania di Majorov. «Grazie, Ragulin», disse l'uomo con un sorriso insinuante. «Sono felice di rivederti al lavoro. Spero che ti sia riposata bene.» «Sì, grazie» riuscì a dire Trina nonostante la rabbia che la soffocava. Quel bastardo. Per poco non l'aveva mandata all'ospedale. Jones sedeva a una scrivania vicina a quella di Majorov. «Colonnello», disse ad alta voce, «abbiamo un rapporto da Stoccolma. Quella donna, Kirkland, è stata intercettata all'aeroporto e liquidata.» «Ottima cosa», commentò Majorov con un ampio sorriso. «Le mie congratulazioni a Furetto nella prossima trasmissione a lui diretta.» Rise. «Be', no, meglio di no. Una volta erano molto uniti, non vogliamo sconvolgerlo, vero?» Il telefono bianco sulla scrivania di Majorov suonò con un trillo particolare; sull'anfiteatro scese di colpo il silenzio. Il colonnello prese in mano il telefono. «Qui parla Majorov», disse. Una pausa, mentre il colonnello ascoltava. «Sì, compagno segretario», rispose. «In questo momento siamo a VOLPE. Helder sta rifiutando di cooperare in qualsiasi modo. Parla loro soltanto in russo. Ora siamo in attesa dei rapporti delle squadriglie WIG in Estonia e in Polonia e della conferma, dalle unità SPETSNAZ in Svezia, che sono in posizione. Calcolo che prestissimo saremo nelle condizioni ideali per iniziare.» Majorov sorrise. «Sì, certamente, compagno, grazie.» Riappese e annunciò, rivolto all'intera sala: «Il segretario generale del partito manda a tutti voi i suoi saluti». Dall'anfiteatro si sollevò un mormorio eccitato. Trina Ragulin continuò a girare con cibarie e caffè. Improvvisamente udì grida esultanti e alzò lo sguardo sullo schermo che riceveva la televisione svedese. Una grossa nave da guerra, un cacciatorpediniere, andava ad aggiungersi alla flotta che circondava il sommergibile. Qua e là nella sala scoppiarono applausi. «Bene, bene», disse ad alta voce Majorov. «Cominciano a fare le cose seriamente. Adesso quanto ci vorrà prima che qualcuno spari il primo colpo?» Trina fissò il colonnello. Ecco perché il sommergibile di Helder si tro-
vava in quel punto: Majorov se ne stava servendo per provocare gli svedesi. Guardò la figura sullo schermo. Che cosa sarebbe successo a lei se Jan fosse rimasto ucciso in combattimento? Priva della sua protezione, sarebbe sicuramente ritornata nella stalla di Majorov, sarebbe stata nient'altro che una bestia di cui fare uso e abuso. E una volta o l'altra Majorov l'avrebbe uccisa, lo sapeva. E facendolo avrebbe goduto. Smise di andare in giro e prese posto nella zona ristoro, da dove aveva modo di vedere benissimo ogni cosa e di ascoltare di nascosto la conversazione di Majorov. «Qualcuno ha visto Appicella o Lee?» Majorov domandò a Jones. «No, colonnello», rispose Jones. «Forse non sono affatto andati a Stoccolma.» «Forse no», ribatté Majorov. «Ma non voglio correre rischi. Voglio che l'ambasciata americana e il ministero della difesa siano sorvegliati fino all'inizio dell'operazione.» «Il gruppo Uno ha ancora uomini che tengono d'occhio tutti e due i posti, colonnello. Non ho tolto l'ordine.» «Voglio che siano uccisi a prima vista», continuò Majorov. «Ormai siamo giunti a uno stadio così avanzato, che non possiamo badare alle buone maniere», terminò ridacchiando. 52 Katharine fremeva d'impazienza. Era con Appicella e Will nello stretto ufficio assistenza di un negozio che vendeva computer nelle vicinanze del centro di Stoccolma. Appicella e il negoziante, un certo Rolf, stavano togliendo dalla sua scatola un calcolatore nuovo e posandolo sul banco da lavoro. «Lo sapevo», stava dicendo Appicella, «che se qualcuno in Scandinavia ha un IBM PC AT, quel qualcuno sei tu, Rolf.» Si voltò verso Kate. «Rolf ha sempre avuto il negozio più sensazionale di tutta Europa.» «Sono tutte balle, se mi perdona l'espressione, signora», ribatté Rolf gioviale. «Tutte le volte che viene a Stoccolma, Emilio fa una capatina nel mio negozio e vuole usare la mia merce per farsi soldi. In cambio del mio disturbo ottengo soltanto parole adulatrici.» «E di quando in quando una qualche modifica molto intelligente», aggiunse Appicella. «Potrei addirittura avere qualcosa di nuovo per te, se questo funzionerà come penso.» Collegò il video e la tastiera al calcolatore, che poi collegò a una stampante che era lì sul banco di lavoro.
«Questa macchina non è mai stata accesa e tanto meno ha mai lavorato», lo avvertì Rolf turbato. «Se me la rovini, non riuscirò a procurarmene un'altra per mesi. Conto su questa per farla vedere ai clienti e ottenere ordini.» «Nessuna paura», lo tranquillizzò Appicella. «Quando avrò finito di usarla, non solo sarà impostata, ma sarà controllata a fondo da un esperto e magari addirittura perfezionata.» «Oddio!» esclamò Rolf alzando gli occhi al cielo. Appicella prese un dischetto vergine, ne tagliò con un piccolo cacciavite la custodia di carta ed estrasse il dischetto di mylar dall'interno. Quindi prese da una delle sue tasche una piccola lampada tascabile a forma di penna, la svitò e la scosse per farne uscire le pile, che caddero sul bancone, insieme con un altro dischetto uguale al primo. Inserì quest'ultimo nell'involucro di carta, che chiuse con un nastro adesivo. «Ecco», disse, «adesso vedremo se questo pezzetto di plastica è uscito sano e salvo da un po' di maltrattamenti e da una traversata del Baltico.» Mise in funzione il computer, inserì il dischetto nel lettore, batté sulla tastiera. Sullo schermo apparve una lista di archivi. Appicella batté di nuovo qualcosa e la stampante entrò in azione. In piedi vicino a lui, Katharine osservava a occhi spalancati il documento, man mano che veniva stampato. «Santo cielo, Emilio, come sei riuscito a fare una cosa simile?» Appicella scrollò le spalle. «Ho semplicemente saccheggiato il calcolatore di Majorov», spiegò. «E, quando la stampante avrà finito, lo violenterò.» «Chi è Majorov?» volle sapere Rolf. «Credevo di conoscere tutti quelli del ramo.» «Lavora in tutt'altro ramo, mio caro Rolf», gli disse Appicella. «Perdonami tanta libertà nel tuo laboratorio, ma penso che i miei amici vorrebbero rimanere soli. Non ti rincresce?» Rolf alzò le braccia al cielo. «Se mi rincresce? E perché dovrebbe rincrescermi? Questa mattina non eseguiremo un solo lavoro di riparazione, una mezza dozzina di clienti vorrà strozzarmi, ma vadano tutti al diavolo. Pur di accontentare Emilio Appicella...» Il negoziante uscì chiudendo la porta alle sue spalle. «Emilio», disse Katharine leggendo il documento man mano che veniva stampato, «sai che dovresti fare la spia a tempo pieno?» Alzò gli occhi su di lui. «Di che cosa stavi parlando? Di violentare il calcolatore di Majo-
rov?» «Ho paura che per farlo ci vorrà un po' di tempo», rispose l'uomo. «Ve lo spiegherò quando l'avrò fatto!» La stampante si fermò e Katharine cominciò a strappare l'una dall'altra le pagine del modulo continuo. «Sentite, devo andare al ministero per parlare con Carlsson. Emilio, rimarrai qui a lavorare per un po' di tempo, vero? Secondo me è indispensabile che tu non esca di qui e non vada in giro per la città. Majorov ormai si sarà certamente accorto della tua fuga e non sarà molto contento.» «Non preoccuparti», ribatté Appicella, «ho un sacco di lavoro da fare qui, mentre tu andrai a salvare gli svedesi dai russi.» «Will», pregò Katharine, «non mi piace chiederti di correre rischi, ma vorresti accompagnarmi al ministero? Lavori per il senatore Carr e potresti rendere più credibili le mie asserzioni a Carlsson.» «Rischi? Quali rischi?» «Secondo me, dovresti tenere presente che, proprio mentre stiamo parlando, dev'esserci gente che ti cerca per le vie di Stoccolma. Questa mattina hanno tentato di fare fuori me, colpendo un'altra donna al mio posto, perciò forse pensano che io sia morta. D'altra parte, se si sono accorti di avere sbagliato uccidendo quell'altra, potrebbero ancora andare in cerca di una donna sola. Credo che, insieme, potremmo dare meno nell'occhio. Probabilmente non prestano attenzione alle coppie.» «Benissimo, vengo con te.» Katharine ebbe da Rolf l'indirizzo del ministero. Presero un tassì per strada. «Non sarebbe meglio telefonare per avvertirlo?» le domandò Will. «In questo momento non mi fido dei telefoni», rispose Kate scuotendo la testa. Il tassì li condusse in una via secondaria vicina a una piazzetta, e si fermò davanti a un portone molto poco imponente. «Eccoci arrivati», annunciò il tassista. «Non è molto maestoso, ti pare?» commentò Will mentre scendevano dalla macchina. «Forse mi aspettavo una specie di Pentagono scandinavo.» Lei non rispose. Aveva notato un'automobile ferma poco più in là in cui s'intravvedeva un uomo al volante ed era stata colta da un irrazionale senso di pericolo. Entrò con Will e si trovò in un piccolo atrio, in fondo al quale c'era una porta a doppio battente. A destra, dietro a uno sportello, sedeva un uomo in uniforme.
