MILDRED DAVIS IN MEMORIA DI QUELLA LÀ (Tell Them What's-Her-Name Called, 1975) 5 GIUGNO Ferma sull'orlo del dirupo, Ruth...
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MILDRED DAVIS IN MEMORIA DI QUELLA LÀ (Tell Them What's-Her-Name Called, 1975) 5 GIUGNO Ferma sull'orlo del dirupo, Ruth Wuhermann guardava il panorama che si stendeva sotto di lei. Le colline ricoperte di arbusti scendevano in molli declivi fino al rettilineo in fondo alla valle. Da quella distanza, il gruppo di case costruite ai piedi della Whitefield Mountain evocava un villaggio alpino. La seggiovia era ferma. «Mi sento strana» disse Ruth con voce angosciata. Rivoli di sudore le striavano le guance e faticava molto a respirare. «Strana? In che senso?» «Non so di preciso. Come... come se stesse per venirmi la febbre. Anzi, come se fossi a teatro e sapessi che sulla scena sta per accadere qualcosa di tremendo. Oh, ma è solo una sensazione assurda. Non farci caso.» Insetti quasi invisibili ronzavano attorno alle loro teste. Un fiore selvatico cresceva avvinghiato al bordo del precipizio, e la sua corolla gialla si ergeva sopra l'intrico di erbe selvatiche e di sterpi. «Sì, è solo una sensazione. Nient'altro» disse la persona che era con lei. Poi cominciò a fischiettare un'aria stonata. Ruth tolse dalla tasca dei pantaloni il fazzoletto e si asciugò il viso. Era una donna snella, di media statura, e aveva lineamenti armoniosi alterati però da un'aria arrogante. Pareva convinta di vivere in un mondo che non riusciva ad essere alla sua altezza. «Camminiamo ancora un po'?» «No, sono esausta» rispose Ruth. E, dopo un attimo di incertezza: «Proprio non capisco come mai ti sia venuta voglia di fare questa camminata, oggi.» La persona che era con lei si chinò a raccogliere un sasso, tese il braccio all'indietro e lo scagliò lontano. La pietra rotolò, rimbalzando e l'eco riempi la vallata. Ruth, seguendola con lo sguardo, si sentì nuovamente turbata. Quel gesto non aveva senso. Gli occhi della persona che l'accompagnava fissarono all'improvviso il pendente che lei portava al collo: un rettangolo di smalto col viso di una ragazza dipinto a mano, appeso a una grossa catena d'argento satinato. «Posso vederlo un momento? Mi pare che si sia rotta una maglia.»
«Come? Oh!» Con insolita docilità, Ruth si portò le mani alla nuca, sganciò il fermaglio ed esaminò la catena. «È a posto.» «Vediamo.» Lei porse il pendente alla persona che l'accompagnava e questa lo esaminò a sua volta. Sopra di loro, due ghiandaie impegnarono una violenta disputa. Le loro strida erano l'unico segno di vita sulla montagna. Niente si muoveva lassù, e sotto, in lontananza, persino la strada che conduceva al villaggio era deserta. Ruth, sempre più inquieta, si guardò attorno alla ricerca di chissà cosa. Il sentiero, largo quattro metri, era lungo circa tre chilometri. Nel punto dove si trovavano, le rocce erano a strapiombo: a destra é a sinistra, il pendio era meno ripido. Ruth vide un'auto rossa che superava una curva e saliva verso il gruppo di condomini sottostanti. In quel momento, due mani robuste l'afferrarono per le spalle. Lei, con un ansito di sorpresa, si voltò farfugliando: «Che cosa... che cosa...?» «Ho un messaggio per voi. Da parte di "quella là".» «Che cosa?...» «Questo.» Dalle labbra di Ruth sfuggì un lungo grido di terrore mentre le mani la stringevano sempre più forte e poi, con una spinta poderosa, la scagliavano in avanti. Lei scivolò oltre il bordo del precipizio, riuscì ad aggrapparsi a un arbusto, mentre il suo bastone da montagna finiva nel vuoto. Appesa a quel precario sostegno, oscillava avanti e indietro, i piedi penzoloni sopra l'abisso. «Aiutami!» gridava. «Ti prego, aiutami! Dammi la mano, ti prego...» La persona che l'aveva spinta nel vuoto non si mosse: la guardava. Poi alzò un piede e, decisa, abbatté sulle nocche di Ruth la suola del suo scarpone. L'urlo di dolore si levò in un crescendo assordante, mentre Ruth rotolava sulle rocce, si perse in un gorgoglìo indistinto e finì con uno schianto nel fondovalle. E in cima alla montagna tornò la pace, sotto il sole di mezzogiorno. Persino le ghiandaie avevano smesso di azzuffarsi. L'automobile rossa continuava a salire verso i condomini nascosti nel bosco. La gente che vi abitava non poteva aver sentito nulla. La persona che aveva ucciso Ruth si infilò in tasca il pendente e scese per il sentiero. 29 SETTEMBRE
Il dottor Hartley Burleigh-Jervis si voltò, sentendo una mano toccargli la spalla. Era l'anziana segretaria della Historical Society. Con voce carica di indignazione gli disse all'orecchio: «Ho un messaggio per voi.» Lui fece l'atto di alzarsi, ma lei lo trattenne e continuò: «La persona che ha telefonato ha detto che non dovevo disturbarvi, purché le garantissi di riferirvi le sue parole.» «Hanno chiamato dall'ospedale?» «No. Avrei preferito aspettare che fosse terminata la conferenza, per non disturbarvi, ma devo proprio andarmene.» «Va bene. Qual è il messaggio?» «"Ditegli che ha telefonato quella là."» Lui aggrottò la fronte. «Come?» «Esattamente questo: "Ditegli che ha telefonato quella là".» «Che cos'è, uno scherzo?» «Non saprei, dottore» disse la segretaria, sempre con tono indignato, e se ne andò. Il dottor Hartley Burleigh-Jervis guardò l'orologio. Le undici meno dieci. La conferenza su Channing e l'Unitarismo durava da quasi un'ora e mezzo e lui cominciava ad averne abbastanza. Stava per decidersi ad andarsene, senza attendere la fine, quando ci fu uno scroscio di applausi. Con un sospiro di sollievo e un cenno del capo ai pochi conoscenti, lui sgattaiolò fuori. Scese svelto gli scalini dell'edificio bicentenario che ospitava la Historical Society di Whitefield. Era alto quasi un metro e novanta, diritto e ben fatto, aveva i capelli grigi e un bel viso giovanile. Carico di irritazione repressa per quella conferenza durata veramente troppo, si avviò con passo più svelto del solito. Di tanto in tanto, contraeva le labbra, mettendo in mostra una fila regolare di denti incapsulati. La sua giacca sbottonata lasciava intravedere una figura asciutta, senza accenno di pinguedine. Una folata di vento sollevò delle foglie secche che gli turbinarono attorno. Passò accanto a gruppi di studenti che uscivano dal bar e dai loro alloggi. All'inizio dell'anno accademico, si notava sempre una corrente quasi tangibile di vitalità, nel campus. Superò le file di macchine nel parcheggio e puntò verso la periferia della città. I passanti diminuivano progressivamente, e ad un certo punto non incontrò più nessuno. I rumori si andavano spegnendo mentre lui passava tra i prati e le ville del quartiere residenziale.
Arrivato sul bordo di un marciapiede, guardò automaticamente prima a destra e poi a sinistra. La strada era deserta. Si accinse ad attraversarla e non fece caso alla Chevrolet scura parcheggiata sull'altro lato, a fari spenti. In quello stesso istante, l'auto si mosse puntando verso di lui. Il dottor Burleigh-Jervis ebbe solo il tempo di sbarrare gli occhi, e poi la Chevrolet gli piombò addosso, rombando. Spalancò la bocca, ma non gli uscì neppure un gemito mentre la macchina lo travolgeva. Quello fu l'ultimo colpo che la vita gli aveva riservato: finì sotto le ruote. L'auto frenò stridendo e, per un attimo, cadde il silenzio nella strada. I portici e le scalinate delle ville vicine rimasero deserti. Un attimo dopo, una figura scese svelta dal posto di guida della Chevrolet. A quell'incrocio, non c'erano lampioni, e la persona dovette piegarsi su quel corpo inerte per mettere a fuoco il cranio fracassato. Rapida, tese una mano, tastò il petto all'uomo e gli tolse il fermacravatte. Poi, fuggì di corsa lungo la strada, abbandonando al loro destino l'auto e il dottor Hartley Burleigh-Jervis. E l'unico rumore fu il crepitio delle foglie calpestate. 14 DICEMBRE Mary Eccles, presidentessa del Whitefield College, rincasò dopo la cena del consiglio dei genitori, appese il lungo cappotto di lana beige e, prima di togliersi l'abito da sera assortito, andò nelle stanze dei suoi due figli minori. La ragazzina tredicenne, che avrebbe dovuto fare da baby-sitter al fratellino, dormiva profondamente. Mary la baciò sulla guancia, senza che lei si svegliasse, la copri e poi passò nella camera del bambino di sette anni. Compiuti gli stessi gesti, tornò nel soggiorno e accese il televisore. Stavano trasmettendo il notiziario televisivo delle undici. Mentre guardava scene di un incendio che non aveva risparmiato nemmeno uno degli inquilini di uno stabile, una donna che correva in una risaia sotto il fuoco delle mitragliatrici di un aereo, e due bambini in lacrime tra le macerie di una città distrutta da un terremoto, le apparve sul volto un'espressione di serenità, l'espressione di una donna in pace con se stessa. Era una quarantenne dalla figura atletica, con un viso piacente che, se fosse stato più minuto, si sarebbe potuto definire grazioso. Aveva i capelli raccolti in un'acconciatura alquanto elaborata: più che d'aspetto giovanile, pareva senza età. Truccata in modo aggressivo con uno spesso strato di ombretto sulle palpebre, sfoggiava un assortimento di gioielli falsi, eppure, invece di sembrare volgare, dava l'impressione di avere un senso estetico
molto personale e di portare addosso della roba costosa. Trasudava intelligenza, sicurezza ed energia. La sua casa le somigliava. Priva di uno stile ben definito, aveva comunque una vitalità prorompente che sopperiva alle regole del comune buon gusto: il soggiorno, rimesso a nuovo di recente, aveva tappezzerie sgargianti, tendaggi a vistosi disegni, divani e tappeti a fiori, il tutto amalgamato in un insieme armonioso. Certo, un ospite non si rilassava, entrando in quella stanza, ma non poteva fare a meno di trovarla originale. Così come non si rilassava in compagnia di Mary, ma ne era affascinato. La donna stava per spegnere il televisore, quando squillò il telefono. Come se fosse in attesa di quella chiamata, andò all'apparecchio e spostò con cautela un posacenere indiano. «Pronto? Come stai, caro?» Aveva una voce alta, decisa e ben modulata. «Dove sei?» «Sono ancora a San Francisco, Mary. Come vanno i ragazzi?» «Bene, tesoro. Hillary ha preso due ottimi voti in matematica. Oggi, sono andati alla lezione di pattinaggio. Quando torni?» «Non lo so ancora di preciso. Devo fermarmi a Detroit domani e, se la fortuna mi assiste, potrò essere a casa dopodomani. Che cosa stavi facendo?» «Sono appena tornata dalla cena del consiglio dei genitori. La Frederick si è esibita nel suo solito show, lasciando letteralmente scioccati i due nuovi insegnanti venuti dall'Ohio...» Per qualche attimo, Mary parlò al marito della riunione e delle varie attività del loro figlio maggiore iscritto all'università. Finita la telefonata, si alzò, si guardò attorno e, soddisfatta, sali al piano superiore. Si spogliò, appese ogni indumento con la massima afra, si spalmò il viso di crema detergente, si spazzolò i capelli e fece gli abituali esercizi di ginnastica. Poi, come spinta da un presentimento, andò ad aprire il portagioie alla ricerca del suo unico pezzo di valore. Una ruga di preoccupazione le solcò la fronte mentre fissava i gioielli sparsi sugli scomparti di velluto. Frugò nel cassetto. Infine, andò dalla figlia e la scosse per svegliarla. Lei gemette e mugolò qualche parola incomprensibile. «Cara, hai visto il mio braccialetto d'oro?» «Che cosa...?» «Il mio braccialetto, tesoro. Non c'è più.» «Mamma... per l'amor di Dio... come...?» La ragazzina si girò sul fianco e ripiombò nel sonno. Sempre accigliata, Mary tornò nella sua stanza e ricominciò a frugare
nel cassetto. Solo allora notò il biglietto che sua figlia le aveva lasciato sul cuscino. Ha telefonato una pazzoide, voleva a tutti i costi che ti dicessi che ha chiamato "quella là". Mary, corrugando ancora di più la fronte, si strinse nelle spalle, appallottolò il foglio e lo gettò nel caminetto. Indossò un ampio caffettano e scese al pianterreno. Tolse dal frigorifero la bottiglia di aranciata dietetica che beveva ogni sera prima di coricarsi. La portò di sopra, la appoggiò sul tavolino da notte accanto alla crema emolliente e accese la lampada. Rimase sorpresa dalla facilità con cui si stappava la bottiglia ma, senza badarvi, si mise a leggere il giornale, sorseggiando l'aranciata. I dolori cominciarono solo quando era già addormentata. Le pareva che degli artigli le lacerassero le pareti dello stomaco, svegliandola a poco a poco. E lei, tentando di restare nell'incoscienza del sonno, cercò di non svegliarsi finché il dolore non la costrinse a mettersi seduta. Poi, corse nel bagno, dove fu assalita simultaneamente dalla diarrea e dal vomito. Si dondolava avanti e indietro, gemendo piano. Aveva la gola arida e infocata, ma quando provò a bere dell'acqua non riuscì a ingoiarla. Adesso vomitava bile mista a sangue. Era intirizzita e madida di sudore, e i crampi cominciavano ad attanagliarle i polpacci. Terrorizzata, cercò di gridare, ma non le uscì la voce. Allora, tentò di raggiungere il telefono, ma invano. Crollò sul pavimento e gemette finché non perse conoscenza. 15 DICEMBRE Ore 6 Quando la sveglia suonò, Finley si voltò sul fianco, tese la mano verso l'orologio, premette il pulsante d'arresto e tornò a sdraiarsi supina. Poi, aprendo gli occhi una frazione di millimetro per volta, nel modo tipico di chi teme di affrontare la realtà, fissò la finestra della sua stanza. Nello stretto rettangolo, vide che il cielo non accennava ancora a schiarirsi. Per alcuni minuti rimase immobile. Il suo viso, sereno nel sonno, cominciò a contrarsi, e quella maschera di infelicità si andò accentuando mentre emergeva dal torpore che accompagna il risveglio. Poi, senza stiracchiarsi né sbadigliare, si mise a sedere sul letto, appoggiò i piedi sul pavimento e cominciò a svolgere dai capelli i grossi bigodini.
Regnava ancora il silenzio in quell'edificio, la dipendenza del Whitefield Inn, dove alloggiavano quattro studentesse universitarie. Unico rumore, il ronzio della caldaia e del frigorifero al pianterreno. Neanche l'ombra del trambusto tipico degli alloggi principali del college. Finley uscì a passi felpati nel corridoio, diretta verso il bagno. Era buio, e in un primo momento lei non riconobbe la persona che le veniva incontro. Poi, vide che si trattava di un ragazzo in mutande. Aveva il viso affondato in un asciugamano e se lo strofinava vigorosamente. Inavvertitamente, urtò con la spalla Finley e alzò gli occhi, sorpreso. «Salve, Fin.» «Salve, Ken.» E Ken scomparve nella stanza di Sara Uhlir. Come un automa, Finley fece la solita toilette. Poi, tornò in camera a vestirsi. Sebbene fosse piccola e contenesse, oltre al letto, al cassettone e alla scrivania, anche un apparecchio stereo, una radio, un paio di sci, una macchina per scrivere, un baule e una libreria, la stanza era in perfetto ordine. Non c'era nemmeno una cosa fuori posto. Sull'alto e stretto davanzale della finestra, erano allineate piantine, candele, statuine di animali, ceramiche e scatolette orientali. Sul cassettone, erano schierati vasetti di cosmetici, creme, profumi, un ramo di corallo costellato di orecchini e due fotografie: una di un ragazzo biondo, l'altra di una donna di mezza età. Le pareti erano completamente ricoperte di poster e stampe di De Chirico, Tchelitcew, Klee e Bruegel. Finley infilò i jeans, una maglietta a collo alto, un pullover, calze e stivali. Non perdeva d'occhio la fetta di cielo, visibile dalla sua finestra, che si andava lentamente schiarendo, consentendole una visione sommaria di rami spogli che ondeggiavano al vento. Sul pianerottolo, urtò Cindy Lilystrom. Tentavano sempre di passarsi accanto senza darsi reciprocamente fastidio, ma invano. Finivano immancabilmente per urtarsi. Irritata, Finley spinse da parte Cindy. «Mai successo di vederti in giro prima di mezzogiorno. Questo posto sta diventando affollato come la stazione di Paddington.» «Perché proprio quella di Paddington?» ribatté Cindy e, senza attendere né ricevere risposta, proseguì verso il bagno. Finley, arrivata in cucina, mise dell'acqua sul fornello e versò un cucchiaio di caffè solubile in una tazza. Mentre aspettava che l'acqua bollisse, fissò con sguardo vacuo il vecchio frigorifero sul quale erano scaraboc-
chiati messaggi tipo: "Qualsiasi genere alimentare lasciato incustodito per più di ventiquattr'ore sarà confiscato per via orale"; "Chiunque mangi il cibo altrui sarà perseguito a norma di legge". Appena l'acqua bollì, la versò nella tazza, vi aggiunse del latte scremato, un dolcificante, e sedette per dare un'occhiata al giornale del mattino, che aveva trovato nel portico di servizio. Poi si mise il giaccone e uscì. Una raffica di vento la respinse dentro: rimase un attimo dietro il vetro della porta, rabbrividendo. L'edificio confinava da un lato con il retro del Whitefield Inn, e dall'altro con dei campi da tennis, che avevano un'aria squallida di abbandono sotto il cielo invernale. Foglie accartocciate turbinavano attorno ai fusti degli alberi e ai bidoni della spazzatura. Finley lanciò un'occhiata al suo polso nudo, come se possedesse ancora l'orologio che aveva perso da mesi, aprì la porta e questa volta uscì. Rialzò il bavero del giaccone e cominciò a camminare. Risalì lentamente la collina, oltrepassò il cimitero e l'ospedale, attraversò il Revolution Park e poi scese verso la Halloran Library, la Jason Hall e la Chiesa Congregazionale. Aveva gli occhi cerchiati, il viso teso, e solo ogni tanto guardava davanti a sé. Sentì la sirena mentre tornava al suo alloggio, e si guardò attorno giusto in tempo per vedere l'ambulanza che passava rombando diretta verso l'ospedale. Non aveva mai visto un'ambulanza lanciata a tale velocità. Tornò a chinare la testa e proseguì per la sua strada. Quando fu rientrata, attese che il sangue tornasse a circolarle nelle dita intirizzite. Aveva il naso paonazzo e le lacrimavano gli occhi. Questa volta, salendo al piano superiore per prendere la borsa dei libri, non incontrò nessuno sul pianerottolo. Quando uscì di nuovo, il cielo era di un grigio plumbeo, uniforme, con solo qualche macchia più scura verso nord. Il vento squassava i rami degli alberi e ululava sul campus. Stava per accadere una disgrazia. Per un attimo, Finley si chiese se quello fosse stato solo un pensiero, o se non l'avesse detto a voce alta. Forse, l'infausto presagio aleggiava nell'atmosfera, scaturito da una fonte misteriosa. La porta della cucina del Whitefield Inn si aprì e un inserviente fece una breve comparsa, gettò un sacco di plastica in un bidone della spazzatura e scomparve, lasciando nell'aria un vago aroma di caffè appena fatto. Il cielo andava sbiadendo in un colore ardesia sporco. Le raffiche di vento smorzavano gli altri rumori e Finley si accorse che stava sopraggiun-
gendo un'auto solo quando le fu quasi addosso. Un passero - altra sfumatura grigia contro il cielo - svolazzò tra i rami nudi degli aceri. Finley teneva la testa così bassa che andò a sbattere in pieno contro una persona. Alzò lo sguardo quanto bastò per mettere a fuoco il suo lettore di storia, Arthur Venner. Sui trentacinque anni, di media statura e con una circonferenza vita impossibile a stabilirsi, Venner era ingoffato in numerosi strati di indumenti sotto la tuta da ginnastica. Anche lui camminava lentamente e ansava. «Scusate, signor Venner» disse Finley. Venner aveva diritto al titolo di dottore ma era un diritto che nessuno gli riconosceva. «Stavo cercando disperatamente di convincermi che ero ancora al caldo, sotto le coperte.» «Non me la dài a bere, Finley. Faresti qualsiasi cosa, tu, per starmi addosso.» «Ma non di primo mattino.» La voce di lei era un miscuglio mal amalgamato di imbarazzo e impertinenza. «No? Be', dovresti leggere il rapporto Kinsey.» «Già fatto.» Venner si allontanò e Finley riprese a risalire la collina. Il vento le si infilava nei pantaloni, nel colletto e nelle maniche. Di tanto in tanto, era costretta a chiudere gli occhi pieni di lacrime per ripararli dalle raffiche. Percorse correndo gli ultimi cento metri che la separavano dall'edificio della mensa, e si precipitò dentro, con un sospiro di sollievo. La donna dai capelli grigi che stava alla cassa la conosceva, e Finley non dovette affannarsi a cercare il suo tesserino. Si diresse a uno dei tavoli vicino al banco, strascicando le scarpe sul pavimento. Non avevano ancora aperto la cucina, e nella sala quasi vuota le sedie erano inclinate contro i tavoli. Lei depose i libri, mise la giacca sulla spalliera della sedia e scelse il secondo volume della "Raccolta completa di Novelle" di D. H. Lawrence. Armata di penna e di fogli siglati, cominciò a leggere e a prendere appunti. Il libro era sciupato da una serie di annotazioni. Intanto, non perdeva d'occhio la cucina. Altri studenti entravano, sparpagliandosi nella sala, soli o a coppie. Tutti sbuffavano e pestavano i piedi. Avevano il viso arrossato e gli occhi lacrimosi per il freddo. Cominciarono a servire la colazione. Finley si mise in fila per prima. Guardò con desiderio le uova strapazzate, il bacon e le ciambelle caramellate. La donna grassa dietro il banco, vedendola consultare la tabella delle calorie, la osservò con aria di sufficienza e di biasimo. Alla fine, lei optò
per una tazza di farinata d'avena. Spalmò sulla crema una minuscola porzione di burro e ne assaporò ogni boccone. Mentre mangiava, guardava fuori delle ampie vetrate. Gli alberi avevano smesso di ondeggiare, e lungo i vetri scivolavano grosse gocce di vapore. Gli studenti, che entravano adesso, avevano i capelli e i giacconi spruzzati di neve. «Salve.» Beverly Blalock, una delle quattro ragazze che abitavano nel suo stesso alloggio, sedette di fronte a Finley. Aveva il vassoio carico: succo d'arancia, uova, bacon, frittelle e salsicce. Le due ragazze parevano uscite da una vignetta umoristica, tanto erano l'una l'opposto dell'altra. Finley piccola e minuta, Beverly strabordante in ogni direzione. Finley bionda, con i capelli lunghi e morbidi, Beverly con un alone bruno e arruffato attorno al viso. La carnagione di Finley era di un rosa omogeneo, quella di Beverly olivastra e chiazzata dall'acne. «Perché non prendi la tua maledetta colazione e non vai a mangiartela da un'altra parte?» disse Finley. E Beverly, spalmando il burro sulle frittelle, replicò con calma: «Non credi che il tuo carattere migliorerebbe se mangiassi come tutta la gente normale? Ricordati che si vive una volta sola.» «Allora, vai a vivere la tua vita altrove. Anzi, mi viene in mente una cosa: i tuoi avanzi di cibo sparsi dovunque attirano una quantità di formiche. Ieri...» «Preferirei che attirassero una quantità di mosconi.» «Piantala di mangiare, potrebbe servire a qualcosa.» Beverly, rimasta un po' immersa nei suoi pensieri, finì per concludere: «Tutto sommato, credo che mi convenga mangiare.» Seguì una pausa di silenzio, Finley mangiava lentamente e prendeva l'avena col cucchiaio facendolo girare in tondo nella tazza. Beverly, invece, masticava in fretta, con gusto. Finley fissò i leggeri fiocchi di neve e, senza accorgersene, sospirò. «Vorrei proprio che non nevicasse.» «Perché? Non sei forse una sciatrice di prim'ordine, così come sei un cervello di prim'ordine, una dietologa di prim'ordine e...» «Probabilmente, non ci sarà abbastanza neve per sciare, e servirà soltanto a rendere impraticabili le strade. E poi, il mio tempo libero l'ho già occupato con le lezioni di chitarra, gli esami si avvicinano e devo preparare un'esercitazione...»
«E sei anche un'ansiosa di prim'ordine. Certo, hai un bel da fare. A proposito, hai saputo quello che è successo alla signora Eccles?» «No. Le è successo qualcosa?» Beverly, brandendo una forchetta, salutò qualcuno all'altro lato della sala. «L'hanno comunicato per radio stamattina. Sua figlia, una ragazza di tredici anni, si è alzata presto per andare in bagno e ha trovato la madre stesa sul pavimento...» Finley emise un gemito. «È morta?» Beverly staccò gli occhi dal ragazzo che agitava la mano nella sua direzione e guardò Finley con maggiore interesse. «Non era una tua amica?» Finley si pulì la bocca e appallottolò il tovagliolo stringendolo forte, come se stesse facendo un esercizio per rinforzare le mani. Qualcuno la salutò e lei rispose automaticamente. Poi disse: «Proprio un'amica, no. Ma... l'ho vista ieri ed era sana come... come un cavallo. Avrà quarant'anni al massimo!» «Come un cavallo?» «Che cosa le è successo?» «Non volevi forse dire sana come un pesce? Ti venderesti l'anima, tu, pur di evitare le frasi fatte.» «Tu no di certo, invece. Be', che cosa è successo?» «Come ti stavo dicendo, sua figlia l'ha trovata nel bagno, stamattina, ed è corsa a chiamare un vicino. Evidentemente il signor Eccles è via per lavoro e...» «Beverly, che cosa è successo alla signora Eccles?» «Da come ti comporti, si direbbe che siate cresciute insieme... Okay, okay. Alla radio hanno detto che presentava sintomi di intossicazione alimentare.» «È morta?» «No. L'hanno portata all'ospedale per vuotarle lo stomaco, insomma per farle quello che fanno in casi del genere.» Beverly si mise in bocca un pezzo di frittella. Ora la mensa cominciava ad essere affollata. Al silenzio che aveva accolto Finley, al suo arrivo, si era sostituito un forte vociare. Il pavimento era bagnato fradicio, i tavoli cosparsi di libri e di vassoi, e davanti al banco una lunga fila attendeva paziente. Due giovani fingevano di assalire una ragazza, avanzando a passi pesanti, con le braccia ciondoloni e le teste spinte in avanti, come caricature di uomini preistorici, e lei lanciava grida di aiuto. Alla vista di un presunto salvatore, i due tagliarono la corda per
ricomparire un istante dopo, urlando, e ricominciare la pantomima. Studenti dall'aria seria li aggiravano a distanza. «È la terza» disse Finley. «Come?» «Niente.» «Hai detto che è la terza. La terza di che cosa?» Finley fissava la sua tazza come se fosse una sfera di cristallo. Soprappensiero, passò l'indice attorno alle pareti interne e poi se lo mise in bocca. «Sai a che cosa mi riferisco.» «Bisognerebbe costringerti a mangiare di più. No, non so proprio a che cosa ti riferisci.» «Non voglio mangiare di più. Vivo nel terrore di diventare grassa come te. Volevo dire che, negli ultimi sei mesi, abbiamo avuto ben tre incidenti in questo college.» «Oh, mi dispiace. Io non... insomma... è orribile che non ci abbia pensato, lo so, ma...» «Va bene, va bene, calmati.» «È solo una coincidenza.» «Tre coincidenze? In un college piccolo come questo?» «Migliaia di persone hanno degli incidenti. Non c'è nessun rapporto fra questi tre.» Poi, Beverly aggiunse seccamente: «E se non la pianti di fare commenti sprezzanti su quello che mangia il tuo prossimo, ci sono buone probabilità che se ne verifichi un quarto, di incidente.» Finley non sorrise alla battuta. Si alzò e andò alla macchina del caffè. Tornata al tavolo, guardò gli studenti che entravano nel locale coi visi arrossati dal freddo. Voci e risa le turbinavano attorno senza sfiorarla, come se fosse nell'occhio di un ciclone. Capitò che qualcuno la urtasse, mormorando "Scusa", ma lei non se ne accorse neppure. Beverly le annunziò che andava a prendere un'altra ciambella e scomparve. Finley rimase seduta al tavolo finché un ragazzo non la urtò e poi, invece di scusarsi, esclamò: «Maledizione! Ho rovesciato il latte!» «Be', è inutile che tu stia a piangerci su!» sbottò Finley. E, dopo aver lanciato un'occhiata all'orologio, si alzò, infilandosi il giaccone. Ore 8 «Eliot era uno snob. Membro della chiesa anglicana, era più inglese di tutti gli inglesi messi assieme.» Il professor Wuhermann era un uomo gras-
so, ma abbastanza alto per non far notare troppo la sua mole. Aveva un viso dall'espressione severa che si distendeva raramente in un sorriso, e non guardava quasi mai negli occhi gli studenti. Sebbene avesse una certa tendenza a pontificare, le sue lezioni erano tra le più frequentate del college. Finley, seduta nell'ultima fila, lo guardava con uno strano miscuglio di trasporto e di indifferenza, come se loro due appartenessero a mondi che non avevano nessun punto di contatto e si fossero incontrati per un errore di ordine cosmico. «Quando si parla di caratterizzazione di un periodo, che cosa si intende dire?» Il professore s'interruppe e guardò un ragazzo che si era alzato e andava verso la porta. «Dove vai?» La mano sulla maniglia, il ragazzo si fermò. «Pensavo che avremmo discusso dello sciopero organizzato per protestare contro i bombardamenti in Cambogia. Ma, dal momento che non...» Il professore abbassò gli occhi sui suoi appunti. Con voce piatta disse: «Mi pagano per parlare di letteratura, non degli scioperi di protesta. Siete liberi di non seguire le lezioni, ma dal momento che sei venuto a questa, sarebbe educato rimanerci.» «Oggi mi interessa lo sciopero, non la letteratura.» Sempre senza tradire la men che minima emozione, il professore disse: «Se te ne vai adesso, non tornare più alle mie lezioni.» Tutti alzarono di colpo la testa e calò un attimo di silenzio perplesso. Sorpreso, con gli occhi spalancati, il ragazzo fissò il professore. Poi, pallidissimo, aprì la porta e uscì. Finley era sconvolta. Tremante d'odio, fissò quell'uomo fermo davanti a loro; poi, consapevole della sua aperta ostilità, chinò il capo e si coprì con una mano le labbra tremanti. «Come stavo dicendo, quando vogliamo caratterizzare un periodo, a che cosa ci riferiamo? Agli intellettuali o alle masse? L'epoca attuale, per esempio, è caratterizzata dal "Reader's Digest" oppure dalla "Saturday Review"? Da un Lindsay o da un Wallace? Ho premesso questo per dire che l'età vittoriana è comunemente considerata un periodo di equilibrio, ma che nel 1870 le sue strutture cominciarono a cedere.» Finley non gli staccava gli occhi di dosso. Wuhermann rimaneva sempre in piedi durante le lezioni ed era raro vedergli fare un movimento di troppo o un gesto d'impazienza. Il suo viso pareva di pietra. L'unico elemento mobile erano gli occhi che si abbassavano per consultare gli appunti. «Figure dominanti di quell'epoca furono Shaw, un radicale, e Wilde, un
omosessuale. Se da un lato fu un periodo conservatore, dall'altro fu anche un tempo di grandi cambiamenti. Le utopie dilagavano. Più importante della sua opera di scrittore, almeno per quanto riguardava Shaw, fu il suo interesse per le riforme sociali...» Una mano si tese sul banco di Finley e lasciò cadere un pezzetto di carta. Per un istante, lei fissò quella mano come se non appartenesse a un corpo, poi alzò gli occhi e guardò Danny Dilorenzo, che le sorrideva con aria interrogativa. Sul pezzo di carta aveva scritto: "Come diavolo pensi di arrivare alla laurea se non fai che perderti in fantasticherie?". Un sorriso, che sfiorò appena le labbra di Finley, cancellò per un istante la sua aria assente. Voltò il pezzo di carta e scrisse: "E come diavolo..." ma le mancò l'ispirazione e non poté rispondere a tono. Così, appallottolò distrattamente il foglietto, senza far caso allo stupore di Danny. «... un ateo era membro del Parlamento, un ebreo Primo Ministro. C'era una strana tolleranza per le eccentricità...» "Non come a Whitefield" lesse Finley sul biglietto che Danny le passò questa volta. Lei fissò tristemente quelle parole e poi si voltò a guardare fuori della finestra. I fiocchi di neve fluttuavano leggeri nell'aria. Rendendosi conto che non seguiva la lezione si girò di scatto e, col gomito, urtò il taccuino, facendolo cadere a terra con un tonfo. Rossa in viso, si chinò a raccoglierlo, mentre il professore proseguiva senza interrompersi. Un foglio color crema, apparentemente uscito dal taccuino, attirò la sua attenzione. Non le apparteneva di certo, e non conosceva quella grafia minuta, inclinata verso destra. Accigliata, cominciò a leggere, ma poi, consapevole che avrebbe definitivamente perso la lezione, si affrettò ad infilarlo nel quaderno e si mise a prendere appunti. «... il più eminente di quegli spiriti liberi, Mary Evans Cross, viveva in beato concubinaggio con un uomo, sebbene a quell'epoca tale costumanza non fosse ancora di moda.» Uno scroscio di risa risuonò nell'aula, ma il viso del professore rimase impassibile. «E per giunta era accettata dovunque in società. Tutti voi, naturalmente, la conoscete sotto il nome di George Eliot.» Si udì un urlo nel corridoio e il rumore di una corsa precipitosa. Dopo una breve pausa, la lezione proseguì. «Nei Vittoriani, alla nuova filosofia esistenziale si univa un intenso desiderio di morte. Come se si sentissero saturi delle esperienze della vita.» Finley sollevò la testa di colpo, e il professore se ne accorse. Le lanciò un'occhiata, ma talmente rapida, talmente fugace, che sarebbe stato diffici-
le dire se avesse guardato di proposito verso di lei o se i suoi occhi si fossero limitati a sfiorarla mentre giravano per l'aula. «Tutti, dopo morti, possono destare tenerezza, pietà o benevolenza, in chi sopravvive loro, ma la condotta tenuta in vita non può essere perdonata...» Finley, sorpresa, tornò a scrutare il professore, come se cercasse in lui un segno di accettazione personale di quella realtà. «Prendiamo la figura di Shalott, la prigioniera volontaria. L'artista non deve guardare alla vita, ma alla proiezione della vita. Se viene spinto nel mondo, è finito. Nell'episodio dei Lotofagi, i personaggi di Omero si raffigurano il mondo come se fossero ancora nel grembo materno.» Suonò la campana che annunciava la fine della lezione. Nessuno si mosse. Gli studenti continuarono a prendere appunti finché il professore non concluse il suo discorso. Solo quando li congedò con un cenno del capo, si alzarono, parlando tra loro. «Vieni al party del signor Venner, stasera?» chiese Danny a Finley, mentre raccoglievano i libri. «Ci vanno tutti, no?» «Be', volevo esserne sicuro. Ehi, Fin, oggi il Club della Scienza va in orientamento all'ora di pranzo. Vieni con noi?» «Non lo so, Danny. Saremo di ritorno per le due? Ho una lezione.» E poi, come se ci avesse ripensato: «Ma che cos'è questo "orientamento"?» «Non devi andare alla lezione delle due. Io sono venuto a questa solo perché mi piace sentir parlare il nostro amico... Tu non sei d'accordo sullo sciopero?» «Certo che lo sono, ma non accetto che interferisca con i miei studi.» «Pete va in orientamento, e anche Cindy. Ci va tutta la banda.» «Che cosa significa andare in orientamento?» «Che ne so! Ti aspettiamo da Atkins alle dodici e mezzo.» Danny, vedendo un amico passare nel corridoio, corse a raggiungerlo. Mentre raccoglieva le sue cose, Finley rivide il foglio color crema. Stava per appallottolarlo e gettarlo nel cestino della carta straccia, ma si fermò di colpo. Aveva letto un nome: Wuhermann. Ore 9 Senza fiato, Finley arrivò alla lezione seguente proprio mentre stava cominciando. Si lasciò cadere su una sedia, rovistò nella borsa alla ricerca
della penna e del blocco d'appunti e tentò di concentrarsi. Alcuni amici le sorridevano, ma lei, nonostante gli sforzi, proprio non riusciva a ricambiare il sorriso. Mentre sfogliava svelta i suoi appunti, si trovò di nuovo sotto gli occhi la lettera. La parte superiore, quella dove normalmente è stampato un monogramma, un indirizzo, era stata tagliata via con cura. Senza riflettere, cominciò a leggere: "... continuano a ripetermi che sono fantasie, ma io so che non è vero. Quando eravamo appena arrivati a Whitefield, non passava settimana senza un invito a un party, ma ora ci possiamo ritenere fortunati se ci capita di riceverne uno al mese. "Colpa di quella Ruth Wuhermann. Mai vista una persona raggiante come lei quando mi comunicò che la sua amica mi aveva riconosciuta. Non puoi immaginare con quanta dolcezza mi disse che ero una donna coraggiosa come poche, e che era meraviglioso che avessi fatto la domestica, in passato. E che William, un professore universitario, aveva dato prova di eccezionale generosità, sposandomi, e di bontà infinita trattando te come sangue del suo sangue. Era radiosa, nel vero senso della parola. "Comunque, la vita per noi è cambiata, dopo quest'episodio. Quella donna riesce a divulgare più informazioni del 'New York Times', e anche più rapidamente. Avverto il cambiamento persino nelle persone più gentili. Quando, per caso, pronunciano la parola 'domestica' o 'donna delle pulizie', prendono un'aria imbarazzata. Non sono più quelle di prima. E quanto alle persone che gentili non sono state mai... mi fissano per la strada, ai ricevimenti, in chiesa. Dovunque. "Ma è proprio una colpa tanto orribile fare la domestica? Da queste parti, la si considera peggio del furto, della truffa, dell'adulterio. Persino dell'omicidio. Gli ex nazisti partecipano, regolarmente invitati, alle cene della facoltà di Scienze. E questa dovrebbe essere una comunità di intellettuali! Credo che sarei capace di uccidere quella Ruth Wuhermann." «Finley, ti ho chiesto quali sono i punti di contatto tra il cubismo analitico e il costruttivismo.» Finley alzò la testa di scatto. Aveva la mente vuota. «Scusate, non vi ho sentito. Qual è la domanda?» disse, arrossendo. E l'assistente, più sorpreso che irritato, replicò: «Lasciamo stare. Suppongo che lo sciopero di protesta più le vacanze alle porte siano veramente
troppo per alcuni di voi. Eric?» Finley ficcò la lettera nella sua borsa e cercò di seguire la lezione. Per la prima volta in tutto l'anno accademico, non aveva saputo rispondere a una domanda, e vedeva parecchi occhi puntati su di lei, curiosi. «L'idea di spazio come volume anziché di spazio come vuoto è applicato in un modo diverso dallo scultore inglese Henry Moore...» Lei prendeva appunti come un automa. Pian piano, il rossore le sparì dal viso, lasciandolo quasi terreo. Senza alzare gli occhi, annotò le parole dell'assistente, non riuscendo ad assimilarne neppure una. La ragazza che le stava seduta accanto le chiese qualcosa, ma lei non la udì. Al suono della campana, si comportò come non aveva mai fatto. Balzò in piedi anche se la lezione non era finita. L'assistente le lanciò un'altra occhiata sorpresa, e lei si precipitò nel corridoio, cercando di infilarsi il giaccone senza posare la borsa dei libri. Andò a sbattere contro parecchi studenti. Il vento era calato e la temperatura era più mite, adesso che nevicava. I fiocchi formavano una cortina trasparente tra lei e il resto del mondo, isolandola dalla confusione che la circondava. Leggeva gli avvisi affissi agli alberi e ai muri degli edifici senza farvi attenzione. "Basta con i bombardamenti", "Venite alla mostra dell'artigianato", "Se volete un passaggio per New York, sabato 16 dicembre, telefonate a Wally: 648/9263", "Ti interessi di fenomeni paranormali? Venerdì, ore 22, Jason Hall." Le porsero un volantino, lei lo prese e lo gettò nel primo cestino per i rifiuti che trovò sulla sua strada. Davanti alla segreteria, avevano messo un tavolo al quale erano seduti tre studenti che bevevano qualcosa in bicchieri di carta e distribuivano volantini. I cartelli affissi al tavolo dicevano: "Sciopero per la pace". Finley si mise a correre, con la borsa che le sbatteva contro il fianco. Per non urtare i passanti, zigzagava sul marciapiede. Una giovane madre col figlioletto in spalla si spostò svelta sul prato per scansarla. Arrivata all'Istituto di Scienze Dougherty, sali gli scalini a due a due e, senza fiato, corse nel laboratorio in fondo all'atrio. L'assistente stava parlando con uno studente, e la lezione non era ancora cominciata. In fondo all'aula, c'era il ragazzo del quale teneva la foto in cornice sul cassettone della sua camera. Alto, coi capelli biondi che gli sfioravano le spalle, ricordava un paggio delle corti feudali. Questo effetto era però rovinato da un maglione grigio con toppe ai gomiti e da un paio di jeans talmente sbiaditi che ormai non avevano più nessun colore.
