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RINO CAMMILLERI IMMORTALE ODIUM (2007) Un delitto L'aria notturna era ferma e umida. Una nebbiolina d'afa saliva dalla strada fin quasi ai mozzi delle ruote della carrozza che, con insopportabile fracasso, rotolavano sull'acciottolato. Malgrado il fragore che squassava la notte nella via deserta, l'onorevole Artemisio Manfroni, deputato eletto al parlamento del Regno per la circoscrizione del suo capoluogo, ronfava della grossa stravaccato sul sedile di marocchino sdrucito. Gli scossoni del veicolo e il frastuono non lo disturbavano. Anzi, era così sprofondato nel sonno che i sobbalzi regolari e monotoni praticamente lo cullavano. Aveva lasciato la capitale da soli due giorni per una vacanza estiva nella sua villa di campagna e, dopo aver riabbracciato la sua famiglia, i molti nipotini soprattutto, aveva trascorso il primo giorno di riposo a ricevere le visite continue, una dietro l'altra, dei notabili cesenati venuti a porgere i loro omaggi. I biglietti da visita si erano accatastati sulla guantiera all'ingresso e la servitù aveva portato, via via, bicchierini di rosolio, tazze e tazzine di tè e caffè, a seconda dell'orario. Per i postulanti, invece, l'Onorevole aveva dato disposizione che ci sarebbe stato tempo poi, tra qualche giorno; tanto, contava di stare lì almeno un mesetto. Il più fastidioso tra loro sarebbe stato, già lo sapeva, il ragionier Casali, che si occupava dell'aspetto fiscale della sua amministrazione. Quell'uomo sapeva troppo dei suoi affari e non gli si poteva dire di no. Ma voleva una piccola spinta per aprire una ricevitoria del lotto, e la richiesta poneva un problema di coscienza. Non per la raccomandazione in sé, ci mancherebbe, né per il probabile zuccherino di qualche migliaio di lire che avrebbe comportato, no. Il fatto era che la massoneria, cui si onorava di appartenere, aveva tra i suoi scopi filantropici anche l'abolizione del gioco del lotto, che la Fratellanza considerava una vera e propria tassa sulla credulità del popolo, contraria dunque al Progresso e alla Scienza. Certo, l'unanimità tra i Fratelli sull'argomento era ancora lungi dall'essere raggiunta. Sia perché non pochi tra loro ci cavavano un certo vantaggio, sia perché lo Stato, che in gran parte coincideva con gli stessi, incassava. E poi si trattava pur sempre di
un'invenzione del fratello Giacomo Casanova, che si era reso benemerito presso molte corti europee con quella sorta di libera contribuzione popolare agli erari. Tra le visite di cortesia non si poteva negare che la più gradita era stata quella del Fratello che l'aveva solennemente invitato all'Agape organizzata in suo onore nello splendido salone della Loggia Alla Virtù, presente il gotha cittadino oltre ai Dignitari venuti apposta da fuori. Anche se si stimava un forte bevitore, il Commendatore nonché Onorevole quasi non riuscì a eseguire, negli ultimi tre brindisi, il complicato gesto triangolare con il calice, prescritto prima di vuotarlo: dovette essere aiutato a sollevare il gomito, in mezzo a grandi applausi. Fu infine portato a braccetto alla sua carrozza; dopo avergli ravviato i capelli e pulito dalle tracce di sugo i baffi arricciati, i Fratelli si ritrovarono i guanti bianchi striati dal nero della tintura che il sudore aveva cominciato a sciogliere. Il cocchiere Gesualdo ciondolava a cassetta, vinto dalla stanchezza. Erano quasi sei ore che stava lì, seduto, senza che nessuno si fosse ricordato di lui per portargli non dico una coscia di pollo, ma almeno un goccetto. La fame, il caldo e la noia gli avevano procurato una specie di torpore e solo la voce biascicante del suo padrone lo scosse quel tanto che bastava a fargli assumere una postura più dignitosa. Aprì e chiuse più volte gli occhi per riacquistare lucidità e attese che il Commendatore nonché Onorevole venisse caricato a bordo. La sua corpulenza e il fatto che due volte mancò il gradino richiesero qualche minuto per l'operazione. Finalmente sentì lo sbattere della porta e gli allegri «Buonanotte!» conclusivi. Tolse dunque il freno e schioccando la lingua tra i denti avviò il cavallo. Prima al passo e, quasi subito, al trotto. Era davvero tardi. L'uomo che aveva atteso paziente nel buio pesto del vicolo udì avvicinarsi il rumore e sporse la testa oltre l'angolo per accertarsi che fosse la carrozza giusta. Precauzione inutile perché per tutta la sera non l'aveva persa d'occhio. Ma la prudenza non era mai troppa. Spense la sigaretta e la gettò fra le altre che aveva fumato in tutte quelle ore. Si tolse il cilindro e, con un colpetto sulla sommità, lo appiattì per metterlo nella tasca della palandrana nera stretta in vita che lo avvolgeva fino ai piedi. Sistemò con gesti veloci la mezza mantellina, rialzò il bavero. Si rincalzò i guanti e cavò da un'altra tasca un cappuccio, anch'esso nero, che si infilò in testa. Nella tenebra del vicolo si poteva vedere solo il bianco dei suoi occhi, lasciati scoperti da due buchi rotondi che un robusto
rammendo aveva rinforzato in quella che doveva essere stata una fitta calza di seta. Aspettò che la vettura fosse arrivata alla sua altezza, la lasciò passare ma subito, con un paio di balzi precisi, si aggrappò alla parte posteriore del tettuccio. In due mosse si portò sul fianco del veicolo, poggiando un piede sul predellino e la mano sulla maniglia della portiera. Non fece alcun rumore, né il cocchiere, con tutto quel fracasso di ruote e zoccoli, avrebbe potuto sentirlo. Neanche la variazione di peso fu avvertita, dati i sobbalzi quasi continui. L'uomo aprì, si infilò dentro e richiuse alle sue spalle. L'Onorevole dormiva e il suo fiato puzzolente di alcolici si avvertiva anche da sotto il cappuccio, in quello spazio angusto. L'uomo lo toccò su una spalla ma l'Onorevole era troppo inabissato nel sonno per accorgersene. La mano guantata gli aprì la giacca e tirò fuori dal taschino del panciotto la lunga catenella d'argento dell'orologio, a cui erano appesi vari ciondoli e medagliette. Li fece scorrere tra le dita e finalmente trovò quel che cercava: una medaglia con la scritta "Immortale odium". La strappò e se la mise in tasca. Allo strattone l'Onorevole aprì di scatto gli occhi e un uomo incappucciato chino su di lui fu l'ultima cosa che vide, perché quello gli tappò la bocca con una mano e con l'altra gli piantò un pugnale nel cuore. L'uomo attese pochi secondi per assicurarsi che l'Onorevole fosse morto. Poi, messa in tasca la lama, sporse la testa dal finestrino per controllare se il cocchiere si fosse accorto di qualcosa. Nulla, quello guidava come al solito. L'assassino aprì la portiera, si bilanciò sul predellino, richiuse e saltò a terra, guadagnando con una falcata un punto della strada in cui la luce dei lampioni a gas non arrivava. Il buio lo inghiottì prima che toccasse il suolo. Il prete Era una mattinata radiosa e fresca, di quelle che a Napoli allargano il cuore quando si apre la finestra e si vede tutto quel sole e cielo azzurro. L'arietta frizzantina dispone al buonumore e si è contenti di esistere. Si pregusta il caffè, il cui odore ci raggiunge dalle case, e ci si stira alla luce apprezzando l'allegro vocio della città più bella del mondo, i richiami cantilenanti dei carrettieri, l'organetto dell'ambulante che tintinna le note di
Caterina che l'ha lasciato per un altro e lui se ne muore per l'infamità. E, mentre si sorride al panorama e l'animo si eleva alle sublimi altezze, uno scassacarrozze si insinua con la sua voce petulante e rovina tutto. «Don Gaetano! Don Gaeta'! Affacciatevi!» Così, ci si guarda allo specchio la faccia mezzo bianca di sapone, ci si butta l'asciugamano sulla spalla e, con il rasoio in mano, si va a vedere chi è e cosa vuole. «Vengo, vengo! E che è, tutta questa prescia di prima mattina! Eccolo qua, don Gaetano. E tu chi sei? Cosa c'è?» Quello che chiamava era un ragazzotto sui tredici-quattordici anni, scalzo, i piedi sozzi e le unghie nere di sudiciume, braghe sfilacciate sopra la caviglia con vistose toppe alle ginocchia; la camicia mezza dentro e mezza fuori, un tempo doveva essere stata bianca; maniche rimboccate più volte; un gilet sdrucito con i bottoni, quelli rimasti, penduli; un berretto in stile con il resto e tenuto rispettosamente tra le mani; un viso sveglio e birbone, un accenno di peluria sul labbro, capelli biondastri e scarmigliati. Sudato per la corsa, si sgolava verso il prete affacciato. Questo sporgeva la testa robusta: naso aquilino, sopracciglia squadrate, occhi scuri e ironici, capelli folti e tirati all'indietro in onde accentuate. L'espressione del volto era bonaria ma sembrava dire al contempo che, su quella bonarietà, era meglio non contarci troppo. «Don Gaetano, venite, presto! Il professor Anzalone sta morendo!» Anzalone? Quel massone mangiapreti? «E a me che me n'importa? Chi ti manda, guaglio'?» «Me l'ha detto lui! Don Gaeta', quello se ne sta andando, fate presto!» Il prete aggrottò le sopracciglia, incredulo. «Te l'ha detto lui? Ma sei sicuro?» «Sì, sì! Vuole a voi! Scendete, per carità!» Don Gaetano Alicante non se lo fece dire due volte. Subito scomparve dal riquadro della finestra mentre il ragazzo, giù, scalpitava. Posò il rasoio sul bordo della bacinella fumante, si pulì alla meno peggio con l'asciugamano e corse a infilarsi la tonaca. La fece passare dalla testa, come al solito. Con quella fila di infiniti bottoni, dal collo ai piedi, ci sarebbe voluta una vita; così, la sera, prima di coricarsi, slacciava solo i primi sette e se la sfilava da sopra. Ora, con una mano si abbottonava e con l'altra agguantava la maniglia della porta, spalancandola e precipitandosi per le scale senza neanche chiudere a chiave. Del resto, a parte il fatto che non c'era nulla da rubare, nessuno avrebbe osato. E non solo per timore re-
verenziale. Don Gaetano era un metro e ottanta, spalle larghe, con due mani capaci di piegare il ferro battuto di un cancello. Saltando i gradini tre alla volta scese al primo piano e si mise a picchiare a una porta. «Nicola! Nico'! Nicoli', apri, spicciati! Anzalone sta tirando le cuoia!» Il battente si aprì di scatto e comparve un prete dalla faccia spiritata. Tutto vestito, sbarbato e pettinato. Don Nicola Esposito era, come diceva il suo cognome, un trovatello. L'avevano sentito miagolare nella ruota le suore redenzioniste un bel mattino e l'avevano cresciuto nel loro orfanotrofio. Era stato don Gaetano, loro confessore, a cogliere i segni della vocazione sacerdotale in quel ragazzino timido e smunto. Aveva pagato lui i suoi studi e aveva ottenuto dal cardinale Arcivescovo di poterlo avere come vice. Ora, a venticinque anni, don Nicola era la fedelissima spalla di don Alicante, che per lui rappresentava l'unico padre che avesse avuto. Pretino dal fisico minuto, grandi occhi azzurri, fronte resa ancor più ampia da una stempiatura precoce; questa, sommata alla larga tonsura e al giallo dei capelli sottili, faceva sembrare la sua testa troppo grande per il gambo nero che doveva sostenerla. Debole di petto, le sue prediche all'altare non erano tonanti come quelle del suo mentore; ma la bontà d'animo unita a una disarmante semplicità lasciavano il segno nel cuore dei fedeli. Ci mise un fiat ad afferrare, nell'ordine, la situazione, la stola, l'aspersorio, la teca con l'ostia e il crocifisso e si precipitò appresso a don Gaetano, senza dire niente. In strada, si avviarono ad andatura sostenuta dietro allo scugnizzo. Ma dopo qualche metro don Gaetano afferrò quest'ultimo per una spalla, lo voltò verso di sé e gli disse quasi all'orecchio: «Guaglio', mò tu te ne vai. Tieni» e gli mise in mano una moneta cavata di tasca. «Non fare parola con nessuno.» Il ragazzino annuì, baciò la mano al prete e sparì. I due sacerdoti, che per la fretta avevano dimenticato i cappelli, proseguirono a passo concitato mormorando giaculatorie. Per la strada rispondevano a cenni a quanti li salutavano, schivando cortesemente i postulanti e gli importuni. Certo, fossero andati a dare gli ultimi sacramenti a un buon cristiano, ben altra sarebbe stata la coreografia. Tutti si sarebbero rispettosamente scansati al loro passaggio cavandosi il cappello e segnandosi. Ma stavolta non c'erano chierichetti e calici ricoperti di stoffa preziosa, né sopravvesti di pizzo e turiboli. Sì, perché il professor Anzalone era uno dei più rinomati anticlericali del
quartiere, un senzadìo da sempre: autore di canzoni e pasquinate contro la mala genìa pretesca, teneva al capezzale un quadro in cui Garibaldi benediceva il Popolo, con ai piedi un'Italia popputa e paludata nel tricolore, in un tripudio di stelle a cinque punte che parevano i fuochi a mare della piedigrotta. Nessuno era capace come lui di improvvisare brindisi in versi, il cui protagonista negativo era, come sempre, il papa. Il venerdì santo, per educare - come diceva lui - il popolo, andava a comprare un chilo di salsiccia da un beccaio ogni anno diverso, avendo cura di far sapere a tutti i presenti, ad alta voce, che lui non credeva alle superstizioni clericali. Si diceva - e lui si era guardato bene dallo smentire - che avesse preso parte, a Roma, all'assalto al corteo funebre di Pio IX. Quella traslazione era stata effettuata nottetempo, alla luce di fiaccole, appunto per scansare guai del genere. Ma, trapelata la notizia, era finita a mazzate sul ponte, tra chi gridava «Al Tevere il porco!» e chi difendeva il feretro. Se questa sua partecipazione alla gloriosa impresa era fortemente dubbia, non lo era tuttavia quella all'Anticoncilio di razionalisti e mangiapreti, indetto per rispondere al Concilio che i vescovi celebravano negli stessi giorni in Vaticano, e che era culminato nella proclamazione dell'infallibilità del papa, cioè il massimo dell'oscurantismo. L'Anticoncilio si era tenuto a Napoli, i più anziani se lo ricordavano bene. Anche perché era stato proprio Anzalone a mandare tutto all'aria quando aveva preso la parola per dare addosso a Napoleone III, colpevole di tenere i suoi zuavi a difesa di Roma e di impedire così il compiersi dei destini nazionali. L'alato discorso era stato interrotto dal delegato di polizia, il quale aveva avuto ordini precisi: finché se la pigliavano con i preti, tutto bene; ma, se si toccava la politica, intervenire. Così, l'Evento internazionale era stato sciolto d'autorità. E Anzalone era diventato un martire del libero pensiero. Ora, con tutta evidenza, la morte, per lui, si presentava non più come problema altrui. Non era la prima volta che la paura faceva novanta ad atei professionisti; ma certo il dietrofront di Anzalone aveva proprio del clamoroso. Troppo, pensava don Gaetano nell'andare. E aveva ragione. Seppe che i suoi timori erano fondatissimi quando lui e don Nicola entrarono nel portone del palazzo e salirono le scale verso l'appartamento che Anzalone, vedovo, condivideva con la figlia signorina (bravissima giovine a malapena battezzata: dalla madre, santa martire, di nascosto). Davanti alla porta due uomini dall'aspetto deciso facevano la guardia. Dall'uscio, accostato, provenivano singhiozzi.
I due, abbigliamento borghese e scuro, guanti e bombetta, allertati dallo scalpiccio per le scale si erano fatti attenti. Quando videro i preti fecero per pararsi davanti alla porta ma finirono, uno di qua e l'altro di là, per terra, spintonati da don Gaetano che, senza neanche aprire bocca, li aveva fatti volare. Quelli si rialzarono lesti e seguì una zuffa feroce, mentre don Nicola, svelto come un gatto, infilava la porta. Ne uscì un quarto d'ora dopo e trovò don Gaetano che faceva a cazzotti. «Fatto?» «Fatto.» A quel punto don Gaetano assestò un gran calcio nel deretano a uno dei due, facendolo ruzzolare per le scale. Poi si volse verso l'altro alzando il pugno. Quello si parò la faccia con i gomiti, intimorito, e arretrò verso le scale. Quando trovò il gradino, si voltò e scese a precipizio. Al primo pianerottolo, sentendo di non essere inseguito, girò la testa e gridò: «Maledetto corvo, la pagherai!». E scappò. Don Gaetano si sporse per le scale e gli mandò dietro un sonoro «A sòreta, figliuolo!». Poi, rassettandosi i capelli, disse: «Andiamo via, prima che tornino con i rinforzi». «Ohinè, Nicoli', dopo quella scazzottata 'sto caffè mi pare un sorso di paradiso!» Don Gaetano posò la tazzina sul tavolo, si pulì le labbra con il dito e si stirò sulla sedia. Dalla finestra aperta giungevano i suoni di Napoli e lui si sentiva proprio bene. Don Nicola si servì ancora dalla caffettiera, soffiando prima di bere. «Guaglio', statti accorto con tutto questo caffè, che poi stanotte non dormi!» «Non vi preoccupate, don 'Aita'. Male che vada, dirò dei requiem per il professore.» L'Alicante si stizzì e per un momento perse il suo buonumore: «Don 'Aita', don 'Aita'...» scimmiottò gesticolando e torcendo la bocca «Ma che è 'sto don 'Aita'? Mi chiamo Gaetano, don Gaetano, te lo vuoi cacciare nella capa una buona volta? E che è 'sta confidenza?». Ma quello non fece una piega. Era abituato al carattere del suo padrino: ogni tanto scattava, e sempre quando meno te lo aspettavi. Ma gli passava
subito; dunque, non c'era da farci caso. E poi si comportava così solo con lui. Certo, perché lo considerava un figlio. Infatti, don Gaetano si mise subito a sorridere come se nulla fosse successo e scosse la testa: «Sì, sì, fai pure lo spiritoso, ma quello è stato di sicuro la messa che ho detto per la sua salvezza. Di Anzalone, dico. Tu ti succhiavi ancora l'alluce quando quella santa donna di sua moglie, Dio l'abbia in gloria, venne da me, in lacrime e di nascosto dal marito. Piangeva che non era cattivo, che lei gli voleva bene, che quelle idee gliele avevano messe in testa le male compagnie... Io le promisi una messa secondo la sua intenzione. E, come hai visto, la Madonna di Montevergine all'ultimo soffio ha fatto la grazia». «In effetti, di poter confessare Anzalone non avrei mai pensato. E quei due mariuoli, erano massoni?» «Può darsi di sì e può darsi di no. Non tutti i massoni sono anticlericali e non tutti gli anticlericali sono massoni. Che t'ha detto la figlia?» «Mah, povera creatura, non è che ci sia stato gran tempo di parlare, ovviamente. Mentre eseguivo l'ufficio mio sul morente ho afferrato, da quel che lei farfugliava tra le lacrime, che già da due giorni il padre era in delirio, che si capiva solo che voleva il prete, anzi che voleva proprio a voi. Ora, dato il viavai di medici e conoscenti al capezzale del professore, è chiaro che qualcuno ha deciso di piazzare un paio di galantuomini lì, davanti alla porta, per non avere sorprese.» «Ma la sorpresa gliel'abbiamo fatta noi, nè, Nicoli'? Con l'aiuto della Vergine, s'intende!» rise don Gaetano. «Dobbiamo aspettarci vendette?» chiese con una punta di apprensione il giovane prete. Don Gaetano si fece serio, guardò il cielo oltre la finestra, sembrò riflettere. Poi disse: «No, non credo. Secondo me, incasseranno e staranno zitti. A patto che stiamo zitti anche noi. Mi spiego. Ciò che più temono i circoli anticlericali è l'utilizzo propagandistico, da parte nostra, della conversione in punto di morte del de cuius. Se chiudiamo qui la cosa, non hanno interesse a fare di noi due dei martiri, anche se solo di una sonora mazziata. No, tranquillo. Paradossalmente, il pericolo vero lo corrono quei due energumeni, se fiatano su questa storia. Dunque, a umma umma tutti quanti e chi ha avuto ha avuto». «E la guagliona?» domandò ancora don Nicola, leggermente rinfrancato. «Quella è un altro discorso. È rimasta sola al mondo e sicuramente a lei provvederanno i sodali di suo padre. I massoni sono anche filantropi e si
aiutano molto l'un l'altro; severo esempio per noi che ci diciamo cristiani, non dimenticarlo. Se invece la guagliona deciderà di venire da noi, chiederò a Costanzina di occuparsene.» «Volete dire madre Maria Eustorgia delle Cinque Piaghe?» «Uè, Nicoli', quella per me rimane sempre Costanzina De Bustis, superiora, sì, delle redenzioniste, ma anche cara sorella per me e mamma per te! Vabbuo', mò finisco di radermi.» Don Gaetano puntò i palmi sulle ginocchia e si tirò su dalla sedia. Scosse una gamba informicolita e cominciò a sbottonarsi la tonaca. Anche don Nicola si alzò e, avviandosi alla porta, disse: «Ho ancora una mezz'oretta prima della messa. Stamani la devo dire per le Dame dell'Immacolata. Magari leggo qualche altra paginetta di quel libro su Cavour». L'altro, che stava insaponandosi, lo guardò ironico nello specchio: «Ecchè, non hai di meglio da leggere?». Il giovane sacerdote si fermò con le dita sulla maniglia, si strinse nelle spalle e rispose: «Mah, devo confessarvi che mi sto chiedendo se, dopo tutto, non avesse ragione lui». Don Gaetano si accigliò, smise di rasarsi e si voltò: «Che vuol dire?». Don Nicola arrossì imbarazzato e balbettò: «Be', magari è vero, magari l'abolizione del potere temporale...». «... ha purificato la Chiesa e la religione. Sì, 'sta canzone la conosco!» Don Gaetano a quel punto era diventato serio, anzi severo: «Ma, dimmi un po', se io vengo a casa tua e te ne caccio dicendoti che l'ho fatto per il tuo bene, tu che mi dici? Giovino', a quelli gl'interessava solo mettere le mani su tutta la penisola, altro che! Garibaldi, Cavour, Vittorione e quel pazzariello di Mazzini con la sua Terza Roma "del popolo"! Da' retta, leggitelo pure, il tuo libro su Cavour. Ma poi vieni da me, che te lo spiego io come stanno davvero le cose!». Don Nicola, però, non demorse, assunse un'espressione cocciuta e, senza tuttavia osare guardar fisso negli occhi il suo padrino, insisté: «Ma se la sua intenzione fosse stata retta? Se davvero avesse inteso, sia pure a modo suo, purificare...». Don Gaetano lo interruppe alzando la voce: «E chi l'avrebbe autorizzato, anche se fosse vero? Dio? Dio gli ha parlato? E quando? Ricordati, i santi fondatori o riformatori, quelli che davvero in certi momenti storici hanno agito con incisività per il bene della Chiesa, non si sono levati di loro iniziativa, ma sono stati suscitati da Dio stesso, che a un certo punto li ha chiamati, vocati; lo sai il latino, no? Quelli hanno operato in tutta obbe-
dienza ai papi e su impulso soprannaturale, che so, una visione, un'apparizione! Il tuo Cavour, invece, guarda un po', è stato scomunicato!». «Non è il mio Cavour!» si rabbuiò l'altro. «Uè, non fare il testardo con me! E non ti permettere di contraddirmi!» Don Nicola diventò rosso e le orecchie gli si fecero paonazze. Abbassò la testa confuso, come un bambino che, rimproverato, stia per piangere. Don Gaetano si intenerì e subito la sua faccia ritrovò la consueta espressione bonaria. Col rasoio ancora in mano avanzò verso il giovane e andò a dargli una sonora pacca sulla spalla. «Non te la prendere, Nicoli', lo sai che per certe cose mi scaldo! Ma subito mi passa, non è vero?» Quello sorrise rinfrancato e finalmente trovò il coraggio di alzare lo sguardo: «No, no, scusatemi voi, don Gaetano. Lo so che voi siete nato prima di me e le cose le sapete bene. Solo che, mi conoscete, all'idea che un'anima possa finire all'Inferno quasi mi sento male. Spero sempre che la Madonna benedetta tenga conto dell'eventuale retta intenzione, la buona fede...». «Nico', la buona fede ce l'aveva pure Lutero ma di buone intenzioni è ammattonata una certa via, lo sai. Gesù Cristo ha detto: perché mi dite Signore, Signore, e poi non fate quel che dico? Se uno disubbidisce al papa può avere tutte le buone intenzioni di questo mondo ma va a finire male! Per quanto riguarda Cavour, è morto con i sacramenti, non ti preoccupare. Vedi un poco se nel tuo libro c'è scritto come morì, sennò te lo dico io.» «E ditemelo subito, allora!» esclamò don Nicola incuriosito. Don Gaetano sorrise amaro: «Va bene. Lo sai cosa disse al frate accorso al suo capezzale prima di spirare? Lo afferrò per un braccio e gli gridò: "Padre, padre, libera Chiesa in libero Stato!". Insomma, anche sulla soglia del tribunale di Dio tentava di giustificarsi. Il fatto è che Cavour in tutta la sua vita ha adorato un altro dio, la politica, che l'ha ricompensato riempiendo l'Italia di monumenti e piazze intitolati al suo devoto. Resta da vedere cosa se ne fa, adesso, il devoto, di vie con il suo nome e busti di marmo. Senti a me, quando finisci il libro, di' una preghiera per lui. Per lui e pure per tutti i Padri della Patria, ch'è meglio. E ora vai, che la mezz'ora sta squagliando e a me si secca il sapone sulla faccia!». «Un'ultima cosa, don Gaeta'. Ditemi sinceramente, voi che con i preti e con i vescovi avete avuto i guai vostri: siete in coscienza convinto, voi, proprio voi, che la perdita dello Stato Pontificio sia stata effettivamente una sciagura per la Chiesa? Capitemi, ho bisogno del conforto del vostro
giudizio.» Don Gaetano si tastò la faccia e si rassegnò all'idea di doversi insaponare di nuovo. «Nico', tu sei giovane e hai ragione a voler essere di ferme convinzioni. Lo so che ci sono preti che vanno dicendo che la Chiesa senza l'impiccio delle cure temporali svolge meglio la sua missione spirituale. Ora, ascolta bene quel che ti dico. Nostro Signore è bravissimo a cavare il bene dal male e ci sono casi in cui il bene è nemico del meglio. Ma il futuro lo sa solo Lui, noi al massimo possiamo conoscere il passato e, forse, dico forse, il presente. La storia insegna che quando Filippo il Bello si portò, a schiaffoni, la Santa Sede ad Avignone il papa divenne di fatto il cappellano del re di Francia, e ne fecero le spese i poveri Templari. Per settant'anni, guarda un po', quasi tutti i papi furono francesi. Insomma, quasi un secolo di sconquasso. Vedi, come il corpo non può stare senza l'anima e l'anima non può andare in giro su questa terra senza il corpo, così è la Chiesa. Senza un posto dove stare, un posto in cui possa dire: signori, questa è casa mia, ci faccio quel che mi pare e qui non entra nessuno senza il mio permesso, la Chiesa finisce con il dover obbedire al Cesare di turno. E quando mai s'è visto Cesare accontentarsi di quel ch'è di Cesare e non cercare di mettere le mani anche su quel che è di Dio?» «Non mi pigliate per petulante, don Gaetano, ma ho bisogno ancora di un lume. Nostro Signore, però, non aveva dove posare il capo!» «Mò mi spazientisco, Nico'!» sbuffò don Gaetano agitando il rasoio. «Anche tu sei un prete! E mi dici certe cose? Questa di prendere le Scritture alla lettera lo fanno i protestanti! Quella di pigliare un passo del Vangelo e non considerare il resto lo fanno gli eretici! E che? Forse Cristo ha scritto qualcosa? Forse ha lasciato un Corano? Forse che li ha scritti lui, i Vangeli? Non lo sai che l'unica cosa che ha fatto è stata quella di fondare una Chiesa? «Il Signore ha preso dodici tizi, li ha radunati e ha detto: cari miei, venite appresso a me per tre anni e guardate bene quello che faccio. Poi ha dato loro le chiavi del Regno dei Cieli, dicendo: mò io me ne devo andare, quindi d'ora in avanti fate da soli; anzi, per essere sicuri, tenete lo Spirito Santo, ecco qua, che vi darà la forza e vi ricorderà tutto quello che vi ho insegnato; e non preoccupatevi, perché io vi guardo. «Come volevasi dimostrare, manco aveva svoltato l'angolo che già si presenta un caso da risolvere e, ma guarda un poco, è una delle tante, ripeto tante, cose che non aveva lasciate dette: la circoncisione. Eggià, c'erano
quelli che si volevano battezzare cristiani ma non erano ebrei. E mò che si fa? Circoncidiamo anche loro? Paolo dice no, Pietro dice sì, e tutti quanti non sanno come uscirne. Allora, fermi tutti, sediamoci e discutiamo. Ed è il primo Concilio, quello di Gerusalemme. Alla fine, la sentenza: no. E noi maschietti cristiani stiamo ancora grati della negativa. «Guaglio', te lo ricordi cosa c'è scritto negli Atti, vero? Cito: "Abbiamo deciso, lo Spirito Santo e noi...". Nicoli', quelli e lo Spirito Santo stavano così!» Alicante unì gli indici e prese a sbatterli tra loro. «E cosa è successo quando, passato il tempo, di testimoni oculari non ce n'erano più per ragioni anagrafiche? La Chiesa ha detto: signori miei, qui ci sono troppi vangeli in giro e chi piglia un turco è suo, non si capisce più niente; perciò, portatemeli tutti qua che vi dico quali sono quelli veri. Insomma, è la Chiesa che ha scritto i vangeli giusti, e ciò vuol dire che la Chiesa è più importante del Vangelo, tienitelo bene a mente!» Don Nicola era senza fiato, lui che pure non aveva aperto bocca. Con occhi traboccanti d'ammirazione esclamò: «Don 'Aita', certo che come la spiegate voi non la spiega nessuno!». Don Gaetano si schermì, scuotendo le spalle: «Va', va', giovanotto. E lasciami finire 'sta barba, che questa mattina è stata anche troppo movimentata! E non chiamarmi 'Aita', capa tosta che non sei altro!» concluse alzando la voce. E tornò al lavabo. Prese il pennello in mano ma esitò e sembrò pensarci su. Si volse ancora e fece: «Ti voglio dire un'ultima cosa. Tu stavi ancora a studiare al tempo in cui potevamo fare le processioni solo tutt'attorno alle chiese. Noi preti dovevamo presentarci al commissariato un giorno sì e l'altro pure per giustificare ogni nostra azione e ogni centesimo d'elemosina ricevuto. Ma sappi questo: quando il 20 settembre fu proclamato festa nazionale, quel giorno era un venerdì, e al Quirinale, l'ex palazzo dei papi, banchettavano di grasso in un trionfo di luci e balli, mentre il papa, nel buio di San Pietro, con i più stretti della sua corte recitava il rosario e i salmi penitenziali, rimettendo a Dio il giudizio. «Ebbene, quello stesso giorno il Negus chiamò gli abissini alle armi contro gli italiani, e sai com'è andata a finire. La cosa grottesca è quella che ti vado a dire. Alla fine della guerra civile americana l'esercito pontificio aveva acquistato una partita di fucili Remington ultimo modello. Questi fucili erano stati incamerati dai piemontesi dopo Porta Pia. Lo sai a chi il Regno d'Italia li aveva poi donati? Agli abissini. Non ti dico altro.
«Anzi, no. L'ultima: gli italiani non avevano il cappellano, naturalmente. Invece gli abissini, che sono cristiani, prima della battaglia si erano raccomandati alla Madonna. Ci vediamo, Nico'!». E ricominciò a insaponarsi. Don Nicola era rimasto stordito da quel che aveva ascoltato, non sapeva se congratularsi con la giustizia di Dio o dispiacersi per tutti quei poveracci massacrati dagli abissini. Certo, il suo essere prete era diverso da quello del suo mentore ed ex tutore, un uomo che era stato gendarme e che ne aveva viste, diversamente da lui, di tutti i colori. Eppure, lo aveva osservato tantissime volte esercitare la paternità più tenera, con la gente, con i peccatori, anche quelli più incalliti; anche di fronte a situazioni in cui lui si sarebbe lasciato andare allo sdegno, don Alicante in parecchie occasioni gli aveva dato esempio di moderazione e misericordia. Altre volte, però, laddove lui avrebbe compatito, eccolo ergersi in severità. Tuttavia, dopo, aveva dovuto ammettere che, ancora una volta, aveva ragione. Sì, don Gaetano sembrava avere il dono di sapere sempre quale fosse la cosa giusta. Per questo gli era così attaccato, non solo per riconoscenza. Sembrava davvero che don Gaetano potesse in ogni circostanza dire: "Abbiamo deciso, lo Spirito Santo e io...". Oh, anche don Nicola aveva provato tante volte a pregare lo Spirito Santo perché scendesse pure su di lui con i suoi doni... Gli sarebbe bastato, tra questi, quello della Fortezza, non li pretendeva tutti. Macché, niente. Magari non era tanto questione di indegnità da parte sua; certo, c'era anche quella, ma forse quel che gli mancava era l'esperienza umana. Forse lo Spirito scende solo quando trova una maturazione adeguata, chissà... Boh. Con questi pensieri in testa don Nicola, la mano sempre sulla maniglia, finalmente si decise a voltarsi verso la porta per aprirla e una buona volta andarsene. La aprì, effettivamente, e per poco non sbatté contro l'allampanata figura nera che vi stava dietro. «San Giuseppe, che impressione!» gli scappò detto. Poi, tutto confuso ma anche a bocca aperta per la meraviglia, si scostò rientrando nella stanza e spalancando del tutto la porta. Nel riquadro si ergeva in tutta la sua magrezza nientemeno che il vicario, monsignor Coviello, fascia nera alla vita lunga fino ai piedi, cappello a cupola e falda rigida in testa, viso scavato, occhi febbrili, naso affilato e diritto. Don Alicante lo vide nello specchio e subito pensò che, se si era scomodato a venire fin lì, delle due l'una: o don Gaetano l'aveva fatta grossa (ma non sapeva cosa, a dire il vero) o si trattava di una rogna di quelle che Dio
ci scampi e liberi. Comunque, decisamente, quella mattina per radersi non era cosa. «Oh, monsignore! Che sorpresa! Accomodatevi, prego! Entrate, entrate!» esclamò. E, mentre si toglieva il sapone dalla faccia con un lembo dell'asciugamano, con gli occhi fece cenno a don Nicola di squagliarsi. Ma il vicario lo prevenne: «No, don Esposito, restate. Tanto, chi vi spiccica a voi due? Siete Don Chisciotte e Sancio Panza, Cosma e Damiano, padre e figlio, maestro e discepolo, il Gatto e la Volpe!». Nel dire questo avanzò e chiuse la porta alle sue spalle. Fece segno di no con la testa all'offerta di don Gaetano che gli indicava la poltrona. «Vado di prescia. Sua Eminenza vi vuole parlare. A tutti e due. Subito. Io però adesso me ne esco da solo, così sembrerà che sono venuto a farvi una visita di cortesia. Voi due aspettate un poco e poi andate. Si tratta di cosa della massima delicatezza, come avrete dedotto dalla circostanza che sono venuto di persona. Tanto delicata che, vi stupirà, non ne so niente nemmeno io. Sua Eminenza ha preteso che fossi io stesso a portarvi l'ambasciata perché vi conosce, soprattutto voi, don Alicante, e non intende ammettere tergiversazioni. Perciò, anche se ci fosse uno che sta morendo, perfino se si trattasse di vostra madre, se volete un consiglio, questa volta non abusate della sua pazienza. Ci siamo capiti. Buona mattina, e con salute!» Ciò detto, aprì la porta e uscì senza più voltarsi. Don Nicola, ossequioso, si precipitò a tenergli l'uscio. Poi, una volta che il vicario fu scomparso nelle scale, richiuse accuratamente e guardò interrogativo il padrone di casa. «È inutile che mi guardi così, Nico'! Che ne so io? Le tue Dame aspetteranno. Mò però, ti voglio bene, lasciami fare questa benedetta barba una buona volta, e speriamo che sia quella giusta. Vatti a preparare, va'! In un quarto d'ora ti voglio pronto!» Don Nicola eseguì, più confuso che persuaso. Di certo doveva trattarsi di affare veramente straordinario. Infatti, la personale antipatia del vicario nei confronti di don Alicante (e, di conseguenza, nei confronti di tutti quelli che a don Gaetano facevano capo, don Nicola in primis) era ben nota in Curia. E di certo doveva aver contagiato anche il cardinale, dal momento che don Alicante era rimasto praticamente il solo, tra gli aventi diritto, a non essere ancora monsignore. Ciò era, certo, dovuto al carattere di don
Gaetano, insofferente, sempre pronto a eccepire e a discutere i comandi. Di fatto, però, don Gaetano i comandi, poi, li eseguiva e il suo stato di servizio era davvero encomiabile. Solo, prima di fare una cosa voleva essere convinto, tutto qui. Per lui, l'obbedienza perinde ac cadaver era roba da gesuiti settentrionali. E lui era un prete semplice, napoletano per giunta. Diversamente dai colleghi, dunque, non si profondeva in salamelecchi e sensi di sincera devozione, nemmeno con il cardinale, che trattava con la deferenza dovuta al suo grado, sicuro, ma restando in un atteggiamento da pari a pari, da uomo a uomo, che indispettiva chi era, invece, abituato alla cortigianeria, alla piaggeria e al timor reverentialis. C'era una spiegazione, in effetti: don Gaetano non veniva dal seminario, non faceva parte di quelli che, cresciuti in parrocchia e nell'oratorio, avevano indossato la talare da ragazzini. Lui s'era fatto prete a trent'anni suonati. Dopo essere stato uno sbirro. Sì, Gaetano Alicante, figlio di un poliziotto già duosiciliano, aveva fatto una certa carriera nell'amministrazione arrivando, così don Nicola aveva sentito dire, a un passo dal grado di delegato. Nel contempo si era laureato in giurisprudenza e pure fidanzato. Ma a un certo punto era successo qualcosa, qualcosa che non c'era stato verso di sapere, e aveva mollato tutto, anche la fidanzata, per farsi prete. Il predecessore dell'attuale cardinale non l'avrebbe voluto perché non si fidava molto di chi veniva dal secolo. E ciò per tre motivi. Primo, in base alla sua esperienza, i mutamenti radicali e troppo repentini spesso si rivelano aborti. In secondo luogo riteneva, e non a torto, che le vocazioni tardive sono poco malleabili e tendono all'indisciplina. Infine, venendo alla considerazione più seria, vista la temperie politica del momento, temeva infiltrazioni. Era rimasto scottato dal caso Taxil, che aveva gabbato perfino un'anima santa come suor Teresina di Lisieux. E lui in quei giorni si trovava proprio in Francia, in predicato per diventare vescovo. Insomma, solo quando il suo carissimo don Carlo Pascale, un santo sacerdote della diocesi, aveva impegnato la sua parola per l'Alicante si era deciso ad ammettere quest'ultimo nel suo clero. Ma con il nuovo cardinale e il nuovo vicario don Alicante aveva dovuto ricominciare praticamente da capo nel cercare di guadagnarsi stima e simpatia nei vertici della chiesa napoletana. Con la non piccola difficoltà che lui proprio non faceva nulla per procurarsi simpatia, e la stima la lasciava ai fatti. Quando don Alicante gli aveva raccontato il "caso Taxil", don Nicola
era rimasto basito. Un francese, tal Marie-Joseph-Antoine-Gabriel Jogand, con lo pseudonimo di Léo Taxil aveva pubblicato libri pieni di "rivelazioni" su pratiche sataniste all'interno del mondo massonico. Quegli scritti avevano fatto scalpore, anche perché l'autore diceva di essere un massone pentito che aveva deciso di convertirsi al cattolicesimo. All'apice dello scandalo aveva annunciato che avrebbe presentato al pubblico una ex sacerdotessa di Lucifero, anch'ella pentita e desiderosa di conversione. Gli ambienti cattolici si erano entusiasmati e anche suor Teresa del Bambin Gesù, dal suo convento carmelitano, aveva fatto sapere di star pregando per la conversione definitiva della donna. Quando finalmente il Taxil si era presentato nella sala stracolma, aveva dichiarato di essersi inventato tutto e di aver voluto mostrare al mondo quanto fossero creduloni i cattolici. Naturalmente, la "ex sacerdotessa" non esisteva. Don Nicola non credeva che la perfidia umana potesse arrivare a tanto. Aveva chiesto al suo mentore come mai i cattolici francesi ci fossero cascati; possibile che fossero tutti così ingenui? Don Gaetano aveva trovato giusta l'osservazione e così spiegato: la menzogna migliore è quella che mescola verità e bugie. Le opere del Taxil erano credibili proprio per questo motivo. Probabilmente non tutto quel che aveva scritto era falso, perciò don Gaetano sospettava che il Taxil potesse esser parte di un'operazione ben congegnata e avente lo scopo di screditare non solo i cattolici ma chiunque, da lì in avanti, avesse tirato fuori dal cappello "rivelazioni" di quel tipo. Don Nicola era restato esterrefatto e aveva meditato sull'avvertimento evangelico di essere candidi come colombe ma anche astuti come serpenti. Era immerso proprio in questo ricordo quando la porta della sua stanza si spalancò e comparve don Gaetano, bello sbarbato e con il tricorno in testa. «Andiamo, forza. E lascia perdere i serpenti.» Don Esposito sbalordì: «Ecchè, don Gaeta', mò vi siete messo anche a leggere nel pensiero?». Quello scoppiò a ridere. «Ma ti sei visto in faccia?» Eggià, a furia di pensare a quella frase evangelica don Nicola aveva d'istinto atteggiato l'espressione a vipera. Gesù, che figura! Si strinse nelle spalle, si calcò il cappello in capo e si avviò dietro a don Gaetano, già sulle scale. Un altro delitto
C'era una bella luna in cielo e Celestino Zapponi si fermò un momento a guardarla. Cominciava a far fresco e la fiamma nella lanterna si inchinava ogni tanto a qualche sospiro di vento. Il soprintendente e capomassaro Zapponi si rincalzò il cappellaccio da lavoro e aggiustò la cinghia della doppietta sulla spalla, rimettendosi in cammino, senza fretta. Doveva dar tempo alla signora di arrivare. Si sa come sono le donne, pensò sorridendo sotto i baffetti: le ultime cose da terminare, gli ordini alla servitù, una guardata allo specchio, un'assestata ai capelli, uno spruzzetto di colonia. La immaginò mentre la governante la preparava per la notte, acconciandole la camiciona e la cuffietta. Lei che si infilava nel letto sbadigliando. Ah, come sono stanca stasera. Vai pure, Ersilia. No, non ti preoccupare, faccio io, grazie. Chiudi bene, buonanotte, Dio che stanchezza. Quasi la vedeva attendere che i passi nel corridoio si allontanassero, poi balzare dal letto, infilare i piedi nelle pantofole, andare al guardaroba, prendere i vestiti. Be', non è che l'intero personale di casa non sapesse di loro due, ma bisognava pur osservare almeno le forme. Lo sapeva anche quel cornuto di suo marito, certo, ma era contento così. Non avevano figli, poteva starsene quanto voleva al bordello della Irma e anche dormirci. Di quel che faceva la moglie in sua assenza nulla gli importava, bastando che il decoro esterno fosse conservato. Lo sapeva, eccome, che madama la contessa si dava il bel tempo nel casino di caccia con lo Zapponi, dieci anni meno di lei, alto, viso spavaldo e testa che riusciva a restare impomatata anche durante il lavoro. Era il tacito patto: io ho licenza di andare dalla Irma, tu con il tuo ganzo, purché nello stesso giorno della settimana e la faccia in società sia salva. Dormivano, come tutti i bennati, in stanze separate e, loro, addirittura in piani diversi. Nell'immensa magione sprofondata nell'immenso parco ci si muoveva, si entrava e si usciva senza darsi fastidio. Ai malintenzionati, di notte, pensavano i cani. Ma quelli erano buoni amici dello Zapponi, che praticamente li aveva cresciuti. Era bella matura, la contessa, e tirava i suoi ultimi colpi. Al di là delle frasi romantiche che le uscivano nei momenti più intimi, tutti e due sapevano perfettamente che si trattava di un passatempo esclusivamente fisico. Anzi, a dirla tutta, a Celestino nemmeno piaceva come tipo, sia perché cominciava a esser davvero vecchia, sia perché era fidanzato con Carmela, diciotto anni e occhi di cielo. Ma quella era guardata a vista, e poi era tutta
chiesa. Per Celestino le donne si dividevano in due categorie, quelle da sposare e quelle da giocarci. Le prime dovevano essere come la sua Carmela, vereconde e timorate di Dio. Lui, certo, in Dio non credeva; che diamine, c'era la ferrovia, il telegrafo, la nave a vapore; angeli e diavoli erano roba medievale. Ma l'irreligiosità nelle donne gli pareva una cosa contro natura, mascolina, come fumare, bere e giocare a carte all'osteria. Invece, la contessa fumava. E bestemmiava anche, ogni tanto. Sì, ma quel che era peggio era che lo faceva a freddo, non come lui che tirava moccoli solo quando era infuriato o, che so, se incespicava e si faceva male. La signora, dicevano, era stata rivoluzionaria e patriota in gioventù, sfegatata contro i preti e il papa. Per la verità, sul suo conto ne correvano tante, si diceva che avesse partecipato a complotti e congiure, che usasse travestirsi da maschio per compiere azioni audacissime e perfino attentati. E non mancava chi giurava, sul suo onore, sul cospicuo numero di letti patriottici allietati dalla vivace marianna giacobina. Le malelingue si spingevano fino a elencare le presunte gravidanze da poeti, alti ufficiali, repubblicani in esilio. Per lui, il favorito attuale, tutto questo era terreno pericoloso, perché lei troncava imperiosamente ogni domanda indiscreta. Anzi, in quelle occasioni, il gelo del suo tono bastava a ripristinare le distanze e a ricordare all'impudente chi era la contessa e chi il semplice stallone. Cosi, Celestino aveva imparato a farsi i fatti suoi, ad accettare il grazioso dono senza prendersi confidenze importune, a divertirsi e far divertire ma non osar pretendere di uscire anche per un attimo dal suo ceto. Poteva solo immaginare che forse alcune, se non tutte, di quelle dicerie dovevano essere vere, a giudicare dalle cicatrici che le sue dita sfioravano sul corpo di lei. Una senza dubbio d'arma da fuoco. Già, il fuoco. Celestino valutò la fiammella portandosi la lampada ad altezza d'occhi. Era rincarato anche il petrolio, pensò. Maledetti succhiasangue. Gli tornò in mente quell'epigramma che aveva letto qualche tempo prima sulla gazzetta e che gli era piaciuto tanto da mandarlo a memoria: "Il governo italiano / oh, santi numi! / carca di nuove imposte anche il petrolio. E poi s'atteggia a protettor dei Lumi". Era firmato "Francesco Proto duca di Maddaloni, napolitano". Doveva essere un nostalgico delle Due Sicilie. Celestino di quel periodo conosceva solo i racconti di suo nonno, che considerava fanfaluche senili. Si sa, i vecchi dicono sempre «Ai miei tempi certe cose non succedevano!» o «Dove andremo a finire!» e robe del
genere. Celestino sospettava che, in realtà, quel che i vecchi rimpiangono è solo la loro giovinezza. Eh, che bello quando combattevamo contro Garibaldi! La verità è che di "bello" c'erano solo i suoi vent'anni, non il regime borbonico retrogrado e reazionario sotto le cui bandiere militava. Tuttavia, man mano che anche lui invecchiava, Celestino cominciava a sentire il peso di un fulgido avvenire che mai veniva, con i maestri di scuola che si sgolavano per farti entrare in testa quanto facesse schifo il vecchio regno, così che ti paresse oro tutto quel che non ti tornava nel nuovo. Boh, d'altra parte risultava che anche "ai bei tempi" c'erano le nobildonne che andavano con gli stallieri. Da questo punto di vista non era cambiato molto. Si accorse che, tra sguardi alla luna e riflessioni filosofiche, il suo passo inavvertitamente era rallentato, diventando quasi un passeggio tra le fresche frasche. Estrasse l'orologio dal taschino e lo consultò. Sì, si era davvero attardato e conveniva accelerare. La signora non aveva tutta la notte e, conoscendola, era meglio non contrariarla: quando si stizziva sapeva essere veramente cattiva e velenosa. Celestino allungò il passo e si chiese fino a quando sarebbe durata quella storia. Fino al suo matrimonio con Carmela? Fino a quando le rughe e l'alito di madama gli sarebbero divenuti insopportabili? Già, ma questo era solo il suo punto di vista. E se la contessa non avesse alcuna intenzione di troncare, mai? Sudò freddo all'idea. Quell'arpia era capacissima di metterlo sul lastrico, non solo facendolo licenziare ma anche creandogli il vuoto attorno; nessuno gli avrebbe dato lavoro, forse in tutto il Regno. Sarebbe finito emigrante oltreoceano, come tanti. Di più: se a quella baldracca fosse saltato il ticchio di inventarsi qualche mala azione dello Zapponi? Quale giudice avrebbe creduto a lui piuttosto che a lei? Rabbrividendo cercò di togliersi questi pensieri dal capo. D'improvviso si rese conto che ciò di cui aveva creduto di potersi vantare e l'aveva ingalluzzito fin dall'inizio, lui che se la spassava con la contessa, era in verità una trappola pericolosissima, una tela nella quale lui, imbecille, si era avvoltolato da solo e al cui centro stava la mantide con il suo abbraccio senza scampo. Bravo merlo. E ora? Si riscosse con uno sforzo. Stava esagerando. Magari si sarebbe stufata prima lei, quando avesse trovato qualche altro trastullo. Niente, ormai c'era solo da andare avanti e basta. Ma sì, si stava fasciando la testa prima di essersela rotta. Si costrinse a immaginare lei che lo aspettava, magari già
spogliata e con i capelli sciolti, magari sorridente e materna. Sì, sì, via i pensieracci, e che diamine, dove lo trovava un altro bell'uomo come lui, quella? Uno di necessità discreto e muto come un pesce, anche con gli amici? No, no, anzi, quasi sicuramente si sarebbe stufata prima lei e un bel giorno gli avrebbe detto, odiosa come solo lei sapeva essere, di usare da lì in avanti il casino solo per la caccia. Celestino si scoprì a sogghignare all'associazione di idee che la parola "casino" gli suggeriva. Intanto, eccolo là, il casino, era arrivato. La sagoma tozza della costruzione cominciava a intravedersi nel buio, tra gli alberi. A giudicare dal bagliore giallastro e quadrato che faceva capolino nell'intrico di rami e foglie la finestra aveva gli scuri aperti. Strano. Quella di chiudere ogni anta era la prima cosa che lei faceva quando arrivava, solo dopo accendeva la lampada. Non si trattava, naturalmente, di discrezione, perché anche lei sapeva che tutti sapevano (e stavano zitti). Solo, non voleva che qualcuno la vedesse in atteggiamenti sconvenienti. Tutto qui. Allora, se non lei, chi c'era là dentro? O era lei ma si era sentita male? Oppure, semplicemente, una sua disattenzione? Quest'ultima ipotesi, però, conoscendola, era da scartare. Celestino si fece guardingo nell'avanzare. Anzi, d'istinto tolse il fucile dalla spalla e lo imbracciò, tenendolo sul fianco. Continuò a muoversi con circospezione, avvicinandosi. Di colpo, vide un'ombra scura che schizzava da dietro il muro del casino e si allontanava velocissima, sparendo subito nel buio. Celestino, allarmato, aprì la bocca per gridare il chivalà ma si trattenne in tempo. Già: per quel che ne sapeva, la signora poteva aver dato un doppio appuntamento galante, prima a quello lì e poi a lui. Tuttavia, non lo aveva mai fatto prima. Mai. E poi, certo, non era così stupida: poteva avere tutti gli uomini che voleva quando voleva, non c'era bisogno di riceverli nello stesso posto alla stessa ora. Forse le era saltato il ghiribizzo di un nuovo gioco o, poniamo, la voglia di farlo ingelosire? Ma no, figuriamoci, chi, quella? No, tali frivolezze non erano da lei; lei comandava, lei prendeva, lei dominava. Tutti questi pensieri gli si affollarono in testa contemporaneamente e contribuirono a renderlo d'un tratto preoccupato. Forse si trattava di un delinquente? E come mai i cani non si erano neanche sentiti? Erano ben dieci le bestiacce che gironzolavano nel parco di notte, addestrate a latrare a
squarciagola e ad azzannare qualunque cosa si muovesse, lasciando la presa solo all'ordine di pochissime persone. Tra cui lui e la contessa. Ormai correva piegato, il fucile all'altezza del viso. Arrivò alla finestra, mise l'arma sotto il braccio, pulì furiosamente il vetro con la manica e guardò dentro. Il casino era un unico locale: camino, un tavolo, un paio di sgabelli, un pagliericcio addossato alla parete. Lei era distesa su quello, vestita. Pareva dormire. Lo Zapponi aprì la porta. Come al solito non era chiusa a chiave. Entrò, posò il fucile sul tavolo e si avvicinò alla donna. Sì, pareva dormire. Ma era morta. Una chiazza scura, bagnata, sui vestiti all'altezza del cuore. Celestino la toccò, poi si portò le dita davanti agli occhi e piegò la testa per osservarle alla luce della lampada. Sangue. Inorridito e sbalordito avvicinò l'orecchio al petto di lei. Niente. Morta. L'assassino l'aveva composta e le aveva anche chiuso gli occhi. Si precipitò fuori con il fucile imbracciato, tese le orecchie nella speranza di cogliere almeno un fruscio, qualche rumore che gli segnalasse che l'omicida era ancora lì intorno, da qualche parte. Nulla, silenzio. Solo il lieve stormire delle foglie. Tornò dentro. Osservò la stanza. Era in ordine. Non c'erano segni di lotta. Frastornato, si guardò intorno, ma non sapeva neanche lui cosa cercare. Un ladro? Vediamo. La borsetta. Eccola, sul pavimento, vicino al letto, chiusa. La prese, la aprì. Le solite cose, fazzoletto, rosso per labbra, un mazzo di piccole chiavi da scrigno tenute insieme da una catenella d'argento. Rotta. La avvicinò alla luce. Una maglia spezzata. Forse c'era attaccato qualcosa, chissà. Era questo ciò che cercava l'assassino? Celestino si riscosse. Ripose tutto nella borsetta, la chiuse, la rimise dov'era. Come un lampo un pensiero lo trafisse: lui era il capro espiatorio ideale, il primo a venir sospettato. Lo prese il panico. L'unica era fuggire, levarsi da lì, subito. Tornare a casa sua, mettersi a letto come se nulla fosse. Sì, di corsa. Lei, l'avrebbero scoperta solo l'indomani, sicuramente dopo parecchie ore. Avrebbe avuto tutto il tempo per pensare al da farsi. Intanto, via.
Uscì, chiuse la porta alle sue spalle e si avviò a passo sostenuto, cercando di fare il meno rumore possibile, ogni tanto guardandosi alle spalle. Signore Iddio, invocò mentalmente, Tu solo puoi aiutarmi. Sua Eminenza Sua Eminenza Giovannantonio Rapece non era certo quel che si sarebbe detto una figura ieratica. Basso, tracagnotto, la pancia a mongolfiera lo costringeva a portare la fascia purpurea praticamente sotto le ascelle, e si era dovuto accorciare la catena del crocifisso pettorale perché non gli sbattesse sulle ginocchia. Dalla faccia rotonda e perennemente sudata sporgeva un naso così curvo che pareva volesse infilarsi in bocca. Per potergli vedere le orecchie bisognava che si mettesse di profilo, tanto erano schiacciate ai lati dalla testa. Quest'ultima, praticamente sferica, era sormontata da alcuni ciuffetti napoleonici, ormai bianchi, che sporgevano in avanti a tentare di coprire la mezza calvizie. Sopra di essi stava appiccicato lo zucchetto, tenuto incollato al cranio non si sapeva come. Invece, mistero della natura, le sopracciglia erano nere e così folte da far quasi sparire gli occhi, che erano banalmente castani, obliqui e a fessura. La bocca tumida e sempre sorridente completava un ritratto che sarebbe stato meglio addosso a un bonario e paterno parroco di campagna, di quelli sempre pronti a scusare, a compatire, ad accettare un posto a tavola e un bicchiere di vino. Ma mai l'apparenza aveva tanto ingannato, come ben sapevano i suoi sottoposti, le autorità civili e chi l'aveva messo là dove stava. Il cardinal Rapece era infatti una volpe, e in troppi se n'erano accorti quando ormai non restava loro che mangiarsi le mani. S'era fatto le ossa in Africa, dove i capitribù delle dodici diverse etnie con cui aveva avuto a che fare esigevano approcci da contorsionista mentale, acrobazie dialettiche ed equilibrismi da funambolo del doppio e triplo pensiero. Le estenuanti contrattazioni per tutto, sempre e comunque, anche solo per ottenere il permesso affinché una suora potesse entrare in una capanna a curare una malata, avevano sviluppato in lui un talento diplomatico che gli era tornato buono nel successivo incarico alla Nunziatura presso la Sublime Porta, dove aveva dovuto destreggiarsi non solo con i musulmani ma pure con i massoni turchi. Ed era anche - non lo si sarebbe detto, data l'apparenza e il curriculum uomo di preghiera. Teneva sempre tra le dita grassocce il rosario, che so-
leva sgranare nelle pause recitandolo mentalmente. Quando doveva prendere una decisione importante si piazzava in cappella, in ginocchio davanti al tabernacolo, e non ne usciva finché non aveva le idee chiare. Una volta che aveva deciso, poi, neanche il Vesuvio lo smuoveva: ogni tentativo di fargli mutare proposito si infrangeva inesorabilmente contro il granitico scoglio della sua diplomatica, proteiforme e inafferrabile inamovibilità. Don Alicante e don Esposito, ginocchio destro a terra e cappello in mano, aspettavano che lui si avvicinasse per farsi baciare l'anello, come d'uso. Ma il cardinale li aggirò e andò a chiudere la porta alle loro spalle. Poi con un gesto comandò loro di alzarsi e con un altro li invitò ad accomodarsi sulle poltrone che stavano davanti alla sua immensa scrivania. I due preti si guardarono in faccia titubanti prima di eseguire. Lo studio di Sua Eminenza effettivamente incuteva soggezione. Affreschi, arazzi, candelabri, quadri antichi e crocifissi preziosi. Libri, tendaggi, maioliche di Capodimonte, ceramiche di Vietri, vasi cinesi, cristalli, calamai d'argento, un reliquiario settecentesco dorato e dalla decorazione complicatissima. Sedie di marocchino e damasco, una consolle impero, classificatori in cuoio legati in seta, perfino un narghilè in un angolo. Tutto lucente, non un grano di polvere: le suore erano state, come al solito, diligentissime. Il cardinale, seduto nella sua enorme sedia nera dietro alla scrivania, non aveva ancora detto una parola. Nel silenzio immobile allungò il braccio, prese il crocifisso da tavolo che stava un po' discosto sul piano di lavoro e se lo piazzò proprio davanti agli occhi. Lo fissò e con la mano destra si fece un ampio, lento segno di croce. Poi girò il crocifisso con la faccia ai due ospiti e, con il mento, accennò verso di loro. Quelli, scambiatasi un'altra occhiata, si segnarono a loro volta con gesti altrettanto ampi e lenti. Solo allora, finalmente, il cardinale parlò: «Giurate davanti a questo santissimo crocifisso che non una parola di quel che diremo uscirà mai da questa stanza». I due si guardarono per la terza volta in faccia e poi, all'unisono, fecero di sì con la testa. «Bene» disse il cardinale, e rimise il crocifisso al suo posto. Poi si appoggiò allo schienale e cominciò a sbottonarsi la veste all'altezza del petto. Quelli, sempre più sbigottiti, lo guardavano fare. Il silenzio era diventato, se possibile, ancora più plumbeo. Sua Eminenza slacciò solo tre bottoni, quanti bastavano per infilare un mano ed estrarre dalla tasca interna una
busta. La tenne all'altezza del suo viso e di quelli degli altri, mentre si riabbottonava con l'altra mano e trapanava con le pupille don Alicante. Infine, posò la busta sulla scrivania, congiunse le dita e disse: «Vengo adesso da un colloquio riservatissimo con Sua Santità. Sono rientrato proprio ieri. Il papa ha bisogno dei vostri servigi». Don Alicante fu il primo a riprendersi dallo stupore: «Nostri?». «Sì, vostri, vostri.» «Sta dicendo che il papa ci conosce?» Il cardinale poggiò le palme aperte sulla scrivania e rispose rapido: «Naturalmente non di persona. Ma la Santa Sede è sempre bene informata sui suoi uomini. Per farla corta, si è presentata una questione che richiede competenze e capacità investigative. Una questione della massima importanza e delicatezza. Sua Santità ha chiesto discretamente ad alcuni prelati della sua corte se la Chiesa italiana avesse a disposizione qualcuno in grado di farsene carico. Così, quando mi ha convocato d'urgenza, ho appreso che di voi, don Alicante, il Santo Padre sapeva vita, morte e miracoli. Aveva in mano un corposo scartafaccio in cui c'era scritto anche quante paia di pedalini possedete. Gli ho fatto presente che, per la particolare bisogna, certo avreste necessitato di un aiuto e che il vostro figlioccio qui presente era la persona giusta. Ha dato il suo benestare dopo aver sentito il mio parere su voi due». Nel dir questo accennò con il dito a entrambi i suoi interlocutori. Ma non aveva finito. «Parliamoci chiaro, don Alicante» e strinse gli occhi indurendo l'espressione. «Come prete non siete in cima alle mie preferenze, e il giudizio comprende il discepolo di cotanto maestro.» Don Nicola diventò rosso come una ciliegia e rimpicciolì nella poltrona. «Non ho nulla da dire sulla vostra ortodossia dottrinale» proseguì il cardinale. «Anzi, giustizia vuole che ve ne dia atto. Ma non mi piacciono i vostri metodi. Tipo la zuffa di stamattina, indegna dell'abito che portate.» Don Gaetano, imbarazzato, si grattò la fronte. Diavolo d'un cardinale, già lo sapeva! Ma era mai possibile che un povero cristo di prete non potesse neanche soffiarsi il naso in quella città senza che qualcuno si sentisse in dovere di andarlo a riferire? Si strinse nelle spalle. Cosa fatta, capo aveva. «Ma sorvoliamo» riprese il cardinale. «Intendiamoci, nessuno mi toglie dalla testa che non avreste dovuto farvi prete. Io vi ho ereditato dal mio predecessore, il quale, sant'uomo, era evidentemente di manica più larga
della mia. Ho sempre avuto di lui grande stima, che si è mutata in venerazione da quando ha raggiunto la casa del Padre; dunque, non mi permetto di toccare niente di ciò che mi ha lasciato in carico. Ma, ve lo dico chiaro, fosse stato per me sareste ancora a fare lo sbirro. Sì, lo so che la gente vi è affezionata e non mi è ignoto il bene che avete compiuto. Ma il momento è difficile e io ho bisogno di sacerdoti che si comportino da sacerdoti e non da energumeni. Vi siete mai chiesto perché non vi abbia affidato una parrocchia ma vi utilizzi in diocesi come cane sciolto, absit iniuria verbis?» Don Alicante sbuffò apertamente, provocando un mutamento d'espressione nel suo superiore. «E sì che lo so, Emine'! Lo so da sempre!» esclamò. «Che volete che vi dica? Mi dispiace, sono addolorato, mi si spezza il cuore! Ma per quanti esercizi spirituali faccia, per quanti fioretti e propositi, quando vedo un'ingiustizia divento una bestia! Lo so, lo so che non volete neanche che mi occupi di catechismo sennò i poveri bambini li faccio diventare caporali. Lo so che ancora non mi date il permesso di confessare per timore di qualche mia sfuriata con i penitenti dalla capoccia tosta. Lo so che le vostre preferenze vanno ai santarellini tutti chierica e collo storto, mentre io mi scordo pure di farmi tagliare i capelli sulle chioccile, lo so. Me ne volete cacciare? E ditelo, che ci togliamo il pensiero! Comandate e io obbedirò. Come ho sempre fatto, e voi lo sapete bene!» Tacque, roteò le pupille e si assestò la veste sulle ginocchia con gesti seccati. Don Nicola avrebbe voluto scomparire. Ma grande fu la sua sorpresa quando vide che il cardinale, anziché incarognirsi e gettarli fuori a male parole, distese il volto in un sorriso sornione. «Non ve la pigliate, don Alicante» disse. «So bene che siete un uomo retto. Lo so bene.» Sottolineò la parola "bene" unendo indici e pollici. Don Alicante, che ne aveva sostenuto lo sguardo, all'improvviso si rese conto di quanta considerazione, in realtà, avesse di lui il suo cardinale. La scoperta lo confuse, perché aveva sempre pensato il contrario. Si accorse di avere avuto, fino a quel momento, un'opinione errata di quell'uomo. Dagli ordini, sempre mediati, che gli arrivavano, aveva cavato l'impressione di un curiale, una testa fasciata, un bizzoso avido di adulazione. Solo adesso, che finalmente si erano parlati di persona e a cuore aperto, si capacitava di quanto fosse difficile la posizione del cardinale di Napoli, sempre all'erta su due fronti, quello esterno e quello interno. Do-
veva gestire i delicatissimi rapporti con le autorità civili di un regno che si era costituito contro la Chiesa e trattava quest'ultima da sorvegliata speciale. Ogni mossa falsa sarebbe stata pretesto per invelenire la situazione. Non era poi così lontana l'epoca in cui i vescovi e i preti entravano e uscivano di galera ch'era un piacere, con i fogli diocesani sequestrati, le tipografie sfasciate, perfino le sassate contro le finestre dell'Arcivescovato e la triviale arroganza di una teppaglia anticlericale che sapeva di poter contare sull'impunità. Sì, forse era davvero necessario, in quel particolare momento storico, preferire sacerdoti che offrissero anche nei modi l'immagine che ci si aspettava da loro: quella del buon pastore, mite, umile, pronto a porgere l'altra guancia ai cattivi e una spalla su cui piangere ai buoni. Ma don Alicante che ci poteva fare? Lui era così e non si può far diventare blu l'erba. Del resto, aveva scelto la talare quando aveva capito quale fosse la parte giusta per cui combattere. Ma, per lui, sempre di combattere si trattava. Comunque, fu allora che vide con chiarezza il peso che gravava sulle spalle del suo superiore, il quale doveva fare i conti anche con certuni, nel suo clero, che nemmeno quei tempi di persecuzione amministrativa distoglievano dalle solite miserie: invidie, mormorazioni, avidità, nepotismi. Cui bisognava, ahimè, aggiungere gli infettati dalle idee moderne, quelli (non molti, per fortuna) che si ergevano a Savonarola e pretendevano di riportare la religione alla purezza delle origini; invece, in verità, erano solo smaniosi di saltare sul carro del momentaneo vincitore. Costoro, che per viltà e conformismo calcavano la corona di spine sulla testa di Cristo, ad Alicante facevano prudere le mani. Disposto a compatire umane debolezze tipo la fuga d'amore con la perpetua, diventava una iena con i preti liberali. Fosse dipeso da lui, per costoro avrebbe ripristinato la Santa Inquisizione. Fortunatamente non dipendeva da lui ma da quel cardinale che adesso lo guardava con severa paternità. Alicante ringraziò il Cielo di non essere al suo posto. «Perdonatemi, Eminenza» si umiliò. «Sono a vostra disposizione.» «Amico mio» fece, paterno, il cardinale. «Permettete che vi chiami amico?» «Vostra Eminenza mi confonde!» rispose don Gaetano, sinceramente lusingato. «Ebbene» proseguì il cardinale, «per risolvere la spinosa faccenda che vado a sottoporvi c'è bisogno di un poliziotto che sia anche prete. Cioè, di voi, che siete stato poliziotto e ora siete prete ma nessuno sa esattamente
quando in voi prevalga l'uno o l'altro. Per ora va bene così, perché qui si tratta di omicidi e Chiesa, Chiesa e omicidi. E se non si scoprono gli autori di questi omicidi e non li si ferma in tempo la Chiesa ci andrà di mezzo. Capite adesso che cosa è in gioco?» Don Alicante strabiliò: «Chiesa, omicidi? Che significa?». «Vengo e mi spiego. Leggete.» Aprì la busta. Conteneva una lettera. La tirò fuori e la porse, piegata, a don Alicante. Questi la prese, la spiegò e, dopo un'occhiata, corrugò la fronte, poi guardò interrogativamente il cardinale. Questi esortò: «Leggete a voce alta, così anche don Esposito sentirà». Don Alicante lesse: «"In nome di San Michele e dei Santi Fratelli Maccabei, amen. Santità, piegati al bacio della Sacra Pantofola Vi offriamo queste e Vi comunichiamo che le altre seguiranno prontamente. I nemici di Dio e della Sua Sposa presto sapranno che c'è un Vindice della loro pravità. Da oggi in poi chi oserà offendere quanto abbiamo di più caro e sacro dovrà tremare." È firmato con una zeta e una emme maiuscola. Ma che viene a dire?». «Non è una zeta ma un sette.» L'Alicante osservò meglio e, sì, poteva anche trattarsi di un numero sette. «Ma che cosa sono "queste"? A cosa si riferisce? C'era qualcos'altro dentro alla busta? E a chi è indirizzata?» Il cardinale gliela porse. Alicante vide che sopra c'era scritto semplicemente "Sul Sacro Tavolo". Unì le punte delle dita della mano destra e le agitò su e giù nel classico gesto napoletano che sta per "...e allora?". Il cardinale, che non era napoletano ma a Napoli ci stava ormai da anni, rispose nello stesso linguaggio: chiuse gli occhi, aprì le palme delle mani e le rivolse a don Alicante, come a dire "aspetta". Poi si levò in piedi per avere agio di infilare una mano nella tasca destra della veste, quella all'altezza delle anche e dissimulata nelle pieghe dell'abito. Ne estrasse un fazzoletto strettamente annodato e si risedette. Posò l'involucro sulla scrivania, cominciando a svolgerlo sotto gli occhi attenti dei due preti. Quando allargò le quattro cocche comparvero due medaglie. Ne porse una a don Alicante. «Sono uguali» disse. Don Gaetano rigirò l'oggetto tra le dita. Era grande quanto una moneta da una lira e di color bronzo scuro. Su una faccia c'erano dei complicati simboli intrecciati. Il contorno era tutto a foglie di acacia, di quercia e di alloro. Sull'altro lato, una data e una scritta in latino: "13 luglio 1881. Im-
mortale odium et numquam sanabile vulnus". «Vigliacchissimi! Uomini di niente!» sibilò tra i denti. «Vedo che avete capito. Mi fa piacere. Ero certo di poter contare sul vostro acume. Ora sono un po' più tranquillo.» «Vi dispiacerebbe far capire qualcosa anche a me?» Don Nicola si pentì subito della sua impertinenza e si agitò sull'imbottitura della poltrona come se questa fosse riempita di spine. «Scusate» mormorò, confuso. E subito si rimise impettito, con le mani sulle cosce come quando serviva messa a qualcuno più alto in grado e si sedeva al lato dell'altare per ascoltare l'omelia del celebrante. «Siete scusato, don Esposito, ci mancherebbe!» disse il cardinale. «Vi spiego tutto. La settimana scorsa un gentiluomo dall'accento indefinibile si è presentato in Vaticano alla postierla delle guardie svizzere e ha consegnato al piantone un plico, con preghiera di farlo avere al Segretario di Stato. Ha aggiunto una buona mancia e si è dileguato prima che la guardia potesse replicare. Quest'ultima ha subito chiamato l'ufficiale di servizio e... Insomma, vi risparmio la trafila. Naturalmente, sapete bene che, dati i tempi che corrono, in Vaticano si esamina ogni pacco e pacchetto, in special modo se il mittente o il latore sono sospetti. Il Segretario di Stato ha dunque fatto eseguire gli accertamenti di rito dal gabinetto chimico, il quale, con le dovute precauzioni, ha aperto il plico e ha trovato le medaglie che avete visto, più la busta chiusa. Poiché questa, osservata in trasparenza, non presentava problemi, è stata riconsegnata al Segretario di Stato insieme alle medaglie. Quello l'ha portata al papa, che l'ha aperta in sua presenza.» «Un momento!» lo interruppe don Alicante. «Quanta gente ha visto le medaglie?» «Due persone, oltre al pontefice e al cardinale. Si tratta di due esperti fidatissimi, per soprammercato parenti di Sua Eminenza il Segretario di Stato. In più, hanno giurato sui Vangeli di mantenere il riserbo. Posso andare avanti?» Alicante annuì. «Questo è l'antefatto, diciamo così» riprese il cardinale. «Ora la spiegazione. La data sulle medaglie si riferisce alla notte in cui la salma di Pio IX fu traslata a San Lorenzo in Lucina, secondo quello che era stato il desiderio del defunto. Il trasporto si svolse dopo diverso tempo dalla morte e, appunto, di notte, per scongiurare quello che, invece, si verificò. Il funerale vero e proprio di Pio IX, di certo lo saprete, avvenne in Vaticano nel 1878
con gran concorso di popolo. Più di trecentomila persone, molte delle quali venute da ogni dove. A quell'epoca Roma contava sui duecentomila abitanti, quindi vi lascio immaginare la devozione di cui era circondato quel grande papa. Egli aveva espresso il desiderio di essere sepolto in San Lorenzo ma, per ovvi motivi, si dovette attendere quasi tre anni. «Il corteo funebre, senza pompa e in sordina, procedette alla sola luce delle fiaccole e nel silenzio più totale. Ma, giunto che fu sul ponte di Castel Sant'Angelo, una masnada di senzadìo aggredì quelli che accompagnavano la bara. Erano circa le due di notte. Il feretro, con sopra una coperta rossa, stava su un carro tirato da quattro cavalli. Seguivano alcune carrozze che portavano i cardinali. Cominciò una sassaiola, poi l'attacco vero e proprio. Spuntarono perfino pugnali. Urlavano insulti al povero morto. Alcuni si misero a cantare canzonacce oscene, altri intonarono Camicia rossa. Qualche brav'uomo del corteo provò a opporre resistenza ma si mise subito male. Figuratevi che a certuni fu strappata la torcia di mano e spenta sulla faccia. Finalmente squillarono le trombe e arrivarono i carabinieri. Giusto in tempo, perché ci poteva anche scappare il morto. Nel parapiglia ci fu uno che per sottrarsi all'arresto mostrò addirittura una tessera da deputato. Credo fosse il Cavallotti ma non si ebbe mai la certezza. La forza pubblica riuscì a identificare qualcuno, gli altri si eclissarono.» Si interruppe, amareggiato, e don Esposito approfittò della pausa per esprimere tutta la sua indignazione: «Avevo sentito parlare, come tutti, del fatto ma non ne conoscevo i particolari. Ditemi, Eminenza, che successe dopo? Voglio dire, come reagirono la Chiesa, il papa, i dignitari, la gente...». Il cardinale si strinse nelle spalle, fece l'espressione rassegnata, giunse le mani e le agitò su e giù. «E come volete che abbia reagito la buona gente? Con tridui e preghiere di riparazione, come al solito. Voi siete giovane e non sapete qual era il clima a quel tempo. Io ero ancora in seminario ma ricordo i giornali dei giorni seguenti. Per esempio, "La Capitale" parlò di "carrettone dell'accalappiacani". E vi risparmio il resto. Il famoso ex garibaldino Alberto Mario...» «Chi, quello che la moglie...?» saltò su don Nicola; ma si avvide subito della scortesia, oltre che della sconvenienza, e diventò paonazzo. «Sì, don Esposito» rispose condiscendente il cardinale. «Quello la cui moglie era, si dice, molto amica dell'Eroe. Ma siamo sacerdoti, si ricordi, e i pettegolezzi, anche se di pubblico dominio, non si addicono al nostro abito.»
L'altro, ucciso dall'imbarazzo, avrebbe voluto sprofondare. Si limitò, non potendo sparire, ad atteggiare il viso alla massima compunzione. Riassunse la posizione canonica e se non fosse stato seduto si sarebbe detto in punta di piedi. «Dicevo del Mario. Si scatenò a scrivere contro la "sbirraglia" che aveva impedito di rovesciare la "carogna" di quel "pagliaccio" nel fiume. Se la prese, tanto per cambiare, con la Chiesa, secondo lui ormai ridotta a una "mostruosa sciocchezza". Eccetera. Ma il bello viene adesso, un'interpellanza parlamentare all'allora Presidente del Consiglio, Agostino Depretis (che nome, nevvero?), chiedendo lumi sui disordini di qualche giorno prima. Sapete cosa rispose Depretis? Che si trattava di una provocazione clericale. Subito si alzò un deputato di cui mi sfugge il nome e si augurò, anzi, che il colpo di mano preludesse all'occupazione militare del Vaticano!» «E gli ambasciatori stranieri?» chiese don Esposito, cui l'interesse del racconto aveva fatto prestissimo dimenticare la figuraccia precedente. «A quelli pensò il ministro degli Affari Esteri, Pasquale Stanislao Mancini. Stufo di sentirsi chiedere conto dei fatti del 18 luglio, mandò una circolare a tutti i governi d'Europa ribadendo la storia dell'aggressione clericale. Tutto era stato originato, scrisse, dalla gran folla di fanatici che seguivano il corteo, corteo per giunta non autorizzato dalle autorità di pubblica sicurezza.» Don Alicante si sporse in avanti: «Ho capito. Qualcuno sta eliminando tutti quelli che parteciparono all'aggressione del feretro. E il papa vuole che io scopra chi è. Possibilmente prima della polizia. Eggià, sarebbe uno scandalo enorme! I mangiapreti direbbero che si tratta della vendetta del Vaticano, e altre secchiate di fango si riverserebbero sulla Chiesa. Noi preti non potremmo più farci vedere in giro perché chissà quante teste calde si sentirebbero autorizzate a spararci addosso. Gesù, non ci posso pensare! Già li vedo, i titoli sui giornali...». Il cardinale cavò un fazzoletto candido dalla manica e si tamponò la fronte sudata, poi con gesti nervosi lo rimise dov'era. «Eh, magari si trattasse solo di titoli sui giornali o di qualche pistolettata al clero, amico mio!» Alicante, visibilmente sorpreso, esclamò: «Come!». «Ma si, agli insulti siamo ormai abituati, e qualche martire ci potrebbe anche far comodo quale intercessore in Cielo, cari miei! Oh, mi si intenda: non auguro la morte a nessuno, ci mancherebbe, dico così per dire! No, quel che non sapete è che l'opzione militare contro il Vaticano non è mai
stata del tutto accantonata. Credetemi se vi dico che c'è sempre qualcuno, nei posti dove si decide, che non vede l'ora di mettere i ferri al papa e spedirlo fuori dall'Italia, con tutti i preti dietro. Se la regia polizia acciuffasse gli assassini, state sicuri che si scatenerebbe una campagna di stampa - e di tribuna - senza precedenti, il partito delle soluzioni spicce prenderebbe il sopravvento e a poco servirebbe, dopo anni, la scoperta in sede giudiziaria che gli omicidi non avevano mandante. E dove andrebbe la Santa Sede? In Austria? In Portogallo? Figuriamoci. La storia ci insegna che se il papa non è padrone in casa sua finisce cappellano di corte.» «Se voi avete capito, don Alicante, io no» disse a quel punto l'Esposito con il dito alzato a chiedere il permesso di interrompere. «Che sono 'ste medaglie?» Alicante guardò il cardinale e questi, annuendo, gli concesse di spiegare. «Certi massoni con il dente particolarmente avvelenato verso il papa del Sillabo fecero incidere quelle medaglie per premiare quanti avevano partecipato al colpo. "Odio immortale e ferita mai sanabile", c'è scritto. Gli assassini si sono presi la briga di andare a cercare tutti i possessori di queste medaglie e, secondo la loro logica contorta, fare vendetta.» «Gli assassini?» «Essì, don Nico'! L'hai visto il sette in calce, no?» «Ah. E la emme?» «Boh. Magari sta per Maccabei.» «E perché non per Michele, visto che ci sta anche l'invocazione all'Arcangelo?» «Perché di san Michele ce n'è uno solo, benedetto figlio!» si spazientì don Alicante. «Mentre i Maccabei, guarda caso, erano in diversi. È chiaro ora? Nella Bibbia, come dovresti sapere bene, ci stanno ben due Libri dei Maccabei, il Primo e il Secondo. Trattano della rivolta dei fratelli Maccabei contro il paganesimo ellenista. Questi Maccabei qua erano i vendicatori di Israele, e non vanno confusi con i sette fratelli, pure Maccabei, che della persecuzione pagana furono vittime. Evidentemente i maluomini che si firmano Maccabei sono in sette!» concluse sbuffando. «Ohinè, non vi accalorate, don Alica', non avevo capito!» «Pace, pace!» disse il cardinale. Poi, rivolgendosi a don Gaetano, protese verso di lui il mento con espressione interrogativa. Quello si passò più volte le dita della destra fra i capelli, fissando un punto imprecisato tra le punte delle sue scarpe. Don Nicola conosceva quel gesto: il suo padrino stava pensando furiosamente.
Alicante, senza cambiare posizione, parlò come tra sé: «Questi stanno facendo come certi seguaci del Mahdi...». «Esatto, esatto!» esclamò il cardinale, illuminandosi. «Vedo che avete compreso dove vogliono andare a parare. Ma adesso spieghiamo tutto a don Esposito, prima che ce lo chieda lui. Faccio io. Vedete, il Mahdi (che si scrive con la acca dopo la a) è una specie di messia per i musulmani sciiti. Ogni tanto tra di loro ne spunta uno e finisce in guerra santa (loro la chiamano jihad e si scrive iota, i, acca, a, d), non di rado contro altri musulmani ma di diverso orientamento.» Don Nicola si indispettì per il tono da maestrino del suo superiore. Ecchè, lo credeva un povero scemo? Acca, iota... Avrebbe voluto dirgli che, lui, l'asilo lo aveva superato da un pezzo. Ma doveva portare rispetto e, dunque, si sforzò di fare la faccia interessata. Il cardinale, dato il fervore con cui spiegava, nel ruolo di docente pareva starci a suo agio e, nulla sospettando di quel che frullava in capo al suo sottoposto, proseguì imperterrito. «L'ultimo Mahdi riuscì a coinvolgere mezza Africa, a invadere il Sudan e a trucidare il governatore Gordon, prima che gli inglesi riprendessero in pugno la situazione. Vedete, secondo alcuni musulmani, alle offese alla religione bisogna rispondere con le cattive. Certo, per noi si tratta di fanatici; ma non si può negare che il sistema, mi si passi l'espressione, funzioni. Gli infedeli, siano europei o cristiani locali o ebrei, in certi posti devono stare bene attenti a trattare con i guanti il credo islamico e tutto quanto lo riguarda, perché non si sa mai. Ci può essere qualcuno, non sai chi, che prende e te la fa pagare. Dunque, occhio. Don Alicante sta dicendo che i nostri Sette Maccabei devono aver pigliato esempio e deciso che porgere l'altra guancia serve solo a incoraggiare gli schiaffeggiatori.» «Be', perdonate, Eminenza, ma se non vado errato anche don Bosco diceva che tutta la forza dei cattivi sta nella viltà dei buoni!» si permise di obiettare don Nicola. «Non credo che quel sant'uomo alludesse a omicidi a tradimento come nuovo metodo di apostolato. Difendersi è un conto; uccidere nell'ombra, a freddo e per giunta dopo tanti anni è un peccato gravissimo. "Mia è la vendetta", dice il Signore. Vedete, caro figliolo, a noi cristiani Gesù ha comandato di amare il prossimo e di fare suoi discepoli tutti quanti. Converrete con me che ammazzare la gente non è il miglior sistema per indurla a convertirsi!» A don Nicola cominciava a dare sui nervi quel tono mellifluamente sar-
castico che Sua Eminenza aveva assunto, man mano che parlava, nei suoi confronti. Ma fece buon viso (che altro poteva fare?) e annuì. Il cardinale tirò ancora fuori il fazzoletto e si asciugò le mani. «Avete detto bene, don Alicante: il sistema, ahinoi, ha una sua sinistra efficacia. Ciò significa che abbiamo anche un altro problema.» «Veramente l'avete detto voi, Eminenza!» rispose l'interpellato. Poi, senza far caso al gesto evasivo del prelato, disse: «Già, gli eventuali imitatori. Sarebbe una carneficina e magari piomberemmo in quella guerra di religione che siamo riusciti fin qui a evitare. E, poiché non è più tempo di Vandea né di Insorgenze...». «Con le armi abbiamo sempre perso, lo sapete. Con tutta evidenza, Dio ha altri disegni. Personalmente, poi, sto con Pio IX che a Porta Pia permise ai soldati pontifici solo una resistenza simbolica. In ogni caso, il metodo di questi Maccabei ripugna alla nostra religione. Bisogna fermarli. E subito.» «Per fermarli, però, bisogna trovarli, Emine'! E per trovarli bisogna sapere chi sono. Eh, avete detto niente!» «Da questo momento, e per tutto il tempo che sarà necessario, vi dispenso da ogni obbligo, anche da quello di dir messa e della talare. Per il resto dei vostri impegni, non vi preoccupate. Diremo che vi ho mandati in ritiro spirituale in monastero, che so, a Gaeta o... no, forse è meglio in Sicilia. Via, ci penserò. Per quanto riguarda le vostre indagini...» Don Esposito, che al sentire le parole "ritiro spirituale" si era allarmato, non poté trattenersi: «Ma, Eminenza, con tutto il rispetto, si penserà che ci avete allontanato per punizione!». «Lo so, lo so, ma non ho alternative. Dovete avere mano libera. A cose fatte troverò il modo di farvi recuperare la reputazione, avete la mia parola.» Don Alicante saltò su: «Scusate, ma qui a Napoli le nostre facce sono conosciute. Anche vestiti in borghese. Spero non vogliate, ci mancherebbe anche questa, che ci mettiamo dei baffi finti o dei nasi posticci! Andiamo! La gente sa che siamo in Sicilia in ritiro spirituale e poi ci vede senza abito in giro per Napoli! Così, anziché dissimularci, finiamo in cronaca!». «E chi ha parlato di Napoli? Voi partite oggi stesso per le Puglie!» «Le Puglie?» «Andrete a Brindisi. Porterete i miei saluti e una mia lettera al barone Leonardo Rapece Cutolo di Pianosa. Comincerete da lì.» «Rapece? Per caso è vostro parente?» scappò detto a don Nicola. «È un mio cugino. Scoprirete che è un ottimo punto di partenza per quel-
lo che dovete fare. Gli ho mandato un telegramma stamattina. Vi aspetta. Ora non perdiamo altro tempo. Andate a cambiarvi. C'è un treno fra cinque ore, all'arrivo vi aspetterà una carrozza. Questi sono i biglietti e questa è la lettera. E questi sono un po' di soldi.» Tirò fuori il tutto da un cassetto e lo consegnò a don Alicante, poi si alzò e levò il braccio. I due, quantunque poco persuasi, meccanicamente piegarono il ginocchio e ricevettero la benedizione. Fecero anche per baciare l'anello al cardinale ma questi li licenziò con un breve cenno. Non rimase loro che rimettersi in piedi e andarsene. Nebbia Giovambattista Li Volsi si lasciò scivolare lungo il tronco della quercia e sedette nell'erba alta, la schiena appoggiata all'albero. Il carniere, ancora vuoto, lo aveva appeso a una sporgenza nodosa della corteccia. La cartucciera, dato il ventre piuttosto prominente, lo impacciava un poco; ma non se la sfilò perché, tanto, la sua sosta sarebbe stata breve. La doppietta, aperta e prudentemente scarica, era accanto a lui. La tastò per scrupolo, anche se non ce n'era bisogno. Gesto istintivo, il suo, da persona meticolosa. E quanto fosse meticolosa lo sapevano anche troppo bene i suoi dipendenti alla redazione del «Tamburo garibaldino». Ma forse non sapevano che lui sapeva dei gestacci e delle smorfie che facevano dietro alle sue spalle dopo l'ennesima, fastidiosa, osservazione. A lui non importava un accidente. Occhio non vede, cuore non duole, principale non s'arrabbia. Così, eccoci tutti - pensava - appassionatamente avvinti nella sceneggiata; perciò, spassiamocela come se nulla fosse. L'importante era che il giornale andasse avanti come diceva lui. Era il direttore, no? E anche il maggiore azionista. Loro non c'erano quando stampava volantini a mano rischiando le galere di Sua Maestà. Loro al massimo rischiavano una sua sfuriata coram populo. Dunque, ci potevano anche stare. Quel giornale era tutta la sua vita. Ci andava anche la domenica, anche il giorno di Natale e pure quello di Capodanno. Giovambattista Li Volsi non aveva una vita privata né teneva famiglia. Aveva la fortuna di potersi guadagnare il pane, e anche il companatico, con un'attività che avrebbe fatto anche gratis. Una fortuna, sì, perché dirigere un giornale non era un lavoro, era un eccitante divertimento. Gli permetteva di andare a pranzo con persone importanti, di essere riverito e temuto, di comandare. Che, come tutti
sapevano, era meglio che... Bah, quel che contava era che quando passava lui, nei caffè all'aperto si levavano la paglietta. Quando entrava don Li Volsi, nelle sale da tè erano in parecchi ad alzarsi in piedi. Quando Li Volsi prendeva di mira uno, quello veniva a chiedere pietà, fosse pure il sindaco. La sua dedizione al giornale che aveva fondato era leggendaria e lo portavano a esempio con gli sfaticati. La verità era, tuttavia, che non avrebbe saputo cosa farsene, della sua esistenza, senza quell'attività. Qualche volta questo pensiero lo prendeva alla bocca dello stomaco e gli dava una sensazione di smarrimento. Ma era, appunto, solo una sensazione, nient'altro. Nessuno avrebbe potuto togliergli la sua creatura. Si era fatto dei nemici, sì, ma erano i perdenti di quella temperie storica. Con i vincenti era bene ammanicato e lo spasso era vicendevole. Aveva fatto del suo giornale un randello che gli uni potevano usare contro gli altri e gli altri contro gli uni, così che a nessuno veniva in mente, mai, di privarsi del randello in questione. La testa di Li Volsi era un archivio che conteneva preziose informazioni su tutti e a cui tutti, chi prima chi dopo, facevano ricorso nei momenti di bisogno. Era piuttosto ricco, era conosciuto all'interno dei giri che contavano, viveva di soddisfazioni. La mancanza di una famiglia non gli pesava affatto. Anzi, vivendo le ventiquattr'ore al giornale e per il giornale, nessuno era in grado di tenergli testa riguardo a mole e qualità di lavoro, cosa che scoraggiava ogni concorrenza e faceva di lui, per certuni, il primo, l'unico a cui ricorrere in caso di bisogno. Il dietro le quinte della politica interna quotidiana non poteva fare a meno di lui. Nel complicato muovere di scacchi che ogni giorno si svolgeva fra i partiti, lui era un pezzo da non perdere: talvolta pedone, talaltra alfiere o torre o cavallo; ma sempre in gioco. E poi, gli bastava sapere cosa succedeva nelle famiglie altrui per non avere alcun rammarico di non tenerne una sua. Le mogli e i figli costano di più di quel che danno e sono come il melone, che a volte riesce guasto ma ormai l'hai già rotto. L'unica pausa che si concedeva era un giorno di caccia al mese. E pure questo rimaneva potenziale, dal momento che ci andava senza cani e il più delle volte tornava senza aver preso niente. No, a lui interessava unicamente sgranchirsi le gambe e raccogliere le idee. Per questo cacciava, se così si può dire, da solo. Partiva prestissimo perché gli piaceva vedere sbiadire le stelle in cielo, sentire nei polmoni l'aria frizzante dell'alba nei giorni d'estate, affondare i talloni nel fango in
quelli d'inverno. Si parava dalla testa ai piedi, piuma sul cappello e stivaloni alla coscia. Dell'attrezzatura da cacciatore non gli mancava nulla, richiami per uccelli compresi. Ma di fatto era interessato soltanto alla giornata all'aria aperta, lontano da tutti. Era in quei momenti che gli venivano le idee migliori, le campagne di stampa più efficaci, gli articoli più pungenti e quei motti di spirito che, lo sapeva, facevano la felicità dei più anticlericali tra i suoi lettori. Un giorno al mese, cascasse il mondo, da ormai tanti anni. Si rialzò da terra con una certa fatica. Eh, non aveva più vent'anni, osservò fra sé. Si era levata la nebbia e dovette recuperare il fucile quasi a tentoni. Più che nebbia, in effetti, era densa foschia: ci si vedeva, insomma. Non che la nebbia lo sgomentasse, perché aveva con sé la bussola e, in più, conosceva quei luoghi come le sue tasche. Un fruscio, d'un tratto, lo rese attento. Un altro, più vicino. Un altro ancora e poi un altro. Tese l'orecchio. No, non si trattava di un animale. Qualcuno si stava avvicinando e non certo in modo furtivo. Si indispettì. Non aveva voglia di fare conversazione con qualche scassatasche, anche perché, della caccia, a Li Volsi importava meno di niente e nulla gli era più molesto di doversi mettere a conversare del più e del meno con uno sconosciuto durante la sua giornata di svago mensile. Pestò più volte i piedi, per farsi sentire nel caso si fosse sbagliato e si trattasse di un cane in cerca. Poi, lo vide spuntare dal biancore lattiginoso. Come aveva immaginato e temuto, era un cacciatore. Avviluppato in un mantellaccio verde da cui spuntavano gli stivali e la canna del fucile. Portava un cappello floscio marrone calato sul naso e un fasciacollo dello stesso colore gli tappava la bocca. «Vi porgo il buongiorno, signore!» disse costui appena fu a tiro. «Buongiorno anche a voi!» rispose Li Volsi, e riuscì a non far trapelare il disappunto. «Eh, questa mattina la lepre non si fa vedere!» esclamò quello avvicinandosi. «Non me ne parlate!» finse l'altro. «Quasi quasi me ne torno a casa!» «Gradite un goccio di quello forte?» L'uomo aveva estratto una fiaschetta piatta e metallica da sotto il mantello e ora la porgeva.