«Buongiorno», disse Katharine alla guardia. «Può avvertire il signor Sven Carlsson che Brooke Kirkland di Washington, D.C., aspetta di essere ricevuta?» «Come si chiama il signore?» «Signor Lee. Potrebbe dire al signor Carlsson che il signor Lee lavora per il senatore Carr?» «Il signor Carlsson l'aspetta?» domandò la guardia. «Sì, anche se non avevamo fissato l'ora e sarei dovuta venire da sola.» La guardia parlò rapidamente al telefono in svedese per pochi secondi, quindi aspettò a lungo. Finalmente riagganciò. «Qualcuno verrà subito giù a ricevervi», disse prima di riprendere il lavoro interrotto. Dopo pochi minuti comparve una donna dall'altra parte della porta a due battenti. Si udì un ronzio, i battenti si aprirono. «La signorina Kirkland? Il signor Lee? Prego, volete seguirmi?» Percorsero insieme qualche metro lungo un corridoio, poi salirono in ascensore fino al secondo piano dove uscirono su una balconata sorretta da colonne di marmo, che guardava su una vasta zona di lavoro ingombra di scrivanie, al pianterreno. «Sembra una banca più che un ministero», osservò Will. «Una volta era una banca» rispose la donna. Dal basso giungeva soltanto un confuso mormorio, che a stento penetrava il silenzio apparentemente innaturale. La donna svoltò a sinistra e li fece entrare in un'anticamera rivestita di legno, su cui davano due porte a doppio battente. Bussò a quella di destra, l'apri e introdusse Katharine e Will in un ufficio arredato con comode poltrone. Un uomo si alzò dalla scrivania e andò loro incontro. «La signorina Kirkland, vero? Sono Sven Carlsson. Il senatore Carr mi aveva detto di aspettarla, ma non sapevo a che ora sarebbe arrivata.» I capelli erano molto grigi, ma la faccia non aveva una ruga: la combinazione rendeva molto difficile indovinare l'età. Tra i trentacinque e i cinquanta, giudicò Katharine. Carlsson portava occhiali non cerchiati, di forma moderna. «Signor Carlsson, è molto gentile da parte sua riceverci con tanta premura.» «Prego», disse lo svedese, indicando loro un divano di cuoio dall'altro lato della stanza. «In che cosa posso essere utile?» domandò poi, quando si furono seduti. «Siamo noi che desideriamo essere utili a lei, signor Carlsson», affermò
Katharine. «Prima di tutto, devo avvertirla che non mi chiamo Kirkland; il senatore e io abbiamo pensato che, date le circostanze, fosse meglio per me non usare il mio nome.» Tirò fuori il documento di riconoscimento. «Mi chiamo Katharine Rule e sono un agente dei servizi segreti del governo americano. Dirigo un dipartimento chiamato Ufficio Sovietico, che ha l'incarico di analizzare le informazioni provenienti dall'Unione Sovietica.» «Vedo», commentò Carlsson studiando con attenzione il documento posato davanti a lui. Katharine indicò con la mano Will. «Questo è il signor Will Lee, consulente della commissione senatoriale per i servizi segreti e, in quanto tale, collaboratore del senatore Carr.» Will porse a Carlsson il lasciapassare del senato. «Signor Lee», lo salutò Carlsson, «mi sembra di avere sentito il senatore Carr parlare di lei quand'ero a Washington non molto tempo fa.» «Siamo qui», lo interruppe Katharine, «perché abbiamo in nostro possesso importantissime informazioni riguardanti le difese svedesi, elaborate dal mio dipartimento alla CIA. Avendo poco tempo a disposizione e per altri motivi che sarebbe troppo complicato spiegare in questo momento, ho capito di non dover aspettare che queste informazioni seguissero le normali vie diplomatiche e governative. Sono andata dal senatore Carr il quale, ascoltato quanto avevo da dirgli ed esaminate le mie prove, mi ha consigliata di venire direttamente a Stoccolma e di parlare con lei, nella speranza che lei riferisca queste notizie immediatamente al ministro della difesa e al primo ministro.» «Bene, signorina Rule», disse Carlsson. «Lei si è certo assicurata la mia più completa attenzione. Che cosa desidera dirci?» Katharine gli consegnò il documento che Appicella aveva rubato al calcolatore di Majorov. «Se vuole leggere il sommario all'inizio di queste pagine, avrà una breve spiegazione di quanto voglio esporle.» Carlsson lesse velocemente il breve indice, lo rilesse, senza espressione. Poi diede una rapida scorsa al contenuto delle altre pagine. Infine alzò gli occhi su Katharine. «Sono sconvolto», disse sbalordito. «Se lei è chi dice di essere e non una scrittrice di storie di spionaggio...» Sembrò che cercasse le parole giuste. «Posso chiederle l'origine di questo documento?» «È stato preso dal computer di una base militare segreta dei sovietici, sulla costa lettone, meno di quarantotto ore fa», spiegò Katharine. «Abbiamo ogni motivo di credere che è una veritiera dichiarazione delle intenzioni sovietiche e non una semplice esercitazione militare o un giochetto.
Lasci che le indichi altre prove che confermano questo documento e che provengono da fonti diverse.» Gli espose gli stessi dati forniti il giorno prima dal senatore Carr. Carlsson l'ascoltò dimostrando un interesse sempre crescente, interrompendola di quando in quando con una domanda. Quando Katharine ebbe finito, rimase in silenzio per un momento. «Mi dica», le domandò infine, «ha qualche idea di quando questo piano sarà attuato?» «Secondo me è già cominciato», rispose lei. «Sono convinta che il sommergibile sovietico che la vostra marina militare tiene a bada nell'arcipelago faccia parte del piano, forse allo scopo di provocare un incidente. Signor Carlsson, nel primo documento che le ho fatto vedere si afferma che l'invasione sarà attuata soltanto se ci sarà segretezza assoluta fino all'ultimo momento. Se lei riuscisse a persuadere il suo ministro e il primo ministro ad annunciare immediatamente la mobilitazione generale, riuscirebbe con ogni probabilità a costringere i sovietici a rinunciare al loro piano. Mi auguro che non sia già troppo tardi.» «Capisco», disse Carlsson, guardando le finestre. «E c'è dell'altro», aggiunse Katharine. «Questa mattina all'aeroporto di Stoccolma è stata assassinata una donna americana di nome Kirkland. Sono convinta che la vittima sarei dovuta essere io. Qualcuno sapeva che sarei venuta a Stoccolma. Oltre a lei, qualcuno qui era informato del mio arrivo?» «No, nessuno», rispose Carlsson. «Ha parlato con il senatore Carr dopo la prima telefonata di ieri?» «No.» Katharine si lasciò cadere all'indietro contro lo schienale. «Capisco», disse. «Signorina Rule», la pregò Carlsson, «devo chiederle d'imprestarmi per qualche minuto il materiale che mi ha appena mostrato. Vuole, per favore, aspettare qui finché torno?» «Ma certo», rispose Katharine. Carlsson raccolse i fogli e uscì dalla stanza. «Penso che l'ufficio del ministro sia subito dall'altra parte dell'anticamera» disse Kate a Will. «Il senatore Carr mi ha spiegato che i loro uffici sono adiacenti.» «Credo che tu l'abbia convinto, Kate», osservò Will. «Aveva l'aria molto scossa.»
«Lo spero», rispose lei. «Mi auguro di averlo scosso fino alle radici.» «Pensi che Simon abbia avvertito i sovietici dalla tua partenza per Stoccolma?» «Detesto doverlo dire del padre di mio figlio, ma sembrerebbe proprio di sì. Se il senatore Carr non ha rivelato a Carlsson il mio vero nome, l'informazione è dovuta arrivare per forza da Washington. E l'idea di Simon come fonte dell'informazione diventa sempre più valida. Non ho ancora avuto la possibilità di dirtelo, ma mi ha fatto pedinare per settimane da un investigatore privato. Ho avuto un piccolo scontro con quel tizio all'aeroporto prima di partire. L'ho persuaso a parlarmi; dice che Simon rivuole suo figlio, ma ho parecchi motivi per non crederci. Voleva informazioni per ragioni del tutto diverse, secondo me.» «Scusami, Kate.» Will era sconcertato. «So che detesti il tuo ex marito, eppure...» «Certo, non sarà una gran bella cosa per Peter quando suo padre sarà smascherato come spia sovietica. Nella CIA non ci sono mai state talpe, finora. Quando ritornerò scoppierà il finimondo.» I due rimasero seduti a lungo, poi passeggiarono per l'ufficio per altri venti minuti, prima che Carlsson ritornasse. «Ho parlato con il ministro», li informò. «In questo momento è al telefono con il primo ministro. Ha già diramato l'ordine di mobilitazione. Questa sera ogni obiettivo importante, sia civile sia militare, sarà protetto. Non sappiamo come ringraziarvi, tutti e due.» Katharine fu invasa di colpo da una grande stanchezza. Aveva compiuto questo lungo viaggio con la preoccupazione che le sue parole non sarebbero state credute in tempo. «Signor Carlsson, le sono grata della fiducia dimostratami. Posso fare qualche altra cosa per aiutarla in questa faccenda?» «Non credo», rispose l'uomo. «Ma le sarei grato se si tenesse a mia diposizione per altre ventiquattr'ore, nel caso avessimo bisogno di parlare ancora.» «Posso chiederle il favore di non nominare né me né il signor Lee in relazione a questi fatti? Non sono qui in veste ufficiale; qualsiasi clamore intorno al mio nome mi metterebbe in gravi guai in patria.» «Certo», disse Carlsson. «La capisco perfettamente. Le assicuro che non propaleremo di essere stati informati dalla CIA. Nel nostro governo non mancano le persone che sarebbero felici di attribuirsi ogni merito, mi creda.» Le riconsegnò le pagine che gli aveva portate. «Le abbiamo copiate, quindi posso renderle gli originali. Posso consigliarle di rientrare in alber-
go e di aspettare là una mia eventuale chiamata? La mia automobile vi aspetta davanti al portone.» «Sì, grazie, torneremo al Grand Hotel», disse Kate. Carlsson li accompagnò lungo il corridoio fino all'ascensore. «Non riesco a persuadermi che sia tutto finito», sospirò Katharine mentre scendevano. «Credo di aver cominciato a pensare che questa storia non sarebbe mai cessata, che avrei continuato all'infinito il mio tentativo di convincere qualcuno di quanto sta succedendo.» «Hai fatto un lavoro splendido», sorrise Will. «E molto altro lavoro ti aspetta a Washington al tuo arrivo.» L'ascensore si fermò, Kate e Will uscirono. «Lo so e non sono molto impaziente di affrontarlo.» Si avviarono verso il portone d'ingresso. Appena vi giunsero, Katharine si fermò e accennò verso la strada. Davanti al ministero era ferma un'automobile, accanto c'era un autista in attesa. «Quella è probabilmente la macchina di Carlsson», disse Will. «Ha promesso che ci avrebbe aspettati qui davanti.» «Sì, l'ha promesso», rispose Katharine con tono piatto. «E l'autista è quello che era venuto a prendermi questa mattina all'aeroporto.» 53 Oskar Oskarsson dormì fino a tardi, com'era diventata sua abitudine nelle ultime settimane. Quella mattina, quando scese, sua nuora stava preparando la tavola per il pranzo. Il televisore era acceso, cosa non insolita perché la donna, fosse o non fosse interessata, lo teneva così in continuazione. Secondo Oskarsson, le piaceva il rumore. Quanto a lui, lo guardava di rado. Ma questa mattina, dando un'occhiata all'apparecchio mentre si versava il caffè, rimase inchiodato al suo posto. Sullo schermo c'era un sommergibile russo. «Cos'è successo, Ilsa?» domandò il vecchio alla nuora. «Che cosa sta succedendo?» «Oddio, avrei dovuta spegnerla», esclamò Ilsa avviandosi a farlo. «Ferma!» ordinò Oskarsson. «Voglio vedere.» «Oh, papà», disse Ilsa, «ti sconvolgerà e nient'altro. Non dovresti guardare.» «Sto già guardando», ribatté Oskarsson. «Tu pensa ai fatti tuoi.» La donna rimase in piedi a guardare insieme con lui. «Non può essere un
incidente» commentò. «Questa volta no. Quando se n'era incagliato uno a Karlskrona l'avevo creduto, ma questa volta no.» «Zitta, donna!» ordinò Oskarsson. «Devo ascoltare.» E ascoltò spalancando gli occhi. Venne a sapere che il sommergibile era arenato su un'isola chiamata Hoggarn. Conosceva quell'isola, vi era passato davanti tante volte nei suoi giri. Era a meno di tre chilometri dalla casa di suo figlio. Ilsa si era voltata a prendere i piatti per il pranzo. Quando si girò di nuovo, il vecchio suocero non c'era più. Oskarsson la sentì per un attimo chiamare, nonostante il frastuono dei motori. Poi le sue grida si fecero sempre più deboli, mentre il motoscafo rombava tra le isole dell'arcipelago. 54 Katharine si appoggiò alla parete di marmo cercando di controllare il respiro affannoso. Will era in piedi accanto a lei. «Senti, sei sicura che sia lo stesso individuo e non una qualsiasi altra persona con una divisa simile? Forse è davvero soltanto l'autista di Carlsson.» «Sono sicura, maledettamente sicura», sbottò lei. «E c'è un'altra cosa. Ho molti dubbi che i funzionari civili in questo paese abbiano diritto a macchine con autista. Prendono molto sul serio il loro socialismo, da queste parti.» «Dobbiamo trovare un'altra via d'uscita», disse Will, guardandosi intorno. Erano in un corridoio che, a quanto pareva, portava soltanto nell'interno dell'edificio. «E poi?» gli domandò Katharine. «Che cosa faremo? È evidente che Carlsson lavora per i sovietici: farà perlustrare tutta la città per scovarci. Non possiamo rientrare in albergo, non possiamo nemmeno uscire in strada!» Ci fu un brusio, poi un uomo grande e grosso, nell'uniforme della marina, entrò dall'ingresso principale, in compagnia di un borghese che portava una cartella. Entrambi, mentre passavano loro vicino, guardavano in direzione di Katharine e di Will. L'ufficiale di marina disse qualcosa in svedese. Katharine sorrise e fece sì con il capo. I due si fermarono e l'ufficiale parlò di nuovo. «Mi rincresce», disse Will, «non sappiamo lo svedese.»