Finley aspettò che finisse di parlare con una ragazza in calzamaglia nera e vertiginosa minigonna, poi gli toccò un gomito. «Pete.» Lui si voltò e, perdendo immediatamente ogni interesse per l'altra ragazza, disse: «Che cosa ci fai tu in un laboratorio di scienze?» Parevano su un'isola tutta loro, estranei a quelli che li circondavano. Si guardavano. Non con piacere, ma con intensità. L'altra ragazza si allontanò, abbassando gli occhi per nascondere un lampo d'ira. «Potrei dire che sono venuta qui a scontare i miei peccati, ma si dà il caso che non intenda fermarmi» gli rispose Finley. «Non aderisci allo sciopero per la pace?» «Salto la lezione di musica. Ehi, Fin, hai sentito che hanno messo agli arresti il mio compagno di camera perché contestava la guerra?» «Pete, mi presti la tua auto?» «Perché?» «Essere innamorati non significa sentirsi autorizzati a voler conoscere il perché di una richiesta così banale. E poi, mi ci vorrebbe troppo tempo per spiegartelo. E tu faresti di tutto per convincermi a desistere. E il tuo assistente finirà per prendersela con me se ti trattengo ancora. E...» «Oh, adesso sì che ho capito perché vuoi la macchina.» Dalla tasca dei jeans, Pete tolse un anello portachiavi e lo lasciò cadere nella mano di lei, stringendola per un istante. «È davanti al mio alloggio.» «Grazie, Pete.» «Aspetta, Fin. Il Club delle Scienze va in orientamento all'ora di pranzo...» «Lo so, me l'ha detto Danny.» «Vieni con noi. Ci troviamo da Atkins.» «Vedrò se ce la faccio. Altrimenti, passa a prendermi prima del party di Venner.» «Aspetta...» cominciò Pete, ma lei era già troppo lontana per poterlo sentire. Attraversò di nuovo il campus, correndo. Tre ragazzi giocavano a palla e da una finestra di un dormitorio arrivava la musica intensa e vibrante di un disco di Arlo Guthrie. Coi capelli spruzzati di neve, le coppiette passeggiavano tranquille, come in una giornata di primavera. Finley sentiva nell'aria il presagio di incombenti minacce: un'eccitazione che oscillava tra la normalità di vita e uno spiacevole senso di precarietà. Non avrebbe saputo dire se dipendeva dallo sciopero per la pace, dal Natale imminente o solo dal suo stato d'animo.
La Volkswagen verde era parcheggiata di fianco e non davanti all'alloggio di Pete, ma non le fu difficile trovarla. Scostò un ammasso di giornali, pacchetti di sigarette vuoti, una palla da tennis, una matita spezzata, e si mise al volante. Ma, invece di girare subito la chiave dell'accensione, rimase immobile per alcuni istanti, guardando fisso davanti a sé. Come chi, sul punto di intraprendere un lungo viaggio, riflette sull'itinerario da seguire. Infine, si avviò verso l'Autostrada 8. La neve non attecchiva ancora, e arrivò abbastanza in fretta alla periferia della città. Ma, a quel punto, si trovò incastrata nel traffico. Un groviglio di sopraelevate, sottopassaggi, incroci, fabbriche, negozi e stabili residenziali si contendevano il poco spazio che c'era. Le insegne pubblicitarie le consigliavano di fumare le Marlboro, di bere latte, di prendere in affitto un ufficio, di comprarsi una Ford. Ferma a un semaforo, lasciava vagare lo sguardo nella strada piena di fanghiglia e sentiva un profumo fragrante di pane appena cotto. Due adulti accompagnavano un gruppo di ragazzi coi pattini in spalla verso una pista di pattinaggio coperta. Il semaforo segnò via libera, ma lei poté procedere solo di qualche metro, rimanendo di nuovo bloccata prima dell'incrocio. Imprecò, lanciando un'occhiata all'indicatore della benzina. Era quasi a zero. Più si avvicinava al centro della cittadina e più procedeva lentamente. I pedoni affollavano i marciapiedi, le automobili bloccavano le strade e gli agenti del traffico cercavano di districare quei grovigli. Solo le vetrine dei negozi avevano un'aria festosa, piene com'erano di oggetti scintillanti. Vide di sfuggita una serie di disegni animati tratti dai romanzi di Dickens: Scrooge col fantasma di Natale accanto, Bob Cratchit con Tiny Tim sulle spalle, di nuovo Scrooge col fantasma di Marley. Imboccò la strada laterale che portava a un parcheggio, guardò nel borsellino. Quattro dollari. «Quant'è all'ora?» chiese al posteggiatore. «Un dollaro e mezzo.» «Okay.» Prese il biglietto e si avviò svelta lungo l'isolato. Camminando, guardava le vetrine, dove in finti salotti delle donne finte che indossavano abiti meravigliosi aprivano dei finti regali. La sede del "Clarion" era sudicia quanto gli altri edifici della cittadina: il colore originario dei mattoni si era ormai perso sotto strati e strati di sporcizia. Al banco della ricezione, un uomo la informò che l'archivio era al terzo piano. Salì e si trovò in un locale tetro, pavimentato a mattonelle, pieno di schedari. Delle tre scrivanie, una sola era occupata.
«Posso cercare una cosa?» chiese Finley alla ragazza seduta alla scrivania. «Dite a me. Vi trovo io quello che vi occorre.» Finley ebbe un attimo di esitazione e poi si strinse nelle spalle. «Sarà meglio che vi scriva i nomi. Mi occorrono informazioni su tre persone.» La ragazza le porse un foglio e una matita e Finley annotò: "Ruth Wuhermann - Dr. Hartley Burleigh-Jervis - Mary Eccles". La ragazza, senza mostrare il men che minimo interesse per i tre nomi, scomparve tra gli schedari. Siccome non c'erano finestre da cui guardare, né quadri da vedere, né giornali da leggere, Finley rimase dove si trovava a fissare lo sguardo nel vuoto. Appena la ragazza ricomparve, le chiese: «Ma voi state tutto il giorno qui dentro?» La ragazza accusò il colpo e fissò Finley con uno sguardo vacuo. Ma, subito dopo, assunse un'espressione sibillina. «A me piace» disse. E, indicandole una delle scrivanie libere, le consegnò tre grosse buste, su ognuna delle quali era scritto un nome. Finley, voltando le spalle alla ragazza, aprì quella più gonfia. Conteneva dei ritagli di giornale, e in ogni articolo il nome della persona in questione era segnato con un tratto rosso. Scorse rapidamente i vari pezzi sul dottor Burleigh-Jervis, sulle conferenze che aveva tenuto o alle quali si era limitato a presenziare, e arrivò a quello sulla sua morte. "Whitefield. "Il dottor Burleigh-Jervis, primario di chirurgia ostetrica al Whitefield Hospital e presidente del consiglio di amministrazione del Whitefield College, è morto ieri sera, travolto da un'auto guidata da ignoto, all'incrocio tra South Street e Warren Street. "Il dottor Burleigh-Jervis è stato trovato da un gruppo di studenti del Whitefield College poco dopo la mezzanotte. Gli studenti, che hanno avvertito la polizia, hanno detto di aver rinvenuto il dottor Burleigh-Jervis ancora vivo, in mezzo alla strada. Aveva comunque già perso conoscenza, ed è morto mentre veniva portato all'ospedale. L'auto che si presume lo abbia investito, una Chevrolet del 1970, è stata trovata abbandonata sul luogo dell'incidente. Risulta rubata a John Hastings, abitante in Maple Drive. "Fondatore e primo presidente del Consiglio dei Genitori del
Whitefield College, il dottor Burleigh-Jervis era un attivo promotore del controllo delle nascite su scala mondiale. In precedenza, era stato anche direttore dell'Istituto di Chirurgia dell'Accademia di Medicina, e aveva insegnato chirurgia ostetrica al Columbia College. "Nato a Whitefield, il dottor Burleigh-Jervis aveva frequentato la Admur Country Day School di Wallingford, nel Connecticut. Si era laureato e specializzato ad Harvard. Aveva al suo attivo centoventi pubblicazioni scientifiche. "Il dottor Burleigh-Jervis, noto promotore di attività benefiche locali, quest'anno era stato eletto presidente della United Fund di Whitefield. In passato, era stato anche presidente della Historical Society e della Whitefield Association. Socio dell'High Hill Country Club, si era prodigato per far concedere nei giorni della settimana l'uso dei campi da golf ai volontari locali che prestano servizio nel corpo dei vigili del fuoco. Era predicatore laico alla St. Jones Episcopal Church. Suo padre, il defunto Hartley Burleigh-Jervis, era stato fondatore e primo presidente del consiglio della Hartley Mutual Fund. "Il dottor Burleigh-Jervis lascia la moglie, June Price. I funerali si svolgeranno in forma privata." Quanto alla signora Eccles, c'erano alcuni ritagli sulle mansioni da lei svolte nella Junior League e nel circolo di giardinaggio e sulla sua attività in favore di organizzazioni benefiche e iniziative scolastiche. Non c'era il necrologio. Finley guardò la busta intestata alla signora Wuhermann senza toccarla. Poi, lanciò un'occhiata all'archivista e la vide intenta a ritagliare degli articoli dal quotidiano di quel giorno. Alla fine, strofinandosi gli occhi come se le dolessero, aprì l'ultima busta e la scosse. Ne uscì un unico ritaglio. Guardò nella busta e la trovò vuota. "Whitefield. "Ruth Wuhermann, di quarantun anni, è morta ieri cadendo da una delle piste da sci del Mount Whitefield. La polizia presume che la signora Wuhermann, recatasi da sola in montagna per una passeggiata, sia finita su delle rocce pericolanti. A trovarla, ancora viva ma ormai senza conoscenza, sono stati due bambini,
Raymond e Russel Setcher, di nove e sette anni, che giocavano ai piedi della montagna. I bambini hanno subito avvertito i genitori che, a loro volta, si sono affrettati a chiedere l'intervento della polizia. "La signora Wuhermann lascia il marito Henry, professore di letteratura inglese al Whitefield College, e una figlia, Finley, matricola nella stessa università. L'ufficio funebre sarà celebrato venerdì alle due del pomeriggio, nella Chiesa Congregazionale di East Morley Street. Si prega di non inviare fiori. Eventuali offerte da evolversi all'UNICEF." Ore 11,45 Nevicava ancora. Le strade erano bagnate e scivolose e i pedoni camminavano a fatica, tenendo la testa bassa. Gli automobilisti infierivano coi clacson e i vari Babbo Natale coi loro campanelli, mentre gli agenti addetti al traffico urlavano a perdifiato. Finley, ferma in mezzo a quel caos, non si accorgeva delle persone che la spingevano e la urtavano da tutte le parti. Guardava e riguardava un foglietto che aveva in mano: Raymond e Russel Setcher, 81 Adams Street. «Scusate» mormorò un passante, facendole quasi cadere di mano il foglio. Finley, riscuotendosi bruscamente, si guardò attorno in cerca di un orologio. Non ce n'era nemmeno uno. Entrò in un grande magazzino e, facendosi largo nella massa di umanità che si accalcava davanti ai banchi, riuscì a raggiungere una commessa. «Dove sono i telefoni?» chiese, interrompendo la sua conversazione con un cliente. La ragazza, senza nemmeno alzare gli occhi, agitò una mano e Finley puntò nella direzione indicata. Dopo il reparto abbigliamento maschile, si trovò in un atrio con una fila di cabine telefoniche. Erano tutte occupate. Senza perdere d'occhio le porte delle cabine, cercò l'elenco di Whitefield e poi il numero dei Setcher. Lo annotò e attese, impaziente. Una delle cabine si aprì, ma lei se la vide soffiare sotto il naso. Alla fine, imprecando tra sé, infilò il foglio in tasca e corse svelta verso il parcheggio. Le auto in entrata e in uscita dalla cittadina si mescolavano in un flusso senza fine. Finley girava in cerchio, assieme a tutte le altre macchine condannate a girare in cerchio per l'eternità. Il motore della Volkswagen per-
deva colpi, Finley cambiò marcia. Non faceva che sbagliare strada, oppure, rendendosi conto della difficoltà in cui si trovava, si lasciava paralizzare dall'indecisione a un incrocio. I tergicristalli servivano a ben poco. Era chiaro che, ormai, la neve aveva vinto la sua battaglia e attecchiva. Bloccata da un nuovo ingorgo alla periferia della città, vide scendere da un'auto una figura familiare che andò a mettersi al centro dell'incrocio e cominciò a dirigere il traffico con la massima calma. Era Ken Huening, il ragazzo che quel mattino presto era entrato nella stanza di Sara Uhlir. Alto e molto magro, indossava un giaccone verde e pantaloni scozzesi molto vistosi. Finley, avvicinandosi a lui, pochi metri per volta, abbassò il finestrino e gridò: «Ken! Che cosa diavolo fai qui?» Sul viso intelligente del giovane non passò neppure un'ombra di sorpresa. «Dirigo il traffico.» «No, ti chiedo che cosa fai in città.» Lui agitava la mano destra per far avanzare una colonna di auto, e teneva la sinistra alzata per fermare l'altra colonna. Gli automobilisti, senza far domande, gli obbedivano. «Shopping natalizio.» «Non faresti muovere la mia, di fila?» «Niente favoritismi. Aspetta il tuo turno.» E quando finalmente la lasciò passare, lei gli gridò: «Spero di vederti all'università entro primavera!» Guidava con attenzione perché non voleva correre il rischio di rovinare la Volkswagen. Il traffico era molto meno intenso, e le case stavano divenendo più rare. Finley procedeva tra campi coperti di neve. A pochi chilometri dal campus, passò davanti a un ristorante, e, di scatto, si voltò a guardare. Aveva visto un'altra persona che conosceva. Il professor Wuhermann. Incurante del fatto che era al volante di un'auto, rimase girata a fissarlo. Lui stava entrando nel ristorante, e non era solo. Teneva aperta la porta a una donna. A tutta prima, Finley lo considerò un gesto di normale cortesia, ma poi lo vide prendere quella donna sottobraccio. Aveva un'aria insolitamente vivace, quasi esultante. E quando la donna si voltò a sorridergli, Finley vide che aveva un profilo perfetto. Dei colpi furibondi di clacson la costrinsero a guardare la strada. Sterzò bruscamente per evitare la giardinetta che strombazzava. Passò davanti al campo sportivo di un liceo, dove degli studenti battagliavano nella neve, e
poi a dei modernissimi edifici divisi l'uno dall'altro da siepi di sempreverde: erano le frange dello sviluppo edilizio urbano. A un tratto, ricordandosi di avere il serbatoio quasi vuoto, si fermò a una stazione di servizio per fare due dollari di benzina. Arrivata al campus, lasciò la macchina davanti ad Atkins. Si infilò in tasca le chiavi, entrò nel locale e si guardò attorno. Una volta individuata la nuca di Pete, si concesse una breve sosta alla toilette, poi andò da lui e gli sedette accanto. Pete si voltò e le sorrise. «Temevo che non ci riuscissi.» «Non riuscissi a far cosa?» «A venire in orientamento.» Appoggiò le braccia conserte sul tavolo e la osservò. «Finley, che cos'hai?» «Niente. Niente di nuovo, almeno.» «Credevo che ormai stessi superando la crisi. Cioè... proprio questo no, magari, ma che almeno cominciassi ad accettare la realtà.» «Pete, hai saputo della signora Eccles?» «Che ha mangiato del cibo avariato? Sì. Perché?» «Continuo a pensare... so che sembra melodrammatico... ma tre persone che avevano a che fare col college sono morte di morte violenta negli ultimi sei mesi. Cioè, la signora Eccles non è morta, però...» «Finley, ma che cosa dici?» Pete, appoggiando il mento al palmo della mano, si scostò per guardarla meglio in faccia. Finley inspirò a fondo, e stava per mettersi a parlare, ma l'arrivo di Cindy Lilystrom glielo impedì. Cindy, la sua più cara amica, somigliava vagamente a Pete: entrambi erano alti, biondi e belli. «Io ho portato il formaggio» disse, sedendosi. «E io il vino» annunziò Pete. Cadde il silenzio. Poi Cindy cominciò a guardarli, perplessa. «Ho forse interrotto un discorso importante?» Finley stava per scuotere la testa, ma Pete intervenne. «Sì.» Cindy si alzò. «Okay. Vado a prendere della frutta e dei panini per il picnic. Volete qualcosa, voi due?» «Yogurt» disse Finley. «Gli alimenti genuini saranno la tua morte» sentenziò Cindy, allontanandosi. «Senti, Fin» disse Pete, quando fu sicuro che Cindy fosse abbastanza lontana «che cosa diavolo stavi dicendo? Tua madre è morta in un inciden-
te, d'accordo, ma quel tale con i due cognomi è finito sotto un'auto. E la signora Eccles, probabilmente, ha mangiato della zuppa di cipolle avariata o roba del genere.» Lei frugò nella sua borsa, ne tolse la lettera e la porse a Pete. E lui, stupefatto, le lanciò un'altra occhiata inquisitoria, prima di cominciare a leggere. Finley si guardava attorno irrequieta. Gli studenti affluivano a gruppi nel locale, pestando i piedi sul pavimento e togliendosi la neve dai capelli. Vide Sara Uhlir che si avvicinava al loro tavolo. Era indiscutibilmente la ragazza più notevole che ci fosse lì, e ad ogni passo veniva fermata da qualche studente. E lei elargiva a ognuno lo stesso sorriso pieno di civetteria, mentre con un indice respingeva da una parte un'onda di morbidi capelli rossi. A differenza di quasi tutte le rosse, era senza efelidi e di carnagione scura. Appena arrivò accanto a loro, chiese: «Dov'è Ken?» «Io l'ho visto in città.» «In città? E che cosa diavolo ci faceva?» «Stava dirigendo il traffico.» In risposta all'espressione sbalordita di Sara, Finley aggiunse: «Sì, anch'io ci sono rimasta come te.» Pete, accigliato, ripiegò più volte la lettera. «E tu che cosa facevi in città?» domandò a Finley. Lei non rispose. Raccolse delle briciole di pane rimaste sul tavolo della prima colazione, le mise in bocca e cominciò a masticare. Cindy, che tornava in quel momento con dei cartoni di latte, delle banane e dei panini imbottiti, sentì la domanda. «Deve trattarsi di una faccenda molto riservata» disse. «Quindi, non ci resta che indovinare. Sei andata a comprarti un equipaggiamento per la caccia all'elefante in Nigeria.» «No, una tuta da sommozzatore, perché vuole trovare i tesori sommersi nel Pacifico» disse Pete. «Per me» continuò Cindy «ha comprato una tuta imbottita, perché vuole andare sulla catena dell'Himalaya a seguire le tracce dell'abominevole Uomo delle Nevi.» Arrivò anche Beverly, con le braccia cariche di sacchetti che lasciò cadere sul tavolo. Pete prese al volo un libro che stava finendo per terra. «Chi sarebbe un abominevole Uomo delle Nevi?» chiese Beverly, ma sparì senza aspettare risposta. «Sono andata alla sede del "Clarion"» bisbigliò Finley a Pete.
«A far cosa?» «A leggere qualche necrologio.» Pete tamburellava con le dita il piano del tavolo. Più di una volta, fece per dire qualcosa, ma cambiò sempre idea e tacque. Mentre decideva quale delle molteplici osservazioni che gli passavano per la mente dovesse fare per prima, arrivarono Danny e Ken, coperti di neve. Battevano i piedi sul pavimento e agitavano le braccia per asciugarsi. Danny, lasciandosi cadere sulla sedia accanto a Cindy, la cinse con un braccio e disse: «All'inferno l'orientamento! Andiamo in camera mia.» «Eppure, ti farebbe bene un po' di moto.» «Appunto. Andiamo in camera mia.» «A chi farebbe bene un po' di moto?» Beverly era tornata con una tazza di "chili". Sotto gli occhi disgustati dei presenti, sedette al tavolo e cominciò a ingurgitare un boccone dopo l'altro. Finley, distogliendo lo sguardo, disse a Ken: «E così, sei riuscito a venirne fuori.» «No, sono ancora là in mezzo al traffico.» Sara si avvinghiò a un braccio di Ken, e gli appoggiò la testa sulla spalla. I suoi capelli rossi si sparsero sulla schiena di lui, simili a una macchia di sangue sulla neve. Come Beverly e Finley, anche Sara e Ken parevano uno studio di contrasti: il viso di lei era bellissimo e inespressivo, quello di lui brutto e intelligente. «Di che cosa state parlando, voi due?» «Siamo stati in città oggi...» Sara si piegò all'indietro per scrutare Ken. «Siete stati in città insieme?» «No» disse Finley, e intanto guardava i fiocchi impalpabili formare un disegno sul vetro esterno del locale. «Io sono andata alla sede del "Clarion" e Ken ha diretto il traffico.» Come un bambino che dice: "Ho un segreto ma non te lo posso confidare", Finley pareva cercasse in tutti i modi di farsi rivolgere delle domande. Cindy, non rendendosi conto che aveva bisogno di sfogarsi, cambiò argomento. «Ken, ti presti gratis o ti pagano?» «Lo pagano per che cosa?» intervenne Beverly, tra un boccone e l'altro. E Cindy, esasperata: «Insomma, o fate attenzione a quello che si dice o chiudiamo l'argomento.» E mentre gli altri discutevano se andare in orientamento o partecipare allo sciopero per la pace, Pete scostò dal tavolo la sua sedia e quella di Finley. «Okay» le disse sottovoce. «Adesso spiegati. Dove hai trovato quella
lettera, chi l'ha scritta e a chi è indirizzata?» Finley tracciò sul piano del tavolo le sue iniziali, e poi, con la mollica del pane, formò tante palline. «Di risposte precise non sono in grado di dartene, ma posso fare delle supposizioni.» «Vada per le supposizioni.» «Ti avverto: sembreranno assurde.» «Tutto quello che dici è assurdo. Tu stessa sei assurda.» «Riprendendo il discorso di prima, è strano che tre persone di questa università siano state prese di mira...» «Prese di mira? Senti...» «Vuoi star calmo e lasciarmi continuare?» «Continua pure.» «E adesso, mi trovo questa lettera in un quaderno...» Lui fu sul punto di interromperla di nuovo, ma un'occhiata fulminante di Finley lo fece desistere. «L'hanno messa di proposito nel mio quaderno, e l'unica spiegazione secondo me è questa... anzi, no, di spiegazioni possibili ce ne sono due.» «Prima: chi l'ha messa nel tuo quaderno è un pazzo. Seconda: la pazza sei tu.» «La prima spiegazione è questa: chi mi ha fatto avere quella lettera ha ucciso tre persone... anzi, due, per il momento... e non gli basta ancora. Vuol far sapere al mondo intero che quelle persone hanno avuto la giusta punizione per i loro peccati...» «E allora, perché tanta fatica per farli sembrare degli incidenti?» «Be', una forma di autodifesa. Poi, siccome gli è andata liscia, ha deciso che la sua opera meritava un riconoscimento.» C'era del trambusto davanti alla porta del locale. Si voltarono e videro due ragazzi che erano venuti alle mani, per divergenza di idee a proposito dello sciopero della pace. Prima che il conflitto si facesse aperto, un gruppo di giovani spinse fuori dalla porta i due contendenti. «E la seconda spiegazione quale sarebbe?» Finley, evitando di guardare Pete, disse: «La seconda spiegazione è che l'assassino mi conosce. Magari gli sono simpatica e vuole spiegarmi perché ha ucciso mia madre.» Pete taceva. Finley fu costretta ad alzare gli occhi. Appoggiato allo schienale della sedia, le mani intrecciate sullo stomaco, lui la guardava con aria interrogativa. Finley capì che non aveva intenzione di fare commenti. «Ho pensato anche a una terza possibilità» disse.