Li Volsi esitò. Il cacciatore sconosciuto dovette accorgersene perché svitò il tappo e, guardando fisso il suo interlocutore, avvicinò la fiaschetta alle labbra. Con l'angolo di questa scostò appena il fasciacollo dalla bocca, bevve una sorsata e tornò a porgere il recipiente. «Chi non beve in compagnia...» ridacchiò. A quel punto sarebbe stato da maleducati traccheggiare ancora. Così, Li Volsi accettò la fiaschetta e bevve a sua volta. Grappa. E di quella buona. Bruciava come era giusto che facesse e Li Volsi si accorse che l'imprevisto si stava rivelando non proprio sgradevole. «Grazie. Buona davvero!» «Vi prego, non fate complimenti! Servitevi ancora!» Li Volsi si schermì con una mezza smorfia ma poi decise di acconsentire. Fece il saluto e bevve di nuovo. Davvero eccellente. Restituì la fiasca e il cacciatore ribevve. «Sicuro che non ne volete un'altra sorsata?» Li Volsi fece cenno di no con la mano, sorridendo. L'uomo avvicinò il recipiente all'orecchio e lo scosse. «Ce ne sono rimasti solo un paio di sorsi. Uno voi e uno io, poi buona caccia e ognuno per la sua strada. Che ne dite?» Li Volsi fu contento di sentire che non avrebbe dovuto pagare la bevuta con una conversazione importuna. Quasi quasi... «Ma a voi non ne resterà!» si rammaricò. Quello fece gli occhi furbi e armeggiò sotto il mantello. Tirò fuori un'altra fiaschetta, uguale alla prima, e la agitò davanti agli occhi di Li Volsi. «Allora è un altro discorso!» esclamò Li Volsi, e tese la mano. Bevvero, prima l'uno e poi l'altro. Li Volsi tossì e si ritrovò leggermente euforico. Forse, a stomaco vuoto com'era, non avrebbe dovuto bere, pensò. Infatti, gli stava dando un po' alla testa. Ma quel calore che sentiva dietro allo sterno non gli dispiaceva. «Be', ancora buongiorno!» disse, e accennò ad andarsene. Mise la doppietta sotto il braccio destro e passò la cinghia del carniere sulla spalla sinistra. Ma vide che l'uomo faceva un passo nella sua stessa direzione. Risero entrambi e con grandi gesti cercarono di cedersi il passo l'un l'altro. La situazione parve loro buffa, tanto che scoppiarono a ridere di nuovo. La foschia nel frattempo era diventata vera nebbia e ormai ci si vedeva in modo indistinto; ma Li Volsi era troppo preso dall'incontro e dalla grap-
pa per farci caso. Neanche per un istante pensò al fatto che il nuovo arrivato non aveva mai scoperto la faccia. Sempre ridacchiando gli voltò le spalle per andarsene. Di colpo si ritrovò bocca e naso tappati da qualcosa di morbido. Vide il guizzo della mano guantata che gli premeva sul volto mentre sentiva il braccio sinistro torcerglisi dietro la schiena per effetto di una stretta vigorosa al polso. Cercò di reagire ma, impacciato com'era dal fucile e dalla cinghia del carniere, ottenne solo di finire a gambe levate addosso al suo aggressore. Rotolarono avvinghiati mugolando per lo sforzo. Li Volsi era più alto e grosso dell'avversario, e certo ne avrebbe avuto ragione se la sorpresa non gli avesse fatto aspirare una profonda boccata di cloroformio. La colluttazione e il respiro concitato fecero il resto. Lentamente il nero calò sulla sua visuale. Perse i sensi afflosciandosi sul corpo del sicario, che dovette penare un poco per svincolarsi e rimettersi in piedi. Ansimando, il cacciatore sconosciuto trasse di tasca un lungo pezzo di spago e con quello legò il tampone di cloroformio alla bocca di Li Volsi, annodandoglielo dietro alla nuca. Poi gli rimise il cappello in testa calzandoglielo bene e gli assicurò ad armacollo fucile e carniere. Lo afferrò per le ascelle e cominciò a trascinarlo. L'erba umida lo facilitò perché l'inerte giornalista vi scivolava sopra. Li Volsi fu portato dentro a una grotta che si apriva a meno di cento metri da lì e voltato bocconi. Il misterioso cacciatore sciolse lo spago, che recuperò insieme al tampone. Poi si allontanò di qualche passo, si appoggiò alla parete di roccia e attese. Passò mezz'ora circa, trascorsa la quale l'uomo si appressò al corpo esanime e lo tastò con il piede. Nessuna reazione. Si tolse il guanto, mise due dita sul collo di Li Volsi e ce le tenne qualche istante. Li Volsi era morto. Lo voltò supino, gli aprì la giacca e frugò nel gilet. Estrasse l'orologio e fece scorrere la catena sulle dita. Trovò quel che cercava e lo strappò con un gesto secco. Riabbottonò con cura la giacca e se ne andò, sparendo velocemente nella nebbia. Il ministro Il commissario Ribaudo pagò il cocchiere e cominciò a salire i gradini
dello scalone. Il palazzo del ministero era davvero imponente, tutto colonne, archi, leoni accucciati. In cima alla scalinata, due bersaglieri in garitta, di qua e di là, baionetta in canna ed espressione marziale. Ribaudo si fermò un attimo ad assestarsi il bavero del soprabito prima di riprendere la salita. Alzando lo sguardo vide un ufficiale in uniforme di servizio scendere le scale verso di lui, guardandolo e sorridendo. Quando gli fu di fronte, tese la mano aperta e disse: «Il commissario Giorgio Ribaudo?». Quest'ultimo strinse meccanicamente la mano al militare e rispose: «Sì». «Mi segua, prego!» fece l'altro, e prese a risalire impettito. I bersaglieri scattarono sull'attenti quando i due furono alla loro altezza. L'ufficiale, passo deciso, entrò nel grande portone e Ribaudo gli tenne dietro. Superarono un vasto cortile interno, sulla cui pavimentazione i tacchi rimbombarono ritmicamente. Seguì uno scalone adorno di statue, poi un lungo e ampio corridoio alle cui pareti stavano, alternati a porte chiuse, enormi ritratti a olio raffiguranti ecclesiastici d'altri tempi. Ogni tanto incrociavano un impiegato, inconfondibile per le mezze maniche nere e gli scartafacci sotto il braccio. Più spesso si vedevano gendarmi dai grandi cappelli, carabinieri impennacchiati, qualche lanciere che procedeva in un tintinnio di speroni. Tutti, anche gli ufficiali, salutavano militarmente al passaggio dell'accompagnatore di Ribaudo. Quello, però, non li degnava di risposta. Il che fece pensare al commissario di avere a che fare con un altissimo grado, anche se dall'uniforme non avrebbe saputo dire neanche a quale corpo appartenesse. Superarono altre scale e un altro paio di corridoi, e finalmente l'ufficiale fece cenno di attendere. Bussò a una porta dalla decorazione maestosa, aspettò di sentire un «Avanti!» da dentro, aprì e si introdusse, chiudendosi il battente alle spalle. Ribaudo, rimasto solo, si guardò intorno. Si trovava in una specie di anticamera dalle dimensioni notevoli, con tante sedie addossate ai muri. Su una delle pareti c'era un grande specchio fastoso. Osservò la sua figura riflessa e si avvicinò per controllarsi il nodo della cravatta a papillon. Lo assestò con un tocco. Si rimirò: trentanove anni tutto sommato ben portati. Si tolse la bombetta. Sui capelli castani tagliati corti qualche traccia d'argento. Si stirò i baffetti, controllò la pulizia dei denti. Ma sì, era ancora un bell'uomo, snello e dritto. Certo, gli mancava un po' l'altezza e solo l'abitudine a vestire di scuro lo faceva sembrare slanciato. Uno e sessantacinque. Statura normale, insomma. Ottima, certo, per
passare inosservato nei pedinamenti ma che non aiutava granché negli sporadici ricevimenti ai quali veniva invitato. Le dame sembravano avere occhi solo per i galletti tutti spalline e alamari, ghette bianchissime e bottoni dorati, spadini argentati e mostrine lucenti. Ce ne fosse stato mai uno, uno solo, più basso di lui... Il suo sogno di bambino sarebbe stato di fare addirittura il granatiere ma poi aveva dovuto accontentarsi di una autorevolezza di ordine diverso. Niente cariche eroiche, sciabola sguainata e bandiera al vento, per lui. Solo delinquenti di mezza tacca, ruffiani, tagliaborse, truffatorelli di borgata. E scartoffie, un mucchio: relazioni, rapporti, riassunti, schede. La carriera? Per arrivare a questore non aveva la moglie giusta. Anzi, non aveva moglie e basta. Per forza: a lui piacevano le signorine della buona società; solo che quelle, dietro ai ventagli, non avevano occhi che per i famosi galletti in uniforme. A distoglierlo di botto da questi pensieri fu la porta che si aprì. L'ufficiale uscì e gli fece segno di entrare; poi richiuse dietro di lui e sparì dalla vista. Ribaudo si ritrovò in un ambiente cardinalizio il cui aspetto, da solo, testimoniava della storia recente. Quello in cui si trovava era un antico palazzo curiale di colpo passato di mano, come quasi tutti quelli della capitale. Il colore predominante nella stanza era, appunto, lo stesso della veste dei cardinali di Santa Romana Chiesa, nei tendaggi e nei rivestimenti. Grandi dipinti a soggetto religioso, busti di papi, una croce fiorita a rilievo sul soffitto. In fondo, una smisurata scrivania rococò, dietro alla quale, sul muro, campeggiavano il ritratto del Re e due vessilli nazionali incrociati. Un uomo che sarebbe parso il Kaiser se non fosse stato vestito in borghese si alzò dalla scrivania e venne avanti. Capelli bianchi e lisci divisi di lato, baffi lunghissimi e folti; abito nero a code, scarpe lucide e scricchiolanti, camicia dal collo alto, fermacravatta a perla. Il ministro. La soggezione di Ribaudo, già grande di suo, divenne quasi insopportabile quando quello gli si fece vicino. Tanto per cambiare, lo superava in altezza di tutta la spalla. Ma, si consolò Ribaudo, meglio guardare dal basso un superiore che un inferiore, come, purtroppo, era spessissimo costretto a fare. Ora che ci pensava, però, il ministro non lo aveva accolto seduto, non aveva alzato lo sguardo su di lui solo dopo aver finito di firmare pratiche, non lo aveva invitato seccamente a sedere, così come si fa quando si con-
voca un sottoposto, uno, per giunta, quasi in fondo alla scala amministrativa. No, si era levato ed era andato riceverlo alla porta. Di più: tendeva la destra. Ribaudo era meravigliato. Prese timidamente la mano del ministro ma non osò stringerla. L'altro, invece, strinse la sua con calore. E, dopo la stretta, non accennò a lasciarla. Anzi, con il pollice toccò il polso di Ribaudo in modo curioso, mentre con l'indice della sinistra sul naso imponeva il silenzio. Ribaudo fece solo: «Ah». Di colpo era tutto chiaro, la convocazione, l'atteggiamento confidenziale del ministro. Il segno di riconoscimento della fratellanza massonica gli aveva rivelato a quale titolo era stato chiamato in quell'ufficio. Ma a che scopo e perché proprio lui? Di massoni la pubblica amministrazione era piena e, anzi, quasi quasi sarebbe stata l'ora, per le Logge, di calmierare il settore perché in troppi ormai chiedevano "la Luce" per puro carrierismo. Quando il prefetto gli aveva fatto recapitare il telegramma, il giorno prima, non aveva idea che sarebbe stato ricevuto dal ministro in persona. L'ordine era di presentarsi al ministero l'indomani all'ora tale, e basta. Aveva riconosciuto il ministro solo perché ne aveva visto le foto sui giornali. Ed era trasecolato. Ora, il segno massonico e l'uomo che gli indicava la poltrona davanti alla scrivania. Ribaudo sedette in punta di natica, cappello tra le mani, e attese. Il ministro andò ad accomodarsi alla scrivania e porse una scatola di sigari: «Ne vuole uno? Coraggio, lo prenda!». Ribaudo esitò un attimo ma poi, rinfrancato dall'espressione cordiale del suo interlocutore, allungò la mano e accettò il sigaro. Notò che il ministro non gli dava del "voi" ma un molto più rispettoso "lei". Lusingato, trovò che, per lui, il minimo era contraccambiare. Il ministro scelse anch'egli un sigaro, lo rigirò tra le dita all'altezza dell'orecchio saggiandone la consistenza, poi se lo mise in bocca, mordicchiò la punta e la sputò sul tappeto. Lo stesso fece Ribaudo con il suo sigaro, ma non osò sputare. Attese che l'altro gli porgesse una ceneriera di bronzo a forma di tartaruga per depositarvi il frammento con due dita. Attese anche che gli venisse porta la scatola dei fiammiferi e accese solo dopo il ministro. Questi, con le labbra a O, sbuffò un perfetto anello di fumo e lo osservò per un secondo allargarsi nell'aria. Poi, fingendo di controllare la brace, disse: «Lei si chiederà perché l'ho fatta venire qui». Ribaudo assentì timidamente con un cenno del capo e delle spalle. «Avrà capito di essere qui non davanti al suo massimo superiore ma a un
Fratello, Figlio della Vedova come lei.» Ancora una volta Ribaudo si esibì nel suo gesto da tapino. «Non stia a disagio, commissario. Questo colloquio è confidenziale in tutti i sensi. Sono io ad aver bisogno di un favore. Tiri dunque qualche altra boccata e mi sappia dire quando sarà sufficientemente rilassato. Infatti, ho bisogno che lei mi cavi una castagna dal fuoco e vorrei assicurarmi della sua fraterna lealtà. Intendo affidarle un incarico particolarmente delicato e tengo molto a che lei lo porti a termine come se fosse cosa sua. Lo prenda a cuore, la prego, è un favore che le chiedo.» Finalmente Ribaudo trovò il coraggio di parlare: «Eccellenza, sono uomo suo. Disponga pure di me». «Bene. Innanzitutto le dico che sono stato io personalmente a chiedere di lei. Lei mi è stato segnalato, e non le dirò da chi, perché è la persona più adatta alla mia bisogna. Il suo stato di servizio, certo, non è proprio impeccabile ma a me non serve un poliziotto modello, bensì, mi perdoni, un filibustiere, uno che segua la pista in barba ai regolamenti, se del caso, e non la molli finché non ha addentato l'osso. Un segugio, insomma, un cane da caccia, un mastino napoletano per l'esattezza. Sua madre era di Napoli, giusto?» «Sì, e mio padre siciliano. Ma io sono nato e cresciuto al Nord. C'entra qualcosa?» «Può darsi, può darsi. Ora, mi dica, ha mai sentito parlare di Giovambattista Li Volsi?» Ribaudo ci pensò su. Quel nome non gli era nuovo. «È il direttore del "Tamburo garibaldino", quel giornale che si stampa a Napoli?» «Sì, proprio lui... Era.» «Era?» «L'hanno trovato morto. Era uscito a caccia e non era più tornato. È stato archiviato come incidente ma io so che non è così. Lo conoscevo bene, andava a caccia più che altro per svagarsi e sempre negli stessi posti, non poteva finire in quel modo.» «Perché, com'è morto?» si permise di interrompere Ribaudo. «Ha mai sentito parlare della Grotta del Cane?» «No, mai.» «È una cavità naturale nella campagna napoletana. Da quelle parti tutti la conoscono. Inoltrandovisi per un tratto si incontra una fuoruscita di gas venefico. Solo che questo gas è talmente più pesante dell'aria da restare all'altezza del ginocchio, così che una persona in piedi non se ne accorge
nemmeno. Ma non un cane, che respira l'effluvio e, se non lo si tira fuori in tempo, ci resta secco. A volte le guide della zona ci portano gli stranieri in visita e, per qualche soldo, mostrano l'esperimento: un cane, appunto, che appena entrato sviene. Da qui il nome della grotta. Ebbene, Li Volsi è stato trovato lì dentro, morto per inalazione di quel gas. Nessun segno di violenza. Poiché il giorno in cui era uscito a caccia c'era stato un improvviso acquazzone, si è pensato che avesse cercato riparo, senza avvedersi di dove fosse finito.» «Ma lei non ci crede.» «No, infatti. Conoscevo Li Volsi fin da quando eravamo ragazzi. Più volte siamo stati insieme a caccia da quelle parti. Sapevamo perfettamente della grotta, dalla quale anche gli animali, del resto, si tengono alla larga. No, il mio amico forse ci sarebbe entrato ma avrebbe avuto cura di non abbassarsi, né sedersi, né, figuriamoci, stendersi e addormentarsi. Sono convinto che qualcuno lo abbia tramortito e portato là dentro.» «Ma ha appena detto che non c'erano tracce di violenza!» «Sì, è questo il mistero. Resto comunque della mia opinione.» Ribaudo, messo ormai a suo agio dal tono amichevole del ministro, appoggiò il cappello su uno dei pomelli della poltrona su cui stava seduto, accavallò le gambe e tirò una boccata dal sigaro. Poi fece: «Mi può dire perché si sta rivolgendo a me invece di seguire la normale procedura di indagine? Anzi, perché ha preferito accettare ufficialmente la versione dell'incidente da parte della gendarmeria di Napoli». Il ministro schiacciò il sigaro nella ceneriera, aprì un cassetto della scrivania ed estrasse alcuni incartamenti. Ne porse uno a Ribaudo. «La prego di dare un'occhiata a questo rapporto.» Ribaudo lo prese, spense a sua volta il sigaro e slegò il nastro che teneva insieme le carte. Vide che era il rapporto riguardante il ritrovamento del cadavere di Li Volsi. Scorse velocemente le pagine, soffermandosi particolarmente su una. «Ha trovato qualcosa di interessante?» chiese il ministro. «Qui dice che tra gli oggetti rinvenutigli addosso c'erano anche il portafogli e l'orologio, il che porta a escludere la rapina. Però la catena dell'orologio era spezzata. Questo è curioso e forse meriterebbe un approfondimento.» Il viso del ministro si allargò in un sorriso soddisfatto e speranzoso. «Esatto, esatto, mio caro! Ah, lei è davvero l'uomo di cui avevo bisogno!» esclamò. Poi, febbrilmente, tese al commissario gli altri due incar-
tamenti. «Ora esamini questi!» Piuttosto sorpreso dalla reazione del ministro, Ribaudo li prese, li aprì e cominciò a scorrerli. Uno riguardava l'omicidio del deputato Artemisio Manfroni, avvenuto alcune settimane prima nella sua città. Ne avevano parlato tutti i giornali e l'inchiesta era ancora in corso. Qualcuno aveva sollevato l'ipotesi degli anarchici, ma la verità era che la polizia brancolava nel buio. Le altre carte concernevano l'assassinio della contessa Mafalda Celi da Montelago, in Toscana, due giorni dopo. C'era un uomo fortemente indiziato in stato di fermo, il capomassaro Celestino Zapponi, a quanto si diceva amante della vittima. Anche di questo fatto, naturalmente, si erano occupati i giornali, specialmente quelli scandalistici. Ribaudo, che si teneva sempre informato a puntino, non trovò nei resoconti dei due omicidi nulla che non sapesse già dalla stampa. Ma se il ministro glieli aveva sottoposti voleva dire che c'era un nesso fra tutti e tre. E, data la faccia che aveva fatto quando lui aveva notato il particolare della catena spezzata, anche nei casi dell'onorevole e della contessa ci doveva essere qualcosa del genere. Così, il commissario andò a cercare i fogli su cui stavano elencati gli oggetti trovati addosso alle vittime, li lesse e constatò di avere avuto ragione. «Vedo che pure nel caso della contessa abbiamo una catenella spezzata. In quello dell'onorevole no; ma leggo che dalla catena del suo orologio pendevano medagliette e ciondoli. È possibile, ritengo a questo punto, che ne manchi uno o una, e che per strapparlo via l'assassino o gli assassini non abbiano avuto bisogno di rompere la catena. Se è questo il collegamento tra gli omicidi, mi sfugge tuttavia il movente. Attendo dunque che sia lei a dirmelo.» Il ministro, senza distogliere lo sguardo dal suo interlocutore, raddrizzò il busto e infilò due dita in un taschino del panciotto. Ne estrasse un piccolo oggetto che poggiò sulla scrivania proprio sotto gli occhi del commissario. «Eccolo qui il movente» disse in tono serissimo. Era una medaglia, forse di bronzo, scurita dal tempo e grande come una moneta. Ribaudo la prese e la esaminò più da vicino. «Immortale odium et numquam sanabile vulnus» lesse. La voltò e i segni che vide gli riuscirono familiari. «Ah, massonica!» esclamò. «Che significa?» «Significa che c'è una lista di gente da ammazzare e che in questa lista c'è anche il mio nome» sospirò il ministro.
Si abbandonò sulla sedia. «Vede, commissario, si tratta di una cosa successa tanto tempo fa, quando questo regno era appena nato e io ero uno scapestrato pieno di romantici furori. Eravamo un gruppetto di teste calde, arrabbiati mangiapreti. La notte andavamo in giro a prendere a sassate le edicole devote, sa, quelle con le madonne o le anime del purgatorio. Detestavamo la superstizione che, secondo noi, teneva la nostra Italia sotto il tallone del Vaticano. Lutero e Machiavelli, Giordano Bruno e Arnaldo da Brescia erano i nostri eroi. Purtroppo la nostra amata Patria non aveva avuto il bene di una Riforma protestante e di una Rivoluzione francese, per questo era in grave ritardo rispetto alle nazioni civili. Per colpa della presenza della peste clericale, del cancro papista. Non vedevamo l'ora di regolare i conti con i papalini e ce la prendevamo con il governo che secondo noi era pieno di pavidi, più preoccupati degli equilibri internazionali che della salvezza della nostra Patria. Io e i miei amici eravamo sempre a disposizione per spedizioni punitive contro parroci reazionari o per dare una lezione a qualche codino nostalgico. Naturalmente fummo in prima fila quando si trattò di attaccare il corteo che portava il feretro di Pio IX a San Lorenzo in Lucina.» Si fermò un attimo per vedere se il commissario sapeva a cosa si riferiva. E in effetti quello disse: «Sì, ricordo che mio padre ne parlò a tavola. Sa, era un uomo religioso e ne rimase scandalizzato. Confesso che a me il fatto sembrò più che altro di cattivo gusto. Prendersela con i morti...». «Sì, ha ragione. Ma, come ho detto, a quel tempo ero uno scapestrato e, anzi, lo eravamo tutti in quel gruppo. Scapestrati e spensierati, anche perché sapevamo di avere protettori potenti. Infatti, non solo avemmo l'impunità ma fummo anche premiati. Ci fu, certo, un'inchiesta, ma si risolse in una bolla di sapone e, anzi, poco ci mancò che in galera finissero i clericali che avevano partecipato al corteo funebre. Il premio per noi fu quella medaglia, coniata appositamente da una loggia che però, lo dico per sua informazione, fu disapprovata dal Grande Oriente. Per noi, i protagonisti di quella nottata voglio dire, in seguito si aprì l'empireo di brillantissime carriere. Chi finì deputato, chi direttore di testata, chi ministro... come può vedere. Mafalda, Dina per noi, sposò addirittura un blasonato.» «Ah, la contessa uccisa. Dunque, lei pensa che qualcuno si sia messo a far vendetta per quell'episodio?» «Temo proprio di sì. Cominciai a sospettarlo dopo il secondo omicidio. Il terzo me ne ha dato conferma. I tre assassinii si sono susseguiti a distanza ravvicinata di tempo. E l'unica cosa che avevano in comune era il passa-
to. Pensi alla medaglia, il solo oggetto che manchi su ciascuno.» Ribaudo si passò una mano sulla testa, pensieroso. «Ma come mai le tre vittime la portavano addosso, quella medaglia? Anche lei, del resto, lo fa.» «Ha mai visto un ex garibaldino senza le sue? Certo, non le portavamo in petto o in bella evidenza per motivi ovvi, direi. Ma tenga presente che cosa ha significato per noi quell'azione. Io ero un orfano, praticamente messo alla porta dal mio tutore per via delle mie turbolente frequentazioni. Li Volsi era un poeta squattrinato e senza prospettive. Dina viveva dei regali dei suoi amanti, tutti regolarmente coniugati. Dopo quella notte, e anche grazie a essa, la nuova Italia ci prese sotto la sua protezione e ci garantì un avvenire che mai avremmo potuto sognare. La medaglia fu a lungo il nostro ricordo più caro, l'oggetto portafortuna, il segno di un'appartenenza mai rinnegata e, anzi, vantata. I credenti usano portare croci o immaginette al collo. Noi dell'anti-Chiesa... Meglio, noi della Chiesa del Progresso e della Ragione, della Patria e dell'Umanità, ci fregiavamo di questa medaglia. Eravamo in pochi a poterne esibire una siffatta, come le cicatrici gloriose di un reduce.» «Be', è una posa emotiva comprensibile, lo ammetto. D'accordo, abbiamo il movente. Solo, non capisco come mai qualcuno abbia deciso di lasciar passare tutto questo tempo prima di cominciare a vendicarsi!» «Questo è quanto dovrà scoprire lei; oltre ai colpevoli, s'intende. Deve fermarli, prima che uccidano ancora. Le ricordo che sono anch'io nella lista. Sono altresì convinto che se capissimo perché hanno preso ad agire dopo anni avremmo un'idea di chi siano. Tenga.» Prese una busta dal cassetto e la diede al commissario. «Sono i nomi degli altri possessori di medaglia. Come vedrà, sono nomi di tutto riguardo. Su di essi le raccomando la totale discrezione. Ho già provveduto ad avvertirli personalmente di quanto sta accadendo. Naturalmente contano su di me per la loro incolumità. Ma lei si starà chiedendo perché non voglio che la cosa diventi di dominio pubblico.» «Aspettavo solo che me lo dicesse.» Il ministro appoggiò la nuca sullo schienale della poltrona, piazzò i gomiti sui braccioli intrecciando le dita. Sospirò e disse: «Ho letto nel suo incartamento che lei dedica mezz'ora tutte le mattine alla lettura dei giornali. Qualche burocrate particolarmente ottuso potrebbe rimproverarle di sottrarre quel tempo al suo orario di servizio; io dico invece che fa benissimo. Un poliziotto deve essere continuamente a giorno di tutto. Bene, lei sicu-
ramente saprà in quali ambasce si dibatte attualmente la maggioranza di governo». Tacque come se attendesse risposta. Ribaudo comprese che poteva essere franco. «I socialisti» disse, «e gli anarchici. Soprattutto i primi. Stanno crescendo troppo. E la maggioranza ha bisogno di alleati alla sua destra per controbilanciarli.» «È proprio così. Noi liberali eravamo abituati ad avere alla nostra sinistra solo i repubblicani mazziniani, che non ci davano troppo pensiero, data la loro esiguità numerica. Anzi, il loro estremismo ci faceva comodo perché ci permetteva di presentarci come moderati. In tal modo raccoglievamo consensi, a destra, da quanti volevano evitare il peggio. Mai avremmo pensato che potesse emergere una forza ancora più estremista dei mazziniani e che questa crescesse a vista d'occhio fino al punto di impensierirci seriamente. L'unificazione nazionale è stata la Rivoluzione francese applicata all'Italia, in ritardo e per via militare. Noi liberali abbiamo fatto quella rivoluzione e non possiamo permettere che ce ne sia un'altra che spiazzi noi. Insomma, duole dirlo ma a questo punto abbiamo bisogno dei voti dei papisti. Come non faticherà a comprendere, però, ci sono delle notevolissime resistenze al nostro interno, soprattutto da parte di quelle realtà che non hanno alcuna simpatia per la Chiesa. Io, e spero anche lei, siamo sufficientemente illuminati per comprendere che il momento storico è adesso diverso e dobbiamo far fronte comune con i nemici di ieri per affrontare quelli di oggi.» «Ho capito. È bene che questa storia non venga a galla, affinché quelle realtà a cui accennava non inaugurino un'altra stagione di anticlericalismo spinto e vanifichino gli approcci discreti che il governo sta cercando di fare con il Vaticano. Giusto?» «Esattamente.» «Ha qualche idea sugli omicidi?» «Neanche la più pallida. Non riesco a immaginare chi possa avere interesse a ucciderci tutti dopo così tanto tempo. Mi spiace, dovrà partire da zero.» «Ho bisogno di denaro e di assoluta carta bianca, fa problema?» Il ministro cavò dalla tasca una busta chiusa e la passò al commissario, dicendo: «Qui troverà una certa somma, più un cifrario che userà per tenermi al corrente tramite telegrafo. Se avesse bisogno di vedermi di persona, mi telegrafi il giorno e l'ora, e io penserò a farla passare tramite l'uffi-
ciale che l'ha accompagnata qui. Da dove intende cominciare?». «Penso che per prima cosa andrò a dare un'occhiata al corpo di Li Volsi. Chissà, forse comprendere come hanno fatto a ucciderlo mi fornirà qualche traccia. Durante il viaggio studierò il cifrario e la lista di potenziali vittime. Per il resto, dovrò improvvisare.» «Allora parta subito, ogni istante è prezioso. Nella busta che le ho dato c'è anche un documento firmato da me che la autorizza a servirsi della forza pubblica, quando e se ne avrà bisogno, scavalcando ogni gerarchia. Le raccomando però di farne uso solo in caso di estrema necessità; meno gente coinvolgiamo meglio è.» Il ministro tirò un cordone pendente dalla parete e si accomiatò: «Verrà riaccompagnato fuori. Mi raccomando, il futuro del Paese e la mia vita sono nelle sue mani. Le auguro il buon giorno». Si alzarono e si strinsero la mano. Subito la porta si aprì e l'ufficiale fece la sua comparsa. Un'ora dopo, Ribaudo era sul treno per Napoli. Il direttore spirituale «Don 'Aita', che ci facciamo qui?» «Ti ho detto mille volte di non chiamarmi 'Aita'! Mi chiamo don Gaetano, Gaetano, hai inteso?» «Scusate.» Don Nicola gonfiò le guance per sbuffare ma non emise un fiato, limitandosi ad accavallare le gambe con gesto indispettito. Naturalmente, fece ciò mentre don Alicante, le mani dietro la schiena, guardava dalla finestra e voltava le spalle. Mai si sarebbe permesso di mancargli di rispetto apertamente. Si rassegnò, abituato com'era a dipendere in tutto dal suo maestro, a seguirlo docile come un cane, a ubbidirgli a comando. Usciti dall'arcivescovato, era convinto che sarebbero andati a casa per cambiarsi d'abito e fare le valigie. Ma solo dopo un tratto di strada si era reso conto che si dirigevano in tutt'altra direzione. Domandato a don Alicante dove mai stessero andando, si era sentito rispondere: «Non te ne incaricare, sta' zitto e cammina». Aveva cortesemente insistito per essere messo a parte delle intenzioni del suo capo ma quello aveva aperto bocca solo per dire: «Mò che arriviamo lo vedi»; poi l'aveva richiusa e non c'era stato modo di fargliela riaprire fino a destinazione. Cioè, una porticina bassa in una viuzza defilata.
Alicante aveva bussato e atteso. Niente. Altra bussata. La porticina si era aperta dopo poco con uno sferragliare di catenaccio. Una vecchietta curva e mezzo sdentata aveva sporto il viso incorniciato da un fazzolettone nero. «Oh, siete voi!» esclamò con voce chioccia. «Volete a monsignore? Tiene da fare, sta occupato! E questo prevetiello qua, chi è?» «È persona mia, zi' Filume', non vi preoccupate! Vado di prescia. Dite a monsignore che è cosa della massima importanza.» La donna non si mosse, mise l'indice davanti al naso adunco e ribatté: «Quello mi ha raccomandato di non disturbarlo per nessun motivo! Nemmeno se viene il papa in persona!». «E io proprio da parte del papa vengo! Ma, mi raccomando, questo non ditelo a nessuno, per carità e amor di Dio! Andate, andate a dirgli che noi ci mettiamo nell'anticamera e aspettiamo senza disturbare. Non ce ne possiamo andare senza parlargli. Credetemi, zi' Filume'! Vi ho detto mai una cosa per un'altra?» La vecchia si strinse nelle spalle rinsecchite e ammise: «E anche questo è vero, non lo posso negare! Be', venite, farò come dite voi. Vi mettete nell'anticamera e io gli vado a dire che ci siete. Ma non voglio responsabilità se poi non vi riceve!». Aprì del tutto la porticina e li fece passare, richiudendola subito dopo. I due preti si ritrovarono nel cortile di un tipico basso, che attraversarono nella lunghezza. Nel lato prospiciente la porticina da cui erano entrati stava una scala di pietra che occupava metà della parete, e che dava ricovero a un carretto a due ruote con le stanghe inclinate a terra; sotto di esso razzolavano quiete un paio di galline. Una balconata correva tutto intorno al primo e ultimo piano, le sbarre di ferro completamente nascoste da lenzuoli, camicie, mutandoni e fazzoletti stesi ad asciugare. Da qualche parte un gallo cantò. Salirono la scala di pietra, lentamente perché tenevano dietro alla zi' Filomena. Questa, reggendosi al corrimano con la sinistra, con la destra sollevava l'ampia gonna quanto bastava per non impicciarvisi, ansimando a ogni gradino. Impiegarono diversi minuti per arrivare in cima. Finalmente giunti, furono fatti accomodare in una camera rischiarata da un'unica finestra. I mobili erano pochi e modesti, con suppellettili di qualche utilità come un servizio di piatti; oppure devozionali come una campana di vetro con dentro un Bambin Gesù di cera. Su di un'angoliera stava un opuscoletto dalla copertina giallognola che, a giudicare dalle orecchiette in diverse pagine, do-
veva essere stato letto a puntate ma con molta attenzione. L'anziana donna fece loro cenno di sedersi e subito si diresse verso la porta che si apriva alla loro sinistra. Ne scostò il battente quel tanto che bastava a infilarvisi, senza dar modo agli ospiti di sbirciarvi dentro, richiudendola subito alle sue spalle. Dopo pochissimo ricomparve e, tirandosi la porta dietro, sussurrò: «Ha detto di aspettare!». Alicante annuì mentre quella usciva dalla porta verde e li lasciava soli. Lì dov'erano non giungevano i rumori della città e anche il suono della voce risultava ovattato, inducendo a parlar piano, quasi a sussurrare come aveva fatto, chissà perché, la vecchia. Infatti, fu con tono istintivamente sommesso che don Nicola chiese a don Gaetano: «Mò che facciamo?». «Niente. Siediti e aspettiamo. Se ti annoi, leggiti quello, che ti fa bene!» Don Alicante indicò il libretto sull'angoliera. Il giovane prete accettò il suggerimento, incuriosito. Prese l'opuscolo e si sedette su una sedia appoggiata al muro. Era l'enciclica Humanum genus. Sfogliò a caso. L'occhio gli si fermò su un passo che diceva: «In questo pazzo e feroce proposito pare quasi potersi riconoscere quell'odio implacabile, quella rabbia di vendetta che contro Gesù Cristo arde nel cuore di Satana». Intrigato, andò a leggere qualche rigo più sopra per capire di cosa stesse parlando il testo e trovò: «Da questi brevi cenni si scorge abbastanza chiaramente che cos'è e che cosa vuole essere la setta massonica. I suoi dogmi ripugnano tanto e con tanta evidenza alla ragione, che nulla può esservi di più perverso. Voler distruggere la religione e la Chiesa fondata da Dio stesso, e da Lui assicurata di vita immortale, voler dopo ben diciotto secoli risuscitare i costumi e le istituzioni del paganesimo, è insigne follia e sfrontatissima empietà». «Non l'avevi mai letta, eh?» sorrise don Alicante. «No, in effetti. Certo, ne avevo sentito parlare, ma non avevo mai avuto il tempo...» «Nicoli', per certe cose il tempo lo si deve trovare! Non c'è scusa! Da' a me!» Gli tolse il libretto dalle mani e lo sfogliò mostrando di cercare un passo in particolare. «Ah, ecco! To', leggi in questo punto!» Don Nicola seguì il dito del suo mentore e pronunciò ad alta voce: «Varie sono le sètte che, sebbene differenti di nome, di rito, di forma, d'origine, essendo per uguaglianza di proposito e per affinità dei sommi princìpi
strettamente collegate fra loro, convengono in sostanza con la setta dei frammassoni, quasi centro comune, da cui muovono tutte e a cui tutte ritornano». «Forse mi volete significare che i delitti di cui dobbiamo occuparci hanno origine massonica e che quei Sette Maccabei sono un nome di copertura? Senza offesa, come ragionamento mi sembra parecchio contorto!» «Nico', io non ti voglio significare niente!» scattò Alicante. «Sappi, però, che non mi stupisco più di nulla da un sacco di tempo. Tu, comunque, tieni a mente questo brano. Non si sa mai. A volte quel che sembra non è e quel che non sembra è, anche se non di rado quel che sembra è. Hai capito?» Don Nicola si strinse nelle spalle: «No. Ma se lo dite voi...». Alicante fece un gesto spazientito e si mise a passeggiare avanti e indietro per la stanza senza ribattere. Nicola attese invano una sua parola, poi, visto che quello taceva, tornò a immergersi nell'enciclica. Trascorsero così altri minuti. Don Nicola era un bel pezzo avanti con la lettura quando decise di azzardare nuovamente: «Non ho capito cosa siamo venuti a fare qui!». «Infatti non te l'ho detto. Leggi, leggi.» Rassegnato, don Nicola lesse, lesse. Ma dopo tre pagine tornò alla carica e si prese l'ingiunzione, di cui abbiamo già riferito, a non storpiare dialettalmente il nome di battesimo di Alicante. Il quale, a quel punto, voltò un poco la testa e accettò di fornire almeno una spiegazione parziale: «Non comincio mai qualcosa di importante se prima non ho consultato il mio direttore spirituale». «Ah! E voi tenete un direttore spirituale, don Gaetano? E chi ne sapeva niente?» «Anche i preti si devono confessare, lo sai. Tu ti confessi con me e io con lui.» «Non pensavo che l'incarico che abbiamo ricevuto fosse di carattere spirituale!» si permise di ironizzare don Nicola. «E che, fai lo spiritoso, mò? Guaglio', tu non sai niente! Lascia perdere, va'!» In effetti, la vita di don Gaetano aveva parecchi tratti oscuri per il suo discepolo, il quale sapeva poco del di lui passato e anche del suo presente, visto che ogni tanto spariva per intere giornate e non c'era tra loro la confidenza necessaria per chiedergliene conto. Lui e don Nicola, abitavano, sì, in differenti piani della stessa casa, in pratica uno sopra e l'altro immedia-
tamente sotto, ma conducevano due esistenze diverse. A volte passavano settimane senza neanche incrociarsi per le scale. Altre, si vedevano ogni giorno a tavola; quando le suore della Provvidenza preparavano loro da mangiare, don Nicola andava a prendere il fagotto e poi chiamava don Gaetano: se c'era, pranzavano insieme. Se non c'era, pazienza, e chissà dov'era. D'altra parte, don Nicola era prete da poco tempo e non conosceva tutto il numeroso clero della diocesi. Perciò, se il confessore di don Gaetano era un vecchio sacerdote in pensione, come probabile, nulla di strano che non ne avesse mai sentito parlare. Invece no: ne aveva sentito parlare, eccome. Infatti, così di punto in bianco esordì don Gaetano: «Ti dice niente il nome di monsignor Pascale?». Don Nicola si illuminò. «E come no? In seminario era una leggenda! Si dicevano di lui cose turche, alcune delle quali, devo dire, mi sembrano tutt'ora un po' esagerate. È lui?» «Sì, proprio lui. Tu cosa ne sai?» «Dicevano che era scienziato, matematico, musicista, che sapeva suonare tutti gli strumenti, che era stato militare e aveva anche fatto la guerra. Però nessuno di noi seminaristi l'aveva mai visto, né io dopo l'ordinazione l'ho mai incontrato. E nemmeno voi me ne avete parlato mai, devo dire!» «Be', te ne parlo adesso, così quando lo vedi non mi fai fare brutte figure. Monsignor Carlo Pascale era un sottotenentino della Nunziatella quando il felice Regno delle Due Sicilie piombò nelle grinfie di Garibaldi prima e dei Piemontesi poi. Fu così che quell'ufficialetto ancora imberbe si ritrovò tenente d'artiglieria dell'esercito italiano e Cadorna gli fece il discutibile onore di poter tirare la prima cannonata su Porta Pia. Come sai, i papalini avevano ordine di opporre una resistenza simbolica, giusto per dimostrare al mondo che il papa cedeva al sopruso. Come forse non sai, però, Bixio continuò a far sparare anche dopo l'alzarsi della bandiera bianca, così come aveva fatto il suo degno compare Cialdini sui borbonici a Gaeta. Insomma, te la faccio breve: cinque ore di combattimenti pur ci furono, e il giovane Pascale si prese una scheggia nel collo. Si svegliò in ospedale e trovò che De Amicis lo voleva intervistare.» «Chi, quello di Cuore?» «Proprio lui, l'autore di quel manuale di patriottismo agnostico per ragazzini» rispose acido Alicante. «All'epoca era inviato di un giornale toscano, mi pare. Il De Amicis in questione si stupì nel trovare non un solda-
to fiero di aver preso parte a un avvenimento di portata storica, bensì un giovanotto che piangeva perché aveva tirato sul papa. Il giovane Carlo, infatti, era religiosissimo e veniva da una famiglia di tutto riguardo. Suo padre era prefetto di Salerno ed era stato rimosso per avere inferto due ceffoni a fra Pantaleo.» Don Nicola unì le punte delle dita di una mano e le agitò nel gesto che a Napoli significa: "e chi è?". «Come! Non sai chi era fra Pantaleo? All'anima di chi t'è vecchio, Nicoli'!» si spazientì don Gaetano. «Ma voi giovani d'oggi non sapete proprio niente! Quello era uno spretato che si era messo con Garibaldi e i cosiddetti Mille! Un traditore della causa di Cristo! Pensa che era andato a Salerno in un teatro a dire in pubblico che i miracoli di Lourdes erano una truffa! E il prefetto Pascale l'aveva schiaffeggiato altrettanto pubblicamente, perdendo il posto. Ma torniamo a suo figlio, degno di tale padre. Quando fu dimesso dall'ospedale la prima cosa che fece fu andare a chiedere perdono al papa. E quello gli disse di non preoccuparsi, perché aveva solo eseguito gli ordini. Ma il tenentino, ora promosso capitano per meriti patriottici, non se ne dava pace. Portava un nome onorato e non si capacitava di dover servire un re che lo costringeva a scegliere tra l'onore di soldato e quello di credente. Così, pensa che ti ripensa, decise di buttare la divisa alle ortiche e di farsi prete. Figurati che era anche fidanzato! Niente, disse alla fidanzata che non era cosa e si mise la tonaca.» Don Nicola, che ascoltava a bocca aperta, a quel punto chiese: «E lei che fine ha fatto?». «Si fece suora non so dove. Ma attento perché ora viene il bello. Don Pascale diventò parroco qui a Napoli, alla Pietrasanta. Fu anche cappellano militare per qualche tempo. Poiché era devotissimo alla Madonna, si fece pure terziario dei serviti.» «Ah, i Servi di Maria!» «Sì, sì, non m'interrompere!» lo zittì don Alicante, che nel narrare era andato entusiasmandosi. «Dicevo che mò viene il bello. Qui a Napoli il nome di don Pascale finì sulle bocche di tutti per un paio di episodi che adesso ti dico. Uno riguarda un ruffiano che teneva casa nel suo rione. Da don Pascale venivano a piangere le povere mogli degli operai, che vedevano i magri guadagni dei mariti sperperati in quel luogo di perdizione. Per giunta, non poche delle donne di quella casa erano costrette a vendersi per fame. Insomma, una situazione delicata e incresciosa sotto ogni aspetto. Così, un bel giorno don Pascale che ti fa? Raccoglie un po' di soldi da al-
cuni benefattori, altri ce li mette di tasca sua e va dal ruffiano. Gli propone di vendere la casa a lui e offre una somma di tutto rispetto. Ma il magnaccia si schiatta dalle risate e dice che lui si diverte di più così. Allora don Pascale lo minaccia del giudizio di Dio e quello lo caccia in malo modo. Ebbene, quella stessa notte, a mezzanotte in punto, ci credi? la casa se ne sprofondò!» «No! Davvero? E morirono tutti quelli che ci stavano dentro?» «Macché, la casa era vuota! Il ruffiano era all'osteria e le donne erano per strada ad adescare. Tutte. Per singolare coincidenza, chiamiamola così. Nello sprofondamento ci rimasero solo quattro cavalli della Premiata Ditta di Pompe Funebri Bellomunno Vincenzo fu Giovanni, che teneva la stalla giusto là sotto. Il Bellomunno era amico intimo di mio padre; ricordo quando venne a raccontarci la disgrazia.» «E come andò a finire?» «Da quel momento il rione ebbe pace, perché il ruffiano sparì per sempre e diverse di quelle che lavoravano per lui furono onestamente sistemate da don Pascale.» «Ma voi, don Gaetano, pensate che la jettatura l'abbia gettata proprio don Pascale?» «Be', in queste cose non si può avere mai la certezza. Comunque, c'è un altro fatto che lo lascia pensare. Sai chi è Podrecca?» «Eh, mi credete così ignorante? È il direttore di quella fetenzìa dell'"Asino"!» «Appunto, il foglio più anticlericale d'Italia. Ebbene, questo Podrecca doveva venire qui a Napoli a fare una conferenza, anche lui sulla supposta menzogna di Lourdes. La città era tappezzata di manifesti, i biglietti erano stati venduti tutti, l'evento era annunciato il tal giorno alla tal ora. E don Pascale che fa? Radunato qualche amico prete, si piazzano tutti davanti al teatro e, in coro, recitano i Salmi imprecatori; poi pigliano e se ne vanno a casa. Viene il giorno della conferenza, il teatro è già pieno. Podrecca arriva con il treno, scende e prende la carrozza. Ma per strada si spezza l'assale di una ruota, la carrozza si ribalta e Podrecca si rompe una gamba, finendo all'ospedale. Conferenza annullata, l'impresario deve restituire il prezzo dei biglietti. Da quel momento nessuno ebbe più dubbi sulle capacità jettatorie di don Pascale e tutti si guardarono bene dal fargli saltare la mosca al naso. Il cardinale, allora, lo nominò esorcista ufficiale della diocesi.» In quel preciso momento si spalancò la porta sulla sinistra e apparve un vecchio sacerdote che esclamò: «'Aitani', e che vai raccontando? Chi è
questo guaglione?». Don Nicola scattò in piedi, mentre Alicante si inchinava a baciare la mano all'anziano prete. Quest'ultimo aveva i capelli completamente bianchi ma ancora folti. Anche le sopracciglia erano bianche; insieme alle rughe che scavavano il viso e al passo leggermente faticoso, erano le uniche tracce di senilità nell'uomo. Alto, robusto, fronte spaziosa, si vedeva che era stato un militare. Sì, sembrava proprio un soldato vestito da prete. Portamento eretto, schiena dritta, lineamenti squadrati, espressione franca, guance ben rasate: tutto irradiava schiettezza e vigoria in quell'uomo. Don Nicola attese il suo turno di baciare la mano al Pascale, che essendo monsignore aveva diritto a quel saluto. Parlò don Gaetano: «Questo è don Nicola Esposito, mio figlioccio». L'anziano monsignore squadrò don Nicola e disse: «Bene, bene. E che siete venuti a fare da me? Oggi è un giornaccio!». «Monsignore, c'è una certa questione che mi preme e vorrei sentire un vostro parere. È cosa della massima importanza e riguarda anche don Esposito» rispose don Gaetano. «Avete scelto, temo, il momento sbagliato, perché anch'io ho qualcosa di molto importante da fare, e lo devo fare giusto adesso!» Colse l'espressione di vivo disappunto che aveva invaso la faccia di Alicante e riprese: «Certo, ti conosco e so che non verresti a farmi perdere tempo se la faccenda non fosse davvero spinosa! Vediamo... come si può fare? Ma sì, siete preti tutti e due, no? Benissimo. Venite con me!». Senza dar tempo di replica si volse e si avviò per quello che, dalla porta adesso aperta, appariva uno stretto e lungo corridoio. Don Gaetano subito lo seguì e don Nicola si vide costretto a seguire don Gaetano dietro a monsignor Pascale. Il corridoio a un certo punto svoltava e continuava fino a una porta che occupava tutta la parete di fondo. Qualche metro prima di arrivarci, sulla destra, c'era un'altra porta più piccola, tanto bassa che i tre dovettero chinare il capo per passarvi dopo che monsignor Pascale la ebbe aperta. Dava su una stretta scala a chiocciola alla cui fine si scorgeva un bagliore di candele. Discesero e si ritrovarono in una cappella rettangolare di architettura tra il barocco e il neoclassico, tutta stucchi bianchi e dorati, con cupi affreschi di santi sul soffitto e alle pareti. Al centro dei lati lunghi stavano due confessionali neri e scolpiti, uno per parte. Candele ardevano un po' dovunque, proiettando ombre danzanti. Sull'altare maggiore, il cui piano era coperto
da una bianca trina, c'era un grande quadro che raffigurava l'Immacolata. Al lato opposto, un portone sbarrato da un grosso chiavistello e puntellato ai lati da due sbarre di ferro che, partendo ciascuna da un occhiello infisso nel muro, andavano a infilare la punta ricurva in un anello al centro del battente. I banchi per sedersi erano in tutto otto, quattro per parte. In prima fila, dal lato del pulpito, sedeva una donna piuttosto giovane e vestita di scuro. Un fitto velo grigio scuro annodato sotto il mento le copriva i capelli e le incorniciava il volto bianchissimo. Stava tutta raccolta, stringendo tra le mani un fazzoletto. Dagli occhi cerchiati e dalle ciglia umide si sarebbe detto che aveva appena smesso di piangere. Sollevò i grandi occhi arrossati sui tre preti, mostrando un certo disagio. Ai suoi fianchi stavano due uomini tarchiati, uno brizzolato e con un paio di baffoni; l'altro, più giovane e con il viso rasato, gli somigliava parecchio. «Non ti preoccupare, Angioli', che questi sono qui per aiutarmi. Infatti, ho bell'e visto che non ce la posso fare da solo. Te li presento. Questo è don Gaetano Alicante e questo è don Esposito, che non ricordo come fa di nome. Ah, sì, Nicola, ecco!» le disse il Pascale quando ancora era sugli ultimi gradini. Lei fece un mezzo inchino con la testa in direzione dei nominati e quelli ricambiarono il cenno. Pascale, rivolgendosi ai preti, bisbigliò che gli uomini accanto alla giovane erano il padre e il fratello, la cui presenza era necessaria per tenere ferma l'Angiolina quando dava in escandescenze. Poi, senza prestare attenzione allo sguardo interrogativo che i due si scambiarono, tornò a parlare alla ragazza: «Adesso, mentre voi cominciate a dire il rosario, io e questi sacerdoti andiamo a prepararci. Abbiate fiducia, figli miei, e soprattutto fede!». La giovane annuì ed estrasse la corona da una tasca della gonna. Pascale le si avvicinò e le carezzò la testa con gesto paterno; poi, rivolgendosi a don Nicola, chiese a quest'ultimo di risalire la scala per assicurarsi che la porticina in cima fosse ben chiusa, cosa che quello eseguì prontamente. Quando don Nicola ridiscese, l'anziano sacerdote guidò lui e Alicante dietro l'altare maggiore. Lì, nel minuscolo coro, c'erano dei paramenti appesi a un attaccapanni. Pascale prese tre stole di colore viola, se ne mise una al collo e porse le altre ai due. Questi lo imitarono: con sicurezza Alicante, con imbarazzata incertezza Esposito, che con gli occhi cercava nel volto del suo mentore una spiegazione a tutto ciò.
Non dovette attendere a lungo perché il Pascale, parlando a don Gaetano, a bassa voce cominciò a dire: «Come avrai capito, qui c'è da fare un esorcismo. Quella povera figliola è la terza volta che viene e io finora non sono riuscito a liberarla. Stavo giusto pensando se non fosse il caso di chiedere aiuto quando san Giuseppe, terror daemonum, mi ha mandato voi». Mentre parlava apriva i cassettini di un piccolo mobile. Ne estrasse un crocifisso, una boccetta di vetro, due libretti neri bordati di rosso. «Ma io non ho mai fatto esorcismi!» si allarmò don Nicola, abbassando subito la voce. «E poi, scusate monsignore, ma noi abbiamo un importantissimo affare da sbrigare!» «Sei un prete anche tu, no?» ribatté tranquillamente Pascale senza neanche volgersi verso di lui. «E non c'è affare più importante di sciogliere dai lacci di satana un'anima acquistata al prezzo del sangue di Cristo. San Giuseppe non mi ha mai ingannato e se ha mandato voi vuol dire che dovete aiutarmi voi. E ora to', valla a riempire di acqua santa» gli fece porgendogli la boccetta e accennando con il mento verso il fondo della cappella. Don Nicola non seppe che dire. Guardò interrogativamente don Gaetano ma quello, con un cenno della testa, gli intimò di obbedire. Più confuso che persuaso don Nicola eseguì meccanicamente, avviandosi verso l'acquasantiera che stava vicino al portone. Tornò mentre il vecchio prete stava dicendo a don Gaetano: «... l'ho fatta visitare da ogni sorta di medico ma tutti hanno allargato le braccia. Mi sono accorto subito, in verità, di quale fosse il problema ma è sempre bene non lasciare nulla di intentato. E poi, ricordati, guaglio': mai ricorrere al soprannaturale se prima non si è esperito il naturale. Comunque, è stato proprio il professor Moscati, cardiologo di fama ma anche uomo di Dio, a segnalarmi questo caso. Quando l'ha vista sollevare la sua scrivania con una mano sola e minacciare di tirargliela in testa ha capito che con la scienza per quella lì c'era poco da fare». Prese un libretto e cominciò a sfogliarlo fino a che non trovò il punto che gli interessava. Qui mise il segnapagina che pendeva dalla costola e disse, porgendolo ai due: «Tenete, qui c'è quello che dovete rispondere». Poi ripeté l'operazione con l'altro libretto e, tenendolo aperto, mormorò: «Forza, cominciamo». Lo seguirono davanti all'altare e si schierarono sul gradino, Pascale in mezzo. La donna si alzò in piedi in evidente stato di apprensione. «Coraggio, figlia mia!» le disse Pascale. «Non preoccuparti, stai nelle
mani del Signore.» Poi guardò prima l'uno e poi l'altro dei due preti, come ad assicurarsi che fossero pronti. Aprì dunque il suo libretto alla pagina segnata e ad alta voce lesse in un latino reso quasi musicale dall'inflessione napoletana: «In nomine Iesu Christi Dei et Domini nostri, intercedente immaculata Virgine Dei Genitrice Maria, beato Michaële Archangelo, beatis Apostolis Petro et Paulo et omnibus Sanctis, et sacra ministerii nostri auctoritate confisi, ad infestationes diabolicæ fraudis repellendas securi aggredimur». Si fece con un ampio gesto il segno della croce, subito imitato da tutti i presenti. «Adesso viene il Salmo 67» sussurrò ai due sacerdoti. Poi rialzò la voce: «Sorga il Signore e siano dispersi i suoi nemici. Fuggano dal cospetto di Lui coloro che lo odiano. Svaniscano come svanisce il fumo, come si fonde la cera al fuoco. Così periscano i peccatori dinanzi alla faccia di Dio». Improvvisamente una folata spense tutte le candele e la cappella piombò nel buio. Don Nicola non poté trattenere un impaurito «Ah!» e subito agghiacciò al pensiero che, in quell'ambiente chiuso, un colpo di vento era semplicemente assurdo. «Ssst! Calma! State calmi, calmi!» La voce ferma di Pascale ebbe il potere di rassicurare un po' il giovane prete, che socchiudeva gli occhi cercando di abituarli all'oscurità. Sentì accanto a sé un fruscio, poi il tipico sfrigolare di un fiammifero che veniva acceso. La fiammella squarciò le tenebre e Pascale, che la teneva in mano, la porse a don Nicola. «Tieni, appiccia le candele. Portane una qui, nel caso dovessero spegnersi di nuovo.» Quando don Nicola ebbe eseguito e fu tornato al suo posto, l'anziano monsignore gli affidò la scatola di fiammiferi che aveva cavato di tasca. «Tienteli vicini. Anzi, tieni la candela sempre in mano, pronto a riaccendere. Ora vieni, mettiti al lato di don Gaetano, così seguite insieme le risposte sul libro.» Nella luce ritornata si vide che il viso della donna era diventato livido. Tremava leggermente e aveva gli occhi sbarrati dalla paura, mentre le mani torcevano il fazzoletto. Pascale alzò il crocifisso davanti a lei ed esclamò: «Ecco la Croce del Signore. Fuggite, potenze nemiche!».
Don Gaetano e don Nicola lessero all'unisono: «Vinse il Leone della tribù di Giuda, il discendente di Davide». Pascale: «Discenda su di noi, Signore, la tua misericordia». Coro: «Come abbiamo sperato in Te». D'un tratto si sentì un ululato, basso e lontano, di cui non si capiva la provenienza. Pascale rimase tranquillo mentre ai due preti si accapponava la pelle. Don Nicola avvertì un tuffo al cuore e lo stomaco stringersi ma non ebbe il coraggio di aprire bocca. Sudando freddo volse gli occhi in direzione del monsignore. Quello, senza alzare lo sguardo dal libro, gli sussurrò: «Lo dico a te che non hai esperienza: qualunque cosa succeda, mai interrompere il rito, mai. Per nessun motivo. Questi disturbi, chiamiamoli così, sono fatti apposta per spaventarci e indurci a smettere. Ti ripeto: qualunque cosa succeda, qualunque, non fermarti. Capito?». Malgrado il collo irrigidito dalla paura don Nicola riuscì a far segno di sì ripetutamente. L'ululato si spense in lontananza e don Nicola espirò di sollievo. Ma proprio in quell'istante la candela che teneva in mano si incendiò con una vampata. Spaventato, ritirò la mano di scatto lasciando cadere il cero. Si guardò le dita, credendo di trovarle ustionate. Con sua grande sorpresa non erano nemmeno annerite, nulla. Si affrettò dunque a raccogliere la candela, che non si era spenta, prima che questa appiccasse il fuoco, questa volta per davvero, al tappeto. «Mai interrompere il rito!» Uno sguardo eloquente del vecchio sacerdote bastò a ricordargli l'ammonimento. Il vecchio Il vecchio era seduto sulla poltrona, con la coperta scozzese ad avvolgergli le gambe ossute. Il volto, lungo e scavato, era una ragnatela di rughe; la pelle del collo gli pendeva floscia e grinzosa sul colletto della vestaglia. I capelli, bianchi con sfumature giallastre, scendevano lisci e radi fin sulle orecchie. Con le dita adunche e nodose premette il tabacco nel fornello della lunga pipa ricurva. I gesti erano stanchi e tremolanti. Dietro alle labbra esangui si vedevano denti perfetti ma color avorio consunto, che facevano sibilare ol-
tremodo le esse. Quanti anni poteva avere? Da ottanta in avanti tutto era possibile, anche novanta, anche cento. Socchiuse le palpebre attraversate da un reticolo di venuzze rosse. Gli occhi, celesti e inespressivi, fissarono un punto indefinito nel fuoco del camino. Si spostò in avanti per prendere uno stecco ardente con cui accendersi la pipa ma poi rinunciò tornando ad appoggiare la schiena. Senza volgere la faccia verso il suo interlocutore cominciò a parlare. «Poco prima di morire, nel 1846, Gregorio XVI convocò al Quirinale lo storico francese Jacques Crétineau-Joly, che già aveva scritto libri sulla Vandea e sui gesuiti. Gli consegnò tutte le carte che la polizia papalina aveva sequestrato nel corso delle indagini sulle cospirazioni europee del tempo della Restaurazione. Tra di esse, costituite da corrispondenza e altro, c'era la copia di un'Istruzione diretta a un ristretto numero di persone. «Il cognome dello storico vi suona un po' buffo? In effetti, convengo che "grazioso cretino" sembra alquanto ridicolo. Be', del suo aspetto fisico nulla saprei dirvi ma è certo che egli stupido non era affatto, anzi. Giovandosi di quelle carte avrebbe dovuto scrivere una Storia delle società segrete, poi gli avvenimenti si susseguirono convulsi e l'opera non vide mai la luce. Solo nel 1859 fece uscire un lavoro in francese, L'Eglise Romaine en face de la Révolution. Ma ormai era troppo tardi perché qualcuno prendesse sul serio quei documenti. «In quell'Istruzione, segretissima, permanente e rivolta ai soli membri dell'Alta Vendita, stava scritto testualmente: "Quello che noi dobbiamo cercare e aspettare come gli ebrei aspettano il Messia è un papa secondo i nostri bisogni". «Già. La nostra guerra poteva durare anni, forse secoli, ma con un papa del genere avremmo fatto in un sol colpo incommensurabilmente molto di più di quanto avessero fatto i nostri predecessori francesi con i loro corrosivi pamphlet o l'Inghilterra con il suo oro. «Immagino le vostre domande e le prevengo. Oro? L'Inghilterra? No, non interrompetemi, sono fin troppo vecchio e mi resta poco fiato. «I nostri amici in tutto il mondo, ma soprattutto britannici, finanziarono in oro sonante l'impresa di Garibaldi nel Sud. Era una somma di tutto rispetto che servì in particolare a ungere certi pezzi grossi borbonici, diversi dei quali già simpatizzavano per la nostra causa. Quando qualcuno cominciò a chiedersi come mai le Due Sicilie fossero crollate così velocemente,
in pochi mesi, come un castello di carte, ormai era cosa fatta.» Si fermò un attimo, come a raccogliere i pensieri. Ma anche a riprendere fiato, a giudicare dai profondi, ripetuti respiri che tirò. Teneva costantemente la bocca semiaperta. Le labbra, sottili e bluastre, erano vizze e screpolate per via dell'aria che entrava e usciva irregolarmente. Ricominciò. «Dicevo che ci voleva un papa "liberale". Nessuno era mai arrivato a concepire un'enormità del genere, nemmeno Filippo Buonarroti. Oh, quel giacobino livornese! Credeva di essere il Vecchio della Montagna delle cospirazioni; invece, come quel fanatico di Mazzini, non sapeva di lavorare per qualcuno al di sopra di lui. Qualcuno di cui non si sospettava neanche l'esistenza. «Ebbene, quel papa "liberale", inaspettatamente, arrivò prima di quanto sperassimo. In soli tre giorni di Conclave, in quello stesso anno, 1846. I cardinali dovevano scegliere tra un candidato "conservatore", Lambruschini, già Segretario di Stato di Gregorio XVI, e uno "di progresso", il Mastai-Ferretti. Scelsero quest'ultimo, forse credendo di poter ammansire la "belva" rivoluzionaria. «Quello però si mise nome Pio IX, richiamandosi ai due papi reazionari, Pio VI e Pio VII, che avevano tenuto testa a Napoleone. Occorreva dunque agire subito e, immediatamente, partirono le manifestazioni per l'amnistia. Chiedere l'amnistia era far leva sul cuore del popolo e su quello dei preti. Speravamo, in realtà, di ottenerla un po' più tardi per aumentarne l'effetto propagandistico; ma il nuovo papa la concesse subito. Da allora facemmo gridare nelle piazze "Viva Pio IX!". Badate bene, non "Viva il papa!". Egli credette di essere più furbo di noi, pubblicando in contemporanea un'enciclica, la Qui pluribus, in cui ribadiva la dottrina tradizionale della Chiesa. «Intanto, con l'amnistia poteva rientrare in Roma il medico Pietro Sterbini, un tipo trasandato e sudicio nel vestire. Si compiaceva di farsi chiamare "il Marat romano". Era stato carbonaro e mazziniano e passava tranquillamente dall'adulazione al pugnale. Al suo fianco accorse il principe di Canino, cioè Carlo Luciano Bonaparte, nipote di Napoleone. Era lui che aveva inventato quei congressi scientifici che si tenevano in tutta Italia tranne che nello Stato Pontificio, naturalmente - e che noi avevamo abbondantemente popolato di uomini nostri. Fu amnistiato anche l'avvocato bolognese Giuseppe Galletti, già condannato all'ergastolo. Grottesco: era stato un affiliato di Buonarroti e poi diventò ministro di polizia! A Roma vennero anche i barnabiti Alessandro Gavazzi, mazziniano, e Ugo Bassi,
garibaldino. «Cotale gruppetto aveva bisogno di un aggancio popolare. Glielo fornimmo con Angelo Brunetti, un arruffapopolo meglio conosciuto come Ciceruacchio. Prevengo l'inevitabile domanda: in dialetto romanesco "ciccia" e "racchio" indicano un omaccione grosso e brutto. «Con questa gente la piazza era assicurata. Infatti, per l'anniversario dell'ascesa al soglio Pio IX sentì il "popolo" chiedere a gran voce l'istituzione della Guardia Nazionale, che il pover'uomo concesse provocando le sdegnate dimissioni del cardinal Gizzi, suo Segretario di Stato. Il "popolo" chiese anche il Consiglio Municipale e il Senato, e li ottenne. Ottenne anche un governo laico con nove ministri. A quel punto era solo questione di tempo. Naturalmente, gli unici ad accorgersene furono i possessori dei cervelli tra i più lucidi del tempo, l'austriaco Metternich e il piemontese Solaro della Margarita, ma ormai era troppo tardi. «La scintilla partì, al solito, da Parigi, dove Luigi Filippo dovette fare fagotto. Subito si propagò a Vienna, Berlino, Francoforte, Milano, Parma, Venezia. Era l'anno fatale, il 1848. A Londra comparve in sordina il Manifesto del partito comunista, che la "Lega dei Giusti" aveva commissionato a Marx ed Engels: un piccolo seme che secondo me andrà coltivato per un'altra fase e in un altro tempo. Ma sarà cura di chi, allora, sarà al nostro posto.» Fissava il fuoco e pareva divertirsi a seguire la danza delle fiamme. L'ultimo pensiero doveva aver eccitato in lui chissà quali visioni, perché i pomelli delle guance già smorte gli avevano preso colore. Per alcuni istanti sembrò perso dietro alle immagini che si erano generate nella sua mente. Ma durò poco. Si riscosse e riprese a parlare. «Che stavo dicendo? Ah, sì. Tutte le teste coronate si affrettarono a concedere la Costituzione, paradossalmente cominciando da Ferdinando II delle Due Sicilie. Anche Pio IX, naturalmente. Così, la posta venne leggermente alzata ancora un po': quasi tutti i giorni il "popolo" tirava sassate ai vetri della chiesa del Gesù al grido di "Morte ai gesuiti! Guerra all'Austria!". Il papa fu costretto a consigliare ai gesuiti di lasciare la città. «Nel febbraio di quell'anno fatale Pio IX pronunciò una allocuzione che terminava con queste precise parole: "Benedite, dunque, o grande Iddio, l'Italia, e conservatele questo dono, il più prezioso di tutti, la fede!". Ci appropriammo solo delle prime, naturalmente, e le facemmo ripetere su tutte le piazze della penisola: "Benedite, gran Dio, l'Italia!". Eh, l'aveva detto
nientemeno che il papa! Dunque, il papa era dei "nostri"! Il papa era con noi contro l'Austria! «A Roma l'ambasciata austriaca fu assaltata e il tricolore issato in Campidoglio, sulla statua di Marco Aurelio. Il prete Gavazzi, un grosso crocifisso in una fondina e un più grosso revolver nell'altra, arringava la folla chiamando alla "santa crociata" contro gli austriaci mentre la piazza intonava la Marsigliese. Pio IX fu praticamente costretto a permettere all'esercito pontificio di radunarsi alla frontiera. Solo per difendere i confini, naturalmente, ma il generale Durando, di sentire diverso, si preparava a mettere il papa di fronte al fatto compiuto. «Mazzini, fissato, aveva scritto al papa una lettera in cui diceva testualmente: "Vi chiamo, dopo tanti secoli di dubbio e di corruttela, a essere apostolo dell'Eterno Vero". Che maniaco, fosse stato per lui avrebbe fatto fallire tutto. Per come la vedo io, era un esaltato che mandava i suoi ragazzi a fare attentati mentre lui aveva sempre in tasca un passaporto per cavarsela in ogni eventualità. Non ne ha mai imbroccata una. Quella lettera si aggiunse a un'altra imprudenza, da parte della piazza romana: pretendere che il papa dichiarasse guerra all'Austria. Così, con l'allocuzione Non semel, Pio IX si tirò indietro e da quel momento la situazione sfuggì di mano anche a noi. «I circoli rivoluzionari romani erano ormai lanciati e l'euforia del "popolo" si tramutò in rabbia. Cori contro il papa, scritte sulle chiese: "Morte a Cristo, viva Barabba!", addirittura. La Guardia Civica occupò Castel Sant'Angelo e il povero Pio IX fu costretto a cercare di ammansire la piazza mettendo a capo del ministero il conte Terenzio Mamiani della Rovere, uno dei capi dei moti del 1831. E dire che costui aveva rifiutato l'amnistia! Questo vi fa capire a qual punto di disperazione fosse arrivato il papa. «Cercammo di recuperare il terreno perduto facendo venire da Torino l'abate Gioberti, il quale propose a Pio IX di incoronare Carlo Alberto re d'Italia. Pio IX rifiutò e Gioberti dovette tornarsene indietro. In effetti, Gioberti era troppo compromesso agli occhi del papa. Così, fu deciso di mandare una persona a lui più accetta, l'abate Rosmini. Era un rischio, certo, e infatti per noi si rivelò un errore. Tant'è che a Roma il Mamiani si dimise. A quel punto Rosmini consigliò di nominare il conte Pellegrino Rossi. E per noi fu un guaio. «Forse vi sto annoiando? Perdonate i ricordi di un vecchio, amico mio. Ma faccio appello alla vostra pazienza perché ho ancora molto da dire. Del resto, siete qui per ascoltare, nevvero? Molti dei dettagli che vi ho narrato
sembrano superflui, ne convengo, ma l'importanza del tutto vi apparirà chiara a suo tempo. A suo tempo.» Con uno sforzo dolente riuscì, dopo qualche tentativo, a sporgersi e afferrare un rametto dalla punta infiammata. Poi, tornò ad abbattersi esausto sullo schienale. Gli ci volle qualche istante prima di trovare l'energia necessaria ad accendersi la pipa. Exorcizo te, immundissime spiritus I tre sacerdoti si erano ritirati nella minuscola sacrestia dietro all'altare maggiore. Qui il Pascale aprì uno sportellino nella parte posteriore dell'altare in questione ed estrasse una piccola urna nera di legno intagliato. «Questa è una reliquia della Vera Croce» disse. «Una scheggia infinitesima, naturalmente, perché, come ben sapete, l'originale ritrovato da sant'Elena a suo tempo fu ridotto in frammenti minutissimi e distribuito in tutta la Cristianità. Credo che questo sia il momento di farla intervenire.» «Scusate, monsignore» non seppe trattenersi don Nicola. «Ma io me la sto letteralmente facendo addosso dalla paura! Che è 'sta cosa? Chi è quella giovane? Abbiate pazienza ma non so nemmeno cosa ci faccio, io, qua dentro!» Pascale si grattò la nuca e disse: «Be', sì, hai ragione. Del resto una piccola pausa sarà utile, perché se saprete esattamente di che cosa si tratta sarete maggiormente motivati per questa battaglia. Dunque. Innanzitutto è bene che vi dica che considero provvidenziale la vostra visita e il conseguente aiuto che mi state dando. Infatti, sono due settimane che cerco di liberare quella povera ossessa ma ancora non sono riuscito del tutto. Credo, sì, che lo spirito che si è impadronito di lei sia ormai notevolmente indebolito dai miei esorcismi. Ma proprio per questo adesso è disperato. E più pericoloso. Perciò è meglio essere in tre per la spallata finale. Anzi, in quattro, con la Vera Croce». L'anziano sacerdote si fermò a baciare la reliquia prima di continuare. «Brevemente: Angiolina, un giorno, di colpo si è messa a fare cose turche, come ballare la tarantella per ore e ore, fino a cadere sfinita per terra, o cantare con voce meravigliosa interi brani d'opera, lei che è stonata. E la conosco da quando è nata, l'ho battezzata io. Poi, uno dietro l'altro, nuovi fenomeni. Con le mani sui fianchi, teneva infuocati comizi davanti al muro, in lingue straniere, lei che non ha studiato. A volte ruggiva o uggiolava o ululava o sibilava come una serpe. Altre, come una biscia scivolava tra le
sbarre della testiera del letto o tra le gambe delle sedie. Altre ancora, saltava sul comò e dal comò alla credenza, al tavolo, o restava a penzolare appesa per i piedi alle travi del soffitto come un pipistrello. Certi giorni non lasciava in casa una pezza integra perché lacerava con i denti i vestiti, le lenzuola, le tendine. Magari si metteva a piangere e diceva che in quel momento, che so, a Portici stavano seppellendo una bambina. Andando poi a verificare, era vero. I cani abbaiavano spaventati davanti a lei e se ne fuggivano, i gatti arruffavano il pelo e soffiavano al suo passaggio. Insomma, un indemoniamento bello e buono.» Un'altra breve pausa per un segno di croce. «È orfana di madre e vive con il padre e il fratello, quei due che avete visto insieme a lei» riprese Pascale. «La tengono chiusa in casa per la vergogna, la fanno uscire solo per portarmela qui. Ogni giorno l'ho esorcizzata e mi pare di essere ormai a buon punto. Ma ci vogliono quei due a tenerla ferma, sennò è capace che si fa male per davvero. O strangola me, ci ha provato tre volte. Ci sono volute le forze congiunte di quei due uomini per togliermela di dosso, tanto diventa furiosa e dotata di energia sovrumana. L'altro giorno ci è sfuggita e si è arrampicata sulla parete come un ragno. Siamo riusciti ad afferrarla per le caviglie e a tirarla giù dopo molti sforzi. In chiesa il soffitto è alto e di certo l'intenzione del demonio era di farla cadere di colpo per ucciderla o storpiarla. Ecco, vi ho detto tutto. Adesso torniamo di là e vediamo di liberare quella disgraziata una buona volta.» Don Nicola aveva il pomo d'adamo che andava su e giù per l'impressione, ma non osò ribattere. Pensò che, sì, era vero: era un prete anche lui. Perciò, la salute di quella povera anima tormentata diventava prioritaria. Certo, il dubbio sulla perdita di tempo rispetto alla importantissima missione appena affidata loro dal cardinale restava; ma la sicurezza del suo padrino e mentore lo tranquillizzava, almeno da quel punto di vista. Alicante sembrava non avere altro pensiero, in quel momento, che coadiuvare il suo direttore spirituale nell'esorcismo. E, se stava bene a lui, stava bene anche a don Nicola. Seguì dunque, senza aggiungere altro, don Gaetano e monsignor Carlo nella cappella. Qui, il padre e il fratello avevano preso per le braccia la ragazza, tanto pallida che sembrava sul punto di svenire. Pascale si avvicinò e le toccò la fronte con l'urna della Vera Croce, provocandole una convulsione. La giovane cominciò a divincolarsi con violenza ma i due uomini riuscirono a tenerla sufficientemente ferma perché l'esorcista potesse aspergerla con l'acqua benedetta.
Di colpo si afflosciò e la testa le ricadde sul petto. I due ai suoi lati la fecero sedere delicatamente ma senza lasciare la presa sulle sue braccia. «Nel nome di Nostro Signore Gesù Cristo, io ti comando, spirito immondo, incursione dell'Avversario, fantasma e legione, di uscire da questa creatura di Dio!» intimò l'esorcista. Quella alzò lenta la testa, mostrando un volto divenuto aguzzo, da faina, con il mento mostruosamente allungato e gli occhi ridotti a due punti nerissimi. Sogghignava in modo raggelante lasciando intravedere tra le labbra tirate i canini inferiori divenuti sporgenti. «Io, sacerdote di Cristo, impongo a te, chiunque tu sia, di non fare del male a questa creatura né a quelli che stanno con lei! Ubbidisci!» disse Pascale ad alta voce. Una risata baritonale e gorgogliante fu la risposta. «Vecchio caprone! Ma lo sai chi sono io?» sussurrò l'ossessa, mentre un filo di bava rossastra le colava dagli angoli della bocca. «Chi sei?» «Vorrai dire chi siamo!» «Quanti siete?» «Settanta!» «Di' la verità!» «Siamo settanta!» «Chi sei?» «Ci vedremo presto!» «Che significa?» «Pensa ai tuoi due scagnozzi!» «Perché?» «I tuoi manutengoli lo scopriranno quanto prima! Magari in una delle cento stanzulelle!» biascicò, torcendo la bocca sull'ultima parola. «Che c'entrano loro? Cosa vuoi dire? Spiegati!» La faccia dell'ossessa adesso aveva assunto un'espressione porcina, sembrava che il naso le si fosse allargato e ritorto oscenamente all'insù, mentre gli occhi sparivano sotto le palpebre e diventavano completamente bianchi. Lentamente, scandendo, cominciò a recitare con voce fattasi melliflua: «Medipal mutlucco seinevni odnacifitcer earret aroiretni atisiv. Medipal mutlucco seinevni odnacifitcer earret aroiretni atisiv. Medipal mutlucco seinevni odnacifitcer earret aroiretni atisiv...». E andò avanti così, come in trance, sempre ripetendo le stesse incomprensibili parole.
Pascale si rivolse a don Gaetano parlando in fretta: «Presto, riesci a scriverti questa frase?». Quello, superato un attimo di incertezza, rispose: «Come? Ah, sì, sì!». Veloce sbottonò la tonaca all'altezza del petto e, infilata la mano, trasse un mezzo lapis e un sottile taccuino. Febbrilmente, mentre l'ossessa ripeteva monotona, appuntò quel che sentiva. Dovette tornare più volte su quel che scriveva per correggere ma alla fine fu abbastanza sicuro di aver trascritto esattamente. L'anziano esorcista disse: «Potrebbe trattarsi di una tattica. Talvolta i posseduti cominciano con tergiversazioni e ripetizioni, o filastrocche senza senso o giochi di parole o frasi in lingue antiche o parole pronunciate alla rovescia, per farci innervosire ed esasperarci. Siate preparati. L'importante è non darle retta e soprattutto tenere presente che è solita alternare bugie e verità, per confonderci. Riprendiamo. Badate solo a rispondere seguendo il rituale». Alzò la voce: «O Signore, ascolta la mia preghiera!». «E il mio grido giunga a Te!» recitarono concitati i due. «O Dio del cielo, Dio della terra, Dio degli angeli, Dio degli arcangeli, Dio dei patriarchi, Dio dei profeti, Dio degli apostoli, Dio dei martiri, Dio dei confessori, Dio delle vergini, Dio che hai il potere di donare la vita dopo la morte e il riposo dopo la fatica, giacché non vi è altro Dio al di fuori di Te né vi può essere, se non Tu, creatore eterno di tutte le cose visibili e invisibili...» A un tratto la donna cercò di scagliarsi contro monsignor Pascale. Il suo slancio colse di sorpresa quelli che la tenevano. I lunghi minuti in cui era stata tranquilla, quasi inerte, li avevano impercettibilmente indotti ad allentare la sorveglianza e lei ne aveva approfittato. Seguì una colluttazione in cui tutti e sei si ritrovarono aggrovigliati. La furia dell'urto spostò alcuni banchi e il rumore rimbombò nella cappella. Ci volle qualche istante per riprendere il controllo dell'ossessa e metterla seduta, agguantata saldamente dai suoi congiunti. Il padre di lei singhiozzava, e anche l'altro aveva gli occhi bagnati. Lo spettacolo della figlia e sorella così fuori di sé straziava i loro cuori. Nel contempo, trasparivano dai loro volti lo smarrimento e la paura di fronte a quell'essere amato che non era più Angiolina ma chissà chi, un estraneo, un mostro terrificante. I tre sacerdoti, ansanti, si ricomposero, si riaggiustarono sul collo le stole scivolate di sghimbescio, ravviarono i capelli finiti sugli occhi.
Alicante ebbe un sussulto di sorpresa e dispiacere quando si accorse che al suo pupillo una striscia sulla tempia, partendo dall'attaccatura, era diventata completamente bianca. Si ritrovò a pensare che era colpa sua, che forse stava sbagliando a non aver seguito immediatamente gli ordini del cardinale e che stava coinvolgendo don Nicola a suo discapito. Ma era troppo abituato a fidarsi ciecamente del giudizio di Pascale. Aveva visto le profezie di quel sant'uomo avverarsi tante di quelle volte che non aveva dubbi sull'opportunità di consultarlo prima di affrontare una incombenza importante. Tanto più, dunque, nella missione affidatagli da Sua Eminenza. E se Pascale gli avesse chiesto di eseguire preventivamente qualcosa di strampalato e lì per lì privo di senso come la biblica richiesta di lavarsi sette volte nel Giordano, ebbene, l'esperienza glielo aveva insegnato: alla fine usciva sempre che aveva ragione lui, il vecchio prete, in evidente combutta con lo Spirito Santo. No, non avrebbe lasciato Napoli senza abboccarsi con Pascale. Anche se ciò implicava un esorcismo fuori programma e qualche spavento per lui e il suo protetto. «... umilmente Ti supplichiamo di volerci liberare da ogni tirannia, laccio, inganno e infestazione degli spiriti infernali e di mantenercene sempre incolumi. Per Cristo, Nostro Signore.» L'anziano prete aveva ripreso dal punto in cui era stato interrotto. E i due risposero, come da rituale: «Amen!». La giovane, intanto, aveva riacquistato il suo aspetto consueto. Solo, una tristezza profondissima, un dolore infinito le invadevano il viso. Alzò gli occhi rossi e gonfi su Pascale e, con voce malinconica, si lamentò: «Non è merito tuo. Ci sono altri che stanno pregando con te in questo momento». «Chi?» ordinò perentoriamente l'esorcista. «Le suore di clausura.» «Dove?» «In tutto il mondo.» Pascale decise di approfittare di quel momento di sconforto nella posseduta per incalzarla: «Da dove vieni?». «Dal deserto.» «Come sei entrato in lei?» «Per mezzo di un tavolo Crawford.» «Che cos'è?»
Stranamente remissiva, la giovane rispose: «È un tavolino a tre gambe, senza chiodi né viti. Serve a fare le sedute spiritiche. Ci vuole anche il medium, che nel mio caso era una medium. Non lo sapevi che a Napoli ci sono diverse società spiritiche? Naturalmente, tutti pensano che il medium sia qualcuno che ha un potere speciale, che sia una persona con qualcosa in più rispetto alle altre. Invece, è uno con qualcosa in meno» calcò sulle ultime parole. «Ha una personalità così fragile e malata da poter essere facilmente cavalcata da noi. Così, i partecipanti credono di parlare con i defunti ma è con noi che parlano. E noi sappiamo esprimerci con la voce dell'evocato e pure rispondere alle domande sui dettagli della sua vita, quelli che solo lui e chi lo chiama conoscono. Mamma, mamma!». E dalla sua gola uscì una voce di bambina. Ma non era l'imitazione di una voce infantile, bensì un'altra voce, e ciò atterrì gli astanti. Seguì un brano di canzone eseguito a bocca chiusa con voce da tenore. Poi la voce mutò ancora e divenne quella di un vecchio decrepito: «Assunta, perché hai regalato a Titta quel mio fermacravatta a forma di farfalla?». Ancora la voce cambiò per diventare quella di un ragazzo: «Caro padre, non vi preoccupate per me. Io qui sto bene. C'è tanta luce...». Una risata raggelante chiuse l'alternarsi delle voci. Subito il corpo dell'ossessa prese a gonfiarsi e poi a raggrinzirsi, poi tornare gonfio e ancora sgonfiarsi come un mantice. Allora l'esorcista si tolse la stola dal collo e la mise sulla testa della ragazza. Questa cominciò a dimenarsi per sottrarsi al contatto ma il padre e il fratello aumentarono d'intensità la presa. Quando il corpo le si gonfiava il volto di lei assumeva un'espressione dura e risoluta; ma quando di colpo dimagriva fino a poterle contare le ossa era come se fosse un'altra persona, completamente differente da quella di prima. Tanto decisa e orridamente ferma quella, quanto insicura e angosciata questa. D'un tratto afferrò con i denti la stola e, buttando la testa completamente all'indietro come certi uccelli acquatici, ne strappò un lungo brandello. Subito più mani si precipitarono a togliergliela di bocca e con un deciso strattone riuscirono a recuperarla. Don Nicola se la ritrovò tra le dita, trascinato dal suo stesso impeto alcuni passi indietro. La guardò sconcertato: era intatta. Alzò di scatto gli occhi sulla donna, tra i cui denti aveva visto il pezzo strappato dalla stola; ma questo non c'era più, non c'era più niente. C'era solo lo sguardo di lei su di lui, e un ghigno beffardo sul suo volto. «In nome del Dio altissimo, dimmi cosa dobbiamo fare per espellerti!» urlò disperato alla posseduta.
Questa, ridiventata di colpo magrissima, con voce indicibilmente addolorata sussurrò: «Pregate». Ma subito si gonfiò e la voce divenne completamente diversa, come appartenente a un'altra persona: «Stupidi! Pregare non serve a niente!». A quel punto la voce di prima si sovrappose e si udiva contemporaneamente il disperato invito a pregare, intrecciato a quello, sprezzante, contrario. La cacofonia andò avanti per due minuti buoni. Don Gaetano e don Nicola guardavano la donna e poi Pascale, a bocca aperta, non capendo più niente e non sapendo cosa fare. Il vecchio esorcista cercò di sovrastare il baccano gridando loro che evidentemente gli spiriti erano due e che erano indifferenti l'uno alla sorte dell'altro perché i demoni odiano, sì, Dio e l'uomo, sua creatura prediletta; ma si odiano anche tra di loro, essendo fatti di puro odio. «In nome della Vergine Maria, uscite da costei!» urlò l'esorcista. L'ossessa, svincolatasi con un gesto disperato, si coprì le orecchie con le mani e si accartocciò per terra. «In nome di san Giuseppe, terrore dei demoni!» La donna si torceva vieppiù, con la testa ormai tra i ginocchi. «In nome di san Michele Arcangelo!» Un fiotto di vomito uscì dalla bocca spalancata della posseduta. Acqua giallastra e melmosa, tanta da formare una larghissima pozza che si sparse fin quasi all'altare. Poi, rivoltandosi sul dorso, giacque immobile sul pavimento. I cinque uomini, stravolti e ansanti, si guardarono l'un l'altro interdetti. Ma subito il vecchio esorcista disse: «Presto, adagiatela su un banco, fate piano. Poveretta, deve essere sfinita!». Don Gaetano chiese con apprensione e speranza: «Ce l'abbiamo fatta? È libera?». Pascale scosse la testa, provatissimo: «No. Sono ancora dentro. Dobbiamo completare il rituale. Coraggio, ricominciamo». Con voce rotta dalla stanchezza, riprese: «Noi ti imponiamo di fuggire, spirito immondo, potenza satanica, invasione del nemico infernale, con tutte le tue legioni, riunioni e sètte diaboliche, in nome e con l'autorità di Nostro Signore Gesù Cristo». Qui si segnò con una larga croce, subito imitato dagli altri due. «Sii sradicato dalla Chiesa di Dio, allontanato dalle anime create a immagine di Dio e riscattate dal prezioso Sangue del divino Agnello.» Mandò uno schizzo di acqua benedetta sul corpo della giovane, che si ir-
rigidì e rimase teso. «D'ora innanzi non ardire, perfido serpente, ingannare il genere umano, perseguitando la Chiesa di Dio e scuotere e crivellare come frumento gli eletti di Dio.» Altro spruzzo di acqua santa. Il corpo della ragazza si inarcò, curvando la schiena all'indietro e restando in quella contorta posizione. «Te lo comanda l'altissimo Iddio, al quale, nella tua grande superbia, presumi di essere simile. Te lo comanda Dio Padre, Figlio e Spirito Santo!» Un segno di croce tracciato nell'aria, cui gli astanti risposero segnandosi a loro volta. «Te lo comanda il Cristo, Verbo eterno di Dio fatto carne» altro segno di croce, «che per la salvezza della nostra progenie perduta dalla tua gelosia si è umiliato e fatto obbediente fino alla morte. Te lo comanda la potente Madre di Dio, la Vergine Maria» ancora un segno di croce, «che, dal primo istante della sua Immacolata Concezione, per la sua umiltà ha schiacciato la tua testa orgogliosa. Te lo comanda il sangue dei martiri e la potente intercessione di tutti i santi!» Angiolina lentamente adagiò le reni sulla panca e stette immobile, gli occhi sbarrati, senza più muovere un muscolo. Pascale attese un attimo, abbassò lo sguardo, sembrò riflettere. Poi disse, rivolto all'ossessa: «Sei stanco? Siete stanchi?». Silenzio. «In nome della Beatissima Vergine Maria, ti comando di rispondermi! Sei ancora dentro questa creatura?» La giovane spalancò ancora di più gli occhi, assumendo un'espressione terrorizzata. Il cuoio capelluto le scivolò orridamente indietro, facendola apparire mezzo calva. «Se non riesci a parlare, solleva un dito!» Con lentezza esasperante un dito della mano sinistra di lei si sollevò a perpendicolo fino ad assumere una posizione innaturale, poi ricadde di colpo producendo un tonfo sordo sul legno del banco. L'esorcista riprese a leggere dal rituale, questa volta con voce irata. «Dunque, dragone maledetto e ogni schiera diabolica, noi te lo ordiniamo per il Dio» segno di croce, «vivo, per il Dio» segno di croce, «vero, per il Dio» segno di croce, «santo: cessa di ingannare gli uomini e di propinare loro il veleno della dannazione eterna; cessa di nuocere alla Chiesa e di mettere lacci alla sua libertà!»
Il corpo della posseduta si gonfiò nuovamente; al di sotto della pelle si vedevano i muscoli guizzare, le ossa evidenziarsi e sparire quasi al ritmo del respiro che si era fatto affannoso. «Vattene, Satana, inventore e maestro di inganni, nemico della salvezza dell'uomo. Cedi il posto a Cristo, cedi il posto alla Chiesa che il Cristo ha acquistato con il suo sangue!» Angiolina, mentre l'esorcista declamava l'antica preghiera, era divenuta magrissima e respirava in modo spasmodico. «Umiliati sotto la potente mano di Dio, trema e fuggi all'invocazione che noi facciamo del santo e terribile Nome di quel Gesù che fa tremare l'Inferno, cui le Virtù dei Cieli, le Potenze e le Dominazioni sono sottomesse, che i Cherubini e i Serafini lodano incessantemente, dicendo "Santo, Santo, Santo è il Signore, Dio dell'universo"!» La ragazza emise un lunghissimo sospiro, molto più lungo di quanto un essere umano possa, un'espirazione tanto protratta da dare il tempo agli uomini presenti di guardarsi in faccia l'un l'altro, interdetti. Poi smise. Il suo viso divenne sereno, roseo, e i segni della magrezza scomparvero. Due lacrime scesero dagli occhi chiusi a rigarle il volto. Lacrime di gioia e di commozione, si vedeva benissimo dall'espressione. Ma tutti, a quel punto, quasi piangevano di sollievo. Il padre della ragazza si precipitò a baciare la mano di Pascale, il fratello singhiozzava carezzando delicatamente i capelli della giovane. Don Gaetano mise una mano sulla spalla di don Nicola, stringendola. Quest'ultimo si guardava smarrito intorno, non sapendo se ridere o continuare ad aver paura. «Fermi tutti!» disse a quel punto il vecchio esorcista. «In ginocchio, e recitiamo la preghiera di san Michele. Non si sa mai.» Tutti obbedirono, inginocchiandosi attorno alla ragazza che, distesa e spossata, teneva la mano in quella del fratello. La litania si levò lenta e monotona nel silenzio della cappella. «Gloriosissimo principe delle milizie celesti, Arcangelo san Michele, difendici nella battaglia contro le potenze delle tenebre...» Quando ebbero terminato si rialzarono e a turno depositarono un bacio sulla fronte della giovane. «Portatevela a casa, adesso è tutto finito» disse Pascale ai due, padre e figlio. Il giovane aiutò la sorella a sollevarsi, poi, assicuratosi che era in grado di reggersi sulle gambe, la prese sottobraccio e si avviò lentamente all'uscita.