«Buongiorno», ripeté allora in inglese l'ufficiale. «Posso domandare che cosa state facendo in questo ministero?» «Buongiorno, capitano», rispose Will, cercando d'indovinare il suo grado. «Questa mattina avevamo un appuntamento... mi scusi, possiamo presentarci? Mi chiamo Will Lee», disse mostrandogli la tessera del senato. «Lavoro nella Commissione senatoriale dei servizi segreti degli Stati Uniti. Questa è Katharine Rule, che occupa una carica importante nella CIA.» Kate gli fece vedere il suo documento d'identificazione. «Conosce il senatore Benjamin Carr?» gli domandò il signore in borghese. «Sì, certo», rispose Will. «Lavoro per lui ed è lui che ha mandato a Stoccolma la signorina Rule.» «Per che cosa?» domandò il capitano di vascello, con l'aria sconcertata. Katharine stava per aprire la bocca e recitare con slancio tutta la sua storia, ma Will la interruppe. «Abbiamo importanti informazioni a proposito del sommergibile sovietico che in questo momento è arenato nell'arcipelago di Stoccolma», disse. «Abbiamo or ora comunicato queste informazioni al signor Sven Carlsson, il capo della cancelleria, ma... mi dica, capitano, se il signor Carlsson ha a propria disposizione una macchina con autista?» «No, certo», rispose l'uomo in borghese. «Carlsson viene a lavorare ogni mattina in motocicletta.» «Lei conosce quell'individuo in divisa d'autista in piedi proprio davanti al portone?» domandò Will. I due uomini fecero qualche passo verso l'uscita, guardarono fuori e tornarono indietro. «No», disse il capitano. «Non è al servizio di questo ministero!» Katharine prese la parola. «Capitano, pensiamo che al ministero della difesa ci sia una grave fuga di notizie segrete, in rapporto al sommergibile sovietico nell'arcipelago. Mi chiedo se potremmo parlarne per qualche minuto in privato, lontano di qui.» Il capitano di vascello esaminò di nuovo i loro documenti, poi lanciò uno sguardo interrogativo all'uomo in borghese, che annuì. «Volete seguirci, per favore?» li invitò l'ufficiale. Li precedette nell'ascensore e li condusse fino al piano che avevano appena lasciato. Con grande spavento di Katharine, proseguirono in direzione dell'ufficio di Carlsson ed entrarono nella sua anticamera. Katharine era atterrita. La segretaria sollevò gli occhi dalla scrivania e si stupì rivedendoli. «Buongiorno, signore», disse alzan-
dosi in piedi. «Non voglio essere disturbato», disse l'uomo in borghese, girando a sinistra ed entrando nell'ufficio di fronte a quello di Carlsson. Si trovarono in una stanza molto grande, rivestita di legno, con mobili eleganti. «Dunque, signori», disse l'ufficiale, «io sono il capitano di vascello Holmquist della Marina militare svedese.» Indicò l'uomo in borghese. «E questo è il signor Bjorn Westberg, il ministro della difesa. Vorreste spiegarci di cosa si tratta?» Katharine, sopraffatta dall'emozione e dal sollievo, non riuscì a rispondere immediatamente. «Signor ministro», domandò allora Will, «questa mattina lei ha parlato con il signor Carlsson?» «Sono stato tutta la mattina a Strangnas, al quartier generale del distretto di Stoccolma», rispose il ministro. «Signor ministro», interloquì Katharine che si era ripresa. «La prego di leggere l'indice in testa a queste pagine.» Prese il documento dalla cartella e glielo porse. Westberg lesse la pagina e la passò al capitano di vascello, mentre Katharine cominciava a disporre su un tavolino tutta la sua documentazione. La presentava per la terza volta in due giorni e stava diventando un'esperta. La espose in fretta, mettendo in rilievo la necessità di mobilitare immediatamente le forze armate svedesi. La differenza di fuso orario e la mancanza di sonno cominciavano a logorare le sue forze. «Posso?» domandò, prendendo una caraffa di cristallo piena d'acqua e un bicchiere. «Ma certo», annuì Westberg. «Signorina Rule, vorrei telefonare al senatore Carr prima di procedere.» «Le darò il numero di casa», intervenne Will scarabocchiando su una pagina del suo taccuino e strappandola. «A Washington è presto, ma sono convinto che non gli rincrescerà essere svegliato.» «Credo che non sia necessario disturbare il senatore», disse una voce alle loro spalle. Tutti si voltarono verso la porta. Carlsson era lì in piedi, con una pistola in mano. «Credo di poter confermare il nocciolo di quanto la signorina Rule vi ha detto. È tutto vero e voglio farle i complimenti per il suo lavoro.» Carlsson fece qualche passo nella stanza. «La ringrazio, signor Carlsson», disse lei, stancamente, versandosi l'acqua nel bicchiere. «Certo, lei ha lavorato a questa faccenda molto più a lungo di me, non è vero?» «Ha ragione, mia cara», ammise Carlsson. «Vi lavoro da moltissimo tempo e non ho intenzione di lasciar rovinare la mia opera da un ordine di
mobilitazione. Signor ministro, sparerò e vi ucciderò tutti, se mi costringerete a farlo, ma preferirei che tutti rimaneste qui seduti tranquilli e aspettaste con me. Fra un'ora, forse anche meno, questo ministero sarà nelle mani dei sovietici, come Stoccolma e gran parte della Svezia. Io sarò a capo del governo provvisorio. In attesa che questo succeda, vi informerò su tutti i particolari.» Carlsson si avvicinò al tavolo delle riunioni, prese il telefono, premette un bottone, sempre tenendoli d'occhio. «Signorina Holm», disse alla segretaria che si trovava nell'anticamera, «davanti al ministero c'è un autista che aspetta. Vorrebbe per piacere dire alla guardia di mandarmelo qui? Lo faccia entrare direttamente, la prego, grazie.» E riattaccò il telefono. Mentre Carlsson riagganciava, Katharine, con tutta la sua forza, gli lanciò addosso sia la pesante caraffa sia il bicchiere. Carlsson si tirò indietro, ma fu colpito in faccia dalla brocca, che gli mandò in pezzi gli occhiali. Mentre cadeva all'indietro, dalla sua arma partì un colpo che distrusse il telefono della scrivania. Katharine aveva già la pistola tra le mani, pronta a sparare, ma non fu necessario. Will si era buttato addosso a Carlsson, seguito subito da Holmquist. Carlsson lottò selvaggiamente, urlando come un indemoniato, ma i due uomini non fecero fatica a stenderlo per terra a faccia in giù, con le braccia inchiodate dietro la schiena. Il capitano di vascello gli diede una forte botta in testa. «Taci, bastardo», sibilò in inglese. «L'uomo davanti al ministero fa probabilmente parte delle SPETSNAZ sovietiche ed è un assassino», disse Katharine al ministro. «Questa mattina ha ucciso una donna all'aeroporto di Stoccolma, credendo che fossi io. Bisogna fare subito qualcosa per fermarlo.» L'uomo prese un telefono e si mise a parlare rapidamente in svedese. Dopo aver riagganciato si girò verso di lei. «La guardia del servizio di sicurezza non lo aveva ancora fatto entrare. Gli ho ordinato di chiamare la polizia e lasciare che se ne occupino loro.» «È convinto, adesso, signor ministro?» gli domandò Katharine. «Oppure desidera ancora telefonare al senatore Carr?» «Come ha detto Carlsson», rispose il ministro, «non sarà necessario disturbare il senatore.» Si rivolse al capitano di vascello. «Holmquist, trasmetta al quartier generale del distretto militare l'ordine di non sparare sul sommergibile sovietico in nessun caso, qualunque sia la provocazione. Poi mi procuri subito un elicottero. Voglio recarmi nell'arcipelago e dirigere di persona le operazioni. Poi chiami il primo ministro, gli comunichi quanto
sta succedendo e faccia in modo che i servizi di sicurezza non lo lascino avvicinare da nessuno. Chiami anche il settore del controspionaggio alla polizia di stato e dica loro di venire a interrogare Carlsson. Voglio sapere tutto quanto quanto sa lui.» Prese di nuovo un telefono, fece un numero e cominciò a dare ordini in svedese. Due guardie del servizio di sicurezza, attirate dallo sparo, comparvero impugnando le pistole. Carlsson, su ordine del ministro, fu prontamente ammanettato. Il ministro riagganciò il telefono. «Portate Carlsson nel suo ufficio», ordinò loro. «Tenetelo lì in attesa dell'interrogatorio.» Si rivolse a Katharine. «Ogni installazione militare e ogni importante servizio civile sarà immediatamente circondato da forti contingenti armati, la mobilitazione generale comincerà subito.» Fuori, una lontana sirena prese a fischiare, poi un'altra e un'altra ancora. «Ecco», disse sorridendo, «ci siamo. È bello vedere eseguiti i propri ordini con tanta sollecitudine. Speriamo che non sia troppo tardi. Signorina Rule, le piacerebbe venire con me, insieme con il signor Lee?» Il lontano rombo di un elicottero si fece sempre più distinto. «Probabilmente saremo più al sicuro che a Stoccolma», commentò Katharine accettando. 55 Affascinata, Trina Ragulin vide i segni sullo schermo centrale dell'anfiteatro trasformarsi a uno a uno dal rosso al verde. «Gruppo Uno WIG pronto al decollo», disse Jones ad alta voce, mentre Trina osservava che il simbolo di un aereo in Estonia mutava colore. Majorov premette un pulsante del telefono nero. «Gruppo Cinque in Gothenberg è pronto!» gridò. «Gruppo Sette sulla strada di confine con la Norvegia è pronto!» «Ne abbiamo a sufficienza per muoverci, colonnello», urlò Jones. «Ora possiamo cominciare.» «No», rispose Majorov. «Dobbiamo ancora avere notizie di cinque unità. Le voglio tutte pronte e schierate al completo, prima di chiedere al segretario generale l'ordine di avanzata.» «Gruppo Quattro di Karlskrona è pronto, colonnello!» gridò qualcuno. Anche il suo simbolo diventò verde. Majorov, di colpo sembrò turbato. «Non riceviamo segnali da Gruppo