«Mi auguro che sia più rosea delle prime due.» «Tutt'altro. È ancora più nera. Ci sono degli assassini che vogliono a tutti i costi essere scoperti e puniti. E questo vuole che sia io a scoprirlo.» Dal tavolo, Danny gridò: «Ehi, voi due! Che cosa vi prende? Che aria da funerale!» Senza voltarsi, Pete disse: «Finley mi ha mostrato una lettera che ha ricevuto...» Si interruppe, vedendo l'espressione di lei. L'aria fredda le aveva colorito le guance, ma adesso era pallidissima. «Miseria!» esclamò Danny. «Finley, ricordami di non scriverti mai una lettera, se hai l'abitudine di mostrare a tutti la tua corrispondenza.» «Non era indirizzata a Finley» proseguì Pete. «Come? Sarebbe a dire che legge le lettere altrui?» Pete, con la voce che ricominciava a tremargli, disse: «Qualcuno ha voluto che lei la leggesse.» «Chi mi spiega di che cosa state parlando?» implorò Beverly. Pete si voltò. Notando che Beverly aveva fatto cadere del cibo dal piatto, esclamò: «Ehi, guardate! Beverly ha sputato l'osso.» Danny passò una mano sui capelli di Beverly. «Non affaticare questa testolina, continua pure a dedicarti alla tua attività preferita. Deve trattarsi di una faccenda molto complicata. Se non riesco a capirci niente io, deve per forza essere complicata.» «E se invece non riesco a capirla io, deve essere una faccenda molto stupida.» Ken si alzò, stiracchiandosi. «Chi di voi è per l'orientamento?» «Insomma, vuoi dirci che cosa c'è scritto in quella lettera misteriosa?» chiese Cindy. «Sarebbe troppo semplice» disse Danny. «Ho una mia teoria in proposito... e non dimenticate che ho seguito un corso di psicologia... e cioè che Finley soffre di un complesso di inferiorità perché è la più bassa di tutte, e quindi cerca un modo per farsi notare. E siccome non è dotata di talenti universalmente riconosciuti, ha inventato questa storia a base di biglietti anonimi, misteriosi...» Finley, senza scomporsi, lo interruppe. «Ho mostrato a Pete qualcosa che volevo si tenesse per sé. È stato lui a decidere di parlarne. Adesso l'argomento è chiuso.» «Ben detto» approvò Ken. «Andiamo in orientamento.» «Okay.» Finley balzò in piedi. «Vi raggiungo tra un attimo. Devo fare una cosa.» E senza lasciare loro il tempo di rivolgerle domande, corse al piano su-
periore, dove c'era la cabina telefonica. Tolse dal borsellino una moneta da dieci cents e il biglietto sul quale aveva annotato il numero dei Setcher. Le risposero dopo quattro squilli. «Pronto?» La donna all'altro capo della linea pareva senza fiato. «La signora Setcher?» «Si.» «Signora Setcher, sono Finley Wuhermann, la figlia della donna trovata morente dai vostri bambini. Volevo chiedervi...» «La signora caduta dalla montagna?» Nella voce di quella donna c'era un miscuglio di sorpresa e diffidenza. «Vorrei parlare con i bambini. Vedete, mia madre non... cioè, mia madre è vissuta ancora per... e io vorrei sapere se ha detto qualcosa ai bambini...» «Non sono in casa. Sono a scuola, tutti e due.» «Oh!» Finley espirò lentamente. Era come se si fosse fatta coraggio per tuffarsi in una piscina di acqua gelata, e, una volta presa la decisione, l'avesse trovata asciutta. «Pensavo che tornassero a casa per il pranzo.» «No. Mangiano a scuola.» «Posso chiamare più tardi?» «Che cosa desiderate sapere?» «Se mia madre ha detto qualcosa... se ha ripreso conoscenza prima di...» «Questo posso dirvelo anch'io.» Finley, che si stava rilassando, tornò a irrigidirsi. Le dita avvinghiate al ricevitore, disse: «Dunque mia madre...» Dovette interrompersi perché qualcuno bussava al vetro della cabina. Si girò e vide Pete. «Sbrigati, Fin.» Lei, furiosa, scosse il capo e si voltò di scatto. «Sì, signora Setcher?» «La polizia ha chiesto ai bambini se vostra madre aveva detto qualcosa. In effetti parlava, però loro non sono riusciti a capire molto. Ma il maggiore... il piccolo si è messo a vomitare appena l'ha vista... il maggiore crede...» Si interruppe, sentendo il gemito di Finley. Con gli occhi chiusi, la ragazza si appoggiò alla parete della cabina, premendo contro l'acciaio freddo la fronte che ardeva. "Il piccolo si è messo a vomitare appena l'ha vista." «Signorina Wuhermann?» «Sì, signora Setcher. Continuate.» «Il maggiore dice che lei ripeteva "quella là, quella là". Non significa niente, vero?»
Finley non rispose. Fissò i graffiti all'interno della cabina, finché non sentì la donna chiedere: «Siete ancora in linea?» «Sì. Scusate. Grazie, signora Setcher. Vi sono molto grata per la vostra cortesia.» Riagganciò, ma non si mosse. Alle sue spalle, Pete apri la porta. «Finley, tutto bene?» «Benissimo» rispose lei, chiudendo il portafoglio. «Andiamo.» Ore 13,10 All'inizio del percorso, c'era un tavolo piazzato nella neve, cosparso di matite, fogli, mappe, bussole. Da un ramo sopra il tavolo, pendeva un giaccone. Un uomo corpulento, in maniche di camicia nonostante il freddo, mangiava un sandwich e beveva del latte direttamente dal cartone, stando appoggiato all'albero. Al tavolo, era seduta una donna, immersa nella lettura del giornale. «Vorremmo le istruzioni sul percorso» disse Ken all'uomo. «È la prima volta che partecipiamo a questa gara.» Zelante, l'uomo depose quel che restava del sandwich e del latte e, muovendo un dito tozzo sulla carta ipsometrica, incominciò a dare spiegazioni. Ogni linea rappresentava una salita o una discesa di tre metri e mezzo, con un dislivello di trentacinque metri rispetto alle linee più scure. La scala era di uno a ventimila. Le linee tratteggiate indicavano le pietraie e quelle doppie i sentieri principali. Ken annuiva, mostrando di capire, e Sara, che gli stava accanto, faceva altrettanto. Gli altri, invece, dopo i primi trenta secondi, avevano deciso di gettare la spugna, rinunciando a capire. Infine, con la bussola al collo e la mappa in mano, Ken assunse il comando della spedizione. L'uomo li fece passare e partirono. Davanti a loro, un gruppo di ragazzi seriamente intenzionati a vincere si consultarono in fretta e corsero via. In un batter d'occhio erano scomparsi dietro una curva. «Ho la spiacevole sensazione che potremmo anche non vincere...» disse Danny perplesso. Ken non gli fece caso. Appoggiò la bussola sui punti contrassegnati a matita coi numeri uno e due, tenendo l'ago calamitato sul due. Voltò il quadrante in modo che le linee d'orientamento corressero parallele ai meridiani magnetici della mappa, e poi si mise la bussola sul palmo della mano, con l'ago puntato in avanti. E, come se giocasse a mosca cieca, girò su se stesso finché la punta rossa dell'ago non coincise con la direzione nord. Allora, alzando di scatto gli occhi, indicò un albero abbastanza lontano.
«Da questa parte» disse con tono autorevole. «Andiamo.» E si avviò nella stessa direzione del gruppetto che li aveva preceduti. «Ho un'idea!» esclamò Cindy. «Facciamola finita con queste baggianate e limitiamoci a seguire quelli che ci stanno davanti.» «Io ne ho una migliore» intervenne Beverly. «Il traguardo è qui. Non muoviamoci e diciamo che siamo arrivati per primi.» Pete si mise dietro Ken. «Io consiglio di muoverci. Altrimenti, rischiamo di perdere quegli altri, che sanno senz'altro il fatto loro.» «Potrebbero avere un percorso diverso dal nostro» gli spiegò Ken. «La strada da seguire non è la stessa per tutti, sai?» «Immaginavo che ci fosse sotto un imbroglio» commentò Danny. Partirono: Ken e Sara in testa, gli altri dietro, in ordine sparso. Adesso che nevicava, non faceva più tanto freddo. Slacciarono i giacconi. Il sentiero passava per un bosco. Ken, dopo aver consultato di nuovo la bussola, lasciò il sentiero e si infilò tra gli alberi. Arrancò su per un pendio, reggendosi agli arbusti, e salì fino in cima. Mentre stava per consultare un'altra volta la bussola, lanciò un'esclamazione e si mise a correre. Aveva visto il contrassegno di plastica rosso e bianco. «Gesù, ma funziona!» urlò Danny. Guardarono tutti Ken, che staccava il contrassegno dall'albero e segnava sulla carta la prima tappa raggiunta. Poi, iniziarono la ricerca del numero due. Beverly, col fiato grosso, protestò: «Io credevo che avremmo fatto un pic-nic, non una faticaccia simile.» Cindy, che le stava alle spalle, cominciò a spingerla su per la collina. Finley continuava a osservare i compagni, come un antropologo che studia una comunità di primitivi. Si infilò in tasca il berretto di lana e tolse il giaccone, annodandoselo in vita. Per un po', nessuno aprì bocca: nel silenzio, si udiva solo l'ansimare di Beverly. Si arrampicarono tra le felci, gli arbusti e gli alberi spogli. Di tanto in tanto, sentivano un grido lontano o intravedevano qualcuno che correva tra gli alberi. Ken, mano alla bussola, teneva duro. Sara non perdeva nemmeno una sua mossa e accoglieva ogni sua decisione con cenni d'assenso. Improvvisamente, corse avanti gridando: «Eccolo lì!» E, infatti, c'era il contrassegno con la lettera "P", cioè quello che cercavano. «Magnifico» disse Ken. «Prendi tu la bussola e la carta, adesso, e portaci alla prossima tappa.»
Sara sbatté le palpebre e si inumidì le labbra. Aggrottò la fronte nello sforzo di concentrarsi, armeggiò con la bussola e la mappa, ruotò la bussola e poi girò su se stessa. Lanciava occhiate incerte a destra e a sinistra, infine si decise ad agitare la mano in una direzione non molto precisa. «Lassù.» La seguirono su per la montagna, aggrappandosi alle rocce e agli arbusti. Cindy restava alle spalle di Beverly per salvarla da eventuali cadute. Arrivarono su uno spiazzo. Poco più sotto, la valle si apriva ai loro piedi in tutta la sua imponenza. Per qualche istante, nessuno parlò: riprendevano fiato guardando il panorama. Sulla destra, in basso, c'erano i condomini disabitati in quel periodo, e la seggiovia, ferma. Mentre imboccavano il sentiero, Ken chiese: «Sei sicura che sia la strada giusta, Sara?» «Peccato che non mi sia portato i chiodi e le corde da roccia» disse Danny. Si guardarono attorno, sconsolati. Ken alzò una mano, imponendo silenzio. Da sotto, a sinistra, venivano due voci: quelle di un uomo e di un bambino. «Grazie a Dio siamo salvi» disse Danny. Un attimo dopo, due figure sbucarono da dietro la curva. Erano il signor Venner e un bambino alto meno della metà di lui che protestava: «Avanti, papà. Cammini troppo adagio.» Alla vista del gruppo fermo sulla collina, il bambino si fermò di colpo e poi si nascose dietro suo padre. Il signor Venner, ansimando, disse: «Bene, bene. Ma guarda chi si vede. E così, avete deciso tutti di partecipare a questa gara.» «Tutti... come fate a dirlo?» replicò Pete. «Vi ho cercato nelle aule, ma erano deserte.» Prese per mano il figlio, lo sospinse oltre il gruppetto e scese per il pendio. Sara decise subito di seguirli. «Sì, ecco. Per di qui.» «Finché si tratta di camminare in discesa, io sono d'accordo» ansimò Beverly. Ma non furono abbastanza svelti. Quando arrivarono dietro la curva, il signor Venner era sparito. Si trovarono davanti a ben tre piste, tutte segnate da impronte. «Ehi, ditemi una cosa!» esclamò Beverly. «Manderanno delle squadre di soccorso se non ci vedono per una settimana?» «Sì, purché qualcuno si accorga della nostra scomparsa» rispose Pete.
«Vuoi che non notino la nostra assenza, alle lezioni?» «Non necessariamente» obiettò Danny. «Io salto spesso le lezioni. E quanto ai miei genitori, dal momento che non scrivo mai a casa, non si accorgeranno che sono scomparso dalla circolazione fino all'estate prossima.» «I miei, sì, invece» disse Cindy. «Io telefono a casa tutti i venerdì. E oggi è venerdì.» «E se non telefoni, faranno delle indagini?» «Sicurissimamente.» «Evviva!» Sara, mordicchiandosi le labbra, scelse il sentiero di mezzo, e si avviò spedita con Ken a ruota. Finley li seguiva guardandosi attorno con occhi vacui. Pensava a qualcosa ed era visibilmente preoccupata. Gli altri quattro camminavano in gruppo. «Perché diavolo telefoni ai tuoi tutte le settimane?» chiese Danny a Cindy. «Io voglio bene ai miei genitori e mi tengo in contatto con loro.» «Eccolo là!» L'urlo di Sara li fece scattare e, un po' correndo e un po' scivolando per il pendio, si precipitarono verso di lei. Era ferma su un altro sentiero, e i suoi capelli parevano risplendere contro il cielo grigio. «Dov'è la mappa, Ken? Te l'avevo detto. Te l'avevo detto, sì o no?» Ken consultò la mappa e si fece scuro in viso. La lettera chiave sulla mappa era una "Q", mentre quella sul contrassegno era una "M". «Fermi. Questa è la quarta tappa, ma non abbiamo ancora trovato la terza.» Danny, fingendo di strapparsi i capelli, si rotolò nella neve. «Bene» disse Sara imperturbabile «cominciamo a staccare il numero quattro, poi cercheremo il tre.» Ken, con l'aria di chi non si fa illusioni sul destino che l'aspettava, contemplava il cielo. «Bisogna trovare il numero tre, tornare qui per la via giusta, poi andare al cinque» dichiarò. «Non dobbiamo tagliare dal tre al cinque perché potrebbe essere pericoloso, c'è il rischio di finire in un precipizio, ragazzi!» «Sono sicura di non essermi sbagliata. Probabilmente, abbiamo oltrepassato il numero tre senza notarlo.» Beverly alzò una mano. «Non preoccupatevi. Ho un'idea meravigliosa. La passeggiata l'abbiamo fatta, non è il caso di esagerare. Torniamo indietro e pensiamo al pic-nic in programma.» Nessuno fece obiezioni. Si sparpagliarono giù per la collina. A un tratto,
Pete disse: «Dov'è Fin?» Si fermarono e guardarono in alto, sulla montagna. Finley e un abete si stagliavano contro il cielo. Ferma sul sentiero, lei fissava un'assicella di legno a forma di freccia sulla quale erano verniciate a fuoco due parole: "Harris Point". «Fin, che cosa fai? Andiamo.» Lei disse qualcosa, ma Pete non riuscì a sentirla, e urlò: «Come?» «Ti ho chiesto se hai visto questo segnale.» «No. Di che cosa si tratta?» «La polizia dice che mia madre è caduta da qui.» Tutti rimasero immobili e calò il silenzio, finché una ghiandaia dai riflessi azzurrognoli non sfrecciò fuori dai cespugli e, posatasi sul ramo di un albero, strepitò furiosa. Senza sapere perché, i giovani cominciarono a risalire la collina. Finley li aspettava sul ciglio del sentiero. Fissava il precipizio e, come se i loro occhi fossero collegati ai suoi, tutti guardarono in basso. Vedevano i condomini lontani, qualche automobile e delle capocchie di spillo che dovevano essere persone. Si fecero vicini per stare più caldi. «Ehi, piantala di spingere!» sbottò Danny. Sara scoppiò in una risatina nervosa. Finley, chinandosi all'improvviso, esaminò il terreno e scavò nella neve. Pete fece per sostenerla, ma lei era già in piedi. E teneva in mano una catena d'argento con un pendente smaltato. Ore 14,05 Il viso di Finley era del colore della neve sporca. «Che cos'hai?» le chiese Pete. Lei teneva il pendente con due dita, il più possibile scostato da sé. «Era di mia madre» disse. Nel silenzio, sentirono un aereo ronzare sopra di loro, invisibile oltre le nubi. Il rumore divenne più forte, per poi spegnersi in lontananza. L'urlo di un bambino, giù nella vallata, ruppe l'incantesimo, e tutti si rimisero in cammino. Scesero rapidi dalla collina, ma senza neanche l'ombra della baldanza con cui avevano affrontato la salita. Beverly si mise alla testa del gruppo. Sara continuava a consultare la mappa, annuendo tra sé. «Sì, ecco dove abbiamo sbagliato strada. Qui ci sono la zona grigia, che indica un tratto
particolarmente difficile, l'asterisco e le linee tratteggiate che segnano i terreni rocciosi, e le linee ondulate che segnano i dirupi...» Appena il pendio divenne più dolce, presero una scorciatoia, abbandonando il sentiero e reggendosi agli alberi per non scivolare nella neve. Davanti a loro, oltre le betulle, scorsero la strada. «Sì, non c'è dubbio» attaccò Sara. «Ecco la linea tratteggiata che indica un sentiero. Stiamo andando nella direzione giusta.» Costeggiarono la montagna in fila indiana e, arrivati a valle, si riunirono. Davanti a loro, altri concorrenti cronometravano i tempi. Gruppi di ragazzi erano seduti su delle coperte e mangiavano chiacchierando, mentre la neve cadeva piano. Quanto all'uomo corpulento, o era un infaticabile divoratore di sandwich oppure era uno che mangiava molto adagio. Infatti, masticava ancora, e la donna che gli stava accanto continuava a leggere il suo giornale. «Gesù, pare il castello della Bella Addormentata» disse Cindy. «Non è cambiato niente.» «Quasi quasi la bacio» disse Danny, tentando di vederla in faccia. «Fa' un po' tu.» Beverly, sparita in direzione del parcheggio, ricomparve quasi subito carica di provviste. Presero posto su una roccia larga e piatta, e mentre Beverly e Cindy affettavano le salsicce e il formaggio, Pete sturò la bottiglia e versò il vino nei bicchieri di carta. Piano piano, alcuni ragazzi si avvicinarono a Sara e le offrirono dei sandwich, delle uova e del formaggio. E lei, senza scomporsi, scelse quello che più gradiva e lo divise con i suoi amici. Pete tese un bicchiere a Finley, che mordicchiava del formaggio con aria assente. Lei non si mosse, ma un attimo dopo dimostrò di sapere che lo aveva vicino, dicendogli: «La polizia avrà pur ispezionato tutta la zona, dopo l'accaduto.» «Sì. Almeno credo.» «Quando una persona muore di morte violenta, si fanno delle indagini, vero?» «Non è detto, se si tratta di incidente. Vorrei sapere come sono riusciti a stabilire che è caduta da Harris Point.» Finley si pulì accuratamente le dita. «Non ne sono sicuri al cento per cento. Ci sono arrivati per via dell'angolazione della... insomma, dell'angolazione. Ma come mai non hanno trovato il pendente?» «Era nascosto.»
«Be', allora lavorano con la testa nel sacco, lasciamelo dire. E poi, cosa ancora più importante, come mai il pendente è in così buono stato? Non ha proprio l'aria di essere rimasto esposto alla pioggia e alla neve per sei mesi.» Lo tolse dalla tasca. «Vedi? Non è arrugginito.» «L'argento non arrugginisce.» Pete le si avvicinò per esaminare il pendente, ma senza toccarlo. «Perde la lucentezza e si scurisce, ma non arrugginisce.» «Io dico che se fosse rimasto là per tutto questo tempo sarebbe ridotto molto peggio.» «Okay, Fin. Dove vuoi arrivare?» «Secondo me, qualcuno l'ha perso lassù proprio oggi. La stessa persona che l'ha tolto dal collo di mia madre prima di scaraventarla giù dalla montagna.» Finley, vedendo suo padre, si voltò. Il professor Wuhermann, che era arrivato da solo, stava chiacchierando con quelli seduti al tavolo della giuria. Non intendeva cimentarsi nella gara, ma era venuto lì spinto dalla curiosità e in cerca di compagnia. Finley lo fissava con una tale intensità che Pete si girò a sua volta per vedere chi le interessasse tanto. Non trovando una giustificazione a tutto quell'interesse, le chiese: «Vorresti quindi dire che l'ipotetico assassino si sarebbe portato appresso il pendente per sei mesi? Come un trofeo?» Finley non rispose. Distolse gli occhi da suo padre, tracciò con l'indice un disegno sulla neve. «Un assassino pieno di premure» soggiunse Pete. «Prima ti fa trovare una lettera che gli ha scritto sua madre, e poi anche il pendente.» Lei si mosse di scatto e rovesciò il bicchiere. Il vino si sparse sulla neve, macchiandola di rosso. Finley fissava sconcertata la macchia, e Pete le prese una mano. «Avanti, Fin. Non cercare un senso anche nelle cose più banali.» Mentre copriva la macchia rossa con la neve, Finley disse: «Il fatto è che proprio non me la vedo, mia madre, che va a fare una passeggiata in montagna da sola.» «Non era mai successo?» «Che io sappia, no. Secondo me, qualcuno l'ha invitata. Forse uno studente.» «Sei sicura che quella lettera fosse indirizzata proprio a uno studente?» «E chi altro poteva avere accesso alla mia borsa dei libri? Nella lettera, la donna ha scritto queste parole: "... la bontà dimostrata da mio marito
trattando te come se fosse stato tuo padre". Quindi, il destinatario della lettera dev'essere un giovane. Secondo me, l'ha scritta una donna che vive a Whitefield e che aveva conosciuto mia madre qui. E l'ha mandata a suo figlio mentre lui era in vacanza, o studiava altrove... qualcosa del genere, insomma. Adesso, il ragazzo dovrebbe essere qui all'università di Whitefield.» Pete le offrì dell'altro vino, ma Finley rifiutò con un cenno del capo. A qualche passo da loro, il bambino che avevano incontrato in compagnia del signor Venner li osservava con aria solenne. Senza berretto, risultava essere una bambina. Con aria altrettanto solenne, Pete le porse un bicchiere. «Vuoi un po' di vino, Buzzy?» La bambina si allontanò senza rispondere. «Fin, chi può aver libero accesso alla tua borsa dei libri?» «Chiunque, in pratica. Sai com'è da noi: almeno un terzo degli studenti che abitano nel campus passano per il nostro alloggio in media una volta alla settimana.» «Quando avevi aperto per l'ultima volta il quaderno nel quale hai trovato la lettera?» Finley non rispose subito. Senza neppure vederli, fissava un gruppo di nuovi arrivati che consegnavano mappe e bussole alla giuria. Poi, con voce quasi inudibile, disse: «Era il quaderno per gli appunti di letteratura inglese. L'ho usato ieri.» Rimasero in silenzio per un momento. Dalla stazione di Whitefield, arrivò il fischio di un treno. L'aria immobile, pregna di neve, vibrò al rombo del convoglio lontano. «Allora» disse Pete «non ti resta che fare un elenco di tutte le persone che si sono avvicinate alla tua borsa ieri e oggi.» Finley si guardò le mani e, con aria assente, senza rendersi conto di quello che faceva, cominciò a strapparsi una pellicina dal pollice. «Se non mi sbaglio dicendo che il pendente è troppo ben conservato per essere rimasto sulla montagna sei mesi, fare la lista diventa più facile.» «Giusto» disse Pete. «In questo caso, sarebbe una delle persone che ora sono qui con noi.» All'improvviso, senza nessuna intenzione d'essere scortese, Finley balzò in piedi e si diresse verso il professor Wuhermann, che stava parlando con un amico. Gli si fermò accanto e attese in silenzio finché i due uomini non si interruppero. «Posso parlarti un momento?» disse allora al padre. Il professor Wuhermann aveva mostrato una certa animazione, mentre
parlava con l'amico, anche se nettamente inferiore a quella che Finley gli aveva letto in viso qualche ora prima, quando era in compagnia di quella donna bionda. Ma, appena si vide davanti la figlia, fu come se una cortina di indifferenza calasse su di lui, lasciandolo del tutto inespressivo. L'altro uomo si accomiatò. «Bene, Finley, non sapevo che fossi una patita di questa gara» disse Wuhermann. «Ti ho visto in città, oggi.» Lei non lo chiamava mai papà, anzi, evitava con cura di usare quella parola che ratificava il loro legame. «Eri in compagnia.» Lui non tradì ombra di sorpresa. Come unica reazione, restò un istante in silenzio. «E tu che cosa facevi in città, Finley?» «Indagini.» La ragazza, fissandolo, aprì il pugno e gli mostrò il pendente. Lui abbassò lo sguardo e, per un attimo, rimase impietrito. L'aria pungente non riuscì a ravvivare il suo colorito pallido. Le rughe sottili attorno agli occhi e alla bocca parevano piccoli tratti a matita. «Dove l'hai trovato, Finley?» «Perché mi chiedi dove l'ho trovato? Potrei averlo sempre avuto, no?» «Non so... Non l'avevo più visto dopo la morte di tua madre e pensavo che fosse andato perso.» Pronunciava la parola "morte" con la massima facilità, senza cercare eufemismi come faceva Finley. «L'ho trovato su un sentiero. A Harris Point.» «Harris Point» ripeté lui senza alcun mutamento di voce. Le tolse di mano il pendente e se lo infilò in tasca. «Che cosa fai?» protestò lei. «Lo voglio io.» «Perché?» «Perché apparteneva a mia madre, ecco perché. È un memor... memorandum, maledizione... voglio tenerlo per ragioni affettive.» Lui si infilò la mano nella tasca, ma non accennò a renderglielo. «Potrei volerlo esaminare anch'io.» «Tu! E perché mai dovresti desiderare un mem... lo sa il cielo come diavolo si dice... della mamma? Non potevi nemmeno sopportarla. Non siete mai andati d'accordo...» Si interruppe. Era difficile definire l'espressione di suo padre: Wuhermann era un uomo la cui anima pareva un susseguirsi di parole non dette, di emozioni non provate, di gesti non compiuti. Inspiegabilmente, le fece
quasi pena. Con tono meno aggressivo, disse: «Hai... hai visto che le maglie della catena sono perfettamente saldate? Come se lei se lo fosse tolto dal collo per darlo a qualcuno.» Si accorse che aveva le mani intirizzite, le affondò nelle tasche e strinse i pugni. Poi, irritata con se stessa per quell'attimo di debolezza, aggiunse in tono bellicoso: «Sai se la mamma aveva ricevuto delle lettere minatorie?» Lui non rispose, costringendo Finley a guardarlo. Quasi non gli si vedevano gli occhi, infossati com'erano. Muoveva la mano nella tasca, e il pendente tintinnava. «Finley, so che i giovani sono sempre alla ricerca di esperienze eccitanti. A volte, la droga e gli scioperi per la pace non bastano a riempire il tempo libero...» Lei fu sul punto di dire qualcosa, ma suo padre, con ottusa ostinazione, glielo impedì. «Non fare pasticci, Finley, solo per il gusto di farli. Lascia le cose come stanno.» Girò sui tacchi e andò verso il parcheggio. Poi, come se avesse improvvisamente ricordato qualcosa, aggiunse voltando appena la testa: «La parola che ti affannavi a cercare era "memento".» Finley rimase a guardarlo salire in macchina e allontanarsi. I fiocchi di neve le scivolavano sul viso. Tornò dagli amici. Un Labrador nero passava di gruppo in gruppo, cercando avanzi di cibo. Poco distante, una ragazza sola gettava pezzetti di pane agli uccelli. E in quel momento da dietro una roccia, una voce disse: «Io l'avrei scaraventata giù da un burrone almeno una volta al giorno.» A Finley occorse un minuto per afferrare il significato di quelle parole. Era la voce di Beverly. Si fermò ad accarezzare il Labrador. «Perché?» chiese Pete. «Ehi, un momento! Non balzare a conclusioni affrettate. Era solo una battuta.» «Se fossi in te, prima di fare la spiritosa in questo modo mi procurerei un avvocato. Ripeto la domanda: perché?» «Perché era una grandissima rompiscatole. Ecco perché. Passi se uno è cattivo ma intelligente, passi se uno è stupido e buono, ma quando uno è stupido e per giunta cattivo, la cosa supera tutti i limiti.» «Quello che non riesco a spiegarmi» intervenne Cindy «è come possa avere messo al mondo una figlia così perfetta.» E Danny, riflessivo, disse: «Il professore è una persona molto a modo.» «Fammi un esempio pratico» insisté Pete. Si rivolgeva a Beverly, ma fu Sara a rispondergli.
«Non faceva che sbandierare ai quattro venti la sua rettitudine. E per rettitudine intendeva ficcare il naso negli affari del prossimo e divulgarli per tutto il campus.» «Ogni volta che la incontravo» disse Danny «mi chiedeva come mai i miei genitori non mi venivano a trovare. Come se ci fosse qualcosa di poco pulito sotto.» «A proposito, perché i tuoi genitori non ti vengono mai a trovare?» gli chiese Cindy. «Non gli vado a genio. Ho praticamente chiuso con loro.» Si udirono delle risa soffocate. Finley non si mosse. Non poteva andarsene perché l'avrebbero vista e si sarebbero resi conto che aveva sentito tutto, e nemmeno unirsi a loro perché la sua espressione sarebbe stata troppo eloquente. Il cane la annusava e lei gli toccò la museruola. «Una volta» disse Ken «sosteneva che tutti i Russi sono dei mongoloidi. Io le avevo mostrato un libro, ma senza riuscire a vincere la sua... uh, chiamiamola ostinazione.» «Io l'avevo sentita fare un giochetto con Buzzy Venner» raccontò Sara. «Le chiedeva: "Quanto fa due più due?". E Buzzy le diceva: "Quattro". "Quanto fa quattro più quattro?". "Otto." "Quanti anni ha tua madre?" "Trentaquattro."» Pete cambiò bruscamente argomento. «Sapete che Beverly non ha smesso di mangiare da quando siamo arrivati?» «Non posso trattenermi. Ho avuto un'infanzia piena di stenti.» «Per fortuna, io sono una persona normale» disse Cindy. Trascinata dal Labrador, Finley aggirò la roccia. Cindy dava spettacolo: apriva e chiudeva gli occhi, si muoveva a scatti e tremava. «Anch'io sono normale» disse Danny. E fece schioccare le dita tre volte, poi fissò nel vuoto, poi fece di nuovo schioccare le dita. «Anch'io!» esclamò Pete, saltellando due volte su una gamba e due sull'altra. Ken si alzò, si pulì le mani e cominciò a riempire di rifiuti i sacchi delle provviste. «Siete troppo cretini per i miei gusti. Torniamo alla base.» Lo aiutarono a raccogliere le loro cose, e gettarono i rifiuti nei cestini appositi accanto al tavolo della giuria. Danny chiese se ci fosse un premio per loro e in risposta ebbe uno sguardo di assoluta indifferenza. Faceva di nuovo freddo. Si strinsero addosso i loro giacconi e corsero verso la macchina. Nessuno guardò Finley negli occhi.
Ore 14,50 Mentre ritornavano al campus, Cindy annunziò che voleva fare un sonnellino prima del ricevimento dal signor Venner, perché lo sciopero per la pace, la gara di orientamento e il pic-nic l'avevano distrutta. Danny e Ken decisero di andare alla conferenza per la pace. Pete optò per la biblioteca e Sara, sentito il programma di Ken, dichiarò che tornava con Cindy al loro alloggio, ma per studiare e non per dormire. «E tu?» chiese Pete a Finley che non aveva aperto bocca. Lei, guardando fuori dal finestrino, mormorò: «La neve scende piano, dà un senso di pace. Eppure io mi sento agitata... è come se volesse dirmi qualcosa.» «Ti sta dicendo che faresti meglio a metterti gli stivali. Che cosa intendi fare nel pomeriggio? Vieni in biblioteca con me?» «Potresti prestarmi ancora la macchina?» «Perché?» «Preferirei non dare spiegazioni. Per favore, posso prenderla?» «Finley, io non voglio trovare il tuo cadavere ai piedi di una montagna o spiattellato su una strada...» «Prima, mi dici che farnetico e poi ti preoccupi che possa finire ammazzata.» «Io faccio parte di quella categoria di persone non superstiziose che però non passano sotto una scala perché non si può mai sapere.» «Mi presti la macchina, sì o no?» «Prometti di non farti ammazzare?» «Prometto.» «Okay.» Ken si fermò al suo alloggio, e poi tutti si separarono. Rimasta sola, Finley si affrettò a entrare nella più vicina cabina telefonica. Cercò un indirizzo e scoprì che, in definitiva, non aveva bisogno di mezzi di trasporto. Camminò per le strade bagnate, con la neve che le penetrava negli stivali, inzuppandole le calze e gelandole i piedi. Rispose a un saluto senza nemmeno rendersene conto. Casa Burleigh-Jervis non distava molto dal campus, ed era una delle numerose grandi ville in stile coloniale costruite l'una accanto all'altra in una zona alquanto ristretta. Il portone era incorniciato da un bassorilievo classico e sormontato da un fregio. Lo fiancheggiavano due pilastri, oltre i quali si aprivano delle finestre alte e strette. Sotto il portico, retto da co-
lonne corinzie, c'era la veranda, che poteva agevolmente ospitare una ventina di persone. Finley alzò e lasciò ricadere il pesante battaglio di ottone. Una domestica grassoccia in grembiule rosa le aprì la porta. «Potrei parlare con la signora Burleigh-Jervis, per favore?» «La signora Burleigh-Jervis non è in casa, signorina.» «Sapete a che ora rientra?» «L'aspetto da un momento all'altro, signorina. È uscita a comperare dei regali per Natale, ma ha detto che non avrebbe fatto tardi. Stasera c'è il ricevimento del professore.» «Volete dire che sarà a casa Venner stasera?» chiese Finley. Rifletté un istante ma, pensando che al party ci sarebbe stata troppa gente, disse: «Se sta per tornare, posso aspettarla?» La domestica, che non era un tipo diffidente, spalancò la porta. «Ma certo. Accomodatevi, signorina.» L'anticamera era larga quanto la casa, e terminava con delle portefinestre sul lato posteriore. Sul parquet lucidissimo erano stesi, a intervalli regolari, dei tappeti Isfahan, Kerman e Kazak. Una scalinata con il corrimano di mogano portava a una balconata interna, e per accedere alle stanze del pianterreno si doveva scendere due gradini. La domestica condusse Finley in un salotto stile Luigi Quindici. Ai lati di un fragile tavolino con intarsi di porcellana dipinta a mano, c'erano due seggioline francesi con lo schienale diritto e le gambe ricurve, rivestite di seta a righe. Per cinque minuti, Finley rimase seduta con le gambe incrociate e le mani in grembo. Poi cominciò a dar segni di impazienza. Lanciò un'occhiata al polso privo d'orologio, si arricciò la punta dei capelli, si inumidì le labbra, si mordicchiò un dito. Alla fine, si alzò e andò alla finestra. Continuava a nevicare. Lei si voltò e guardò nell'anticamera. Alla parete di fronte era accostato un cassettone intarsiato e decorato con dei bronzi. Il piano era una lastra di marmo. «Stupida...» bisbigliò a se stessa per reagire al senso di soggezione che la stava assalendo. Sulla destra, c'era la porta dell'enorme sala da pranzo. Attorno alla tavola, erano disposte ben sedici sedie e, contro la parete, troneggiava una credenza alta almeno quattro metri. Muovendo qualche passo nell'anticamera, vide uno scorcio del salotto, della sala di musica e della biblioteca. Ad attirare la sua attenzione fu la scrivania della biblioteca. E, dopo una
rapida occhiata alla scala per accertarsi che nessuno stesse salendo o scendendo, attraversò l'anticamera. Non si muoveva furtiva, ma badava a non far rumore. Si fermò davanti alla scrivania della biblioteca, guardandola senza toccarla. Sul piano rivestito di pelle, c'erano un calamaio puramente ornamentale, una penna d'oca, un barattolo di porcellana che conteneva cinque matite appuntite, e un tampone di carta assorbente con l'impugnatura di ottone. Mentre tendeva una mano verso uno dei cassetti, senti la porta d'ingresso aprirsi. Rapida, si spostò davanti alla libreria alta fino al soffitto, e scelse un libro a caso. Era una copia rilegata in pelle di "L'ordalia di Richard Feverel", di Meredith. L'esemplare era talmente vecchio che quasi le si sfasciò tra le mani. Si affrettò a ricomporlo alla meglio, mentre la porta si chiudeva e i tacchi di una donna risuonavano sul parquet. La donna, nel vedere Finley, si fermò sorpresa. Lei, voltandosi tranquilla col libro tra le mani, rimase ad occhi spalancati, senza riuscire a pronunciare la battuta che si era preparata. Davanti a lei, c'era la donna che, quel giorno, aveva pranzato con suo padre. Ore 15 «La signora Burleigh-Jervis?» disse infine Finley. Le tremava la voce, e dovette schiarirsela. «Sì?» «Spero non vi dispiaccia se ho chiesto alla vostra domestica di permettermi d'aspettarvi.» «Desiderate?» La donna era cortese, ma distaccata. Poche ore prima, Finley le aveva dato una trentina d'anni, ma adesso, guardandola da vicino, pensò che doveva essere sui quaranta. Era molto bella, con quegli zigomi alti e quella figura sottile e slanciata, da modella. «Mi chiamo Finley Wuhermann.» La donna si irrigidì visibilmente. Poi, voltandosi, disse: «Volete scusarmi un momento? Mi tolgo questo.» Sfilò il cappotto di pelle bordato di pelliccia e rimase in pantaloni di pelle dello stesso colore e maglietta di seta dal collo alto. Appese il cappotto nell'armadio dell'ingresso e chiese a Finley: «Gradite una tazza di tè?» La classica voce bene impostata in un collegio per signorine di buona famiglia. Senza attendere risposta, suonò un campanello.