«Tu no, aspetta un momento!» disse Pascale al padre, prendendolo per un gomito. «Cos'è 'sta storia della seduta spiritica?» L'uomo divenne rosso, abbassò lo sguardo e con un filo di voce rispose: «Perdonatemi, monsignore. Sono stato un imbecille. Ma che potevo sapere io? È successo che ho sognato tre volte di fila la mia povera moglie, sembrava che mi volesse dire qualcosa, ma non si capiva. Così, pensando che forse mi voleva dare i numeri per il lotto, sono andato a fare quella maledetta seduta. E l'ho pagata pure!». «Pezzo di cretino, e ti porti dietro tua figlia quando vai a fare certe cose? Non lo sai che la Chiesa le proibisce?» «Ancora perdono, monsigno'!» fece quello, torcendosi le mani. «Mi possa ciecare se lo farò mai più! Il fatto è che Angiolinella era molto legata a sua madre. Ho pensato che magari a lei i numeri glieli dava! Ma da oggi in poi...» «Da oggi in poi guai a te se non ti vedo a messa tutte le mattine per un mese! Questa è la penitenza che ti assegno. Bada di non mancare, se non vuoi che succeda di peggio! Guaglio', guarda che non sto scherzando! La Madonna del Carmine ha sanato tua figlia, e la Madonna non la si fa fessa!» «Eh, l'ho visto, eccome se l'ho visto, ch'è cosa della massima serietà! State sicuro che io qui ci vengo pure con la lingua a strascinoni per terra, se me lo comandate! Non sapete il bene che mi avete fatto, monsignore! Non si viveva più! Non si viveva più con questa povera figlia mia!» E scoppiò in un pianto dirotto. «Be', meno male che non ti sei portato il tuo figlio maschio a far ballare tavolini! Robusto e impostato com'è, e chi lo teneva a quello? Va', va', che il Signore ti ha fatto una grande grazia. Cerca di non dimenticartelo!» «Vossignoria ha in me d'ora in poi un uomo suo! Potessi ciecarmi!» E gli prese la mano per baciarla ancora e ancora. Pascale si sfilò delicatamente e accompagnò la famigliola all'uscita. Quando fu rimasto solo con i due preti, disse loro, sorridendo e fregandosi le mani: «Ce lo siamo meritato un bel caffè, o no?». «A suo tempo» aveva detto il vecchio guardando il fuoco. «A suo tempo.» «A suo tempo Pellegrino Rossi era stato, sì, dei nostri ma ora non lo era più. Personaggio pericoloso e inaffidabile, quello. Borbonico in Calabria,
svizzero a Ginevra, toscano a Firenze, era riuscito a diventare ambasciatore di Francia e ora sarebbe stato di certo più papalino del papa. Conosceva bene i nostri sistemi, e infatti prese anche il portafogli degli Interni oltre a quello delle Finanze. Con lui le cose per noi si sarebbero messe male. Dovemmo correre ai ripari.» Il vecchio, avvolto in una nuvola di fumo, seguiva con gli occhi socchiusi le volute azzurrine che lentamente si avvolgevano su se stesse prima di svanire in alto. Sbuffò altre due boccate prima di riprendere a parlare. «Mettemmo in giro la voce che Rossi intendesse ripristinare l'Inquisizione, tant'è che già aveva dato ordine di approntare mordacchie per chi bestemmiava e gogne e cavalletti da mettere in Campo dei Fiori. Questo serviva a preparare il clima. Naturalmente, avevamo in testa misure più efficaci per neutralizzare il pericolo. Ma la voce che qualcuno voleva morto il Rossi si diffuse con la stessa celerità, tanto che furono in diversi a mettere in guardia il primo ministro. Il quale, per sicurezza, prese a girare scortato. Allora facemmo sì che sui giornali si ironizzasse pesantemente sul "glorioso ministero" che avvertiva la necessità di farsi accompagnare dalla forza pubblica. «Così, il Rossi il giorno dell'apertura dei lavori parlamentari si sentì in dovere di presentarsi alla Cancelleria da solo. Era quanto volevamo. «Se però volete la mia opinione, credo che si trattasse solo di intimidire il Rossi. O almeno di farlo allontanare per qualche tempo. La cosa deve essere finita nelle mani di qualche circolo più esaltato degli altri e infine trascesa, fino all'omicidio.» Sbadigliò rumorosamente. Come se stesse discutendo amabilmente di storia antica e non rievocando un efferato fatto di sangue. Chiuse alfine la bocca schioccando più volte la lingua, e si riassestò la dentiera. «Il moderato riformatore è il primo nemico della Rivoluzione, amico mio» scandì. Affondò il mento nel petto e sogghignò. Riprese a succhiare il cannello della pipa ma si accorse che questa si era spenta. Con un sospiro, rialzò la testa e proseguì. «Così, avvenne che un primo ministro fosse ammazzato nell'atrio del parlamento senza che nessuno muovesse un dito per mettere le mani sull'assassino. «Ricordo ancora benissimo come andò la cosa. Il giorno in cui doveva tenere il discorso inaugurale, Rossi arrivò alla Cancelleria in carrozza.
Sceso che fu, si ritrovò circondato da una piccola folla che cominciò a insultare e a fischiarlo. Nella calca, uno gli diede un colpo di bastone a un fianco, costringendolo a voltarsi. Qui intervenne un altro che per maggior sicurezza era stato ben istruito da un chirurgo anatomista. Un'unica pugnalata alla gola e il Rossi non fu più un problema. La sera quel pugnale fu portato in trionfo per le strade alla luce delle torce, mentre il "popolo" si recava sotto le finestre dell'ucciso a inveire contro la vedova e i figli inneggiando al "vindice Bruto". Devo dire che si trattò di un episodio discutibile ma, che volete, è difficile frenare la valanga dopo che la si è scatenata.» Sbadigliò ancora. «L'indomani, Sterbini e Canino radunarono la folla, ingrossandola con militi della Guardia Civica. Il Canino, sciabola in pugno, guidò l'assalto al Quirinale. Spuntarono un paio di cannoni. Al Quirinale ci stavano solo una settantina di guardie svizzere e circa venti carabinieri. Ma subito arrivarono gli ambasciatori degli Stati esteri a fare scudo alla persona del papa. Allora si cominciò a parlamentare. Singolare: proprio quel giorno su Roma apparve un'aurora boreale color del sangue. «Di lì a poco il papa scappava travestito a Gaeta. Era fine novembre, un venerdì. Pio IX, travestito da semplice prete, lasciò il Quirinale di notte, attraverso corridoi segreti. Lo aiutarono i diplomatici, soprattutto l'ambasciatore bavarese. A Gaeta fu ricevuto dai sovrani borbonici, anche loro partiti da Napoli nel cuore della notte. Naturalmente, una delle prime cose che il papa fece fu di scomunicare tutti quelli che l'avevano costretto a fuggire, nonché tutti coloro che avrebbero partecipato alle elezioni dell'annunciata assemblea costituente.» Concluse con un gesto di noncuranza e si osservò le unghie della destra. Alcune erano marroni, per la lunga abitudine a pressare il tabacco nella pipa. «Cosa stavo dicendo? Ah, ecco. Intanto, un sacco di gente nostra da ogni parte d'Europa era convenuta a Roma non appena saputo delle elezioni. A votare andò solo un terzo degli aventi diritto. L'eletta costituente dichiarò il papato decaduto e proclamò la Repubblica, affrettandosi a dare la cittadinanza a tutti i nuovi arrivati, Mazzini per primo. Quest'ultimo fece premettere a tutti gli atti pubblici il suo motto preferito, "Dio e Popolo". Bah, fissazioni di quell'esaltato. «Sì, certo, troppi avventurieri erano calati a Roma. E non si poteva controllare tutto. Ci ritrovammo con occupazioni di conventi, profanazioni di
chiese, omicidi di preti. Che posso dirvi, qualcosa alle teste calde bisognava pur concedere. Fecero addirittura circolare una fotografia truccata: il papa paludato con insegne massoniche. E la voce si sparse talmente che quello fu costretto a smentire. Figuratevi che una suora di Portici, pur nell'imbarazzo, gli chiese apertamente se la sua affiliazione massonica rispondeva al vero. Questa storia andò avanti praticamente fino alla sua morte.» Si mise a ridere scompostamente ma il suo debole petto non resse a lungo i singulti e un altro accesso di tosse intervenne a tramutare la risata in rantolo. Scaracchiò nel fuoco e si pulì la bocca con la manica. «Quei mattacchioni» disse divertito, «avevano confiscato tutti i beni ecclesiastici! A Roma! Quando Pio IX poté rientrare trovò un deficit spaventoso: due milioni di lire! Immaginate quanti erano, questi beni ecclesiastici. Gli oggetti preziosi presenti nelle chiese vennero inventariati. Il clero fu rimosso dagli ospizi. Nessun prete poteva girare per le strade in tonaca. Perfino dagli ospedali tolsero le Suore della Carità e le sostituirono con le prostitute tirate fuori dalle case di correzione. Il santuario di Loreto, per non essere spogliato degli ex voto accumulati nei secoli dalla devozione dei fedeli, dovette versare trentamila scudi. Avrebbero venduto anche le opere d'arte dei palazzi papali se il cardinale Antonelli, nuovo Segretario di Stato, da Gaeta non avesse dichiarato nulli i contratti di qualunque natura stipulati a Roma in assenza del pontefice. I governi, per evitare contenziosi futuri, furono costretti a vietare l'importazione di opere d'arte provenienti da Roma. «Ciceruacchio e i suoi si scatenarono. Facevano irruzione nelle chiese anche durante l'esposizione del Sacramento e mettevano tutto a soqquadro. Andarono perfino a liberare i prigionieri del Sant'Uffizio. Ma ci trovarono solo un prete accusato di falso. Che mattacchioni! Pensate, recuperarono nei cimiteri qualche cesto di ossa, scovarono chissà dove certi antichi strumenti di tortura ed esposero il tutto al pubblico, provocando sdegno e orrore per l'"efferatezza" dell'Inquisizione. «Cosa non combinarono! Nella basilica di San Pancrazio distrussero la reliquia del Martire, dispersero le sacre ceneri, fecero i loro bisogni nell'urna consacrata. Divelsero le mense degli altari e le frantumarono, le immagini le presero a sciabolate, scrissero col carbone frasi sconce e le misero in bocca alla Madonna, si sbizzarrirono in disegni da lupanare...» Sorrideva paterno al pensiero delle marachelle di quei birboni, tratteneva a stento le risate come un nonno che deve fingersi burbero con i nipotini
turbolenti, scuoteva la testa ma si vedeva che cercava di reprimere il riso. In fondo, doveva trovare sconvenienti e forse anche deplorevoli gli eccessi che aveva descritto. Infatti, fu con tono di rammarico che proseguì. «Non nascondo che talvolta esagerarono. A San Pancrazio, per esempio, due della Guardia Civica decapitarono un prete e gettarono il corpo nel Tevere. Un altro fu trascinato in un portone e sgozzato, gli occhi cavati, le budella attorcigliate al collo, la lingua tagliata; lo lasciarono lì per strada. Uno che predicava contro la Repubblica fu linciato in Trastevere. Ma tutto sommato gli ammazzamenti furono pochi, non infieriamo.» Liquidò l'argomento con un gesto evasivo. «Che volete, era con la Roma del clero che ce l'avevano. Invasero monasteri e cacciarono per strada le monache, anche quelle troppo vecchie o malate. Tutti gli arredi d'oro e d'argento delle chiese furono portati via, le campane fuse, le sacrestie smurate, i chiostri scavati, le tombe sfondate in cerca di gioielli. Naturalmente, un migliaio di preti se la diede a gambe, seguiti da circa tredicimila civili. Per inciso: fu così che Pio IX cessò di essere "liberale" e invertì la sua rotta di centottanta gradi. Ma ormai un papa liberale non serviva più.» Il vecchio a questo punto assunse un'espressione perplessa: «Malgrado tutte le ruberie e gli espropri, le casse della Repubblica erano sempre a corto. La zecca stampava cartamoneta a tutta manetta, fino a quando quella cartaccia non ebbe praticamente più valore. Fu allora imposto un prestito forzoso, fu perfino sequestrata l'argenteria a ogni famiglia che godesse di un minimo di agio. Tutto il fondibile fu fuso, l'oro e l'argento delle chiese, il bronzo delle campane per fare cannoni. Parte del metallo prezioso prese la via di Parigi, per finanziare i deputati amici affinché si opponessero alla spedizione francese a Roma. Ma una buona altra parte non si sa che fine abbia fatto. Io stesso non ne ho la più pallida idea. «Permettetemi adesso di tornare un po' indietro» disse, ridivenuto amabile. «Alla mia età si vive di ricordi e mi fa piacere cogliere l'occasione per reimmergermi nel clima di quei giorni. Quel che volevamo era provocare una specie di Rivoluzione francese in Italia. L'idea era di giacobinizzare il Regno di Sardegna e farlo espandere in tutta la penisola. Il papato? Doveva semplicemente sparire. Per sempre. «Quando Rossi fu pugnalato qualcuno chiese l'intervento dei deputati che di mestiere facevano i medici. Il Canino si indignò per la confusione; "Manco fosse il re di Roma!" esclamò in aula. Mandarono a cercare il comandante dei carabinieri, perché arrestasse i facinorosi che avevano fatto
ressa attorno alla vittima; ma questi aveva capito da che parte stava tirando il vento. Infatti, l'indomani si unì coi suoi uomini alla folla che assaltava il palazzo del papa. Pio IX era ormai prigioniero nel Quirinale, dove le guardie civiche avevano preso il posto degli svizzeri. Fu allora che decise di fuggire. «Ma questo devo averlo già detto. Eh, sono proprio vecchio! E, come accade ai vecchi, ricordo benissimo particolari di molti decenni fa ma scordo quel che ho mangiato ieri. Vogliate compatirmi, amico mio, ma non commettete l'errore di cessare di prestarmi attenzione. «Tornando al Rossi, in seguito un'inchiesta sul suo omicidio ci fu e vennero condannati a morte Luigi Grandoni, che si suicidò in carcere, e Sante Costantini. Ma a vibrare la coltellata, ne rimango persuaso, era stato Luigi Brunetti, il figlio di Ciceruacchio. Dopo il crollo della Repubblica fuggì con Garibaldi e venne fucilato dagli austriaci col padre e col fratello Lorenzo.» Si strinse la radice del naso con due dita, come se stesse sforzandosi di ricordare. Ridacchiò e fece un gesto indefinibile con la mano. Uno schiocco nel fuoco lo riscosse. Riprese a raccontare. «Dicevo che tutti i patrioti d'Italia erano accorsi a Roma. E Sterbini, ministro dei Lavori Pubblici, garantiva loro un impiego retribuito. Arrivarono anche, naturalmente, Garibaldi e Bixio. Vennero costituiti dappertutto comitati di salute pubblica. Mazzini era sbarcato a Livorno, accolto dal dittatore Guerrazzi. Il Profeta della Rivoluzione, il Mosè della Repubblica, il Messia della Religione dell'Umanità propose a Guerrazzi di fondere subito la Toscana con la Repubblica Romana. Ma figurarsi se quello, che lo conosceva bene, gli avrebbe consegnato il suo trono! Così, Mazzini dovette accontentarsi del solo trono romano. Una volta a Roma, emanò un pomposo proclama a tutte le genti della terra affinché corressero in aiuto alla Repubblica, perché la Roma degli Imperatori era scomparsa, così come quella dei Papi, ed ora splendeva la stella sempiterna della Roma del Popolo. Una stella che durò tre mesi. Una Repubblica a cui il denaro non bastava mai, cosa che non si capirebbe se non si ammettesse che molti "patrioti", mi vergogno a dirlo, si riempivano le tasche a man bassa. E nemmeno le case private erano sicure: col pretesto di perquisizioni irrompevano, frugavano e intascavano.» Parlava seguendo il filo dei suoi pensieri, i quali non avevano un ordine logico ma venivano da lui esposti così come gli si presentavano. «I canonici di San Pietro, rifiutatisi di cantare il Te Deum per la Repub-
blica, vennero pesantemente multati. Ma se la passarono meglio dell'arcivescovo di Senigallia, che per lo stesso motivo fu stecchito. Quando le cose si misero male, in città accorse Zambianchi, già galeotto per nove omicidi. La Repubblica l'aveva nominato comandante di reparto a Terracina. Prese quartiere nel convento di San Callisto in Trastevere. Qui torturava e fucilava frati, monaci e preti ch'era un piacere; ne fece fuori, dicono, una cinquantina. E anche nel convento di Santa Sabina ci scapparono diversi morti ammazzati. Si tratta, non posso darvi torto, di cose deprecabili...» Si interruppe per l'ennesimo attacco di tosse catarrosa che lo squassò per lunghi secondi. Quando poté finalmente riprendere fiato, ansimando si mise a ridere: «Scusate, ma mi sovviene un particolare grottesco che vi voglio raccontare. Quando tutto fu finito e Roma aspettava il ritorno di Pio IX, un mattino i circoli misero in giro la voce che a mezzogiorno il papa sarebbe entrato da porta San Giovanni. Si radunò un'immensa folla che attese per ore. Alla fine arrivò un cane con il triregno in testa e drappi pontificali sulla schiena. L'associare quel papa a un animale non rimase una novità isolata. A Caprera, Garibaldi chiamò il suo mulo Pionono. E Pionono si chiamava anche il cane di Luigi Ciari, che fu il primo civile a entrare nella breccia di Porta Pia dopo i bersaglieri. Era un colportore, cioè un venditore ambulante di Bibbie protestanti. Ne aveva riempito un carretto che faceva tirare al suo cane. Anche Garibaldi si fece colportore, sapete? Sì, per una sorta di obbligo morale nei confronti dei suoi finanziatori inglesi. Quando si ritirò nell'isoletta del valore di due milioni di lire che il governo gli aveva regalato in ringraziamento per avergli servito mezza Italia su un piatto d'argento, Garibaldi si portò dietro, sì, il famoso sacco di sementi dell'agiografia; ma anche una cassa di Bibbie protestanti da distribuire ai sardi. «Eh, gli inglesi ci tenevano proprio a far dilagare i loro predicatori e le loro "società bibliche" nella culla del papismo! Cavour dovette impegnarsi in tal senso con loro fin dai tempi della Crimea, dove ai bersaglieri piemontesi fu gentilmente donata una Bibbia a testa. Protestante, naturalmente. Sapete, c'è chi pensa che l'Italia sia in ritardo rispetto alle nazioni civili perché non ha avuto una Riforma o un suo equivalente, qualcosa, insomma, che, infrangendo le catene del dogma cattolico, avesse inaugurato anche qui il regno della libertà. Qualcun altro, al contrario, ritiene di dover ringraziare la resistenza della Chiesa perché, se alla frammentazione politica si fosse aggiunta anche quella religiosa, per l'Italia sarebbe stato un disastro. Senza contare le opere d'arte di cui la penisola trabocca: le icono-
clastie luterana e calvinista e anabattista eccetera eccetera avrebbero fatto il deserto. «Be', vi dirò che a noi il protestantesimo interessava solo come anticipazione del Positivismo e dell'Illuminismo alla francese, tutto qui. Ma non è che avessimo intenzione di far diventare protestante l'Italia. No, noi volevamo molto di più. Il fatto è che, in quella fase, il protestantesimo era un cuneo infilato nelle fessure del cattolicesimo papista. Una cosa alla volta, amico mio. Una cosa alla volta.» Tacque e armeggiò per riaccendere la pipa. Consiglio Monsignor Pascale, don Gaetano e don Nicola erano seduti attorno a un tavolo e consumavano i maccheroni che la perpetua aveva fatto loro trovare pronti e fumanti nella piccola cucina. Nel corso del veloce pranzo Alicante ebbe modo di rendere edotto il suo direttore spirituale a proposito dell'incarico loro affidato dal cardinale. Ma non riuscì a finire il discorso perché fin dalle prime battute aveva visto l'anziano sacerdote sorridere e annuire. «Come, monsignore! Già sapete tutto? E come fate a saperlo? Vabbe' che siete un santo, ma...» «Gaetani', mò finiscila con questa storia del santo! Che santo e santo!» si spazientì Pascale. «Qua dentro di santo ci sta solo quello là!» E indicò la parete dove era appeso un quadro con san Giuseppe. Poi, con il dito sempre teso verso il quadro, aggiunse: «Ti sei scordato che sono io il confessore di Sua Eminenza?». Alicante fece l'espressione strabiliata. Monsignore si batté la mano sulla fronte, si fece il segno della croce ed esclamò: «Sì, buona notte! E che hai capito? Mica sto infrangendo segreti rivelatimi in confessionale! Sua Eminenza ne ha parlato anche con voi due, no? E poi, non si tratta di materia di peccato, visto che anche nel corso di una confessione si può chiedere un consiglio che non c'entra niente con il sacramento in senso stretto. Ecchè, ti devo insegnare tutto?». «Non vi inquietate, né, monsignore mio bello, perdonatemi, avevo preso fischi per fiaschi» si giustificò don Gaetano. A Pascale, nel vedere la faccia angustiata del suo discepolo, passò subito la voglia di fingersi seccato e, sorridendo, tornò al suo solito buon umore: «Stavo dicendo che so dei delitti e so dove il cardinale vi vuole mandare.
Tuttavia...». «Tuttavia?» incalzò Alicante. «Tuttavia è possibile che san Giuseppe, cui avevo chiesto consiglio ieri in merito a 'sta faccenda, abbia scelto un modo diciamo piuttosto brusco oltreché diretto per darmi, e darci, una mano.» «Che volete dire?» «Tira un po' fuori quella carta che hai scritto prima, durante l'esorcismo.» Alicante, che nel parossismo delle ultime fasi del rito se ne era dimenticato, trasse dalla tasca in petto il taccuino e lo sfogliò. «Ecco qua. Ho scritto "medipal mutlucco seinevni odnacifitcer earret aroiretni atisiv"» scandì con qualche difficoltà. «Che diavolo, è il caso di dirlo, viene a dire?» «Fa' vedere, dammi qua!» Pascale si fece passare il taccuino e lo allontanò alquanto dagli occhi per mettere la pagina a fuoco. Studiò la scritta per qualche secondo, poi disse: «Proviamo a scriverlo alla rovescia». Don Gaetano staccò un foglietto bianco e vergò, compitando ad alta voce: «"Lapidem occultum invenies rectificando terrae interiora visita." Ma è latino! Vediamo... La pietra occulta troverai rettificando... Boh! Non ci capisco niente!». «No, no. Se è alla rovescia, devi cominciare dall'ultima parola!» «Ah! Allora, ecco: "visita interiora terrae rectificando invenies occultum lapidem. Sì, adesso ha un senso: "visita le viscere della terra rettificando troverai la pietra nascosta". È già meglio, certo, ma non ci capisco niente lo stesso!» «Ho capito io. Vai, forma un acrostico con le iniziali delle singole parole.» Alicante eseguì e scrisse: "V.I.T.R.I.O.L.". Corrugò la fronte pensieroso. «Ma io questa sigla l'ho già vista! Solo, non ricordo dove.» «Sta a simboleggiare la morte iniziatica e la discesa agli inferi dell'adepto. La sigla corrisponde alchemicamente ai primi tre gradi...» «... del Rito Scozzese Antico e Accettato! Ma certo!» esclamò Alicante battendosi la mano in fronte. «Ma perché i diavoli che si erano impossessati di quella povera ragazza avrebbero dovuto mettere di mezzo la massoneria?» «E io che ne so, Gaeta'? Non ne ho la più pallida idea. Però...» «Però?»
«Però so cosa sono le Cento Stanzulelle.» «Ah, già, c'era anche questa! Perciò non avete costretto i diavoli a spiegarsi! Già lo sapevate!» «Sì, e se volete sapere come la vedo io, prima di partire per le Puglie fossi in voi andrei a dare un'occhiata a queste Cento Stanzulelle. Secondo me, san Giuseppe ha voluto indicarvi una direzione precisa.» «Con tutto il rispetto, monsignore, ma quelli erano diavoli, non santi!» «Eh, 'Aitani', e non lo sai che san Giuseppe è il terrore dei demoni? E che, dunque, questi gli devono ubbidire? Da' retta a me, andate alle Cento Stanzulelle, sono sicuro che qualcosa di buono ci esce.» Don Nicola, che aveva seguito il dialogo fin lì senza capirci niente, sbottò: «Perdonate, signori miei, ma qui si vuole farmi uscire pazzo! Riassumo per vostra comodità» e cominciò a contare sulle dita. «Stamattina il tafferuglio alla porta del moribondo, poi il cardinale mi incarica di una missione sconvolgente, poi mi ritrovo alle prese con i diavoli e ne vengo fuori incanutito, ora esce che devo andare a sfruculiare Certe Stazioncelle! Ma che so' 'ste Stazioncelle?» «Ih! Mò t'impappini pure!» lo sfotté don Gaetano. «Stanzulelle, Stanzulelle! Ma quale incanutito, poi! Quante storie per una sola strisciolina bianca in testa! E che sarà mai! D'altronde, ti sta pure bene, ti dà un'aria vissuta, più matura! E poi, visti i tempi che corrono, caro mio, è bene che cominci a fare pratica con gli esorcismi, se vuoi fare il prete. Che cosa siano queste Cento Stanzulelle non lo so neppure io, ma ora monsignore ce lo dice.» E si volse verso l'anziano sacerdote, in attesa. «Si tratta di un intrico di cisterne e cunicoli di epoca romana che il popolo chiama le Cento Stanzulelle. Non sono lontane. Stanno su un promontorio che scende verso il mare. Poi vi spiego io come arrivarci. Ah, portatevi la luce, perché dentro non ci si vede. E con buona fortuna.» «Un momento, un momento!» interruppe don Nicola. «Monsignore, con tutto il rispetto, ve la pigliate voi la responsabilità di contraddire il cardinale? Quello ci ha detto di andare alle Puglie, non a infilarci dentro a 'ste Cento Stanzulelle!» «Figlio mio» rispose calmo Pascale. «Fino a prova contraria, siete stati voi a venire a cercarmi. Mi avete chiesto un consiglio e io ve l'ho dato. Non lo volete seguire? A piacere vostro. Io mica m'offendo! Però, poi, non venitemi a dire che non ve l'avevo detto.» Alicante era imbarazzato. Aveva perfettamente compreso lo stato d'ani-
mo del suo figlioccio e non si sentiva di dargli torto. Ma sapeva anche che monsignor Pascale aveva qualcosa in più rispetto ai preti, diciamo così, normali. Era infatti dotato di diversi carismi soprannaturali, tanto più sorprendenti quanto più il loro detentore appariva cordiale, alla mano e a tratti sanguigno come ogni buon partenopeo. Sempre sereno, sempre di buon umore, a volte giocherellone perfino. Certo, quando era il caso sapeva inalberarsi e usare la bacchetta. Ma non faceva lo stesso Gesù con i suoi discepoli quando questi si dimostravano di dura cervice? Insomma, non si sarebbe detto, a prima vista, che quell'anziano sacerdote era anche un mistico. Eppure era così. Tra i carismi di cui era provvisto c'era il dono del consiglio. Chi aveva sperimentato i suoi suggerimenti era in condizione di affermare che il vecchio monsignore su certe cose difficilmente sbagliava. Come facesse, lo sapevano solo lui e lo Spirito Santo, elargitore di quel dono. Come tale dono si potesse ottenere, poi, era uno dei tanti misteri della mistica. Cristo nel Vangelo aveva detto di pregare per chiedere a Dio lo Spirito Santo e i suoi famosi sette doni, uno dei quali era appunto quello di saper consigliare i dubbiosi azzeccandoci. Cristo aveva, anzi, insistito sulla facilità con cui il Signore concede lo Spirito Santo a chi glielo domanda. Aveva detto, suppergiù: chi di voi se suo figlio gli chiede un pane gli dà un sasso? E chi di voi se suo figlio gli chiede un uovo gli dà una serpe? Or dunque - aveva aggiunto - se voi che pur siete cattivi date cose buone ai vostri figli, tanto più il Padre vostro darà lo Spirito Santo a chi gliene fa richiesta. Così aveva detto Gesù Cristo. E Alicante stesso aveva provato mille volte a pregare il Padre in questo senso. Però, di Spirito Santo, lui, ancora non ne aveva visto. Invece, era sicuro che monsignor Pascale l'avesse. Sì, perché in parecchie occasioni l'aveva osservato all'opera nel dar consigli e altrettante aveva toccato con mano che il suo direttore spirituale aveva visto giusto. Non aveva perciò potuto fare a meno di chiedersi come mai lo Spirito fosse calato su monsignor Pascale e su di lui no. Forse che Alicante non pregava nel modo giusto? E, se le cose stavano così, qual era il modo giusto? Una volta si era fatto coraggio e aveva posto la domanda allo stesso Pascale. Questo aveva sorriso e gli aveva detto di non stancarsi di pregare. Così, Alicante aveva inserito, da quel giorno, una giaculatoria in tal senso alla fine del breviario. Solo che era poi passato tanto di quel tempo che la giaculatoria aveva finito per suonare come una stantia filastrocca di chiu-
sura. A furia di dirla, insomma, Alicante aveva quasi dimenticato a cosa serviva. Niente, lo Spirito su di lui non era mai disceso. Evidentemente non ne era degno. Oppure il destinatario del dono veniva scelto in base a criteri che gli sfuggivano. Così, si era rassegnato, concludendo che, come dice il Vangelo, lo Spirito soffia dove vuole. E, se non voleva soffiare su don Gaetano, chi era lui per mettersi a discutere? Mah. Misteri di un Dio insondabile, ineffabile e imprevedibile. Il risultato era, però, che quando Alicante doveva prendere una decisione di peso non gli restava che andare a bussare alla porta di monsignor Pascale. Invariabilmente, quello, dopo avere ascoltato i corni del dilemma, distoglieva gli occhi dal suo interlocutore, si concentrava su di un punto a caso nel pavimento e, dopo averlo guardato fisso per qualche secondo, emetteva la sentenza. Mai una volta, una sola, Alicante si era dovuto pentire di aver seguito le dritte di Pascale anziché il suo personale giudizio. Anche quando la logica sembrava cozzare contro il consiglio ricevuto. In una determinata circostanza, infatti, tale consiglio gli era parso così strampalato che Alicante aveva preferito fare di testa sua. Ed era rimasto scornato. Si trattava di un diamante. Un oggetto che era appartenuto alla sua famiglia per secoli e che era stato tramandato all'interno di essa di generazione in generazione. Anche quando suo padre si era trovato in ristrettezze economiche quel diamante era rimasto gelosamente custodito e l'uomo aveva preferito far mancare il pane ai suoi figli pur di non privarsene. Alicante ricordava il racconto che accompagnava quella pietra preziosa le rare volte che veniva tirata fuori dall'angolo più riposto del cassetto del comò e con orgoglio mostrata. Il racconto cominciava invariabilmente dal primo possessore, quel lontano antenato che l'aveva ricevuto in dono per i suoi servigi dal barone tal dei tali. Il diamante alla morte di lui era passato al figlio, il quale l'aveva lasciato al suo primogenito, e così via fino a Gaetanino Alicante, il piccolo ultimo arrivato che ascoltava a bocca aperta. Gaetanino, però, aveva interrotto la dinastia facendosi prete. Suo padre non gli aveva lasciato in eredità che quel diamante, essendo morto privo di beni di fortuna. E don Gaetano l'aveva conservato non per avidità ma per non fare torto alla memoria di suo padre, che si sarebbe rivoltato nella tomba al pensiero di un passaggio in mani di estranei dell'unico tesoro degli Alicante. Così, quel tesoro era rimasto religiosamente avvolto nel velluto rosso,
stretto da un cordoncino dorato e chiuso in una scatoletta foderata di raso che don Gaetano teneva nel cassetto del comodino da notte, vicino alla testa del suo letto. Ogni tanto lo tirava fuori e lo guardava, mormorando una prece per l'anima di suo padre. Poi lo rimetteva a posto, tra i rosari e le boccette di medicinali. Fino al giorno in cui aveva visto la Nunziatina al giardino comunale, accomodata su una panchina. La giovane stava messa in posa scostumata, con la gonna tirata fino ai polpacci e il petto mezzo sbottonato. Sorrideva allusivamente a una recluta che era seduta nella panchina di fronte. Alicante era piombato giusto mentre il giovanotto si alzava per rispondere all'invito. Il prete aveva spintonato rudemente il milite e mollato uno schiaffone alla ragazza. Il soldato aveva cercato di protestare ma ne aveva ricavato un altro spintone e la minaccia di un rapporto ai suoi superiori, nonché di una denuncia alla gendarmeria perché l'adescatrice era minorenne. Quando quello se ne era andato bofonchiando, Alicante aveva ordinato alla giovane di ricomporsi, cosa che Nunziatina, scoppiata in lacrime, aveva fatto in fretta e furia. Il sacerdote l'aveva poi presa per un braccio e, fattala alzare, l'aveva portata via. Cammin facendo le aveva chiesto conto del suo comportamento e aveva appreso che la Nunziatina, troppo povera per farsi un corredo e perciò senza prospettive circa un onesto matrimonio, aveva solo ceduto a un momento di particolare sconforto. Alicante aveva ascoltato tutto il racconto della ragazza e aveva finito per commuoversi. Non aveva trovato altro da dirle che le solite cose sulla fiducia nella Provvidenza e la bontà della Madonna benedetta che mai distoglie lo sguardo da chi le si affida. Ma poi aveva pensato che forse la Provvidenza aveva fatto sì che fosse proprio lui a passare per il giardino comunale quel giorno e a quell'ora. In breve, aveva deciso di provvedere egli stesso alla dote di quella sfortunata giovane onde impedire che finisse al malaffare. Nunziatina, infatti, era rimasta orfana di padre per via di un brutto incidente. L'uomo, muratore e unico sostentamento della famiglia, era caduto da un'impalcatura rimanendo ucciso. Aveva lasciato la moglie malata e cinque bambini piccoli cui Nunziatina doveva provvedere. La ragazza, oltre a occuparsi della casa, per sfamare la famiglia era stata costretta ad andare a servizio. Ma era troppo sviluppata e procace per la sua età, il che la rendeva oggetto delle attenzioni dei padroni e dei loro rampolli. Così, finiva ogni volta che le padrone gelose la cacciavano. Ora non sapeva più do-
ve andare e, nella sua disperazione, aveva deciso di farsi pagare per il solo servizio che da lei, a quanto pareva, gli uomini volevano. Per questo Alicante, a sua volta, aveva deciso che era giunto il momento di vendere quel suo famoso diamante. Per una buona causa. Suo padre, dal Cielo, avrebbe capito. Naturalmente, prima ne aveva parlato con il suo direttore spirituale. Questi gli aveva chiesto di mostrargli il prezioso. E, quando l'aveva avuto davanti agli occhi, aveva dichiarato che era falso. Alicante era rimasto di sasso. Come! Falso, il diamante familiare? Il bene gelosissimamente custodito per generazioni e tramandato di padre in figlio fino a lui? La pietra che, pur di non venderla, aveva costretto suo padre a far debiti per tirare avanti? No, non era possibile, questa volta Pascale aveva sbagliato, sicuro come la morte. Sant'uomo, sì, il suo direttore spirituale, ma mica esperto di pietre preziose! Quando mai! No, no, questa volta stava prendendo una cantonata grossa come una casa, la santità gli aveva dato alla testa! Era stato così che Alicante, deciso a procurarsi il denaro necessario ad assicurare un futuro alla sua protetta, aveva portato il suo diamante dal più rinomato gioielliere di Napoli e ne aveva chiesto la valutazione. Quello, incastratosi lo speciale monocolo nell'orbita, aveva scrutato attentamente l'oggetto e poi scosso il capo. Falso. Alicante aveva avuto un bel protestare, chiedere di guardare meglio, insistere. Ma il responso era stato sempre lo stesso. La sua famiglia si era trasmessa per secoli un pezzo di vetro. Evidentemente, il barone tal dei tali aveva fatto il millantatore e gradasso con il lontano antenato primo possessore del diamante. E l'antenato, confuso da cotanto onore, aveva deciso di farne il bene per eccellenza della famiglia. Bravo fesso; se avesse provato subito a venderlo, l'inghippo sarebbe saltato fuori. Invece... Morale: all'avvenire di Nunziatina aveva provveduto un benefattore procurato da monsignor Pascale e da quel momento Alicante non si era più permesso di dubitare del suo direttore spirituale. Ora, se Pascale diceva di andare alle Cento Stanzulelle anziché in Puglia, non ci potevano essere dubbi. Perciò, Alicante mise una mano sulla spalla di don Nicola e lo guardò negli occhi. «Nico'» gli disse, «tu ti fidi di me?» «Don Gaeta', io per voi mi butterei nel fuoco, lo sapete!» rispose quello con trasporto. «E allora dammi retta e andiamo a 'ste Cento Stanzulelle. Me la piglio io
la responsabilità.» «Come volete voi, don Gaetano.» «Coraggio, figli miei!» rise monsignor Pascale. «Finiamo questi maccheroni, che sennò donna Filomena se ne ha a male! Quella li ha fatti con tanto amore!» Al caffè don Nicola non seppe trattenersi e ingaggiò monsignor Pascale in una discussione politica. Il fatto era che aveva sempre sentito don Alicante quasi rimpiangere i tempi dei regni prima dell'Unità e duramente criticare il modo con cui quest'ultima era stata portata a termine. Il suo padrino gli pareva soprattutto nostalgico dello Stato Pontificio e del papa re, quando la religione cattolica era tenuta in maggior conto e onore, quando i sovrani chiamavano il pontefice "padre" e gli baciavano la sacra pantofola, quando i capi di stato reggevano il baldacchino nella processione del Corpus Domini. Ma lui era nato dopo e non era mai stato del tutto persuaso che "prima" fosse meglio. Insomma, l'idea di una Chiesa liberata da ogni gravame temporale e politico, e perciò obbligata a concentrarsi esclusivamente sulla sua missione spirituale, non gli dispiaceva. In cuor suo riteneva, per giunta, che l'attuale situazione di ostilità tra la Chiesa e l'Italia potesse essere superata alla luce del Vangelo. Ora, proprio coloro che del Vangelo erano portatori dovevano farsi carico del primo passo, di tendere la mano, di perdonare i torti ricevuti e riconquistare i cuori con la mansuetudine evangelica. Alicante ce l'aveva con Cavour, con Garibaldi, con la massoneria. Don Nicola non possedeva né la cultura né l'esperienza per contraddirlo, anche perché quello prendeva fuoco subito e non c'era modo di ragionarci. Ma don Nicola non se la sentiva di condannare senza appello. Ognuno di noi la vede a modo suo, pensava. Un suo compagno di collegio, un siciliano, soleva dire che ogni testa è tribunale. Se dunque don Alicante era convinto di avere ragione, lo stesso valeva per Cavour, Garibaldi e i massoni. E come Alicante era in buonissima fede, perché non ammettere la stessa buona fede negli altri? Perché non riconoscere la sincerità dei sentimenti patriottici che li animavano? Perché, infine, escludere a priori che potessero aver ragione loro? L'enormità di quest'ultimo pensiero era tale da sgomentarlo, per questo don Nicola si fermava sempre un attimo prima, timoroso di quel che poteva esserci al fondo ultimo di tale ragionamento. Temeva infatti di scoprirsi "prete liberale", cosa che avrebbe fatto venire un colpo al suo padrino. Del
resto, che i Padri della Patria avessero scippato il regno al papa e a tutti gli altri re e granduchi in modi che definire poco urbani era dir poco, non si poteva negare. Ma ormai era andata così e ora bisognava uscirne. Solo, non per via politica, come appunto i preti liberali. Semmai evangelica. Certo, non è che non ci dormisse la notte. Però non gli piaceva restare "tra color che son sospesi" (l'unico verso dantesco che ricordava). Ora, ecco, aveva trovato uno di fronte al quale Alicante si metteva sull'attenti. Così, dopo che ebbero bevuto il primo sorso di caffè, esordì: «Monsignore, voi che ne dite, si arriverà mai a una conciliazione tra la Chiesa e il Regno d'Italia?». Alicante posò rumorosamente la sua tazzina sul piattino e chiuse gli occhi per reprimere il moto di rabbia. Riuscì a contenersi e con voce pacata «Nicoli'!» flautò. «Ma che ti metti a infastidire a monsignore con questi discorsi! E lasciagli bere il caffè in pace!» «No, no» fece quello. «Fallo parlare. Scommetto che con te non riesce mai a dire niente perché tu subito ti scaldi. Ti conosco, sai?» Alicante diventò rosso e tacque. «Sono sicuro» proseguì Pascale, rivolgendosi a don Nicola, «che t'ha fatto una capa tanta su Cavour, Garibaldi, la massoneria e quant'erano belli il re di Napoli e il papa re, non è vero?» Don Nicola timidamente guardò verso il suo padrino e fece segno di sì. Alicante finse di essere intento a girare lo zucchero. «Be', se vuoi sapere come la penso io, credo che sia giunto il tempo e che un accordo in qualche modo lo si debba trovare» sospirò Pascale. «Perché, io ho mai detto qualcosa di diverso?» intervenne piccato Alicante. «No, certo. Lo so bene come la pensi» rispose Pascale. «Ma sono sicuro che se avessi alle spalle anni e anni di confessionale come me giudicheresti meno con l'accetta e più con il piumino. Vedi, il cuore umano è complicato e le cose non sono mai del tutto bianche o del tutto nere. Il colore più diffuso, ahimè, è il grigio, con una gamma pressoché infinita di sfumature che vanno dal grigio sporco e fetente al quasi bianco. Quasi, però.» Si fermò per l'ultimo sorso del suo caffè. Gli altri due percepirono che intendeva continuare a parlare e non aprirono bocca. «Caro don Gaetano, ti stupiresti se ti dicessi che razza di gente viene da me. Persone che mai immagineresti. Eppure è così. Ed è alla luce di questo
che ho imparato a guardare la politica. Quando passi un guaio senza rimedio, quando un gravissimo lutto ti colpisce, quando il medico ti dice che hai una cosa brutta, quando la disgrazia ti zompa tra capo e collo, allora l'importanza che davi alle cose importantissime svanisce come neve al sole. Allora scopri che hai passato l'esistenza a inseguire un fantasma, che può avere anche la corona sulla testa ma sempre fantasma è, fatto d'aria, fatto di niente. «E anche a te, prete, passano le fantasie. Tutte le parole che avevi detto, e magari gridato, dal pulpito, quelle che avevi scritto sul foglio cattolico, i fulmini che avevi scagliato tuonando contro la cattiveria dei tempi, tutto questo ti si affloscia in mano e devi, ripeto, devi! aprire le braccia benedicenti al fratello che il dolore ha schiacciato e umiliato. «Tu, Gaeta', ti arrabbi perché il papa ha perso tutte e tre le sue corone? Eh, non hai visto ancora niente! Verranno tempi in cui ai cattolici resteranno solo i santuari, quelli della Madre Benedetta in particolare.» Si fece assorto e prese a fissare un punto indefinito del pavimento. Pochi istanti, poi distolse lo sguardo e riprese: «E sì, che vuoi? Che vai trovando? Napoleone ha arrestato ben due papi, uno l'ha fatto addirittura morire carcerato. E ancora prima, in Francia, i preti finivano alla ghigliottina senza tanti complimenti. Mi sembra che adesso le cose stiano molto meglio, o no? Ih! Al papa gli hanno levato il Quirinale? E se lo tengano. In attesa che qualcuno lo levi a loro. Pigliamo esempio da quel santo di don Bosco. Lui, lo sai che diceva? Diceva così: dobbiamo chiedere mille permessi per aprire un asilo? E noi li chiederemo. Dobbiamo affrontare diecimila pastoie e complicazioni per fare il catechismo? E noi le affronteremo. Dobbiamo sottostare a ispezioni, cavilli e dinieghi? E noi sottostaremo. Infatti, lui, che guardava avanti, ha combinato qualcosa di buono, caro il mio Gaetano. Tu, che tieni la testa voltata all'indietro, non gli arrivi nemmeno alle caviglie. Neanche io, del resto. Troppo tardi ho cominciato a capire». Don Nicola non aveva mai visto il suo padrino così, con la coda tra le gambe, come sembrava adesso. Tuttavia, era sempre lui, tant'è che, pur umilmente, ribatté: «Ma a voi, allora, questa Italia piace così com'è diventata?». «Non ho detto che mi piace. Ho detto che non me ne frega niente. Ho detto che ormai c'è ed è inutile recriminare. Certo, la si poteva unire politicamente meglio, chi lo nega? Ma credi davvero che prima ci fossero solo rose e fiori? Ne sei proprio sicuro? Lo sai, no, che ho qualche anno più di te? Guaglio', da' retta, lascia perdere le beghe politiche, ti fai solo il sangue
amaro. Prendiamo esempio da don Bosco, ti ripeto. Il cristiano non vive nel passato ma nel presente. Guarda, sì, al futuro, ma sa bene che questo ancora non c'è. Solo il presente c'è. Sai come dicono i benedettini? Stat crux dum orbis volvitur. Il mondo gira ma la croce è sempre lì. Pensa all'hic et nunc. Pensa al presente. Pensa alla salute! Dell'anima, naturalmente, tua e degli altri.» Alicante non seppe che rispondere. Abbassò la testa come uno scolaretto rimbrottato dal maestro. Don Nicola quasi si dispiacque per lui. Ed esultò quando lo vide, subito, rialzare il capo per sorridere grato al monsignore. «Filomena! Filome'! Vedi se c'è rimasto un altro poco di caffè! Va bene pure riscaldato!» gridò Pascale rivolto alla porta. «Una cosa alla volta» aveva detto il vecchio prima di accendersi la pipa. «Una cosa alla volta.» Il vecchio scosse la testa e poggiò la nuca sullo schienale della poltrona, chiudendo gli occhi. Con le pesanti palpebre abbassate le occhiaie sembravano quelle di uno scheletro. Il pomo d'adamo aguzzo emerse dalle pieghe cadenti e rugose della pelle. Le labbra erano sparite e la bocca era diventata una linea grinzosa e cattiva. «Sono così stanco!» disse. «E ci sarebbe ancora così tanto da fare! Sapete, non ho mai occasione di abbandonarmi ai ricordi e sto scoprendo con piacere che raccontare mi consola. Capite bene, del resto, che non sono molte le persone a cui io potrei affidare la mia memoria. Anzi, non ce ne sono. Perdonate, dunque, se vi userò ancora un poco come uditorio, amico mio. E portate pazienza se il filo della narrazione non vi sembrerà granché coerente. Vi dico le cose così come si affacciano alla mia mente, man mano che un ricordo ne fa affiorare un altro, anche se il legame tra due ricordi consecutivi sarà noto solo a me. La memoria, nei vecchi, è come una galleria di quadri. Di soggetto diverso, magari di stile diverso. Eppure, con una loro logica d'insieme. «Ecco, in questo momento vedo le due grandi ceste del plebiscito a Napoli, una con sopra scritto "sì" e una con su "no". In esse l'elettore doveva pescare per poi infilare la scheda nell'urna dopo aver firmato. Se prendeva un "no" veniva subissato dagli insulti e dalle urla minacciose dei garibaldini presenti. I quali, pur essendo quasi tutti settentrionali, avevano diritto di voto in qualità di "liberatori". «E ce n'erano addirittura anche di inglesi. In Inghilterra esisteva una leg-
ge che permetteva l'arruolamento di volontari per le indipendenze altrui. Solo che Palmerston la interpretava nel senso di favorire quelli che andavano a combattere con Garibaldi ma bloccare chi voleva arruolarsi sotto le bandiere del papa. Questi ultimi erano parecchi, sapete, e non solo irlandesi. Il sistema escogitato era semplice: si cavillava per impedire la partenza di qualunque volontario, tranne quelli che venivano fatti passare per "escursionisti". E tutte le "escursioni" valevoli erano solo verso Napoli. «L'annuncio del reclutamento, comparso sul "Times", era rivolto agli escursionisti che volessero visitare l'Italia meridionale. La gratuità del viaggio era generosamente assicurata dal generale Garibaldi. Ma, poiché si trattava di zone piuttosto instabili, a ogni escursionista sarebbe stato consegnato un mezzo di difesa e uno speciale abbigliamento che lo rendesse riconoscibile da parte degli altri escursionisti. Eh, non si può dire che i britannici manchino di humour!» Rise di cuore alla sua facezia. E, sempre ridendo, aggiunse: «Sapete perché il rosso divenne il colore garibaldino? Perché, quando Garibaldi combatteva nel Sudamerica, i suoi guerriglieri acquistarono a prezzo stracciato una partita di camicie da macellaio, che erano appunto rosse per non impressionare i clienti con le macchie di sangue. Peccato che, come uniforme di guerra, fosse fin troppo visibile anche a grande distanza!». Un'altra risata. «Mi sono sempre chiesto cosa avrà pensato il papalino o il borbonico di origine sudamericana al veder avanzare baionetta in canna una schiera di carnizzieri del suo Paese! Non lo trovate buffo?» Rise di nuovo, più forte questa volta. Ma quasi subito tornò serio. «Quando l'unificazione fu compiuta qualcuno si chiese se per caso non si trattasse, in verità, di una pura e semplice occupazione piemontese, visto che le opere d'arte, perfino l'argenteria e i mobili della reggia borbonica, erano state trasferite a Torino. Subito dopo il famoso incontro di Teano, quello in cui Garibaldi consegnò il Sud a Vittorio Emanuele, la cassa del nuovo regno italiano era esattamente di seicentosettanta milioni di lire-oro. Di questi, quattrocentocinquanta erano stati presi a quella delle ormai ex Due Sicilie. «Eh, i Borboni! Complimentatevi con me per come siamo riusciti a far diventare questo nome un aggettivo spregiativo: borbonico uguale retrivo, incivile, oppressivo, retrogrado e chi più ne ha più ne metta. Naturalmente, le cose non erano così tetre. Ferdinando II, quando girava per il regno, per
risparmiare alloggiava in qualche locanda o in un convento francescano. Aveva ridotto al minimo il suo appannaggio, le spese di corte e perfino gli stipendi dei ministri. Le tasse nel suo regno erano almeno la metà di adesso e l'accattonaggio era completamente sparito. I piemontesi, invece, smontarono pure le fabbriche per portarsele a casa, praticamente costringendo i meridionali a emigrare in America. «Unificazione o piuttosto colonizzazione? Ai posteri l'ardua sentenza, come dice il grande Manzoni domandandosi, a proposito di quel Napoleone che l'Italia conobbe più che altro come invasore, repressore e ladro, se la sua fu vera gloria. Ah, i poeti! Sempre con la testa fra le nuvole, beati loro! Quelli che non si suicidano, intendo.» Rise ancora e gli si leggeva in faccia che stava congratulandosi con se stesso per le spiritosaggini che proferiva. «Gli ex duosiciliani fecero la conoscenza con tasse sul macinato e perfino sulle porte e le finestre. Il risultato furono un po' più di fame e tuguri senza aria e luce. Insomma, la tubercolosi. Invece, Franceschiello stava costruendo mulini a vapore statali per la macinazione gratuita quando arrivò "Garibbardo".» Storse la bocca nel pronunciare alla siciliana questo nome e mimò una posa tronfia. Scacciò con una mano qualcosa nell'aria e, data la lentezza dei suoi gesti, ci volle qualche istante per capire che stava solo esprimendo disprezzo. «Che volete farci, la guerra è guerra e non potevamo andare per il sottile, né impensierirci con scenari amministrativi futuri. Solve et coagula. Sciogli e ricomponi; ma in modo differente. Il nostro lavoro non è molto diverso da quello degli antichi alchimisti. Era necessario prima dissolvere gli antichi regni per poi riaccorparli, trasfigurati, in unità più grandi. Cioè, lo Stato Nazione. In attesa che anche questo venga, a suo tempo, smantellato per lasciare il posto a quello che verrà dopo.» Tacque e sembrò concentrarsi su quel nuovo pensiero. La mimica facciale prese a mutare velocemente. Alzava un sopracciglio, poi l'altro, lo sguardo diventava ora corrucciato ora ilare, muoveva le dita come a zittire invisibili presenze. Il gioco delle fiamme nel camino proiettava sul suo volto sprazzi di rosso che in certi momenti parevano vere luci infernali. In quegli istanti la sua figura, pur così macilenta, sembrava emanare un'energia che metteva paura. E la sua ombra, gigantesca sulla parete, diventava davvero quella di un alchimista tra i barbagli di un laboratorio sotterraneo. Poi, repentinamente, la fantasmagoria cessò e il suo profilo si distese. Ed
egli riprese, calmo, a parlare. «Lavorammo soprattutto di propaganda, nella quale non avevamo rivali. Fin dal secolo precedente e dai nostri maestri, i philosophes francesi. La direzione che questi ci avevano indicato è ancora la stessa, e tale resterà anche dopo di noi. Un solo esempio: all'ora del trasferimento della capitale a Firenze, a Torino ci furono dimostrazioni di protesta; i manifestanti ebbero centocinquantasette morti e migliaia di feriti perché soldati e gendarmi spararono sulla folla, anche su donne e bambini. Di questo, però, si è subito spento il ricordo. Non così, naturalmente, se una cosa del genere l'avessero fatta i pontifici. Avremmo eretto colossali monumenti in marmo e bronzo, la cui memoria avrebbe superato i secoli. Fin dopo la morte dei testimoni oculari, fino a che per le generazioni a venire non sarebbe stata Verità con la maiuscola, adamantina, assiomatica, evidente come il verde dell'erba e l'azzurro del cielo.» Aveva pronunciato le ultime frasi via via animandosi e quasi gridava quando terminò. Concluse con un pugno sul bracciolo. Dovette fermarsi a riprendere fiato. «È anche vero che la Rivoluzione si serve di uomini che a volte non sanno di servirla» ricominciò con tono pacato. «Gli idealisti lavorano con più entusiasmo e dedizione. A questo servivano, infatti, le nostre parole d'ordine: a suscitare idealisti armati. I quali avrebbero svolto il loro compito tanto più egregiamente quanto più avrebbero considerato alto e puro l'ideale. Altre parole d'ordine sarebbero state elaborate per quelli che li avrebbero sostituiti quando fosse giunto il momento. Sono le parole a far girare il mondo, amico mio. Mi correggo: sono ormai le parole a far girare il mondo.» Rise fragorosamente ma subito, con un'inversione ormai consueta, mutò umore e si rattristò al punto di sembrare sinceramente addolorato. «Il resto, ne convengo, era tragico» fece con tono lamentoso. «Come la guerra civile tra italiani, cominciata mentre ancora si combatteva al Volturno. Cinque anni, durò. E fu chiamata lotta al brigantaggio. Ma ormai la propaganda procedeva per così dire da sola e a nessuno venne in mente che, prima, i briganti erano quattro disperati mentre ora più di metà dell'esercito piemontese doveva essere impiegata al Sud. Ahimè, le cose si erano dimostrate più difficili del previsto e fu dunque d'obbligo calcare la mano. Bisognava fare in fretta, perché la Rivoluzione non era ancora compiuta. Anzi, la Rivoluzione non è ancora compiuta. Né lo sarà mai.» Ancora si fermò a rimuginare su quel che aveva detto. E ancora tornò a
intristirsi quando riaprì la bocca. «La Rivoluzione si serve degli uomini, come ho detto. E gli uomini hanno le loro debolezze, il loro lato piccino. Voi sapete che nel 1856 il conte di Cavour mandò la sua diciottenne cugina contessa Castiglione, donna bella e navigata, a cercare di sedurre l'imperatore dei francesi. A scopo patriottico, s'intende. Vi piacciono i pettegolezzi? Io ne vado matto. Sapete che certe epistole amorose inviate da Cavour a varie donne erano così sconvenienti che furono in parte distrutte dagli eredi? E lo stesso fece la Corona, che acquistò la parte rimanente.» Sorrise perfido e squadrò il suo interlocutore. «Vi guardo in faccia, in questo momento, e posso leggervi nel pensiero. Voi vi state chiedendo qual sia, comunque, il fine di tutto ciò, il fine della Rivoluzione. Ma non c'è fine, né c'è una fine. Il fine della Rivoluzione è la Rivoluzione, amico mio, e sappiate che ci sono uomini che si dedicano a essa sacrificando anche la vita, l'altrui e perfino la propria se necessario, con la stessa passione e dedizione con cui i santi cristiani consumavano le loro esistenze in vista del Regno dei Cieli. Se non capite questo, non avete capito nulla.» Il cadavere Il commissario Ribaudo salì i gradini dell'obitorio e mostrò il tesserino che lo qualificava all'usciere. Questi, all'apprendere di trovarsi di fronte a un autorevole rappresentante della forza pubblica, assunse un atteggiamento di deferenza e, con mille inchini, accompagnò il commissario nell'ufficio del conservatore, il dottor Coviello. Il dottor Coviello, un uomo sulla cinquantina e con i capelli brizzolati tagliati cortissimi, saputo di cosa si trattava, fece strada al commissario fino alla sala dei cadaveri. Entrati, il medico richiuse la porta alle loro spalle e disse: «Mi segua, prego». Ribaudo gli tenne dietro nel corridoio formato dalla doppia fila di tavoli su cui stavano, a occhio e croce, una quindicina di corpi ricoperti da lenzuoli. Dalla parte della testa, sul muro a piastrelle bianche, ciascun tavolo era contrassegnato da un numero. Il dottor Coviello si fermò davanti a quello con il numero undici e attese che il commissario lo raggiungesse. «Questo è quello che cercate. E questi sono i suoi effetti personali.» Si chinò e trasse da sotto il tavolo una scatola di cartone che mise nelle mani di Ribaudo.
«Vi lascio al vostro esame. Vi bastano venti minuti?» Il commissario accennò di sì con il capo. «Bene. Allora ritorno dopo.» E se ne andò, lasciandolo solo. Ribaudo non perse tempo. Posò per terra la scatola e scoprì il capo del cadavere. Una zaffata di formalina lo aggredì. Si mise il fazzoletto sulla bocca e scostò del tutto il lenzuolo, lasciandolo scivolare sul pavimento. Con la mano libera estrasse una lente tascabile dal panciotto e cominciò a esaminare il morto centimetro per centimetro. Come gli era stato detto, il cadavere non presentava segni di violenza. Apparteneva a un uomo anziano ma vigoroso, alto e con il ventre prominente. L'esame del corpo non rivelò nulla di interessante, a parte l'attentissima cura delle unghie, alle quali il defunto doveva aver tenuto parecchio. Passati in rassegna piedi, mani, gambe, braccia e tronco, il commissario si concentrò sulla testa. Capo quadrato, osservò, capelli bianchi e folti, naso corto, sopracciglia regolari, bocca decisa. Avvicinò la lente alle labbra ben rasate del cadavere e si sporse per vedere meglio. Nel far questo si tolse il fazzoletto dalla bocca, e poté avvertire un odore leggerissimo, diverso da quello della formalina. La lunga esperienza di poliziotto gli disse che quel che sentiva era cloroformio. Ne ebbe conferma visiva accostandosi di più. Un paio di pelucchi bianchissimi. Ovatta. Sollevò la testa del cadavere ed esaminò la nuca. La lente rivelò un tenue filo giallastro impigliato tra i capelli. Canapa. Spago. Ora sapeva come avevano fatto a uccidere Li Volsi. Purtroppo, questo non aggiungeva nulla a quanto già gli era noto. Decise che il cadavere non gli avrebbe detto altro e che poteva ricoprirlo. Raccolse il lenzuolo e lo stese sul corpo. Vediamo se ho miglior fortuna con il contenuto della scatola, si disse. Piegò le ginocchia e la raccolse. La scatola conteneva i vestiti, le scarpe, il cappello, l'armamentario da caccia. Il fucile non c'era, naturalmente; data la natura dell'oggetto, dovevano averlo conservato da qualche altra parte. Si ripropose di chiedere al dottor Coviello se, a esame completato, l'avesse ritenuto necessario. Frugò in tutte le tasche, passò in rassegna la giacca, i pantaloni, il gilet. Trovò le solite cose: portafogli, penna, orologio, un anello d'oro, spiccioli. L'esame del portafogli non aggiunse molto. Biglietti da visita intestati al morto, qualche banconota, la carta d'identità, un appunto su un invito a
pranzo dal conte Franza per la settimana successiva. Il conte avrebbe risparmiato sul banchetto, pensò cinicamente il commissario. Ricerca deludente, la sua. Del resto, cosa si aspettava? La polizia aveva già passato al vaglio tutto e difficilmente si sarebbe trovato ancora qualcosa da scoprire. Certo, non si sapeva mai. Due esami erano meglio di uno solo e con un pizzico di fortuna... Chissà, magari un dettaglio era sfuggito. Non troppo convinto, il commissario rimise tutto a posto e passò al cappello. Un normalissimo cappello da cacciatore, di feltro verde e con tanto di piuma di gallo cedrone. Era stato appiattito perché potesse entrare nella scatola e Ribaudo, d'istinto, cercò di ridargli la forma. Nel far questo ci infilò una mano dentro e si accorse che le punte delle sue dita incontravano qualcosa. Nella balza interna che correva lungo tutta la circonferenza c'era un foglio ripiegato più volte. Ribaudo lo prese; posò la scatola per terra e ci mise sopra il cappello. Era un quadratino di carta di buona qualità, ingiallito dal sudore. Lo svolse e vi lesse sopra: "V.I.T.R.I.O.L. Cento Stanzulelle. 14". La scritta era vergata a mano con inchiostro blu. Subito andò a riprendere il portafogli e ne trasse l'appunto sull'invito a pranzo dal conte. La calligrafia era la stessa. Per sicurezza, tolse la penna dal taschino della giacca del morto, svitò il cappuccio e tracciò un ghirigoro sul bordo dell'invito: anche l'inchiostro era lo stesso. Dunque, era stato il Li Volsi a prendere quell'appunto infilato nel cappello. Ma qual era il significato della frase? Ripiegò il foglio e se lo mise in tasca. Poi ripose tutto nella scatola e mise quest'ultima sotto il tavolo, dove stava prima. Consultò il suo orologio. I venti minuti erano quasi passati. Si dispose ad attendere che il dottor Coviello venisse a riprenderlo riflettendo sulla strana scritta. Trascorsi un paio di minuti la porta si aprì ed entrò il medico. «Allora, è stato proficuo il vostro esame, signor commissario?» «Direi di sì, dottore, vi ringrazio.» «Venite, vi accompagno all'uscita.» Il conservatore lo scortò cortesemente fino alle scale, dove l'usciere si alzò rispettosamente in piedi. Ribaudo e Coviello si salutarono dandosi la mano e il commissario cominciò a scendere le scale. Ma dopo un paio di gradini si voltò e chiese al medico: «Scusate, una domanda. C'è per caso qui a Napoli un posto che si
chiama Cento Stanzulelle? Non so, un albergo, un ristorante...». Il conservatore incurvò all'ingiù gli angoli della bocca e scosse la testa, mostrando di non averne idea. Fu l'usciere, alzando un dito per avere il permesso di interloquire, a parlare: «Perdonate, signor commissario. Ma questo nome io l'ho già sentito da un mio cognato che abita a Marina di Percoli, che è un paese non molto lontano ma neanche vicinissimo devo dire. Dovrebbe trattarsi di un antico rudere romano. Sta sopra una collina che dall'altra parte scende fino al mare. Però non ci va mai nessuno, è abbandonato proprio. Ma come mai vi interessa?». «Questi, se non vi dispiace, sono affari miei» rispose Ribaudo con fare amabile, anche se la sua amabilità non impedì all'usciere di arrossire violentemente: si mise sull'attenti e si inchinò più volte, mormorando imbarazzate parole di scusa. «Come ci si arriva?» tagliò corto il commissario. «L'unica è una vettura. Se volete ve ne vado a chiamare una» disse quello. «Grazie, mi fareste davvero una grande cortesia. Permettete» concluse Ribaudo, e cavò dalla tasca dei calzoni mezza lira che andò a porgere all'usciere. Questi, sorridendo a tutti denti, accettò la lauta mancia e la intascò velocemente. Poi fece: «Chiedo scusa». E, messe due dita in bocca, fischiò verso la piazza antistante. «Ohè, Vincenzi'! Carrozza!» urlò, sbracciandosi. Un cocchiere, fermo sulla piazza, alzò la testa e fece cenno di aver sentito. Il commissario, ringraziato l'usciere, discese le scale mentre la carrozza si avvicinava. Quando questa si fu accostata al marciapiede, l'usciere, sceso anch'egli, andò a confabulare con il vetturino, il quale accennò di aver capito e attese che il commissario salisse. Poi la carrozza si avviò lasciandosi dietro l'usciere che salutava con la mano. Sprofondato nel sedile della vettura Ribaudo si ritrovò a pensare che forse era stato troppo precipitoso e stava agendo esclusivamente d'impulso senza avere ben riflettuto prima. Stava dirigendosi fuori Napoli, verso un posto mai visto né sentito, sulla base di un esile indizio. Ma andava pur detto, si rispose, che altri non ne aveva e che da qualche parte si doveva iniziare. Restavano ancora due elementi da decifrare sul foglietto di Li Volsi, la sigla V.I.T.R.I.O.L. e il numero 14. Innanzitutto, come mai quel foglio era sfuggito alla perquisizione della polizia per essere ritrovato solo da lui? In effetti, era possibile. Fittamente ripiegato e, per giunta, ulteriormente pressato ogni volta che il cappello
veniva calcato in testa, se a qualcuno non fosse venuto in mente di cacciare le dita sotto la fascia interna era praticamente impossibile che venisse scoperto. Solo lui aveva potuto perché stava cercando di ridare forma al cappello in questione, appiattito e stropicciato da chi l'aveva infilato a forza nella scatola. Quando era stato trovato il cadavere, il cappello era calzato sulla testa o si trovava per terra poco discosto. In tutti e due i casi aveva conservato la sua forma. Dunque, per esaminarlo bastava darci una semplice occhiata sia al di fuori che all'interno, senza doverlo tastare accuratamente. Così doveva aver fatto la polizia e per questo non si era accorta del foglietto. Lo trasse di tasca e lo spiegò, concentrandovisi. Le Cento Stanzulelle, se l'informazione era giusta, stava raggiungendole. Ma V.I.T.R.I.O.L.? E 14? Un elemento per volta, decise. Aveva tutto il tempo. Prima il numero. Se quel foglietto era un promemoria per un impegno o un appuntamento alle Cento Stanzulelle, cosa indicava quel numero? Forse l'ora? No, il foglietto era da tempo nel cappello e, se si fosse trattato di impegno o appuntamento già trascorso, non ci sarebbe stata ragione per conservarlo. Allora era una data? Se sì, non poteva riguardare il giorno 14 dei mesi precedenti, per la stessa ragione. Nel mese corrente, pensò Ribaudo, il 14 è tra un giorno appena. Dunque, si era ancora in tempo per scoprire che razza di impegno avesse il Li Volsi alle Cento Stanzulelle per il 14. Ma se non si trattava nemmeno di una data? Allora era buio completo e, in tal caso, a maggior ragione era necessario andare a indagare in quel posto. La sigla, ora. V.I.T.R.I.O.L. Ribaudo provò a pronunciarla scandendo le lettere una per una. Poi la lesse come un'unica parola. No, non gli faceva venire in mente nulla. Altro mistero. Di solito, quando si ritrovava a un punto morto aveva la buona abitudine di richiamare alla memoria tutti i dati a sua disposizione, riassumendo, in ordine e in dettaglio, il caso fin dal principio. Dunque. Il ministro l'aveva incaricato di risolvere alcuni delitti che avevano in comune solo la sottrazione alle vittime di una medaglia, identica per tutte loro, di matrice probabilmente massonica... E qui ebbe il lampo. Massoneria! Ecco dove aveva visto quella sigla, V.I.T.R.I.O.L.! Il giorno in cui era stato ricevuto in Loggia, quando, cioè, era stata accettata la sua richiesta di "vedere la Luce" come si diceva nel linguaggio della Fratellanza, la sua iniziazione era cominciata, secondo la prassi con-
sueta, con una benda nera sugli occhi. Così bendato era stato condotto per mano attraverso alcuni ambienti. Poi la benda gli era stata tolta e si era ritrovato in una stanza dipinta di nero, arredata con un'iconografia mortuaria. Era il cosiddetto Gabinetto di Riflessione, dove l'adepto trovava svariati simboli. Al centro della stanza c'era un tavolino con sopra un calamaio, una penna d'oca, un pane secco, una brocca d'acqua e un teschio umano, più tre ciotole contenenti rispettivamente sale, zolfo e sabbia. Adesso non ricordava più il significato di ciascuno di quegli oggetti, solo che avevano a che fare con la morte alla vecchia vita e la rinascita simbolica del neofita. Sulla parete settentrionale erano disegnati uno scheletro, il segno zodiacale del Cancro, i simboli alchemici dello zolfo e del sole. E una sigla: V.I.T.R.I.O.L. Era un acronimo latino, e questa era l'unica cosa che rammentava su di essa. Non era mai riuscito a ricordarsene lo sviluppo per esteso né il significato. Forse perché non l'aveva ritenuto importante, visto che il linguaggio massonico implicava tanti di quegli acronimi da rendere la loro confezione e il loro uso appannaggio pressoché esclusivo dei gradi più alti e di quelli che sovrintendevano ai lavori di Loggia. Magari, più dei secondi che dei primi. Ribaudo, del resto, era stato cooptato nella massoneria quando era un giovane di belle speranze. Speranze soprattutto di far carriera, dal momento che quel particolare club più d'ogni altro era in grado di garantire le giuste relazioni. Era quasi una via obbligata per un giovane agnostico e ambizioso, e lui l'aveva infilata volentieri. Il prezzo era la barbosità delle riunioni in guanti e grembiulino, a sorbirsi declamazioni e retorica, nonché la disponibilità a dare una mano a quei Fratelli che ne facevano richiesta. Per fortuna, quest'ultimo aspetto non aveva mai scalfito la sua integrità professionale come poliziotto, altrimenti si sarebbe visto costretto non solo a rifiutare ma anche a deferire l'incauto al giudizio degli altri Figli della Vedova. Bene, allora Li Volsi era massone, cosa probabilissima stando a quel che aveva detto di lui il ministro e al tono generale del suo «Tamburo garibaldino». Oppure stava svolgendo un'inchiesta per il suo giornale. In quest'ultimo caso, però, perché non aveva mandato uno dei suoi cronisti? A meno che non si trattasse di cosa così delicata da richiedere il personale intervento del direttore. Qualunque delle due ipotesi fosse valida, tuttavia, restava il mistero di quell'appunto. VI.T.R.I.O.L. Alle Cento Stanzulelle. Il 14.
Niente, non restava che andare a vedere. Guardò fuori dal finestrino. Era stato così immerso nei suoi pensieri da non essersi accorto che la carrozza era ormai fuori città e percorreva un'ampia strada sterrata che si snodava tra due file di platani. Si sporse e batté con la mano contro la fiancata per attirare l'attenzione del cocchiere. Appena l'uomo girò la testa verso di lui, gli gridò: «Quanto ci vuole per arrivare?». «Un paio d'orette abbondanti, signo'!» rispose quello, cercando di superare il frastuono delle ruote e degli zoccoli del cavallo. «Se facciamo due scarse, ci sta la mancia!» «A disposizione!» Ribaudo ritirò la testa e sentì lo schiocco della frusta. Il trotto si fece più concitato, divenendo un leggero galoppo. Visto che non rimaneva che attendere, pensò, tanto valeva cercare di riposarsi. Così, si accomodò meglio che poté, inclinò il cappello sugli occhi e intrecciò le dita sul petto. In poco tempo, il rollio monotono della carrozza lo fece scivolare in una specie di torpore vigile, da cui si lasciò invadere con piacere. Da quello stato, tuttavia, fece presto a passare al dormiveglia e da qui all'assopimento vero e proprio. Trascorse così un po' di tempo, non avrebbe saputo dire quanto. Stava ancora gustando la piacevole sonnolenza quando si rese conto che non si avvertiva più né il rollio della carrozza né il rumore regolare degli zoccoli. Si erano fermati. Si svegliò del tutto, scostò il cappello dalla fronte e si affacciò dal finestrino. La polvere sollevata dalla vettura era ancora in aria e non si vedeva quasi niente. Gridò in direzione del cocchiere: «Che succede? Perché ci siamo fermati?». «Nulla di grave, signo'!» sentì di rimando. La polvere, presto diradatasi, mostrò le figure di tre persone a qualche metro dal muso del cavallo. Una pareva una donna. Ribaudo aprì lo sportello e scese. Ormai ci si vedeva bene. Poco più oltre, nella direzione di marcia, c'era un'altra vettura, ferma sul ciglio della strada e notevolmente inclinata. Un assale doveva aver ceduto. Il suo conducente era inginocchiato, si reggeva ai raggi della ruota e aveva la testa infilata sotto al pianale. Il cavallo, ancora imbracato nei finimenti e alle stanghe, brucava tranquillo. Il cocchiere di Ribaudo stava discutendo in modo abbastanza animato
con due persone. Una era un giovanotto dall'aspetto distinto, alto e snello. In testa aveva un cappello a larga tesa, al collo una cravatta vaporosa e ricamata, in mano una sottile canna da passeggio. Portava la barba, nera come i capelli e gli occhi vivaci. L'altra persona era in effetti una donna. E, ora che la polvere si era completamente posata al suolo, Ribaudo poté notare che era la creatura più incantevole che avesse mai visto. Proprio in quell'istante lei si voltò verso di lui e gli sorrise, e al commissario sembrò che dentro gli si fosse riversata la primavera. Poteva avere una ventina d'anni, forse ventidue. O ventiquattro, perché era in quella fase della vita in cui una donna è nel pieno della sua bellezza e, tra i diciotto e i ventotto anni, qualunque età potrebbe essere quella giusta. Bionda, gli occhi verdi, un nasino delizioso e denti perfetti che scintillavano tra due labbra naturalmente color carminio. Parlava e il commissario non sentiva quel che diceva, stordito com'era da una rosea fossetta... anzi, due, una fissa sul mento e una che compariva sulla guancia destra quando sorrideva. Aveva la vita sottilissima e il collo lungo e delicato. I capelli erano raccolti sotto il cappellino con la veletta sollevata. Le mani guantate erano poggiate sul pomello del parasole chiuso. I suoi movimenti erano l'armonia fatta persona. Ribaudo rimase fermo dov'era, con un piede ancora sul predellino, troppo imbambolato per decidere cosa fare. Fu lei ad avvicinarsi con passo deciso. Si fermò a meno di mezzo metro da lui, sorrise ancora e disse: «Oh, signore, non vorreste aiutarci?». Pronunciò queste parole con una leggerissima inflessione francese, cosa che ne aumentava la grazia agli occhi del vieppiù stordito Ribaudo, il quale sentì le orecchie riempirglisi di soavità argentine e ci mise qualche secondo a balbettare: «Co... io, cioè... Sì, certo...!». La meravigliosa visione inclinò graziosissimamente il capo e una luce radiosa si accese sul suo volto. Fece ancora un passo verso Ribaudo, fino ad arrivargli a pochi centimetri. Il commissario si ritrovò avvolto dalla tenue fragranza che la ragazza emanava e non capì più niente, mentre lei, guardandolo di sotto in su, esclamava: «Oh, grazie, mille volte grazie, signore! Dio vi benedica! Io e mio fratello eravamo disperati!». Ribaudo sentì l'entusiasmo arrossargli le orecchie. Dunque, non era il marito, né il fidanzato, ma il fratello! Be', calma, calma, pensò. Non è detto che non sia lo stesso fidanzata o addirittura sposata. Purtroppo, i guanti impedivano di vedere se all'anulare sinistro ci fosse qualche anello o una
fede matrimoniale. Ribaudo, dopo aver brevemente chiuso gli occhi per imprimersi nelle nari il dolce effluvio, si riprese e, con la sua voce migliore, rispose: «Sono a vostra disposizione, signora. O signorina?». Lei arrossì delicatamente e replicò: «Signorina». Bene, pensò Ribaudo. Sposata non è. Il resto si vedrà. «Suppongo che abbiate bisogno di un passaggio. Posso sapere dove eravate diretti?» chiese. «Io e mio fratello stavamo andando, per una breve gita, ai ruderi delle Cento Stanzulelle. E contavamo di rientrare in giornata. Ma, come vedete, la vettura si è rotta e siamo praticamente a metà strada, troppo lontani sia per tornare indietro a piedi che per procedere.» «Perbacco, questa sì che è una combinazione! Anch'io sto andando alle Cento Stanzulelle! Ma, ditemi, come mai avete scelto proprio quel posto per la vostra gita?» Troppo tardi Ribaudo si rese conto di aver commesso un errore e subito il commissario si impadronì di lui, accantonando, almeno per il momento, l'uomo ammaliato dalla vista di una così bella donna. Infatti, a lei riuscirono del tutto spontanee la risposta e la successiva domanda: «Mio fratello è appassionato di storia romana. E voi?». Già, lui. Cosa ci andava a fare, lui, alle Cento Stanzulelle? Il Ribaudo commissario, abituato alle bugie professionali, ebbe la prontezza di dire: «Ma che coincidenza straordinaria! Anch'io!». E subito si morse la lingua per il secondo, e più grave, errore: a quel punto, dando a quei due un passaggio avrebbe dovuto senza dubbio sostenere una conversazione con il fratello di lei sulla storia romana. Ormai aveva fatto la frittata. Si diede dello stupido mentalmente, immaginando a quali acrobazie verbali si sarebbe dovuto sottoporre durante il viaggio per nascondere il fatto che lui di storia romana non sapeva proprio niente. Senza considerare, poi, l'arrivo a destinazione: come avrebbe fatto a svolgere la sua indagine con quei due tra i piedi? Non che gli dispiacesse, certo, avere tra i piedi lei. Ma il dovere era il dovere. Intanto, il fratello della celestiale signorina era sopraggiunto mentre loro pronunciavano le ultime battute. Tese la mano cordialmente a Ribaudo, togliendosi il cappello e sorridendo. «Permettete? Mi chiamo Gaston De Ségur e vedo che avete già fatto la conoscenza di mia sorella. Impulsiva com'è, forse non si è ancora neppure presentata. Si chiama Louise» disse in perfetto italiano. Aveva la stessa
lievissima cadenza francese della ragazza. «Giorgio Ribaudo, molto onorato» fece il commissario, scoprendosi a sua volta. La stretta del giovane era decisa, segno di carattere franco, osservò. Poi prese tra le dita la mano che la ragazza gli tendeva e se la portò galantemente alle labbra. «Pensa, Gaston, il signor Ribaudo sta andando anche lui alle Cento Stanzulelle! Non è una stupenda coincidenza? Ci ha offerto molto cortesemente un passaggio! E, pensa, è anche lui appassionato di storia romana!» cinguettò lei, felice. «Oh, grazie, davvero grazie, signore!» fece lui. «Davvero vi interessate di storia romana? Ma guarda! Ora, però, permettete che mi abbocchi un attimo con il nostro cocchiere e poi potremo proseguire. Se ciò non vi è di eccessivo disturbo, naturalmente!» «No, nessun disturbo, ci mancherebbe! Prego, signorina, voi intanto accomodatevi» disse Ribaudo, che non aveva ancora lasciato la mano di lei ed era felicissimo di constatare che neanche lei aveva sentito la necessità di staccarsi dalla sua. Così, la aiutò a montare in carrozza, mentre Gaston andava a confabulare con il suo vetturino. Proprio allora sopraggiunse una terza carrozza, il cui avvicinarsi non era stato notato dai tre, impegnati com'erano nei convenevoli. Si fermò alla loro altezza e il suo conducente, nel trattenere il cavallo, gridò in direzione del collega ingaggiato dal commissario: «Uè, Vincenzi', tieni bisogno di una mano d'aiuto?». «Salutiamo, Elpidio!» rispose quello. «No, non sono io che ho passato un guaio, ma questo qua!» E indicò il cocchiere che parlava con Gaston. Il commissario notò che i due cocchieri, Vincenzino ed Elpidio, si conoscevano tra di loro ma non conoscevano il terzo, quello dei francesi. Evidentemente a Napoli la categoria era così numerosa da non permettere a tutti i suoi appartenenti di sapere chi fossero molti dei loro colleghi. Osservò il cocchiere dei due fratelli: era un uomo di taglia eccezionale, con due mani enormi e i bicipiti che gli gonfiavano la giubba. Trovò singolare che un tipo del genere, uno a cui di solito veniva affibbiato un roboante soprannome, non fosse noto agli altri. Ma pensò subito che, a furia di fare lo sbirro, stava finendo per trovare il pelo anche nell'uovo. La cosa più ovvia era che i cocchieri napoletani fossero davvero tanti; in fondo Napoli era una delle metropoli più grandi del mondo. Lui, continuando così, si sarebbe garantito una vecchiaia sospettosa e brontolona. Distolse allora l'at-
tenzione e la portò sulla carrozza appena arrivata. Dal finestrino di questa si era sporta una testa maschile, subito seguita da un braccio. Il proprietario, giunte le dita a cono, agitava la mano in su e in giù, esclamando: «Ne, guaglio', perché ci siamo fermati?». «Scusatemi tanto, signo', ma quello è un mio compare!» rispose il cocchiere interpellato, quello che si chiamava Elpidio. «Credevo che fosse sua la carrozza scassata. Giusto un minuto, abbiate pazienza. Se non ci si aiuta tra di noi cocchieri...! Eh, un domani potrebbe capitare a me!» E scese da cassetta per andare a raggiungere gli altri due vetturini. L'uomo dentro alla terza carrozza diede una manata sullo sportello per il disappunto e, rivolto verso l'interno della vettura, abbaiò: «Ma porca miseria, porca! Proprio mò che andiamo di prescia!». Poi, subito rassegnatosi: «Bah, sai che ti dico? Sgranchiamoci le gambe, va'! Ahò, ma che sia un minuto!» terminò, abbaiando verso il cocchiere. Si aprirono gli sportelli e scesero, ciascuno dal rispettivo lato, due uomini, uno parecchio più giovane dell'altro. Tuttavia, era quello più giovane ad avere sulla testa una vistosa striscia di capelli bianchi. L'abito civile donava ad Alicante, che vi stava a proprio agio. Non così Esposito, che appariva piuttosto impacciato. Pantaloni e giacchetta di una misura più grandi, panciotto abbondante di petto, camicia larga di collo. Si era dovuto accontentare, data la scarsità di tempo a disposizione, di un completo dismesso dal suo padrino e risalente all'epoca in cui quest'ultimo era giovane e snello. La differenza d'altezza completava il quadro rendendo il tutto un po' goffo, anche perché le maniche lasciavano fuori solo la punta delle dita e i calzoni ridondavano sulle scarpe. Si avvicinarono ai tre cocchieri, frattanto raggiunti dai due fratelli e dal commissario. Preso atto del danno, si passò alle presentazioni. I due preti declinarono solo nome e cognome. Grande meraviglia manifestarono tutti gli altri quando appresero che anche loro stavano andando alle Cento Stanzulelle. Al commissario non sfuggì il velo di irritazione che attraversò fugacemente gli occhi dei nuovi arrivati, in special modo il più anziano. Ed egli stesso non poté fare a meno di osservare, tra sé, che, decisamente, o quella destinazione era molto ambita dagli escursionisti oppure si trattava davvero di una coincidenza a dir poco straordinaria: ben tre vetture che, nelle stesse ore, andavano verso la medesima destinazione. Ma l'usciere dell'obitorio non gli aveva detto che si trattava di un posto scarsamente frequentato? Ribaudo trovò che non era il caso, per il momento, di sottilizzare e si
concentrò sulla discussione che seguì. Alla fine venne stabilito che i cinque viaggiatori avrebbero utilizzato tutti insieme la carrozza di Ribaudo, mentre l'ultima sopraggiunta sarebbe servita a riportare a Napoli il cocchiere dei due De Ségur, che così avrebbe potuto procurare un fabbro o un carpentiere per far riparare l'assale spezzato. Condotto l'artigiano alla carrozza danneggiata, il cocchiere di Alicante ed Esposito avrebbe raggiunto questi ultimi alle Cento Stanzulelle per ricondurli indietro una volta finita la visita. La soluzione riscosse l'approvazione di tutti. Rimessisi in viaggio, la conversazione fu piacevole finché rimase sulle generali. Poi, fatalmente, si arrivò all'argomento "occupazione abituale". I due fratelli francesi dissero in tutta semplicità che praticamente campavano di rendita, visto che i loro genitori, ahimè defunti da un anno, li avevano lasciati più che benestanti. Proprio qualche mese prima era stato aperto il testamento ed erano potuti entrare in possesso dell'eredità. Così, avevano deciso di compiere un viaggio di piacere in Italia, dove la passione di Gaston per la storia romana avrebbe trovato di che soddisfarsi. Ribaudo, che praticamente si era comportato tutto il tempo come se parlasse solo alla ragazza e non ascoltasse che lei, quando fu il suo turno di dichiarare qual fosse il suo mestiere disse di essere un funzionario del ministero degli Affari Interni. Il che, del resto, era vero. Infatti, da poliziotto sapeva bene come le bugie più difficili da smascherare siano quelle che più si avvicinano alla verità. I due signori ultimi arrivati dichiararono di essere anche loro funzionari e di prestare servizio presso la curia di Napoli. Avevano sempre sentito parlare delle Cento Stanzulelle ma non le avevano mai viste. Com'è noto, quando si è del posto si pensa sempre di avere tutto il tempo di visitare le bellezze circostanti; per questo si finisce per non andarci mai e con il saperne meno degli escursionisti forestieri. Ora, si dava il caso che avessero qualche giorno di ferie arretrate e che giusto la sera prima un loro conoscente avesse decantato il piacere di una gita alle Cento Stanzulelle. Così, avevano deciso sui due piedi di farci un salto l'indomani. Il commissario notò che, dei due, parlava sempre e solo il più anziano. Osservò anche che, evidentemente, l'usciere dell'obitorio doveva aver preso un abbaglio riguardo alle Cento Stanzulelle. Una meta così ambita non poteva essere un posto "abbandonato proprio". Ma era troppo preso dalla grazia personificata che gli sedeva davanti per dare importanza alla cosa.
Non si accorse nemmeno che la storia romana non fu mai nemmeno sfiorata. «Se non capite questo, non avete capito nulla» disse il vecchio. «Nulla.» Il fuoco nel camino cominciava a languire. Lingue agonizzanti di fiamma gettavano qualche barbaglio sul volto del vecchio che teneva gli occhi chiusi. La pipa, ormai spenta, era poggiata sulle ginocchia, tenuta tra due dita. Il petto si sollevava leggermente al ritmo del respiro e un sordo sibilo usciva dalla bocca semiaperta quando il petto si riabbassava. La sua voce arrivò del tutto inaspettata dopo quei lunghi minuti di silenzio. «Pensavate che stessi dormendo? No, io non dormo mai. Dalla vostra espressione ho colto, poco fa, una certa sorpresa quando ho esternato la mia, chiamiamola così, disistima nei confronti di Mazzini. Mi dispiace sinceramente di aver intaccato il piedistallo del vostro idolo, di avere appannato la lucentezza del mito. Ma è giusto che ve ne esponga succintamente i motivi. Vedete, a conti fatti quell'uomo non ne imbroccò mai una. Seguitemi, vi prego. Nel 1833 tentò di prendere Genova. Risultato, dodici fucilati, un suicida, gli altri finiti in esilio, tra cui Gioberti. L'anno dopo, partendo dalla Svizzera, cercò di invadere la Savoia con qualche decina di uomini, mentre Garibaldi doveva fare insorgere Genova. Ma gli uomini se la svignarono. Garibaldi, rimasto solo, dovette scappare, guadagnandoci una condanna a morte in contumacia. «Nel 1840 una banda di mazziniani assalì un distaccamento di guardie pontificie, fucilandone un ufficiale. Intanto, duecento altri marciavano su Bologna. Finì con diversi morti e la fuga dei sopravvissuti. Del fallimento della Repubblica Romana abbiamo già detto. Nel 1853 fu la volta dei "martiri", cioè fucilati, di Belfiore, come ben sapete. Nel 1854 ci furono i moti, naturalmente falliti, di Lunigiana e Svizzera. Nonché l'inutile omicidio del duca di Parma e Piacenza, Carlo III di Borbone. 1855, altro moto in Lunigiana, anche questo andato in fumo. 1856, idem a Massa e Carrara. Dieci anni dopo, Monti e Tognetti accoppavano nottetempo ventidue zuavi francesi e quattro civili romani con una bomba alla caserma Serristori. Terrorismo puro. E strategicamente inutile. Naturalmente, i mandati ci lasciavano sempre la pelle. Mentre il mandante teneva al sicuro la sua, di pelle. L'unica volta che partecipò di persona fu in Savoia, ma al primo colpo di
pistola ebbe le convulsioni e svenne.» Rimise la pipa in bocca e cominciò a succhiare meditabondo il cannello. «E Garibaldi? Vi piaccia o no, era un eroe. Anzi, l'Eroe per antonomasia. Anche lui, quando seppe della fuga del papa, si precipitò a Roma; ma non senza aver imitato il suo maestro in una preventiva visita al dittatore Guerrazzi a Firenze. L'Eroe dei Due Mondi non aveva, a differenza di Mazzini, teorie politiche da offrire, solo la sua spada. Ma il furbo Guerrazzi si sbarazzò anche di lui. Così, al Nostro non rimase che proseguire per Roma, dove giunse accompagnato dai suoi soliti fedelissimi, uno dei quali si era caricato in spalla il Generale, che era afflitto dai reumatismi. Anche all'Assemblea Nazionale entrava in quel modo. I suoi uomini? Bella banda di disperati. I più decenti erano ragazzini tra i dodici e i quindici anni, scappati di casa per romanticismo. Gli altri, o erano studenti che lo avevano seguito per gli stessi motivi, o sudamericani vestiti da gauchos, la cui attività preferita era prendere animali al laccio e arrostirseli lì dov'erano, incuranti delle proteste dei padroni. Questi ultimi venivano pagati con bolle di requisizione, cioè con pezzi di carta senza valore. O così o una fucilata. Scegliere. «So cosa state pensando: ma il popolo, i contadini? Neanche uno tra i seguaci di Garibaldi. Tutti borghesi e qualche nobile cadetto. La gente comune stava coi francesi o con gli austriaci o coi papalini, ed era già tanto se ai "patrioti" della Repubblica Romana non sparava addosso. Strana Repubblica Romana, vero? I capi non erano romani, i difensori nemmeno. No, i romani stavano chiusi in casa, anche perché le strade erano percorse da bande di tagliagole pronte a ogni ruberia e sacrilegio. Vidi con i miei occhi questa teppa acciuffare tre preti qualsiasi per strada e linciarli al grido di "a morte i gesuiti!".» Proruppe in una risata chioccia da gelare il sangue. Quel vecchio demonio sembrava divertirsi davvero al ricordo. Si terse una lacrima e terminò con un accesso di tosse. Sputacchiò per terra, poi rimise in bocca la pipa, tirando una boccata che gli causò altra tosse e altri sputi. «Ricordo un epigramma dell'epoca... Aspettate, come faceva? Ah, sì. "Alma città latina, fatta tu sei latrina, e nella sua cloaca, tutta l'Europa caca."» Un'altra risata e questa volta la tosse lo squassò più forte. Per un poco sembrò dover soffocare. Tirava gli scaracchi dall'altra parte della poltrona, dove restavano nascosti alla vista. Gli ci volle qualche tempo per calmarsi e riprendere.