Uno di Stoccolma e Gruppo Tre da Strangnas. Che notizie abbiamo da loro? Non possiamo muoverci senza quei due.» «Non capisco», Jones scosse il capo. «Gruppo Uno è sul posto da più tempo di tutti gli altri. Che cosa mai può trattenerlo?» «Stanno ancora cercando Appicella e Lee», disse Majorov, sedendosi di nuovo. «Comunica loro di lasciar perdere le ricerche e di raggrupparsi subito. Li voglio pronti, in questo preciso momento!» Jones rispose a un telefono che suonava, disse qualche parola e si girò verso Majorov. «Abbiamo un messaggio da Gruppo Tre, da Strangnas. Si direbbe che il quartier generale del distretto di Stoccolma stia facendo un'esercitazione. Hanno chiuso i cancelli e stanno schierando truppe e carri armati tutt'intorno al perimetro.» «Non è possibile!» urlò Majorov. «Non sono previste esercitazioni fino alla settimana prossima! Carlsson ci ha comunicato i giorni!» Jones premette un altro pulsante e ascoltò. «Colonnello, Gruppo Uno riferisce che a Stoccolma suonano le sirene della difesa civile! Che cosa diavolo sta succedendo?» Mentre Jones parlava, Trina notò che sullo schermo di destra scomparivano le immagini del sommergibile arenato nell'arcipelago di Stoccolma e appariva un uomo seduto a una scrivania, in studio. «Mettete il sonoro sullo schermo tre!» urlò Majorov. «... ai nostri studi centrali a Stoccolma», disse una voce. L'uomo alla scrivania frugò tra i suoi fogli e cominciò. «Pochi minuti fa il ministero della difesa ha emanato un ordine di mobilitazione generale di tutta la Svezia. Tutte le licenze militari sono sospese. Tutti i membri delle forze armate devono immediatamente presentarsi a rapporto presso le loro unità. Tutte le truppe della riserva e tutti gli uomini delle unità di difesa civile devono accorrere subito ai posti preassegnati loro. Si chiede a tutti i sudditi svedesi che non fanno parte dei militari di riserva o delle unità di difesa civile di rimanere dove si trovano fino a nuovo ordine. Si comanda a tutti gli impiegati negli uffici e a tutti gli operai nelle fabbriche che non sono richiamati, di rimanere al loro posto di lavoro. Tutti i veicoli a motore privati devono fermarsi e lasciare libere le vie e le strade per il movimento dei mezzi militari e della difesa civile. Si chiede ai sudditi svedesi di limitare l'uso del telefono solo ai casi d'emergenza grave. Il governo e i membri del Parlamento hanno già cominciato a sparpagliarsi in posti sicuri da tempo preparati. Il ministro della difesa, che è in volo per Hoggarn, nell'arcipelago di Stoccolma, si occuperà di persona delle trattative con il sommergibi-
le sovietico là arenatosi nelle prime ore di questa mattina. Per ulteriori istruzioni riguardo la mobilitazione, ascoltate le stazioni radio locali.» L'annunciatore riprese a leggere daccapo il bollettino. Majorov era di nuovo in piedi. «Non ci credo. Non è possibile che stia succedendo tutto questo!» gridò. Bruscamente il telefono bianco nella scrivania del colonnello, con il suo trillo particolare, interruppe ogni attività nell'anfiteatro. Di colpo vi fu un profondo silenzio. Majorov fissò l'apparecchio come se fosse un serpente velenoso, mentre i forti squilli continuavano. Finalmente, lo prese in mano. «Qui parla Majorov. Sì, lo so, compagno segretario, abbiamo appena ascoltato le notizie alla televisione svedese. Ho ragione di credere che si tratti di un trucco difensivo. Chiedo il permesso di tenere pronte le mie truppe fino a quando mi arriveranno i rapporti delle mie unità in Svezia. Sì, compagno segretario, non più di trenta minuti.» Majorov posò il telefono. «Trucco difensivo?» Jones, in piedi alla sua scrivania, si rivolse a Majorov. «Gruppo Uno ha già dato notizia di uno stato di allarme generale a Stoccolma, Gruppo Tre ha riferito della chiusura del quartier generale di Strangnas. Non può essere un trucco!» «Taci!» gli urlò Majorov. «Voglio subito rapporti da tutte le unità su suolo svedese! Se necessario, non trasmettere in cifra!» Jones tornò ai suoi telefoni, premette pulsanti e diede ordini. Trina afferrò una bottiglia di vodka e un bicchiere, si avvicinò a Majorov e glieli mise sulla scrivania, versandogli un bicchiere di vodka. «Ecco, colonnello», gli disse stentando a nascondere la sua gioia, «penso che ne abbia bisogno.» «Vattene via!» urlò Majorov, ma prese con mano tremante il bicchiere e tracannò la vodka versandosene subito dell'altra. «I rapporti, Jones!» «Colonnello», gli urlò di rimando Jones, «i rapporti delle altre unità confermano quelli di Gruppo Uno. C'è un vero allarme generale in tutto il paese. Le truppe della riserva hanno cominciato a prendere posizione intorno agli obiettivi chiave. Purtroppo è vero, colonnello Majorov, la Svezia sta mobilitando.» Majorov fissava immobile e assente lo schermo centrale. I segni rossi dei movimenti delle truppe svedesi cominciarono ad apparire sullo schermo. Il telefono bianco squillò. Di nuovo sulla sala scese il silenzio. Il trillo del telefono bianco lacerò la quiete dell'anfiteatro. Gli occhi di tutti si appuntarono su Majorov. Majorov ignorò gli squilli del telefono bianco. «Jones», disse a bassa
voce, «trasmetti al sommergibile di Helder il codice 10301.» «Sì, colonnello», rispose Jones. Prese in mano un telefono, parlò, riagganciò. «Il codice 10301 è stato trasmesso», annunciò. Il telefono bianco sulla scrivania di Majorov smise di squillare. 56 In piedi sulla torretta del sommergibile Whiskey, Helder si guardò intorno. Le cose non procedevano per il giusto verso. Tutto era diventato molto tranquillo. Anche Kolchak se ne accorse. Erano oramai le prime ore del pomeriggio, il vento era calato, lasciando la distesa del mare calma come un lago. Faceva anche molto caldo, i serventi al pezzo di coperta sembravano sonnolenti. Poi, dall'acqua, giunse un suono lamentoso. Helder e Kolchak si voltarono contemporaneamente e videro il cacciatorpediniere svedese allontanarsi lento di mezzo miglio. I suoi cannoni, prima abbassati e puntati a livello del mare verso il sommergibile incagliato, si stavano sollevando. Sulle due vedette a duecento metri da loro, i cannonieri si scostarono dai pezzi, ormai puntati verso l'alto. «Che cosa succede?» domandò Kolchak. Helder fu divertito dal fatto che il commissario politico avesse bisbigliato. «Stanno arretrando», rispose. «Hanno ricevuto l'ordine di non sparare su di noi.» «Allora dobbiamo sparare noi su di loro», disse Kolchak, innervosito. «Abbiamo l'ordine di provocare un combattimento, se necessario, prima di arrenderci.» Helder non aveva nessuna intenzione di farlo. Si era proposto di non sacrificare vite umane, né russe, né svedesi, alla colossale ambizione di Majorov. «A questo proposito aspetterò l'ordine in codice», rispose. «La decisione non spetta a me.» «Non ne sono tanto sicuro», ribatté con prepotenza Kolchak. «È certo che non possiamo lasciare che le cose finiscano nel niente.» Helder drizzò le orecchie. «Che cos'è?» «Che cos'è cosa?» domandò Kolchak. «Io non... oh, sì, adesso lo sento...» Da lontano, chissà dove, oltre il canale, verso Stoccolma, arrivò il suono di una sirena in crescendo. «Ci dev'essere un incendio in uno dei villaggi dell'arcipelago», disse
Kolchak. «Un incendio in due villaggi», ribadì Helder, voltandosi a guardare verso sud. Un'altra sirena aveva cominciato a sibilare. Poi, mentre i due uomini ascoltavano, a questa si unirono altre sirene, vicine e lontane. «Che cosa sta succedendo?» domandò Kolchak. «È un trucco per snervarci?» Helder sorrise. «Può darsi che snervi te, ma non è un trucco. Gli svedesi hanno ormai capito.» «Vuoi dire che si è scatenato il pandemonio, secondo i piani?» «Non si è scatenato nessun pandemonio, Kolchak. Al contrario, gli svedesi non ci sono cascati.» «Smettila di fare il misterioso, Helder; che cosa vuoi dire?» Helder si accorse di un nuovo rumore che veniva da oriente. Prima pensò che fosse un'altra sirena. Ma il rumore cambiò, divenne un altro suono, si fece vicino. «Voglio dire che non ci sarà l'invasione», rispose Helder. «Gli svedesi hanno dato l'allarme e stanno mobilitando. Non li abbiamo colti di sorpresa. Non ci sarà l'invasione.» Helder si appoggiò al parapetto e guardò verso est. Un'imbarcazione stava avvicinandosi, rapidissima. Sembrava una specie di lussuoso motoscafo da diporto. Probabilmente un qualche eccitatissimo svedese veniva a dare un'occhiatina. Un altro rumore alle sue spalle lo fece voltare. Da ovest, dalla direzione di Stoccolma, arrivava un elicottero volando a bassa quota. «Ci sarà per forza l'invasione!» insistette Kolchak. «Majorov l'ha detto!» «Si dà il caso, Kolchak, che io fossi presente quando il segretario generale del nostro amato partito disse a Majorov di rinunciare all'invasione se fosse mancato l'elemento sorpresa.» Helder allungò una mano verso la scatola del portavoce. «Comandante in seconda.» «Signorsì», rispose la voce dell'ufficiale. «Porta su una bandiera bianca e preparati a issarla.» «Di che vai parlando?» urlò Kolchak. «I tuoi ordini sono di non arrenderti finché non ci sia stato urtò scontro a fuoco!» Helder si girò a sorvegliare di nuovo il motoscafo che arrivava veloce. «Non sei stato ad ascoltarmi, Kolchak. Tutto è finito. Adesso mangeremo per un bel po' a spese dello stato svedese.» Un altro suono impedì a Kolchak di rispondere. Il forte bib-bip di un congegno elettronico rimbalzò intorno alla torretta, seguito da un altro e un altro: cinque in tutto.
«Abbiamo un messaggio cifrato!» disse Kolchak, avviandosi al punto in cui era installata la radioricevente. Helder lo seguì. Il diodo, emettendo luce sul ricevitore, scrisse cifra dopo cifra un numero: 10301. «Ecco!» annunciò trionfalmente Kolchak. «L'invasione è ancora in programma! Manda il segnale con il sonar!» Il comandante in seconda arrivò in torretta con una bandiera bianca in mano. Kolchak si avvicinò al portavoce. «Radiotelegrafista!» urlò, «trasmetti il segnale con il sonar.» «Chi parla, prego?» domandò la voce del marconista. «Parla Kolchak, maledizione, il vostro commissario politico! Trasmetti il segnale con il sonar!» «Spiacente, signore», rispose il radiotelegrafista, «posso solo spedire il segnale con l'ordine del comandante.» Kolchak tirò fuori la pistola. «Helder!» urlò, «da' subito l'ordine, altrimenti ti sparo addosso, lì dove sei.» Il comandante in seconda stette a guardare, istupidito. Né lui né Helder erano armati. Helder sorvegliava di nuovo il potente motoscafo che si avvicinava. Adesso che era poco distante, vide a bordo un solo uomo, forse un vecchio. Quell'imbarcazione doveva fare tra i quaranta e i cinquanta nodi, pensò. Si rivolse di nuovo al commissario politico. «Kolchak, se manderò quel segnale, poco dopo una mina nucleare scoppierà nell'arcipelago a brevissima distanza da dove ci troviamo noi.» «Cosa dici?» «Lo so. L'ho messa io. Se esploderà, non soltanto distruggerà Stoccolma, ma spazzerà via anche te. Spedirà questo sommergibile e tutti noi direttamente all'inferno, capisci?» «Io capisco i miei ordini!» strillò Kolchak. «Da' istruzione all'uomo della radio! Altrimenti ti uccido e do io stesso l'ordine!» Helder si rivolse allo sbalordito comandante in seconda, in piedi con la bandiera bianca in mano. «Issala», gli ordinò. Kolchak alzò la pistola e sparò alla testa di Helder. Kate guardò giù dall'elicottero e vide un motoscafo arrivare da est a gran velocità e dirigersi verso il sommergibile. «Signor ministro, guardi», esclamò.