La domestica ricomparve. «Non vi ho sentita rientrare, signora. Questa signorina ha detto che doveva parlarvi di una cosa importante.» «Potremmo avere un tè, Margaret?» La domestica scomparve, e Finley seguì la sua ospite in una stanza che apparteneva a un'epoca diversa dalle altre, con moquette verde brillante, tappezzeria e fodere dei divani a fiori bianchi e verdi, poltrone ampie e comode, legna pronta nel caminetto. La signora Burleigh-Jervis si chinò con grazia a infilare un fiammifero acceso sotto la carta. Poi, voltando le spalle alla sua ospite, disse: «Bene, Finley, cosa posso fare per te?» In Finley stava avvenendo una metamorfosi. Alla sua abituale espressione decisa, negli ultimi tempi venata di tristezza, si andava sostituendo la maschera tutta dolcezza che, di solito, adottava quando si trovava a confronto con persone maggiori di lei che la mettevano a disagio. Persino la sua voce diventava quella di un'adolescente. «Temo che quanto sto per dirvi vi sorprenderà.» La donna finì di accendere il fuoco, si alzò e sedette di fronte a Finley. Aveva un'espressione impenetrabile. Finley, seduta col busto eretto, le caviglie incrociate e le mani strette in grembo, disse: «Mi è terribilmente difficile spiegarmi. Ho dovuto farmi forza per venire qui. Ma sento che è molto importante.» Attese, ma la signora Burleigh-Jervis non fece niente per aiutarla. «Tre persone di Whitefield hanno avuto degli incidenti a mio avviso sospetti.» Finley, fissando un orologio antico posto sulla mensola del camino, ripeté alla signora quello che già aveva detto a Pete. Di tanto in tanto, azzardava una rapida occhiata al viso della sua interlocutrice. Ma senza cavarne nulla. Grida rauche provenienti dalla strada riecheggiavano nella stanza silenziosa. Man mano che procedeva nell'esporre la sua teoria in modo assolutamente sconnesso, riprendeva un'espressione normale. La signora Burleigh-Jervis non la interruppe neppure una volta, né con una domanda né con un commento. Immobile, lasciò che Finley continuasse a parlare finché non arrivò Margaret con un imponente servizio da tè in argento e delle tazze di porcellana finissima. «Vedete» concluse Finley non appena la domestica se ne fu andata «mi sembra che l'assassino voglia giustificare il suo delitto davanti a me, oppure che la vendetta non sia abbastanza dolce per lui se non fa sapere in giro che si tratta di una vendetta.»
«Latte o limone?» «Latte, grazie. E un cucchiaino di zucchero.» La signora Burleigh-Jervis versò il tè e si alzò. Prese una scatola smaltata e un accendino, e offrì a Finley una sigaretta. Lei scosse la testa. La donna tornò a sedersi e si accese una sigaretta. «Ancora non capisco perché sei venuta da me» disse. «Volevo chiedervi due cose. Anzitutto, se vostro marito aveva mai ricevuto lettere o telefonate minatorie, oppure se... se aveva dei nemici.» Alla parola "nemici", quella specie di cordialità, se così la si poteva chiamare, dimostrata fino allora dalla signora Burleigh-Jervis, si trasformò in assoluta freddezza. Beveva il tè, e la tazza le nascondeva in parte il viso. «No. Naturalmente no» rispose. Finley inspirò a fondo. «La seconda domanda è ancora più strana, in apparenza. Avete notato se qualche oggetto che apparteneva a vostro marito è scomparso dopo... dopo la sua morte?» «Scomparso?» «Qualcosa di piccolo, magari un gioiello.» «Come il pendente di tua madre?» La donna depose con calma la tazza. «Finley, scusa se mi permetto, ma vorrei dirti una cosa per il tuo bene. Io...» Si interruppe, vedendo che la ragazza si agitava. «Come dici?» «Niente, cioè... ogni volta che mi dicono qualcosa per il mio bene, mi metto sulla difensiva.» Sorrise, ma non ebbe sorrisi in risposta. E la temperatura calò di un altro grado, nella stanza. «Volevo dire... ecco, capisco che la morte di tua madre sia stata uno shock tremendo per te, ma a mio parere stai lavorando troppo di fantasia.» Finley si fissava le unghie. Dalla cucina, arrivava la voce di un radiocronista, senza che si riuscissero a distinguere le parole. «Perché nessuno crede ai delitti? Eppure, non passa giorno senza che qualcuno venga ucciso» disse. «Furfanti, delinquenti, forse, ma non persone come tua madre e mio marito.» «Be', io credo che sarei capace di uccidere.» Se aveva sperato di stupire quella donna, rimase delusa. Lei non alzò neppure un sopracciglio. «Sono cose che si dicono, ma non si fanno mai» replicò. «Anzitutto, mia madre non era il tipo da far passeggiate in montagna da sola, e poi qualcuno deve pur aver messo la lettera nella mia borsa. Inoltre,
il pendente è troppo ben conservato per essere rimasto sei mesi là dove l'ho trovato. E infine...» «Hai parlato con qualcun altro di questo?» Finley le lanciò un'occhiata, ma lei aveva di nuovo il viso in parte nascosto dalla tazza. «Non sono ancora riuscita a parlare col signor Eccles. Sua moglie è all'ospedale, e lui era fuori città per lavoro. Suppongo che l'abbiano avvisato, ma...» «L'hai detto a tuo padre?» «Sì.» «E lui che cosa ti ha risposto?» «In pratica, quello che mi avete risposto voi.» «Sono spiacente, ma non posso aiutarti.» La signora Burleigh-Jervis depose la tazza. Non si alzava, ma era chiaro che non intendeva concederle altro tempo. Come una principiante fermamente decisa a cimentarsi nella scalata di una montagna, e che all'improvviso si vede rinviare l'escursione, Finley provò un senso di sollievo misto a irritazione. Lentamente, cominciò ad abbottonarsi il giaccone. «Grazie per avermi ricevuta. Ah, un'altra cosa... Mi domando perché, dal momento che abitate piuttosto lontano dall'Istituto di Storia, vostro marito stesse rincasando a piedi, quella sera.» La signora Burleigh-Jervis si alzò. Per la prima volta, parlò con voce espressiva. «Mio marito non prendeva mai l'auto se poteva camminare, non prendeva mai l'ascensore se poteva salire le scale a piedi, non giocava mai a golf se poteva giocare a tennis. Potrei proseguire sul tema, ma credo che tu abbia capito che cosa intendo dire. È così che, fino a cinquantasette anni, ha conservato una linea perfetta.» Bruscamente, si avviò alla porta d'ingresso, e Finley la segui. Poi, la signora Burleigh-Jervis mostrò il primo segno d'incertezza. Guardò Finley negli occhi e disse: «Conosco bene gli Eccles.» Finley rimase stupita: quella le pareva un'offerta d'aiuto. «Davvero?» «Sì.» «Avete telefonato all'ospedale? Come sta la signora Eccles?» «Dicono che è grave.» «Oh.» Finley attese. Ora che lei stava per andarsene, la signora Burleigh-Jervis veniva presa da qualche dubbio. Infine disse: «Non so se ha importanza, probabilmente non serve a niente, ma...»
Il respiro di Finley si fece rapido e leggero, come se temesse di infrangere un equilibrio precario. «Sì?» «La sera del...» La donna cercò il termine adatto, optò per "incidente", e lo disse con maggior decisione di quanto non fosse necessario. «La sera dell'incidente, io avevo ricevuto una telefonata.» Questa volta, Finley non azzardò neppure un "sì" d'incoraggiamento. «Me n'ero quasi dimenticata. Mi era parso uno scherzo. Ma era una voce strana, non saprei nemmeno dire se fosse di un uomo o di una donna.» Squillò il telefono. Si udirono dei passi. A questo punto, temendo che potessero interrompere la loro conversazione, Finley disse, incalzante: «E allora?» Arrivò la domestica. «Al telefono, signora. Il professor Wuhermann.» Entrambe si sentirono gelare e chiusero gli occhi. La signora Burleigh-Jervis arrossì. «Chissà... forse qualche problema all'università...» balbettò. «Vi dispiace concludere quello che stavate dicendo, signora?» D'un fiato, la signora Burleigh-Jervis disse: «Quella persona aveva chiesto di mio marito... ma che sciocchezza perdere tempo a parlarne... Io ho risposto che era a una conferenza della Historical Society, e allora quella persona ha sussurrato: "Ditegli che ha chiamato quella là".» Ore 15 Per raggiungere l'Adams Hall, dove si teneva la conferenza per la pace, Beverly, Danny e Ken scesero la collina, scivolando più che camminando nella neve. Attraversarono il cortile lasciandosi alle spalle i villini degli assistenti. Davanti alla Adams Hall, stazionavano dei gruppetti di studenti dall'aria infreddolita, che distribuivano volantini. Tutti e tre ne presero uno e lo misero in tasca senza leggerlo. La sala era buia. Dovettero attendere che gli occhi si fossero abituati all'oscurità per scoprire che era mezzo vuota. Presero posto vicino alla porta. Stava parlando uno sconosciuto. «...abbiamo votato per Johnson credendolo un puro. E dopo i rapporti del Pentagono, ci siamo accorti di essere stati gabbati. Così, abbiamo puntato su Nixon. Dopo anni di bombardamenti, finalmente si è chiuso col Vietnam. Adesso, eccoci alle prese con la Cambogia...» Ken ascoltava attento, ma a Beverly e a Danny bastarono pochi minuti
per perdere ogni interesse. Cominciarono ad agitarsi, a guardarsi attorno alla ricerca di amici. «Chissà che cosa sono venuta a fare qui...» mormorò Beverly. «Volevi star seduta al buio in mezzo a due splendidi uomini, mi sembra evidente» disse Danny. Per scherzo, tentò di prenderle una mano, ma lei la ritrasse. «Oh, piantatela» intervenne Ken. «Se il Vietnam è stato un incidente, allora bisogna proprio dire che gli Stati Uniti d'America sono un paese molto portato agli incidenti...» «Gesù, questa sì che è buona» disse Danny. Si frugò in tasca, prese un notes e una matita. Su due foglietti disegnò gli schemi per una battaglia navale e ne porse uno a Beverly. Ken si allontanò di tre posti. «Mi rendo conto che la gente ne ha abbastanza delle manifestazioni e ammetto che, negli ultimi tempi, ce ne sono state anche troppe, ma servono a uno scopo ben preciso. Chi già simpatizzava per una causa viene ulteriormente stimolato, e chi invece ignorava i fatti prende coscienza della realtà storica. Il messaggio viene recepito e assimilato...» «Finiscila di barare» sibilò Beverly. «Hai segnato due punti che...» «Non è vero. Ti arrabbi perché perdi.» «Se non riuscite a star zitti, fareste meglio ad andarvene» disse Ken a denti stretti. «Ma, insomma, di che cosa sta parlando quello lì?» bisbigliò Beverly. «Rompe e basta» le sussurrò in risposta Danny. Alcuni studenti nella fila davanti a loro si alzarono, avviandosi verso l'uscita. Ne entrarono altri che occuparono i loro posti. Proprio come in un carcere retto col sistema della responsabilizzazione individuale, gli studenti, senza mostrare un particolare interesse per l'argomento discusso, facendo la loro comparsa tanto per garantire un uditorio fisso all'oratore. E, compiuto il loro dovere, se ne andavano. «Qual è la nostra situazione attuale? Siamo divorati dalla sete di potere e dall'avidità di ricchezza...» «Basta, andiamocene» decise Danny. «Fate pure» disse Ken. «Io resto.» Danny e Beverly si alzarono. Usciti nella strada, si guardarono attorno: il traffico scorreva lento e i passanti camminavano svelti. «Gesù, come mi sento virtuoso» disse Danny. «Non c'è niente che mi faccia sentire virtuoso come una conferenza per la pace. Chissà che cosa
starà facendo Cindy.» «Starà dormendo.» «Vado in biblioteca a studiare un po'. La settimana prossima, devo presentare una relazione di letteratura inglese.» «Prendiamo un caffè, prima. Oggi non studia nessuno.» Danny rifletté un istante, poi annuì. «Dal momento che me l'hanno assegnata in ottobre, giorno più giorno meno non fa differenza.» Entrati nel bar, si avvicinarono al banco. Danny ordinò un caffè, Beverly caffè e frittelle. «No, lisce» disse alla ragazza che stava per servirle quelle farcite di cioccolato. «Sono a dieta.» La ragazza le lanciò un'occhiata, e subito, educatamente, distolse lo sguardo. Pagarono e sedettero vicino a una vetrata dalla quale vedevano cadere la neve. «Da quando?» chiese Danny. «Da quando che cosa?» «Da quando sei a dieta?» «Da adesso.» «E quanto durerà?» «Fino a cena.» Nel locale, c'erano solo altri due clienti: un ragazzo piuttosto trasandato e una ragazza. Con le teste chine e accostate, parlavano a bassa voce, quasi con aria da cospiratori. Mentre Danny si accendeva una sigaretta, la porta d'ingresso si aprì ed entrarono due giovani assistenti. Indossavano cappotti di foggia quasi identica, entrambi col collo di pelo, e si avviarono al banco per prendere una tazza di caffè, conversando animatamente. Poi, sedettero a un tavolo poco lontano da quello di Danny e Beverly. «Un piumino da cipria?» stava dicendo una delle due. «No, questa è proprio l'ultima definizione che avrei trovato per lei. Be'... in apparenza era tutta dolcezza, ma sotto sotto... puro acciaio. Mi capisci, vero? Il classico pugno di ferro in guanto di velluto.» «Anche Ed la pensa come te. Ha sempre detto che era una gran commediante. Tutta lazzi e frizzi in superficie, ma sotto...» Danny, il gomito puntato sul tavolo e il mento nella mano, disse a bassa voce: «Di chi staranno parlando?» «Lo chiedi a me?» rispose Beverly. «È stata avvelenata, vero?» riprese, dopo una breve pausa, una delle due
assistenti. Danny e Beverly dovettero imporsi uno sforzo per costringersi a guardare fuori dalla vetrata. Rigidi come manichini, tendevano l'orecchio. «Io, che sono sospettosa di natura, ho sempre pensato che varrebbe la pena di calcolare quanti omicidi sono passati sotto silenzio solo perché i sintomi erano quelli di una intossicazione alimentare.» «Chi poteva avercela tanto con lei?» «Be', di nemici ne abbiamo tutti.» Danny, coprendosi la bocca con la mano, sussurrò: «Probabilmente persino un tipo adorabile come me ha avuto la sventura di dare sui nervi a qualcuno, almeno una volta nella vita.» «Possibilissimo» convenne Beverly. Una tazza colma di caffè, urtata dal gomito di una delle assistenti, si rovesciò sul tavolo. Approfittando della confusione che seguì, Danny e Beverly poterono finalmente guardarle bene. Mentre una asciugava il caffè con un tovagliolo di carta, l'altra si profondeva in scuse. «Non preoccuparti. A casa mia, non finisce un pasto senza che i bambini rovescino qualcosa.» «Credo che sia meglio andare, adesso.» Si alzarono, abbottonandosi i cappotti, e presero le loro borse a tracolla. Mentre uscivano, una delle due disse: «Chissà chi diventerà presidente del consiglio dei genitori, adesso che Mary Eccles è morta.» Ore 16 Cindy e Sara si avviarono lentamente verso il loro alloggio. Un leggero manto di neve addolciva i contorni dei prati, dei tetti e degli alberi. Solo la carreggiata delle strade era grigia e fradicia come un pantano. La neve smussava i profili del paesaggio, ne nascondeva i leggeri difetti. In lontananza, si stagliavano le montagne, un anello di coni bianchi attorno alla città. «Camminiamo in punta di piedi» disse Cindy, mentre affrontavano lo strato di neve intatta sulla scala esterna dell'alloggio. «Tanto per confondere le idee al prossimo. Come minimo, penseranno che siano arrivati i marziani coi piedi rotondi.» E Sara, obbediente, camminò in punta di piedi. Entrata nella sua stanza, Sara, che possedeva lo specchio più grande di tutto il campus, si esaminò da tutte le angolazioni possibili. Poi, avvici-
nandosi allo specchio per un primo piano, incominciò a ispezionarsi la pelle. Cindy la trovò alle prese con un comedone e, appoggiandosi allo stipite della porta, le disse: «Sai che se sommassimo tutte le ore che dedichi alle cure di bellezza, scopriremmo che potevano bastare per scrivere l'epopea degli Stati Uniti, o a trovare una cura per il cancro, o a istituire una forma perfetta di governo...» «Mi metto a studiare tra un minuto. Spero di liberarmi di questo comedone prima di sera.» «Se non lo lasci in pace, te lo ritroverai in compagnia di una ventina di amici.» «Come vorrei che ci fosse una vasca da bagno in questo posto! Mi sento in vena di lussi.» «Io, invece, mi sento in vena di intellettualismi, quindi sarà meglio che torni in camera mia.» Poco dopo, rannicchiata sul letto, Cindy ascoltò i rumori smorzati che venivano dalle altre stanze. Sara apriva e chiudeva i cassetti, si toglieva gli stivali e faceva scorrere l'acqua. Cullata dalla monotonia rilassante di quello scroscio, lei si addormentò. Fece dei sogni confusi, poi gli stimoli esterni cominciarono a disturbarla. Percepì voci sommesse, passi felpati, cigolii. Mentre tornava ad addormentarsi, udì persino lo scatto metallico del rullo di una macchina per scrivere. Sotto la doccia, i capelli raccolti in una cuffia di plastica, Sara si lavava con un sapone profumato. Era stranamente agitata, e non faceva che guardare verso la porta. Il vapore, aleggiando intorno a lei, le dava la sensazione che ogni cosa si muovesse. Di tanto in tanto, cercava di mettere a fuoco gli armadietti che contenevano gli oggetti da toilette delle ragazze. Più svelta del solito, finì di fare la doccia e si asciugò. Poi si spalmò la crema rassodante sul corpo. Proprio davanti a lei, sotto uno schizzo di Monna Lisa che reggeva un rotolo di carta igienica, stava scritto: "Tutto passa. Solo l'arte rimane". Corrugando la fronte disgustata, si spazzolò vigorosamente i capelli. Infine, s'infilò la vestaglia e uscì nel corridoio. Sembrava che non fosse ancora tornato nessuno. Sedette alla scrivania, dove non c'era né un libro né un foglio, e incominciò a farsi la manicure. Con paziente accuratezza limò e lucidò ogni unghia. All'improvviso, alzò la testa e rimase in ascolto: le pareva di aver
sentito un rumore nella camera di Finley. «Finley?» chiamò. «Sei tornata?» Le rispose solo il silenzio. Stava per alzarsi e andare a controllare, ma decise di chiamarla col telefono. Gli squilli echeggiarono a lungo nell'edificio. Poi una voce senza fiato rispose: «Pronto?» «Finley?» «Un momento, vedo se è rientrata.» Sara, sconcertata, accese la radio e attese. Un attimo dopo, udì un'altra voce: «Pronto?» E lei, spingendo indietro una pellicina, chiese: «Cindy, sei tu?» «Vado a vedere se c'è.» «No, aspetta» protestò Sara, ma la sua interlocutrice, chiunque fosse, se n'era già andata. Con il ricevitore in bilico sulla spalla, Sara continuò a occuparsi delle sue unghie. Un aereo ruppe la barriera del suono e i vetri delle finestre vibrarono. «Come mai questo telefono è sganciato?» sentì chiedere in lontananza, e poi una voce disse: «Pronto?» «Finley?» «Aspetta.» «No, un momento...» «Finley non è ancora tornata» le venne annunciato poco dopo. «Beverly?» «Un secondo.» Sara, con la bocca spalancata per lo stupore, fissò il telefono, sbattendo le palpebre. Poi, immerse il pennello nello smalto e cominciò a passarlo con delicatezza sulle unghie. E mentre aspettava che la prima mano asciugasse, le cadde l'occhio sulla foto di Ken. Per nascondersi all'obiettivo, lui si era tirato il giaccone fin sulla testa. Siccome il telefono insisteva nel rimanere muto, Sara agganciò e uscì nel corridoio. Era sempre deserto. Arrivata in camera di Finley, vide che il ricevitore era sganciato. Lo sollevò e disse: «Pronto?» In lontananza, qualcuno esclamò: «Sara, tu...» e poi una voce disse: «Sì?» «Per l'amore del cielo, sei Beverly?» «Vado a cercarla.» Furibonda, Sara stava per riappendere il ricevitore, quando sentì dei passi e si voltò, meravigliata. Era Finley, coi capelli pieni di neve. «Hai visto Cindy?» le chiese Finley. «La vogliono al telefono.»
«Vado a cercarla» sospirò Sara, continuando a sventolare la mano con lo smalto fresco. Entrò nella stanza di Cindy. Cindy, uscendo dal bagno, le chiese: «Hai visto Beverly? La vogliono al telefono.» Sara guardò le due amiche che, a loro volta, la fissavano senza capire. In quell'istante, sulla scala, apparve prima la testa di Beverly e poi tutta la sua persona. Stava mangiando una brioche. «Dov'è Finley? Sono andata a cercarla di sotto. La vogliono al telefono.» Finley, cercando di raccogliere le idee, fissò le sue compagne d'alloggio. La radio di Sara era alzata a tutto volume. Poi, continuando a fissare le tre ragazze, entrò nella sua stanza camminando all'indietro, prese il ricevitore ancora sganciato e disse: «Pronto?» Non ebbe risposta. Sara, seguendo il suo esempio, andò a sollevare il ricevitore del telefono che aveva sulla scrivania e disse: «Pronto?» «Chi parla?» chiese Finley. «Io» rispose Sara. Finley sentiva la radio. «Sara?» «Finley?» Una pausa. Finley riagganciò, andò nella camera di Sara e si appoggiò allo stipite della porta, con le braccia incrociate. Beverly si soffiò via le briciole dalle mani. Cindy sbadigliò rumorosamente. Sara, con il ricevitore accostato all'orecchio, si voltò. «Senti un po', io...» Finley cominciò a ridere. Le altre ragazze, che da mesi non la vedevano ridere così, la guardarono sorprese e contente. Poi, di colpo, anche Beverly scoppiò in una risata. Un attimo dopo, Cindy le fece eco. Sara, invece, fissava ora le amiche, ora il ricevitore che teneva sempre in mano. «Chi ha risposto quando ho chiamato Finley?» chiese. «Io, probabilmente» rispose Beverly. «Ero appena tornata e ho sentito il telefono squillare...» E Finley, con le lacrime agli occhi, disse: «E poi sono arrivata io, ho visto il ricevitore staccato e tu mi hai chiesto di Cindy.» «E poi io...» cominciò Cindy. Sara, che non alzava mai la voce, improvvisamente gridò: «Basta, state zitte, state zitte!» Sbatté il ricevitore sulla forcella, sedette e, furibonda, cominciò a passarsi lo smalto sulle unghie della mano destra. Pian piano, l'irritazione lasciò il posto allo sbalordimento. «Allora chi...? Mi sembrava
di aver sentito qualcuno muoversi nella stanza di Finley... io... Oh, non importa.» Cindy sedette sul letto. «Che strano. Credevo di essermelo sognato. C'erano dei rumori...» «Che cosa diavolo state dicendo?» domandò Finley, asciugandosi gli occhi con la mano. «Colpa tua» le disse Beverly. «Ci innervosisci tutti con i tuoi intrighi e sospetti... Oh Dio, mi viene in mente solo adesso: la signora Eccles è morta.» La risata si spense in gola a Finley. Senza dar segno di sorpresa, guardò Beverly, e poi tornò in camera sua. Mentre si toglieva gli stivali, sentiva le amiche parlare sottovoce. Appese gli abiti nell'armadio, come un automa, e si sdraiò sul letto, gli occhi fissi al soffitto dove un ragno era occupato a tessere la sua tela. Poco dopo, dicendosi che non doveva sprecare del tempo prezioso, si alzò e prese la borsa dei libri. Ne tolse un volume, un quaderno, una penna, e sedette alla scrivania. E allora, vide il foglio di carta da lettera infilato nella macchina per scrivere. Lo riconobbe all'istante. Ore 17,05 Finley passò in rassegna anzitutto i suoi gioielli, non tanto per controllare se ne mancasse qualcuno, quanto per verificare se fossero stati toccati da mani estranee. Poi, da sotto la biancheria intima, estrasse il suo diario, e lo trovò chiuso. Infine, spinta da una motivazione troppo complessa per prenderla in esame, contò i medicinali. Non trovando niente che non fosse come l'aveva lasciato, sedette di nuovo alla scrivania e sfilò il foglio dalla macchina. Questa volta, la parte superiore era intatta, ma avevano tagliato di netto quella inferiore. La carta da lettera non era intestata. Non c'erano nemmeno delle iniziali. "Martedì "Tesoro, "oggi è venuta zia Mary e ci siamo concesse un ricco pranzo a base di Blody Mary, insalata di gamberi e mousse di cioccolato. Finché è stata qui, mi sentivo bene, ma appena se ne è andata sono piombata nella più cupa depressione. Bill farà tardi anche stasera. Almeno quattro sere la settimana ha delle riunioni, e se fossi
un tipo geloso comincerei a nutrire qualche sospetto. "L'ultima tua telefonata è costata otto dollari, quindi ti pregherei di scrivere di più e di telefonare meno. Mi manchi molto e mi fa un immenso piacere sentire la tua voce, ma Bill si arrabbia. "Ieri, ho fatto il mio annuale checkup. Caro dottor BurleighJervis! Lo odio con tutta me stessa, ma trovare un altro medico presenta troppi problemi. Ha detto che va tutto bene, considerando la mia età. La mia età... Quarantanove anni, figuriamoci! Sono sempre convinta che l'isterectomia (si dice così, vero?) non fosse necessaria. Non so che cosa darei per aver consultato un altro medico prima di farmi operare. Due donne che ho conosciuto mi hanno detto che lui aveva tentato anche con loro lo stesso colpo e che un altro medico, invece, ha sconsigliato l'operazione. Che te ne pare? "Sono stata una stupida. E pensare che tu potresti avere un fratellino o una sorellina, qualcuno che mi terrebbe compagnia mentre te ne stai nella tua scuola di sogno. Non sono ancora vecchia, e se non fosse per Burleigh-Jervis a quest'ora avrei molti altri figli. Ogni volta che lo vedo, mi si rivolta lo stomaco: lo ammazzerei volentieri. Oh, tesoro, ma che cosa ti vengo a raccontare! Smetto subito e passo ad argomenti più allegri. Ho grandi progetti per quando tornerai a casa..." Il resto della lettera era stato tagliato via con estrema cura. Finley lasciò cadere il foglio sulla scrivania e rimase immobile. Sentì un'auto passare nella strada e degli studenti che urlavano. Poi, si riscosse e compose un numero al telefono. Prima che le rispondessero, contò sei squilli. «Pete?» «Non c'è. Sono il suo compagno di stanza.» «Oh, salve, Rich. Sono Finley. Sai dov'è Pete?» «In biblioteca.» «Grazie.» Presa da un'improvvisa eccitazione, Finley mise via il libro e gli appunti, si infilò il giaccone e gli stivali e corse fuori. Sentendosi chiamare, si voltò appena. «Torno subito» disse, senza fermarsi. La neve aveva quasi cancellato le impronte sugli scalini esterni. Con la testa china, un po' correndo e un po' camminando, raggiunse la Halloran
Library. Nella biblioteca vecchio stile, gli studenti erano seduti attorno a lunghi tavoli con pile di libri davanti o con l'auricolare all'orecchio. Avvisi riguardanti un corso di musica, una seduta metapsichica, un giro dell'Europa per centottanta dollari contendevano le pareti rivestite di legno scuro ai ritratti del fondatore e dei vari rettori dell'università. Finley oltrepassò la ricezione, gli schedari, gli scaffali colmi di libri e salì le scale. Pete era seduto all'ultimo tavolo, la testa china sui suoi appunti. Dalla finestra dietro di lui, si vedeva una chiesa stagliarsi contro il debole chiarore del cielo. Nel sentire i suoi passi, Pete alzò la testa e sorrise. «Lo so, lo so. Non resistevi un minuto di più lontano da me e sei venuta a prendermi.» «Pete, me lo fai un favore?» «La mia macchina l'hai già, vuoi forse anche la mia anima?» «No, solo il tuo corpo.» «D'accordissimo.» «Perché vorrei che mi accompagnassi alla centrale di polizia.» Pete si appoggiò allo schienale della sedia e intrecciò le mani dietro la nuca. La scrutò serio per un istante. Lei, abbassando gli occhi, vide un foglio separato dagli altri, lo prese e lesse quello che c'era scritto. "Cara mamma e caro papà, sull'altro lato di questo foglio troverete uno scorcio della stazione climatica in cui mi trovo. L'alloggio è buono, il vitto passabile e il tempo, a quanto vedo dalla finestra, giusto data la stagione. Se mai dovessi allontanarmi da qui quanto basta per arrivare fino a un ufficio postale, vi spedirò questa missiva. "Un abbraccio dalla Halloran Library." «Vuoi costituirti?» le chiese Pete. Finley depose il foglio sul tavolo. «Se vieni con me, potrai spedire la lettera.» «Finley, devo presentare una relazione...» «Non me la sento di andare da sola alla polizia.» «Se c'era una che non alzava mai la testa dai libri, quella eri tu. E adesso, tutt'a un tratto, non fai che bighellonare. Prima in città, poi in montagna, ora alla polizia...»