«L'ultimo giorno di giugno era tutto finito. Mazzini se la svignò travestito da cuoco. Al solito, aveva un passaporto inglese in tasca. Si portò via trecento lire dalla cassa repubblicana. Oh, per non farle cadere nelle mani dei francesi, naturalmente! Ce l'ho ancora davanti agli occhi, con quel ridicolo cappello in testa e l'espressione sempre depressa. Andò a finire a Marsiglia, dove si nascose, sapete dove?» risatina stridula. «Nel manicomio! Sì, sempre come cuoco» altra risatina. «E da lì in Svizzera. Lui, il Profeta dell'Unità! Da cuoco! In manicomio!» E ancora a ridere, fino alle lacrime. «Ah, già. Garibaldi. Eh, quello! A Roma l'aveva raggiunto Anita. Sempre incinta, tanto per cambiare. Si era tagliata i capelli e vestiva da ufficiale. Gli cavalcava al fianco, giorno e notte. Naturalmente, i mitografi pensano alla bella prova di dedizione! Ma quale! Era gelosa marcia! E ne aveva tutti i motivi. Il Generale non guardava in faccia nessuno, né minorenne né moglie altrui, e lei lo sapeva bene! Ma non tentate di interrompermi, vi prego. Dunque, dov'ero rimasto? Ah, sì. Garibaldi. «Insomma, con Garibaldi scapparono da Roma in cinquemila circa. Meno di una settimana dopo erano rimasti la metà. Per forza. Garibaldi aveva assicurato loro che le popolazioni si sarebbero sollevate solo al vederlo spuntare, invece erano costretti a saccheggiare casali e monasteri per potersi nutrire. La gente anziché aiutare loro aiutava i francesi e gli austriaci a scovarli. «Molti vennero presi. I più se la squagliavano di notte, anche perché Garibaldi non ci pensava due volte a freddare di sua mano i disertori, senza neanche prendersi il disturbo di togliersi il sigaro di bocca. Se ne andavano soprattutto gli ufficiali. Il guaio era che nei garibaldini gli ufficiali erano più numerosi della truppa!» Ancora rise e sputò. «Pure Anita aveva i gradi. Un colonnello se la svignò con la cassa e si consegnò agli austriaci; i quali, grati, lo lasciarono tornare sano e salvo in America. Giunti a San Marino fu giocoforza sciogliere quei pochi che erano rimasti. Garibaldi voleva imbarcarsi per costituire una specie di forza marittima con cui accorrere al servizio della "libertà" ovunque possibile. Il punto è che qui non aveva a che fare con i raccogliticci eserciti sudamericani. La marina austriaca era un'altra cosa, così come lo erano le truppe francesi a Roma. Lui, il Generale dei miei stivali, era abituato a ordinare assalti alla baionetta, alla disperata, ondate su ondate, una dietro l'altra. Era l'unica tattica di guerra che conoscesse. Naturalmente, dopo contava so-
prattutto i suoi, di morti. Così, i bragozzi su cui aveva imbarcato quelli che gli erano rimasti vennero catturati uno dopo l'altro, e là non c'erano navi inglesi a toglierli dai guai.» Agitò infastidito l'aria con una mano, come a scacciare un argomento superfluo. «Dicevo di Garibaldi. La sua imbarcazione si arenò vicino a Magnavacca. Si nascose, travestito, in un casolare nelle terre del marchese Guidiccioli. E Anita sempre dietro. "Tu vuoi lasciarmi! Tu vuoi lasciarmi!" gli gridava.» Imitò una voce femminile, riuscendo solo a rendere ancora più stridula, se possibile, la sua. «Ma ormai la malaria l'aveva bell'e spacciata. Era incinta di sei mesi. La seppellirono di fretta sotto mezzo metro di sabbia. Qualche giorno dopo, certi ragazzini videro una mano che usciva da sottoterra e chiamarono i gendarmi. Il cadavere aveva un segno intorno al collo e la trachea rotta. Non so cosa fosse successo. Forse, quelli che li nascondevano, partito Garibaldi, si spaventarono. Magari la donna non era più trasportabile perché troppo malata e l'Eroe l'aveva lasciata lì. Così, quelli probabilmente la strangolarono e nascosero il corpo, in modo da risultare puliti quando fossero arrivati gli austriaci. Chissà.» E si rimise a ridere. E, sempre ridendo, aggiunse: «Ma volete sapere quale fu la cosa veramente buffa? Eccola. Quando il corpo di spedizione francese sbarcò a Civitavecchia, il comandante, Oudinot, prese terra al grido di "Viva la Repubblica!". Sì, perché Luigi Napoleone non aveva dato alcun ordine preciso. Egli, da buon Fratello, avrebbe voluto aiutarla, la Repubblica Romana. Ma il suo elettorato era di parere contrario. Così, Oudinot non seppe esattamente cosa dovesse fare fino all'ultimo. Dite, non è buffo?». E giù risate. «Figuratevi che mandò a dire ai Triumviri di essere venuto per prevenire l'avanzata degli austriaci da Nord e dei napoletani da Sud! Roba da schiattare dal ridere!» Altre risate. «Pensate, avanzarono verso Roma in uniforme da parata e con la banda in testa!» Ormai non riusciva più a smettere di ridere, parlava a tratti, quasi soffocava. «Ma la notizia dello sbarco francese aveva acceso la rivolta contro la
Repubblica in tutti gli stati del papa» riprese quando riuscì a calmarsi. «Garibaldi a Velletri fucilò senza misericordia alcuni cittadini dichiaratisi a favore del papa, poi sconfinò nelle Due Sicilie aspettandosi, al solito, che i popoli sarebbero insorti al suo seguito. Naturalmente fu vero il contrario. «Intanto gli austriaci liberavano la Toscana da Guerrazzi; poi avanzarono su Bologna, prendendola. Potevano scendere su Roma e unirsi agli spagnoli, fermi a Terracina, e ai napoletani che avanzavano. Con i francesi, facevano ben quattro eserciti che avrebbero potuto prendere Roma per fame, senza spargimento di sangue. Invece Oudinot pretese che l'"onore" fosse tutto francese. Così, lo spargimento di sangue ci fu, eccome. «Dentro la città, in quei giorni, si fucilava e pugnalava ch'era uno spasso. Se trovavano un prete sulle mura, era una spia in procinto di fare segnalazioni. Se un cittadino deprecava il rogo della carrozza di un cardinale finiva ammazzato. Se uno mostrava in qualunque modo scarso patriottismo verso la Repubblica, male per lui. Fu anche seriamente proposto in Assemblea di far saltare San Pietro e il Vaticano in caso di resa. «Militarmente non avevano speranze, e lo sapevano. Allora, direte voi, perché resistere? Vedete, la verità è che Mazzini contava sulla riuscita di un complotto che, a Parigi, avrebbe dovuto scatenare un'insurrezione, far prender il potere ai comunisti di Ledru Rollin e, dunque, richiamare Oudinot. La cosa era prevista per metà giugno ma andò malissimo, come è noto, e i capi dovettero fuggire. Così, per molti repubblicani a Roma le cose si misero al peggio e in migliaia ci lasciarono la pelle. Mazzini aveva chiesto una resistenza disperata, casa per casa. Mentre lui se la batteva, naturalmente. Invece i deputati, saggiamente, decisero per la capitolazione. «Tirando le somme, va detto che se avessimo permesso a Carlo Alberto di accettare le proposte austriache la Lombardia sarebbe diventata piemontese e Venezia sarebbe tornata pressoché indipendente. Infatti, l'esercito napoletano sarebbe rimasto a far la guerra all'Austria e, insieme ai sardi, sicuramente l'avrebbe messa alle strette. Ma le insurrezioni scoppiate nelle Calabrie, in Sicilia e nella stessa Napoli costrinsero il re a richiamarlo. «Sì, perché noi non volevamo affatto l'Italia divisa in tre, il Nord sardo, lo Stato Pontificio e il Regno delle Due Sicilie. Noi volevamo l'Italia unica e giacobina. Per questo avremmo contrastato qualunque esito differente, Per questo saremmo stati disposti ad aspettare ancora. Anni, secoli se necessario. Come disse quel deputato, di cui mi sfugge adesso il nome, all'Assemblea francese mentre si votava lo sterminio della Vandea? Ah,
ecco: faremo della Francia un cimitero se non potremo rigenerarla a modo nostro. Riflettete, amico mio.» La sua espressione si fece di colpo seria. Fissò lo sguardo nel fuoco languente e un improvviso barbaglio riflesso sul suo viso gli conferì per un attimo un aspetto veramente demoniaco. Come se parlasse soprattutto a se stesso, riprese: «La rivoluzione delle barricate e delle insurrezioni finì con la Repubblica Romana. Non serviva più. Da quel momento si passò a un'altra fase, quella della diplomazia. La Rivoluzione sarebbe calata dall'alto e portata a compimento dai gabinetti ministeriali. Avevamo un vero e proprio genio dalla nostra, Cavour, l'uomo che non sbagliava mai una mossa. Tutto procedeva secondo i piani, come da programma. «Gli procurammo l'aiuto giusto, un giovane romagnolo che nessuno conosceva, Filippo Curletti. Questi, poi, a cose finite, scrisse un libercolo in cui raccontava tutto, firmandosi "J.A., agente segreto di Cavour". Ma a quel punto nessuno gli diede retta. La sua prima missione, per provarne le capacità e la dedizione, consistette nel rapire una ragazza e portarla di notte a Moncalieri, a disposizione di quel mandrillo del re. Certo, avrà pensato che era uno strano modo di servire la causa italiana; comunque eseguì il compito alla perfezione. La cosa, però, passò di bocca in bocca a Torino e la fanciulla venne tacitata con un incarico di funzionario alle Poste per il fratello. Dopo questa "prova", l'agente ebbe incarichi più seri, come infiltrare le truppe pontificie comprando diserzioni col denaro o facendo arruolare uomini nostri. Questi, nel bel mezzo della battaglia, dovevano mettersi a gridare il "si salvi chi può!" e, nella confusione che ne seguiva, sparare alle spalle agli ufficiali più validi.» Si fermò per uno sbadiglio. «Sapete» disse, quando ebbe finito, «che non ho mai parlato così a lungo prima d'ora? Ma dovrete avere la pazienza di ascoltarmi ancora, perché non ho intenzione di fermarmi. Siete stato convocato apposta, come meglio capirete più avanti. Sappiate comprendermi, amico mio, non ho molto tempo. Non ho più molto tempo.» Il sarcofago A un certo punto la strada terminava e bisognava proseguire a piedi. Anzi, arrampicarsi, per l'esattezza. Louise trasse dalla sua borsa un paio di scarpe basse e piuttosto robuste, che indossò prima di scendere dalla vettu-
ra. Mise al loro posto quelle, con i tacchi, che aveva avuto ai piedi fino a quel momento. Così, Ribaudo, da buon poliziotto sempre attento ai particolari, comprese perché fin da principio avesse trovato la borsa della giovane tanto gonfia. Il cocchiere girò il cavallo e tornò indietro, mentre i cinque si accingevano alla scarpinata. Si ritrovarono a procedere quasi in fila indiana, con l'impaziente Gaston davanti a tutti. In certi punti Louise doveva appoggiarsi al braccio di Ribaudo, visto che il fratello, salendo agile e veloce, era sempre al di là della sua portata (di questo il commissario gli era, naturalmente, grato). Chiudevano la cordata i due preti, di cui era singolarmente il più anziano a dimostrare maggiore energia. L'ascesa sulla collina, che si rivelò un promontorio, durò un quarto d'ora circa e alla fine giunsero. In cima la vista era stupenda. Il mare blu profondo e il cielo azzurro terso, con la linea dolcemente curva dell'orizzonte a separarli. Il vento leggero scompigliava le chiome agli uomini e liberava una lunga e morbida ciocca dal cappellino della leggiadra Louise. Le voci risuonavano ovattate per via del vento e della mancanza di ostacoli alla rifrazione. Lassù c'erano rocce ed erba, il luogo ideale per un picnic se quella fosse stata l'intenzione. Ma dopo pochi altri passi la meta apparve, e questa volta bisognava scendere. Infatti, l'ingresso delle famose Cento Stanzulelle era dentro a una grande apertura nel terreno, quasi una voragine naturale. A circa trenta metri più in basso, su di un lato dell'enorme buca, si apriva una serie di archi alti e stretti, costruiti in pietre e mattoni. Rotti e diseguali, mostravano il tipico aspetto del rudere d'epoca romana. I cinque, dal ciglio della fossa, osservavano lo spettacolo. Che, però, non aveva proprio niente di straordinario, osservò tra sé Ribaudo. Cavità buie, cespugli e sterpi, tutto qui. Vide che l'espressione dei due funzionari di curia era anch'essa delusa. Gli unici contenti e, anzi, eccitati, sembravano i fratelli francesi. «Madre santa!» esclamò Esposito. «Aveva ragione monsignor Pascale!» L'altro lo fulminò con un'occhiataccia, ma ormai Ribaudo stava già chiedendo: «A cosa vi riferite?». Rispose velocemente Alicante, mentre Esposito diventava rosso: «Un sacerdote amico nostro che c'è già stato. Ci ha suggerito di portarci qualcosa per far luce». «E voi l'avete portato?» fece il commissario.
«Sì, ecco qua» risposero i due quasi all'unisono, cavando dalle tasche dei soprabiti due candele per tasca, in tutto otto. «Ma anche noi ne abbiamo!» trillò Louise. E trasse dalla solita borsa una piccola lampada a spirito. «Bene!» disse Ribaudo. «L'unico a non sapere che avrebbe dovuto addentrarsi nelle tenebre ero io, a quanto pare. Meno male che ci siamo incontrati, altrimenti avrei dovuto rinunciare. Infatti, l'unica luce che ho è quella dei miei fiammiferi. Be', allora, forza!» Cominciarono prudentemente la discesa, badando bene a dove mettevano i piedi, perché il cammino era disagevole e ogni tanto qualche ciottolo mobile sotto la suola costringeva ad agitare le braccia per ritrovare l'equilibrio. Davanti, al solito, il giovanotto francese, seguito da Ribaudo che, da cavaliere, precedeva Louise. Questa, letteralmente aggrappata alla sua mano, in due riprese gli finì addosso. Il commissario si ritrovò a rammaricarsi che quella discesa prima o poi sarebbe terminata. Infatti, terminò e i cinque furono ai piedi degli archi. «Bene, eccoci qua. Coraggio, entriamo!» disse Gaston, con gli occhi che gli brillavano per l'eccitazione. «Non sarà pericoloso?» fece, titubante, Esposito. «Ma che pericoloso e pericoloso, Nicoli'! E che siamo venuti a fare, sennò?» si spazientì Alicante. «Andiamo, signori, mano alle candele. Direi di entrare insieme; poi, se del caso, potremo dividerci e ognuno visiterà le rovine come meglio gli aggrada. Siete d'accordo?» Tutti si guardarono in faccia l'un l'altro alla ricerca di eventuali disapprovazioni, ma non ce n'erano. Così, annuirono ciascuno per proprio conto e si apprestarono ad accendere le candele, una a testa, e la lampada. Con quelle in mano si addentrarono. Subito si ritrovarono in un ampio spazio a volta, al di là del quale si aprivano diversi corridoi che conducevano chissà dove. Mentre, con le candele alzate, ne rischiaravano la parte superiore e si guardavano attorno, il commissario e i due preti cominciarono a riflettere su come fare a esplorare le Cento Stanzulelle senza rivelare il rispettivo vero movente. Per combinazione furono proprio i francesi a prendere l'iniziativa. «Signori, a questo punto suggerisco di procedere ciascuno per conto proprio. Dopo, se qualcuno avrà trovato qualcosa talmente degno di interesse da meritare la vista di tutti, tornerà indietro e lo comunicherà agli altri. Che ne dite?» propose Gaston De Ségur. «Mi sembra una buona idea» si affrettò a dire Ribaudo. «Anzi, forse è
meglio darci un appuntamento.» In verità, non sapeva come liberarsi della comitiva per condurre in santa pace la sua ispezione. Concluse che gli conveniva perdere un'ora a far la parte dell'escursionista. Poi, nel caso l'ambiente avesse richiesto una visita più lunga, avrebbe trovato una scusa per tornare indietro. O sarebbe tornato, da solo, l'indomani. Estrasse l'orologio, lo consultò. «Facciamo qui tra un'ora?» chiese. Gaston e Alicante tirarono fuori le loro cipolle e, dopo averle guardate, fecero segno che per loro andava bene. Fu del tutto naturale, a quel punto, ricostituire le primitive compagnie (i due preti, i due fratelli francesi e il commissario) che presero tre direzioni diverse. Il commissario domandò e ottenne un'altra candela da tenere in tasca perché non si sapeva mai. Le coppie e il commissario si infilarono nei corridoi prescelti e nel vasto atrio rimasero solo il buio e il silenzio. Quando fu sicuro di essere fuori portata d'orecchio, don Nicola prese per un braccio don Gaetano, lo fermò e gli disse: «Don Gaeta'! E mò che facciamo?». «Boh! Andiamo avanti, che vuoi che ti dica? Qualcosa troveremo!» rispose l'altro. Proseguirono per lo stretto corridoio che sapeva di umido e chiuso. La pavimentazione, stranamente, si era conservata quasi intatta. Le larghe pietre da cui era costituita erano state rese lisce e levigate dal secolare scorrere dell'acqua, e lo stesso valeva per le pareti e il soffitto a volta. Naturalmente, ora tutto era asciutto e secco; chissà quanto tempo prima quel luogo aveva cessato di funzionare come sistema di cisterne. Andavano avanti lentamente perché dovevano far passare la luce delle candele quasi su ogni pietra, alla ricerca di un'iscrizione o un'incisione o qualunque cosa che recasse scritto "V.I.T.R.I.O.L.". «Don Gaeta', ma siamo sicuri che 'sto vitriolo sta proprio qua dentro?» «E che ne so!» sbottò Alicante. «L'acronimo V.I.T.R.I.OL. è l'unica cosa che conosciamo, insieme all'indicazione topografica delle Cento Stanzulelle. Nelle Stanzulelle già ci stiamo, dunque c'è da cercare, presumo, una scritta o qualcosa con quella scritta sopra. Ma fammi la cortesia di parlare a bassa voce, che non si sa mai.» Avanzarono di qualche metro, poi don Nicola tornò alla carica: «Ma sono proprio Cento queste Stanzulelle?». «Ecco un'altra cosa che non so!» sbuffò don Gaetano. «Spero proprio di no, altrimenti ci vorranno giorni per girarle tutte. Ma no, via! Si tratta di un
nome popolare e il popolo, lo sai com'è, esagera sempre. Quando c'è un numero imprecisato ma cospicuo si spara "cento", come a dire tante assai. Figurati! Se qualcuno le avesse esplorate tutte e ne avesse perciò conosciuto il numero esatto, se lo sarebbe giocato al lotto, quel numero. E, data l'antichità di questo luogo, 'sto numero sarebbe finito sulle pagine della Smorfia da un pozzo di tempo. Perciò, dato che non c'è napoletano che non la conosca a memoria, noi lo avremmo saputo.» Don Nicola parve quietarsi, pago della spiegazione. Tuttavia, trovarsi lì, candela in mano, a cercare nel buio non sapeva bene cosa, non lo rendeva affatto tranquillo. Anzi. Era, certo, abituato a seguire il suo mentore e a cacciarsi, perciò, in situazioni complicate quando non addirittura pericolose. Ma una cosa era un'azzuffata con qualche frammassone per portare i sacramenti a un moribondo, altra era infilarsi in un budello a chilometri da Napoli solo perché l'aveva detto il diavolo durante un esorcismo. E se il demonio avesse mentito? Non era forse uno spirito ingannatore? Se li avesse sviati apposta per indurli a disobbedire al cardinale? In tal caso, gli omicidi dei Maccabei sarebbero continuati e gli assassini non avrebbero avuto punizione. Un risultato, questo, perfettamente gradito al diavolo. In verità, però, loro non erano lì per aver dato retta al diavolo, bensì a monsignor Pascale. Così, Pascale aveva dato retta al diavolo, Alicante a Pascale ed Esposito ad Alicante. Don Esposito cavò l'orologio: erano passati solo venti minuti. Un'altra mezz'ora e sarebbero dovuti tornare indietro per l'appuntamento. Ma, guardando l'orologio anziché dove metteva i piedi, incespicò e, per non finire con la faccia per terra, fu costretto a prodursi in alcuni scomposti salti in avanti, piegato in due, cosa che lo mandò a colpire di testa la schiena di Alicante. Questi, perso l'equilibrio, cadde lungo com'era sul pavimento. La candela gli sfuggì di mano e, senza spegnersi, rotolò parecchi metri in là, andando a fermarsi contro quella che sembrava una lastra di marmo verticale. Alicante si rialzò inveendo contro il figlioccio: «Possa passare un guaio, Nico'! E sta' attento, all'anima di chi ti è vivo! Per poco non mi spaccavo la faccia! Quella, la pavimentazione, è sconnessa, non lo vedi? Mannaggia a te, mannaggia!». Don Nicola, costernato, cercò di massaggiare la schiena del suo padrino ma ne fu distolto da una manata infastidita. Sì, perché Alicante aveva smesso di imprecare e si era subito incuriosito di quel che vedeva. In pochi passi raggiunse la candela caduta, la raccolse e illuminò un parallelepipedo
perfettamente regolare, disteso al centro di una stanza larga di cui non riuscì a cogliere i limiti. Le dimensioni del solido erano, all'incirca, due metri e mezzo per uno, e uno di altezza da terra. Esaminato da vicino, non era marmo ma pietra levigatissima. «Cos'è, un altare?» chiese don Nicola. «Non lo so. Fammi guardare meglio.» Alicante si avvicinò, accostò la candela e notò che a pochissimi centimetri dalla superficie, proprio sotto il bordo, correva una linea nera quasi impercettibile. «Ma questo è un coperchio!» esclamò don Gaetano. «E a noi che c'importa?» replicò don Nicola. «Non ci sta mica scritto sopra "V.I.T.R.I.O.L.!"» «Un momento, vediamo di non essere precipitosi! Fammi pensare... Com'era, svolto, l'acronimo? "Visita Interiora Terrae Rectificando Invenies Occultum Lapidem." Fortuna che monsignor Pascale me l'ha fatto scrivere per dritto e per rovescio, così che ormai lo so a memoria. Vediamo. "Visita le viscere della terra." E noi qua stiamo. "Troverai la pietra occulta." Che sia questa cosa qui?» «E di "rectificando" che ce ne facciamo?» «Piano, piano. Una cosa alla volta. Nicoli', dammi una mano!» «A fare cosa?» disse, confuso, don Nicola. «Ma ad aprire questo coperchio, no? Forza, spingi!» Si appoggiarono entrambi sul bordo del parallelepipedo cercando, a forza di pollici, di far scivolare quello che, secondo Alicante, doveva essere il coperchio di una specie di grande scatola. Per vedere se dentro c'era la famosa "pietra occulta" o quel che era. «Oh, siete qui!» La voce, forte e repentina, li fece sussultare. Impegnati com'erano nello sforzo non si erano accorti del sopraggiungere di una terza presenza, né della luce che, pur fioca, l'aveva preceduta. Era Ribaudo. Si voltarono, sorpresi. «Voi! E da dove siete uscito?» «Potrei farvi la stessa domanda, e in effetti ve la faccio: voi, da dove siete usciti!» Indicarono il corridoio da cui erano venuti. «Noi di là. E voi?» Il commissario sollevò la candela e mostrò la buia apertura di un altro
corridoio. Questa era sulla destra, alle spalle dei due preti e al di là del cerchio di luce delle loro candele. Concentrati com'erano sul parallelepipedo non l'avevano vista. «Ma, scusate» fece Alicante. «Volete dire che il tunnel che avete percorso voi conduce dritto qua?» «No» rispose Ribaudo. «A un certo punto ho trovato una biforcazione e ho dovuto scegliere. Poi ho sentito le vostre voci ed eccomi qua.» «Al bivio avete girato a destra?» «Sì, ma come fate a saperlo?» «Ecco trovato il nostro "rectificando"!» disse come fra sé Alicante. «Come dite?» chiese il commissario. «Niente, niente» si affrettò a rispondere Alicante. «Seguivo un mio pensiero, nulla di importante, non fateci caso.» Ribaudo, per niente convinto dalla risposta, insisté: «Per combinazione c'entra con questo?». E indicò la pietra. I due preti si guardarono imbarazzati. Parlò ancora Alicante: «Ci siamo imbattuti in questa cosa qui e, sì, stavamo cercando di aprirla. Sempre che si apra, naturalmente!». Poi, lieto di aver trovato un argomento atto a distogliere il suo interlocutore da quel che a lui era scappato di bocca, lo invitò: «Via, dateci una mano, chissà che in tre non riusciamo davvero ad aprirlo!». Ribaudo trovò scortese insistere ancora su quel che aveva sentito e in effetti la sua curiosità si trasferì sull'oggetto al centro della stanza. In fondo, pensò, era venuto per scoprire qualcosa, anche se non sapeva bene cosa. Ebbene, lì c'era appunto qualcosa. «D'accordo» disse, e si appoggiò anche lui al bordo del parallelepipedo. «Forza, insieme. Uno, due e tre!» Spinsero all'unisono e, con un raspìo di pietra contro pietra, quel che sembrava un coperchio si rivelò esserlo davvero perché si mosse di un mezzo palmo mettendosi di sghimbescio. Dall'apertura prodotta uscì una zaffata maleodorante che aggredì con violenza le gole dei tre. Don Nicola si scansò di botto e cominciò a tossire piegandosi. Anche gli altri due ebbero un moto di ripulsa verso quella schifezza di odore, denso e greve, proveniente dall'interno del parallelepipedo. «Madonna del Carmine! E che è, una tomba, questa?» esclamò Alicante, cavando un fazzoletto e portandoselo alla bocca. «Mi sa tanto di sì!» disse Ribaudo, imitandolo. «E neanche tanto antica, a quanto pare!»
«No, no» ribatté Alicante, riprendendosi. «Antica è antica. È quel che c'è dentro a non risalire di certo all'epoca romana!» «E se fossero carogne di animali?» disse don Nicola, ancora ansimante. «E se non lo fossero?» replicò Ribaudo. I due ammutolirono. Si guardarono in faccia l'un l'altro, poi guardarono il commissario. L'incertezza durò qualche secondo. «Non c'è che un modo per sincerarsene. Coraggio!» disse Ribaudo, e afferrò il coperchio. Si mise in posizione per spingere ancora, indi si volse verso i due che esitavano, invitandoli con gli occhi. Quelli, vinto l'imbarazzo, si accodarono e, un, due, tre, spostarono vieppiù il coperchio. Questa volta non ci furono odori di sorta, evidentemente usciti in un'unica bolla. Ne trassero coraggio per prodursi in un ulteriore sforzo, fino a ottenere un'apertura sufficiente a infilare un braccio con una candela. Alicante guardò per primo. «Vergine santa!» esclamò, e si ritrasse impressionato. Al vedere la reazione di Alicante, Ribaudo si sporse precipitosamente e, quando vide quel che c'era in fondo all'apertura, non poté trattenere un moto di raccapriccio. «Mamma mia!» mormorò. Don Nicola, a quel punto, non sapeva se affacciarsi anch'egli o rinunciare. Pensò che, se avesse chiesto al suo mentore cosa aveva visto, quello gli avrebbe risposto "Guarda tu stesso!". Lo conosceva talmente bene, ormai, da non avere dubbi. Così, si fece forza e infilò la mano con la candela nell'apertura. Quel che vide provocò in lui un'identica reazione. «San Gerardo, ora pro nobis!» quasi gridò. Si affrettò a passare la candela nella mano sinistra e a segnarsi tre volte. «Signori, dobbiamo cercare di togliere del tutto il coperchio» disse Ribaudo. «Perché?» chiese timidamente don Nicola. «Richiudiamolo, semmai!» Ribaudo ebbe un attimo di esitazione, non sapendo cosa dire. Ma si riprese subito: «Spiacente, ma sono un pubblico funzionario e ho il dovere...». «Ha ragione!» incalzò subito Alicante, scoccando un'occhiataccia a don Nicola. «E anche noi dobbiamo fare il nostro dovere di buoni cittadini!» Questa volta don Nicola comprese e annuì decisamente. Si riaccinsero dunque allo sforzo e, con alcuni colpi di reni ben assestati, riuscirono a far scorrere del tutto il coperchio, che scivolò per terra con un tonfo.
La luce di tre candele illuminò il cadavere di un uomo. Chissà da quanti giorni era là dentro. All'altezza della gola si apriva nella carne uno squarcio osceno. Gli occhi erano sbarrati e quasi fuori dalle orbite. Le labbra e il mento erano completamente neri di sangue raggrumato. La bocca, spalancata, mostrava qualche dente spezzato e, soprattutto, l'assenza della lingua. Questo era quanto colpiva a prima vista, e incuteva orrore e ribrezzo. Superata la stomachevole impressione, il primo a recuperare il sangue freddo fu il commissario, che riavvicinò la candela al cadavere e con essa lo percorse dalla testa ai piedi. Anche gli altri, con i lineamenti contorti in una smorfia, si appressarono al sarcofago e trovarono il coraggio di riaffacciarvisi. Osservando il cadavere, si vedeva chiaramente che doveva essere stato immerso qualche tempo nell'acqua. Adesso era completamente asciutto, certo, ma i ciuffi di capelli impastati e appiccicati alla fronte e al viso, le pieghe e i rigonfiamenti degli abiti, indicavano un corpo deposto lì ancora bagnato e poi seccatosi con il passare delle ore. Apparteneva a un uomo di circa sessant'anni, ben vestito, capelli grigi piuttosto lunghi, lineamenti aristocratici, viso rasato. Il commissario stimò a occhio e croce che doveva essere morto da almeno tre giorni. Senza badare alle espressioni contrariate degli altri due, allungò una mano per frugare nelle tasche del morto. La prima cosa che le sue dita incontrarono, entrando nella tasca sinistra della giacca, fu un oggetto voluminoso, duro e scabro. Lo estrasse e guardò alla luce della candela. Una pietra. Subito si portò all'altra tasca. Ancora una pietra. A quel punto Ribaudo passò all'esame delle tasche interne e vide che non mancava niente di quel che di solito un gentiluomo porta addosso: orologio, chiavi, portafogli, biglietti da visita. Alzando la candela poté illuminare anche i piedi e si accorse che c'era perfino il cappello, messo in fondo. Dunque, l'assassino o gli assassini non avevano agito a scopo di furto, pensò lì per lì. Ma si accorse subito che si trattava di una deformazione professionale. A ben rifletterci, i rapinatori non si preoccupano di comporre la loro vittima all'interno di un sarcofago, specialmente in un posto come quello. No, a quello sventurato era stata tagliata la gola e strappata la lingua. E non necessariamente in quest'ordine. Poi doveva essere stato buttato in mare, a giudicare dalla salsedine che gli striava il viso e le mani. Oppure lasciato sulla battigia, dove le onde lo avevano ricoperto. Infine, preso e portato lì. Ma perché?
D'impulso esaminò la catenella dell'orologio ma dovette constatare che non c'erano maglie spezzate. Dunque, pensò, non si trattava di un omicidio ascrivibile a quelli su cui era stato mandato a indagare. I biglietti da visita, adesso. Tutti uguali, perciò appartenenti senza dubbio alla vittima. «N.H. Leonardo Rapece Cutolo di Pianosa» lesse ad alta voce. E, nella penombra, non poté vedere che i due preti erano impalliditi. Don Nicola ebbe solo il tempo di esclamare: «Ma...» prima di ricevere una gomitata nelle costole da don Gaetano. Anche lui, infatti, aveva capito che si trattava del cugino del cardinale, quello da cui si sarebbero dovuti recare per iniziare le loro indagini se l'esorcismo di monsignor Pascale non li avesse deviati. Ma che diamine ci faceva lì, ucciso in quel modo poi? Don Alicante pensò che davvero aveva fatto bene a farsi consigliare da monsignor Pascale. Se lui e don Nicola fossero andati a Brindisi avrebbero scoperto che il nobiluomo che doveva riceverli era sparito e si sarebbero ritrovati a un punto morto ancor prima di cominciare. Non che adesso fossero messi meglio, certo, ma almeno non si trovavano a giorni di distanza da lui. Tutti e tre erano ammutoliti dalla sorpresa e ciascuno di loro si ritrovò a pensare che forse non avrebbe dovuto esternarne tanta, visto che, gli uni agli occhi dell'altro e viceversa, erano lì per una gita di piacere. Spavento, orrore, raccapriccio, sì, ma non sorpresa. L'unico che, in effetti, poteva tranquillamente mostrare speciale solerzia era Ribaudo, nella sua qualità di pubblico funzionario. Non si preoccupò, dunque, di giustificare la sua minuziosa ispezione del cadavere e continuò con l'esame. Il portafogli conteneva alcune banconote ma nient'altro. Invece, nel taschino della giacca, ispezionato giusto per scrupolo di completezza, c'era un foglio ripiegato frettolosamente. Ribaudo lo svolse e lo portò alla luce della candela. C'erano delle lettere e dei puntini, tracciati a matita. Meno male, pensò, che non era stato usato inchiostro, altrimenti l'acqua l'avrebbe tutto sbavato e reso illeggibile. Lesse ad alta voce, sforzandosi di vedere bene: «La g.t. di t., la l.s.d.s.r. e s.s.l.r.d.m. a.l.d.b.m. o alla d.d.u.g.d.r. dove i.f. e r.d.m.a.r.d.v.o. 24 o.». «E che significa?» non poté trattenersi di esclamare don Nicola. Ribaudo era allibito. Lui lo sapeva bene cosa significavano quelle lettere puntate. Rifletté un attimo prima di risolversi a parlare, poi realizzò che non c'era motivo di celare la cosa agli altri. Così, seguendo con il dito lettera per let-
tera: «Significa che questo disgraziato ha avuto la Gola Tagliata di Tondo» scandì, «e la Lingua Strappata Dalla Sua Radice; è stato o avrebbe dovuto essere Seppellito Sotto La Riva Del Mare, Al Livello Della Bassa Marea, o alla Distanza Di Una Gomena Dalla Riva, dove Il Flusso e Riflusso Della Marea Arriva Regolarmente Due Volte Ogni 24 Ore. È la formula della vendetta massonica contro un traditore. Ed è proprio questo che mi stupisce». Letteralmente trasecolati, i due insistettero affinché il commissario ripetesse tutto da capo, in quanto non erano certi di aver capito bene. Ma quello non diede loro retta, adducendo che avevano capito benissimo quel che aveva letto; solo, erano digiuni di rituali massonici. Altrimenti avrebbero saputo che quella era l'ultima parte del giuramento del neofita, il quale si dichiarava ritualmente cosciente delle pene gravissime in cui sarebbe incorso in caso di spergiuro. Ma ciò faceva parte della declamatoria tipicamente enfatica della Fratellanza. Mai una minaccia del genere era stata applicata alla lettera, per quanto se ne sapeva. Ed era questa l'origine dello stupore del commissario. Alicante dovette ammettere tra sé che neanche lui, nella sua precedente carriera di sbirro, aveva mai visto una cosa simile. Mentre Ribaudo era intento a scrutare pensieroso e perplesso il foglio, senza farsi vedere tracciò un rapido segno di benedizione sul cadavere. Poi disse, rivolto al commissario: «Propongo di rimettere ogni cosa a posto e di richiudere questa specie di sarcofago. È già ora di tornare indietro per trovarci con i due francesi. Una volta rientrati in città converrà denunciare tutto alla gendarmeria». Ribaudo, riscossosi, si dichiarò d'accordo e fecero come Alicante aveva detto. Rimisero, dunque, il foglietto nel taschino del morto e chiusero la tomba con il coperchio. Fu una gran faticata che richiese diversi tentativi e li lasciò con i muscoli delle mani e delle braccia indolenziti. Poi, di comune accordo, si infilarono nel corridoio da cui erano sbucati i due preti e camminarono a passi veloci. Solo dopo un buon quarto d'ora di marcia si resero conto che qualcosa non quadrava. Infatti, avrebbero già dovuto, a quel punto, almeno intravedere la luce del giorno, invece continuavano a trovarsi nel buio fitto. Allarmati, procedettero ancora per un centinaio di metri. Alla fine quasi simultaneamente si fermarono e, in apprensione, si scambiarono uno sguardo. Parlò Alicante: «State pensando anche voi quel che penso io?».
«Sì» rispose Ribaudo. «Ci siamo persi.» «Non ho molto tempo» disse il vecchio demonio. «Non ho più molto tempo.» Era già un po' che stava in silenzio. Le palpebre gli erano scivolate sugli occhi acquosi e percorsi da una ragnatela di venuzze. Solo il petto si muoveva, su e giù, su e giù, in quel suo corpo simile a un ramo secco. Anche i polmoni dovevano essere avvizziti, a giudicare dalla brevità del respiro. Ma non dormiva. Il dito indice della sua mano destra si alzava e si abbassava, agitandosi come se il vecchio stesse impartendo ordini o valutasse il pro e il contro di chissà quali scenari. In certi istanti, a vedere quel sottile stecco nodoso danzare senza requie nell'aria si sarebbe detto che il suo proprietario stesse seguendo una musica suonata da un'orchestra di alienati. Il fuoco, che aveva trovato un legno ancora intatto a cui attaccarsi, si era intanto rianimato da solo e il vecchio sembrava godere del ritrovato calore. Di colpo sbarrò gli occhi, puntandoli sulle fiamme. Poi, senza volgerli, esclamò: «Sapete chi ha detto che, fatta l'Italia, c'era ancora da fare gli italiani? Il vostro silenzio mi conferma che sì. Devo dire che questa frase, che a quanto pare è già passata alla storia, è al contempo vera e falsa. È falsa, perché gli italiani esistevano già al tempo dei Romani. Non vi risulterà nuovo il sapere che fu Augusto a ripartire la penisola nelle regioni in cui è praticamente ancora divisa. Dante e Machiavelli usavano lamentarsi dei mali "d'Italia", non solo di quelli della loro Firenze. Quella frase è invece vera se guardiamo le cose dal punto di vista della Rivoluzione. Gli italiani, formati in senso rivoluzionario, bisognava ancora farli». Finalmente distolse lo sguardo dal fuoco e parve rilassarsi. «Non abbiamo lesinato mezzi, sapete; da quelli forti a quelli suasivi» proseguì. «Tra questi ultimi, uno che non sospettereste è Pinocchio. Sì, il burattino. Senz'altro l'avrete letto. Eh, chi non lo ha fatto? È uno dei romanzi più tradotti al mondo, lo sapevate? Permettete, però, che ve lo illustri a modo mio. Innanzitutto, si tratta di una storia di morte e rinascita a nuova vita. Una iniziazione, insomma, in cui si muore al primitivo stato imperfetto, si attraversano le regioni oscure per risorgere, alla fine, rigenerati, trasformati. Vi ricorda qualcosa? «Ma cominciamo dal nome, Pinocchio. Viene dal toscano pinolo, cioè il seme della pigna, la quale a sua volta proviene dall'albero del pino. Infatti,
Pinocchio è un burattino di legno. Il pino, tuttavia, era l'albero sacro nel culto di Cibele. Il rito primaverile di Cibele, a Roma, prevedeva il trasporto al tempio della dea sul colle Palatino di un pino avvolto in bende e ornato di viole. Rappresentava il cadavere di Attis e veniva accompagnato da lamenti funebri. Questi si scioglievano poi in canti di gioia quando il dio rinasceva a nuova vita. «Il burattino Pinocchio, dopo aver messo a tacere la sua coscienza, cioè il Grillo Parlante, si imbatte in creature infere e demoniache: Mangiafuoco, il Gatto e la Volpe, il Pescatore Verde. Anche la bella Bambina dai capelli turchini è descritta come un essere dell'oltretomba, viso cereo, occhi chiusi, mani incrociate sul petto, voce che sembra venire dall'altro mondo. «La morte di Pinocchio, poi, è triplice: impiccato dagli assassini incappucciati, gettato in mare come asino, ingoiato dal Pescecane. Il Pinocchio impiccato viene salvato da un falco mandato dalla Bambina. E il falco è il veicolo delle anime nella mitologia egizia, in cui c'è anche una divinità con la testa di falco. Il Pinocchio asino è simile al Lucio asino delle Metamorfosi di Apuleio, che attraversa una serie di prove dolorose prima di essere iniziato ai misteri di Iside e così rinascere a nuova vita. Lo sapevate che anche il grande mago Giordano Bruno aveva scritto una favola su di un asino? No? Lo immaginavo. Eh, a parte pochi studiosi, chi conosce Giordano Bruno? I suoi libri, poi, neanche questi pochi studiosi devono averli mai letti. Infatti, date retta, sono illeggibili. L'unica cosa che i più sanno di Giordano Bruno, e la sanno solo da quando a Roma c'è il monumento, è che è stato giustiziato dall'Inquisizione. L'asino di Giordano Bruno, guarda un po', discende agli inferi e finisce col tramutarsi in un essere simile a Pegaso, il meraviglioso cavallo alato del mito greco. «E che Bruno non fosse un filosofo come oggi lo intendiamo ma un mago "egizio", lo sospettavate? No, eh? Ne ero sicuro. Abbiamo insistito talmente su Bruno martire del libero pensiero e vittima dell'oscurantismo ecclesiastico, che nessuno più ha idea del vero valore di Bruno. Un valore, vi dirò, di cui si fa volentieri a meno, con la sua nebulosa arte della memoria e le sue fumisterie esoteriche. Sia gloria a lui, comunque, e ad Arnaldo da Brescia e a tutti gli altri spostati che ci hanno preceduto nell'odio per la Chiesa. Vi dirò che, se quei fanatici fossero vissuti nei nostri tempi, avremmo dovuto mandare a quel paese loro e le loro teorie, che erano pur sempre di ordine religioso.» Si fermò, guardando per aria. «Cosa dicevo? Ah, sì, Pinocchio» riprese subito. «In Pinocchio compare
anche un serpente verde che a un certo punto gli sbarra la strada. Pure il framassone Goethe scrisse una favola iniziatica intitolata Il serpente verde. Verde, ve lo ricordo, è anche il colore simbolico della massoneria. Nel racconto, poi, abbiamo la Bambina che muore ma risorge come Fata; anche il Grillo Parlante risorge. Infine, non dimentichiamo che il padre di Pinocchio si chiama Geppetto, da Giuseppe. Il quale era padre di Gesù, uno dei più grandi iniziati della storia.» Ridacchiò, stirando le labbra e crollando il capo. Con gesto faticoso si asciugò gli angoli della bocca e ancora parlò: «Forse vi stupirà questa mia digressione a proposito di un libro per l'infanzia. Sono partito dal "fare gli italiani" e sono approdato all'esoterismo. Credo che in questo momento vi stiate chiedendo se la Rivoluzione non sia per caso un'altra religione, con i suoi riti, i suoi martiri, i suoi misteri. Beh, non posso negare che non pochi dei nostri hanno finito col perdersi, diciamo così, nel lato mistico della cosa. In effetti, non potremmo non dirci discendenti di quei grandi uomini che nel Rinascimento diedero il primo grosso colpo d'ariete al mondo fondato sulla Chiesa cattolica. Su su per li rami, si arriva a personaggi di cui avrete certo sentito parlare, come i fantomatici Rosacroce o gli Illuminati di Baviera del secolo successivo. «È vero, certe volte i fili sono veramente intricati. Prendete i suddetti Illuminati. Furono creati se non ricordo male nel 1776. Ebbene, dieci anni dopo, il conte Alessandro Savioli di Bologna e il marchese Costanzo della Paganica di Napoli venivano processati a Monaco ed espulsi dall'Elettore di Baviera di cui erano consiglieri. Savioli tornò a Bologna, dove l'anno seguente fondò la Società dei Raggi. Lo stesso anno Costanzo fondò a Napoli la Loggia degli Illuminati, da cui provennero quasi tutti i protagonisti della Repubblica Partenopea del 1799. Da questa Loggia degli Illuminati derivò praticamente la Carboneria, che perseguiva scopi fin troppo pratici. Come vedete, tout se tient, amico mio, e non è mai stato facile togliere da certe teste l'uzzolo esoterico.» Tacque e strinse gli occhi. Le ombre rossastre che il fuoco faceva giocare sul suo volto lo fecero sembrare per un istante davvero uno stregone intento a escogitare malefici. Ma fu l'immagine di un attimo, perché il vecchio ridistese l'espressione e ricominciò a parlare con la sua voce roca. «Napoli. Già, Napoli, che divenne praticamente la capitale di tutta questa roba occultistica. Da Cagliostro al Principe di Sansevero, dalla teosofa Diana Vaughan all'Anticoncilio, chissà perché tutti passavano da Napoli o
vi finivano. Ci si mise anche Garibaldi, che accettò la presidenza di una società spiritica. Non poté partecipare all'Anticoncilio napoletano; ma inviò un messaggio in cui, dopo avere incitato, col suo solito modo colorito, a rovesciare il mostro papale e a eliminare i preti, concludeva, letterale: "Accenno e non insegno, e lascio alla sagacia dell'Anticristo il decidere". L'Anticristo tirò in ballo, pensate! tra le adesioni, Giosué Carducci, Benedetto Cairoli, Giuseppe Zanardelli, Francesco De Sanctis, Filippo Abignente, Giuseppe Avezzana, tutti futuri ministri e parlamentari. Perfino Victor Hugo. Sì, anche lui.» Fece una pausa. «Vedo dalla vostra espressione che la mia lettura di Pinocchio non vi ha convinto. State pensando che anche Cenerentola diventa una meravigliosa principessa, anche Biancaneve muore e risorge, anche Cappuccetto Rosso riemerge dal ventre del lupo eccetera eccetera eccetera. «Bah, pensate quel che vi pare. Tanto, che importanza ha, adesso? Ormai le cose sono indirizzate e vanno avanti da sole. Ormai non si torna indietro, anche se la strada davanti alla Rivoluzione è ancora tanta. Chi verrà dopo di noi non potrà fare altro che proseguire sulla via tracciata. Il Trono e l'Altare? Spariranno o rimarranno vuoti simulacri, buoni per chi ama il teatro. È il regno dell'uomo quello che vediamo venire in tutta la sua gloria, amico mio, ed è la sola cosa che conta. Anche voi, anch'io, non siamo che pedine. Magari, sì, pedine che muovono altre pedine. Ma nient'altro che pedine. «Nel frattempo, costruiamo statue e monumenti, intitoliamo strade e piazze ai nostri eroi e numi tutelari, moltiplichiamo le società di tiro a segno perché in questa fase è necessario creare la Nazione in Armi, ci sforziamo di introdurre il divorzio nella legislazione. Vedete? È immane quel che resta da fare solo per completare questa fase. Certo, sono consapevole che serve a poco varare una legge se il suo spirito non entra nel cuore del popolo. Ma la legge di oggi è l'orizzonte dato di domani. Quel che a questa generazione sembra eccentrico, sarà normale per quella futura. Non possiamo permetterci di essere miopi, lasciamo ai politici la vista corta. Noi ragioniamo in termini di secoli, mio caro. «E poi, non siamo pessimisti: in Francia sono bastati vent'anni di Rivoluzione per far perdere al popolo mentalità e consuetudini millenarie. In Italia ci vorrà di più, naturalmente, perché l'Italia è la culla del papato. Ma anche il papato, toltagli la sedia da sotto le terga, non potrà fare altro che finire a gambe levate. E dovrà ballare alla nostra musica.
«No, niente ghigliottina. Gli lasceremo chiese e santuari, invece. In attesa che si svuotino, piano piano, da soli. Prima o poi l'argomento "religione" creerà solo imbarazzo nelle conversazioni. Sarà come parlare di pediluvi a tavola. Le persone sensate riterranno che credere in qualsiasi divinità sia segno di scarso buonsenso e guarderanno come si guarda un fossile chi mostri di essere affezionato a un dio che non sia del tutto astratto e impersonale. Chiamatelo, se vi aggrada, Essere Supremo come faceva Robespierre e magari toglietevi il cappello nel nominarlo. Ma comportatevi come se non ve ne importasse.» Aveva alzato l'indice e lo puntava al cielo, perché fosse chiaro che quella che aveva pronunciato era una sentenza. «Il mio modo di discorrere vi sembrerà alquanto singolare, per dirne il meno» riprese in tono pacato. «E starete pensando che forse non so neppure io perché vi dico tutte queste cose. Invece, il perché con voi io stia parlando in libertà vi sarà chiaro tra breve. Intanto compatite pure, se ciò vi acquieta, un anziano signore che parla a vanvera perché, si sa, i vecchi non hanno chi li ascolti.» Ridacchiò. «Dove ero rimasto? Ah, sì.» Poggiò la nuca sullo schienale e guardò dritto davanti a sé. «Vedete, so bene quanti dei nostri uomini siano caduti nella trappola più ovvia, segno che c'è ancora molto lavoro da fare. Che volete, dopo millenni di dèi, non è facile farne a meno. Per questo ho accennato a Pinocchio e a Napoli capitale "magica". So bene, ripeto, che molti dei nostri hanno scambiato lo spiritismo e le tecniche di magia per la religione dei tempi "positivi" e "scientifici" in quanto permetterebbero di entrare in contatto col mondo soprannaturale, o l'altra dimensione se così preferite chiamarla, senza doversi inginocchiare davanti a qualche dio e ai preti. Così facendo, però, non hanno fatto che uccidere una superstizione per metterne un'altra al suo posto. «Perché li lasciamo fare, anzi, li incoraggiamo? Ricordate: solve et coagula, solve et coagula. E questa è la fase del solve. «Oh, sì, la massoneria; molti di quelli di cui sto parlando sono massoni. Dunque, dovrebbero avere ideali di perfezionamento umano del tutto laici e indifferenti a qualsivoglia sovrannaturalità. Ma, vi dirò, anche la massoneria non è che uno strumento. Ci ha ben servito, in questa fase, e pure, perché no, come schermo. In parecchi, infatti, anche al suo interno, hanno ritenuto che fosse essa a tirare le fila e a operare per la costruzione del
mondo nuovo. Tra breve, però, avrà fatto il suo tempo. E molto probabilmente ce la ritroveremo come nemica, prima o poi.» Parve riflettere su questa affermazione. Ma si distolse subito, scuotendo la testa. «Già, gli spiriti. Mazzini credeva fermamente nella reincarnazione, D'Azeglio cercava di evocare il fantasma di Cavour, perfino Manzoni provò a mesmerizzare una sua serva. E che dire del melodramma? La sonnambula, Mefistofele, Un ballo in maschera... Vi piace l'opera? Ci trovate fate, streghe, elisir, magie, maledizioni, demoni.» Si mise a mugolare a bocca chiusa un'aria dell'Elisir d'amore, seguendone il tempo con la testa. Poi, cambiando bruscamente argomento ancora una volta, disse: «Un importante posto nel nostro lavoro di ristrutturazione spetta al divorzio. Certo, ci vorrà ancora tempo, forse tanto. Ci vorrà l'alternarsi di fasi di accelerazione e fasi di sedimentazione, fasi di convulsione e fasi di quiete. Ma è un traguardo imprescindibile per liberarci una buona volta dal Medioevo. Attualmente siamo ancora alle prese con le strutture politiche e non è ancora il momento per affondare il bisturi in quelle sociali. Però quel momento prima o poi verrà. «Vedete, per comprendere veramente e pienamente quel Medioevo che dobbiamo lasciarci alle spalle, occorre osservare l'organizzazione della famiglia con grande attenzione. La chiave del Medioevo sta infatti qui. In esso tutti i rapporti, anche politici, erano ispirati al modello familiare, da quello feudatario-vassallo a quello artigiano-apprendista. L'importanza di un Paese si valutava dal numero dei suoi focolari e non dalla somma degli individui che ne facevano parte. Le leggi e i costumi si occupavano di famiglie, di casate, di corporazioni, le quali non erano che famiglie più vaste. I feudatari erano soprattutto padri di famiglia attorno a cui stavano tutti quelli che per nascita facevano parte del feudo. Anche le loro contese non erano che lotte tra famiglie. «In cima alla piramide stava il re, padre dei padri. E i re erano tra loro fratelli, figli della madre Chiesa. Lo sapete che, ancora oggi, le lettere che le teste coronate si scambiano cominciano con la formula "Mio signor fratello"? Non ricordo più chi fu quel monarca che si rivolse epistolarmente a Napoleone III con un "Caro amico". Già, il Bonaparte era un borghese, mica un nobile. Lui, però, se la prese a morte. Infatti, rispose acidamente di essere onorato in quanto, se i fratelli si subiscono, gli amici si scelgono. Tuttavia quando volle convolare a giuste nozze dovette accontentarsi di
una contessa spagnola, perché nessun sovrano intese concedergli la figlia in moglie. E si ritrovò al fianco una bigotta che lo costrinse a togliere i divieti sulla grotta di Lourdes. Purtroppo. Ma non divaghiamo. «L'apice del sistema che ho succintamente descritto si ebbe nei tempi di splendore del Sacro Impero, quando i re, primi inter pares tra i loro baroni, riconoscevano un primato d'onore al primo tra i primi, l'Imperatore. Così, il mondo delle famiglie era un'unica famiglia con un padre, l'Imperatore, e una madre, la Chiesa. Anche il papa, dal canto suo, non era che un primus inter pares tra i vescovi. Padre e madre potevano anche litigare, come infatti è avvenuto al tempo della Lotta per le Investiture. Ma quale famiglia non ha le sue baruffe?» Sbadigliò rumorosamente. «Oh, sto divagando di nuovo.» Tese l'indice verso l'alto e lo agitò come una bacchetta. «Insomma, è questo l'Ancien Régime che occorre spazzare via. I lavori sono in corso e il grosso è già stato fatto. Chi verrà dopo di noi dovrà occuparsi dei dettagli, e forse ci vorrà qualche altro importante scossone a quel che rimane dell'edificio. Ma noi abbiamo già steso i binari e la locomotiva non potrà che correre sopra di essi. Verso dove? Ottima domanda. Ma nessuno conosce la risposta. Sempre che di una risposta ci sia bisogno.» La villa «Ma come è possibile che ci siamo persi?» quasi singhiozzò don Nicola. «Eppure abbiamo rifatto la stessa strada di prima!» Alicante non ne era più così sicuro: «È invece possibile che, nel darci da fare attorno al quel coperchio, senza avvedercene ci siamo ritrovati con le spalle verso un altro corridoio. Magari stiamo percorrendo quello da cui è sbucato il signor Ribaudo». Quest'ultimo, sentendosi interpellato, disse: «Non credo. A quest'ora saremmo dovuti arrivare almeno al bivio nel quale io, all'andata, ho girato a destra. Magari c'era un terzo corridoio che non abbiamo visto. In fondo, avevamo una sola candela accesa ed eravamo tutti concentrati su quel che abbiamo trovato. Ci sta che da quella specie di sala si dipartano non tre ma anche quattro o più corridoi». «Insomma, stiamo inguaiati! O santa Vergine!» esclamò disperato don Nicola. «E mò che facciamo?»
«Nico', non ti angustiare, che a tutto c'è rimedio!» cercò di tranquillizzarlo Alicante. «L'unica è tornare indietro, al sarcofago, e vedere quanti sono 'sti dii 'e corridoi, tanto per cominciare. Una volta là, cercheremo di capire qual è quello che porta fuori da questo labirinto. Siete d'accordo, signor Ribaudo?» «Non vedo altra soluzione. Certo, arriveremo in ritardo all'appuntamento e gli altri si preoccuperanno. Ma non so che farci. Per fortuna, di candele ne abbiamo.» Fecero dunque dietrofront e camminarono spediti verso la sala del sarcofago. Quando vi giunsero cominciarono a girargli intorno ma questa volta tenendo alte le candele per illuminare le pareti della sala, alla ricerca di altri tunnel. Don Nicola fu il primo a dover sostituire la sua candela con una nuova, perché ormai il mozzicone si era così ridotto da rendere difficile il tenerlo in mano e già troppe volte stille di cera fusa l'avevano scottato. Fece gocciolare un po' di cera sul coperchio del sarcofago e vi incollò quel che restava della vecchia candela, subito imitato dagli altri due. Mentre eseguiva l'operazione si trovò seriamente a chiedersi se l'occulta lapide della formula V.I.T.R.I.O.L. non fosse proprio quel parallelepipedo di pietra liscia e priva di iscrizioni. Ma subito tornò alla ben più importante perlustrazione delle pareti della sala. Questa si rivelò non quadrata, come dapprima aveva creduto, bensì esagonale. E su ogni lato si apriva un tunnel. Le sei imboccature erano perfettamente uguali, cosa che rendeva praticamente impossibile stabilire da quali Ribaudo e loro due fossero sbucati la prima volta. «E adesso che facciamo?» chiese sgomento il giovane prete. «Ecco una bella domanda» rispose don Gaetano. «I corridoi sono sei e anche se ci dividessimo rimarrebbe lo stesso il cinquanta per cento di probabilità di sbagliare strada di nuovo.» «Un po' meno del cinquanta» disse Ribaudo. «Possiamo escludere senz'altro il corridoio da cui siamo usciti adesso.» Lo indicò. «Questo l'ho tenuto d'occhio. Ne rimangono dunque cinque.» «Sempre troppi» rispose don Gaetano. «E a questo punto non so nemmeno se sia conveniente dividerci. Ora, mi ricordo che quando io e il mio amico Esposito entrammo qui per la prima volta il sarcofago ci presentava uno dei suoi lati più lunghi. Certo, non potrei giurarci, visto che in quel momento non pensavo di dover rintracciare la via del ritorno. E l'esiguo
cono di luce prodotto da una candela può giocare brutti scherzi alla memoria visiva. Comunque, come traccia è meglio di niente, perciò propongo di escludere le vie che danno sui lati corti del sarcofago. Che ne pensate?» «In linea di massima sono d'accordo. Aggiungerò che siamo all'interno di quello che era pur sempre un sistema di cisterne; dunque, i tunnel devono avere una fine e, se siamo fortunati, da qualche parte si dovrà pur sbucare» disse Ribaudo. A questo punto fu don Nicola a parlare: «Scusate se mi intrometto, ma come la mettiamo con i due francesi e il cocchiere che doveva venire a prenderci? Per quel che ne sappiamo, quando all'appuntamento non ci vedranno, magari verranno a cercarci!». «E magari si perderanno pure loro!» rifletté don Gaetano. «Sentite, facciamo cosi. Imbocchiamo il tunnel che a occhio e croce ci sembra il più probabile. Restiamo insieme e, di tanto in tanto, gridiamo per farci sentire. Così, se anche loro saranno entrati in questo labirinto, finiremo con il farci trovare.» Ribaudo non aveva ancora terminato di dir questo che subito divenne pensieroso: «Però il fatto di ritrovarci non esclude che a continuare a girare a vuoto qua dentro saremmo a quel punto in sei anziché in tre. Forse il nome di Cento Stanzulelle non è stato appioppato a caso a questo posto». Alzò le spalle: «Be', non abbiamo alternativa. Coraggio, dunque, scegliamone uno e andiamo. Non perdiamo altro tempo, perché quelle che teniamo in mano sono le ultime candele». Don Nicola rabbrividì. Individuarono quello che secondo loro era il corridoio giusto con il sistema, suggerito da don Nicola, della moneta. Lanciata diverse volte, naturalmente, perché la scelta non era tra due sole possibilità. Si avviarono e, come avevano stabilito, ogni tanto, nell'andare, lanciavano dei richiami, tipo «Ehi!», «C'è nessuno?», «Siamo qui!» e simili. Ma non rispondeva neanche l'eco. Si accorsero, infatti, che il tunnel, e presumibilmente tutto il complesso delle Cento Stanzulelle, erano scavati nel tufo, materiale più atto ad assorbire i suoni che a rimbalzarli. Camminarono e camminarono, sempre urlando via via. Alla fine sbucarono in un'altra sala, perfettamente uguale a quella da cui erano partiti. L'unica differenza era che in questa non c'erano sarcofagi. Non c'era proprio niente. Solo altri sei tunnel. Don Nicola avrebbe voluto piangere per lo sconforto. E anche gli altri due apparivano piuttosto scoraggiati.
Col solito sistema della moneta scelsero una direzione e la imboccarono, questa volta lanciando non solo grida ma anche sguardi preoccupati alla misura delle candele. Ancora camminarono e camminarono, mentre l'intervallo tra un grido e un altro si faceva sempre più ampio e le loro voci sempre più deluse e fioche. Finché non smisero del tutto di lanciare richiami, che, tanto, non servivano a niente. Fu don Gaetano il primo ad accorgersi che la fiamma della sua candela si piegava leggermente. Mise una mano sulla bocca di don Nicola che stava per emettere un ultimo sfiduciato grido. «Ssst! Zitto! Sta' zitto! Guardate!» Guardarono e i loro visi si illuminarono di speranza. Ma sì, la fiamma si piegava! Allora c'era una corrente d'aria! Allora l'uscita era vicina! Uscire, sì! Verso dove, non aveva importanza, bastava che si rivedesse finalmente il cielo e la luce del sole. Sempre che ce ne fosse rimasta un po', naturalmente. Nella concitazione, quasi incespicarono l'uno nell'altro perché don Nicola nella foga aveva preso la direzione sbagliata, quella verso cui inclinava la fiamma. Una volta spicciatisi dal groviglio dei loro stessi piedi accelerarono il passo e alla fine si ritrovarono a correre, incuranti degli schizzi di cera fusa sulle dita e anche sulla faccia, incuranti pure di proteggere le candele. Queste si spensero, infatti, nella corsa, e i tre si accorsero che ci vedevano lo stesso. Sì, il buio aveva ceduto il posto alla penombra e questa presto avrebbe ceduto il posto alla luce. E ci arrivarono, alla luce. Una luce che però non veniva dal fondo del tunnel, bensì calava dall'alto proprio nel punto in cui il tunnel finiva in un cul de sac, come dicono i francesi, o vicolo cieco come si dice in Italia. Ansanti, alzarono lo sguardo e videro alto sulle loro teste un cerchio bianco smorto, di luce quasi al crepuscolo. Tra loro e il cerchio, alcuni metri di fitti mattoni grigi. Un pozzo, insomma. Quando ebbe ripreso fiato, Alicante disse: «Signori, non perdiamo la calma. È chiaro che dovremo arrampicarci. La cosa non mi pare difficile in quanto i mattoni sono sbrecciati e sconnessi. Suggerisco di non disfarci delle candele, perché non sappiamo cosa ci aspetta là sopra». Gli altri annuirono e ciascuno mise in tasca la propria candela. Poi, stabilito che il più leggero dei tre era don Nicola, Ribaudo e Alicante formarono una staffa con le mani intrecciate per consentirgli di montare in piedi
sulle loro spalle. In questo modo il giovane prete arrivò con le ginocchia all'altezza della parte inferiore del pozzo e, un piede qua e uno là, aiutandosi con le mani riuscì ad aggrapparsi alle pareti del cilindro, liberando gli altri due del suo peso. Per fortuna i mattoni offrivano buoni appigli e non ci mise molto ad arrivare in cima. Quando la metà superiore del suo corpo fu scomparsa alla vista di quelli che stavano sotto, don Gaetano gli gridò: «Vedi se trovi un pezzo di corda per far salire anche noi!». Don Nicola sparì e, dopo un certo tempo, si vide spuntare la sua testa. «Di corde non ce n'è! Ora fate attenzione!» gridò verso il basso. Nel cerchio di luce comparve una grossa asse di legno che piombò giù, sbattendo con un tonfo attutito sul pavimento del tunnel. Era sufficientemente lunga perché la sua parte superiore poggiasse sulla parete interna del cilindro, un po' più sotto della metà di quest'ultimo. Alicante e Ribaudo ne incastrarono bene un'estremità tra due mattoni particolarmente sporgenti, assicurandosi che l'altra non potesse scivolare. Puntando i piedi sull'asse inclinata e aggrappandosi ai mattoni riuscirono, prima l'uno e poi l'altro, ad arrampicarsi nel pozzo. Si ritrovarono tutti e tre fuori, a respirare aria fresca, sporchi di polvere e terriccio, gli abiti sdruciti e in qualche punto strappati. Si guardarono intorno. Erano in un boschetto che imitava la natura selvaggia pur essendo chiaramente artificiale. Disseminati qua e là c'erano dei finti ruderi, pezzi di colonna giacenti nell'erba, qualche capitello corinzio mezzo infossato nella terra, un paio di semiarchi che scaturivano dal suolo e terminavano in aria, una testa barbuta di marmo rovesciata, un busto privo di capo e di arti. E poi piante esotiche, mirti, canfore, camelie, lecci, acacie, palme, ulivi, pini, sparpagliati in un piacevole caos. «Un giardino all'inglese!» esclamò Ribaudo. «Ma dove siamo finiti?» «Boh!» fece Alicante. «Non riconosco affatto questo posto. Nico', tu l'hai mai visto prima?» «No, nemmeno io» rispose don Nicola. «Comunque, vediamo di uscirne!» tagliò corto Alicante, e si incamminò decisamente. Percorsero una ventina di metri e subito si accorsero che più in là, sulla sinistra, cominciava un vialetto ghiaioso. Vi si diressero e lo imboccarono. Il silenzio di quel luogo era assoluto. Si sentiva solo lo scricchiolio delle pietruzze sotto le scarpe. Il vialetto era sinuoso e fiancheggiato da fitti al-
beri dai fusti snelli. La luce che filtrava tra i rami e le foglie era ormai rosata, segno che di lì a poco il sole sarebbe tramontato. Il vialetto terminava su di uno spiazzo erboso, con due fontanelle neoclassiche, una a destra e una a sinistra, da chissà quanto inattive. Videro che dall'altra parte del prato il sentiero continuava. Ripresero a camminare e, dopo un po', si trovarono di fronte a un grande arco in pietra squadrata. Nei lati interni di esso si aprivano due nicchie, una per lato, e dentro le nicchie stavano due statue greche, una con la testa contornata da raggi e l'altra avvolta in un mantello che le copriva anche il capo. Oltre l'arco c'era una specie di vasto cortile circondato da alti muri. Superarono l'arco. La prima cosa che si incontrava nel cortile era una vasca quadrata che, a giudicare dalla striscia di muschio poco sotto il bordo, un tempo era stata piena. «Qui c'era acqua. E anche pesci» disse Ribaudo. «Questa è, era, una peschiera.» Il cortile era diviso a metà da colonne la cui funzione era apparentemente senza senso, visto che si paravano davanti ai tre senza reggere niente. Oltrepassate le colonne, bisognava attraversare un padiglione in legno ricoperto di rampicanti. Dentro c'erano alcune panche di marmo lavorato. Si doveva camminare su lapidi di marmo con bassorilievi di antichi cavalieri giacenti. Passato anche il padiglione, ecco ergersi davanti a loro una villa a due piani, anch'essa in stile neoclassico. Per accedervi bisognava entrare in un androne sormontato da un grande bassorilievo raffigurante Api, il diotoro egiziano. Tutto era silente e abbandonato. L'intonaco era scrostato, le persiane cadenti, grosse ragnatele pendevano dalle imposte. «Signori, vi confesso che avevo sentito parlare di cose del genere ma non ne avevo mai vista una. Questa è una villa massonica!» disse Ribaudo fermandosi a guardare intorno a bocca aperta. «E dalli con 'sta massoneria!» esclamò Alicante. «Ma in che razza di storia siamo finiti?» «Questo non lo so» rispose il commissario. «So solo che, come ho detto, siamo in una villa massonica. Tutto qui è stato fatto secondo dei simboli precisi e questo bassorilievo me ne ha dato la conferma. Il boschetto in cui siamo sbucati rappresenta il caos primordiale che deve essere ordinato secondo il progetto del Grande Architetto Dell'Universo. I finti ruderi archeologici sono le reliquie del passato ormai ridotte a vanità. Dopo avere superato anche queste si accede al luogo dell'ordine e dell'armonia. Le due statue che abbiamo visto sotto l'arco rappresentano il giorno e la notte, i
due solstizi, la luce e le tenebre. La peschiera è il simbolo dell'acqua e questo Api qui, dio della rigenerazione e della fecondità, è una divinità solare, simbolo del fuoco. Anche le colonne che non reggono nulla rappresentano un limite da valicare. Il padiglione, aperto in alto, simboleggia l'aria. Il simbolo della terra era il boschetto. I quattro elementi, insomma. Tutto qui è concepito come un percorso iniziatico.» «Non è che state vaneggiando, per caso?» insolentì Alicante, stanco di vagare e di sorprese. «Sì, capisco che tutto quel che ho detto potrà sembrarvi forzato, ma sono sicuro di quel che dico. Procediamo e ne avremo la certezza.» Si infilarono nell'androne e sbucarono in una corte contornata per tre lati dagli archi di un portico. In quest'ultimo si aprivano diverse porte. Meglio sarebbe dire che si chiudevano, visto che tutte erano murate. Tranne una. La maniglia era arrugginita ma, privi di alternative, la provarono. Si apriva. «Un momento!» esclamò don Nicola. «Non ho alcuna voglia di infilarmi lì dentro! Andiamo via da qui!» «E dove?» sbuffò don Gaetano. «Se torniamo indietro ci ritroviamo nel boschetto. Certo, possiamo esplorarlo per vedere se esiste una via d'uscita, ma tra poco sarà buio e non possiamo permetterci di perdere tempo. Qui c'è una villa che è meglio non provare ad aggirare, perché con tutte queste complicazioni simboliche chissà dove ci ritroviamo. Ma l'edificio deve avere per forza un ingresso principale. Tutto lascia pensare che questo sia il retro o uno dei lati. Se entriamo dentro e andiamo dritti, usciamo dall'altra parte. Voi che ne dite, signor Ribaudo?» «Sono d'accordo. Coraggio, accendiamo le candele!» Vinto dal ragionamento ma non del tutto convinto, don Nicola si rassegnò ad accendere la sua candela e a seguire gli altri. Cosa abbastanza insolita, la porta si apriva su una scala di pietra che scendeva nel buio. Don Nicola contò i gradini. Diciassette. Un numero simbolico anche questo? Si ritrovarono in una sorta di colombario, una vasta sala con le pareti zeppe di loculi. Dentro ai loculi, anfore all'apparenza antiche. Al capo opposto, altri gradini. Li salirono. In cima c'era una porta chiusa, che però si aprì facilmente. Un'altra sala. Questa era completamente vuota. Le sue particolarità erano costituite dal pavimento, tutto piastrelle bianche e nere come gli scacchi, dalle pareti affrescate con colori e stile pompeiani.
«Cosa vi avevo detto?» esclamò Ribaudo. «Guardate queste pitture. Qui c'è il tempio di Iside, questo qui è Bruto, quest'altro è Hiram!» «E chi sarebbe 'sto Iran?» chiese don Nicola. «Hiram, con l'acca davanti e la emme finale. È il leggendario costruttore del tempio di Salomone, un mito massonico. Avevo ragione, avevo! Chissà chi era il proprietario di questa villa... Ah, ecco un'ulteriore conferma!» Ribaudo si era avvicinato a un enorme camino nella parete. Era così ampio che potevano starci dentro comodamente tre o quattro persone in piedi. Ribaudo stava fissando il fregio che lo ornava nella parte superiore. Al centro c'era un bassorilievo rettangolare, largo un palmo e alto due. Rappresentava una specie di S tagliata per traverso da una linea diagonale. Richiamati a gesti dal commissario, i due preti si avvicinarono e videro che si trattava in realtà di una serpe rampante con una mela in bocca; la linea diagonale era una freccia che la trafiggeva. «Embe'?» fece, sgarbato, don Alicante rivolto a Ribaudo. «Ma è il sigillo di Cagliostro!» rispose quello. «Cagliostro venne qui a Napoli per impiantare nella massoneria il suo rito "egizio", di cui poi Garibaldi fu Gran Ierofante» spiegò ai suoi interlocutori, che però non sembravano condividere il suo interesse. «Guardate anche il pavimento» aggiunse Ribaudo. «Gli scacchi bianchi e neri stanno a indicare l'alternanza di luce e tenebre. E scommetto...» alzò gli occhi al soffitto. «Sì, ecco le stelle!» Infatti, il soffitto, a volta, era dipinto in azzurro e costellato di stelle gialle a cinque punte. «Che vi avevo detto? Tutta roba massonica. Questa doveva essere la sala delle riunioni.» «Non ce ne frega niente!» sbottò Alicante. «Andiamo avanti. Voglio tornare a casa.» E si diresse deciso verso l'estremità opposta della sala, dove c'era un'altra porta. Agli altri non restò che seguirlo verso quest'ultima. La aprirono, la oltrepassarono e trovarono una stanza più piccola. Questa non aveva nulla di speciale e da ciò compresero di essere penetrati nell'abitazione vera e propria. Si trattava solo, a quel punto, di trovare una via d'uscita. Dovettero attraversare altre otto stanze suppergiù simili ma di dimensioni diverse prima di imbattersi in una grande porta che aveva tutta l'apparenza di un ingresso principale. Si diedero da fare con i chiavistelli e finalmente videro le luci di Napoli. Alicante ed Esposito riconobbero, non troppo lontani, i Ponti Rossi, cioè
l'acquedotto romano che i napoletani chiamavano così per via del colore dei mattoni con cui era costruito. Adesso potevano orientarsi. La grande porta si apriva su due rampe di scalinata, una a destra e una a sinistra. Discesero e percorsero la vasta rotonda che si stendeva sul davanti della villa. Anche qui, giochi d'acqua, statue piangenti, false urne funerarie e finti reperti. Ai lati, due bassi edifici fatiscenti che dovevano essere stati stalle o alloggi per la servitù. Imboccarono un viale piuttosto stretto, tutto curve e in discesa, che si snodava tra due muri alti un metro e mezzo circa e coperti di vegetazione. «Che vi avevo detto?» fece Ribaudo. «Tutto qui è concepito come percorso iniziatico. L'adepto deve salire per questo impervio viale a piedi, perché è troppo angusto per le carrozze. Poi, lo si fa infilare in quella specie di labirinto che abbiamo attraversato a rovescio. Insomma, lo si fa passare per i quattro stati, terra, aria, acqua e fuoco, ma anche corpo, mente, anima e spirito. O, se volete, i quattro stati dell'Opera alchemica, al nero, al bianco, al rosso e all'oro.» «Ma chi può essere così matto da sperperare quattrini per fare una cosa simile?» domandò don Nicola. «Un ricco entusiasta della massoneria o qualcuno che voleva ingraziarsi la Fratellanza. Qui di sicuro si svolgevano riunioni massoniche e...» Ribaudo si fermò, improvvisamente attento. Mise un dito sulle labbra e ascoltò l'aria. «Che c'è, che c'è?» fece, subito allarmato, don Nicola. «Ssst!» intimò Ribaudo. Dal basso si udivano, sempre più distintamente, diverse voci maschili che si avvicinavano. «Presto, nascondiamoci!» sussurrò Ribaudo. «E dove?» replicò, adeguandosi al sussurro, don Nicola. Ribaudo non rispose ma scavalcò il muro e si accucciò dall'altro lato. Gli altri lo imitarono subito. Rannicchiati tra i cespugli - al di là del muro, infatti, c'era solo sterpaglia - attesero che quelli che salivano sbucassero da dietro una delle tante curve del viale e li oltrepassassero. Non si capiva quel che dicevano, dal momento che parlavano in tono sommesso. Doveva essere un gruppo di una decina di persone, a giudicare dallo scalpiccio. Quando si furono allontanati, don Nicola fece per rizzarsi ma ne fu impedito da don Gaetano, che lo costrinse a restare giù. «Ma perché ci siamo nascosti?» sussurrò lamentoso don Nicola.
Solo quando il silenzio tornò perfetto il commissario si erse e si apprestò a scavalcare il muro per tornare sul viale. Gli altri ancora lo imitarono e don Gaetano rispose alla domanda di don Nicola: «Perché, se il signor Ribaudo ha ragione, possiamo passare un guaio a farci vedere qui. Non sappiamo chi sia quella gente che è salita adesso. Come avremmo giustificato la nostra presenza nella villa? Avremmo dovuto raccontare il perché e il percome, e chissà come sarebbe andata a finire. Quelli magari ci avrebbero preso per ladri e avremmo finito, perché no, con il ritrovarci tutti alla gendarmeria. No, grazie!». «Come mai vi preoccupa tanto la prospettiva di dovervi giustificare in caserma?» domandò Ribaudo, fattosi di colpo sospettoso. Intanto, avevano ripreso a scendere lungo il viale serpentino. Alicante si fermò, fissò il commissario e disse: «E a voi che importa? Anzi, ora che ci penso, voi avete dimostrato di saperla veramente lunga sulla massoneria, il che mi fa pensare che siate massone anche voi. Ora, poiché è molto probabile che quelli in cui ci siamo imbattuti fossero massoni che andavano a farsi la loro riunione, ci volete dire perché voi vi siete nascosto?». Il commissario indurì l'espressione e i due, lui e Alicante, rimasero a guardarsi in cagnesco, la mascella protesa, uno di fronte all'altro. «Già, perché?» disse a quel punto don Nicola, affiancandosi al suo padrino. «D'accordo, giochiamo a carte scoperte» cedette Ribaudo. «Qualcosa mi dice che voi due non siate quel che avete detto di essere. E, poiché non ho niente in mano, non ho neanche niente da perdere. Ecco qua: sono un commissario di polizia e sto svolgendo un'indagine. Ora ditemi chi siete voi.» «Che indagine?» chiese a muso duro Alicante. «Su certi omicidi.» «Omicidi? Che omicidi?» Ribaudo parve riflettere un istante, poi decise di vuotare il sacco. Disse tutto, in rapida sintesi; e, quando ebbe finito, si meravigliò nel vedere le loro espressioni, che non erano solo di sorpresa ma qualcosa di più. I due preti, scambiandosi uno sguardo d'intesa, presero sottobraccio il commissario e tutti e tre ricominciarono a scendere mentre Alicante parlava. Quest'ultimo raccontò al commissario tutto quanto, chi erano loro due e l'indagine che stavano svolgendo. Fu la volta di Ribaudo di riempirsi di meraviglia quando apprese che era la medesima.
«No, non può essere! Sarebbe una coincidenza troppo assurda! Non ci credo!» «Eppure, caro il mio commissario, è proprio così! Certo, comprendo la vostra difficoltà ad ammettere il soprannaturale; ma è stato proprio il diavolo a indirizzarci. E, a quanto risulta, a metterci anche sulla vostra strada. Se in questa storia c'entra la massoneria, la vostra consulenza è quanto mai preziosa. Da soli non ci avremmo capito niente, di percorsi iniziatici e rituali di vendetta. Uè, ma 'sto viale non finisce mai?» «Don Gaeta', scusate» interloquì don Nicola. «Noi non vogliamo andare alla gendarmeria, e sta bene. Ma sicuramente ci saranno andati i due fratelli francesi. Voi cosa avreste fatto al loro posto, non trovandoci all'appuntamento? Dopo averci cercato invano, saranno andati a denunciare la nostra scomparsa!» «A questo penso io» disse Ribaudo. «Andiamoci subito e lasciate parlare me.» Il viale finalmente terminò e i tre si ritrovarono alle porte della città. Presero al volo una carrozza e si fecero portare alla polizia. Qui Ribaudo, dopo essersi qualificato, ebbe la sorpresa di apprendere che nessun francese si era presentato a denunciare la scomparsa di tre gitanti. Il trabocchetto Passarono la notte a casa dei due sacerdoti. Fortunatamente nessuno li aveva visti entrare. Altrimenti, i parrocchiani di certo si sarebbero stupiti nel vedere i loro preti tornare vestiti in borghese, tutti sudici e in compagnia di uno sconosciuto conciato come loro. Si ripulirono, poi cenarono con pane e alici salate perché in casa non c'era altro. Per la verità, in dispensa qualche cartata di spaghetti col buco e qualche filo di pomodorini appesi non mancavano mai. Ma risolsero di essere troppo stanchi per mettersi a cucinare. A Ribaudo fu approntato un giaciglio di fortuna nell'appartamentino di don Nicola, per terra, su alcune coperte più volte ripiegate. Stabilirono di uscire molto presto, per non farsi vedere dai vicini. Convennero di ritornare alle Cento Stanzulelle, per una serie di motivi. Innanzitutto, avevano lasciato dietro di sé i due francesi e il cocchiere venuto a riprenderli. Poi, là dentro c'era il cadavere nel sarcofago, la cui ispezione era stata affrettata e necessariamente sommaria. Infine, non sapevano
cos'altro fare, e questo era il motivo determinante. Quanto al cocchiere furono fortunati perché, l'indomani mattina, nel cercare una carrozza si imbatterono proprio in lui. Era in fila con le altre vetture e li riconobbe. «Ohè, signori! Che sollievo vedervi, mi avevate fatto preoccupare! Io ieri sono venuto a riprendervi, come d'accordo, ma non c'era nessuno! Ho aspettato più di un'ora e poi me ne sono andato. Che dovevo fare? Ho pensato, che so, magari hanno trovato un'altra carrozza... Magari, e scusate se l'ho pensato, non volevano pagarmi!» concluse l'uomo con affettata noncuranza. Parlò Ribaudo: «No, no, state tranquillo! Sarete pagato anche per il disturbo. Scusate voi, anzi, se vi abbiamo fatto preoccupare. È che là dentro abbiamo perso la cognizione del tempo e, quando siamo usciti, voi non c'eravate già più. Così, siamo scesi fino in paese, sì, quello che sta sul mare, e abbiamo preso lì una carrozza. Ma, dite, i francesi, neanche loro avete visto?». «E che ne so? Io credevo che fossero con voi!» Ribaudo e i due preti si guardarono negli occhi, stupiti. Poi, Alicante prese in pugno la situazione: «Si vede che hanno avuto la nostra stessa idea!» rise fintamente. Si frugò in una tasca. «Eccovi qua un po' di soldi. Su, portateci di nuovo alle Cento Stanzulelle.» L'uomo valutò le monete che don Alicante gli aveva messo in mano e la sua bocca si allargò in un sorriso a tutti denti. «Eh, vi è piaciuto proprio, quel posto! E che ci trovate di speciale? Mah, contenti voi...» «Sì, sì, contenti noi! Frustate, frustate, via, che abbiamo pure prescia!» «Pure prescia hanno!» bofonchiò allegramente il cocchiere, e si accinse a far muovere il cavallo mentre quelli montavano. La giornata si preannunciava splendida, tutta sole e cielo pulito. La città cominciava appena ad animarsi e la carrozza trottava spedita nelle vie ancora semivuote. I tre cercarono di mettersi comodi quanto più possibile. Erano infatti ancora piuttosto assonnati, malgrado la tazzina di caffè forte che avevano velocemente ingoiato prima di uscire. Ribaudo, cullato dal rollio della vettura, scivolò presto nel deliquio. In breve lo si udì emettere i suoni tipici di chi dorme della grossa: sibili, soffi, gorgoglii a bocca aperta. Alicante guardava la città scorrere fuori dal finestrino e le palpebre impercettibilmente gli si abbassavano. Don Nicola invece era sveglissimo per la
preoccupazione. «Don Gaeta', don Gaetano!» «Eh? Uh! Che c'è, che vuoi?» si riscosse Alicante. «Vi siete ricordato di prendere la lampada?» «Io la mia la tengo, certo. Tu, piuttosto, ce l'hai la tua?» «Sì, sì, e anche il commissario, qui, ne ha una in tasca.» «Bene» disse don Alicante, e tornò a guardare fuori. «Don Gaeta'!» «Ma che c'è, che vuoi?» «Sto preoccupato!» «Tanto per cambiare. Embe'?» «A parte il fatto che non vedo l'ora di tornare alle mie occupazioni consuete, ditemi, come faremo a ritrovare il sarcofago?» «Io mi ricordo bene l'arco da cui siamo entrati nelle Cento Stanzulelle, è il terzo da sinistra. È nel cercare di tornare fuori che ci siamo persi, ieri. Questa volta, come abbiamo stabilito, segneremo con il gesso le pareti del tunnel, così non ci perdiamo più. Ma questo lo sai, perché me lo fai ripetere?» «E il gesso l'avete portato?» «Nicoli', mò perdo la pazienza. Il gesso lo dovevi portare tu!» «Ah, sì, avete ragione. Aspettate che controllo. Eccolo qua, l'avevo in tasca. Ora sto più tranquillo.» «E allora lascia tranquillo anche me, ti voglio bene!» si lagnò Alicante, e si rimise a guardare fuori. Don Nicola attese qualche secondo, poi tornò alla carica: «Don Gaeta', don Gaetano!». «All'anima, Nico'! Ma si può sapere che hai?» alzò la voce Alicante facendo svegliare di botto il commissario. Questi sollevò la falda del cappello che gli era scivolato sugli occhi e si guardò intorno, mezzo stralunato. «Dove siamo? Siamo arrivati?» domandò con voce impastata. «No, commissa', io e il mio figlioccio stavamo discutendo.» «È che volevo sapere che facciamo se, Dio non voglia, dovessimo trovarci in un guaio!» disse don Nicola, rivolto ai due. «State tranquillo» fece Ribaudo. «Ho la mia pistola d'ordinanza.» E cavò da sotto l'ascella un revolver a sei colpi. Lo mostrò e poi lo rimise dov'era. «Posso vederla?» chiese Alicante. Ribaudo risfoderò l'arma e la porse al prete. Questi la impugnò e, sorridendo, la osservò da un lato e dall'altro.
«Eh, adesso le fanno davvero piccole! Quella che avevo io era parecchio più lunga e molto più pesante. Non si poteva certo tenere sotto la giacca!» «Siete stato militare?» chiese Ribaudo riprendendo la pistola che il prete gli porgeva. «Sono stato poliziotto.» «Ah, un collega, dunque! E per quanto tempo?» «Oh, lasciamo perdere, è acqua passata. Magari, quando questa storia sarà finita e ne avremo agio, ci metteremo, io e voi, davanti a una bella tazzina di caffè e in compagnia di un buon sigaro, e ci scambieremo qualche ricordo da sbirri. Ora vi consiglio di tornare a dormire, se ci riuscite, perché oggi dovremo stare in piedi parecchio.» Ribaudo ritenne che non fosse il caso di insistere e si riaccomodò nell'angolo a braccia conserte, come prima. Alicante tornò a guardare fuori. Esposito, che stava seduto di fronte a loro, cavò di tasca la corona del rosario e si mise a sgranarlo in silenzio. Nessuno aprì più bocca fino a destinazione. Don Alicante, però, non stava ammirando il panorama, che del resto conosceva benissimo. No, stava riflettendo. Il breve scambio con il commissario gli aveva fatto tornare in mente i suoi trascorsi. Si rivide giovanissimo in divisa, i baffetti di peluria, i bottoni lucidi. Andò ancora più indietro con il ricordo. Pensò a suo padre, anche lui poliziotto, e a quel giorno in cui era tornato a casa gonfio di collera e amarezza perché aveva appreso che Tore 'e Criscienzo, guappo e camorrista capomazza, era stato messo a capo della Guardia Nazionale di Napoli dal dittatore Garibaldi. Lui, Gaetanino, il Tanino di mammà, era troppo piccolo e non poteva capire. Suo padre non avrebbe voluto, data la situazione politica mutata in peggio, che il figlio seguisse le sue orme. La mente che correva libera compose la figura di un fraterno amico e collega di suo padre, il maresciallo Concetto Calabro, che sempre portava allo zio di Gaetanino, prete, il contrabbando sequestrato. Polizia e clero, le due uniformi tra cui Gaetanino era praticamente cresciuto. Rise fra sé. Eh, quando uno ha il destino segnato... Già, con quegli esempi, doveva uscire o poliziotto o prete. Chi l'avrebbe mai detto che sarebbe stato sia l'uno che l'altro? D'altronde, c'era sempre stata una certa somiglianza tra le due vocazioni, entrambe in uniforme, entrambe richiedenti disposizione a rischiare anche la vita per un ideale più alto, entrambe contrassegnate da fedeltà, obbedienza, gerarchie, spirito di corpo, ritualità,
giuramenti solenni. E poi lavoro con la gente, a maneggiare i lati più oscuri dell'animo umano per far trionfare la verità e la giustizia. Non a caso, il poliziotto sapeva bene che, quando succedeva un fattaccio, il primo a cui rivolgersi era il parroco. Segreto confessionale a parte, questi era in grado di offrire almeno un primo orientamento d'indagine meglio di chiunque altro. Egli, disinteressato e al di sopra delle parti, era nemico del male. Al pari del poliziotto. Almeno in teoria, s'intende. Purtroppo, quando era stata la volta di Gaetano Alicante di vestire la divisa da poliziotto, le cose non erano più le stesse dei tempi di suo padre. A Gaetano non erano toccati tanto contrabbandieri, guappi dal coltello facile, camorristi dallo sguardo sprezzante e con il cappello sulle ventitré, quanto spiritisti, stregoni, maghi. Certo, i delinquenti normali c'erano sempre, solo che con i tempi nuovi e "positivi" era arrivata in città una singolare concorrenza. Eh, il progresso, insieme alla ferrovia e all'elettricità, aveva portato anzi, riportato - i fantasmi. Sì, lui aveva dovuto occuparsi di una Napoli cupa e oscura che sembrava agli antipodi della città allegra e solare delle cartoline ma che pure era reale e in certi casi anche pericolosa. A quel punto sopraggiunse il ricordo più acuto, quella concatenazione di eventi che l'aveva determinato a cambiare divisa. Si rivide nell'ufficio del commissario di pubblica sicurezza Cipriano Caccioppoli insieme agli altri colleghi della squadra investigativa in borghese, a ricevere l'incarico di proteggere l'avvocato Giustiniano Lebano, massone, teosofo ed ex garibaldino, dal brigante Pilone, che aveva giurato di ammazzarlo. Brigante? Già: bisognava chiamare briganti tutti quelli che avevano preso le armi contro il nuovo regime piemontese. E occorreva proteggere i rinnegati. Le immagini nella mente mutarono e Alicante si rivide appostato con i colleghi, di notte, sotto casa del Lebano. Risentì le urla all'improvviso, gli altolà, gli spari. Rivide se stesso con la pistola in pugno e a gambe larghe, ad aspirare il puzzo di cordite, a guardare tra il fumo gli occhi sbarrati di Pilone riverso sul selciato e la pozza di sangue che si allargava sulla sua camicia. Quel Lebano. Autore di un Padre Nostro satanico era dignitario del "rito egizio di Memphis". Eh, c'era anche questo a Napoli. Non gli era bastato aver perso tre figli maschi per il colera, cosa che aveva quasi fatto impazzire la moglie Virginia. No, lui scriveva che il colera non esisteva, che era
solo una sincope fabbricata da maghi cinesi e che andava combattuta con mezzi altrettanto magici. Lebano aveva composto anche un trattato di commento al Cantico dei Cantici, zeppo di insulti alla Chiesa come madre dell'ignoranza, dell'oscurantismo e della superstizione. Senti chi parla, sogghignò Alicante al ricordo. Quello lì non era rinsavito nemmeno quando, anni dopo, un'altra epidemia di colera gli aveva tolto il quarto figlio, l'ultimo, e maschio pure lui. La povera moglie, questa volta davvero impazzita, si diede fuoco per espiare, secondo lei, i peccati del marito. Che, sempre secondo lei, era la causa della punizione divina che si era abbattuta sulla sua casa. Povera donna. L'associazione di idee portò Alicante a un'altra povera donna, quella che abitava a Portici in una piccola casa addossata alla chiesa parrocchiale. Il cui parroco era proprio suo zio. La signora Tanina Argano in Formisano. E suo figlio Ciro, fatto studiare con tanti sacrifici, diventato professore di geografia al ginnasio e poi giornalista al «Mattino». Con lo pseudonimo di Giuliano Kremmerz s'era messo anche lui a fare il mago. Evocava angeli, demoni e divinità pagane, diceva di vincere al casinò grazie alle sue tecniche magiche, praticava il magnetismo mesmeriano, redigeva riviste di occultismo. Anch'egli, naturalmente, odiatore della Chiesa. La madre, con cui viveva, doveva assistere alle continue scenate tra lui e la moglie Anna, gelosissima. Il bello è che la Tanina teneva a pensione un certo Pasquale de Servis, occultista pure lui. Di immagine in immagine, Alicante arrivò a quella seduta spiritica in casa Mingaldi, con il commerciante Ercole Chiaia e il romanziere Roberto Bracco. E la famosa medium Eusapia Palladino. Assisteva alla seduta il celebre scienziato Lombroso, che l'agente in borghese Alicante era incaricato di proteggere. Lì, tra ectoplasmi e il fantasma di un sedicente John King, l'occhio professionale di Alicante aveva colto, nella penombra, il piede della medium infilarsi sotto la gamba del tavolino. No, non aveva deciso in quel momento di lasciare la polizia; nemmeno, figurarsi, di farsi prete. Neanche la truffa che si era svolta sotto il suo naso era stata determinante. Solo, da quel giorno era cominciato in lui un rabbioso malessere, un astio sempre più profondo verso quel club sotterraneo di fuori di testa, di positivisti di giorno e stregoni la notte, quel mondo sulfureo di spettri, evocazioni di morti, cerimonie magiche e follie soprannaturali, in pieno «secolo del progresso» e alloggiante nelle medesime teste che dicevano di praticare e addirittura insegnare la razionalità. Tutti unanimi politicamente
e corifei del nuovo regime. Tutti altrettanto unanimi nell'odio alla Chiesa e nello sforzo di sradicare la fede dalle anime della gente semplice. Gli spaventosi guasti umani provocati da costoro li aveva toccati con mano dopo, da prete e confessore. Suicidi, pazzia, vite rovinate, patrimoni dilapidati, disperazione, trapassi senza sacramenti. Per non contare i troppi disgraziati "curati" con magnetizzazioni e magie o pozioni indicate dagli "spiriti". Già, gli spiriti. Come quello che aveva invasato la povera Angiolina, e che solo la santità di monsignor Pascale aveva potuto cacciare. E ora, eccolo qua alle prese con morti ammazzati tramite contorti rituali, ville iniziatiche, inquietanti medaglie massoniche, dedali tenebrosi. Eh, sì, era destino, evidentemente, che don Gaetano passasse la vita a combattere contro il calderone di Macbeth e quanto conteneva, anche se, di suo, avrebbe aspirato a una parrocchia di campagna dove il massimo peccato era tornare ubriachi dall'osteria e picchiare la moglie. Peccati del genere erano facili da affrontare: due sberle e dieci avemarie. E anche se di sberle ce ne fossero volute quattro, era sempre meglio di V.I.T.R.I.O.L. e dei giardini filosofici. Solo allora si avvide che don Nicola lo stava guardando fisso. Già: seguendo i suoi pensieri si era messo a gesticolare e a scuotere la testa. Nel mandare a quel paese, con il braccio e la mano aperta, spiritisti e negromanti, la coda dell'occhio gli aveva mostrato la faccia attenta, in apprensione, di don Nicola. «Che c'è? Perché mi guardi come un allocco?» fece, seccato di essere stato colto in atteggiamento non troppo fine. «Siamo arrivati» si scusò don Nicola. In effetti, immerso nei suoi ricordi, don Gaetano non si era accorto che il breve viaggio era già finito e la carrozza aveva rallentato il trotto per mettersi al passo. Con un lungo «Ooooh!» il conducente tirò le redini e fermò il cavallo. Appena scesi, i tre licenziarono il cocchiere e lo pregarono di venire a riprenderli all'ora di pranzo. Questa volta, prudentemente, gli dissero di attenderli non più di mezz'ora. Se non li avesse visti tornare, avrebbe potuto andarsene tranquillamente. Alicante mostrò le tasche gonfie e fece capire che si erano portati dietro da mangiare, nel caso avessero deciso di prolungare l'escursione per tutto il giorno. In tale eventualità sarebbero scesi al paese e magari ci avrebbero pernottato. Intanto, per il suo disturbo, al cocchiere fu pagata anticipatamente anche la corsa di ritorno. Quando quello se ne fu andato, salirono per il solito sentiero e poi disce-
sero per la solita scarpata. Giunti agli archi, accesero le lampade e si inoltrarono ancora una volta nelle Cento Stanzulelle. Durante la marcia nel corridoio don Esposito dovette essere richiamato da don Alicante perché, in un eccesso di prudenza, lasciava segni con il gesso quasi a ogni metro, facendo rallentare notevolmente l'andatura. A un certo punto, di botto, Ribaudo, che procedeva davanti, si fermò e impose con un gesto il silenzio. Soffiò sulla fiammella della sua lampada e la spense. Accennò agli altri di fare lo stesso e, subito obbedito, fu il buio. Fermi e zitti, i due preti capirono di che cosa si trattava quando, abituati gli occhi all'oscurità, intravidero davanti a loro un fioco chiarore. Quatti quatti e in punta di piedi avanzarono fino al punto in cui il tunnel faceva una curva. Superata questa, proseguirono ancora per un tratto verso la luce. Alla fine della galleria, i tre si appiattirono alla parete. Sporsero cauti la testa. Videro, scarsamente illuminata da una torcia, la sala esagonale con il sarcofago in mezzo. La torcia era per terra e rischiarava a malapena una figura ammantellata che, curva sul sarcofago, dava loro le spalle. Il coperchio era scostato e il personaggio con il mantello aveva la testa e le braccia infilate dentro. «Fermo là!» gridò Ribaudo, facendo sobbalzare il cuore di don Nicola. La figura di scattò si rizzò e volse il capo verso di loro. Ma rivelò un cappuccio sulla testa e i tre non poterono vederle la faccia. In un baleno l'incappucciato spiccò un balzo oltre il cerchio di luce proiettato dalla torcia e sparì nel buio. «Fermo, ho detto! Fermo!» urlò il commissario, lanciandosi all'inseguimento. I due preti gli tennero dietro. Ma l'unica cosa che si poteva seguire ormai era lo scalpiccio del fuggitivo che diventava sempre più fioco; finché non si perse in lontananza. Rammentando che da quella sala si dipartivano sei tunnel, Ribaudo trattenne i compagni. «Inutile, non ci si vede un accidente! Presto, accendete le lampade!» Mentre i due preti armeggiavano con i fiammiferi, il commissario raccolse la torcia da terra e la tenne alta per illuminare il più possibile dell'ambiente. Andò al sarcofago e vi si affacciò. Il cadavere non c'era più. «Chi era quello, e cosa cercava?» esclamò don Nicola. «E lo chiedi a me?» fece sgarbato don Gaetano. «Guardate, il corpo è sparito!» disse Ribaudo. I due preti si avvicinarono
e guardarono anche loro all'interno. «E mò che facciamo?» chiese don Nicola. «L'unica è seguire quello là!» rispose don Gaetano, accennando con il capo verso il buio. «Già, ma dove? I cunicoli sono sei!» ribatté don Nicola. «Sì, sono sei, ma due possiamo escluderli» precisò don Gaetano puntando la sua lampada verso le pareti. «Ha ragione!» confermò Ribaudo. «Uno è quello da cui siamo venuti, ed è segnato con il gesso. L'altro è quello in cui troveremo per terra tracce di cera, e sarà quello che abbiamo percorso ieri fino al pozzo.» «Proprio così. Ed è improbabile che l'uomo con il cappuccio e il mantello si sia diretto verso quest'ultimo» disse Alicante. «Hanno portato via il cadavere, e noi sappiamo che ci vuole la forza di almeno due uomini solo per spostare il coperchio. Difficile che quelli che hanno compiuto l'operazione si siano calati dal pozzo e dal pozzo siano poi risaliti, più difficile ancora con un cadavere in spalla. No, ci deve essere un'altra via.» «Ma, se per aprire il coperchio bisogna essere almeno in due, come ha fatto quello lì?» insisté cocciuto don Esposito. «Due, sì, ma a mani nude!» si inserì il commissario. «Se però si dispone di un piede di porco, lo si può rimuovere quel tanto che basta anche da soli. Vedete? È solo spostato. E, se avessimo tempo e voglia di fare i meticolosi, senz'altro troveremmo qualche scalfittura sul bordo e sul coperchio stesso. Coraggio, adesso. Cerchiamo il tunnel segnato con il gesso e quello con le tracce di cera.» «Scusate, ma non ho capito che ce ne facciamo, visto che poi ce ne resteranno altri quattro!» fece don Nicola. «Ahò, Nicoli'! E sei proprio fastidioso, figlio mio! Non è che hai torto, certo, ma siamo qua per svolgere un'indagine di somma importanza, lo sai bene! Niente, vorrà dire che ci infileremo in uno dei quattro rimasti e che Dio ce la mandi buona! Che vuoi che ti dica? Se non ci porta a nulla, torniamo indietro e ne infiliamo un altro. Tanto, di tempo ce n'è e di lampade pure.» «Don Alicante ha detto bene» approvò Ribaudo. «Non possiamo fare altro.» Don Nicola si strinse nelle spalle e si avviò verso una parete, chinandosi per cercare le tracce di cera lasciate il giorno prima. Gli altri andarono in cerca del tunnel segnato con il gesso. La ricerca fu breve.