Il ministro, Will e il pilota allungarono il collo. Il motoscafo, con un solo uomo a bordo, solcò l'acqua parallelamente al sommergibile incagliato, poi prese a eseguire una curva di novanta gradi a destra, puntando diritto contro il Whiskey. I marinai a bordo delle altre navi indicarono con il dito, gli ufficiali e l'equipaggio del cacciatorpediniere si precipitarono alla battagliola e si sporsero a guardare. «Cristo», urlò il ministro. «Sta per speronare il sommergibile.» Oskarsson terminò la curva a tutto gas, con le due leve spinte, avanti il più possibile. I due giganteschi motori fuoribordo aumentarono l'intensità del rumore, fino a un sibilo, mentre salivano al massimo dei giri. Oskarsson scelse la rotta, dritta tra la torretta e il cannone di coperta, poi passò intorno a una maniglia del timone un pezzo di cima per bloccarlo. Prese dal sedile accanto al suo il fucile da caccia carico e si avvicinò al parapetto. Il motoscafo correva diritto senza sgarrare, sulle acque calme, prendendo velocità e seguendo rigidamente la rotta. Oskarsson agganciò un piede sotto al sedile, appoggiò le canne della doppietta sulla mano mutilata, le bloccò con il pollice e prese accuratamente la mira. Il sommergibile era a settanta metri, a cinquanta, a trenta. Oskarsson seguì il bersaglio nel mirino, fino a quando nel suo cervello qualcosa scattò. «Adesso, Ebbe, adesso!» poi premette il grilletto. Helder barcollò, perdendo l'equilibrio voltò la schiena a Kolchak e seguì con gli occhi la corsa del motoscafo che puntava dritto contro il sommergibile. La pallottola gli sfiorò la nuca nel momento in cui si girava, portandogli via il berretto. Adesso anche il furibondo Kolchak si voltò a guardare la barca che si avvicinava. Si precipitò alla battagliola accando a Helder. Veniva difilato contro di loro, a una velocità che sembrava incredibile. I serventi del pezzo, come un sol uomo, si buttarono a terra o si scaraventarono fuori bordo per sfuggire all'assalto del bianco proiettile. Helder vide il fucile da caccia qualche microsecondo prima che Oskarsson premesse il grilletto. Gli sembrò che il colpo partisse nel momento in cui il motoscafo andava a cozzare contro il ponte del sommergibile. Katharine, insieme con gli altri, osservò sbalordita il motoscafo mentre con la prua speronava il ponte, basso e inclinato, del sommergibile. Il possente fuoribordo s'impennò quasi verticalmente e volò di slancio oltre il ponte del Whiskey. Per prima ripiombò in mare la poppa, forse a trenta
metri dal sommergibile, poi la chiglia in tutta la sua lunghezza sbatté con forza sulla superficie dell'acqua, lanciando spruzzi da ogni lato. Il motoscafo continuò la sua corsa verso l'isola. Dopo qualche secondo strisciò su una secca, toccò la spiaggia e, slittando sul fianco, si fermò sulla sabbia. A Katharine parve di vedere un uomo sdraiato sul fondo dell'imbarcazione. «Pilota», ordinò il ministro, «atterri sulla spiaggia.» Helder aveva perso conoscenza per pochi secondi soltanto. Quando rinvenne, giaceva alla base della torretta e il comandante in seconda era chino su di lui. «Capitano! Capitano! Mi sente?» Helder si sollevò su un gomito e fu colpito immediatamente da una dolorosa fitta alla mascella. «Ha un paio di pallini conficcati nel collo», disse il comandante in seconda, «più altri due o tre in faccia. Non penso sia grave», terminò in tono rassicurante. Helder, in realtà, si sentiva malissimo e gli sembrava che la mascella fosse rotta. Ma pensò che non stava poi così male come Kolchak, che aveva preso la raffica della doppietta in piena faccia. Cervello e capelli impiastricciavano la stella rossa e i numeri dipinti sulla torretta. Aiutato dal comandante in seconda, Helder si alzò faticosamente in piedi e si appoggiò al parapetto. Guardò verso la spiaggia: un elicottero stava atterrando, qualcuno correva verso il grosso motoscafo, ora tutto all'asciutto. Si era sollevata una leggera brezza, che gli arruffò i capelli. «Non so chi fosse quel pazzo», disse al suo secondo, «ma mi auguro che i suoi colpi siano stati gli unici sparati in questa ridicola guerra. Issa quella fottuta bandiera bianca e spicciati!» 57 Impietrita, Trina Ragulin assistette insieme agli altri al volo del grosso motoscafo bianco sopra il sommergibile. La telecamera svedese inquadrò un primo piano della torretta del Whiskey. Trina vide Helder sollevarsi a fatica sui piedi e, con la faccia grondante sangue, lanciare un ordine a un altro ufficiale. Pochi momenti dopo, in cima al sommergibile, apparve una bandiera bianca. Majorov era di nuovo scattato in piedi. «Maledizione, Jones, ti avevo ordinato di trasmettere quel segnale!»
«L'ho trasmesso, colonnello», rispose Jones, «e l'ho confermato elettronicamente. Ma non abbiamo avuto contatto con la boa via satellite.» «Il sommergibile non ha trasmesso il segnale con il sonar!» urlò Majorov picchiando un pugno sul tavolo. «Mettiti in contatto con loro via radio... anche non in codice, se necessario!» «Ma, colonnello», osservò Jones, «il sommergibile è in silenzio radio, secondo le sue istruzioni. Non sono in ascolto. La loro radio è chiusa.» «Maledetto Helder!» urlò Majorov, martellando di pugni il tavolo. «Maledetto! Lo voglio far fucilare! Mettiti in comunicazione con Gruppo Uno a Stoccolma. Voglio che lo trovino e lo uccidano prima che possa parlare! Ha apertamente disobbedito a miei specifici ordini! Non ha inviato il segnale alla mina!» «Alla mina, colonnello?» domandò sbalordito Jones. «Trasmetti a Gruppo Uno!» urlò Majorov. «Non posso, colonnello, avranno già eseguito il piano d'emergenza in caso di allarme svedese. A quest'ora si saranno già dispersi.» «Voglio che mi portino qui Helder! Mettiti in comunicazione con la stazione di Stoccolma e di' loro di mandare gli uomini necessari!» «Non abbiamo modo di comunicare direttamente con la stazione di Stoccolma, colonnello», rispose Jones. «Ogni comunicazione con l'ambasciata deve passare per la centrale di Mosca.» Per la prima volta Trina vedeva Majorov incapace di dominarsi. Riportò lo sguardo allo schermo. Il sommergibile pullulava di marinai svedesi, una barella veniva calata dalla torretta. Trina riuscì a vedere la faccia di Helder, ancora insanguinata, che l'altro ufficiale stava detergendo. Ormai era in mano agli svedesi, che non l'avrebbero mai più liberato, dopo un incidente simile. Il telefono bianco trillò. Majorov, in piedi, faceva evidenti sforzi per dominarsi, mentre gli squilli si ripetevano incessanti. Tutta la sala si era fermata, tutti gli occhi erano puntati sul colonnello. Infine Majorov si lasciò ricadere sulla sedia e prese in mano il telefono. «Qui parla Majorov», disse. «No, compagno segretario, abbiamo conferma che l'allarme non era un trucco. Ho dato ordine di rinunciare al piano d'invasione. No, compagno segretario, nessuno è caduto in mano svedese... sì, eccetto l'equipaggio del sommergibile. Naturalmente non avevano altra scelta, dovevano arrendersi per forza. Chiedo che il ministero degli esteri cominci subito le trattative per riaverli, specialmente il comandante. È uno dei nostri uomini migliori... lo ha conosciuto a Mosca. Sì, compagno se-
gretario, domani mattina sarò lì da lei.» Majorov posò il telefono e si afflosciò sulla sedia. «Da' ordine di rinunciare al piano d'invasione», disse a Jones. Domani mattina devo andare a Mosca per una riunione. Il piano non è sepolto, Jones, solamente rimandato. Vedrai.» «Sì colonnello, certamente», rispose Jones a voce bassa. In piedi, Trina guardava il grande schermo. I segni verdi, uno per volta, diventarono rossi e svanirono. L'umore nell'anfiteatro era passato dall'entusiasmo allo scoraggiamento. In silenzio ognuno girava qua e là mettendo ordine. Poco dopo lo schermo principale si spense, rimase acceso solo quello del televisore. Trina vide calare la barella in una barca che si diresse verso l'isola sul fondo. Sapeva che Helder non sarebbe mai più tornato da lei, anche se i diplomatici sovietici fossero riusciti a trattare per la sua liberazione. Aveva trasgredito a qualche importante ordine di Majorov, ormai non poteva più tornare. Trina era di nuovo sola, più che mai sola. Nell'anfiteatro cominciarono a spegnersi le luci. Un soldato in divisa si avvicinò a Trina. «Mi daresti un po' di caffè?» le chiese, appoggiando la sua arma al banco. Trina gli versò il caffè e guardò l'arma. Era il fucile mitragliatore a canne lisce di cui le aveva parlato Helder. Lo esaminò con attenzione: scoprì l'otturatore, vide dov'era la sicura. Nell'arma c'era già un caricatore. 58 Quando il comandante del sommergibile arrivò in barella, Katharine e Will erano in piedi sulla veranda di fronte alla casa sulla spiaggia di Höggarn. L'edificio era diventato sede del comando della marina militare e brulicava di gente. Gli sconcertati proprietari cercavano di essere d'aiuto facendo caffè e panini. Per tutta la casa circolava la storia del pescatore Oskar Oskarsson, che all'interno intratteneva uno stuolo di giornalisti. Due marinai posarono delicatamente la barella sulla veranda, aspettando ordini. Katharine abbassò gli occhi sulla faccia sanguinante e gonfia, che non era ancora stata medicata. L'uomo cercava di parlare. Katharine si chinò su di lui, ma le parve che il ferito guardasse dietro di lei. «Salve, Lee», sentì che diceva. «Buon Dio», esclamò Will chinandosi. «È Helder, vero?» L'ufficiale aggrottò la fronte. «Come mai conosce il mio nome?» Will sorrise. «Quello schizzo che aveva fatto a Stoccolma, quello che mi
ha regalato. L'ha firmato 'Helder'.» Il ferito riuscì in gualche modo a sorridere. «Oh no! E io che avevo tanto studiato la mia copertura!» «È stato in gambissima», disse Will. «Solo ieri mi sono accorto della firma.» Katharine fissava a bocca aperta i due uomini. «Ma, che cosa state dicendo?» «Ti spiegherò dopo», disse Will. «Lee, non voglio ritornare in Unione Sovietica», disse Helder. «Chiederò asilo politico.» Will estrasse dal portafoglio un biglietto da visita. «Ecco dove potrà trovarmi. Mi faccia sapere se avrà bisogno d'aiuto.» Helder lesse il biglietto. «Allora, lei era un avvocato di campagna, vero? Anche la sua copertura era piuttosto buona. Ha ingannato Majorov.» «Non gli ho mentito», sorrise Will. «Non gli ho detto l'intera verità, ecco tutto.» «Proprio come lui non ha detto a me l'intera verità», commentò Helder. «Non mi ha detto della bomba.» «Bomba? Che bomba?» intervenne Katharine. «C'è una bomba, una mina nucleare, nell'arcipelago, non lontano di qui.» «Signor ministro!» gridò Katharine verso la porta principale. «È meglio che venga a sentire.» Il ministro accorse e ascoltò Helder raccontare la sua storia e dare le coordinate della bomba e la frequenza del segnale del sonar che avrebbe liberato l'antenna. «Non abbia paura», lo rassicurò Helder, «sono convinto che, se l'antenna non si stacca, non si può far esplodere la bomba!» Il ministro rientrò in casa. Un uomo con il passo dei giornalisti si accostò a Katharine e a Will. «Lei non è Will Lee?» gli domandò. «Sì», rispose Will, stupito. «Sono Fred Allen, corrispondente in Scandinavia dei giornali Cox, fra cui l'Atlanta Constitution. Lei non lavora a Washington per il senatore Carr?» «Si, ma in questo momento sono in vacanza.» «In vacanza?» disse il cronista ghignando. «E chi si sognerebbe di fare una vacanza di questo genere?» Si avvicinò il ministro. «Oh, questo giovanotto è l'eroe di tutta la storia», disse. «E...»