«Sai come mi diverto! Ti prego, Pete...» Lui la fissò ancora un istante e poi, sospirando, lasciò ricadere con un tonfo le gambe anteriori della sedia. «Okay» disse, alzandosi. Ritirò il suo giaccone dal guardaroba al pianterreno e la seguì fuori dall'edificio. «Dov'è la Centrale di polizia?» «Non lo so, non ci sono mai stata, ma all'angolo tra la Route 8 e la Main Street c'è sempre un poliziotto, che potrà dircelo.» Costeggiarono di buon passo i campi da gioco. Il poliziotto diede loro le istruzioni che desideravano, e siccome la Centrale era piuttosto lontana, decisero di prendere l'auto di Pete. Nonostante la neve, c'era parecchia gente per le strade. Gli studenti affollavano la mensa, vagavano attorno all'ingresso del cinema, entravano e uscivano dall'emporio, dalla gioielleria e dai negozi sportivi. Erano chiusi solo la banca e l'ufficio postale. A Whitefield, il fermento prenatalizio era più contenuto, meno febbrile che nelle grandi città. Alla Centrale, un poliziotto in uniforme oziava nell'atrio chiacchierando con un uomo dalla camicia azzurra seduto alla scrivania. Tacquero appena entrarono Pete e Finley. «Ho una storia piuttosto strana da raccontarvi» disse Finley, sentendosi mancare il respiro. Lanciò un'occhiata a Pete e arrossì. Pete, sulle sue, guardava altrove. «Sì?» Una luce sul quadrante del centralino telefonico cominciò a lampeggiare, l'uomo seduto alla scrivania infilò uno spinotto, rimase in ascolto e rispose: «Certo, certo.» Poi si rivolse di nuovo a Finley: «Dite pure.» Finley, senza volerlo, guardò la pistola che lui portava, ma solo per un attimo. «Mi ci vorrà un po' di tempo.» «Abbiamo tutto il tempo di questo mondo.» L'uomo, intrecciando le mani, si appoggiò alla scrivania e attese. Non le offrì una sedia. Finley si sentiva colpevole, come se avesse commesso qualche crimine che non riusciva a ricordare: sentendoli ostili, guardava i due uomini. «Quello che devo dire non ha niente a che fare con lo sciopero per la pace» incominciò. Siccome loro continuavano a tacere, aggiunse con improvvisa foga: «Conoscete la signora Eccles, quella che è morta oggi all'ospedale?» «No. Chi era? Di che cosa è morta?» «Non lo so ancora. Negli ultimi sei mesi, sono morte ben tre persone, in apparenza per degli incidenti, e tutte e tre avevano a che fare con l'università.»
Aveva parlato talmente in fretta che loro non erano riusciti a capire, e quindi fu costretta a ripetere tutto. I due si scambiarono un'occhiata, e quello appoggiato alla scrivania esclamò, spazientito: «Ma che cosa dite, signorina?» Finley guardò Pete in cerca d'aiuto, ma lui si limitò a sorridere, stringendosi nelle spalle. «Le tre persone in questione sono il dottor Hartley Burleigh-Jervis, Ruth Wuhermann e Mary Eccles.» «So che il dottore è stato travolto da un'auto. Ma l'altra chi era? Forse la donna caduta dalla Whitefield Mountain?» Finley, ostinata, stringendo le mani al punto di avere le nocche bianche, disse: «Ho motivo di credere che non siano stati incidenti, ma omicidi.» «Omicidi!» «Ve l'avevo detto che era una storia strana.» L'uomo seduto alla scrivania si protese a guardarla meglio. «Ricominciate da capo e parlate lentamente.» Rossa in viso, Finley raccontò delle tre morti, delle due lettere che aveva ricevuto e della famosa frase riguardante "quella là". A questo punto, arrivò un uomo grasso, con lunghe basette, che salutò i due poliziotti con un cenno del capo e si mise a sua volta in ascolto. Finley s'interruppe e disse: «Prego... se dovete parlare al sergente...» «No. Proseguite. Ero venuto qui per fare due chiacchiere.» Quando Finley ebbe terminato il suo racconto i tre uomini rimasero a fissarla, muti. Fu Pete a rompere il silenzio. «Insomma, questa è una Centrale di polizia, no? Quindi, non sarà la prima volta che sentite parlare di omicidio.» Tre paia d'occhi si spostarono su di lui. «Non fare lo spiritoso, ragazzo, se non vuoi trovarti in qualcuna delle nostre stanzette private al piano di sotto» disse il sergente. Pete lo fissò, apri la bocca, la richiuse, poi tornò ad aprirla, ma senza riuscire ad emettere neanche un suono. Affondò le mani nelle tasche e si voltò, furibondo. Il sergente tornò a dedicare la sua attenzione a Finley. «Stavate dicendo che sono stati uccisi tre insegnanti universitari, vero?» «No. Una era la moglie di un professore, l'altro era il presidente del consiglio di amministrazione dell'università e la terza era la presidentessa del consiglio dei genitori.» «Voi sostenete che sono stati assassinati.»
«Certo. Perché, altrimenti, continuerei a ricevere quelle lettere?» «Ma è uno scherzo. Signorina, un sacco di gente muore in seguito a un incidente. Ne sono morti tre anche oggi, almeno finora.» All'improvviso, corrugò la fronte. «Non starete facendo qualche strano esperimento da femminista in erba, vero?» «Femminista in erba!» esclamò Finley furibonda. «Per chi mi prendete? Io...» «Oppure dovete svolgere una specie d'inchiesta, qui da noi, per motivi di studio?» Un muscolo cominciò a contrarsi in una guancia di Finley. Poi, scandendo bene le parole, lei disse: «No, i miei programmi per la sessione di gennaio sono di tutt'altro genere.» «E allora, perché ve la prendete tanto a cuore?» «Perché sono... mi chiamo Finley Wuhermann. Sono la figlia di Ruth Wuhermann.» Al poliziotto occorse un momento per schiarirsi le idee. Sul quadro del centralino una luce ricominciò a lampeggiare, lui infilò lo spinotto e disse: «Non saprei. Chiederò al capo.» Si voltò a guardare Finley. «Mi dispiace, signorina, capisco la vostra inquietudine. Ma sono sempre convinto che quelle lettere... Credetemi... qualcuno sta prendendosi gioco di voi.» «Potreste farmi un favore?» «E cioè?» «Potreste chiamare il Whitefield Hospital e chiedere di che cosa è morta la signora Eccles?» Aveva parlato tenendo gli occhi bassi e non li alzò nemmeno quando tacque. Non voleva vedersi davanti quelle tre facce. Siccome il silenzio si prolungava, aggiunse: «Per avere conferma della mia identità, potete telefonare al professor Wuhermann.» «È quello che farò.» «Oppure... se lui non fosse in casa... chiamate la signora Burleigh-Jervis. Sono stata da lei, poco fa.» Pete, che le stava accanto, si mosse. Finley si voltò e lo vide fissare la foto di un uomo ricercato per una rapina in una banca. «Conoscete bene la signora Burleigh-Jervis?» «No, non molto.» Il sergente consultò un elenco telefonico, formò un numero e chiese del-
la signora Burleigh-Jervis. «Sono il sergente Kreel della Centrale di polizia. Ho qui due studenti che mi hanno parlato di certi fantomatici assassinii. La ragazza dice di conoscervi. Si chiama Wuhermann.» Rimase in ascolto, osservando Finley. «Piccola di statura, bionda, magra.» Una breve pausa. «Sì, direi proprio di sì.» Finley, a disagio, si volse e cominciò a studiare a sua volta il viso del rapinatore di banche. «Scusate il disturbo» disse il sergente e riagganciò. «Mi ha confermato che siete la signorina Wuhermann.» «E adesso» disse Finley «potreste chiedere al signor Eccles se sua moglie aveva ricevuto delle strane telefonate o delle lettere minatorie, e se è scomparso qualcuno dei suoi gioielli.» «Pretendete troppo, signorina. Vi pare che io possa telefonare a un uomo rimasto vedovo oggi e fargli delle domande simili?» Pete guardò l'ora. Poi, con voce tesa, disse: «Si sta facendo tardi, Fin.» Lei lo ignorò. «Vi prego, sergente, potreste almeno chiedere che cosa ha provocato la morte della signora Eccles?» Il sergente diede una rapida scorsa a un elenco di numeri telefonici che aveva sulla scrivania, e chiamò l'ospedale. Si presentò e chiese di parlare col medico che aveva assistito la signora Eccles. «Sono il sergente Kreel della Centrale di polizia. Vorrei sapere di che cosa è morta la signora Eccles.» Attese un istante e poi, più deciso, aggiunse: «Tutto questo non ha importanza. Datemi l'informazione che vi ho chiesto.» Finley lo guardava, ma l'espressione di lui le diceva ben poco. Il sergente Kreel ringraziò il medico, riappese il ricevitore e tornò a intrecciare le mani. «La signora Eccles è morta per aver ingerito un topicida, qualcosa che si chiama... comarene o comarina... Comunque, una sostanza che si trova nel veleno per topi.» Attese, ma il viso dei due giovani rimase inespressivo. «Potrebbe sempre essere stato un incidente» aggiunse. Ore 18,30 Ritornata in camera sua, Finley non si decideva a prepararsi per il party. Stava seduta alla scrivania e sfogliava il quaderno degli appunti. «Mi è venuta un'idea» disse Cindy, entrando all'improvviso. «Perché non provi a fare il gioco delle carte? Magari ci dicono qualcosa.» Finley si voltò a guardarla e Cindy, vedendola in faccia, si rabbuiò. Era
pallidissima e aveva gli occhi cerchiati di rosso. «Che cos'hai, Fin?» Stava per posarle una mano sulla spalla, ma cambiò idea e sedette sul letto. «Sono andata alla polizia.» «Ti sei messa con loro o contro di loro?» «Ho saputo che la signora Eccles è morta avvelenata. Topicida. Ma potrebbe essere stato un incidente, a sentir loro.» Sul viso di Cindy si dipinsero, l'una dopo l'altra, espressioni contrastanti: meraviglia, incredulità e confusione. La confusione ebbe il sopravvento, a giudicare da quanto disse. «Davvero? Certo... non credevo che le fossi tanto affezionata, sai? Perché ti agiti tanto? In fondo, non era una gran donna. Sai a che cosa mi faceva pensare? A un tessuto sintetico, di quelli che hanno la pretesa d'essere seta pura, e invece si vede lontano un miglio che con la seta pura non hanno niente a che spartire.» «Oh Dio, chiudi quella bocca!» Finley urlava, letteralmente. «Com'è che riesci a sputare veleno con tanta facilità?» Cindy la guardava con gli occhi spalancati dalla sorpresa. Non era offesa, ma stupefatta. «Finley, non ti ho mai vista in questo stato. Nemmeno quando tua madre... cosa c'è che non va?» «Cosa c'è che non va? Cosa c'è che non va? Non fanno che ripetermi tutti questa domanda.» Non tentava nemmeno di controllare il tono della voce. Nelle altre stanze, si fece improvvisamente silenzio. L'animazione si spense di colpo, come se qualcuno avesse interrotto un circuito elettrico. «Te lo spiego subito che cosa non va. Tre persone sono state uccise in questo maledetto campus, e nessuno vuole intervenire. Sanno dire soltanto che si è trattato di incidenti. E se mi dài della pazza, mi metto a urlare.» «Stai già urlando.» «Non me ne importa un accidente! Continuerò a urlare finché qualcuno non si deciderà a darmi retta.» «Ti chiuderanno in manicomio.» «Facciano pure. Tanto, per quanto mi riguarda, ho chiuso con gli studi. Non riesco a concentrarmi. E quei maledetti esami sono alle porte, dovrei terminare una relazione... e invece non mi presenterò e l'onore di mio padre sarà macchiato per sempre.» Si prese la testa tra le mani, singhiozzando il silenzio. Cindy balzò in piedi, chiuse la porta, accese la radio e si chinò su Finley. Le posò una mano sulla spalla, ma Finley si ritrasse, irritata. Le sfuggi un singhiozzo disperato, che si affrettò a reprimere.
Cindy, non sapendo che cosa fare, si lasciò cadere di nuovo sul letto e attese. Si torceva le mani in grembo. Poi, rendendosene conto, disse: «Fin, sai una cosa? Mi sto torcendo le mani. Non avevo mai visto nessuno farlo, prima d'ora.» Come unica reazione a quelle parole, le spalle di Finley furono scosse da più violenti singhiozzi. Nelle altre stanze, il silenzio cessò. Una radio venne alzata a tutto volume, si udì un acciottolio di stoviglie, un telefono che squillava e dei passi sulle scale. Pian piano, Finley si calmò. Infine si alzò, prese un fazzoletto di carta e si asciugò gli occhi. Andò al telefono e compose un numero, voltando le spalle a Cindy. Le venne risposto quasi subito. Senza salutare, disse: «Posso fare un salto da te per qualche minuto?» Una pausa. «Comunque, se ci vado, arrivo tardi.» Un'altra pausa. «Grazie.» «Vuoi che venga con te?» «No.» Finley, guardandosi nel minuscolo specchio, si passò della cipria attorno agli occhi e si spazzolò i capelli. «Certo» continuò Cindy «io non so dove stai andando, ma vorresti farmi un favore?» Finley, senza rispondere, si infilò gli stivali. «Non fare sciocchezze, d'accordo? In altre parole, hai detto a destra e a sinistra che tra noi si aggira un assassino a piede libero e, nella remota ipotesi che questo sia vero, lo sai che potresti finire ammazzata anche tu?» «Sto andando da mio padre.» «Oh, allora non ci sono problemi.» «E adesso che sei riuscita a cavarmi quest'informazione, ti decidi a togliere il tuo sedere dal mio letto?» Cindy, alzandosi con la massima calma, dichiarò: «Buon per te che io sia un tipo dolce e remissivo, altrimenti potrei cominciare a seccarmi. Ma siccome sei la mia migliore amica ti troverò delle attenuanti e...» «Accidenti, che lingua hai! Non me n'ero accorta.» Finley staccò il suo giaccone dall'attaccapanni e usci, sbattendosi la porta alle spalle. Le strade brulicavano di studenti e assistenti che avevano appena lasciato i laboratori e le biblioteche, di uomini che tornavano in auto dal lavoro, di donne che si affrettavano a fare gli ultimi acquisti. Alcuni bambini trascinavano le loro slitte su per un pendio e poi si lanciavano in discesa, urlando. I lumini natalizi ammiccavano tra i rami dei piccoli abeti sparsi sui prati. Finley, passando davanti alla libreria, lanciò un'occhiata all'interno: era
gremita di studenti, e tra gli altri vide Ken che leggeva i titoli dei libri in edizione economica. D'improvviso, sentì un desiderio disperato di respingere i suoi problemi e di raggiungerlo per dividere con lui la sicurezza confortante del mondo al quale apparteneva. Ma, con uno sforzo, distolse lo sguardo e tirò dritto. La casa dei Wuhermann era situata in un elegante quartiere residenziale. Una villa a due piani in stile Cape Cod, circondata da mille metri di terreno. Finley entrò nell'anticamera senza bussare e vide suo padre nel soggiorno, immerso nella lettura di un grosso volume. Lui depose il libro, ma non le andò incontro. La ragazza lasciò gli stivali e il cappotto in anticamera, scosse la neve dai capelli e poi sedette nella poltrona di fronte a quella di lui. Il locale era talmente zeppo di libri, soprammobili e quadri che pareva molto più interessante di quanto in effetti non fosse. Più o meno, era come l'aveva lasciato sua madre. «Ti dico che l'hanno uccisa» dichiarò Finley senza preamboli. Fu soprattutto il suo tono eccitato che spinse l'uomo a osservarla con attenzione. Nel suo atteggiamento c'era più di un particolare allarmante: pareva la paziente di uno psichiatra che contempla l'idea del suicidio e, al tempo stesso, chiede aiuto per non commetterlo. «Vuoi una tazza di cioccolata o di tè, Finley?» «Ma perché tutti mi offrono del tè, oggi?» «Chi sarebbero, questi "tutti"?» Gli occhi fissi sul viso di suo padre, lei disse: «La signora BurleighJervis.» «La signora Burleigh-Jervis ti ha offerto il tè?» Lui era già preparato al colpo, perché Finley gli aveva detto di averlo visto con lei, e quindi non ebbe la men che minima reazione. «Sì, sono andata a casa sua.» «Perché?» «Perché abbiamo qualcosa in comune, io e lei.» Attese inutilmente che suo padre le chiedesse di che cosa si trattava. Lui si limitò a infilarsi una mano in tasca, ne tolse la pipa e incominciò a riempirla. Poi, la accese e tirò alcune lente boccate. «Non mi chiedi che cos'abbiamo in comune io e la signora BurleighJervis?» Come se Finley non avesse nemmeno parlato, lui disse: «Non ho mai
cercato di spiegarti quali fossero i rapporti tra tua madre e me.» «Non darle contro, adesso che è morta.» Lui annuì, immerso nei suoi pensieri. «Sì, mi rendo conto di aver aspettato troppo.» «Senti...» «Ho sempre avuto paura delle scenate. Mi pareva più importante conservare una certa tranquillità che non avvicinarmi a mia figlia.» E lei, sempre evitando di usare la parola che sanzionava il loro legame di sangue, disse: «Senti, adesso non abbiamo il tempo di discutere i tuoi sentimenti per mia madre. E poi, secondo me, la cosa non è tanto importante.» «Sei la mia unica figlia» mormorò lui, talmente piano che Finley lo udì appena. Arrossi, come se suo padre avesse detto una frase volgare, e si agitò inquieta nella poltrona. «Sono venuta a chiederti...» Il telefono squillò, lui si alzò per andare a rispondere in anticamera. Impaziente, Finley ascoltò parola per parola la sua incomprensibile conversazione sui seminari da organizzare all'università. Intanto, accese la lampada da tavolo, col risultato che, di tutto il locale, l'unico punto illuminato fu la poltrona di suo padre. «Sono venuta solo perché ho una domanda da farti» gli disse, quando lui tornò. «Qualunque sia il motivo che ti porta da me, è sempre una gioia.» «Hai conosciuto, qui all'università, un professore sposato con una donna che aveva un figlio nato da un precedente matrimonio? Una donna presumibilmente graziosa, ma non all'altezza del marito, o per pura e semplice stupidità, o perché inibita dalla sua estrazione sociale? In gioventù, aveva fatto la cameriera.» Parlava in fretta, come se temesse di venire interrotta. Ma lui, invece di risponderle, prese il libro che stava leggendo e andò a riporlo in uno scaffale. Poi, vuotò nel camino il portacenere e la pipa. E per finire, cominciò a riordinare i giornali e le riviste sparsi sul tavolino. «Le librerie sono dei ricettacoli di polvere» disse lei con voce tesa. E lui, scandendo le sillabe: «Finley, non posso credere che tu stia parlando seriamente. Sono tutte sciocchezze, queste.» «Dunque, non vuoi aiutarmi?» Lo sentì sospirare, poi suo padre si alzò, allentandosi il nodo della cravatta. «Non so chi potrebbe farlo. Se dobbiamo andare al party di Venner, sarà meglio prepararci, Finley.»
Lei rimase immobile, fissandolo. «Vuoi scusarmi, Finley?» «Ricordo quando la mamma tentava di farsi accompagnare da te a qualche ricevimento. Tu non volevi saperne, dicevi di odiare i party, e non ci andavi. Oppure ci andavi di malavoglia, la facevi arrivare in ritardo e la serata finiva in un disastro.» Suo padre si fermò ai piedi della scala e si voltò a guardarla. «Te l'ho già detto» replicò con voce stanca e fredda. «È troppo tardi per cercare di farti capire.» Finley attese che fosse a metà scala. Poi, voltandosi verso la finestra e fissando il lampione della strada, disse: «Professore.» «Sì, Finley?» «C'è del tenero fra te e la signora Burleigh-Jervis?» Lui rimase dov'era, guardandosi le scarpe. Così, con le spalle curve e la cravatta allentata, sembrava improvvisamente invecchiato. «Intendo sposarla» rispose, e riprese a salire le scale. Ore 19,40 Avevano ancorato la barca e suo padre era sul ponte con la canna da pesca piegata ad arco. Lei e sua madre nuotavano sottovento, e sua madre diceva: «Stai piatta, Finley. Respira dal boccaglio. È facile.» «Ti hanno uccisa, mamma.» E sua madre diceva: «Non lavorare di fantasia, Finley. Hai un'immaginazione sfrenata.» Nuotavano fino a riva e poi uscivano dall'acqua bassa. Sul polpastrello dell'indice, sua madre aveva una piccola conchiglia. «Ho preso un pesce!» urlava suo padre dalla barca, ed estraeva dall'acqua la signora Burleigh-Jervis. Aveva il berretto bianco da marinaio calato su un occhio, e la pipa gli ciondolava da un angolo della bocca. «Ti hanno uccisa, mamma» ripeteva Finley «e nessuno vuole crederci.» Era importante che sua madre continuasse a negarlo, perché così non sarebbe stato vero. E allora, tornando da scuola, l'avrebbe trovata in cucina. «È un'indecenza» diceva sua madre. «Dei professori universitari che sposano le loro domestiche. Non ci sono più limiti a questo mondo.» «Il mondo sta cambiando, mamma. Queste cose non hanno più importanza, ormai.» E poi la spiaggia si dissolveva, lei era in montagna, stava sciando col
dottor Burleigh-Jervis e gli diceva: «Siete più basso di mia madre» mentre lui continuava a ripeterle che, se non spostava il peso del corpo a dovere, non sarebbe mai diventata una buona sciatrice. E poi, lei rideva a più non posso, perché sua madre aveva perso il controllo, rotolava giù per la montagna e spariva. In lontananza, i Grateful Dead cantavano una canzone, mentre Sara diceva: «Che cosa posso farci se mi telefonano tutte le sere?» Un campanello continuava a squillare. Pete, Danny e Ken avanzavano verso di lei, con le ginocchia piegate, le braccia penzoloni, la bocca spalancata come scimmie, e cantilenavano: "Vogliamo quella là, vogliamo quella là!". Intanto, qualcuno vomitava e il signor Venner diceva: «Che assassino compiacente!» «Ho un regalo per il tuo compleanno» diceva Cindy, cucendo assieme dei ritagli di stoffa. «Questo sì che è un bel momento!» esclamava la signora Eccles. Adesso, era di nuovo sull'isola, un cielo di cobalto splendeva tra le foglie delle palme e sua madre la chiamava. «Vieni, Finley, svelta! Guarda i pesci.» Questa volta riusciva a usare il respiratore e passava fluttuando davanti a diafani avannotti che si infilavano tra i rami di corallo. «Ti hanno uccisa, mamma...» E Beverly diceva: «Mangia un dolce, Finley.» Voleva restare aggrappata a quell'isola, ma la trama che aveva tessuto con parti uguali di realtà e di sogno cominciava a disfarsi. Il sole era sparito all'orizzonte, i pesci si nascondevano negli abissi marini. La sua stanza era buia e fredda. «Ti hanno uccisa e a nessuno importa» disse, e a questo punto fu di nuovo nel suo letto, con addosso gli stivali e il cappotto. Strinse le mani a pugno. Dal fondo del corridoio, arrivava la musica di un disco di Elton John. Poi, la voce di Cindy disse: «Mi presti... Finley! Cosa diavolo stai facendo?» «Vattene.» Cindy, in mutandine e reggiseno, frugò sul piano del cassettone, scelse un paio di orecchini di opale e se li agganciò alle orecchie. «Ma lo sai che ora è?» «Io non vengo.» «Come sarebbe a dire?» Finley, appoggiandosi a un gomito, fissò Cindy con gli occhi annebbiati. «Per favore, mi lasci sola?» Cindy sporse la testa fuori dalla porta e urlò: «Ragazzi, aspettateci! Op-
pure andate avanti. Ci vediamo là.» Chiuse la porta e sedette sul letto. «Okay. Hai esattamente due minuti e quarantacinque secondi per dirmi tutto.» Finley non aprì bocca e non si mosse. «Senti, Fin, ho un'idea: vieni a casa del signor Venner, è il posto giusto per svolgere le tue indagini. Pensa, ci sarà il corso accademico al completo. Il signor Venner conosce tutti, al campus. Anche la signora BurleighJervis è invitata...» «Senza dubbio, anche il signor Eccles sarà presente per festeggiare la dipartita di sua moglie.» Finley, con un calcio ben assestato, scaraventò Cindy giù dal letto. La ragazza si mise a sedere composta sul pavimento. «Per il tuo prossimo compleanno, ti ricamerò un bel quadretto con scritto: "Buttati a mare!".» «Chi deve buttarsi a mare?» chiese Beverly dalla porta. «Beverly» replicò Cindy irritata «com'è che arrivi sempre alla fine di un discorso a fare domande idiote?» «Dev'essere contagioso» disse Beverly. «Stai diventando odiosa come Finley.» Si udirono dei passi pesanti sulle scale e comparve Danny. «Posso entrare?» «No» rispose Cindy, afferrando il giaccone di Finley e mettendoselo addosso. Danny sedette accanto a lei e le infilò una mano sotto il giaccone. «Oh, sei gelato!» «Non potreste trovare qualche altro posto per le vostre smancerie?» «Tutte le altre stanze sono piene di gente. Devo proprio dire che sei poco popolare, Fin. Sara ha in camera cinque ragazzi.» «Perché non vai a fare il sesto?» «C'è niente che io possa fare per renderti felice, tesoro?» chiese Danny. «Sì. Andartene.» «Sara» proseguì lui, imperturbabile «pensa che, siccome quello là sta per lasciare il college...» Finley si alzò di scatto, facendo cadere i libri dal letto. Si chinò a raccoglierli e, con voce strozzata, ansimò: «Che cos'hai detto?» «Chi, io? Stavo dicendo che...» «Hai parlato di quello là...» «Ma sì! Uno dei trenta o quaranta spasimanti di Sara. Comunque, siccome sta per lasciare l'università, Sara prevede di avere un quarto d'ora li-
bero tutte le sere, per una telefonata dalle otto alle otto e un quarto, e se qualcuno è interessato alla cosa può porre la sua candidatura...» Come in risposta a un segnale, il telefono di Finley squillò. Danny si interruppe. Finley, stranamente riluttante, attese ben quattro squilli prima di tendere una mano e staccare il ricevitore. «Si?» «Vorrei parlare con Finley Wuhermann.» «Sono io.» «Sono Robert Eccles.» Il cervello le si annebbiò. «Chi?» chiese come una stupida. «Robert Eccles. Mi ha telefonato la polizia. So che avete messo in giro delle chiacchiere sul conto di mia moglie. Avete detto che l'hanno avvelenata, mentre è stato un incidente. Per sbaglio, ha ingerito un topicida.» Finley aveva la gola contratta e non riusciva a parlare. Emise a stento qualche suono. «Vi avverto, signorina Wuhermann: se non la smettete con queste calunnie, chiederò al rettore Everett di sospendervi. È un mio ottimo amico. Non voglio che i miei problemi personali vengano usati da una fanatica a caccia di scandali.» Robert Eccles riagganciò. Per un momento, Finley rimase immobile, con le mani che le tremavano e il viso quasi esangue. Dal piano di sotto, una voce gridò loro di sbrigarsi. «Che cosa è successo?» chiese Cindy. Finley si riscosse e depose il ricevitore. Disse, sconcertata: «Mai, in vita mia... mi sento come se mi avessero arrestata, processata, condannata e bruciata sul rogo tutto in una volta.» «Strano» osservò Danny. «Non hai l'aria della moribonda.» Finley, presa da un'improvvisa eccitazione, cominciò ad aprire i cassetti. Scelse un paio di calze, della biancheria intima, e tolse dall'armadio un paio di sandali e un completo pantalone a fiori. Esitò un istante, poi disse: «Aspettatemi» e corse in bagno. In pochi minuti, fece la doccia, si vesti e si truccò gli occhi per nascondere gli aloni cupi. Quando tornò nella sua stanza, sorrise agli amici. «Su, andiamo.» Ore 20,40 La casa dei Venner era imponente quasi quanto quella dei BurleighJervis, in stile vagamente vittoriano ma anche gotico, Tudor e orientale.
Partendo dal nucleo centrale, le avevano aggiunto ali, rientranze, verande, parapetti, frontoni, grondaie, archi e decorazioni a non finire. L'originaria costruzione in legno a due piani, col suo camino centrale, era ormai sepolta in mezzo a quella profusione di annessi e connessi e, sul tutto, troneggiava una torretta quadrata con delle finestre rotonde, un balcone e due finti quadranti di orologi. Beverly, stupitissima, continuava a ripetere: «Non posso crederci, non posso crederci.» All'interno, nonostante il disordine, c'era una strana atmosfera di opulenza creata dai tappeti orientali, spelacchiati ma di valore, dai quadri a olio, dai mobili massicci e da uno spiegamento di argenteria e porcellane antiche. Su tutte le pareti, fino a poco più di un metro dal pavimento, c'erano ditate, scarabocchi e segni di pedate. Gli ospiti, eterogenei come le strutture architettoniche, erano di ogni ceto sociale, razza e fede religiosa. Più di duecento persone si aggiravano per le stanze del pianterreno, affluivano a quello superiore. «Come fa un assistente universitario a permettersi un castello di questo genere?» sussurrò Danny, mentre si toglievano le soprascarpe nell'atrio. «I Venner sono ricchissimi» gli rispose Sara. Dopo essersi infilata un paio di sandali dorati si avvicinò a uno specchio per controllare il trucco. Indossava un abito di jersey rosa, aderentissimo, e quando si uni alla folla degli invitati non ci fu uomo che non si girasse di scatto a guardarla. Beverly, per l'occasione, si era decisa a sostituire i soliti jeans con altri puliti e, invece dell'abituale camicia informe, portava una tunica indiana azzurra ricamata in argento. Cindy aveva una tunica indiana lunga fino a terra. Con uno strattone, Sara fermò Beverly che puntava verso la sala da pranzo. «Non vorrai metterti a mangiare e a bere prima di aver salutato i signori Venner, spero.» «Oh Dio, ma potremmo impiegare dei giorni per trovarli!» Sara, tenendola ben stretta, la costrinse ad attraversare l'anticamera, il salotto, la sala di musica, il portico a vetri, la biblioteca e infine la sala da pranzo. «Si orienta molto meglio in una casa che non su una montagna» sussurrò Pete a Finley. Fu Beverly a vedere per prima il signor Venner. Liberandosi dalla stretta di Sara, corse verso il loro ospite con le braccia spalancate. «Signor Venner! Come sono felice di vedervi!»
Sorpreso, lui le strinse le mani. «E io sono felice di vedere te, Beverly.» «E adesso?» chiese Beverly, guardando con aria interrogativa Sara. Appena l'amica annuì, sfrecciò verso il bar. «Signor Venner» disse Finley «se avete un minuto da dedicarmi, vorrei parlarvi...» «Puoi aspettare, Finley?» rispose lui, mentre la porta d'ingresso si apriva, e andò a ricevere i nuovi arrivati. La piccola Buzzy, con un abito hawaiano lungo fino ai piedi, passava offrendo delle tartine su un piatto di cristallo, e Beverly ne prese quattro. Nella sala di musica c'erano due buffet, fornitissimi. A Sara, attorniata da quattro ragazzi, venne offerto subito un bicchiere pieno, e Beverly brontolò: «Ma non lo sanno che la bellezza passa?» Pete si chinò su Finley. «La tua dura, invece. Sai che è la prima volta che ti vedo in abito da sera? Credevo che fossi nata con quei jeans.» Finley continuava a guardarsi attorno con ansia. Lei, che di solito era pallida, aveva le guance in fiamme. «Me l'aveva regalato mia madre per Natale. È la prima volta che lo metto» disse. Lui cercò di scrutarla negli occhi. «Che c'è, Finley?» Lei lo guardò con una tale rabbia che Pete, istintivamente, indietreggiò. Impietrito dallo stupore e dal dispiacere, le chiese: «Ma che cosa ti ho fatto?» Una bella ragazza, passandogli accanto, si voltò e lo prese per un braccio. «Salve, Pete. Abbiamo una scorta segreta di beveraggi. Non vorrai rimanertene qui con la plebaglia, no?» Lui ebbe un attimo di esitazione, ma solo un attimo, poi si lasciò condurre via. Finley rimase sola un istante, e poi un ragazzo alle sue spalle disse: «Ciao, Fin. Che cos'hai deciso per il piano di studio della sessione invernale?» Finley guardava Pete scomparire tra la folla. «Pornografia, la cultura della Tanzania del Diciottesimo Secolo e come piegare le ginocchia a tempo con la musica orientale» rispose. E prese un bicchiere di succo d'arancia con del gin. Il ragazzo la guardò, non sapendo se ridere o sentirsi offeso. Alla fine, scelta la seconda soluzione, si allontanò. Finley rimase sola. Il mento le tremava e aveva le ciglia umide. Fissò il ritratto di un uomo che somigliava a Venner. Beverly, con un bicchiere di scotch in una mano e due sfogliatine al
formaggio nell'altra, disse: «Favoloso, non trovi? Da quando sono a Whitefield, non mi era mai capitato di vedere una tale abbondanza di cibo e di bevande.» «Se non fai attenzione, finirai per non riuscire più a infilarti in quella specie di tenda che hai addosso.» «Parli per invidia, tanto non te la presto. Bene, preferisco mangiare da sola che star qui a farmi coprire d'insulti.» Beverly fece per allontanarsi, ma Finley la trattenne. «Non andartene, Bev. Ormai, devo aver insultato proprio tutti, stasera. Se non la smetto, alla fine del party non mi resterà più un amico.» Beverly la scrutò attentamente. «Che c'è, Fin?» Finley le lasciò il braccio e la spinse via. «Oh, al diavolo!» E si allontanò tra la folla. Le arrivarono brani di conversazione da ogni parte: "Io non mi sposerò mai più...". "Di che ti preoccupi? Servi tutto in una volta, e poi solo il dessert..." "E così, dopo aver fatto il giro di cinque maledette università nel corso di un anno, eccomi in viaggio per Whitefield il giorno prima dell'iscrizione, con le tasse già pagate e mia madre che mi dice: 'Sei proprio sicuro che sia quella giusta?'." Finley contemplava il tavolo del buffet. Era carico di fette di prosciutto e tacchino, teglie piene di pesce, insalate varie e pane. Con gesti automatici, cominciò a riempirsi un piatto. Scorse Pete appoggiato a una parete, che parlava con la solita ragazza. Si affrettò a mostrarsi indaffarata e interessata al cibo. E, in netto contrasto con la rigida dieta che aveva seguito per tutto il giorno, si mise a mangiare voracemente, ma senza il minimo piacere. Vide Cindy e Danny e si unì a loro. «... a ogni party» stava dicendo Danny «l'eroe cinico, terrificante, viene avvicinato da una cicciona attempata che lui riesce ad annientare con un colpo della sua lingua tagliente. Poi, compare sinuosa un pezzo di figliola che lo invita ad andare a letto con lei...» «E se invece è una donna» lo interruppe Cindy «è la protagonista che viene avvicinata da un omaccione attempato, mentre si stava tormentando il cervello con interrogativi tipo: "Esisterà davvero la maledizione dei Waverly?" e "Mark riuscirà a salvarmi se la maledizione mi colpirà?".» Arrivò anche Ken. E disse, sconsolato: «I ricevimenti hanno uno strano effetto su Sara. Cambia completamente carattere.» «A un party» gli spiegò Danny «è stabilito che si parli solo con vecchie
signore grasse.» Ken si guardò attorno. «Non ne vedo nemmeno una.» «Oppure, è stabilito che ti si avvicini un pezzo di figliola per invitarti...» «E se dici che non ne vedi nemmeno una, Danny ti stenderà con un pugno» intervenne Cindy. «Chi, io?» chiese Danny sbalordito. «Non ho mai steso nessuno in vita mia. Una volta, al liceo, questo individuo...» Finley si allontanò e prese a vagare con aria assente. Passò accanto a Sara e alla sua corte. Sara, con una riverenza, diceva: «Ma certo, mio signore.» Finley, con una smorfia, si allontanò per non sentire altro. Chiese a parecchie persone se avevano visto il signor Venner, e di volta in volta fu indirizzata nell'atrio, al bar, in cucina e al piano superiore. Lei, evitando accuratamente di guardare Pete, passò da un posto all'altro, ma invano. Alla fine, desistette e si avvicinò a Beverly. «Buzzy» stava dicendo Beverly «che cosa c'è di buono su quel vassoio?» «Hot dogs. La mamma ha detto di darne solo uno a testa.» «E tu non potresti fare un'eccezione per me?» Buzzy, non sapendo che cosa rispondere, preferì eludere la domanda. «Tra poco passo con qualcos'altro.» «Finley, ti ho cercato dappertutto.» Col viso lucido di sudore, Arthur Venner si allentò la cravatta e sbottonò la giacca a quadri. «Parola d'onore» gli disse Beverly. «Ne ho preso uno solo.» Perplesso, lui stava per chiederle a che cosa si riferisse, ma cambiò idea e si rivolse a Finley. «Per tutta la sera, non ho fatto che sentir gente ripetermi che vuoi parlarmi.» Lei depose il piatto e il bicchiere su un tavolo. «Possiamo parlare in privato, signor Venner?» «Vieni nel mio studio.» Prendendola sottobraccio, le fece attraversare la stanza, finché sua moglie Zee non si parò sulla loro strada. «Dove stai portando questa bambina?» gli chiese. Era una bella donna, sui trentacinque anni, con un viso rotondo e una figura un po' pesante costretta in un caffettano lungo fino ai piedi. «Nello studio.» «Ma, Arthur, nello studio non c'è nemmeno un divano!» «E chi ha bisogno di un divano? Non sono ancora ridotto a questo punto!» Venner guidò Finley verso la porta.