«Eccolo qua, quello con il gesso!» «Ed ecco qua quello con la cera!» Don Nicola si levò dritto, estrasse il gessetto dalla tasca e tracciò una vistosa croce sull'entrata del tunnel che portava al pozzo. Ricorsero alla solita moneta per decidere in quale dei quattro rimanenti cacciarsi. Per essere esatti, tuttavia, va detto che, mentre Ribaudo lanciava, i due preti si segnavano e mentalmente si raccomandavano a sant'Antonio di Padova, che fa trovare le cose perdute, a san Cristoforo, patrono di coloro che si mettono in viaggio, e a san Raffaele, l'arcangelo che accompagnò Tobia nella Bibbia. Don Nicola si affidò anche al suo angelo custode e, soprattutto, alla Madonna del Carmine, che li scampasse da ogni pericolo. Il tunnel prescelto, dopo un centinaio di metri si restrinse bruscamente, costringendo i tre a procedere in fila indiana. Si ritrovarono in un angusto budello dall'alto soffitto a volta. Ogni tanto un dischetto bianco sulle loro teste rivelava la presenza di una presa d'aria e proiettava un cerchietto ancora più piccolo per terra. Dovevano essere all'incirca a un'ora dal mezzogiorno, a giudicare dall'inclinazione della lama di luce. Camminarono ancora a lungo, in silenzio. D'un tratto Alicante richiamò l'attenzione di Ribaudo, che precedeva tutti, tirandolo per giacca. Istintivamente parlò a voce sommessa: «Avete notato che le prese d'aria sono finite da un po'?». «Sì» rispose quello, con lo stesso tono. «Chissà che cosa c'è sopra di noi. Di certo, non il cielo.» «Che si fa?» «E me lo chiedete? Andiamo avanti!» Continuarono senza più parlare. Da un certo punto in avanti il corridoio si piegava in una serie di curve, a sinistra, poi a destra, poi ancora a sinistra e di nuovo a destra. Andarono avanti così, zigzagando, fino a perdere del tutto la cognizione della distanza percorsa. L'unica cosa di cui si accorsero era che il pavimento si andava leggermente inclinando verso l'alto. Salivano. Finalmente il tragitto serpentino terminò e il tunnel prese a svoltare dolcemente. Solo dopo un bel tratto si resero conto che stavano percorrendo una curva apparentemente senza fine, in salita per giunta. Don Nicola fin dall'entrata nel cunicolo aveva recitato mentalmente il rosario. Misteri dolorosi. Poi quelli gloriosi. Poi quelli gaudiosi, che di solito si recitano per primi ma, secondo lui, l'impresa in cui era implicato richiedeva innanzitutto la meditazione sulla Passione di Cristo. La terna di
cinque misteri ciascuna implicava centocinquanta avemarie, quindici paternostri e altrettanti gloria. E ancora camminavano. Disse allora dei requiem per i morti ammazzati di quella faccenda, poi tutte le litanie lauretane. E ancora camminavano. Cercò di recitare allora i salmi, ma ne ricordava solo brani alla rinfusa. Il fatto era che quel silenzio, quell'oscurità e quel cammino verso chissà quali pericoli gli avevano messo addosso un paura che era cresciuta via via, ed egli aveva bisogno di tenere il cervello occupato per non pensarci. Certo, la presenza del suo padrino, così fermo e deciso, sempre sicuro sul da farsi, lo confortava. E anche la pistola del commissario contribuiva ad attenuare il suo timore. Oh, sì, altre volte, seguendo il suo mentore, si era trovato in situazioni rischiose. Ma il rischio corso fin lì era stato, al massimo, quello di una severa mazziata. O di una sonora lavata di capo da parte del vicario. Ora, invece, c'erano cadaveri uccisi, gole tagliate e lingue strappate. C'era la potentissima congrega massonica di mezzo, e con questa era meglio non avere nulla a che fare. A ben pensarci, il commissario Ribaudo era forse anche lui massone. Eppure, era lì con loro, coinvolto nella stessa indagine. Questo pensiero lo tirò un po' su di morale. Sì, Ribaudo stava dalla loro parte. Ma, se avessero scoperto che davvero la massoneria era responsabile di quegli omicidi, cosa avrebbe fatto Ribaudo? Avrebbe avuto l'onestà professionale di mettersi contro i suoi sodali? Oppure era stato sguinzagliato in quella storia proprio per insabbiare ogni cosa? In fondo, cosa ne sapevano, lui e don Gaetano, di quello lì? Solo ciò che aveva detto loro. E se avesse mentito o raccontato parte della verità? Il bello è che Ribaudo, in quel momento, stava pensando esattamente le stesse cose di loro. Chi erano veramente quei due? E se non fossero stati preti ma spie dei Figli della Vedova? La Fratellanza era infatti divisa al suo interno e si erano già viste Logge una acerrima nemica dell'altra. Sì, gli omicidi con il furto della medaglia massonica deponevano a favore di quei due come emissari del clero; però su questo c'era solo la loro parola. Lui, purtroppo, non aveva quel sesto senso vantato da certi suoi colleghi che, a sentir loro, avvertivano a naso se uno mentiva o meno. Non era nemmeno sicuro di essere provvisto del famoso fiuto dell'investigatore. Lui si era sempre basato su quel che vedeva, sentiva e toccava. E sull'esperienza. La quale, tuttavia, non era amplissima. Sicuramente avevano influito sulla sua convocazione riservata da parte del ministro la discrezione e l'acume con cui aveva condotto il caso delica-
tissimo riguardante Luigi Capuana, romanziere di fama. L'eccessivo interesse di costui per il mondo dell'occulto rischiava di portare alla famelica attenzione della stampa scandalistica i nomi di alcune grosse personalità che tale interesse condividevano. Ribaudo aveva dovuto muoversi tra fotografie di fantasmi - come si chiamava quel fotografo? Damiani, gli pareva di ricordare - e giovani medium convulsionarie e isteriche. Si trattava, anche, di far sì che non venisse a galla che addirittura l'erede al trono traeva diletto da tutta questa roba. Il trasferimento alla sede prestigiosa della capitale e un aumento di stipendio erano stati il premio. Poi, i piani alti si erano scordati di lui e i casi di routine erano diventati il suo pane quotidiano. Chissà, forse per i piani alti era meglio che la carriera di uno al corrente di dettagli imbarazzanti restasse ai piani bassi, così da poterlo agevolmente controllare e neutralizzare se del caso. Magari con un bel trasferimento in Sardegna. Intanto, il tempo era passato e lui non si era neanche fatto una famiglia. Il pensiero si spostò del tutto naturalmente su quella francesina che gli aveva fatto brillare gli occhi. Louise. Chissà dov'era in quel momento e chissà se anche in cima ai suoi pensieri c'era il loro incontro. No, di certo. Lui non era bello né aveva mai fatto colpo di primo acchito sulle donne. Neanche di secondo. Louise. Si era preoccupata non trovandolo all'appuntamento del giorno prima? O aveva fatto spallucce e se ne era andata? Già: lei e il fratello che fine avevano fatto? E perché non avevano denunciato la scomparsa di Ribaudo e degli altri due? Per menefreghismo? Bella riconoscenza verso chi aveva dato loro un passaggio salvando la loro gita! A distoglierlo da questi pensieri fu il sommesso battibecco che si svolgeva alle sue spalle. Si voltò e vide che don Alicante aveva afferrato per un braccio don Esposito e gli parlava a un millimetro dalla faccia. «Guaglio', guardami negli occhi e stammi bene a sentire: se c'è una mancanza che in un sacerdote è scandalosa è la mancanza di fortezza, m'hai capito bene? Dunque, ricordati che sei un sacerdote e smettila di tremare, sennò ti piglio a pàccare!» Don Nicola, rosso nel viso, non rispose. Abbassò lo sguardo, vergognoso, poi lo rialzò verso il suo padrino, raddrizzò le spalle e si diede un contegno. Ribaudo, che aveva colto solo la fine della sfuriata, raccomandò a gesti il silenzio e riprese la marcia.
Dopo qualche minuto giunsero in un punto in cui il tunnel si restringeva ancora. Qualche metro ed ecco davanti a loro i primi gradini di una strettissima scala a chiocciola scavata nella pietra. Salirono guardinghi. Salirono e salirono, fino a che quel procedere a spirale non fece loro girare la testa. Con la bocca storta per la nausea, don Nicola domandò a gesti dove diavolo stessero andando a finire. Don Alicante gli rispose, nello stesso modo, che non ne aveva idea. Ribaudo si strinse nelle spalle e, con un cenno della testa, suggerì di continuare. Avevano i crampi alle cosce e ai polpacci quando finalmente l'ascensione terminò. Gli ultimi gradini di quell'interminabile scala portavano a un pianerottolo largo quanto bastava a contenere giusto tre persone in piedi. Davanti a esso si apriva un corridoio che terminava con un muro. Su quel muro, in fondo, si stagliava netta, quasi per tutta la larghezza, una sottilissima striscia di luce gialla. Dall'altra parte provenivano flebili voci. I tre si fermarono, tendendo l'orecchio. D'impulso, don Nicola superò con un solo passo i due gradini che lo separavano dalla luce per avvicinarvi gli occhi. Ma, appena messi i piedi sul pianerottolo, sparì inghiottito dal buio. La fessura Don Nicola sentì di botto il terreno mancargli sotto ai piedi e nuotò nell'aria annaspando alla ricerca di un appiglio. Nella caduta, le sue mani incontrarono qualcosa e subito serrò le dita ad artiglio, trovando presa. Si morse le labbra per non gridare e rimase così, penzolante nel buio, con il cuore in gola. Ribaudo e Alicante avevano udito un sommesso cigolio appena Esposito aveva poggiato il piede sul pianerottolo, e subito un tonfo attutito. Alzarono le lampade e videro le mani di don Nicola sporgere da una buca quadrata, le dita avvinghiate alla parte superiore di una lastra di pietra che aveva coperto la buca ma ora aveva oscillato su di un perno centrale e si era ribaltata. Subito si precipitarono a togliere don Nicola dalla pericolosa posizione. Alicante aggirò la buca, afferrò con le due mani il bordo della lastra e tirò a sé. Fu uno sforzo notevole, perché insieme alla lastra si trattava di sollevare anche il corpo che vi era appeso. Ma Alicante era un pezzo d'uomo e riuscì a tirare quel tanto che bastava a permettere a Ribaudo di cavar fuori
il giovane prete. Don Nicola, in salvo ma ancora sconvolto, sedette per terra massaggiandosi i polsi. Alicante si chinò a controllarglieli. Per fortuna, nessun osso rotto. Ma dovevano fargli un male cane, perché erano rimasti incastrati tra il bordo della buca e quello della lastra, sopportando per giunta il peso di tutto il corpo. Mentre don Nicola stringeva i denti per il dolore, gli altri due guardarono nella buca. Un dannato trabocchetto, di cui l'oscurità impediva di vedere il fondo. Chi percorreva quel corridoio alla luce poteva scansarlo facilmente. Non così chi avesse camminato al buio. Ma perché quella trappola proprio lì? La domanda sarebbe rimasta per il momento senza risposta. Attesero che don Nicola si fosse un po' rinfrancato, poi procedettero nel massimo silenzio verso la striscia di luce da cui provenivano, indistinte, le voci. Quando vi arrivarono, videro che si trattava di una fessura orizzontale larga pochi millimetri e lunga un metro circa. Era piuttosto in basso e i tre dovettero inginocchiarsi per avvicinarvi gli occhi. La prima cosa che Ribaudo vide furono le piastrelle bianche e nere. Comprese subito che quasi sicuramente dovevano essere finiti di nuovo, per un'altra via, nella stravagante villa del giorno avanti. Se le cose stavano così, era molto probabile che stesse guardando da dietro il grande camino con il sigillo di Cagliostro. Evidentemente quel camino dissimulava un passaggio segreto, e loro erano giusto dall'altro lato. Lo spiraglio da cui filtrava la luce doveva essere la parte superiore della chiusura dissimulata, che negli anni aveva leggermente ceduto sui cardini e perso l'assoluta invisibilità. Una invisibilità comunque, che dalla sala doveva essere ancora totale, poiché il corridoio in cui loro tre si trovavano era sempre immerso nell'oscurità. Udì un colpo soffocato vicino al suo orecchio sinistro. Girò la testa e vide che, data l'esiguità dello spazio a disposizione, don Nicola aveva dato una forte zuccata nel capo di don Alicante, il quale si era morso un pugno e poi aveva alzato la mano aperta, quasi volesse abbatterla sulla testa del figlioccio. Mimica napoletana, pensò Ribaudo. Dalla fessura si vedeva solo una parte della sala con il pavimento a scacchi, sia perché la fessura in questione era bassa, sia perché i tre si ostacolavano l'un l'altro in quel metro e mezzo di angustia. La seconda cosa che Ribaudo e gli altri videro, dopo il pavimento bianco e nero, fu quel che c'era sopra. Piedi, una ventina a occhio e croce; su di
essi cascavano mantelli rossi, tutti uguali. I piedi erano voltati tutti verso la stessa direzione, cioè verso la destra, rispetto ai tre, della sala. A giudicare dal movimento delle ombre, l'illuminazione doveva essere fornita da torce o da bracieri. Tendendo l'orecchio si poteva cogliere la maggior parte di quel che veniva detto là dentro. A parlare era soprattutto uno solo, verso il quale gli altri sembravano rivolti; ma era oltre il campo visivo di Ribaudo e dei due preti. Ecco il primo brano che i tre furono in grado di afferrare distintamente: «... e sei riuscito a seminarli?». Rispose un'altra voce: «Non credo che abbiano avuto il coraggio di inseguirmi. Ho lasciato lì la torcia e sono scappato nel buio. Non possono aver visto in quale corridoio mi infilavo». Don Nicola, sentito che stavano parlando di loro tre, fu attraversato da un brivido. Ma subito si ricordò di quanto gli aveva detto don Gaetano sulla fortezza come virtù essenziale per un sacerdote e si sforzò di farsene venire almeno un po'. Ma il resto del colloquio non si rivelò atto a incoraggiarlo. «Ma chi può essere?» disse la prima voce. «Tre gitanti, molto probabilmente. L'accento era settentrionale.» «Hanno visto la tomba?» «Sì, purtroppo. Però non sanno cosa sia. Penseranno a un reperto d'epoca romana. Non mi preoccuperei.» Alicante strizzò gli occhi, perché a fissare intensamente quella lama di luce gli facevano male. La tensione era al massimo: quelli là dentro stavano parlando proprio di loro, e uno dei due era senz'altro l'incappucciato che avevano sorpreso chino sul sarcofago. Stava facendo rapporto, a quanto pareva. «Hai avuto il tempo di cercare bene?» «Sì, ma non c'è niente là dentro, mi spiace.» Seguì una pausa di silenzio. «Eppure abbiamo perquisito attentamente il corpo!» riprese la prima voce. «Dove può essere, quella dannata medaglia?» I tre ebbero un sussulto. Si guardarono l'un l'altro e videro di star pensando la stessa cosa. Possibile che quello stesse parlando proprio della medaglia "Immortale odium"? Alicante si congratulò mentalmente con se stesso ancora una volta per aver deciso di andare a trovare il suo direttore spirituale prima di partire
per Brindisi, e benedisse monsignor Carlo Pascale in cuor suo. «Amici!» stava dicendo la prima voce, fattasi più alta. «Non è stato facile riunirvi tutti qui oggi. Diversi tra voi vengono da lontano e hanno lasciato impegni e attività per poter essere presenti. Ma era necessario incontrarci perché bisogna che siate aggiornati sugli ultimi sviluppi di quanto abbiamo intrapreso. E si tratta di cosa così delicata da non poter essere messa per iscritto e affidata alla normale corrispondenza. Sì, perché non c'è messaggio che non possa essere decifrato. I Calderari che ci hanno preceduto lo hanno appreso a loro spese.» «Ma questi non sono massoni!» sibilò Alicante all'orecchio di Ribaudo. Questi, volgendo verso di lui una faccia altrettanto stupita, si strinse nelle spalle. «Ho provveduto a recapitare a Sua Santità le prime medaglie raccolte» proseguì la voce. «Capirà che c'è chi non si arrende e che è ora di dire basta ai soprusi. I Calderari sono risorti e il loro operato sarà la prima scintilla che farà partire la riconquista. I discendenti dei vandeani francesi, degli zuavi pontifici, dei carlisti spagnoli accorreranno sotto la nostra bandiera per l'ultima crociata. Ed eccola, la nostra bandiera!» Tacque e un mormorio di stupore serpeggiò tra i presenti. Ma i tre non potevano vedere cosa stava succedendo. Era ovvio, comunque, che qualcuno, forse quello che parlava, stava mostrando la bandiera di cui aveva detto. Ne ebbero subito conferma. «Ciò che vedete è un pezzo della bandiera degli zuavi pontifici, quella che sventolò gloriosa a Mentana. La notte della tragedia, la notte del 20 settembre 1870, il capitano de Fumel se la nascose addosso, avvolta sotto la fascia rossa che gli stringeva la vita. Quando gli invitti reduci furono imbarcati sulla fregata Orénoque il colonnello Charette la tagliò in centinaia di pezzi che distribuì ai presenti. I pezzi si sparsero in tutto il mondo, perfino in Irlanda, in Canada, negli Stati Uniti, gelosamente conservati dai figli dei figli di quei valorosi. Noi ricuciremo l'intera bandiera e la innalzeremo quando verrà il gran giorno. Intanto, poiché non è ancora il momento di scoprire tutte le nostre carte, abbiamo scelto al nostro interno sette uomini di ferro, che sono i nostri Maccabei. A loro abbiamo affidato il compito di vendicare gli oltraggi, cominciando dall'ultimo e più ingiurioso.» I tre dietro al camino, se fin lì erano stati attentissimi, adesso si tesero al massimo. Gli occhi spalancati e incollati alla fessura, frustrati per non poter vedere tutto, il commissario e i due preti schiacciavano la fronte e il naso contro la pietra, quasi che premendovi sopra potessero carpire qualche
briciola in più. Ma non c'era niente da fare, dovevano accontentarsi di guardare caviglie e di quel che riuscivano a sentire. «Questo pezzo di bandiera ci è stato consegnato dalla nostra sorella Giovannangela Barra che è qui tra noi oggi. Fatevi avanti, signora, e pronunciate per noi tutti qualche parola di esortazione.» Molti piedi si mossero, si aprì uno spazio e avanzò un paio di scarpe da donna. I tre le seguirono con gli occhi finché non scomparvero dalla loro visuale. «Mio nonno era uno dei volontari che accorsero sotto le bandiere pontificie per difendere Roma» disse una voce da contralto. «Conservò questo pezzo di bandiera per anni, avrebbe voluto lasciarlo a suo figlio ma non ebbe maschi. Così, la bandiera passò a mia madre, che avrebbe dovuto consegnarla, quando si fosse sposata, a suo figlio. Ma mio fratello nacque morto e la bandiera la presi io. E io non voglio aspettare un'altra generazione per brandirla. Il mio pezzo era quello che mancava. Adesso la bandiera è completa. Adesso comincia la riconquista!» Un confuso mormorio di approvazione si levò nella sala. Poi un'altra voce femminile risuonò e fu a sentire quest'ultima che a Ribaudo quasi si fermò il cuore. «Peccato non avere qui dello champagne per brindare. L'avessi saputo, visto che sono venuta dalla Francia, ne avrei portato un paio di bottiglie!» La frase, pronunciata in tono ironico, suscitò qualche risolino. Ma i tre si guardarono in faccia sgomenti perché avevano riconosciuto la voce e il suo inconfondibile accento. Era quella dell'escursionista francese a cui avevano dato un passaggio il giorno avanti. Louise. Ecco perché lei e suo fratello, concluse il commissario, non erano andati a denunciare la scomparsa degli altri tre gitanti: non volevano attirare troppo l'attenzione della polizia sulla loro presenza in città. «Purtroppo, madame, non ci abbiamo pensato» replicò garbata la voce maschile che aveva parlato per prima. «La nostra sorella Claire de Givaudan-Lapine ha però ragione. Vedremo di provvedere alla prima occasione.» Altre risatine. Alicante si avvicinò all'orecchio di Ribaudo e sussurrò: «È la francese di ieri!». Il commissario annuì, rabbuiato. Poi, accennando alla fessura, senza emettere un fiato formò con le labbra le seguenti parole: «Deve esserci anche l'altro».
Alicante comprese che si riferiva al fratello di lei. Ma subito tornò a tendere l'orecchio perché la prima voce aveva ripreso a parlare. «Il signor Zimmerman porta la sua testimonianza!» Si udì il rumore di un passo strascicato e faticoso, la voce di un uomo anziano. «Non tutti i soldati che militavano nell'esercito italiano condividevano l'attacco a Roma. Diversi erano buoni cattolici e non sopportavano l'idea di dover aggredire il papa. Di notte, alcuni disertarono ed entrarono in città. Di quelli che si unirono ai papalini molti furono poi catturati e passati per le armi. Io riuscii a trovare abiti civili e a confondermi fra la gente. Ma un maggiore dei bersaglieri mi riconobbe e mi puntò contro la pistola, gridando che aveva preso un traditore. Scappai con tutta la velocità che potevo, lui prese a sparare, un colpo mi fracassò il ginocchio. Ero giovanissimo allora e, pur dovendo trascinare la gamba ferita, fui in grado di dileguarmi tra i vicoli. Il resto è la storia di un invalido che è sempre vissuto della carità dei preti.» Per la sala si diffuse un brusio di sdegno, quasi subito interrotto dal primo che aveva parlato: «Il signor Antinoro!». Una pausa di silenzio. La voce di un uomo maturo. «Mia sorella era l'angelo della nostra casa» esordì con tono dimesso. «Era la ragazza più bella, buona e gioiosa che ci potesse essere. Generosa, disponibile, capace di commuoversi fino alle lacrime per la sorte dei più sfortunati. Ogni mattina si alzava presto per andare a messa. Il pomeriggio lo dedicava alle opere di bene. Faceva parte delle Figlie di Maria, della San Vincenzo, cantava nel coro parrocchiale, visitava gli ammalati poveri, badava ai bambini che le madri operaie non sapevano a chi lasciare. E sempre con il sorriso sulle labbra. Se nostro padre si irritava con me, con dolcezza riusciva ad allontanare le nuvole. Grazie alla sua presenza, la nostra casa era un nido di serenità. Mia sorella era fidanzata con un bravo giovane, un ottimo partito, serio, onesto. La notte del 13 luglio 1881 mia sorella era nella processione che accompagnava la salma di Pio LX. Uno degli aggressori le strappò la torcia dalle mani e gliela spense in faccia. Mia sorella perse un occhio e rimase per sempre con il volto deturpato. Di lì a poco il suo fidanzato ritirò la sua parola e sparì. Mia sorella sprofondò nella malinconia più nera. Si fece suora di clausura e da allora la tristezza non ha più lasciato la nostra casa. Mia sorella è morta lo scorso anno.» Questa volta non si levò il solito mormorio di indignazione ma le ultime parole, terminate in un singhiozzo, lasciarono il posto a un silenzio attoni-
to. Ribaudo, dal canto suo, stava chiedendosi perché di tutto quel racconto l'avesse colpito particolarmente la data rammentata, 13 luglio 1881. 13 luglio. 13. Fu colto da un'improvvisa folgorazione. «Che giorno è oggi?» sussurrò all'orecchio di Alicante. Quello, stupito, gli rispose con il gesto, napoletano ma universalmente compreso, che sta per "che c'entra questo, adesso?" o "perché lo vuoi sapere?". Ma il commissario, con cenni della testa, insisteva, così Alicante lo accontentò: «Mi pare sia giovedì». «Ma che numero?» incalzò Ribaudo. «Dev'essere il 14.» Il commissario chinò lievemente il capo e non disse altro. Il prete, naturalmente, non sapeva del cappello di Li Volsi e del foglietto che Ribaudo vi aveva trovato. Oltre a "Cento Stanzulelle" c'era vergato il numero "14" e Ribaudo concluse che Li Volsi doveva chissà come aver saputo della riunione che adesso si stava svolgendo tra quei sedicenti Calderari. Ma nel foglietto c'era scritto anche "VI.T.R.I.O.L." e forse ciò l'aveva indotto a pensare che si trattasse di un convegno massonico. Già, forse. Ribaudo risolse che per il momento era inutile affaticarsi in supposizioni. Non aveva ancora elementi sufficienti per formulare un'ipotesi che non offrisse il fianco a obiezioni. Fu distolto dalla sua riflessione da un movimento confuso alla sua sinistra. Arrivò una spallata di Alicante che lo sbilanciò e poco ci mancò che lo mandasse a gambe levate. Don Nicola, con le ginocchia indolenzite per via della scomoda posizione, aveva cercato di modificare quest'ultima senza peraltro urtare gli altri. Ma, per l'angustia dello spazio, aveva finito con l'assestare un colpo di tacco al polpaccio di don Gaetano, il quale, sorpreso dalla fitta repentina, aveva fatto un movimento brusco coinvolgendo Ribaudo. Don Nicola fece la faccia contrita e don Gaetano levò gli occhi al cielo. Intanto nella sala il primo oratore aveva ripreso a parlare. «Quelle che avete sentito sono le testimonianze dei nuovi fratelli, gli ultimi in ordine di tempo ad avere aderito alla nostra congregazione. Come per tutti voi, rintracciarli ed entrare in contatto non è stato facile. E ancora tanti sono i fratelli che, sparsi per il mondo, aspettano una nostra parola. Ma prudenza e
pazienza verranno premiate, anche per coloro che attendono un nostro segnale. Ciascuno di noi ha una storia in qualche modo simile a quelle che abbiamo appena udite e, dunque, un motivo anche personale per associarsi ai risorti Calderari. Vi farà piacere apprendere, dunque, che il programma è già in fase di attuazione. I Maccabei, come ho annunciato, hanno raccolto le prime delle medaglie maledette. "Immortale odium et numquam sanabile vulnus" è diventato, adesso, il nostro grido di guerra!» Alicante si volse verso Ribaudo e accennò con la testa alla fessura, come a dire: "ci siamo". Ribaudo annuì. La sala, intanto, esprimeva la sua approvazione con mormorii di plauso, ci fu anche un timido accenno di battimani subito zittito. «Amici» riprese la voce dopo che fu tornato il silenzio. «La situazione politica internazionale ci ha costretti ad anticipare l'ouverture, mi si passi l'espressione. Ci sono fondati sospetti che certi settori del Vaticano abbiano avviato trattative segrete con i governi tedesco e italiano in funzione antifrancese. La fine del Kulturkampf in Germania ha pacificato i cattolici tedeschi e riavvicinato diplomaticamente Berlino al Vaticano. Così, si è aperta una possibilità per il cattolicesimo di riavere Roma. Il governo tedesco farebbe pressioni in questo senso; tuttavia quello italiano potrebbe giustificare questo passo agli occhi dei suoi membri più intransigenti solo ottenendo in cambio il ritorno di Nizza e della Savoia all'Italia. Il punto è che queste ultime vanno riprese alla Francia. I tedeschi sarebbero disposti anche a supportare l'Italia in un'eventuale guerra con la Francia. Sono piuttosto sicuri di vincerla, il che li renderebbe padroni dell'Europa continentale, potendo contare anche, a quel punto, sul favore dei cattolici di tutti i Paesi. Non vi nascondo, però, che questo potrebbe al contempo voler dire la morte di ogni speranza di riconquista cattolica della nostra amata penisola. Il papa otterrebbe infatti solo la città di Roma, non già l'intero Stato Pontificio. E le antiche dinastie dovrebbero dire addio per sempre a ogni speranza di reintegrazione. Noi dobbiamo impedire che ciò accada.» «Questi sono usciti pazzi!» sibilò Alicante tra i denti. «La situazione internazionale non ci è mai stata così favorevole come in questo momento» proseguì l'oratore. «Ma non posso celarvi quanto essa sia precaria, ed è per questo che abbiamo deciso di agire anche prima che tutte le medaglie siano raccolte. Abbiamo perciò fatto pervenire le prime di esse in Vaticano, dove la Baviera, semper fidelis, ha un suo delegato. La Baviera, vi ricordo, gioca un ruolo importantissimo nel Reich. In questo modo essa riceverà un segnale forte e chiaro che in Italia noi siamo risorti,
siamo bene organizzati e pronti a tutto. «In Francia, d'altro canto, il partito monarchico e cattolico non è mai stato tanto forte e vicino a ribaltare gli equilibri interni. Ora, vi è noto che l'occupazione francese della Tunisia ha frustrato le speranze coloniali dell'Italia, avvicinando quest'ultima all'Austria e alla Germania. Tale avvicinamento ha anche lo scopo, nelle intenzioni, di impedire che l'Austria appoggi il ritorno di Roma alla Santa Sede. Come risposta il governo francese, pur repubblicano e anticlericale, potrebbe dare la sua disponibilità ad accogliere il papato, nella speranza che l'abbandono di Roma da parte del papa provochi gravi tumulti o perfino una guerra civile che metta in serie difficoltà l'Italia. «La Germania, che mira all'egemonia in Europa, teme il desiderio di revanche dei francesi, battuti e invasi dai tedeschi nel 1871. Se i francesi si alleassero, cosa probabile, con i russi, la Germania si troverebbe a dover combattere su due fronti, cosa che le rende indispensabile un'alleanza con l'Italia e l'Austria. Ora, poiché l'Inghilterra, come ha sempre fatto, non sopporterebbe una potenza egemonica nel continente, tutti sono fermi e guardinghi, tenendosi a bada l'un l'altro. «Anche in Vaticano ci sono due partiti, uno filofrancese e uno filotedesco. Il primo è convinto che solo la sconfitta dell'Italia in una guerra europea ridarebbe Roma alla Santa Sede. Il secondo preferisce riottenere Roma per via diplomatica. Solo che, se Roma tornasse al papa, molto probabilmente in Italia gli anticlericali per una volta uniti, e si tratta di liberali, socialisti, radicali, anarchici e repubblicani, scatenerebbero una rivoluzione, cosa che potrebbe provocare la caduta della monarchia e l'instaurazione di una repubblica. Quest'ultima inevitabilmente si avvicinerebbe alla repubblica francese. In tal caso la Germania, per correre ai ripari, sarebbe disposta a favorire il ripristino dell'intero Stato Pontificio e perfino del Regno delle Due Sicilie.» «Sta delirando!» soffiò ancora Alicante. Ribaudo, con gli occhi sbarrati, scosse la testa: «Temo proprio di no» sussurrò a sua volta. E appoggiò l'orecchio alla fessura per non perdere una virgola. «Io non ci capisco niente» mormorò don Nicola all'orecchio del suo padrino. Questi lo zittì con un gesto circolare del dito che voleva dire "poi ti spiego tutto". «Se il papa accettasse di andare a risiedere in Francia, dove già i cattolici sono una forza politica di tutto rispetto, la sua presenza rafforzerebbe in
modo determinante il partito cattolico e la Francia potrebbe venire indotta a reintegrarlo come papa re. Questo innescherebbe inevitabilmente una guerra con l'Italia e ciò farebbe scattare le varie alleanze provocando una guerra generale.» Ciò detto, la voce tacque. Nella sala le ultime parole furono accolte da un silenzio di tomba. Tutto lasciava pensare che l'oratore avesse fatto apposta una pausa a effetto prima di riprendere. «Se da questa guerra generale uscisse sconfitta, l'Italia si esporrebbe di certo a una catastrofe interna» ricominciò la voce. «Infatti, come sappiamo, la presenza sul suo territorio di un papato ostile coalizza tutti gli anticlericali d'ogni credo. Ma, persa la guerra, questi ultimi volgerebbero il loro livore contro la monarchia e i liberali che la sostengono. Una rivoluzione sarebbe facile a quel punto, dato che la guerra perduta metterebbe senza dubbio il Paese alla bancarotta. È nostro interesse e compito dare una spinta al sassolino per scatenare la valanga. Riteniamo che, se l'anticlericalismo giungesse al calor rosso in parlamento e nelle piazze, la Santa Sede sarebbe costretta a rompere gli indugi e decidere il trasferimento in Francia. Un papa obbligato ad andarsene farebbe infuriare l'opinione pubblica dei Paesi cattolici contro l'Italia. L'Austria cattolica non potrebbe più sostenere l'Italia in una guerra. E l'Italia verrebbe sconfitta, con le conseguenze che sappiamo. «Per quanto riguarda la nostra azione, se la raccolta delle medaglie dovesse rivelarsi insufficiente per il fine che ci prefiggiamo, ci riserviamo di ritirare quella del ministro per ultima. Ciò farà per forza traboccare il vaso della crisi. Non vedete? I contadini siciliani sono di nuovo in rivolta e in Sicilia la presenza dell'esercito e la legge marziale sono praticamente permanenti, gli scandali da corruzione sono all'ordine del giorno, gli anarchici stanno crescendo, tutto è sull'orlo dell'esplosione. L'unificazione politica dell'Italia è troppo recente e fragile, andrà in pezzi alla prima scossa...» D'un tratto avvenne il disastro. Qualcuno in sala gettò il mozzicone di un grosso sigaro, consumato ma ancora acceso, nel camino. Fatalità volle che il lancio finisse proprio sulla fessura, impossibile a vedersi dalla sala. Ancora più fatalmente, quel mozzicone scelse come zona d'impatto giusto il punto su cui teneva l'occhio incollato don Esposito. Questi, colpito all'occhio da un frammento incandescente, non poté trattenere uno stridulo «Ahi!» che, purtroppo, fu udito benissimo all'interno della sala.
L'oratore si interruppe di botto. Diverse voci si levarono allarmate. «Cos'è stato?» «Chi ha urlato?» E, in breve, il grido unanime: «Viene dal camino! Sì, viene proprio dal camino! C'è qualcuno là dietro!». Immediatamente la sala fu in pieno trambusto, con grida di sorpresa e ordini che si intrecciavano nell'aria. «Ma questo camino è finto!» «Ci deve essere un passaggio!» «Presto, troviamolo!» I congiurati più vicini si affollarono attorno e dentro al camino, tastando con le mani, tempestandolo di calci e pugni. Ma, essendo stati fino a quel momento all'oscuro del passaggio segreto, non riuscivano a trovare il meccanismo per aprirlo. Così, dopo pochi istanti, si udì una voce sovrastare le altre: «Cerchiamo qualcosa per sfondarlo!». Ma il commissario e i due preti erano già in corsa giù per le scale. Per fortuna Alicante, pur nella concitazione del momento, non aveva dimenticato il trabocchetto. Afferrando Esposito per la giacca riuscì appena in tempo a impedirgli di caderci di nuovo dentro. Avevano dovuto fermarsi e saltare uno alla volta dall'altra parte della buca, mentre alle loro spalle già cominciavano i tonfi secchi. L'ariete per sfondare la chiusura del passaggio era stato trovato. I tre, superato il trabocchetto, avevano perso ulteriori preziosi istanti ad accendere con gesti spasmodici una delle lampade, perché il buio era totale. Ribaudo e Alicante si erano fissati negli occhi, sicuri di star pensando entrambi la stessa cosa. La loro sola speranza, cioè, era che quelli nella sala, come non sapevano del passaggio dietro al camino, così non sapessero del trabocchetto posto subito dopo. Furono fortunati, pur nella scalogna, perché erano ancora per le scale quando sentirono uno schianto e, quasi immediatamente, un tramestio seguito da urla di dolore. Sì, il primo ad avventurarsi nel passaggio era caduto nella buca, il cui coperchio, basculando, era rimasto aperto a mezzo, e ciò aveva provocato il generale capitombolo, l'uno sull'altro, degli inseguitori. Ribaudo, Alicante ed Esposito filavano con tutta la velocità che la strettissima scala a chiocciola permetteva loro, badando a non scivolare. Correndo il rischio, più volte, di rompersi l'osso del collo, finalmente ar-
rivarono al tunnel, dove la loro corsa poté farsi più spedita. Forse perché correvano, forse perché adesso sapevano dove stavano andando, questa volta la strada sembrò loro più breve che all'andata. Col fiato corto giunsero finalmente alla stanza che conteneva il sarcofago. Qui si fermarono, ansanti, giusto il tempo di individuare, tra i sei, il tunnel segnato con il gesso. Lo trovarono e via di nuovo, di corsa, all'interno di esso. Correvano, ormai, tenendosi il fianco con la mano per cercare di ovviare in qualche modo alle fitte. Era più che altro lo spavento a dar loro la forza di andare avanti, giacché nessuno dei tre era abituato a correre. Il commissario, da anni ormai, lavorava seduto tra le scartoffie e si muoveva solo, quando serviva, in carrozza o in treno. I due preti, dal canto loro, stavano in piedi soltanto quando dicevano messa; per il resto, sia agli esercizi spirituali che nel confessionale, sempre seduti anche loro. Certo, ogni tanto capitava, a tutti e tre, di fare una passeggiata o di raggiungere a piedi un posto vicino. Ma altra cosa era correre per la propria vita, come adesso erano costretti a fare. Le gambe a un certo punto si rifiutarono di sollevarsi e fu necessario andare avanti a pura forza di volontà. I crampi attanagliavano le cosce, alzare le ginocchia era una pena indicibile. Si ritrovarono a trascinarsi appoggiati ai muri, con l'aria che entrava rovente nei polmoni dalle bocche aperte e le narici dilatate. Sibili rochi uscivano dalle gole e ormai incespicavano quasi a ogni passo. Come Dio volle, tuttavia, il buio cominciò a rischiararsi. Il pensiero dell'uscita ormai vicina li rianimò quanto bastava a far loro percorrere gli ultimi cento metri. E finalmente videro la luce. Raggiunto l'arco d'ingresso, si abbatterono chi per terra e chi su una pietra sporgente, boccheggiando. Ma subito una voce li fece sobbalzare: «Ehi, voi!». La carrozza I tre si sentirono stringere le budella e rizzare i capelli in capo. Piegati com'erano per riprendere fiato, quella voce che li apostrofava proprio quando credevano di avercela fatta fu come una secchiata d'acqua gelida. Alzarono di scatto la testa ma, quando videro chi li interpellava, subito i nervi allentarono la presa allo stomaco cedendo il posto a una sensazione di sollievo.
Era il cocchiere. Stava seduto a cassetta, sorrideva e salutava con la mano. Incredibile fortuna! La loro carrozza! Alicante ringraziò in cuor suo e con tutto il cuore la Vergine del Carmine. Esposito, incredulo e traboccante di riconoscenza verso i suoi Santi, si segnò più volte. Ribaudo, che non riusciva neanche a ridere per la mancanza di fiato, trovò la forza per gridare un «Ehilà!», soffocandosi mezzo, in risposta al vetturino. Certo, si erano presi un bello spavento. Con le gambe rigide per la stanchezza si diressero verso la carrozza. «Come mai siete tornato indietro, sant'Anna vi benedica?» chiese Alicante, smozzicando le parole per il fiatone. «Salite, salite, che ve lo dico mentre andiamo! A proposito, volete tornare a Napoli o no?» I tre fecero cenni vigorosi di sì con la testa mentre salivano. Agitando ripetutamente la mano aperta Alicante fece capire al cocchiere di far correre il cavallo. L'uomo spronò al trotto sostenuto e, mentre le portiere sbattevano, cominciò a parlare. Gridando per superare il rumore degli zoccoli e delle ruote, spiegò che, dopo averli lasciati poche ore prima, aveva fatto una pensata. Poiché suo cugino gestiva una mescita di vino giù in paese e poiché la corsa di ritorno era già pagata, si era detto: quasi quasi vado a trovare mio cugino e mi faccio una bella bevuta gratuita. Poi, si sa com'è, da cosa nasce cosa, suo cugino gli aveva chiesto come stavano gli altri parenti, quelli di Napoli, lui aveva domandato del padre di suo cugino, che si era preso il tifo ed era convalescente, i bicchieri di vino erano diventati più d'uno, poi, quando si dice la combinazione, era entrato don Raffaele Casciullo a cui suo cugino era compare d'anello e avevano fatto una bella rimpatriata. Quello per forza aveva voluto fare con lui una partita a tressette come ai vecchi tempi e, dopo la vincita, la rivincita e poi la bella e questo giro lo pago io sennò mi offendo, e questo bicchiere lo dedico alla signora, cioè alla moglie di mio cugino che alla sua signora le è commare di battesimo, e poi la bellissima, il bicchiere della staffa e, insomma, il tempo s'è squagliato come a che. Così, vista l'ora che si era fatta, il cocchiere si era detto: vuoi vedere che quei tre signori a quest'ora sono usciti? Quasi quasi torno alle Cento Stanzulelle, tanto è vicino, e vedo se ci stanno; magari ci scappa una buona mancia. Aveva fatto bene? «Avete fatto benissimo!» gli gridò don Alicante, che nel frattempo ave-
va recuperato il fiato. «E pure la mancia ci scapperà, state sicuro! Però, per gentilezza, fatelo galoppare quel cavallo, che ci siamo ricordati di un impegno pressante in città!» «Sissignore, subito!» rispose il cocchiere, contento come una pasqua. E mise il cavallo al piccolo galoppo. Dentro, i tre si asciugavano il sudore dalla fronte. Ribaudo si faceva vento con il cappello, Alicante si passava il fazzoletto sul collo, Esposito cercava di soffiarsi dentro al colletto della camicia facendo dei buffi versi con le labbra e agitando le braccia per dare aria alle ascelle. Quando finalmente si abbatterono sullo schienale, rilassandosi, don Nicola parlò: «Credete che ci inseguiranno?» chiese, in apprensione. «Se parli con me, io dico di no» fece don Gaetano, tenendo gli occhi chiusi. «Lo credo anch'io» disse il commissario. «Innanzitutto, avranno perso parecchio tempo nel tirare fuori quello o quelli che sono caduti nel trabocchetto. Poi, sappiamo che non conoscevano il segreto del camino; dunque, è possibile che abbiano preferito non avventurarsi alla cieca dietro di noi. Se, tuttavia, sospettano, cosa che ritengo probabile, che la nostra via di fuga faccia parte dell'intrico di tunnel che costituiscono le Cento Stanzulelle, non sarà rimasto loro che uscire dalla porta principale della villa per cercare di intercettarci all'ingresso delle Stanzulelle. Ma non possono fare in tempo perché c'è quel lungo viale che abbiamo percorso noi ieri sera. Tra parentesi, secondo me erano loro, o alcuni di loro, quelli che abbiamo incrociato mentre scendevamo; abbiamo fatto bene a nasconderci.» «Quella strana villa fuori mano è un buon posto per riunioni che non diano nell'occhio. Basta lasciare le finestre chiuse e agire alla luce delle torce. Magari, la conformazione, le statue, i ruderi, gli affreschi, hanno creato un alone sinistro che tiene lontana la gente. I napoletani sono superstiziosi e qualche voce in questo senso, messa in giro ad arte, deve aver completato l'opera. Percorsi iniziatici, labirinti, metteteci i fantasmi ed ecco fatto. Eh!» disse Alicante scuotendo la mano. «Be', da quel che abbiamo visto, i mantelli rossi li tenevano. Se avevano pure qualche brutta maschera sulla faccia, sai l'impressione a vederli! Così, se qualcuno dovesse sorprenderli, si mette paura e se ne fugge» aggiunse convinto don Nicola. «Queste, comunque, sono supposizioni» sospirò Ribaudo. «Com'è che si sono definiti? Calderari? E che vuol dire? Ne sapete niente, voi?» «Mai sentiti. E tu?» disse Alicante rivolto a don Nicola.
«Io? E che ne so io, di Calderari?» rispose l'interpellato. «Vabbe', lo chiederemo a monsignor Pascale. Lui sa sempre tutto» concluse don Gaetano. «Come, andiamo di nuovo da lui?» fece, sorpreso, don Nicola. «Di chi state parlando?» intervenne Ribaudo. «Sì, dobbiamo andarci» replicò don Gaetano. «Dobbiamo andarci perché lui saprà sicuramente suggerire le prossime mosse. Di chi stiamo parlando? Di quello che ci ha indirizzato alle Cento Stanzulelle mentre noi stavamo per andare a Brindisi, ecco chi.» «Ah, ricordo, sì, me l'avete detto. Ora, però, cerchiamo di riflettere su quel che abbiamo sentito. Quegli spaventapasseri rossi vogliono provocare una guerra europea o mi sbaglio?» disse Ribaudo. «No, sbagliate solo a definirli spaventapasseri. Sono dei lugubri avvoltoi, altroché. E il loro piano non è poi così campato in aria. Temo che la situazione, sia interna che internazionale, sia proprio come l'hanno descritta e temo anche che possano riuscire nel loro intento se qualcuno non li ferma» rifletté Alicante. «Un momento, un momento» fece il commissario come parlando con se stesso «Quello ha fatto una tirata complicatissima, ha messo di mezzo Italia, Germania, Inghilterra, Austria, Francia, Santa Sede, repubblicani, socialisti, anarchici, anticlericali in genere, radicali, contadini siciliani» enumerò contando sulle dita. «Vediamo di raccapezzarci. Se ho ben capito, correggetemi se sbaglio, la sua idea è di esasperare l'anticlericalismo nel Paese per costringere il papa ad abbandonare l'Italia e trasferirsi in Francia, giusto? Bene. Non credo di aver compreso come, ma questo dovrebbe far scoppiare una guerra che l'Italia quasi sicuramente perderebbe. E la guerra non sarebbe solo tra Italia e Francia perché la Germania si alleerebbe con l'Italia. Ma la Francia si alleerebbe con la Russia contro la Germania, mentre l'Austria non si sa cosa farebbe in quanto la sua opinione pubblica cattolica potrebbe costringerla a stare a guardare. Vado bene?» aspettò il cenno di assenso degli altri e proseguì. «Una guerra persa, per colpa del papa in fin dei conti, metterebbe i socialisti e i repubblicani contro i liberali che sostengono la monarchia, cosa che sprofonderebbe il Paese nel caos e potrebbe anche far diventare l'Italia una repubblica. Sì? Vado avanti. Un'Italia repubblicana dovrebbe per forza di cose avvicinarsi alla Francia e in questo caso diventerebbe interesse della Germania destabilizzarla, cosa che la Germania otterrebbe appoggiando il ripristino dello Stato Pontificio e perfino quello delle Due Sicilie. Così, in qualunque caso, tornerebbero il
papa re, Franceschiello o chi per lui e, magari, perché no, i granduchi di Modena, Toscana, Parma, la Serenissima... Insomma, l'Italia qual era prima di Napoleone addirittura!» Alicante a quel punto interruppe: «Parliamoci chiaro, non è che la cosa mi dispiacerebbe, se proprio lo volete sapere. Il punto è però un altro. Questi hanno intenzione di provocare una guerra continentale che costerebbe qualche milione di morti ammazzati. Più una rivoluzione, in Italia, dall'esito incerto. E tutto questo senza essere neppure sicuri di come andrà a finire!». «No, ed è questo il bello, loro sono sicurissimi!» ribatté il commissario. «Tant'è che hanno già cominciato con il loro programma di omicidi mirati. Non avete sentito? Contano di scatenare l'odio anticlericale ammazzando uno a uno quelli che parteciparono all'assalto al corteo funebre di Pio IX nel 1881!» «Ma, scusate» intervenne don Nicola, «se questo è il loro intento, perché recapitare le medaglie in Vaticano anziché alla stampa anticattolica?» «Uh, Nicoli'! E qui sta l'astuzia!» gli rispose don Gaetano. «Lo sanno bene che i sacri palazzi sono un colabrodo e che prima o poi la cosa trapelerà. Anzi, è già trapelata, visto che il commissario, qui, è seduto in questa carrozza con noi. Così, la cosa sembra più autentica! Se avessero mandato le medaglie alla stampa, noi cattolici avremmo gridato al falso, alla provocazione, al trucco. Invece, facendo apparire la cosa dettata da puri sentimenti di devozione nei confronti del papa... Eggià, a ben pensarci suona grottesca 'sta cosa di ammazzare la gente, anche se si tratta di gente fetente e malamente, per devozione alla Santa Sede!... In tal modo, dicevo, i cattolici devono stare zitti, dal momento che pensano che sia davvero qualcuno di loro a "ritirare" le medaglie con l'"Immortale odium"! Hai capito adesso?» Don Nicola aggrottò le ciglia, guardò pensieroso il pavimento della vettura e poi disse: «Mica tanto!». Don Gaetano se ne uscì con un gesto di esasperazione. Saltò su Ribaudo: «E invece è tragicamente chiaro! Quei pazzi hanno realmente la possibilità di scatenare un putiferio! Avete sentito? Hanno in progetto la ciliegina sulla torta, l'assassinio del ministro! Se non basteranno gli omicidi precedenti, sarà questo, di certo, a scatenare la piazza. I circoli anticlericali assalteranno chiese e monasteri, parecchi preti se la vedranno brutta e qualcuno potrà anche rimetterci la pelle. Il Vaticano verrà assediato, il governo finirà in balìa dell'opposizione, succederà il finimon-
do!». Don Nicola all'udire di preti che ci avrebbero rimesso la pelle sentì che, intanto, si accapponava la sua, di pelle. Alicante si passò una mano tra i capelli, perplesso: «Sì, possono provocare un'iradiddio se qualcuno non li ferma» disse. «Ma ci sono ancora tante cose che non tornano in tutta questa storia e che mi piacerebbe sapere. Una è questa: avete detto che quella era una villa massonica; ma 'sti Calderari dei massoni dovrebbero essere nemici giurati, o no? Be', ammetto che parlando mi è venuta in mente una possibile risposta. L'edificio deve essere abbandonato da forse cent'anni; i congiurati l'hanno scelto sia perché, appunto, abbandonato e fuori mano, sia, perché no, per spregio nei confronti di quel che rappresenta. Ma ecco un'altra delle cose che vorrei sapere: quanti sono quelli a cui 'sti cessi 'e Calderari dovrebbero ritirare, come dicono loro, le medaglie? Io, di medaglie con l"'Immortale odium" ne ho viste due.» «E io ne ho vista un'altra, ancora in possesso del proprietario» interruppe Ribaudo. «Ho visto anche un cadavere a cui sicuramente mancava la sua e, in base a quel che abbiamo sentito poc'anzi, doveva essercene una sul corpo nel sarcofago.» «Già, quello. Chi l'ha fatto sparire? Quei Calderari? Parrebbe di sì. E parrebbe anche, se non sbaglio, che il defunto la medaglia non l'aveva più addosso, visto che hanno mandato l'uomo con il cappuccio a frugare nel sarcofago. Sono sicuro che si riferivano proprio alla medaglia. Siete d'accordo?» «Sì, l'ho pensato anch'io. Dunque, o nel trasportare il corpo l'hanno persa, cosa che non credo perché non mi sembrano tipi da comportarsi sbadatamente. O abbiamo a che fare con un terzo incomodo.» «Ma chi ha ucciso il Rapece Cutolo e perché? Sono stati loro? In questo caso, perché la messinscena del sarcofago e del foglietto con le sigle?» «Non credo siano stati loro. Che motivo avrebbero avuto di farcire i vestiti del cadavere con sigle massoniche? Loro, avete detto bene, dei massoni dovrebbero essere nemici giurati!» «Gira e rigira, però, questa cosa non quaglia, in qualunque modo la si metta. Vabbe', si vedrà. Intanto, ecco un'altra cosa ancora che non mi sconfinfera: i due francesi. A quanto pare, a noi hanno dato nomi falsi. Ma perché ieri erano diretti alle Cento Stanzulelle?» «Non ne ho la più pallida idea. Buffo, di tutti i partecipanti alla gita di ieri nessuno era quel che diceva di essere!»
«E adesso che facciamo?» intervenne don Nicola. «Per quanto mi riguarda» ripose Ribaudo, «devo assolutamente conferire con il ministro. Prenderò il primo treno per Roma. E voi, cosa contate di fare?» «Eh, anche noi abbiamo un superiore a cui fare rapporto» fece Alicante. «E sarà un rapporto funebre, perché dovremo dire al cardinale che suo cugino non è più. Ma prima, come ho detto, voglio parlare con monsignor Pascale. Sono sicuro che è in grado di illuminarci su questi Calderari. Voi, piuttosto, pensate di allertare la forza pubblica?» «Ripeto, devo sentire il ministro. È un'indagine riservatissima, la mia, ve l'ho detto. Potrei, è vero, comunicare con Sua Eccellenza tramite cifrario ma, a conti fatti, ci impiegherei più tempo. Dovrei fare un telegramma lungo un chilometro e per giunta metterlo in cifra. No, meglio che vada di persona.» «E se quelli nel frattempo ne ammazzano qualcun altro?» «È un rischio che devo correre, mi dispiace. Non posso fare di testa mia.» Don Nicola seguiva il dibattito volgendo la testa ora di qua e ora di là, dal momento che stava seduto in mezzo agli altri due. Fu proprio nel voltare ancora una volta il capo che, con la coda dell'occhio, vide qualcosa dal finestrino posteriore. Si girò del tutto per vedere meglio e scorse, in lontananza, una carrozza a due cavalli. Le bestie galoppavano ventre a terra, continuamente frustate dal conducente. La vettura si avvicinava velocemente. A un certo punto don Nicola poté accorgersi che il cocchiere di quel veicolo era avvolto in un lungo mantello nero e un cappuccio dello stesso colore gli nascondeva completamente il volto. «Oh, san Nicola mio patrono!» esclamò il giovane prete. Gli altri due interruppero la fitta conversazione e si volsero anche loro verso il finestrino posteriore. «Ho paura che siamo nei guai!» fece Ribaudo. Alicante non perse tempo a commentare ma si sporse fuori e urlò con quanto fiato aveva al cocchiere: «Per l'amor di Dio, frustate, frustate!». Quello si girò verso di lui, facendo la faccia di chi non ha capito bene cosa deve fare e soprattutto perché. Ma Alicante urlò ancora più forte: «Corri, t'ho detto, corri! Cinque lire se ti precipiti!». Questa volta il cocchiere non si fece pregare. Pensò che qualcuno dentro si stesse sentendo male e il pensiero, unito a quello della ricompensa natu-
ralmente, lo indusse a immediata ubbidienza. L'improvvisa accelerazione sbatté i tre passeggeri contro il sedile. Ribaudo e Alicante, recuperato l'equilibrio, si affacciarono per guardare indietro. Subito sentirono esplodere dei colpi di arma da fuoco e sibilare un paio di proiettili vicino alle loro teste. Dai finestrini della carrozza inseguitrice erano spuntate due figure, una di qua e una di là. Erano incappucciate anche loro. E sparavano. Il cocchiere della carrozza inseguita, sentendo i colpi, si volse un attimo a guardare e quel che vide gli bastò. Lanciando un'invocazione alla Madonna dell'Arco si accanì sul suo povero cavallo a frustate. L'animale, che mai prima d'allora aveva subito un simile trattamento, si buttò in una corsa tanto disperata quanto incredula. «Ma chi è questa gente e che vuole da me? Io non ho mai fatto niente di male a nessuno! Anime del Purgatorio, aiutatemi!» gridava il cocchiere, e frustava. Dentro alla carrozza i tre cercavano di non farsi prendere dal panico ma avevano ben chiaro che, se fossero stati raggiunti, sarebbero stati ammazzati senza complimenti, loro tre e anche il loro cocchiere. Sì, perché era sicuro che gli inseguitori non intendessero lasciare in vita alcun testimone. Con gli occhi incollati al finestrino posteriore i tre si scambiarono velocemente parole e valutazioni. «Devono essersi divisi. Qualcuno di loro è riuscito a districarsi dal groviglio degli incespicati, ha oltrepassato il trabocchetto e ci ha inseguiti lungo le scale e i tunnel, arrivando giusto in tempo per vederci scappare in carrozza. Belle deduzioni abbiamo fatto, prima! Non ne abbiamo azzeccata una!» gridò Alicante, cercando di superare il frastuono della corsa. «Sì, purtroppo» fece di rimando il commissario. «Chi ci ha seguito ha allertato gli altri, così ci hanno sguinzagliato alle calcagna quelli là. Scommetto che ci sono i Maccabei in quella carrozza. Magari non tutti e sette, perché è una vettura piccola e veloce. Ma mi pare evidente che questi Maccabei costituiscono la loro squadra d'azione.» «Guadagnano terreno!» gridò don Nicola, avvinghiato alla spalliera del sedile. «Per forza!» rispose don Gaetano. «Hanno due cavalli e noi solo uno!» «Anche di armi ne abbiamo solo una, perdiana!» soggiunse tra i denti Ribaudo. E, come per un riflesso condizionato, tirò fuori la rivoltella controllandone il caricamento. Don Nicola estrasse la sua, di arma, la corona del rosario, e la strinse
spasmodicamente tra le dita. «Volete provare a rispondere al fuoco?» gridò Alicante al commissario. Ribaudo annuì e fece per sporgersi fuori. Ma una botta sulla portiera lo costrinse a ritirare immediatamente la testa. «Maledizione! Adesso spara anche il loro conducente!» gridò. Gli inseguitori si avvicinavano a vista d'occhio e adesso si poteva distinguere che, compreso il cocchiere, erano in cinque a sparare. Il volume di fuoco non diminuiva mai perché, come un plotone perfettamente addestrato, due ricaricavano mentre gli altri sparavano, alternandosi. Il commissario e i due preti si trovarono costretti a raggomitolarsi sul fondo della carrozza, perché ormai i colpi trapassavano l'abitacolo. Don Nicola si mise le mani sulle orecchie. Il rumore, tra spari, zoccoli al galoppo e fragore di ruote, era infernale. Il commissario urlava di stare giù, don Gaetano urlava anche lui, di rabbia impotente; il loro cocchiere urlava al cavallo. Era chiaro che non ce l'avrebbero fatta. Due cavalli contro uno. Don Gaetano pensò a quanto erano sfortunati: il giorno prima su quella stessa strada c'erano tre carrozze, la loro, quella di Ribaudo e quella dei due francesi. Ora, invece, non passava un cane. Nessuno a cui chiedere soccorso. Nessuno la cui presenza potesse almeno disturbare gli inseguitori e indurli a desistere. Be', se era destino che morisse sparato, avrebbe venduto cara la pelle. Già, ma come? Eh, bella pensata aveva fatto! Come se fosse ancora poliziotto! Invece era un prete, adesso. Ma come muore un prete? Perdonando i suoi sparatori? Don Gaetano pregò la Vergine di illuminarlo nel momento fatale, perché, fosse stato per lui, sarebbe morto con le mani al collo del suo assassino cercando quanto possibile di strangolarlo. Alzò il capo di qualche centimetro per guardare fin dove erano arrivati quelli di dietro. L'abbassò subito, perché ormai stavano per essere raggiunti. Quando le due vetture sarebbero state una accanto all'altra, i Maccabei avrebbero sparato dentro ai finestrini e per gli inseguiti non ci sarebbe stato scampo. Don Nicola stava sempre schiacciato sul fondo della carrozza, rannicchiato in posizione fetale e con il rosario premuto sulle labbra. Il commissario lanciò una velocissima occhiata all'esterno e vide con terrore i musi dei cavalli inseguitori ormai a mezzo metro di distanza. Tirò giù la testa, impugnò saldamente la pistola e tolse la sicurezza. Lui e Alicante si scambiarono uno sguardo sgomento. Alicante fissò il commissario
e annuì con il capo. Quello chiuse gli occhi e contò mentalmente. Poi, con un colpo di reni, si levò di scatto, puntò la pistola verso il riquadro del finestrino laterale e sparò. Uno dei due cavalli, colpito a bruciapelo in un orecchio, stramazzò fulminato, trascinando anche l'altro nella caduta. Con un immane fracasso di ferro, legno e nitriti, la carrozza dei Maccabei rovinò in avanti, ribaltandosi e travolgendo i corpi degli animali. Il conducente volò a parecchi metri di distanza, rotolando più volte prima di fermarsi a giacere immobile. I due preti e il commissario non videro altro perché la loro carrozza si allontanò velocemente imboccando una curva alberata. I tre si alzarono, indolenziti per la posizione contorta che avevano dovuto mantenere sul fondo della carrozza, ancora scioccati dal tremendo pericolo corso e increduli per averlo scampato. Dopo essersi assicurati che nessuno più li inseguiva si abbatterono spossati sul sedile. Don Nicola, che non cessava di baciare il suo rosario, si prese un allegro scappellotto sulla nuca da parte di don Gaetano. «Mi dispiace per quelle povere bestie» disse Ribaudo, soffiando più volte sulla bocca della pistola per mandarne via il fumo. «A me, invece, non me ne frega niente!» replicò rassettandosi don Gaetano. «Mica fate parte di una di quelle società per la protezione degli animali di cui certi vostri confratelli massoni sono instancabili fondatori nonché fervidi sostenitori? Sbaglio o anche Garibaldi, tra le tante presidenze, aveva pure questa?» «Sopporterò il vostro sarcasmo perché adesso sono contento» gli disse Ribaudo. «Sinceramente, credevo proprio che questa volta non sarei riuscito a portare a casa la pelle. Comunque, sì, concordo con voi che meglio i cavalli che noi. Ringraziate i vostri santi perché l'abbiamo davvero scampata bella!» «Non sono nostri ma pure vostri, e dovreste ringraziarli anche voi, miscredente che non siete altro!» lo rampognò don Nicola, che aveva ritrovato animo. «Non sono miscredente» rise Ribaudo. «Solo, scarsamente praticante, diciamo così. Però in qualcosa credo.» «Sì, nel Grande Architetto Dell'Universo!» lo canzonò Alicante. «Sarà meglio dire al cocchiere di rallentare, a questo punto. Non vorrei che ci ribaltassimo pure noi, visto come corre.» Si affacciò e gridò al conducente di mettere il cavallo al trotto, che non c'era più pericolo. Quello volle sincerarsene personalmente guardando in-
dietro più e più volte prima di mettersi, anche lui, a farsi grandi segni di croce e decidersi a tirare le redini. Sempre al trotto arrivarono finalmente in città, dove il cocchiere portò lo sfinito cavallo al passo. Si fermò al primo fontanile e permise al povero animale di abbuffarsi con quanta acqua voleva. Mentre quello beveva, scese e si precipitò ad aprire la portiera. «O Gesù, Giuseppe, sant'Anna e Maria! State tutti bene, sì? Ma chi erano quelli? O Madre mia del Carmine! Bisogna avvertire la polizia!» srotolò tutto d'un fiato. «Calmatevi, brav'uomo» disse Ribaudo, e tirò fuori la sua carta d'identità. «Eccola qua, la polizia. Sono il commissario Ribaudo e penso a tutto io. Purtroppo, vi siete trovato in mezzo a un'indagine di cui non posso rivelare gli estremi e nella quale sono coadiuvato da questi due colleghi. Mi raccomando, non una parola su quanto è successo oggi. Sarete ricompensato come vi è stato promesso. Anzi, alzate la mano destra.» Quello, stordito e impressionato, meccanicamente eseguì. «Bene, da questo momento siete sotto vincolo di polizia come testimone oculare dei fatti. Dite lo giuro.» E quello, sempre più confuso, giurò. «Adesso accompagnate me alla stazione ferroviaria e poi questi signori dove vi diranno di portarli. E, badate, acqua in bocca con chicchessia!» Il cocchiere, rimasto senza parole, fece ripetutamente cenno di sì con la testa. «Bravo. E, mi raccomando, consideratevi a mia disposizione finché questa indagine non sarà conclusa. Ci posso contare?» Finalmente il pover'uomo sembrò ritrovare la favella: «Sulla testa della mia povera mamma, commissa'! Possa ciecarmi!». «Signori» fece enfatico Ribaudo rivolto ai due preti. «Ecco un cittadino degno di ogni encomio! Da questo momento fate conto su di lui come se fosse un altro me stesso!» L'uomo diventò rosso dalla soddisfazione. L'agguato «Spiacente, ma non ho altri diavoli da interrogare. E meno male, devo dire.» Monsignor Pascale aveva accolto don Alicante e don Esposito nella sua cucina, spartana come il resto della casa. Non possedeva salotti né tinelli;
perciò, se non volevano soggiornare nella sua camera da letto, che poi era ancora più essenziale, i suoi rari ospiti dovevano adattarsi. Questo, comunque, per don Nicola aumentava l'aureola di santità che aveva visto attorno al capo canuto del vecchio sacerdote, povero con i poveri e terribile con i diavoli. Tuttavia, un buon caffè monsignor Pascale poteva permetterselo, ed era questo che i tre tenevano in mano in quel momento. Eh, Alicante ed Esposito ne avevano proprio bisogno. Salutarono come una grazia di Dio quel liquido caldo che scendeva giù per le loro gole. Così rinfrancati, avevano raccontato tutto al monsignore, non trascurando neppure i dettagli. Pascale li aveva ascoltati con grande attenzione ed era rimasto in silenzio per alcuni istanti. Poi aveva detto: «Certo che è un bel guaio!». E si era messo a riflettere. «Ma chi sono questi Calderari?» osò don Nicola. «Boh!» ripose, riscuotendosi, Pascale. «Come, boh?» replicò incredulo don Nicola. «Boh vuol dire che non lo so, ecco!» ribatté Pascale. «Oh, Signore!» si lamentò don Nicola. «E allora che siamo venuti a fare qui, monsignore?» intervenne don Gaetano. «Con tutto il rispetto, io ero sicuro che voi avreste saputo risponderci. Voi sapete sempre tutto!» «Eh, 'Aitanì, e chi te l'ha messa in testa 'sta cosa? Io non li ho mai sentiti neanche nominare questi Calderari! Al massimo...» «... al massimo?» fecero in coro i due preti. «Al massimo possiamo andare a guardare sul libro!» «Ah. Ma, scusate, che libro?» disse don Gaetano, tra l'incuriosito e lo speranzoso. «Il libro, il libro. Mò vi faccio partecipi. Aspettate.» L'anziano monsignore si alzò e uscì dalla cucina. Trascorse qualche istante prima che tornasse con un vecchio volume in mano. Si risedette con il libro sulle gambe, lo aprì e cominciò a sfogliarlo. «Dunque, vediamo un po'. Eh, meno male che, malgrado l'età, degli occhiali non ho ancora bisogno. Ma devo mettermi a una certa distanza.» Fece scorrere le pagine finché non trovò quel che cercava. Poi, allontanando la testa per mettere a fuoco, disse: «Oh, ecco qua. Calderari» recitò. «Nome, sul modello dei Carbonari e dei Franchi Muratori, dei componenti di un'associazione segreta esistente nel Regno di Napoli durante la Restaurazione; aveva per fine di difendere contro i Massoni, i Carbonari, i Gian-
senisti la religione cattolica e la monarchia borbonica. Gli affiliati, che si chiamavano tra di loro "amici", erano organizzati in "curie". Ebbero vita effimera e i due tentativi per riesumarli, fatti nel 1816 e nel 1821 dal principe di Canosa, ministro di polizia, allo scopo di farne il contrappeso legittimista della Carboneria, fallirono entrambi. E questo è quanto, signori miei, non c'è scritto altro.» «Ma che libro è, quello?» chiese don Nicola. «Guaglio', questo a te non ti deve interessare. L'hai avuta la risposta, no? E allora statti quieto e arrèstati al quia» replicò bonario Pascale. Chiuse il libro, si alzò e uscì di nuovo per andare a rimetterlo a posto. Don Nicola rimase a guardare interrogativamente il suo padrino. «Arrèstati al quia?» «È Dante» rispose infastidito don Gaetano, facendogli subito segno di star zitto e lasciar parlare lui. Infatti, rientrato il Pascale, domandò: «Ma, allora, quelli che abbiamo visto noi erano il risultato del terzo tentativo, questa volta riuscito?». «Non credo» rispose Pascale, tornato a sedersi. «Gli antichi Calderari difendevano la religione cattolica, mentre questi qui sono dei congiurati politici che praticano l'omicidio e il tentato omicidio. E poi, mio padre mi parlava sempre e con grande ammirazione del principe di Canosa, uomo di grande intelligenza e fede specchiata. Non si sarebbe mai mischiato con cospiratori assassini. Al contrario, era questo tipo di gente il suo bersaglio principale. No, no, questi con i mantelli rossi sono dei maluomini che vanno fermati a tutti i costi. Ma com'è che siete venuti da me anziché andare alla caserma dei carabinieri?» «Avrebbero trovato solo un cavallo morto, forse due, e una carrozza sfasciata. E una villa abbandonata e desertissima. No, prima di rendere pubblica la cosa voglio sentire Sua Eminenza. Se sarà lui a chiedermelo, allerterò la forza. Ma ho idea che, al contrario, mi dirà di tenere la bocca chiusa. Perché siamo venuti da voi, monsignore, chiedete? Innanzitutto, se non fossimo venuti da voi fin dal principio, a quest'ora saremmo ancora nelle Puglie a brancolare nel buio. Poi, ero convinto che avreste saputo dirci qualcosa sui Calderari e l'avete fatto. È evidente che i mantelli rossi si sono appropriati indebitamente di un nome onorato per combinarne di tutti i colori. Gli antichi Calderari, quelli veri, si staranno rivoltando nella tomba. Ma che bisogno c'era, dico io, di farsi passare per moderni Calderari?» «Mah! E che t'ho a dire, figlio mio? Vallo a sapere. Non si può negare che i nomi misteriosi, le confraternite segrete, i mantelli, i cappucci, i ri-
tuali e le riunioni occulte incutono paura e hanno anche il pregio, agli occhi degli adepti, di far pensare ai profani a un'idra dalle mille teste in grado di colpire chiunque e dovunque. Magari sono solo un pugno di esaltati, chi può saperlo?» «Vorrei poter condividere il vostro ottimismo, monsignore, ma qui ci stanno di mezzo diversi morti ammazzati e un attentato alle nostre vite. Magari, come dite voi, sono quattro gatti, ma che siano pericolosi è fuori discussione. Che ci consigliate, dunque?» «Eh, a dirla tutta non saprei. Dovrò pregarci sopra. E quel commissario massone? Come si chiama, Di Bartolo mi pare...» «Ribaudo.» «Ah, sì, giusto, lui. Neanche lui, dunque, è tornato sui luoghi alla testa di un drappello di gendarmi, segno che condivide la vostra preoccupazione di tenere celate le cose per il momento. Dove sta adesso?» «È andato a Roma a riferire al ministro direttamente. Come noi, è titolare di un incarico riservatissimo. Non può prendere alcuna decisione se prima non fa rapporto.» In quel momento Ribaudo stava giusto apprendendo che Sua Eccellenza aveva lasciato l'ufficio e se ne era andato a casa. Sua Eccellenza era uscito da pochissimo ed era solito raggiungere la sua abitazione a piedi, dal momento che non era lontana ed egli amava camminare. Ribaudo mise in mano all'impiegato un biglietto di banca e gli chiese l'indirizzo. Quello sorrise a tutti i denti e, dopo avere intascato la mancia, disse che quell'indirizzo, a Roma, era di dominio pubblico, perciò non infrangeva alcun dovere di riservatezza nel comunicarglielo. Anzi, se avesse allungato il passo, magari avrebbe trovato Sua Eccellenza ancora per via. Ribaudo, dandosi mentalmente del fesso per i soldi sprecati, salutò e si affrettò a seguire il consiglio. Ormai era calata la sera e già si vedevano in giro gli addetti alla pubblica illuminazione, scala in spalla, pronti ad accendere i lampioni a gas. Il commissario non era molto pratico di quei quartieri e dovette fermarsi più volte a chiedere la strada. Pensò che, ormai, il ministro doveva aver raggiunto casa. Poco male, comunque; ciò di cui dovevano parlare non era argomento da affrontare all'aperto. L'aria si era fatta piuttosto fredda e un venticello gelido completava l'opera, costringendo Ribaudo ad alzare il bavero della giacca e a ricoverare le mani in tasca. La stagione, certo, non reclamava soprabito, ma quella per lui era stata una giornata piuttosto turbolenta, si era strapazzato parec-
chio e, per giunta, era a stomaco vuoto dalla sera prima. Nulla di strano, dunque, che sentisse più freddo del dovuto. Tutti i muscoli gli facevano male. Per forza: aveva camminato parecchio dentro alle Cento Stanzulelle, era stato a lungo chino e con il collo piegato per spiare i mantelli rossi, era scappato a gambe levate e aveva corso a perdifiato per quanto? Un paio di chilometri? Poi era stato rannicchiato nel fondo della carrozza in uno spazio reso più angusto dal doverci stare in tre, gli scossoni della vettura lanciata al galoppo, la paura... Il buio scese in fretta e la gente per le strade divenne più rada. Ribaudo ben presto dovette affidarsi solo alle targhe con i nomi delle vie scritti sopra. Erano già venti minuti buoni che camminava a passo sostenuto e ancora non sapeva se stava andando nella giusta direzione. Continuò secondo le indicazioni che aveva memorizzato e finì per ritrovarsi in una strada lunga e stretta, dove c'era solo lui con il rumore dei suoi passi sul selciato. Ormai doveva quasi esserci, comunque. Sì, adesso era sicuro, la direzione era quella. Se le informazioni ricevute erano esatte, in fondo alla strada che stava percorrendo avrebbe dovuto girare a sinistra e sarebbe arrivato. Gettò una rapida occhiata alle scarpe e al vestito. Naturalmente era impresentabile, l'abito stropicciato, le scarpe impolverate, il viso non rasato e sicuramente sporco. Pazienza, non poteva farci niente. Anzi, meglio così. Sua Eccellenza avrebbe visto con i suoi occhi che il commissario aveva preso molto sul serio l'incarico ricevuto. Al punto in cui doveva girare a sinistra svoltò e si trovò di fronte a una strada ancora più stretta e buia ma meno lunga di quella che aveva appena lasciato. Si fermò e alzò gli occhi per cercare la targa con il nome della via. La trovò. Era arrivato. Ora si trattava solo di cercare il numero civico. L'impiegato aveva detto anche che Sua Eccellenza era celibe e abitava in un semplice appartamento in compagnia del cameriere personale. Ribaudo scrutò i lati della strada per orizzontarsi tra i numeri pari e quelli dispari. Vide che, un duecento metri davanti a lui, sullo stesso marciapiede camminava, dandogli le spalle, una persona. Da quel che poteva distinguere, data la poca illuminazione, indossava un cappello a cilindro, un abito scuro e si appoggiava a un bastone da passeggio che ritmicamente picchiettava per terra; la figura era slanciata e, da lì, sembrava appartenere a un uomo alto dall'incedere signorile. Che fosse proprio Sua Eccellenza? Il commissario riprese la marcia allungando il passo, deciso a raggiungere l'uomo che gli stava davanti. Non avrebbe mai osato chiamarlo, sia per ri-
spetto, sia perché non era sicuro che si trattasse davvero del ministro. Chiese uno sforzo supplementare alle sue gambe rigide e doloranti, senza sapere che di lì a un istante si sarebbe dovuto mettere a correre. Accadde che da un vicolo laterale invisibile agli occhi di Ribaudo, uscì d'un tratto una figura nera che in un lampo gettò le braccia al collo dell'uomo con il cilindro, trascinandolo con sé e sparendo. Al commissario occorse un attimo di troppo per raccapezzarsi perché tutto si era svolto con la rapidità del fulmine. Poi l'istinto professionale ebbe il sopravvento e subito si lanciò in avanti. Correndo con tutta la velocità che le gambe indolenzite gli consentivano, in pochi secondi raggiunse il punto in cui si era svolta la scena e scrutò il vicolo laterale sulla sinistra. Era avvolto nell'oscurità e Ribaudo esitò prima di infilarvisi. Ma poi sentì un confuso scalpiccio e una specie di gorgogliare soffocato. «Chi è là? Chi va là? Che succede laggiù?» gridò Ribaudo verso il buio. Subito sentì il rumore di un corpo trascinato e allora decise di avventurarsi. Ma non fece che pochi passi alla cieca, perché prima che i suoi occhi si fossero abituati all'oscurità qualcosa di molto duro lo colpì in piena faccia, riempiendogli la visuale di scintille e costringendolo a portare le mani al viso per il dolore. Mentre annaspava nel buio sentì il rumore di un oggetto di legno che cadeva per terra e dei passi di corsa che si allontanavano velocemente. Stropicciandosi il viso riuscì finalmente ad aprire gli occhi e a vedere qualcosa. Sul selciato qualcuno mugolava. Ribaudo avanzò un poco. Intravide una persona riversa per terra, si avvicinò e si chinò su di lei. Non riusciva a distinguerne bene i lineamenti ma si trattava dell'uomo con il cilindro; ciò che Ribaudo aveva ricevuto in piena faccia era il suo bastone, poi lasciato cadere dall'aggressore in fuga. Il commissario lo afferrò per le ascelle e lo trascinò fuori dal vicolo, portandolo alla luce. Lo appoggiò seduto contro il muro e gli scostò i capelli dal viso. Era il ministro. A Ribaudo prese un colpo. Alla fine lo aveva raggiunto prima di casa. Attorno al collo aveva un laccio metallico. Glielo sfilò e vide che si trattava di tre corde di chitarra fittamente intrecciate tra loro, un cappio micidiale che, usato da mani sufficientemente nerborute, avrebbe potuto anche decapitare la vittima. Gli ravviò i capelli e cercò di fargli riprendere del tutto i sensi. Era vivo,
fortunatamente, e si lamentava piano. Con qualche schiaffetto riuscì a farlo riavere. Il ministro spalancò gli occhi e vide la faccia del commissario a un palmo dalla sua. «Ribaudo! Lei? Chi mi ha aggredito? Cosa è successo?» «Non so chi sia stato, Eccellenza. Per nostra fortuna stavo giusto venendo a casa sua. Purtroppo quello è scappato dopo avermi quasi rotto il naso. Ma venga, l'aiuto ad alzarsi. Si regga a me. La porto a casa.» Passandosi una mano sul collo e tossendo, il ministro si rimise faticosamente in piedi. «Sto bene adesso, sto bene, grazie. Sì, andiamo a casa mia. È proprio qui, sono due passi.» Il ministro si ricompose e si spazzolò la giacca e i pantaloni con la mano. Rinunciò a tornare nel vicolo buio per cercarvi cappello e bastone, dicendo che poi avrebbe mandato il suo cameriere a recuperarli. Rifiutò cortesemente di appoggiarsi a Ribaudo e, con passo via via più fermo, si avviò in compagnia del commissario. «Scusi se glielo chiedo, Eccellenza» fece quest'ultimo mentre andavano, «ma lei va in giro da solo, senza scorta?» «Perché no?» rispose quello. «Ho sempre fatto così e non è mai successo niente. Fino a questa sera, almeno» ammise. Giunti al portone di un palazzo moderno, il ministro cavò dalla tasca dei pantaloni un mazzo di chiavi, ne scelse una e aprì. Salirono due piani di scale prima di arrivare all'appartamento. Trovarono il cameriere sulla porta, evidentemente aveva sentito la voce del suo padrone. Quando lo vide senza cappello, con la cravatta mezzo slacciata e pallido come un cencio, si allarmò ma fu frenato da un gesto rassicurante del ministro. «Non è niente, non è niente, Giovanni. Sono scivolato. Per fortuna questo amico, qui, era con me. Ecco, prendete i miei guanti, mandateli a lavare. Abbiamo un ospite a cena. Noi intanto andiamo nel mio studio. Non disturbateci se non è proprio necessario. Avvisateci solo quando la cena è pronta.» Il cameriere si inchinò appena senza rispondere, aiutò il padrone a rassettarsi il collo della giacca e sparì silenziosamente. Il ministro fece cenno a Ribaudo di seguirlo e lo precedette verso lo studio. Chiuse la porta alle sue spalle e indicò una poltrona. Ribaudo sedette, lentamente perché era tutto indolenzito. Il ministro si diresse verso una cri-
stalliera e la aprì. Prese una bottiglia di quello che, dal colore, sembrava cognac e riempì due bicchieri. Ne porse uno a Ribaudo, il quale ringraziò di cuore, poi si sedette a sua volta. Dopo un paio di sorsi, mandati giù con gran piacere da entrambi, il commissario non aspettò un invito per mettersi a parlare e raccontare per filo e per segno tutto quel che era successo dal loro primo e fin lì unico incontro. Il ministro ascoltò con estrema attenzione, senza perdersi una virgola. Solo quando capì che Ribaudo aveva finito disse come fra sé: «Ecco dunque chi era l'aggressore di poco fa. Questo significa che le medaglie sono state ritirate tutte, per usare l'espressione di questi Calderari, e che adesso toccava alla mia. Ma allora, stando a quel che mi ha raccontato, vuol dire che finora il loro piano non è riuscito! Avevano programmato di uccidermi solo come extrema ratio nell'eventualità che gli omicidi precedenti non avessero raggiunto l'intento di scatenare gli anticlericali! Il che, come ha riferito lei, avrebbe dovuto innescare, per reazione, il trasferimento della Santa Sede e infine una guerra europea!». «Questo non posso dirlo con sicurezza, Eccellenza. Tenga presente che io ho sentito solo alcuni brani. Quando sono arrivato al passaggio segreto la riunione era già in corso, e non so da quanto tempo. Per giunta, siamo dovuti scappare in tutta furia mentre quello che sembrava il capo ancora parlava. È stato interrotto dal rumore che abbiamo fatto. Chi può dire se non mi sia perso dei pezzi importanti della riunione?» «Anche questo è vero» ammise meditabondo il ministro. Bevve un altro sorso. Parve riflettere. Poi, con espressione preoccupata, osservò: «Mi spiace doverlo ammettere ma quei maledetti dimostrano un acume politico di prim'ordine. È proprio così: finché il papa rimane dov'è, la propaganda repubblicana e socialista sa con chi prendersela; quando il papa non ci fosse più, dovrebbe cambiare nemico. Non solo. Il papa andrebbe in Francia esclusivamente dietro promessa, o almeno fondate garanzie, di poter tornare come papa re. La sua presenza là potrebbe portare i cattolici al governo e, dunque, a una guerra con noi. In questo caso le alleanze estenderebbero subito il conflitto all'intero continente. Senza contare che, se dovessimo perdere, per noi sarebbe il disastro, la rovina, la rivoluzione!». Si portò una mano chiusa alle labbra e si mordicchiò le nocche. «Eccellenza, posso farle una domanda?» «Avverto nel suo tono che deve essere una domanda un po' speciale. Ma
sentiamola.» «Quel corpo nel sarcofago. Si tratta di un omicidio massonico?» disse Ribaudo guardando attentamente il ministro negli occhi. «Lo escludo nel modo più categorico. Nel modo più categorico!» «Ma le modalità di esecuzione, le sigle nel foglietto...» «Non posso negare che la cosa sia curiosa, in effetti. Ma, ripeto, mi sento di escludere un coinvolgimento, a qualsiasi titolo, dei Figli della Vedova. Non solo l'epoca delle congiure politiche, alle quali, non lo nego, non furono estranei parecchi liberi muratori, è acqua più che passata; ma il cadavere nel sarcofago appartiene a un personaggio quanto mai distante dalle Logge. Il barone di Pianosa, pace all'anima sua, era un reazionario ben noto al mio ministero. Da sempre tenuto discretamente d'occhio dal servizio segreto. In compagnia di mezza Italia, del resto. No, proprio non vedo perché qualche massone avrebbe dovuto eliminarlo, facendo per giunta ricorso a un rituale da melodramma, se non da operetta. La formula del giuramento, come lei sa bene, è un puro artificio declamatorio e nient'altro. Il Pianosa, del resto, non si era mai particolarmente segnalato per attività diverse dalla pubblicazione di qualche libello nostalgico e dalla partecipazione a processioni di baciapile. Spiacente, non so cos'altro dirle.» Fu il turno di Ribaudo di mettersi a riflettere in silenzio. «Vedo che non è molto convinto» constatò il ministro. «E allora mi ascolti bene. Io le devo la vita e non ho alcun motivo per nasconderle qualcosa. Mi creda se le dico che la Fratellanza non ha mai usato certi sistemi. E sa perché? Perché non ne ha bisogno. Essa ha ben altri modi per punire chi viola il dovere di fedeltà. Se per disgraziata ipotesi le cose dovessero mutare, non solo io stesso presenterei le mie dimissioni irrevocabili ma procederei con tutti i rigori della legge. Certe cose forse, dico forse, le facevano i Carbonari più di mezzo secolo fa.» Ribaudo ascoltò con attenzione le parole del ministro e ne fu rinfrancato. Come parlando fra sé, ammise: «Magari qualcuno cerca di gettare la colpa sui massoni, anche se ci credo poco. Troppo plateale, la messinscena». Bevve ancora e poi, scuotendo la testa: «Eppure, quello del Pianosa è un omicidio che c'entra eccome con la storia delle medaglie. Tutto lascia supporre che i Calderari cercassero proprio una di queste medaglie sul corpo di quel disgraziato. A proposito, si sa niente di questi Calderari?». Il ministro si strinse nelle spalle: «Che io sappia, i Calderari erano i componenti di una società segreta da tempo estinta. Operavano nel vecchio Regno delle Due Sicilie in chiave antinapoleonica e poi antimurattiana.
Clericali e legittimisti, seguivano la moda dell'epoca, cioè le società segrete con finalità politiche. Ce n'erano a bizzeffe, e d'ogni tendenza. Quando abbiamo ereditato gli archivi dei precedenti governi, regni, repubbliche, granducati, ne sono state catalogate a dozzine». Si grattò una guancia. «Vediamo se ricordo qualche nome...» continuò. «Be', Carbonari, poi Adelfi, Filadelfi, Concordi, Falciatori, Raggi, Decisi, la Giovine Italia naturalmente... Ma era così in tutta l'Europa. In Polonia, per esempio, c'erano i Filareti, nei Balcani gli Eteri, in Spagna gli Anilleros, in Germania gli Assoluti, in Russia gli Slavi Riuniti, in Francia la Cougourde... Non so dirle quante fossero complessivamente. Del resto, nessuno può dirlo con precisione. Sto parlando di ciò che ho visto io stesso negli archivi e, tra queste, quelle che adesso ricordo. «Dicevo che neanche la reazione era da meno. Solo in Italia c'erano i Cavalieri della Fede, i Concistoriali, i Guelfi, i Calderari, appunto, nel Regno di Napoli... Insomma, una pletora. Ma, come ho detto, quegli anni erano così. Tuttavia, non ho mai sentito parlare di Calderari da quando sono ministro. Nemmeno il mio predecessore, né quello prima di lui, altrimenti ne sarei stato senz'altro informato. Come lei non faticherà a comprendere, da quando l'Italia è unita nessuna associazione segreta è stata più tollerata. Le denominazioni esistenti operano tutte alla luce del sole e, senz'altro, alla luce del mio dicastero.» «Non potrebbero essersi ricostituiti a insaputa dell'autorità?» «Tutto può essere, certo. Ma i Calderari originali avevano un altro modus operandi. Tanto per cominciare erano dei bigotti, tutti Trono e Altare. L'omicidio politico era inconcepibile per loro e proprio perché era uno dei metodi di alcune delle sette che avevano giurato di combattere. Osservavano il segreto, sì, ma perché, come ho detto, era sia la moda del tempo sia un sistema per non esporsi a vendette o ritorsioni. Secondo me, questi sedicenti Calderari hanno solo ripreso un antico nome. Con i loro predecessori non hanno in comune che lo scopo finale, che però per quelli era la difesa del Trono e dell'Altare mentre per questi è la restaurazione integrale dello status quo ante.» Ribaudo si era messo a guardare i cerchi formati dal liquore nel suo bicchiere. Sentiva che solo adesso si stava rilassando. Avrebbe dovuto essere eccitato all'idea di star lì seduto a bere cognac nello studio di un ministro, il quale per giunta lo trattava con confidenza come se fossero vecchi amici. Ma, forse complice la stanchezza, cominciava a sentirsi a proprio agio e in
vena di parlare. Accavallò con fatica le gambe doloranti e si accomodò meglio in fondo alla poltrona. Avrebbe anche potuto addormentarsi, pensò. Glielo impediva solo il senso del dovere e il sottile pensiero che avrebbe fatto meglio a non esagerare. Così, sbatté gli occhi e chiese: «Cosa comanda, allora, Sua Eccellenza?». Il ministro aggrottò la fronte, si sporse verso di lui e disse: «I motivi che mi hanno spinto a pretendere da lei la massima riservatezza su questa vicenda non sono venuti meno. Anzi, alla luce di tutto quel che adesso sappiamo, questi motivi si sono rafforzati. È supremo interesse dell'Italia che il papa resti dove si trova. Dunque, non solo continueremo a indagare nella massima discrezione, ma domani stesso diramerò una circolare ufficiosa perché le prefetture tengano a freno i circoli anticlericali. Lei riprenderà subito la sua indagine. Dobbiamo acciuffare quegli assassini il più presto possibile. Se avrà bisogno di uomini altrettanto fidati, non avrà che da sceglierli. Intende ispezionare quella villa?». «Non credo che troverei granché. Se non sono completamente stupidi, a quest'ora ogni traccia sarà sparita. E non mi sono sembrati stupidi. Per il momento direi di soprassedere. In fondo, loro non sanno chi sono io, né che il ministro in persona sta, mi perdoni l'espressione, fiutando la loro pista. Meglio lasciar loro credere che hanno inseguito tre gitanti troppo curiosi. Certo, ora più che mai bisogna far presto per assicurarli alla giustizia. Ma, mi perdoni ancora, adesso sono troppo stanco anche per pensare. Ho avuto una giornataccia.» «Mi rendo conto. Scommetto che è anche digiuno.» Ribaudo annuì, sorridendo timidamente. «Sarà mio ospite a cena, naturalmente. Purtroppo non posso darle da dormire, perché siamo in un condominio e darebbe troppo nell'occhio. Qualcuno, vedendola uscire domattina da casa mia, andrebbe a dirlo alla stampa, la quale ci ricamerebbe sopra chissà cosa. Senza considerare che in questo momento una sua foto sui giornali è ciò di cui abbiamo meno bisogno. Le farò chiamare una carrozza che la porterà in albergo. Ovviamente, dopo che si sarà rifocillato.» Il commissario inchinò la testa, riconoscente. Fece per alzarsi dalla poltrona ma un pensiero gli balzò repentino alla mente. Questo, unito alla fitta che sentì alla schiena, lo rimise seduto. «Chiedo perdono, Eccellenza, ma mi è venuta in mente una cosa. Ecco, tutta questa storia è cominciata con quelle benedette medaglie. "Immortale
odium", se non vado errato. Io, in fondo, ne ho vista solo una, quella in suo possesso. Li Volsi non aveva più la sua, nemmeno il Pianosa. La medaglia che mi mostrò l'altro giorno, Eccellenza, l'ho solo intravista nella sua mano. Credo che, almeno per scrupolo, io debba esaminarne una da vicino. Le dispiace?» «No, perbacco, ha ragione. Eccola qua, anche se non so cosa potrà cavarne.» Il ministro tirò fuori l'orologio dal panciotto e armeggiò con la catena. Dopo averne staccato la medaglia in questione, la porse a Ribaudo. Questi la prese, ringraziò e se la avvicinò agli occhi, girandola e rigirandola. Scrutò la scritta, la decorazione, la data... «Ma che strano!» mormorò a un tratto. «Che cosa c'è?» fece incuriosito il ministro. «Qui, guardi. In questo punto. Sì, qui, ecco. Guardi la scritta. "Immortale odium et numquam sanabile vulnus". Non vede queste lettere più lucide della altre? Qui, la "U" e la "S" della parola "vulnus". Hanno tutta l'aria di essere fatte con materiale diverso.» «Ha ragione, sì, sembra proprio come dice lei. Non ci avevo mai fatto caso. Però sono tanti anni che porto questa medaglia attaccata all'orologio. Non può darsi che sia stato io stesso a produrre lo sfregamento che fa sembrare queste due lettere più lucide?» «Francamente non credo. Lo sfregamento continuo e casuale lucida tutto quel che sporge, non due lettere soltanto. No, più le guardo e più mi paiono di un metallo diverso.» «Lo ritiene un particolare importante?» Ribaudo fece un gesto evasivo. «Mah, chi può dirlo? A questo punto, va bene tutto. Non ho niente in mano, purtroppo. E non so nemmeno dove andare a cercarli, quei Calderari là. Come dico sempre io, un indizio è meglio di nessun indizio. Sempre che di indizio si tratti, beninteso. Per saperlo, dovrei vedere anche le altre medaglie. Se non tutte, almeno alcune.» «Mi mette in difficoltà, caro commissario. I possessori di questo tipo di medaglia sono persone in vista e avrei qualche problema a chiedere loro di mostrargliele. Lei mi capisce. Senza contare, poi, che sono sparsi qua e là per l'Italia. Qualcuno è addirittura all'estero. Quand'anche trovassi il modo di combinare gli incontri senza dare adito a sospetti o illazioni, le ci vorrebbe un mese, minimo.» «Non ce n'è bisogno, Eccellenza. A Napoli ci sono quei due preti di cui
le ho parlato. Loro, di medaglie, ne hanno viste due. E possono, una volta che avrò detto loro cosa guardare, esaminarle entro domani. Perciò, sarà meglio che io non vada in albergo ma mi rimetta in viaggio. Vorrà dire che dormirò in treno. Dopo cena, naturalmente. Ah, da domani Sua Eccellenza farà bene a girare con la scorta.» «E pure armato, stia sicuro» rispose il ministro. Poi bussarono alla porta e il cameriere annunciò la cena. La medaglia Il cardinale sgranò gli occhi e il mento prese a tremolargli. Non è che fosse mai stato in gran consuetudine con suo cugino, il quale gli era poi cugino di chissà quale grado. Anzi, a dire il vero l'aveva incontrato sì e no quattro volte negli ultimi vent'anni. Ma lo conosceva come un buon cristiano, molto devoto per giunta. L'apprendere che era morto, e morto ammazzato in un modo così inumano, l'aveva turbato profondamente. Il cardinale non era mai stato una persona particolarmente emotiva, anzi. Però, adesso l'amarezza, lo scoramento, la sorpresa per tutto quel che aveva sentito, tutto questo lo aveva scosso e quasi gli impediva di parlare; per completare l'opera, la morte di quel suo parente, sul quale, per di più, contava parecchio per un aiuto sul caso delle medaglie. Seduti davanti a lui, sulle solite poltrone, stavano in quel momento don Alicante e don Esposito. Al loro fianco c'era, su una sedia, il commissario Ribaudo. Tutti e tre erano rimasti piuttosto imbarazzati nel vedere la reazione di Sua Eminenza. Questi si portò le mani al volto e si massaggiò gli occhi. Forse era una maniera per impedirsi di piangere, chissà. Di certo c'era che era andato impallidendo man mano che quelli raccontavano. Culmine dello sconforto, la fine di suo cugino, che i tre, forse per delicatezza, avevano tenuto per ultima. Sua Eminenza tolse le mani dal viso, roteò gli occhi e riacquistò padronanza di sé. Con un sospiro lasciò cadere le braccia sulla scrivania e ruppe il silenzio: «E ora, che si fa?». «Scusate, Eminenza» disse Alicante. «Siamo addolorati, davvero, per la morte, e che morte, del suo parente. Ma, dite, in che modo avrebbe potuto aiutarci?» «Di preciso non lo so, se devo essere sincero» rispose reprimendo una smorfia di sofferenza il cardinale. «Però era persona ben addentro nel mo-
vimento antimassonico. Scusate, commissario, ma questo non è il momento dei complimenti e devo parlare schietto.» Ribaudo crollò la testa, come a dire che capiva benissimo e non era il caso di usargli dei riguardi. «Il fatto è che non sapevo da che parte cominciare» riprese il cardinale. «E lui mi sembrava li per lì il più adatto. Era iscritto a un'infinità di associazioni cattoliche, da quelle strettamente devozionali a quelle culturali o politiche in senso lato. Oh, non è che con l'attuale regime i cattolici possano far politica più di tanto, lo sappiamo. E poi il divieto papale è ancora formalmente in vigore. Ma, lo sapete meglio di me, da qualche anno si è di manica piuttosto larga, da una parte e dall'altra, e si è potuto addirittura organizzare un congresso internazionale antimassonico, al quale mio cugino aveva partecipato in prima fila. Ecco, dato quel che sta scritto su quelle maledette medaglie, ho pensato che lui potesse darvi una mano; che so, indirizzarvi da qualche sua conoscenza, fornirvi qualche buon indizio per cominciare, qualche spunto. Insomma, se c'era una persona adatta, a mia scienza, era lui. Tutto qui. E le circostanze in cui avete trovato il suo corpo non solo mi confermano in quella prima intuizione, ma ci fanno capire che il Pianosa su questa storia sapeva anche troppo. O no?» «Sì, temo proprio di sì» disse Alicante massaggiandosi la nuca. «Malauguratamente è troppo tardi. Per il resto, il complotto intendo, come consigliate di comportarci?» «Ah, su questo non ho dubbi. Silenzio. E, se possibile, più silenzio ancora di prima. In Vaticano una corrente che preme per il trasferimento della Santa Sede c'è davvero. È divisa al suo interno solo sulla destinazione, Francia, Spagna, Portogallo, Malta...» il cardinale si fermò un attimo, sforzandosi di ricordare, «... Austria, addirittura Germania, pensate!» riprese. «Io appartengo a un'altra corrente, la quale non solo depreca che si voglia forzare la mano al Santo Padre ma è pure ferma nell'idea che la Santa Sede debba restare dov'è. Prima o poi si dovrà pur arrivare a una conciliazione con il Regno d'Italia, anche se ora come ora non saprei dire su quali basi. Ma Cristo è romano, come dice l'Alighieri, e la storia insegna che lo spostamento del papato non ha mai portato nulla di buono per il cattolicesimo. Dunque, se questi congiurati intendono spingere gli eventi in una certa direzione, è terribilmente urgente far fallire il loro progetto. Cioè, impedire per prima cosa che gli omicidi diventino di dominio pubblico.» «Perdonate, Eminenza» interloquì don Esposito. «Ma non dovrebbe essere il papa a decidere se vuol lasciare l'Italia o no?»