Katharine gli lanciò un'occhiata e scosse il capo. «Senta», insisté il cronista, «desidero sapere com'è andata.» «Non adesso», ribatté Will. «Ne parleremo dopo. D'accordo?» «Accetto solo a patto che mi prometta di non dare la storia a qualcun altro prima di me. Voglio il racconto di tutto l'accaduto da fonte sicura.» «Prometto, a nessun altro prima di lei.» Will si rivolse al ministro. «Signor Westberg, ho saputo che tutti gli aeroporti e i porti sono controllati. Crede di poterci aiutare a salire questa sera su un aereo per New York? Mi pare che ci sia un volo della SAS alle sette.» «L'uomo annuì. Certo, signor Lee», rispose, «manderò qualcuno ad accompagnarvi e a farvi passare attraverso i controlli dell'aeroporto.» Trasse in disparte Katharine e Will, perché il giornalista non l'udisse. «Signorina Rule», disse piano, «mi hanno comunicato che al Grand Hotel di Stoccolma c'è un italiano che sta mettendo all'asta quelli che a suo dire sono i piani d'invasione della Svezia preparati dai sovietici. Lei ne sa qualche cosa?» 59 Trina Ragulin si guardò intorno. Ormai l'anfiteatro era quasi deserto; mancava la luce che era venuta dallo schermo centrale, le lampade erano basse. Tutti gli altri uscirono, con lei nella grande sala rimasero soltanto Jones, Majorov e uno dei soldati di guardia, voltato a fissare lo schermo del televisore. Helder era scomparso dallo schermo, portato via dagli svedesi. Se n'era andato lontano da lei, lasciandola in balìa di Majorov. Nel silenzio si alzò la voce di Majorov, che probabilmente si credeva solo con Jones. «Una settimana a oggi sarei entrato nel Politburo», disse. «Me l'aveva promesso il segretario generale, personalmente.» «Mi dispiace, colonnello.» «Oh, vi entrerò lo stesso», continuò Majorov. «Ma non la settimana prossima. Domani andrò a Mosca e mi presenterò al Politburo. Affronterò nel miglior modo possibile la situazione. Inizierò indagini sul modo in cui gli svedesi hanno saputo dei nostri piani; questo mi occuperà per un po' di tempo.» «Lei non teme...» «Una punizione per il fallimento?» lo interruppe Majorov. «No di certo. Sarò protetto dal segretario generale e da due altri membri del Politburo,
dei quali ho in mano, diciamo, un'interessante documentazione scritta. In tutti i casi, ho dato alle unità SPETSNAZ un'espansione e una potenzialità che non sarebbero stati possibili sotto qualsiasi altro russo. Questo non lo dimenticherà nessuno, specialmente l'ammiraglio Gorskov, che trae benefici immediati dalla mia opera. No, Jones, ho ancora buone probabilità di riuscita. Ho ancora Furetto a Washington: dipende unicamente da me, lo dirigo di persona. Il solo Furetto, dato l'altissimo posto che occupa alla CIA, basterebbe a garantire la carriera di qualsiasi persona. Soprawiverò e prospererò, Jones. E non temere, ti porterò in alto con me.» «No, non sopravviverai», affermò Trina. Alle sue parole gli altri si girarono verso di lei. Il soldato cercò di balzarle addosso e Trina gli sparò un colpo. Bastò. La ragazza fece qualche passo all'indietro per allontanarsi dal banco, tenendo sempre puntato il fucile mitragliatore. Jones si era irrigidito al suo posto, Majorov si era alzato in piedi e stava voltandosi verso di lei. «Ragulin», disse a bassa voce, «metti subito giù quell'arma e sarà come se niente fosse successo. Il soldato non ha importanza, posso occuparmene io. Avrai ancora il tuo posto qui.» «E tu credi che io lo voglia ancora?» gli domandò lei con rabbia. Girandosi di poco, sparò a Jones, che precipitò oltre la ringhiera alle sue spalle e atterrò su una scrivania della gradinata sottostante. «Tu credi che mi piacerebbe passare il resto della mia gioventù come una bestia della tua stalla, a disposizione tua e di qualsiasi uomo in vista, picchiata e frustata come meglio ti pare?» Ora Majorov tentava di girare intorno alla sua scrivania, lentamente, con gli occhi fissi in quelli di Trina. La ragazza udì un rumore di passi che scendevano le scale verso l'anfiteatro. «Stanno ormai arrivando, Trina», disse Majorov. «Metti giù quell'arma, ti proteggerò da loro.» «Godo da tempo della tua protezione, Majorov», ribatté Trina. «E non ho nessuna voglia di ripetere l'esperienza.» Mise l'arma sull'automatico e premette il grilletto. Per una macabra combinazione di forze fisiche, la raffica fece sì che Majorov ballasse all'indietro lungo la ringhiera del palco, a mano a mano che veniva colpito dalla pioggia di pallettoni antiuomo. Una seconda raffica lo sollevò oltre il parapetto e lo fece balzare di gradinata in gradinata, giù fino al vano centrale, dove il suo cadavere a brandelli si fermò e giacque, insanguinando il tappeto. La porta dell'anfiteatro si aprì, due soldati in divisa balzarono dentro.
Trina Ragulin girò il fucile, si mise la canna rovente in bocca e premette il grilletto. Non udì mai il colpo. 60 Katharine aprì la porta dell'appartamento del Grand Hotel, seguita da Will. Il salottino era vuoto, e in un estremo disordine, con bicchieri sporchi e mozziconi di sigaretta. Poltrone e sedie erano fuori posto. «Cielo!», esclamò lei. «Questo posto sembra San Juan durante la stagione dei cicloni. Emilio!» gridò poi. «Sono qui.» Dalla camera accanto arrivò una voce soffocata. Katharine spinse la porta della stanza vicina ed entrò. Will la seguì. La stanza era vuota. «Qui dentro! Venite, prego!» «Sarà meglio che entri prima tu», disse Katharine indicando a Will la porta della stanza da bagno. Lei guardò dentro attraverso uno spiraglio e rise. «Tutto a posto», affermò. «Puoi venire senza temere per il tuo onore.» Entrarono tutti e due in bagno. Emilio Appicella era immerso fino alle orecchie nelle bolle di un bagno di schiuma, con un grosso sigaro piantato tra le labbra. «Ho sentito che la vostra missione è stata trionfale!» «Emilio», chiese Katharine, «che cos'è questa storia, che hai venduto alla stampa i piani russi d'invasione?» Un braccio serpeggiò fuori della schiuma, si ripulì con un asciugamano ed estrasse il sigaro dalla bocca. «Ah sì», disse Appicella mettendo in mostra tutti i suoi magnifici denti, «ho telefonato a qualche persona e indetto una piccola asta. Un'agenzia giornalistica americana mi ha sganciato trentamila dollari. Non è meraviglioso, il capitalismo?» «Emilio, quel documento era proprietà della CIA», disse Katharine dura. «Davvero», ribatté Appicella. «E quanto me l'hanno pagato?» «Ecco...», Katharine era turbata. «Sono sicura che avresti potuto ottenere dalla CIA un ottimo compenso.» «Grazie tante», disse Appicella, «ma non accetto mance. Comunque, non hai nessun motivo di preoccuparti così. Ho in serbo per te ancora moltissima roba.» Katharine si sedette sul coperchio della tazza. «Davvero? E che roba?» Appicella fece segno con il sigaro. «Sul mio letto c'è una cartella.»
«Vado a prenderla», si offerse Will. Tornò in bagno con una valigetta da pochi soldi, di plastica. Katharine l'aprì. Dentro c'erano due grossi fasci di dischetti e una busta marrone. «Che cos'è?» domandò Katharine. Appicella tirò una lunga boccata prima di rispondere. «Mentre lavoravo ai calcolatori di Malibu», spiegò infine, «vi ho installato una particolarissima scheda di mia invenzione. Ho detto a Majorov che era un modem, per mezzo del quale si poteva comunicare per telefono con il calcolatore. Naturalmente era qualcosa del genere, ma anche molto di più. Con una scheda analoga nel calcolatore di Rolf, ho potuto telefonare a Malibu, al calcolatore di Majorov e farlo funzionare da Stoccolma. Inoltre sono riuscito a programmare il loro calcolatore in modo che considerasse il software di Rolf nient'altro che uno dei tanti dischi.» Appicella tirò un'altra boccata di fuma, con cui formò un anello perfetto. «Poi ho semplicemente trasferito quanto era sul disco di Majorov al disco di Rolf.» «Capisco», sorrise Katharine con il viso raggiante. «E quei dischetti sul tuo graziosissimo grembo contengono tutte le informazioni che erano nel calcolatore di Malibu», disse Appicella, indicandoli di nuovo con il sigaro. «Naturalmente, ce ne sono due copie; bisogna sempre tenere una copia di riserva per ogni cosa.» «Dimmi», gli chiese Katharine, stringendo gli occhi. «Majorov sa che l'hai fatto?» «No, certo», disse Appicella. «Ora possiede un sistema multiutente. Io non sono altro che uno degli utenti e posso continuare a servirmi del suo calcolatore finché sarà in funzione.» «È un regalo, Emilio?» gli domandò Katharine insospettita. «Un mio regalo a te», affermò sorridendo l'italiano. «Però, se la CIA volesse continuare a servirsi del calcolatore di Malibu, le chiederei centomila dollari per la mia specialissima unica scheda.» «Presenterò volentieri la tua proposta all'Agenzia, Emilio. Credo che non opporranno difficoltà.» «Benissimo», disse Appicella compiaciuto. «Appena riceverò i soldi sul mio conto di Zurigo, ti spedirò la scheda... dimenticavo, il numero del conto è scritto sulla busta.» Poi il suo viso si fece serio. «Purtroppo ho un altro dono per te, mia cara. Nella busta.» Katharine prese dalla busta un fascio di fogli. «Che cos'è?» «Facendo la copia degli archivi, ho scoperto che alcuni erano protetti. Dato che io stesso, in una precedente visita a Majorov, avevo ideato il si-
stema di protezione, è stato facile accedervi. Erano gli archivi privati di Majorov. Contengono informazioni sulle due talpe che dipendevano direttamente da lui, una in Svezia e una, purtroppo, negli Stati Uniti. Majorov non cita mai i loro nomi, ma chiama Foca lo svedese e Furetto l'americano.» «Foca è senza dubbio Carlsson», disse Katharine sfogliando le pagine. «E Furetto?» le domandò Will. Katharine smise di scorrere velocemente il plico e si mise a leggere. «C'è il racconto del modo in cui fu reclutato», disse. «Questo ci permetterà di capire chi è senza ombra di dubbio.» A mano a mano che proseguiva nella lettura il suo viso si velava di tristezza. «Mi rincresce, Kate», disse Will. «So che questo è molto spiacevole per te.» Lei si alzò in piedi. «Ho bisogno di qualche minuto per riflettere, Will.» Ritornò quindi in salotto e si lasciò cadere su un'ampia poltrona. Per mezz'ora studiò il problema sotto ogni aspetto e soppesò varie soluzioni. Infine prese il telefono e chiese al centralino il prefisso per gli Stati Uniti. Fece il numero del centralino della CIA e chiese di essere messa in linea con l'ufficio del direttore. «Qui, ufficio del direttore della CIA», disse una voce d'uomo. «Sono Katharine Rule», disse Katharine, «dell'ufficio sovietico. Mi faccia parlare subito con il direttore, prego.» La voce si fece gelida. «Il direttore in questo momento è occupato, signora Rule. Di che si tratta?» «Lo avverta che chiamo da Stoccolma», rispose Katharine. «Sono convinta che accetterà di parlarmi.» «Un momento, prego», disse l'uomo. Ci fu qualche secondo d'attesa, poi una rauca voce maschile disse: «Stoccolma! Che cosa diavolo sta facendo a Stoccolma, signora Rule? Non guarda la televisione? Non ha idea di che cosa vi sta succedendo?» «Sto parlando con il direttore?» domandò cortesemente Katharine. «Sono io, maledizione; e voglio sapere in questo preciso momento che cosa sta facendo a Stoccolma. Questa linea è sicura?» «No, non lo è, ma non è necessario perché non parleremo di questioni delicate durante la nostra conversazione. Le spiegherò che cosa sto facendo a Stoccolma domani mattina a New York», disse lei. «Domani mattina ho una riunione del Consiglio nazionale di sicurezza e non sarò a New York.»