Lo studio, pur contenendo molti libri, pareva più una fiera di beneficenza che non una biblioteca. La scrivania graffiata, la poltrona di pelle lacera e il tappeto consunto erano cosparsi di animali di pezza, soldatini di plastica, pastelli da disegno e giornaletti. Tutta la casa era ridotta a un campo da gioco per i bambini. Venner, togliendo un cammello senza una zampa dalla poltrona, fece un cenno a Finley di sedersi, mentre lui si appoggiava alla scrivania. «Okay.» Finley si appoggiò allo schienale. All'improvviso, fu assalita da una tale stanchezza che chiuse gli occhi. Per un attimo, perse quasi conoscenza, ma poi, con un cenno d'assenso, alzò di colpo la testa e guardò imbarazzata Venner. Lui le sorrideva comprensivo. «Be', ci siamo alzati tutti e due alle sei, stamattina.» Il suo bisogno d'aiuto era talmente intenso che le parve di trovarsi davanti il padre che non aveva mai sentito d'avere, il sacerdote al quale non si era mai confessata, lo psichiatra che non aveva mai consultato. Le riuscì facile raccontargli la sua storia, più facile che con chiunque altro. E lui la lasciò parlare senza interromperla, tenendo gli occhi fissi sul proprio piede sinistro. Solo quando era indispensabile, faceva un cenno d'assenso e mormorava una parola d'incoraggiamento. Quando tacque, lei chiuse di nuovo gli occhi, ma questa volta sentendosi certa di aver affidato il suo problema alla persona giusta. Venner non parlò subito, pareva aspettasse dell'altro. Poi le chiese: «Perché hai raccontato tutto questo a me, Finley?» «Oh!» Lei si mise a sedere diritta. «Ve l'ho detto, no? Mio padre mi crede impazzita, la polizia mi ha congedata come se fossi una contestatrice da strapazzo, e il signor Eccles mi ha dato della fanatica a caccia di scandali. Nessuno vuole aiutarmi. Voi siete sempre vissuto a Whitefield, e quindi speravo che vi ricordaste di un professore che aveva sposato una donna bella, ma non al suo livello intellettuale o sociale, che da giovane aveva fatto la domestica e che, da un precedente matrimonio, aveva avuto un figlio.» Lui continuava a fissarsi il piede. «E se io mi ricordassi di qualcuno che risponde a tale descrizione, a che cosa servirebbe?» «Non lo so ancora con esattezza. Per il momento, mi basterebbe sapere perché questo figlio ha voluto farmi leggere due lettere di sua madre.» Lui si alzò, sospirando. «Non so cosa dirti, Finley. Certo, è una storia molto strana...»
«Magari, potreste chiedere a vostra moglie.» Finley, con aria assente, si mise a riordinare la scrivania del professore, raccogliendo fogli, matite e animali di pezza. «Credi che quella donna abiti ancora a Whitefield?» «Lei non so, ma suo figlio c'è di certo.» «Okay, chiederò a Zee. E adesso togli le mani dalla mia scrivania. Torniamo di là, è meglio.» «Quando glielo chiederete?» «Domattina.» «Domattina?» Finley, incrociando le mani dietro la schiena, evitò di guardare la scrivania, come se il disordine le provocasse un dolore fisico. «Domani potrebbe essere troppo tardi.» «Troppo tardi per che cosa?» All'improvviso, Venner perse la sua aria grave. Come se fosse stato a colloquio con un bambino e gli avesse dato retta anche troppo, le prese le mani e la trascinò con sé in un giro di valzer. «Sembra il titolo di una canzone: troppo tardi, troppo tardi, domani potrebbe essere tardi...» Zee Venner aprì la porta e si fermò sulla soglia. «Arthur, ho sempre avuto il sospetto che, appena io avessi superato la trentina, saresti andato a caccia di studentesse.» «E allora non dovresti esserne sorpresa, Zee» disse lui, continuando a ballare. «Non vorrai farmi credere che stavate parlando di studio, vero?» «D'accordo. Non voglio farti credere niente.» Finley, sottraendosi alla sua stretta, disse: «Signora Venner, ricordate un professore dell'università di Whitefield che aveva sposato una ex domestica?» «Vorresti dire che Arthur ha fatto l'asino anche con lei?» Finley, chinando il capo, non aggiunse altro. Zee Venner si piegò per guardarla più da vicino. Improvvisamente, parve preoccupata. «Di che cosa stai parlando, Finley?» «Temo... non posso ripetere tutta la storia, adesso. Pensavo che avreste sentito qualche pettegolezzo...» «A proposito di pettegolezzi... se stavate veramente facendo dei pettegolezzi... temo che vi abbiano sentito.» Finley, che aveva ricominciato a riordinare la scrivania, si sentì gelare. «Ci hanno sentito?» «Mentre attraversavo l'anticamera in cerca di Arthur, perché degli ospiti
stavano per andarsene, ho intravisto una figura allontanarsi nella direzione opposta alla mia. E ho avuto l'impressione che, chiunque fosse, stesse qui fuori a origliare.» Ore 21,50 Dalla sala di musica arrivò la voce di un uomo che cantava, e subito dopo altre voci si unirono alla sua. Finley sussurrò: «C'era qualcuno che origliava?» «Se cercheranno di ricattarmi, giurerai che non ti ho toccata nemmeno con un dito, vero Finley?» disse Venner. «Era un uomo o una donna?» chiese Finley a Zee. Non saprei. In anticamera è buio. Ma che cosa stavate dicendo di tanto interessante? «Parlavamo di omicidi» rispose Venner. «June viene?» «Come no... e anche Mary e Lisa...» «June Burleigh-Jervis.» «Arthur, a lei non puoi fare la corte. È già impegnata con...» Zee Venner si interruppe e avvampò. Per trarla d'imbarazzo, Arthur disse: «Ma c'è qualcuno che non hai invitato, stasera?» E Finley mormorò: «Non avete invitato "quella là". Signora Venner, non avete mai sentito nessuno parlare di una donna chiamandola "quella là"?» Zee fissò, prima suo marito e poi Finley. Apri e richiuse più volte la bocca, come un pesce, ma nessuno dei due le diede spiegazioni. Lei spalancò le braccia con un gesto rassegnato. «In questo momento, non ho tempo per conversazioni surrealistiche» disse. Quando i Venner si allontanarono, Finley rimase sola nell'anticamera ad ascoltare i rumori tipici di un ricevimento: bicchieri che tintinnavano, risate, qualcuno che suonava il pianoforte, una porta che sbatteva. Poi, avviandosi nel corridoio buio, si allontanò dalla folla degli ospiti. In fondo al corridoio, c'erano la dispensa e la scala di servizio che portava al primo piano. Sentì i camerieri parlare in tedesco nella cucina. Guardò la ripida scala a chiocciola ed ebbe un attimo d'esitazione. Poi, cominciò a salire lentamente. Non riusciva a trovare un interruttore della luce, e ogni volta che allungava la mano si aspettava di toccare qualcosa di sgradevole. In cima alle scale, vide uno spiraglio di luce e spalancò una porta. Due donne, che si erano rifatte il trucco, stavano uscendo da una delle
camere da letto. Chiacchieravano animatamente. Non videro Finley e andarono verso la scala principale. Sul lato opposto del corridoio, c'era un'altra scala a chiocciola che portava al piano terreno. Anche questa era buia e stretta. Finley, sentendosi come Alice nel Paese delle Meraviglie, ridiscese e si trovò in cucina. Due donne e un uomo alzarono la testa, meravigliati. Stavano sollevando un'enorme caffettiera e si affrettarono a posarla sul tavolo. «È venuto qui qualcuno pochi minuti fa?» chiese lei. «Uno degli ospiti, intendo dire.» «No, signorina. Nessuno.» «Grazie.» Nel corridoio, Finley si fermò. Gli invitati stavano facendo un baccano infernale. Un bicchiere andò in frantumi e ci fu un'esclamazione di disappunto. Al piano di sopra, un bambino si mise a piangere, e qualcuno corse da lui. Da una porta, aperta all'improvviso, entrò una folata di vento, mentre fuori un bidone della spazzatura rotolava per terra. "Ecco come ci si deve sentire appena morti, completamente distaccati da chi rimane in vita" pensò lei. Infine, tornò nel soggiorno. La prima persona che vide, entrando, fu la signora Burleigh-Jervis. Aveva i capelli puntati sulla nuca con un fermaglio di diamanti, e indossava un abito da sera bianco con le maniche lunghe. Ferma in un angolo, lei tentò invano di capire dal movimento delle labbra che cosa stava dicendo quella donna. Aveva in mano un bicchiere, fumava una sigaretta e conversava con due uomini che Finley non conosceva. Poi, si unì a loro il professor Wuhermann. Indossava un abito blu ed era in gran forma. La signora Burleigh-Jervis si rivolse a lui. «Henry, sai che...» Nel suo atteggiamento, nulla rivelava che tra loro c'era un legame speciale. Per tutto il giorno, Finley aveva avuto la strana sensazione di vedere suo padre per la prima volta. Affascinata dall'animazione di lui, continuò a fissarlo finché la signora Burleigh-Jervis, spinta da una sesto senso, non guardò dalla sua parte. Un lampo, subito seguito da un'ombra, le passò sul viso. Sorrise, senza smettere di parlare. Ken, avvicinandosi a Finley, le chiese: «Ti annoi anche tu?» «Come? Oh, sei tu, Ken. Sediamoci. Sto morendo dal male di piedi.» Trovarono un angolo libero e sedettero sul pavimento. Spalla contro spalla, da buoni amici, divisero il piatto colmo di cibo che Ken si era por-
tato. Lei assaggiò il suo scotch, fece una smorfia e depose il bicchiere. «Mi chiedo» disse Ken «se dovrò passare il resto dei miei giorni a guardare Sara che fa strage di cuori. Se mi consenti la frase fatta.» «Intendi tenertela per tutta la vita?» «Suppongo di sì.» Ken aveva l'aria depressa. «Per lei un ricevimento significa provare a se stessa quanti uomini riesce a conquistare.» «Col tempo, le passerà.» Tristissimo, lui bevve un sorso di scotch. «Perché continui a fissare tuo padre?» La signora Burleigh-Jervis alzò la mano sinistra, e Finley vide che non portava la fede nuziale. «Non ha perso tempo!» esclamò. «Che cos'hai detto?» «Niente.» La signora Burleigh-Jervis, lasciati i tre uomini, passò tra gli invitati, mormorando parole di scusa. Finley impiegò qualche momento prima di capire dove fosse diretta. «Finley, posso parlarti un momento?» Lei e Ken si affrettarono ad alzarsi e, per poco, Ken non rovesciò il piatto. «Vado a vedere i giochi di prestigio di Sara» mormorò, prima di allontanarsi. Finley e la signora Burleigh-Jervis rimasero sole nell'angolo. Nessuno prestò loro attenzione, tranne il professor Wuhermann che, dopo una rapida occhiata nella loro direzione, si affrettò a guardare altrove. «Mi sono ricordata di una cosa, Finley, dopo che te ne sei andata da casa mia, nel pomeriggio.» «Si?» «Mi hai chiesto se, la sera della morte di mio marito, è scomparso qualcosa di suo.» A Finley si snebbiò la mente. Intrecciò le mani dietro la schiena e, senza rendersene conto, incrociò le dita, come fanno i bambini. «È sparito qualcosa?» «Sì. Non so come non mi sia venuto in mente subito, ma ero rimasta così sorpresa, trovandoti a casa mia... Credevo che tu fossi venuta per un'altra ragione...» «E cioè?» «Non ha importanza, per ora.» La signora Burleigh-Jervis era nervosa. Stato d'animo insolito per lei, pensò Finley.
Con garbo, la incitò a proseguire. «Dunque?» «Lui non aveva più il ferma-cravatte. Lo portava sempre, ma la sera della sua morte è sparito.» Ore 22,20 Accanto a loro, una donna disse: «E il risultato fu zero. Allora lui protestò: "Tutta questa fatica per niente?".» E rise fragorosamente. Finley annuì. «Sì, un oggetto che si porta via facilmente.» «Che cosa vuoi dire?» «L'assassino colleziona trofei. Scalpi simbolici da deporre ai piedi di sua madre.» La signora Burleigh-Jervis tacque. E mentre se ne stavano lì a guardarsi, senza sapere come recidere il sottile filo che le legava, Finley si accorse che suo padre le teneva d'occhio. Aveva lasciato l'amico e si stava avvicinando. Senza preamboli, disse: «Finley, ti sei ripresa il pendente... quello che mi hai mostrato nel pomeriggio?» Finley, che passava dalla più assoluta distrazione a un eccessivo sforzo di concentrazione, rispose brusca: «Non lo trovi più?» «L'ho cercato dappertutto, prima di uscire di casa.» «Dove l'avevi messo?» «Me l'ero infilato in tasca e, mentre mi preparavo per uscire, l'ho cercato.» Ebbe un attimo di esitazione. «Avevo deciso di restituirtelo.» «E adesso è sparito?» «Probabilmente, l'ho messo da qualche parte senza accorgermene» disse suo padre. Finley scosse la testa. «Deve aver visto che te lo infilavi in tasca. Evidentemente lo rivoleva, e quindi non aveva scelta: o te lo sfilava di tasca o veniva a rubartelo in casa. E Dio sa com'è facile entrare in casa nostra. Non avevi chiuso la porta a chiave...» «Oh, Gesù!» esclamò suo padre. La fissò, disperato. Era un uomo che si dibatteva sempre tra emozioni contrastanti. Questa volta, vinse l'irritazione e lui, prendendo sottobraccio la signora Burleigh-Jervis, le disse: «Desideri mangiare qualcosa, June?» Finley salì le scale. Ferma davanti al telefono del primo piano, trovò Cindy, che fissava il suo orologio da polso come se stesse cronometrando una gara. Nel riveder-
la, l'amica alzò una mano in segno di saluto. «Ma che cosa stai facendo?» le chiese Finley. «Lo sai, vero, che domanda fanno sul Quinto Canale Radio ogni sera, alle dieci in punto? Chiedono: "Sapete dove sono i vostri figli?". Bene, siccome quella domanda mette sempre in agitazione mia madre, io le telefono per dirle dove mi trovo.» Compose un numero, attese e infine disse: «Sono qui, mamma!» Finley la guardava. Poi, andò a chiudersi nel bagno attiguo alla camera da letto matrimoniale, frugò nell'armadietto dei medicinali, ma non trovò l'antinevralgico anallergico che usava lei. Rammentando di averne una bustina nella tasca del giaccone, passò svelta davanti a Cindy e scese nel guardaroba del pianterreno. Rovistò tra innumerevoli giacconi uguali e, trovato il suo, infilò la mano nella tasca. Sentì scricchiolare della carta. Rimase come pietrificata. Uno spiacevole formicolio le corse giù per la schiena mentre, con la coda dell'occhio, vedeva qualcosa muoversi. Era solo un gatto tigrato, che usciva da sotto una pelliccia. Allora, si decise a togliere dalla tasca la terza lettera. Ore 22,45 Questa volta mancavano sia la parte superiore sia quella inferiore del foglio. "... a cena sabato sera. Mi ero messa una gonna lunga nuova e una camicia di chiffon che mi stavano d'incanto, modestia a parte. Scusa, tesoro, so che gli abiti non ti interessano. Nemmeno a Bill, almeno i miei. Ha passato tutta la sera conversando con una nuova assistente. Sui ventidue anni. Una volta, mi hai detto che chi di spada ferisce di spada perisce, e che siccome avevo lasciato tuo padre per Bill, non era escluso che un giorno Bill mi lasciasse per un'altra. Be', sto proprio rincretinendo. "Ti dicevo del party. Mi divertivo enormemente perché il nuovo preside dell'Istituto di Storia non mi lasciava un attimo, e anche uno degli assistenti mi faceva la corte. Poi, è arrivata Mary Eccles, che non si è smentita neanche in questa occasione. Mi si è avvicinata e ha cominciato a dire che non ci vedevamo da un secolo e che ci saremmo dovute frequentare di più. Aveva un abito a
fiori che le stava da schifo. Mentre parlavamo, un altro invitato è passato a ringraziarla per il party che aveva dato la settimana precedente a casa sua. Lei è arrossita per l'imbarazzo. È stata da noi almeno sei volte, senza mai ricambiare. "Ti ricordi com'eravamo amiche prima che quella maledetta Wuhermann le spifferasse tutto? Senza contare i favori che le ho fatto. Le tenevo i bambini quando sua madre era malata, quando è rimasta incinta ho dato una festa in suo onore, e andavo io a farle le commissioni se aveva altri impegni. "Ma il peggio doveva ancora venire. Davanti a parecchia gente, ha cominciato a chiedermi che mestiere facevo prima di sposarmi. E non la finiva più con le domande. Esasperata, sono andata a cercare Bill. E l'ho trovato..." Le lettera si interrompeva lì. Finley si appoggiò alla parete, in mezzo a quel groviglio di cappotti e stivali, e guardò il gatto che tornava ad acciambellarsi, ormai sicuro di non correre alcun pericolo. Piegò la lettera e la infilò nella tasca della giacca. Poi, tornò in mezzo all'allegria. Stordita dal chiasso, passò da una stanza all'altra, cercando Pete. Questa volta, lo trovò assieme a Beverly, anziché con la bella ragazza di poco prima. Si fermò al suo fianco. Lui la guardò appena. «Se c'è una cosa che non sopporto» stava dicendo Beverly «è la gente che tenta di suicidarsi e non ci riesce mai.» «Insomma, o lo fai o la pianti» commentò Finley con calma, avvinghiandosi al braccio di Pete. «Perché non torni alla tua pazzia?» disse lui, staccandosi una per una le sue dita dal braccio. Finley non aveva più la forza di reagire. Guardò seria Pete, per un momento, poi alzò le spalle e si allontanò, con un'aria tra il rassegnato e l'indifferente. E si trovò di nuovo sola, nell'occhio del ciclone. «... mi ha chiesto se i ragazzi e le ragazze dormono nello stesso alloggio, e io le ho risposto di sì. Allora lei mi ha chiesto se dormiamo nello stesso letto, e io le ho risposto che lo facciamo solo se ci va...» «... siamo partiti con un volo Pan Am alle nove del mattino e siamo arrivati a San Juan all'una e mezzo del pomeriggio. Poi, alle due e mezzo, siamo partiti da San Juan col... fammi pensare, sì... qualcosa come il volo 979 o 978 della Carib Air, e siamo arrivati a St. Martin alle tre del pome-
riggio. Al ritorno...» Finley, vedendo il signor Venner che portava un bicchiere a un ospite, gli si mise alle calcagna come un cagnolino. «Signor Venner, posso dirvi una cosa?» «Finley, negli anni a venire, l'unica cosa che ricorderò di questa serata saranno i tête-à-tête con te.» «Mi sono trovata in tasca un'altra lettera.» Esasperato, lui la guardò. «Ma se non hai le tasche!» «Dovevo prendere una cosa dalla giacca, e quando ho infilato la mano in tasca, ho trovato la lettera.» «Che cosa dovevi prendere dalla tasca?» «Che importanza ha?» «Non lo so. Ho una gran confusione in testa. Okay, che cosa dice la lettera?» «Parla della signora Eccles. Quindi, adesso tutt'e tre le morti sono spiegate.» «Che cosa ha fatto la signora Eccles?» «Ha chiesto a quella donna che mestiere faceva prima di sposarsi.» «Io non ammazzerei certo una persona che chiedesse a mia madre che mestiere faceva prima di sposarsi. E mia madre vendeva abiti vecchi in una botteguccia...» «Evidentemente, l'assassino è più permaloso di voi.» «Be', una cosa è certa: spero proprio di non aver mai offeso sua madre.» Il viso di Finley si irrigidì e perse ogni espressione. Si chinò a sistemare il cinturino di un sandalo. «Mi dispiace, Finley, ma credo proprio che qualcuno si stia prendendo gioco di te.» «Se solo cercaste di ricordare una bella donna, moglie di un professore.» «Questo non dovrebbe essere difficile. Mi pare che ce ne siano state tre in tutto. Ma Zee non mi ha mai permesso di fare amicizia con loro. Prendi June Burleigh-Jervis. Ogni volta che tento di chiacchierare con lei... E quando si parla del diavolo, eccolo che spunta fuori!» Finley si voltò di scatto, ma era Zee Venner. «Ancora insieme, voi due?» «Visto?» disse Arthur Venner a Finley. La prese sottobraccio. «Mostrami la lettera.» Passarono tra gli ospiti, diretti al guardaroba. Il gatto aprì un occhio, li guardò assonnato e si acciambellò meglio. Finley frugò nella tasca del
giaccone, ma la lettera non c'era più. Ore 22,55 «Signor Venner, vi giuro che...» «Finley, a che gioco giochiamo?» Lui la guardava con aria interrogativa. «Non crederete che io stia mentendo, vero?» «Perché qualcuno avrebbe dovuto darti una lettera per poi riprendersela?» «Ve l'ho già detto. Credo che l'assassino voglia spiegarmi il movente di ogni suo delitto.» «Perché? Perché mai chi avesse ucciso tua madre dovrebbe volerti dare spiegazioni?» Lei si interruppe bruscamente, come se stesse correndo e le si parasse all'improvviso davanti un muro. Lo guardò disperata, arrossendo. Spazientito, Venner disse: «E le altre due lettere dove sono?» «Nella mia stanza. Almeno credo. Se l'assassino non si è ripreso anche quelle... Forse teme che qualcuno possa riconoscere la grafia di sua madre.» «Oltre a te, chi le ha viste?» «Allora, siete proprio convinto che io mento. Non so. Non posso... Un momento. Ma certo. Sto perdendo la testa. Pete... sì, Pete ne ha letta una.» «Oh, Pete.» «Pensate che sia un bugiardo anche lui?» «Finley!» Danny entrò correndo nel guardaroba, li guardò sorpreso e disse: «Stiamo cercando te. Abbiamo preso in prestito le slitte di casa Venner e andiamo sulla collina dietro la casa.» «Nemmeno per sogno» protestò Arthur Venner. «Ma la signora Venner ci ha dato il permesso.» «E io invece non ve lo do. Mi rovinereste il prato.» «Con un metro e mezzo di neve sopra?» «L'unica ragione per cui mia moglie vi ha dato il permesso è perché vuole interrompere i miei colloqui amorosi con Finley.» «Okay. Vieni, Finley.» Lei, senza entusiasmo, si lasciò trascinare via. Si tolse i sandali e infilò gli stivali, poi si mise la giacca e i guanti. La neve aveva cancellato tutte le linee di demarcazione, il marciapiede non si distingueva più dalla carreggiata della strada e, stranamente, le case
parevano più piccole. Dall'esterno, quella di Venner ricordava un albergo di Newport del primo Novecento. Dalle finestre, venivano riflessi di luci verdi e rosse. I giovani, chiudendosi alle spalle la porta d'ingresso, erano entrati in un mondo dove ogni rumore era attutito. Mentre si avviavano verso il retro della casa, Finley si accorse che la neve, cadendo incessante, cancellava subito le impronte. In silenzio, trascinarono le slitte oltre la doppia fila di macchine in sosta. Un'auto si fermò davanti all'ingresso e ne scese una coppia. Da come camminavano e dagli abiti che indossavano, non potevano essere degli studenti. Avanzarono a passi pesanti, col respiro che si condensava nell'aria. Un'altra auto passò, sferragliando sulle catene da neve, così buia all'interno che pareva telecomandata a distanza. Finley alzò il viso e aspirò una lunga boccata d'aria. Subito, sopra di lei, i lampioni stradali si trasformavano in aloni luminosi e le cime delle montagne in un bordo smerlettato che profilava il cielo. A rompere quella pace fu la prima slitta, che scendeva a precipizio dalla collina, carica di studenti urlanti. Nere figure salivano a fatica, trainando le slitte, mentre altre, fattesi in disparte, stavano a guardare. La luce della cucina proiettava sul prato una macchia luminosa. Finley vide Pete e Cindy che trascinavano un taboga e corse a raggiungerli. Arrivati in cima alla collina, si fermarono a riprender fiato. Sul taboga, Finley tentò di mettersi dietro Pete, ma Sara la batté sul tempo, e lei si trovò stretta a Ken. Nervosa, guardò in basso. Dall'alto, la collina pareva più scoscesa. Si chiese come Pete pensasse di poter frenare o sterzare. Si lanciarono giù per il pendio. Dapprima, scesero lentamente, ma poi la pendenza e il loro peso fecero acquistare velocità al taboga. Finley vide di sfuggita alcune figure che schizzavano via dalla loro traiettoria e, proprio davanti, un albero. Coi capelli che le svolazzavano sulle spalle, affondò la testa nella schiena di Ken. Precipitavano giù, sempre più in fretta, e a un certo punto lei si rassegnò a finire schiantata contro la casa. Un ragazzo, sbalordito, riuscì appena a evitare di essere travolto, e Pete urlò: «Come si fa a fermare questo aggeggio infernale?» Finley stava per buttarsi giù dal taboga, ma in quel momento arrivarono ai piedi della collina. Slittarono verso la casa, mancarono per un pelo un albero, sfrecciarono accanto ad altre slitte e, finalmente, inclinandosi su un fianco, sbandarono e caddero tutti nella neve. Anelante e col cuore in gola, Finley rimase immobile: fissò il cielo senza
stelle e il profilo dei rami delle querce, cupi e quasi fantomatici contro l'oscurità chiazzata di bianco. Mentre tentava di rimettersi in piedi, i suoi occhi incontrarono quelli di Pete. Era disteso poco lontano da lei, col mento nel palmo della mano, e la guardava. Finley si sentì paralizzata dal suo sguardo e rimase a fissarlo. Una cosa morbida e umida la colpì alla spalla: gli amici lanciavano palle di neve a lei e a Pete. Pete si rimise in piedi a fatica e cominciò a colpirli di rimando con precisione, ma Finley non rispose alla provocazione. Aveva la bocca e gli occhi pieni di neve. «Non è giusto!» gridò Pete. «Tre contro uno e mezza.» Mentre cercava di raccogliere manciate di neve, Finley si accorse che qualcosa non andava. A breve distanza da loro, un gruppetto di ragazzi osservava la loro battaglia: stavano immobili, con le mani dietro la schiena. Li osservò meglio. Quello che la sconcertava era la loro immobilità. Si tenevano di proposito fuori della mischia. «Non sarebbe meglio arrendersi?» chiese Pete, che continuava a lanciare palle di neve. All'improvviso, lui lanciò un urlo e cadde in ginocchio. «Dio mio!» Finley si voltò. Per un attimo rimase a fissarlo, incredula. Perfettamente visibile nella luce che proveniva dalla cucina, un rivolo di sangue gli scorreva giù per la guancia. Con una mano, Pete cercava di fermare il flusso e nell'altra stringeva un sasso, evidentemente lanciatogli assieme alla neve. Ore 23,15 Finley, lasciandosi cadere accanto a Pete, disse ansimando: «Che cos'è successo?» «Lanciano sassi» rispose lui, incredulo. «Sassi!» Intanto, le palle di neve continuavano a colpirli. Finley urlò: «Basta! Pete è ferito!» «Niente trucchi, Fin. Non è vero.» Lei guardò quegli estranei. C'era qualcosa di sospetto in loro. Indossavano tutti jeans e giacconi, erano giovani, alcuni avevano i capelli lunghi e la barba, ma non erano studenti universitari. Mentre Finley li guardava, tolsero le mani da dietro la schiena, e lei vide che cosa reggevano. Bastoni e sassi. Il terrore la attanagliò. Paralizzata, incapace di muoversi o di urlare, li guardava avvicinarsi. Pete si strofinava la guancia, ignaro di quello che
stava per accadere. In cima alla collina, Danny, Cindy e gli altri continuavano a lanciare palle di neve; dall'interno della casa, arrivavano scoppi di risa. Finalmente, Pete vide il gruppo che avanzava. Per un attimo, non riuscì a capire e li guardò allibito. E proprio perché non capiva, chiese: «È stato uno di voi a lanciare un sasso?» Fu come se avesse premuto un bottone. Uno dei giovani ghignò. «È la pace che vuoi, ragazzo? E pace ti daremo.» Prima che Pete potesse chinarsi per evitarlo, un altro sasso lo colpì al naso. Lui lanciò un urlo, coprendosi il viso con le mani. Finley lo aiutò a rimettersi in piedi. E, ritrovando la voce, gridò: «Fanny! Ken! Aiuto!» Allora, uno degli assalitori alzò un bastone. Pete, afferrandolo, tentò di bloccarlo. Caddero entrambi, rotolando nella neve. Finley, guardandosi attorno alla disperata ricerca di chissà cosa, cadde a sua volta, bocconi. Qualcuno la tenne ferma, col viso affondato nella neve. Lei si sentiva soffocare. A forza di pugni, graffi e calci, riuscì ad afferrare un dito e torcerlo con tutta la forza che possedeva. Il colpo secco e l'urlo che seguirono la riempirono di gioia. Era libera. Mentre ansava, singhiozzando di sollievo, vide che erano arrivati i soccorsi. Ebbe un'impressione confusa di corpi che si scagliavano l'uno contro l'altro, di imprecazioni, urla, bastoni e sassi che fendevano l'aria. Era difficile distinguere gli amici dai nemici. Intravide Pete, col viso insanguinato, che lottava con qualcuno, rotolandosi nella neve. Prese un sasso e si avvicinò furtiva, ma ogni volta che cercava di mirare alla testa dell'avversario, quello era sempre sopra Pete. Fu colpita a una gamba da qualcosa e, con un gemito di dolore, cadde al suolo. Aveva le guance rigate di lacrime. Sentì delle mani che l'afferravano, tentando di sollevarla. «Presto, Fin, filiamo! Corri!» Era Cindy, che la tirava per la giacca. Finley, frastornata, si guardò attorno. Finalmente, Pete era in piedi, sorretto da un gruppo d'amici, che camminavano rinculando per non essere attaccati alle spalle. Poco lontano, Sara urlava e spiccava dei balzi senza curarsi, una volta tanto, del suo abbigliamento e della pettinatura. «Stendeteli! Ammazzateli! Ammazzateli!» «Chiama la polizia!» gridò Finley a Cindy. «La sta chiamando Beverly.» Trascinata via da Cindy, Finley vide delle facce familiari: Danny, Ken, il signor Venner... parevano emergere dalle onde del mare e poi tornare a
scomparire. Anche gli assistenti si erano gettati nella mischia, ma per difendersi contro i bastoni e i sassi avevano solo i propri pugni, e quindi retrocedevano tra una caduta e l'altra. A un tratto, Finley si senti sollevare da terra: aspettandosi di finire scaraventata contro un albero, lei urlava e scalciava. Poi, sentì la voce di suo padre. «Togli le tue manacce da mia figlia» disse il professor Wuhermann con calma. Era alto almeno trenta centimetri più del ragazzo che teneva Finley, e molto più robusto: gli sferrò un pugno in piena faccia e prese al volo Finley prima che finisse a terra. «Corri subito in casa» le ordinò, come se lei avesse avuto cinque anni e fosse stata l'ora di coricarsi. Lo colpirono alla testa. Finley agguantò i capelli dell'assalitore, strappandoglieli con tutte le sue forze. Era talmente fuori di sé che non avvertiva più il dolore fisico. Provava solo un desiderio sfrenato di fracassare, uccidere, mutilare. Se avesse avuto un'arma, l'avrebbe usata contro chiunque le fosse capitato a tiro, senza nemmeno assicurarsi se fosse amico o nemico. Il fracasso aumentava. Voci note e voci sconosciute le turbinavano attorno, e una serie di facce passava nel suo campo visivo. Udì il tonfo raccapricciante di un bastone che si abbatteva su qualcuno e si piegò su se stessa, come se fosse stata lei la vittima. Dalla casa, Zee Venner urlava: «Basta, smettetela! Smettetela immediatamente! Sta arrivando la polizia.» Nessuno le prestò attenzione. Anzi, il frastuono aumentò. Visi apparivano e scomparivano come su uno schermo cinematografico, mentre la violenza sembrava destinata a non avere mai fine. E poi, in lontananza, risuonò la sirena di un'autopattuglia che si precipitava verso casa Venner. Ore 24,30 Il soggiorno, fino a poco prima affollato di ospiti che conversavano, bevevano e cantavano, ora sembrava la corsia di un ospedale dopo una catastrofe. Adagiati sui tappeti e sui divani, c'erano i feriti. Tra di loro, si aggiravano gli illesi e i contusi in grado di camminare. Muniti di bende e disinfettanti, pulivano loro il viso, tamponavano le ferite, fasciavano gambe e braccia. Una radio era accesa da qualche parte, e poi un bambino cominciò a piangere, al piano superiore. Zee Venner si precipitò di sopra, mentre Buzzy, rannicchiata in un angolo, fissava la scena con gli occhi spalancati,
senza capire. «Se non altro, ce l'hai fatta.» Finley, accovacciata sul pavimento accanto a Pete, gli lavava il collo coperto di sangue rappreso. Le tremava la voce. Pete, tenendo gli occhi chiusi come se la luce gli facesse male, disse: «Non ne sono sicuro. Mi piacerebbe averli sistemati a dovere, ma non è andata così. Sono riuscito solo a difendermi. Ti confesso che me la sarei data volentieri a gambe.» Aveva il naso gonfio e gli occhi lividi. «Mi hanno strappato l'abito. Me l'aveva regalato mia madre, a Natale.» Lui aprì gli occhi e sbatté le palpebre. «Hai un bernoccolo grosso come un limone sulla testa.» Un uomo con un cappotto blu si avvicinò a loro, e si accoccolò a sua volta sul pavimento. «Signorina, mi hanno detto che siete stata voi la prima a vederli. Volete dirmi come si sono svolti i fatti?» Finley gli cercò sul viso un segno di benevolenza o di ostilità, ma non vi lesse nulla. «Eravamo in giardino e stavamo facendo a palle di neve, quando Pete...» e lo indicò col dito «è stato colpito da un sasso. Poi, abbiamo visto quei ragazzi lì fermi a guardarci. È stato una specie di linciaggio.» «Hanno detto qualche cosa? Perché vi hanno assaliti?» «Evidentemente, pensavano che oggi avessimo partecipato allo sciopero per la pace. Quella è gente che odia la pace.» «Per questo vi hanno assalito?» «Sembra di sì.» «E poi, che cos'è successo?» «Hanno cominciato a pestarci.» Finley si esaminò la gamba, notando per la prima volta il livido gonfio. «Ho cominciato a urlare e i nostri amici sono accorsi.» «Avete forse detto qualcosa per provocare l'aggressione?» Lei lo fissò per un attimo, poi distolse gli occhi. «No, signore. A meno che non sia una provocazione il fatto d'essere quella che sono: una studentessa.» «Come fate a essere sicura che non fossero anche loro degli studenti?» E Finley, perplessa: «Li avete presi, no? Saprete bene chi sono.» «All'arrivo, abbiamo visto dei giovani che fuggivano. La signora Venner assicura che quelli presenti sono stati regolarmente invitati.» «Sono fuggiti tutti?» «Pare di sì. Che cosa vi fa pensare che non fossero degli studenti?» «Be'... qualche particolare.» «Troppo vecchi forse?»