Il cardinale lo fulminò con lo sguardo e don Nicola si rattrappì tutto. «E in base a che cosa dovrebbe prenderla, la decisione?» latrò Sua Eminenza. «Sulla scorta di una recrudescenza di anticlericalismo provocata da una serie di omicidi ben mirati? Cosa dovremmo fare, noi, andare dal papa e chiedergli se dobbiamo lasciar fare quei Calderari o no? E credete che direbbe: sì, mi pare una buona idea, permettete a quei signori di continuare a uccidere, così finalmente si scatena la piazza, mi ammazzano qualche prete, mi incendiano qualche chiesa e io ho finalmente una buona ragione per andarmene via? Senza contare, naturalmente, il rischio di una guerra generale, rischio che, credetemi, in questo momento c'è eccome!» Il cardinale si era infervorato via via, alzando la voce e saettando lo sguardo, fino a diventare tutto rosso, con le vene del collo gonfie per la collera. Terminò la sua sfuriata con un gran pugno sul tavolo e don Nicola divenne tutt'uno con l'imbottitura della sua poltrona. Alicante avrebbe voluto in quel momento riempire di scapaccioni il suo figlioccio, ma dovette limitarsi ad alzare gli occhi al cielo e mordersi le labbra. Per far sbollire la stizza, finse di concentrarsi sulla cravatta, lisciandone le pieghe. Non era più abituato a vestire in borghese, e giacchetta e panciotto lo impacciavano un poco. Ma non come l'ingenuità di don Nicola, che ogni tanto, e nei momenti meno indicati, saltava fuori imprevedibile e gettava don Gaetano nell'imbarazzo più nero. Gli aveva raccomandato tante volte, a quel suo discepolo, di contare fino a dieci prima di aprire bocca, ma si rendeva conto che si trattava di un rimedio empirico di difficile attuazione. Solo il tempo e l'esperienza avrebbero addomesticato un temperamento impulsivo. Per ora non c'era altro da fare che portare pazienza e cercare di riparare i danni. Alicante si girò verso Ribaudo, sperando di intercettarne lo sguardo per fargli capire che era il momento di dire al cardinale il motivo della sua presenza. Ma Ribaudo non ebbe bisogno di suggerimenti, perché subito prese la parola. «Eminenza, io, come questi amici hanno appena fatto con voi, sono stato ieri sera a rapporto dal mio superiore. Dunque, non avrei ragione per trovarmi qui. In realtà una ragione l'avrei, anche se devo confessare che si tratta di una vaghissima intuizione. Devo prima pregarvi, tuttavia, di non fare uscire da questa stanza quel che adesso dirò. Posso contarci?» «Sul mio onore!» rispose, fattosi attentissimo, il cardinale. «Sappiate che ho ricevuto l'incarico per questa indagine dal ministro in
persona, il quale è anche proprietario di una delle famose medaglie. Non mi ha detto, naturalmente, come ne sia venuto in possesso, né io gliel'ho chiesto. Del resto, non è difficile immaginarlo, dal momento che i suoi trascorsi giovanili non sono un segreto. Né è un segreto l'appartenenza massonica di tre quarti dell'attuale governo, compresa la sua. «Proprio ieri sera il ministro è sfuggito a un attentato da parte dei Maccabei, io stesso ne sono stato testimone. Il che significa che, in base a quel poco che abbiamo sentito io e i vostri due uomini, i Calderari, forse impensieriti dalla scoperta di essere spiati, hanno deciso di stringere i tempi. Da quanto ho potuto capire, i Maccabei costituiscono una specie di gruppo d'intervento scelto all'interno del complotto. Gente decisa a tutto e motivata più che altro dal desiderio di vendetta. I capi hanno concepito un disegno molto più ampio e ambizioso che si sposa perfettamente con il desiderio in questione. Infatti, non c'è miglior vendetta, in questo caso, che mandare all'aria l'unità d'Italia e l'intero processo di quel che molti ormai chiamano Risorgimento. Per giunta, il disegno ampio ben si coniuga con quello piccolo, che sarebbe l'eliminazione fisica di quanti presero parte all'assalto notturno alla salma di Pio IX nel 1881. Ora, è chiaro che non si può eliminarli tutti, perché erano centinaia e, dunque, di difficile se non impossibile identificazione. Però, quelli tra loro che furono premiati, diciamo così, con la medaglia "Immortale odium" costituiscono un numero circoscritto, dunque colpire questi ultimi ha il vantaggio del bersaglio simbolico, oltre a terrorizzare tutti gli altri quando la cosa diventasse di dominio pubblico. Ebbene, se i Calderari hanno deciso di attaccare il bersaglio più grosso, quello che, in base a ciò che abbiamo sentito, doveva essere tenuto per ultimo, significa che hanno rinunciato a ritirare, come dicono loro, le altre medaglie. Sì, perché il ministro mi ha assicurato che per fare ciò occorrerebbero mesi, data la dislocazione di queste persone su tutto il territorio nazionale e anche all'estero. Per di più, si tratterebbe di persone in vista, dunque difficilmente avvicinabili per i Maccabei.» «Dove volete arrivare?» lo interruppe il cardinale. «Ecco il punto. Mi sono chiesto se non sia possibile che la raccolta delle medaglie da parte dei Calderari abbia anche un altro scopo che ci sfugge. «Ma sì, pensateci bene. Partono con l'idea di uccidere tutti i possessori di una medaglia "Immortale odium" e di fare avere, man mano, queste medaglie al papa. Poi cambiano idea e decidono di limitarsi a sole quattro. Due sono quelle che avete voi, Eminenza, una appartiene al ministro e una, se non abbiamo interpretato male, era in mano al Pianosa. Però quest'ultima
non riescono più a trovarla e quella del ministro non sono riusciti a prenderla. Perciò, delle due, l'una: o non si aspettavano la strategia del silenzio messa in atto, a insaputa l'uno dell'altro, dal ministro e dal papa, e dunque si trovano costretti a giocarsi la loro briscola migliore, o quelle medaglie nascondono qualcos'altro.» «Avete formulato qualche ipotesi?» chiese perplesso il cardinale. «Macché» ammise Ribaudo. «Brancolo nel buio. Mi hanno solo incuriosito certi segni che ho visto sulla medaglia del ministro, ed è per questo che sono qui. Ne ho parlato stamattina presto con i vostri due collaboratori, che ho tirato giù dal letto appena sceso dal treno. Dovevano venire a farvi rapporto e hanno accettato di portare anche me, dopo aver sentito quel che avevo in mente. Certo, non è questione di un indizio, solo di una parvenza di indizio. Ma non voglio lasciare nulla di intentato. «Si tratta di questo: mi ha incuriosito qualcosa che ho notato sulla medaglia del ministro e vorrei vedere se anche le altre medaglie presentano la stessa particolarità. Magari potrà sembrarvi stupido, ma permettermi di controllare non potrà far male a nessuno.» Il cardinale annuì e si frugò in tasca. Ne trasse una piccola chiave con la quale armeggiò nel cassetto della scrivania. Aprì e tirò fuori il fazzoletto annodato nel quale conservava le due medaglie. Lo pose davanti a sé e lo svolse, indi fece cenno a Ribaudo di accomodarsi a esaminarle. Il commissario si alzò, si avvicinò e si sporse sulla scrivania. Prese le medaglie tra le dita e le scrutò attentamente una dopo l'altra, nel dritto e nel rovescio. Cavò la sua piccola lente d'ingrandimento dal panciotto e ricominciò. «Ecco» disse. «Su una c'è qualcosa di molto simile a quel che ho visto sulla medaglia del ministro. Ma sull'altra non c'è niente» terminò deluso. «Posso?» disse Alicante tendendo la mano. «Prego!» fece il commissario porgendogli le medaglie. Alicante se le portò quasi sotto il naso, esaminandole minuziosamente. «Vi riferite al fatto che le lettere "BI" della parola "sanabile" in una delle due medaglie sono più lucide delle altre?» «Esattamente.» «Nell'altra medaglia non vedo nulla neanch'io.» «Già.» Il cardinale guardava alternativamente Alicante e Ribaudo, in attesa. «E allora?» sbottò. «E allora siamo al punto di prima» rispose Ribaudo, grattandosi la testa.
«La mia ipotesi cade ma nel contempo resta in piedi. Dunque, non so cosa dire. Il fatto che su una medaglia non ci siano segni di sorta vanifica l'idea che mi ero fatta, e cioè che, messe in fila tutte le medaglie, le lettere più lucide componessero una frase o un nome. Invece, abbiamo visto che non tutte le medaglie presentano questa particolare caratteristica. Perciò potremmo essere semplicemente in presenza di pure casualità. Non dimentichiamo che le medaglie sono vecchie di anni e di solito portate insieme a chiavi, orologi, catene. Parlo di sfregamenti, insomma.» «C'è un'altra possibilità» interruppe Alicante, pensieroso. Tutti si voltarono verso di lui, ma il prete continuava a osservare le medaglie con espressione meditabonda. «Suvvia, non teneteci in sospeso!» esclamò il cardinale. «Può essere che la cosa sia intenzionale ma che non compaia su tutte le medaglie» si decise Alicante. «Cioè?» incalzò Sua Eminenza. «Riflettiamo un attimo. Poniamo che qualcuno diverso dai Calderari sappia perfettamente che su alcune medaglie siano evidenziate certe lettere e che queste lettere insieme finiscano con il formare un messaggio. Ma questo qualcuno non sa quale sia questo messaggio e su quali medaglie si trovi.» «Perché escludete che faccia parte dei Calderari?» chiese Ribaudo fattosi molto attento. «Oh, non lo escludo affatto. Suggerisco solo che potrebbe, sì, essere un Calderaro ma nel contempo perseguire uno scopo tutto suo. Servendosi dei Calderari e soprattutto della loro emanazione assassina, i Maccabei. Sappiamo che per i Calderari la raccolta delle medaglie è solo strumentale, tant'è che sembrano averla accantonata per un repentino cambio di programma. Il loro fine ultimo, non dimentichiamolo, è riportare indietro la storia d'Italia. Alcuni tra loro perseguono anche la vendetta, è vero, ma questi avrebbero voluto di certo che il ritiro delle medaglie continuasse. Tutte. Ebbene, se ci fosse in ballo un terzo soggetto, potrebbe darsi che costui sia interessato al recupero delle medaglie solo fino a quando il messaggio non venga giudicato completo. In questo caso, la sua ricerca sarebbe esaurita e non avrebbe più interesse a cercare medaglie.» «Sì, vi seguo. Ma non vedo cosa cambi per quel che ci riguarda. Il progetto dei Calderari va fermato in ogni caso!» ribatté il commissario. «Questo è fuori discussione. Tuttavia, se la mia ipotesi è giusta, avremmo un elemento in più su cui lavorare, un elemento che potrebbe rivelarsi
determinante per sventare l'intero complotto.» Ribaudo rifletté un momento. «Sì» ammise. «È molto sensato. Ma noi conosciamo solo quattro lettere di questo ipotetico messaggio. E se è poco per il nostro fantomatico terzo soggetto, figurarsi per noi. Ci vorrebbe un indovino!» «O un profeta» disse Alicante, enigmatico. La zi' Filomena allargò le braccia e si batté le palme sulle cosce. «Monsigno', io gliel'ho detto al prete vostro che non potevate essere disturbato! Ma quello s'è infilato per forza e quasi quasi mi fa sbattere al muro! Anime del Purgatorio! E che può fare una povera vecchia più di quello che fa? E che, mi devo pure appiccicare con la gente? Forza, diteglielo voi che non si entra così in casa d'altri!» «Filome', non ti angustiare, che io qua sto e mò ci penso io!» disse il vecchio sacerdote, sfilandosi il tovagliolo dal collo. Infatti, era seduto in cucina e stava consumando un pranzo modesto, un piatto di vermicelli con il ragù avanzato dalla sera prima e riscaldato in padella. Con finta indignazione si rivolse a don Gaetano, comparso sulla soglia della cucina mentre la zi' Filomena, completamente nascosta dall'alta figura del prete in borghese, brontolava con voce chioccia da dietro le sue spalle. «Guaglio', ma tu sei proprio uno scassasaccocce!» fece monsignor Pascale. «E che vuoi ancora da me? Passano mesi senza che ti fai vedere e mò è già la terza volta che ti presenti in pochi giorni!» «Venerato padre» disse accorato Alicante. «Perdonate, ma è cosa della massima urgenza! Vi voglio bene, non me ne cacciate! Devo assolutamente conferire con voi a proposito di quella questione che ben sapete!» Monsignor Pascale si pulì le labbra e posò il tovagliolo sul tavolo. «Non venirmi a fare il ruffiano, ora! Ti manda Sua Eminenza?» chiese di brutto. «Veramente, no» rispose don Gaetano arrossendo. «Ma è che sono emersi particolari nuovi...» «E se non ti manda Sua Eminenza mi vieni a rompere l'anima proprio mentre sto mangiando? E non potevi aspettare stasera o domani?» «Per favore!» supplicò don Gaetano, che sapeva perfettamente che la sceneggiata di monsignor Pascale era più che altro a beneficio della zi' Filomena, altrimenti questa non avrebbe più preso sul serio l'ordine di non far passare nessuno quando si fossero presentati postulanti davvero impor-
tuni. Fingendo di rabbonirsi, l'anziano sacerdote congedò la perpetua: «Non ti preoccupare, Filome', che me la vedo io con questo qui. Vai, vai pure. E tirati dietro la porta». La vecchia fece dietrofront ciabattando e lagnandosi a mezza voce. Quando la porta fu chiusa, Pascale invitò il suo figlio spirituale a sedersi, indicando una sedia. Poi si rimise il tovagliolo al collo e si accinse a finire i suoi vermicelli. «Ti spiace se mangio, intanto?» Alicante fece un cortese inchino, come a dire "ci mancherebbe!". «Vuoi favorire?» Alicante scosse la testa e alzò le mani. Era un chiaro "no grazie"; ma non poté fare a meno di pensare che quello scarso piatto non sarebbe certo bastato per due. «Be', almeno un bicchiere di vino te lo vorrai bere? Sèrviti!» Alicante questa volta non disse di no. Prese un bicchiere dalla credenza e si versò due dita dal fiasco in tavola. Lo alzò alla volta del suo ospite e, dopo aver bevuto un sorso, cominciò velocemente a parlare. In breve, il suo direttore spirituale fu messo a giorno di quanto era emerso nell'incontro con il cardinale. Quando ebbe finito, Pascale domandò: «E quali sarebbero queste lettere più lucide?». «"US" e "BI"» rispose don Gaetano. «Cosa potete dirmi?» «Figlio mio, e che ne so io? E che sono, un indovino? E che ho, la sfera di vetro?» disse l'altro, mentre si alzava per andare a deporre il piatto vuoto nell'acquaio. «M'avresti preso per san Gaetano dalle braccia aperte, così come sta nella statua? Ecco, bravo, va', va', rivolgiti al tuo santo!» «Monsignore, non mi sfruculiate, per carità! Io lo so che voi e lo Spirito Santo state così!» disse Alicante, giungendo gli indici. Il monsignore levò un braccio fino all'altezza della spalla, come se quel che aveva appena sentito fosse una emerita esagerazione. Ma Alicante insisté: «Andiamo, monsigno'! Tante volte mi avete tolto dagli impicci facendo appello al vostro carisma profetico. Non ultima, quando mi avete indotto a prendere parte all'esorcismo su quella infelice giovine. Se non era per voi, io a quest'ora stavo ancora a Brindisi a fare inutilmente il giro delle sette chiese. Ora vi volete schermire, e va bene, ma io non voglio attentare alla vostra umiltà. Mi serve solo che facciate ricorso alle vostre capacità per darmi una mano».
«Ma quali capacità e capacità! Giovanotto, qua nessuno tiene capacita!» storse la bocca pronunciando la parola. «Se vuoi profezie rivolgiti alla Madre Benedetta e a san Giuseppe suo castissimo sposo, altroché! Va', osserva tre giorni di digiuno, mortificati e poi fatti venire i calli alle ginocchia davanti al Santissimo! E può darsi, dico può darsi, che se è volontà del Signore avrai la tua profezia!» «Il fatto è, monsignore, che io tre giorni non li tengo!» esclamò con tono disperato Alicante. «Quelli ammazzano la gente! E possono far scoppiare pure una guerra!» Al sentir questo l'anziano monsignore si quietò e parve riflettere. Si risedette con lentezza. Fissò un punto indefinito sul pavimento e rimase qualche secondo cosi, senza dire niente. Poi, come parlando fra sé: «Us e Bi. Usbi. Oppure Bi e Us. Bius. Bius...». All'improvviso sbiancò, spalancando gli occhi. «Nubius!» mormorò. «Nubius! Non è possibile...» Alicante si allarmò. Stava bevendo un altro sorso di vino e, per la sorpresa, aprì la bocca incurante del liquido che gli scivolava sul mento e sul collo. Si asciugò meccanicamente con la mano senza smettere di fissare il vecchio sacerdote. Non aveva mai visto quell'espressione sul viso del suo direttore spirituale. Sembrava spaventato. «Che c'è, padre? Che significa la parola "Nubius"? Perché fate quella faccia? Gesù, mi state mettendo paura!» Pascale si abbatté stancamente sulla spalliera della sedia, senza far caso al suo interlocutore ma ripetendo: «Non è possibile... non è possibile...». «Ma cosa non è possibile, cosa? Spiegatevi, vi prego! Non tenetemi sulle spine! Che cosa vi ricorda quella parola? Che vuol dire Nubius?» Pascale si passò una mano sulla fronte. «Non è una parola ma un nome» disse lentamente. «Il nome di un antico nemico che credevo morto. Il nome dell'avversario più tremendo che i troni abbiano avuto in questo secolo. Un solo uomo. L'uomo che ha quasi distrutto l'edificio millenario di Santa Madre Chiesa.» Don Gaetano era esterrefatto. «O Signore! E chi è mai costui? E che razza di nome è Nubius?» «Non è il suo nome vero. Quello nessuno lo conosce. Nessuno ha mai saputo chi si celasse dietro a quel nome. Ma era l'eminenza grigia dietro a ogni complotto, il burattinaio sopra ogni congiura. Quando le polizie dei vecchi regni italici, anche quella pontificia, riuscivano a mettere le mani su qualche documento emanato dal vertice della piramide, dalla cupola delle
cupole, su qualche lettera destinata ai capi dei capi, in fondo c'era sempre quella firma: Nubius. Ti dice niente il nome di Filippo Buonarroti?» «Come no? Era il capintesta di tutti i rivoluzionari, l'uomo che aveva fatto della congiura politica la sua unica ragione di vita. Tirava le fila di non so quante società segrete, tutte forgiate a cerchi concentrici, di modo che la inferiore nulla sapesse della superiore, la quale a sua volta ne aveva un'altra sopra di sé, e così via. Ma in cima in cima c'era lui, Buonarroti, un livornese ex giacobino ritenuto un fanatico dagli stessi giacobini. Se non vado errato, rischiò la ghigliottina in Francia al tempo del Terrore perché risultò implicato nella cospirazione comunista cosiddetta Congiura degli Eguali. Ma è morto da decenni!» «Proprio lui. Ebbene, neanche Buonarroti sapeva di avere qualcuno al di sopra. Nubius. Le polizie di tutta Italia non riuscirono mai nemmeno a identificarlo. Neppure quella austriaca del Lombardo-Veneto, che pure era la più efficiente. È sempre stato solo uno pseudonimo, un nome di battaglia senza un volto, senza un'identità. Per molti era solo un mito privo di esistenza effettiva, un modo per confondere le polizie inducendole a pensare che con i loro arresti tagliavano solo rami senza mai poter risalire all'albero. Invece, esisteva eccome. Io lo so. Credevo che fosse morto da un pezzo, perché altrimenti dovrebbe avere più di cento anni.» «Ma perché siete impallidito? Voi lo avete incontrato, vero?» «No, mai. Ma ci sono andato molto vicino.» Pascale chiuse gli occhi di fronte a un ricordo che credeva sepolto e che di colpo gli aveva squarciato il velo della memoria. L'ex capitano L'ormai ex capitano si guardò allo specchio. Fino a poco tempo prima sarebbe rimasto soddisfatto di quel che vedeva: un bel giovanotto, alto, con i capelli folti e corvini tagliati a spazzola, naso dritto, spalle ben squadrate, occhi allegri e intelligenti, muscolatura vigorosa. Nel fiore degli anni e della salute. In divisa avrebbe continuato a fare un figurone, ma anche in abito civile la sua silhouette snella e dal portamento naturalmente impettito era in grado di continuare a far girare la testa alle signorine. Solo che, ormai, la sua decisione era presa e non intendeva più indulgere in frivolezze. Salutò con piacere il pensiero che tutta quella gagliardia tra qualche anno sarebbe rimasta solo sulle fotografie, perché ci avrebbe pensato il tempo ad appesantire e incurvare il baldo giovane che adesso si
specchiava nel vetro. Tutto è vanità a questo mondo, si disse, e ringraziò la Provvidenza di avergli insegnato a fare a meno della zavorra, cioè le preoccupazioni per l'aspetto, la cosa più inutile che ci sia. Tra meno di un mese sarebbe entrato in seminario per gli studi teologici, dopo i quali il capitano d'artiglieria avrebbe lasciato il campo al sacerdote, e gli alamari ai bottoni neri. Aveva solo un'ultima cosa da compiere finché era ancora laico. Aprì l'anta dell'armadio e la sua persona riflessa cedette il posto a una fila di giacche militari appese e ordinate, da quella di campagna a quella di gala. Ne scostò un paio, infilò il braccio e dal fondo del guardaroba tirò fuori il cinturone avvolto attorno alla fondina. Cavò la pistola d'ordinanza e ne fece scorrere il tamburo, verificando che rotolasse liscio. Controllò i colpi. Erano a posto. Si mise l'arma in tasca e chiuse l'armadio. Meno di mezz'ora dopo era davanti alla chiesa di Sant'Isidoro e passeggiava su e giù come se avesse un appuntamento. Intanto, teneva d'occhio il vicolo sul lato sinistro della chiesa. Il tempo passava e il tardo pomeriggio andava immalinconendosi sempre più con l'approssimarsi della sera. E poi venne il tramonto, e l'ex capitano si ritrovò in una via che si rarefaceva di passanti. Prima di restare quasi solo, per non attirare l'attenzione andò ad accendersi un sigaro in una strettissima stradina dalla quale era in grado di non perdere di vista quel che stava aspettando. Si appoggiò al muro e si mise a fumare fingendo indifferenza. Venne un devoto portando una sedia che appoggiò all'angolo, sotto una madonnella di gesso posta a due metri e mezzo circa d'altezza. Il devoto salì sulla sedia e cavò dalle tasche un paio di lumini che mise sulla mensola davanti all'immagine. Li accese, si fece il segno della croce mandando un bacio finale alla Vergine, scese e se ne andò portandosi via la sedia. Quando calò il buio, l'ex capitano si addentrò di qualche metro nella stradina, appena fuori dal cono di luce tremula irradiata dai lumini. Così, celato nell'ombra, riprese la sua paziente attesa. Il tempo passava e venne un momento in cui l'ex capitano si chiese, allarmato, se per caso non avesse sbagliato giorno. Eppure, l'informazione che aveva ricevuto era piuttosto precisa. Il sovrintendente Gennaro Aiello, che era stato suo compagno di corso alla Nunziatella prima di entrare in polizia, gli aveva dato assicurazioni sul quando e sul dove in via riservatissima. L'ex capitano aveva preso l'Aiello sotto la sua protezione allorché que-
sto, timidissimo cadetto, stava per finire sotto le grinfie del nonnismo più cinico e pesante. Ne aveva ricavato un occhio pesto ma da quel momento le angherie su Gennarino erano cessate. Gennarino non se l'era più scordato e, quando l'ex capitano era venuto a riscuotere il suo credito, non aveva potuto dire di no. Molto a malincuore, tuttavia, perché erano in ballo informazioni secretate la cui divulgazione poteva costargli il posto. L'ex capitano aveva un fratello minore piuttosto scapestrato che era il cruccio di suo padre. Il ragazzo era stato letteralmente plagiato dalla Carboneria, cosa che aveva procurato il mal di cuore al padre, fedele per tradizione familiare alla dinastia regnante e alla Chiesa. In breve, suo fratello era finito ricercato ma era riuscito a espatriare scappandosene in America. La famiglia non l'aveva più rivisto. Molta acqua era passata, da allora, sotto i ponti, e le cose della vita, insieme agli sconvolgimenti politici di cui quegli anni non erano stati avari, non avevano permesso all'ex capitano di andare in America alla ricerca del fratello. Ma quand'anche avesse avuto agio di farlo, da dove cominciare? L'America era grande. Per giunta, nell'unica lettera che la sua famiglia aveva ricevuto c'era scritto che là i fuorusciti italiani non erano particolarmente graditi, li si considerava delle teste calde atte a creare problemi; perciò, suo fratello aveva deciso di cambiare nome. Ma non aveva scritto quale identità avesse assunto. Suo padre e sua madre se ne erano fatti venire una malattia. Così, l'ex capitano aveva deciso di rivolgersi direttamente a quelli che avevano inguaiato suo fratello, cioè i Carbonari. Erano loro che organizzavano il trasferimento oltremare per i "buoni cugini" (così si chiamavano tra loro) ormai "bruciati" (altro termine del loro gergo per indicare quelli che la polizia aveva scoperto). E, quando aveva rivisto per puro caso Gennarino in veste di sbirro, non si era lasciato sfuggire l'occasione. Aveva dovuto insultarlo nell'onore per ottenere il suo aiuto. Gennarino gli aveva detto che la Carboneria da tanti anni non dava segni di vita. In ogni caso, con l'avvento del nuovo regime essa non aveva più alcuna ragione di esistere. Però la polizia teneva d'occhio certi nostalgici che si riunivano ogni tanto per brindare ai vecchi tempi con "buona carbonella" (così chiamavano il vino). Erano del tutto innocui ma sotto sorveglianza per buona misura. Amavano "tenere vendita", cioè riunirsi, nelle cave di tufo di cui il sottosuolo di Napoli era letteralmente costellato, una rete di cunicoli praticamente senza fine che, all'epoca, aveva dato ricetto a più di un cospiratore.
Gennarino, arresosi di fronte alla cocciuta determinazione del suo antico camerata, aveva raccomandato, tuttavia, estrema prudenza perché non si sapeva mai. Non erano pochi e a qualcuno di loro poteva saltare la mosca al naso all'eventuale scoperta di uno che non si faceva i fatti suoi e li spiava. Ma era l'unico consiglio che l'ex capitano aveva ascoltato. Infatti, si era messo in tasca la pistola. E adesso era lì, nascosto nel buio, ad aspettare che i "buoni cugini" si decidessero a convenire sul luogo dell'appuntamento. Ed eccoli, finalmente. Uno alla volta, alla spicciolata, persone con il bavero alzato e il cappello calcato in testa si infilavano nel vicolo alla sinistra della chiesa e non ne uscivano più. Quei pochi di cui era riuscito a vedere la faccia, data l'oscurità, non li conosceva. Non aveva importanza. Ne contò tredici. Attese ancora una mezz'ora, nel caso ci fossero ritardatari. Quando fu abbastanza certo che non ne sarebbero arrivati altri, si mosse. Attraversò a passo svelto la strada e si inoltrò nel vicolo. Dopo qualche passo dovette accendere un fiammifero perché non ci si vedeva più. Camminò circospetto fino alla fine del vicolo. E si trovò di fronte a un muro. Il fiammifero intanto si era consumato e dovette accenderne un altro. Tornò sui suoi passi e si guardò intorno. Niente, neanche una porta. Terzo fiammifero, e questa volta esaminò il selciato. Solo al quarto fiammifero lo vide. Un tombino, quadrato e di legno. Il terriccio smosso ai bordi parlava da solo. L'ex capitano abbassò le falde del cappello, rialzò il bavero della giacca, estrasse il fazzoletto dal taschino e se lo legò dietro la nuca coprendosi la bocca e il naso. Poi, dopo un ultimo sguardo verso la strada per assicurarsi che non passasse nessuno, afferrò la maniglia del tombino e tirò. Sollevato il coperchio a mezzo, accese un altro fiammifero e guardò dentro. Scale. Cominciò a scendere, avendo cura di chiudersi il tombino sulla testa. Ancora un fiammifero. Piano, badando a non far rumore e attento a non scivolare, discese scalini su scalini e consumò una ventina di fiammiferi. Contò circa centocinquanta gradini, divisi in tre rampe; ogni rampa successiva piegava a destra. Alla fine si ritrovò in una grande cisterna fuori uso da chissà quanto.
Odore di muffa e di stantio. Freddo umido. Anche il più piccolo fruscio pareva rimbombare. L'ex capitano si mosse ancora più cautamente, accendendo i fiammiferi al riparo di una falda della giacca per attutire lo sfrigolio. Vide l'ingresso di un cunicolo dove un uomo in piedi passava a stento. Lo imboccò. Percorse una trentina di metri e improvvisamente il cunicolo si restrinse in larghezza, costringendolo ad appoggiarsi alle pareti con le due mani. In compenso, dopo qualche passo, l'altezza del cunicolo si fece vertiginosa, senza che fosse possibile vederne il culmine. Dopo cinquanta passi là dentro, l'ex capitano scorse un chiarore in fondo. Ancora qualche metro e poté spegnere il fiammifero. Dopo un po' cominciò a sentire delle voci. Eccoli. Procedette rasente il muro per un centinaio di metri circa e alla fine vide un gran chiarore di fiaccole. Con somma circospezione sporse la testa oltre l'angolo del muro a cui era incollato e il suo sguardo spaziò su di un vasto ambiente tutto mattoni. La volta si levava per una decina di metri e si incurvava ai due lati fino a terra. Nella parete di fondo si apriva uno stretto passaggio, del tutto simile a quello in cui si trovava lui. Da esso scorreva un rivolo d'acqua sporca che si perdeva dietro al pavimento. Forse finiva in una specie di fogna, ma dal suo punto d'osservazione l'ex capitano non riusciva a vederlo. Il pavimento era qualche metro più in basso, il che voleva dire che doveva esserci una scala oltre il bordo del cunicolo. Le voci che aveva sentito provenivano dal gruppo di persone là riunite. Erano quasi tutte sedute a semicerchio e gli voltavano le spalle. Stavano su alcune casse da imballaggio messe distese una accanto all'altra. Su di un lato, addossate alla parete, c'erano altre casse, almeno una decina, impilate l'una sull'altra. Certe recavano stampigliata una sigla che l'ex capitano d'artiglieria riconobbe subito: dinamite. Le casse erano vecchie, notò, e in certi punti macchiate di umidità. Questo, unito al tanfo di muffa che riempiva l'ambiente, fece pensare all'ex capitano che quell'esplosivo doveva avere parecchi anni. Probabilmente era lì dall'epoca in cui i cospiratori praticavano l'attentato politico. Ormai accantonato, di certo il tempo e l'umido l'avevano reso inservibile. Altrimenti, quelli là non ci si sarebbero seduti sopra, e con le lampade a petrolio così vicine per giunta, alcune addirittura poggiate sopra. Tutti cinti da un grembiule di cuoio nero, portavano lunghi guanti dello stesso colore ed erano rivolti verso un personaggio che sembrava il capo, o
almeno l'oratore principale. L'ex capitano non riusciva a vederlo bene in faccia, sia per la distanza che per il bavero, alzato fino alle orecchie, del lungo soprabito che quello indossava. Un feltro nero a tesa larga, ben calcato in testa, completava il quadro. Nel muoversi, però, ogni tanto offriva alla vista dell'ex capitano una porzione di volto e quel che si vedeva era oltremodo sgradevole: un intrico di rughe, pieghe e pelle floscia di colore giallastro, come se quel personaggio fosse affetto da una ributtante malattia. Doveva essere molto anziano, a giudicare dalla lentezza faticosa dei gesti e dalla schiena incurvata. Parlava con voce asmatica, sibilando le esse più del normale. Tuttavia il suo tono era autorevole, e anche gli altri sembravano pendere dalle sue labbra. L'ex capitano arrivò proprio nell'istante in cui il misterioso capo stava chiedendo a uno dei presenti di alzarsi in piedi e di avvicinarsi. Quando quest'ultimo fu a tre passi dal capo, questi estrasse dalla tasca del soprabito qualcosa di piatto e quadrato. Poi lo aprì lentamente e l'ex capitano si accorse che si trattava di una tela. Venne aperta davanti a colui che stava in piedi. C'erano disegnati sopra, con vari colori, dei simboli. L'ex capitano riconobbe una scala, una corona di spine, una croce, il cielo stellato, il fuoco. Gli altri disegni non riuscì a distinguerli. Notò che i colori usati erano solo tre, il nero, il rosso e il blu. «Caro Cugino» disse a quel punto la voce sibilante. «Qui siamo tutti Maestri e anche voi lo siete. Dunque, sapete benissimo che cosa sia questo.» L'altro fece segno di sì con il capo. «Quando foste ricevuto nel grado di Apprendista vi furono mostrati questi simboli e ve ne fu data spiegazione. Vorreste rammentarne il significato a noi tutti? Non vi sembri un esercizio inutile, dal momento che scire est retinere, come dicevano i nostri padri. Sapere è ricordare. E noi ci riuniamo qui proprio per questo. Procedete, dunque, vi prego.» L'altro si voltò a destra e sinistra, apparentemente imbarazzato. Ma da quel che vide sulle facce degli astanti dovette trarre stimolo per ubbidire; infatti, dopo qualche esitazione, si schiarì la voce e cominciò con tono quasi cantilenante. «La Terra rappresenta l'estensione della presenza dei Buoni Cugini. La Croce indica che si perviene alla Virtù solo attraverso grandi travagli a esempio di Gesù, Maestro dell'Universo, che per mezzo di essa ci ha avvicinati al Cielo. La Corona di Spine fa capire che i Buoni Cugini non devono avere pensieri contrari alla Virtù. Il Filo si riferisce alla catena mistica
che lega i Buoni Cugini.» Qui si fermò un attimo, forse sforzandosi di ricordare. Ma riprese quasi subito la declamazione. «Il Sale rammenta che si deve impedire la corruzione cagionata dal vizio. La Legna sono gli individui che compongono il nostro Ordine. L'Acqua, purificandoci, ci rende accetti al Gran Maestro dell'Universo. Il Fuoco indica che il cuore dei Buoni Cugini deve essere sempre infiammato per la Causa. I tre colori usati sono le insegne dei Buoni Cugini: il nero la fede cieca, il blu la speranza, il rosso la carità vicendevole...» «Bene» lo interruppe il capo. «Direi che può bastare.» L'ex capitano ascoltava senza il minimo interesse. Aspettava solo il momento opportuno per rivelarsi e farsi dare notizie di suo fratello. Li avrebbe minacciati, se necessario, anche a mano armata. Tastò la tasca in cui aveva la pistola. Si piantò bene sui piedi e aderì il più possibile al muro. Da un istante all'altro avrebbe agito. Intanto, giù in basso la fine della recita era stata accolta da un moderato applauso, che il capo interruppe alzando una mano. «Vorreste adesso, a nostro beneficio, edificarci richiamando quel che vi fu detto quando diveniste Maestro?» L'altro, che ormai aveva acquistato sicurezza, fu sollecito nel rispondere. «La spiegazione dei simboli è differente. La Croce serve a issare il Tiranno. Con le Spine gli si trafiggerà il capo. Il Filo è la fune che lo deve condurre al patibolo. L'Accetta gli taglierà la testa, di cui il Sale impedirà la corruzione a memoria ed eterna infamia dei Despoti. La Pertica servirà per inalberare il teschio del Tiranno. Il Fuoco brucerà il suo corpo. La Pala spargerà al vento le sue ceneri. L'Acqua ci purificherà del suo sangue impuro...» Di nuovo il capo alzò la mano per interrompere la filastrocca e ancora si levò il breve battimani. L'ex capitano decise che era ora di dare il via a ciò che aveva in mente e si aggiustò bene il fazzoletto sul naso. Ma un subitaneo gesto del capo, giù in basso, lo fermò. Quello, infatti, con una mossa repentina fece spuntare nella sua mano destra un lungo pugnale la cui lama scintillò alla luce delle lampade. L'uomo in piedi davanti a lui ebbe un sussulto di sorpresa e istintivamente fece un passo indietro. Ma l'altro usò il pugnale per indicare un punto sulla tela. «È necessario, Buon Cugino, che diciate, ora, cosa rappresenta questo
segno» sibilò melliflua la voce del capo. L'ex capitano, colto anch'egli di sorpresa, aguzzò la vista e riuscì a cogliere un cuore sanguinante. C'era una vaga apprensione, questa volta, nel tono con cui l'uomo in piedi rispose. «Ricorda il giuramento di essere disposti a farsi strappare il cuore dal petto piuttosto che rivelare i segreti del grado di Maestro.» Il capo fece un passo in avanti e di colpo si portò alla luce di una lampada che gli illuminò il viso. Le rughe e le pieghe si rivelarono nient'altro che una maschera, un'orrida maschera che sembrava ricavata da un grosso volatile scuoiato. Al posto della bocca c'era un lungo taglio dai bordi grinzosi. Gli occhi erano solo due buchi neri. L'ex capitano si arrestò interdetto, frenato dal colpo di scena e dalla curiosità. L'uomo con la maschera avvicinò il volto a quello di chi gli stava davanti e gli soffiò in faccia: «Hai l'inaudito onore di pagare il tuo debito per mano di Nubius in persona». E con un solo fulmineo gesto gli squarciò la gola. Tutti balzarono in piedi, inorriditi e un alto brusio si levò sotto la volta di mattoni. L'uomo ferito a morte si portò una mano al collo nel vano tentativo di tamponare il sangue che schizzava a fiotti. Barcollò e fece qualche passo indietro, mentre gli altri d'istinto si scostavano. Annaspò, cadde in ginocchio, tagliò più volte l'aria con una mano e infine stramazzò supino. Solo in quell'istante l'ex capitano poté vederne il viso. Era suo fratello. Un urlo di raccapriccio misto a furore uscì spontaneo dalla bocca dell'ex capitano, così roco e forte da rimbombare nella sala sottostante. Tutti si voltarono verso di lui e l'uomo con la maschera fu il primo a riaversi dalla sorpresa. «Una spia! Prendetelo! Prendetelo!» gridò, e non smise di abbaiare l'ordine finché i presenti non lo eseguirono. Questi, colti alla sprovvista, persero preziosi istanti prima di mettersi a correre in direzione della scala che portava al cunicolo e all'intruso. L'ex capitano, incerto se precipitarsi verso il fratello esanime o scappare, faceva un passo avanti e uno indietro singhiozzando e agitandosi in modo sconnesso. Si strappò il fazzoletto dalla faccia per respirare meglio, gettò via il cap-
pello, cercò di prendere la pistola. Quelli già saltavano due a due i gradini, mentre l'uomo con la maschera continuava a incitarli con il suo «Prendetelo! Prendetelo! Prendetelo!» urlato a tutti polmoni. Lacerandosi la tasca l'ex capitano finalmente riuscì a estrarre la pistola ma la presa malferma e la concitazione gli giocarono un brutto tiro. L'arma gli sgusciò dalle mani e finì per terra, sui primi gradini della scala, proprio sotto il naso dei primi arrivati. L'impatto con la pietra fece partire un colpo e quel colpo andò a centrare una delle casse appoggiate alla parete. Evidentemente, gli anni e l'umidità non erano stati sufficienti. Per un attimo si videro corpi e brandelli di corpi volare in ogni direzione, poi il fumo nascose la scena alla vista dell'ex capitano. Lo spostamento d'aria lo spinse indietro nel cunicolo per diversi metri, facendogli sbattere la testa contro un muro. Si rialzò intontito mentre nella sala i mattoni cominciavano a cadere. Prima uno, poi cinque, poi cento, poi tutti, in un fragore spaventoso. Quando una densa nuvola di polvere rossiccia si infilò nel cunicolo e cominciò a intasarlo l'ex capitano comprese che doveva correre se non voleva rimanere soffocato. Corse, dapprima incerto, poi di gran carriera e infine disperatamente, mentre la nuvola rossa lo tallonava sempre più vicina. Raggiunse le scale, che risalì aiutandosi con le mani, come una scimmia. Sembravano non finire mai, rampa dopo rampa. Alla fine, come Dio volle, riemerse nel vicolo e chiuse il tombino appena in tempo: la gente si era riversata davanti alla chiesa, molti erano in camicia da notte. C'era chi gridava al terremoto e chi all'eruzione del Vesuvio. Qualcuno era sceso in strada portandosi dietro il materasso, qualcun altro invocava a gran voce san Gennaro. Nella confusione, gli abiti in disordine e impolverati dell'ex capitano passarono inosservati. Egli poté, così, tornare in tutta fretta a casa sua. Qui si gettò sul letto e passò la notte a piangere. Dopo tanto tempo aveva finalmente trovato suo fratello. Ma solo per vederselo sgozzare come una bestia sotto gli occhi. Non seppe mai perché fosse tornato senza farlo sapere a lui e dopo aver lasciato che i genitori morissero senza aver più avuto sue notizie. Non seppe mai nemmeno quali segreti della setta avesse rivelato per meritare una simile fine. Gli piaceva pensare che forse suo fratello aveva avu-
to un ripensamento e che, prima di mettersi a cercare quel che restava della sua famiglia, avesse voluto regolare le sue pendenze con gli antichi compagni di congiura. Forse, il giuramento che aveva tradito e per cui era stato così malignamente giustiziato era il suo modo per rimettersi in pari con la coscienza, chissà. Se le cose stavano così, suo fratello aveva pagato i suoi debiti con Dio e con gli uomini, e adesso riposava in pace laggiù, sepolto per sempre con i suoi carnefici come Sansone e i Filistei, sotto una valanga di pietre e mattoni. Solo dopo anni, quando l'ex capitano era sacerdote da un pezzo venne per puro caso a conoscenza di alcune notizie riguardanti il tempo in cui suo fratello era stato in America. Un fedele, tornato dagli Stati Uniti dove aveva militato nell'esercito, rivelò durante la confessione di essere fuggito dall'Italia per sottrarsi alla polizia, che lo cercava a causa di certe sue frequentazioni carbonare. Il prete incalzò con le domande e, senza dire nulla del suo legame di parentela, chiese se per caso l'uomo avesse sentito parlare di un giovane così e cosà. Quello rispose che in effetti aveva conosciuto un emigrato italiano che assomigliava molto alla descrizione. Il nome, tuttavia, non gli diceva molto perché certi italiani usavano americanizzare il loro o addirittura cambiarlo. Gli esuli politici specialmente. Questi ultimi venivano accolti con un certo fastidio dal governo americano, il quale finiva di solito per arruolarli nell'esercito e mandarli in qualche avamposto dell'Ovest contro gli indiani. Lui stesso aveva rivestito il grado di sergente nel Sesto Cavalleria, dove aveva avuto modo di vedere due o tre volte un portaordini di origine italiana e di scambiare con lui qualche parola alla mensa. Una certa reticenza di costui sul proprio passato l'aveva indotto a provare con il gesto di riconoscimento carbonaro. Il portaordini aveva reagito con una smorfia indispettita. Al che l'uomo aveva capito che quello era stato, sì, carbonaro ma che preferiva troncare subito l'argomento. Poi il portaordini era montato a cavallo e non lo aveva più rivisto. Comunque, l'età e l'aspetto, a parte un paio di baffoni, erano quelli descritti dal confessore. Ma come mai questi era interessato a quella persona? Era un suo amico? Il prete rispose evasivamente, ringraziò e impartì una veloce assoluzione, scusandosi per un impegno di cui si era ricordato e che lo costringeva ad abbandonare il confessionale.
Uscì quasi correndo dalla chiesa con un groppo alla gola. E fu tutto. Il cocchiere Alicante aveva ascoltato il racconto a bocca aperta e adesso che era finito non si risolveva a chiuderla. Monsignor Pascale aveva parlato per tutto il tempo con tono pacato, come se stesse narrando fatti accaduti a un'altra persona. Adesso c'era silenzio, un silenzio disturbato solo dall'esile scroscio d'acqua che scendeva sul piatto posato nell'acquaio. L'anziano sacerdote andò a chiudere il rubinetto facendo cigolare la rotella e il silenzio divenne assoluto. «Ma questo Nubius è ancora vivo?» chiese Alicante quando finalmente si ricordò di avere una voce. Pronunciò le ultime tre parole abbassando il volume perché le prime erano risuonate come un urlo, in quel silenzio. Pascale si strinse nelle spalle. «E che ne so? Come ho detto, se le cose stanno così dovrebbe avere più di cento anni! Ma no, non può essere. È rimasto là sotto, da' retta. E poi abbiamo solo "BI" e "US"; la "N" e l'altra "U" le ho supposte io.» «È vero, però nella scritta "Immortale odium et numquam sanabile vulnus" la "N" e l'altra "U" ci stanno, e sono pure insieme, "NU". Voi, monsignore, tendete a sottovalutare per umiltà il vostro intuito. Ma io resto persuaso che ho fatto bene a venire a disturbarvi ancora. Infatti, giusta o sbagliata, una risposta l'avevate. Nubius. Ed è sempre mille volte di più di quel che sapevo io prima. Ora però mi dovete levare una curiosità. Se, e dico se, fosse davvero ancora vivo questo malamente, questa schifezza d'uomo, questo assassino e cospiratore che non è altro...» «Vuoi sapere se ardo dalla voglia di vendetta?» lo interruppe Pascale sorridendo. «'Aitani', già io sono troppo vecchio per queste cose. Lui, poi, sarebbe ancora più vecchio, stravecchio, vecchissimo!» Scosse la testa. «'Aitani', tieni quasi i capelli grigi ma hai ancora tanto da imparare. Io sono il tuo direttore spirituale e vedo che la tua formazione è lontana dall'essere completa. 'Aitani', io sono un prete. E pure tu lo sei. Mia è la vendetta, dice il Signore; non lo sapevi? Dimmi un po' che prete sarei se fossi vissuto di odio in tutti questi anni! Figurarsi! Ma poi, parliamoci chiaro: quale miserabile soddisfazione ricaverei dal togliere qualche giorno di vita a uno che ne ha ancora così pochi? Per sfogare un rancore covato per decenni mi
giocherei la salvezza eterna e, per giunta, non credo che farei un gran dispetto alla mia eventuale vittima. No, caro mio, la pace del cuore è un bene troppo grande per giocarselo così. La giustizia, quella vera, quella che veramente rimette a posto ogni cosa e ripara i torti, non è di questo mondo ma dell'altro. E se non ci crediamo per primi noi preti, chi ci crederà? Se non ci crediamo noi, che cosa andiamo predicando? Datti pace, figlio mio, che se non conservi e custodisci il giusto distacco di cuore non concluderai mai niente di buono. Nemmeno nell'affare che stai trattando.» Alicante, mortificato, abbassò la testa. In effetti, il racconto gli aveva fatto bollire il sangue e il pensiero che quel Nubius fosse ancora vivo aveva il potere di mandarlo in bestia. Tuttavia, i ragionamenti di monsignor Pascale non facevano una grinza, soprattutto quelli riguardanti la vocazione sacerdotale. Mentre il vecchio monsignore parlava aveva sentito l'ira sciogliersi e mutarsi lentamente in una sensazione di serenità. L'uomo che gli stava davanti aveva la straordinaria capacità di infondere pace; segno che Cristo, re di pace, era con lui. Affidargli l'anima era stata la migliore cosa che lui, don Alicante, avesse mai fatto. Senza considerare che i carismi di monsignor Pascale, profezia, scrutazione delle coscienze, discernimento e chissà che altro, gli avevano risolto più di un cruccio. E anche nel caso delle medaglie: senza di lui, sarebbe dovuto tornare dal cardinale con la coda tra le gambe e un pugno di mosche in mano. «Insomma, questo Nubius è, o era, il capintesta di tutta la Carboneria?» chiese, riportandosi sul problema dell'ora presente. «E chi può dirlo con certezza? A quel giovane ex capitano di cui ti dicevo era sembrato di sì. Per quel poco che gli fu dato di sentire e vedere.» «Voi che dite?» insisté Alicante, inclinando la testa. «Se ti riferisci a quello che tu chiami il mio carisma, sappi che non ci posso contare nemmeno io. A volte ho delle intuizioni, non lo nego, ma altrettante volte il mio angelo custode mi lascia senza consiglio. Eh, anche lui deve fare la volontà di Dio! Ma, guaglio', ora che ci penso, tu pure hai un angelo custode! Rivolgiti a lui, cosa vuoi da me?» rise Pascale. «Quello mio, su questa vicenda mi ha consigliato di venire da voi, monsigno'!» allargò le braccia Alicante. «Sì, sì, fai pure lo spiritoso! Mi spiace, 'Aitani', ma non so proprio cos'altro dirti. Se le lettere lucide nelle medaglie danno effettivamente la parola Nubius, ebbene, puoi dire di essere a metà dell'opera o quasi. Non ti pare?»
«Che volete dire?» «Giovanotto, ma ti rendi conto di quante cose hai saputo? E in pochi giorni! «Una: sai che c'è una congrega di cospiratori che si fanno chiamare Calderari. «Due: sai che la vendetta sui possessori di medaglie "Immortale odium" è soltanto una parte del loro piano, una parte pure secondaria e del tutto trascurabile, visto che l'hanno praticamente accantonata con l'attentato al ministro. «Tre: sai che hanno intenzione di provocare una guerra su scala continentale e che ritengono di non dover indugiare ulteriormente. «Quattro: sai che il fallito agguato al ministro li ha bloccati, almeno per il momento. «Cinque: sai che molto probabilmente c'è qualcun altro che sta approfittando del complotto per rastrellare alcune tra quelle medaglie. «Sei: sai che, se davvero il messaggio nascosto fosse "Nubius", le medaglie che costui o costoro cercano sono solo tre. «Sette: sai che, di queste tre, una l'ha il ministro e una il cardinale. «Otto: sai che costui o costoro non sanno se la medaglia del ministro ha le lettere lucide, mentre tu, al contrario, lo sai e, nove, sai anche quali sono queste lettere. «Dieci: sai che molto probabilmente la parola cercata è "Nubius", e lo sai solo tu. Guaglio', ho finito le dita! Continua tu con le tue, va'!» Alicante si era andato illuminando man mano che monsignor Pascale andava avanti. «Giusto!» esclamò. «Avete ragione! In effetti, possiamo registrare un leggero vantaggio su quelli là! Noi conosciamo la parola che qualche Calderaro, chissà chi, sta ancora cercando! Vuoi vedere che le lettere "NU" sono lucide nella medaglia che era sul cadavere nel sarcofago e che non trovavano più?» «Ricordati però che il "NU" è solo una mia supposizione!» «Già, ma una supposizione fondata, stando a quel che mi avete raccontato. Resta da capire perché questo nome sia così importante per quelli che lo cercano. Cosa suggerite?» «Be', innanzitutto che non puoi restare con le mani in mano. I Calderari hanno fallito l'attentato alla vita del ministro, che era la loro ultima carta. Qualcosa bisogna fare prima che ne inventino un'altra.» «Troppo giusto.» Alicante si alzò in piedi e subito piegò il ginocchio de-
stro fino a terra. «Adesso beneditemi, monsignore. Dopo le pistolettate dell'ultima volta, credo di aver bisogno di un supplemento di protezione celeste. La vostra raccomandazione presso il Padreterno, prego!» L'anziano sacerdote gli tracciò con il pollice un segno di croce sulla fronte, poi gli posò una mano sul capo e disse: «La Vergine benedetta ti tenga sempre le mani sulla testa e ti guardi». Alicante si rialzò e i due si accomiatarono con un abbraccio baciandosi sulle guance. «Andiamo, commissa', che si freddano!» disse Alicante, accennando con il mento al piatto di spaghetti che Ribaudo aveva sotto il naso. «Eh? Ah, sì, certo» rispose il commissario, uscendo dai suoi pensieri e tornando ad arrotolare la forchetta. Lui e don Nicola avevano atteso il ritorno di don Gaetano nell'appartamentino del giovane prete, e quest'ultimo si era dato da fare con acqua, pentola e pasta, magnificando la delizia che di lì a poco sarebbero andati a gustare: spaghetti con aglio e olio, la sua specialità. Che poi, parlando parlando, si scoprì che era l'unica cosa che sapeva fare in cucina, dal momento che quasi ogni giorno che Dio mandava in terra mangiava dalle suore, e quelle sì che ci sapevano fare con i fornelli. Per tutto il tempo, agitandosi con mestolo, sale e fiammiferi, don Nicola non aveva smesso di parlare quasi neppure per prendere fiato, chiacchierando fitto come una comare e stordendo il commissario con una inaudita fila di banalità. Ribaudo comprese che il giovane prete cercava in quel modo di darsi coraggio e di distrarsi da quel che andava sospettando con apprensione crescente. Cioè, che tutti e tre sarebbero dovuti tornare in quella dannatissima villa. Il commissario, mentre faceva la faccia interessata e fingeva di seguire con attenzione gli sproloqui di don Nicola, ci stava effettivamente pensando, anche se nemmeno a lui l'idea sorrideva granché. Solo che, per quanto si scervellasse, non riusciva a trovare una linea d'azione diversa. Certo, non sapeva esattamente cosa fare una volta laggiù, ma non gli veniva in mente altro. Là si erano riuniti i congiurati e sicuramente doveva essere il loro covo abituale. Da quel che aveva sentito da dietro il falso camino, alcuni di loro, forse molti, venivano da varie parti d'Italia e non poteva credere che fossero già tornati ai rispettivi luoghi d'origine. Troppo poco tempo era passato. E poi l'inseguimento in carrozza, il tentativo di omicidio del ministro... No, c'erano motivi per ritenere che tutti fossero
rimasti nei paraggi, pronti per la mossa finale. Quest'ultima, del resto, era stata eseguita la sera prima ed era abortita. Dunque, o ne avevano una di riserva o stavano pensando a qualcos'altro per rimediare. Doveva essere stata la scoperta di tre spie e il fallito successivo inseguimento a far precipitare gli eventi e a convincerli a giocarsi subito la carta del ministro. E anche questa era andata male. Ribaudo cercava di immaginare come avrebbe agito a quel punto nei loro panni. Anzi, non aveva fatto altro dalla notte avanti. In treno, però, il sonno e la stanchezza lo avevano vinto e solo il bigliettaio che percorreva gli scompartimenti gridando «Napoli!» lo aveva svegliato. E poi l'incontro con il cardinale, e la stravagante necessità di don Alicante di consultarsi con quello che chiamava il suo direttore spirituale. Per il commissario, scettico e nutrito dell'anticlericalismo che si respirava in loggia e in caserma, erano stupidaggini di preti, roba di due secoli addietro. Tuttavia, era sufficientemente realista da prendere le cose come venivano, e la sorte aveva voluto fornirgli proprio quei due alleati. Lo stesso ministro, del resto, aveva accettato la cosa con la massima serietà. In quell'indagine, per pura coincidenza, l'interesse dello Stato era il medesimo della Chiesa. Entrambe le istituzioni, pur silenziosamente ostili, non potevano correre il rischio di uno scontro aperto le cui conseguenze sarebbero state nefaste, sia pure in modo differente, per tutte e due. Dunque, tacita collaborazione. L'uno e l'altra avevano messo in campo i loro uomini migliori e questi per puro caso si erano incontrati. Avrebbero potuto anche mettersi gli uni gli altri i bastoni tra le ruote per odio ideologico, ma così non era stato. Anzi, si era creato tra loro un certo affiatamento in modo del tutto naturale. Così, Ribaudo era stato in grado di esaminare le medaglie in possesso del cardinale, cosa che non avrebbe potuto fare se avesse indagato sempre da solo. Perciò, sopportare la perdita di tempo cagionata da Alicante con la sua ostinazione di voler parlare con quel monsignore era un fastidio accettabile. Forse, molto più delle chiacchiere a vuoto di quel grammofono incantato di don Nicola. D'un tratto, inatteso, lo assalì il pensiero di Louise, o come diavolo si chiamava adesso. Rivide con gli occhi della mente quella figuretta armoniosa e dolcissima, la giovane donna che, pur incontrata una sola volta, era stata capace di portargli via il cuore. Si sentì di colpo l'uomo più sfortunato del mondo. Non aveva mai, in vi-
ta sua, pensato in modo così serio all'amore, ed ecco che l'oggetto del suo sogno in poche ore era diventato qualcosa di completamente diverso, un nemico. Si diede dell'imbecille per essere stato capace di quasi perdere la testa per una cospiratrice, complice di assassini e di complotti. Peccato, mille volte peccato. Una pena infinita gli scese nell'anima e finì con il ringraziare la grottesca distrazione che proprio in quell'istante don Nicola gli stava mettendo sotto il naso. Una forchetta, con arrotolato uno spaghetto fumante. Ci fu un momento di imbarazzo, con il prete che tendeva invitante la posata e il commissario che non capiva cosa si volesse da lui. «Assaggiate, suvvia! Sappiatemi dire se è cotta a sufficienza e se va bene di sale.» Ribaudo, distolto dalle sue malinconie d'amore da un filo di pasta, finalmente comprese e appoggiò le labbra alla forchetta, subito ritraendole scottate. «Sì, sì, va bene, va benissimo!» farfugliò, mandando mentalmente a quel paese l'importuno don Nicola e la sua arte culinaria. Giusto in quell'istante la porta si aprì ed entrò don Gaetano. I due gli si fecero subito vicini, ansiosi di ascoltare le sue nuove. Ma quello disse «Ih, che buon odore! Ah, sono proprio affamato!» fregandosi le mani. E non ci fu modo di cavargli alcunché fino a quando non furono seduti a tavola. Due generose forchettate, una sorsata di vino e finalmente si decise. Vuotò completamente il sacco senza tralasciare il minimo particolare, aiutandosi anche con la mimica. Ribaudo si ritrovò a pensare che un napoletano che raccontava non aveva rivali nella penisola; seguendo le espressioni della faccia e i gesti si aveva davvero l'impressione di stare a teatro. Infatti, quando Alicante ebbe finito, nessuno gli pose domande perché tutto era stato esposto fino al dettaglio. Ribaudo rimase pensieroso, rigirando senza fine la forchetta tra le dita e fissando il vuoto davanti a sé. Alicante, reso quasi allegro dal cibo e dal vino, lo incoraggiò a finire i suoi spaghetti, anche perché - aggiunse ridendo - o quelli o nisba. Il commissario obbedì meccanicamente, continuando a riflettere. Poi, pulendosi la bocca, disse calmo: «Dobbiamo tornare là». «Ancora!» saltò su don Nicola. «Ancora» confermò il commissario. «Ma come, così, a stomaco pieno?» insisté don Nicola, quasi a rimediare
il suo scatto di prima e per mascherare in qualche modo il panico. Alicante gli mise una mano sulla spalla. «Il lavoro non è finito, Nico'. Ma se vuoi restare qui ad aspettarci, non sei obbligato a venire. Lo sai, vero?» gli disse, paterno. Don Nicola arrossì violentemente, vergognandosi come un ladro. «Ci mancherebbe! Dicevo così, per dire!» protestò. «Tranquillizzatevi, don Esposito» intervenne Ribaudo. «Questa volta non andremo soli. Ho l'autorità per ottenere un distaccamento di forza pubblica e credo che sia venuto il momento di esercitarla. Adesso beviamoci il caffè, poi andiamo alla locale caserma e ci facciamo dare tutti gli uomini disponibili. Non saranno moltissimi, temo, perché non si può mobilitare sui due piedi una forza ingente, ma non c'è tempo per fare di più. Dobbiamo battere la pista mentre è ancora calda. Detto più chiaramente, ho paura che gli avvoltoi siano già scappati e che nel nido ci sia rimasto poco. Un giorno ancora e non troveremo più niente.» Mentre Ribaudo si recava al comando di polizia, i due preti andarono in chiesa a pregare per la buona riuscita dell'impresa. Don Gaetano, da parte sua, chiese alla Madonna soprattutto lume e consiglio riguardo al suo discepolo e figlioccio, del quale sentiva tutta la responsabilità. Ogni tanto, infatti, tornava a chiedersi se faceva bene a coinvolgerlo nelle sue avventure, in cui non di rado il limite tra il compito di un sacerdote e quello di un giustiziere manesco era abbondantemente superato. Don Gaetano si domandava se per caso non stesse dando sfogo a una paternità negata dal suo voto sacerdotale. Era come se cercasse di "trasmettere il mestiere" a un figlio, in modo che quest'ultimo fosse un giorno in grado di ereditare il ruolo del padre. Ne aveva il diritto? Così facendo, condannava anche don Nicola alla mezza emarginazione di cui soffriva lui tra il clero della diocesi. Sì, perché lui era sempre tentato - e non riusciva mai a resistere alla tentazione - di ricorrere ai mezzi spicci per risolvere situazioni che, magari, un buon prete avrebbe affidato alla Provvidenza tramite il digiuno, la mortificazione e la preghiera. Ma ognuno ha il temperamento che ha e lui era un uomo d'azione in tonaca. Quando si profilava un fatto che richiedeva, per una rapida soluzione, il menar le mani, egli ci provava, sì, a frenarsi, a costringersi in ginocchio per fare intervenire il Signore al posto suo. Ma ogni volta il corpo era lì, inginocchiato davanti al tabernacolo, con le mani giunte e gli occhi
chiusi, mentre la mente era altrove e finiva per trasmettere al corpo genuflesso un fremito di incontenibile impazienza. Posso spicciare questa faccenda con un paio di sberle ben assestate, si diceva in quelle circostanze; d'altra parte, dare una lezione ai peccatori ostinati non era tra i doveri del buon cristiano? Già, però Nostro Signore Gesù Cristo, si diceva subito dopo, pur potendo atterrare con un soffio i cattivi preferì subire. Giusto, ma Lui era Dio, si ribatteva da solo, e io no. In breve, questo tipo di battaglie interiori gli faceva venire un gran mal di testa. E, per non finire ossessionato dagli scrupoli, si alzava e andava a risolvere a mano le questioni. Ormai si riteneva irrecuperabile: ognuno ha il temperamento che ha; se Dio l'avesse voluto agnello non l'avrebbe fatto cane lupo. E via giustificando. Ora, lui s'era rassegnato a prendersi così com'era. Ma don Nicola: non era per caso che stesse cercando di farlo diventare come lui? Certo, don Nicola aveva un'altra indole; ma questa non era poi così distante dalla sua. Il giovane prete aveva sempre guardato a lui come a un modello, fin da quando l'aveva preso sotto la sua ala. Cioè, fin da bambino. E poi, ma sì, don Gaetano era convinto che un prete non dovesse essere uno smidollato, uno di quei colli torti che vedeva abbondare nel clero, tutti devozione e mormorazione, fervore e mellifluità curiale, insufficienza toracica e pavidità. Dunque, era giusto insegnare al suo figlioccio a tenere la schiena dritta e a non avere paura di niente. Il coraggio morale non escludeva quello fisico; anzi, lo presupponeva. Il Signore Gesù era un vigoroso trentenne che prendeva a calci nel sedere, da solo, i mercanti del Tempio. Solo per uno scopo superno aveva accettato il martirio. E, per la miseria, fino a quando a don Gaetano non ne fosse stato rivelato uno analogo, egli avrebbe imitato il Divino Modello distribuendo ceffoni ai figli di buona donna, e insegnato al suo discepolo a fare lo stesso. Anche se ciò dovesse costare pure a lui le maldicenze pretesche e lo sfavore del suo vescovo. Il quale vescovo, però, quando c'era da cavare patate bollenti dal fuoco mica si rivolgeva ai suoi pretini baciamano, no! Ricorreva a don Alicante, ricorreva! Solo a quel punto don Gaetano si accorse che don Nicola lo stava guardando meravigliato. Travolto da un crescendo di pensieri aveva preso a picchiarsi sul petto con il pollice. Don Gaetano si ricompose e assunse un'espressione tranquilizzante. Poi, non riuscendo più a star fermo, si alzò, uscì dal banco, posò un ginocchio a
terra e si fece un gran segno di croce, si rialzò e uscì di chiesa, subito imitato da don Nicola. Con il commissario si erano dati appuntamento al posteggio delle carrozze. Cercarono il solito cocchiere, il quale al vederli si illuminò e li salutò da lontano con grandi gesti. «Ohè, signori!» esclamò quando si furono avvicinati. «Vi devo dire una cosa. Ieri mi sono preso paura, sì, che ancora tremo tutto al pensiero. Mamma del Carmine, che avventura! Però qui sto, vedete? A disposizione! Comandatemi e vi porto pure a casa del diavolo, parola mia! Il commissario? Viene? Io sono agli ordini!» Alicante bloccò quell'alluvione di parole alzando una mano. «Avete fatto parola con qualcuno di quanto è successo?» chiese perentorio e severo. «No, vi giuro! Beato san Gennaro, che mi possa ciecare! Io mò sono agli ordini della polizia, come ha detto ieri il commissario!» trasecolò quello, sbracciandosi. «Sì, sì. Benissimo. Mi raccomando, eh? A proposito, come vi chiamate?» «Califano Elpidio fu Aspreno, vettore di piazza, per servirvi!» si impettì il cocchiere. E si toccò con la destra tesa la falda del cilindro, imitando il saluto militare. Alicante notò il vistoso anello metallico che l'uomo portava al medio. «E che è, quel bullone?» domandò incuriosito, indicando il dito corrispondente nella sua mano. «Questo qui? Eh, che volete, viviamo in un mondo difficile, questi sono tempi poco raccomandabili! Signore mio, sapete, a volte capita qualche screanzato che prima si fa scarrozzare e poi vorrebbe andarsene fischiettando con le mani in tasca, indifferentemente. Ma qui nessuno è fesso, signornò, e io tengo famiglia. Anzi, no, non la tengo, ma fa lo stesso perché potrei tenerla e lui non lo sa. Così, se la vuol capire con le buone, va bene. Sennò, si passa alle cattive. Una volta, addirittura, ci sono stati tre che non solo volevano farmi scemo viaggiando a sbafo, ma pure l'incasso cercarono di pigliarsi, quei fetentoni! Era buio e io stavo da solo, che dovevo fare? Gli ho fatto passare la voglia di prendersela con un povero vetturino. Uno s'è portato pure un bel ricordo stampato sulla faccia!» rispose il cocchiere mostrando la mano con l'anello. Alicante lo guardò meglio. Poteva avere sui trent'anni e, stretto in quella specie di marsina a doppio petto che portava abbottonata fino al collo,
sembrava snello. Ma le mani, grandi e nervose, tradivano una vigoria che fino a quel momento Alicante non aveva notato. Aveva la faccia larga e cordiale, il naso schiacciato, la mascella prominente. Sulle guance malrasate correvano due lunghe basette, sagomate come quelle che portavano certi guappi e venivano chiamate in gergo "carogne". «Addirittura tre!» strabiliò Alicante mimando ammirazione. «Allora siete proprio forzuto!» L'uomo scese da cassetta con un sol balzo, andò al bauletto degli attrezzi, lo aprì e tirò fuori un chiodo da ferro di cavallo. Mostrò il chiodo ai due preti, poi se lo mise ostentatamente tra due dita della mano destra e lo piegò, digrignando i denti per lo sforzo. Questa volta Alicante rimase davvero ammirato, e così il suo figlioccio. Non aveva bisogno di guardare da vicino quel chiodo piegato per sapere che i chiodi da cavallo sono d'acciaio e hanno un diametro di tutto rispetto. Alicante, che pur era un uomo robusto, non sarebbe mai riuscito in un'impresa del genere. Trovò che gli piaceva, quel cocchiere, e che averlo al loro fianco era un bel dono, tanto gradito quanto inaspettato, di san Giuseppe carpentiere. In quel mentre sopraggiunse Ribaudo e fece segno ai due preti, con la testa, che tutto era a posto. Alicante gli indicò allegro il cocchiere: «Abbiamo fatto un buon acquisto, sapete? Vi presento... com'è che vi chiamate?». «Califano Elpidio fu Aspreno, per servirvi! Io e il cavallo siamo pronti. In carrozza, signori! Dove vi portiamo oggi?» «Andiamo verso i Ponti Rossi» rispose il commissario. «Quando saremo nei paraggi vi dirò che strada prendere. Sappiate però fin d'ora che c'è un'operazione di polizia in corso e che siete sempre sotto giuramento. Sono tuttavia autorizzato a dirvi che ci sarà una buona ricompensa per voi.» Il cocchiere fece la faccia di chi non sta nella pelle, sorrise rivelando la mancanza di un molare e aprì la portiera inchinandosi. Ritorno alla villa «Avete provveduto a circondare il poggio?» chiese Ribaudo all'uomo in borghese che era venuto ad aprirgli la portiera. «Sissignore» fu la risposta. «Io sono il brigadiere Comensoli. Gli uomini sono già appostati e hanno i loro ordini. Comandate, signor commissario.» Ribaudo scese e gli strinse brevemente la mano. Il sottufficiale era un tipo tarchiato, con due grandi baffi biondastri e la bombetta portata sulle
ventitré. «Quanti siete?» domandò. «Venti e tutti armati, secondo gli ordini che ho ricevuto dal commissario Pitruzzella.» «Vi siete dislocati con discrezione, come avevo raccomandato?» «Naturalmente, signor commissario. Siamo tutti in borghese e abbiamo utilizzato vetture di piazza, viaggiando in piccoli gruppi. Ogni carrozza è stata fatta fermare piuttosto distante, per non dare nell'occhio.» «Venti poliziotti non sono molti» osservò come parlando fra sé Ribaudo. «Il commissario Pitruzzella è dispiaciuto, ma così su due piedi non ha potuto fare di più. Se mi è permesso esprimere un'opinione personale, con almeno un giorno di anticipo avrei potuto radunare una squadra non solo più numerosa ma anche più scelta. Avendo solo un'ora a disposizione, l'alternativa era far ricorso alla truppa regolare, ma voi l'avete escluso.» «Infatti» confermò Ribaudo. «Per quanto possibile preferisco non coinvolgere l'esercito, almeno per il momento. Meno gente sa di questa storia, per ora, meglio è. Tra l'altro, detto tra me e voi, non si può escludere in linea di principio che ci siano Calderari anche fra i soldati. Ah, le Stanzulelle?» «Sono sorvegliate. Se ne dovesse uscire qualcuno, verrà seguito. Ho fatto tirare fuori il carro zingaro che usiamo in circostanze del genere. Ci sono sopra tre uomini travestiti. Sapete, lassù non ci va mai nessuno e anche gli escursionisti forestieri sono rari.» «Bene, allora, cominciamo. Vi dico come intendo procedere. Io e i miei due collaboratori entreremo nella villa. Voi, brigadiere, resterete qui, altrimenti l'accerchiamento dovrebbe far conto su un uomo in meno. Se c'è qualcuno nella villa, non deve sfuggire. A proposito, avete uno dei vostri fischietti di servizio da darmi?» Il brigadiere si frugò nella tasca della giacca. «Ecco qua.» «Bene. Allora, noi tre perquisiremo la villa da cima a fondo. In caso di bisogno fischierò e voi con gli uomini farete irruzione. Se non dovessimo trovare niente torneremo qui e insieme a voi e agli uomini eseguiremo una perquisizione molto più accurata, anche perché in tal caso potremo agire con tutto comodo. E magari ripercorrere quei famosi passaggi che sbucano alle Cento Stanzulelle. Va bene?» Il brigadiere annuì e istintivamente si tastò i fianchi per verificare se la pistola e le catenelle per ammanettare fossero al loro posto.
Ribaudo si voltò verso la carrozza e fece segno ai due preti che potevano scendere. Poi, dopo che furono a terra, si avvicinò al cocchiere seduto a cassetta e gli disse: «Califano, andate a portare la carrozza un po' più discosto, in modo che non si veda dalla villa. Poi tornate qua e fermatevi a chiacchierare con il brigadiere. Potremmo avere bisogno di voi e della vostra forza, che so erculea». Il cocchiere, inorgoglito, fece il saluto militare e schioccò la lingua per avviare il cavallo. «Pronti?» fece Ribaudo ai due preti quando la carrozza si fu allontanata. Quelli annuirono e il commissario procedette alle presentazioni con il brigadiere utilizzando solo i loro cognomi e omettendo ogni qualifica. Poi si incamminarono verso il viale d'accesso alla villa mentre il brigadiere restava lì ad accendersi una sigaretta. Attaccarono la lunga e tortuosa salita senza dire nulla. Il viale appariva assolutamente deserto e nel silenzio non si sentiva altro che il leggero scricchiolio delle scarpe. Il pomeriggio era luminoso e l'aria ferma. Una cicala prese a stridere poco lontano. Rari passeri planavano veloci davanti ai loro piedi per godere un po' del calore che si levava dal suolo prima di risalire rapidamente verso il cielo. Esposito camminava badando a non fare troppo rumore con i sassolini che le sue suole incontravano. Si accorse che la sosta in preghiera gli aveva fatto bene; infatti, molta della paura precedente se n'era andata. Molta, non tutta. Stranamente, uno scambio di battute con il suo padrino, in carrozza, aveva contribuito a trasformare in lui gran parte della paura in decisione e risolutezza. «Don Gaeta'» gli aveva detto a un certo punto, «ma noi due andiamo disarmati? Quelli sparano!» Alicante era scoppiato a ridere: «Giovano', noi siamo preti, sempre te lo scordi! E poi, quante volte in vita tua hai maneggiato un'arma?». «Mai» ammise don Nicola. «Perciò, anche se avessi una pistola, Dio non voglia che ti spari un piede. So che adesso mi dirai che io, invece, le armi le so adoperare. E io ti rispondo che proprio per questo non ne voglio sapere. Quando hai una pistola in mano, dai retta a me, finisce che la usi. Anche se non volevi. E, quando il colpo è partito, ti assicuro che, pure se hai mirato bene, non sai mai dove va a parare! A don Alicante gli manca solo un morto ammazzato sulla coscienza e poi è a posto. No, siamo preti e non possiamo uccidere.» «Sì, ma così moriamo noi!»
Alicante gli diede una gran pacca sulla spalla, ridendo: «Ih! E quanto vuoi campare, tu?». «Gesù, Giuseppe, sant'Anna e Maria!» esclamò don Nicola, battendo le mani e giungendole all'altezza del petto. «Cosa mi tocca sentire! Ma voi non avete considerazione per la vita del figlioccio vostro?» Questa volta Alicante si fece serio e, con un tono paterno che don Nicola non gli aveva mai sentito prima, disse: «Molto più di quanto pensi, credi a me. E adesso basta!» concluse, sempre serio, dandogli una botta con la mano aperta sulla testa. In quell'esatto momento don Nicola aveva sentito ogni timore abbandonarlo. E per tutto il resto del tragitto aveva elucubrato attorno al sospetto che quel «Basta!» e la manata fossero stati una forma rude e abbreviata di esorcismo. Un ordine, insomma, impartito con autorità sacerdotale e mano consacrata, al demone della paura che si era insinuato nella mente di don Nicola. Certo, le sue potevano essere solo fantasie, ma quel che contava era come si sentiva adesso. E adesso si sentiva molto meglio, più sicuro, più deciso, più, ma sì, fatalista. Quando tocca, tocca. Siamo nelle mani di Dio, sia fatta la Sua volontà come in cielo così in terra, amen. Don Nicola saliva con questi pensieri. E con gli occhi bene aperti si guardava attorno. In silenzio arrivarono al cospetto della facciata della villa. Tutto era immobile e all'apparenza abbandonato come quando l'avevano vista l'ultima e unica volta. Notarono che il portone in cima alla doppia rampa di scale era socchiuso. Ribaudo disse sottovoce che poteva essere rimasto così da quando ne erano usciti loro, ma non si sapeva mai. Perciò, era meglio girare intorno all'edificio per trovare un altro ingresso, qualcosa di più discreto. Ne trovarono più d'uno, in effetti, ma tutti chiusi. Avevano quasi completato il periplo quando don Nicola, di fronte a una porticina bassa, l'ultima, non seppe resistere all'impulso di provare a spingerla piano, con un dito. Con un cigolio che allarmò tutti e tre il battente girò di un mezzo palmo sui cardini. Attesero qualche secondo immobili, le orecchie tese e guardinghi, pronti a ogni sorpresa cagionata da quel rumore. Ribaudo impugnò la sua pistola. Ma non successe nulla. Allora don Gaetano afferrò con le due mani il bordo del battente e, mentre faceva forza verso i cardini, allo stesso tempo
spinse con grande cautela. Riuscì, in tal modo, a evitare cigolii. La luce illuminò un rettangolo di mattonelle decorate a foglie d'acacia e, più in là, l'inizio di una scala. Alicante fece cenno a don Nicola e questi tirò fuori la lampada, la accese e la passò al suo padrino. Entrarono uno dopo l'altro e, in fila, salirono su stretti gradini che conducevano a un locale molto ampio, striato dalle lame di luce solare che penetravano dalle fessure di grandi finestre chiuse. I piatti fasci luminosi che filtravano facendo danzare minuscoli granelli di polvere illuminavano costole di libri, tantissimi libri. Libri a destra e a sinistra, libri fino al soffitto, come poi mostrò la lampada. La stanza era senza dubbio la biblioteca della villa. Ma come mai i volumi fossero ancora al loro posto era un altro dei misteri di quella stravagante costruzione. Ribaudo inclinò la testa per leggere su qualche dorso. I titoli erano per lo più coperti dalla polvere ma molti dei nomi degli autori erano in oro e la luce, facendoli risplendere, li rendeva leggibili. Eberhardus a Ceraso, Didacus a Falcone, Christianus a Cornucopia. Nomi "templari", osservò il commissario. Già, in quella villa non ci si poteva aspettare altro. Di due non si vedeva il primo nome ma solo a Leone Resurgente e ab Aquila Imperiali. A quel punto Ribaudo non poté reprimere l'istinto di curiosare ulteriormente e passò un dito su uno dei dorsi più larghi. Militia Christi Templique Salomonici, c'era scritto. Ma era possibile che tutte quelle centinaia di volumi fossero così? Ribaudo non aveva mai visto niente di simile e non avrebbe immaginato che una collezione del genere potesse esistere. Per giunta, in una casa abbandonata. Ma che razza di posto era quello? Gli altri due, vedendolo così assorto e con la testa inclinata, si erano nel frattempo avvicinati e cercavano di leggere anche loro quel che, a quanto pareva, aveva colpito il commissario. Videro il libro e don Nicola sporse il mento e incurvò gli angoli della bocca verso il basso, nella smorfia cui di solito i napoletani fanno seguire un sonoro "Boh!". Don Gaetano roteò brevemente la mano, significando che quelle erano tutte fesserie. Il commissario a quel punto si distolse dai libri e si girò, imitato dagli altri, per riprendere l'esplorazione. Ma tutti e tre, ancora parzialmente chinati, sbatterono il naso su qualcosa di morbido e al contempo fermissimo. Non li avevano sentiti arrivare alle loro spalle e chissà da dove erano sbucati. Non ebbero nemmeno la possibilità di contarli perché immediatamente della stoffa nera circondò le loro teste e li piombò nel buio. Tutto
accadde in pochi attimi. Ribaudo avvertì un dolore acutissimo alla mano che impugnava la pistola. Istintivamente allentò la presa e sentì che l'arma gli veniva strappata via. Con l'altra mano cercò allora di raggiungere il fischietto che aveva in tasca, senza pensare che con la testa completamente coperta non avrebbe certo potuto soffiarci dentro. Subito le braccia gli furono torte dietro la schiena, procurandogli una fitta lancinante all'attaccatura delle spalle, mentre un laccio gli veniva a serrare alla gola il sacco nero che aveva sulla testa. Fu scaraventato bocconi per terra e un ginocchio gli calò sul collo, tenendolo fermo mentre veniva legato mani e piedi. Dai tonfi sul pavimento e dalle urla soffocate che sentiva attorno a lui comprese che la stessa cosa stava accadendo ai due preti, anche se aveva sperato che almeno loro fossero riusciti a sfuggire all'aggressione. Chiamò per nome i compagni e li sentì rispondergli vicinissimi. Così, seppero tutti e tre di trovarsi incappucciati, legati mani e piedi e immobilizzati a terra da chissà chi. Cercò allora di chiamare aiuto, subito imitato dagli altri due. Ma ebbero il tempo di urlare una sola sillaba. Subito furono messi a tacere da qualcosa che percepirono come grosse palle soffici, cacciate loro in bocca a forza assieme alla stoffa dei cappucci. Poi si sentirono sollevare di peso da un numero imprecisato di mani e si ritrovarono in posizione orizzontale, afferrati per le braccia e le gambe da almeno sei persone. Cercarono di divincolarsi e scalciare per quel che i legami consentivano, ma ottennero solo che si aggiungessero altre mani. Così, ridotti praticamente a salami, avvertirono che si stavano muovendo. Il commissario ebbe tutto il tempo di darsi mille volte dello stupido per non essersi fatto accompagnare dai venti poliziotti che circondavano la villa. Ma ebbe anche tutto il tempo di giustificarsi con se stesso. Se avessero fatto irruzione in ventitré, di certo non avrebbero trovato nessuno perché quelli dentro sarebbero scappati al solo sentirli arrivare. Infatti, la situazione in cui si trovava al momento dimostrava che quella villa era piena di passaggi segreti e chissà quali altre diavolerie. Proprio lui ne aveva visto uno, di passaggio, con trabocchetto annesso, dietro il camino della stanza con il pavimento a scacchi. Già, era una villa iniziatica, l'aveva detto lui stesso. Tornò dunque a darsi dell'imbecille. A conti fatti, forse sarebbe stato
meglio se fosse venuto da solo, almeno i due preti sarebbero stati in salvo. Continuarono tutti e tre a mugolare e agitarsi fino a quando non furono esausti e mezzo soffocati. Poi si rassegnarono e smisero uno dopo l'altro. Persero la nozione del tempo perché la marcia continuò a lungo. Ogni tanto le mani che li reggevano cambiavano, lo avvertivano dagli scossoni e dai diversi tipi di presa. Chissà, però, se erano sempre gli stessi portatori che mutavano posizione per non farsi venire i crampi o altri che a turno li sostituivano. I sobbalzi talvolta si facevano più accentuati e i tre si ritrovavano issati quasi verticalmente oppure inclinati in avanti con la testa più in basso dei piedi. Alicante ebbe anche l'impressione, dagli scatti quasi regolari che il suo corpo subiva, che stessero scendendo delle scale. A un certo punto avvertì pressioni al petto e alle ginocchia, e respiri affaticati vicino alle orecchie, come se fosse stato issato in spalla da quattro persone. Ma rinunciò presto a registrare questi cambiamenti, accontentandosi di occupare la mente con la preghiera. Fece voto alla Madonna di Montevergine di fare scalzo il giro del santuario omonimo se almeno don Nicola, che aveva coinvolto in quella faccenda, fosse potuto uscirne sano e salvo. Riguardo al commissario, be', raccomandò anche lui. Quanto a sé, si rimetteva totalmente nelle mani della Provvidenza e alla protezione di Maria Santissima. A un tratto avvertì un cambiamento nella temperatura. Dovevano essere usciti all'aperto. Ancora un poco e non udì più lo scalpiccio dei piedi ma tonfi sordi come se i suoi portatori stessero camminando sulla sabbia. Poi il passo della processione si fece incerto e gli scossoni aumentarono di intensità. Infine, un rumore familiare. Cercò, per quanto il cappuccio glielo consentisse, di tendere l'orecchio. Alla fine ne fu certo. Risacca. Il grido distante di un gabbiano. Il mare! Venne calato a terra in modo piuttosto brusco, sentì che il suo corpo urtava contro le pietre. Dai tonfi e dai gemiti capì che anche gli altri erano stati scaricati. Fu strattonato e messo seduto. Avvertì una fitta all'osso sacro, cercò di sistemarsi meglio. Armeggiarono con le corde che gli legavano le braccia dietro la schiena. Freddo gelido, improvviso, alle gambe.
Di nuovo. Sensazione di bagnato. Era l'onda che andava e veniva sui suoi polpacci. Di colpo non sentì più mani su di sé. Passi che si allontanavano, poi il silenzio, rotto solo dallo sciabordio dell'acqua. Attese. Niente. Mugolò con tutte le sue forze, sperando di sentire i compagni. Gli riposero, vicini, altri mugolii. Era probabile, pensò, che i loro aggressori se ne fossero andati lasciandoli lì. Lì, dove? Si concesse qualche secondo per riprendere fiato, poi cominciò a divincolarsi violentemente. Qualcosa lo tratteneva per i polsi. Li contorse finché non riuscì a tastare con le dita una corda tesa. Comprese. Avevano passato un'altra corda attorno a quella che gli stringeva le braccia e l'avevano fissata a qualcosa di immobile. Scalciando si spinse indietro fino a quando le sue mani incontrarono una superficie ruvida e fredda. Pietra squadrata, non sapeva dire quanto grande. Sotto le gambe, invece, aveva pietra scabra e irregolare. Cercò di oscillare a destra e a sinistra, ogni oscillazione più ampia della precedente. Smise, in attesa. Niente, nessuno provvedeva a fermarlo. Forse se ne erano davvero andati. Riprese con le oscillazioni, sempre più forti. A un certo punto batté la testa su qualcosa di puntuto alla sua destra. Si fece un male boia, ma fu contento. Se era una roccia tagliente, come sperava, forse sarebbe riuscito almeno a togliersi il cappuccio. Piegandosi al massimo cominciò a strofinarci contro la faccia, là dove c'era quel che gli tappava la bocca. Riuscì in poco tempo a far saltare via il maledetto tappo e poté finalmente aprire e chiudere le mascelle indolenzite, più volte. Poi, aiutandosi con i denti, cercò di forare il cappuccio. Sebbene ci fosse la stoffa in mezzo, a furia di strofinare i denti contro la pietra si procurò un taglio alle labbra. Ma continuò finché non produsse uno strappo. Graffiandosi il viso, le sopracciglia e il cuoio capelluto, in un quarto d'ora di lavoro si liberò gli occhi. Ah, grazie a Dio.