«Mi ascolti con attenzione», replicò Katharine. «Si tratta di una cosa gravissima. Voglio vedere lei, Simon Rule, Alan Nixon ed Ed Rawls domani mattina alle sei nella sala di prima classe delle linee aeree scandinave.» «Non tollero imposizioni da lei.» «Allora mi stia bene a sentire. Fuori della sala di prima classe ci sarà un bello stuolo di giornalisti della libera stampa americana. Se non sarete tutti lì, parlerò con loro e, mi creda, non le piacerà affatto quel che si leggerà in proposito sui giornali.» Ci fu un lungo momento di silenzio. «Sa quel che sta facendo, signora Rule?» le domandò infine il direttore. «Sa in che stato è in questo momento la sua carriera? Ha la benché minima idea di quanto le succederà quando tornerà a Langley?» «Non ritornerò a Langley se lei non sarà a New York domattina alle sei con il gruppo che ho nominato. Se non sarete lì, nei prossimi mesi passerò molto del mio tempo alla televisione. È chiaro?» Un altro lungo silenzio. «Va bene, signora Rule, ci saremo.» «Un'altra cosa», aggiunse lei. «Nessuno degli altri deve sapere dell'incontro fino a domani mattina. Telefoni a casa loro dandogli appena il tempo di prendere l'elicottero.» «Niente altro?» «Sì, voglio che siano presenti due agenti dell'FBI. Non devono venire con il vostro elicottero e gli altri non devono sapere che ci saranno. Ed è bene lei sappia che nel caso di tentativi d'arrestarmi o di trattenermi, ho preso provvedimenti perché la stampa riceva ogni necessaria informazione.» «Va bene, accidenti a lei!» «Ancora una cosa, l'ultima», continuò Katharine. «Avverta Simon di portare mio figlio all'incontro. O Peter viene, o io non parlo, intesi?» «Intesi», disse il direttore con tono sconfitto. «Arrivederci», disse Katharine. Dopo aver riattaccato si premette le mani contro la nuca e la massaggiò. Se non riusciva a fare un bagno e a dormire un momento, le sarebbe mancata la prontezza di spirito necessaria per affrontare con successo l'incontro del mattmo dopo. Ed era importante condurlo a buon fine. 61
Quando atterrarono a New York, Katharine si sentiva stranamente fresca e riposata. Per la prima volta dopo due giorni nelle comode poltrone letto della prima classe, aveva potuto riposare. Si voltò verso Will, seduto accanto a lei. «Bene, ci siamo. È tutto chiaro?» «Certo.» Katharine gli consegnò una serie di dischetti e una dozzina di copie degli archivi di Majorov. «Gironzola fuori della sala, finché usciremo. Mi auguro che quei giornalisti che hai convocati ci siano.» «Stai tranquilla. Ci saranno i reporter di tutti e tre i quotidiani di New York, Washington Post, Time e Newsweek, le agenzie stampa e anche le tre reti televisive. Il senatore Carr ha permesso che mi servissi del suo nome.» «Benissimo, se mi porteranno via di peso, urlante, dalla riunione parla con loro e distribuisci in giro gli archivi di Majorov. Di questa faccenda sai tutto quel che so io, perciò conto su di te perché la divulghi, in caso io non uscissi dall'incontro con la testa sulle spalle.» «La tua testa mi piace dove si trova adesso, ti prego caldamente di tenertela ben stretta.» «Per favore, la signora Rule si metta in contatto con un'hostess», disse una voce all'altoparlante. Katharine fece un cenno a una delle ragazze, che si avvicinò premurosamente. «Lei è la signora Rule? Ci è stato comunicato che qualcuno le verrà incontro all'uscita. Vorremmo che lei scendesse per prima dall'aereo, se non le rincresce.» «Benissimo», rispose Katharine, alzandosi dal suo posto. Ammiccò a Will. «Sarà meglio che tu finga di non conoscermi, per il momento», gli disse. Will l'attirò verso di sé e la baciò. «Ti posso invitare a cena questa sera?» Katharine lo abbracciò strettamente. «Se questa sera non sarò in arresto, offrirò io. L'avevo promesso, ricordi?» Will sogghignò. «Prenoterò alla Maison Blanche. Abito da sera?» «Certo.» Katharine si girò per seguire l'hostess, cercando di mantenere l'equilibrio mentre l'aereo rullava sulla pista fermandosi poi vicino a un'uscita del terminal. Si aprì lo sportello, entrò a bordo un uomo vestito di blu. «La signora Rule?» le domandò, mostrandole un documento di ricono-
scimento. «Sono l'agente speciale Madison, dell'FBI. Vuole seguirmi, per favore?» L'agente scortò Katharine attraverso il controllo passaporti e la guidò fino alla sala di prima classe della SAS. Mentre ne varcava la soglia, Katharine barcollò sotto il peso di un ragazzino che si era scagliato con forza su di lei. «Mamma, oh, mamma!» urlò Peter, facendo sorridere tutti gli occupanti della sala. «Sono così contento di vederti! Dove sei stata?» Katharine abbracciò il figlio disperatamente, poi lo allontanò da sé per vederlo. «Te lo racconterò più tardi», gli disse. «Nel frattempo, qui c'è qualcosa per te.» E tirò fuori del suo borsone un pacco. Il ragazzino strappò la carta che l'avviluppava. «Una macchina fotografica!» gridò. «Accipicchia, come hai saputo che ne volevo una?» «Ho tirato a indovinare», sorrise lei. «Ascolta, Peter, devo incontrare delle persone. Tu rimani seduto qui per un momentino, leggi le istruzioni della macchina, poi ce ne andremo insieme. D'accordo?» «Senti», disse Peter con un bisbiglio molto forte, «papà è furibondo per non so che cosa. Credo che non gli sia piaciuto alzarsi così presto. E poi è molto nervoso. Non l'ho mai visto così preoccupato.» «Ti ringrazio d'avermelo detto, tesoro; adesso va' a cercarti una poltrona, intesi? Mi pare di vedere laggiù pasticcini e aranciate.» Il ragazzino si allontanò saltellando con la sua macchina fotografica. L'agente Madison le indicò una porta chiusa. «La sala della riunione è lì», disse. «È stata controllata? Non ci sono microspie?» «Noi pensiamo sempre a tutto», affermò l'agente con un sorrisetto. «Vorrei che venisse anche lei con il suo compagno, per favore. Ci sarà da fare un arresto. Ascolterete le prove d'accusa.» Madison fece un cenno a un altro uomo seduto nella sala. «Questo è l'agente speciale Ward. Ward, parteciperemo alla riunione. Ci sarà un arresto.» «Siete armati?» domandò Katharine. «Sì, signora», rispose Madison. «Bene», disse lei, «andiamo.» Aprì la porta ed entrò. Il direttore era seduto al capo di un tavolo rettangolare: Alan Nixon era alla sua destra, Ed Rawls alla sua sinistra. Simon era appoggiato alla parete dietro il direttore. Katharine sedette al capo opposto. Gli uomini dell'FBI rimasero in piedi alle sue spalle.
«Allora, signora Rule, siamo pronti ad ascoltare ciò che ci deve comunicare», disse il direttore. «Buongiorno, signori», salutò Katharine. «Grazie d'essere venuti a incontrarmi facendo una levataccia.» «Ci siamo stati costretti, Katharine», sbuffò Nixon. «Adesso fuori con quel che hai da dire.» Katharine aprì la valigetta di plastica che aveva posata sul tavolo. «Penso che tutti siate informati del tentativo compiuto ieri dall'Unione Sovietica d'invadere la Svezia.» Simon prese la parola. «Riceviamo rapporti d'ogni sorta. Non abbiamo ancora un quadro d'insieme.» Katharine finse di non averlo sentito. «L'invasione fu progettata a Liepaja, sulla costa lettone, in una base sovietica chiamata Malibu, da un uomo di nome Majorov, un tempo direttore delle operazioni estere del KGB, il quale l'ha poi guidata da quella stessa base.» «Ma sì, Katharine, sappiamo tutto di quella tua teoria», sbuffò Alan Nixon. «Non è più una teoria, Alan», ribatté lei, prendendo dalla cartella la pila dei dischetti. «Questi contengono tutti i dati memorizzati nel calcolatore di Malibu, compresi tutti i piani dell'invasione. Ti garantisco che le indagini più accurate ne dimostreranno l'autenticità.» «Come hai fatto a procurarteli?» le domandò Simon. «Ne parleremo dopo, Simon», rispose Katharine. «Ma ti dirò subito che tra questi archivi ci sono anche gli archivi privati dello stesso Majorov, che rivelano tantissime cose.» Simon si staccò dalla parete. «Kate, questo non è né il momento né il luogo giusto.» «Proprio il contrario, Simon», ribatté lei, «questo è il momento e il luogo giusto. Adesso sta' zitto sino alla fine.» Stentava molto a dominare la collera. «Prosegua, signora Rule», disse il direttore. «Questi archivi privati di Majorov», continuò Katharine, «ci rivelano che ai piani d'invasione della Svezia collaborò efficacemente una talpa nel ministero svedese della difesa, chiamata Foca. Il vero nome di Foca è Sven Carlsson: costui dirigeva fino a ieri, quando fu arrestato, la cancelleria di quel ministero. Ho saputo che da quel momento parla a tutto spiano.» Cambiò posizione sulla sedia. Una parte di lei gongolava, ma l'altra tremava al pensiero di ciò che stava per rivelare. «Dagli archivi risulta anche
che Majorov aveva una talpa nella CIA», annunciò, poi fece una pausa. Gli ascoltatori s'irrigidirono sulle loro poltrone. «Era chiamato Furetto e il suo vero nome non è citato negli archivi. Tuttavia gli archivi riferiscono parte della sua storia. Svolgeva lavoro attivo a Stoccolma nel 1970 e nel 1971; qui incontrò Majorov, che a quei tempi dirigeva la stazione di Stoccolma presso l'ambasciata sovietica, con il nome di Firsov. A Stoccolma Furetto fu convinto da Majorov a fare il doppio gioco, non so ancora come. Considerando chi è quell'uomo e il suo passato nell'Agenzia, è difficile spiegarselo.» Si girò leggermente verso Ed Rawls. «Che cos'è stato, Ed, una donna? Un ricatto? Certamente non l'ideologia.» Tutti i presenti si girarono a guardare l'uomo, che impallidì, ma non parlò. «Rawls», continuò Katharine, «incontrò a Stoccolma anche Malakhov, solo brevemente, a sentir lui. Ma due anni fa, quando Malakhov decide di defezionare a New York, da chi pretende di essere interrogato, di chi diventa l'agente? Ed Rawls, naturalmente, la cui carriera, negli ultimi dieci anni, aiutata da informazioni fornite da Majorov, è stata brillantissima. Però si svolgeva tutta all'estero, mentre Majorov aveva bisogno di una talpa a Langley; per questo ci diede in pasto Malakhov, con Ed Rawls che ci imboccava.» Simon era seduto e si teneva la testa tra le mani. Katharine respirò profondamente, prima di continuare. «Così Ed, grazie alla sua clamorosa carriera e al lavoro svolto con Malakhov, ottiene l'incarico di assistente del vicedirettore della sezione operativa e si trova nella posizione giusta per poter svuotare gli archivi della CIA in grembo a Majorov. E subito scopre due cose. La prima è un'operazione della massima stupidità, detta Fiordineve, che punta a far credere ai sovietici che gli svedesi stanno per entrare nella NATO. Questa divulgazione di notizie false ebbe un risultato inatteso, poiché fornì a Majorov la spinta iniziale per il suo piano d'invasione. La seconda scoperta è che io sono sulle tracce di Majorov e che nessuno mi crede. E qui Rawls ha un'idea davvero geniale.» «Tutti questi sono fatti suffragati da prove, Rule?» le domandò bruscamente il direttore. «O è un'altra delle sue tante teorie?» Di colpo Ed Rawls si animò. «Taci e ascolta, fottuto balordo», disse al direttore. «Sta parlando una professionista. Potresti imparare qualcosa.» «Grazie, Ed», disse Katharine. «Rawls, conoscendo i piani d'invasione di Majorov, capì che Fiordineve era una bomba a orologeria. E quando mi sentì esporre le mie teorie durante l'incontro nel tuo ufficio, Simon, si ac-
corse di averne scoperto il detonatore. Cominciò a incoraggiarmi, mentre senza dubbio sparlava alle mie spalle con tutti voi. Mi propinò Malakhov, per stuzzicarmi l'appetito. Mi spedì con la posta interna un vecchio bollettino militare, dove si leggeva l'annuncio della nomina di Majorov; mi tenne per davvero sulla corda. Naturalmente, intendeva provvedere a far fallire ogni mio tentativo; ma, dopo che i sovietici avessero trionfalmente invaso la Svezia, avrebbe fatto in modo che la stampa venisse a sapere di Fiordineve e del mio coraggioso, ma fallimentare, tentativo di convincere qualcuno della necessità di avvertire gli svedesi. Così avrebbe messo alla berlina i servizi segreti americani in due modi: primo, dimostrando che avevano spinto i sovietici a prendere provvedimenti per difendere le coste del Baltico, e in secondo luogo, che non avevano voluto avvertire gli svedesi di quel che stava per abbattersi su di loro.» Ora il direttore era pallido. Fece segno ad Alan Nixon di versargli acqua dalla brocca sul tavolo. «Così», continuò Katharine, «se l'invasione fosse riuscita, la stampa avrebbe lanciato la più feroce campagna diffamatoria nella storia del nostro paese, contro un ente governativo. Naturalmente Simon, come ideatore di Fiordineve, sarebbe stato scaraventato fuori a calci. E chi l'avrebbe sostituito? Chi, se non il suo vice, Ed Rawls, l'uomo dalle mani pulite, perché era nell'Europa orientale quando operazione Fiordineve era stata escogitata? E poi, signor direttore, ammesso che lei fosse rimasto in carica per tutta la durata di questa presidenza, cosa di cui dubito, forse il nuovo presidente si sarebbe guardato bene dal nominare un altro politicante preso tra i suoi amici e avrebbe magari scelto un professionista. E chi sarebbe stato tra i candidati alla carica di direttore della CIA? Ed Rawls dalla brillante reputazione, l'eroe della defezione di Malakhov.» Katharine Rule smise di parlare per versarsi un bicchiere d'acqua. «Adesso la situazione è chiara?» Tutti fissavano il tavolo, eccetto Ed Rawls, che fissava gli uomini dell'FBI. Katharine girò la testa verso di loro. «Bene, agente Madison», disse, «ora può arrestare il signor Rawls.» Prese dalla sua cartella una fotocopia degli archivi di Majorov e li buttò sul tavolo. «Qui c'è tutto quanto vi occorre per convalidare le accuse. Dovrete anche arrestare subito Malakhov, prima che abbia tempo di svignarsela. Ed, darai loro il nuovo indirizzo di Malakhov, vero?» Rawls fece cenno di sì. Sembrava incapace di parlare. «Signor Rawls?» disse Madison.