«No, non direi.» «Com'erano vestiti?» «Oh, in jeans... niente di particolare.» «In che cosa, allora, erano diversi da voi?» Finley ebbe un attimo di incertezza, come se cercasse un modo per spiegare l'inspiegabile. «Uno ha parlato. Aveva un tono rozzo, da persona poco colta. Ecco perché mi è sembrato che non fossero...» Nel vedere l'espressione di lui, si interruppe. Poi si affrettò ad aggiungere: «E soprattutto erano trasandati. Tutti gli invitati erano in ordine... prima della zuffa, s'intende. Invece, quei ragazzi avevano un aspetto molto trasandato.» Meglio di così, non aveva saputo rimediare alla gaffe. Con un cenno del capo, il poliziotto si drizzò e, dopo una rapida occhiata ai presenti, decise di scegliere Sara per l'interrogatorio successivo. Finley, a occhi chiusi, ascoltava la voce concitata dell'amica. «Gente orribile. Veramente dei mostri. Ci hanno presi a sassate e a bastonate. Il povero Ken si è precipitato in aiuto di Pete, e per poco Finley non ci ha rimesso la pelle...» Continuò a lungo, mentre il poliziotto l'ascoltava affascinato, guardandosi bene dall'interromperla. Finley cercò di astrarsi dal racconto di Sara, dalle sue esagitate descrizioni di questo e di quel particolare. «Come ti senti?» le chiese qualcuno. Lei aprì gli occhi. Era suo padre. Finley, guardando la sua camicia imbrattata, la cravatta di traverso e la giacca lacerata, abbozzò un sorriso. «Non riesco a crederci.» Poi, a voce più alta, aggiunse: «Dovresti andare a coricarti.» Un urlo si levò improvviso. A differenza delle grida di poco prima, non era un urlo di panico o di rabbia, ma di autentica, pura disperazione. Di colpo, smisero di parlare tutti e si voltarono verso la porta d'ingresso. Sulla soglia, c'era Zee Venner, con l'abito pieno di macchie rosse. Il suo viso contratto, era irriconoscibile. «Non è possibile...» singhiozzava. «Non è possibile!» La piccola Buzzy balzò in piedi agitatissima e, sfuggendo a una donna che cercava di trattenerla, si slanciò verso sua madre. «Mamma... che cosa è successo, mamma?» Zee cadde in ginocchio, stringendola in un abbraccio spasmodico. «È morto, Buzzy...»singhiozzò. «Tuo padre è morto.» Ore 1,10
Si erano riuniti in una stanza al pianterreno del dormitorio delle ragazze. Sara, l'unica che si fosse lavata e cambiata, stava seduta a gambe incrociate sul pavimento, e pareva l'immagine pubblicitaria della studentessa moderna. Sforzandosi di esprimere quella che, a suo avviso, era l'emozione adatta al momento, non faceva che ripetere: «Povero signor Venner... Povero signor Venner. Perché proprio lui? Perché non è morto qualcun altro al suo posto?...» «Chi, per esempio?» le chiese Pete. Era bocconi accanto a lei. «Non fare il cretino. Non mi riferivo a nessuno in particolare. È un modo di dire...» «Una figura retorica» fece Ken. Finley, anche lei seduta sul pavimento, si allacciava le ginocchia con le braccia, premendole contro il petto, come se avesse voluto raggomitolarsi fino a sparire. «Sembri mio padre» disse. «Io?» Ken si finse offeso. Cercò di rilassarsi, allungando le gambe e curvando le spalle. «Non intendevo in senso cattivo. Siete talmente... sempre all'altezza della situazione, ecco. C'eravate tutti nel momento del bisogno. Tutti.» Beverly comparve, reggendo un vassoio con sette tazze di cioccolata calda e un piatto di biscotti secchi. Danny balzò in piedi per aiutarla. «Brava la nostra Bev. Ne avevo proprio bisogno.» «Non abbiamo mangiato il dessert» disse Beverly. «C'erano una torta di cioccolato ricoperta di panna montata e delle paste alle fragole con la crema...» «Fai schifo» sbottò Sara. «Come puoi pensare a rimpinzarti dopo quello che è successo al signor Venner? Sei una... una zuppa, ecco che cosa sei.» «C'era anche una zuppa inglese» continuò Beverly, distribuendo le tazze. «Io non ne voglio» disse Sara. «Non hai cuore; tu sei tutta stomaco.» «Per riportare in vita il signor Venner, sarei disposta a digiunare per una settimana intera.» «Davvero?» chiese Pete, con voce soffocata. Teneva il viso nascosto tra le braccia. Cindy era l'unica che avesse pianto. Aveva gli occhi gonfi e giaceva supina sul pavimento, guardando un ragno tessere la propria tela attorno a una mosca presa in trappola. «Non capisco come possa essere successo. Lo sapete, voi?» Danny si premette le mani sullo stomaco. «Luridi vermi! Spero che li
prendano e li scaraventino tutti in galera.» «Sì, sarebbe l'unica soluzione» disse Finley con voce spenta. Poi, notando la tazza che Beverly le aveva posato accanto, si alzò, aprì la finestra e versò la cioccolata sulla neve. «Quella terrebbe conto delle calorie anche all'inferno» fu il commento di Beverly. Finley rimase ferma, guardando fuori. Dietro una finestra dell'albergo vicino, c'era una donna che gesticolava. A un tratto, prese un oggetto da un tavolo e lo scagliò con violenza. Finley non poté sentire lo schianto. La donna scomparve, e pochi istanti dopo si udì il rombo di un'auto che si allontanava. Lei chiuse la finestra rabbrividendo, e si voltò a guardare gli altri. «Pare che tutti abbiano le loro grane» disse. Poi, come se Cindy avesse appena fatto la domanda, le rispose: «Vorrei proprio saperlo che cos'è successo al signor Venner. Com'è morto? Come l'hanno ucciso?» Nessuno rispose. E Finley cominciò a salire le scale lentamente, reggendosi al corrimano. Arrivata nella sua stanza, telefonò alla Centrale di polizia. «Sono Finley Wuhermann. Mi potreste dire com'è morto il signor Venner?» «Chi?» «Il signor Venner. Il professore universitario che...» «Volevo dire: chi parla?» «Sono una studentessa. Ero tra gli invitati al ricevimento del signor Venner.» «Cosa diavolo volete?» Finley scostò il ricevitore dall'orecchio e lo fissò. Poi riagganciò con calma. Dopo un attimo di riflessione, compose un altro numero. «Sì?» Suo padre pareva senza fiato. «Com'è morto il signor Venner?» Un breve silenzio. «Come stai, Finley?» «Benissimo.» «Vorrei che venissi qui stanotte.» «Te l'ho detto, sto bene. E ci sono gli altri con me.» Sentì una voce nel sottofondo, e suo padre, coprendo il microfono con una mano, disse: «È Finley.» Istintivamente lei drizzò le spalle. «Sei proprio sicuro di volermi da te, stanotte?» chiese, gelida.
«La signora Burleigh-Jervis è venuta qui a bere qualcosa, Finley. La riaccompagnerò a casa sua tra poco.» «Non sono il tuo padre spirituale, comunque. Com'è morto il signor Venner, lo sai?» «Frattura alla base cranica. L'hanno colpito con un bastone o con una pietra. Mi preoccupi, Finley. Fai troppe domande.» «Ti preoccupi per me o per te, papà?» Questa volta, il silenzio durò più a lungo. Dopo aver detto quelle parole, Finley si accasciò e si guardò attorno, sgomenta. Aveva la voce stanca. «Hai vissuto un'esperienza terribile, Finley. Dunque, fingerò di non aver sentito» replicò suo padre. E troncò la comunicazione. Lei rimase vicino al telefono, con la testa bassa e le spalle curve. Fu sul punto di richiamarlo, ma cambiò idea. Infine, decise di tornare al pianterreno. Nulla era cambiato. Tutti erano lì, nella stessa posizione di prima, tranne Pete, che si stava accendendo una sigaretta. Danny guardò l'orologio e disse: «Ehi, sapete che ore sono?» «Tanto, io non riuscirei a dormire» sospirò Beverly. «Ho un'idea» continuò Danny. «Alla Jason Hall stanno facendo delle sedute spiritiche. Andiamoci. Forse, riusciremmo a metterci in contatto col signor Venner.» Cadde di nuovo il silenzio. Persino Sara non osò rimproverarlo per quella assurda battuta, e dalle labbra di Finley sfuggì un debole suono, tra l'imprecazione e il gemito. Pete si alzò, avvicinandosi al giradischi. Si stava gingillando con i dischi, quando Finley sollevò la testa di scatto. «Ascoltate. Non sentite un rumore?» Rimasero tutti come paralizzati, Pete con le mani sospese sopra il pickup, Cindy a bocca aperta, Danny con gli occhi fissi nel vuoto, Beverly con la tazza a mezz'aria e Sara atteggiata, come sempre, in una posa da modella. A questo punto, Ken esclamò: «Sento bussare alla porta. Torniamo nella nostra stanza. Un po' d'acqua basterà a mondarci di quest'atto. Vedi com'è facile? Ogni audacia ti ha abbandonato. Ascolta! Bussano ancora...» Sul vialetto d'ingresso, la neve scricchiolava sotto dei passi rapidi. Con gli occhi sbarrati per la paura, videro la maniglia della porta muoversi. E mentre la porta si apriva e dallo spiraglio entrava una folata d'aria gelida, Pete mormorò: «Duncan, svegliati a questi colpi... Oh, se tu potessi farlo!»
Se sulla soglia fosse apparso il signor Venner in persona, loro sarebbero rimasti quasi altrettanto sconvolti. Si stentava a riconoscere in quella donna la loro ospite di poche ore prima. Il viso di Zee Venner era pallidissimo e la pelle pareva essersi afflosciata, deformando i lineamenti. Gli occhi erano segnati da occhiaie profonde. Sembrava un'apparizione fantomatica. E quel fantasma in abito da sera faceva paura. Sopra l'abito, portava una vecchia giacca militare. Finley fu la prima a muoversi. Andò verso la donna ferma sulla soglia e, prendendola sottobraccio, la fece entrare. «Accomodatevi, vi prego, signora Venner.» Le sue parole sciolsero la morsa di tensione che attanagliava gli altri. Tutti si alzarono goffamente, come pupazzi con la molla carica. Danny chiuse la porta, Cindy si passò una mano sugli occhi e Sara si portò il fazzoletto al viso. Zee Venner non li guardò nemmeno. Pareva che per lei ci fosse solo Finley. «Ho bisogno di parlarti» le disse. Come se, per tutta la sera, non avesse atteso che questo, Finley indietreggiò con un gemito. Pareva una veggente che avesse avuto la premonizione di una catastrofe. «È stato ucciso» disse Zee Venner. «Arthur è stato assassinato.» Ore 1,55 Zee Venner sedette sul divano, si lasciò togliere la giacca militare e prese, come in trance, la tazza che Sara le porgeva. Subito, la cioccolata le schizzò sul vestito, mescolandosi alle macchie di sangue. Ken posò la tazza su un tavolino. Danny fu il primo a parlare. «Certo che l'hanno ucciso. L'hanno ucciso quei delinquenti.» Finley, con voce quasi inaudibile, chiese: «Non è questo che intendevate, vero, signora Venner?» Zee si premette le dita sulle tempie e cominciò a massaggiarsele. «Il medico mi ha dato qualcosa... mi sento...» Le mancò la voce. Fissava Finley, con una sorta di rancore. «Non avresti dovuto indagare. Se non avessi cominciato...» Finley barcollò. Pete, che le stava dietro, la afferrò per i gomiti e la fece appoggiare contro di sé. «Volete dire che vostro marito aveva ricordato qualcosa e che l'hanno
ucciso per questo?» mormorò Finley. Sempre massaggiandosi le tempie, Zee cominciò a dondolarsi avanti e indietro. Aveva la vista offuscata. Disse, più a se stessa che non a Finley e agli altri: «Ma come potevi prevederlo! È umano che sì voglia scoprire chi ci ha ucciso la madre.» «Se non avessi messo in moto l'ingranaggio, il signor Venner sarebbe ancora vivo.» Zee continuava a dondolarsi. «Non è giusto gettare la colpa su di te, Finley. Ma si finisce sempre per fare così. Si getta la colpa sulla vittima anziché...» Le labbra e le mani le tremavano. Lei intrecciò spasmodicamente le dita. Danny si alzò e andò in cucina. Sulla credenza, c'era una bottiglia di vino piena a metà. Ne versò un po' in un bicchiere e tornò nel soggiorno. Tenne il bicchiere accostato alle labbra della signora Venner mentre lei beveva. «Che cosa vi fa pensare che si tratti di omicidio premeditato?» «Arthur è stato l'unica vittima.» «Non ci sono altri motivi per sospettarlo?» All'improvviso, lei si guardò attorno sbattendo le palpebre, confusa. Pareva che stentasse a ricordare dove si trovava. «Mia sorella... dovrei telefonarle... sono scesa dalle scale di servizio senza dirle...» Finley si sottrasse bruscamente alla stretta di Pete e cadde in ginocchio davanti a Zee Venner. «Signora, vi prego... io devo sapere... che cos'è successo? L'avevano minacciato? Qualcuno...» «No. Niente di tutto questo.» Zee agitò una mano davanti al viso come se scacciasse un insetto. «Stavamo parlando... prima che lui uscisse per correre in vostro aiuto, e a un tratto ha esclamato: "Ci sono!". Io gli ho chiesto che cosa voleva dire e lui mi ha risposto che ricordava di avere sentito delle persone parlare di "quella là" a un ricevimento...» Finley si contrasse spasmodicamente, ma fu cosa di un attimo. Senza notarlo, Zee proseguì: «Dicevano che quella donna faceva di tutto per essere all'altezza del suo ruolo, per diventare come le altre signore del campus... Tanto che non le era rimasta più una briciola di personalità, era diventata uno zero assoluto. Aveva copiato qualcosa da tutti, finendo per non essere più nessuno.» Zee perse il filo del discorso, fissava un punto sulla parete. Tutti si voltarono per vedere di cosa si trattasse. Non c'era che il rettangolo della finestra. Finley, temendo che non riuscisse più a concentrarsi, la incitò con dol-
cezza a proseguire. «Signora Venner, quando vostro marito vi ha detto questo c'era qualcuno presente?» «Non so... non riesco a ricordare...» «Dovete ricordare, signora.» «Proverò... non so... c'era una tale confusione. Era presente tuo padre, ne sono certa, perché ha detto che la maggior parte delle persone è uno zero assoluto.» Il viso di Finley, arrossato dall'eccitazione, divenne terreo. Si appoggiò sui talloni, facendosi ancora più piccola. E Pete, con voce aspra, chiese: «Chi altri vi ha sentita?» «C'erano tanti ospiti... lo sapete. Arthur mi aveva detto di non invitare troppe persone...» Si interruppe. E spalancò gli occhi prima di prendersi il viso tra le mani, scoppiando in un pianto sommesso e disperato. «Non riesco a crederci. È impossibile. È impossibile che non lo rivedrò mai più. Dio, Dio!» Nessuno parlava: respiravano appena e la guardavano, seduti ai suoi piedi. Beverly tese una mano, abbozzando un gesto di conforto, ma subito la ritrasse. Le parole di Zee filtravano attraverso le dita. «Arthur ha detto che quella gente parlava della moglie di un professore... tutti e due... non abitano più a Whitefield. Lei era molto carina, era già stata sposata e aveva avuto un figlio a Saint... Saint qualcosa... e... oh, Arthur, Arthur...» Ruppe di nuovo in singhiozzi. I visi dei ragazzi riflettevano le stesse emozioni: pietà, disagio e persino un inspiegabile senso di colpa. «Come si chiama quella donna, signora Venner?» chiese Finley. La sua voce era carica di disprezzo per se stessa. «Non lo so... Arthur stava cercando di ricordarlo quando abbiamo sentito qualcuno gridare che in giardino era scoppiata una rissa.» In una delle camere da letto, squillò il telefono. Finley si alzò di scatto e corse di sopra. La telefonata era per lei. Sulla porta, si fermò bruscamente, appoggiandosi allo stipite, timorosa di scoprire chi la chiamava. Senza accorgersene, contò gli squilli: sei, sette, otto... Alzò il ricevitore, senza dire nemmeno una parola, e lo tenne accostato all'orecchio. «Pronto? Pronto?» esclamò una donna, ansante. «Sì?» «Parlo con Finley Wuhermann? C'è mia sorella da te?»
Confusa, Finley cercò di ricordare quale delle ragazze avesse una sorella. «Vostra sorella?» «Zee Venner è lì da voi?» «Oh.» Finley si lasciò cadere sulla sedia. «Sì, è qui.» «Dio sia ringraziato. Continuava a ripetere che doveva parlare con Finley Wuhermann e quando non l'ho più trovata in casa...» «Volete che ve la chiami?» «No. Vengo subito lì. Non lasciatela uscire da sola.» «Non occorre che veniate. La riaccompagneremo noi» disse Finley. «Davvero? Mi fareste un favore. Ho i bambini cui badare. Ma non lasciatela uscire da sola. Ha preso un sedativo.» «La riaccompagneremo noi, state tranquilla.» Finley riappese e indugiò a fissare tristemente il telefono. Poi con le labbra contratte, gemette: «Oh, signor Venner, signor Venner, mi dispiace... Mi dispiace tanto.» Si alzò di scatto e corse al pianterreno, come se volesse sfuggire a se stessa. Gli altri erano ancora seduti ai piedi di Zee Venner. «Era vostra sorella, signora Venner. Le ho detto che vi riaccompagneremo a casa noi.» Tutti si alzarono a fatica, come soldati che hanno appena lasciato la linea del fuoco, sperando in una tregua e invece si sentono ordinare di riprendere subito a combattere. Infilarono gli stivali e aiutarono Zee Venner a indossare la giacca militare. Lei la guardò. «Era di Arthur» disse. In silenzio, le aprirono la porta. Danny e Ken si misero al suo fianco, gli altri li seguirono. Zee guardò il cielo senza stelle. I fiocchi di neve le caddero sugli occhi, ma non sbatté le palpebre. Esausta, disse: «Sta' attenta, Finley. Quello che è successo ad Arthur potrebbe capitare anche a te.» Ore 2,20 La porta si chiuse alle spalle di Zee Venner, ma loro non si mossero. Fissavano le finestre illuminate della villa e non sapevano più che fare. «Com'è tutto diverso da qualche ora fa...» sospirò Sara. «Voglio dire, eravamo così allegri...» «Chi era allegro?» chiese Ken. «Io» rispose Beverly. «Con tutta quella roba da mangiare.»
«Io non potrei certo dormire, stanotte» continuò Sara. «Sono sconvolta per il povero signor Venner.» Anche se le parole erano di maniera, la sua voce aveva un tono sincero. Danny, rendendosene conto, evitò di replicare con una battuta sarcastica. «Andiamo alla Jason Hall» propose. «Probabilmente, sono ancora alle prese con le sedute spiritiche.» Quasi tutti volevano dire la loro, per lo più cose senza senso, e poi, incapaci di prendere una decisione, si incamminarono tenendosi in mezzo alla strada perché il marciapiede era nascosto sotto la neve. Danny canticchiava sottovoce, ma nessuno si unì a lui. Sull'altro lato della strada, uno studente camminava da solo, tenendo sotto il braccio due manifesti inneggianti allo sciopero per la pace. Davanti alla Jason Hall, c'erano ancora due file di auto in sosta. Mentre loro arrivavano, un gruppo di studenti uscì e li salutò con la mano. L'atrio era affollato, pieno di tavoli e sedie. Un ragazzo stava suonando la chitarra classica. Finley, fermandosi ad ascoltarlo, disse: «È "La Guarda Cuvadadesa".» «Cerchiamo i fantasmi, piuttosto» disse Beverly, tirandola per una manica. «Andateci voi. Io resto qui.» «Avanti, Fin, dobbiamo restare uniti» esclamò Pete, spazientito. Lei fu sul punto di respingerlo, ma le bastò un'occhiata al suo viso per cambiare idea. Lo aveva ridotto al limite della sopportazione. «Okay, andiamo.» Nessuno prestò loro attenzione mentre percorrevano il corridoio. C'era poca luce, lì, e quindi non si notavano le loro contusioni e gli strappi degli abiti. Istintivamente, si strinsero in gruppo e cercarono di camminare senza far rumore. In fondo al corridoio, si trovarono immersi in un'oscurità quasi completa: unica fonte di luce erano le fiammelle di poche candele. Attraverso una porta a vetri, videro delle persone sedute attorno a un tavolo, che si tenevano per mano. Una donna aveva una sciarpa legata attorno alla testa e un abito lungo a fiori, da zingara. Teneva gli occhi chiusi. Si fermarono sulla porta, incuriositi, ma pareva che non accadesse nulla di straordinario. «Che cosa si fa?» chiese Sara. «Entriamo?» «Non si può» le disse Cindy. «Romperemmo l'incantesimo, o il cerchio, o come diavolo si chiama.»
Nel vedere una figura staccarsi dalle ombre che li circondavano, le sfuggì un'esclamazione soffocata. La figura avanzava verso di loro. Nella sala, solo una persona si voltò a guardare. Le altre non si mossero. Si scostarono dal vetro per affrontare il ragazzo che li aveva raggiunti. Era un piccoletto con i capelli neri e l'aria grave. «Non si può entrare. Non so quando finiranno.» «Non potremmo fare una seduta spiritica tra di noi?» chiese Sara. E gli rivolse uno dei suoi sorrisi speciali: alla luce tremolante delle candele, il suo viso aveva una bellezza quasi irreale. Dopo un attimo di smarrimento, lui disse con un filo di voce: «Vi occorre un medium.» «Non ce n'è uno disponibile nei dintorni?» E il piccoletto, distogliendo a fatica gli occhi da lei, rispose: «In fondo all'atrio, c'è uno che legge i tarocchi, e nella stanza numero quindici fanno l'oui-ja.» «Bene, allora vada per l'oui-ja» disse Sara, come se stesse scegliendo delle verdure. «Sono cinquanta cents a testa.» Finley, cercando di fendere con gli occhi l'oscurità del corridoio, si sentiva smarrita. L'intero edificio aveva cambiato aspetto. Le pareti piastrellate e ricoperte di poster, le aule spaziose, le lavagne non parevano più le solite. «Non mi piace» sussurrò a Pete. «Non mi dirai che cominci a prendere sul serio queste baggianate.» «No, ma è come... non so... come se stesse per accadere qualcosa.» Danny, sentendola, disse: «È capitato anche a me, quella volta che sono andato a farmi leggere nel pensiero. Non ci credevo, ma ero nervosissimo all'idea che potessero scrutarmi nella mente.» Dalla sala dov'era in corso la seduta spiritica, giunse un'esclamazione, poi si udì il tonfo di una sedia rovesciata. Fecero di nuovo ressa davanti alla porta, guardando attraverso il vetro, e videro una ragazza in piedi, con entrambe le mani sulla bocca. Ma non riuscirono a sentire quello che diceva. Finley guardò gli amici. Sara aveva un'aria troppo solenne, come un'atea che tenta di mostrarsi rispettosa in una chiesa. Danny era chiaramente interessato. Pete, invece, pensava ad altro e, ogni tanto, faceva una smorfia come se provasse un dolore fisico. Beverly pareva una madre ansiosa che ha condotto i propri figli a fare una passeggiata, ma non è sicura che loro si
divertano. Solo Cindy, con l'aria estatica, credeva veramente in quel che accadeva. «Proviamo a farci fare i tarocchi?» chiese Finley. Voleva andarsene di lì. «Possiamo dividerci in due gruppi. Qualcuno...» «No» disse Pete, perentorio. «Stiamo tutti insieme.» «Ma l'oui-ja si fa solo in due per volta.» «Gli altri staranno a guardare.» All'improvviso, il ragazzo piccoletto spalancò gli occhi: aveva notato i lividi e i graffi di Pete. Lanciò una rapida occhiata agli altri, e poi fece scorrere lo sguardo lungo il corridoio, come se fosse spaventato. «Non preoccuparti» gli disse Pete. «C'è stata una zuffa, e non siamo stati noi a cominciare.» Per niente rassicurato, il ragazzo disse: «Fanno tre dollari e cinquanta per tutti e sette.» Prese il loro denaro senza contarlo e aprì la porta di un'aula. Pete esitò, chiedendosi se quello non stesse per caso meditando di chiamare a raccolta i suoi amici per farli buttar fuori. «Non c'è niente di losco. Dei tizi ci hanno assalito perché erano convinti che oggi avessimo preso parte allo sciopero per la pace.» «Oh» fece lui. E poi, vago: «L'oui-ja è qui dentro.» Appena entrati, sentirono un forte profumo d'incenso. Alla luce di un'unica candela, quella stanza non pareva più un'aula. E Finley tornò a sentirsi smarrita come se, dal viso di un amico, avessero tolto il primo strato di pelle e, sotto, fosse apparsa una faccia diversa. Una ragazza con i lunghi capelli che le ricadevano sul viso, coprendoglielo in gran parte, era seduta a un tavolo. Aveva davanti a sé un tabellone con le lettere dell'alfabeto, simile ai soliti tabelloni che si usano nei giochi di società, e una mezzaluna di numeri che andavano dallo zero al nove. Ai lati del tabellone c'erano due parole: "Sì" e "No". La ragazza teneva le dita lunghe e sottili su una tavoletta di un indicatore a freccia e con una finestrella nel centro, che scorreva su quattro rotelle ricoperte di feltro. Non alzò gli occhi e parve non notare Cindy che le si era seduta di fronte. Quel poco che si vedeva del suo viso era pallido, delicato e ascetico. Gli occhi di Finley si stavano abituando alla penombra: guardò di sfuggita gli amici, fermi e rigidi sullo sfondo buio. A capo chino, gli occhi fissi in un punto indefinito, la ragazza parlò con voce lenta e profonda. «State calmi. Non pensate che ci sia un trucco. Se non ci credete, l'oui-ja non risponderà.» Attese, come se si aspettasse che
qualcuno ammettesse la propria incredulità. Poi, disse a Cindy: «Tieni gli occhi aperti o chiusi, come preferisci. Appoggia leggermente le dita sulla tavoletta, ma non tentare di dirigerla. E adesso, fai le domande.» «Chiedi se passerai l'esame d'arte» bisbigliò Beverly. Gli occhi della spiritista si alzarono lentamente e la fissarono: erano talmente pieni di rancore che, senza rendersene conto, Beverly indietreggiò di un passo. Dopo un istante, la ragazza tornò a dedicare a Cindy la propria attenzione. «Hai una domanda da fare all'oui-ja?» Cindy chiuse gli occhi. Respirava appena. Dall'atrio, arrivò uno scroscio di applausi: lo studente con la chitarra classica aveva finito il suo pezzo. Riprese quasi subito con una melodia vagamente medioevale. «Mi sposerò entro l'anno?» chiese Cindy. La tavoletta, lentamente, cominciò a muoversi. Procedeva a zigzag, come se non sapesse che direzione prendere, e finalmente si decise a fermarsi. Sotto la finestrella c'era la parola "No". «C'è qualcuno che mi ama in questa stanza?» chiese Cindy. E di nuovo l'indicatore si mise a vagare. Si udì uno starnuto, l'indicatore esitò, incerto, ma, alla fine, scivolò sul "Sì". «Chi mi ama?» Per un momento, non accadde nulla. L'indicatore non si muoveva. Poi qualcuno si agitò, impaziente, e la ragazza mormorò in tono d'incoraggiamento: «Oui-ja, ti prego, dillo. Come si chiama il giovane che ama questa ragazza?» L'indicatore riprese a muoversi. Indugiò, esitante, sulla lettera "J" e Cindy, delusa, sospirò. Premendo un po' più forte le dita sulla tavoletta, si sforzò di dirigerlo col proprio pensiero, concentrandolo su Danny. L'indicatore girovagò incerto, come il dito di un bambino che cerca dall'espressione della maestra di indovinare la lettera giusta sulla lavagna. Partendo dalla A, proseguì lentamente. Quando arrivò alla D, Cindy sospirò soddisfatta. «La prima lettera del nome di chi ti ama è la D» cantilenò la chiaroveggente. «Giusto!» esclamò Cindy, guardando trionfante gli altri che, stretti in gruppo, fissavano il tabellone. La tavoletta scivolò sulla O, ma poi puntò sulla A. Il respiro di Cindy si fece più rapido. Inconsciamente, mosse appena il tabellone. L'indicatore ruotò verso il centro e si fermò sulla N.