Ancora qualche contorsione e il cappuccio finì a brandelli. Alicante alzò la testa al cielo e respirò a pieni polmoni l'aria salmastra. In un attimo, volgendosi di qua e di là, vide la situazione. Don Nicola e Ribaudo erano alla sua sinistra. Tutti e tre erano seduti, assicurati con una corda a una specie di basso muro fatto da grandi blocchi di pietra connessi l'uno all'altro. Davanti a loro il mare. Stavano su scogli larghi e piatti, il flusso placido dell'onda copriva loro con regolarità le gambe. I suoi compagni avevano ancora la testa coperta. Alicante li chiamò per nome e la sua voce risuonò ovattata in quel grande spazio aperto. Al sentirlo, i due volsero il capo nella sua direzione e presero ad agitarsi, ma non poterono che emettere mugolii. Alicante li rassicurò, dicendo che quelli che li avevano catturati se n'erano andati. Descrisse poi il luogo in cui si trovavano e come era riuscito a liberare la testa. Ora avrebbe cercato di aiutarli. Si piegò verso don Nicola, il più vicino a lui, chiedendogli di fare altrettanto. Puntando i piedi riuscirono a mettere le teste a contatto. Alicante, dopo aver spiegato cosa intendeva fare, tolse via a morsi il grosso fazzoletto attorcigliato che tappava la bocca a don Nicola. Poi, denti contro denti, cercarono di strappare la stoffa del cappuccio di quest'ultimo. «Guaglio', tieni proprio un alito fetente, lo sai?» cercò di scherzare Alicante mentre concedeva una brevissima pausa al suo collo indolenzito dallo sforzo e dalla posizione. «Manco il vostro sa di violetta!» lo rimbeccò, impudente, don Nicola. «C'è poco da fare gli schifiltosi, anche perché poi toccherà a te baciare in bocca il commissario. Forza, riprendiamo!» Ci volle qualche tempo per liberare la testa di don Nicola, pure se questa volta erano in due a darsi da fare. Quando il giovane prete poté guardarsi attorno, la serie di esclamazioni a cui aveva dato inizio fu ruvidamente interrotta da don Gaetano, che lo incitò a dedicarsi al commissario. Questi, che aveva sentito le istruzioni impartite precedentemente a don Nicola, aveva già provveduto ad avvicinarsi il più possibile. Mentre i due lavoravano di denti, Alicante cercò di occuparsi dei suoi legami. Torcendosi al massimo vide che era stato assicurato con una corda a un mezzo anello di ferro arrugginito piantato nella pietra. Sembrava mol-
to antico ed era tutto corroso. Anche i fori da cui usciva erano sbrecciati e logorati dal tempo. Con un esile filo di speranza don Alicante diede qualche vigoroso strattone. E si accorse subito che non c'era niente da fare. Sì, l'anello era molto vecchio; ma infissa nella pietra doveva essercene una porzione cospicua. Già, pensò, figurarsi se quelli li legavano a un ferro marcio. Niente, non restava che darsi da fare con le corde. Un grido di dolore gli fece voltare la testa. Era il commissario, cui evidentemente don Nicola aveva addentato un labbro. Alicante li incitò con forza a proseguire prima che don Nicola cominciasse a scusarsi con Ribaudo. Così, la testa di quest'ultimo poté essere liberata in un tempo relativamente breve. «Ma dove siamo?» fu la prima cosa che il commissario disse. «Boh!» rispose d'istinto don Nicola. «Neanch'io lo so, però me ne sono fatto una mezza idea» disse Alicante guardandosi intorno. «Queste pietre a cui siamo legati hanno tutta l'aria di aver fatto parte di un antico molo. Ora, poiché le Cento Stanzulelle erano un sistema di cisterne romane, molto probabilmente servivano ad alimentare le terme di qualche residenza patrizia in cima alla collina. E questo era il suo attracco. Se potessimo alzarci in piedi, magari scopriremmo che dietro alle nostre teste, oltre le pietre del molo, ci sta una fila di ruderi che va verso la sommità della collina, dove si trovava, appunto, la domus gentilizia. Per quel che ce ne può importare, naturalmente!» concluse sfiduciato. «E che c'entrano le Cento Stanzulelle?» chiese don Nicola. Si intromise Ribaudo: «Ma sì, ha ragione don Alicante! Non ricordate quanta strada abbiamo fatto legati come salami e portati a braccia? E quante volte si scendeva, anche lungo scale? Di sicuro i passaggi che dalla villa dei Calderari portano chissà dove attraverso le Cento Stanzulelle sono più d'uno. Chissà che intrico di cunicoli e gallerie c'è là sotto! Quanto ai passaggi segreti, uno lo abbiamo scoperto noi, ed è quello dietro il camino. Questo i Calderari non lo conoscevano; ma nulla vieta che ce ne siano altri che loro, invece, conoscono bene. Uno dei quali, per esempio, si apre nella biblioteca, altrimenti non so come avrebbero potuto comparirci alle spalle così di colpo!». Seguì un attimo di silenzio, nel quale don Nicola, che era nel mezzo, guardava alternativamente l'uno e l'altro dei suoi compagni. Poi, visto che nessuno aggiungeva alcunché, proruppe: «E mò?». Alicante si guardò intorno. Il sole si avviava al tramonto. Già il cielo di-
ventava rosa e una leggera brezza si era levata. Il prete all'improvviso sentì un morso gelido allo stomaco e abbassò lo sguardo. L'acqua gli lambiva le anche. «Ohè!» fece allarmato. «La marea! Figli d'un cane, ecco perché ci hanno legati qui!» «Gesummaria! Oh, santi Apostoli Pietro e Paolo! Oh, Vergine Immacolata!» esclamò don Nicola, cercando di tirare indietro le gambe legate. «Smettetela con le vostre litanie!» gli gridò il commissario. «Perdio, facciamo qualcosa!» E prese a divincolarsi. «Smettetela voi di bestemmiare!» intimò Alicante. «È ovvio che dobbiamo fare qualcosa! E lo faremo! Ma lo faremo meglio mantenendo il sangue freddo, senza suppliche e senza moccoli, parlo a tutti e due! Abbiamo del tempo prima che sia buio e prima che l'acqua ci copra. Forse due ore, forse di più, non lo so. Chi sa nuotare di voi?» Silenzio sgomento. «Ma porca di una miseria zoccola!» sbottò il prete. «È mai possibile che nessuno, dico nessuno, di noi sappia nuotare?» «Neanche voi?» sussurrò timidamente don Nicola. Alicante scosse la testa, affranto. «Siamo a posto!» mormorò. «Anche se sapessimo nuotare, vi faccio presente che siamo legati» osservò Ribaudo. «Sì» disse stancamente il prete. «Ma se almeno uno di noi riesce a slegarsi, anche se l'acqua arriva a coprirci, sapendo nuotare poteva aiutare gli altri. Invece, dobbiamo liberarci per forza tutti e tre prima che la marea ci sommerga. Anzi, parecchio prima. È inutile avere mani e piedi liberi se si ha l'acqua sopra la testa e non si sa neanche stare a galla. Vabbe', non serve recriminare, vediamo di darci una mossa!» «Abbiamo a disposizione solo i denti» disse Ribaudo. «Cerchiamo di metterci in modo da attaccare le corde dei piedi.» E cominciò ad agitarsi per protendere le gambe verso don Nicola. «No, no, prima le mani!» esclamò Alicante. «Se arriva l'acqua è meglio avere le mani libere. Poi le mani scioglieranno i piedi.» «Giusto. Forza allora!» L'ideale sarebbe stato che Ribaudo da una parte e Alicante dall'altra potessero lavorare sulla corda che legava le braccia a don Nicola. Ma la di-
stanza era troppa. Occorreva che don Nicola strisciasse verso uno dei due, mentre quest'ultimo strisciava verso di lui. Ribaudo protese la bocca e mostrò il labbro sanguinante per il morso di poco prima. Alicante ricambiò mostrando la sua, di ferita. Toccava a don Nicola usare i denti e lo fece con don Gaetano, con il quale aveva più confidenza. I due si avvicinarono il più possibile e cominciò la manovra. Ma era più facile a dirsi che a farsi. La cosa si rivelò subito di una difficoltà quasi insormontabile. Chi aveva confezionato quei nodi sapeva il fatto suo. Neanche la posizione aiutava. Don Nicola mordeva ma gli restavano in bocca solo degli sfilacci di canapa che ogni tanto doveva sputare. Afferrava la corda con i denti, tirava ma non succedeva niente. La corda non si muoveva di un millimetro, neanche di mezzo. Per giunta, il pezzo di corda che legava i polsi all'anello infisso era così corto da costringere don Nicola a graffiarsi la faccia sulla superficie ruvida della pietra e da impedire a tutti e tre di alzarsi in piedi. Neanche in ginocchio era possibile mettersi. L'operazione diventò drammatica quando l'acqua cominciò a coprire anche le mani dei tre. Don Nicola doveva prendere un gran respiro, immergere la faccia e lavorare in apnea. La corda, bagnata, diventò dura e compatta quasi come fosse legno. In ogni caso era troppo grossa per essere rosicchiata e troppo stretta per venire sciolta. In poco tempo la disperazione si impadronì di don Nicola. Ormai gli dolevano le mascelle e i muscoli del collo, la lingua e le gengive erano di fuoco, la salsedine gli bruciava gli occhi. Don Gaetano provò a dargli il cambio invertendo le parti, ma dovette cominciare praticamente tutto da capo e stare con la testa sott'acqua. Alla fine rinunciò. Ansante, si tirò su, appoggiò la nuca alla pietra e chiuse gli occhi. Stettero tutti e tre in silenzio, ad ascoltare il dolce fruscio del mare, ogni tanto soffiando via l'acqua che finiva loro in bocca e nel naso con gli spruzzi dell'onda. «Allora è la fine?» disse con un filo di angoscia Ribaudo, parlando al mare. «No, ci manca mezzo metro» rispose, sarcastico e amaro, Alicante. Non aprirono più bocca. Don Nicola rivolse lo sguardo spaventato verso don Gaetano. Questi lo guardò a sua volta con espressione volutamente calma e serena. Poi, cominciò a muovere le labbra e tornò a guardare davanti a sé. Don Nicola
comprese che era tempo di raccomandarsi l'anima, abbassò il capo e iniziò a pregare silenziosamente a sua volta. Il passare dei secondi era scandito solo dagli spruzzi regolari dell'acqua che saliva, lenta e indifferente. La videro giungere loro alla vita, poi al petto, poi alla gola. Sentirono le membra intorpidirsi per il freddo, sentirono il panico salire insieme all'acqua, infine sentirono la testa svuotarsi di pensieri e una stanca rassegnazione invaderli. I due preti ormai pregavano meccanicamente, con la sola memoria, il resto della mente aveva ceduto come le membra al torpore. Ribaudo si ritrovò a chiedersi assurdamente quali parole dovesse dire e quali pensieri formulare uno che aspettava la fine. Poi anche lui smise perfino di pensare. L'acqua salì al mento e il moto delle onde li costrinse a respirare nel breve intervallo del riflusso. Si stiravano e contorcevano per tenere quanto possibile il naso oltre il pelo dell'acqua, per prolungare la vita di qualche attimo ancora. Il primo a sparire fu don Nicola, che era il più basso dei tre. Il racconto Ribaudo tratteneva il respiro, come fanno, del resto, tutti coloro che hanno la testa sott'acqua. Ma quelli che si trovano in tale condizione sanno, di solito, che è questione di poco e poi torneranno nel loro elemento naturale, che è l'aria. Ribaudo, invece, era legato mani e piedi e assicurato a una inamovibile pietra, perciò la sua era solo un'inutile lotta per la sopravvivenza. I secondi passavano e già doveva reprimere i singulti a cui l'istinto pressava i suoi polmoni. Pochi altri secondi e l'istinto avrebbe prevalso. E lui sarebbe morto annegato nel mare di Napoli, cosa che fino a qualche ora prima avrebbe ritenuto impensabile. Teneva gli occhi aperti sott'acqua, e anche questa era una cosa di cui prima di allora non si sarebbe creduto capace. Fu così che, d'un tratto, vide davanti a sé l'acqua ribollire; un tumultuoso gorgoglio gli giunse attutito alle orecchie. Quasi immediatamente le bolle svanirono e al loro posto comparvero due gambe, subito seguite dal resto del corpo di una donna. Proprio così, una donna. Vestita di un corpetto bianco di pizzo, mutandoni dello stesso colore gonfi e stretti al ginocchio, calze nere. I capelli,
biondi, fluttuavano nell'acqua mentre il viso di lei si avvicinava a quello del commissario. Un rasoio, balenando, si frappose tra gli occhi di Ribaudo e quelli dell'apparizione. Il commissario non era certo in condizione di rabbrividire ulteriormente; ma non ebbe il tempo di spaventarsi. Fu un attimo, poi la lama spari lasciando il posto a un viso ormai così vicino da poterne distinguere i lineamenti. Louise! Naturalmente, come tutti gli esseri umani, anche Ribaudo condivideva il proverbio "finché c'è vita c'è speranza". Per questo aveva cercato di prolungare la sua, di vita, il più possibile, sebbene sommerso e legato; e pure lui aveva sperato, quantunque agnostico, in un miracolo o, se non vogliamo chiamarlo così, in una coincidenza, un soccorso, un evento salvifico dell'ultimo soffio. Ma mai, neanche lontanamente, avrebbe immaginato di rivedere la donna del suo cuore là, sott'acqua e in mutande. Eppure era lei e in quel momento teneva il viso guancia a guancia con il suo, cingendogli il collo con un braccio mentre con l'altro armeggiava dietro la sua schiena. Di colpo Ribaudo sentì allentarsi il legame che lo teneva avvinto alla pietra e capì che poteva mettersi in piedi, cosa che fece con furia malgrado l'intorpidimento. Dovette ritornare più volte con la testa sotto, prima che le ginocchia rispondessero e la stazione eretta diventasse sufficientemente salda. Ma la prima boccata d'aria l'aveva rimesso al mondo, il resto fu solo questione di pochi secondi. Ansimando e tossendo riuscì a latrare: «Presto! Gli altri!». Ma non c'era bisogno, perché la sua salvatrice stava già provvedendo. Uno dopo l'altro emersero anche i due preti e per lunghi istanti fu tutto un boccheggiare, sputare e tossire. L'ultimo fu Alicante, che era rimasto sotto più a lungo di tutti e per questo vomitò l'acqua che aveva ingoiato. Intanto, la donna si era spostata su Ribaudo e si era rituffata per liberargli le mani. Quando ebbe finito riemerse e, tendendo il rasoio al commissario, con la voce spezzata dalla mancanza di fiato gli disse di continuare lui l'opera. Quello annuì più volte, mentre cercava di fare riaffluire il sangue alle dita rattrappite. Infine, afferrò la lama, prese rumorosamente fiato e si immerse per liberarsi i piedi. Non ci misero molto a ritrovarsi liberi, tutti e tre. Più difficoltoso, date le
membra intirizzite e intorpidite, fu uscire dall'acqua che, sebbene fossero in piedi, ormai arrivava loro alle ascelle. Il muro a cui erano stati legati non era molto più alto di loro ma non avevano forze sufficienti a issarvisi. Così, camminarono rasenti a esso, spesso scivolando sugli scogli, fino a quando la sequenza di pietre squadrate terminò e poterono accasciarsi sulla sabbia. Fu la donna la prima a parlare: «Presto, è meglio se ci togliamo da qui!». E, rimessasi in piedi, si avviò sul breve pendio che univa la spiaggia al muro che avevano appena lasciato. «Ma dove vai? Louise!» esclamò Ribaudo. «Non mi chiamo Louise! A rimettermi i vestiti!» fece lei di rimando. Ormai il buio era fitto e solo una mezza luna permetteva di vedere a qualche metro. Meglio, pensò Alicante mentre, disteso sulla schiena, cercava di riprendersi del tutto: se loro vedevano poco, ciò valeva anche per eventuali altre, sgradite, presenze. La donna riemerse dal buio con un abito scuro, giacca attillata e chiusa al collo, gonna alla caviglia, scarpe ai piedi. Aveva raccolto i capelli sotto un cappellino dello stesso colore, floscio e con la veletta alzata. Teneva una borsetta nera sotto il braccio. Chiazze bagnate sulle spalle e le cosce. Li prevenne: «Risparmiate il fiato, che ne avete ancora poco. Per le spiegazioni ci sarà tempo. Andiamo». «Dove?» biascicò don Nicola, gli occhi rossi e livido come un cencio. «Venitemi dietro» disse la donna, con un tono risoluto che sorprese chi, come Ribaudo, era rimasto fermo all'immagine eterea e dolcissima del loro primo incontro. Camminarono nel buio arrancando e incespicando, mentre lei li precedeva decisa. Avevano la bocca riarsa dalla salsedine, gli arti intirizziti, il cerchio alla testa. Sovente dovevano fermarsi perché le scarpe fradice d'acqua restavano intrappolate nella sabbia. Don Nicola decise di togliere le sue e portarle in mano; ma dopo non molto dovette con fatica reinfilarsele perché la sabbia aveva ceduto il posto al terreno pietroso. Fu costretto ad accoccolarsi per terra e riattivare a morsi la circolazione nelle dita per poter sciogliere i lacci, che si erano aggrovigliati. Rimase indietro e dovette penosamente mettersi a correre perché gli altri erano troppo sfiniti per far caso a lui. A un certo punto sentirono un rumore cadenzato di passi frettolosi avvicinarsi e intravidero davanti a loro una luce tremolante. La luce si fece sempre più forte e vicina, così come i tonfi di piedi sul terreno.
D'un tratto una voce familiare: «Oh, Gesù! Commissario! E anche gli altri! Santa Madonna, ma che vi è successo?». Finalmente nella luce entrò un viso. Era piuttosto allarmato ma, grazie al cielo, era quello di Califano, il loro cocchiere. L'uomo affrettò il passo verso di loro. Ai tre salvati dalle acque un calore di esultanza e sollievo inondò il cuore. Solo allora l'apprensione si sciolse e sui loro volti comparve una smorfia che era quanto di più simile al sorriso riuscissero a fare. Un volto conosciuto e amico. Era ora. Il cocchiere passò la lampada nell'altra mano e si affrettò a sorreggere don Nicola, che sembrava il più provato. Ma questi fece capire con un gesto che ce la faceva da solo. Califano allora, sempre tra esclamazioni di sorpresa e dispiacere, si voltò e corse per qualche metro, precedendoli. Poi si fermò, alzò la lampada e mostrò loro quel che stava illuminando: la sua carrozza. I tre scampati erano troppo contenti e impegnati, ciascuno a modo suo, a ringraziare mentalmente il cielo per mettersi a fare domande. Troppe emozioni in troppo poco tempo. Aiutati dal cocchiere montarono senza fiatare, seguiti dalla donna. Sedettero sullo stesso lato, pigiati e stretti l'uno all'altro per scaldarsi, mentre lei si accomodava sul sedile di fronte. Il cocchiere sparì per un momento nel buio in direzione della cassetta e ne tornò con una grossa coperta in mano. La porse ai tre, che se la misero sulla testa e sulle spalle rabbrividendo per il repentino passaggio al calore. Erano piuttosto ridicoli, in tre sotto la stessa coperta, i volti stralunati e i capelli appiccicati alla faccia. Puzzava di cavallo, quella coperta; ed era spessa e rigida come cuoio grezzo, del quale aveva la stessa ruvidezza. Ma non ci fecero caso. La donna aprì la sua borsetta e ne tolse una fiasca metallica piatta. Svitò il tappo e bevve un sorso prima di porgerla ai tre. «È cordiale» disse. Uno alla volta bevvero e fu come se un tizzone ardente scendesse loro lungo l'esofago infiammato. Don Nicola tossì a lungo. Alicante avvertì una benefica sensazione di caldo irradiarsi dal suo ventre fino alla punta delle dita. Era abituato, sì, a bere vino liquoroso a stomaco vuoto quando diceva la prima messa della giornata. Ma questo era diverso e subito fu preso da un leggero capogiro.
Ribaudo, rinfrancatosi un poco, avrebbe voluto tempestare la sua salvatrice di domande, metà delle quali da poliziotto e l'altra metà da innamorato. In poco tempo era passato dalla tenera euforia alla delusione più cocente e, da questa, alla sorpresa più piacevolmente impensata. Ma fu preceduto dal cocchiere. Questi, dopo avere acceso le lanterne poste sulla parte anteriore del veicolo, si affacciò a chiedere: «Dove vi porto?». La donna si rivolse ai tre: «Avete un posto sicuro dove andare?». Fu Alicante ad annuire: «Sì, casa nostra». E spiegò a Califano come arrivarci. L'uomo fece segno di conoscere la strada, poi chiuse la portiera e salì a cassetta. Mentre la vettura si avviava, la donna si premurò di tirare le tendine sui finestrini. Poi, nel buio, si sentì la sua voce che diceva: «Non mi chiamo Louise. Il mio nome è Claire de Givaudan-Lapine». «Lo so» mormorò stancamente Ribaudo. Nessuno disse più nulla per il resto del viaggio. Si riscossero dall'assopimento quando la portiera si spalancò di scatto e comparve Califano. Erano arrivati. Il cocchiere fece segno di volerli aiutare a scendere. Il primo fu Alicante, che mise fuori la testa e si guardò attorno. Per fortuna era davvero tardi e non c'era più nessuno in giro. Comunque, cercarono di fare piano: qualcuno avrebbe potuto incuriosirsi nel vedere una donna con tre uomini in borghese e piuttosto mal messi entrare nella casa di don Alicante e don Esposito. E, dato il rapporto cordialissimo dei due preti con i loro vicini, nessuno di questi ultimi avrebbe esitato ad affacciarsi alla finestra per chiedere spiegazioni. Alicante infilò la chiave aspettandosi di sentire da un momento all'altro gridare "Chi siete? Chi cercate a quest'ora?". Ma tutto filò liscio. Il prete si congratulò con se stesso anche per la decisione di non tenere perpetue in casa fino a quando non fosse diventato troppo vecchio per farcela da solo. Il cocchiere venne invitato ad andare a legare il cavallo nella piazza vicina e poi raggiungerli. Una carrozza sotto casa dei preti a quell'ora sarebbe stata un invito a nozze per la curiosità dei famosi vicini. Gli lasciarono la porta solo accostata. Salirono faticosamente, indolenziti e con i crampi alle gambe com'erano. Si fermarono al primo piano, dov'erano le stanze di don Nicola. La don-
na si incaricò di accendere la stufa mentre i tre andavano al piano superiore per mettersi dei vestiti asciutti. Quando tornarono giù, trovarono che Califano era già arrivato. La francese aveva terminato e aveva appoggiato il cappellino sopra la stufa. Si stava asciugando i capelli con l'asciugamano che aveva trovato sul lavabo. Don Nicola, alquanto rinfrancato, si mise a preparare qualcosa da mangiare. Cioè, i soliti spaghetti con aglio e olio, perché aveva solo quelli. Alicante cercò piatti, bicchieri e posate. Gli altri sedettero attorno al tavolo. «Ah, questo è vostro» disse Ribaudo porgendo il rasoio chiuso alla donna. «Grazie» disse lei prendendolo e andando a riporlo nella borsetta. «È un mondo pericoloso per una giovane donna. Con questo mi sento più sicura» aggiunse. «E sono certo che sapete anche usarlo a dovere, all'occorrenza, signorina... O devo dire signora? Perdonate, ma a questo punto non capisco più niente» ribatté il commissario. «Signora. Finché dura. Ma potete chiamarmi Claire. E voi, come devo chiamarvi? Ispettore? Commissario? Colonnello? E i vostri amici? A giudicare dalla veste e dal cappello da abbé che vedo appeso a quell'attaccapanni non sono vostri colleghi.» I quattro uomini gettarono istintivamente uno sguardo nella direzione indicata dalla donna e videro il tricorno con il pompon sopra e la talare. L'unico a sorprendersi fu il cocchiere, ma non disse niente. Si limitò a seguire, interessatissimo, lo scambio di battute. Ribaudo non poté impedirsi di restar male al sentire che la sua fiamma era sposata. Ma si diede subito dello stupido, perché, anche se le doveva la vita, non poteva dimenticare di averla vista insieme ai Calderari. Decise di tornare poliziotto a tutto tondo e di smetterla con i sentimentalismi. «Siete davvero francese? Come sapete che sono della polizia? Com'è che conoscete il nostro cocchiere?» chiese velocemente. La donna, in piedi accanto alla stufa, aveva preso un pettine dalla borsetta e si stava ravviando i lunghi capelli ormai asciutti. Rispose mentre li raccoglieva in crocchia e se li appuntava con una forcina. «Basterebbe questa mitragliata di domande a svelarvi sbirro. Ero nella villa. Ho visto tutta la manovra di accerchiamento da dietro una persiana, e pure dove è andato a fermarsi il vostro cocchiere. L'ho poi raggiunto e gli ho detto che eravate in pericolo. Ma prima ho dovuto cercare di sapere dove vi avevano portato, cosa che ha richiesto un certo tempo. Dell'altro
tempo se n'è andato ad aspettare l'occasione propizia per defilarmi e poi per convincere il cocchiere a credermi. Infine...» si mise un'altra forcina tra le labbra e riprese ad armeggiare con la prima, «sì, sono francese. Non fingevo. Proprio francese.» Finalmente i capelli furono a posto e andò a sedersi al tavolo. «Be', non costringeteci a farvi le domande una alla volta!» sbottò Alicante. «Grazie per averci salvato la pelle, davvero, ma è chiaro che a questo punto ci dovete delle spiegazioni, non vi pare?» Lei frugò nella borsetta e tirò fuori un portasigarette con una scatola di fiammiferi. Prese una sigaretta, picchiettò con il dito il tabacco alle estremità e la accese. «Vi dispiace se fumo?» disse, e una nuvoletta le uscì dalla bocca. Poi, senza aspettare la risposta, aggiunse: «Siete degli ingenui. Abbiamo seguito tutto dall'interno della villa. Siete entrati solo in tre, bravi furbi. E li avete praticamente invitati a catturarvi. È anche vero, tuttavia, che se foste entrati in forze non avreste trovato più nessuno. Un poliziotto con due preti mascherati; cos'è, lo Stato e la Chiesa finalmente d'accordo? Comunque, se voi siete il meglio che Stato e Chiesa possono mettere in campo, allora i Calderari possono stare tranquilli». «Erano i Maccabei, quelli che ci hanno preso e impacchettato? Come hanno fatto a sorprenderci?» incalzò Alicante. «Ah, sento che sapete dei Maccabei!» fece con finta ammirazione. «La biblioteca ha un passaggio dissimulato tra i libri. L'intera villa è piena di passaggi segreti. Alcuni non li conoscono nemmeno i Calderari, come quello dietro al camino. Eravate voi, vero?» Alicante e Ribaudo si scambiarono uno sguardo, poi il commissario si allungò sulla sedia e disse: «Va bene, mettiamo tutte le carte in tavola». E cominciò a raccontare tutto; in sintesi, chi erano loro, qual era la loro missione, cosa sapevano e a che punto erano con l'indagine. Alicante interveniva ogni tanto per integrare l'esposizione. Il cocchiere seguiva a bocca aperta, eccitato, voltando la testa verso Ribaudo e Alicante man mano che si davano il cambio nel parlare. Neanche l'altro prete aveva perso una parola, visto che il fornello era a due passi dal tavolo. Ribaudo e don Gaetano finirono proprio mentre don Nicola si presentava con la pentola fumante tra le mani. La francese spense la sigaretta e assestandosi sulla sedia, esclamò: «Sono mezzo morta dalla fame e voi lo siete più di me. Ho una storia lunga da raccontarvi ma prima devo buttare giù
qualcosa. C'è del vino?». Don Nicola cavò una bottiglia dalla credenza e gliela mise davanti. Poi tutti cominciarono a servirsi. La donna divorò quanto aveva nel piatto, mandò giù un bicchiere di vino e si servì ancora di pasta. Anche gli altri erano vinti dal sollievo per quel cibo che li rimetteva al mondo, perciò non la sollecitarono a parlare. Il pasto terminò in dieci minuti, poi tutti guardarono in direzione della francese. Questa si scostò con la sedia dal tavolo, si accese un'altra sigaretta, sbuffò un anello di fumo e si versò un dito di vino. «Quello che avete visto con me quando ci siamo incontrati per la prima volta non è mio fratello, è mio marito» esordì. «Il suo vero nome è Jacques Langlois.» Ribaudo mise una pietra tombale su quel poco che era rimasto delle sue frenesie amorose e fece interiormente spallucce. Lei accavallò le gambe e, contemplando la brace della sigaretta, proseguì: «Adesso devo tornare al 1849, quando Roma era in mano ai mazziniani». Poi, dopo questo annuncio, tirò una boccata e cominciò. «Come certo sapete, furono, quelli, mesi di confusione. I rivoluzionari di mezza Europa si erano dati convegno là e avevano trasformato la città dei papi nel loro laboratorio politico. Idealisti, utopisti, settari ma anche semplici avventurieri erano calati all'appuntamento per una festa della follia tanto pirotecnica quanto effimera. La cosiddetta Repubblica Romana non durò molto ma bastò a far diventare qualcuno ricco e qualcun altro povero. Il papa al suo ritorno non trovò solo le casse statali vuote ma anche palazzi nobiliari e cardinalizi completamente svaligiati, chiese e conventi spogliati di quanto avevano di prezioso. Si era arrivati al punto di bruciare antichi paramenti sacri per depredarne i fili d'oro e d'argento con cui erano ricamati.» La sigaretta divenne un mozzicone che lei usò per accendersene un'altra. Tutti pendevano dalle sue labbra, malgrado la stanchezza. Riprese a parlare osservando le volute di fumo. «Un gruppetto di miei connazionali, piombati a Roma a offrire il braccio e il cuore alla Repubblica, venne in possesso di un piccolo tesoro in arredi sacri portati via da non so quale chiesa. Calici d'oro, piatti d'argento, corone e gioielli di madonne, ex voto, reliquiari incrostati di pietre. Uno di questi reliquiari, il più prezioso, conteneva dei frammenti delle ossa di santa Genoveffa.
«Naturalmente quei giovani rivoluzionari erano tutti rigorosamente atei, visceralmente anticlericali e totalmente devoti alla nuova religione del progresso dei popoli, perciò poco importava loro del contenuto dei reliquiari. Ma uno di loro conservava un tenero ricordo della madre, che era morta da poco ed era stata religiosissima. Alla sua morte prematura avevano molto contribuito le idee politiche del suo unico figlio, che da allora ne portava il peso sul cuore. La donna si chiamava Geneviève, in italiano Genoveffa, come la santa.» Un rumore secco fece sobbalzare tutti. Era don Nicola, che teneva la testa appoggiata alle mani e i gomiti puntati sul tavolo. Vinto dal sonno, complici la stanchezza e il tono ipnotico della narrazione, aveva inavvertitamente fatto scivolare un gomito oltre il bordo del tavolo e picchiato la mano sul piatto. Rialzò il capo spalancando gli occhi e girando lo sguardo sorpreso sulle facce degli altri. Claire sorrise e si versò un altro dito di vino. «Be', sarà meglio che salti qualche passaggio e venga al sodo» disse. «Di quei francesi nessuno lasciò mai più Roma» riprese. «Tranne uno. Morirono uno alla volta prima della fine della Repubblica. Ma non eroicamente, sugli spalti, durante la resistenza armata contro gli zuavi. Uno morì di rabbia, morso da un cane idrofobo. Pare che non sia un bel morire. Come il morire di tetano, che toccò a uno degli altri. Un altro ancora finì sotto gli zoccoli di un mulo imbizzarrito. Gli altri ebbero dipartite improvvise e altrettanto ingloriose, tutti in meno di un mese. Tranne uno, come ho detto. Quello la cui madre si chiamava Geneviève. Questo giovane fu sconvolto dalla repentina scomparsa di tutti i suoi compagni e, senz'altro influenzato dal ricordo della madre, cominciò a pensare che il tesoro trafugato fosse maledetto. E tanto ci pensò da finirne ossessionato. Avrebbe voluto restituirlo ma ormai gli avvenimenti stavano travolgendo la Repubblica ed egli temeva che finisse in mani sbagliate. Era convinto che in tal caso la maledizione avrebbe colpito anche lui.» «Certo, come superstizione non c'è male! In un rivoluzionario, poi!» interruppe Ribaudo, ma più che altro per non cedere anch'egli al sonno. Si versò da bere e dell'interruzione approfittò, per lo stesso motivo, Alicante, che tese il suo bicchiere vuoto verso il commissario dicendo: «Be', al tempo della discussione al parlamento di Torino su quelle che poi divennero le leggi Siccardi e che abolirono gli ordini religiosi espropriandone i beni, don Bosco sognò che la famiglia reale veniva colpita da una serie di lutti, uno dietro l'altro. Scrisse al re ma quello non gli diede retta.
Ebbene, nel giro di un mese morirono la moglie del re, suo figlio, suo fratello e sua madre. La discussione delle leggi dovette essere sospesa. Quando la si poté riprendere, nel bel mezzo del discorso d'inizio del presidente della Camera arrivò un commesso e disse a quest'ultimo in un orecchio che sua madre era appena morta. Altra sospensione. Don Bosco scrisse ancora al re, ricordandogli, Scritture alla mano, che la famiglia che ruba a Dio non supera la quarta generazione.» «Un bel menagramo, quel don Bosco, non c'è che dire!» sogghignò Ribaudo. «Pensavo vi interessasse la mia storia!» saltò su, con tono seccato, la francese. Alicante fece subito la faccia attenta e, con cenni del capo, la pregò di continuare. Il commissario, dal canto suo, alzò le mani in gesto di scusa. «Dicevo che ormai la situazione in Roma era diventata caotica per via dell'assedio» ricominciò lei. «Il nostro repubblicano fu mandato a difendere una postazione avanzata. Una notte, messi gli oggetti preziosi in un paio di bisacce, se la squagliò. Riuscì a raggiungere Napoli, dove rimase qualche giorno in attesa di una nave che lo riportasse in Francia. Quando riuscì a imbarcarsi, le bisacce non le aveva più. Le aveva nascoste da qualche parte, in città o nei dintorni, in attesa di tempi più tranquilli. Tornato in patria cambiò vita. Sposò la fidanzata che aveva lasciato ad attenderlo, trovò impiego come insegnante e divenne anche un fervente cattolico. Purtroppo, i tempi più tranquilli, politicamente parlando, qui in Italia non vennero mai. Per lui, almeno, che visse ancora qualche anno prima che una tubercolosi se lo portasse via. Sempre persuaso di essere sotto la minaccia della maledizione, sul letto di morte rivelò tutto a suo figlio, l'unico che aveva e che era ancora un ragazzino. Lo costrinse a giurargli che avrebbe pensato lui, quando ne avesse avuto la possibilità, a restituire gli oggetti.» Si fermò per accendere un'altra sigaretta. Ribaudo approfittò della pausa per chiedere bruscamente: «È una bella storia, indubbiamente. Ma che cosa c'entra con quel che questo commissario di polizia» si toccò il petto con il pollice, «vuole sapere? Vi ricordo che, sebbene l'uomo vi sia in debito per averlo salvato, il poliziotto dovrebbe arrestarvi per complicità in omicidio». La donna gli mandò una lenta nuvola di fumo in faccia e, come se nulla fosse, continuò: «Quel ragazzino ormai senza padre crebbe imbevuto delle idee che la scuola pubblica metteva in testa ai giovani. Umanità, Progresso, Scienza eccetera eccetera, tutte parole scritte sempre in maiuscolo. Co-
sì, quel ragazzino divenne un giovane massone e, poiché aveva talento artistico, si iscrisse all'Accademia di belle arti, dove diventò il migliore allievo di un professore che aveva un alto grado nella massoneria. «Questo docente era un rinomato scultore e procurò al suo discepolo una borsa di studio per perfezionarsi in Italia. Fu così che il giovane promettente partì per Roma, provvisto di una lettera di raccomandazione che doveva aprirgli l'atelier di un collega del suo maestro, naturalmente anche lui affiliato alla massoneria. Voi a questo punto starete pensando che, trovandosi in Italia, il nostro giovane artista abbia cercato di esaudire il desiderio paterno. Invece le cose stanno diversamente. Egli non credeva né nella religione di suo padre né in maledizioni legate a oggetti sacri. Ma aveva fatto un giuramento a un uomo in punto di morte, e quell'uomo era per giunta suo padre. Egli sapeva dov'era nascosto il tesoro ma era combattuto tra due sentimenti opposti. Uno era il giuramento di restituire quel tesoro. L'altro era l'astio anticlericale di cui era intriso sia come uomo del suo tempo» sottolineò sarcastica queste parole, «che come massone. Insomma, non voleva appropriarsi del tesoro ma neanche darlo ai preti.» Il commissario stava ricominciando a impazientirsi. Era stanchissimo e desiderava lasciarsi crollare su di un letto. Si agitò sulla sedia. Gli sembrava che quel racconto girasse su se stesso senza approdare a nulla di interessante per lui e la sua indagine. Non capiva dove la donna volesse andare a parare e aprì la bocca per dirglielo, ma lei lo prevenne: «Ci siamo quasi» disse, mostrando la mano aperta. «Forse riuscirò a ravvivare il vostro interesse dicendovi in che tipo di atelier il nostro giovane era venuto a imparare il mestiere.» Fece una pausa per assicurarsi che tutti pendessero dalla sue labbra, poi disse, sottolineando le parole: «Era l'atelier di uno scultore e incisore». Riebbe tutta l'attenzione di Alicante e Ribaudo. Anche quella degli altri due che, pur non avendo capito l'importanza della rivelazione, erano stati contagiati dal rinnovato interesse del commissario e del prete. «Il suo patron aveva tre figlie» riprese Claire, spegnendo la sigaretta. «Il giovane si innamorò, ricambiato, di una di loro. La storia d'amore andò avanti un annetto, con incontri romantici, biglietti infuocati, scambio di ciocche di capelli e giuramenti. Insomma, le solite cose. Ma che il giovane aveva preso anche troppo sul serio. «La sua felicità fu spezzata il giorno in cui il suo patron gli parlò a tu per tu e gli disse di scordarsi sua figlia, perché la ragazza avrebbe dovuto sposare un altro. E chi era quest'altro? Un altissimo dignitario massonico, una
personalità pubblica, un uomo molto ricco. Peccato avesse quarant'anni più di lei, ma questo era un dettaglio. «Il giovane protestò che lei lo amava, che erano fatti l'uno per l'altra, eccetera eccetera. Allora il patron andò a chiamare la figlia e questa lo smentì. Il giovane, mezzo impazzito, pensava che fosse costretta a subire la volontà del genitore. Ma non era affatto così. La ragazza, dovendo scegliere tra un giovane artista con forse molto futuro ma per il momento nessun presente e un anziano pezzo grosso, scelse il pezzo grosso. «Il giovane non si dette pace, la tempestò di lettere, prese a seguirla e a farle scenate di gelosia, a tirare sassolini di notte alla sua finestra. Fino al giorno in cui due uomini, fermatolo per strada, gli dissero di smetterla. Si presentarono con il segno di riconoscimento massonico e misero in chiaro che si stava mettendo contro nemici potenti in grado di colpire chiunque e dovunque. La ragazza sposò il pezzo grosso e al giovane crollò il mondo addosso. E non solo per l'amore deluso. Tutti gli ideali universali che lo avevano entusiasmato quando aveva chiesto di essere ricevuto con il primo grado massonico, quello di Apprendista, si dissolvevano per lui come sogni all'alba, spazzati via dall'arroganza di un potente. Se ne tornò in Francia, dove con il tempo dimenticò il suo folle amore giovanile e sposò mia madre.» Tutti involontariamente sobbalzarono. Eh, come colpo di teatro non c'era male, pensò Alicante. Lui e Ribaudo si voltarono contemporaneamente l'uno verso l'altro a guardarsi. Anche don Nicola rimase colpito e il cocchiere si grattò la nuca, visibilmente impressionato. «Ma prima di lasciare per sempre l'Italia aveva fatto un ultimo lavoro. Affinché la maledizione continuasse la sua opera. Questa volta a danno dei massoni.» Claire fece cadere queste parole con lentezza, come sassi. Poi, scandendo bene, disse: «Una medaglia». Ci siamo, pensarono i quattro uomini. Lei, soddisfatta del clima di sospensione che aveva creato, riprese subito. «Esatto, la medaglia su cui voi state indagando. Proprio quella.» Spiegazioni Questa volta fu Alicante a versarle del vino nel bicchiere, mentre Ribaudo si affrettava a offrirle del fuoco per l'ennesima sigaretta.
Mentre porgeva il fiammifero acceso, il commissario rilevava soddisfatto l'ulteriore palata di terra sulla sua infatuazione per quella donna: le femmine che fumavano non gli erano mai piaciute, le trovava volgari. Tuttavia, si accorse al contempo che i suoi sentimenti verso di lei stavano passando dall'idillio alla franca ammirazione. La fanciulla fresca ed eterea a cui aveva dato un passaggio in carrozza non c'era più. Ora aveva davanti una donna energica e decisa. L'aveva vista solo due volte e in ognuna di esse aveva avuto a che fare con una persona diversa. Certo, era molto più romantica la prima, quella della recita per gabbare i gonzi. Ma forse il romantico era lui, Ribaudo, che si era incapricciato di uno stereotipo. Per la prima volta nella sua vita si chiese se al suo fianco, come moglie, avrebbe preferito il classico angelo del focolare tutto trilli e svenevolezze o una persona con gli attributi, una di quelle che in caso di bisogno sanno prendere in pugno le situazioni e risolverle. Anche se fumatrice. Si diede dello sciocco: lei non aveva neanche idea delle tempeste che aveva scatenato nel cuore e nella mente di uno scapolo quasi quarantenne. Oppure sì? Si costrinse a smetterla e a concentrarsi sul resto delle rivelazioni. Claire si bagnò le labbra con il vino e riprese il suo racconto per quella piccola platea di uomini a cui le sue ultime parole avevano fatto dimenticare il sonno e la stanchezza. «Come in una donna tradita l'amore può tramutarsi in odio implacabile, così in mio padre agì quella vicenda. L'astio feroce verso i massoni e le loro trame lo portò a militare tra i cattolici ultramontani e i monarchici legittimisti. In tale fede educò sua figlia e di questo mi sono nutrita finché mio padre è stato vivo. Con il tempo, egli divenne meno drastico e ridimensionò il suo giudizio sulla frammassoneria. Intendiamoci, la sua conversione al campo avverso era sincera e totale; ma finì con il pensare che la sua disavventura giovanile avesse poco a che vedere con la Fratellanza e molto con la prepotenza di uno solo. Studiando e invecchiando si rese conto che la massoneria è a modo suo una religione e come tale ha i suoi scismi e le sue chiese che non sempre vanno d'accordo tra di loro. Dunque, di quel che era capitato a lui erano senz'altro responsabili in pochi, i quali avevano millantato una capacità d'azione tutt'altro che effettiva. Per questo cominciò ad accarezzare l'idea di venire in Italia a recuperare il tesoro per restituirlo. Ma per un verso o per un altro dovette continuamente rimandare. Ora erano gli impegni di lavoro, ora la situazione politica internazionale, ora una malattia mia o di mia madre, ora una momentanea impossibilità
economica; insomma, c'era sempre un intoppo.» «Non teneteci sulle spine, suvvia!» scattò Ribaudo ridiventato poliziotto. «Diteci che cosa aveva fatto alle medaglie. Perché di questo si tratta, vero?» «Precisamente. L'atelier in cui mio padre era apprendista ricevette la commessa per le medaglie con su scritto "13 luglio 1881. Immortale odium et numquam sanabile vulnus". In alcune di esse, di nascosto dal suo patron, apportò un'impercettibile modifica. Per determinate lettere e cifre della scritta usò una lega diversa, in modo che con il tempo, quando il resto della medaglia si fosse scurito, quelle lettere e cifre restassero lucide, rivelando il messaggio.» «E qual era questo messaggio?» chiese ansioso Alicante. «Non lo so» fu la risposta. «Ma come, vostro padre non lasciò a voi l'incarico di restituire gli oggetti preziosi?» incalzò Ribaudo. «Infatti. Il punto è che egli pensava di poter prima o poi provvedere da solo. Per questo fu sempre evasivo le poche volte che gli chiesi di più. Me l'avrebbe detto solo nel caso in cui non fosse stato più in grado di compiere il viaggio. Tenete presente che io avevo diciotto anni quando mi parlò per la prima volta del bottino e adesso non ne ho che ventisei. Purtroppo, mio padre è morto d'un colpo apoplettico, portando con sé il segreto del messaggio.» Alicante si grattò furiosamente la testa e lanciò uno sguardo esasperato verso Ribaudo. Questi, le sopracciglia aggrottate, rifletté un attimo, poi disse: «Ma come faceva vostro padre a essere sicuro che nessuno dei proprietari delle medaglie fosse riuscito nel frattempo a decifrare il messaggio?». «Non dimenticate che aveva agito d'impulso e accecato dall'odio e dalla gelosia. Mentre me ne parlava, sorrideva della strampalata follia che gli era venuta in mente quando era giovane e impulsivo. In fondo, voleva solo trasmettere una maledizione, era questo il suo scopo primario. Nelle due sole logge che aveva frequentato, quella in cui era stato iniziato, in Francia, e quella napoletana del suo patron, l'aveva colpito l'interesse dei liberi muratori per i simboli, i linguaggi cifrati, gli antichi misteri esoterici. Così, aveva inteso intrigare i massoni per mezzo di un linguaggio a loro carissimo, quello dei crittogrammi. Ma aveva finito per strafare, creando un codice praticamente impossibile a decifrarsi. E, in effetti, se ci pensate, se uno dei possessori di quella medaglia avesse fatto caso a un paio di lettere più lu-
cide delle altre, quante probabilità c'erano che pensasse a un pezzo di messaggio in codice? Oppure, quante probabilità c'erano che i possessori delle poche medaglie con il codice si incontrassero, confrontassero le loro medaglie, deducessero che formavano un messaggio e, per giunta, lo decifrassero? No, mio padre era sicurissimo che un tale cumulo di probabilità non potesse verificarsi.» «Ma noi sappiamo che una parte del messaggio è costituita dalle lettere "BI" e "US"» disse Alicante, e Claire annuì. «Dite, vostro padre vi ha mai parlato di un certo Nubius?» domandò a quel punto Alicante. Claire si fece pensosa. «Nubius? Nubius... Aspettate, sì, ora che mi ci fate pensare, sì. Fu proprio quando mi rivelò tutta la faccenda. Il fatto è che quella volta parlò a lungo dei suoi trascorsi giovanili, dei sogni che aveva per la testa a quei tempi, degli ambienti che frequentava, della gente che incontrava nella sua loggia. Disse che si trattava di un mito persistente, un personaggio leggendario di cui sentiva parlare sottovoce e, da certuni, con malcelata ammirazione. Nubius, il mitico capo dei capi dei capi, l'inafferrabile, il senza volto, l'uomo che aveva fatto tremare le polizie di mezzo mondo fin dai tempi dei primissimi moti carbonari ma della cui effettiva esistenza non si erano mai avute prove.» «In fondo, non siamo certi che quei "BI" e "US" siano pezzi di "Nubius". Ci manca il "NU"» fece Ribaudo rivolto ad Alicante. «È vero che abbiamo ipotizzato che sia sulla medaglia del Pianosa, quella che i Calderari non riuscivano a trovare, ma...» «No, non c'è» lo interruppe Claire. «Come fate a saperlo?» le chiese sorpreso Alicante. «Perché l'ho io» disse la francese, e mise mano alla sua borsetta. Frugò e tirò fuori una medaglia che poggiò sul tavolo sotto gli occhi degli astanti. Alicante fu veloce a prenderla, la esaminò attentamente e poi la mostrò a Ribaudo. «Guardate!» disse. «Ha ragione, non c'è affatto "NU". Qui di lucido non ci sono lettere ma numeri. Osservate la data!» «È vero!» fece il commissario. «Nella data 13 luglio 1881 risaltano il tre e i due otto. Tre, otto, otto. Ma che diavolo significa?» «Com'è che l'avete voi, questa medaglia?» domandò Alicante alla donna. «Temo che dovrò riprendere a tediarvi con il racconto della mia vita» rispose lei, ironica.
«Brava» disse piccato Ribaudo. «Siamo qui apposta, e cercate di non dimenticare qual è il mio mestiere.» «Nella mia vita, dicevo» riprese lei, senza far caso al tono del commissario, «ho commesso due gravi errori. Uno è quello di aver sposato mio marito. L'altro è avergli raccontato del tesoro. A mia giustificazione devo dire che non potevo fare altro. Mio padre era morto e io dovevo adempire alla promessa che gli avevo fatto. Solo, non sapevo come. Così, chiesi consiglio a lui. Lo avevo conosciuto negli ambienti che frequentava mio padre, tutta gente votata al trono e all'altare e in contatto con i loro sodali di tutta Europa, specialmente quelli italiani. Mio marito era in rapporti molto stretti con coloro che avevano fatto risorgere l'antica confraternita dei Calderari in Italia e me ne parlava con entusiasmo. Io, allevata da un padre come il mio, condividevo questo entusiasmo e sognavo anch'io la rinascita politica del bel tempo che fu. Per questo venimmo in Italia quando i nuovi Calderari ci misero a parte del loro grandioso progetto. Ma solo un secondo momento compresi il ruolo giocato da mio marito in tutto ciò. E vidi il vero volto dell'uomo che avevo sposato. L'idea di quel tesoro era diventata, a mia insaputa, la sua ossessione. Era nato povero e per giunta era rimasto orfano di entrambi i genitori prestissimo. Era cresciuto in un orfanotrofio e aveva dovuto lottare duramente per crearsi un minimo di avvenire. Io me ne ero innamorata anche per questo. Vedevo in lui un giovane sfortunato che non si era arreso. Invece era consumato dall'avidità e l'idea di poter capovolgere in un sol colpo una vita di fatiche e privazioni non lo faceva dormire la notte. Che sciocca sono stata!» Si passò una mano sulla fronte e un'ombra di profonda tristezza le velò gli occhi. «Vi prego, continuate» le disse Ribaudo, improvvisamente intenerito. «Sì, certo» disse lei, recuperando il suo piglio. «Troppo tardi ho capito che era stato lui a convincere i Calderari a creare il gruppo dei Maccabei e a modificare i loro piani dandosi agli omicidi. Il disegno, a quanto pare, sembrò loro perfetto, visto che rendeva possibile l'auspicata restaurazione dei vecchi regni in tempi relativamente brevi. Non sapevano che, in realtà, lui si stava servendo di loro per rastrellare tutte le medaglie e impadronirsi del tesoro. Fatto questo, sarebbe sparito e avrebbe lasciato i Calderari e la loro follia politica in balìa del destino. Cioè, del capestro, perché soltanto adesso ho cominciato a rendermi conto di quanto sia strampalata l'idea di arrivare alla grande restaurazione tramite una guerra generale e a quest'ultima per mezzo di qualche assassinio.»
«Ma come avrebbe fatto, vostro marito, a decifrare il messaggio delle medaglie una volta che ne fosse venuto in possesso?» chiese Alicante. «Questo non lo so. Teniamo presente, tuttavia, che mio marito aveva sentito da me un riassunto di quel che mio padre, a sua volta, aveva riassunto a me. Forse ha pensato che avendo tutte le medaglie in mano il messaggio si sarebbe rivelato meno incomprensibile del previsto. Non so che dirvi.» «Come mai avete questa medaglia?» disse Ribaudo indicando l'oggetto sul tavolo. «L'ho sottratta quando ho capito tutto. Ho cercato così di mandare all'aria sia i piani dei Calderari che quelli di mio marito. Spero che ne terrete conto.» «Ci avete salvato la vita. Soprattutto di questo teniamo conto» le disse Alicante. «Ma chi ha ucciso il Pianosa? E perché era in quella specie di sarcofago? Come mai aveva questa medaglia?» incalzò il commissario. «Sono stati i Maccabei. Da quel che ho capito, era un membro importante dei nuovi Calderari ma si era opposto decisamente al nuovo corso. Era contrario sia al progetto di guerra europea che agli omicidi. Aveva minacciato di andare dal papa con la medaglia e rivelare tutto. L'hanno ucciso e poi hanno inscenato una vendetta massonica. Ritenevano che, dati i suoi trascorsi, i reazionari non avrebbero avuto dubbi sulla responsabilità dei massoni. Lo stesso hanno provato a fare con voi. Ma questa volta, per vostra fortuna, sono intervenuta io.» «Eh, già» rifletté Alicante. «La prima volta non sapevano chi eravamo, per questo hanno provato a farci fuori a revolverate. Ma poi ci hanno visto circondare la villa. Così, hanno replicato con qualche variante il rituale massonico.» «Sì, hanno messo in atto alla lettera il giuramento dell'adepto, anche se questo, come vi ho già detto, è puramente retorico» confermò Ribaudo al prete. «Dapprima non ci avevo creduto perché mi era parsa una messinscena troppo smaccata. Ripensandoci, però, sarebbe valsa, almeno inizialmente, a indirizzare le indagini di polizia verso quella direzione, facendo guadagnare tempo ai Calderari. Poi, scoppiata la famosa guerra europea, gli investigatori avrebbero avuto altro a cui pensare e, se le cose fossero andate secondo i piani, i Calderari sarebbero stati acclamati come eroi. Sì, adesso molte cose mi sono più chiare, a cominciare dal nostro incontro alle Cento Stanzulelle. Stavate recandovi alla villa per quella via, vero?» con-
cluse rivolgendosi alla francese. «Sì» rispose lei. «Quel che non capisco è come facesse Li Volsi a sapere della riunione. Vi dice niente il nome Li Volsi? Avete sentito parlare, negli incontri dei Calderari, di un giornalista con questo nome?» Claire scosse la testa: «Io per loro ero solo la moglie di Jacques Langlois, non facevo parte del consiglio dei capi. Quando ho saputo come stavano veramente le cose ho finto di condividerle, per timore che uccidessero anche me. Ho ingannato anche mio marito, che a quel punto ha creduto di potersi fidare totalmente di me e mi ha rivelato il suo, di progetto. La verità è che non sapevo cosa fare. Ero sola e in terra straniera. Pensavo di andare alla polizia a chiedere protezione, anche se non ero sicura che sarei stata creduta. È stata la vostra cattura a farmi prendere la decisione». «Mah, il biglietto nel cappello di Li Volsi è un mistero che probabilmente resterà tale» disse Ribaudo come parlando fra sé. «Va bene, concentriamoci su quel che sappiamo. Chi sono quelli che fanno parte dei Calderari? Chi sono i capi?» «Temo che questo sia un problema vostro, commissario» rispose Claire. «Vostro e della polizia, intendo. Qualche nome lo avrete certo sentito da dietro il camino, quando eravate nascosti nel passaggio segreto. Da lì potrete magari risalire al resto dell'organizzazione. Io non conosco nessuno di loro, i contatti li teneva mio marito. Potrei solo dirvi qualche nome di battaglia, ma non credo che ci cavereste molto. Mio marito e i capi si scrivevano al fermo posta. E, per quel che ne so, sempre in termini molto generali. Solo nelle ultime lettere c'erano indicazioni più precise, visto che si doveva organizzare il nostro viaggio in Italia. Ma le ha lette solo mio marito.» Intanto don Nicola, affascinato dalla medaglia posata sul tavolo, aveva allungato una mano e l'aveva presa. La rigirava e rimirava, perdendosi le ultime battute della conversazione. Quella medaglia aveva il potere di ipnotizzarlo, con le sue cifre lucide mentre tutto il resto era opaco e color del bronzo vecchio. Senza rendersene conto si era messo a leggere e rileggere la data e la scritta, mormorando a fior di labbra. La sua meditazione su quella medaglia impercettibilmente da pensiero divenne parole, prima sussurrate poi sempre più sonanti. Fino al punto che tutti si erano girati verso di lui e lo guardavano. Tranne il cocchiere, che si era messo a cavalcioni sulla sedia con le mani
appoggiate sullo schienale e il mento sulle mani. E si era addormentato. Del resto, lui di tutta quella storia aveva visto poco e le complesse spiegazioni gli interessavano quanto il racconto della vita della francese che fumava. Erano storie, insomma, e lui aveva lavorato tutto il giorno. Così, era un pezzo che dormiva, senza che nessuno ci facesse caso. Ma stava vicinissimo a don Nicola, e fu proprio quest'ultimo a strapparlo al sonno. Nel dormiveglia sentì il giovane prete dire, a voce sempre più alta: «Tre. Otto. Otto... Otto. Tre. Otto... Otto. Otto. Tre... Ottocentoottantatré. Trecentoottantotto... Boh!». Il cocchiere si svegliò del tutto al "Trecentoottantotto". E farfugliò: «Perché volete andare là?». Nessuno gli diede retta, intenti com'erano l'uno a esaminare la medaglia e gli altri a confabulare riguardo a quel che Claire aveva detto. Il cocchiere avvertì la sensazione spiacevole della bocca impastata e si alzò per andare a riempirsi un bicchiere d'acqua al rubinetto. Bevve e tornò a sedersi, questa volta girando la sedia per non riappisolarsi. Mentre era intento a compiere questa operazione Alicante si irrigidì di colpo e girò la testa verso di lui. «Come avete detto?» chiese, improvvisamente incuriosito. Il cocchiere ci mise un po' a rendersi conto che il prete stava parlando proprio con lui. «Io? Ho detto qualcosa?» balbettò confuso. «Sì» insisté Alicante. «Avete detto "volete andare là" o qualcosa del genere. Anzi, no, avete detto "perché volete andare là?" così avete detto. A cosa vi riferivate?» Adesso si era voltato anche Ribaudo. Don Nicola stava fissando proprio lui, il cocchiere. La francese pure. Imbarazzato nel vedersi così al centro dell'attenzione generale, lui che con quella storia non c'entrava niente, si sedette e, a disagio, biascicò: «No, dicevo a don Esposito. Scusate, mi ero addormentato, mi era sembrato di sentirlo parlare del trecento e ottantotto, quel posto, sapete...». «Che posto?» chiesero quasi in coro Alicante e Ribaudo, adesso vivamente interessati. «Ah, non lo conoscete?» prese atto il cocchiere. «In effetti, sono almeno quarant'anni che non ci va più nessuno.» «Insomma, di che si tratta?» si spazientì il commissario. Califano, intimidito dal tono di quello che era pur sempre un funzionario di polizia, si fece piccino e disse in un soffio: «È un cimitero».
«Un cimitero? Spiegatevi, per la miseria! Non state lì a balbettare!» alzò la voce Ribaudo. L'uomo, piuttosto sbalordito dalla reazione che le sue semplici parole dette in tutta buona fede avevano suscitato, si mise due dita nel colletto e cominciò: «Sta dalle parti di Poggiodecimo, la gente di là lo chiama il cimitero delle trecento e ottantotto fosse perché tante ce ne stanno dentro. L'ho sentito nominare da mio nonno, che faceva il cocchiere come me ma di pompe funebri. Ci portavano i morti degli Incurabili e quelli delle campagne che non tenevano i soldi neanche per il funerale. Come ho detto, è fuori uso da un sacco di tempo. Mio nonno mi spiegò una volta che l'avevano costruito all'epoca del re Carlo con criteri per quel tempo modernissimi. L'avevano fatto quadrato, con una tomba per ogni giorno dell'anno, più sette per la settimana di Natale. Vediamo... quanto fa? Be', ce ne mancano ma non so dirvi altro, né che c'entrassero i giorni dell'anno o Natale. Ma dice che allora era moderno fare così. Ho finito» concluse con un filo di voce. Tutti rimasero a guardarlo in silenzio. Alicante pensava furiosamente, Ribaudo pure. Claire sbatteva le ciglia senza muoversi. Don Nicola cercò di posare lentamente la medaglia sul tavolo ma gli scivolò di mano e il rumore che fece ruppe l'incanto. «Aspetta, aspetta, aspetta! Un cimitero abbandonato e fuori mano!» esclamò Alicante fissando Ribaudo negli occhi. «E una tomba con sopra scritto "Nubius"!» completò quest'ultimo ricambiando lo sguardo. «Un momento, calma, non precipitiamo le cose! È solo un'ipotesi!» aggiunse in fretta. «E fino a ora che altro abbiamo fatto se non andare avanti a colpi di ipotesi?» ribatté Alicante. «Io e don Nicola siamo arrivati alle Cento Stanzulelle seguendo il consiglio di un diavolo, voi avete scoperto le lettere segnate sulle medaglie lavorando di fantasia, il mio direttore spirituale ha intuito che la sillaba mancante fosse "NU" seguendo un lontano ricordo. Mò abbiamo un'altra ipotesi, che potrebbe non essere tanto campata in aria. Io dico che dobbiamo andare a vedere.» «E va bene. Ma quand'anche scoprissimo che quel benedetto - o maledetto, vedete voi - tesoro si trova davvero in questo cimitero delle trecentoventi fosse o come si chiama, che ce ne facciamo? Ai fini della nostra indagine, intendo» esclamò seccato Ribaudo.
«Magari ci peschiamo il marito di questa qui con le mani nel sacco!» rispose Alicante alzando la voce e senza curarsi dell'espressione leggermente urtata di Claire, che evidentemente non era abituata a sentirsi definire "questa qui". Il commissario ribatté, alzando anch'egli la voce, che per quanto se ne sapeva il marito di "quella lì" non aveva alcuna idea del significato del messaggio, di cui tra l'altro gli mancavano un paio di pezzi. Gli altri seguivano con la testa il battibecco, volgendosi verso quello che di volta in volta parlava. Ma a quel punto fu la donna a interrompere l'animato scambio di opinioni. «No, questa l'ha vista.» I due interlocutori tacquero di colpo e tutti si voltarono verso di lei, aspettando che si spiegasse. «Questa medaglia qui» indicò l'oggetto sul tavolo. «L'ho sottratta dopo che l'aveva vista.» Fu don Nicola a porre la domanda: «Cioè?». «L'ho tolta di tasca a Jacques senza che se ne accorgesse. Ha pensato che gli fosse caduta dentro al sarcofago o durante il trasporto del cadavere. Non ha mai neppure sospettato che potessi essere stata io. Come io mai avrei potuto immaginare che fosse un perfido e un assassino. Ora siamo pari.» «Sta di fatto che sa del tre otto otto» proclamò Alicante rivolgendosi a tutti. «Io dico che non possiamo correre il rischio che prima o poi anche lui arrivi alla conclusione che si tratta di un cimitero.» «Forse» chiosò Ribaudo. «Forse» ammise Alicante. «Allora, che si fa?» Con sorpresa generale fu don Nicola, che quasi non aveva aperto bocca per tutta la serata, a parlare. «Io dico che non abbiamo alternativa» disse. «Sarei tentato di suggerire di andarcene a letto, perché sono stanchissimo e avrei voglia di dormire per due giorni di fila. Ma se esiste una pur minima probabilità che il marito di Claire... posso chiamarvi per nome, signora?» Sorriso di assenso dell'interessata. «Bene. Se esiste una minima possibilità, dicevo, che quello abbia già compreso che il numero si riferisce a un cimitero, ebbene, non possiamo trascurarla. Altrimenti andiamo a dormire e buona notte. Ma domani sarà difficile non farci notare dai vicini. Anche se mandiamo via l'amico Califano, il cocchiere, con la preghiera di venire a prenderci domani lonta-
no da sguardi indiscreti, siamo sempre in quattro a dover uscire da qui in pieno giorno. Anche se facessimo travestire Claire da uomo, don Gaeta', voi lo sapete come sono quelli del quartiere. Già li immagino, tutti a fare domande con la scusa di essere servizievoli nei confronti degli sconosciuti che vedono uscire, per giunta furtivamente e alla spicciolata, dalla casa di don Alicante e don Esposito. Ecco fatto, appena uno si avvicina si accorge che siamo proprio noi, in abito borghese per giunta!» Alicante assentì gravemente e fece cenno di andare avanti, incuriosito dallo sfoggio di saggezza del suo discepolo. Il quale, incoraggiato, proseguì: «Perderemmo ore preziose, perché non sappiamo cosa stanno escogitando i Calderari o cosa hanno già messo in atto nel frattempo. Io dico che non possiamo permetterci il lusso di indugiare, e lo dico contro il mio personale desiderio perché, ripeto, sono stanco morto. D'altra parte, se decidiamo di uscire da qui prima dell'alba, vi comunico che abbiamo solo un paio d'ore di sonno a disposizione. C'è da restare rimbecilliti fino a sera, almeno nel mio caso. Vedete voi». Il commissario appoggiò i gomiti sul tavolo e giunse le mani davanti alla bocca, riflettendo. «Devo ammettere che non avete torto» disse dopo qualche istante. «Se fossimo fortunati e potessimo pescare il marito di Claire in quel cimitero lo arresterei e gli metterei i ferri. A quel punto lo porterei in caserma e il mio compito sarebbe finito. Ci penserebbe poi la polizia a fargli sputare l'intero organigramma della sua associazione a delinquere...» «Anche il nostro, di compito, a quel punto sarebbe finito» fece notare Alicante interrompendolo. «Ma se non fossimo fortunati?» si chiese da solo Ribaudo, interpretando il pensiero degli altri. Lasciò volutamente in sospeso la domanda e attese. Tutti si guardavano in faccia indecisi e per un momento la domanda aleggiò nell'aria senza trovare risposta. Fu Claire a rompere il silenzio. «Se davvero il numero tre otto otto indica il cimitero di cui ci ha detto questo signore» indicò il cocchiere, «e una tomba con il nome "Nubius" sopra c'è realmente, secondo me dovremmo prelevare il tesoro prima che ci arrivi mio marito. Il giorno in cui capirà il messaggio si impadronirà di quel tesoro e sparirà, e voi dovreste dare la caccia ai Calderari ricominciando praticamente da zero. Gli uomini che avete lasciato a circondare la villa, non vedendovi tornare, avranno fatto irruzione senza però trovare niente. I Calderari se ne sono andati da là dopo avervi fatto portare in riva al mare. Quel posto è ormai bruciato, per loro, e vi assicuro che avranno
spazzato anche i pavimenti prima di andarsene. Dunque, la villa non vi servirà più a niente. Cos'altro vi rimane? Solo qualche nome sentito da dietro il camino. Bene, fate arrestare questi. Ma prima dovrete rintracciarli e interrogarli. Non vi sarà sfuggito che sono pesci piccoli, soci onorari per così dire; non mi stupirei se risultassero all'oscuro di chi tira veramente le fila. E questi ultimi avrebbero tutto il tempo per fare la loro mossa. «L'unico vantaggio che avete è offerto da quel nome e quel cimitero. Nubius, tre otto otto. Ora, se il tesoro lo trova prima mio marito, siamo fregati. Ma se lo troviamo prima noi, egli sarà costretto a rimanere nei paraggi perché non si darà pace finché non l'abbia recuperato.» «Devo dire che mi convince» osservò Alicante. «E adesso parlerò da prete. Quel tesoro appartiene alla Chiesa, soprattutto ai fedeli che per secoli si sono tolti il pane di bocca per offrire ex voto, arredi preziosi, gioielli alla Vergine. C'è la possibilità di restituirlo e non posso, in coscienza, trascurarla. Non voglio che finisca nelle tasche di questo delinquente francese. Ma neanche che se lo pigli lo Stato. Eh, sì, caro amico!» si rivolse al commissario. «Se farete piantonare o sorvegliare quel cimitero dai vostri colleghi, il tesoro prenderà prima o poi la via dell'erario, che così completerebbe l'opera di Porta Pia. Eggià, perché dovrete spiegare ai vostri superiori cosa c'entra quel cimitero con l'indagine sugli omicidi delle medaglie! Invece, se il tesoro lo prendiamo noi, potrete sempre dire che il marito della qui presente aveva inseguito un sogno, una favola inesistente, una balla tramandata di padre in figlio. Magari, di fare un piacere alla devozione della povera gente a voi non importa nulla; ma io sono persuaso che, a conti fatti, è meglio per tutti, voi e noi» indicò don Nicola e se stesso, «se ci alziamo da qui e andiamo subito in questo famoso cimitero. Quanto abbiamo da guadagnarci supera il poco di sonno che ci perdiamo.» Il commissario rimase un attimo pensieroso a fissare negli occhi Alicante. I due stettero così, l'uno sporto in avanti verso l'altro che lo guardava perplesso, fino a quando Ribaudo batté il palmo sul tavolo e disse: «E va bene. Andiamo». Lui e Alicante si voltarono all'unisono verso il cocchiere. Questi si esibì nel gesto napoletano che consiste nello stringere le spalle, allargare le mani e spingere in avanti la faccia. Tradotto in parole: se lor signori hanno così deciso, mi adeguo e li accontento. «Guaglio', ma la sai, la strada?» gli chiese Alicante, assalito da un improvviso dubbio. Già: ci mancava solo che, dopo tanto dibattere, alla fine
la spedizione risultasse impraticabile. Il cocchiere, sempre a gesti in stile partenopeo, fece capire che no, non la conosceva ma si sentiva in grado di trovarla. Da quel che gli aveva detto suo nonno, aggiunse a voce, aveva capito senza possibilità di dubbio dove si trovava il cimitero delle trecento e ottantotto fosse, e come arrivarci. L'ultimo tratto di strada, avvertì, poteva essere piuttosto malmesso, dato che quel posto era fuori uso da tanto tempo. Dieci minuti dopo erano tutti in carrozza, diretti verso est. Alicante ed Esposito avevano fornito a Ribaudo e Claire lunghi soprabiti neri, da prete, e avevano indossato i loro. Faceva piuttosto freddo, sensazione resa ancora più pungente dalla stanchezza. Il commissario e la donna sedevano da una parte, i due preti dall'altra. Dopo un certo tempo Ribaudo si accorse che la testa di lei gli era scivolata dolcemente sulla spalla. I due di fronte si misero l'indice davanti alle labbra: si era addormentata. Il commissario non si mosse più, per non disturbarla. E stette così, con il profumo della pelle di lei, misto a un leggero odore di salsedine, proprio sotto il naso. Per gran parte del viaggio si sforzò di tenere presente che quella donna era sposata; con un assassino, sì, ma sempre sposata, e che aveva fatto parte di un complotto ai danni dello Stato. Certo, con alcune attenuanti; in fondo aveva denunciato la congiura e gli aveva anche salvato la vita. Ma sarebbe stato il giudice a stabilirlo. Fino ad allora, lei era una cospiratrice e lui un commissario di polizia. Era comunque uno sforzo, il suo. Perché una bella fetta di se stesso gli diceva senza posa che quella era anche la donna più bella e intelligente che lui avesse mai incontrato. E per la prima volta in vita sua Ribaudo sentiva un irresistibile trasporto verso una persona di sesso femminile. Anche se fumava in pubblico. Alicante ed Esposito guardavano lui e poi lei e poi di nuovo lui. A Esposito scappò un inizio di sorriso, subito spento da un'impercettibile gomitata di Alicante. Il commissario si vergognò dei suoi sentimenti, come se fossero stati messi a nudo da quei due preti. Chiuse ostentatamente gli occhi e sperò che la smettessero di fare i cretini. Il cimitero
Uno scossone più forte degli altri scrollò il commissario, svegliandolo di colpo. Aprì e chiuse gli occhi più volte, guardandosi intorno. Si accorse che aveva dormito con la testa appoggiata a quella di Claire, a sua volta adagiata sulla sua spalla. Anche lei si svegliò e trasalì d'imbarazzo quando si rese conto di essere stata per chissà quanto tempo praticamente addosso al commissario. Si scostarono veloci e all'unisono, recuperando il contegno. La carrozza ormai procedeva su pietre, buche, rialzi e avvallamenti, sollevando nugoli di polvere. Ogni tanto un cespuglio sporgente strusciava rumoroso contro la fiancata; capitò che un lungo e basso ramo d'albero si spezzasse con uno schianto secco su uno dei finestrini. Dovevano essere usciti dall'abitato da parecchio, pensò Ribaudo. «Dove siamo?» chiese ai due preti. Questi, la corona in mano, stavano recitando il rosario a bassissima voce. «Non lo so» rispose Alicante. «Ma dovremmo quasi esserci. Con ogni evidenza stiamo percorrendo una strada abbandonata.» «Da quanto siamo in movimento?» chiese ancora il commissario. «Due ore circa» fu la risposta. Proprio in quell'istante sentirono un lungo «Ooooh!» e la vettura fermarsi subito dopo. Su udì il tonfo dei piedi del cocchiere che saltava giù e i suoi passi avvicinarsi. La portiera si aprì e comparve lui. «Siamo arrivati» annunciò. «Il cimitero sta là. Volete che mi ci avvicini con la carrozza o è meglio se la lasciamo qua?» Alicante gli fece segno, con la mano, di aspettare un attimo. Poi, con uno sguardo circolare, invitò gli altri a scendere insieme a lui. Uscì dalla vettura per primo e guardò nella direzione che il cocchiere gli indicava. Davanti alla carrozza c'erano ancora diversi metri di strada quasi completamente nascosti dal verde. "Strada" era, certo, il nome che doveva avere avuto a suo tempo l'attuale percorso da capre; più ampio, sì, di una mulattiera ma atto a far correre qualche rischio a una carrozza come la loro, relativamente piccola e a un cavallo. Per un cocchio a due o più bestie sarebbe stato impossibile percorrerla. Il prete dovette fare qualche passo e scostare un ramo fronzuto per vedere cosa avevano di fronte. Una cinquantina di metri di sterrato, dopo il quale ecco il famoso cimitero delle trecento e ottantotto fosse, livido al chiarore della luna.
Su un lungo muro grigio sporco, che un tempo doveva essere stato a intonaco bianco, Alicante contò sette grandi finestre rettangolari a destra e altre sette sulla sinistra. Partivano da un metro e mezzo circa da terra e arrivavano fin quasi in cima. In mezzo, il portale, più alto del muro e in stile neoclassico, era molto semplice e spartano. Su di esso e sopra tutta la lunghezza del muro uno spiovente di tegole rossicce, segno che il frontale del cimitero doveva essere costituito da un edificio piuttosto somigliante a una certosa benedettina. Le finestre e il portone erano chiusi, naturalmente. Legno rovinato dall'incuria e le intemperie, marcio in alcuni punti. Dove il muro affondava nel terreno era tutto un trionfo di erbacce e più d'una crepa, visibile anche da lontano, saliva ramificandosi verso il tetto. Sul culmine del frontone non c'era la croce, osservò Alicante. Ricordò quel che aveva detto il cocchiere, che il cimitero era stato realizzato come opera modernissima sotto re Carlo. Dunque, lavoro di architetti illuministi, dedusse. Cioè, atei, perché in quel secolo avere i "lumi" significava essere senza Dio. Si consolò parzialmente vedendo che, più in là, una croce c'era. Dietro il cimitero emergeva, infatti, un pezzo di campanile semplice e sobrio, sicuramente un'aggiunta successiva. Qualche chierico doveva aver fatto notare a Sua Maestà che il popolo non era molto contento che proprio i poveracci venissero tumulati lontano dal conforto della religione. Già, il cocchiere aveva detto che ci portavano i morti dell'ospedale degli Incurabili e i nullatenenti. Così, una cappella con relativo campanile la si era pur dovuta appiccicare a quella meraviglia della modernità settecentesca. A scorno degli Illuminati e delle loro fesserie, sogghignò fra sé Alicante. Chissà che diavoleria numerologica si nascondeva dietro quella cifra, trecento e ottantotto, si chiese. Forse i giorni dell'anno e quelli del Natale andavano bene per i sempliciotti come il cocchiere, ma Alicante aveva studiato e sapeva quanto esprit de géométrie avessero in testa i philosophes. Ma rinunciò ad arrovellarsi sulle fantasie illuministiche, non era quello il momento. Si voltò per vedere se fossero scesi tutti. Il cocchiere, che stava legando il cavallo a un cespuglio, disse agli altri di attenderlo un momento perché loro avevano cenato ma la povera bestia no. Dal baule sul retro della vettura estrasse il sacco con l'avena e lo assicu-
rò al collo dell'animale, che vi immerse subito il muso. Fatto questo, l'uomo si girò verso Alicante e mostrò le mani aperte, come dire: "eccomi pronto, possiamo andare". Alicante, che apriva la strada, scostò ancora il ramo pendente ed ebbe la sorpresa di vedere che erano bastati i pochi minuti impiegati ad accudire il cavallo perché lo spiazzo davanti a loro si ricoprisse di un tappeto di nebbia. Bassa, alla caviglia, come si rivelò quando vi si inoltrarono; ma sufficiente a nascondere il terreno. «Questo è un guaio!» sibilò tra i denti il prete. «Se, come immagino, le famose trecento e ottantotto fosse stanno sul pavimento del cimitero, dovremo sudare per trovare la tomba che cerchiamo!» «Abbiamo le lampade!» ribatté don Nicola. «Sì, ma solo due, in casa non ce n'erano altre. Ne avessimo una ciascuno, dimezzeremmo i tempi. Invece... A proposito» si rivolse al cocchiere. «Sarà meglio spegnere le luci della carrozza. Non si sa mai.» L'uomo annuì e si voltò per andare a eseguire. «Aspetta, aspetta!» lo fermò Alicante. Non sentiva quasi più freddo e aveva deciso di togliersi il soprabito. La nebbia bassa l'avrebbe costretto a stare piegato in due e l'indumento sarebbe stato d'impiccio. Se lo sfilò e lo porse al cocchiere, facendo segno con la testa di lasciarlo nella carrozza. Al veder questo, anche gli altri si sbarazzarono dei loro. Califano, raccolti i lunghi soprabiti, andò a gettarli sui sedili, spense le luci e tornò indietro. Ora erano pronti. Avanzarono circospetti, stando bene attenti a dove mettevano i piedi. Infatti, dovendo immergere le gambe nella nebbia, a ogni passo si rischiava una storta. Per giunta, il biancore umidiccio che copriva il terreno sembrava aumentare d'intensità. E perfino in altezza. «Se continua così rischiamo di non vedere più niente» disse piano Ribaudo. «E che volete fare?» gli rispose Alicante. «Aspettare il giorno? Fate conto che, se siamo scalognati, la nebbia si dissolverà solo nelle ore più calde. No, prima che sorga il sole io spero che saremo già tornati a dormire.» Il commissario annuì e procedettero senza più parlare. Non si muoveva una foglia, tutto era immobile e silenzioso. Si udiva solo il lieve rumore dei loro passi. Un'upupa lanciò il suo verso lugubre e don Nicola, che l'aveva sempre considerata un uccello del malaugurio, rabbrividì.
Arrivarono al portone. Videro che era, sì, di legno ma ricoperto da uno strato rugginoso di sottile lamiera, punteggiata di chiodi dalla testa tonda. Grosse borchie di ferro ai lati, fori irregolari e anneriti prodotti dalla ruggine, lunghe striature tracciate da decenni di piogge. Ribaudo provò a spingere con la mano ma si accorse che i battenti, pur malmessi, erano ancora saldi come roccia. Niente da fare, dunque. Si divisero per tentare con le finestre, diversamente si sarebbero dovuti arrampicare; impresa, questa, tutt'altro che facile, giacché il muro non presentava appigli praticabili e lo stato delle tegole, viste adesso da vicino, sconsigliava decisamente una passeggiata lassù. Mentre sparpagliati percorrevano il muro saggiando le finestre si sentì uno schianto che li fece sobbalzare come uno sparo inaspettato. Si volsero di scatto e videro il cocchiere che guardava tutti con espressione dispiaciuta. Aveva un braccio infilato in un angolo di finestra. Il legno corroso aveva ceduto alla sua prima spinta. I due preti si ricordarono della forza dell'uomo e scossero la testa, comprensivi. Si avvicinarono tutti e Ribaudo osservò il buco. Poi, stringendosi nelle spalle, alzò una gamba e sferrò un calcio all'intelaiatura. La finestra cedette di colpo, crollando con fragore all'interno. Don Nicola, atterrito dal rumore, si fece il segno della croce. Alicante lo rassicurò poggiandogli la mano sulla spalla. Ormai, se ci fosse stato qualcuno là dentro, sarebbe già stato messo sull'avviso dallo schianto precedente; per cui non era più il caso di andare per il sottile. Il commissario illuminò l'interno con la sua lampada. La polvere sollevata dalla caduta della finestra si era già abbassata e si poté vedere che la parete opposta semplicemente non esisteva. Al suo posto c'erano sottili colonne. Si introdussero uno alla volta, scavalcando il davanzale. Per gli uomini fu abbastanza agevole, mentre Claire dovette essere aiutata da Ribaudo per via della gonna lunga e stretta. Il commissario la prese per la vita e la sollevò di peso mettendola seduta sul davanzale, poi le tenne la mano mentre lei passava le gambe all'interno. Superarono le colonne e si trovarono in un enorme spazio quadrato circondato da mura. Dal tappeto di nebbia sporgevano, con singolare regolarità, alti ciuffi di erbacce. Sul muro di fronte, proprio al centro, c'era la cappella con il relativo campanile. Era una costruzione molto piccola, perpendicolare al muro di
cinta e dalla classica forma, stretta e lunga, di chiesina. Il campanile spuntava da dietro, tra essa e il muro o forse, per quel che potevano vedere da dove si trovavano, addirittura al di là del muro in questione. Era un torre rotonda priva di cuspide e piuttosto alta, la cui unica apertura era la cella campanaria. In essa, stagliata contro la luna, si vedeva nettamente la sagoma di un'unica campana dalle dimensioni spropositate rispetto all'esilità della torre. Alicante pensò che la lontananza del cimitero dall'abitato rendeva necessario un richiamo in grado di farsi sentire in tutta la campagna circostante. In fondo, lì gli unici rintocchi necessari erano quelli a morto, per i quali un solo, cupo, campanone bastava e avanzava. Il commissario, passando subito al sodo, si chinò, tenendo la sua lampada rasente il terreno e avanzando di alcuni passi. Poi si drizzò e disse: «Ma qui non ci sono nomi! Solo numeri!». Alicante abbassò anch'egli la sua lampada e gli altri si accostarono per osservare. Ribaudo aveva ragione. La pavimentazione era costituita da lastroni di pietra intervallati a distanze regolari da una sorta di tombini quadrati di circa un metro di lato. Ognuno di questi aveva un anello di ferro arrugginito al centro e, in un angolo, un numero arabo inciso. Dai bordi spuntavano lunghi ciuffi d'erba. «Scusate» intervenne il cocchiere, «ma qui sotto ci sono fosse comuni, perciò veniva chiamato, questo, "cimitero delle trecento e ottantotto fosse". Ve l'ho detto che ci seppellivano i morti degli Incurabili e i poveri più poveri. Mio nonno mi diceva che li calavano con certe gabbie di ferro, in una fossa ogni giorno diversa, e l'anno dopo ricominciavano dalla prima. Sono fosse comuni, dunque per forza solo numerate. Chissà quante ossa ci stanno qua sotto!» «Questo significa che chi ha nascosto qui il tesoro ha scritto lui il nome "Nubius" su uno di questi tombini?» chiese don Nicola. «Oppure che, per motivi che non conosciamo, la scritta "Nubius" c'era già ed è servita a chi ha nascosto il tesoro come indicazione per poterlo un giorno recuperare» rispose il commissario. «Non resta che controllare tutti i tombini.» «All'anima della nebbia! Ci metteremo una vita!» brontolò Alicante, passandosi una mano nei capelli. «Ma non c'è altro da fare» sospirò il commissario. «Coraggio, dunque. Poiché abbiamo solo due lampade non ci resta che dividerci. Metà di noi ispezionerà un lato della spianata e metà l'altro, cominciando dalle fosse
più vicine ai muri. Ci incontreremo dall'altra parte, alla cappella, e torneremo indietro controllando un'altra striscia di pavimento. Procederemo così, avanti e indietro, finché non avremo esaminato l'intera superficie. Siete d'accordo?» Tutti assentirono, mettendosi subito in moto. Claire si affiancò istintivamente a Ribaudo, cosa che a quest'ultimo fece molto piacere. I due preti trovarono del tutto naturale fare coppia anche lì e per il cocchiere fu altrettanto naturale seguire i compaesani. Percorsero lentamente, chini, il rispettivo mezzo lato e, giunti all'angolo, proseguirono attaccando le fosse a ridosso del muro. Don Nicola, dal canto suo, prese a recitare mentalmente l'orazione a sant'Antonio di Padova, da sempre invocato per ritrovare le cose perdute. Solo che, a furia di star chinato, dopo un po' cominciò a dolergli la schiena. E, dal momento che non succedeva niente, cambiò santo e si rivolse a san Disma, altrimenti detto il Buon Ladrone, protettore contro i furti. A un certo punto non ne poté più delle fitte e dovette rimettersi dritto. Mentre si massaggiava le reni e si inarcava all'indietro per trovare sollievo, attirò l'attenzione di Alicante e gli chiese: «Scusate, don Gaetano, ma se queste fosse sono solo numerate che senso ha cercare il nome che stiamo cercando? Lo vedete, non ci sono nomi sulle fosse, solo numeri!». Alicante, che aveva approfittato della pausa per stirarsi anche lui, rispose: «Meglio! Se la fossa con il nome sopra è solo una, salterà subito all'occhio quando ci saremo vicini. Senza quest'accidente di nebbia, certo la troveremmo molto prima. Fossimo di giorno e con il sole l'avremmo già avvistata. Ma siamo di notte e c'è la nebbia. Dunque, calati e datti da fare». Con un'espressione poco convinta don Nicola riassunse la penosa posizione e riprese ad avanzare scrutando il pavimento. Ogni tanto doveva spostare lunghe erbe selvatiche; alcune, scattando, lo sferzavano in faccia. E lui sbuffava infastidito. Dal momento che la lampada era una sola e la teneva Alicante, questo stava nel mezzo tra il cocchiere e don Nicola; e gli toccava sorbirsi gli sbuffi del figlioccio alla sua sinistra, nonché gli intermittenti «Questa no. Questa no. Questa no» del cocchiere alla destra. Approfittò di un'altra pausa di stiramento per sbottare: «Ohè, m'avete scassato le saccocce, tutti e due! Oh, anima! Ma la volete finire? Tu con il tuo sbuffare e voi con questanòquestanòquestanò! E statevi zitti un poco, oh! Forza, tutti a pecoroni, di nuovo!».
Si rimisero all'opera, adesso a bocca chiusa. All'altro lato del quadrato, la francese era la più concentrata. Il commissario, a furia di andare avanti chinato e con il viso di lei a pochi centimetri dal suo, non faceva altro che lottare contro l'impulso di cingerle la vita con il braccio. È sposata ed è una cospiratrice, si ripeteva. Ma finì con l'accorgersi che quel che più temeva era altro. Se davvero l'avesse toccata, lei avrebbe potuto reagire con uno schiaffo o, peggio, con una battuta tagliente e mortificante. Così, procedeva cercando di non sfiorarla nemmeno. Solo che, in quella posizione curva e spalla a spalla, era più facile a dirsi che a farsi. Ciò, unito alla stanchezza di una giornata che definire pesante era il meno, si risolveva in crampi e indolenzimento generale. I due gruppi si ritrovarono, alla fine, davanti alla cappella e lì decisero di scambiarsi i lati da esaminare. Prima di tornare a dividersi, però, Claire ebbe un'idea. «Un momento!» esclamò. «Chi ci dice che la tomba non sia nella cappella?» «È vero!» fece Ribaudo. «Se le fosse hanno solo numeri, può darsi che le tombe con il nome siano qui dentro!» «Be', siamo qua, no? Avanti, diamo un'occhiata!» disse Alicante. La cappella aveva una piccola porta sul davanti e una piccola finestra a ogiva su ciascun lato, chiusa da vetri di vari colori e piombati. A causa del buio, della polvere e delle fitte ragnatele si distingueva male ciò che in quei vetri era rappresentato. Figure di santi, forse. Le finestrelle sembravano sigillate e in ogni caso erano troppo strette per poterci passare. Non restava che la porta. Era di legno nero a modanature, a un solo battente. Appariva spessa e robusta, con il buco di una serratura antiquata che occhieggiava vicino allo stipite. Ribaudo provò a palparla piano, memore del fracasso che si era prodotto quando il cocchiere aveva sfondato la finestra sul davanti del cimitero. Con sua sorpresa, bastò il leggero tocco delle sue dita per farla socchiudere. Tutti si guardarono meravigliati. Era dunque aperta. Ribaudo, dopo un'esitazione, tornò ad appoggiare la mano sul legno, questa volta spingendo delicatamente. Con un sinistro cigolio il battente si spalancò sul buio fitto dell'interno, e la lampada rischiarò una porzione di pavimento oltre la soglia. Uno scarafaggio attraversò velocemente il semicerchio di luce e sparì. Ribaudo entrò, subito seguito dagli altri. Sollevò la lampada e si guardò
intorno. La cappella era costituita da un unico ambiente in cui non c'era nulla. Solo, in fondo, un altare neoclassico dal cui ripiano si dipartivano quattro colonnine che superavano i due metri d'altezza. I capitelli reggevano una specie di piccola architrave con al centro la colomba dello Spirito Santo. Lo spazio tra il tabernacolo e la colomba era riempito da quel che sembrava una tela a olio dalla ricca e complicata cornice. Con molta approssimazione si sarebbe detto che raffigurava una Vergine Assunta, ma era troppo scura e rovinata per poter esserne sicuri. Tutto qui, a parte le ragnatele e la polvere. Fecero qualche passo all'interno. Claire si portò una mano sulla bocca per via dell'odore di chiuso. Alicante e Ribaudo subito illuminarono il pavimento alla ricerca di tombe. Non videro che piastrelle color amaranto incrostate di fango rappreso e secco, sterpi e fili d'erba avvizziti, terriccio e polvere. Fu Alicante a notare le impronte di scarpe. Ne avvisò con un tocco del gomito Ribaudo. Il commissario abbassò lo sguardo e le vide. Andavano e venivano in ogni direzione. Qualcuno era stato lì prima di loro. Già, ma quando? Un mese prima, l'altro ieri, oggi? E chi poteva essere? Qualche ragazzino in cerca di luoghi suggestivi? O qualcun altro? Proiettarono la luce delle lampade in qua e in là. Ma, niente, lì dentro c'erano solo loro. Del resto, in un ambiente così limitato, praticamente una stanza lunga e stretta, non c'era dove nascondersi. Il commissario si strinse nelle spalle e tornò a esaminare il pavimento. Presto dovette ammettere che era tempo perso. Diresse allora la luce sulle pareti, imitato da Alicante. Due o tre quadri sciupati che raffiguravano san Sebastiano, santa Rita da Cascia e un vescovo che, pensò il prete, doveva essere san Gennaro. Il resto era intonaco scrostato e qua e là annerito dal fumo di candela. Nel muovere le lampade a un certo punto si notò un barbaglio. Avvicinatisi, videro che si trattava del vetro di una specie di cassetta appesa al muro. Dentro c'era, arrotolata, una frusta di cuoio. Don Nicola si incaricò di leggere la targhetta posta sotto: «Questa è la frusta con cui il Ven. fra Serafino da Poggiodecimo si impartiva la disciplina» recitò. Il resto dell'iscrizione narrava succintamente la vita del Venerabile, morto nel 1799. In effetti, era una vita abbastanza singolare: prima di farsi frate era stato sorvegliante di schiavi nelle piantagioni d'America; poi, convertitosi, era tornato in patria, aveva preso il saio e, per espiare, volto con-
tro di sé lo strumento del suo mestiere precedente. «Amen» concluse Alicante in modo piuttosto irrispettoso, impaziente di tornare alla loro ricerca. Si assolse da solo toccando con le dita il vetro della reliquia e portandosele alle labbra per un bacio. «Su, non perdiamo tempo!» disse, e riprese a esaminare le pareti. Ma non c'era nulla neanche lì. «Quell'accidente di tomba di Nubius qui non ci sta!» esclamò don Nicola, accompagnandosi con un gesto spazientito. «Grazie! Era quel che volevo sapere!» irruppe una voce dal fondo della cappella. Una voce maschile dall'inconfondibile accento francese. Tutti si volsero di scatto e Claire, portandosi una mano alla gola, lanciò un grido: «Jacques! Mon Dieu!». Alicante e Ribaudo avevano alzato d'istinto le lampade in direzione dell'altare, alla destra del quale era comparso il marito di Claire. All'altro lato stava un uomo alto e massiccio vestito di nero. Nella penombra non se ne distinguevano i lineamenti, solo un paio di grossi baffi a spiovente. I due erano stati nascosti tutto il tempo dietro l'altare. Il gioco delle ombre, data la scarsità di luce, aveva falsato la prospettiva e indotto a credere che l'altare fosse attaccato alla parete. Invece, a quanto pareva, c'era spazio sufficiente per almeno due uomini. Ribaudo portò la mano alla pistola ma, sentendosi morire, si accorse che non c'era più. «Cercavate questa?» disse beffardo il francese alzando il braccio. Uscì dall'ombra la sua mano destra che impugnava una pistola. Quella di Ribaudo. Il commissario rimase impietrito e di colpo ricordò tutto. Già: gliel'avevano fatta cadere di mano i Maccabei quando l'avevano catturato alla villa. Poi gli avvenimenti si erano succeduti spasmodici. Infine, la stanchezza e la concentrazione sul lungo racconto di Claire avevano completato l'opera. Facendogli completamente dimenticare la pistola. E adesso eccola là, la sua arma. Nella mano sbagliata. «Jacques! No!» gridò spaventata Claire quando vide la pistola puntata contro di loro. «No cosa?» motteggiò il francese. «Hai paura che ti spari, mia piccola vipera? Ma io voglio ringraziarti! Se non fosse stato per te non avrei mai saputo dove cercare in questo enorme ossario. Ti stupisce che io sia arrivato qui prima di te? Tu e i tuoi nuovi amici non siete gli unici a poter conta-
re su un cocchiere!» L'altro uomo si spostò leggermente in avanti, venendo più alla luce. «Ma è il...!» si strozzò don Nicola, riconoscendolo. Era quello della carrozza danneggiata, l'aveva visto il giorno in cui si erano imbattuti nella coppia di francesi sulla strada delle Cento Stanzulelle. Anche Califano lo riconobbe. Lo aveva accompagnato a procurare un carpentiere e poi riportato indietro. Comprese d'un tratto perché quello non avesse aperto bocca per tutto il tragitto e ricambiato con grugniti i suoi cordiali tentativi di conversazione. Lo aveva creduto un orso. Invece era un infame. «Alfonso era un fedelissimo dei Calderari» lo presentò il francese. «Volontario nei Maccabei, è poi diventato molto più fedele a me. Mi correggo: solo a me. Hélas, mi vide mentre scrivevo il tre otto otto su un pezzo di carta e provavo a combinare diversamente le cifre per cercare di capirci qualcosa. Mi disse che c'era un posto di fosse comuni dimenticate da Dio e dagli uomini che un tempo era chiamato così. Qui sotto ci sono anche le ossa dei suoi antenati, troppo poveri per un funerale regolare. Pare che a Napoli ci tengano molto, ai funerali pomposi, ma non tutti se li possono permettere. La povertà è stata compagna della vita della sua famiglia, che si era un po' sollevata ai tempi dei suoi nonni prima che la conquista piemontese la ributtasse giù. Così, ho pensato che complice più adatto non potevo trovare ed eccoci qui. Ah, se vi state chiedendo come siamo entrati, la risposta è tanto semplice da risultare puerile. Mi stupisco di voi, poliziotto. Da dove credete provenga tutta la sporcizia che vedete per terra? Ma dalla porta, che a quanto pare sta sempre aperta e il vento fa il resto. L'ho accostata io dopo essere entrato quando il rumore della finestra schiantata mi ha fatto capire che io e Alfonso non eravamo più soli. Poi, quando vi ho visto, ho capito. Già, mia moglie. Ho visto come la guardavate, poliziotto, l'altro giorno sulla vostra carrozza. Chissà, magari anche lei, visto che è corsa a salvarvi...» Ribaudo strinse i pugni fino ad affondare le unghie nella carne. Rabbia impotente, la stessa che rodeva Alicante a sentire quelle parole. Avrebbe dovuto prestare più attenzione alle impronte sul pavimento, pensava quest'ultimo dandosi dello sciocco. Avrebbe dovuto metterlo sul chivalà la porta chiusa. Avevano ascoltato immobili e tesi lo sproloquio del francese, don Nicola macinando giaculatorie mentali e Claire trattenendo sgomenta il respiro. Il cocchiere Califano teneva gli occhi aggrottati e fissi sulla canna della pistola, anch'egli non osando muoversi di un millimetro.
«Bene, monsieurs. Ora lasciate le lampade per terra davanti a voi. Mettetele lì, al centro, così possiamo vederci tutti bene in faccia» disse il francese, indicando con la canna della pistola il punto. «State molto attenti a non fare scherzi con quelle lampade mentre le posate, perché a questa distanza non posso mancarvi» aggiunse. Alicante e Ribaudo, serrando le mascelle, eseguirono. «Vorrete scusarci ma adesso io e il mio socio abbiamo da fare» disse, fattosi gelido, il francese. «Questa pistola ha sei colpi e voi siete cinque. Adieu.» E tese il braccio puntando l'arma contro il gruppo. Si udì uno schianto di vetri rotti, subito seguito da un sibilo e uno schiocco. Allibiti, i nostri videro la pistola volar via dalla mano del francese e descrivere un arco sopra le loro teste. Tutti guardarono in direzione del cocchiere Califano, che più svelto del lampo aveva fracassato il reliquiario del Venerabile, impugnato la frusta e con quella strappato l'arma di mano al francese. «Bravó!» gli gridò trionfante Claire. Califano sorrise modesto. Sì, era una lunga frusta di cuoio, da schiavi, diversa da quella che usano i cocchieri italiani con i cavalli; ma una vita passata a incitare bestie una certa pratica la forniva. Subito, però, non ci fu più tempo per i complimenti perché Alfonso e Jacques, le facce livide, avevano tirato fuori di tasca un grosso coltello da cacciatore ciascuno. Califano provò ancora con la frusta ma ormai quelli erano sull'avviso e schivarono facilmente. I due avanzarono cauti, i coltelli branditi, verso i cinque compagni. Questi, lentamente e senza perdere di vista le lame, si raggrupparono a ridosso della parete. Ribaudo cercava di fare scudo a Claire con il suo corpo, Alicante e Califano puntavano l'uno il francese e l'altro il collega, don Nicola strisciava con le spalle lungo il muro. Una strana danza attorno alle lampade andò avanti nel silenzio più assoluto, fino a quando le posizioni dei due gruppi non furono completamente mutate. I cinque erano finiti contro la parete di destra e i due davanti a quella di sinistra. Il cocchiere Alfonso, vedendosi a breve distanza dalla porta, fece ancora un passo e con la mano libera afferrò la grossa stanga di ferro che pendeva da un anello infisso nello stipite. Era la sbarra, ritorta in cima, che serviva a fermare il battente.