Ed Rawls si alzò in piedi lentamente. Madison e Ward lo spinsero bruscamente contro il muro e cominciarono a perquisirlo minuziosamente. «Cercate una pillola o un ago», consigliò Katharine. «Lo voglio vivo per il processo.» Gli agenti continuarono a perquisirlo per altri tre minuti. «Non ha niente addosso», disse infine Madison, mettendogli le braccia dietro la schiena e facendo scattare le manette. «Andiamo, signor Rawls.» Mentre uscivano dalla sala, Rawls si fermò vicino alla sedia di Katharine. «Katie», disse, «scusami per quella faccenda all'aeroporto di Stoccolma. Non lo sapevo, te lo giuro.» Lei si alzò, fece un passo indietro e lo colpì più forte che poté con la mano aperta. Nonostante la sua mole, Rawls barcollò e andò a sbattere contro l'agente Ward. «Adesso portatelo fuori di qui», disse Katharine con voce tremante di rabbia. Gli altri erano tutti in piedi. «Sedetevi», urlò allora lei con lo stesso tono. «Non ho ancora finito.» Ognuno tornò di malavoglia al proprio posto. «Adesso, signori, dobbiamo stabilire quanto di tutto questo sarà divulgato.» «Katharine», la interruppe Simon, «non puoi pensare seriamente di raccontare tutto ai giornalisti!» «E invece è così», rispose Katharine. «L'unica cosa che è ancora possibile discutere, ormai, è quanto comunicheremo alla stampa. Propongo questo. Signor direttore, uscendo da questa sala lei farà ai giornalisti che aspettano fuori una breve dichiarazione. Dirà che un alto funzionario della CIA è stato arrestato e sarà incriminato per spionaggio in favore dell'Unione Sovietica. Ci sarà naturalmente una grandinata di servizi giornalistici, tutte e due le Camere avvieranno indagini. Ma l'Agenzia è in grado di superare, con il tempo, la crisi. Non potrà certo superarla, però, se voi tre continuerete a farne parte.» «Che cosa?» Alan Nixon quasi urlò. «Secondo te dovremmo andarcene noi?» «Non capisco come uno qualsiasi di voi potrebbe restare, Alan. Non solo vi chiedo di andarvene, ma lo pretendo. Tu, Simon, hai ordito senza il permesso del Congresso un'operazione cervellotica che per poco non si è conclusa con la conquista sovietica di otto milioni e mezzo di svedesi; e, tra tutte le migliaia di uomini della CIA, hai scelto come collaboratore il più grande traditore della nostra storia, dai tempi di Benedict Arnold. Sono
azioni che non reggerebbero a un esame del Congresso o della stampa.» Puntò quindi il dito su Nixon. «Tu, Alan, hai agito in collusione con il vicedirettore della sezione operativa per nascondermi l'esistenza di Fiordineve e per intralciare ogni mio sforzo teso a denunciare i piani sovietici, fino al punto di minacciarmi di un'indagine interna o di un trasferimento. Sottoposto a un esame del Congresso, te ne andresti lo stesso giorno di Simon.» Si volse poi al direttore. «Lei, signor direttore, ha approvato e incoraggiato l'operazione Fiordineve e, sin dal giorno dopo la sua nomina, ha costantemente lavorato a intralciare l'acquisizione di informazioni fornite da uomini, opponendovi l'uso dell'alta tecnologia. Lei è un pericolo ambulante per i servizi segreti americani che dirige. Se uno qualsiasi di questi fatti trapelasse, il suo amico presidente lo licenzierebbe di punto in bianco.» Smise di parlare. A quanto pareva, nessun altro aveva voglia di prendere la parola. Il direttore aveva il viso cinereo, tanto che Kate, fino a quando lui non aprì di nuovo bocca, pensò si sentisse veramente male. «Non richiederà altro che le nostre dimissioni, signora Rule?» le domandò l'uomo. Katharine fu commossa dall'implorazione nella sua voce. «Concedo a tutti di salvare la faccia e la pensione», affermò, «purché ve ne andiate dalla CIA entro trenta giorni, accampando le scuse che preferirete. Altrimenti ogni cosa sarà comunicata alla stampa. E spero mi crediate se vi dico che ho preso ogni necessaria precauzione perché i fatti siano resi di pubblica ragione qualora per un motivo qualsiasi non riuscissi a farlo io stessa.» «Ti credo, Katharine», disse Simon a bassa voce. «Esigo la vostra risposta adesso, prima che incontriate la stampa», continuò lei. A uno a uno i tre uomini fecero sì con la testa. «Bene, signora Rule», disse il direttore. «Ha vinto. Ha la mia parola. Me ne andrò entro un mese.» «Anch'io», disse Nixon. «Bene, Katharine», sospirò Simon. «Ma che ne sarà di te? Non crederai di poter rimanere nella CIA e di farvi carriera? A nessuno, se non alla stampa, piacciono le spiate. Nessuno dell'Agenzia si fiderà più di te.» «Forse che sì, forse che no, Simon», ribatté Katharine. «Ma, comunque darò anch'io le dimissioni, appena avrò visto voi tre andarvene.» Il direttore si alzò. «Se lei non ha più niente da dire, sbrighiamoci e fac-
ciamola finita!» «Non ho più niente da dire», confermò lei. «Vi lascerò soli con i giornalisti.» Aspettò che i tre uomini uscissero, poi li seguì nel salone. «Vieni Peter», gridò al ragazzino. «Will ci aspetta.» «C'è anche Will? Oh che bello!» «Sì. E non dobbiamo perdere l'aereo per Washington.» «Be', non sarà divertente come l'elicottero», rispose Peter. Sul volo per Washington quasi vuoto, con Peter addormentato in grembo, Katharine raccontò a Will quel che era successo alla riunione appena terminata. «Sai», gli disse stancamente, «qualche volta vincere non è poi tanto divertente. Carriere distrutte, un colossale rimpasto all'Agenzia in conseguenza dell'arresto di Ed Rawls. Ci sarà un guazzabuglio fenomenale.» «Sono contento che tu non gongoli di maligno piacere», commentò Will, «ma sono convinto che l'Agenzia aveva bisogno di qualcosa del genere. Quando il polverone che hai sollevato sarà ridisceso, diventerà per forza un posto migliore. Ed è merito tuo.» «Grazie», disse Katharine abbozzando un sorriso. Poi continuò con aria assorta: «Quando gli svedesi avranno finito di parlare ai giornalisti e quando avrai mantenuto la promessa di raccontare tutto a quel cronista, la faccenda farà molto rumore. Proprio quel genere di rumore che potrebbe mettere in evidenza un candidato al senato per la Georgia.» «È un'idea», disse Will. «Vedremo come vanno le cose. Ti piacerebbe essere la moglie di un senatore?» «Vedremo come vanno le cose», rispose Katharine, stringendogli una mano tra le sue. «Kate», domandò ancora Will, «hai detto a quelli là che avresti dato le dimissioni dalla CIA. Le darai davvero?» Katharine gli fece un ampio sorriso. «Vedremo come vanno le cose», disse. RINGRAZIAMENTI L'autore desidera esprimere la sua riconoscenza a queste persone, elencate secondo l'ordine cronologico della loro collaborazione: Richard Cohen, per avere pensato a me quando ebbe un'idea e per i suoi sforzi in favore del nostro progetto; Ebbe Carlsson, per la sua amicizia, per il suo entu-
siasmo, per la sua calorosa ospitalità a Stoccolma e per le molte presentazioni a preziose conoscenze (invio anche le mie scuse per avere chiamato con il suo nome due dei più infelici personaggi); l'ammiraglio sir Ian Easton della marina militare inglese (a riposo), per il suo eccezionale aiuto nelle questioni strategiche e per la sua ottima compagnia; Richard Clurman, per avere scovato con eccezionale velocità informazioni di vitale importanza e per la sua amicizia; Stafan Skott per l'ambientazione e per avermi presentato al mio primo russo; Clive Egleton per alcune presentazioni; il colonnello dell'esercito inglese (a riposo) Jonathan Alford dell'istituto studi strategici di Londra, per avermi ascoltato senza ridere e avermi aiutato a dare forma alle mie teorie; il capitano della marina militare inglese (a riposo) John Coote, per consigli tecnici, utilissime chiacchierate sui sommergibili e alcune presentazioni; Jan Henrik e Babro Schauman per avermi mostrato per la prima volta il Baltico da vicino e per la loro generosa ospitalità a Helsinki; Raymon Benson, consigliere per gli affari pubblici all'ambasciata degli USA a Mosca, per dati preziosissimi, contatti, esperienze in quella città; Shirley Benson per la sua cortese ospitalità e per tutto il caviale che mi ha offerto; Lyndon Allin e Nicholas Burakow del consolato americano a Leningrado per le presentazioni e per le ore di affascinante conversazione; Mary Ann Allin per la sua calorosa ospitalità e per la sua altrettanto brillante conversazione; Anne Eaton per le sue cortesi presentazioni nell'Unione Sovietica; Tom Susman, per avermi fatto parte della sua profonda conoscenza di Washington; John Packs, dell'ufficio del senatore Edward Kennedy, per avermi facilitato il viaggio nell'Unione Sovietica; il comandante Richard Compton-Hall, della marina militare inglese (a riposo), direttore del museo sottomarino della base navale di Portsmouth, per essere stato prodigo delle sue profonde conoscenze sui sommergibili in generale e sui sommergibili tascabili in particolare; Wendell Rawls, Jr., per presentazioni e incoraggiamenti; Bo Erikson, del ministero svedese della difesa, per le informazioni (non segrete) sul sistema difensivo svedese; David Binder degli uffici di Washington del New York Times per avermi fatto partecipe della sua conoscenza dei servizi segreti americani e per le sue presentazioni; Eric Swenson, il mio redattore, per il continuo interessamento e appoggio al mio lavoro, per la sua pazienza, buonumore, affettuosa amicizia; Judy Tabb Woods, che mi ha sposato nel bel mezzo di tutto questo e ha amorevolmente protetto la mia tranquillità d'animo mentre finivo il libro. E chiunque io abbia stupidamente dimenticato. Infine devo esprimere la mia più calorosa gratitudine a tutti coloro che
non posso nominare per timore di causare loro imbarazzo o peggio: in Svezia, a membri del parlamento, del ministero degli esteri, del ministero della difesa, dei servizi d'informazione della marina, della sezione controspionaggio della polizia per la sicurezza dello stato e dell'amministrazione del governo svedese; nell'Unione Sovietica, a quei dissidenti, cittadini normali e alti funzionari che, certo senza accorgersene, fornirono allo scrittore l'ambiente, il colore, il gusto della vera vita nel loro paese, specialmente quelli che avevano fama di essere (e magari erano) del KGB; negli Stati Uniti a quelle persone della CIA, tutti leali, che mi aprirono uno spiraglio sugli usi e sui procedimenti dell'organizzazione e mi lasciarono capire quanto di essa amano e quanto li manda invece in collera. Tutte le persone qui sopra citate parteciperanno al successo di questo libro, se ne avrà, ma non sono responsabili del modo in cui ho travisato, ignorato o contraddetto le loro opinioni, per narrare una storia. FINE