«L'oui-ja dice che ti ama Dan.» «Evviva!» esclamò Cindy. Finley, non riuscendo più a trattenersi, fece un passo avanti e si chinò sul tavolo. «Oui-ja» disse con un tono che indusse Pete a guardarla esasperato «ho un favore da chiederti. Possiamo appoggiare tutti le dita sul tabellone mentre io ti faccio una domanda?» «Non è possibile» rispose la ragazza. «Ti prego, oui-ja. Una domanda sola. È importante.» «Va bene. Fai pure la tua domanda. Ma non sono sicura che l'oui-ja risponderà.» «Grazie, oui-ja.» Finley, con un cenno, invitò gli amici a prendere delle sedie e a posare le mani sul tabellone. Loro, guardandola incuriositi, obbedirono. «Oui-ja, chi è l'assassino?» Da un'altra stanza, arrivò un urlo soffocato. Tutti alzarono la testa, stupefatti. Pete respinse la sua sedia, pronto ad andare a vedere di che si trattava, ma la ragazza lo fermò. «Non è niente. A volte, le parole degli spiriti spaventano i non iniziati.» Si accorsero che la tavoletta aveva cominciato a girare, passando dal "Sì" al "No", sfiorando a casaccio le lettere dell'alfabeto. Poi, di colpo, si fermò. «L'oui-ja non vuole rispondere alla domanda.» «Ti prego, oui-ja, ti prego. Se non vuoi dirci il nome dell'assassino, di' almeno chi è "quella là".» Da sotto le palpebre socchiuse, Finley scrutò rapida quei visi intorno a lei. Tutti respiravano adagio, normalmente, e guardavano col massimo interesse il tabellone. Si accorse d'essere madida di sudore. E di nuovo, la tavoletta cominciò a sussultare. Nel vedere lo sforzo che faceva per muoversi, i giovani si strinsero istintivamente l'uno all'altro. E poi, senza esitazioni, l'indicatore si fermò sulla "O". Attesero la lettera successiva. Finley aveva l'impressione che uno dei presenti respirasse più forte degli altri, ma non sapeva chi. Dalla candela si alzò una leggera spirale di fumo e, con uno scoppiettio, la fiamma si spense, lasciando la stanza nell'oscurità. La tavoletta, sotto le loro mani, impazzì: fece addirittura un balzo e poi si fracassò al suolo con uno schianto. Come se quello fosse stato un segnale, fuori, un cane latrò.
Ore 3,10 Usciti nella strada, si strinsero di nuovo l'uno all'altro. Camminavano lentamente, riluttanti a separarsi per tornare ai propri alloggi. Finley, alzando il viso pallido verso il cielo, aprì la bocca per farvi cadere dei fiocchi di neve. Danny, rifacendo il verso alla spiritista, cantilenò: «Uno di voi non vuole che l'oui-ja risponda a questa domanda. Guardatevi da una persona il cui nome comincia per "O".» «Io non voglio andare a dormire» disse Sara. «Sono troppo inquieta.» «Credo che andrò da mio padre» disse Finley. «Perché?» «Mi ha invitata lui.» E dopo un istante aggiunse: «È convinto che a casa sua io sia più al sicuro.» A quelle parole, seguì un silenzio carico di tensione. Indecisi, rimasero a guardare un gatto che tentava di camminare nella neve senza sprofondarvi. In lontananza, le luci della città si riflettevano nel cielo, tingendolo di un rosso sbiadito. «Ehi!» esclamò Beverly. «Mi venisse un accidente! Io all'alloggio da sola non ci torno.» «Gli accidenti vengono a chi non sta a dieta» disse Pete. «E tu che cosa farai? Finley va da suo padre.» «Sembra una canzone» disse Danny, trascinando Cindy in una danza improvvisata. «A casa di suo padre, andrà a casa di suo padre...» «Non far conto su di me» disse Pete a Beverly. «Sei troppo grassa per i miei gusti.» «Intendevo dire che sarai solo anche tu, stupido.» «Solo con altri novantanove ragazzi.» E, ripensandoci, Pete aggiunse: «Con relative ragazze appresso.» Continuarono a camminare adagio. Qualche stanza degli alloggi studenteschi era illuminata e da una finestra aperta giunse la voce di un ragazzo che cantava "Credo che mi ucciderò". Quando arrivarono davanti a una casa privata trasformata in pensione per studentesse, Beverly si staccò dal gruppo. «Io vado a dormire da Liz» decise. Attesero che bussasse alla porta d'ingresso. Non ebbe risposta. Beverly, camminando a ritroso, osservò le finestre: al primo piano, ce n'era una illuminata. Cercò un sasso. Non riuscendo a trovarne nella neve, si tolse di
tasca una moneta e la lanciò contro i vetri. Comparve una ragazza e aprì la finestra. «Mary? Sono Beverly. Vorrei passare la notte da Liz. Ti dispiace farmi entrare?» «Oh, Dio!» esclamò la ragazza, seccatissima. «Vengo.» Beverly, rivolgendosi agli amici, disse: «Sono commossa! Restate qui a proteggere una pallina di grasso come me?» «Pensa a tutto il cibo che andrebbe sprecato, se ti ammazzassero» ribatté Danny. La porta si aprì e comparve la ragazza, in camicia da notte e bigodini. Imprecava e tremava. Beverly sparì all'interno. Gli altri proseguirono per la loro strada. Persero Sara e Ken all'alloggio di Ken, un edificio molto grande, in mattoni rossi, e poi Cindy e Danny davanti a uno più piccolo, di pietra. Finley e Pete camminavano soli, tenendosi per mano. Ogni tanto, lei si voltava a guardare le montagne coperte di neve come se la loro vista la confortasse. In casa Wuhermann, nonostante l'ora tarda, sia le finestre del pianterreno sia quelle del primo piano erano illuminate. Finley e Pete si fermarono, riluttanti a separarsi. «Sembra che tuo padre ti stia aspettando.» «No, non è detto. A volte, lavora fino a tardi nel suo studio, oppure si dimentica di spegnere le luci. Sai com'è, il solito professore con la testa tra le nuvole.» Pete la spinse contro un acero e cominciò a baciarla. Lei si appoggiò alla pianta ma, invece di rilassarsi, divenne ancora più tesa. Era rigida e per niente disponibile. Lui, scostandosi, disse: «Ma perché doveva capitare proprio a me l'unica ragazza pudica del campus?» Lei voltò la testa. «Probabilmente ce ne sono altre due o tre.» «Vieni con me al mio alloggio, Fin.» «Voglio parlare con mio padre.» «Gli parlerai domani.» «E poi...» Teneva la testa bassa e lui quasi non la vedeva in viso. «L'ho promesso a mia madre.» Pete la respinse così bruscamente che, per poco, non la fece cadere. Fermo sotto il lampione, la guardò uscire dall'ombra dell'acero e salire stancamente la gradinata d'ingresso. Dalla tasca della giacca, Finley tolse la chiave che portava sempre con sé, e fece per aprire la porta. Ma era già
aperta. Si volse, salutò Pete con la mano e lui le rispose. L'anticamera era buia. Nello studio, non c'era nessuno. Finley spense la lampada sulla scrivania. Passò in cucina. Vuota anche quella, e pulitissima. Il venerdì, veniva la domestica a giornata. Come un automa, aprì il frigorifero e ne esaminò il contenuto: latte, burro, formaggio, bacon, frutta, un avanzo di insalata e un pacchetto di hamburger. Scelse una mela e cominciò a mangiarla. E, senza togliersi il giaccone, salì le scale sbadigliando. Camminava in punta di piedi per non disturbare suo padre. Mentre passava davanti alla porta socchiusa della sua stanza, guardò dentro. E si sentì agghiacciare. La lampada sul tavolino da notte era accesa. Due corpi nudi giacevano sul letto. E uno dei due aveva lunghi capelli biondi. Ore 3,40 Finley, piano piano, si scostò dalla porta senza far rumore. Quando fu certa che, dal letto, non potessero vederla, si appoggiò alla parete e attese di riprendere fiato. Poi, si sfilò gli stivali e scese le scale, furtiva come una ladra. Era quasi arrivata sulla porta d'ingresso, quando le venne in mente una cosa. In punta di piedi, tornò nello studio e in cucina, accese le luci e lasciò le due stanze esattamente come le aveva trovate arrivando. Poi, infilò gli stivali e uscì. Si mise subito a correre, nella speranza di raggiungere Pete. Ma la strada era deserta. A fatica, scivolando sulla neve, si avviò nella direzione che lui doveva aver preso. Arrivò al suo alloggio senza fiato, sfinita. Il portone era chiuso a chiave. Finley indietreggiò di qualche passo e guardò la finestra di Pete. Era buia. Perplessa, stava per lanciare la solita occhiata al suo inesistente orologio, quando si accorse che la neve davanti all'ingresso era intatta: le uniche impronte erano le sue. Il vento si abbatteva sui prati del campus, violento. Le luci di un edificio tremolarono e si spensero mentre, il lontananza, un'auto arrancava sferragliando sulle catene. Poi, calò di nuovo il silenzio. A testa bassa, con le spalle curve, tornò sui propri passi. Davanti alla casa di suo padre, lanciò un'occhiata alla finestra della camera da letto e, di colpo, gli occhi le si riempirono di lacrime che le rotolarono giù per le guance.
«Spero proprio che prima di addormentarvi non conterete le mele che ci sono nel frigorifero, professore» disse a voce alta. I negozi erano bui. La libreria, il cinema, la mensa, l'ufficio postale... tutti chiusi. Mentre passava davanti ai campi sportivi, il vento l'aggredì e per poco non la fece cadere in ginocchio. Mentre si toglieva la neve dalla faccia, vide un uomo avanzare a passo tranquillo. Aveva un cane al guinzaglio e gli parlava. Finley, vedendo un essere umano, provò l'impulso di corrergli incontro, ma subito, costringendosi ad essere logica, decise di proseguire per la sua strada. Scrutava inquieta ogni vialetto d'accesso alle case. Tutte le finestre del suo alloggio erano illuminate. Ma, invece di avere un'aria accogliente, pareva un edificio che, invaso da un gas misterioso, avesse conservato intatta la sua struttura senza più avere dentro di sé alcuna forma di vita. Nell'albergo, solo una finestra era illuminata. Finley la fissò quasi con bramosia mentre la neve, inesorabile, le cadeva sui capelli e sulle spalle. Il portone era aperto. Si fermò sulla soglia e rimase in ascolto. Nessun rumore, tranne il pulsare della caldaia. Come se l'edificio fosse stato evacuato all'improvviso in un momento di panico, erano sparsi dovunque indumenti, scatole di canditi, attrezzi sportivi e strumenti musicali. In un angolo, c'era persino una pila di piatti sporchi. Passò in rassegna ogni locale del pianterreno e del primo piano. E vi trovò lo stesso caos di berretti, calzini, biancheria, bottiglie vuote, giornali e riviste, pantofole. Quando fu sicura d'essere completamente sola, chiuse entrambe le porte d'ingresso. Rimase per un po' alla finestra del soggiorno, guardando fuori. Non sapeva se preferire la violenza gelida del mondo esterno o il calore e il silenzio della casa deserta. Andò in camera sua. Paragonata agli altri locali, era una vera oasi d'ordine. Nello specchio sopra il cassettone, esaminò le escoriazioni che aveva sul viso e i capelli arruffati. Poi, si sfilò l'abito: era a brandelli, aveva l'orlo strappato, ma lei lo piegò ugualmente con cura e lo mise in un cassetto. Indugiò a lungo sotto la doccia, tentando di levarsi di dosso tutte le esperienze di quella giornata. Sebbene l'acqua fosse caldissima, continuava a insaponarsi e a strofinarsi. Poi, indossò una camicia smessa da suo padre che usava come camicia da notte. Chiuse a chiave anche la porta della sua camera, scostò le coperte e si infilò nel letto. Mentre chiudeva gli occhi, sentì della carta scricchiolare sotto il cuscino. E seppe di che cosa si tratta-
va ancora prima di accendere la luce. Ore 4,30 "Tesoro mio, perdonami, ti prego. Non odiarmi. Non resisto più. "Ieri sera, sono andata a teatro, la nostra filodrammatica dava uno spettacolo. Mi aveva invitato Hanna, una delle mie più care e fedeli amiche. Nell'intervallo, ho sentito una conversazione tra due donne. Una diceva: 'Ricordi quella là? Sai, quella che faceva la cameriera e poi ha sposato un professore? Bene, mi hanno detto che la seconda moglie di lui, quella ragazza che ha insegnato qui, aspetta un bambino. Assurdo, non trovi? Lui deve avere più di cinquant'anni'. E l'altra ha aggiunto: 'Chissà se quella là è disponibile! Avrei proprio bisogno di una domestica a ore'. "È stato tremendo. Anche Hanna le ha sentite, ma ha finto di niente per non mettermi in imbarazzo. Questa è la goccia che fa traboccare il vaso. Perché la gente deve disprezzarmi solo perché ho cercato di guadagnarmi da vivere facendo l'unico mestiere che ero in grado di fare? Perché sono tutti così crudeli? "Essere soli è terribile. Sai che cosa significa sapere che nessuno ti vuol bene, che a nessuno importa di te? Mi auguro che tu non debba mai scoprirlo. Mi dispiace, sto facendo una gran confusione. Non riesco a esprimermi con chiarezza. Sono dei mesi, credo, che ho in mente di fare quello che sto per fare, o forse degli anni. "Tu starai bene, lì all'università. Il tuo patrigno ha promesso di pensare alla tua istruzione anche dopo il divorzio. Io non ho uno scopo per vivere. Adesso viene l'estate, tu andrai al campeggio e io non posso più resistere, non posso, dopo che Bill mi ha lasciata. "Continuo a chiedermi che cosa avrò mai fatto di male per dover soffrire così. Ero tanto felice quando ho sposato Bill, e lo sono stata anche qui a Whitefield, per qualche tempo. Avevo te, un marito intelligente, una bella casa. E poi quella Ruth Wuhermann ha cominciato a raccontare in giro la mia storia e le cose sono cambiate. Anche persone che credevo sinceramente amiche, come Mary Eccles, si sono allontanate da me. Ma il colpo di grazia me
l'ha dato la notizia che la moglie di Bill è incinta. E io, di figli, non ne posso più avere. Lei è all'inizio, io sono alla fine. Non mi resta più nulla. "Non voglio farti del male, tesoro. Ho tenuto in serbo per tanto tempo questi sonniferi. Anche per te la vita sarà più facile se non dovrai trascinarti dietro il peso di una vecchia 'quella là'. Ti voglio bene più che a chiunque altro su questa terra. La tua mamma." Finley tornò a infilarsi sotto le coperte. Rabbrividendo, fissò la finestra e bisbigliò: «Presto farà giorno. Presto farà giorno.» Pochi minuti prima aveva caldo, adesso tremava dal freddo. Sapeva che non sarebbe riuscita a prender sonno e aprì il libro che suo padre le aveva regalato. Era un'antologia di racconti. Dopo aver letto e riletto il primo capitolo senza capire niente, spense la luce. Lo squillo del telefono la scosse da uno stato di semincoscienza. Alzò la testa di scatto e il libro cadde sul pavimento. Stordita, tese la mano verso l'interruttore della lampada, ma la luce non si accese. «Oh, no...» sussurrò. «Dio mio, no!» Gli squilli si susseguivano incessanti, ma lei non si muoveva. Poi, quasi senza rendersene conto, alzò il ricevitore e disse, ansando: «Sì?» «Finley... ho cercato di chiamarti anche prima... non c'eri. Dovevo dirti... non stai dormendo, vero?» Finley lasciò uscire il respiro di colpo, con un sibilo. Aveva riconosciuto la voce. Con garbo, disse: «No, signora Venner. Non stavo dormendo. Signora Venner... c'è la luce da voi?» «Come? No. Siamo a lume di candela. È mancata la corrente. Finley, credo di essere riuscita a ricordare il nome della donna che stai cercando.» "Se non avessi mai messo in movimento questo ingranaggio..." pensò Finley. "Se il processo fosse reversibile e potessi tornare a ieri mattina, a quando sono finita addosso al signor Venner in tuta da ginnastica." Si alzò a sedere, terrorizzata. "Non voglio sapere chi è. Non voglio più saperlo..." «Qualche anno fa, qui a Whitefield, c'era un professore che si chiamava William Ostrove...» «Ostrove» ripeté Finley, disperata. «Ostrove comincia per O.» «Che cos'hai detto?» «Niente.» «Aveva sposato una bella donna che aveva fatto la cameriera. Tutti e due
se ne sono andati da Whitefield dopo il divorzio.» «E lui si chiamava William. Bill.» «Sì. Aspetta un minuto.» Zee Venner si mise a parlare con qualcuno. Finley guardò la foto di sua madre, sul cassettone. «Finley? In giardino c'era qualcuno. Mia sorella dice di aver visto un'ombra tra gli alberi.» «Come?» «Probabilmente, si è sbagliata. E anche se l'avesse proprio vista, adesso non c'è più.» «Un'ombra tra gli alberi? Potrebbe aver sentito quello che mi dicevate?» «Non so. Ma com'è possibile...?» «Signora Venner, chiamate la polizia.» «Non mi ascolteranno. Dicono che si tratta di morte accidentale, che l'hanno colpito nel corso della zuffa.» Pareva che la sua voce venisse da molto lontano. Era una voce letargica, intorpidita. «Signora Venner, dovreste coricarvi. Se non sbaglio, avete detto che il medico vi ha dato qualcosa...» Finley s'interruppe e tese l'orecchio. Aveva l'impressione che nell'armonia generale della casa si fosse prodotta una leggera incrinatura, un sottile cambiamento. «Avrebbe dovuto smetterla dopo i primi tre» disse. «Con loro aveva un movente. Ma il signor Venner...» S'interruppe di nuovo, sentendo un suono flebile, come un gemito. «Bisogna consultare l'archivio della segreteria» riprese. «Se riusciamo a rintracciare questo William Ostrove, lui ci dirà come si chiama il suo figliastro.» «Sì, Finley. Lo farò domattina.» La voce all'altro capo della linea era ancora più fievole, più apatica. «Domattina potrebbe essere troppo tardi.» «Che cosa vuoi dire? Adesso l'ufficio è chiuso.» Finley tornò a sentire una voce nel sottofondo, e poi Zee Venner parlò con uno strano tono infantile. «Mia sorella vuole che vada a letto.» «Si, certo. Abbiate cura di voi, signora Venner.» «Anche tu, Finley.» Seguì una breve pausa, poi, Finley disse: «Io non posso proteggere me stessa. Sono...» Tacque bruscamente. Quella donna aveva già abbastanza problemi, sarebbe stata una vera infamia darle un altro motivo d'ansia, rivelandole che lei era sola nell'alloggio. Del resto, la signora Venner non poteva far nulla per aiutarla.
«Come hai detto, Finley?» «Niente.» «Andrò nell'ufficio del rettore domattina. Probabilmente, la signorina Neely, la segretaria, mi saprà dire...» La linea cadde. Un attimo prima, quella voce spenta e opaca parlava in fretta, affannosamente, e adesso il silenzio era assoluto. Finley rimase ferma, come se bastasse un minimo movimento a spezzare l'incantesimo e far accadere l'indicibile. Continuava a tenere il ricevitore accostato all'orecchio e non sbatteva nemmeno le palpebre. Poi, bisbigliò a se stessa: «È la neve. Soltanto la neve...» Infine, appese il ricevitore, ma invece di tornare a letto rimase seduta lì, fissando il cielo. E quando la maniglia della porta girò, non ne fu neppure sorpresa. Ore 5 Come se fosse stata immersa in una sostanza vischiosa, Finley non riusciva a trovare la forza di muoversi. Respirava appena, e il cuore le batteva convulsamente. Tese una mano verso il telefono, ma ricordò che la linea era caduta. Guardò le proprie dita protese... pareva che il rigor mortis le avesse aggredite nell'istante in cui qualcuno aveva girato la maniglia della porta. Un movimento dietro la finestra le fece alzare di colpo la testa. Era un passero che volava via. La consapevolezza che ormai era l'alba ruppe l'incantesimo. Si alzò. Probabilmente, una delle ragazze era tornata e aveva voluto vedere se lei era sveglia. «Cindy! Beverly! Sara!» chiamò. Ma non ci fu risposta. Faceva ancora più freddo, adesso. Si mise sulle spalle una coperta, ma continuava a tremare. Nella squallida luce del giorno che nasceva, si avvicinò all'armadio e lo aprì. Ci fu un cigolio, e lei rimase in attesa. Niente. Senza perdere d'occhio la maniglia della porta, indossò un maglione e un paio di pantaloni. Poi, in lontananza, risuonò una risata, che aveva qualcosa di spettrale. Finley, guardò fuori dalla finestra, l'aprì, e una folata d'aria gelida mista a neve la colpì in viso. Vicino ai campi da tennis, vide un gruppo di persone che camminavano lentamente, a fatica, allontanandosi. Ogni tanto, una di loro scivolava nella
neve. Lei si aggrappò al telaio della finestra, e urlò: «Aiuto! Aiuto!» Tutti proseguirono per la loro strada. Gli echi delle loro risate arrivavano fino a lei, ma nessuno sentiva le sue invocazioni d'aiuto. Finley si lasciò cadere sul letto, senza chiudere la finestra. Si tirò le coperte fin sulla testa: il freddo era penetrato in ogni angolo della stanza. Rimase a lungo in ascolto, sperando di udire delle voci di passanti, lo sferragliare delle catene di un'auto, ma non sentì altro che il fischio di un treno arrivare dalla stazione. «Diranno che anche per me è stato un incidente» bisbigliò. Nel buio, le sfilarono davanti agli occhi varie immagini: i lunghi capelli biondi della signora Burleigh-Jervis sparsi sul cuscino di suo padre, Beverly che entrava in quella pensione seguita dalla ragazza con i bigodini, Sara che cingeva la vita di Ken, Cindy che spariva nell'alloggio di Dan, Pete che si allontanava diretto verso il dormitorio di ben cento studenti. L'unica rimasta sola era lei. Ma non del tutto sola. Le teneva compagnia l'assassino. Dalla strada, venne un miagolio stridulo, seguito da un tremendo fracasso. E nel silenzio che seguì, Finley distinse dei passetti rapidi, un leggero strisciare, un rumore di carta che veniva appallottolata, un metallo che sfregava contro un altro metallo. E poi lo scroscio di un getto d'acqua, che sembrava quello della doccia. Allora, forzando le sue membra riluttanti all'azione, scivolò giù dal letto e raggiunse la porta in punta di piedi. Accostò l'occhio al buco della serratura e sbirciò fuori, nel buio. Si costrinse a respingere l'impulso folle di aprire la porta e di lanciarsi sul pianerottolo, per farla finita. Aveva messo a dura prova l'udito e la vista, ma il segnale d'allarme le venne dall'olfatto. Le ci volle almeno un minuto, però, per capire che quel che sentiva era odore di fumo. Ore 5 Pete si svegliò senza motivo. Giacque immobile un istante, tentando di schiarirsi le idee. Niente, in quella stanza che. pian piano metteva a fuoco, nella debole luce del mattino, gli era familiare. Poi, guardando il quadrante fosforescente del suo orologio, fu preso da un'inspiegabile eccitazione. Ma non se la sentiva di muoversi. Quando si voltò, un dolore lancinante gli trafisse la testa. E, contemporaneamente, si accorse che divideva quel letto
con un'altra persona. Il suo cervello annebbiato dal sonno e dall'alcool cominciò a rimettersi in funzione. Rammentava vagamente di aver preso parte a una libagione, dopo aver lasciato Finley davanti alla villa di suo padre, e ricordava anche che una ragazza gli aveva chiesto di accompagnarla a casa. Si sollevò, appoggiandosi a un gomito, per vedere chi fosse. Ma aveva il viso affondato nel guanciale e, di lei, non si vedevano che i capelli, neri e lunghi, e una spalla nuda. Due elementi che non bastavano certo a identificare una persona. Scese dal letto con cautela per non svegliarla. Barcollò e dovette appoggiarsi alla parete. Poi, si infilò i vestiti. Senza accendere la lampada accanto al letto, riuscì a trovare tutto quello che gli apparteneva. In silenzio, uscì dalla stanza e scese le cinque brevi rampe di scale. Al pianterreno, trovò una scatola di biscotti e una caffettiera elettrica. Rinunziò a farsi un caffè, prese un biscotto e uscì. A tutta prima, non capì se stesse nevicando ancora. Un vento gelido infuriava sul campus, sollevando la neve dal suolo. Si protesse con le mani la testa che gli doleva e rimase fermo, incerto, chiedendosi se non fosse il caso di tornare da quella ragazza. Ma la serratura della porta era a scatto, e ormai era chiuso fuori. A capo chino e con le spalle curve, si avviò sul marciapiede. Alzò gli occhi solo quando urtò qualcuno. Intravide due persone: una avvolta in una pelliccia, l'altra infagottata in un cappotto. Stava per passare oltre con una parola di scusa, quando la voce secca del professor Wuhermann disse: «Hai lasciato Finley al suo alloggio, Pete?» Lui mise a fuoco il viso del professore e quello di una donna bionda che aveva visto al party, quella sera. Wuhermann, fraintendendo la sua espressione di sorpresa, aggiunse: «La signora Burleigh-Jervis e io siamo rimasti fuori e adesso la sto riaccompagnando a casa.» Pete si mise le mani dietro la nuca, srotolò il cappuccio di nylon del giaccone e se lo tirò sul capo. Poi, le parole del professore penetrarono oltre lo stordimento provocato dal freddo e dall'alcool. «Se ho lasciato Finley al suo alloggio?» ripeté. «Ma non è a casa vostra?» Gli si parò davanti agli occhi una cortina di neve, impedendogli di vedere il viso del professor Wuhermann. E, solo in quel momento, si accorse che il campus era al buio. Nelle strade, i lampioni erano spenti e non c'era nemmeno una finestra illuminata negli alloggi. «A casa mia?» ripeté il professore.
«Perché tutte le luci sono spente?» chiese Pete, senza accorgersi quanto fosse alterata la voce di Wuhermann. «Pete, Finley non è a casa mia.» Stordito, lui vide che quei due si scambiavano un'occhiata. Le dita gli dolevano per il freddo, scosse la testa nel tentativo di schiarirsi le idee. Quel movimento gli causò un dolore spasmodico alla colonna vertebrale. «Ne siete certo?» «Be'... non ho guardato nella sua stanza... ma sono sicuro che non c'era...» Wuhermann, battendo i piedi per scaldarli, si sfilò un guanto e alitò sulle dita. «Siamo vicini al suo alloggio. Vado a vedere se è là.» «Non la troverete. Voglio dire che le altre ragazze sono con... sono fuori... e poi io l'ho lasciata...» Sbrigativo, il professore disse: «June, ti accompagna a casa Pete. Io vado a cercare Finley.» Pete non riuscì a sentire quello che rispondeva lei, ma la vide scuotere la testa. Poi, tutti e tre si avviarono verso l'alloggio di Finley. Quando passarono davanti a una cabina telefonica, il professore si staccò da loro e vi entrò. Si sfilò un guanto e trasse di tasca un gettone. Pochi istanti dopo, era di ritorno. «Le linee telefoniche devono essere interrotte.» Continuarono a camminare, respirando a fatica. Passò un aereo: le sue luci lampeggiavano a intermittenza e loro si accorsero che il cielo cominciava a schiarirsi. «Non capisco perché Finley non è rimasta a casa vostra» disse Pete. Il professor Wuhermann non rispose. E poi, una voce esclamò: «Ehi, Pete, ma che cosa fai in giro?» Due ragazzi del suo dormitorio venivano verso di loro. Con un sorriso malizioso, uno dei due disse: «L'ultima volta che ti ho visto, stavi accompagnando a casa Fin.» Pete lanciò un'occhiata di sottecchi al professore e borbottò tra i denti: «Sì, infatti...» «E quello che cos'è?» chiese a un tratto Wuhermann. Alzarono tutti la testa. Nel cielo, si vedeva un bagliore rossastro, che non poteva essere né il riflesso delle luci della città né il colore dell'alba. Il professore si mise a correre. «Dio mio!» gridò. «È scoppiato un incendio!» Ore 5,30 Finley rideva. E i suoi isterici convulsi di riso avevano qualcosa di ma-
cabro in quel silenzio ovattato, in quella semioscurità livida. Attutito dalla lontananza, arrivò il fischio del treno. «Veramente banale!» esclamò Finley. «Il vecchio sistema del fumo per stanare la gente.» Attese. Non vedeva niente, non sentiva niente, ma l'odore del fumo diventava sempre più acre. Si arrampicò sul letto e guardò fuori dalla finestra. Una mossa per prendere tempo, nient'altro, perché sapeva di non avere via di scampo. La finestra era troppo stretta e, anche se ce l'avesse fatta a uscire, non si sarebbe certo potuta lanciare dal secondo piano. Se si fosse rotta una gamba, sarebbe rimasta in balìa di chi l'aspettava in agguato. Era confusa e sconvolta. Si sentiva come nella casa degli orrori di un Luna Park, emozionata, ma sicura di non correre alcun pericolo. Mentre si affannava a cercare qualcosa da usare come arma, disse a voce alta: «Ecco perché hai fatto la doccia. Per proteggerti dal fuoco.» Alla parola "fuoco", spalancò gli occhi e si voltò, fissando la porta. Non c'era ancora niente da vedere. Prese la chitarra e subito la scartò, poi uno sci e lo gettò via, e alla fine decise di armarsi di una racchetta da sci. Era pronta. Si fermò davanti alla porta. Stava per fare il passo decisivo, irrevocabile. Faticava a respirare e tremava. Le sfuggì un debole lamento e, come se fosse stata su un trampolino, in attesa di spiccare il balzo per tuffarsi, vacillò. «Hai due scelte» sussurrò a se stessa. «O rimani qui dentro e muori bruciata, oppure apri la porta per morire in qualche altro modo.» Poi, udì un rumore nuovo, proveniente da un'altra parte della casa. Il crepitio delle fiamme. «Oh, Dio...» mormorò. «Dio mio.» Adesso, non aveva più freddo e non rideva più. Mormorò una preghiera e girò la chiave. Per un momento, non accadde nulla. Finley si aspettava un assalto, e invece niente. Si costrinse a socchiudere la porta e guardò nel corridoio. Stranamente, l'incendio non le faceva paura. Non c'erano fiamme, solo folate di fumo che si torcevano pigre attorno agli stivali, agli attrezzi sportivi, ai piatti sporchi. Nessuna figura col viso coperto, niente mani che l'assalivano. «Dio...» sussurrò lei. «Aiutami, ti prego. Mamma... Qualcuno. Aiutatemi...» Aspirò più volte l'aria, come se volesse gustarla prima che gliela levasse-
ro per sempre, si disse che non doveva far altro che avventurarsi nel corridoio, scendere la scala esterna, raggiungere l'albergo. E allora, sarebbe stata in salvo. All'improvviso, con un'immediatezza sconvolgente, tutto si illuminò intorno a lei. Una fiamma giallo arancio saliva ruggendo dalla scala interna. La chiave le cadde di mano. Afferrò la racchetta da sci con entrambe le mani e, urlando disperatamente, corse fuori nel corridoio pieno di fumo. Quando urtò contro l'altro corpo, perse ogni controllo. Gridando come una demente, alzò il bastone, lo puntò contro la figura che le stava davanti e tentò un affondo. Ma una mano le afferrò il polso, lo torse con forza, e l'arma le sfuggì di mano, rotolando giù per i gradini verso l'inferno sottostante. Finley riuscì a liberarsi e corse verso la scala esterna, ma venne agguantata alle spalle e gettata al suolo. Con la forza della disperazione, lottò, graffiando, cercando di afferrare un dito, di colpire un occhio, qualcosa di vulnerabile. Sentì un gemito soffocato, e per una frazione di secondo le mani che la stringevano allentarono la presa. In un lampo, lei si gettò di nuovo verso la porta. Ma le mani l'afferrarono per il collo, trascinandola indietro con uno strattone. La stretta diventava sempre più forte, le dava la nausea, le toglieva il respiro. Cadde di nuovo al suolo, e allora, per la prima volta, vide quel viso alla luce delle fiamme. Il viso ondeggiava, vacillava, come se fosse stato in mezzo al fuoco. I lineamenti subivano una metamorfosi. Ma la cosa più terrificante era che quello non era il viso di un assassino, ma un viso amico, trasformato al punto da essere irriconoscibile, macabro, spettrale. All'improvviso, ritrovò la voce. Non sapeva di doverlo al fatto che i loro occhi si erano incontrati e che, subito, la stretta si era indebolita intorno alla sua gola, allentandosi fino a cessare. Credeva, invece, di fluttuare ormai in un'altra dimensione, sospesa tra la vita e la morte. «Non puoi essere stata tu...» gemette. «Non è possibile. Tu sei da Liz.» E, presa nella stessa spirale di assurdità, l'altra disse: «C'era un ragazzo nella sua stanza. Oh, Finley, come sei stupida. Una maledetta imbecille.» La sua voce vibrava di angoscia, di dolore. Era la solita voce, eppure era diversa. Come il viso, del resto: lo stesso di sempre, ma diverso. Il mondo intero pareva rovesciato, capovolto. «Dio, è mostruoso...» ansimò Finley. «Io ero sicura che fosse un ragazzo... doveva essere un ragazzo...»
«Perché non te lo sei tenuta per te, Finley? Tua madre si meritava di finire ammazzata. Era una lurida bastarda.» «E il signor Venner? Anche lui era un lurido bastardo?» In quel momento, dal pianterreno arrivarono delle urla frenetiche, un rumore di passi in corsa, imprecazioni. «Al fuoco! Finley, svegliati! Al fuoco!» La casa parve inclinarsi, capovolgersi: onde rosse e nere l'avvolsero. Nessuno la teneva ferma, ma lei non riusciva a muoversi. «Beverly» gemeva. «Beverly...» Sentì Pete e suo padre che la sollevavano da terra e la spingevano giù per le scale. Lontano, l'orologio della torre batteva le ore. FINE