Con forza ne infilò l'estremità nell'anello che spuntava dallo stipite opposto. Il fragore rimbombò nella cappella. Passando il coltello nella sinistra, l'uomo assestò un gran pugno al centro della stanga, piegandola. Ora la porta era praticamente sigillata e tutti erano chiusi dentro. Guardando lo scintillio di una delle due lame, don Nicola raggelò al pensiero. Il campanile La sbarra che l'uomo aveva piegato con un solo colpo era spessa, a occhio e croce, dai quattro ai cinque centimetri. Alicante lanciò uno sguardo verso Califano. Si era stupito, ricordò, allo spettacolo di quest'ultimo che torceva con due dita un chiodo da cavallo perché non aveva mai visto una forza simile in vita sua. Ma quel che vedeva adesso valeva almeno il triplo. Ma che mangiano 'sti cocchieri? pensò. Certo, il momento era il meno adatto per fare gli spiritosi. Infatti Alicante era spaventato. Si spaventò ancora di più quando vide che Califano era più spaventato di lui. La forza spropositata di quell'energumeno pareggiava i conti in campo. Erano, sì, cinque contro due. Ma uno di loro era una donna e don Nicola non aveva mai fatto a botte in vita sua, neanche da ragazzo. Dunque, erano praticamente tre uomini inermi contro due armati di coltello. Uno dei quali un ercole. La fuga era ormai impossibile, e per giunta c'era una donna da proteggere. Alicante, senza mai perdere di vista i movimenti dei coltelli, lanciò un altro fugace sguardo verso Califano e indicò, sempre con gli occhi, la frusta che questo aveva ancora in mano. Quello comprese, benché non ce ne fosse bisogno: stava solo aspettando il momento opportuno per servirsene. Infatti, era conscio di poter permettersi un colpo solo e non sapeva dove indirizzarlo. Decise di agire contro il nemico più debole. Fulmineo alzò la frusta e la abbassò in direzione del francese. Ma Alfonso, altrettanto rapido, intercettò la sferzata e la parte finale della frusta gli si attorcigliò al braccio sinistro. I due cocchieri rimasero così, fermi a fissarsi con odio, ciascuno stringendo un capo della frusta. Ricominciò la danza lentissima attorno alle lampade. I due gruppetti de-
scrivevano una stretta ellisse tagliata da una frusta tesa. Ma di colpo Alfonso diede uno strattone e scoppiò il finimondo. Il possente cocchiere aveva aspettato, per tirare a sé la frusta, che Califano nel suo lento moto verso la destra sollevasse leggermente il piede. Califano, sbilanciato, non offrì resistenza e si ritrovò pancia a terra. Ma riuscì a non mollare la presa, così il suo fu un letterale salto in avanti verso Alfonso. Non aveva ancora toccato il pavimento che già Alicante era scattato verso il bestione. In un solo balzo gli fu addosso afferrandogli con tutte e due le mani il polso per cercare di disarmarlo. Califano, che lo strattone aveva trascinato fino ai piedi del collega baffuto, provò a dargli manforte; si rialzò ma subito si ritrovò in ginocchio e con la frusta attorno al collo. L'avversario era stato più svelto e, con la sinistra, gliel'aveva avvolta velocemente intorno alla testa. E ora lo strangolava. Sembrava di vedere il gruppo statuario di Laocoonte che lotta con i serpenti, i figli ai piedi. Alicante da un lato non riusciva a impadronirsi del coltello; Califano, inginocchiato, cercava di liberarsi dalla stretta; Alfonso, in mezzo e a gambe larghe, teneva a bada tutti e due come un gorilla assalito da un paio di scimpanzé. A un tratto Alicante si accorse che i suoi piedi fluttuavano per aria. Aggrappato al polso dell'erculeo cocchiere, era stato letteralmente sollevato da terra. Da un solo braccio. Mentre da un lato si svolgeva questa scena furibonda, il commissario, conscio del fatto che quei due intendevano ucciderli tutti, non era rimasto in attesa. Nello stesso istante in cui Alicante si era lanciato su Alfonso, Ribaudo aveva spazzato disperatamente con gli occhi il pavimento per cercare dove fosse finita la pistola. Ma non la vedeva perché le lampade stavano al centro e lasciavano troppi angoli bui. Il francese, che teneva a bada con il coltello lui, don Nicola e la donna, comprese e un ghigno gli attraversò la faccia. Ribaudo pensava furiosamente. Le lampade. Forse, se fosse riuscito con un paio di calci a spegnerle... Certo, nell'oscurità le cose non sarebbero cambiate molto, per loro. Ma almeno c'era una possibilità di ribaltare la situazione. Purtroppo per lui al francese non sfuggì neanche la sua rapida occhiata alle lampade. Sempre ghignando scosse la testa: «Non ci provate, poliziotto dei miei stivali. Non ci provate».
Ribaudo guardò angosciato verso la porta, dove Califano e Alicante lottavano con tutte le forze con Alfonso. Le cose si stavano mettendo male per loro. Califano, il viso paonazzo e gli occhi fuori dalle orbite, boccheggiava cercando disperatamente di allargare la stretta al collo. Alicante veniva sbattuto ripetutamente contro la porta, e a ogni colpo la stanga gli entrava nelle costole. Preso dalla disperazione, il commissario si gettò a testa bassa contro il francese subito imitato da don Nicola. Jacques, che non si aspettava un gesto così insensato, d'istinto vibrò un fendente a casaccio e infilò la lama nella spalla del giovane prete. Questi, gridando dal dolore, cadde a terra ma, ormai lanciato, travolse il francese. Il commissario si gettò subito sul groviglio di membra, incurante delle urla straziate di don Nicola. In un istante la colluttazione riguardò solo Ribaudo e Jacques, che rotolavano avvinghiati sul pavimento. Il commissario, oltre ad avere una certa esperienza come poliziotto, era più robusto e non avrebbe tardato ad annullare con i suoi muscoli il vantaggio che il coltello dava all'altro. Ma neanche quest'ultimo tardò a rendersene conto. La lotta proseguì furiosa fino a quando Jacques, riuscito a liberare la mano con cui stringeva il coltello, tirò un fendente alla cieca. Ribaudo vide arrivare la lama troppo tardi e non riuscì a evitarla. Solo l'istinto lo salvò ma la punta del coltello gli aprì un taglio sulla fronte. Mezzo accecato dal sangue che gli colava sugli occhi, cercava di colpire con i pugni dovunque poteva. Jacques, quando l'ebbe a tiro, gli sferrò una gomitata proprio sulla ferita, strappandogli un urlo di dolore e riuscendo a fargli allentare la presa. Fu un attimo, ma bastò al francese per balzare in piedi e precipitarsi verso la moglie. Quando Ribaudo poté tornare a usare gli occhi vide lei con un coltello puntato alla gola e lui che, serrandogli il collo con un braccio, se ne faceva scudo. Il commissario si alzò faticosamente da terra, si tolse il sangue dalla faccia e tese le mani in un patetico gesto di rassicurazione rivolto a Claire. Anche don Nicola, malgrado il dolore alla spalla sanguinante, cercò di rimettersi in piedi. «A quanto pare non mi sbagliavo?» disse ansimando il francese. «Questa donna vi è carissima, mentre per me non conta più niente.» Gettò uno sguardo verso la porta, dove Alfonso lottava con Alicante e Califano. La situazione, là, sembrava in stallo. Alfonso teneva testa agli al-
tri due, ma dava segni di cedimento: il prete, pur in difficoltà, non gli permetteva di usare il coltello e Califano era riuscito ad allentare la presa quanto bastava per non soffocare. Il francese sembrò prendere una decisione. Cominciò a indietreggiare verso l'altare, sempre tenendo stretta la donna. I due feriti, pur con passo incerto, lo incalzavano. Jacques, trascinando la terrorizzata Claire, sparì dietro all'altare. Ribaudo e don Nicola si affrettarono ma quando poterono anche loro aggirare l'ostacolo videro che nella parete retrostante si apriva uno strettissimo passaggio ad arco privo di porta. Lo oltrepassarono e si trovarono in una torre cilindrica percorsa da una scala a chiocciola i cui gradini spuntavano dalle pareti. Dall'alto, proprio al centro, pendeva una grossa corda più volte annodata. Compresero di essere penetrati nel campanile ma era troppo buio per vedere altro. Il commissario si precipitò a prendere una lampada e, tornato subito indietro, la tenne il più possibile in alto per illuminare la scala. Jacques, trascinando la moglie, saliva i gradini all'indietro, uno alla volta. «Dove credete di andare?» gli gridò il commissario. «Lasciatela! Che farete una volta lassù?» «Che farete voi quando il mio cocchiere si sarà disimpegnato!» rispose con il fiato rotto il francese. «Io ho il tempo dalla mia! E non cercate di portare soccorso ai vostri amici, altrimenti l'ammazzo! Restate qui sotto, dove possa vedervi!» Accompagnò le ultime parole con gesto inequivocabile: fece passare il filo della lama sul collo della moglie, che singhiozzò atterrita. «No, no!» gridò il commissario, gesticolando. «Va bene, va bene! Non fatele del male!» Guardava impotente l'uomo portarsi via Claire e si torceva le mani. Quel maledetto aveva ragione: doveva solo aspettare che il suo cocchiere avesse ragione di Califano e Alicante, poi il Maccabeo sarebbe venuto a uccidere lui e don Nicola. A quel punto, avrebbe ammazzato anche Claire. Disperato, prese la sua decisione. Sarebbero morti comunque, tanto valeva tentare qualcosa. Don Nicola non era in condizioni di aiutarlo, dunque avrebbe agito da solo. Lasciò la lampada al prete, gli fece segno di restare lì dov'era e cominciò a salire. Don Nicola si lasciò crollare a terra, seduto, e cercò di tamponare il san-
gue che gli usciva copioso dalla spalla. Ribaudo saliva, cauto e lento, gradino dopo gradino, nel buio, guidato dal riquadro illuminato dal chiarore della luna in alto. Procedeva rasente al muro, cercando di non far rumore. Ogni tanto doveva asciugarsi le palpebre dal sangue che gli colava sugli occhi. Quando la sua testa emerse dalla tromba delle scale, Jacques e la moglie erano vicinissimi al bordo del precipizio, stagliati contro la luna in uno dei quattro grandi archi che costituivano la sommità del campanile. Il commissario alzò gli occhi e vide l'interno della smisurata campana, con il suo batacchio simile a un enorme pestello pendente al centro. Uscì dalla botola in silenzio, sperando di poter restare nascosto dalla mole della campana. Ma subito senti la voce sardonica del francese: «Siete testardo, poliziotto! Dovete tenerci molto a questa qui!». «Non avvicinatevi, per l'amor di Dio!» gridò Claire. «Oh oh! Allora la cosa è reciproca! Chi l'avrebbe mai detto!» esclamò con finta sorpresa Jacques. Ribaudo si muoveva lentamente verso i due. «Ah, ma allora proprio non capite!» gli gridò il francese. Il commissario rallentò ma la tentazione di continuare ad avanzare fu più forte di lui. Ormai era a soli due metri dalla meta. «E va bene, sbirro! Non vuoi credere a quel che ti dico? Bon, la colpa sarà solo tua!» Con una mossa fulminea il francese spinse la donna oltre il bordo. Lei, colta di sorpresa, roteò le braccia, emise uno strillo acutissimo e cadde fuori. «Nooooo!» urlò disperato Ribaudo, lanciandosi in avanti. Si gettò bocconi sul bordo dell'arco e sgranò gli occhi per il sollievo di trovarvi Claire aggrappata con le dita, il resto del corpo penzolante nel vuoto. Immediatamente tese le mani per afferrarla ma una coltellata nella schiena glielo impedì. Ribaudo si inarcò per il dolore mancando la presa. Con un urlo prolungato Claire piombò in basso. Il suo grido fu interrotto da un tonfo. Poi fu silenzio. Il commissario si voltò come una bestia selvaggia e riuscì a cogliere il francese ancora chino su di lui. Gli affondò i denti nel collo strappandogli un urlo lancinante. Poi i due lottarono furiosamente, rotolando sull'impiantito di legno. Malgrado la furia animalesca che lo aveva invaso, il commissario dove-
va fare in conti con la ferita alla schiena. Le forze poco a poco lo abbandonavano e a malapena riusciva a tenere la mano con il coltello lontana dal suo petto. Nell'ennesima giravolta Ribaudo finì con le spalle a terra, torcendosi dal dolore per l'impatto della ferita con le assi mal connesse. Il francese si accorse del proprio vantaggio e, trionfante, si mise a cavalcioni del suo avversario. Si drizzò per vibrare la pugnalata definitiva e Ribaudo istintivamente si parò il volto con una mano. Seguì un rumore sordo e uno scricchiolio come di ossa spezzate, poi il corpo del francese si abbatté su di lui, inondandogli la faccia di sangue. Quando Ribaudo riuscì a liberare gli occhi, vide che cos'era accaduto. La campana. Si muoveva. E continuò a oscillare fino a quando il batacchio ne raggiunse il bordo. Allora un suono cupo, lugubre ma assordante si sparse nell'aria. E continuò, lento, regolare. Il commissario comprese che, lottando, lui e il francese erano finiti sotto alla campana. Jacques, drizzando il busto per il colpo finale, si era trovato con la testa tra il bronzo e il batacchio proprio quando questo, dopo alcune oscillazioni a vuoto, raggiungeva il bordo della campana. Il suo cranio era rimasto stritolato. Ribaudo si liberò del corpo del morto e rotolò verso la botola. Guardò in basso, verso la luce della lampada, e vide don Nicola appeso alla corda. Con la faccia contorta in una smorfia di sofferenza andava su e giù, mentre in alto la campana continuava a suonare monotona nella notte. Ribaudo cercò di rimettersi in piedi ma, nel sollevare la testa, all'improvviso tutto cominciò a girare. E ricadde svenuto. Era stata la disperazione a suggerire a don Nicola di aggrapparsi alla corda. Lui l'avrebbe chiamata Provvidenza o con il nome di qualche santo, certo, ma talvolta quando uno non sa che pesci prendere finisce per fare la prima cosa che gli balza in mente. Lui, sì, avrebbe insistito che era stato san Giuda Taddeo, patrono delle cause impossibili e dei disperati, a metterglielo in testa; tuttavia è possibile che, chissà, magari intendeva chiedere aiuto suonando la campana. Magari. Comunque, fece la cosa giusta. Ma, dopo alcuni su e giù, le forze lo abbandonarono. Stramazzò sul pavimento mentre in alto, sopra la sua testa, lenti rintocchi baritonali si diffondevano nella notte. Nella vicina Poggiodecimo qualcuno, svegliatosi al suono della campana
del cimitero abbandonato, si segnava e accendeva un lumino davanti all'immagine delle Anime Sante del Purgatorio. Don Nicola, sopraffatto dal dolore alla spalla e dallo sfinimento, sprofondò in una specie di deliquio. Stava lì, supino, con la testa rivolta verso la lampada, mentre i rintocchi della campana si facevano più radi. Provò a chiamare il commissario ma dalla gola gli uscì solo una sorta di rantolo. Poi i rintocchi cessarono ed egli non sentì altro. Ormai non avvertiva più la spalla, e neanche il braccio e la mano. Gli occhi gli bruciavano. Li chiuse. Pensò che non gli importava più di nulla, che voleva solo dormire, dormire. Uno sparo. Don Nicola sobbalzò e strinse i denti perché il movimento brusco gli aveva procurato una fitta insopportabile alla spalla. Niente, per il riposo doveva rimandare, il destino cane voleva che per lui quella notte non dovesse ancora finire. Voltò la testa verso la direzione del botto ma l'altare gli precludeva la vista di quel che stava succedendo nella cappella. D'improvviso si ricordò. Là c'erano Alicante e Califano che lottavano per la vita contro quella bestia di cocchiere. La disperazione tornò a impadronirsi di lui. L'ultima cosa che aveva visto era il commissario che spariva su per le scale dietro al francese che teneva un coltello alla gola della moglie. Poi, il suono della campana e infine più niente. Ora, lo sparo. Sentì un tonfo. Silenzio. Uno scalpiccio che si avvicinava. Pregò san Giuseppe, patrono della buona morte, e cercò di fare un atto di contrizione perfetto così come gli avevano insegnato le suore all'orfanotrofio. Poi, con gli occhi sbarrati, attese. Se doveva morire, voleva farlo da sacerdote, perdonando al suo carnefice. «Nicoli'! Gesummaria! E che è successo? Nicoli', rispondi! O Vergine del Carmine, fa' che non sia morto!» Don Nicola sorrise al sentire la voce del suo padrino, la prima cosa che lo raggiunse. Prestissimo fece seguito il viso stravolto di don Gaetano, la chioma scomposta e un occhio nero. Ma non gli era mai sembrato così bello e gagliardo. «Oh, grazie a Dio, grazie a Dio! Non mi sarei mai perdonato...» proruppe Alicante quando vide il giovane prete sorridere. Lo abbracciò e lo tenne stretto, cullandolo quasi come un padre. Quello, con un filo di voce, gli sussurrò all'orecchio: «Il commissario...
sta di sopra... aiutatelo...». Don Nicola, sia pur malconcio, era vivo. Alicante fece un cenno a Califano, che si era inginocchiato accanto a lui per controllare lo stato del giovane. I due si precipitarono su per le scale e il ferito poté vedere che Califano stringeva in pugno una pistola. Chiuse di nuovo gli occhi, ringraziando di tutto cuore san Giuseppe per averla fatta, la grazia, a tutti e tre. Ma questa volta rimase lucido e con le orecchie tese, aspettandosi altri colpi di pistola. Scomodò ancora san Giuseppe affinché non lasciasse le cose a mezzo e soccorresse anche il commissario e la donna, il cui urlo prolungato e straziante l'aveva agghiacciato alcuni minuti prima. Non sentendo nulla aprì gli occhi e vide le scarpe di don Gaetano entrare nel cerchio di luce della lampada. Scendeva piano, un gradino alla volta. Per un lunghissimo secondo temette di veder spuntare dietro di lui il francese armato. Ma smise di trattenere il fiato quando comprese che dietro di lui c'era Califano. Quest'ultimo portava sulle braccia il corpo del commissario e il prete lo aiutava precedendolo. Don Nicola si rese subito conto che il commissario era ancora vivo dalle attenzioni che i due gli usavano. Il commissario venne adagiato accanto a don Nicola e il cocchiere gli pulì la faccia dal sangue. In quell'istante Ribaudo aprì gli occhi e tutti tirarono un respiro di sollievo. Ribaudo sollevò un angolo della bocca cercando di sorridere. «Lei... è morta...» riuscì a sussurrare prima di perdere di nuovo i sensi. Alicante gli appoggiò un orecchio sul cuore. Si rialzò tranquillizzato e disse a don Nicola: «Te la senti di camminare?». Quello fece segno di sì con la testa e si sollevò su un gomito. Alicante lo aiutò a mettersi in piedi e lo sorresse. Il cocchiere prese ancora tra le braccia il commissario e seguì i due preti nella cappella, dove Alfonso stava riverso per terra ai piedi della porta. Aveva gli occhi vitrei e una grande chiazza di sangue al centro del petto. «Che è successo?» chiese flebilmente don Nicola. «Dopo» rispose Alicante. «Il commissario mi pare messo male e neanche tu sei granché arzillo. Andiamo via da qui alla svelta, poi ti racconto tutto.» Giunti in fondo alla cappella, il cocchiere depose delicatamente per terra il commissario e Alicante guidò don Nicola ad appoggiarsi alla parete. Poi i due presero il corpo del morto l'uno per le ascelle, l'altro per i piedi e lo spostarono quel tanto che bastava a liberare la porta. Ora però veniva il difficile. Unirono le forze e, dopo una serie di violenti
strattoni, furono in grado di disincastrare la stanga. Spalancato il battente, uscirono all'aria aperta. Ormai albeggiava e la coltre di nebbia era quasi scomparsa. Non persero tempo a recuperare le lampade, tanto ormai ci si vedeva abbastanza, ma si incamminarono alla maggior velocità che potevano sul grande quadrato in cui il tappeto di nebbia stava dissolvendosi a vista d'occhio. La forza di Califano non era, certo, paragonabile a quella del collega morto, ma era pur sempre considerevole e mise in grado il cocchiere di attraversare la distesa di tombini reggendo il corpo del commissario senza perdere il passo rispetto ad Alicante e don Nicola. Ma scavalcare la finestra abbattuta richiese complicate manovre congiunte di don Gaetano e del cocchiere. Percorsero gli accidentati cinquanta metri dello spiazzo incespicando e, il cocchiere, maledicendo il Vesuvio, la morte, la Francia e ogni altra cosa contro cui, secondo lui, era lecito imprecare. Quando finalmente arrivarono alla carrozza il sole già faceva capolino dietro il muro del cimitero. Aiutato da Alicante, il cocchiere mise il commissario bocconi su un sedile, sistemò anche don Nicola e andò a liberare il cavallo dalla sacca di biada ormai vuota. Poi saltò a cassetta e con un fischio spronò. All'interno, Alicante esaminò sommariamente la ferita nella schiena di Ribaudo e la tamponò alla meno peggio con un fazzoletto ripiegato più volte. Gli si inginocchiò accanto tenendo il fazzoletto premuto. «Guaglio', e tu come stai?» disse rivolto a don Nicola. «Niente, don Gaeta', è un graffio!» sussurrò quello, gli occhi chiusi e la testa appoggiata al vetro del finestrino. «Come no! È arrivato l'eroe della situazione!» ironizzò Alicante. Poi, addolcito: «Stringi i denti, figlio mio. Appena arrivati a casa vado a chiamare padre Di Lucia al convento e ti fai dare un'occhiata a quella spalla». «Come, non il dottor Pierro?» chiese don Nicola. «Meglio di no. È un brav'uomo, certo, ma lo sai com'è sua moglie, l'indomani lo saprebbe tutta Napoli. No, niente. Invece, al convento a quest'ora sono già svegli, e al frate portinaio posso imporre il silenzio quasi fosse un vincolo sacramentale. Mò sta' zitto, non ti affaticare, penso a tutto io.» «Come volete. Io, però, muoio dalla curiosità di sentire cos'è successo.» «Eh, la Vergine si è ricordata dei buoni!» sorrise don Gaetano. «Devi sapere che io a un certo punto, non sapendo più che fare, ho dato alla mano di quel sacripante un morso che ancora se lo ricorderebbe se fosse vivo.
Così, quello che ha fatto? Ha mandato a gambe levate il nostro Califano per avere tutte e due le mani libere contro di me. Infatti, ecco qua» si indicò l'occhio tumefatto. «Il povero Califano» riprese subito «era andato a sbattere qualche metro più in là, vicino al muro, e la sorte ha voluto che cadesse proprio sulla pistola del commissario. Senza pensarci due volte l'ha presa e ha sparato. Giusto in tempo, perché quello mi aveva messo le mani alla gola e io me la stavo vedendo davvero brutta! Invece, sia lode al Signore, eccomi qua!» Don Nicola sorrise e mentalmente cominciò a ringraziare tutti i santi che conosceva. Alicante aprì il finestrino, si sporse e gridò al cocchiere: «Califa', vi voglio bene, vediamo di fare presto, eh?». «Padre Di Lucia, mi raccomando, è cosa della massima riservatezza. Per desiderio del cardinale in persona! Voi mi capite.» «State tranquillo, don Alicante. Sono una tomba. Ma fatemi vedere quell'occhio!» L'anziano religioso dei Fatebenefratelli prese fra le mani la testa di don Alicante ed esaminò la tumefazione. «Poca cosa» disse. «Teneteci sopra un impacco di acqua fredda, più fredda è meglio è. Tra qualche giorno non si vedrà più niente.» «Come stanno quei due?» domandò Alicante accennando alla porta chiusa. «Direi non male. Don Esposito l'ho cucito. Dovrà tenere il braccio al collo per un po', tutto qui. L'altro è stato fortunato. La lama non ha toccato organi vitali. Ho solo dovuto mettere qualche punto in più. Tenetelo a letto finché non ritorno a levarglieli. E dategli da mangiare carne equina, che fa sangue. Mò lasciateli dormire, che il sonno è il miglior rimedio. Basta, me ne vado. Cristo regni.» «Sempre con Maria. E grazie ancora» rispose Alicante accompagnando il religioso alla porta. Aspettò, l'orecchio al battente, di sentirlo scendere le scale, prima di portarsi al lavabo e appoggiarvisi sopra con tutte e due le mani. Si guardò nello specchio. La sua faccia faceva paura. Sporca, gli occhi cerchiati, il gonfiore violaceo, i graffi sulle guance, la barba ispida. Si insaponò le mani e si sciacquò il viso cercando di non premere sul bozzo. Si asciugò delicatamente, poi tornò al rubinetto per un bicchiere d'acqua fresca. Tracannò e ne riempì un altro. Dopo aver bevuto anche questo crollò seduto su una sedia, lo sguardo davanti a sé.
Pensò ai cadaveri rimasti al cimitero, quello del cocchiere e quello del francese in cima al campanile. Chissà dov'era finita la donna. Per fortuna da quelle parti non andava mai nessuno. Sì, c'era la possibilità che il suono della campana avesse stuzzicato qualche curioso. Ma non si poteva farci niente, era un rischio da correre. Alicante si mise a riflettere su come potesse fare per andare alla svelta a recuperare quei cadaveri prima che qualcuno li scoprisse. E anche per dar loro cristiana sepoltura. Sì, erano assassini impenitenti, certo. Ma lui era pur sempre un prete. Decise che avrebbe aspettato il ritorno di Califano. Per fortuna era scapolo, quel giovanotto, e non aveva nessuno cui rendere conto su dove avesse passato la notte. Ma doveva prendersi cura del cavallo, sua unica fonte di sostentamento. Alicante avrebbe atteso il suo ritorno anche per mettere qualcosa nello stomaco, perché tutto quel movimento notturno gli aveva messo un appetito da carestia. E poi, sì, per progettare il recupero dei corpi. Ora che ci pensava, però, avevano riportato la pelle a casa, ma la tomba di Nubius non l'avevano mica trovata! Dunque, la spedizione era stata praticamente un fallimento e tutto restava ancora da fare. E i Calderari, poi? Già, i Calderari, i Calderari. Rifletteva e percorreva con lo sguardo la stanza, senza però soffermarsi su niente di preciso. Allungò le gambe con fatica e sollevò il viso per allentare i muscoli della nuca. Si allungò sulla sedia e poggiò la testa sulla spalliera, mettendosi a contemplare il soffitto. Fu così che scivolò, senza accorgersene, in un sonno profondo. Il tesoro Il cocchiere Alfonso, enorme su di lui, gli serrava il collo con le mani e la sua fronte lo colpiva in testa, una, due, tre volte. E ancora, ancora. Lui, stranamente, riusciva a respirare malgrado la stretta ma la testa ronzava e rimbombava. Sempre di più, sempre di più, di più. Alicante si svegliò di soprassalto. Sbatté gli occhi più volte e si guardò in giro, stentando a riconoscere le cose intorno a lui. Stordito, gli ci volle qualche istante per realizzare che i colpi che sentiva provenivano dalle scale. No, era la porta in basso. Scosse la testa per riacquistare lucidità. Nella stanza era quasi buio. La finestra era rimasta con gli scuri aperti e, nel cie-
lo mezzo rosso e mezzo nero, si vedeva qualche stella. Ma che ora era? Colpi ripetuti. Califano. Si alzò di scatto dalla sedia ma ricadde seduto. La testa gli girava. Aspettò un attimo che gli oggetti nella stanza tornassero a fuoco, poi si sollevò con cautela e si diresse alla porta. «Chi siete? Che cercate? Don Alicante non ci sta! Volete lasciare detto a me?» La voce acuta, femminile, proveniva dalla finestra al pianterreno della casa accanto. Oddio, la vicina! Si diresse alla finestra per aprirla e far presente che era in casa ma si fermò a metà percorso. No, l'impicciona avrebbe visto il suo occhio nero. Tornò indietro, andò al lavabo, prese l'asciugamano. Aprì la finestra e si sporse, fingendo di asciugarsi la faccia. «No, commare Santina, non vi date pensiero! Io qua sto!» disse quasi gridando, perché quella lo sentisse bene. La donna alzò la testa e lo vide: «Ah, e io credevo che non ci stavate! Ma quando siete rientrato?». Alicante, sempre con l'asciugamano su metà della faccia, fece capire a gesti che era già un po'. Ma lei non si diede per vinta: «Avete bisogno di qualche cosa? Non fate complimenti!». Accompagnando le parole con un gesto di cortese diniego, il prete rispose: «Grazie, grazie! No, niente, grazie! Ritiratevi pure, che è persona mia! Grazie ancora! Salite, Califa', sta aperto!». E richiuse la finestra. Rimase un attimo a spiare, defilato. Come previsto, commare Santina chiuse la sua finestra solo dopo aver gettato un'ultima, approfondita occhiata all'ospite del prete. Mandandola a quel paese con gesto silenzioso, Alicante andò ad aprire la porta. Il cocchiere era già lì, trafelato per aver fatto i gradini a due a due. «Scusate, don Alicante, sono mortificato. Ma è successo che, dopo aver badato al cavallo, sono entrato nella carrozza per pulire i sedili dalle macchie di sangue. Sapete com'è, mi sono detto che se i clienti entravano e vedevano quel sangue... Insomma, non ci crederete ma mi sono addormentato. Sul sedile.» «No, al contrario. Ci credo, ci credo eccome! Ma sapete che vi dico? Meglio, così ho potuto dormire un poco pure io. Ne avevamo bisogno tutti e due. Venite, sedetevi che dobbiamo parlare.»
Il cocchiere accettò la sedia e stava giusto accomodandosi quando si aprì la porta della camera e comparve don Nicola. Il braccio al collo, gli occhi gonfi di sonno, i capelli arruffati. «Nico'!» Alicante si precipitò a sorreggerlo. «Ma tu che ci fai alzato?» «No, no, sto bene, sto bene, non vi preoccupate. Cammino benissimo da solo, vedete?» e fece due passi traballanti verso il centro della stanza. Alicante tese le mani verso di lui ma quello lo rassicurò con un gesto. «No, davvero. Solo, sono ancora mezzo rimbambito dal sonno. Ah, era lui che bussava?» Il cocchiere aprì la bocca per scusarsi ma don Nicola lo prevenne: «Ma no, avete fatto bene. Sto morendo di sete». Alicante andò a riempirgli un bicchiere d'acqua. Don Nicola lo vuotò e ne chiese un altro. Finì anche questo e ne volle ancora. Solo dopo il terzo, leccandosi le labbra soddisfatto, prese una sedia e vi si sedette. «Allora, qual è il programma?» disse, guardando prima l'uno e poi l'altro. «Ah! E che, ci hai preso il vizio? Non ti è bastato un buco nella spalla?» fece ironico Alicante sporgendo il mento e grattandolo con il dorso delle unghie, nel classico gesto napoletano del diniego. «Che volete, ormai il battesimo del fuoco l'ho avuto! Anzi, del coltello!» scherzò don Nicola, insolitamente allegro. «Ahò, è arrivato Tore 'e Criscienzo! Eh, no, mio caro! Per te le avventure sono finite!» scosse il capo Alicante. «L'ha detto il medico. E poi, anche se non l'avesse detto, dove vuoi andare con quel braccio?» «Scusate, don Alica'» interloquì Califano, «ma chi è 'sto Tore 'e Criscienzo?» «Salvatore De Crescenzo, rinomatissimo guappo e camorrista in Napoli, tanto che Garibaldi lo mise a capo della Guardia Nazionale. Il che vi fa capire quale fosse lo stato dell'ordine pubblico ai tempi del Dittatore. Figuratevi che, come mi raccontava sdegnato mio padre, questo Tore vestiva con una giacchetta a falde corte per essere più a suo agio nei duelli a coltello, cosa che gli capitava un giorno sì e l'altro pure.» «Ah!» fece l'altro. Poi aggiunse: «Comunque, se don Esposito tiene un buco nella spalla, io ce l'ho nello stomaco, e molto più grosso! Non mangio da ieri sera e muoio di fame!». «Invece noi siamo sazi, vero?» rispose Alicante. «Vabbe', prepariamoci qualcosa. Parleremo mangiando.»
Si diresse verso la credenza mentre, alle sue spalle, il cocchiere domandava: «Cosa ci fate di buono, don Alicante?». «Spaghetti. Con olio e aglio» fu la risposta, e senza nemmeno voltarsi. «Ah.» «Guaglio', non tengo altro. E ringrazia Dio che almeno questo c'è» disse secco il prete. «Va benissimo, non vi scaldate.» Alicante voltò lentamente il capo a guardarlo con la faccia scura e quello arrossì. «Volete una mano d'aiuto?» cercò di scusarsi Califano. «No, non ce n'è di bisogno. Magari, se intanto apparecchiate...» disse Alicante tornando a occuparsi della credenza. Il cocchiere cominciò a liberare la tavola da quanto ci stava sopra. Mentre si dava da fare canticchiava a mezza bocca: «Oggi sto tant'allero ca quasi quasi me mettesse a chiagnere...». «E che è 'sta cosa?» fece Alicante, girando ancora una volta la testa verso di lui. «Come, non conoscete la canzone? La canta Birichina Ninì.» «E chi sarebbe questa Birichina Ninì?» «È il nome d'arte di Anita Pesce, la meglio sciantosa di Napoli!» «Non frequento, spiacente. Solo, uno che è così allegro che quasi gli viene da piangere mi pare Pulcinella!» «Ma no, l'ha scritta Libero Bovio, il meglio compositore di Napoli!» «Oh, tutti i meglio li conoscete voi!» «Modestamente.» «Ssst! Zitti!» disse improvvisamente don Nicola, tendendo l'orecchio. Subito gli altri due tacquero e voltarono la testa di qua e di là per cercare di cogliere quel che sembrava aver sentito don Nicola. Un «Ehi!» faticoso, soffocato e ripetuto proveniva dalla porta della camera. Ribaudo. Subito si precipitarono. Il commissario si era svegliato e li chiamava. Pallido come un cencio, gli occhi infossati, la barba ispida e la testa fasciata, faceva loro cenno di avvicinarsi. Si portarono attorno al letto e Alicante gli disse dolcemente di non affaticarsi, di pensare a dormire e a guarire. Ma quello fece segno di no. «Se state pensando di tornare al cimitero, lasciate perdere» disse con un
filo di voce. «La campana avrà senz'altro allarmato la gente dei dintorni e qualcuno finirà per avvertire i gendarmi. Sempre che non l'abbia già fatto. Non dovete farvi trovare assieme ai cadaveri. Andateci più tardi. Prendete la mia tessera.» Si interruppe per un accesso di tosse che lo lasciò spossato. Don Nicola andò a prendergli un bicchiere d'acqua che il commissario bevve avidamente. Stava per riprendere a parlare ma Alicante lo prevenne: «Adesso basta, sennò vi viene un collasso. Siete ancora troppo debole, cercate di dormire. E non vi preoccupate, che ho capito perfettamente cosa volete dire. Avete ragione, faremo così. Dove sta la vostra tessera?». Il commissario fece il gesto di chi si fruga nella tasca interna della giacca, poi chiuse gli occhi e si abbandonò esausto sul cuscino. Gli altri attesero qualche istante e, appena furono certi che si era addormentato, uscirono facendo piano. Quando ebbero richiuso la porta alle loro spalle, Califano, a bassa voce, disse: «Pensavo che don Nicola sarebbe rimasto qui a badare al commissario mentre io e don Alicante...». «No, il commissario ha ragione» lo interruppe quest'ultimo. «I contadini e i pastori si alzano che è ancora buio. Mettete che uno di loro non creda ai fantasmi o alle anime in pena. E che magari sia andato a vedere. Se le cose stanno davvero così, è sicuro come la morte che quello sarà poi corso a gambe levate a dirlo alla polizia. Senza contare che almeno un gendarme che ha sentito la campana delle trecento e ottantotto fosse suonare in piena notte ci dev'essere stato per forza. No, no, l'ha detta giusta il commissario. Se ci facessimo trovare laggiù dovremmo dare troppe spiegazioni. Così, arriviamo a cose fatte, esibiamo la tessera del commissario e chiediamo di parlare con il più alto in grado. In tal modo i fatti nostri non avranno eccessiva pubblicità e magari potremo dare un'occhiata in giro a umma umma.» «Giusto!» disse don Nicola. «Ribaudo è per il momento impossibilitato a parlare con chicchessia del tesoro. Voi cercherete di individuare quell'accidente di tomba, così che possiamo recuperarlo, il tesoro intendo, senza dare nell'occhio. Metteremo poi il commissario davanti al fatto compiuto e troveremo il modo di convincerlo a non farne mai parola con nessuno. Siete d'accordo, don Gaetano?» «Era quello che avevo in mente. Solo, non sarei così ottimista riguardo al commissario. Non dimenticare che è massone. Non vorrei che tirasse fuori la sua integerrimità di funzionario pubblico e conseguenti fesserie pa-
triottiche. Mi spiacerà, certo, se ci guasteremo con lui, ma quella roba è del popolo cristiano, punto e basta. Su questo mi faccio fucilare ma non ho intenzione di transigere. Con la scusa dell'Unità d'Italia hanno lasciato alla Chiesa solo gli occhi per piangere. Non gli basta ancora? Comunque, sono cose di poi» concluse con un gesto di sufficienza. «Adesso mangiamo!» «Ooooh! Era ora!» esclamò soddisfatto il cocchiere fregandosi le mani. «Anzi, sapete che vi dico, Califa'?» soggiunse allegro Alicante mettendogli la mano sulla spalla. «Il carnizziere qui all'angolo tre volte alla settimana apre per tempo e scarica il furgone che arriva con le bestie macellate. Andate a vedere se questa è una di quelle volte; se sta aperto, ditegli che vi mando io. Fatevi dare dieci, no, crepi l'avarizia, venti fettine di carne di manzo, anzi, di cavallo, ha detto il medico di cavallo, e di prima scelta. Andate, su! Ah, aspettate, eccovi qua i soldi. E, visto che ci siete, qualche metro più in là c'è il fornaio. Quello lavora anche la notte. Vedete cosa ha di pronto. Se avesse già fatto le sfogliatelle, non vi potete sbagliare, ve ne accorgete dal profumo, pigliate pure quelle, quante vi pare. Forza, ancora qua state?» Con la carrozza semivuota fecero presto. Era mattino inoltrato quando arrivarono. La nebbia non c'era più. Videro che davanti al cimitero c'erano due furgoni della gendarmeria e diversi uomini in divisa che si davano da fare. Come Alicante aveva previsto, un poliziotto, taccuino in mano, stava confabulando da una parte con un gruppetto di tre contadini. Un uomo in borghese dal passo autoritario si fece subito avanti e camminò deciso verso di loro. Alicante, che sporgeva la testa dal finestrino, disse a Califano di fermare. Il cocchiere eseguì e scese per legare il cavallo. Si trovavano proprio all'inizio dello spiazzo antistante il cimitero. La bestia fu assicurata al solito ramo basso. Alicante, sceso anch'egli, andò incontro all'uomo. «Non potete stare qui, c'è un'operazione di polizia in corso!» gli stava dicendo quello mentre si avvicinava. Alicante cavò di tasca la tessera di Ribaudo e, quando fu giunto a tiro, la mostrò. L'uomo prese il documento che il prete gli porgeva, lo esaminò e sembrò vivamente sorpreso. «Ah, voi dovete essere uno dei due collaboratori del commissario Ribaudo!» esclamò. Fu la volta di Alicante di sorprendersi. «Con chi ho l'onore?» chiese.
«Sono il commissario Pitruzzella. Il collega Ribaudo venne da me l'altro giorno per concordare una perquisizione da effettuarsi in un edificio sospetto. Disse pure che, in virtù dei poteri di cui era provvisto, avrebbe portato con sé due persone di sua fiducia. Ma lui dov'è? Il mio brigadiere mi ha riferito che non siete più usciti da quella villa. Dopo avere aspettato un po' ha ordinato l'irruzione ma non ha trovato nessuno, neanche un'anima viva. Così, ho telegrafato a Roma ma la questura mi ha risposto che il commissario Ribaudo è in vacanza all'estero. Ho capito che il suo era un incarico riservato; solo che a quel punto non sapevo più dove cercarlo. Non vi nascondo che ho temuto il peggio.» «Tranquillizzatevi, sta bene. È a casa mia adesso. Purtroppo è ferito e non si può muovere, per questo ha mandato me. Adesso vi racconto tutto» disse il prete. E in modo succinto mise Pitruzzella a giorno dell'intera vicenda, omettendo solo la faccenda del tesoro. Terminò rassicurandolo sulle condizioni fisiche di Ribaudo. Il commissario ascoltò con crescente stupore e spalancò gli occhi quando seppe che stava parlando con un sacerdote. A esposizione finita era senza fiato. Estrasse il suo taccuino e cominciò a scriverci febbrilmente. Poi volle stringere la mano ad Alicante, dicendogli di star tranquillo perché ora la cosa passava in mano alla polizia e pregandolo di presentare i suoi deferenti omaggi a Sua Eminenza il cardinale. Fu la volta di Alicante di meravigliarsi. Pensò che un buon cattolico tra i funzionari statali, di quei tempi, era cosa piuttosto rara e ricambiò la stretta con sincero calore. Si ricordò di Califano, che stava riguardosamente discosto, e glielo presentò. L'emozionato cocchiere, tutto rosso perché un importante funzionario pubblico gli stringeva la mano, recitò il suo solito «Califano Elpidio fu Aspreno, vettore di piazza, per servirvi!» strappando un sorriso al commissario Pitruzzella. «Mi è stato appena riferito della vostra impresa di stanotte. Bravo!» gli disse quest'ultimo, facendolo andare in brodo di giuggiole. Poi, tornando a rivolgersi ad Alicante, aggiunse: «Purtroppo i morti sono tre, due uomini e una giovane donna. Stando a quel che mi avete narrato, dovrebbe trattarsi di quella francese». Il prete, che pur se l'aspettava, rimase malissimo. Povera sventurata, pensò, che fine aveva fatto; l'aveva pagato caro, il suo gesto di generosità. A Ribaudo doveva esser preso un colpo. Che tragedia. Per fortuna c'era un
cielo dei giusti, tra i quali la sfortunata guagliona avrebbe di sicuro trovato un degno posto. Mah! Povera Claire! E povero commissario! «L'abbiamo rinvenuta ai piedi del campanile, dietro il muro del cimitero, dalla parte opposta a questa qui» stava dicendo Pitruzzella. «Per essere esatti l'hanno trovata prima quei braccianti che vedete laggiù. Hanno sentito la campana suonare a morto e, incuriositi, prima di andare al lavoro sono venuti a dare un'occhiata. E un morto l'hanno visto davvero. Anzi, una morta. Così, si sono precipitati in caserma ed eccoci qua. Gli altri due cadaveri li abbiamo scoperti noi della polizia. Adesso, grazie al vostro racconto, hanno un nome. Ma, ditemi, sapete che cosa ha in mente Ribaudo riguardo all'indagine? Vi ha detto qualcosa da riferirmi?» «Sfortunatamente no. Lo abbiamo lasciato che dormiva. Che volete, è molto debole. E gli è pure andata bene, perché di cadaveri avreste potuto trovarne quattro. Temo che dovrete procedere con quel che avete in mano. E con i nomi che adesso vi farò io.» Alicante ripeté, così come li ricordava, i nomi che aveva sentito fare alla riunione dei Calderari nella villa. Il commissario se li appuntò diligentemente. Nel rimettere in tasca il taccuino disse che, certo, non era molto; comunque, con gli elementi che aveva adesso, le identità dei tre cadaveri comprese, aumentavano di parecchio le probabilità di rintracciare tutti i responsabili del complotto. Poi, precedendo Alicante e il cocchiere, tornò al cimitero per sovrintendere ai rilievi. Il prete chiese il permesso di benedire le salme prima che venissero avvolte in teli e caricate sul furgone mortuario. Il commissario volentieri glielo concesse. Ma subito, adducendo la necessità della sua presenza tra i suoi uomini, si scusò e li lasciò soli. Alicante e il cocchiere ebbero così tutto l'agio di aggirarsi indisturbati per il cimitero. In ogni dove, uomini in divisa e uomini in borghese, tutti indaffarati. Nessuno fece caso a loro, anche perché Alicante e Califano ebbero cura di mostrarsi altrettanto concentrati. I due si portarono alla cappella, che la luce del giorno mostrava essere molto più piccola di quanto era loro sembrata la notte precedente. Entrarono. Ora si vedeva chiaramente tutto, pavimento, pareti e soffitto. Ma, niente. Salirono sul campanile e si sporsero a guardare di sotto. Videro che era davvero un salto da rompersi il collo, nessuno poteva sopravvivere cadendo da lassù.
Scrutarono ogni asse dell'impiantito e ogni pietra delle scale. Niente neanche lì. Scesero. Uscirono dalla cappella e si accinsero a setacciare tutto lo spazio occupato dalle fosse numerate. Occhi puntati a terra, non se ne persero nemmeno una. Nulla. Nessuna scritta. Solo numeri. Alla fine si ritrovarono al punto di partenza, cioè al portone d'ingresso, che la polizia aveva spalancato. Senza perdersi d'animo Alicante propose di separarsi per esaminare, metà per ciascuno, il perimetro interno del muro di recinzione. Fecero anche questo. Poi ripeterono il percorso dall'esterno. Macché. Non c'era niente. Niente di niente. Si ricongiunsero davanti alla finestra che avevano sfondato e scavalcato la notte prima. Dopo essersi scambiati un'occhiata delusa entrarono di nuovo nel cimitero attraverso il portone. Non sapendo cos'altro fare, vagarono in silenzio tra le colonne che reggevano la tettoia interna. Lanciavano sguardi in alto, di lato, per terra. Ma anche lì era tempo perso. Nella tettoia c'erano solo travi di legno tarlato, le colonne apparivano tutte lisce e uniformi, il pavimento non era che una serie di mattonelle dalla complicata decorazione e quasi tutte sbrecciate, l'interno della facciata del cimitero si presentava come una teoria di grandi finestre. Si ritrovarono ancora una volta alla finestra abbattuta. I vetri in mille pezzi e gli scuri fracassati giacevano per terra insieme a quei brandelli di intelaiatura che non erano rimasti a penzolare dai cardini. Alicante si sedette sconsolato sul davanzale, dondolando i piedi e picchiando ritmicamente con i tacchi sul muro. Califano si appoggiò con la schiena alla colonna di fronte e si lasciò scivolare per terra, masticando un lungo filo d'erba che aveva strappato. Vedendo il prete corrucciato e pensieroso, non osava aprire bocca. Poiché, però, il tempo passava e il silenzio cominciava a farsi imbarazzante, pensò di ingannare l'attesa con un gioco che faceva da bambino. Giunse le palme stringendo fra di esse il filo d'erba in modo che il suo capo superiore stesse tra i polpastrelli e quello inferiore tra i polsi, poi portò il tutto alla bocca e ci soffiò sopra. L'erba, vibrando, avrebbe dovuto produrre un suono armonioso e piacevole. Ma il primo tentativo generò solo una rauca pernacchia che innervosì Alicante. «Califa', possiate passare un guaio!» lo sgridò, distolto dai suoi pensieri d'improvviso e così sgradevolmente. «Ma non tenete niente altro da fare?»
Il cocchiere, fattosi piccino, balbettò le sue scuse. Ma il prete si era davvero stizzito e, sfogando la sua frustrazione, menò una gran pedata ai pezzi di finestra che stavano a pochi centimetri dai suoi piedi, accompagnandola con un'imprecazione di disappunto proferita a mezza bocca. Schegge di legno volarono in direzione del cocchiere, che d'istinto si riparò il viso con le braccia. Califano balzò in piedi indignato. Va bene che la pernacchia era fuori luogo, ma non l'aveva fatto apposta e Alicante non aveva il diritto di trattarlo da cane. Dopo tutto, gli aveva salvato la vita e anch'egli aveva rischiato la sua. Senza contare i clienti a cui aveva rinunciato per stare dietro a lui e ai suoi amici in un'impresa che, tutto sommato, non lo riguardava affatto. Così, mise da parte il rispetto per il sacerdozio e strinse i pugni, accingendosi a dirgliene quattro. Ma Alicante aveva cambiato espressione. Tendeva la mano aperta verso di lui, come a dirgli di aspettare, e guardava il pavimento giusto sotto ai suoi piedi con il viso atteggiato alla più viva sorpresa. Califano dimenticò i suoi propositi bellicosi e cercò di capire che cosa stesse guardando il prete. Quest'ultimo balzò in terra e si chinò a sgombrare con le mani la porzione di pavimento che aveva attirato la sua attenzione. Anche il cocchiere si curvò e gli occhi gli si illuminarono quando vide quel che Alicante stava liberando dai frammenti di legno e vetro. "Nubius." Su una delle mattonelle del pavimento, proprio accosto al muro sotto alla finestra. Inciso in caratteri svolazzanti e così abilmente da confondersi quasi con la decorazione. Solo occhi che avessero cercato proprio quella scritta avrebbero potuto trovarlo. Dagli altri, anche i più attenti e acuti, tutt'al più sarebbe stata scambiata per la firma del decoratore o il marchio di fabbrica. Alicante ricoprì la mattonella mettendoci sopra i pezzi di finestra che aveva tolto. «Avrei dovuto pensarci» disse. «Nascondere il tesoro in una delle fosse avrebbe voluto dire farlo cadere da chissà quale altezza in mezzo a mucchi di ossa, cosa che ne avrebbe reso quanto mai difficile il recupero. Invece, eccolo qui, talmente sotto gli occhi di tutti da risultare praticamente invisibile. E bravo il nostro incisore!» Si rialzò e batté le mani per liberarle dalla polvere. Il cocchiere, imitandolo, disse: «E mò?».
«E mò ce ne andiamo. Che volete fare, mettervi a scalzare 'sta mattonella? Con tutta la polizia che abbiamo intorno? Adesso sappiamo dov'è il tesoro e questo ci deve bastare, per ora. Torneremo con tutto comodo a recuperarlo. Tanto, è rimasto qua sotto per decenni, potrà restarci senza problemi qualche giorno in più.» «E al commissario Pitruzzella, che gli diciamo? Ce ne andiamo così?» «E che gli volete dire? Ormai, sono fatti suoi. Anzi, mi sa proprio che a quest'ora è già andato a organizzare la caccia ai Calderari. Almeno, è quel che farei io al suo posto. Noi non abbiamo più nulla da fare qui, salutiamo e andiamo a casa. Questa avventura, per quanto ci riguarda, è finita.» E si accinse a uscire. Ma Califano lo trattenne per un braccio: «Un momento! Ci siamo dimenticati di benedire le salme!». «Ma no!» rispose il prete. «Era una scusa per aggirarci qua dentro. Lo vedi come sono vestito, no? Non ho con me neanche la stola! Ci penserà il cappellano delle carceri. E poi, che dici "Ci siamo dimenticati"! Che sei, prete tu? Basta, andiamo, via!» Infilò le mani in tasca e si avviò fischiettando il Salve Regina. Addii Ribaudo contemplava assorto i cerchi che il liquido formava nel bicchiere di Pernod che teneva in mano. Nel posacenere il sigaro era ormai per tre quarti un rotolo grigio da cui saliva dritto un sottile filo di fumo. Il commissario appariva smagrito e con una ruga in più a tagliargli orizzontalmente la fronte. Ricordo di un coltello francese. La sua convalescenza poteva dirsi conclusa e la ferita alla schiena non era ormai che una grossa cicatrice rosea. Ma a fargli ancora male era un'altra cosa e chissà se e quando avrebbe smesso di dolergli. Non avrebbe creduto che Claire potesse entrargli talmente nell'anima. È vero, lo aveva salvato da una fine terribile e ci aveva rimesso anche la vita. Era anche vero, però, che l'aveva vista in tutto un paio di volte, troppo poco per perdere la testa. Ma, chissà, forse era quello il destino di chi la testa ce l'ha di solito ben piantata sulle spalle: a un certo punto non capire più niente e rimangiarsi in un colpo solo una vita di concretezza. I farfalloni, quelli che si innamorano continuamente passando di cotta in invaghimento come gli insetti da un fiore all'altro, certo soffrivano meno. Chiodo scaccia chiodo, non si diceva così?
Solo che per Ribaudo tutto ciò non valeva. Magari, se le cose fossero andate diversamente, se lei avesse seguitato a fare la congiurata, lui avrebbe avuto un motivo per disprezzarla e scacciarne il ricordo se mai fosse tornato a tormentarlo. Invece, la sorte gli aveva messo sotto il naso, quando meno se lo sarebbe aspettato, la donna della sua vita: bella, dolce, generosa ma anche forte, decisa e sveglia. Piena, insomma, di tutte quelle qualità che egli neppure sospettava di apprezzare tanto in un essere di sesso femminile. Forse perché di donne così non ne aveva mai conosciute. Forse perché fino ad allora aveva visto solo le mogli-soprammobile di certi suoi colleghi sposati. O le megere di certi altri. O le dame impennacchiate dedite ai risolini dietro ai ventagli nei salotti. O le bravissime ma tediosissime sorelle minori che qualche amico intendeva appioppargli. O le poco di buono guardate a vista dalle suore nelle case di correzione. Poi, d'un tratto, il destino gli aveva fatto conoscere Claire e gli aveva dato giusto il tempo di sognare a occhi aperti prima di strappargliela via per sempre. E qui il commissario fu trafitto da un pensiero che accrebbe la sua desolazione: sarebbe rimasto solo per tutta la vita. Ogni donna, da lì in avanti, l'avrebbe paragonata, anche contro la sua volontà, a quella che aveva perduto. E quale donna avrebbe potuto reggere il confronto? Ribaudo si incupì e serrò le mascelle. Avrebbe voluto piangere e si ritrovò a invidiare quelli che ne erano capaci. Lo stridulo fischio di un treno siglò quel momento di amarezza e gli ultimi rivoli di uno sbuffo di vapore arrivarono fino al tavolino attorno al quale stavano seduti il commissario, il cocchiere e i due preti. Questi ultimi avevano ripreso l'abito clericale con il copricapo a tricorno, finalmente a proprio agio. Avevano accompagnato Ribaudo alla stazione e adesso aspettavano l'ora di partenza del suo treno seduti al caffè. Alicante, prete navigato, poteva leggere sulla faccia del commissario tutto quel che passava nella mente di lui per filo e per segno. Sapeva anche, tuttavia, che nulla poteva alleviare quel particolare genere di dolore in chi non credeva nella Provvidenza. Né buone parole, né pacche sulle spalle, neanche la solidarietà di un amico. La fiducia in Dio non toglieva, certo, la sofferenza; ma ne eliminava l'amaro, questo sì, e non era poco. Per la malattia cronica che aveva colpito il commissario l'unica cura, Alicante lo sapeva bene, era tacere e riservarsi di dirgli una messa. Meglio due.
Intanto, però, lo si poteva distogliere dal suo rimuginare almeno per qualche minuto. Così, Alicante, dopo aver schiacciato il sigaro di Ribaudo ormai consumato, assestò una gran manata sul braccio del cocchiere che gli sedeva accanto e allegramente esclamò: «Caro commissario, questo amico merita come minimo un encomio ufficiale da parte del vostro ministro, non vi pare?». Califano, colto di sorpresa, guatò indispettito il prete ed esclamò: «Uè, don Alica'! M'avete fatto male, mannaggia alla morte!». Ma subito allargò la bocca in un sorriso e finse di minacciare con il pugno il prete. La scenetta, comunque, valse a scuotere Ribaudo. Anche lui, dopo un attimo che gli servì per ritornare al presente, sorrise. «Come no?» disse. «Anche se, a dire il vero, un encomio lo meritate tutti. A voi due» accennò ai preti «penseranno di certo i vostri superiori, cioè il vostro cardinale, il papa magari. Quanto a me, non penso proprio che il ministro si esibirà in cerimonie pubbliche, data la delicatezza dell'affare. Sì, mi dirà bravo e avrà per me un occhio di riguardo da qui in avanti. Ma ritengo che non farà altro. Per Califano provvederò io stesso, questo ve lo assicuro fin d'ora. Non so se sarà questione di encomi, cosa che non credo per gli stessi motivi per cui non ne avrò io. Una ricompensa sostanziosa, ecco, sì. Questa mi sento di garantirla. Sul mio onore.» Califano era raggiante. Posò la tazzina che aveva in mano, si asciugò le labbra con la manica e, con voce impacciata, disse: «Se posso osare, commissa', io avrei una piccola richiesta». «Tutto quello che volete! Dite, dite pure!» rispose Ribaudo allargando le braccia. «Vedete» fece quello arrossendo e abbassando gli occhi, «forse vi stupirà ma io non mi sono mai divertito tanto come in questi giorni. La zuffa, le pistolettate, il tesoro... Insomma, signor commissario, io non voglio tornare a fare il cocchiere, io voglio entrare in polizia!» «Ah!» scappò di bocca a don Esposito, che subito si scostò con tutta la sedia perché la sorpresa gli aveva fatto versare qualche goccia di caffè sulla veste. Califano guardò smarrito le facce degli altri, come se avesse chiesto troppo. Ma subito la risata cordiale di Ribaudo lo rinfrancò. «Bene, amico mio, se è proprio questo che volete, vedrò di metterci una
buona parola!» esclamò il commissario. «In effetti, ora che mi ci fate pensare, in divisa vi ci vedo proprio. L'Italia ha bisogno di servitori svegli e svelti come voi avete dimostrato di essere. Bravo! Mi voglio rovinare: farò il diavolo a quattro perché siate assegnato al mio comando. Sempre che siate disposto a trasferirvi, s'intende!» «E come no?» rispose quello, tutto contento. «Io qui a Napoli lascio solo il cielo, il sole e il mare, che però non si muovono e posso rivederli ogni volta che voglio. I treni ci stanno apposta, no?» «E allora brindiamo a Califano Elpidio fu Aspreno, sbirro di Sua Maestà il Re per servirvi!» chiuse Alicante, voltandosi per chiamare il cameriere. Venne quello che li aveva serviti, un ragazzotto che giacca, guanti e grembiule bianchi facevano apparire piuttosto goffo, e ordinarono un altro giro. Il cameriere si allontanò ripetendo ad alta voce la comanda. Ribaudo allungò la mano verso il portacenere ma solo allora si accorse che quanto restava del suo sigaro era stato spiaccicato. Rinunciò ad accendersene un secondo. Tornò il cameriere quasi subito portando il vassoio con l'ordinazione. I quattro fecero tintinnare tazzine e bicchieri alla salute del nuovo acquisto della Regia Pubblica Sicurezza e presero a sorseggiare. Ribaudo, posato il suo bicchiere, si fece improvvisamente serio e si rivolse ad Alicante: «Noi due abbiamo una questione in sospeso». Il prete, rannuvolatosi a sua volta, rispose: «È inutile che insistiate, commissario. Da questo orecchio non ci sento né ci sentirò mai». «Quel tesoro appartiene allo Stato» disse Ribaudo, duro. «Non ho detto niente al mio collega Pitruzzella per rispetto a voi. Siete persone che ho imparato a stimare e non voglio farvi lo sgarbo di mettervi di fonte al fatto compiuto. Preferisco che questa cosa sia risolta di buon accordo. Ma dovete convincervi che la mia coscienza di italiano...» «Sono anch'io italiano» lo interruppe Alicante. «Anzi, appartengo a una realtà che è italiana da quasi due millenni.» Il commissario distese l'espressione e fece un cenno di assenso con la testa. Poi tornò a fare la faccia di prima e aprì la bocca per ribadire il suo punto di vista. Ma fu prevenuto da Alicante. «Parliamoci chiaro, commissa'!» sbottò il prete. «Voi dite che quel tesoro è dello Stato. E che ne farebbe, lo Stato? Lo fonderebbe per venderlo? Lo metterebbe in un museo? Così che quel che era di tutti diventerebbe a pagamento? No, quella roba appartiene ai fedeli, alla loro devozione, alla
loro pietà e a quella dei loro padri, e a loro deve ritornare. Contentatevi di avere sventato un complotto che poteva mettere in serie difficoltà il vostro, e vabbe' anche nostro, governo. Il quale, date retta, non ha alcun interesse, in questo momento, a riaprire vecchie ferite e riesumare antichi contenziosi. Del resto, nulla saprà del tesoro se voi non glielo dite. Occhio non vede, cuore non duole. E portafogli nemmeno. Anche noi, state sicuro, useremo la stessa discrezione. Quei vasi, quei calici, quei candelieri torneranno senza strepito nei luoghi da cui sono stati trafugati e tutti saranno contenti. Non siate proprio voi a svegliare un cane che dorme e che nessuno ha un vero interesse a risentire abbaiare!» Alicante, dopo l'iniziale velenosità, aveva concluso la sua sfuriata in tono addolcito, sporgendosi a mettere una mano sul braccio di Ribaudo. Il commissario, che aveva ascoltato la prima parte con crescente indignazione, a quel gesto rimase alcuni istanti pensieroso. Abbassò la testa, le sopracciglia aggrottate. Tamburellò con le dita sul tavolino. Parve riflettere. Infine alzò gli occhi a fissare il prete. Tutti trattennero il fiato. Ma Ribaudo accennò un lievissimo sì con il capo. Più volte. E tutti cacciarono il fiato, con sollievo. Non sapevano quel che era passato per la testa al commissario nei lunghi secondi che si era preso per rimuginare sulle ultime parole di Alicante. Il pensiero del suo amore perduto. Lui non credeva nel Dio dei cattolici ma, se c'era una pur minima possibilità che una Misericordia superna esistesse davvero, sperava con tutto il cuore che il sacrificio che egli faceva servisse a facilitare a Claire l'ingresso nel mondo beato dove le buone azioni trovano ricompensa. E questa decisione gli aveva sciolto qualcosa dentro, infondendogli un inaspettato senso di pace. Si ritrovò d'improvviso con il groppo alla gola. Se ne vergognò subito, naturalmente. Alicante, cui non era sfuggita l'improvvisa commozione negli occhi del commissario, fu lesto a cambiare argomento: «Be', se il ministro sarà con voi avaro di gratificazioni ufficiali, di certo in Loggia ci sarà un Travaglio di Masticazione in vostro onore, con parecchie Salve di sciampagna al vostro indirizzo!». Ribaudo rise: «Vedo che conoscete il nostro gergo!». Poi, con un sorriso amaro, aggiunse: «No, non credo che ci saranno banchetti e discorsi per me, per il semplice motivo che ne ho le tasche piene di
rituali, giuramenti, segreti, parole di passo, acronimi latini e cose del genere. E al diavolo la carriera. Anzi, sapete che vi dico? Chiederò al ministro di esternarmi la sua gratitudine e quella della Patria assegnandomi a un incarico tranquillo in una provincia dove non succede mai niente. Sono stufo di tutto, voglio starmene un po' in pace». «Come!» si sorprese Califano. «Mi volete al vostro comando per portarmi dove non succede mai niente? Io speravo in una vita d'azione!» Il commissario si rese conto di avere appena contraddetto quanto aveva promesso e cercò di rimediare: «Be', non è detto che sia per sempre...». Alicante scosse la testa e sorrise. «A voi serve un altro genere di pace, amico mio, una pace che neanche un paesino alpestre potrà darvi» disse. «Anche se non ci credete, permettetemi di invocare su di voi la vera pace, quella che intendo io. Vedete, il sacerdote può compiere dei gesti, si chiamano sacramentali, che hanno la particolarità di funzionare anche se chi li riceve non ci crede. Uno di questi è la benedizione, che io con il vostro permesso intendo impartirvi. Posso?» Non attese risposta e alzò la mano, di poco, per non dare troppo nell'occhio agli altri avventori nel caffè. Tracciò nell'aria un segno di croce e mormorò qualche parola che nessuno udì. Don Esposito e il cocchiere si segnarono. Ribaudo abbassò la testa e, arrossendo violentemente, si fece un frettolosissimo segno di croce con due dita. Poi, per vincere l'imbarazzo, non trovò di meglio che prendere il cappello che stava appoggiato su una sedia vicina e metterselo in testa. «Commissa'!» rise di cuore don Esposito. «Non ci lasciate ancora, ci manca più di mezz'ora al vostro treno! E, a proposito di cappelli, dal momento che ho preso la parola, una domanda: che ci stava a fare, secondo voi, quella scritta, "V.I.T.R.I.O.L.", che avevate trovato nel cappello di quel morto che diceste di avere esaminato all'obitorio? Non so a voi, ma a me è rimasta la curiosità!» «Ah, quella!» fece Ribaudo, grato della tergiversazione. «Vi dirò che non ne ho la più pallida idea. In effetti, sono tanti gli angoli ancora oscuri in questa storia dei Calderari. Li hanno presi quasi tutti, come sapete. Se vi interessa, vedrò di farvi sapere cosa hanno confessato. Per conto mio, prevedo che alcuni aspetti della faccenda verranno chiariti con il prosieguo delle indagini e gli interrogatori. Altri, è possibile che restino misteriosi per sempre.» Fece un pausa. Tutti pendevano dalle sue labbra.
«Ma vi dirò anche che non me ne importa un accidente!» Pronunciò queste ultime parole con una certa allegria, poi alzò il bicchiere verso il giovane prete e terminò il suo secondo Pernod. «Ih! Lascia perdere, Nicoli', e che ti frega ormai?» esclamò don Alicante rivolto al suo figlioccio. «Pensa piuttosto che dobbiamo ancora andare a sciogliere i nostri voti. Io, mentre stavo bendato e legato come un salame, ho promesso alla Madonna di Montevergine di fare il giro del santuario scalzo se ci fossimo salvati. E tu? Non mi dire che non ti sei votato a qualche santo pure tu perché non ci credo!» Don Nicola aprì la bocca per rispondere proprio mentre una nuvola di vapore, questa volta cospicua, invadeva la zona dei tavolini sbuffando da una locomotiva in partenza. Il fragore degli stantuffi e lo stridio del metallo, rimbombando sotto la volta della stazione, coprirono tutti gli altri suoni. Nubius Mentre parlava la sua voce si faceva a volte più stridula e gracchiante, altre profonda e cavernosa. Proveniva da lui, certo, ma in determinati momenti si aveva l'impressione che non fosse sua, che lui ci mettesse solo il movimento delle labbra e i mutamenti di espressione. Era, allora, come se un altro lo usasse da maschera e travestimento. Anche la sua testa, le sue mani, le sue spalle sembravano in quegli istanti come tirati da fili invisibili. Parlava, ed ecco un povero vecchio asmatico e catarroso, spettro rinsecchito dell'uomo adulto che doveva essere stato una volta. Parlava, ed eccolo assumere l'aspetto di una scultura demoniaca, possente, malefica. Parlava, ed eccolo diventare la figura stessa della morte, lugubre, gelida, diafana. Il suo monologo era a tratti incoerente: racconti slegati, conditi da repentini cambi d'umore. Mescolava storia politica e aneddoti, retroscena e rivelazioni, previsioni e profezie. Sembrava aver vissuto personalmente quel che narrava, anche se la durata normale della vita umana non sarebbe bastata a contenere tutti gli avvenimenti che andava descrivendo. Diventava agghiacciante quando si lanciava in descrizioni di scenari futuri, perché allora assumeva un tono di noncuranza totale, come se tutto fosse già stato progettato e ormai le cose stessero correndo da sole nella direzione che lui aveva prefigurato. Non c'era, tuttavia, il tempo per riflettere sulle sue affermazioni perché
le pause che si concedeva erano brevi e permettevano all'interlocutore solo la certezza di ascoltare qualcuno abituato a non ammettere contraddittorio. E di essere stato convocato solo come uditore. «Vi leggo in faccia che morite dalla curiosità di sapere chi io sia veramente. Ma, amico mio, io sono esattamente quel che sembro! Nessuno. Pensate che io sia un massone d'alto grado e lungo corso? Sbagliate. Non ho mai fatto parte di alcuna associazione, segreta o patente, mai in vita mia. Quello che sta per finire è stato un secolo di guerre e rivoluzioni, amico mio» riprese, dopo aver lanciato uno sputo nel fuoco. Un filo di saliva gli colò sul mento ed egli lo tolse con la mano, pulendosi poi nella coperta che teneva sulle gambe. Il gesto, faticoso e tremolante, lo mostrò per un attimo, ancora una volta, come un rottame dell'esistenza, quasi un cadavere che si ostinava a non cedere alla fine naturale della vita. «Qualcuno dovrà prima o poi prendersi la briga di contare quanti morti è costato questo secolo. Ma, qualunque sia questo numero, purtroppo è ancora niente. Altre guerre verranno, perché siamo solo all'inizio. C'è ancora tanto da fare. Vedete, gli imperi di diritto divino sono sempre al loro posto e, finché ci saranno, il Trono e l'Altare resteranno il cardo e il decumano della città dell'uomo. C'è l'impero britannico, di fede anglicana, quello prussiano, che è luterano, quello russo, ortodosso, quello turco, musulmano. E c'è l'impero austriaco, cattolico. Quest'ultimo è il più insidioso ma non per la sua potenza politica e militare, no. «Esso è ciò che rimane del Sacro Romano Impero, che un tempo fu, sì, impegnato in un lunghissimo braccio di ferro con la Chiesa, perché gli antichi imperatori non avevano capito che i due ordini dovevano procedere distinti ancorché appaiati. Oggi le cose sono mutate e sacro imperatore e papa non possono più permettersi dissidi; dunque, finché esisterà l'Austria, la Chiesa potrà contare su un braccio secolare, come si diceva una volta. Perciò, l'Austria dovrà essere il primo e più importante obiettivo della Rivoluzione. «Un passo alla volta, certo, ma anche al biliardo si punta a una sola biglia per sconvolgere l'ordine di tutte le altre. L'Austria deve scomparire. Per far questo molto probabilmente ci vorrà una guerra generale, ma è necessario.» Si passò una mano sugli occhi. «La scomparsa dell'impero asburgico» riprese con voce stanca «lascerà un enorme vuoto al centro del continente, un vuoto che verrà per forza di
cose riempito dalla Germania. La nuova posizione farà crescere la Germania in potenza, fino a quando troverà la sua collocazione troppo stretta. Sarà inevitabile allora che provi a fare quel che non riuscì a Napoleone. A quel punto, come potete immaginare, l'impero inglese non sopporterà l'ascesa di una potenza continentale e non è escluso che qualche altra potenza marittima ritenga venuto il momento di coinvolgersi. Insomma, il tavolo del biliardo è già pronto e le biglie sono al loro posto. Bisogna, pertanto, dare il primo colpo, avendo cura di non sbagliare angolazione, intensità e, naturalmente, biglia.» Mimò con le mani adunche il giocatore che, stecca in mano, si china sul panno verde, prende attentamente la mira e finalmente boccia. Rise stridulo, mostrando i denti giallastri. Il suo ridere andò scemando in una specie di rantolo sibilante ed egli si grattò il mento, chiudendo gli occhi. E, gli occhi chiusi, ricominciò a parlare. «Tutto deve partire da qui, dall'Italia, perché è qui che abita il nemico millenario.» Guardò nel fuoco e abbassò di un tono la voce. «Qualcuno ha riesumato un'antica società segreta, insospettabile perché alfiera del Trono e dell'Altare. Qualcuno le ha anche suggerito un piano grandioso per una piena restaurazione degli antichi principati italici, Stato della Chiesa compreso. Qualcuno le ha indicato il modo per metterlo in atto. Qualcuno si è fatto carico di avvisare un noto giornalista di parte avversa, allegando all'informazione un tipico segnale massonico, onde fare intendere che si trattava di cosa seria. Il resto è andato avanti da solo.» Il vecchio apri gli occhi, voltò il viso verso l'interlocutore e, fattosi duro, esclamò: «Anche senza di me, anche dopo di me, anche se non ci sarà mai più un altro come me, gli eventi si succederanno ineluttabilmente perché l'uno sarà causa dell'altro. Nemmeno il Grande Orologiaio del Cosmo potrà fermarli. Egli, impassibile nel suo empireo, ha creato e messo in moto il cosmo, lasciando a coloro che ne sono consapevoli il compito di governarlo e dirigerlo». Sorrise, ironico. Per un momento sembrò tornare il giovane uomo che doveva essere stato chissà quanto tempo prima. Questo straordinario cambiamento comparve sulla sua faccia mentre, puntando gli occhi sul suo interlocutore, prorompeva in questa sorta di sproloquio: «Vuoi sapere chi sono io? Ti dirò chi non sono. Io non sono il momentaneo sconvolgimento dell'ordine pub-
blico, né la sommossa che mugghia nelle contrade, né la congiura che cospira nell'ombra, né la sostituzione di una dinastia con un'altra, né il cambiamento della monarchia in repubblica. «Io non sono gli urli dei Giacobini, né i furori della Montagna, né i combattimenti sulle barricate, né il saccheggio, né la ghigliottina, né gli affogamenti nella Loira. Non sono Lutero, né Cartesio, né Marat, né Robespierre, né Babéuf, né Mazzini, né Kossuth. «Costoro sono miei figli ma non sono me. Queste cose sono opere mie ma non sono me. Questi uomini e queste cose sono fatti transitori ma io sono uno stato permanente. «Io sono il rifiuto di ogni ordine religioso e sociale non stabilito dall'uomo e del quale egli non è re e dio tutt'insieme. Io sono la proclamazione dei diritti dell'uomo contro i diritti di Dio; sono la filosofia della ribellione, la politica della ribellione, la religione della ribellione. Io sono Prometeo scatenato; in una parola, io sono l'anarchia, perché io sono Dio spodestato e sostituito dall'uomo. «Ecco il motivo per cui mi chiamo Rivoluzione, cioè capovolgimento; perché io colloco in alto chi, secondo le leggi eterne, dovrebbe stare in basso, e metto in basso chi dovrebbe stare in alto. «Io sono la negazione legale del regno di Cristo sulla terra, la distruzione sociale della Chiesa. «Questo io sono. E il mio nome anagrafico o quello di battaglia non hanno importanza. Neanche chi adesso ti parla ha importanza, perché io sono eterno e c'ero prima e ci sarò dopo che questo corpo sarà morto. Ieri mi chiamavo in un modo, oggi mi chiamo in un altro, domani in un altro ancora. Ma ormai la via è tracciata e non si potrà non seguirla. Ormai ogni sforzo potrà solo rallentare la valanga, non fermarla. Essa andrà verso il suo fine ultimo, che è tutto ed è niente. Una risata cosmica.» Ormai sibilava come una serpe. Se ne accorse. Tacque, passandosi la lingua sulle labbra rugose. «Naturalmente sono e sono sempre stato solo» riprese, più calmo. «È l'amore ad aver bisogno di essere ricambiato, l'odio no. Con l'odio si può anche stare soli. Anzi, chi odia è sempre solo. Questo dà un potere infinitamente maggiore e rende inattaccabili.» Indice rivolto in alto, tono da maestro. «Non vedi? Ormai gli uomini accompagnano a messa le mogli e le figlie ma escono durante l'omelia. La religione resterà roba per femminette, in attesa che divenga roba da museo. Ci sta pensando la scuola a sottrarre i
giovani alla Chiesa e alle famiglie. Infatti, l'ha presa tutta lo Stato, il quale fa sì che essa non si limiti a istruire ma si occupi soprattutto di educare. La leva obbligatoria, poi, completa il processo educativo e le menti diventano nostre. La scuola fa nostro il passato. La leva il presente. E in tal modo anche il futuro è già sui binari.» Fece il solito gesto con la mano. L'interlocutore ormai sapeva che quel gesto annunciava l'ennesimo salto di argomento. «Probabilmente serviranno altre guerre. È possibile che gli spazi di libertà individuale debbano ulteriormente ridursi. E che si debba arrivare alla guerra finale, quella che metterà fine per sempre alle guerre per la semplice ragione che queste saranno divenute impossibili. Una sola umanità, senza barriere e senza confini, senza pastoie religiose e senza differenze tra individuo e individuo. Guidata dai migliori, che si coopteranno l'un l'altro perché solo i migliori sanno riconoscere i migliori.» Aveva ripreso impercettibilmente ad alterarsi. Nell'ultima frase c'era tale foga che dovette fermarsi per riaggiustare la dentiera in bocca. Fu così che tornò a essere il vecchio cadente e miserevole che era, con i pollici ossuti che spingevano impacciati sul palato, lo sguardo smarrito, il fiato corto. Quanto di titanico e infernale era apparso pochi istanti prima aveva ceduto la scena a un relitto, un mucchietto di ossa che una dentiera fuori posto era bastata a denudare. Finalmente il ributtante spettacolo cessò e i denti falsi tornarono a mostrarsi nel solito sorriso sarcastico. Il vecchio si rivolse ancora al suo interlocutore riesumando, untuoso, il pronome di cortesia. «Voi a questo punto vi starete domandando perché ho richiesto la vostra presenza e vi sto raccontando tutto questo» disse, con tono volutamente urtante. Ma gli rispose solo il silenzio. «Non volete sapere i dettagli? I nomi? Non avete alcuna curiosità, dunque?» insisté. «Non mi avreste detto nulla se si fosse ancora in tempo.» Per la prima volta, da quando era entrato, colui che stava in piedi dall'altra parte della stanza aveva fatto udire la sua voce. «Esatto! Esatto!» si entusiasmò il vecchio. «E non vi siete domandato, ripeto, perché io abbia richiesto questo colloquio?» «Non ho difficoltà a immaginarlo. Volevate un prete, e non uno qualsiasi, per togliervi l'ultima soddisfazione prima della fine» rispose calmo l'altro.
«E vedo che davvero non è venuto uno qualsiasi! Bene, benissimo! Posso sapere il vostro nome, di grazia?» «Mi chiamo Carlo Pascale.» «Pascale! Pascale... Non mi suona nuovo. Devo averlo già sentito prima, in qualche posto, chissà dove. Ma è un nome abbastanza comune da queste parti, nevvero? Be', prima o poi mi verrà in mente. «Sì, volevo un prete speciale, uno sveglio. Come non avrete faticato a immaginare non ho grande stima per la vostra categoria, anche se ammetto che ogni tanto si possa incontrare qualche mente brillante. Sono dunque contento che la scelta sia caduta su di voi. «Certo, chi vi ha fatto chiamare ha pensato che ci fosse da raccogliere la confessione finale di un gran peccatore, uno che intendeva compiere il grande passo della conversione prima di rendere l'anima. Uno, tuttavia, che, essendo un penitente speciale, aveva bisogno di un confessore altrettanto fuori dell'ordinario. Di un santo, insomma, un prete provvisto di carismi, come si usa dire nella vostra consorteria. Voi, perciò, dovete essere rinomato come direttore di coscienze nella diocesi. I buoni religiosi di questa casa di riposo, che volentieri si intrattengono con me in alti conversari, non hanno dunque avuto dubbi nello scegliere e senz'altro devono essersi precipitati a chiamarvi quando ho espresso un desiderio che era nei loro voti e nelle loro preghiere.» Un sorriso cattivo gli tagliò la faccia mentre puntava l'indice nodoso contro l'interlocutore: «Voi, dunque, siete quanto di meglio il clero di questa città può offrire e sono felice di avervi qui davanti a me. Perché? Perché il mio tempo è scaduto, come da contratto, e non volevo andarmene senza aver fatto sapere alla Chiesa che ho portato a termine il mio compito. Sono riuscito infatti a porre le premesse per la distruzione dell'opera del vostro Dio, un'opera nata male e rimasta imperfetta, sulle cui rovine nascerà un giorno il regno dell'uomo che sarà dio a se stesso». «Avete parlato di guerre future cui seguiranno altre guerre. Fin dove dovrà spingersi questo regno dell'uomo di cui parlate?» disse il prete in tono così tranquillo da irritare il vecchio. «Juan Donoso Cortés, marchese di Valdegamas, uno dei cervelli più acuti che la vostra filosofia abbia potuto vantare!» esclamò quello con stizza. «Per nostra fortuna trapassò ancor giovane, anche se fece in tempo a fornire la sua consulenza per la confezione del Sillabo. Un documento, questo, talmente lucido e profetico da averci costretto a reagire seppellendolo di contumelie. Così, perfino i cattolici hanno finito per vergognarse-
ne. Oh, non tutti, certo! Non voi, di sicuro! Ma dicevo di Donoso Cortés. Bene, vedo dalla vostra espressione che sapete di chi sto parlando. Nel 1849, rivolgendosi alle Cortes spagnole, quell'uomo pronunciò un discorso memorabile che solo la mediocrità dei suoi ascoltatori fece risuonare nel vuoto. Il passaggio principale è rimasto scolpito nella mia memoria. Eccolo: "La causa di tutti i vostri errori, signori, sta nel fatto che voi ignorate la direzione della civiltà e del mondo. Voi credete che la civiltà e il mondo progrediscano, invece sono in regresso. Il mondo cammina a passi rapidissimi verso il dispotismo più totale e assoluto che si sia mai visto". «Fin dove dovremo spingerci, chiedete? Userò un termine greco: criptocrazia. Alcuni pagliacci li si metterà in primo piano a fare i presidenti, i ministri, i capi di governo, e saranno più che contenti di prestare le loro facce e mettere a disposizione le loro teste di legno in cambio di un pugno di privilegi e qualche crosta gettata in pasto alla loro vanità. Ma chi comandi davvero non si saprà mai. Badate, non perché il vero potere sarà occulto ma perché, al contrario, sarà sotto gli occhi di tutti. E, come tutte le cose evidenti, non si vedrà. Se ne sospetterà, sì, l'esistenza, come il movimento della banderuola presuppone il vento. Ma non si vede, il vento, né si sa dove nasca né perché. «Questo comando non sarà mai scalzato o abbattuto perché non si saprebbe a chi sparare. Quand'anche qualcuno, per avventura, se ne accorgesse, non verrebbe creduto. In ogni caso, non potrebbe farci nulla. Il mondo che verrà non sarà più governato ma, diciamo così, guidato.» «Tutto questo mi fa pensare a Satana, l'Ambiguo, il Senza Volto per antonomasia. Il contrario del mio Re, Cristo, patente e visibile, che opera alla luce del giorno. E che regna nell'ora più luminosa» rispose il prete senza perdere la sua flemma. Il vecchio scoppiò in una risata gorgogliante ed esclamò: «Ma in quell'ora che dite è morto!». «No. Proprio in quell'ora ha inaugurato il suo regno. E le porte dell'Inferno non prevarranno su di esso.» «Bah, vuota teologia, parole a vanvera!» strillò il vecchio agitando una mano. «Non è con le frasi icastiche che in realtà non vogliono dire nulla che fermerete la macchina! Essa è già in moto da almeno un secolo e andrà dove ho detto!» «Avete parlato a lungo e mi avete raccontato molto. Tuttavia, non mi avete dato una ragione per credervi. Per quel che ne so, potreste essere un esaltato la cui mente vacilla» disse il sacerdote senza scomporsi.
Il vecchio abbassò la voce fino al sussurro: «Oh, se è per questo non datevi pena. Non me ne importa nulla che mi crediate o meno. Adesso. Ma quando vedrete verificarsi quel che vi ho preannunziato, allora si che ci crederete! All'inizio sarà un semplice sospetto; poi, man mano, le mie parole vi torneranno alla mente, una a una, in un crescendo che finirà con lo sconvolgere la vostra vita. Andrete a bussare a varie porte, vagherete dall'una all'altra come un pazzo ma per pazzo sarete preso e nessuna porta si aprirà. Non potrete fare altro che assistere impotente al lento instaurarsi dell'evo futuro, e sarà già tanto se conserverete il senno!». «A sentir voi, si direbbe che stiate cercando di spacciarvi per il più grande cospiratore di tutti i tempi, quasi un emissario del diavolo!» ironizzò il prete. Il vecchio sogghignò: «Io? Vi stupireste se vi dicessi che, al contrario, sono una persona mite? Ma sì, ormai posso anche dirlo. Nella mia lunga carriera solo una volta ho alzato la mano. Una sola volta. Con un traditore rinnegato e, ora che mi ci fate pensare, proprio in questa città. Non vi tedierò con i particolari. Vi basti sapere che si trattò di un'occasione del tutto eccezionale in cui avevo necessità di esprimermi con un gesto forte». Si fece pensieroso, come se quel ricordo tornato a galla lo incuriosisse particolarmente. Abbassò gli occhi e rise. «Ero piuttosto fantasioso a quel tempo. Figuratevi che mi ero fatto una specie di maschera con la pelle di un gallo e me l'ero messa sulla faccia, per impressionare oltre che per nascondermi. L'effetto doveva essere veramente schifoso!» Ridacchiò ancora. Poi si fece serio e si concentrò sul fuoco del camino, socchiudendo le palpebre. «Era uno spergiuro, quello. Però, è buffo, non mi ricordo più quale fosse la natura del suo tradimento. Doveva risalire a chissà quanto tempo prima... E non mi ricordo nemmeno perché quella volta decisi di fare un'eccezione e agire di persona. Dovevo proprio essermela legata al dito... Oppure dovevo dare un esempio?» Sembrò sforzarsi di ripescare nella sua memoria ma desistette quasi subito con un gesto infastidito: «Bah, sarebbe stato impiccato comunque. Dalla magistratura penale, intendo. Come si chiamava? Neanche questo riesco a ricordare...». Di colpo spalancò gli occhi e si volse verso il prete. Questi, intanto, si era avvicinato e, chinatosi, aveva portato la faccia all'altezza della sua: «Si chiamava Pascale» disse piano. «E tu sei Nubius, vero?»
Il vecchio, superata la sorpresa, sembrava avere riacquistato il suo sangue freddo: «Mi hanno chiamato con molti nomi. Sì, Nubius è uno di questi. Ma tu chi sei?». «L'uomo che hai ucciso era mio fratello» scandì il prete lentamente, ergendosi sul busto. I suoi occhi ebbero un lampo: «Vuoi vedere che eri tu quello che ha fatto esplodere tutto? Ma sì, non potevi essere che tu, maledetto!» si incattivì. «Mi sono salvato per pura fortuna, perché lo spostamento d'aria mi fece volare lontano. Lo sai quanta gente c'è rimasta, là sotto, per colpa tua? Ci misi ore per uscire da lì, ripercorrendo a ritroso il passaggio attraverso cui ero venuto e che solo io conoscevo. Tutta la polvere che mi era entrata nei polmoni mi ha fatto sputare sangue per una settimana. Per non parlare del braccio spezzato.» D'un tratto la rabbia sul suo volto scomparve e lasciò il posto al solito ghigno: «Di' un po', hai fatto penitenza per quei morti? Certo, non posso negare che dal tuo punto di vista non si trattava di brave persone. Tranquillizza pure la tua coscienza, prete, posso testimoniare che quel colpo t'era scappato accidentalmente. Peccato, però, che non sappia a chi testimoniarlo! Davanti al tribunale del tuo Dio, forse? Ma io non potrei esserci!». Scoppiò in una fragorosa risata battendosi la mano sulla coscia. Poi, sempre ridendo: «Ma guarda un po', quando si dice la coincidenza! Oh, tu la chiamerai giustizia divina, naturalmente, e ringrazierai il tuo Dio per averti messo davanti l'assassino di tuo fratello! Ma sarà divertente vedere come te la caverai adesso. Mi strangolerai con le tue mani? Sei anziano, è vero, ma nelle condizioni in cui sono ridotto io potresti anche farcela. È anche vero che il tuo abito osterebbe alla vendetta. Tuttavia potresti sempre confessarti con un tuo pari e ne avresti tutte le attenuanti del caso. Ma sì, uscendo da qui dirai che sono morto d'un colpo, cosa che, del resto, i tenutari di questa casa si aspettano da un giorno all'altro. Oppure preferisci andare a denunciarmi alla polizia? Oh, prego, accòmodati! Sarà interessante sapere che cosa dirai. "Ho messo le mani sul re dei congiurati dei tempi preunitari" forse? Sai le risate che si farebbero! Mi accuserai allora di avere ucciso tuo fratello? Ammesso che ti credano, prima che la burocrazia consenta di cominciare gli scavi nel sottosuolo di Napoli alla ricerca di vecchie ossa l'accusato non sarebbe più parte di questo mondo. Sei in un bel dilemma, mio caro, decisamente! Sai che ti dico? Non vorrei essere nei tuoi panni!». E scoppiò di nuovo a ridere, una risata che presto si estinse tra i singulti
e gli ansimi. Si mise a tossire e il corpo avvizzito fu sbattuto più volte contro lo schienale della poltrona. Il prete fece qualche passo indietro. Guardò il vecchio in preda agli scuotimenti, raggrinzito e cadente, miserabile scheletro foderato di cartapecora, grumo umano tenuto insieme dal puro orgoglio. E gli fece pena. «Per me non è più il tempo dell'odio» disse. Il vecchio smise finalmente di tossire e, mezzo strozzato, batté l'aria con una mano. «Ciance, sciocchezze!» gridò rauco. «Parli a vanvera, imbecille d'un prete! Ti ostini nel tuo ruolo da santo e ti consoli così, a chiacchiere, mentecatto che non sei altro!» Monsignor Pascale, imperturbabile, ribatté: «Il tuo piano è fallito. Li prenderanno tutti». «E allora? Possibile che tu non abbia capito niente? Quante volte devo dirtelo che ormai nulla ha più importanza? Quello che ho detto avverrà, puoi giurarci sul tuo Dio. Se non oggi, domani. O dopodomani. Ma nessuno può farci più niente. E ora vattene, mi hai stancato. Devo riposare. Addio.» Chiuse gli occhi, abbandonandosi spossato. Il sacerdote scosse il capo tristemente. «Fossi in te penserei alla mia anima» disse. «Devi rispondere di molte cose.» «Bah, resti sempre un prete. Patetico e scontato» rispose l'altro senza aprire gli occhi. «No, io tornerò nel Tutto. O nel Nulla, se preferisci chiamarlo così.» Pascale non ribatté ma prese a fissare un punto indefinito nel pavimento. Dopo un lungo istante alzò la testa e fece piano: «Ne sei proprio sicuro?». A queste parole il vecchio aprì gli occhi e si volse a guardare il prete, incontrando il suo sguardo. Rimasero così, a fissarsi, mentre l'espressione di Nubius lentamente mutava. Ma il sacerdote non attese risposta. Prese il cappello e, voltatosi, se ne andò. Epilogo
Monsignor Pascale era assistito da diversi carismi soprannaturali. Tra questi ce n'era uno a cui faceva ricorso di rado, in occasioni veramente particolari. Egli - se, naturalmente, era volontà di Dio - poteva far gelare il sangue nelle vene al suo interlocutore con una breve, semplice frase. Questa volta aveva attinto a tale carisma e si era chiuso la porta alle spalle senza neanche dare un'ultima occhiata all'espressione del viso di Nubius. Nota Nel confezionare questo thriller "d'epoca" (che, ripeto, è un'opera di fantasia e delle opere di fantasia ha certamente i limiti e, spero, i pregi) la scelta di non datare la vicenda è stata intenzionale. Così, il lettore non sarà tentato di scambiarlo per "romanzo storico" e non perderà tempo a cercare riferimenti a fatti, personaggi, situazioni e istituzioni realmente esistiti. In esso la storia e la fantasia sono state così intrecciate da rendere problematico indovinare dove comincia l'una e finisce l'altra. Proprio quel che volevo. Se il lettore appassionato di storia troverà che certi fatti citati sono avvenuti prima piuttosto che dopo o dopo piuttosto che prima, sappia che la mia intenzione era di ricreare soprattutto il clima di un'epoca. Solo per uno dei personaggi mi sono ispirato a una figura storica reale: Carlo Amirante, di cui è in corso il processo di beatificazione. Solo ispirato, comunque, perché certi particolari biografici sono puro frutto di invenzione. Alcuni dei luoghi descritti nel thriller, pur con altro nome, esistono davvero, anche se alquanto diversi da come qui sono dipinti. Ecco alcune delle opere che ho consultato e da cui ho tratto spunti o ispirazione: Aa. Vv., La rivoluzione italiana, a cura di Massimo Viglione, Il Minotauro, 2001. Andreotti, Giulio, Ore 13: il ministro deve morire, Bur, 1991. Cammilleri, Rino, Juan Donoso Cortes, Marietti, 1998. -, L'ultima difesa del papa re, Piemme, 2001. -, I mostri della Ragione 2, Ares, 2006.
Cimiteri d'Europa, a cura di Mauro Felicori e Annalisa Zanotti, Touring Club Italiano, 2004. Comba, Augusto, Valdesi e massoneria: due minoranze a confronto, Claudiana, 2000. Conti, Fulvio, Storia della massoneria italiana, Il Mulino, 2003. Curletti, Filippo, La verità sugli uomini e sulle cose del regno d'Italia, a cura di Elena Bianchini Braglia, Tabula Fati, 2005. De Mattei, Roberto, Pio IX, Piemme, 2000. Di Castiglione, Ruggiero, Una villa massonica nella Napoli del '700, Atanòr, 1996. Esorcismo di Leone XIII, in Il libro blu (stampa a uso interno dell'Opus Mariae Matris Ecclesiae, 1994). Esposito, Rosario F., Le grandi concordanze tra Chiesa e massoneria, Cardini, 1987. Fejtö, François, Requiem per un impero defunto, Mondadori, 1990. Francovich, Carlo, Storia della Massoneria italiana, La Nuova Italia, 1974. Gamberini, Giordano, Mille volti di massoni, ed. soc. Erasmo, 1975. Gatto Trocchi, Cecilia, Storia esoterica d'Italia, Piemme, 2001. Gervaso, Roberto, I fratelli maledetti, Bompiani, 2002. Homer, Michael W., Lo spiritismo, Elledici, 1999. Introvigne, Massimo, Il cappello del mago, Sugarco, 1990. -, La Massoneria, Elledici, 1997. Invernizzi, Marco, I cattolici contro l'unità d'Italia?, Piemme, 2002. Kertzer, David L, Prigioniero del Vaticano, Rizzoli, 2005. Leoni, Francesco, I cattolici e la vita politica italiana dal 1814 al 1904, Guida, 1984. Mariani, Paolo, La penna e il compasso, Il Cerchio, 2005. Marrone, Romualdo, Guida insolita ai misteri, ai segreti, alle leggende e alle curiosità di Napoli, Newton & Compton, 1999. Messori, Vittorio, Pensare la storia, Sugarco, 2006. Mola, Aldo A., Storia della massoneria italiana dalle origini ai giorni nostri, Bompiani 2003. O'Clery, Patrick Keyes, La rivoluzione italiana, Ares 2000. Oneto, Gilberto, L'iperitaliano: Eroe o cialtrone?, Il Cerchio, 2006. Pellicciari, Angela, L'altro Risorgimento, Piemme, 2000. Russo Fenoglio, Maria; Fenoglio, Alberto, Le società magico-segrete, Meb, 1998.
Seganti, Giuseppe, Massoni famosi, Atanòr, 2004. Siano, padre Paolo M., f.i., Uno studio sull'incompatibilità tra Massoneria e Chiesa Cattolica, in "Fides Catholica" n. 1, 2006 (Seminario Teologico "Immacolata Mediatrice"). Spadolini, Giovanni, Giolitti e i cattolici, Mondadori, 1994. -, L'opposizione cattolica, Mondadori, 1994. Tornielli, Andrea, Pio IX. L'ultimo papa re, ed. Il Giornale, 2004. Vannoni, Gianni, Le società segrete, Sansoni, 1985. Vecchi, Alberto, Intervista al diavolo, Edizioni Paoline, 1954. Viglione, Massimo, L'identità ferita, Ares, 2006. FINE